De Prada - Il Fondatore Dell'Opus Dei - Vol III

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Andrés Vàzquez de Prada IL FONDATORE DELL’OPUS DEI Vita di San Josemaria Escrivà (voi. Ili) “I cammini divini della terra " Edizione italiana a cura di Aldo Capucci Traduzione di Agostino Donà LEONARDO INTERNATIONAL

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De Prada - Il Fondatore Dell'Opus Dei - Vol III

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Andrés Vàzquez de Prada

IL FONDATORE DELL’OPUS DEI

Vita di San Josemaria Escrivà (voi. Ili) “I cammini divini della terra "

Edizione italiana a cura di Aldo Capucci Traduzione di Agostino Donà

L E O N A R D O I N T E R N A T I O N A L

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ISBN 88-88828-24-9

Traduzione di Agostino Donà L'edizione italiana dei 3 volumi dell’opera è a cura di Aldo Capucci

Opera pubblicata su licenza di Fundación StudiumII Fondatore delPOpus Dei, volume HI © 2003 by Fundación Studium © 2004 Leonardo International srlIII volume marzo 2004 II edizione: maggio 2004

Ufficio Informazioni della Prelatura delPOpus Deiper l’Italia in InternetMilanoe-mail: [email protected] http://www.opusdei.it

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PRINCIPALI ABBREVIAZIONI USATE NEL TESTO

AGPAppuntiAVFLettera

EF

D

POI, P02, ecc.PMPRRHFSum.

T

Archivio Generale della PrelaturaAppunti intimiAutografi vari del FondatoreLe Lettere a tutti i membri dell’Opera, autentici scritti fondazionali, vengono citate con la data e con la nume­razione a margine che compare nel testo della Lettera stessa; per es.: Lettera 24-12-19S I , n. 7Nell 'Epistolario del Fondatore è raccolta la corrispon­denza personale; le lettere sono citate con la sigla EF e la dataDocumento dell’Archivio Generale della Prelatura (AGP)Raccolte di documenti a stampa (Sezioni dell’AGP)Processo Madrileno, seguito dal numero del foglioProcesso Romano, seguito dal numero della paginaRegistro Storico del Fondatore (Sezione dell’AGP)Summarium della Causa di beatificazione e canonizza­zione. Positio super vita et virtutibus, Roma 1988. Viene citato il testimone e il numero corrispondente del SummariumTestimonianza

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Capitolo XVI

Il Fondatore a Roma (1946-1948)

1. Il secondo periodo romano di don Àlvaro

Nella primavera del 1945 la vittoria degli Alleati aveva portato la pace in Europa, sebbene in molti Paesi per­manessero una forte instabilità politica e violente lotte intestine. Fu ben presto avviato il piano Marshall, per la ricostruzione e lo sviluppo economico dell’Europa deva­stata dalla guerra. La Spagna, che era uscita distrutta dalla guerra civile e non era riuscita a risollevarsi duran­te il periodo della Seconda Guerra Mondiale, fu poi emarginata dalle grandi potenze ed esclusa dagli organi­smi internazionali. Costretta da un rigido isolamento in­ternazionale a basarsi unicamente sulle proprie risorse economiche, che erano scarsissime (non aveva carbu­ranti, né materie prime, né produzione agricola in grado di sfamare la popolazione), sopravvisse a fatica. La Spa­gna di Franco era considerata una dittatura totalitaria, anche a motivo delle amichevoli relazioni che aveva mantenuto con i Paesi dell’Asse. Le Nazioni Unite chie­sero il ritiro degli ambasciatori dalla Spagna, attuato da parte di alcune Nazioni a partire dal dicembre 19461. Già dal 2 febbraio la Francia aveva chiuso la propria frontiera con la Spagna2.

Gli anni di guerra avevano lasciato anche altri strasci­

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chi. Il Collegio Cardinalizio, normalmente costituito da una settantina di membri, era ridotto a circa la metà dei componenti. Alla fine del 1945 Pio XII colmò i posti va­canti nominando trentadue Cardinali, quattro dei quali italiani e, per la prima volta dopo secoli di storia, i Car­dinali non italiani divennero la maggioranza nel Colle­gio. L’imposizione dei cappelli cardinalizi ebbe luogo il 21 febbraio 194 63.

Il Vescovo di Madrid guidò un pellegrinaggio a Ro­ma, per partecipare alla cerimonia. I pellegrini fecero la traversata fra Barcellona e Civitavecchia con la motona­ve /./. Sister e furono di ritorno il 24 febbraio. Don Alvaro e José Orlandis andarono al porto di Barcellona per ricevere mons. Eijo y Garay, che li mise al corrente delle ultime notizie di Roma e delle sue impressioni4. Verso la mezzanotte di quello stesso giorno, alla vigilia della sua partenza per l’Italia, don Àlvaro scriveva al Padre, accomiatandosi: “ Ci benedica! Sa quanto La ri­corda, e quanto prega per Lei suo figlio Àlvaro. Il 26, se Dio vuole, telegraferemo da Genova”5.

La traversata per mare fu ottima, diversamente dal viaggio da Genova a Roma. Una settimana prima Salva­dor Canals aveva trovato un appartamento al n. 49 di Corso Rinascimento; balconi e finestre davano su Piaz­za Navona e dunque era davvero centrale. C’erano un’anticamera, un soggiorno, un’ampia sala da pranzo e diverse camere da letto, anche se in una di esse erano ammucchiati i mobili del precedente inquilino. Don Àlvaro, non appena ebbe un attimo di calma, scrisse a Madrid una lettera di diverse pagine fitte, iniziando con il racconto del suo arrivo a Roma:

“Roma, 2-III-1946.Carissimo Padre, ecco la prima lettera di questa se­

conda “tappa” romana. Scriviamo nel nostro apparta­mento di Corso Rinascimento 49, che Salvador è riusci­to provvidenzialmente a trovare (...). Il viaggio per nave è stato ottimo; siamo partiti a mezzogiorno del 25, con

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tutto il bagaglio, e siamo arrivati a Genova il 26 alle tre pomeridiane. Ci aspettavano il Console e Salvador. No­nostante le proteste del Console, alle sei del pomeriggio siamo partiti per Roma su una Fiat guidata dal proprie­tario, un conte amico di Salvador. Per guadagnare tem­po abbiamo superato il valico del Bracco senza aspetta­re la scorta dei carabinieri, visto che il conte era dotato di un revolver (non è che avremmo potuto farci molto), ma non abbiamo avuto sorprese. Abbiamo cenato a La Spezia e, benché continuassero a dirci che era molto pe­ricoloso, abbiamo preferito proseguire il viaggio in not­tata, per arrivare in tempo a vedere i Cardinali spagnoli, che sarebbero partiti da Roma alle prime ore del giorno1. Ma prima si sono bucati due pneumatici, poi si sono rotti i due cric e infine, a 8 chilometri da Pisa, c’è stata un’altra foratura. Poiché era notte, nessuno si fermava per prestarci il cric o per aiutarci. Allora ci siamo chiusi per bene in auto per dormire, in attesa del giorno e di qualcuno che ci aiutasse; non sapevamo di essere tanto vicini a Pisa. Solo il giorno dopo abbiamo saputo che a un chilometro da noi, mentre dormivamo, alcuni bandi­ti avevano assalito un camion e se lo erano portato via, dopo aver legato agli alberi i camionisti. Finalmente, al­l’alba, qualcuno venne ad aiutarci. Ho celebrato a Pisa - la mia prima Messa in Italia - e abbiamo proseguito il viaggio, dopo esserci fatti sistemare le gomme. Niente da fare: forature una dopo l’altra e, invece di arrivare a Roma il giorno 27 di buon mattino, ci siamo arrivati il 28, senza aver cenato”6.

Alla descrizione del viaggio si aggiunsero diversi fogli fitti nei quali raccontava, con dovizia di dettagli, come avevano ottenuto dai Cardinali le lettere commendatizie. Sapevano da mons. Leopoldo che i nuovi porporati avrebbero ben presto lasciato Roma ed erano tutti con le valigie ormai pronte. Si mossero dunque con rapidità. Non ebbero difficoltà a ottenere le commendatizie dai tre Cardinali spagnoli: quello di Tarragona, quello di Grana-

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da e il Primate di Toledo. Poi si misero in contatto con al­tri che ancora si trovavano a Roma. Cerejeira, di Lisbo­na, offrì loro la lettera spontaneamente, prima che gliela chiedessero. “Anch’io voglio darvela!” , disse. Don Me- squita, il suo segretario, promise di farne avere una anche dal Cardinale Gouveia, di Lorenzo Marques. L’incontro di don Àlvaro con Ruffini, il Cardinale di Palermo, fu molto affettuoso. Quando don Àlvaro gli si avvicinò e gli ' disse che probabilmente non l’avrebbe riconosciuto, per­ché l’ultima volta che si erano incontrati aveva i baffi ed era in abiti borghesi, il Cardinale lo accolse con grande gioia e fece in pubblico grandi elogi dell’Opera e di alcuni suoi membri. Aveva conosciuto Albareda e Barredo. “Sa­pete bene - disse - che dove sono io deve esserci anche l’Opera: dovete venire a Palermo”7.

Già che era in ballo, don Àlvaro decise di chiedere let­tere commendatizie a tutti i Cardinali nelle cui diocesi qualcuno dell’Opera avesse svolto il proprio apostolato, fossero pure modesti tentativi di un ricercatore o di qualche studente, recatosi nel luogo grazie a una borsa di studio. Nella sua seconda giornata di lavoro a Roma scriveva al Fondatore: “È probabile che diano le com­mendatizie i Cardinali di Berlino, Colonia, Westminster, Palermo e, forse, Milano e New York che, aggiunti a quelli di Toledo, Tarragona, Granada, Siviglia (che nep­pure oggi è arrivata!) e Lisbona, fanno 11 dei 69 Cardi­nali di tutto il mondo: niente male, anche se qualcuno di loro dovesse tirarsi indietro” 8.

Per il 3 marzo don Àlvaro aveva fissato udienze con vari Cardinali che erano rimasti ancora a Roma. Francis Spellman, di New York, e Bernard Griffin, di Westmin­ster, che gli avrebbero sicuramente dato la lettera com­mendatizia, avevano dovuto lasciare Roma con urgen­za. In un ambiente così internazionale la lingua più diffusa tra gli ecclesiastici era l’italiano, nel quale don Àlvaro non era molto provetto. Ben presto si convinse che a Roma era la lingua d’obbligo: “Si vede - scriveva

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al Padre - che non c’è altra soluzione che parlare italia­no per capirsi con tutte queste persone: io cerco di farlo fin dal primo giorno”9. Ma quando il 3 marzo si pre­sentò, accompagnato da Salvador, all’appuntamento con il vicario generale di Colonia, dovette metter mano al francese. Nonostante tutti i suoi sforzi, dopo mezz’o­ra il vicario continuava a non capire perché il suo Car­dinale dovesse dare loro una lettera commendatizia. Co­munque, forse per dimostrare la sua buona volontà, propose loro di passare un momento da Sua Eminenza per baciargli l’anello. Momento che, con gran sorpresa del vicario e nonostante i suoi tentativi di abbreviarlo, si prolungò notevolmente. Infatti, una volta che furono entrati nello studio del Cardinale Joseph Frings, don Alvaro gli propose di mettersi subito d’accordo sulla lingua in cui intendersi. Il Cardinale sapeva solo il tede­sco, l’italiano e il latino. Allora don Alvaro gli propose il latino o il suo italiano di tre giorni. Il Cardinale Frings, saggiamente, optò per il latino e si intrattennero a parlare per un’ora e mezzo.

Don Alvaro gli spiegò l’Opera e comprese, dalle do­mande che seguirono, che il Cardinale capiva perfetta­mente; giunse dunque allo scopo della visita: “Habemus aliquas Litteras Commendaticias... fere omnium Epi- scoporum Hispaniae et etiam alicuius Cardinalis Lusita- niae, Italiae...” . Giunti a questo punto, Salvador, quasi a documentare ciò che diceva don Alvaro, tirò fuori dal­la borsa un mucchio di carte. Vedendole, il Cardinale Frings espresse meraviglia e si fece sfuggire un’esclama­zione: “Sed insatiabiles estis!” 10.

“ Gli risposi - proseguiva don ÀI varo nella sua lettera- che la cosa normale era portare per il Decretum laudis cinque o sei lettere commendatizie e la sua non toglieva né aggiungeva nulla alla possibilità di ottenere il Decre­to: l’Opera però aveva davvero lavorato in Germania e se il Cardinale Faulhaber si fosse trovato a Roma, ne avrebbe certamente data una e, soprattutto, esset nobis

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gaudium magnum litteram aliquam alicuius Episcopi Germaniae possidere, ecc.” 11. Il Cardinale accettò di buon grado e diede le disposizioni necessarie.

Il numero delle lettere commendatizie dei Prelati stra­nieri evidentemente non poteva essere eccessivo. Diver­so era il caso della Spagna. Da anni il Fondatore si re­cava nelle diocesi e manteneva colloqui periodici con numerosi Vescovi: si proponeva di ottenere lettere da tutti quelli che conosceva. In alcuni casi l’operazione doveva essere svolta in fasi successive. Dapprima era necessaria una approfondita conversazione con il Prela­to in questione sulla situazione giuridica dell’Opera. Poi veniva l’invito a redigere una commendatizia. Infi­ne bisognava ottenere che la inviasse: cosa non sempre facile, perché talvolta un Vescovo, per malattia, viaggi, accumulo del lavoro o magari per eccesso di confiden­za, lasciava passare molto tempo, finché don Josemarìa non era obbligato a ricordarglielo o a farglielo ricorda­re. Nei casi in cui non aveva avuto contatti diretti con un Vescovo, per sollecitarlo usava i buoni uffici di ami­ci o conoscenti, come il Vescovo di Tuy, l’Abate di Montserrat, oppure don Eliodoro Gii12. Si capisce per­ché, avendo iniziato la raccolta delle lettere nel dicem­bre del 1945, non riuscì a ottenerle tutte prima del giu­gno 1946.

Don Alvaro aveva portato con sé a Roma una dozzi­na di lettere commendatizie, alle quali nel mese di mar­zo si aggiunsero quelle dei Vescovi di Jaén, Zamora, Ja- ca, Ciudad Rodrigo, Barbastro13, oltre a quelle ottenute a Roma. Su questo tema don Josemarìa scriveva a mons. Lopez Ortiz il 25 marzo:

«Che peccato non poterci vedere per spiegarti perché è bene che si moltiplichino le ‘commendatizie’. Ringra­ziando Dio, le hanno concesse Vescovi del Portogallo e dell’Italia e tutti i Prelati spagnoli che hanno ricevuto la nostra richiesta»14.

Le commendatizie dei Vescovi spagnoli erano già più

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di trenta quando, a Roma, decisero di fare sette copie delle lettere che avevano, per poterle consegnare, sotto forma di opuscolo, ai consultori della Curia. “Siete co­raggiosi!” , commentò uno di loro15. Ma don Alvaro, nella stessa lettera in cui lo raccontava, scrisse al Padre: “Peccato non avere già tutte le commendatizie!” 16.

Il Padre avrebbe potuto pensare, come il Cardinale Frings, che i suoi figli di Roma fossero insaziabili. Ma, se lo pensava, non lo disse. Viceversa si affrettò a otte­nere le commendatizie da tutti i Vescovi che non aveva­no dato ancora segni di vita e scrisse a mons. Lopez Or- tiz, il 14 aprile:

«Perdonami questa insistenza. Da Roma mi chiedono con urgenza altre commendatizie (...). Mi piacerebbe sapere se i buoni Signori di Leon, Orense e Guadix si so­no fatti vivi. Ti dirò con franchezza che non m’importa troppo se dicono di no, anche se non lo desidero. Dim­mi urgentemente come stanno le cose»17.

Un mese dopo, don Alvaro lo aggiornava: “ Con le let­tere commendatizie abbiamo fatto un libro di cento pa­gine, molto bello” 18. Ma ne arrivarono altre. Le ultime (dei Vescovi di Leon, Ibiza, Plasencia e Vie) verso la metà di giugno19.

2. Le forme nuove di vita cristiana

Il Fondatore non era stato del tutto soddisfatto del De­creto di erezione canonica della Società Sacerdotale del­la Santa Croce, poiché il testo non rispecchiava fedel­mente la genuina natura dell’Opus Dei. Non era neppure adeguato al carattere universale dell’Opus Dei e, di conseguenza, non poteva favorirne lo sviluppo. Pertanto, dopo aver ottenuto l’incardinazione dei sacer­doti dell’Opus Dei nella Società Sacerdotale della Santa Croce, don Josemaria si ritenne obbligato in coscienza a esporre le ragioni per cui la veste giuridica non si adat­

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tava alla realtà del nuovo fenomeno pastorale che Dio aveva fatto nascere:

«Anche per queste ragioni - confessava ai suoi figli - in coscienza non possiamo considerare intangibile e defini­tivo quanto abbiamo ottenuto finora. Dobbiamo progre­dire e migliorare, fino a ottenere la garanzia per poter es­sere in modo genuino ciò che Dio vuole che siamo»20.

C’era anche un’altra buona ragione per fare un passo avanti, anche se il Fondatore non ne fece menzione poi­ché si trattava di un tema delicato. Ma corre l’obbligo di dire, visto che vi fanno riferimento i documenti pub­blici e solenni della Santa Sede, che la opposizione dei buoni non era cessata21. C’era, anzi, il pericolo che si propagasse. Don Josemarìa, con molto dolore e altret­tanta delicatezza, ne informava il suo buon amico, p. Roberto Cayuela, S.J.22.

Le denigrazioni e le dicerie propalate contro l’Opera in Spagna cominciavano ad arrivare a Roma. La miglio­re contropartita erano le lettere commendatizie, che at­testavano l’universalità di una impresa apostolica, rivol­ta a persone di tutte le condizioni e di diversi Paesi. Inoltre, i Vescovi davano atto della obbediente sotto- missione alla Gerarchia dei fedeli dell’Opus Dei che, con il proprio lavoro professionale, autenticamente apostolico, prestavano un servizio diretto alle chiese lo­cali. Tutto ciò giustificava la petizione, rivolta alla Santa Sede, di dotare l’Opus Dei del regime pontificio conso­no al governo, alla natura e ai fini dell’istituzione.

Nella seconda settimana di permanenza a Roma, don Àlvaro diede per conclusa la raccolta di lettere commen­datizie e si rivolse alla Sacra Congregazione dei Religio­si, unico organismo della Curia in cui era possibile, in quel momento, trattare della questione giuridica. Con il supporto dell’ingente numero di commendatizie, sem­brava che non sarebbe stato difficile ottenere ciò che de­sideravano. E invece la petizione divenne una sorta di

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pomo della discordia. Non quanto alla sostanza, ma al modo di procedere, perché sorse una diversità di pareri tra i consultori. Per alcuni di loro la struttura giuridica dell’opus Dei poteva essere inquadrata all’interno della normativa del Codex allora in vigore. Altri invece, con­siderando che l’Opus Dei era una forma nuova di apo­stolato, propendevano per inquadrarlo giuridicamente nella normativa propria di tali forme nuove. Normativa che, comunque, non esisteva ancora23.

Nel mese di marzo 1946 don Alvaro, lasciando la que­stione nelle mani dei consultori della Sacra Congregazio­ne, cercò di risolvere un altro problema: quello della ca­sa. Presto o tardi sarebbero stati costretti a sgomberare l’appartamento che occupavano senza la tutela di un contratto d’affitto. Sarebbe potuto convenire loro acqui­stare una villa o un grande appartamento, poiché in quel momento a Roma i prezzi erano bassissimi. D’altra parte non avevano certo il denaro necessario.

“ Ora stiamo visitando case - scrisse don Alvaro al Pa­dre Facciamo delle camminate interminabili e così sfruttiamo il tempo mentre procedono le istanze in cor­so” . A questo proposito, aggiunse: “Credo che la nostra presenza qui sia necessaria almeno fino a Pasqua. È vero che la cosa procede a meraviglia, ma è necessario che proceda rapidamente e senza che vi siano modifiche, e qui nasce il problema. Ci sono cose che sono state ac­colte con grande interesse (!), ma che stanno dormendo il sonno dei giusti da un paio d’anni”24. Uno dei consul­tori, riferiva don Alvaro, aveva affermato che se il Fon­datore “ fosse stato al corrente del meccanismo canonico delle cosiddette forme nuove, avrebbe ritoccato alcuni punti delle Costituzioni”25. “ Comunque - proseguiva don Alvaro - bisogna ringraziare Dio: mi diceva anche che di solito ritoccano tutti o quasi tutti gli articoli, e poi li approvano direttamente con i ritocchi”26.

Tre giorni prima che gli arrivassero queste notizie il Padre aveva cominciato a scrivere ai suoi figli di Roma

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una lunga lettera - la “famosa” lettera (già citata a lun­go), iniziata il 24 marzo e finita il 30 aprile 1946 - che riflette l’altalena di speranza e di crescente impazienza del Padre. Fino ad allora aveva dato per scontato che don Alvaro si sarebbe sbrigato presto e che sarebbe sta­to di ritorno a Madrid in capo a qualche settimana. E infatti scriveva, con ragionevole ottimismo, che le lette­re commendatizie che continuavano a giungere in ritar­do nelle sue mani «non saranno inutili perché le racco­glieremo poi tutte in un libro, anche se non occorrono più per il decreto»27.

Il Padre scriveva questa riflessione la notte del 24 marzo 1946. Il mattino successivo tutto era cambiato. Arrivò un telegramma di don Àlvaro che comunicava al Padre una notizia assai poco positiva. In effetti, in Curia gli avevano detto che “era urgente aspettare”28. Preoc­cupato, il Padre rispose subito: «Se le cose vanno per le lunghe - scrisse il 26 marzo - penso che sia opportuno che il “pretino” se ne venga qua per una settimana per scambiare impressioni e poi ritorni subito a Roma»29.

Da quel momento il Padre cominciò a temere che le cose stessero complicandosi30. Ma non parve opportuno che don Àlvaro (il “pretino” ) si assentasse da Roma, vi­sto che aveva già chiesto udienza a Pio XII, attraverso mons. Montini. L’udienza fu fissata per mercoledì 3 aprile, a mezzogiorno.

Don Àlvaro si era preparato alcune parole in italiano per chiedere al Papa il permesso di parlargli in spagno­lo. “Ma quando lo vidi - raccontò - entrai in confusio­ne e glielo dissi in castigliano”31.

“Ma certamente!” , gli rispose il Santo Padre in spa­gnolo, con accento sudamericano.

Don Àlvaro gli ricordò allora di avere già avuto la gioia di essere ricevuto da Sua Santità nel 1943. Ora il Fondatore dell’Opus Dei lo aveva inviato a Roma per chiedere il Decretum laudis e alla petizione erano unite quaranta lettere commendatizie. Parlò anche della diffu­

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sione dell’apostolato e della situazione dell’Opera. Il Santo Padre si mostrò sorpreso nell’apprendere che i membri dell’Opus Dei esercitassero l’apostolato fra gli intellettuali, e in particolare tra i docenti universitari, da comuni cittadini che vivevano nel mondo cercandovi la santità di vita.

“ Che gioia!” , disse il Papa e a un tratto gli si illuminò il volto aquilino, sul quale le preoccupazioni degli ultimi anni avevano scavato rughe profonde. Fissando lo sguardo su don Àlvaro, gli disse: “Ora la ricordo perfet­tamente, come se fosse ora; la rivedo in uniforme, con molte decorazioni. Sì, sì, mi ricordo molto bene”32.

Don Àlvaro gli espose le difficoltà che erano sorte nel­la Sacra Congregazione dei Religiosi33. Poi, con fiducia filiale, al Papa, con quella che, non a torto, avrebbe de­finito una inaudita sfacciataggine da parte sua, aggiunse un’altra cosa:

“Dissi al Santo Padre che p. Larraona ci aveva racco­mandato di pregare molto il Signore perché il Decreto arrivasse quanto prima e perché il Santo Padre, senza doverlo chiedere, ricevesse lui in udienza”34.

Gli consegnò poi, a nome del Fondatore, una copia di Santo Rosario, di La Abadesa de Las Huelgas e di Cam­mino, tutti magnificamente rilegati in pergamena anti­ca, con preziosi fermagli, tagli in oro e stemma pontifi­cio. Il Papa volle subito sfogliare Cammino e leggerne alcuni punti: “Sembra molto adatto per fare la medita­zione: sono punti di meditazione” , commentò35. Prima di accomiatarsi, don Àlvaro potè ancora parlare di Cammino e dire al Santo Padre che lui e tutti i mèmbri dell’Opera avevano imparato dal Fondatore a essere buoni figli del Papa.

Cp

* * ì J-

Che cos’erano dunque le forme nuove di cui parlavano i consultori della Curia? In che cosa consisteva la loro

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novità, visto che un esperto ipotizzava che il Fondatore, se fosse stato al corrente del loro meccanismo canonico, avrebbe formulato diversamente alcuni punti del Diritto particolare dell’Opus Dei?

La Chiesa è giovane, anche se conta i secoli, ed è fe­conda. Nel corso del XIX secolo apparvero nel suo seno associazioni di vita cristiana e di apostolato che non si adeguavano allo stretto concetto canonico degli stati di perfezione, o perché gli associati non emettevano voti pubblici o perché non facevano vita comune. Queste istituzioni, molto diversificate nelle loro finalità e diffu­se in molti Paesi, erano riconosciute dall’autorità dioce­sana come Pie Unioni, Sodalizi oppure Terz’Ordini. Pro­prio per la loro novità venivano chiamate forme nuove di vita cristiana, forme nuove di perfezione, o di aposto­lato, o di vita religiosa; o semplicemente forme nuove36.

Le istituzioni che prevedevano per i propri membri la vita comune avevano trovato posto come società di vita comune senza voti nel titolo XVII del libro II del Codice di Diritto Canonico del 1917. Ma le altre forme nuove, che erano canonicamente atipiche, creavano problemi circa la competenza delle Sacre Congregazioni, mancan­do una normativa che regolasse il caso particolare di ciascuna di esse. Pertanto era urgente colmare il vuoto legislativo. Mons. La Puma, all’epoca Segretario della Congregazione dei Religiosi, si pronunciò nel 1934 a fa­vore del riconoscimento delle forme nuove-, successiva­mente, nel 1945, fu istituita una commissione incaricata di preparare le norme procedurali per la loro approva­zione37.

Si è già visto che nel 1943 la Società Sacerdotale della Santa Croce aveva ottenuto il nihil obstat della Santa Sede come istituzione di vita comune senza voti, intesa in modo flessibile la vita in comune e con la precisazio­ne che i soci non erano religiosi. Aveva potuto così otte­nere l’approvazione diocesana e un’ampia libertà orga­nizzativa, secondo il suo peculiare regolamento e in

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conformità con i canoni del titolo XVII, libro II del Co­dice di Diritto Canonico. Nel 1946, tre anni dopo, il Fondatore chiese, senza variazioni di inquadramento giuridico, un Decretum laudis che significava, a tutti gli effetti, passare da un regime diocesano a un regime pon­tificio, cioè universale e unitario. Il Fondatore chiedeva pure l’approvazione di Statuti che garantissero l’autenti­ca natura dell’Opus Dei e mostrassero con chiarezza che non si trattava di un’associazione di fedeli aggregata, come una specie di appendice, alla Società Sacerdotale della Santa Croce, bensì della linfa e della radice da cui nasceva la Società Sacerdotale stessa; e che i sacerdoti che ne entravano a far parte provenendo dall’Opus Dei, non cessavano di far parte dell’Opus Dei.

Quando i consultori della Sacra Congregazione dei Religiosi cercarono riscontri nel Codice del 1917, si re­sero conto che il fenomeno pastorale dell’Opus Dei pre­sentava problemi di quasi impossibile soluzione entro la cornice giuridica del titolo XVII del libro II, per quanto flessibile fosse l’interpretazione data ai canoni. D’altra parte non si poteva pensare di riformare il Codice per dotare di una normativa appropriata una istituzione na­scente. Non c’è quindi da meravigliarsi che un alto per­sonaggio della Curia dicesse a don Àlvaro che «l’Opus Dei era giunto a Roma con un secolo di anticipo e che l’unica soluzione possibile era di aspettare, perché non c’era un quadro giuridico adeguato a ciò che l’Opera rappresentava » 38.

Che cosa fare in una simile situazione, se non imboc­care l’unica strada che rimaneva aperta per potersi forse inserire in una normativa ad hocì Era la strada intrapre­sa, da diversi anni, dalle forme nuove. Purtroppo, la normativa generale e le procedure per giungere alla loro approvazione stavano, per usare la frase di don Àlvaro, “dormendo il sonno dei giusti”39.

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Il inaudita sfacciataggine di don Àlvaro produsse ef­fetti immediati. Il lunedì successivo, Pio XII ricevette il Cardinal Lavitrano, Prefetto della Congregazione dei Religiosi, e gli chiese di concludere presto la questione delle forme nuove. Il martedì, quando Salvador Canals andò a consegnare alcune copie delle lettere commenda­tizie a p. Larraona, questi gli disse: “ Siete fortunati. Sarà la prima Opera a essere approvata”40. Ma subito dopo cominciarono a profilarsi ostacoli e intoppi. Come diceva p. Larraona esaminando le Costituzioni, “ l’Ope- ra era una forma tipicamente nuova, ha cose che po­trebbero passare perfettamente nel Congresso” , ma an­che altre che “ sorprendono per come sono formulate, ed è probabile che i Cardinali della Plenaria facciano difficoltà” ; per esempio il fatto che “nelle Costituzioni di una Società Sacerdotale sia regolamentata un’opera femminile”41.

Gli ostacoli e i ritardi tenevano il Padre sulla corda. Accadeva qualcosa in fondo alla sua anima. Per capirlo basta considerare un fatto singolare, per nulla consono al suo modo di essere. Il 29 marzo, scarse e incerte le notizie da Roma, scriveva ai suoi figli: «Sono nelle mani di Dio», e aggiungeva una frase enigmatica: «Qualcosa di questa situazione mi ricorda quell’altra, non so per­ché: ma sì che lo so»42.

Rimase così in sospeso, quasi con la penna a mezz’a­ria, fino a che riprese a scrivere - a un mese di distanza!- dopo aver ricevuto una nuova lettera da don Àlvaro43.

Che cosa ne era del dinamismo del Padre? Possiamo immaginarlo sui carboni ardenti e consunto nel suo inti­mo, mentre viaggiava senza soste per tutta la Spagna al­la ricerca di lettere commendatizie. Ma non perse la se­renità di spirito. La sua risposta ai problemi suscitati nella Curia romana è tutta una lezione di abbandono al­la Provvidenza e di assoluta fiducia in don Àlvaro:

«Proseguo il 29 aprile. Devo mettermi in viaggio e, tra una cosa e l’altra, non ho potuto rispondere alla let­

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tera di Alvaro. Non vedo inconvenienti alle modifiche accennate, anche se mi pare che sarebbe meglio lasciare le cose come stanno. Il ramo femminile non deve stac­carsi dal tronco. Tutti gli istituti maschili hanno confra­ternite, fraternità, pie unioni, ecc., femminili, che dipen­dono da essi in modo assoluto. Ma se non può rimanere così, per lo meno bisogna mantenere l’unione e la dipen­denza attuali come privilegio, nel qual caso potrebbero essere preparate a parte le costituzioni del ramo femmi­nile dell’Opus Dei (a questo scopo ti invio alcune carte) e ottenerne l’approvazione (...).

Insomma, da qui non è facile rendersi conto della po­sizione di quei signori canonisti: sarebbe una gran pena dover disarticolare questa Opera di Dio.

Fa’ notare con assoluta chiarezza che queste mie figlie non sono monache. Non c’è alcun motivo per equipa­rarle»44.

Un altro dato rilevante è che passarono ben quattro settimane, un silenzio inusuale, tra la lettera di don Alvaro del 19 aprile e la successiva, che porta la data del 17 maggio. Il contenuto di entrambe nonpoteva che ac­crescere il disagio del Padre, perché don Alvaro gli dice­va che si recava quasi ogni giorno alla Congregazione dei Religiosi a trovare p. Larraona, che stava lavorando alla preparazione del Decreto con la nuova procedura di approvazione. È proverbiale la lentezza delle burocra­zie, ma ancor più lento era, a giudizio di don Alvaro, il procedere della Curia romana. L’elaborazione del mate­riale che doveva essere esaminato dalla commissione dei consultori richiedeva tempi sempre più lunghi45. Frat­tanto il Fondatore vedeva passare le settimane e trascor­rere i mesi. A don Josemarìa venne la voglia di mettersi in viaggio per Roma, perché la sua pazienza cominciava a incrinarsi46.

«Sabato 18 maggio: l’aereo non è arrivato né ieri né oggi. Vi abbiamo inviato un telegramma al giorno. Spe­riamo che l’Arcivescovo possa partire domani o, al più

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tardi, lunedì. Nulla di nuovo. Quando arriveranno noti­zie del Decretum laudisi»47.

A Roma si lavorava sui documenti presentati da don Àlvaro alla Santa Sede, che dovevano necessariamente fare tutti i passaggi previsti dalla procedura. Dapprima un accurato esame degli Statuti. Poi si sarebbe passati allo studio congiunto della Commissione dei consultori e, se il parere fosse stato favorevole, sarebbe stata pre­sentata la petizione al Congresso plenario. L’ultima ap­provazione era riservata al supremo giudizio del Roma­no Pontefice. In quei giorni si era ancora sulla soglia della prima tappa; poi, alla fine di maggio, fu fissata la riunione della commissione dei consultori per sabato 8 giugno 1946. “Sarebbe dovuto essere sabato 1 - scrisse don Àlvaro - ma il 2 c’è il referendum e alcuni dei con­sultori devono andare fuori Roma a votare. Ci sono molti intoppi ed è naturale che sia così”48.

Al Padre, che da molto tempo sospirava il decretum laudis, la notizia che finalmente la Commissione si sa­rebbe riunita risollevò lo spirito: «Mi parrebbe giusto che promulgassero un documento solenne - scrisse a quelli di Roma -, proprio perché è il primo caso di una forma nuova»49.

Il giorno 8, alle nove e mezzo del mattino, la commis­sione diede inizio ai lavori. Il Presidente, p. Goyeneche, avrebbe poi detto che fu la seduta più lunga che avesse presieduto. Tutti i componenti erano entusiasti del Dirit­to particolare dell’Opus Dei, che essi chiamavano “Co­stituzioni dell’Opus Dei” , e decisi a proporre al Congres­so plenario la concessione del Decretum laudis50.

Don Àlvaro non si lasciò prendere dall’esultanza dei consultori, che gli facevano i complimenti per il “succes­so della Commissione” , poiché era convinto che, con quel ritmo, la sua permanenza a Roma si sarebbe pro­lungata. “Come vede - scrisse al Padre - qui tutto va per le lunghe: dice Larraona che la velocità delle nostre cose è stupefacente, inusuale; tuttavia passano giorni e giorni

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e non succede nulla: se non si vedesse la mano di Dio in tutto, sarebbe veramente disperante”51. Stava per so­praggiungere l’estate e non sembrava possibile organiz­zare il calendario delle riunioni in tempo perché il Con­gresso plenario approvasse i documenti già esaminati favorevolmente dalla commissione. E quando sarebbe apparso il tanto atteso decreto sulle forme nuove, per poter approvare l’Opus Dei in conformità con la nuova normativa? Don Àlvaro accusava la stanchezza per l’im­pegno profuso nel fare visite, perorare, persuadere e ad­durre motivi di urgenza per accelerare i tempi. Era a Ro­ma ormai da più di tre mesi, in continua attività.

Lunedì 10 giugno, “dopo avere riflettuto a fondo”52, così scriveva al Padre: “Io mi sono quasi completamente bruciato (...). L’unico modo di risolvere le cose sarebbe un viaggio di Mariano di una quindicina di giorni (...). Nel caso che venga, sarebbe meglio questa settimana o la prossima”53.

A questa sincera richiesta di aiuto il Fondatore rispo­se immediatamente:

«Non mi entusiasma affatto il viaggio che mi vuoi far fare: non sono mai stato in condizioni fisiche e morali peggiori. Tuttavia, per non mettere ostacoli alla volontà di Dio, questa mattina stessa ho chiesto che mi prepari­no i documenti, per ogni eventualità; se vengo, verrò co­me un peso morto. Fiat. (...)

Nonostante tutto, se è necessario, manda pure un te­legramma urgente: Mariano partirebbe con il primo ae­reo. Pregate per lui»54.

Senza conoscere ancora la risposta del Fondatore, mercoledì 12 giugno don Àlvaro scriveva per confermare la sua opinione: “ In questa vicenda sono ormai fuori gioco” 55. Poi passava a un altro argomento: la lunga udienza che aveva avuto il giorno precedente con mons. Montini, di cui riferiva nei particolari l’entusiasmo per POpera e l’interessamento per le procedure concernenti il Decretum laudis, che “deve uscire subito - disse - per­

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che tutta la Gerarchia vi guarda con vero affetto”56. Don Àlvaro aveva lasciato a mons. Montini, che li avrebbe poi fatti avere al Papa, il libro rilegato delle Lettere com­mendatizie, il curriculum vitae del Fondatore e una foto­grafia di Sua Santità perché vi potesse apporre una bene­dizione autografa57.

Accomiatandosi da mons. Montini, don Àlvaro si di­menticò di invitarlo a pranzo, cosa che si era proposto visti l’affetto e la stima che aveva dimostrato. “ Ma quando mi restituirà le commendatizie - continua la let­tera - gli risponderò per dargli ricevuta e per invitarlo. L’ideale sarebbe che venisse a pranzo a casa quando ci sarà Lei”58.

Don Àlvaro dava per scontato che il Padre sarebbe giunto presto a Roma.

3. Una notte in preghiera

Le tanto attese lettere da Roma arrivarono finalmente do­menica 16 giugno59. Non appena le ebbe lette, don Jose- marìa convocò i membri del Consiglio Generale dell’Ope- ra. Si riunirono nel Centro di via Villanueva, nella stanza di Pedro Casciaro, che era a letto con una forte emicra­nia. “Il Padre - riferisce Francisco Botella - ci lesse la let­tera di Àlvaro”60. Prima di prendere qualsiasi decisione voleva sentire il parere dei membri del Consiglio61.

Tutti erano convinti che don Àlvaro non avrebbe ri­chiesto la presenza del Padre a Roma in termini così pe­rentori, se non fosse stato assolutamente necessario. La sua insistenza presso la Curia otteneva ormai scarsa ri­sposta. Era chiaro che i suoi interventi erano arrivati a un punto morto. Non tanto perché, come diceva nella lettera, si fosse ormai bruciato, ma perché era necessa­rio prendere delle decisioni su questioni prettamente fondazionali, che andavano perciò oltre la sua compe­tenza. Fino ad allora, don Àlvaro si era orientato con le

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risposte del Fondatore ai quesiti che gli sottoponeva per iscritto; ma non si poteva continuare così, vista la deli­catezza dei problemi e la difficoltà di comunicazione. Tuttavia, il problema che preoccupava quelli del Consi­glio Generale era un altro: il Fondatore era in condizio­ni fisiche tali da sopportare la fatica del viaggio e il duro layoro che lo attendeva nella calura estiva? Tutti sape­vano che il diabete, diagnosticato nell’autunno del 1944, andava di male in peggio. Secondo il parere di Juan Jiménez Vargas, che seguiva come medico il decor­so della malattia, egli “era vivo per miracolo”62.

Don Josemarìa era consapevole di essere nelle mani della Provvidenza, più che in quelle dei medici. Man mano che passavano i mesi e la malattia avanzava, mag­giore era l’incertezza su quale ne fosse la vera origine, come quando, a Burgos, aveva avuto quegli strani sinto­mi di tubercolosi e le emorragie faringee. «Non sono mai stato in condizioni fisiche e morali peggiori», scris­se a don Àlvaro il 13 giugno 194663. Questa situazione sembra ricordare ciò che aveva provato durante il ritiro spirituale nel monastero di S. Domenico a Silos, nel set­tembre 1938: «Mi vedo - scriveva allora - non solo in­capace di portare avanti l’Opera, ma incapace di salvar­mi. Non capisco! Verrà la malattia che mi deve purificare?»64.

Probabilmente qui sta la spiegazione della frase miste­riosa contenuta nella lettera che aveva scritto a Roma alcune settimane prima. Riandando ai ricordi di Burgos, vi cercava il significato di un presentimento: «Qualcosa di questa situazione mi ricorda quell’altra, non so per­ché: ma sì che lo so»65.

Andò a farsi visitare. Il 19 maggio 1946 il dottor R. Ciancas gli fece alcune analisi, rilevando una forte glico­suria. Quel giorno stesso lo visitò un prestigioso interni­sta, il dottor Rof Carballo, che confermò la gravità del diabete e gli prescrisse una curva glicemica66.

Secondo il parere unanime dei membri del Consiglio,

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il viaggio a Roma era inevitabile. Lo dissero al Padre, qhe li ringraziò e spiegò loro che aveva visto chiaramen­te alla presenza di Dio la necessità di recarsi nella Città Eterna, qualunque decisione essi avessero preso67.

Il giorno dopo, lunedì, si procurò alla Nunziatura le credenziali diplomatiche68 e, per evitare imprevisti, andò di nuovo dal dottor Carballo, che sconsigliò il viaggio a Roma. In via riservata, anzi, il professionista fece sapere a Ricardo Fernàndez Vallespin che, se il ina­lato avesse affrontato quel viaggio, egli non rispondeva della sua vita, per il grave pericolo cui si esponeva69.

Non esistevano collegamenti aerei con l’Italia e, chiu­sa com’era la frontiera francese, l’unica possibilità per andare a Roma era il servizio marittimo da Barcellona a Genova. José Orlandis avrebbe accompagnato il Padre nel viaggio. Nel primo pomeriggio di mercoledì 19 giu­gno partirono in macchina da Madrid. L’automobile, una piccola Lancia, era guidata da Miguel Chorniqué. Passarono la notte in un albergo di Saragozza.

Il giorno successivo era la festa del Corpus Domini. Don Josemarìa celebrò la Messa in una cappella laterale della chiesa di Santa Engracia e vi assistettero i fedeli dell’Opera che abitavano a Saragozza. Come al solito, si recò a pregare anche davanti alla Vergine del Pilar, ri­cordando gli anni in cui implorava Domina, ut siti Sulla strada per Barcellona si fermarono al Monastero di Montserrat, per chiedere la protezione della Moreneta e salutare l’Abate Escarré, al quale lo legava ormai una grande amicizia. Quella notte dormì nell’appartamento di via Muntaner, familiarmente chiamato La Clinica70.

Il mattino seguente, prima di celebrare la Messa, il Padre dettò una meditazione ai suoi figli. Dalla sua ora­zione trapelavano teneri affetti e trepidazione. Fu una lunga “protesta” filiale, sincera e colma di fede, alla ri­cerca di una risposta del Cielo, con la fiducia che il Si­gnore non può abbandonare chi lo segue. Che cosa sarà di noi?, si chiedeva, ripetendo le parole di S. Pietro: Ec­

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ce nos reliquimus omnia et secuti sumus te; quid ergo erit nobis? (Mt 19,27):

«Signore - diceva il Padre -, Tu hai potuto permettere che io in buona fede ingannassi tante anime? Ma io ho fatto tutto per la tua gloria e sapendo di fare la tua Vo­lontà! È mai possibile che la Santa Sede dica che giun­giamo con un secolo di anticipo...? Ecce nos reliquimus omnia et secuti sumus te...! Non ho mai avuto altra vo­lontà che di servirti. Risulterà dunque che sono un im­broglione?»71.

E ripeteva con insistenza al Signore, con amorevoli ragioni, di aver lasciato tutto per seguirlo: «E ora, che ne farai di noi? Non puoi abbandonare coloro che han­no avuto fiducia in Te!»72.

Per tutta la mezz’ora di orazione continuò a invocare l’intercessione della Madonna della Mercede73. Quella stessa mattina si recò poi a visitarla nella sua chiesa vici­no al porto, per affidare alla Vergine il buon esito del viaggio.

Alle undici il Padre e José Orlandis giunsero sul molo d’imbarco. Ma dovettero ritornare alla Clinica perché una pioggia persistente ritardava il trasporto a bordo di un carico di banane e di altra frutta, destinato alla Sviz­zera. Poco prima delle sei del pomeriggio, terminate le operazioni di carico della merce e d’imbarco dei passeg­geri, della posta e dei documenti di bordo, la J.J. Sister, una motonave di più di mille tonnellate varata nel 1896, finalmente partì. Quando uscirono dal porto, c’era ma­retta e vento fresco, con leggeri piovaschi.

Non era stato facile ottenere una cabina. All’ultimo momento erano riusciti a ottenerne una piccolissima, in­terna e dunque senza oblò, con due letti a castello, illu­minata fiocamente da deboli lampadine e con l’unica ventilazione di un piccolo ventilatore. All’ora di cena le

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onde, piuttosto forti, cominciarono a scrollare la nave. Il Padre si sentì male e si sdraiò sulla cuccetta in basso74.

Il Giornale di Bordo non segnala nulla di particolare nelle prime 24 ore di navigazione da Barcellona a Geno­va. Il Capitano, vecchio lupo di mare, concluse le note sul foglio degli Avvenimenti della navigazione giornalie­ra - che terminava a mezzanotte - con queste parole: “Alle ore 24.00 termina il presente foglio senza novità. In mare, il 21-6-46. Il Capitano (firma)”75.

Il foglio degli Avvenimenti del 22 giugno, che iniziava alle ore zero della stessa notte, e che il Capitano chiuse dopo essere giunto nel porto di Genova, suona tutt’altra musica. Vi si legge:

“ Cominciamo le presenti 24 ore di navigazione con vento piuttosto fresco di NNW e mareggiata, che vanno gradualmente aumentando d’intensità. Mentre proce­diamo si rafforza il vento di NNW, che provoca mare molto grosso: la nave sbanda notevolmente a dritta e a sinistra e subisce violenti colpi di mare. Teniamo chiusi i boccaporti per evitare che entri acqua nella stiva, ma non possiamo impedire che si bagni la frutta che portia­mo a poppa sopra coperta, per le continue ondate che la investono”76.

Ed ecco forse apparire sul Giornale di Bordo il vero motivo per cui il Capitano fu più esplicito nelle annota­zioni del secondo foglio: “Pertanto formulo la presente protesta contro caricatori, ricettori e chiunque di com­petenza per le avarie che può subire il carico durante il viaggio e per i danni che possa causare alla nave”77.

Sicuramente le avarie furono consistenti, perché per la prima e unica volta compare nel libro una contestazione che, su richiesta del Capitano, fu esaminata dalle auto­rità giudiziarie di Genova, il 24 giugno 194678.

L’altra versione degli eventi, cioè gli effetti patiti dai passeggeri, è raccontata da José Orlandis nella lettera che spedì in Spagna da Roma, il 26 giugno:

“ (...) Dopo cena cominciammo a sentire violente

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oscillazioni che ci consigliarono di coricarci in tutta fretta. E meno male che l’abbiamo fatto, perché scoppiò una tempesta coi fiocchi. Il Padre dice che il diavolo ha sconvolto il golfo del Leone e ha scatenato la tempesta più formidabile che io ricordi di aver vissuto, nonostan­te io sia isolano e vecchio amico del Mediterraneo. E pensare che per il Padre era il battesimo dell’acqua sala­ta! Abbiamo passato 10 o 12 ore di vero inferno. Il ma­re ci prendeva di lato e la nave passava da questa posi­zione..... , a quest’altra...... Sentivamo il rumore distoviglie che si rompevano, di mobili che venivano tra­scinati da una parte all’altra, di signore che gridavano (...). Le pompe aspiravano continuamente l’acqua, che entrava da tutte le parti: in prima classe Yoffice era inondato; in seconda l’acqua nelle cabine arrivava alle ginocchia; la coperta era completamente spazzata dalle onde; io, che alle prime luci del giorno ero salito sul ponte per vedere che cosa accadeva, ritornai subito in cabina per non vedere lo spettacolo, ispirandomi al no­to esempio dello struzzo. Il Padre ha passato alcune ore terribili e continuava a dire: «Pepe, mi sa che torneremo a Madrid trasformati in merluzzo. Quanto ci scommetti che Pedro non assaggerà più pesce in vita sua?». Final­mente, verso le 10 o le 11 di sabato il temporale finì, an­che se abbiamo avuto mare molto grosso fino all’imboc­catura del porto di Genova”79.

Il Padre non chiuse occhio per tutta la notte per l’at­mosfera opprimente della cabina, la nausea del mal di mare e il marasma su tutta la nave. Non fu possibile far­gli l’iniezione di insulina prescritta dal medico. Nella mattinata di sabato il temporale andò attenuandosi e gradualmente scemò la violenza delle onde. Cessò di piovere e, nelle prime ore del pomeriggio, tornò ad ap­parire il sole, tanto che si intravide a babordo la costa francese. Il Padre prese l’unico cibo della traversata: un caffelatte con biscotti. Poi uscì in coperta a respirare l’a­ria fresca, dopo essere rimasto venti ore chiuso sottoco­

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perta. Molto vicino alla nave passò un branco di bale­nottere: i loro getti d’acqua nelle acque del Mediterra­neo erano allora, a detta dei marinai, uno spettacolo in­solito. Erano in coperta a prendere aria quando, dal ponte, i marinai avvistarono a prua una mina alla deri­va. Probabilmente quel pericoloso residuato di guerra stava galleggiando da più di un anno80.

Entrarono nel porto di Genova con sei ore di ritardo. Sbarcarono alle ventitré. Assolsero rapidamente le for­malità di polizia e di dogana, mentre don Àlvaro e Sal­vador Canals li aspettavano impazienti. Il primo saluto del Padre fu una frase affettuosa per don Àlvaro: «Ecco­mi qua, brigante: l’hai avuta vinta!»81.

Presero alloggio all’albergo Columbia, senza poter mangiare nulla, poiché la sala da pranzo era già chiusa. Il Padre accettò volentieri un pezzetto di formaggio che don Àlvaro aveva conservato dalla propria cena.

Ecco la mattina di domenica 23 giugno 1946. Il Padre e don Àlvaro celebrarono la Messa in una chiesa non lontana dall’albergo e partirono poi per Roma con un’auto noleggiata. Pranzarono a Viareggio e, senza contrattempi, arrivarono in vista di Roma. Quando il Padre scorse, nella luce del crepuscolo, la cupola di S. Pietro che si stagliava all’orizzonte, si commosse visibil­mente e recitò il Credo ad alta voce82. Il pensiero di es­sere finalmente a Roma, l’avverarsi di quel momento tanto a lungo sognato, occupava la sua mente e suscita­va tanti ricordi, alcuni lontani. Non voleva crederci: era a Roma; si sentiva a Roma, come uno straniero, ma an­che come un cittadino che ritorna in patria. A ben vede­re, la frase «l’hai avuta vinta tu!», che aveva rivolto a don Àlvaro, la poteva dire a se stesso.

Erano circa le 21.30 quando arrivarono a casa, un ap­partamento al n. 9 di piazza della Città Leonina. Di fronte, a pochi metri, si ergono le mura che collegano il palazzo Vaticano con Castel Sant’Angelo. Nella parte superiore corre il passaggio costruito da Papa Alessan­

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dro VI per garantire, in caso di assedio, una via di fuga per gli abitanti del Vaticano, che permetteva di rifugiar­si nel castello. Dopo la firma dei Patti Lateranensi, il Va­ticano aveva acquistato i terreni confinanti con i palazzi pontifici, vi aveva costruito delle case per assicurarsi un buon vicinato e le affittava direttamente. L’appartamen­to che don Àlvaro aveva preso poco prima dell’arrivo del Padre era al piano più alto dell’edificio e aveva un loggiato dal quale, oltre il colonnato del Bernini, si ve­deva piazza S. Pietro83. Era anche ben visibile, perché molto vicina, la finestra illuminata della biblioteca pri­vata del Papa. A quella vista, il Padre provò una nuova emozione, che gli rubò definitivamente il sonno: mentre gli altri si ritiravano a dormire, vinti dalla stanchezza del viaggio, il Padre rimase sulla terrazza84.

Durante il viaggio, che si era svolto tutto sotto la pioggia, il Padre aveva pregato per il Papa; sentiva un gran desiderio di arrivare presto nella Città Eterna. Per questo si emozionò tanto non appena intravide, oltre una curva della via Aurelia, la cupola di S. Pietro. Da quanti anni nutriva nel cuore la speranza di videre Pe- trum, cui aveva dato espressione in Cammino:

«Cattolico, Apostolico, Romano! - Mi piace che tu sia molto romano. E che abbia desiderio di fare il tuo pellegrinaggio a Roma, videre Petrum, per vedere Pie­tro»85.

Davanti al suo sguardo c’erano le finestre, ancora il­luminate, delle stanze pontificie. L’immaginazione ali­mentava nel suo cuore il profondo affetto che pure ave­va espresso su Cammino:

«Grazie, mio Dio, per l’amore al Papa che hai messo nel mio cuore»86.

Che intensa emozione avrà provato, al punto che il suo spirito aveva bisogno di tempo per sfogarsi! Passa­rono le ore e si spensero le luci nelle stanze del palazzo.

La vicinanza fisica rinsaldava più facilmente il forte legame nato anni prima, quando aveva cominciato a re­

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citare ogni giorno una parte del Rosario per le intenzio­ni del Romano Pontefice:

«Con l’immaginazione - si legge in una lettera del 1932 - mi mettevo accanto al Santo Padre, quando cele­brava la Messa (non sapevo come sia la cappella del Pa­pa e tuttora non lo so) e al termine del Rosario facevo una comunione spirituale, con il desiderio di ricevere dalle sue mani Gesù Sacramentato»87.

Fin dai primi momenti della fondazione si era sentito unito al Vicario di Cristo e aveva nutrito il desiderio apostolico di riunire le anime intorno a Pietro, per con­durle a Gesù per mezzo di Maria88.

Anni dopo avrebbe invitato i suoi figli a lasciar corre­re l’immaginazione per cogliere l’incanto spirituale di quella notte di giugno trascorsa accanto al Papa:

«Pensate con quanta fiducia ho pregato per il Papa, in quella prima notte romana, sulla terrazza, contemplan­do le finestre degli appartamenti pontifici»89.

Il Fondatore non aveva mai visto Pio XII; ma poteva ritornare mentalmente ai numerosi messaggi e alle bene­dizioni ricevute attraverso terze persone. Impossibile di­menticarli, perché se li era fatti ripetere parecchie volte e li aveva meditati a lungo.

Si ricordò per esempio della consolazione che gli ave­va arrecato una lettera di un domenicano, p. Canal, al quale aveva poi scritto per ringraziarlo:

«Ho riletto venti volte la sua lettera e molti occhi si sono velati nel leggere le parole di benedizione del Santo Padre: per me sono state dulciora super mel et favum.

Poiché siamo della Santa Croce, le croci non mancano mai: perciò le assicuro che la benedizione del Santo Padre è stata provvidenziale. Dominus conservet euml... »90.

Negli ultimi anni erano giunte al Santo Padre notizie dirette sullo spirito dell’Opera e sul santo vigore aposto­lico del Fondatore, principalmente attraverso le udienze concesse a fedeli dell’Opus Dei o a ecclesiastici che co­noscevano bene don Josemarìa91.

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Il Fondatore ricordava anche la recente conversazione di don Àlvaro con il Santo Padre, del 3 aprile 1946. In una lunga lettera don Àlvaro gliene aveva raccontato i particolari:

“ Gli ricordai che la volta precedente (udienza del 4 giugno 1943) mi ero spinto oltre le convenienze e gli avevo chièsto non solo la benedizione per il Padre e per tutta l’Opera, ma lo avevo anche pregato di ricordarsi nelle sue preghiere di nostro Padre. Egli sorrise e disse: “Che cosa vuole? Che continui ancora a pregare?” . Gli risposi affermativamente ed egli mi disse che non se ne sarebbe dimenticato e che avrebbe pregato tutti i giorni, come sta già facendo e che, per giunta, lo fa con molta gioia”92.

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Roma era immersa nel silenzio e la città dormiva tran­quilla sotto un cielo stellato. Il Padre era sempre assorto nei suoi pensieri. Davvero erano arrivati con un secolo di anticipo? Di nuovo provò una strana sensazione, un misto di incertezza umana e di fermezza soprannaturale. La stessa sensazione, di penosa incertezza e di gioioso abbandono nelle mani di Dio, che aveva provato a Bar­cellona... Ecce nos reliquimus omnia et secuti sumus te; quid erit nobisì Vedi, Signore: abbiamo lasciato tutto per seguirti; che cosa sarà di noi? Stai forse per voltarci le spalle?

Tra un pensiero e l’altro riprendeva la sua orazione, riandando col pensiero alla storia avventurosa dell’Ope- ra, che era anche la storia delle misericordie divine93; la durezza degli inizi e la pioggia di grazie, la fedeltà dei suoi figli e la opposizione dei buoni; i successivi sviluppi giuridici... fino a Roma, dove sembrava che si ergesse un muro insuperabile.

Dalla terrazza, con gli occhi rivolti alle stanze pontifi­cie - la dimora del Vicario di Cristo sulla terra - ritorna­

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va con insistenza, con ostinazione, all’invocazione cen­trale della sua orazione: Ecce nos reliquimus omnia...

Risplendeva la luna e le costellazioni percorrevano lentamente la volta del cielo. Il Padre proseguì per tutta la notte la sua intensa preghiera, senza ritirarsi a riposa­re. Spuntò poi il chiarore soffuso dell’alba e, ben presto, irruppe la luce del giorno.

Quella notte in preghiera scandì l’inizio della fonda­zione a Roma.

4. In attesa di una soluzione giuridica

Una lunga conversazione con don Àlvaro fu sufficiente perché il Fondatore si rendesse conto della situazione, già accennata nelle lettere del 10 e del 12 giugno che re­clamavano la sua presenza a Roma. Il Padre prese im­mediatamente in mano la situazione. Fece visita a mons. Montini, Sostituto della Segreteria di Stato di Sua San­tità. Il 15 maggio precedente Montini aveva scritto al Fondatore, ringraziandolo per le pubblicazioni che don Àlvaro gli aveva recato a suo nome, ed esprimendogli i propri sentimenti per l’Opera:

“Ho avuto sommo piacere di conoscere la Società Sa­cerdotale della Santa Croce e l’Opus Dei e, ammirando il fine che si propongono nel loro lavoro e lo spirito con cui lo svolgono, ho ringraziato il Signore per questo do­no che ha fatto alla Chiesa, suscitando anime che colti­vano campi tanto delicati e importanti. Perciò, benché possa fare ben poco, sappiano che sono sempre pronto a venir loro in aiuto in qualsiasi necessità”94.

Il primo luglio il Fondatore ebbe con lui un cordialis­simo colloquio, e da quel momento mons. Montini in­vitò molte altre personalità della Curia romana a cono­scere don Josemarìa95. Il Padre avrebbe in seguito ricordato ai suoi figli che Montini fu «la prima mano amica che ho trovato qui a Roma»96. Giorni prima don

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Àlvaro aveva ricevuto la fotografia del Papa con dedica autografa: “Al nostro amato figlio José Maria Escrivà de Balaguer, Fondatore della Società Sacerdotale della Santa Croce e delPOpus Dei, con una speciale benedi­zione. 28 giugno 1946. Pius P.P. XII”97.

In quei giorni il caldo divenne opprimente e il Padrelo soffriva terribilmente, anche se per fortuna il suo sta­to generale di salute non ne risentiva. Al mattino si face­va accompagnare da don Àlvaro a visitare i vari perso­naggi dei dicasteri, segretari o consultori, interessati alle questioni che lo avevano condotto a Roma. Lo accoglie­vano cortesemente ovunque. Tante dimostrazioni di af­fabilità e, soprattutto, la gioia di trovarsi vicino al Vica­rio di Cristo avevano dissipato le sue apprensioni.

Era lui spesso a trascinare in strada i suoi figli per sgranchirsi le gambe ma soprattutto per dare un’occhia­ta ai negozi di robivecchi alla ricerca di mobili per la fu­tura casa di Roma. Sognava già di aprire due Centri a Roma. Come aveva fatto in altre occasioni, cominciava ad acquistare in anticipo oggetti di arredamento. Era qualcosa di più di un gesto simbolico. Era la voglia di cominciare la nuova casa con qualcosa di concreto, di gettare almeno le fondamenta della buona volontà. Era accaduto qualcosa al Padre? Il sacerdote che si era im­barcato a Barcellona sulla /./. Sister, attingendo forze dalla propria spossatezza, benché fosse ridotto fisica- mente a un peso morto e si stesse interrogando sul futu­ro dell’Opera e sull’avvenire dei propri figli, era diven­tato un altro non appena giunto a Roma. “Da principio- racconta Orlandis - non faceva altro che ripetere: ‘Ec­covi il peso morto! L’avete avuta vinta!’. Ma due giorni dopo il suo arrivo si era già messo con uno slancio in­credibile a sistemare la casa, a comprare cose, a prepa­rare l’oratorio...; tutti noi arrivavamo distrutti alla sera e allora gli dicevamo: Fortuna che aveva detto di essere venuto come un peso morto: figuriamoci se non fosse stato così!”98.

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Il fatto è che, davanti alle prospettive apostoliche, il Padre era diventato un vulcano di energia. Si stava in­fatti realizzando il suo vecchio sogno di avere una casa a Rom a". Quell’antico ideale si era riacceso a contatto con la Città Eterna. Prima della fine del mese di giugno, cioè una settimana dopo il suo arrivo a Roma, aveva tracciato mentalmente il progetto che si proponeva di realizzare e si affrettò a comunicarlo ai direttori e alle direttrici che stavano in Spagna. In questo modo, senza perdere tempo, sarebbe stato possibile preparare gli strumenti e i mezzi necessari perché il sogno diventasse realtà.

Alle sue figlie dell’Assessorato Centrale, organo di go­verno delle donne dell’Opus Dei, chiese di far venire a Roma, per la fine di settembre, tre numerarie e cinque numerarie ausiliarie per i futuri Centri.

In quel momento non era per nulla facile inviare le numerarie ausiliarie, che scarseggiavano di numero. Ma il Padre scrisse alle sue figlie indicando un rimedio sicu­ro: «Per riuscirci, lavorate durante l’estate - come vi ho detto - con il servizio della Moncloa e quello di Aban- do. Preparate biancheria da altare - tutto - per due case di Roma»100.

Nella stessa data, 30 giugno 1946, scriveva in stile te­legrafico ai suoi figli del Consiglio Generale:

«Penso di venire a Madrid quanto prima e di ritorna­re poi a Roma. È necessario - pensaci tu, Ricardo! - preparare seicentomila pesetas, con la massima urgen­za. Con le nostre grandi difficoltà economiche, sembra una follia, eppure è assolutamente necessario prendere casa qui.

(...) Ho un autografo del Santo Padre per “il Fonda­tore della Società Sacerdotale della Santa Croce e del- l’Opus Dei” . Che gioia! Ho baciato la foto mille volte. Abitiamo all’ombra di S. Pietro, accanto al colonnato».

E un poscritto:«Non trascurate l’orazione e statevene contenti. Si si­

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stema sempre tutto; un’anima di apostolo non può mai fallire per motivi di denaro: i soldi ci saranno»101.

Dal punto di vista di quelli che stavano in Spagna, sommersi dai debiti e impegnati in quei giorni ad aprire centri in una mezza dozzina di città, la richiesta non sembrava una follia, ma era comunque un’eroica pazzia della fede.

Lo stesso giorno scrisse ai suoi fratelli una lettera, dal tono ottimista e soprannaturale. Volle raccontare loro del viaggio e dei motivi che avevano spinto don Àlvaro a chiedergli di andare a Roma:

«Roma, 30 giugno 1946.Carissimi Carmen e Santiago, abbiamo fatto una

brutta traversata, ma ce ne siamo dimenticati quando, dalla nave, abbiamo visto sul molo di Genova Àlvaro e Babo che ci aspettavano.

Qui fa molto caldo, ma sono molto contento: era ne­cessario venire, per risolvere le cose. Abitiamo vicini al Santo Padre, accanto a piazza S. Pietro. Il Papa mi ha inviato un autografo che mi ha riempito di gioia dentro e fuori. Ancora non so quando avrò l’udienza dal Santo Padre. Non posso partire da Roma senza esser stato ri­cevuto da Sua Santità. Pregate per il successo di questa visita, nella quale ripongo tante speranze.

Quando qui avremo la casa in funzione - e sarà molto presto, se lo chiediamo al Signore - dovrete venire a Ro­ma senza fretta, da pellegrini.

Un forte abbraccio da vostro fratello Josemarìa»102.

5[- ij-

La concessione del Decretum laudis all’Opus Dei era ancora alla prima fase della procedura, nonostante i consultori, dopo l’esame degli Statuti dell’Opus Dei dell’8 giugno 1946, si fossero complimentati con don Àlvaro103. Don Àlvaro, invece, si era accorto del perico­

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lo: con i ritmi della Curia non sarebbe stato possibile dotare urgentemente l’Opus Dei di un regime giuridico universale. Era urgente per varie ragioni: una interna, cioè riconoscere e tutelare, senza introdurre alcun cam­biamento di stato, il carattere della vita e dell’apostola­to dei suoi fedeli; altre esterne, cioè facilitare l’espansio­ne apostolica in altri Paesi e i rapporti con i Vescovi e mettere un freno all’incomprensione e alla opposizione dei buoni, che continuava. Ai consultori della Curia tali necessità non sembravano poi tanto urgenti e pensava­no di rinviare i lavori all’autunno.

La normativa giuridica in cui l’Opus Dei doveva esse­re inquadrato era tutta da fare104. A occuparsene era stato designato p. Arcadio Larraona, Sottosegretario della Sacra Congregazione dei Religiosi. Il Fondatore riuscì a convincere p. Larraona a riprendere il lavoro in piena calura estiva. Non si limitò a belle parole, ma si mise a lavorare con lui. Ad ogni modo, il Decretum lau- dis non sarebbe venuto alla luce tanto presto. «Tutto va bene - scriveva a Madrid l’8 luglio -, ma sarà molto dif­ficile ottenerlo prima dell’autunno, mentre sarebbe tan­to necessario averlo subito!»105.

Non appena seppe che la data della sua udienza dal Pa­pa era stata fissata per il 16 luglio, il Padre si recò a Fiug­gi con don Àlvaro, per lavorare a fianco di p. Larraona. Voleva dare una mano anche perché lo schema giuridico a cui lavorava p. Larraona non potesse pregiudicare in futuro l’autentica natura dell’Opus Dei. Era un dovere cui il Fondatore non poteva rinunciare in alcun modo:

«In quell’ora così critica della storia dell’Opera - era­vamo nel 1946 - il diritto aveva una particolare impor­tanza. Perché un equivoco, una concessione in un aspet­to sostanziale, avrebbe potuto avere effetti irreparabili. Mi giocavo l’anima, perché non potevo adulterare la volontà di Dio»106.

