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Dedica A mio padre. A Emilio Alessandrini, indimenticabile compagno di ideali. Agli amici e colleghi Luigi Calabresi, Boris Giuliano, Antonio Cassarà, Antonio Esposito, Angelo Giacobelli, Giuseppe Pandiscia e a tutti quei poliziotti che hanno sacrificato la propria vita per rendere più tranquilla quella di tutti e per tutelare le Istituzioni democratiche del Paese. Un pensiero va alle famiglie che piangono in dignitoso silenzio il loro sacrificio supremo. Possa un giorno la domanda muta che sale dagli occhi dei figli trovare una risposta di verità e giustizia. Per tutti.

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Dedica

A mio padre. A Emilio Alessandrini, indimenticabile compagno di ideali. Agli amici e colleghi Luigi Calabresi, Boris Giuliano, Antonio Cassarà, Antonio Esposito, Angelo Giacobelli, Giuseppe Pandiscia e a tutti quei poliziotti che hanno sacrificato la propria vita per rendere più tranquilla quella di tutti e per tutelare le Istituzioni democratiche del Paese. Un pensiero va alle famiglie che piangono in dignitoso silenzio il loro sacrificio supremo. Possa un giorno la domanda muta che sale dagli occhi dei figli trovare una risposta di verità e giustizia. Per tutti.

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Presentazione

Appaiono spesso nelle vetrine dei librai opere di vario genere che trattano della criminalità organizzata, ne descrivono gli attori principali, ne raccontano le imprese sempre più clamorose, o scandagliano il mondo del sottosuolo dei drogati, degli emarginati, della prostituzione, sollecitando in tal modo la curiosità morbosa del lettore. Ma che cosa sappiamo di coloro che si trovano sullo stesso fronte, ogni giorno, spesso oscuramente, senza tanto clamore, dall'altra parte, dalla parte dei pubblici poteri che hanno il compito di garantire la sicurezza dei cittadini, di far rispettare le leggi, di rendere possibile la pacifica convivenza di uno stato democratico? Sappiamo poco o nulla. Questo libro, che ho letto con interesse e simpatia, del dottor Ennio Di Francesco ci offre una conoscenza diretta di questo mondo così importante nella nostra vita quotidiana e pur così poco conosciuto. L’autore ha voluto rendere pubblica testimonianza della propria esperienza non comune di commissario di polizia, un’esperienza protrattasi per molti anni in diverse città d’Italia e anche fuori del nostro Paese, e ha il merito di averla raccontata con vivacità, con tanti particolari riguardanti fatti, luoghi, persone, e con la passione di chi si e dedicato con serietà e convinzione al proprio lavoro. La testimonianza ci permette di seguirlo in un lungo percorso che va dalle prime prove presso la Questura di Genova sino al momento in cui e chiamato alla Segreteria Generale dell’Interpol a Parigi (dove qualche anno fa ci siamo conosciuti), attraverso vari servizi a Roma presso l’Ispettorato generale per l’azione contro il terrorismo, e presso la Sezione Narcotici, e quindi di conoscere da vicino piccole e grandi vicende, di cui abbiamo avuto notizia dai giornali, storie di piccola criminalità quotidiana, da un lato, di protagonisti della grande delinquenza, saliti all’onor della cronaca, dall’altro.

Al racconto delle azioni compiute nell’esercizio della propria funzione, l’autore intreccia quella dell’opera coraggiosa e appassionata, svolta in prima persona, per la democratizzazione del Corpo di Polizia, attraverso la smilitarizzazione, la riforma ed il sindacato. E' la storia di una battaglia democratica, condotta con energia e determinazione se pure in mezzo a mille difficoltà, che conosce momenti di grande tensione, scontri fra diverse e opposte posizioni, speranze e delusioni, e ci fa assistere ad animati dibattiti di assemblee, incontri con uomini politici, dei quali alcuni favoriscono, altri frenano il processo di trasformazione: una pagina interessante di storia recente che qui e vista da chi l’ha vissuta dall’interno, e ce ne offre una viva, spesso anche amara, testimonianza. Non dubito che molti saranno coloro che leggeranno il libro con quello stesso interesse e quella stessa simpatia con cui l’ho letto io. Ottobre l990

Norberto Bobbio

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N ulla è cambiato

Mi sembrava che lo sguardo dolce e fermo del vicequestore della Squadra Mobile di Palermo Antonio Cassarà, ”Ninni” per gli amici, fosse dappertutto in quella serata umida d’agosto. Ci eravamo incontrati poche settimane prima nel luglio ’85, ad Isola delle Femmine, vicino a Palermo, al convegno del SIULP, il nostro sindacato di polizia. Nell’elegante hotel vicino al mare erano convenuti da numerose città di Italia duecento poliziotti, molti in aereo e con tanto di permesso ministeriale. Erano lontani i tempi in cui in pochi, sacrificando giorni di ferie, viaggiando a nostre spese, mangiando un panino alla buona, ci riunivamo di nascosto, come carbonari, per discutere con passione del sindacato da costruire e della riforma di polizia. «Naufragio a Isola delle Femmine»; così Franco Fedeli, il giornalista che da sempre seguiva la nostra lotta, avrebbe definito quel convegno costato più di mezzo miliardo. Tranne il senatore Sergio Flamigni, sempre puntuale e attento, gli altri politici di rango, presenzialisti del passato, si erano limitati a inviare funzionari di partito che burocraticamente prendevano note. Non c’era nessuno di quelli che da anni si battevano in prima linea contro la mafia: Giovanni Falcone, Elda Pucci, il cardinale Pappalardo...non erano stati neppure invitati. Il convegno si era svolto in un clima pigro e vacanziero. Nella grande sala semivuota di delegati, più attratti dalla fresca piscina che dal dibattito in corso, avevo denunciato la solitudine in cui erano stati lasciati i poliziotti di Palermo. Al termine dell’intervento, Ninni, amico e collega di delicate indagini, venuto per l’occasione, mi aveva stretto la mano ringraziandomi. Poi era corso nuovamente al suo duro lavoro.

Di lì a un mese, il 6 agosto, trecento colpi di kalashnikov avrebbero fermato per sempre in una pozza di sangue quel giovane vice questore e un suo inseparabile agente. La mafia non poteva più tollerare l’intelligenza e l’audacia con cui stava ricomponendo il mosaico di corruzione, delitti di sangue e connivenze. Già ai tempi del processo per l’omicidio del giudice Rocco Chinnici le minacce contro di lui, accusatore di personaggi intoccabili, erano diventate inequivocabilmente concrete. Noi avremmo saputo ciò soltanto in seguito. Il Ministro dell’Interno, il Capo della Polizia e lo stesso vertice sindacale erano già al corrente di questo annunciato destino di morte. C’era stata persino una corrispondenza burocratica al riguardo. «Il grave stato di isolamento in cui e venuto a trovarsi il collega Antonio

Cassarà evidenzia quanto difficile e drammatica sia la lotta alla mafia. Siamo

convinti che siano stati predisposti tutti gli strumenti idonei a tutelare la vita del

collega e dei suoi familiari», aveva scritto Francesco Forleo, segretario nazionale del SIULP, in una lettera dell’aprile ’84 ai responsabili del Viminale. «N on gli era

stata messa neppure una camionetta, una sola guardia sotto casa», avrebbe denunciato pubblicamente in una lettera ad un quotidiano Saveria Antiochia, la madre dell’agente falciato dalla stessa raffica di mitra. Roberto Antiochia, poliziotto della Mobile palermitana, aveva suggellato con il sangue la sua straordinaria storia di amicizia e professionalità. Da poco trasferito a Roma aveva preso giorni di ferie per correre nuovamente al fianco di Cassarà. «Mio figlio e

morto nel disperato tentativo di dare al suo superiore e amico la protezione che

altri avrebbero dovuto dargli in ben diversa misura, sapendo quanto preziosa fosse

la sua opera e in quale tremendo pericolo la sua vita», continuava quell’implacabile lettera.

Da Genova mi aveva subito informato di quel massacro l’amico Manlio Di Salvo, giornalista del «Secolo XIX»: stava partendo per Palermo. Dal mio ufficio dell’Antidroga a Roma avevo cercato di mettermi in contatto con qualcuno della Segreteria nazionale del sindacato. Invano, erano tutti in vacanza. Pensavo ai poliziotti palermitani più soli che mai, pieni di dolore e di rabbia per i colleghi uccisi, ma forse anche di rimorsi e di panico per gli errori commessi. Mai come in quell’estate maledetta la Polizia aveva conosciuto momenti così cupi. Lo spietato

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omicidio mafioso del giovane commissario Giuseppe Montana, mandato quasi allo sbaraglio a Palermo subito dopo la Scuola di Polizia, e poi le mortali violenze in Questura sul giovane Salvatore Marino, il pregiudicato sospettato del delitto, erano stati gli anelli precedenti di quella tragica catena di sangue. Qualche giorno dopo avevo rintracciato Forleo nella sua abitazione a Genova offrendomi di accompagnarlo a Palermo. «Va bene, ti avviserò», era stata la risposta. Avevo anche telefonato al questore Alfonso Noce, della Segreteria del Capo di Polizia, mettendomi a disposizione: «Grazie Di Francesco, ne terremo conto». Poi, il silenzio. Non mi ero meravigliato. Una impenetrabile cappa di emarginazione sembrava avvolgermi da quando, mesi addietro, l’Amministrazione mi aveva fatto rientrare dalla Francia, dove da anni prestavo servizio presso il Segretariato Generale dell’Interpol come ufficiale di collegamento europeo nel settore antidroga.

Il 7 agosto, al Duomo di Palermo durante i funerali di Cassarà e Antiochia, le alte Autorità del Viminale, protette da un esitante servizio d’ordine, avrebbero voluto fuggire lontano, prima dalla rovente omelia del cardinale Pappalardo e poi dagli sputi e dalle urla di sdegno dei poliziotti. A esse era pure destinato il glaciale saluto con cui Saveria Antiochia concludeva la sua lettera: «Eccellenze, se foste state

meno preoccupate della vostra incolumità avreste potuto sentire in chiesa la voce

di mio figlio Roberto dalla sua bara. E ora andate pure a dormire tranquillamente

recitando le vostre preghiere».

Da allora erano trascorsi due mesi. Scoraggiato e stanco, affacciato alla balaustra del Circolo di Polizia sul Tevere, guardavo l’acqua limacciosa scorrere lenta. Sentivo svanire in una melma di equivoci, inganni, disinteresse, scontri di potere, gli ideali di tante lotte e speranze per una Polizia diversa, migliore. Nulla sembrava cambiato da quel lontano maggio l972, quando dinanzi alla Questura di Milano avevo portato a spalle con pochi colleghi la bara del commissario Luigi Calabresi, anch’egli ucciso sotto casa con morte annunciata. No, non era cambiato nulla. Attraverso lo schermo delle lacrime vedevo scorrere nel fiume scuro ed eterno episodi della mia avventura, esaltante e amara, di commissario di Polizia.

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I. Genesi di un poliziotto

Cromosoma professionale

Entrare in Polizia era stata per me una scelta di vita. Più o meno inconsciamente realizzavo questa promessa d'impegno che mi era nata dentro da quando, ancora fanciullo, gli occhi pieni di sonno, aspettavo fino a tarda sera che papà tornasse a casa. Era sottufficiale dei Carabinieri. La sua divisa mi affascinava: il berretto dalla fiamma d'argento, il cinturone con la pistola nel fodero, la giacca blu con le mostrine sul petto. Spiavo i suoi gesti, lo sentivo parlare con la mamma che riscaldava una cena sovente ormai fredda. Le sue parole alimentavano in me sogni di avventura e di infantile giustizia. Mi addormentavo talora aspettando e lo rivedevo solo dopo giorni giacché partiva sempre di buon’ora al mattino con la sua bicicletta scura. Io e miei fratelli eravamo cresciuti all’ombra di questo rituale, in una non certo agiata vita di famiglia, seguendo il duro itinerario di nostro padre che, di trasferimento in trasferimento tra sperduti paesi della Calabria prima e in Abruzzo poi, era divenuto vecchio di anni e di medaglie. Con questo esempio la strada era fatalmente tracciata. Quante volte poi, ai tempi del liceo a Pescara, avevamo fantasticato e discusso tra compagni di classe del nostro avvenire professionale. In diversi eravamo già intenzionati a seguire la via dell'impegno sociale nel campo della legge: i più in Magistratura, io, caparbiamente, in Polizia.

Quattro sarebbero divenuti giudici impegnati. Tre lo sono ancora: Angelo Angelini a Pescara, Laura Bertole a Milano e Vito Zincani a Bologna.

Emilio Alessandrini, sarebbe caduto sotto il colpi dei terroristi di ”Prima linea”, in una grigia via di Milano.

Ufficiale dei Carabinieri

Nel ’65, dopo la laurea in legge all'Università di Genova, era stato per me un punto d’onore vincere il concorso per prestare il servizio di leva come ufficiale dei Carabinieri. Mi ero qualificato primo al corso di formazione presso la Scuola di Applicazione dell’Arma. Era stato il più bel regalo fatto a mio padre. Avverto ancora oggi la sua gioia e la sua commozione nel giorno in cui tornai per la prima volta in licenza a Pescara, indossando la scintillante uniforme. Papa era venuto a ricevermi con alcuni suoi collaboratori che mi avevano visto ragazzo. Sembrava quasi la parata per un generale. Aveva bloccato il mio abbraccio, irrigidendosi in un saluto impeccabile alla visiera, con un secco schioccare dei tacchi. «Comandi,

Signor Tenente!». Soltanto dopo la mia analoga, imbarazzata risposta, mi aveva abbracciato commosso: «E adesso non darti delle arie, guagliò!». Eravamo tornati a casa camminando l’uno accanto all’altro, mentre lui salutava con sussiego e larghi sorrisi la gente del popolare quartiere dove vivevamo. Povero papà. Grazie all’amicizia del medico fiscale, da anni nascondeva, per non esser riformato d’ufficio, i gravi problemi di un cuore ormai stanco. L’impegno nell’Arma era più importante della sua salute. E poi non poteva perdere, andando in pensione, le ”indennità d’istituto” tanto preziose per l’economia della famiglia.

Sarei rimasto quasi tre anni nell’Arma, dal ’66 al ’68, girando l’Italia da nord a sud, in un susseguirsi di esperienze che avrebbero segnato la mia formazione professionale. Dapprima ero stato mandato a Genova, presso il Battaglione Meccanizzato. Le caserme erano ricavate da vecchie grotte del Forte San Giuliano, una rocca medioevale su un alto promontorio slanciato verso il mare. Talora, di notte, durante il turno di ispezione alle sentinelle, mi soffermavo nell'ampio piazzale sentendomi come un moderno crociato su un imprendibile bastione. Al fruscìare della bandiera battuta dal vento, le sagome scure dei carri armati alle spalle, scrutavo la sconfinata distesa del mare dove luci di navi scivolavano lontano. La vita del forte, tra marce e squilli di tromba, era scandita da ritmi militari. Mi adeguavo con zelo, ma la sentivo estranea. Qualche volta, ed era un avvenimento, venivamo mandati in ordine pubblico in ausilio alle forze territoriali di Polizia. Ci si confrontava allora con una realtà aspra e contraddittoria. Durante le

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partite allo stadio imparavo a sentire l'animo della folla tra i silenzi pieni di tensione, le grida strozzate in gola, l’urlo del goal. Oppure a volte in piazza restavo interdetto dinanzi agli slogan urlati al ritmo dei pugni agitati da studenti, da metalmeccanici in tuta o massicci operai dei cantieri. Nel novembre del ’66, in occasione di un comizio dell’onorevole Raffaele Delfino del Movimento Sociale visto come una provocazione in quella città medaglia d’oro della Resistenza, sperimentai il cocktail di rabbia, violenza e paura che è lo scontro di piazza. Si era scatenata una vera guerriglia: sbucando all’improvviso dai vicoli dell’angiporto dimostranti dai volti coperti scagliavano sassi e bottiglie incendiarie contro i reparti raccolti sotto i portici delle adiacenti vie principali. La battaglia durò sino a notte inoltrata. Avevo visto poliziotti e carabinieri cadere sanguinanti e un capitano rimasto isolato che veniva ripetutamente immerso, fino quasi a soffocare, nella fontana di piazza De Ferrari. Ero riuscito ad arrestare alcuni scalmanati che continuavano a infierire su un carabiniere semisvenuto. Per questo intervento, che mi aveva procurato una ferita alla fronte, il Comando Generale mi aveva insignito poi di un encomio solenne. Capìi in quel drammatico battesimo di piazza la delicatezza di tali battaglie. Alcuni tra i fermati avevano ben poco in comune con la classe operaia, ma sembravano soltanto ambigui provocatori.

L’unico approccio alla vera polizia giudiziaria fu il mese di ”esperimento” che ogni giovane ufficiale deve compiere presso un “reparto territoriale”. Assegnato alla Compagnia di Genova Centro, ebbi modo di ricevere insegnamenti preziosi da un valoroso e saggio ufficiale, il capitano Emanuele Tuttobene. Alcuni anni dopo, mentre rientrava a casa, sarebbe caduto, assassinato insieme all’appuntato autista Antonio Casu, sotto il fuoco incrociato delle Brigate Rosse. Tornato al Battaglione, dopo qualche mese, ero stato inviato in missione speciale in Alto Adige. Ne fui sorpreso, giacché ero il più giovane degli ufficiali e certo il meno esperto per il delicato incarico di comandante di un plotone antiterrorismo in quella zona già colpita da gravi attentati. Quell’improvviso trasferimento era forse da mettere in relazione con lo zelo che ponevo nell’incarico di controllo alla mensa, un compito amministrativo svolto a turno dai vari ufficiali? Da tempo i numerosi carabinieri ausiliari, obbligati a mangiare in caserma, si lamentavano della scarsa qualità e quantità del vitto. Volendo rendermi conto della situazione, mi ero rifiutato di firmare alla buona le ordinazioni e le fatture che il sottufficiale, da anni addetto a quel servizio, mi sottoponeva. Avevo preteso di accompagnarlo nei giri di spesa con l’intenzione, se necessario, di cambiare i fornitori. Già una volta il colonnello che comandava il Battaglione mi aveva invitato con circonvolute perifrasi a essere meno scrupoloso. Comunque fosse, alle cinque del mattino di una piovosa giornata di febbraio del ’67, con cinquanta carabinieri ausiliari, a bordo di due campagnole e cinque camion, eravamo partiti in assetto di guerra, salutati da squilli di tromba sotto il suo sguardo austero.

Sarebbe stata una breve missione, ci era stato assicurato. Saremmo tornati solo dopo sei mesi di isolamento tra i monti al confine italo-austriaco. Dopo un viaggio estenuante eravamo arrivati, nel cuore della notte, in una Vipiteno nevosa e surreale. Un motociclista ci attendeva per guidarci, attraverso una strada d'inferno, verso la meta finale: un casolare isolato nel bosco nei pressi di Mareta, uno sperduto paese tra i monti. Quell’avamposto poteva ospitare al massimo una trentina di persone. Mancavano letti e coperte e il nostro equipaggiamento era assolutamente inadeguato. Telefonai al tenente Boscarato, comandante del reparto di Vipiteno. Il tono dovette essere convincente: avrebbe subito inviato brandine, coperte, giacche a vento e scarponi. Restammo in attesa, guardando sgomenti i bagliori spettrali di quelle cime innevate.

Sarebbe stata un’esperienza eccezionale dal punto di vista professionale e umano. I primi tempi furono veramente duri. Mancava persino il cuoco. Per fortuna dopo una settimana di mortadella e formaggio, un carabiniere, pur di non uscire in pattuglia, si offrì per questo incarico forse non meno rischioso per tutti. Dopo una prima fase di preoccupata sperimentazione, rivelò il suo estro culinario. Ogni

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giorno si ponevano problemi nuovi di sicurezza, disciplina, convivenza. I rapporti con i pochi abitanti del luogo, tra cui diversi austeri schutzen, erano di reciproco, sospettoso distacco. Solo un aitante brigadiere fischiettava andando a prendere il latte per tutti nel maso più vicino: aveva trovato sollievo, confidava invidiato, alla fredda solitudine in una teutonica contadina dall’indefinibile età.

Il servizio da svolgere era pesante e rischioso. Ogni mattina due squadriglie, armate di mitragliatori leggeri, uscivano in perlustrazione verso il confine per due o tre giorni, dormendo all’addiaccio nei sacchi a pelo. Gli attentati divenivano sempre più frequenti ed ero preoccupato per quei soldati certo non professionisti. A ragione: un anno dopo a Cima Vallona sarebbero stati uccisi in un agguato cinque militari di un altro reparto. In breve tempo ci affiatammo. Coadiuvato da bravi sottufficiali, divenni un po’ il loro fratello maggiore.

Poi giunse la primavera e la valle divenne splendida di colori. Il piccolo paese si animò di turisti. I rapporti con la popolazione divennero meno distaccati. Dopo sei mesi trascorsi restando completamente ignorati, mi decisi a scrivere al comandante del Reggimento Meccanizzato di Roma, il generale Marasco. Non passarono dieci giorni che lasciammo quei posti col cuore pieno di sensazioni diverse. Accolti quasi come eroi, rientrammo al vecchio Forte San Giuliano. Il comandante era ”in ferie” e l’anziano capitano Roatta ne faceva le veci. Avrei saputo che nel frattempo un’inchiesta era stata riservatamente avviata dal Comando Generale dell’Arma sulla gestione logistica del Battaglione. Sembrava che carabinieri ausiliari usciti formalmente per esercitazione di tiro, si trasformassero subito dopo in muratori per costruire la villetta di un alto ufficiale. Sembrava inoltre, dai registri di scarico del carburante, che i carri armati, così pigramente inerti sul forte, avessero corso come ai tempi di El Alamein.

Il mio sollievo durò ben poco. Dopo appena due settimane il comandante in seconda mi notificò l’ordine di trasferimento a Siracusa quale responsabile del Reparto Operativo del Gruppo. Dopo un viaggio interminabile, arrivai in quella bella città piena di contraddizioni e storie antiche. Unico scapolo di tre ufficiali, privo di amici nel nuovo ambiente, mi tuffai nelle indagini di polizia giudiziaria. D’altro canto, rapine, estorsioni, furti e persino abigeati non mancavano. Imparai molte cose. Da quasi tutti i sottufficiali del nucleo investigativo ricevetti ammaestramenti preziosi. Sentìi sulla pelle il gelo della paura quando una notte in perlustrazione tra Lentini e Francofonte numerosi colpi di fucile sibilarono sulle nostre teste. Chissà quale criminoso convegno avevamo disturbato! Vidi da vicino l’orrore della lupara quando in una capanna sui monti scoprimmo il cadavere decomposto di un pastore. Vermi e mosche si azzuffavano famelici su quel che restava di una faccia maciullata dai pallettoni. Mi vergognai al pensiero che il vecchio appuntato, rimasto solo con me in attesa del magistrato, mentre la notte scendeva, vedesse il pallore del mio viso ed intuisse quanta voglia avevo di fuggire lontano.

Non avrei rimpianto questo periodo quando, verso la fine dell’anno, venni trasferito alla Legione di Catanzaro quale terzo ufficiale di un reparto costituito in occasione dello storico processo del ’68 contro l’«onorata società». In forza della legge antimafia del ’65 approvata dopo la strage di Ciaculli, quando nel corso della guerra tra le cosche dei Greco e dei La Barbera una Giulietta imbottita di tritolo aveva dilaniato sette militari, erano stati arrestati ben centoquattordici mafiosi. Il processo si sarebbe svolto, per ”legittima suspicione”, presso la Corte d’Assise di Catanzaro. Quella Compagnia Speciale comandata dal capitano Zumbo, estroverso e coraggioso funzionario del “nucleo investigativo” di Palermo, era formata anche da un altro ufficiale, il tenente Caforio e da duecento carabinieri provenienti da tutta Italia. Bisognava garantire la sicurezza di giudici e detenuti e il buon andamento di quel primo grande tentativo giudiziario di reagire contro la mafia. Ogni mattina un corteo di dieci cellulari e numerose gazzelle, dopo aver prelevato i detenuti dalle carceri, attraversava la città a sirene spiegate fino all’aula di

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giustizia, allestita per l’occasione nella palestra di un liceo. Qui i presunti mafiosi, divisi in gruppi di sangue sulla base dei rapporti giudiziari, prendevano posto in due enormi gabbioni. C’era tutto il gotha delle ”famiglie” palermitane, dai Rimi ai Cavataio, dai Sorce ai Prestifilippo. Nella prima gabbia primeggiava la figura di ”don” Angelo La Barbera. Nessuno avrebbe potuto mai immaginare che quel distinto signore dagli occhiali dorati, in principe di Galles, avesse freddamente deciso chissà quanti omicidi. Affiancato dal suo fedele guardaspalle Stefano Giaconìa, se ne stava immobile in distaccato silenzio. Raramente scambiava qualche parola col suo ”consigliori” don Saro Mancino, un gigante di oltre centoventi chili che, secondo l’accusa, gestiva un importante traffico di eroina dal Libano. Nell’altra gabbia si intravedeva appena, anch’egli protetto dal suo guardaspalle, un minuscolo uomo dal naso adunco e dagli occhi di ghiaccio, ”don” Pietro Torretta, il capo del quartiere di Palermo-Uditore.

L’esperienza fu più istruttiva di un corso universitario di criminologia. Durante il processo imparammo a comprendere i discorsi fatti di silenzi, i rituali dei gesti solenni, degli ammiccamenti impercettibili. Assistemmo a lezioni di coraggio, intuito e tecnica investigativa attraverso le relazioni degli inquirenti, dal maggiore Oliva della Guardia di Finanza ai funzionari Madìa e Mendolìa della Mobile palermitana, al capitano Russo dei Carabinieri. Quest’ultimo sarebbe stato trucidato qualche anno dopo nella piazza di Ficuzza, non lontano da Palermo. Di contro furono molte le lezioni di omertà suggellate dagli immancabili «nun sacciu». Rabbrividimmo alla descrizione di spietati omicidi. Ammirammo quella piccola donna coraggiosa, Serafina Battaglia che, avvolta nello scialle nero del lutto, infrangeva per la prima volta il muro dell’omertà urlando il suo odio e la sua implacabile accusa contro gli assassini del marito e del figlio.

Quasi alla fine del processo, nel dicembre ’68, terminò il mio periodo di servizio nell’Arma. Negli ultimi sei mesi ero rimasto da solo al comando della Compagnia, essendo sia il capitano Zumbo che il tenente Caforio rientrati nelle rispettive sedi. L’ultimo giorno il presidente della Corte, Pasquale Carnevale, e il procuratore della Repubblica Bruno Sgromo vollero elogiare pubblicamente il lavoro svolto. Persino ”don” Angelo La Barbera chiese di potermi salutare: «Baciamo le mani, signor

tenente. Forse ancora ci vedremo». Per lui inutile augurio. Lo avrebbero sgozzato qualche tempo dopo nel carcere di Perugia. Anche il suo guardaspalle lo avrebbe seguito su quest’ultima strada; ucciso a pallettoni nelle campagne di Sicilia appena tornato in libertà. La giovane mafia aveva approfittato di quel processo per scalzare posizioni di potere.

Dall’Arma alla P.S. via Intersind

Con l’encomio solenne del Comando Generale per la professionalità dimostrata in occasione di quel primo mega-processo antimafia, si concluse l’insostituibile esperienza di ufficiale dei Carabinieri. Essa aveva confermato la mia vocazione per la lotta al crimine. Ero rimasto affascinato dalla tradizione, dallo spirito di corpo e dall’efficienza organizzativa dell’Arma. Tuttavia, mi ero venuto via via convincendo che avrei potuto forse esprimere meglio tale vocazione in un apparato meno rigidamente militare. Anzi in generale mi sembrava che per l’attività investigativa fosse più congeniale una struttura civile, elastica, scevra da vincoli formali, capace di plasmarsi meglio nel tessuto sociale. Si era rinforzata insomma la mia intenzione di diventare “commissario di Polizia”.

In attesa che venisse bandito il concorso presso il Ministero dell'Interno, partecipai a una severa selezione nazionale presso l’Intersind, l’associazione sindacale-padronale delle aziende Iri, e venni assunto. Uno degli esaminatori era stato il professor Gino Giugni, giurista di cui ammiravo la moderna visione del mondo del lavoro. Dopo alcune settimane di training manageriale a Roma, fui assegnato alla

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delegazione Intersind di Genova. Fu un’esperienza formativa partecipare, in occasione delle contrattazioni sindacali, alle schermaglie dialettiche tra i capi del personale ed i rappresentanti di fabbrica di importanti aziende liguri, dall’Italsider all’Ansaldo.

Non ci volle molto per comprendere che il mio cuore, in quel- l’autunno ’69, batteva dalla parte degli operai. Nel frattempo superai il concorso per vicecommissario. Quando infine, a novembre, giunse l’invito a presentarmi a Roma presso la Scuola Superiore di Polizia per il corso di formazione non ebbi la minima esitazione: dovevo essere funzionario di P.S. Ricordo ancora l’espressione incredula del direttore generale dell’Intersind, Piero Mecucci, mentre ascoltava i motivi che mi avevano portato a tale scelta, facendomi rinunciare a un lavoro ben più tranquillo e remunerato.

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II. Alla Questura di Genova

Primo impatto

Per tutto il viaggio avevamo parlato soltanto del lavoro che ci attendeva coinvolgendo nel nostro entusiasmo due anziani coniugi che malcapitati nel fumoso scompartimento si scambiavano occhiate smarrite.

Nel marzo del ’70, terminato il corso di vicecommissario, eravamo stati assegnati in quattro alla Questura di Genova. Grazie alla buona qualificazione avevo potuto scegliere la sede di servizio: la città dei miei anni universitari. Gli altri tre colleghi, anch'essi meridionali come quasi tutti i poliziotti, avrebbero preferito una sede più vicina alle loro famiglie. Li stavo ancora rassicurando sul carattere solo apparentemente chiuso dei genovesi, quando il treno entro nella stazione di Genova-Brignole. L’anziana signora, quasi a conferma di quelle parole, ci abbracciò augurandoci buona fortuna. Attraversata l'imponente piazza della Vittoria, sovrastata dalle tre caravelle di Colombo disegnate con piante dai colori vivaci, ci apparve la Questura, un severo palazzo littorio con vista sul mare. Varcato il portone penetrammo subito nell’aria pesante che da sempre regna negli ambienti di Polizia. Un appuntato dai capelli grigi seduto dietro un bancone alzò appena gli occhi verso di noi. Eravamo i nuovi funzionari giunti da Roma e dovevamo presentarci al Questore, spiegammo con malcelato orgoglio. Al secondo piano due poliziotti in borghese, intenti a smistare su un tavolo corrispondenza e biglietti di cinema, ci accompagnarono dal Capo di Gabinetto, vicequestore De Longis. Mentre ci passava quasi in rassegna, visibilmente contrariato perché non tutti avevamo la cravatta, osservava ansioso la porta interna del suo ufficio. Al suono di un invisibile campanello ci accompagnò dentro. La scenografia sapeva di potere: poltrone in pelle, ricchi tendaggi, lampadari e quadri severi, magnifiche piante. Da dietro una scrivania piena di telefoni e bottoni un uomo dall’aspetto ieratico si alzò per venirci incontro scivolando silenziosamente sulla moquette marrone. Sulla sessantina, capelli argentei solcati da una riga decisa, portamento eretto, il questore di Genova Giuseppe Rebizzi ci apostrofò con caldo accento siciliano: «La vita del poliziotto è una missione! Dovete essere fieri della scelta

fatta!». Le sue parole si irradiavano così piene di sacralità da far sembrare quasi normale l’atteggiamento del Capo di Gabinetto. Ci comunicò le nostre assegnazioni: uno all’Ufficio politico, due a commissariati di quartiere e io all’Ufficio di Notturna. Dovette aver notato la mia espressione delusa giacché, congedati gli altri, mi invitò a restare. Quell’ufficio, lo sapevo, viene considerato normalmente di serie B, con compiti solo di primo approccio per eventi destinati poi a reparti più prestigiosi: Squadra Mobile, Politica, Gabinetto. La destinazione era temporanea, mi rassicurò: dovevo sostituire alla Notturna un funzionario che stava poco bene. Usciti dalla Questura, ciascuno di noi si mise alla ricerca di un alloggio, problema non facile tenuto conto dello stipendio. Grazie all’interessamento di un maresciallo trovai una camera a buon prezzo presso un’anziana coppia genovese. Mi avrebbero trattato come un figlio.

La N otturna

La sera successiva il mio primo servizio! Avevo impiegato parecchio per riempire una valigetta con ciò che credevo indispensabile: i codici, le manette, la fascia tricolore (per chissà quali esigenze!) e da ultimo, con cura meticolosa, una rivoltella Bernardelli calibro 32, cugina povera della Colt, comprata a rate. Nessuno aveva saputo spiegarmi perché i funzionari di polizia non ricevessero un’arma in dotazione, ma dovessero acquistarla di tasca propria.

Camminavo con apprensione e orgoglio come se tutti avessero dovuto leggermi in faccia l’alto compito che andavo a svolgere. Alle venti in punto, frenando l’impazienza, entrai in Questura, rinfrancato dal saluto del piantone del giorno prima. Gli uffici della Notturna, situati al pian terreno, si componevano di tre

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cameroni comunicanti tra loro, destinati rispettivamente al funzionario, alla ricezione denunce, a una sorta di archivio-ripostiglio. Entrai nella stanza di mezzo richiamato dal ritmato ticchettio di una macchina da scrivere. L’aria già pesante era pressoché irrespirabile per le nuvole di fumo di un sigaro di pessima qualità che un corpulento appuntato in divisa sbuffava intorno. Era intento a battere con due dita, a velocità impressionante, la denuncia di un’elegante signora in pelliccia seduta a prudente distanza. Il camerone era desolante. Alcuni calendari reclamistici tenta- vano vanamente di spacciarsi per quadri. Da una specie di bacheca pendevano, mal sostenute da puntine di vario colore, sbiadite circolari di servizio e vecchie foto di ricercati. Una finestra munita di grata lasciava entrare dai vetri sporchi l’ultimo chiarore della sera che si sommava alla pallida luce diffusa da una lampada polverosa. Su alcune panche sedevano cinque o sei persone, tra cui due bambini spaventati e irrequieti. Tra di loro caracollava un altro appuntato in maniche di camicia. Al centro della sala, dietro un’ampia scrivania dal ripiano una volta verde, un sottufficiale si apprestava dubbioso a rispondere a due telefoni che squillavano insieme. Mi presentai e conobbi i loro nomi: brigadiere Pacciani, appuntati Crobu e Coltella. Si meravigliarono: non erano al corrente che il commissario da me sostituito stesse male.

Rimasto solo, un giro d’orizzonte su quello che sarebbe stato il mio posto di lavoro non mi diede certo conforto. La vecchia scrivania in legno aveva i bordi scuri di grasso. Sopra c’era un solo telefono per comunicare con l’esterno, la sala operativa e i diversi uffici. Davanti due sedie di diverso colore, dietro una poltroncina: tutte male imbottite. Nei mesi successivi avrei dovuto fingere di non notare l’imbarazzo di chi vi sprofondava. La solita inferriata alla finestra priva di vista e dai vetri smerigliati e grigi dava una sensazione opprimente. Qua e là scaffali colmi di vecchi fascicoli. Appesi alle pareti uno stanco crocifisso e il quadro, ben noto ai poliziotti, di San Michele Arcangelo che minaccia con la spada un cattivo ai suoi piedi. Una Madonna del Rosario, personale contributo – seppi poi – dell’altro collega di Notturna, Carassale, completava quel trittico. In un angusto vano ricavato nella stanza era sistemato un materasso con due avvilenti coperte di lana. Lo stesso comfort nel camerone-ripostiglio per il personale. Di fronte ai locali, i servizi igienici, comuni a uomini e donne, erano costituìti da maleodoranti latrine alla turca e due lavandini: il tutto avrebbe fatto rabbrividire qualsiasi ufficiale sanitario.

«N on sarà facile», pensai preoccupato. La Notturna, come brevemente si dice in gergo, é infatti l’ufficio destinato a svolgere tutti gli interventi immediati del pomeriggio e della notte, quando gli altri uffici sono chiusi. In casi gravi, omicidi, attentati, sequestri...il funzionario di turno deve intervenire sul posto, rendersi conto, compiere gli atti più urgenti informando subito il responsabile della Mobile, della Politica o del Gabinetto, cui spetterà per competenza il prosieguo delle indagini. Deve sbrigare invece da solo e direttamente le meno gloriose pratiche ordinarie. Per questo pesante incarico la Questura di Genova, città di settecentomila abitanti, dalla brulicante vita notturna dei grandi porti, disponeva di un funzionario, un sottufficiale e due appuntati per ogni turno, mentre due sole volanti avrebbero dovuto perlustrare tutti i quartieri.

Stavo ancora registrando queste prime impressioni quando entrò nel mio ufficio un uomo dai capelli chiari e dall’età indefinibile. Si presentò cortesemente: era il funzionario che stavo sostituendo. Mi fece capire che non era stato informato. A quella indelicatezza attribuìi il suo evidente sconforto e nervosismo. Rimase un po’ parlando mestamente, quasi più a se stesso che a me: perché mai ero venuto in Polizia? In questa ingrata amministrazione che, fingendo di applicare la giustizia, fagocita ogni ideale rendendo la vita materialmente e moralmente impossibile? Anche lui aveva cominciato con entusiasmo tanti anni prima. Si era distinto in parecchie occasioni, aveva rischiato la pelle. A cosa era valso? Trasferimenti, sfruttamento, vita spesso umiliante! Superato l’iniziale smarrimento lo contraddissi vivacemente. Lo vidi andare via curvo di un misterioso fardello.

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Dopo tre mesi, dal breve mattinale redatto la notte precedente dall’altro collega di turno appresi che si era impiccato in un’anonima camera di un albergo di periferia. Lo stesso pomeriggio era sceso alla Notturna il dirigente dell’Ufficio politico, Umberto Catalano, e insieme avevamo aperto i cassetti della scrivania dello sfortunato collega. Una serie di lettere e documenti mostravano come quest’uomo, una volta bravo funzionario, navigasse in situazioni difficili. Rividi con tristezza la sua immagine, ricordai le sue parole. Cosa era accaduto? Cosa aveva fatto l’Amministrazione per aiutarlo o richiamarlo quando forse era ancora possibile? In alto si era certo informati della precaria situazione in cui si dibatteva, ma si era pensato solo a sostituirlo, senza neanche avvisarlo, con un giovane funzionario, inconsapevole ”pezzo di ricambio”. Fedeli al principio che i panni sporchi si lavano in famiglia, l’unico sforzo fu quello di mettere a tacere l’episodio. Ben pochi seppero che quel Commissario capo della Notturna aveva subito il suo ultimo trasferimento.

Già quella prima notte fu densa di emozioni e ammaestramenti. Quanto erano lontane le cattedratiche lezioni ascoltate tra i bianchi marmi della Scuola di Polizia! Si trattava magari di casi di routine, ma quella nuova terribile realtà era per me piena di umanità palpitante. I bambini che avevo trovato, parcheggiati in verità senza molta preoccupazione dalla polizia femminile, dovettero attendere sino a tardi che i genitori incuranti venissero a riprenderli. Affamati e irrequieti, furono calmati e distratti con qualche panino dall’appuntato Crobu. Alla chiusura dei cinematografi, alcune persone vennero a denunciare il furto dell’auto. Tra questi, due turisti stranieri cercavano di farsi comprendere: a parte il mio francese, le lingue parlate meglio nell’ufficio erano il napoletano e il siciliano. Per il primo sopralluogo di furto in appartamento intervenni personalmente con la Scientifica. Volevo rendermi conto. Sentìi lo sgomento profondo di chi, al di là dei valori rubati, subisce la violenza sulla propria casa. Le ”volanti” accompagnarono alcuni topi d’auto arrestati in flagranza, nonché un chiassoso ubriaco. Verso le tre iniziò il tran-tran delle prostitute che rimpatriate dai Comuni vicini venivano a consegnare il foglio di via obbligatorio. Soltanto il tono della voce tradiva fra loro ancheggianti travestiti. Con gli abiti succinti e il gergo colorito portavano una nota quasi allegra a quell’atmosfera pirandelliana.

Un caso di accoltellamento ci impegnò per il resto della nottata. Una telefonata anonima aveva segnalato un uomo ferito in via del Campo. Mi precipitai accompagnato dall’appuntato Coltella. Appena entrato in Vico della Croce Bianca, lo stretto carrugio che immette nella zona, alcuni fischi modulati diedero l’allarme. Fu un fuggi fuggi di gonne vertiginosamente corte e parrucche svolazzanti. Dietro un vicolo buio un uomo si lamentava tenendosi il ventre. Mi cadde quasi addosso. Nel sostenerlo le mie mani affondarono nel suo ventre aperto. Dissimulando il raccapriccio gridai all’appuntato che si trovava alle mie spalle di correre a chiamare un’ambulanza e la Squadra Mobile. Nonostante la paura, restai vicino all’uomo che mi stringeva una mano. Con l’altra, tremante, tenevo sotto tiro di revolver due travestiti riemersi dall’oscurità. Quando Coltella tornò tirai un sospiro di sollievo. L’ambulanza si allontanò col ferito squarciando lugubremente il silenzio. Dal sommario interrogatorio dei due, condotto con abilità dall'appuntato, ricostruimmo l’accaduto. Uno sfruttatore spagnolo aveva punito il marinaio che aveva osato insultare la ”sua” donna, una prostituta del quartiere. Sapemmo anche dove poteva essersi rifugiato. I due pittoreschi collaboratori, che ufficialmente non avevano visto né sentito niente, scomparvero inghiottiti nuovamente dal buio mentre ancora squittivano: «Ciao commissario, venga quando vuole!».

Mentre il chiarore dell’alba rischiarava quei vicoli maleodoranti, giunsero gli uomini della Mobile guidati dal dottor Molina insieme a un giornalista, suo amico. Contrariato dal ritardo, lo misi al corrente guidando il gruppo fino a un vecchio caseggiato. Sorprendemmo lo spagnolo mentre fingeva di dormire con la bella protetta. Con aria sorniona Coltella sussurro: «Dotto’, domani vedrà chi ha

lavorato!».

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Tornati in ufficio, mentre quelli della Mobile portarono via l’arrestato, col brigadiere Pacciani preparammo tutti gli atti necessari per i vari reparti che avrebbero continuato il lavoro. Verso le otto, dopo aver salutato i miei preziosi collaboratori, stringendo gli occhi al sole del mattino, stanco e soddisfatto mi mescolai tra la gente che andava al lavoro e raggiunsi come una liberazione il mio letto. Il giornale del pomeriggio avrebbe messo in risalto la «brillante operazione

del dottor Molina che in via del Campo cattura un pericoloso omicida».

Ben presto imparai che c’erano due modi per svolgere il lavoro di notturna. Quello normale consisteva nell’uscire solo in casi eccezionali, riversando subito ogni responsabilità operativa agli uffici più specificamente competenti. Era il sistema seguito dal commissario Carassale, il collega che si alternava con me, un tipo simpaticissimo. Ex assistente di diritto civile all’Università di Genova, alla morte improvvisa del titolare della cattedra, giochi di baronia lo avevano tagliato fuori dalla brillante carriera intrapresa. Aveva fatto in tempo a vincere il concorso nella P.S. Primo del suo corso, aveva scelto come sede la sua città natale, facendosi assegnare a quell’ufficio per la predisposizione, diceva, a lavorare di notte. Più uomo di studio che d’azione, sembrava uno scienziato distratto. Da sempre arrivava in Questura guidando una vecchia Anglia gialla o più spesso una Vespa dal largo parabrezza, infagottato in un cappotto fuori moda, col cappello dalla tesa consunta e una sciarpa grigia che copriva anche il viso. Si portava dietro un immancabile sacchetto con la cena che l’anziana madre gli preparava. Trattava tutti con gran rispetto e gentilezza. Svolgeva le pratiche con competenza e pignoleria, attenendosi soltanto alle strette necessità burocratiche. Era il suo modo realistico di affrontare le condizioni di lavoro della Notturna. Sebbene comunicassimo quasi esclusivamente attraverso il carteggio, eravamo diventati amici. Non c’era verso di coinvolgerlo in discussioni o proposte di modifica organizzativa. «Chi te lo fa fare?

– diceva. – In questo ambiente non cambierà mai nulla! Prova, ma alla fine vedrài

...». Credo comunque che ammirasse il mio dinamismo. Una notte, avendo ricevuto una soffiata personale su una casa di sfruttamento di minorenni nella zona mala di Genova, mi pregò di aiutarlo nell’operazione che, per qualche motivo, non intendeva passare alla Mobile. Scesi nei vicoli, non furono necessari lunghi appostamenti per cogliere il momento opportuno e intervenire. Fu proprio la maitresse che, avendolo notato aggirarsi col suo strano abbigliamento, pensando a un cliente timido in attesa, lo aveva imprudentemente adescato. Alla luce tenue del lampione sembrò divenire paonazzo, poi, afferrata gentilmente per un braccio la robusta signora, guidò l’irruzione nella casa. Fu la paralisi per alcune coppie variamente intrecciate. Una graziosa quindicenne ci confidò tra le lacrime che, grazie alla zia, stava racimolando i soldi per il matrimonio. Le due tenutarie della casa vollero a tutti i costi la presenza del loro legale. Fu così che conobbi l’avvocato De Figueredo, una figura nota in tutta Genova per la sua eccentricità e preparazione. Spuntò nella notte come una visione kafkiana scivolando per lo squallido vicolo, vestito di una scintillante pelliccia di foca e una svolazzante sciarpa bianca. Dopo una teatrale lezione, impartita ad alta voce per soddisfare le incantate clienti, sulla dubbia legittimità del nostro operato e sul disastro sociale causato dalla legge Merlin, marciammo tutti in Questura, Carassale in testa gongolante di soddisfazione.

Era questo l’altro modo di svolgere il servizio di Notturna: intervenire sugli eventi criminosi, acquisire subito il massimo degli elementi probatori prima che si dissolvessero, vivere calandosi nella vita sommersa della notte. Certo, un modo faticoso e non privo di rischi per quel pugno di poliziotti che restava a far fronte alle esigenze di sicurezza della grande città.

Quadri di vita sommersa

Il genovese che al ritmo di una vita scandita da laboriosi orari d’ufficio va stanco a dormire, solo vagamente può immaginare che al calar delle tenebre inizia a svegliarsi tutto un mondo diverso, brulicante di un’umanità patetica, folcloristica,

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emarginata e contraddittoria. Le vie più importanti dell’angiporto, Gramsci e Prè, aprono occhi sfavillanti e maliziosi: sulle facciate delle vecchie case corrose dall’aria di mare, le insegne colorano i nomi esotici dei locali notturni: Hawaj, Zanzibar, Mocambo... Agli ingressi, invitanti donnine o robusti guardaspalle. Marinai in libera uscita, di ogni nazionalità, con gli occhi ancora smarriti dai lunghi mesi di mare, patteggiano con prostitute dalle provocanti minigonne che rispondono in un dialetto infarcito di inglese, tedesco, napoletano, pugliese. Accanto a potenti autovetture, occhi truci controllano in questa sorta di borsa del sesso il proprio redditizio capitale umano. All’interno, nella soffusa luce dei night, dove l’eccitazione é più sottilmente pilotata, barman versano generoso champagne nostrano rietichettato in altisonanti nomi francesi. In tavolini appartati, incuranti di quell’allegria ben venduta, visi duri e marcati discutono con tono manageriale di traffici d’ogni genere. Con gesto meccanico le mani sfiorano talora il leggero gonfiore sotto la giacca dell’elegante gessato. Non c’è locale di via Gramsci o via Prè la cui moquette non sia stata macchiata dal sangue di qualcuno che non aveva rispettato le regole. In quei casi il più loquace era stato quasi sempre proprio il cadavere con i suoi documenti spesso falsi. Gestore, barman, prostitute, clienti, non avevano mai visto ne sentito niente.

Da quelle due vie parallele si snodano come vasi capillari verso l’interno i cosiddetti ”carrugi”, fino al quartiere della Maddalena, il regno dei travestiti e degli spacciatori. Qui l’animazione è diversa, più apertamente viziosa e il rischio e quasi palpabile. Ad alta voce si sentono squittire nomi esotici, Serenella, Katia, Natascia ... Decine di travestiti, scaglionati in precisi posti di lavoro, sfoggiando procaci seni alla paraffina, adescano ignari marinai o consapevoli clienti. Spesso l’oscurità, i gesti audaci, le parrucche platinate compiono l’inganno. Il malcapitato viene condotto, mano nella mano, in camere sempre uguali dove troverà una sorpresa anatomica dinanzi alla quale dovrà decidere. Talora, nella complice penombra di contorti amplessi, sarà anche rapinato, senza essere poi in grado di descrivere alla polizia elementi essenziali. Ripenso ancora al breve inseguimento di un uomo schizzato come un fulmine alla richiesta dei documenti durante un controllo. Placcato al volo dall’agente Cristella, confessò con vergogna di essere un sacerdote pentito.

Continuando per quei vicoli scuri, alle spalle dell’elegante piazza De Ferrari, vicino a quel che resta della leggendaria casa di Colombo, si giunge al quartiere più sornione di Porta Soprana, luogo di raccolta di giocatori d’azzardo, ricettatori, trafficanti di maggior calibro. Da qualche tempo, nella zona si era andata insediando la malavita dei marsigliesi e dei “pieds noirs” dell’Algeria francese, attirati da un loro boss qui stranamente trasferito. Più lontano, verso est, si arriva ai quartieri di Sampierdarena e Sestri Ponente, ciascuno con la propria parte di night. Soltanto qualche mese prima, sulla porta di uno di questi, era stato freddato dal tiro incrociato dei mitra Vito Giamporcaro, uno spavaldo gestore napoletano che aveva osato contrastare le brame espansionistiche dei marsigliesi.

Per oltre due anni, come poliziotto di notte, avrei dovuto confrontarmi con vari e imprevedibili episodi di criminalità ed emarginazione. Spesso, dopo la fase operativa, rimasto solo, riflettevo sui problemi sociali, ambientali e umani che potevano esserne alla base. L’entusiasmo, la caparbietà e una buona dose di fortuna sopperirono all’inesperienza dei primi tempi. Diversi interventi attirarono l’attenzione della stampa, suscitando curiosità e apprezzamento. Alcuni li ricordo ancora, con nostalgia per gli anni passati e lo slancio di allora. La mia prima operazione antidroga! Mi era giunta sul viso come uno schiaffo la frase di un diciassettenne giunto in manette tra due poliziotti: «E’ facile prendervela con noi

mentre proteggete i trafficanti!». Era stato trovato in possesso di una sigaretta di marijuana durante uno dei consueti controlli nella zona del Giavotto, frequentata da tossicomani e giovani sbandati. Il suo atteggiamento di scherno e ostilità sembrò mitigarsi man mano che gli parlavo. Fece qualche ammissione su un marittimo di colore che periodicamente portava dal Marocco hashish ed ”erba”. Sapeva solo che

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alloggiava in una pensioncina dell’angiporto. Ce la misi tutta. Girai l’intera notte controllando con l’appuntato Coltella le numerose pensioni equivoche. Visitammo una trentina di stanze affittate a marittimi negri, finché in una riconobbi l’odore agrodolce della ”roba”. Abilmente cuciti nella fodera di una giacca a vento nascosta sotto al letto, trovammo un gran numero di pacchetti di marijuana. Dopo lunghe ore di appostamento, mentre l’alba trapelava in quelle tetre viuzze, arrestammo il trafficante che rientrava con passo malfermo di alcool e le tasche piene di soldi della prima partita smerciata. Gli occhi sbarrati d’incredulità, il giovane hippy ci vide tornare: stanchi, ma con l’uomo in manette.

Un pomeriggio sul ll3 segnalarono una persona che a Cornigliano si era barricata in casa urlando come un ossesso e minacciando dalla finestra con un lungo coltello chiunque osasse avvicinarsi. Con l’aiuto di un medico che lo conosceva tentai di farlo desistere, invano. Preoccupato dal fatto che nella casa ci potesse essere qualcuno, come affermavano i vicini, decisi di agire. Mentre il medico lo distraeva parlandogli attraverso la porta, mi avventurai su uno stretto cornicione. Avevo una paura tremenda guardando i visi in aria dei curiosi assembrati. Entrato attraverso una finestra socchiusa, avanzai in silenzio. Mi sembrava che il cuore facesse un maledetto baccano. All’improvviso vidi l’uomo venirmi incontro agitando minaccioso il coltello. Con una mossa di judo riuscìi a immobilizzarlo, mentre i miei uomini scardinando la porta irruppero nell’appartamento. L’ambulanza partì a sirene spiegate verso la Neuro. Ancora bianco in volto sentivo i commenti compiaciuti della piccola folla che aveva seguito la scena.

Una sera intervenimmo in un’abitazione di Sampierdarena, chiamati dai vicini di una vecchia signora sola che da qualche giorno non era stata vista, come solitamente faceva, dar da mangiare agli affamati gatti del quartiere. Sfondata la finestra, entrai nell’appartamento. Nel bagno, la donna riversa sul pavimento respirava flebilmente. Chiesi all’appuntato Angelucci di chiamare via radio l’ambulanza e cercare un medico della zona. Dopo qualche istante tornò stravolto: il medico, il cui studio si trovava a pochi metri, lo aveva quasi scacciato. Dopo i nostri primi improvvisati soccorsi, la vecchietta fu portata in ospedale. Mi recai dal poco umanitario professionista. Si giustificò: il poliziotto si era presentato in modo scorretto. Probabile, pensai, conoscendo il generoso quanto maldestro appuntato, ma questo non bastava certo a motivare quel comportamento. Gli contestai di non aver fatto il suo dovere. Anche se il codice non contemplava esattamente una situazione come quella, avrei riferito all’Autorità Giudiziaria. Lo salutai nell’elegante sala d’attesa tra gli sguardi attoniti dei clienti. Dopo un’ora mi telefonò allarmato, assicurandomi che si era recato in ospedale per accertarsi delle condizioni della donna: stava benino, nonostante un principio di bronchite. Verso mezzanotte, il maresciallo del posto di polizia dell’ospedale mi comunico il decesso dell’anziana signora. Sulla base del mio rapporto il medico venne condannato, anche se solo simbolicamente, dal magistrato.

Come in un succedersi di fotogrammi vedo ancora scorrere le scene di quella notte di sangue in via Ausonia, nella Genova alta. Sono da poco montato di servizio, quando giunge la segnalazione che un uomo da un appartamento spara all’impazzata. Forse ha già ferito qualcuno. Una volante è già diretta sul luogo. Mi precipito. L’autista, sfrecciando nel traffico, imbocca via Ausonia. Veniamo accolti da un paio di spari. Facciamo una concitata retromarcia e solo quando scendiamo i poliziotti già sul posto, gesticolando dai ripari, indicano una finestra debolmente illuminata in cui si intravede a tratti la sagoma di un uomo armato di un fucile da caccia. Li rimprovero per non aver predisposto un servizio di prevenzione per eventuali curiosi, poi, seguito dal fedele appuntato Coltella, strisciando contro il muro, mi avvicino all’edificio. Nel cortile antistante vediamo una donna con il corpo piegato in modo innaturale: è già morta. Entriamo nel portone. Pistola in pugno, alla seconda rampa di scale quasi cado su un ragazzino raggomitolato come stesse nascondendosi. «Che fai qui?» gli urlo, prendendolo per un braccio. Ha un raccapricciante buco nel petto. Piccolo eroe di quindici anni. Apprenderemo poi

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che richiamato dalle grida di aiuto era corso in difesa della donna, ignaro che una scarica di pallettoni avrebbe fermato per sempre la sua corsa coraggiosa. All’esterno echeggiano altri due spari. Torniamo giù. Un uomo giace in mezzo alla strada sotto la finestra del folle. Con imprudente curiosità deve aver aggirato i poliziotti di guardia. I suoi lamenti si perdono nel silenzio. Alla tenue luce dei lampioni si intravede appena un rigagnolo di sangue scivolare sulla strada in pendenza. Non si può intervenire senza attraversare una decina di metri sotto la linea di fuoco. Ma bisogna fare qualcosa. Inizio a strisciare carponi dietro alle macchine in sosta. Sento tirarmi per la giacca: «Che fa, commissario, stia attento!». E’ Bancalari, un cronista del «Secolo XIX». «Se non lo portiamo via di lì, muore

dissanguato», gli rispondo. Mi segue anche lui. Siamo dietro all’ultima auto. Il folle deve averci visti. Due colpi si schiantano sull’asfalto. È il momento buono: la doppietta deve essere scarica. Corro a perdifiato sparando contro la finestra. Raggiunto il ferito faccio appena in tempo a gettarmi con lui dietro all’auto, aiutato dal coraggioso Bancalari, quando echeggiano altri due colpi. Avrei trovato poi alcuni pallini infilati nel tacco delle scarpe. Sono intanto giunti sul posto funzionari e ufficiali dei Carabinieri. Il vice-questore vicario Giusti assume la direzione del servizio. Con un megafono tenta di parlamentare con l’uomo, tale Vittorio Bulfoni, che risponde sparando. Si decide di agire con i gas lacrimogeni, mentre alcuni volontari cercheranno di irrompere nell’appartamento. Il commissario Domenico Nicoliello della Mobile, il capitano dei carabinieri Luciano Seno ed io ci avviamo verso l’edificio. Mentre da fuori fischiano i candelotti, ci apprestiamo a forzare la porta. E’ un inferno: gli occhi lacrimano, il gas mozza il respiro. Ci guardiamo in faccia: entrerò per primo, Nicoliello e Seno mi copriranno. Sfondata la porta, son dentro! L’uomo e lì col fucile puntato. Penso: «Sono morto!». Uno sparo e una vampata nel buio. Sento schizzi caldi sul viso, poi qualcosa mi crolla addosso: all'ultimo momento ha rivolto la canna verso di sé. Sono le due del mattino; sul posto macchie di sangue e un acre odore di gas restano a testimoniare la tragedia. Dopo aver ricevuto le congratulazioni del vicequestore Giusti, mentre tutti vanno via, rientro in ufficio per redigere gli atti. Il capitano Seno, del quale sarei diventato subito estimatore e amico, vuole accompagnarmi. Siamo rimasti quattro gatti. Non si potrebbe, ma Renato Pasquario, un giornalista del «Secolo XIX», ci dà una mano a battere i verbali: è velocissimo. Quella notte d’inferno e finita. Sono le otto, sto per andare via quando il vicequestore Reale, capo della Criminalpol ligure, appena giunto vuole parlarmi. Mi aspetto parole di lode e il consiglio di non rischiare più tanto. Tutto quello che ricevo è solo il rimprovero per non aver citato il suo nome nella relazione. Esco sbattendo la porta sotto lo sguardo incredulo dei suoi dipendenti.

Furono episodi cui la stampa diede un certo risalto. Il questore Rebizzi fece pervenire note di elogio per me e i miei collaboratori. Ma la soddisfazione maggiore la ricevevo dalle attestazioni di stima di semplici cittadini, alcuni dei quali vennero a trovarmi in ufficio. Mi faceva piacere notare il loro interesse e il loro rispetto mentre parlavo con ardore della funzione del poliziotto nella società. Uno dei giornalisti più quotati del «Secolo XIX», Giuliano Crisalli, chiese al Questore di poter trascorrere una notte di servizio con noi. Non ci fu nulla di particolarmente frenetico, ma il lavoro, come al solito, non mancò. Alle sei del mattino, dopo un caffè ristoratore nel bar della darsena già pieno di vocianti camalli, Crisalli, con gli occhi gonfi di sonno, mi salutò: «Commissario, ora

dormirò più tranquillo». Il giorno dopo scrisse un articolo pieno di partecipazione e colore dal titolo «La Madama di notte».

Tutto ciò contribuì certamente a farmi accettare dagli esigenti genovesi dal mugugno facile ma dal grande cuore. D’altro canto, la materia prima non mancava. Per i poliziotti che vogliono lavorare Genova diventa, col calare delle tenebre, un vero codice aperto: sfruttamento, rapine, estorsioni, traffico di droga, regolamenti di conti ... Inoltre, avendo notato che alcuni locali notturni venivano stranamente tartassati mentre altri restavano pressoché indisturbati, decisi di controllarne il

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maggior numero, sistematicamente e in ogni zona della città. Le nostre irruzioni erano improvvise e frequenti: con l’aiuto delle volanti si bloccavano le uscite, si accendevano le luci, si controllavano i presenti. In tal modo furono arrestati diversi malavitosi già ricercati o sorpresi ancora in possesso di armi o di droga. L’entusiasmo degli uomini del mio ufficio era palpabile. Si sentivano più investigatori. Lo stesso mondo della mala, il giudice più severo di un poliziotto, reagì con fastidio, ma anche con rispetto. Alcuni titolari di locali cominciarono a chiedere di me, dicendosi disposti a collaborare, ovviamente con la dovuta riservatezza, contro chi da anni li taglieggiava.

Attori della notte

Questo procedere professionale faticoso e irto di rischi mi permise di entrare nel cuore della Genova by night. Un immenso palcoscenico su cui personaggi grotteschi, surreali, patetici, vivono le proprie storie di violenza ed emarginazione. Paolo Cangemi, meglio conosciuto come ”Paoluzz u’ pazz”: non c’era serratura che gli potesse resistere. Sembrava che l’apertura delle più complicate fosse per lui una conquista d’amore. Benché stravagante e imprevedibile, era conteso dalle ”batterie” di ladri per la sua indiscussa capacità. Ogni volta che veniva arrestato, inghiottiva vetri, chiodi, penne, qualsiasi cosa pur di non finire in carcere. Aveva già trascorso diversi anni in manicomio giudiziario. Questa sorta di desiderio della libertà oltre il dolore gli aveva fruttato un certo ascendente nella zona. ”Don” Vincenzo Gargiulo, detto ”il sindaco” di Prè, era erede del vecchio a volte romantico mondo della mala. Distinto, elegante, con la sua bonaria eloquenza napoletana era spesso l’ultimo filtro alla parola del coltello o della pistola. A lui si ricorreva ancora per comporre, secondo vecchie regole d’onore, i conflitti tra gruppi diversi. Ma anche la sua autorità, confidava sospirando ai più intimi, valeva poco dinanzi alla violenza degli scalpitanti giovani leoni e a quella senza appello dei veri ”padrini”.

E la Pierina, donna dall’età indefinibile, grossa, goffamente seduta nelle sere più fredde vicino a un piccolo fuoco nella piazzetta di Prè... Era sempre lì, parte integrante del paesaggio, una specie di posto ristoro: sigarette, whisky, preservativi, riviste porno. Vendeva di tutto. Ogni volta che ci vedeva, cercava di far scomparire quella merce proibita nel suo lacero, inseparabile pastrano militare. Il sorriso sdentato con cui aveva preso a salutarmi, all’inizio guardingo e imbarazzato, era divenuto man mano bonario. Era stata lei a chiamare il ll3 quella sera che imprudentemente mi ero cacciato nei guai. Passando in auto per via Gramsci, fuori servizio, disarmato, avevo visto un uomo che al centro di un capannello di spettatori picchiava selvaggiamente una donna. Ero intervenuto qualificandomi e cercando di fermarlo. Avevo scelto male il tempo e il personaggio: Antonio Costari, un focoso siciliano, stava dando una lezione alla ”sua” donna! Mi si scagliò contro con violenza. Lottammo avvinghiati. Furono minuti interminabili. Poi, alla fine, riuscìi a immobilizzarlo. Gridai agli attenti visi dintorno di chiamare la polizia. Nessuno si mosse. Soltanto la Pierina, seppi poi e non da lei, si era disinvoltamente dileguata per telefonare. Dopo poco, provvidenziale, era giunta una volante. ”don” Antonio aveva voluto che fossi io a mettergli le manette, minacciando ad alta voce: «Commissario, appena esco t’ammazzo!».

La ”Morena”, ossia Doré Pietro, era il più autorevole dei travestiti, un vero soggetto felliniano: spalle da lottatore, opulenti seni di paraffina, lunghi capelli corvini che invano tentavano di nascondere il viso butterato. Un leggero tic gli faceva scuotere la testa quasi ad attirare ignari malcapitati. Era una specie di kapò dei travestiti di via del Campo: si diceva, e non c’era motivo di dubitarne, che possedesse una forza erculea. Genova Ferdinando, ”Sissi” per gli intimi, era tutto il contrario. Con un viso delicato e femminile, lunghe gambe affusolate e il sedere tornito sotto i pantaloni attillati, intralciava di notte il traffico dell’elegante via Roma. Era da un po’ che non si vedeva quando venne in Questura ad annunciarci con orgoglio e sussiego che era divenuta donna a tutti gli effetti. Il suo uomo, un

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noto avvocato, le aveva pagato un’operazione a Casablanca.

E che dire dei vari titolari di night! ”Tubetiello”, all’anagrafe La Gaggia, era un napoletano simpatico quanto temuto. Piccolo, gli occhiali spessi e scuri, sembrava uscito da una commedia di De Filippo. Era giunto a Genova senza una lira in tasca, con pochi scrupoli e tanta intraprendenza. I vecchi poliziotti raccontavano la sua prima sanguinosa sceneggiata. Poiché gli veniva negata la licenza di un bar, aveva convocato diversi cronisti sulle scalinate di piazza della Vittoria. Dopo un pubblico comizio sulle ingiustizie della burocrazia che impediva a un ”oneste galantomme” di lavorare con un gesto plateale si era affondato nel ventre un coltello, quel tanto che bastava. Aveva infine ottenuto la licenza. Da allora aveva prosperato, divenendo proprietario di vari locali tra cui il più famoso night dell’angiporto, lo Zanzibar. Uomo implacabile con gli avversari e generoso con gli amici; aveva adottato un simpatico scugnizzo dodicenne, Mariuccio, il cui padre era stato ucciso in un regolamento di conti. Conobbi il ragazzo: aveva un viso pulito e intelligente. Parlando con lui pensai a quanta strada avrebbe potuto fare in un ambiente sano. Ma preferiva rimanere lì in via Prè, spesso assieme a ”Paoluzz’ u’ pazz” che gli faceva da maestro. Aiutava talora a fare bidoni sulla vendita di qualche pistola o di sigarette. L’incauto acquirente non avrebbe mai immaginato che dopo aver pagato, al momento della consegna della merce, proprio Mariuccio con quel viso angelico scambiasse rapidamente il pacchetto buono con un altro contenente pietre o segatura. Una volta lo sorpresero al volante di un’auto rubata che sembrava andare da sé tanto era piccolo. Parlavo talvolta di lui con Tubenello, invitandolo a fargli cambiare strada. Mi ascoltava attento e pieno di affetto: «Dotto’, parlateci vui, a

me nun me siente!». Quello scugnizzo sarebbe purtroppo diventato uno spavaldo rapinatore.

