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Anno XLVII Economia & Lavoro Dialogo pp. 17-46 LA MONETA UNICA EUROPEA di Fernando Vianello* Fernando Vianello, Dipartimento di Economia Pubblica, Sapienza Università di Roma. * Sono grato ad Anna Simonazzi non solo per avermi assistito, come in tante altre occasioni, con suggerimenti e critiche, ma anche per avermi autorizzato a riutilizzare nella stesura di questa relazione diversi lavori che abbiamo scritto insieme nel corso del tempo, e in particolare Simonazzi, Vianello (1994, 1996, 1998, 1999). Naturalmente la re- sponsabilità dell’uso che ho fatto di questi testi è soltanto mia. Altrettanto vale per l’uso che ho fatto delle osservazioni e dei consigli di Giovanni Bonifati, Daniela Federici (cui sono anche debitore di un’utile indicazione bibliografica), Giorgio Fodor, Andrea Ginzburg e Paolo Paesani. In questo scritto, completato nel 2005 e ri- masto inedito, l’autore si propone di fornire uno schema concettuale adatto a comprendere i moti- vi del diverso andamento, nel lungo periodo, dei tassi di crescita della produzione e dell’occupa- zione nell’economia europea e americana. Egli sottolinea la continuità, in Europa, fra la bassa crescita imposta dal funzionamento del Sistema monetario europeo negli anni Ottanta e il rista- gno economico nella fase successiva alla forma- zione dell’Unione monetaria. A questo protratto rallentamento europeo si contrappone una lunga espansione americana. L’autore argomenta che negli Stati Uniti tutti gli strumenti disponibi- li, dalla politica fiscale a quella monetaria e del cambio, alla politica industriale, sono stati posti al servizio della crescita economica e del man- tenimento di un elevato livello di occupazione. Perché – si chiede l’autore – un simile impegno è mancato completamente in Europa? La rispo- sta va ricercata sia sul piano delle scelte compiute nel corso del processo di unificazione monetaria (considerato separatamente da quello dell’unifi- cazione politica), sia su quello della teoria econo- mica che ha fornito un sostegno a quelle scelte. Da un lato, lo smantellamento del controllo dei movimenti di capitali e l’abbandono di un siste- ma di cambi fissi ma aggiustabili a favore di un regime di cambi fissi ha ridotto l’autonomia della politica monetaria e valutaria nel momento in cui concedeva illimitata libertà d’azione alla finanza internazionale: ne sono derivate crisi finanziarie e sacrifici di reddito e occupazione. Dall’altro prin- cipi e regole di funzionamento dell’Unione eco- nomica e monetaria hanno posto limiti alla libertà d’azione dei governi in materia fiscale anche in caso di protratto rallentamento della crescita. A In a text completed in 2005 but left unpublished, the author set out to offer a conceptual framework affording insight into the reasons for the different trends, over the long period, in the rates of increase in production and employment in the European and American economies. He stresses the continuity in Europe between the low growth rate dictated by the functioning of the European monetary system in the 1980s and the economic stagnation in the following phase, subsequent to the formation of the monetary Union. Contrasting with this protracted European slowdown was the prolonged American expansion. The author argues that in the United States all the available tools, from fiscal and monetary policy and exchange rates to industrial policy, were brought into the service of economic growth and maintenance of a high level of employment. Why, the author asks, was Europe so lacking in any such commitment? The answer is to be sought both at the level of the choices made in the course of the process of monetary unification (considered separately from the process of political unification), and at the level of the economic theory that constituted the support for those choices. On the one hand, the elimination of control over movements of capital and abandonment of the system of fixed but adjustable exchange rates to make way for a fixed rate system limited the scope of monetary and currency policy while at the same time granting international finance unlimited freedom of action. The consequences are to be seen in financial crises and sacrifices in terms of income and employment. On the other hand, the principles and rules entailed in the functioning of the economic and monetary Union have set limits to the freedom enjoyed by governments

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Anno XLVII Economia & Lavoro Dialogo pp. 17-46

LA MONETA UNICA EUROPEA

di Fernando Vianello*

Fernando Vianello, Dipartimento di Economia Pubblica, Sapienza Università di Roma.* Sono grato ad Anna Simonazzi non solo per avermi assistito, come in tante altre occasioni, con suggerimenti

e critiche, ma anche per avermi autorizzato a riutilizzare nella stesura di questa relazione diversi lavori che abbiamo scritto insieme nel corso del tempo, e in particolare Simonazzi, Vianello (1994, 1996, 1998, 1999). Naturalmente la re-sponsabilità dell’uso che ho fatto di questi testi è soltanto mia. Altrettanto vale per l’uso che ho fatto delle osservazioni e dei consigli di Giovanni Bonifati, Daniela Federici (cui sono anche debitore di un’utile indicazione bibliografica), Giorgio Fodor, Andrea Ginzburg e Paolo Paesani.

In questo scritto, completato nel 2005 e ri-masto inedito, l’autore si propone di fornire uno schema concettuale adatto a comprendere i moti-vi del diverso andamento, nel lungo periodo, dei tassi di crescita della produzione e dell’occupa-zione nell’economia europea e americana. Egli sottolinea la continuità, in Europa, fra la bassa crescita imposta dal funzionamento del Sistema monetario europeo negli anni Ottanta e il rista-gno economico nella fase successiva alla forma-zione dell’Unione monetaria. A questo protratto rallentamento europeo si contrappone una lunga espansione americana. L’autore argomenta che negli Stati Uniti tutti gli strumenti disponibi-li, dalla politica fiscale a quella monetaria e del cambio, alla politica industriale, sono stati posti al servizio della crescita economica e del man-tenimento di un elevato livello di occupazione. Perché – si chiede l’autore – un simile impegno è mancato completamente in Europa? La rispo-sta va ricercata sia sul piano delle scelte compiute nel corso del processo di unificazione monetaria (considerato separatamente da quello dell’unifi-cazione politica), sia su quello della teoria econo-mica che ha fornito un sostegno a quelle scelte. Da un lato, lo smantellamento del controllo dei movimenti di capitali e l’abbandono di un siste-ma di cambi fissi ma aggiustabili a favore di un regime di cambi fissi ha ridotto l’autonomia della politica monetaria e valutaria nel momento in cui concedeva illimitata libertà d’azione alla finanza internazionale: ne sono derivate crisi finanziarie e sacrifici di reddito e occupazione. Dall’altro prin-cipi e regole di funzionamento dell’Unione eco-nomica e monetaria hanno posto limiti alla libertà d’azione dei governi in materia fiscale anche in caso di protratto rallentamento della crescita. A

In a text completed in 2005 but left unpublished, the author set out to offer a conceptual framework affording insight into the reasons for the different trends, over the long period, in the rates of increase in production and employment in the European and American economies. He stresses the continuity in Europe between the low growth rate dictated by the functioning of the European monetary system in the 1980s and the economic stagnation in the following phase, subsequent to the formation of the monetary Union. Contrasting with this protracted European slowdown was the prolonged American expansion. The author argues that in the United States all the available tools, from fiscal and monetary policy and exchange rates to industrial policy, were brought into the service of economic growth and maintenance of a high level of employment. Why, the author asks, was Europe so lacking in any such commitment? The answer is to be sought both at the level of the choices made in the course of the process of monetary unification (considered separately from the process of political unification), and at the level of the economic theory that constituted the support for those choices. On the one hand, the elimination of control over movements of capital and abandonment of the system of fixed but adjustable exchange rates to make way for a fixed rate system limited the scope of monetary and currency policy while at the same time granting international finance unlimited freedom of action. The consequences are to be seen in financial crises and sacrifices in terms of income and employment. On the other hand, the principles and rules entailed in the functioning of the economic and monetary Union have set limits to the freedom enjoyed by governments

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1. PREMESSA

Nel Faust l’invenzione della carta-moneta è attribuita a Mefistofele. Freschi di stampa e del prodigio che li ha resi uguali all’oro, i biglietti del diavolo si spandono per il regno. Chi se ne impadronisce diventa ricco, e il buffone di corte dice «stasera stessa mi cullerò nel mio feudo»1. Ma anche nella vita ordinaria la moneta può essere creata dal nulla (per quanto non da chiunque). E con effetti non meno sconvolgenti. Al pari della moneta creata da Mefistofele, la moneta creata dalle banche internazionali2 attraversa il mondo come un vento impetuoso. Sconvolge modi di vivere e gerarchie sociali, alimenta speranze e premia le scommesse più ardite, genera un’onda di euforia che non di rado, ritirandosi, lascia die-tro a sé macerie e desolazione.

Quando i capitali finanziari affluiscono in massa in un paese, i corsi azionari e i valori immobiliari si gonfiano a dismisura, ci si indebita con facilità e vengono incoraggiati inve-stimenti eccessivi. Ma a un certo punto i dubbi sulla possibilità che il processo continui in-definitamente prendono il sopravvento, e si profila il pericolo di un’inversione di tendenza. I capitali sono allora lesti a fuggire, facendo scendere assai velocemente quel ch’era salito, seminando perdite e precipitando il paese in una crisi finanziaria – poiché i debiti contratti con chi offriva così generosamente il denaro devono a quel punto essere ripagati.

Il carattere dirompente dei violenti spostamenti dei capitali da un paese all’altro, che hanno luogo tutte le volte che si offrono occasioni di guadagni speculativi, spiega la gravità (anche se non necessariamente l’origine) delle crisi finanziarie che nell’ultimo decennio hanno colpito in successione il Messico (1994-95), vari paesi del Sud-Est asiatico (1997), la Russia (1998) e, da ultimo, l’Argentina (2001). Con simili movimenti internazionali di moneta rovente (hot money), come fu chiamata, e con le loro conseguenze destabilizzanti, il mondo dovette fare i conti già negli anni Trenta del XX secolo. Si ravvisò allora la necessità

1 Faust, Parte seconda, Atto primo, Giardino di villeggiatura.2 Devo qui cautelarmi da una possibile obiezione. Poiché a ogni prestito corrisponde un deposito, si può essere

indotti a ritenere che le banche si limitino a prestare ad alcuni quel che ricevono da altri. Ma, come ogni economista sa, nell’atto stesso di concedere i prestiti, le banche creano i depositi, ossia la moneta in termini della quale i prestiti sono concessi. Il paragone fra le banche e Mefistofele è dunque del tutto appropriato.

numerose restrizioni, inoltre, sono state sottoposte le politiche industriali. L’orientamento restrittivo delle politiche macroeconomiche europee è coe-rente con la promozione di un processo di ristrut-turazione industriale basato sull’abbandono dei segmenti “maturi” della filiera produttiva, sulla riduzione della protezione sociale e sul progres-sivo smantellamento delle istituzioni del mercato del lavoro. La stessa teoria che aveva fornito argo-mentazioni in favore della libertà dei movimenti dei capitali e di orientamenti restrittivi delle politi-che macroeconomiche è tornata a sostenere, come negli anni Trenta, che la disoccupazione è dovuta non all’insufficienza della domanda effettiva, ma a “rigidità” del mercato del lavoro. Negli anni Trenta, Keynes aveva definito questi orientamenti «ingannevoli e disastrosi se si cerca di applicarli ai fatti dell’esperienza».

in fiscal matters, even in the case of prolonged slowdowns in growth. Moreover, industrial policies have been subjected to a whole series of restrictions. The restrictive approach shown in European macroeconomic policy is consistent with promotion of a process of industrial restructure based on abandonment of the “mature” segments of the productive value chain, reduced welfare and the progressive dismantling is of the labour market institutions. The very same theory that had come up with arguments in favour of freedom for movements of capital and restrictive approaches in macroeconomic policies is once again claiming that, as in the 1930s, unemployment is due not to lack of effective demand but to labour market “rigidities”. In the 1930s Keynes had defined such approaches as «deceptive and disastrous if we try to apply them to the real facts».

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di restringere la libertà di movimento dei capitali. L’imposizione di controlli sui movimenti di capitali fu espressamente prevista, come vedremo, dagli accordi di Bretton Woods (1944), che posero le basi dell’assetto monetario internazionale del quarto di secolo successivo alla seconda guerra mondiale. In seguito, tuttavia, alla finanza internazionale fu restituita quella il-limitata libertà d’azione di cui aveva goduto nel gold standard. A nulla valsero le esortazioni di economisti dotati di buona memoria (ma considerati non più al passo con i tempi), come, per esempio, James Tobin, che nel 1978 propose la tassa che porta il suo nome al fine di «gettare un po’ di sabbia negli ingranaggi dei nostri troppo efficienti mercati monetari» (Tobin, 1978, p. 154). Gli ostacoli precedentemente frapposti alla libera circolazione dei capitali furono progressivamente rimossi. L’Italia, ultimo fra i paesi della Comunità Economica Europea, completò l’abolizione dei controlli nel 1990. Un forte impulso a estendere la liberalizzazione ai paesi del Terzo Mondo che in precedenza vi si erano sottratti fu dato, con pressioni eco-nomiche e politiche, dall’amministrazione Clinton, legata agli ambienti finanziari newyorkesi quanto la successiva lo è agli interessi petroliferi texani.

La presente relazione è idealmente suddivisa in tre parti. La prima di esse (§§ 2-4) si propone di fornire uno schema concettuale capace di facilitare il confronto fra l’adozio-ne di una moneta unica europea e i sistemi di cambi “fissi ma modificabili” con controlli sui movimenti di capitali precedentemente adottati (su scala mondiale) con gli accordi di Bretton Woods e (su scala regionale) con il Sistema monetario europeo. In seguito allo smantellamento dei controlli sui movimenti di capitali, si sosterrà, i sacrifici richiesti ai paesi europei diversi dalla Germania per mantenere la propria moneta agganciata al marco erano divenuti insopportabili (oltre che di incerta efficacia). Fu questa consapevolezza, fatta emergere con brutalità dalle crisi valutarie del 1992 e 1993, a dare l’impulso decisivo ad abbandonare il «sistema a guida marco» (Baffi, 1989, p. 55) e a riprendere l’antico pro-getto di abolire le monete nazionali – e con esse il problema della difesa del cambio – e di dar vita a una moneta unica europea, l’euro, capace meglio di quella tedesca di sfidare, in prospettiva, la supremazia del dollaro.