Il compito che p. Larraona aveva davanti a sé era piuttosto ingrato. Le istituzioni che attendevano di esse­

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re approvate come forme nuove (i futuri Istituti Secola­ri) coprivano un ampio settore: da quelle che non desi­deravano l’equiparazione ai religiosi, nonostante avesse­ro quasi tutti i requisiti per essere approvate come congregazioni religiose, fino a quelle che desideravano esserlo pur essendo sprovviste dei requisiti107. L’orienta­mento più recente della Congregazione dei Religiosi era di considerare queste nuove istituzioni come un tentati­vo di adattamento o di avvicinamento al mondo, una nuova modalità di vita religiosa.

Di conseguenza, le forme nuove venivano considerate come gli ultimi anelli di una evoluzione storica degli Or­dini religiosi. In quest’ottica, per compiacere tutti, nel progetto normativo di p. Larraona la soluzione era indi­viduata in una variante dello stato di perfezione108. Ma è proprio lo stato di perfezione, con i suoi requisiti e le sue modalità di vita, che definisce il religioso o coloro che sono equiparati109.

Ecco il motivo per cui, quando spiegava che cosa fos­se l’Opus Dei, il Fondatore continuava a insistere «af­finché i membri degli Istituti Secolari non venissero con­siderati persone sacre, come volevano alcuni, bensì comuni fedeli come in effetti sono; perché ero preoccu­pato che restasse ben chiaro che né eravamo né poteva­mo essere religiosi»110.

Il Fondatore sottolineava che la nota essenziale della chiamata alla santificazione e all’apostolato in mezzo al mondo era la secolarità. In effetti, gli studi preparatori della futura Costituzione Apostolica Provida Mater Eccle­sia furono improntati dal criterio della secolarità. Era un modesto passo avanti, e non bastò a evitare del tutto che il concetto di stato di perfezione mantenesse un peso signifi­cativo. Pertanto ne risultò una situazione di compromes­so. Per ottenere il Decretum laudis che era andato a cerca­re a Roma, il Fondatore fu costretto a cedere su alcuni punti che non corrispondevano alla natura dell’Opus Dei.

«Abbiamo accettato con sacrificio un compromesso -

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scriveva ai suoi - che non è stato possibile evitare e che non offusca, tuttavia, la gioia di avere ottenuto final­mente un alveo giuridico per la nostra vita. E speriamo che, con la grazia di Dio, i punti dubbi tra poco non lo siano più, se sarà possibile ottenere dalla Santa Sede le opportune dichiarazioni legali, in modo che non possa­no essere male interpretati.

Peraltro, non c’era modo di uscirne: o accettavamo tutto o saremmo rimasti senza un sentiero sul quale camminare»111.

Dopo quattro giorni d’intenso lavoro i problemi era­no stati avviati a una soluzione. Il 15 luglio, vigilia del­l’udienza privata con il Santo Padre, il Fondatore tornò a Roma. Fu un colloquio emozionante, nel quale potè finalmente aprire il cuore al Santo Padre e metterlo al corrente del lavoro svolto a Fiuggi negli ultimi giorni. Il Padre uscì dall’udienza colmo di pace e di gioia112. In­tanto, all’inizio del mese, don Àlvaro aveva scritto al Consiglio Generale, a Madrid, dando notizie indirette dei buoni risultati ottenuti dal Padre, non senza un piz­zico di humour: “Benché il Padre me ne abbia dette di tutti i colori per averlo costretto a venire, la sua venuta è stata già molto fruttuosa e lo sarà ancora di più: era indispensabile per avviare ogni cosa e raggiungere mira­bilmente tutti gli obiettivi” 113.

Il 29 luglio il Padre ritornò a Fiuggi con don Àlvaro e con Salvador Canals per proseguire la collaborazione con p. Larraona, al fine di evitare che nei documenti fossero introdotte inesattezze pregiudizievoli per l’Opus Dei114. Fu conclusa la redazione del progetto normati­vo, dal quale sarebbe scaturita la Costituzione Apostoli­ca Provida Mater Ecclesia. P. Larraona affermò: “In po­chi mesi è stato fatto un lavoro che poteva durare diversi anni e che forse non sarebbe stato portato a ter­mine” 115. Tra le numerose idee apportate dal Fondatore per la redazione del documento base, c’era anche il no­me da dare alle forme nuove116.

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Pure immerso in quel lavoro intenso, il Padre si preoccupava di tutta l’Opera e pensava continuamente alle sue figlie e ai suoi figli, cui affidava per lettera inca­richi di non facile esecuzione, come quello di trovare il denaro per acquistare una casa a Roma. È superfluo ri­cordare che il Padre non era abituato a farsi togliere le castagne dal fuoco dagli altri: infatti era disposto a tor­nare a Madrid per occuparsi personalmente della que­stione, una volta ottenuto il Decretum laudisi

«Se è necessario - scrisse ai membri del Consiglio - (sarebbe meglio che non lo fosse), dopo l’udienza del Santo Padre e dopo aver ottenuto il documento che sa­pete, verrò io a Madrid per aiutarvi a realizzare il no­stro obiettivo, che è poi quello di Dio»117.

Il Padre, privo di velleità letteraria, approfittò della lettera per redigere un elenco di raccomandazioni e di consigli, più o meno importanti, ai suoi figli e alle sue fi­glie. In quei giorni a Roma stava raccogliendo i frutti di una serie di grazie richieste alla Sacra Penitenzieria. Al Padre fece molto piacere che venisse concesso anche ai laici il privilegio di purificare i sacri lini, perché sarebbe stata un’occasione in più per manifestare la venerazione verso Gesù Sacramentato. Si affrettò a scrivere a uno dei sacerdoti dell’Opera perché lo comunicasse alle sue fi­glie ed esse cominciassero a far uso del privilegio: «Che bella notizia! Ora possono purificare i corporali, i puri- ficatoi e i copricalice»118.

Forse si era atteso qualche riga di ringraziamento, perché qualche giorno dopo scriveva:

«Mi dicano qualcosa di che cosa ne pensano del privi­legio di purificare..., perché sono mute come pesci»119.

E aggiunse un resoconto dei favori concessi dalla San­ta Sede:

«Alla Sacra Penitenzieria ci hanno concesso molte in­dulgenze. E oltretutto (speravamo di averle per sette an­ni) in perpetuum e per mezzo di un Breve. Perciò ce ne rallegriamo. Sono stati concessi 500 giorni ogni volta

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che si bacia la Croce oppure, guardandola, si recita una giaculatoria. Potete lucrare questa indulgenza già fin d’ora. Nel Breve ci viene concessa indulgenza plenaria nelle feste del Signore e della Madonna, il 2 ottobre, il 14 febbraio, nella festa di S. Giuseppe e quando si fanno l’Ammissione, l’Oblazione e la Fedeltà nell’Opus Dei e nella Società Sacerdotale della Santa Croce.

E quasi sicuro che otterremo il privilegio per celebrare la Santa Messa alla mezzanotte tra il 31 dicembre e il 1° gennaio, fra il 13 e il 14 febbraio e fra l’I e il 2 otto­bre»120.

Il documento pontificio con cui furono concessi que­sti favori e indulgenze reca la data 28 giugno 1946. Fu una dimostrazione dell’affetto paterno del Papa per la Società Sacerdotale della Santa Croce e Opus Dei. Era anche una risposta indiretta alle scomposte illazioni che anni prima erano state fatte contro la croce di legno de­gli oratori dell’Opera. Il Fondatore dispose che accanto alla croce venisse posto un cartiglio con le seguenti pa­role: “La Santità di Nostro Signore il Papa Pio XII, con il Breve Apostolico Cum Societatis, del 28 giugno 1946, si degnò benignamente di concedere cinquecento giorni d’indulgenza ogni volta che devotamente si bacia questa Croce di legno o davanti a essa si reciti una pia giacula­toria” 121.

Benché aumentasse via via la calura estiva, il Padre si rallegrava sognando il fresco della Sierra di cui godeva­no i suoi figli nella tenuta di Molinoviejo, non lontano da Segovia. «Qui - scriveva - fa più caldo che a Siviglia e ... io non sono andaluso. Me lo sono proprio merita­to, per aver pensato tanto a Segovia»122.

Il lavoro di p. Larraona era praticamente finito. Ma il personale della Curia romana era partito per le ferie. La concessione del Decretum laudis fu rimandata alla ripre­sa autunnale123. Tuttavia, il Cardinale Lavitrano, Prefet­to della Sacra Congregazione dei Religiosi, volle fare un gesto di giustizia e di deferenza nei confronti del Fonda­

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tore. Affinché non rientrasse in Spagna a mani vuote e perché nessuno potesse dire che la richiesta dell’Opus Dei era stata respinta, il 13 agosto 1946 gli fece perveni­re un documento di lode dei fini della Società Sacerdota­le della Santa Croce e Opus Dei124. Tale documento rico­nosce “ la santità, necessità e opportunità del fine e dell’apostolato” che perseguono e che esercitano i suoi membri; e incoraggia coloro che appartengono a “un’O- pera tanto nobile e tanto santa” , uomini e donne, a con­tinuare a vivere fedelmente la propria vocazione125.

«Indubbiamente - commentò il Fondatore - hanno visto la necessità che entrassimo subito in possesso di qualcosa di scritto, per difenderci: perché il motivo principale per ottenere un’approvazione da Roma, seb­bene non fosse ancora quella che desideravamo, non è stato altro che il vederci così duramente perseguitati. In questo modo ci siamo potuti sentire protetti nel propu­gnare la verità oggettiva»126.

* * *

Ai membri dell’Opera che stavano a Roma non erano mancate cose da fare nella primavera del 1946, prima delParrivo del Padre. Dalle richieste di lettere commen­datizie erano passati alle visite ai dignitari e ai consulto­ri della Curia. E poi, oltre a fare l’apostolato con i pro­pri amici, cercare casa e ospitare coloro che passavano per Roma, essi avevano avuto anche un incarico parti­colare da parte del Padre. A quanto si desume da una lettera di don Àlvaro, dovevano ottenere dall’Abate Sunol reliquie di santi martiri127. Ancora nel marzo 1946, il Padre li incoraggiava:

«Vediamo se tornate molto ricchi di reliquie! Fate il possibile per portare il corpo di un martire»128.

Il Fondatore nutriva grande devozione per le reliquie dei santi. Nell’oratorio di via Diego de Leon, tra i can­delieri dell’altare, c’erano alcune piccole arche per cu­

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stodirle129. Nel mese di maggio ottennero a Roma alcu­ne reliquie, che furono subito mandate a Madrid. Ma non il corpo di un martire che il Padre chiedeva. Una persona di Napoli si offrì di aiutarli e fece ricerche. “Se falliscono - scriveva don Àlvaro - andremo a Forlì, nel Nord dellTtalia, vicino all’Adriatico, dove c’è un con­vento con 200 corpi di martiri e il Vescovo e quelli del convento ci sono molto amici” 130.

Il 31 agosto 1946, quando il Padre ritornò in aereo a Madrid, portò con sé i corpi di due martiri: quello di S. Sinfero, proveniente dalle catacombe romane, e quello di Santa Mercuriana, una bambina di dieci anni. Que­st’ultimo fu messo nell’oratorio di Lós Rosales, mentre il primo, compresa una antica lapide con il suo nome, fu posto sotto l’altare del Centro di via Villanueva131.

Che cosa significarono per il Fondatore quei mesi a Roma? Spesso il Padre compendiava gli avvenimenti di una giornata in poche parole, scritte sul calendario li­turgico. Ecco alcune annotazioni fatte nell’estate del 1946:

«18 luglio: Siamo impregnati di dottrina canonica.27 luglio: Come sempre, molte visite e molta confu­

sione, ma sempre guidati da Dio.5 agosto: Molte visite. Molta orazione»132.

* * *

Il pomeriggio stesso del suo rientro in Spagna si recò nella casa di ritiri di Molinoviejo, dove c’era un gruppo di fedeli dell’Opus Dei, fra i quali alcuni, già ordinati diaconi, si preparavano al sacerdozio. A molti di loro le poche settimane che il Padre aveva trascorso fuori dalla Spagna erano sembrate anni e attendevano con impa­zienza le buone notizie promesse loro per lettera. Il Fon­datore aveva bisogno di qualche giorno di riposo e quel­lo era il luogo ideale, accanto ai suoi figli. La casa, certamente, non offriva particolari comodità; ma la te­

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nuta, senza essere propriamente un giardino, era un’oa­si di verde sull’altopiano arido. Una bella pineta offriva l ’ombra per fare lunghe passeggiate. Il paesaggio era aperto, il luogo solitario e le notti serene e fresche. Nelle lunghe tertulias dopo cena, il Padre raccontò loro la tra­versata verso Genova e la tempesta scatenata dal diavo­lo nel golfo del Leone. Descrisse il suo arrivo nella Città Eterna, le visite alle personalità della Curia, l’udienza del Papa, le proprie fatiche per difendere lo spirito del- l’Opera... Le cose andavano bene, ma bisognava aver pazienza e pregare. Aveva con sé un decreto di lode dei fini che era tutto un elogio dell’Opus Dei. Aveva anche ottenuto i già citati privilegi, di uno dei quali fecero uso per la prima volta, poiché il Padre celebrò proprio a Molinoviejo la Messa alla mezzanotte fra il 13 e il 14 settembre, festa dell’Esaltazione della Santa Croce133.

Domenica 29 settembre furono ordinati presbiteri sei diaconi; era la seconda leva di sacerdoti dell’Opera. Adolfo Rodrìguez Vidal, che abitava nel Centro di via Espanoleto e che era stato con il Padre la mattina del­l’ordinazione, scrisse a Roma:

«Madrid, 6 ottobre 1946.La settimana che si conclude oggi è stata densa di

emozioni, di agitazione e cose da fare, come puoi imma­ginare per quanto poca fantasia tu possa avere.

Tutto è cominciato il 28 pomeriggio, con il ritorno da Molinoviejo del Padre, di Àlvaro, di José Luis e dei sei diaconi (...). Domenica mattina, alle 10, c’è stata l’ordi­nazione. Alla stessa ora il Padre è venuto a celebrare in questa casa. Ho avuto fortuna e sono rimasto io a ser­virgli la Messa. Alla fine è arrivato Juan da Barcellona; era venuto per assistere all’ordinazione ma, trovato il Padre in casa, ha cambiato parere e si è fermato. Il Pa­dre ci ha raccontato un sacco di cose; eravamo tutti piuttosto nervosi, finché all’una sono arrivati i sei nuovi sacerdoti, con Àlvaro e José Luis: abbracci, lotta del Pa­dre per baciare loro le mani, gioia ed emozione»134.

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Il 21 ottobre il Padre andò a Barcellona per ringrazia­re la Madonna della Mercede per la protezione dispen­satagli durante il suo primo viaggio a Roma e per i risul­tati ottenuti, e per raccomandarle l’esito finale positivo, fino all’approvazione pontificia135.

L’8 novembre era già di ritorno a Roma e quattro gior­ni dopo ebbe con mons. Montini un colloquio, del quale fece una breve e ordinata relazione, che comincia così:

«Roma, 12 novembre 1946.Ho fatto visita a mons. Montini. Quando vado in Va­

ticano e vedo come e quanto ci vogliono bene, benedico mille volte il Signore per quanto abbiamo sofferto. Sicu­ramente quella Croce ci ha condotti a questa risurrezio­ne»136.

La seconda udienza di Papa Pio XII al Fondatore fu concertata da mons. Montini per l ’8 dicembre. Man mano che la data si avvicinava, nel Padre si notava una certa impazienza. In realtà non era altro che l’emozione che nasceva dalla fede, al pensiero che doveva incontra­re il Vicario di Cristo sulla terra.

Nell’imminenza dell’udienza riversò preoccupazioni e cure di governo in una lettera densa di contenuti, indi­rizzata ai membri del Consiglio Generale, a Madrid. La molteplicità di argomenti, persone, avvenimenti e circo­stanze che tocca è tale che non si comprende come po­tesse occuparsi di tante cose - grandi e piccole - e tener­le tutte a mente. Ancor maggiore meraviglia desta il fatto che le aveva anche nel cuore, perché non c’è que­stione, per quanto insignificante possa apparire, alla quale non si applichi con grande diligenza e non dimen­tica, citando una persona, di dedicarle un’espressione affettuosa. Si può intuire il peso che gli poggiava sulle spalle e quanta fosse la sollecitudine con cui vi si dedica­va. Tutti i problemi dell’Opus Dei, impresa divina e umana in crescente espansione, ricadevano inevitabil­mente su di lui ed egli teneva sempre tutte presenti nel suo spirito le persone e le cose di cui doveva occuparsi.

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Attraverso il suo stile - spontaneo, franco e traspa­rente - possiamo apprezzare l’ardente attività dell’ani­ma. Ecco le ultime righe della lettera:

«E ormai certo che passerò questo Natale a Roma. Non dimenticateci: io starò, in ispirito, in ogni Centro. E triste che non abbiamo il denaro necessario per vivere in una casa che sia davvero nostra il primo Natale nella Città Eterna. Eterna! Qui tutto è in un certo modo eter­no. Bisogna avere pazienza. Tutte le nostre cose vanno molto bene, ma troppo lentamente.

Sto scrivendo con una penna che mi rende nervoso. Anche in questo, pazienza. Penso a quella che Nostro Signore ha dovuto sprecare per scrivere pagine tanto belle con quelPimmondizia di strumento che sono io.

Vi vuol bene, vi abbraccia e vi benedice vostro Padre. -M ariano»137.

Nella festività dell’immacolata Concezione, l’8 di­cembre, ebbe luogo l’udienza, nella quale informò am­piamente il Santo Padre dello spirito dell’Opera e dei suoi apostolati138. Poi, appena giunto a casa, scrisse a Sua Santità per presentargli

«la testimonianza della filiale e irremovibile adesione della Società Sacerdotale della Santa Croce e dell’Opus Dei. Nella Santità Vostra vediamo il Vicario di Cristo e per Suo tramite udiamo la voce del Pastore dei Pastori; perciò desideriamo ardentemente attestare oggi davanti a Vostra Santità la suprema aspirazione del nostro Isti­tuto: andare con fedeltà e dedizione assolute in qualsiasi luogo e a qualsiasi impresa in cui possiamo servire la Chiesa o a cui ci destini il suo Supremo Pastore»139.

Ci si può immaginare lo svolgimento dell’udienza dal­la lettera che egli, alcune settimane dopo, scrisse a mons. Leopoldo, il Vescovo di Madrid. Gliene fece un riassunto, espressivo, ma parco; evidentemente erano stati toccati argomenti molto intimi, che l’umiltà gli im­pediva di esibire:

«Il Santo Padre mi ha ricevuto in udienza privata: co­

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nosce molto bene il nostro Opus Dei e lo ama. Non sa, Padre, quanti simpatici dettagli di attenzione ha avuto.

Le nostre cose qui vanno molto bene; ma con una len­tezza - stavo per dire eternità - che, per me, è scuola di pazienza. C’è da imparare. Àlvaro è diventato una spe­cie di eroe nella Curia romana: tutti lo conoscono e gli vogliono bene»140.

E necessario leggere anche un’altra lettera che porta la stessa data, indirizzata al Nunzio in Spagna, mons. Gaetano Cicognani, per renderci conto fino a che punto don Josemarìa bruciasse d’impazienza, nonostante il garbo con cui si esprimeva sulla calma romana:

«Siamo molto contenti a Roma, poiché tutto procede- e procede molto bene - sebbene senza eccessiva fretta. Ma questa serenità mi rallegra: prego il Signore che mi si attacchi.

Il Santo Padre mi ha ricevuto in udienza privata: è in­credibile l’affetto che dimostra per il nostro Opus Dei;io so bene - e non lo dimenticheremo mai - che buona parte di questo affetto è frutto delle informazioni del nostro Signor Nunzio. Dio gliene renda merito!»141.

5. «Una povertà vera». Gli Istituti Secolari

A don Josemarìa forse si attaccò un poco per davvero la particolare serenità che chiedeva al Signore. Per lo me­no, assimilò il lato positivo della calma con cui procede­va la Curia, arrivando a vantarsi, come ebbe a dire, che «a Roma ho imparato ad aspettare, e non è una scienza di poco conto»142. Alla fine del 1946 era in pieno ap­prendistato, poiché, con una pazienza relativa, attende­va ancora molte cose dalla mano di Dio: dal famoso Decretum laudis a una casa per espandere l’apostolato dell’Opera da Roma al mondo. Ma c’era un’altra neces­sità più urgente, cioè la venuta delle sue figlie a Roma, perché «è impossibile - diceva - che si vada ancora

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avanti così»143. Alludeva al fatto che i lavori domestici erano svolti da due cameriere, nessuna delle quali era idonea ad amministrare un Centro.

Il Padre, quindi, attendeva l’arrivo a Roma delle sue figlie con speranzosa pazienza, distraendosi dall’attesa con i suoi sogni apostolici che gli facevano contemplare fin da quel momento il fecondo raccolto del futuro:

«Vi sono vicino in tutte le vostre preoccupazioni - scriveva alle sue figlie dell’Assessorato Centrale in questo momento sto pensando alla vita di santità, gioio­sa e semplice, che è il nostro cammino: e vi vedo nelle residenze, nella casa editrice, a Los Rosales. A questo punto, chiudendo i miei poveri occhi, mi metto a sogna­re, accanto a S. Pietro, e vedo concluso tutto ciò che è ancora da fare, che è abbondante e meraviglioso: il no­stro lavoro diffuso in tutto il mondo, a servizio della no­stra santa Madre Chiesa... Se volete, se siete fedeli, alle­gre, sincere, mortificate, anime di orazione, tutto si avvererà, e presto»144.

Il Fondatore sognava nella fede, ma non viveva di il­lusioni e assicurava di non essere uno che se ne sta sulle nuvole: «Non mi piace vivere di immaginazione. Le quattro zampette ben piantate per terra! Così serviremo Dio per davvero e saremo ben uniti a Lui»145. Con ordi­ne e buon senso, nella lettera del 16 dicembre diede alle sue figlie i consigli opportuni: prendano l’aereo e man­dino per telegramma i nomi di quelle che devono arriva­re; prima scrivano tutte alle loro famiglie, comunicando la buona notizia del trasferimento a Roma; che cosa de­vono portare e, infine, una indicazione che rispecchia l’affetto del Padre, che si preoccupava dei particolari più minuti: «Le ragazze tengano presente che qui si usa abbastanza portare il cappello»146.

Nel pomeriggio del 27 dicembre 1946 giunsero a Ro­ma Encarnita Ortega e Dorita Calvo con tre numerarie ausiliarie: Julia Bustillo, Dora del Hoyo e Rosalia Lo­pez. Sbarcarono dall’aereo e si strinsero vicine, in attesa

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delle valigie, dietro a un mucchio di bagaglio a mano che non si erano potute permettere di fatturare. “Men­tre stavamo lì - racconta Encarnita - tutte e cinque in­sieme, con lo stupore logico di chi non conosce né la lin­gua né il Paese in cui arriva, ed è senza denaro, vedemmo apparire il nostro amatissimo Padre con don Àlvaro. Provammo una gioia straordinaria e sentimmo subito nostro il nuovo Paese” 147.

Partirono dall’aeroporto di Ciampino su due auto; nella seconda c’era il bagaglio. Il Padre sedeva accanto al guidatore. Invece di dirigersi direttamente a casa, pas­sarono vicino al Colosseo e - ricorda Dorita Calvo - “il Padre iniziò a recitare, con voce potente e sicura, il Cre­do; sembrava che ci volesse trasmettere la fermezza del­la sua fede” 148, presso il luogo in cui tanti cristiani l’ave­vano testimoniata con il proprio sangue.

“L’arrivo a casa fu emozionante” , racconta Encarni­ta149. Senza dubbio, la compagnia del Padre e il cumulo di novità suscitavano profonde sensazioni. Ma comincia­rono subito a occuparsi delle faccende domestiche. Nel diario del Centro di piazza della Città Leonina (che, na­turalmente, era completamente separato dalla zona riser­vata alle donne che si dovevano occupare dell’ammini­strazione domestica, che costituisce sempre un Centro a sé) il cronista scrisse, nella memorabile data del 27 di­cembre: “Finalmente oggi arriva l’Amministrazione (...). Tutto è cambiato nella cucina e dintorni” . E subito do­po: “Oggi abbiamo cenato come Dio comanda” 150.

La quantità di provviste che avevano portato da Ma­drid sembrava smentire ciò che una settimana prima aveva scritto loro il Padre, che sognava, ma aveva i pie­di ben piantati per terra:

«Quelle che vengono a Roma sapranno che cosa è una povertà vera; che cos’è un freddo autentico, umido e senza riscaldamento; che cosa significa vivere in casa altrui, finché non riusciamo a forzare il Cuore di Ge­sù... Si preparino, con l’entusiasmo e la gioia abituale, a

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queste piccole, incantevoli cose. Non è possibile stare in una casa senza che vi siano contrarietà e quelle che vi ho elencato non sono tutte»151.

Ben presto infatti le provviste finirono e si tornò alla realtà promessa dal Padre, cioè alle conseguenze della povertà. Durante il 1947 e negli anni successivi esse vis­sero le ristrettezze come insegna lo spirito dell’Opera: senza ribellarsi contro le umiliazioni che comportava la mancanza del necessario, senza lamentarsi e sorridendo sempre.

Dorita Calvo fa una breve descrizione della situazio­ne: “Si mancava di tutto, a cominciare dallo spazio (oc­cupavamo metà dell’appartamento); dormivamo su letti pieghevoli o sul pavimento; non c’era denaro e non po­tevamo accendere il riscaldamento, ecc.”152. Rosalia Lo­pez completa il quadro, senza esagerare e senza lamen­tarsi: “Abbiamo sofferto il freddo e la fame. L’oratorio, che era la parte principale dell’appartamento, era molto povero e nel resto della casa non avevamo neppure l’in­dispensabile. Quando veniva un ospite a pranzo, non avevamo né sedie né stoviglie” 153.

L’appartamento di piazza della Città Leonina fu un eccellente strumento di apostolato. Il Padre lo utilizzò per far conoscere l’Opera a molti dignitari della Chiesa: cardinali, vescovi, monsignori, consultori e altri mem­bri della Curia romana. Si serviva àt\V apostolato della mensa, di cui parla Cammino154. Era necessario ed era il modo più rapido e diretto per conoscere queste per­sone e avvicinarle all’Opera. L’appartamento funziona­va a pieno regime e gli invitati vi andavano con piacere. La conversazione era amabile, l ’ambiente gradevole, l’affetto con cui erano accolti, l’arredamento e persino la presentazione dei piatti di portata aiutavano a capire la vita dei fedeli dell’Opus Dei. Ma gli invitati non ve­devano affatto la discreta e tacita povertà che regnava in tutta la casa.

Encarnita Ortega conserva il ricordo di una visita:

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“ Quando venne a farci visita la marchesa di Mac Mahon, si meravigliò di quanto fosse carina la casa... Sembrava impossibile che quell’appartamento potesse suscitare una simile impressione. Ma davvero tutto era molto curato e non mancavano quasi mai i fiori accanto all’immagine della Madonna; le persiane ben accostate davano ai locali una luce speciale. I numerosi invitati che abbiamo avuto in quell’angolo di Roma si sentivano a loro agio” 155.

La casa tanto gradevole che stupiva la marchesa non era che una parte di un appartamento subaffittato dai vicini, che occupavano gli altri locali che lo componeva­no. Si trattava di un attico e, pertanto, era soggetto alle temperature estreme: alla calura e al gelo. La casa era costituita da un ampio e accogliente vestibolo che dava accesso alla stanza principale che, a seconda dell’ora, fungeva da sala di studio, da sala da pranzo o da sog­giorno; di notte serviva da camera da letto e vi si stende­vano tre o quattro materassi. Accanto c’era la stanza del Padre, l’unica che aveva un letto fisso, che utilizzava chi si ammalava.

La stanza del Padre e il soggiorno davano su una ter­razza coperta, quella su cui il Fondatore aveva passato in preghiera la sua prima notte romana. Don Àlvaro stava in uno slargo del corridoio, dove erano stati messi un letto e una sedia. Il miglior locale della casa era l’ora­torio, non ampio, ma accogliente e semplice. Nella zona di servizio, che stava sullo stesso piano ma compieta- mente separata, c’era una camera da letto per le tre nu­merarie ausiliarie. Le due numerarie dormirono, per qualche tempo, in casa di amici del Padre e, in seguito, in una residenza156.

Lo spazio a disposizione degli invitati comprendeva il vestibolo, il soggiorno - che fungeva da sala da pranzo- e la terrazza con vista su S. Pietro. Gli ospiti si acco­miatavano sempre molto soddisfatti. Giovedì 23 gen­naio 1947, per esempio, ci furono due invitati a pranzo

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e il cronista annotò nel diario: “ Se ne sono andati molto contenti, tutto è parso loro meraviglioso. E proprio vero che ora si può invitare chiunque a pranzare in casa”157.

Un simile elogio, così timido e indiretto, non fa mini­mamente intravedere le condizioni di lavoro delle am- ministratrici e le loro continue preoccupazioni. In primo luogo la mancanza di denaro, mancando il quale, man­ca tutto. Il giorno in cui erano arrivate, don Àlvaro ave­va dato loro cinquemila lire per far fronte alle spese del­la casa. Una casa con dieci bocche a tavola, cui si aggiungevano spesso quelle degli invitati. Non c’è da il­ludersi su quanto durarono le prime cinquemila lire, vi­sto quanto racconta Dorita Calvo: “Passavano a noi tutto il denaro che c’era in casa. Quando non ne aveva­mo più, per non preoccupare il Padre, rimandavamo al massimo ulteriori richieste. Una volta eravamo senza neanche una lira e il pomeriggio il Padre rientrò da fuo­ri e ci chiese una piccola somma per una spesa che dove­va fare. Ma non avevamo nulla da dargli”158.

Molto spesso compravano a credito. Finita la guerra, scarseggiavano ancora i generi alimentari, come per esempio le uova, che le amministratrici andavano a cerca­re nei paesi dei dintorni di Roma. Le mille combinazioni che si facevano in cucina per preparare un menu decente, degno di un invitato illustre, erano frustrate quando veni­va a mancare la corrente elettrica o il gas. Erano situazio­ni tragicomiche. “Diverse volte - racconta Encarnita -, avendo invitati a pranzo, dovemmo cuocere i cibi su un braciere, perché mancava il gas. Allora Dora del Hoyo, che serviva a tavola, cercava di andare lentamente, perché potessimo avere più tempo; quando usciva dalla sala da pranzo, si toglieva i guanti e attizzava il fuoco con il sof­fietto perché la casseruola cuocesse più in fretta”159.

Grazie alle amministratrici, che in così difficili condi­zioni facevano prodigi culinari, poterono ospitare alti personaggi ecclesiastici cui far conoscere l’Opus Dei. Ma nessuno degli invitati poteva neppure immaginare la

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scia di povertà e di digiuno che lasciava dietro di sé Ya- postolato della mensa. “ Quando non c’erano visite - te­stimonia don Àlvaro del Portillo - ci toccava provare molta fame, sempre con gioia” 160.

Lo spirito di povertà che il Padre esigeva non consi­steva nel sopportare con stoica passività l’indigenza, bensì nell’affrontarla in modo allegro e attivo: sfruttan­do bene ogni cosa, amministrando con buon senso e vi­sione soprannaturale, perché «non spendere il necessa­rio può essere segno di poca fede»161, dubitare della divina Provvidenza. Per un figlio di Dio, pertanto, po­vertà non equivale a spilorceria.

“Il Padre - racconta Encarnita Ortega - era molto esi­gente con noi sul modo di vivere la povertà: buon uso del tempo; le luci spente, quando non servivano; acquisti oculati nei negozi che davano maggiori vantaggi; utilizzo ottimale dei cibi in cucina, degli avanzi di tela, delle pun­tine, dei chiodi o di qualsiasi materiale usato per le ripa­razioni. Notavamo come sfruttava i suoi effetti persona­li: la tonaca, il soprabito - nel quale le pezze occupavano più superficie della stoffa originaria -, la carta su cui scriveva. Si preoccupava che il sole non danneggiasse i pochi mobili che avevamo. Tutto ci stimolava a imparare a vivere questa virtù nei minimi dettagli»162.

Eppure, erano ancora solo al preambolo della povertà vera che il Padre aveva loro annunciato per lettera e ver­so la quale si dirigevano rapidamente. Ma nulla impedi­sce che alla virtù si associ il garbo. Pochi giorni dopo il loro arrivo a Roma giunse il giorno della Befana, giorno di regali163. Le sue figlie vollero fare un regalo al Padre e, visto che in quel periodo c’erano frequenti interruzio­ni della corrente elettrica, pensarono di regalargli una “bugia” . L’impresa, pur piccola, non fu facile, poiché avevano pochissimi soldi. Ma ci riuscirono e vi aggiun­sero un purificatoio, un corporale e un amitto164.

* * *

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Conclusero l’anno 1946 recitando un Te Deum e inizia­rono il 1947 con la Messa di mezzanotte, sicuri che se il Signore era stato così generoso con loro nell’anno che terminava, ancor più lo sarebbe stato nel nuovo. Pur es­sendone convinto, il Padre bruciava di impazienza e non riusciva a nasconderla. La mattina di Capodanno del 1947 scriveva a quelli di Madrid:

«Le cose seguono il loro corso - un corso eccessiva­mente lento, ma qui sono così - e, per quanto riguarda la ricerca della casa, possiamo fare ben poco finché non si risolve la questione economica che dalle vostre parti procede allo stesso ritmo, quasi che Madrid fosse Ro­ma. Pazienza.

Ieri abbiamo avuto la Messa di mezzanotte. Prima, al­la fine dell’anno, abbiamo recitato il Te Deum e le pre­ghiere di ringraziamento. Il Signore ci ha dato molto nell’anno trascorso, ma sono sicuro che, se siamo fedeli, questo anno ’47 sarà più fecondo in tutti i sensi.

Mi piacerebbe ripartirmene da qui quanto prima. Tuttavia, devo rimanere, non fosse altro che per fare la guardia. Anche questo avrà il suo valore davanti a Dio... dato il mio carattere!»165.

Sì, richiedeva davvero molta forza dominare un carat­tere abituato ad affrontare i problemi con audacia so­prannaturale, con rapidità di decisione e senza ritardi nell’esecuzione. Era il suo modo di essere. È comprensi­bile perciò che, alla prese con la necessaria burocrazia e prudenza esecutiva della Curia, il Padre si sentisse mes­so alle strette e con le mani legate. Riusciva a malapena a controllarsi perché per natura era uomo d’azione. Un giorno, conversando con i suoi figli, disse loro:

«Siamo in cinque e a prima vista sembra che non stia­mo facendo nulla. Ma un giorno, nel futuro, coloro che parleranno della nostra permanenza a Roma, proveran­no invidia»166.

Il Padre definiva quei giorni di apparente inattività. Non erano certo giorni di ozio, neppure apparente. Il

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Padre, sempre con don Àlvaro, faceva o riceveva visite, oppure era occupato a redigere documenti, esaminare questioni di governo, ritoccare la redazione di alcuni punti del Catechismo dell’Opera, breve sintesi dello spi­rito e del diritto dell’Opera. Lavoro che fu benedetto da dolori e malattie.

Il 6 gennaio Roma si risvegliò coperta di neve. Per ri­scaldare l’appartamento non c’era che un braciere. Nel diario della casa si legge: “Don Àlvaro oggi ha avuto problemi al fegato ed emicrania” . E il giorno dopo: “Poco dopo le 17 siamo usciti per comprare medicine per il Padre e per informarci del prezzo delle stufe elet­triche, poiché il braciere non scalda a sufficienza” 167. Il giorno dopo, 8 gennaio, accompagnato da altri due, il Padre uscì per “comperare un forno per la cucina, la stufa e la macchina da cucire per FAmministrazio­ne” 168. Per il resto del mese, don Àlvaro passò molte notti insonni con un persistente dolore di denti, che lo obbligò ad andare sette volte dal dentista. Nonostante ciò, cercava di fare vita normale senza lamentarsi; il Pa­dre diceva di lui che «quando si lamenta è perché sta proprio male»169.

Neppure don Josemaria si lamentava, benché il suo stato fisico, senza arrivare allo sfinimento, fosse di per­manente stanchezza. Il motivo principale era che si de­dicava corpo e anima al lavoro, con passione e senza ri­sparmio. Quando rientrava a casa e non poteva prendere l’ascensore perché mancava la corrente, saliva ansimando i cinque piani e arrivava in casa disfatto170. Qua e là compaiono sul diario annotazioni sui dolori e gli acciacchi del Padre, che a volte lo costringevano a coricarsi presto senza cenare, o a passare tutto il giorno chiuso nella sua stanza a lavorare171.

Fu il Cardinale Lavitrano, Prefetto della Congregazio­ne dei Religiosi, anch’egli sofferente di diabete, che con­sigliò al Fondatore di recarsi dal professor Carlo Faelli. Mentre redigeva la storia clinica del nuovo paziente, il

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professor Faelli gli chiese se avesse avuto dispiaceri e don Àlvaro, che era presente, udì con stupore “che ri­spondeva con decisione di no, che non aveva avuto di­spiaceri” 172. Il medico, senza insistere, scrisse: “È un uo­mo che ha sofferto molto, anche se afferma di non aver avuto dispiaceri”173.

Evidentemente, sullo stato di salute del Padre le con­trarietà pesavano molto, come pure le sue grandi morti­ficazioni e lo sforzo per dominare il temperamento. In compenso non mancavano le gioie, gran parte delle qua­li provenivano dalle sue figlie. Alle cinque donne dell’O- pera che lavoravano nell’appartamento il Fondatore non poteva certo attribuire una apparente inattività. Tutto il contrario. Gli avevano conquistato il cuore. Nelle sue lettere continuava a farne grandissimi elogi:

«Carissime - scrisse alle componenti dell’Assessora­to Centrale -: le vostre sorelle qui sono indaffaratissi­me. La loro venuta è stata una grandissima benedizio­ne di D io»174.

Due settimane dopo raccontò i loro problemi, com­prese le piccole vicende domestiche:

«Le vostre sorelle di qui sono molto contente, anche se, non avendo una casa propria, alla sera devono anda­re a casa dei Pantoli, che sono molto cari.

Oggi è stata loro consegnata una bilancia che può pe­sare fino a dieci chili; a poco a poco stiamo completan­do la batteria di cucina. Il forno elettrico farebbe molto invidia a Nisa; abbia pazienza e verrà anche lei a fare le sue torte, che io non potrò assaggiare per non darla vin­ta al diabete. Penso che qualche eccezione si potrebbe fare, perché il prof. Faelli assicura che costituzionalmen­te non sono un diabetico... e che la glicemia deriva dai dispiaceri: non ricordo di aver mai avuto neppure un di­spiacere e, comunque, mangiare una bella fetta di una buona torta non può proprio dare un dispiacere»175.

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Verso la metà di gennaio del 1947 era ormai stato dato un nome alla legge che avrebbe regolamentato il tanto atteso Decretum laudis. Lo si coglie in una lettera del Fondatore:

«Roma, 17 gennaio 1947.Gesù mi custodisca e benedica i miei figli.Carissimi, non immaginate quante cose da fare ci so­

no in questa benedetta Roma, come lavorano i vostri fratelli e quanto sono grato al Signore per essere venuto qui, dove stiamo per ricevere grandi benedizioni del cie­lo; incidete nella vostra mente - e nel vostro cuore - queste parole: “Provida Mater E c c le s ia - Non fate do­mande. Aspettate»176.

Ma il lavoro dei giuristi e le norme procedurali tarda­vano più di quanto il Fondatore avrebbe voluto:

«La cosa si prolunga più di quanto pensassi - scrisse il 31 gennaio -. Tuttavia abbiamo la certezza che entro febbraio (in ogni caso, prima di S. Giuseppe) arriveremo felicemente alla fine del nostro cammino canonico. Pro- vida Mater Ecclesia'. »177.

Improvvisamente, alcuni giorni dopo, sulle pagine del diario del Centro compare questa annotazione: “Alle 8 abbiamo fatto l’orazione con il Padre in oratorio. Ci ha parlato di perseveranza, di umiltà, di essere come il se­me che si nasconde sotto terra, in profondità... Se ci convincessimo che proprio in questa fatica umile e na­scosta sta la fecondità del nostro lavoro!” 178. Segue un commento piuttosto sorprendente: “ Era tanto tempo che il Padre non faceva l’orazione così, con noi. Peccato, però, che quando è finita l’orazione non ci si ricorda esattamente ciò che ha detto” 179. Il tono della medita­zione del Padre dovette essere insolito e così vibrante che al cronista rimase il dispiacere di ricordare ben po­che frasi letterali.

Da quel giorno - 9 febbraio — sino alla fine del mese, tutto fu attività e movimento, timori e speranze per la sorte del Decretum laudis e la promulgazione della Pro­

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vida Mater Ecclesia. Il pomeriggio del giorno 11 don Àlvaro non fece che “ballare da una parte all’altra” 180. Il Congresso plenario, che doveva dare il suo parere sul­la Provida Mater Ecclesia e sul Decretum laudis, si riunìil 13. Il 14 febbraio il Fondatore scriveva a quelli di Ma­drid:

«Carissimi, ieri il Signore è stato davvero per noi un Padre amorevole. Nel “ Congresso plenario” , presieduto dal Cardinale Lavitrano, le cose sono andate come spe­ravamo. Laus Deo»in .

A questo sospiro di ottimismo fanno seguito alcuni giorni di inquietudine. Il Padre chiese a tutti di raddop­piare le preghiere. “ Ci ha detto - si legge nel diario - che dobbiamo avere molto, ma molto a cuore i proble­mi in sospeso, perché il demonio cerca di dare colpi di coda; ma se Dio è con noi, chi è contro di noi?” 182. Si avvicinava il 24 febbraio, data in cui il Cardinale Lavi­trano avrebbe sottoposto all’approvazione del Papa il Decretum laudis dell’Opus Dei. C’era grande aspettati­va da parte di tutti e moltissimo lavoro per don Àlvaro, che stava dando gli ultimi ritocchi stilistici al latino del­la Provida Mater Ecclesia con mons. Bacci183.

Finalmente la tensione si allentò nel pomeriggio del 24. Quel giorno don Àlvaro, con il Padre e altri due del­l’Opera, andò dal Cardinale Lavitrano a informarsi del­l’esito dell’udienza. Don Àlvaro entrò da lui, mentre gli altri attendevano in macchina. Poco dopo don Àlvaro fu di ritorno. Il Padre non gli diede neppure il tempo di arrivare alla macchina e gli corse incontro; poi, pieno di gioia, disse agli altri che attendevano: «Ormai siamo di diritto pontificio»184. Quando la macchina si avviò, egli recitò un Te Deum. Descrivendo gli eventi del 24 feb­braio, il cronista del diario lasciò scorrere liberamente la penna:

«Il Padre sembrava molto affaticato ma, diceva don Àlvaro, è logico, poiché ha atteso questo risultato per vent’anni. Inoltre, se per noi è stata una gioia enorme, a

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maggior ragione lo è stata per lui. È naturale che sia af­faticato, perché amare affatica; e il Padre, avendo un cuore così grande, ama molto (...). Per festeggiare, a ce­na ci hanno dato per dolce un tronchetto” 185.

* * *

Il testo normativo che avrebbe retto gli Istituti Secolari - le forme nuove approvate dalla Chiesa - fu promulgato come Costituzione Apostolica, poiché Pio XII volle dare alla Provida Mater Ecclesia un riconoscimento pontifi­cio di maggiore importanza e solennità rispetto a un semplice decreto emanato da un Dicastero della Curia Romana186. La Legge peculiare degli Istituti Secolari, insieme ad altri documenti promulgati nel 1948187, in­quadra tali Istituti come “ società clericali o laicali i cui membri, per acquisire la perfezione cristiana ed esercita­re pienamente l’apostolato, professano nel mondo i con­sigli evangelici” 188. La nota fondamentale che definisce la nuova figura giuridica è quindi la condizione secolare dei suoi membri, che professano i consigli evangelici ed esercitano l’apostolato. Detto in negativo, gli Istituti Se­colari non sono Ordini o Congregazioni Religiose e neppure Società di vita comune quali erano previste dal Codice di Diritto Canonico, poiché non comportano i tre voti pubblici di religione e non impongono ai loro membri la vita comune o l’abitare sotto un medesimo tetto189.

Il Decretum laudis, che ha per titolo Primum Institu- tum (cioè il primo degli Istituti Secolari a essere appro­vato)190, descrive la particolare fisionomia giuridica del­l’Opus Dei, struttura, membri e vita apostolica. L’Opus Dei vi è definito come Istituto prevalentemente clericale, a causa della Società Sacerdotale della Santa Croce chelo informa per intero. Nella parte dispositiva viene det­to che il Papa Pio XII “col presente Decreto, in confor­mità con la Costituzione Provida Mater Ecclesia e con

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le sue proprie Costituzioni, che furono revisionate e ap­provate dalla Sacra Congregazione dei Religiosi, loda e raccomanda l’Opus Dei, insieme alla Società Sacerdota­le della Santa Croce, come Istituto Secolare, sotto l’au­torità di un unico Superiore Generale, l’ufficio del quale è ad vitam, e lo dichiara di diritto pontificio, facendo salvo il potere degli Ordinari, secondo il tenore della stessa Costituzione Apostolica” 191.

Grande fu la gioia del Fondatore. Ventiquattro ore dopo aver ottenuto il Decretum laudis scriveva ai mem­bri del Consiglio Generale:

«Roma, 25 febbraio 1947.Gesù mi protegga i miei figli.Ieri il Santo Padre ha sancito il nostro decretum lau­

dis. Ormai siamo di diritto pontificio!»192.E alle figlie dell’Assessorato Centrale, lo stesso giorno:«Sapete già che siamo in festa: siamo di diritto ponti­

ficio (...). Con queste benedizioni della Chiesa superere­mo via via gli ostacoli che, del resto, sono inevitabili. Avranno rimedio con gli anni»193.

Il Fondatore era davvero in festa. Aveva ottenuto quello che era andato a cercare a Roma nel 1946: il ri­conoscimento dell’Opus Dei come istituzione di diritto pontificio. Inoltre, l’unità istituzionale dell’Opus Dei, in quanto fenomeno pastorale, era sufficientemente assicu­rata. Il Decreto approvava la Società Sacerdotale della Santa Croce e Opus Dei - in breve, Opus Dei - come Istituto Secolare di diritto pontificio posto sotto l’auto­rità di un Presidente Generale, nel quale si univano una sezione maschile e una femminile, non come parti svin­colate dal tutto - il tutto che è l’Opus Dei -, bensì sepa­rate e indipendenti, “ in tal modo che sempre di fatto, con un’unica erezione canonica, come regola generale ci sono due centri separati in ciascuno dei domicili dell’O­pus Dei” 194.

Se le cose stavano così e c’era motivo per rallegrarse­ne, perché il Padre cantava vittoria a metà? Quali erano

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gli “ostacoli inevitabili” cui il tempo avrebbe posto ri­medio? Su che cosa erano fondate le sue riserve e i suoi timori?

La frase che «l’Opera era arrivata a Roma con un se­colo di anticipo e che l’unica soluzione possibile era aspettare, perché non esisteva un quadro giuridico ade­guato per quello che l’Opera rappresentava»195, non era così esagerata come poteva apparire a prima vista. Il Fondatore arrivò a Roma nel momento in cui si stava preparando la normativa delle forme nuove e non aveva altra soluzione, se voleva ottenere il Decretum laudis, che farsi inquadrare giuridicamente nella Provida Mater Ecclesia. Ma questa era una rete a strascico, una sorta di grande recipiente nel quale dovevano trovare spazio tutte le forme nuove, cioè Istituti Secolari di ogni tipo; per questo si volle dare alla sua normativa una ampiez­za sufficiente a farci entrare tutti, sia gli istituti vicini al­le Congregazioni religiose, sia quelli vicini alle associa­zioni di fedeli. Pertanto, la figura giuridica degli Istituti Secolari fu descritta nella Provida Mater Ecclesia in ma­niera molto ampia, come frutto di un compromesso fralo stato religioso e quello laicale196.

Durante la sua permanenza a Roma, il Fondatore aveva dovuto sostenere un lungo dibattito in difesa del­la secolarità dell’Opera, un filiale tira e molla, come egli stesso spiegò, perché

«i membri degli Istituti Secolari non fossero conside­rati persone sacre, come alcuni volevano, bensì comuni fedeli quali essi sono; la mia preoccupazione che fosse chiaro che né eravamo né potevamo essere religiosi; la necessità che non fosse chiuso l’accesso a nessun lavoro onesto o alla nostra attività in qualsiasi nobile attività umana»197.

Il Fondatore dovette dunque adottare una politica di tira e molla, cedendo su alcuni aspetti, ma mantenendo­si irremovibile negli aspetti essenziali della natura del­POpus Dei198. Per il momento il Fondatore aveva risolto

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i suoi problemi ma, in conformità con la Provida Mater Ecclesia, l’Opus Dei rimaneva sotto la giurisdizione del­la Sacra Congregazione dei Religiosi e questa situazione- scriveva nel 1947 - fa «prevedere non pochi pericoli in futuro»199.

Doveva difendere la sua eredità divina e questo lo ob­bligava, per evitare confusioni tra la vita e la vocazione dei religiosi e la vita e la dedizione professionale dei membri dell’Opus Dei, a insistere sulle caratteristiche differenziali. Aveva spiegato tante volte il profondo diva­rio esistente fra i laici e i religiosi, tra i fedeli comuni e le persone consacrate a Dio, che persino un paragone tra i loro stili di vita provocava la sua immediata reazione200.

6. La secolarità e il lavoro professionale

Il lavoro del Fondatore a Roma non terminò con l’ap­provazione dell’Opus Dei come Istituto Secolare di di­ritto pontificio. Restavano ancora alcune questioni in sospeso, come ritoccare il Codex dell’Opera secondo la nuova terminologia della Provida Mater Ecclesia, dare quanto prima alle stampe il Catechismo dell’Opera con alcune correzioni e, infine, prendere una decisione circa una casa che avevano individuato. Inoltre, la notizia dell’approvazione non era ancora pubblica e il Fondato­re temeva che avrebbe causato un certo rumore. Temeva che fosse interpretato come chiassoso trionfalismo, mentre la sua massima era nascondersi e scomparire. Giocando d’anticipo, diede istruzione ai membri del Consiglio Generale perché la festa fosse fatta entro le mura domestiche:

«Voglio che all’esterno non si faccia troppo rumore; dentro casa, per gratitudine al Signore e per fortificare i nostri, tutto ciò che si fa è poco: ringraziamenti e fe­steggiamenti, e in Cielo suoneranno campanellini d’ar­gento»201.

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La notizia correva e si diffondeva rapidamente. Mons. Montini gli consigliò di lasciarle ‘prendere il volo’ e di non ostacolarne la diffusione. «Da mons. Montini ho ri­cevuto quasi l’ordine di non tacere», scrisse a quelli di Madrid per dir loro che potevano comunicare a tutti la felice notizia, «senza fare ostentazioni, ma senza conte­nere la gioia». E stabilì:

«In tutti i Centri si celebri una funzione eucaristica, si cantino il Te Deum e una Salve alla Santissima Vergine, in rendimento di grazie. Ci saranno un pranzo straordi­nario e tutta la baldoria interna che ai Direttori locali sembrerà prudente»202.

Cessata la tensione determinata da diversi mesi d’in­tenso lavoro, il Padre cominciava ad accorgersi dei pro­pri sentimenti, dato che fino a quel momento non aveva avuto né il tempo né la voglia di farlo. Tra le righe si pos­sono intravedere due moti contrastanti del suo spirito:

«Ho molta voglia di ritornare in Spagna, ma sono molto contento di essere ogni giorno più romano»203.

E un pensiero che si intensificò con il passare delle settimane:

«È diventato necessario che mi fermi qui ancora un po’, cosa che è abbastanza mortificante, pur essendo molto contento a Roma, e che mi fa l’impressione di un esilio. Pazienza. Un’altra cosa da gustare»204.

La permanenza del Padre a Roma si prolungava più di quanto avesse calcolato205, per cui dovette inviare in Spagna don Àlvaro per mettere al corrente i membri del Consiglio Generale dell’attuale situazione giuridica del- l’Opera e per risolvere diverse questioni economiche. C’era anche da programmare la formazione delle nume­rose persone che ultimamente avevano chiesto l’ammis­sione nell’Opus Dei. Dal momento che su don Àlvaro gravavano tanti incarichi, il Padre scrisse al Consiglio Generale spiegando che, oberato com’era di lavoro, do­veva potersi muovere liberamente:

«Per favore, Àlvaro è malato e cercherà di nasconder-

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10 perché non vi opponiate ai suoi viaggi; e io voglio che non gli facciate difficoltà, ma che segua le cure che il prof. Faelli gli ha prescritto e che non trascuri iniezioni e medicine»206.

Don Àlvaro arrivò a Madrid il 18 aprile. Era intenzio­nato a fermarsi due settimane, ma si ammalò di polmo­nite. La ripresa fu lenta e il 12 giugno stava ancora ‘ma­luccio’, come scriveva il Padre207.

In mezzo alle contrarietà, che non gli mancavano mai,11 Fondatore stava ricevendo in quel momento varie di­mostrazioni di affetto: i privilegi concessi dalla Santa Sede, le affettuose attenzioni di Cardinali e dignitari del­la Curia, la nomina a Prelato domestico di Sua Santità (che dapprincipio cercò di rifiutare) e la designazione di don Àlvaro a segretario della Commissione per gli Isti­tuti Secolari, nella Sacra Congregazione dei Religiosi208, il che era un aiuto provvisorio per difendere la secola­rità dei fedeli dell’Opera.

«Il Signore e la sua Madre benedetta a Roma ci fanno cogliere grandi mazzi di rose fragranti - guardate che non esagero - e non è possibile che tra tante rose non ci siano delle spine; vorrei che le spine, volontariamente cercate nella vostra vita ordinaria di lavoro, rimanesse­ro per ora in Spagna... Mi capite? È necessario intensifi­care la vita di sorridente mortificazione, di penitenza, affinché qui, grazie al vostro buono spirito, continuia­mo a cogliere rose»209.

Il 30 maggio il Padre partì per la Spagna e vi rimase fino al 12 giugno, per risolvere problemi urgenti che non gli lasciarono neppure un giorno di riposo210. Il 25 luglio, con l’inizio delle ferie, in cui l’attività della Curia romana si riduce, potè tornare ancora in Spagna. Tre mesi e mezzo di viaggi e di lavoro, poiché dovette far vi­sita a un gran numero di Vescovi, ai quali aveva previa­mente inviato una nota informativa sugli Istituti Secola­ri, figura giuridica della quale poco o nulla si conosceva nel mondo ecclesiastico spagnolo211.

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Il Padre assistè ai corsi estivi di formazione nella tenu­ta di Molinoviejo. Proprio lì, alla fine di settembre del­l’anno precedente, aveva annunciato ai suoi figli che nel 1947 sarebbero stati rinnovati gli incarichi direttivi al­l’interno dell’Opera, per rispettare rigorosamente ciò che stabiliva il Codex. Del resto, quando non erano an­cora trascorse ventiquattr’ore dall’ottenimento del De- cretum laudis, egli aveva già confermato per lettera al Consiglio Generale la decisione di attenersi puntual­mente al diritto peculiare dell’Opera212. Durante l’estate il Fondatore commentò ai suoi figli il Catechismo del- VOpera e spiegò loro la nuova forma giuridica dell’O- pus Dei sancita dalla Santa Sede.

La sua permanenza in Spagna stava trascorrendo tranquillamente quando, inaspettatamente, dovette ri­tornare a Roma, dove don Àlvaro reclamava la sua pre­senza. Partì da Madrid il 20 novembre e il 4 dicembre scriveva al Consiglio Generale:

«È necessario che raccomandiate il lavoro che mi ha fatto venire qua, affinché otteniamo, per il servizio della Chiesa nostra Madre, che resti chiaramente profilata la figura canonica nata da poco - l’istituto Secolare - per­ché altrimenti si rallenterà il lavoro con le anime»213.

Di tanto in tanto, nelle lettere o nelle note del Pa­dre compare una semplice parola, un’espressione o un sentimento collegato a determinate parole, che ri­schia di sfuggire se non si fa attenzione. La frase «re­sti chiaramente profilata la figura canonica nata da poco», per esempio, rivela la fragile consistenza giu­ridica degli Istituti Secolari e i pericoli che li minac­ciavano fin dalla loro entrata in scena. Ma è anche una metafora che rimanda ad altri scritti del Fonda­tore, come quello di pochi mesi prima, nel quale chie­deva ai suoi figli affetto e delicatezza nel trattare le cose dell’Opera:

«Non dobbiamo dimenticare che l’Opera è una crea­tura di Dio, che Egli ha messo nelle nostre mani perché

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la trattiamo con delicatezza soprannaturale e umana, e le infondiamo anima e corpo e stile»214.

Andando indietro nel tempo, torna alla mente l’im­magine dell’Opera non-nata, in gestazione, simile a un nascituro nel seno materno215. Tutte queste considera­zioni poetiche rivelano la tenerezza materna del Fonda­tore, il suo coraggio e la sua fierezza nel proteggere la crescita di una creatura messa nelle sue mani dalla Vo­lontà divina.

Che cosa accadeva a Roma di così importante da co­stringere il Fondatore a rientrarvi? Stava verificandosi ciò che aveva temuto e previsto. Nella parte introdutti­va della Provida Mater Ecclesia era spiegato uno dei motivi che avevano portato a promulgarla: “Evitare il pericolo della erezione di nuovi Istituti, che non di rado vengono fondati in modo imprudente e senza maturo esame” , dato che le forme nuove che aspirano a essere Istituti Secolari “si sono silenziosamente moltiplicate e assumono le forme più svariate e tra loro differenti”216.

Tali associazioni, lo si sapeva, erano in piena efferve­scenza. L’anno successivo alla promulgazione della Pro­vida erano state presentate alla Sacra Congregazione dei Religiosi più di cinquanta petizioni di erezione canoni­ca217. Quel mare di richieste andava oltre qualsiasi pre­visione e minacciava di travolgere le norme giuridiche. Il rimedio della Curia consistette nel creare muri di con­tenimento per trattenere la valanga, quali il Motu pro­prio Primo feliciter e l’istruzione Cum Sanctissimus218.

L’Istruzione consigliava agli Ordinari di frenare l’im­pazienza dei promotori di quel tipo di associazioni. Le autorità diocesane dovevano mettere alla prova i movi­menti di fedeli, conducendoli, con prudenza, senza pre­cipitazioni e a poco a poco, a salire un gradino dopo l’altro - Pie Unioni, Sodalizi, Confraternite - in attesa di capirne la destinazione finale219.

Il Motu proprio Primo feliciter stabiliva che la nor­mativa degli Istituti Secolari dovesse essere applicata ri­

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gorosamente, escludendo qualsiasi altra disposizione che facesse riferimento al regime dello stato religioso. Il motivo era chiaro: la lex della Provida veniva a colmare un vuoto lasciato dal Codice di Diritto Canonico ed era stata promulgata tenendo conto precisamente delle ca­ratteristiche delle associazioni che chiedevano di essere approvate come Istituti Secolari. Di fatto, lo spirito di molte di esse era solo una variante della vita religiosa.

Quando era stata redatta la Provida Mater Ecclesia, il Fondatore era stato costretto ad accettarla così com’era. Pochi mesi dopo, di fronte al pericolo di una equipara­zione teorica e pratica degli Istituti Secolari con lo stato religioso, tornò a Roma, pronto a dare battaglia su un punto chiave: la secolarità. Lo spiegò brevemente, senza soffermarsi sul proprio ruolo in questo episodio della storia ecclesiastica:

«Poi, per iniziativa di Àlvaro, attraverso il Sottosegre­tario della S. Congregazione dei Religiosi, si riuscì a fare il Motu proprio Primo feliciter, per assicurare la secola­rità»220.

Tutto il documento parla di secolarità. Questa volta non ci sono concessioni e la secolarità viene disegnata con tratti forti, in particolare nei testi concernenti la ri­cerca della santità e l’esercizio dell’apostolato221. La fi­sionomia caratteristica degli Istituti Secolari è riassunta nella nota della secolarità. Il Motu proprio lo esprime chiaramente: quando si deve considerare la natura di questi Istituti “non si deve mai perdere di vista la loro caratteristica propria e peculiare, cioè la secolarità, nella quale consiste l’intera ragione della loro esistenza”222. In seguito comunque ci si accorse che neppure la barrie­ra della secolarità scongiurò le confusioni. Rimase sem­pre il rischio di una interpretazione conforme alla voca­zione e alla vita dei religiosi.

All’inizio del febbraio 1948 il Fondatore considerava terminato il proprio lavoro, come scriveva a Ricardo Fernàndez Vallespm:

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«Spero di ritornare presto in Spagna: il mio soggiorno romano non è stato sterile. Vedrai che gioia quando ti racconterò !...» 223.

Gioia che esprimeva, per tutto quel periodo, nella chiu­sa delle sue lettere: «Grazia di Dio e buon umore» 224.

Gioia che in lui era evidente:«Il bilancio di questo viaggio - scriveva ai membri del

Consiglio Generale - è, senza paragone, ancora più po­sitivo di quello degli altri viaggi che ho fatto a Roma. Vi racconterò: aspettatevi l’istruzione e un Motu pro­prio»225.

Con quei documenti era salvaguardata la figura cano­nica degli Istituti Secolari, confermata sulla base della secolarità che è, in effetti, una caratteristica essenziale dei fedeli dell’Opus Dei. Il Fondatore definì questo cam­mino ascetico e apostolico con due pennellate: «Vita in­teriore contemplativa, unita al proprio lavoro professio­nale, qualunque sia»226.

Il collegamento tra la vita interiore e il lavoro, tra la vita dello spirito e le cose materiali, fatte per amore di Dio, definisce la partecipazione del comune cristiano al­la redenzione del mondo. Per questo è proprio dello spi­rito dell’Opus Dei amare il mondo appassionatamen­te227, perché dal mondo - dal secolo, direbbero i classici- l’uomo estrae, mediante il lavoro, materia e occasione per santificarsi228.

Quando una persona è chiamata da Dio all’Opus Dei, non si sente sradicata dal posto che fino ad allora occu­pava nella società. Dio entra nella nostra vita dandole un senso nuovo - spiegava il Fondatore - e tuttavia «al­l’esterno non è cambiato nulla; il Signore vuole che lo serviamo proprio dove ci ha portato la nostra vocazione umana: nel nostro lavoro professionale»229. Il lavoro professionale assicura il legame del cristiano con la so­cietà, cosicché egli cerca la propria santificazione «nel luogo, nello stato e nella professione che aveva prima di entrare nell’Opus Dei»230. Dunque il lavoro è garanzia

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di secolarità, perché radica il cristiano in una determi­nata società della quale è un comune cittadino, né più né meno dei suoi amici, colleghi e vicini.

Il Fondatore era a Roma da quasi due anni per far co­noscere l’Opus Dei, spiegando a tutti in che cosa consi­steva la secolarità, un concetto molto facile da com­prendere per alcuni ma addirittura inaccessibile per altri; talvolta non servivano a nulla ragionamenti e chia­rimenti. Un certo giorno però capitò un fatto che gli fu molto utile a questo scopo.

A Barcellona c’era un giovane che lavorava in un’azien­da commerciale di vini - la ditta Arno - di proprietà della sua famiglia. Era anche tenore e si esibiva in opere liriche al “Liceo” di Barcellona. Desiderava essere ammesso nel- P Opera, ma la decisione veniva rinviata a motivo della sua età - aveva ormai passato quella degli studi universi­tari - e delle sue attività professionali. Nell’estate del1947, a Molinoviejo, il Padre venne a sapere che, prima di accettare la sua richiesta di ammissione, gli era stato suggerito di iscriversi a una Facoltà universitaria. Allora il Padre chiarì che non era necessario: poteva far parte dell’Opera perché aveva già un lavoro professionale231.

Tornato poi a Roma, un giorno il Padre ricevette una foto che ritraeva Fernando Linares - così si chiamava il cantante - in abito orientale, mentre recitava sulla sce­na. Gli rispose subito:

«Roma, 26 febbraio 1948.Carissimo, che Gesù mi ti protegga. Leggo le tue let­

tere e mi accorgo che sei proprio un tipaccio. Andremo perfettamente d’accordo, se sei santo. E ora, sfrutta be­ne il tempo, visto che ti consideri una vecchia pellaccia. Comunque, il cinesino che mi hai mandato non dimo­stra poi tanti anni. Non darti delle arie: la tua gioventù durerà fino agli ottanta e oltre»232.

Don Josemarìa non trascurò l’opportunità che gli of­friva la foto e seppe farne buon uso, come egli stesso racconta:

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«In quei giorni la mia principale attività era di far ca­pire l’Opera alle persone che governano la Chiesa uni­versale; a un certo punto decisi di utilizzare un esempio molto eloquente. Parlando con il Cardinale Lavitrano gli mostrai la fotografia di un vostro fratello, un cantan­te lirico, ritratto mentre recitava in un teatro. E chiesi: è chiaro ora che siamo gente comune, cui tocca santifica­re tutte le professioni, tutti i modi di lavorare degli uo­mini che non si allontanano dal mondo?»233.

L’argomento della secolarità era stato decisivo, l’anno prima, per convincerlo a mettere da parte la sua umiltà. Accadde che don Àlvaro, come Procuratore Generale dell’Opus Dei e dopo essersi consultato con il Consiglio Generale, chiese per il Fondatore la nomina di Prelato Domestico di Sua Santità e mons. Montini fece propria l’iniziativa234. La nomina reca la data 22 aprile 1947. Montini, che aveva pagato di tasca propria la relativa tassa di concessione, gli inviò il diploma insieme a una lettera autografa, in cui lo definiva “una prova, nuova e solenne, della stima e della benevolenza del Santo Padre verso il Fondatore dell’Opus Dei”235. Ma il nuovo mon­signore non era disposto ad accettare un onore che non aveva chiesto e al quale neppure ambiva. Fu sul punto di respingere cortesemente il titolo. Don Àlvaro riuscì a dissuaderlo, facendogli notare che in tal modo avrebbe ricevuto maggior risalto la secolarità dell’Opus Dei, da­to che tali nomine non venivano conferite ai religiosi236.

Il Fondatore dedicò una lunga serie di considerazioni al­l’aspetto secolare del lavoro, al suo valore e al suo ruolo nell’economia dello spirito, in una Lettera ai suoi figli del 1948237:

«Quando lavorate, voi non svolgete un’attività esclu­sivamente umana, perché lo spirito delPOpus Dei vuole che la trasformiate in un’opera divina. Con la grazia di

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Dio, date al vostro lavoro professionale in mezzo al mondo il suo significato più profondo e più pieno, orientandolo alla salvezza delle anime, mettendolo in rapporto con la missione redentrice di Cristo»238.

