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Faculteit Letteren en Wijsbegeerte Academiejaar 2009-2010 L’IMMAGINAZIONE IN FERITO A MORTE DI RAFFAELE LA CAPRIA Masterproef van de opleiding Master in de Taal- en Letterkunde: Frans-Italiaans Ingediend door Jessy Carton Promotor: Prof. Dr. Sabine Verhulst

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Faculteit Letteren en Wijsbegeerte

Academiejaar 2009-2010

L’IMMAGINAZIONE IN FERITO A MORTE

DI RAFFAELE LA CAPRIA

Masterproef van de opleiding

Master in de Taal- en Letterkunde: Frans-Italiaans

Ingediend door

Jessy Carton

Promotor: Prof. Dr. Sabine Verhulst

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Academiejaar 2009-2010

L’IMMAGINAZIONE IN FERITO A MORTE

DI RAFFAELE LA CAPRIA

Masterproef van de opleiding

Master in de Taal- en Letterkunde: Frans-Italiaans

Ingediend door

Jessy Carton

Promotor: Prof. Dr. Sabine Verhulst

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Prefazione

Questa tesi è il risultato finale di una ricerca intensiva e talvolta faticosa sul vago, ma

affascinante concetto letterario che si chiama immaginazione. Anzitutto vorrei ringraziare

la mia promotrice, la professoressa Sabine Verhulst, che mi ha suggerito di studiare le

meravigliose opere di Raffaele La Capria e mi ha dato così l’opportunità di tuffarmi nel

mondo napoletano, che a quel punto mi era ancora sconosciuto. Lungo il percorso, lei mi

ha aiutato nell’elaborazione di un punto di vista interessante e innovativo, e mi ha fornito

informazioni utili per la definizione del termine complesso di immaginazione.

Vorrei anche ringraziare i miei genitori, che mi hanno sostenuto – in ogni senso della

parola – durante i quattro anni all’Università di Gand, e i miei amici, che hanno saputo

distrarmi ogni tanto da questa ricerca.

Infine, vorrei aggiungere che sono molto contenta di aver studiato precisamente le opere

lacapriane, che parlano quasi tutte di questa splendida Bella Giornata, giustificando così

la mia ottima scelta di quattro anni fa, cioè la decisione di studiare la bella lingua e la

ricca cultura italiane all’università. Sono insomma felice che questa tesi, anche se si sia

realizzata durante un’ennesima primavera grigia, mi ha allo stesso tempo permesso di

parlare e di sognare di una lontana Bella Giornata italiana.

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Indice

1. INTRODUZIONE ................................................................................................................. 7

2. L’IMMAGINAZIONE LETTERARIA: UN TENTATIVO DI DEFINIZIONE .............................. 10

2.1. L’immaginazione, tra percezione e ragione ............................................................. 11

2.2. Immaginare, un atto conoscitivo .............................................................................. 13

2.3. Il repertorio dell’immaginario .................................................................................. 18

2.4. Alcuni chiarimenti sul metodo di analisi .................................................................. 20

3. L’IMMAGINE MENTALE DI RAFFAELE LA CAPRIA ........................................................ 24

3.1. L’inquinamento e la stagnazione dell’immaginario ................................................. 24

3.2. La funzione cognitiva dell’immaginazione lacapriana ............................................. 28

4. L’IMMAGINAZIONE IN FERITO A MORTE ........................................................................ 35

4.1. Introduzione. L’epigrafe di W.H. Auden ................................................................. 35

4.2. ... un mattino tutto luce in fondo al mare. Le immagini della Bella Giornata .......... 38

4.2.1. La Bella Giornata come promessa di felicità ............................................. 38

4.2.2. La giornata, una misura innata e molto napoletana del tempo ................. 43

4.2.3. Un’immagine immobile e atemporale ........................................................ 46

4.2.4. L’armonia perduta o illusoria? .................................................................. 51

4.3. ... carico di minacciosa alterità. La metafora della Foresta Vergine ....................... 57

4.3.1. L’implosione della Bella Giornata ............................................................. 58

4.3.2. Natura e Storia: un matrimonio difficile .................................................... 61

4.3.3. La fresca stimolante corrente della Storia ................................................. 69

4.3.4. L’effetto immobilizzante della Natura ........................................................ 73

4.4. Conclusione. Il rapporto ambiguo con Napoli .......................................................... 79

4.4.1. Napoli, una città che ti ferisce a morte o t’addormenta? ........................... 80

4.4.2. La presa di distanza da una Napoli eternamente giovane ......................... 82

4.4.3. La buona distanza e il possibile incanto di Napoli .................................... 84

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5. CONCLUSIONE ................................................................................................................ 88

BIBLIOGRAFIA....................................................................................................................91

FILMOGRAFIA.....................................................................................................................95

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1. INTRODUZIONE

Che cos’è l’immaginazione letteraria e a che serve? Ecco l’argomento centrale di questa

tesi, che si pone come obiettivo di indagare il meccanismo dell’immaginazione e la sua

funzione cognitiva. Lo scopo è quindi di elaborare una definizione chiara e completa di

questo complesso dispositivo letterario e di determinarne le caratteristiche fondamentali.

In fondo, l’immaginazione, ossia la capacità di formarsi una ‘immagine mentale’, è una

risorsa importante per l’acquisizione di conoscenze. Si presenta giustamente come un atto

creativo «anarchico»1 che, attraverso l’inserimento di punti di vista nuovi e inaspettati,

riesce a spiegare la complessità del reale ed a cogliere l’essenziale di esso. Si è cercato di

chiarire i termini della questione poggiandosi sull’opera di un autore contemporaneo,

Raffaele La Capria, la cui poetica risulta intrisa di riflessioni su questo concetto. Ferito a

morte, il secondo romanzo dello scrittore napoletano, uscito nel 1961, riveste infatti un

carattere emblematico per quanto riguarda il ruolo dell’immaginazione, tra l’altro nella

rappresentazione di Napoli, la sua città materna.

Il secondo capitolo è incentrato sulla creazione di una definizione possibile e ‘adatta’ del

concetto di immaginazione. La prima parte del capitolo sottolinea il ruolo cruciale della

percezione nell’atto immaginativo e dimostra come l’interazione tra percezione e lavoro

mentale conduce idealmente alla capacità di plasmare un’immagine in absentia (2.1.). In

una seconda fase viene evidenziato come la metafora – e dunque l’immaginazione – riesce

a generare nuove conoscenze. Infatti, la qualità cognitiva della metafora sta proprio nel

suo carattere deviante e nella possibilità di introdurre nuovi punti di vista (2.2.). La terza

parte cambia direzione, in quanto esamina il ‘repertorio’ di immagini di cui dispone

l’individuo creante. Il ‘diluvio’ di questo immaginario – collettivo, culturale –, che riflette

i difetti di una cultura di massa troppo visiva, viene spesso percepito come una minaccia

per la creatività artistica (2.3.). Infine, vedremo come e perché l’obiettivo di questa tesi è

di svelare l’intenzione dello scrittore attraverso un’analisi dell’immaginazione (2.4.).

1 La definizione è di Valeria Giordano Note sull’immaginare, in Aspettando il nemico. Percorsi dell’immaginario e del corpo, a cura di Valeria Giordano e Stefano Mizzella, Roma, Meltemi, 2006, p. 23, citato da Paolo Jedlowski, Immaginario e senso comune. A partire da “Gli immaginari sociali moderni” di Charles Taylor, in Genealogie dell’immaginario, a cura di Fulvio Carmagnola e Vincenzo Matera, Torino, UTET, 2008, p. 236.

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Il terzo capitolo, che si concentra sulla saggistica lacapriana dedicata alla letteratura,

dimostra come gli aspetti menzionati nel capitolo precedente rientrano senza problemi

nella concezione lacapriana dell’immaginazione. In una prima fase, sono precisati i motivi

della critica di La Capria nei confronti della società moderna troppo visiva, parlando a

questo proposito giustamente di un ‘inquinamento dell’immaginario’ (3.1.). La seconda

parte si concentra invece sull’atto creativo stesso e precisa il ruolo e il funzionamento

dell’immaginazione lacapriana, che si trova precisamente tra – o meglio, si presenta come

una combinazione di – percezione esteriore e elaborazione interiore (3.2.).

Il capitolo successivo, imperniato sulla disamina dell’immaginazione in Ferito a morte,

costituisce il fulcro di questa tesi. Appoggiandosi agli aspetti trattati nei due capitoli

precedenti, l’analisi evidenzia come le metafore e le immagini ricorrenti nel romanzo

devono contribuire alla comprensione della natura particolare di Napoli. Come vedremo,

un confronto di queste figure fa trasparire il rapporto ambiguo di Raffaele La Capria con

la città materna. Prima di affrontare il romanzo stesso, una parte introduttiva si dedica ad

un’analisi dell’epigrafe, che riflette precisamente la concezione lacapriana della letteratura

e dell’immaginazione (4.1.).

La seconda parte del quarto capitolo si dedica alla metafora ‘primaria’ di Ferito a morte,

la Bella Giornata. Vedremo che i due elementi costitutivi di questa immagine, la luce e il

mare, racchiudono in sé una promessa di felicità. L’entrata della luce serve inoltre da

stimolo per la nascita dell’immaginazione e dei ricordi del protagonista, mentre il mare si

trasforma in un grembo materno, simboleggiante la spensieratezza dell’infanzia (4.2.1.).

Così, la metafora è un concetto intimamente legato alla giovinezza, e La Capria sostiene

giustamente che la Giornata (e più specificamente, il mattino) rappresenti la misura

perfetta per raffigurare la felicità primaria (4.2.2.). Allo stesso tempo, la Bella Giornata si

manifesta come un’entità immobile e eterna. Dato questo, Ferito a morte non va inteso

come il mero racconto di una storia lineare, ma diventa un luogo di sviluppo – in ogni

direzione – di un nucleo metaforico centrale, svolgendosi in un ambiente atemporale e

mitico. Ciò giustifica inoltre la struttura non convenzionale del romanzo, che possiamo

etichettare come ‘intuitiva’ (4.2.3.). Infine viene affrontato l’inevitabile carattere effimero

della Giornata, che simboleggia la fugacità – e insieme l’insostenibilità – della felicità

giovanile. Però, se si tratta di una perfezione perduta, essa rimane ad ogni momento

recuperabile (4.2.4.).

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La terza parte del capitolo verte sulla seconda metafora centrale del romanzo, la Foresta

Vergine. In realtà, questa immagine non presenta l’opposto della Bella Giornata, ma ne è

una deduzione estrema: se tutte e due le metafore sono legate alla Natura, la Giornata

rappresenta le qualità naturali, mentre la Foresta Vergine evidenzia i difetti di una cultura

eccessivamente orientata sulla natura. Dato questo, la luce e il mare possono trasformarsi

rispettivamente in un caldo insopportabile e in una forza violenta, annunciando così

l’inevitabile implosione della Bella Giornata (4.3.1.). Il problema di Napoli sta proprio nel

fatto che la Natura ci sia sempre più forte della Storia. In Ferito a morte, l’idea che la

forza della Natura potrebbe condurre alla cancellazione del progresso culturale, viene

visualizzata dalla metafora di Palazzo donn’Anna (4.3.2.). Se la Storia è presentata come

un ambiente culturale fertile, solidamente stabilito al Nord (4.3.3.), a Napoli regna da

sempre la Natura, senza nessuna mediazione culturale. Così, in Ferito a morte la critica

lacapriana si traduce in un’immagine di Napoli poco positiva, di una città che si distingue

anzitutto per la sua banalità e la sua cultura delle apparenze (4.3.4).

L’ultima parte del quarto capitolo precisa il contributo delle due metafore naturali

menzionate alla formazione di un’immagine mentale e conoscitiva di Napoli. In primo

luogo, la coscienza crescente dell’impossibilità di una bella giornata eterna si traduce

nell’immagine della ferita (4.4.1.). Una volta ferito, la partenza definitiva dalla città

diventa indispensabile, e permette di stabilire lo stato immaturo in cui si trova Napoli,

insieme alla situazione deplorevole dei napoletani, che sono ostinatamente attaccati alla

Bella Giornata. Purtroppo, la partenza crea allo stesso tempo un profondo sentimento di

non-appartenza alla città ossia di straniamento (4.4.2.). Infine, diventa chiaro che la buona

distanza è condizione necessaria per la formazione di un’immagine complessiva e valida

della città partenopea, in grado di ‘attivare’ l’immaginazione dello scrittore napoletano

(4.4.3.).

Il percorso descritto dovrebbe permettere di approdare a un’idea più precisa e concreta del

concetto vago chiamato immaginazione letteraria. Lontano dall’essere perfetto e completo

– l’oggetto di analisi essendo un solo romanzo –, il tentativo di definizione formulato nel

presente studio fornisce piuttosto uno spunto per ulteriori ricerche, volte ad afferrare

meglio e ad approfondire la nozione di immaginazione letteraria.

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2. L’IMMAGINAZIONE LETTERARIA: UN TENTATIVO DI DEFINIZIONE

La prima fase di una tesi sull’immaginazione in Ferito a morte consiste nella ricerca di

una definizione precisa del concetto di immaginazione letteraria, una definizione che

dovrebbe accordarsi con la concezione lacapriana, analizzata nel capitolo seguente. La

prima parte di questo capitolo dimostra come l’immaginazione si costituisce infatti di

un’interazione creativa tra percezione (prevalentemente visiva) e ragione, e come la

capacità di immaginare si evidenzia sempre in absentia (2.1.). In una seconda fase

vengono affrontate alcune teorie recenti della metafora – cioè, una forma ‘concreta’ di

immaginazione letteraria – come generatore di conoscenza: proprio a causa della sua

qualità di deviare il significato originario di una parola, essa non riesce soltanto a suscitare

piacere, ma anche a creare nuove categorizzazioni della conoscenza umana. Perciò,

sembra impossibile trattare la metafora come una mera figura retorica senza accennare le

sue qualità cognitive, dato che il tropo contribuisce insieme «a rendere chiara, utilizzabile

e touchant la verità»2 (2.2.). Nella terza parte diventa chiaro che l’immaginazione ha

sempre bisogno di un ‘repertorio’ o di una ‘griglia’ da dove, o all’interno della quale, può

cercare di costruire delle connessioni inaspettate. Si rivela però difficile definire questo

‘repertorio’ che si chiama ‘immaginario’: la memoria? la cultura? le tradizioni? E quindi,

l’immaginario si può ancora considerare un repertorio interessante e ricco di immagini, in

una cultura di massa tanto visiva da intaccare la capacità stessa di immaginare, di creare in

absentia? (2.3.) Infine seguono alcuni chiarimenti sul metodo di analisi di Ferito a morte:

quali sono le differenze più importanti tra similitudine e metafora, e perché preferire l’una

o l’altra? Come afferrare l’intenzione di uno scrittore analizzando soltanto le sue opere?

Chiariti questi aspetti, potrà finalmente avviarsi l’analisi dell’immaginazione lacapriana,

con lo scopo di verificare l’ipotesi di lavoro di questa tesi, cioè di verificare se sarebbe

possibile considerare l’intenzione lacapriana come una ‘metafora continuata’ su Napoli

(2.4.).

2 Cristina Marras, Conclusioni, in Ead., Metaphora translata voce. Prospettive metaforiche nella filosofia di G.W. Leibniz, Firenze, Leo S. Olschki editore, 2010, p. 12.

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2.1. L’immaginazione, tra percezione e ragione

Se consideriamo l’immaginazione come la capacità di mettere insieme delle immagini

‘date’ in una costellazione creativa, è chiaro che l’immaginazione ‘letteraria’, trattata in

questo capitolo, è semplicemente una forma concreta, esteriorizzata, verbale di queste

immagini messe insieme – accanto ad altre esteriorizzazioni possibili come la pittura o

volendo, la musica.

Anzitutto è interessante vedere come funziona l’interazione tra percezione e lavoro

mentale su essa. L’importanza e i problemi di questa interazione sono messi in rilievo da

Italo Calvino in una delle sue Lezioni americane. Nella lezione omonima, Calvino

sottolinea la necessità di conservare il valore della visibilità nella letteratura moderna, ma

in realtà si tratta piuttosto dell’immaginazione, vale a dire di un’immaginazione che parte

sempre da una percezione visiva. Vedremo fra poco che la scelta di Calvino di dedicare

una lezione a questo concetto fu in parte dettata dalla sua paura che in una cultura di

massa eccessivamente visiva la facoltà immaginativa venisse cancellata. In ogni caso,

quando Calvino cerca di spiegare in che cosa consiste per lui l’atto di scrivere, dice che il

suo racconto è sempre «unificazione d’una logica spontanea delle immagini e di un

disegno condotto secondo un’intenzione razionale»3.

La citazione è rilevante non soltanto perché evidenzia che l’immaginazione è uno dei due

pilastri della scrittura calviniana, ma anche per la sua definizione dell’immaginazione

come ‘unificazione d’una logica spontanea delle immagini’. Ciò fa emergere l’idea che,

secondo Calvino, l’atto di immaginare consiste in due fasi: prima, la percezione attenta di

immagini; poi una ‘unificazione logica’, vale a dire un’interiorizzazione spontanea e una

strutturazione mentale delle immagini date. Calvino esplicita l’idea in un altro passo della

sua lezione, dove elenca tutti gli aspetti necessari dell’immaginazione letteraria:

Diciamo che diversi elementi concorrono a formare la parte visuale dell’immaginazione letteraria:

l’osservazione diretta del mondo reale, la trasfigurazione fantasmatica e onirica, il mondo figurativo

trasmesso dalla cultura ai suoi vari livelli, e un processo d’astrazione, condensazione e interiorizzazione

3 Italo Calvino, Visibilità, in Id., Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Milano, Garzanti, 1988, p. 90.

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dell’esperienza sensibile, d’importanza decisiva tanto nella visualizzazione quanto nella verbalizzazione

del pensiero.4

Secondo Calvino, l’immaginazione è dunque una capacità legata sia alla percezione sia

alla ragione, e colpisce il peso dato ai sensi in questa operazione creativa – non a caso, la

lezione si intitola Visibilità. Vedremo che si tratta di una concezione dell’immaginazione

che si ricollega molto bene alla concezione lacapriana, che preferisce la realtà empirica

come punto di partenza.

Un altro approccio pertinente è offerto da Christophe Bouriau nel suo saggio Qu’est-ce

que l’imagination? Secondo lo studioso, la prima caratteristica dell’immaginazione è la

facoltà di percepire immagini in absentia, e dunque, di restituire frammenti della realtà in

una immagine mentale. Bouriau chiarisce la propria interpretazione dell’immaginazione

all’inizio del suo saggio, riferendosi ad Aristotele:

En son sens le plus général, l’imagination se définit comme la disposition à présenter les choses en leur

absence. Imaginer, c’est amener à la présence ce qui est absent. […] L’imagination semble dotée d’un

pouvoir magique, celui de faire apparaître ce qui n’est pas là. Aristote écrivait que l’imagination,

phantasia, venait sans doute de phôs, la lumière, car «sans lumière il est impossibile de voir».

L’imagination met les choses en lumière, les fait apparaître, alors même que ces choses sont soustraites

au regard : «Des images visuelles apparaissent, même quand on a les yeux fermés». L’imagination,

pourrait-on dire, est une lumière intérieure, elle est comme l’œil de l’âme.5

Dalla citazione emerge chiaramente la necessità di una forte capacità visiva – un aspetto

che era anche sottolineato da Calvino – descrivendo l’immaginazione come ‘l’occhio

dell’anima’. E dunque, anche se Bouriau mette l’accento sull’importanza della formazione

di immagini in absentia, in fondo sembra condividere la concezione di Italo Calvino,

intrepretando l’immaginazione come una interazione creativa tra percezione esterna e

elaborazione interna – e non sembra veramente pertinente se tale elaborazione viene

allora realizzata dalla ragione o dall’anima.

In altri termini, i contributi di Calvino e di Bouriau sono anzitutto pertinenti per il rilievo

che hanno dato al ruolo della percezione nell’atto immaginativo. Si tratta precisamente di

un aspetto che altri studiosi spesso evitano o ignorano. Però, a loro volta, i due studiosi

4 Ivi, p. 94. 5 Christophe Bouriau, Qu’est-ce que l’imagination ?, Paris, Vrin, 2003, p. 8.

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citati non fanno caso di un altro aspetto altrettanto importante dell’immaginazione: infatti,

proprio perché il processo immaginativo devia dalla normalità percettiva o concettuale,

egli dispone di una grande capacità conoscitiva, come vedremo nel capitolo seguente.

2.2. Immaginare, un atto conoscitivo

Il tentativo di precisare che l’immaginazione è in grado di generare nuove conoscenze sul

mondo, necessita anzitutto una forma concreta ed esplicita di essa, in questo caso dunque

la lingua. Più specificamente, è la metafora che si presenta come l’esteriorizzazione

verbale per eccellenza dell’immaginazione. Perciò gioverà un’analisi del funzionamento

di questa ‘figura del discorso’.

In realtà la metafora, che produce un ‘trasferimento di significato’, non è soltanto una

figura retorica, ma anche un sistema produttivo atto a generare conoscenze, attraverso

l’inserimento di un nuovo, inaspettato punto di vista. L’importanza della metafora come

modalità cognitiva viene inoltre confermata dal suo uso frequente in filosofia, per esempio

nella ‘metaforologia’ del filosofo tedesco Hans Blumenberg6 e nella sua ricerca di

‘metafore assolute’ mirata a stabilire delle concettualizzazioni universali. Anche nel

Seicento, le metafore possono fare parte integrante della strutturazione di un pensiero

filosofico, per esempio nella filosofia di Leibniz, come recentemente osservato da Cristina

Marras in uno studio sul filosofo tedesco.7 L’introduzione del libro spiega perché Leibniz

tiene molto all’uso di metafore e al linguaggio figurato, e come si oppone alla filosofia di

John Locke:

Locke riserva un ruolo particolare alla retorica, tuttavia è chiaro nel dichiarare che l’eloquenza e l’uso di

figure fanno deviare il giudizio là dove ci si deve attenere a «come le cose sono». Leibniz, da parte sua,

critica non tanto l’uso del linguaggio figurato, quanto ‘l’abuso’, riservando e preservando all’eloquenza,

alla retorica spazi e ruoli specifici; gli strumenti retorici, inoltre, usati appropriatamente contribuiscono

a rendere chiara, utilizzabile e touchant la verità.8

6 Hans Blumenberg, Paradigmi per una metaforologia, Milano, Raffaello Cortina, 2009. 7 Per ulteriori informazioni si vede Cristina Marras, Metaphora translata voce, cit. La studiosa dimostra come la filosofia leibniziana può essere strutturata in base a cinque metafore: oceano, via, specchio, labirinto e bilancia. 8 Ivi, p. 12.

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La citazione colpisce in quanto offre una visione sulla metafora che corrisponde in gran

parte alle due principali opere di riferimento di questa figura retorica, cioè la Retorica e la

Poetica di Aristotele. Infatti, l’osservazione leibniziana che la metafora rende ‘chiara’ e

‘touchant’ la verità – e dunque, la conoscenza –, concorda con la descrizione aristotelica

della metafora che sottolinea le sue qualità conoscitive e piacevoli, riassunte da Giovanni

Manetti in Aristotele e la metafora: «l’effetto di straniamento provocato dalla metafora

produce contemporaneamente una sensazione di piacere; per Aristotele il principio di

piacere si trova alla base dell’istinto umano orientato a conoscere e la metafora è una delle

forme attraverso le quali la conoscenza si realizza»9.

In altri termini, è proprio perché provoca un effetto di straniamento che la metafora riesce

a produrre conoscenze ‘inaspettate’. E dunque, si potrebbe dire che la metafora non

consiste soltanto in un ‘trasferimento’ (metaphora) di significato, ma comporta anche una

‘deviazione’ dal discorso letterale, prende un’altra direzione rispetto alla ‘normalità’.

Perciò corrisponde forse più al senso etimologico di tropo, ‘direzione’. L’insistenza sulla

caratteristica ‘deviata’ del tropo emerge anche dalla definizione di Garavelli: «la svolta di

un’espressione che dal suo contenuto originario viene diretta (‘deviata’) a rivestire un

altro contenuto»10.

Concretamente, la metafora realizza una sovrapposizione inaspettata di due campi

concettuali – quello del metaforizzato e quello del metaforizzante, per usare la

terminologia di Black11 – e perciò, dice Claudia Casadio, riferendosi alla teoria di Paul

Ricoeur, «possiamo comprendere meglio la definizione della metafora come un «errore

categoriale»: «La metafora ha il potere di rompere categorizzazioni anteriori e di stabilire

nuovi legami logici: in questo senso, la dinamica del pensiero è la stessa che ha generato

tutte le classificazioni».»12

L’osservazione corrisponde in gran parte alla teoria della metafora elaborata da Umberto

Eco, che cerca di svelare il meccanismo metaforico, rifacendosi al cosiddetto «albero di

9 Giovanni Manetti, Aristotele e la metafora. Conoscenza, similarità, azione, enunciazione, in Metafora e conoscenza. Da Aristotele al cognitivismo contemporaneo, a cura di Anna Maria Lorusso, Milano, Bompiani, 2005, p. 34. 10 Bice Mortara Garavelli, Manuale di retorica, Milano, Bompiani, 2008, p. 142. 11 Max Black (1962, p. 56), citato da Anna Maria Lorusso, Introduzione a Metafora e conoscenza, cit., p. 9. 12 Paul Ricoeur (1962, p. 285), citato da Claudia Casadio, Linee per una teoria della metafora, in Itinerario sulla metafora. Aspetti linguistici, semantici e conoscitivi, a cura di Claudia Casadio, Roma, Bulzoni, 1996, pp. 40-41.

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Porfirio», una strutturazione semantica variabile secondo le esigenze contestuali. Senza

spiegare la sua sistematizzazione estrema, ripetiamo qui le conclusioni di Eco, che

sottolineano la forza riorganizzatrice e conoscitiva della metafora:

A questo punto si profila [...] una nuova visione del potere cognitivo della metafora: ci fa comprendere

meglio una cosa perché, in prima istanza, essa ci fa vedere (ci mette sotto gli occhi, come avrebbe detto

Aristotele) un diverso modo di organizzare le cose, ovvero ci propone una nuova organizzazione

categoriale.13

Se le sovrapposizioni metaforiche generano nuove ‘categorizzazioni’ della conoscenza, in

che modo si costituiscono le categorie convenzionali? E come la metafora riesce a

sovvertire e a restituire queste classificazioni date? Secondo lo stesso Eco, si tratta di

‘esercizi spericolati’ all’interno di una ‘griglia culturale’:

L’immaginazione metaforica (come peraltro il lavoro dell’interpretazione della metafora espressa) altro

non è che un raziocinio che percorre in fretta i sentieri del labirinto semantico, e nella fretta perde il

senso della loro struttura ferrea. L’immaginazione ‘creativa’ compie esercizi spericolati solo perché

esiste una griglia culturale che la sostiene e le suggerisce i movimenti grazie alla sua rete di coloured

ribbons. La griglia è la Lingua come Cultura, è l’Enciclopedia. Su di essa la Parola gioca, o fa esercizi,

per conoscere meglio la cultura e, solo attraverso di essa, il mondo come ce lo rappresentiamo.14

In altre parole, Eco sostiene che l’immaginazione metaforica è un movimento creativo che

percorre e unisce varie parti di una ‘rete’ o ‘griglia’ culturale, che contiene tutte le

conoscenze sul mondo. L’osservazione è rilevante per l’ipotesi sul meccanismo cognitivo

della metafora, ma allo stesso tempo la ricerca sul funzionamento metaforico è forse

troppo razionalizzata, in quanto rappresenta l’ispirazione letteraria come un percorso e un

collegamento di conoscenze enciclopediche. Infatti, lo studioso non tiene conto del ruolo

della percezione nel processo di immaginare – e si tratta di un ruolo non trascurabile,

come accennato nel capitolo precedente, dove viene mostrato che Calvino parla perfino di

visibilità a proposito dell’immaginazione.