La seconda parte della relazione (§§ 5-7) si concentra sui principi che hanno presieduto alla formazione dell’Unione economica e monetaria (UEM) e sulle regole che ne governano il funzionamento. Tali principi e regole impediscono di contrastare adeguatamente l’attuale ristagno dell’economia europea, che fa seguito alla bassa crescita imposta dal funzionamen-to del Sistema monetario europeo. Il protratto rallentamento della crescita europea viene poi posto a confronto con la lunga espansione americana degli anni Novanta. Negli Stati Uniti, si argomenta, tutti gli strumenti disponibili – dalla politica fiscale a quella monetaria e del cambio, alla politica industriale – sono stati posti al servizio della crescita economica e del mantenimento di un elevato livello di occupazione, mentre un simile impegno è man-cato completamente nel caso dell’Europa.

Nella terza parte (§§ 8-10) si dà conto del modo radicalmente diverso in cui la teoria economica dominante – quella stessa teoria da cui sono state tratte le argomentazioni a favore della piena libertà di movimento dei capitali – spiega il ristagno dell’economia eu-ropea, nonché del sostegno che tale teoria offre alle politiche monetarie e fiscali adottate. Non bisogna dare troppa importanza alle teorie economiche, ma neppure troppo poca. Non sono esse, di solito, a decidere quale soluzione sarà adottata. Ma qualsiasi soluzione ha bisogno di argomentazioni in grado di sorreggerla. E queste risultano tanto più effica-ci quanto meno la teoria è incline a offrire a governi e parlamenti alternative fra le quali scegliere, e quanto più essa tende – come oggi è la norma – a proclamare verità assolute, bollando ogni dissenso come frutto dell’ignoranza (da parte dei cittadini) o di un oppor-

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tunismo senza scrupoli (da parte della classe politica). Parlando dell’ortodossia economica del suo tempo, Keynes ebbe a definirne gli insegnamenti «ingannevoli e disastrosi se si cerca di applicarli ai fatti dell’esperienza» (Keynes, 1978 [1936], p. 161). Dell’ortodossia economica del nostro tempo, così simile a quella combattuta da Keynes, credo si possa dire altrettanto.

2. CAMBI FISSI, LIBERTÀ DI MOVIMENTO DEI CAPITALI E AUTONOMIA DELLE POLITICHE MONE-TARIE NAZIONALI: UNA “TRIADE INCOMPATIBILE”

La ricostruzione dell’ordine economico internazionale, cui si pose mano nella fase finale della seconda guerra mondiale, non fu affatto ispirata a quel “fondamentalismo del libero mercato” che appare oggi dominante. Il patto sociale postbellico contemplò, al contrario, un impegno diretto dei governi nel promuovere la piena occupazione e nel dotare i paesi di sistemi di protezione sociale. Non si trattava solo di garantire la stabilità sociale, allontanando lo spettro della miseria e della disoccupazione di massa. E neppure solo di rispondere alla sfida rappresentata dall’esistenza dell’Unione Sovietica, con i suoi colossali successi economici (ottenuti proprio mentre le economie occidentali si dibattevano nella morsa della “grande depressione”) e la sua capacità di attrazione nei confronti delle masse lavoratrici di tutto il mondo. Si trattava anche, per i rappre-sentanti più avanzati del pensiero liberale, di mostrare che alti livelli di occupazione e di protezione sociale potevano essere ottenuti all’interno di un sistema democratico. Full employment in a free society, recita non a caso il titolo del Rapporto Beveridge (Beveridge, 1944).

Ciò richiedeva, però, che l’assetto economico internazionale fosse tale da non ostacola-re il raggiungimento di questi obiettivi. Un ritorno al gold standard, quale era stato tentato negli anni Venti, apparve perciò improponibile. Ingabbiare le diverse economie in un si-stema di cambi immodificabili avrebbe, infatti, richiesto che le esigenze della stabilità del cambio prevalessero sempre e comunque su quelle della politica di piena occupazione. Se, per esempio, le importazioni di un paese tendono a superare sistematicamente le esporta-zioni, e il tasso di cambio non può essere modificato, non resta che ricorrere, per corregge-re lo squilibrio delle partite correnti della bilancia dei pagamenti, a misure di contenimento della domanda interna (al cui effetto diretto sulle importazioni può aggiungersi, nel tempo, un aumento di concorrenzialità legato al rallentamento della dinamica salariale in presenza di una crescita della disoccupazione).

Simili misure non si limitano a deprimere, nel breve periodo, il livello dell’attività pro-duttiva, ma sono anche suscettibili di avere conseguenze negative di lungo periodo. Esse provocano infatti un rallentamento o una caduta degli investimenti – vuoi direttamente, come nel caso di una stretta creditizia, vuoi indirettamente, per il venir meno dello stimolo fornito da una sostenuta espansione della domanda – pregiudicando così la formazione di nuova capacità produttiva. Diminuirà, di conseguenza, non solo il reddito effettivo, ma anche il reddito potenziale (non solo il numero dei lavoratori occupati, ma anche quello dei lavoratori occupabili)3.

In considerazione di ciò gli accordi di Bretton Woods riconobbero la necessità di affidare alla variazione dei tassi di cambio, piuttosto che alle politiche di controllo del-

3 Questo aspetto sarà ripreso e sviluppato nel § 8.

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la domanda, il compito di correggere gli squilibri delle partite correnti della bilancia dei pagamenti4 (anche se il concreto funzionamento del sistema si ispirò solo in parte a questo principio: di ciò fra un momento). Un sistema di cambi flessibili, ossia modi-ficabili a opera del mercato, avrebbe tuttavia riaperto la strada, si temeva, alle violente fluttuazioni dei cambi che avevano caratterizzato gli anni Trenta. E bisognava anche impedire che i governi nazionali impiegassero il cambio come strumento di guerra commerciale. Questo era un altro degli insegnamenti degli anni Trenta. Quando una moneta si deprezza, la domanda catturata grazie alla maggiore concorrenzialità dei prodotti nazionali viene sottratta agli altri paesi. La disoccupazione è così “esportata” da un paese all’altro5. I paesi colpiti tendono a difendersi non solo manovrando a loro volta il cambio della propria moneta, ma anche innalzando barriere doganali, imponen-do quote di importazione e stipulando accordi bilaterali. È la fine del libero commercio internazionale.

Si optò dunque per un sistema di cambi modificabili per via amministrativa tutte le vol-te che vi fossero ragioni serie per farlo (i cosiddetti “squilibri fondamentali”). Le variazioni delle parità potevano avvenire per libera decisione dei singoli governi entro il limite del 10% delle parità iniziali e con il placet del Fondo monetario internazionale al di sopra di tale limite (ma senza che il Fondo potesse rifiutare una modifica volta ad adeguare il valore esterno della moneta al suo valore interno, né sindacare le scelte di politica economica che avevano reso necessario tale adeguamento).

La forma particolare che il sistema assunse fu quella dell’aggancio al dollaro delle al-tre monete accompagnato dalla convertibilità del dollaro in oro a un tasso prefissato (35 dollari per oncia di oro fino). Si apriva, tuttavia, un nuovo problema: fra una modifica della parità e l’altra il cambio doveva essere difeso dagli attacchi speculativi. Quando infatti si parla di cambi fissi, siano essi immodificabili (come nel caso del gold standard) o modificabili di tempo in tempo (come nel caso del sistema di Bretton Woods), ciò cui ci si riferisce è una regola di comportamento, che affida all’autorità monetaria il compito di impedire che il tasso di cambio si modifichi. In particolare, se una moneta tende a deprezzarsi l’autorità monetaria del paese è tenuta ad acquistarla sul mercato dei cambi per impedire che il deprezzamento vada oltre la banda di oscillazione consentita. Per ac-quistare la propria moneta occorre, tuttavia, disporre di valuta estera o essere in grado di farsela prestare dagli altri paesi (direttamente o attraverso apposite istituzioni monetarie internazionali). E né le riserve valutarie dei diversi paesi, né la loro capacità di indebitarsi sono illimitate.

Ne risulta che per difendere il cambio può essere necessario convincere i mercati a non vendere la moneta in questione. Il modo per ottenere questo risultato consiste nel

4 Una variazione del tasso di cambio è equivalente, dal punto di vista della concorrenzialità dei prodotti di un paese, a una variazione del livello generale dei prezzi. Sui costi sociali del tentativo di far diminuire i salari monetari e i prezzi, e su come essi possano essere evitati ricorrendo alla svalutazione della moneta, ha richiamato l’attenzione Keynes (1923). Irving Fisher ha paragonato la variazione dei tassi di cambio all’adozione dell’ora legale: come è assai più sem plice mettere avanti di un’ora tutti gli orologi che convincere ciascun abitante del paese ad alzarsi un’ora prima la mattina, così è assai più semplice far variare il tasso di cambio che fare affidamento, per ottenere lo stesso risultato, sulla variazione di una moltitudine di prezzi e di redditi monetari (cfr. Fisher, 1923, p. 101).

5 Gli effetti negativi sono, naturalmente, tanto più marcati quanto più il paese la cui moneta si deprezza è grande e occupa una posizione centrale nella rete degli scambi internazionali. Quando, nel 1933, gli acquisti di oro da parte del governo americano fecero diminuire il valore aureo del dollaro del 40%, gli Stati Uniti si comportarono, in realtà, come se fossero stati un paese periferico, che non ha motivo di tenere conto delle conseguenze sistemiche dei suoi comportamenti.

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tenere alti i tassi di interesse. Ciò è vero, in particolare, quando i mercati ritengono che una moneta possa essere svalutata. I titoli denominati in quella moneta verranno allora tenuti solo se offrono un tasso di interesse sufficientemente elevato da compensare il rischio di cambio. Le condizioni dell’economia interna possono tuttavia richiedere una politica monetaria espansiva, capace di favorire la crescita del reddito e dell’occupa-zione. È, appunto, per consentire alla politica monetaria di porsi al servizio di questi ultimi obiettivi, sollevandola dal compito di difendere il cambio, che negli accordi di Bretton Woods venne prevista l’imposizione di controlli amministrativi sui movimenti di capitali.

La modificabilità dei tassi di cambio e le restrizioni alla libertà di movimento dei capitali svolgono dunque, nell’architettura del sistema di Bretton Woods, due funzio-ni distinte e complementari: la modificabilità dei tas si di cambio consente di evitare i costi, di breve e di lungo periodo, di un riequilibrio delle partite correnti della bilancia dei pagamenti ottenuto attraverso l’adozione di misure restrittive; i controlli servono invece a rendere possibile la stabilità dei cambi, o il governo della loro varia-zione, salvaguardando nel contempo l’autono mia della politica monetaria nazionale (in realtà dell’intera politica eco nomica nazionale, perché elevati tassi di interesse aggravano l’onere del debito pubblico, ostacolando, o rendendo impraticabile, una politica fiscale espansiva). A ciò va aggiunto che l’aumen to dei tassi d’interesse è più efficace nel compensare attese di svalutazione a data incerta che nell’arginare un at-tacco specula tivo in atto; poiché per scoraggiare un’operazione speculativa destinata a concludersi nel giro di pochi giorni il tasso annuale di interesse dovrebbe salire a livelli tali da risultare insopportabili, dopo breve tempo, per qualsiasi economia6. In questo caso l’alternativa ai controlli sui movimenti di capitali non è la semplice perdita della libertà d’azione della politica mo netaria, ma la resa incondizionata alla speculazione7.

H. G. Wallich (alla cui formulazione del problema mi sono ispirato nelle considerazioni precedenti) ha parlato di una «triade inconciliabile» (Wallich, 1973, p. 297) formata da:1. cambi fissi;2. libertà di movimento dei capitali;3. autonomia della politica monetaria nazionale.

Non possiamo avere le tre cose insieme. Ma possiamo scegliere quale sacrificare per salvaguardare le altre due. Se consideriamo il sistema di Bretton Woods come un sistema di cambi fissi, possiamo dire che i suoi artefici scelsero di sacrificare la libertà di movimen-to dei capitali per salvaguardare gli altri due elementi della triade. Ma, come sappiamo, il sistema di Bretton Woods funzionava come un sistema di cambi fissi solo fra una modifica dei tassi di cambio e l’altra. I controlli sui movimenti di capitali servivano dunque a porre le monete al riparo da attacchi speculativi non giustificati da squilibri fondamentali e a

6 Lo stesso ragionamento spiega perché la Tobin tax può essere così bassa da non incidere in modo significativo sui movimenti di capitale a lungo termine e da scoraggiare, al tempo stesso, la speculazione sulle monete quanto un saggio di interesse molto elevato. Pagare, per esempio, l’1% quando si vende una moneta e un’altra volta l’1% quando, una settimana dopo, la si riacquista equivale a pagare un tasso di interesse settimanale di circa il 2%, pari a un tasso di interesse annuale superiore al 100% (da aggiungersi al tasso di interesse al quale viene finanziata l’operazione).

7 «Dopo l’esperienza del decennio 1930-1940», ha scritto nel corso della guerra un acuto osservatore di quell’espe-rienza, «è poco probabile che qualsiasi governo vorrà mai più concedere a individui privati completa libertà di minac-ciare la stabilità economica del loro paese – e di altri – e di sabotare la politica economica nazionale mandando il loro denaro all’estero» (Arndt, 1944, trad. it., p. 466).

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consentire ai governi, in presenza di squilibri fondamentali, di scegliere i tempi e i modi della variazione dei tassi di cambio8.

Tuttavia, dando tempo al tempo, i controlli sui movimenti di capitale sono sempre, in qual-che misura, aggirabili. A essi non si può dunque chiedere di arginare una protratta tendenza a vendere monete di cui i mercati considerano inevitabile la svalutazione. Se i governi sono riluttanti a svalutare, bisogna allora innalzare i tassi di interesse e mettere mano alle riserve va-lutarie. Nel concreto operare del sistema di Bretton Woods la svalutazione della moneta venne spesso considerata dai governi come un’evenienza estrema, cui rassegnarsi solo dopo aver difeso il cambio al limite delle possibilità. Questo fece sì che il carattere distintivo del sistema di Bretton Woods venisse talvolta riconosciuto non nella modificabilità dei tassi di cambio, ma nell’impegno (che sotto certe condizioni poteva non essere mantenuto) ad assicurarne la stabilità9. (In quel che precede non è apparso tuttavia fuori luogo, al fine di chiarire la logica di un sistema di “cambi fissi ma modificabili”, prescindere da questi aspetti, supponendo che i cambi venissero modificati senza ritardo ogni volta che se ne presentasse l’esigenza, come avrebbe dovuto avvenire nella concezione originaria del sistema di Bretton Woods10, e come del resto molte volte avvenne.)

