di novembre · 2017. 7. 21. · Registrazione Tribunale Pistoia n.471 del 26.10.1995 Redazione e...

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Anno XX, n°11 - Novembre 2015 - mensile Sped. A.P. 70% Filiale di Pistoia Enrico Parrini: Pescia tu sei cambiata? di novembre

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  • Anno XX, n°11 - Novembre 2015 - mensile Sped. A.P. 70% Filiale di Pistoia

    Enrico Parrini: Pescia tu sei cambiata?

    di novembre

  • Registrazione Tribunale Pistoia n.471 del 26.10.1995

    Redazione e Pubblicità:Gianni SilveStriniluca SilveStrini

    Via Kennedy, 19 - PesciaTel/Fax 0572 476808

    e-mail: [email protected] [email protected]

    Stampa: TipoliTo 2000 srl - luccaFotografie: Goiorani - MonTecaTini T.Anno XX, n.11 - Novembre 2015

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    OTTICA

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    Siete andati al cimitero nei giorni scorsi? Immagino di sì. Purtroppo si ha sempre qualche parente o caro amico da ricordare, una tomba da pulire o su cui portare dei fiori, che poi è anche un modo per fermarsi a “fare due chiacchiere” con chi non c’è più, parlare del “più e del meno” e convincersi che nonostante gli anni che passano, a Pescia non cambia mai nulla. C’erano tante piante e fiori colorati, come sempre del resto. Se riesco, evito di andarci proprio il giorno della ricorrenza dei defunti, piuttosto ci vado in qualche pomeriggio immediatamente precedente, quando esco dal lavoro o quando passo da lì di ritorno da una camminata con amici. In quei giorni i parenti sono in fermento per la preparazione delle composizioni floreali da mettere sulle tombe e i bravi operatori ecologici fanno gli “straordinari” pur di tenere pulito, tra erbacce e degrado. Da anni, infatti, si rincorrono le sirene di progetti per la riqualificazione e la manutenzione dei cimiteri della città. Ma i soldi non ci sono, in compenso ci sono i “paroloni”, quelli tanti, gli stessi da anni, ai quali noi crediamo con tanta faciloneria, la stessa con la quale per fortuna poi ce ne dimentichiamo. Così, succede che il cimitero comunale di Alberghi risulta indecente, brutto, maltenuto, cupo, spregevole per i visitatori e la memoria dei loro cari defunti. Sono tantissime ad esempio le tombe a terra come quelle nelle foto, sprofondate e con il legno marcito da anni. Molte sono anche quelle senza più il nome inciso su una targa in ottone e le erbacce hanno la meglio tra quelle sepolture troppo presto dimenticate da parenti o amici. Le tombe monumentali, alcune lì dai primi del ‘900, furono senza dubbio motivo di pregio e fasto, ma oggi sono quasi completamente annerite dalle intemperie o spezzate in alcune parti. I familiari o qualche buon vecchio amico hanno l’obbligo di tenere in ordine l’area di sepoltura ma spesso si tratta di defunti ormai senza più parenti o amici in vita o di famiglie che non risiedono a Pescia da anni o che non dispongono di adeguate risorse economiche. E lì, che una buona amministrazione

    comunale deve fare la sua parte intervenendo essa stessa con una manutenzione straordinaria a prescindere dai costi o dalle competenze ma nello spirito di una sana convivenza civile come si pulisce una strada sporcata da un animale e dall’inciviltà del suo padrone. Ci sarà tempo poi per richiedere agli eredi del defunto il rimborso delle spese sostenute! Ma c’è di più. Sul viale centrale resiste ancora un po’ di pietrisco bianco che invece è quasi totalmente assente nei vialetti laterali, pieni di fango quando piove o polvere quando c’è il sole. I tombini per la raccolta delle acque piovane sono intasati e basta un po’ di pioggia perché i viali diventino delle vasche piene di acqua e dunque impraticabili. Ci sono impalcature tra gli archi della struttura sul lato ovest del cimitero e davanti la chiesa, impraticabile da anni. Sulle scale che portano ai loculi a forno ai piani superiori, troppi maleducati “dimenticano” cartacce o fiori secchi. Insomma, non è proprio un bel vedere, e si fa fatica ad accettare questa situazione, dare spiegazione agli anziani ancora in vita o ai più piccoli che lamentano incoerenza con quello che invece si sentono dire dai loro insegnanti a scuola e dai genitori. I politici…ci pensino.A proposito di erbacce, e di negligenza, incuriosisce apprendere dall’amministrazione comunale che per il rifacimento dei marciapiedi di ponte Europa, che certo era importante riqualificare, si sono e accorgersi poi che ci sono camminamenti inutilizzabili per le erbacce o i rovi che non sono mai tagliati. E’ il caso del marciapiede adiacente al campo sussidiario di Alberghi, che collega via Mentana a via Squarciabocconi e di quello a ridosso del mercato dei fiori nuovo verso la chiesa di Castellare. Per essere utilizzati per lo più da mamme che spingono carrozzine, da bambini o da anziani, basterebbe tagliare tutta quell’erbaccia, spostare i cassonetti dei rifiuti e stednerci un po’ di ghiaia. Troppo difficile? No di certo, ma è sempre meglio fare qualcosa di nuovo, spendere soldi pubblici, e dire che si sono fatti i miracoli.

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    IL GIOCO DEL BIRIBISSOAlle festività del Natale non ci s'era ancora arrivati ma le sere s'ingannavano già con quello spassoso diletto noto ai più con il nome del “gioco del biribisso”, una specie di tombola e di roulette insieme, dove appaiati ai numeri ci sono le figure, e la bravura vera sta nell'indovinare l'asso pigliatutto, ovvero fortunosamente puntare sulla casella vincente, sul numero baciato dalla buona sorte, e d'un soldo farne cento in un battibaleno, così come è veloce la notte di quest'inverno a calare ed a far sedere gli amici allo stesso tavolino mentre la musica va ed il bere pure, e fra un bicchiere e un brindisi è tanto facile accorgersi come la vita in fondo in fondo sia tutto un gettar di dadi e di scommesse... . Sei, tira su Oliva, la chimera, chi ce l'ha...novanta, il femminello siracusano, ottantasette, il lunario..., sedici, il pane amalfitano…, settantuno, l'annacquatoio…, ottanta, l'arancio amaro…, tutti numeri alti fino ad ora...chi ce li ha in mano? Chi ci ha astutamente puntato sopra i denari? Ed Oscar: io di numeri aspetto il mio, io ne ho uno tutto speciale, e su quel numero ci ho scommesso una vita, e vedrai che esce, che prima o poi esce... . Sessantacinque, il vaso..., quattordici, la terra fertile…, quaranta, il monachello…, trentasei, il bizzarro..., ventisette, quattrocchi… . Ed intanto le ore correvano in quei bagliori tipici delle sere in cui il freddo punge e non si vergogna ad appannare i vetri delle case odorose di legno e d'abete. Sette, il Paradiso…, dieci, il cedro di Montignoso..., trentanove, la bizzarria..., ventotto, il cornuto..., chi ce l'ha? Chi ha puntato giusto e non ha sprecato al gioco i suoi dindi sonanti? Oliva tirava su i numeri a ripetizione ed Oscar era ancora lì intento ad aspettare la sua pedina, speranzoso a dire poco che prima o poi sortisse per sbaragliare tutti gli altri giocatori, vocianti, briosi, grandi scommettitori, con le tasche piene di denari, pensando che al gioco del biribisso fossero sempre e comunque spesi bene, anche quando si perdeva, per il solo fatto d'esser lì e di poter giocare, sognando costantemente d'essere entrati poverelli e di sortirsene ricconi per un qualche caso, per un guizzo favorevole della sorte, per sua natura imprevedibile e meschina. Otto e diciotto..., bergamotto e chinotto... . Piano,

    piano perché sennò va a finire che si perde il filo ed il senno. Cinque, la chioccia dai pulcini d'oro..., dodici, la regina Cleopatra..., cinquantotto, il tarocco…, venticinque, le ninfe Esperidi..., nove, il giardino... . E l'Anna intanto ricamava, forte di quel mestiere antico che a buon diritto può chiamarsi arte sopraffina; Maria invece era intenta ai dolci del Natale imminente e goloso, e prima ancora ai biscotti per la festa dove a celebrarsi sovrana è la luce, fonte di vita. Giorgio e Sergio giocavano invece a ripetizione i loro numeri, e ad ogni estrazione era una delusione o una festa, uno scoppio di risate, tutto un batter di mani a tempo di musica, tutto un ricercare matematici stratagemmi per spuntar la vittoria. Quattro, la storia..., diciassette, la tradizione..., settantacinque, il ritratto della famiglia..., con dentro anche Alberto, Stefano, Lucia, Emma e Sara. Già, la famiglia, si era sempre insegnato questo ai ragazzi, di lavorare sodo e di rispettare gli altri, di non dimenticarsi da dove si è venuti, di non calpestare neppure il più piccolo seme, di non trascurare il volgere delle stagioni ed i segnali del tempo, di non chiudere gli occhi di fronte alle bufere con la speranza che tanto prima o poi passerà. Due, il verbo fare..., ecco il numero magico, quello di nonno Oscar, da uno stecco

    di legno far nascere una pianta rigogliosa, ed accudirla come un bambino, difenderla dai parassiti e dal vento insidioso, trovarle un riparo sicuro; eppure poco prima era soltanto un misero e nudo stecco di legno. Ha vinto Oscar, il banco sbaragliato e tutti gli altri giocatori rimasti amaramente a bocca asciutta, la campana che suona la mezzanotte segna il finire della festa, si riprendono i cappotti sulle spalle, si ripongono le candele, si pensa già al lavoro del giorno fin troppo vicino, così vicino che quasi riesci a toccarlo, è già domani ed ancora devi cominciare a sognare, ancora

    non hai affondato la testa dentro al tuo guanciale ed è già domani, eterno tam tam, euforico incedere del biribisso. Ma il Natale è vicino a venire, ed il Natale con sé porta sempre ogni bene e la voglia di far festa. Dunque il gioco certamente non può finire qui, in una notte, questa notte…!