Perciò, si dovrebbe considerare ‘l’Enciclopedia’ di cui parla Eco come un’entità che

raccoglie tutte le conoscenze del mondo, e dunque anche la realtà empirica: l’ispirazione

poetica non è un concetto astratto, ma nasce spesso dalla realtà quotidiana, anche se viene

13 Umberto Eco, Metafora e semiotica interpretativa, in Metafora e conoscenza, cit., p. 266. 14 Ivi, pp. 288-289.

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sempre ‘filtrata’ da una griglia culturale o mentale. Come vedremo, questa ‘mappatura’

dell’immaginazione, che corrisponde dunque soltanto in parte alla concezione di Eco, si

ricollega molto bene alla visione di La Capria.

La concezione di Eco è tuttavia pertinente per la nostra analisi della narrativa lacapriana,

in quanto mette in rilievo il potenziale cognitivo della metafora. Così, in un suo contributo

all’Enciclopedia Einaudi, dedicato alla stessa figura, afferma a proposito della ricezione di

metafore che «per troppo tempo s’è pensato che per capire metafore occorresse conoscere

il codice (o l’enciclopedia): la verità è che la metafora è lo strumento che permette di

capire meglio il codice (o l’enciclopedia). Questo è il tipo di conoscenza che riserva.»15 In

realtà è ovviamente necessario un movimento in due direzioni: l’acquisizione di nuove

conoscenze è soltanto possibile se l’individuo dispone preliminarmente di un ampio

repertorio di conoscenze e se riesce a ricollegarle in un modo originale – ciò vale quindi

non soltanto per la creazione, ma anche per la ricezione di metafore.

Così, la metafora si presenta come un atto creativo, una ricerca di connessioni possibili

sulla base di una somiglianza, che parte dalla realtà e viene filtrata da un’Enciclopedia. A

questo proposito Cristina Marras parla giustamente di un’interazione tra analisi e sintesi:

L’intersecarsi (e la reciprocità) di analisi e sintesi, [...] di arte del giudizio e della scoperta rivela uno

schema che non solo non è univiario ma che si presenta come multilineare, e in cui sono molte le

direzioni possibili; lo schema è anche multivalente e le varie parti del sapere e della conoscenza

acquistano, infatti, valore in quanto punti di vista.16

In sostanza, la forza dell’immaginazione sta dunque nella sua possibilità di seguire tutte le

‘direzioni possibili’ all’interno della rete enciclopedica, e di assumere un’infinità di punti

di vista. Perciò Calvino la concepisce come il «repertorio del potenziale, dell’ipotetico, di

ciò che non è né è stato né forse sarà ma che avrebbe potuto essere»17. Christophe Bouriau

condivide l’opinione di Calvino, descrivendo l’imagination come la creazione di una

realtà possibile:

15 Umberto Eco, Metafora, in Enciclopedia Einaudi, vol. IX, Torino, Giulio Einaudi, 1980, p. 234. 16 Cristina Marras, Introduzione a Ead., Metaphora translata voce, cit., p. 158. La studiosa fa questa osservazione a proposito della filosofia di Leibniz, ma in realtà corrisponde anche molto bene alle possibilità della metafora. Il corsivo è mio. 17 Italo Calvino, Visibilità, in Id., Lezioni americane, cit., p. 91. Il corsivo è mio.

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L’opération consistant à former des représentations nouvelles à partir d’anciennes spécifie l’imagination

par rapport à la mémoire qui, tout comme la perception, reste tributaire du réel donné, tel qu’il s’impose

à nous. Contrairement à la mémoire qui ne peut restituer que ce que le réel a déjà donné, l’imagination

peut déborder toutes les données offertes par le réel pour présenter ce qui n’existe en aucun lieu et en

aucun temps. Elle ne restitue pas le monde mais le recrée.18

Un altro aspetto dell’immaginazione che viene regolarmente menzionato dagli studiosi, è

la sua capacità di rendere visibile una verità o una conoscenza nascosta. Ciò viene per

esempio intuito da Eco: «la metafora pone (‘pone’ in senso filosofico ma anche in senso

fisico, nel senso che ‘pone sotto gli occhi’ [...]) una proporzione che, dovunque fosse

depositata, sotto gli occhi non era; o era sotto gli occhi e gli occhi non la vedevano, come

la lettera rubata di Poe»19. Eco ci si riferisce alla concezione aristotelica della metafora,

che insiste per la prima volta sulla capacità di «porre sotto gli occhi». Questa capacità

viene giustamente spiegata da Anna Maria Lorusso:

Il «porre sotto gli occhi» è metafora per definire l’effetto di senso dell’operazione metaforica. Non è che

le metafore siano sempre visive ma sempre creano una salienza peculiare – e in questo senso «pongono

sotto gli occhi» qualcosa che prima era invisibile.20

Inoltre, la capacità di rendere visibile ‘qualcosa che prima era invisibile’ viene riassunta

alla fine di Qu’est-ce que l’imagination? di Bouriau e sembra dunque che proprio questa

qualità offra una risposta alla domanda che si trova nel titolo. Lo studioso chiude il suo

saggio con le parole seguenti:

Elle se démarque de la mémoire et de la perception par sa capacité de faire apparaître ce qui n’est

encore jamais apparu, de donner un visage à ce qui, sans elle, demeurerait à jamais invisible ou

insensible. […] Nous sommes tentés de dire d’elle à peu près ce que Paul Klee disait de la peinture :

l’imagination ne reproduit pas le visible, elle rend visible ce qui sans elle, resterait dans l’ombre ou dans

le néant.21

Insomma, l’immaginazione parte sempre dalla percezione del reale, ma senza riprodurlo

così com’è: il reale viene sempre ‘filtrato’ e ‘ricostituito’ da una griglia mentale, con lo

scopo di creare e di rendere visibile qualcosa di nuovo. Tuttavia, è difficile determinare in

che cosa consiste questa ‘griglia’ o ‘rete’ della mente: se la consideriamo un’Enciclopedia,

18 Christophe Bouriau, Qu’est-ce que l’imagination ?, cit., p. 47. 19 Umberto Eco, Metafora, in Enciclopedia Einaudi, vol. IX, cit., p. 211. 20 Anna Maria Lorusso, Introduzione a Metafora e conoscenza, cit., p. 12. 21 Christophe Bouriau, Qu’est-ce que l’imagination ?, cit., p. 80.

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all’esempio di Eco, dovrebbe corrispondere a tutte le conoscenze dell’individuo creante,

che dispone sempre di un personale repertorio di conoscenze. Questo repertorio personale

coincide ovviamente in gran parte con un repertorio ‘collettivo’ di immagini di una data

cultura, ossia l’immaginario.

2.3. Il repertorio dell’immaginario

In questo senso, l’immaginazione si presenta come un processo dinamico e creativo che

dispone di (e si fonda su) un ‘magazzino’ o ‘museo’ di immagini culturali e sociali. Ciò

emerge dagli esiti di uno studio collettivo sull’immaginario, raccolti da Carmagnola e

Matera in Genealogie dell’immaginario:

L’immaginazione è la fabbrica delle immagini, l’immaginario ne è il repertorio (magazzino o museo).

L’immaginazione è un processo attivo e creativo; l’immaginario è una parola dal significato ancora non

perfettamente definito ma è anche in un certo senso la tomba dell’immaginazione.22

In altri termini, l’immaginario è un insieme statico di immagini disponibili, ma finora si

tratta di un termine ‘non ancora perfettamente definito’. In ogni caso, le interpretazioni del

concetto (e del rapporto tra immaginario e immaginazione) sono numerose e divergenti.

L’approccio di Giordano offre per esempio uno spunto interessante: la studiosa sostiene

che l’immaginazione ha un «carattere sostanzialmente anarchico», mentre l’immaginario

si presenta come «la sede di immagini socialmente riconosciute, capaci di essere

interpretate e controllate»23.

Nonostante l’interesse di queste definizioni, che permettono una comprensione migliore

del concetto, tali definizioni hanno allo stesso tempo il difetto di rimanere troppo vaghe,

in quanto non esplicitano mai il contenuto concreto di questo ‘repertorio’. Carmagnola e

Matera cercano invece di stabilire le caratteristiche di questo ‘magazzino’ di immagini, e

costatano una svolta nell’immaginario, che si è spostato da ‘territori alti’ a ‘terreni bassi’:

La perseveranza è di coloro che cercano l’immaginario nei territori alti della produzione culturale –

l’arte e le sue varie manifestazioni o regioni appunto. L’emergenza è quella di chi rintraccia nella

22 Fulvio Carmagnola e Vincenzo Matera, Introduzione a Genealogie dell’immaginario, cit., p. XIII. 23 Valeria Giordano, Note sull’immaginare, cit., p. 23, citato da Paolo Jedlowski, Immaginario e senso comune, in Genealogie dell’immaginario, cit., p. 236.

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medialità e nei suoi terreni bassi – fino alla merce, al consumo delle immagini o alle abitudini del

quotidiano – il luogo di apparizione attuale più importante di ciò che va chiamato immaginario.24

In realtà, l’osservazione coglie uno degli aspetti più essenziali della cultura moderna, ossia

la divulgazione straordinaria delle immagini e la loro intrusione nella vita quotidiana. In

altre parole, una volta l’immaginario era un magazzino chiuso e un terreno privilegiato

dell’arte, a cui si poteva ricorrere a proprio gusto; oggi sembra invece che il magazzino si

sia aperto e sia diventato completamente visibile.

Però, se l’osservazione di Carmagnola e Matera è accurata, gli studiosi tralasciano

comunque di menzionare gli effetti nefasti di questa cultura moderna ‘visiva’. Il pericolo

che si nasconde dietro la ‘civiltà dell’immagine’ viene invece giustamente circoscritto da

Italo Calvino:

Ma resta da chiarire la parte che in questo golfo fantastico ha l’immaginario indiretto, ossia le immagini

che ci vengono fornite dalla cultura, sia essa cultura di massa o altra forma di tradizione. Questa

domanda ne porta con sé un’altra: quale sarà il futuro dell’immaginazione individuale in quella che si

usa chiamare la «civiltà dell’immagine»? Il potere di evocare immagini in assenza continuerà a

svilupparsi in un’umanità sempre più inondata dal diluvio delle immagini prefabbricate?25

Lo scrittore si riferisce precisamente alla caratteristica primaria dell’immaginazione, cioè

la capacità di ‘evocare immagini in assenza’, analoga alla definizione di Bouriau elaborata

nel suo studio su l’imagination. Calvino teme dunque che la presenza eccessiva di

immagini e la loro visibilità nella società moderna possa infine condurre all’incapacità di

immaginare in assenza. Perciò gli sembra difficile, se non impossibile, di fare emergere e

di rendere visibile delle prospettive nuove all’interno di una cultura di massa già troppo

visiva.

Così, l’immaginario originario si è gradualmente trasformato in un ‘diluvio’ di immagini

che contiene inevitabilmente immagini da respingere. A questo proposito La Capria parla

di un ‘immaginario inquinato’, e lo scrittore cerca precisamente di valutare le immagini

collettive e di respingerne quelle superflue, come vedremo nel capitolo seguente.

24 Fulvio Carmagnola e Vincenzo Matera, Introduzione a Genealogie dell’immaginario, cit., p. XVI. 25 Italo Calvino, Visibilità, in Id., Lezioni americane, cit., p. 91.

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In ogni caso, se il repertorio di immagini si rivela inquinato o corrotto, ciò comporta anche

conseguenze per l’immaginazione stessa: in questo caso non ha più la libertà ‘anarchica’

di percorrere a proprio gusto il repertorio di immagini, ma è anzitutto costretta a filtrare

una massa enorme di immagini per selezionare le immagini appropriate. Per spiegare la

difficoltà di questa operazione, ci riferiamo alla conclusione della lezione di Calvino:

Se ho incluso la Visibilità nel mio elenco di valori da salvare è per avvertire del pericolo che stiamo

correndo di perdere una facoltà umana fondamentale: il potere di mettere a fuoco visioni a occhi chiusi,

di far scaturire colori e forme dall’allineamento di caratteri alfabetici neri su una pagina bianca, di

pensare per immagini.26

In altri termini, se immaginare è giustamente la capacità di pensare per immagini (la

definizione corrisponde inoltre perfettamente alla concezione dell’immaginazione come

un processo che consiste nella percezione della realtà che viene quindi filtrata da una

griglia mentale, elaborata nel capitolo precedente), si capisce perché oggi sia tanto

difficile creare un’immagine ‘precisa’, avendone a disposizione una quantità enorme.

Il terzo capitolo dimostra che anche La Capria è preoccupato per questo ‘diluvio delle

immagini’ di cui parla Calvino, cercando di ricostituire un immaginario puro e naturale di

Napoli. Anzitutto è però necessario chiarire come procederemo durante l’analisi.

2.4. Alcuni chiarimenti sul metodo di analisi

L’immaginazione lacapriana si appoggia in realtà sui tre aspetti affrontati in questo

capitolo: l’importanza della percezione, l’acquisizione di conoscenza e il recupero di un

immaginario puro. Il terzo aspetto, la critica dell’immaginario inquinato, viene soprattutto

trattato nella sua saggistica (cf. 3), mentre i due primi aspetti sono chiaramente presenti in

Ferito a morte (cf. 4), dove lo scrittore ricorre a diverse metafore e similitudini prese dalla

realtà napoletana con lo scopo di elaborare un discorso ‘adeguato’ sulla città materna.

Così, La Capria ha elaborato alcune metafore centrali (la Bella Giornata e la Foresta

Vergine) che formano il vero e proprio nucleo del romanzo, intorno al quale fa girare il

suo racconto. Accanto a queste metafore ricorrenti, lo scrittore fa anche leva su diverse

26 Ivi, p. 92.

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similitudini. Un primo confronto tra queste figure è quindi legittimo, anzi indispensabile

per cogliere la portata dell’immaginazione lacapriana.

Sembra infatti che la differenza tra metafora e similitudine non sia semplicemente

riducibile alla presenza o no di un termine di comparazione. Aristotele sostiene che si

tratta piuttosto di una differenza di livello, ossia di forza, considerando la metafora come

una figura superiore alla similitudine, che qualifica anzi come una ‘metafora allungata’.

Secondo Lucia Calboli Montefusco, Aristotele preferisce la metafora precisamente per il

suo carattere immediato e ‘rapido’: «la rapidità della trasmissione della conoscenza

peculiare della metafora diviene la chiave per comprendere la sua superiorità sulla

comparazione»27. La concezione corrisponde in gran parte con la teoria di Bertinetto,

citato da Garavelli:

La differenza tra similitudine e metafora [...] non si regge su presupposti formali, bensì pragmatico-

cognitivi in senso stretto. La prima figura è fondata sulla percezione statica delle affinità (e delle

differenze) che legano due entità; mentre la seconda si basa su un meccanismo di natura

emminentemente dinamica, che produce una qualche forma di fusione, o per meglio dire compresenza,

tra i due enti raffrontati.28

In altri termini, la similitudine è una variante meno vigorosa della metafora in quanto

esplicita la comparazione, per evitare la ‘fusione’ dei due elementi in questione. Per lo

stesso motivo, la similitudine è anche una figura più chiara della metafora (che può

potenzialmente condurre alla con-fusione ossia all’incomprensione) e questo fatto spiega

ovviamente la sua preferenza in prosa. Ciò è anche il caso in Ferito a morte, dove

l’immaginazione si presenta il più spesso sotto forma di similitudini, in un linguaggio

trasparente e chiaro. Le metafore invocate sono invece meno numerose, e ritornano inoltre

spesso nel romanzo come una specie di Leitmotiv, per obbedire ugualmente alle direttive

lacapriane di trasparenza.

In ogni caso, lo scopo di questa tesi è di evidenziare come Raffaele La Capria ha cercato

di costruire un personale discorso sulla città materna attraverso l’immaginazione. In altri

27 Lucia Calboli Montefusco, La percezione del simile: metafora e comparazione in Aristotele, in Metafora e conoscenza, cit., p. 80. 28 Bertinetto (1979, p. 160), citato da Bice Mortara Garavelli, Manuale di retorica, cit., p. 160.

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termini, lo scopo è di estrarre l’intenzione dello scrittore dai ‘passi paralleli’, come dice

Antoine Compagnon:

Aucun critique, semble-t-il, ne renonce à la méthode des passages parallèles […] : aucun critique ne

renonce donc à une hypothèse minimale sur l’intention d’auteur, comme cohérence textuelle […]. Cette

cohérence, c’est celle d’une signature, comme on l’entend en histoire de l’art, c’est-à-dire comme un

réseau de petits traits distinctifs, un système de détails symptomatiques – des répétitions, des

différences, des parallélismes – rendant possible une identification ou une attribution.29

Perciò, un’analisi delle metafore centrali di Ferito a morte (la Bella Giornata e la Foresta

Vergine) e del contesto in cui appariscono, insieme a uno studio delle immagini ricorrenti

(come la luce e il mare), dovrebbero permettere di formarsi un’idea sull’intenzione poetica

di La Capria.

Però, avverte Compagnon, se un autore ha sempre una certa intenzione, ciò non implica

che lui sia cosciente di tutti gli aspetti della propria creazione. A questo proposito cita il

filosofo americano John Searle, che paragona la scrittura alla marche à pied:

John Searle comparait l’écriture à la marche à pied : bouger les jambes, soulever les pieds, tendre les

muscles, l’ensemble de ces actions n’est pas prémédité, mais elles ne sont pas pour autant sans

intention ; nous avons donc l’intention de les faire quand nous marchons ; notre intention de marcher

contient l’ensemble des détails que la marche à pied implique.30

Per questo motivo, un commento esterno, privo di pregiudizi, risulta così interessante. E

quindi, anche se i commenti su Ferito a morte espressi da La Capria stesso nei suoi saggi

(anzitutto ne L’armonia perduta) sono senza dubbio utili per l’interpretazione del suo

romanzo, l’analisi non può limitarsi a questi commenti perché è possibile che ci siano

aspetti sfuggiti allo scrittore stesso.

L’obiettivo di questa tesi è quindi di svelare il filo conduttore dell’immaginazione in

Ferito a morte e il discorso sottostante sulla città materna. Se parlare di una «allegoria»31

napoletana è forse esagerato, lo scopo è comunque di cogliere l’intenzione di La Capria

29 Antoine Compagnon, L’auteur, in Id., Le démon de la théorie. Littérature et sens commun, Paris, Editions du Seuil, 1998, p. 81. 30 Ivi, p. 94. 31 Cioè, una «metafora prolungata», secondo la terminologia di Bice Mortara Garavelli, Manuale di retorica, cit., p. 259.

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che si nasconde dietro le metafore e le similitudini del romanzo. Il tentativo dello scrittore

è infatti di rendere visibile l’essenziale della sua città, proprio perché l’immagine di essa

rischia di svanire e di perdersi nei luoghi comuni. L’ambizione corrisponde in parte con

quella de Le città invisibili di Calvino, dove il protagonista cerca di cogliere l’essenziale

di una città e il rapporto di essa con il proprio passato attraverso immagini:

Ma non di questo è fatta la città, ma di relazioni tra le misure del suo spazio e gli avvenimenti del suo

passato [...]. Di quest’onda che rifluisce dai ricordi la città si imbeve come una spugna e si dilata. Una

descrizione di Zaira quale è oggi dovrebbe contenere tutto il passato di Zaira. Ma la città non dice il suo

passato, lo contiene come le linee di una mano, scritto negli spigoli delle vie, nelle griglie delle finestre,

negli scorrimano delle scale, nelle antenne dei parafulmini, nelle aste delle bandiere, ogni segmento

rigato a sua volta di graffi, seghettature, intagli, svirgole.32

Le analogie con il discorso lacapriano su Napoli sono notevoli: partendo dalla percezione

del reale, La Capria cerca di elaborarlo con la mente e di collocarlo in una prospettiva più

ampia, nella speranza che la costruzione di una ‘immagine mentale’ possa idealmente

condurre alla comprensione della città materna.

32 Italo Calvino, Le città invisibili, Milano, Mondadori, 1993, pp. 10-11; citato da Gabriella Turnaturi, Descrivere, analizzare, raccontare la città, in Ead., Immaginazione sociologica e immaginazione letteraria, Bari, Laterza, 2003, p. 98. L’immagine della spugna viene anche usata da La Capria in rapporto con Palazzo donn’Anna per descrivere la città materna come luogo di incontro tra Natura e Storia, tra presente e passato.

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3. L’IMMAGINE MENTALE DI RAFFAELE LA CAPRIA

Prima di analizzare il ruolo e il funzionamento dell’immaginazione in Ferito a morte,

sembra pertinente studiare il parere lacapriano sull’importanza dell’immaginazione nella

letteratura del post-Novecento. Come emerge dai suoi saggi sulla letteratura – che sono

tutti posteriori all’uscita di Ferito a morte –, l’immaginazione occupa una posizione

assolutamente centrale nella sua concezione della letteratura. Il secondo romanzo, uscito

nel 1961, fa già intravedere come l’immaginazione, e specificamente le metafore centrali

e le immagini ricorrenti tout court, sono in grado di funzionare come il nucleo ‘primario’

del racconto, intorno al quale la storia ‘secondaria’ si sviluppa. Più di essere un vero

racconto, il romanzo si presenta allora come un luogo di sviluppo di certi pensieri e

opinioni su Napoli, e in senso più ampio, sul mondo.

Gradualmente, e soprattutto a partire dagli anni ottanta e novanta, quando La Capria

comincia a dedicarsi alla saggistica, si intensifica la sua critica della cultura di massa.

Colpisce che la critica dello scrittore della società moderna nasca anzitutto dalla paura di

un ‘inquinamento’ dell’immaginario, in una cultura novecentesca troppo ‘ridondante’ e

‘visiva’. Per La Capria, l’immobilità e la ripetitività dell’immaginario – e dunque anche

della letteratura che attinge la sua ispirazione da questa fonte di immagini –, costituiscono

un problema grave, esattamente perché questo repertorio dispone di una, e forse l’unica,

griglia interpretativa e conoscitiva del mondo (3.1.). In un secondo tempo, diventa chiaro

come l’immaginazione lacapriana ideale è il risultato di un’interazione armoniosa tra

l’osservazione della vita quotidiana in una prima fase, e il successivo lavoro mentale su di

essa. In questo modo, essa può contribuire all’acquisizione di nuove conoscenze (3.2.).

3.1. L’inquinamento e la stagnazione dell’immaginario

Dopo aver sperimentato che l’immaginazione è il vero e proprio motore della sua prosa –

come vedremo durante l’analisi di Ferito a morte –, La Capria comincia a rendersi conto

del cosiddetto ‘inquinamento’ dell’immaginario nella cultura moderna e di conseguenza

presso i suoi colleghi. Secondo lo scrittore, tale inquinamento è uno dei sintomi di una

malattia del tempo più ampia, quella della cultura di massa: il problema sta proprio nel

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fatto che il consumismo moderno produce incessantemente una ridondanza di immagini e

impressioni, il che infine può nuocere alla chiarezza dei pensieri individuali. In altri

termini, La Capria sostiene che un’interpretazione del mondo sia sempre attraversata dalle

immagini acquisite nella cultura in cui viviamo; se la quantità di queste immagini diventa

esuberante di modo che non possono più essere filtrate, esse possono finalmente bloccare

la formazione di una visione corretta sul mondo presso gli individui. In Letteratura e salti

mortali, lo scrittore napoletano dedica un intero capitolo al fenomeno chiamato

l’‘inquinamento dell’immaginario’, e spiega il problema attraverso l’immagine di un filtro

intasato:

L’immaginario, proprio come l’ambiente, si sta inquinando, si è già inquinato, per un eccesso di

produzione, e non c’è filtro bastante a depurarlo. [...] Da qui quell’eccesso di sapere che produce non-

sapere o un sapere indifferenziato, quella valanga di immagini che produce il vuoto d’immaginazione,

quell’inflazione di parole che produce svalutazione della parola.33

Tale filtro intasato è dunque simbolo di «una cultura della ridondanza»34 in quanto fa

passare senza tregua un eccesso di immagini e di pensieri della cultura di massa,

impedendo così all’individuo di formarsi un’idea personale e indipendente dagli schemi

comuni. Poiché la ridondanza di modelli preesistenti ostacolano la creazione di nuovi

modelli, paradossalmente l’immaginario ne diventa ‘anoressico’:

Ebbene anche l’immaginario sta diventando anoressico, anche l’immaginario rischia di non distinguere

più tra ciò che è naturale e ciò che è confezionato, tra la realtà e la realtà già immaginata, tra la realtà e

la sua copia.35

Così, i saggi lacapriani – e non soltanto Letteratura e salti mortali, ma anche il ‘romanzo’

L’armonia perduta e L’occhio di Napoli – sono in gran parte motivati dal profondo

disagio dello scrittore di fronte alla letteratura contemporanea e, in generale, alla cultura

postmoderna. Tuttavia, La Capria rifiuta di disperare, anche se oggi l’immaginario è

«inquinato dalle troppe rappresentazioni continuamente riprodotte», affermando invece

che il compito dello scrittore contemporaneo è giustamente di «ricercare il principio di

una determinazione creativa»36. In altre parole, allo stato attuale, con la letteratura che è

33 Raffaele La Capria, Letteratura e salti mortali, in Id., Opere, a cura e con un saggio introduttivo di Silvio Perrella, Milano, Arnoldo Mondadori, 2003, p. 1179. 34 Ivi, p. 1180. 35 Ivi, p. 1181. 36 Ivi, p. 1183.

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diventata un deposito di luoghi comuni, la difficoltà di essere creativi è senza dubbio

cresciuta, ma insieme alla fatica è cresciuta la necessità di creatività individuale, di nuovi

approcci al mondo, di visioni dinamiche sul reale.

Il disagio lacapriano nei confronti del postmodernismo è anzitutto generato da un

sentimento angoscioso di chiusura e di immobilità. Ciò emerge chiaramente da L’occhio

di Napoli, dove lo scrittore critica severamente la propria città materna, descrivendola

come la città immobile per eccellenza. Lo scrittore si chiede allora se sarebbe possibile

farla uscire dal recinto che ha creato personalmente:

È possibile, almeno, allargare i confini della città e, parlandone, farla uscire da quella specie di recinto

in cui si è chiusa, usando le chiavi del linguaggio, dell’immaginazione e della speranza per scuoterla

dalla sua immobilità?37

In realtà, il vizio maggiore di Napoli sta proprio in quei «radicati riflessi difensivi che

mantengono in vita viete rappresentazioni e cliché legati a un’ormai patologica e sterile

autoreferenzialità», per dirla con le parole di Sabine Verhulst38. Ciò significa infatti che un

abuso immotivato e eccessivo della tradizione napoletana potrebbe finalmente condurre

all’irrepresentabilità della città stessa. La Capria riconosce il pericolo ne L’occhio di

Napoli, paragonando la città ad una cipolla: «devo ammettere che non è facile guardare

Napoli senza pregiudizio [...] perché Napoli ne sembra avvolta come una cipolla, che se la

sfogli tutta non resta più nulla»39. È proprio per questo che si dovrebbe ‘allargare i confini

della città’.