Roberto Volpe era un giovane pugliese dalla mano leggera del ladro di classe. Lo si vedeva spesso nei vicoli, alto, dondolante, elegantemente vestito. Una notte lo arrestammo per porto di coltello. Parlammo a lungo: erano sette figli, uno dei quali morto in fabbrica a Milano. Aveva studiato fino alle medie, poi era fuggito dal paese. Non si aspettava nulla dalla vita. La sua filosofia era prendere agli altri che avevano di più. Lo avrei rivisto qualche mese dopo in un lago di sangue con il viso sereno. Uno strano confidente della Finanza e dell’Ufficio Politico mentre, a suo dire, portava a termine un lavoro informativo, gli aveva piazzato una pallottola calibro 38 nel petto.

”Carminiello”, un massiccio boss napoletano. Era entrato in contrasto con i marsigliesi. Una notte fu trovato ferito al termine di un vertice che non doveva aver chiarito molto. Lo avevano massacrato, scagliandolo infine contro una vetrata. Volammo a sirene spiegate verso l’ospedale, tamponando alla buona le ferite. Il chirurgo lo cucì con oltre cento punti. Carminiello volle che il maresciallo Porfido e io entrassimo con lui. Credeva di morire, ma non gli sfuggì un solo nome.

Mario Rossi, violento e spregiudicato rapinatore. Alto, robusto, con un’immensa chioma rossa, il viso scolpito, sembrava appena uscito da un angolo di Brooklyn. Dominava con la sua forte personalità una banda di uomini e donne. Come moderni Bonny & Clyde, giravano spesso insieme lui e la Cosima, giovane e bellicosa donna di vita sempre pronta a nascondere su di se la Colt del suo uomo.

E la ”Olga”. Una vecchietta di oltre settant’anni, incredibilmente magra e vivace. Nella sua locanda di infimo ordine, nel cuore della buia via San Bernardo, trovava alloggio gente di ogni risma. Eravamo intervenuti una sera, durante un giro di ispezione, richiamati dalle urla che provenivano da lì. Ci era apparsa la scena irreale di questa donna minuta che con un coltello in mano fronteggiava due giganteschi negri visibilmente alticci. Nella loro stanza trovammo della refurtiva che ci permise di tirare la fila di un’indagine avviata da tempo: una banda di uomini di colore terrorizzava il quartiere. Coperti dal buio della notte, assalivano i passanti, infierendo ferocemente su di essi. Li portammo via in manette. Da allora Olga divenne mia ammiratrice. «Dottore, se non c’era lei quella sera magari mi

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avrebbero pure violentata» ricordava mostrando gli ultimi denti in una smorfia di terrore, o forse rimpianto.

Quanti messaggi di umanità e momenti di riflessione per un poliziotto che non si sentiva solo braccio duro della legge. Una notte la polizia femminile ci lasciò parcheggiata in ufficio una bimba di nove anni trovata smarrita in città, in attesa che i genitori, già avvisati, venissero a prenderla. Verso mezzanotte la piccola cominciò a piangere disperatamente. Negli uffici, due ”clienti” sospettati di rapina, non attendevano che un nostro momento di distrazione. Alcune ”donne della

notte”, di tanto in tanto, venivano a consegnare il foglio di via. Fu proprio una di queste, Clara, patetica prostituta quasi cinquantenne, che riuscì ad addormentarla tenendola teneramente fra le braccia. Parlò di sé tristemente. Da una trentina d’anni faceva la vita, dopo la fuga dal paese per una storia d’amore con un uomo sbagliato. Una volta nel giro, era stato impossibile uscirne. Dai marciapiedi più redditizi di quando era giovane e attraente si era dovuta spostare alle uscìte delle autostrade vendendo il suo corpo appesantito a meno esigenti camionisti. Il suo protettore le aveva mangiato tutto, sostituendola poi con un capitale più fresco. Era piena di acciacchi e le notti gelide erano per lei un tormento. Seguì con occhi pieni di nostalgia la bimba, quando i disattenti genitori vennero a ”ritirarla”. Si allontanò sommessamente mentre l’alba illuminava spietata il suo viso pesantemente truccato.

Anche i litigi in famiglia fanno parte della vita di una città. Non avrei mai immaginato che tante coppie, nel cuore della notte, si rivolgessero alla polizia. Come quella giovane sposa che, inseguita dal marito, piombò piangendo in ufficio. Il focoso coniuge, in un eccesso di gelosia, le aveva inciso sulla schiena con un temperino il sanguinoso comandamento: «Sei mia». A parte la denuncia, se ne andarono via teneramente avvinghiati. E come accogliere quel distinto professionista che, sotto la minaccia di una pistola, finta per fortuna, pretendeva che la moglie confessasse a noi con chi lo tradiva? A volte erano i vicini a richiedere, infastiditi o preoccupati, il nostro intervento. Sorrido ancora al ricordo di quella sera in cui inviai l’unica pattuglia disponibile guidata dal solito appuntato Angelucci. Poco dopo la coppia piombò in ufficio sbraitando. Per mitigare quella lite di gelosia il poliziotto si era lasciato andare a una battuta: «Ma in fondo chi non

rischia di essere cornuto!». La lite si era subito placata ma l’appuntato se l’era dovuta dare a gambe. Si trattava sempre di interventi delicati, soprattutto quando c’erano bambini di tenera età. Era una pena vederli guardare con occhi smarriti ora il padre ora la madre, timorosi di dire qualcosa, oppure accusare con rabbia infantile. Dedicavo molta attenzione a questi casi, parlando a lungo con i coniugi insieme e separatamente, e poi con i bambini, per relazionare ogni volta alla polizia femminile. Sapevo purtroppo che spesso si trattava soltanto di rimandare ad altre occasioni di lite una situazione ormai deteriorata. Una volta rividi una coppia che, conosciuta in una simile circostanza, non avrebbe più litigato. Lei giaceva sul letto con una macchia rossa sul cuore, lui si era sparato alla testa. Accanto, il fagottino gemente di un bimbo di pochi mesi.

E i suicidi? In quel breve periodo di Notturna dovetti intervenire per almeno una ventina di casi. Difficile immaginare cosa passi per la testa di un uomo quando decide di porre fine alla propria esistenza. Come quel giovane laureando in filosofia annegatosi in una vasca da bagno con un sistema così tragicamente ingegnoso da impedire qualsiasi ripensamento. Insieme a lui galleggiavano assurdamente nell’acqua libri di religione e di politica. E quella bambina di quattordici anni dondolante, quasi in una macabra altalena, dalla fune appesa a un albero del giardino. Perché? Non potrò mai dimenticare l’urlo senza fine della mamma. Ogni volta lo stesso iter burocratico: accertarsi che fosse suicidio, avvertire il magistrato che, spesso seccato per essere stato svegliato, rispondeva: «Faccia lei, commissario...». Poi chiamare la Scientifica e la polizia mortuaria e infine redigere il rapporto. La cosa terribile era parlare con i familiari. A volte ci trattavano male: eravamo degli intrusi nel loro dolore. Uno di essi fu così

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aggressivo in occasione del suicidio del fratello, che venne poi a ringraziarmi per non averlo denunciato. Questi sopralluoghi mi lasciavano sconvolto. Piero Telefono, cronista del «Secolo XIX», ricorda di avermi visto uscire da un appartamento imprecando: «Un uomo dovrebbe avere rispetto di sé anche quando

si uccide!». Erano le quattro del mattino. Quel poveraccio si era sparato in bocca. Cervello, capelli e sangue sporcavano i preziosi oggetti d’arredamento ormai inutili.

Qualche farsa per fortuna alleggeriva ogni tanto quel clima di tragedia. Una sera dovetti intervenire perché un uomo, scavalcata la rete di protezione, minacciava di gettarsi nella sottostante via XX Settembre: un capannello di persone sostava, impaziente quasi del tragico volo. Appena qualcuno si avvicinava, l’uomo faceva l’atto di gettarsi. Permise che mi accostassi, poi, senza che nessuno sentisse, sussurro: «Dotto’, l’ho riconosciuto! N on si preoccupi, non sono mica matto a

gettarmi: cerco lavoro e ho figli. Cinque minuti e risalgo!». La sua storia apparve sui giornali. Dopo qualche tempo venne a trovarmi con una tuta da fattorino. Un’altra volta mi portarono in ufficio una ragazza dall’aspetto delicato. Doveva scontare alcuni giorni di prigione. Piangendo mi chiese di poter salutare il suo ragazzo: era fuori dalla porta. Mi pentìi subito del consenso dato guardando meglio i documenti: Magni Claudio, un travestito. Entrò il fidanzato: una ragazza. Fu un intreccio di lacrime, baci e abbracci. Non raccapezzandomi più, dovetti interrompere quella strana, ma non meno vera, scena d’amore.

Tempo di riflessione

Dall’impatto con quel mondo di violenza, dolore ed emarginazione, cominciai ad apprendere anche qualcosa che gli insegnanti della Scuola Superiore non dicevano. Sperimentavo giorno per giorno quanto debole e scadente fosse il rapporto polizia-cittadini rispetto alle esigenze di sicurezza della collettività. Quegli uffici di notturna ne erano una flagrante dimostrazione: ambienti tetri, servizi ripugnanti, minorenni mischiati a prostitute. Le condizioni di lavoro dei poliziotti erano offensive non solo rispetto alla delicatezza dell’incarico, ma anche alla loro dignità di uomini e lavoratori. Erano appena due, ciascuna delle quali costituita da un funzionario, un sottufficiale e due appuntati, le squadre che assicuravano il servizio alternandosi pomeriggi e notti: cinquantaquattro ore di lavoro settimanali di cui trentasei notturne. Senza contare che spesso al mattino, invece di smontare, si andava a testimoniare nei vari uffici giudiziari per interventi compiuti in precedenza: neanche una lira di straordinario e nessun incentivo morale. Soltanto lo sfruttamento elevato a sistema. Osservavo quei collaboratori della notte che mi confidavano spesso tanti problemi. Le loro situazioni familiari erano talvolta pesanti; quasi tutti avevano figli ancora molto giovani, conseguenza del divieto vigente in passato per i poliziotti di sposarsi prima di una certa età. Gli anziani nascondevano i loro acciacchi, talora anche gravi, per non essere riformati, tirando avanti finché potevano. Per una sorta di ricatto, infatti, molte indennità non erano pensionabili. Lavoravano affiatati e solidali tra di loro, ben sapendo cosa significasse l’assenza di uno al turno. Non mi stupìi quando l’appuntato Crobu prima e il brigadiere Pacciani poi, reduci da infarto si ripresentarono al proprio posto di lavoro con più zelo di prima. Ricevetti da loro lezioni di coraggio, professionalità e umanità. Era commovente vedere con quanta burbera tenerezza l’appuntato Bosco, che con la sua grinta faceva abbassare gli occhi del più incallito delinquente, trattasse i bambini che in piena notte, per circostanze diverse, venivano accompagnati in ufficio.

Non dimenticherò mai le lacrime del brigadiere Pacciani. Eravamo intervenuti in un appartamento dove un ragazzo era stato colto da malore. Asciugato il rivolo di bava rossastro, il brigadiere iniziò a praticargli la respirazione bocca a bocca. L’età lo affaticava visibilmente. Gli diedi il cambio non senza, lo confesso, una certa ripugnanza. Continuammo così per alcuni interminabili minuti. I genitori del giovane si stringevano a noi: sembrava che un soffio di vita aleggiasse in quel

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corpo inanimato. Poiché l’ambulanza tardava, decidemmo di trasportarlo in ospedale con la nostra auto, continuando ad alternarci su quella bocca fredda. Fu una corsa folle e inutile. Il ragazzo era già morto. Vidi il brigadiere piangere di nascosto.

Spesso, nei momenti di maggiore impegno, discutevamo delle problematiche di polizia, delle nuove norme di procedura, del ruolo del poliziotto in una società moderna. La nostra frustrazione era di non poter reagire alle situazioni concrete con la necessaria efficienza: le strutture non lo permettevano. Tutto ciò mi aveva convinto a preparare un pro-memoria per il Questore: una serie di considerazioni e proposte pratiche per migliorare il servizio di notturna. Prima di inviarlo, riunìi i miei collaboratori e lo commentammo insieme. Restarono stupiti del fatto che un superiore li interpellasse, facendosi addirittura portavoce di esigenze migliorative per il loro lavoro. Dopo qualche giorno, il questore Rebizzi mi convocò. Aveva trovato interessante la mia relazione anche se, aggiunse, sembravo una specie di avvocato difensore dei poliziotti. Alcune di quelle disfunzioni organizzative non gli erano mai state prospettate: ci avrebbe pensato su. Mi congedò esortandomi con tono affettuoso a continuare senza però rischiare troppo. D’altro canto, le note di elogio fatte pervenire a me e ai miei collaboratori mostravano come questo anziano poliziotto seguisse il nostro lavoro.

Dopo qualche tempo, giungendo in ufficio, fui accolto da un’indicibile euforia. Sul mio tavolo, in bell’evidenza, spiccava una circolare da lui firmata: «Riorganizzazione del servizio di N otturna». Venivano accolti tutti i suggerimenti contenuti nel promemoria: organico dei turni raddoppiato, orari ridotti, riposo settimanale garantito. Il coordinamento con gli altri uffici era realizzato assegnando alla Notturna un dipendente della Squadra Mobile, uno della Criminalpol e, durante il periodo estivo, uno dell’Ufficio Stranieri. Il collegamento diretto col Centro Operativo fu assicurato installando nella camera del funzionario di Notturna un apparato radio sintonizzato anche con le volanti: era quello del vicequestore Reale! Anche i locali furono via via ripuliti e dotati di suppellettili più presentabili. Venne creata una saletta per i minorenni e si cominciò a lavorare per eliminare lo sconcio dei servizi igienici. Persino le camere di sicurezza furono disinfestate e rese più praticabili. I miei collaboratori non sapevano come esprimermi la loro ammirazione e gratitudine. Lo stesso Carassale, che da tempo immemorabile non fruiva del riposo settimanale, mi abbracciò commosso e incredulo.

Tale entusiasmo non fu però condiviso da alcuni funzionari della Mobile, oltre al dottor Reale, ma avevano troppo timore o rispetto del Questore per mostrare apertamente la loro contrarietà. Dalla Squadra Mobile si fece assegnare volontariamente al mio turno l’appuntato Fiorenza, un poliziotto che ogni funzionario avrebbe voluto avere con sé. Riservato, educato, coraggioso, investigatore nato, gran conoscitore dei segreti della città e della mala, mi fu di enorme aiuto. Avrei potuto contare su di lui in ogni circostanza. Me ne resi subito conto quando una notte, dovendo fare irruzione in una casa in cui erano stati segnalati due pericolosi ricercati, lo vidi prepararsi a entrare per primo. Malvolentieri e solo al mio ordine perentorio passo dietro di me. Sfondata la porta, ci trovammo contro le pistole spianate dei due catturandi. Per un attimo tememmo il peggio, poi il più vecchio, un pregiudicato napoletano, si arrese convincendo anche l’altro. Da allora, animati dalla stessa affinità professionale, Fiorenza divenne la mia ombra, il mio più fedele collaboratore, un amico.

Tutti i turni si amalgamarono ben presto. Si lavorava con entusiasmo. Non c’era notte che non portassimo a termine qualche operazione, non solo di polizia criminale, ma anche di soccorso pubblico. Gli uomini erano galvanizzati dal fatto che, per ogni risultato positivo, segnalavo ai superiori il personale che più si era di- stinto. Era commovente vedere con quale orgoglio quei vecchi poliziotti ricevessero la stretta di mano del Questore e come ciò contasse più delle dieci-ventimila lire di premio. Il clima, insomma, era tale da far ritenere che qualcosa di

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straordinario si stesse verificando nel nostro ambiente. Di notte, quando ero di turno, si univano a noi giovani poliziotti di altri uffici, offrendosi di darci una mano. Addirittura il centralinista, la guardia Lai, un coraggioso e simpatico sardo ci aiutò una notte a fermare il raid di due scapestrati. In poche ore avevano rapinato una decina di tassisti intimando a mo’ di sfida, pistole alla nuca, di andare poi in Questura a raccontare che erano stati ”Jack e Gringo”. Dopo averli intercettati, con un’auto del mio ufficio, li portò alla Notturna tenendoli sottobraccio. Dal viso dei due capìi che erano stati convinti a non fare più quel gioco da ”arancia

meccanica”. E come dimenticare la guardia Cristella, un pugliese enorme dalla mascella quadrata, e la guardia Ciorra della Criminalpol che unendosi a noi sfidava il suo terribile capo?

Inoltre, era diventata consuetudine che, verso mezzanotte, i cronisti della ”nera” passassero dalla Notturna per raccogliere le ultime novità. Nacquero così amicizie fatte di ore di rischioso lavoro, di caffè buttati giù in fretta, di parole date e mantenute, di reciproca stima e fiducia con Anselmi, Arcuri, Bancalari, Crisalli, Currìa, Di Salvo, Pasquario, Remondino, Romano, Telefono... Alle sei di ogni mattino irrompeva in ufficio il veterano dei cronisti Basilio Aguggia del «Corriere Mercantile». Prossimo alla pensione, pochi capelli in testa, era magro e arzillo come un giovanotto, insomma uno di quei tipi che si crede esistano soltanto nei film western. Con il suo immancabile sorriso spalancava la porta sibilando tra i denti radi: «Belin figeu! nu ghe ninte? durmie?» e, prima che potessimo sollevarlo di peso, deponeva sul tavolo un pacchetto di focaccia calda e i giornali del mattino odorosi di stampa.

Di droga si muore

Il periodo trascorso alla notturna mi fece comprendere ancor più quanto grave fosse il pericolo della droga. Le volanti sempre più spesso accompagnavano in ufficio giovani neppure diciottenni trovati in possesso di spinelli di marijuana, siringhe, dosi di eroina. Cercavo di far loro comprendere che stavano imboccando un tunnel sovente senza uscita, e cercavo io stesso di capire le ragioni. Ascoltavo tante motivazioni: tutte nascevano da una profonda solitudine dell’anima. La reazione istintiva della società era di emarginazione e repressione: quei ragazzi erano pericolosamente diversi o criminali. D’altro canto, uno spietato articolo della legge del l958, allora in vigore, obbligava poliziotti e giudici a mandarli in galera anche quando venivano trovati in possesso di quantità minime di droga. E il carcere di Marassi, al pari di ogni prigione del mondo, non era certo la migliore scuola per il loro recupero sociale. Anzi, si aveva il sospetto che non di rado venissero attesi dai reclusi più incalliti per turpi rituali che mai sarebbero stati denunciati.

Fin dall’inizio ero stato confortato dalle identiche preoccupate valutazioni del commissario Gaetano Cuozzo, dirigente della Sezione Narcotici. Dopo qualche tempo, sensibile com’era, avrebbe lasciato la Polizia passando al Ministero della Pubblica Istruzione per dedicarsi ai problemi dell’educazione giovanile. Insieme avevamo cercato di cambiare il rude approccio repressivo con quei ragazzi. Avevamo preso contatto con medici, psicologi e genitori, attenti a questo grave problema. Non di rado da me chiamati, arrivavano, quasi per caso, proprio quando i ragazzi si trovavano in ufficio. Facendo finta di niente uscivo mentre essi cercavano di creare un dialogo. Conobbi così persone straordinarie per impegno sociale e disponibilità umana come don Tubino, don Gallo, Bianca Costa, Ines Boffardi, Gigi Passadore, don Giulio Tavallini ... Insieme gettammo le basi dei primi centri di solidarietà dove questi giovani potessero trovare una parola di comprensione e aiuto. In quei lontani anni settanta, precorrevamo a nostre spese quel volontariato oggi talora più sensibile ai milioni ministeriali che ai tossicodipendenti divenuti quasi “merce” necessaria per le proprie strutture manageriali.

D’accordo con i magistrati più avanzati, cercavamo soluzioni umane tra le maglie del codice per non arrestare ragazzi trovati in possesso di fatiscenti spinelli. Non

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era semplice giacché altri, ben più intransigenti, non mancavano di richiamarci a un’applicazione letterale della norma. Convinto della necessità di modificare quel famigerato articolo di legge, avevo persino studiato un progetto di emendamento che, attraverso un meccanismo preventivo, evitasse l’immediato ricorso al carcere. Ne avevo consegnato il testo all’onorevole Cattanei, deputato genovese e allora presidente della Commissione Antimafia, che aveva assicurato il suo interessamento.

Rivedo ancora tanti ragazzi, con lo sguardo perso nel miraggio ossessivo di un buco liberatorio di eroina. Laura Garcia aveva un viso d’angelo, incorniciato da lunghi capelli biondi; fuggiva spesso di casa per raggiungere il suo ”Titti”, una specie di allampanato santone dalla chioma crespa. Li rintracciavamo quasi subito in un tugurio nei vicoli, odorante di incenso e marijuana, dove lui aveva il suo mistico regno. La riportavamo invano dai genitori in pena. La ragazza li avrebbe messi infine con le spalle al muro: aspettava un bambino da Titti. La rividi per l’ultima volta mentre cercava di nascondere con mani rinsecchite e tremanti, stretto tra le braccia, un fagottino piangente. «Sto cercando di smettere», aveva sussurrato abbassando lo sguardo. Ma il richiamo dell’eroina sarebbe stato più forte della vita. Anche Antonella Baietto era un bella ragazza dall’esuberante voglia di conoscere e vivere. Rimasta invischiata nel mondo della droga attraverso strani figuri della Genova-bene, aveva tentato varie volte di uscirne. Estroversa e imprevedibile, era impossibile non restare affascinati e spaventati insieme da quella vita che bruciava in fretta. Tutti e particolarmente Manlio Di Salvo, dinoccolato giornalista dal cuore d’oro, cercammo di aiutare lei e il padre che non sapeva più cosa fare. Invano. Sarebbe scomparsa qualche tempo dopo verso chissà quale destino. Di lei non si e saputo più nulla. E’ rimasto solo uno sgualcito diario pieno di poesie dolci e struggenti.

«Sono il figlio dell’LSD, commissario. Provi anche lei, si stacchi da questo mondo

di merda». così aveva risposto, alla richiesta di generalità, Mario Nencioni, un ragazzo dall’accattivante sorriso, col suo folcloristico largo cappello dalle tese consunte. Qualche tempo dopo avrei raccolto il suo ultimo sguardo sorpreso, mentre un filo di sangue gli macchiava le labbra. In un ultimo impossibile volo sulle ali dell’LSD, si era lanciato dalla finestra credendo forse di raggiungere il cielo e non l’asfalto dei vicoli.

Eppure qualcuno riusciva ogni tanto a scrollarsi la ”scimmia” di dosso. Era allora una gran gioia per quella rinata speranza di vita. così Sergio Rotolo, un ragazzone dalla vivida intelligenza che cercava una risposta ai suoi dubbi esistenziali negli ingannevoli trip dell’acido prima e dell’eroina poi. Nelle livide cicatrici che gli coprivano le vene c’era tutto il suo tormento. Quando lo conobbi, rudemente scaricato in ufficio di notte, con le manette al polsi, mi aveva guardato con diffidenza e rancore. Aveva ascoltato in silenzio parole forse già dette, ma non da uno ”sbirro”. Qualche giorno dopo, era tornato a trovarmi portandomi un libro: Siddharta di Hermann Hesse. Nacque fra noi un rapporto di comprensione e rispetto. Senza mai divenire un confidente, mi fu di grande aiuto per capire quel che avveniva tra quella gioventù inquieta. Grazie a lui, riuscìi a rintracciare ragazzi scappati di casa o ricavare indicazioni su loschi trafficanti. Fu un grande momento quando mi annunciò, mostrando con fierezza le vene sgonfie, che aveva smesso di bucarsi e aveva ripreso a studiare.

Il ”N umber One”, missione speciale

Nel luglio del ’72, il questore Rebizzi, pochi mesi prima di andare in pensione, mi convocò nel suo ufficio. Come promesso, annunciò, mi aveva trasferito alla Squadra Mobile. Aveva notato il mio impegno professionale e sociale contro la droga, pertanto avrei diretto la “Sezione Narcotici”. Doveva affidarmi subito un servizio particolare da effettuare, però non a Genova ma a Roma. Dalla capitale gli avevano chiesto un commissario intraprendente e preparato per una indagine delicata. Aveva dato il mio nome sicuro che avrei accettato.

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Sorrido ancora pensando alla teatrale faciloneria con cui era stato organizzato quel servizio. Una volta nella capitale, avrei dovuto chiamare un numero telefonico. Mi avrebbe risposto un certo Peppino, che avrebbe fornito tutti i dettagli. Partìi da Genova a bordo della mia vecchia Alfa di seconda mano. Appena giunto, composi febbrilmente il numero. Peppino mi fissò un appuntamento in un bar di via Nazionale: «N on si preoccupi, mi riconoscerà certamente». Trasalìi infatti quando vidi venirmi incontro tra ossequiosi inchini del personale il questore di Roma, Parlato, che avevo varie volte visto in televisione. Mi disse subito che avrei dovuto frequentare uno dei locali notturni più a la page di quei tempi, il ”N umber One” dove, secondo notizie confidenziali, si svolgeva probabilmente un traffico di stupefacenti in grande stile. Il servizio era seguito con attenzione dall’alto. Avrei dovuto riferire soltanto a lui e, se proprio necessario, al capo della Mobile romana. Guardando poi perplesso il mio abbigliamento mi consegnò quattrocentomila lire per le prime spese, invitandomi ad assumere un tono più adeguato all’ambiente che avrei dovuto frequentare. Mi preparai con cura a quella missione speciale. In sgargiante giacca di velluto e con un bianco foulard al collo, mi presentai all’ingresso del locale. Una lauta mancia distese il severo cipiglio del portiere, piuttosto restìo a lasciarmi entrare in quell’esclusivo club privato. Cominciai così a frequentare ogni sera il locale dove sfilavano personaggi eterogenei, spavaldi e seducenti, sbiaditi e patetici. Nella sala più raccolta riconobbi alcuni volti del mondo dello spettacolo, dell’industria, della politica. In altri gruppi, quasi in disparte, si aggiravano nostalgici rappresentanti di un’ultima nobiltà blasonata. Qua e là, bellissime ragazze dalle seducenti scollature e giovanotti abbronzati ammiccavano con sorrisi invitanti. Ricchezza, fascino, potere sembravano essere il tessuto connettivo di quello scenario dai contorni sfuggenti. Volendo infiltrarmi meglio nell’ambiente ed avere una ”spalla” ricorsi infine al capo della Mobile romana Salvatore Palmeri, anche lui sorpreso da quella mia strana missione. Gli chiesi se poteva farmi affiancare da una brava ispettrice: «Vuoi scherzare?!». In effetti, in quel periodo, il personale di polizia femminile non brillava certo per fascino e operatività. Utilizzai allora un piacevole accorgimento per essere più agevolmente accettato nell’ambiente: senza rivelarle niente del servizio, invitai una mia amica genovese a trascorrere qualche giorno di vacanza a Roma. L’avvenenza della ragazza sbloccò qualsiasi diffidenza e ci procurò presto inviti presso questo o quel gruppo. Potemmo così restare fino al mattino quando il locale, rimanendo aperto solo per pochi, mostrava il suo volto più autentico e confidenziale. Intanto studiavo attentamente tutto ciò che avveniva cercando di individuare i personaggi più equivoci, i loro contatti, seguendone per quanto possibile i movimenti. Facevo ispezioni furtive ovunque potesse nascondersi droga: dal guardaroba agli uffici, dal retrobar ai servizi. Inoltre, con l’aiuto di un barman sensibile alle generose mance, avevo raccolto preziose informazioni. Dopo due settimane, avevo maturato una convinzione: anche se molti clienti appartenevano certo a quell’ambiente in cui profonde sniffate di coca parevano aprire la via a più audaci e ambigue sensazioni, non sembrava che in quel sofisticato locale si svolgesse un vero e proprio traffico di stupefacenti. D’altro canto, la cosa non sarebbe stata consigliabile per i gestori dal momento che, fingendosi anch’essi disinvolti clienti, si aggiravano tra quelle luci soffuse il macistico Frank Tarallo, capo del N arcotic Bureau americano, e un attento ufficiale della Guardia di Finanza. Sul loro anonimato, e forse sul mio, non c’era certo da giurare. Era stato proprio il barman, infatti, a indicarmeli con occhi furbeschi. Avevo l’impressione che qualcuno stesse abilmente manovrando le diverse Forze di Polizia sullo sfondo di una lotta dura e sottile tra titolari di locali notturni. Un’irruzione avrebbe portato probabilmente solo al rinvenimento di qualche bustina. Nel locale si intrecciavano quasi certamente contatti per ben più complessi traffici esterni, ma per un buon esito delle indagini si sarebbe dovuto far ricorso a intercettazioni, pedinamenti, controlli sistematici o autorizzarmi ad agire come un agente provocatore interessato a partite di droga. Con queste considerazioni, dopo un paio di settimane, consegnai una dettagliata relazione al questore Parlato. Mi rispose che avevo fatto un buon lavoro, ma che per il

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momento era meglio interromperlo.

Tornai a Genova alla guida della Narcotici. Dopo qualche tempo il ”N umber One” sarebbe stato chiuso e i gestori arrestati. Una soffiata aveva fatto trovare, con matematica precisione, un discreto quantitativo di cocaina. Ma era come avevo intuito. Il successivo processo avrebbe dimostrato che tutto era da inquadrarsi nella lotta tra due gruppi di playboy tra cui Pierluigi Torri e Paolo Vassallo, e che l’operazione di polizia era stata teleguidata per far fuori qualcuno di loro. Mi sarei ritrovato poi in un’aula di giustizia a illustrare la mia relazione che, seppure riservata, era stata inviata all’Autorità Giudiziaria. Le considerazioni impietose su quel mondo sfuggente suscitarono brusìi di compiacimento tra il pubblico e di irritazione tra alcuni degli eleganti testimoni.

Sezione N arcotici: quattro gatti contro i mercanti

Dopo questa breve esperienza mi convinsi ancor più della necessità di orientare l’azione investigativa contro i trafficanti e quanti ingrassano sulla pelle di tanti ragazzi. Gli uomini della sezione, dai sottufficiali Oliva, Pozzolo, Faesu, alle guardie Angelini, Cuccu, Cristella, già formati dall’aperta visione del collega Cuozzo, avevano capito e collaboravano con entusiasmo. Continuavo ad avvalermi dell’opera preziosa dell’appuntato Fiorenza che aveva voluto seguirmi dalla Notturna.

Spesso si affiancava a noi il migliore investigatore che abbia conosciuto: dall’energia giovanile, malgrado i capelli e i baffi brizzolati ne tradissero l’età, il maresciallo Porfido era una specie di istituzione della Mobile. Non c’era notte che negli oscuri vicoli dell’angiporto non ci fosse qualcuno di noi a raccogliere la più vaga notizia, sviluppare anche il minimo sospetto. Il misterioso tamburo della mala cominciava ad annunciare con timore la nostra presenza: «C’è la N arcotici». Quattro gatti con tanta volontà e passione, che si spingevano talora al di là di ragionevoli rischi. Come quella notte in cui mi ero ritrovato solo con quattro trafficanti dal viso truce nella stiva di una nave turca ormeggiata nel porto. Alcuni giorni prima avevo agganciato un marinaio austriaco che cercava un contatto per vendere alcuni chili di droga. Era stato proprio quel pregiudicato che aveva minacciato di uccidermi a mettermi sulla pista, precisando: «Commissario, avete

trattato bene i miei figli quando ero in prigione...ora siamo pari!». Le trattative con l’austriaco nella penombra di equivoci bar di periferia durarono qualche giorno. Ci studiavamo con reciproca diffidenza. Dal suo giubbetto spuntava il manico di un revolver. Io non ero da meno nel toccare disinvoltamente il gonfiore della mia Bernardelli sotto la giacca. Fiorenza, perfettamente calato nel ruolo di guardaspalla, si faceva notare a distanza. Infine, il marinaio aveva portato un campione di droga ed io gli avevo fatto intravedere diversi milioni in una borsa. Erano costituiti da “mazzette” di carta coperte da banconote dei nostri stipendi! L’accordo raggiunto era in questi termini: sei milioni per cinque chili di ”pakistano”. Ma lui era solo un corriere: il suo capo, un libanese, rimasto a bordo, voleva consegnarmi la merce di persona. Fu così che, guidato dal gongolante austriaco, entrai nel tetro ventre della nave, mentre Fiorenza rimase all’esterno con i soldi. Se non fossi tornato entro un’ora, i miei uomini, come stabilito, avrebbero fatto irruzione sul mercantile. Tre brutti ceffi attendevano in una maleodorante cabina. Quello che sembrava il capo, consegnando all’austriaco le ”ciabatte” di droga per me, spiegò in pessimo inglese che avrebbe potuto procurarmi tutta la merce che volevo di qualsiasi tipo. Poi, acceso un pezzetto di oppio in una lurida pipa che fece circolare come un calumet augurale, volle festeggiare: «You are my

brother, now!». Sudavo freddo cercando di aspirare il meno possibile. Come Dio volle, sbarcai col corriere, impaziente di riscuotere il malloppo, proprio allo scadere del tempo. Al segnale convenuto, i miei uomini ci saltarono addosso facendo finta di arrestare anche me. Era mia intenzione infatti passare qualche ora in guardina con l’austriaco accusandolo di avermi tradito, in modo da acquisire altri elementi preziosi. Poi, tornato sulla nave, avrei arrestato i complici ed

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effettuato una perquisizione accurata. Questo programma saltò. L’impaziente vice-capo della Mobile aveva già convocato i giornalisti che, all’arrivo, ci vennero incontro complimentandosi. Quando tornai sulla nave, dei trafficanti e della droga non v’era più traccia.

Un’altra volta rischiammo di trasformarci in torce nel regno dei travestiti. Partite di eroina giungevano da Amsterdam trasportate nelle cavità anali da alcuni di essi. Lavoravamo da tempo su questa pista, ma senza alcun risultato. Avevo persino fatto intercettare ed ispezionare due di loro, Bibi e Serenella, dalla polizia di frontiera olandese. I funzionari d’oltralpe di certo non avrebbero più ripetuto, mi avevano fatto sapere, un così poco entusiasmante controllo. Una sera, verso le ventitré, mentre assistevo con un’amica a uno spettacolo teatrale al ”Margherita”, il collega Valente venne a cercarmi. Qualcuno al telefono voleva parlare solo con me. Finalmente la notizia buona: alcuni travestiti erano appena tornati da Amsterdam con la merce e stavano dividendosela nella casa di Serenella! Bisognava far presto. Mi accomiatai dalla contrariata accompagnatrice e col collega Valente e due poliziotti della “sezione” subito rintracciati, Cristella e Cucco, ci calammo rasentando i muri in quei vicoli bui. Individuato l’appartamento, Cristella, imitando alla perfezione la voce di un noto travestito, riuscì a farsi aprire, mentre Cucco restava di guardia in strada. Dentro in quattro, seminudi, al caldo tepore di una stufetta, stavano dividendosi i pacchetti di eroina recuperati. Fu subito l’inferno. Ci aggredirono come energumeni. Serenella a dispetto dell’etereo nome giganteggiava col suo metro e novanta, e gli altri non erano da meno. Fu una scena a cui avrebbe volentieri assistito Boccaccio. Era tutto un volar di parrucche, calci, pugni, piatti. Mi ritrovai addosso la stufa e dal tubo che si era staccato uscì un getto di gas infiammato. Serenella, dopo aver neutralizzato Cristella con un calcio fra le gambe, gettò il pacchetto più grosso dalla finestra. La voce tranquilizzante di Cucco salì dalla strada: «Dotto’, l’ho recuperato!». Venne smorzata dal crepitare di bottiglie piovutegli addosso dalle finestre vicine. All’esterno si erano intanto radunati a decine travestiti e loro compari. A stento riuscimmo infine ad avere la meglio facendoci largo tra quelle calca minacciosa da girone dantesco.

Santillo: il Questore di ferro

Nel settembre del ’72 Rebizzi andò in pensione e fu sostituito da Emilio Santillo. Lo accompagnava la fama di funzionario coraggioso ed energico. Proveniva da Reggio Calabria dove aveva confermato le sue capacità decisionali, organizzative e umane. Si doveva a lui se nel ’70 la rabbiosa rivolta di quella città, esasperata dai ”boia chi molla” di Ciccio Franco contro una classe politica dimentica dei problemi del sud, non era giunta a imprevedibili e drammatiche conseguenze. Ma ciò che gli stava di più a cuore era la polizia giudiziaria. Il suo nome era divenuto famoso a Roma anni addietro, quando aveva guidato una Squadra Mobile quasi leggendaria per la compattezza e lo sprezzo del pericolo dei componenti. Li chiamavano ”I cento di Santillo” e per lui, sempre in testa, avrebbero dato la vita. Che la sua fama non fosse immeritata apparve subito chiaro a tutti. Pochi giorni dopo il suo arrivo riunì tutti i poliziotti di Genova.

Impeccabile nel gessato di ottimo taglio sembrava un attore uscito da un film. Il viso dai profondi occhi azzurri, incorniciato da capelli e baffi biondo cenere, emanava fascino ed energia. Il suo carisma di capo si impose immediatamente. Con voce modulata, tagliente e decisa, tra una boccata e l’altra dell’immancabile sigaro, ci espose le sue direttive: non ci sarebbe stato posto per i lavativi; la lotta al crimine andava condotta senza risparmio di energie; nei vicoli di Genova si sarebbe dovuto passeggiare come nel corso di via XX Settembre; ogni poliziotto poteva star certo che avrebbe sempre trovato lui alle spalle. Non era retorica, e lo verificammo nei giorni seguenti. Un dinamismo nuovo si impadronì della Questura: iniziarono lavori di ammodernamento e potenziamento di mezzi e strutture. Giunsero nuovi apparati radio, nuove auto, altri uomini tra i quali il vicequestore Schiavone e gli appuntati Germani, Parisi e Zampetta, suoi fedelissimi che da sempre lo seguivano

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nelle diverse sedi. Sovente appariva nei vari uffici, iniziava a parlare con tutti con fare scherzoso o rimproverava qualcuno colto in fallo. Qualche funzionario, arrivato in ritardo, ebbe la sgradita sorpresa di trovarlo seduto al suo posto: «Scusi

dottore, nel frattempo ho assicurato io il suo servizio! Mi dica se domani devo

tornare!». Non era raro vederlo a bordo di una volante; attraversava la città per rendersi conto personalmente. Con lui mi trovai subito in sintonia.

Una notte, verso le due, lo notai scivolare silenziosamente negli uffici della Narcotici dove stavamo interrogando un pericoloso trafficante spagnolo appena arrestato. Era stata una indagine estenuante. Qualche settimana prima era stato trovato il corpo senza vita di Giovanni Messina, alias ”Gianna la catanese”. Una morte apparentemente dovuta a overdose: ma non ne eravamo convinti. Era il secondo travestito ad essere trovato morto in circostanze misteriose nell’arco di pochi mesi. Scandagliando con pazienza nel sottobosco del vizio, ci eravamo convinti dell’esistenza di un giro di ”droga party” in cui alcuni di essi giocavano un ruolo intimo e importante. Avevamo individuato l’appartamento dove a ”Gianna” era stata iniettata l’ultima dose e le persone che l’avevano scaricato, quasi una sfida, vicino alla Questura: Vasco, un giovane marittimo e la sua compagna Milena, una splendida ragazza di buona famiglia. Anche lei, dopo qualche anno, sarebbe morta per overdose. Avevamo scoperto anche il loro principale fornitore di eroina, uno spagnolo del quale si sussurrava con spavento il nomignolo: ”N ique”. Viveva rintanato da qualche parte nel quartiere della Maddalena e raramente scendeva nei vicoli. Un tipo pericoloso e sempre armato che nulla aveva da perdere: tossicomane, malato, aveva fatto sapere che mai l’avrebbero preso vivo. Gli davo la caccia da tempo. Quella notte con la guardia Cuccu bloccammo durante un improvviso controllo in un bar di via Croce Bianca. Nello slip aveva un sacchetto di eroina pura. «Commissario, cinque minuti e saresti

morto!». Pochi istanti prima aveva passato il suo revolver a un altro trafficante. Il Questore restò ad ascoltare con gli occhi brillanti di chissà quali ricordi di giovinezza, poi uscì silenziosamente!

Il periodo di Santillo fu operoso e dinamico per la Questura genovese. La Squadra Mobile risentiva in special modo della sua passione per la polizia giudiziaria. Dispose ben presto una serie di cambiamenti alla direzione dei vari uffici. In particolare nominò sovrintendente alle operazioni anticrimine Schiavone, esautorando di fatto il dottor Reale. Al commissario capo Nicoliello affidò la direzione della Mobile e io mi trovai vice-dirigente, a soli trent’anni, di un ufficio così impegnativo. Gli uomini erano tutti galvanizzati dalla fiducia che Santillo sapeva infondere loro. Lavoravano con entusiasmo ed impegno, orgogliosi di essere conosciuti per nome dal Questore e di essere seguiti nel loro duro lavoro.

In questo clima infliggemmo ben presto duri colpi alle bande dei marsigliesi che si erano insediate nella zona di Porta Soprana, al seguito del boss Jo Le Maire. Non doveva essere sembrato vero a questo ”Borsalino” d’Oltralpe, sotto processo a Roma per gravissimi reati, il fatto di essere stato inviato in soggiorno obbligato proprio a Genova, a due passi da casa sua. Ben presto era stato raggiunto da fedeli seguaci, marsigliesi o “pieds noirs” dell’Algeria francese che, impadronitisi attraverso regolamenti di conti di alcuni locali notturni, si stavano inserendo nel mondo della droga e della prostituzione.

Venne inflitto un duro colpo anche alla banda di Mario Rossi. Lo sospettavamo per una serie di rapine, ma i nostri rapporti indiziari si perdevano nei meandri del Palazzo di Giustizia. Sotto la guida dell’instancabile Schiavone lavorammo senza risparmiarci. Dopo l’ultimo colpo ai danni di una banca di Genova-Quarto, trovammo la conferma alle nostre ipotesi anche grazie alla collaborazione di un cittadino. Questi, un ufficiale tutto d’un pezzo, volle incontrarmi personalmente. Dopo essersi fatto dare la parola d’onore che non l’avrei coinvolta testimonialmente mi fece parlare con la figlia sedicenne che riferì particolari importanti. Un giovane uscito armato dalla banca, dopo essersi sfilato il

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passamontagna, era sfrecciato via su una rombante Kawasaki con i capelli rossi al vento. Lo riconobbe nelle foto segnaletiche. Mi sentìi un verme quando, a mia insaputa il capo della Mobile inserì nel rapporto il nome della ragazza, esponendola a confronti pieni di paura e pericolo. Per di più inutili poiché sulla base di quell’indicazione avevamo già raccolto altre prove importanti. Uno ad uno finirono dentro tutti. Rossi, che sembrava essersi volatilizzato, fu l’ultimo. Sulle sue tracce avevo messo la guardia Pardo. Per oltre un mese questo astuto e tenace segugio aveva costretto la sua ragazza a romantiche soste in auto nei pressi di una abitazione sospetta. La sua costanza avrebbe vinto. Una notte ci chiamò con voce febbrile: aveva visto accendersi per un attimo la luce. Quasi all’istante fummo là. Ci vollero alcuni minuti prima che la porta cedesse sotto le energiche spallate di Schiavone. Una donna, la Cosima, ostentamente nuda, fingeva di dormire. Del suo uomo nessuna traccia. Sembrava un leone ferito quando alle prime luci dell’alba lo trovammo, le gambe rotte, nascosto in un anfratto del cortile dove si era rocambolescamente calato dal quinto piano.

Anche per ”Tubetiello” la buona sorte cambiò. Un giorno, nella centralissima piazza de Ferrari due signori non più giovanissimi si erano sfidati pistole alla mano. Forse un po’ fuori esercizio, erano riusciti a ferire soltanto un’ignara donna incinta che passava da quelle parti. Nonostante l’omertà della mala, ero riuscito a identificare subito gli autori di questo maldestro regolamento di conti. Mi aveva insperatamente aiutato proprio un giovane a cui poco tempo prima avevo dato una mano a uscire dalla droga, trovandogli un lavoro. Aveva osservato, non visto, la scena e, benché pieno di paura, era venuto a riferirmi alcuni particolari. Arrestammo subito il primo sparatore, ”Toto o’ bombolaro”, uno spavaldo napoletano dai radi capelli lunghi. Il secondo, ”Tubetiello”, poté fuggire alcuni istanti prima che arrivassi col mandato di cattura: qualcuno lo aveva avvisato in tempo, forse proprio dall’interno della Questura.

Come vice-capo della Mobile mi occupavo dei reati più gravi, anche se la lotta al traffico di stupefacenti continuava a essere l’impegno principale. Santillo seguiva personalmente ogni operazione di rilievo, stimolandoci con la sua esperienza, il suo intuito e la sua capacità decisionale tesa a scavalcare ogni lentezza burocratica. Una volta, per esempio, eravamo riusciti a arrestare, solo dopo poche ore, alcuni banditi che, presentatisi come ufficiali della Guardia di Finanza, avevano rapinato un grossista di preziosi in un negozio della centralissima via XX Settembre. All’appello mancava il personaggio numero uno, un temuto criminale torinese che, secondo le informazioni ricevute dalla Mobile di quella città, aveva una ragazza in Francia, a Grenoble. La sera stessa, su disposizione di Santillo al di là di indugi ministeriali, il maresciallo Porfido e io eravamo sul treno. Fu la mia prima missione all’estero. La splendida collaborazione del Maigret del luogo, il commissario Mercier, ci permise di localizzare e arrestare lo sbigottito rapinatore appena giunto.

Ma la più grande soddisfazione data a quel Questore che mi aveva concesso la sua fiducia fu la soluzione di un caso di omicidio verificatosi, prima della sua nomina, a Santa Margherita Ligure. Un anziano avvocato era stato massacrato a colpi di bottiglia nella sua abitazione, di fronte all’elegante porticciolo. Il crimine aveva suscitato sgomento nella tranquilla cittadina, tanto più che la vittima era nota e impegnata politicamente. Le indagini erano state avviate dallo stesso capo della Mobile di allora, ”Angiulin” Costa, senza determinanti sviluppi. Santillo mi aveva convocato nel suo ufficio e incaricato del caso su cui continuavano a indagare i Carabinieri di Santa Margherita e il commissariato di Rapallo: non poteva ammettere aveva detto, che gli omicidi rimanessero impuniti. Proprio a Rapallo, con Porfido, Fiorenza e i tre fedelissimi Parisi, Germani e Zampetta, stabilìi la base operativa. Andai subito a trovare il giovane tenente dei Carabinieri proponendogli di lavorare insieme. Ribadendo la quasi esclusività delle indagini, mi liquidò seccamente: stava per chiudere quel caso di omicidio per rapina. Qualcosa non mi convinceva in quel crimine perpetrato così ferocemente. Ripartimmo da zero,

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rivisitando i luoghi del delitto, studiando di nuovo nei minimi dettagli i verbali di interrogatorio e le risultanze autoptiche. Lessi e rilessi le ultime cause difese dall’avvocato. Mi colpì il fatto che il vecchio penalista si facesse sovente nominare difensore d’ufficio di giovani senza soldi. Questo e alcune indicazioni confindenziali mi convinsero ad affidare a Germani e Parisi l’incarico di muoversi nell’ambiente degli omosessuali. Forse eravamo sulla pista buona. L’avvocato non era il probo uomo di chiesa che la sua immagine pubblica voleva dare a intendere. La sua generosità verso quei giovani imputati sembrava trovare alimento in ben altri fervori. Su uno dei suoi ultimi difesi, M.T., si appuntò la mia attenzione. Era un taciturno e abulico ragazzo del posto, senza padre conosciuto, da poco partito per il servizio militare. Il giorno dell’omicidio era a Santa Margherita, ma il suo alibi sembrava di ferro. Gli parlai a lungo e a più riprese, senza accusarlo di niente, ma chiedendogli della sua conoscenza col vecchio. Era semplicemente un rapporto di lavoro, ripeteva: l’avvocato lo aveva difeso gratuitamente per un’accusa di furto. Una frase mi aveva colpito: «Mi ero affezionato a quell’uomo, ma lo disprezzavo». Suffragato da altri indizi mi ero convinto che proprio lui avesse ucciso l’avvocato con il quale doveva essere legato da una strana relazione. Tornato a Genova per sentire l’opinione del professor Franchini, mio vecchio docente di psicologia criminale, trovai sostegno all’ipotesi. Ne parlai allora al magistrato che seguiva il caso: «Mi faccia un promemoria», rispose incredulo. Aveva da poco ricevuto il rapporto dei Carabinieri a carico di alcuni pregiudicati per omicidio a scopo di rapina. Convocai per l’ultima volta il ragazzo. Gli dissi apertamente che ero persuaso che egli avesse ucciso quel vecchio per liberarsi di un fardello divenuto insopportabile, così come ero certo che, non essendo un vero criminale, non avrebbe potuto convivere a lungo col suo senso di colpa: lo avrei denunciato per omicidio, sebbene non avessi prove schiaccianti. Lo congedai augurandogli buona fortuna. Uscì lentamente a capo chino. Dopo un’ora era lì di ritorno col viso terreo, le lacrime agli occhi. Sì, era stato lui. Quell’uomo lo aveva difeso, aveva conquistato la sua fiducia, era divenuto una specie di padre per lui, quel padre mai conosciuto. Poi aveva voluto che si sdebitasse, sessualmente. Era stata una lenta, sottile opera di convinzione ricattatoria. Ne era nata una relazione malata, allucinante. L’omicidio era stato un gesto punitivo e liberatorio. Avrebbe voluto uccidersi. Ma non ne aveva avuto il coraggio. Chiamai il magistrato che, diffidente, mi invitò a uscire per interrogarlo da solo. «Se non c’è il commissario, non parlo», urlò il ragazzo. Fornì così tutti i particolari di quei momenti di rabbiosa furia omicida.

Appena riferita la notizia, dalla Questura si precipitarono diversi funzionari. Fu penoso vederli contendersi, sotto i flashes dei reporter apparsi quasi per incanto, quel ragazzo distrutto. Alle due di notte terminai gli ultimi verbali, avendo cura di dare al preoccupato tenente dei Carabinieri elementi per le segnalazioni ai suoi Comandi. Mentre rientravo a Genova, mi comunicarono via radio di passare in ufficio: mi attendeva il Questore. Lo trovai all’ingresso del grigio palazzo con l’immancabile sigaro tra le labbra: «Bravo, guaglio’, sei un buon poliziotto. Adesso

riposati, e stata dura, lo so!». Sondare l’animo di quel ragazzo mi aveva logorato. L’indomani partìi per casa, mentre i giornali annunciavano che il caso era stato risolto. Tempo dopo, al processo in Assise, l’avvocato Muzio Sale, il penalista che aveva assunto la difesa del giovane, avrebbe affermato dinanzi a un’aula gremita che l’arringa più convincente a favore di quello sventurato era proprio nel rapporto del commissario di polizia. Dopo la testimonianza, il ragazzo, da dietro la gabbia degli imputati, volle ringraziarmi. La Corte lo avrebbe condannato a una pena relativamente mite.

Dovetti occuparmi anche di reati di buon costume, che rientravano all’epoca tra le competenze della Narcotici. La cosa non mi entusiasmava. Fortunatamente, c’era il maresciallo Oliva, una vera enciclopedia di ”lucciole” della città. Era straordinario vederlo trattare con tanto garbo e signorilità anche le prostitute più arroganti. Tuttavia, anche qui ebbi modo di cimentarmi con indagini interessanti. Proprio

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partendo da un caso di atroci sevizie ai danni di una prostituta brasiliana, eravamo arrivati, unitamente alla Buon Costume di Milano, a far emergere giudiziariamente un vasto traffico internazionale di giovani sudamericane, distolte con chissà quali miraggi dal sole di quei posti ed inviate poi nei bordelli di Marsiglia, Genova, Bruxelles, Milano, Amburgo. Impossibile uscire dal giro. Quella bellissima brasiliana che batteva per conto di un ”macrò” marsigliese aveva tentato, ma era stata letteralmente stirata con un ferro infuocato e poi venduta sottocosto a una banda minore per una zona meno redditizia. Occorreva talora operare anche in direzione delle case d’appuntamento. Sorrido ancora al ricordo di spaventati professionisti che, rivestendosi frettolosamente, cercavano di convincere gli agenti di essere in visita di cortesia; o della volta in cui, dopo aver appreso che il segnale convenuto per farsi aprire era un mazzo di rose, ci presentammo, l’appuntato Parisi e io, con un odoroso bouquet. Dinanzi a un simile omaggio, l’elegante ”madame”, un’astuta professionista già nota, venne subito al dunque: fece apparire come per incanto due splendide minorenni seminude, studentesse di lingue che avrebbero, a suo dire, dato accurate lezioni per centomila lire a seduta. Alla vista dei nostri tesserini, volarono dalla bocca della gentile signora epiteti irripetibili. Le ragazze erano così carine che, scendendo le scale, il buon Parisi borbottò scherzosamente: «Dotto’, potevamo almeno consumare il delitto, per avere più prove!».

Senza dubbio, quello di Santillo fu per Genova uno dei periodi più tranquilli. Accanto alle operazioni di polizia giudiziaria, egli aveva rispolverato il sistema di severa applicazione delle misure di prevenzione, di specifica competenza del questore: dalla diffida al rimpatrio ai luoghi d’origine, dal ritiro di patente alla proposta di “soggiorno obbligato” per pregiudicati recidivi o personaggi dalla sospetta vita criminale. Con la stessa severità volle anche che si agisse, attraverso provvedimenti amministrativi di sospensione o ritiro delle licenze nei confronti dei titolari dei pubblici esercizi, dove la gestione fosse scorretta o equivoca. Così, ad esempio, proprio sulla base di un mio rapporto venne chiuso per quasi un mese lo Scandinavia, un night di via Gramsci dall’attività poco chiara. Con questo sistema, Santillo riuscì probabilmente a convincere una parte della mala a cercare altrove pascoli più tranquilli per i proprio lucrosi traffici. Sicuramente fu una fortuna per la città che stava diventando oggetto di premurose attenzioni da parte di personaggi del gotha mafioso. Si sapeva infatti confidenzialmente che un noto boss palermitano era piombato nella zona dell’angiporto con i suoi uomini, sequestrando ai contrabbandieri locali un carico di ”merce”, probabilmente per imporre la regola del ”pizzo”.

La personalità di Santillo era riuscita inoltre a creare in breve tempo, cosa quasi miracolosa, un clima di leale collaborazione tra i tre Corpi di polizia sovente in stupida competizione. Ebbi modo di lavorare in sintonia professionale con valorosi ufficiali dei Carabinieri come il colonnello Richero, il maggiore Placidi, i capitani Vitali, Seno, Romano, Pensa. Lo stesso avvenne con ufficiali della Guardia di Finanza, dai colonnelli Bianchi e Soggiu al capitano Petracca. Da essi avrei appreso i primi elementi delle complesse indagini finanziarie, così importanti per contrastare il crimine organizzato. Erano i tempi in cui coraggiosi pretori d’assalto come Sansa e Almerighi osavano guardare nei santuari dei bilanci neri di intoccabili società. Un clima di reciproco rispetto regnava inoltre con tutti i magistrati che, sia pure con diversa convinzione, erano vicini alle forze dell’ordine, dal procuratore capo Coco al giudice istruttore Castellano, da Marvulli a Sossi.

In questa atmosfera di efficienza giunse improvvisa la notizia del trasferimento di Santillo da Genova a Torino, ad appena un anno dal suo arrivo. Ufficialmente si trattava di un riconoscimento delle sue capacità professionali: la capitale piemontese aveva bisogno di maggiore sicurezza. Nell’ambiente circolò la voce, forse più attendibile, che la sua inflessibile azione di controllo aveva dato fastidio. Un famoso locale della riviera frequentato da un importante uomo politico era stato chiuso e Santillo aveva resistito alla pressioni per farlo riaprire. Forse era stata la goccia che aveva fatto traboccare il vaso: il 26 dicembre ’73 lasciò Genova e al suo

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posto venne inviato il questore Antonio Sciaraffia.

III. Il Movimento democratico dei poliziotti

Una scintilla nella coscienza

Durante questi primi anni di attività, il confronto con la realtà sociale e professionale di tutti i giorni continuava a offrirmi spunti di inevitabile riflessione. Il servizio di polizia, ne ero fermamente convinto, altro non doveva essere che l’esercizio concreto di una funzione delegata dai cittadini per assicurare a tutti una quieta convivenza sociale, secondo i principi sanciti dalla Costituzione. Tutelare, insomma, nel modo più efficace e democratico il diritto di ciascuno al ”bene sicurezza”: questo era il dovere delle Forze di polizia.

Ma in che misura ciò si realizzava? Erano idonee per strutture e formazione ad assicurare un così prezioso servizio? E qual era il ruolo effettivamente svolto dai poliziotti? Erano posti nelle migliori condizioni ambientali, professionali e umane per adempiere ai loro compiti? Questi interrogativi, inizialmente confusi e incerti, diventavano man mano più pungenti, rimbalzando talora su avvenimenti contraddittori o poco chiari. Sensazioni lontane, non ancora sopite, più o meno inconsciamente smuovevano qualcosa dentro di me. Fiero della divisa di sottotenente dei Carabinieri, avevo sia pur marginalmente respirato quella ventata di potenziamento organizzativo e decisionale che tra il ’64 ed il ’67 aveva attraversato l’Arma sotto l’impulso galvanizzante del generale De Lorenzo. Con stupore avevo poi letto i primi articoli di Jannuzzi e Scalfari che denunciavano le verità non dette del Sifar e i retroscena del piano ”Solo”, ideato dall’energico Generale in vista di un colpo di stato. Tutte falsità e provocazioni, avevo pensato con sdegno. Quanta delusione e amarezza apprendere poi la conferma della commissione d’inchiesta voluta dal Governo!

Ero rimasto profondamente turbato quando, a fine ’68 ad Avola, due braccianti erano rimasti uccisi e tanti altri feriti negli scontri con polizia e carabinieri. Trasferito da poche settimane da Siracusa a Catanzaro avevo ringraziato il cielo di non essere stato mandato a fronteggiare quella povera gente che manifestava per il proprio lavoro. Ancora una volta le Forze dell’ordine erano state impegnate per risolvere con manganelli e fucili, quasi come ai tempi di Bava Beccaris, la secolare situazione di sfruttamento di quei contadini.

Poi, nel novembre del ’69, mentre frequentavo a Roma con una quarantina di colleghi il corso di commissario, era giunta la notizia che a Milano, durante uno scontro di piazza al termine di uno sciopero generale, l’agente Annarumma era caduto col cranio spappolato sull’asfalto. In improvvisate riunioni ci eravamo chiesti quale contributo avremmo potuto dare noi, giovani funzionari di polizia, quasi tutti meridionali, che fino a pochi anni prima avevamo respirato nelle diverse Università la stessa atmosfera di insoddisfazione e incertezza del futuro. Insieme ai colleghi Granata, Ravenna, Speranza, Fabbri, Di Palma e altri, scoprimmo una comune volontà di fare qualcosa. II nostro fervore aveva convinto tutti all’idea di pubblicare un breve articolo su un giornale, non solo per ricordare quel povero ragazzo del Sud emigrato e morto in polizia invece che in una lontana miniera del Belgio o della Francia, ma anche per invitare tutti a riflettere sull’assurdità di quelle lotte fratricide. Granata e io preparammo il testo che Paolo Matricardi, un giornalista del «Messaggero» già mio amico di liceo a Pescara, avrebbe dovuto pubblicare. L’iniziativa naufragò: qualcuno era intervenuto dall’alto, riuscendo a scoraggiare la maggior parte dei colleghi. Tuttavia al termine del corso, furono parecchi tra noi a divenire portatori di sentimenti nuovi, rimanendo legati a una tacita promessa di impegno. Sebbene si trattasse di sensazioni ancora pallide e confuse, qualcosa stava certo prendendo forma nella coscienza dei poliziotti più sensibili.

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Che inequivocabile messaggio mi era giunto qualche tempo dopo quando a Genova, fronteggiando i manifestanti in sciopero dinanzi ai cancelli dell’Italsider, un giovane poliziotto mi si era rivolto con: «Dottore, se si deve caricare, mi mandi

via. Fra quelli c’è anche mio fratello!».

Negli anni ’68-’70, così carichi di tensione, era duro sentirsi addosso lo sguardo sprezzante e rabbioso dei dimostranti mentre echeggiava il grido di «Sbirri, servi

del padrone» oppure «PS = SS». E quelle monetine gettate sul viso bruciavano come profonde ferite nell’animo. Quanta carica di violenza covava tra quei giovani disoccupati, studenti, operai, accomunati dallo stesso rancore verso una classe politica tanto disattenta ai mutamenti sociali. E noi lì in mezzo, a fare da cuscinetto, talvolta col sangue. Bisognava proprio fare qualcosa per uscire da quell’equivoco dalle profonde radici storiche: i poliziotti non potevano né dovevano essere utilizzati come guardiani armati contro altri lavoratori. Il ruolo assegnato loro dalla Costituzione era quello di garantire la sicurezza di tutti i cittadini, non quello di essere utilizzati per tamponare con la forza conflitti sociali non affrontati politicamente.

L’esperienza di Notturna, in particolare, mi aveva rivelato profonde contraddizioni professionali e umane. Certo, già con la relazione inviata al Questore Rebizzi sulle dure condizioni di lavoro avevo ottenuto miglioramenti insperati per la Questura genovese. Mi rendevo però conto che il problema era ben più vasto e doveva essere impostato su basi globali e incisive, nell’interesse di tutti. D’altro canto, pensavo, se l’entusiasmo e lo spirito di sacrificio di pochi poliziotti, a Genova come certamente altrove, portavano già a risultati apprezzabili, quali migliori servizi non si sarebbero potuti fornire alla società con una polizia più preparata, trattata dignitosamente e democraticamente inserita nel contesto sociale? Ma per questo occorreva far uscire i poliziotti dal ghetto in cui erano relegati, restituire loro una dignità umana e professionale quasi sempre mortificata. Nello stesso tempo era indispensabile cercare di colmare il divario esistente tra loro e gli altri lavoratori, provocare insomma un salto culturale che cancellasse un rancore storico.

Alla luce di questi sentimenti, una notte, durante una pausa dell’interminabile servizio, riflettendo su un ultimo sanguinoso scontro tra polizia e operai davanti a una fabbrica del Nord, preparai una lettera per i tre segretari generali della CGIL, CISL e UIL, Lama, Storti e Vanni. Li invitavo a non dimenticare che i poliziotti erano anch’essi figli del popolo, quasi tutti emigranti in divisa, venuti in gran parte dal Sud per servire lo Stato ma costretti a vivere e operare come cittadini di serie b. D’altro canto, il pioniere del sindacalismo italiano Giuseppe Di Vittorio non aveva già detto queste cose? Era necessario che tutti insieme, poliziotti e lavoratori, costruissimo su un atavico legame di sofferenza le condizioni per una comprensione reciproca. Dopo una lunga opera di convincimento, ero riuscito a far firmare a diversi poliziotti genovesi, tra cui i colleghi Bombara, Minerva, Cocola, Celentano e Brunetti, quella lettera, certamente rivoluzionaria per quei tempi. Non ci fu risposta. Mi convinsi che il salto culturale doveva essere fatto anche da parte degli stessi lavoratori e dei loro rappresentanti. Bisognava rassicurarli che in polizia stava circolando un’aria nuova, meritare la loro fiducia.

Per fortuna non eravamo i soli a sentire quell’ansia di rinnovamento: in altre città d’Italia, altri poliziotti stavano maturando la stessa presa di coscienza. In particolare, avevo appreso che a Roma un giornalista, Franco Fedeli, intuendo quel che stava avvenendo, aveva fatto del periodico da lui diretto, «Ordine Pubblico», una libera tribuna per le nuove idee. Egli stesso, appassionato assertore dei diritti civili, partecipava in prima persona alla nascita di quei nuovi fermenti che scuotevano un’ Istituzione tradizionalmente conservatrice e repressiva. Mi misi in contatto con lui. In tutta segretezza, nell’intervallo tra due servizi di notturna, dopo dieci ore di treno mi trovai nel suo ufficio romano. Il suo entusiasmo, la sua coraggiosa determinazione, la sua fede di antifascista, furono per me e per molti altri di conforto e sostegno alle nostre idee. Nella redazione di «Ordine Pubblico»,

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riservato e sicuro punto di riferimento, conobbi i primi poliziotti ”carbonari”: i marescialli Annunziata e Valletta, la guardia Fedele Fortunato, i brigadieri Tortorella e Sannino, l’appuntato Giordani e poi ancora l’agente Cicatiello, il brigadiere Polselli, il capitano Giacobelli, il maresciallo Raffuzzi e via via tanti altri. Respiravamo insieme il fascino nuovo e inebriante di quell’impegno convinti che qualcosa di meraviglioso stesse accadendo non solo per i poliziotti, ma per tutto il Paese. Su questi ideali comuni nacque il ”Movimento dei poliziotti

democratici per la riforma della Polizia”.

Insieme, senza distinzione di gradi o qualifiche, formammo i primi nuclei operativi. Per tessere nuovi contatti e adesioni, ci muovevamo con estrema cautela, guardandoci alle spalle, incontrandoci in luoghi sempre diversi, chiamandoci con pseudonimi. La preziosa esperienza che Franco Fedeli, ex partigiano arrestato ai tempi dell’Ovra, aveva maturato sulla pelle, ci fu indispensabile perché il movimento non venisse soffocato sul nascere. La rete sotterranea dei nuclei clandestini cominciò ad estendersi in tutte le città, da Bologna a Napoli, da Messina a Milano, da Bolzano a Matera. Ricordo con nostalgia la nascita di quello genovese: in una trattoria fuori mano, a Molassana, eravamo appena una decina, tra cui le guardie Cuccu e Pardo e il brigadiere Pozzolo, rivelatosi poi un sindacalista di vecchia data. Per l’occasione, erano giunti da Roma lo stesso Fedeli nonché alcuni elementi del nucleo milanese. In lunghe e appassionate riunioni studiavamo come dare contenuti precisi e sistematici alle nuove esigenze di rinnovamento. Oc- correva infatti ricondurre ad armonia costruttiva ogni fermento, evitando provocazioni e fughe in avanti che, pur spontanee, potessero dar luogo a dure repressioni o creare disorientamento nell’opinione pubblica.

Così era stato quando, nell’ottobre ’7l, una sessantina di ”celerini” della caserma di via Teglia a Torino avevano osato sfidare il codice militare sfilando in uniforme attraverso il centro in una silenziosa protesta che aveva stupito e spaventato la gente. O come quando i poliziotti delle volanti, a Roma, Milano e Palermo, avevano risposto via radio con frasi rabbiose agli ordini di servizio impartiti loro dalle Centrali operative. O come quando un centinaio di agenti a viso coperto si erano radunati in piazza Venezia, a Roma, intonando slogan di protesta, ben presto inseguiti e caricati da altri poliziotti in servizio.