All’inizio degli anni Settanta il sistema di Bretton Woods venne abbandonato. Il persi-stente disavanzo della bilancia dei pagamenti americana, che aveva a lungo rappresentato una preziosa fonte di liquidità internazionale, svolgendo un ruolo di primo piano nel sostenere la crescita mondiale, finì per scuotere la fiducia nel dollaro. L’impossibilità di frenare l’ondata delle conversioni dei dollari in oro condusse alla dichiarazione di inconvertibilità del dollaro e al successivo passaggio a un sistema di cambi flessibili. Venne meno, con ciò, la giustificazione dei controlli dei movimenti di capitali fornita dallo schema di Wallich. Quanto agli effetti destabilizzanti dei movimenti di hot money, un quarto di secolo di cambi governati ne aveva probabilmente appannato il ricordo. Simili preoccupazioni passavano, comunque, in secondo piano di fronte all’accresciuto potere e alla rinnovata vocazione internazionale delle grandi banche americane (e inglesi), che nel decennio successivo – caratterizzato dal forte aumento del prezzo del petrolio – avrebbero trovato un fruttuoso campo d’azione nel riciclaggio dei petrodollari. La supremazia finanziaria si avviava, inoltre, a divenire (insieme a quella milita-re) lo strumento cui l’egemonia americana, che a quel tempo appariva vacillante sul terreno industriale, avrebbe affidato la propria capacità di perpetuarsi. E l’esercizio di tale supremazia richiedeva che i vincoli posti alla libertà d’azione dei centri finanziari venissero rimossi, negli Stati Uniti e altrove.

8 Nel riprendere lo schema di Wallich, T. Padoa-Schioppa (1987b, pp. 114) parla di «cambi fissi (o comunque governati)». Attraverso l’aggiunta della «libertà degli scambi commerciali» (1982, p. 35), Padoa-Schioppa trasforma la “triade incompatibile” di Wallich in un “quartetto inconciliabile” (1987b, p. 114).

9 Il più illustre critico del sistema di Bretton Woods, Milton Friedman, riprende in un saggio famoso (Friedman, 1953, p. 173) il paragone di Fisher fra la variazione dei tassi di cambio e l’adozione dell’ora legale (cfr. supra, nota 4). Egli lo usa, tuttavia, per illustrare i vantaggi di un sistema di cambi flessibili rispetto al sistema di Bretton Woods. Lo spartiacque rilevante non era più, come per Keynes (cfr. infra, nota 10), quello che passa fra i cambi fissi e i cambi mo-dificabili, ma quello che separa i cambi flessibili dai cambi non flessibili (ossia tenuti fermi, non importa se stabilmente o solo temporaneamente, dall’intervento delle autorità monetarie).

10 «Siamo decisi a far sì che in futuro il valore esterno della sterlina si conformi al suo valore interno, quale sarà de terminato dalle politiche che adotteremo, e non sia invece il va lore interno a conformarsi a quello esterno. In secondo luogo, intendiamo avere il controllo sul nostro tasso di interesse in terno, così da poterlo tenere tanto basso quanto serve ai nostri fini, senza subire l’interferenza del flusso e riflusso dei movi menti internazionali di capitale o delle fughe di hot money. In terzo luogo, […] rinunciamo solennemente all’impiego del tasso di sconto e della contrazione del credito, che operano attraverso l’aumento della disoccupazione, come mezzi per adeguare la nostra economia a fattori di origine esterna». Così Keynes, parlando alla House of Lords il 23 maggio 1944 (Keynes, 1944, p. 17).

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3. IL SISTEMA MONETARIO EUROPEO CON E SENZA CONTROLLI SUI MOVIMENTI DI CAPITALI

Alla trasformazione della Comunità Economica Europea in una Unione monetaria si era cominciato a pensare già negli ultimi, tormentati, anni di vita del sistema di Bretton Woods. Tale obiettivo venne esplicitamente fatto proprio dalla Comunità nel vertice dei capi di stato e di governo tenutosi all’Aia nel dicembre 1969, che incaricò un gruppo di lavoro presieduto dal primo ministro del Lussemburgo, Pierre Werner, di presentare proposte operative al riguardo. L’anno successivo il “Rapporto Werner” (Werner, 1970) prefigurava un percorso che avrebbe dovuto portare all’Unione monetaria nell’arco di un decennio11. Accanto all’intenzione dichiarata di promuovere una sempre più stretta integrazione economica e politica fra i paesi della Comunità, vi era quella di dar vita a una moneta12 capace di assumere un crescente ruolo internazionale via via che la stella del dollaro declinava13.

La crisi del sistema di Bretton Woods e la successiva fase di instabilità dei cambi indus-sero tuttavia ad accantonare l’obiettivo dell’Unione monetaria e a ripiegare su soluzioni meno ambizione, intese a dar vita a un’area di relativa stabilità valutaria in Europa. Nel 1972 fu istituito il meccanismo noto come il “serpente nel tunnel”, dove il “serpente” allu-deva ai ristrettissimi margini di fluttuazione fra le monete europee e il “tunnel” a quelli, più ampi, entro cui veniva consentito loro di fluttuare congiuntamente nei confronti del dol-laro. Le turbolenze monetarie degli anni successivi misero a dura prova il “serpente” che conobbe varie defezioni risultando alla fine formato solo dal marco e da quattro altre mo-nete: quelle dei paesi del Benelux e la corona danese14. Un’inversione di tendenza si ebbe nel 1978 con l’istituzione del Sistema monetario europeo (SME). Il ripristino di un sistema di cambi “fissi ma modificabili” su scala europea veniva corredato dall’adozione di un pa-niere di monete, denominato ECU (European Currency Unit), come numerario del sistema: un’innovazione di alto valore simbolico – letto alla francese, ECU diventava indistinguibile da ÉCU, scudo, che è il nome di una vera moneta – ma di scarso rilievo pratico. Nel valutare le ragioni che indussero a regolamentare la variazione dei tassi di cambio intra-europei può essere utile considerare il problema dapprima dal punto di vista della Germania e poi da quello degli altri paesi.

Nella prima metà degli anni Ottanta il valore del dollaro era sceso da circa 4 a circa 2,5 marchi per effetto della spregiudicata strategia svalutazionistica dell’amministrazione Ni-xon. Dopo essersi stabilizzato a quel livello per qualche tempo, il valore del dollaro aveva ripreso a scendere, portandosi al di sotto dei 2 marchi. Entro certi limiti, l’apprezzamento del marco veniva accettato di buon grado, e perfino incoraggiato, dalla Bundesbank. Esso stimolava l’efficienza dell’industria, la delocalizzazione produttiva e il progressivo sposta-mento verso produzioni meno sensibili alla concorrenza di prezzo. E consentiva, inoltre, di importare materie prime e beni di consumo a buon mercato, contribuendo così a moderare

11 È interessante osservare che il Rapporto prevedeva che l’eliminazione dei controlli sui movimenti di capitali dovesse avvenire solo nella fase finale del processo di transizione, quando le diverse monete avrebbero iniziato a comportarsi come una moneta unica.

12 Formalmente il Rapporto Werner lasciava aperta la possibilità che venissero mantenuti i simboli monetari nazionali, pur osservando che l’adozione di un nuovo simbolo avrebbe segnalato con maggior forza l’irreversibilità della scelta compiuta.

13 Scalzare il dollaro dalla sua posizione di centro del sistema monetario internazionale è stato definito da Wyplosz (1999, p. 76) «the hidden agenda of Europe’s long-planned adoption of a single currency».

14 La Danimarca, la Gran Bretagna e l’Irlanda sono entrate a far parte della Comunità Economica Europea il 1° gennaio 1973.

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l’aumento dei prezzi e dei salari. Al tempo stesso le esportazioni di beni di investimento, cui la Germania ha sempre affidato in misura non piccola le sue fortune industriali, soffri-vano solo moderatamente della perdita di concorrenzialità, essendo più sensibili a fattori diversi dal prezzo, e segnatamente al sostegno fornito loro dai crediti commerciali elargiti ai paesi importatori e dagli investimenti diretti all’estero. Per alimentare un ingente flusso di crediti commerciali e investimenti diretti servivano però saldi attivi delle partite correnti e una moneta forte, capace di attrarre capitali dal resto del mondo. È in questa cornice che deve essere valutata la severa politica monetaria della Bundesbank, che non si comprende – a mio avviso – se le si attribuisce solo l’intento di tenere alta la guardia sul fronte dell’in-flazione attraverso il controllo della quantità di moneta (e il periodico invio di messaggi di moderazione a imprenditori e sindacati).

Nell’industria tedesca – un’industria senza uguali per quota del prodotto sul reddito nazionale e per contributo alle esportazioni mondiali – i settori sensibili alla concorrenza di prezzo restavano, tuttavia, robustamente presenti. Essi risultavano danneggiati dall’apprez-zamento del marco nei confronti delle altre monete europee, che tendeva ad accompagnare quello nei confronti del dollaro (benché la perdita di concorrenzialità risultasse temperata dalla minore inflazione tedesca). Di qui l’interesse della Germania a legare al marco le altre monete europee, evitando che esse si muovessero di conserva con il dollaro – o, comunque, divergessero dal marco quando l’afflusso di capitali ne determinava l’apprezzamento. La stabilità dei cambi all’interno dello SME avrebbe, inoltre, distribuito l’afflusso di capitali fra le diverse monete, rendendo più facile per la Bundesbank contrastare l’apprezzamen-to del marco nei confronti del dollaro quando esso venisse ritenuto eccessivo. Rispetto a questa evenienza la Germania si trovava infatti indifesa per due motivi. Il primo è che essa, interessata come si è detto a sollecitare afflussi di capitale e tesa a costruire il suo ruolo di grande potenza finanziaria internazionale, aveva iniziato per tempo a smantellare i controlli sui movimenti di capitali. Massicci interventi a sostegno del dollaro si sarebbero tradotti d’altra parte, questo è il secondo motivo, in una creazione non desiderata di liquidità, mettendo a repentaglio l’orientamento restrittivo della politica monetaria tedesca. (A simili interventi la Bundesbank fece tuttavia ricorso in alcune occasioni).

Nel determinare l’adesione allo SME da parte degli altri paesi, e poi nel farne accettare i costi, ebbe probabilmente un ruolo la preoccupazione che un’elevata instabilità dei cambi ostacolasse il processo di creazione di un mercato unico europeo (e mettesse in discussione la sopravvivenza della politica agricola comunitaria). Un importante aiuto venne, inoltre, da due fattori: l’inaspettata fase di apprezzamento del dollaro, che coprì tutta la prima metà degli anni Ottanta, e i riallineamenti delle parità centrali – ossia le modifiche dei tassi di cambio posti al centro delle bande di oscillazione delle monete – che ebbero luogo, con maggiore o minore frequenza, fino al 1987 e che comportarono un considerevole apprez-zamento del marco nei confronti delle altre monete. Nonostante tali riallineamenti, i diffe-renziali di inflazione fecero sì che il marco si deprezzasse in termini reali nei confronti delle altre monete europee, e questo, combinandosi con un intenso processo di ristrutturazione, consentì all’industria manifatturiera tedesca di riguadagnare quote di mercato perfino in settori, come il tessile e abbigliamento, che si ritenevano destinati a essere abbandonati. L’apprezzamento del dollaro, unendosi alla poderosa ripresa americana, sosteneva tuttavia le esportazioni europee, rendendo tollerabile per Italia e Francia l’accumularsi di pesanti saldi passivi nei confronti della Germania. (A determinare tali saldi passivi contribuiva, insieme con il deprezzamento reale del marco, la debole crescita della domanda interna tedesca: tornerò su questo fra breve.)

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Successivamente un altro elemento acquistò peso, fino a divenire dominante, nel determinare l’atteggiamento dei paesi diversi dalla Germania. L’aggancio delle loro mo-nete al marco fu infatti visto da questi paesi come lo strumento principe della politica anti-inflazionistica in cui essi erano impegnati. La giustificazione tradizionale di una simile linea di condotta risiede nella funzione disciplinare del cambio, ossia nell’osta-colo che ne deriva alla concessione di generosi aumenti salariali (di cui la concorrenza estera ostacola il trasferimento nei prezzi) e nella pressione cui le imprese sono sotto-poste affinché riducano i costi attraverso ristrutturazioni e razionalizzazioni. A questa giustificazione se ne affiancava ora un’altra, basata sulla seguente idea: che l’impegno anti-inflazionistico di un governo genera, qualora sia giudicato credibile, aspettative che favoriscono la disinflazione; e che un modo molto efficace per rendere credibile tale impegno consiste nella parallela, solenne assunzione dell’impegno a mantenere stabile il cambio con la moneta di un paese a bassa inflazione; poiché questo secondo impegno – che impone, in prospettiva, l’azzeramento, e addirittura un temporaneo cambiamento di segno, del differenziale di inflazione fra i due paesi – non può essere disatteso senza sopportare un elevato costo politico.

L’interpretazione dello SME che fa leva sulle sue proprietà anti-inflazionistiche (teoriz-zate in uno dei due modi appena detti) guadagnò progressivamente terreno nel corso degli anni Ottanta, fornendo la base a una profonda modificazione del modus operandi dello SME: a partire dal 1987 non si ebbero ulteriori riallineamenti, e lo SME funzionò fino al 1992 come un sistema di cambi propriamente fissi. Si era frattanto chiusa, nel 1985, la fase di apprezzamento del dollaro, e a essa era subentrata una fase di deprezzamento. I disavanzi degli altri paesi europei nei confronti della Germania non potevano pertanto essere com-pensati da avanzi nei confronti degli Stati Uniti (e del resto del mondo) com’era avvenuto nella prima metà degli anni Ottanta. Restava, come unica strada, il ricorso a politiche di contenimento della domanda interna.