Il desiderio di La Capria di guardare oltre i confini ‘fissi’ spiega anche perché il mare

occupi una posizione talmente centrale nella sua narrativa. L’ostinazione dello scrittore di

formarsi un’idea corretta del reale si traduce allora letteralmente in una volontà di

‘prendere il largo’, di sfuggire temporaneamente al mondo napoletano per scoprire un

altro. A questo proposito è significativo un passo di Napolitan graffiti che racconta di una

certa ‘bella giornata’ in cui La Capria e Anna Maria Ortese andarono insieme a Procida e

dove descrive il comportamento della scrittrice:

37 Raffaele La Capria, L’occhio di Napoli, in Id., Opere, cit., p. 945. 38 Sabine Verhulst, Ricomporre Napoli nell’immaginario. La visione di Raffaele La Capria, in Le frontiere del Sud, Firenze, Academia Universa Press, 2009. In corso di stampa. 39 Raffaele La Capria, L’occhio di Napoli, in Id., Opere, cit., p. 989.

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Con gli occhi rivolti dentro se stessa non vedeva niente dello spettacolo di fuori, non lo splendore del

mare che in realtà bagna Napoli, non la linea mutevole del paesaggio e la bellezza delle rive; e neppure

vide l’isola che ci veniva incontro con tutte le sue bianche case smozzicate che si riflettevano nello

specchio del porticciuolo. Quell’eccesso di luce che scoppiava nell’aria doveva sembrarle irriguardoso e

perfino indecente, la offendeva. [...] Ricordo che – come spesso accade – una luna trasparente, diafana,

e simile a un’ostia, navigava nel cielo diurno, consumata dalla luce, anch’essa fuori posto nella bella

giornata: creatura notturna, fatta per l’ombra, dove meglio s’irradia il suo nebuloso splendore, come la

futura scrittrice de Il mare non bagna Napoli.40

Dal passo risulta chiaro che, secondo La Capria, il vizio primario degli scrittori napoletani

è di chiudersi volontariamente, sia in senso letterale, nel recinto della loro città – come fa

Anna Maria Ortese ne Il mare non bagna Napoli – che in senso metaforico, nelle

rappresentazioni circolari e immobili di essa. Il loro peccato è di non vedere come ‘il mare

bagna Napoli’, di rifiutare di aprirsi sul mondo esteriore, e di adottare una visione

dinamica su di esso.

Inoltre, la citazione di Napolitan graffiti fa intravedere una seconda distinzione tra la

visione lacapriana e quella della maggior parte degli scrittori napoletani: laddove la Ortese

‘si rifugiò subito nel salone interno del vaporetto’ a causa di un eccesso di luce che la

offendeva, La Capria preferiva immedesimarsi completamente con la bella giornata. Ciò

potrebbe indicare la sua ostinazione di costruire un rapporto diretto col mondo esteriore,

senza la mediazione di modelli esistenti. Stranamente, critica lo scrittore, molti dei suoi

colleghi rifiutano di andare in cerca di una tale trasparenza completa del reale,

accontentandosi dell’ennesimo sfruttamento di luoghi comuni ‘oscuri’.

Silvio Perrella condivide questa opinione nell’Introduzione all’edizione dei Meridiani

delle Opere, da lui curata: «mentre Anna Maria Ortese non solo era assalita dalle ombre,

ma le cercava e le corteggiava, ponendo tra sé e il reale una «lente scura», La Capria

cercava la chiarezza, il fondamento geometrico del mondo, aspirando a un particolare tipo

di illuminismo, quello del cuore»41.

Nonostante il suo desiderio ardente di rompere la circolarità di Napoli, succede che anche

La Capria stesso, in quanto napoletano, viene sottomesso alla forza immobilizzante della

città materna. Perciò, ne L’occhio di Napoli, lo scrittore si chiede se non sia stato anche lui

40 Raffaele La Capria, Napolitan graffiti, in Id., Opere, cit., pp. 1139-1140. 41 Silvio Perrella, Il mondo come acqua, in Raffaele La Capria, Opere, cit., p. XX.

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«preso nella «circolarità» di questo «discorso su Napoli», che interminabilmente ripete la

circolarità esistenziale della città»42. La Capria è dunque consapevole del fatto che uscire

dal cerchio necessita sempre uno sforzo. In realtà, anche se sembra suggerire che anche lui

non riesce ad abbandonare il cerchio vizioso napoletano, ne era in certo senso già uscito

più di trenta anni prima, con il suo romanzo Ferito a morte, dove offre un’immagine

nuova e completamente personale della cara città materna.

In ogni caso, La Capria teme che l’immobilità napoletana – e per estensione, meridionale

–, causata da un irresponsabile ed eccessivo riuso della ricca tradizione, possa finalmente

condurre a un’arretratezza irreparabile rispetto allo sviluppo culturale del Settentrione.

Però, sembra suggerire lo scrittore, l’immobilità contiene anche un vantaggio particolare

in quanto può generare una specie di attesa, anche essa tipicamente meridionale. Perciò, a

un napoletano che è in attesa di un miglioramento delle condizioni cittadine – come La

Capria – può capitare di intravedere improvvisamente le possibilità future della propria

città. E, dice lo scrittore, tale scoperta è sempre il risultato dell’immaginazione:

L’attesa [...] è il grande territorio dell’immaginazione. Ecco perché a Napoli di immaginazione ce n’è

tanta. Aspettiamo da secoli che accada qualcosa, ma è da secoli che non facciamo nulla per farla

accadere. Ci limitiamo ad aspettare, immobili, immaginando.43

In sostanza, La Capria sostiene che l’immaginazione è la chiave per eccellenza per

scoprire e capire l’essenziale, il nucleo del reale. Considera l’immaginazione come un

work in progress che parte sempre da un’osservazione della realtà, che viene poi

trasformata e interpretata da una mente acuta e indipendente. Così, l’immaginazione

conduce idealmente alla creazione di una ‘realtà possibile’, che in fondo è più vera di

quella che vediamo ogni giorno.

3.2. La funzione cognitiva dell’immaginazione lacapriana

Siccome l’immaginazione lacapriana nella sua forma matura è il frutto di una

collaborazione ben riuscita tra l’osservazione di immagini provenienti dal reale, e un

trattamento della mente su di esse, La Capria preferisce riferirsi al fenomeno sotto il nome

42 Raffaele La Capria, L’occhio di Napoli, in Id., Opere, cit., p. 946. 43 Ivi, p. 1005.

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di ‘immagini mentali’. Il punto di partenza, spiega lo scrittore ne Lo stile dell’anatra, sono

quasi sempre immagini legate alla vista:

I soli luoghi importanti per uno scrittore, e per chiunque, sono infatti i luoghi in cui nasce e si sviluppa

la memoria immaginativa, e l’identità più segreta. Questa memoria è fatta di immagini sensoriali e

mentali che si presentano nei momenti più imprevisti e in combinazioni impensabili, sempre legate però

ai cinque sensi e soprattutto, per me, a quello della vista; e poi odori, sapori, suoni, contatti.44

L’osservazione è certo pertinente se la confrontiamo con il funzionamento della narrativa

lacapriana, dove le immagini – del mare trasparente, della luce abbagliante, del Vesuvio e

di Palazzo donn’Anna – sono i luoghi di nascita non soltanto della scrittura lacapriana, ma

anche della sua concezione del mondo.

Perciò, sottolinea La Capria, una semplice osservazione del reale non è sufficiente per

capirne l’essenza. Ciò spiega il suo ostinato attacco contro il realismo letterario ne

L’occhio di Napoli:

Farebbe bene oggi uno scrittore che volesse interrompere questa circolarità a sospendere per qualche

tempo quel realismo che riproduce direttamente la realtà così com’è. A Napoli oggi la realtà è più forte

di quel realismo, quel realismo non sa come rappresentarla. La realtà se la ride, quando si accorge che

quel realismo vuole afferrarla. Va là, gli dice, torna quando sarai più grande e un po’ più scaltrito [...] e

ricordati che il vero realismo è sempre critico, risale sempre alle cause ultime. Cerca di non descrivermi

troppo, non sopporto le descrizioni insistite, sono superficiali e distruggono. Pensami, invece, fatti di me

un’immagine mentale forte e dominante, conoscitiva. Allora chissà, forse potrei anche concedermi un

po’.45

E dunque, conclude La Capria, uno scrittore che vuole occuparsi di Napoli non ha il

compito di «riprodurre direttamente la realtà così com’è», ma dovrebbe invece impegnarsi

e «ripensare la città continuamente»46.

Raffaele La Capria arriva alla conclusione non prima degli anni ottanta – o in ogni caso,

ce la esplicita per la prima volta. Se la confrontiamo con il ruolo dell’immaginazione e il

rapporto del protagonista con la realtà nel suo primo romanzo, Un giorno d’impazienza, le

differenze sono notevoli, e sembra che lo scrittore vi stia ancora cercando il suo stile. A

44 Raffaele La Capria, Lo stile dell’anatra, in Id., Opere, cit., p. 1572. 45 Raffaele La Capria, L’occhio di Napoli, in Id., Opere, cit., pp. 946-947. 46 Ivi, p. 947.

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questo proposito, Domenico Scarpa osserva tuttavia che il tema del romanzo è esattamente

‘l’inseguimento della Realtà’, e che si oppone così al ‘ricatto del Realismo’:

Un giorno d’impazienza, il primo romanzo pubblicato da Raffaele La Capria, è datato del 1952. In

quegli anni, l’imperativo dello scrittore italiano è catturare la realtà e inchiodarla alla pagina. I più

ingenui ci provano senza farsi troppe domande e si conformano chi più chi meno al ricatto del

Realismo, altri fanno dell’inseguimento stesso della Realtà il tema del racconto, riuscendo così ad

affrontarla e insieme a tenerla a distanza adeguata. Tra questi c’è anche La Capria.47

L’interpretazione di Scarpa è senza dubbio valida, anche perché Un giorno d’impazienza

non è soltanto la storia di un giovane in cerca della Realtà che «rimaneva sempre,

ostinatamente, al di fuori del mio sguardo»48, ma fa intravedere allo stesso tempo uno

scrittore che sta cercando la sua via.

Analizzando un brano di Un giorno d’impazienza, diventa chiaro quanto il primo romanzo

differisce dalle opere lacapriane future. Nel passo, il protagonista cerca a visualizzare la

faccia della sua amante, ma non ci riesce:

Cercai di fissare l’immagine di Mira in quel gesto impudico; ma invano. [...] Si ritraeva sempre in una

zona d’ombra, e solo separati frammenti, il taglio largo degli occhi, lo spessore assonnato delle

palpebre, il segno scontornato del rossetto, la rima sinuosa delle labbra, l’arsura dei capelli, si

disponevano in una composizione astratta, variabile, come i pezzi di carta d’un caleidoscopio. E quando

mi pareva di averla bloccata intorno a questi e altri particolari più vivi, sapevo bene che il volto ch’ero

riuscito finalmente a evocare non era il suo volto!49

Il problema sta proprio nel fatto che il personaggio vuole ‘riprodurre direttamente la

realtà’, scendendo nei minimi particolari. Così, numerose descrizioni di Un giorno

d’impazienza – anche se sono spesso ‘in assenza’, visualizzate – si perdono nei dettagli,

rendendo finalmente impossibile un insieme armonioso. Il tentativo sarà sempre vano,

proprio perché è impossibile riprodurre completamente la realtà così come è: tutto

sommato, il compito della descrizione – retorica, ma ovviamente anche letteraria –, dice

Garavelli nel suo Manuale di retorica, è proprio «il ‘porre davanti agli occhi’, in evidenza,

appunto, l’oggetto della comunicazione, mettendone in luce particolari caratterizzanti,

47 Domenico Scarpa, Mente narrante in corpo vivente. Metamorfosi di Raffaele La Capria, in Raffaele La Capria. Letteratura, senso comune e passione civile, a cura di Paolo Grossi, Napoli, Liguori, 2002, p. 9. 48 Raffaele La Capria, Un giorno d’impazienza, in Id., Opere, cit., p. 67. 49 Ivi, pp. 100-101.

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per concentrare su di esso l’immaginazione [...] dell’ascoltatore, la sua capacità di

raffigurarsi nella mente ciò di cui si parla, di tradurre le parole in immagini»50. In altri

termini, una descrizione della realtà necessita sempre una selezione di particolari, perché è

impossibile copiarla così come è.

In Ferito a morte, il secondo romanzo, uscito nel 1961, questo tipo di descrizioni

dettagliate è semplicemente inesistente. Sembra che La Capria abbia cambiato idea nel

corso degli anni e che preferisca ora cancellare i dettagli del reale per conservarne

l’essenziale. Inoltre, ciò offre una maggiore libertà al lettore, che può trasformare e

interpretare le limitate descrizioni offerte nel romanzo secondo il proprio gusto e la

propria immaginazione.

La saggistica lacapriana segue dunque ovviamento la linea di Ferito a morte,

classificandola sotto il concetto di ‘immagine mentale’. In questo stesso periodo nasce

logicamente la sua critica del realismo, che non si limita al realismo letterario ma

costituisce una critica degli eccessi visivi della società moderna:

Fin qui la mia immagine di Napoli città mediterranea; una immagine mentale, perché quella realistica

fornita di solito dal cinema, dalla televisione, dai giornali e anche dalla letteratura contiene sempre

qualcosa di ovvio e di eccessivo, che invece di aiutare a capire la complessità stratificata di questa città

ne dà una semplificazione buona solo a rafforzare i pregiudizi già esistenti.51

Inoltre, sostiene La Capria ne L’armonia perduta, una rappresentazione troppo oggettiva

della realtà non è necessariamente più ‘vera’ di un’interpretazione soggettiva di essa. La

forza della soggettività – e dell’immaginazione – sta proprio nel fatto che essa non

riproduce il reale, ma crea una nuova realtà possibile. Questa ‘ipotesi’ della realtà si

distingue soprattutto per la sua qualità di guardare oltre i dati oggettivi e per la sua

ostinazione di scoprire ‘alcuni aspetti che altrimenti sfuggirebbero’:

Un romanzo anche quando è preso dalla realtà non la riproduce mai esattamente, è un «modello di

realtà», una «realtà possibile», una ipotesi che l’immaginazione cerca di rendere più vera e credibile del

vero, anche per far risaltare (del vero) alcuni aspetti che altrimenti sfuggirebbero.52

50 Bice Mortara Garavelli, Manuale di retorica, cit., p. 238. Il corsivo è mio. 51 Raffaele La Capria, L’occhio di Napoli, in Id., Opere, cit., pp. 915-916. 52 Raffaele La Capria, L’armonia perduta. Una fantasia sulla storia di Napoli, in Id., Opere, cit., p. 729.

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Quindi, nel momento in cui l’immaginazione si trasforma in una forma ‘tangibile’,

letteraria, di metafore e similitudini, può contribuire decisamente alla trasmissione

concreta di aspetti del reale che, senza la sua mediazione, resterebbero impercettibili.

Perciò, le figure del discorso, che si presentano precisamente come la verbalizzazione

dell’immaginazione, non si distinguono più per la loro funzione meramente retorica e

ornamentale, ma soprattutto per la loro qualità cognitiva. L’importanza di questo loro

aspetto cognitivo viene sottolineato da La Capria ne L’armonia perduta:

[...] e dico che il mio libro è una fiction più che un saggio dove ho raccontato la storia di Napoli per

raccontare una mia storia interiore, il «poetico litigio» tra me e la mia città. Ripensandola dal profondo

della sua storia sotterranea con un approccio e un linguaggio tali da dare uno scatto all’immaginazione,

inventandomi un lessico appropriato, volevo proporre non una «rappresentazione» ma una «immagine

mentale» che aiutasse a ri-conoscerla, cioè a conoscerla di nuovo e in modo nuovo.53

L’ambizione lacapriana è dunque né più né meno di scoprire l’essenza dietro l’apparenza,

di perfezionare la sua conoscenza della verità. Lo scrittore esplicita il suo obiettivo ne

L’armonia perduta, una personale «mitografia conoscitiva», che dovrebbe essere letta

«senza confondere le metafore con la realtà»: «che non fossero prese alla lettera (come

quasi sempre avviene quando una metafora cade nel luogo in cui è stata costruita) e

avendo ben presente che non una verità storica io ho cercato ma una verità poetica»54.

Infatti, il primo capitolo di Ferito a morte dimostra bene come le metafore lacapriane

devono contribuire idealmente alla generazione di una personale ‘verità poetica’. Lo

scrittore napoletano ci usa una metafora, il cui significato rivela contemporaneamente

l’interpretazione lacapriana della metafora come modalità cognitiva. La Capria ci descrive

l’entrata della luce nella camera di Massimo, riferendosi ad un ‘grafico d’oro’:

Oscilla sulla parete bianca il grafico d’oro, trasmette irrequieto senza soste il messaggio: è una bella

giornata – bella giornata.55

Inoltre, ne Lo stile dell’anatra, lo scrittore descrive lo stesso raggio di sole di Ferito a

morte come un «geroglifico luminoso»56. Tenendo a mente che la metafora è considerata

come una figura di sostituzione che implica un trasferimento di significato, la luce si 53 Ivi, p. 777. 54 Ivi, pp. 776-777. 55 Raffaele La Capria, Ferito a morte, Milano, Oscar Mondadori, 1998, p. 13. 56 Raffaele La Capria, Lo stile dell’anatra, in Id., Opere, cit., p. 1574.

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traduce dunque metaforicamente sia in un ‘grafico d’oro’ che in un ‘geroglifico’. Le

metafore attribuiscono così un nuovo significato alla luce, indicando giustamente la sua

capacità di trasmettere un messaggio prezioso – d’oro –, ma insieme misterioso e ancora

sconosciuto – geroglifico. In altre parole, con queste metafore ‘primarie’, La Capria

sembra offrire implicitamente una sua definizione personale della metafora come una

figura eccellente che ha la facoltà di generare nuove visioni sul mondo e di trasmettere

nuovi messaggi che sono incontestabilmente preziosi, ma difficili da raggiungere.

L’importanza delle metafore nella scrittura lacapriana è anche manifesta in Letteratura e

salti mortali, dove lo scrittore mette in campo l’insolita metafora del tuffo per definire

chiaramente quali sono, a suo parere, le qualità della ‘buona’ letteratura. La Capria ci

sostiene che il tuffo – elemento importante della sua ‘memoria immaginativa’ di Palazzo

donn’Anna – ha «molte analogie con la letteratura»57: la perfezione della figura, «il fattore

rischio e la necessità di un calcolo istintivo e insieme razionale»58, e «la capacità di far

convergere il tutto verso un unico punto focale»59.

Soprattutto interessante per questa tesi è la conclusione di La Capria alla fine del capitolo,

dove si realizza che ‘eventi apparentemente semplici e chiari’ della vita possono

nascondere dei possibili trasferimenti letterari – giustamente, metafore – che, a loro volta,

sono in grado di contribuire ad una progressiva conoscenza della realtà:

Quando mi allenavo nei tuffi con Ciccio Ferraris [...] non ci sognavamo nemmeno di parlare di queste

cose, e nemmeno immaginavo che un giorno avrei trasferito gli insegnamenti di Ciccio nella pratica

della letteratura. Ma la vita ci presenta sempre eventi apparentemente semplici e chiari (come due

ragazzi che si allenano su un trampolino in una bella giornata d’estate) che però – chissà, forse –

contengono un altro evento nascosto dentro il primo, in gestazione, che potrà manifestarsi o no, a

seconda dei casi o del Caso.60

E, conclude lo scrittore napoletano, dopotutto questa conclusione «è da tener presente per

chi la vita cerca di riversare, trasfigurandola, nella grande metafora della letteratura»61.

57 Raffaele La Capria, Letteratura e salti mortali, in Id., Opere, cit., p. 1166. 58 Ivi, p. 1167. 59 Ivi, p. 1168. 60 Ivi, p. 1173. 61 Ibidem.

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Insomma, La Capria considera l’immaginazione, e la sua forma concreta della metafora,

come un meccanismo dinamico e cognitivo, che parte da fatti reali che vengono quindi

ripensati e trasfigurati in continuazione, con l’obiettivo di raggiungere alla fine una

visione più vera e più ricca sul mondo di quella offerta direttamente dalla realtà visibile.

Perciò, sembra suggerire lo scrittore, l’immaginazione è il frutto di un’unione armoniosa

tra esteriorità e interiorità, e dunque tra corpo e mente.

L’armonia tra esteriore e interiore è da tenere a mente per l’analisi di Ferito a morte, che,

in una prima fase, sembra la storia di uno scontro doloroso tra Natura e Storia – cioè, tra

corpo e mente. Però, vedremo come la conclusione finale del romanzo fa intravedere la

loro possibile armonia – anche se necessita uno sforzo per scoprirla.

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4. L’IMMAGINAZIONE IN FERITO A MORTE

La necessità di creare un’immagine mentale di Napoli, come elaborata da La Capria nella

sua saggistica ‘matura’, dovrebbe in parte apparire – anche se in modo meno teoretico –

nella sua narrativa anteriore, e più specificamente nel suo primo romanzo napoletano,

Ferito a morte. Come vedremo, la prosa lacapriana si applica facilmente alla concezione

dell’‘immagine mentale’, teorizzata nella saggistica. In Ferito a morte, l’inserimento e la

ripetizione di metafore, e soprattutto quella della Bella Giornata (4.2.) e quella della

Foresta Vergine (4.3.), costituiscono quindi una vera modalità cognitiva, che permette

finalmente un’interpretazione corretta e completa della complessità della città materna

(4.4.).

4.1. Introduzione. L’epigrafe di W.H. Auden

Prima di analizzare l’immaginazione nel romanzo stesso, sarà utile studiare l’epigrafe di

esso: La Capria ci ha inserito alcuni versi di ‘Goodbye to the Mezzogiorno’, una poesia di

Wystan Hugh Auden del 1958 e dunque più o meno contemporanea alla stesura di Ferito

a morte. Il poeta inglese ci parla del suo soggiorno sull’isola di Ischia, e dei suoi motivi di

abbandonare l’Italia:

… between those who mean by a life a

Bildungsroman and those to whom living

Means to-be-visible-now, there yawns a gulf

Embrace[s] cannot bridge.62

In un suo articolo sulla narrativa lacapriana, Domenico Scarpa sostiene che l’epigrafe di

Ferito a morte evidenzia come Auden fa una distinzione fra due tipi di uomini, vale a dire

fra «coloro che intendono la vita come un perpetuo romanzo di formazione», una specie a

cui appartiene il poeta inglese stesso, e «coloro che la vivono come visibilità istantanea,

come appagamento spensierato dell’attimo assoluto»63.

62 Wystan Hugh Auden, epigrafe a Ferito a morte di Raffaele La Capria, cit., p. 1. 63 Domenico Scarpa, Mente narrante in corpo vivente, cit., in Raffaele La Capria. Letteratura, senso comune e passione civile, cit., p. 17.

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In realtà si tratta di un abisso tra due culture: quella settentrionale e europea, dove la vita è

un Bildungsroman – non per caso la terminologia è tedesca –, dove tutto viene analizzato

dalla mente, ci si oppone allora alla cultura meridionale, che è dominata non dalla ragione,

ma dal corpo. Così, affermano numerosi studiosi, appoggiandosi anche sul fatto che il

poeta ha scritto la famosa poesia poco dopo la sua partenza da Ischia, ‘Goodbye to the

Mezzogiorno’ descrive l’atmosfera italiana e la reazione dei viaggiatori settentrionali su

essa.64

Confrontando l’epigrafe con il messaggio di Ferito a morte stesso, diventa chiaro che la

scelta di La Capria non può soltanto essere spiegata dalla sua ammirazione per Auden. Lo

scrittore sembra infatti contraddire la concezione del poeta inglese: invece di affermare la

spaccatura irrimediabile fra le due culture, La Capria propone di ‘colmare l’abisso’, di

costruire un ponte, raggiungendo così una visione sul mondo più ricca.

Così l’epigrafe esplicita il desiderio lacapriano di stabilire un’armonia fra mente e corpo,

un tema che occupa una posizione centrale in Ferito a morte. Ciò viene anche osservato

da Domenico Scarpa nello stesso articolo, che si intitola precisamente Mente narrante in

corpo vivente, dove afferma giustamente che «il problema di La Capria è sempre stato

quello di far coincidere la formazione – processo oscuro, segreto e interiore – con la

visibilità della vita vissuta che si spalanca verso un dehors di luce abbagliante»65.

La combinazione di vita interiore e vita esteriore, di lavoro mentale e realtà vissuta, così

cara allo scrittore e così importante nella sua scrittura, concorda in realtà molto bene con

la sua concezione personale dell’immaginazione, vale a dire: l’immaginazione non può

essere il risultato di un mero processo mentale che funziona indipendentemente dalla

realtà circostante, ma è invece sempre il frutto di un lavoro intellettuale che è anzitutto

condizionato dal mondo reale, che parte dalla vita quotidiana. In altre parole, si tratta di

immagini del reale che vengono interpretate dalla mente, per ottenere così un’immagine

mentale. L’immaginazione lacapriana ha inoltre un importante ruolo cognitivo in quanto

cerca di costituire un’interpretazione completa del mondo e di cogliere l’essenziale della

vita, un tentativo analogo a quello del protagonista di Ferito a morte.

64 Fra l’altro, Herbert Morgan Waidson in Auden and German literature, in «The Modern Language Review», vol. 70, no. 2, anno 1975, pp. 356-357. 65 Domenico Scarpa, Mente narrante in corpo vivente, cit., in Raffaele La Capria. Letteratura, senso comune e passione civile, cit., p. 16.

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Perciò non colpisce che l’idea torni anche nelle epigrafi dei due altri romanzi della trilogia

Tre romanzi di una giornata. Nel terzo romanzo, Amore e psiche, La Capria sottolinea di

nuovo l’importanza del rapporto – della letteratura, e dunque della conoscenza – con la

realtà, inserendo una brevissima citazione di Ludwig Wittgenstein, che contiene tuttavia

tutte le idee lacapriane sulla letteratura e insieme, sulla vita:

Il mondo è tutto quello che accade.66

In altre parole, la valutazione di ‘tutto quello che accade’ di Wittgenstein e del ‘to-be-

visible-now’ di Auden sottolinea che un’interpretazione corretta – anche se non assoluta,

ma individuale – di una società richiede anzitutto un’osservazione attenta di essa. La

Capria esplicita la necessità di un rapporto intenso con la realtà ne L’armonia perduta,

rifiutando l’idea che una società sia soltanto un’entità spirituale, e dunque mentale:

[...] una civiltà non è solo una cultura o un dato tipo di società, e nemmeno un costume, un patrimonio

spirituale, una fatalità etnico-geografica: è molto di più. È un mondo, qualcosa di globale che ha a che

fare con l’essere [...], è qualcosa di omogeneo e riconoscibile nel colore dell’intonaco di un palazzo

come nel grido di un venditore nella strada.67

Perfino l’epigrafe al primo romanzo lacapriano, Un giorno d’impazienza, dove lo scrittore

cita alcuni versi della poesia ‘Il ne faut pas’ del poeta francese Jacques Prévert, contiene

già le idee che verranno ulteriormente sviluppate nelle sue opere posteriori. Con la scelta

di Prévert, La Capria afferma infatti non soltanto di rifiutare il mondo meramente mentale,

ma anzi di concepire l’isolamento della mente come una bugia:

Quand on le laisse seul

le monde

mental

ment

monumentalement.68

L’allitterazione di Prévert, alla stregua del Bildungsroman di cui parla Auden, dimostra

così l’impossibilità di un mondo mentale che funziona indipendentemente.