Episodi come questi alimentavano la già dura repressione da parte dell’Amministrazione. I vertici ministeriali, allarmati dai fatti, reagivano con ostilità e sospetto, ritenendo più efficace cercare di reprimere o monetizzare idee e sentimenti piuttosto che cercare di capire. Per loro era più istintivo e semplice pensare che tutto nascesse da un’abile manovra di qualche stratega di partito nell’intento di infiltrare pochi scalmanati ”rossi” nella Polizia, da sempre feudo del potere. Lontani, nelle loro stanze ovattate, non avevano sentito e compreso il significato morale dello sdegnato epiteto ”premio Annarumma” che i poliziotti avevano subito dato alle quindicimila lire in più al mese concesse dopo la morte del loro collega. Non avevano capito che neppure le condanne a cinque mesi di carcere per sedizione aggravata e l’espulsione dalla polizia, subito inflitte ai promotori della marcia silenziosa di Torino, avrebbero fermato la forza delle idee. Certo occorreva sensibilizzare gli ambienti politici, quelli sindacali, tranquillizzare la gente sul fatto che non si era al servizio di questo o quel partito, ma solo dei cittadini e delle Istituzioni democratiche. Non ci sfuggiva il pericolo di strumentalizzazione. Ma eravamo preparati a respingere ogni sollecitazione di parte, rivolgendoci a tutte le forze sane del Paese. Il ”Movimento” nasceva dal cuore dei poliziotti.

Iniziano gli anni di piombo

Era indispensabile stringere i tempi per avviare un rapporto diverso, più trasparente e democratico, sia all’interno delle Istituzioni di polizia che tra queste e i cittadini. Ciò era fondamentale in un periodo in cui, sullo sfondo di già gravi tensioni sociali, drammatici episodi avevano preso a sconvolgere le stesse certezze della

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convivenza sociale. Il l2 dicembre ’69, un ordigno esploso nella banca dell’Agricoltura a Milano aveva dilaniato sedici persone ferendone altre cento. Contemporaneamente altre bombe erano esplose a Roma dinanzi alla Banca del Lavoro e all’Altare della Patria. Nel luglio ’70, nei pressi di Gioia Tauro, era stato fatto deragliare un treno, provocando la morte di sei viaggiatori e il ferimento di altri cinquanta. Il terrore aveva cominciato a correre sui binari. Nella sola notte del 2l ottobre ’72, nell’Italia centro meridionale, ben undici attentati avevano colpito treni di lavoratori che viaggiavano verso il Sud per una manifestazione sindacale. Nell’aprile ’73, l’incidente sul lavoro del neofascista Nico Azzi, ferito nell’esplosione dell’innesco di una bomba ad alto potenziale che stava collocando nella toilette del direttissimo Torino - Genova - Roma, avrebbe rivelato una matrice di estrema destra, dietro quel progetto di strage.

Intanto, già alla fine del ’69, un volantino dal significativo simbolo a cinque punte aveva annunciato: «E’ nata una stella». Erano le Brigate Rosse che si presentavano inneggiando alla ”rivoluzione del proletariato” e promettendo l’attacco al cuore dello Stato. Simboli neri e rossi, svastiche, asce bipenni, pugni levati col mitra sigle e messaggi deliranti tappezzavano i muri. Sulla tragica spirale sarebbero calati come avvoltoi faccendieri al servizio di potenti e occulti gruppi di potere che miravano soltanto a destabilizzare il Paese. Questi avrebbero potuto anche avvalersi di compiacenti funzionari di ”delicati servizi”, animati dall’ambizione o dalla nostalgia dei tempi passati. Soltanto negli anni successivi la storia giudiziaria scritta col sangue di coraggiosi magistrati, giornalisti, tutori dell’ordine, avrebbe aperto squarci di verità su questa strategia della tensione.

In questa assurda catena di violenza, un episodio mi colpì profondamente. Il l7 maggio del ’72, a Milano, il commissario Luigi Calabresi venne ucciso con alcuni colpi di pistola alla testa mentre si recava al lavoro. Già da tempo i muri di molte città erano coperti da graffiti che gli promettevano morte. Prima ancora di qualsiasi accertamento giudiziario, illuminati ideologi avevano emesso la loro sentenza: quel giovane commissario aveva scaraventato da una finestra del quinto piano della Questura lo sventurato anarchico Pinelli per trovare un capro espiatorio alla strage di piazza Fontana. Un’allusiva farsa teatrale girava già per le sale d’avanguardia. Certo, qualcosa di terribile doveva essere accaduto in quella fumosa stanza di polizia, e la Magistratura avrebbe dovuto accertare la verità. Ma quell’accusa spietata, senza possibilità di difesa, in quel clima infuocato, era l’incitazione a una vendetta sommaria, indipendentemente da qualsiasi esito giudiziario. Dai pochi contatti avuti con Calabresi avevo tratto l’impressione di un uomo onesto e moderno, socialmente aperto, incapace di un atto così terribile. D’altra parte, le prime risultanze dell’inchiesta rivelavano che conosceva bene e stimava Pinelli e che i due si erano persino scambiati dei libri. Linciato in quel modo, Calabresi avrebbe potuto farsi trasferire, ma era rimasto a continuare le sue tante indagini. L’Amministrazione non aveva disposto alcuna protezione ma annaspava alla ricerca di credibili verità. E in quel mattino di maggio Gigi Calabresi era stato ucciso come un cane.

Ma lo sventurato Pinelli e il giovane commissario non erano forse anch’essi inconsapevoli pedine della stessa iniezione di odio con cui si stava avvelenando il Paese? Vincendo ogni timore scrissi alcune riflessioni in un articolo apparso sul «Corriere Mercantile» di Genova, ponendo anche tali interrogativi inquietanti. Il questore Rebizzi mi convocò subito. Era la prima volta che un commissario osava firmare un articolo di quel genere. Avrebbe riferito al Ministero, minacciò. Poi, mentre uscivo, lo sentìi sussurrare, forse più a se stesso che a me: «E’ un articolo

sacrosanto». Alcuni colleghi telefonarono da altre città per esprimermi la loro comunanza di sentimenti. Decidemmo di ritrovarci a Milano per il giorno del funerale, nonostante da Roma fosse stata diramata la disposizione che invitava i funzionari a non muoversi dalle proprie sedi. Quel mattino, gli occhi pieni di stanchezza e di lacrime eravamo parecchi in via Fatebenefratelli, dinanzi alla Questura, per rendere l’ultimo omaggio allo sfortunato collega. Ma il funerale era

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già stato organizzato più come una fuga che come un atto di pietà verso quel poliziotto dello Stato, più di una volta ucciso. A nome di tutti comunicai al questore Allitto Bonanno, giunto da poco a Milano in sostituzione del suo predecessore, Marcello Guida, precipitosamente trasferito, la nostra intenzione di portare a spalla il feretro. Acconsentì commosso mentre accanto a lui un alto funzionario di Prefettura scuoteva vistosamente la testa. Pagnozzi, Valentini, Giancristoforo, Fabbri, Sorrentino e altri, trasportammo accanto ai familiari in lacrime quella bara coperta dal tricolore. Una folla silenziosa faceva ala al corteo. Al nostro fianco c’era Emilio Alessandrini con altri magistrati, da Fiasconaro a D’Ambrosio, da Galli a Colucci, da tempo impegnati contro il terrorismo.

Quel feretro che mi bruciava sulla spalla e nel cuore determinò in me un giuramento: lottare affinché nessun poliziotto fosse più manovrato come forza bruta, carne da macello o capro espiatorio, ma divenisse protagonista consapevole per una società più giusta, democratica e umana.

Una splendida carriera: da Salò a Genova

Il questore Rebizzi prima e Santillo poi avevano certamente intuito la mia partecipazione attiva al Movimento. Benché infatti cercassi di agire con circospezione, non poteva sfuggire che il mio ufficio era divenuto punto di riferimento per discussioni e iniziative. Rebizzi dai capelli bianchi d’esperienza, deluso e amaro nei confronti dell’Amministrazione, forse non aveva voluto stroncare, prima di andare in pensione, un giovane funzionario pieno di entusiasmo in cui ritrovava tratti dei suoi primi anni in polizia. Santillo, uomo di grande apertura umana e sociale, comprendeva certamente gli ideali che avevano dato vita al nostro Movimento. Entrambi avevano mostrato di apprezzare il mio impegno professionale. Col questore Sciaraffia le cose cambiarono. Come poteva essere diversamente? Già funzionario della Questura di Milano durante la Repubblica Sociale di Salò non poteva certo vedere di buon occhio il fermento che pervadeva la Polizia. Refrattario a ogni contatto umano, si era chiuso in uno splendido isolamento nella sua stanza dei bottoni, comunicando con il personale soltanto attraverso gelide ordinanze di servizio. La maggior parte dei poliziotti genovesi, ancora dopo mesi non lo aveva mai visto. Solo pochi funzionari avevano il privilegio di accedere al suo ufficio per interpretarne poi la volontà. Tra questi, il vicequestore Russo e il dottor Nicoliello divenuti, dopo la partenza di Santillo, vere eminenze grigie del Palazzo.

L’unica occasione di incontro collegiale fu quando, con tanto di ordinanza di servizio, Questore in testa, dovemmo andare tutti a porgere gli auguri di buona Pasqua al cardinale Siri. Una cerimonia che richiamava alla memoria vassallaggi lontani. Nei rari contatti da me avuti con Sciaraffia, il suo tono fu sempre di cortese, freddo distacco. D’altra parte, coerentemente alla sua formazione, il suo interesse si rivolgeva esclusivamente alla polizia politica snobbando la giudiziaria. Una sola volta lo vidi ascoltare con attenzione alcune mie osservazioni: fu in occasione del sequestro del giudice Mario Sossi avvenuto il l8 aprile del ’74 nella zona di Albaro. Le Brigate Rosse, che avevano rivendicato il crimine, stavano dando prova di grande abilità tecnica e profonda conoscenza della logica dei Corpi separati dello Stato. Quel sequestro aveva profondamente scosso la gente, chiamata inoltre proprio in quei giorni a scavarsi nelle coscienze in vista del referendum sul divorzio. La Polizia, completamente impreparata, annaspava nel buio. Dopo le prime settimane di apparente compattezza, si palesavano profonde divergenze fra potere esecutivo e potere giudiziario circa la linea da seguire nella gestione delle indagini. Si aveva l’impressione che si volesse arrivare in tempi brevissimi, a ogni costo, a chiudere il caso liberando Sossi vivo o morto. Profonde lacerazioni si andavano configurando anche all’interno del Tribunale genovese fra i magistrati inflessibili e quelli più possibilisti a contatti coi rapitori, o comunque desiderosi di comportamenti più cauti.

Ancora oggi sorrido e rabbrividisco insieme per l’ingenua temerarietà del mio

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comportamento: con una lettera inviata alla famiglia Sossi mi mettevo a totale disposizione. In caso di contatto con i brigatisti, potevano avanzare, scrivevo, la proposta di un mio scambio con il giudice. Di questa mia iniziativa avevo informato direttamente lo stesso questore Sciaraffia. Perplesso, ne aveva preso atto: avrebbe chiesto direttive al Ministero. Ero giunto a questa determinazione con paura, ma piena convinzione. Non solo per solidarietà e comprensione per quel giudice tanto conservatore quanto onesto, ma soprattutto perché quel grave episodio poteva offrire un’occasione irripetibile per tentare un contatto con le BR, prima che la miccia di rabbiosa ideologia che stavano innescando divampasse nel Paese. Forse c’era la possibilità di capire. Chi erano i brigatisti della prima ora? La storia degli anni successivi avrebbe rivelato che quel ”nucleo storico”, da Renato Curcio a Maria Cagol, era costituito per lo più da ragazzi di buona famiglia, studenti o laureati della Facoltà di Sociologia di Trento che vagheggiavano una tragica utopia. Avevo parlato di questa mia idea con Emilio Alessandrini nel suo ufficio milanese. Camminando insieme per il tetro corridoio della Procura, avevamo discusso a lungo, come sempre facevamo in occasione dei nostri incontri, di quel che stava accadendo nel Paese. Era anche lui molto preoccupato; temeva che quella folle energia rivoluzionaria degenerasse ancor più e che su di essa si innestassero manovre destabilizzanti. Del resto, alcune sue indagini, mi aveva detto, gli avevano rivelato come già in campo internazionale esistesse il preciso disegno di forze reazionarie di infiltrare propri elementi nei movimenti marxisti - leninisti per pilotarne in senso provocatorio la carica rivoluzionaria.

La mia proposta non sortì comunque alcun effetto. Il Questore mi comunicò che l’Amministrazione era sensibile al mio gesto, ma la via non era praticabile. Dopo un mese di detenzione nella ”prigione del popolo”, il 23 maggio Sossi venne liberato alla periferia di Milano. I brigatisti avrebbero rivelato alcuni anni dopo che proprio per non cadere vittime dell’esasperazione a cui la gestione delle indagini sembrava portarli, avevano deciso di liberare il giudice senza spargimento di sangue. Lo stesso Sossi doveva aver percepito i pericoli corsi da tutti i lati giacché appena liberato aveva raggiunto Genova in treno, e quindi casa in taxi, senza voler poi incontrare nessun inquirente eccetto il pretore Sansa. Ricordo ancora con commozione quando la moglie, chiamandomi per nome tra la folla di funzionari e ufficiali in attesa, mi invitò a entrare nella stanza del giudice. Stremato e con la barba ancora lunga mi abbracciò ringraziandomi. Quella notte, felice di quella conclusione incruenta, brindai con i giornalisti Pansa, Bonsanti, Arcuri e altri che per diverse settimane erano rimasti quasi accampati in Questura. Sarebbe stata una calma di breve durata.

Un mese dopo, il l7 giugno, nel corso di un’irruzione nella sede del MSI di Padova, le Brigate Rosse avrebbero ucciso due impiegati. Il primo sangue era stato versato, anche se la formazione terrorista avrebbe parlato di errore e stato di necessità. Tanto altro ne sarebbe ancora scorso. Forse proprio col ricordo volto alle vicende che avevano accompagnato il sequestro Sossi, qualche anno dopo, nel giugno ’76, il procuratore capo di Genova, Francesco Coco, ritenuto l’interprete della linea inflessibile della magistratura genovese, sarebbe stato crivellato di colpi da parte di quella che era nel frattempo divenuta l’ala dura delle BR.

Addio Genova

Che col questore Sciaraffia si stessero preparando tempi molto duri mi venne confermato da una telefonata fattami pochi mesi dopo dal dottor Paiella della Squadra Mobile di Bologna. Questo collega che avevo conosciuto in occasione di alcune indagini in quella città, mi chiedeva qualche notizia sulle condizioni di vita a Genova. Lo avevano infatti contattato dal Ministero per offrirgli l’incarico di vice-dirigente della Mobile genovese. Rimase sorpreso e imbarazzato quando si accorse che si trattava del mio posto e io non se sapevo niente. Lealmente mi disse che non avrebbe accettato. Quella telefonata era un segnale delle manovre che il Questore stava escogitando per sbarazzarsi di un commissario ”sovversivo”. In

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seguito avrei appreso i dettagli.

L’occasione per confermare le sue paure ideologiche e stringere i tempi, gli sarebbe stata offerta qualche settimana dopo. Da tempo Franco Fedeli e i ”carbonari romani” stavano preparando una riunione nella capitale a cui sarebbero dovuti intervenire anche parlamentari e sindacalisti di diverso orientamento politico. Alcuni di loro erano già individualmente in contatto col Movimento. Si trattava ora di convincerli a incontrare congiuntamente i poliziotti e a discutere insieme, al di là delle diverse ideologie, della riforma della Polizia. Finalmente Fedeli mi telefonò. L’operazione, accuratamente preparata, era scattata: appuntamento a Roma il 2 luglio con la solita tecnica d’incontro collaudata per le nostre riunioni clandestine. A Roma venne ad accogliermi alla stazione la guardia Fedele Fortunato. Scortati da un altro poliziotto del Movimento che si accertava che non fossimo seguiti, arrivammo al luogo convenuto. Una cinquantina di persone gremiva la piccola sala nei pressi del Pantheon. Attorno a un tavolo, i parlamentari Carlo Fracanzani della DC, Sergio Flamigni del PCI, Vincenzo Balzamo del PSI, Oscar Mammì del PRI, Franco Galluppi del PSDI. Accanto ad essi sedevano i sindacalisti Rinaldo Scheda per la CGIL e Luigi Borroni per le ACLI, nonché i magistrati Mario Barone e Gabriele Battimelli.

I deputati ascoltavano attenti, increduli e perplessi, le parole appassionate dei poliziotti che illustravano dure condizioni di vita e speranze di cambiamento e li ringraziavano d’essere lì tra loro. Le mie parole gelarono per qualche istante la sala: «Signori parlamentari, i miei colleghi vi ringraziano, io no. Stiamo parlando

di sicurezza dei cittadini e delle Istituzioni: non ritenete sia umiliante che dei

poliziotti, per incontrarsi con voi rappresentanti del popolo, debbano farlo

clandestinamente, strisciando come ladri lungo i muri? E ciò non nel l800, ma nel

l974, con una Costituzione che parla di diritto d’espressione, d’associazione e

libertà sindacale.». La riunione continuò sino a tarda notte. I parlamentari dichiararono la loro disponibilità e il loro appoggio allo studio della riforma. Ciò ovviamente con le inevitabili riserve dovute alla diversa ricettività del tema nei rispettivi partiti. Si seppe così che l’iniziativa del generoso Fracanzani non era stata apprezzata dalla DC, diffidente verso quel movimento considerato certamente di sinistra. Da quell’incontro clandestino nacquero rapporti di stima e rispetto con i parlamentari più attenti e sensibili che tanto avrebbero contribuito alla crescita democratica della Polizia.

Il mattino successivo, stanco ma rincuorato, ripresi il mio lavoro a Genova. Ma la soddisfazione sarebbe durata poco. Otto giorni dopo, il l0 luglio, trovai sulla scrivania una busta ”riservata - personale”. Conteneva ciò che il questore Sciaraffia non aveva avuto il coraggio e la sensibilità di comunicarmi direttamente: il mio trasferimento. Per me fu un colpo: amavo profondamente Genova. Allarmato, telefonai al dottor Schiavone che aveva seguito nella capitale il questore Santillo alla direzione dell’Ispettorato Generale Antiterrorismo, da poco ivi costituito. Mi fece capire che per me non c’era più spazio nella città ligure, dove mi avevano ”cucinato a dovere”. Dovevo essere grato a Santillo: proprio mentre si stava decidendo il mio trasferimento verso una sede lontana e con un ruolo ben ridimensionato, era intervenuto chiedendo la mia assegnazione al suo nuovo ufficio a Roma. La notizia della mia inevitabile partenza si diffuse rapidamente, sorprendendo non solo collaboratori e amici, ma anche, credo, tanti genovesi. Sui giornali del mattino successivo diversi giornalisti scrissero titoli indimenticabili, come quello apparso sul «Secolo XIX»: «Va via il commissario che ha lavorato per

salvare i giovani dalla droga».

Durante l’ultimo giorno passato in Questura, ricevetti decine di telefonate e visite di persone, alcune addirittura sconosciute, che volevano salutarmi e complimentarsi per quella che credevano una promozione. Avevo tanta amarezza nel cuore e ero commosso per l’affetto e la simpatia dimostratami. Nascosi a stento le lacrime quando nell’ufficio entrò timidamente la vecchia Olga. Mi apparve più

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bianca e fragile quando, con mano tremante, mi offrì una medaglia di Gesù con la scritta ”Dio ti protegga”. «Commissario, la porti sempre con sé – disse

abbracciandomi. – E la cosa più cara che ho. Apparteneva a mia figlia ora

morta». Ho ancora al collo quel dono di madre. Il mattino successivo partìi di buon’ora con l’auto carica di valigie e ricordi. I più cari collaboratori, Fiorenza, Coccu, Porfido, Pozzolo, Angelini, vollero accompagnarmi commossi fino al casello di Nervi, all’imbocco dell’autostrada. Solo con la mia tristezza, vedevo sulla striscia d’asfalto allontanarsi quei luoghi a me così cari.

Dopo una decina di giorni avrei avuto il più bel riconoscimento al duro e appassionato lavoro di quegli anni. Il 23 luglio sarebbe apparso sul «Corriere Mercantile» un articolo a firma di Luciano Garibaldi: «Vogliono che il poliziotto

buono resti a Genova. Una vicenda da film americano. I giovani drogati genovesi

sono in subbuglio per il trasferimento a Roma del commissario Di Francesco». Un gruppo di tossicomani aveva infatti scritto una lettera aperta al giornale e al ministro Taviani esprimendo i propri sentimenti verso uno ”sbirro” che aveva saputo capirli e aiutarli.

Qualche anno dopo, nel ’75, avendo avuto il diritto di prendere visione, per altre circostanze, del mio fascicolo personale presso il Ministero, vi avrei trovato delle ”veline” che mi avrebbero permesso di ricostruire quello che Sciaraffia aveva architettato. Non potendo trovare nulla sul piano professionale per sbarazzarsi di un commissario ”scomodo” aveva affidato a compiacenti funzionari un’inchiesta riservata sulla mia vita privata. Così, mentre io continuavo a rischiare contro la malavita, i colleghi Russo e Nicoliello indagavano alle mie spalle. Questi zelanti funzionari dovettero restare delusi per non aver trovato qualcosa di compromettente. Ma c’era sempre il sistema delle ”veline” informative di medioevale memoria da inviare riservatamente al Ministero. Con esse si sarebbe raggiunto l’effetto senza rischi: tanto non ne avrei mai potuto aver conoscenza. Ma le cose non sarebbero andate cosi. Dalla velina firmata dal dottor Russo ebbi modo di ricostruire come questi avesse accuratamente indagato tra le trattorie dove cenavo. In particolare il titolare della pizzeria Tivoli di via Lomellina, convocato in ufficio con la scusa che il ministro Taviani doveva forse cenare nel suo locale, era stato invitato ”amichevolmente” a rivelare qualcosa di ”confidenziale” sul mio conto. Pagavo? Con chi andavo? Alle sue rimostranze, gli era stato minacciosamente ricordato che era ”titolare di una licenza di Polizia”, quindi diffidato a nulla riferire di quel colloquio. Pur non avendo trovato gli elementi desiderati il vicequestore scriveva comunque sottili insinuazioni definendomi tra l’altro ”poco equilibrato”. Forse lo ero se a quei tempi parlavo di riforma democratica della Polizia! La velina del dottor Nicoliello era più intima. Scriveva cosi: «Mi risulta che il dottor Di Francesco, all’inizio del corrente anno, ha

conosciuto in un bar di corso Europa una donna, M.C., di dubbia moralità, che

continua a frequentare benché da me diffidato». Una nota inventata di sana pianta, dalla sua diffida, alla mia frequentazione, nonché alla dubbia moralità della signora in questione, peraltro da lui conosciuta. Venuto a conoscenza di tutto ciò, avrei chiesto all’allora Capo della Polizia Zanda Loy, con un promemoria formale, di far accertare ogni mia eventuale responsabilità di qualsiasi genere. Silenzio totale! Dopo una diffida a dare seguito alla richiesta altrimenti avrei presentato un esposto all’Autorità Giudiziaria, seppi che era stato inviato a Genova l’ispettore generale Romanelli detto ”il grande inquisitore del Viminale”. Ma ancora silenzio! Soltanto dopo un anno, nell’aprile ’75, a una mia ulteriore diffida per conoscere l’esito degli accertamenti, avrei ricevuto questa letterina dal capo del personale dottor Sarullo: «Caro dottore, in mancanza di addebiti emersi dall’inchiesta da lei voluta avrebbe

dovuto dedurre che nessun rilievo di carattere disciplinare è emerso». Con poche righe veniva chiuso un esempio di gestione del personale di puro stampo medioevale. Ma esiste forse una giustizia distributiva: quel solerte capo della Mobile dopo qualche anno sarebbe stato messo sotto processo dalla Magistratura genovese con accuse infamanti per un funzionario dello Stato.

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IV. All’Ispettorato Generale per l’azione contro il terrorismo

Un binario morto: l’Italicus

Il mattino del 22 luglio ’74, appena arrivato a Roma, mi presentai nei nuovi uffici dell’Ispettorato Generale Antiterrorismo, al primo piano del Viminale. Impeccabile come al solito, Santillo mi accolse con un sorriso aperto e incoraggiante: «Guagliò,

lo so che ti e dispiaciuto lasciare Genova, ma credimi é stato meglio per te. E poi

c’è un gran lavoro da fare: ho bisogno di gente in gamba».

Due mesi prima, il 28 maggio, a piazza della Loggia a Brescia, una bomba era esplosa tra la folla riunita per una manifestazione antifascista uccidendo otto persone e ferendone altre cento. Il Governo, che per anni aveva sottovalutato i segnali precisi del tentativo di destabilizzazione del Paese, in quarantotto ore, tra il 30 maggio e il primo giugno, aveva dato vita al nuovo organismo che avrebbe dovuto guidare e coordinare la lotta al terrorismo, affidandone la direzione a Santillo, già questore di Torino. Il lavoro non si annunciava facile. La sua personalità era troppo spiccata per essere gradita a tutto l’apparato di polizia e particolarmente ai vecchi ”Affari Riservati” del Viminale che si sentivano in qualche modo sconfessati. L’Ispettorato avrebbe dovuto comprendere anche ufficiali dei Carabinieri e della Guardia di Finanza, ma i rispettivi Comandi Generali, anteponendo anche in un momento così drammatico lo spirito di corpo, non avevano dato la loro partecipazione a quella nuova struttura retta per di più da un Questore. Anzi, come risposta, quasi contemporaneamente era stata formalizzata la costituzione di una Brigata Antiterrorismo dei Carabinieri con sede a Torino, affidandone la direzione al generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Essa si formava attorno a quel nucleo speciale nato proprio nel capoluogo piemontese in occasione del sequestro Sossi. Come al solito, invece di unire le forze, si preferì la via della competizione e della concorrenza.

L’emergenza era comunque tale che, pure in quell’atmosfera di non entusiastica collaborazione, l’Ispettorato prese rapidamente il suo avvio. Santillo lo articolò, alla stregua della Criminalpol, in nuclei interregionali facenti capo a una struttura centrale con sede a Roma. Alla loro guida volle non solo collaudati dirigenti di uffici politici importanti come Catalano a Genova, Criscuolo a Torino, Ciocia a Napoli, ma anche funzionari di Squadre Mobili che aveva personalmente conosciuto e apprezzato, come Noce e Schiavone a Roma, Plantone a Milano, Ioele a Firenze. Io venni assegnato a una sezione che si sarebbe dovuta occupare di ”intelligence” sul terrorismo internazionale, pronto a scattare, come Santillo mi aveva detto, anche per missioni investigative speciali. Presso la sede romana venne costituito un nucleo operativo centrale, al comando dell’atletico capitano Scandurra, cioè le prime ”teste di cuoio” italiane, per interventi particolarmente rischiosi. Tutto ciò mirava a dare al nuovo organismo slancio ed efficacia d’azione su tutto il territorio nazionale.

Ma non ci fu molto tempo per il rodaggio. L’Ispettorato era ancora in fase di assestamento quando nella notte fra il 3 e 4 agosto qualcuno decise di scrivere col sangue quell’orribile pagina della nostra storia, chiamata ”Italicus”. Una tremenda esplosione polverizzò all’interno della galleria di San Benedetto Val di Sambro il quinto vagone del treno Roma-Monaco, carico di lavoratori, turisti e bambini: dodici morti e centocinque feriti fu il tragico bilancio. Il terreno di indagine si rivelò subito irto di mille difficoltà. Quell'attentato sembrava in qualche modo equivocamente preannunciato. Basti pensare alle vaghe informazioni che già il l7 luglio erano state fornite direttamente a Santillo dallo stesso Segretario Nazionale del MSI: un avvocato vicino al suo partito lo aveva informato di un possibile attentato al treno Palatino a Roma, in cui sarebbe stato implicato un professore di fisica militante nel PCI. Le indagini non avrebbero trovato alcuna conferma a quella pista. E che dire della telefonata ascoltata e poi riferita alla polizia da alcuni testimoni? «Le bombe sono pronte. Il treno arriva a Bologna... » comunicava a qualcuno da un posto pubblico una concitata signorina il 3l luglio, tre giorni prima

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della strage. L’inchiesta si sarebbe poi impantanata in inquietanti retroscena: quella signorina era un’impiegata del SID, il servizio segreto militare, in qualche modo infiltrata tra gli esuli greci in Italia e il PCI.

Ma tutta la storia giudiziaria avrebbe ancor più rivelato negli anni successivi il paludoso scenario in cui, come un’armata Brancaleone, senza alcuna collaborazione, l’Ispettorato Antiterrorismo era chiamato a muoversi. Con altri colleghi del nucleo operativo centrale venni mandato a Bologna per collaborare con gli investigatori e i magistrati a cui l’inchiesta era stata affidata. Lavorai così al fianco di colleghi infaticabili, da Berardino a Jovine, da Mattioli ad Agati. Ed ebbi modo di ammirare il dinamismo investigativo del commissario Graziano Gori, che qualche anno dopo avrebbe perso la vita in un misterioso incidente sulla superstrada Ferrara - Bologna. Ci muovemmo senza sosta e senza preconcetti in ogni direzione. Facemmo perquisizioni a tappeto, interrogammo, cercammo confidenti, ma non riuscimmo ad andare al di là dell’arresto, peraltro non direttamente collegato alla strage, di qualche giovane neofascista a cui sequestrammo munizioni e farneticanti volantini. Rimanevo sorpreso constatando come, accanto a gagliardetti di ”Ordine Nuovo” e della destra extraparlamentare, baionette e libri di Evola, trovassimo talora negli stessi posti emblemi e sigle dell’estrema sinistra rivoluzionaria.

Era come se un’equivoca regia mescolasse le carte. Purtroppo, in quel clima ambiguo lavoravamo alla cieca, abbandonati a noi stessi, senza il minimo sostegno informativo. D’altro canto, gli stessi magistrati inquirenti trovavano grandi difficoltà a ottenere qualche aiuto dai Servizi Segreti. Anzi la storia processuale successiva avrebbe rivelato che le poche notizie ricevute avevano talora un intento depistante. «Con queste premesse – avrebbe scritto il sociologo De Lutiis – era

inevitabile che l’inchiesta sull’Italicus non sortisse effetti positivi. D’altro canto la

permanenza a Bologna del nucleo centrale operativo dell’antiterrorismo non

poteva protrarsi all’infinito. Dopo qualche tempo Santillo e i suoi collaboratori

tornarono a Roma e le indagini proseguirono con difficoltà in sede locale». L’impatto con tanta disumana ferocia mi riempì di disgusto e nel contempo di senso di impotenza per la nostra impreparazione e scarsezza di mezzi dinanzi al mondo impalpabile, cangiante e abietto del cieco terrorismo politico.

Rientrato a Roma, mentre l’ufficio cercava sotto la guida del- l’inesauribile Santillo di organizzarsi meglio, presi a documentarmi, studiando quel fenomeno che mal conoscevo. Ma occorreva muoversi in punta di piedi tra provocazioni e false verità, sapientemente ammannite. Se era difficile seguire le intricate piste, che a volte sembravano intersecarsi colorandosi ambiguamente di rosso o di nero, ancora più difficile era individuare se e quali forze oscure manovrassero quei giovani esaltati utilizzando il terrore delle loro azioni. D’altra parte proprio in quel periodo alcune inchieste avviate in diverse città da tenaci magistrati come Alessandrini, Occorsio, Fiasconaro, Tamburino, Amato, Stitz, stavano evidenziando ambigui comportamenti di delicati servizi dell’apparato statale. Piazza Fontana, Brescia, l’uccisione dei tre carabinieri a Peteano, quella dell’estremista Giancarlo Esposti a Pian del Rascino, il troppo facile rinvenimento a Camerino di un arsenale di armi con accanto un cifrario e una lista di nomi della sinistra extraparlamentare, i quasi ritmati attentati alle sedi dell’MSI e del PCI... e ora la carneficina dell’Italicus in quel tunnel buio, ponevano inquietanti interrogativi.

Con Emilio Alessandrini continuavamo a cercare di capire. Pur nella scrupolosa riservatezza sui casi che stava istruendo, avanzava ipotesi preoccupanti per la nostra democrazia. La sua preparazione, imparzialità e pacatezza, rendevano tali ipotesi ancor più allarmanti. Mi confidò tra l’altro di aver trovato prove secondo cui in Grecia, al tempo dei Colonnelli, in una riunione di ”servizi paralleli” era stato deciso di infiltrare elementi provocatori nei gruppuscoli marxisti-leninisti per pilotarne eventuali attentati. Non aveva molti mezzi per sviluppare le indagini, né d’altro canto si fidava ciecamente dei nostri ”servizi”. In questa comune ansia di

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comprendere, gli organizzai un incontro con Santillo, uomo di sicura fede democratica. Alessandrini gli espose l’idea che da tempo accarezzava della necessità di costituire un gruppo di lavoro formato da magistrati, funzionari ed ufficiali delle Forze di polizia, politologi e sociologi, che si dedicasse senza alcun pregiudizio di colore o di sigle a un’analisi lessicale e ideologica di tutti i documenti, fino ad allora disordinatamente sparsi tra i vari uffici giudiziari e investigativi, diffusi dai diversi gruppi terroristici. Da quel lavoro di ”intelligence” era convinto potessero scaturire utili indicazioni per una più esatta conoscenza del fenomeno, che favorissero quindi sia l’individuazione di possibili ”grandi vecchi”, sia lo studio di modi per evitare il contagio di ideologie sanguinarie con cui si stavano avvelenando le nuove generazioni. Santillo rimase entusiasta. Purtroppo il succedersi delle continue emergenze operative lasciò ben poco tempo a quella che sarebbe stata un’iniziativa essenziale. Personalmente mi impegnai nello studio del terrorismo internazionale e in particolare di alcuni aspetti della ”Rote Fraktion” tedesca e dell”’Esercito Rosso” giapponese, effettuando anche viaggi all’estero e partecipando a riunioni con colleghi di altre polizie. Si rinsaldava in me la convinzione che il nostro fosse un terrorismo certamente endogeno, ma sul quale si stavano intessendo legami internazionali dai contorni più vasti e pericolosi. Se fosse stato possibile osservare il nostro Paese ai raggi infrarossi sicuramente avremmo scorto una ragnatela di terroristi, faccendieri, spie di vario colore e nazionalità.

Emilio Alessandrini, divenuto uno dei punti di riferimento della Magistratura più intelligente e attenta, avrebbe poi dato seguito alla sua idea giungendo alla costituzione di un gruppo di lavoro formato da altri giudici impegnati, coadiuvati da studiosi ed esperti. Questa sua inarrestabile ricerca di verità e giustizia non sarebbe sfuggita ai tessitori del terrore, alcuni dei quali erano già peraltro, come tanti Giuda, accanto a lui.

Contributo di poliziotti

In questo clima torbido e malsano per le Istituzioni, era di vitale importanza che il ”Movimento” potesse costituire un punto di riferimento di un sia pur difficile processo di trasparenza e di controllo dell’azione istituzionale. Poteva essere anche questo un contributo, seppur minimo, alla nuova ”resistenza” che le forze sane del Paese stavano conducendo. I timori che centri di potere reazionari e occulti preparassero soluzioni dittatoriali fatte apparire come salvezza dal pericolo rosso, dal caos e dall’anarchia, non erano infondati. La storia degli anni successivi avrebbe rivelato come la strategia della tensione lavorasse in tal senso. Del resto, lo stesso onorevole Forlani non si riferiva a questo quando, tenendo un comizio a La Spezia il 5 novembre del ’72, parlando di un non ben chiarito complotto, aveva detto: «E’ stato operato il tentativo più pericoloso che la destra reazionaria abbia

tentato ... Questo tentativo disgregante e stato portato avanti con una trama che

aveva radici organizzative e finanziarie consistenti, che ha trovato solidarietà non

solo di ordine interno, ma anche internazionale. Questo tentativo non e ancora

finito: noi sappiamo in modo documentato che esso e ancora in corso.»?

La crescita democratica dei poliziotti rappresentava in quel frangente così delicato qualcosa di totalmente nuovo e importante di cui qualsiasi ”grande vecchio” avrebbe dovuto in ogni caso tenere conto. Tanto ne ero convinto da scrivere su «Ordine Pubblico» nell’ottobre del ’74: «Il Movimento trascende da ogni pur

necessario aspetto rivendicativo per porsi innanzitutto come momento di verifica

democratica circa l’aderenza di un organismo dello Stato alla funzione

demandatagli dalla collettività. Ed è questo un discorso che nell’attuale

fenomenologia italiana si allarga ad altri Istituti vitali del nostro apparato

democratico». D’altra parte, proprio il nuovo incarico presso l’Antiterrorismo mi faceva partecipe, con maggiore intensità degli altri, del pericolo che la nostra democrazia stava correndo. Fortunatamente, dai pochi ”carbonari” del ’69-70 eravamo diventati in breve tempo molti, conquistando la fiducia di gran parte

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dell’opinione pubblica.

Il ’74 segnò forse le tappe più esaltanti del processo di democratizzazione della Polizia. Quella riunione clandestina al Pantheon con i parlamentari aveva dato i suoi frutti. Nel corso di una conferenza pubblica presso la sala stampa estera a Roma, Franco Fedeli presento il ”Comitato di studio per la riforma di Polizia”. Ne facevano parte i democristiani Fracanzani e Fontana, il socialista Balzamo, il comunista Flamigni, il repubblicano Mammì, il socialdemocratico Galluppi, il liberale Bonea e per la prima volta sindacalisti delle tre confederazioni: Scheda per la CGIL, Spadonaro per la CISL e Rufino per la UIL, nonché magistrati come Barone, Battimelli e Consoli. Quel Comitato iniziò a lavorare in stretto contatto col nostro gruppo dirigente ancora clandestino al quale si era unito da poco Angelo Giacobelli, valoroso capitano che, primo degli ufficiali di Pubblica Sicurezza, aveva osato uscire allo scoperto. Cercavamo insieme la strada verso soluzioni, politicamente accettabili da tutte le compagini parlamentari, che accogliessero le indicazioni fondamentali scaturite da anni di dibattiti all’interno del Movimento: smilitarizzazione, riordinamento e sindacalizzazione della Polizia.

Smilitarizzazione perché il servizio di polizia, essenzialmente civile, non doveva essere assicurato attraverso un’armata, bensì attraverso un organismo scevro da condizionamenti militari, professionalmente preparato per la prevenzione e la lotta al crimine. Riordinamento perché si voleva una distribuzione più razionale di uomini e mezzi sul territorio, un miglior coordinamento con Carabinieri e Guardia di Finanza, una revisione dei criteri selettivi e di impiego del personale, un diverso collegamento con le rappresentanze elettive locali. Ciò significava anche una polizia libera da burocrati di prefettura, gestita da funzionari professionalmente preparati che avevano scelto il proprio specifico impegno di lotta al crimine. Sindacalizzazione poiché era questo l’unico strumento rivendicativo consentito dalla Costituzione attraverso il quale affrancarsi da anni di sfruttamento e di umiliazioni, introducendo all’interno della Polizia una scuola di democrazia e partecipazione sociale. Inoltre, solo così poteva finire lo scandalo dei poliziotti impiegati come camerieri e domestici tuttofare!

Contemporaneamente, i sindacati confederali cominciarono a dare il loro concreto appoggio. Certamente avevano dovuto superare momenti di diffidenza e incredulità. Sembrava già lontano quel primo incontro presso la sede della CGIL di Roma, quando il maresciallo Annunziata aveva domandato a Luciano Lama come mai non si fosse prestata attenzione al messaggio di Giuseppe Di Vittorio sui ”lavoratori-poliziotti”. La risposta flemmatica del sindacalista ci aveva raggelato: «Ammettiamo i nostri errori. (...) Riprendiamo il discorso, ma non dimentichiamo

che tra voi e i lavoratori esiste un solco profondo!». Ma ora erano proprio quei poliziotti-carbonari che contribuivano a voltare una pagina della nostra storia sindacale. Anzi il Movimento costituì certamente un momento di stimolo e di verifica del processo unitario che proprio in quegli anni si sviluppava attorno al ”patto federativo” siglato dalle confederazioni CGIL- CISL-UIL. L’appoggio dei sindacati si tradusse non solo con la presenza e il contributo di propri prestigiosi leader nel ”Comitato di studio”, ma proprio come Federazione Unitaria ci misero a disposizione una stanza presso la sede romana di via Sicilia. Era disadorna, piccola e provvisoria, ma per noi, abituati a riunirci clandestinamente a casa di questo o di quel poliziotto o nella redazione di «Ordine Pubblico», fu una manna scesa dal cielo. Entusiasta comprai e affissi subito a una parete una grande copia del famoso quadro dei lavoratori in marcia di Pelizza da Volpedo, alla cui base avevo scritto con fede ed augurio: «N on più contro di voi, perché noi siamo voi».

Quei locali di via Sicilia in cui in febbrili riunioni si discuteva di tanti problemi di gente comune, dalla casa ai trasporti, dalla sanità alle pensioni, furono per me una palestra di democrazia e impegno sociale. Ogni giorno potevo ammirare la fede, la preparazione di fervidi combattenti come Scheda, Spandonaro, Rufino, Maiello, Lai, Massimi, Vitulano, Autieri, Carannante, Angela Cammarano e tanti altri che

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avrebbero preso parte via via ai nostri lavori. In ottobre, nella sede della FLM in corso Trieste a Roma, si svolse il primo grande incontro tra poliziotti e classe operaia organizzata, i metalmeccanici per l’occasione. Fu un incontro strano e difficile, quasi catartico: eravamo tutti impacciati e diffidenti l’un l’altro, ma non più schierati come nemici storici. A suggellare quel momento di grande tensione ideologica e politica pensò Giorgio Benvenuto, allora segretario generale della FLM, con un intervento appassionato, denso di spunti autocritici: «L’errore era

nostro, dei sindacati: a torto abbiamo identificato in voi gli strumenti della

repressione. N on bisognava prendersela con i poliziotti, ma fare in modo che

venissero utilizzati in maniera corretta!». Poliziotti e operai insieme potevamo finalmente ascoltare questi discorsi, consapevoli del significato e dell’importanza di quello storico momento.

La strada era certo ancora lunga e irta di difficoltà, ma entravamo ormai di diritto nel mondo del lavoro e non eravamo più soli contro quella che sarebbe stata la prevedibile reazione del Viminale. A metà novembre, infatti, il ministro Gui avrebbe diramato una severa circolare con cui si davano direttive al Capo della Polizia, ai Prefetti e ai Questori di fare opera di ”persuasione” per ottenere la scrupolosa osservanza proprio di quelle norme di cui i poliziotti denunciavano, con le proprie lotte, la non democraticità e l’anacronismo.

Finalmente alla luce del sole: assemblea all’Hilton

II l974 si chiuse con il più bel Natale per tutti i poliziotti d’Italia. D’accordo con i parlamentari e sindacalisti del ”Comitato studi” decidemmo di uscire allo scoperto dicendo infine quel che pensavamo e volevamo, con tanto di nome e cognome. II 2l dicembre, nella sala dei congressi dell’hotel Cavalieri Hilton di Roma, si svolse il nostro primo pubblico convegno, una tappa storica nell’evoluzione culturale e sociale del Paese. I preparativi erano stati lunghi e meticolosi. Tutte le nostre strutture clandestine erano state avvisate. Sapevamo che una cattiva riuscita avrebbe riportato indietro di anni il Movimento, così come eravamo certi che l’Amministrazione avrebbe fatto di tutto per boicottare l’iniziativa, sperando che facessimo la figura di quattro gatti esaltati e senza seguito. Inoltre la spada di Damocle della circolare Gui aleggiava nell’aria, preannunciando ”legittime rappresaglie” verso i poliziotti che avessero osato intervenire. Per di più, proprio il giorno prima, cento deputati democristiani, avevano sottoscritto un eloquente documento con cui si ribadiva il loro «no» al Sindacato di Polizia. L’ora di inizio dell’assemblea era fissata alle venti.

Con i più attivi del Movimento alle diciassette ero già sul posto, sia per curare gli ultimi preparativi che per verificare le condizioni di sicurezza della sala. Non erano mancate infatti alcune telefonate anonime di intimidazione. Verso le diciannove e trenta cominciarono ad arrivare i primi politici e sindacalisti invitati a presiedere il convegno. Luciano Lama, guardando perplesso la grande sala quasi completamente deserta, chiese a Franco Fedeli e a me che gli eravamo andati incontro: «Pensate

che verranno in molti?» Benché terrificati da quelle tremila poltroncine freddamente allineate, rispondemmo contemporaneamente: «Verranno!». Sapevamo purtroppo che già in molte città i Questori, ossequiosi delle direttive, avevano messo ”a disposizione” nelle caserme e negli uffici il personale con le scuse più disparate. Fuori, agli ingressi dell’albergo, con fare impacciato e indifferente si aggiravano poliziotti e carabinieri dei servizi politici pronti ad annotare e riferire nomi e dettagli di quell’illecita riunione ai rispettivi vertici per la certa denuncia ai tribunali militari.

Poi cominciò il miracolo. Alla spicciolata, uscendo dall’oscurità, molti nascondendosi il viso, presero ad arrivare dieci, cento, mille e la sala fu piena. Al tavolo della presidenza sedevano Francanzani, Flamigni, Balzamo, Mammì, Galluppi nonché i segretari generali della CGIL, CISL e UIL, Lama, Storti e Vanni, guardando con stupore quella folla mai vista di poliziotti. Dietro di loro, uno striscione con la scritta «Riordinamento e sindacalizzazione della Polizia per un

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rapporto nuovo tra cittadini e tutori dell’ordine». C’era un’anima sola in quella sala, un’anima di sofferenza, speranza, impegno, rabbia, sfida! Un giovane agente, di cui si poteva quasi sentire il respiro, attraversò la sala improvvisamente silenziosa e depose sul tavolo della presidenza un mazzo di rose rosse. Vi fu un boato improvviso di applausi. Per diversi minuti echeggio il grido scandito da tremila poliziotti: «Democrazia, libertà e giustizia».

Chi ha avuto la fortuna di essere li non dimenticherà mai quegli uomini, molti dai capelli già bianchi, piangere di gioia. Gli oratori si avvicendarono al microfono seguendo la regia precisa di Franco Fedeli. Insieme a parlamentari e sindacalisti parlammo per la prima volta in pubblico, scandendo emozionatissimi i nostri nomi, anche noi, i primi carbonari. I poliziotti centellinavano ogni parola, ogni sfumatura degli interventi, talora muti e attenti, altre volte sottolineando con applausi i passaggi più significativi. Fortunato Fedele, splendida, umile guardia della sezione omicidi della Mobile romana, interpretò il pensiero di tutti quando grido con voce strozzata: «Ho scelto di fare il poliziotto! Aiutatemi a farlo bene!». Del mio intervento ricordo ben poco, ma ho ancora negli occhi l’immagine di quell’appuntato che, ad un passaggio appassionato del discorso, salì sulla sedia e agitando un fazzoletto gridò: «Commissario Di Francesco, sei tutti noi!». L’avrei conosciuto poi: appuntato Gentile. Si sarebbe fatto trasferire per venire a lavorare con me. E rivedo ancora Mario, mio fratello, venuto appositamente da Pescara, che applaudiva frastornato da ciò che avveniva intorno. Sulle parole di Storti che chiudevano il convegno, venne eletto per acclamazione il ”Comitato Nazionale di Coordinamento” di cui avrei fatto parte con le guardie Franco Mandia e Fedele Fortunato, l’appuntato Enzo Giordani, il vice-brigadiere Stanislao Cicatiello, i brigadieri Antonio Sannino e Enzo Tortorella, il capitano Angelo Giacobelli, oltre che i sindacalisti designati dai segretari generali della Federazione Unitaria, e Franco Fedeli.

Era avvenuto qualcosa di unico, insperato fino a pochi anni prima: un abbraccio tra poliziotti e lavoratori alla presenza di tutte le forze politiche democratiche. La reazione dell’Amministrazione non tardò: un voluminoso rapporto di denuncia dei poliziotti che avevano preso la parola partì per la Magistratura militare. Ci confortò comunque sapere che non era stato facile per la gerarchia individuare i nomi dei partecipanti. Molti dei poliziotti mandati a spiare i colleghi, non prestandosi a quell’ingrato compito, riferirono con relazioni vaghe e reticenti. Era anche questo un segno del cambiamento dei tempi. Ripenso ancor oggi con riconoscenza e commozione ad altri compagni di lotta che, meno fortunati di noi, erano stati allontanati dalla Polizia prima di poter respirare l’aria di giustizia, democrazia e dignità di quell’indimenticabile vigilia di Natale. Dice tutto l’attributo coniato per loro da Franco Fedeli: «Eroi senza medaglia».

Il caso Tuti: senso vietato ( FIN QUI )

La sera del 24 gennaio l975, a Empoli, due poliziotti, il brigadiere Leonardo Falco e l’appuntato Giovanni Ceravolo, recatisi nell’abitazione del geometra Mario Tuti, impiegato comunale, per invitarlo a seguirli al commissariato, caddero falciati da una raffica di fucile mitragliatore. Non erano stati avvisati di quanto delicato fosse quell’incarico. Conoscevano quel distinto funzionario che tante volte avevano incontrato e salutato per le vie della tranquilla cittadina e si erano presentati da lui convinti che si trattasse di un normale accertamento. L’invito si inquadrava invece in una complessa indagine che da qualche settimana l’Ufficio Politico di Arezzo, coadiuvato da elementi del Nucleo Centrale dell’Ispettorato Antiterrorismo giunti da Roma alla guida del vicequestore Guglielmo Carlucci, stava conducendo nei confronti di alcuni giovani di destra, tra cui Luciano Franci, Augusto Cauchi, Piero Malentacchi e Margherita Luddi, sospettati di compiere attentati nella zona. Santillo aveva voluto che lo accompagnassi a Empoli per organizzare i servizi di sicurezza per i solenni funerali dei due sfortunati poliziotti. Si temevano infatti reazioni anche tra le forze dell’ordine perché la morte di quei padri di famiglia

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aveva esasperato ancor di più il loro sdegno. La sera prima di partire, avevo partecipato a una riunione del Comitato Nazionale del Movimento per discutere quali iniziative prendere in relazione a quel tragico evento che dimostrava ancora una volta quanto gravi fossero i problemi e urgente la riforma di Polizia. Avevamo stilato un documento in cui erano elencati dieci punti programmatici. A Empoli, i funerali si svolsero senza incidenti, tra tanta folla commossa ma fredda verso le ”alte autorità” dal viso grigio di circostanza. Al termine, Santillo volle che restassi lì insieme a un paio di sottufficiali e un autista, con l’incarico specifico di trovare Tuti che dopo il suo gesto sanguinario sembrava essersi dileguato. Presi alloggio ad Arezzo, nello stesso albergo in cui si trovava Carlucci con i suoi collaboratori. Cercai innanzitutto di comprendere la personalità dell’omicida e in quale contesto potesse inquadrarsi quell’episodio di tanta determinata ferocia. In effetti, dalle intercettazioni telefoniche che l’Ufficio Politico stava effettuando, era emerso che i personaggi controllati erano in contatto con un certo ”Mario”. Costui, esprimendosi con proprietà di linguaggio e fermezza, sembrava un importante punto di riferimento per tutto il gruppo. Si era così risaliti a Mario Tuti, quel giovane e distinto impiegato del Comune, stimato da tutti. Le indagini, che avrebbero potuto svilupparsi ulteriormente nella fase investigativa, mettendo ad esempio sotto controllo anche il suo telefono per risalire ad altri, erano state inspiegabilmente affrettate. Si era così passati alla fase operativa e all’arresto di alcuni giovani.

A quel punto, la sera del 24 gennaio, il brigadiere e l’appuntato del commissariato di Empoli, ignari di quanto stava accadendo, avevano ricevuto l’ordine di recarsi da Tuti. Mi chiedo ancora perché l’incarico non fosse stato affidato agli uomini dell’Antiterrorismo, certo più consapevoli ed esperti. I due, gentilmente accolti dal padrone di casa, avevano riscontrato qualche irregolarità nella denuncia di alcune armi che questi, appassionato collezionista, possedeva. Proprio da una di esse, mentre si accingevano ad uscire, era partita la raffica spietata che l’affabile impiegato aveva esploso alle loro spalle. C’era troppa sproporzione tra quel crudele assassinio e le sanzioni che sino a quel momento Tuti rischiava. Avrei voluto interrogare i giovani arrestati in precedenza che erano in collegamento con lui, ma non fu possibile.

Lavorai comunque per giorni interi, girando e interrogando decine di persone per ricostruire le sue conoscenze, i suoi contatti, le sue idee, il suo impiego di tempo. Sebbene il mutismo fosse la regola dominante, ne venne fuori il ritratto di una persona misurata e intelligente, dall'eclettica preparazione politica. La sua biblioteca era piena di testi impegnativi da Marx a Engels, da Evola a Nietzsche. Ammiratore di Hitler e Mussolini, lo era altrettanto dei comunisti per la loro capacità organizzativa. Impiegato modello, vantava contatti importanti, anche presso la Curia fiorentina. Tra alcuni suoi appunti fu trovato il nome di Clemente Graziani, già emerso in delicate indagini sui movimenti eversivi di destra. Pacato e riservato, nei pomeriggi liberi, diveniva sovente istruttore volontario al poligono di tiro. Inoltre, nella sua abitazione, era solito ricevere giovani affascinati dal suo carisma e dalle sue conversazioni di dottrina politica e teoria delle armi. Amante della famiglia, era profondamente legato alla moglie e al bambino appena nato. Cosa poteva aver armato la mano di un uomo simile? Perché era diventato uno spietato assassino? Attraverso quel minuzioso lavoro riuscii a ricostruire in parte le sue ultime ventiquattrore prima dell’esplosione omicida. In particolare la notte precedente, il 23 gennaio, quando già tutti erano a letto, il telefono in casa Tuti aveva squillato insistentemente. All’altro capo del filo, una voce autoritaria aveva chiesto seccamente al suocero, che aveva risposto, di chiamare Mario. L’uomo non ricordava il nome con cui l’interlocutore si era presentato, ma precisava che il genero al sentirlo era balzato giù dal letto precipitandosi all’apparecchio. Aveva parlato a monosillabi poi, rabbuiato in volto, era tornato in camera. Qualcuno lo aveva forse avvisato degli arresti, avvenuti quel pomeriggio in tutta segretezza, di Luciano Franci e Piero Malentacchi, informando che gli inquirenti erano ormai vicini a scoprire qualcosa di grave? Al mattino era uscito con una borsa gonfia di

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documenti, ma nessuno in ufficio ricordava di averlo visto. Aveva chiamato invece Margherita Luddi, il cui telefono era sotto controllo, facendole comprendere che era al corrente di quel che stava accadendo, ma di non preoccuparsi perché avrebbe provveduto lui a tutto. Anche questa ragazza sarebbe stata poi arrestata. Era tornato a casa per l’ora del pranzo, senza la borsa. Nel pomeriggio era stato notato al poligono di tiro in compagnia di alcuni ragazzi. Aveva quindi trascorso il resto della serata in giro per Empoli con moglie e figlio, rincasando all’imbrunire. Alle venti e trenta avevano bussato alla sua porta i due poliziotti e la morte aveva attraversato quella casa odorosa di cena.

Gli accertamenti spaziavano anche nei dintorni di quella tranquilla cittadina. Ero accompagnato dal brigadiere Capuano, un infaticabile investigatore già conosciuto a Bologna in occasione di altre indagini e talora dalla guardia Palumbo, uno scanzonato e simpatico napoletano. Ogni tanto giungevano comunicazioni che segnalavano Tuti in qualche posto d’Italia: per non lasciare nulla di intentato, verificavamo ogni notizia che avesse un pur minimo grado di attendibilità. Come quella volta che, guidati dal non più giovanissimo Carlucci, con due auto cariche di uomini, avevamo percorso centinaia e centinaia di chilometri. Eravamo corsi in piena notte a Chiasso dove ci era stato segnalato che Tuti voleva costituirsi, rimanendo accanto alla sbarra del confine italo-svizzero. La nebbia ci era entrata nelle ossa. All’alba stanchi e intirizziti, eravamo ripartiti verso Genova per incontrare Santillo che aveva convocato da tutta Italia i suoi collaboratori.

Preso dal ritmo convulso delle indagini non partecipai alla riunione che il Comitato Nazionale del Movimento aveva indetto a Empoli l’8 febbraio per ricordare i colleghi caduti, riaffermare la compattezza dei poliziotti e sancire quei dieci punti indispensabili alla riforma, che sarebbero passati poi alla storia del Movimento come “il documento di Empoli”. In quell’occasione venne anche inviata una lettera aperta all’allora presidente del Consiglio Aldo Moro per attirare la sua attenzione sulla necessità ormai improrogabile della riforma di Polizia per una più efficace difesa dei cittadini e delle Istituzioni.

Già dopo le prime settimane di indagine su Tuti, gli elementi raccolti mi avevano fatto sorgere il sospetto che diversi attentati compiuti in Toscana fossero collegati con altri avvenuti in Emilia e che tutti potessero forse inquadrarsi nell’azione coordinata di una stessa organizzazione terroristica. Appariva inoltre chiaro ormai che Tuti occupava una posizione di rilievo nell’ambito del gruppo toscano. Il duplice omicidio da lui commesso mal si collegava, a mio avviso, alla sua personalità lucida e intelligente. Aveva forse temuto che quella sera i poliziotti stessero arrivando a qualcosa di molto grave? D’altra parte il tragico mistero della bomba che aveva squarciato l’Italicus, collocata quasi certamente alla stazione di Santa Maria Novella dove uno degli arrestati lavorava, era ancora irrisolto. Forse valeva la pena scavare per cercare eventuali collegamenti tra i gruppi tosco-emiliani e vedere dove conducessero. In occasione di uno spostamento a Bologna ebbi modo di esporre tali riflessioni al dirigente del locale nucleo antiterrorismo, dottor Berardino e al giudice Zincani che stava già istruendo alcune inchieste riguardanti diversi attentati compiuti in quella regione. Questi mi invitò a comunicargli ogni elemento che in qualche modo avesse suffragato questa ipotesi investigativa. Gli avevo risposto che sarebbe stato per me doveroso, ma che era meglio se si fosse rivolto al magistrato di Arezzo che seguiva il caso Tuti. Mi aveva rassicurato mostrandomi la copia della lettera che aveva già inviato alla Procura della Repubblica di quella città.

Continuai a lavorare sempre più convinto che l’episodio di Empoli si iscrivesse in una visione più ampia del fenomeno terroristico. Anzi, ero preoccupato per la vita dello stesso Tuti che, a mio avviso, ormai coinvolto in un meccanismo forse più grande di lui, doveva conoscere misteri divenuti troppo scottanti per i suoi ”capi”. Le indagini proseguivano con ritmo serrato in tal senso anche se talvolta dovevamo spostarci per altri attentati, fortunatamente incruenti, che si succedevano soprattutto

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in Versilia. Una di quelle notti, rientrando in albergo ad Arezzo, trovai ad attendermi l’appuntato Salvatori della Questura di quella città. Mi annunciò preoccupato che dovevo telefonare immediatamente al sostituto procuratore Mario Marsili. Guardai l’orologio, era molto tardi. Avevo trascorso tutta la giornata fuori col brigadiere Capuano ed ero stremato. Pensai che dovesse essere successo qualcosa di molto importante. Forse qualcuno degli arrestati aveva parlato e bisognava agire immediatamente per nuove operazioni. Telefonai al giudice a casa. Con tono perentorio mi ordinò di inviargli subito una ”volante” e di raggiungerlo in Questura assieme al vicequestore Carlucci. Quest’ultimo, drasticamente svegliato, mi informò lungo il tragitto che non era successo nulla che motivasse quell’urgenza. Era soddisfatto comunque perché quel giorno avevano rintracciato e ascoltato, nel quadro dell’indagine Tuti, il professor Giovanni Rossi, un personaggio della destra locale. Non era emerso nulla di particolare, ma proprio mentre lo stavano sentendo presso la Questura di Arezzo era giunto da Bologna un fonogramma urgente del giudice Zincani che voleva interrogarlo nell’ambito di un’inchiesta che stava istruendo su un attentato compiuto tempo addietro contro la Casa del Popolo di Moiano. Poiché non esistevano provvedimenti restrittivi da parte del magistrato aretino, il professor Rossi, terminato l’interrogatorio, era stato accompagnato a Bologna dagli uomini dell’Antiterrorismo giunti da quella città.

In Questura, il sostituto procuratore Marsili ci attendeva in una stanza dell’Ufficio Politico. Appena entrati, fummo investiti da un’ondata di rimproveri. Seduto dietro alla scrivania, sfogliando il codice, il giudice cominciò a parlarci di fuga di notizie, di violazione del segreto istruttorio e di eventuali responsabilità . Ancora in piedi restammo allibiti. Quando fu evidente che si riferiva alle notizie fornite al suo collega di Bologna, mentre Carlucci non rispondeva, dissi quello che pensavo. Come poteva parlarci di violazione del segreto istruttorio per aver informato un al- tro giudice su elementi che interessavano anche un’altra indagine? Non dovevamo lavorare tutti per lo stesso scopo: fare luce su crimini tremendi? D’altro canto per noi dell’Ispettorato Generale Antiterrorismo il compito era proprio quello di studiare eventuali collegamenti e legami in campo nazionale e internazionale. Quei rimproveri non avevano alcun senso, mentre i poliziotti uccisi a Empoli e i viaggiatori straziati dell’Italicus chiedevano ancora verità e giustizia. Un freddo imbarazzo scese nella stanza. Il magistrato, forse sorpreso dalla mia reazione, richiuse il codice. Quasi liberatorio giunse l’intervento di Salvatori che, con la saggezza tipica dei vecchi appuntati, sdrammatizzò la situazione. Tornai in albergo deluso e sconcertato.

I giorni successivi cominciammo a battere in lungo e in largo la Versilia. Sapevamo che Tuti poteva contare in quella zona su alcuni fidati punti d’appoggio. Ci installammo a Viareggio; alcuni elementi ci facevano infatti pensare che fosse passato o fosse ancora lì, da dove avrebbe potuto imbarcarsi per la Corsica e quindi raggiungere la Francia. Stranamente quasi in coincidenza col nostro arrivo, cominciarono a esplodere delle bombe, forse solo diversive e provocatorie davanti a sedi dei partiti di destra e di sinistra. Mi trovai così a dover dare manforte agli uomini del commissariato locale guidati dal vicequestore Tullio De Rose: giorno e notte eravamo fuori per sopralluoghi e accertamenti. II carnevale era alle porte, ma in quella cittadina solitamente allegra il clima era livido di paura e di tensione. Le nostre supposizioni, comunque, non erano infondate. Sulla spiaggia venne presto rinvenuta la borsa di Tuti contenente ancora dei documenti. Avevo chiesto al Comune l’intervento di alcune ruspe per scavare tratti dell’arenile. Non era escluso infatti che il fuggiasco, divenuto ormai scomodo, fosse stato ucciso con i suoi compromettenti segreti. Mi trovavo proprio sulla spiaggia per coordinare i lavori quando sopraggiunse una ”volante”. Mi volevano urgentemente dal Ministero. Mi precipitai al commissariato e telefonai al dottor Ferrigno, capo della Segreteria dell’Ispettorato Antiterrorismo. Mi comunicò che dovevo immediatamente tornare a Roma. Spiegai che avevamo finalmente trovato tracce certe di Tuti e che sarebbe forse stato opportuno restassi a Viareggio per ulteriori riscontri. Niente da fare:

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dovevo rientrare. Durante il viaggio feci le congetture più disparate, pensando a emergenze gravi che potevano aver indotto Santillo a convocare i suoi collaboratori. Appena giunto, mi presentai subito all’Ispettorato. Dopo qual- che battuta scherzosa mirata certo a rendere meno amara la notizia, Santillo mi informò che ero stato trasferito dal suo Ufficio. Rimasi di ghiaccio: perché? e perché così repentinamente? Buio in volto mi confermò la sua stima, facendomi capire che tutto avveniva contro la sua volontà. Avrebbe comunque tentato ancora di bloccare il provvedimento. Ci saremmo rivisti l’indomani.

Quando tornai, con amarezza, mi consegnò senza parlare un telegramma datato l9 febbraio: «Commissario capo Ennio Di Francesco est trasferito per esigenze

servizio da Ispettorato Antiterrorismo alla Questura Roma decorrenza immediata». La firma era del ministro Gui. Piansi di rabbia, senza vergogna, mentre Santillo e Ferrigno mi guardavano in silenzio. Non mi rendevo conto di quel trasferimento improvviso. Quali esigenze di servizio potevano essere più importanti dell’emergenza che l’attacco terrorista stava portando al cuore dello Stato? Il mio inspiegabile rientro sarebbe stato notato da alcuni giornalisti che seguivano le indagini sul caso Tuti e sul terrorismo in Italia: Sandra Bonsanti, Camillo Arcuri, Giulio Obici, avrebbero espresso nei giorni successivi critiche e interrogativi nei loro articoli. Il titolo di uno di essi sintetizzava: «Commissario democratico? Via!». Il motivo del trasferimento sarebbe poi stato addebitato formalmente alla mia attività nel Movimento. Non ne sarei stato persuaso: Santillo non avrebbe mai preso di sua iniziativa quel provvedimento che forse gli era stato imposto. Perché e da chi? Qualche tempo dopo sarei stato convocato dal giudice istruttore di Bologna, Vella, che conduceva le indagini sull’Italicus e che aveva saputo dal suo collega Zincani del mio improvviso rientro a Roma. Avrei raccontato a verbale le mie allora vaghe ipotesi di indagine e ciò che era accaduto quella notte ad Arezzo. La storia degli anni successivi avrebbe registrato i seguenti avvenimenti: a fine ’75 Mario Tuti, transitato quasi certamente dalla Versilia, sarebbe stato arrestato in una quieta cittadina della Francia dove viveva sotto una nuova identità. Il nome del magistrato di Arezzo sarebbe emerso nel corso dell’inchiesta parlamentare sulla loggia massonica P2: era il genero di Licio Gelli. Dopo quasi dodici anni, nel dicembre ’86, Tuti, già condannato all’ergastolo per l’omicidio dei poliziotti di Empoli, sarebbe stato chiamato in causa per altri attentati. L’accusa aveva sostenuto la tesi secondo cui la cellula nera, appoggiata, finanziata e coperta dalla P2 che proprio ad Arezzo aveva il suo cuore, aveva istigato una serie di attentati, che sarebbero culminati nella carneficina dell’Italicus. In particolare uno del gruppo affermava di aver ricevuto decine di milioni per l’acquisto di armi ed esplosivi. L’ulteriore evoluzione giudiziaria e processuale avrebbe poi messo in discussione le valutazioni e gli elementi acquisiti. Ci sarà un giorno giustizia per le vittime innocenti degli anni di piombo?

Parola d’ordine al Viminale: repressione.