Dietro al chiarimento sul significato soprannaturale del lavoro c’è tutta un’architettura teologica e un feno­meno pastorale inedito nella storia quanto alle dimen­sioni e alla portata spirituale. Perché «il lavoro è alla ra­dice stessa dello spirito soprannaturale specifico delPOpus Dei»239. Il tema della lettera è il lavoro uma­no, terreno e secolare, che, fatto per amore, diventa «Opera di Dio, Opus Dei, operatio Dei, lavoro sopran­naturale»240. Idea che il Fondatore predicava fin dagli inizi della propria missione e che con tanta difficoltà riusciva a far penetrare nella diversa mentalità dell’epo­ca. Idea che aveva messo alla portata degli studenti uni­versitari, esprimendola con semplicità: un’ora di studio è un’ora di orazione241. A distanza di quindici anni, ini­ziò questo scritto fondazionale con una splendida ou­verture, tratta da testi biblici:

«Quando la Scrittura narra la creazione del primo uo­mo, ci racconta che ‘il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino dell’Eden, ut operaretur, perché lavorasse’.

Dopo il peccato perdura la stessa realtà del lavoro, ormai unito - proprio a causa del peccato - al dolore, alla fatica: ‘Con il sudore del tuo volto mangerai il pa­ne’, si legge nella Genesi. Il lavoro non è qualcosa di ac­cidentale, ma legge di vita per l’uomo»242.

Lavorare è disegno divino che regge l’armonia dell’u­niverso, nel quale tutto è ordinato e ha la sua ora e il suo posto, come canta il Salmo:

«Stendi le tenebre e viene la notte e vagano tutte le be­stie della foresta; ruggiscono i leoncelli in cerca di preda e chiedono a Dio il loro cibo. Sorge il sole, si ritirano e si accovacciano nelle tane. Allora l’uomo esce al suo lavo­ro, per la sua fatica fino a sera. Quanto sono grandi, Si­gnore, le tue opere! Tutto hai fatto con saggezza»243.

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E non appena apriamo il Nuovo Testamento troviamo Cristo, il Messia, che lavora nella bottega di Giuseppe:

«L’esempio di Gesù che per trent’anni rimase a Naza­ret a lavorare, esercitando il mestiere di artigiano, dice la Scrittura. La tradizione aggiunge: falegname. Nelle mani di Gesù il lavoro, un lavoro professionale simile a quello che svolgono milioni di uomini nel mondo, si tra­sforma in un lavoro divino, un lavoro redentore, un cammino di salvezza»244.

Perciò il cristiano deve necessariamente proclamare la potenza del lavoro, mediante il quale partecipa all’opera creatrice e al mantenimento e al progresso di tutta l’u­manità. Il lavoro non è, quindi, una maledizione divina, anche quando lo sforzo intenso rende ingrato il compi­to. Le fatiche e i dolori che l’accompagnano offrono, pe­raltro, una «occasione per sentirci più vicini a Cristo», che patì la fame e la stanchezza e i tormenti della Passio­ne. E poiché il lavoro è legge universale, «qualsiasi lavo­ro dignitoso sul piano umano può trasformarsi in una occupazione divina». I fedeli dell’Opus Dei «devono elevare e santificare tutte le professioni, trasformandole in strumenti di santità propria e altrui, in occasione di apostolato»245.

Ma in virtù di quale prodigio l’attività professionale si eleva e si trasforma in qualcosa di ordine superiore? Quali sono i mezzi e in che cosa consiste il processo di tanto stupefacente conversione?

«Quando lasciamo che Gesù abiti in noi - scriveva il Fondatore -, nella nostra vita c’è un potere ben superio­re a quello del leggendario re Mida: egli trasformava in oro quel che toccava; noi facciamo del lavoro umano (...) operatio Dei, lavoro soprannaturale»246.

Si santifica il lavoro se si cerca l’unione con Dio nel compierlo, tenendo vivo, per quanto possibile, un co­stante dialogo con il Signore; un dialogo che si alimenta degli avvenimenti professionali della giornata. Lo sforzo diventa oro divino se si lavora con perfezione - compe­

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tenza professionale - e rettitudine d’intenzione: alla pre­senza di Dio, senza ambire la gloria umana che soddisfi la propria vanità. Si santifica il lavoro se si vede in esso la possibilità di servire tutti gli uomini per amore di Dio247.

Il Decretum laudis, quando descriveva le caratteristi­che dell’Opus Dei, accoglieva la dottrina sulla ricerca della santità nel compimento del lavoro professionale e nell’esercizio dell’apostolato per mezzo della professione e sul carattere secolare del lavoro248. In precedenza la Santa Sede, quasi per dimostrare il favorevole accogli­mento del nuovo cammino apostolico inaugurato dai fe­deli dell’Opus Dei, aveva concesso loro l’indulgenza ple­naria in diversi casi: in occasione dell’ascrizione all’Opus Dei e nelle feste dei Patroni dell’Opera e anche una volta al mese, a condizione di offrire ogni giorno al Signore il proprio lavoro intellettuale con una giaculatoria249.

Il Breve apostolico Cum Societatis, del giugno 1946, nel quale queste indulgenze venivano concesse per il la­voro intellettuale (i fedeli dell’Opus Dei erano allora per la maggior parte studenti o esercitavano professioni in­tellettuali) non soddisfaceva pienamente il Padre. E non poteva essere che così, se considerava la vocazione delle sue figlie numerarie ausiliarie, che cominciavano a en­trare nell’Opera proprio nell’estate del 1946 e che eser­citavano il loro valido e insostituibile lavoro nelle atti­vità domestiche. Non gli sembrava possibile parlare della santificazione universale di ogni lavoro onesto se l’indulgenza plenaria riguardava soltanto i lavori intel­lettuali e non anche quelli manuali.

Perciò fu chiesta alla Santa Sede la concessione di in­dulgenze ai fedeli dell’Opus Dei anche per il lavoro ma­nuale. La risposta di Pio XII fu il Breve Mirifice de Ec­clesia, dove si sottolinea che “ la ragion d’essere, l’essenza e il fine proprio dell’Opus Dei consistono nel- l’acquistare la santità per mezzo del lavoro di ogni gior­no”250. Il documento faceva speciale menzione delle

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donne dell’Opus Dei, tra le quali il Pontefice pensava in particolare “a quelle che si occupano dei lavori di casa e, seguendo l’esempio del Signore - che venne a servire e non a essere servito - e della Santissima Vergine Maria, Serva del Signore, ispirate da vera umiltà, svolgono lie­tamente i lavori manuali e domestici come Marta, ani­mate nel loro intimo dallo spirito di Maria”251. Il Breve concedeva indulgenze - plenarie o parziali, a seconda dei casi - ai membri dell’Opus Dei, a condizione che of­frissero a Dio le proprie attività manuali con una breve preghiera o con una giaculatoria. La Santa Sede ratifica­va di nuovo la dottrina e lo spirito dell’Opera quanto al lavoro secolare, di qualsiasi genere fosse.

«Sappiate che, nel servizio di Dio, non ci sono mestie­ri di scarsa importanza: sono tutti molto importanti - scriveva il Fondatore -. L’importanza del lavoro dipen­de dalle qualità di chi lo esercita, dalla serietà umana con cui lo svolge, dall’amore di Dio che ci mette. È no­bile il mestiere del contadino che si santifica coltivando la terra; lo è quello del professore universitario che uni­sce la cultura e la fede; quello dell’artigiano che lavora nel proprio ambiente familiare; quello del banchiere che fa rendere il denaro a beneficio della collettività; quello del politico che concepisce la sua attività come servizio al bene comune; quello dell’operaio che offre al Signore la fatica delle sue mani»252.

* * *

La chiamata all’Opus Dei è un intervento divino di cui è parte integrante la vocazione umana, che si svolge nel­l’ambito della secolarità, laddove si esercita la professio­ne. Il Fondatore lo esprimeva in maniera efficace:

«Tutta la spiritualità dell’Opus Dei poggia, come la porta sul cardine, sul lavoro professionale svolto in mezzo al mondo. Senza una vocazione professionale non si può entrare nell’Opus Dei (...), perché la nostra

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vita, in sintesi, consiste nel santificare la professione, santificarci nella professione e santificare mediante la professione»253.

Di conseguenza, il mestiere al quale uno si dedica e tutto ciò che esso implica, vengono a essere la prima condizione dell’attività apostolica, la materia che con­sente la divinizzazione delle relazioni sociali e professio­nali. Quando una persona si sente chiamata e si avvici­na all’apostolato dell’Opus Dei, viene accettata così com’è, senza pretendere che cambi tipo di studi ò di oc­cupazione o le caratteristiche della sua personalità. Il suo lavoro e il suo mondo professionale determinano il suo apostolato.

«Un uomo senza ambizione professionale non mi ser­ve»254, ribadiva il Fondatore. Tutti nell’Opus Dei parte­cipavano di un’ambizione professionale siffatta. Ed era evidente che le numerarie ausiliarie ne partecipavano anch’esse con ampiezza255.

Il filo che collega le idee della Lettera sul lavoro, da cui sono tratte queste citazioni, e lo spirito dell’Opus Dei è l’articolazione del divino con l’umano, del lavoro con la santificazione. Non c’è opposizione fra il lavoro professionale e la vita di dedizione a Dio, come insegna il Fondatore:

«Anzi, si aiutano reciprocamente. Perché il lavoro professionale vi dà senso di responsabilità, maturità umana e un insieme di virtù naturali che sono il fonda­mento di quelle soprannaturali. A sua volta, la vocazio­ne divina vi induce a compiere meglio il lavoro umano, cercando di farne opera perfetta, dato che dovete offrir­lo a Dio e a Dio non si deve offrire ciò che è difettoso, mal fatto»256.

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NOTE AL CAPITOLO XVI

1 Cfr Alberto J. Lleonart y Amselem, Fernando Maria Castiella y Maiz, Espana y ONU: la “Cuestión espanola”, I (1945-46), Madrid 1978, pp. 386-389.2 La frontiera fu riaperta il 24-VIII-1947.3 Acta Apostolicae Sedis (A.A.S.), XXXVIII (1946), p. 132. La creazione dei nuovi Cardinali ebbe luogo nel concistoro segreto del 18 febbraio (cfr ibidem, p. 103). I colloqui, le udienze e le visite dei giorni successivi all’as- segnazione dei titoli e alle nomine nelle Sacre Congregazioni trattennero i porporati a Roma per un’altra settimana.4 Cfr José Orlandis Rovira, Mis recuerdos. Primeros tiempos del Opus Dei en Roma, Madrid 1995, pp. 36-37.5 Lettera di Àlvaro del Portillo, da Barcellona, 24-11-1946 (AGP, Sez. Bl, leg. 3, C-460224-1).6 Lettera di Àlvaro del Portillo, da Roma, 2-III-1946 (AGP, Sez. Bl, leg. 3, C-460302-1).7 Ibidem.8 Ibidem. I nuovi Cardinali spagnoli erano l’Arcivescovo di Toledo, Enri- que Pia y Deniel; quello di Tarragona, Manuel Arce y Ochotorena, e quel­lo di Granada, Agustm Parrado Garcia.9 Lettera di Àlvaro del Portillo, Roma 2-III-1946 (AGP, Sez. Bl, leg. 3, C- 460302-1).10 Lettera di Àlvaro del Portillo, Roma 12-111-1946 (AGP, Sez. Bl, leg. 3, C-460312-1).11 Ibidem.12 Cfr Lettere a Mons. José Lopez Ortiz, Vescovo di Tuy, in AGP, RHF, EF-460203-1 ed EF-460420-1, rispettivamente da Bilbao e Madrid. Lette­re a Dom Aurelio Maria Escarré, O.S.B., in EF-460324-1, EF-460421-1 ed EF-460503-1, tutte da Madrid; ecc.13 Cfr Lettera ai suoi figli di Roma, da Madrid, in EF-460324-2.14 Lettera da Madrid, in EF-460325-1.

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15 Lettera di Àlvaro del Portillo, Roma 10-IV-1946 (AGP Sez. B1 leg. 3, C-460403-1). Questa lettera è registrata in archivio con la data del 3, ben­ché sia stata completata in tre giorni successivi, il 3, il 5 e il 19 aprile).16 Ibidem.17 Lettera da Madrid, in EF-460414-1.18 Lettera di Àlvaro del Portillo, da Roma, 17-V-1946 (AGP Sez. B1 leg. 3, C-460517-1).19 Cfr Lettera ad Àlvaro del Portillo, da Madrid, in EF-460616-1. La rac­colta di lettere commendatizie fu un lavoro sistematico e completo. Il De- cretum laudis della Società Sacerdotale della Santa Croce e Opus Dei, 24- 11-1947 (in Amadeo de Fuenmayor, Valentin Gómez Iglesias, José Luis 11- lanes, L'itinerario giuridico dell3Opus Dei. Storia e difesa di un carisma, Milano 1991, Appendice documentale, documento 22, pp. 753-758), af­ferma che furono presentate alla Santa Sede sessanta lettere degli Ordinari nelle cui diocesi lavorava l’Opus Dei, tra cui quelle di otto Cardinali e di tutti i Vescovi metropolitani della Spagna. Cfr pure Lettera 7-X-1950, n. 20; e AA.W , Diccionario de Historia Eclesidstica de Espana, Madrid 1972, voi. II, pp. 1012.20 Lettera 14-11-1944, n. 17.21 II Decretum laudis (Frimum Institutum) del 24-11-1947 (in Amadeo de Fuenmayor e altri, op. cit., Appendice documentale, doc. 22, pp. 753- 758), afferma: ‘‘Post diuturnas moras multasque probationes Opus Dei, qua verum Dei opus (At V, 39), superatis non parvis neque paucis, etiam bonorum, contradictionibus, succrevit et consolidatum est” .Questa fu anche la ragione per cui la Sacra Congregazione dei Religiosi emanò la Lettera Brevis sane, di lode dei fini della Società Sacerdotale della Santa Croce e Opus Dei, del 13-VIII-1946 (in ibidem, Appendice do­cumentale, doc. 21, p. 751), sulla quale si ritornerà poi nel testo.22 Cfr Lettera a p. Roberto Maria Cayuela Santesteban, S.J., da Madrid, in EF-450113.23 Sui passi e sulla procedura giuridica per ottenere l’approvazione pontifi­cia dell’Opus Dei, cfr Amadeo de Fuenmayor e altri, op. cit.} pp. 183 e ss.24 Lettera di Àlvaro del Portillo, da Roma, 27-111-1946 (AGP, Sez. B1 leg. 3, C-460327-1).25 Ibidem. Con caratteri piccoli, tra le righe, Àlvaro del Portillo puntualiz­zava: “Ma lo dice a priori, poiché non ha ancora letto le Costituzioni” .26 Ibidem.27 Lettera ai suoi figli di Roma, da Madrid, in EF-460324-2. Per la com­posizione di questa lettera, cfr voi. II, cap. XV, § 2.28 Lettera ai suoi figli di Roma, da Madrid, in EF-460324-2, nota 4.29 Ibidem.30 II Fondatore pensava pure che José Orlandis e Salvador Canals, che aiu­tavano don Àlvaro nei rapporti con i consultori, non si rendessero conto del pericolo, per ingenuità: «Stanno sulle nuvole», scriveva {ibidem).31 Lettera di Àlvaro del Portillo, da Roma, 5-IV-1946 (AGP Sez. Bl, leg. 3, C-460405-1).32 II Papa, oltre alle informazioni ricevute da mons. Montini, era a cono-

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scenza della presenza a Roma di don Àlvaro, dato che il 3 marzo aveva ri­cevuto in udienza P Abate di Montserrat, Escarré, che gli aveva parlato del­l’apostolato del membri delPOpus Dei. (“I suoi amici delPOpus Dei!” , aveva esclamato il Santo Padre). Fu allora che PAbate gli disse che don Àlvaro era già sacerdote. “Lo so, lo so” , replicò il Papa (cfr Lettera di Àlvaro del Portillo, da Roma, 12-111-1946; AGP, Sez. Bl, leg. 3, C-460312- 1). Per la precedente udienza papale concessa ad Àlvaro del Portillo, cfr voi. II, cap. XIV, § 5.33 Cfr Lettera di Àlvaro del Portillo, da Roma, 10-IV-1946 (AGP, Sez. Bl, leg. 3, C-460403-1; circa la data di questa lettera, cfr nota 15). La corri­spondenza tra don Àlvaro e il Fondatore avveniva per lettera o per tele­gramma. Le lettere venivano portate e consegnate a mano, dagli amici laici o ecclesiastici che viaggiavano tra Roma e la Spagna oppure, altre volte, dai piloti della compagnia aerea Iberia. Pertanto, spedizione e con­segna erano molto irregolari. Nei telegrammi si esprimevano con frasi pre­viamente convenute per lettera, in modo che don Josemaria potesse indi­care a don Àlvaro la linea da seguire nelle varie questioni. Le comunica­zioni telefoniche fra Italia e Spagna erano interrotte.Riferendosi alle forme nuove, don Àlvaro scrisse al Fondatore delPOpera, in una lettera del 27 marzo: «Quando sapremo qualcosa in merito, le tele­graferò per sapere come mi devo regolare». Dall’audacia e franchezza con cui trattò questo argomento nel colloquio con il Santo Padre, si può de­durre che il Fondatore aveva preso in considerazione le forme nuove.34 Lettera di Àlvaro del Portillo, da Roma, 10-IV-1946 (AGP, Sez. Bl, leg. 3, C-460403-1). P. Arcadio Maria Larraona Saralegui, c.m.f., emi­nente giurista, era stato per molti anni Sottosegretario della Sacra Con­gregazione dei Religiosi e aveva fatto parte della commissione che nel1945 aveva ricevuto l’incarico di preparare il Decreto e le norme proce­durali in base alle quali dovevano essere approvate e regolate le forme nuove. In seguito^fu nominato Segretario della stessa Congregazione; successivamente fu creato Cardinale e nominato Prefetto della Sacra Congregazione dei Riti.35 Lettera di Àlvaro del Portillo, da Roma, 5-IV-1946 (AGP, Sez. Bl, leg. 3, C-460405-1).36 Sulla bibliografia concernente le forme nuove e gli Istituti Secolari, cfr Amadeo de Fuenmayor e altri, op. cit., pp. 211 e ss., dove viene descritto il cammino di queste istituzioni e delPOpus Dei verso l’approvazione come Istituti Secolari.37 Dello sviluppo che avevano raggiunto tali istituzioni e dell’urgenza di dotarle di una normativa appropriata è indice il fatto che alla convenzione di San Gallo (Svizzera) del 1938 parteciparono, con l’approvazione di Pio XI, i rappresentanti di 25 associazioni, di carattere più o meno secolare, per trattare il problema.38 Lettera 7-X-1950, n.18; cfr anche RHF, D-13452, n. 168; e Sum. 245, 555, 2154 e 4668.39 Cfr Lettera di Àlvaro del Portillo, da Roma, 27-111-1946 (AGP, Sez. Bl, leg. 3, C-460327-1).

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40 Cfr Lettere di Alvaro del Portillo, da Roma, 10-IV-1946 e 19-IV-1946 (AGP, Sez. Bl, leg. 3, C-460403-1 e 460419-1).41 Lettera di Àlvaro del Portillo, da Roma, 10-IV-1946 (AGP, sez. Bl, leg. 3, C-460403-1).42 Lettera ai suoi figli di Roma, da Madrid, in EF-460324-2.43 L’irregolarità del servizio postale fra Madrid e Roma durante quel perio­do era in gran parte dovuta alle circostanze storiche. Come si è visto, molti Paesi avevano ritirato i propri ambasciatori, sospeso le relazioni diplomati­che con la Spagna e chiuso le frontiere, con la conseguente interruzione delle comunicazioni internazionali di trasporto e postali. A questo si deve aggiungere che le lettere, e ancor più alcuni allegati, erano materiale riser­vato, per cui dovevano essere inviate a mano, attraverso persone di assolu­ta fiducia. I telegrammi da Roma a Madrid, di solito, venivano inviati per confermare che le lettere erano giunte a destinazione. Cfr Lettera di Àlvaro del Portillo, da Roma, 19-IV-1946 (AGP, Sez. Bl, leg. 3, C-460419-1).44 Lettera ai suoi figli di Roma, da Madrid, in EF-460324-2. I documenti inviati dal Fondatore, a cui fa riferimento la lettera, furono portati a mano da Fiorentino Pérez Embid, che stette a Roma dal 6 al 21 maggio (cfr José Orlandis, op. cit., pp. 101-103).45 “Ho telegrafato che tutto sarebbe stato concluso in maggio», scrisse don Àlvaro al Fondatore; ma in realtà non era stata ancora concluso il la­voro preparatorio della commissione, nonostante l’aiuto che avevano dato i fedeli dell’Opera, copiando a macchina i documenti; “se non ci fossimo accollati quel lavoro, ci sarebbero voluti cinque o sei anni, nonostante l’impegno diligente di p. Larraona” . Lettera di Àlvaro del Portillo, da Roma, 17-V-1946 (AGP, Sez. Bl, leg. 3, C-460517-1).46 Cfr Lettera ai suoi figli di Roma, da Madrid, in EF-460516-1.47 Lettera ai suoi figli di Roma, da Madrid, in EF-460518-1.48 Lettera di Àlvaro del Portillo, da Roma, 25-V-1946 (AGP, Sez. Bl, leg. 3, C-460525-1). Il referendum del 2 giugno decise la sostituzione in Italia della monarchia con la repubblica. Con lettera del 3 giugno don Àlvaro confermò la data della riunione.49 Lettera ai suoi figli di Roma, da Madrid, in EF-460607-1.50 Cfr Lettera di Àlvaro del Portillo, da Roma, 8-VI-1946 (AGP, Sez. Bl, leg. 3, C-460608-1).Facevano parte della commissione: p. Siervo Goyeneche, Presidente; p. Peter Kràmer, p. Cosma Sartori e mons. Roberto Sposetti. Le modifiche apportate al Codex (Diritto particolare dell’Opus Dei) furono minime: per esempio, furono corrette le citazioni dei Salmi secondo la nuova versione approvata da Pio XII. Cfr ibidem.51 Lettera di Àlvaro del Portillo, da Roma, 8-VI-1946 (AGP, Sez. Bl, leg. 3, C-460608-1).52 Lettera di Àlvaro del Portillo, da Roma, 10-VI-1946 (AGP, Sez. Bl, leg. 3, C-460610-1).53 Ibidem. Mariano è don Josemaria,54 Lettera ad Àlvaro del Portillo, da Madrid, in EF-460613-1. Questa let­tera del Fondatore è la risposta a quella inviata da don Àlvaro da Roma

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1£8 giugno. Nel diario don Àlvaro scrisse di suo pugno: “Sabato 8 giugno. Ho passato tutta la mattina a scrivere al Padre (...). Mandiamo un tele­gramma al Padre, per annunciare l’arrivo di Juliàn Cortés Cavanillas in aereo, con le lettere; (...) non appena arriverà a Madrid si metterà in con­tatto col Padre” (Diario di Roma, 8-VI-1946: AGP, Sez. J, 1 leg. 4). Cortés Cavanillas era un giornalista, amico del Padre, già suo allievo al- l’Accademia Cicuéndez (cfr voi. I, § 3-6, in particolare pag. 323). Le due lettere di don Àlvaro del 10 e del 12 giugno 1946, furono portate in Spa­gna da Luis Garda de Llera, addetto commerciale dell’Ambasciata spa­gnola presso il Quirinale, il quale era in attesa di un aereo per Madrid, che fu pronto solo domenica 16 giugno. Don Àlvaro lo venne a sapere il giorno dopo. “A fine giornata - scrisse nel Diario - abbiamo telegrafato al Padre per annunciargli, in ritardo, che finalmente Garda de Llera è parti­to per la Spagna con le lettere” (cfr Diario del Centro di piazza Città Leo­nina,, 17-VI-1946; AGP, Sez. J, 1 leg. 4).La lettera del 13 giugno dice chiaramente che non erano arrivate notizie da Roma: «Carissimo Alvaro, abbiamo ricevuto il tuo telegramma che annun­ciava la lettera che porta Garda de Llera. Finora l’aereo non è arrivato e dicono che non sanno se arriverà oggi». Ciò trova conferma in quel che scrisse don Àlvaro: “Roma, 12-VI-1946. Carissimo Padre, dopo che lunedì avevo scritto alla massima velocità possibile, ho saputo solo ora che Garda de Llera parte soltanto domani, giovedì mattina. La penso ancora come l’altroieri e cioè che io sono ormai bruciato per questa faccenda” .Tutto questo spiega sia la decisione del Fondatore, pronto a salire «sul primo aereo», sia la sua attesa. Va detto anche che non esistevano comu­nicazioni aeree con l’Italia. Il Fondatore pensava al trasporto aereo perché gli era stato annunciato l’arrivo di Garda de Ller^ a Madrid in aereo. In realtà, Garda de Llera approfittò del trasferimento di tre aeroplani, un re­siduato bellico americano, che la Compagnia Iberia aveva acquistato (cfr José Orlandis, op. cit.s pp. 106-107).55 Lettera di Àlvaro del Portillo, da Roma, 12-VI-1946 (AGP, Sez. Bl, leg. 3, C-460612-1), lettera che arrivò a Madrid con diversi giorni di ritardo.56 Lettera di Àlvaro del Portillo, da Roma, 12-VI-1946 (AGP, Sez. Bl, leg. 3, C-460612-1).57 Ibidem. Il curriculum era già stato inviato dalla Curia di Madrid-Alcalà alla Santa Sede il 28-VIII-1943 (in Amadeo de Fuenmayor e altri, op. cit., Appendice documentale, doc. 11, pp. 740-743).58 Lettera di Àlvaro del Portillo, da Roma, 12-VI-1946 (AGP, Sez. Bl, leg. 3, C-460612-1).59 Fu José Orlandis, all’aeroporto di Barajas, a ritirare le lettere dal suo amico Luis Garda de Llera. Orlandis era partito da Roma il 21 maggio per esaminare i suoi alunni della Facoltà di Diritto di Saragozza, e si tro­vava in quei giorni a Madrid. Cfr José Orlandis Rovira, op. cit., pp. 105- 106. Sempre domenica 16, don Josemaria aggiunse poche righe a una let­tera per don Àlvaro scritta da un altro: «Domani avrò il passaporto. Se mi telegrafi di partire, arriverò con il primo aereo. Non voglio frapporre ostacoli» (Lettera, da Madrid, in EF-460616-1).

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60 Cfr Francisco Botella Raduàn, RHF, T-00159, XII, p. 28.61 Cfr José Luis Muzquiz de Miguel, RHF, T-04678/1, p. 78. “La pruden­za del Padre - spiega Muzquiz - lo induceva a chiedere consiglio; se il sug­gerimento che gli veniva dato non coincideva con ciò che egli aveva pensa­to alla presenza di Dio e gli pareva che fosse ispirato dalla ‘prudenza della carne’, lo recepiva, per tornare a considerarlo alla presenza del Signore e poi decidere ciò che era più opportuno” .62 Cfr Francisco Botella, RHF, T-00159, XII, p. 23.63 Lettera ad Àlvaro del Portillo, da Madrid, in EF-460613-1. Per la ma­lattia avuta a Burgos, cfr voi. II, cap. XI, § 3.64 Appunti, n. 1588, del 28-IX-1938.65 Lettera ai suoi figli di Roma, da Madrid, in EF-460324-2.66 II dottor Arjona fece l’esame (prova di Exton) il 24 maggio, ottenendo i seguenti risultati: glicemia a digiuno 1,21 gr %; glicemia dopo mezz’ora dall’assunzione di 50 gr. di glucosio: 2,03; glicemia dopo la successiva mezz’ora, 2,95 gr % (metodo di Hagedorn-Jensen, con doppia determina­zione). La pressione arteriosa era 140 / 90. Nel fondo dell’occhio si nota­va un aumento della pigmentazione. Cfr Storia Clinica di Josemarìa Escrivà de Balaguer, in RHF, D-15111.67 Cfr Àlvaro del Portillo, Sum. 246; José Orlandis, op. cit., p. 110. Do­menica 16 giugno era il giorno in cui Juliàn Cortés Cavanillas sarebbe tor­nato a Roma. Quando telefonò per avvisare che era arrivato, don Àlvaro e Salvador Canals si recarono immediatamente da lui, come si legge sul Diario: “Andiamo in gran fretta. Ci dà la lettera del Padre, che gli è stata consegnata quella stessa mattina. Juliàn ci racconta che ha parlato con lui qualche ora fa e che sembra stia bene. Andiamo verso casa e, nel crepu­scolo, attraversando piazza Navona, leggiamo le lettere, rovinandoci quasi la vista. Il Padre dice che non sta bene, ma che, non appena gli mando un telegramma, verrà” . La lettera del Fondatore è, evidentemente, quella del13 giugno. Quella stessa domenica, poche ore dopo aver parlato con Ju­liàn Cortés Cavanillas, il Fondatore potè leggere le lettere portate da Luis Garcia de Llera.Così continua il Diario: “Questa sera il Padre riceverà le mie due lettere. Alla notizia che il Padre ha già pronto il passaporto, Salvador e io ci sen­tiamo felici come una pasqua, poiché a questo punto diamo per scontato che verrà. Sono già quattro mesi che siamo lontani dal Padre! Percorriamo il Lungotevere entusiasti, già pregustando le imminenti chiacchierate con il Padre” (Diario del Centro di Città Leonina, 16-VT-1946; AGP, Sez. J, 1 leg. 4).68 Le credenziali furono accordate dal Nunzio, Mons. Gaetano Cicognani,il 19 giugno 1946. Cfr RHF, D-15122.69 Cfr Àlvaro del Portillo, PR, p. 352; Francisco Ponz Piedrafita, RHF, T- 04151, p. 92.70 Cfr José Orlandis, op. cit., pp. 113-117; Francisco Ponz, RHF, T-04151, p. 90.71 José Orlandis, RHF, T-00184, p. 64; Àlvaro del Portillo, Sum. 246; cfr José Orlandis, op. cit., pp. 119-120.

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72 Francisco Ponz, RHF, T-04151, p. 92.73 Prima di partire il Fondatore raccomandò ai presenti di volersi molto bene gli uni gli altri e stabilì che la pala d’altare dell’oratorio, allora in preparazione, fosse presieduta da un’immagine della Madonna della Mer­cede (cfr Diario del Centro di via Muntaner, venerdì 21 giugno 1946, in RHF, D-15440).74 Cfr José Orlandis, op. cit., pp. 124-128.75 Diario di Navigazione della J.J. Sister, autenticato a Barcellona il 10 febbraio 1944 dal Comando militare della Marina. Consta di 300 fogli. Nel primo è registrato il viaggio da Barcellona a Genova del 1° giugno1946 e nell’ultimo il viaggio da Palma a Siviglia del 6 dicembre 1947. Ori­ginale in RHF, D-03435. La firma del capitano della nave è illeggibile.76 Ibidem, p. 013. Rafael Caamano Fernàndez, ufficiale di marina, che ha esaminato accuratamente le annotazioni delle rotte degli altri viaggi della J.J. Sister da Barcellona a Genova, testimonia: “Questo vuol dire che furo­no costretti a governare il mare. È chiaro il motivo, perché con mare molto grosso e forte vento di NNW, la rotta N 68 E che corrispondeva a un viaggio normale faceva sì che le onde colpissero la J.J. Sister quasi di traverso, per cui gli sbandamenti potevano essere pericolosi. Si vede che il capitano ha cercato di affrontare le onde con la fiancata di babordo della prua e ha stabilito la rotta a N 48 E; ma poiché continuava a essere in dif­ficoltà, forzò ancor più la virata e alle ore 06.00 virò a N 33 E. Dopo un po’, o perché la forza del mare aumentava o perché stava andando eccessi­vamente fuori dalla rotta normale, mutò rotta verso E alle ore 08.00, per cui riceveva le onde con l’aletta di babordo (probabilmente il mare aveva già cominciato a rollare verso W, come indica la successiva annotazione sul diario alle ore 12.00). In ogni caso, è evidente che la nave ebbe una notte e una mattinata molto dure, dato che la rotta che doveva seguire era la meno adatta per fronteggiare la tempesta” (RHF, D-15441-5).77 Diario di Navigazione della J.J. Sister, p. 013, in RHF, D-03435.78 Ibidem, p. 014.79 Lettera di José Orlandis, da Roma, 26-VI-1946 (RHF, D-15441-6); e cfr op. cit., pp. 125-126 e 128. - I puntini sospensivi nel testo corrispondono nella lettera originale al disegnino che mostra la nave coricata ora su un fianco ora sull’altro (NdC).80 Lettera di José Orlandis, da Roma, 26-VI-1946 (RHF, D-15441-6); e op. cit., pp. 128-130.81 José Orlandis, op. cit., p. 131. Prima c’era stato il saluto dalla nave, che don Àlvaro descrisse con queste parole: “ (...) E finalmente, il Padre! Ci vede subito e dice molto contento: «Tutt’e due: che gioia che siate venuti entrambi». Poi fa megafono con le mani e mi grida: «Testardo!»” (Diario del Centro di Città Leonina, 22-VI-1946: AGP, Sez. J, 1 leg. 4).82 Cfr Àlvaro del Portillo, Sum. 247; José Orlandis, op. cit., pp. 133-135 e 137.83 L’appartamento era stato loro affittato dalla signora Gawronski, figlia del senatore Frassati e sposata con un diplomatico polacco. La famiglia abitava nell’appartamento a fianco. Cfr José Orlandis, Lettera 26-VI-1946

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(RHF, D-15441-6); e op. cit., pp. 138-139. Il trasloco in piazza Città Leo­nina era stato fatto il 13 giugno (cfr Diario del Centro di Città Leonina, 13-VI-1946, AGP, Sez. J, 1 leg. 4).84 Cfr Àlvaro del Portillo, Sum. 247; José Orlandis Rovira, op. cit., pp. 139-140.85 Cammino, n. 520. Il Fondatore, sicuramente per mortificazione, lasciò passare un giorno intero prima di visitare la Basilica di S. Pietro. José Or­landis, che in quei giorni scriveva il Diario, appuntò: “Accompagno il Padre a S. Pietro: è la sua prima visita, che dura a lungo, un’ora in tutto” (Diario del Centro di Città Leonina, 25-VI-1946: AGP. Sez. J, 1 leg. 4).86 Cammino, n. 573.87 Lettera 9-1-1932, n. 20.88 Fin dalle prime pagine dei suoi Appunti, nel 1930, si trova, continua- mente ripetuta, la giaculatoria: O.c.P.a.I.p.M.: Omnes cum Tetro ad Iesum per Mariam; frase che, con Regnare Christum volumus e Deo omnis gloria, esprime «i tre fini dell’Opera: l’effettivo Regno di Cristo, tutta la gloria a Dio, le anime» (Appunti, n. 171, del 10-111-1931; cfr ibi­dem, n. 65, del 16-VI-1930; n. 72, del 5-VH-1930; n. 77, del 28-VII-1930; n. 172, del 10-111-1931; ecc.). La prima giaculatoria si legge anche in Cammino, n. 833.89 Lettera 7-X-1950, n. 19; cfr pure Lettera a S.S. Paolo VI, da Roma, in EF-640614-1.90 Lettera a p. Maximiliano Canal Gómez, O.P., da Madrid, in EF- 440216-1. Il mese successivo scrisse di nuovo a p. Canal: «Attraverso la Nunziatura - dove ci vogliono tanto bene - è arrivata la sua lettera, nella quale racconta l’udienza con il Santo Padre: immagini con che emozione e con quale gratitudine ho letto e riletto la sua missiva. Il mio Dio la ripaghi con abbondanza» (Lettera, da Madrid, in EF-440327-1).91 Dell’Opera e del Fondatore parlarono a Pio XII, nell’udienza del 15 gennaio 1943, José Orlandis e Salvador Canals: “L’udienza durò circa dieci minuti - riferì Orlandis - e prima di terminare il Papa ci incaricò di trasmettere la sua speciale benedizione al Fondatore e a tutto l’Opus Dei” (Memorias de Roma en guerra (1942-1945), Madrid 1998, p. 58). Particolarmente lunga fu la conversazione del Sommo Pontefice con Francisco Botella, nell’udienza privata del 21 maggio 1943. La raccontò10 stesso interessato: “Non appena ci fu una breve pausa, dopo tre o quattro minuti dall’inizio dell’udienza, forte della fiducia filiale verso il Papa che il Padre aveva posto nei nostri cuori, gli dissi: 'Beatissimo Padre, mi sento pieno della fiducia e dell’affetto immenso verso il Santo Padre che il nostro Fondatore ha posto nella nostra anima e voglio dirLe che sono dell’Opus Dei’. Il Santo Padre s’illuminò in volto, mostrando la propria soddisfazione. Disse che l’Opera era molto bella e che stava fa­cendo un lavoro graditissimo agli occhi di Dio. E subito dopo ascoltai dalle sue labbra: ‘Mi parli, mi racconti dell’Opus Dei’. Io allora gli parlai del Padre e di ciò che il Padre diceva (...). Ben presto mi interruppe, mo­strando apertamente un vivo interessamento: ‘Avete qualche contrarietà?11 Padre ha qualche preoccupazione?’. Era evidente, dal gesto e dall’e­

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spressione, che il Papa era già al corrente di quali fossero le difficoltà. Al­lora gli dissi che il Padre era sempre allegro, ma che le difficoltà c’erano e provenivano soprattutto da alcuni membri di un certo Istituto religioso (...). Erano trascorsi più di 25 minuti. Il Santo Padre mi disse che aveva l’Opera nel suo cuore e nelle sue preghiere. Vedendo che l’udienza stava per finire, mi venne in mente solamente di chiedere al Papa una benedi­zione speciale per il Padre. Mi disse che benediceva di tutto cuore lui e i suoi figli: ‘Lo dica al Padre’. Poi mi inginocchiai e mi benedisse” (Franci­sco Botella, RHF, T-00159, X, pp. 15-17). Sicuramente anche l’Abate Escarré aveva raccontato al Padre della propria conversazione sull’Opera con il Santo Padre, durante l’udienza del 3 marzo 1946; è stato già riferi­to infatti del lungo colloquio che don Josemarìa ebbe con lui nel Mona­stero di Montserrat, la vigilia della partenza per Genova. Cfr Lettera di Àlvaro del Portillo, da Roma, 12-111-1946 (AGP, Sez. B l, leg. 3, C- 460312-1); e José Orlandis, Mis recuerdos..., op. cit., p. 117.92 Lettera di Àlvaro del Portillo, da Roma, 5-IV-1946 (AGP, Sez. Bl, leg. 3, C-460405-1).93 «Tutta la storia dell’Opera - scrisse il Fondatore - è la storia delle mise­ricordie di Dio (..), delle provvidenze della bontà di Dio, che hanno prece­duto e accompagnato sempre i passi dell’Opera» (cfr. Lettera 25-1-1961, n. 1).94 Lettera di mons. Giovanni Battista Montini al Fondatore dell’Opus Dei. Originale, in spagnolo, in RHF D-15087.95 Cfr Àlvaro del Portillo, Sum. 799; Antonio Maria Travia, Sum. 3465; cfr anche il Cardinale Sebastiano Baggio (Sum. 5258), che nel 1946 lavo­rava con mons. Tardini, allora Segretario della Sezione degli Affari Eccle­siastici Straordinari della Segreteria di Stato.96 AGP, POI VII-1963, p. 47; anche Fernando Valenciano Polack, Sum. 7109.97L’l l giugno don Àlvaro aveva avuto un lungo colloquio con mons. Montini, del quale riferì al Padre, anche per spiegare il ritardo nella resti­tuzione della foto: “Ho portato io a Mons. Montini - scrisse don Àlvaro il12 giugno - una splendida fotografia del Papa per avere una benedizione autografa per Lei. Montini mi disse che in questi giorni il Santo Padre aveva sospeso le benedizioni, ma che gliela avrebbe portata” .98 Lettera di José Orlandis a Madrid, 26-VT-1946, in RHF, D-15441-6.99 Cfr Appunti, n. 220, del 10-VIII-1931.100 Lettera alle sue figlie dell’Assessorato Centrale, da Roma, in EF- 460630-1.101 Lettera ai suoi figli del Consiglio Generale, da Roma, in EF-460630-2.102 Lettera ai fratelli Carmen e Santiago Escrivà, da Roma, EF-460630-3. Babo è il diminutivo familiare di Salvador Canals.103 In una lettera dell’8 giugno 1946 don Àlvaro raccontò al Fondatore: “Ho interrotto questa lettera in attesa dell’arrivo di p. Goyeneche, che è entrato in casa alle 2.15, tutto euforico (...). Tutti i componenti della Commissione sono entusiasti dell’Opera, a tal punto che hanno propo­sto che, come fa il Papa in occasioni solenni, ci fosse un’altra sessione

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nella quale, videntibus omnibus i consultori, la Commissione approvasse l’Opera” .104 II possibile varo di una normativa per le forme nuove riscuoteva opi­nioni contrarie. Da parte di qualcuno tale innovazione “era considerata prematura. Altri ritenevano inaccettabile questa nuova normativa per il ti­more che lo stato di perfezione, radicato nei secoli, si snaturasse e potesse persino svuotarsi di contenuto con la perdita di taluni suoi caratteri teolo­gici” (cfr Amadeo de Fuenmayor e altri, op. cit., p. 200).105 Lettera a José Maria Hernàndez Gamica, da Roma, in EF-460708-1. Dall’arrivo di don Josemaria a Roma la situazione era notevolmente mi­gliorata, a tal punto che don Àlvaro scriveva a Pedro Casciaro: “Credia­mo che ormai uscirà il Decreto, poiché c’è buona volontà da parte di tutti. (...) L’unica difficoltà, piuttosto seria, è l’urgenza” (Lettera, da Roma, 6- VII-1946).106 Lettera 25-1-1961, n. 6.107 Cfr Àlvaro del Portillo, Sum. 555.108 Cfr ibidem, 556. Che la mentalità giuridica dei consultori non si sco­stasse dal concetto di stato di perfezione è confermato da due commenti ascoltati da don Àlvaro (cfr Lettera del Padre ai suoi figli di Roma, da Madrid, in EF-460324-2).109 Cfr Amadeo de Fuenmayor e altri, op. cit., pp. 224 e ss.110 Lettera 7-X-1950, n. 20. Nel 1947 scrisse: «Fin dal primo momento della fondazione dell’Opus Dei, figlie e figli miei, fin dal 2 ottobre 1928, ho sempre visto l’Opera come un’istituzione i cui membri non sarebbero mai stati religiosi, non sarebbero vissuti a somiglianza dei religiosi, né si sarebbe potuto - in alcun modo - equipararli ai religiosi. E questo non per mancanza di affetto per i religiosi, che amo e venero con tutte le mie forze, bensì perché l’Opus Dei doveva svolgere un apostolato di penetra­zione in tutte le sfere della società civile per mezzo di cittadini uguali agli altri. La parola penetrazione va intesa come il desiderio di iniettare spirito soprannaturale nel sistema circolatorio della società; non come una sem­plice penetrazione personale, materiale, dei fedeli nell’ambiente civile, dato che i membri dell’Opera appartengono alla società, dalla quale non si sono mai separati, e perciò non hanno alcun bisogno à i penetrare dove stanno già» (Lettera 29-XII-1947II14-11-1966, n. 167. Per questa lettera, che reca due date, cfr voi. II, cap. XIII, § 7.). E ancor prima, in una lettera del 1940: «Veneriamo e rispettiamo profondamente la vocazione sacerdo­tale e quella religiosa e tutto l’immenso lavoro che i religiosi hanno svolto e svolgeranno al servizio della Chiesa: perciò non sarebbe un buon figlio mio chi non avesse questo spirito. Ma, nello stesso tempo, ripetiamo che la nostra chiamata e il nostro lavoro - poiché sono un invito a rimanere nel mondo e le nostre attività apostoliche si svolgono nelle e a partire dalle attività secolari - differiscono completamente dalla vocazione e dal lavoro affidato ai religiosi» (Lettera 11-111-1940, n. 40).111 Lettera 7-X-1950, nn. 20-21.112 Cfr Lettera ai suoi figli del Consiglio Generale, da Roma, in EF- 460727-1.

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113 Lettera di Àlvaro del Portillo a Pedro Casciaro, da Roma, 6-VII-1946 (AGP, Sez. Bl, leg. 3, C-470706-1).114 Cfr Àlvaro del Portillo, Sum. 556. La partenza per Fiuggi del Padre con p. Larraona, don Àlvaro e Salvador Canals fu alle ore 18 (cfr Diario del Centro di Città Leonina, AGP, Sez. J, 1 leg. 4).115 Cfr nota di Àlvaro del Portillo, da Roma, 25 agosto 1946, in RHF, D- 30803. Nel diario delle giornate di lavoro a Fiuggi si legge: “P. Larraona ha più volte ripetuto che senza la venuta del Padre questo decreto sulle forme nuove non sarebbe stato portato avanti” (Diario del Centro di Città Leonina, 2 agosto, AGP, Sez. J, 1 leg. 4).11611 nome proposto dalla Sacra Congregazione dei Religiosi era Sodalizi religiosi. “Il Padre - scrisse don Àlvaro nella citata nota del 25 agosto (RHF, D-30803) - ha osservato che la mentalità delle persone è molto semplicistica e che, con questo nome, le nuove istituzioni sarebbero state considerate, dalle autorità civili, composte da religiosi. Allora è nata la proposta di chiamarle Istituti o Istituti secolari” .117 Lettera ai suoi figli del Consiglio Generale, da Roma, in EF-460713-1.118 Lettera a José Maria Hernàndez Gamica, da Roma, in EF-460708-1.119 Lettera ai suoi figli del Consiglio Generale, da Roma, in EF-460727-1.120 Ibidem. A parte il 31 dicembre, si tratta delle date fondazionali delPO­pus Dei e della Società Sacerdotale della Santa Croce.121 II Breve Apostolico Cum Societatis (28-VI-1946), in Amadeo de Fuen- mayor e altri, op. cit., Appendice documentale, doc. 19, pp. 750-752. Si è già visto (cap. XII, § 8) che con un Decreto del Vescovo di Madrid-Alcalà (28-III-1940) erano stati concessi 50 giorni di indulgenza a coloro che avessero baciato devotamente la croce di legno della Residenza di via Jen- ner (cfr AGP, Sezione Giuridica, 1/15074).122 Lettera ai suoi figli del Consiglio Generale, da Roma, in EF-460727-1.123 Comunque - riferisce Àlvaro del Portillo - ci fu chi parlò di approvare l’Opus Dei prima che fosse promulgata la Provida Mater Ecclesia, in base alla facoltà concessa dal Papa al Cardinale Lavitrano. Ma il Cardinale disse che era meglio aspettare (cfr Sum. 556).124 Si tratta della Lettera Brevis sane. Era un tipo di documento che da molto tempo non veniva emanato dalla Santa Sede. Nella prassi della Sacra Congregazione la Lettera di lode del fine equivaleva all’approvazione.125 Lettera Brevis sane della Sacra Congregazione dei Religiosi (13-VIII- 1946); in Amadeo de Fuenmayor e altri, op. cit., Appendice documentale, doc. 21, p. 752.126 Lettera 29-XII-1947//14-II-1966, n. 167.127 Lettera di Àlvaro del Portillo, da Roma, 12-111-1946 (AGP, Sez. Bl, leg. 3, C-460312-1).128 Lettera ai suoi figli di Roma, da Madrid, in EF-460324-2.129 Cfr José Luis Muzquiz, RHF, T-04678/1, p. 50.130 Lettere di Àlvaro del Portillo, da Roma, 17-V-1946 e 8-VI-1946 (AGP, Sez. Bl leg. 3, C-460517-1 e C-460608-1).131 Cfr Francisco Botella, RHF, T-00159, XII, p. 38 .1 corpi dei due martiri furono ottenuti proprio grazie al Vescovo di Forlì. Le casse con i corpi fu­

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rono sigillate nell5Ambasciata spagnola a Roma la mattina del 31 agosto, poche ore prima che il Fondatore partisse in aereo per Madrid (cfr Diario del Centro di Città Leonina, 23 e 31-VIII-1946, AGP, Sez. N, 3 leg. 426- 19). Il 12 ottobre 1946 ebbe luogo l’apertura delle urne e la ricognizione delle reliquie. Fungeva da Notaio ecclesiastico don Juan Botella Valor, alla presenza del Fondatore. Cfr Jesus Urteaga Loidi, RHF, T-00423, p. 55. Nel 1975, terminato il Santuario di Torreciudad, i resti di S. Sinfero vi fu­rono trasferiti e collocati nell’altare maggiore.132 Diario del Centro di Città Leonina, 18 e 27-VII e 5-VIII-1946: AGP, Sez. J, 1 leg. 4.133 Cfr Jesus Urteaga Loidi, RHF, T-00423, p. 53.134 Lettera di Adolfo Rodrfguez Vidal a José Orlandis, 6-X-1946, in AGP, Pratiche delle ordinazioni sacerdotali: n. 660.2. Juan è Juan Jiménez Var- gas.135 II Fondatore - testimonia Francisco Ponz (RHF, T-04151, p. 94) - rin­novò a quelli di Barcellona l’incarico affidato loro il 21 giugno: “Indicò che, in ricordo del viaggio, si facesse fare per quel Centro una pala d’alta­re con l’immagine della Madonna della Mercede e ci fossero incise le pa­role di Matteo 19, 27, che erano state il tema della meditazione nel giorno della sua partenza (ecce nos reliquimus omnia...) e due date: 21-VI-1946, in cui era partito da Barcellona, e 21-X-1946” .136 Originale in RHF, AVF-0033. Tra l’altro, Montini gli disse che “al Papa, di solito, arrivano solo le cose sgradevoli che accadono nella Chiesa. Per questo lo consola molto sapere dell’Opus Dei. E soggiunse: ‘Anche a me fa molto bene sapere cose tanto belle’. (...) Mi assicurò che prega ogni giorno il Signore per l’Opus Dei” (ibidem).137 Lettera ai suoi figli del Consiglio Generale, da Roma, in EF-461206-2. Non era la prima volta che accusava la penna di rallentargli il pensiero. Non era facile per una penna resistere alla sua velocità di scrittura (cfr voi. II, cap. XI, § 6).138 Cfr Àlvaro del Portillo., Sum. 780.139 Lettera a Sua Santità Pio XII, da Roma, in EF-461208-1.140 Lettera a mons. Leopoldo Eijo y Garay, da Roma, in EF-461216-5; cfr Lettera ai suoi figli del Consiglio Generale, da Roma, in EF-461213-2. Molto probabilmente uno dei simpatici dettagli fu riferito da Àlvaro del Portillo: in un momento dell’udienza, spinto dal suo affetto filiale, il Fon­datore volle baciare i piedi al Papa, che gli consentì di baciarne solamente uno. Don Josemarìa insistette per baciare anche l’altro e ricordò al Santo Padre di essere aragonese e che tutti gli aragonesi erano cocciuti, ma in lui questa caratteristica era particolarmente sviluppata (cfr Sum. 782).141 Lettera a mons. Gaetano Cicognani, in EF-461216-3.142 Francisco Botella, RHF, T-00159, XII, p. 11. Questa espressione conia­ta dal Fondatore si ritrova altrove nella sua corrispondenza: «Inoltre, credo di aver imparato ad^spettare. Non è una scienza di poco conto!» (Lettera ai suoi figli del Consiglio Generale, da Roma, in EF-470425-1).143 Lettera ai suoi figli del Consiglio Generale, da Roma, in EF-461216-2.144 Lettera, da Roma, in EF-461213-1.

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145 Lettera ai suoi figli del Consiglio Generale, da Roma, in EF-461216-2.146 Lettera alle sue figlie dell’Assessorato Centrale, da Roma, in EF- 461216-1.147 Encarnación Ortega Pardo, RHF, T-05074, p. 103.148 Dorita Calvo Serrador, RHF, T-04906, p. 4.149 Cfr Encarnación Ortega, RHF, T-05074, p. 104.150 Diario del Centro di Città Leonina, 27-XII-1946, AGP, Sez. N, 3 leg. 426-20.151 Lettera alle sue figlie dell’Assessorato Centrale, da Roma, in EF- 461220-1.152 Dorita Calvo, RHF, T-04906, p. 13.153 Rosalia Lopez Martìnez, Sum. 7008.154 Cammino, n. 974.155 Encarnación Ortega, RHF, T-05074, p. 107.156 Cfr Relazione di Alberto Martìnez Fausset sulla permanenza del Fon­datore dell3Opus Dei nell3appartamento di piazza della Città Leonina (1947) e piantina dell'appartamento, in RHF, D-15442; Lettera alle sue fi­glie dell’Assessorato Centrale, da Roma, in EF-470117-1.157 Diario del Centro di Città Leonina, 23-1-1947, AGP, Sez. N, 3 leg. 426-20.158 Dorita Calvo, RHF, T-04906, pp. 13-14.159 Encarnación Ortega, RHF, T-05074, p. 107.160 Àlvaro del Portillo, PR, p. 1502.161 Encarnación Ortega, RHF, T-05074, p. 109.162 Ibidem. Encarnita non esagerava nel riferire lo stato degli abiti del Padre. Basta leggere ciò che il Fondatore scrisse a Madrid: «Chissà se non vale la pena tingere il vecchio mantello che ho usato negli anni scorsi (ormai non è più nero, è verde) e fargli un piccolo orlo in basso, perché si stava sfilacciando, in modo da poter continuare a usarlo? Quello che ho portato qui lo lascerò ad Àlvaro» (Lettera ai suoi figli del Consiglio Gene­rale, da Roma, in EF-470131-2).163 È noto che il termine Befana è una degenerazione linguistica di Epifa­nia. Il 6 gennaio in Spagna (dove è chiamato dia de Reyes, giorno dei Re Magi) è il giorno classico per farsi regali. In Italia è più frequente il Nata­le, ma in molti luoghi, per esempio a Roma, lo è pure l’Epifania (NdC).164 Cfr Encarnación Ortega, RHF, T-05074, p. 109.165 Lettera ai suoi figli del Consiglio Generale, da Roma, in EF-470101-2.166 Diario del Centro di Città Leonina, 16-1-1947, AGP, Sez. N, 3 leg. 426-20. I cinque cui si fa riferimento erano, oltre al Fondatore e a don Àlvaro, Salvador Canals, Ignacio Sallent Casas e Armando Serrano Ca­stro. Il 3 febbraio 1947 si aggiunse Alberto Martìnez Fausset.167 Diario del Centro di Città Leonina, 6 e 7-1-1947, AGP, Sez. N, 3 leg. 426-20.168 Ibidem, 8-1-1947.169 Ibidem, 18-1-1947; cfr anche lo stesso Diario dal 14 al 23 gennaio. Il dentista che visitò don Àlvaro era il dottor Hruska, che in seguito ebbe in cura anche il Fondatore (ibidem, 27-1-1947; cfr Kurt Hruska, Sum. 3487).

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170 Cfr RHF, D-15442, p. 16.171 Cfr Diario del Centro di Città Leonina, 21-1-1947, AGP, Sez. N, 3 leg. 426-20.172 Sum. 475; mons. del Portillo aggiunge: “Il Fondatore era stato sincero, perché ciò che per qualsiasi persona sarebbe stato un dispiacere, era vissu­to da lui come un motivo di maggiore unione con Dio, di gaudium cum pace” .173 Carlo Faelli, Sum. 3461.174 Lettera, da Roma, in EF-470101-1.175 Lettera alle sue figlie dell’Assessorato Centrale, da Roma, in EF- 470117-1.176 Lettera ai suoi figli del Consiglio Generale, da Roma, in EF-470117-2.177 Lettera ai suoi figli del Consiglio Generale, da Roma, in EF-470131-2.178 Diario del Centro di Città Leonina, 9-II-1947, AGP, Sez. N, 3 leg. 426- 20 .179 Ibidem.180 Cfr ibidem, 12-11-1947.181 Lettera ai suoi figli del Consiglio Generale, da Roma, in EF-470214-2. «Non se ne può parlare - aggiunse - perché ufficialmente non sappiamo niente sino alla fine del mese. Ora continuate a pregare per l’udienza del giorno 24».182 Diario del Cèntro di Città Leonina, 18-11-1947, AGP, Sez. N, 3 leg. 426- 20. Alcuni giorni prima aveva già scritto a quelli del Consiglio Generale: «Fate pregare molto perché le cose non si distorcano e non subiscano ritar­di» (Lettera, da Roma, in EF-470207-2). Il Fondatore temeva la possibilità di interpretazioni o applicazioni ambigue del testo della Provida Mater Ec­clesia, qualora fossero apportate aggiunte o modifiche all’ultimo momento. La data del 2 febbraio 1947, che reca la Costituzione apostolica, fu decisa dal Cardinale Lavitrano su suggerimento del Fondatore, in segno di gratitu­dine verso la Madonna, di cui il 2 febbraio ricorre una festa. ^183 «Àlvaro è fuori casa, con mons. Bacci - che è il latinista del Papa -, a preparare la Provida Mater Ecclesia, che il Santo Padre aspetta per do­mani» (Lettera ai suoi figli del Consiglio Generale, da Roma, in EF- 470221-2).184 Diario del Centro di Città Leonina, 24-11-1947, AGP, Sez. N, 3 leg. 426-20.185 Ibidem. Nel testo il dolce è chiamato brazo de gitano (lett. braccio di zingaro) (NdC).186 II titolo completo è: Costituzione apostolica i3Provida Mater Ecclesia33 sugli Stati Canonici e Istituti Secolari per acquisire la perfezione cristiana. Fu pubblicata il 29 marzo 1947 (A.A.S., XXXIX (1947) pp. 114-124).187 II Motu proprio Primo feliciter, del 2-III-1948, e la Istruzione Cum Sanctissimus, del 12-111-1948, pubblicati in A.A.S., XL (1948) pp. 283 e 293-297, rispettivamente.188 Provida Mater Ecclesia, art. 1.189 Sulla figura giuridica degli Istituti Secolari e la normativa che li regola si vedano i commenti di Amadeo de Fuenmayor e altri, op. cit., pp. 183 e ss.

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190 Decretum laudis (Primum Institutum), 24-11-1947, in ibidem, Appen­dice documentale, doc. 22, pp. 753-758.191 Ibidem.192 Lettera, in EF-470225-2.193 Lettera, in EF-470225-1.194 Decreto Primum Institutum, 24-11-1947.195 Lettera 7-X-1950, n. 18.196 «Lo statuto giuridico ottenuto con la Provida Mater Ecclesia, docu­mento che è il risultato di una situazione di emergenza, in cui convergeva­no fattori molto diversi e situazioni opposte, ha fatto sì che si giungesse a una formula di compromesso» (Lettera 29-XII-19471/14-11-1966, n. 167).197 Lettera 7-X-1950, n. 20.198 La politica adottata dal Fondatore durante l’elaborazione della Provi­da Mater Ecclesia era a volte di cedere e altre di opporsi: «Mi rendevo conto che la legge non si fa per un caso particolare: deve mirare al bene comune. Perciò era ragionevole che concedessimo e che, contemporanea­mente, cercassimo di risolvere il nostro singolo caso all’interno della legge generale, senza alterare nell’essenziale, per quanto era possibile, la natura dell’Opera» (Lettera 29-XII-1947H14-11-1966, n. 168). Il Fondatore stette molto attento che alcuni dei punti essenziali fossero chiaramente sottoli­neati nel decreto Primum Institutum, paragrafo 10, dove è detto, senza ambiguità, che “i soci della Società Sacerdotale della Santa Croce e Opus Dei non sono religiosi. Perciò non hanno vita comune religiosa, né emet­tono voti religiosi, né vestono abito religioso. Esternamente, in tutte le cose che sono comuni alla gente del mondo e non disdicono allo stato di perfezione, si comportano come gli altri cittadini della loro condizione e professione” .199 Lettera 29-XII-1947II14-I1-1966, n. 167.200 Ecco un episodio significativo avvenuto alla vigilia del Decretum laudis. Don Àlvaro e Salvador Canals, nella casa di piazza Città Leonina, stavano lavorando su alcuni documenti nella stanza del Fondatore, mentre questi, con gli altri suoi figli, rispondeva alle lettere giunte da diversi Cen­tri: Granada, Siviglia, Bilbao, Madrid..., quando arrivò un religioso che portava una lettera. Entrato nella stanza, si meravigliò di vederli tanto concentrati ed esclamò: «Che silenzio! Come in una comunità religiosa».Il Fondatore si alzò di scatto dalla sedia e gli rispose molto cortesemente: «Scusi, Padre. Stiamo lavorando come buoni cristiani». Fu chiaro al buon religioso che lavorare coscienziosamente, in silenzio e intensamente, era un’abitudine da buoni cristiani, religiosi o laici (Cfr Diario del Centro di Città Leonina, 21-11-1947, AGP, Sez. N, 3 leg. 426-20).201 Lettera, da Roma, in EF-470301-1.202 Lettera ai suoi figli del Consiglio Generale, da Roma, in EF-470307-2.203 Lettera ai suoi figli del Consiglio Generale, da Roma, in EF-470301-1.204 Lettera ai suoi figli del Consiglio Generale, da Roma, in EF-470410-3.205 Cfr Lettera ai suoi figli del Consiglio Generale, da Roma, in EF- 470425-1.206 Lettera, da Roma, in EF-470417-1.

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207 Lettera ai suoi figli del Consiglio Generale, da Roma, in EF-470612-1.208 Cfr Lettera ai suoi figli del Consiglio Generale, da Roma, in EF- 470327-2. Sulla creazione della Commissione speciale per gli Istituti Seco­lari e sulla nomina a segretario di don Àlvaro del Portillo, cfr A.A.S., XXXIX (1947), pp. 131-132.209 Lettera ai suoi figli del Consiglio Generale, da Roma, in EF-470327-2.210 Cfr Lettera ai fratelli Carmen e Santiago Escrivà de Balaguer, da Ma­drid, in EF-470611-1.211 Cfr Lettera a mons. Juan Perelló Pou, Vescovo di Vie, da Madrid, in EF-470923-2.212 Lettera ai suoi figli del Consiglio Generale, da Roma, in EF-470225-2.213 Lettera, da Roma, in EF-471204-1.214 Lettera ai suoi figli del Consiglio Generale, da Roma, in EF-470410-3.215 Cfr Appunti, n. 164, del 22-11-1931, testo completato con una nota ag­giunta il 27-VI-1932.216 pyoyida Mater Ecclesia. A Roma ci si era resi conto della esuberante fioritura di istituzioni, in seguito alla riunione svoltasi a San Gallo, in Svizzera, nel maggio 1938. P. Agostino Gemelli, che presiedeva l’Assem­blea, redasse una memoria indirizzata alla Sacra Congregazione del Con­cilio dal titolo: Le associazioni di laici consacrati a Dio nel mondo (1939), in cui scrisse, fra l’altro: “Oltre alle organizzazioni più o meno direttamente note alla Gerarchia, è legittimo supporre da molteplici ed evidenti segni che ne esistono moltissime altre che per ora sfuggono a qualsiasi conoscenza e controllo, sorte dallo zelo individuale inccfntrolla- to di semplici sacerdoti non investiti di autorità o di una missione. Forse non è esagerato affermare che praticamente in ogni città c’è almeno un sacerdote che, avendo un numeroso gruppo di penitenti, cerca di formare con alcuni di loro un’organizzazione di persone consacrate a Dio nel mondo. Ciò, per molte ragioni, può presentare diversi inconvenienti e a volte essere causa di gravi danni” . Cfr pure Amadeo de Fuenmayor e altri, op. cit., pp. 211 e ss.217 Cfr Josemarìa Escrivà: La Constitución Apostolica "Provida Mater Ec­clesia” y el Opus Dei (conferenza pronunciata a Madrid il 16-XII-1948, pubblicata in A.C.N. de P. il 15-1-1949).218 II Motu proprio Primo feliciter è del 2-III-1948, l’istruzione Cum Sanc- tissimus del 12-111-1948.219 Prima di chiedere l’approvazione come Istituti Secolari - si legge nell’i­struzione (n. 5) - “queste nuove società devono essere esaminate e messe alla prova, sperimentate sotto la paterna potestà e tutela dell’autorità dio­cesana, dapprima come associazioni esistenti più di fatto che di diritto, e poi, non bruscamente ma passo passo e gradualmente, in qualche forma di associazioni di fedeli (non quidem per saltum sed pedetemptim atque per gradus, sub aliquibus ex formis Associationum fidelium), come Pie Unioni, Sodalizi, Confraternite, secondo quanto suggeriscono le circostanze”.220 Lettera 8-XII-1949, n. 43.221 Dell’apostolato degli Istituti Secolari dice: “Hic apostolatus Instituto- rum Saecularium non tantum in saeculo, sed veluti ex saeculo, ac proinde

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professionibus, exercitiis formis, locis, rerum adiunctis saeculari buie con- ditioni respondentibus, exercendus est fideliter” (Primo feliciter, II).222 “In hac Societatum fidelium ad superiorem Institutorum Saecularium formam elevatione atque in omnium Institutorum, sive generali sive etiam singulari ordinatione perficienda, illud prae oculis semper habendum est, quod proprius ac peculiaris Institutorum caracter, saecularis scilicet, in quo ipsorum exsistentiae tota ratio consistit, in omnibus elucere debet” (Primo feliciter, II).223 Lettera, da Roma, in EF-480206-1. “Soggiorno” è in italiano nel testo.224 Lettera a José Maria Gonzàlez Barredo, da Roma, in EF-480224-1.225 Lettera, da Roma, in EF-480226-1; cfr pure Lettera, in EF-480311-2.226 Lettera 8-XII-1949, n. 28.227 Amare il mondo appassionatamente è il titolo dell’omelia che Jose- maria Escrivà pronunciò 1’8-X-l967 durante una Messa celebrata nel campus dell’Università di Navarra (oggi in appendice del volume Colloqui con Mons. Escrivà, Milano 2002).228 Nella già citata conferenza La Constitución Apostòlica “Provida Mater Ecclesia” e l’Opus Dei (16-XII-1948), il Fondatore disse: «È ine­rente allo stato religioso - e si manifesta giuridicamente mediante l’emis­sione di voti pubblici - il disprezzo del mondo (contemptus saeculi), la morte al mondo, la separazione dalla vita ordinaria degli uomini, sia in una vita contemplativa dedita all’orazione e al sacrificio, sia in una vita attiva dedita a rimediare dal di fuori del mondo ai suoi mali e alle sue necessità. Il religioso è un uomo che è rinato a una nuova vita, morendo al mondo e appartandosi dalla vita degli altri uomini. Si fa olocausto per loro. Per questo si dice che è morto al mondo. Ed è una morte re­dentrice».229 Lettera 15-X-1948, n. 1.230 Ibidem, n. 2.231 Cfr Francisco Botella, RHF, T-00159, XIV, p. 2; Francisco Ponz, RHF, T-04151, p. 104.232 Lettera a Fernando Linares Mendoza, da Roma, in EF-480226-3. Nella foto Fernando era vestito da mandarino cinese e rappresentava un personaggio di Le Chant du Rossignol di Stravinsky (1914).- Qui, come nel II volume, nell’intestazione delle lettere del Fondatore è stata lasciata l’espressione “Che Gesù mi ti protegga”, ancorché inusuale in italiano, come traduzione letterale dell’affettuoso e caratteristico “Jesus te me guarde” (NdC).233 Lettera 15-X-1948, n. 2.234 Cfr Àlvaro del Portillo, Sum. 385; Joaquin Alonso, Sum. 4672.235 La nomina in A.A.S., XXXIX (1947), p. 245. La lettera di mons. Mon­tini è datata 25 maggio 1947, in RHF, D-15093.236 Cfr Àlvaro del Portillo, Sum. 385 e Juliàn Herranz Casado, Sum. 3881. Mons. Javier Echevarria riferisce che “era disposto a rinunciare a tale onorificenza, che era stata voluta e ottenuta da mons. Montini quan­do era Sostituto. Lo aveva già deciso, ma mons. del Portillo gli suggerì di accettare la nomina per non fare uno sgarbo alla Santa Sede, per dimo­

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strare la propria adesione al Papa e per ribadire la secolarità dei sacerdoti dell’Opus Dei” (Sum. 2042).237 La lettera porta la data del 15 ottobre 1948.238 Ibidem, n. 20.239 Lettera 8-XII-1949, n. 58.240 Lettera 15-X-1948, n. 20.241 Cfr Cammino, n. 335 e Consideraciones Espirituales, p. 34.242 Lettera 15-X-1948, n. 20.243 Ibidem. Cfr Sai 104, 20-24.244 Lettera 15-X-1948-, n. 3.245 Ibidem, nn. 5 e 6. )246 Ibidem, n. 20.247 Cfr ibidem, nn. 18 e 20.248 L’Opus Dei - si legge nel Decretum laudis - “promuove continuamente la santità dei suoi membri mediante la santificazione del lavoro ordinario e il diligente e accurato esercizio degli impegni professionali o delle man­sioni civili o pubbliche proprie di ciascuno” (Primum Institutum, 6); nel- l’elencare alcune attività apostoliche dei suoi fedeli, dice: “L’apostolato specifico dei membri dell’Opus Dei si esercita principalmente: mediante la santificazione del proprio lavoro professionale; mediante l’esempio di vita cristiana, nella propria attività sociale”, ecc. (ibidem, 9).249 Indulgenze cui si è già fatto cenno in questo capitolo e che furono con­cesse poco prima del rientro del Fondatore in Spagna, nel giugno 1946.250 II Fondatore fece chiedere alla Sacra Penitenzieria la concessione delle indulgenze per il lavoro manuale il 31-111-1947. Il Breve Mirifice de Eccle­sia è del 20-VTI-1947 (Amadeo de Fuenmayor e altri, op. cit., Appendice documentale, doc. 24, pp. 759-761).251 Ibidem. Traduzione del testo latino del Breve che, in questo caso, ri­porta direttamente espressioni del Fondatore.252 Lettera 15-X-1948,n. 5.253 Ibidem, n. 6.254 Ibidem, n. 15.255 Cfr Dorita Calvo, RHF, T-04906, p. 7.256 Lettera 1S-X-1948, n. 9. Un ampio studio su questo tema in: LOpus Dei nella Chiesa, op. cit. (in particolare il cap. Ili: José Luis Illanes, La Chiesa nel mondo: la secolarità dei membri dell3Opus Dei).