66 Ludwig Wittgenstein, epigrafe a Amore e psiche di Raffaele La Capria in Id., Opere, cit., p. 307. 67 Raffaele La Capria, L’armonia perduta, in Id., Opere, cit., pp. 775-776. 68 Jacques Prévert, epigrafe a Un giorno d’impazienza di Raffaele La Capria in Id., Opere, cit., p. 53.

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Insomma, le epigrafi della trilogia Tre romanzi di una giornata dimostrano chiaramente

che la realtà circostante è il luogo di nascita della ispirazione lacapriana, il punto di

partenza della sua immaginazione e della sua progressiva conoscenza del mondo. Come

vedremo, Ferito a morte, il secondo romanzo della trilogia, comunica in modo chiaro la

necessità di un’unione armoniosa tra mente e corpo. Nel romanzo, l’unione si traduce

letteralmente nell’opposizione ‘universale’ tra Storia e Natura, che La Capria rende più

visibile attraverso le metafore della Bella Giornata e della Foresta Vergine. Lo scrittore –

e il suo alter ego, il protagonista Massimo – ci cerca di stabilire un equilibrio tra queste

due grandi forze universali: un equilibrio precario, difficile da ottenere e da mantenere,

che permette però una visione del mondo innovatrice e preziosa.

4.2. ... un mattino tutto luce in fondo al mare. Le immagini della Bella Giornata

Un’analisi dell’immaginazione in Ferito a morte richiede anzitutto un approfondimento

del suo motivo centrale, la metafora della Bella Giornata. Essa costituisce il nucleo

immaginativo del romanzo e contiene una promessa di felicità che sembra inseparabile

dalla vita napoletana. Per La Capria, questa promessa nasce dalla trasparenza del mare

mediterraneo. La ‘nascita’ della Bella Giornata può anche essere intesa in senso letterale,

visto che questa perfezione del mondo viene sempre legata all’età dell’infanzia (4.2.1.).

La seconda parte dimostra che sarà il mattino ad annunciare la nascita della Bella Giornata

e spiega perché la giornata sia la misura perfetta per descrivere la perfezione della natura

meridionale (4.2.2.). In una terza parte risulta chiaro che la metafora della Bella Giornata

si presenta in realtà come un’immagine immobile e atemporale, e che questa particolarità

contribuisce per di più alla legittimazione della struttura non convenzionale del romanzo

(4.2.3.). La quarta parte di questo capitolo contiene infine un’analisi del carattere effimero

di questa perfezione del mondo, simbolo dell’inevitabile perdita della gioventù (4.2.4.).

4.2.1. La Bella Giornata come promessa di felicità

Come punto di partenza per l’analisi della metafora della Bella Giornata, risulta utile

studiare l’autocommento lacapriano nel saggio L’armonia perduta. Lo scrittore ci contesta

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non solo lo stato miserabile della propria città, ma ci svela anche la genesi del primo

romanzo di grande successo, Ferito a morte, dedicando un intero capitolo al tema della

Bella Giornata. In questo capitolo La Capria la descrive come «un’immagine primaria,

radiosa e irradiante, da cui scaturivano per germinazione spontanea altre immagini»69.

Questa idea primaria si presenta come un’entità autonoma, impossibile da evitare:

Ma bella voleva dire bella per conto suo, come la Natura che è indifferente al destino dell’uomo. Voleva

dire una gioia che sembra sempre lì, a portata di mano, proclamata dall’azzurro raggiante del cielo, e

che però non si può condividere. Voleva insomma dire una idea ostinata in fondo alla testa, radicata

nell’animo, nel sentimento delle cose, ed è rispetto a quell’idea che tutto si misura.70

Sin dall’inizio, è chiaro che Ferito a morte può leggersi come un’elaborazione completa

della figura della Bella Giornata, annunciata da un raggio di sole sulla parete della stanza

di Massimo. Da quel raggio sulla parete nasce una tale promessa di felicità, da attribuire

alla Bella Giornata delle caratteristiche quasi paradisiache, laddove lo scrittore parla di un

«mare edenico»71 o di un «mare felice Eldorado popoloso di pesci»72. Il primo capitolo di

Ferito a morte è una vera miniera di questo tipo di associazioni tra una promessa di

felicità e la splendida mescolanza meridionale di mare e luce. Si pensa allo «sguardo di

Carla che splende come un mattino tutto luce in fondo al mare»73, dove l’amore, il colmo

della felicità, evoca immediatamente l’immagine di un mare trasparente.

Nello stesso capitolo La Capria parla della «penombra del salotto attraversata da una

pioggia di dardi luminosi che il mare rimanda dalle imposte socchiuse»74. Questa frase

non ci apporta soltanto una nuova prova dell’inestricabile unione tra mare e luce, ma si

rivela anche molto interessante in confronto alle Lezioni americane di Calvino. All’inizio

della sua quarta ‘proposta’, che si dedica al concetto di visibilità, lo scrittore si riferisce al

verso dantesco «Poi piovve dentro a l’alta fantasia» (Purg. XVII, 25)75, che descrive il

momento in cui Dante sta contemplando delle immagini che si formano direttamente nella

sua mente, senza la mediazione dei sensi. Secondo Calvino, in questo passo Dante sta

69 Raffaele La Capria, L’armonia perduta, in Id., Opere, cit., p. 672. 70 Ivi, p. 683. 71 Ivi, p. 684. 72 Raffaele La Capria, Ferito a morte, cit., p. 15. 73 Ivi, p. 4. 74 Ibidem. Il corsivo è mio. 75 Citato da Italo Calvino, Visibilità, in Id., Lezioni americane, cit., p. 81.

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parlando di visioni quasi come di «proiezioni cinematografiche [...] su uno schermo

separato da quella che per lui è la realtà oggettiva»76.

Le analogie tra la pioggia di immagini dantesca e quella di ‘dardi luminosi’ in Ferito a

morte sono notevoli. In realtà il nostro romanzo nasce appena il protagonista «spalanca il

finestrone, e la bella giornata entra tutta, di colpo, nella stanza, un’esagerazione di luce»77.

Questa esagerazione di luce stimola infatti la sua immaginazione e l’evocazione dei suoi

ricordi, che si estendono poi ai vari capitoli del romanzo. In altri termini, la presenza della

luce è una condizione assolutamente necessaria all’avvio dell’immaginazione. Inoltre, il

giovane avrà l’impressione che «tutto avviene come in un film»78, cioè la sensazione di

uscire dalla realtà e di trovarsi in uno ‘schermo separato’, come adeguatamente descritto

da Calvino.

Tuttavia La Capria sostiene che questa perfezione del mondo sia soltanto visibile durante

l’infanzia. Di conseguenza, quando parla di una Bella Giornata, si tratta di un momento

ben definito e transitorio, un concetto esclusivamente applicabile alla prima fase della

vita. Perciò può essere interessante un confronto fra il nostro romanzo e La neve del

Vesuvio, racconto che La Capria stesso descrive in questi termini: «oltre ad essere il

racconto dell’infanzia di Tonino [...] è per me anche il racconto dell’infanzia di Ferito a

morte»79. In questo libro, dove la Bella Giornata torna perfino esplicitamente nel titolo di

un capitolo, è possibile distinguere una fase di vita ancora più pura e innocente di quella

che si trova in Ferito a morte. La magia della Bella Giornata ci è ancora completamente

intatta:

Quando [...] la barca [...] si mosse e s’inoltrò sul mare diretta alla Gaiòla, a Tonino parve di trovarsi

all’interno di un grande uovo azzurro, tra intangibili alte e curve pareti d’aria, un grande uovo tiepido e

dolce che racchiudeva per lui tutta la perfezione del mondo.80

L’evocazione di ‘un grande uovo tiepido e dolce’ non è certo casuale, tenendo conto del

fatto che La neve del Vesuvio è il racconto di una lenta ma dolorosa liberazione di un

76 Ivi, p. 82. 77 Raffaele La Capria, Ferito a morte, cit., p. 14. 78 Ivi, p. 52. 79 Raffaele La Capria, Postfazione a La neve del Vesuvio, Milano, Mondadori, 1991, p. 124, citato da Sergio Blazina, «Nell’assoluto equoreo silenzio»: immagini della natura e parole della coscienza nella narrativa di La Capria, in Raffaele La Capria. Letteratura, senso comune e passione civile, cit., p. 55. 80 Raffaele La Capria, La neve del Vesuvio, in Id., Opere, cit., p. 593.

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bambino dal grembo materno, come fu osservato da Gérard Vittori.81 Nel brano citato, il

sentimento di sicurezza e di protezione del bambino si rispecchia ancora perfettamente nel

panorama circostante, in questo «impassibile azzurro che avvolgeva il mondo come un

guscio trasparente»82.

Nonostante il fatto che Ferito a morte riguardi una fase di vita più matura, possiamo

trovare una evocazione analoga, nel momento in cui il protagonista descrive il paesaggio

intorno e «noi soli sul mare, in un giorno fermo e lucido, come dentro una grande ostrica

con le valve chiuse all’orizzonte»83. Benché qui l’ostrica non si riferisca esplicitamente

allo stato prenatale al modo dell’uovo ne La neve del Vesuvio, l’idea di un mondo chiuso e

sicuro ci è ancora chiaramente presente. Inoltre, La Capria fa ancora un’allusione diretta al

grembo materno nel momento in cui Massimo sta al Circolo Nautico e «si rincantuccia di

nuovo dietro le palpebre sollevate [...], sprofonda di nuovo in un caldo buio fetale»84. In

questa scena, il protagonista rifiuta di partecipare alle chiacchiere dei giovani napoletani e

preferisce rimettersi alla propria immaginazione, lontana dalla banalità e dall’apparente

semplicità della vita napoletana.

L’immagine del grembo, inestricabilmente legata all’immagine mentale della Bella

Giornata, sembra quindi fondamentale nell’opera di La Capria e torna inoltre ancora in

alcuni dei suoi saggi più recenti, nonostante l’età avanzata dello scrittore. Ne L’occhio di

Napoli per esempio, uscito nel 1994, La Capria afferma ancora che «lo spazio chiuso del

golfo, con in fondo il Vesuvio dai lievi fianchi ondulanti, è come il grembo della grande

città materna che li abbraccia e li protegge»85. Anche in Capri e non più Capri, uscito nel

1991, lo scrittore evoca l’immagine del grembo, ma qui si rivolge decisamente al passato,

a qualcosa di perduto:

L’unica consolazione, l’unica amante vera, che si concedeva gratis e con abbandono, era allora la

Natura di quest’isola, le sue bianche spiaggette sassose raggiunte in sandolino, i suoi scogli assolati e le

81 Gérard Vittori, Reale, immaginario e simbolico in «La neve del Vesuvio» di Raffaele La Capria, in Raffaele La Capria. Letteratura, senso comune e passione civile, cit., p. 97. 82 Raffaele La Capria, La neve del Vesuvio, in Id., Opere, cit., p. 597. 83 Raffaele La Capria, Ferito a morte, cit., p. 53. 84 Ivi, p. 74. 85 Raffaele La Capria, L’occhio di Napoli. Taccuino (1992-1993), in Id., Opere, cit., p. 928.

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sue acque incantate dalle trasparenze. Lì, nel suo grembo bruciante, in qualche grotta antro o anfratto, si

consumavano gli amori dell’estate.86

Tuttavia nelle opere giovanili di La Capria, a cui appartiene Ferito a morte (e possiamo

anche includerci La neve del Vesuvio per l’età del protagonista), l’evocazione del grembo

materno si presenta ancora come una stato naturale e reale, ed implica di conseguenza

un’identificazione totale con il mondo circostante. A proposito de La neve del Vesuvio,

Vittori osserva che Tonino «non si distingue più dalle cose che percepisce» e che ciò

avviene anche «nel suo rapporto col mare»87. Per questo, continua Vittori, la trasparenza è

di un’importanza fondamentale per La Capria, quella trasparenza «per cui non esiste

nessun elemento terzo»88 che può impedirlo di immedesimarsi con la Natura. In Ferito a

morte, l’immedesimazione si manifesta nettamente durante le spedizioni sott’acqua del

protagonista, in un silenzio assoluto. L’esempio più chiaro di questa identificazione è

probabilmente il momento in cui Massimo fugge dalla sua prima delusione amorosa, dalla

dolorosa realtà quotidiana, con il desiderio di tornare al grembo, allo stato innocente, e

dunque al fondo del mare, dove il fratello lo trova «a braccia aperte come un Cristo,

sott’acqua col boccaglio sul petto, pareva una macchia di sole sopra il verde dello

scoglio»89.

Infine, i diversi elementi che costituiscono una Bella Giornata, la luce, il cielo e quel

«trionfante azzurro sempre giovane mare»90, resistono senza alcuno sforzo allo scorrere

del tempo, non invecchiano mai, non perdono mai il loro splendido aspetto. Forieri di una

promessa di felicità, si rivolgono in continuazione al futuro, al di sopra di una percezione

normale del tempo e del presente. Così, nel capitolo del Circolo Nautico, quando La

Capria descrive un giovane napoletano che «guarda preoccupato il mare o il futuro,

tamburella con le dita il bracciolo della sedia a sdraio»91, la suggestione del futuro nasce

dall’osservazione del mare e permette di uscire dalla prigione del presente, di rivolgersi

verso il futuro, verso una promessa di felicità lontana e insostenibile. Paradossalmente, la

Bella Giornata di Ferito a morte, invece di promettere per «mille e mille anni»92 delle

86 Raffaele La Capria, Capri e non più Capri, in Id., Opere, cit., p. 850. Il corsivo è mio. 87 Gérard Vittori, Reale, immaginario e simbolico in «La neve del Vesuvio» di Raffaele La Capria, in Raffaele La Capria. Letteratura, senso comune e passione civile, cit., p. 97. 88 Ibidem. 89 Raffaele La Capria, Ferito a morte, cit., p. 30. 90 Ivi, p. 70. 91 Ivi, p. 91. 92 Ivi, p. 15.

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giornate uguali a essa, diventerà molto presto, e concretamente durante l’atto di scrittura,

qualcosa di perduto nel passato.

4.2.2. La giornata, una misura innata e molto napoletana del tempo

Non a caso, La Capria preferisce la misura della giornata per raffigurare la bellezza

naturale e la spensieratezza giovanile. Elegge la giornata non soltanto in Ferito a morte,

ma anche in Un giorno d’impazienza e Amore e psiche, i due romanzi che formano con il

primo la trilogia Tre romanzi di una giornata. Salvo la misura del tempo, i tre romanzi (e

forse sopratutto l’ultimo, che La Capria stesso descrive come il meno riuscito) non

sembrano avere molto in comune. Può darsi che il solo vero fil rouge della trilogia sia la

scelta della giornata, una misura che si può facilmente associare con la gioventù, sia per

quanto riguarda l’anno di pubblicazione dei romanzi che per la loro tematica. Così Un

giorno d’impazienza, il primo romanzo lacapriano, è contemporaneamente un’iniziazione

alla scrittura (per lo scrittore) e alla vita adulta (per il protagonista). Poi, benché Amore e

psiche non sia un vero romanzo di formazione, il fatto che il racconto si svolga negli anni

Sessanta indica in fondo lo stesso spirito di rivolta tipico dei giovani e legittima perciò la

struttura della giornata. Ne L’armonia perduta, La Capria svela perché ha scelto questa

misura per la stesura di Ferito a morte:

Di giornate come quella che volevo descrivere ne era già spuntata qualcuna, e splendida, negli anni

Venti. Parlo della giornata «pointillista» della Woolf, e di quella sterminata e labirintica di Joyce.

Questi esempi mi parevano inimitabili (e da non imitare), anche se io sapevo bene che la mia giornata

non era un fatto letterario acquisito da quei modelli, mi apparteneva biologicamente e atavicamente, era

già nella mia immaginazione, era una misura innata e molto napoletana del tempo, e tanto intimamente

la sentivo che ho sempre cercato di racchiudere la storia da raccontare nel «giro molto giornaliero di un

giorno».93

La Capria sostiene dunque che La Bella Giornata, nel raffigurare un momento di vita

intenso ma transitorio, sia il quadro adatto per cogliere la gioia di vivere della gioventù.

La giornata si presenta allo scrittore come una forma preesistente al primo abbozzo del

romanzo, una forma ‘innata’, che era ‘già nella sua immaginazione’. Inoltre la concepisce

come una misura ‘molto napoletana’ del tempo, dando così una valorizzazione positiva

93 Raffaele La Capria, L’armonia perduta, in Id., Opere, cit., p. 675. Il corsivo è mio.

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della mentalità dei napoletani, giovani di spirito e favorevoli al motto del carpe diem, ma

sottintendendo allo stesso tempo una mancanza totale di maturità. Come vedremo, questa

ultima osservazione fa parte di una critica più ampia sulla città di Napoli da parte dello

scrittore.

Ad ogni modo, ciò che importa in questa fase dell’argomentazione, è il fatto che la Bella

Giornata rappresenta per La Capria una misura ‘giovanile’ del tempo. In realtà però, si

tratta piuttosto di un mattino prolungato: la luce è tangibile in ogni pagina del romanzo e

sembra peraltro una condizione necessaria alla nascita del romanzo stesso. Per di più, le

sere napoletane non vengono quasi mai menzionate, come se si trattasse di qualcosa di

subordinato rispetto al mattino, all’inizio del giorno. Così, sia in Ferito a morte che nel

capitolo su ‘la Bella Giornata’ de La neve del Vesuvio, un raggio di sole che penetra nella

stanza fa entrare il mattino, e con esso la bella giornata. Ne L’armonia perduta, La Capria

rievoca l’incipit di Ferito a morte con queste parole:

Il mio libro comincia con un raggio di sole che, penetrando attraverso le imposte socchiuse, brilla come

un geroglifico luminoso sulla parete della stanza dove Massimo si sta svegliando dai suoi sogni inquieti.

Quell raggio gli porta l’annuncio della bella giornata. E una nuova estate sta per arrivare, lo dicono i

colpi di maglio del battipalo provenienti dallo stabilimento balneare in costruzione.94

È vero che l’associazione tra mattino, inizio del giorno, e gioventù, inizio della vita, non

sia certo una trovata eccezionale di La Capria, visto che si tratta di un topos antichissimo,

già affrontato da Aristotele nella Poetica, con la sua tripartizione delle età in armonia con

le fasi del giorno.95 Tuttavia, il nostro scrittore riesce a inserire ed a modificare questo

topos nel suo romanzo, con una tale convinzione da consegnare al lettore un insieme

poetico incontestabilmente affascinante. Così, la prima frase di Ferito a morte ci offre un

paragone con «un aereo quando lo vedi sbucare ancora silenzioso nel cerchio tranquillo

del mattino»96, un paragone che fa prova dell’enorme capacità immaginativa ‘plastica’ e

visiva di La Capria, e dove inserisce inoltre un’altra volta l’idea di un guscio che copre e

protegge il mare. Con la stessa sensibilità poetica, lo scrittore descrive per esempio il

94 Ivi, pp. 681-682. 95 Aristotele, Poetica, traduzione e introduzione di Guido Paduano, Laterza, Roma-Bari, 1998, p. 47, citato da Sabine Verhulst, Introduzione. Età, giorni, stagioni, in Giorni, stagioni, secoli. Le età dell’uomo nella lingua e nella letteratura italiana, a cura di Sabine Verhulst e Nadine Vanwelkenhuyzen, Roma, Carocci, 2005, pp. 26-27, n. 22. 96 Raffaele La Capria, Ferito a morte, cit., p. 3. Il corsivo è mio.

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suono del colpo di maglio che sta entrando nella stanza di Massimo come «una pietra che

cade nel lago azzurro del mattino»97, ricorrendo di nuovo all’immagine dell’acqua.

Infine, l’associazione tra gioventù e mattino permette l’uso di un secondo topos letterario,

come nella frase seguente di Ferito a morte:

E salta fuori imprevedibile dal tempo che è tutt’un’estate, lo spazio bianco d’un mattino.98

In questo passo La Capria inserisce l’immagine di un’estate atemporale, confrontandola

con quella del mattino, per il suo analogo riferimento implicito alla gioventù. Il motivo

dell’estate torna quando il protagonista si accorge del fatto che «arrivano certe mattine

come un pezzo d’estate nel cuore dell’inverno»99. Qui, le fasi della vita non sono soltanto

paragonate alle fasi del giorno (secondo la tripartizione aristotelica), ma anche al ciclo

delle stagioni. Colpisce però che La Capria usi continuamente l’immagine dell’estate per

riferirsi alla gioventù, invece di ricorrere alla stagione considerata tradizionalmente la più

conveniente per la rappresentazione dell’adolescenza, cioè la primavera. Ci salta dunque

immediatamente dall’inverno – che rappresenta l’assoluto inizio della vita, in cui non si ha

ancora la capacità di agire in modo autonomo – all’estate – una metafora che racchiude in

sé l’idea di maturità –, senza denominare la primavera. Confrontiamo questa frase ora con

una frase quasi identica de La neve del Vesuvio, che si riferisce però alla primavera:

Una serie di giornate così in quella stagione nessuno se la ricordava, era come una primavera inattesa

nel cuore dell’inverno, con una luce chiara ed esatta che azzerava l’azzurro all’orizzonte e dava risalto a

ogni linea del paesaggio [...].100

Questa osservazione può essere aggiunta facilmente all’impressione già citata che La neve

del Vesuvio rappresenta una fase di vita più semplice e più innocente rispetto a quella di

Ferito a morte: laddove il giovane Tonino sta ancora scoprendo poco a poco il mondo

circostante (con l’irragiungibile Vesuvio come simbolo), come un fiore che sboccia

lentamente in primavera, il mondo ‘estivo’ in cui vive il protagonista di Ferito a morte è

già stato scoperto interamente, e la Bella Giornata ne emerge in gran parte demitizzata.

Seguendo le metafore delle stagioni, si potrebbe concluderne che Massimo, benché

97 Ivi, p. 13. 98 Ivi, p. 53. 99 Ivi, p. 124. 100 Raffaele La Capria, La neve del Vesuvio, in Id., Opere, cit., p. 623. Il corsivo è mio.

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giovane, si trova già al culmine dell’arco della sua vita, da un lato diventato critico e

consapevole nei confronti del mondo, d’altro lato ancora attirato da questa fase di vita

appena conclusa, che viene sempre di nuovo suggerita dalla Bella Giornata.

4.2.3. Un’immagine immobile e atemporale

Accanto alla potenzialità metaforica della giornata nei confronti delle fasi della vita, la

scelta per questa misura temporale può anche essere motivata da un bisogno quasi

metafisico. Così, la storia di una sola Bella Giornata – o di alcune di quelle splendide

giornate estive degli anni quaranta e cinquanta come in Ferito a morte –, può e deve

contenere un amalgama di caratteristiche immutabili o perfino eterne. Perciò, il giorno

costituisce una misura perfetta, non soltanto per le sue inerenti qualità naturali e umani

(cioè proprio ‘quotidiane’), ma anche perché, nel loro insieme, la sequenza dei giorni

forma una specie di linea retta che racchiude in sé quest’idea di eternità. Ritroviamo

questa idea chiaramente nel primo capitolo di Ferito a morte, quando Massimo, che si sta

preparando per la sua ultima Bella Giornata napoletana, si chiede:

Continueranno a splendere anche domani con maglie di sole oscillanti sul fondo? [...] Domani e poi

domani quei giorni continueranno a splendere per conto loro, come se io fossi ancora qua o come

quando morirò, ora o tra mille anni indifferenti e uguali [...].101

Da un lato, il protagonista rimane impressionato da questo splendere eterno del mare e del

sole, dall’altro sembra deluso della propria fugacità, del fatto che «un giorno, tra mille e

mille anni uguale a questo, oggi è una bella giornata, dirà un raggio sulla parete»102 e

dell’idea che lui non potrà più partecipare a quel giorno lontano.

La forza naturale e immaginativa della Bella Giornata si manifesta inoltre in un modo

così dominante da condurre ad una cancellazione totale della percezione umana del

tempo. Le impressioni della natura mediterranea sembrano fermare allora l’andamento

normale del mondo. In un passo di Capri e non più Capri, queste idee vengono esplicitate

durante una conversazione:

101 Raffaele La Capria, Ferito a morte, cit., p. 15. 102 Ivi, p. 16.

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[...] mi pare che dicesse che ogni cosa decade nel tempo, che il tempo è un concetto umano, e che non si

sa nulla di un tempo «oggettivo», di un tempo al di fuori del tempo. Forse voleva prendermi in giro

perché l’avevo costretto suo malgrado a una di quelle conversazioni astronomiche che a volte si fanno a

Capri quando ci si attarda la sera a prendere il fresco sopra un terrazzo, per adeguarsi al paesaggio quasi

sempre imponente e a un cielo quasi sempre troppo carico di stelle.103

La contemplazione di questo splendido panorama immobile, condensata nella metafora

della Bella Giornata, costituisce il nucleo narrativo e insieme il punto di partenza, non

soltanto del romanzo Ferito a morte, ma della maggior parte dei testi narrativi lacapriani

che sono situati in contesto napoletano – cioè escludendo il romanzo romano Amore e

psiche e il romanzo indeterminato Un giorno d’impazienza. Da questa ‘fonte’ primaria

sorgono poi immagini secondarie, come La Capria precisa ne L’armonia perduta:

Ma perché proprio una «bella giornata»?

Perché era per me un’immagine primaria [...] da cui scaturivano per germinazione spontanea altre

immagini tutte legate a momenti assoluti dislocati in un tempo immobile. Queste immagini avrei voluto

disporle in un «certo ordine» ancora a me sconosciuto ma dettato da quella, unica e prima, sepolta

dentro di me, ineffabile, e corrispondente al mio sentimento del mondo.104

In quel modo Ferito a morte si rappresenta come una figura circolare con la Bella

Giornata al centro, intorno al quale gravitano dei fatti molto diversi fra di loro che

rimandano comunque allo stesso nucleo tematico e che esprimono dunque lo stesso

messaggio. Inoltre La Capria esplicita questa idea dicendo che i fatti devono «gravitare

nel campo magnetico di una «bella giornata», dove tutto tiene e niente può essere

compreso se non in rapporto ad essa»105.

Accanto alla metafora del cerchio, si potrebbe far leva su un’altra per rappresentare questa

struttura particolare di Ferito a morte, suggerita dal ‘sentimento del mondo’ di La Capria.

Si riscontra questa seconda metafora in Capri e non più Capri:

L’acqua chiara, più ancora dell’azzurro del cielo, è uno degli elementi essenziali che concorrono a

determinare quella disposizione dell’anima, quel sentimento del mondo, che ho chiamato «la bella

giornata». [...] Nuoti e senti l’azzurro-verde-turchese nelle infinite sue vibrazioni lo senti risuonare

103 Raffaele La Capria, Capri e non più Capri, in Id., Opere, cit., p. 803. 104 Raffaele La Capria, L’armonia perduta, in Id., Opere, cit., pp. 671-672. 105 Ivi, p. 673.

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dentro come una scala musicale, con la stessa leggerezza, la stessa inafferabile emozione che dà la

musica.106

Da questa citazione si può dedurre una secondo metafora per la struttura del romanzo, ora

in armonia con l’immagine di un tema musicale. Secondo questa concezione, lo stato

d’animo dello scrittore avrebbe dato luogo ad uno specifico motivo musicale che esprime

l’essenza delle sue emozioni – cioè proprio la Bella Giornata –, al quale torna sempre di

nuovo, inserendo qua e là intermezzi o variazioni sul tema centrale.

