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DETTI E CONTRADDETTI 1989 – 2° SEMESTRE 6 luglio 1989. LINEA RECTA BREVISSIMA. La fantasia è d’obbligo. «La fantasia viene prima di tutto, sia nella creazione artistica, sia in quella scientifica. È la forza della creatività che spinge una persona all’impresa della ricerca, la più nobile attività della mente umana» (Max Perutz). La prepotenza dell’attualità. «La cosa che la gente avverte fortissimamente è l’oppressione dell’attualità. Oggi poi la notizia ha preso un posto esagerato. Uno viene così, attimo per attimo, schiacciato da una prepo- tenza dall’attualità; e desidera qualcosa che lo scarichi, che gli consenta di non parlarne più fino alla prossima alluvione di notizie. E allora legge Erodoto a Wodehouse: come un antidoto, una medici- na» (Fruttero-Lucentini). Non scindere corpo e spirito. «Le preferenze della carne mi sono sempre sembrate insieme un destino e una scelta, in cui lo spirito è coinvolto come il corpo» (Marguerite Yourcenar). Nel centenario della nascita di Jean Cocteau (5 luglio 1889-11 ottobre 1963). «Tutto in Cocteau dipende dall’occasione, beninteso non in senso alto, ma nel senso dell’ispirazione folgorante e nello stesso tempo fragile, corruttibile... Chi era, dunque, Cocteau? Uno spirito che non riusciva a riscat- tare la parte più segreta e più vera di ciò che chiamava ‘poesia’ o soltanto un funambolo che aveva capito il meccanismo del successo e della ‘gloria’ che si ottiene tenendo sempre ben illuminato il proprio nome nei manifesti?» (Carlo Bo). Non piace a tutti che le cose vengano dette in modo rigo- roso. «Come negli affari, anche nei discorsi il rigore ad alcuni sembra essere illiberale» (Aristotele, Metafisica II, cap. 3°, 995 a 12). IL KHOMEINISMO DEI VOLTERRIANI DI SINISTRA. «Sull’ultimo numero di MicroMega, Paolo Flores D’Arcais, condirettore della rivista assieme a Giorgio Ruffolo, si scaglia contro il ‘pa- pa khomeinista’, contro l’invadenza del potere ecclesiastico in sfere che non gli competono, contro la ‘diffusione della tossina integralista’ e altre simili nefandezze, tutte imputabili alla Santa Sede. Nel contempo Flores si autoproclama rappresentante degli eredi di Voltaire (‘non possiamo non dirci volterriani’, afferma) e invita a una guerra in nome della tolleranza. Come campo per la prima battaglia di questo conflitto sceglie la questione dell’aborto. Come nemici i medici che rifiutano di praticare l’interruzione di gravidanza. La sua proposta è semplicissima: devono esser costretti a cambiar mestiere. L’obiezione di coscienza, osserva Flores, può valere per i militari in quanto il servizio di leva è obbligatorio. Ma chi obbliga dottori e infermieri ad esercitare la loro professione nel campo della sanità? Con grande magnanimità Flores concede che ‘il diritto all’obiezione possa essere invocato da quanti abbiano fatto il giuramento di Ippocrate prima dell’entrata in vigore della legge’. Ma dall’indomani dell’approvazione della 194, cioè dal 22 maggio 1978, il medico obiettore è da con- siderarsi alla stregua di un attentatore della libertà altrui. E in quanto tale va debellato. Presa di po- sizione singolare sotto il profilo giuridico, ché Flores non può far finta di dimenticare come il diritto a rifiutarsi di praticare sia contemplato dall’articolo 9 della legge 194 stessa (‘Il personale sanitario ed esercente le attività ausiliarie non è tenuto a prendere parte alle procedure per l’interruzione della gravidanza quando sollevi obiezione di coscienza’). Ma, strafalcioni giuridici a parte, che senso ha dirsi ‘volterriani’ per ingaggiare una battaglia per conto di una maggioranza contro i diritti di una minoranza? Che i favorevoli alla pratica dell’aborto siano in Italia una schiacciante maggioranza lo si è visto sia in Parlamento, quando la legge è stata approvata, sia nel Paese quando quella legge è stata confermata attraverso un referendum. E allora non sarebbe meglio che un combattente dell’anti-khomeinismo e dell’anti-integralismo si adoperas- se a difendere i diritti delle minoranze soprattutto nel caso in cui sono in gioco questioni di valore?

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DETTI E CONTRADDETTI 1989 – 2° SEMESTRE

6 luglio 1989. LINEA RECTA BREVISSIMA. La fantasia è d’obbligo. «La fantasia viene prima di tutto, sia nella creazione artistica, sia in quella scientifica. È la forza della creatività che spinge una persona all’impresa della ricerca, la più nobile attività della mente umana» (Max Perutz). La prepotenza dell’attualità. «La cosa che la gente avverte fortissimamente è l’oppressione dell’attualità. Oggi poi la notizia ha preso un posto esagerato. Uno viene così, attimo per attimo, schiacciato da una prepo-tenza dall’attualità; e desidera qualcosa che lo scarichi, che gli consenta di non parlarne più fino alla prossima alluvione di notizie. E allora legge Erodoto a Wodehouse: come un antidoto, una medici-na» (Fruttero-Lucentini). Non scindere corpo e spirito. «Le preferenze della carne mi sono sempre sembrate insieme un destino e una scelta, in cui lo spirito è coinvolto come il corpo» (Marguerite Yourcenar). Nel centenario della nascita di Jean Cocteau (5 luglio 1889-11 ottobre 1963). «Tutto in Cocteau dipende dall’occasione, beninteso non in senso alto, ma nel senso dell’ispirazione folgorante e nello stesso tempo fragile, corruttibile... Chi era, dunque, Cocteau? Uno spirito che non riusciva a riscat-tare la parte più segreta e più vera di ciò che chiamava ‘poesia’ o soltanto un funambolo che aveva capito il meccanismo del successo e della ‘gloria’ che si ottiene tenendo sempre ben illuminato il proprio nome nei manifesti?» (Carlo Bo). Non piace a tutti che le cose vengano dette in modo rigo-roso. «Come negli affari, anche nei discorsi il rigore ad alcuni sembra essere illiberale» (Aristotele, Metafisica II, cap. 3°, 995 a 12). IL KHOMEINISMO DEI VOLTERRIANI DI SINISTRA. «Sull’ultimo numero di MicroMega, Paolo Flores D’Arcais, condirettore della rivista assieme a Giorgio Ruffolo, si scaglia contro il ‘pa-pa khomeinista’, contro l’invadenza del potere ecclesiastico in sfere che non gli competono, contro la ‘diffusione della tossina integralista’ e altre simili nefandezze, tutte imputabili alla Santa Sede. Nel contempo Flores si autoproclama rappresentante degli eredi di Voltaire (‘non possiamo non dirci volterriani’, afferma) e invita a una guerra in nome della tolleranza. Come campo per la prima battaglia di questo conflitto sceglie la questione dell’aborto. Come nemici i medici che rifiutano di praticare l’interruzione di gravidanza. La sua proposta è semplicissima: devono esser costretti a cambiar mestiere. L’obiezione di coscienza, osserva Flores, può valere per i militari in quanto il servizio di leva è obbligatorio. Ma chi obbliga dottori e infermieri ad esercitare la loro professione nel campo della sanità? Con grande magnanimità Flores concede che ‘il diritto all’obiezione possa essere invocato da quanti abbiano fatto il giuramento di Ippocrate prima dell’entrata in vigore della legge’. Ma dall’indomani dell’approvazione della 194, cioè dal 22 maggio 1978, il medico obiettore è da con-siderarsi alla stregua di un attentatore della libertà altrui. E in quanto tale va debellato. Presa di po-sizione singolare sotto il profilo giuridico, ché Flores non può far finta di dimenticare come il diritto a rifiutarsi di praticare sia contemplato dall’articolo 9 della legge 194 stessa (‘Il personale sanitario ed esercente le attività ausiliarie non è tenuto a prendere parte alle procedure per l’interruzione della gravidanza quando sollevi obiezione di coscienza’). Ma, strafalcioni giuridici a parte, che senso ha dirsi ‘volterriani’ per ingaggiare una battaglia per conto di una maggioranza contro i diritti di una minoranza? Che i favorevoli alla pratica dell’aborto siano in Italia una schiacciante maggioranza lo si è visto sia in Parlamento, quando la legge è stata approvata, sia nel Paese quando quella legge è stata confermata attraverso un referendum. E allora non sarebbe meglio che un combattente dell’anti-khomeinismo e dell’anti-integralismo si adoperas-se a difendere i diritti delle minoranze soprattutto nel caso in cui sono in gioco questioni di valore?

Non c’è dubbio comunque che quelle di Flores siano ‘ragioni della sinistra’ . Purtroppo non della miglior sinistra» (Renato Mieli in «Opinioni del sabato», La Stampa). RESPIRARE ARIA PURA. Non si vive solo per confrontarsi, polemizzare, difendere ciò in cui si crede. Occorre alla mente nutrirsi di verità, percorrere i sentieri della saggezza, lasciarsi sorprendere dalla bellezza. Oggi ci affidiamo a Rabbi Pinhàs, chassid del XVIII secolo. Sui sogni e sulla loro funzione, ecco cosa diceva due secoli prima di Freud: «I sogni sono una produzione della mente e la mente attraverso i sogni si purifica». E alla domanda sulla qualità principale a cui aspirare, ri-spondeva: «Io temo sempre di essere più intelligente che pio. Ma più che pio e intelligente preferi-sco essere buono». Rabbi Pinhàs insisteva nel fare un paio di raccomandazioni. La prima è un invito a saper attendere, liberi dall’ansietà: «Ciò a cui si corre dietro, di solito non lo si ottiene. Ma ciò che si lascia venire, ci vola incontro». Ed ecco la seconda: «Assai più grande è la forza di colui che accetta il rimprovero in spirito di verità che quella di colui che deve fare il rimprovero». 13 luglio 1989. LINEA RECTA BREVISSIMA. Il “proprio” di ogni persona. «Il proprio di ogni persona è la mo-dalità attraverso la quale essa si pone in relazione alle altre persone» (Cristoph Schönborn). La pri-ma e la seconda volta. «La prima volta che tu n’inganni, è colpa tua. La seconda volta però, la colpa è mia» (proverbio). Spirito di servizio e autodisciplina. «Vivere a proprio gusto è da plebei. Solo l’animo nobile aspira a un ordine e a una legge» (W. Goethe). L’uomo che ha un animo nobile. «Al contrario di quel che si crede, non è l’uomo-massa, ma l’uomo che ha un animo nobile che si pone al servizio di qualcosa. La nobiltà, infatti, si definisce non per i diritti che potrebbe rivendicare, ma per le esigenze e gli obblighi che si impone» (Ortega y Gasset). Identikit dell’uomo-massa. «L’uomo-massa è colui per il quale vivere significa essere quello che già è. Non è disposto a cerca-re la verità e ad accettare le regole che essa impone, ma egli si immagina di possedere idee su quan-to avviene e deve avvenire nel mondo. Le sue idee sono l’assortimento di luoghi comuni, pregiudi-zi, parvenze di idee; ma egli cercherà d’imporle tassativamente dovunque» (Ortega y Gasset). Non è democrazia, ma ignoranza presuntuosa. «Oggi il progresso tecnologico ha messo i vizi più esclusi-vi alla portata di tutti. Anche la superbia. Tutti pensano di dover dire sempre la loro su tutto. Nei gi-roni infernali della “democrazia continua”, dei sondaggi di opinione, dei dibattiti televisivi l’uomo-massa giudica cose di cui quasi sempre non sa nulla. Oggi ci vuol coraggio a dire: “Non so, la do-manda che mi è rivolta supera le mie conoscenze”. La maggioranza dice: “Secondo me” e parla a vanvera» (Flavio Biondi). UN PO’ DI SOCIOLOGIA.... UMORISTICA. L’umorismo è la capacità di rilevare e rappresentare, in forma divertita, l’aspetto comico della realtà con indulgente simpatia. Una... sociologia pesata da un umorista è, almeno ai miei occhi, sempre interessante, tanto quanto e forse assai più, di quella elaborata nelle patrie università o in quelle anglo-americane. Ed è utile tener conto delle sue «leggi fondamentali» (si fa per dire, naturalmente). Una di queste è così formulata: «Gli esseri umani rien-trano in una di quattro categorie: gli sprovveduti, gli intelligenti, i banditi e gli stupidi». È il caso di chiedersi: io a quale delle quattro categorie appartengo? Si sa che la maggior parte delle persone non agisce coerentemente. Una persona intelligente in qualche caso può parlare da sprovveduto e comportarsi da bandito; ma la maggior parte delle sue azioni avrà la caratteristica dell’intelligenza. I banditi sono disonesti con un elevato grado di intelligenza: procurano per sé guadagni causando perdite agli altri. Chi è intelligente riesce contemporaneamente a procurare un vantaggio per sé e per gli altri. Lo sprovveduto, invece, consegue sempre una perdita per sé e un guadagno per gli altri. Lo stupido, infine, causa un danno ad un’altra persona o a un gruppo di persone senza nel contempo realizzare alcun vantaggio per sé. Sono stupidi di rango superiore quelli che non solo causano danni ad altre persone, ma anche a se stessi. Evidentemente la capacità di uno stupido di danneggiare il

prossimo dipende dalla posizione di potere che occupa nella società: generale, alto burocrate, mini-stro... Porsi la domanda: «Io a quale categoria appartengo?» è pur sempre un esercizio utile per mettersi socraticamente in chiaro con se stessi, nella speranza di cambiare in meglio; farà, dunque, bene an-che ai lettori rivolgere a se stessi quell’imbarazzante interrogativo. Con un’avvertenza: che gli ap-partenenti a tre delle quattro categorie, se si interrogano, prendono coscienza, con maggiore o mino-re lucidità, di quello che sono, di quello che sono e di quello che dovrebbero o vorrebbero essere. Sono i banditi, gli intelligenti e gli sprovveduti. Al contrario di costoro, lo stupido non sa di essere stupido. «Lo stupido – scrive Carlo M. Cipolla nel suo spassoso Allegro ma non troppo (Il Mulino) – non è inibito da quel sentimento che gli anglosassoni chiamano self-consciousness. Col sorriso sulle labbra, come se si compisse la cosa più naturale del mondo, lo stupido comparirà improvvi-samente a scatafasciare i tuoi piani, distruggere la tua pace, complicarti la vita ed il lavoro, farti perdere denaro, tempo, buonumore, appetito, produttività – e tutto questo senza malizia, senza ri-morso e senza ragione. Stupidamente». IL MOMENTO E IL LUOGO. L’umorismo implica la percezione istintiva del momento e del luogo in cui può essere espresso. Fare dell’umorismo sulla precarietà della vita umana al capezzale di un moribondo non è umorismo. È rozzezza e cattivo gusto. D’altra parte, osserva acutamente Carlo M. Cipolla, «quando quel gentiluomo francese che saliva i gradini che lo portavano alla ghigliottina, avendo inciampato in uno dei gradini, rivolgendosi alle guardie esclamò: “Dicono che inciampare porti fortuna”. Quel gentiluomo meritava certamente che la sua testa venisse risparmiata». 20 luglio 1989. LINEA RECTA BREVISSIMA. Due sommi filosofi guardano il cielo. «La vista delle stelle suscita in noi un senso di rispetto colmo di venerazione. Il cielo stellato è l’immagine evidente e gloriosa di un’inconcepibile Sapienza. Una forza spirituale meravigliosa vi si rivela. L’universo sensibile esiste per l’Uno-Bene e a Lui guarda» (Plotino, Enneadi, II). Nella bellissima chiusa della Critica della Ragion pratica, Kant non è da meno. «Due cose riempiono l’animo di ammirazione e di riverenza sempre nuove e crescenti, quanto più spesso e più a lungo il pensiero vi si ferma su: il cielo stellato sopra di me e la legge morale in me». Un bosco a primavera. «Un uomo che conosce bene la bel-lezza di un bosco a primavera è impossibile che dubiti del senso del mondo» (Konrad Lorenz). La molla della libertà. «La libertà dell’uomo consiste essenzialmente nella capacità di trascendere l’esistente in forza di un ideale che è più alto e più nobile di quello che già c’è» (Rocco Buttiglio-ne). Debolezza dei sensi e potenza di seduzione dell’immaginazione. «L’immediato potere dei sensi è debole e limitato: essi provocano i loro peggiori danni con il solo ausilio dell’immaginazione, dato che questa si prende cura di eccitare il desiderio prestando agli oggetti un’attrattiva maggiore di quanto non gliene abbia fornito la natura» (Jean-Jacques Rousseau, Lettera a D’Alembert sugli spet-tacoli). Non abituarci al miracolo della vita sulla terra. «Ci sono sensazioni che ricordano l’infanzia, quando la visione della prima neve, il tambureggiare della pioggia estiva, il lampo del so-le sull’acqua, l’arcobaleno ci riempivano di gioia. Questo sentimento meraviglioso con gli anni si smussa e gli uomini giungono ad abituarsi al miracolo della loro vita sulla terra» (Vasilij Gros-sman). LE DUE FACCE DEL NOSTRO PAESE. Ogni settimana almeno, in un’occasione o in un’altra, per un dibattito politico o per un summit di qualsiasi genere, ci sentiamo ripetere la «buona» notizia: se non siamo la quarta, siamo almeno la quinta potenza industriale del mondo. Ma per trarre motivo di legittima soddisfazione da una notizia del genere, devi subito spegnere il televisore e chiudere il giornale, altrimenti... Altrimenti sei costretto, in coscienza, a ricordarti che ci sono altri parametri, e non meno importanti, per giudicare il grado di civiltà di un popolo. Parametri che riguardano da vi-

