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Se volete parliamo di Dante
V incontro
inferno canto XXXIII
inferno canto 33°Il canto trentatreesimo dell'Inferno di Dante
Alighieri si svolge nella seconda e nella terza zona del
nono cerchio, nella ghiaccia del Cocito, ove sono puniti
rispettivamente i traditori della patria e del partito e i
traditori degli ospiti; siamo nel pomeriggio del 9 aprile
1300 (Sabato Santo), o secondo altri commentatori del
26 marzo 1300.
« Canto XXXIII, ove tratta di quelli che tradirono coloro
che in loro tutto si fidavano, e coloro da cui erano stati
promossi a dignità e grande stato; e riprende qui i
Pisani e i Genovesi. »
(Anonimo commentatore dantesco del XIV secolo)
Il racconto del conte Ugolino - versi 1-78
« La bocca sollevò dal fiero pasto
quel peccator, forbendola a' capelli
del capo ch'elli avea di retro guasto.
Poi cominciò:... »
(v. 1-4)
Inizia così uno dei canti più famosi di tutto l'Inferno.
Nelle ultime terzine del canto precedente Dante era
stato attratto dalla figura di un dannato che rodeva alla
nuca un altro, e mosso da curiosità verso tanta bestial-
ità, chiede al peccatore superiore chi sia e perché si ri-
torce così sull'altro, ripromettendogli di portare nel
mondo dei vivi la sua storia magari facendo conoscere
le ragioni del suo odio se queste fossero state giustifi-
cabili.
Questo canto inizia quindi con la macabra figura di
cannibalismo, subito sottolineata dall'accenno alla
bocca di Ugolino e dall'accenno al pasto fiero cioè
ferino, feroce. Egli solleva la bocca dal pasto feroce,
pulendola con i capelli del capo che stava addentando,
e comincia a parlare.
Dice che egli parlerà del disperato dolor che solo a
ripensarci gli stringe il cuore, per il solo scopo di
fruttare infamia al traditore che egli rode, e così inizia a
parlare e lagrimar (si tratta della figura retorica dello
zeugma, nella stessa espressione usata anche da
Francesca da Rimini, ma con tutt'altro significato, per-
ché in quel caso il piangere era dovuto al ricordo della
lieta vita): già da questa premessa viene introdotto il
senso drammatico della scena seguente e l'eco dell'o-
dio e del dolore.
Se Dante è fiorentino, prosegue il
peccatore, dovrebbe ricordarsi
del Conte Ugolino della Gher-
ardesca e dell'Arcivescovo Rug-
gieri di Pisa (per sé usa "fui", per
l'arcivescovo "è" perché il diverso
tempo verbale si riferisce alla car-
ica episcopale di Ruggieri, che
perdura nella "seconda vita"): in
effetti Ugolino è un personaggio
chiave della politica toscana del
Duecento. Conte di Donoratico,
di nobile e antica famiglia ghibel-
lina, Ugolino si alleò con Giovanni Visconti, capo dei
guelfi, per proteggere alcuni suoi possedimenti in
Sardegna dalle mire del Comune di Pisa, retto allora
dalla parte guelfa. Per questa sua ambiguità politica
venne bandito una prima volta da Pisa, ma vi rientrò
nel 1276 con l'aiuto di Firenze e della lega guelfa. Da
allora egli fu tra coloro che di fatto diressero la politica
cittadina e forse guidò anche la flotta nella battaglia
contro Genova. Dopo la sconfitta della Meloria (1284)
egli divenne podestà di Pisa, mentre Genova, Firenze
e Lucca si stavano coalizzando contro Pisa: per
rompere il blocco compatto degli avversari, troppo po-
tente per essere contrastato dalla sola Pisa, egli fece
passare dalla sua parte Lucca e
Firenze cedendo loro alcuni
castelli alle città rivali, inde-
bolendo i confini, ma tutto som-
mato riuscendo a salvare la
situazione. Nel 1285 si alleò con
Nino Visconti, nipote di Giovanni,
anche se presto tra i due nac-
quero alcuni dissidi circa i
possedimenti sardi. Nel 1288
tornarono a Pisa i prigionieri della
Meloria e, coalizzatisi attorno al-
l'Arcivescovo Ruggieri degli Ubal-
dini, capeggiarono una rivolta
popolare contro il Visconti, durante un'assenza di
Ugolino: tornato immediatamente in città una nuova ri-
volta aizzata da Ruggieri lo fece catturare e impri-
gionare nella torre della Muda, dove venne lasciato
morire di fame assieme a due suoi figli adulti e due
nipoti, di quali uno solo adolescente. Dante riprende le
mosse dalla storia e però propende per il tradimento
dell'Arcivescovo, che avrebbe fatto rientrare Ugolino a Pisa con le
lusinghe di una riconciliazione. Inoltre, per un maggior rilievo
drammatico, immagina che i quattro prigionieri con Ugolino siano
tutti suoi figli e adolescenti. Del perché di questa scelta narrativa
riparleremo più avanti.