È chiaro che, con tali suggerimenti, La Capria voglia evitare che la struttura del suo

romanzo venga interpretata come un mero gioco intellettuale quale era in voga negli

ambienti letterari di quegli anni – benché fosse meno diffuso in Italia. Rifiutando un

approccio formale alla maniera di Robbe-Grillet e il nouveau roman, La Capria sottolinea

in continuazione che aveva semplicemente la volontà di «rievocare uno stato d’animo», e

di «cercare dentro di me, in quell’immagine della «bella giornata», la struttura simbolica

che sola avrebbe potuto motivare il mio libro»107. In altre parole, l’enfasi sul nucleo

immaginativo della Bella Giornata in Ferito a morte deve evidenziare che non si tratta di

una giornata, ma che il termine racchiude in sé tutte le giornate, e dunque tutte le qualità,

della giovinezza. Così, la Giornata evolve da una semplice misura temporale a un’entità

puramente simbolica.

Ciò giustifica il fatto che la dimensione temporale passi in secondo piano in Ferito a

morte, occupando una posizione subordinata rispetto all’elaborazione del ‘nucleo’ della

Bella Giornata. Perciò, la struttura particolare del romanzo, lontana dall’essere un gioco

sperimentale, va piuttosto letta come un insieme ‘intuitivo’, che costituisce un mezzo

espressivo adatto per La Capria, che gode così di una maggiore libertà creativa. In uno

studio recente su Il tempo e la poesia, Elisabetta Graziosi fa un’osservazione analoga a

proposito di questa ‘subordinazione’ del tempo nella letteratura novecentesca in generale:

«Come il tempo che passa inavvertito per chi è intento ad altro, il tempo nel testo a volte

può restare in penombra, implicato in immagini di più esplicita evidenza»108.

106 Raffaele La Capria, Capri e non più Capri, in Id., Opere, cit., p. 853. 107 Raffaele La Capria, L’armonia perduta, in Id., Opere, cit., p. 681. 108 Elisabetta Graziosi, Introduzione a Il tempo e la poesia. Un quadro novecentesco, a cura di Elisabetta Graziosi, Bologna, CLUEB, 2008, p. 9. Il corsivo è mio.

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Se lo scrittore novecentesco dispone in generale di una grande libertà per quanto riguarda

la concezione del tempo, ciò non ha tuttavia evitato che la struttura del secondo romanzo

lacapriano è stata contestata duramente, fra l’altro da Eugenio Montale, sostenendo che

«la tecnica divora il libro, ne è l’argomento principale: tutto il resto – figure, fatti, episodi

– è il combustibile della macchina formale»109. Questo tipo di critica non tiene però conto

del fatto che la struttura particolare di molti romanzi novecenteschi rifletta giustamente

l’incapacità di rispondere ad una struttura tradizionale e lineare. Questa incapacità per

definizione novecentesca conduce molto spesso ad una frantumazione – o meglio, ad una

subordinazione – del tempo, come osserva la stessa Graziosi:

Sarà certo un tempo non lineare e non ciclico, non progressivo e non ripetitivo, bensì mobile e

puntiforme, senza un disegno riconoscibile, che non sia quello di un tempo conflagrato fatto di momenti

che iniziano e finiscono istantaneamente senza collegarsi. Non più un retta [sic] del tempo ma una nube

gassosa.110

L’osservazione corrisponde perfettamente alle irregolarità temporali di Ferito a morte, la

cui stesura sembra essere realizzata precisamente ‘senza un disegno riconoscibile’, vale a

dire intuitivamente, intorno a un tema centrale.

Questo modo di interpretare il romanzo come un insieme di variazioni su un tema centrale

è soltanto valido a condizione di accettare che la storia si svolge in un luogo insieme – e

paradossalmente? – immobile e eterno. Questa osservazione corrisponde in gran parte a

quella di Cristina Terrile, che descrive il romanzo precisamente come «una prosa in cui il

rapporto fra i personaggi e la loro memoria o, in generale, la loro esperienza è intercettato

e fatto convergere in un tempo universale, di tutti i soggetti e di nessun soggetto, il tempo

del mito, appunto»111. Come epigrafe al suo articolo, Terrile ha scelto una citazione di

Cesare Pavese: «ricordare non è muoversi nel tempo, ma uscirne e sapere che siamo»112.

Non a caso, la frase citata è ricavata da un saggio pavesiano che si intitola L’adolescenza,

e più specificamente dal paragrafo seguente:

109 Eugenio Montale, Letture, in «Corriere della sera», 17 giugno 1961, citato da Aurelio Benevento, Rilettura di «Ferito a morte» di Raffaele La Capria, in «Critica letteraria», anno 2005, n. 4, p. 716. 110 Elisabetta Graziosi, Introduzione a Il tempo e la poesia. Un quadro novecentesco, cit., p. 19. 111 Cristina Terrile, «Ferito a morte» nel romanzo italiano del novecento, in Raffaele La Capria. Letteratura, senso comune e passione civile, cit., p. 38. Il corsivo è mio. 112 Ivi, p. 27.

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La nostra fanciullezza, la molla di ogni nostro stupore, è non ciò che fummo ma che siamo da sempre.

La durata non tocca gli istanti interiori: altrimenti quel sussulto di gioia, che ci accoglie nel ricordo

assoluto, riuscirebbe inspiegabile. Qui ricordare non è muoversi nel tempo, ma uscirne e sapere che

siamo. L’infanzia a ripensarla suggerisce nostalgia non tristezze: di essa ci manca unicamente quella

maggior facilità – la purezza iniziale – di vivere nell’essere genuino.113

Questa riflessione di Pavese sulla vivacità ‘eterna’ del ricordo concorda in fondo con la

concezione lacapriana della memoria. Durante l’atto di scrittura, La Capria si trova in

realtà ancora in quel «presente privo di durata»114 dell’adolescenza, senza correre il

rischio di cadere nella nostalgia e senza ‘ritornare’ esplicitamente nel passato. Per lo

scrittore, si tratta piuttosto di immedesimarsi di nuovo in quel mondo scomparso, come se

esistesse ancora.

A causa del suo ‘tempo del mito’ o ‘universale’, continua Terrile, Ferito a morte riceve

«un senso sovrapersonale, metastorico, strappato alle scansioni dell’unità soggettiva»115,

cioè un significato universale. Questa universalità del discorso lacapriano – una catena

continua di espressioni sulla bellezza universale dell’età giovanile, in armonia con la

giovinezza della bellezza naturale – si traduce ovviamente anzitutto nella volontà dello

scrittore di eternare la sua visione del mondo in una vasta opera letteraria. Ciò permette

anche di interpretare diversamente il passo seguente di Ferito a morte:

A larghe spirali si dissolve il panorama intorno a lui nei vapori del mezzogiorno, il cielo e il mare, tutto

bello, irrimediabile, non se ne può più! Possibile che tutto sia uguale e tutto sia cambiato? Sì è possibile.

Possibile che nessun segno preannunci il cambiamento? [...]

Possibile the tutto avviene come in un film, che tu lo vedi e pare che sta succedendo qualche cosa

proprio in quel momento, e invece il film è stato già girato in un ordine diverso, e tutto è fermo nel

rotolo del tempo? Sì, è possibile, è possibile.116

Con queste ripetizioni della parola ‘possibile’ – la parola viene ripetuta non meno di sei

volte in un passo brevissimo – La Capria vuole insistere sulla possibilità o perfino

sull’altissima probabilità dell’esistenza di un aspetto immobile e eterno, ma indescrivibile

del mondo. Nella prima parte del brano citato, lo scrittore si rivolge al futuro, che

dovrebbe allora essere in gran parte ‘uguale’ al presente; nella seconda si riferisce al 113 Cesare Pavese, L’adolescenza, in Id., Feria d’agosto, Torino, Einaudi, 1968, pp. 152-153. 114 Raffaele La Capria, L’armonia perduta, in Id., Opere, cit., p. 746. 115 Cristina Terrile, «Ferito a morte» nel romanzo italiano del novecento, in Raffaele La Capria. Letteratura, senso comune e passione civile, cit., p. 43. 116 Raffaele La Capria, Ferito a morte, cit., p. 52.

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passato, evocando l’idea di un film ‘già girato’. Inoltre, lo scrittore fa un secondo

riferimento al cinema qualche pagina dopo, quando sta descrivendo la scena della grotta

(una sottile allusione al grembo materno), dove nascono i primi sentimenti amorosi del

protagonista. Anche lì, le facce dei giovani sono ‘come in un film’, mettendo l’accento

sull’aspetto eterno dell’amore. Comunque, ritornando al brano di sopra, con il paragone

tra lo scorrere del tempo e la resistenza del mezzo cinematografico, sembra che La Capria

voglia tradurre il proprio desiderio di eternare il proprio ‘sentimento del mondo’, che lo

aveva inizialmente spinto ad impugnare la penna.

4.2.4. L’armonia perduta o illusoria?

La metafora della Bella Giornata, immagine irresistibile di giovinezza e felicità, risulta

allo stesso tempo problematica in quanto è il risultato di una retrospezione, di un atto di

recupero del passato. Ciò vale non soltanto per lo scrittore stesso, ma anche per il suo

protagonista (del resto La Capria ha suggerito più di una volta che Massimo è in realtà un

suo alter ego): il primo è già consapevole della fugacità della giovinezza e, in senso più

lato, della vita, il secondo sta per prenderne coscienza. I tre ultimi capitoli di Ferito a

morte vanno dunque interpretati come una progressiva e dolorosa delucidazione del

protagonista rispetto al suo ambiente giovanile. Così, quando Massimo, tornato a Napoli

per le vacanze, incontra Sasà, uno dei suoi ‘eroi’ napoletani di qualche anno prima, egli

«si volta a guardarmi, e il mondo sembra improvvisamente invecchiato con lui»117. Poco

dopo, il protagonista osserva perfino freddamente che «gli venivano fuori quei tratti di

giovane vecchio, di bel ragazzo che non è mai passato per i gradi degli anni, ma un giorno

è saltato all’improvviso, senza nemmeno rendersene conto, dall’adolescenza all’età

matura»118.

In quel modo, gli ultimi capitoli di Ferito a morte rappresentano lo stadio finale di una

lenta presa di coscienza dell’aspetto effimero e illusorio della Bella Giornata, concludendo

così la formazione del protagonista. I primi segni di questa consapevolezza crescente sono

però già tangibili prima della partenza di Massimo per Roma. Quando il giovane si trova

117 Ivi, p. 144. 118 Ivi, p. 151.

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sul mare, nel secondo capitolo del romanzo, la consapevolezza si presenta ancora in un

modo molto sottile:

Un altro rèfolo di vento dritto sulla barca. Il vento che ti sfiora, mai, mai più, ripasserà. La pelle d’oca

per il piacere di quella carezza. Anche il mare rabbrividisce, pelle d’oca anche il mare. S’anima di

piccole crespe luminose che corrono tutte d’accordo incontro alla barca.119

In questa scena, il vento che passa – l’immagine è tratta da un verso di Ungaretti, come La

Capria ha chiarito ne L’armonia perduta120 – simboleggia ovviamente l’inevitabile

scorrere del tempo. Tale realizzazione fa accapponare non soltanto la pelle del giovane

protagonista – e secondo questa interpretazione, la pelle d’oca non viene allora dal

cosiddetto ‘piacere della carezza’, ma dalla drammatica costatazione della fugacità della

vita – ma anche, in senso figurativo, quella del mare. La Natura manifesta dunque la

propria solidarietà con il giovane, benché essa non conosca quel dolore d’invecchiare,

essendo eternamente giovane. Un altro brano, che evoca di nuovo quel ‘vento che ti

sfiora’ ci fornisce ulteriori chiarimenti:

- Maaa...ssimo!

La voce infantile, partita da uno scoglio del golfo in un’ora silenziosa, assolata come questa, oppure dal

luogo più segreto e doloroso del cuore. Arriva sempre il richiamo indefinibile dolce angoscioso, sempre

di colpo... Peccato, tanto intelligente, come dice mamma?, ma sempre tra le nuvole. Altro che nuvole,

direbbe Gaetano, questo è il canto delle Sirene, desiderio d’evasione, e non ti basta la vita che facciamo

qua che è tutta una vacanza? E poi: La vacanza è una specie di rottura con la realtà, una evasione dalla

Storia, e solo la Storia ha senso. Ma intanto il richiamo insensato attraversa il silenzio del mattino, come

uno spiro di vento. Il vento che ti sfiora, come dice il verso?’121

Qui abbiamo a che fare con due voci contraddittorie: da un lato una voce infantile (più

volte ripetuta nel romanzo attraverso il richiamo insistente ‘Maaa...ssimo!’), in realtà una

metafora per la giovinezza in generale, una voce seducente che viene dal sole; dall’altro

una voce che viene da un luogo ‘più segreto e doloroso del cuore’, una voce interiore che

non può frenare la consapevolezza progressiva del protagonista. Il successivo desiderio di

fuga viene suggerito non soltanto dal suo amico razionale Gaetano, ma anche da una forte

necessità di abbandonare la propria giovinezza e insieme la città che rappresenta questa

119 Ivi, p. 25. Il corsivo è mio. 120 Raffaele La Capria, L’armonia perduta, in Id., Opere, cit., p. 671. 121 Raffaele La Capria, Ferito a morte, pp. 52-53. Il corsivo è mio.

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giovinezza, la città di Napoli che rifiuta continuamente di crescere, alla stregua dei suoi

cittadini.

Oltre al vento, anche l’acqua può servire da metafora per lo scorrere del tempo. Questo è

il caso alla fine del settimo capitolo, nel momento in cui il protagonista si congeda

definitivamente da Napoli. Nel passo, Massimo si immagina la propria città qualche ora

dopo, all’imbrunire, quando lui non ci sarà più:

L’acqua scorre nel bagno, ed anche il tempo scorre, e quando i colori saranno più precisi sul tardi, non

più formula nel sole la marina, tutto fermo nell’ora viola innaffiata dall’ombra vivida [...] quando le

parole pacate di due pescatori saliranno alla finestra [...] non io più sarò qua.122

Inoltre, questa evocazione della sera può anche essere intesa come un’allusione al topos

delle parti del giorno che rappresentano le età dell’uomo, da cui si può dedurre che, per La

Capria, le immagini della sera e dell’ombra racchiudono in sé un’idea di vecchiaia e

rassegnazione. Questa idea emerge anche da una conversazione recente fra lo scrittore e

Serafino Amato in un suo documentario. La Capria ci parla del suo libro recente L’estro

quotidiano – un altro titolo che contiene un riferimento alla misura del giorno, la misura

perfetta per cogliere l’essenza della vita. A proposito di questo libro, che in sostanza è una

riflessione sulla vecchiaia e la morte, lo scrittore afferma che aveva anche pensato al titolo

alternativo Nell’ombra della Bella Giornata.123 Questa asserzione fornisce un’altra prova

dell’ossessione lacapriana di rappresentare la vita in opposizioni binarie, di mattino e sera,

di luce e ombra – senza però mai cadere nella nostalgia.

Ad ogni modo, la partenza da Napoli provoca nel protagonista, oltre a questa sensazione

forte della fugacità della vita, un disagio quasi esistenziale, un sentimento di avere

mancato qualcosa ‘per sempre’ e di non poter recuperarlo ‘mai più’. In concreto,

l’impressione sembra essere nata dopo la sua prima dolorosa esperienza amorosa con

Carla, ma vedremo che questa ‘mancanza’ permette anche un’interpretazione più ampia.

Nel settimo capitolo, poco prima della partenza, Massimo si lamenta di questa occasione

mancata e del carattere irreversibile di essa:

122 Ivi, cit., p. 130. 123 Raffaele La Capria, scrittore d’acqua, 2005, 58 min., regia di Serafino Amato: un documentario in DVD accluso al libro Letteratura e libertà di Emanuele Trevi e Raffaele La Capria, Roma, Fandango, 2009.

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E dirgli che intelligenza e Storia non valgono, se un giorno, a me una stupida troppo forte giovanile

emozione, a un altro un colpo ugualmente irrimediabile e forse casuale, ti mettono di fronte ad un fatto

compiuto, compiuto una volta per tutte, o meglio, che si compie in ogni attimo della vita riproponendosi

in tanti modi diversi, elusivi, ma in sostanza quello, e sempre quello! E addio allora, dal momento che

sai, addio al bell’oggi di prima che t’avvolgeva come l’acqua il pesce che nuota, le cose mute per te,

mutate per sempre da quel momento, per sempre, e inutile è ostinarsi, mai più, mai più uno di quei

giorni di prima, uno solo, ritroverai per caso una mattina.124

In realtà, le emozioni descritte non sono soltanto il risultato della prima esperienza

amorosa, ma sembrano piuttosto essere provocate dalla cosiddetta Grande Occasione

Mancata, un’altra famosa metafora lacapriana, intimamente legata a quella della Bella

Giornata. Ne L’armonia perduta, La Capria cerca di spiegare il significato di questa

metafora complessa, e la descrive come «il senso di una Grande Occasione Mancata (la

sua stessa giovinezza? la felicità? la vita?), di una profonda disillusione»125. Questa

metafora può dunque leggersi come il rovescio della medaglia della Bella Giornata, come

una sua progressiva perdita o delusione. In Ferito a morte, il sentimento di mancanza è già

tangibile nella prima scena del romanzo, in senso metaforico. Massimo, nel dormiveglia,

ci si immagina una caccia subacquea a una spigola, ma manca di nuovo il bersaglio. Poco

dopo, rievoca la ‘Scena’ primaria, cioè la dolorosa esperienza amorosa, che funge quindi

da metafora per una Occasione Mancata più ampia.

Rimane poi la questione se l’immagine della gioventù, come la ritroviamo in Ferito a

morte, rappresenta un’armonia perduta, il che implica che sia esistita un tempo, oppure

un’armonia illusoria, in realtà mai vissuta. La prima ipotesi è sostenuta dal saggio

lacapriano che ne porta perfino il titolo, L’armonia perduta, e dove lo scrittore parla in

parte della perdita della Bella Giornata. Però, anche in questo testo, La Capria sembra

esitare fra il carattere reale o illusorio della sua metafora complessiva, affermando che

essa «era una illusione, lo so, ma quella «bella giornata» era come un’aspettativa, un

termine di paragone ancestrale e la misura di tutte le cose»126. La Capria afferma dunque

prima di tutto che si tratta di una illusione, ma sottolinea immediatamente dopo che la

Bella Giornata è ancora la misura di tutte le cose.

124 Raffaele La Capria, Ferito a morte, cit., p. 128. 125 Raffaele La Capria, L’armonia perduta, in Id., Opere, cit., p. 683. Il corsivo è mio. 126 Ivi, p. 761.

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Un’altra sfumatura viene offerta da La Capria stesso nel documentario di Serafino Amato,

dove racconta un suo sogno in cui sfogliava un libro che si intitolava Illusions perdues –

come il romanzo di Balzac – e che questo titolo «sembrava significativo per la vecchiaia,

tante illusioni perdute»127. In questa ottica, la Bella Giornata sarebbe insieme qualcosa di

perduto e di illusorio, che lascia poca speranza. Però, contestualizzando la citazione, e

paragonandola con le altre parti del documentario, dove La Capria mostra con passione e

orgoglio i luoghi sacri della propria gioventù, diventa chiaro che quei luoghi gli danno

ancora ispirazione e che il suo idealismo giovanile non è affatto completamente

scomparso. Nonostante qualche affermazione contraddittoria, la Bella Giornata incarna

insomma un’armonia effimera ma reale, un’armonia in parte perduta ma ancora

recuperabile.

A questo proposito l’articolo di Domenico Scarpa offre un punto di vista interessante.

Nella conclusione del suo articolo, che esamina in realtà il primo romanzo di La Capria,

Un giorno d’impazienza, Scarpa compare la fine dei tre libri che formano la trilogia Tre

romanzi di una giornata, a cui appartiene Ferito a morte. Secondo Scarpa, tutti e tre

romanzi si terminano su un’immagine in cui «il lettore si ritrova a contemplare, insieme

col protagonista del romanzo, una perfezione difettiva»128. Tale interpretazione si basa

sulla predilezione lacapriana «per il non finito, per il fortuito, per il filo d’aria e persino

per il «non riuscito»»129 e sulla convinzione che secondo La Capria «nella vita come

nell’opera tutto può tornare, tutto resto aperto, tutto si può riproporre e riprodurre»130.

L’osservazione è certo interessante, anche se la ‘perfezione difettiva’ di cui parla Scarpa,

non sembra ancora molto palese in Un giorno d’impazienza, visto che si tratta di un

romanzo anteriore alla nascita del concetto della Bella Giornata. La fine di Amore e psiche

invece, l’ultimo dei Tre romanzi di una giornata, ci offre un bellissimo esempio di quella

perfezione effimera, con la descrizione del padre che sta contemplando gli occhi della sua

bambina:

Ecco egli è insediato nello sguardo che parte da zero, che destituito di immagini e di pensieri di parole e

di concetti, fissa immobile ogni cosa – senza batter ciglio. E sente che alla perfezione di quell’occhio

corrisponde la perfezione del mondo che quell’occhio vede.

127 Raffaele La Capria, scrittore d’acqua, regia di Serafino Amato, cit. 128 Domenico Scarpa, Mente narrante in corpo vivente, cit., in Raffaele La Capria. Letteratura, senso comune e passione civile, , cit., p. 25. 129 Ivi, p. 26. 130 Ibidem.

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Per un attimo lo vede anche lui, così, indistintamente, come in un improvviso risveglio.131

Contemplando gli occhi di sua figlia, il padre può dunque recuperare la propria giovinezza

e rivivere ‘per un attimo’ quel sentimento di perfezione intimamente legato ad essa. Per

quanto riguarda la fine di Ferito a morte, anche lì si può distinguere un desiderio del

protagonista di recuperare l’età giovanile:

E là, in fondo alla strada, qualcosa-che-passa-e-sembra, bionda coda di cavallo oscillante, ha svoltato

l’angolo. Cerco lei, cerco Ninì... e mi pare sempre di camminare dietro qualcuno di cui sento ancora,

vicini, i passi sopra queste pietre.132

Alla fine di Ferito a morte, Massimo torna dunque al luogo della sua adolescenza, sia

nello spazio – in questo momento si trova a Capri – sia nel tempo, cioè nei suoi ricordi,

con quella coda di cavallo di Carla che oscilla ancora come prima, che è ancora altrettanto

bionda, che non è cambiata per niente nonostante lo scorrere del tempo. In altre parole, è

soltanto un ritorno fisico al luogo dell’infanzia che permette di rivivere questa sensazione

‘giovanile’, effimera di un mondo perfetto.

Insomma, la Bella Giornata, simbolo di giovinezza e felicità, risulta in parte illusoria, in

quanto si presenta, durante l’infanzia, come un sentimento perpetuo. Però, questo non

vuole dire che sarebbe un’immagine completamente insostenibile: benché una parte di

questa idealizzazione infantile si riveli presto inadatta al mondo adulto, alla vita reale,

un’altra parte di essa persiste, e diventa poi ‘la misura di tutte le cose’. La figura contiene

dunque un elemento essenzialmente vero, un sentimento del mondo che non perde mai

della sua forza. Questi momenti, in cui la perfezione del mondo si manifesta agli occhi

dell’uomo, sono però rari ed effimeri. Sono più facilmente accessibili durante l’infanzia,

nella primavera della vita, ma sono ancora recuperabili più tardi, ad un’età più avanzata,

come emerge dalle pagine lacapriane più mature.

Per concludere con un’altra metafora, l’essenza assoluta della Bella Giornata è in realtà

tangibile in un qualsiasi «audace tuffo mattutino in mare da palazzo donn’Anna»133, come

osserva Sergio Blazina. Perciò, lo studioso si riferisce al primo capitolo di Letteratura e

131 Raffaele La Capria, Amore e psiche, in Id., Opere, p. 396. 132 Raffaele La Capria, Ferito a morte, cit., p. 176. 133 Sergio Blazina, «Nell’assoluto equoreo silenzio», cit., in Raffaele La Capria. Letteratura, senso comune e passione civile, cit., p. 64. Blazina si riferisce al tuffo mattutino descritto da La Capria ne L’armonia perduta.

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salti mortali, dove La Capria propone un paragone fra lo scrittore e il tuffatore. Blazina

precisa che il tuffo descritto dallo scrittore simboleggia giustamente «il tratto rapido che

sfida l’opacità del mondo, la perfezione istantanea»134. Per riprendere le parole di La

Capria:

Il tuffo, diversamente da un racconto o un romanzo, una volta fatto scompare. Tutto avviene molto

rapidamente, è un attimo di bellezza in cui giocano come s’è visto diversi fattori, e che lascia solo una

labile traccia nella memoria. Questo senso di effimero è molto simile all’«attimo fuggente» che talvolta

cogliamo nella vita. La letteratura si propone invece di durare, vuole riscattare la vita dalla sua fugacità,

fermare l’«attimo fuggente».135

La Bella Giornata, l’attimo fuggente di perfezione vissuto più volte durante l’infanzia,

serve dunque da punto di partenza per La Capria, e lo ha spinto inizialmente a scrivere.

Allo stesso tempo, riconosce che lo scopo della sua scrittura è di far durare per sempre

quel sentimento perfetto ma per definizione effimero, e di versarlo in una forma eterna.

Però, talvolta la mentalità di Napoli stessa – luogo di nascita della Bella Giornata –

impedisce di vivere pienamente questo momento effimero di perfezione. In Ferito a

morte, la metafora della Foresta Vergine simboleggia così la minaccia che pende sempre

sopra la Bella Giornata, senza presentarsi tuttavia come il suo equivalente negativo. In

realtà, le due famose metafore lacapriane sono più intrecciate di quanto si pensi, come

vedremo nel capitolo seguente.

4.3. ... carico di minacciosa alterità. La metafora della Foresta Vergine

L’immagine oscura della Foresta Vergine si oppone alla scena pittoresca della Bella

Giornata, come simbolo di una Natura violenta e minacciosa. Tuttavia si tratta di una falsa

opposizione, visto che le due metafore della natura sono intimamente legate tra di loro:

l’immagine della Foresta Vergine si presenta come una deduzione estrema della metafora

della Bella Giornata. Nella prima parte viene analizzata la ragione dell’implosione della

Bella Giornata: la perdita della giovinezza non è infatti l’unica ragione della sua

decadenza, e sembra che la cultura napoletana abbia contribuito in modo decisivo al suo 134 Ibidem. 135 Raffaele La Capria, Letteratura e salti mortali, in Id., Opere, cit., p. 1173.

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annientamento (4.3.1.). Per spiegare meglio questa osservazione, la seconda parte mette in

evidenza la concezione lacapriana della città di Napoli, luogo di confronto tra Natura e

Storia. Secondo La Capria, il confronto è problematico in quanto la Natura si presenta

come una forza superiore, tale da cancellare il progresso della Storia. Questa violenza

della natura napoletana è inclusa nella metafora della Foresta Vergine (4.3.2.). Per quanto

riguarda la Storia, essa viene invece presentata sia come una luce quasi abbagliante, sia

come una corrente fresca, tutte e due lontane e irraggiungibili da Napoli (4.3.3.). Perciò la

Natura, simbolo di un’immobilità violenta, verrà criticata da La Capria in Ferito a morte.

Come vedremo nell’ultima parte di questo capitolo, lo scrittore ha l’impressione che la

‘natura’ napoletana (sia in senso letterale che in senso di ‘carattere, mentalità’, riferendosi

così ai napoletani stessi) impedisce un qualsiasi progresso culturale e provoca perciò una

profonda sensazione di disagio (4.3.4.).