cino ogni giorno tanta gente e, in ogni caso, i più indifesi. Come funzionano nel bel Paese i traspor-ti, i servizi pubblici, gli ospedali, l’amministrazione della giustizia, le carceri, il fisco? E come giu-dicare gli infortuni sul lavoro e l’altissimo prezzo di vite umane pagato dai lavoratori edili? Quanto poi ai sequestri di persona ed ai racket, forse è meglio non chiedersi a che posto siamo nella gradua-toria mondiale. E in fatto di deficit non siamo prossimi alla bancarotta fraudolenta? A NASCONDINO: IL GIOCO DI DIO. «Il nipote di Rabbi Baruch, il ragazzo di Jehiel, giocava un giorno a nascondino con un latro ragazzo. Egli si nascose ben bene ed attese che il compagno lo cercasse. Dopo aver atteso a lungo uscì dal nascondiglio; ma l’altro non si vedeva. Jehiel si accor-se allora che quello non l’aveva mai cercato. Piangendo corse nella stanza del nonno e si lamentò del cattivo compagno di gioco. Gli occhi di Rabbi Baruch si empirono allora di lacrime ed egli dis-se: “Così dice anche Dio: Io mi nascondo, ma nessuno mi vuole cercare”» (Martin Buber, I racconti dei Chassidim). 27 luglio 1989. LINEA RECTA BREVISSIMA. Il computer e l’uomo. «Mi chiedono spesso: Quando riusciremo a costruire un computer bravo come un uomo? Rispondo: Quando capirà se una cosa è detta per scherzo o sul serio» (Luciano De Crescenzo). La notizia da bloccare o da far filtrare. «Un dirigente di banca non può permettersi di far filtrare notizie, neppure per fare un favore. Una giornalista non le può bloccare» (Fred Friendly). Gli anni di piombo. «Che malinconia, che operetta: / vantarsi del-le bombe, sognare / di essere dentro la storia / e poi svegliarsi / dentro niente, / orecchianti della rivoluzione, / e poi trovarsi / soli, vagabondi, con l’amaro dell’altro / che abbiamo tradito, dell’uomo che eravamo prima» (Franco Loi, Liber, Garzanti). La rivoluzione necessaria a una so-cietà democratica. «Il problema non è quello di costruire un’altra società, ma piuttosto di migliorare quella che c’è» (Salvatore Veca). LA CARTOLINA CHE NON GIUNSE MAI. Romano Bilenchi ha raccontato con la solita efficacia un episodio avvenuto a Firenze alcuni mesi dopo la liberazione. A Fortezza da Basso le brigate sce-se dai monti e i gappisti che avevano combattuto in città furono convocati per sciogliere le forma-zioni e consegnare le armi. Nelle formazioni partigiane militavano due soldati sovietici. «Io e il mio amico siamo ucraini e vogliamo al più presto tornare a casa» - disse uno dei due. Bilenchi volle ospitarli a casa sua. Gli operai specializzati godevano di notevoli privilegi e i due ucraini erano ope-rai specializzati. Uno dei due era comunista, come Bilenchi, e l’altro devoto alla Patria in lotta con-tro il nazismo invasore. Gente fidata, dunque, a cui chiedere «la verità sull’Unione Sovietica». I due difendevano il regime, insistendo su quegli aspetti positivi che li riguardavano da vicino. Ed ecco che da Bilenchi partì la domanda più atroce: «Voi volete tornare al più presto nell’Unione Sovieti-ca, ma per il fatto che avete visto troppo dell’Occidente non può darsi che quando tornerete in pa-tria Stalin vi faccia fucilare?» La risposta fu: «Oggi in Russia c’è bisogno di gente che cominci a ricostruire tutto. Stalin sarà felice che noi due si sia rimasti vivi. In ogni modo, quando arriveremo laggiù, ti manderemo una cartolina». Bilenchi conclude così il racconto: «Un giorno mi vennero a trovare un dirigente della federazione comunista di Firenze e Giorgio Amendola... In quelle ore raccontai l’episodio dei due ucraini e gli dissi del mio timore che fossero stati fucilati. Il dirigente fiorentino mi chiese: - Cartoline ne hai ricevute? – Scossi la testa. Sospirammo tutti e tre». PREZZOLINI E PAOLO VI. Nel pieno della crisi post-conciliare Papa Montini si rivolse a Giusep-pe Prezzolini, un «lontano», per chiedergli consiglio sui modi migliori per «entrare in dialogo con i lontani e rendere credibile la Chiesa ai contemporanei». «Santità – rispose lo scrittore toscano – non c’è che un mezzo. Gli uomini di Chiesa devono essere soprattutto buoni a mirare a uno scopo sol-tanto: creare degli uomini buoni. Non c’è nulla che attiri come la bontà perché di nulla noi incre-

duli siamo tanto privi. Di gente intelligente il mondo è pieno, quel che ci manca è la gente buona. Formarla è il compito della Chiesa per riattrarre gli uomini al Vangelo. Tutto il resto è seconda-rio». LA LINEA D’OMBRA. La linea d’ombra è il titolo di un’opera di Joseph Conrad (trad. it. Einau-di): titolo riuscito che sta a indicare il punto-soglia, il momento della svolta, la decisione che cambia l’esistenza. «Nella vita dell’uomo – scrive Giuseppe Bernardi – c’è una soglia al di qua della quale ogni sogno, vagheggiato e temuto, pare lecito. Più che una condizione di sogno, è forse uno stato di incantamento in cui, con la sensazione del tempo che incalza, si va avanti allegri e frementi... Oltre quella soglia sottile, niente è come prima». Se in quel momento lo slancio si unisce alla riflessione e vince ogni astratto furore, significa allora che abbiamo superato la linea d’ombra che ci separava dall’età adulta. Ogni indugio che rimandi questo appuntamento con la vita ci appare estraneo e re-moto, mentre altri imperativi, pur nel sentimento della perduta gioventù, si ergono a governare le cadenze del cuore, come la coscienza dei nostri appetiti, i dilemmi posti dalla responsabilità e dall’onore. Che a quell’appuntamento ogni giovane porti il suo io migliore. 3 agosto 1989. LINEA RECTA BREVISSIMA. Il pericolo della omologazione. «La nuova intolleranza si chiama unanimismo» (Leonardo Sciascia). Gli errori della cultura umana. «Le epidemie artificiali sono la storia degli errori della cultura umana» (Rudolph Wirchov, fondatore della patologia cellulare). Perché non lasciare un po’ in pace la gente? «Si tenta d’imporre con un ordine del giorno gli ar-gomenti e i libri di cui si deve discutere e per chi ne resta fuori non c’è posto. Viene, ad esempio, rivolta per telefono la domanda su un libro uscito una settimana prima, come se fosse naturale dover leggere quel libro invece che Nievo o Catullo. Perché non lasciare un po’ in pace la gente? Già que-sto favorirebbe automaticamente il pluralismo» (Claudio Magris). Dopo aver attraversato il fuoco della critica. «Dopo due secoli di esegesi scientifica, di demitizza-zione, di metodo storico-critico, stiamo per ritrovarci al punto di partenza, scoprendo inopinatamen-te che la lettura più semplice e spontanea dei Vangeli, quella di tutti i cristiani per tanti secoli, era, in realtà, anche la più scientifica» (Lucien Cerfaux). Una parola che abbia vinto i virus della “bla-blalogia”. «Dare la parola a un individuo è come dargli la libertà, giacché è vero che può dirsi uo-mo solo chi è padrone del proprio linguaggio» (Cosimo Laneve). Gli scettici e gli operatori di pace. «Non sottovalutate la portata del lavoro degli operatori di pace, perché l’esperienza ci ha dimostrato che è sulla base dei loro sforzi, e non già sulle esitazioni degli scettici, che si costruisce l’edificio della pace» (Javier Perez de Cuéllar). MA CERTA GENTE QUANDO STUDIA? Così la descrive Dino Basili, fingendo di venire a co-noscenza di questa mania da un libro di storia del 2500 dopo Cristo. «Il grido o il sussurro correva-no dal ministero al salotto, dall’università al ristorante e all’alcova: - Ci vediamo al convegno! – Il rito, per questo o quel motivo, si rinnovava quasi ogni giorno. Lunghe carovane si spostavano da un capo all’altro di Roma e dell’Italia senza badare a spese, solitamente rimborsate. I convegni e i loro corridoi divennero il tempio itinerante della democrazia. Le relazioni erano sempre più ampie, i dibattiti sempre più approfonditi. Milioni e milioni di parole. Così gli affabulatori conquistarono il potere» (Tagliar corto, Mondadori). Una domanda si fa dentro di me insistente: ma quella gente riesce ancora a trovare il tempo di pen-sare? E quando studia? GRAFFITI DI PECHINO. Molte scritte che innalzavano gli studenti cinesi, nella sconfinata piazza Tienanmen, nell’indimenticabile maggio 1989, erano nobili e tristi: «Il pane è importante, ma la ve-rità di più». «Il popolo della Cina: condannato al feudalesimo da centinaia di anni, alla dittatura

da quaranta». Un giovane di vent’anni cerca di giustificarsi con i suoi genitori, scrivendo: «I miei genitori mi hanno mandato all’università di Pechino, sperando che io leggessi dei buoni libri, e io sono in piazza con voi. Ma io mi sentirò utile soltanto quando restituirò la speranza alla gente». Sappiamo bene chi sono oggi i padroni del potere in Cina ma gli studenti di Pechino, quei giovani disarmati hanno espresso con fierezza il senso dell’avvenimento di cui sono stati protagonisti scri-vendo, quasi presaghi del sacrificio a cui andavano incontro: «La Cina non ci dimenticherà mai. Oggi stiamo scrivendo la storia di domani». Una delle più grandi e tragiche pagine di questo seco-lo, senza dubbio. IL MITO DA CUI MUOVE HEIDEGGER. Anassimandro per primo si è proposto il problema del processo attraverso il quale le cose esistenti derivano dall’essere originario e infinito. Egli ha fatto disgraziatamente della finitezza degli esistenti e della loro generazione una colpa. Il male è esistere in quanto esistere è avere una propria individualità. Heidegger ripete già in Essere e Tempo: «Ogni discendenza in campo ontologico è una degenerazione». Questa fantasticheria – la presunta lacera-zione tra l’origine e ciò che ne discende – dovrebbe giustificare il sacrificio di ciò che, essendo na-to, è degenerato. Si capisce allora come nel filosofo tedesco ciò che esiste non è che un zum Tode Sein, un essere per la morte. Da un’impostazione del genere non può venir fuori che una filosofia del declino e della Gelassenheit, o remissione al Fato. Altro che «umanesimo» e riscoperta della «dimensione metafisica»! «In Heidegger – lo rileva Franco Rella – la passione della fine si accom-pagna a una logica sacrificale, che giunge fino al limite di una sorta di autosacrificio del pensiero filosofico». 10 agosto 1989. LINEA RECTA BREVISSIMA. Coesistenza di felicità e di infelicità. «Si può essere felici in fami-glia, con gli amici, nel lavoro: e nello stesso tempo essere disperati per la decadenza del proprio Pa-ese» (Raymond Aron). La raffinatezza di un’autentica canaglia. «C’è chi riesce a provocare negli altri un senso di colpa per azioni delle quali lui solo è responsabile» (Peter Handke). Nessuna mon-tatura, per favore. «Esaltare è un ramo del mentire» (Balthazar Gracian). La maledizione immanen-te. «I beni superflui rendono superflua la vita» (Pier Paolo Pasolini). Una contraddizione fra nome e aggettivo. «L’espressione “libero amore” è contraddittoria: chi ama non è mai libero» (Gilbert Keith Chesterton). Due modi di essere sciocchi e presuntuosi. «Sciocco non è soltanto chi non dubita di nulla. Sciocco è anche chi dubita di tutto» (Charles-Joseph De Ligne). L’amicizia si merita. «Gli amici si meritano. E bisogna meritarli sempre, senza interruzione, cor-rendo il rischio ogni giorno di contraddirli e di perderli» (Georges Bernanos). Uno scambio da non autorizzare mai. «Attenzione al lessico dell’amicizia. I nuovi barbari, per esempio, continuano a scambiare l’affetto con l’essere in combutta» (Dino Basili). L’inclinazione auto-distruttiva di molte persone intelligenti, in particolare di alcuni leaders politici. «I non stupidi dimenticano costante-mente che in qualsiasi momento e luogo, ed in qualsiasi circostanza, trattare e/o associarsi con indi-vidui stupidi si dimostra infallibilmente un costosissimo errore» (Carlo M. Cipolla). Il riso che libe-ra. «Se un uomo ride di tutte le sue follie, fa passare sul mondo l’alito dell’indulgenza e ciò che gli pesava si fa leggero» (Rabbi Bär, chassid). QUANDO LA MODA INVADE IL CAMPO DELLA FILOSOFIA. I problemi non si impostano correttamente e non si risolvono con giochi di metafore. La fortuna di molte filosofie, invece, risie-de proprio, secondo i gusti correnti nel non elaborare seriamente nemmeno i concetti basilari di cui ci si serve e nello scambiare scorribande ed evasioni immaginarie per rigore metafisico. E così una nuova mitologia viene costruita con virtuosismi dialettici, a cui il tono oracolare-poetico conferisce un alone di mistero ed una pretesa di profondità. È la nuova moda, quella dei neo-heideggeriani. Es-sa ha soppiantato la lunga egemonia marxista e, a sua volta – a causa dell’impotenza a spiegare il

divenire, l’esperienza, la storia, la morte – contribuisce sempre più a far avanzare quel pensiero che si proclama debole, ma aspira ad una dittatura sulla cultura e sul costume. L’umbratile negazione del divenire nel mondo e del mondo, il panteismo statico e l’inevitabile fatalismo in campo etico degli uni non sono più convincenti e razionalmente dimostrati – malgrado la veste concettuale e l’afflato tragico continuamente esibiti – dalla riduzione, operata dagli altri, della filosofia ad una specie di «biblioteca di Babele». È però significativo che gli uni e gli altri, i dogmatici e gli scettici, abbiano entrambi una stessa matrice, Heidegger, insuperato maestro di ambiguità. Non è detto, pe-rò, che le filosofie alla moda, su cui si gettano i mass-media, che a loro volta ne costituiscono l’agognata amplificazione, sopravvivano di molto ai loro autori. Il tempo, in fondo, è galantuomo. IL CIAK DI «ROMA CITTÀ APERTA». Roma, Via degli Avignonesi, notte del 18 gennaio 1945. Per i marciapiedi si aggiravano prostitute e soldati americani. In una sala corse si cominciava av-venturosamente a girare Roma città aperta. Nel volume Celluloide, edito qualche tempo fa da Riz-zoli, Ugo Pirro ne ha raccontato l’atto di nascita. «Prima di iniziare Aldo Fabrizi si fece il segno della croce: non c’era scritto sul copione, cercava sinceramente la protezione di Dio... Rossellini si segnò subito dopo e tutti, uno dopo l’altro, li imitarono, tranne Amidei... Finalmente Rossellini or-dinò: “Motore!”. Si udì il ronzio della macchina da presa ed in un silenzio di chiesa ebbe inizio Ro-ma città aperta». Con quel film nasceva il neorealismo e, quel che più conta, un capolavoro univer-sale dell’arte cinematografica che reca il sigillo di una schietta ispirazione cristiana. Come fu accol-to un film di quel valore e di così alto livello? «Il film – ebbe a dichiarare Roberto Rossellini venti-cinque anni dopo – non piaceva a nessuno, neanche agli amici. La critica lo accolse malissimo. Il distributore rifiutò di versare una certa somma cui era impegnato. Lo presentarono al festival di Cannes, ma alle due del pomeriggio, in sala, a vederlo c’erano soltanto io e mio fratello...». «CON»: UMANO E DIVINO IN SINERGIA. A proposito del versetto dei Salmi: «Tu hai agito be-ne con il tuo servo», Rabbi Michal disse: «La tua condotta si chiama “con”. Quando il tuo servo, Signore, adempie il tuo comandamento, tu agisci con lui. Ma gli attribuisci il merito dell’adempimento come se avesse agito da solo, senza il tuo aiuto» (Martin Buber, I racconti dei Chassidim, Garzanti, 1979, p. 192). 17 agosto 1989. LINEA RECTA BREVISSIMA. Non solo l’efficacia, ma il valore di verità. «Finora ho potuto solo rendermi conto del potere speculativo del suo pensiero e del suo enorme influsso sulla weltan-schauung dell’epoca presente, senza però essere in grado di farmi un’opinione definitiva circa il vo-lume di verità in esso contenuto» (Albert Einstein a Sigmund Freud, in una lettere del 1936). I “luoghi” privilegiati della chiacchiera. «I luoghi dove l’irresistibile tendenza contemporanea alla chiacchiera, all’effimero, al culto dell’inutile e dell’inesistente meglio si manifesta sono, ad esem-pio, i mezzi di comunicazione di massa, il sogno esotico, la mania dei congressi, l’organizzazione dei futuribili» (Giorgio Barberi Squarotti). Il vero nemico. «Il vero nemico non è ormai più l’ignoranza, ma la menzogna» (Jean François Revel). L’assioma idiota. «L’assioma dell’impossibile obiettività è il rifugio della pigrizia, se non della fur-bizia. Naturalmente è difficile dare la notizia esatta, obiettiva, ma non è impossibile. Si può pur sempre tendere verso l’imparzialità. Irraggiungibile, impossibile è solo l’infallibilità» (Barbara Spi-nelli). Solo i bambini piccoli e i grandi filosofi, non “i signori della chiacchiera”. «Solo i bambini possono avere sulla morte chiarezza e profondità di pensiero. I bambini o grandi filosofi, il cui vigo-re speculativo si apparenta alla semplicità e alla forza del sentimento infantile» (Vasilij Grossman). L’unicità di ogni persona umana. «Nell’uomo, nella sua timida unicità, nel suo diritto a tale unicità consiste il solo, vero, eterno significato della lotta per la vita» (V. Grossman).