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    PERCHE’ I FIGLI NASCONO BRUTTI O MINGHERLINI

    C’è una storiella riferita a un famoso pittore di cui non viene fatto il nome, ma, al primo accenno, chi ascolta pensa subito a Giotto, e infatti mi pare che gli calzi proprio a pennello. Giotto, dicono, era tanto bravo quanto brutto, basso, magro e smunto, e aveva avuto dalla moglie, Ciuta di Lapo del Pera, stavo per dire la bellezza di otto figli, quattro maschi e quattro femmine. Due ebbero nome Francesco (uno dei quali lo troviamo priore a Vespignano), gli altri si chiamarono Chiara, Lucia, Bice, Caterina, Bondone (come il nonno paterno) e Niccolò, tutti e otto – stando sempre a quello che dicono – uno più brutto dell’altro.Ci fu qualcuno che gli domandò com’era possibile che lui, così bravo nel fare in pittura tanti putti e tutti bellissimi, avesse messo al mondo dei figli di quel tipo. Il fatto è – rispose Giotto – che i putti li faccio di giorno alla luce del sole, mentre i figlioli li fo di notte, al buio, e perciò vengono come vengono. Da ciò si deduce che, per evitare inconvenienti del genere, anche i figli dovrebbero essere fatti di giorno. Ma come si mette se poi vengono maluccio,

    magari troppo mingherlini?A proposito di questi ultimi ci viene in aiuto una storiella con la quale si dice male dei genovesi, i quali sono pregati di non prendersela con noi bensì con l’autore

    che è il solito Poggio Bracciolini. Dice che un certo Francesco, mercante fiorentino ma genovese di residenza, aveva dei figli poco robusti, anzi gracili e patiti che quasi sparivano stando in mezzo ai ragazzi genovesi i quali scoppiavano di salute ed erano bene in carne e coloriti.Ora successe che un genovese domandò a Francesco come mai i suoi figlioli erano così patiti da non reggere il confronto coi ragazzi di Genova, e lui, da vera linguaccia fiorentina, gli rispose per le rime: io i miei figli me li faccio da solo, senza il contributo di altra gente come fate voi. È evidente che voleva riferirsi al fatto che i genovesi vanno per mare per lungo tempo e lasciano sole le loro spose.

    L’ULTIMA BURLA DEL PIOVANO ARLOTTO

    Se moriva un uomo secco, non sorgevano problemi per condurre le sue spoglie al cimitero, ma quando moriva uno grasso le cose si complicavano, perché nessuno voleva caricarsi la bara sulle spalle. Troppa fatica. Così successe al canonico Domenico Maringhi, il quale era piuttosto cicciuto, e infatti, quando rese l’anima a Dio, i preti della sua chiesa -a cui spettava il triste compito del trasporto funebre- non ne vollero sapere, e al loro posto si prestarono alcuni giovanotti forzuti, i quali tornarono a casa spossati e senza fiato.Questo problema se l’era posto anche Arlotto Mainardi, che un pittore rappresenta magro e grinzoso e un altro grasso e tondo, ma così doveva essere, grasso e tondo, altrimenti non sarebbe giustificato il lauto compenso fissato nelle sue disposizioni testamentarie di cui parlerò tra poco. Quando le scrisse, Arlotto era, o era stato, piovano di San Cresci a Maciuoli presso Pratolino, da tutti conosciuto per la sua generosità e soprattutto per le sue burle, tanto che qualcuno pensò bene di metterle sulla carta.Occorre dire che il piovano Arlotto, siccome era sempre vissuto in pace col prossimo, non voleva che alla sua morte nascessero beghe del genere di quelle capitate al suddetto canonico Maringhi. Per questo motivo lasciò scritto che alla sua morte venissero pagati 48 denari, sei per ciascuno, a otto preti che “lo portassero nella fossa”. Quando morì, il 26 dicembre del 1484 all’età di anni 87, ci fu quasi una gara perché tutti i preti lo volevano accompagnare, certamente per adempiere un precetto cristiano tanto più se retribuito in modo così generoso.Aveva pensato anche al dopo trasporto, e cioè alla pietra da murare nel luogo della sua ultima residenza, sulla quale volle che venissero scritte le seguenti parole: QUESTA SEPOLTURA HA FATTO FARE IL PIOVANO ARLOTTO / PER SE’ E PER TUTTE QUELLE PERSONE / LE QUALI DENTRO ENTRARE VI VOLESSERO.

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    "Un ghiavolo per capello"Questo mese voglio parlarvi di qualcosa di noioso, di me. Da quasi 16 anni, qualcosa come 192 articoli ho parlato di tutto, ma mai di me. Ho letto da qualche parte che il buon umore, la felicità e soprattutto l’entusiasmo siano emozioni contagiose, io ci credo. Ho letto pure che i sentimenti avversi e tristi siano pure contaminanti più che contagiosi, anche a questo ci credo. Chi di noi non si trova, non si è trovato e purtroppo si troverà alle prese con preoccupazioni e faccende tristi? Ognuno legittimamente cerca di approdare all’altra sponda, quella dove regna la serenità, in vari modi. Possiamo trovare chi reagisce con rabbia, chi con rassegnazione, chi affidando ad altri le proprie sorti magari peggiorando la situazione, chi ne trae forza, chi si sorprende delle proprie capacità, traendone così nuova forza. Ognuno se la vede a modo suo ma

    ognuno non negherà che la felicità, di cui tutti ne abbiamo diritto, è qualcosa di ambito. Bene, personalmente mi dò da sempre una mano, muovendomi, sudando, faticando, esasperandomi talvolta, ma sempre scoprendo un nuovo benessere.Intendo dire, parlando di me, di portare la mia

    esperienza, di cercare di trasmettere la passione e l’amore che ho per lo sport, stando bene attento a non dar consigli, troppe persone vogliono darne, troppi sanno bene cosa devono fare gli altri, senza aver mai avuto coscienza di cosa far loro stessi. Testimoniare ciò che facciamo è sicuramente più etico e rispettoso. 10 minuti prima di scrivere questo articolo mi sono iscritto ad una prova IronMan di triathlon, non proprio una passeggiata, ma ho provato vera felicità nel farlo, come ne proverò nel preparare quella giornata. Ecco, mi son detto, se riuscissi anche solo un briciolo a trasmettere quanta felicità provo potrei trasformare anche solo un sedentario in una persona attiva. Mettendo da parte la modestia, l’ho fatto molte volte nella vita e ne ricevo gratitudine ma soprattutto soddisfazione.Se ci muoviamo viviamo tutti meglio.Bando alle scuse…

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  • Prima di descrivere quali benefici e su cosa va a lavorare il Training Autogeno (TA), credo sia opportuno fare una brevissima descrizione teorica. Secondo la posizione di Shultz, padre del TA, con questa tecnica di rilassamento si possono raggiungere molteplici obiettivi sia in situazioni legate all’agio che in situazioni di disagio. La distensione e l’immersione del Sé procurata dal TA crea uno stato di: riposo, autoregolazione delle funzioni corporee, miglioramento delle prestazioni sportive, lavorative e scolastiche, eliminazione del dolore (se psicosomatico). Il TA trae origine dall’ipnosi, come viene riportato da Shultz, ed infatti molti autori lo definiscono auto-ipnosi. Nell’ipnosi i miglioramenti a livello fisico e psicologico avvengono tramite un intervento esterno, mentre nel TA il cliente è l’artefice della tecnica: gli effetti avvengono attraverso un meccanismo autogeno quindi. Tra le caratteristiche che accomunano questi due processi troviamo, ad esempio, l’acconsentire che essi accadono senza costrizione e la presenza di una distensione muscolare di base. Tra le differenze, invece, nel TA l’operatore interviene solo durante la fase di apprendimento (quindi durante un percorso nel quale il professionista accompagna la persona alla comprensione di questa tecnica di rilassamento) ed inoltre nel TA è presente una passività attiva associata alla capacità di mantenere il controllo sulla situazione, cosa che non è presente nell’ipnosi. Tra gli aspetti pratici del TA è molto importante che il soggetto, sia esso un paziente, un semplice interessato, un atleta o un bambino, mantenga un atteggiamento aperto e collaborativo nei confronti della pratica, possegga un livello motivazionale sufficiente per iniziare gli esercizi e si disponga di buon grado ad esercitarsi almeno una volta al giorno, tutti i giorni, per tutta la durata del percorso ed anche dopo. Esercitarsi ogni giorno è una condizione indispensabile per poter raggiungere un grado soddisfacente di rilassamento e per poter affrontare, attenuare o eliminare alcuni disturbi di natura psicosomatica. L’apprendimento tramite un percorso aumenta la motivazione all’esercizio e facilita l’apprendimento rispetto ai soliti acquisti di manuale con CD dalla formula “fai da te”. Quindi gli effetti della pratica quotidiana del TA eseguito durante un percorso con un professionista sono:

    percezione del contenuto delle formule più intenso ed efficace, aumento dei risultati attesi, diminuzione del tempo necessario per arrivare ad un buon grado di distensione e raccoglimento sul Sé ed infine, possibilità di confronto diretto sia con l’operatore che con i partecipanti al gruppo. Il TA, infatti, è un metodo di rilassamento che può essere condiviso sia individualmente che in gruppo. In gruppo il percorso è molto più piacevole perché è anche un modo per la persona di crearsi un suo spazio di condivisione e di esercizio che poi sperimenta da solo durante la pratica quotidiana. Di contro il TA individuale è consigliabile per altri motivi come ad esempio la necessità di abbinarlo ad un percorso di sostegno psicologico oppure la persona esperisce un grado di ansia elevato per cui vi è impossibilità di stare in gruppo. Come in tutte le cose, si possono incontrare delle difficoltà nell’eseguire questa tecnica. Vediamole insieme: difficoltà a tenere gli occhi chiusi, presenza di pensieri intrusivi legati al lavoro o alle incombenze familiari, prurito, colpi di tosse, mioclonie (scatti muscolari involontari) ed imbarazzo (inizialmente, ma poi va a diminuire con l’esercizio e la condivisione). Il TA, in breve, serve a: ridurre l’ansia, ridurre lo stress, ridurre i disturbi di origine psicosomatica, migliorare la qualità del sonno, eliminare la tensione muscolare, migliorare la concentrazione e la memoria, acquisire una maggiore consapevolezza delle emozioni e del proprio corpo, controllare le reazioni emotive eccessive (es. irascibilità), riscoprire uno

    spazio personale. È indicato, inoltre, per tutti coloro che vogliono migliorare il rendimento scolastico (adolescenti ma anche universitari), sentirsi più sicuri di se stessi e vincere la timidezza. Infine è utile a quelli sportivi che necessitano di controllare meglio il tono muscolare, controllare l’emotività prima della gara, recuperare più in fretta le energie o gestire la riabilitazione dopo un importante infortunio. Oggi la società corre forte ed è

    sempre più complicato starle dietro. È quindi fondamentale essere rilassati per affrontare con lucidità le difficoltà che ci si presentano davanti gestendo gli stati d’animo che ne conseguono. Il TA è un utile strumento per liberare la mente dallo stress e dall’ansia permettendo all’individuo di concentrarsi sui propri obiettivi e sulle proprie mete. E raggiungerle.

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    Da piccoli facevamo la guerra. Lassù, incima a San Giuseppe e da Pinetti, la facevamo con armi vere e proprie, costruite da noi. Erano armi di distruzione di massa, paragonabili solo alla ciabatta della mamma, che, se lanciata, ti colpiva sempre, inesorabilmente, qualunque fosse la distanza, e a volte, sfidando tutte le leggi fisiche conosciute, ti beccava anche dietro l’angolo. La cerbottana era l’arma più semplice da costruire: bastava procurarsi un tubicino di ottone di quelli da lampadari di una cinquantina di centrimetri e un quaderno usato. Si divideva un foglio in tre parti di circa cinque centimetri, e con diabolica maestria si avvoltolavano le strisce ottenute intorno all’indice della mano destra, tirando delicatamente fino a fare un sottile cono allungato; poi ci si metteva in bocca la parte appuntita e ruotandola si inondava di ottima saliva; dopo si metteva a seccare e il gioco era fatto. Tagliata l’estremità più grande del proiettile come le dimensioni del tubo, si infilava dentro lo stesso e si soffiava forte. Erano garantiti almeno venti metri di potenza e precisione. E così volavano via formule matematiche e appunti di storia, capitali europee e lunghezze di fiumi. Io ho sempre creduto che le poesie fossero più veloci e precise delle altre cose, chissà perché. Ci dividevamo in squadre di due o tre ragazzi e ci si “sparava”. Quando eravamo sicuri che il bersaglio

    era stato colpito si urlava “PRESO!”. Famosa fu quella volta che Claudio, impersonando il nemico, cominciò ad urlare e a battere i piedi stizzito: “NON MI HAI PRESO! BUGIARDO! NON MI HAI PRESO!!!” E continuò così per almeno cinque minuti buoni, quasi piangendo, giurando e spergiurando che non era stato colpito, mentre tutti noi

    guardavamo ridendo quella cerbottana piantata saldamente nei sui capelli ricci. E poi c’era il fucile a “cignini”. Parola difficile, per chi non è delle nostre parti, che si può tradurre come “elastici”. La traduzione è corretta, ma non rende bene l’idea. Il cignino è il cignino. Comunque, si prendeva un pezzo di legno, di solito un manico di scopa usato (anche questo lungo più o meno una cinquantina di centimetri) e ad un’estremità si inchiodavano

    intorno alla circonferenza una, tre, quattro o anche sei mollette di quelle che la mamma (sempre quella dalla mira infallibile) usava per stendere il bucato. All’altra estremità si piantava un chiodo, e l’arma era pronta. Bastava solamente prendere un paio di cignini, legarli insieme e metterli in trazione tra la molletta e il chiodo finale. Quando il “grilletto” veniva premuto, il proiettile schizzava via e faceva strage di piccoli indiani di plastica messi in bella posa sul pianerottolo di Renato o nella stanzina di Giuliano. Un contributo fondamentale ai vari test di laboratorio a cui fu sottoposta l’arma lo dettero le mosche, cadendo a centinaia e sacrificando stoicamente la propria vita in nome del progresso e la scienza, e facendo risparmiare alle famiglie soldi e salute non usando il famigerato e nocivo didittì. La fionda è inutile che la racconti. Dirò solo che da noi si chiamava “Strombola”, e che le camere d’aria buone e che durassero non erano di facile reperibilità. Poi ci voleva una forcella praticamente perfetta, per evitare sbilanciamenti e sassate sulle dita. Personalmente preferivo la fionda alla “Davidde” (Chi non ricorda Davidde e Golia?) fatta di un semplice pezzo di stoffa. L’abilità consisteva nel lasciare andare un capo appena raggiunta la rotazione adeguata e la mira giusta. Il proiettile era lo stesso per tutti e due i modelli, e cioè tondi pilloni della Pescia, di quelli che tante teste ruppero durante i secoli. L’ultima arma, sicuramente la più pericolosa, era l’arco. Non un arco normale, ma un arco tutto d’acciaio, costruito con le stecche di un vecchio ombrello rotto. Con queste stecche si faceva tutto: arco e frecce. Era pericolosissimo, perché le frecce venivano appuntite strofinandole su una pietra, e dalla parte opposta avevano una sorta di “cocca” naturale, dove andava a posizionarsi la corda dell’arco. Essendo però prive di alette stabilizzatrici, dopo i primi due o tre metri le frecce si ribellavano, e prendevano strade impensabili, finendo per piantarsi nei luoghi più strani, a volte anche nelle coscie o nelle braccia dei compagni di giochi, accompagnate da improperi e urla che non mi sembra molto educato elencare. L’arco di stecche durò solo una stagione, poichè riuscimmo in tempo a renderci conto della sua effettiva pericolosità. Perché nonostante la nostra giovane età, cominciava a farsi strada piano piano nel cervello quella vocina che ti diceva “Fai questo!” oppure” No, questo non lo fare!”. Vocina che mi pare si sia affievolita col passare degli anni, vedendo cosa combina una buona parte dei giovani d’oggi.

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    D.Altezza, ci descrive le Sue origini…R.Il nostro Casato Caterini di Castel di Mirto, il cui cognome fino alla fine del ‘700 era Catarina, è di origine greco-albanese e i nostri avi approdarono in Italia con i veneziani per sfuggire alle invasioni dei

    turchi ottomani. Il ramo Caterini di Castel di Mirto stanziatosi prima nella provincia di Foggia e poi in quella di Avellino attualmente è presente anche a Firenze con la nobile dei duchi di Castel di Mirto donna Silvia Caterini di Castel di Mirto.Nella provincia di Avellino il Casato possedeva alcuni piccoli feudi e circa tre secoli fa entrò in possesso del titolo di Duca di Castel di Mirto titolo feudale concesso da Carlo III. Successivamente il patrimonio araldico del Casato si è arricchito con i

    titoli di principe di Alisimen, duca di Rocca San Felice, conte di Castel di Lama, barone di San Sebastiano, laird di Balbett.Attualmente il capo del Casato siamo noi, principe don Vito Caterini di Castel di Mirto, medico specialista in cardiologia. Siamo anche grande ufficiale dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana, cavaliere dell’Ordine di San Gregorio Magno e siamo il principe Sovrano del Principato di Castel di Mirto, stato sovrano situato in Antartide con una superficie di 10 km quadrati, riconosciuto e regolamentato da sentenze arbitrali internazionali depositate in Svizzera presso uno studio notarile e registrate presso la Confederazione Elvetica.D.Quali privilegi godevano i nobili di ieri? R.La nobiltà costituiva uno status giuridico al quale gli ordinamenti pubblici allora vigenti riconoscevano una disciplina particolare sia nel campo del diritto privato che in quello delle funzioni pubbliche.Contrariamente a quanto comunemente si pensa la Repubblica Italiana non ha abolito i titoli nobiliari ma si limita a non riconoscerli. Per cui non è reato l’uso di un titolo nella vita privata o negli atti non pubblici.D.I titoli nobiliari sono esclusivamente ereditari o si possono anche acquisire? Con quali procedure?