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Capitolo XVII

ROMANIZZARE L’OPERA

1. La sede centrale

Ben prima di essersi recato a Roma, fin dalla sua giovinez­za, don Josemaria aveva sognato di intraprendere il pelle­grinaggio al soglio di Pietro, il Vicario di Cristo sulla terra. Tale desiderio fu sempre vivo nella sua anima ed è un aspetto essenziale della universalità dell’Opus Dei. Don Josemaria lo riassumeva con una significativa giaculatoria che esprimeva il triplice oggetto dell’amore del cristiano: Omnes cum Petro, ad lesurn per Mariam1. La possibilità di stabilirsi accanto a Pietro, ponendo la sede centrale del­l’Opus Dei a Roma2, era una prospettiva assai lontana nel 1931, quando egli scrisse negli Appunti intimi:

«Sogno la fondazione di una casa a Roma - quando l’Opera di Dio sarà ben avviata -, che sia il cervello del­l’organizzazione »3.

Tuttavia il modo e il momento in cui ciò si realizzò non dipesero da un calcolo premeditato, bensì, come tutto ciò che concerne la fondazione dell’Opus Dei, dal­lo sforzo del Padre, con il sigillo di Dio. Per di più, in questo caso si verificarono circostanze completamente imprevedibili per il Fondatore e persino in contrasto con le sue intenzioni di quel momento, perché nel 1946 don Josemaria andò a Roma assai controvoglia e senza

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l’intenzione di stabilirvisi. Tuttavia, la breve permanen­za nella Città Eterna rinfocolò nel suo spirito, che era lo spirito dell’Opus Dei, l’amore per il Papa: 1

«Se volete vivere in pienezza lo spirito della nostra Opera - raccomandava - cercate di arrivare a Gesù ben uniti a nostra Madre. Così diventerà realtà l’anelito che ci brucia dentro: Omnes cum Petro ad lesum per Ma- riam. In questo momento, stando a Roma, il cum Petro sgorga con più forza dal profondo dell’anima»4.

L’anelito di cui il Fondatore scriveva era lo stesso do­no divino che anni prima aveva provocato in lui una reazione di fiducia filiale nella Chiesa e nel Papa, quan­do il Vicario Generale di Madrid lo aveva avvisato del suo deferimento al Santo Uffizio:

«Roma! Sono grato al Signore dell’amore per la Chiesa che mi ha dato. Per questo mi sento romano. Per me, Roma è Pietro. (...) da Roma, dal Papa, non mi può ve­nire altro che la luce e il bene. Non è facile che questo povero sacerdote dimentichi la grazia del suo amore per la Chiesa, per il Papa, per Roma. Roma!

Mariano»5.

In un primo momento, don Josemaria aveva pensato a Roma come a un avamposto apostolico e per questo mo­tivo José Orlandis e Salvador Canals vi si erano recati a compiervi gli studi ecclesiastici. Nel 1946, quando don Alvaro del Portillo tornò a Roma per la seconda volta, fu deciso di trovare una casa. Non appena terminò il lavoro di raccolta delle lettere commendatizie e fu avviato l'iter per ottenere il Decretum laudis, don Alvaro e Salvador si dedicarono a cercare casa, anche perché presto avrebbe­ro dovuto lasciare l’appartamento che abitavano6. Nel­l’incerto mercato immobiliare del dopoguerra, con i prezzi molto bassi, era possibile acquistare belle ville o palazzi a prezzi irrisori. Don Alvaro, pensando alla futu­ra sede centrale dell’Opera, era certo che una tale oppor­tunità non si sarebbe ripresentata in futuro, benché - ag­

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giungeva - “ l’unico inconveniente per l’acquisto, oltre alla mancanza di denaro in Spagna, (...) è la grandissima instabilità politica di qui”7.

Stavano dunque cercando, quando furono costretti a interrompere le ricerche per dedicarsi alle visite in Curia e agli amici ecclesiastici e laici. Dopo una sola settimana dal suo arrivo a Roma, il Fondatore, vista la mancanza di spazio nell’appartamento di piazza della Città Leoni­na, scriveva ai membri del Consiglio Generale che era imprescindibile acquistare una casa a Roma8. Pensando alle difficoltà economiche in cui versavano in Spagna, sembrava un’autentica pazzia. Tuttavia, anche su consi­glio di alcuni prelati della Curia, specialmente di mons. Montini e di mons. Tardini, si decise di acquistare quan­to prima una casa dignitosa e di rappresentanza, per far­ne la sede centrale dell’Opus Dei a Roma9. Di ritorno a Madrid il Padre aveva studiato sul campo le possibilità economiche per far fronte all’acquisto della casa grande di cui c’era bisogno e aveva constatato che erano prati­camente nulle. Tuttavia non si scoraggiò affatto, pur do­vendo vivere di pura fede, poiché il denaro non compari­va da nessuna parte. Era convinto che nonostante tutto sarebbe arrivato. Il problema era come e quando10.

Nel novembre 1946 il Fondatore ritornò a Roma e si mise a cercare con rinnovato impegno la tanto agognata “villa” . La prima che sembrò rispondere a tutti i requi­siti era una casa nei pressi di Villa Albani. Domenica 24 novembre, dopo che tutti l’ebbero vista almeno dall’e­sterno, si divertirono a dare un nome a ciò che era solo un sogno. Ma, a leggere il diario, sembra che il Padre avesse già scelto il nome. “Durante il pranzo abbiamo cercato di dare un nome alla nuova casa; il Padre ha detto che si chiamerà Villa Tevere” 11. Nel frattempo, per non perdere tempo, don Josemaria acquistava varie cose dai rigattieri di Roma. «Ora - diceva ai suoi figli - manca solo che il Signore ci dia le case per metterci tut­to questo»12.

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Il Natale si avvicinava e continuavano a cercare. La villa non si trovava. Il Padre, di fronte alla rilevanza dei due problemi da risolvere - casa e Decretum laudis -, chiedeva di pregare di più:

«Continuino a pregare, in-si-sten-te-men-te, per tutti i problemi di Roma. E non dimenticate che conviene ri­solvere ge-ne-ro-sa-men-te la questione del denaro per la nostra sede centrale di Roma: è fondamentale. Fate­mi, con la grazia di Dio, un miracolo bello grande»13.

Arrivò il nuovo anno e il Padre continuava a chiedere preghiere, perché - insisteva - «solo così si risolverà be­ne tutto»14.

Passavano le settimane ed egli si muniva di filosofia soprannaturale:

«La casa? Non so. La prima difficoltà è che non ab­biamo soldi. Ma questa difficoltà non vuol dire molto, perché negli ultimi vent’anni l’abbiamo scavalcata alla forerà. La difficoltà sarebbe grande se non sapessimo smuovere il Cuore di Gesù con la nostra vita... normale, allegra ed eroica... e comune»15.

Alla fine del mese di gennaio 1947 non era ancora sta­ta promulgata la tanto attesa Provida Mater Ecclesia e non era risolta la faccenda dei soldi. Comunque, il Fon­datore era sicuro che il Signore non li avrebbe lasciati nei guai e offriva ai suoi figli una formula di salvezza:

«Siate sempre allegri e ottimisti. Tutti mi compiano le Norme - orazione, mortificazione sorridente, lavoro -. Dormano e mangino a sufficienza. Riposino e facciario sport. E tutto si risolverà prima, più e meglio»16.

La lettera del 7 febbraio ai membri del Consiglio Ge­nerale è piena di gioia. Il Decretum laudis, annunciava loro, è questione di giorni: «La cosa sembra felicemente conclusa». Quanto a Villa Tevere, il Padre continuava a fare mostra di un sano scetticismo, benché gli eventi del­l’ultima ora facessero nascere nuove speranze:

«La faccenda della casa è un incubo. Se si presenta una buona occasione faremo il contratto, con pagamen­

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to a tre mesi, come vi ho già annunciato. Questa matti­na ha telefonato la duchessa Sforza - che abbiamo co­nosciuto attraverso l’Ambasciatore Sangróniz - per of­frire una villa; ieri è venuto un intermediario con diverse proposte e, per telefono, l’avvocato D’Amelio ci ha par­lato ieri sera di un’altra casa ancora. Vedremo»17.

Sorsero nuove speranze, perché il diario del Centro di piazza della Città Leonina registra che l’8 febbraio an­darono a vedere alcune case, una delle quali era una vil­la, ai Parioli, che aveva ospitato l’Ambasciata di Unghe­ria. L’immobile si trovava al n. 73 di viale Bruno Buozzi. Il proprietario della villa era il conte Gori Mazzoleni, amico della duchessa Sforza Cesarini, che desiderava trattare direttamente con il possibile acquirente, cosa molto vantaggiosa, poiché le intermediazioni facevano incrementare notevolmente i prezzi. Il Fondatore la vi­sitò da cima a fondo e si rese subito conto che era adat­ta alle loro esigenze e ne informò mons. Montini, che diede il seguente suggerimento: “Non lasciatevi sfuggire quella casa, poiché il Santo Padre sarà contento di sape­re che vi starete voi. La conosce perché, quando era Se­gretario di Stato, vi si era recato a far visita all’Ammira- glio Horthy, allora Reggente dell’Ungheria”18.

Deciso ad acquistarla, il Fondatore incaricò don Àlva­ro di condurre le trattative per l’acquisto con gli avvoca­ti del proprietario, senza dimenticarsi di ciò che in que­sti casi diceva ai suoi figli: «Mettiamoci nei panni di un padre di famiglia che deve acquistare una casa che costa parecchi milioni»19.

“All’inizio della trattativa - riferisce don Àlvaro - riuscimmo a ridurre di molto la cifra richiesta dal pro­prietario; tuttavia non avevamo neppure la somma concordata. Oltre a chiedere aiuto ad amici e cono­scenti, pensavamo di ipotecare la casa da acquistare, ma per fare questo dovevamo avere il titolo di pro­prietà che non potevamo ottenere senza pagare almeno un anticipo”20.

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Le trattative rimasero in sospeso, finché il Padre si ri­solse “a concludere immediatamente la questione della casa”21.

«La casa! - scriveva ai membri del Consiglio il 27 marzo -. Proseguiamo le trattative: non so da quanti giorni offro la Santa Messa per questa intenzione; spe­riamo che si risolva presto»22.

Effettivamente, il 10 aprile chiedeva alle sue figlie del- PAssessorato Centrale:

«Continuate a pregare per la casa di Roma; credo che domani faremo le scritture per l’acquisto, ma resta la cosa più difficile: pagare i milioni che costa»23.

Don Àlvaro stesso racconta la storia di quel momento difficile:

“Il Padre mi indicò di andare a trovare il proprietario e di cercare di convincerlo ad accontentarsi, come anti­cipo, di alcune monete d’oro; il resto lo avremmo paga­to in uno o due mesi. In quel momento avevamo, effetti­vamente, alcune monete d’oro, che il Fondatore serbava per farne un vaso sacro. Andai a trovare quel signore e gli feci la proposta, mentre il Padre rimaneva in casa a pregare intensamente” . Il colloquio fu un successo, an­che se il proprietario pretese che il pagamento fosse fat­to in franchi svizzeri. “Quando lo riferii al Padre, mi ri­spose: ‘Che cosa ce ne importa? Noi non abbiamo né lire né franchi e per il Signore non fa differenza una va­luta o l’altra’”24.

L’incontro di don Àlvaro con il proprietario e i suoi avvocati fu un atto eroico di docilità e di fede nel Fon­datore. Chi altri, infatti, sarebbe andato con ottimismo e convinzione assoluta, a cercare di acquistare una villa in cambio di poche monete d’oro?

* * *

Il Padre non era tanto ingenuo da cantare vittoria, dando per risolta la faccenda. Oltre alla dura realtà significata

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dalla necessità di far fronte alle scadenze di pagamento pattuite, c’era un altro problema. L’immobile, che aveva ospitato PAmbasciata di Ungheria presso la Santa Sede, era occupato da alcuni funzionari ungheresi che, appel­landosi a una presunta immunità diplomatica, non sem­bravano disposti a sloggiare. Il Padre si rese subito conto che non sarebbe stato facile liberare la casa dagli inquilini abusivi, anche se non potevano invocare alcun diritto di abitarvi e, ancor meno, l’immunità diplomatica, poiché da tempo ormai l’Ungheria aveva rotto le relazioni con il Vaticano. La sede centrale dell’Opus Dei era quasi il com­plemento materiale del Decretum laudis, ma al Fondatore sarebbe costata più cara del previsto, benché non si faces­se illusioni neppure a questo proposito:

«Carissimi: grazia di Dio e buon umore. Questa è la consegna che cerco di non perdere di vista, anche se si vede chiaramente che sarà complicatissimo prendere possesso della nostra casa: le prospettive, umanamente parlando, non potrebbero essere più sgradevoli. Ma la­sciamo perdere questa questione: pregate solo perché si risolva»25.

Il 22 luglio 1947 decisero di trasferirsi da piazza della Città Leonina in viale Bruno Buozzi. Il trasloco fu fatto con un camion, che in un solo viaggio portò i mobili, gli utensili e gli altri arredi, salvo i paramenti e i vasi sacri che il Padre aveva affidato a Dorita Calvo, con l’incari­co di impacchettarli personalmente e portarli con sé, senza perderli mai di vista26.

Nella proprietà, che d’ora in poi chiameremo Villa Tevere, si entrava dalla strada attraverso un cancello che dava accesso a un giardino abbastanza curato, con arbusti, allori, pini, eucalipti e alberi di fico. Entrando a sinistra c’era la portineria, destinata a casa dei custodi. Di là il giardino saliva in leggero pendio fino al fabbri­cato principale, per il momento non disponibile, che chiamarono Villa Vecchia, benché fosse una costruzione degli anni venti, in stile fiorentino, su tre piani27.

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Dopo alcuni infruttuosi tentativi di mandare via i di­plomatici ungheresi, ci si risolse ad utilizzare la porti­neria. Non era grande, ma fu possibile ricavarne due case indipendenti. Il piano terra fu destinato agli uo­mini, mentre al primo piano si sistemarono le donne dell’Amministrazione. All’edificio, con un tocco di eu­femismo, fu attribuito il nome di Pensionato. Gli ar­chitetti fecero il possibile per guadagnare spazio e se­parare le due case. La cucina divenne sala da pranzo. Di una lavanderia si fece un salottino. La stireria fu adattata in un angusto corridoio, dove stavano, si muovevano e lavoravano cinque persone28. Il piano terra comprendeva tre piccoli locali e certamente non comportava alcun miglioramento rispetto all’apparta­mento di piazza della Città Leonina29. Victoria López- Amo, che entrò a far parte dell’Amministrazione poco prima del trasloco, racconta come si riuscì a salvare il decoro e la dignità dell’oratorio, ricavato in un am­biente così piccolo: “Tutto si doveva adattare a spazi assai ristretti. L’oratorio fu sistemato in un locale mol­to piccolo e, benché provvisorio, tutto era molto digni­toso e accogliente. Sopra l’altare c’era un crocifisso in stile bizantino, che ispirava devozione, e su una parete laterale il quadro della Santissima Vergine (...). Di fianco al quadro c’era una piccola mensola per un va­so da fiori. Quando l’oratorio fu sistemato, il Padre ci chiese di procurare un vaso da fiori per metterlo vicino alla Madonna”30.

Niente rende meglio l’idea della ristrettezza di spazi che offriva il Pensionato e della genialità di quelle don­ne per guadagnare spazio in altezza, visto che non era possibile fare altrimenti, di quanto riferisce una di loro: “Quando arrivò Natale, il Padre ci disse di fare un pre­sepe. Poiché non c’era spazio, lo mettemmo sotto una fi­nestra, utilizzando pietre del giardino e altri materiali per rialzarlo il più possibile, affinché risaltassero le figu­re che ci aveva portato il Padre. Ci disse che sembrava a

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sette piani e che lo avrebbe fatto fotografare, perché non aveva mai visto un presepe su tanti piani”31.

* * *

Fin dal primo momento il Padre concesse la dignità di piccola casetta all’edificio del Pensionato. Non in senso dispregiativo, ma con buonumore e simpatia, perché era «la strada per arrivare presto nella villa grande»32. Nel comportamento dei diplomatici ungheresi, restii a la­sciare la villa, egli vedeva una prova inviata da Dio, e una impuntatura del demonio:

«Si vede - scrisse - che al diavolo dà fastidio. Ma Dio non perde battaglie»33.

Decise perciò di prendere la situazione con calma e di continuare nella sua incessante preghiera e di circondare giorno e notte la villa con un invisibile assedio, vigilan­do assiduamente dal Pensionato. Presto o tardi, la Villa Vecchia si sarebbe arresa.

Alla fine di luglio il Padre era a Molinoviejo, e pensa­va alle sue figlie:

«Gesù mi protegga le mie figlie di Roma.Carissime, eccomi qui a Segovia, con molte belle cose

da raccontare (...) Come va la casa nuova? State chie­dendo per davvero al Signore che gli ungheresi ci lascino in pace?»34.

Molinoviejo era in piena attività. Il Fondatore dedicò i mesi dell’estate 1947 alla formazione delle sue figlie e dei suoi figli. Nella prima metà di settembre intraprese un lungo viaggio di due settimane, percorrendo il nord della Spagna, dalla Galizia a Bilbao. Visitò i nuovi cen­tri, conobbe i nuovi fedeli dell’Opera, e intanto andava in cerca di denaro e parlava con i Vescovi, informandoli sull’Opus Dei. In queste incombenze lo colse il mese di novembre, quando dovette necessariamente rientrare a Roma: come si è visto nel capitolo precedente, la valan­ga di richieste di approvazione, fatte da istituti religiosi

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dalle caratteristiche più eterogenee, minacciava di sna­turare gli Istituti Secolari.

Cominciò l’inverno e il freddo si fece sentire nel Pen­sionato, in maniera particolarmente acuta dal Padre, che tanto pativa la calura e il freddo intenso. Ne parlò in una lettera scritta alla vigilia di Natale del 1947:

«Il Natale - con un freddo tremendo - lo dovrò tra­scorrere a Roma, anche se cercherò di ritornare quanto prima in Spagna. Questa mattina ha telefonato mons. Dionisi per dire che il Cardinale Vicario ha concesso l’autorizzazione ad aprire una residenza per universita­ri. Il problema è chiaro: non si tratta di affittare ora i lo­cali, ma è evidente che dobbiamo cominciare a muover­ci, se la casa dev’essere sistemata durante l’estate, per poter cominciare il lavoro nel prossimo anno accademi­co. I soldi? Verranno, perché senza il lavoro con gli stu­denti non avremo mai l’Opera avviata con la forza che richiede il nostro spirito»35.

Si vede dunque che egli non respingeva mai un’offerta seria di lavorare a favore delle anime con la scusa di es­sere senza soldi. Si rassegnava, senza lamentele né a ma­lincuore, all’unica conclusione logica: «Non c’è altra so­luzione che chiedere l’elemosina».

Agli inizi del 1948 don Josemaria era schiacciato dai problemi economici. Tuttavia, non ritenne ragionevole fermare l’espansione apostolica dell’Opera o ripiegare sulla difensiva, limitandosi alla preghiera, anche se pre­gava in maniera intensissima. Sapeva che la seconda parte del proverbio “aiutati, che Dio t’aiuta” era asso­lutamente esatta. Non era però tanto sicuro che lui stes­so e i suoi figli sapessero essere altrettanto assidui nel­l’impegno pratico. D’altra parte i gravami economici erano reali, perché la fatica di portare avanti la sede centrale non era che l’ultimo episodio di una lunga cate­na di difficoltà. Non esagerava, quindi, quando da Ro­ma scriveva ai membri del Consiglio Generale:

«Non me la sono mai vista così brutta come ora per i

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problemi economici. La mia fiducia in Dio non è dimi­nuita, ma proprio perché si è accresciuta vedendo tanti frutti della provvidenza del Signore, aumenta in me an­che la convinzione che dobbiamo utilizzare sempre tutti i mezzi umani. Pertanto, al mio ritorno faremo uno stu­dio organico - realistico - sull’espansione dell’Opera, tenendo presente tutto ciò che è già più o meno avviato (Roma, Parigi, Milano, Londra, Dublino, Coimbra, Li­sbona, Chicago, Buenos Aires), ma senza dimenticare gli aspetti economici»36.

Don Josemarìa si rendeva perfettamente conto delle esigenze finanziarie che comportavano le sue audaci ini­ziative apostoliche e che a più d’uno poteva venire in mente che il Padre farneticasse sul piano economico. Si preoccupò dunque di rassicurarli della sua piena consa­pevolezza della situazione:

«Continuo a preoccuparmi, come già ho scritto, e mi rendo conto di tutto. M a... è ancora tempo di fare delle pazzie, se le si fa con la testa sulle spalle: allora, neppure Dio ci verrà meno»37.

In realtà, per la mente dei suoi collaboratori non pas­sò mai il pensiero che don Josemarìa non stesse facendo da Roma tutto ciò che era umanamente possibile per la sgradevole incombenza di chiedere denaro. In ogni caso si offrì umilmente e volontariamente di mendicare dove gli fosse stato suggerito:

«Non direte che me ne disinteresso, visto che è quasi un’ossessione: per il mio ritorno, pensate a quali perso­ne io stesso potrei andare a chiedere l’elemosina»38.

Per sovrappiù, in chiusura della lettera dovette dare una notizia certamente non utile a sollevare lo spirito. Era accaduto che il 29 gennaio 1948, Ignacio Sallent, imo di quelli che stavano nel Pensionato, era andato ne­gli uffici della Iberia, vicino a piazza Venezia, a ritirare alcune lettere; aveva lasciato la macchina chiusa a chia­ve e nei pochi minuti che ci aveva messo a tornare gli era stata rubata. Erano già da sette giorni senza auto, il

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che era un grosso inconveniente. «Con assoluta libertà - scrisse il Padre - decidete se se ne compera un’altra o no, sapendo che un’altra macchina costerebbe milledue­cento dollari e che qui non ci sono soldi e sarebbe neces­sario inventarli»1’9.

Esattamente un mese dopo, nella lettera del 4 marzo1948, avvisò i suoi figli di Madrid che sarebbe partito da Roma il giorno 12. Nell’ultimo mese, il freddo, l’umi­dità, la fame40 e le continue preoccupazioni economiche avevano talmente pregiudicato la salute degli abitanti del Pensionato che tutti patirono malesseri e dolori vari. Il Padre, cercando di nascondere la sua triste condizione, raccontò con un tocco di humour, un po’ forzato:

«Sapete che due giorni fa mi sono svegliato con tutto il lato sinistro della faccia paralizzato, la bocca storta, e non riuscivo a chiudere l’occhio sinistro? Che faccia avevo! Ho pensato che fosse un’emiplegia. Ma il resto del corpo era normale e agile. Il professor Faelli assicura che si tratta di uno scherzetto del clima romano: un reu­matismo. Anche adesso vi scrivo con difficoltà, perché la palpebra floscia mi lascia vedere a metà.

Sono molto contento: mi guardo allo specchio e posso osservare, sul lato sinistro, il mio cadavere, perché sem­bra proprio una cosa morta; mi è anche rimasta mezza fronte tesa, senza rughe, e mi illudo, con questa morte, di ringiovanire.

Ma non preoccupatevi, perché non è nulla. Prendo dei salicilati, mi corico prima e mi metto una borsa di acqua calda. E questione di pazienza. Credo che non sarà un motivo sufficiente per farmi rimandare il viaggio.

Pregate per me. Pregate che ami davvero il Signore e che mi comporti sempre come vuole Lui: perché il suo Opus Dei è - e deve essere sempre - una Scuola di San­tità in mezzo al mondo, e sarebbe triste che questo fon­datore senza fondamento se ne stesse in ultima fila, mentre deve stare in testa. Sarebbe una tristezza e una grave responsabilità»41.

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Il Padre non recuperò la salute e dovette rinviare il viaggio a Madrid. L’11 marzo, anche se continuava ad avere problemi all’occhio, sbrigò la corrispondenza. Scrisse al Consiglio Generale parlando della salute di don Àlvaro:

«Àlvaro si è ammalato ieri di una terribile tonsillite, a quanto sembra. Per questa ragione l’ho fatto rimanere nell’unico letto fisso che abbiamo e io dormo in quello che si mette di sera nel salottino. Dà molta gioia vivere questa vera povertà, solitamente più dura di quella dei religiosi: come Sant’Alessio, nel sottoscala. Oggi, dopo la cura prescritta dal professor Faelli, il malato sta bene, ma non gli permetto di alzarsi, anche se lui insiste... più di quanto dovrebbe»42.

In una lettera alle sue figlie dell’Assessorato Centrale raccontava:

«Oggi hanno fatto la seconda operazione a Encarnita: è forte, virile - anzi, femminile - nei confronti del dolo­re: sono molto contento di lei e di tutte quelle che stan­no a Roma»43.

Passò un’altra settimana e don Josemarìa non guariva:«Roma, 18 marzo 1948. Gesù mi protegga i miei figli.Carissimi, la settimana scorsa, quando è arrivata la

posta dalla Spagna - le vostre lettere! - avevo qualche piccolo problema che non mi consentiva di vedere nor­malmente con l’occhio sinistro. Avevo il pacchetto di lettere in mano ed ero fortemente tentato - non per cu­riosità, per affetto - di leggerle tutte. Alla fine, dopo averle lette e rilette con calma fino all’ultima, parlando con il Signore e con voi, si erano fatte le due del matti­no: ero stanco. Non so perché ho posato lo sguardo, an­cora una volta ma con maggiore attenzione, su un mo­bile della stanza da cui vi sto scrivendo: ci sono sopra quattro asinelli trotterellanti che i Re Magi mi hanno portato dalla Spagna. A volte mi diverto a farli andare di qua e di là, cambiandone la direzione, ma non mi vie­ne mai in mente di separarli: vanno sempre tutti e quat­

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tro insieme, fraternamente, forti e saldi, con la loro so­ma pesante. Ho fatto poi il mio esame, con rimorso per il disordine, e mi sono addormentato sorridendo, pen­sando a voi e a me, e dicendo al Signore a nome di tutti: utjumentum factus sum apud Te!...»44.

Si sottopose a un trattamento di diatermia, ma la pa­ralisi facciale a frigore non guariva. Continuava a dire di essere asimmetrico, con la faccia storta. A Madrid proseguì la diatermia; non migliorava, ma stava di buon animo. «Non appena starò meglio - scrisse a don Àlva­ro - mi precipiterò lì a chiedere l’elemosina»45.

Nella primavera del 1948, le lettere del Fondatore parlano di viaggi, di sofferenze e di umiliazioni, affron­tati con grande serenità, e della sua gioia nel verificare personalmente la maturità del lavoro apostolico che si stava facendo in tutta la Spagna. È sufficiente dare una scorsa a un paio di lettere per rendersene conto:

«Madrid, 13 aprile 1948.Gesù mi protegga i miei figli di Roma.Carissimi, comincio a scrivervi quando tutti stanno

dormendo, perché domani passerò la giornata fuori Madrid e non so se potrò trovarne il tempo. Comunque devo essere breve perché l’occhio sinistro non è ancora del tutto a posto (...).

Per ora non è stato possibile inviare altro denaro. Continuo a darmi da fare (...). Molte visite, con la mia faccia ancora storta. Ho pranzato fuori casa tutti i gior­ni. Non è bello, ma è inevitabile! (...) Basta! Mi fanno male gli occhi, è molto tardi e concludo. Dite a tutti che li ricordo con affetto. Prego molto per l’Italia... per il Papa! E anche per i miei figli. Alvarico!: quando potrai venire? Qui c’è tantissimo lavoro»46.

La seconda lettera è datata 21 aprile:«Carissimo Àlvaro, un mucchio di cose, rapidamente,

per non affaticare la vista se scrivo a lungo. Non posso ancora recitare il breviario! Sono diventato analfabeta: non riesco né a leggere né a scrivere». Segue un lungo

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elenco di incarichi e di domande, un vero e proprio “mucchio di cose” , esposte con rapidità:

«Alla fine del mese andrò a Barcellona a chiedere l’e­lemosina. Poi scenderò a Malaga, mi tratterrò un giorno con Herrera47, che mi ha invitato con una lettera affet­tuosa, e poi a Granada e Siviglia. Sapessi che poca vo­glia ho di viaggiare! Mi costa pure molto vedere gente e ancora gente; ma non posso evitarlo, se voglio servire Dio. Pranzo sempre fuori casa e - credimi - ci vado di malavoglia, perché sono poco mortificato. Pazienza (...). So che ti rendi conto che non ti parlo di alcune co­se che mi causano pena e che non mancano mai»48.

Don Josemaria proseguì nelle sue visite per chiedere aiuti economici ma il 20 maggio rientrò a Roma. Il Fon­datore si assoggettava a un programma di lavoro che eseguiva risolutamente, senza eluderne mai le difficoltà. In giugno aveva già tracciato un piano di viaggi fino al­l’autunno inoltrato; nella seconda metà di giugno avreb­be percorso il sud d’Italia, soprattutto Calabria e Sicilia, pur sapendo che vi avrebbe trovato un gran caldo, di quelli che fanno “ricordare il Purgatorio” . Il 2 luglio sa­rebbe andato in Spagna, dove pensava di approfittare delle vacanze estive delle sue figlie e dei suoi figli che as­sistevano ai corsi di formazione dell’Opera per spingerli all’apostolato. Poi, verso la metà di ottobre, avrebbe vi­sitato Oporto e Coimbra49.

Compì fedelmente il suo programma in Italia, Spagna e Portogallo50. Come previsto, arrivò a Coimbra il 12 ottobre, “ benché un po’ malandato” . Da quanto rac­contò nella lettera a quelli di Roma, sarebbe più esatto dire “abbastanza ammalato” :

«Il mio viaggio in Portogallo è stato molto divertente, perché sono stato malato per tutto il tempo: arrivato a Coimbra, appena salutato il Signore, mi sono dovuto mettere a letto. Tuttavia, sono riuscito a fare una capati­na a Oporto, dove abbiamo una casa abbastanza gran­de, con un po’ di giardino, che ricorda in piccolo quella

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di via Ferraz 16. Poiché non abbiamo ancora potuto comprare i mobili, ci siamo seduti per terra (è accaduto tante volte, benedetta povertà!), e abbiamo chiacchiera­to, cantato e riso. I vostri fratelli portoghesi valgono un Perù. Alcuni non mi conoscevano: erano contentissimi di vedere questo fondatore senza fondamento, col buon umore di sempre»51.

Da più di due anni il Padre andava e veniva, facendo la spola tra la Spagna e l’Italia. Espandeva l’Opera e mendicava soldi. Il 30 dicembre 1948 partì per la sesta volta per Roma e l’i l febbraio 1949 era ancora di ritor­no in Spagna. Le sue permanenze a Madrid non erano, naturalmente, giornate di riposo:

«Alvaro - gli scrisse il Padre il 28 febbraio -, domani parto per Cordova, dopodomani dormirò a Granada e il giorno successivo andrò a stare per 24 ore con Herrera. Poi torno a Granada per un paio di giorni, e poi di nuo­vo a Madrid. Poi andrò altri due giorni a Valladolid - ci sono stato ieri e l’altroieri -, perché ce n’è bisogno»52.

Prima ancora era stato a Valencia e aveva fatto molte altre cose. Ma la novità era che all’inizio di febbraio i funzionari ungheresi avevano lasciato la Villa53. Il Padre si mise immediatamente in movimento, deciso a cercare persone da mandare a Roma e risorse economiche per i lavori necessari. Furono questi, tra l’altro, i motivi della sua andata in Spagna prima del viaggio in Portogallo.

La resa della Villa Vecchia, dopo un anno e mezzo di assedio spirituale da parte di quelli del Pensionato, se­condo l’esplicita raccomandazione del Padre, finì con un gesto di cortesia da ambedue le parti. Dalla Villa inviarono un grande mazzo di gladioli e don Josemaria rispose con una bottiglia di cognac di marca, che Ro­salia, una delle numerarie ausiliarie, portò agli unghe­resi, vestita con la sua migliore uniforme e in guanti bianchi54.

Il 23 aprile il Padre era di ritorno a Roma, pronto ad affrontare il problema della sistemazione della sede cen­

ilo

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trale dell’Opus Dei. Il progetto dei lavori fu rapidamente presentato all’autorità competente. In maggio i permessi di costruzione erano ancora attesi con impazienza55, ma il 9 giugno i lavori poterono iniziare56.

2. Il governo dell’Opera tra Roma e Madrid

Gli operai lavoravano a Villa Tevere da non più di sei settimane e i fondi messi da parte si erano già esauriti. Naturalmente ciò non colse il Padre di sorpresa, anche selo preoccupava il fatto di non aver trovato, nel frattem­po, nessun’altra nuova fonte di finanziamento. Qualsiasi cosa accadesse, egli non pensava di sospendere i lavori. A parer suo, ciò che avveniva era un segno inequivocabi­le che bisognava andare avanti con ancora più fede e in­coraggiava così quelli del Consiglio Generale:

«Anche qui siamo tiratissimi di denaro - grazie a Dio- e sicuri che bisogna andare avanti come sia con questi lavori, che sono un meraviglioso strumento per un do­mani tanto vicino da potersi toccare. Preciserò meglio nella prossima lettera. Umanamente non abbiamo solu­zioni, ma bisogna trovarle, e fare tutto ciò che ci siamo proposti. Voglio che ricorriate al Cuore Immacolato di Maria con più fede che mai: sub tuum praesidium...»57.

Tre giorni dopo scrisse:«Di fronte alle difficoltà economiche che stiamo vi­

vendo non c’è altra soluzione che mettere in atto i mezzi soprannaturali ed esaurire quelli umani (...); quindi, aiutati che Dio t’aiuta. Qui c’è molto lavoro e ci sono grandi prospettive. Mai tralasciare di fare le cose per mancanza di denaro: bisogna trovare i soldi!

Quelli che stanno a Molinoviejo facciano ognuno pri­vatamente una novena alla Madre del Bell’Amore a questo scopo»58.

Passò un altro mese e il Padre scrisse ai suoi figli del Messico:

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«Roma, 29 agosto 1949.Gesù mi protegga questi figli.(...) Àlvaro è andato in Spagna quasi un mese fa per ve­dere se possiamo risolvere almeno in parte le preoccupa­zioni economiche che abbiamo in Italia. Non so fino a che punto troverà una soluzione, perché anche là stan­no, grazie a Dio, con l’acqua alla gola»59.

Questo atteggiamento di coraggioso ottimismo di fronte a una tangibile e visibile penuria di mezzi caratte­rizza un imprenditore di grande statura soprannaturale. Ma ancor più stupefacente è il suo commento nel sentire che la povertà stringeva l’Opera da ogni parte: «Grazie a Dio, anche in Spagna sono a corto di denaro e con l’acqua alla gola»60.

In quei momenti il Padre e i suoi figli cominciavano a soffrire con maggior crudezza la annunciata «povertà vera, povertà incantevole. Laus Deo!»61. Povertà accet­tata volontariamente e con amore, con tutte le conse­guenze: preoccupazioni, fame, apprensioni, malattie, scomodità e fatica, insonnie...; ma anche gioia, ordine, laboriosità, umiliazioni, serenità e lotta ascetica; e pre­ghiera con fede, amore e speranza. Di tutto ciò ringra­ziava in anticipo, consapevole di avere ancora molto da fare in questa vita:

«E io che ingenuamente credevo ormai di poter mori­re! Sarebbe una cosa davvero troppo comoda»62.

* * *

È abbastanza sorprendente il numero di viaggi intra­presi dal Fondatore tra il 1946 e il 1949. Per tre anni fe­ce la spola tra Madrid e Roma, che reclamavano alter­nativamente la sua presenza. In questo periodo fece sette viaggi tra la Spagna e l’Italia: la settima volta che lasciò Madrid fu il 23 aprile del 1949. Da questa data si stabilì a Roma e se in seguito fece qualche scorribanda apostolica, tornò poi sempre alla base, cioè a Villa Teve­

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re. Si conservano più di trecento lettere scritte tra il giu­gno 1946 e il giugno 1949, che testimoniano l’attrattiva esercitata da Roma, cioè dal suo lavoro e dalle attività in Italia, che si accaparrarono le sue energie. Invece le presenze a Madrid dipesero da ineludibili eventi impre­visti o straordinari.

I suoi spostamenti obbedirono perlopiù alla necessità di assolvere impegni onerosi. Perciò nessuna meraviglia se il Fondatore non fosse proprio entusiasta di doversi mettere spesso in viaggio. Nel giugno 1946 era partito con la J.J. Sister su richiesta di don Àlvaro, che pensava di essersi bruciato per aver insistito troppo presso la Cu­ria affinché andasse a buon fine l’approvazione delle nuove forme. Nel novembre dello stesso anno era dovu­to ritornare, perché il Decretum laudis stava per essere approvato. Dodici mesi dopo era stato costretto a la­sciare di nuovo Madrid perché la valanga di richieste di approvazione minacciava di snaturare gli Istituti Secola­ri. Infine, nella primavera del 1949, era tornato per af­frontare il problema dei lavori per la sede centrale.

D’altra parte, nelle lettere inviate da Roma a Madrid si avverte la sollecitudine del Fondatore, impaziente di dare una mano nelle molte questioni di governo delle quali non si poteva occupare direttamente stando a Ro­ma. Alcune volte sembrava scusarsi con i membri del Consiglio Generale per la sua prolungata assenza («ve­dete bene che è necessario protrarre la mia permanenza a Roma»)63; altre volte dava spiegazioni per il ritardo («Il Signore ha deciso che passi anche questo Natale fuori dalla Spagna»)64; oppure manifestava il desiderio di rivederli («Devo stare qui ancora una sola settimana. A presto»)65; e infine si lamentava della lentezza con cui procedevano le cose («E chiaro ormai che passerò que­sta Pasqua a Roma»)66.

Tutto ciò conferma, come si vedrà, che in quel mo­mento la Spagna era per l’Opera la riserva di persone mature e la miniera di nuovi membri. La Spagna forniva

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il denaro necessario per sostenere le attività. Vi risiede­vano il Consiglio Generale e l’Assessorato Centrale, or­gani di governo di tutta l’Opera, rispettivamente per gli uomini e per le donne. Durante i tre anni fra il 1946 e il1949, fu in Spagna che l’Opus Dei crebbe, a tal punto che ciò che seguì si può definire un regolare sviluppo. In quei tre anni si cominciò anche a spiccare il salto verso altri Paesi. Ecco perché Madrid fu per il Padre l’altro polo di attrazione in quel periodo.

Inoltre, bisogna tenere presente che il Fondatore do­vette stare attento a non farsi coinvolgere in questioni socio-politiche della Spagna67. A Roma, alcuni prelati della Santa Sede che ne avevano l’autorità gli consiglia­rono di scomparire, per eliminare qualsiasi possibilità di essere bersaglio di nuove falsità: “Se non la vedono, non potranno inventare nuove calunnie” , gli dicevano68. Don Josemarìa accettò di buon grado il suggerimento che, in fin dei conti, non era altro che la sua antica nor­ma di condotta: “nascondersi e scomparire”69.

Comunque, più importante di qualsiasi altro motivo, c’era il suo primo e venerabile proposito, quello di ro­manizzare l’Opera. Riflettendo pertanto sui prò e i con­tro della sua presenza a Madrid, prese la prudente deci­sione di passare ogni tanto solo qualche breve periodo in Spagna. Ma non dovette faticare molto per giungere a questa conclusione, perché essa venne imposta dalle stesse necessità di governo dell’Opera. Dunque Roma fu provvidenzialmente il centro verso il quale gravitò l’O­pera, all’ombra del Vicario di Cristo.

Il Fondatore, aiutato da don Alvaro del Portillo quale Procuratore Generale, governava l’Opus Dei da Roma. Tuttavia, il resto del Consiglio Generale e tutto l’Asses­sorato Centrale a quel tempo risiedevano ancora a Ma­drid. Questa soluzione provvisoria, in cui il Consiglio Generale era diviso (con l’autorizzazione della Santa Sede) fra Roma e Madrid, non era priva di inconvenien­ti. Il Fondatore li superava con la propria dedizione, con

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una copiosa corrispondenza e frequenti viaggi di coordi­namento70.

Il Fondatore accordava una prudente autonomia ai membri del Consiglio che risiedevano a Madrid, perché deliberassero e governassero collegialmente:

«In mia assenza - scrisse loro in un primo tempo - continuate a studiare le cose e risolvetele di comune ac­cordo voi che formate il Consiglio»71.

La natura stessa del Fondatore, preciso e sempre at­tento ai particolari, facilitava l’intesa a distanza. Ma se le circostanze lo richiedevano, egli lasciava la decisione al buon criterio dei suoi figli, senza cercare di imporre un punto di vista personale, magari reso impreciso dalla lontananza: «Da qui non si vedono le cose con tutti i particolari - diceva loro in un’altra occasione Perciò non prendete alla lettera ciò che vi dico»72.

Non voleva che succedesse quel che si racconta dei magistrati nell’epoca coloniale spagnola: quando i de­creti del Consiglio delle Indie, emessi talvolta senza co­noscere le peculiarità della situazione locale, arrivavano ai tribunali del Nuovo Mondo, i magistrati, in segno di rispetto per l’autorità, se li ponevano sul capo ed escla­mavano: obbediamo, ma non li eseguiamo. Il rischio che correva il Fondatore era di genere opposto. Essere obbedito troppo. La squisita disponibilità dei suoi figli a realizzare qualsiasi desiderio del Padre poteva confon­dere un suggerimento ipotetico con l’espressione di una precisa volontà. È quel che successe una volta a Los Ro- sales, il centro femminile di Villaviciosa de Odón73. Il Fondatore stesso dovette intervenire per chiarire che non era conveniente tenere in giardino alcune arnie con le api, dopo che le direttrici le avevano messe pensando che fosse un desiderio esplicito del Padre74.

Durante questi anni, viste le sue lunghe assenze da Madrid, il Fondatore definì chiaramente i compiti che il Consiglio e l’Assessorato dovevano svolgere. Tre erano le sue intenzioni circa lo sviluppo dell’Opus Dei: più uo­

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mini e più donne per portare avanti l’Opera, più Centri per formarli e più sacerdoti disponibili a fornire assi­stenza pastorale. «Tre aspetti per i quali sto in continua orazione, nonostante le mie miserie, e per i quali prego intensamente durante la Santa Messa ogni giorno»75.

Mesi dopo tornò a ripetere questi tre punti, nei quali compendiava tutte le sue preoccupazioni76. Come sem­pre nella testa di don Josemarìa fervevano progetti apo­stolici. Non erano le possibili iniziative a mancargli, bensì i mezzi materiali, il tempo e le persone. I suoi pia­ni, pur essendo realistici e concreti, avevano portata universale e mete al momento irraggiungibili:

«Il mondo è molto grande - e molto piccolo! - ed è necessario estendere il nostro lavoro dall’uno all’altro polo»77.

I progetti di espansione avevano due versanti: da un lato le persone, dall’altro gli edifici che dovevano ospi­tare le opere apostoliche. Due elementi, uno umano e uno materiale, che talvolta andavano di pari passo, altre volte no. Alla fine degli anni quaranta, per esempio, le donne erano numericamente assai indietro rispetto agli uomini («So bene la scarsità di persone che avete»78, scriveva loro il Padre). Ma non per questo desisteva dai piani di crescita, sicuro che alla fine si sarebbe potuto far fronte a tutte le necessità. La conclusione che traeva di fronte a un panorama irto di ostacoli era sempre la stessa: Dio non l’avrebbe defraudato. Ma il suo ottimi­smo, fondato su motivi soprannaturali, riceveva anche la spinta di una volontà forte e costante. Perciò, se do­veva esporre la triste realtà, o rimproverare per qualco­sa, o informare di una difficoltà, la sua esposizione ter­minava sempre con una nota di vittoriosa e positiva allegria:

«Poiché presto potremo avere due nuovi edifici - La Pililla e Molinoviejo - come Centri di Studi e le case di Santiago e di Barcellona (...) e avremo bisogno di perso­ne per le residenze studentesche di Roma, Lisbona e Du­

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blino (e poi, l’anno successivo, di Parigi, del Cile, della Colombia, del Messico e dell’Argentina), e poi biso­gnerà dare il via alle iniziative nell’ambito agricolo e in quello editoriale e a un ospedale... c’è bisogno di perso­ne! E occorre formarle sempre meglio.

Guardo al futuro con molto ottimismo: vedo schiere di figlie mie di tutti i Paesi, di tutte le razze, di tutte le lingue. E sufficiente che le prime facciano quello che possono - con gioia! - per essere all’altezza, obbedendo- ancilla Domini - ogni giorno con maggiore impe­gno»79.

Da questa lettera si comprende l’urgente necessità che un maggior numero di donne entrasse nell’Opus Dei. Per il buon funzionamento di tutta l’Opera era par­ticolarmente importante l’arrivo di molte numerarie au­siliarie. Nel frattempo, il Padre decise che nell’ammini­strazione delle nuove residenze, per esempio quella di Granada che fu aperta nell’autunno del 1947, le colla­boratrici domestiche non fossero dell’Opera: «In questo modo sono certo - scriveva all’Assessorato - che di lì verranno molte vocazioni di ausiliarie»80. Passati i mesi, poiché dalle lettere che gli scrivevano le sue figlie traspa­riva l’impazienza perché i frutti tardavano, il Padre fu costretto a prendere la penna per raccomandare loro la calma81.

Don Josemarìa, come Fondatore e Padre, teneva le redini del governo e aveva presenti le sue figlie davanti al Signore: «Sono sempre in preghiera per loro, perché siano sante, allegre, efficaci, senza piccinerie»82. Buon direttore di anime ed esperto conoscitore della psicolo­gia femminile, metteva in guardia le sue figlie contro i fantasmi confezionati dall’immaginazione: giganti di fu­mo, sofferenze senza sostanza, che avrebbero potuto condurle a complicarsi inutilmente la vita se non vi avessero messo un freno.

«Stiano sempre contente - servite Domino in laetitia!- e siano molto sincere; tengano sotto controllo l’imma­

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ginazione, non s’inventino sofferenze inutili e sappiano vivere la nostra vita di servizio alla Chiesa in tutta la sua grandezza nelle cose comuni, piccole e ordinarie: lì c’è Dio»83.

E di nuovo:«Non si complichino la vita, inventandosi sofferenze

e conflitti per sciocchezze senza importanza, di cui biso­gna immediatamente scordarsi dopo averle offerte lieta­mente al Signore. Così saranno semplici, umili, ottimi­ste, efficaci: anime di orazione e di sacrificio, secondo lo spirito della nostra Opera. Perché non essere felici - gaudium cum pace! - se il Signore ci vuole felici?»84.

Ogni tanto arrivavano al Padre, a Roma, fasci di let­tere delle sue figlie e dei suoi figli. Quando stava molti mesi di seguito a Roma essi sentivano più acutamente la sua lontananza fisica. Coloro che abitavano in via Die­go de Leon, che era il Centro di Studi, ne sentivano par­ticolarmente la mancanza. Non era più con loro nelle animate tertulias serali, prima di coricarsi. L’allegria che la sua presenza risvegliava, la serenità che emanava dal­la sua persona, la sua conversazione soprannaturale tanto incoraggiante, il suo sorriso e le sue parole, erano ancora argomenti di tertulia, ma solo come ricordo. Con la crescita dell’Opera ci si rendeva conto che le di­stanze fra i Centri di diverse città e la crescita del nume­ro dei membri richiedevano un nuovo modo di fare, un comportamento che, senza minimamente mutare lo spi­rito e le consuetudini vissute fin dagli inizi, si adattasse alla situazione presente. Leggendo le lettere che gli arri­vavano, il Fondatore traeva le conseguenze e orientava i suoi figli:

«Uno di voi - diceva a quelli del Consiglio - mi ha parlato della sua paura delle carte, che ogni giorno au­mentano per poter seguire il nostro apostolato. Non bi­sogna aver timore: ci si deve rallegrare, perché è un sin­tomo di crescita. Anche per una persona fisica, quando lascia l’infanzia, comincia l’apparente complicazione dei

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documenti d’identità, dei certificati e titoli universitari, della matricola militare, ecc. Se mi conservate il nostro spirito, anche se non ci può essere quella continua vici­nanza con il Padre che un altro di voi, in una sua lettera, rimpiange, ciascuno dei più anziani e in modo speciale quelli che hanno incarichi di governo, nella Regione o in una casa, saprà dare il tono, soprannaturale e umano, di famiglia cristiana, che è la fisionomia peculiare del no­stro Opus Dei. Poi, le cose di sempre: vita interiore, la­voro, allegria e una fine carità - affetto! - e in questo modo non avremo paura della crescita, perché sarà in­sieme un aumento di numero e di qualità - i Centri di Studi! - e di Amore di Dio e di efficacia»85.

* *

Un’altra importante intenzione del Padre in quegli anni, nei quali chiedeva al Signore con molta insistenza che inviasse persone all’Opus Dei, era il miglioramento del­la formazione dei nuovi membri, dal punto di vista in­tellettuale e delle virtù umane. Il lavoro di formazione personale, che cominciava con la direzione spirituale di ciascuno, aveva poi anche bisogno di Centri di Studi per gli uomini e per le donne. E se le numerarie ausiliarie scarseggiavano ancora, ragione di più - pensava il Fon­datore - per impegnarsi a formare bene le prime. Poco dopo aver chiesto l’ammissione, come si è detto, le pri­me numerarie ausiliarie, per indicazione del Padre, an­darono a vivere a Los Rosales; ma essendosi verificati alcuni inconvenienti nella distribuzione del lavoro, egli cercò una soluzione altrove:

«Continuo ad accarezzare il pensiero di fare alla Mon- cloa il centro di formazione delle numerarie ausiliarie, fi­no a che non saranno pronte La Pililla e Molinoviejo»86.

La cosa fu studiata, ma il luogo non sembrava il più appropriato. Nel marzo 1947 il Padre si rivolse all’As­sessorato Centrale con un nuovo suggerimento: perché

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non utilizzare l’Amministrazione di Lagasca, riservan­done due o tre locali al Centro di Studi?87.

In aprile insistette sull’idea, poiché la soluzione avreb­be comportato una spesa minima:

«Non dimenticate che si comincia come si può: se si aspetta di avere i mezzi umani, non si comincia mai. I mezzi - e parecchi - verranno più avanti: saranno il pre­mio per il nostro lavoro e per la nostra dedizione, per la nostra fede»88.

Nel mese di maggio era pronto uno spazio minimo perché potesse subito entrare in funzione ciò che il Pa­dre, che lo considerava un semplice modo per comincia­re, chiamava «tentativo di Centro di Studi delle ausilia­rie»89. In fin dei conti, non era nulla di impossibile. Si cominciava con poco, come sempre. Si rallegrò dunque di tutto cuore con le sue figlie dell’Assessorato:

«Sono appena giunte le vostre lettere: sono contentis­simo per la casa di Lagasca, il primo Centro di Studi per le ausiliarie! Nasce, come tutte le nostre cose - come Gesù - nella povertà e senza mezzi materiali: questa è la strada. Congratulazioni»90.

* * *

Il Fondatore aveva sempre in mente i nuovi sacerdoti.Il suo progetto di espansione universale esigeva nuovi centri e la cura spirituale richiedeva, a sua volta, un mag­gior numero di sacerdoti al servizio di tutte le anime, an­zitutto dei fedeli dell’Opus Dei. Era una specie di ingra­naggio in movimento. Nessun pezzo poteva mancare, altrimenti la macchina si sarebbe fermata. Si avvicinava anche il momento di partire per altri Paesi, l’espansione in Europa e in America. Perciò era urgente ordinare un | buon numero di sacerdoti perché, oltre ai compiti mini­steriali, essi avevano la funzione specifica di creare coe­sione e unità spirituale fra tutti i fedeli dell’Opus Dei.

I dati statistici parlano da soli, anche se il Fondatore

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non se ne fece mai un vanto. Nella sua umiltà non gli piacevano i trionfalismi e le esibizioni del potenziale umano. Non era nel suo stile e non aveva nulla a che fa­re con lo spirito di umiltà collettiva che l’Opera pratica­va. Basti sapere che alle ordinazioni del 1944 e del 1946 seguirono, fra il 1948 e il 1952, altre nove leve per un totale di 44 sacerdoti che si aggiunsero ai primi nove91.

Ecco una lettera scritta ai tre che sarebbero stati ordi­nati nell’aprile 1948:

«Roma, 18 febbraio 1948.Gesù mi protegga questi tre.Carissimi Juan Antonio, Jesus e Adolfo: quanto mi piace­rebbe esservi vicino nel giorno della vostra tonsura! Come potete immaginare, benché mi trovi a Roma e nonostante la distanza, non sarò molto lontano da voi. Che cosa dir­vi? Che è una grande elezione di Dio, operata all’interno della nostra Opera, affinché noi Sacerdoti siamo i servi dei nostri fratelli, che hanno la nostra stessa vocazione: servi e modelli di santità, di lavoro, di gioia; servi e stru­menti delicatissimi, per formare e dirigere (...).Figli miei, predicate sempre ai nostri, e a tutti, che ciò che dà efficacia al lavoro apostolico è la fedeltà alla grazia di Dio, con gioia e con generosa adesione alla Croce di ogni giorno, con santità personale. Figli miei, chiedete al Signo­re molte vocazioni; chiedetegli Sacerdoti dotti e compieta- mente donati, che sappiano essere sempre, dimentichi di sé, la solida base della nostra unità: consummati in unum! Che la nostra Madre del Cielo, Spes nostra, Sedes Sa- pientiae, Ancilla Domini, ci ottenga la grazia di essere sacerdoti a misura del Cuore di suo Figlio e del suo Cuo­re Immacolato.Vi benedice vostro Padre

Mariano»92.

Quando ritornò in Spagna, un anno dopo, trovò i sa­cerdoti «impegnati in cura d’anime da non poterne più»93. Nel 1952 avrebbe potuto contare su una cin­quantina di sacerdoti, ma i centri creati all’estero in­

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ghiottivano le nuove leve. Il Fondatore aveva certamen­te risolto il problema, ma non potè mai dire che gli avanzasse un solo sacerdote.

Oltre a correzioni e avvertimenti, nella lunga corri­spondenza di governo di quegli anni ci sono molte sin­cere frasi di lode del Fondatore per coloro che collabo- ravano con lui.

Alle donne dell’Assessorato, per la loro fiducia e ob­bedienza:

«Carissime: vedete che le cose vanno avanti? Molto bene i turni di esercizi a Zurbaràn. Molto bene Abando e La Moncloa. Molto bene l’apostolato con le domesti­che. Molto bene, a poco a poco, le cose di Los Rosales. Grazie a Dio! Quindi avanti, con molta gioia»94.

A quelli del Consiglio Generale, per il loro buon crite­rio e l’abbondante lavoro:

«L’impressione generale è meravigliosa - scrisse da Madrid a don Àlvaro - . Si nota, di mese in mese, più maturità ed efficacia. Si vede la mano di Dio. In mia as­senza, in genere hanno fatto le cose molto bene»95.

E non si dimenticò di lodare ciò che aveva visto nei Centri di Studi e gli aneliti dei suoi figli che sarebbero stati ordinati, in numero di venti, il 1° luglio del 1951:

«Sono molto contento anche dei nuovi pretini: saran­no di certo sacerdoti santi, dotti e allegri. Per tutto que­sto dobbiamo ringraziare incessantemente»96.

3. L’ora di Dio

Che cosa accadeva in Italia nel frattempo? La sola cosa che ci si poteva aspettare: non appena don Josemarìa ebbe il presentimento del grande lavoro di anime che lo attendeva, ci si buttò con entusiasmo.

«Qui in Italia si preannuncia un grande raccolto di vocazioni e di lavoro»97, scriveva a Madrid nel giugno del 1948.

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Era ben più che una semplice possibilità, perché c’era­no già frutti copiosi:

«Qui c’è molto lavoro immediato e fecondo. Si vede che è l’ora di Dio»98.

“ L’apparente inattività” dei tempi di piazza della Città Leonina non era divenuta che un ricordo, man mano che entravano nell’Opera i primi membri italiani. Nel giugno 1948 ce n’era già un piccolo gruppo. In esta­te li fece andare a Molinoviejo, dove parteciparono a un corso di formazione e, stando con gente di diversi Paesi, conobbero meglio l’Opera. Era un corso davvero inter­nazionale, perché c’erano anche i primi portoghesi e messicani e persino il primo irlandese, “riprova” tangi­bile dello spirito universale di cui parlava loro il Pa­dre99. Dalle labbra del Fondatore essi imparavano la storia e lo spirito dell’Opera e serbarono sempre un gra­to ricordo di quelle giornate.

Il Fondatore applicava a se stesso i consigli dati agli altri. Quando ritenne giunto il momento di aprire un Centro di Studi interregionale non esitò a mettere in pratica il motto “si comincia come si può” . Pochi giorni dopo aver scritto che era giunta “l’ora di Dio” , emise il decreto di erezione del Collegio Romano della Santa Croce, datato 29 giugno 1948100. Fu un’eroica pazzia divina e umana, perché sapeva benissimo quanto gli sa­rebbe costato portare avanti una simile impresa.

Il Collegio Romano era destinato a dare un’intensa formazione ai fedeli dell’Opus Dei, provenienti da di­versi Paesi, che avrebbero conseguito un dottorato ec­clesiastico; alcuni di essi sarebbero stati ordinati sacer­doti e sarebbero rientrati nella nazione d’origine. Il Collegio Romano nacque umile nella mente del Fonda­tore: il progetto prevedeva per il primo anno dieci stu­denti, che poi all’atto pratico furono soltanto quat­tro101, senza altra sede che il Pensionato, dove non c’era la possibilità di avere altri posti102. Il testo del decreto di erezione affermava che il Collegio Romano era stato

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fondato nella Città Eterna per riunire persone prove­nienti dai Paesi nei quali si sviluppava il lavoro dell’O- pus Dei:

“ Collegium ex omni natione Operis Dei in Urbe con- stituere decrevimus ” 103.

È evidente l’estremo contrasto fra la situazione di fat­to e la speranza circa il futuro che il decreto rivela. Nel­l’intimità del suo rapporto con Dio, il Fondatore dovet­te percepire che il desiderio dell’espansione comportava implicitamente una richiesta, cui si affrettò a rispondere non appena ne intuì il senso: la nascita del Collegio Ro­mano era un ulteriore passo per romanizzare l’Opera e il Fondatore, sempre pronto a eseguire la Volontà divi­na, cominciò a realizzare da Roma il suo appassionato universalismo apostolico.

Il 2 luglio, pochi giorni dopo il decreto di erezione, si recò a Madrid, dove accadde un episodio che aiuta a ca­pire il suo travaglio in alcune situazioni del passato. Un giorno, mentre passava davanti alla casa di via Martì- nez Campos, dove sua madre aveva abitato nel 1933 e dove egli aveva fatto apostolato con sacerdoti e studen­ti, si sorprese a dire fra sé e sé:

«Quanto ho sofferto, Dio mio, quanto ho sofferto!».Ma subito reagì ed esclamò:«Quanto mi hai sopportato, Signore, quanto mi hai

sopportato!».E due giorni dopo, precisò:«Ora, a mente fredda, penso che la verità stia nell’in­

sieme delle due cose»104.Il suo rapporto con Dio spronava il Fondatore a di­

menticarsi di se stesso e dei propri interessi, ad assecon­dare con umiltà e iniziativa i piani divini e a sviluppare una generosità senza limiti, che non prendeva decisioni a freddo, ma con ardore e immediatezza. Studiava a fondo le problematiche e poi agiva rapidamente. La sua generosità lo infervorava a tal punto, che non si ferma­va a calcolare eventuali difficoltà o a rigirare nell’imma­

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ginazione le molte sofferenze che gli sarebbero costate. Agiva per natura come una sorgente che sgorga a fiotti. Solo così si può comprendere la mole di lavoro e la pro­messa di avventure che rivelano le seguenti righe di una lettera ai membri del Consiglio Generale, dodici mesi dopo che era suonata l’ora di Dio:

«Carissimi, sono molto contento delle notizie di tutti voi che mi ha portato Àlvaro. Verrei subito con piacere in Spagna, se non vedessi con chiarezza che qui c’è molto la­voro che non posso abbandonare: (...) sono fondamentali la futura sede centrale e il collegio romano e, per l’Italia, i due Centri di studi e una casa per gli esercizi. Inoltre, è be­ne che io conosca tutti questi ragazzi italiani, se alla fine riusciremo a tenere i corsi a Castelgandolfo in agosto. Non è tutto, perché ci sono anche altre cose di grandissi­ma importanza, di cui, grazie a Dio, si occupa molto bene Àlvaro, che porta addosso un peso tale - e mi riferisco so­lo alle cose dell’Opera, cui bisogna aggiungere il suo lavo­ro ufficiale - che soltanto con la grazia di Dio e con la vo­lontà e la testa che ha lui si può portare avanti»105.

* * *

Circondato dai giovani che frequentavano il Pensiona­to, don Josemarìa non aveva bisogno di sforzarsi per sentirsi romano. Lo aveva trascinato a Roma la corrente dell’espansione apostolica dell’Opera e non gli era co­stato abituarsi a vivere in Italia106. Amò l’Italia, che era la patria di molti suoi figli e, amando il Paese, ne condi­vise con il cuore tutte le peripezie storiche. Anni difficili, quelli del dopoguerra:

«In questi momenti, in cui sono ancora evidenti le ro­vine dell’ultima guerra - scriveva ai suoi figli nel 1948 - si vedono sorgere situazioni nuove e, purtroppo, si vede anche l’avanzare di tendenze che negano Dio e semina­no l’odio, arrivando perfino a imporsi su intere nazioni. Vi dico che sia il nazionalismo che la lotta di classe sono

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essenzialmente anticristiani: siamo tutti figli di uno stes­so Dio qui omnes homines vult salvos fieri (I Tim. 2,4) che vuole che tutti gli uomini si salvino»107.

Le elezioni politiche dell’aprile 1948 si rivelarono una delle ore più critiche della storia italiana del dopoguer­ra. Tutta la nazione, come affermò Pio XII, si trovava “in pieno mutamento dei tempi, il che richiede, da parte del Capo e dei membri della Cristianità, somma vigilan­za, instancabile diligenza e abnegazione nell’agire” 108.

Dal momento in cui i primi studenti italiani fecero la loro comparsa nel Pensionato, il Padre si dedicò a infondere in loro lo spirito dell’Opus Dei. Dalle sue lab­bra uscivano le stesse parole e la stessa dottrina che ave­vano ascoltato, agli inizi dell’Opera, coloro che lo segui­vano a Madrid:

«Figli miei, avete l’obbligo di dare esempio in tutti i campi, anche come cittadini. Dovete impegnarvi a com­piere i vostri doveri e a esercitare i vostri diritti»109.

Alle domande che essi gli facevano sulla situazione italiana, rispondeva proclamando la libertà di cui gode ogni cristiano nelle questioni politiche. Dal Padre impa­rarono a non confondere la libertà nell’opinabile con l’adesione volontaria alle indicazioni del Magistero del­la Chiesa, della fede e della morale cattoliche, perché so­lo la Chiesa può dare specifiche direttive di azione o de­limitare la libertà dei cattolici nelle questioni temporali: naturalmente, ciò può accadere solo per motivi eccezio­nali o in circostanze storiche gravi. “Il Padre non si in­trometteva, non voleva intromettersi, neppure dando consigli, negli eventi della politica italiana; era evidente che si muoveva a un livello superiore e che stabiliva cri­teri validi per tutti i tempi e per tutte le circostanze” 110. Da una parte insisteva sulla libertà nelle opzioni scienti­fiche o politiche, dall’altra, tuttavia, sosteneva che l’a­stensionismo nelle questioni sociali era una colpa che, in determinate circostanze, poteva diventare grave. Uno di questi casi eccezionali furono le elezioni dell’aprile

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1948111, nelle quali astenersi equivaleva già a prendere una posizione. In don Josemaria era ancora vivo il ricor­do degli eventi spagnoli del 1936: la formazione di un Fronte Popolare che si era impadronito del potere, le dolorose esperienze della persecuzione, il martirio di tanti e lo scatenarsi della barbarie atea112.