Il racconto di Ugolino all'Inferno quindi inizia premettendo che il
racconto verterà su come la morte mia fu cruda, così che Dante
possa valutare poi se è giusto o no che roda il capo di Ruggieri.
La storia inizia in medias res, perché Dante toscano ormai
dovrebbe ben conoscere come egli fu arrestato a tradimento e
imprigionato, ma nessuno, dice Ugolino, sa cosa successe vera-
mente in quella torre.
La narrazione si avvia quindi "cinematograficamente", inquad-
rando la finestrella della Torre della Muda, che da Ugolino prese il nome di "Torre della fame", ed entrando nella
stanza dei prigionieri, dove Ugolino guarda ormai la luna da molte notti. Una di queste ha un sogno che del fu-
turo mi squarciò il velame (la violenza dell'espressione del v. 27, può indicare la durezza del colpo che esso rap-
presentò per Ugolino) e che è il preludio della vicenda: l'arcivescovo era a capo di una battuta di caccia sul
Monte di San Giuliano (il monte che copre Lucca alla vista dei pisani) cercando il lupo e i suoi lupicini (che sim-
boleggiano Ugolino e i suoi figli e rappresentano qui delle prede, ma anche animali a loro volta pericolosi), con
cagne magre, ammaestrate e fameliche (il popolo, smagrito dalla povertà) e guidano la battuta i Gualandi, i Sis-
mondi e i Lanfranchi, importanti famiglie di Pisa; presto i lupi sono stanchi e i cani li raggiungono ferendoli ai fi-
anchi con i denti aguzzi.
Il giorno dopo Ugolino sente piangere i figli e li sente chiedere del pane: il racconto è interrotto da un rimprovero-
sfogo di Ugolino che dice a Dante (ma anche al lettore) che è ben crudele se già non prova dolore per quello
che stava per accadere: dopotutto se non piange per questo, per cosa è solito piangere? In fondo ancora
Ugolino non ha detto niente di terribile, ma queste interruzioni aumentano un senso di aspettativa tragica e sot-
tolineano il grande crescendo dell'episodio.
Nell'ora in cui di solito veniva portato il cibo però, egli sentì chiavar l'uscio (più che chiuder a chiave si intende
"inchiodare", chiudere coi chiavelli) dell'orribile torre; in silenzio Ugolino guarda in viso i figli, e il suo sguardo
doveva essere già pieno di disperato strazio perché Anselmuccio dice : "Tu guardi sì, padre! che hai?"; ma
Ugolino non risponde nemmeno, incapace di parlare e di
lacrimare. Passa un intero giorno e una notte e un giorno
ancora (notare la scansione che dà l'idea dell'immobilità nel
lento trascorre del tempo): un raggio di sole gli mostra
come la sua disperazione e magrezza siano dipinte, come
in uno specchio, sui volti dei figli e per il dolore Ugolino si
morde le mani. In questo passo si rivela già come Ugolino,
estraneo a qualsiasi forma di pentimento o di spiritualità, si
sia di fatto già trasformato in quella sorta di pietra vivente,
che sarà il suo castigo nel Cocito gelato.