    Vito Caterini di Castel di Mirto, le origini della nobilità

    R.Attualmente un titolo si può avere o per trasmissione ereditaria o per concessione di un sovrano regnante o di un ex sovrano che non abbia subito la “debellatio”, ovvero che non abbia abdicato. In Italia esistono diverse famiglie che hanno visto riconosciuto il loro diritto di concedere ancora onorificenze e titoli nobiliari anche con sentenze di Cassazione. Ovviamente si può rinunciare ad un titolo restituendolo alla corona o il sovrano può revocare un titolo nobiliare per seri motivi.D.La sua casata vanta anche titoli di ordini cavallereschi? R.Oltre i numerosi titoli onorifici personali sia civili che militari, noi, Principe Sovrano di Castel di Mirto, possediamo due sistemi Premiali dinastici della famiglia regnante: l’Ordine al Merito del Principato di Castel di Mirto e il Sovrano Ordine dei Cavalieri di Portaspada di Livonia nonché un sistema premiale della famiglia del Dein di Agbor S.M. Keagborekuzi I (Sovrano dello Stato Delta del Niger tuttora regnante) di cui noi, Principe don Vito Caterini di Castel di Mirto, siamo il Gran Maestro a vita e che vengono concessi a coloro che hanno particolari benemerenze nei confronti della Casa Sovrana o del Principato.D.Quali finalità si prefiggono i titoli cavallereschi di cui lei è in

    possesso?R.Sono enunciate nella costituzione del Principato stesso dove all’articolo I si legge che «il Principato si impegna a sostenere ed aiutare le istituzioni caritative culturali e sociali, a favorire l’affermazione della pace in ogni parte del mondo, a dare attuazione ai principi e alle norme del diritto internazionale universalmente riconosciuto per la tutela dei diritti dell’uomo».D.Sono numerose le persone che richiedono di essere ammesse nelle sue schiere equestri? Perchè questo loro

    singolare desiderio? R.Negli ultimi anni sempre un numero maggiore di persone si affaccia al mondo dell’araldica e della nobiltà. Probabilmente lo stato di nobile ha sempre il suo fascino e spesso viene associato ad epoche che non esistono più.Grazie, a presto!

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    Si sta celebrando l’anno della Misericordia. Il mondo esulta al pensiero, alla certezza, che l’onnipotente, nel suo infinito amore, perdonerà tutto l’orbe cristiano e l’intera umanità. La confessione è il farmaco che elimina ogni nostra debolezza e peccato; il pentimento sincero dei propri peccati ci assolve totalmente. Il brano evangelico insegna: “chi è senza peccato scagli la prima pietra!”. Tutti gli accusatori se ne vanno, nessuno osa scagliare una pietra e le parole di Cristo assolvono: “va e non peccare più”. Ora proviamo a trasferire questo codice evangelico nella nostra realtà e immaginiamo un padre che rimprovera il figlio perché si è accorto che sta usando la droga: “Attenzione, figliolo, ti sei messo su una brutta strada, ti stai facendo del male”. Il ragazzo dice di ubbidire e lo promette, ma dopo un po’ ricomincia. Il padre se ne accorge di nuovo e lo rimprovera ancor più energicamente e pesantemente ma tutto appare inutile e, dopo le ripetute prove, c’è la conclusione; e il figlio muore. Ora ogni rimedio è inutile, non serve più. Continuiamo nel nostro parallelo. A quel figlio perduto è successo proprio come accadde a Lucifero! Anche egli si è nutrito della droga dell’onnipotenza. Gli sembra di aver superato e annientato il Creatore. E’ “Lucifero”, creato da Dio come eterno “portatore di luce”; il primo angelo, un divino precettore dell’uomo, anche lui a immagine e somiglianza di Dio. Ma Lucifero fa la sua scelta (la sua droga). Rifiuta Dio perché si sente superiore al suo creatore, che ora odia. E Dio rispetta la sua libertà, la sua volontaria scelta e lo accontenta dimostrando ancora il suo amore per la creatura che lo ha rifiutato per l’eternità. Ecco l’inferno, cioè la privazione di Dio per l’eternità. Ora vediamo cosa accadrà per l’altra creatura di Dio: l’uomo, anche lui è stato creato

    per l’eternità, vive nel paradiso terreste, l’Eden, perché fa parte del regno animale con la creazione del mondo. Perciò l’uomo si dovrà riprodurre, vivere e morire, ma lo spirito, lo “pneuma” è eterno e questo distingue l’uomo da tutti gli altri animali. L’uomo, dopo che avrà lasciato le spoglie terrene con la morte animale rimarrà nell’eternità, risorgendo; infatti, Gesù, che si qualifica “figlio dell’uomo”, aggiunge “io sono la resurrezione e la vita”. Ciò significa che la realtà terrena per l’uomo non è la vita, ma è un pellegrinaggio temporale, la morte terrena dunque e l’inizio dell’eternità. Ma anche l’uomo ha peccato, anch’egli, come Lucifero ha disubbidito a Dio, ma ha peccato come uomo, non come Lucifero, che è un angelo, cioè un puro spirito. Lo “pneuma” nell’uomo è salvo e la misericordia di Dio si manifesta attraverso la realtà di Cristo: “il figlio dell’uomo” che riprodurrà sulla terra la vita dell’uomo. E’ il

    connubio dello spirito santo e di Maria vergine, che è la “ancilla domini” (la serva di Dio). Le sofferenze atroci di Cristo risanano l’uomo dal peccato. Il pentimento dell’uomo è l’unico farmaco per l’eternità con Dio e non contro Dio, come Lucifero. Ecco la necessità della confessione e la richiesta dell’assoluzione e del perdono, anche nell’ultimo afflato della vita terrena. E’ tutto pura verità, ma attenzione! Sant’Agostino, il primo grande dottore della chiesa, riferendosi all’uomo, afferma categoricamente: “Dio

    ti ha creato senza di te e non ti salva senza di te”; il che significa che se l’uomo non implora Dio, anche nell’ultimo istante della sua vita terrena, si condanna per l’eternità, rifiutando il creatore.

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    lavori, soggetta invece ad IVA (10% o 22% se trattasi di abitazione di lusso) e imposte ipotecarie e catastali pari a € 200,00 cadauna. Il venditore-impresa può optare per l'applicazione dell'IVA quando si tratta di fabbricati

    ultimati da più di cinque anni o di fabbricati abitativi destinati ad alloggi sociali, ma tale opzione dev'essere espressa nell'atto di vendita. Il requisito “prima casa” comporta

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    la riduzione dell'imposta di registro dal 9% al 2%, ed in caso di applicazione dell'IVA, quest'ultima scende al 4%. Merita ricordare che l'imposta di registro proporzionale non può mai essere inferiore ad € 1.000,00. Nel caso di trasferimenti di fabbricati abitativi a favore di persone fisiche, è possibile richiedere l'applicazione delle imposte sulla base del valore catastale del fabbricato anziché sul prezzo di vendita. Il valore catastale viene determinato applicando alla rendita, rivalutata del 5%, dei moltiplicatori (110 per prima casa e pertinenze, 120 per case dei gruppi A e C con esclusione di A/10 e C/1). Quest'ultima possibilità, detta sistema “prezzo-valore”, nella maggior parte dei casi, comporta un risparmio fiscale rilevante, ma è bene ricordare che il prezzo di vendita stabilito dovrà essere indicato fedelmente in atto o comporterà la decadenza dal beneficio oltre all'irrogazione di sanzioni.

  • “Pescia tu sei cambiata?” è la canzone dedicata a Pescia, scritta da Mario Viti in arte “Vuemme” e musicata da Maraviglia e Malfatti.Fu cantata da Egisto Maltagliati al teatro Silvio Pellico la sera del 1° Aprile 1979 in occasione dello spettacolo inaugurale del Nuovo Circolo Silvio Pellico. Le persone grandi che la leggeranno, rinfrescheranno la memoria, vecchi ricordi riaffioreranno e, spero,

    sarà un piacevole tuffo nel passato, perché i ricordi sono emozioni senza tempo. I giovani, invece, leggendola non capiranno nemmeno di cosa parla e allora, modestamente, spiegandola cercherò di descrivere Pescia di una volta, perché non c’è futuro senza memoria.1) Ebbene Pescia, un tempo, aveva le strade con le pietre, non rattoppate con cemento, né piene di buche sia la Ruga degli Orlandi, che il Sanfurello, ora Borgo della Vittoria.2) C’era il tram, in vernacolo tranvai, con il

    capolinea sotto il Comune, ma già in fondo di Piazza faceva la prima fermata. Il tram viaggiava su rotaie, era alimentato da corrente elettrica che era assicurata dal trolley, un’asta libera che il conduttore alzava e abbassava dai fili posti lunga la linea. Per 50 anni ha sferragliato fra Lucca-Pescia-Monsummano.3) Calletti ed Alarico erano venditori ambulanti, avevano due carretti di chicchi. Calletti era famoso per la sua ruotina, questa era una ruota di legno divisa in tanti spicchi, in ognuno c’erano premi (caramelle, cioccolatini, palline….), la facevi girare e quando si fermava, una penna di uccello indicava uno spicchio: era la tua vincita!!! Alarico invece faceva croccanti e milani. Il milano era menta fresca che lui allungava e colorava a piacere, poi la tagliava a stecche, la faceva indurire e per questo il milano era chiamato anche duro.4) Tontino è stato l’antenato dei titolari della ditta Natali che produceva a Pescia la famosa mostarda. Vendeva biscotti e con un ventino, che equivaleva a venti lire, da lui si compravano i nic-nac: simpatici biscottini con la forma di piccoli animaletti.