RISCOPRIRE IL CHIARDILUNA. «Uccidiamo il chiaro di luna!», tuonava il fondatore del futuri-smo nel lontano anno 1909. Uomo talora geniale, Filippo Tommaso Marinetti diceva anche, e sape-va ben vendere agli altri, infantili sciocchezze. In campo artistico non meno che in politica. Lo spro-loquio marinettiano sul lunicidio non ha cancellato il sentimento, la magia della luna e i grandi arti-sti, anche dopo Marinetti e le sue invettive, hanno continuato ad avvertirne la misteriosa presenza. Certamente può contare il chiardiluna solo chi ne rimanga preso e ne sia intimorito, avvertendo in esso un dono misterioso, non decifrabile. Apollinaire dirà: «I frutteti e borghi questa notte sono ingordi / perché dolce, cadendo loro dal cie-lo, / ogni raggio di luna è un raggio di miele». Ma il nostro Sandro Penna è ben più forte: «È sul mondo la luna. / Il fondo ascolto / della mia vita a quel lume di luna». L’associazione spontanea, invincibile tra i ricordi e la notte lunare, diventa attesa e invocazione in Federico Tozzi: «Ancora la luna non s’è levata, ma io sento nell’aria la sua dolcezza; e m’affaccio alla finestra per aspettar-la... I miei ricordi, stasera, che mi diranno? Io mi protendo tutto verso di loro mentre la luna viene su l’orizzonte». Il chiardiluna, si sa, è una di quelle esperienze originarie che suscitano lo stupore d’esistere anche in un fanciullo e Corrado Alvaro ha espresso una verità profonda quando ha scritto: «Si ritrova quel chiarore come una cosa d’altri tempi, di cui noi godiamo senza che più ci spetti». A “sorella luna” hanno chiesto conforto e hanno manifestato la loro commossa gratitudine proprio i due massimi cantori della scomposizione dell’uomo, del senso non compiuto, dell’incomunicabilità: Pirandello e Kafka. «Grande, placida, come in un fresco, luminoso oceano di silenzio, gli stava di faccia la Luna. Sì, egli sapeva, sapeva cos’era – scrive Pirandello – ma come tante cose si sanno, a cui non si è dato mai importanza. Ora, ora soltanto, di notte, egli la scopriva. Estatico, cadde a se-dere sul suo carico... Eccola, eccola là, eccola là, la Luna... C’era la Luna! la Luna! Si mise a piangere, senza saperlo, senza volerlo, dal gran conforto, dalla grande dolcezza che sentiva, nell’averla scoperta, là, mentr’ella saliva pel cielo, la Luna, col suo ampio velo di luce, ignara dei monti, dei piani, delle valli che rischiarava, ignara di lui, che pure per lei non aveva più paura, né si sentiva più stanco, nella notte ora piena del suo stupore». Il passo di Franz Kafka ha una carica esistenziale non meno evidente: «La luna era gentile da illuminare anche me e per modestia volevo mettermi sotto la volta della Torre del ponte, allorché compresi che era naturale che la luna illumi-nasse ogni cosa. Quindi allargai le braccia con gioia per godermi interamente la luna. E mi sentii leggero quando, facendo movimenti di nuoto con le braccia abbandonate, mi portai avanti senza dolore e fatica». STUPIDITÀ E RAGIONI DELLA SUA PREVALENZA. La stupidità ha anch’essa le sue leggi. Leggi ferree, scoraggianti. Perché? Sia per la ragione addotta da Schiller: «Contro la stupidità gli stessi Dei combattono invano»; sia perché «in una società in declino ai membri stupidi della società è concesso dagli altri membri di diventare più attivi», raggiungendo posizioni di potere e di presti-gio. Guardarsi intorno e... in alto per credere! 24 agosto 1989. LINEA RECTA BREVISSIMA. Troppa candeggina. «Nei suoi lavaggi mentali ogni ragionamento è bucato» (Dino Basili). L’adagio della libertà cristiana. «Ogni uomo, sia esso anche papa o teolo-go, ha un diritto umano divinamente garantito di commettere ogni tanto un errore. Con l’obbligo, però, di implorare da Dio la grazia del dubbio, per poterlo correggere» (Bernhard Häring). Il com-miato. «Ci è stato concesso uno splendido commiato. / Alla fine ho potuto ancora donarti ciò che mi è più caro: / il cuore tolto dal mio cuore» (Friedrich Hölderlin, La morte di Empedocle, trad. it. Ire-ne Perini, Tosadori Ed., Riva). Riguarda anche te. «Tua res agitur paries dum proximus ardet / La cosa riguarda anche te se arde la casa del tuo vicino» (Alano di Lilla). Serenamente pronti ad aspettarci il peggio. «Ci sono momenti in cui tutto va bene. Non ti spaventa-re: non dura» (Jules Renard). Al maestro che ci ha lasciato. «... la tua presenza / è per me così forte

da essere sempre vera. / E benché non sappia cosa sia il tempo, cosa l’eredità, / ho fiducia che tu senta la mia voce che chiama» (Czeslaw Milosz, Poesie, Adelphi). La tragedia dei comunisti. «... conquistarono il potere / per uccidere in nome di belle idee universali» (Cz. Milosz). Ciò che è e-spresso si rafforza. «Sapere e non parlare: / così si dimentica. / Ciò che è espresso si rafforza. / Ciò che non è espresso tende a non esistere» (Cz. Milosz). Gli uomini da se stessi recisi. «Mancò d’improvviso il fondamento e caddero. / Non in sogno, ma nella realtà, perché da se stessi recisi / duravano solo come ciò che non dovrebbe durare» (Cz. Milosz). MA IN CHE COSA CONSISTE L’AMICIZIA? È uno degli interrogativi su cui più insistentemente ritorna nel romanzo Vita e destino, uno dei grandi libri di questo secolo, il suo autore, l’ebreo sovie-tico Vasilij Grossman (1905-1964). Era stato fino al ‘49 giornalista e scrittore di un’ortodossia asso-luta nei confronti del comunismo; ma la criminale campagna antisemita, scatenata in Unione Sovie-tica negli anni ‘49-’53, lo costrinse a operare una radicale conversione, da qui nacque, appunto, Vita e destino. Questo libro, sequestrato dal Kgb nel ‘60, è sopravvissuto per puro miracolo. Apparve per vie misteriose, ancora oggi sconosciute, in Occidente nell’80, a Losanna, e due anni dopo fu tradot-to in italiano dalla Jaca Book. Il capitolo 8 della parte II del romanzo ci offre un’esplicita riflessione sull’amicizia. «L’amicizia! Quante varietà ne esistono! L’amicizia nel lavoro... L’amicizia in un lungo viaggio, tra soldati, in una prigione di transito... L’amicizia nella gioia e nel dolore. L’amicizia nell’uguaglianza e nella disuguaglianza. Ma in che consiste l’amicizia? Certo l’amicizia s’incontra in prevalenza tra persone accomunate da un analogo destino, dalla medesima professione, da un’identità di vedute, tuttavia sarebbe affrettato concludere che queste o consimili affinità la de-terminano. Comunque alla base dell’amicizia sta una comunanza di interessi... L’amicizia è uno specchio in cui l’uomo vede se stesso. A volte, conversando con un amico, ricono-sci te stesso, stabilisci un rapporto con te stesso. L’amicizia è uguaglianza e affinità. Ma, nel mede-simo tempo, disuguaglianza e difformità. Gli amici sono sempre necessari l’uno all’altro, ma qual-che volta uno riceve di più dall’amicizia, l’altro di meno... Così uno nell’amicizia dona, un altro gode di questo dono. Capita però che un amico sia la tacita istanza che aiuta l’uomo a entrare in rapporto con se stesso, a trovare gioia nella propria persona, nei propri pensieri, che si fanno per-cettibili e visibili grazie alla loro risonanza in un’altra anima... L’amicizia può sorgere tra uomini che lavorano in campi diversi, ognuno per proprio conto, ma giudicano insieme la vita; ma tale af-finità non può essere onnicomprensiva. Amico è colui che giustifica le tue debolezze, i difetti e perfino i vizi, che prende atto della tua equi-tà, del tuo talento, dei tuoi meriti. Amico è colui che, amandoti, smaschera le tue debolezze, difetti, vizi. Dunque l’amicizia si fonda sulla somiglianza, ma si manifesta nelle distinzioni, nelle contrad-dizioni, nelle difformità... Molteplici sono le forme dell’amicizia, vario il contenuto, ma solo il suo fondamento incrollabile: la fede nella costanza dell’amico e la fedeltà dell’amico. Perciò è particolarmente bella l’amicizia là dove l’uomo è ‘schiavo del sabato’. Dove l’amico e l’amicizia vengono sacrificati in nome di su-periori Interessi». RITIRATA STRATEGICA. Rabbi Abramo diceva: «Dalle guerre di Federico di Prussia ho impara-to un nuovo modo di combattere il male. Per attaccare il nemico non c’è bisogno di avvicinarglisi, si può, fuggendo davanti a lui, circondarlo mentre avanza e prenderlo alle spalle, fino a che si ar-renda. Non ci si deve avventurare contro il male, ma ritirarsi sulla originaria forza divina e di lì cir-condarlo e piegarlo e trasformarlo nel suo opposto» (da I racconti dei Chassidim). 31 agosto 1989. LINEA RECTA BREVISSIMA. L’infelicità. «L’infelicità non è il dolore, ma qualcosa che impedi-sce di ragionare» (Antonio Terzi). Che cos’è il corpo. «Dovremmo forse considerare il corpo alla

stregua dei sentimenti, come una realtà interiore» (A. Terzi). Un’epigrafe che sarebbe bello meri-tarsi. «Protetto dal legittimo orgoglio interno contro ogni vanità esteriore, ha fatto spontaneamente del riserbo il centro della propria eleganza» (Giudizio di Ludovica Ripa di Meana su Gianfranco Contini, espresso in Diligenza e voluttà, Mondadori). Far proprio il Bello per se stesso. «Chi ha un alto senso della propria dignità – il megalopsychos – dev’essere instancabile nell’adoperarsi in pro degli amici, sacrificarsi per la patria, donare con magnanimità danaro, beni ed onore, facendo pro-prio il Bello in se stesso» (Aristotele, Et. Nichomachea IX 8, 1169 a 18 ss). Alle sorgenti dello spirito europeo: la positività di ciò che è nell’esistenza. «Omero ha lodato quasi tutto, gli animali e le piante, l’acqua e la terra, le armi e i cavalli. A nessuna cosa, possiamo dire, e-gli può passar davanti senza lodarla e vantarla non appena la nomina. Persino quell’unico che ha spregiato, Tersite, egli lo chiama oratore di bella voce» (Dione di Prusa, Or. XXXIII, 11) . Il “mira-colo” per la società totalitaria sovietica. «Immaginate cos’è la libertà di stampa? Ecco che voi in una mattina di pace, aprite il giornale e invece di trovarvi un esultante articolo di fondo, invece del-la solita lettera al grande Stalin trovate, sapete cosa? Un’informazione! Vi immaginate questo gior-nale? Un giornale che contiene un’informazione! Ecco che leggete e venite a sapere perché non c’è grano e non solo che da Taskent a Mosca è stata recapitata via aerea la prima fragola di serra» (Va-silij Grossman, Vita e destino, Jaca Book). L’INFANZIA RITROVATA PER BAUDELAIRE. Nel saggio Il pittore nella vita moderna del 1859, Charles Baudelaire unisce al concetto di genio quello di ingenuità; così che l’infanzia della vita individuale e l’infanzia della vita storica sono interpretate come antitesi alla estraniazione della società moderna e ricollegate alla inizialità della percezione infantile. «Il fanciullo vede tutto nuovo; è sempre ebbro», osserva Baudelaire. E subito dopo: Il genio non è che l’infanzia ritrovata con la volontà, l’infanzia dotata, per esprimersi, di organi virili e dello spirito analitico che le permette di ordinare il cumulo di materiali involontariamente ammassati». Ma per quale ragione il modo di guardare al mondo e alla vita proprio del fanciullo diventa il criterio ideale dell’esperienza estetica? Di certo per il suo carattere di globalità, per il sentimento del tutto che l’accompagna, per il suo es-sere primigenio e fondamentale. Quello che il fanciullo vede in modo nuovo, perché lo vede per la prima volta, ha il magico potere di far riconoscere all’adulto, che sia in grado di rifarsi fanciullo nella purezza dello sguardo, qualcosa che è già dentro di lui, un’esperienza passata che può essere ridestata e colta nel suo significato profondo, nella sua essenzialità. Il poeta, dunque, può, attraverso la sua creazione artistica, restituire a se stesso e a noi il mondo nella sua novità essenziale, nel gemi-to del suo tendere al compimento. Baudelaire non solo anticipa l’elemento comune dell’estetica di Freud e di Proust, ma li supera di gran lunga. TRA... AMICI. Quell’uomo raffinato, pungente, ricco di talento che si chiama Dino Basili ci ha fat-to dono di un altro libro di aforismi, Amici amici (edito da Mondadori). Tra i molti pensieri che fan-no sempre riflettere, ma anche sorridere, con la loro ironia sobria ed incisiva, ne trascrivo alcuni per un “assaggio”. «Non chiedete amicizia a chi ha soltanto spirito». «Sei vecchio quando non riesci ad afferrare le novità in quello che ritorna». «Segue con tenacia solidi principi. Ad una certa distan-za». «Non vuole bene a nessuno, però non dimentica mai di aggiungere “aff.mo” sotto ogni lettera. Di suo pugno». «Numerosi crac si spiegano col fatto che l’amicizia è preceduta dalla confidenza e seguita dal giudizio. Seneca aveva raccomandato il contrario: prima il giudizio, poi la confidenza». Chi non si sente messo a... fuoco dall’uno o dall’altro dei pensieri di Dino Basili, nell’atto di legger-li, vuol dire che si nasconde a se stesso. Non conoscendo la condizione umana, ignora paurosamente la sua condizione. IL LATO DEBOLE DI TOLSTOJ. È stato ben detto che Tolstoj fu un eresiarca mancato. Lo si av-verte nelle pagine meno riuscite delle sue grandi opere letterarie, nei diari e nell’infondatezza del suo riformismo religioso, di cui è documento impressionante La mia fede, di recente tradotto anche in italiano. Nel pensiero religioso russo, così intenso e multiforme, il posto di Tolstoj è del tutto