Al che, credendo che lo facesse per la fame, si alzarono i
figli e gli offrirono di mangiar piuttosto loro, di spogliare
quelle carni che lui aveva fatto: si calmò poi per non rattris-
tarli, e quel giorno ancora e l'altro rimasero muti. Di nuovo
un'invettiva che segna una pausa e prepara al successivo
capitolo della tragica narrazione:"Ahi dura terra, perché non
t'apristi?"
Al quarto giorno, Gaddo si gettò ai piedi di Ugolino, invocando aiuto, e così morì; e così vide cascare gli altri tre
uno a uno tra il quinto
giorno e il sesto, dopo di
che Ugolino già cieco, si
mise a brancolare sopra
ciascuno invocandoli con
strazio; poi, più che 'l
dolor, poté 'l digiuno. Su
quest'ultimo verso alcuni
hanno letto la confessione
di cannibalismo, anche se
confrontandolo con il resto
delle parole del Conte
sembra più logico inter-
pretarlo come il fatto che
più che dal dolore egli
venne ucciso dalla fame.
Commentatori come
Francesco De Sanctis e
Jorge Luis Borges
(quest'ultimo nel saggio
dantesco intitolato "Il falso
problema di Ugolino")
hanno ipotizzato che l'e-
spressione sia, in certa
misura, deliberatamente
ambigua e "oscura", sti-
molando l'immaginazione
del lettore, insinuando il
dubbio e l'incertezza su
quanto avvenne per ren-
dere il verso più miste-
rioso e suggestivo.
Allora Ugolino smette di
parlare, storce gli occhi
nel guardare Ruggieri e
con violento odio riprende
a mordere il teschio mis-
ero, coi denti forti come
quelli dei cani: si chiude in
questa maniera smaccata-
mente orrorifica il racconto
in prima persona più lungo
dell'Inferno e Dante, nella
parabola dall'incontro con
i due peccatori a ora, ha
descritto i motivi di quell'o-
dio che adesso sembra
quasi giustificare il supple-
mento di pena verso l'ar-
civescovo, che nel
frattempo è rimasto muto
e immobile come un
sasso. Nella sua insazia-
bilità e nel continuo ripro-
porsi del suo dolore anche
Ugolino vive così un rin-
caro della sua pena infer-
nale.
Invettiva contro Pisa - vv. 79-90
Dante si lancia allora in una violenta invettiva contro
Pisa, richiedendo, con un adynaton, una distruzione
apocalittica della città, visto che i suoi vicini sono
troppo lenti, con il muoversi
delle isole di Capraia e Gorg-
ona che, in una scena di
sapore biblico, chiudano la
foce dell'Arno facendo inon-
dare la città "sì ch'elli annieghi
in te ogne persona!".
Pisa è infatti colpevole di aver
rinnovato i delitti per cui era
famosa Tebe imprigionando,
insieme al conte che era pure
colpevole della cessione dei
castelli, anche i figli, innocenti
per l'età novella.
La Tolomea: i traditori degli
ospiti - vv. 91-108
Dopodiché Dante e Virgilio proseguono il cammino
penetrando nella terza zona del nono cerchio, la
Tolomea (dal re Tolomeo che uccise l'ospite Pompeo). I
peccatori qui sono tutti riversati, cioè forse supini; il
loro pianto non è possibile perché le lacrime si conge-
lano sugli occhi creando uno schermo come di
cristallo, che non fa uscire le lacrime, ma anzi le risp-
inge nei loro corpi facendo ac-
crescere il loro dolore, privo
anche di questo basilare sfogo.
E sebben Dante ritenesse il
suo viso insensibile e duro
come callo per via del freddo,
egli crede di sentire alquanto
vento, che lo spinge a chiedere
spiegazioni a Virgilio (infatti
nell'Inferno non hanno valore
le leggi fisiche della terra, non
circolano i vapori e quindi non
si hanno venti e piogge). Ma
Virgilio lì per lì non risponde,
rinviando a quando sarà "l'oc-
chio" a vedere da solo la
risposta: in realtà si tratta solo
di un'anticipazione per preparare il lettore all'ap-
parizione di Satana (nel canto successivo si vede che il
vento è prodotto dal movimento delle ali di Lucifero).