    5) Al Teatro Pacini si facevano serate danzanti a tema, chiamate veglioni: c’era quello della Stampa, degli Studenti, di Carnevale... ad ogni veglione veniva eletta una miss, cioè la più bella della serata.6) Il pesciatino Francesco Buonvicini introdusse dall’Oriente la coltivazione dei pregiati gelsi bianchi, che producono foglie di cui è ghiottissimo il baco da seta. Il baco da seta ha un notevole appetito, mangia ininterrottamente giorno e notte e impiega tre o quattro giorni per costruire i bozzoli. Questi venivano portati sul mercato e per lo più erano acquistati dalla filanda Mandorli per farne una pregiata e ottima seta. Successivamente dalla coltivazione del gelso siamo passati a quella dei fiori e così la filanda che dava lavoro a 180 donne, dette caldaiole, chiuse e la seta che era stato un vanto per la nostra città sparì.7) Nel Lunedì dell’Angelo o Pasquetta si teneva una grandissima fiera, quella di Colleviti. Dalla via Pesciatina fino al convento era un susseguirsi di banchetti pieni di leccornie e dopo tanta

    strada finalmente sul piazzale si faceva merenda all’aria aperta. Divertimento assicurato per grandi e piccini e qualche bicchiere di buon vino aiutava a finire la giornata in baldoria e allegria.8) In estate si faceva la scampagnata a San Giovanni, ci si arrivava da via Nieri passando davanti a Fegato. La strada era un viottolo di campagna che terminava al Rio dei Faicchi. Essendo un luogo un po’ appartato tale meta era gradita ai più grandicelli che, con la scusa di merendare con una fetta di cocomero fresco, intessevano i primi ammiccamenti e nascevano le prime cotte.Questa ballata non sarà un capolavoro, ma ha una poesia tutta sua, descrive Pescia di un tempo da non dimenticare perché i ricordi sono la vita…..perdere

    i ricordi è come perdere una parte di noi.Però è stato e sarà sempre un inno di amore verso Pescia, perché nonostante tutti i cambiamenti del tempo è rimasta la nostra piccola città con le sue ridenti colline, con il suo fiume che scorre in mezzo e, soprattutto per la sua serenità, tutti dobbiamo essere felici di essere nati qua.

    PESCIA TU SEI CAMBIATA?

  • “PESCIA TU SEI CAMBIATA ?”

    1) Le strade con le pietre, la Ruga Orlandi e Sanfurel eri più piccolina, ma tante cose chiudevi in te.2) C’era il tramvai che in Piazza ti dava l’aria da gran città.3) Calletti ed Alarico con la ruotina ed i milan RitornelloPescia tu sei cambiata non ti conosco più sparita o barattata sotto il tuo cielo blu.Di te cos’è restata mia piccola città ?Solo qualche facciata di cinquant’anni fa.

    4) Si andava da Tontino per un ventino di nic-nac5) Veglioni al Pacini ed operette da rifischiar.6) Bozzoli sul mercato frutta e verdura non ci son più, si fan soltanto fiori ma solo quelli non puoi mangiar.

    RitornelloPescia tu sei cambiata non ti conosco più

    sparita o barattata sotto il tuo cielo blu.Di te cos’è restata mia piccola città ?Solo qualche facciata di cinquant’anni fa

    7) Le fiere a Colleviti, palpeggiamenti e brigidin allegre comitive

    8) a San Giovanni che male c’è ora cammino piano, lungo il Viale per ricordar. Forse la colpa è mia; son fuori tempo non vo pensar. RitornelloPescia tu sei cambiata non ti conosco più sparita o barattata sotto il tuo cielo blu.Di te cos’è restata mia piccola città ?Solo qualche facciata di cinquant’anni fa

    RitornelloPescia tu sei cambiata non ti conosco più sparita o barattata sotto il tuo cielo blu.Di te cos’è restata mia piccola città ?Solo qualche facciata di cinquant’anni fa

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  • Si è svolta a Caorle il trofeo internazionale Karate Venice cup 2015, con 1800 atleti di 23 nazioni. Il pesciatino Matteo Cecchi (nella foto), esordiente A -61kg, ha vinto la propria categoria e sbaragliato la nutrita

    concorrenza. Il Ninja Club Pescia sotto la guida del maestro Stefano Scardigli ha portato alla Venice cup dieci atleti ed agguantato anche un 3° posto con Niccolò Mariotti esordiente B -78kg.

    Alla Pubblica Assistenza si è tenuto un incontro su “Meno rischi, più giustizia”, presieduto da Massimiliano Massimi, comandante della Stazione dei Carabinieri di Pescia e presidente dell’associazione Massimo Massimi onlus.

    Massimi ha spiegato la proposta di legge sull’omicidio stradale e i protocolli in merito all’intervento del soccorso sanitario sulla scena di un reato.

    Su www.sceglitu.bancadipescia.it puoi votare uno dei quattro progetti che

    Banca di Pescia ha individuato per rendere più bella la città. Il più votato sarà realizzato da Banca di Pescia nel 2016.

    L’Auser di Pescia ringrazia tutti coloro che hanno preso parte alle cinque serate di ballo nel parco Nerja in estate.

    “VECChIA QUERCIA”

    Spunta il sole sulla cima del colle, ed un raggio un pochino più lungosi sofferma sulle umide foglieai discorsi di una ghianda e di un fungo.

    Dice il fungo scuotendo il cappello:“La rugiada mi ha tutto bagnato,ma da ieri mi vedo più belloe mi sento anche un poco ingrassato”.

    “Non gioire!” la ghianda gli dice.“Mentre spingi il tuo gambo a salireuna mente già pensa felicecon che cosa poterti condire”.

    “Ma chi sei tu così saputellache predirre la sorte ti vanti?che mi vedi già messo in padellae servito persino coi guanti?”.

    “Io son frutto di si poco pregio,anche se in testa calco cappello,ma di falsi aggettivi un mi fregio, e mia sorte è ingrassare un porcello”.

    Ma se madre natura decideche mia vita sia fatta più lungauna fetta di terra recidee mi copre di foglie e di funga;

    e la sotto levato il cappelloche germoglio assopito rinserradarò vita ad un nuovo alberello,e di questo ringrazio la terra.

    Se poi né acqua né fuoco né ventodel danno arrecarmi vorranno,sarò quercia fra un anno e fra centoe milioni di ghiande saranno.

    E tu fungo così prelibatoche di vita si breve gioiscie di altri carezzi il palato,oggi nasci e domani…sparisci.

    Ma se nasci e se cresci si in polpaalla quercia e altre piante lo deviche di certo un ti fanno una colpaper lor fetta di vita che levi”.

    Francesco Ghietti

    Il 14 e 15 novembre si terranno la “Giornata Mondiale del Diabete”. Presso le farmacie Antica Farmacia Sansoni in piazza Mazzini e Vecchio Mercato in via Amendola si terranno iniziative informative e distribuzione di campioni in omaggio.

    Il nostro collaboratore don Walter Lazzarini ha dato alle stampe un nuovo libro «Questioni di Teologia Morale». Il contenuto della pubblicazione mantiene inalterato lo stile caratteristico dell’autore che ancora una volta ci offre uno “spaccato” significativo dei suoi studi teologici in una epoca particolarmente non entusiasmante per i suoi aspetti morali.Il libro affronta temi di attualità: i rapporti sessuali fra uomo e donna, fra marito e moglie, il matrimonio fra le coppie gay di natura maschile o femminile, il diritto ai Sacramenti delle coppie divorziate e risposate, il secolare rapporto fra lavoratori e datori di lavoro, il tema spinoso della disoccupazione giovanile. La prefazione della pubblicazione appartiene al cantautore Giuseppe Cionfoli, più volte presente al Festival di San Remo.

    Presso lo Sportello EccoFatto di Castelvecchio si è svolta la Giornata Mondiale del Cuore 2015 organizzata dal comune di Pescia, in collaborazione con la ProLoco di Castelvecchio, la Misercordia di Castelvecchio, l'Asl 3, il 118 di Pistoia e la Protezione Civile di Pescia. Nel corso della giornata il dottor Stefano Di Marco dell’ospedale della Valdinievole ha effettuato circa

    40 visite specialistiche su persone di tutte le età. L’assessore alla Montagna Marco Della Felice ha annunciato una serie di incontri per la prevenzione delle malattie cardiache e per la salute delle persone.

    Sono ormai 15 anni che i ragazzi della quinta elemetare di Pescia e dell’allora maestro Fantozzi si ritrovano per festeggiare la licenza elementare di 65 anni fa.

    Nonostante il tempo trascorso gli incontri sono sempre all’insegna della goliardia e degli aneddoti di un tempo. Qualcuno di quei ragazzi non c’è più ma è sempre presenti nei ricordi.

    Ad Altopascio si gioca a Baskin, con giocatori disabili e normodotati. Da ottobre sono iniziati gli allenamenti, nella palestra comunale di via Marconi ad Altopascio. Chi fosse interessato a provare, potrà farlo ogni sabato dalle 15,00 alle 16,30, con la possibilità di due lezioni gratuite. Possono giocare sia maschi che femmine, normodotati senza alcuna esperienza cestistica, e disabili con ogni tipo di disabilità fisica o mentale. Per maggiori informazioni: [email protected] o in palestra dal lunedì al venerdì dalle 17 alle 19 o su Facebook NBA Altopascio.