* * *

Quando il Padre aveva messo piede per la prima volta sul suolo italiano, nel giugno 1946, la situazione del Paese era molto deteriorata a causa dei danni della guerra. Come ri­sultato del referendum e delle elezioni del 2 giugno era na­ta, poco prima del suo arrivo, la Repubblica e si era for­mata l’Assemblea Costituente. A partire da quel momento, le forze che in passato avevano lottato insieme contro il regime fascista si separarono, ciascuna seguendo le proprie aspirazioni e i propri programmi. Le contrappo­sizioni politiche riflettevano la scissione fra gli alleati nella guerra: la Russia da una parte e le democrazie occidentali dall’altra. Fu l’epoca del governo De Gasperi, che adottò misure forti per mantenere l’ordine. Nel 1947 De Gasperi andò in visita negli Stati Uniti, ottenne aiuti economici (il piano Marshall) e il 10 febbraio firmò il trattato di pace, ratificato poi a Parigi nell’estate. La situazione economica, frattanto, era difficile, con una forte inflazione e molta di­soccupazione, insieme a violente agitazioni sociali.

Alla fine del 1947 l’Assemblea Costituente aveva ter­minato il suo lavoro e la nuova Costituzione entrò in vi­gore il 1° gennaio 1948. Le elezioni generali furono fis­sate per il 18 aprile 1948. Contro la Democrazia Cristiana, che era il principale partito che sosteneva De Gasperi, si coalizzarono comunisti e socialisti, forman­do il Fronte Democratico Popolare. Queste elezioni era­no molto importanti perché era in gioco il futuro di una nazione cristiana e persino la libertà di governarsi della Chiesa. Il loro risultato sarebbe stato decisivo.

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Gli eventi che le precedettero e che, pochi mesi prima, avevano portato al blocco di Berlino e alla guerra fred­da, erano un monito su ciò che sarebbe potuto accadere se i partiti marxisti avessero preso le redini del potere. Quale sarebbe stata la situazione della Chiesa? Bastava pensare ai Paesi oltre la cortina di ferro: persecuzione religiosa, soppressione delle libertà, carcere, tortura, so­litudine e spesso martirio.

Il Papa ricordò allora ai fedeli, smentendo le promes­se dei comunisti di rispettare la religione, il rischio che incombeva sulla nazione e il serio pericolo di una ditta­tura marxista. Con accenti di pressante gravità, Pio XII dichiarò che “era suonata l’ora decisiva della coscienza cristiana” 113.

Il Padre pregava e faceva pregare i suoi figli per l’in­tenzione del Sommo Pontefice perché in Italia non an­dassero perdute la pace e la libertà religiosa, e li inco­raggiava a impegnarsi nella campagna elettorale, nel modo che ciascuno riteneva più opportuno, rispettando la loro libertà circa la maniera di mettere in pratica le indicazioni del Magistero114.

Nell’imminenza di un viaggio in Spagna, in piena campagna elettorale, don Josemarìa scriveva ai membri del Consiglio:

«Dobbiamo ringraziare molto Dio per questo viaggio. Ma me ne vado triste, perché l’Italia è sottosopra e i rus­si rimestano molto bene nel fango; e qui c’è Pietro. Pre­gate molto perché non si alteri la pace a Roma»115.

Da Madrid seguiva con preoccupazione l’andamento delle elezioni: «Sono preoccupatissimo per Roma e per l’Italia», scriveva a don Àlvaro116. Non appena ebbe no­tizia del risultato elettorale, scrisse a mons. Montini:

«A Madrid, dove mi trovo attualmente, ho appreso con grandissima gioia dell’esito delle elezioni in Italia. Non può immaginare, Eccellenza, quanto ho pregato e fatto pregare il Signore per questa intenzione»117.

E terminava con la preghiera di presentare al Santo

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Padre «la testimonianza della gioia esultante dell’Opus Dei e di questo peccatore per l’esito delle elezioni»118.

* * *

L’impegno del Fondatore per romanizzare lo spirito dei membri delPOpus Dei consisteva, essenzialmente, nel far loro scoprire nuovi orizzonti, superando nazionalismi e piccoli interessi locali, in modo che le loro aspirazioni apostoliche abbracciassero il mondo intero, senza dimen­ticare che il centro della Cristianità, l’autorità suprema, risiedeva a Roma. La romanità che desiderava inculcare loro consisteva nel suo stesso amore e nella lealtà al Som­mo Pontefice119, che chiamava il dolce Cristo in terra, ri­petendo le parole di santa Caterina da Siena; un amore per il Papa al di sopra di eventuali difetti e debolezze umane120. Con la parola e con l’esempio trasmetteva ai suoi figli il significato profondo del sentirsi romano:

«Vi ho insegnato ad amare l’aggettivo romano di cui si fregiano i figli dell’unica vera Chiesa e sono disposto a predicarlo e a romanizzare tutte le anime che posso. Che desiderio ho che presto possano passare per Roma, in modo continuo e ordinato, tanti miei figli e figlie, che possano poi tornare alle loro Regioni con un cuore più innamorato della Chiesa e più romano!

Ci dobbiamo romanizzare, vi ripeto, ma una parte di questo lavoro consiste nel preparare l’anima, perché non vacilli mai nella fede nonostante qualsiasi miseria di cui possa essere testimone. Ciò vi aiuterà a non scan­dalizzarvi se mai vi giungessero notizie di questo genere e anzi ad amare di più la Santa Chiesa, Sposa di Cristo, coprendo con il manto della carità e della discrezione - come i buoni figli di Noè - i difetti dei membri del po­polo di D io»121.

Nel Pensionato parlava loro di terre lontane e dei Paesi d’oltre oceano, dove sarebbero ben presto andati. Non era una chimera, poiché alcuni membri dell’Opera si erano

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già stabiliti a Parigi, a Londra e a Dublino e altri si accin­gevano a recarsi negli Stati Uniti, in Messico e in Cile. Era­no pochi? Il Fondatore lo sapeva bene. Anche le numera­rie ausiliarie su cui poteva contare l’Opera non erano più di una dozzina eppure, alle tre o quattro che stavano lì ac­canto, nella portineria di Villa Tevere, il Padre assicurava:

«Se voi, le prime dodici, mi sarete fedeli, potremo an­dare dovunque: in Giappone, in Africa, in America, in Oceania, dovunque»122.

Non diversa era la situazione dei numerari e delle nu­merarie italiani, che erano ancor meno123. Il Fondatore non era preoccupato per il numero, ma piuttosto della loro lotta per essere migliori e della loro generosa corri­spondenza alla grazia ricevuta, che era copiosa. Infatti, il numero delle persone dell’Opera sarebbe sempre stato esiguo e i mezzi materiali scarsi, ma il Padre, quando parlava alle sue figlie dell’espansione nei cinque conti­nenti, soggiungeva: «Voi avrete più grazia; quelle che verranno dopo, invece, avranno più mezzi»124.

Per inciso, è da registrare, senza naturalmente parlare di “miracolo” , una sorta di grazia che Dio concedeva ai primi: coloro che non conoscevano lo spagnolo capiva­no quanto diceva il Padre. Dono parallelo a quello che aveva il Padre di capire le persone. Ciò che mons. Luigi Tirelli riferisce sui primi tempi del Pensionato accadde anche ad altri in epoche diverse della vita del Fondatore:

“Ho ascoltato il Padre nel 1948 e 1949, quando an­cora non conoscevo il castigliano, che ho imparato più avanti, e mi meravigliavo di capire ciò che diceva. Que­sto fenomeno - sul quale ho riflettuto solo dopo un cer­to tempo - si può spiegare con la sua grande forza co­municativa; si può dire che parlava con tutta la sua persona. Era come un fuoco di Dio, aveva un autentico ‘dono delle lingue’ perché, nonostante ignorassi il signi­ficato delle parole, io riuscivo a comprendere tutto il suo discorso.

Ho fatto la prova con altre persone, ma queste non

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riuscivo a capirle allo stesso modo. Il Signore, probabil­mente, gli aveva concesso, oltre a una grande chiarezza mentale, il dono di farsi capire, a motivo del bene che produceva sulle anime” 125.

Nonostante il lavoro assorbente in cui era sempre im­merso - redazione di documenti, governo dell’Opera, corrispondenza, visite e altri impegni -, il Padre dedica­va buona parte della giornata a parlare in privato con i suoi figli o con gli amici dei suoi figli. Talvolta, quando aveva bisogno di “ lasciar sedimentare le cose” 126, per ti­rare le fila delle riflessioni che stava facendo, usciva a fare un giro in macchina, accompagnato da don Àlvaroo da qualcuno del Pensionato. Talaltra, i fastidi provo­cati dal diabete lo costringevano a letto. Allora appro­fittava delle visite dei suoi figli per continuare a istruirli, cominciando magari col domandare: «Quanti atti di amore di Dio hai fatto stamani?»127; non attendeva la risposta, ma così entrava subito in piena confidenza.

Varie volte don Josemarìa aveva dichiarato di non vo­lersi comportare come il leggendario Capitano Arana, che spediva i suoi marinai a compiere imprese rischiose mentre lui se ne rimaneva sempre in terraferma. Egli si assumeva di buon grado la laboriosa responsabilità di fare strada. Se bisognava aprire un nuovo centro, co­minciava sempre col chiedere il permesso al Vescovo diocesano. Poi, non appena gli era possibile, si recava a visitare un santuario, o una chiesa dedicata alla Madon­na, affidandole il lavoro da svolgere nella città128.

Il 3 gennaio 1948 si recò in pellegrinaggio al santua­rio della Madonna di Loreto129; una settimana dopo partì da Roma in auto, assieme a don Àlvaro, per visita­re l’Università Cattolica di Milano e svolgere altre in­combenze. Incapparono in un tempo freddo, piovoso e in una fitta nebbia, che resero difficile il viaggio. Il gior­no 11 pernottarono a Pisa e il 13 giunsero a Milano130.

Benché per il momento il Padre non avesse intenzione di cominciare il lavoro a Milano, si recò con don Àlvaro

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dal Cardinale Schuster, per una visita di cortesia. Il col­loquio, come raccontò il Padre a quelli di Madrid, non sarebbe potuto essere più cordiale:

«Roma, domenica 18 gennaio 1948.Gesù mi protegga i miei figli.Carissimi, venerdì in serata siamo ritornati da Mila­

no. Sono molto contento del viaggio. Il Cardinale Schu­ster - dal quale ci siamo recati solo per presentare i no­stri omaggi - ( . . .) ci ha ricevuti con affetto e ha espresso il desiderio che apriamo un centro: ‘Venite’, ha detto, ‘perché ho bisogno di voi per la cura delle anime che mi sono affidate’ ...Voglio un vostro consiglio: se siete dello stesso parere, formalizzerò per iscritto la richiesta per la residenza di Milano»131.

Scrisse anche al Cardinale, ripetendogli ciò che gli aveva già detto di persona: che non aveva pensato di co­minciare così presto a Milano, «ma la parola di Sua Eminenza è, per questo peccatore, un ordine di Dio, che cercherò di adempiere il più presto possibile»132.

“Reverendissimo Monsignore - gli rispose il Cardina­le - non saprei rifiutare a Lei e all’Opus Dei l’ingresso in Milano: Ostium magnum et adversarii multi... Però Dio non fa mai le cose a metà”133.

In queste frasi si condensano la preoccupazione e la speranza del Cardinale. Da una parte la penetrazione marxista e l’imminente pericolo che si instaurasse una dittatura comunista nel Paese. Dall’altra, la gioiosa im­pressione che gli fece il Fondatore dell’Opus Dei, nel quale vedeva, come disse una volta, “una di quelle figu­re che lo Spirito Santo promuove nella Chiesa e che la­sciano un’impronta indelebile nella sua vita. Uomini che appaiono molto raramente nella storia della Chiesa” 134.

ir * *

Il 16 giugno 1948 il Padre scriveva a Pedro Casciaro e gli diceva che due giorni dopo sarebbe partito per la Si­

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cilia e la Calabria, essendo ormai scoccata “ l’ora di Dio” , l’ora di un lavoro apostolico abbondante e fecon­do135. Era pertanto costretto a modificare i suoi piani, cosa di cui informava il Consiglio Generale:

«Carissimi, una volta di più ci è chiaro che siamo a disposizione di Dio e non possiamo rispettare alla lette­ra i nostri piani. L’Arcivescovo di Reggio Calabria, mons. Lanza, ci aspetta: dobbiamo andarci, perché è un grande amico, in vista di tutto il lavoro che dovremo fa­re nel sud d’Italia. Il grande caldo che fa qui è solo un’avvisaglia di quello che troveremo in Calabria e in Sicilia: ma né questo, né ragioni più o meno sociali in Spagna devono interrompere il nostro sforzo per am­pliare qui il lavoro dell’Opera. Pertanto - è deciso - ar­riverò a Madrid solo venerdì 2 luglio»136.

Il Padre non era in buone condizioni di salute e preve­deva di soffrire molto il caldo. Tuttavia era necessario che si mettesse in viaggio quanto prima, poiché all’ini­zio di luglio aveva impegni in Spagna. L’espansione nel nord d’Italia era stata già preparata dall’incontro con il Cardinal Schuster. Ora egli pensava di aprirsi le porte del meridione facendo visita all’Arcivescovo di Reggio Calabria e al Cardinale Ruffini, di Palermo.

Venerdì 18 giugno il Padre e don Àlvaro celebrarono la Messa nel Pensionato alle quattro e un quarto del mattino. Alle cinque si misero in viaggio su una vecchia e malridotta Aprilia, passarono a prendere a Trastevere mons. Dionisi, intimo amico dell’Arcivescovo di Reggio Calabria, e proseguirono verso sud137. Davanti c’erano Alberto Taboada, alla guida, e Luigi Tirelli. Sul sedile posteriore, con alcune borse e parte del bagaglio, erano seduti, molto stretti, i tre sacerdoti. Passata Napoli, il Padre cominciò a sentirsi male e chiese di riposare un po’ dopo pranzo. Proseguirono poi per la strada litora­nea. L’interno dell’auto era un forno, la strada dissestata e dovettero attraversare alcuni ponti di barche. Nono­stante le nuvole di polvere e gli scossoni causati dalle

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buche, il Padre cantava in continuazione, tanto che mons. Dionisi serbò come ricordo di quel viaggio l’im­pressionante allegria del Fondatore. All’una di notte si fermarono a dormire in una pensione di Scalea.

Al mattino presto partirono per Paola, dove il Padre celebrò la Messa nel santuario di S. Francesco. Era sa­bato 19 giugno e, giunti in serata a Reggio, cenarono con l’Arcivescovo, mons. Lanza, al quale don Josemarìa parlò con entusiasmo dell’Opera.

La domenica attraversarono sul traghetto lo stretto di Messina e arrivarono a Catania all’ora di cena. Il Padre era distrutto. Voleva fare a meno della cena ma, mentre stava ritirandosi per riposare, arrivò in albergo il parro­co della chiesa di Nostra Signora della Mercede, don Ricceri, al quale avevano dato appuntamento. Il Padre rinunciò a coricarsi, scese a cenare e mantenne viva una allegra conversazione.

Il mattino seguente, dopo aver celebrato la Messa nel­la chiesa di don Ricceri, fecero colazione e il parroco, con le migliori intenzioni, invitò gli ospiti a salire sul­l’Etna, senza rendersi conto che erano in viaggio da due giorni e che il Padre non stava bene. Li portò nel luogo esatto in cui, nel 1886, il torrente di lava incandescente che minacciava Catania si era fermato dopo che l’Arci­vescovo, il Cardinale Dusmet, vi aveva portato in pro­cessione il velo di Sant’Agata, patrona della città. Un ge­sto di profonda fede di cui il Padre, in seguito, fece menzione più di una volta.

Il Padre parlò delPOperà a don Ricceri e del motivo apostolico del viaggio in Calabria e in Sicilia. La conver­sazione proseguì durante il pranzo. Don Ricceri ascolta­va il Padre con tanta ammirazione e con tale piacere che, trent’anni dopo, se ne ricordava perfettamente:

“ Colpito dalla bellezza di quella istituzione, pregai con insistenza il Padre affinché aprisse una residenza dell’Opus Dei a Catania, dicendogli che io l’avrei aiuta­to in tutti i modi, dato che ero parroco di una parroc­

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chia molto centrale ed ero anche assistente della Federa­zione Universitari Cattolici Italiani.

Il Padre mi rispondeva evasivamente, finché, di fronte alle mie insistenze, mi rispose: «Se lei rimanesse a Cata­nia, il suo aiuto mi sarebbe molto utile per aprire una Residenza. Ma lei se ne andrà e dunque come potrà aiu­tarmi?».

Io gli replicai che non aveva alcuna intenzione di al­lontanarmi da Catania, ma egli, guardandomi negli oc­chi con uno sguardo penetrante, soggiunse: «Stia sicuro che fra qualche anno la faranno vescovo e dovrà lascia­re Catania».

Presi queste parole come una battuta scherzosa, ma nel 1957 i fatti confermarono che le sue parole erano state profetiche ” 138.

Fuori pioveva a dirotto. Il Padre non era in condizioni di proseguire per Palermo e far visita al Cardinale Ruffi- ni. Dopo pranzo intrapresero il viaggio di ritorno. Mer­coledì 23 giugno erano di nuovo a Roma.

* * *

La seconda metà del 1948 (dal 2 luglio al 30 dicembre) il Fondatore la trascorse in Spagna, dedicandosi princi­palmente al lavoro di governo dell’Opera, alla forma­zione dei suoi figli e alle visite alle autorità ecclesiasti­che. Poiché era straordinariamente previdente e non lasciava nulla al caso, già nel mese di febbraio avvisava i suo figli del Consiglio che era «necessario pensare a or­ganizzare il lavoro dell’estate»139. Egli pensava di svol­gere a Molinoviejo diversi corsi di formazione, una Set­timana di lavoro e riunioni con i sacerdoti, benché ci fossero ancora lavori in corso e mancasse la luce elettri­ca. Pensando di fare anche un breve viaggio a Madrid, gli venne in mente il quadro delle lacrime di S. Pietro appeso nella sua stanza in via Diego de Leon. Nel qua­dro, come simbolo del pentimento dell’Apostolo la not­

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te in cui Gesù fu catturato, era dipinto un gallo malri­dotto e con le zampe corte. «Quanto mi piacerebbe - scrisse al direttore del Centro - trovare trasformata in gallo la pernice di S. Pietro che si trova in camera mia! Anche all’Apostolo non verrebbe male un ritocco...»140.

In marzo tornò a ricordare a quelli del Consiglio le cose da curare per l’estate, cioè le persone e i lavori di ristrutturazione della casa: «Sarebbe un peccato - siamo a marzo - che per giugno a Molinoviejo non ci fossero la luce elettrica e la piscina»141.

In luglio, quando il Padre arrivò a Molinoviejo, nono­stante l’impegno di tutti per finire in tempo, c’era anco­ra un grande andirivieni di muratori, imbianchini e pit­tori che stavano decorando l’oratorio della casa, l’edicola, i corridoi e la sala da pranzo. Perciò, qualche giorno dopo, egli riassumeva così le sue impressioni a quelli di Roma: «Molto lavoro, operai, polvere e deside­rio che questa casa sia sistemata. A volte penso che mo­rirò tra i muratori»142.

Le persone delPAmministrazione si trovarono in una situazione difficile. La casa era piena di persone; forni­ture e acquisti di qualsiasi oggetto o utensile non erano facili, essendo la casa isolata in piena campagna. Si la­vorava alla luce dei lumi a petrolio, in attesa della linea elettrica. Alcuni lavori, come stirare i corporali e le to­vaglie d’altare, che venivano inamidati, richiedevano estrema attenzione, per evitare che sui lini bianchi ca­desse la cenere fuoriuscita dai ferri da stiro, del vecchio tipo a carbonella. D’altra parte, le donne che si occupa­vano della casa erano consapevoli che il loro lavoro, si­lenzioso e discreto, apostolato degli apostolati, aveva una grande importanza per il cammino dell’Opera. In­fatti, nell’estate del 1948 da lì passò un gran numero di fedeli dell’Opus Dei, per ricevere la formazione diretta-: mente dal Fondatore. \

Il Padre entrava con una certa frequenza nella zona delPAmministrazione per incoraggiare le sue figlie e ri*

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cordare loro lo spirito con cui dovevano affrontare le difficoltà: À la guerre comme à la guerre143, diceva loro. Un giorno giunse all’improvviso e si trovò in una zona di passaggio, dove il pavimento era bagnato e appicci­coso. Allora, con energia, fece un gesto di riparazione che rivelava il suo dispiacere, per far loro vedere quanto fosse sgradito al Signore lavorare in un modo così tra­scurato144.

I partecipanti ai corsi di Molinoviejo, che si sussegui­rono per tutta l’estate, ricevettero direttamente dal Pa­dre lo spirito dell’Opera nelle meditazioni in oratorio, oppure, seduti in cerchio all’ombra dei grandi platani all’ingresso della casa, nelle conversazioni o nelle tertu- lias che facevano seguito ai pasti. Il Padre, come mae­stro e pedagogo, dava tutto se stesso. Imparavano da lui il sorriso con cui porgeva il saluto, le parole di affetto con cui rivolgeva un ordine, la delicatezza con cui face­va le correzioni; se c’era da fare un rimprovero, infatti, non si permetteva mai di ometterlo. Persino con i suoi silenzi e le sue assenze insegnava l’ordine, la laboriosità, la fedeltà ai propri obblighi. Sapeva che i suoi figli era­no attenti ai suoi gesti e alla sua persona.

Così, mentre spiegava la dottrina e la “ storia delle mi­sericordie di Dio” nei confronti dell’Opus Dei, il Fonda­tore insegnava ai suoi figli, in modo pratico, la santifica­zione dei piccoli eventi di cui è intessuta la vita quotidiana. Faceva loro scoprire manchevolezze e im­perfezioni, li istruiva nell’amore per le cose piccole e normali, di cui aveva scritto in Cammino:

«Fate tutto per amore. - Così non ci sono cose picco­le: tutto è grande. - La perseveranza nelle piccole cose, per Amore, è eroismo»145?

Finalmente fu possibile allacciarsi alla rete elettrica ma, nonostante la gioia e l’entusiasmo con cui venne ac­colta la luce elettrica, le lampade a petrolio continuaro­no a servire, perché le interruzioni di corrente erano fre­quenti. Anche i muratori terminarono il lavoro. Quel

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giorno il Padre non era a Molinoviejo e arrivò la sera. Per fargli cosa gradita controllarono e ricontrollarono ogni angolo: tutto era perfetto, ordinato e splendente. Purtroppo, poco prima dell’arrivo del Padre mancò la corrente. Ciononostante, egli volle dare un’occhiata a lume di candela, per rendersi conto di come erano venu­ti i lavori. Chi lo accompagnava nel tragitto per la casa aveva la segreta speranza che trovasse tutto a posto. Ma ecco la sua testimonianza:

“Ebbene, alla luce di una candela, di sera, dopo aver gettato un rapido sguardo il Padre mi indicò, e io mi se­gnai, più di sessanta particolari che bisognava sistema­re” 146. Si vede dunque che ciò che aveva scritto anni pri­ma era fondato sul suo personale comportamento:

«Hai sbagliato il cammino se disprezzi le cose pic­cole»147.

Il Fondatore aveva stabilito la consuetudine che se qualcuno della casa scopriva un guasto di una certa en­tità, che non era in grado di sistemare, doveva fare una nota di riparazione; se notava problemi di minore entità e alla sua portata, provvedeva invece personalmente alla riparazione. A Molinoviejo l’incaricato dei lavori nell’e­state del 1948 era Fernando Delapuente. Anche le don­ne dell’Amministrazione annotavano le riparazioni o i lavori da fare nella loro zona. Per indicazione del Padre, le note finivano sul tavolo di lavoro di Fernando, che spesso si trovava con una pila di foglietti più volumino­sa del Don Chisciotte. Il Padre si divertì per il paragone- racconta Encarnita - e “ci disse di proseguire a sforna­re letteratura” 149,.

Diverse centinaia di fedeli dell’Opera parteciparono ai corsi di formazione dell’estate del 1948. Quei giovani erano la promessa e la speranza del Fondatore. «A Mo­linoviejo - scrisse a quelli di Roma - l’ambiente cambia rapidamente: ora c’è gente di quattro o cinque (oggi di cinque) Paesi; l’anno prossimo sarà una Babele piena di unità»149.

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Le sue permanenze a Molinoviejo erano interrotte da lunghi viaggi al nord e al sud della Spagna, in Galizia e in Portogallo. Ancora più di frequente andava a M a­drid. E spesso, di sabato, con in macchina una cesta pie­na di panini, si recava a La Granja, dove, in un campo militare per universitari, c’erano parecchi suoi figli.

A queste attività bisogna aggiungere le due Settimane di Lavoro, che si svolsero per gli uomini dal 24 al 30 agosto, a Molinoviejo, per le donne in ottobre, a Los Rosales150.

* *

Per il Capodanno del 1949 il Padre era di ritorno a Ro­ma e il 6 gennaio, celebrando la Messa dell’Epifania per i suoi figli italiani nel piccolo oratorio del Pensio­nato, prima della Comunione parlò loro della necessità di una piena dedizione e dei viaggi per diffondere l’apo­stolato in altre città italiane151. Quella mattina stessa, quasi a dimostrare che i suoi suggerimenti non erano solo parole, il Padre si riunì con alcuni dei suoi figli - don Àlvaro, Salvador Moret, Francesco Angelicchio e Luigi Tirelli - per esaminare la questione. Poi prese un foglio di carta e scrisse:

«1. Visione soprannaturale: a) tutti: più orazione, qualche mortificazione speciale, b) la Madonna: imma­gini della Vergine, c) seguire la solita traccia»152.

Lo scopo era che non si dimenticassero, prima di ini­ziare il viaggio, su che terreno si muovevano, quali fini perseguivano e i mezzi appropriati. Continuò a scrive­re alcune indicazioni sul programma apostolico dei viaggi: visita al Vescovo, incontri con giovani e sacer­doti, note da redigere dopo ogni viaggio, elenco di amici e conoscenti, lettere agli amici e, infine, il pre­ventivo di spesa153.

Le persone dell’Opera scrissero e parlarono ai loro amici per avere indirizzi di conoscenti e si misero a fare

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il giro delle città universitarie italiane. Il primo viaggio fu a Bari, il 13 febbraio 1949. La domenica successiva si cominciò al Nord, e don Àlvaro andò con quelli che si recavano a Milano e a Torino; domenica 27 febbraio, insieme a Salvador Canals e a Luigi Tirelli, si recò a Pa­lermo e a Catania. Così, in gruppi di due o tre, ogni set­timana oppure ogni quindici giorni, si recavano ad am­pliare gradualmente la loro cerchia di amicizie a Bari, Napoli, Milano, Torino, Bologna, Padova, Pisa, Geno­va, Palermo e Catania154.

L’11 febbraio, prima che cominciassero i viaggi, don Josemaria si era dovuto recare in Spagna e rientrò a Roma il 23 aprile. Nel periodo intercorso furono fatti cinque o sei viaggi. Il Padre riceveva le notizie dei viag­gi apostolici in tutta Italia e da Madrid accompagnava i suoi figli non solo con l’immaginazione e con l’affet­to, ma anche con il suo lavoro e la sua orazione. Nelle tertulias in via Diego de Leon raccontava agli alunni del Centro di Studi progetti ed episodi dell’apostolato nelle diverse città italiane. Come si era fatto anni pri­ma da Madrid, il sabato pomeriggio partivano in treno da Roma per Genova, Bari, Palermo o Bologna e la domenica parlavano con gli amici o impartivano lezio­ni di formazione, per poi prendere alla sera il treno del ritorno155.

Dopo due anni al Pensionato, il Fondatore si trovò non già ad aver bisogno in Italia solo di un edificio per la sede centrale dell’Opus Dei a Roma, ma di molti Cen­tri, e cioè le sedi del Consiglio, dell’Assessorato e del Collegio Romano, due Centri di Studi, una casa di ritiri a Castelgandolfo e quattro Centri strategicamente di­stribuiti per la Penisola per seguire le città vicine, dove ci si recava il fine settimana.

L’Opera marciava al passo di Dio ed era un passo ve­loce. Per non perdere il ritmo, il Padre fece una racco­mandazione a don Àlvaro: «Pensare con calma e agire rapidamente»156.

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4 .1 primi soprannumerari

Un passo indietro. La sera dell’l l gennaio 1948 il Pa­dre e don Àlvaro, come è già stato narrato, erano dun­que partiti da Roma in auto, con Ignacio Sallent al vo­lante, diretti a Milano. Quando avevano lasciato Roma in quella mattina invernale, il tempo era cattivo e i pae­saggi, per la pioggia, si dissolvevano in varie tonalità di grigio. Erano giunti il 13 a Milano, dove per la prima volta avevano fatto visita al Cardinal Schuster. Nel viag­gio di ritorno a Roma, il Padre, fino ad allora raccolto e concentrato in Dio, esclamò ad alta voce: «Ci stan­no!»157. Affermazione che suonava come una risposta a qualcosa cui stava riflettendo. Qualcosa di importante, tanto da fargli pronunciare una sorta di eureka, l’an­nuncio di una scoperta. Ma chi ci stava e dove?

Don Josemarìa stava lavorando a un’idea importante: il modo di far entrare nell’Opus Dei uomini e donne chiamati da Dio alla santità nel matrimonio. A Madrid aveva diretto spiritualmente molte persone sposate. Il Fondatore aveva mostrato loro la bellezza di aspirare alla santità senza dover abbandonare la loro condizione sociale, la famiglia o la professione158. Alcuni degli stu­denti che avevano abitato nelle residenze di via Ferraz o di via Jenner, si erano molto sorpresi nell’udire don Jo­semarìa parlare loro con sicurezza di vocazione matri­moniale: era una cosa fino ad allora inaudita, perché si era soliti far coincidere la chiamata alla santità con la vocazione al sacerdozio e, in particolare, con la vocazio­ne religiosa159. Questa sorpresa, che si ripeteva spesso nei colloqui del sacerdote con persone giovani, è descrit­ta in Cammino:

«Ridi perché ti dico che hai ‘vocazione matrimonia­le’? - Ebbene, l’hai: proprio così, vocazione»160.

Uomini e donne, sposati e vedovi, attendevano l’invi­to a entrare formalmente nell’Opus Dei. Seguivano già un piano di vita, alcune norme ascetiche e di pietà, rice­

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vevano i consigli e gli orientamenti del sacerdote, ma speravano che l’adesione allo spirito dell’Opera diven­tasse un impegno spirituale profondo e in qualche modo formalizzato. Il Fondatore non poteva defraudare que­ste persone, che desideravano fare parte dell’Opera a pieno titolo161.

Era giunta l’ora e il Fondatore sentiva una spinta inte­riore ad accogliere nell’Opus Dei coloro che, avendo udito questa specifica chiamata di Dio, avevano riposto in lui le loro speranze. La convinzione e la speranza di poterlo fare divennero più intense alla fine del 1947 e nelle prime settimane del 1948. In Spagna, aveva affida­to alcune persone, di cui egli era il direttore spirituale, ad Amadeo de Fuenmayor, incaricandolo di continuare a dare loro lezioni di formazione. Tra questi c’erano tre giovani professionisti - Tomàs Alvira, Victor Garcìa Hoz e Mariano Navarro Rubio - già ammessi di fatto nell’Opus Dei e in attesa di potervi entrare di diritto162. Amadeo aveva preparato per loro un piano di formazio­ne, che sottopose al Padre per approvazione. Al Padre sembrò piuttosto debole e poco esigente, molto al di sotto dell’obiettivo di santità radicale che essi dovevano proporsi. Poco prima del Natale del 1947 gli scriveva queste espressioni eloquenti:

«Per Amadeo. Ho letto le note per i Soprannumerari. (...) La prossima settimana ti rispedirò gli appunti con qualche indicazione specifica; comunque, ti anticipo che non possiamo perdere di vista che non si tratta della iscri­zione di alcune persone a una certa associazione (...). E una grande grazia di Dio essere Soprannumerario!»163.

In definitiva, la chiamata all’Opus Dei delle persone sposate è identica a quella dei celibi, la stessa di quella dei numerari e delle numerarie, poiché nell’Opera non esistono diversi gradi di dedizione a Dio:

«Nell’Opera, lo sappiamo, non c’è che una sola voca­zione per tutti e, perciò, ce n’è un solo tipo. I diversi no­mi con cui indichiamo i membri della nostra Famiglia

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soprannaturale servono solo per spiegare fino a che punto essi, a seconda delle circostanze personali, posso­no impegnarsi nel servizio delle anime come figli di Dio nell’Opus Dei, dedicandosi a determinate mansioni apo­stoliche o di formazione, anche se la vocazione di tutti è una sola e sempre la stessa»164.

Per il Capodanno 1948 il Padre fece gli auguri ai tre che sarebbero stati i primi membri soprannumerari del­l’Opus Dei, col vivo presentimento che era ormai immi­nente il dischiudersi dell’opera di S. Gabriele, cioè l’apo­stolato con persone sposate, che era compreso in ciò che aveva visto il 2 ottobre 1928:

«Roma, 1 gennaio 1948.Per Tomàs, Victor e Mariano.Gesù mi protegga questi figli!Miei carissimi tre, mi è impossibile ora scrivervi sin­

golarmente, ma vi invio la prima lettera che mi esce dal­la penna nell’anno 1948. Prego davvero per voi. Siete il seme di migliaia e migliaia di vostri fratelli, che arrive­ranno prima di quanto ci aspettiamo.

Quanto bisogna lavorare, e bene, per il Regno di Cri­sto!»165.

Il Fondatore provava una gioiosa impazienza, che lo faceva fremere nell’animo e si trasmetteva alla sua penna:

«Vi anticipo soltanto - scrisse a Madrid - che si sta spalancando per l’Opera un panorama apostolico im­menso, proprio quello che io ho visto nel 1928. Che gioia poter fare tanto per il servizio della Chiesa e delle anime!»166.

«Approfitterò di questi giorni a Roma - annunciava a quelli del Consiglio - per lavorare su tutto ciò che si ri­ferisce ai Soprannumerari: quanto è ampio e profondo il campo di azione che abbiamo davanti!... E necessario che siamo santi»167.

* *

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Per comprendere tutto questo problema, conviene ritor­nare brevemente all’inizio. Il 2 ottobre 1928 il Fondato­re aveva visto una moltitudine innumerevole di persone di ogni condizione sociale, età, professione e stato, raz­za e nazione che, accogliendo li messaggio della chiama­ta universale alla santità, si sarebbero dedicate al servi­zio della Chiesa e delle anime senza abbandonare le circostanze familiari e professionali nelle quali li aveva raggiunti la vocazione divina. Se il Fondatore ripensava alla storia dell’Opera e delle misericordie di Dio nei vent’anni trascorsi, nei quali aveva navigato tra gli sco­gli per aprire nuove strade teologiche, apostoliche, asce­tiche, pastorali e giuridiche, per ognuna poteva enume­rare tutti gli ostacoli e le incomprensioni che gli si erano presentati, ma certamente ciò che gli aveva creato mag­giori difficoltà era stato l’itinerario giuridico. Dall’ap­provazione dell’Opus Dei come Pia Unione, nel 1941, fino alla sua configurazione come Istituto Secolare di di­ritto pontificio, don Josemaria si era dovuto adattare al­la veste giuridica che il momento storico gli offriva, e accettare soluzioni temporanee nell’attesa che la Provvi­denza lo conducesse al porto agognato. Ora, nel 1948, poteva finalmente raggiungere lo sviluppo apostolico atteso per tanti anni; per questo, in gennaio, si era la­sciato andare a esclamare «Ci stanno!», e per questo le sue lettere successive sono colme di esultanza.

Nel 1947, con il Decretum laudis, l’Opus Dei -era di­ventato un Istituto Secolare di diritto pontificio ed era stato riconosciuto come un cammino di santità e di apo­stolato in mezzo al mondo, dove i suoi fedeli esercitano il proprio lavoro professionale. Al tempo stesso ne era stato approvato il Diritto particolare, che prevede la presenza di persone sposate, anche se il loro rapporto con l’Opera appare solamente come un’adesione spirituale, giuridica­mente non formalizzata. Costoro, dicono i testi, “cercano di vivere lo spirito e gli apostolati dell’istituzione, senza incorporarsi a essa mediante un vincolo giuridico”168.

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Ma il Fondatore cercava proprio la possibilità di vin­colare queste persone con la stessa lex che governava gli Istituti Secolari, cioè la Costituzione Apostolica Provida Mater Ecclesia. In essa non si diceva nulla in proposito, ma don Josemaria, meditando e studiando, intravide una via d’uscita, poiché il testo della Costituzione Apo­stolica sembrava ammettere la possibilità che ci fossero diverse classi di soci. Vi si affermava, per esempio, che alcuni “desiderano ascriversi agli Istituti Secolari come membri nel senso più stretto della parola” 169; quindi potevano esserci membri in senso lato. Non era questo, naturalmente, ciò che il Fondatore voleva come soluzio­ne ultima, ma almeno si trattava di un passo avanti. Quindi i soprannumerari ci stavano.

Il Fondatore si mosse rapidamente. Il 2 febbraio pre­sentò a Sua Santità Pio XII l’istanza di approvazione di uno statuto integrativo delle Costituzioni del 1947, per ottenere il riconoscimento esplicito della possibilità che entrassero nell’Opus Dei persone sposate o celibi e nu­bili, di qualsiasi condizione e mestiere170. Il mese succes­sivo, con rescritto del 18 marzo 1948, la Santa Sede ap­provò lo statuto171.

Il Fondatore riprese allora in mano la Istruzione per l’opera di S. Gabriele, che aveva cominciato a scrivere nel maggio 1935 nella Residenza di via Ferraz. Le idee e i sentimenti che ora gli trascorrevano per la mente erano l’eco della prima pagina del documento:

«Nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo e di Santa Maria.

Parvus fons, qui crevit in fluvium..., et in aquas pluri- mas redundavit. La piccola fonte è cresciuta fino a di­ventare un grande fiume..., e di acque abbondanti {Ester 10,6).

Carissimi, se l’Opus Dei ha aperto tutti i cammini di­vini della terra per tutti gli uomini - perché ha fatto ve­dere che ogni lavoro onesto può essere occasione di in­contro con Dio, trasformando così il lavoro umano in

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lavoro divino -, vi posso pure assicurare che il Signore, mediante il lavoro di S. Gabriele, chiama con chiamata vocazionale una moltitudine di uomini e di donne a ser­vire la Chiesa e le anime in ogni angolo del mondo.

Qualcuno potrebbe pensare che la nostra Famiglia so­prannaturale - e specialmente l’opera di S. Gabriele - sia come un novum brachium saeculare Ecclesiae, un nuovo braccio secolare, forte e agile, per servire la Chie­sa. Chi pensasse così si sbaglierebbe, perché siamo mol­to di più: siamo una parte della Chiesa stessa, del Popo­lo di Dio che, consapevole della divina vocazione alla santità con la quale il Signore ha voluto arricchire tutti i suoi figli, cerca di essere fedele a questa chiamata, cia­scuno nel proprio stato e circostanze di vita»172.

I cammini divini della terra si erano dunque aperti il 2 ottobre 1928, con la fondazione dell’Opus Dei. Ne ave­va già trattato in una Istruzione del 1941:

«Non dimenticate che possono venire nell’Opus Dei sia i dotti e i sapienti, sia gli ignoranti (...). Perciò, come una esigenza del nostro amore per la Santa Chiesa e per l’Opera, dobbiamo sviluppare la vita interiore con le ca­ratteristiche del nostro spirito anche nei bambini e negli adolescenti, negli studenti e nei professori, negli operai, negli impiegati e nei dirigenti di azienda, nei vecchi e nei giovani, nei ricchi e nei poveri: uomini e donne, perché di fatto ci stanno tutti. La soluzione giuridica verrà in seguito»173.

La soluzione giuridica arrivò pochi anni dopo e fu davvero possibile accogliere nell’Opus Dei innumerevoli persone di ogni professione, età e situazione sociale, gli uomini e le donne che popolano il mondo174. La solu­zione arrivò non perché esistesse una normativa appro­priata per configurare giuridicamente la radicale voca­zione delle persone sposate, ma perché il Fondatore potè ricorrere a una interpretazione estensiva del testo di legge175, confermando ancora una volta quanto aveva scritto nel 1934: «L’Opera di Dio viene a compiere la

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Volontà di Dio. Pertanto abbiate una profonda convin­zione che il Cielo è impegnato perché si compia»176.

Nei quadri sinottici sull’Opera, i suoi fini e apostolati, compilati agli inizi della fondazione, prima del 1931, appariva già l’esuberante fecondità apostolica sognata da don Josemaria. Il suo anelito di rivitalizzare cristia­namente la società mediante un’immensa catechesi, «at­traverso il lavoro professionale e le attività del cittadi­no»177, per instaurare il regno di Cristo nei cuori, trovò risposta nell’opera di S. Gabriele. Nella prima riga dei quadri sinottici si legge:

«Cristo regni, in modo effettivo, nella società: Regna­re Christum volumus»178.

Nell "Istruzione per l’opera di S. Gabriele, il Fondatore scrisse:

«lìopera di S. Gabriele è parte integrante dell’Opus Dei, un grande apostolato di diffusione capillare che ab­braccia tutta l’attività umana - dottrina, vita interiore, lavoro - e influisce sulla vita individuale e su quella col­lettiva in ogni loro aspetto: familiare, professionale, so­ciale, economico, politico, ecc.

Vedo questa numerosa schiera, di donne e uomini scelti, in azione: imprenditori e operai; menti preclare dell’università, insigni ricercatori, minatori e contadini; aristocrazia - del sangue, dell’esercito, dell’economia, delle lettere - e popolo, con la sua mentalità più rudi­mentale: ciascuno consapevole di essere stato scelto da Dio per raggiungere la santità in mezzo al mondo, pro­prio nel posto che occupa nel mondo, con una vita di pietà solida e illuminata, compiendo lietamente il dove­re di ogni momento, anche se costa»179.

Visto che era ormai possibile organizzare formalmen­te l’apostolato dell’opera di S. Gabriele, il Fondatore in­vitò un buon gruppo di professionisti a un ritiro spiri­tuale che avrebbe predicato a Molinoviejo dal 25 al 30 settembre 1948. Dei quindici partecipanti, alcuni face­vano direzione spirituale con don Josemaria, gli altri gli

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erano noti da più o meno tempo. Da costoro venne il nucleo iniziale dei fedeli soprannumerari dell’Opera. I primi tre, già citati, e cioè Tomàs Alvira, Victor Garda Hoz e Mariano Navarro Rubio, che non erano potuti entrare prima nell’Opera per mancanza di una base nor­mativa, lo fecero il 21 ottobre del 1948180.

5. L’approvazione definitiva dell’Opus Dei (1950)

Tutte le attività apostoliche dell’Opus Dei si erano moltiplicate negli ultimi anni. Aumentava il numero dei fedeli dell’Opera e quello dei sacerdoti numerari; au­mentavano i Centri di Studi, le Residenze universitarie e le case di ritiri, che cominciavano a sorgere anche fuori dalla Spagna. Nel 1950 i Centri dell’Opus Dei in Spa­gna erano circa cento e altri ve n’erano in Portogallo, Italia, Inghilterra, Francia, Stati Uniti, Messico...181.

Il Papa seguiva lo sviluppo dell’Opera attraverso i suoi collaboratori più vicini. Nella terza udienza che gli concesse Pio XII, il 28 gennaio 1949, il Fondatore gli parlò della diffusione dell’Opus Dei e gli regalò una scelta di pubblicazioni di fedeli dell’Opera. Erano libri e articoli scientifici dei più svariati settori del sapere182.

Il Fondatore, nella sua umiltà, sapeva di essere già Pa­dre di un popolo che si moltiplicava e si estendeva in tutti i continenti. Se ne rendevano conto anche i suoi fi­gli, nei quali cresceva la comprensione del significato storico della figura del Fondatore.

Don Josemaria contemplava la generosità del Signore, che colmava di doni l’Opus Dei. In particolare lo ringra­ziava per le tante persone che in tanti Paesi e città trova­vano la propria strada nell’Opera.

«In Italia - scriveva ai suoi figli del Messico - la no­stra famiglia aumenta in modo prodigioso. E meravi­gliosa l’azione della grazia di Dio. Mi aspetto in Mes­sico fecondità e rapidità ancora maggiori. Si prega

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molto per voi e l’orazione è onnipotente. Quanto vi in­vidio, perché per primi avete messo piede in quella ter­ra benedetta!

(...) José Luis (Muzquiz) parte giovedì prossimo per New York. Mi immagino l’impazienza e la gioia di José Maria Barredo. Da ogni parte giungono buone notizie e da ogni parte arrivano lettere piene di meraviglia. Si no­ta l’azione del Signore»183.

L’anno 1949 trascorreva pieno di lavoro e di viaggi apostolici e vedeva arrivare una vera marea di nuovi nu­merari e soprannumerari. L’approvazione della Santa Sede e il regime universale del quale l’Opus Dei venne dotato con il Decretum laudis del 1947, ne facilitarono la crescita e l’espansione in altri Paesi. Eppure, l’appro­vazione pontificia e la buona accoglienza tributata a Roma al Fondatore, invece di mettere a tacere le insi­nuazioni, ebbero il risultato di attivare anche in Italia la opposizione dei buoni. Man mano che l’Opus Dei otte­neva nuove approvazioni ecclesiastiche, la campagna denigratoria, invece di calmarsi, prendeva nuovo vigore. Eminenti personaggi della Curia romana, persone di grande esperienza, consigliarono don Josemarìa di tene­re un basso profilo finché fosse passata la burrasca, mettendo in pratica un saggio proverbio: “Bisogna fare il morto per non essere ammazzato” 184. Evidentemente essi ignoravano che non si trattava di una burrasca pas­seggera. Prometteva di durare a lungo.

L’Opera contava già vent’anni di esistenza e altrettan­ti di incomprensioni. Nel 1949 il Fondatore si sfogava così con i suoi figli:

«Dalla fine del 1947, proprio quando stavamo pen­sando che sarebbero cessate, sono spuntate altre calun­nie gravi, continue, organizzate. Calunnie poi rilanciate- era quello che si proponeva chi le ha propalate - dai Tiri e dai Troiani. Quanto volte ho sentito dire, più o meno, ecce somniator venti! Ecco che viene il sognato­re: neutralizziamolo, eliminiamolo»185.

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Ed ecco la spiegazione:«Intanto l’apostolato delPOpus Dei si intensifica e si

diffonde fino a diventare (quante volte ve l’ho detto!), un mare senza sponde, una realtà meravigliosa, universale (...). Il Signore ci ha benedetti con tanti frutti di santità e di apostolato, che hanno indotto qualcuno a considerare la nostra vita di donazione a Dio come un affronto per loro, anche se contro di noi non hanno potuto provare alcuna accusa: perché erano solo pettegolezzi messi in gi­ro dai ‘buoni’ e rilanciati poi dagli sciocchi.

Questi attacchi crudeli e queste stupide calunnie, che non sono mai cessati da diversi anni a questa parte, crollano a terra da soli, sotto il proprio peso, perché so­no polvere e fango sollevati e scagliati da persone che sembrano abbandonate a se stesse da Dio.

Questi fatti mi riempiono di profonda gioia e di gran­de serenità perché, come vi ho detto altre volte, le cam­pagne di calunnie contro l’Opera non fanno altro che confermare che stiamo lavorando con efficacia al servi­zio della Chiesa, come strumenti di unità, di compren­sione, di convivenza tra gli uomini, e che ci sforziamo di difendere la pace e la gioia a vantaggio di tutti»186.

Egli scriveva queste frasi nel dicembre 1949, ragio­nando ad alta voce con i suoi figli. Infatti, scriveva espli­citamente: «In questa lettera, figlie e figli miei, mi pro­pongo di spiegarvi perché stiamo preparando l’approvazione definitiva dell’Opera»187.

Una diceria che circolava in quel periodo era che l’O- pus Dei aveva ricevuto un’approvazione pontificia di carattere provvisorio e che non avrebbe ottenuto quella definitiva188. Il Fondatore soppesò con estrema pruden­za i prò e contro della decisione di percorrere l’ultima tappa dell’iter giuridico. Quali vantaggi si attendeva dall’approvazione definitiva?

«L’approvazione definitiva, figlie e figli miei, ci darà una nuova stabilità, un’arma di difesa, faciliterà la no­stra attività apostolica; verranno riaffermati i princìpi

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fondamentali dell’Opera: la secolarità, la santificazione del lavoro, il fatto che siamo comuni cittadini e soprat­tutto, sul versante più spirituale, la nostra convinzione di essere figli di Dio»189.

Ma tutto a questo mondo ha il suo prezzo o il suo ri­schio: in questo caso, dover passare per le strettoie di una nuova procedura e far riesaminare tutti i documenti costi- tuzionali dell’Opus Dei dai consultori, che non sempre ave­vano le idee chiare sulla secolarità. Questo avrebbe obbli­gato don Josemaria a fare concessioni, per adeguarsi alla canonistica vigente: «Imposteranno l’esame come hanno fatto per il Decretum laudis: altrimenti non passiamo»190.

Si ritornava al nocciolo della questione. Come armoniz­zare i due opposti orientamenti presenti nella lex degli Isti­tuti Secolari: quello della genuina secolarità e quello mo­dellato sullo spirito della vita religiosa? Fin dall’inizio c’era stato uno slittamento degli Istituti secolari verso la vita reli­giosa. Questa tendenza aumentò con il passare del tempo, il che spiega l’allarme del Fondatore e la sua tenacia nel di­fendere il carisma fondazionale. Non era disposto a dilapi­dare un’eredità, lo spirito dell’Opus Dei, ricevuta diretta- mente da Dio. Non poteva cedere su niente che potesse compromettere irrimediabilmente la sostanza dello spirito, perché non gli apparteneva. La linea da seguire per rag­giungere un compromesso con la Curia e ottenere l’appro­vazione definitiva era ben chiara nella sua mente:

«Senza mancare alla verità - scriveva ai suoi figli - con la Curia romana dobbiamo comportarci in questo modo: obbedire sempre, ma affermare lo spirito dell’O­pera, per difenderlo; concedere senza cedere, con l’in­tenzione di ricuperare. Ci dobbiamo comportare così, perché ci siamo accorti fin dall’inizio che la Provida Mater Ecclesia non è adatta per il nostro cammino, ma cercheremo, con le nostre poche forze e per una ragione di lealtà, che sia applicata alle diverse istituzioni senza deformarla. In seguito verrà il momento di chiarire tas­sativamente la nostra realtà»191.

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Presa la decisione di chiedere e ottenere l’approvazio­ne definitiva, l’i l febbraio 1950, tre anni dopo il Decre- tum laudis, il Fondatore presentò alla Santa Sede, insie­me al Diritto particolare, una relazione sullo stato e lo sviluppo dell’Opus Dei. La richiesta era avallata da cen­todieci lettere commendatizie di Vescovi di varie nazio­ni, fra cui dodici Cardinali e ventisei Arcivescovi192. Do­po un attento e minuzioso esame dei documenti, la Commissione competente della Sacra Congregàzione dei Religiosi diede all’unanimità parere favorevolèy al­l’approvazione. Questo parere passò poi al Congresso Plenario del 1° aprile, presieduto dal Cardinale Lavora­no, che lo ratificò. Tuttavia, per quanto concerne il Di­ritto particolare, il cui articolato era stato ampliato, fu chiesto al Fondatore di presentarsi personalmente al Congresso per fornire chiarimenti, data la novità della figura giuridica degli Istituti Secolari193. È probabile che il richiamo alla novità avesse in sottofondo le vecchie incomprensioni. L’approvazione rimase dunque in so­speso e rinviata in vista di un ulteriore esame.

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Pochi giorni prima ci fu un anniversario che ebbe un’eco silenziosa nell’animo del Fondatore. Il 28 marzo era il 25° anniversario della sua ordinazione sacerdota­le. Volendo celebrare nelPintimità questa festa di fami­glia, egli scrisse a tutti i suoi figli:«Roma, 8 marzo 1950.Gesù mi protegga i miei figli.Carissimi, si avvicina la data della mie nozze d’argento sacerdotali. Desidero trascorrerla in silenzio, senza chiasso. Perciò, se volete dare una gioia a questo povero peccatore, vi sarò grato se soprattutto quel giorno chie­derete al Signore, attraverso il Cuore Immacolato di sua Madre, che mi aiuti a essere buono e fedele. Se poi riu­scirete a ottenere, dalle vostre famiglie di origine o da

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qualche amico, un’elemosina, piccola o grande, per le nostre case di Roma, la mia gioia sarà completa.La benedizione di vostro Padre

Mariano»194.Dovevano stare davvero molto male quanto a denaro,

se il Fondatore era costretto a mendicare per lettera un’e­lemosina dai propri figli. Comunque, la data fu festeg­giata in modo splendido. In oratorio c’era un’aria di fe­sta. La bellezza dei fiori disposti sull’altare, la dignità dei paramenti di cui il Padre si rivestì, e il calice, predisposto per l’occasione, dimostravano l’affetto delle sue figlie e dei suoi figli. Egli passò lunghe ore in tertulia con tutti quelli che stavano a Roma, riuniti a Villa Tevere per far­gli gli auguri. Più tardi stette a lungo con le sue figlie. Gli si affollavano alla mente i ricordi. Suo padre era morto nel 1924, quattro mesi prima dell’ordinazione del figlio, e non aveva avuto la gioia di assistervi. Della sua prima Messa, celebrata il 30 marzo nella Santa Cappella del Pi- lar, aveva ricordi agrodolci, per la dolente presenza di sua madre, che aveva assistito in lutto alla Messa in suf­fragio del marito. Poi, la precipitosa partenza per Perdi- guera... Nonostante tutto, disse alle sue figlie, era un an­niversario felice, anche perché privo dei contraccolpi o delle contrarietà che, nella sua vita di sacerdote, non gli erano mai mancati, proprio nei giorni di festa195.

In realtà, la giornata era stata un brevissimo intervallo di pace e di gioia, perché il Padre stava preparandosi a un duro sacrificio, paragonabile ai due momenti angosciosi del passato in cui aveva subito la prova crudele: dover ac­cettare di rinunciare all’Opera, lacerandosi l’anima. La prima volta durante gli esercizi spirituali dai Redentoristi di via Manuel Silvela, a Madrid, nel giugno 1933; la se­conda a La Granja, in una giornata triste e piovosa del set­tembre 1941, mentre celebrava la Messa nella Collegiata.

Il 28 marzo 1950, giorno delle nozze d’argento sacer­dotali, era stato per don Josemaria “un giorno felice, senza nubi” 196. Ma i suoi figli non sapevano che era sul

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punto di lasciarli. Si attendeva di giorno in giorno che il Congresso plenario della Curia si riunisse e sancisse l’approvazione definitiva dell’Opus Dei. Il Fondatore pensava che sarebbe stato il momento propizio per la­sciare che l’Opus Dei procedesse per la sua strada affi­dato esclusivamente a Dio. Il sacrificio richiestogli non era, certamente, altrettanto duro quanto le prove crude­li, poiché era sicuro che il Signore avrebbe portato avan­ti la Sua Opera; ma non per questo era meno doloroso, dato che se lo stava proponendo da molti mesi, come raccontò in seguito egli stesso:

«Ero deciso - e quanto mi costava! - a lasciare l’Opus Dei, pensando che avrebbe ormai potuto camminare da solo, per dedicarmi esclusivamente a creare un’altra as­sociazione, destinata ai miei fratelli sacerdoti diocesani.

Avevo sempre avuto a cuore i sacerdoti secolari, ai quali ho dedicato tanto tempo, sin da prima di arrivare al presbiterato, quando fui nominato Superiore del Se­minario di S. Carlo a Saragozza; e ho dedicato molte ore a confessarli e a visitarli in tante scorribande apo­stoliche in Spagna, finché sono venuto a Roma. Negli anni 1948 e 1949 la preoccupazione per loro mi martel­lava nel cuore con grande insistenza»197.

Questo suo amore era stato scandito dalle notti pas­sate in preghiera nella chiesa di S. Carlo parlando, da solo con Gesù, del cammino interiore dei seminaristi che il Cardinale Soldevila gli aveva affidato nominando­lo Superiore; dai tentativi di portare con sé a fare apo­stolato i sacerdoti ospiti della residenza di via Larra; dall’impegno per reinserire nell’ovile, dopo essere anda­to a cercarle, alcune pecore sviate. E come dimenticare il sacrificio della signora Dolores, alle cui preghiere aveva affidato il lavoro con i sacerdoti diocesani e che era morta a Madrid mentre egli, a Lerida, teneva loro un corso di esercizi spirituali? La notizia della sua morte gli era giunta proprio mentre finiva di parlare loro del ruo­lo indispensabile che svolge la madre di ogni sacerdote.

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Quanta solitudine e amarezza aveva visto nelle anime di molti sacerdoti! Una volta ne era andato a cercare uno, durante gli esercizi, vincendone la ritrosia, e aveva scoperto l’immensa solitudine in cui si trovava per una terribile calunnia che gli si era abbattuta addosso. «E i nostri confratelli che le stanno vicino - gli aveva chiesto don Josemaria - non le fanno compagnia?». “Mi faccio compagnia da solo” , gli aveva risposto198. Don Jose­maria si era commosso e gli aveva baciato le mani, per­ché sapesse che non sarebbe più stato solo con se stesso.

Ben pochi conoscevano la decisione del Fondatore di lasciare l’Opera per amore dei sacerdoti: soltanto don Àlvaro, i fratelli Carmen e Santiago, i membri del Con­siglio Generale e pochi altri. Quando il Padre lo comu­nicò a Nisa e a Encarnita, chiedendo loro di pregare e di tacere, quest’ultima dice che rimasero “paralizzate dalla notizia” 199.

Quattro giorni dopo l’anniversario della sua ordina­zione sacerdotale, nonostante gli avessero assicurato che l’approvazione dell’Opera da parte del Congresso Plenario del 1° aprile era scontata, il Fondatore ricevette invece l’inattesa notizia del rinvio. Il dilata comportava la possibilità di una lunga attesa.

Per abbreviarla e anche a scarico della propria co­scienza, il 3 maggio 1950 il Fondatore chiese per iscritto alla Sacra Congregazione dei Religiosi quali osservazio­ni fossero state fatte al Diritto particolare dell’Opus Dei in seno alla Commissione. Ottenuta risposta, si mise a rivedere alcuni articoli. Il ritardo fu provvidenziale, per­ché «uno dei grandi beni ottenuti grazie a quel ritardo - disse il Fondatore - fu la soluzione giuridica per i nostri sacerdoti Aggregati e Soprannumerari»200.

Provvidenzialmente, non fu dunque necessario che, con grande dolore suo e di tutti i membri, lasciasse l’O- pus Dei, come era pronto a fare:

«Ma Dio non volle e mi liberò, con la sua mano mise­ricordiosa e affettuosa di Padre, dal grande sacrificio,

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che mi accingevo a fare, di lasciare l’Opus Dei. Avevo informato ufficiosamente la Santa Sede della mia inten­zione, come sapete, ma poi vidi con chiarezza che non c’era bisogno di una nuova fondazione, di una nuova associazione, dato che anche i sacerdoti diocesani ci sta­vano perfettamente nella nostra Opera»201.

«Ci stanno, ci stanno!», ripeteva con grande gioia don Josemaria202. La vocazione dei sacerdoti si inquadrava perfettamente nello spirito e nella struttura giuridica del­l’Opus Dei. Era forse mai possibile lasciarli fuori quando si dedicava a predicare con tanto impegno la chiamata universale alla santità? Quanto insisteva il Fondatore sul fatto che le circostanze della vita professionale del cri­stiano, del suo lavoro ordinario, portano all’incontro con Cristo, a una vita contemplativa lungo tutta la gior­nata! E, per il sacerdote, l’esercizio del suo ministero non è forse un lavoro professionale, santificarle?203. La vo­cazione permetteva ai sacerdoti diocesani di condurre la stessa vita contemplativa degli altri fedeli dell’Opus Dei, compiendo con amore il proprio ministero.

Il Signore mostrò al Fondatore il modo specifico in cui i sacerdoti incardinati nelle diocesi potevano vinco­larsi all’Opus Dei, evitando qualsiasi lesione della loro dipendenza giuridica dagli Ordinari204. La soluzione consisteva nel fatto che chi aveva vocazione all’Opera sarebbe potuto essere ascritto come socio Aggregato o Soprannumerario alla Società Sacerdotale della Santa Croce. Caratteristica peculiare dello spirito dell’Opus Dei è di non distogliere nessuno dal lavoro o dallo stato in cui si trova. Nel caso dei sacerdoti diocesani, viene rafforzata sia l’unione con il resto del clero della diocesi, sia l’obbedienza al proprio Vescovo, di cui ognuno resta a completa disposizione.

Sulla base di queste idee, il Padre compose uno Statu­to concernente i soci sacerdoti diocesani della Società Sacerdotale della Santa feroce. Il 2 giugno 1950, quan­do inviò alla Sacra Congregazione dei Religiosi una no­

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ta di chiarimento sulle questioni che avevano ritardato l ’approvazione definitiva, vi allegò questo Statuto205.

* * *

All’inizio di giugno del 1950 i consultori ripresero il lo­ro lavoro con un diligente esame dei documenti presen­tati dal Fondatore a chiarimento di alcuni punti. Il loro parere favorevole fu ratificato il 28 giugno dal Cardina­le Lavitrano. Il Decreto di approvazione definitiva - Pri- mum inter - fu datato 16 giugno 1950, per esplicito de­siderio del Fondatore206.

Il testo del decreto è ampio. Il preambolo contiene una breve spiegazione storica, seguita - “perché non sia possibile alcun dubbio in futuro” - da una rassegna del­le caratteristiche specifiche dell’Opus Dei circa natura, membri, apostolato, spirito e regime. Dopo questa pa­noramica, il decreto conclude che sia l’Opus Dei che il suo Diritto particolare “ si possono ritenere attentamen­te esaminati sotto tutti gli aspetti, come consta con tutta chiarezza e fondamento” . Di conseguenza, in virtù delle facoltà concesse da Sua Santità Pio XII, “si approvano definitivamente” la Società Sacerdotale della Santa Cro­ce e Opus Dei, come pure il suo Codex207.

Il Diritto particolare inglobava la normativa più re­cente riguardo l’ascrizione di membri soprannumerari e dei soci sacerdoti diocesani. Inoltre, al testo ufficiale del Codex consegnato al Fondatore era unita una lettera della Sacra Congregazione, del 2 agosto 1950. Questo documento concedeva al Fondatore speciali facoltà, e cioè di “proporre modifiche, chiarimenti e aggiunte complementari, se ritenute convenienti e utili, per qua­lunque motivo, all’evoluzione e alle necessità dell’istitu­to e per la sua espansione e il suo slancio apostolico”208.

A questo punto, lo sviluppo istituzionale dell’Opus Dei sembrava completato. In realtà si trattava soltanto di una tappa in un processo storico. Era, indubbiamen­

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te, un importante progresso, del quale il Fondatore era molto contento. Ma, oltre gli accordi raggiunti fra il Fondatore e alcuni consultori della Sacra Congregazio­ne, c’era ancora una volta il problema della salvaguar­dia dello spirito fondazionale209.

Facendo un bilancio dei vantaggi ottenuti, così egli scriveva ai suoi figli:

«In primo luogo devo dirvi che con la approvazione definitiva potreste magari pensare che siamo caduti dal­la padella nella brace. Non è così; benché prevediamo non poche difficoltà, il bene che ci attendiamo dall’ap­provazione definitiva è grande. Non rappresenta un al­tro passo, ma un grande passo in avanti.

E fuor di dubbio che avremo maggiore stabilità di fronte alle riattizzate incomprensioni; perché, all’inter­no dell’Opera, nell’ambito della stessa e unica vocazio­ne, è stata definita molto meglio la situazione degli Ag­gregati e dei Soprannumerari; perché è stato raggiunto il grande obiettivo di far entrare nell’Opera i sacerdoti diocesani; perché abbiamo potuto proclamare in modo più solenne la nostra secolarità e assicurare meglio il no­stro spirito specifico; perché i nostri beni, come ho so­stenuto fin da principio, non sono ecclesiastici.

Se le difficoltà prevedibili - minori dei vantaggi che ci attendiamo, per servire meglio la Chiesa - ci dovessero costringere a chiedere presto una soluzione nuova, poi­ché vi ho già spiegato che abbiamo concesso con l’inten­zione di ricuperare, allora pregate, pregate molto (...).

Sarà necessario, infatti, cercare una nuova soluzione giuridica: perché se cercheranno di considerarci uguali ai religiosi o persone equiparate, come hanno già tenta­to di fare, dovremo confermare che non ci sta bene que­sto corsetto di ferro: abbiamo bisogno di maggiore ela­sticità, per servire Dio come Lui vuole»210.

Insomma, don Josemaria si riservava il diritto di ri­proporre alla Santa Sede la questione istituzionale quan­do fosse giunto il momento opportuno.