4.3.1. L’implosione della Bella Giornata

In una prima fase, bisogna chiedersi quali sono le ragioni di quella lenta decadenza della

Bella Giornata. Come visto nel capitolo precedente, la perdita della giovinezza ne è in

ogni caso una ragione importante. Però, quando per esempio La Capria dichiara ne

L’occhio di Napoli che, guardando Palazzo donn’Anna, ha l’impressione che «il senso

della rovina finale di tutte le cose si insinuava nello splendore della bella giornata»136,

sembra suggerire che lo scorrere del tempo non sia l’unica ragione di quella ‘rovina finale

di tutte le cose’, tenendo conto del fatto che lo scrittore, anno 2010, scrive e parla ancora,

e con una passione quasi giovanile, della sua personale Bella Giornata.

Così, la sensazione di disagio provata da Massimo in Ferito a morte – e dunque da La

Capria stesso –, che annuncia la perdita della Bella Giornata, non si spiega esclusivamente

attraverso la sua coscienza crescente della fugacità della vita. Il giovane protagonista,

essendo ancora nell’estate della sua vita e godendo ancora della bellezza naturale, evoca

allo stesso tempo alcune immagini che svelano il carattere problematico, non della Bella

Giornata stessa, ma della cultura napoletana, intimamente legata ad essa.

136 Raffaele La Capria, L’occhio di Napoli, in Id., Opere, cit., p. 978.

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Riprendendo l’immagine della luce, così cara a La Capria – in un certo senso il luogo di

nascita della sua immaginazione –, il sole può anche trasformarsi in una forza crudele,

come emerge da una lunga frase all’inizio del secondo capitolo, che riportiamo in parte:

«sotto l’occhio ironico del sole, [...] la qui dolcissima ma non per questo meno feroce

Natura [...] inizia la sua opera paziente [...], che prevede l’annullamento totale di uomini e

cose»137. Quando questa forza naturale ‘violenta’ si trasforma poi in una forma sensibile,

in un caldo insopportabile, il protagonista ha l’impressione che «lo sdraio è una barella, e

il sole? Il sole è una logora vestaglia tiepida che t’avvolge da capo a piedi»138. Per mettere

in rilievo la sensazione di disagio del protagonista, La Capria evoca quindi l’immagine di

una forza pesante, perfino soffocante, che impedisce al giovane di muoversi liberamente.

Poco dopo, ricorre ad un’associazione analoga per descrivere il momento in cui il signor

De Luca sta contemplando il panorama napoletano con «il Vesuvio là, viola-polveroso

sulla cima, più giù il caldo caduto come una cortina di tulle»139. La descrizione del caldo

come ‘una cortina di tulle’, evoca di nuovo un’idea di limitata libertà di movimento, quasi

di soffocazione o carcerazione. L’assocazione viene inoltre rinforzata dall’immagine del

Vesuvio ‘polveroso’, il vulcano essendo presentato come un’entità non trasparente, opaca

e oscura. L’immagine della cortina è poi interessante perché torna esplicitamente in un

tutt’altro contesto nel romanzo, in un passo dove il protagonista si sta immaginando una

conversazione con Gaetano sulla Foresta Vergine:

In fondo Gaetano aveva ragione. – Che cosa ancora ti trattiene? Avrebbe riso se gli avessi risposto:

Ritrovare uno solo di quei giorni. Ma quali giorni? [...] Un altro laureato in legge contribuirà alla

conservazione della Foresta Vergine, a rendere più oscillante il gruppo degli oscillanti problemi, a

diffondere la cortina fumogena di parole e atteggiamenti.140

La Capria ricorre qui di nuovo all’immagine della cortina, ma questa volta la usa a

proposito della Foresta Vergine, la metafora della natura violenta e inerte di Napoli e dei

napoletani, come vedremo. In questo contesto la cortina, in quanto ‘fumogena’, contiene

insomma un’idea di opacità, opponendosi in questo modo all’immagine idealizzata del

mare trasparente della Bella Giornata.

137 Raffaele La Capria, Ferito a morte, cit., p. 17. 138 Ivi, p. 71. 139 Ivi, p. 97. 140 Ivi, pp. 115-116.

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In altri termini, il sole napoletano descritto in Ferito a morte, che sta alla base della luce

dell’immaginazione lacapriana, può provocare allo stesso tempo una forte sensazione di

disagio. Nei momenti in cui il protagonista non lo sopporta più, il caldo prodotto dal sole

viene descritto come un tessuto che pesa sull’essere e sui movimenti. Queste associazioni

permettono quindi di fare un legame con l’anima napoletana stessa, rappresentato dalla

Foresta Vergine, che pesa continuamente sul protagonista di Ferito a morte, causando

finalmente la sua partenza.

Non soltanto il sole e il caldo, ma anche il mare, il secondo componente della Bella

Giornata, può rivelarsi un’entità cattiva e minacciante. Questa immagine del mare buio è

rintracciabile nella sua forma primaria e innocente ne La neve del Vesuvio, dove la paura

del mare agitato sta in forte contrasto con l’immagine del mare come ‘grande uovo

azzurro’, citata nel capitolo precedente. Questo brano descrive il momento in cui Tonino

si realizza che suo padre, punto di riferimento per eccellenza, può anche sbagliare e

vergognarsi, e non è più che «un uomo come ogni altro, pieno d’incertezze e di paure, un

pover’uomo sconfitto»141:

Cosa avrebbe fatto adesso? Come si sarebbe difeso da quella nera marea, da quel buio oceano indistinto

che gli piombava di colpo addosso ogni notte come una valanga e lo seppelliva vivo? Sprofondato in

quel buio soffocava, e solo un grido disumano, irriconoscibile – il suo grido di terrore – gli

sopravviveva.142

Il contesto infantile di questa allusione al mare non è però di grande importanza qui; quel

che conta è il fatto che il mare possa essere concepito come un incubo, come un’entità che

può impaurire. Il riferimento alla paura dell’acqua torna inoltre in altri paragoni de La

neve del Vesuvio, per esempio quando Tonino, vedendo un orango tristo, pensa che

l’animale voglia morire (quel pensiero «gli salì come un’onda enorme dentro che lo

travolse»143), o quando, non comprendendo il significato di una parola, ammette che «era

nera e minacciosa e ruotava com il gorgo di un fiume buio nella sua immaginazione»144.

Benché in Ferito a morte le immagini di quel mare minaccioso siano forse meno

numerose, anche qui il mare può acquisire un significato più buio, in contrasto con il suo

141 Raffaele La Capria, La neve del Vesuvio, in Id., Opere, cit., p. 610. 142 Ibidem. Il corsivo è mio. 143 Ivi, p. 613. 144 Ivi, p. 605.

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valore abituale in quanto elemento preliminare della Bella Giornata. Così, dopo la prima

delusione amorosa, Massimo, stando solo sulla spiaggia, osserva che «resta solo il rumore

del mare con quel grido di lei dentro, il rumore del mare sempre più forte»145: il mare lo

confronta dunque con il proprio dolore e rifiuta di dare pace al giovane. Poi, l’immagine

del «mare terribile che s’era ingrossato di colpo»146 entra letteralmente nella storia alla

fine del romanzo, quando Mauro racconta ‘la storia del motoscafo’ affondato. L’incidente

mortale può allora intendersi come un’ultima conseguenza, quasi come una punizione,

degli atteggiamenti delle tre vittime, tra cui Glauco, «triangolo pieno di muscoli»147,

incarnazione della superficialità napoletana.

Insomma, sembra che alcune immagini del sole e del mare in Ferito a morte abbiano il

compito di preannunciare la lenta decadenza della Bella Giornata. Le connotazioni che

esse comportano – la pesantezza insopportabile del caldo, la minaccia terribile del mare –

sono poi significative perché non possono spiegarsi unicamente come annunciatori della

fine della giovinezza. In realtà, da queste immagini soffocanti e oscure, emerge anche

chiaramente il rapporto difficile di La Capria con la propria città. Lo scrittore rivela allora

la sua personale incapacità di adattarsi al carattere innato di molti dei suoi concittadini, a

questa inclinazione eterna per il godimento fisico e per le conversazioni superficiali. La

prevalenza del corpo sulla mente, tipicamente napoletana, può allora intendersi come una

conseguenza estrema della presenza straordinaria della Natura nel golfo di Napoli. Perciò,

quando la Bella Giornata comincia a ‘tramontare’ – a perdere i suoi splendidi aspetti – la

contraddizione tra Natura e Storia diventa più palese.

4.3.2. Natura e Storia: un matrimonio difficile

L’immagine lacapriana di Napoli, bagnata dal mare e avvolta dal caldo, fa poi nascere

l’idea che la città viene letteralmente assorbita e perfino oppressa dalla Natura. Questa

idea emerge chiaramente da alcuni passi di Ferito a morte, per esempio dalla descrizione

del protagonista che sta sdraiato sugli scogli, e «il sole se lo mangia insieme a tutto il

resto, agli scogli, alle montagne, alle case laggiù. [...] Napoli, tutt’avvolta dal fiato opaco

145 Raffaele La Capria, Ferito a morte, cit., p. 13. 146 Ivi, p. 174. 147 Ivi, p. 25.

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del mare, nemmeno si vede, il Vesuvio appena appena, un’ombra più intensa del cielo»148.

Si potrebbe dire che l’assorbimento della città nella natura conduce qui quasi alla sua

cancellazione, o in ogni caso alla sua impercettibilità.

Oltre al fatto che riesca a rendere invisibile la propria città, la violenta Natura napoletana

può poi impedire di distinguere gli individui nella totalità naturale. Nel contesto della

Bella Giornata – cioè durante l’età innocente, la cui forma più pura ritroviamo ne La neve

del Vesuvio – tale confronto di uomini e natura poteva ancora avere degli effetti positivi:

la trasparenza del mare permetteva di immedesimarsi nella natura, di ‘tornare’ al grembo

materno, e di vivere così in armonia con la natura.

In Ferito a morte, invece, l’identificazione con la natura risulta piuttosto problematica.

Così, il tentativo di Massimo di nuotare fino al fondo del mare, si ferma sull’immagine del

giovane «a braccia aperte come un Cristo», che pare «una macchia di sole sopra il verde

dello scoglio»149. Benché la scena stessa abbia forse qualcosa di intrinsicamente poetico,

l’episodio avrà conseguenze drammatiche in quanto il protagonista ci lascia quasi la pelle.

I pericoli della pesca subacquea sono dunque ben presenti, ma ciò non frena la volontà dei

personaggi di continuare a nuotare senza riprender fiato, di rimanere sotto acqua il più a

lungo possibile. Quel desiderio di sentire «la testa alleggerita come se avessi bevuto»150

potrebbe anche indicare un rifiuto di ritornare alla superficie dell’acqua, e dunque una

specie di fuga dal mondo reale, dove regna, o dovrebbe regnare, la Ragione.

La Capria critica questa identificazione esagerata e insensata con la natura solamente in

parte, in quanto era anche un suo passatempo giovanile preferito. La sua critica – parziale

– emerge non soltanto dal fatto che il protagonista rinuncia finalmente alla Bella Giornata,

ma anche dall’associazione tra il flusso ininterrotto di parole di zio Umberto e la pesca

subacquea: lo zio «parlerà come nuotando sott’acqua nella foga senza riprender fiato

finendo a polmoni sgonfi con uno sforzo di volontà che impegna inutilmente gola e corde

vocali»151. Il rifiuto (o meglio l’incapacità?) dello zio di riprender fiato, di tornare alla

superficie, può allora venire inteso come il rifiuto di far uso della ragione, l’incapacità di

avere conversazioni approfondite e il desiderio di cercare rifugio nella natura.

148 Ivi, p. 35. 149 Ivi, p. 30. 150 Ibidem. 151 Ivi, p. 103.

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Secondo La Capria, l’impegno di ristabilire un equilibrio tra Natura e Storia a Napoli è

dunque problematico, se non completamente vano. Per rappresentare l’incontro fra queste

due grandi forze universali, lo scrittore preferisce ricorrere alla metafora della spugna,

simbolo della Storia, che assorbisce controvoglia ma rassegnatamente l’acqua, simbolo

della Natura. La penetrazione della Natura nella Storia, rappresentata dall’acqua assorbita

nella spugna, ha l’effetto nefasto di disturbare il buon funzionamento di quest’ultima, di

impedire qualsiasi progresso storico, frenando dunque anche l’impiego della ragione.

In Ferito a morte, l’idea della spugna si riflette anzitutto in un’immagine analoga, quando

La Capria descrive il respiro del mare che «copre e scopre lo scoglio allungato sott’acqua

come il relitto di una nave»152: la nave, simbolo evidente delle qualità e delle conoscenze

umane, ci viene quindi irrevocabilmente destrutta e assorbita dal mare.

Comunque, tutto fa presumere che la metafora della spugna sia nata dalla contemplazione

di Palazzo donn’Anna, dove La Capria stesso ha trascorso gran parte della sua infanzia.

Ne L’armonia perduta lo scrittore spiega perché il palazzo sul mare sia tanto importante

per lui, sia per la sua immaginazione, sia per la sua interpretazione di Napoli:

È un antico palazzo seicentesco costruito da un viceré spagnolo, e poi abbandonato alle devastazioni e

all’incuria che lo hanno ridotto nello stato in cui è ora: una maestosa mole cadente e quasi una rovina,

ma bellissima, al cospetto del mare. [...] assume a volte l’aspetto di uno scoglio o di una rupe appena

emersa dalle profondità marine [...]. E così appare, a prima vista, come qualcosa di non ben definito e

non-finito, che appartiene ora alla Storia, quando vien fuori il corrusco austero barocco dell’architettura,

ora alla Natura quando quasi si confonde con la linea della costa e diventa un elemento del paesaggio.

Questa ambiguità, questo essere a mezzo tra la Natura e la Storia, è anche il segreto contrasto

dell’anima napoletana.153

Così, il luogo d’infanzia di La Capria contiene l’essenza del carattere napoletano, vale a

dire questa ambiguità, o meglio questo confronto continuo fra Natura e Storia. A questo

proposito, d’Orlando osserva giustamente che la metafora di Palazzo donn’Anna illustra

152 Ivi, p. 29. 153 Raffaele La Capria, L’armonia perduta, in Id., Opere, cit., p. 646.

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perfettamente «il sincretismo lacapriano», cogliendovi una «sineddoche particolarmente

efficace» per la città di Napoli.154

Tuttavia, nella narrativa lacapriana le descrizioni del palazzo non offrono un’immagine

così armoniosa e equilibrata di questo confronto tra Natura e Storia. Invece di presentare

un equilibrio tra le due forze, il palazzo diventa simbolo della vittoria della Natura sulla

Storia. In un certo senso, l’idea è già presente ne La neve del Vesuvio, dove Tonino non

trova impressionante il palazzo in mezzo alla natura, e una volta trovato, lo descrive in

termini puramente naturali:

Palazzo donn’Anna dov’era? Erano veramente partiti di là? Ora lo vedeva a poppa, dietro le spalle di

Glauco, come una grossa pietra pomice, piena di buchi, galleggiante tra le ville lungo la riviera.155

Anche in Ferito a morte, Palazzo donn’Anna – che in questo romanzo riceve il nome di

Palazzo Medina – non riesce completamente a simboleggiare un equilibrio armonioso tra

Natura e Storia. Il palazzo si trasforma invece in un «paradigma dell’onorevole sconfitta

patita dalla costruzione dell’uomo»156, come osserva Sergio Blazina. L’inizio del secondo

capitolo del romanzo descrive questo attacco della Natura, ‘nemica della Storia’ e insieme

dell’uomo e della cultura, constatando l’inevitabile sconfitta di quest’ultima:

Del governo di Don Ramiro Guzman [...] resta solo il palagio fabbricato da lui nella riviera di Posillipo,

che chiamasi ancora Palazzo Medina, ora in gran parte ruinoso quasi che inabitabile e cadente. E questa,

diciamo, sarebbe la Storia. Ora interviene il bradisismo: Sotto l’occhio ironico del sole, spregiatore di

ogni umano pensiero, la qui dolcissima ma non per questo meno feroce Natura, nemica della Storia,

inizia la sua opera paziente [...] a lunghissima scadenza, che prevede l’annulamento totale di uomini e

cose, e di tutto quello che la ragione umana ha costruito, cioè la Storia. E, nel caso particolare, di questo

palazzo.157

La visione della costruzione napoletana come un’entità vecchia e vulnerabile, che cerca

invano di fronteggiare la natura più forte, emerge anche dalla descrizione del palazzo

«sbiadito nella nebbia del sole, con quelle mura corrose di pergamena, i buchi neri delle

finestre infossate, in tutta la sua tufacea grandiosa vecchiaia a tener testa al trionfante

154 Vincent d’Orlando, La cipolla e il funambolo. Napoli, la città-testo di Raffaele La Capria, in Raffaele La Capria. Letteratura, senso comune e passione civile, cit., p. 116. 155 Raffaele La Capria, La neve del Vesuvio, in Id., Opere, cit., p. 589. 156 Sergio Blazina, «Nell’assoluto equoreo silenzio», cit., in Raffaele La Capria. Letteratura, senso comune e passione civile, cit., p. 57. 157 Raffaele La Capria, Ferito a morte, cit., p. 17.

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azzurro sempre giovane mare»158. Come ne La neve del Vesuvio, il palazzo si perde qui

nell’immensità naturale circostante, e diventa quasi impercettibile. Inoltre, l’architettura

viene paragonata alla pergamena, suscitando così l’idea di una storia che è stata

particolarmente ricca e fertile, ma ora destinata alla decadenza.

Un’ultima immagine di questa sconfitta della cultura nei confronti della natura è costituita

dalla villa di Pausilypon, una villa cadente sul mare che risale al periodo romano – e si

trova di conseguenza in uno stato più avanzato di rovina rispetto al palazzo seicentesco,

provocando nel protagonista una sensazione di disagio ancora più forte. La Capria

completa l’immagine con l’inserimento esplicito di un verso leopardiano:

Or dov’è il suon di que’ popoli antichi? Sotto l’oceàno, là dove quella trigliozza baffuta smuove col

muso la sabbia, e la Natura dunque vince la Storia. È più forte, altro che evasione, ci vince ogni giorno.

Ogni giorno un millimetro il palazzo scompare lentamente, non si sa bene se il palazzo affonda o il

mare sale, nelle stanze nel salotto e sopra il letto, e tra mille e mille anni, in una giornata luminosa come

questa... Per puro caso io sono qui e ora, capitato come quel saragotto o un piccolo fremito di vento

sull’azzurro inalterabile e indifferente, sopra questi scogli già villa di Pollione...159

Blazina160 precisa che si tratta di un verso de ‘La sera del dì di festa’: «Or dov’è il suono /

Di que’ popoli antichi? or dov’è il grido / De’ nostri avi famosi, e il grande impero / Di

quella Roma, e l’armi, e il fragorio, / Che n’andò per la terra e l’oceano?»161 Il disagio

lacapriano accosta dunque a quello di Leopardi, attraverso un’analoga consapevolezza

dolorosa che «tutto al mondo passa»162. Ne ‘La sera del dì di festa’, questa impressione

della vanità di tutte le cose s’accompagna inoltre immediatamente del pensiero della

fugacità della vita: «Intanto io chieggo / Quanto a viver mi resti, e qui per terra / Mi getto,

e grido, e fremo.»163 In altre parole, la vanità della Storia (a lunga scadenza) e la fugacità

della vita (a breve scadenza) vanno di pari passo in Leopardi, e fino a un certo livello, ciò

vale anche per La Capria: come la Bella Giornata o la Natura non assume più i suoi aspetti

splendidi di prima, una volta il protagonista ha raggiunto l’età matura, essa contribuisce

158 Ivi, p. 70. 159 Ivi, p. 31. Il corsivo è mio. 160 Sergio Blazina fa questa osservazione nel saggio «Nell’assoluto equoreo silenzio», cit., in Raffaele La Capria. Letteratura, senso comune e passione civile, cit., p. 58. Ho inserito anche i versi successivi della poesia. 161 Giacomo Leopardi, Canti, a cura di Niccolò Gallo e Cesare Gàrboli, Torino, Giulio Einaudi, 1967, La sera del dì di festa, vv. 33-37. 162 Ivi, v. 29. 163 Ivi, vv. 21-23.

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allo stesso tempo attivamente alla lenta sconfitta delle realizzazioni mature dell’uomo,

della Storia, rappresentate dai palazzi storici napoletani.

Un confronto con Leopardi risulta dunque interessante, a condizione di evitare la trappola

di una filosofia troppo astratta, di un discorso troppo complesso che non aderisca più al

discorso lacapriano, molto più attaccato alla realtà attuale di Napoli. E quindi, lasciati i

discorsi leopardiani, torniamo ora all’immagine della spugna, riempendola con un

significato molto più concreto, legato alla ‘natura’ dei napoletani. Infatti, l’immagine della

spugna ricompare in un contesto molto più banale, durante una conversazione al Circolo

Nautico a cui assiste il protagonista, agitato alla volta dalla superficialità delle chiacchiere

e dal dolore dell’orecchio:

L’orecchio aperto come il buco di un lavandino, la spirale d’acqua sporca che s’avvita nel buco, l’acqua

entra e ingorga il cervello che si gonfia di parole, si gonfia come una spugna. Appena possibile strizzare

la spugna, ritornare vuoto come prima, più leggero, inesistente. Un’operazione da ripetere spesso

durante la giornata, pensa Massimo.164

Il cervello del protagonista, cioè la ragione individuale, viene dunque rappresentato come

una spugna dove entra continuamente un flusso di parole banali e di opinioni irrelevanti

provenienti da quei napoletani arroganti e oziosi del Circolo Nautico, che preferiscono la

parola al pensiero. Il cervello di Massimo ne diventa man mano più pesante, impedendolo

alla fine di pensare in modo chiaro, di giudicare e interpretare la realtà circostante senza

pregiudizi, senza venirne condizionato.

In altri termini, per quanto riguarda la minaccia della Natura (con maiuscolo), La Capria

riconosce la sua superiorità indiscussa rispetto alla Storia, ma ciò non significa che sceglie

di rassegnarsi a questo fatto: nonostante tutto, lo scrittore continua ad aver fede nella forza

della cultura, nel progresso umano, e quindi in un equilibrio tra Ragione e Natura. Questo

atteggiamento intellettuale di La Capria si oppone così alla natura (con minuscolo) di

molti dei suoi concittadini, che preferiscono il corpo alla mente, che scelgono una vita,

non irrazionale, ma a-razionale, una vita dove la Ragione non regna o perfino non esiste.

164 Raffaele La Capria, Ferito a morte, cit., pp. 80-81.

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In questo contesto si può comprendere il vero significato della Foresta Vergine. La

metafora, inventata da Gaetano, amico intellettuale di Massimo, simboleggia allora

l’anima napoletana ‘modale’, caratterizzata da questo tipo di comportamento superficiale,

non razionale. La Foresta fa quindi paura perché impone un modo fisso di vivere, che non

permette aberrazioni e che restringe la libertà di pensiero, come emerge dal passo

seguente:

[...] e il molle occhio indiscreto dell’altro affiorante dall’intrico di una Foresta Vergine più vasta di

quella teorizzata da Gaetano, sempre più vicino, fluido, carico di minacciosa alterità, lo risucchia in un

amalgama dal quale è impossibile sottrarsi, sentirsi diverso e distinto, riconoscere ciò che è rimasto

intatto e quello che s’è perduto per sempre, o non si è mai avuto.165

La paura di perdersi nella modalità napoletana, e quindi di smarrirsi in una foresta infinita

e oscura, dove tutti gli alberi si rassomigliano e dove non si può ragionare lucidamente,

torna frequentemente in Ferito a morte. L’immagine viene quasi sempre evocata quando

La Capria fa accenno all’opposizione primaria tra Natura e Storia, che forma, insieme alla

figura della Bella Giornata, il vero fil rouge del romanzo.

L’immagine letteraria della foresta dispone tradizionalmente di una quantità infinita di

metamorfosi e significati, come osserva Giovanni Baffetti a proposito di questo ‘luogo

della letteratura italiana’. Nel caso di Ferito a morte, l’antico topos letterario della foresta

si trasforma quindi in un luogo minacciante, e diventa metafora di «una regressione allo

stato di natura, al mondo primitivo della forza e degli istinti»166. La Bella Giornata, da

parte sua, sostituisce l’immagine positiva possibile della foresta come locus amoenus –

un’altra raffigurazione tradizionale della foresta. In altri termini, il possibile incanto della

foresta viene cancellato e sostituito dal luogo magico e suggestivo della Bella Giornata,

che assorbe tutte le qualità positive di essa. Baffetti sostiene giustamente che «la duplicità

simbolica che connoterà per secoli la vicenda letteraria della foresta si determina per

l’appunto attraverso il nesso oppositivo con il mondo civilizzato della città e degli spazi

coltivati, riproducendo il contrasto più generale tra natura e cultura»167. Nel romanzo

lacapriano, la ‘duplicità’ positiva-negativa del luogo della foresta di cui parla Baffetti si

trasforma però in un’immagine negativa e unilaterale della Foresta, o forse meglio, si

165 Ivi, p. 6. 166 Giovanni Baffetti, Foresta, in Luoghi della letteratura italiana, a cura di Gian Mario Anselmi e Gino Ruozzi, Milano, Bruno Mondadori, 2003, p. 204. 167 Ivi, p. 203.

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divide nell’immagine della Foresta Vergine d’un lato, e in quella della Bella Giornata

d’altro lato.

In un altro passo significativo, invece di optare per l’immagine di una foresta, lo scrittore

ricorre alla metafora della lava per esprimere un’idea analoga, con l’immagine di un fiume

di lava uniforme che trascina e assorbe tutto ciò che incontra. Il brano descrive il

momento in cui il protagonista sta contemplando la vivacità giovanile sulla spiaggia

napoletana:

Una specie di vertigine che ti attira verso quel ribollire di corpi di facce segnate dall’usura del vicolo.

Basterebbe un solo sguardo di simpatia, dato o ricevuto, una semplice occhiata di riconoscimento, un

nulla, per sentirsi fagocitato dal magma umano come un albero dalla lava, distrutto, l’appartenenza a se

stesso perduta, risucchiato dalla prevalente unità psicologica, sopraffatto e partecipe di colpe storiche.168

La sensazione di paura, di perdersi nella foresta o di affogare nella lava – di assumere il

modo di vita napoletano – può dunque assalire improvvisamente il protagonista quando è

solo. L’unico modo di uscire temporaneamente dalla Foresta Vergine è allora offerto dalle

conversazioni intellettuali con l’amico Gaetano:

Ma sara poi mai passata davvero per Napoli la Storia del Mondo, come voleva farci credere Croce?

E allora se è così, mentre sto qua, a che mi serve anche la Storia? gli obiettavo. Risposta di Gaetano: A

ristabilire la tua identità, una scala di valori, la possibilità di un giudizio.

Così tutto, quando c’era lui, aveva una targhetta precisa, e non ti pareva più di essere sommerso dalla

Foresta Vergine.169

Così il giovane intellettuale Gaetano, ideatore del concetto della Foresta Vergine stesso, è

il rappresentante perfetto della Storia in Ferito a morte, cioè della fede nella conoscenza

umana e della resistenza mentale alla superficialità napoletana. L’intellettuale si oppone

alla Natura, non soltanto per la sua ritenuta banalità, ma anche perché lui stesso è incapace

di partecipare a un mondo governato dalla natura, perché «nemmeno nuotare sa»170.