Prendeva forma così il “modello di bassa crescita” europeo. La crescita del paese cen-trale, la Germania, è trainata dalle esportazioni (tranne nel periodo immediatamente suc-cessivo alla riunificazione del paese). L’orientamento restrittivo della politica monetaria e fiscale, sommandosi alla concorrenzialità garantita dalla bassa inflazione tedesca in presen-za di stabilità dei cambi, consente alla Germania di accumulare saldi attivi nei confronti degli altri paesi europei. L’onere del riequilibrio ricade integralmente su questi ultimi, che vi provvedono tramite politiche di contenimento della domanda (rifiutandosi il paese in avanzo di provvedervi attraverso proprie politiche espansive). Questo carattere asimmetri-co del meccanismo di aggiustamento venne più volte denunciato dal governo francese. E anche il governo italiano si associò, almeno in un’occasione, all’accusa, rivolta alla Germa-nia, di «sottrarre potenziale di crescita agli altri paesi» (Amato, 1988, p. 95).

Ad aggravare ulteriormente la situazione provvedeva frattanto la liberalizzazione dei movimenti di capitali, già completata dalla Germania alla fine degli anni Settanta e pro-gressivamente estesa agli altri paesi nel decennio successivo. Per avere cambi fissi (e di fatto non più soggetti a modificazioni) all’interno dell’Europa e libertà di movimento dei capitali (all’interno e all’esterno di essa) bisognava – si ricordi lo schema di Wallich – sacrificare l’autonomia delle politiche monetarie nazionali. Ed è quel che si fece. L’aggancio delle altre monete al marco poté essere mantenuto (per non più di un paio d’anni), ma solo al prezzo di politiche monetarie fortemente restrittive.

Secondo la teoria economica dominante, i cui orientamenti nel corso del tempo era-no profondamente mutati, la rinuncia all’autonomia della politica monetaria era un sa-

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crificio da compiere senza rimpianti. Una politica monetaria espansiva, si riteneva ora, avrebbe avuto l’unico risultato di innalzare stabilmente il tasso di inflazione senza alcun beneficio, o con un beneficio soltanto temporaneo, per l’occupazione (su questi aspetti della macroeconomia contemporanea tornerò nel § 8). A un’autonomia capace di por-tare soltanto a un risultato così disastroso si poteva tranquillamente, e anzi si doveva, rinunciare. Imponendo tale rinuncia a governi sempre tentati di guadagnare consensi con nefaste politiche espansive, la liberalizzazione dei movimenti di capitali svolgeva dunque un ruolo benefico.

Di ben altra consapevolezza dei costi della difesa del cambio in assenza di controlli sui movimenti di capitali diedero prova gli estensori di un rapporto predisposto per la Commissione europea nel 1986-87, i quali giunsero a chiedersi se, in concomitanza con la liberalizzazione dei movimenti di capitali, non convenisse passare ai cambi flessibili. La conclusione negativa, ci informa T. Padoa-Schioppa (1987, p. 87a), fu raggiunta con fatica. Non volendosi tornare ai cambi flessibili, per i pericoli che ciò avrebbe comportato per l’integrazione economica europea, né rinunciare alla liberalizzazione dei movimenti di capitali, restava aperta un’unica possibilità: procedere all’unificazione monetaria. Gli elevatissimi costi sociali sopportati dalla Francia per mantenere stabile il cambio con il marco – e il fatto che la speculazione, nonostante ciò, non desse tregua al franco – fecero del governo francese il principale paladino di questa soluzione15. Nel garantire l’adesione a essa della Germania può aver giocato, nell’immediato, il desiderio di ottenere il con-senso della Francia all’annessione delle regioni orientali già appartenenti alla Repubblica Democratica Tedesca, nonché al prospettato allargamento a Est della costruzione euro-pea. Ma, a un livello più profondo, non si può non considerare che nella nuova situazio-ne l’unificazione monetaria rappresentava l’unico modo per salvaguardare efficacemente l’esigenza di fare dell’Europa un’area di stabilità valutaria. E non va neppure dimenticato che confrontata con il marco (che aveva rappresentato fino ad allora il centro del sistema, e cui gli svolgimenti politici in corso nell’Europa centro-orientale sembravano promettere un ruolo ancora maggiore) la moneta unica europea presentava il vantaggio di basare la propria aspirazione a sfidare la supremazia del dollaro su un più ampio retroterra econo-mico.

4. DAL TRATTATO DI MAASTRICHT ALL’EURO

Per raccogliere l’eredità del marco, l’euro doveva nascere, si convenne, con caratteri-stiche simili a quelle della moneta tedesca. Fu perciò deciso che la futura Banca Centrale Europea (BCE)16 si conformasse al modello tedesco di banca centrale, caratterizzato da una piena indipendenza e da un forte orientamento “conservatore” nella definizione dei propri obiettivi. E fu posta l’ulteriore condizione che le politiche fiscali dei governi nazionali fos-sero improntate a un criterio di rigore finanziario, così da evitare aumenti non desiderati dei tassi di interesse e da mettere al riparo la BCE dalla necessità di soccorrere – violando il proprio statuto – i governi minacciati da una crisi finanziaria.

15 Nel gennaio 1988 il ministro delle Finanze francese, Balladur, presentò all’ECOFIN un memorandum nel quale si denunciava per l’ennesima volta il carattere asimmetrico dello SME e si indicava come “unica soluzione possibile” un rapido processo di unificazione monetaria. Cfr. Gros, Thygesen (1992, p. 312).

16 Sarebbe più corretto, per la verità, riferirsi al Sistema europeo delle banche centrali, composto dalla BCE e dalle Banche centrali nazionali.

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Per quanto riguarda, in particolare, l’aspetto fiscale (su quello monetario tornerò nel § 5), il Trattato di Mastricht, stipulato nel febbraio 1992, prevedeva che i disavanzi e i debiti pubblici si attestassero su livelli non superiori, rispettivamente, al 3 e al 60% del PIL17. La formulazione era tuttavia assai più stringente per il primo limite che per il secondo (di cui sarebbe stato irrealistico pretendere il rispetto a tempi brevi da parte di un paese come l’Italia, con un rapporto debito/PIL più che doppio rispetto all’obiettivo18). E soltanto il primo limite veniva menzionato fra le condizioni che i paesi membri della Comunità avrebbero dovuto soddisfare per entrare a far parte dell’Unione monetaria19. Per il perio-do successivo all’entrata in vigore di quest’ultima, il Patto di stabilità e crescita, stipulato nel 1996, rendeva più stringente il vincolo imposto dal Trattato di Maastricht sui disavanzi pubblici, indicando nel pareggio del bilancio l’obiettivo che i paesi membri avrebbero dovuto perseguire nel medio termine (la possibilità di raggiungere un disavanzo del 3% del PIL restando ammessa nel caso di una diminuzione del gettito fiscale dovuta a una recessione).

Nella fase di transizione, che sarebbe dovuta durare dal 1992 fino all’adozione della moneta unica europea – per la quale il Trattato di Maastricht indicava il termine ultimo del 1 gennaio 1999, e che ebbe effettivamente luogo in tale data – la difesa del cambio da parte dei paesi a rischio di svalutazione restava affidata a una politica di alti tassi di interesse. Nel caso dell’Italia tale politica, adottata già da anni, aveva anche l’effetto – visto di buon occhio dalla Banca Centrale – di esercitare una forte pressione sul governo, ponendolo di fronte all’alternativa fra seguire una linea di maggior rigore fiscale o esporre il paese a una crescita esponenziale del debito pubblico (poiché la necessità di pagare alti interessi fa aumentare il debito, e la crescita del debito fa aumentare il volume degli interessi da pagare – ed eventualmente i tassi stessi per la diminuita affidabilità del debitore). Benché la linea di farsi imporre dall’esterno una disciplina che il paese non pareva in grado di darsi da sé abbia ottenuto qualche indubbio successo (contribuendo, fra l’altro, a minare le basi del sistema partitocratico-affaristico al potere), essa comportò anche costi molto elevati. E non solo per le sue già ricordate conseguenze sul debito pubblico (e sul debito estero), ma anche per l’effetto sull’economia delle misure restrittive adottate e per la penalizzazione derivante all’industria dal cumularsi nel tempo dei differenziali di inflazione (pur in una fase di convergenza dell’inflazione corrente).

L’insostenibilità, alla lunga, di una simile situazione rappresentava un invito a noz-ze per la speculazione. Contro la quale, come ho già avuto modo di osservare, tassi di interesse anche molto elevati rappresentano un’arma spuntata. Proprio nel 1992, all’indomani del Trattato di Maastricht, i nodi vennero al pettine. La convinzione della Banca d’Italia era probabilmente che, nel caso di un attacco speculativo, l’impegno a difendere i tassi di cambio, garantendo così una transizione indolore alla moneta uni-ca, non sarebbe ricaduto sulle banche centrali dei singoli paesi, ma sull’insieme delle banche centrali dei paesi partecipanti all’accordo di cambio. Concludendo uno scritto composto presumibilmente nel 1992, T. Padoa-Schioppa affermava che «l’impegno a difendere i tassi centra li dello SME è destinato a rappresentare il nucleo della coopera-zione fra i paesi europei fino al passaggio alla completa unione economica e monetaria» (Padoa-Schioppa, 1993, p. 827).

17 Art. 104 e Protocollo sulla Procedura di deficit eccessivo.18 Il rapporto debito/PIL dell’Italia raggiunse il suo livello massimo, pari al 124,9%, nel 1994.19 Art. 109.

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Nessun impegno del genere era stato, tuttavia, assunto dalla Bundesbank20, che anzi non perdeva occasione per manifestare la sua insofferenza nei confronti dell’osti-nazione con cui la politica di aggancio al marco veniva perseguita dalle altre banche centrali, e la sua preoccupazione per i fattori di instabilità che in conseguenza di tale politica venivano accumulandosi. Lo stesso Trattato di Maastricht parve, del resto, lanciare un segnale inequivocabile ponendo la condizione, per l’ammissione di un pa-ese all’Unione monetaria, che la sua moneta non fosse stata svalutata nei due anni pre-cedenti (una disposizione che di fatto dava via libera ai riallineamenti, purché avessero luogo prima del limite dei due anni). Al tempo della riunificazione, e dell’espansione della domanda interna a essa collegata, la Germania aveva proposto di procedere a una rivalutazione unilaterale del marco volta a far sì che l’eccesso di domanda si scaricasse all’estero senza passare attraverso l’aumento dei prezzi. Di fronte al dinie-go opposto dagli altri paesi (in particolare dalla Francia, che considerò la richiesta insultante), la Bundesbank aumentò progressivamente i tassi di interesse, incurante del fatto che questo avrebbe resa assai difficile per gli altri paesi la difesa del cambio. La speculazione comprese che a tale difesa la Bundesbank non era interessata e, nella seconda metà del 1992, passò all’attacco21. La lira e la sterlina abbandonarono lo SME e presero a fluttuare. A un successivo attacco speculativo (1993), che prese di mira il franco francese, lo SME sopravvisse, ma solo poco più che formalmente, grazie a un abnorme ampliamento della banda di oscillazione.

Fra il 1992 e il 1995 la lira si deprezzò del 50% nei confronti del marco. Le esportazioni italiane esplosero già all’indomani dell’inizio della fluttuazione, sorprendendo gli economi-sti e testimoniando quanto la nostra industria esportatrice fosse stata penalizzata, negli anni precedenti, dalla sopravalutazione della lira e quanto poco ponderato fosse il progetto di scivolare senza scosse nella moneta unica sulla base delle vecchie parità centrali. La Francia iniziò a invocare misure protezionistiche contro quella che considerava una forma di con-correnza sleale. E, almeno in un caso, passò dalle parole ai fatti, concedendo all’industria tessile sgravi fiscali che non erano altro che un dazio mascherato. Il mercato unico euro-peo iniziava a sgretolarsi. La Germania abdicava frattanto al ruolo di “locomotiva” svolto subito dopo la riunificazione, quando i massicci interventi a favore delle regioni orientali avevano dato un forte impulso alla domanda interna e alle importazioni, e tornava alla sua antica vocazione “mercantilista”. Era tempo di porre fine al disordine monetario in Europa e di riprendere il cammino verso l’Unione monetaria. Restava da decidere quanto ampia dovesse essere la rosa dei paesi ammessi fin dall’inizio a farne parte. Il rispetto del limite del 3%, si argomentò, doveva essere non solo osservato scrupolosamente – “tre virgola zero”, scandiva il ministro delle Finanze tedesco – ma anche reso sostenibile nel tempo dall’ado-

20 Secondo un’opinione che ho udito ripetere più volte, la convinzione della Banca d’Italia si fondava su una par-ticolare interpretazione degli accordi di Basilea-Nyborg (Settembre 1987). Ora, tali accordi vincolavano la Germania a una generosa fornitura di prestiti a brevissimo termine ai paesi la cui moneta fosse stata fatta oggetto di attacchi speculativi. Ma non la vincolavano certo – come la Bundesbank non avrebbe mancato di far notare all’indomani della crisi – a considerare immodificabili le parità esistenti (cfr. Deutsche Bundesbank, 1993, p. 84). Ciò fu chiarito esemplarmente dallo stesso Padoa-Schioppa poco dopo la conclusione degli accordi. «Naturalmente – egli scrisse – continueranno a presentarsi casi in cui le pressioni sui tassi di cambio sono pienamente giustificate da divergenze di costo e di prezzo. Come nel passato, la risposta migliore sarà un riallineamento dei tassi di cambio […]. Tuttavia […] vi saranno anche circostanze di altro tipo in cui le tensioni saranno alimentate dai movimenti di capitale, anche se si potrà sempre dire che divergenze “reali” di entità trascurabile ne sono la causa. L’atteggiamento da tenere in tali circostanze sarà di non considerare le pressioni sui mercati valutari come condizione sufficiente per procedere a un riallineamento» (Padoa-Schioppa, 1987b, p. 116).