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NOTE AL CAPITOLO XVII

1 «E obbedire al Papa, fin nelle cose più piccole, significa amarlo. E amare il Santo Padre significa amare Cristo e sua Madre, la nostra Santissima Ma­dre, Maria. E noi aspiriamo solo a questo: poiché li amiamo, vogliamo om- nes cum Petro, ad lesum per Mariam» (Appunti, n. 110, del 17-XI-1930).2 Cfr ibidem, n. 422, del 29-XI-1931.3 Ibidem, n. 220, del 10-VIII-1931.4 Lettera ai suoi figli del Consiglio Generale, da Roma, in EF-480603-1. Alberto Martìnez Fausset, che abitava in piazza della Città Leonina dai primi giorni del febbraio 1947, riferisce che “più di una volta, dopo cena, scendevamo con il Padre in piazza S. Pietro, spesso a quell’ora quasi deser­ta, e recitavamo il Credo, passeggiando davanti alla basilica chiusa. Recita­va il Credo in modo fermo (...) e quando arrivava a ‘credo la Chiesa, una, santa, cattolica, apostolica, romana’, ripeteva tre volte ‘romana’, quasi per sottolineare la sua fede nel Vicario di Cristo” (Relazione sulla permanenza del Fondatore dell’Opus Dei nell’appartamento di piazza della Città Leoni­na (1947), in RHF, D-15442). Da qui in avanti il luogo di partenza delle lettere del Fondatore sarà indicato solo se diverso da Roma.5 Relazione di una conversazione del Fondatore dell’Opus Dei con mons. Casimiro Mordilo (1940/41), scritta in data 9-VI-1948, in RHF, D-15011. Sull’evoluzione e la crescita dell’amore per la Chiesa e per il Papa, egli scrisse, nel 1949: «A Roma ho trovato tanta gente buona, tanti sacerdoti santi, tanti ecclesiastici illustri e dotti: perciò non posso condividere un modo di dire che mi suona come un aforisma antipatico: ‘Roma veduta, fe­de perduta’. Potrei piuttosto correggerlo, dicendo: ‘Roma veduta, fede tu­ta3. E cresciuto in me l’amore per la Chiesa. Adesso ho un amore più teolo­gico per la Chiesa e per il Papa, forse meno sentimentale, ma più forte, più vero» (Lettera 8-XII-1949, n. 10).Ricorda ancora Alberto Martìnez Fausset che nel marzo o aprile 1947, du­rante una visita in Vaticano, entrò con il Padre e don Àlvaro nella Loggia delle Benedizioni, dove c’è un trono sul quale si siede il Papa durante le

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udienze. La sala era vuota e il Padre, avvicinatosi al trono, baciò “con grandissima devozione e, in pari tempo, con molta semplicità uno dei brac­cioli su cui il Santo Padre era solito appoggiare la mano” (Relazione citata, in RHF, D-15442).6 Lettera di don Àlvaro del Portillo, Roma, 27-111-1946.7 Ibidem.8 Lettera ai suoi figli del Consiglio Generale, in EF-460630-2.9 Cfr Àlvaro del Portillo, Sum. 825. In una delle sue lettere, il Fondatore ri­portò una frase del Cardinale Tedeschini: “È inutile che facciate miracoli al­trove; è qui, a Roma, che vi dovete muovere” (Lettera 8-XII-1949, n. 11).10 Cfr Lettere ai suoi figli di Roma, da Madrid, in EF-461004-1, EF- 461025-1, EF-461031-1.11 Diario del centro di Città Leonina, 24-XI-1946, AGP, Sez. N, 3 leg. 426-19.12 Ibidem, 29-XI-1946, 426-20. “Il Padre scartava molte delle case che ve­devamo, soprattutto perché, non avendo terreno disponibile, non erano adatte per diventare la sede centrale”, testimonia Ignacio Sallent. Il Padre aveva ben presenti le difficoltà finanziarie che avrebbe avuto, ma si attene­va strettamente, nella ricerca, ai requisiti di abitabilità, di rappresentanza, di possibilità di ampliamento, di ubicazione, ecc., che giudicava necessari. Confidando nella Provvidenza, diceva che “non poteva permettersi di ri­solvere le cose nel modo più facile, perché poi chi sarebbe venuto dopo di lui si sarebbe dovuto sobbarcare l’onere di risolverle di nuovo” (Ignacio Sallent, RHF, T-06008, p. 13).13 Lettera ai suoi figli del Consiglio Generale, EF-461216-2.14 Lettera alle sue figlie dell’Assessorato Centrale, in EF-470101-1.15 Lettera ai suoi figli del Consiglio Generale, in EF-470117-2.16 Lettera ai suoi figli del Consiglio Generale, in EF-470131-2.17 Lettera, in EF-470207-2. La duchessa Sforza Cesarmi - racconta mons. Àlvaro del Portillo - conosceva già il Fondatore. Aveva una casa fuori Ro­ma che, a parte il prezzo, di cui non si era ancora parlato, non poteva sér- vire come sede centrale a motivo della sua ubicazione. Tuttavia la duchessa fu così impressionata dalla fede del Fondatore che decise di aiutarlo nella ricerca della casa. Cfr Sum. 825.18 Ibidem.19 Diario del Centro di Città Leonina, 9-II-1947, AGP, Sez. N, 3 leg. 426-20.20 Àlvaro del Portillo, Sum. 626.21 Diario del Centro di Città Leonina, 8-IH-1947, AGP, Sez. N, 3 leg. 426-20.22 Lettera, in EF-470327-2.23 Lettera, in EF-470410-1.24 Àlvaro del Portillo, Sum. 826.25 Lettera ai suoi figli del Consiglio Generale, in EF-470709-2.26 Cfr Dorita Calvo, RHF, T-04906. Fu celebrata la santa Messa e lasciato il Signore nel tabernacolo del Pensionato il 25 luglio 1947, lo stesso giorno in cui il Padre partì in aereo per Madrid. Cfr Xavier de Silió Gómez-Carce- do, RHF, T-06135, p. 2.27 Cfr Àlvaro del Portillo, Sum. 826; Julia Bustillo Hurtado, RHF, T- 04898, p. 7.

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28 Cfr Francisco Monzó Romualdo, RHF, T-03700, p. 6. Per l’uso e il si­gnificato del termine “Amministrazione”, cfr voi. II, cap. XIV, 2 (NdC).29 “La casa - nella descrizione di Encarnación Ortega - aveva un piccolo ve­stibolo, di circa due metri e mezzo per quattro. Subito dopo veniva un sa- lottino, dove c’erano un divano e due poltrone foderate per renderle presen­tabili. Se si guastavano le fodere dei braccioli, la sera le toglievamo, le cucivamo e le pulivamo e, il giorno successivo, erano di nuovo in ottimo stato. C’erano anche un’antica consolle, un tavolino basso e diverse sedie. Poi c’erano la stanza della direzione, che all’inizio fu utilizzata da nostro Pa­dre e, mi sembra, altre due camere da letto e due bagni. Questo era il piano terreno, dove c’era anche un piccolo oratorio. Di sopra c’era la sala da pranzo della Residenza e il resto era dell’Amministrazione: una camera con un solo letto (le altre Numerarie dormivano per terra); un bagno che serviva da lavanderia; la stireria, che serviva anche come soggiorno; la cucina; una stanza con bagno per le Numerarie Ausiliarie e un’altra nel sottotetto alla quale si arrivava mediante una scala portatile e dove si custodivano le vali­gie, si preparavano le borse della biancheria, ecc.; bisognava lavorare sedu­te, perché la stanza era alta circa un metro e mezzo. In seguito, sfruttando un cortile, furono ricavati un oratorio un po’ più grande e un soggiorno al piano terra e, al piano di sopra, una nuova cucina, una sala da pranzo e un’altra camera da letto per la Residenza” (RHF, T-05074, p. 115).30 Victoria Lopez-Amo, RHF, T-05448. Indipendentemente dalla scarsità di spazio, la pulizia e l’ordine davano al Pensionato un tono dignitoso e gradevole. Il Fondatore, per insegnare a non confondere «la povertà con il pauperismo e con la sporcizia» (Lettera 24-XII-1951, n. 187), raccontava un episodio accaduto nel Pensionato pochi giorni dopo che vi si era siste­mata l’Amministrazione: «L’ex proprietario della villa venne a trovarci po­chi giorni dopo che eravamo entrati nella proprietà, per definire alcune questioni in sospeso, fra cui il pagamento del prezzo pattuito, che ci erava­mo impegnati a saldare in due mesi confidando che Dio avrebbe provvedu­to; lo ricevette un vostro fratello. Allora abitavamo tutti nel piccolo edifi­cio della portineria, dove pure aveva abitato l’ex proprietario, che ora ci veniva a trovare. Quel signore entrò nel salottino e, al vostro fratello che venne a riceverlo, domandò, guardando per terra: “Avete cambiato il pavi­mento?” E quegli gli rispose: “No, è lo stesso, ma pulito” . Le piastrelle sembravano diverse e l’ex proprietario non voleva crederci. Questi sono i miracoli che fanno l’acqua e la pulizia - che sono anche una buona morti­ficazione - perché un pavimento antipatico, trascurato e incolore, era di­ventato un pavimento di piastrelle multicolori, molto gradevole» (ibidem).31 Rosalia Lopez Martinez, RHF, T-07918, 2, 2, 7. Encarnita Ortega ag­giunge che “sicuramente al Padre fece impressione la povertà di quel prese­pe e decise di darcene uno migliore non appena fosse stato possibile. Un giorno del 1948 venne con un grosso pacco: era un presepe napoletano bellissimo, anche se gli abiti delle varie figure erano in cattivo stato” (RHF, T-05074, p. 120).32 Lettera ai suoi figli del Consiglio Generale, in EF-470717-2.33 Lettera alle sue figlie dell’Assessorato Centrale, in EF-470709-1.

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34 Lettera alle sue figlie di Roma, da Molinoviejo, in EF-470729-1.35 Lettera ai suoi figli del Consiglio Generale, in EF-471218-1; cfr pure Lettera a José Maria Hernàndez Gamica, in EF-471218-5.36 Lettera, in EF-480204-1. - Nel testo il proverbio spagnolo citato è A Dios rogando y con el mazo dando (pregando Dio e dandosi da fare); il proverbio italiano utilizzato nella traduzione è quello che più si avvicina al suo significato (NdC).37 Ibidem.38 Ibidem.39 Ibidem. L’automobile fu ritrovata dalla polizia a Napoli, un mese dopo, apparentemente in buone condizioni (cfr Lettera ai suoi figli del Consiglio Generale, in EF-480304-2). Quanto al furto, cfr Ignacio Sallent, RHF, T- 06008, p. 15.40 José Maria Gonzàlez Barredo, che in quei mesi era negli Stati Uniti, in­viò loro alcuni generi alimentari, caffè e farina, che gradirono molto. Il Pa­dre gli espose chiaramente, in due parole, la loro situazione: «Sapessi quante difficoltà, ovunque! Magari potessimo cominciare a risollevarci economicamente, almeno in qualche posto. Il Signore lo farà». Gli scrisse poi dell’imminente ordinazione di tre nuovi sacerdoti dell’Opus Dei affin­ché se ne ricordasse nelle sue preghiere. E concluse: «Anche per questo oc­corrono dollari. È un peccato che non siamo angeli ma, visto che siamo uomini, tutto richiede uno sforzo economico. Il Signore non ci ha mai de­lusi e anche ora non ci deluderà: lo spero, per intercessione della nostra Madre del Cielo. Non ti lamentare della mia scrittura: ho scritto in caratte­ri minuti - doppia mortificazione, perché non ci vedo bene da un occhio - per farci stare più cose» (Lettera a José Maria Gonzàlez Barredo, in EF- 480309-1). Cfr pure Lettera ai suoi figli degli Stati Uniti, in EF-490706-2, circa l’invio di farina, carne, frutta, ecc.41 Lettera ai suoi figli del Consiglio Generale, in EF-480304-2. “Si era alzato alla solita ora - racconta Alvaro del Portillo - e nel prepararsi si rese conto di avere qualcosa di strano in faccia, ma non vi diede importanza. Poi, come sempre, fece la sua mezz’ora di orazione mentale. Ma celebrando la santa Messa si rese conto di parlare con difficoltà e, ancor peggio, che bevendo dal calice non riusciva ad evitare che il liquido gli sfuggisse dalle labbra, e dovet­te aiutarsi con il purificatolo. Alla fine della Messa mi chiamarono. Il medico fece quello che potè, ma è noto che non c’è una cura specifica per questo ma­lanno; non c’è che aspettare che passi, il che accadde dopo alcuni mesi. Nel frattempo, il Padre continuò a lavorare, come se nulla fosse” (Sum. 477); cfr pure Alberto Taboada del Rio, RHF, T-03358, n. 1347.42 Lettera, in EF-480311-2.43 Lettera, in EF-480311-1.44 Lettera ai suoi figli del Consiglio Generale, in EF-480318-1.45 Lettera ad Àlvaro del Portillo e agli altri figli di Roma, da Madrid, ì EF-480408-1. “Faccia storta” è scritto in italiano nel testo (NdC).46 Lettera ad Àlvaro del Portillo e agli altri figli di Roma, da Madrid, ì EF-480413-1.47 Mons. Àngel Herrera Oria, Vescovo di Malaga.

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48 Lettera ad Àlvaro del Portillo e agli altri figli di Roma, da Madrid, in EF-480421-1.49 Cfr Lettera ai suoi figli di Oporto, in EF-480616-6.50 Cfr Lettera a mons. Francesco Ricceri, in EF-480707-1; Lettere ai suoi figli di Roma, da Madrid, in EF-480708-1, e da Coimbra, in EF-481013-1. L’11 ottobre ebbe inizio il processo di beatificazione di Isidoro Zorzano; subito dopo il Fondatore partì per Coimbra (cfr Lettera ad Àlvaro del Por­tillo, da Madrid, in EF-481011-2).51 Lettera ai suoi figli di Roma, da Molinoviejo, in EF-481019-152 Lettera ad Àlvaro del Portillo e agli altri suoi figli d’Italia, da Madrid, in EF-490228-1.53 Cfr Rosalia Lopez Martinez, RHF, T-07918, 3, 2, 3.54 Cfr Victoria Lopez-Amo, RHF, T-05448.55 Cfr Lettera ai suoi figli del Consiglio Generale, in EF-490506-1.56 Cfr Francisco Monzó, RHF, T-03700, p. 1.57 Lettera, in EF-490728-1.58 Lettera ai suoi figli del Consiglio Generale, in EF-490731-1.59 Lettera, in EF-490829-2.60 Ibidem e Lettera ai suoi figli del Consiglio Generale, in EF-490728-1.61 Lettera ai suoi figli del Consiglio Generale, in EF-490818-1.62 Lettera ai suoi figli del Consiglio Generale, in EF-490728-1.63 Lettera a José Maria Hernàndez Gamica, in EF-471127-2.64 Lettera a Carlos Munàrriz Escondrillas, in EF-471218-3.65 Lettera a José Luis Muzquiz, in EF-480318-2.66 Lettera ai suoi figli del Consiglio Generale, in EF-461206-2. Solo una volta, alla fine di febbraio del 1949, dopo la partenza dalla Villa dei fun­zionari ungheresi, espresse il proprio desiderio di tornare a Roma, anche se per breve tempo (cfr Lettera da Madrid, in EF-490228-1).67 Cfr Lettera a mons. Angelo Dell’Acqua, in EF-641014-1.68 Lettera 8-XII-1949, n. 13.69 Ibidem.70 Cfr Àlvaro del Portillo, Sum. 735; Javier Echevarria, Sum. 2214; Joa- qum Alonso, Sum. 4682. Questa situazione durò fino al settembre 1956, poiché nel secondo Congresso Generale dell’Opus Dei, che ebbe luogo a Einsiedeln (Svizzera), fu deciso di portare a Roma il Consiglio Generale (cfr più oltre, cap. XIX, §1).71 Lettera, in EF-470225-2.72 Lettera ai suoi figli del Consiglio Generale, in EF-470307-2. E in un’al­tra occasione, all’Assessorato: «Encarnita vi esporrà con più precisione il nostro punto di vista da qui su alcuni problemi urgenti; ma dovete essere voi, dell’Assessorato, a studiarli sul campo, perché avete più lumi per deci­dere al meglio» (Lettera, in EF-470424-1)73 Lettera alle sue figlie dell’Assessorato Centrale, in EF-470307-174 Lettera ai suoi figli del Consiglio Generale, in EF-470424-2.75 Lettera ai suoi figli del Consiglio Generale, in EF-470207-2. Lo stesso giorno scrisse alle sue figlie dell’Assessorato, chiedendo preghiere per le tre intenzioni (cfr Lettera, in EF-470207-1).

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76 Cfr Lettera ai suoi figli del Consiglio Generale, in EF-471204-177 Lettera ai suoi figli del Consiglio Generale, in EF-480610-1.78 Lettera alle sue figlie dell’Assessorato Centrale, in EF-470312-1.79 Lettera a José Maria Hernàndez Gamica, in EF-471211-1.80 Lettera, in EF-470424-1.81 Cfr Lettera alle sue figlie di Granada, in EF-480218-2.82 Lettera a José Maria Hernàndez Gamica, in EF-471211-1.83 Lettera a José Maria Hernàndez Gamica, in EF-480122-2.84 Lettera a José Maria Hernàndez Gamica, in EF-480129-2. Poco dopo tornò a scrivere: «Tutte le mie figlie si ricordino che non hanno il diritto di inventarsi preoccupazioni e pene: hanno solo motivi di gioia e, perciò, l’obbligo di somigliare alla loro Madre Immacolata, sempre forte e serena accanto a suo Figlio» (Lettera in EF-480218-3).85 Lettera, in EF-470214. Il Padre si serviva delle lettere che gli scrivevano le sue figlie e i suoi figli per ricordarli al Signore, per condividerne gioie e tristezze, e anche per continuarne da lontano la direzione spirituale: «Una delle cose che mi preoccupano, dopo una lettera che ho ricevuto là settima­na scorsa, è che a Los Rosales - e poi anche nelle altre case - tengano pre­sente che il laboratorio non è un fine, ma un mezzo. Pertanto al primo po­sto viene il piano di vita completo, fatto con puntualità, senza ritagliare qua e là per fare i lavori materiali. È chiaro?» (Lettera a José Maria Hernàndez Gamica, in EF-471211-1).86 Lettera alle sue figlie dell’Assessorato Centrale, in EF-470225-1.87 Cfr Lettera alle sue figlie dell’Assessorato Centrale, in EF-470320-1. Dai suggerimenti particolareggiati contenuti nella lettera si deduce che il Padre ricordava molto bene la distribuzione dei locali della casa.- Con il termine “l’Amministrazione di Lagasca” si intende la zona femmi­nile del già citato centro di via Diego de Leon, dal nome della via su cui si sviluppa l’altro lato dell’edificio (NdC).88 Lettera alle sue figlie dell’Assessorato Centrale, in EF-470424-1.89 Lettera a José Maria Hernàndez Gamica, in EF-471211-1.90 Lettera, in EF-470521-1; cfr pure Lettera alle sue figlie dell’Assessorato Centrale, in EF-480311-1.91 II 25-IV-1948 ne furono ordinati tre; altri tre il 6-VT-1948; due il 26-XII- 1948; uno il 4-XI-1948; quattro il 14-XI-1949; uno il 20-VII-1950; venti l’ l-VII-1951; due il 15-VII-1951; otto il 27-VII-1952 (AGP, Pratiche delle Ordinazioni sacerdotali: 660-3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10 e 11).92 Lettera in EF-480218-4.1 tre erano Juan Antonio Gonzàlez Lobato, Je­sus Urteaga Loidi e Adolfo Rodriguez Vidal.93 Lettera ad Àlvaro del Portillo, da Madrid, in EF-490409-1.94 Lettera, in EF-470320-1.95 Lettera, in EF-480421-1.96 Lettera ad Àlvaro del Portillo, da Madrid, in EF-510118-1.97 Lettera a José Maria Hernàndez Gamica, in EF-480603-3.98 Lettera a Pedro Casciaro, in EF-480616-1.99 Fra i primi italiani c’erano: Francesco Angelicchio, Renato Mariani, Lui­gi Tirelli e Mario Lantini (cfr Francesco Angelicchio, Sum. 3505). Il primo

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che chiese l’ammissione a Roma fu Vladimiro Vince, un croato che José Orlandis e Salvador Canals avevano conosciuto durante l’anno accademi­co 1943-44, quando studiavano all’Università del Laterano. Dopo la libe­razione di Roma, per timore dei comunisti croati partigiani di Tito, dovet­te rimanere nascosto fino al 1946. Nell’aprile di quell’anno, mentre don Àlvaro si trovava a Roma, Vladimiro vide con chiarezza che il suo posto era nell’Opera. In seguito, nell’estate del 1946, si trasferì in Spagna (cfr Jo­sé Orlandis, Mis recuerdos..., op. cit., pp. 77-96; e Lettera di Àlvaro del Portillo, Roma, 17-V-1946 (AGP, Sez. Bl, leg. 3, C-460517-1).100 Cfr Decreto di erezione del Collegio Romano della Santa Croce (29-VI- 1948), in Amadeo de Fuenmayor e altri, op. cit., Appendice documentale, doc. 35, pp. 784-785.101 Cfr Lettera ai suoi figli del Consiglio Generale, in EF-480204-1. Mons. Javier Echevarria (Sum. 2194): “Quell’anno vennero a fare i loro studi sol­tanto quattro alunni” .102 Cfr Ignacio Celaya Urrutia, Sum. 5906; Mario Lantini, Sum. 3599 e Jo­sé Luis Muzquiz, Sum. 5811. Nel Pensionato ancora nel 1949 c’erano solo tre brande, per cui alcuni dormivano per terra, a turno. Cfr Juan Larrea Holgum, Sum. 6025.103 Decreto di erezione del Collegio Romano della Santa Croce (29-VI- 1948), in Amadeo de Fuenmayor e altri, op. cit., Appendice documentale, doc. 35, pp. 784-785.104 Lettera ai suoi figli di Roma, da Madrid, in EF-480708-1.105 Lettera, ixi EF-490714-1. Don Àlvaro del Portillo lavorava presso la Sa­cra Congregazione dei Religiosi, nel dipartimento che si occupava degli Isti­tuti Secolari, e anche come Segretario della Commissione Speciale creata dal Santo Padre per i nuovi Istituti (A.A.S., XXXIX (1947), pp. 131-132).106 Mons. del Portillo riferisce che il Fondatore “arrivò in Italia nei mo­menti difficili del dopoguerra e soffrì molto vedendo la situazione di indi­genza materiale e spirituale. Senza immischiarsi in questioni che non erano di sua competenza, pregò molto per la stabilità politica e il risanamento economico della nazione italiana. Il nostro Fondatore si affezionò presto a questa terra e si considerava italiano di adozione” (PR, p. 827).107 Lettera 15-X-1948, n. 29.108 Pio XII, Allocutio Summi Pontificis. Cfr A.A.S., XL (1948), pp. 137-138.109 Lettera 9-1-1932, n. 35; cfr anche Ignacio Celaya, Sum. 5911.110 Luigi Tirelli, RHF, T-06143, p. 781. Mons. Echevarria riferisce: “Ben­ché fosse spagnolo, non si era mai immischiato nelle questioni temporali in Spagna. A maggior ragione e con molta delicatezza si astenne dal manife­stare le proprie opinioni circa la situazione politica italiana. Moltissime volte ebbe a ripetere che era grato per l’ospitalità ricevuta fin dal primo momento in questo Paese e invitava a pregare assieme a lui per la prospe­rità del popolo italiano e per il buon esercizio della cosa pubblica da parte dei governanti” (Sum. 2250).111 Cfr Francesco Angelicchio, Sum. 3509, cui il Fondatore chiese “che gli procurassi la serie completa dei manifesti che il Comitato Civico aveva preparato contro l’astensionismo, per poterli dare a conoscere in altri Pae­

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si” . Sull’importanza delle elezioni del 18 aprile 1948, cfr Federico Orlan­do, 18 aprile: così ci salvammo, Roma 1988.112 Cfr Francesco Angelicchio, PR, p. 304.113 Pio XII, Allocutio, cit., p. 138.114 Alcuni di loro, per esempio, collaborarono ad affiggere manifesti eletto­rali (cfr Francesco Angelicchio, Sum. 3509).115 Lettera, in EF-480318-1.116 Lettera, da Madrid, in EF-480408-1.117 Lettera a mons. Giovanni Battista Montini, da Madrid, in EF-480421-2.118 Ibidem. «Riceva, Eminenza, la mia attestazione di giubilo per il trionfo di Dio in Italia il giorno 18 di questo mese», scriveva da Madrid al Cardi­nale Ildefonso Schuster, Arcivescovo di Milano (Lettera, da Madrid, in EF- 480424-1).119 Cfr Francesco Angelicchio, Sum. 3504.120 Un amore, dunque, più profondo e teologico, aldilà di sentimenti pas­seggeri di entusiasmo o simpatia. Ricordando la sua prima notte a Roma, trascorsa in preghiera davanti alle finestre dell’appartamento del Papa, raccontò: «Poi fui così ingenuo da raccontarlo a una persona - un vecchio Prelato della Curia - e so che lo riferì ad altri e che risero molto di me. In un primo momento, ciò mi fece soffrire; ma in seguito ha fatto sorgere nel mio cuore un amore per il Romano Pontefice meno ‘spagnolo’, che è un amore che sgorga dall’entusiasmo, ma molto più saldo, perché nasce dalla riflessione: più teologico e, quindi, più profondo. Da allora sono solito di­re che a Roma ‘ho perduto l’ingenuità’ e questo episodio è stàto di grande utilità per la mia anima» (Lettera 7-X-1950, n. 19).121 Ibidem, nn. 53 e 54.122 Àlvaro del Portillo, PR, p. 1262.123 Cfr Encarnación Ortega, RHF, T-05074, p. 119; Francesco Angelicchio, Sum. 3505.124 Àlvaro del Portillo, PR, p. 1262.125 Luigi Tirelli, RHF, T-06143, p. 1258.126 Cfr Alberto Taboada, RHF, T-03358, p. 1338.127 Cfr Mario Lantini, PR, p. 471.128 Cfr Juan Bautista Torello, Sum. 5210. Per il Capitano Araha, cfr voi. II, § 4, nota 141.129 Cfr Mario Lantini, PR, p. 519. Nel pomeriggio del 3 gennaio giunsero a Loreto il Padre, don Àlvaro, Salvador Moret e Ignacio Sallent. Fecero l’o­razione nella Santa Casa, all’interno del Santuario. Fuori dal tempio il Pa­dre chiese a don Àlvaro: «Che cos’hai detto alla Vergine?». “Vuole che glielo dica?”, rispose, e all’assenso del Padre: “Ho ripetuto quello che le di­co sempre, ma come se fosse la prima volta. Le ho detto: Ti chiedo quello che Ti chiede il Padre” (AGP, POI 1977, p. 931). Don Jesus Urteaga rac­contò questo episodio durante una meditazione nell’oratorio del Centro di Studi di via Diego de Leon, incoraggiando i presenti a unirsi spesso all’ora­zione del Padre con le medesime parole. «Mi sembra che tu abbia detto una cosa giusta - osservò poi don Josemarìa -. Ripetilo molte volte» (Jesus Urteaga, RHF, T-00423, p. 72).

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130 Cfr Dati del viaggio compiuto dal Fondatore dell’Opus Dei nel Nord d'Italia (11-16 gennaio 1948), in RHF, D-15692.131 Lettera ai suoi figli del Consiglio Generale, in EF-480118-1; cfr anche Lettera ai suoi figli dell’Inghilterra, in EF-480119-3.132 Lettera al Cardinale Ildefonso Schuster (oggi Beato), O.S.B., in EF- 480120-1. Allegata a questa lettera ce n’era un’altra (EF-480120-2), in cui chiedeva il permesso per aprire a Milano una residenza universitaria.133 AGP, Sezione Espansione Apostolica, Italia, fase. 164, n. 513.134 Juan Udaondo, Sum. 5037. Il testimone, che ebbe occasione di parlare diverse volte con il Cardinal Schuster, che era un benedettino, aggiunge che il porporato concluse così le sue espressioni di lode: “A chi potrei parago­nare il vostro Fondatore? A S. Benedetto, per esempio”; Ernesto Julia Diaz (Sum. 4261) riferisce che il Cardinal Schuster definiva mons. Escrivà “un uomo veramente di Dio, chiamato dalla Provvidenza a lasciare per sempre un solco profondo nella spiritualità cristiana” .135 Cfr Lettera a Pedro Casciaro, in EF-480616-1.136 Lettera, in EF-480616-8.137 Cfr Dati del viaggio a Catania (18-23 giugno 1948), in RHF, D-15447.138 Francesco Ricceri, RHF, T-15013, p. 1. Il parroco non prese sul serio quelle parole perché era in un periodo difficile, come testimonia don Àlva­ro del Portillo: “Non godeva le simpatie di persone influenti ed era oggetto di incomprensioni” (Sum. 857). Don Juan Udaondo riferisce che nel 1957, quando don Ricceri era ancora parroco a Catania, “un giorno mi fermò per strada e, facendomi salire sulla sua auto, mi disse: ‘Si è compiuta la profezia del Padre!’. ‘Quale profezia?’, gli chiesi. Mi spiegò che nel 1948 il Padre, durante un viaggio a Catania in compagnia di mons. Umberto Dio- nisi, gli aveva preannunciato che sarebbe diventato vescovo. Proprio quel giorno del 1957, esattamente nove anni dopo, era stata resa pubblica la sua nomina a Vescovo” (Sum. 5109). Mons Francesco Ricceri fu consacra­to nel 1957 e nominato Ordinario della Prelatura nullius di Santa Maria del Mela; nel 1961 fu trasferito alla diocesi di Trapani. Morì il 28 luglio 1980; cfr pure Lettera a mons. Francesco Ricceri, in EF-480707-1.139 Lettera ai suoi figli del Consiglio Generale, in EF-480218-1.140 Ibidem.141 Lettera, in EF-480304-2.142 Lettera ai suoi figli di Roma, da Molinoviejo, in EF-480718-3.143 Cfr Encarnación Ortega, RHF, T-05074, p. 125.144 Cfr ibidem, p. 129.145 Cammino, n. 813.146 Jesus Urteaga, RHF, T-00423, p. 70.147 Cammino, n. 816.148 Encarnación Ortega, RHF, T-05074, p. 126.149 Lettera da Molinoviejo, in EF-480915-1.150 Nella Settimana di Lavoro furono esaminate con calma le esperienze rac­colte negli ultimi anni e riordinato il materiale che il Fondatore, dopo averlo meditato nella sua orazione - testimonia mons. Àlvaro del Portillo - utilizzò poi nel governo dell’Opera (cfr PR, p. 932). Per le precedenti Settimane di

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Lavoro, svoltesi nel 1940, cfr voi. II, cap. XII, §4. Due sacerdoti (don Alvaro e don José Maria Hernàndez Gamica) accompagnarono il Padre alla Setti­mana di Lavoro di Los Rosales e lo aiutarono negli aspetti organizzativi e nell’elaborazione dei verbali. Fra i temi studiati dalle partecipanti vi furono la formazione delle donne dell’Opera, le mete apostoliche, l’espansione in al­tri Paesi, ecc. (cfr Encarnación Ortega, RHF, T-05074, p. 136).151 Luigi Tirelli, RHF, T-06143, p. 1259; cfr pure Mario Lantini, Sum. 3607.152 RHF, AVF, del 6-1-1949.153 Ibidem.154 Cfr Mario Lantini, Sum. 3607; Luigi Tirelli, Sum. 4532; Juan Bautista Torello Barenys, Sum. 5202.155 Fra il gennaio e il giugno 1949 si fecero 76 viaggi. La città più visitata (undici volte) fu Milano. Ben presto vennero le prime vocazioni e furono aperti Centri dell’Opus Dei a Palermo (1949) e Milano (1949); negli anni successivi toccò a Napoli (1952), Catania (1955), Bologna (1956), Verona (1959), Bari (1962), Genova (1971), ecc. Cfr Mario Lantini, Sum. 3607.156 Lettera, da Madrid, inTEF-490228-l; cfr anche: Lettera ai suoi figli del Consiglio Generale, in EF-490614-1.157 Cfr Àlvaro del Portillo, Sum. 557; e Dati del viaggio compiuto dal Fon­datore delVOpus Dei nel Nord d'Italia (11-16 gennaio 1948), in RHF, D- 15692.158 vfctor Garcfa Hoz racconta che cominciò a ricevere direzione spirituale da don Josemaria nell’autunno del 1939: “Passò un lungo periodo, forse più di un anno, senza che il Padre mi parlasse dell’Opus Dei. Mi parlava di un’opera nella quale avrebbero trovato posto tutti i cristiani che aspirava­no alla santità in mezzo al mondo, senza abbandonare i loro doveri fami­liari, professionali o sociali” (RHF, T-01138, p. 12).159 Emiliano Amann Puente, che abitò nella residenza di via Ferraz, nel­l’anno 1935-36 (cfr RHF, T-05845, p. 2), e Vicente Mortes Alfonso, che stette prima in quella di via Jenner e poi nella Moncloa (cfr Miguel Àlvarez Morales, Vicente Mortes, Madrid 1995, pp. 60 e ss.), ne danno testimo­nianza. Fino al 1942, il suo secondo anno nella residenza, Vicente Mortes non aveva capito bene che cosa fosse l’Opus Dei. Ne sentiva parlare e capi­va che si trattava del lavoro apostolico svolto da don Josemaria; poi fece gli esercizi spirituali col Padre e racconta: “In un momento di pausa andai a trovarlo. ‘Padre - gli dissi - sono disposto a tutto’. “A tutto che cosa, fi­glio mio?”, mi rispose. ‘A donarmi a Dio nel modo che Lei mi indicherà’. | Allora mi spiegò che cos’era l’Opus Dei (...). “Startene tranquillo - prose- \ guì -, il matrimonio è un cammino divino. Il Signore vuole che vi siano molti sposi cristiani santi” . Poi soggiunse scherzoso: “Quando sarai più | avanti negli studi, cercati una fidanzata, buona, bella e ricca... e fammi sa-| pere il giorno del tuo matrimonio, perché, se potrò, benedirò io le tue noz-'J ze” . Fui felicissimo di questa conversazione. Passarono gli anni; trovai lai fidanzata, buona, bella, ma... non ricca, e... il Padre non venne alle nozzeJ perché ormai stava a Roma” (RHF, T-04203, p. 15; cfr Miguel Àlvared Morales, op. cit., pp. 78-79). j

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160 Cammino, n. 27. Il Fondatore spiegava così lo stupore di fronte alla possibilità di una vocazione matrimoniale: “Si credeva che la perfezione non fosse accessibile alle anime che rimangono nel mondo e per questo era abituale tra i confessori non iniziare queste anime ai cammini della vita in­teriore, a meno che non avessero dato previamente segni sufficientemente chiari della loro chiamata al chiostro” (Istruzione V-1935 / IX-1950, n. 12).161 “Credo che fu verso il 1942 - racconta Victor Garcia Hoz - che il Padre cominciò a parlarmi della possibilità per qualsiasi cristiano di far parte del- FOpera” (RHF, T-01138, p. 13).162 Cfr Antonio Vàzquez Galiano, Tomàs Alvira. Una passione per la fami­glia. Un maestro dell'educazione. Milano 1999, p. 128; Mariano Navarro Rubio, RHF, T-00170, p. 1. Victor Garcia Hoz racconta: “Ho pensato molte volte al lungo intervallo di tempo intercorso fra quando conobbi il Padre, nel 1939, e la mia formale incorporazione all’Opera, nel 1948. Questi nove anni sono per me la prova della straordinaria pazienza del Pa­dre, come pure del suo squisito rispetto per la libertà personale di coloro che seguiva” (RHF, T-01138, p. 18).163 Lettera ai suoi figli del Consiglio Generale, in EF-471218-1.164 RHF, D-13452, n. 107. In un’altra lettera scrisse: «Vi ho sempre detto chiaramente che nell’Opera c’è una sola e unica vocazione (...). Una sola vocazione divina, un solo fenomeno spirituale, che si adatta con flessibilità alle condizioni personali e allo stato proprio di ciascuno. L’identità di vo­cazione comporta una uguaglianza di dedizione, entro i limiti naturali im­posti dalle diverse condizioni» (Lettera 24-XII-1951, n. 137).165 Lettera a Tomàs Alvira, Victor Garcia Hoz e Mariano Navarro, in EF- 480101-1.166 Lettera a José Maria Hernàndez Gamica, in EF-480129-2.167 Lettera, in EF-480204-1.168 Cfr Costituzioni, 1947, n. 342, 3°; anche n. 347, 3°. Su questo punto, cfr Amadeo de Fuenmayor e altri, op. cit., p. 262.169 Sodales, qui ut membra strictiore sensu sumpta, Institutis adscribi cu- piunt... (Provida Mater Ecclesia, art. Ili, 2). Il fatto che la Costituzione Apostolica non parlasse di membri lato sensu poteva essere interpretato sia come una dimenticanza del legislatore sia come un punto lasciato in sospe­so e suscettibile di diverse interpretazioni, come, per esempio, che vi potes­sero essere persone che collaboravano con l’istituto senza appartenervi. Perché nell’Opus Dei ci stessero i soprannumerari, la cui vocazione divina è la stessa degli altri membri, era necessario dare valore normativo alle possibilità offerte dal testo della Provida, affinché il vincolo avesse un fon­damento chiaro ed esplicito.170 Lettera, in EF-480802-1, riportata in Amadeo de Fuenmayor e altri, op. cit., Appendice documentale, doc. 29, p. 765. La motivazione della richie­sta era che, allo scopo di completare l’ordinamento e la costituzione della Società Sacerdotale della Santa Croce e dell’Opus Dei, «era sembrato mol­to opportuno, anzi, quasi necessario, redigere un breve statuto che trattas­se di un’altra categoria di membri dell’istituto, già prevista agli inizi».

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171 L’approvazione implica l’aggiunta nelle Costituzioni del 1947 dei riferi­menti concernenti i fedeli soprannumerari. I soprannumerari “si dedicano parzialmente al servizio dell’istituto e impiegano come mezzi di santifica­zione e di apostolato le proprie occupazioni familiari e la propria profes­sione o lavoro; (...) vivono lo stesso spirito e, secondo le loro possibilità, le stesse consuetudini dei soci Numerari” (cfr Constitutionibus Operis Dei Addenda, 18-111-1948; in AGP, Sezione giuridica, V/15506). È sorprenden­te che i cambiamenti introdotti nelle Costituzioni del 1947 circa le classi o categorie di membri degli Istituti Secolari siano precedenti alle norme che creano detti Istituti (Istruzione Cum Sanctissimus del 19-111-1948). Proba­bilmente l’istruzione fu datata 19 marzo, festa di S. Giuseppe, come atto di deferenza verso il Fondatore, che festeggiava quel giorno l’onomastico.172 Istruzione, V-1935 / IX-1950, n. 1.173 Istruzione 8-XII-1941, n. 109. Con riferimento all’unica vocazione e alla diversità delle circostanze personali, nel Diritto particolare dell’Opus Dei compariranno i membri Aggregati. Di fatto, tale figura, con un nome diverso, appare nello Statuto del 18-111-1948. U8-IX-1949 il Fondatore ot­tenne un rescritto della Santa Sede che completava lo Statuto del 1948. Al­l’interno dei soprannumerari si distinguevano i soprannumerari interni, che vivevano il celibato come i Numerari (cfr Rescritto della Sacra Congre­gazione dei Religiosi, 9-IX-1949, in Amadeo de Fuenmayor e altri, op. cit., Appendice documentale, doc. 30, pp. 766-767).174 «Le vocazioni di Soprannumerarie e Soprannumerari possono essere promosse e ammesse tra persone di ogni classe sociale, di qualsiasi età e professione, anche se colpite da malattie croniche» (Istruzione V-193S / IX-1950, n. 142).175 All’epoca non erano molti a comprendere le conseguenze della chiamata universale alla santità; lo rileva il Fondatore con una venatura umoristica: «Ci sono persone che, pur con buona volontà, giudicano secondo il detto popolare: ‘Se non è zuppa, è pan bagnato’ e fanno di ogni erba un fascio; una mentalità abituata a unire direttamente santità, apostolato e vita reli­giosa, trova difficoltà a capire ciò che è evidente. Di un professionista, che ha vita interiore e mostra zelo apostolico, diranno che è un frate; di una ma­dre di famiglia, carica di figli, allegra, piena di dedizione, lavoratrice e che fa apostolato, diranno che è una suora» (Lettera 12-XII-1952, n. 16).176 Istruzione 19-111-1934, n. 47. In tutto ciò - riferisce Àlvaro del Portillo- il Fondatore vide, con entusiasmo, il fatto tangibile che “il Signore segui­va da vicino tutti i passi dell’Opus Dei e si impegnava per portarlo avanti” (Sum. 557).177 Cfr Appunti, nota 228. I quadri sinottici furono ricopiati e sono negli Appunti intimi, n. 206, del 15-VII-1931.178 Ibidem.179 Istruzione V-1935 / IX-1950, nn. 8 e 9.180 Cfr Tomàs Alvira, RHF, T-04373, p. 16; Victor Garda Hoz, RHF, T- 01138, p. 18.181 Secondo i dati della relazione presentata alla Santa Sede con la richiesta di approvazione definitiva dell’Opus Dei (cfr AGP, Sezione giuridica, V/15532),

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nel 1946 il numero di fedeli era, in totale, di 268 (239 uomini e 29 donne); all’inizio del 1950 si era passati a 2.954 (2.404 uomini e 550 donne).182 Cfr L'Osservatore Romano, 29-1-1949 e 5-II-1949.1 libri, che prima si dovettero rilegare, furono messi insieme in fretta, perché il Fondatore non si aspettava di avere l’udienza, come spiegò ai membri del Consiglio Gene­rale: «Ho avuto un incontro con il Cardinale Tedeschini, che ci dimostra sempre un sincero affetto. Ho anche parlato con calma con i monsignori Tardini e Montini, che non potrebbero essere più gentili. Il Card. Tedeschi­ni insiste perché faccia visita al Santo Padre; gli ho detto che non pensavo di chiedere udienza, per non togliere al Papa neppure un minuto, dato che i Vescovi del mondo lo vedono soltanto una volta ogni cinque anni. Poiché ha insistito, vi abbiamo fatto la richiesta telegrafica dei libri, nell’eventua­lità che potessero servire» (Lettera, in EF-490114-1).183 Lettera, da Madrid, in EF-490214-1.184 Cfr Àlvaro del Portillo, Sum. 782.185 Lettera 8-XII-1949, n. 4. - L’espressione “dai Tiri e dai Troiani” è for­ma proverbiale spagnola che indica gruppi contrapposti (come “guelfi e ghibellini” ); il senso è che le calunnie venivano da ogni dove, anche da per­sone in disaccordo fra loro, ma unite nell’obiettivo di attaccare l’Opera. L’espressione deriva dal libro IV dell 'Eneide. Nella traduzione italiana di Annibai Caro, a proposito dei popoli di Didone e di Enea, si legge dell’im­possibilità “ ...che due genti diverse, come son Tiri e Troiani, una sola di­venga” . La frase in latino (Ecce somniator venit), presa dal libro della Ge­nesi (37, 19), è pronunciata in tono di disprezzo dai figli di Giacobbe versoil fratello Giuseppe (NdC).186 Ibidem, nn. 6 e 7.187 Ibidem, n. 2.188 Secondo quanto stabiliva la Costituzione Apostolica Provida Mater Ec­clesia, alla approvazione ad experimentum doveva seguire l’approvazione definitiva dell’istituto Secolare e delle sue Costituzioni (cfr Lex peculiaris, art. VII, paragrafo 3).189 Lettera 8-XII-1949, n. 19.190 Ibidem, n. 18. Il Fondatore, citando il Salmo 16, precisava che la sua fi­ducia non era fondata sugli uomini, ma sulla protezione del Signore: «Nel nostro cuore risuona questo grido: sub umbra alarum tuarum protege me, perché all’ombra delle sue ali siamo passati altre volte e passeremo ora, per ottenere l’approvazione definitiva» (ibidem, n. 17).191 Ibidem. Una delle ragioni di maggior peso che lo indussero a chiedere l’approvazione definitiva fu la campagna contro l’Opera, come scrisse po­co sopra: «Anche se la strada degli Istituti Secolari è per noi sbagliata, una strada che non è adatta al nostro modo di essere, ci conviene ottenere quanto prima l’approvazione definitiva (...). Forse questa nuova approva­zione contribuirà a far tacere, o almeno ad attenuare, le campagne di men­zogne organizzate contro di noi» (cfr ibidem, n. 16).192 Cfr AGP, Sezione giuridica, V/15860 e V/15532; anche il Decreto Pri- mum inter, § 3 (16-VI-1950). Su questo argomento cfr Amadeo de Fuen­mayor e altri, op. cit., pp. 298 e ss.

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193 II rinvio parve opportuno, dice testualmente il Decreto Primum inter, perché alcune questioni “sembravano presentare qualche difficoltà, data la novità di questi Istituti” .194 Lettera, in EF-500308-2.195 Cfr Encarnación Ortega, RHF, T-05074, p. 140.196 Ibidem.197 Lettera 24-XII-19S1, n. 3. Gli episodi accennati di seguito nel testo si ritrovano nei due precedenti volumi dell’opera (NdC).198 Per l’episodio cfr cap. XII, § 5. In seguito don Josemarìa aveva redatto una sintetica scheda da usare per la predicazione ai sacerdoti, che dice: «Un sacerdote tribolato, perseguitato, privo della carità dei suoi confratel­li. £Ha qualche consolazione?’. £Mi faccio compagnia da solo!’. Stiamo in­sieme per giocare a carte e ci ignoriamo nelle tribolazioni!» (RHF, AVF- 0079).199 Encarnación Ortega, RHF, T-05074, p. 133. “Se si pensa all’impegno e all’amore prodigati da don Josemarìa nella fondazione dell’Opus Dei - ri­leva mons. Àlvaro del Portillo - si comprende quale sacrificio, simile a quello di Abramo, fosse per lui rinunciare alla creatura alla quale per ispi­razione divina aveva dato vita. Con questo dimostrò ancora una volta la sua disponibilità ad assecondare la Volontà di Dio” (PR, p. 402). Sui senti­menti del Fondatore testimonia Javier Ayala: “Mi parlò allora in confiden­za della grande inquietudine interiore che sentiva da qualche tempo: aveva fatto tanto per portare lo spirito dell’Opus Dei ai laici, uomini e donne, ma non aveva fatto nulla per i suoi confratelli, i sacerdoti diocesani. Soggiunse che il Signore glielo stava chiedendo con forza, tanto che «se non lo faces­si, metterei in pericolo la salvezza della mia anima, o almeno dovrei tra­scorrere molti anni in Purgatorio»” (RHF, T-15712, p. 31). Cfr anche José Luis Muzquiz, Sum. 5823; Mario Lantini, Sum. 3608; Javier Echevarria, Sum. 2472. Il Fondatore, prima di comunicare il suo proposito al Consi­glio Generale, si era consultato con alcune personalità della Santa Sede: «Ho ricevuto buona accoglienza e sostegno da parte di persone estranee al­l’Opera. Qualche alta personalità della Santa Sede mi ha incoraggiato con tutto il cuore: avanti! Ne parlai con i membri del Consiglio Generale e mi confidai anche con Carmen e Santiago, avvisandoli: ‘Se ricominciano nuo­ve ondate di calunnie, non preoccupatevi: sarà perché sto per cominciare una nuova fondazione’» (Lettera 24-XII-1951, n. 3).200 Ibidem. Proprio in quei giorni accadde un fatto che non era una mera coincidenza e che pure giustifica l’affermazione circa i “grandi beni ottenuti grazie a quel ritardo” . Infatti, la Sacra Congregazione del Concilio emise un Decreto in data 22 marzo nel quale negava esplicitamente la secolarità dei membri degli Istituti Secolari, in aperta contraddizione con il Motu proprio Primo feliciter (n. II). Il Decreto, Pluribus ex documentis, fu pubblicato in A.A.S., XLII (1950), pp. 330-331. Cominciava citando la II Lettera di S. Paolo a Timoteo (2, 4): “Nessuno, quando presta servizio militare, si immi­schia nelle faccende della vita comune”. Citava poi il canone 142 del Codi­ce di Diritto Canonico del 1917: “È proibito ai chierici di esercitare, perso­nalmente o tramite altri, l’attività affaristica e commerciale, sia per il

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proprio interesse, sia per quello degli altri” , e poi estendeva la proibizione ai membri degli Istituti Secolari, dicendo testualmente: “Ne exceptis quidem recentium Institutorum Saecularium sodalibus” (A.A.S., XLII (1950), p. 330). In caso di infrazione era comminata nientemeno che la pena della scomunica latae sententiae, riservata espressamente alla Santa Sede. Non esagerava, quindi, il Fondatore quando diceva che i suoi figli correvano il ri­schio che le nuove disposizioni ecclesiastiche li equiparassero alle persone consacrate, pur non essendo altro che comuni cristiani. Perciò nel suo scrit­to del 2 giugno 1950 alla Sacra Congregazione dei Religiosi (del quale si tratta in seguito nel testo) don Josemaria approfittò dell’occasione per chie­dere che al n. 15 del Diritto particolare, nel quale si parla dell’attività pro­fessionale dei fedeli dell’Opus Dei che occupano cariche politiche, svolgono mansioni amministrative, esercitano la docenza, l’avvocatura o professioni simili, ci fosse la seguente aggiunta: aut etiam commercio vel rebus numma- riis operam navant (“possono dedicarsi anche al commercio o ad attività economiche” ). Cfr Lettera alla Sacra Congregazione dei Religiosi, in EF- 500602-1, n. 15. Con l’approvazione definitiva dell’Opus Dei restava chia­ro che i suoi fedeli non erano soggetti alla proibizione del Decreto citato. Sul punto della secolarità l’insistenza del Fondatore era instancabile: «Per questo, in questi ultimi due anni, ho detto quasi gridando alla Sacra Con­gregazione dei Religiosi: siamo persone consacrate solo noi sacerdoti, i chie­rici! Gli altri non sono persone sacre e non sono consacrati così come voi pensate: non sono anime consacrate! Tutti sorridevano: qualcuno capiva ma altri probabilmente non capiranno mai» (RHF, D-13452, n. 178).201 Lettera 24-XII-1951, n. 3.202 Cfr Juan Udaondo, Sum. 5033.203 «Se così si può dire, per i sacerdoti il lavoro professionale, nel quale si devono santificare e mediante il quale devono santificare gli altri, è il sacer­dozio ministeriale del Pane e della Parola: amministrare i Sacramenti, pre­dicare, intervenire nella direzione spirituale dei membri dell’Opus Dei e di molte altre anime, tenere corsi e giornate di ritiro spirituale, ecc.» (Lettera 24-XII-1951, n. 148).204 La questione del vincolo giuridico non si era posta nel caso del piccolo gruppo di sacerdoti che seguivano don Josemaria negli anni precedenti al 1935, anche se agli occhi del Fondatore alcuni di loro facevano parte del­l’Opus Dei. Don Somoano, cappellano dell’Ospedale del Re a Madrid, fu uno dei primi tre membri dell’Opus Dei defunti (cfr Voi. I, Appendice do­cumentale, doc. 13).205 Lettera alla Sacra Congregazione dei Religiosi, in EF-500602-1. L’alle­gato reca i numeri da 72 a 89. Il principio base dell’articolato è il nihil sine Episcopo, che ispira la direzione spirituale e la formazione che ogni socio riceve nell’Opus Dei, e promuove l’unione e l’obbedienza che il sacerdote diocesano deve avere con il proprio Ordinario. Questo principio viene ri­portato al n. 75 dell’Allegato e con quel numero passò nel Diritto partico­lare del 1950, con l’approvazione definitiva (Decreto Primum inter). A commento di questo punto, il Fondatore scrisse: «Caratteristiche peculiari del nostro spirito sono l’unione di questi miei figli sacerdoti col proprio

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Vescovo, che venereranno sempre senza mai criticarlo; il loro amore per la diocesi, il Seminario e le opere diocesane; la loro fedeltà nell’esercizio del­l’incarico che svolgono» (Lettera 24-XII-1951, n. 147).Sul principio nihil sine Episcopo, cfr Àlvaro del Portillo, Sum. 695; Joa- quin Mestre Palacio, RHF, T-00181, p. 39; Pedro Cantero Cuadrado, in Un santo per amico, Milano 2001, pp. 82-83; José Maria Garcia Lahigue- ra, che afferma: “Lo spirito dei sacerdoti diocesani che entrano a far parte dell’Opera consiste, come ho potuto osservare, nel fare tutto con l’obbe­dienza più delicata al loro Vescovo - nihil sine Episcopo - e nel promuove­re l’unità nel clero, dedicandosi con ammirevole carità agli altri sacerdoti. Questo è un servizio immenso alla Chiesa, che basterebbe per riempire di meriti il suo Fondatore, ma non finisce di meravigliare il fatto che sia solo uno degli aspetti dell’incredibile lavoro di quel santo sacerdote di Dio che fu mons. Escrivà” (Un santo per amico, op. cit., p. 140).206 Decreto Primum inter (16-VI-1950), in Amadeo de Fuenmayor e altri, op. cit., Appendice documentale, doc. 31, pp. 767-780. Il 16 giugno era la festa del Sacro Cuore, al quale don Josemaria era particolarmente devoto.207 Ibidem. Un’analisi dettagliata del Decreto Primum inter e delle Costitu­zioni del 1950 in Amadeo de Fuenmayor e altri, op. cit., pp. 317 e ss.208 In Amadeo de Fuenmayor e altri, op. cit., Appendice documentale, doc. 33, p. 783.209 La salvaguardia del carisma fondazionale che Dio gli aveva affidato fu- testimonia mons. Àlvaro del Portillo - “il filo conduttore di tutta la sua vita: difendere il carisma nella propria anima, trasmetterlo ai suoi figli sparsi in tutto il mondo e predisporre i mezzi giuridici, okre a un opportu­no studio teologico, per conservarlo intatto nel corso dei secoli” (Sum. 562). Sul tira e molla (in spagnolo forcejeo) del Fondatore con i consultori nel periodo dell’approvazione definitiva, cfr ibidem, Sum. 559-562.210 Lettera 24-XII-1951, nn. 295-296. - Con “siamo caduti dalla padella nella brace” è stata liberamente tradotta l’espressione proverbiale spagnola “salir de Màlaga para entrar en Malagón” , letteralmente “partirsene da Malaga per arrivare a Malagón” (un paesino della provincia di Ciudad Reai che non ha niente a che vedere con Malaga), che indica un sostanzia­le fallimento in un proposito impegnativo (NdC).

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Capitolo XVIII

TRE ATTI DI FEDE

1. Consacrazione alla Sacra Famiglia (14-V-1951)

Nel decreto con cui fu definitivamente approvato l’O­pus Dei con il suo Diritto particolare, è contenuto un accenno alla crescita dell’Opera negli anni che vanno dal 1947 (promulgazione della Costituzione Apostolica Provida Mater Ecclesia) al 1950. In quel breve lasso di tempo, si legge nel preambolo, è avvenuto un prodigio­so sviluppo dell’Opus Dei. In primo luogo quanto al nu­mero dei suoi membri, poiché “per divina bontà si è moltiplicato come il granello di senape seminato nel campo del Signore, che cresce fino a diventare un gran­de albero” . E poi “ quanto all’estensione territoriale, poiché attualmente ha più di un centinaio di Centri, sparsi in diversi Paesi” 1.

L’espansione fuori della Spagna non richiese da parte dell’Opera particolari preparativi. Durante l’estate del 1948 - come si è detto - alcuni giovani universitari ave­vano assistito a corsi di formazione a Molinoviejo. Di quei giovani il Padre scriveva a quelli di Roma: «Qui c’è un gruppo di portoghesi, di italiani e di messicani che, se li sapremo lanciare, saranno fondamenta forti e san­te»2. Nell’autunno del 1949 alcuni di essi si erano già stabilmente inseriti in una mezza dozzina di Nazioni.

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Non avevano altre risorse economiche che i guadagni del loro lavoro, che è il mezzo abituale per sostenere l’attività apostolica dell’Opera. Dovunque - come si ve­drà in seguito - gli inizi furono però molto duri. Per esempio, sulla prima pagina del diario del primo centro di Palermo, il Padre scrisse: «In paupertate et laetitia». Infatti, non era difficile prevederlo, ben presto quelli di Palermo s’imbatterono nelle prime difficoltà. Il Padre li incoraggiò, richiamandoli a una santa gioia:

«Mi rallegra la vostra gioia: e non c’è motivo perché non sia così. (...) Pazienza. Le fondazioni delle nostre case - come accadde per l’Opera - avvengono così: la ricchezza della povertà, il volere di Dio e la nostra ri­sposta, con tutta l’anima, tutti i sensi e tutte le forze!»3.

Oltre all’Italia e al Portogallo, dove all’inizio don Jo­semarìa intervenne personalmente, i suoi figli si stabili­rono ben presto in Inghilterra, Irlanda, Messico e Stati Uniti; nel 1950, in Cile e in Argentina. L’espansione era cominciata in Europa. Il 28 dicembre del 1946, giunse a Londra un giovane ricercatore in biochimica, Juan An­tonio Galarraga; altri lo avrebbero presto raggiunto: «Quelli che vanno a Londra - aveva scritto il Padre po­chi giorni prima - devono pensare a Dublino e a Parigi. È urgente preparare le cose in tutti e tre i Paesi»4.

Nell’ottobre del 1947 si iniziò a Dublino e a Parigi. In Irlanda si recò un ingegnere, José Ramón Madurga, che subito trovò lavoro e si inserì rapidamente. Non passò molto tempo e il Fondatore potè parlare del “miracolo dell’Irlanda” , poiché prima ancora che egli potesse in­viare nell’isola un sacerdote dell’Opera, il Signore aveva già fatto aderire diversi irlandesi - uomini e donne - al­l’incipiente lavoro apostolico5.

Il lavoro a Parigi aveva alcuni precedenti storici. Il Pa­dre lo fece presente a Fernando Maycas e ai due studen­ti, Àlvaro Calleja e Juliàn Urbistondo, che lo accompa­gnavano, nel momento di impartire la benedizione per il viaggio. Ricordò loro i preparativi, del giugno 1936, in­

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terrotti dallo scoppio della guerra civile spagnola. Inve­ce, le preghiere e la mortificazione del Fondatore per l’a­postolato in Francia non avevano subito interruzioni. A Parigi i tre portarono come reliquia un pezzo del suda­rio di Isidoro Zorzano, che il Padre volle fosse conse­gnato loro per mettere sotto la sua intercessione quel­l’avventura apostolica6.

Il Fondatore pensò giustamente che il salto dell’Atlan­tico richiedesse un viaggio di perlustrazione. Diede per­ciò incarico a Pedro Casciaro di recarsi in America e di visitare buona parte degli Stati del continente7. Questi, di ritorno in Spagna, informò il Padre degli esiti del suo viaggio, ed egli decise di cominciare dal Messico e dagli Stati Uniti. Il 18 gennaio 1949 Pedro si trovava già nella capitale messicana e il 19 marzo l’Arcivescovo di Città del Messico celebrava la Messa nell’oratorio del primo centro dell’Opus Dei in America8.

Alcune settimane prima, giovedì 17 febbraio, arrivava a New York José Luis Muzquiz, accompagnato da Salva­dor Martìnez Ferigle. Quando erano partiti da Madrid,il Padre, dispiaciuto di non poter dare loro neppure qualche dollaro, aveva detto: «Figli miei, non vi posso dare niente: soltanto la mia benedizione»9. Aveva ag­giunto: «Dovete diventare molto americani, con buon umore, gioia e visione soprannaturale». Ma aveva anche dato loro un regalo più prezioso del denaro: un’immagi­ne della Vergine, un piccolo quadro che aveva presieduto circoli e tertulias nella stanza dell’Hotel Sabadell di Bur­gos, dove il Padre e altri avevano abitato nel 193810.

Il Fondatore li avrebbe accompagnati ben volentieri nel viaggio, per condividere le divine avventure della prima ora. Molto spesso, quando scriveva ai primi che avevano messo piede in un Paese remoto, il suo cuore ardeva di desideri apostolici e gli venivano in mente ri­cordi lontani, che in lui suscitavano una santa invidia11. Insisteva sempre sulla giusta prospettiva apostolica che dovevano mantenere:

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«So che stai aprendo strada in quella città immensa. Ti sto vicino e prego per te, perché con la tua fedeltà e il tuo lavoro riuscirai a far sì che, fra un po’ di tempo, ci sia un grande lavoro di anime. A volte provo per voi una vera invidia; mi fate ricordare i primi tempi, an- ch’essi eroici»12.

Il Padre, dalla sponda del presente e ritornando con il pensiero alla fase di gestazione dell’Opera, vedeva i suoi figli al sicuro, sotto la protezione della Vergine. E se commettevano qualche imprudenza o qualche sbaglio, era certo che il Signore se ne sarebbe servito per far loro guadagnare esperienza e maturità. Non aveva forse fat­to lo stesso con lui, intervenendo spesso in modo inso­spettato e provvidenziale? Da lontano, il Fondatore pro­teggeva i suoi figli con la preghiera, giorno e notte. Moderava le loro impazienze, li incoraggiava nelle fati­che, faceva loro compagnia nell’isolamento13. Il rischio che qualcuno sentisse il freddo della solitudine era reale. Perciò egli aveva spiritualmente presenti in ogni mo­mento i suoi figli che stavano da soli in terre lontane:

«Carissimi londinesi - scriveva da Roma, - quante volte vi citiamo, in questa casa! Leggiamo e rileggiamo con avidità le vostre lettere»14.

«Mi rendo conto della tua solitudine - scrisse a un al­tro, isolato in Cile - che è solo apparente (ti siamo mol­to vicini!)»15.

Tutti erano imbarcati nella stessa impresa e ne erano consapevoli. Ma non tutti erano avvezzi alle dure espe­rienze che ben conosceva il Fondatore, o avevano la pa­zienza di aspettare con calma i frutti anelati, che tarda­vano ad arrivare. Ritardi che provocavano nervosismo e facevano loro dimenticare che prima di seminare è ne­cessario «un lavoro benedetto di aratura»16, e che, dopo la semina, bisogna dar tempo al tempo, perché la se­mente metta radici, cresca e dia frutto. Il Fondatore non si stancava di ricordarlo agli uni e agli altri:

«Statevene contenti: dissodare è una cosa molto bel­

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la... per tipacci come voi!»17, scriveva a quelli di Parigi; incoraggiava anche quelli che stavano negli Stati Uniti:

«Che cosa invidiabile è dissodare! Ve l’ho già detto al­tre volte: tanto più se il raccolto sarà rapido e fecondo, come accadrà da voi»18.

In qualche Paese, eccezionalmente, la terra era pronta e soffice. Dopo solo tre mesi dall’inizio del lavoro in Messico il Padre poteva scrivere da Roma:

«Sono molto contento di voi e, poiché quella terra è fertile, sono in attesa del raccolto quasi subito dopo la semina»19.

Ma nonostante i suggerimenti soprannaturalmente ragionevoli del Padre sulla necessità di dissodare e di esercitare la pazienza, ai suoi figli, persone molto giova­ni, tutto sembrava troppo lento. Per questo il Fondato­re, che portava sulle proprie spalle un pesante fardello di impegni economici e di carenza di persone, doveva continuamente moderare la propria e altrui impazienza. Era la fase nascosta e umile degli anni dell’espansione, prima che il Signore invitasse a entrare nell’Opus Dei un bel po’ di persone dei nuovi Paesi:

«Roma, 20 giugno 1950.Carissimi: Gesù benedica i miei figli dell’Inghilterra.Leggo e rileggo le vostre lettere, sempre con la speranza che presto ingraniamo la marcia in quelle terre. Pregate e abbiate un po’ di pazienza.Nel frattempo state molto uniti, compitemi bene le nor­me e convincetevi che la vostra fatica attuale, oscura e senza sviluppo, è indispensabile per arrivare alle tappe successive.Ho davvero molta voglia di vedervi! Qui tutto molto be­ne, ma piano. Così vi do esempio di pazienza.Un abbraccio molto forte e la benedizione di vostro Padre

Mariano»20.

Don Josemarìa, con quasi un quarto di secolo di espe­rienza fondazionale, si aspettava che il Signore benedi­

r .

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cesse i suoi figli con la croce, che era sempre stata la via normale dell’Opus Dei. È vero che c’erano sempre picco­le difficoltà, che il Padre chiamava «sorpresine e scioc­chezze», cui non attribuiva alcuna importanza. Ma li av­visava che non sarebbero mancati sul loro cammino ostacoli più rilevanti. Al “miracolo irlandese” , per esem­pio, un vero rosaio dalla fioritura inattesa, non tardaro­no molto a spuntare le spine, come il Padre riconobbe in una lettera del giugno 1950 alle sue figlie di laggiù:

«Carissime, vi ringrazio di cuore per le vostre lettere, che leggo sempre con molto piacere. A suo tempo ho sa­puto della piccola contrarietà che avete avuto: non im­maginate che grande gioia ho provato, al pensiero che il Signore permetteva finalmente che cominciaste a soffri­re un pochino per la vostra vocazione»21.

«Come vedete, la cosa in sé non ha alcuna importan­za», proseguiva il Padre. Erano parole di consolazione, perché la sofferenza delle sue figlie dell’Irlanda durò lunghi mesi. Un anno dopo tornò a scrivere loro sullo stesso argomento:

«Roma, 23 aprile 1951.Gesù mi protegga le figlie delPlrlanda.Carissime, sono molto contento di voi e sono sicuro che anche il Signore è contento.State allegre: quando si segue Gesù bisogna sempre farei conti con qualche benedetta contrarietà. E la vostra è proprio piccola. Siate fedeli e la nube passerà presto. Quanto e quale bene ci aspettiamo dall’amatissima Ir­landa, per il servizio della Chiesa, nostra Madre, e per l’estensione del Regno di Cristo! La Santissima Vergine vi presieda sempre e, così, sarete come l’Opera ci vuole, seminatrici di pace e di gioia.La benedizione di vostro Padre

Mariano.

Vi invio una immagine della Madonna, che vi conse­gneranno con questa lettera»22.

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La contrarietà, causata da un fraintendimento, fu dis­sipata dal trascorrere del tempo e dalla prudenza del Fondatore. Si era trattato di un chiaro esempio delle dif­ficoltà che avevano alcuni ecclesiastici - in questo caso l’Arci vescovo di Dublino, mons. McQuaid - a compren­dere il carattere secolare dell’Opus Dei e la novità che gli Istituti Secolari rappresentavano nella storia della Chiesa. Definendo l’accaduto una “piccola contra­rietà” , il Fondatore invitava le sue figlie e i suoi figli a non perdere la sérenità, a non mancare alla carità e ad astenersi dal giudicare23.

Invitandoli a pazientare di fronte all’atteggiamento negativo di mons. McQuaid, raccomandava a uno di lo­ro: «Calma! Non dimenticare che il Signore scrive dirit­to sulle righe storte»24.

>!* s!*

Con il decreto di approvazione definitiva si chiudeva un’altra tappa della storia dell’Opus Dei. Ma l’itinerario giuridico che il Fondatore percorse con i suoi era un continuo andirivieni. Per il momento procedeva tra gli Istituti Secolari, ma era deciso ad allontanarsi dalla compagnia e a proseguire per la propria strada, quando fosse arrivato il momento di ottenere una forma giuridi­ca pienamente conforme alla natura teologica e pastora­le dell’Opus Dei. Comunque, in quei giorni l’orizzonte era sereno e don Josemaria si mostrava contento, so­prattutto per aver risolto il problema dei sacerdoti seco­lari diocesani25.

Tuttavia dalle sue lettere di quel periodo traspare una nota di stanchezza26. Quando era giunto a Roma, nel 1946, era in ambasce, poiché non sapeva che cosa gli era riservato. Egli dovette combattere fino alla fine dei suoi giorni per farsi strada fra le istituzioni canoniche. Perciò era naturale che la continua tensione spirituale comportasse, oltre a un evidente dispendio di energie fi­

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siche, una più nascosta erosione nell’animo del Fonda­tore, tanto che egli dovette riconoscere la necessità di «mettere in pratica la virtù della pazienza fino al grado più eroico»27. La sua vita fu un esercizio ininterrotto di esimia virtù, poiché, per una ragione o per l’altra, non gli mancarono mai occasioni di praticarla, anche quan­do avrebbe avuto veramente bisogno di riposare.