marginale ed è solo la sua grandezza di scrittore a conferire alle sue tesi un rilievo che in sé non me-ritano. La loro «minacciosa inconsistenza» (la definizione è di Vittorio Strada) fu combattuta da Vladimir Soloviov. Ci sarebbe voluto, però, Dostoevskij il grande interprete dello smarrimento dell’anima contemporanea per scrivere quel romanzo che fu la vita di Tolstoj: pathos accusatorio, autoflagellazione distruttiva, tragicommedia, ma anche vangelo della non-violenza e genialità crea-tiva. 7 settembre 1989. LINEA RECTA BREVISSIMA. L’ala della poesia. «Le mie poesie più fortunate non possono fare a meno di Dio» (Alain Bosquet, poeta francese contemporaneo, di cui Maria Luisa Spaziani ha tra-dotto per Città Armoniosa Il dubbio e la grazia). Dio scompiglia. «Scrivere di Dio significa gettare lo scompiglio tra gli altri. Ma non significa anche andargli incontro?» (A. Bosquet). La retorica del nichilismo. «Il vuoto s’è convinto d’esser bello» (A. Bosquet). Dio, sillaba di tre lettere. «Sei tu la sillaba che significa / più di tutto quanto / si possa significare, / e sei tu tutto quanto io esprimo sen-za davvero esprimerlo» (A. Bosquet). Il sogno del poeta. «Io vi presento / la mia poesia: è un’isola che vola / di libro in libro / alla ricerca / della sua pagina natale» (A. Bosquet). La risposta di Dio a coloro che non vedono adempiute le promesse della creazione. «Voi mi avete ridotto a un bugiardo / a vostra somiglianza, / tanto vi è sembrata l’innocenza / del tutto inabitabile» (A. Bosquet). La spontanea manifestazione del mondo morale dell’artista nella sua opera. «Se una lezione deve trar-si da un film o da una composizione teatrale, ciò deve prodursi in qualche modo indipendentemente dalla volontà dell’autore» (Gabriel Marcel). Oltre la gioia folgorante, la profonda tragicità dell’opera d’arte. «La bellezza è tragica: è il canto di una privazione» (Léon Bloy). La condiziona-lità storica e l’uomo facitore di storia. «Historia generatur ab homine et generat hominem / La sto-ria è generata dall’uomo e genera l’uomo» (Abelardo). UNA BEN-STRANA CONTRADDIZIONE. Siamo un po’ strani. Continuiamo a denunciare, ma in astratto e in generale, i disservizi che rendono il nostro Paese più simile a quelli del Sud-America che ai partners europei; tuttavia irrita e scandalizza chi tende a usare come dovrebbe, nel settore di sua competenza e responsabilità, i mezzi di cui dispone per accertare le violazioni della legge e i conseguenti danni che ne derivano ai cittadini più poveri e indifesi. Perché negare, ad esempio, che persino nelle regioni economicamente più avanzate strutture sanitarie di alto livello convivono con altre che sono precarie e persino di grande arretratezza? Certamente oscurano l’immagine di un Pa-ese civile le carenze e i pericoli rilevati negli ospedali, gli abusi nelle case di riposo per anziani e handicappati, i rischi sanitari da zone tropicali di tanti campeggi. E allora perché essere risentiti con chi ha portato alla luce attentati così gravi alla salute degli italiani? È chiaro che non si può governare un servizio d’interesse pubblico come la sanità con le sole incur-sioni dei carabinieri; ma dev’essere altrettanto chiaro che i meccanismi di controllo che uno Stato di diritto prevede e ordina, devono tornare a funzionare dappertutto, a cominciare dalla sanità. Altri-menti è proprio lo Stato di diritto a non esistere più. E non si parli più di blitz, ma di normale riatti-vazione dei meccanismi di controllo permanente che la legge prescrive. Con un’ulteriore avverten-za: quella di rendere pubblica la lista delle poche cose essenziali su cui si deve indagare colmassimo rigore, proprio perché i controlli non finiscano con lo sprofondare nei mille ed uno cavilli della trappola burocratica. POESIA E PREGHIERA. Quando ci troviamo dinanzi a un testo poetico? Alla domanda Jacques Lacan dava la seguente risposta: «Si ha poesia ogni volta che uno scritto ci introduce in un mondo diverso dal nostro, dandoci la presenza di un altro... La poesia è creazione di un soggetto che as-sume un nuovo ordine di relazione simbolica con il mondo. La poesia ci introduce in una nuova dimensione dell’esperienza» (Le Séminaire, livre III, 1955-56, ed. Le Seuil).

A me pare che senza volerlo quelle parole possano indicarci, e molto bene, anche l’essenza della preghiera. Non ogni poesia è preghiera, è ovvio; ma ogni preghiera assume spontaneamente il ritmo della poesia e si fa poesia orante. Ma che cosa sta a provare, ad attestare un fatto così universale dell’uomo come la preghiera? Qui la parola deve essere data a quel grandissimo poeta che è Charles Baudelaire: «Veramente, Signore, / la miglior prova della nostra dignità / è quest’ardente singhioz-zo che rimbalza, / d’età in età, / per infrangersi ai confini della tua eternità (Car c’est vraiment, Seigneur, le meilleur témoignage / que nous puissions donner de notre dignité / que cet ardent san-glot qui roule d’âge en âge / et vient mourir au bord de votre éternité)». 14 settembre 1989. LINEA RECTA BREVISSIMA. Apparire o essere? «Un gran proverbio / caro al potere / dice che l’essere / sta nel parere» (Giuseppe Giusti). È questione di verità o solo di riuscita drammatica? «Ogni critico lo sa: un attacco ben congegnato parte con una lode. Ed è vero anche l’inverso: l’elogio più efficace è quello che contempera qualche aspetto negativo del soggetto» (Kate Single-ton). Che cosa è una cattedrale. «Se la cattedrale è lo specchio del mondo, essa è prima di tutto il mondo riflesso nello specchio divino» (André Malraux). La ricerca del livellamento. «Dicevo: - Non è poi così grave, tutti sono così – e in tal modo peggioravo la situazione» (Franz Kafka). La di-sperazione più alta. «Siamo talvolta disperati della calma deserta, entro la quale sguazziamo» (F. Kafka). La sete e la sorgente. «Egli ha sete e dalla fonte lo separa soltanto un cespuglio. Egli è però diviso in due: una parte vede che egli è qui e la fonte è vicina, l’altra parte invece non s’accorge di nulla... Però siccome non s’accorge di nulla egli non può bere» (F. Kafka). Come bisogna leggere. «Chi vuole accogliere le parole di uno deve prima legare all’anima di lui la propria anima. Allora ne imparerà le parole nella loro verità» (Rabbi Baruch). Con te stesso. «Non essere cattivo con te stesso, cioè non credere mai all’impossibilità di salvarti» (Massime dei Padri, trattato della Mishna ebraica). Non essere cattivo per solitudine. «Ogni uomo è chiamato a portare a compimento qualcosa nel mondo. Il mondo ha bisogno di ciascuno. Ma nessuno può portare a com-pimento ciò che gli è stato assegnato se non con gli altri e in mezzo agli altri. Chi rimane chiuso in se stesso ed estraneo agli altri diventa cattivo con se stesso. Non essere cattivo per solitudine» (Rabbi Baruch). OLTRE LE CONTRAPPOSIZIONI IN CAMPO CULTURALE. Stazione ferroviaria di Firenze, 1925. «Rimanemmo seduti l’uno accanto all’altro in attesa del treno, silenziosi come due innamo-rati. E silenziosi ci abbracciammo quando mi toccò partire». Chi partiva era Gaetano Salvemini, costretto all’esilio dal fascismo. E chi era lì a salutarlo era un collega, il solo che avesse avuto il co-raggio di compiere quel gesto. Salvemini commenta: «La vita vale la pena di essere vissuta quando vi dà amicizie come quelle». L’amico che confortava col suo affetto silenzioso il dolore dell’esule era Niccolò Rodolico, lo storico con cui spesso Salvemini aveva polemizzato. IN GERMANIA L’ORA DI RELIGIONE. La Costituzione della Repubblica Federale Tedesca, Legge Fondamentale, all’articolo 3, comma 3, recita: «L’insegnamento religioso nelle scuole pub-bliche è disciplina ordinaria. Salvo il diritto di controllo dello Stato, l’insegnamento religioso è im-partito in conformità ai principi delle rispettive comunità religiose». Naturalmente ci si può sottrar-re a tale insegnamento su domanda. La «possibilità di rinuncia» all’insegnamento religioso non ha indotto il legislatore a dedurre il carattere «aggiuntivo» delle ore d’insegnamento religioso. La fa-coltatività dell’apprendimento è riconosciuta congiuntamente all’obbligo della scuola di offrire quel tipo di formazione che solo un insegnamento specificatamente religioso può assicurare. Tra gli anni Sessanta e Settanta in quasi tutti i Länder è prevista come obbligatoria per coloro che non si avval-gono dell’ora di religione una disciplina sostitutiva di «principi etici».

In tal modo si è conseguito il duplice risultato di offrire ai giovani uno strumento di riflessione mo-rale (e Dio sa se non ne hanno bisogno anche i nostri!) e di escludere la prospettiva diseducativa di far trascorrere agli studenti un’ora libera o vuota, dentro o fuori dell’edificio scolastico. In Germa-nia nessuno è stato tanto settario da far apparire questo sistema lesivo di libertà verso chicchessia, perché in esso tutte le libertà sono rispettate. Da noi, invece, si è fatto di tutto per avvelenare la querelle sino al punto, veramente inqualificabile, di incitare gli studenti a trasformare il loro diritto a non avvalersi dell’ora di religione – diritto che in nessun caso può essere leso! – in una specie di «fuga in massa» dalla scuola durante l’ora di religione. In Italia tutti fanno a gara a dirsi «aperti all’Europa», a cominciare dagli ultimi convertiti all’europeismo. Perché allora siamo così scarsamente informati su ciò che avviene al di là del Bren-nero? Perché ostinarsi a vanificare la scelta operata dal 94% delle famiglie italiane e dai nostri stu-denti? In questa battaglia, che mira a scippare genitori e figli della scelta operata, come non ravvisa-re la solita malattia del politicismo assoluto, che non vede nulla al di là delle chiacchiere ideologi-che? 21 settembre 1989. LINEA RECTA BREVISSIMA. Ciò che la natura ha reso piacevole non è necessariamente vizio-so. «Non vi sono tempi, né popoli che non abbiano stabilito vizi e virtù immaginari» (Luc de Cla-piers, ossia Vauvenargues, l’autore di Riflessioni e massime, trad. it. Tea). La forza dell’anima. «I grandi pensieri vengono dal cuore» (Vauvenargues). L’incomparabile fascino della giovinezza. «Le tempeste della gioventù sono circondate da giorni splendenti» (Vauvenargues). Quei grandi non e-rano volteriani. «Newton, Pascal, Bossuet, Racine, Fénelon, ossia gli uomini più illuminati della Terra nel secolo più pregno di filosofia che ci sia mai stato, e nella pienezza della mente e dell’età, hanno creduto in Gesù Cristo» (Vauvenargues). Con sostanziale ottimismo. «L’uomo è al presente molto in basso nella considerazione di quanti pensano, e si fa a gara nel caricarlo di vizi. Ma forse è sul punto di rialzarsi e di farsi restituire tutte le sue virtù» (Vauvenargues). Nessun conflitto tra scienza e filosofia. «Su nessun punto scienza e filosofia possono scontrarsi co-me rivali; la filosofia non può ignorare la scienza che realizza l’autentico atteggiamento dell’uomo di fronte al mondo; la scienza non può ignorare la filosofia dalla quale solo può attingere con chia-rezza intorno ai suoi atteggiamenti» (Nicola Abbagnano). COME DE GASPERI DIALOGAVA CON TOGLIATTI. In questi giorni in cui anche il Pci ha av-viato in qualche modo una riflessione sul personaggio principale della sua storia, Palmiro Togliatti, cominciando a fare un bilancio critico della sua azione all’interno della Terza Internazionale e quale leader del maggiore Partito comunista dell’Occidente, ho ripensato al suo grande antagonista, a co-lui che gli tenne testa e, per fortuna del nostro Paese, lo sconfisse: Alcide De Gasperi. Mi sono an-dato a rileggere le lettere che i due si scambiarono nel settembre del ‘44 e nell’aprile del ‘46, ripor-tate nel secondo volume di De Gasperi scrive (Morcelliana, Brescia). Di fronte alla prassi comuni-sta di interrompere violentemente i comizi dei partiti democratici, De Gasperi protesta con vigore: «La cosa è intollerabile e inescusabile, soprattutto quando si pensi che c’era comunque la possibi-lità del contraddittorio... Se questo sistema volesse tendere ad impedirci di esprimere il nostro pen-siero, se divenisse epidemico e si applicasse su larga scala, con quale legittimità morale potremmo condannare lo spirito di intolleranza del partito unico fascista che dagli episodi delle famigerate “risse domenicali” arrivò alla marcia su Roma e alla tirannia?». E qui, in termini inequivocabili, l’enunciazione delle regole del gioco e insieme della scelta di fon-do che caratterizza in ogni momento la visione politica degasperiana: «Premessa inderogabile di ogni collaborazione presente e futura è quella di creare e salvaguardare un clima di libertà e di au-todisciplina... La nostra coscienza, il nostro passato vi garantiscono che noi non saremo mai dalla parte delle forze reazionarie che già una volta hanno portato l’Italia alla rovina, ed ogni qualvolta si

tratterà di respingere gli attacchi o di sventarne le reali minacce, siamo oggi e saremo domani con voi... Ma la bandiera di tutti deve essere quella della libertà, della disciplina nazionale, del governo forte nel diritto comune e nell’eguaglianza dei cittadini, del governo insomma di popolo, con i suoi partiti e non un partito unico sopraffattore». La questione religiosa è affrontata, in risposta ad una lettera di Togliatti dell’8 aprile ‘46, quando ormai era cominciata la campagna elettorale per il voto del 2 giugno. De Gasperi dà atto a Togliatti che la propaganda ateistica dei comunisti si attenuò e disparve con il suo arrivo a Roma, che il Pci al V Congresso nazionale (29 dicembre ‘45-6 gennaio ‘46) si dichiarò tollerante in materia religiosa e che «ciò rappresenta innegabilmente un progresso in confronto della propaganda atea del passa-to e delle persecuzioni in altri Paesi». Ma De Gasperi osserva: «Questa ultima posizione dei comu-nisti non è però sufficiente per ottenere che i credenti – per quanto riguarda soprattutto i problemi fondamentali dello spirito, della famiglia e della scuola – si affidino tranquillamente a loro. I catto-lici, quand’anche fossero completamente d’accordo col Pci su tutto il resto, non possono affidare il compito specifico di promuovere e difendere i postulati dello spirito e della civiltà cristiana a un partito che dal comunismo trae il nome, l’origine, il programma e le finalità». De Gasperi conclude con la solita schiettezza: «Ecco dunque, caro Togliatti, non si tratta né di te né di me, ma di un’antitesi che supera le nostre persone. L’onestà politica esige che tu e io segnaliamo con fran-chezza tale contrasto a quegli elettori ai quali chiediamo un voto di fiducia; né la sincera profes-sione della nostra fede impedirà che ciascuno dia il contributo che gli è proprio alla evoluzione po-litica del Paese». 28 settembre 1989. LINEA RECTA BREVISSIMA. La “tradizione del nuovo” ad ogni costo. «La “tradizione del nuo-vo ad ogni costo” è un espediente da mercanti che sfrutta un atteggiamento di timidezza: la paura di essere considerati retrivi se non si accetta tutto ciò che è nuovo. Qualsiasi cosa, zavorra compresa» (David Riesman, che nel 1950 pubblicò la famosa opera La folla solitaria). Una delle malattie dell’editoria italiana. «La “chiccomania”, ovvero il pubblicare un testo minore sulla scia di un testo maggiore che ha avuto successo» (Guido Almansi). Rottura di identità presupposte. «Il fenomeno giapponese, come si è andato configurando a partire dal ‘45, attesta un fatto del tutto nuovo nella storia: per la prima volta una grande potenza economica non è anche una potenza militare» (Moshe Lewin). La storia non riassume mai l’intero significato di un’opera d’arte. «Persino nelle opere che hanno un rilevante contenuto storico (come I promessi sposi, Guerra e pace, I miserabili), la storia, per quanto cospicua sia la sua parte, non riassume il significato dell’opera d’arte, né condiziona il suo valore estetico. Anche se lo storico potesse dimostrare che vi sono errori di fatto o di valutazione, quelle opere di Manzoni, Tolstoj e Hugo rimarrebbero ugualmente dei capolavori per la potenza e-vocativa degli eventi, per l’inarrivabile finezza dell’analisi psicologica dei protagonisti, per la nobil-tà dell’ispirazione» (Nicola Petruzzellis). Le due Europe. «Ci sono due Europe: una generatrice di mostri, di violenza, di schiavitù e l’altra madre di libertà, di giustizia, di sapere. Fra le due Europe bisogna scegliere e aiutare a scegliere le giovani generazioni» (N. Petruzzellis). Ciò che ti costa di più. «Chi si trova di fronte a un bivio che riguarda il suo impegno sociale non sbaglia se finisce col preferire la strada che gli costa più sacrificio» (Pio XII). «OGNI VILTÀ CONVIEN CHE QUI SIA MORTA». In questi giorni è stata pubblicata per la pri-ma volta una lettera di Massimo Mila, il musicologo italiano poi diventato celebre. La lettera fu scritta esattamente cinquant’anni fa, il 10 settembre ‘39, dal carcere Regina Coeli di Roma, ove Mi-la era rinchiuso dal ‘35 condannato a sette anni per partecipazione attiva al movimento clandestino «Giustizia e Libertà». È un documento toccante, colmo di gratitudine per la madre («Povera mam-ma, che devi provvedere a tutto, avere cura di tutti, affannarti come una chioccia per tanti pulcini,