21 Questa versione dei fatti è quella fornita da un protagonista: G. Soros (1994, p. 78).

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zione di misure non occasionali ed effimere (era questa, del resto la preoccupazione che aveva ispirato il Patto di stabilità).

Per l’Italia, la cui ammissione fu in forse fino all’ultimo, restare fuori della moneta unica avrebbe significato mantenere stabile il cambio – per candidarsi all’ingresso due anni dopo – contando unicamente, come per il passato, sulle proprie forze, ossia sull’elevatezza dei tassi di interesse, e restando esposta ai colpi della speculazione (con il rischio, paventato dalla Francia, che si aprisse una nuova fase di deprezzamento della lira). Qualora, invece, l’Italia fosse stata ammessa, i suoi tassi di interesse si sarebbero allineati a quelli tedeschi, portando un decisivo sollievo all’economia e ai conti pubblici. Fu questa la grande scom-messa del governo Prodi. La politica di risanamento del bilancio, impostata già da anni (con gravi sacrifici, soprattutto per il Mezzogiorno), venne continuata, anche con misure straordinarie, fino a portare il rapporto disavanzo/PIL al traguardo del 3%. L’Italia ebbe l’euro e la riduzione dei tassi di interesse. E si pose al riparo dalle tempeste valutarie che avrebbero squassato il mondo negli anni successivi.

5. L’ARCHITETTURA DELL’UNIONE MONETARIA: LA BANCA CENTRALE EUROPEA

L’adozione di una moneta unica, e il conseguente venir meno della necessità di finan-ziare in valuta i disavanzi delle bilance dei pagamenti intra-europee, crea una condizione ideale per l’attuazione di politiche di sostegno della domanda e di promozione dell’accu-mulazione del capitale. In Italia, in particolare, le fasi di intensa accumulazione conduceva-no solitamente, per la carenza di materie prime e di fonti di energia e per l’incompletezza della struttura produttiva del paese, a forti aumenti delle importazioni e al conseguente peggioramento della bilancia dei pagamenti (aggravato il più delle volte da esportazioni di capitali). Per fronteggiare tale peggioramento si faceva ricorso a misure di restrizione monetaria, ponendo fine prematuramente alla fase di espansione e bloccando il processo accumulativo. Ora questo non ha più motivo di avvenire. Al posto del vincolo estero delle economie nazionali vi è infatti, dal punto di vista valutario, un unico vincolo estero, che corre lungo i confini dell’Unione monetaria. Si tratta, inoltre, di un vincolo assai meno stringente non solo perché i tassi di cambio fra l’euro e le altre monete fluttuano libera-mente, ma anche perché il grado di apertura dell’area dell’euro alle importazioni dal resto del mondo è assai più basso di quello dei singoli paesi che ne fanno parte (essendo questi ultimi molto aperti gli uni nei confronti degli altri). Sostenere la domanda, l’attività pro-duttiva e la crescita non è tuttavia, come vedremo, l’obiettivo in vista del quale l’Unione monetaria è stata costituita.

Per quanto riguarda la Banca Centrale Europea, che essa non sia nata per promuovere la piena occupazione è reso chiaro dal Trattato di Maastricht, che all’art. 105 le assegna come «obiettivo prioritario» il «mantenimento della stabilità dei prezzi». È solo «fatto sal-vo l’obiettivo della stabilità dei prezzi», che la BCE «sostiene le politiche economiche gene-rali della Comunità» (ossia, oggi, dell’Unione Europea). La Federal Reserve, che fornisce un naturale termine di paragone, ha invece due obiettivi statutari: la stabilità dei prezzi e la piena occupazione.

Il confronto con la Fed fa risaltare un’altra peculiarità della BCE, e cioè la natura asso-luta della sua indipendenza. La Fed è indipendente dal governo, ma non dal Congresso degli Stati Uniti, cui deve rendere conto del suo operato. La BCE non deve rendere conto a nessuno. È una potenza sovrana, non soggetta ad alcun controllo, con un suo

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“obiettivo principale”, che essa ha quantificato in un tasso di inflazione non superio-re al 2% (anche se, quando il mondo ha per un momento tremato per il rischio della deflazione, la BCE ha riconosciuto l’opportunità che il tasso di inflazione non scendesse troppo al di sotto di quella soglia). Inoltre, lo statuto della Fed può essere modificato dal Congresso. E perfino lo statuto della più indipendente fra le banche centrali nazionali, la Bundesbank, può essere modificato dal parlamento tedesco. Per modificare lo statuto della BCE occorrerebbe invece la revisione di un trattato internazionale, con l’accordo di tutti i paesi firmatari (e probabilmente dei paesi che hanno aderito all’Unione Europea successivamente).

Se poi dal piano formale ci spostiamo a quello sostanziale, scopriamo che la piena indi-pendenza della BCE dai governi nazionali e dalle loro proiezioni europee, come il Consiglio europeo e il Consiglio dei ministri finanziari (ECOFIN), non la pone in una situazione di parità rispetto a questi organismi, ma di preminenza rispetto a essi (come anche rispetto ai parlamenti nazionali e al Parlamento europeo). La BCE può infatti condizionare il compor-tamento dei governi (e dei parlamenti) nazionali, come anche quello delle istituzioni euro-pee, rifiutandosi di ridurre i tassi di interesse, o minacciando di aumentarli, ogni qualvolta vengano seguite linee di condotta che essa disapprova – o non si proceda con sufficiente energia e celerità lungo le linee che essa suggerisce.

Ora, è bensì vero che la politica monetaria non esercita una rilevante influenza diretta sugli investimenti industriali (tale è, almeno, la mia radicata opinione; molti sono convinti del contrario). Ma essa può svolgere un ruolo importante nell’ampliare (o restringere) le possibilità d’azione della politica fiscale, nel sostenere (o deprimere) i corsi azionari e il mercato immobiliare – e per questa via i consumi – nonché nel determinare, assecondare o contrastare i movimenti del tasso di cambio. Soffermiamoci su quest’ultimo aspetto. Nel triennio successivo alla formazione dell’UME, la progressiva diminuzione dei tassi di inte-resse americani è andata di pari passo con un apprezzamento del dollaro legato all’attesa di elevati rendimenti conseguenti a una forte crescita delle quotazioni azionarie22. Ciò ha posto la BCE nella confortevole situazione di potersi costruire una robusta reputazione anti-inflazionistica senza fare pagare all’economia un prezzo troppo elevato. Con il passaggio all’attuale fase di accentuato deprezzamento del dollaro, questa possibilità di conciliare obiettivi contrastanti è venuta meno. Ma la BCE ha seguitato a ostentare la più perfetta indifferenza nei confronti del cambio dell’euro. Nello stesso periodo la Banca Centrale Giapponese – non potendo ridurre ulteriormente i tassi d’interesse, già prossimi a zero – ricorreva all’estremo rimedio di acquistare enormi quantità di dollari al fine di contenere l’apprezzamento dello yen.

Tutto fa pensare, in realtà, che la BCE guardi con favore alla forza dell’euro nei confronti del dollaro (fino a che l’apprezzamento non sia giudicato eccessivo), per gli stessi motivi per i quali la Bundesbank guardava con favore alla forza del marco (cfr. supra, § 3). Ossia per il contributo che essa può dare al rafforzamento del ruolo internazionale della moneta europea e alla capacità dell’Europa di attrarre capitali da impiegare nel finanziamento del commercio estero e negli investimenti diretti nei paesi dell’Europa centro-orientale (e ora in Asia), oltre che per l’influenza calmieratrice che essa esercita sui prezzi e lo stimolo che ne deriva alla riduzione dei costi. Per quanto riguarda, in particolare, quest’ultimo obiettivo, gli aspetti di continuità con il passato non impediscono di cogliere un’importante modifica

22 Che la riduzione dei tassi, sostenendo la borsa, possa favorire, anziché contrastare, l’apprezzamento della mo-neta è uno degli insegnamenti delle vicende ricordate nel testo.

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di prospettiva. Come per il passato, all’effetto disciplinare esercitato dall’apprezzamento del cambio e da una politica monetaria restrittiva è affidato il compito di promuovere un imponente processo di ristrutturazione industriale, delocalizzazione e abbandono dei segmenti “maturi” della filiera produttiva. Ma mentre la Bundesbank cercava per questa via di conciliare le esigenze della concorrenzialità con la salvaguardia del patto sociale e degli alti salari tedeschi, oggi il disegno sembra essere, piuttosto, quello di far accettare un progressivo smantellamento delle istituzioni del mercato del lavoro, il ridimensionamento del sistema di protezione sociale (nonché, per quanto riguarda la Germania, della parteci-pazione dei lavoratori alla gestione delle imprese) e quella ricontrattazione al ribasso dei salari e delle modalità della prestazione lavorativa di cui sono piene le cronache.

6. L’ARCHITETTURA DELL’UNIONE MONETARIA: LA POLITICA FISCALE

Volgendoci ora alle istituzioni e alle regole della politica fiscale, tre sono gli aspetti che meritano di essere sottolineati. Il primo è rappresentato dalla mancata predisposizione di qualsiasi argine alla concorrenza fiscale fra i diversi paesi. Si è così data via libera alla con-cessione di sgravi fiscali ai percettori di redditi da capitale e di incentivi all’impianto, o al trasferimento, di attività produttive. È evidente che, quando alcuni paesi ricorrono a simili strumenti, è difficile per gli altri non imitarli. Ne risulta una gara al ribasso che tende a la-sciare invariate le posizioni relative dei diversi paesi, ma non quelle dei diversi gruppi sociali all’interno di ciascun paese. Il prelievo fiscale tenderà infatti a gravare maggiormente sui redditi da lavoro e soprattutto a tradursi in una riduzione della spesa sociale. La seconda strada è preferita alla prima perché meno suscettibile, almeno nell’immediato, di condurre a un aumento del costo del lavoro, del quale si persegue anzi la riduzione attraverso il taglio degli oneri sociali e la compressione della dinamica salariale.

(Colgo l’occasione per osservare che la riduzione del costo del lavoro al fine di gua-dagnare concorrenzialità è suscettibile non meno degli sgravi fiscali di scatenare una devastante corsa al ribasso. Il pericolo fu denunciato da Oskar Lafontaine, ministro delle Finanze nel governo Schröder dall’ottobre 1998 al marzo 1999, il quale propose di impiegare la politica dei redditi non, come nel passato, per frenare l’aumento dei salari, ma per impedirne la riduzione concorrenziale. Una proposta forse velleitaria, ma che segnala certamente un problema reale. Vi sarà mai un sindacato europeo capace di affrontarlo?).

Il secondo aspetto è rappresentato dall’assenza, nell’Unione Europea, di un sistema fiscale centralizzato. Come l’esistenza di un simile sistema, con i suoi automatismi e le sue possibilità di intervento discrezionale, attenui le conseguenze negative della rinuncia alla variazione dei tassi di cambio – e come la sua assenza rappresenti il grande svantaggio di un’Unione monetaria rispetto a uno stato federale – è ben noto alla teoria economica. Se l’economia del Michigan soffre per la crisi dell’automobile e quella della California prospe-ra per l’espansione dell’industria elettronica, il Michigan non può sostenere il livello della domanda e dell’attività produttiva svalutando la propria moneta nei confronti di quella californiana, ma può essere, ed è di fatto, sussidiato dalla California attraverso il sistema fiscale federale (il Michigan paga meno imposte e riceve più trasferimenti; per la California è vero il contrario). Nulla del genere avviene all’interno dell’Unione Europea23. Qui alla

23 I due strumenti di riequilibrio che restano disponibili – una volta escluse le variazioni dei tassi di cambio e

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perdita di uno strumento, la variazione dei tassi di cambio, non corrisponde l’acquisizione di alcuno strumento fiscale sostitutivo.

Il terzo aspetto su cui intendo richiamare l’attenzione è rappresentato dai limiti posti alla libertà d’azione dei governi nazionali in materia fiscale. Oggi il Michigan e la Califor-nia traggono entrambi beneficio dalla politica fiscale espansiva del governo federale24. In mancanza di un governo federale, lo stesso risultato potrebbe essere raggiunto se i paesi dell’Unione Europea attuassero in modo coordinato politiche fiscali espansive. Ma questo viene impedito dai vincoli fiscali imposti dal Trattato di Maastricht e dal Patto di stabilità (cfr. supra, § 4). Consideriamo brevemente meriti e demeriti di tali vincoli.

Le ragioni che consigliano di contenere il debito pubblico (e i disavanzi che ne ali-mentano la crescita) non vanno in alcun modo sottovalutate. Occorre infatti evitare che i detentori dei titoli del debito pubblico, dubitando della solvibilità dell’emittente, preten-dano tassi di interesse elevati, come anche che per effetto di ciò il debito si autoalimenti, conducendo infine all’adozione di misure di finanza straordinaria, quando non a una vera e propria crisi finanziaria. Dal che discende, fra l’altro, che conti pubblici in buona, o almeno non troppo cattiva, salute – quali possono essere ottenuti mediante una condotta parsimoniosa nelle fasi di espansione economica – rappresentano la condizione necessaria per poter intervenire con ampiezza di mezzi nelle fasi di recessione, evitando nel contempo di esporsi a rischi eccessivi.

Quel che caratterizza il caso europeo è, tuttavia, che a vincoli quantitativi pensati in una fase di espansione economica si è voluti restare testardamente fedeli in una fase di protratto rallentamento della crescita. La contrazione della domanda e dell’attività produttiva, fu subito fatto notare, provoca un calo delle entrate tributarie che fa aumentare il disavanzo pubblico. Se a questo si reagisce, come il Trattato di Maastricht e il Patto di stabilità im-pongono di fare, tagliando la spesa pubblica e/o inasprendo l’imposizione fiscale, la caduta della domanda ne risulta ulteriormente aggravata. Da anticiclica che dovrebbe essere, la politica fiscale diviene così prociclica, meritando al Patto di stabilità e crescita l’epiteto, affibbiatogli dall’“Economist”, di Patto di instabilità e depressione25. A ciò va aggiunto che se la recessione e il conseguente peggioramento dei conti pubblici sono comuni a più paesi, essi cercheranno di ridurre il proprio disavanzo tutti insieme; e se si tratta di paesi che commerciano intensamente fra loro, le restrizioni adottate da ciascuno di essi faranno cadere le esportazioni, il reddito e le entrate tributare degli altri, determinando una reazio-ne a catena.