La convinzione che il Signore scrive diritto anche sulle righe storte gli rimase fortemente impressa come frutto di dolorose esperienze personali ed espressione di una logica divina che non sempre collima con quella umana. Fra i concetti che spesso ripeteva e cercava di insegnare ai suoi figli ve n’è uno particolarmente dolce e amabile: ai genitori dobbiamo la vita «e il novanta per cento del­la vocazione»28. Diceva poi che la carità ordinata porta ad amare e a praticare il quarto comandamento, il “dol­cissimo precetto del decalogo”29.

Ebbene, poche settimane dopo l’approvazione defini­tiva dell’Opus Dei, ricominciarono gli attacchi, toglien­do la pace alle famiglie e trasformando il “dolcissimo precetto” in un mare di amarezza30. Nel 1950, avendo appena ottenuto dalla Santa Sede l’approvazione defini­tiva, il Fondatore, come si è visto, credeva davvero che sarebbe cessata l’aggressione all’Opera. Ma si sbagliava.I soliti detrattori tornarono ai vecchi metodi già utiliz­zati in Spagna, seminando ansia e disorientamento tra le famiglie dei membri italiani dell’Opus Dei. A questo at­tacco sarebbe seguita una insidia ancora più sottile e poi, dopo che fu fatta naufragare, sarebbe ripartita l’of­fensiva, senza tuttavia riuscire a impedire la rapida e continua espansione dell’Opera.

Prima di questi avvenimenti, i giovani studenti che frequentavano il Pensionato se ne stavano felici accanto al Padre, che manteneva con le loro famiglie relazioni piene di affetto soprannaturale e umano. Egli desidera­va che i genitori dei membri dell’Opera condividessero pienamente il clima di famiglia che regnava nell’Opus

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Dei. Era meraviglioso vedere l’affetto con cui il Fonda­tore, in mezzo alle sue occupazioni, cercava di coinvol­gerli, dando loro notizie dei figli e chiedendo loro colla­borazione e preghiere, affinché sentissero l’Opera come una cosa propria, poiché lo era per davvero.

Questa delicata intimità con le famiglie dei suoi figli traspare anche nelle sue lettere. Eccone una inviata alla madre di Mario Lantini, un anno dopo che il figlio ave­va chiesto l’ammissione all’Opera:

«Gentile Signora, ho ricevuto la sua cortese lettera e la ringrazio sinceramente per quanto mi dice e special- mente per le sue preghiere che sono, senza alcun dub­bio, il miglior regalo che sia Lei che suo marito possono fare all’Opus Dei e ai suoi membri.

Sono veramente contento della vocazione di suo figlio Mario e ne ringrazio Dio: lavora sempre con la gioia e l’entusiasmo di chi sta servendo il Signore. Vedendo suo figlio è inevitabile che pensi alla bontà dei genitori, ai quali deve in parte la sua vocazione.

Chiedendo loro di continuare a raccomandare al Si­gnore l’Opus Dei, la saluta e benedice

Josemaria Escrivà de B.»31.Una volta iniziati dal Pensionato i viaggi apostolici

nelle diverse città italiane, anche a Roma era aumentato il numero di persone che entravano nell’Opera.

Nell’aprile 1949, a Roma, aveva chiesto l’ammissio­ne all’Opus Dei uno studente sudamericano, Juan Lar- rea, la cui famiglia non vide di buon occhio la decisio­ne del figlio32, forse perché non sapevano che cosa fosse l’Opus Dei, o forse perché tale decisione sovver­tiva piani e speranze familiari. Lo racconta lo stesso Juan Larrea:

“All’epoca mio padre era ambasciatore dell’Ecuador presso la Santa Sede e mi disse di parlarne con mons. Montini, Sostituto della Segreteria di Stato. Parlai con mons. Montini, raccontandogli la mia storia e, dopo una lunga e affettuosa conversazione, mons. Montini

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mi disse: dirò parole di pace a suo padre. Alcuni giorni dopo ricevette mio padre, dicendogli che aveva parlato con Pio XII, il quale gli aveva detto: ‘Dica all’amba­sciatore che in nessun posto suo figlio starà meglio che nell’Opus Dei’. Vent’anni dopo, quando ero già Vesco­vo, ho fatto visita a Papa Paolo VI, un tempo mons. Montini, ed egli mi ricordò amabilmente l’udienza ora descritta”33.

Diverso fu l’atteggiamento di altri genitori, che si era­no opposti alla decisione presa dai propri figli dopo che persone zelanti avevano prima attizzato il malcontento in seno alle famiglie e poi lo avevano trasformato in aperta opposizione, nonostante l’approvazione definiti­va ricevuta dall’Opera.

Nell’aprile 1949 aveva chiesto l’ammissione all’Opera un giovane di ventun anni che frequentava Villa Tevere, Umberto Farri. Per desiderio del Fondatore si era recato a Milano nel 1950, per poi fare ritorno a Roma nel no­vembre del 1951. Nel frattempo suo padre, Francesco Farri, si era messo in contatto con i genitori di altri stu­denti universitari che avevano chiesto l’ammissione al- l’Opus Dei e frequentavano Villa Tevere. Tutto avvenne con tale rapidità che il danno causato in alcune famiglie alle serene relazioni tra genitori e figli fu quasi irrime­diabile. A un certo punto Francesco Farri, consigliato e orientato dal gesuita padre A. Martini, preparò una no­ta di protesta, rivolta direttamente a Sua Santità Pio XII. Lo scritto portava la data del 25 aprile 1951 e reca­va le firme di cinque genitori di fedeli delPOpus Dei34. Ecco parte del testo:

“Beatissimo Padre, con filiale fiducia si presentano ai piedi della Santità Vostra ed espongono, i capi di un gruppo di Famiglie, la cui serenità pienamente goduta fino all’anno 1947 è stata successivamente interrotta e turbata da causa veramente grave.

Tale angustiata situazione è stata determinata dal fat­to che giovani appartenenti a queste Famiglie (...) sono

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venuti a mancare: ai doveri verso Genitori e Familiari; taluni di essi, all’adempimento degli studi prima di allo­ra praticati con diligenza e risultato, col conseguente di­sturbo nella loro preparazione alla vita, alla lealtà e sin­cerità di condotta nei riguardi dei Genitori e dei Padri Spirituali, retrocedendo dai princìpi umani e cristiani che costituivano ambiente delle loro Famiglie e delle As­sociazioni religiose da essi frequentate”35.

Più oltre, lo scritto riporta i dubbi dei firmatari sulla vocazione dei propri figli all’Opus Dei, “perché tutto l’avvenuto si è svolto in un’atmosfera che non sembra corrispondere alla lealtà dello spirito di Dio e soprattut­to non dà garanzia che l’animo di questi giovani non sia stato artificiosamente portato a decisioni alle quali non erano preparati” .

La loro coscienza di genitori, pertanto - continua il documento -, era oppressa dall’angoscia ed essi erano “preoccupati per la perdita da parte dei figli di valori morali” ; essi ritenevano dunque che i membri dell’isti­tuto Opus Dei svolgessero “opera di proselitismo con procedimenti che non rispondono alle tradizioni di lealtà e di chiarezza della S. Chiesa in questa materia”36.

“Le Famiglie - termina lo scritto - sperano e doman­dano di venir consolate in questa situazione che vede la distruzione della loro pace interiore. Esse non inten­dono opporsi alle legittime aspirazioni e all’eventuale vocazione dei loro figli, ma domandano che essi, ritor­nati ai loro studi per completarli nell’ambiente norma­le della loro vita, prendano, dopo essersi consultati con uomini dotti, pii e sperimentati, la loro decisione definitiva. Questo, Santo Padre, domandano istante- mente e sperano dalla sua paterna bontà di ottenere. Roma, 25 aprile 1951” . Seguono le firme di cinque persone37.

Lo scritto è una decisa denuncia e una condanna del­l’apostolato dell’Opus Dei e un atto di forte pressione esercitata sul Papa, proprio poco tempo dopo che aveva

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approvato in modo definitivo P Opera, perché facesse sentire il peso della sua autorità sovrana.

Quale fu la reazione del Padre quando lo venne a sa­pere? Don Josemarìa, come aveva fatto fin dal 1941, chiese ai suoi figli di tacere, pregare, sorridere e lavora­re38. Essi, obbedienti, si attennero a questa linea di con­dotta, mantenendo un completo riserbo sui tristi eventi della persecuzione. Tanto che, per citare un caso, Mario Lantini non parlò mai con nessuno delle proprie espe­rienze personali finché non arrivò il suo turno di depor­re come testimone al processo di beatificazione del Fon­datore, trent’anni dopo: “Aggiungo inoltre - dichiarava nel 1983 - che ne parlo oggi per la prima volta e con sofferenza, perché mons. Escrivà ci ha sempre proibito esplicitamente di parlarne, perché non avessimo a man­care alla carità neppure fra di noi, é ciò in conformità a un punto di Cammino (n. 443): «Se non puoi lodare, ta­ci». Questo fa sì che gli episodi da me vissuti non siano stati conosciuti nell’ambito dell’Opera se non dagli inte­ressati, dal Fondatore e da don Alvaro, allora Consiglie­re della Regione italiana”39. Don Àlvaro, a sua volta, ha affermato di non aver udito dal Padre “una sola parola di recriminazione contro coloro che lo diffamavano, neppure nei momenti più duri”40.

Il Padre si rifugiò fiducioso nel Signore. Prese un fo­glietto e scrisse: «Mettere sotto il patrocinio della Sacra Famiglia - Gesù, Maria e Giuseppe - le famiglie dei no­stri: affinché riescano a partecipare del gaudium cum pace dell’Opera e il Signore conceda loro l’affetto per l’Opus Dei»41.

Nello stesso anno 1951, in una lettera ai suoi figli, fe­ce un resoconto telegrafico del triste episodio:

«Mi piacerebbe ora raccontarvi - scrisse - i dettagli della consacrazione alla Sacra Famiglia dell’Opera e del­le famiglie di tutti i membri, fatta il 14 maggio di que­st’anno in un oratorio - che perciò è ora intitolato alla Sacra Famiglia - ancora senza pareti, fra i tavolati e i

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chiodi delle casseforme che hanno sostenuto il cemento delle travi e del tetto finché non ha fatto presa. Ma poi­ché conserviamo alcune note molto precise, redatte a suo tempo, qui non mi dilungo. Vi basti sapere che, di fronte alle diaboliche macchinazioni - permesse da Dio!- di certi sconsiderati che hanno fatto firmare ad alcuni padri di famiglia un documento pieno di falsità e sono riusciti a farlo arrivare nelle mani del Santo Padre, pote­vo solo rivolgermi al Cielo. Gesù, Maria e Giuseppe hanno fatto sì che passassero le nuvole senza che scop­piasse una grandinata: e ora è tornato il sereno»42.

L’aiuto della Sacra Famiglia si notò subito. Due gior­ni dopo la presentazione della nota di protesta al Som­mo Pontefice, uno dei firmatari fece marcia indietro43. Gli altri si resero subito conto dell’infondatezza della “ angosciosa situazione” di cui si parlava nella denun­cia. In seguito, non misero alcuna difficoltà ai propri fi­gli e il Signore riportò la pace nelle loro famiglie. Le ac­cuse presentate al Papa si dimostrarono infondate e caddero da sé e don Josemaria ebbe la profonda gioia di vedere aumentare l’affetto verso l’Opus Dei delle fa­miglie dei suoi figli44.

Dal 1951 la consacrazione viene rinnovata ogni anno, con la richiesta che Dio colmi di benedizioni i genitori e i fratelli dei fedeli dell’Opus Dei e che ottenga il loro av­vicinamento alla grande famiglia dell’Opera:

“ Concedi loro, Signore, di conoscere meglio, ogni giorno, lo spirito del nostro Opus Dei, al quale ci hai chiamato per servirti e santificarci; infondi in loro un grande amore per la nostra Opera; fa’ che comprendano con luce sempre più chiara la bellezza della nostra voca­zione, affinché sentano un santo orgoglio perché ti sei degnato di sceglierci e sappiano essere riconoscenti per l’onore che hai reso loro. Benedici in modo particolare la collaborazione che prestano al nostro lavoro aposto­lico e falli sempre partecipi della gioia e della pace che Tu ci concedi in premio della nostra dedizione”45.

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2. CorMariae dulcissimum, iter para tutuml

Il Padre dovette trascorrere a Roma l’estate del 1951. Le circostanze lo costrinsero, come disse egli stesso, «a stare sul chi va là». Fu per lui un sacrificio non indiffe­rente, poiché era estenuato per l’abbondante lavoro di un intero anno accademico, con la casa costruita a metà e con la minaccia del caldo opprimente del ferragosto romano. A questo si sommavano i problemi del diabete che gli procuravano sofferenze tanto intollerabili da far­gli dire - con una buona dose di humour - che gli ricor­davano continuamente il Purgatorio. Perché stare “sul chi va là” } Forse perché da qualche tempo aveva notato in alcune persone della Curia i segni di un certo cambia­mento. Un giorno gli giungeva all’orecchio l’eco di una critica; giorni dopo veniva a sapere che un Cardinale, suo vecchio conoscente, negava in pubblico di averlo mai frequentato46.

In base a questi e altri indizi cominciò a sospettare che si stesse tramando qualcosa, senza riuscire peraltro a comprendere di che cosa si trattasse. Tutti i segnali confermavano i sospetti: c’era qualcosa di strano. Senza dubbio, qualche grave minaccia incombeva sull’Opus Dei. Un oscuro presentimento finì col dominare le rifles­sioni, le abitudini e persino i gesti di don Josemarìa, che si mostrava allegro e preoccupato nello stesso tempo. Continuava a scherzare, ma insisteva molto perché tutti pregassero per le sue intenzioni. Il suo prevalente stato d’animo era una inquietudine diffusa, un disagio inte­riore che traspariva dal suo sguardo e dal irìodo di fare:

“Come sempre - testimonia Encarnación Ortega - fe­ce ricorso all’orazione e alla mortificazione. Passava in­tere giornate senza mangiare nulla o praticamente nulla, il che ci faceva temere per la sua salute. Sapevamo pure che dormiva ben poco. Ogni giorno era sempre più insi­stente la sua richiesta di preghiere e più intenso il modo in cui egli stesso pregava. Un giorno ci chiese di inter­

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rompere tutte le nostre attività e di andare in oratorio per mezz’ora a ‘forzare’ il Signore con la nostra orazio­ne (...). Mi sembra che sia stata una delle volte della no­stra vita in cui abbiamo pregato con maggiore intensità, chiedendo a Dio di aiutare nostro Padre”47.

Uno di quei giorni - nella prima metà dell’estate del 1951 - don Josemaria stava passeggiando, assorto e a passo svelto, nel giardino di Villa Tevere, prendendo ap­punti in un’agendina, quando gli si avvicinò uno dei suoi figli, Javier Echevarrfa, che gli chiese:

“Come sta, Padre?”.«Pieno di pace e di santa fortezza; mi sento come un leo­ne, disposto a difendere questa Opera di Dio che il Si­gnore mi ha affidato. Prega e aiutami»48.

Pur non sapendo nulla di concreto, il Padre intuiva una nuova persecuzione verso la sua persona e tutta l’Opera. L’oscuro presentimento lo avvolgeva compieta- mente49. Presentiva un rischio serio, ma in maniera così vaga da non potersi liberare dall’angoscia di chi vede la vicinanza di un pericolo, senza sapere di che cosa si trat­ti. Sentiva l’invisibile minaccia e stava con tutti i sensi tesi e allerta, certo deH’imminente attacco:

«Mi sento come un cieco che si deve difendere - diceva il Padre a qualcuno dei suoi figli - ma che può dare solo colpi all’aria, perché non so che cosa succede, ma sta succedendo qualcosa... » 50.

Tale presentimento, pur facendolo soffrire, era co­munque una grazia divina che sospingeva tutta l’Opera e, innanzitutto, il Fondatore verso la Croce di Cristo. Il Signore permetteva tale oscurità, scrisse di lì a poco, «affinché noi ci santifichiamo e l’Opera si fortifichi»51.

Nelle precedenti campagne di calunnie, pettegolezzi e ingiurie, egli aveva saputo a chi ricorrere, come rispon­dere e a chi replicare. Ora doveva lottare contro ombre

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impalpabili. Quando sopraggiungeva la opposizione dei buoni, gli amici erano soliti consigliargli due tipi di comportamento. Secondo alcuni era meglio tacere e, av­volti nel mantello dell’umiltà, lasciare che gli altri calun­niassero; così, incassando lui i colpi in silenzio, i nemici non avrebbero avuto la possibilità di diffondere pubbli­camente lo scandalo. Altri, invece, erano del parere di proclamare la verità a gran voce o, per lo meno, lo invi­tavano a difendersi, a rispondere, opporsi e ribattere ai detrattori. Don Josemaria pensava che entrambe le opi­nioni fossero ragionevoli e accettabili dal punto di vista cristiano. Tuttavia, non era facile indovinare il modo giusto di fare le cose perché, riflettendo su come com­portarsi, vedeva il rischio di perderci sempre e comun­que, per quanta buona volontà ci mettesse. Così spiega­va la sua incertezza:

«In realtà mi sentivo nella stessa identica situazione descritta nell’apologo del padre, del figlio e dell’asino. Qualunque cosa facessi, venivo criticato»52.

L’apologo è questo. Un contadino ritornava dalla campagna con suo figlio. Se ne stava in groppa al suo asino, soddisfatto della vita, quando s’imbatté in un vi­cino, il quale biasimò la sua condotta: “Sei soddisfatto, no? E tuo figlio giù, a piedi, tanto, che te ne importa?” .

Il vecchio scese e fece montare il figlio sull’asino. Poco oltre incontrarono una donna, che esclamò indignata: “Ma come! Il padre a piedi? Quel ragazzo dovrebbe vergognarsi!” .

Anche il figlio allora scese dall’asino, e padre e figlio ci si misero a camminare dietro; ma qualcuno lanciò lo­ro una battuta ironica: “ Ottimo, così l’asino non si stanca!” .

Non sapendo più che fare, vi montarono tutti e due. L’asino stava percorrendo stancamente l’ultimo tratto di strada quando qualcuno si mise a gridare: “Siete pro­prio due bestie! Non vedete che il povero animale non ne può più?”53.

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La situazione era molto confusa e la minaccia invisibile. Da chi doveva difendersi, e a che proposito? Interiormente sentiva che una forza misteriosa lo spingeva a difendere l’Opera con le unghie e con i denti: «Figli miei - era solito dire a coloro che gli stavano vicino -, sono qui come un leone ruggente, tamquam leo rugiens; veglio, perché il dia­volo non ci morda»54. Non poteva starsene inerte.

Aveva l’impressione di camminare sulle sabbie mobili. Don Àlvaro, per tranquillizzarlo, gli faceva presenti i motivi per cui rallegrarsi: “Padre - gli diceva -, va tutto bene, ci sono molte vocazioni e, grazie a Dio, c’è un grande buono spirito in tutti”55. Ma il Padre insisteva sulla necessità di fare qualcosa. Una forza divina lo tra­scinava, con una “necessità soprannaturale” , ad ag­grapparsi al manto della Vergine: «Poiché non trovo quaggiù chi veramente e decisamente ci aiuti, mi sono rivolto a nostra Madre, Santa Maria»56.

Presa la decisione, il 9 agosto scrisse a tutta la grande famiglia dell’Opus Dei, per dire che nella festa dell’As­sunzione avrebbe celebrato la Santa Messa a Loreto:

«E là, nella casetta della Sacra Famiglia - Gesù, Ma­ria e Giuseppe - farò la consacrazione delVOpus Dei al Cuore Immacolato di Maria.

Tutti gli anni, usando la formula che vi invierò, rinno­veremo questa consacrazione in tutte le nostre case e Centri. Sarà una consacrazione ambiziosa, perché le consacreremo anche tutti i popoli e le nazioni che sono lontani dal suo Figlio Divino.

Questo è proprio il nostro spirito! Unitevi a me, quel giorno in modo particolare»57.

Esortava i suoi figli a ripetere sempre, instancabil­mente, la stessa giaculatoria che era sempre sulle sue labbra: Cor Mariae dulcissimum, iter para tutum!58, af­finché il dolcissimo cuore di Maria proteggesse il cam­mino dell’Opera.

La mattina del 14 agosto 1951, sotto un sole cocente, il Padre e don Àlvaro, accompagnati da altri due mem­

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bri dell’Opera, partirono in macchina da Roma. Presero la via Salaria e passarono lungo la costa adriatica. Senza mai fermarsi, arrivarono alla basilica della Madonna di Loreto e prenotarono la Messa all’altare della Santa Ca­sa per il giorno successivo. A metà pomeriggio si recaro­no ad Ancona, dove pernottarono.

La mattina successiva, festa dell’Assunzione, il Padre giunse a Loreto prima delle nove, trovando la basilica già piena di gente venuta dai dintorni. La Santa Casa, dove celebrò la Messa, si trova all’interno della basilica. Vi si stipava una folla devota, giunta a motivo della grande fe­stività mariana. Il Padre cercò di celebrare la Messa con raccoglimento, ma le manifestazioni di spontanea pietà dei presenti non gli consentirono di concentrarsi:

«Così, mentre io baciavo l’altare quando lo prescrivo­no le rubriche della Messa, lo baciavano anche tre o quattro contadine. Fui distratto, ma mi emozionava. At­traeva pure la mia attenzione il pensiero che in quella Santa Casa - che la tradizione assicura essere il luogo dove vissero Gesù, Maria e Giuseppe -, sopra la mensa dell’altare hanno posto queste parole: Hic Verbum caro factum est. Qui, in una casa costruita dalla mano degli uomini, in un pezzetto della terra su cui viviamo, ha abitato Dio»59.

Toltisi i paramenti, mentre don Àlvaro celebrava la Messa alle 9 e mezzo, il Padre riuscì a rifugiarsi nel mi­nuscolo andito dietro l’altare della Santa Casa. Lì rin­novò la consacrazione al dolcissimo Cuore di Maria, “ immagine perfetta del Cuore di Gesù” , fatta poco pri­ma durante la Messa. A nome di tutto l’Opus Dei disse alla Madonna:

“Ti consacriamo il nostro essere e la nostra vita; tutto ciò che è nostro, ciò che amiamo e ciò che siamo. Per te i nostri corpi, i nostri cuori e le nostre anime; siamo tuoi noi e i nostri apostolati”60.

Il Padre rimase in ginocchio tutto il tempo della Messa celebrata da don Àlvaro. Solo, immerso in preghiera, non

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fece caso alle persone che lo urtavano, e quasi lo calpesta­vano, sfilando continuamente in quella specie di corri­doio dietro l’altare, mentre implorava il Cuore di Maria:

“Infiamma i nostri poveri cuori perché amiamo con tutta l’anima Dio Padre, Dio Figlio e Dio Spirito Santo; infondi in noi un grande amore per la Chiesa e per il Pa­pa e facci vivere pienamente sottomessi ai loro insegna- menti; dacci un grande amore per l’Opera, per il Padre e per i nostri Direttori; fa’ che, fedeli alla nostra vocazio­ne, abbiamo uno zelo ardente per le anime; elevaci, Ma­donna, a uno stato di perfetto amore di Dio e concedici il dono della perseveranza finale”61.

Uscendo, il Padre si rese conto di avere la tonaca tutta calpestata. Dopo aver fatto colazione, intrapresero il viaggio di ritorno. Il caldo era forte, ma egli era molto contento: faceva orazione, immerso in Dio, e ringrazia­va. La sera stessa vide le sue figlie e i suoi figli. Rac­contò loro da dove veniva e disse che la consacrazione alla Madonna gli dava la sicurezza che Ella, ancora una volta, avrebbe preso l’Opera sotto la sua protezione. Li invitò a continuare a supplicare il Cuore dolcissimo di Maria: iter para tutum62.

Colmo di pace e di fiducia, don Josemaria fece altri pellegrinaggi presso diversi Santuari mariani, per rin­graziare dei benefici ricevuti e per rinnovarvi la consa­crazione fatta a Loreto. Il 21 agosto andò a Pompei e il 22 al Divino Amore. Nel mese di ottobre si recò a Lour­des il giorno 6 e vi celebrò la Messa il 7. Da Lourdes andò a Saragozza, dove si prostrò ai piedi della Vergine del Pilar il giorno 9; dopo alcuni giorni passati a lavora­re a Madrid, fece visita ai suoi figli in Portogallo e il 19 ottobre rinnovò la consacrazione a Fatima63.

* * *

Con la benedizione del Padre e una statuetta in legno della Madonna, in paupertate et laetitia, P8 dicembre

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1949 giunsero a Milano i primi fedeli dell’Opera che vi si stabilirono per iniziare il lavoro apostolico. In dicem­bre li raggiunse un sacerdote, don Juan Udaondo. Alcu­ne settimane dopo il direttore e don Juan si recarono dal Cardinale Schuster il quale, rivolgendosi a quest’ultimo, gli chiese:

“Lei è un sacerdote che appartiene a una istituzione di diritto pontificio e io sono il Vescovo di questa diocesi. Come la mettiamo nei nostri rapporti?” .

“Il nostro Fondatore - gli rispose il sacerdote - ci ha sempre insegnato a servire la Chiesa come la Chiesa vuole essere servita, e a procedere nella direzione che in­dica il Vescovo. Desideriamo tenerla informata del no­stro lavoro, per lo meno quanto i parroci la informano delle loro parrocchie, se non di più”64.

Nell’agosto del 1951 i “milanesi” dell’Opera andaro­no in una villa vicino a Roma, a Castelgandolfo, per as­sistere a un corso di formazione. Ritornarono a Milano in settembre e pochi giorni dopo fecero di nuovo visita al Cardinale, che li accolse come se fosse impaziente di vederli: “Dove siete stati tutto questo tempo?” , chiese. Seppero che aveva dato incarico al parroco di cercarli, poiché doveva dir loro qualcosa, ma quegli aveva trova­to la casa vuota. Disse che gli erano state riferite cose in­credibili, grossolane calunnie, nei confronti dell’Opera. Ma potevano stare tranquilli, perché egli era molto con­tento di averli nella sua diocesi. Tuttavia, soggiunse il Cardinale con l’espressione di chi cerca di ricordarsi: “ Chi me lo ha detto? Chi me lo ha detto?... Qualcuno in alto locol...” , e lasciò in sospeso la frase65.

Subito essi riferirono al Padre la conversazione. Due giorni dopo, il 28 settembre, il Padre suggerì loro di tor­nare dal Cardinale Schuster e, dopo averci ben pensato nell’orazione, di raccontargli punto per punto, con pre­cisione e concretezza, quanto era accaduto in Spagna: prima, nel 1940, gli attacchi dal pulpito, poi mormora­zioni, false notizie date ad alcuni Vescovi, libelli calun­

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niosi, denunce all’autorità civile, visite alle famiglie dei membri dell’Opera, ecc.66. Il Cardinale li ascoltò con at­tenzione e ribadì di essere molto contento del lavoro dell’Opera a Milano.

* * * 1

Il 5 gennaio 1952 il Procuratore Generale dell’Opus Dei, don Àlvaro del Portillo, ricevette uno scritto uffi­ciale del Segretario della Sacra Congregazione dei Reli­giosi, mons. Larraona, che cortesemente gli chiedeva “copia delle Costituzioni dell’Opus Dei e del Regola­mento interno dell’Amministrazione, con una relazione scritta - dottrinale e pratica - circa il regime dell’istituto nelle sue due Sezioni, come pure sulle modalità concrete con cui si svolgeva la singolare collaborazione stabilita dalle Costituzioni”67.

Don Àlvaro rispose con premura. La sua lettera di ri­sposta al Segretario è del 6 gennaio e vi era allegata copia degli Statuti dell’Opus Dei e del Regolamento interno del­l’Amministrazione domestica, oltre a un documento, di dieci pagine che illustrava minuziosamente la separazione esistente tra le due Sezioni dell’Opera, del loro regime e dei loro rapporti.

“Per poter intendere e inquadrare correttamente, sia in iure che de facto, i rapporti che esistono tra i due ra­mi dell’Opus Dei - iniziava lo scritto - ci si consenta di sottolineare che è necessario tenere presente e valutare nel suo giusto peso ciò che la Costituzione Apostolica Provida Mater Ecclesia ha definitivamente stabilito sul piano dottrinale dei princìpi giuridici e sul piano pratico della vita”68.

A quale scopo era stata richiesta una copia del Diritto particolare dell’Opus Dei? Benché don Àlvaro nel suo scritto non faccia esplicitamente questa domanda, la sua risposta e il suo ragionamento esprimono un certo stu­pore. In effetti, le argomentazioni esposte dal Procurato­

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re Generale lasciano trapelare un interrogativo: il Diritto particolare delPOpus Dei non è stato forse scrupolosa­mente e attentamente esaminato, studiato, approvato e sancito? Era infatti evidente che gli Statuti avevano avu­to il nihil obstat del Santo Uffizio nell’ottobre del 1943 ed erano stati poi sottoposti a rigoroso ed esauriente esa­me dalla Sacra Congregazione dei Religiosi, prima per l’erezione diocesana del 1943, poi per la concessione del Decretum laudis nel 1947 e infine di nuovo nel 1950, per l’approvazione definitiva delPOpus Dei69. E il servi­zio domestico, svolto dalle donne dell’Amministrazione nelle case delPOpus Dei, non era stato forse esplicita­mente lodato e arricchito di indulgenze da Pio XII nel Breve pontificio Mirifice de Ecclesia, del 1947?70.

Era evidente che in Curia doveva essere giunta qual­che denuncia, in particolare sull’unità di governo dei due rami dell’Opus Dei, e che qualcuno si era dato da fare perché fosse raccolta. Le cose stavano a questo punto quando il Fondatore, pochi giorni dopo, ricevet­te una lettera dai suoi figli di Milano e una relazione di don Juan Udaondo in merito a una recentissima visita al Cardinale Schuster:

“Milano, 15 gennaio 1952.Questa mattina sono andato con Juan Masià a far visi­

ta al Cardinale Schuster. Ci ha chiesto come andavano le nostre cose: bene, gli abbiamo detto. Subito dopo ci ha domandato se il nostro Presidente - riferendosi al Padre- avesse qualche croce. Gli ho risposto che al Padre le croci non mancavano, ma che per noi la croce era segno di gioia e di predilezione divina e che il Padre ci dice molte volte che ‘un giorno senza croce è un giorno perso e Cristo, Sacerdote eterno, benedice sempre con la Cro­ce’. Allora il Cardinale ci ha detto che dobbiamo essere pronti, che sicuramente continueranno le persecuzioni e che lui, leggendo la storia delle opere di Dio e le vite dei loro fondatori, si era reso conto che il Signore ha sempre permesso contrarietà e persecuzioni, che molte di esse

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sono state anche sottoposte a visite apostoliche e il loro fondatore deposto dalla carica di Superiore. Ci parlava con affetto; si vedeva che era preoccupato per l’Opera e per il Padre; ci ha detto di non scoraggiarci se ci fosse ca­pitata una cosa simile e che dobbiamo continuare a lavo­rare con molto impegno. Lo ha ripetuto varie volte: con­tinuate a lavorare, avanti, coraggio, ecc.

Sia Juan che io lo abbiamo ascoltato molto sereni e gli abbiamo detto di non preoccuparsi, che l’Opera era di Dio e che il Signore aveva abituato il Padre e tutti noi alla persecuzione; che il Padre ci aveva sempre fatto sco­prire in tutto ciò la mano di Dio; che l’Opera andrà avanti malgrado tutte le persecuzioni, che sono per noi motivo di gioia, perché ci aiutano a farci santi e a lavo­rare solo per il Signore”71.

Il Fondatore era dunque stato messo sull’avviso circa la natura dell’attacco, ma gli mancavano dati sufficienti per incolparne qualcuno o per organizzare una difesa appropriata. Tuttavia, pensò che fosse opportuno riba­dire lo scritto del 6 gennaio sul regime delle due Sezioni dell’Opera. Don Àlvaro del Portillo, come Procuratore Generale, il 3 febbraio scrisse per la seconda volta al Se­gretario della Sacra Congregazione dei Religiosi, p. Lar­raona, uomo giusto e leale, che ben conosceva, come si è visto, la situazione giuridica dell’Opus Dei. Il nuovo scritto mostrava quanto imprudente e ingiusto fosse il modo di procedere della Curia e il rischio che correva la buona fama di un’istituzione se fosse stata sottoposta, di punto in bianco, a un processo investigativo. Se stava funzionando con efficacia e senza scandali o incidenti da quasi un quarto di secolo, perché pensare di cam­biarne ora la struttura? Il fatto che ne venissero riesami­nati gli Statuti non avrebbe sollevato inevitabilmente infondati sospetti, che i calunniatori si sarebbero incari­cati di diffondere ai quattro venti, quasi si stessero pren­dendo misure contro l’Opus Dei a causa di qualche scandalo nascosto?72.

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Di fronte a un’operazione così maldestra, il Fondato­re, fiducioso nell’intercessione della Madonna, ricuperò l’ottimismo:

«Spero - scriveva il 9 febbraio a Madrid - che, con la grazia di Dio, e perché è giusto, finisca tutto in una bol­la di sapone. Cor Mariae dulcissimum, iter para tu- tum\»73.

Mentre attendeva gli sviluppi degli eventi gli arrivò da Milano un avvertimento pressante. Il Cardinale Schuster stava sulle spine. Quando, il 18 febbraio, quel­li dell’Opera gli fecero ancora visita, appena dopo i sa­luti, il Cardinale chiese subito del Fondatore:

“Ma in questo momento non ha una croce pesante?”“Se così fosse, sarà molto contento, perché ci ha sem­

pre insegnato che se rimaniamo accanto alla Croce, sare­mo molto vicini a Gesù” , gli rispose don Juan Udaondo.

“No, no - lo interruppe -. Io conosco la croce del vo­stro Fondatore. Ditegli da parte mia che si ricordi del suo compaesano S. Giuseppe Calasanzio e che si dia da fare”74.

Quando la lettera proveniente da Milano giunse nelle mani del Padre, la carta aveva già assorbito le lacrimè di chi l’aveva scritta. Don Josemarìa capì perfettamente il messaggio del Cardinale e in che cosa consisteva la tene­brosa trama ordita contro l’Opera. Qualcuno cercava di farla dividere in due istituzioni separate e tra loro estra­nee, una per gli uomini e una per le donne. Per farlo sa­rebbe bastato decapitarla: tolto di mezzo il Padre, l’u­nità sarebbe venuta meno: Percutiam pastorem et dispergentur oves75.

Il Fondatore agì rapidamente. Andò a trovare il Se­gretario della Congregazione dei Religiosi e gli disse:

«Lor signori sappiano che se mi tolgono la carica di Presidente Generale senza spiegarne i motivi, il mio do­lore durerà solo quattro secondi; anzi, mi fanno un fa­vore, perché io chiederò l’ammissione e sarò l’ultimo nell’Opus Dei, come ho sempre desiderato. Ma sappia­

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no pure che se mi allontanano dall’Operar commettono un crimine, perché mi assassinano»76.

Indagò sul motivo di quella intenzione, ma gli fu ne­gato che ve ne fosse alcuno. C’era invece una forte pres­sione da parte di certe persone. Ovviamente non gli fu­rono detti i nomi degli occulti promotori, né egli cercò di scoprirli: c’era di mezzo il segreto d’ufficio.

Il passo successivo fu parlare con il Cardinale Tede- schini, non appena questi ebbe preso possesso del suo incarico di Cardinale Protettore dell’Opus Dei, il 24 febbraio 195277.

Don Josemaria preparò per lui una lettera, dal tono fermo e sincero, e insieme a don Alvaro andò a trovare il Cardinale, al quale consegnò lo scritto. Questi lo lesse con calma e promise che il suo contenuto sarebbe arri­vato a conoscenza del Santo Padre. La lettera portava la data del 12 marzo 195278. Tutto l’Opus Dei in quei giorni era impegnato a pregare intensamente, mentre il Padre, con l’animo sospeso, manifestava ai suoi figli la propria angustia:

«Figlio mio - diceva a uno di essi - quante volte mi hai sentito dire che mi sarebbe piaciuto non essere del­l’Opera per chiederne subito l’ammissione e obbedire a tutti e in tutto, occupando l’ultimo posto? Tu sai bene che non ho mai desiderato diventare un fondatore. È stato Dio a volere così. Ti rendi conto che vogliono di­struggere l’Opera e che mi attaccano? Mi vogliono mandare via dall’Opera (...). Figlio mio, se mi mandano via mi uccidono, se mi cacciano è come se mi assassinas­sero. Gliel’ho già detto che mi releghino nell’ultimo po­sto, ma non mi mandino via, perché se lo faranno com­metteranno un assassinio»79.

Il 18 marzo, vigilia di S. Giuseppe, Tedeschini ottenne udienza e lesse a Pio XII la lettera che la settimana pre­cedente don Josemaria gli aveva indirizzato. Lo stile era nobile, sincero e familiare; cosa che poteva permettersi con il Cardinale Protettore, con il quale apriva comple­

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tamente il proprio cuore; ma i concetti, pur espressi in tono delicato, potevano suonare duri al Sommo Pontefi­ce. Era però necessario che il messaggio giungesse al Pa­pa in modo chiaro e diretto, perché c’era più di una ra­gione per sospettare che coloro che tenevano le fila di quella oscura faccenda avessero accesso diretto allo stu­dio del Pontefice.

Ecco una parte della lettera che il Cardinale Tedeschini lesse al Papa, e che il Pontefice ascoltò con attenzione:

«Roma, 12 marzo 1952.Eminenza Reverendissima,nessuna persona meglio di V. E., da tanti anni amico e

protettore de facto (...) e ora, per sovrana disposizione del Sommo Pontefice, Protettore de jure dell’Opus Dei, che ha sempre seguito con vigilante interesse e paterno amore il processo interno e lo sviluppo esterno della no­stra Opera, potrà comprendere e misurare la nostra sor­presa, piena di profondo dolore e pena, nel ricevere la lettera della Sacra Congregazione dei Religiosi in data 5 gennaio 1952, del cui contenuto ed evasione l’Eminenza Vostra è a conoscenza per le copie dei due documenti (6 gennaio; 3 febbraio 1952) che Le abbiamo opportuna­mente rimesse. Ci sorprende e addolora che si voglia di nuovo tornare su una questione già tanto profondamen­te discussa, esaminata e decisa, assieme a tutto l’ordina­mento dell’Opus Dei.

Ci permetterà la V.E. rilevare che il presente atteggia­mento della Sacra Congregazione dei Religiosi non può essere altrimenti motivato che da denunce nei confronti dell’istituto. In tal caso, animati da un vivo sentimento di giustizia e di amore per la verità, oseremmo formula­re il desiderio di essere posti apertamente di fronte a queste denunce e umilmente chiedere la produzione del­le prove».

Seguiva l’esposizione delle calunnie e delle falsità con­tro l’Opera. Infine, per concludere, il Fondatore sotto­poneva al buon criterio del Cardinale Protettore l’op­

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portunità di procedere alla redazione di un nuovo Rego­lamento interno dell’Amministrazione, «per assicurare ancora di più quanto nel Regolamento ora esistente si contempla: poiché in tal modo si eviterebbe, da una par­te, la possibile preoccupazione della Santa Sede, dall’al­tro, il discredito calunnioso di tante migliaia di anime».

Il Papa seguiva attentamente la lettura. Di quando in quando alzava le mani, quasi a sottolineare le parole con un gesto. Non appena Tedeschini ebbe terminato, il Santo Padre, con tono di impazienza e di sorpresa, esclamò: “Ma chi ha mai pensato di prendere qualche provvedimento ? ” 80.

A questa domanda il Cardinale rispose col silenzio. Il Papa era stato ormai informato ed erano fuori gioco co­loro che aspettavano il momento propizio per distrugge­re l’Opus Dei. Il Fondatore era arrivato in tempo a bloc­care la manovra81.

3. Un monumento di fede e di amore

Don Josemarìa si sarebbe potuto facilmente risparmiare i grattacapi e le enormi preoccupazioni che comportava la costruzione dei nuovi edifici della sede centrale dell’O­pus Dei. Chiunque altro avrebbe desistito dall’attuare il progetto o, nel migliore dei casi, l’avrebbe rallentato o rinviato. Invece no: fin da principio il Fondatore af­frontò i lavori con slancio. Dopo anni di eroico impe­gno, non riusciva a risolvere il problema di finanziarne il costo. Avrebbe potuto decidere che quell’ardua impresa romana81, affrontata con tanto ardore, era impossibile, era un’autentica pazzia, come i fatti stavano a dimostra­re. Don Josemarìa aveva fatto tutto ciò che gli era uma­namente possibile, fino all’estremo di chiedere l’elemosi­na ai suoi figli, affinché questi la chiedessero a loro volta ad altri. Vari amici e istituzioni dai quali avrebbe potuto ottenere denaro gli avevano già presentato scuse cortesi e

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ragionevoli. Pertanto, tre anni dopo aver iniziato i lavori di Villa Tevere, nell’agosto 1952 il Padre definiva la si­tuazione con queste parole: «Siamo economicamente esausti... e dobbiamo finire questa casa»83.

Non si riferiva soltanto alla mancanza di denaro o al­l’esaurimento delle fonti di finanziamento. Il Fondatore intendeva dire qualcosa di più: la impresa romana aveva sì consumato tutte le sue energie, ma la volontà di Dio non era certo venuta meno. Perciò restava sempre vali­da la decisione iniziale e i lavori sarebbero stati portati a termine84. Anche perché il Padre sapeva che stava com­pletando uno strumento apostolico, che gli avrebbe da­to la possibilità di curare e perfezionare la formazione teologica e apostolica dei suoi figli.

Passava il tempo e le difficoltà aumentavano. Ma il miracolo si ripeteva tutti i giorni e i lavori proseguiva­no, come scriveva a Odón Moles nel 1954:

«Continuiamo ad andare avanti, ogni giorno, quasi per miracolo: è triste che non compaia una persona dal cuore grande, che ci fornisca i mezzi per terminare que­sto strumento divino, il Collegio della Santa Croce»85.

Era un’iniziativa nell’interesse delle anime, per la gloria di Dio e per il servizio della Chiesa. Inoltre avrebbe dato un forte impulso, su scala mondiale, all’apostolato dell’Opera. Già nel 1950 questa intuizione del Fondatore era confer­mata dai primi frutti, come scrisse a Pedro Casciaro:

«Quest’anno ne vengono altri tredici o quattordici - con quelli che sono già qui arriveremo a ventisei o venti­sette - per fare il dottorato nelle Facoltà ecclesiastiche. E presto potremo inviare docenti e direttori di Centri di Studi in ogni Regione, con una laurea in filosofia scola­stica, in diritto canonico o in teologia. E un grande pro­gresso per la formazione di tutti e per aumentare il nu­mero di quanti potranno arrivare al sacerdozio! Comprendi ora la mia preoccupazione? Chiedi al Signo­re e alla Madonna di Guadalupe i soldi per questa casa e per mantenere gli studenti. Ne vale la pena»86.

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Dallo scontro fra gli inconvenienti della povertà e la volontà di farvi fronte scaturivano nel cuore del Padre scintille di amore e di fede e la pace di chi si abbandona nelle braccia del Signore. Perché, come raccontò a Pedro Casciaro: «Il Signore non ci abbandonerà. Ogni giorno la mia fede è più viva»87.

Portare avanti i lavori di Villa Tevere fu, fin dall’ini­zio, un’avventura che divenne, in poco tempo, quasi in­sostenibile. Nel gennaio 1950 il Padre fece una valuta­zione dei mezzi umani e di quelli soprannaturali:

«Siamo molto a corto di denaro. Ci sono giorni in cui non si sa come pagare - umanamente non si vede nep­pure uno spiraglio - per poter continuare i lavori di Vil­la Tevere: ne usciamo con operazioni bancarie. Tutto, pur di terminare questi edifici; e poi, toccherà al Colle­gio Romano e a quello di Castello. Sono - lo saranno presto - strumenti meravigliosi (...). Pregate il Signore e agite sempre santamente, perché anche questa è un’otti­ma orazione»88.

Nell’ottobre 1952 si domandava: «La soluzione verrà dall’America?»89. E ancora: «Quando troveremo la per­sona provvidenziale, con tanto amore per Cristo da aiu­tarci, senza far chiasso, a pagare tutto questo?»90.

L’Opera cresceva e si estendeva in altri Paesi del Suda- merica: Argentina, Cile, Colombia, Perù, Ecuador. Il Pa­dre rinnovava sogni, preghiere e speranze, senza perdere la fiducia in Dio:

«Sono contento - scrisse a quelli del Perù nel 1954 - per come vi impegnate ad aiutare il Collegio Romano della Santa Croce: magari trovaste la persona provvi­denziale che divenga lo strumento per terminare rapida­mente questa casa! Non immaginate quante sofferenze in questi sei anni»91.

Pur non disperando di trovare un milionario che provvidenzialmente risolvesse tutto, il Fondatore non basava le sue speranze su personaggi immaginari o su clamorosi miracoli. Portava sulle proprie spalle il peso

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principale e incoraggiava tutti i suoi figli, senza eccezio­ni, a dare una mano92.

* * *

Narrare nei particolari l’epopea di Villa Tevere non è né facile né, forse, opportuno. L’elenco degli ostacoli da su­perare e dei miracoli che avvennero ogni giorno riuscireb­be forse pesante e faticoso alla lettura. Inoltre, uno studio sia pure sommario delle centinaia di lettere e di note sui diari di circa due lustri andrebbe a scapito della chiarezza dell’esposizione, impedendo una visione d’insieme. Basti dire che il comportamento forte e determinato dèi Fonda­tore durante il periodo dei lavori nella sede centrale del- l’Opus Dei, la Villa e i nuovi edifici annessi da costruire, è coerente con tutta la sua biografia. Va anche sottolineato che, benché l’argomento dei lavori tornasse spesso nelle sue lettere, egli non ne volle abusare per farne uno sfogo delle sue preoccupazioni e dei suoi timori.

Don Josemarìa, bravo scrittore e pedagogo qual era, aveva il dono di racchiudere in detti popolari o familiari i pensieri elevati. Un delicato suggerimento spirituale o una situazione economica (come è il caso di cui si sta trattando) venivano definiti in due o tre paróle, per cui non erano necessarie ulteriori spiegazioni per rendersi conto di ciò che voleva dire. Orbene, basta paragonare le espressioni con cui descriveva la situazione economi­ca dell’Opera nel 1949 a quelle che usò nelle lettere del 1950 per avere un’idea di quanto fossero venute meno in breve volgere di tempo le risorse economiche mentre, invece, si rafforzavano la sua fede e la sua speranza93.

L’inizio delle grandi preoccupazioni era stata l’estate del 1949, poco dopo la fine dei lavori del Pensionato e all’inizio di quelli di Villa Tevere. Il 31 luglio 1949 il Pa­dre aveva inviato ai membri del Consiglio Generale al­cune righe che sono una sorta di manifesto dei princìpi ai quali si sarebbe eroicamente attenuto per dieci anni:

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«Gesù mi protegga questi miei figli.Carissimi, di fronte alle attuali difficoltà economiche,

non c’è altra possibilità che impiegare i mezzi sopranna­turali e dar fondo a quelli umani. Perciò, se per venerdì non verrà risolto il problema degli otto milioni, faremo in modo che Àlvaro ritorni in Spagna sabato per conti­nuare a cercarli con voi.

Non so se vi rendete esattamente conto di ciò che im­plica, per tutta l’Opera, portare avanti questi impegni di Roma; (...) e che, alla fine, fare o non fare Villa Tevere significa rilanciare o bloccare per mezzo secolo l’attività del nostro Istituto»94.

Nelle lettere successive accenna ai problemi economi­ci che lo obbligavano a rimandare i pagamenti e a “ro­sicchiare il denaro” 95 per farlo durare di più; alle “preoccupazioni economiche” , alla sorpresa di trovarsi “con l’acqua alla gola”96 e con pochissimi soldi97, ma con la fiducia che Dio non li avrebbe abbandonati98.

Le difficoltà economiche sembravano umanamente insuperabili99, e «se non sapessimo per esperienza quan­to è paterna verso di noi la Provvidenza del Signore - scrisse don Josemaria ai fedeli dell’Opera degli Stati Uniti - ti direi che siamo sull’orlo del baratro»100.

Nonostante tutto, si andava avanti «con sempre mag­giore abnegazione e maggior fede nella Provvidenza»101. Il Padre sapeva che il suo unico appoggio per questi proble­mi era don Àlvaro: «Àlvaro e io - scrisse a Pedro Casciaro- stiamo lasciando un pezzo di vita tra queste mura»102. Di fronte all’apparente prossimità di una catastrofe103, esaurite le risorse, supplicava, pregava e quasi gridava ai suoi figli: «Aiutateci, poco o molto che sia!»104.

4. L’eroismo di don Àlvaro

Non appena cominciarono i lavori nella Villa Vecchia (l’e­dificio principale del complesso di Villa Tevere) don Àlva-

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ro fu completamente sommerso dai debiti. Era stato il Pa­dre a farlo comandante in capo di quella impresa tanto gravosa. Lo aveva fatto in nome di una elementare pru­denza, perché non doveva essere lui ad assumere respon­sabilità economiche che avrebbero potuto comportare conseguenze sgradevoli. Sul Procuratore Generale incom­beva perciò il faticoso compito di ottenere donativi, credi­ti bancari, dilazioni di pagamento, ecc. Doveva badare al­la scadenza delle cambiali, ai pagamenti dei piccoli fornitori, al salario settimanale di un centinaio di ope­rai105. Don Àlvaro, da anni il più stretto collaboratore del Padre, per le sue capacità di lavoro e di governo era inso­stituibile; lo si vide chiaramente nel febbraio 1950 in occa­sione dell’attacco di appendicite di cui fu vittima:

«Àlvaro - scrisse il Padre al Consiglio Generale - è a letto per un attacco di appendicite che, pur non essendo violento, è molto fastidioso; oggi gli hanno fatto le ra­diografie e sembra che i medici vogliano consigliare l’o­perazione. Sapete bene che non è una cosa nuova, ma in questi giorni si è riacutizzata; e lui, per non lasciare il la­voro, ha taciuto finché non ne poteva più, Lo conoscete. Pregate per lui, perché, pur essendo un’operazione faci­le, per noi è un bel pasticcio: nessuno lo può sostituire nella gran quantità di cose dell’Opera di cui si sta occu­pando»106. Fu operato il 26 febbraio e l’intervento fu più serio di quel che i medici avevano ritenuto107.

Nelle lettere del Padre vi sono diversi altri cenni ai problemi economici e al ruolo di don Àlvaro: «Àlvaro ha firmato cambiali per parecchi milioni, e bisogna pa­gare»108. Evidentemente, non sapevano come farlo109.

“Ricordo - racconta don Àlvaro - che il Padre fece diverse romene al Santuario del Divino Amore, per im­plorare l’aiuto della Madonna. Andò in Spagna diverse volte, per sollecitare i suoi figli e stimolarli con il suo esempio a cercare i fondi necessari. In una settimana, a seguito delle fatiche della ricerca economica, il Padre perse sei o sette chili. Ma si riuscì a spuntarla”110.

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L’arrivo del sabato pomeriggio, quando gli operai si mettevano in coda per riscuotere e i fornitori si assiepa­vano nell’ufficio del cantiere, era temuto fin dalla vigi­lia. Qualche volta, il venerdì, il Padre diceva all’incari­cato della contabilità: «Neppure oggi Àlvaro ha soldi. Fa’ in modo che domani non vengano troppi fornitori perché non si diffonda il panico»111.

Eppure, in modo del tutto sorprendente, quando giungeva l’ora, don Àlvaro aveva sempre un po’ di soldi per far fronte alle urgenze; rimanevano in sospeso i pa­gamenti che potevano essere dilazionati senza traumi. Di questo strano fatto - un miracolo che si ripetè ogni sabato per molti anni - dà notizia il cronista del Diario dei lavori di Villa Tevere sabato 17 novembre 1951, an­notando:

“ Oggi il povero Àlvaro ha ottenuto un altro credito di quattro milioni e mezzo per pagare le cose più urgenti. [A quel punto i debiti superavano già i ventiquattro mi­lioni]. Riusciremo dunque a tappare i buchi, almeno i più urgenti. Da parte mia mi devo scervellare a rifare venti volte l’elenco dei debiti, togliendo a questo cento, a quello cinquanta... finché tutto non quadra” 112.

Alla fine del 1951 i debiti stavano raggiungendo livel­li allarmanti e sottraevano al Padre, se non la pace e la gioia, almeno la tranquillità e il tempo di cui aveva biso­gno per dedicarsi ai compiti di governo. Inoltre, la co­struzione degli edifici dell’importante strumento che sa­rebbe stato la sede centrale non comportava solo l’ingrato compito di cercare soldi. Nella visita mattutina che faceva allo studio degli architetti, il Padre si interes­sava ai progetti in corso di esecuzione, studiava le plani­metrie e dava suggerimenti di ogni genere, correggendoo trovando soluzioni architettoniche. Gli edifici doveva­no essere funzionali e adeguati alle necessità di chi li avrebbe utilizzati. Competeva al Fondatore indicare le dimensioni, i collegamenti, l’aspetto e le rifiniture delle varie zone abitative. A furia di studiare e interpretare

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progetti e di cercare soluzioni, il Padre arrivò ad avere una notevolissima esperienza, teorica e pratica113.

Quasi ogni giorno percorreva la zona dei lavori, esa­minando tutto e parlando di Dio con gli operai che in­contrava camminando sulle impalcature o salendo sulle scale. Muratori, imbianchini, idraulici avevano modo di costatare la sua allegria e il suo buon umore. Aveva pa­role di incoraggiamento per ognuno di loro. Li ringra­ziava perché lavoravano con maestria, con impegno e onestà. Si interessava delle loro famiglie, mogli e figli, e ricordava loro i doveri del padre cristiano114. Gli operai impararono ad amare il Padre e l’Opera con un affetto che, in alcuni casi, sarebbe durato per sempre.

L’impegno che il Padre metteva affinché, nonostante le difficoltà economiche, si lavorasse con perfezione, cu­rando i particolari, obbediva al suo desiderio che quegli edifici fossero l’immagine viva dello spirito di santifica­zione del lavoro. Inoltre, il “pezzo di vita” che egli e don Àlvaro stavano lasciando tra le mura di Villa Teve­re era il costo spirituale della costruzione, il prezzo del miracolo quotidiano che evitava l’interruzione dei lavo­ri. Le sofferenze morali dell’uno e dell’altro erano inevi­tabili. Furono loro le due colonne su cui poggiò comple­tamente il peso di quell’impresa.

«Il Collegio Romano della Santa Croce! - esclamava il Padre -. Non lasciatemi solo: vale la pena essere eroi­ci anche in questo»115.

Alcuni anni dopo, un giorno, passeggiando con due suoi figli nel giardino di Villa Tevere, raccontò loro quan­to avevano dovuto soffrire, lui e don Àlvaro, a motivo dei lavori. E disse: «Il Signore ci ha trattati da santi. Non lo saremo..., ma è vero che Egli ci ha trattati così»116.

Si sa bene, perché è un segno divino presente nella vi­ta di ogni santo, come il Signore tratti i suoi e quali sia­no le sue attenzioni e le sue carezze, parola con cui don Josemaria definiva il manifestarsi della Croce nella sua esistenza. Egli ricevette molte di queste carezze divine

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assieme a don Àlvaro, perché questi era destinato a esse­re il suo punto di appoggio più vicino e più efficace per fare l’Opus Dei. Don Àlvaro fu per il Fondatore il figlio prediletto, il figlio fedele, docile, obbediente ed efficace, il suo braccio destro e la roccia - saxurn - sulla quale potè appoggiarsi senza temere che cedesse.

Tra il Padre e don Àlvaro esisteva, inoltre, una parti­colare sintonia. Erano due persone interamente compe­netrate nell’agire e nell’affrontare gli eventi. Non è af­fatto scontato che stare insieme, respirare la stessa aria e affrontare le medesime preoccupazioni sia garanzia di affiatamento. In questa vita, anche nel caso dei santi, è normale che ci siano frizioni. «Invece - affermava il Pa­dre - don Àlvaro e io abbiamo vissuto in perfetto accor­do»117. L’evidente diversità di carattere e di posizione che esisteva tra loro richiedeva, da parte di don Àlvaro, determinate virtù e una grande flessibilità per adattarsi ai ritmi di don Josemaria, ed egli lo faceva con grande amore. Senza perdere la propria personalità, dovette im­parare a immedesimarsi con la volontà del Fondatore, a volte adattandosi al suo pensiero, altre volte intuendo in anticipo i desideri del Padre. Ma, soprattutto, erano in­timamente legati nella preghiera e nello spirito118.

Basandosi sulla trasparente semplicità del loro rap­porto e sulla completa unità con quel suo figlio, il Pa­dre, in una lettera, lasciò cadere dalla penna queste po­che parole: «Tocco con la mano, accanto a me, gli eroismi di Àlvaro»119. È una di quelle sintesi con cui i santi fotografano il valore di un’anima: il Padre non esprimeva un’opinione, ma asseriva un fatto evidente.

Quali erano le azioni eroiche di don Àlvaro? Quali circostanze davano una tale connotazione alle sue azio­ni quotidiane, alla sua vita di tutti i giorni?

Ebbene, lavorare molto e dormire poco, le inesorabili scadenze del sabato, che non gli concedevano tregua né respiro, responsabilità e timori, dover fare continua- mente di necessità virtù... Tutto ciò finì per intaccare la

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vigorosa costituzione di don Àlvaro, tanto che sempre più spesso cominciò a soffrire di forti coliche epatiche notturne, che gli impedivano di alzarsi al mattino. Ma questo piccolo sollievo, che nessuno nega a un malato che ha trascorso tutta la notte fra forti dolori, non era sempre concesso a don Àlvaro. Il Padre ne soffriva mol­tissimo, ma non c’era altra soluzione. Un pagamento ur­gente, una scadenza imminente o la necessità di fare precipitosamente la valigia e partire in cerca di denaro erano tutti motivi sufficientemente gravi per costringer­lo ad alzarsi. «Alvarito - gli diceva il Padre -devi alzarti per forza»120. E don Àlvaro, scrollandosi di dosso la fa­tica e i dolori con una letizia eroica, si alzava con aria giuliva121.

All’interno dell’Opera la sua unione con il Padre era diventata proverbiale. Coloro che risiedevano a Roma nel febbraio 1950 ricordano ciò che accadde dopo l’o­perazione di appendicite subita da don Àlvaro.

“Il Padre raccontava che, dopo che avevano riportato Àlvaro nella sua camera dalla sala operatoria, il chirur­go si chinò su di lui e cominciò a chiamarlo, ‘Don Àlva­ro! Don Àlvaro!’, per svegliarlo. Ma non accadeva nul­la. Allora il Padre, dai piedi del letto, disse a mezza voce: «Àlvaro, figlio mio!». E don Àlvaro aprì gli occhi. Nel raccontarcelo, il Padre disse con orgoglio: «Don Àlvaro obbedisce anche sotto anestesia»” 122.

All’attacco di appendicite fecero seguito le coliche epatiche, che non lo lasciarono in pace per molti an­ni123. Era evidente che le contrarietà si ripercuotevano sul suo fegato e che le preoccupazioni minavano la sua resistenza fisica. Nell’ottobre 1952 il Padre scriveva ai suoi figli degli Stati Uniti della malattia di don Àlvaro:

«Àlvaro ha un violento attacco di fegato. Non so co­me riesca a resistere con tante cose da fare e tante preoc­cupazioni. Ma in realtà lo so, e lo sai anche tu, perché sai quanto è grande la sua fede e quanto talento, capa­cità di lavoro e serenità gli ha concesso il Signore. Penso

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che non siano estranee alla sua malattia le forti preoccu­pazioni economiche degli ultimi mesi e di questo mo­mento»124.

Il Padre sapeva molto bene che cosa l’avrebbe guari­to: un paio di begli impacchi di dollari da un milione ciascuno125; ma offrirgli questa cura era al di fuori delle sue possibilità.

Grazie alle lettere del Fondatore possiamo seguire l’evoluzione dello stato di salute di don Àlvaro. Nell’a­prile 1954:

«Àlvaro - che vi dice sempre, a voce e per iscritto, che sta bene - è di nuovo a letto: lavora troppo e la sua sa­lute va così così. Troppe preoccupazioni, anche se le na­sconde con la sua faccia allegra e le supera con la sua fe­de e il suo lavoro senza riposo»126.

Due mesi dopo:«Io continuo a star bene. Invece il Prof. Amalfitano

ha visitato con calma Àlvaro e l’ha trovato come Fer­nando L.: ha prescritto verdure senza sale e poca ali­mentazione. È sempre di buon umore, ma il cuore, la circolazione e il fegato non vanno bene. Il medico dice che la sua malattia è seria, ma che è sicuro di guarirlo. Fra l’altro - ha detto - scomparirà il sovrappeso, che è conseguenza della malattia. Oggi Àlvaro è a letto: per questo non scrive»127.

Un anno dopo:«Àlvaro, che da parecchio tempo stava bene, ha avu­

to oggi un violento attacco di fegato. Spero che sia l’ul­timo colpo di coda, perché dà persino l’impressione di essere ringiovanito. Badate, non voglio dire che sia vec­chio, ma il lavoro di tanti anni l’aveva invecchiato»128.

Purtroppo quello non fu l’ultimo colpo di coda, ma servì comunque a farli andare a riposare per alcuni gior­ni alle Terme di Montecatini, il che, in mancanza dei fa­mosi impacchi, era la migliore medicina.

«Finalmente - scrisse il Padre da Montecatini - abbia­mo fatto ciò che ha ordinato il medico e siamo qui. Cre­

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do, penso - non mi piace usare fuori luogo il verbo cre­dere'. la fede è una cosa straordinariamente grande - penso che un periodo di tranquillità e l’acqua delle Ter­me ci aiuteranno a lavorare bene durante l’inverno»129.

Alla fine dunque don Josemaria si era concesso il ri­poso su cui tanto avevano insistito i medici, ma solo perché si convinse che avrebbe fatto un gran bene a don Àlvaro. Non si sbagliava, perché non ci sono più accen­ni al mal di fegato fino al gennaio 1956:

«Àlvaro è malato da diversi giorni, con qualcosa al fe­gato e una forte influenza. Anch’io sono stato a letto al­cuni giorni e non sto ancora bene: è stata la classica bot­ta di influenza»130.

Rileggendo e meditando la corrispondenza di don Jo- semarìa ci si rende conto di quanto la fede tenesse viva la speranza di una rapida soluzione dei problemi. Il Pa­dre e don Àlvaro attesero per anni il momento del meri­tato riposo, senza mai venir meno al loro impegno. Nel gennaio 1953 egli scriveva al Consiglio Generale dettan­do norme sul riposo:

«Fate in modo di avere tutti, ogni tanto, un periodo di riposo: qui non lo abbiamo, ma il nostro cattivo esempio non deve essere imitato. Vedrete che, non appe­na finirà - fra alcuni mesi - la parte più impegnativa di tutto ciò che stiamo facendo, arriverà finalmente anche per Àlvaro e per me il periodo di riposo che da tanti an­ni ci neghiamo. Conviene, per servire meglio il Signore.

Perciò voi in Spagna, insisto, organizzatevi in modo di poter avere tutti ogni tanto un po’ di riposo»131.

Il Fondatore metteva paternamente in guardia i suoi figli dal seguire il cattivo esempio che egli stesso e don Àlvaro stavano dando, a motivo delle difficoltà econo­miche e di altre esigenze del governo dell’Opera. Infatti, la norma sempre ribadita dal Fondatore era di lavorare sempre e di far consistere il riposo nel cambiamento di ambiente o di occupazione. Per un figlio di Dio nell’O- pus Dei, riposo non significa ozio, né pigrizia, né starse­

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ne a braccia conserte. È qualcosa di ben diverso. Il Fon­datore aveva trovato la formula per riposare... conti­nuando a lavorare. Era una buona formula e poteva raccomandarla ai suoi figli con assoluta certezza:

«Rendiamo grazie al Signore, che ci vuole sempre al lavoro: il nostro riposo sta nel cambiare lavoro»132.

5. La guarigione dal diabete (27-IV-1954)

Verso la metà del 1952 la situazione economica era dive­nuta insostenibile. Il debito aveva assunto proporzioni co­sì spaventose che non si riusciva a ridurlo in nessun modo. La ricerca di nuovi crediti bancari, di donativi e di elemo­sine era infruttuosa. A peggiorare le cose, comparvero di nuovo «certi fastidi che alcune persone ci procurano»133, con l’evidente riferimento a nuove incomprensioni. Tutto ciò mise a dura prova la pace di spirito del Padre, il quale ricorse, come sempre, a un’orazione più intensa.

Egli aveva un medaglione smaltato, sulle cui facce erano rappresentati il Cuore di Gesù e quello di Maria. Secondo Encarnita Ortega, gli era stato regalato dalla signora Candida, la proprietaria di Talleres Granda, un’azienda di Madrid che fabbricava oggetti per il culto sacro e promuoveva l’arte liturgica. Tutte le sere don Jo­semaria baciava con grande amore i due Cuori, recitan­do una giaculatoria: «Cuore di Gesù, donaci la pace! Dolce Cuore di Maria, sii la salvezza mia!»134.

La devozione al Sacro Cuore di Gesù era molto antica e molto diffusa in tutta la Spagna. Per devozione, nel1950 il Fondatore aveva chiesto che il Decreto di appro­vazione definitiva dell’Opus Dei portasse la data del 16 giugno, festa del Sacro Cuore, benché il documento fos­se stato promulgato diversi giorni dopo. Aveva anche deciso di far fare una statua del Sacro Cuore a grandez­za naturale, in legno policromato, con la data della con­cessione del Decreto Primum, inter incisa sulla base135.

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Assillato com’era dai problemi economici e quasi per “forzare la mano” al Signore, il Padre chiese ai suoi di Madrid, con lettera del 1° agosto 1952, di ripetere mol­te volte al giorno una giaculatoria: Cor Iesu sacratissi- mum, dona nobis pacem/136. Poco dopo chiese di fare lo stesso anche a quelli che stavano in Colombia137.

Ma il problema dei lavori prese una brutta piega all’i­nizio del settembre 1952 e il Fondatore, vedendo che l’impresa romana stava affondando, lanciò un S.O.S., sperando che il Signore volesse «mettere fine a questa tortura»138. La situazione sembrava ormai irrimediabi­le, quando decise di consacrare l’Opus Dei, con tutti i suoi membri e gli apostolati, al Sacro Cuore di Gesù.

«Presto farò la consacrazione al Sacro Cuore, annun­ciò a quelli del Messico. Aiutatemi a prepararla, ripe­tendo molte volte: Cor Iesu sacratissimum, dona nobis paceml». E aggiungeva un poscritto: «S.O.S. Continuia­mo ad avere l’acqua alla gola. Ma sempre con grande fi­ducia in nostro Padre-Dio»139.