vicini e lontani, giovani e vecchi, tuoi e d’acquisto»), lucido nella fiera determinazione di dare alla situazione storica la risposta più alta, la più appassionatamente coerente agli imperativi della co-scienza. «Certamente – scrive Mila – viviamo in un’epoca ben difficile, di grandiosi rivolgimenti e di lotte, in sostanza religiose, ed è lecito sospirare ogni tanto per tempi più quieti. Ma – anche utili-tariamente ed egoisticamente parlando, a parte le ovvie considerazioni di moralità – non c’è via d’uscita migliore che cercare di essere degni dei tempi in cui siamo capitati a vivere, padroneg-giarli, anzitutto con l’intelligente comprensione e con la piena devozione dell’animo a quello che la ragione ci determina come nostro dovere». Ogni viltà convien che qui sia morta. «Credi, questo è il solo modo per conservare la serenità. Non a noi solo è toccato di vivere in tempi resi calamitosi dalla lotta di opposta concezioni, e sempre, tra i lamenti, i sospiri e le imprecazioni, si fa sentire anche una vena di orgoglio, triste e consapevole, per essere stati eletti a testimoni e attori di così grandi rivolgimenti... Bisogna appunto cercare, nella nostra piccolezza, di farci un animo grande, se non vogliamo essere miseramente schiacciati dalla grandezza degli avvenimenti e delle sventu-re» (da La Stampa dell’8 settembre 1989). NON C’È SOLO LA MENTALITÀ ABORTISTA. C’è una legge che regola l’interruzione della gravidanza ed è ben noto che ci sono pratiche abortiste che violano senza troppi ritegni i limiti posti dalla stessa legge. Ma l’Italia conosce anche chi fa scelte ben diverse. Un caso-limite eroico: Gian-na Beretta Molla. Una donna moderna ed elegante, bella e intelligente, a cui piaceva sciare e viag-giare. Una dottoressa specializzata in pediatria. Dopo aver dato alla luce tre figli, alla quarta gravi-danza le proposero un intervento chirurgico con questo dilemma: «C’è un fibroma. O salvare te o il tuo bambino». La prima alternativa era dal punto di vista morale più che legittima, ma la risposta data coscientemente fu: «Preferisco la vita del mio piccolo». Sette giorni dopo aver partorito una bimba sanissima, la madre moriva, immolandosi per amore della sua creatura. Una vita per la vita. Così Giuliana Pelucchi ha intitolato il profilo biografico di Gianna Beretta Molla edito dalle Paoli-ne. 5 ottobre 1989. LINEA RECTA BREVISSIMA. La vocazione kierkegaardiana. «Contro la stupida serietà dei poli-ticanti e l’orrenda solennità dei filosofi sistematici, io sbandierai lo scherzo dell’ironia» (Søren Kierkegaard, Postilla conclusiva non scientifica. Per aspirare alla verità. «Per nuotare, ci si spoglia nudi: per aspirare alla verità, bisogna spogliarsi in un senso più intimo, bisogna svestirsi di un vesti-to molto più interiore di pensieri, di idee, dell’egoismo e cose simili, prima di poter diventare nudi abbastanza» (S. Kierkegaard, Diario XI A 227). La libertà come identità di dono e consenso. «In noi l’atto della donazione e della ricezione si identificano con un unico atto di libertà, non potendo la libertà essere data se non come dantesi, né essere iniziata se non come iniziativa essa stessa. L’uomo, in quanto si trova come libertà, è identità di dono e consenso, cioè è nient’altro che libertà, che tuttavia, come data, comincia ad essere solo nel momento in cui dapprima si esercita come libe-ro atto di accoglimento e di assenso» (Luigi Pareyson, Esistenza e persona, IV ed. 1985). Se no non è filosofo. «Il filosofo deve essere un individuo che soffre, più che nella vita, la vita» (Giuseppe Ca-pograssi, L’attualità di Vico, in Opere, Giuffré, Milano, 1959, vol. IV). Metodi diversi, sostanza i-dentica. «Il realismo socialista è il sanzionamento dell’esclusività dello Stato e il decadentismo è il sanzionamento della esclusività dell’individuo. I metodi sono diversi, ma la sostanza identica: l’estasi davanti alla propria superiorità» (Vasilij Grossman, Vita e destino, trad. it. Jaca Book). «GLI SCRITTORI SANNO BENISSIMO DI BARARE UN PO’». I premi letterari in Italia sono, a quanto sembra, millequattrocentotrentotto. Veramente troppi. Un’altra delle manie nazionali. Di quei premi solo tre, quattro hanno qualche influenza reale sulle vendite. E allora scatta la gara all’accaparramento dei voti, con tutti i ricatti di cui un editore può disporre nei confronti degli scrit-

tori chiamati a votare. «La verità è che tutti noi scriviamo dei buoni libri – dice con onestà Giorgio Soavi – ma non libri strepitosi. Chi fa il nostro mestiere e ha una minima coscienza e un po’ di cer-vello, sa benissimo di non aver scritto La recherche e neppure un piccolo gioiello come L’amico ri-trovato. Così gli scrittori che vanno ai premi sanno bene di poter contare sull’aiuto di qualcuno (la corporazione degli scrittori e degli editori); però, in fondo al cuore, un organo che bene o male hanno ancora, sanno benissimo di barare un po’». Non sarebbe male se dalla rosa dei candidati fossero, per ovvie ragioni, esclusi coloro che ormai sono scrittori molto noti. FIRMA DELL’AUTORE CON DEDICA. È una specie di rito dopo la presentazione di un libro. Di libri con dedica dell’autore ne ho parecchi anch’io. Alcune lusinghiere, altre augurali, altre persino affettuose. Ma la sola dedica che non dimenticherò mai e che mi obbligherà sempre al più radicale, imbarazzante esame di coscienza è quella dell’Abbé Pierre. Tre sole parole: Et les autres? (E gli al-tri?). Chi sono gli altri per me? Il celeberrimo capitolo XXV, 31-46 di Matteo sul «giudizio finale» e la parabola del «buon samaritano» non lasciano dubbi di sorta. ANGELO RONCALLI E IL RITRATTO DEL SUO IDEALE. Leggendo la biografia di Mons. Giacomo Radini Tedeschi (Edizioni di Storia e Letteratura, Roma) scritta da Angelo Roncalli, che gli era stato vicino per un decennio, si rimane colpiti da una citazione riportata con ampiezza e pre-cisione, e non a caso. Chi la legge ora, non può non applicare al biografo, il futuro Giovanni XXIII, quelle espressioni. In esse Angelo Roncalli dovette probabilmente intravedere quell’ideale di vita cristiana a cui andava ispirandosi. «Egli volse tutte le energie del suo spirito alla meditazione delle Sacre Lettere, vi acquistò prontamente tutto quel sapere per cui non fu inferiore ad alcuno di colo-ro che avevano consacrato allo studio di esse un tempo più lungo. Anzi ricevette da Dio questa gra-zia di divenire un padre e un maestro di ortodossia: non piegandosi punto alle idee del tempo, co-me fanno i pretesi maestri di oggidì, né difendendo la nostra fede con mezzi termini e con artifici mondani. Si può dire che egli sorpassava i dotti per la sua pietà e sorpassava i pii per la sua dottri-na: in tutti i casi se non stava che al secondo posto per la erudizione, egli era al primo per la difesa e per l’amore al vero, nella qual cosa consiste anzitutto la vera pietà» (Gregorio Nazianzeno, Ora-tio XVIII in patrem, 16). 12 ottobre 1989. LINEA RECTA BREVISSIMA. Perché rituffarsi nelle pagine della grande storia. «Quando nel proprio Paese la politica cade al livello di una battaglia tra galli, è sempre fonte di rinnovamento per chiunque, chiuse le pagine di una cronaca umiliante, aprire quella della grande storia, con i suoi problemi pur aspri e persino tragici, ma sempre tali da tendere li forze spirituali. E questo non è ri-nuncia, ma mezzo per continuare e prepararsi a meglio operare» (Massimo L. Salvadori, La Stampa, 19 agosto 1989). La voce familiare di chi ci ha lasciato. «C’è una fantasia che mi ritorna spesso in mente: se uno facesse il numero telefonico di una persona che ci ha lasciato, sentirebbe di nuovo la sua voce familiare e il tempo scorrerebbe subito all’indietro» (Gore Vidal). Contro il massimalismo moralistico, il coraggio della morale politica. «Il grido che reclama le grandi cose ha la vibrazione del moralismo; essere sobri e attuare sul serio quel che è possibile sembra invece una rinuncia alla passione morale... Ma la morale politica consiste precisamente nella resistenza alla seduzione delle grandi parole con cui ci si fa gioco dell’umanità dell’uomo e delle sue possibilità» (Joseph Ratzin-ger). In che senso l’uomo è fine in sé. «L’uomo è fine in sé non solo perché soggetto capace di porsi fini possibili, ma anche e soprattutto perché soggetto potenziale o attuale di valori e artefice delle loro realizzazioni nella storia» (Nicola Petruzzellis). L’ECOLOGIA NON È FETICISMO. È stato detto e ripetuto che ogni intervento dell’uomo sulla natura è condannabile. Ecco una di quelle affermazioni scriteriate che, per la loro infondatezza, in-

deboliscono una causa giusta come l’ecologia. Quel giudizio è criticabile per almeno due ragioni. «Innanzitutto sarebbe artificioso (ammesso che sia fattibile) – osserva Oscar Ravera – conservare un ecosistema, per una natura in continua trasformazione, a un determinato stadio evolutivo; inol-tre è problematico stabilire a quale stadio dovrebbe essere conservato. L’uomo non può vivere una vita umana senza modificare l’ecosistema, anche laddove gli ecosistemi costruiti possono assumere un elevato valore estetico per se stessi e perché variano la diversità del paesaggio; ad esempio, un pioppeto o un pascolo alpino. Una foresta distrutta, una montagna disboscata e un fiume inquinato sono ambienti degradati, mentre la campagna toscana e quella inglese sono ambienti valorizzati dall’uomo, non distrutti. Un oliveto e un vigneto sono ambienti costruiti dall’uomo, eppure hanno un notevole valore estetico, oltre a quello economico. Un lago sbarrato da una diga è un ecosiste-ma artificiale con una propria struttura ed una sua funzione. Questo non significa che tutti gli am-bienti dovrebbero venire antropizzati, poiché è indispensabile per ragioni diverse (come ad esem-pio la conservazione di specie, di ambienti naturali), di riserve di variabilità genetica) che un certo numero di aree di opportuna estensione rimangano incontaminate» (dal volume a più voci Que-stione ecologica e coscienza cristiana, edito dalla Morcelliana). IL PESO DELLA LEADERSHIP INDIVIDUALE. Costituisce un vero paradosso che, mentre una parte influente della storiografia contemporanea andava conducendo il suo attacco al genere biogra-fico, la storia vivente non cessava di offrire testimonianze del peso straordinario che la leadership individuale può avere nella vita dei popoli, nel bene e nel male. Lo aveva già rilevato Jacob Bur-ckhardt nelle sue Meditazioni sulla storia universale (trad. it. di Delio Cantimori): «I destini di po-poli e Stati, la direzione che prendono intere civiltà possono dipendere dal fatto che un uomo ecce-zionale in un determinato momento agisca in un modo oppure in un altro». E badate, osserva il no-stro Massimo L. Salvadori, il peso della personalità di eccezione non si esaurisce nelle «condizioni» in cui essa opera. «L’essenza della grande leadership è, infatti, una combinazione irrepetibile e u-nica tra le condizioni esterne e l’uso che viene fatto dalle personalità d’eccezione». Quale sarà allo-ra il compito dello storico? Quello appunto di collocare l’uomo eccezionale nel punto d’incontro tra il contesto in cui egli è chiamato ad operare e la sua capacità di risposta alla situazione storica e alle sue sfide. LA LEZIONE DI UN SOLDATO INGLESE. Settembre 1943. Arrivano gli inglesi in Puglia. Noi giovani studenti cerchiamo di avviare una qualche conversazione sulle cose che più ci stavano a cuore. Uno di noi credette bene dire: «Voi certamente amate Winston Churchill, artefice primo delle vostre vittorie sui nazisti». La risposta del soldato inglese fu quella di un cittadino d’un Paese libe-ro: «Noi rispettiamo i capi, se meritano il nostro rispetto. Non è necessario e forse non è bene amar-li. Churchill ci guida in guerra, perché dovrebbe anche essere nostro premier nel dopo-guerra? È meglio cambiare». 19 ottobre 1989. LINEA RECTA BREVISSIMA. Cultura come arma di difesa. «Si dovrebbe studiare per sapere fa-re a meno di quelli che studiano. Per non farsi fregare da loro» (don Lorenzo Milani). Che cosa si-gnifica, concretamente, credere. «Credere significa essere certi che tutto ciò che ci accade è straor-dinariamente importante, che non potrà mai sparire» (Cesare Pavese). L’esagerazione che gonfia le schermaglie politiche. «Più deleterio dell’insegnamento sofistico è l’esempio di coloro che, seduti in gran numero nei parlamenti o in altra pubblica riunione, con molto clamore biasimano discorsi ed azioni ed altre lodano, eccedendo in entrambi i casi» (Platone, Rep. VI, 492 b). Condizione umana. «L’uomo è un pozzo in cui il vuoto sempre / ricomincia» (L’homme est un puits où le vide toujours / recommence. Victor Hugo, Les Contemplations I, 1).

Sotto il segno di una profezia d’amore. «Avrei voluto agire nella direzione di Gesù» (Umberto Saba e Nora Baldi, confidente privilegiata del poeta negli ultimi anni della sua vita). Discutendo di abor-to. «Al mio sentimento profondo della ierofania, del carattere sacro di ogni cosa, ripugna vedere di strutto l’ordine principale della vita» (Pier Paolo Pasolini). Ciò che ogni Pilato può dire a ogni Giu-da. «Che bisogno c’è di tradire? Basta non decidere, basta lasciar passare invano le ore o le settima-ne che contano» (Dino Basili, Amici amici, Mondadori). Il padrone in redazione. «La stampa do-vrebbe essere un contropotere, ma se è in mano a chi detiene il potere, la cosa diventa difficile» Giorgio Bocca). Come una talpa. «La verità è come una talpa ostinata e poco per volta viene affio-rando» (Livio Zanetti). Se la parola logos tace il pensiero-logos. «Chi teme di dire quello che pen-sa, finisce per non pensare quello che non può dire» (Giovanni Sartori). E ROSARIO ROMEO PERSE LA PAZIENZA... Una delle opere di altissimo livello in campo sto-riografico è Cavour e il suo tempo, il capolavoro del compianto Rosario Romeo. Lo scrittore inglese di storia italiana Denis Mack Smith ha avuto nel nostro Paese un grande successo. Se non ché, stan-co di dover rettificare e spesso capovolgere imprecisioni e giudizi avventati di Denis Mack Smith, una volta tanto anche Romeo ha sentito il dovere di perdere la pazienza. Lo ha fatto in una nota del IV volume dell’opera citata, riguardante gli anni 1854-1861, a pagina 715. Parlando di un volume dello Smith che ebbe tanta fortuna negli anni del radicalismo trionfante, Cavour e Garibaldi nel 1860, Romeo scrive: «D. Mack Smith dà notizie accompagnate da commenti tendenziosi, non con-trollati e inattendibili. In questa sede si rinuncerà a contestare passo per passo i singoli giudizi contenuti in tale lavoro, al quale, come a pochi altri, si attaglia il detto che ogni riferimento a fatti realmente accaduti è meramente casuale». Bel colpo! L’INCONTRO TRA CROCE E LUNACARKIJ A OXFORD. C’è una pagina dei Taccuini di lavo-ro di Benedetto Croce, riportata da Gennaro Sasso nel volume Per invigilare me stesso, edito di re-cente dal Mulino, in cui il filosofo napoletano narra in modo dettagliato e divertito l’incontro avuto a Oxford nel 1930 con un alto esponente del potere e della cultura comunista, Anatolij Vasil’evic Lunacarskij, primo Commissario del popolo per l’istruzione dal 1917 al 1929. L’incontro avvenne in occasione del Congresso di Filosofia. Nella sezione di Estetica «il sovietico aveva tenuto una relazione sull’estetica marxista che sorge-rebbe dalla rovina dell’estetica borghese (nonché della poesia e dell’arte borghese), da Kant e He-gel ai nostri giorni, me compreso e nominato. Mi pareva, nell’udirlo, di avere innanzi un fascista, un Turati (Augusto) o un Ciarlantini. Gli ho risposto in tono scherzoso...». Croce fa una sintesi del suo intervento e poi annota: «Più tardi l’ho incontrato per le scale ed egli mi ha fermato per dirmi che quel che io avevo detto ieri sulla storia e oggi sull’arte gli era andato al cuore, perché egli a-mava molto la storia e l’arte. Ho risposto ringraziandolo, ma stavo per domandargli: - E come, con ciò siete sovietico?». Quel signore che diceva di amare molto la storia e l’arte, quel personaggio di primissimo piano tra gli iniziatori della rivoluzione bolscevica, intendeva dire che il suo discorso pubblico non corrispondeva ai suoi convincimenti intimi? Su questi problemi, però, l’infallibile Par-tito-Stato non vedeva altra soluzione che un’alternativa secca, quella che lo stesso Lunacarskij e-spresse con chiarezza, nel ‘25, all’ultima riunione tra il Partito Comunista e gli esponenti del mondo della cultura: «L’obiettivo nostro è uno solo, convincere l’intelligencija o costringerla». 26 ottobre 1989. LINEA RECTA BREVISSIMA. Non arrendersi alla meschinità. «Dobbiamo aggrapparci alle idee. Bisogna nutrire pensieri ampi, assoluti, superbamente inutili rispetto alla nostra realtà così putrida» (Giovanni Arpino, citazione tratta da Stile Arpino di Bruno Quaranta, Sei, Torino). Aut-aut. «Quan-do il cielo si vuota di Dio, la terra si popola di idoli» (Karl Barth). Le cambiali dell’amore. «I nostri