La previsione della Commissione europea era che nel 2004 ben sei paesi dei do-dici che avevano adottato l’euro come moneta – e fra essi i tre maggiori: Germania,

l’azione di un sistema fiscale federale – sono la mobilità geografica del lavoro e la variazione dei salari relativi. Negli Stati Uniti la mobilità geografica è altissima, mentre in Europa è ostacolata da barriere linguistiche e culturali. Sulla variazione dei salari relativi, si veda infra, p. 37.

24 Non è questo il luogo per esprimere un giudizio sul tipo di spesa pubblica e sul tipo di sgravi fiscali prediletti dall’amministrazione Bush. Quel che si vuol dire è che in un momento di difficoltà l’economia americana ha tratto sollievo da una decisa espansione fiscale, mentre nessuno ha fatto nulla (e, stanti le regole in vigore, nessuno poteva far nulla) per evitare che l’economia europea sprofondasse nella recessione.

25 “The Economist”, 19 ottobre 2002. Nello stesso articolo leggiamo: «Le economie europee, che non possono più decidere la propria politica monetaria, hanno bisogno che più spazio che in passato venga lasciato al ruolo stabi-lizzatore della politica fiscale. Come minimo, agli stabilizzatori automatici – vale a dire alla diminuzione delle imposte e all’aumento dei trasferimenti che hanno spontaneamente luogo in una recessione – deve essere consentito di operare pienamente. E tuttavia, per effetto del Patto di stabilità, i governi sono tenuti a portare al pareggio i propri bilanci nel medio termine e i disavanzi non possono superare il 3% del PIL. Poiché la debolezza della crescita ha ristretto le entrate fiscali e fatto crescere i disavanzi, il Patto di stabilità ha il bizzarro effetto di costringere i governi ad adottare politiche fiscali restrittive proprio quando le economie si muovono verso la recessione».

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Francia e Italia – non avrebbero rispettato il limite del 3%. Una norma assurda aveva portato alla disobbedienza di massa. E alla ribellione aperta, con il rifiuto opposto da Francia e Germania alle esortazioni della Commissione europea. La sospensione, de-cretata dall’EUROFIN a beneficio di questi due paesi, delle procedure previste in caso di infrazione (e applicate in passato al Portogallo)26 apriva un conflitto istituzionale, che veniva portato dinanzi alla Corte di giustizia europea. Formalmente favorevole alla Commissione (avrebbe potuto, la Corte, pronunciarsi contro la necessità di rispettare accordi liberamente sottoscritti?), la sentenza prendeva in realtà atto dei costi connessi al rispetto delle regole sancite dal Patto di stabilità e apriva la strada alle modifiche di cui oggi si discute27.

Quand’era presidente della Commissione europea, Romano Prodi ebbe a definire “stu-pido” il Patto, cioè troppo meccanico nel suo operare e incapace di adattarsi flessibilmente al mutare delle circostanze. Nel promuoverne, ciò nonostante, una difesa intransigente, egli può aver avuto in mente l’uso perverso che sarebbe stato fatto nel suo paese del più piccolo spazio di libertà che venisse concesso all’azione del governo. E, in verità, se c’è un paese per il quale l’imposizione di vincoli fiscali può apparire opportuna, questo è certa-mente l’Italia.

Un simile modo di guardare le cose non sembra, tuttavia, reggere a un esame appro-fondito. Se è vero, infatti, che per un certo periodo il vincolo ha posto al riparo il paese da improvvide riduzioni delle imposte, lo ha lasciato esposto alla sciagura dei condoni fiscali (che esso ha, anzi, contribuito a giustificare) e del crollo delle entrate indotto dall’attesa di nuovi condoni. Ora, poi, anche il tabù della riduzione delle imposte è stato infranto. E un governo sufficientemente determinato può far fronte alle voragini che si aprono nel bilancio pubblico con “coraggiosi” tagli della spesa sociale. Per non dire che tali tagli pos-sono addirittura essere uno degli obiettivi che vengono perseguiti attraverso la riduzione delle imposte da chi vede nella spesa sociale una dannosa interferenza nel libero operare del mercato o, peggio, un pericoloso elemento di socialismo sopravvissuto alla vittoria po-litica del capitalismo su scala planetaria. È questa la linea che i neo-conservatori americani descrivono come starving the beast: affamare, far morire di fame, la bestia della spesa so-ciale tagliandole le fonti di finanziamento28. Da parte dell’opposizione piacerebbe dunque ascoltare un’appassionata difesa della necessità di pagare le imposte per non dover tagliare la spesa sociale29, piuttosto che la lode di un Patto che metterebbe in difficoltà il migliore dei governi, magari accompagnata da bene intenzionate proposte su come si potrebbero tagliare le imposte meglio di quanto faccia il governo in carica.

26 La vicenda è narrata con dovizia di particolari in Gros, Mayer, Ubide (2004).27 Per formarsi un’idea della dimensione delle conseguenze recessive delle politiche monetarie e fiscali adottate,

si considerino i risultati di una simulazione eseguita con un ben noto modello econometrico di Oxford. Supponendo che la BCE europea avesse seguito la stessa politica monetaria della Fed e che i tre paesi maggiori avessero riferito il limite del 3% al disavanzo depurato della parte dovuta alla fase recessiva, il tasso di crescita annuale dell’area dell’euro nel 2001-03 sarebbe passato dall’1 al 2%, e il tasso di disoccupazione dal 9 al 7,5%, mentre la crescita del gettito fiscale avrebbe consentito di contenere il peggioramento dei disavanzi entro limiti abbastanza ristretti. Si veda Boltho (2003, pp. 17-8).

28 L’espressione è fatta risalire a David A. Stockman, consigliere economico e direttore dell’Office of Management and Budget dal 1981 al 1985. Cfr., per esempio, Krugman (2003, § 3).

29 Dopo aver scritto queste parole ho letto su un quotidiano la seguente dichiarazione attribuita al segretario della CISL, Savino Pezzotta: «Io sono un innamorato delle tasse, faccio parte del partito delle tasse e non me ne vergogno. Lo dico anche perché in quest’area [l’opposizione al governo Berlusconi] c’è a volte qualche sbarellamento» (“la Repubblica”, 30 gennaio 2005). Sbarellare: voce data dal Battaglia come di area romana; vale, secondo la stessa fonte, barcollare, sbandare, non raccapezzarsi. La precisazione mi è stata richiesta da un lettore.

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7. EUROPA E STATI UNITI: UN CONFRONTO ISTRUTTIVO

Dato l’orientamento perennemente restrittivo delle politiche macroeconomiche – un orientamento che abbiamo visto abbracciare, con brevi interruzioni, un paio di decenni – non appare sorprendente che la storia dell’area economica corrispondente all’odierna Unione Europea sia una storia di bassa crescita e di elevata disoccupazione. Né sorprende che tale risultato appaia ancor più deludente quando lo si confronti con la sostenuta cre-scita del reddito e dell’occupazione negli Stati Uniti, dove tutta la panoplia degli strumenti disponibili è stata posta al servizio di questo obiettivo. L’adesione all’“economia dell’of-ferta” non ha, per esempio, impedito all’amministrazione Reagan di attuare una politica di spesa spregiudicatamente espansiva (il “keynesismo militare”), incurante dell’aggravio imposto al bilancio pubblico. La politica fiscale di Clinton è stata saggiamente restrittiva in una fase in cui ciò era consigliato da una protratta, vivacissima dinamica della domanda privata. G. W. Bush ha seguito le orme di Reagan, con la variante che in questo caso anche la politica monetaria e quella del cambio sono state mobilitate per fare uscire il paese dalla recessione.

Ma il confronto fra Europa e Stati Uniti non sarebbe completo se non venisse esteso alla politica industriale. A rendere possibile lo straordinario dinamismo che ha caratteriz-zato, negli Stati Uniti, settori a forte contenuto di innovazione quali telecomunicazioni ed elettronica ha contribuito, talora con un ruolo determinante, il sostegno fornito al sistema industriale americano dall’elevata spesa militare, sia nella forma di commesse, sia in quella del finanziamento delle attività di “ricerca e sviluppo”. La spesa militare ha, in altri termini, rappresentato negli Stati Uniti un’efficace forma di politica industriale, capace di agire sia dal lato dell’offerta che da quello della domanda (cfr. Simonazzi, 2003, in particolare pp. 656-7). In Europa, invece, la politica industriale è stata principalmente rivolta a limitare le drammatiche conseguenze del processo di riconversione industriale, particolarmente nelle aree caratterizzate da una forte presenza di industrie mature. È mancata, invece, la capacità di dare impulso allo sviluppo di nuovi settori industriali, come anche quella di favorire la diffusione delle conoscenze e i processi imitativi.

È successo alla politica industriale europea qualcosa di simile a quel che è successo alla politica fiscale europea: mentre la possibilità di intervento dei singoli governi a sostegno delle industrie nazionali venivano drasticamente ridotte, a livello europeo non sono stati apprestati strumenti sostitutivi. L’assenza di un’autorità centrale, capace di mediare fra le esigenze nazionali ma anche di prendere decisioni e di imporre la propria volontà, rappre-senta certamente una parte della spiegazione. Ma un’altra parte risiede nella riduzione, che è stata operata, della politica industriale a politica della concorrenza e da un’accentuata vo-cazione antistatalista. Il problema viene spesso rappresentato come quello di salvaguardare il bene supremo dell’efficienza, proteggendo il mercato dalle tentazioni interventistiche (e, in ultima analisi, protezionistiche) dei governi nazionali. Ma il mercato che si ha in mente è, in generale, un’astrazione. Il confronto significativo non è quello, puramente ideologico, fra “Stato” e “mercato”, ma quello fra sistemi alternativi di governo dell’economia (cfr., su ciò, Ginzburg, 2005), alcuni dei quali si sono ammantati dell’ideologia liberista e altri dell’ideologia opposta. E nella storia del capitalismo non si danno esempi di un sistema di governo dell’economia che consista, sic et simpliciter, nel “lasciar fare” al mercato. Il caso, cui mi sono testé riferito, degli Stati Uniti, paese del libero mercato per eccellenza, ma che deve, in misura non piccola, il suo primato tecnologico alla spesa militare, è di per sé eloquente.

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Merita, infine, di essere rilevato che un forte dinamismo del mercato favorisce sia la diffusione delle nuove tecnologie, sia la produzione su larga scala dei beni capitali che le incorporano e il loro perfezionamento attraverso i processi di apprendimento legati alla produzione (e al dialogo fra produttori e utilizzatori30). Questo è quel che è successo negli Stati Uniti grazie a un’accorta combinazione di politiche di promozione dell’innovazione e di sostegno della domanda; e che non è successo in Europa, dove alle carenze della politica industriale si è aggiunto un quadro macroeconomico scoraggian-te. Quanto alle conseguenze negative dei processi innovativi sul piano sociale, è chiaro che esse risultano attenuate in un contesto macroeconomico dinamico, che consente il riassorbimento dei lavoratori espulsi dalla produzione, mentre in un contesto stagnante il loro mancato riassorbimento aggrava ulteriormente la situazione e genera resistenze all’introduzione delle innovazioni. Considerazioni analoghe valgono per i processi di delocalizzazione industriale. In un contesto di crescita, e guidati da un’accorta politica industriale, tali processi possono creare senza distruggere, grazie alla contemporanea riqualificazione dell’apparato produttivo dei paesi che spostano all’estero industrie o fasi di lavorazione. In un contesto di ristagno economico, invece, essi producono una contrazione della base produttiva nazionale e un aumento della disoccupazione (cfr. Simonazzi, 2003, in particolare § 2).

In Germania all’inizio del 2005 il numero dei disoccupati ha raggiunto il tetto dei cinque milioni (anche se l’ultimo, forte aumento riflette in buona parte le restrizioni imposte al sistema di tutela dei lavoratori inoccupati), il disagio dilaga nella società, la paura del futuro deprime i consumi e sulla stampa affiorano paragoni con la situazione dei primi anni Trenta (quando i disoccupati era sei milioni). Paragoni isterici, li ha definiti con ragione il ministro delle finanze, Clement. Ma al cancelliere Schröder la situazione è parsa sufficientemente grave da indursi a scendere in campo pubblicamente (con un articolo sul “Financial Times Deutschland” del 17 gennaio 2005) a favore di un allentamento del vincolo del 3%. La Germania, si sa, è un grande paese esportatore, in particolare di beni d’investimento, e gli effetti della ripresa mondiale le giungono con ritardo. È, inoltre, un paese che attraversa una fase di intensa ristrutturazione industriale e di pronunciata delo-calizzazione, che sottraggono domanda all’economia nazionale31 (oltre che ai tradizionali destinatari del decentramento produttivo tedesco, come le regioni italiane del Nord-Est). Ed è, infine, un paese che non ha mai metabolizzato compiutamente l’annessione delle re-gioni orientali (dove più elevata è la disoccupazione e più acuto, e inquietante, il malessere sociale). Perché un paese in queste condizioni, si chiede il cancelliere Schröder, non deve poter fare una politica di sostegno dell’occupazione? La teoria economica e la Commissio-ne europea hanno una risposta a questa domanda. Esaminiamola brevemente.

8. LE BASI TEORICHE DELLE SOLUZIONI ADOTTATE

L’orientamento restrittivo delle politiche macroeconomiche adottate nell’Unione Eu-ropea riceve un convinto sostegno da parte di una teoria economica che, rinnegando il principio keynesiano della domanda effettiva, è tornata a spiegare la disoccupazione con

30 Cfr., su quest’ultimo punto, Bonifati (2005) e Russo (2004).31 Sulla sottrazione di domanda legata alla delocalizzazione produttiva (sottrazione conseguente alla sostituzione

della produzione interna con importazioni, ma anche alla sostituzione delle esportazioni nazionali con quelle di altri paesi) richiama utilmente l’attenzione Ginzburg (2005).