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    Molti libri di storia, testi religiosi, manuali d’arte, racconti o siti web di viaggiatori parlano del Cammino di Santiago; questa enorme quantità di informazioni rivela quanto sia complesso l’approccio a quest’esperienza; ho parlato di esperienza e non di viaggio perché la realtà è questa: un percorso sulle strade della Spagna dove i monumenti, le chiese, le storie di uomini e donne che camminano a fianco, la spiritualità e la natura incontaminata sono gli elementi con cui il viandante è costantemente in contatto.

    Il Cammino anzi i vari Cammini seguono le vie che i pellegrini del Medioevo percorrevano per giungere a Santiago di Compostela, città nel nord ovest della Spagna e capitale della Comunità Autonoma di Galizia; qui si trova l’imponente Basilica nella quale secondo la leggenda è sepolto Giacomo, uno dei dodici Apostoli, pescatore e fratello di Giovanni Evangelista. Nel Nuovo Testamento è scritto che dopo la resurrezione di Cristo Giacomo

    viaggiò nella Spagna romana per convertire il popolo ma al suo ritorno in Palestina fu decapitato da Re Erode Agrippa durante le persecuzioni cristiane. Nel 44 d.c. i suoi discepoli ne raccolsero il corpo e lo trasportarono in Spagna attraversando l’ Oceano Atlantico e sbarcando a Finisterre, luogo considerato allora l’estremo limite occidentale della Terra conosciuta. Per secoli la tomba di Giacomo fu dimenticata finché nell’813 l’eremita Pelagio osservò una pioggia di stelle cadenti su un monte e subito dopo sognò l’Apostolo Giacomo che gli rivelava l’ubicazione della tomba nel punto esatto di caduta delle stelle. Fu perciò riportato alla luce un sepolcro che conteneva un corpo senza testa e la scritta “qui giace Giacomo”. In quel luogo, chiamato poi Santiago di Compostela (da “Giacomo” o “Iago” nello spagnolo antico e da “campo stellato” oppure “compostum” cioè cimitero in latino), fu eretta una chiesetta diventata poi cattedrale e sempre più grande in funzione del numero dei pellegrini che arrivavano in città. Nei pressi furono costruiti alloggi per i viandanti che provenivano dalla Francia oppure dal nord della Spagna e dal Portogallo o che sbarcavano su queste coste dopo un viaggio dall’Inghilterra o dalla Scandinavia; nei secoli furono poi tracciati numerosi itinerari che divennero veri e propri Cammini ufficiali. Questi Cammini si sono poi collegati ad altre importanti vie europee di pellegrinaggio provenienti da

    tutta Europa, in particolare da Parigi, dalla Germania, dall’Austria e dall’Inghilterra; tra queste ricordiamo la Via Francigena che attraversa l’Italia intera e una volta arrivati a Sarzana dopo aver superato Liguria e Provenza raggiunge i Pirenei e si allaccia al Percorso Francese. Non è raro poi che un viandante parta dalla propria città per raggiungere il Cammino (es. a Copenhagen esiste già la segnaletica che indirizza a Santiago). Nel Medioevo le destinazioni principali dei Cammini erano Gerusalemme, Roma e appunto Santiago, ma si può affermare che il Cammino verso Santiago è stato l’antenato del turismo religioso moderno. I pellegrinaggi sono diventati sempre più frequenti e nel 2014 le presenze sul percorso sono state 200mila, metà delle quali spagnole, circa il 16% tedesche, 13% italiane e 11% portoghesi; gli italiani che hanno completato l’intero Cammino sono stati 7000. Le motivazioni che inducono a mettersi in viaggio a piedi, in bicicletta, in handbike, a cavallo, oppure anche in auto o in pullman, sono numerose: per lo più religiose (“pregare con i piedi” come affermano i più impavidi camminatori, chiedere “aiuto” per un familiare ammalato) ma anche spirituali, per ritrovare se stessi o per allontanarsi dallo stress della città; psicologiche, per mettere alla prova il carattere; fisico-sportive; naturalistico-ambientali; turistiche oppure storico-artistico-culturali; per conoscere gente di tutto il mondo; per conoscere usi e costumi locali; per imparare storie differenti; per curiosità; in genere non è mai una sola di queste ma un mix di tutte ed evidentemente il viandante moderno possiede motivazioni ben diverse da quelle che avevano i pellegrino del medioevo.Il percorso più antico, definito Percorso Primitivo, va da Oviedo a Santiago, nel nord ovest della Spagna; è lungo 315 km e ricalca quello compiuto dai primi cristiani; è molto duro, supera vette innevate e luoghi solitari ma appare quello più adatto per chi ha motivazioni spirituali; gli altri percorsi sono: il Cammino del Nord (parte da Irùn alla frontiera franco-spagnola, transita per i paesi baschi, ha un percorso montuoso e adiacente alla costa del Mar

  • Il Cammino di Santiago – 1Cantabrico; lungo 468 km; era utilizzato nel medioevo per evitare di percorrere i territori occupati dai musulmani), la Via de La Plata (inizia a Siviglia, lungo 934 km), il Cammino Portoghese (parte da Lisbona passando per Coimbra e Porto, lungo 620 km), il Cammino Inglese (parte da Ferrol o da A Coruna nel nord della Spagna, ambedue porti sull’Oceano dove arrivavano navi da Inghilterra, Olanda, Scandinavia; lungo 72 km), il CamminoAragonese (parte da Somport , nei Pirenei Centrali; lungo 858 km), la Via Tolosana (parte da Arles, sul Mediterraneo ed è percorsa da pellegrini provenienti dall’Oriente, dall’Italia o dalla Germania). Tra tutti quello di gran lunga più famoso e frequentato è il Cammino Francese, dichiarato “Itinerario Culturale Europeo” dal Consiglio d’Europa nel 1987 e per questo dotato di fondi per migliorare segnaletica e strutture recettive; poi dichiarato “Patrimonio dell’Umanità” dall’UNESCO nel 1993; esso parte da Saint Jean Pied de Port, ai piedi del versante francese dei Pirenei, e arriva dopo 774 km, a Santiago dopo aver attraversato 170 paesi tra cui alcune importanti località come Roncisvalle, Pamplona, Logrono, Burgos, Leon, Astorga, Ponferrada, Villafranca del Bierzo, Sarria, etc; coloro che arrivano oltre Santiago fino a Finisterre, sull’Atlantico, percorrono altri 90 km. Questo Cammino attraversa le regioni della Navarra, de La Rioja, e della Galizia

    offrendo ampia varietà di scenari: all’inizio i Pirenei, poi le colline, quindi gli altopiani (in spagnolo mesetas o strade diritte di cui non vedi la fine), poi di nuovo i monti con il passo O Cebreiro, quindi la verde Galizia. Durante il percorso si raccolgono le prove del passaggio nelle varie località attraversate grazie ai timbri applicati sulla Credencial, o Credenziale, il passaporto del pellegrino, che viene rilasciato dall’Ufficio Amis du Chemin a St Jean Pied de Port oppure dalla Comunità Toscana il Pellegrino o da altri Enti religiosi; il timbro si trova in ogni chiesa, municipio, luogo tipico, museo, ostello, albergo o anche bar; la Credenziale, verificata poi dall’Officina del Pellegrino all’arrivo a Santiago, permette di ottenere la pergamena (o Compostela) che attesta il percorso ed eventualmente anche il chilometraggio effettuato. Si può decidere di compiere l’intero itinerario oppure un tratto breve secondo il tempo e le forze a disposizione; il Cammino Francese richiede almeno un mese di tempo ed è suddiviso convenzionalmente in 31 tappe, ognuna delle quali va dai 20 ai 35 km, ma la Compostela viene rilasciata solo se si sono fatti a piedi o a cavallo gli ultimi 100 km prima di Santiago, oppure 200 in bici; il pellegrino in bici è detto Bicigrino.Il percorso è sempre segnalato da una freccia gialla o da una piastrelle in ceramica con fondo blu e conchiglia gialla oppure da cippi stradali su cui è murata una piastrella con la conchiglia o su cui è impressa una conchiglia in bassorilievo; negli ultimi 200 km i cippi sono presenti ogni 500 metri; durante l’attraversamento delle città sui marciapiedi è dipinta la conchiglia. Non ci si può sbagliare. La recettività alberghiera lungo il Cammino Francese è ottima e si trovano molti ostelli, rifugi, hotel, case o campeggi anche a prezzi modici; negli altri cammini invece la recettività è insufficiente; nel periodo estivo è consigliabile prenotare, in primavera e autunno invece il posto letto si trova facilmente. E’ consigliato un abbigliamento tecnico per le difficoltà climatiche che si possono trovare e un paio di scarpe idonee anche perché i problemi più sovente incontrati interessano i piedi. Informazioni più dettagliate sul Cammino si trovano in molti siti tra cui si segnala www.pellegrinibelluno.it. Il mese prossimo racconterò l’esperienza vissuta con amici.