Di conseguenza Gaetano sarà il primo a partire da Napoli, a uscire dalla Foresta per

sistemarsi al Nord del paese, il terreno della Storia. La scelta di Massimo è invece meno

168 Raffaele La Capria, Ferito a morte, cit., p. 96. 169 Ivi, pp. 121-122. 170 Ivi, p. 15.

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ovvia e prende più di tempo: i suoi pensieri oscillano continuamente tra partire – il che

implica una fede assoluta nella forza della Storia, illustrata dalla partenza di Gaetano –

(5.3.3) o rimanere a Napoli – il che implica una sottomissione totale al corpo e alla Natura

(5.3.4).

4.3.3. La fresca stimolante corrente della Storia

Il conflitto interiore di Massimo, il dilemma tra partire e rimanere, emerge chiaramente

dal primo capitolo di Ferito a morte, che descrive il dormiveglia del protagonista il giorno

della partenza per Roma. In realtà, questo capitolo offre un annuncio, o possiamo dire un

riassunto, dell’intero romanzo (o in ogni caso dei primi sette capitoli di esso), anticipando

le metafore ricorrenti, la Bella Giornata e la Foresta Vergine, e l’opposizione maggiore,

tra Natura e Storia. Questi temi sono per esempio concentrati in un brevissimo passo, che

si trova alla fine del capitolo:

Con le braccia incrociate dietro la testa, a guardare il grafico d’oro messaggio vibrante sulla parete, a

pensare ai miei passi domani nel rispettabile squallore di strade sconosciute, in una città senza Vesuvio

e senza estati, dove i palazzi non finiscono sotto il mare, l’occhio affiorante dalla Foresta Vergine non ti

minaccia nella tua integrità, e la Natura o una bella giornata non vince la Storia – col tempo regolato

dall’orologio e dalla busta paga. Da qui puoi vedere ogni luce di speranza e d’intelligenza che spunta

sulla faccia della terra, quelle luci che da Napoli si vedono così male. La lettera di Gaetano, ancora là

sul comodino.171

Il raggio di sole, quel ‘grafico d’oro messaggio vibrante sulla parete’, annunciatore della

Bella Giornata, della natura mediterranea calda e accogliente, evoca immediatamente

dopo l’immagine di una Roma squallida e fredda, dove regnano l’orologio e la busta paga.

Nasce dunque l’idea di una vita regolare in una città ben strutturata, dove la gente sa

apprezzare il lavoro del cervello. Insomma Massimo si sta plasmando un’immagine di un

ambiente che sembra perfettamente adatto ad ogni tipo di lavoro mentale, nell’assenza di

stimoli fisici naturali ‘caldi’ come quella della Bella Giornata, che possono sviare

l’attenzione. Il giovane sembra curioso di questo ambiente ‘intellettuale’ completamente

nuovo, ma ciò non senza lamentarsi della perdita dei piaceri corporali napoletani. Così la

scelta tra Roma e Napoli diventa una scelta tra Ragione e Natura, una scelta impossibile.

171 Ibidem.

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Secondo Gaetano, le città settentrionali, Roma inclusa, si rappresentano dunque come

‘luci di speranza e di intelligenza’. Colpisce che questa associazione tra luce e civiltà non

sia molto ricercata, tanto meno creativa: l’immagine della luce viene semplicemente da

una concezione di città che sono ‘illuminati’ nella Storia. Queste città si sono sviluppate

nel corso dei secoli, mentre a Napoli continuava a regnare il buio dell’ignoranza. Benché

Massimo si trovi in gran parte d’accordo con le opinioni di Gaetano, allo stesso tempo le

critica e ne prende un po’ le distanze, per esempio quando accenna per la seconda volta

allo stesso frammento della lettera di Gaetano:

Ideologizzava perfino il pranzo domenicale: la Coscienza preda dell’Istinto; la Storia, della Biologia.

[...] L’ultima [lettera], lì, sul tavolino. Come dice? Da qui puoi vedere ogni luce di speranza e

d’intelligenza che spunta sulla faccia della terra, quelle luci che da Napoli si vedono così male. Roba

da ridere. Per tutto l’inverno, in certe settimane nere, frasi così. Si vedono bene da Milano. Chissà da

Roma come le vedrò. Solo perché uno lavora in un giornale milanese, solo per questo scrive...172

Anche se viene parzialmente ironizzata da Massimo, l’immagine di ‘quelle luci’ attira la

sua attenzione in quanto evoca essenzialmente gli ideali dell’Illuminismo, la fede nella

conoscenza umana e la speranza nel progresso, stimulato da un ceto intellettuale attivo

della società.

Un’altra immagine si sovrappone a quella della luce: l’idea di una ‘fresca stimolante

corrente della Storia’, un sintagma notevole che torna qualche volta in Ferito a morte. Dal

passo seguente risulta chiaro che la corrente, una nuova metafora naturale, si oppone

perfettamente a quella della Foresta Vergine:

Per tutto l’inverno così, sullo stesso tono. Lui dalla sua scrivania milanese, lambita dalla fresca

stimolante corrente della Storia, e io dalla mia stanza, nell’intrico della Foresta Vergine, nella ruota

delle stagioni, sbattuto qua e là in un caffè in compagnia di un accidioso ucciso di noia, o tra le pagine

di un libro, a caso.173

La caratteristica più importante della corrente, e la causa per la quale La Capria avrebbe

scelto questa metafora, risiede nel suo movimento continuo e nella sua impossibilità di

fermarsi. È soprattutto questa qualità che si oppone all’immagine della Foresta, segnata da

172 Ivi, pp. 112-113. 173 Ivi, p. 116.

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una immobilità totale. Anche la Bella Giornata entra facilmente in questo schema, in

quanto caratterizzata da uno stesso tempo immobile, essenzialmente ‘mitico’, e dunque a-

storico, fuori della Storia.

In un altro brano, La Capria visualizza l’immagine della corrente settentrionale come una

‘striscia azzurra’ nel passo seguente, opponendola alle ‘degenerazioni’ del Sud:

E mi pare di vederlo, certe volte, il mondo, con gli occhi di Gaetano: una palla, le macchie delle terre

abitate e una striscia azzurra che tocca paese e città: New York, [...] perfino Roma! Ma lì la strascia vira

di botto, anzi arretra spaventata, e fila verso Milano. E poi più su, al Nord. Eh, il Nord! [...] scorre la

fresca stimolante grande corrente, gulf-stream della Storia, dando vita alla vita dei fortunati abitanti

delle terre che tocca. [...] tutto possibile e reale perché tutto toccato avvolto dalla fresca stimolante

corrente che dà un senso ad ogni cosa. E noi qua, nel cuore di una vasta area indistinta, zona depressa

suditaliana, mai toccata dalla fresca stimolante corrente, con la Foresta Vergine che cresce senza senso

insensatamente avviluppando vita e pensieri, tra degenerazioni ed inestricabili contorcimenti.174

Benché raggiungere questa corrente della Storia da Napoli sia impossibile, ci rimane un

filo di speranza, offerto dalle metaforiche ‘città azteche’ costruite in mezzo alla Foresta

Vergine. La metafora, una nuova invenzione di Gaetano, deve far trasparire l’idea di una

forte resistenza intellettuale in mezzo all’ignoranza napoletana:

Sì, [Croce] era rimasto, ma lo vedeva come una di quelle solitarie città azteche che un esploratore

scopre per caso nel folto della giungla, stravolte dalla vegetazione, e ancora impiedi dopo secoli di

resistenza. – La nostra Foresta è punteggiata di città come questa. La sola tradizione che abbiamo nel

Sud. Sentinelle che si passano la voce nel buio dei secoli. Ma predomina e rimane solo la Foresta,

purtroppo.175

Benedetto Croce ci viene quindi presentato come una sentinella, come un protettore di

quell’intelletto così scarso e minacciato nella società napoletana. Secondo La Capria, i

grandi intellettuali della storia umana vengono rispettati anzitutto per questa loro volontà

di distinguersi dalla massa, di esprimere un’opinione completamente personale e di

proporre nuovi punti di vista, alla maniera delle città azteche che si sono fondate

isolatamente in mezzo ad una foresta larghissima e uniforme. Questa opinione emerge

anche dall’osservazione fatta da La Capria ne L’occhio di Napoli:

174 Ivi, p. 121. 175 Ivi, pp. 120-121.

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Qui a Napoli ci sono molti disoccupati, ma una disoccupazione preoccupante è anche quella del

pensiero. Dopo Croce non si riesce a sapere granché di quel che si pensa a Napoli. […] Solo una piccola

minoranza – irrelevante, senza potere e sena pubblica sovvenzione – pensa disinteressatamente. Ma

sono in pochi, troppo pochi rispetto al fabbisogno.176

L’ammirazione di La Capria per Croce è insomma fondata sulla convinzione che si tratti

di una delle poche figuri eccezionali che ha saputo distinguersi dalla massa napoletana.

Tuttavia, anche dietro questa ammirazione si cela il rischio del discorso stereotipato su

Napoli. Ciò emerge chiaramente dal paragrafo che precede quello delle ‘solitarie città

azteche’, quando il protagonista nella conversazione introduce la figura di ‘don

Benedetto’. La scelta del ‘don’ viene poi criticata come «abuso volgare di non concessa

familiarità, equivoca strizzatina per assorbire nella terribile unità psicologica anche quel

nome»177.

Il problema risiede in questa ‘terribile unità psicologica’, cioè in questa autoreferenzialità

tipicamente napoletana che si può chiamare la ‘napoletanità’. La Capria sostiene che il

rischio che anche il grande Croce, uno dei pochi intellettuali napoletani che fosse aperto

alle evoluzioni europee, venga assorbito da questa Foresta Vergine della napoletanità, sia

reale. Ciò emerge per esempio da un passo de L’armonia perduta:

E accadde che anche Croce fu avvolto, impacchettato nella «napoletanità» di questi crociani, fu ingerito

in questa confezione, e diventò lui stesso senza volerlo e forse senza nemmeno immaginarlo un

elemento della «napoletanità».178

È difficile capire il significato esatto di questa ‘napoletanità’, e anche La Capria stesso

offre diverse interpretazioni del concetto. In un altro passo de L’armonia perduta la

descrive come «una creazione artificiale nata da una autentica nostalgia collettiva di uno

stato precedente definitivamente perduto»179. In realtà, lo scrittore si riferisce qui alla

storia della sua città, che si sarebbe fermata dopo la rivoluzione del 1799. Dopo quella

data mitica, nell’impossibilità di evolversi, i napoletani avrebbero deciso di crearsi

un’identità autoreferenziale, chiusa, senza possibile progresso e senza possibile apertura

verso il mondo esterno.

176 Raffaele La Capria, L’occhio di Napoli, in Id., Opere, p. 980. 177 Raffaele La Capria, Ferito a morte, cit., p. 120. 178 Raffaele La Capria, L’armonia perduta, in Id., Opere, cit., p. 666. 179 Ivi, pp. 660-661.

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La paura lacapriana consiste dunque nel pensiero che persino una figura illuminata come

Benedetto Croce sarebbe assorbito da questo costruzione pesante e immobile chiamata la

‘napoletanità’. Lo spiega un’altra volta in Napolitan graffiti, dove indica anche il pericolo

di mettersi «sotto la protezione di questo Gran Padre lasciando a lui l’incombenza di

pensare e di rappresentarci degnamente»180. La Capria aggiunge che Croce sembrava

concretizzare il sogno di una Napoli imponente e orgogliosa «con la sua presenza e con la

sua alacrità di sveglio in una città di addormentati»181. In altri termini, il progresso

suggerito e perfino reso possibile da un solo individuo come Croce, ha sempre l’effetto

contrario a Napoli: di addormentare la sua popolazione, e di racchiudere il ristretto ceto

intellettuale attivo in quel mastodonte del falso mito della ‘napoletanità’.

Inoltre, i napoletani ‘addormentati’ nella napoletanità, inclini ai piaceri corporali, o in ogni

caso convinti dalla prevalenza del corpo sulla mente, non sanno dare il giusto valore al

lavoro intellettuale. A questo proposito è significativo che anche il corpo stesso può

letteralmente impedire il buon funzionamento del cervello, il che succede in un capitolo di

Ferito a morte, come vedremo nel capitolo seguente.

4.3.4. L’effetto immobilizzante della Natura

La Natura, o meglio questa inclinazione tipicamente napoletana a un modo di vita

semplice e non complicato, senza il coinvolgimento della ragione, è in ogni momento

pronta a intervenire con lo scopo di immobilizzare il lavoro mentale dell’individuo. Ciò

avviene letteralmente nel capitolo del pranzo a casa De Luca, durante il quale Massimo ha

bevuto e mangiato troppo; il giovane ne ha la sensazione di essere frenato, di essere

prigioniero del proprio corpo:

Il sonno della ragione. Il cervello, un re detronizzato nella rocca della testa. L’insonnia del ventre. Nella

penombra della stanza, anche il tuo corpo, estraneo. Prima esibito sulle spiagge, poi mette pancia. La

mente prigioniera dell’apparato digerente. Bastava sapersi controllare a tavola, fermarsi in tempo.

180 Raffaele La Capria, Napolitan graffiti, in Id., Opere, cit., p. 1076. 181 Ibidem.

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Bastava un dito di vino in meno. Neppure in questo è possibile indirizzare il corso delle cose? La

Foresta Vergine fin dentro le budella.182

L’impressione di non poter più ragionare chiaramente, di addormentarsi senza volerlo,

viene dunque rinforzata dall’effetto diretto del vino sul corpo, che fa insinuare la Foresta

‘fin dentro le budella’.

L’intrusione della Foresta Vergine comporta insomma una cancellazione della ragione. Se

questa cancellazione piace alla maggior parte dei napoletani, rendendo meno complicata

la vita, nei confronti di Massimo – e dunque di La Capria – essa ha l’effetto contrario:

rinforza l’impressione di trovarsi in un mondo caotico, senza possibile spiegazione perché

la ragione ne è eliminata.

Ciò spiega anche perché La Capria abbia inserito l’immagine del labirinto in rapporto con

quella della Foresta in Ferito a morte. Il protagonista, non potendo capire la motivazione

o l’utilità di condurre una vita senza l’impiego del cervello, non può neanche comprendere

il comportamento e le chiacchiere dei suoi concittadini. Nel capitolo del Circolo Nautico

per esempio, luogo di dolce far niente per eccellenza, Massimo, con la fitta nell’orecchio,

ha il sentimento che l’acqua dentro «deve aver formato una barriera che rende opaco e

distante il mondo esterno, i rumori infatti arrivano come da lontano, e le parole degli altri

sulla terrazza, il suono e il senso, più ottusi»183. Le chiacchiere devono prima attraversare

quel «labirinto osseo»184 del protagonista, il che non soltanto moltiplica la distanza tra lui

e gli altri, ma le rende anche completamente incomprensibili.

Come l’acqua nel labirinto auricolare che «confonde le parole che quelli dicono»185, la

Foresta Vergine può presentarsi come un labirinto meridionale, confondendo e perfino

cancellando le proprie possibili spiegazioni. Ciò viene anche avvertito da Gaetano quando

sta parlando con lo zio di Massimo:

182 Raffaele La Capria, Ferito a morte, cit., p. 116. 183 Ivi, p. 71. 184 Ibidem. 185 Ivi, p. 72.

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[...] i miei occhi fissi negli occhi dello zio - accettando l’impossibilità della mente razionale di uscire dal

labirinto meridionale, e perciò sei costretto ad invetare le Sabbie Mobili la Foresta Vergine ed altri miti

che aiutano a capire senza vincere.186

Infatti, l’assocazione tra foresta e labirinto è un antico topos letterario, già presente nei

primi versi della Commedia dantesca, dove «il cronotopo della foresta si associa a quello

del labirinto»187, come osserva giustamente Baffetti. A questo proposito afferma inoltre

che nella letteratura italiana novecentesca «il ruolo della foresta come labirinto [...] sarà

progressivamente assunto dalla città»188. Da questo punto di vista, sembra dunque che La

Capria voglia rappresentare la città partenopea attuale come una foresta, esattamente

perché le caratteristische labirintiche di quest’ultima si avvicinano di quelle angosciose e

minaccianti della società moderna.

Insomma, l’invenzione della metafora stessa della Foresta Vergine è un mezzo che può

aiutare a capire l’essenza dell’anima napoletana, e quindi a cancellare l’incomprensione

della ‘mente razionale’ di fronte ad essa. Quali sono allora le caratteristiche distintive di

questa Foresta Vergine, e dunque dell’anima napoletana? Genericamente, essa si distingue

da una immobilità quasi mortale, da una nevrosi visiva, e da una strana combinazione di

vivacità e sonnolenza.

In primo luogo, la Foresta è caratterizzata da una capacità straordinaria di immobilizzare

qualsiasi azione o pensiero, come avviene per esempio nell’episodio del Circolo Nautico.

I napoletani poltroni si trovano lì, «comodi sulle sedie a sdraio a chiacchierare, e quegli

altri distesi a terra nudi immobili in fila come morti»189: è una scena completamente

immobile, in cui non succede proprio niente di rilevante. L’immobilità si presenta come

una specie di suspense, di un’attesa infinita di qualcosa di straordinario che non succederà

mai. La forza dell’inerzia degli altri è tale che anche Massimo ne sarà sopraffatto:

Chi se ne sta sdraiato a prendere il sole in una specie di morte apparente, come Massimo, lo [il pallone]

vede ogni tanto affiorare sopra la linea della terrazza e rimanere sospeso per un attimo, tra il cielo e il

mare, nell’aria stagna.190

186 Ivi, p. 103. 187 Giovanni Baffetti, Foresta, in Luoghi della letteratura italiana, cit., p. 201. 188 Ivi, p. 209. 189 Raffaele La Capria, Ferito a morte, cit., p. 94. 190 Ivi, p. 79.

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Un secondo tratto dell’anima napoletana può essere descritto come una ‘nevrosi visiva’,

che fa parte di una cultura che è dominata dall’apparire, dove i tratti esteriori sono più

importanti della verità intrinseca. La prevalenza dell’apparire rispetto all’essere spunta

già nel primo passo di Ferito a morte che accenna la metafora della Foresta Vergine, dove

Massimo si sta immaginando le chiacchiere dei suoi coetanei, che avrebbero commentato

il suo fallimento amoroso:

E si trova davanti quell’unico occhio avido e scomposto, enorme, che è tutti i loro occhi, dal quale

partono strizzatine di complicità e di disprezzo. Racconta, racconta di più – lo incita l’occhio – ancora e

senza vergogna. [...] e man mano che racconta, qualcosa dentro di lui si deforma, si corrompe, e il molle

occhio indiscreto dell’altro affiorante dall’intrico di una Foresta Vergine [...] sempre più vicino, fluido,

carico di minacciosa alterità, lo risucchia in un amalgama dal quale è impossibile sottrarsi [...].191

La nevrosi visiva napoletana, il desiderio di giudicare gli altri, si accompagna inoltre di

una volontà di nascondersi dietro una maschera, impedendo così agli altri di conoscere e

giudicare le proprie emozioni. Perciò è significativo che Carla porta una «maschera

cinese»192 durante la notte di Capodanno del 1949 – questa immagine viene inoltre già

anticipata nella prima pagina di Ferito a morte, durante la scena della spigola ‘mancata’.

In ogni caso, con l’inserimento di una maschera, La Capria sembra sottolineare sia la non-

responsabilità della ragazza, che la sua non-volontà di farsi conoscere e di conoscere gli

altri e il mondo circostante. Ne Il sentimento della letteratura, La Capria critica inoltre

esplicitamente la presenza della maschera nella cultura italiana:

Sì, [gli italiani] sono giudicanti per tutto ciò che riguarda gli altri, e non-responsabili per tutto ciò che

riguarda se stessi.

La non-volontà di conoscersi degli «italiani» è strettamente legata ad un altrettanto forte bisogno di una

maschera. Mettersi in maschera significa non solo nascondersi dietro una maschera, ma attribuire alla

maschera il compito di rappresentarci. [...] E l’imbroglio è in questo: che la maschera consente sempre

all’io che c’è dietro un’ultima riserva, gli consente sempre al momento buono [...] di ritirarsi dal gioco e

di non identificarsi più con quello che fa. Di prendere le distanze, insomma, e dunque di sentirsi non-

responsabile, come appunto si diceva.193

Così la maschera – e quindi anche l’amante del protagonista – simboleggia chiaramente il

predominio dell’apparire nella cultura napoletana, che ci si sovrappone senza problemi

191 Ivi, pp. 5-6. 192 Ivi, p. 13. 193 Raffaele La Capria, Il sentimento della letteratura, in Id., Opere, cit. pp. 1302-1303.

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all’essere. Può darsi che questa opposizione tra apparenza e verità corrisponde inoltre

all’opposizione primaria di Ferito a morte, tra Natura e Storia. In quel caso, la Natura

rappresenta l’esteriore delle cose (e dunque la loro ‘superficialità’), mentre la Storia cerca

l’approfondimento e vuole svelare la verità dietro le apparenze. Perciò, la Storia ha la

volontà di conoscere le motivazioni di uno specifico comportamento, laddove la Natura si

contenta di una opinione formata a prima vista. L’abitudine di valutare qualcuno a prima

vista è chiaramente presente nel paragrafo seguente, che descrive il teatro della piazza di

Capri ‘nell’ora di punta’:

Gli occhi di Cocò sempre vaganti, frugando nella calca, da una faccia all’altra, da un’acconciatura

all’altra, inseguendo qualcosa, aspettando qualcosa. Nell’ora di punta, prima di cena, insieme ad altri

occhi presi come i suoi da nevrosi visiva, allenati dal gusto dell’infatuazione, dell’io-guardo-te-tu-

guardi-me di ognuno in attesa di qualcuno che valorizzi l’istante, con momentanee fasi di tensione e

delusione collettiva.194

La terza caratteristica distintiva della Foresta Vergine consiste in una strana combinazione

di vivacità e sonnolenza. Anzitutto, il protagonista non riesce a capire la vivacità eccessiva

dei napoletani, la loro gioia di vivere esagerata, che non può mai corrispondere alla realtà

quotidiana. Perciò Massimo «distoglie lo sguardo dalla piccola Cina formicolante sulla

spiaggia»195. In un passo de La neve del Vesuvio, il giovane protagonista esprime un’idea

analoga, e esplicita inoltre la ragione per la quale non riesce a capire questa agitazione

costante:

Erano tutti presi da un’agitazione incomprensibile, come quella delle formiche che lui sempre si era

domandato ma cosa fanno? dove vanno a girare così frenetiche? Pareva che qualcuno li avesse obbligati

a girare a vuoto [...].196

Insomma, il comportamento frenetico dei suoi concittadini non ha nessuna funzione, è

sprovvisto di una destinazione specifica, e così i napoletani non riescono ad uscire dal

cerchio che stringe la loro città. Ciò spiega anche perché siano incapaci di partecipare al

corso della Storia, che è per definizione lineare e dunque progressivo. In ogni caso, quella

freneticità napoletana sembra avere occupata per molto tempo la mente di La Capria, che

lo fa perfino intuire dal suo personaggio più giovane.

194 Ivi, p. 171. 195 Ivi, p. 96. 196 Raffaele La Capria, La neve del Vesuvio, in Id., Opere, cit., p. 599.

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A prima vista sembra paradossale che l’eccitazione napoletana viene accompagnata da

una specie di sonnolenza e dunque da una volontà di chiudere gli occhi di fronte al mondo

esterno. Che il paradosso è soltanto apparente, emerge per esempio da una descrizione di

Carla, quando sta parlando insensatamente del proprio futuro:

Un viso piccolo, e due occhi larghi, distanti, che guardavano me e il mondo, tranquilli come quelli di un

gattino insonnolito.197

Se Carla sembra eccitata dal suo futuro ‘promittente’, esso non diventerà mai concreto,

esattamente perché la ragazza non sarà in grado di svegliarsi, di uscire dal cerchio. Da

questa ottica, la combinazione di una ‘agitazione incomprensibile’ e una «sonnolenza

canina»198 non risulta così paradossale: o per quale motivo i cittadini, che stanno girando a

vuoto nel loro cerchio, dovrebbero restare svegli e attenti a quello che succede al di fuori

di quel cerchio, da cui non escono mai?

Così, La Capria presenta l’anima napoletana come un’entità addormentata e immobile,

che rifiuta di affaticarsi o di cercare la verità dietro le apparenze. Oltre a quel ritratto poco

positivo, lo scrittore inserisce delle immagini ancora più negative, descrivendo alcuni

coetanei del protagonista come animali: quando descrive il giovane Glauco, che viene

riconosciuto dalla sua «faccia taurina»199, egli «si muove come una specie di dondolio da

scimpanzè»200 e «si ferma, abbassa la testa come un toro»201. In fondo, questi giovani, che

seguono continuamente i loro istinti animaleschi, sembrano aver dimenticato ciò che

distingue gli uomini dagli animali, cioè la capacità di riflettere, di formarsi un’opinione, e

di comunicarla agli altri uomini. Questa ‘natura umana perduta’ appare esplicitamente in

un’altra descrizione di Glauco:

Si mette a fischiettare, come fosse solo, più niente da dirmi, rimuginando di Ninì, dei ragazzi, chissà,

con un ottuso lavorio del cervello che gli incupisce gli occhi. Piccoli azzurri struggenti mi guardano con

una tristezza animalesca, quella delle scimmie che, dice, sentono nostalgia della natura umana

perduta.202

197 Raffaele La Capria, Ferito a morte, cit., p. 57. 198 Ivi, p. 77. 199 Ivi, p. 140. 200 Ivi, p. 73. 201 Ivi, p. 74. 202 Ivi, p. 143.

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Tenendo conto di questi aspetti della Foresta, si riesce a capire completamente la portata

del disagio di La Capria nei confronti della propria città. Quel disagio si presenta anche in

senso metaforico alla fine del capitolo del Circolo Nautico, quando Massimo non può più

sopportare il dolore dell’orecchio e le chiacchiere dei napoletani:

Massimo li sente, dietro le sue spalle, che passano. Ogni pulsazione nell’orecchio si è fatta dolorosa,

adesso, e lui conta le pulsazioni trasmesse dal nervo cranico ai centri cerebrali. Il dolore è come un

animale vivo chiuso nella trappola del complicato organo auricolare [...].

Poi muove appena un piede, per assicurarsi che è vivo.203

Le parole dei napoletani del Circolo, quel mondo superficiale a cui Massimo non vuole

appartenere, cercano di infiltrarsi nella sua mente e nella sua vita ‘come un animale vivo

chiuso nella trappola’. L’unica via d’uscita, affinché non sia sopraffatto dalla Foresta, sarà

dunque di abbandonare definitivamente la sua città materna. Di abbandonare, insomma,

questa costruzione artificiale della ‘napoletanità’ della Gran Gatta Napoli:

Il napoletano che vive nella psicologia del miracolo, sempre nell’attesa di un fatto straordinario tale da

mutare di punto in bianco la sua situazione. [...] Scontano un destino più forte di loro, pagano anche per

gli altri napoletani la colpa di aver fatto di se stessi una leggenda. Di sfruttare questa leggenda. Di

crederci, di nutrirla con la propria vita. Di cercare in essa l’assoluzione da ogni condanna, il riposo della

coscienza inquieta, l’enorme straripante indulgenza della Gran Madre Napoli. La Gran Madre? Di’ la

Gran Gatta piuttosto, che alla fine se li pappa senza nemmeno dargli il tempo di aprire gli occhi sopra il

mondo.204

4.4. Conclusione. Il rapporto ambiguo con Napoli

I due capitoli precedenti hanno messo in evidenza che le due grandi metafore inventate da

La Capria in Ferito a morte, la Bella Giornata e la Foresta Vergine, devono contribuire

anzitutto al chiarimento del proprio rapporto con Napoli. In una prima fase, vedremo

come l’immagine della ferita – che ritorna anche nel titolo del romanzo – simboleggia il

disagio del protagonista di trovarsi in una città addormentata, e come questo sentimento lo

ha spinto ad abbandonare la sua città materna (4.4.1.). La distanza creata sarà una

203 Ivi, p. 93. 204 Ivi, p. 119.

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condizione necessaria per la nascita di una coscienza complessiva della realtà napoletana,

anche se ciò comporta che il protagonista, quando torna al luogo dell’infanzia, ci si sentirà

un intruso (4.4.2.). Infine vedremo come la buona distanza, oltre a criticare i difetti

napoletani, permette allo stesso tempo di creare una nuova visione sulla città, come luogo

di incanto possibile (4.4.3.).