affetti sono cambiali firmate al dolore e bisogna pagarle: e tanto più grande è l’amore, tanto più grande sarà il dolore» (Benedetto Croce). L’antifilosofia. «Siamo nell’epoca forse più antifilosofica che ci sia mai stata, poiché schiva le ri-cerche delle più alte cagioni; principia sempre da un secondo passo e si ferma a un penultimo; si ri-posa nei problemi, anzi li crea per dichiararli insolubili; approva i contrari, nega l’applicazione dei principi a tutte le loro conseguenze e dice espressamente pericolosa la logica. E, certo, un tal perio-do finirà come tanti altri; ma chi può accelerarne la fine, lo deve» (Alessandro Manzoni). Il proble-ma dell’origine delle leggi che regolano l’universo e la scienza. «Una scienza fattibile è nata solo all’interno di una matrice culturale permeata dalla ferma convinzione che la mente umana fosse ca-pace di individuare, nel regno delle cose e delle persone, un segno del loro Creatore» (Stanley Jaki, La strada della scienza e le vie verso Dio, Jaca Book, Milano). IL DRAMMA DI SOCRATE. Alle insinuazioni maligne e alle insistenti maldicenze non è facile opporre un serio rimedio. Socrate, com’è noto, fu vittima dell’irridente caricature che di lui fece A-ristofane nelle Nuvole. Il commediografo ultraconservatore trovò comodo attribuire a Socrate la mentalità e gli atteggiamenti che non erano affatto del grande ateniese, ma proprio dei peggiori sofi-sti, cioè degli avversari di Socrate! Ma come difendersi da un fraintendimento così perverso, opera-to e tramandato a intere generazioni da un’opera d’arte? Platone mette in bocca al venerato maestro queste parole: «È pur necessario che io mi difenda, ma è come se stessi combattendo contro le om-bre, senza che vi sia alcuno che possa apertamente ribattere le mie argomentazioni» (Apologia di Socrate 18 d). E furono proprio le antiche accuse che furono riprese dai tre rappresentanti del per-benismo pseudo-democratico – Melèto, Anito e Licone – che trascinarono Socrate in tribunale e gli procurarono la condanna a morte. IL «BIGLIETTO» DI LEONARDO DA VINCI. Per fortuna non sempre i fraintendimenti e le ca-lunnie hanno il potere di mandare a morte gli uomini migliori. Più spesso ronzano come vespe e mosconi attorno, infastidendo non poco. E se il maldicente, malgrado la nostra buona volontà e i chiarimenti messi in atto, non vuol intendere ragione e continua ad importunarci? Allora faremo come Leonardo, il quale indirizzò a un maldicente recidivo un argutissimo biglietto. «Io non voglio più usare con teco – scrive Leonardo – per ch’io ti voglio bene e non voglio che, dicendo tu male ad altri di me tuo amico, che altri abbiano come me a fare trista impressione di te... Onde, non usando noi più insieme, parrà che noi siamo fatti nimici, e per il dire tu male di me, com’è tua usanza, non sarai tanto da essere biasimato, come se noi usassimo insieme». PENSIERI RIVELATORI DI MAZOWIECKI. Sembra impossibile. Un uomo di Solidarnosc – il sindacato libero esploso dal profondo del popolo polacco in uno Stato comunista, il sindacato lega-lizzato nell’agosto del 1980 e subito dopo messo fuori legge – è oggi capo del Governo. Un anno fa aveva rilasciato un’intervista al mensile Przeglad Powszechne, da cui stralcio due pensieri rivelatori della sua sensibilità e delle sue idee. Il primo riguarda il rapporto tra morale e politica. «Molti riten-gono che la morale e la politica – dichiara Mazowiecki – siano o comunque debbano essere sepa-rate. Certamente rispondono a principi distinti. Ma chi vuole separare politica e morale dovrebbe pur ricordare che la politica è pur sempre lotta sui fatti principali della vita. E se io sono un uomo politico, devo far attenzione che la mia vittoria politica non si trasformi in una disfatta morale». L’altra riflessione di Mazowiecki mette in luce uno dei mali che impoveriscono anche la nostra vita politica. «La salvezza dell’identità europea dipende anche dalla dimensione e dallo spessore del pensiero politico di noi europei. E ora io non vedo molti grandi rappresentanti del pensiero politico nel nostro vecchio continente. In politica invece c’è bisogno di pensare in grande, ci vogliono veri-tà globali. Forse il Papa fa eccezione, ma non è un politico di professione. Troppo spesso, in qual-siasi sistema sociale, i politicanti prevalgono sugli statisti».

2 novembre 1989. LINEA RECTA BREVISSIMA. Il “sesto senso” del vero amico. «È amico chi indovina sempre il momento in cui abbiamo bisogno di lui» (Jules Renard). Giaculatoria di un santo che temo di non vedere sugli altari. «Fa’, o mio Dio, ch’io sia d’accordo con tutti quelli co’ quali Tu sai ch’io sono d’accordo» (Antonio Rosmini). Alla larga dai potenti. «All’amicizia dei potenti ambisce tanta gen-te. Non è una disgrazia se la mia compagnia gli verrà meno» (Tommaso Moro). Se e quando con-viene riconciliarsi o litigare. «Se la vostra causa è buona, riconciliatevi; se è cattiva, litigate» (Jean-Jacques Rousseau). Ciò che non capiscono per nulla molti politici. «Il nemico del mio nemico non è mio amico» (Elias Canetti). Molto auspicabile, ma accade assi di rado. «Far nascere qualche novità nel fervore della zuffa» (Raimondo Montecuccoli, condottiero e scrittore di cose militari del XVII secolo). A propo-sito di certi spropositati rifiuti a prendere in considerazione critiche serie e serie ragioni di disagio. «Dicono che è un falso problema? Lo vogliono risolvere tra intimi» (Dino Basili). Non basta affatto sorridere ed essere credibili. «Che furfante, maledetto furfante che sorridi! Il mio taccuino, sì, devo scriverlo che uno può sorridere, sorridere, ed essere una canaglia!» (Shakespeare, Amleto). SIGNIFICATIVE ANALOGIE. I tanti volti del numero uno del Terzo Reich nazista dopo Hitler, il maresciallo Hermann Goering, sono stati lumeggiati da David Irving in un libro appena uscito da Mondadori. Ecco due dei molti aspetti del leader nazista: amava gli animali ed era spietato con gli uomini. Firmò i decreti che autorizzavano esperimenti letali su cavie umane, ma proibì la vivisezio-ne in Prussia spedendo nei campi di concentramento i trasgressori. Avevo appena chiuso il poderoso volume di David Irving su Goering, quando ho letto su un quoti-diano la seguente notizia: «Per l’uccisione di quindici panda, due contadini cinesi sono stati con-dannati a morte e altri due all’ergastolo». Ogni commento è superfluo. FUNZIONE ED ESITI DEL PARTITO UNICO. I tre pilastri del totalitarismo – il primo, che ha fatto da archetipo, quello comunista, il secondo, quello fascista e il terzo, il nazista – sono accomu-nati, malgrado le differenze, da vedute generali, metodi, strutture. In modo particolare, tutti e tre i totalitarismi che hanno disonorato questo nostro secolo, pur instaurando il monopolio del potere, hanno sentito il bisogno di identificare Stato e partito e ovunque hanno posto ogni cura a rendere onnipotente il partito unico. A un Luigi XIV sarebbe parso ridicolo l’ipotesi di fondare un partito monarchico. La stessa cosa deve dirsi di Pietro il Grande o di Napoleone: loro non hanno mai for-mato un partito zarista o bonapartista. Al contrario, gli dèi totalitari, benché padroni del potere in maniera illimitata, sconosciuta a qualsiasi regime assolutistico, non hanno mai avuto troppa fiducia nella propria legittimità, pur volendo mimare la democrazia attraverso una dittatura di partito con-cepita e realizzata come regime di massa. Jean-François Revel nell’articolo Pericolo di frana («Il Giornale», 22 ottobre 1989) evidenzia le funzioni del partito unico in Urss, «Anzitutto, serve a inquadrare le masse. Il partito è un’immensa ragnatela di controllo e di coercizione, che ha propaggini nel sindacato unico e in tutta una serie di organizzazioni annesse che irreggimentano gli scrittori, le donne, i giovani, i pacifisti, i giocatori di scacchi, e così via. La seconda funzione è di annientare l’autonomia della società civile, di porla sotto la propria di-pendenza per tutti i particolari pratici della vita quotidiana. Per contro, i membri del partito diven-tano una nuova classe privilegiata, vantaggio invalutabile in un’economia di penuria. Il partito u-nico diventa allora una specie di mafia che vive a spese del resto della popolazione. La terza funzione di quest’idea è l’organizzazione della irreversibilità, uccidendo in embrione le soluzioni di ricambio». C’è però, a mio avviso, una differenza fra Italia e Germania, da un lato, e la Russia e i Paesi comu-nisti, dall’altro: che quelli, malgrado le intromissioni del potere politico, hanno tenuto in piedi im-portanti strutture economiche di mercato, mentre il dogma del collettivismo aggravato da un regime

dittatoriale, ha portato al collasso di questi. L’esito del partito unico, quando dura troppo a lungo, è scontato: l’economia è distrutta e nulla più funziona. Non lascia dietro di sé che vuoto e anarchia. Ecco perché il compito di Gorbaciov, da qualsiasi punto di vista lo si voglia giudicare, è di un’immane tragicità. Quanti celebravano la perfezione inarrivabile del regime comunista possono veramente capire la croce di chi deve gestire il naufragio del comunismo, chiamandosi ancora co-munista? 9 novembre 1989. LINEA RECTA BREVISSIMA. Perché l’Europa diventi “la casa comune”. «Non ci potrà essere una casa comune europea finché i suoi abitanti non potranno muoversi liberamente di stanza in stanza. Il cammino verso la libertà porta ad una casa più grande, una casa dove l’Ovest incontra l’Est, una casa democratica, un Commonwealth di nazioni libere» (dal discorso tenuto a Magonza il 31-5-1989 dal presidente americano George Bush). Un po’ di dignità letteraria, o almeno di senso, nelle canzoni. «Una canzone deve saper scendere nella strada senza rompersi la faccia per essersi buttata dal terzo piano» (Jean Cocteau). Lo spiritualismo alla Coca Cola. «L’atteggiamento di molti verso la religione è per lo più simile a un interesse vago e superficiale per qualcosa di esotico, tutt’al più un eclettismo da amatori. Vedo avanzare un po’ ovunque questo spiritualismo alla Coca Cola e lo temo. Per questo mi convinco sempre di più che una fede salda ed autentica risulta sempre dalla combinazione di due aspetti: l’appartenenza vitale ad una Chiesa particolare, dunque ad un corpo storico, e la riflessione intellet-tuale, culturale su questa esperienza» (Lars Gyllenstein, presidente della Fondazione Nobel di Stoc-colma, maggio 1989). Il cuore dell’uomo. «Vasto, troppo vasto è il cuore dell’uomo, dove le sponde si ricongiungono e tutte le contraddizioni convivono» (Fjiodor M. Dostoevskij). IONESCO: NON ARRENDERSI ALLA MITOLOGIA DI TURNO. Nelle sue pièces teatrali, dalla scioccante Cantatrice calva al fortunato Rinoceronte, fino alle sue ultime produzioni, Eugène Ione-sco non ha mai cessato di denunciare il compromesso, il conformismo, il tentativo sempre in atto di livellare e omologare i sentimenti, le idee, i comportamenti degli uomini. E in questa battaglia ha colpito duro le degenerazioni di una certa mentalità borghese e l’inevitabile tirannia che il marxi-smo-leninismo porta con sé. Il rumeno Ionesco, in Francia dal ‘38, ha svolto così un compito analo-go a quello del grande pensatore cattolico Gabriel Marcel e, con una mirabile continuità, per oltre cinquant’anni. Ed eccoci dinnanzi ad un’ultima conferma, il libro pubblicato nelle edizioni Spirali di Milano, Il mondo è invivibile. Sono interviste, pagine di diario, saggi scritti nell’ultimo decennio in cui l’arditezza frizzante dello stile teatrale si eleva a lettura della condizione umana. Come nel seguente brano: «Un’anima, un’anima individuale è caratterizzata dal fatto di essere divisa fra l’angoscia e la speranza. Tutto il comportamento dell’uomo è fondato su questo. È questo a differenziare l’uomo dalle altre creature. Cambiare l’uomo è abolirlo in quanto essere che teme e spera nello stesso tempo». Ai suoi occhi, proprio perché hanno la pretesa di creare l’uomo nuovo, in cui siano state uccise l’angoscia e la spe-ranza, «le utopie sono demoniache». Ionesco dà ai giovani un messaggio prezioso: non confondere gli autentici uomini di cultura con la gente che fa parte di quella corporazione di privilegiati e asserviti a cui si dà il nome di ‘intellettua-li’. «Non possiamo assolutamente fidarci dell’intellighenzia. L’intellighenzia è molto sensibile ai sussulti irrazionali e alla forza politica. È purtroppo molto difficile, se non impossibile fidarsi degli intellettuali, qualunque cosa dicano. Coloro che vengono chiamati intellettuali, lungi dall’essere maestri del pensiero, sono gli intermediari fra il pubblico e le fucine della propaganda». C’è, però, qualcosa di sbagliato nel libro di Ionesco. Il titolo, così amaro. In realtà, dietro la smorfia del suo viso corrucciato, Ionesco nasconde un’indomita volontà di non arrendersi alla banalità e alla men-zogna. È ben lui che ha scritto di sé: «Niente mi scoraggia, nemmeno lo scoraggiamento».