L’assemblea dell’Hilton aveva scatenato una vera e propria rappresaglia da parte dell’Amministrazione. Il ’75 sarebbe stato per il Movimento un anno di conferma della fiducia meritata presso le forze sociali e della sua capacità di resistenza. Decine di poliziotti cominciarono a essere trasferiti da un capo all’altro d’Italia. Vennero avviati centinaia di provvedimenti disciplinari sulla base di una puntigliosa interpretazione proprio degli articoli contestati. In sostanza divenne reato parlare di una Polizia più efficiente e democratica. In alcuni casi il loro carattere intimidatorio e persecutorio fu subito evidente. Basti pensare alle vicissitudini del collega Aurelio Ravenna, uomo di punta del Comitato lombardo. Durante un’assemblea al teatro Odeon di Milano aveva pronunciato frasi come queste: «Dai lavoratori ho appreso l’ingiustizia sociale; da loro ho imparato a

lottare... Come poliziotti siamo stati strumenti del Governo non sempre

nell’interesse dei cittadini...». Venne sospeso dal servizio e dallo stipendio, benché da poco divenuto padre. Anche contro di lui si impegnò il dottor Romanelli. Lo zelante inquisitore avrebbe scavato nella sua vita privata tanto da scrivere poi nella

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relazione riservata che: «i rapporti allacciati dal funzionario con un’impiegata

della Camera del lavoro avrebbero messo in serio pericolo la sua armonia

familiare oltre che comprometterne la sua posizione all’ufficio politico della

Questura...». Quell’intervento ”rivoluzionario” venne descritto inoltre, in una sorta di quadro clinico, come fatto «in uno stato di eccitazione da un funzionario con

una certa instabilità emotiva e caratteriale». Similmente del resto era accaduto al vicebrigadiere Mavino della Polfer di Bolzano che, reo di aver preso la parola a una conferenza stampa indetta dalle tre confederazioni sindacali, era stato sottoposto a visita medica, elettroencefalogramma compreso. Si cercava insomma una ”sindrome da sindacato e riforma”.

Ma la repressione colpiva anche chi cercava di placare l’animo esasperato dei colleghi. Come quella sera di febbraio a Roma quando dopo la cerimonia funebre per la guardia Marchisella, trucidato dalla banda di Jacques Berenguer nel corso di una rapina, centinaia di poliziotti si erano radunati a piazza Venezia per manifestare il loro rabbioso dolore. Avevano tutti nel cuore quel feretro che partiva verso la lontana Barletta accompagnato dall’urlo della fidanzata. Si sarebbe uccisa dopo qualche giorno gettandosi dalla finestra di una casa ormai vuota. Lì in piazza Venezia era corso l’agente Giancarlo Nocella del Movimento cercando di placare quei giovani esasperati, commossi, impauriti, inesperti. Lo avevano visto in molti in quell’opera di convincimento e conforto, ma non l’Amministrazione. Nocella sarebbe stato punito e trasferito immediatamente a Montevarchi, vicino Arezzo. Era meglio, si pensava forse in ”alto”, che quei poliziotti dessero all’opinione pubblica l’impressione di un’inaffidabile emotività. Certo la “gerarchia” conosceva il sistema adatto per calmare gli animi: venne concesso un aumento di milletrecento lire al giorno per i servizi più rischiosi; Si ripeteva un’altra volta il copione del premio ”Annarumma” sulla pelle dei poliziotti.

Monetizzazione e ignoranza vanno spesso di pari passo per frenare ogni risveglio di coscienza. Così in ventiquattrore, quello stesso febbraio, venne smantellato il Centro Studi della PS a Trieste. Era qui che molti poliziotti continuavano gli studi parallelamente al loro normale servizio. Parecchi erano iscritti alle facoltà di Medicina, Giurisprudenza o Scienze Politiche dell’Università friulana. Una trentina di loro, tutti del Movimento, si trovarono trasferiti in città lontane, spesso neppure sedi di liceo. Analoga sorte fu riservata ai Centri di Genova e La Spezia. A nulla valse l’intervento di alcuni docenti che attestarono pubblicamente il buon rendimento e la serietà dei loro studenti-poliziotti. Evidentemente la cultura spaventava chi voleva non far pensare! Ne seppe qualcosa la guardia Claudio Boldrini, operatore al terminale della Questura di Roma. Venne arrestato il 25 aprile su mandato di cattura della Procura Militare. Aveva osato portare il saluto del Movimento alla celebrazione della Liberazione, organizzata dall’Associazione Nazionale Partigiani nella Capitale. Quel giovane poteva usare il cervello elettronico, ma non il suo!

Si sarebbero imbastite anche sottili manovre per ostacolare la diffusione di ”Ordine Pubblico” che proprio in quel periodo, rivolgendosi ai poliziotti e cittadini, iniziava una inchiesta capillare sulle condizioni di lavoro e di vita dei tutori dell’ordine e sulle aspettative di sicurezza della collettività . Franco Fedeli sarebbe stato denunciato dal generale del Corpo di PS, Osvaldo Minghelli, lo stesso che poche settimane prima si era rivolto agli agenti del VII raggruppamento Celere di Senigallia, che si lamentavano dei turni massacranti e della loro vita di ”forzati” dell’ordine pubblico, con queste parole: «Per voi la Polizia deve essere una

missione ... fate così perché siete tutti comunisti ... eccovi settecento lire per la

domanda di proscioglimento ... vigliacchi ... mascalzoni ...». La denuncia sarebbe stata ritirata ben presto di fronte all’annunciata testimonianza al processo di centinaia di poliziotti. La repressione messa in atto dall’Amministrazione cercava anche di ostacolare l’opera di moralizzazione iniziata dal Movimento denunciando gli abusi e le situazioni umilianti degli ”sciacquini”. così la guardia Domenico Colloca, del Comitato di Como, colpevole di aver riferito che il proprio

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comandante ”usava alcuni poliziotti come domestici tuttofare”, si ritrovò trasferito a Cosenza e per di più escluso dal corso sottufficiali per cui aveva fatto domanda. E’ scontato dire che noi del Comitato Nazionale, oltre ad essere stati denunciati al Tribunale Militare per il reato di istigazione all’insubordinazione commesso nel corso dell’assemblea all’Hilton, subissimo una serie di intimidazioni e rappresaglie. Mandia venne trasferito da Napoli a Rovigo, Cicatiello, Sannino, Giordani vennero di volta in volta puniti con le sanzioni militari di CPR per ”reato di parola”. Fedele Fortunato lo fu addirittura per averlo commesso mentre era in licenza. Giacobelli fu deferito al Tribunale Militare con una sfilza di imputazioni tra cui quella di «appartenere ad un’associazione i cui fini e le cui attività

costituiscono un ostacolo alla disciplina». Eppure era la stessa associazione alla quale i parlamentari di tutti i partiti davano il loro sostegno. Contro di me sarebbe stato instaurato un processo a dir poco kafkiano.

Solidarietà e resistenza

Questo comportamento dell’Amministrazione, provocò ben presto una decisa reazione da parte di tutte le forze democratiche. A fine febbraio, rompendo ogni esitazione, gli onorevoli Flamigni e Balzamo presentarono a nome dei rispettivi partiti due disegni di leggi per la riforma che recepivano integralmente le tesi del Movimento sulla smilitarizzazione, deprefetizzazione e sindacalizzazione della PS. Certo avremmo preferito un disegno di legge unitario presentato da tutto il Comitato Studi ma eravamo consapevoli delle difficoltà degli altri parlamentari e soprattutto di quelli democristiani nei riguardi delle proprie direzioni politiche. D’altra parte, quei due disegni con Berlinguer e De Martino come primi firmatari avrebbero certamente stimolato gli altri partiti a non essere più assenti dal dibattito in corso. In tal senso il Comitato Nazionale intensificò l’opera di chiarificazione chiedendo una serie di incontri con le segreterie politiche delle forze dell’arco costituzionale. Non tutti risposero.

La solidarietà del sindacato fu immediata. Il l5 marzo la FLM, per voce del segretario generale Benvenuto e dei segretari nazionali Gavioli e Del Turco, stigmatizzò il comportamento antidemocratico dell’Amministrazione decidendo uno sciopero simbolico di dieci minuti in tutte le fabbriche. Si stabilì pure che da quel giorno in ogni manifestazione sarebbero stati portati dagli operai striscioni inneggianti al “sindacato di polizia”. Il l7 aprile i consigli generali CGIL, CISL e UIL nel corso del- l’assemblea unitaria tenutasi a Roma, individuarono nella giornata di sciopero generale indetta per il 22 aprile anche un momento di solidarietà a sostegno della nostra riforma.

Nello stesso periodo si strinsero attorno al Movimento uomini di cultura e diritto, da Norberto Nobbio a Giuseppe Branca. Agli inizi di giugno, presso la sede di via Sicilia, il pretore Gabriele Cerminara, il sostituto procuratore Enrico Di Nicola, il magistrato di Cassazione Mario Barone e gli avvocati Fausto Tarsitano, Nino Marazzita, Nicola Lombardi, Bruno Andreozzi, Sergio Barenghi e Giuseppe Zupo discussero con poliziotti e cittadini sul tema della repressione e del riordinamento della Polizia. Inoltre presso la sala stampa estera fu presentato all’opinione pubblica un ”Comitato di difesa dei poliziotti”, costituito da legali impegnati in diverse città d’Italia nonché dai parlamentari avvocati Ugo Spagnoli, Dino Felisetti e Franco Coccia. Sarebbero subito partiti i primi ricorsi contro diversi provvedimenti punitivi. Persino il ministro Gui e il Capo della Polizia sarebbero stati citati per abuso di potere. Per dimostrare la vitalità del Movimento e la sua capacità di resistere ad ogni rappresaglia moltiplicammo le assemblee in tutta Italia, coinvolgendo politici, sindacalisti, intellettuali, cittadini di tutti i livelli sociali. Persino le donne dei poliziotti, uscendo dal tradizionale riserbo, si organizzarono in gruppi di sostegno, facendo sentire la propria voce fatta spesso di drammi e disperazione. Fu un susseguirsi di manifestazioni che dovettero certo stupire le gerarchie del Viminale sui cui tavoli si incrociavano da tutta Italia i telegrammi ”urgenti e riservati” degli zelanti prefetti. Noi del Comitato Nazionale,

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distribuendoci i compiti, facevamo di tutto per portare la nostra testimonianza nei luoghi più significativi, soprattutto dove non ci fossero soltanto parlamentari di sinistra. Eccomi così presente, con Franco Fedeli, accanto a Bodrato a Torino, Bonalumi a Livorno, Cabras a Roma. Ero profondamente convinto che il Movimento per poter conservare spontaneità e giungere a una Polizia nuova al servizio di tutti i cittadini e al di sopra di ogni colore, dovesse rifuggire dalla sponsorizzazione di questo o quel partito. Lo stesso convincimento valeva nei confronti delle organizzazioni sindacali. Lama, Macario e Vanni ricorderanno ancora l’intervento con cui, nel corso dei Consigli generali di CGIL-ClSL-UIL, avevo pregato gli oltre mille delegati di non coinvolgere i poliziotti nelle sottili dialettiche tra confederazioni. Nato per germinazione spontanea, il Movimento doveva vivere e consolidarsi al di là di logiche di parte.

Era purtroppo quasi un presagio dell’involuzione futura. Sacrificavo giorni alle ferie, viaggiavo di notte, scrivevo articoli, senza nulla togliere all’impegno dell’ufficio. Volevo che il mio fosse un messaggio di denuncia e professionalità. Alcuni episodi di quel frenetico esaltante periodo ancora oggi mi riempiono di nostalgia e commozione. Come quella riunione tenutasi in marzo presso un albergo di Montesilvano vicino a Pescara. Angelo Giacobelli ed io eravamo partiti a tarda sera dopo il lavoro giungendo a riunione inoltrata. Al tavolo della presidenza, accanto a Fedeli, sedevano alcuni parlamentari: Mariani del PSI, D’Angelosante del PCI, Vincenzo Mancini della DC e sindacalisti confederali. Un applauso levatosi dalla sala gremita accolse l’annuncio che due rappresentanti del Movimento sfidando la gerarchia avevano voluto portare la propria testimonianza. Sia io che Angelo prendemmo la parola. Il cuore sembrò fermarsi quando, mentre parlavo, riconobbi tra la folla mio padre. Il suo atteggiamento nei confronti del mio impegno era sempre stato di apparente distacco. Tuttavia ero a conoscenza, attraverso mia madre, del fatto che lo seguiva con apprensione. Talvolta le ripeteva: «Si sta giocando una carriera che potrebbe essere brillante!», sperando forse che mi convincesse a desistere.

Era in fondo alla sala, quasi appiattito contro il muro per non farsi notare. Ascoltava attentamente. Lo vidi applaudire quasi guardingo alla fine dell’intervento. Poi uscì frettolosamente. Verso mezzanotte, al termine della riunione, con Angelo passammo a casa. Mia madre ci preparò qualcosa di caldo. Mio padre, dopo un attimo di silenzio imbarazzato, si complimentò con noi. Scosse la testa ed aggiunse: «Ve la faranno pagare... Grazie comunque!». Ripartimmo portandoci dietro quel sapore di casa, fieri di lottare anche per quei poliziotti vecchi e sfiduciati. Ma anche l’animo di quel rude maresciallo dei Carabinieri si apriva: da poco era andato in pensione, dopo quarant’anni di servizio, con il cuore ammalato e centonovantamila lire al mese. Alcune settimane dopo a Chieti, in un convegno analogo, lo avrei visto arrivare con mia madre e sedersi fiero in prima fila. Con or- goglio lo presentai al senatore Flamigni, al magistrato Vito D’Ambrosio, a Franco Fedeli e agli altri della presidenza.

E quel 22 aprile, giornata di sciopero indetta dalla federazione unitaria! In ogni città italiana un poliziotto del Movimento avrebbe partecipato alle assemblee in fabbrica. Ci dividemmo i compiti. Prendendo un giorno di ferie partii di buon’ora: dovevo intervenire in due posti. Nel primo, la sede della Zecca della Banca d’Italia, la direzione mi impedì l’ingresso attaccandosi a una rigida interpretazione dello Statuto dei lavoratori. A nulla valsero gli sforzi dei delegati di fabbrica. Ancora una volta migliore sorte mi fu riservata dagli operai in tuta. Presso lo stabilimento della Selenia centinaia di essi, uomini e donne, ascoltarono attenti. Superata la diffidenza iniziale fui bersagliato da tante domande, e infine circondato da entusiasmo e fiducia.

E quel rapido intervento a Genova alla celebrazione del 25 aprile! Con altri poliziotti del Movimento guidammo accanto al Sindaco della città il corteo silenzioso che dopo aver attraversato via XX settembre depose una corona dinanzi

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alla lapide ai caduti per la Liberazione.

Vivere gli ideali del Movimento mi sarebbe stato fatto pagare, ero certo. Ma il partecipare a quel momento di riscatto umano e professionale dopo trent’anni di attesa di fronte alla Costituzione, valeva bene ogni sacrificio.

V. Alla Questura di Roma

Squadra Mobile: Sezione N arcotici

Il mattino del tre marzo ’75, pochi giorni dopo quel colloquio di commiato con Santillo, varcai il portone della Questura di Roma. Il questore Testa, un napoletano alto e robusto, mi ricevette cordialmente. Sapeva, affermò, che ero un bravo commissario appassionato di polizia giudiziaria. Pertanto era lieto della mia assegnazione sicuro del fatto che avrei svolto bene il nuovo lavoro presso la Squadra Mobile. Un silenzio imbarazzato calò quando feci notare amaramente che non capivo il perché del trasferimento di un ”bravo commissario” dell’antiterrorismo in un momento così delicato.

Nella Mobile romana trovai un ambiente professionale, cordiale e amichevole. Fernando Masone, il dirigente, aveva saputo creare con le sue doti di calma, capacità decisionale e stile un clima affiatato e operoso. Lavorava affiancato da dinamici commissari responsabili delle diverse sezioni, Cioppa, Iovinella, Viscione, Scigliano, Balassone e Monaco, nonché da marescialli, veri polmoni della giudiziaria, come Cerrai, Davì, Spadafora, Massaro, Nereu ...

Mi fu assegnata la direzione della ”Narcotici” che solo da poco (evidente sintomo del ritardo con il quale lo Stato si adeguava al fenomeno droga) era stata sdoppiata dalla ”Buoncostume”. Era una specie di “armata Brancaleone”. Non che non ci fossero elementi volenterosi, ma i più mancavano di specifica formazione professionale, il che generava un approccio deformato e approssimativo al problema. Risultava infatti più facile accanirsi contro i tossicomani o i piccoli spacciatori di Campo dei Fiori e Piazza di Spagna piuttosto che addentrarsi nelle indagini contro il vero traffico di stupefacenti. Con gli scarsi mezzi tecnici a disposizione e con alcuni di quegli uomini, si poteva sperare ben poco. Ancora sorrido ricordando il racconto impacciato di quella guardia che aveva perso il pedinamento di una persona sospetta entrata nella porta girevole dell’hotel Excelsior. Si era precipitato rimanendo preso dal vortice della ruota e ritrovandosi di nuovo all’esterno. D’altro canto erano anche i tempi in cui si era inconsciamente intimiditi al solo pensiero che insospettabili colletti bianchi potessero essere coinvolti in quel traffico di morte. La situazione era aggravata dal fatto che la sezione era stata diretta, sino al mio arrivo, da uno strano maresciallo prossimo alla pensione. Alto e allampanato, guardava con diffidenza da dietro le sue spesse lenti gli sventurati tossicomani accompagnati in ufficio. Lo sentivo sbuffare mentre interrogandoli cercavo di aprire un dialogo. Le conversazioni con lui mi convinsero che era assolutamente inutile insistere: tanto era bravo nel redigere verbali quanto sprezzante verso quei giovani. Solo qualche tempo dopo compresi: forse trasferiva su di essi le sue amarezze e frustrazioni sottomesso com’era in famiglia da un figlio ribelle e prepotente. Sensibile al problema, Masone fece subito assegnare alla sezione un nuovo sottufficiale, il maresciallo Liberatore, e altri validi poliziotti. Tra questi, su propria richiesta, l’appuntato Gentile: l’entusiasta sostenitore all’assemblea dell’Hilton.

Poco alla volta la ”Narcotici” cominciò ad assumere un’impostazione più consapevole e professionale. Il pomeriggio, quando il lavoro lo consentiva, riunivo gli uomini per discutere apertamente del “problema droga”. Inviavo alcuni di essi a conferenze e dibattiti sull’argomento affinché relazionassero poi agli altri. Nascevano così discussioni animate e istruttive. Talvolta anch’io partecipavo a tavole rotonde. Ritenevo infatti importante che oltre a psicologi, medici e magistrati fosse sentita anche la voce del poliziotto, operatore in prima linea contro quel flagello. Così mi trovai a discuterne negli ambienti più vari, dalla RAI al

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Rotary, dalle borgate alle scuole. Anche in condizioni non facili, come quella volta alla Casa dello Studente. Avevo risposto all’invito di Pino Bianco, cronista di «Paese Sera» impegnato in tale tematica. Entrato nella grande sala ricoperta da graffiti del tipo «PS = SS» mi trovai di fronte a centinaia di giovani in eskimo con lo sguardo ostile. Inutile negarlo: avevo ”strizza”. Ma ruppi gli indugi esordendo: «Ecco, finalmente avete davanti a voi uno sbirro a disposizione! Domandate pure,

anche se sull’argomento droga ne sapete forse più di me». Le domande piovvero sferzanti e provocatorie, le risposte con citazioni di Kerouac e Leary dovettero meravigliarli non poco.

Spesso ero al fianco di persone ugualmente impegnate come Badaloni, Cancrini o Malagoli-Togliatti. Con quell’opera di presenza mi sforzavo di attirare l’attenzione su un problema che stava registrando una escalation preoccupante, sulla necessità di aggiornare la legge in vigore, di creare strutture di prevenzione e riabilitazione per i giovani, potenziando quelle di Polizia contro il grosso traffico che quasi sempre restava intoccato. Memore dell’esperienza genovese con Don Tubino e Don Gallo, contattai subito Don Picchi e i suoi collaboratori impegnati nel volontariato in aiuto di quei giovani e delle loro famiglie. Indirizzavo al suo “centro di solidarietà” di piazza Cairoli giovani e genitori bisognosi d’aiuto e di speranza. Sul piano delle indagini cercavo di orientare le energie della sezione verso l’ambiente più difficile del vero traffico. In tale ottica organizzai una squadra notturna composta da quattro favolosi poliziotti: l’appuntato Campanella, e le guardie Costantino, Marzo e Moracci, detto il ”volpino” per la sua astuzia investigativa. A loro era affidato il compito di uscire in pattuglia di notte, in zone ed orari scelti in piena fiducia e autonomia. Quando si imbattevano in personaggi equivoci o criminalmente interessanti, dovevano controllarli, ritirare i documenti ad ogni minima irregolarità e invitarli a presentarsi l’indomani in ufficio. Questo ci permise di creare rapidamente un archivio di sezione e avere una migliore conoscenza di quegli ”operatori della notte”.

Un notevole apporto operativo era fornito dal brigadiere Longo, uno spericolato sottufficiale alla Rambo. Il suo coraggio era incredibile. Lo dimostrò quella volta in cui stava inseguendo lungo un ponte sul Tevere un trafficante che, vistosi raggiunto, aveva gettato la droga nel fiume. Senza un attimo di esitazione si era tuffato ripescandola, tra lo stupore di tutti. Lo stesso spacciatore si era fermato incredulo a guardare lo spericolato tuffo. Ma l’irruenza e l’intraprendenza di questo coraggioso investigatore, dimentico di essere a Roma e non a Brooklyn gli avrebbero procurato guai e frustrazioni. Tempo dopo sarebbe stato pestato a sangue da falsi confidenti, nel corso di un’indagine condotta da solo e senza avvertire nessuno. Avrebbe lasciato la Polizia deluso, dopo esser stato sottoposto anche a procedimento disciplinare.

I primi risultati di un certo rilievo non tardarono a venire. Si iniziò con l’arresto di Rocco Vitalazzi, rispettabile boss della Cassia. Facemmo irruzione nel suo appartamento nello stesso momento in cui lui e la sua donna erano intenti a confezionare dosi di cocaina tagliata con polvere estratta da cachet per il mal di testa. Di questo passo le operazioni successive portarono ben presto scompiglio tra gli spavaldi trafficanti. Diversi finirono a Regina Coeli e vennero sequestrati quantitativi di droga notevoli per quei tempi. La ”Narcotici” cominciava ad assumere un’identità precisa.

Commissione di disciplina

Ero da poco alla Squadra Mobile, quando giunse dal Ministero una di quelle buste ”riservate personali”, quasi sempre foriere di guai per noi poliziotti. Mi si informava che era stato avviato un procedimento disciplinare nei miei confronti per avere svolto attività sindacale e mi si convocava, di lì a qualche giorno, dinanzi alla Commissione di disciplina. Trovai i miei ”giudici” in una sala del Ministero: presidente il prefetto Melchiorre direttore generale (sembrava un’ironia) degli ”Affari per il culto”, affiancato da altri quattro funzionari prefettizi. Il relatore,

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viceprefetto Voci, mi contestò formalmente la grave colpa in cui ero incorso: la lettera scritta l’8 febbraio al presidente del Consiglio Aldo Moro dal Comitato Nazionale del Movimento durante l’assemblea di Empoli a seguito dell’omicidio dei due poliziotti. Quella lettera rappresentava per il Ministero manifestazione di attività sindacale sanzionabile per legge. In effetti, un decreto luogotenenziale del l944 vietava ai funzionari di polizia di aderire ad associazioni sindacali e di svolgere ogni attività così configurabile, “pena la decadenza dell’impiego”. Feci rilevare preliminarmente a verbale che contestavo la composizione di quella Commissione in cui non compariva alcun poliziotto, ma formata soltanto da burocrati poco idonei, loro malgrado, a comprendere i problemi del nostro lavoro. Il segretario della Commissione, consigliere Caruso, verbalizzava scrupolosamente. Questa piccola odissea procedurale sarebbe andata avanti per un paio di mesi secondo un rituale kafkiano. Ogni tanto arrivava una convocazione, andavo al Ministero, la Commissione continuava le contestazioni. Capivo dove si voleva arrivare: dichiararmi decaduto dal servizio attraverso un provvedimento disciplinare formalmente ineccepibile. Sarebbe stato un monito esemplare per tutto il Movimento. Sin dall’inizio impostai la mia difesa sulla incostituzionalità di quel decreto: era da considerarsi abrogato perché in palese contrasto con la Costituzione che sanciva il diritto di associazione e di libertà sindacale. Gli eventuali limiti ipotizzabili per alcune categorie di lavoratori, tra cui i poliziotti, avrebbero dovuto essere introdotti con apposite leggi. Solo quando mi accorsi che si stava giungendo alla conclusione del procedimento, feci annotare a verbale che nel fascicolo processuale certamente non era stata acquisita la “lettera galeotta”. Ci si sarebbe accorti altrimenti che vi mancava la mia firma. Nei giorni in cui era stata stilata a Empoli, mi trovavo infatti altrove per le indagini su Tuti. Il viso dei ”giudici” divenne paonazzo. Guardandosi smarriti sfogliarono febbrilmente più volte le pagine del voluminoso dossier. Non vi era allegata nessuna lettera, ma solo la copia di un articolo di giornale che ne parlava, citando tra i nomi dei firmatari anche il mio. Nella successiva seduta, la Commissione, dopo aver acquisito agli atti la missiva originale, dovette constatare la mancanza della firma. Lo sbigottimento divenne allora timore di scandalo: il procedimento era stato montato senza il più elementare accertamento. D’altro canto, il Movimento, affiancato dalla Federazione Unitaria e dal Comitato di Difesa, stava seguendo con attenzione quella significativa farsa antisindacale. Fu così che all’ultima seduta tutti mostrarono improvvisamente un’estrema gentilezza nei miei confronti: avevano dovuto procedere loro malgrado sulla base di norme forse sorpassate, ma ”era la legge”! Tutto comunque era chiarito ora e la sentenza sarebbe stata assolutoria! Addirittura, il prefetto Melchiorre, prendendomi sottobraccio, mi informò che il Ministro mi avrebbe personalmente ricevuto.

Il mattino successivo, attraversai i corridoi del secondo piano del Viminale; impeccabili uscieri in livrea mi introdussero nella stanza del ministro Gui. Questi, dopo essermi venuto cortesemente incontro facendomi accomodare, si complimentò per l’esito favorevole del procedimento. Mi invitò poi a parlargli del nostro Movimento e delle motivazioni che ci spingevano a chiedere la riforma. Anche se ero dovuto passare attraverso quel tunnel procedurale, non mi sembrò vero poter illustrare direttamente al Ministro dell’Interno, senza il filtro della potente burocrazia di Palazzo, le ansie e le speranze che inducevano i poliziotti a lottare. Gui ascoltava con attenzione, chiedendo di tanto in tanto qualche precisazione. Inaspettatamente mi domandò cosa pensassi dei miei colleghi. Fu un’appassionata difesa ed esaltazione del loro lavoro. Il Ministro allora, con un sorriso sornione, mi chiese se avevo mai preso visione del mio fascicolo personale, quindi mi salutò con gentilezza. Nei giorni successivi chiesi e ottenni di poterlo esaminare, come previsto dal regolamento per i funzionari sottoposti a un pro- cedimento di disciplina. Quel che scoprii era a dir poco paradossale. Trovai infatti le famose ”veline” riservate inviate dagli zelanti funzionari di Genova. Benché avessi dovuto mettere le mani in quella melma burocratica, fui grato al Ministro per l’avviso datomi, forse involontariamente. Fu la prova di come molto spesso i

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politici siano manovrati dalla potente macchina del Palazzo che ne forma e deforma le convinzioni condizionandoli ad agire di conseguenza. In ogni caso la ruota gira e, talvolta, anche i più potenti ne subiscono gli effetti. Quando, qualche tempo dopo, il ministro Gui fu messo sotto inchiesta per lo scandalo Lockeed, gli scrissi una breve lettera. Mi rispose con un triste e signorile ringraziamento.

Due quadri di pronto intervento

L’impegno presso la Narcotici veniva talora integrato da interventi anche per altri reati. Ciascun dirigente di sezione assicurava infatti un turno di reperibilità settimanale durante gli orari di chiusura degli uffici, notte e pomeriggio, per tutta la Squadra Mobile. Durante questo periodo doveva intervenire e avviare le prime indagini per i reati più gravi, passando poi tutto alla sezione competente. L’esperienza acquisita alla Questura di Genova mi tornò molto utile per svolgere quel lavoro con correttezza, trasferendo ai colleghi casi per quanto possibile ben avviati. Si instaurarono rapporti di stima e simpatia con la maggior parte di loro e in particolare con i commissari Iovinella e Viscione, gli aitanti e dinamici capi delle sezioni omicidi e rapine. Rientravo allora di tanto in tanto in quel tetro dagli imprevedibili canovacci. Quasi sempre erano squarci d'umanità sofferente. Eccone due tra i tanti.

Avevamo lavorato tutta la notte per cercare di assicurare alla giustizia due scippatori in moto che avevano falcidiato una decina di commesse all’ora della chiusura dei negozi. Riuscimmo a localizzarli in un capannone alla periferia di San Basilio. Armi in pugno, dopo aver abbattuto una porta già malferma, facemmo irruzione. Alla tenue luce dell’alba ci apparve il patetico spettacolo di una decina di ragazzi dai quattro ai sedici anni, quasi accatastati su due o tre materassi sdruciti. La madre, una donna grassa di indefinibile età, uscita con gli occhi ancora assonnati da uno sgabuzzino lì accanto, fiera e decisa come una Filomena Marturano trasteverina, giurava su Dio per scagionare i figli più grandi: «Dotto’,

so’ stati qui tutta la notte!». Per sua sfortuna uno dei ragazzi aveva ancora negli slip parte della refurtiva, nascosta probabilmente per non dividerla con gli altri. «Dotto’, si nun famo cosi, qui nun se magna!», cambiò testo la donna, pettinando con cura i due più grandi che dovevano venire con noi. Durante il ritorno in Questura, non seppi trattenere un sorriso di simpatia guardando il più giovane, uno scavezzacollo di quattordici anni che sembrava divertirsi un mondo a bordo della nostra auto chiedendoci di mettere in funzione anche la sirena e di andare più forte: «Piccolo scippatore di borgata, che farai da grande?», pensavo mentre attraversavamo l’allucinante quartiere senza verde.

Quelle immagini di miseria e di speranze rubate riaffiorarono alla mente qualche giorno dopo, mentre passeggiavo nervosamente nell’ampio ingresso di casa Bulgari, ai Parioli. Uno dei fratelli titolari delle gioiellerie era stato sequestrato una settimana prima nei pressi di via Veneto, mentre rientrava a casa. Quel crimine, così nuovo e spavaldo nella capitale, aveva profondamente scosso l’opinione pubblica e allarmato le forze dell’ordine. Era estraneo alle tradizioni della malavita locale: tutta la Squadra Mobile era in subbuglio. Quella notte, verso le due, essendo di turno, mi avevano chiamato dalla Questura per informarmi che la famiglia voleva nuovamente parlare con il Capo della Mobile. Ero passato a prelevare con una ”volante” Masone e insieme eravamo andati a casa Bulgari. Un inserviente ci aveva fatto accomodare, poi uno della famiglia aveva invitato Masone a seguirlo in una stanza adiacente chiudendomi quasi la porta in faccia. Ero rimasto nervoso ad attendere, guardando i preziosi quadri alle pareti, fino alle quattro del mattino. Alla fine Masone era uscito chiedendomi scusa nel silenzio degli altri.

Un altro episodio mi torna alla mente, quasi a ricordare l’imprevedibilità della sorte. In un caldo pomeriggio di giugno, una telefonata sul ll3 ci informò che stava avvenendo una sparatoria in piazza Montecitorio, davanti al Parlamento. Ci precipitammo a sirene spiegate temendo un attacco terroristico. Per fortuna non era così. In un appartamento al quinto piano di un edificio affacciato sulla piazza un

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uomo, dopo aver ferito la donna che era con lui ed una persona coraggiosamente accorsa in suo aiuto, si era rifugiato in una stanza minacciando con una pistola chiunque si avvicinasse. A conferma delle sue intenzioni, di tanto in tanto sparava da dietro la porta socchiusa. Si trattava dell’onorevole Formisano, brillante avvocato e uomo politico del Movimento Sociale. Dopo aver disposto con qualche agente un servizio di sicurezza per il capannello degli immancabili curiosi tentai, anche con l’aiuto di un suo amico, di avvicinarmi e convincerlo a desistere dai suoi propositi. Come risposta echeggiarono due colpi di pistola che si schiacciarono sulla parete al di sopra delle nostre teste. Poiché la situazione rischiava di divenire lunga e pericolosa, decisi di agire. Feci portare da una guardia dei lacrimogeni, disponendo contemporaneamente che i vigili del fuoco, già sul posto, stendessero un telone al di sotto della finestra dalla quale avrebbe potuto gettarsi l’onorevole. Mi sentii moderatamente rassicurato quando notai alle mie spalle il maresciallo Armando Spadafora che, giunto nel frattempo, introduceva il colpo in canna nella sua inseparabile Beretta. «Maresciallo, non spari, mi aiuti a portarlo via di qui!»: lo bloccai subito. Conoscevo per fama il coraggio ma anche l’irruenza di questo sottufficiale dalle prodezze già leggendarie, da quando aveva inseguito alcuni rapinatori scendendo la scalinata di Trinità dei Monti a bordo della sua potente Alfa Romeo. Così dicendo lanciammo nella stanza i lacrimogeni. Dopo qualche minuto, con un fazzoletto bagnato sulla bocca, mi precipitai dentro seguito a ruota da Spadafora. Riuscii appena a intravvedere Formisano, rincantucciato e ansante in un angolo. Non fece neppure in tempo a puntarmi contro la pistola, che si trovò fuori immobilizzato. Quasi vomitai per il gas respirato, ma la situazione era sbloccata. La scena si era svolta fulminea sotto lo sguardo attonito del questore Macera, di Masone e degli altri funzionari e ufficiali dei carabinieri giunti nel frattempo. Mentre l’ambulanza correva verso l’ospedale, il povero onorevole aggrappandosi alla mia mano invocava con parole sconnesse d’amore e di gelosia l’amica ferita. Tornato in Questura con gli occhi rossi e gonfi, fui chiamato da Macera che volle complimentarsi con me e Spadafora. Mentre stilavo gli ultimi verbali, giunse in ufficio una strana telefonata: «Commissario, ma non poteva uccidere quello sporco

fascista?». Riattaccai con disappunto. Qualche tempo dopo, dimesso dall’ospedale, l’onorevole Formisano, intuendo forse il pericolo corso, mi avrebbe fatto perve- nire parole di ringraziamento.

Marsiglia chiama Centocelle

Dopo quello di Bulgari un altro sequestro, del presidente della Voxon Amedeo Ortolani, il l0 giugno del ’75, aggravò il già pesante clima di allarme. Masone riunì tutti i funzionari della Mobile per esprimere le sue preoccupazioni: un suo confidente gli aveva rivelato che quei rapimenti potevano essere opera di una banda di francesi che da qualche tempo si stava inserendo nella capitale. Qualcuno di noi aveva notizie che potessero confermare l’ipotesi? Anche Iovinella riferì di aver ricevuto lo stesso tipo di indicazione. Il mio intervento diede qualche altro elemento concreto. Alcune settimane prima infatti nel corso di un servizio antidroga i miei uomini avevano fermato in piazza del Popolo a bordo di una potente BMW un francese di Marsiglia, Robert Vescovacci. Fattolo accompagnare in ufficio, avevamo cercato qualche elemento di prova contro di lui: inutilmente, nell’auto e nei bagagli né droga né armi. Alla fine, dopo qualche schermaglia verbale, avevo dovuto congedarlo. Mi aveva salutato sorridendo spavaldamente: “Au revoir, monsieur le commissaire!”. Non si era accorto però che all’uscita il volpino Moracci aveva preso a seguirlo come un’ombra. Lo aveva visto entrare dopo giri guardinghi in un bar di via dei Gerani, nel quartiere Centocelle, accolto con ampi sorrisi e pacche sulle spalle da alcuni ceffi ben noti alla Mobile. Avevo disposto un servizio di osservazione nella zona e alcuni giorni dopo avevo notato io stesso, proprio davanti a quel bar, una vecchia conoscenza dei tempi genovesi: Tony Vitale. Apparteneva al gruppo di pieds noirs che si erano prepotentemente insediati nella vecchia Genova. Anzi, proprio lui e il fratello maggiore erano stati arrestati per l’omicidio Giamporcaro. Durante il processo, forse per dovere d'età, il

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fratello si era assunto tutte le responsabilità e lui era stato liberato. Vederlo passeggiare per Roma mi aveva allarmato: certo non era venuto a visitare i Musei Vaticani! Tutti seguirono con interesse il resoconto e Masone, assicurando che avrebbe rinforzato la mia sezione, mi incitò a concentrare il lavoro su quella pista.

Iniziò così un’indagine che ancora oggi viene ricordata dagli uomini della Mobile di quel tempo. Il bar, quasi strategicamente posto al centro di una piazzetta a cui si accede attraverso stretti vicoli mal si prestava a un controllo sistematico, inoltre c’era sempre qualcuno all’esterno della porta, pronto a segnalare ogni sgradita presenza. Era indispensabile trovare un posto d’osservazione discreto. Girando in zona, in abbigliamento hippy, a bordo della mia moto, un Ducati Scrambler rosso, seppi di un piccolo appartamento vuoto posto proprio di fronte al bar. Risalii alla proprietaria, una vecchia deamicisiana maestra che abitava al centro di Roma. Andai a trovarla e parlandole del dramma di tanti giovani e della necessità di collaborazione di ogni persona onesta, la convinsi ad aiutarci. Avuta la parola che non si sarebbe mai risaputo, mi autorizzò a utilizzare per qualche tempo quell’appartamentino. Fu così che quando, verso mezzogiorno, cominciavano ad arrivare nel bar avventori dai volti segnati da notti brave, venivano immortalati in un impeccabile servizio fotografico effettuato attraverso le finestre dell’appartamento dal brigadiere Gullotta della Scientifica. Era questi un personaggio straordinario: laureato in architettura, con la sua maestosa barba brizzolata, sembrava più uno scienziato che un poliziotto. Mi aveva sentito parlare col collega Pandiscia, capo del Centro regionale di polizia scientifica, del proposito di organizzare quel servizio di osservazione e si era offerto volontario per un lavoro rischioso e senza orario. Entrava al mattino presto con la sua valigia piena di teleobiettivi e usciva dall’appartamento soltanto verso sera. Già le prime pellicole furono sufficienti a dimostrare come il bar fosse un vero e proprio ricettacolo di personaggi di spicco della mala romana: Lattanzi, Misuraca, Presciutti, nonché di alcuni marsigliesi, come Gilles Marcel un trafficante di droga noto anche per i suoi audaci travestimenti da donna.

Sulla base delle prime risultanze, autorizzati dal giudice Cannata, iniziammo l’intercettazione del telefono del bar. Ne scaturì insomma un sistema incrociato di controlli: da una parte le numerose telefonate e dall’altra le foto di uomini e auto ci permettevano di identificare i vari soggetti, ricostruendo i diversi ruoli. Era un lavoro faticoso, ma efficace: -tassello dopo tassello, cominciò a venire fuori un mosaico interessante. Certe telefonate erano di interesse immediato, come ad esempio quelle fatte ogni giorno da un individuo con accento siciliano a un medico della zona cui era già stata incendiata l’autovettura. Gli intimava di pagare il suo ”contributo” se voleva star tranquillo, lui e la sua famiglia. Fu arrestato dopo qualche giorno, mentre con alcuni complici si apprestava a raccogliere i soldi lasciati dal medico terrorizzato ai piedi di un traliccio. Quel povero professionista non sapeva capacitarsi della nostra conoscenza della sua odissea, quando lo invitammo in Questura per restituirgli la somma già per lui persa. Altre telefonate apparivano più laconicamente equivoche, alcune erano in francese da e per Marsiglia. Per non perdere nulla dei dialoghi, chiesi al dottor Fariello, capo dell’Interpol, un interprete. Nonostante ciò gravasse ancor più sul suo ufficio, ci mise a disposizione un sottufficiale. Riuscii inoltre, grazie all’inesauribile Pandiscia, cosa fantascientifica per quei tempi, a utilizzare una telecamera agli infrarossi, giacente polverosa negli uffici dell’EUR, per le riprese notturne.

Dopo venti giorni, Ortolani fu rilasciato. In Questura raccontò di essere stato sequestrato da due falsi carabinieri che avevano fermato la sua vettura. Sia questi che i suoi carcerieri parlavano con tipico accento italo-francese. Alcuni particolari del suo racconto trovavano precisi riscontri negli elementi acquisiti dalle nostre indagini. Inoltre, avendogli fatto ascoltare alcune delle voci registrate, ne aveva riconosciuta una senza ombra di dubbio.

D’intesa con Masone, con un dettagliato rapporto, Iovinella e io riferimmo al

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magistrato l’esito delle indagini, denunciando in via indiziaria una decina di persone, italiane e marsigliesi per traffico di droga e reati connessi.

Un uomo chiamato Pannella

Nel quadro di questa febbrile attività investigativa, si verificò l’episodio Pannella. La mattina del primo luglio Masone mi convocò nel suo ufficio. Era molto seccato e mi incaricò di intervenire presso l’hotel Minerva dove quel ”rompiscatole” di un radicale ne avrebbe combinata una delle sue. Il Questore, il Comandante del Gruppo Carabinieri e il Procuratore della Repubblica avevano ricevuto un telegramma col quale Pannella avvertiva che quel pomeriggio avrebbe commesso in quell’hotel un reato riguardante la droga. «Intervenite – concludeva – altrimenti

vi denuncerò per omissione d’atti d’ufficio». Lo stesso telegramma era stato inviato ai direttori di autorevoli testate. Masone aveva interpellato prima di me colleghi di altre sezioni che avevano evitato l’incarico. I funzionari di polizia avrebbero forse preferito affrontare il peggior criminale al posto di quell’imprevedibile politico che sembrava godere nel provocarli e nel metterli in ridicolo. Come responsabile della Narcotici dovetti dunque occuparmene io.

Nel pomeriggio mi recai sul luogo, dove numerosi giornalisti e fotografi erano convenuti per l’inatteso spettacolo. Dal direttore seppi che Pannella aveva affittato la sala conferenze per un ”incontro culturale”. Mostrandogli il telegramma che parlava chiaramente di commissione di reato e ricordandogli che era titolare di una licenza di polizia lo diffidai dal concedere la sala per una tale finalità dichiarata. Il poveretto non sapeva che pesci prendere. Gli chiesi di invitare Pannella nel suo ufficio: lo avrei informato io stesso. Questi arrivò dopo poco. Era la prima volta che lo incontravo: alto, dinoccolato, il viso scavato, con occhi chiari e penetranti. Gli feci notare che stava abusando della buona fede del direttore, il quale sarebbe incorso in sanzioni amministrative ora che sapeva il vero uso per il quale era stata affittata la sala. Pannella ascoltò con attenzione e quindi, dopo essersi consultato con l’avvocato De Cataldo che l’aveva seguito, informò gli spettatori che la ”cerimonia” era rinviata. Si allontanò tra la delusione generale lanciandomi un sorriso sornione. In Questura si congratularono per la soluzione del caso, ma la soddisfazione fu di breve durata.

La stessa sera giunse un telegramma analogo al primo che riproponeva la situazione per l’indomani: questa volta nei locali del partito radicale, in via di Torre Argentina. Il mattino dopo, accompagnato da un brigadiere, bussai alla porta della sede. Venne ad aprirmi Gianfranco Spadaccia. In cuor mio speravo che tutto fosse di nuovo rinviato per la mancanza, come tenni a precisare, di un formale mandato giudiziario. Invece venni invitato a entrare con un'ospitalità teatrale e introdotto nell’ampio Salone gremito di giornalisti e fotoreporter. In fondo, seduto dietro il tavolo della presidenza il carismatico Pannella con accanto personaggi noti: Loris Fortuna, De Cataldo, Cicciomessere, Mellini. Appena entrato il silenzio calò sulla sala e tutti si girarono verso di noi. Poi echeggiarono fischi, pernacchie e una voce femminile gridò «bravo sbirro!». Loris Fortuna invitò alla calma e cominciò a parlare.

Per oltre un’ora si susseguirono gli interventi sul tema dell'assurdità della legge antidroga che invece di colpire i trafficanti si accaniva contro i tossicomani. Dentro di me annuivo, condividendo pienamente quelle considerazioni. L’intervento di Mellini terminò e prese la parola Marco Pannella. L’attenzione di tutti raggiunse il massimo, si attendeva la fatidica ”ora del crimine”. Dopo circa mezz’ora di arringa, tirò fuori dalla tasca una sigaretta che accese, quindi annunciò drammaticamente, rivolgendosi a me: «Questo é uno spinello di marijuana! Invito il rappresentante

della legge ad arrestarmi». Il capitano Mazzotta del Nudeo Antidroga dei Carabinieri, giunto nel frattempo, scattò verso Pannella con quell’intenzione mentre la gente in sala scandiva il suo disappunto con slogan contro di noi. Pregai con decisione l’ufficiale di lasciarmi dirigere l’operazione. Dal microfono chiesi il silenzio alla sala: mi feci consegnare da Pannella il ”corpo del reato”, lo misi con

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calma in una busta, la chiusi apponendo la firma sul retro e domandai al leader stupito che facesse altrettanto: non avevo mai arrestato-dissi- nessuno con leggerezza e non avrei certo iniziato allora. Il fatto che in quella sigaretta ci fosse della marijuana era da appurare e ciò proprio per amor di giustizia. Pannella, se voleva, era libero di venire con noi. Si consultò concitatamente con i suoi legali e mi seguì mentre uscivo tra fischi e insulti.

Arrivammo in Questura a bordo della mia auto. Lo feci accomodare nel mio ufficio, in attesa dell’esito dell’analisi sulla sigaretta. Nel frattempo, lo pregai di leggere il testo di un intervento sul problema droga che pochi giorni prima avevo svolto a un convegno presso il circolo RAI organizzato dall’allora vicepresidente Orsello. In fondo dicevamo la stessa cosa: la legge andava cambiata. Intanto era ripreso il febbrile ritmo di lavoro di sempre: il telefono squillava ripetutamente, gli uomini entravano e uscivano per l’indagine in corso sui marsigliesi. Ciò sotto lo sguardo sorpreso dell’involontario spettatore. Quindi giunse l’esito del test: positivo. Dopo essermi consultato con Masone dovetti applicare quell’articolo capestro: Marco Pannella era in arresto. Uscimmo tra una piccola folla di fotografi e giornalisti mentre uno di questi gridava con acredine: «Di Francesco, perché non

mette i ferri a questo delinquente?». Prima di entrare nell’auto di servizio, Pannella, serio in volto, si volto dicendomi: «Arrivederci, commissario, oggi ho

imparato qualcosa». Quindi la volante partì sgommando verso Regina Coeli.

La sera mi trattenni in ufficio per riordinare i risultati dell’indagine sui marsigliesi. Tuttavia mi era impossibile non pensare a quell’uomo che era finito in carcere per avere affermato delle verità importanti per tutti quei giovani caduti nella trappola della droga. Dietro le sbarre la vita gli sarebbe stata resa ancor più dura da quelli contro cui voleva una lotta più decisa: i trafficanti. D’impulso scrissi il telegramma: «Se come funzionario ho dovuto applicare una legge anacronistica e iniqua, come

cittadino mirante a una società più giusta e umana, non posso non esprimerti stima

e ammirazione». Destinatario: personale – Marco Pannella – Regina Coeli – via

della Lungara - Roma.

Reato di telegramma

Il mattino successivo proseguì normalmente. Il pomeriggio invece trovai la guardia Moracci ad attendermi, bianco in volto, sulla porta dell’ufficio. Senza una parola, mi mostrò l’ultima edizione di «Momento Sera». Un articolo in prima pagina titolava: «Il commissario che ha arrestato Pannella gli esprime solidarietà» con una foto scattata in quell’occasione. Il sangue mi si gelò nelle vene, non avevo pensato a una simile eventualità. Sulla scrivania mi aspettava una busta gialla ”riservata personale”. L’aprii. Nel fonogramma in copia si annunciava: «E’ stato

redatto rapporto alla Procura della Repubblica di Roma riscontrandosi elementi di

reato nel comportamento del dottor Di Francesco. Con effetto immediato si

dispone che il citato funzionario cessi dal servizio presso la Squadra Mobile, in

attesa delle decisioni adottate dal Ministero dell’Interno- firmato Ugo Macera,

Questore di Roma »: Seguito dallo sguardo accorato dei miei uomini, schizzai nell’ufficio di Masone che, allargando le braccia, mi suggerì di andare direttamente dal Questore. Dopo un’ora d’attesa questi mi ricevette. Il suo viso già grintoso per il caratteristico naso aquilino appariva questa volta apocalittico. Mi investì subito: avevo gettato discredito sull’Amministrazione inviando quell’assurdo telegramma al ”mangiapoliziotti radicale”. Lo interruppi: avrei risposto di quel che avevo fatto, ma era più importante che potessi continuare l’indagine sui marsigliesi poiché entrava ora nella fase più delicata. Lo stesso Masone, subito convocato, confermò che nessuno era in grado così all’improvviso di continuare quel complesso lavoro investigativo. Inoltre il sostituto procuratore Cannata aveva indetto per l’indomani una riunione per fare il punto sulla situazione alla luce del rapporto presentatogli. Da scaltro e appassionato poliziotto, Macera rinviò temporaneamente la decisione: nel frattempo avrebbe sentito il Ministero.

L’indomani, proprio mentre ero in procinto di recarmi a tale riunione, venni

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convocato d’urgenza dal vicequestore vicario. Ad attendermi c’era anche l’ispettore generale Romanelli che mi annunciò con un sorriso sarcastico che doveva occuparsi ancora di me per un’inchiesta disciplinare. Cominciò freddamente a interrogarmi verbalizzando: come mi chiamavo, che funzione svolgevo, se conoscevo da prima Pannella, il motivo di quel telegramma, se ero cosciente della gravità del fatto. Declinai le generalità, ma chiesi che fosse anche scritto che si stava intralciando un'attività di polizia giudiziaria in pieno svolgimento, visto che il Sostituito procuratore della Repubblica, in quello stesso momento, mi stava aspettando. Dopo un attimo di perplessità, l’inquisitore schizzò nell’ufficio adiacente tornando dopo poco con Macera al fianco. Come un condannato li seguii fino alla stanza del Capo della Mobile. II giudice Cannata, che sedeva per l’occasione alla scrivania di Masone, attorniato dai funzionari, gli andò incontro per stringergli la mano elogiando il nostro lavoro investigativo. Macera imbarazzatissimo lo interruppe bruscamente. Il Magistrato confuso, dopo aver guardato Masone che con strani gesti del viso tentava di comunicargli qualcosa, affermò la necessità della mia collaborazione, almeno per l’esecuzione di alcuni provvedimenti giudiziari che avrebbe firmato di lì a poco. Macera si congedò dandomi ancora ventiquattr’ore di tempo: poi avrei dovuto di nuovo incontrare Romanelli.

Il giudice Cannata, fatto il punto della situazione, dispose una serie di operazioni da eseguire con urgenza. Alla mia sezione toccarono tre perquisizioni domiciliari e alcuni ordini di cattura. Alle quattro del mattino successivo, ancora al buio, uscimmo per quello che doveva essere l’ultimo mio servizio in quel caso. I miei uomini, consapevoli dell’importanza del momento, erano anch’essi tesi e preoccupati. Formammo tre squadre e ciascuna andò all’indirizzo assegnatole: i tempi strettissimi imposti dal ”pasticciaccio Pannella” ci facevano dubitare del buon esito dell’operazione. Due squadre, compresa la mia, tornarono deluse: le perquisizioni avevano dato esito negativo. Qualche ora dopo quando la terza rientrò accompagnando alcune persone in manette. Vidi il maresciallo Liberatore correre su per le scale gridando: «Dottor Di Francesco, ce l’abbiamo fatta!». Alzava al cielo come un trofeo due grosse bottiglie di vetro piene di polvere marroncina. Si trattava di oltre un chilo di eroina, il più grosso quantitativo sequestrato a Roma in quei tempi. Altro che lotta ai tossicomani, avevamo osato mettere il dito nel cuore del clan dei marsigliesi e dei loro legami romani! Subito si aggiunse infatti un altro colpo di scena. Il bravo appuntato Lo Giudice, dopo averne esaminato il documento, inizio a scrutare intensamente uno dei fermati che cercava di confondersi tra gli altri. Poi, emettendo un grido strozzato, lo sollevo di peso: «Ma

che Mario Javarone, tu sei Loria!». In effetti si trattava del ricercato Mario Loria, il ”vivandiere” della feroce banda Cimino che aveva assassinato qualche anno prima in via Gatteschi a Roma i fratelli gioiellieri Menegazzo. Mentre tutta la sezione esultava Masone mi prese da parte, si congratulò e mi comunicò con garbo di sbrigarmi a redigere i verbali: dovevo considerarmi esautorato dall’indagine. Cercai di contestare quell’ordine: l’operazione era appena all’inizio, il telefono del bar era ancora sotto controllo e proprio in quel momento di allarme per la banda avrebbe potuto fornire elementi utili. Alzò gli occhi al cielo: l’ordine veniva dall’alto ed era perentorio. Quella stessa mattina, il vicequestore D’Alessandro, dirigente della Divisione di polizia giudiziaria, aveva trasmesso alla Procura della Repubblica il rapporto di denuncia a mio carico per ”reato di telegramma”.

Stilati i verbali di arresto e sequestro, diedi le ultime disposizioni agli uomini della mia sezione e lasciai la Questura da un’uscita secondaria. Di fronte all’ingresso principale infatti un gruppo di giovani manifestava con vistosi cartelli . Ne riuscii a leggere uno che diceva: «Di Francesco é colpevole di pensare!». I radicali cercavano di alleggerire i miei guai: Spadaccia con una lettera al Questore sosteneva che il telegramma era stato pubblicato “per errore”. Nel pomeriggio, Macera e Masone tennero una conferenza sull’operazione contro i marsigliesi illustrandone con soddisfazione i risultati. Alle domande di Silvana Mazzocchi de

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«La Stampa» e di altri giornalisti che chiedevano dove fosse il commissario Di Francesco e se avesse partecipato a quel servizio, venne risposto evasivamente che era impegnato in altri incarichi. In effetti, mi trovavo con l’ispettore Romanelli per rispondere di nuovo alle sue domande incalzanti. Alla fine mi avrebbero comunicato la nuova destinazione: polizia amministrativa.

Il mattino successivo, mi recai di buon’ora nel mio ex-ufficio della Narcotici, per effettuare il trasferimento nella nuova stanza. Avevo iniziato a raccogliere i miei libri quando il telefono squillò. L’agente alla sala intercettazioni mi informò con voce concitata che un uomo, esprimendosi in francese, aveva appena telefonato al bar controllato: era appena giunto da Marsiglia con ”quelle cose” e avrebbe di lì a poco lasciato l’hotel Principe dove aveva preso alloggio per recarsi lì. Mi precipitai nell’ufficio di Masone, ma né lui né gli altri funzionari erano ancora arrivati. Era necessario agire celermente al fine di intercettare il marsigliese prima del suo arrivo al bar. Un rapido accertamento all’hotel portò la conferma: era appena giunto un francese, aveva preso una camera e da pochi istanti si era allontanato a bordo di un taxi, un tipo tarchiato, pochi capelli, baffi alla mongola, jeans e giacca di pelle. Comunicai gli elementi alla sala operativa affinché le volanti di zona intercettassero quel taxi e controllassero con attenzione la persona che era sicuramente armata e trasportava qualcosa di compromettente. Quindi uscii con una radiomobile guidata dall’appuntato Lo Giudice. Poco dopo, la radio di bordo comunicò che l’auto segnalata era stata bloccata nei pressi di Centocelle. Giunti sul luogo, il capo della volante mi informò che dal controllo non era emerso nulla di irregolare. Era molto strano. Interrogai il conducente del taxi per sapere se durante il tragitto l’uomo si fosse sbarazzato di qualcosa o avesse incontrato qualcuno. Appresi che aveva un borsone deposto nel bagagliaio: nessuno l’aveva controllato. Appena uno degli agenti fece per aprirlo, il francese cercò di fuggire, subito placcato dal vigoroso Lo Giudice. Da quel sacco spuntarono un mitra Sten, tre pistole, munizioni, parrucche e nastri adesivi. Chiesi via radio che informassero il Capo della Mobile, quindi tornammo fieri di quel risultato.

Ma la soddisfazione per l’operazione fu di breve durata. All’ingresso venni infatti verbalmente aggredito dal vice-capo della Mobile Cioppa, incaricato di continuare l’indagine; il mio compito in quegli uffici era finito, dovevo andarmene! I suoi uomini presero in consegna il francese e il sacco con le armi. Mi allontanai da quegli uffici dopo aver completato i verbali, mentre il collega ordinava platealmente al piantone di chiudere la porta del mio ex ufficio e di dargli la chiave. Non solo io dovevo sparire, ma anche quell’indagine doveva essere smantellata. Così la sera stessa una decina di poliziotti fecero irruzione nel bar di via dei Gerani. La grande operazione si concluse con una sanzione amministrativa al titolare per la sua non presenza fisica nell’esercizio. Fu interrotto il controllo telefonico e vennero ritirati gli uomini dall’appartamento utilizzato come punto d’osservazione. Si può immaginare la rabbia con cui avrei appreso qualche giorno dopo che tra le ultime pellicole sviluppate si poteva riconoscere, in un gruppo dinanzi al bar, Jacques Berenguer, il marsigliese ricercato per l’omicidio dell’agente Marchisella.

Chissà, forse quell’indagine avrebbe potuto portare lontano: quel bar era una vera e propria base del connubio malavitoso romano- marsigliese. Lo stesso sequestro di Amedeo Ortolani avrebbe successivamente mostrato contorni non proprio limpidi: si parlò di un regolamento di conti maturato in ambienti fino allora inesplorati, forse per colpire il padre Umberto, uomo d’affari legato alla Loggia P2. Anche il nome del funzionario della Mobile che così precipitosamente aveva ordinato l’irruzione nel bar di via dei Gerani sarebbe emerso nel quadro dell’inchiesta su questa particolare ”confraternita”.

Nei giorni successivi a quel trasferimento, quasi tutti i commenti erano a mio favore: quel che avevo fatto era ritenuto valido e coraggioso e la reazione dell’Amministrazione sproporzionata e ingiustamente repressiva. D’altro canto i

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risultati ottenuti erano una riprova di buona fede ed impegno professionale. L’episodio Pannella accese inoltre un vero e proprio dibattito nell’opinione pubblica: fino a che punto un funzionario dello Stato può criticare una legge che é chiamato ad applicare? Mai si era verificato che un commissario di polizia, generalmente considerato acritico esecutore, esprimesse un proprio parere per di più diverso da quello dominante ed ortodosso. Questo fatto aveva messo in crisi l’Amministrazione: di qui il suo livore repressivo. Di fronte alla reazione dell’opinione pubblica il vertice ministeriale tentò poi di dare una giustificazione addirittura ”morale”. Quel trasferimento, così si arrivò a dire, era stato disposto affinché «il funzionario non fosse in conflitto con la sua coscienza». Si dimenticava che io il mio conflitto, bene o male, lo avevo risolto e che il vero pericolo sarebbe se proprio l’Amministrazione divenisse interprete delle coscienze dei suoi funzionari.

Insigni giuristi e filosofi del diritto, da Guido Calogero a Stefano Rodotà, da Paolo Barile a Giuseppe Branca, sostennero non solo la legittimità, ma il diritto di un pubblico ufficiale a criticare la legge, purché l’applicasse correttamente. Un simile comportamento doveva essere considerato come un contributo costruttivo e non già passibile di sanzioni amministrative e tantomeno penali. Il dilemma era insito nell’animo del funzionario stesso che si trovava ad eseguire una norma che sentiva ingiusta. Questa tesi trovò conferma giudiziaria nella sentenza con la quale il giudice Santacroce avrebbe archiviato la denuncia contro di me da parte dell’Amministrazione. Ricevetti testimonianze di solidarietà sia da autorevoli personaggi del mondo politico e sindacale che da madri e giovani toccati direttamente dal dramma della droga. Sergio Rotolo, quel giovane che anni addietro avevo aiutato ad attraversare il ”buco nero” dell’eroina, mi scrisse da Genova una lettera contenente questa bellissima frase di cui non credo d’essere degno: «Se un giorno verrà che la giustizia siederà sul banco degli imputati, sarai

tu e quelli come te a formare la Suprema Corte». Decine di funzionari di polizia sottoscrissero un documento pubblicato su «Ordine Pubblico» con il quale esprimevano piena solidarietà nei miei confronti e sdegno verso l’Amministrazione. In una riunione del Comitato Nazionale per la riforma, Rinaldo Scheda, a nome di tutti, assicurò la disponibilità a una manifestazione pubblica di protesta. Rifiutai commosso quell’offerta: l’episodio Pannella era un fatto che riguardava me personalmente e non ritenevo opportuno che il Movimento vi fosse coinvolto.

Sotto la spinta dell’opinione pubblica richiamata in maniera così eclatante ma anche così diretta dal “leader radicale” al drammatico problema della droga, l’apparato parlamentare accelerò i tempi di discussione dei vari disegni legislativi da anni fermi a Montecitorio e nel dicembre del ’75 approvò la nuova legge. Essa rappresentava certamente un coraggioso passo avanti nel tentativo di affrontare globalmente la sempre più grave problematica. Tuttavia, proprio sotto il profilo della chiarezza giuridica nel rapporto educazionale giovane-droga, introduceva elementi di contraddizione. Se scompariva infatti quello spietato articolo che sanzionava il carcere obbligatorio per tutti, senza distinzione tra tossicomani e trafficanti, nella nuova normativa si rinunciava a ogni reazione sanzionatoria e dissuasiva dello Stato nei confronti dei consumatori, legittimando quasi una sorta di diritto a drogarsi.

Alcuni mesi dopo, a seguito della tragica vicenda di un giovane tossicomane, Maurizio Menegotto, stroncato dall’eroina, avrei scritto in un articolo su «Tempo illustrato» anche le seguenti considerazioni: «La legge 22 dicembre l975, n. 685,

pur accogliendo alcune istanze non più dilazionabili, mostra per altri versi tutta la

sua improvvisazione, incompetenza ed equivocità. Dal cieco carcere all’ipocrisia

permissiva! Basti pensare all'assurdità dell’articolo 80 secondo cui non e punibile

chi illecitamente acquista e detiene modiche quantità di droga per uso personale.

N essuna distinzione, insomma, tra droghe, nessuna remora all’uso, nessuna

definizione di ”modica quantità”. cioè eroina come caramelle! In compenso e fatta

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salva la possibilità di curarsi in ospedali o centri inadeguati. Ma che importato

Tanto i figli dei ricchi vanno a curarsi in Svizzera. E proprio il caso di dire: i

trafficanti ringraziano!». Non per nulla il provocatorio titolo che avevo dato a quell’artico- lo era: «Tossicomani, ora crepate legalmente...!».

I nostri legislatori si sarebbero accorti solo anni dopo del circolo perverso che si stava favorendo. Sotto il profilo dell’azione di polizia si ponevano, fortunatamente, le basi normative per realizzare un nuovo sistema di lotta più severa e professionale contro i trafficanti. Fu previsto infatti un Servizio Centrale Antidroga, interforze, per la lotta al crimine organizzato con competenza su tutto il territorio e con proiezioni internazionali. Se anche in milionesima parte, la mia disavventura aveva potuto contribuire a ciò: benedetto quel telegramma! Nell’atmosfera già pesante di quei giorni un fatto molto grave mi amareggio ancor di più. Da alcuni quotidiani appresi che una lettera in francese contenente minacce nei miei confronti era stata spedita da Marsiglia dal fratello di uno degli arrestati. Il 25 luglio, «Momento Sera» ne pubblicava in prima pagina un religioso suggerimento: «Commissario,

comincia a pregare Dio». Nessuno dei responsabili dell’Amministrazione, così preoccupati e zelanti per altre questioni, aveva ritenuto opportuno avvisarmi personalmente. Ma spesso la grandezza d’animo e inversamente proporzionale al grado. Vennero a trovarmi nel nuovo ufficio le guardie Moracci, Costantino, l’appuntato Gentile e altri della mia ex sezione: si offrivano di fare turni per scortarmi e vigilare la mia abitazione. Commosso da quel pensiero, ringraziai rifiutando decisamente. Ciò non impedì loro, a mia insaputa, di stazionare con una certa frequenza sotto l’edificio in cui abitavo, per dare l’impressione di una qualche vigilanza. Questo comportamento non sfuggiva all’occhio vigile e preoccupato della signora Giulia, la vecchia cara portinaia.

Alla Divisione di Polizia Amministrativa

Mentre fuori divampava il dibattito sul ”caso Pannella”, in Questura aleggiava un’atmosfera di ostentato distacco nei miei confronti. E pensare che fino a pochi giorni prima, quasi tutti i funzionari avevano apprezzato la mia combattività ricambiandola con ringraziamenti e aperti sorrisi. Evidenziando infatti una delle tante situazioni di sfruttamento del lavoro, ero riuscito a ottenere, in quei pochi mesi dal mio arrivo, l’affermazione di una questione di principio che portava anche non trascurabili benefici economici. Il ritmo presso la Squadra Mobile era frenetico e senza orario. Tutti indistintamente erano sulla breccia notte e giorno: interventi e indagini non potevano attendere; però le ore eccedenti il normale orario lavorativo non erano conteggiate. Per esse l’Amministrazione prevedeva una retribuzione forfettaria mensile oscillante tra le dieci e le ventimila lire, a seconda del grado: insomma qualche centinaia di lire per ogni ora di straordinario. In maggio, avevo restituito il mio mandato di pagamento con una nota formale con la quale comunicavo che non intendevo accettare quella somma, che con maggior utilità poteva essere corrisposta a un istituto di beneficenza. Inoltre chiedevo che fosse sottoposto al Ministero il quesito sulla legittimità di quel sistema di previsione del lavoro straordinario. Tali prestazioni, non solo per una migliore produttività ed efficienza professionale ma soprattutto per la salute stessa del personale, dovevano essere attentamente regolamentate ponendo limiti massimi di ore possibili. In ogni caso quelle spese per esigenze di servizio dovevano essere pienamente pagate, tutte! Lo stesso quesito avrei posto alla Magistratura del lavoro in caso di silenzio da parte dell’Amministrazione.

Dopo una decina di giorni fui convocato dal vicequestore dottor Praticò. Con un discorso imbarazzato, riconobbe la legittimità della questione: ma si era sempre fatto così e il Ministero non poteva essere certo disturbato per tali problemi. Poi aggiunse con tono mellifluo: il mio compenso poteva essere rivisto. Rimase perplesso quando gli chiesi se quella era da considerarsi una risposta ufficiale. Investito infine del problema, nel mese di giugno il Ministero aveva disposto che in via sperimentale lo straordinario sarebbe stato pagato in relazione alle ore

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effettivamente fatte, sotto la responsabilità dei dirigenti dei vari uffici. Era una importante vittoria su un punto di principio. Non ne avrei beneficiato personalmente. Trasferito i primi di luglio alla polizia amministrativa avrei scritto onestamente sulla tabella dello straordinario: ore zero. L’euforia dei colleghi sarebbe durata poco: nei mesi successivi infatti anche il personale degli uffici burocratici avrebbe richiesto modifiche al conteggio degli straordinari. Molti approfittarono per segnarsi ore di lavoro non controllate o trattenendosi in Questura senza necessità e controllo. Questo comportamento indecoroso avrebbe indotto il Ministero a ritirare la disposizione tornando al vecchio sistema.