4.4.1. Napoli, una città che ti ferisce a morte o t’addormenta?

L’intrecciatura della Bella Giornata con la Foresta Vergine crea il dilemma centrale di

Ferito a morte, quello tra restare, e dunque cedere alla Natura, o partire, cioè rispondere

alla Storia. In realtà, questo dilemma è preceduto, o meglio creato, dalla percezione di una

ferita nascosta. Per spiegare come funziona l’immagine della ferita, risulta utile studiare

l’osservazione fatta da Massimo durante una conversazione con un concittadino, dopo la

sua partenza da Napoli: «viviamo in una città che ti ferisce a morte o t’addormenta, o

tutt’e due le cose insieme»205. Ci oppone dunque il sonno, che simboleggia la mancanza di

coscienza, all’immagine della ferita, che è inversamente la coscienza di quella mancanza.

La prima possibilità offerta dal protagonista è il sonno. Quel gesto di chiudere gli occhi

alla realtà, corrisponde ovviamente alla predisposizione tipicamente napoletana all’attesa,

come abbiamo visto nel capitolo precedente. Analoga all’evocazione della Gran Gatta

Napoli, a La Capria piace d’evocare l’immagine del Purgatorio, che esprime infatti la

stessa idea di attesa. Lo fa per esempio in un passo de L’occhio di Napoli:

Infatti in nessun luogo del Sud d’Italia si sente così spesso, come a Napoli, l’invocazione: «Fate bene

alle anime del Purgatorio!» [...]. Quasi tutti i napoletani del popolino sentono di rassomigliare a quelle

anime, pensano che la vita e Napoli stessa siano il loro Purgatorio, un luogo di transizione in attesa di

una condizione migliore.206

La Capria ha inserito l’immagine del Purgatorio in quanto presenta l’idea di attesa, di

‘luogo di transizione’. A questo si potrebbe aggiungere che l’immagine del Purgatorio

racchiude anche l’idea di non prendere posizione, e contiene così un’altra caratteristica

che rende opportuno un confronto con l’anima napoletana.

205 Ivi, p. 114 206 Raffaele La Capria, L’occhio di Napoli, in Id., Opere, cit., p. 913.

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In ogni caso, il protagonista di Ferito a morte e il suo scrittore rifiutano di addormentarsi

in quella città sempre in attesa, preferendo invece la seconda – e per loro, l’unica –

possibilità, quella della ferita. Così, l’immagine della ferita simboleggia la crescente

coscienza dolorosa di una Napoli inerte, apatica e chiusa. A questo proposito sembra

rilevante citare alcuni passi de L’armonia perduta, perché...

[...] continua e forse conclude un discorso iniziato venticinque anni fa con Ferito a morte, e parla

ancora, anche se con mezzi diversi, di una ferita, parla ancora di una felicità che sembra sempre a

portata di mano, che il paesaggio, il colore del cielo, la luce del mare, autorizzano a sognare, e che

sempre invece ci sfugge, parla ancora della «bella giornata» che fa parte dell’anima mediterranea, e di

quel conflitto tra Storia e Natura [...].207

Anche se ne L’armonia perduta, La Capria parla piuttosto di una ferita storica che poco a

poco si è manifestata a Napoli, si tratta in realtà della stessa ferita che ritroviamo in Ferito

a morte: nell’uno come nell’altro, essere feriti significa in fondo essere consapevoli del

fatto che «abbandonarsi al «grande libertinaggio della Natura» poteva essere mortale, che

la Vita non è la ricerca della felicità, e che dovevo liberarmi da quest’illusione e da

quell’incantamento»208.

Se la vita non è la ricerca della felicità – e dunque non è una Bella Giornata –, essa è

anzitutto una «costruzione della coscienza»209, precisa La Capria. E, siccome non è

possibile sviluppare tale coscienza – ragione, conoscenza – in mezzo a una città immobile,

l’unica possibilità è di uscire dal cerchio, per guardarlo poi dall’esterno e formarsene una

visione corretta. Anche se La Capria parla di questo periodo come «i giorni dell’acqua

torbida»210, in realtà la partenza sarà una vera e propria liberazione sia per lui stesso che

per il suo personaggio autobiografico.

Insomma, partire da Napoli equivale a svegliarsi da un sogno ingannevole, a un rifiuto

decisivo di non lasciarsi più addormentare dalla Gran Gatta. Per Massimo, l’abbandono

del luogo dell’infanzia corrisponde inoltre al raggiungimento dell’età matura. Ciò gli

207 Raffaele La Capria, L’armonia perduta, in Id., Opere, cit., p. 779. 208 Ivi, p. 648. Il corsivo è mio. 209 Ibidem. 210 Ivi, p. 761.

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permette di intravedere lo stato fanciullesco in cui si trova Napoli, come vedremo nel

capitolo seguente.

4.4.2. La presa di distanza da una Napoli eternamente giovane

È logico che la contemplazione ‘matura’ di Napoli prevale nei tre ultimi capitoli di Ferito

a morte, che evocano i vari ritorni di Massimo alla città materna. Tuttavia anche Gaetano,

benché troppo spesso ideologizzando e imbrogliandosi così nelle proprie metafore, gli

offre qualche volta una visione ‘adatta’, e ciò anche prima delle loro rispettive partenze.

Così, l’amico critica per esempio la mancanza di maturità presso i napoletani del Circolo

Nautico, dove si possono incontrare ‘giovani’ di quaranta o cinquant’anni, «e tutti insieme

li trovi, a parlare delle stesse cose, a ridere delle stesse fesserie, a giocare al pallone o al

baccarà, sempre tutti insieme», concludendone che «così la vita diventa una parodia

dell’adolescenza»211. Le parole vuote, lo spirito gregario, e un dolce far niente mescolato

con quel gusto per il gioco: sono tutte delle caratteristiche che si possono ricondurre alla

giovinezza; non hanno molto a che fare con l’età adulta.

La critica di questa mancanza di maturità torna alcune righe dopo, quando si descrive un

vecchio soldato napoletano che ha passato tre guerre, ma nonostante ciò è impossibile

scoprire «un’ombra nel suo sguardo»: le guerre sono «passate nella sua vita come tre

nuvolette in un cielo sereno»212. Il paragone colpisce a causa di questo riferimento banale

a tre ‘nuvolette’, a tre piccole intrusioni della realtà nel cielo eternamente sereno della

Bella Giornata. La Capria ci sembra suggerire che tali invasioni della vita reale nel mondo

teatrale napoletano siano rare, e inoltre, quando avvengono, siano appena percepite. La

mancanza di maturità è dunque in primo luogo una volontaria mancanza di coscienza.

La concezione negativa di questa giovinezza eterna conquista terrena nel corso del

romanzo. La critica di essa torna esplicitamente alla fine, quando La Capria allude all’‘età

indefinibile’ dei napoletani:

Seduti al tavolo [...], tutti con la stessa espressione sovraeccitata o stolida a seconda dell’andamento del

gioco, giovani e vecchi, tutti di una stessa età indefinibile, vecchi che parevano bambini, e bambini

211 Raffaele La Capria, Ferito a morte, cit., p. 44. 212 Ibidem.

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invecchiati senza saperlo, nel breve giro degli anni, come in un sogno... così li avevo visti, anche io,

quelle volte che ero andato giù a Napoli.213

Si potrebbe dire che il desiderio di giocare e di restare eternamente giovane viene

suggerito dal ‘sempre giovane mare’ che circonda Napoli. La Capria sottolinea però che la

giovinezza eterna è soltanto una caratteristica della Natura: se restare giovane è un aspetto

‘naturale’ del mare, ciò non è più il caso una volta che si entra nella città e dunque nella

Storia: restare giovane sarebbe uguale a non muovere ed a non sviluppare. Nei vicoli

napoletani, e quindi nella margine della Natura, la presenza di essa è purtroppo tale da

immobilizzare completamente i ‘bambini’.

Per quanto riguarda la questione delle età, è interessante l’ultimo capitolo di Ferito a

morte, in cui il protagonista incontra Sasà, una volta ‘l’eccezionale’, ora invecchiato e

deluso nella vita. La Capria, nel descriverlo, osserva poi che «in una sera così, l’estate,

anche l’estate, è una noia, una festa in cui si ha la nostalgia di una vera festa»214. Lo

scrittore ci ricorre di nuovo al paragone stagionale per descrivere le fasi della vita. Nel

passo, ci fa leva per sottolineare il carattere effimero della giovinezza – l’estate –, e il

vano tentativo di prolungare questa estate della vita. Per Sasà, l’unica cosa rimasta è una

profonda nostalgia. Per il protagonista invece, il raggiungimento della maturità che

accompagna la partenza non viene percepito come un peggioramento: la speranza della

conoscenza e della saggezza ‘autunnali’ è per lui attraente com’era l’estate precedente.

Perciò, i ritorni a Napoli – che sono descritti negli ultimi tre capitoli del romanzo, secondo

la stessa struttura ‘intuitiva’ dei primi capitoli – comportano sempre una forte sensazione

di non appartenere più al luogo dell’infanzia. Ciò emerge già dal primo passo dell’ottavo

capitolo, dove l’immaturità napoletana si traduce nelle nuove costruzioni architetturali,

che sono tanto sproporzionate che si ha l’impressione di «stare nella giungla»215.

Tuttavia la comparazione più significativa ad esprimere questo sentimento profondo di

alienazione, di sentirsi un intruso, è senza dubbio quella della ‘vipera nel seno che

l’accolse’:

213 Ivi, p. 157. 214 Ivi, p. 163. 215 Ivi, p. 132.

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Sovversivo, dolcemente avverso all’azzurro che avvolge tenero le case, cammino disincantato per le

strade della città materna, come vipera nel seno che l’accolse, invelenito da freddo amore,

riscaldandomi al suo tepore.216

In altri termini, la partenza del protagonista porta a compimento la sua maturazione

accompagnata da una coscienza profonda dell’immaturità eterna della sua città materna e

da una sensazione di estraniazione. Però, vedremo che ciò non vuole dire che la visione su

Napoli ne diventa completamente negativa. Così, la buona distanza, non soltanto spaziale

ma anche temporale, permette di intravedere il possibile incanto delle particolarità di

Napoli, luogo di incontro tra Natura e Storia.

4.4.3. La buona distanza e il possibile incanto di Napoli

In realtà, la visione su Napoli, come la ritroviamo in Ferito a morte e – ancora di più –

nella saggistica lacapriana, non è dunque meramente negativa. Benché il fascino delle

possibilità della sua città materna nasca soprattutto dopo la partenza di Massimo da

Napoli, si possono anche trovare alcuni indizi anteriori alla partenza. Così, per descrivere

suo fratello più giovane Ninì, il protagonista inserisce la metafora di una «fogliolina

tenera verdeggiante della Foresta Vergine»217, il che fa prova della sua ammirazione –

anche se parziale – per la spensieratezza e la leggerezza innate di suo fratello, e in

generale, del Sud. Oltre ad essere attirato dalla Foresta Vergine stessa, avviene che il

protagonista non sopporta più l’intellettualismo di Gaetano, e più specificamente, le sue

metafore inventate, la Foresta Vergine inclusa:

Che noia però questa Napoli usata come allegoria morale, come categoria dello spirito! Miti da

intellettuale medio. Anche l’idea della Foresta Vergine allora è tipica; e così anche Gaetano, dopotutto,

rientra nello schema.218

Insomma, il rapporto di La Capria con Napoli non è certo univoco, e l’opposizione tra la

Bella Giornata e la Foresta Vergine non è un’opposizione categorica: essa può attenuarsi

facilmente, e tanto da permettere che la Natura, diventata meno ‘indifferente al destino

216 Ivi, p. 139. 217 Ivi, p. 24. 218 Ivi, p. 119.

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dell’uomo’, si mescola con la Storia umana, formando così un insieme assolutamente

nuovo e affascinante.

Anche se l’idea del fascino di Napoli non appare molto chiara in Ferito a morte, essa è in

ogni caso molto presente nella saggistica lacapriana. Alcuni studiosi hanno sottolineato

che la condizione primaria per intravedere le possibilità di Napoli è costituita dalla ‘buona

distanza’. Vincente d’Orlando avanza perfino che «l’opera di Raffaele La Capria deve

essere letta come ricerca ossessiva della buona distanza, quella suscettibile di mettere a

fuoco Napoli»219. Filippo La Porta ne fa perfino un’astrazione, sviluppando una teoria del

‘congedo come modalità cognitiva’. Lo spiega in modo più concreto nel passo seguente,

parlando della partenza di La Capria stesso, ma accennando contemporaneamente a quella

del suo alter ego Massimo:

Per capire qualcosa (la vita?) bisogna allontanarsene. Il congedo libera una verità che altrimenti

resterebbe non detta. Si pensi anche all’addio di Massimo a Napoli in Ferito a morte, in quell’estate del

’54, con l’ultimo sguardo gettato sulla marina, tra le voci dei pescatori e le canzoni estive. Per capire

Napoli (il Sud) bisogna allontanarsene.220

Per La Capria, è soltanto da questa ‘buona distanza’ che può nascere il desiderio, il

bisogno e insieme la possibilità di scrivere sulla città materna: se il suo primo tentativo

letterario, Un giorno d’impazienza, si svolge ancora in un contesto indeterminato, con

Ferito a morte, il suo secondo romanzo, lo scrittore decide di dedicarsi completamente a

Napoli, cercandone un’interpretazione complessiva e corretta.

Un’interpretazione completa della città napoletana necessita ovviamente un certo periodo

di maturazione, e perciò si può presumere che essa assume una forma più matura nelle

opere lacapriani posteriori a Ferito a morte. Così, con il ‘romanzo’ L’armonia perduta,

che offre un’interpretazione ‘personale’ della storia di Napoli, lo scrittore sembra avere

raggiunto una concezione matura. Conclude il suo ‘romanzo’ con la speranza che esso:

[...] afferma la necessità di ritrovare attraverso la storia che ci appartiene e ci ha determinati, la nostra

identità, non per chiuderci in essa ma per viverla meglio e senza complessi, per cercare la giusta

219 Vincent d’Orlando, La cipolla e il funambolo, cit., in Raffaele La Capria. Letteratura, senso comune e passione civile, cit., p. 110. 220 Filippo La Porta, Il sud magico e razionale di Raffaele La Capria in Raffaele La Capria. Letteratura, senso comune e passione civile, cit., p. 175.

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combinazione tra differenza e omologazione e ridisegnare così un’idea di uomo meno uniforme e più

creativo. Perciò L’armonia perduta si affida a quell’illuminismo del cuore – quell’equilibrio tra

consapevolezza e abbandono, tra intelligenza e sentimento – che Napoli ha insegnato non solo a me ma

a tutti coloro che hanno saputo ascoltare la sua vera voce.221

E quindi, ‘l’equilibrio tra intelligenza e sentimento’ di cui lo scrittore parla ne L’armonia

perduta, non potrebbe corrispondere all’opposizione tra Storia e Natura di Ferito a morte?

Anche se ‘l’illuminismo del cuore’ di La Capria non si lasci percepire come un insieme

completamente armonioso nel romanzo, l’idea di esso ci sembra comunque presente, in

via di formazione.

A questo proposito è anzitutto utile analizzare la conclusione del romanzo, che si svolge a

Capri. Il protagonista, di ritorno per le vacanze, che ci sta cercando Ninì, osserva che «il

cuore di Capri è la piazzetta, e tu [...] vieni pompato nelle vene delle stradine»222. La

Capria ci inserisce quindi un altro paragone, in questo caso corporale, per esprimere la

vitalità del mondo meridionale (e forse anche una certa solidarietà umana?). È soprattutto

significativo il momento in cui un conoscente di Massimo gli dice che rassomiglia a suo

fratello. Dopo aver preso in considerazione l’osservazione, il protagonista non soltanto ci

esprime la sua affinità col fratello – e insieme con la mentalità dei napoletani –, ma mostra

pure di poter intravedere i motivi del suo – e del loro – comportamento:

Dev’essere proprio vero che io e Ninì, visti a una certa distanza o di spalle, ci rassomigliamo, perché

due volte già m’è capitato di essere confuso con lui, e per qualche istante mi s’è aperto il sipario sul

mondo come probabilmente gli appare. S’è aperto e subito chiuso.223

Inoltre, poco dopo Massimo dice di riconoscere le facce che lo sorpassano nella strada «a

stento, come la mia se uno specchio di sfuggita la rimanda»224. Questa osservazione

permette un’interpretazione analoga al passo precedente: in primo luogo, fa prova di una

certa affinità con i napoletani, e insieme di una comprensione incipiente della specificità

della loro visione sul mondo e dunque anche delle cause del ‘problema napoletano’.

221 Raffaele La Capria, L’armonia perduta, in Id., Opere, cit., pp. 779-780. 222 Raffaele La Capria, Ferito a morte, cit., p. 172. 223 Ivi, p. 175. 224 Ivi, p. 176.

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Insomma, a condizione di intravedere e affrontare le cause dei problemi inerenti alla città,

a poco a poco potrebbe sorgerci un aspetto completamente nuovo di Napoli, come luogo

incantevole e unico, dove si incontrano Natura e Storia, e dove, per dirla con le parole di

La Porta, «si insinua la possibilità di una visione del mondo più ricca, in cui si mescolano

[...] passato e presente, arcaico e moderno, sorti progressive e immobilismo, dialettica e

circolarità, utopia e tragedia, potenze telluriche e dei meridiani, dormiveglia e doveri

civici, solarità e sentimento funereo, insomma Magia e Ragione»225.

Infine, tale interpretazione sembra anche applicabile all’ultimo paragrafo di Ferito a

morte, che continua la descrizione del protagonista in cerca di Carla e Ninì. Le ultime

parole ci offrono inoltre un’apertura verso il futuro:

E là, in fondo alla strada, qualcosa-che-passa-e-sembra, bionda coda di cavallo oscillante, ha svoltato

l’angolo. Cerco lei, cerco Ninì... e mi pare sempre di camminare dietro qualcuno di cui sento ancora,

vicini, i passi sopra queste pietre.226

Dopotutto, il protagonista del capolavoro lacapriano, ‘camminando dietro qualcuno’, ci

sembra ancora in cerca di un’interpretazione completa e corretta della sua città materna,

un tentativo analogo a quello di La Capria stesso a questo punto. In realtà, anche se le

metafore create a proposito di Ferito a morte offrono un primo punto di riferimento per

descrivere Napoli, egli non riesce ad elaborare una visione complessiva che dopo molti

anni di maturazione, e ci arriva – forse – con L’armonia perduta.

225 Filippo La Porta, Il sud magico e razionale di Raffaele La Capria, in Raffaele La Capria. Letteratura, senso comune e passione civile, cit., p. 176. 226 Raffaele La Capria, Ferito a morte, cit., p. 176.

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5. CONCLUSIONE

L’analisi del meccanismo e del ruolo dell’immaginazione in Ferito a morte di La Capria,

elaborata in questa tesi, ha contribuito al chiarimento di una delle definizioni possibili

dell’immagazione, mettendone in rilievo l’importante aspetto cognitivo. È però necessario

sottolineare che questo concetto letterario complesso è stato affrontato qui da una sola

prospettiva, e che le interpretazioni o le sfumature proposte al termine della ricerca

possono ovviamente differenziarsi da un autore all’altro, senza perdere di valore.

In ogni caso, è incontestabile che la concezione lacapriana del concetto offra uno spunto

interessante, accordantesi parzialmente con alcune teorie sviluppate di recente, che hanno

sottolineato il potenziale cognitivo dell’immaginazione. Lo studio di queste teorie e il

confronto con il nostro romanzo hanno condotto alla seguente definizione (provvisoria)

dell’immaginazione: la facoltà di immaginare (e quindi di essere creativi) corrisponde alla

capacità di fare legami originali ‘nuovi’ all’interno di una rete individuale che raccoglie

tutte le conoscenze di cui dispone l’individuo creante, incluse sia il repertorio collettivo di

immagini, ossia immaginario, sia la percezione della realtà. Dal carattere innovativo di

queste connessioni inaspettate sorgono allora nuovi punti di vista e si aprono nuove

finestre sul mondo.

In Ferito a morte, il dispositivo dell’immaginazione si presenta sotto forma di metafore e

immagini, che, insieme all’intreccio del racconto – si pensa alla partenza del protagonista

e alla struttura simbolica, non convenzionale del romanzo – aiutano lo scrittore a cogliere

l’essenziale della città materna. L’impiego di queste figure conduce quindi a una migliore

comprensione della complessa realtà partenopea, partendo da una rappresentazione valida

e completa di essa, che raccoglie insieme i suoi tratti distintivi naturali, storico-culturali,

umani e sociologici.

In primo luogo, la metafora della Bella Giornata e le immagini naturali della luce e del

mare contribuiscono alla formazione di un’immagine di Napoli come splendida città

naturale, sottolineando così la particolarità napoletana all’interno di una cultura (troppo?)

moderna, incline a ignorare il valore della natura e della naturalezza. È proprio attraverso

la riflessione su, e la strutturazione mentale di queste immagini naturali, che La Capria

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riesce a cogliere l’eccezionalità napoletana. Inoltre, lo scrittore afferma che il panorama

napoletano è l’entità ‘primaria’ che fa nascere e che stimola in continuazione la propria

immaginazione, attribuendo in questo modo un’importante funzione creativa alla natura

circostante.

Altre metafore e immagini lacapriane contengono invece un messaggio storico-culturale.

In questo caso, l’immaginazione serve a sottolineare la necessità di conservare la ‘buona’

tradizione e la ricca storia di Napoli (e in senso lato, della cultura occidentale). Con queste

immagini, La Capria vuole suggerire di non lasciarsi scoraggiare dalla forza della natura e

dalla sua inevitabile vittoria sulla storia – un’idea che emerge non soltanto dalla metafora

di Palazzo donn’Anna come ‘spugna’, ma anche dalla struttura particolare del romanzo

che sembra cancellare la percezione umana e lineare del tempo. La volontà dello scrittore

di mantenere in vita la ‘buona’ storia e le interpretazioni personali di essa, appare inoltre

anche nella sua personale ‘fantasia’ sulla storia napoletana, L’armonia perduta, e nella sua

apologia di un immaginario puro in Letteratura e salti mortali.

Queste concezioni storiche, manifeste in numerose immagini del romanzo, corrispondono

inoltre, a un livello più basso e individuale, ad una rappresentazione della vita umana,

vincolata dalle leggi naturali. La metafora della Bella Giornata conduce per esempio – e

non soltanto a causa della scelta di una misura temporale molto breve – a una costatazione

analoga, e si trasforma gradualmente in un simbolo dello scorrere del tempo e della

fugacità della vita. Però, nonostante il fatto che la Bella Giornata simboleggi una felicità

giovanile totale ma effimera, la speranza di recuperare questa felicità primaria è sempre

legittima, sostiene La Capria. In altri termini, lo scrittore napoletano si oppone a una

semplice accettazione della futilità della vita, impegnandosi invece sia a recupare la

giovinezza perduta, sia a riconoscere l’importanza della ricca storia umana lasciata alle

spalle.

Infine, l’immaginazione in Ferito a morte permette di esprimere gli attuali difetti di

Napoli e dei suoi cittadini, elaborando una vera e propria critica sociologica. La metafora

della Foresta Vergine sottolinea per esempio molto bene l’irresponsabilità e l’insensatezza

della maggior parte dei napoletani. La Capria, avverso all’atteggiamento di questi ‘ragazzi

eterni’ che preferiscono chiudersi nel cerchio protetto e decadente della propria città,

insiste invece sulla necessità di un contributo personale di ogni individuo alla propria

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civiltà – alla stregua dello scrittore stesso, che nel suo romanzo fornisce un’interpretazione

creativa e personale di Napoli. Sono esattamente questi contributi ‘maturi’ che rendono

dinamica la storia umana e contribuiscono al progresso di essa.

Così, l’analisi di Ferito a morte ha evidenziato che l’immaginazione è un ottimo mezzo

per arrichire la conoscenza del proprio universo e per giudicare le virtù da conservare e i

problemi da risolvere all’interno di esso. La Capria giunge a questa visione panoramica

attraverso un continuo ripensare e ridistribuire di immagini date, costruendo in questo

modo una costellazione completamente nuova.

L’ipotesi che La Capria si impegna a ‘ripensare’ continuamente le immagini della propria

città, viene inoltre confermata dal fatto che riesce soltanto a esprimere queste immagini

dopo la partenza da Napoli: la loro formazione richiede quindi una distanza spaziale e

temporale, un certo periodo di maturazione. È proprio durante questo processo mentale

dell’immaginazione, in cui lo scrittore ‘ricollega’ le immagini e i ricordi raccolti, che le

‘ferite’ della città vengono incontrovertibilmente a galla. È durante questa stessa fase di

riflessione che viene esplicitata per la prima volta l’importanza di un equilibrio armonioso

tra Natura e Storia. Questa nozione di armonia condensa in realtà tutte le sfumature

espresse in Ferito a morte nei confronti della Natura, che ci viene rappresentata come

un’entità variabile, capace di trasformarsi improvvisamente da una bella giornata

‘equilibrata’ in una foresta immensa, selvaggia e buia. Il secondo romanzo lacapriano si

presenta così come un lungo processo metaforico, pazientemente attraversato dallo

scrittore, con lo scopo di svelare insieme la problematica e l’incanto della cara città

materna – e con la speranza di guarire le sue ferite.

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Gabriella Turnaturi, Descrivere, analizzare, raccontare la città, in Ead., Immaginazione sociologica e immaginazione letteraria, Roma, Laterza, 2003, pp. 91-101. Sabine Verhulst, Ricomporre Napoli nell’immaginario. La visione di Raffaele La Capria, in Le frontiere del Sud, a cura di Ronald de Rooij et al., Firenze, Academia Universa Press, 2009. In corso di stampa. Sabine Verhulst, Introduzione. Età, giorni, stagioni, in Giorni, stagioni, secoli. Le età dell’uomo nella letteratura italiana, a cura di Sabine Verhulst e Nadine Vanwelkenhuyzen, Roma, Carocci, 2005, pp. 26-27. Gérard Vittori, Reale, immaginario e simbolico in «La neve del Vesuvio» di Raffaele La Capria, in Raffaele La Capria. Letteratura, senso comune e passione civile, a cura di Paolo Grossi, Napoli, Liguori, 2002, pp. 89-103. Herbert Morgan Waidson, Auden and German literature, in «The Modern Language Review», vol. 70, no. 2, anno 1975, pp. 347-365.

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Filmografia

Fonti secondarie Raffaele La Capria, scrittore d’acqua, 2005, 58 min., regia di Serafino Amato; documentario in DVD accluso al libro Letteratura e libertà di Emanuele Trevi e Raffaele La Capria, Fandango, Roma, 2009.

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