Frate Alberigo, Branca Doria - vv. 109-150
Mentre procedono, un'anima, che forse li ha
scambiati per due peccatori dell'ultima fascia
in direzione del loro luogo di supplizio, li
chiama chiedendo che rimuovano il ghiaccio
dai suoi occhi, per permetterle di piangere un
po': ma Dante risponde che lo farà se essa si
presenta, e possa egli scendere fino in fondo
all'Inferno se non rispetta il patto (frase più
che mai ambigua, visto che Dante dovrà an-
darci comunque).
Risponde dunque l'anima di essere frate Al-
berigo, quello della "frutta del mal orto" (che
fece uccidere i commensali dando ai sicari
come segnale l'ordine di portare la frutta), a
cui qui viene reso pan per focaccia (v. 120,
"dattero per figo"). O vuole forse intendere
che deve rendere un 'dattero', più prezioso,
per aver rubato un semplice 'fico', meno im-
portante, e quindi che paga una pena mag-
giore della colpa? E allo stupore di Dante che
lo crede vivo, risponde che è un vantaggio (in
senso sarcastico) della Tolomea: i dannati che
tradiscono il sacro vincolo dell'ospitalità vi pre-
cipitino prima che Atropo (una delle tre
Parche) tagli il filo della vita, non appena
commesso il peccato, mentre un diavolo fa
stare in vita i corpi fino alla fine. Sulla spie-
gazione di questo meccanismo, che tra l'altro
esclude la confessione, il pentimento e la re-
denzione successiva possibile per qualsiasi
cristiano, non c'è nessun accenno nella teolo-
gia medievale né negli scritti dei padri della
chiesa. Pare che Dante l'abbia concepita ispi-
randosi al Vangelo di Giovanni quando si dice
che subito dopo che Giuda Iscariota tradì
Gesù, ingoiando il boccone che lo indicava ai
soldati del sommo sacerdote (e quindi vi-
olando la sacralità conviviale), Satana entrò
dentro di lui immediatamente. Inoltre permette
a Dante di citare persone ancora vive nel
1300.
Continuando il racconto, Alberigo, perché
Dante sia più soddisfatto e gli tolga le lacrime
gelate, aggiunge che l'ombra dietro di lui è
Branca Doria e che è ormai lì da molti anni:
Dante si stupisce perché lo conosce ancora in
vita ("Branca Doria non morì unquanche, / e
mangia e bee e dorme e veste panni"), ma Al-
berigo gli dice prima che morisse Michele
Zanche, da lui assassinato, il barattiere che
bolle nella pece con i Malebranche (allusione
a quanto descritto nel Canto ventiduesimo),
egli venne sostituito nel corpo da un diavolo,
così come un suo parente colpevole dello
stesso crimine. Con insistenza Alberico
chiede per la terza volta di aprirgli gli occhi;
ma con la solennità data dalla netta cesura a
metà del verso 149, Dante dice: E io non
gliel'apersi. La cortesia (cioè un atto moral-
mente retto) con lui fu esser villano: Dante
cioè è ormai maturato da quando Virgilio lo
rimproverò nel canto XX per le lacrime vane
per le pene dei dannati: egli è pienamente
cosciente della giustizia divina e prende le
distanze da coloro che ne hanno attirato l'ira
e in coerenza con il loro agire da traditori
evita di offendere Dio procacciando sollievo
a un dannato. Nello stravolgimento dei
valori che regna nell'Inferno la pietà consiste
nel non avere pietà.
___________________________________
Invettiva contro Genova - vv. 151-157
Il canto si conclude con una seconda invet-
tiva, questa volta contro i genovesi come
Branca Doria (uomini diversi / d'ogne cos-
tume e pien d'ogne magagna): possano essi
essere del mondo spersi, poiché un loro
concittadino si trova lì nel Cocito, insieme al
peggiore dei romagnoli, mentre nel mondo
quest'ultimo pare ancora vivo.
Le invettive contro città non sono infrequenti
nell'Inferno e sono provocate dal sentimento
di sdegno del poeta nei confronti di dannati
particolarmente riprovevoli: oltre a quella
contro Pisa in questa stessa cantica vi è
quella contro Pistoia (XXVI) e quella contro
Firenze (XXVII).