Il mio trasferimento repentino significava per tutti che ero ”caduto in disgrazia”. E questo, come in ogni ambiente dove vige la regola dell’ossequio del potere, induceva gli altri a prendere le distanze. Per di più, oltre al marchio di ”sindacalista

al servizio delle sinistre” si era aggiunto quello di ”radicale”, il che negli uffici di polizia non apriva certo la via a grandi simpatie. Percepivo chiaramente la malcelata disinvoltura con cui la maggior parte dei colleghi cercava d'evitarmi. La cosa era resa comunque più facile dalla nuova sistemazione di lavoro. La stanza assegnatami era isolata, quasi nascosta, difficilmente raggiungibile non solo dal pubblico, ma fuori mano anche all’interno dello stesso palazzo. Erano lì ad attendermi centinaia di pratiche burocratiche. In ogni Questura infatti la Divisione di polizia amministrativa, sul retaggio della normativa fascista che attraverso le ”autorizzazioni” aveva voluto creare un capillare controllo di ogni attività, continuava a occuparsi di una miriade di documenti concernenti i mestieri girovaghi, il portierato, le locande, le questue, le guide turistiche, i bar, gli ascensori ... Pur riconoscendo per altro verso l’importanza di quel lavoro, la sua natura implicava compiti di gestione amministrativa che avrebbero dovuto rientrare nelle competenze proprie degli Enti locali. D’altro canto quella della ”deburocratizzazione” era uno dei punti fermi della nostra ipotesi di riforma, anche per recuperare poliziotti impropriamente distolti dalle loro vere funzioni istituzionali. Fra quegli aridi fascicoli, mentre imperversavano criminalità e terrorismo, mi sentivo come un leone in gabbia.

Questo senso di frustrazione fu attenuato dal modo in cui fui accolto alla Divisione. Il dirigente, vicequestore Bartolini mi fu maestro di accortezze giuridiche in quella materia per me nuova e complessa, nonché di sagge considerazioni. Il personale inoltre, formato da anziani poliziotti, dopo i primi attimi di imbarazzo e diffidenza, mi circondò di affettuosa collaborazione. Quei fascicoli non mi attraevano particolarmente, cercai comunque di svolgere il lavoro, anche se monotono e ripetitivo, con scrupolo e correttezza.

Uno sprazzo di interesse giunse qualche mese dopo quando la mia attenzione cadde su alcune pratiche formalmente perfette, ma che non mi convincevano. Riguardavano ottenimenti o cessioni di licenze di pubblici esercizi, in particolare bar. Il possesso del certificato di abilitazione professionale rilasciato dalla Camera di Commercio era il presupposto fondamentale per divenire titolari delle successive autorizzazioni di polizia. Avvalendomi della collaborazione dei marescialli Castronovo e Campana, abili e competenti investigatori, con un’indagine del tutto nuova per quegli uffici scoprimmo un vero e proprio traffico di false documentazioni. Muniti di timbri originali e firme abilmente contraffatte, compresa quella del presidente della Camera di Commercio dottor Sargentini, falsi certificati venivano venduti per cifre considerevoli da faccendieri aventi autorevoli entrature in quegli ambienti. Alcuni degli speranzosi acquirenti erano stati raggirati e convinti della genuinità dei certificati, magari dopo aver anche sostenuto un esame fittizio. La maggior parte era al corrente dell’imbroglio, ma accettava il rischio di un improbabile controllo. Individuati alcuni dei truffatori implicati in tale attività, in accordo col dottor Bartolini, riferii con formale rapporto alla Procura della Repubblica. Amministrativamente venne disposta la revoca delle licenze irregolari concesse fino ad allora; tuttavia fu nostra cura cercare di sanare la situazione di coloro che in buona fede avevano investito sacrifici e risparmi nel tanto sospirato

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piccolo bar. Molti di loro, pur subendo la severità dell’inchiesta, ne riconobbero la giustezza dandoci atto del nostro intento di limitare il danno e la beffa subiti. Ma questo fu solo un intermezzo alla monotonia e alla frustrazione di quei polverosi fascicoli. Addirittura, quasi a farlo apposta, con tanto di decreto, ero stato intanto nominato rappresentante della Questura di Roma in seno alla ”Commissione per il facchinaggio”, l’organismo provinciale che si occupava delle autorizzazioni e della tenuta dei registri riguardanti i facchini della capitale. Non sapevo se ridere o piangere quando un mio vecchio amico dell’Intersind, poi manager dell’IRI, aveva telefonato informandomi che aveva potuto rintracciarmi avendo trovato il mio nome sulla Guida Monaci, proprio con quell’attribuzione nella Commissione facchini. Incredulo controllai: era vero!

Tuttavia, se da un lato questo periodo stava mortificando la mia passione professionale, dall’altro mi permetteva di dedicare maggior tempo e attenzione al Movimento. Quella stanza lontana ed emarginata divenne un punto di riferimento per quegli anziani poliziotti amministrativi sino ad allora avulsi da ogni coinvolgimento. Alcuni di loro furono conquistati dalle nuove idee. Il maresciallo Castronovo sarebbe divenuto ben presto uno dei sottufficiali più attivi del Comitato provinciale romano. Sarei rimasto in quell’ufficio più di un anno, dal luglio del ’75 al novembre del ’76, in uno stato di quasi ibernazione dal punto di vista della lotta al crimine, e vi sarei dovuto marcire sino ad arrendermi a miti consigli o a vedermi costretto a lasciare la Polizia. Ma un evento eccezionale mi avrebbe fatto uscire da quell’estenuante spirale.

Un amico

In quest’amaro periodo ebbi modo di apprezzare ancor più la grandezza di un collega, Giuseppe Pandiscia, dirigente della Polizia Scientifica Lazio. La sua figura alta e imponente, resa austera da un severo paio di occhiali e dalla barba appena striata di bianco, celava un animo dolce e generoso, disponibile verso tutti. Preparato e coraggioso, dinamico e discreto, era tra i primi ad accorrere dove la malvagità dell’uomo aveva lasciato sangue e dolore. Eccolo al lavoro tra i cadaveri dilaniati nell’aereo fatto esplodere dai fedayn a Fiumicino, accanto al corpo impudicamente disteso di Pasolini, a quello rattrappito di Aldo Moro. La sua professionalità non era mai disgiunta da un senso di pietà cristiana. Lo avevo visto talvolta farsi il segno della croce muovendo le labbra in muta preghiera, prima di immergersi con zelo nei suoi penosi rilievi professionali. Agiva sempre con sicurezza e sensibilità, impartendo pacatamente indicazioni precise ai suoi collaboratori dai quali era amato e rispettato profondamente. Per noi poliziotti, ma credo anche per magistrati e giornalisti, era un punto di riferimento certo. La sua calma, la sua decisione, la sua professionalità sapevano trovare sempre una parola o un gesto capaci di sciogliere il nodo di panico che in quei tragici spettacoli attanagliava un po’ tutti. Sul suo volto ricamato da rughe precoci si potevano leggere la tenacia, il calore e la forza di gente e tempi lontani. Certo, quell’affondare in abissi di umana ferocia non poteva non aver lasciato segni in un animo più adatto alla musica e alla poesia. Chi lo conosceva poteva cogliere un’ombra di perenne malinconia nel suo sguardo tenero o in quel sorriso appena velato di fatale rassegnazione. La stima e la simpatia che mi ispirò sin dai primi tempi si trasformarono in profonda amicizia. Incurante dell’atmosfera che mi circondava, anzi proprio per questo, con il suo passo dinoccolato veniva spesso a trovarmi negli uffici di polizia amministrativa. Si sedeva nella stanza accanto ai polverosi fascicoli e senza mai far apparire la sua presenza come gesto di solidarietà sapeva trovare sempre una battuta di incoraggiamento, un consiglio sincero. Era così con tutti, sempre pronto e disponibile, senza attendere mai un grazie. Sovente, al termine del lavoro, ci trovavamo nel semplice tepore di piccole trattorie dal vago sapore di casa. Allora più che mai la profondità del suo animo affiorava nei versi struggenti di poesie da lui composte in chissà quali notti di tormentosi pensieri. E le sue canzoni sussurrate con calda voce stonata accarezzavano sogni lontani.

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VI. Cambio di strategia al Viminale

Il comitato dei bussolotti

«Se il Ministro credeva che, con la sospensione dal servizio di un commissario,

l’incriminazione di decine tra ufficiali, funzionari, e guardie, avrebbe seminato il

panico tra i settantamila poliziotti si sbagliava. La reazione é stata diversa, di tipo

direi metal- meccanico: ovunque vadano il commissario Ravenna, il commissario

Di Francesco, il capitano Giacobelli e tutti gli altri inquisiti, con la loro presenza

determinano una solidarietà militante nel senso più nobile della parola. La loro

presenza infonde fiducia e speranza a unirsi al Movimento: un risultato opposto a

quello che il Ministro cercava e sperava ...» così avrebbe scritto Giuseppe De Lutiis.

Ma se ciò avveniva tra i poliziotti, il Movimento, cosa ancor più importante, era riuscito a coinvolgere l’opinione pubblica facendo comprendere alla gente che la riforma di Polizia non interessava soltanto gli addetti ai lavori, ma anche la sicurezza dei cittadini e delle Istituzioni. In tal senso era significativa la rilevanza che quasi tutti i mass-media davano al dibattito in corso. Le vicende dei poliziotti italiani sarebbero apparse anche su alcuni quotidiani stranieri, il francese «Le Monde», l’inglese «The Observer», lo statunitense «Daily American». La giornalista Key Winters mi avrebbe addirittura descritto come una sorta di ”Serpico” italiano. Era sintomatica la risposta datale dell’ammiraglio Sleiter, capo ufficio stampa del ministro Gui: «Di Francesco é un eccellente funzionario di

polizia, serio, abile, coraggioso e cortese. Ha l’idea fissa del sindacato!».

Ma la cosa più importante era la presenza di tante persone qualunque alle nostre assemblee e le tante lettere di casalinghe, industriali, commercianti e studenti che rispondevano al sondaggio «Polizia-Collettività » avviato da Franco Fedeli su «Ordine Pubblico». Forse fu questa crescente solidarietà a tutti i livelli oltre che la determinazione del Movimento a persuadere il Viminale a cambiare strategia. Il 24 maggio l975 il ministro Gui indirizzava al Capo della Polizia e a tutti i Prefetti e Questori la circolare 555/l7, con la quale decideva la costituzione di tre ”Comitati di rappresentanza”: uno per i funzionari e la polizia femminile, il secondo per gli ufficiali e l’altro per sottufficiali, appuntati e guardie. Insieme avrebbero formato il Comitato Nazionale. Questo era già un risultato, seppure indiretto, delle lotte del Movimento! Ma la filosofia di questa svolta politica del bastone e della carota ci appariva sospetta e pericolosa. Una manovra dell’Amministrazione per svuotare le istanze dei poliziotti: da una parte legittimandosi all’esterno con una parvenza di democraticità , dall’altra creando all’interno comodi organismi di decantazione delle nuove idee. Per di più tale sistema avrebbe innescato una serie di rivendicazioni settoriali delle singole categorie, in ossequio al principio del divide

et impera, così caro ai fautori delle lotte tra poveri. Alcuni elementi giustificavano tali timori: i Comitati ministeriali avevano soltanto funzioni esclusivamente consultive. In più erano presieduti ”democraticamente” dal Vice Capo della Polizia quello dei funzionari e dal Tenente Generale del Corpo gli altri due, nonché tutti e tre insieme dal Ministro in persona! Inoltre, le votazioni dei rappresentanti erano previste solo in reparti campione: a Roma, per esempio, avrebbero votato appena cinquecento poliziotti su diecimila! I candidati non si presentavano su liste, ma per auto-designazione: ciò avrebbe ovviamente favorito coloro che avevano dalla loro parte il ”potere”, attraverso cui farsi sentire o al quale comunque erano graditi.

«Il ridicolo – avrebbe scritto Giancarlo Lehner – superò ogni limite quando

cominciarono a pervenire telegrammi ufficiali firmati dagli stessi questori che si

auto-candidavano, come il Questore Elio Gerunda (...), mentre i vicequestori

giravano l’Italia facendo propaganda ai propri superiori, come il vicequestore

Aldo Arcuri, disperatamente cooptato per la campagna elettorale dal suo capo di

gabinetto Amato». Ben presto venne la conferma ai nostri timori! Questi ”eletti”, rappresentanti del solo cinque per cento di tutti i poliziotti italiani, avrebbero fruito quanto prima di una serie di agevolazioni, eccezionali per quei tempi, al fine di

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portare avanti le loro idee più o meno ossequiose. Così ad esempio un fonogramma urgente firmato -pro Ministro-Capo Polizia Meneghini, li autorizzava a «servirsi

per qualsiasi spostamento di mezzi aerei aut treni rapidi». Per tali organismi, benedetti dal Viminale, la base dei poliziotti conio subito il termine di ”Comitati

dei bussolotti”.

Questa manovra ministeriale verso la costituzione di pseudo- rappresentanze corporative ci spinse a stringere i tempi per respingerla subito. Il l7 luglio organizzammo a Roma il primo convegno nazionale dei nostri quadri. Centoquaranta delegati di settanta nuclei provinciali, ancora clandestini, del Movimento affluirono a Roma. A conferma della nostra naturale collocazione nel mondo del lavoro, il convegno si tenne presso la sede della Federazione Unitaria CGIL - CISL - UIL, in via Sicilia. Fu un momento di grande commozione e un’occasione di incontro per tanti poliziotti che sino ad allora si conoscevano solo per nomi fittizi di azione carbonara. Dal dibattito scaturirono precise indicazioni operative tese a intensificare il coinvolgimento dell’opinione pubblica ad ogni livello, sollecitando ovunque tutti i partiti, denunciando pubblicamente attraverso ”libri bianchi” situazioni patologiche esistenti nei vari reparti, studiando soluzioni tecniche per un efficace progetto di riforma. Ma soprattutto estendendo le strutture del Movimento su basi democratiche. Fu un susseguirsi di attività! Così il l8 ottobre, al teatro delle Arti in Roma, organizzammo il primo convegno del ”Comitato di intesa tra giuristi e poliziotti”. Giganteggiava alle spalle del tavolo della presidenza la scritta con l’impegnativo tema della riunione: «La Polizia in

uno Stato democratico». Fiero ed emozionato, tenni una relazione sull’argomento accanto ai cattedratici: Salvatore D’Albergo, docente di Diritto amministrativo dell’Universita di Pisa, Vittorio Grevi di Procedura Penale a Macerata, Federico Mancini di Diritto del Lavoro dell’Ateneo bolognese, ed il professore Vittorio Bettini dell’Ordine Nazionale degli Avvocati. Parlamentari e sindacalisti, magi- strati e poliziotti, da Francazani a Benvenuto, da Rodotà al pretore Amendola, si avvicendarono al microfono per l’intera giornata. Trasalii quando nella sala fece il suo ingresso Marco Pannella uscito da poco da Regina Coeli. Anche lui, il mangiasbirri per eccellenza, espresse solidarietà ai poliziotti democratici e chiese scusa per avermi creato qualche problema. Un’ovazione commossa accolse l’incedere stanco e nobile di Umberto Terracini: «I poliziotti si battono per i diritti

inalienabili san- citi dalla Costituzione che e fondamento della nostra

democrazia», affermò. Quale conferma più grande della giustezza della nostra lotta di quelle parole di uno dei padri della Repubblica?

Nel frattempo il confronto con le rappresentanze ”ministeriali” era duro e serrato. Il 24 ottobre intervenni presso la Scuola Superiore di Polizia a Roma a una riunione indetta dal Comitato ministeriale dei funzionari. Nell’aula, dedicata a Gigi Calabresi, erano convenuti da tutta Italia circa duecento tra commissari, vicequestori e questori. Al tavolo della presidenza sedevano tredici ”eletti”, presieduti dal Vice Capo della Polizia Parlato; al centro, in rappresentanza del Ministro, il Sottosegretario Zamberletti. Dopo il relatore del Comitato, incensante alla democratica benevolenza del Viminale, si erano succeduti al microfono alcuni funzionari, chi per chiedere umilmente un «obolo dal signor Ministro», chi gridando rabbiosamente di risolvere subito i problemi della Polizia, “così come

subito era stato ucciso Calabresi». Avevo preso la parola: quell’opportunità così esaltante per tutti di poter parlare, esprimere le proprie idee, non era una graziosa concessione di Ministri o Sottosegretari, destinati per loro sorte a passare, ma il risultato di lotte ormai incancellabili dei poliziotti. Anche di quelle guardie, sottufficiali e appuntati che non erano lì ma rischiavano comunque la vita accanto a noi funzionari. Senza di loro non era possibile parlare di riforma di Polizia! A questo punto, uno degli ”eletti”, il vice-questore Arcuri, interruppe urlando: «Queste storie valle a dire ai tuoi compagni comunisti e socialisti!». L’aggressione verbale provocò la reazione del suo stesso capo di gabinetto, dottor Amato, che lo zittì invitandolo a lasciarmi continuare. Conclusi ringraziando: non avevo altro da

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dire, quella lezione di intolleranza fornita dal Comitato era certo più efficace di ogni altra espressione. Al termine della riunione, i marescialli Raffuzzi e Annunziata, in servizio presso quegli uffici della Criminalpol, che avevano potuto seguirla nascostamente, mi abbracciarono con le lacrime agli occhi.

I mesi successivi portarono la conferma ai nostri dubbi iniziali. Gli intenti corporativi di quei ”Comitati dei bussolotti” e la loro inconsistenza democratica furono evidenti. Il nome di quel funzionario che mi aveva interrotto così ”democraticamente”, promosso rapidamente prima Questore e poi Prefetto, sarebbe apparso negli anni successivi nel quadro dell’inchiesta P2.

Una messa diversa

Intanto sempre più spesso il sangue dei tutori dell’ordine, poliziotti, carabinieri, guardie di finanze, bagnava questa Italia tormentata. Scorreva assieme a quello di coraggiosi magistrati, giornalisti e cittadini impegnati. Le strutture dello Stato sembravano vacillare sotto l’attacco incrociato della criminalità. Da una parte quella organizzata, dalla mafia alla camorra, dai clan marsigliesi alla ’ndrangheta, con la loro gestione manageriale di sequestri di persona, rapine, traffico di stupefacenti; dall’altra quella di gruppi terroristici sempre più determinati a «colpire il cuore dello Stato». Davanti a questa carneficina, le autorità politiche sembravano confuse e incapaci di andare al di là delle solite parole d’occasione nei sempre più frequenti funerali di Stato. Il massimo della loro operatività e inventiva sembrava essere stato approvare d’urgenza, nel maggio ’75, la legge Reale. Ma quasi tutti pensavano che non certo con leggi eccezionali, che riducevano un po’ la libertà di tutti, poteva essere affrontata quella spirale di odio sociale.

Nel giugno dello stesso anno, nei pressi di Acqui Terme, l’assurda avventura di Mara Cagol, la giovane moglie di Renato Curcio, era finita nel sangue in un conflitto a fuoco con le forze dell’ordine. Accanto a lei un appuntato dei Carabinieri, che poteva esserle padre, era rimasto ucciso e un giovane ufficiale gravemente mutilato. No! Occorreva urgentemente un progetto politico di risanamento per una società che era stata lasciata lentamente incancrenire. Noi del Movimento eravamo intenzionati a dare, in ogni modo, il nostro magari minimo ma democratico contributo.

Il 22 ottobre, quasi in fatale coincidenza con quella riunione corporativa di funzionari, altri tre poliziotti erano morti a Querceto di Larno, vicino Lucca, in uno scontro a fuoco con dei latitanti. Alla fine, mentre l’alba sorgeva, sul terreno erano rimasti i corpi senza vita del brigadiere Gianni Mussi e degli appuntati Armando Semmiano e Giuseppe Lombardi. Altri erano stati gravemente feriti. Ancora una volta i fatti avevano rivelato la scarsa professionalità del servizio predisposto. Quei poliziotti, fatti venire precipitosamente da altre città, non erano pratici dei luoghi dell’azione né si conoscevano tra loro: durante la battuta notturna erano stati sorpresi dai banditi e non viceversa. Avevano rischiato, e forse così era stato, di spararsi l’un l’altro. Volevamo far sentire il nostro stato d’animo, rendere la popolazione partecipe al nostro dolore, inviare un messaggio significativo ai responsabili politici del Paese. Ma dovevamo farlo in maniera composta e dignitosa, affinché il nostro operato non lasciasse spazi a malintesi o provocazioni. Studiammo un piano d’azione! Mi ero recato con alcuni agenti presso la chiesa del Gesù, in Roma, concordando con il parroco la celebrazione di una messa in memoria dei colleghi caduti, per l’indomani: sabato 25 alle 20.

Quel mattino in tutta la città erano apparsi i manifesti stampati in fretta da un tipografo amico. Erano stati affissi durante la notte. Franco Fedeli e io ne avevamo attaccati alcuni proprio davanti alla chiesa, di fronte alla sede della DC. Vi si diceva, tra l’altro: «I telegrammi di cordoglio, i discorsi di rito, le cerimonie

solenni sono solo falsa retorica se non sono accompagnati dalla volontà di dare

alla Polizia il ruolo e l’organizzazione degni di un Paese democratico». I cittadini erano invitati a intervenire. Quasi a ricordare ingannevoli promesse avevamo

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affisso i nostri manifesti di lutto sopra quelli già diffusi dall’Amministrazione per incrementare gli arruolamenti in cui un giovane dal volto radioso invitava: «Vieni

in Polizia che il resto e risolto!». Certo i politici se volevano potevano partecipare, ma sarebbe stato difficile farlo come al solito tra retorica e stridore di auto blindate. Dovevano farlo semplicemente, da cittadini tra il popolo!

A mattinata inoltrata mi aveva telefonato il parroco. Con voce imbarazzata chiedeva se era possibile annullare la cerimonia. Chissà chi era intervenuto! La risposta era stata decisa: non c’era alcun motivo, non esistevano messe di serie A o serie B. I poliziotti sarebbero comunque andati numerosi e non sarebbe stato molto cristiano far trovare la chiesa chiusa! Già nel primo pomeriggio noi del Comitato nazionale eravamo lì. Tranquillizzammo il prete più incerto che mai; ispezionammo la chiesa anche perché, ci disse, erano giunte telefonate anonime di minacce. Alle venti cominciò ad affluire la gente e ben presto la chiesa fu piena: cittadini e poliziotti in preghiera. Davanti al portale sostavano due camionette di servizio con agenti in uniforme guidati dal vice-questore Pasanisi del I° Distretto, che avrebbe dovuto vigilare e riferire superiormente. II sacerdote celebrò compitamente la messa, ansioso di terminare al più presto. Al momento del Vangelo, come concordato, uscì dalla folla l’unico poliziotto in divisa, il maresciallo Annunziata, amico di uno dei colleghi uccisi. Con passo cadenzato nel silenzio raggiunse il leggìo vicino l’altare e lesse il breve messaggio che avevamo preparato insieme. Le sue parole si mescolarono alle lacrime. Il raccoglimento era totale. Un solo cuore batteva nella chiesa. Terminata la cerimonia, rassicurammo il vice-questore Pasanisi: non era nostra intenzione fare un corteo, ma tornare a casa per un altro domani di lavoro.

II giorno dopo, i quotidiani sottolinearono il senso di quell’atto d’accusa e preghiera. Altri poliziotti, lo sapevamo, sarebbero caduti facili bersagli di una violenza sempre più feroce, ma iniziative come quella avrebbero gridato in cielo e in terra le pesanti responsabilità dei nostri governanti. Dopo otto giorni, il 30 ottobre, l’appuntato Adriano Bracci e l’agente Giovanni Pomponio sarebbero morti a Milano mentre affrontavano due rapinatori! Il 9 novembre il Comitato provinciale di Genova organizzò un’altra messa nella locale chiesa di San Matteo. Vi intervenni e potetti ritrovare, in quell’occasione di dolore, vecchi collaboratori di un tempo, da Porfido a Pozzolo, da Fiorenza a Lai. Terminata la funzione i severi vigili genovesi ci permisero di scendere in senso vietato per via XX Settembre, tra due ali di folla stupita, sino al ponte monumentale per deporre una corona di fiori accanto alla lapide dei caduti per la Patria. Fu un onore avere accanto, stretta nel suo dignitoso dolore, la vedova dell’appuntato Verducci della Polizia ferroviaria. Pochi giorni prima era stato colpito e scaraventato dal treno in corsa da due criminali che aveva coraggiosamente affrontato sul direttissimo Roma-Torino. Tra noi, come semplici cittadini, il senatore del PCI Adamoli, il sindacalista Pagani, il segretario della DC Bonelli ...

Quelle preghiere erano per tutti i colleghi morti, in luoghi e momenti diversi ma sempre al servizio dei cittadini. Infatti, non solo le pallottole uccidevano i poliziotti; altri morivano un po’ alla volta, in silenzio, logorati dalle dure condizioni di vita, dai turni massacranti, dalle tensioni. Citerò tra questi, e solo per il l975, il commissario capo Pietro Scrofana, stroncato da un infarto durante un servizio di ordine pubblico a Torino e l’agente Melchiorre Fardella della Scientifica di Ferrara, padre di un bimbo di tre anni, morto dopo aver soccorso una persona intrappolata da un incendio. Il 2l novembre, un tonfo sordo seguito da un vociare confuso mi aveva fatto uscire precipitosamente dall’ufficio: l’appuntato Sante Di Ruzza, da poco in pensione, si era gettato dalla finestra del quarto piano della Questura dove per anni aveva lavorato. Nel rivolo di sangue che gli usciva dalla bocca c’era tutta la storia di una vita sfruttata. Quarant’anni di lavoro per una pensione di fame! Quel mattino avevano detto di no alla sua domanda di richiamo in servizio per poter continuare a sopravvivere. Assorto accanto a quel povero corpo all’ingresso del palazzo pensavo alla necessità delle nostre battaglie. Lo sdegno che ci bruciava

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dentro, la solidarietà ricevuta, il rafforzamento del Movimento e la maggiore esperienza acquisita accanto ai leader del mondo del lavoro, ci convinsero a passare, nei primi mesi del ’76, a rivendicazioni più concretamente sindacali. D’altro canto i risultati definitivi del sondaggio svolto da «Ordine Pubblico» mostravano uno spaccato impressionante dell’emergenza polizia. Avanzammo così una serie di richieste economiche che permettessero ai poliziotti di uscire dal ghetto di difficoltà e ricatto in cui da anni vivevano. Le disperate parole con cui l’agente Cartaimo, prima di suicidarsi, aveva descritto ai genitori la vergogna della sua condizione di poliziotto meridionale nella grigia e frenetica Milano, ne furono quell’anno la denuncia più tremenda!

Via via sarebbero stati ottenuti aumenti salariali e soprattutto la pensionabilità dell'indennità di rischio. Ciò avrebbe almeno affievolito situazioni drammatiche. La tragica conferma a tale indispensabile previdenza arrivo in febbraio quando il brigadiere Antonio Tuzzolino rimase paralizzato per un proiettile sparatogli alla schiena da alcuni terroristi. Quella novità pensionistica non gli restituiva certo la gioia di muoversi, ma riduceva almeno la mortificazione della sopravvivenza economica. In parallelo avviammo, con l’aiuto di medici amici, un’inchiesta sulle condizioni di lavoro e sanitarie dei poliziotti. I risultati non si fecero attendere. A Roma il questore Macera, da sempre sensibile alle tematiche del Movimento, adattò l’orario di servizio per quanto possibile alle esigenze del personale: un esempio che fu ripreso anche in altre città. Un’altra inchiesta riguardò i criteri di selezione attitudinale e di formazione professionale. Troppo di frequente accadeva che colpi partiti ”accidentalmente” uccidessero passanti o che delinquenti da assicurare alla giustizia fossero ”giustiziati”. Quest’azione di richiamo era essenziale in quel clima di tensione e di facilità repressiva consentita dalla legge Reale. Venne intensificata altresì la campagna contro sprechi e abusi: i poliziotti utilizzati come domestici, lo squallido commercio dei biglietti dei cinema, o ancora lo scandalo delle ”auto di servizio”! A tal fine cominciammo a far apparire su «Ordine Pubblico» articoli e documenti significativi: ad esempio le immagini di alcuni appuntati della polizia scientifica utilizzati per ”servizi fotografici” in occasione di cresime o matrimoni di familiari di alti burocrati. Non sospettavano quei poliziotti compiacenti di essere a loro volta fotografati da colleghi del Movimento che si battevano per affrancarli da quel mortificante utilizzo! Nel contempo diversi Comitati provinciali, da Genova a Rimini, da Savona a Matera, pubblicarono ”libri bianchi” sulle macroscopiche disfunzioni dei relativi uffici di Polizia. Quest’azione moralizzatrice che dava spunti interessanti all’Autorità Giudiziaria dovette scoraggiare non poco molti ”alti funzionari” dall’arrogarsi il diritto di peculati concepiti come accessori del potere.

Un’attività sindacale del genere fu un ulteriore elemento aggregante anche per i poliziotti che fino ad allora avevano guardato il Movimento con una certa diffidenza. Sempre più numerose cominciarono a giungere le adesioni, anche di funzionari di prestigio come il questore di Trento, Fargnoli, e il Capo della Mobile di Nuoro, Fiori, uno dei maggiori esperti contro i sequestri di persona. Entrambi si schierarono pubblicamente al nostro fianco con coraggiose interviste. Accanto all’azione rivendicativa, continuava a tutti i livelli il dibattito avviato per precisare le indicazioni tecnico-professionali da inserire nel progetto di riforma a cui come Comitato Nazionale stavamo da tempo lavorando con il Gruppo di studio dei parlamentari. Furono così elaborate specifiche formulazioni circa l’unificazione dei funzionari e ufficiali di PS, il coordinamento con le altre Forze di polizia, le forme di partecipazione delle autorità elettive ai problemi dell’ordine pubblico, la figura del poliziotto di quartiere, la revisione degli organici secondo indici criminogeni, il potenziamento dell’informatica, la creazione di una banca dati, l’equiparazione delle donne in tutti gli impieghi di polizia ... Quest’attività febbrile e poliedrica trovava una ribalta ampia di discussione sulla rivista «Ordine Pubblico» che, sotto la spinta inesauribile di Franco Fedeli, era divenuta di fatto l’organo ufficiale del Movimento. Sulle sue pagine i miei articoli da anonimi di un tempo divennero

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sottoscritti. Purtroppo alcuni di essi come: «Peggio delle serve» o «Il poliziotto

vuole una polizia migliore» sembrano conservare ancora oggi una palpitante attualità.

E giunse il ministro Cossiga

Il l2 febbraio del l976 il ministro Gui uscì dal Viminale travolto dallo scandalo Lockeed che, scuotendo i vertici delle Istituzioni, rivelò agli italiani l’equivoca realtà delle tangenti di Stato. Si ebbe comunque la sensazione che egli, schiacciato da uno spietato gioco politico, avesse sacrificato il proprio nome per ridurre il danno al suo partito. La sorte non era stata favorevole a questo Ministro che aveva dovuto confrontarsi con i poliziotti-carbonari, avendo a fianco i ”falchi ministeriali”. L’assegnazione del Viminale all’onorevole Francesco Cossiga, segnò per il Movimento e la riforma di Polizia una svolta decisiva. Proprio lui infatti, docente di diritto costituzionale, non poteva restare insensibile alle istanze dei poliziotti. Inoltre le risapute doti di generosità e coerenza lasciavano sperare una maggiore comprensione verso chi si batteva non per privilegi di categoria ma per migliori condizioni professionali nell’interesse della sicurezza dei cittadini e delle Istituzioni.

«Signor Ministro, con il suo predecessore non abbiamo potuto avere un dialogo,

anzi ci siamo trovati di fronte talora a rigide prese di posizione. N el formularle i

nostri auguri di buon lavoro, riteniamo di indirizzarci a una persona aperta al

dialogo, scevra da preconcetti e soprattutto desiderosa di esaminare e risolvere

problemi che interessano non solo i poliziotti ma l’intero Paese»: con queste righe su «Ordine Pubblico» salutavamo il suo arrivo. Sapevamo però che, per quanto disponibile fosse, non poteva non tener conto della posizione di diffidenza che sin dall’inizio la DC aveva assunto nei confronti del Movimento. Occorreva pertanto indurre tutti i partiti e soprattutto quello di maggioranza, a chiarire pubblicamente la propria posizione ufficiale sulla riforma di Polizia. Il periodo era propizio in quanto potevamo sperare nella generosa sensibilità che essi solitamente dimostrano nel periodo pre-elettorale: si avvicinava infatti il 20 giugno.

In marzo pubblicammo una lettera aperta su «Ordine Pubblico» all’indirizzo dei Segretari nazionali dei partiti dell’arco costituzionale, invitandoli a rispondere a quesiti precisi «tenendo presente che i settantacinquemila lavoratori della polizia,

unitamente ai loro familiari, avrebbero dovuto esprimere il loro voto in occasione

delle prossime elezioni». Quella lettera sarebbe stata ripetutamente pubblicata – scrivevamo – finché tutte le risposte non fossero pervenute. Dato il particolare momento, era un invito al quale era difficile potersi sottrarre. In aprile pubblicammo le prime risposte pervenute dei Segretari del PCI e PSI, Berlinguer e De Martino. Per la DC giunse dopo un po’ una lettera dell’onorevole Mazzola, responsabile della sezione «problemi dello Stato e libertà civili». Tergiversando sull’argomento prometteva per il partito «l’impegno a riprendere il discorso

all’indomani delle elezioni». A quella risposta evasiva replicò subito con logica implacabile il capitano Riccardo Ambrosini, un coraggioso ufficiale del II° Celere di Padova, da tempo sottoposto a rappresaglie per la sua attività nel Movimento. Lo invitava a essere più preciso: «N oi poliziotti vogliamo essere espressione dello

Stato e non servitori degli uomini di Stato! II suo intervento, onorevole, lascia

comunque spazio a qualche speranza giacché assicura che la DC si impegna ad

occuparsi dei problemi che per trent’anni ha lasciato aggravare. Vedremo...».

Quella non-risposta della DC suonava in quei giorni ancor più stridula per la morte di due poliziotti della Stradale, il maresciallo Giovanni Rigazzi e l’appuntato Valentino Lucantoni, schiantatisi con la loro auto mentre sull’autostrada Salerno-Reggio Calabria scortavano a tutta velocità quella ben più potente dell’onorevole Fanfani che scendeva nel dimentico Sud per la campagna elettorale. In ogni caso si percepiva che all’interno della DC doveva essersi avviato un sofferto dibattito e che le posizioni dei ”ribelli” Fracanzani, Fontana e Bonalumi non erano più tanto isolate.

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Il mese successivo giunsero le risposte favorevoli del PLI, per voce del vicesegretario Alfredo Biondi, e di Flavio Orlandi per il PSDI. Quest’ultimo, modificava le considerazioni negative precedentemente espresse dall’onorevole Costantino Belluscio. La linea favorevole del PRI fu esplicitata da Oscar Mammì che già da tempo lavorava su posizioni vicine al Movimento. Dunque tutte le compagini politiche, tranne la DC, erano d’accordo sulla necessità della smilitarizzazione e riforma della Polizia. Le differenze di vedute si riscontravano sul modo in cui attuare le libertà sindacali e il diritto di sciopero. La sinistra, come d’altra parte noi, era per un sindacato collegato organicamente alla Federazione Unitaria, mentre gli altri erano per forme di sindacato autonomo o federativo, con divieto di adesioni ad altre organizzazioni. Incontri frequenti e tesi a smussare i contrasti avvenivano nello studio privato dell’onorevole Mammì, instancabile mediatore.

Alla fine si giunse in sede di Comitato studi a quest’intesa: affermazione della libertà e del pluralismo sindacale; ogni sindacato sarebbe stato composto e diretto solo da poliziotti; i rapporti con la Federazione Unitaria sarebbero stati non organici ma di fatto. La questione del diritto di sciopero fu risolta attraverso l’autorinuncia a esso da parte dei poliziotti: questo a conferma dello spirito di responsabilità del Movimento. Non era proprio nelle nostre intenzioni far mancare ai cittadini il “servizio-sicurezza” per il quale ci battevamo! D’altra parte eravamo certi di poter contare ormai nulla solidarietà degli altri lavoratori.

Un’altra prova di forza e volontà democratica da parte del Movimento giunse il l5 maggio. Nella sede della Federazione dei lavoratori metalmeccanici a Roma si svolse il secondo Convegno dei nostri quadri provinciali: trecento delegati provenienti da ottantotto città firmarono e resero pubblico un documento nel quale sollecitavano le forze politiche al raggiungimento di programmi unitari su un tema così urgente per il Paese. Nell’occasione venne creato un Consiglio generale, rappresentativo di tutte le strutture di base, che avrebbe fissato le linee d’azione. La realtà dei fatti dimostrava ormai come i nostri Comitati fossero la reale espressione della maggioranza dei poliziotti in collegamento reale di pensiero o d’azione con la Federazione Unitaria. I ”Comitati dei bussolotti” soccombevano miseramente di fronte al progredire della democrazia! Lo stesso vicequestore Arcuri avrebbe presto inviato, a nome degli ”eletti”, un telegramma al Ministro in cui lamentava che alcune rivendicazioni della categoria dei funzionari «erano state sistematicamente

ignorate» e ammetteva “l’incalzare di altri organismi di rappresentanza della

Polizia, politicamente qualificati, che potrebbero recepire simpatia e attenzione

dalla quasi totalità del personale».

Si cominciava a respirare un’aria nuova e sarebbero risuonate presto parole come queste: «Tra i molti problemi che si presentano al Parlamento, occupa un posto

certamente notevole quello relativo alla riforma di Polizia. Mi auguro che tutte le

forze politiche affronteranno questo delicato argomento con carattere di assoluta

priorità e con spirito di autentica collaborazione nell’interesse esclusivo del bene

comune». Non erano parole del Movimento, ma del ministro Cossiga pronunciate ai primi di luglio in occasione della cerimonia celebrativa della Polizia. Molte delle autorità intervenute dovettero avere certamente un sussulto di sorpresa nell’udire tali affermazioni. Quell’intervento era il segnale dell’opera non facile che lui era deciso a compiere all’interno del suo partito dove l’anima progressista e quella conservatrice dovevano essere entrate in collisione dopo i risultati del 20 giugno. L’avanzata delle sinistre confermava anche la necessità del confronto interno sul tema ”polizia” al fine di non rimanere tagliati fuori da un dibattito così delicato e sentito dall’opinione pubblica. Dopo pochi giorni ci arrivò da piazza del Gesù la risposta tanto attesa: la Segreteria politica della DC accettava di incontrare ufficialmente il Movimento.

In linea con l’impostazione unitaria che ci eravamo imposti, solo allora accettammo l’invito anche degli altri partiti. I colloqui con le varie delegazioni si

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succedettero, nelle rispettive sedi, con ritmo incalzante: il l6 luglio incontrammo la delegazione comunista guidata dallo stesso segretario Berlinguer, con Pecchioli e Flamigni. Il l7, quella della DC con il segretario Zaccagnini ed il vice-segretario Galloni. Il l8, quella del PSI con gli onorevoli Zagari, Manca e Cassola. Il 20 quella del PLI col presidente Bozzi ed il vicesegretario Biondi. Infine il 25, quella del PRI, con l’onorevole Mammì in rappresentanza di Ugo La Malfa. Con noi era sempre presente qualcuno dei più autorevoli esponenti della Federazione Unitaria, da Lama a Macario, da Scheda a Spadonaro. Partecipai, con i colleghi del Comitato Nazionale, a tutti gli incontri svolgendo, emozionato e fiero, brevi interventi.

Si era infine realizzato ciò che per anni avevamo fortemente voluto: un dialogo con i responsabili di tutti i partiti, sullo stesso piano, per convincerli che non eravamo dei sovversivi ma solo professionisti tesi al miglioramento delle condizioni di lavoro nell’interesse dei cittadini e delle Istituzioni. Mi tornano alla mente particolari indimenticabili, come la stretta di mano timida e vigorosa di Enrico Berlinguer e le parole di Aldo Bozzi: «Grazie commissario!». Quello stesso anno la mia ansia di sapere democratico trovò conforto e stimolo nell’incontro con Sandro Pertini. Lo aveva organizzato per me Antonio Borghesi, uno schietto e saggio operaio di Montecitorio, suo vecchio compagno di fede politica. Nell’austero ufficio della Presidenza della Camera, seduto dinanzi a quell’uomo semplicemente grande, assaporai parole di verità, storia e democrazia: «La libertà é un’esigenza

insopprimibile dello spirito umano; un diritto-dovere per cui ci si deve battere

senza esitazione ... Ed anche voi poliziotti dovete diventare strumento di libertà!».

Il Magherito rosso

Ma quella svolta del partito di maggioranza, avvenuta in concomitanza con le elezioni, temevamo non restasse unanime e indolore. A livello burocratico i ”falchi del Viminale” risposero subito e con durezza. L’occasione si presentò a metà agosto: Salvatore Margherito, un giovane capitano del II° Celere di Padova, aveva denunciato pubblicamente i sistemi di addestramento e l’impiego dei poliziotti mandati in piazza, muniti di manganelli rinforzati da sbarre di piombo, contro studenti e lavoratori. «Mi sono arruolato per fare il poliziotto, cioè per garantire la

convivenza sociale. Mi sono ritrovato a fare lo squadrista!». In questi termini aveva osato esprimersi quel ”Margherito rosso”, come lo schernivano i graffiti neri sui muri della caserma. Per quell’affermazione era stato deferito al Tribunale Militare e il 26 agosto era stato arrestato, manette ai polsi, con l’imputazione di ”sedizione e violata consegna”.

Da brillante ufficiale, era divenuto subito ”uomo di crisi, vile, ambizioso, che

sputava nel piatto dove mangiava”. L’uscita del capitano proprio in quel momento di apertura politica, aveva lasciato perplessi anche alcuni del Comitato nazionale. Forzai i tempi scrivendo, il 5 settembre, in un articolo su «Tempo illustrato»: «E’

inconcepibile! Mentre i veri attentatori dello Stato escono facilmente dalle carceri,

tronfi della loro vittoria sul diritto, il capitano Margherito viene rinchiuso, quasi al

loro posto, in una patria galera. N el l976 aver esercitato il proprio diritto di critica

all’arcaica gestione di Polizia viene considerato attività sediziosa! N on vorremmo

che Padova divenisse per i poliziotti italiani sinonimo dell’arroganza del potere:

oggi con il capitano, così come ieri fu per il commissario Juliano, sospeso dal

servizio e trasferito a Matera per aver per primo indicato il nero disegno di trame

eversive ...».

Mentre Margherito andava in prigione, altro sangue continuava a scorrere sulla democrazia italiana. Il procuratore della Repubblica Francesco Coco l’8 giugno a Genova era stato falciato assieme alla sua scorta da una raffica di mitra. Era il primo omicidio intenzionale delle Brigate Rosse: forse la risposta di morte all’uccisione di Mara Cagol. Il dieci luglio a Roma sotto il piombo di Ordine Nuovo era caduto Vittorio Occorsio, il coraggioso magistrato che da anni, in dimenticata solitudine e tenacia, istruiva le indagini più scottanti sul neofascismo. II 3l agosto a Biella, alcuni colpi 6,75 parabellum avevano fermato per sempre il

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vicequestore Francesco Cusano mentre controllava dei giovani sospetti.

La posizione del ministro Cossiga sul caso Margherito non si fece attendere. Pur non potendo interferire sull’operato della Magistratura Militare, nominò subito una Commissione d’inchiesta amministrativa. Questa volta però l’ispettore Romanelli si trovò accanto altri funzionari, e soprattutto un Generale da tempo vicino al Movimento: Vincenzo Felsani, comandante dell’Accademia di PS. Si sarebbe accertato che i turni di servizio dei poliziotti erano disumani; che erano stati sparati contro i dimostranti candelotti a tiro teso, cioè capaci di uccidere; che venivano usati sfollagente appesantiti da tondini di ferro... Insomma Margherito aveva ragione!

Ma l’azione del Ministro andò oltre. Ai primi di ottobre, probabilmente sfidando condizionamenti e resistenze, inviò al Capo della Polizia ed a tutti i Questori e Prefetti la circolare 555/3l8 che resta ancor oggi una pietra miliare di democrazia: «I poliziotti potranno liberamente esprimere giudizi e opinioni relativamente alla

riforma di Polizia (...). potranno riunirsi negli uffici, al di fuori dell’orario di

servizio, nell’assoluto rispetto della libertà e del pluralismo (...). potranno formare

comitati che si propongano di costituire, quando saranno emanate le disposizioni

che le regoleranno, associazioni professionali a fini sindacali non legate a partiti

politici». E pensare che solo un anno prima il suo predecessore aveva scritto di suo pugno: «La gente di PS non deve chiacchierare!».

La circolare venne diramata il 9 ottobre, proprio mentre a Roma, presso il Teatro delle Arti, si svolgeva il Primo Consiglio Nazionale del Movimento. Agostino Marianetti dal tavolo della presidenza la lesse ad alta voce. Con accanto gli altri colleghi del Comitato guardavo commosso quel ”parlamentino” di poliziotti convenuti da tutt’Italia applaudire quel messaggio di libertà. Quasi a voler dissipare ogni dubbio, Cossiga riaffermò la sua posizione alcuni giorni dopo in un’intervista concessa a Franco Fedeli. «Il Movimento e stato di grande aiuto per un salto

qualitativo e culturale della concezione della Polizia in una società moderna e

democratica (...). I provvedimenti che il Governo intende adottare entro il l5

febbraio, pur non coprendo tutta l’area della riforma, già intaccano l’attuale

struttura di Polizia. Tanto per intenderci: smilitarizzazione e libertà sindacale sono

già un atto irreversibile».

Il Ministro dell’Interno più seguito dai poliziotti italiani aveva spalancato le porte della democrazia alla PS. Il primo impatto con questo uomo politico fu per me eccezionale e mise fine al periodo di limbo nella polizia amministrativa. Un mattino del novembre ’76, stavo parlando con la giornalista Daniela Pasti che, pur sapendomi ormai tra pratiche burocratiche, era venuta a chiedermi una valutazione della nuova legge antidroga a un anno dall’emanazione, quando il telefono squillò. Il centralinista, balbettante quasi, aveva passato la linea annunciando: «C’è il

ministro Cossiga!». Pensavo a uno scherzo. Poi riconobbi l’inconfondibile accento sardo: «Commissario Di Francesco, come va?». Con gentilezza mi invitava ad andare subito da lui, al Viminale. Ancora incredulo, glissando tra le domande dell’incuriosita giornalisti schizzai via.

Poco dopo mi aggiravo nel corridoio più prestigioso del Palazzo. Uscieri dall’impeccabile palandrana grigia mi introducessero nella stanza del ministro. Da dietro una sobria scrivania ml venne incontro con un sorriso disarmante e mi fece accomodare scusandosi della necessità di rispondere di tanto in tanto al telefono. Introducendo quindi senza perifrasi l’argomento della riforma e del sindacato volle che gli illustrassi il mio pensiero. Ascoltava con attenzione ogni parola chiedendo talora qualche precisazione. Alla fine mi interruppe cortesemente: «Caro

commissario, ho voluto conoscerla personalmente, anch’io amo la Polizia. Lei e un

buon poliziotto e ha già pagato abbastanza. E tempo che torni a impegni di

maggiore professionalità . Dove vorrebbe andare?». Lo ringraziai ancora di quella convocazione e dell’offerta, ma spettava all’Amministrazione destinarmi all’impiego più corrispondente alla professionalità emergente dal mio fascicolo

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personale. Su queste parole, che mi sembrò l’avessero ancor più colpito, accompagnandomi alla porta mi congedò con una vigorosa stretta di mano e un sorridente augurio: «Buon lavoro commissario!».

VII. Al Centro Regionale Criminalpol

Amicizia oltre l’eroina e malati immaginari

Dopo qualche giorno, il 22 novembre, il questore Macera mi convocò nel suo ufficio e con malcelato compiacimento mi comunicò che era finita la quarantena pannelliana e che ero trasferito al Centro Criminalpol del Lazio. Si trattava, aggiunse, di un’assegnazione provvisoria in attesa di altri eventi. Quella stessa mattina il dirigente del Centro, vicequestore Clemente, un poliziotto vecchio stampo, mi accolse con cordialità. Ricordò nostalgicamente di essere stato amico di mio padre quando, giovane capo della Mobile pescarese, aveva dovuto cimentarsi con lui nelle inevitabili competizioni Carabinieri-Polizia.

II Centro, situato al quarto piano della Questura, dipendeva dalla Criminalpol nazionale e aveva il compito di coordinare le attività delle diverse squadre mobili di Lazio ed Abruzzo. Una grande potenzialità di lavoro che la cronica scarsezza di uomini e mezzi riduceva di fatto a un’attività meramente statistica delle operazioni compiute. Sarei rimasto in quegli uffici sino a febbraio ’77, apprezzando il ritrovato impegno di polizia giudiziaria e il disteso clima di lavoro creato dal dottor Clemente. Spesso veniva a trovarci Peppino Pandiscia che, quale dirigente della Scientifica regionale, faceva capo anch’egli a quell’organismo. Esaminavamo i principali avvenimenti delittuosi in uno spirito di reciproca stima professionale e amicizia. Non di rado si discuteva della riforma e del sindacato. Le idee e le lotte del Movimento, illustrate con fervore, convinsero ben presto sia questi cari colleghi che buona parte degli agenti, appuntati e sottufficiali dei loro reparti ad aderire apertamente.

Di questo breve periodo ricordo con piacere due indagini interessanti sotto il profilo sociale e professionale. Ero da poco stato trasferito, quando un mattino una donna entrò nel mio ufficio. Vestita di nero, col viso rugoso e sofferto appariva ancora più anziana di quanto certo non fosse. «Lei e il commissario Di

Francesco?» – si accertò. – «Sono la madre di Maurizio Menegotto». Avevo letto di quel giovane trovato senza vita in una misera camera d’un albergo di periferia, abbarbicato ancora ad una siringa sporca di sangue e di eroina. Con mano tremante mi porse una lettera estratta da una borsa consunta: «Commissario, voglio darla a

lei che ha capito il dramma dei nostri figli!». Un disperato messaggio giganteggiava in quella missiva dalla grafia incerta e dalla sintassi scorretta.

Un amico «imboccato per uno scippo commesso per procurarsi la roba» scriveva dal carcere a Maurizio per esortarlo a smettere di bucarsi! Purtroppo lo spietato richiamo dell’eroina era stato più forte di quell’appello accorato: Maurizio era entrato nel suo ultimo ”buco”, senza ritorno! La lettera conteneva anche un’indicazione importante, forse un nomignolo: ”Tartaglione”. La ringraziai della fiducia. Purtroppo – spiegai – avrei dovuto passare il caso per competenza alla Sezione narcotici. «Hanno già lavorato sull’episodio» rispose, e scuotendo amaramente la testa si avviò per uscire. Non potei sopportare quell’aria di delusione e ulteriore dolore: lasciasse pure la lettera, avrei cercato di fare qualcosa. Mi salutò con uno sguardo di speranza.

La sera stessa scrissi alcune considerazioni che vennero pubblicate su «Tempo illustrato», unitamente ad alcune di quelle frasi sconvolgenti. Ero certo che quel disperato grido di amicizia avrebbe toccato più di tanti discorsi il cuore della gente facendola riflettere sul dramma di tanti ragazzi caduti nell’implacabile trappola della droga. Su suggerimento di Clemente che, memore dell’episodio Pannella, non se la sentiva di affidarmi quell’indagine non di stretta competenza del nostro ufficio, ottenni di conferire col questore Macera. Gli porsi la lettera, pregandolo di affidarmi il caso. Avrei agito – lo assicurai – con la massima discrezione: volevo

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trovare chi aveva venduto a quel ragazzo la sua dose di morte. Turbato, l’arcigno quanto sensibile poliziotto mi autorizzò. Con un bravo sottufficiale, il maresciallo D’Angelo, e tre guardie, ci dedicammo per oltre un mese, notte e giorno a quell’indagine. Affidai al giovane ed entusiasta agente Nasso l’incarico di individuare nel quartiere frequentato da Maurizio, il Tuscolano, un ipotetico spacciatore balbuziente. Vestito in jeans e giubbetto di pelle scomparve a bordo della sua fragorosa Kawasaki 400. Dopo qualche giorno mi annunciò fieramente che era addirittura diventato amico del ”Tartaglione”, un giovane tossicomane che fungeva da collegamento con un rivenditore d’eroina: qualche bustina per lui in cambio di nuovi clienti. Sorrisi quando mi spiegò come era giunto a quel risultato. Aveva frequentato tutti i bar della zona balbettando anch’egli con grande bravura. Era stato infine proprio ”Tartaglione” che, quasi in consolante simpatia, lo aveva avvicinato. Erano diventati amici grazie a quelle parole ostentate.

Da quel primo anello, attraverso una serie di sventurati legami, riuscimmo a risalire al rifornitore, uno studente di architettura fuori corso, detto ”Er conte” per i suoi modi signorili. Il sostituto procuratore Dell’Orco, un magistrato sensibile al problema droga, ci autorizzò a controllarne il telefono. Ne venne fuori una drammatica radiografia di gioventù bruciata. “Er conte”, tossicomane anch’egli, conteso tra una residua voglia di studiare e il vorticoso risucchio della droga, aveva costituito attorno a pochi grammi d’eroina un vero e proprio emporio commerciale. II suo telefono era punto di riferimento di decine di giovani che “in rota” imploravano la propria dose. Dopo un paio di settimane, composti gli elementi essenziali di quel mosaico di quartiere, decidemmo di troncare la catena. Al momento giusto guidati dallo stesso Nasso, che fingendosi tossicomane aveva carpito la parola convenuta per farsi aprire, facemmo irruzione nell’appartamento de “Er conte”. Lo sorprendemmo ancora seduto al tavolino d’affari mentre con tanto di bilancini e registri approvvigionava diversi clienti, alcuni dei quali sostennero il proprio buon diritto a drogarsi. Con gli ulteriori elementi acquisiti risalimmo subito al suo fornitore, un insospettabile impiegato di banca che integrava il proprio bilancio sulla pelle di quei ragazzi. Lo arrestammo in piena notte nella sua elegante casa ad Acilia, a pochi chilometri da Roma, con un discreto quantitativo di eroina. Non avrei potuto con i pochi uomini a disposizione risalire oltre, quindi passai la mano alla ”Mobile”.

Avevo mantenuto la promessa: chi aveva venduto la morte a Maurizio era finito in prigione! Quell’indagine di ”quartiere” se da una parte aveva permesso di spezzare un piccolo ma penetrante anello di spaccio, dall’altra confermava la frettolosa approssimazione della nuova legge antidroga. Al termine del servizio segnalammo comunque all’autorità sanitaria decine di giovani che si stavano avviando su una strada senza uscita. Diversi di loro accolsero il nostro intervento quasi come la fine di un incubo. La conferma venne qualche tempo dopo durante il processo. Sulla base del mio rapporto, che pur legando alle proprie responsabilità lo studente-spacciatore ne evidenziava il terribile dramma, ”Er conte” venne condannato a una pena non severa. Dalle relazioni del direttore del carcere emergeva che aveva accettato di curarsi e aveva ripreso a studiare con convinzione. Chiamandomi dal banco degli imputati volle salutarmi, senza rancore. Più lontano sua madre e quella di Maurizio Menegotto piangevano sommesse. Per diverso tempo sia i genitori del ”Conte” che del ”Tartaglione” e di altri giovani vennero a darci notizie del reinserimento difficile ma graduale dei propri figlioli.

L’altra indagine fu antesignana per quei tempi. Sotto l’impulso dello stesso Macera cominciammo a investigare su un giro di fustelle per medicinali. Erano migliaia i talloncini dei prezzi che, staccati da scatole di farmaci scaduti o comunque non utilizzati, venivano allegati a ricette sanitarie formalmente perfette intestate a ignari assistiti. L’ingegnoso sistema era da tempo utilizzato da disonesti medici e farmacisti in combutta tra loro per lucrare sui successivi rimborsi da parte delle differenti Mutue. Interrogammo centinaia di persone, malate e curate a loro insaputa, nonché numerosi professionisti ben poco fedeli al giuramento di

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Ippocrate che giunti spavaldi uscivano dai nostri uffici mogi e preoccupati. Con un circostanziato rapporto denunciammo alla Procura della Repubblica una trentina tra medici e titolari di farmacie. Questa cura di “malati immaginari” a cui la stampa diede risalto avrebbe dovuto suggerire per il futuro più vigile attenzione da parte delle autorità sanitarie e degli Istituti previdenziali. Ma ancora dopo anni il ministro della Sanità Donat Cattin avrebbe rivelato con toni di novità analoghe colossali truffe i molte città d’Italia.

Verso la fine di questa indagine il questore Macera mi convocò nel suo ufficio. Sarebbe andato a dirigere il Centro Nazionale Criminalpol e voleva che andassi con lui. Mi avrebbe affidato una sezione operativa antidroga. Avuta la mia disponibilità mi congedò soddisfatto. Dopo qualche giorno, a metà febbraio, giunse il fonogramma di trasferimento.

Questo sindacato non s’ha da fare.

Le solenni dichiarazioni del ministro Cossiga e il suo impegno ad emanare entro il l5 febbraio ’77 i primi provvedimenti di riforma, dovettero certo dare un’ulteriore spinta aggregativa verso il Movimento. Ben presto infatti quasi tutti i giovani ufficiali dell’Accademia, galvanizzati dal generale Enzo Felsani, dopo un incontro in via Sicilia col nostro Comitato Nazionale, diedero la propria adesione, tra di essi emergeva per carisma e combattività democratica il capitano Francesco Forleo. Altri ufficiali seguirono da tutta Italia. Lo stesso fecero numerosi funzionari di grande prestigio e futuro professionale, dai vicequestori Vincenzo Parisi, Alberto Sabatini, Fabrizio Rotoli, ai commissari capo Umberto Improta, Franco Testa e lo stesso Masone. Il loro contributo fu prezioso in quel momento di fervore dialettico apertosi attorno alle bozze ufficiose del ”progetto Cossiga” preparate ad alto livello giuridico dai suoi più stretti collaboratori: il capo di gabinetto Arnaldo Squillante, il consigliere giuridico Carlo Salimei e il capo ufficio stampa Luigi Zanda.

L’ll febbraio, in previsione della fatidica scadenza, indicemmo presso l’Hotel Parco dei Principi a Roma un Convegno dei quadri provinciali. All'unanimità vennero fissate le ulteriori tappe organizzative: una capillare campagna di adesione dei poliziotti per la trasformazione del Movimento in sindacato, nonché votazioni in tutte le strutture di base, preparatorie ad una assemblea nazionale elettiva. Un’atmosfera di grande entusiasmo ed ottimismo circolava tra quei duecento delegati provenienti da tutta Italia. E a ragione: al telegramma di buon lavoro inviato dal Ministro avevano fatto eco per la Federazione Unitaria le parole decise del segretario generale della UIL, Vittorio Pagani: «Finalmente si vuole dare

ufficialità a un vero sindacato dei lavoratori di Polizia!». Tra i diversi uomini politici, intervenendo per la prima volta in un convegno di poliziotti, portò la sua testimonianza il nuovo segretario del PSI, Bettino Craxi.

Ma eravamo stati troppo ottimisti. Dopo il primo periodo di sgomento, l’anima più conservatrice del partito di maggioranza reagiva. Le prime avvisaglie erano già giunte l’ll dicembre con una dichiarazione provocatoria fatta all’ANSA dall’onorevole Speranza: il sindacato di polizia, per lui, si configurava come una riedizione della milizia fascista! Gli aveva fatto subito eco l’onorevole Gui, indirizzando una lettera al segretario del partito Zaccagnini, più o meno di questo tenore: «Questo sindacato non s’ha da fare». Diversi notabili del partito, sino ad allora assenti dal dibattito, scesero direttamente in campo con tutta la loro forza politica: «Ci si vuole fregare con le proprie mani» «La Polizia sta per divenire il

corpo armato della forze proletarie!» «La riforma rappresenta la resa

incondizionata alle pressioni sindacali ed alla sinistra!» tuonarono.

Anche la stampa ”amica” era stata coinvolta in quest’operazione. Così, mentre da una parte, attraverso una campagna di disinformazione i poliziotti del Movimento venivano dipinti come un branco di scalmanati e mentre dai microfoni del GR2 Gustavo Selva martellava ogni mattina con pesanti insinuazioni, dall’altra si cercava di far tacere la voce ”libera” dei poliziotti. Infatti il 28 dicembre Franco

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Fedeli era stato licenziato dall’editore di «Ordine Pubblico». Aveva cercato di resistere occupando simbolicamente la sede. Per quasi un mese gli uffici di via Napoli, luogo di storiche riunioni dei primi poliziotti-carbonari, sembrarono una sorta di quartiere generale in emergenza. Era un via vai di sostenitori che portavano la loro solidarietà al coraggioso giornalista. Talora non senza rischio: l’onorevole Galluppi fu selvaggiamente aggredito da un gruppo di ”squadristi” che lo avevano aspettato all’uscita. Poi la proprietà aveva vinto! Il successivo l7 gennaio Fedeli dovette lasciare i locali e si capì la manovra: al suo posto venne nominato l’onorevole Costantino Belluscìo, del PSDI, non certo favorevole al sindacato e alla riforma di polizia. Il suo nome sarebbe successivamente emerso nel quadro dell’inchiesta sulla loggia P2. Il l4 febbraio, l’ufficio giuridico della DC inviò al Presidente del Consiglio Andreotti che pur aveva affermato la disponibilità a «dare

una migliore risposta alle aspirazioni civili ed umane dei poliziotti che

coraggiosamente servono lo Stato, pagando sovente di persona», un promemoria con l’inequivocabile messaggio: «I sindacati da costituirsi debbono essere

autonomi e non legati ad associazioni esistenti nel Paese».

Il l5 febbraio l’attesa dei poliziotti fu vana: nessun provvedimento venne presentato. Anzi, davanti a questo fuoco incrociato, lo stesso Cossiga dovette far marcia indietro! «Tutto bisogna chiederlo al partito al quale appartengo!», questa la sconsolata risposta a una precisa domanda sul suo mancato progetto. La fronda antiriformista aveva vinto. La strategia della DC era ormai chiara: resistere il più possibile posizioni intransigenti e, se proprio qualcosa si doveva cedere, farlo in modo da favorire forme di sindacalismo autonomo ed ottenere dalle forze di sinistra contropartite su altre tematiche. In questo senso sembrava andare il disegno di legge che a fine aprile l’onorevole Mazzola presentò. Esso rappresentava un notevole arretramento rispetto alla ”bozza Cossiga”, sia sul piano delle libertà sindacali che su quello dei principi organizzativi. «Personalmente, sono convinto

che alla distanza non si potrà non accettare la soluzione della libertà sindacale!» affermava comunque contraddittoriamente lo stesso parlamentare, confermando così questa tattica dilatoria e di baratto. Contemporaneamente e quasi come eco di tali premesse cominciarono a sorgere una serie di strane associazioni parasindacali. E poi il l8 aprile a Roma, presso il cinema parrocchiale Don Orione, fu organizzata la prima assemblea costituente del Sindacato Autonomo di polizia. Tra gli organizzatori brillava, ancora una volta, il vicequestore Arcuri. Al microfono vennero lette con fierezza, le felicitazioni e gli auguri di alcuni parlamentari democristiani, quegli stessi che avrebbero ben presto fatto circolare a Montecitorio un duro documento contro Cossiga e Fracanzani. Questo revival reazionario era così evidente che un gruppo di ventiquattro deputati da Lombardi a Giuliari, da Sanza a gli antesignani Fracanzani, Bonalumi e Fontana, avrebbero sottoscritto subito dopo un altro documento, indirizzato al presidente Aldo Moro e al segretario Flaminio Piccoli, prendendo le distanze dalla «scelta erronea del partito che

rischiava di divenire prima o poi una posizione di minoranza nel Paese e nel

Parlamento!».

In questo clima il Comitato ristretto della Commissione Interni della Camera iniziava i lavori di unificazione dei diversi disegni di legge compresi quelli liberale e radicale che nel frattempo si erano aggiunti agli altri, da tempo presenti, del PCI, PSI e DC. Ben arduo compito per il presidente Mammì!

N on ci fermeranno!

Nel periodo di grande incertezza che ne seguì, il Movimento si trovò impegnato duramente su vari fronti: all’interno la rabbia e la delusione dei poliziotti e i tentativi di sottile provocazione che ne derivavano, all’esterno le gravi tensioni sociali che li vedevano sempre più nelle vesti di vittime o ”sbirri”. Tutto ciò mentre nelle strade d’Italia i tutori dell’ordine continuavano a cadere sotto il micidiale ”volume di fuoco” di criminali comuni e politici. Già il ’76 si era chiuso tragicamente. Il l4 dicembre, infatti, a Roma, alcuni terroristi avevano teso un

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agguato al vicequestore Alfonso Noce, dirigente del Nucleo antiterrorismo del Lazio. Dopo un inferno di fuoco erano rimasti senza vita l’agente Prisco Palumbo e il nappista Zichitella, falciato dai suoi stessi compagni. Noce era stato seriamente ferito. Accorso sul posto, avevo pianto in silenzio riconoscendo quella giovane guardia che due anni addietro mi aveva accompagnato per Empoli durante le indagini su Tuti. Sembrava dormisse sereno, se non fosse stato per quel punto rosso sulla fronte. L’indomani recatomi in ospedale a trovare l’amico Noce, collega di indagini ai tempi di Santillo, avevo constatato come le misure di sicurezza adottate per la sua incolumità fossero irrisorie. Chiunque avrebbe potuto raggiungerlo e finirlo; ed egli forse aveva sviato i suoi assalitori. Feci rilevare ciò ai colleghi responsabili affinché provvedessero. La signora Noce mi ringraziò avendo notato tutto questo.

II l5 dicembre, in un appartamento della periferia di Milano, durante un servizio di controllo, erano stati falciati dal brigatista Walter Alasia, poi ucciso anche lui, il vicequestore Vittorio Padovani ed il maresciallo Bazzeca. Il dolore e lo sdegno dei poliziotti era difficilmente contenibile, come l’urlo rabbioso con cui, il giorno dei funerali, le volanti avevano lacerato il nebbioso silenzio milanese. A manifestazioni spontanee di protesta si mescolavano altre incontrollate, talora equivoche e inaccettabili. Ricominciarono in diverse città gli incitamenti alla ribellione gridati nelle radio di servizio o in anonimi volantini. Addirittura a Roma poliziotti esasperati avevano rovesciato una corona deposta dal presidente Pertini durante una cerimonia commemorativa. Noi vecchi del Movimento collaudati dagli anni carbonari sapevamo come fosse facile innescare in quell’atmosfera di tensione provocazioni che compromettessero quanto era stato sino ad allora costruito. E da alcuni parti si attendeva solo questo, a conferma del battage denigratorio già in atto.