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fattori strutturali, o “rigidità”, di vario tipo: gli ostacoli che si frappongono alla diminuzio-ne dei salari, la regolamentazione delle assunzioni, dei licenziamenti e dell’orario di lavoro, l’elevatezza dei sussidi di disoccupazione (che innalza il salario di riserva), la generosità del sistema pensionistico (che limita l’offerta di lavoro), l’ampiezza del cuneo contributivo (che innalza il costo del lavoro); e via dicendo. E’ a tali “rigidità” del mercato del lavoro che si fa colpa, in particolare, dei cattivi risultati occupazionali europei rispetto a quelli ottenuti negli Stati Uniti, dove or è un quarto di secolo le classi dirigenti hanno deciso che il patto sociale post-bellico aveva fatto il suo tempo; e che il controllo sull’uso della forza lavoro poteva essere imposto anziché negoziato e il governo delle tensioni sociali esercitato mag-giormente attraverso la repressione (per la quale è sempre facile trovare stanziamenti) e in minor misura che in passato attraverso il consenso. Ma negli Stati Uniti la disarticolazione del mercato del lavoro, la drastica riduzione dei benefici del welfare state e la crescita delle disuguaglianze sono state accompagnate, come abbiamo visto, da un costante impegno – di cui non v’è traccia in Europa – volto a sostenere l’occupazione attraverso un appropriato mix di politiche fiscali, monetarie e del cambio. Un sortilegio, ha detto Voltaire, è sempre in grado di uccidere un gregge di pecore purché sia accompagnato da una sufficiente dose di polvere d’arsenico.

L’economia, secondo la rappresentazione che ne dà la teoria dominante, non si al-lontana mai dal suo reddito potenziale (o, secondo una formulazione meno estrema, vi ritorna spontaneamente e con facilità). Il reddito potenziale è definito come il reddito corrispondente al tasso “naturale” di disoccupazione, ossia a quel tasso di disoccupa-zione che non si ritiene spiegabile sulla base di un’insufficienza della domanda, ma sulla base delle “rigidità” del mercato del lavoro; si assume che la produzione corrispondente al tasso “naturale” di disoccupazione sia ottenibile utilizzando la capacità produttiva disponibile in modo normale. Discende da quanto appena detto che qualsiasi tentati-vo di forzare la situazione con una politica monetaria espansiva equivale a cercare di spingere il reddito effettivo al di sopra del reddito potenziale. Un simile tentativo non porta a un aumento dell’occupazione, ma soltanto a un innalzamento permanente del tasso di inflazione – che diviene un’accelerazione se la politica monetaria rimane espan-siva. (Formulazioni meno estreme ammettono, tuttavia, che il tasso di disoccupazione effettivo possa scendere temporaneamente al di sotto del tasso “naturale”, in generale o sotto certe condizioni). Per quanto riguarda una politica fiscale espansiva, si ritiene il più delle volte che essa non abbia alcun effetto sulla domanda perché controbilanciata dall’effetto depressivo esercitato sulla spesa privata dall’aspettativa di un innalzamento delle imposte.

All’interno di questo quadro teorico (tratteggiato qui in modo necessariamente sempli-ficato, ma – spero – non ingannevole) il persistere di elevati tassi di disoccupazione non ammette che un’unica causa: l’elevatezza del tasso “naturale” di disoccupazione, ossia la limitazione dell’offerta di lavoro dovuta alle “rigidità” del mercato del lavoro (e, secondo alcuni, a una troppo forte preferenza per il tempo libero). La linea d’azione che ne deriva è quella effettivamente seguita in Europa: la BCE si occupi di assicurare la stabilità dei prezzi, i governi nazionali di rimuovere le rigidità, nessuno di sostenere la domanda. Dalle stesse premesse segue, inoltre, che una buona banca centrale è necessariamente una banca cen-trale “conservatrice”, che persegue con determinazione il suo obiettivo anti-inflazionistico nella serena consapevolezza che né le restrizioni monetarie né l’apprezzamento del cambio possono avere conseguenze negative sul livello della domanda e dell’attività produttiva. Condividendo le certezze della banca centrale, i governi non avrebbero difficoltà a sotto-

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stare ai vincoli fiscali più stringenti, se non fosse per le resistenze sociali che essi incontrano (e l’impopolarità cui si espongono). Le stesse resistenze sociali (e la stessa paura dell’impo-polarità) impediscono loro di attuare con celerità e fermezza quelle “riforme strutturali” (come lo spostamento in avanti dell’età pensionabile o la riduzione dei benefici del welfare state) che sole possono aumentare l’offerta di lavoro e dunque il reddito potenziale. I go-verni nazionali vanno dunque pungolati e le resistenze sociali stroncate attraverso un’ade-guata politica monetaria (e del cambio): è questo un secondo compito della banca centrale, non meno importante di quello di vegliare sulla stabilità dei prezzi.

La teoria economica dominante ha così prodotto una concezione della politica mo-netaria che ben s’accorda con la scelta di procedere all’unificazione monetaria non come naturale portato dell’unificazione politica – e dunque di una comune, complessi-va, assunzione di responsabilità – ma indipendentemente da essa (e come sua eventuale premessa). La politica monetaria (e del cambio), vista un tempo come qualcosa che si pone al servizio della società – qualcosa che asseconda la libera determinazione dei comportamenti sociali, che tiene conto delle caratteristiche della struttura produtti-va e della stratificazione sociale, del grado di conflittualità delle relazioni industriali, dell’esistenza o meno di aree depresse o di un distacco d’industrializzazione da colmare – è ora concepita come qualcosa che detta legge alla società, che fornisce un quadro di riferimento astratto entro il quale il corpo vivente della società deve comprimersi, come in una camicia di forza, non importa a quali costi32.

Provo a spiegarmi con un esempio. L’introduzione dell’euro ha provocato in alcuni paesi un aumento molto rilevante dei prezzi di alcuni prodotti scarsamente esposti alla concorren-za, in particolare dei prezzi di molti servizi e dei prezzi dei prodotti ortofrutticoli: due voci che incidono sulla spesa delle famiglie a basso reddito assai più di quanto dicano gli indici ufficiali dei prezzi al consumo (nei quali i prezzi dei prodotti suddetti fanno media con altri prezzi che sono aumentati molto meno o che sono addirittura diminuiti). Consideriamo ora il seguente corso di eventi: i lavoratori dell’industria chiedono aumenti salariali atti a difen-dere il loro tenore di vita; una politica monetaria “accomodante” facilita le cose consentendo alle imprese di concedere gli aumenti richiesti e di trasferire gli accresciuti costi nei prezzi; alla conseguente perdita di concorrenzialità si pone rimedio attraverso un adeguamento del cambio dell’euro (l’aumento dei salari e dei prezzi potrebbe essere uniforme nei diversi paesi anche se l’ aumento originario dei generi di consumo non lo è stato). Nello scenario appena immaginato la partita si chiude all’incirca senza vinti né vincitori. Nel concreto funziona-mento dell’Unione monetaria vincono tutti coloro che sono in grado di aumentare i prezzi, per accrescere il proprio reddito reale o per rispondere ad altri aumenti; perdono coloro che subiscono gli aumenti senza potersi difendere. (I vincoli che condizionano l’aumento della spesa pubblica tendono a porre anche i dipendenti pubblici nella schiera dei perdenti.)

9. BREVE E LUNGO PERIODO

Non tutti gli economisti condividono l’orientamento dominante, descritto nel paragra-fo precedente. Non sono pochi, in realtà, quelli che accettano (con varie accentuazioni)

32 Gioca più o meno sotterraneamente, nel determinare questa concezione, l’idea che i modelli sociali nazionali si distinguano per il loro diverso grado di “modernità”. E che il movimento verso una maggiore modernità (e uniformi-tà) non sia soggetto a controindicazioni o esposto a esiti fallimentari, e possa essere imposto da una forza coercitiva esterna, come appunto la moneta unica.

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il principio della domanda effettiva. In generale, tuttavia, essi confinano l’operare di tale principio al breve periodo. Il quadro che ne risulta è all’incirca il seguente. Nel lungo periodo il reddito potenziale cresce lungo un trend governato dai fattori – la crescita delle dotazioni dei “fattori della produzione” e il cambiamento tecnico – che si ritengono indi-pendenti dall’andamento nel tempo della domanda. Intorno a tale trend il reddito effettivo oscilla, collocandosi ora al di sopra ora al di sotto del reddito potenziale. Nella spiegazione di questo andamento ciclico dell’economia le opinioni dei “keynesiani” divergono da quel-le dei “monetaristi” (gli uni e gli altri designati solo per semplicità con questi nomi, che nascondono le differenze esistenti all’interno dei due gruppi): mentre per i primi gli scosta-menti dal trend sono governati da fattori che operano dal lato della domanda, per i secondi i fattori che operano dal lato dell’offerta sono, anche in questo caso, gli unici rilevanti. Ma per quanto riguarda il trend è solo una sparuta pattuglia di “keynesiani” (quorum ego) a ritenere che sia anch’esso influenzato dall’andamento della domanda nel tempo. Proverò ad argomentare brevemente questa convinzione, da cui, come vedremo nel paragrafo suc-cessivo, discendono importanti conseguenze per quanto riguarda le analisi condotte e le linee d’azione suggerite dalla Commissione europea.

Come ho accennato nel § 2, un’insufficienza della domanda che si protrae nel tempo genera inevitabilmente un rallentamento della formazione di nuova capacità produttiva e dunque della crescita del reddito potenziale. I lavoratori disoccupati, dal canto loro, una volta perduta la speranza di trovare lavoro, smetteranno di cercarlo e non saranno più conteggiati fra le “forze di lavoro” (che comprendono gli occupati e le persone in cerca di lavoro). Piuttosto che in un aumento della disoccupazione aperta (il numero delle persone in cerca di lavoro), si assisterà a una diminuzione del “tasso di partecipazione” (il rapporto fra le “forze di lavoro” e la popolazione in età lavorativa). Dell’esistenza del nesso fra dinamica della domanda e formazione di capacità produttiva erano ben con-sapevoli gli economisti di ispirazione keynesiana dell’immediato dopoguerra. In seguito questa consapevolezza si è appannata, per riaffacciarsi più tardi (ma nell’ambito di ipo-tesi particolari) attraverso il concetto di “isteresi”. L’idea che la dinamica della domanda influisca sul tasso di partecipazione (teoria del “lavoratore scoraggiato”) è passata di moda da gran tempo.

Se, tuttavia, ripercorriamo la storia dello sviluppo dei paesi industrializzati, quel che balza all’occhio con evidenza è che, benché in ciascun momento la capacità produttiva installata ponga un limite a ciò che è possibile produrre, la crescita nel tempo della capacità produttiva è determinata dalle occasioni di investimento che si presentano, e dunque dagli sbocchi commerciali disponibili per le merci che la capacità produttiva installata consente di produrre. Prova ne siano gli spettacolari successi produttivi dei paesi nei quali abbon-danti occasioni di investimento sono state fornite dalla necessità di sostenere lo sforzo bellico, o di provvedere alla ricostruzione postbellica, oppure dall’apertura di vasti mercati di esportazione. Qualsiasi sistema industriale dispone normalmente di ingenti riserve di ca-pacità produttiva che attendono solo di essere mobilitate da adeguati sbocchi commerciali (ivi compresi quelli che si creano grazie al lancio di nuovi prodotti). Se gli sbocchi vi sono, le riserve esistenti vengono impiegate non solo nella produzione diretta delle merci richie-ste, ma anche nella formazione di nuova capacità produttiva, sicché la capacità produttiva installata cresce nel tempo sulla base delle esigenze della produzione (determinate a loro volta dall’evoluzione nel tempo della domanda dei prodotti).

Per quanto riguarda il lavoro, la cosa è ancora più evidente. Lo sviluppo industriale non ha mai incontrato difficoltà nel procurarsi la manodopera che gli era necessaria: l’ha

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trovata nell’immenso serbatoio dell’agricoltura; l’ha trovata nella stessa industria, dove l’attrazione di nuovi lavoratori si accompagna a processi di espulsione legati alle ri-strutturazioni e al cambiamento tecnico; l’ha trovata al di fuori del mercato del lavoro, dove molte persone stazionano per la mancanza di occasioni di lavoro, pronte tuttavia a entrarvi se le occasioni si presentano. E l’ha trovata grazie all’immigrazione. Oggi quest’ultimo fenomeno interessa anche l’Italia, e vi incontra resistenze. Ma si pensi alla storia dell’emigrazione italiana: fino a ieri i nostri lavoratori andavano in Germania, in Francia, in Belgio (come in precedenza nell’America del Nord e del Sud) a sopperire all’insufficiente offerta di lavoro – per certi tipi di mestieri – che si manifestava in quei paesi. E si pensi alle grandi migrazioni interne, dal Sud al Nord dell’Italia, o alla mas-siccia presenza di turchi in Germania, di asiatici e giamaicani a Londra e di arabi nelle periferie di Parigi. Vi è davvero da chiedersi in che mondo vivano quegli economisti (e sono la stragrande maggioranza!) che assumono il tasso di crescita della popolazione come una variabile esogena – non influenzata dalla crescita del fabbisogno di manodo-pera33. Da dove pensano che provenga la rapida crescita della popolazione degli Stati Uniti (e il suo conseguente minore invecchiamento, rispetto all’Europa), se non dalla rapida crescita delle occasioni di lavoro?