    Nelle foto: 1) Il cippo che indica la via2) La credenziale del Pellegrino con i timbri3) Ostello comunale di Zubiri

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    qualità per la vita e di prevenzione, della Fondazione del Lions Clubs International. I programmi Lions Quest insegnano ai giovani le qualità necessarie a ottenere piccoli successi nella vita di ogni giorno attraverso azioni che coinvolgono la scuola, la famiglia e la comunità. Le classi terze che con il diario partecipano al progetto potranno collegarsi periodicamente al sito web www.pinocchiofaladifferenza.it e compilare un piccolo questionario sui

    temi trattati. Rispondendo correttamente alle domande i bambini potranno partecipare a un concorso che vedrà premiati gli alunni che si saranno maggiormente impegnati, i piccoli “Ambasciatori Verdi”. La premiazione del concorso avverrà, come accade da quattro anni, in occasione del “Compleanno di Pinocchio”, che si svolge a fine anno scolastico nel Parco di Pinocchio a Collodi. Il sito web è utile anche agli insegnanti, che vi possono trovare schede di approfondimento che li aiuteranno nel lavoro in classe. La Fondazione Collodi e Cosea Ambiente Spa terranno un rapporto di collaborazione costante con le scuole per supportare le attività e coadiuvare gli insegnanti. Il progetto “Pinocchio fa la differenza” gode del patrocinio, tra gli altri, dei Ministeri dell’Ambiente e dell’Istruzione, delle Regioni Emilia-Romagna e Toscana, delle Province di Bologna e Pistoia e del Comune di Pescia. .. Insomma,

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    Non ci pensavo più; eppure al sabato fascista, alla divisa dei balilla, alla camicia nera che indossavo da ragazzo, oggi mi ci fa ripensare una moda innocente che si è rapidamente diffusa nel basso e nell’alto clero, e perfino in quello irraggiungibile vaticanesco. L’uso di una camicia nera, alla

    russa, con colletto a girocollo, per noi preti è davvero molto pratico e comodo; e io, rimasto al bianco, lo posso ben dire, che prova e riprova, e pensa molto, alla fine, e alla meglio, stiro i polsini; e tanto basta ché il resto non si vede. Mi capita di incontrarli, quei preti, che infatti si vedono un po’ dovunque. La loro elegante camicia nera, con la fettina bianca davanti, mi fa

    pensare alla mia infanzia e ho voglia di rifletterci, ormai arrivato come sono alla fine della vita. Se non altro, come gioco della mia mente, che guarda all’inizio per sperimentare in me stesso la stranezza della psicologia umana; per quello che davvero è stato, ma soprattutto per quello che la psiche pare si inventi. Oppure che io voglio che si inventi. I fatti sono stati, oppure sono ora come la mente li ha ricevuti, e poi ha capiti ordinandoli? La logica è nella storia o nel cervello? Comunque non si potrà negare un rapporto reciproco tra idee e realtà. Che fosse un periodo brutto, mi sembra che sia vero. Che abbia influito su di me, sul mio carattere e sulle mie paure, lo penso. Infatti, non potrei essere così ferocemente irritato dall’americanismo dilagante se il “nazionalismo” fascista non fosse entrato nel mio sangue senza che me ne accorgessi. Di altre cose, invece, ebbi e ho coscienza. I fatti, soprattutto. È sorprendente come a distanza di tanti anni, la vista di una camicia nera mi riporti in mente immagini vivissime, come se fossero stampate a colori nel mio spirito. I volti, specialmente quelli, li vedo vivi. Io e la mamma siamo

    arrivati alla GIL (l’attuale palazzo della Pubblica Assistenza di Pescia), convocati. C’è lì fuori un camerata, accigliato che neanche ci fa entrare, e ci minaccia. La mamma ha le lacrime agli occhi, perché si sente dire che se io non vado il sabato alle adunate, ne pagherà le conseguenze il babbo. Che era al fronte! Mi hanno fatto odiare la ginnastica! Tuttavia qualche vantaggio ne ho avuto, ma è stato merito della mia famiglia. Io credo che il dono di non sapere in alcun modo adulare le autorità, a cominciare da quelle ecclesiastiche, e anche il mio grave difetto morale di essere sempre sospettoso e guardingo nei loro confronti, derivi proprio dalla mia storia di figlio della lupa e di balilla, fino a quello strano 25 luglio.

    Il fatto era che in casa mia si viveva un clima pacatamente antifascista, perfino da parte della nonna a cui i fascisti, in pratica, avevano ammazzato il fratello amato, Alberigo. Comunque, lei ne parlava spesso e a volte spifferava anche

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    nomi e cognomi. La mamma, orfana della prima guerra mondiale, quando era ragazzina era rimasta impressionata come testimone della violenza sugli anziani e sui preti, fatta dalle squadracce fasciste, e anche lei non aveva ritegno a raccontarmi di fatti e di persone (toglievano il bastone a un tale, facevano bere olio di ricino, per strada, a un tal altro), con una vivacità di particolari che mi è rimasta impressa, perché autori erano i grandi fascisti del posto. Il babbo, socialista, paziente e saggio, da ultimo bisognò che si iscrivesse al fascio, se non voleva perdere il lavoro, e per ricompensa gli amici del distretto, che anch’io conoscevo, gli fecero il bel regalo di mandarlo al fronte nella milizia. E io poi, il sabato, con addosso la camicia nera, andavo a scuola, e poi alla mensa fascista e poi alla adunata, a marciare sul viale Garibaldi o a fare ginnastica nel campo sportivo, dove prima c’era un giardino, requisito. Il ricordo della mia infanzia fascista insieme con i condizionamenti che dalle camicie nere ho subito, mi suscita – come già dicevo – ben altre riflessioni. Soprattutto mi viene da pensare al rapporto tra storia e cultura, intendendo questa in tutti i suoi possibili significati, perfino a quell’aspetto della mentalità che noi genericamente chiamiamo razzismo. Ci meravigliavamo e non comprendevamo il razzismo americano, come ora non comprendiamo le ragioni di chi pretende di stare con noi, specialmente se ha la faccia nera. Eppure come noi allora, anche loro oggi sono delle vittime. Ancora camicie nere, bandiere nere, maschere nere. E sangue rosso, perché si veda. E mi viene in mente quanto è difficile, anzi mi pare impossibile, spiegare ai popoli lontani che c’è una differenza tra la tratta dei negri, le prepotenze coloniali, l’arroganza omicida della grande finanza, tra queste realtà e la fede cristiana professata falsamente da quegli uomini e da quelle donne e che tali cose orrende fecero e oggi fanno sui popoli

    che cristiani non sono. Sono popoli religiosi, pienamente religiosi, e quindi pensano che le prepotenze degli europei e degli americani, siano prepotenze cristiane. Anche se credo che non potrebbero essere così feroci se non ci fosse (i

    “cattivi” cristiani?) chi soffia sul fuoco. Personalmente, mi sono rallegrato che l’Europa non abbia voluto riconoscere le proprie radici, ma bisognerebbe che lo urlasse forte, per farsi intendere bene! Altrimenti bisognerebbe dire che aveva ragione quel gerarchetto fascista a far ricadere su mio padre la mia indisciplina: come avrebbe potuto essere un buon combattente chi non riusciva ad educare militarmente il figlio? La storia non fa che ripetersi. Con la grande differenza che il mio fascismo mussoliniano non aveva la forza di entrare in casa, e fuori mostrava bene che volto avesse. Ben diversa è la situazione, che pur viviamo, in cui ci convincono, riuscendoci, che la menzogna più sfacciata sia la più perfetta delle verità.

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    Senza titolo-2 1 14/03/2012 7.03.28

    Il torrido caldo di agosto e non poca stanchezza fisica e mentale mi avevano tenuta lontana dalle mie cime per oltre un mese. A pochi giorni dall’arrivo dell’autunno, le condizioni climatiche e fisiche erano finalmente tornate ottimali per rimettersi gli scarponi ai piedi. Volevo ripartire “alla grande”, cimentandomi nella faticosa

    ascesa del Monte Sella da Resceto, nella Valle dell’Alta Tambura. La vetta del Sella non è meta abituale, sia per l’impegno fisico che richiede, sia per le caratteristiche del percorso, particolarmente insidioso. E ormai erano diversi anni che non ci tornavo. Era il momento di salire vicina a quel cielo. Tutto sembrava perfetto per un’escursione indimenticabile. Capita però, a volte, soprattutto in montagna, di dovere rinunciare ai propri obiettivi per

    rimandarli a momenti più propizi. Bisogna sapere mettere da parte la bramosia di conquistare la vetta desiderata per dare la priorità alla sicurezza. Risalendo il canale dei Vernacchi, dove si incontra l’antica via di lizza delle Cave Gruzze (o Cruze) ed il monumentale ponte del Pisciarotto, che permetteva di superare la parte terminale del Canale della Neve, il vento, improvvisamente violento e prepotente, ha portato con sé una minacciosa coltre di nere nubi. Il tempo di fermarsi per valutare meglio le condizioni, che le prime gocce di pioggia hanno iniziato a rigarmi il volto. Quelle lacrime in montagna sono un monito. Non si può azzardare, soprattutto quando il sentiero da percorrere è ripido e severo. C’è da stare particolarmente attenti anche quando il terreno è asciutto, perché le rocce ed il paleo creano una superficie assai instabile. Da incoscienti pensare di continuare con la pioggia. Ho guardato in alto, la vetta era ancora lontana e l’azzurro del cielo completamente celato dalle massicce nuvole scure. Allora non mi è rimasto altro che fare l’unica cosa possibile, iniziare di nuovo a scendere verso Resceto, da dove ero partita poco più di un’ora prima. Il tempo, però, si sa, talvolta è beffardo, sembra si diverta a prendersi gioco di noi. Arrivata alle capanne dei pastori