Un episodio, credo unico nella storia di un commissario, ancora oggi mi riempie di commozione e di orgoglio. Due giorni dopo questi ultimi omicidi, venimmo a conoscenza che molti poliziotti avevano ricevuto telefonate anonime per una manifestazione di protesta, l’indomani dinanzi al Viminale. In una preoccupata riunione del Comitato decidemmo di intervenire: quella manifestazione ”spontanea” puzzava di provocazione lontano un miglio! La sera stessa, verso le 22, il telefono di casa squillò. «Commissario, scusi se la disturbo a quest’ora!...». Il ministro Cossiga, con voce preoccupata e gentile, voleva sapere di quella manifestazione. No, non l’avevamo organizzata noi, ma non avremmo fatto nulla per evitarla. Mi chiese se sarei stato presente; lo rassicurai. Ricevetti il complimento più bello che un funzionario di polizia possa sperare: «La ringrazio!

So che i poliziotti le vogliono bene e se lei sarà presente non ci sarà spazio per

alcuna provocazione!».

Il mattino successivo decine di agenti erano convenuti alla spicciolata dinanzi al Ministero. Alcuni di essi, mai visti prima, gridavano incitando ad una rivolta senza progetto! Il traffico cominciava a fermarsi e la gente guardava allarmata quei poliziotti agitati. Con i colleghi del Movimento, Castronovo, Fedele, Sannino ed altri, decidemmo di assumere il controllo della manifestazione. Dopo rapide consultazioni col funzionario di turno del Viminale, togliendo dalla strada quello spettacolo non esaltante, confluimmo tutti nella sala riunioni al piano terra del palazzo, dove erano nel frattempo accorsi allarmati lo stesso nuovo questore di Roma Migliorini, il colonnello Scarvaglieri, il capo dell’Ufficio Politico Improta e altri funzionari. Alti ufficiali in divisa cercarono di calmare gli animi. L’un dopo l’altro vennero zittiti da fischi e urla di protesta. Un avvenimento per me indimenticabile sbloccò la situazione. Un uomo uscì dal gruppo: Alessandro Dragone, maresciallo dell’Antiterrorismo, padre di cinque figli, da tutti apprezzato per le sue doti di professionalità, coraggio, saggezza e fede democratica. Come per incanto la sala zittì. «Oggi – gridò con voce roca dall’emozione – poche persone

possono parlarci... Solo quelle che sono in prima linea e soffrono con noi». Poi, individuandomi tra gli altri invitò: «Commissario Di Francesco, la guardia

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Palumbo ci parlava con ammirazione di lei; ci dica quel che dobbiamo fare!». Ripresomi dalla sorpresa, invitai tutti a un istante di raccoglimento per Palumbo e gli altri caduti. Poi, nel silenzio assoluto, affermai che il modo migliore di onorare la loro memoria era di dare un senso civile a quella protesta. La morte, lo sapevamo, accompagnava il nostro lavoro. Eravamo pronti a cadere in difesa del Paese, ma sempre più spesso la responsabilità politica e morale di quelle morti era anche di chi non voleva una Polizia più efficiente e democratica! Non era solo in gioco la vita dei poliziotti, ma la sicurezza dei cittadini e delle Istituzioni repubblicane. Se il Ministro fosse stato correttamente informato di quel che dicevamo, sarebbe certo venuto egli stesso a parlarci! Quasi fosse un messaggio, dopo una decina di minuti, aprendosi un varco tra la folla, preceduto dal capo della Polizia Parlato, apparve nella sala il ministro Cossiga. Le sue parole di partecipazione per il nostro dolore, di ammirazione e di riconoscenza per il lavoro svolto, scesero rassicuranti. Ribadì il suo impegno ad esserci vicino nella riforma. D’altro canto ne aveva già dato prova. Quella riunione, nata come protesta, terminò con un applauso che suggellò la fiducia dei poliziotti nel proprio Ministro.

Ma sapevamo, noi del Movimento, che i tempi erano duri anche per lui e che proprio colleghi di partito lavoravano per farlo apparire uno «sprovveduto o una quinta colonna del PCI». Questo rigurgito di ottusità politica avrebbe vanificato ogni suo impegno di riforma. Il tributo di sangue dei poliziotti sarebbe continuato per tutto quel terribile ’77, tra il tiro incrociato di terroristi e criminali comuni. Così, mentre a Torino il brigadiere Giuseppe Ciotta veniva freddato dalle BR sotto casa con tre colpi alla nuca, gli agenti della Stradale Luigi D’Andrea e Renato Barborini venivano falciati, alla periferia di Milano dai mitra della ”banda Vallanzasca”. E mentre a Roma la guardia Claudio Graziosi veniva ucciso in un autobus con un colpo sparatogli al cuore da un terrorista dei NAP, a Torino il commissario Vincenzo Rosano veniva abbattuto mentre entrava in un ristorante da un pregiudicato ricercato che ivi mangiava spavaldamente.

E nella piazza, teatro ormai di barbari scontri dove provocatori senza volto cercavano il morto a ogni costo, i poliziotti erano facili bersagli da colpire o spingere a reazioni esasperate in quel clima di gas lacrimogeni e leggi speciali. Così mentre a Bologna in uno scontro con la polizia moriva lo studente Francesco Lo Russo, a Roma nei pressi dell'Università l’agente Settimio Passamonti veniva raggiunto alla testa da un colpo di pistola mirato. E mentre su un ponte del Tevere durante scontri con la polizia cadeva la studentessa Giorgiana Masi, due giorni dopo a Milano ”autonomi” dal volto coperto staccatisi da un corteo uccidevano il vice-brigadiere Antonio Custra. Ciotta e Custra, ”Pino” e ”Toni” per noi, erano impegnati nel Movimento! E accanto ai poliziotti morivano altri servitori dello Stato, carabinieri, magistrati, giornalisti, cittadini impegnati a salvare la nostra tormentata democrazia. Come Carlo Casalegno, vice-direttore della Stampa, ucciso in una giornata di novembre a Torino per il suo amore di verità.

Quel l977 mise a dura prova la resistenza e maturità democratica del Movimento. Ad una linea di rottura e contrasto frontale con l’Amministrazione, dopo una vivace dialettica interna, preferimmo quella coerente della legalità e di un rinnovato impegno di presenza a tutti i livelli sociali. Per fortuna quel vecchio leone di Franco Fedeli grazie anche alla solidarietà della Federazione Unitaria e del Movimento, era tornato in aprile a far sentire la sua voce e quella dei poliziotti democratici con la sua nuova rivista dal significativo titolo «Nuova Polizia e riforma dello Stato». In quasi tutte le città nuove assemblee e iniziative coinvolsero più direttamente i cittadini. Dovettero restare alquanto stupiti i telespettatori della trasmissione «Direttissima» di Aldo Falivena nel vedere i poliziotti del Movimento, dal maresciallo Fontana, al generale Felsani, dalla guardia Fedele all’appuntato Giordani mentre spiegavano che i problemi di polizia erano problemi di tutti. Altri tornarono nelle scuole e nelle fabbriche e ciò, di quei tempi, non era senza rischio. Il messaggio dato fu importante, in quegli anni di piombo e di odio. Come può misurarsi il valore umano e sociale di quei lunghi minuti di silenzio con cui i

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cinquecento studenti del liceo Virgilio di Roma onorarono insieme la memoria del loro compagno Lo Russo ucciso dalla polizia e quella dei poliziotti Ciotta e Passamonti uccisi dai terroristi? E dinanzi a loro, a chieder questo, c’era un poliziotto in divisa, il brigadiere Tortorella del Comitato Nazionale, con accanto Franco Fedeli ed il magistrato Mario Barone.

Tornammo ad illustrare la nostra posizione limpidamente unitaria presso le organizzazioni sindacali, fra cui la mutata situazione politica stava introducendo qualche percettibile segno di differenziazione sui tempi e modi di attuazione del nostro sindacato. Con questo richiamo di unità intervenimmo ai rispettivi Congressi generali, svoltisi nel giugno di quell’anno in differenti città: Forleo accanto a Lama a quello della CGIL, Margherito accanto a Benvenuto a quello della UIL, io accanto a Macario, a quello della CISL.

Ed infine giunse la conferma che il Movimento aveva tenuto e vinto! Da ogni città arrivarono le percentuali della campagna di adesione ovunque plebiscitaria, da Milano a Palermo, da Bolzano a Pescara.... Nelle strutture di base, in ogni reparto, commissariato o questura, dalla semplice guardia al generale o questore, tutti potettero votare liberamente per le loro rappresentanze, gustando così il proprio pezzetto di democrazia reale. In quest’atmosfera di travagliato impegno, si giunse, quasi simbolicamente il l4 luglio, alla tanto agognata Assemblea Nazionale Collettiva! I rappresentanti di tutte le strutture convennero a Roma, nella sede dell’UIL di via Lucullo, per eleggere a loro volta una Segreteria Nazionale, formata questa volta da soli poliziotti. Ebbi l’onore di farne parte, assieme al generale Felsani, alla guardia Fedele, all’appuntato Giordani, al Capitano Giacobelli, al maresciallo Castronovo ed alla combattiva assistente Maria Dell’Uva.

I poliziotti cominciavano a marciare anche organizzativamente con le proprie gambe. Accanto alla Segreteria comunque un gruppo di sindacalisti della Federazione Unitaria, Scheda e Franco Lai , per la CGIL, Spandonaro e Pino Autieri per la CISL, Bugli e Aurelio Massimi per la UIL, nonché Franco Fedeli, ci avrebbe affiancato. L’Assemblea decise anche di passare presto alla fase del vero e proprio tesseramento e di indire una manifestazione nazionale per la fine dell’anno che avrebbe dovuto coincidere, qualora ritenuto necessario con un momento di sciopero generale indetto dalla Federazione Unitaria. L’irrigidita posizione della DC, in parte viscerale e in parte tattica e l’avanzata del PCI, facevano temere che sulla ”questione Polizia” si potesse giungere a un compromesso di ripiego. Proprio in quel periodo, d’altro canto, spontaneamente o meno, circolava un documento ”riservato” di 27 cartelle dell’ufficio politico della DC in cui, partendo da una interpretazione ”sinistra” del Movimento si diceva: «... il PCI sa benissimo che sul

tema dell’ordine e della sicurezza pubblica si gioca anche la sua

credibilità...possiamo e dobbiamo fare un discorso complessivo non limitato alla

sola questione di PS, utilizzando la nostra disponibilità sulla riforma per ottenere

consensi su altri punti essenziali...». Il titolo del documento “ Fermo di polizia” era indicativo.

Dinanzi alla prova di equilibrio, tenacia e maturità che in questo clima i poliziotti riuscirono a dare, suonano senza commento le parole che in quell’ottobre ’77 un maestro di democrazia pronunciò in un’intervista: «Questo Movimento é un fatto

unico, una cosa splendida per l’Italia. Ho visto poliziotti discutere in pubblico

civilmente, sereni e decisi, coscienti dei loro diritti-doveri. Ora capisco perché gli

altri brighino per far fallire tutto ciò!». Era Riccardo Lombardi.

VIII. Alla Criminalpol N azionale

Divisione Stupefacenti

II 28 febbraio del ’77 varcai i cancelli del Centro Nazionale Criminalpol, un imponente edificio di marmo bianco situato a Roma nei pressi del laghetto dell’Eur. Questo organismo, articolato in varie Divisioni (Interpol, Polizia scientifica, Stupefacenti, Reati contro la persona, contro il patrimonio...) ha il

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compito di coordinare sul piano nazionale le investigazioni più impegnative, svilupparle se necessario in campo internazionale, studiare e analizzare le caratteristiche del fenomeno criminoso nel Paese al fine di elaborare più efficaci strategie di prevenzione e repressione. In effetti non sembrava all’epoca che il Centro rispondesse a tali aspettative, anzi negli ambienti di polizia era considerato una specie di cimitero degli elefanti. Di qui la volontà del ministro Cossiga di affidarne la direzione a un ”questore-poliziotto” che per professionalità e temperamento fosse in grado di scuoterne la ormai tradizionale sonnolenza operativa. E Macera già nella prima riunione di tutto il personale tuonò con parole di fuoco, minacciando provvedimenti severi e annunciando drastiche innovazioni. Come previsto, venni assegnato alla Divisione Stupefacenti, l’ufficio che avrebbe dovuto seguire e stimolare l’attività di tutte le squadre Mobili e dei Centri Regionali Criminalpol. Per questo impegnativo compito tutto l’organico era costituito appena una ventina di persone, suddivise in tre sezioni, ciascuna retta da un funzionario. Sostituii uno di essi, Franco Testa, un collega di grande capacità dottrinale nella materia, trasferito, insieme a parte del personale, alla Direzione Centrale Antidroga (in sigla DAD), l’organismo interforze del Ministero dell’Interno che avrebbe dovuto coordinare tutte le Forze di polizia. Previsto dalla nuova legge antidroga, era stato costituito dal ministro Cossiga con proprio Decreto del l0 luglio ’76. Avevo accolto con entusiasmo questo nuovo segno di determinazione in un settore così delicato: quali ben maggiori risultati si sarebbero potuti ottenere – pensavo – coniugando con quella della Polizia anche le specifiche capacità operative nel campo finanziario e nel controllo del territorio della Guardia di Finanza e dei Carabinieri.

Purtroppo il coordinamento dei «Corpi più o meno separati», punto essenziale del nostro progetto di riforma, resterà sempre un desiderio alla cui effettiva realizzazione si frappongono radicate resistenze e sottili interessi. Anche il DAD non stava sfuggendo alla regola tanto più che esso, dipendendo direttamente dal Ministro e corrispondendo in suo nome, rischiava di divenire per davvero efficiente: e ciò non era forse gradito alle alte burocrazie civili o militari dei diversi ”Corpi”. Fatto sta che alla sua direzione era stato nominato il questore Bonaventura Provenza, già politicamente impopolare, che mai si era occupato di droga e inoltre prossimo alla pensione. Per di più la collaborazione fornitagli era pressoché nulla. Così ad esempio, mentre la PS aveva dovuto suo malgrado (essendo la DAD collocata nello stesso Ministero) ivi trasferire diversi uomini della Criminalpol, i Comandi Generali dei Carabinieri e della Guardia di Finanza si guardavano bene dal fare altrettanto. Particolarmente significativa era stata la secca risposta che l’Arma aveva dato a una lettera con cui Provenza aveva chiesto, al fine di poter pianificare corsi di formazione, quanti fossero gli uomini specializzati in attività antidroga: «Tutti i Carabinieri in quanto agenti di polizia giudiziaria, lottano contro la droga!». D’altro canto neppure Macera traboccava entusiasmo verso il nuovo organismo. In questa situazione di confusa politica antidroga, aggravata dalla ridotta consistenza di uomini e mezzi, la Divisione Stupefacenti procedeva su un ritmo lavorativo più di consolidata prassi burocratica che di vero impulso operativo, nonostante l’impegno del dirigente, vicequestore Alberto Sabatino, da poco giunto al Centro Criminalpol.

Una parte ponderosa e interessante dell’attività dell’ufficio riguardava la collaborazione specifica con gli altri Paesi. Le segnalazioni in arrivo, relative soprattutto a indagini internazionali, arresti di nostri connazionali all’estero, presenza di trafficanti stranieri in Italia, già rallentate dalle difficoltà materiali di traduzione, venivano successivamente ritrasmesse alle Questure. Ben raramente veniva avviato un sistematico lavoro di analisi delle informazioni per approfondire le dinamiche del traffico o ricostruire le ramificazioni di importanti sodalizi criminali. D’altro canto ciò era reso difficile persino dal sistema di distribuzione delle pratiche tra le varie sezioni, quasi sempre determinato dal numero pari o dispari casualmente attribuito ai relativi fascicoli!

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La sezione assegnatami era costituita da nove persone, i sottufficiali Caputo, Zappitelli, Pizianti, Capuano, Polselli, De Nora, Fazio e le guardie Giua e Chirafisi. Come dirigente delle sezioni narcotici di Genova prima e Roma poi, mi ero reso conto che a livello locale, anche se l’indagine ben condotta poteva portare ad arresti e sequestri, essa arrivava tuttavia solo a scalfire il complesso mosaico ”droga”. In quella sede dell’EUR giungeva invece materiale informativo prezioso per tentare di ricostruire i flussi delle tonnellate di oppio, eroina, cocaina e hashish, che da ogni continente invadevano il nostro Paese, nonché la connessa ragnatela criminale che ormai lo avvolgeva. Insieme ai pochi uomini della sezione, cominciammo a sviluppare, accanto alla pur necessaria trattazione burocratica dei fascicoli, un’attività di approfondimento analitico delle segnalazioni provenienti dall’estero e dagli uffici periferici, nonché un’attività investigativa di supporto alle Squadre Mobili e sovente anche ai reparti dell’Arma e della Finanza. Nonostante le risapute frizioni interforze, ebbi così modo di lavorare in un rapporto di reciproca stima con valorosi ufficiali dell'Arma, dal colonnello Richero ai capitani Mazzotta e Gagliardi, e della Guardia di Finanza, dal colonnello Soggiu ai capitani Petracca e Gruner. Gli uomini della sezione, abituati sino ad allora a frenare le proprie aspirazioni investigative per le privilegiate esigenze burocratiche, risposero con entusiasmo. La nostra attività era favorita anche dal fatto che potevo ancora contare su alcuni informatori dei tempi della Squadra Mobile per avere conferma di notizie interessanti. Ciò restando nel quadro della natura di coordinamento del nuovo lavoro e senza invadere il campo operativo della Mobile romana. Anzi avevo avviato quasi tutti i miei contatti verso il commissario che mi aveva sostituito alla ”Sezione Narcotici”, Gianni De Gennaro. Appena insediatosi, aveva voluto incontrarmi per complimentarsi della situazione organizzativa lasciatagli e per chiedere suggerimenti. Intelligente e volitivo, sarebbe divenuto ben presto uno dei più bravi e coraggiosi investigatori italiani. Di grande aiuto erano inoltre i buoni rapporti professionali via via creatisi con gli ”agenti speciali” a Roma della DEA, l’Agenzia antidroga americana, da Frank Tarallo a Tom Angioletti, da Jim Porter a Mike Antonelli. Con essi, ammirati da quel che in quattro gatti riuscivamo a fare, avremmo lavorato in diverse indagini cercando di evitare condizionamenti dal loro modo di agire spavaldo e talora incurante dei nostri limiti normativi. Con questo nuovo fervore investigativo la sezione contribuì a gettare le basi per indagini importanti, alcune delle quali avrebbero conservato anche in futuro la loro validità intuitiva.

Dal tabacco alla droga

Già qualche settimana dopo partendo dai pur separati fascicoli ebbi modo di notare che diversi arresti di trafficanti comaschi avvenuti negli ultimi tempi in differenti paesi d’Europa potevano essere in qualche modo collegati. Dopo alcune verifiche svolte in stretto contatto col dirigente della Mobile di Como formulai l’ipotesi, ora acquisita come naturale ma sino ad allora mai denunciata formalmente, di un sistematico riciclaggio di contrabbandieri dal traffico di sigarette a quello ben più remunerativo della droga. In particolare alcuni di essi, guidati dai fratelli Lecchi, erano scesi al Sud insediandosi nella zona di Ostia, punto strategicamente importante – pensavamo – per il traffico via mare di hashish proveniente dal Marocco. Questa ipotesi trovò ben presto sostegno anche nelle indagini che per altra via stava svolgendo il capitano Gruner, dirigente della Sezione centrale antidroga della Guardia di Finanza. Lavorando per localizzare un pericoloso trafficante di Bellinzona, Sergio Bonacina, ricercato in campo internazionale da diverse polizie europee, era giunto alle medesime conclusioni trovando altresì prove del suo passaggio a Ostia e dei suoi legami col gruppo comasco. Dopo un mese di lavoro raccolsi elementi per denunciare con un dettagliato rapporto giudiziario per traffico internazionale di droga verso l’Italia sedici contrabbandieri, sia alla Procura della repubblica di Como che a quella di Roma, dove il giudice Dell’Orco aveva sin dall’inizio seguito con interesse il nostro lavoro. Qualche tempo dopo il Bonacina sarebbe stato arrestato dalla polizia marocchina a

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Casablanca dove aveva organizzato una testa di ponte per un vasto traffico di hashish con potenti motonavi verso la costa laziale. Il descritto fenomeno di riconversione limitato non solo ai contrabbandieri comaschi ma comune, quasi per legge di economia criminale, ai loro colleghi genovesi e napoletani, avrebbe trovato una più ampia riprova negli anni successivi nell’approfondita istruttoria giudiziaria condotta dal giudice Taurisano di Como.

A questo primo lavoro di ”intelligence”, come direbbero gli americani, si aggiungeva di tanto in tanto per esigenze di tempestività qualche diretto intervento operativo. Come quando, lavorando sul filo dei minuti, sviluppando un’informazione giunta dall’Austria potemmo arrestare all’Hotel Tiziano di Roma, mentre stava per dileguarsi, un trafficante viennese con un discreto quantitativo di eroina. O come quando, riuscimmo a identificare uno scaltro trafficante libanese, Omar Topal, sulle cui tracce da tempo erano diverse polizie straniere e in particolare quella statunitense. Dopo giorni di appostamento, non sfuggì al teleobiettivo del brigadiere Sannino della polizia scientifica. Nessun Servizio Antidroga era riuscito sino ad allora ad avere l’immagine di questo fantomatico trafficante. Il grazie ammirato di Mike Antonelli, uno dei responsabili europei della DEA, ci riempì di orgoglio per quel lavoro tutto italiano. Dopo qualche mese Topal sarebbe stato arrestato ad Anversa, in Belgio, con sette chili di eroina.

Il nuovo ritmo di lavoro non sempre veniva visto con entusiasmo dai colleghi della Divisione, i cui uomini mal sopportavano dover continuare a occuparsi solo di pratiche burocratiche. Si sapeva però che Macera seguiva con simpatia questa nostra attività investigativa e, del resto, i risultati cominciavano a venire. A metà aprile la DEA segnalò il mio nome a Macera e Provenza perché potessi partecipare, unitamente a un ufficiale della Finanza e a uno dei Carabinieri, ad un corso di alta specializzazione antidroga per funzionari di polizia dei vari continenti presso il proprio quartiere generale di Washington. Col capitano Francavilla del Gruppo Carabinieri di Napoli e il capitano Mongo della Tributaria di Firenze, costituimmo un affiatato gruppetto pieno di entusiasmo professionale. Il corso fu assolutamente originale e interessante: organizzato di concerto tra la struttura addestrativa della DEA e una società di formazione manageriale, era improntato a criteri di alta professionalità. A fine maggio, al rientro a Roma, entusiasta scrissi una relazione ai miei Capi, suggerendo di adottare un metodo simile anche per i nostri corsi antidroga. La proposta non ebbe seguito. Ne ci venne chiesto nulla per trasmettere ad altri quello che avevamo appreso. Anzi, dopo un po’, senza tener conto delle raccomandazioni della DEA, i due capitani vennero trasferiti dai rispettivi Comandi a reparti che solo marginalmente si occupavano di droga.

La rotta dei Balcani

Il caso ”Deirki”, così chiamato dal nome di uno dei principali trafficanti turchi, era stato avviato dal coraggioso e intraprendente commissario Cristoforo La Corte, della Criminalpol di Trieste. Il suo carattere estroverso gli aveva consentito sia di lavorare in armonia con le altre Forze di polizia e l’Autorità giudiziaria e sia di creare preziosi contatti informativi. Dal suo punto strategico di osservazione al confine con la Jugoslavia era riuscito ad affinare una visione moderna e profonda del traffico di oppiacei dal Medio Oriente. In varie occasioni avevamo discusso della sua ipotesi di un vasto commercio criminale di morfina base ed eroina grezza dalla Turchia verso l’Italia attraverso la rotta dei Balcani. La droga sarebbe stata destinata a ”famiglie” di rango della mafia per essere raffinata in laboratori clandestini, probabilmente in Sicilia, e di qui rispedita verso altri Paesi europei e soprattutto verso il Nord America. Questa ipotesi aveva cominciato presto ad avere concreta riprova. Proprio in quel periodo, al valico di Farneti, vennero arrestate numerose donne turche provenienti in pullman da Ankara con il ventre fasciato sotto le tipiche vesti da panciere imbottite di eroina grezza. Quasi contemporaneamente, all’aeroporto americano J. Kennedy, all’arrivo degli aerei per la nuova tratta Alitalia, Palermo- Roma-New York, diversi corrieri italiani furono

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trovati in possesso di eroina pura trafficata in lattine di olio siciliano.

Parlandone col dottor Sabatino, anche lui convinto dell’ipotesi prospettata, si decise di indire a Roma una riunione ad hoc di funzionari di polizia dei vari Paesi interessati. Il collega La Corte ed io stilammo un documento di lavoro che, tradotto in inglese, costituì la base di discussione. Attorno a un tavolo della Criminalpol, presenti ufficiali della DAD e della Guardia di Finanza, nel mese di luglio ci ritrovammo con funzionari della polizia americana, francese, svizzera, tedesca, austriaca, jugoslava e polacca. La polizia turca aveva comunicato di non poter intervenire. La presenza di investigatori polacchi era un fatto eccezionale, mai verificatosi prima. Con l’avallo del dottor Sabatino, avevo insistito presso l’Ambasciata di quel paese, non facente parte dell'Interpol, affinché inviassero loro rappresentanti giacché anche la Polonia era certo attraversata da quel traffico. Proprio a Varsavia ritenevamo ci fosse una base importante. Il giorno della riunione un distinto funzionario era sbarcato a Fiumicino, proveniente dalla capitale polacca, subito prelevato dai colleghi della sua Ambasciata che gli sarebbero rimasti quasi sempre alle costole. Non aveva mai preso parola, ma si era limitato prendere appunti col massimo zelo. La sera del commiato, soddisfatto dei risultati, avevo invitato tutti presso una pizzeria di Trastevere. Dopo molte insistenze da parte mia e dopo un serrato colloquio coi suoi angeli custodi, anche quel funzionario venuto dall’est aveva infine accettato. Si rivelò un uomo di grande sensibilità, preoccupato del problema della droga che si stava diffondendo anche nel suo Paese. Ci ringraziò dell’ottimo lavoro svolto promettendo che al rientro in patria avrebbe fatto del suo meglio per aiutare l’indagine.

Dopo diverse settimane, tramite l’Ambasciata, mi sarebbe stato recapitato un plico da Varsavia contenente le informazioni richieste e la notizia dell’arresto di numerosi trafficanti turchi. Altri sarebbero stati arrestati dalle polizie convenute in quel meeting compreso il ”Deirki” in Germania trovato in possesso di un discreto quantitativo di eroina. In quella riunione erano state poste le basi di un’indagine vasta e complessa che avrebbe portato anni dopo, anche sotto l’impulso del giudice Carlo Palermo, al sequestro di numerosi chili di morfina base a Bolzano e a Trento e all’arresto di importanti personaggi del crimine organizzato. Tonnellate di droga, sarebbe emerso dagli atti, erano transitate attraverso la rotta dei Balcani e, dopo essere state riconvertite in laboratori clandestini siciliani in costosa eroina al novanta per cento pura, erano ripartite verso il Nord-America.

Dalla Turchia con eroina: il caso Waridel

Verso la fine di agosto avviammo un’indagine che ci diede più immediati risultati. Attraverso la DEA statunitense avevamo appreso che uno scaltro personaggio, con notevoli contatti in Medio Oriente, era giunto dalla Svizzera forse per installare a Roma un centro di smistamento di droga. Riuscimmo a individuarlo: Paul Waridel, nato a Istanbul ma cittadino svizzero residente a Zurigo. Aveva preso in affitto una villa a Fregene, nei pressi di Roma, con la moglie, una giovane greca, e la loro bambina di pochi mesi. Coi suoi sgargianti pantaloncini corti sul grasso ventre sembrava un pacifico, beato turista tutto intento a godersi quella splendida estate romana. Solo raramente usciva a bordo della sua lussuosa Bentley metallizzata. II servizio di sorveglianza era implacabile. Persino dalla villa di fronte, naturalmente col permesso del proprietario, una nostra dinamica assistente, Anna Gentile, prendendo disinvoltamente la tintarella in giardino, segnalava attraverso una radio portatile i movimenti di Waridel al nostro poliziotto-capellone Giua appollaiato nei pressi su una Kawasaki rossa.

Le informazioni nel frattempo ottenute dalla polizia svizzera, confermarono i sospetti. Quell’uomo, titolare di un’impresa chimica a Ginevra, era da tempo tenuto d’occhio perché ritenuto implicato in grossi traffici di droga. Estremamente scaltro non si era lasciato sorprendere. Sulla base degli elementi informativi acquisiti, ottenni dal sostituto procuratore di Roma, Franco Testa, un magistrato con cui avevo gli lavorato a Genova, l’autorizzazione a intercettare il telefono della villa.

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Era un vero e proprio centralino internazionale: decine e decine di telefonate si intrecciavano con Amsterdam, Istanbul, Zurigo, Atene... Potevamo solo comprendere sprazzi di alcune, giacché il nostro uomo, abile poliglotta, parlava con i suoi interlocutori in fiammingo, inglese e arabo. Per fortuna dopo giorni di estenuante lavoro intercettammo una conversazione che ci rincuorò: «Due cugini

arriveranno da Ankara con i doni».

Tenemmo sotto controllo giorno e notte la villa. Una mattina all’alba una Mercedes con targa araba si infilò nel cancello. Da essa scesero un uomo e una donna, accolti a larghi sorrisi dal pacioso Paul. D’accordo con gli agenti della DEA ed in particolare coll’atletico Jim Porter, decidemmo di agire. Waridel, uscito poco dopo con la sua Bentley, si ritrovò quasi senza rendersi conto in una stanza del commissariato di Fregene: quattro dei miei uomini lo avevano prelevato al volo. La perquisizione dell’auto fu purtroppo negativa. Bisognava entrare subito nella villa, prima che gli altri si allarmassero del ritardo. Studiammo e attuammo un piano d’azione. L’assistente ed io, tenendoci romanticamente per mano, suonammo al cancello, chiedendo di visitare per conto dell’agenzia la villa che intendevamo affittare. Sapevamo infatti dalle intercettazioni che a fine mese sarebbe stata lasciata libera e che c’erano delle richieste in tal senso. Pur controvoglia la signora Waridel, cedendo alle nostre insistenze, aprì il portone, che ebbi cura di lasciare accostato alle nostre spalle. All’interno erano riunite diverse persone. Tergiversammo un po’ finché, dopo i tre minuti convenuti, gli uomini della sezione, pistole in pugno, irruppero dalle finestre.

Dopo esserci qualificati e aver identificato gli allibiti personaggi, due turchi, un corpulento greco e un sornione siciliano, iniziammo a perquisire quell’interminabile abitazione. Continuammo per lunghe ore: nulla di nulla. Cominciavo a disperare quando improvvisamente il brigadiere Fornari rientrò dal cortile tenendo nelle mani sporche e leggermente insanguinate due sacchi di plastica: «Dottore, guardi cosa ho trovato nei bidoni dell’immondizia, sotto uno

strato di vetri!». Restammo senza fiato: due chili di eroina purissima. Il cuore mi balzò in petto mentre la signora Waridel, sbiancata in volto, taceva. Riferii al magistrato Testa che attendeva notizie. Si era fatta notte inoltrata: sigillata la villa, portammo tutti negli uffici della Criminalpol, mai forse adoperati per tali eventi operativi. Quindi, redatti i verbali, inviammo il gruppetto in carcere.

L’indomani mattina informai telefonicamente Macera che in quei giorni, unitamente al dottor Sabatino, si trovava a Copenhagen per l’Assemblea Generale dell’Interpol. Poté comunicare la notizia, tra i complimenti dei delegati, nel corso della seduta dedicata alla lotta contro il traffico di droga. L’operazione ebbe anche un notevole rilievo nell’opinione pubblica: ben raramente erano stati sequestrati in quei tempi quantità simili di eroina. Un pericoloso tentativo di insediamento criminoso nella capitale era stato stroncato sul nascere. Che avessimo imboccato una pista buona sarebbe stato dimostrato negli anni successivi dal ruolo svolto da Paul Waridel come abile mediatore internazionale di organizzazioni criminali di mezzo mondo.

N essuno é profeta in patria

L’appassionato impegno nella cooperazione internazionale dovette essere apprezzato all’estero. Il l8 ottobre unitamente al dottor Rotella, vicedirigente della Divisione stupefacenti e ai capitani Francavilla e Mongo, venni invitato ad Amsterdam, al II° Convegno dell’IDEA sulla problematica del traffico di stupefacenti nel mondo. E’ questa un’associazione con sede a Washington che raggruppa i funzionari di polizia che via via hanno frequentato i corsi di alta specializzazione antidroga nella capitale statunitense. Eravamo circa seicento, appartenenti ad almeno ottanta paesi dei vari continenti. Al termine del Convegno, svoltosi alla presenza del vice primo-ministro olandese Fortmann venni eletto vicepresidente dell’associazione.

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Ma la mia soddisfazione doveva durare ben poco. Al mio rientro avrei trovato infatti una sgradita sorpresa. II questore Campenny, vicedirettore della Criminalpol, mi convocò per messaggio inequivocabile: dovevo tornare al normale ritmo burocratico e in ogni caso quella mia squadretta investigativa sarebbe stata sciolta. Anche Macera era stato convinto. Ottenni soltanto di poter continuare l’indagine ”Van Sinderen”, l’ultima di portata internazionale che avevamo nel frattempo avviato. Lo sdegno per quella incomprensibile decisione avrebbe trovato sfogo in un articolo pubblicato su «Paese Sera del 6 marzo ’78 dal titolo «Una trappola per i giovani». Lo spunto mi sarebbe stato dato dalla tragica vicenda di alcuni giovani tossicomani che a Trieste, iniettandosi eroina, chissà come tagliata, fuori erano diventati ciechi. Ma come era possibile- chiedevo- essere così colpevolmente disattenti, a livello nazionale e internazionale, verso un fenomeno tanto tremendo? In quelle righe ricordavo come si era lasciato trasformare la DAD in un carrozzone burocratico; i nostri ritardi internazionali nel pagamento delle quote Interpol; il cattivo coordinamento delle Forze di polizia; lo scioglimento della squadretta dell’EUR proprio dopo l’importante operazione di Fregene; e infine che, proprio in quei giorni, era stato inviato a Washington per il corso DEA un colonnello dei Carabinieri a pochi mesi dalla pensione, con buona pace della professionalità e dell’erario italiano. Nella parte terminale tentavo di lanciare un messaggio a quei giovani che, seguendo l’ideologia contestataria del momento, vedevano nell’uso di droga un atto di sfida a un mondo squallidamente capitalista. Dovevano sapere che quelle loro trecentomila lire per un grammo di sporca eroina finivano per rimpinguare le casse degli oligopoli internazionali criminali che sfruttavano loro sangue e cervello. Capire che molti avevano interesse a renderli vinti e senza impegno sociale. L’articolo naturalmente provocò le ire dei miei Capi. In compenso ricevetti alcune lettere di giovani apertisi a nuove riflessioni.

Il “caso Van Sinderen”: gli uccelli stanno volando

L'indagine Van Sinderen, dal nome del principale personaggio, era cominciata verso la fine di settembre. La polizia olandese ci aveva avvisato che alcuni trafficanti di quel paese facevano strane puntate a Roma per incontrarsi con dei libanesi. II servizio di vigilanza ci permise di individuarne alcuni. Arrivavano improvvisamente in aereo, si incontravano in alberghi lussuosi, ripartivano per destinazioni diverse. Ne seguimmo per quanto possibile gli spostamenti, talora con ritmi estenuanti, come quella volta che, seguendo la vettura noleggiata da Van Sinderen, ci eravamo trovati a passare la notte in auto, dormendo a turno, dinanzi ad un albergo di Salerno dove lo scaltro olandese si era incontrato con un guardingo australiano. Privi di mezzi ma non d’inventiva, in occasione di un meeting di quei personaggi a Roma presso l’albergo Holiday eravamo così dislocati: all’ingresso il brigadiere Polselli in impeccabile divisa da portiere, un po’ a disagio a dire il vero quando una coppia di rumorosi americani gli aveva affibbiato le valigie. Nella hall il brigadiere Lo Schiavo che sfruttando il suo hobby esponeva, con l’accordo del direttore, i propri quadri atteggiandosi a pittore affermato. Nell’elegante piano bar i brigadieri Fazio e Ianniello ronzavano premurosi in livrea di camerieri attorno al tavolo dei sospettati. A tarda sera, quando tutti erano arrivati, giungemmo anche Giua ed io con due ignare amiche prendendo posto lì accanto. Nessun particolare sfuggì a quel controllo. Tenacia e discrezione ci permisero di ricevere una preziosa collaborazione dai titolari degli alberghi. Misero a disposizione dei locali, da dove gli agenti potevano sorvegliare, e facilitarono i controlli telefonici che il magistrato Dell’Orco aveva autorizzato sugli apparecchi delle camere dove i sospettati alloggiavano... Il quadro che veniva fuori dall’indagine era impressionante. Anche se ci sfuggivano le modalità tecniche del traffico, anche se gli accertamenti furtivi effettuati sui loro bagagli o sulle loro auto lasciavano supporre che essi non trasportavano direttamente droga, era tuttavia chiaro che quei manager del crimine smuovevano corrieri un po’ dappertutto, da Beirut a Parigi, da Dublino ad Amsterdam. La conferma ci venne quando segnalando via Interpol due auto, di cui avevamo intercettato per telefono

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le caratteristiche, le polizie inglese e danese trovarono nascosti su di esse decine di chili di hashish. «Presto, ho trenta uomini che stanno su strada! Fate volare gli

uccelli»: così aveva telefonato irato una sera Van Sinderen a qualcuno in Libano! Diversi Uffici Antidroga stranieri cominciarono a mostrare un notevole interesse chiedendoci notizie. In particolare quello olandese ci pregò di ricevere a Roma un loro funzionario: si chiamava Groenendjk, un ispettore del gruppo ”intelligence” di Rotterdam. Quale non fu la sua sorpresa e ammirazione quando constatò in che condizioni lavoravamo. Dopo qualche settimana di quel lavoro estenuante avevamo ricostruito, grazie anche alla magnifica collaborazione che nel frattempo avevo chiesto e ricevuto da Soggiu e Petracca, un vasto mosaico di nomi e contatti. E fu proprio la Guardia di Finanza che ci fece fare un salto di gioia quando il successivo marzo ’78 ci informò che i propri uomini di Brindisi, al comando del colonnello Pizzuti, avevano sequestrato due tonnellate di hashish nascoste in un doppio fondo della cabina di un Tir appartenente a trafficanti del gruppo sotto controllo. La tela con cui erano avvolte le ”ciabatte” di droga, con il disegno di due uccelli mi fece ripensare alla frase di Van Sinderen. L’autista del mezzo, un olandese, spiegò a noi e ai funzionari dell’Antidroga di Amsterdam volati a Brindisi in commissione rogatoria accompagnati dal fiero Groenendjk che la merce era stata caricata a Oms, al confine della Siria, direttamente da miliziani in divisa. Avevamo colto nel segno! Ad aprile dalle rispettive polizie vennero sequestrati in Olanda altre tonnellate di hashish sulla nave Nueva Insburg proveniente dal Libano e agli inizi di maggio altri 1500 chili a Graz, in Austria, a bordo di un Tir appartenente alla stessa compagnia. A questo punto la polizia olandese chiese di organizzare a Roma una riunione di lavoro, ma la proposta ricevette una fredda burocratica accoglienza. Fu così che il Segretariato Generale dell’Interpol indisse un meeting internazionale per il l6 e l7 maggio nella sua sede a Saint-Cloud sullo specifico tema ”Il caso Van Sinderen”. Persino allora l’orientamento dell’establishment della Criminalpol fu negativo a una nostra partecipazione. Solo dopo un mio colloquio con Macera, il colonnello Soggiu e io fummo autorizzati a intervenire.

Era la prima volta che mi recavo a una simile riunione e non avrei immaginato quanto determinante sarebbe stata per la mia sorte professionale. Il nome ”Interpol” mi affascinava significando allora per me il non plus ultra dell’efficienza investigativa nel mondo. Con zelo predisposi un documento sull’indagine svolta in Italia corredato anche da suggerimenti operativi. Due validissimi collaboratori, il dottor Cattapan e l’ispettore Vacchiano, superando le difficoltà burocratiche del traduttore ufficiale, lo volsero in inglese lavorando sino a tarda notte come favore personale e partecipazione al nostro entusiasmo. Fu un successo italiano: quel caso ”Van Sinderen” aveva destato molta attenzione. A Saint-Cloud ci ritrovammo con una trentina di funzionari antidroga di tredici paesi, dagli Stati Uniti alla Turchia. Con Soggiu l’intesa si rivelò perfetta. Il nostro rapporto divenne il documento principale della riunione e le proposte operative ottennero il plauso di tutti. Esse vennero adottate come base del successivo lavoro che sarebbe stato coordinati dal Segretariato Generale. In questa occasione conobbi il Capo della Divisione Criminale dell’Interpol, l’inglese Raymond Kendall, che si complimentò con noi Seppi anche che presto sarebbe stato bandito un concorso internazionale per un posto d’ufficiale di collegamento europeo nel settore della lotta al traffico internazionale di droga presso quell’Organizzazione. Con lungimiranza Soggiu mi incoraggiò a curare tale possibilità e partecipai alla successiva selezione.

Tornai in Italia fiero dei risultati di quella riunione, ma amareggiato dal fatto che la squadretta a cui andava il merito di quell’indagine era ormai stata sciolta. Comunque la mia permanenza presso il Centro Criminalpol sarebbe presto terminata. Dal Segretariato Generale dell’Interpol infatti a metà settembre comunicarono ufficialmente che la mia candidatura aveva prevalso su quelle di circa trenta funzionari di altri Paesi. Se la mia Amministrazione avesse dato l’O.K. avrei dovuto prendere servizio a Saint-Cloud il l5 ottobre. Era una grande soddisfazione per me e la Polizia italiana! Essa coincideva con un’altra ugualmente

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prestigiosa: dal 4 al 6 ottobre dovetti recarmi al Cairo con importanti funzionari antidroga americani per organizzare e presiedere il Convegno dell’IDEA per quel l978. Nel corso dei lavori, dinanzi ai duecento poliziotti convenuti da ottanta Paesi, svolsi in inglese una relazione, preparata insieme al capitano Petracca ed al dottor Rotella, sul traffico di eroina ponendo pesanti interrogativi sull’esistenza di laboratori clandestini in Europa e sugli indizi affiorati in varie circostanze di una possibile ”French-Sicilian connection”. Nella successiva elezione venni riconfermato nella carica di vice-presidente dell’IDEA al fianco del nuovo presidente, un alto funzionario norvegese. In tale occasione rividi Kendall, invitato dall’Associazione come osservatore per l’Interpol. Di questa riunione al Cairo conservo l’indelebile ricordo di quando, la sera della cerimonia di chiusura, fui chiamato a pronunciare un breve discorso alla presenza del Ministro dell’Interno egiziano. Nell’incomparabile scenario delle Piramidi illuminate, mi fu spontaneo pronunciare, in quel mondo arabo in tensione, commosse parole non solo di impegno per la lotta alla droga ma di speranza di pace per tutti.

Il sindacato è, la riforma si farà...

La strategia decisa dal Movimento di procedere con manovre tali da isolare dinanzi all’opinione pubblica coloro che in un momento così drammatico per il Paese ostacolavano il cammino verso una Polizia più efficiente e democratica sarebbe risultata vincente. Quel l977 si chiuse con tre avvenimenti importanti. Il due ottobre più di quattromila poliziotti convenuti da tutta Italia riempirono ordinatamente il palazzetto dello sport dell’EUR. Diversi giunti con i familiari tenevano i propri bimbi per mano. Era impressionante vedere le centinaia di cartelli con sopra scritti i nomi delle città di provenienza: Milano, Palermo, Matera, Napoli...e parole di impegno contro il terrorismo, la mafia e la droga. In prima fila parlamentari di tutti i partiti, giornalisti, magistrati, uomini di cultura, osservavano quella manifestazione mai vista. Il convegno si era aperto in maniera significativa: tutti in piedi quando il maresciallo Taglianetti, del Reparto Celere di Roma, con ancora un braccio al collo per un colpo di pistola sparatogli contro dagli ”autonomi” durante un servizio in piazza, aveva chiesto dal palco alcuni istanti di raccoglimento in memoria dello studente Walter Rossi ucciso quarantotto ore prima a Roma dai terroristi. Dopo la relazione dell’Esecutivo, fatta dal maresciallo Castronovo, tutti gli oratori avevano ribadito il proprio sì alla riforma e al sindacato di Polizia. «Il mondo del lavoro é con voi», avevano gridato, tra boati di entusiasmo, Lama, Macario e Benvenuto. Benché proprio in quei giorni fossi intensamente impegnato per l’indagine Van Sinderen, in tarda mattinata ero salito al tavolo della presidenza per un breve intervento. Il funzionario olandese Groenendjk che mi aveva accompagnato, era rimasto senza fiato vedendo quella fiumana di poliziotti discutere alla luce del sole dei loro problemi e della sicurezza del Paese.

Il l0 dicembre, alla presenza dei tre Segretari Generali della Federazione Unitaria e di numerosi parlamentari, il sindacato di polizia ebbe di fatto la sua nascita. I seicento delegati, eletti dai reparti di base in rappresentanza dell’ottanta per cento di tutti i poliziotti d’Italia, si riunirono a Roma, alla Domus Pacis, per scegliere i propri organismi di vertice: il Direttivo e l’Esecutivo Nazionale. Ebbi l’onore di presiedere questa Assemblea Costituente e di essere eletto nel nuovo Esecutivo assieme ad altri undici colleghi: oltre a Felsani, Giordani, Fedele, Giacobelli, Miani, Castronovo, anche il commissario La Corte, l’assistente Maria Colombo e i sottufficiali Polizzi, Giacopelli e Sacchetti. Il sindacato era realtà! Occorreva ora la sua formalizzazione giuridica.

Il 20 dicembre fu una giornata forse unica nella storia delle polizie del mondo. Diciannove milioni di lavoratori, su invito della Federazione Unitaria, scioperarono per un’ora in tutt’Italia per sostenere la riforma e dire basta agli ostacoli frapposti. Oltre duemila assemblee si svolsero nelle fabbriche. A ciascuna di esse un poliziotto del Movimento portò la propria testimonianza: il maresciallo Fontana

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alla Renzetti di Imperia, il capitano Ambrosini alla Breda di Milano, il maresciallo Colucci all’Italsider di Taranto, l’appuntato D’Alberto alla Magneti Marelli di San Salvo e altri ancora in tanti luoghi di lavoro. Io mi recai all’Autovox a Roma. Ovunque ci fu entusiasmo e determinazione.

Anche il ’78 sarebbe continuato su questa linea stringente. Il l3 e l4 febbraio la ribadirono con forza i duemila delegati di tutte le categorie di lavoratori convenuti a Roma per la storica riunione all’EUR dei Consigli Generali CGIL-CISL-UIL. Lama, Macario e Benvenuto avrebbero pubblicamente chiesto al Governo di non eludere più, per il bene del Paese, la ”questione Polizia”. In tutte le città intanto ogni struttura, ogni poliziotto del Movimento si sentì impegnato a incalzare, in una sorta di accerchiamento, quanti più parlamentari possibili del partito di maggioranza. Il maresciallo Raffuzzi riuscì a far giungere direttamente il nostro messaggio al vecchio compagno di resistenza Zaccagnini, altri a Moro, Andreotti, Galloni, Bodrato... Io stesso ebbi un lungo colloquio con l’onorevole Mazzola insieme al questore Macera e dottor Milizia, vice-capo dell’Antiterrorismo, entrambi più che mai preoccupati della tenuta della polizia di fronte all’attacco spietato della criminalità comune e politica. Inoltre sistematicamente noi dell’Esecutivo Nazionale, affiancati da sindacalisti della Federazione Unitaria, tenevamo i contatti con il Comitato ristretto della Commissione Interni per definite un disegno di riforma soddisfacente per tutti. La paziente e infaticabile opera di sostegno e mediazione del presidente Mammì fu determinante se nella bozza di progetto vennero inserite quasi integralmente le tesi del Movimento: smilitarizzazione, deburocratizzazione, coordinamento, pluralismo sindacale. Su queste linee venne raggiunto un accordo di massima tra governo, partiti di maggioranza e la Federazione Unitaria, e quindi col Movimento.

Sorte volle che questa nuova sensibilità per una Polizia preparata ed efficiente suonasse tragicamente tardiva il l6 marzo, quando il presidente Andreotti, insediando il nuovo Governo, lesse il suo programma dinanzi al Parlamento. Quel mattino il sequestro Moro aveva portato indietro di anni l’evoluzione sociale e civile del Paese. II grido di allarme che accanto a tutte le forze democratiche anche il Movimento aveva lanciato con forza in tutti quegli anni di piombo appariva in tutta la sua drammatica portata. Non avevamo perso occasione, al di là del discorso specifico di riforma, per attirare l’attenzione sulla necessità di affrontare il terrorismo non già con provvedimenti eccezionali, solitamente riduttivi dell’educazione alla libertà, ma in un’ottica globale, per eliminare le sacche di emarginazione sociale e culturale in cui i profeti del terrore potevano pescare. Insomma, attuando la Costituzione largamente disattesa dopo trent’anni. I terroristi non erano ”compagni che sbagliavano” o ”pazzi fanatici”, come spesso si diceva, ma lucidi combattenti di un’utopia sanguinaria e sbagliata che avrebbe fatto gioco ai torbidi mestatori della strategia della tensione. Per dire questo molti poliziotti, anche a rischio personale, da Sannino a Raffuzzi, da Ambrosini a Margherito, da Felsani ad Annunziata continuavano a essere presenti in conferenze, dibattiti, interviste. Proprio alcuni giorni prima del dramma Moro, a nome del Movimento, ero intervenuto alla Conferenza sull’Ordine democratico organizzata dalla Regione Lazio, presenti il presidente della Camera Ingrao, il ministro della Giustizia Bonifacio, il presidente della Regione Ferrara e numerosi politici, alti magistrati, funzionari e generali. Doveva essere apparso strano per molti di essi sentire proprio un poliziotto parlare in quei termini: una polizia più preparata, adeguatamente protetta, in una società più giusta e democratica.

Queste stesse esigenze le gridavano ora senza appello quei cinque sventurati poliziotti e carabinieri, il maresciallo Oreste Leonardi, il brigadiere Francesco Zizzi, l’appuntato Domenico Ricci, gli agenti Giulio Rivera e Raffaele Iozzino, crivellati di colpi sull’asfalto di via Fani per difendere con la propria vita quella dell’uomo di Stato. E le avrebbero ancora confermate l'incapacità e l’approssimazione delle indagini. Le forze dell’ordine brancolavano assurdamente nel buio, passando accanto al covo dei terroristi in Via Gradoli, correndo a

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immergersi in laghi ghiacciati, facendo scattare un inesistente “piano zero” in tutta Italia, ricercando persone già in carcere. Il 9 maggio, il corpo martoriato di Aldo Moro, sarebbe stato trovato, quasi a macabra ironia, a metà strada tra Piazza del Gesù e via delle Botteghe Oscure. Il 2l giugno il ministro Cossiga, il politico che forse più di ogni altro aveva sofferto in profonda solitudine il dramma di quella vicenda, con dignità e coerenza rassegnò le dimissioni. Il suo successore, onorevole Virginio Rognoni, si sarebbe impegnato sin dall’insediamento al Viminale a proseguire sulla via ormai imprescindibile della riforma. I primi di agosto infatti, dopo una serie di incontri, il Governo e i partiti della maggioranza parlamentare e programmatica assunsero l’impegno di discutere entro l’anno dinanzi all’Assemblea di Montecitorio il testo che avrebbe dovuto formalizzare le linee già elaborate dal Comitato ristretto della Commissione Interni. Attraverso mille difficoltà, sacrifici e sangue, la riforma stava imboccando l’arrivo.

Misteri di casa nostra

Contemporaneamente, già dai primi mesi dell’78, strani avvenimenti stavano verificandosi proprio nelle strutture dello Stato preposte alla sicurezza democratica del Paese. Le inchieste più importanti in tema di terrorismo avviate da coraggiosi magistrati, diversi dei quali avevano già pagato con la vita la propria fede democratica, rivelavano inquietanti aspetti dei nostri Servizi Segreti. Alcuni ufficiali si erano trovati persino coinvolti in equivoche e talora provocatorie vicende. Ciò aveva portato ad una perdita di credibilità di tali Organismi e a un preoccupato allarme da parte delle forze sociali più attente. Un serrato dibattito politico sulla necessità di riformare i ”Servizi” per ricondurli a un corretto funzionamento nell’esclusivo interesse delle Istituzioni repubblicane aveva portato da poco alla legge del 24 ottobre l977. In essa si disciplinava il ”segreto di Stato”, si assicurava il controllo dei Servizi da parte del Parlamento attraverso un Comitato di vigilanza, si obbligava il Presidente del Consiglio a riferire periodicamente alle Camere etc. Per evitare inoltre che, come per il passato, le informazioni fossero gestite da un unico Servizio, il SID, inquadrato nel Ministero della Difesa e quindi con una sua naturale ottica militare, si era deciso che i ”Servizi” sarebbero stati due: il SISMI, militare, per il controspionaggio ed il SISDE, civile e inserito nel Ministero dell’Interno, per la sicurezza democratica. Entrambi sarebbero stati coordinati dal CESIS, un organismo sovrastrutturato, alle dipendenze del Presidente del Consiglio.

Al momento del varo della legge le forze politiche erano giustamente orgogliose: la nuova struttura era quanto di più avanzato si potesse concepire. Ma il l3 gennaio ’78 erano stati nominati dal Governo Andreotti, con atto a sorpresa, i tre Capi dei nuovi Servizi: i generali Santovito e Grassini rispettivamente per il SISMI ed il SISDE e il prefetto Napolitano per il CESIS. «In effetti già da tempo – avrebbe scritto De Lutiis – erano iniziate le grandi manovre per quei posti di enorme potere

soprattutto in quegli anni così delicati per le sorti del Paese. Per il SISDE il

candidato più naturale sarebbe stato il questore Santillo che nei tre anni alla guida

dell’Ispettorato non solo non aveva mai dato luogo a critiche, ma compatibilmente

con i mezzi da lui di retti, aveva condotto in porto molte operazioni contro

estremisti di destra e contro i N AP. Egli era in pectore il candidato di Cossiga, ma

incontrò ben presto durissime opposizioni...». Evidentemente la volontà di questo Ministro di giungere rapidamente a una riforma democratica e professionale sia della Polizia che dei “servizi” infastidiva le forze conservatrici che nulla volevano cambiare. E anche accanto a lui qualcuno lavorava certo in tal senso. La nomina di un militare a Capo del Servizio più propriamente civile sembrò un’aperta contraddizione allo spirito della legge. Per di più il generale di Brigata Grassini, capo del SISDE (civile), era di grado inferiore al generale di Corpo d’Armata Santovito, capo del SISMI (militare). Inoltre non soltanto Santillo era stato ignorato, ma lo era stato, se proprio militare doveva essere il Capo del Servizio

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civile, anche il generale Dalla Chiesa, certamente insieme a Santillo l’uomo più valido nella lotta al terrorismo.

Mi tornavano alla mente le lunghe riflessioni fatte con Emilio Alessandrini sulle sue difficoltà, sperimentate in delicate indagini, ad avere la collaborazione dei ”Servizi”, quasi sempre più attenti a esigenze militari che di certezza giudiziaria. Ricevetti numerose telefonate di colleghi che mi manifestavano la loro amarezza per quella scelta che mortificava la Polizia, proprio in un momento di grande impegno democratico e tensione morale a contrastare con visibili sacrifici l’offensiva terrorista. Ero rimasto anch’io perplesso e deluso. Cercai di attirare l’attenzione degli altri membri dell’Esecutivo Nazionale nonché di alcuni leader della Federazione Unitaria, da Scheda a Spandonaro. Anch’essi condivisero le mie perplessità ma era difficile, ammisero, immaginare una qualche azione: su tutti i quotidiani, ivi compresa l’Unità, non c’era una sola voce di dissenso su quelle nomine, anzi si tessevano gli elogi dei due Generali.

Mi decisi a scrivere un articolo. Lo feci leggere a Pino Autieri, della CISL, uno degli amici più cari e fidati. Preoccupato mi sconsigliò: «Ennio, sono osservazioni

sacrosante, mai é materia che scotta...e poi non vedi che tutti sono d’accordo?». Consegnai il pezzo a Pier Vittorio Buffa, un giornalista democratico, amico di lunga data. Sobbalzò con interesse leggendo quelle righe. L’articolo occupò una pagina intera dell’Espresso del 29 gennaio ‘78. Dopo aver premesso che «parlare

dei Servizi Segreti e sempre delicato, talvolta pericoloso», scrivevo tra l’altro: «E’

quanto mai strano che le nomine dei direttori dei due Servizi siano state

annunciate da un Governo che sapeva già di dover rassegnare due giorni dopo le

proprie dimissioni. Era proprio necessario mortificare gli uomini della Pubblica

Sicurezza che non solo non si sono lasciati coinvolgere in fenomeni di deviazione

dai principi democratici dello Stato, ma si presentano col sangue dei propri caduti

dal vicequestore Padovano, al maresciallo Bazzeca, alla guardia Palumbo?

...Possibile che il Ministro dell’Interno non abbia saputo o voluto indicare il nome

di un uomo proveniente dalla PS o di un altro tecnico altamente

specializzato?...Sarebbe veramente umiliante per lo stesso Governo e per il

Parlamento italiano se continuasse a circolare la voce che questa scelta é stata

necessaria perché altrimenti non sarebbe stato possibile il passaggio dell’archivio

dell’ex ufficio D del SID al SISDE. Ancor più grave é se questa scelta ha avuto

carattere punitivo per il processo di democratizzazione e di riforma che la Polizia

sta portando avanti. L’amarezza, lo sgomento e l’irritazione dei poliziotti sono

enormi! E quest’articolo vuol essere anche un’esortazione a stringere i denti

continuando sulla via della responsabilità e della collaborazione leale con tutte le

altre Forze dell’ordine». Burocraticamente l’articolo sembrò passare inosservato. Il suo peso doveva essere stato irrilevante. Dal Viminale il silenzio fu assoluto. Dopo qualche anno, entrambi i nomi dei due generali sarebbero emersi nell’indagine parlamentari della P2.

In concomitanza con la riforma dei ”Servizi”, dal gennaio al giugno dello stesso anno, dopo solo tre anni dalla sua costituzione benché avesse fatto registrare buoni risultati, l’Ispettorato Antiterrorismo fu inaspettatamente soppresso. Al suo posto veniva creato un nuovo organismo, l’UCIGOS, che ripeteva di fatto la struttura centrale dei vecchi ”Affari riservati”, mentre in periferia si ritornava ai soli Uffici Politici, ribattezzati per l’occasione DIGOS. I nuclei regionali di Santillo che, sganciati dalla diretta dipendenza dei singoli Questori, avevano permesso un’azione informativa e operativa più coordinata e globale, vennero sciolti. Lo stesso Santillo che sembrava essere caduto improvvisamente in disgrazia, promosso alla formale quanto svuotata carica di vice-capo della Polizia, venne di fatto relegato in una stanza del Viminale. Pagava forse le prime informative sulla P2 da lui inviate ai giudici di Firenze e Bologna? «Sembra un leone in gabbia» dicevano il commissario Ferrigno e l’appuntato Parisi, i soli che avevano potuto seguirlo. «A molti questa procedura era apparsa come un frettoloso

allontanamento di Santillo. Un fatto é certo, dal l3 gennaio al 27 giugno ’78,

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giorno in cui il SISDE si insediò nei locali di Via Lanza, il servizio informativo del

Ministero dell’Interno fu praticamente inesistente. Durante quel periodo si

sviluppò la tragedia del sequestro e l’uccisione di Aldo Moro», avrebbe scritto lo storico De Lutiis.

Mentre alcuni dei funzionari più fortunati dell’Antiterrorismo erano riusciti a farsi assegnare al SISDE o agli uffici politici, altri erano stati trasferiti altrove, disperdendo anche il loro patrimonio di professionalità ed esperienza. Così ad esempio il Capo del nucleo regionale toscano, Joele, fu inviato al commissariato di Sesto Fiorentino, quello del nucleo lombardo, Plantone, alla Criminalpol di Roma, e il commissario Esposito dell’Antiterrorismo di Torino, benché avesse chiesto di passare al SISDE, al commissariato Genova-Nervi. Lo stesso avvenne per diversi dei loro collaboratori. Ciò non era però sfuggito alle Brigate Rosse e a Prima Linea ben più attente dell’Amministrazione. Il l0 maggio a Torino, mentre aspettava l’autobus, il maresciallo Rosario Berardi, trasferito dal nucleo regionale piemontese, venne freddato con sette colpi di pistola; il l7 maggio Roberto Di Martino, anch’egli già di quel reparto, venne gravemente ferito. Il 2l giugno a Genova, su un autobus gremito dalla gente di ogni giorno venne crivellato di colpi il commissario Esposito. Avevo avuto modo di lavorare con questo giovane collega intelligente e schivo. Era stato il primo a iniziare con certosina pazienza meticolose indagini sulle carte d'identità scomparse dai vari Comuni d’Italia e con cui i terroristi avrebbero potuto ricostruirsi personalità. I risultati erano stati sorprendenti. Il pensiero di questi colleghi, alcuni già uccisi, altri in pericolo mi turbava profondamente.

In questo contesto un ricordo ancor oggi mi riempie di commozione. Qualche giorno dopo la morte di Esposito, in Piazza dei Caprettari, avevo incontrato l’onorevole Ugo La Malfa, allora vice-presidente del Consiglio. La sede del partito repubblicano si trovava infatti alla fine di via Monterone, a due passi da casa mia, proprio di fronte all’ufficio postale dove era stato ucciso l’agente Marchisella. Ero solito fermarmi un po’ con i giovani poliziotti di servizio nello stesso posto dove il collega era caduto, rivolgendo loro parole di incoraggiamento e consigli professionali. Già in diverse occasione avevo incrociato quell’anziano statista dal viso triste e pensoso. Avevamo preso a salutarci cortesemente. Quella mattina cominciammo a parlare. Conosceva il mio nome, disse, e sapeva del mio impegno. Il discorso era poi caduto sul terrorismo: le mie considerazioni dovettero interessarlo molto giacché mi invitò a seguirlo nel suo ufficio. Ascoltava con attenzione. A un certo punto convocò per telefono qualcuno. Dopo qualche istante apparve l’onorevole Oddo Biasini: «Ascolta anche tu un commissario che vive

sulla pelle certe vicende!». Al termine dell’incontro chiese se potevo preparargli un breve appunto, anzi, corresse, «una lettera, a mio nome, per il Presidente del

Consiglio!». Imbarazzato promisi. La sera passai diverse ore a redigere sinteticamente le considerazioni più importanti e la mattina dopo gli consegnai personalmente una lettera di due fogli indirizzata all’allora presidente Andreotti. Mi strinse la mano, ringraziandomi, con un cenno di sorriso sul viso solcato da rughe profonde. Non so cosa avvenne di questo mio scritto. Resta il fatto che qualche mese dopo, nel gennaio ’79, nella mia nuova sede di servizio in Francia, avrei ricevuto alcune righe di grato ricordo da questo statista che gli Italiani apprezzavano per la sua saggezza e il suo rigore morale.

Una decisione sofferta

L’annuncio di essere stato prescelto dal Segretario Generale dell’Interpol quale ufficiale di collegamento europeo nel settore antidroga se da una parte mi riempì d’orgoglio dall’altra mi pose dinanzi a un bivio decisionale. Era la prima volta che a un funzionario italiano veniva affidato tale incarico. Non accettare significava rinunciare a un’ occasione professionale prestigiosa ed estremamente utile per il nostro Paese. Accettare significava allontanarsi dall’impegno attivo della riforma proprio nella fase conclusiva delle battaglie condotte. Anche se le esortazioni che

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mi giungevano da molti poliziotti a restare alla guida del Movimento mi commuovevano, la via da seguire fu ben presto chiara. Avevo lottato proprio per una Polizia più efficiente e impegnata e ora avevo la possibilità irripetibile di poter dare un contributo nella lotta contro il traffico internazionale di droga. Certo, in termini di proiezione politico-sindacale sarebbe stato più utilitaristico restare. II Movimento aveva vinto. La riforma era ormai alle porte e presto il sindacato di polizia si sarebbe organizzato ufficialmente come struttura di potere, con propri Capi. Ero stato uno dei pionieri di quelle lotte, sicuramente il primo funzionario che aveva gettato alle ortiche la propria carriera per essere accanto a guardie, appuntati, sottufficiali per il riscatto della dignità di tutti, come uomini, come professionisti, come cittadini. Questo i poliziotti ”di base” lo sapevano.

Avevo avuto la fortuna di vivere un importante momento dell'evoluzione socio-culturale del nostro Paese, di poter illustrare il bisogno di democrazia nella P.S. a Sandro Pertini e a tanti uomini , così profondamente impegnati nell’agone politico, da Berlinguer a La Malfa, da Bozzi a Terracini, da Lombardi a Cossiga, da Pecchioli a Craxi, da Galloni a Mammì, da Lama a Macario, da Storti a Benvenuto, da Ravenna a Carniti. Avevo sempre esposto le idee del Movimento senza alcuna preferenza per questo o quel partito, questa o quella confederazione sindacale, ma sempre con riferimento alla professionalità dei poliziotti ed al loro ruolo nella società. Talora magari con considerazioni non sempre gradite da tutti. Ad esempio come quando nel corso della presentazione alla stampa da parte di parlamentari PCI del proprio progetto di legge ero intervenuto per esprimere riserve sul rischio di nuova militarizzazione insito in alcuni articoli riguardanti le scuole di polizia, o come quando avevo contrastato gli autorevoli sindacalisti che volevano un comunicato ufficiale del Movimento durante il caso Moro: i poliziotti - avevo sostenuto – dovevano contribuire alla soluzione di quel tragico evento solo facendo meglio il proprio lavoro, e Dio sapeva c’era bisogno. Certo questa mia attitudine diventava sempre più difficile e isolata man mano che i colleghi più impegnati del Movimento rompendo l’impegno di apartiticità che avevamo fatto, si schieravano o meno apertamente. Credo comunque che tutti, al di là delle diverse ideologie, approvassero lo spirito ideale e la fede che traspariva dalle mie parole: una Polizia senza sponsorizzazione di parte, ma al servizio esclusivo dei cittadini e della legge. Su questi valori ero divenuto un punto di riferimento per molti poliziotti. Partire per la Francia, avrebbe significato – lo sapevo – non raccogliere in termini personali il frutto di quelle battaglie pagate spesso sulla pelle. Ma ero un poliziotto e non un sindacalista o un politico! Dopo una settimana di sofferto dilemma, scrissi all’Esecutivo Nazionale la mia scelta: da tutti loro avevo appreso tanto in tema di dignità, diritti dell’uomo e democrazia. Pur non essendone obbligato rassegnavo le mie dimissioni dall’Esecutivo per facilitare l’ingresso di un altro collega al mio posto. Potevano comunque sempre contare sul mio impegno nel Movimento! Com’erano profetiche le parole di Vitulano, sindacalista della CISL: «Caro Ennio,

vedrai come sarà facile dimenticare quel che hai fatto! Qui si va verso posizioni di

potere!». Era tanto vero che già qualcuno cominciava a insinuare che quella mia partenza era il prezzo pagato dall’Amministrazione per tacitarmi, giacché all’estero avrei guadagnato cifre favolose! Soltanto io sapevo quante difficoltà avevo incontrato con Macera per poter partire. La situazione si era sbloccata solo quando avevo espresso la mia intenzione di inoltrare un ricorso amministrativo al TAR se mi fosse stato imposto di non accettare quel posto vinto all’Interpol senza dover dire grazie a nessuno. D’altro canto l’Italia non avrebbe speso una lira in più per me. Avrei infatti ricevuto direttamente dal Segretariato Generale un’indennità per quell’incarico: indennità il cui ammontare era la metà di quella che un usciere o semplice carabiniere percepisce presso una qualsiasi Ambasciata all’estero! Prima di partire chiesi e venni ricevuto dal ministro Rognoni che, sensibile alle esigenze della cooperazione internazionale, complimentandosi per quel successo italiano mi rivolse un augurio di buon lavoro.