AFFERMAZIONI FORSENNATE. In un romanzo scritto da una teologa – teologa di quella specie tutt’altro che rara, che irride quel cattolicesimo che pure professa – si leggono perle di questo teno-re. Un contadino sta potando un albero e l’autrice eleva la sua protesta per bocca del personaggio-portavoce: «Mi domando se è proprio necessario ferire una pianta per farle produrre frutti». Prima di scrivere romanticherie così puerili, ha mai provato la scrittrice teologa a mangiare frutti di alberi non potati? La nota teologa, stella fissa nel firmamento di Rai Tre, si cimenta anche su di un terreno che molto probabilmente le è del tutto estraneo, quello dell’erotismo. E allora ne escono bestemmie. Come questa: «La tua pelle ha l’odore di Dio»! 16 novembre 1989. LINEA RECTA BREVISSIMA. Definizione dell’uomo affetto da “nevrosi del dubbio”. «Non è che l’incarnazione di un punto interrogativo» (icastico giudizio di W. Lyon Phelps su Henry James, padre dello scrittore omonimo e dello psicologo William). La sola cosa che aiuta. «Non c’è niente di più vano che discorrere della mancanza d’un’aria che vivifichi, d’una terra propizia, di occasione, di ispirazione, e delle cose che giovano. La sola cosa che aiuta è far bene. E... non c’è nessuna legge che lo vieti. Inventa, crea, produci!» (Henry James, scrittore, nella novella La Madonna del futuro). Offrire lo spunto essenziale, un’intuizione allo stato germinale. «Per una strana legge un minimo di suggerimenti validi serve a un uomo d’immaginazione meglio che non il massimo» (H. James, nel racconto L’oggetto reale). Preghiera per gli scrittori. «... prega per me e per tutti gli scrittori, che sian vivi o morti; / perché ce n’è di quelli la cui opera / è d’una qualità migliore che non la loro vita, e poiché non ha fine / la va-nità della nostra vocazione; intercedi tu / per il tradimento di tutti i chierici» (apostrofe dell’ode Sul-la tomba di Henry James di W.H. Auden, poeta inglese, ma cittadino americano, mentre James, scrittore tipicamente americano, avvertì tuttavia il fascino della tradizione europea e divenne citta-dino inglese alla vigilia della morte, che sopraggiunse il 28 febbraio 1916). Il compito dello scritto-re. «Compito dello scrittore è trattare, in rapporto al presente, le questioni più universali ed eterne: i misteri del cuore e della coscienza umana, lo scontro tra la vita e la morte, la vittoria spirituale sul dolore e le leggi nate nella profondità insondabile dei millenni, che accompagnano la storia dell’umanità e che verranno meno solo quando si estinguerà il sole» (Aleksandr J. Solzenicyn). LA MEZZALUNA A ROMA. Tra non molto una mezzaluna di metallo dorato svetterà sul cielo di Roma e risuonerà nel centro del cattolicesimo l’invito del muezzin alla preghiera. Malgrado le dif-ferenze, quel muezzin inviterà a pregare il Dio di Abramo, che è lo stesso del vescovo di Roma, il Papa, ma anche degli ebrei, da tempo immemorabile anch’essi presenti a Roma con le loro sinago-ghe. È un fatto nuovo su cui bisogna riflettere e che obbliga tutti, me per primo, a una scelta che è in primo luogo interiore. È vero che mai sarebbe permesso di edificare alla Mecca un tempio cristiano, ma i cristiani non possono fare questo tipo di argomentazione: loro non ci fanno costruire le chiese e allora noi impediamo l’edificazione delle moschee. Insomma, per il cristiano il rispetto della liber-tà religiosa convive, deve convivere con il desiderio, anch’esso legittimo, di preservare il carattere cattolico di Roma. In ciò è la sua apparente debolezza, e dunque la sua reale forza. Al cristiano non possono far paura il confronto e la ricerca della comune radice nell’Antico Testamento, ma stru-mentalizzazione politica e il radicalismo fondamentalista che snaturano l’autentico messaggio reli-gioso dell’Islam. MOTIVARE LA «SOLIDARIETÀ» E STRONCARE I PARASSITISMI. Una società avanzata è senza dubbio un progresso ed un progresso di massa, inimmaginabile in un regime comunista. Tut-tavia ogni medaglia ha il suo rovescio ed il sistema delle società affluenti, pur riducendo drastica-mente la povertà, non riesce a eliminare del tutto né la miseria di alcuni, né i parassitismi, in alto e

in basso, di parecchi. Il sistema è imperfetto e, dunque, si può e si deve migliorare. Ma in quale mo-do? Assegnando alla formazione delle coscienze e alla politica compiti che convergano nel mirare a risultati e fini prioritari per vie diverse. «Per migliorare il sistema in cui viviamo – risponde il filosofo Vittorio Mathieu – occorrono, da un lato, incentivi ad impegnarsi per gli altri e, dall’altro, disincentivi a vivere da parassiti pubblici o privati. I disincentivi sono più difficili da trovare in una società che tollera, senza batter ciglio, sia i falsi invalidi e i falsi impiegati oziosi, sia i molti amministratori incapaci, ossia capaci solo di ac-cumulare provvigioni per sé e perdite per le aziende a spese dei contribuenti. Se questi abusi fosse-ro ridotti, l’etica del servizio reciproco riprenderebbe quota, e anche il singolo avrebbe maggiore spazio per destinare una parte dei guadagni a chi non è davvero in grado di mantenersi da sé» («Più ricchi ma non felici», nel Giornale dell’8 ottobre 1989). A CHI DOBBIAMO CONGIUNGERCI. «Io mi congiungo con coloro che sono più grandi di me, perché per mezzo loro il mio pensiero salga, e con quelli che soni più piccoli di me, perché per mio mezzo essi vengano sollevati» (Rabbi Jehiel Michal, in I racconti dei Chassidim, Garzanti). 23 novembre 1989. LINEA RECTA BREVISSIMA. Prima di tutto. «L’umanità è la prima delle virtù» (Luca di Vau-venargues, Réflexions et Maximes, 1746). Il rapporto tra pazienza e coraggio. «Chi può sopportare tutto, può tutto osare» (Vauvenargues). Saper riconoscere con gioia i meriti altrui. «È un gran se-gno di mediocrità lodare sempre moderatamente» (Vauvenargues). Attenti alla “violenza” della pa-rola. «Poche massime sono vere sotto ogni aspetto» (Vauvenargues). Giustizia e umanità. «È im-possibile essere giusti, se non si è umani» (Vauvenargues). Il bene non è l’utile. «Alcuni trattano di morale, come si fa con l’architettura nuova, in cui si ricercano anzitutto gli agi» (Vauvenargues). Il nostro “io” e gli “altri”. «Noi scopriamo in noi stessi quello che gli altri ci nascondono, e pren-diamo coscienza negli altri di quel che nascondiamo a noi stessi» (Vauvenargues). Paura e corag-gio. «Dove non c’è paura non c’è coraggio e dove non c’è coraggio non c’è speranza» (Proverbio cinese). È bene che l’uomo non sia solo. «Il mondo può indovinare l’infelicità dello scapolo, sia essa appa-rente o reale, così facilmente che in ogni caso, quando sia rimasto scapolo per la gioia del mistero, egli maledirà la propria risoluzione» (Franz Kafka, Confessioni e diari, a cura di Ervino Pocar, Mondadori). Anche lui, Kafka, intravvide, con l’acutezza della nostalgia, la più pura tra le gioie della vita. «Felicità infinita, calda, profonda, redentrice, di star insieme vicino alla cesta del proprio bambino di fronte alla madre» (Kafka, op. cit.). CARI GIOVANI... Sono uno di quei fortunati che nella vita è stato con i giovani a loro servizio per libera scelta. E lo sono tuttora, sebbene non più nella scuola. È quindi soprattutto col pensiero ai bi-sogni, alle esigenze e ai diritti dei giovani, alle loro attese più generose che scrivo anche queste no-te. A loro dedico, come se fosse una mia lettera aperta, le riflessioni e l’implicito appello contenuti in questa pagina. «Io amo e rispetto i giovani d’oggi e guardo ad essi con uno strano senso di angoscia. La nostra gioventù conosce moltissime cose riguardo alla materia, ai fatti naturali e umani, ma quasi nulla ri-guardo all’anima. Tutto sommato, il livello della sua condotta morale non è più basso, sebbene più apertamente rilassato, di quello della generazione precedente. I giovani d’oggi hanno una specie di fiducioso candore che stringe il cuore. A prima vista essi appaiono assai vicini alla bontà della natu-ra quale Rousseau la sognava. Perché sono buoni, senza dubbio, e generosi e liberi, e manifestano, nelle azioni nobili come in quelle immorali, una sorta di purezza che somiglia all’innocenza degli uccelli e dei cerbiatti.

In realtà essi sono proprio in quel momento in cui, dopo che tutte le strutture acquisite della tradi-zione morale e religiosa sono state disperse, l’uomo rimane ancora a giocare con la sua eredità. La loro natura nuda non è però la pura natura, ma una natura che da secoli è stata fortificata dalla ra-gione e dalla fede ed esercitata alle virtù. Adesso essa si trova priva di ogni sostegno. I giovani d’oggi si tengono su nella loro bontà, senza appoggiarsi su nulla. Come sarà provata la loro resi-stenza nel duro mondo di domani? Cosa saranno i loro figli? L’ansietà e la sete salgono in molti di loro e questo è un motivo di speranza» (Jacques Maritain, L’educazione al bivio, trad. it. La Scuola ed., Brescia). RIVALUTARE L’UMORISMO. Anche Nietzsche, quando abbandona l’enfasi dell’invettiva e l’insostenibile contraddittorietà delle linee di fondo del suo «sistema», dice cose vere e profonde e le sa dire in uno stile affascinante. Talora con accenti pascaliani. Come nella risposta data alla do-manda: perché l’uomo ride? «Solo l’uomo – osserva Nietzsche – soffre a tal punto d’aver dovuto inventare il riso. Il più infelice e il più malinconico degli animali è giustamente quello più allegro». Un umorista autentico, Mark Twain, conferma con la solita chiarezza: «La fonte segreta dell’umorismo non è la gioia, ma il dolore». E aggiunge che tutti abbiamo bisogno di poter sorride-re di noi stessi e della risibile «serietà» dei nostri simili: «Dove non c’è umorismo, questa specie di distacco da noi stessi, c’è il campo di concentramento». Sì, perché l’io si isola in sé e si separa o-stilmente dagli altri, ponendosi al centro dell’universo: un universo ovviamente assurdo, irreale e tuttavia incombente come un incubo, un’ossessione. Non per nulla Socrate, l’incomparabile, aveva fatto dell’umorismo e dell’ironia la via per spingere ogni uomo a mettersi in chiaro con se stesso, a uscire dall’egocentrismo, ad aprirsi – nel cuore stesso della ragione – all’Assoluto che l’umana ra-gione fonda e trascende. 30 novembre 1989. LINEA RECTA BREVISSIMA. Una massima dello “Studium” bolognese. «Erubescimus sine lege loquentes» («c’è da arrossire a parlare senza una legge»; oppure: «a parlare a casaccio». Fa coppia con ricchezza. «Siamo avvezzi alla coppia ricchezza-povertà, poi ricchezza-sfruttamento. Io pro-pongo: ricchezza-demoralizzazione» (Giacomo B. Contri). I fanatici. «Anche se di questi tempi non osano confessarlo a voce alta, i fanatici ritengono che il trionfo dell’Idea possa tranquillamente pas-sar sopra cumuli di cadaveri» (Franco Cardini). La patria dell’anima. «Quando l’uomo si compren-de e comprende ciò che gli è proprio, senza estraniazioni e alienazioni, viene alla luce qualcosa che a tutti richiama la fanciullezza e dove nessuno è ancora stato» (Ernst Bloch). Dimestichezza con il mistero. «Il desiderio della religione rimane quello di una dimestichezza con il mistero dell’esistenza» (E. Bloch). Non domani. «Adesso, non domani. Adesso è un atto di coraggio. Un punto d’onore non lascia agli altri la pesante eredità dei suoi ‘adesso’ traditi» (Primo Mazzolari). Il dono della reciprocità. «Il solo modo di avere un amico non è forse di esserlo?» (Ralph Waldo E-merson). Vecchi e nuovi amici. «Non c’è piacere paragonabile a quello di ritrovare un vecchio amico, tranne forse quello di farsene uno nuovo» (Rudyard Kipling). Il ruolo dell’amico. «Il ruolo di un amico è trovarsi al vostro fianco quando avete torto, poiché tutti saranno al vostro fianco quando avete ra-gione» (Mark Twain). Qual è il vero ufficio del critico. «Il critico può solo concentrare l’attenzione e la potenzialità di un disattento: altro non può» (Benedetto Croce in Appunti giovanili pubblicati su «La Voce» da Prezzolini). Un’immagine che convogli la vita. «Le opere non sono solo reliquati di poesia o di stile, non servono solo alla “formulazione dell’immagine”. Questo è il loro quid specifi-co, ma non è il loro unico modo d’essere. L’immagine, per quanto possa essere stata idoleggiata come immagine pura, non sarebbe umana, e non sarebbe, se non convogliasse anche vita: la vita dell’uomo che l’ha creata e la sua implicita filosofia» (Francesco Arcangeli, Giorgio Morandi, Ei-naudi, 1981, p. 115).

IN BUONA COMPAGNIA. C’è un critico letterario che ha fatto sempre parlare forte l’umanità nei suoi scritti. Non ha mai falsato quella voce, non ha mai ceduto a partigianerie e cricche. Parlo di Geno Pampaloni. In un suo articolo domenicale su Il Giornale leggo: «Più vado avanti con gli anni, più mi diventano cari I racconti dei Chassidim raccolti da Martin Buber. Disperazione, fede, ironia vi si compongono in una malinconia diffusa e penetrante come una nebbia illuminata, accesa dal mistero, e perciò sempre in allarme, pronta a rovesciarsi nella gioia della lode all’Eterno». I lettori di Detti e contraddetti sanno come quel libro sia caro anche a noi. «LEI È IL PRIMO CHE MI CHIAMA “SIGNORE”». Quando un uomo si cala veramente in un problema? Non basta studiare e informarsi. Un illustre specialista di problemi sociali lo confessa candidamente. Aver scritto e parlato del problema razziale in Francia, e per anni, per lui non era sta-to sufficiente: aveva bisogno di un’esperienza che mutasse non le sue idee, che erano più che buone, ma il suo concreto sentire. «Alcuni anni fa – scrive – avevo appena tenuto una conferenza sui diritti dell’uomo, quando, tor-nando a casa in macchina, passai nei pressi di una piccola stazione di campagna assai lontana dal paese e scorsi, un centinaio di metri davanti a me e procedente nella stessa direzione, un pedone che si trascinava una valigia molto pesante. Mi fermai vicino a lui per invitarlo a salire, un po’ stupito che non mi avesse fatto segno. Misi la valigia sul sedile posteriore ed egli sedette vicino a me. Mentre guidavo feci la sua conoscenza. Era un algerino residente da tempo in Francia dove aveva ottenuto un contratto di lavoro... Nel paese in cui arrivammo poco dopo abitava la famiglia; lo aiutai a scaricare la valigia e mi accinsi a salutarlo. Il tremito della sua mano mi fece supporre che avesse bisogno di essere accompagnato e pensai di informarne la famiglia. Egli però mi fermò sulla sua casa, dicendomi che stava bene. Capii il motivo della sua emozione allorché, stringendo la mia mano tra le sue, mi disse con qualche difficoltà: “Grazie! Lei è il primo francese che mi chiama signore e che non mi dà del tu, come fanno tutti gli altri” ». Chi ha confidato questa sua «esperienza» è il noto teologo francese Jean-Marie Aubert e lo ha fatto nella pagina conclusiva del suo libro Diritti umani e liberazione evangelica, tradotto in italiano dal-la Queriniana. 7 dicembre 1989. LINEA RECTA BREVISSIMA. L’innovazione è reale se misura le sue stesse conseguenze. «Spo-stare l’accento dal contro al dopo significa pensare la politica nella democrazia come capace di ap-prendimento. Questa è anzi la definizione stessa di democrazia» (Carlo Donolo e Franco Fichera). Incremento di razionalità politica e di umanità. «L’innovazione non è il nuovo, il mutamento puro e semplice. Essa risulta per lo più da un processo d’integrazione tra il politico e il sociale; spesso non è a disposizione degli operatori politici ed è la conseguenza di azioni orientate ad altri fini. Per essere colta, riconosciuta e valorizzata solo se ci sono persone capaci e dotate di una cultura ade-guata» (C. Donolo e F. Fichera). Perché i classici hanno sempre qualcosa di nuovo da dirci ad ogni rilettura. «È il destino dei clas-sici suscitare sempre nuove interpretazioni. Questo fenomeno si spiega con il fatto che in ogni clas-sico del passato ci sono allo stato potenziale enormi possibilità di significato non scoperte e non ca-pite nel periodo storico in cui furono prodotti. Quelle possibilità esplodono e si manifestano in epo-che successive» (Michail Bachtin). Vincere il desiderio di isolarsi. «E mi sento isolato in mezzo a-gli uomini / ma per essi sto in pena» (Giuseppe Ungaretti). Ciò che un padre riceve dalla sua crea-tura. «... puro, libero, / felice rinasco nel tuo sguardo» (G. Ungaretti). L’UTOPIA REGRESSIVA, FUGA ALL’INDIETRO. La grandi questioni, le più vitali per l’umanità, a causa del loro impatto con i sentimenti più profondi, sono quasi sempre agitate a livello