L’origine di questo colossale equivoco può essere descritta nel seguente modo. Se si disegnano sullo stesso grafico l’andamento nel tempo del reddito potenziale e quello del reddito effettivo, il primo risulterà in generale rappresentato da una curva crescente e il secondo da una serpentina che si snoda intorno a essa. L’impressione che se ne ricava è che il reddito potenziale cresca nel tempo per ragioni sue proprie, indipendenti da quelle che determinano gli scostamenti da esso del reddito effettivo. Si tratta, tuttavia, di un’impressione ingannevole. Supponiamo infatti che, dopo diversi anni di crescita soste-nuta del reddito effettivo e potenziale, la domanda subisca un durevole rallentamento. Inizialmente il reddito effettivo scenderà al di sotto del reddito potenziale, come in una qualsiasi fase discendente del ciclo. Perdurando, tuttavia, la debolezza della domanda, la formazione di capacità produttiva risulterà minore di quanto sarebbe stata altrimenti. E la disoccupazione, protraendosi, condurrà a un minore aumento, o a una diminuzione, delle forze di lavoro. Non sarà dunque il reddito effettivo a risalire verso un reddito potenziale che continua a crescere al ritmo precedente, ma sarà la crescita del reddito potenziale a subire un rallentamento, adeguandosi alla minor crescita della domanda e del reddito effettivo. La curva del reddito effettivo continuerà a snodarsi intorno a quella del reddito potenziale, ma entrambe le curve saranno più basse di quel che sa-rebbero state qualora la domanda avesse continuato a crescere al ritmo precedente (cfr. Garegnani, 1983). Com’è stato osservato, la minor formazione di capacità produttiva impedisce all’insufficienza della domanda di tradursi in una considerevole e persistente sottoutilizzazione della capacità produttiva stessa – e, così facendo, nasconde le tracce

33 Un economista come Nicholas Kaldor, che negli anni Cinquanta e Sessanta ha legato il suo nome all’idea che la crescita sia limitata dall’offerta di lavoro, è in seguito approdato a una visione simile a quella qui proposta. Nel brano che segue essa viene espressa in una forma assai incisiva (grazie anche a una forte semplificazione): «È illegittimo assumere che esista un sentiero di crescita di equilibrio di lungo periodo, per un singolo paese o anche per il mondo nel suo insieme, determinato dalla crescita della popolazione, dall’accumulazione del capitale e dal saggio di progresso tecnico (dati, tutti e tre, esogenamente). Poiché sotto lo stimolo della crescita della domanda, la capacità produttiva di tutti i settori si espande grazie ai nuovi investimenti, nel lungo periodo la crescita non è limitata da vincoli di of-ferta. Tali vincoli, siano essi dovuti all’insufficienza della capacità produttiva o a un’insufficienza, a carattere locale, dell’offerta di lavoro sono essenzialmente fenomeni di breve periodo; in ogni dato momento essi sono un’eredità del passato» (Kaldor, 1983, p. 95).

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dell’avvenuta perdita di produzione (cfr. Garegnani, 1992, p. 53). L’osservatore, infatti, vede le due curve quali sono, e non quali avrebbero potuto essere. E resta perciò vittima dell’impressione che la crescita nel tempo del reddito potenziale sia indipendente da quella della domanda e del reddito effettivo.

10. ANALISI SBAGLIATE, CONCLUSIONI ASSURDE

Negli anni precedenti la stipulazione del Trattato di Maastricht il PIL in termini reali dei paesi della Comunità europea cresceva in media del 3% all’anno. Se a tale tasso di crescita si aggiunge un tasso di inflazione del 2% – ossia il tasso di inflazione adottato poi come proprio obiettivo dalla BCE – si ottiene un tasso di crescita del PIL in termini nominali (indicato d’ora in poi come PIL senza altre qualificazioni) del 5%. Se il PIL cre-sce costantemente del 5% all’anno, e si vuole che il rapporto debito pubblico/PIL riman-ga costante nel tempo, occorre ovviamente che il debito pubblico cresca anch’esso del 5% all’anno. E poiché i disavanzi pubblici (stante il divieto di finanziarli con creazione di moneta) si traducono in un aumento del debito pubblico, occorre che il rapporto fra disavanzo pubblico e debito pubblico resti costantemente pari al 5%.

Consideriamo ora l’eguaglianza

–––––––– –––––– = ––––––––

Se il PIL cresce del 5% all’anno, il rapporto disavanzo/PIL in grado di mantenere co-stante nel tempo il rapporto debito/PIL qualora esso sia inizialmente pari al 60% (il limite fissato dal trattato di Maastricht) risulta pari a

–––– –––– = ––––

Se, tuttavia, il rapporto debito/PIL è inizialmente superiore al 60%, il rapporto di-savanzo/PIL capace di mantenere costante tale rapporto (ossia di far crescere il debito pubblico del 5% all’anno) risulta superiore al 3%. Se, per esempio, il rapporto debito/PIL è inizialmente pari all’80% – e continuiamo a supporre che il PIL cresca del 5% all’anno – il rapporto disavanzo/PIL richiesto per tenere costante il rapporto suddetto sale al 4%:

–––– –––– = ––––

Ciò significa che in questo caso un rapporto disavanzo/PIL pari al 3% fa diminuire il rapporto debito/PIL. La diminuzione si arresta quando il rapporto debito/PIL raggiunge il valore-obiettivo del 60%.

Oltre a mostrare la concatenazione interna fra i due vincoli fiscali indicati nel Trattato di Maastricht, il ragionamento appena svolto ci è utile per chiarire il modo in cui il problema delle conseguenze sui vincoli fiscali di un rallentamento della crescita viene affrontato in un recente rapporto del Macroeconomic Policy Group del Centre for European Policy Stu-dies (CEPS) di Bruxelles (Gros, Mayer, Ubide, 2004). La persistente riduzione del tasso di crescita dell’area dell’euro, si argomenta nel rapporto, fa sì che un rapporto disavanzo/PIL

debito

disavanzo debito

PIL

disavanzo

PIL

1005

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del 3% risulti ora troppo elevato rispetto all’obiettivo di mantenere costante nel tempo un rapporto debito/PIL pari al 60% (e di assicurare la convergenza del rapporto stesso a tale valore-obiettivo). Si torni, infatti, a considerare la formula. È evidente che, se il PIL cresce ora del 3,5% all’anno (1,5% di crescita reale e 2% di inflazione), solo un rapporto disavan-zo/PIL del 2,1% è in grado di stabilizzare il rapporto disavanzo/PIL al 60%o (e di garantire la diminuzione di un rapporto debito/PIL superiore a tale soglia). Abbiamo, infatti,

–––– –––– = ––––

Un rapporto disavanzo/PIL del 3% fa ora aumentare un rapporto debito/PIL che sia ini-zialmente pari al 60%. Lungi dal rendere necessario un allentamento dei vincoli fiscali, il rallentamento della crescita – ritengono dunque gli economisti del CEPS – dovrebbe indurre a renderli più severi.

Apparentemente ineccepibile (e saldamente radicato nella teoria economica dominan-te), il ragionamento testé esposto si basa crucialmente sull’assunzione che il rallentamento della crescita non sia dovuto al ristagno della domanda e che a esso non si possa dunque porre rimedio attraverso adeguate misure di sostegno dell’occupazione e della crescita adottate congiuntamente dai diversi paesi (o centralmente dall’Unione Europea). Faccia-mo, tuttavia, un passo indietro.

Ho cercato di mostrare nei paragrafi precedenti come l’orientamento restrittivo del-la politica economica europea venga da lontano, risalendo al “mercantilismo” tedesco e all’adozione da parte degli altri paesi dell’aggancio al marco come strumento di control-lo dell’inflazione (§ 3); come tale orientamento contrasti nettamente con quello seguito negli Stati Uniti, dove le esigenze dell’occupazione e della crescita sono state tenute ben altrimenti in onore (§ 7); come a perpetuare il clima recessivo abbiano infine provveduto l’assenza di stimoli fiscali a livello europeo e i vincoli imposti alle politiche fiscali dei go-verni nazionali (§ 6), unitamente alla riduzione della politica industriale a politica della concorrenza (§ 7). Oltre a non stimolare la diffusione delle innovazioni, questo contesto di ristagno ha aggravato le conseguenze delle ristrutturazioni e della delocalizzazione pro-duttiva (§ 7). Solo un miracolo avrebbe potuto impedire che tutto questo non si traducesse in un rallentamento della formazione di capacità produttiva, in un aumento del tasso di disoccupazione e in una riduzione del tasso di partecipazione (cfr. sopra, § 9).

Ne discende che quel che occorre non sono certo politiche destinate ad aggravare l’in-sufficienza della domanda, ma politiche di spesa (e politiche monetarie) volte a promuo-vere una crescita meno dipendente dalle esportazioni e a compensare la sottrazione di domanda derivante dalla delocalizzazione produttiva. Se queste politiche avranno successo nel rianimare gli investimenti e i consumi, il maggior gettito fiscale potrà avere il risultato – solo apparentemente paradossale – di ridurre, anziché aumentare, i disavanzi pubblici (cfr. Ciccone, 2002).

Sordi a questo ordine di considerazioni, la maggior parte degli studi sull’argomento concordano con quello del CEPS nell’attribuire il rallentamento della crescita europea a fattori che operano dal lato dell’offerta. Tali sono considerati, in particolare, la diminu-zione del tasso di crescita della produttività (cfr., per esempio, Visco, 2004) e di quello delle ore lavorate (cfr., per esempio, Prescott, 2003; Visco, 2004). Consideriamo breve-mente questi due fattori. Secondo un’elaborazione dell’OSCE, il tasso di crescita della pro-duttività (PIL reale per ora lavorata) è passato in Europa dal 2,7% del 1980-90 all’1,6%

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del 1995-2000. I dati corrispondenti per gli Stati Uniti sono 1,3 e 1,6% (cfr. Visco, 2004, p. 295)34. Questo allineamento dei tassi di crescita della produttività è solitamente attri-buito a un arresto di quella rincorsa tecnologica del Vecchio Continente nei confronti del Nuovo che in passato consentiva al primo di godere di una più rapida crescita della produttività (cfr. ivi, p. 290). Se questa spiegazione è corretta, vi è da chiedersi perché, con una così gran copia di innovazioni disponibili, non si manifesti una maggior spin-ta ad adottarle. Fra le molteplici risposte che vengono date non sembra trovare molto spazio l’elementare osservazione che il veicolo della diffusione delle innovazioni è rap-presentato dagli investimenti; e che l’incertezza del quadro macroeconomico europeo ha determinato una netta caduta della quota degli investimenti sul reddito potenziale. (Su tale caduta ha spesso richiamato l’attenzione Franco Modigliani35, sia pure imputandola, forse in modo un po’ troppo esclusivo, alla politica della BCE: cfr., per esempio, Modiglia-ni, 1996; Modigliani, Ceprini, 2000).

Ma quel che colpisce maggiormente è che, secondo la ricordata elaborazione dell’OSCE, lo stesso tasso di crescita della produttività (1,6% nel 1995-2000), si accompagni a un tasso di crescita del prodotto del 4,1% negli Stati Uniti e del 2,6% in Europa. La diffe-renza sta, naturalmente, nel diverso tasso di crescita dello ore lavorate: 2,5% negli Stati Uniti e 0,9% in Europa. Agli economisti che aderiscono all’impostazione dominante, e che popolano gli uffici studi delle istituzioni economiche e monetarie di tutta l’Europa, non passa neanche per l’anticamera del cervello che tale diversa crescita possa dipendere dai fattori di domanda illustrati ad nauseam in questo saggio. Essi impiegano strumen-ti (quali la cosiddetta “contabilità della crescita”, basata sulla funzione aggregata della produzione) che non solo presentano insuperabili vizi analitici, ma che sono anche tali da escludere a priori che l’andamento nel tempo della domanda aggregata possa avere un ruolo nel determinare la crescita dell’economia, e dunque delle ore complessivamente lavorate.

Le proposte che discendono da simili premesse sono volte ad aumentare non la doman-da, ma l’offerta di lavoro: indurre la gente a lavorare un maggior numero di ore nell’arco della giornata o di giorni nell’arco dell’anno (così è nata l’idea, fatta propria dal Presidente del Consiglio italiano, di ridurre le ferie di una settimana), escludere talune categorie di inoccupati dai benefici del welfare state (com’è avvenuto in Germania con la già ricordata riforma entrata in vigore all’inizio del 2005), trattenere nel mercato del lavoro un maggior numero di lavoratori anziani aumentando l’età pensionabile. Consideriamo, in particolare, quest’ultimo aspetto, cui l’Unione Europea dedica una vigile attenzione. La strategia euro-pea per l’occupazione si impernia, per quanto riguarda la popolazione nella fascia d’età 55-64, sull’obiettivo di aumentare il tasso di occupazione dal 40% al 50% fra il 2002 e il 2010 (è questo il cosiddetto “obiettivo di Stoccolma”). Per ottenere tale risultato è necessario che nel periodo suddetto gli occupati in tale fascia d’età aumentino complessivamente di 7 milioni, ossia di circa 900.000 all’anno.

34 Se dal confronto fra i tassi di crescita passiamo a quello fra i valori assoluti, osserviamo che in Germania il PIL per ora lavorata, a parità di potere d’acquisto, è praticamente uguale a quello degli Stati Uniti, in Francia è del 10% più alto e in Italia del 10% più basso. Dati OSCE per il periodo 1993-96, riportati in Prescott (2003).

35 Nel Manifesto contro la disoccupazione nell’Unione Europea (Modigliani et al., 1998) si legge per esempio: «Rite-niamo che una ragione alla base del drastico declino della domanda di lavoro in Europa rispetto all’offerta disponibile, e del conseguente aumento della disoccupazione, sia costituito dal calo degli investimenti rispetto alla produzione potenziale. […] Successivamente al 1982 in Europa la caduta degli investimenti e la crescita della disoccupazione hanno continuato fino ad oggi, mentre negli Stati Uniti entrambe si sono mosse in direzione opposta, rapidamente e significativamente» (ivi, p. 7).

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Quando si consideri che fra il 1997 e il 2001, ossia in un periodo non dei peggiori per la crescita dell’occupazione, gli occupati nella classe d’età 55-64 sono aumentati in media di 250.000 all’anno36, apparirà chiaro quanto ambizioso sia l’obiettivo che ci si è dati. Cosa si intende fare per raggiungerlo? L’idea è, puramente e semplicemente, che, innalzando l’età pensionabile (innalzarla di cinque anni, dai 60 ai 65, entro il 2010 è il cosiddetto “obiettivo di Barcellona”), i corrispondenti posti di lavoro si creino sponta-neamente, grazie al necessario adeguamento della domanda all’offerta. Ma poiché tale adeguamento ha luogo solo nella fantasia degli economisti, a una più lunga permanenza degli anziani nel mercato del lavoro non accompagnata da un’adeguata politica della domanda non potrà non corrispondere un (ulteriore) ritardo nell’ingresso in tale mer-cato dei giovani.

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36 Tutti i dati citati sono tratti da European Commission (2003).

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