Ero fiero dell’incarico, ma anche del contributo che avevo potuto dare sino ad

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allora: la riforma era in Parlamento, il Sindacato era ormai un fatto. La deburocratizzazione inoltre era già avviata: dal l° gennaio di quell’anno la competenza amministrava per guide turistiche, facchini, alberghi...passava per legge ai comuni ed alle Regioni. Infine, per la prima volta nella storia della Polizia del dopoguerra, un sogno si era verificato: dal novembre ’77 al suo vertice era stato nominato un poliziotto, il questore Giuseppe Parlato. Col cuore traboccante di nostalgia, curiosità, timore per le responsabilità del nuovo lavoro, il l8 ottobre ’78, a bordo della vecchia e fedele Alfa carica di valigie, varcai la frontiera per raggiungere la nuova sede di servizio a Saint-Cloud, Francia.

IX. Presso il Segretariato Generale dell’Interpol a Saint-Cloud in Francia

Un’Organizzazione tra ideale e realtà

Il nome Interpol sin dai tempi della giovinezza mi aveva affascinato. Evocava in me quasi un “centro di giustizia universale” formato dai migliori investigatori dei vari Paesi che, pieni di ardimento, da un capo all’altro del mondo svolgevano indagini complesse e pericolose contro astuti delinquenti internazionali. Dopo anni di servizio quell’immagine, sia pur ridimensionata, continuava a esercitate una notevole attrattiva. Fu quindi con animo pieno di aspettative ed entusiasmo che iniziai la nuova esperienza professionale in quell’Organismo prestigioso.

Il nome “OIPC- IN TERPOL”, cioè ”Organizzazione Internazionale di Polizia Criminale”, trae la sua origine dalla preveggente intuizione avuta dal principe Alberto I di Monaco. Nel lontano l9l4, questo umanista, scienziato e sociologo, aveva invitato a congresso nel piccolo Principato i rappresentanti delle Polizie di l4 Paesi convincendoli della necessità della reciproca cooperazione dinanzi a una criminalità che già non conosceva frontiere. In particolare aveva proposto la creazione di un archivio centrale internazionale, l’unificazione di procedure estradizionali, la standardizzazione di metodi di identificazione, la tempestività di collegamenti sistematici. Questi principi scaturiti da esigenze reali si sarebbero affermati, superando anche il travaglio delle due guerre mondiali. Nel settembre l923 si era svolto a Vienna il II° Congresso, allargato già ad altri Paesi. In tale occasione la sede dell’Organizzazione venne stabilita nella capitale austriaca, dove sarebbe rimasta fino al l942, data in cui con una forzatura procedurale da parte delle autorità del “Terzo Reich” venne trasferita a Berlino. Dopo il secondo conflitto mondiale, durante il quale gli archivi Interpol furono sfruttati dalla Germania nazista per ben altri fini che la lotta al crimine, la sede fu trasferita a Parigi.

L’Organizzazione é divenuta oggi una ricca e potente struttura, conosciuta ovunque col nome telegrafico INTERPOL, a cui aderiscono più di l50 Paesi di tutto il mondo. Questa evoluzione la si deve soprattutto alla fede e alla tenacia di un funzionario di polizia francese, Jean Nepote, che dopo le gravi vicissitudini e deviazioni della seconda guerra mondiale ne ricompose i frammenti dirigendola per quarant’anni come Segretario Generale. Ma nel contempo, forse proprio il numero crescente degli Stati membri (ciascuno con ben diversa struttura e cultura professionale), la non altrettanto crescente capacità di adeguamento organizzativo, nonché la sempre maggiore anche se non palese politicizzazione, hanno fatto sì che l’intento originario di porsi come un agile strumento tecnico, informativo ed operativo fra le diverse polizie si sia diluito, dando luogo a una realtà pletorica e burocratica, talora paralizzante. Oggi infatti il Segretariato Generale svolge quasi esclusivamente la funzione, pur importante ma non certo sufficiente nella lotta contro il crimine organizzato, di centro di comunicazione e di archivio internazionale. Esso agisce inoltre come promotore di periodiche riunioni assembleari a Saint-Cloud o altrove, nel corso della quali vengono dibattuti problemi di carattere generale che preludono per forza di cose a decisioni minimali o di mero principio, tali da soddisfare tutti i Paesi. Basti pensare alla completa inerzia teorica e pratica avuta per tanto tempo dall’Organizzazione nei confronti del terrorismo.

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La sede del Segretariato Generale si trova dal l960 a Saint-Cloud, una quieta cittadina residenziale, a circa l5 chilometri da Parigi. Il palazzo, con la sua grigia struttura in cemento armato sovrastata da scheletriche antenne, mal si inquadra con l’armonia del paesaggio boschivo dai colori cangianti, dove si annidano ville dai tipici tetti spioventi e dalle facciate tratteggiate da calde travi di legno. In essa lavorano circa duecentocinquanta persone di cui soltanto una sessantina sono funzionari di polizia. Il resto é costituito da personale di supporto via via reclutato sul posto mediante inserzioni sui vari quotidiani. Questo ha determinato nel tempo un sensibile affievolimento della specifica consapevolezza professionale e qualche pericoloso inconveniente. Un esempio: presso l’archivio contenente importanti e delicati dossier, su venti persone addette, soltanto una è poliziotto.

L’organigramma comprende tre Divisioni: Affari Generali, Studi, Polizia Criminale. Quest’ultima costituisce il vero fulcro dell'Organizzazione e si articola a sua volta in diversi uffici, tra cui la Sottodivisione Stupefacenti fiore all’occhiello dell’Interpol. Benché costituita solo da una ventina di persone, è l’ufficio numericamente più consistente e professionalmente più qualificato. Oltre al budget normale infatti la Sottodivisione può contare su un apporto finanziario specifico. Ciò da quando nel l974 i diversi Paesi europei, preoccupati dalla crescente invasione di droga proveniente dagli altri continenti, decisero di pagare il 20% in più delle loro quote ordinarie per finanziare il cosiddetto ”Piano SEPAT”, programma europeo di lotta al traffico di stupefacenti. Esso prevede il reclutamento, tramite selezione internazionale, di sei “ufficiali di collegamento” scelti tra funzionari di polizia europei specializzati nel settore. A costoro é demandato il compito di creare i contatti fra i vari Servizi antidroga, studiare le dinamiche e le caratteristiche del traffico verso il nostro continente, individuare le maggiori organizzazioni criminali internazionali.

Era stato un privilegio per me essere stato prescelto in quell’ottobre 78, dallo stesso Jean Nepote, il quasi leggendario Segretario Generale che da lì a qualche mese sarebbe andato in pensione. Appena giunto, dopo aver preso alloggio in un piccolo albergo nei pressi della stazione Saint-Lazare, mi presentai a lui e agli alti della gerarchia: il francese André Bossard e l’inglese Raymond Kendall, dirigenti rispettivamente della Divisione Affari Generali e della Divisione Criminale. Uno dei due avrebbe dovuto presto prendere il posto del vecchio Capo. C’era una febbrile aria di preparativi e di sottile competizione in vista dell’Assemblea Generale che si sarebbe svolta a dicembre in Spagna e avrebbe consacrato quella successione. Il francese Bossard, a discapito dell’inglese Kendall, sarebbe tornato Segretario Generale.

I primi tempi a Saint-Cloud furono naturalmente di ambientamento, in un’atmosfera abulicamente distaccata. I nuovi funzionari, a parte alcuni indispensabili adempimenti amministrativi svolti dal ”Servizio del personale”, erano abbandonati di fatto a sé stessi sia dal punto di vista logistico che professionale: e ciò con tutti i problemi che da una parte l’approccio a una metropoli come Parigi e dall’altra l’inserimento in un nuovo sistema di lavoro comportavano. Avrei visto colleghi del Senegal, della Turchia, della Tailandia, dell’America latina di fronte a serie difficoltà per le proprie famiglie. Per fortuna tra i colleghi più anziani della Sottodivisione Stupefacenti c’era un funzionario della polizia francese, Jean-Baptiste Grasset, che costituiva un punto di riferimento. Generoso e ospitale, era sempre disponibile a dare una mano a tutti. Già ispettore della ”Brigade Mondaine”, la nostra ”Buon Costume”, conosceva Parigi come le sue tasche ed era ovunque benvoluto. Grazie lui, dopo tre lunghi mesi, riuscii infine a trovare una simpatica monocamera o “studiò” come dicono i francesi, nel pittoresco quartiere di Saint-Germain-des-Prés. Qui avrei trascorso momenti indimenticabili della mia vita. Le luci, i colori, gli spazi, la stessa aria di Parigi, mi sarebbero entrati nel cuore.

L’inserimento nel nuovo lavoro mi lasciò alquanto perplesso, la Sottodivisione era

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diretta, quando arrivai, da un funzionario britannico di Hong Kong, che di lì a qualche mese sarebbe stato sostituito da un americano della DEA di Washington, Walter Leamy. Eravamo in tutto una quindicina: il tedesco Summer, lo svedese Littas, e il francese Grasset erano i veterani del gruppo dei sei ufficiali di collegamento del piano SEPAT, mentre il danese Madsen, lo spagnolo Fernandez e io, i nuovi arrivati. Gli altri erano funzionari inviati a spese dei rispettivi Paesi: Olanda, Turchia, Pakistan, Hong Kong, Uruguay, Norvegia, Senegal etc. e diversi si sarebbero succeduti negli anni successivi. Tre segretarie e due ispettori francesi in pensione completavano l’organico. Tutti, a parte il Capo della Sottodivisione, eravamo sistemati poche anguste stanze. Fu un duro apprendistato. Si imparava un po’ alla volta, per prassi, senza alcun criterio di inserimento. Gradualmente, grazie anche ai preziosi consigli di Grasset, mi impadronii dei meccanismi e delle tecniche di lavoro, preoccupandomi di migliorare a mie spese la conoscenza dell’inglese, del francese e dello spagnolo, le lingue ufficiali dell’Organizzazione oltre l’arabo. In sostanza, presso il Centro Trasmissioni, giungevano quotidianamente centinaia di telegrammi o messaggi radio da parte delle Sezioni Interpol dei vari Paesi membri. Di qui tali note passavano in archivio e, con i fascicoli impiantati ex novo o con quelli già esistenti, venivano distribuite ai vari funzionari a seconda dell'area geografica dove l’arresto o il sequestro di droga era avvenuto. Ciascun funzionario doveva quindi dedicarsi allo studio, all’analisi dei diversi dossier, fornendo le eventuali notizie utili ricavate alle polizie interessate. Accanto a questo importante lavoro di ”intelligence” egli doveva svolgere da solo anche una serie di piccoli adempimenti materiali, dalle annotazioni statistiche (anche per pochi grammi di droga) alla battitura dei telegrammi nelle lingue più agibili per i Paesi destinatari. La differenza di esperienza e professionalità , la diversità stessa delle lingue, nonché il diverso approccio culturale al problema “droga” non favorivano certo un clima di affiatamento operativo. Il coordinamento, sia sul piano umano che professionale, non era neppure agevolato dal nuovo Capo, l’americano Leamy, uomo dal carattere difficile che in tutti quegli anni non avrebbe fatto neppure il minimo sforzo per apprendere un po’ di francese accettabile o almeno rendere comprensibile ai non anglofoni il suo masticato slang. Così come la Divisione era organizzata, il lavoro veniva distribuito quasi esclusivamente tra i sei ufficiali di collegamento, mentre gli altri si limitavano a trattare i pochissimi fascicoli relativi ai pochi sequestri segnalati dai propri Paesi. Lavoravo con impegno per dare il mio contributo a quella lotta impari contro i trafficanti internazionali. Credevo alla cooperazione delle diverse polizie e sapevo quanto essa fosse preziosa per il nostro Paese colpito così gravemente dalla piaga della droga. Ero convinto che il mio lavoro poteva e doveva aiutare tutti quei poliziotti che dovunque, e soprattutto in Sicilia, lottavano ogni giorno contro la ”piovra” che affondava i suoi insaziabili tentacoli sulla pelle di tanti giovani. Era un impegno morale verso quanti erano già caduti per arginare quel traffico di morte: come Boris Giuliano, amico e collega, che nel ’79 era stato freddamente ucciso da un killer in un bar di Palermo. In diverse occasioni, anche dopo il mio arrivo a Saint-Cloud, avevamo avuto modo di confrontare le nostre idee. Ero rimasto ammirato dal suo coraggio e dalla sua lucida analisi professionale. Primo forse tra tutti i poliziotti antidroga italiani aveva intuito l’importanza del filone finanziario e aveva alzato il livello delle indagini. L’occasione gli era stata data ben presto:il sequestro nell’aeroporto di Punta Raisi di una valigia proveniente dagli Stati Uniti, piena di centinaia di migliaia di dollari. Mettere il naso negli allora inesplorati santuari di banca gli era stato fatale.

Con questa fede professionale e morale, avrei lavorato per oltre cinque anni a Saint-Cloud. Esaminavo con attenzione ogni fascicolo, cercando di ricostruire per ciascun arresto o sequestro di droga segnalato gli eventuali collegamenti criminali, le nuove strategie e i cangianti itinerari del traffico. Era un interessante lavoro di tessitura, talora dai risvolti imprevedibili. La mia presenza, proprio come funzionario italiano, si rivelò ben presto preziosa, considerando che non c’era caso di rilievo in cui purtroppo non emergessero collegamenti con la criminalità di casa

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nostra. Funzionari di polizia e ufficiali dei Carabinieri e della Guardia di Finanza di numerose città d’Italia avrebbero presto sperimentato l’utilità di quella posizione strategica. Sempre più spesso sia i colleghi della Sottodivisione dell’Interpol e sia dirigenti dei Servizi Antidroga di numerosi Paesi, mi chiedevano di attivare la collaborazione della Polizia italiana su casi specifici. L’impegno che prodigavo per fornire in tempi brevi le notizie e l’aiuto necessario fu ben presto apprezzato. Nacquero così rapporti di stima e intesa professionale con gli altri ufficiali di collegamento. D’iniziativa spesso ci riunivamo per costruttivi scambi d’idee su quel che avveniva nelle rispettive aree di competenza e su quanto si poteva fare per migliorare il servizio. Fu proprio nel corso di una di tali riunioni che Walter Leamy accolse la proposta di organizzare il lavoro non solo per aree geografiche, ma anche per gruppi specializzati secondo tipologia di droga: morfina, eroina, cocaina, hashish e droghe sintetiche. Questo ci avrebbe permesso di approfondire le caratteristiche relative alla produzione, al mercato, agli itinerari, nonché ai clan criminali operanti prevalentemente per ciascuna di esse. Avrebbe inoltre dato modo di impegnare più attivamente nell’attività della Sottodivisione anche gli altri funzionari utilizzandone le specifiche competenze ed esperienze, contrariamente a quanto avveniva nel sistema precedente. A me, pur mantenendo inalterato il ruolo di collegamento con i servizi di Francia, Monaco, Malta e naturalmente Italia, venne assegnata la direzione di un “gruppo di lavoro sulla cocaina”. Benché fossimo solo tre, con lo spagnolo Fernandez e l’uruguaiano Vas Bresque, fu possibile approfondire in maniera compiuta e certamente per la prima volta, quel che accadeva intorno a tale droga: dal momento della coltivazione delle piante sulle selvagge distese delle Ande, a quello della raccolta delle foglie e della trasformazione in polvere da parte dei campesinos e infine a quello del traffico e della diffusione nelle varie città soprattutto del Nord America e d’Europa. Ne venne fuori un quadro preoccupante di progressiva invasione di questo veleno bianco nel vecchio continente. Il rapporto da me preparato e illustrato nel corso della riunione regionale dei Capi dei Servizi Antidroga europei svoltasi a Saint-Cloud nel l98l venne accolto con interesse. Accanto agli aspetti tipici di polizia su operazioni compiute, organizzazioni individuate, itinerari e profili dei corrieri, esso conteneva anche considerazioni di ampia portata socio-criminogena. La sua validità sarebbe stata ampiamente condivisa anche dal giudice Giuseppe di Gennaro, direttore del Fondo per la lotta alla droga delle Nazioni Unite.

La fede nella cooperazione internazionale e l’impegno profuso in ogni singolo caso si sostanziavano in rapporti, telegrammi, telefonate che dal mio posto di lavoro partivano incessantemente alle polizie di volta in volta interessate. Nacquero o si consolidarono rapporti di reciproca stima con più prestigiosi Capi dei Servizi Antidroga e Sezioni Interpol dei vari Paesi. Non di rado mi giungeva l’eco dei complimenti che talora essi rivolgevano al Segretario Generale Bossard, al suo vice Kendall nonché al Capo della Polizia Coronas, e ai direttori della Criminalpol e del Servizio Centrale Antidroga, Nicastro e Sabatino, per il lavoro da me svolto. E non posso non ricordare quelli dell’On. Di Carlo, delegato della Casa Bianca per i problemi della droga, dopo aver ascoltato una mia relazione sul crimine organizzato.

Un pizzico di italianità

Sin dai primi tempi, rendendomi via via conto delle notevoli potenzialità professionali e strategiche dell’Organizzazione, mi ero amaramente stupito di quanto poco attenta e imprevidente fosse stata e fosse la nostra Amministrazione nel non aumentare e valorizzare la presenza italiana presso il Segretariato Generale. Infatti ancora a fine ’78, mentre il nostro Paese vacillava sotto gli attacchi di una criminalità sanguinaria che metteva in pericolo le regole elementari della civile convivenza, tutta la Polizia italiana era rappresentata in seno al Segretariato Generale soltanto da un sottufficiale ivi distaccato dalla Divisione Interpol della Criminalpol Nazionale e avvicendato ogni due anni. Durante il mio periodo di permanenza avrei avuto modo di lavorare di volta in volta con i brigadieri

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Valentino Di Persio, Giuseppe Di Fonsi e Cesare Alessandroni, in sintonia di impegno professionale e amicizia. Sia essi che i loro predecessori hanno meritato per la loro serietà e preparazione unanimi consensi di stima e simpatia. Questo nonostante la precarietà della loro situazione: da una parte infatti la brevità del periodo da trascorrere ostacolava un adeguato inserimento in quella struttura e dall’altra il trattamento economico non agevolava certo loro la vita. Essi venivano infatti inviati a Saint-Cloud con l’indennità normale di missione che, già esigua di per sé, era destinata per anacronistici meccanismi amministrativi a ridursi progressivamente dopo il sesto mese fino a scomparire del tutto dopo un anno. Se si pensa che già la remunerazione iniziale era di gran lunga inferiore a quella di un usciere di un qualsiasi Consolato italiano in Francia, si può immaginare in quali difficoltà dovevano imbattersi questi bravi sottufficiali, i più con famiglia, in una città cara come Parigi. Così si ricorreva all’espediente dei rientri fittizi a Roma, onde evitare burocraticamente che la missione scomparisse del tutto. Questa situazione aveva determinato non solo che i sottufficiali designati non fossero proprio entusiasti di venir in Francia, ma non aveva sino ad allora permesso, e in quelle circostanze mai lo avrebbe, che un funzionario italiano si inserisse a livello di autorevole rappresentatività nei quadri direttivi del Segretariato sì da meglio seguire gli interessi della nostra Polizia.

Questa incomprensibile “sinecura” mi apparve ancora più assurda e colpevole quando, carpendo un po’ alla volta i segreti finanziari della ”Maison”, come si usava chiamare quel palazzo di Saint-Cloud, scoprii con sorpresa che l’Italia era uno dei cinque Paesi che con Francia, Inghilterra, Germania e Stati Uniti, contribuiva maggiormente alle pingui casse dell’Organizzazione con una quota annuale del tutto ragguardevole. Se a essa si aggiungeva quella per il piano antidroga europeo e si considerava che le quote erano in franchi svizzeri, l’Italia pagava più di tutti i l50 paesi membri Interpol e persino più degli Stati Uniti d’America. A fronte di questa sua generosità, essa era rappresentata soltanto da un sottufficiale in condizioni di ”sopravvivenza”, che per di più veniva utilizzato non nel settore più delicato o importante per la nostra Polizia, ma “ad libitum” della gerarchia del Segretariato e in particolare del Capo della Divisione Criminale. Infatti chissà per quale atavica soggezione internazionale persino per quell'unico sottufficiale da Roma non si osava chiedere una specifica e più razionale collocazione. Così i pur bravi brigadieri Di Persio e Di Fonsi vennero impiegati, dal ’78 all’ ’82, presso il “Gruppo falso monetario”, per verificare se le banconote da l00 mila lire, l0 dollari o 5 yen ’, sequestrate dalle varie polizie e ivi , fossero contraffatte o meno. Alla porta accanto invece il “Gruppo alta violenza” che si occupava anche di terrorismo ( di sfuggita essendo eresia all’epoca, per una rigida interpretazione statutaria, parlare di tale forma di criminalità ) era diretto da un funzionario della Norvegia succeduto a uno di Hong Kong !

Sembrava quasi che nessuno dei dirigenti che negli anni si erano succeduti alla guida della Divisione Interpol della Criminalpol avesse mai osato affrontare o quanto meno rappresentare superiormente questa impensabile carenza della Polizia italiana e la più generale mancanza di incisività della sua azione in campo internazionale. Quasi che non apparisse sempre più evidente che il nostro Paese stava diventando il ricettacolo di criminali di ogni nazionalità e specializzazione, per non parlare delle sotterranee interconnessioni col terrorismo di mezzo mondo e col traffico internazionale di droga ed armi! Tutto ciò forse nel rispetto del principio, sacro in tutte le Amministrazioni dello Stato, per cui non è molto ”salutare” presentare problemi ai Capi che vogliono sentirsi dire più volentieri «tutto va bene». Soltanto che il quieta non movere in questo campo si pagava con la sicurezza dei cittadini e col rischio dei funzionari impegnati a difenderla. Era paradossale questa attitudine della nostra Amministrazione proprio mentre la democrazia italiana continuava a bagnarsi del sangue di tanti suoi valorosi custodi!

Negli ultimi mesi del ’78, ancora sconvolto dalla tragedia Moro, erano caduti sotto il piombo dei terroristi rossi a Roma e Frosinone i magistrati Girolamo Tartaglione

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e Fedele Calvosa ed a Napoli il criminologo Alfredo Paolella. Il 24 gennaio del ’79, in nome di chissà quale proletariato, le BR avevano ucciso, dinanzi alla fabbrica che lo aveva visto protagonista di tante lotte sindacali, l’operaio Guido Rossa. Cinque giorni dopo, a Milano, killer di Prima Linea spegnevano vigliaccamente Emilio Alessandrini. Mi era giunta quella tremenda notizia durante una riunione dei colleghi di altri Paesi, a Saint-Cloud. Il vicequestore Giovanni Costa della Criminalpol, amico comune, da Roma aveva voluto subito avvisarmi. Ero uscito in lacrime, con negli occhi e nel cuore ancora il viso sereno di Emilio. Affetto e stima cementavano un’amicizia profonda, assoluta, in comunanza di ideali per una società migliore. Ci eravamo rivisti a Pescara poche settimane prima, con altri compagni di liceo tra cui i giudici Angelini e Zincani, per le feste di fine d’anno. Il giorno dell’Epifania lo avevo accompagnato alla festicciola che pieno di gioia e fierezza, aveva organizzato per il figlio Marco. Lo avevo osservato giocare con tenerezza con quel ragazzo vivace dal suo stesso sguardo profondo. Certo doveva aver lui nel cuore quel mattino nebbioso quando quei colpi di pistola li avevano separati per sempre. Come quotidianamente faceva lo aveva accompagnato da poco a scuola e stava proseguendo verso il suo ufficio della Procura della Repubblica. Lo attendevano fascicoli scottanti, da quelli su Sindona e Calvi a quelli sulle Brigate Rosse, da quelli su Autonomia e Toni Negri a quelli sulla strage di Piazza Fontana. Proprio per questa indagine, tornata per alcuni aspetti a Milano, aveva inviato mandati di comparizione per i giorni successivi ad alcuni di quei politici di cui la televisione aveva mostrato, durante il processo di Catanzaro, i visi lividi e le labbra tremanti. Tutta l’Italia onesta avrebbe pianto questo suo magistrato dallo sguardo dolce e triste. Anche i suoi assassini perdevano con lui un difensore di libertà e giustizia.

Ancora nel ’79 a quella già lunga fila di morti si sarebbero uniti a Roma i poliziotti Antonio Mea e Piero Ollanu uccisi durante l’assalto alla sede della DC di piazza Nicosia, e il valoroso e sempre sorridente colonnello Antonio Varisco del Nucleo Carabinieri al Palazzo di Giustizia, amico caro dai tempi della ”Mobile” romana. Poi ancora nell’ ’80 tanti altri, dal vice-presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, Vittorio Bachelet, al generale Enrico Galvaligi, dai giudici Girolamo Minervini, Mario Amato e Guido Galli al giornalista Walter Tobagi. Il 2 agosto dello stesso anno una bomba nera avrebbe scritto un’altra pagina di orrore per questo nostro Medio Evo di civiltà, uccidendo a Bologna 85 persone e ferendone altre 200. Accanto a questa fila di eroi caduti sotto il piombo terrorista, si allungava anche quella degli uccisi da una criminalità organizzata sempre più spietata, dalla mafia alla camorra. Così, mentre presso il Segretariato Generale, il boss Frank Coppola, riacquistava – come vedremo- una verginità giudiziaria, poliziotti, magistrati, carabinieri, cadevano dilaniati dalla ”lupara”: nel ’79 il brigadiere Filadelfio Aparo, investigatore della Mobile di Palermo, poi il suo stesso capo, commissario Boris Giuliano, e il giudice Cesare Terranova, appena tornato dall’arena politica di Montecitorio a quella giudiziaria della sua tormentata Sicilia, con l’inseparabile maresciallo Lenin Mancuso. E nell' '80, il capitano dei Carabinieri Emanuele Basile col brigadiere Bommarito, e ancora il procuratore della Repubblica Gaetano Costa. E nell’ ’82 le due file di questi martiri si sarebbero quasi incrociate con la barbara uccisione a Napoli del Capo della Mobile, Antonio Ammaturo. Qualche filo infatti avrebbe ricondotto al precedente contorto sequestro di Ciro Cirillo, l’esponente democristiano partenopeo liberato dopo una grigia trattativa ”multilaterale” tra Brigate Rosse, camorra cutoliana, sottobosco politico e un pizzico di ”Servizi Segreti”. E nel settembre dello stesso anno il massacro del generale dei Carabinieri, Carlo Alberto Della Chiesa e della giovane moglie Emanuela in via Carini a Palermo, avrebbe alzato qualche velo politico, subito ricaduto.

Opera di sensibilizzazione

Convinto della necessità che si dovesse potenziare la presenza italiana presso il Segretariato Generale, avevo iniziato una lenta quanto persistente opera di

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sensibilizzazione sia all’interno della ”Maison” di Saint-Cloud che verso i vertici del Viminale. Non perdevo occasione per inserire qualche nota in tal senso nelle relazioni che di volta in volta inviavo al Servizio Centrale Antidroga. Per ciò avevo preparato, cosa mai fatta prima, un breve studio storiografico e organizzativo dell’Interpol e del Segretariato Generale, nonché un documento comparativo sulle contribuzioni dei diversi Paesi membri. Esso, basato su documenti che non mi era stato facile reperire, mostrava la macroscopica sperequazione della presenza e del peso italiano a Saint-Cloud rispetto al notevole contributo finanziario versato. Cominciai a trovare una certa attenzione nel prefetto Renato Nicastro, da poco succeduto a Macera alla Criminalpol, e nel dottor Sabatino. Questi, dapprima subentrato a Provenza alla guida della DAD, sarebbe divenuto presto il Capo del nuovo Servizio Centrale Antidroga (SCA) voluto dalla legge di riforma della Polizia. Ma una circostanza occasionale ebbe un peso rilevante in questa opera. Nell’ottobre dell’8l, ero stato convocato urgentemente al Viminale dal prefetto De Nozza, capo del Servizio personale civile di polizia, per esaminare un aspetto burocratico che secondo lui avrebbe dovuto determinare il mio rientro anticipato a Roma. Quell’allarme si rivelò amministrativamente inesistente ma fu positivamente propiziatore. Infatti il capo della Polizia Rinaldo Coronas, che da un anno circa aveva sostituito Parlato, volle vedermi. Quando, alla presenza dell’ormai imbarazzato De Nozza, mi chiese quale servizio esattamente svolgessi e quale fosse la situazione organizzazione Interpol, inarcò le sopracciglia alla mia risposta: voleva che gli parlassi come uno dei tanti interlocutori intimiditi o voleva conoscere come realmente stavano le cose? «Parli da funzionario di polizia», invitò. Già Capo di Gabinetto del Ministro Rognoni, dal momento della sua nomina era profondamente impegnato ad avviare concretamente la legge di riforma della Polizia, approvata il l° aprile di quell’anno. Non mi sembrò vero esporre quel che pensavo: sarebbe stato utile procedere in due direzioni. Da una parte elevando di livello la Divisione Interpol della Criminalpol: ciò avrebbe consentito un potenziamento di organico e una maggiore forza d’azione. Dall’altra sarebbe stato indispensabile rendere più incisiva la presenza italiana presso il Segretariato Generale dove il nostro Paese, pur pagando più degli Stati Uniti, era considerato quasi come un’entità del Terzo Mondo. Dopo aver ascoltato con estrema attenzione, mi ringraziò affermando con semplicità che ignorava molti di quegli aspetti di cui aveva preso nota e assicurando che sia lui che il ministro Rognoni erano sensibili al tema della cooperazione internazionale nella lotta al crimine. Poi parlando con calore della riforma, andò verso un tavolo vicino illustrando una grande ”maquette” della futura Scuola di Polizia di Nettuno che sarebbe stata – aggiunse con fierezza – la più moderna ed accogliente d’Europa. Infine mi congedò con uno schietto: «Buon lavoro commissario, a presto!».

Avrei avuto ben presto la dimostrazione della sua statura umana e manageriale! Di lì a pochi giorni il Segretario Generale Bossard avrebbe ricevuto una sua lettera personale in cui riconfermava il mio incarico a Saint-Cloud, faceva presente l’attenzione con cui egli e quindi l'Amministrazione italiana, seguiva ogni sforzo di collaborazione internazionale e preannunciava una sua visita. Dopo qualche settimana, a fine novembre, avrei ricevuto da Roma una telefonata da parte del direttore dell’UCIGOS, prefetto De Francisci: il Capo della Polizia e lui stavano partendo per Parigi in occasione della riunione del ”Club dei 5”, cioè dei Ministri dell’Interno di Francia, Italia, Inghilterra, Svizzera ed Austria. Coronas aveva riservato parte del suo programma per una visita al Segretario Generale. Organizzai l’incontro con Bossard. Il mattino successivo l’emozionatissimo brigadiere Di Fonsi e io eravamo all’hotel dove era scesa la delegazione italiana, formata anche dai vicequestori Buzzanca e Ludovici. Stupendoci ancora una volta per la sua semplicità, Coronas, dopo aver congedato l’autista che la polizia francese gli aveva messo a disposizione e salutato il resto della delegazione, salì sulla logora ll00 di Di Fonsi. Durante il viaggio verso Saint-Cloud, ebbe modo di leggere una breve relazione che gli avevo preparato, di pormi delle domande e ascoltare alcune considerazioni. Era quella l’occasione - gli dissi – per poter strappare un posto di

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rilievo per l’Italia presso il Segretariato Generale: quello di ”Capo del gruppo alta violenza” che si stava rendendo vacante per il rientro in patria del funzionario norvegese. Avevo fatto qualche cauto sondaggio e c’era la probabilità che se la richiesta fosse stata avanzata attraverso la sua autorevolezza, nonostante gli altri Paesi avessero fatto le loro avances, nessuno avrebbe osato rifiutare. Così sarebbe stato! Bossard venne ad accoglierci all’ingresso della ”Maison”: era la prima volta negli annali che un Capo della Polizia italiana si recava a visitare il Segretariato Generale dell’Interpol. L’incontro si svolse con grande cordialità. Le parole di Coronas vibravano di classe, forza e professionalità e noi le ascoltavamo con fierezza. Abilmente avanzò la richiesta e Bossard, preso quasi alla sprovvista, si disse lieto di affidare quel posto delicato ad un funzionario italiano. Con una coppa di champagne e un brindisi alla cooperazione internazionale, terminò quell’incontro eccezionale. Tornati in hotel, Coronas ci ringraziò e ci diede appuntamento di lì a due giorni, al termine del suo impegno ufficiale. Ci avrebbe stupito ancora una volta: invitò a pranzo a sue spese tutta la delegazione italiana, chiedendo poi che lo accompagnassimo a visitare il Centro Pompidou, nel cuore del Marais: e ciò viaggiando in metropolitana, giacché rifiutò ancora di utilizzare l’auto di servizio! Dopo qualche giorno, su invito del Segretario Generale, preparai io stesso la lettera con cui si offriva il nuovo posto all’Italia. Dovetti resistere alle pressioni di Kendall il quale voleva che specificassi in essa che la nostra Amministrazione doveva inviare un sottufficiale e non un funzionario. La lettera fu firmata e inviata da Bossard come l’avevo scritta. Fu così che per quel posto poco dopo sarebbe giunto il vicequestore Lazzoni dell’Interpol romana. Questo funzionario avrebbe ben presto capito verso quale direzione soffiava il vento.

Il nuovo impulso verso una più incisiva presenza e azione della Polizia italiana in ambito internazionale si sarebbe confermato in questo stesso periodo in altri concreti avvenimenti: nel nuovo organigramma della Criminalpol la Divisione Interpol sarebbe stata innalzata al rango di Servizio. Diretto da un Questore e articolato in Divisioni avrebbe avuto un notevole potenziamento di personale e mezzi, nonché la partecipazione al suo interno di un esperto ufficiale dei Carabinieri, il maggiore Borghini. Un altro funzionario, il vicequestore Brancaccio, sarebbe stato inviato in Germania presso il Bundeskriminalmt, mentre un commissario tedesco sarebbe a sua volta giunto a Roma. Inoltre un sottufficiale italiano, Morelli, sarebbe stato distaccato a Bangkok nel quadro della cooperazione antidroga con la polizia tailandese. Per molti anni sarebbero stati gli unici punti all’estero dove concretamente avrebbero operato ufficiali della polizia italiana. Ciò grazie alla previdente sensibilità internazionale Rognoni-Coronas.

Avrei avuto il piacere che proprio al Ministro Rognoni, alcuni dopo, giungesse la significativa lettera da parte del Presidente della Commissione parlamentare per i procedimenti d’accusa, Alessandro Reggiani che, ringraziandolo della collaborazione ricevuta da me e Di Fonsi, confermava l’utilità delle nostra presenza a Saint-Cloud. Questo l’episodio: la magistratura francese aveva mostrato una certa riluttanza ad ammettere una ”rogatoria internazionale” che la Commissione intendeva svolgere a Parigi per sentire un personaggio importante nell’inchiesta ”Petromin” relativa alle tangenti sui petroli. Il maggiore della Finanza Palmerini, giunto da Roma per organizzare preliminarmente quella difficile rogatoria, assistette alla mia discussione col Procuratore Generale del Tribunale di Grande Instance nel Palais de Justice parigino. Sostenendo che la Commissione Inquirente era un vero e proprio Organo giudiziario e che pertanto anche per essa valeva la Convenzione di Strasburgo sull’assistenza internazionale tra giudici, ero riuscito a sbloccare quell’impasse. Alcuni giorni dopo il presidente Reggiani ed i senatori Vitalone e Martorelli sarebbero potuti venire a Parigi e svolgere la loro delicata missione.

Sul filo delle investigazioni

Sarebbe lungo elencare le indagini di portata internazionale cui potetti dare durante

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questo periodo francese un contributo, ma non sarà vano citarne qualcuna.

L’indagine ”Bousquet”

Nel l980/8l l’indagine sui laboratori clandestini italo-francesi per la trasformazione della morfina in eroina, mi procurò la stima del Capo dell’Antidroga francese Jacques Le Mouel, già famoso commissario a Marsiglia ai tempi della ”French

connection” Da tempo aveva raccolto elementi circa una possibile alleanza fra trafficanti marsigliesi ed elementi della criminalità organizzata italiana. I primi erano in grado di fornire chimici esperti, i secondi avrebbero messo a disposizione la loro capacità organizzativa e di contatti internazionali. Stava tenendo sotto controllo un gruppo di marsigliesi tra cui André Bousquet, un medico dalle indubbie conoscenze tecniche di laboratorio, e un certo Dorè, un sardo dell’entroterra nuorese. Ne discutevamo sovente insieme e anch’io ero convinto di questa nuova strategia. L’unico punto di divergenza era il luogo dove i laboratori potevano essere stati impiantati: per Le Mouel, anche sulla base di frasi emerse in alcune intercettazioni telefoniche, dovevano trovarsi in Sardegna, mentre a mio avviso erano in Sicilia o in Calabria. Su sua richiesta per oltre due settimane girai in lungo e largo la Sardegna in compagnia di due tenaci ispettori francesi, Florì e Contì. I questori Montesano di Cagliari e Jovine di Nuoro ci assicurarono la loro preziosa collaborazione. Nessuna conferma ai sospetti.

Tornato a Saint-Cloud, dopo qualche settimana, nel cuore della notte, venni svegliato da una telefonata concitata del commissario Boidet che dirigeva la sezione stupefacenti di Marsiglia. Chiamava da Genova: aveva cominciato a seguire con la sua vettura quella di due trafficanti appena usciti da un bar dell’angiporto marsigliese. Dopo ore di prudente ”filature”, come dicono i francesi, si era trovato dinanzi all’aeroporto della città ligure. Occorreva far scattare un meccanismo immediato per continuare quel servizio che ci avrebbe forse permesso di scoprire infine con quali gruppi italiani fossero in contatto. Telefonai a mia volta ai colleghi Valente della Sezione Narcotici di Genova e Rotella del Servizio Centrale a Roma e insieme organizzammo un’azione coordinata. I due marsigliesi vennero seguiti nei loro successivi spostamenti in aereo da Genova a Roma da qui a Palermo, e infine in un hotel dell’entroterra siciliano. Dopo un mese di riservate indagini, dirette dal questore Sabatino e svolte dalla Criminalpol e dalla Mobile palermitana con l’apporto di uomini giunti da Roma, si giunse infine alla scoperta di un sofisticato laboratorio a Villagrazia, nei pressi del capoluogo siciliano, capace di raffinare quotidianamente centinaia di chili di morfina. Al suo interno al momento dell’irruzione vennero arrestati diversi francesi e siciliani: tra di essi lo sbigottito Bousquet. Ricordo ancora la vigorosa stretta di mano ed il ”bravò” di Le Mouel nell’apprendere la conclusione del servizio. Il sorriso soddisfatto del giudice Michel di Marsiglia, che da parte francese aveva diretto dal punto di vista giudiziario quell'inchiesta e che si accingeva ad approfondirla, di lì a un mese si sarebbe smorzato per sempre. Di ritorno da una commissione rogatoria a Palermo, alcuni giorni dopo sarebbe stato freddato da due Killer in moto.

Quel periodo, ricordato come quello della ”french-italian connection” avrebbe registrato nel giro di pochi anni la scoperta di altri importanti laboratori, segnando un salto di qualità nella cooperazione bilaterale tra i Servizi Centrali Antidroga e le Direzioni di Polizia dei due Paesi che da allora avrebbero altresì deciso di incontrarsi ogni anno.

L’indagine ”De La Borda”

Due fratelli, Arturo e Miguel De La Borda, originari di Miraflores, un quartiere di Lima, erano stati arrestati dalla polizia inglese del Sussex con un chilo di pasta di coca. Da alcuni elementi raccolti emergevano legami con ambienti della criminalità organizzata italiana. Unitamente al collega Littas, responsabile per il collegamento con la Gran Bretagna, riuscimmo a condurre un’azione di coordinamento e di stimolo delle indagini che portarono alla ricostruzione di un’importante

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organizzazione internazionale che gestiva un traffico di pasta di coca in grande stile dal Perù verso l’Europa e gli Stati Uniti. Tale organizzazione godeva di sicure infiltrazioni nella stessa polizia Peruviana. Sulla base delle informazioni trasmesse a Roma, i giudici Nitto Palma e Stipo volarono a Londra per interrogare i due fratelli. Li raggiunsi presso gli uffici di Scotland Yard. La droga, a dire dei De La Borda, veniva spedita anche sfruttando i viaggi di alcune navi della Marina Militare Peruviana. Un mio rapporto riservato, consegnato d’accordo con Leamy al Capo della polizia peruviana in occasione di una riunione internazionale a Saint-Cloud, portò alla conferma di molti degli inquietanti elementi raccolti e, forse per la prima volta a seguito di un’informativa Interpol, all’arresto di un alto funzionario della polizia di quel Paese. I giudici italiani al loro rientro emisero una lunga serie di mandati di cattura contro importanti personaggi della criminalità romana e catanese.

L’indagine ”Sigona”

Prese il nome da due fratelli siciliani che, da tempo emigrati in Olanda, avevano li stabilito la loro base operativa. Dalle analisi di una serie di dossier avevo notato che alcuni sequestri di cocaina, trasportata in pacchi regalo da disinvolte coppie intercettate in diversi aeroporti europei, potevano essere collegati tra loro. Incasellando gli elementi informativi raccolti fu possibile ricostruire il mosaico di un’importante organizzazione di trafficanti boliviani in Europa. La ragnatela era così intricata che ritenni opportuno indire, d’accordo con Leamy, una riunione a Saint-Cloud dei numerosi Servizi Antidroga interessati. Il capo di quello francese, Franquet, succeduto nel frattempo a Le Mouel, ancora oggi ricorda questa riunione come la più professionale organizzata dal Segretariato generale. Attraverso uno sforzo coordinato protrattosi per mesi riuscimmo ad individuare molti trafficanti, compreso quello che sembrava il capo, tale Marin. Nonostante la scarsa collaborazione fornita dall'interpol di Washington, riuscimmo ad identificarlo per un cittadino americano, originario di Cuba, già arrestato e condannato per possesso di eroina in America del Sud nel ’72, ai tempi della “French connection”. Le ripetute richieste per ottenere la sua foto da diffondere alle varie polizie europee condussero solo all’invio di una fotocopia del passaporto: in essa il volto dell’uomo era irriconoscibile. Lo feci notare a Walter Leamy, ma anch’egli non ottenne miglior risultato con il suo intervento.

Questi inconvenienti investigativi non sono del tutto rari quando si ha che fare con la DEA statunitense. Più di ogni altro Servizio infatti si avvale di «informatori» professionali regolarmente sul libro paga, infiltrati nel mondo della malavita ma sovente criminali di rango essi stessi ed astuti doppiogiochisti. L’indagine ”Oliverio” Essa nacque dal sequestro di tre chili di cocaina scoperti, nel fondo di una valigia proveniente dal Sud America, all'aeroporto di Heatrow di Londra. La valigia era in transito per Copenhagen dove il giorno dopo venne arrestato dalla polizia danese tale Vincenzo Oliverio, un personaggio equivoco e straordinario, originario di Genova ma da tempo installatosi nell’America Latina. Questo caso può essere per taluni aspetti emblematico del clima di scarsa professionalità in cui il Segretariato Generale stava cadendo. Quando infatti giunse da Copenaghen il telegramma con cui l’Interpol danese comunicava che nel traffico poteva essere implicato Frank Coppola, alias ”tre dita”, questo nome risulto sconosciuto. Incredulo di ciò, scoprii che il fascicolo personale di Frank Coppola era stato distrutto e che questo boss di ”Cosa nostra”, noto a tutte le polizie del mondo, aveva riacquistato la sua verginità presso quello che avrebbe dovuto essere l’archivio criminale per eccellenza. Secondo le direttive di Kendall, Capo della Divisione, erano infatti stati eliminati i fascicoli di tutti i criminali che avessero superato i settant’anni e sui quali negli ultimi tempi non ci fosse stata corrispondenza in merito, e ciò senza interpellare i Servizi dei rispettivi Paesi

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interessati. L’archivio del Segretariato Generale era stato quindi epurato dei fascicoli di quei personaggi che, sopravvissuti alle sanguinose faide della mafia, proprio per la loro veneranda età, avevano acquisito spesso il ruolo di ”padrini”, depositari della saggezza e del potere criminale. L’indagine rivelatasi estremamente importante, permise di individuare una potentissima organizzazione con agganci in molte parti del mondo e soprattutto col crimine organizzato italo-americano. Sulla base delle informazioni loro ritrasmesse volarono a Copenaghen, dove li raggiunsi, il sostituto procuratore Nitto Palma, il collega De Gennaro ed il maggiore Rossi della Finanza. Furono giorni e notti di intenso lavoro, in collaborazione talora non sempre facile con la polizia danese abituata a confrontarsi con casi ben diversi. L’astuto Oliverio, atteggiandosi a super giustiziere mancato sembrava guazzare come un pesce nel mondo del crimine internazionale. Vantava o millantava amicizie altolocate dappertutto: il suo taccuino era in ogni caso pieno di nomi e telefoni di alti funzionari delle amministrazioni di numerosi Paesi e particolarmente della DEA. Certe sue affermazioni confermarono e diedero la chiave di lettura di efferati crimini commessi in Italia ed in particolare a Roma ed in Sicilia. L’indagine ”Pace” Nata da semplici sospetti discussi telefonicamente col collega Argenio della Criminalpol napoletana, questa indagine portò all’individuazione di un importante gruppo di camorristi, quasi tutti di Sant’Anastasia, datisi al traffico di cocaina dal Perù. La loro vorace penetrazione in quell’eldorado andino della droga, doveva aver preoccupato la criminalità già ben installata nella zona. Una decina di essi, volati oltre oceano col ruolo di corrispodenti o corrieri, non avrebbero più rivisto il Vesuvio. Sarebbero stati uccisi, talora in modo feroce, nei caldi sobborghi di Lima a Miraflores. Uno dei capi, dopo un ancora inspiegabile volo di ritorno Perù-Italia, sarebbe riapparso in un ospedale partenopeo, con numerosi proiettili in corpo. Per dare un’idea della spietata determinazione di quella guerra all’ombra della coca, basti pensare che a Miraflores, contro la fazenda di Buccolo Buschetti Pasquale, un trafficante di origine napoletana da tempo insediato in America Latina e forse tramite non gradito tra mafia e camorra, venne aperto il fuoco addirittura con mitragliatrici pesanti. Anche per questa inchiesta organizzai una riunione specifica presso il Segretariato Generale, alla quale parteciparono delegati dei Servizi antidroga di numerosi Paesi. Sulla base degli elementi acquisiti l’autorità giudiziaria napoletana avrebbe potuto concludere o avviare diversi procedimenti penali. L’indagine ”Zaza” Questa fu l’ultima operazione di rilievo effettuata nell’estate dell'84, prima del mio forzato rientro a Roma. Il noto boss Michele Zaza, arrestato dopo lunghe indagini dagli uomini di De Gennaro, per disposizione di un giudice era stato trasferito nella primavera di quell’anno dal carcere a una costosa clinica romana. Persino gli agenti secondo il suo illustre medico curante, dovevano astenersi da una stringente vigilanza per non turbarne il cuore affaticato. Come prevedibile, pochi giorni dopo quest’ospite di riguardo aveva preso il volo facendo perdere le sue tracce. I mass media avevano criticato duramente l’attitudine del magistrato. Rintracciarlo era diventata anche una questione di principio per le forze dell'Ordine. D'altro canto sarebbe stato forse un bene anche per lui, dal momento che i suoi avversari della Nuova Camorra Organizzata lo cercavano anch’essi, non certo con premurose intenzioni. Da diverse settimane ero in contatto da Saint Cloud con De Gennaro a Roma. Si sospettava infatti che ”don” Michele potesse essersi rifugiato in Francia dove secondo alcune informazioni avrebbe cercato di farsi raggiungere dai due giovani figli, in occasione del compleanno di uno di loro, per poi volare verso Los Angeles,

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città in cui aveva protezioni e interessi. Un sabato a tarda sera il collega mi chiamò comunicando che poco prima i ragazzi e la fidata governante del boss erano stati accompagnati da amici di famiglia, dopo aver cercato di sviare ogni possibile controllo, a bordo del Palatino in partenza per Parigi. Due agenti erano riusciti a balzare sul treno all’ultimo momento. Inoltre il brigadiere D’Angelo e la guardia Costantino, entrambi miei vecchi collaboratori, stavano giungendo col primo aereo. Organizzare il servizio fu un’ardua impresa, resa possibile solo dal profondo rapporto professionale che avevo col Capo dell’Antidroga francese le commissaire Franquet. Il week-end a Parigi é sacro anche per la polizia e quindi solo due uomini sarebbero stati di turno sino a lunedì mattina presso quel Servizio. Lo chiamai a casa chiedendogli di prendere a cuore quell’operazione: a mezzanotte riuscì a recuperare tre autovetture e sei uomini. Egli non poteva venire ma: «Chér Enniò,

vai tu con i miei ragazzi e fa come se fossi al mio posto! Ti raggiungerò prima

possibile!». Queste parole dette da quel poliziotto di valore erano, per chi conosce il carattere dei francesi, una prova di fiducia e stima professionale. Telefonai pure a casa dell’ispettore Florì, il validissimo investigatore con cui avevo lavorato ai tempi del caso ”Bousquet”. Sapevo che era in congedo ma anche che potevo contare sulla sua passione investigativa: «Ennio, je serais avec toi! bien sur!», fu la pronta risposta. L’indomani, alle sette del mattino, ci trovammo tutti alla Gare de Lyon, dove arrivano i treni dall’Italia. Quei sette poliziotti tutti francesi, benché non avessi alcuna autorità formale su di loro, ascoltarono con attenzione le mie istruzioni. Ebbi l’impressione di tornare ai vecchi tempi della ”Mobile”. Dopo un accurato sopralluogo nell’immensa popolata stazione, disposi gli uomini nei punti strategici in attesa del Palatino che sarebbe arrivato verso le dieci. Rabbrividii quando, verso le nove e trenta, il bravo Costantini mi indicò una persona passeggiare guardingo tra la folla: Nunzio Barbarossa, braccio destro di Don Michele, anch’egli ricercato per traffico di droga. Divenimmo le sue ombre. All’arrivo del treno, nonostante la marea di gente, i servizi scattarono con sincronismo: il gruppo venne agganciato e iniziammo seguire discretamente l’auto su cui ”don” Nunzio lo aveva fatto salire. La ”filature”, come dicono i francesi, fu lunga e difficile. L’uomo guidava con circospezione facendo mille giri per sviare ogni eventuale controllo. Due nostre auto persero infatti il contatto. Solo quella su cui mi trovavo, guidata con perizia dall’ispettore Hervé Perron riuscì a tenere sino alla fine. Verso le tredici ”don” Nunzio accostò accanto ad un grande palazzo del XVI Arrondissment nel cui portone sparì frettolosamente con tutto il gruppo. Ma in quale dei cinquanta appartamenti di quel grattacielo? E poi, ”Don” Michele era lì oppure, prudenti come avevano dimostrato di essere, quella era solo una base da cui ripartire per un incontro successivo? Lasciati due uomini sul posto rientrai con un taxi all’Ufficio Centrale per recuperare gli altri. Vi trovai Franquet che aveva disdetto i suoi impegni per venire a darci una mano. Dopo alcune sue imperiose telefonate ad altri Servizi di polizia, riuscì a ottenere un furgoncino banalizzato, munito di un artigianale periscopio. Venne guidato e lasciato dinanzi al portone del palazzo. Nascosto dentro c’era l’instancabile ispettore Florì. Le ore passavano senza che nulla accadesse. Era difficile localizzare l’appartamento interessato, né d’altro canto ci si poteva arrischiare attraverso il portiere non conosciuto. Un’idea abbastanza provvidenziale ci permise di acquisire elementi concreti. Suggerii a Franquet di chiamare tutti i numeri telefonici installati nel palazzo, che nel frattempo i suoi uomini rilevavano dall’elenco stradale. Sapevo per esperienza di ”immigrato” che i francesi hanno un sistema tutto loro per scandire i numeri: le prime tre cifre, poi le altre due e così via. Se all’altro capo del filo avesse risposto un italiano, questi pur parlando bene il francese, alla domanda trabocchetto che chiedeva se fosse quello scandito il numero esatto, avrebbe certamente chiesto di ripetere. Sobbalzammo quando alla ventesima telefonata, dall’altra parte del filo si sentì qualcuno dire: «Guagliò, viè

cà, chi cazz capisc...!», e poi un altro che in napol-ital-francese si fece scandire due volte il numero prima di dire che non era quello. Inoltre, a giudicare dal vociare di

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sottofondo, Franquet ebbe l’impressione che ci fosse aria di festa in quell’appartamento. Dopo qualche ora da Roma ci giunse la conferma: dove erano i ragazzi era anche ”don” Michele. La Criminalpol romana aveva intercettato una telefonata da lui fatta a un parente nella capitale in cui diceva che stavano tutti insieme e domandava, da buon tifoso, il risultato della partita disputata quella domenica dalla squadra del cuore, il Napoli. Non si trovava il giudice per ottenere il permesso di fare irruzione nell’appartamento; d’altro canto c’erano dei bambini e poteva esser pericoloso per loro. Muniti di santa pazienza decidemmo di attendere ancora. Infine, a sera inoltrata, fece capolino in strada ”don” Nunzio guardandosi attorno, poi rassicurato tornò su. Dopo poco apparve tutto il gruppo al completo che si diresse verso il vicino Arco di Trionfo fastosamente illuminato. Da dentro il furgone l’urlo strozzato e ormai claustrofobico dell’ispettore Florì, chiamò a raccolta: «Ils sortent!». I due ”don” rimasero di ghiaccio quando si videro accerchiati da quei giovani armati dall’intimidazione decisa: «Police, Messieurs!». Apprezzai lo stile e la calma di ”don” Michele che, contenendo la rabbia e l’istinto di reagire, si preoccupò soltanto di ridurre lo shock dei bambini. Era una conferma di quanto avevo letto su di lui nei vari rapporti che mettevano in evidenza la sua figura di uomo violento e bizzarro ma anche di padre affettuoso. Da un bar vicino telefonai subito a Roma per dar la notizia al collega Pansa che era rimasto incollato in ufficio sostituendo De Gennaro in quell’afosa domenica. Sentii dall’altra parte il rumore di un applauso. Quindi informai a casa il dottor Sabatino che aveva seguito anche lui dall’alto la vicenda. I giornali e le televisioni francesi ed italiani diedero grande risalto alla notizia. Dopo un paio di mesi ”don” Michele sarebbe stato nuovamente scarcerato. Era, ma non lo sapevo, la mia ultima operazione di commissario di polizia. Sarebbe rimasta appena avviata un’altra indagine che percepivo estremamente interessante. Un telegramma apparentemente di routine, giunto da una polizia straniera, mi aveva portato a esaminare alcuni vecchi e confusi dossier. Dagli elementi in essi contenuti appariva verosimile la possibilità di contatti criminosi tra lo svizzero Paul Waridel e l’americano Ronald Stark. Era costui un equivoco quanto strano personaggio. Arrestato nel ’75 a Bologna per traffico internazionale di stupefacenti sarebbe stato scarcerato nell’aprile l979 con ordinanza del giudice istruttore perché «addetto dal l960 ai servizi segreti americani». Fornito di identità di ricambio (britannica, italiana e libica) e favorito dalla sua poliedrica personalità, sembrava avesse preso a girare, in contatto coi ”Servizi” italiani e statunitensi, le carceri di mezz’Italia cercando di infiltrarsi, alla fine di quei bui anni settanta , tra i terroristi nel frattempo arrestati. Ciò sino al momento in cui, ottenuta la libertà ”condizionata”, sembrava scomparso nel nulla. Ricordo una singolare coincidenza su cui avevo attirato l’attenzione dello stesso Leamy: qualche settimana dopo l’avvio di quello che stava mettendo in luce un probabile collegamento di Waridel e Stark su una fornitura di circa duecento chili di eroina, legata forse una contropartita di armi, era giunto spontaneamente dall’Interpol di Washington un brevissimo laconico telegramma che senza dare alcun particolare annunciava che Ronald Stark era morto proprio in quei giorni per una “overdose” . Paul Waridel, che tornato in libertà un anno dopo il suo arresto a Fregane aveva ripreso a scorazzare per il mondo, sarebbe stato arrestato in Svizzera e conteso dai magistrati di diversi paesi per le sue rivelazioni su potenti organizzazioni criminali e sul ruolo svolto come collaboratore di ”servizi stranieri”. Il movimento scende, sale la controriforma

Con la lettera di dimissioni da membro della Segreteria assicuravo che avrei continuato il mio impegno nel Movimento, nonostante la lontananza e la delicatezza del nuovo incarico. Che il ruolo svolto fosse stato e potesse ancora essere rilevante trovò conferma nelle risposte che diversi parlamentari e sindacalisti nonché numerosi poliziotti mi fecero pervenire nella nuova sede di lavoro.

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Sin dall’arrivo in Francia continuai a tenermi in contatto con i colleghi della Segreteria ed in particolare col generale Felsani, ormai leader incontrastato del Movimento. Apprezzavo le sue doti di coraggio e fede democratica, anche se la sua formazione risentiva di un’esperienza militare non affiancata da quella di polizia investigativa e giudiziaria. Modulando opportunamente i giorni di ferie con le esigenze di servizio, non di rado tornavo a Roma per prendere parte alle riunioni più importanti. Come quando nel dicembre ’79 partecipai ai funerali del maresciallo Mariano Romiti ucciso con quattro colpi di pistola alla schiena dalle Brigate Rosse. Nella chiesa di Torre Spaccata l’atmosfera era di grande commozione. Accanto ai poliziotti, molti giovani di Comunione e Liberazione, a cui Romiti era vicino, erano venuti a rendere omaggio a quel compagno di fede ed impegno. Le note struggenti di una chitarra accompagnavano canzoni sommesse di perdono ed amore. All’uscita alcuni poliziotti in lacrime avevano bloccato il segretario della DC, onorevole Piccoli, lamentando l’incomprensibile ostruzionismo del partito verso la riforma di Polizia. Il luogo e l’attitudine di quei ragazzi dovettero essere convincenti. Piccoli acconsentì a ricevere una delegazione il pomeriggio stesso nella sede di piazza del Gesù. I colleghi dell’Esecutivo mi pregarono di intervenire. Alle sedici in punto eravamo già nello studio del Segretario attorniato da altri parlamentari e collaboratori. Dopo gli interventi del capitano Giacobelli, della guardia Fortunato Fedele e del generale Felsani, affrontai un punto che, a giudicare dall’espressione, dovette toccare alquanto l’onorevole Piccoli: i poliziotti continuavano a morire, ma essi erano solo bersagli intermedi. Nel mirino definitivo c’erano loro, i politici, ed infine le Istituzioni repubblicane. Ma non avevano tratto alcun insegnamento dal barbaro omicidio del presidente Moro? Anche questo sottile statista negli ultimi tempi aveva dato segni di apertura verso il Movimento e la riforma di Polizia. Ciò nonostante il suo partito continuava a fermare il progetto già pronto in Parlamento. Si girarono tutti mentre così parlando indicai il quadro del Presidente ucciso, che un po’ obliquo, nella parete alle spalle di Piccoli. Questi con articolata risposta assicurò che la DC era favorevole alla riforma e che gli ultimi ritardi erano dovuti a dettagli in via di superamento. II primo aprile ’8l la legge numero l2l di istituzione e riordinamento della nuova ”Polizia di Stato” venne definitivamente approvata. Da quel momento quanto più il Movimento andava trasformandosi in Sindacato, tanto più i miei contatti con la Segreteria Nazionale diventarono difficili e forse meno graditi. Com’erano state lungimiranti le parole di Vitulano al momento della mia partenza: «vedrai come si dimenticherà facilmente quel che hai fatto. Ormai si

va verso strutture di potere!». Ne avrei avuto conferma in occasione del primo Congresso Nazionale del finalmente ufficiale Sindacato Unitario di Polizia, il SIULP, svoltosi a fine aprile ’82 all’Hotel Ergife di Roma. Ero tornato da Saint-Cloud per quello storico momento. Il presidente Pertini aveva inviato un telegramma di auguri. Erano presenti le delegazioni di tutti i partiti con i loro massimi esponenti, da Piccoli a Berlinguer, e della Federazione Unitaria: Lama, Carniti e Benvenuto. Persino il Comandante generale dell’Arma aveva fatto pervenire parole di compiacimento. Il Presidente del Consiglio Spadolini e il ministro Rognoni avevano pronunciato solennemente dal palco la promessa di una grande riforma e di un vero coordinamento tra le Forze di polizia. Al momento della parola dei poliziotti avevo chiesto ai colleghi di Segreteria di poter intervenire: non c’era tempo, era stata la risposta. Com'era cambiata la storia! Osservavo tra le autorità in prima fila applaudire con ostentata partecipazione anche alti funzionari che erano stati sino a poco prima strenui avversari delle battaglie dei poliziotti. Feci notare al prefetto Voci, divenuto nel frattempo vice-capo della Polizia, l'ironico girar della ruota: da commissario di disciplina ieri contro le mie presunte attività sindacali a pubblico acclamatore oggi proprio del sindacato di polizia. Ormai il SIULP, di fatto collegato con la Federazione Unitaria, esisteva e aveva tutte le premesse per divenire una potente struttura. Una volta al di là della

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barricata, iniziava la corsa non solo di quelli che erano rimasti alla finestra a guardare, ma anche di chi era stato antagonista di quei mutamenti. E non doveva esser facile neppure per i partiti e le confederazioni sindacali cautelarsi da infiltrazioni camaleontesche. Di qui l’esigenza di collocare all’interno del SIULP propri uomini di fiducia. Era iniziato così quel processo di schieramento a cui non pochi poliziotti-dirigenti sindacali si sarebbero prestati pur di restare aggrappati a posizioni che stavano diventando comode, prestigiose e redditizie. Sulla base infatti dei cospicui introiti del tesseramento, una delle prime mosse dei sei membri della Segreteria fu quella di fissare congrui emolumenti di rappresentanza e rimborso spese. Ciò ovviamente oltre lo stipendio e le indennità di rischio per un lavoro di poliziotti ormai tali solo per status, essendosi subito collocati in ”aspettativa sindacale”. Ed eccoli così schierarsi ben presto sempre più apertamente per questo o quel partito, questa o quella confederazione. Il segretario generale Felsani, interrompendo il suo mandato, si sarebbe presentato nelle liste della DC alle elezioni politiche dell’83, mentre il suo successore Forleo sarebbe stato eletto nell’87 parlamentare nelle liste del PCI. Lo stesso processo si sarebbe esteso nelle strutture regionali e provinciali. Era ben lontano il patrimonio di unitarietà che, pur nel rispetto della dialettica democratica, era stata la forza ideale del Movimento. Questo correre allo schieramento avrebbe avuto la sua inevitabile proiezione verso i poliziotti di base coinvolti in tale perversa spirale loro malgrado. Le lotte interne sarebbero state tanto più dure quanto più il SIULP diventava struttura di potere capace di condizionare l’Amministrazione, di incidere su promozioni, trasferimenti e infine sulle nomine ad alte cariche della Polizia. In breve il sindacato acquisì molte delle brutture del vecchio sistema contro cui per anni ci si era battuti. Queste contraddizioni avrebbero fatto buon gioco alle forze conservatrici del Viminale favorendo a latere la crescita di un sindacato autonomo, nonché di decine di piccoli gruppi di singole categorie. In questo clima era chiaro che non ci sarebbe stato più spazio per coloro che ancora credevano agli antichi ideali. Un po’ alla volta sarebbero stati via via eliminati o ridimensionati: da Fortunato Fedele a Tortorella, da Annunziata a Raffuzzi, da Margherito ad Ambrosiani, e persino Franco Fedeli col suo insopprimibile contributo storico. Per Angelo Giacobelli avrebbe provveduto un tragico destino: continuando il suo lavoro di vero poliziotto, sarebbe morto alcuni anni dopo travolto da un camion mentre si recava al commissariato di Nettuno da lui diretto. In questo quadro sarebbe stato naturale che i vecchi colleghi della Segreteria Nazionale mi lasciassero nella più profonda solitudine in occasione, come si vedrà, delle ultime peripezie professionali. Il progressivo inquinamento dello spirito originario del Movimento avrebbe di pari passo favorito l’instaurarsi di una sottile controriforma. Le lotte dei poliziotti avevano conquistato non solo spazi di libertà costituzionale ma posto le premesse di una nuova efficienza, professionalità e democratizzazione dell’Istituto. Ciò principalmente attraverso la smilitarizzazione, il ridimensionamento del ruolo prefettizio e del coordinamento tra le Forze di polizia. Queste aspettative sarebbero state tuttavia limitate da una sorta di compromesso che introduceva soluzioni annacquate e talora contraddittorie. Ad esempio col ”processo di smilitarizzazione” si faceva in realtà scomparire l’unica componente civile della Polizia, quella dei funzionari. Infatti con un drastico meccanismo si imponeva a quelli già in servizio il passaggio a un’altra Amministrazione o l’accettazione del nuovo sistema che prevedeva anche per essi un inquadramento paramilitare, con tanto di divisa. Più di un centinaio, da commissari a questori, sarebbero andati via con grave perdita per la PS. Gli altri si sarebbero dovuti adeguare. Per i nuovi funzionari la legge prevede ancora meccanismi di reclutamento ed addestramento tali da favorire una cultura militarizzata. Ci saranno probabilmente dirigenti di polizia capaci di centrare una monetina a cento metri, ma forse a discapito di un patrimonio di formazione autenticamente civile! Per fortuna il Movimento ha preparato anche per essi un diverso rapporto con i cittadini. Speriamo che almeno questo non vada guastato.