    subito sopra l’abitato di Resceto, il cielo ha “spaccato”, lasciando intravedere ampi fazzoletti azzurri che andavano allargandosi man mano che l’arrogante vento che prima li aveva portati, stava di nuovo spazzando via i minacciosi cumuli neri. In fin dei conti, se ormai era troppo tardi per riprendere la via che avevo inizialmente scelto, la giornata era ancora abbastanza lunga per poter camminare verso altri crinali. Senza indugiare un attimo mi sono diretta verso il sentiero posto sul versante dirimpetto a quello che avevo appena sceso. Dalla strada principale del paese che porta alla piazza e, oltre, alla celebre Via Vandelli, mi sono immersa nella secolare foresta di castagni che per tanto tempo ha dato da vivere alle genti del posto. Ormai abbandonati a se stessi, non hanno perso la loro maestosa bellezza. Accolgono come impeccabili padroni di casa. Si divertono a giocare con la luce del sole, facendo penetrare dalle folte e fiere chiome raggi di luce che creano atmosfere surreali. Avvolgono di fragranze di terra viva, fertile. Raccontano di storie

    antiche. Invitano al silenzio ed alla riflessione. Qui tutto è vita. Ce ne possiamo rendere conto ascoltando il canto degli uccelli nascosti tra i rami, il fruscio delle foglie cadute, spostate dalle leste lucertole. Basta alzare un piccolo sasso per scovare sotto uno spaventato scorpione che, rannicchiato, aspetta solo di essere lasciato in pace, oppure osservare bene a terra dove un microcosmo di minuscoli, perfetti, meravigliosi insetti lavorano alacremente senza sosta. Benché sul Monte Castagnolo, dove ormai ero diretta, ci sia stata già innumerevoli volte, il sentiero che stavo percorrendo era per me inedito. Le altre volte ero salita dal versante opposto, partendo dal piccolo abitato di Forno oppure, oltre, dalla località

    Biforco. Stavo quindi assaporando una nuova avventura, stavo conoscendo un altro mondo. Sul versante di Resceto si vedono ancora oggi, molto chiaramente, i segni delle fatiche sudate da chi,

    20 Settembre 2015

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    di questi monti, ha fatto fino ad un centinaio di anni fa, o forse meno, tesoro per vivere. Lunghi, perfetti muri a secco, tutt’ora intatti, delimitano i terrazzamenti dove raccogliere i frutti degli alberi del pane era più semplice che su un versante scosceso. Ogni tanto appaiono i resti delle case dei pastori e dei contadini, su cui oggi la Natura ha di nuovo preso il sopravvento. Passo dopo passo mi rendevo conto di quanto mi fossero mancate le mie amate montagne in quel lungo periodo di lontananza. Passo dopo passo sentivo tornare in me la forza fisica, l’entusiasmo, la gioia. Passo dopo passo sentivo esplodere emozioni forti, che chissà, forse l’afa estiva, forse la mia naturale propensione alla malinconia, avevano sopito. Emozioni amplificate nel momento in cui, uscita dal bosco, nel punto di incontro con il sentiero che giunge dalla località Pian dei Santi, appare alla vista lo spettacolo del mare e dei monti che si abbracciano. Mi ricordo ancora la prima volta che arrivai in questo luogo. Allora stavo scendendo dalla vetta per tornare a Biforco, da dove ero partita. Sentivo da lontano il tintinnare argentino delle campane delle capre, che infatti, beate, pascolavano sull’erto versante, coccolate dai tiepidi raggi del sole. Seduto su una roccia, in compagnia di una ragazza sorridente, c’era lui, Evaristo, il celeberrimo pastore della zona, che fino ad allora non avevo ancora avuto l’onore di incontrare. Evaristo, le cui capanne sono disseminate un po’ ovunque sui monti massesi, marchiate con il suo nome scritto a caratteri cubitali sulle malandate porte di legno di ingresso, è un uomo

    dall’età indefinibile. Gli si attribuirebbero molti più anni di quelli che in realtà ha. E’ alto, incredibilmente esile, il volto è scavato da una magrezza quasi impressionante, che contrasta, in realtà, con la forza e la vigoria che ha e che dimostra nel suo duro lavoro. Barba e capelli sono neri e folti cespugli indomabili, e in questa

    cornice svetta un importante naso aquilino, secco secco come il suo fisico Gli occhi, marroni, sono profondi e brillano di un’intelligenza e di una vivacità inaspettate. Con le persone che non conosce è un po’ burbero, come ogni buon apuano che si rispetti, ma una volta rotto il ghiaccio, ti accoglie con un solare sorriso e una gentilezza che contrasta con il suo aspetto spigoloso. A volte penso che le Apuane sarebbero un po’ meno Apuane, senza di lui. Con questo pensiero in testa mi sono nuovamente incamminata nel bosco, verso la cima, i cui colori, qui più cupi per la presenza di pini e imponenti pareti verticali rocciose, erano addolciti dal tenero rosa degli ampi cuscini di ciclamini sparsi ovunque. Il fitto bosco termina proprio al di sotto dell’ampia cima. Un enorme giardino verdeggiante abbracciato tutto intorno, dalle vette più alte e dal mare. Uno strano, buffo fungo roccioso svetta più o meno al centro dell’incontaminato eden lussureggiante. Mi guardo attorno. 360 ° di incanto. Poi,

    felice, mi stendo sul morbido tappeto erboso, perdendomi nella vastità del cielo ormai completamente azzurro. Respiro a pieni polmoni l’aria pura, e penso che non potrei essere più felice di così.

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    Nel novembre del 1494, in Firenze, uscì allo scoperto un movimento clandestino di repubblicani che chiedeva la fine del dominio dei Medici. Fu in questo momento che si fece avanti il domenicano Girolamo Savonarola da Ferrara ritrovandosi al centro del dibattito politico fiorentino e italiano. Alla morte di Lorenzo de’ Medici, il “Magnifico”, 18 aprile 1492, seguì la discesa in Italia e Toscana del re francese Carlo VIII, al quale Piero, il figlio di Lorenzo, consegnò le chiavi delle fortezze toscane. Logico che la famosa frase di sfida lanciata da Pier Capponi: “Se voi suonerete le

    vostre trombe, noi suoneremo le nostre campane”, non fu ostacolo serio. I cronisti dell’epoca avevano definito Piero de’ Medici un “imprudente” e un “inetto”; fu immediatamente allontanato dai francesi e sostituito da una cerchia ristretta di nobili. Questi misero subito in atto un “reggimento”, cioè una repubblica aristocratica, ma non riuscirono a trovare un accordo tra di loro. Nella generale debolezza e indecisione, nel vuoto del potere politico e amministrativo, prese forza e vigore la figura di

    Girolamo Savonarola. Era nato nel settembre del 1452 alla corte di Borso d’Este di Ferrara dove il nonno, originario di Padova, esercitava la professione di medico. Alla morte di questi, la famiglia a poco a poco decadde. Il padre Michele, infatti, fallì come imprenditore e cambiavalute. Ebbe sette figli. Dei cinque maschi, uno fu soldato di ventura, un altro medico e un terzo entrò nell’ordine dei frati domenicani (frati predicatori) come Girolamo. Crescendo, il Savonarola si appropriò del latino dando le preferenze ai Padri della Chiesa: S. Agostino, S. Bernardo e S. Tommaso d’Aquino, dai quali si convinse che l’umanità fosse dedita ai piaceri materiali e sessuali che, secondo lui, erano da fuggire perché prima veniva Dio poi il mondo. La sua prima missione in Firenze fu nel maggio del 1482: l’ordine lo inviò nel convento di S. Marco, e lui fece il viaggio a piedi con la sua Bibbia e il Breviario. Ironia della sorte, l’invito fu fatto dai Medici, colpiti dalla fama della sua oratoria. In questa occasione, però, il Savonarola ricorderà – dieci anni dopo – come le sue prediche fossero state un disastro. Non era pronto per questa città, dove il popolino cercava “attori” e i cittadini facevano i confronti tra i predicatori, pronti a criticare o anche a cambiare chiesa. Savonarola ritornò verso la fine della primavera del 1490 e subito si legò con Pico della Mirandola, che condivideva il crescente anticlericalismo del frate. E’ proprio di questo periodo la moda, nella classe alta della città, di costruire palazzi imponenti come esempi di ricchezza e di autorità, ma che dimostrava una tiepida religione e un culto della mondanità che non si potevano adeguare ai progetti fiorentini del frate. Infatti, nelle prediche dell’Avvento del 1490 e del mercoledì di Pasqua del 6 aprile 1491 egli sferrò un attacco alla chiesa degenerata (il

    papa era Alessandro VI, Rodrigo Borgia) e al governo fiorentino, senza però calcolare i toni, soprattutto verso i potenti. Quando però lui affermò: “Credo che per mezzo della mia bocca parli Cristo”, Lorenzo il Magnifico realizzò d’aver “sbagliato” predicatore per la sua città. Nonostante questo, in punto di morte volle che fosse proprio fra’ Girolamo a concedergli la sua benedizione e assoluzione. E fu forse in questo periodo che entrò a far parte della sua cerchia fra’ Domenico Bonvicini da Pescia. Nato da nobile e illustre famiglia nell’anno 1450 circa, fu domenicano in Fiesole, dove studiò Teologia ed Oratoria, e ne fu anche priore. Passò, di seguito, nel convento di S. Marco e divenne da subito intimo compagno e collaboratore del frate ferrarese. Intanto, il Savonarola non limitò