di mass-media e di confronto politico con evidenti... esuberanze linguistiche. Le quali possono an-che, in un primo tempo, servire a scuotere la sordità e l’inerzia dei più, ma non servono certo a chia-rire i problemi in termini oggettivi, né a individuarne le soluzioni più urgenti e lungimiranti. È inte-resse di tutti, invece, che li choc della crisi ecologica – che ha avuto il suo apice col disastro di Chernobil – metta in moto una riflessione rigorosa, sia in campo scientifico, sia in campo filosofico e teologico. Qui si vuol accennare solo ad un punto, ma di fondamentale importanza. Il mito disumano della cre-scita economica illimitata e del consumismo che l’accompagna, è bene dirlo subito a chiare lettere, va criticato sino in fondo e noi più volte lo abbiamo fatto anche in questa rubrica. Ma quella critica più che giustificata e l’imperativo secondo il quale, per essere finalizzata all’uomo, la produzione dev’essere ormai rapportata ai rischi e ai limiti ecologici non autorizzano utopie regressive di alcun genere. Le fughe all’indietro – così care a chi si nutre di fantasticherie, rifiutando di misurarsi con i fatti e di ragionare sui fatti – servono solo a ritardare la maturità umana di chi se ne nutre e le scam-bia per esigenze di radicalità e di impegno. Il rimpianto del buon tempo antico (un tempo che è buono solo per chi non lo conosce!) e le chiacchiere sul buon selvaggio (il quale viveva in un mon-do tutt’altro che paradisiaco), il mito del ritorno ad un’era pre-tecnica – e quindi a un’economia di ghetto, di sotto-cultura e di penuria – non servono a niente e a nessuno, generano confusioni penose e devianti, allontanano le menti e le coscienze dallo studio serio e dalle decisioni necessarie a risol-vere un problema drammatico come quello di salvaguardare il futuro della creazione e il futuro dell’umanità. QUEL BELLISSIMO NOVEMBRE. Quale? Quello appena passato. Stiamo vivendo un anno di straordinari avvenimenti. Il 1989 è come il 1789 o il 1848: l’anno dei portenti, l’anno della primave-ra dei popoli che nel cuore dell’Europa scuotono il giogo della dittatura comunista che li ha messi in ginocchio per oltre quarant’anni. Il dominio spietato del Partito-che-si-fa-Stato crolla un po’ per volta dappertutto e sotto il peso delle proprie infamie è costretto a gestire la cosa pubblica con i propri oppositori e con i perseguitati di ieri, come succede in Polonia. O si auto-scioglie o si conver-te in massa – ma con quale coerenza e sincerità è cosa tutta da verificare – al socialismo democrati-co, da sempre additato dai marxisti-leninisti al disprezzo e all’odio feroce dei comunisti di tutto il mondo. Ed è il caso dell’Ungheria, trasformatasi questa estate in uscita di sicurezza dalla galera comunista per tedeschi e cecoslovacchi. E poi venne novembre: il popolo della Germania Orientale che grida la sua volontà di cambiamento, il muro di Berlino che comincia a sgretolarsi, Praga e la Cecoslovacchia tutta pacificamente e virilmente in piedi a rivendicare il diritto all’auto-governo e alla libertà. È la fine dell’impero sovietico in Europa, è la fine di Yalta. E se tutto è cominciato in Polonia, perché non ricordare che tutto in Polonia è cominciato con l’ascesa al pontificato del primo Papa slavo? 14 dicembre 1989. LINEA RECTA BREVISSIMA. La domanda religiosa. «Chiuso tra cose mortali / (anche il cielo stellato finirà) / perché bramo Dio?» (Giuseppe Ungaretti). Non rimanere, ma “diventare” fanciulli. «Darsi potrà che torni / senza malizia, bimbo?» «Ancora mi rimane qualche infanzia» (G. Ungaret-ti). Per non essere meri fruitori di tecnologie. «Il valore umanistico della scienza si sviluppa appie-no solo quando il risultato scientifico sia visto nella sua genesi storica» (Vittorio Mathieu). Perché utilizzare gli errori. «È molto difficile valorizzare anche gli errori, cioè gli erramenti, i vicoli ciechi, le vie sbagliate che si sono imboccate. Eppure non c’è dubbio che essi siano altrettanto efficaci nel mostrare il significato profondo, direi ontologico, di una verità scientifica quanto le vie che hanno avuto successo. Perché queste ci portano diritto a quella utilizzabilità immediata, propria anche del-la macchina, che è una dimensione essenziale dell’evidenza, ma una dimensione soltanto» (V. Ma-thieu).

Gli onesti e i disonesti. «Gli onesti cercano di far emergere i fatti attraverso le parole; i disonesti, di nasconderli» (Saverio Vertone). La logica ha i suoi diritti. «È bene liberarsi dai vincoli ideologici, e di una ideologia totalitaria, ma ciò non autorizza a sentirsi liberi anche dai vincoli della logica» (S. Vertone). È lì a provarlo questo meraviglioso 1989. «Nessuna notte, nemmeno la più lunga, sarà e-terna» (dice la canzone di Sveik nella Seconda Guerra Mondiale). Meglio l’eresia che la dimenti-canza soddisfatta. «Oggi l’eresia è meno pericolosa di quanto non sia l’essicarsi della radice. Signo-re, meglio errare nel tuo nome che dimenticarti! Meglio peccare per te che scordarti!» (Andrej Sin-javskij). LA CHIAVE DEL FUTURO. Le fughe in avanti della demagogia, a veder bene, allontanandoci dalla corretta impostazione del problema ecologico, ne ritardano la soluzione. Più si diffonde il mito idilliaco di un’umanità migliore e più felice in un’età pre-industriale, più avanza con la menzogna l’illusione di potercela fare a buon mercato. Il fatto è che l’umanità non può cercare all’indietro, nel suo ormai lontano passato, la risposta a una delle questioni più angosciose del presente da cui di-pende per tanta parte il suo futuro. Occorre, invece, impegnarsi con tutte le forze a trasformare il conflitto di interessi e di mentalità fra industria ed ecologia in una convergenza reciproca di interes-si e di mentalità, perché questa è la chiave del nostro futuro. Bisogna dire con tutta chiarezza – smettendola una buona volta di blaterare contro la scienza e le sue applicazioni tecniche di cui, pe-rò, pretendiamo il massimo dei benefici nella vita di ogni giorno – che l’integrazione tra industria ed ecologia passa attraverso un nuovo balzo avanti scientifico e tecnologico, così come attraverso il riconoscimento effettivo e prioritario degli imperativi morali. Scienza e coscienza morale devono unire i loro sforzi, essendo l’una e l’altra decisive per la salvaguardia della creazione e per il futuro dell’umanità. Per giungere al solo risultato a cui la ragione ci obbliga a tendere, di strada ce n’è molta. Coloro che vedono in primo luogo l’aspetto etico del problema devono convincersi che «nella società indu-striale ci sono delle alternative, ma ad essa non c’è nessuna alternativa» (Alfons Auer, Etica dell’ambiente, Queriniana). Gli altri – quelli attenti allo sviluppo scientifico, alle innovazioni tecno-logiche, al processo produttivo – devono essere obbligati, dalle loro coscienze e dalle leggi, a far entrare anche gli imperativi di un’etica dell’ambiente tra le finalità costitutive del loro operare. E c’è anche un’altra rivoluzione non violenta a cui dobbiamo essere preparati noi e i nostri figli: da-re un bell’addio al consumismo e alle sue devastazioni, proporre e praticare uno stile di vita alterna-tivo, una nuova ascesi per i singoli e per i gruppi. Se ci sarà un’assunzione corresponsabile e gene-ralizzata dei sacrifici necessari, ognuno per la parte che gli compete, diventeremo più umani e ci sentiremo di casa in questo mondo, il quale ci apparirà non tanto e non solo una «realtà significati-va», un luogo abitato dalla bellezza. 21 dicembre 1989. LINEA RECTA BREVISSIMA. Non è facile dire la verità. «Arriva sempre un momento nella sto-ria in cui chi osi dire che due più due fa quattro è punito con la morte» (Albert Camus, La peste). Quando a parlare di solitudine è un umorista. «Sono talmente solo che lo specchio non mi riflette più» (Leo Longanesi). Un criterio di verifica che esclude la chiacchiera. «Li riconoscerete dai loro frutti. Non può, infatti, una mala pianta dare frutti buoni, o al contrario, una buona pianta dare frutti cattivi» (Matteo 7, 16-17). Citato da Gorbaciov, durante il pranzo di fine novembre ‘89 al Quirina-le. «Grandissima bontà, cui vicino tutte le altre si offuscano, è quella di non danneggiare nessuno e per quanto possibile aiutare ciascuno» (Francesco Guicciardini). Un dato di fatto da cui abitualmen-te si prescinde. «La dottrina e la prassi ecclesiale nella tutela dei più poveri hanno sempre rappre-sentato qualcosa di più e di meglio rispetto a ogni altra alternativa filosofica e politica» (Piergiorgio Bellocchio in Dalla parte del torto, Einaudi, 1989. È il Bellocchio che tra il ‘62 e l’80 fu l’animatore dei Quaderni piacentini).

IL PIÙ BEL REGALO PER NATALE. Mi è arrivato da Praga. Lo scrittore Jiri Grusa, in esilio da vent’anni, mi ha telefonato finalmente dalla «sua» città. Con la finezza che è propria di chi conosce il soffrire per motivi di coscienza, ha voluto partecipare la sua gioia a quanti l’anno scorso, a Bre-scia, ascoltarono la sua parola. E la sua parola era insieme voce di un popolo in catene e irridente smascheramento di quegli intellettuali a cui l’ideologia ha anestetizzato la coscienza. All’Ovest non meno che a Est. «NOI SIAMO COLORO SUI QUALI LA SORTE S’ACCANISCE CON PIÙ FORZA». «Siamo 47.000 rifugiati vietnamiti, arrivati in Hong Kong dopo il 16 giugno 1988, al momento ancora in-ternati nei campi di questo territorio. Dopo il 30 aprile 1975, il giorno in cui i comunisti si impa-dronirono dell’intero Paese, milioni di vietnamiti provenienti dal Nord e dal Sud, uno dopo l’altro, hanno lasciato la loro patria per difendere la loro fede religiosa, le tradizioni dei loro padri e per condurre una vita libera in cui la dignità e la grandezza dell’uomo siano rispettate. Noi decidemmo di restare, qualunque fossero le sofferenze a cui saremmo andati incontro. La rassegnazione e la perseveranza dei vietnamiti sono note a tutti, ma l’immensità della sventura in cui siamo stati spinti dalla crudele amministrazione del potere comunista (proibita la nostra religione, i nostri diritti più elementari schiacciati, con l’incubo di poter essere gettati in prigione, torturati ed eliminati in qualsiasi momento) ci ha costretto a fuggire. La nostra partenza dal Paese dove sono sepolti i no-stri antenati è l’atto di autodifesa di sventurati spinti all’estrema esasperazione. Abbiamo tutti trascorso giornate, talora mesi, su piccole, fragili imbarcazioni sballottate sui flutti del mare, senza cibo e senz’acqua, in preda alle tempeste, vittime dei pirati che ci hanno picchiato ed hanno violentato le nostre donne e i nostri bambini. Chi potrà dirci quanti di noi sono periti sul cammino della libertà? Un destino avverso ci ha condotto a Hong Kong dopo il 16 giugno 1988 e pertanto – per un’intesa tra Hanoi, Hong Kong e Londra di cui non comprendiamo i motivi – siamo considerati immigrati illegali a cui è imposto il rientro forzato in Vietnam per via aerea. Ciò che ci aspetta nel nostro Paese noi già lo sappiamo: gli interrogatori, la prigione e l’eliminazione. Di fronte alla sofferenza dei nostri compatrioti, picchiati, portati via nelle lacrime e tra le urla, or-mai senza alcuna speranza, non possiamo impedire a noi stessi di essere sconvolti dalla pietà. E l’amarezza ci serra il cuore al pensiero del giorno in cui verrà il nostro turno di essere trattati con la medesima crudeltà. Dinanzi a tanta tragedia noi siamo totalmente impotenti. In seno alla comu-nità umana noi siamo coloro sui quali la sorte s’accanisce con più forza». Ho riportato i passaggi salienti di uno straordinario documento, la lettera che i vietnamiti rifugiatisi a Hong Kong, e ora costretti al rimpatrio, inviarono al Papa il 30 novembre scorso. 28 dicembre 1989. LINEA RECTA BREVISSIMA. Anche se si tratta di errore. «L’errore non è mai allo stato puro e nessun fenomeno culturale può essere connotato come patologia della mente umana, come disse pa-dre Cornoldi della filosofia moderna» (Italo Mancini). La scienza di Dio porta la livrea della pover-tà. «Al termine del nostro processo conoscitivo, Dio lo conosciamo come se ci fosse ancora scono-sciuto / In finem nostrae cognitionis Deum tamquam ignotum cognosciums» (Tommaso d’Aquino). L’ethos della ricerca. «Non tutto da principio gli Dèi hanno manifestato agli uomini, ma cercando nel corso del tempo essi trovano il meglio / chronoi zetountes ef-euriskousin à meinon» (Senofane, vissuto tra il VI e il V secolo a.C.). Uomini, errori e verità. «Gli uomini sono per lo più migliori dei loro errori e inferiori alle loro veri-tà» (Natale Bussi). La migliore apologia. «Se il messaggio della vostra Bibbia vi stesse scritto in vi-so, non avreste bisogno di esigere così ostinatamente fede nell’autorità di questo libro: dalle vostre parole, dalle vostre azioni dovrebbe di continuo nascere una nuova Bibbia!» (Friedrich W. Nie-tzsche, Umano troppo umano, vol. II). Un motto mirabile. «Paràtus semper doceri / Sempre pronto

a lasciarsi istruire» (cardinale Giovanni Mercati, bibliotecario e archivista di S. Romana Chiesa, 1866-1957). L’obbligo prioritario. «Bisogna affermare l’uomo per se stesso e non per qualche altro motivo o ragione: unicamente per se stesso, in ragione della dignità particolare che egli possiede» (Giovanni Paolo II nel discorso all’Unesco, 2 giugno 1980). L’attuale generazione dell’Europa. «Ogni generazione vive diversamente gli stessi problemi. L’attuale generazione dell’Europa è dominata da un’aspirazione all’unità continentale pari al riba-dimento dell’identità di ogni popolo» (Giovanni Spadolini). Accade ai veri amici. «Si conoscevano così a fondo che bastava un lieve cenno, uno sguardo, una parola, perché l’uno comprendesse subito il pensiero dell’altro. Di modo che, quella loro passeggiata principiava ogni volta con un breve scambio di frasi e seguitava poi in silenzio, come se l’uno avesse dato all’altro da ruminare per un pezzo» (Luigi Pirandello). IL SILLOGISMO DI LORD ACTON. In Germania Est il popolo va scoprendo da qualche settima-na che i suoi padroni marxisti-leninisti non erano solo i più duri cani da guardia dell’impero sovieti-co nel cuore dell’Europa e di un sistema di oppressione di ogni libertà per i tedeschi al di qua del muro. quei satrapi rubavano e se la spassavano e si assicuravano nelle banche svizzere la disponibi-lità di denaro per somme da capogiro. Come mai coloro che, essendo tedeschi e comunisti, noi pen-savamo al riparo della loro purezza ideologica, si sono, invece, rivelati corrotti oltre ogni più male-vola immaginazione? La spiegazione va cercata nella struttura stessa del potere politico e nei suoi meccanismi quelli dello Stato-Partito, che rendono la corruzione organica e protetta. «Power tends to corrupt and absolute power corrupts absolutely»: il potere tende a corrompere e il potere assoluto corrompe assoluta-mente. Secondo Churchill quelle parole dovrebbero troneggiare su ogni Costituzione. A scriverle, in una lettera del 1887, fu lo storico britannico lord John Acton, una delle figure eminenti del cattoli-cesimo liberale inglese. Con dolore e con rabbia constatiamo che la democrazia non riesce sempre a prevenire e a punire la corruzione malgrado le leggi, la libertà di stampa e di parola, l’indipendenza della magistratura; ma laddove il potere distrugge ogni possibilità di contestazione ed è totale e intoccabile, come fa la cor-ruzione a non diventare anch’essa totale e intoccabile? LA TENTAZIONE A CUI CRISTO CEDETTE. In questi giorni mi torna in mente con grandissima insistenza una pagina di William Somerset Maugham, lo scrittore e drammaturgo inglese, di cui nel ‘46 apparve in traduzione italiana Il filo del rasoio. Ho trovato il foglio sul quale avevo trascritto la riflessione di Maugham, a cui sono tornato non poche volte, in momenti di particolare difficoltà. William Maugham completa così il testo evangelico delle tentazioni: «Il diavolo ritornò da Gesù e gli disse: - Se accetterai la vergogna e il disonore, le frustate, una corona di spine e la morte sulla croce salverai la razza umana. Gesù cedette». Lo scrittore aggiunge: «Il dono di sé è una passione così prepotente da far impallidire perfino la fame e la lussuria. Avvolge e conduce al sacrificio le sue vittime nella più alta affermazione della loro personalità». È il nostro modo di “cedere” a Cri-sto.