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A proposito poi della nuova gestione professionale e non prefettizia della Polizia, quasi inavvertitamente, era passato un articolo che dava in realtà più forza proprio a questa categoria. Con un sottile meccanismo era stato previsto infatti che un esiguo numero di Questori (ironicamente diciassette) potessero venir cooptati nei ruoli dei Prefetti. Col miraggio di più soldi e formali privilegi si era data la possibilità di fagocitare gli elementi più prestigiosi o scomodi della Polizia: magari per neutralizzare il Questore di Milano promuovendolo Prefetto ad Isernia. Per il coordinamento delle Forze di polizia tutto restava come prima, anzi un articolo della nuova legge ne formalizzava l’impossibilità: «Restano salve le rispettive

attribuzione e le normative vigenti nei rispettivi ordinamenti». Significativamente proprio in questo periodo, invece di concentrarsi tutti sulla costituzione di un’unica Centrale Operativa, accanto al ll3 della PS i Carabinieri istituivano il ll2. Ciò nonostante le precise riserve e gli impegni espressi dal presidente Spadolini e dal ministro Rognoni durante il ricordato congresso del SIULP. Per fortuna la Guardia di Finanza non si sarebbe messa sulla via del 111! In nessun modo poi si affrontava il tema spinoso della istituzione di reparti di polizia alle dirette dipendenze dell’Autorità Giudiziaria. Molti fattori dovevano aver giocato in tal senso: l’ingresso massiccio degli ufficiali nel Movimento; la formazione tipicamente militare dei segretari generali succedutisi alla guida del SIULP, Felsani e Forleo; l’abilità del prefetto Raffaele Santoro, eminenza grigia del Ministero, nella fase terminale dell’iter parlamentare della legge. Infine la perdita di credibilità del Sindacato che, benché nato su forti ideali, cominciava a mostrare segni evidenti del processo di spartizione. Insomma si era addivenuti a una legge organica della polizia con contenuti di grande potenzialità ma in essa si introducevano i germi di una sottile controriforma. Lo si sarebbe visto ancor più con i successivi decreti di attuazione che ridimensionavano il ruolo della Polizia. Di fatto la riforma restava incompiuta! Non essere stato presente nella Segreteria Nazionale nella fase della trasformazione normativa delle conquiste del Movimenti il mio grande rimpianto. Rimane comunque la certezza di aver contribuito con tanti compagni di lotta a cambiare qualcosa in questa nostra società, avvicinando cittadini e poliziotti. Avola oggi è lontana: questo, almeno per ora, nessuno potrà cambiarlo!

Vita e morte nella Villa Lumière

Gli anni trascorsi in Francia mi avrebbero offerto, al di là delle esperienze professionali, anche importanti lezioni esistenziali ponendomi dinanzi sia a quadri di vita spensierata che ad altri pieni sventura e dolore. Nei momenti liberi amavo immergermi nelle pittoresche stradine del quartiere latino o del Marais. Sembrava di essere quasi un palcoscenico dove ciascuno recitava la sua parte: l’elegante signora fasciata nell’abito di Cardin, l’incurante clochard attaccato all’inseparabile bottiglia di ”gros rouge”, l’hippy capelluto sussurrava Prèvert sulle note di una vecchia chitarra. E la domenica mi aggiravo estasiato tra gli impressionisti del Jeu de Paumme o le sofferte sculture del museo Rodin. Ma due anni dopo incominciai a dividere quel tempo in un modo che non avrei mai immaginato. Un fastidioso disturbo mi aveva spinto a un controllo medico presso l’ospedale di Saint-Cloud. L’internista volle inviarmi a un centro specializzato. Fu così che avrei scoperto quel posto di speranza e tragedia che è Villejuif, dove sorgono gli ospedali di Paul Brousse e Gustave Roussy per la cura dei tumori. Contrariamente a quanto avviene nelle nostre strutture sanitarie, con una semplicissima prenotazione e pagando un simbolico potei farmi visitare dal famoso oncologo Mathè. Nulla di grave avrei dovuto sottopormi a periodici controlli. Aggirandomi tra quei corridoi mi resi conto di una realtà neppure lontanamente immaginabile: quasi metà della popolazione in cura presso quei centri e costituita da italiani. Così avrei descritto in un articolo il calvario di quei nostri ”emigranti per salute”:

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«Molti di essi avevano solo sognato Parigi. Ora sono lì sperduti e frastornati, alcuni nel dedalico aeroporto di Roissy e altri, i più, nella caotica Gare de Lyon dove arrivano i treni dall'Italia. Tutti tesi per cercar di capire scritte o annunci in una lingua spesso mal conosciuta. Giungono da varie parti della penisola, ma soprattutto dal Sud. Molti hanno viaggiato per ore ed ore, come ai tempi degli emigranti dalle valigie di cartone. Questa volta c’è qualcuno, più pallido e sofferente, qualcuno uomo o donna, vecchio o bambino, che porta con sé non braccia per un lavoro lontano, ma cellule impazzite per un forse ultimo viaggio della speranza. Alla Gare de Lyon alcuni hanno solo saputo indicare l’ospedale dei tumori. Molti tassisti ormai sanno: sono gli italiani che vengono a curarsi. Attraversano così la città, l’occhio fisso al tassametro che scatta implacabile. Parigi per loro non sarà la Ville Lumière, ma solo quell’alto edificio di vetro e metallo che freddamente si staglia contro un cielo solitamente grigio a Villejuif. La paura e la speranza gonfiano il cuore man mano che ci si avvicina. Si entra nell’atrio con pareti dai delicati colori ed hostess dai camici bianchi che accolgono gentili i nuovi arrivati. I pannelli alle pareti sono scritti in francese e italiano, ma non contengono avvisi per passeggeri sulle rotte del mondo: solo inevitabili tappe per esami radiografici, prelievi di sangue... A questa atmosfera ordinata e manageriale, i nuovi arrivati si adattano sorpresi. Man mano che si presentano, le hostess dagli stereotipati sorrisi chiedono i dati necessari. Si parla a bassa voce, un po’ per emozione un po’ per pudore, per non pronunciare quel nome maledetto: cancro, tumore, o più elegantemente “neoplasia”. Occhi spauriti girano dintorno, quasi imploranti. Ci si accorge che il vicino e anch’egli un connazionale. Nascono timidamente i primi contatti: chi è venuto altre volte fornisce qualche utile indicazione, talora osa persino parlare del male cercando una parola di conforto. Ritirato il formulario ll2 (l’impegnativa della previdenza italiana a pagare le spese mediche ed ospedaliere) ed impiantata la cartella, il malato, ormai un numero per il computer, inizia la peregrinazione interna. Tutto è metodico, man mano i gruppi si diluiscono su precise indicazioni, scompaiono in veloci ascensori con musica in sottofondo fermandosi al piano corrispondente al tipo di tumore: ossa, polmone, utero... Il nono piano si riconosce dai disegni naif alle pareti: è quello dei bambini. Ci si ritrova così accomunati, in altri saloncini, dalla stessa degenerazione cellulare. Dopo le visite e gli esami fatti con manageriale riduzione dei tempi si giunge alla diagnosi, alle decisioni. Qualcuno viene invitato a tornare, i più vengono ricoverati. La Via crucis per gli emigranti prende allora direzioni diverse. Il paziente da una parte nella sua stanzetta pulita vivrà il suo calvario di flebo, prelievi, spostamenti rapidi per i vari accertamenti tra infermiere e dottori dai freddi silenzi, dai discorsi incompleti. È solo con i suoi pensieri, le sue paure, lo sguardo teso a percepire ed ingigantire ogni minimo segnale, nel bene e nel male. Dall’altra parte, i familiari iniziano la ricerca affannosa di un posto dove poter stare per il tempo necessario, mai precisato. Si scopre che a Villejuif c’è un solo albergo, ma costa troppo per i più. Vi sono pochissime pensioni alla buona, però e difficilissimo trovarvi posto. Le camere vengono quasi passate in eredità da una famiglia all’altra. Su questa povera gente si getta una schiera di sensali, di affittacamere abusivi. Bisogna adattarsi: ed ecco allora dormire in tre, quattro per stanza, darsi i turni per il letto. Ma l'italiano, si sa, e abituato ad arrangiarsi: sono nati opuscoli improvvisati con indicazioni preziose, numeri di telefono delle pensioni , della Cit, dell’Alitalia... In questo quadro desolante il nostro Consolato a Parigi fa quel può: ha una sola assistente sociale. Così alcuni connazionali ivi residenti si sono organizzati per andare periodicamente in ospedale, per fornire l’aiuto possibile come interpreti, intermediari tra le famiglie... C’è qualche prete e suora italiani per una parola di fede. Così va avanti il calvario di questi emigranti negli anni ’80. Qualcuno torna a casa più o meno guarito. Quasi tutti debbono ripresentarsi per controlli e terapie. Alcuni rientrano in patria in una bara per l’ultimo viaggio”. Un po' alla volta, quasi per caso, mi sarei ritrovato a cercare di rendermi utile.

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Certo, non potevo fare granché, ma bastava un gesto: fissare appuntamenti con i medici, tradurre le loro parole, trovare un posto dove dormire, aiutare in qualche pratica burocratica... E poi per quegli sventurati ascoltare una frase in italiano, sapere che c’era lì qualcuno del proprio Paese, era consolante. D’altro canto i medici che avevano cominciato a conoscermi, da Mathé alla Musset, da Swanzenberg a Machover, erano sempre cortesi e disponibili. Sarebbe bastato poco perché si spargesse la voce che c’era un missionario italiano, per di più dell’Interpol, disponibile a un aiuto. Fu così che cominciai a ricevere telefonate dall’Italia da amici, colleghi e talora da persone sconosciute. E molto spesso ero lì capezzale di sventurati pazienti. La sorte volle che con tanta tristezza dovessi occuparmi anche di alcuni colleghi carissimi. Come per un tragico appuntamento, nel gennaio ’83, giunse al Paul Brousse l’amico Peppino Pandiscia con già sul viso i segni della terribile leucemia che lo aveva improvvisamente aggredito. Sarebbe rimasto ricoverato per quasi un anno, affidato alle cure dei professori Mathé e Machover. Durante questo suo calvario diede come sempre lezioni di coraggio e dignità. La sua simpatia, lo straordinario sorriso che ne illuminava il viso scavato avrebbe conquistato tutti, dai medici agli infermieri. Nonostante il male lo devastasse aveva sempre una parola di speranza e di incoraggiamento per gli altri pazienti. Quasi ogni sera, uscito dall’ufficio, andavo da lui. Accanto al suo letto dapprima e attraverso il vetro della stanza asettica gli ultimi tempi, lo ascoltavo parlare per ore con voce appena velata di nostalgia dei suoi sogni lontani, delle speranze deluse, della famiglia che amava, dell’ufficio dove voleva tornare, senza mai una parola di rancore per l’Amministrazione che lo aveva forse già dimenticato. E mi confidava la sua fede divenuta più forte in quei minuti che non passavano mai: «Ennio, tu non puoi

sapere la dolcezza di quel raggio di sole che al mattino penetra nella stanza, o di

quella foglia che cade lentamente disegnando la vita...». E in questo misterioso disegno sarebbe morto, a quarantaquattro anni. Ebbi a interessarmi, anche se troppo tardi per poter fare qualcosa, dell’appuntato Fiorenza che il terribile male stava stremando non lontano da quei ”carrugi” genovesi che ci avevano visto insieme in irruenti azioni di polizia. E così fu per Santillo. Quando lo seppi da Ferrigno, volai a Roma per prendere le sue cartelle da far vedere a Mathé. Fui uno dei pochi funzionari che il vecchio Questore accettò di ricevere: con pudico orgoglio non voleva farsi vedere nello stato in cui era ridotto. I suoi occhi ancor più azzurri brillavano sul corpo ormai consunto: «Guagliò...tu che

viaggi m’hai da truvà nu poste chiene e sole...!». Trattenendo a stento le lacrime gli parlai del Marocco, dove lo avrei accompagnato io stesso...ma sapevo che quel maestro di polizia stava morendo. Il responso di Mathé era senza appello. Faide all’Interpol

Da quando il carismatico Nepote aveva lasciato l’incarico, l’atmosfera del Segretariato Generale era venuta deteriorandosi. Il suo successore Bossard, un ”commissaire divisionnaire” della polizia francese, benché uomo di grande educazione e stile, non sembrava brillare per attitudine organizzativa e decisionale. Queste caratteristiche venivano ancor più evidenziate dal raffronto con il dinamico capo della Divisione Criminale, il britannico Kendall. Per di più quest’ultimo poteva contare sull’attività di public relation della moglie che, cosa di norma non possibile in un organismo internazionale, lavorava come segretaria nella sua stessa Divisione. I rapporti tra Bossard e Kendall divenivano sempre meno idilliaci quanto più ci si avvicinava all’Assemblea plenaria dell’autunno '85, data in cui sarebbe scaduto il mandato di Bossard e si sarebbe dovuto eleggere il nuovo Segretario Generale per altri quattro anni. Sino ad allora era stata consuetudine riconfermare l’incarico e si pensava che tale tradizione non sarebbe cambiata. La flemma inglese non poteva però completamente dissimulare l'impazienza di Kendall per occupare al più presto quel posto. Il sottile antagonismo tra i due personaggi si era purtroppo proiettato

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anche tra il personale. Ne scaturivano schermaglie e giochi tattici che non favorivano certo l’armonia tra i vari uffici ed il lavoro dei funzionari loro malgrado coinvolti. Uno dei primi a pagare fu Waldmann, un alto funzionario della polizia svedese, che solo pochi mesi dopo il suo arrivo alla Divisione Criminale aveva dato le dimissioni per contrasti con Kendall. Poi sarebbe stata la volta dell’ufficiale di collegamento danese Frank Madsen poliziotto di grande professionalità che, dopo aver preso posizione in difesa di una persona non gradita alla signora Kendall, cominciò a subire una serie di vessazioni che, a suo dire, avrebbero influito sulla successiva decisione di lasciare l’incarico. Avvicinandosi la fatidica scadenza dell’85, i giochi cominciarono a precisarsi. Si intuiva che spirava aria favorevole per l’inglese, che gradualmente aveva segnato importanti punti a suo vantaggio. Aveva innanzi tutto eliminato qualsiasi velleità di concorrenza da parte degli altri due capi di Divisione, il francese Mickelsen e l’autriaco Schlanitz. Nell’autunno ’83, infatti, nel corso di una riunione del Comitato Esecutivo, l’organo di controllo dell’Interpol, era riuscito a farsi nominare numero due dell’Organizzazione, carica sino ad allora mai formalmente esistita. Aveva subito affisso la nota di tale decisione in tutte le bacheche della «Maison». Poi, in una successiva riunione ”riservata” dello stesso Comitato aveva fatto passare il principio che la candidatura di Bossard poteva essere riproposta all’Assemblea, purché questi sottoscrivesse l’impegno a dare le dimissioni due anni dopo la sua rielezione. Questa irresistibile avanzata era stata resa possibile anche dalla sua abile politica verso alcuni membri del Comitato, in particolare gli americani, che da qualche tempo avevano puntato gli occhi con nuovo interesse verso l’Interpol. Di conseguenza un sempre maggior numero di funzionari delle varie ”agenzie” statunitensi cominciò ad arrivare e per essi era subito pronta una collocazione di tutto rilievo. Su quest’onda di simpatia tattica si decise inoltre che l’Assemblea Generale dell’ ’85 si sarebbe tenuta a Washington. Tutto ciò non sarebbe sfuggito al quotidiano francese «Le Monde» che nell’ottobre ’85 avrebbe pubblicato un dettagliato articolo dal significativo titolo: «Interpol à l’heure

americaine». All’attività promozionale di se stesso, Kendall aggiungeva quella sotterraneamente denigratoria di Bossard: se l’Organizzazione non funzionava lo si doveva al Segretario Generale. Forse dimenticava che dirigendo egli la Divisione Criminale, ne era quanto meno corresponsabile? In un simile clima di competizione e scarsa professionalità, sarebbero maturate le condizioni per la mia eliminazione. Una strana riorganizzazione antidroga

Anche la Sottodivisione stupefacenti rimase coinvolta in quella situazione assurda per un organismo a cui è affidato il compito della lotta alla criminalità internazionale. Negli ultimi mesi dell’83 Walter Leamy cominciò ad appartarsi nel suo ufficio con il tedesco Summer e lo svedese Littas. Tutti gli altri funzionari venivano praticamente ignorati. Dalle mezze parole sussurrate si apprese che stavano preparando una riorganizzazione della Sottodivisione, per volontà di Kendall. Infine ai primi di dicembre apparve una nota contenente le direttive per il nuovo assetto strutturale ed i nuovi metodi di lavoro: in sostanza si tornava al vecchio sistema per aree geografiche, abbandonando quelle per tipologia di droghe. Ma proprio quel sistema che si voleva cambiare aveva ricevuto in quegli anni la positiva valutazione delle Polizie antidroga dei vari Paesi che erano quasi tutte, da tempo, organizzate in tal modo. Anche il Servizio Centrale italiano, lo SCA, lo aveva adottato. Sembrava quasi che il vero fine di quella operazione fosse di creare due figure formali di Capogruppo. La perplessità suscitata da quella nota convinse Leamy ad indire una riunione di tutto il personale della Sottodivisione. Essa fu critica e tempestosa: quasi tutti i funzionari di polizia fecero presente quanto quella riorganizzazione fosse professionalmente sconsigliabile. Svolsi anch’io delle considerazioni in tal senso. Anche Kendall dovette preoccuparsi di quel malumore giacché, cosa mai avvenuta prima, il 20 dicembre ci riunì tutti nell’ufficio di Leamy. Ascoltate le varie considerazioni assicurò che non avremmo dovuto

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preoccuparci: si trattava di un progetto sperimentale di sei mesi e ciascuno di noi poteva far pervenire i propri commenti scritti che sarebbero stati tenuti in buon conto. Doveva essere rimasto favorevolmente impressionato dal mio intervento, pensai, giacché dopo qualche giorni ricevetti un biglietto di auguri per Natale su cui di suo pugno aveva scritto: «Ho apprezzato la tua sincerità e professionalità ». Ben presto fu chiaro che quella riorganizzazione, già di fatto definitva, era solo una manovra imposta da Kendall a Bossard. Infatti alcune note riservate scambiate tra i due rivelavano che il Segretario generale era contrario a quel progetto sottopostogli e che avrebbe preferito consultare i vari Paesi durante la imminente riunione europea. Kendall ribadiva con toni duri che la decisione era necessaria ed urgente: i Paesi potevano essere informati successivamente! Nella nuova struttura che prevedeva due soli Gruppi di lavoro, i nuovi Capi sarebbero stati, scriveva quasi con darwiniana convinzione, ”for natural selection” Littas e Summer; insomma i suoi pupilli! Nelle settimane successive arrivarono sul tavolo di Leamy i promemoria dei funzionari, alcuni dei quali estremamente critici. «Qui si crede di poter prendere

per imbecilli i funzionari ed i Paesi!», aveva scritto senza mezzi termini il francese Bobhote. Avrebbe presto chiesto di tornare a lavorare presso il suo Servizio d’origine. Attraverso tutta una serie di considerazioni tecnico-professionali avevo evidenziato i rischi di affievolimento dell’azione antidroga che derivavano dal nuovo sistema. D’altro canto alcuni di essi cominciavano già a palesarsi: la ineguale distribuzione del lavoro stava sovraccaricando i soli sei ufficiali di collegamento, che venivano sommersi da centinaia di piccoli casi a tutto discapito della funzione di ”intelligence” per i paesi europei. I fascicoli più voluminosi e delicati venivano invece passati al nuovo Gruppo comprendente funzionari di altri continenti. Questi, pur con rispetto delle loro professionalità, erano estranei anche linguisticamente a nomi, metodi e regole della criminalità organizzata europea. Basti un esempio: nel redigere una lista di sospetti trafficanti era stato inserito addirittura il nome del giudice Taurisano di Como, uno dei nostri magistrati più impegnati nella lotta contro la droga! Per fortuna correggemmo il documento prima che fosse diramato ai vari Paesi. Alla luce di tutto quello che stava accadendo ritenni doveroso informare la mia Amministrazione. Inviai pertanto, a maggio dell’84, ai direttori della Criminalpol e del Servizio Centrale Antidroga copia del mio promemoria accompagnandolo con una nota riservata di commento. In essa scrivevo tra l’altro: «...il repentino

cambiamento organizzativo può pregiudicare in maniera sensibile la qualità delle

prestazioni professionali che la Sottodivisione dovrebbe rendere ai servizi

Antidroga dei differenti Paesi... In particolare quello italiano, certamente uno dei

più impegnati anche a livello internazionale contro una criminalità altamente

organizzata, rischierebbe di essere penalizzato... L’attitudine del Segretariato

Generale rivela una certa insensibilità verso l’Italia in relazione al contributo

culturale, giuridico, sociale e finanziario che essa fornisce nella lotta contro il

flagello della droga...». E dopo aver ricordato con cifre precise la consistente quota pagata dal nostro Paese alle casse del Segretariato Generale, continuavo: «... ma

tutto questo discorso finanziario e ben poca cosa rispetto al costo che l’Italia paga

in termini generazionali di giovani distolti da un’implacabile tossicomania ad un

costruttivo impegno sociale, ben poca cosa dinanzi al sacrificio di quei tutori

dell’ordine, magistrati, politici, educatori, quotidianamente impegnati contro una

criminalità pericolosa ed organizzata. Più che in ogni altro Paese molti di loro

hanno pagato con la vita... Del resto alcuni aspetti della problematica trascendono

una portata puramente organizzativa per investirne altri più propriamente di

politica criminale. Tale problematica e meritevole di essere portata all’attenzione

del Capo della Polizia e delle istanze politiche competenti...». E concludevo: «Lo

scrivente ha ritenuto doveroso assumere per convinzione e responsabilità la non

comoda posizione che si evidenzia... In ogni caso ritiene che la posizione italiana

debba essere rafforzata sotto tutti i punti di vista ed è pronto a fornire ogni

ulteriore contributo si ritenesse opportuno».

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Questa nota destinata a Nicastro e Coronas, sarebbe arrivata e nelle mani di Giuseppe Porpora e Giovanni Pollio, nominati di lì a poco rispettivamente Capo della Polizia e della Criminalpol. Un bidone per l’Interpol Negli ultimi mesi dell’ 83 un’altra circostanza avrebbe contribuito a rendere più tesa e confusa la situazione. Occorre a tal fine una premessa. Al momento del mio arrivo, presso il Segretariato Generale esistevano in virtù della normativa francese due associazioni di rappresentanza del personale non di polizia. Quella maggioritaria era guidata dal dottor Metterbhan, un giurista di colore originario delle Mauritius. Perfezionatosi alla prestigiosa “Sorbonne” in alti studi internazionali, alla preparazione culturale aggiungeva una grande motivazione sul piano dei diritti umani e sociali. Per il personale di polizia non esisteva invece alcuna forma associativa. Ne derivava quindi che le discussioni con la gerarchia, persino su alcune tematiche di rilevanza professionale, erano affidate ad impiegati non poliziotti. Volutamente mi ero astenuto da qualsiasi atteggiamento associativo-sindacale in quella sede internazionale. Nell’ ’82, anche su preciso segnale dei responsabili del Segretariato, preoccupati probabilmente della sempre maggiore forza contrattuale degli impiegati civili, si cominciò a parlare dell’opportunità di una associazione anche per i funzionari di polizia. In una serie di riunioni, a cui presi da fervore sindacale parteciparono in prima linea anche i capi delle tre Divisioni, Kendall, Mickelsen e Schlanitz, se ne gettarono le basi. Venne redatto ben presto uno statuto ed a fine ’82 fu eletto un Comitato di rappresentanza costituito da cinque poliziotti, tra cui Littas. Guardai subito a quest’iniziativa con un certo interesse: al di là degli aspetti corporativi, l’associazione avrebbe potuto dare un contributo importante su molti temi di rilevanza tecnica e professionale. Ma non fu così. Già dal primo anno l’associazione si rivelò voluta solo allo scopo di fungere da spalla alla gerarchia del Segretariato per controbilanciare le sempre più incalzanti richieste degli impiegati civili. In ogni caso si era aperta una nuova possibilità di dialettica attraverso le riunioni che di tanto in tanto venivano indette. Ebbi modo di svolgere qualche considerazione su argomenti di interesse generale. Fatto sta che nell’ottobre ’83, alcuni giorni prima delle elezioni per il rinnovo del Comitato di rappresentanza, non solo diversi funzionari di polizia ma anche lo stesso Metterbhan mi invitarono a presentarmi candidato. Accettai promettendo però un ruolo solamente di consiglio e di studio. Mi ritrovai eletto come vicepresidente e Juan Garcia, un integerrimo funzionario della polizia spagnola, risultò presidente. Proprio in quel periodo Bossard aveva convocato una riunione di tutto il personale per annunciare che era stato deciso procedere alla riorganizzazione logistica del Segretariato Generale. L’incarico era stato affidato alla ”società di management Benoit”. Nell’occasione aveva presentato un pacioso compunto signore, appunto monsieur Benoit, che si era detto fiero di essere stato prescelto e domandava la collaborazione di tutti. Quest’iniziativa aveva lasciato perplessi. Da quel giorno non si parlava d’altro. Alla sorpresa iniziale si aggiungevano diffidenza e preoccupazione man mano che si apprendeva come si era giunti a tale decisione. Essa, limitata all’inizio alla ristrutturazione della sede del Segretariato, si era estesa via via anche alla riorganizzazione funzionale dell’Organizzazione. Ciò era avvenuto attraverso questi strani passaggi: la sede del Segretariato era costituita da due edifici contigui, un moderno palazzo di sette piani ed una splendida antica villa che ospitava la biblioteca e la Divisione studi. Nell’8l, allo scopo di guadagnare spazio per gli uffici, era stato deciso di abbattere la villa. Al suo posto sarebbe dovuto sorgere un altro moderno edificio comunicante col primo. All’inizio dell’ ’83 dopo aver ottenuto, vincendo un lungo braccio di ferro con le autorità comunali di Saint-Cloud la licenza di demolizione, implacabili bulldozer avevano raso al suolo quel gioiello architettonico. Al momento di porre la prima

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pietra, era improvvisamente apparsa la società Benoit a cui era stato affidato l’incarico, certamente tardivo, di verificare se era conveniente costruire il nuovo edificio e nel caso con quali caratteristiche. Il responso era stato: se costruite qui, tra una ventina d’anni vi troverete nelle stesse necessità di spazio. Conviene quindi costruire altrove! Però prima di decidere dove e come costruire, sarebbe il caso di pensare ad un riassetto anche funzionale dell’Organizzazione! In sostanza la Benoit si autodesignava. A essa era stato affidato anche quell'ulteriore impegnativo incarico, nonché quello di scegliere il luogo per la nuova sede. Ciò per alcuni miliardi. Nella ricordata riunione era stata quindi notificata quella decisione già presa. Le perplessità non svanirono neppure dopo un incontro che a fine ottobre ’83 lo stesso Benoit volle avere con tutto il personale per illustrare il piano che aveva messo a punto. Sotto lo sguardo annuente di Bossard e Kendall, lo espose: dopo una prima fase di individuazione delle necessità dell’Organizzazione, svolta anche mediante interviste e questionari, si sarebbe passati alla vera e propria progettazione. Entro un anno – assicurò – il programma sarebbe stato portato a termine! L’esposizione, pur dottamente manageriale e sicura, non tranquillizzò i presenti che con domande precise imbarazzarono non poco l’ineffabile Benoit. Gli impiegati civili espressero il timore che la riorganizzazione portasse ad una riduzione del personale. Erano contrari inoltre alle interviste temendo che avrebbero permesso di individuare gli autori di eventuali dichiarazioni critiche. Dagli interventi dei funzionari di polizia emersero invece preoccupazione e incredulità riguardo al fatto che una piccola società privata potesse condurre a termine un incarico così impegnativo: il Segretariato Generale dell’Interpol è punto di raccordo, con proprie delicate caratteristiche professionali, per le polizie di mezzo mondo. Nei giorni successivi i rappresentanti delle due associazioni decisero una comune linea d’azione: dare il proprio contributo positivo, ma seguire con attenzione i lavori. Prima prova in tal senso fu che il personale venne invitato a lasciarsi intervistare, avendo ottenuto le garanzie di anonimato sulle dichiarazioni. Le osservazioni ascoltate durante la riunione e la diffidenza dominante dovettero preoccupare la gerarchia. Bossard istituì di lì a poco un Comitato ristretto di cui dovevano far parte i tre capi di Divisione nonché due rappresentanti per associazione. Coordinato da Kendall avrebbe dovuto seguire i lavori della società. Garcia ed io fummo designati per l’associazione dei poliziotti e Metterbhan per quella degli impiegati civili. Nel corso della prima seduta, come da noi richiesto, intervenne lo stesso Benoit a cui ponemmo precise domande. Le risposte furono ancora vaghe, non documentate e affatto rassicuranti. Appariva sempre più evidente che la società non sembrava possedere né l’esperienza né la struttura organizzativa. Si rivelava anzi una società familiare costituita da pochi impiegati. Non era stata effettuata alcuna ricerca di mercato prima di affidare un incarico così delicato e costoso. Non solo nessuna gara di appalto, ma neppure una scelta tra preventivi di società diverse. Al termine dell’incontro, a cui avevano partecipato anche Bossard e Kendall, la posizione delle due associazioni fu concorde: si ribadivano le perplessità iniziali, si assicurava la collaborazione per favorire i lavori, ma ci si dissociava dall’iniziativa. Con questo spirito Garcia, Metterbhan e io partecipammo a numerose riunioni, facendo verbalizzare ogni intervento. Ma più il tempo passava e più la capacità manageriale della società rivelava la sua inadeguatezza allo scopo. Se la prima fase del programma, basata soprattutto sulle interviste del personale, venne effettuata nei tempi previsti, quella successiva della elaborazione veniva invece procrastinata di mese in mese. Questa difficoltà a rispettare le scadenze non riguardava però la riscossione dei ratei che puntualmente venivano pagati. Nel luglio ’84 Benoit presentò infine un progetto di parziale riorganizzazione dell’archivio. Appariva approssimativo e difficilmente compatibile con il più ampio progetto di computerizzazione che un gruppo di esperti dei vari Paesi, già da tempo costituito, aveva messo a punto. Questo gruppo, solo tardivamente informato,

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aveva espresso le proprie perplessità per la mancanza di coordinamento e per la qualità del lavoro presentato. Per quanto riguardava la scelta della nuova sede dell’Interpol, le ricerche effettuate dalla società, avevano stranamente portato a preferire la più scomoda città di Lione a Parigi che era il tradizionale punto di incontro focale per i funzionari provenienti da tutto il mondo. A fine luglio le associazioni indissero una riunione di tutto il personale per renderlo edotto dello strano evolversi degli eventi. La sala era gremita, come mai si era verificato, di impiegati civili e funzionari di polizia a tutti i livelli, accomunati da un identico stato d’animo per le sorti proprie e dell’Organizzazione. A parte Bossard in missione all’estero, mancavano Kendall, sua moglie e pochissimi altri, tra cui il collega Lazzoni. Cambio di guardia al Viminale

In concomitanza con gli avvenimenti descritti, verso la metà dell'84, importanti mutamenti si verificarono al vertice della Polizia italiana. Il prefetto Giuseppe Porpora venne nominato Capo della Polizia al posto di Coronas. Come sovente avviene nelle Amministrazioni, a tale cambio di guardia seguirono una serie di assestamenti interni. Ad esempio il questore Nicastro, ormai da anni a capo della Criminalpol Nazionale venne mandato a dirigere, suo malgrado, il Servizio del personale. Proprio qualche mese prima aveva presentato all’autorità Giudiziaria un voluminoso rapporto sulla ” n’drangheta”. Ci si privava di un funzionario di grande esperienza nella lotta al crimine per destinarlo ad un settore per lui nuovo e per di più in fase di delicata transizione per via della riforma già in corso. Tutto ciò sapendo che un anno dopo sarebbe andato in pensione. Al suo posto venne nominato Giovanni Pollio, già questore di Roma. Per la Polizia italiana iniziava un nuovo corso. Non avevo mai avuto modo di lavorare direttamente con i nuovi Capi. Per di più il mio passato di ”sindacalista e antiprefettizio” non era sicuramente in linea con quei tempi di sottile controriforma. In ogni caso i primi contatti da me avuti con loro non furono negativi, sia dal punto di vista umano che professionale. Nel mese di giugno da Roma mi informarono che il questore Pollio proprio in quel giorno promosso Prefetto e Direttore della Criminalpol, di ritorno da una riunione di lavoro a Lussemburgo, avrebbe fatto sosta all’aeroporto di Parigi, accompagnato dal suo capo di gabinetto vicequestore Manzieri. Conoscevo già quest’ultimo, funzionario corretto e deciso avversario del Movimento, il cui nome sarebbe emerso successivamente nel quadro dell’inchiesta sulla loggia P2. In questa occasione conobbi invece per la prima volta il dottor Pollio, uomo dal fare scostante e distaccato. Dovendo trascorrere diverso tempo in attesa della coincidenza per Roma, li accompagnai nella sala Vip, che grazie alla cortesia dei colleghi francesi avevo potuto mettere a loro disposizione. Ero andato volentieri a quell’incontro sia perché mi dava la possibilità di conoscere il nuovo responsabile della lotta al crimine in Italia, sia perché speravo di fare un regalo a Peppino Pandiscia già da qualche mese ricoverato a Villejuif. Infatti quando la sera prima, attraverso il vetro divisorio della camera asettica, gli avevo riferito del passaggio a Parigi del ”suo Questore”, gli erano brillati gli occhi: «Che peccato non poterlo salutare...forse mi

cercherà». Avevo intuito quanto piacere gli avrebbe fatto ricevere una parola di ricordo da quel Capo per cui per anni aveva lavorato. Grazie all’aiuto di Manzieri superai infine l’indifferenza di Pollio e composto il numero dell’ospedale lo convinsi a parlare con quel funzionario ancora così devoto. L’indomani Peppino mi avrebbe raccontato con voce fiera che il Prefetto lo aveva cercato augurandogli di tornare presto. Anche il primo contatto col Capo della Polizia Porpora mi sembrò corretto e positivo. Fu in occasione della sua visita a Parigi, poche settimane dopo la nomina, per un incontro già in programma con il suo collega francese. Avvisati da Roma, Lazzoni e io eravamo andati a riceverlo all'aeroporto unitamente a un funzionario del Cerimoniale della Polizia francese. Porpora era con la moglie, una dolce signora profondamente interessata ai problemi sociali, il figlio e la nuora. Il

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giorno dopo era stato raggiunto dal questore Milioni dell’Ucigos e dal vicequestore Buzzanca della Scuola di Polizia, colleghi di grande professionalità che mi conoscevano da tempo. Gli incontri di lavoro si svolsero ad alto livello in un clima di le collaborazione. Mi sentivo fiero di affiancare, quel nostro Direttore Generale che appariva così pieno di stile. Mi meravigliò un po’, a dire il vero, la sua insistenza a volersi far precisare di volta in volta se i suoi interlocutori appartenessero alla categoria dei Prefetti o meno nonché la sufficienza con cui, a una domanda del Capo della Polizia francese, aveva risposto che l’Alto Commissariato Antimafia era cosa superata. Eppure dopo il massacro del generale Dalla Chiesa e della moglie la mafia aveva continuato la sua sanguinosa sequenza uccidendo nel corso dell’ ’83 a Trapani il sostituto procuratore Ciaccio Montalto, a Palermo il capitano dei Carabinieri Mario D’Aleo e il Capo dell’’Ufficio Istruzione del Tribunale Rocco Chinnici e nel gennaio ’84 il giornalista Giuseppe Fava. D’altro canto il prefetto Emanuele De Francesco, nuovo Capo dell’Alto Commissariato, solo da poco poteva disporre degli strumenti di indagine finanziaria introdotti dalla legge antimafia nata sul sangue del deputato Pio La Torre. Seguendo la tradizione inaugurata da Coronas, anche Porpora fece visita al segretario generale Bossard. Durante il viaggio verso Saint-Cloud gli esposi brevemente un quadro d'insieme dell’organizzazione Interpol, presente il silenzioso Lazzoni che con nascosta premura gli aveva già inviato rose in albergo. Porpora confermò a Bossard l’impegno dell’Italia nella cooperazione internazionale. Le sue parole caddero su un interlocutore distratto e preoccupato, sì che egli stesso si meravigliò un po’ della non brillantezza del Segretario Generale! Durante l’attesa all’aeroporto prima del suo ritorno a Roma, gli parlai della problematica ”droga”, rispondendo anche a qualche domanda della moglie, colpita da quelle considerazioni sul tragico destino di tanti giovani. Il Capo della Polizia al momento della partenza ci rivolse parole di ringraziamento ed elogio. Aveva anche confidato ai colleghi Milioni e Buzzanca di essere rimasto contento della nostra collaborazione e del clima di fiducia e di considerazione mostrato dai responsabili della Polizia francese. E venne l’ora A fine agosto dell’ ’84 salutai Kendall che stava partendo per le ferie. Scambiando qualche battuta scherzosa sul rapporto definitivo che Benoit avrebbe dovuto presentare in vista dell’Assemblea Generale dell’Interpol fissata per metà settembre a Lussemburgo, mi assicurò che se non fosse andato direttamente lì dalla Gran Bretagna avremmo potuto esaminarlo preventivamente insieme. Una cordiale stretta di mano suggellò il nostro arrivederci. I nostri diversi punti di vista sulla riorganizzazione della Sottodivisione ritenevo rientrassero nel clima di costruttiva collaborazione in un settore così difficile come quello della lotta al traffico internazionale. Lui stesso del resto mi aveva dato atto di ”sincerità e

professionalità ”. Inoltre che le mie osservazioni non fossero infondate era stato dimostrato dal fatto che ad aprile i Capi dei Servizi Antidroga europei, nel corso della loro riunione annuale avevano espresso perplessità sulla riorganizzazione in corso ed avevano deciso di costituire un gruppo di lavoro ad hoc. Circa l’affare Benoit sembrava che Kendall, pur non esprimendo una posizione precisa, tenesse in gran conto le osservazioni fatte da Garcia, Metterbhan e me. Intanto il mio contratto col Segretariato Generale, che sarebbe teoricamente scaduto il l5 ottobre, avrebbe dovuto essere rinnovato come era consuetudine per gli ufficiali di collegamento. Così come alcune settimane prima erano stati rinnovati quelli dello svedese Littas e del tedesco Summer da più tempo di me a Saint-Cloud. Nessun discorso in senso diverso mi era stato fatto nè da Bossard e nè da Kendall. Sia l’uno che l’altro avevano sempre scritto nelle mie ”note caratteristiche” inviate a Roma giudizi di alta professionalità e apprezzamento. D’altro canto se l’intenzione fosse stata diversa già avrebbe dovuto esser bandito il

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concorso per selezionare in campo europeo il funzionario destinato a sostituirmi. Ciò per garantire la continuità operativa nella zona geografica da me curata che, comprendendo Italia e Francia, era una delle più impegnative contro il traffico di droga. Le procedure selettive, così com'era stato prima per me, avrebbero richiesto diversi mesi. Il prefetto Pollio che avrebbe guidato la delegazione italiana a Lussemburgo, nel caso si fosse parlato della mia posizione, era al corrente del quadro generale dell’Interpol e delle problematiche esposte nei promemoria inviatigli. Inoltre non poteva essergli sfuggita nemmeno la recente cattura di ”don” Michele Zaza a Parigi, risoltasi sulla stampa in un successo anche per il suo ufficio. Ma in un mattino di settembre a Lussemburgo, in un incontro di pochi minuti tra Kendall e Pollio, venne cancellato tutto il lavoro da me svolto in tanti anni. Bossard, che aveva preferito non prendere posizione, si era allontanato lasciando soli i due funzionari. Non avrei conosciuto i particolari di quell’incontro, né se esso sia stato determinante o solo l’anello di un laccio che andava stringendosi per l’eliminazione di un funzionario scomodo. Qualche giorno dopo seppi che «dovevo rientrare a Roma». La mattina stessa del suo rientro dal Lussemburgo, Pollio si era precipitato dal Capo della Polizia col suo ”referto”. Neppure per un momento dovette ritenere che anch’io potessi avere qualcosa da dire. Chiamai Roma varie volte cercando di parlare col ”mio Direttore”. Niente da fare. Chiesi a Kendall, al suo ritorno a Saint-Cloud, cosa fosse successo: «Ton chef, le prèfet Pollio a dècidè: il faut que tu rentre!» fu la risposta. Era consuetudine presso il Segretariato Generale concedere un paio di mesi ai funzionari che dopo un certo tempo rientravano in patria. Con una nota scritta, come egli formalmente volle, domandai di rinviare almeno sino al l5 dicembre quell’imprevista partenza. Le incombenze materiali e burocratiche a essa connesse non erano semplici. La mia nota tornò indietro: termine perentorio il 30 novembre. Così aveva scritto di suo pugno Kendall. Lo stesso Capo della Divisione amministrativa Mickelsen avrebbe annotato sulla stessa come il tempo concesso fosse stranamente riduttivo rispetto alla prassi. Ma cosa stava succedendo? In quel tormentato periodo avrei fatto affannosi viaggi a Roma per cercare di comprendere le ragioni dell’indecifrabile precipitare degli eventi. Al diffondersi della notizia, mentre i diversi Capi sia dei Servizi Antidroga che delle Sezioni Interpol di vari Paesi mi telefonavano per manifestare la loro amarezza, da Roma il silenzio era assoluto. I responsabili di polizia della mia zona fecero addirittura dei passi ufficiali: il capo della polizia giudiziaria francese, Michel Guyot, scrisse al Segretario Generale la sua meraviglia per quella decisione ed il suo apprezzamento per «il funzionario italiano che con il proprio lavoro ha

permesso risultati importanti». La stessa cosa fece il capo della polizia monegasca, Andrè Dorato. Bossard si limitò a passare queste lettere a Kendall. Altri colleghi stranieri si complimentarono pensando che il rientro fosse collegato a una promozione importante. Invece... Proprio il l4 ottobre si riunì al Viminale il Consiglio di Amministrazione per le promozioni alla dirigenza. Il mio fascicolo fra i più completi professionalmente e non avrebbero dovuto esserci sorprese. Non solo non sarei stato promosso ma sarei stato scavalcato da alcuni funzionari dietro di me in graduatoria di anzianità. L’appuntato Giordani, vecchio amico del Movimento, presente nel Consiglio, mi avrebbe confidato che era giunto dall’alto il veto a discutere sul mio nome. Il prefetto Nicastro, confermando sia pur sfumatamente quell’attitudine di ostilità, mi confortò mostrandomi la lista esaminata. Il mio nome era al secondo posto degli esclusi e quindi per il prossimo scrutinio la promozione sarebbe stata matematica. Quando a fine ottobre il Capo della Polizia mi ricevette non gli parlai di questi problemi di carriera, ma di quel che stava avvenendo presso il Segretariato Generale. Mi trattò con inaspettata freddezza rispetto al cordiale incontro di pochi mesi prima a Parigi, rinviandomi al prefetto Pollio «attraverso il quale soltanto

egli parlava di tematiche di polizia criminale». Ma con questi ogni parola si infrangeva dinanzi ad un muro di glaciale indifferenza. A nulla valsero gli interventi di Sabatino e Di Gennaro responsabili dell’Antidroga e del Nucleo

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Anticrimine della Criminalpol. D'altro canto il clima di ostilità bloccava chiunque si premurasse di spendere una parola per assicurare della mia buona fede e professionalità. Parlamentari come Flamigni e Mammì avevano provato a parlare col Ministro dell’Interno Scalfaro. Niente da fare, era stata la risposta: i suoi rapporti col Capo della Polizia erano difficili e tutto si fermava dinanzi all’inflessibile linea Porpora-Pollio. Era ormai scontato che dovevo rientrare! Avrei voluto che almeno ciò avvenisse in modo professionale con la sostituzione da parte di un altro italiano, per non lasciare sguarnito un servizio così importante per il nostro Paese. Ma questo neppure si prevedeva! Dopo dieci anni, una citazione

Alcune circostanze, si verificarono in quel periodo. Da Roma verso la fine di settembre mi telefonò il collega Bontempi per informarmi che il giudice istruttore Grassi del Tribunale di Bologna mi citava come teste in merito alla vicenda Italicus. Non avendo svolto particolari indagini su quel tragico episodio, pensavo che l’audizione sarebbe stata puramente rituale. Pertanto preoccupato di quanto stava succedendo presso il Segretariato Generale, telefonai al giudice pregandolo di un rinvio che gentilmente mi concesse. Non chiesi su cosa in particolare vertesse la citazione. Il 30 novembre, termine fissato per la mia forzata smobilitazione da Parigi mi trovò, come temuto, ancora nel piccolo ”studiò” dove abitavo, tra valigie e incombenze di ogni genere. Tutto inoltre sembrava congiurare per rendere più problematico quel momento: lo sciopero dei trasportatori, le proibitive condizioni atmosferiche per un lungo viaggio in auto, le mie precarie condizioni di salute. A metà dicembre ero ancora lì. Per non allarmare i miei ed essere almeno per Natale a casa, avevo pregato Manlio Di Salvo di venire ad aiutarmi. Disponibile come sempre, aveva assicurato che sarebbe giunto il 24 e poi saremmo ripartiti insieme. Ma la sera del 23 con voce sconvolta mi aveva telefonato da Genova: stava partendo per Bologna. Una bomba era stata fatta esplodere nella stessa galleria maledetta di San Benedetto Val di Sambro. A distanza di dieci anni si ripeteva l’orrore dell’Italicus. I corpi martoriati di quindici persone e centinaia di feriti arrossavano la neve. Mi tornò in mente la citazione e mi preoccupai di sapere a cosa si riferisse: non si trattava di una semplice audizione, ma di un confronto col giudice Marsili. Da qualche mese erano state riavviate le indagini sull’eversione nera e su alcune strane vicende connesse all’attentato di tanti anni addietro e il giudice Grassi, ristudiando i fascicoli, aveva indiziato di reato il suo collega per alcuni comportamenti ritenuti non convincenti. In questo contesto voleva anche metterlo a confronto con me in relazione al contrasto avuto anni addietro presso la Questura di Arezzo. L’atto istruttorio era stato fissato per i primi giorni di gennaio.

Quell’ultimo Natale a Parigi fu per me solitudine, tristezza ed angoscia. Il viaggio di ritorno fu tremendo, interminabile. Tanti pensieri mi attraversavano la mente in una sequenza inarrestabile. Tra essi, come una ferita profonda, il ricordo di quella notte del l9 gennaio ’80 quando una telefonata mi aveva svegliato di soprassalto. Era mio fratello da Pescara che mi annunciava l'imminente fine di mio padre. Ero corso ancora nel buio all’aeroporto, ma per uno sciopero dei controllori di volo francesi ero riuscito a giungere a casa solo nel pomeriggio successivo. Papa era morto da poco. Osservando per l’ultima volta l'espressione severa e saggia di maresciallo dei Carabinieri mi erano tornate alla mente le sue parole preoccupate ed amare: «Sei un idealista e te lo faranno pagare!». Mi aveva cercato prima di morire. Non essergli stato vicino é stato il prezzo più caro di quella mia lontananza francese. Il giorno fissato mi recai, non senza una certa apprensione, presso il Palazzo di Giustizia di Bologna. Il confronto non si sarebbe svolto: il giudice Marsili aveva fatto pervenire un certificato medico di indisponibilità. L’istruttoria sarebbe stata

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ben presto trasferita altrove. Dopo questi quattro anni il processo si sarebbe svolto a Verona e concluso un verdetto di assoluzione per il magistrato.

X. Presso il Servizio Centrale Antidroga

Una carriera a ritroso

Dopo un breve periodo di congedo, più che altro per cercare faticosamente una sistemazione abitativa a Roma, ripresi il lavoro presso il Servizio Centrale Antidroga. Il mancato passaggio alla dirigenza comportava che dovessi tornare a svolgere, come se quegli anni di esperienza internazionale non fossero esistiti, le stesse funzioni di quando ero giunto nel l977 presso la Criminalpol; ma in un quadro diverso e più difficile di allora. Dopo la riforma della Polizia, infatti, i responsabili politici pur di non toccare la suscettibilità dei tre Corpi, avevano risolto il problema del coordinamento con un compromesso. Si era deciso che il Servizio Antidroga fosse diretto a rotazione per due anni da un Questore, un Generale dei Carabinieri e uno della Guardia di Finanza. Insomma il tempo di ambientarsi nel nuovo ufficio e andar via! Convinto assertore del principio che il servizio di polizia dovesse essere propriamente civile, mi trovai alle dipendenze di un Generale dei Carabinieri. Tuttavia proprio da questo militare, spigoloso ma di grande preparazione e onestà professionale, Giuseppe Calabrese, avrei ricevuto burberi quanto sinceri apprezzamenti. Ciò era ancor più confortante considerando che i colleghi funzionari, specie se assurti a importanti posizioni di carriera, pur confermandomi stima e solidarietà, si erano adeguati all’attitudine ufficiale. Anche nel Consiglio di Amministrazione del marzo ’85 venni nuovamente scavalcato nonostante il tentativo dei rappresentanti del personale, appuntato Giordani e vicequestore Dell’Uva, di far riflettere il Capo della Polizia Porpora su quell’evidente atto di ingiustizia. Il prefetto Nicastro mi confidò amaramente: «Caro Di Francesco, non so cosa stia succedendo sulla sua testa... In quarant’anni

non ho visto mai una simile gestione della Polizia!». Chissà quanto era sincero... Quel restare fermo al vecchio livello, oltre che essere mortificante e incomprensibile, mi impediva di operare con incisività operativa e responsabilità decisionale. Inoltre c’era come un veto insormontabile a inviarmi a riunioni internazionali. Le missioni dovevano essere approvate da Pollio e Porpora, ma nessuno osava ormai neppure più proporre il mio nome. Si preferiva far partire un collega di minore esperienza, magari con interprete al seguito! A nulla sembrava valere che l’evolversi degli avvenimenti presso il Segretariato Generale dell’Interpol stesse dimostrando come i miei promemoria non erano stati visionari. Non solo il gruppo di lavoro dei Servizi Antidroga europei aveva ritenuto poco funzionale la riorganizzazione della Sottodivisione Stupefacenti, ma l’affare Benoit si era rivelato un ben cattivo investimento. Bossard, e lui solo, a meta ’85 era stato riservatamente messo sotto inchiesta dai ”probi viri” dell’Organizzazione. Si sussurrava di interessi privati, forse di tangenti per un'impresa certo non lineare. Molti pensarono però che quel Segretario francese non era che il capro espiatorio di un’abile e ben più complessa manovra internazionale sull’Interpol a cui Kendall, che peraltro aveva ugualmente condiviso l’affare Benoit, non doveva essere estraneo. Queste considerazioni apparvero in un documentato articolo di «Le Monde». Fatto sta che nel corso dell’Assemblea Generale svoltasi il mese successivo a Washington, Bossard non si presentò ma inviò da Parigi le sue dimissioni. Kendall fu Segretario Generale! Da quel momento a Saint-Cloud sarebbe iniziata la grande epurazione anche per altri funzionari scomodi: da Garcia a Bobhote, da Metterbhan a Mickelsen, sarebbero stati costretti ad andar via. Il collega Lazzoni, ovviamente sarebbe rimasto lì e avrebbe fatto carriera. Forse anche grazie alle ”note” che negli ultimi tempi aveva inviato al Viminale sul mio conto. Qualche soddisfazione leniva talora la mia amarezza. La Delegazione italiana che

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partecipò all’Assemblea nella capitale statunitense era guidata ancora una volta dal prefetto Pollio, accompagnato dai questori Noce, Sabatino e Improta, dal generale Calabrese e dal colonnello Borghini. Al loro ritorno seppi che autorevoli esponenti di polizie straniere avevano chiesto di me con parole di apprezzamento professionale e umano. Si era verificato persino un episodio significativo: la delegazione aveva incontrato la Commissione parlamentare antimafia che proprio in quel periodo si trovava negli USA. Il discorso era caduto sull’Interpol. Alle domande di alcuni deputati, le risposte erano state generalmente di critica per la scarsa efficienza di quest’Organismo. «Ma questo non è quel che diceva il

commissario Di Francesco?» aveva chiesto con romagnola schiettezza il senatore Flamigni. E mentre la maggior parte dei funzionari esprimeva positive valutazioni, Pollio eloquentemente taceva. Chissà con che animo aveva sostenuto qualche mese dopo, quando la medesima Commissione lo aveva ascoltato formalmente sulla situazione organizzativa della nostra Polizia in campo internazionale, quelle stesse esigenze di italianità per le quali io ero stato punito. Inoltre al rientro della delegazione il generale Calabrese aveva insistito col Capo della Polizia affinché affrontasse infine seriamente il problema dell’inadeguata presenza della nostra Polizia presso il Segretariato Generale dell’Interpol. Solo allora, dopo più di un anno, sarebbe stato deciso di inviare un funzionario a Saint-Cloud E questi, il collega Bontempi si sarebbe suo malgrado subito scontrato con l’ineffabile Lazzoni. Ciò nonostante, la cappa di emarginazione e ostilità continuava ad avvolgermi in maniera implacabile, logorante. Per dissipare ogni impressione di paranoiche sensazioni, ecco solo alcuni episodi significativi. Manlio Di Salvo aveva accennato della mia vicenda alla parlamentare genovese Ines Boffardi che, ricordando l’impegno professionale e sociale nella sua città, aveva offerto il suo interessamento. Nel corso di un nostro incontro a Roma parlò in mia presenza telefonicamente con Cossiga, allora Presidente del Senato. «Conosco Di

Francesco, uno dei nostri migliori funzionari, ma il Capo della Polizia non so

perché ce l’ha con lui!»: fu la risposta. E pensare che proprio lui mesi prima a palazzo Madama mi aveva presentato al senatore Vassalli, che usciva dal suo ufficio: «Ecco il nostro bravissimo commissario dell’Interpol!». L’anziana e religiosissima signora Lucia, vedova dell’avvocato generale dello Stato Scoca, grata di quanto avevo fatto per Peppino Pandiscia, suo sventurato parente, volle intervenire presso il ministro Scalfaro. Lo conosceva dai tempi in cui giovane politico frequentava la sua abitazione dove si riunivano personaggi della DC, da De Gasperi a Don Sturzo. Scalfaro aveva subito risposto alla sua lettera: sapeva delle mie qualità morali e professionali, ma ricevermi gli avrebbe creato “difficoltà

politiche” col Capo della Polizia! Anche Pino Autieri aveva provato. Nella stanza di Porpora, lui e Sergio D’Antoni, segretario confederale della CISL, avevano accennato alla mia vicenda. Il Capo della Polizia era scattato in piedi: «Se volete che continuiamo a discutere non

dovete parlarmi del commissario Di Francesco!». E ancora Vito Zincani, in un incontro, con la partecipazione di Scalfaro, di magistrati e investigatori impegnati contro il terrorismo, aveva fatto il mio nome. Era stato bloccato da Porpora che lo aveva sconsigliato di parlare di me al Ministro. Nell’ulteriore Consiglio di Amministrazione sarei stato ancora scavalcato da decine di colleghi, alcuni addirittura centinaia di posti dietro di me. Il mio divenire professionale era ormai gravemente compromesso. E Porpora era Capo della Polizia da appena due anni!

Ma a parte le considerazioni di un futuro ancora più nero, mi sentivo isolato, emarginato, incapace di trovare una spiegazione. In una riunione della Segreteria nazionale del SIULP, avevo cercato di attirare l’attenzione su quell’assurda vicenda. Parlando delle problematiche ancora irrisolte di lotta al crimine e dell’incompiuta attuazione della riforma, avevo chiesto di non lasciarmi solo dinanzi a tanta incomprensibile ostilità. Scaturiva forse dalla posizione professionale assunta presso l’Interpol? dall’aver evidenziato l’equivoco ”affaire

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Benoit”? dal mio previsto confronto col magistrato genero di Gelli nella riaperta inchiesta giudiziaria su episodi stragisti e deviazioni P2? dall’arresto dei boss Michele Zaza e Nunzio Barbarossa? dall’impegno nel processo di democratizzazione della polizia che tanti equilibri continuava a turbare...? Chissà, certo nessun rimprovero poteva essermi mosso sul piano morale e professionale! Il nuovo segretario nazionale, commissario capo Lo Sciuto, mi aveva guardato con occhi compassionevoli: «Pazienza, Ennio, prima o poi sarai

promosso!». Dimentico degli ideali appresi al mio fianco negli anni del Movimento democratico dei poliziotti, pensava forse al suo predecessore già divenuto parlamentare, o alla sua rapida carriera per “meriti sindacali”! Promozioni, interessi, solo questo linguaggio si sapeva ormai parlare? Non pensavo di doverlo apprendere, anche se professionalmente violentato e umiliato. Avevo lottato per una Polizia migliore dentro e fuori, più preparata, più moderna, più democratica, ma soprattutto avulsa da compromessi e giochi di potere. Forse era stata solo un’utopia: tanto più irrealizzabile ora che la riforma era stata in gran parte svuotata da una gestione compromissoria e consociativa per tornaconti personali, interessi di appartenenza, sindacali o di partito...! E fuori, nella strada, i poliziotti lavorando in condizioni ancora difficili, non coordinate, contraddittorie, continuavano a lottare, spesso a morire, contro una criminalità sempre più spietata, manageriale e con indubbi coinvolgimenti all’interno delle istituzioni. L'avevo visto e sentito quel giorno al convegno di Isola delle femmine, vicino a Palermo. Ero amareggiato, deluso, svuotato, incapace di capire, dimenticare... Ironia della sorte, le norme transitorie della legge di riforma della Polizia consentivano proprio in quei mesi il passaggio ad altre Amministrazioni: avevo presentato domanda per il Ministero degli Esteri, dove pur esistevano settori di cooperazione internazionale per le problematiche droga e sicurezza. Ma non volevo affatto andar via: speravo, pregavo ardentemente, che qualcosa si chiarisse nel frattempo in quella logorante kafkiana vicenda. L’ultimo tentativo era stato ancora umiliante, senza speranza. Giunta la risposta affermativa della Farnesina, mi recai nell’ufficio del direttore del personale di p.s., prefetto Razzoli, e chiesi di poter conferire col Capo della Polizia che da un anno non voleva ricevermi: «Di che cosa mi si accusava? In cosa avevo

sbagliato? perché mi stavano mettendo nelle condizioni di distruggere la mia scelta

professionale? Eppure fuori la criminalità imperversava!». Allontanatosi, il prefetto Razzoli, tornò dopo poco: «Il Capo della Polizia Porpora,

non vuole vederla» e scuotendo la testa allargò fatalmente le braccia. Rientrato a casa, pieno di dolore e di rabbia, in un impossibile abbraccio salutai con una lettera pubblicata su «Ordine Pubblico»: «...Ho resistito e sofferto finché ho potuto. Per

non essere distrutto moralmente mi vedo costretto a lasciare la Polizia. Porto con

me il ricordo di guardie, appuntati, sottufficiali da cui tanta umanità,

professionalità e coraggio ho appreso. In senso diverso quello dei prefetti Porpora

e Pollio, sperando che un giorno le problematiche e le motivazioni vere della mia

vicenda possano venire alla luce. Vado via col cuore lacerato, sicuro di aver

sempre fatto il mio dovere verso i cittadini, le Istituzioni democratiche,

l’Amministrazione».

***

Quella sera, nello struggente crepuscolo di luce, affacciato alla balaustra del circolo di Polizia, solo col pensiero di Ninni Cassarà, vedevo confondersi nelle lacrime e scorrere lontani nell'acqua limacciosa del Tevere ricordi, ideali, speranze, volti di colleghi cari e non più tra noi, e mi chiedevo con che forza e fiducia avrei continuato a lottare contro la criminalità. Ma dove comincia e finisce poi questa?

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Il libro Un Commissario termina con la seguente lettera scritta dal

Presidente della Repubblica Francesco COSSIGA

Palazzo del Quirinale Roma, 22 Maggio l986

Caro Di Francesco,

apprendo dalla Sua cortese lettera la Sua sofferta decisione di lasciare la Polizia e,

nel gradito ricordo della Sua collaborazione, desidero farLe giungere i miei più

sinceri auguri di successo nel nuovo lavoro.

Con viva cordialità

Francesco Cossiga

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Articolo pubblicato su “La Repubblica” del 10 gennaio 1992

a firma di Pino ARLACCHI

Se un mattino d’inverno un poliziotto Le forze dell’ordine di questo paese rappresentano un popolo di un quarto di milione di individui cui sono affidate alcune tra le più delicate funzioni pubbliche. Ciononostante, esse rimangono un'entità separata, ignorata e guardata spesso con sospetto dall’opinione pubblica, dalla autorità di governo e dal ceto politico ed intellettuale. A quasi mezzo secolo dalla fondazione della Repubblica Italiana, non esistono ancora canali di comunicazione regolari attraverso i quali possiamo conoscere problemi, bisogni ed aspirazioni di questo Pianeta Sconosciuto. Un grande passo in avanti è stato compiuto nel l98l, con la legge di riforma della polizia che ne ha mutato lo status giuridico e i rapporti interni, avviando un processo di smilitarizzazione e sindacalizzazione che ha ridotto la «diversità» e la diffidenza reciproca tra la polizia e cittadini, ma che ha accentuato fino ad un punto di quasi-allarme la competizione e la diversità tra la Polizia di Stato da una parte e gli altri due corpi principali della sicurezza – Carabinieri e Guardia di Finanza – dall’altra. La fisionomia di questi ultimi è rimasta largamente immutata negli ultimi venti anni, mentre società e criminalità sono profondamente cambiate. Rivendicazioni legittime Il movimento verso una polizia democratica é iniziato nei primissimi anni 70 sotto la spinta di due elementi. Un impulso interno è venuto da parte di alcuni gruppi di base, formati da sottufficiali e graduati di alcune sedi dell’Italia del Nord, che hanno poi via via incluso funzionari ed ufficiali di grado medioalto. La spinta esterna e arrivata dalle grandi confederazioni sindacali e dai partiti della sinistra e del centro, eccetto la Dc, giunta per ultima al riconoscimento pieno della legittimità delle rivendicazioni dei «lavoratori della polizia». La riforma della PS è stata sancita per legge nel l98l, ma è iniziata di fatto già a metà degli anni 70, con l’avvicendamento al Viminale tra il ministro Gui – avversario dei nuovi fermenti - e Francesco Cossiga. Fu proprio Cossiga a compiere l’atto che rimarrà forse il più significativo della sua intera carriera politica: la famosa circolare del 9 ottobre l976 che riconobbe per la prima volta al personale della pubblica sicurezza il diritto di esprimere opinioni e giudizi sulla riforma della polizia, di riunirsi in assemblea negli uffici e di formare in futuro «associazioni professionali ai fini sindacali non legate a partiti politici». La riforma della polizia è oggi considerata cosa scontata e minore, ma è ad essa che dobbiamo il recupero di efficienza investigativa ed il discreto stato di salute generale della polizia italiana odierna. Entrambi (recupero e salute) assolutamente insufficienti a fornire una risposta alla grande sfida criminale degli anni 90, ma è la legge di riforma del l98l ad avere indicato la strada maestra da percorrere per la riforma complessiva – ancora da fare – del sistema della sicurezza. Chiunque voglia conoscere da vicino il faticoso processo che ha portato la Polizia di Stato a divenire un organismo nettamente più democratico e moderno rispetto ai tempi precedenti la riforma, dovrebbe leggere il bel volumetto autobiografico di Ennio Di Francesco, Un Commissario. L’Autore è oggi un funzionario del ministero degli Esteri la cui vera passione, anche dopo le sue dimissioni dal corpo nel l986, continua ad essere la polizia, ed il cui merito-difetto principale è consistito nell’essere stato più avanti rispetto ai suoi tempi ed alla mentalità dei vertici dell’Amministrazione della sicurezza pubblica. Il racconto parte dalla breve esperienza di Di Francesco come ufficiale dei Carabinieri tra il l966 ed il l968, e prosegue con la sua lunga, appassionata, sofferta «militanza» nella polizia di Stato lungo gli anni 70 ed 80 in qualità di commissario, e di leader del Movimento verso la democratizzazione e la riforma. Il libro contiene molte parti avvincenti. Si tratta di episodi vissuti in prima persona, che restituiscono il significato più autentico di una serie di cambiamenti sociali ed istituzionali senza dare l'impressione di una costruzione ideologica preformata.

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Le pagine più fresche sono quelle nelle quali Di Francesco rievoca il primo periodo del suo servizio in polizia nei primi anni 70. Il giovane rappresentante della legge e dell’ordine si trova nel bel del passaggio dalla tranquillità e dalla modesta criminalità degli anni 50 e 60 alla turbolenta epoca attuale svolgendo il servizio notturno alla Questura di Genova: a quei tempi, la sicurezza di una città di 700 mila abitanti, sede del maggiore porto italiano, ora affidata durante la notte alle cure di 4 poliziotti e di un paio di «volanti». L'affresco della piccola malavita, dell’umanità del sottosuolo che i bisogni e i capricci nascosti della gente perbene così come le pretese di quella ’permale’, il mondo della prostituzione, del contrabbando, del gioco d’azzardo, dell’incipiente spaccio della droga in un'area metropolitana italiana di un ventennio addietro, viene dipinto con acutezza, ironia ed una notevole dose di partecipazione. Gli occhi del giovane commissario si soffermano però senza reticenza anche sull’altro mondo, quello degli uffici di polizia: un impasto di squallore materiale, povertà economica e generosità e solidarietà umana talvolta commoventi. L'autore del volume è tutto il contrario di un arido funzionario della proibizione. E uomo di forti e tenaci idealità democratiche, puntiglioso in verità , che si trova ad operare in una istituzione ancora fondamentalmente autoritaria quale la polizia italiana del tempo, e che vorrebbe realizzate e rispettate le norme della Costituzione soprattutto nei confronti delle categorie più deboli e maltrattate del corpo cui appartiene. Da qui uno scontro pressoché continuo con la Gerarchia, ed una diffidenza verso ciò che a lui appare sempre più come potere puro, privo di autorità e capacità vera di comando, che alla fine lo condanna all’auto-emarginazione ed alla auto-espulsione. Non si trovano tracce, tuttavia, in questo racconto un po’ strano ed originale (come del resto il suo autore) dell’astio e della recriminazione dell’ex. L’entusiasmo illuministico e la fede per i valori della partecipazione democratica - che devono essere a tutt’oggi ancora realizzati in larghe parti del Pianeta Sconosciuto – cancellano il risentimento e pervadono molte pagine del racconto. Testimonianza privilegiata

La vicenda di Ennio Di Francesco può anche essere letta come una testimonianza privilegiata di eventi e processi che fanno parte della storia delle istituzioni della sicurezza pubblica italiana; la nascita del Sindacato Unitario dei Lavoratori della Polizia dopo quasi un decennio di attività clandestina, l’incerta battaglia contro il terrorismo condotta dagli organi centrali del ministero degli Interni e dai servizi segreti manipolati dagli uomini della P2, gli spinosi problemi dell’enforcement

della legge antidroga del 1975, e così via. Ma non si pensi ad un documento dotto e dal tono predicatorio. La psicologia un po’ semplificata ma sempre concreta, attenta a cogliere l’essenziale di un fatto o di un comportamento tipica del funzionario di polizia, si traduce in una scrittura piacevole e distesa, anche se talvolta ingenua e un po’ venata di «burocratese». Pino Arlacchi

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