Si avvicinava il 26 ottobre, festa di Cristo Re, giorno stabilito per la cerimonia di consacrazione, e don Jose- maria incitava tutti i suoi figli perché lo aiutassero a far­la «in modo di farGli piacere», cioè far piacere al Cuore di Gesù140. Si era impelagato in modo tale che, a giudi­care da quanto scriveva, si sentiva messo alle strette, senza vie di fuga, legato mani e piedi:

«Qui facciamo ciò che umanamente è possibile e pre­ghiamo. Ma, insisto, non si vede via d’uscita (...). Se non troviamo una soluzione prima della fine del mese, potremmo subire un contraccolpo che farebbe felice sa­tana»141.

Dieci giorni di respiro prima di toccare il fondo, se Dio non avesse posto rimedio. Per questo il Fondatore continuava a chiedere aiuto, nel timore di dover fermarei lavori. Confidava che la Santissima Vergine non li avrebbe abbandonati e che il suo Figlio Divino, avvici­nandosi il giorno della consacrazione dell’Opera, non

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potesse non dare risposta al clamore di tante preghiere. Ma la lettera al Consigliere della Colombia, in cui espri­meva tale speranza, finiva con una frase sconsolata: «Non so come riesco a scriverti (non rileggo neppure la lettera) perché oltretutto ho la preoccupazione della sa­lute di Alvaro»142.

Ancora una volta, una dura vita di lavoro e le tante an­gustie stavano minando la salute di don Àlvaro. Di che ge­nere di malattia soffriva? Sarebbe difficile dirlo. Il Padre, che meglio di tutti conosceva la causa del male, accennava a “cose di fegato” , ben sapendo che il fegato non era, in ultima analisi, la causa del male, ma la vittima143. Di fron­te ai contrattempi causati dall’andamento dei lavori e le altre disavventure che si accanivano contro la sua persona, cui ci si riferirà fra poco, il Padre non si scoraggiava. Con­tinuava a reggere, ma indubbiamente soffriva, soprattutto per i patimenti dei suoi figli. Il suo cuore, grande e aperto al mondo, si affacciava, al di là delle necessità dell’Opera e dei suoi apostolati, su ciò che alterava la pace universale: gli odi fratricidi, gli scontri sociali, la persecuzione della Chiesa e le guerre tra i popoli. Erano problemi che prende­va su di sé, invocando migliaia di volte al giorno: Cor lesu sacratissimum, dona nobis pacem!

«L’Opera di Dio - aveva scritto nel 1933 - è nata per estendere in tutto il mondo il messaggio di amore e di pace che il Signore ci ha affidato; per invitare tutti gli uomini al rispetto dei diritti della persona.

(...) Vedo l’Opera protesa nei secoli, sempre giovane, aggraziata, bella e feconda, a difendere la pace di Cristo e diffonderla dappertutto»144.

Al vigore che gli veniva dall’abbondante grazia fonda- zionale, raddoppiato dalla fedeltà della sua risposta, si aggiungevano le sue qualità personali. Difficilmente lo si vedeva prostrato. Superava con facilità lo sconforto, fa­cendo leva sulla filiazione divina: sapeva di essere figlio di Dio e che Dio è la Somma Onnipotenza. C’è un punto di Cammino che si può leggere in chiave autobiografica:

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«Se ricevi la tribolazione con animo intimorito perdi la gioia e la pace, e ti esponi a non trarre profitto spiri­tuale dalla prova»145.

Dai consigli che dava nella direzione spirituale possia­mo intuire i suoi stessi sentimenti. «Per avvicinarci a Dio - diceva - dobbiamo intraprendere la strada giusta, che è la Santissima Umanità di Cristo»146. Già a M a­drid, nei primi anni di apostolato, egli regalava libri sul­la Passione del Signore, perché coloro che cercavano Cristo arrivassero a conoscerlo, per poi amarlo. In Cammino si legge: «Mettiti nel costato aperto di Gesù Nostro Signore fino a trovare rifugio sicuro nel suo Cuore piagato»147. È l’amore del Cuore di Dio fatto Uo­mo che ci trasmette la vita della grazia, l’aiuto divino per esercitare nella nostra giornata la fede, la speranza e la carità, tutte virtù nelle quali il cristiano trova gioia, forza e serenità.

L’incontro dell’uomo con la Santissima Umanità di Cristo indica la strada di una spiritualità molto umana e molto soprannaturale. La grazia non distrugge la natu­ra, ma la risana, la eleva e la perfeziona, senza modifica­re sensazioni, appetiti e moti delPanimo:

«Io - ripeteva spesso il Fondatore - non ho un cuore per amare Dio e un altro per amare le persone. Con lo stesso cuore con cui ho amato i miei genitori e amo i miei amici, amo Cristo e il Padre e lo Spirito Santo e Maria Santissima. Non mi stancherò di ripetere che dobbiamo essere molto umani; perché altrimenti non potremmo neppure essere divini»148.

Nel Cuore divino, che è il Cuore di Dio incarnato, ci si rivela la carità immensa del Signore. Ma la nostra in­telligenza non può abbracciare un aspetto insondabile del mistero divino, e cioè che «l’Amore, dal seno della Trinità, si effonde su tutti gli uomini per mezzo dell’A- more del Cuore di Gesù»149.

* si■ *

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Il 26 ottobre 1952, giorno previsto per la consacrazio­ne, il piccolo oratorio contiguo alla stanza di lavoro del Padre non era ancora stato ultimato150 e non era possi­bile accedervi comodamente. La determinazione con cui il Fondatore voleva mettere quanto prima l’Opus Dei sotto la protezione misericordiosa del Sacro Cuore andò oltre gli ostacoli. In quella fase dei lavori, per salire dal piano terreno della Villa bisognava quasi lanciarsi al­l’assalto e don Josemarìa si lanciò come un valoroso guerriero. Qualche giorno dopo scrisse a quelli di Ma­drid e si dichiarò soddisfatto dell’impresa: si era arram­picato su tre scale a pioli per raggiungere l’oratorio e farvi la consacrazione:

«Sono contento: ho fatto la consacrazione, salendo una dopo l’altra tre scale a pioli per arrivare all’orato­rio. Verrà la pace, in tutti i campi! Ne sono sicuro»151.

Quel giorno aveva consacrato l’Opera e tutte le sue attività apostoliche; le anime dei fedeli dell’Opus Dei con tutte le loro facoltà, i sensi, i pensieri, le parole, le azioni, le attività e le gioie. Il testo della consacrazione, poi, aggiungeva:

“Ti consacriamo soprattutto i nostri poveri cuori, af­finché non abbiano altra libertà che quella di amare Te, o Signore” 152.

La pace scese sulla sua anima come pioggia tranquilla e benefica. Non ci fu un cambiamento repentino o un prodigio sorprendente. Venne la felicità interiore - il gaudium cum pace - come una brezza, a ristabilire nel­l’anima la gioia, la sicurezza e l’ottimismo.

«Non si vede ancora una soluzione ai problemi eco­nomici. Ma sono contento e sicuro153. Quante cose mi attendo da questa consacrazione!»154.

Gli attacchi diminuirono, pur senza cessare del tutto, poiché le calunnie sono un mostro con sette teste. Dimi­nuì il peso preoccupante dei debiti; fu possibile dilazio­nare alcuni pagamenti; arrivarono alcuni piccoli donati­vi e furono ipotecati il terreno e parte dell’edificio155.

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Con la consacrazione crebbe la sua audacia e potè di­chiararsi «ottimista e sicuro», a tal punto, da essere cer­to di «risolvere tutte le difficoltà e portare a termine questa impresa romana»156. Nel Cuore di Gesù trovò pace e rifugio, così come aveva chiesto il 26 ottobre:

“ Concedici la grazia di trovare nel divino Cuore di Gesù la nostra dimora e stabilisci nei nostri cuori il luo­go del tuo riposo, per rimanere così intimamente uniti: affinché un giorno ti possiamo lodare, amare e possede­re per tutta l’eternità nel Cielo, in unione con tuo Figlio e con lo Spirito Santo. Così sia” 157.

Nel gennaio 1953 il Padre ebbe la grande gioia di vede­re terminato uno degli oratori di Villa Tevere e di poter disporre di un altro tabernacolo. «Sono contento - scrisse - perché abbiamo nostro Signore con noi nella Villa Vecchia. Sono felice»158.

Una felice ricorrenza avrebbe colmato di pace e di gioia l’anno 1953: il 2 ottobre si sarebbe compiuto il venticinquesimo anniversario della fondazione dell’O­pus Dei. Nel dicembre 1952 il Padre, per preparare le sue figlie e i suoi figli, inviò una lettera a tutti i centri dell’Opera.

«Nell’anno che sta per cominciare celebreremo le nozze d’argento della nostra Opera. E le celebreremo nel nostro stile, in famiglia, senza chiasso (...).

Ci deve essere anche un rinnovamento della fedeltà alla chiamata divina, per essere in mezzo al mondo se­minatori di gioia e di pace (...).

La fedeltà di ciascuno si manifesti in frutti di santità personale, mediante la purezza di vita, l’impegno nella formazione, l’efficacia delle attività apostoliche, la co­stanza nel servizio della Chiesa.

Buon Natale e un fecondo anno nuovo!»159.Furono giornate di allegria e di lavoro. In prossimità

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dell’anniversario, il Padre scrisse a tutti i suoi figli, dan­do disposizioni su come celebrare una così memorabile giornata di ringraziamento, con le opportune cerimonie religiose e i festeggiamenti in famiglia:

«Siate pieni di gratitudine perché il Signore ha voluto scegliervi per essere OPUS DEI; il due ottobre adempite con maggiore impegno i doveri del vostro lavoro; inten­sificate - siete anime contemplative in mezzo al mondo- la vostra costante preghiera; siate, in questo mondo tanto pieno di rancori, seminatori di gioia e di pace: questo eroismo silenzioso della vostra vita ordinaria sarà la maniera più normale e più appropriata al nostro spirito di dare solennità alle nozze d’argento dell’Opera, nostra Madre»160.

Il Fondatore trascorse la ricorrenza nella casa di ritiri di Molinoviejo, nella abituale scomodità e povertà, cir­condato dai suoi figli, anche quelli venuti da Paesi lon­tani, nei quali era giunto l’apostolato dell’Opera. Furo­no giorni ben sfruttati, in cui fu possibile «scambiare impressioni con tranquillità»161.

Sotto i pini di Molinoviejo, all’inizio del viale che por­ta a una edicola dedicata alla Madonna (in realtà quasi una piccola chiesetta), a ricordo delle nozze d’argento fu collocata una lapide con la seguente iscrizione:

“ Qui a Molinoviejo e in questa edicola di Santa Ma­ria, Madre del Bell’Amore, dopo aver trascorso nella pace e nella gioia giorni di orazione, di silenzio e di la­voro, il Fondatore dell’Opus Dei, con il suo Consiglio Generale e con i rappresentanti delle diverse Regioni, venuti da terre lontane dell’Europa, dell’Africa e dell’A­merica per celebrare le nozze d’argento dell’Opera, il giorno 2 ottobre 1953 rinnovò la consacrazione dell’O­pus Dei al Cuore Dolcissimo di Maria, che aveva fatto nella Santa Casa di Loreto il 15 agosto 1951 ” 162.

Don Àlvaro continuava tuttavia a non stare bene. «E logico, vista la vita durissima che conduce»163, diceva il Padre. Anno dopo anno si ripeteva l’identica ed eroica

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storia: la mano di Dio era pesante, fino quasi a soffocare, ma non veniva meno il miracolo quotidiano dell’approv­vigionamento di Villa Tevere e il miracolo settimanale del pagamento di operai e fornitori164. Le difficoltà erano gravi, a volte molto gravi, ma furono sempre superate. Lo si ricava dalle lettere del Fondatore come quella che scris­se nel 1954 a Ricardo Fernàndez Vallespm facendogli, in momenti di grande necessità, anche un lieve rimprovero:

«Roma, 1 giugno 1954.Carissimo Ricardo, che Gesù mi ti protegga. Alvaro è

a letto, perciò ti scrivo io. E solo perché ha una fibra d’acciaio e uno spirito forte che questo mio figlio può portare su di sé tanto peso da tanti anni. Prega per lui, affinché si rimetta, perché ne abbiamo bisogno (...).

Qui siamo sempre in grandi difficoltà economiche: è penoso che non arrivi la soluzione definitiva, per poter fare tranquillamente il lavoro divino di questa casa del Collegio Romano della Santa Croce. Questo deve fare vergognare un po’ tutti: perché non si spiega la solitudi­ne nella quale a volte ci lasciate»165.

La soluzione de finitivai Di fatto non arrivò mai; ma ci furono interventi provvidenziali e amici generosi che - come verrà detto fra poco - riuscirono a sollevare il Pa­dre dalla preoccupazione dei pagamenti settimanali e dalle ansie per le scadenze dei debiti166.

* *

In questo racconto sono stati toccati a più riprese sia la problematica dei lavori di Villa Tevere, sia l’eroico com­portamento di don Àlvaro, tuttavia manca qualcosa per completare il quadro degli avvenimenti. Infatti, è abba­stanza strano che nelle lettere del Fondatore siano men­zionate di frequente e con ricchezza di particolari le ma­lattie di don Àlvaro, mentre manca qualsiasi notizia delle sofferenze di don Josemaria. Il Padre non soffriva? È emerso finora che non gli mancavano di certo pene e

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dispiaceri, angosce e dolori e che in tutte le sue lettere di quegli anni traspaiono molte lacrime nascoste e angosce quotidiane in grado di demolire chiunque, ma si tratta pur sempre di sofferenze dell’animo, di dolori morali.

Ma le sue sofferenze fisiche? Se l’unica fonte fossero le sue lettere, principalmente quelle indirizzate al Consi­glio Generale o ai Consiglieri delle diverse Regioni, non verremmo a conoscenza di nulla, pur sospettando, con ottime ragioni, che don Josemaria cancellasse apposta tutto ciò che poteva rivelare le sue sofferenze fisiche. L’unica eccezione fu quando era impossibile nasconder­le, come nel caso della paralisi facciale a frigore del 1948167. Negli anni dal 1948 al 1954, tuttavia, non tro­viamo quasi alcun riferimento ai mali fisici. Egli appare come un uomo refrattario al dolore e alle malattie, salvo un paio di accenni estremamente vaghi.

Il 30 agosto 1950, per esempio, scriveva a Madrid:«Carissimi, Gesù mi protegga questi figli. Ieri sono

dovuto andare dal dentista, che ha scoperto la causa della perdita di sangue che mi stava infastidendo da an­ni. Ha iniziato la cura, ma dice che ci vorrà un mese. Anche in Spagna, l’ultima volta che mi visitò, il dentista se n’era reso conto, ma non osò fare nulla. Anzi, ha tra­visato le cose e non ha voluto prendermi in cura. Sem­bra che quasi tutti siano disposti a ‘chiudere un occhio’ quando è una cosa difficile da affrontare. Crediamo che valga la pena cercare di guarire del tutto»168.

A questa spiegazione del motivo che gli impediva di allontanarsi da Roma per un mese, non aggiunse più nulla169.

C’è un successivo accenno a un disturbo fisico, sempre relativo ai denti. Il 26 ottobre 1952, subito dopo aver fatto la consacrazione dell’Opus Dei al Cuore di Gesù, al Padre vennero fortissimi dolori in bocca. Ne accennò in una lettera inviata in Sudamerica, il 31 ottobre 1952: «Ti scrivo dal letto, dove mi ha obbligato a stare il denti­sta, che mi ha sottoposto a una piccola operazione»170.

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A questa laconica notizia fece seguito, in novembre, un altro breve accenno alla salute: «In questo periodo sto un po’ male fisicamente, ma sono molto contento »171.

E queste sono tutte le confidenze cui si lasciò andare circa le sue malattie. Ma c’è un altro dato importante. Non una notizia, ma piuttosto un’assenza di notizie, un eloquente silenzio, un vuoto, assimilabile ai ‘buchi neri’ dello spazio, che si dilatano divorando energia. Del­l’anno 1954 sono rimaste circa un centinaio di lettere del Fondatore, ma c’è un inspiegabile vuoto tra il 24 aprile e il mese di giugno del 1954172. Questo dato sta­tistico può sembrare irrilevante, ma invece è pieno di significato.

Sappiamo qualcosa delle malattie del Fondatore nel periodo dal 1948 al 1954 grazie ai ricordi delle persone che stavano con lui e alle testimonianze dei medici chelo curarono. Da parte sua dunque c’è solo il rigoroso ri­serbo che manteneva circa le proprie malattie. La nor­ma che il Fondatore si impose è il silenzio: il rispetto del mistero del dolore e l’unione nascosta con il sacrificio di Cristo sulla Croce.

Fin da quando, giovane sacerdote, si dedicava a visi­tare i malati e i moribondi, nelle case e negli ospedali, don Josemarìa si era abituato a convivere con il dolore, a partecipare per mezzo del dolore al mistero della cor- redenzione con Cristo, espiando con la sofferenza le col­pe proprie e quelle altrui.

La storia clinica della più grave delle sue malattie ini­zia con le analisi che gli erano state fatte nell’autunno del 1944 e che avevano consentito di diagnosticare il diabete, che lo obbligò a seguire una cura specifica, con iniezioni quotidiane e una dieta. Argomento, quest’ulti­mo, su cui scherzava ancora nel 1947173.

Che cosa accadde in seguito? Perché il Padre non scherzò più sul diabete e neppure lo nominò? Perché de­cise di offrire a Dio, in silenzio e come ringraziamento e riparazione, i crescenti fastidi della malattia e i continui

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dispiaceri che persone estranee all’Opera gli arrecavano. Certe volte i fastidi diventavano per lui un autentico supplizio. In Cammino aveva scritto la ricetta per sop­portarli:

«Se sai che quei dolori - fisici o morali - sono purifi­cazione e merito, benedicili»174.

Se gli toccava di soffrire, don Josemaria ripeteva le lo­di al dolore che una volta recitò in un ospedale madrile­no, aiutando a ben morire una peccatrice pentita175.

Nel diario del Centro di piazza della Città Leonina, nel 1946 e nel 1947 sono citate alcune visite del Padre dal professor Carlo Faelli, lo stesso medico che, facen­dogli l’anamnesi, gli aveva chiesto se nella sua vita aves­se avuto dispiaceri, ricevendone risposta negativa. Faelli era un diabetologo e, come disse in seguito, don Jose­maria fu il malato più grave che mai avesse curato in vi­ta sua176. Così testimonia il prof. Faelli:

“Quando venne da me, nel 1946, già da qualche anno soffriva di diabete mellito abbastanza grave e in seguito ebbe, durante la mia cura, le complicanze più gravi del­la malattia: disturbi visivi, circolatori, ulcerazioni, cefa­lee, forti emorragie, la perdita di tutti i denti. Quanto ai disturbi della vista, si trattò di un attacco di diplopia ve­rificatosi fra il 1950 e il 1951, che gli ostacolò la visione al punto di impedirgli di leggere per qualche tempo. Cu­rai mons. Escrivà con tutte le opportune e moderne te­rapie” 177.

Provava una fame incontrollabile e una grande sete; inoltre le piccole ferite che si procurava percorrendo le impalcature di Villa Tevere si infettavano con facilità178. Gli tornò la diplopia e per qualche tempo fu costretto a usare un messale dai caratteri grandi179. Un giorno, al momento di alzarsi, si accorse di un nuovo disturbo: tutti i denti si erano mossi entro gli alveoli, subendo una rotazione, e gli era diventato impossibile masticare. L’e­strazione si presentava pericolosa, per il rischio di una emorragia, che sarebbe potuto essere fatale. Tuttavia il

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dentista, il dottor Kurt Hruska, gli assicurò che tutto sa­rebbe andato bene. Poiché i denti si muovevano libera­mente negli alveoli, impiegò il metodo cinese, secondo la scherzosa definizione di don Josemaria: glieli tolse a uno a uno con le dita, senza strappi violenti. Don Àlva­ro, senza farsene accorgere, si fece dare dal dentista i denti e li conservò come una reliquia180.

La cura durò diversi mesi, con visite frequenti e poi con un paio di controlli annuali. Dal rapporto mera­mente professionale, il paziente e il dentista passarono ben presto a temi più personali, concernenti Dio e la re­ligione. “Io sono protestante - testimonia il dottor Hru­ska - ma egli mi parlava con tanta chiarezza e convin­zione che mi sentivo di accettare tutte le affermazioni che faceva (...). Tuttavia nello stesso tempo era molto rispettoso per le credenze altrui” 181.

Don Josemaria entrava nello studio diffondendo la gioia attorno a sé, come una brezza che porta felicità e serenità. Ciononostante, c’era una cosa, nel comporta­mento del paziente, che spazientiva il dentista e lo inner­vosiva. “Se le faccio male, me lo dica” , gli chiedeva il dottor Hruska prima di mettersi al lavoro. Di lì a poco interrompeva l’intervento, sicuro che il paziente stesse soffrendo molto: “Me lo dica, quando le faccio male” , insisteva. Ma quegli, invariabilmente, diceva solo: «Fac­cia, faccia...». E il medico: “Ma come può resistere?” 182.

“Verso se stesso era molto duro; e, se uno è molto du­ro con il mal di denti, lo è per il resto” , continua Hru­ska183. Don Josemaria non si lamentava mai. Non chie­se mai analgesici. Andava dal dentista di mattina presto, per poter poi lavorare senza interruzione per tutta la giornata, pur sapendo che, dopo gli interventi, avrebbe sentito parecchio dolore.

La testimonianza del dottor Carlo Faelli, buon catto­lico, col quale il Fondatore strinse anche molta amicizia, è concorde. Don Josemaria mostrava un carattere gio­viale, aperto e molto comunicativo. “ Quando doveva

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parlare dei suoi disturbi più seri, lo faceva senza mai drammatizzare e mantenne questo atteggiamento sereno e fiducioso pure quando stette molto male” 184. Con il dottor Faelli accadeva come con il dentista. Comincia­vano a conversare di cose indifferenti e invariabilmente finivano per parlare di Dio. Spesso scambiavano idee sul ruolo del dolore nella vita dell’uomo, trovandosi d’accordo sul fatto “che la sofferenza è essenziale al cri­stiano per imitare Cristo e che il dolore è il contachilo­metri della nostra vita” 185.

Nella vita contemplativa del Fondatore, vita di inti­mità con Dio nostro Padre, dalla mano del quale ci ven­gono tutti i beni, il dolore diventava, in virtù dell’amo­re, un fervido atto di adorazione e di soavissimo omaggio:

«Quando sei ammalato, offri con amore le tue soffe­renze, e si trasformeranno in incenso che si innalza in onore di Dio e che ti santifica»186.

Passavano gli anni e la malattia proseguiva il suo cor­so imprevedibile. Il paziente si sottometteva scrupolosa­mente alle indicazioni dei medici, completamente di­staccato, senza le tipiche ossessioni dei malati. Nel periodo di maggiore intensità del diabete, ridotto quasi alla cecità e con il corpo tutto piagato, si recò in pelle­grinaggio a Lourdes, dove chiese alla Madonna moltis­sime grazie. Ma per quanto riguarda la propria salute, si limitò a chiederle di non essere colpito da una malattia che gli impedisse di “poter continuare a lavorare con le anime” 187. I fastidi e i disturbi prodotti dal diabete gli servivano per unirsi di più a Dio, procurandogli piccole o grandi sofferenze; egli poi non perdeva occasione per sminuirne l’importanza. In dieci anni gli avevano fatto tante di quelle iniezioni che ormai gli aghi delle siringhe entravano a fatica nella pelle, completamente indurita e a volte si piegavano. «Questo asinelio ha la pelle dura», scherzava il Padre: «Gli aghi di oggi non sono più quelli di una volta»188.

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Una diffusa sensazione di spossatezza si impadroniva spesso di lui. Gli sottraeva energie e gli impediva di muoversi con scioltezza. Le sue difese naturali contro la stanchezza erano l’allegria e lo spirito di sopportazione, che lo aiutavano a superare le malattie e a offrire le sof­ferenze, sempre con eleganza e con simpatia. Nel 1951 seguiva una dieta molto rigida e poco differenziata. Le sue figlie preparavano con molto impegno le poche cose che poteva mangiare, cercando di variare il gusto e la presentazione dei cibi. Qualche volta il Padre, per solle­citare il buon umore nei commensali, mentre giungeva in tavola il piatto di portata, ‘smascherava’ il solito pe­sce con una allegra esclamazione: “Ti riconosco, bac­calà, non cercare di nasconderti!”189.

Alludendo al diabete mellito e alla grande quantità di zuccheri che eliminava dal suo organismo, il Padre si concedeva anche una battuta di sapore scolastico: la Chiesa aveva già un Doctor Angelicus, un Doctor Sera- ficus e un Doctor Subtilis; e se a S. Bernardo era stato assegnato il titolo di Doctor Mellifluus, perché non dare a lui il titolo di Pater Dulcissimusì190.

Qualsiasi altro malato in condizioni critiche come le sue avrebbe avuto probabilmente il presentimento di una morte vicina, abbandonando il proprio lavoro. Non così don Josemaria, che aveva preso precauzioni nel ca­so la sua ultima ora fosse giunta inattesa191. Accanto al­la testata del letto aveva voluto un campanello, per po­ter chiedere i sacramenti. Si coricava con la mente concentrata in Dio: «Signore - diceva - non so se doma­ni potrò alzarmi; ti ringrazio per la vita che mi darai e sono contento di morire nelle tue braccia. Spero nella tua misericordia»192. Continuava dunque a non dare ec­cessiva importanza alla sua malattia. «Dio mi gua­rirà»193, rispondeva a chi si preoccupava del suo stato. E Dio lo guarì in maniera prodigiosa.

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Sembra che talvolta qualcuno, sopravvissuto a un grave incidente in cui ha perso la conoscenza ed è entrato in coma, quando ne esce riferisca di una singolare esperien­za: essere stato spettatore di una specie di riproposizione mentale della propria vita. Sembra che il fenomeno so­praggiunga quando, spentesi le sensazioni esterne e dun­que le sollecitazioni dei sensi, la memoria ‘si impadroni­sce’ della mente; in pochissimi secondi balenano nella mente le immagini salienti della vita, che l’interessato contempla da spettatore, pur essendone stato protagoni­sta. Allora molte cose appaiono evidenti e vengono mes­si a nudo miserie ed errori tanto che, quando il corpo si riprende, la luce che ha illuminato la coscienza può in­durre l’anima a pentirsi della propria vita passata.

Una cosa analoga accadde a don Josemaria il 27 apri­le 1954, festa della Madonna di Monserrat. Quel gior­no don Àlvaro, come faceva sempre, qualche minuto prima di pranzo gli iniettò una dose di insulina inferiore rispetto a quella prescritta dal medico. Si trattava di un nuovo tipo di insulina ad assorbimento ritardato194. Si recarono in sala da pranzo e, recitata la preghiera di be­nedizione, mentre erano soli, seduti uno di fronte all’al­tro, improvvisamente il Padre disse: «Àlvaro, l’assolu­zione!». “Io non capii, racconta don Àlvaro, non potei capirlo, Dio permise che non comprendessi le sue paro­le. Allora egli ripetè: «L’assoluzione, ego te absolvo...», e perse i sensi. Ricordo che dapprima divenne rosso fuo­co e poi giallo terreo. Rimase come rattrappito. Gli im­partii l’assoluzione immediatamente e feci ciò che potei. Dopo aver chiamato il medico gli misi dello zucchero in bocca e per farglielo inghiottire aggiunsi dell’acqua, per­ché non reagiva e il polso era impercettibile” 195.

Il medico, Miguel Àngel Madurga, anch’egli fedele dell’Opus Dei, arrivò quando il Padre aveva ripreso co­noscenza. Lo shock era durato dieci minuti. Lo visitò con attenzione, vide che ormai era fuori pericolo e che non c’erano complicazioni. Anche apparentemente il

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Padre stava meglio, tanto che cominciò subito a preoc­cuparsi per quel suo figlio e, saputo che era ancora a di­giuno, lo fece mangiare e lo intrattenne, parlando del più e del meno. Miguel Àngel non si rese neppure conto che il Padre in quel momento non ci vedeva.

«Figlio mio - disse questi a don Àlvaro, quando il medi­co se ne fu andato - sono rimasto cieco, non vedo niente».

“Padre, perché non l’ha detto al medico?”«Per non dargli un dispiacere inutile; forse passerà da

solo»196.Rimase cieco per alcune ore, dopo le quali recuperò la

vista e potè, guardarsi allo specchio:«Àlvaro, figlio mio, adesso so che aspetto avrò quan­

do sarò morto».“Padre, ora sembra fresco come una rosa”, gli replicò197.E lo disse perché davvero durante la crisi aveva assun­

to l’aspetto di un morto. In quegli attimi il Signore gli aveva permesso inoltre di veder scorrere rapidamente la sua vita, come se stesse vedendo un film198.

Si può affermare senza alcuna esitazione che la storia del diabete, che lo affliggeva da dieci anni, registrò da quel giorno un cambiamento sorprendente. Da quel mo­mento, infatti, la situazione si andò normalizzando in poco tempo, fino alla completa sparizione, nel 1954, del­le complicazioni metaboliche caratteristiche del diabete e di conseguenza della cura a base di insulina. Da parte sua, lo specialista che lo seguiva, il prof. Carlo Faelli, in­dica proprio nell’evento ora raccontato il momento chia­ve della guarigione, valutando il resto alla stregua di semplici conseguenze: “Guarì dal diabete dopo un attac­co di allergia, sotto forma di orticaria e lipotimia” 199. Faelli aggiunge che, dopo l’attacco anafilattico, “ si ri­trovò guarito dal diabete e dalle sue complicanze, senza avere più ricadute e senza essere più condizionato da li­mitazioni dietetiche. Si è trattato di una guarigione scien­tificamente inspiegabile”200.

Con la guarigione, gli scomparvero dolori e mal di te­

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sta, ai quali era tanto abituato che si sentì liberato da un carcere invisibile. Diminuì notevolmente di peso. Rima­sero tuttavia alcune sequele della malattia che, anni do­po, gli avrebbero causato altri disturbi201.

In un primo momento mantenne il silenzio sulla pro­pria guarigione, parlandone solo ad alcune persone. È questo il periodo (27 aprile - 1° giugno) in cui si verifica Pinspiegabile assenza di lettere. Ne fu questo il motivo? Egli, infatti, attese un certo tempo prima di renderla pubblica. Ringraziò molto per questo favore la Vergine di Montserrat, della quale era molto devoto e la cui fe­sta ricorre il 27 aprile, giorno della sua guarigione.

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NOTE AL CAPITOLO XVIII

1 Decreto Frimum inter (16-VI-1950), in Amadeo de Fuenmayor e altri, op. cit., Appendice documentale, doc. 31, pp. 767-780.2 Lettera ai suoi figli di Roma, da Molinoviejo9 in EF-480901-2,3 Lettera ai suoi figli di Palermo, in EF-491121-1.4 Lettera ai suoi figli del Consiglio Generale, in EF-461206-2.5 Cfr José Ramon Madurga, PM, f. 291; Juan Antonio Galarraga Ituarte, RHF, T-04382, p. 2.6 Cfr Fernando Maycas Alvarado, RHF, T-06140, pp. 1-2.7 Cfr Lettere a Pedro Casciaro, da Madrid e da Roma, in EF-480418-1 e EF-480616-1; Lettera ai suoi figli del Consiglio Generale, in EF-480311-2.8 Cfr Lettera ai suoi figli del Messico, da Madrid, in EF-490213-1; Pedro Casciaro, Sum. 6346-6347. L’Arcivescovo Primate di Città del Messico era mons. Luis Maria Martìnez. Il Centro dell’Opus Dei era in Calle de Lon- dres, n. 33.9 José Luis Muzquiz, RHF, T-04678/1, p. 46. Cfr pure Lettera ai suoi figli del Messico, da Madrid, in EF-490213-1.10 L’immagine della Vergine fu collocata nell’oratorio di Woodlawn Resi­dence, a Chicago, il primo negli Stati Uniti (cfr José Luis Muzquiz, RHF, T- 04678/1, p. 46). Per l’Hotel Sabadell, cfr Voi. II, cap. XI, § 4.11 Cfr Lettera ai suoi figli del Messico, da Madrid, in EF-490213-1.12 Lettera a José Manuel Barturen Palacios, in EF-551030-1.13 Benché il Fondatore cercasse, fin dai primi tempi, di inviare più di una persona nei nuovi Paesi, di fatto alcuni restarono soli. Così il Padre scrisse a José Ramon Madurga: «Anche se in questi primi tempi sei isolato - non £da solo’ - a Dublino, questo isolamento, vissuto con spirito soprannatura­le, deve essere la base forte del lavoro che si avvicina» (Lettera, da Madrid, in EF-481109-1). Rimasero isolati pure José Maria Gonzàlez Barredo, a Chicago (cfr Lettera, in EF-480309-1), e Adolfo Rodriguez Vidal, a Santia­go del Cile (cfr Lettere, in EF-500531-9, EF-500620-10, ecc.).14 Lettera ai suoi figli dell’Inghilterra, in EF-490119-3.

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15 Lettera a Adolfo Rodrìguez Vidal, in EF-501028-7.16 Lettera ai suoi figli dell’Inghilterra, in EF-490530-2. «Non dimenticate che dissodare è un lavoro duro - scriveva il Fondatore a quelli di Parigi - ma rende possibile la semina e il raccolto» (Lettera a Fernando Maycas e Àlvaro Calleja, da Madrid, in EF-490418-2).17 Lettera ai suoi figli della Francia, da Madrid, in EF-490216-1.18 Lettera ai suoi figli degli Stati Uniti, da Madrid, in EF-490223-2.19 Lettera ai suoi figli del Messico, da Madrid, in EF-490418-5.20 Lettera, in EF-500620-4. Il lavoro degli inizi fu descritto dal Fondatore in una lettera al Cardinale Bernard Griffin, Arcivescovo di Westminster nel 1943 e creato Cardinale nel 1946: «I miei figli di Londra hanno svolto fi­nora un’attività spirituale di preparazione e perciò poco appariscente. È una tappa sempre e dovunque necessaria, all’inizio, prima di poter fare un ampio apostolato: adattarsi all’ambiente, padroneggiare la lingua, stabilire i primi contatti...» (EF-500314-2).21 Lettera, in EF-500620-5.22 Lettera, in EF-510423-2.23 Nell’ottobre 1947 José Ramon Madurga, membro dell’Opus Dei, si era recato a Dublino per seguire un corso di specializzazione all’ University Col­lege. Per incarico del Fondatore fece visita all’Arcivescovo, mons. John Charles McQuaid. L’Arcivescovo interpretò male la sua venuta, credendo che una nuova istituzione religiosa stesse per stabilirsi nella sua diocesi. In seguito, sempre su indicazione del Padre, andò a Dublino Pedro Casciaro, che cercò di spiegare a mons. McQuaid la vera natura e l’apostolato dell’O­pus Dei, ma l’Arcivescovo non accordò il permesso per aprire una residenza universitaria a Dublino. Neppure una lettera del Fondatore (in EF-480311- 4), le successive visite di don José Maria Hernàndez Gamica, nonché un colloquio con mons. Ettore Felici, Nunzio a Dublino, fecero cambiare pare­re a mons. McQuaid, tutto preso dall’idea che l’Opus Dei fosse una congre­gazione religiosa. Eguale sorte ebbero altri tentativi di fargli capire la legitti­mità della presenza all’Università dei laici dell’Opus Dei e il loro diritto di fare apostolato (cfr Lettera a mons. John Charles McQuaid, in EF-510422- 1). Un anno dopo, a seguito di un lungo colloquio con mons. Àlvaro del Portillo, l’Arcivescovo accordò il suo permesso (ll-VIII-1952) per l’apertu­ra di due Centri a Dublino, uno per gli uomini e uno per le donne (cfr AGP, Sez. Espansione apostolica, Irlanda 1/5, 24 e 1/5, 25). Da allora, mons. Mc­Quaid ebbe e dimostrò sincero affetto e stima per l’Opus Dei.24 Lettera a José Ramon Madurga e a Patrick Cormac Burke, in EF- 500620-6.25 Cfr Lettera a Francisco Botella, in EF-500623-1.26 Cfr ibidem.27 Ibidem.28 Insegnava ai suoi figli che «il novanta per cento della vocazione lo dob­biamo ai nostri genitori. Sono stati loro spesso a gettare nella nostra vita il seme della fede e della devozione; e comunque dobbiamo sempre a loro l’a­verci messo al mondo, l’averci educato, l’averci formato dal punto di vista umano» (citato da Àlvaro del Portillo, Sum. 1340).

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29 Cfr Alejandrò Cantero Farina, Sum. 6670', Teresa Acerbis, Sum. 5005; Fernando Valenciano, Sum. 7146.30 È uno dei periodi difficili compreso negli anni delle tre consacrazioni dell’Opus Dei (1951-1952). Nel 1971 avrebbe fatto anche una consacra­zione allo Spirito Santo, per motivi differenti e in altre circostanze.31 Lettera a Gioconda Lantini, in EF-490705-1.32 Juan Larrea Holgum era nato a Buenos Aires il 9-VIII-1927. Chiese l’ammissione all’Opus Dei come numerario nel 1949. Ecuadoregno, eser­citò l’avvocatura prima di essere ordinato sacerdote, il 5-VIII-1962. Con­sacrato Vescovo il 15-VI-1969 in Ecuador, fu Vescovo Ausiliare di Quito, poi Vescovo di Ibarra, quindi Arcivescovo Coadiutore (26-111-1988) e poi, dal 7-XII-1989 fino al maggio 2003, Arcivescovo di Guayaquil.33 Juan Larrea, Sum. 6026.34 Nella deposizione al processo di beatificazione fatta a Roma da Umber­to Farri, teste n. 3, che comprende le sessioni 2-39 (da ottobre 1981 a mag­gio 1982) non si parla di questi eventi, dato che il teste in quel momento non ne era al corrente. In seguito, egli ritrovò nell’archivio privato della fa­miglia, ereditato nel 1985, i documenti relativi. Vi è una fotocopia della denuncia inviata al Papa, insieme a una serie di minute del documento, in cui compaiono le correzioni autografe del testo fatte da padre A. Martini S.J. Che questi sia stato il principale consigliere nel corso di tutta questa vi­cenda, è provato dagli originali di tredici lettere da lui inviate a Francesco Farri, tutte firmate, alcune delle quali scritte su carta intestata di vari centri accademici (cfr Archivio Farri, cartella Umberto).35 L’affermazione (“ ...dei loro Padri Spirituali” ) che i giovani in questione ricevessero direzione spirituale prima di avvicinarsi all’Opus Dei fu smenti­ta da loro stessi con una dichiarazione firmata da tutti e cinque.36 Lo scritto fa cenno della contrarietà nei confronti dell’Opus Dei del Car­dinale Giuseppe Siri, Arcivescovo di Genova. Stando ai testimoni, invece, il Cardinale, male informato da un padre gesuita e da alcune notizie tenden­ziose sull’Opus Dei, mantenne un atteggiamento cauto per alcuni anni. In seguito, mentre era a Roma per il Concilio Vaticano II, il Cardinale Siri si incontrò con il Fondatore ed ebbe modo di dirgli quanto lo avesse fatto soffrire il religioso in questione e quanto sarebbe stato felice di poter avere persone dell’Opera nella sua diocesi. Cfr Luigi Tirelli, Sum. 4538; Giaco­mo Barabino, Sum. 4525; Juan Bautista Torello, Sum. 5209. Cfr anche let­tera di padre A. Martini al signor Farri, 2-XI-1951, in Archivio Farri, car­tella Umberto.37 Esposto a Sua Santità Pio XII (25-TV-1951), fotocopia dell’originale in Archivio Farri, cartella Umberto.38 Cfr Francesco Angelicchio, Sum. 3499.39 Mario Lantini, Sum. 3572.40 Àlvaro del Portillo, PR, p. 571. Il Fondatore non tollerava alcun com­mento su questi fatti; lo rileva anche Juan Udaondo, citando il seguente episodio: “Avevo saputo anche, in quei giorni, che il padre gesuita Bellin- campi, viceparroco coadiutore della parrocchia romana di S. Roberto Bel­larmino e assistente del gruppo scout della medesima, si era sentito ferito

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dal fatto che alcuni di costoro frequentavano la casa di viale Bruno Buozzi e tre di essi - Umberto Farri, Giorgio de Filippi e Salvatore Longo - aveva­no chiesto l’ammissione all’Opus Dei. Dispiaciuto com’era, non si rispar­miava nel fare dichiarazioni false e calunniose nei confronti dell’Opera e del gruppo di spagnoli, come venivamo chiamati. Un giorno che ero da so­lo con il Fondatore, mi sfuggì un commento un po’ mordace nei riguardi di padre Bellincampi. Il Fondatore mi fermò subito. Mi corresse con energia perché non avevo saputo mantenere lo spirito che egli ci aveva sempre in­segnato, e cioè ‘tacere, scusare, riparare e pregare’; e mi consigliò non solo di pregare per padre Bellincampi, ma di prendere la disciplina e offrire peril religioso una bella serie di colpi” (Sum. 5034).41 AGP, POI 1-1966, p. 27.42 Lettera 24-XII-1951, n. 260.43 Con lettera del 27-IV-1951 comunicò a Francesco Farri: “La prego di volermi escludere da ogni iniziativa e dall’adesione data con mia firma allo scritto inerente ai nostri figli e all’Opus Dei” . Cfr Archivio Farri, cartella Umberto, e le dichiarazioni dei figli dei firmatari: RHF, D-15002.44 Ibidem.45 PR, voi. XVII, Documenta voi. II, Opus Dei (Consacrazioni), p. 5. La consacrazione viene fatta in tutti i Centri dell’Opera nella festa della Sacra Famiglia.46 Cfr Lettera 25-1-1961, n. 44.47 Encarnación Ortega, RHF, T-05074, p. 152.48 Javier Echevarrìa, Sum. 2401.49 “Da parecchio tempo prima della festa dell’Assunzione del 1951, senti­vo un immenso turbamento nella mia anima, perché il Signore mi faceva intuire che si stava tramando qualcosa di molto grave contro l’Opera” (Lettera 24-XII-1951, n. 230). Cfr Lettera 25-1-1961, n. 44.50 Àlvaro del Portillo, Sum. 421.51 Lettera 24-XII-l951. n. 230.52 Lettera 7-X-1950, n. 31.53 E uno dei racconti dell’infante Juan Manuel, narrati nel Libro de los enxiemplos del Conde Lucanor et de Fatronio. Anni dopo, La Fontaine re­se popolare questa storia nelle sue favole.54 Àlvaro del Portillo, Sum. 421.55 Cfr Lettera 14-IX-1951, n. 27.56 Lettera 24-XII-1951, n. 230. «Non sapendo a chi rivolgermi sulla terra, mi rivolsi, come sempre, al Cielo», scrisse nella Lettera 25-1-1961, n. 44.57 Lettera alle sue figlie e figli, in EF-510809-1. Il Fondatore era già stato a Loreto con don Àlvaro il 3 e 4 gennaio 1948 (cfr cap. XVII, § 3).58 Cfr Joaqufn Alonso, Sum. 4680; Juan Udaondo, Sum. 5038.59 È Gesù che passa, n. 12. Sul viaggio da Roma a Loreto, cfr Francisco Monzó, RHF, T-03700, p. 23; e Alberto Taboada, RHF, T-03358, n. 1334.60 PR voi. XVII, Documenta voi. II, Opus Dei (Consacrazioni), p. 9. Fece la consacrazione durante la Messa con le parole ardenti che gli sgorgavano dall’anima, e la rinnovò durante il ringraziamento, a nome di tutta l’Ope­ra. Cfr AGP, POI 1976, p. 1231.

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61 Ibidem, p. 10.62 II Padre, durante la Messa del 15 agosto, “aveva posato sulla patena, ac­canto all’Ostia, la fedeltà di tutti i suoi figli” (Encarnación Ortega, RHF, T- 05074, p. 152).63 Cfr Dati di due viaggi in Portogallo (I e X-1951), in RHF, D-15459; e Àlvaro del Portillo, Sum. 422. Successivamente il Padre si recò varie volte a Loreto: il 7-XI-1953; il 12-V-1955; P8-V-1960; l’8-V-l969; il 22-IV-1971.64 Cfr Juan Udaondo, Sum. 5036.65 Cfr ibidem, 5039.66 Cfr Relazione di don Juan Udaondo sulla visita al Cardinale Schuster (15-1-1952), in RHF, D-15460. In ottobre tornarono a far visita al Car­dinale di Milano e lo invitarono nella loro casa di via Carlo Poerio 16. Alcune settimane dopo, il Cardinale, tornando da una visita pastorale ed essendo nei pressi, andò effettivamente a trovarli. In casa c’era solo Juan Masià, che gliela mostrò; il Cardinale fu ben impressionato dalla pulizia, dignità e decoro dell’oratorio e dovette comprendere che, pur senza ostentarla, vivevano in povertà, perché poco tempo dopo inviò loro un sacco di riso per mezzo del suo autista (cfr Juan Masià Mas-Bagà, RHF, T-05896, p. 3).67 Documentazione relativa alle vicende che diedero luogo alla Consacra­zione dell3Opus Dei al Cuore di Maria del 15-VIII-1951, in RHF, D- 15001.68 Ibidem.69 Ibidem.70 Lo scritto di don Àlvaro contiene l’esposizione sommaria del regime delle due Sezioni dell’Opera: diverse, completamente separate (penitus se- paratae). Sono unite soltanto dallo spirito che le anima; quanto al regime, esse dipendono unicamente dal Presidente Generale, che è sempre un sa­cerdote, assistito nel governo da tre sacerdoti: (il Segretario Generale, il Procuratore Generale e il Sacerdote Segretario Centrale); quanto al gover­no provinciale o regionale, il Presidente Generale si serve del sacerdote Consigliere, che agisce “nomine et vice Praesidis Generalis semperque ad ipsius mentem” .Sono tante e tali le misure di prudenza, di cautela e di buon senso prese dal Fondatore e indicate nelle Regulae internae prò Administrationibus, che nessuna casa o istituzione ecclesiastica, in teoria e in pratica, è retta da una separazione altrettanto rigorosa. Nello scritto viene esaminato nei partico­lari il servizio prestato dalle donne in cose in cui non potrebbero mai esse­re sostituite da uomini. D’altra parte, non si dà promiscuità e neppure vici­nanza di qualsiasi tipo, dato che nelle residenze, nelle case di ritiro, ecc., esistono, de iure et de facto, due case completamente separate, con diverso ingresso dalla strada. Pertanto, le persone che abitano nei due Centri non si parlano e dunque non si conoscono e non hanno alcun tipo di rapporto: “familiarem administrationem habeant omnium domorum Instituti, in lo­co tamen penitus separato commorantes, ita ut de iure et de facto duae sint domus in unoquoque domicilio”. Cfr AGP, Sezione Espansione apostolica, Italia VI, doc. 2.

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71 Relazione di ]uan Udaondo sulla visita al Cardinale Schuster (15-1- 1952), in RHF, D-15460.72 Cfr Lettera di don Àlvaro a p. Arcadio Larraona, del 3-II-1952; in Do­cumentazione relativa alle vicende che diedero luogo alla Consacrazione dell’Opus Dei al Cuore di Maria del 15-VIII-1951, in RHF, D-15001; AGP, Sezione Espansione apostolica, Italia, VI, doc. 4. Circa la separazio­ne esistente tra i due rami dell’Opera il Padre, parlando del ministero sa­cerdotale, faceva notare con energia ed estrema chiarezza: «Io dico sempre, con un’espressione icastica, che la Sezione degli uomini sta a cinquemila chilometri di distanza dalla Sezione femminile; voi sacerdoti, allora, dovete stare a diecimila chilometri. E nello stesso tempo dovete coniugare questa distanza santa con la più viva preoccupazione di servire le vostre sorelle con il vostro lavoro sacerdotale» (Lettera 8-VIII-1956, n. 43).73 Lettera ai suoi figli del Consiglio Generale, in EF-520209-2.74 Juan Udaondo, Sum. 5041.75 Cfr ibidem.76 Àlvaro del Portillo, Sum. 422.77 Àlvaro del Portillo, PR, p. 562.78 La lettera era firmata dal Presidente Generale e dal Procuratore Genera­le. Don Àlvaro chiese di poter mettere anche la propria firma sulla lettera, per dimostrare il proprio completo accordo con il Padre circa il contenuto. Cfr Lettera a mons. Federico Tedeschini, in EF-520312-1 e Lettera 25-1- 1961, n. 44.79 Juan Udaondo, Sum. 5041.80 Lettera 21-1-1961, n. 45; cfr pure Àlvaro del Portillo, Sum. 423 e 802; Mario Lantini, Sum. 3630; e Joaqum Alonso, Sum. 4680. La lettera a Te­deschini è in EF-520312-1.81 Dalla lettera al Cardinale Tedeschini si apprende che tempo prima, il 3 dicembre 1951, un cardinale della Curia aveva avvisato don Josemarìa del grave pericolo che correva. Forse si trattava della stessa persona che avvi­sò il Cardinale Schuster. Nella Lettera 24-XII-1951, n. 230, il Fondatore scrisse: «Tutte le calunnie che stanno arrivando a poco a poco alla Curia Romana - dove lavorano molte persone sante, che ci comprendono molto bene - vengono dalle stesse persone e dalla mia Spagna; per meglio dire, da alcuni spagnoli, messi in moto dagli altri, ben noti».82 Cfr Lettera ai suoi figli del Consiglio Generale, in EF-521118-1.83 Lettera a José Luis Muzquiz, in EF-520814-5.84 Tutti i numerosi testimoni concordano nel dire che sul tema dei lavori di Villa Tevere egli non ebbe mai alcun tentennamento, né dubitò mai di por­tarli a termine, come peraltro si desume dalle sue lettere di quegli anni.85 Lettera a Odón Moles Villasenor, in EF-540601-8. In una lettera a José Luis Muzquiz (EF-500923-8) fece cenno a «questo grande strumento ro­mano, da cui usciranno, molto presto, i direttori e i docenti dei Centri di Studi, e i Sacerdoti: quest’anno circa trenta dei nostri faranno il dottorato in filosofia o in diritto canonico o in teologia».86 Lettera, in EF-500923-7.87 Lettera, in EF-510329-2.

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88 Lettera ai suoi figli del Consiglio Generale, in EF-500104-1. L’espressio­ne “quello di Castello” fa riferimento alla villa di Castelgandolfo (cfr cap. XIX, §3) dove il Fondatore pensava di ospitare il Collegio Romano di San­ta Maria, per le donne dell’Opus Dei (NdC).89 Lettera a José Luis Muzquiz, in EF-521019-1.90 Lettera a Pedro Casciaro, in EF-520828-2.91 Lettera a Manuel Botas, in EF-540601-1.92 II Padre era solito recarsi al mattino nello studio degli architetti di Villa Tevere per vedere il programma di lavoro e spesso raccontava loro qualche episodio relativo ai suoi figli, sparsi per il mondo. Una volta pianse di gra­titudine davanti a tutti i presenti nel raccontare che da un Paese sudameri­cano i suoi figli avevano inviato a Roma il primo donativo ricevuto, pochi milioni di lire, che sarebbe dovuto servire loro per mangiare (cfr Francisco Monzó, RHF, T-03700, p. 16).93 «Qui continuiamo a lavorare - scrisse a Ricardo Fernàndez Vallespin - con sempre maggiore speranza in Dio, perché sono sempre più grandi le difficoltà economiche» (Lettera, in EF-521006-1).94 Lettera, in EF-490731-1.95 Lettera ai suoi figli del Consiglio Generale, in EF-490916-1. Il corsivo è dell’Autor e.96 Cfr Lettera ai suoi figli del Messico, in EF-490829-2.97 Cfr Lettera ai suoi figli del Consiglio Generale, in EF-490728-1.98 Cfr Lettera ai suoi figli dell’Inghilterra, in EF-500816-3.99 Cfr Lettera ai suoi figli dell’Argentina, in EF-520828-1. «Umanamente parlando», ma il Fondatore affermava pure, pieno di speranza: «Il Signore non ci abbandonerà, perché non lo ha mai fatto».100 Cfr Lettera a José Luis Muzquiz, in EF-520828-4.101 Cfr Lettera a Pedro Casciaro, in EF-520828-2.102 Ibidem. Cfr anche Lettera a José Luis Muzquiz, in EF-520828-4.103 Cfr Lettera a Pedro Casciaro, in EF-520828-2.104 Cfr Lettera a José Luis Muzquiz, in EF-520917-3. Maria Begona de Ur- rutia ricorda che una volta, di sabato, il Padre si recò nel locale della stire­ria e disse loro: “Figlie mie, pregate molto perché oggi pomeriggio don Àlvaro deve pagare gli operai e non abbiamo neanche un soldo” (RHF, T- 06897, p. 8).105 Cfr Lettera ai suoi figli dell’Inghilterra, in EF-500816-3.106 Lettera, in EF-500215-1.107 Cfr Lettera a mons. José Lopez Ortiz, in EF-500307-2. Don Àlvaro potè lasciare la clinica solo il 5 marzo. Nella sua testimonianza don Àlvaro riassunse così quei dieci anni di angosce economiche: “Non mi soffermerò a descrivere quante e quali furono le ristrettezze di quegli anni. Costituiro­no una vera e continua prova di fede e di zelo” (Sum. 827). I lavori della sede centrale furono un pozzo senza fondo di necessità economiche. Per questo le richieste da Roma ai fedeli dell’Opus Dei in altri Paesi avevano sempre una nota di urgenza: «Mandate qualcosa quanto prima, perché ab­biamo in scadenza un’altra cambiale, credo il giorno 8; da tempo, tra l’al­tro, non riusciamo a pagare l’appaltatore!» (Lettera a Francisco Botella, in

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EF-501101-1). Alla fine si riuscì a pagare l’appaltatore entro la scadenza prevista.108 Lettera a Pedro Casciaro, in EF-510329-2. In una lettera dell’agosto 1950 a quelli del Consiglio (EF-500830-2), si legge: «Entro ottobre scado­no alcune cambiali firmate da Àlvaro, per un valore di venticinque milioni di lire. Ma Dio può tutto!».109 Da dove tirava fuori il denaro don Àlvaro? Fu una specie di miracolo. Trovava sempre lo stretto necessario e sempre all’ultimo istante. Il momen­to temibile era il sabato pomeriggio quando, ogni settimana o ogni quindi­ci giorni, bisognava pagare gli operai e i fornitori. Non avevamo mai soldi, afferma don Àlvaro, ma il Padre non fu mai abbandonato “dalla certezza dell’aiuto divino” (Sum. 827). Il Fondatore considerava un dovere di co­scienza “sfamare gli operai che lavoravano per noi, e le loro famiglie: e il denaro doveva essere il Signore a mandarcelo” (ibidem). Don Josemarìa faceva tutto ciò che era umanamente possibile: chiedere, chiedere a tutti. E al tempo stesso ricorreva ai mezzi soprannaturali: orazione e sacrificio.110 Ibidem. Per l’uso del termine romena (pellegrinaggio), cfr voi. I, cap. Vili, nota 150.111 Francisco Monzó, RHF, T-03700, p. 13.112 Diario dei lavori di Villa Tevere, 17-XI-1951, AGP, Sez. N, 3 leg. 1059- 02. Per pagare puntualmente il sabato gli operai - racconta Jesus Àlvarez Gazapo - “si fecero grandi sacrifici rinunciando a tante piccole spese, comeil tram e le sigarette. La mancanza di spazio, in quel periodo, costrinse gli studenti del Collegio Romano a studiare in giardino finché c’era la luce na­turale, e quindi sulle scale, unico posto illuminato e disponibile. Il Fondato­re ci invitava a offrire queste mortificazioni, unendovi le nostre preghiere, per vincere le difficoltà” (Sum. 4307). Maria Isabel La Porte Rios ricorda che il Padre, almeno fino al 1955, il sabato era solito pregare in modo spe­ciale per don Àlvaro (Sum. 5116). Il giorno in cui fu posata l’ultima pietra di Villa Tevere (9 gennaio 1960) “mi sono ricordata - dice - che il Padre ci aveva invitate molte volte a pregare per don Àlvaro soprattutto di sabato, perché era il giorno in cui bisognava pagare il salario ai muratori” .113 Cfr Jesus Àlvarez Gazapo, Sum. 4309, 4310.114 Cfr Àlvaro del Portillo, Sum. 827; cfr anche Francisco Monzó, RHF, T- 03700, p. 15.115 Lettera ai suoi figli del Perù, in EF-541106-10. Sul modo eroico e lieto con cui gli alunni del Collegio Romano sopportarono ogni tipo di priva­zioni, cfr Mario Lantini, Sum. 3600. Fu eroica anche la generosità del Fon­datore, in quelle condizioni di estrema povertà. Mons. Tirelli (PR, p. 1623) racconta un caso del quale venne a conoscenza solo molto tempo dopo la morte del Padre: attraverso terze persone, aiutava economicamente un sa­cerdote bisognoso.116 Alberto Taboada, RHF, T-03358, n. 1373.117 Ibidem, n. 1352.118 Cfr AGP, P06 IV, p. 353; cfr Jesus Urteaga, RHF, T-00423, p. 72.119 Lettera ad Alberto Ullastres Calvo e José Montanés Moreno, in EF- 520404-3.

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120 Alberto Taboada, RHF, T-03358, n. 1353. Il medico José Luis Pastor racconta nella sua testimonianza un fatto molto significativo: “Un giorno mi chiamarono per visitare don Àlvaro del Portillo che era malato; io gli dissi di restare a letto e che sarei tornato a visitarlo il giorno successivo. Ma il giorno dopo, una giornata di freddo intenso, vidi non solo che si era alzato, ma anche che era uscito. Quando tornò gli dissi: Don Àlvaro, lei sa­rebbe dovuto rimanere a letto. E lui, quasi per scusarsi, mi rispose: Se non fossi uscito, oggi voi non avreste da mangiare” (PM, f. 541). Una mattina del 1954 - racconta Mercedes Anglés Pastor - diverse numerarie che stava­no pulendo la Villa Vecchia incontrarono il Padre, che era da solo. “Come sta don Àlvaro?” , gli chiesero, pensando che fosse ancora malato. «È par­tito per un viaggio», rispose il Padre. “Ma Padre, se ieri era malato” . «Fi­glia mia, a te non avrei permesso di partire. A lui, sì».121 Cfr Lettera ai suoi figli del Consiglio Generale, in EF-540421-4.122 Encarnación Ortega, RHF, T-05074, p. 49.123 Cfr Lettere ai suoi figli del Consiglio Generale, in EF-540601-10 ed EF- 540421-4; e Lettera a Manuel Botas, in EF-540601-1.124 Lettera a José Luis Muzquiz, in EF-521016-6: cfr anche: Lettere a Ri­cardo Fernàndez Vallespin, in EF-521006-1, e a Pedro Casciaro, in EF- 521016-5.125 Cfr Francisco Monzó, RHF, T-03700, p. 15.126 Lettera ai suoi figli del Consiglio Generale, in EF-540421-4.127 Lettera ai suoi figli del Consiglio Generale, in EF-540601-10.128 Lettera ad Amadeo de Fuenmayor, in EF-550613-2.129 Lettera ai suoi figli del Consiglio Generale, da Montecatini, in EF- 550909-2.130 Lettera ai suoi figli del Consiglio Generale, in EF-560127-1. Eccezional­mente, nell’estate 1955, don Àlvaro ebbe la possibilità di riposarsi cambian­do ambiente, come spiegò il Padre in una lettera ad Amadeo de Fuenmayor (EF-550708-1): «Oggi ti scrivo per dirti che sono contento del viaggio di Àlvaro, perché il cambiamento di ambiente gli servirà per riposarsi, anche se continua a lavorare e si tratterrà solo otto giorni. Proprio perché riposi, ti chiedo di far preparare una camera per Àlvaro a Talleres, se ce n’è una ab­bastanza fresca, oppure a casa tua, e che qualcuno abbia cura che mangi e che dorma otto ore, ordinandoglielo da parte mia, se fosse necessario».131 Lettera, in EF-530107-1.132 Lettera ad Amadeo de Fuenmayor, in EF-550725-1.133 Lettera ai fratelli Carmen e Santiago Escrivà de Balaguer, in EF- 520404-1. C’erano anche gravi ostacoli “di ordine intellettuale e spiritua­le” e cioè la difficoltà, per molti ecclesiastici, di comprendere la natura del­l’Opus Dei; d’altra parte l’ambiente non era propizio (cfr AGP, POI 1977, p. 1191).134 Cfr Encarnación Ortega, RHF, T-05074, p. 147.- Trattandosi di una testimonianza, si è preferita la traduzione letterale al­la corrispondente espressione devota in italiano: “Dolce Cuor del mio Ge­sù, fa’ ch’io t’ami sempre più. Dolce Cuore di Maria, siate la salvezza del­l’anima mia” (NdC).

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135 Cfr Lettera a Francisco Botella, in EF-500623-1.1 bozzetti e i modellini che gli furono presentati non lo soddisfecero: diede allora incarico a Ma- nolo Caballero Santos, un artista che lavorava al suo fianco a Roma, di fa­re un quadro a olio ispirato a una pala d’altare della chiesa di S. Carlo di Saragozza, dove era stato da seminarista. Rappresentava un cuore avvolto dalle fiamme e cinto da una corona di spine, sovrastato dalla croce e cir­condato da angeli. Nel 1954 diede al pittore Fernando Delapuente l’incari­co di fare un altro quadro del Cuore di Gesù. Cfr Lettere a Fernando Dela­puente Rodriguez, in EF-540103-1 e EF-540600-1; Jesus Àlvarez Gazapo, Sum. 4394.136 Cfr Lettera ad Amadeo de Fuenmayor, in EF-520801-1.137 Cfr Lettera a Teodoro Ruiz, in EF-520814-4.138 «Qui tutti sono molto contenti - scrisse a quelli degli Stati Uniti -. An­che Àlvaro e io siamo molto contenti, ma più che mai pieni di preoccupa­zioni economiche. Tanto che sto lanciando un S.O.S., per vedere se il Si­gnore vuole mettere fine a questa tortura» (in EF-520905-3).139 Lettera a Pedro Casciaro, in EF-520905-2.140 Cfr Lettera a Teodoro Ruiz, in EF-521016-7.141 Lettera a José Luis Muzquiz, in EF-521019-1.142 Lettera a Teodoro Ruiz, in EF-521019-2. Tre giorni dopo tornò a scri­vere in Colombia, scongiurando un aiuto economico: «Ti ho già scritto va­rie volte, angosciato. Perciò, fà quello che puoi e - in nomine Domini - an­che quello che non puoi» (in EF-521022-1).143 Cfr Lettera ai suoi figli del Venezuela, in EF-521016-2.144 Lettera 16-VII-1933, nn. 3 e 26.145 Cammino, n. 696.146 Amici di Dio, n. 299.147 Cammino, n. 58.148 E Gesù che passa, n. 166.149 Ibidem, n. 169. La pace di Cristo ci viene data dal suo Sacratissimo Cuore, perché un altro aspètto del mistero divino è che «lo Spirito Santo, il vincolo di amore tra il Padre e il Figlio, trova nel Verbo un Cuore umano» (ibidem).150 Cfr Jesus Àlvarez Gazapo, Sum. 4394.151 Lettera ai suoi figli del Consiglio Generale, in EF-521105-1.152 PR voi. XVII, Documenta voi. II, Opus Dei (Consacrazioni), p. 12.153 Lettera a Pedro Casciaro, in EF-521000-3.154 Lettera ai suoi figli del Consiglio Generale, in EF-521027-1.155 Sui piccoli donativi, cfr Lettera a Teodoro Ruiz, in EF-521016-7; sulle dilazioni dei pagamenti, Lettera ai suoi figli del Consiglio Generale, in EF- 521105-1; sugli accordi finali e sulle condizioni di pagamento, Lettera ai suoi figli del Consiglio Generale, in EF-521118-1; sulle ipoteche, Francisco Monzó, RHF, T-03700, p. 15.156 Lettera ai suoi figli del Consiglio Generale, in EF-521118-1.157 PR voi. XVII, Documenta voi. II, Opus Dei (Consacrazioni), p. 13. Questa consacrazione viene rinnovata tutti gli anni nei Centri dell’Opus Dei, nella festa di Cristo Re.

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158 Lettera ai suoi figli del Consiglio Generale, in EF-530114-1.159 Lettera alle sue figlie e ai suoi figli, in EF-521200-1.160 Lettera alle sue figlie e ai suoi figli, in EF-530908-1.161 Lettera ad Amadeo de Fuenmayor, in EF-530728-3.162 In AGP, POI 1978, p. 1076.163 Lettera a Pedro Casciaro, in EF-540601-2.164 «Viviamo sempre di miracoli e i lavori vanno avanti», scriveva nel giu­gno 1954 (Lettera a José Luis Muzquiz, in EF-540601-9).165 Lettera, in EF-560601-13.166 Una buona soluzione fu trovata il 20 aprile 1955, con la firma di un contratto con una nuova impresa di costruzioni, la Castelli (cfr cap. XIX, §1), il cui proprietario era Leonardo Castelli; di questi e della sua famiglia il Fondatore divenne grande amico, come si può vedere dalla nutrita e af­fettuosa corrispondenza intercorsa nelle piccole e grandi occasioni: auguri, inviti, condoglianze o altro.167 Cfr Lettera ai suoi figli del Consiglio Generale, in EF-480304-2.168 Lettera ai suoi figli del Consiglio Generale, in EF-500830-2.- La frase ‘chiudere un occhio’ è in italiano nel testo (NdC).169 Scrisse la notizia anche a Pedro Casciaro, in Messico, ma sminuendone ancor più l’importanza: «Devo ancora trattenermi qui per tutto il mese, perché mi stanno curando la bocca» (Lettera, in EF-500901-9).170 Lettera a Teodoro Ruiz, Consigliere della Colombia, in EF-521031-1.171 Lettera ai suoi figli del Consiglio Generale, in EF-521118-1. È molto probabile che il malessere fisico al quale si riferiva fosse conseguenza della “piccola operazione” del dentista, citata nella lettera della nota precedente.172 In cinque settimane, infatti, il Padre scrisse solo una brevissima nota a Juan Larrea (cfr Lettera, in EF-540517-1).173 Cfr Lettera alle sue figlie dell’Assessorato Centrale, in EF-470117-1.174 Cammino, n. 219. «Tutti hanno sofferto nella vita - scrisse il Fondatore -. È di cattivo gusto che una persona parli delle sue sofferenze e ne perda l’eventuale merito spirituale» (Lettera 14-IX-19S1, n. 3). Il Padre non pro­clamava ai quattro venti i suoi disturbi e dolori, ma neppure ne faceva mi­stero. Diceva comunque tutto a don Àlvaro e a don Javier, i suoi Custodes, e si atteneva a ciò che gli dicevano.175 Cfr Cammino, n. 208.176 Àlvaro del Portillo, Sum. 475; Javier Echevarrìa, Sum. 2091. Cfr cap. XVI, S 5.177 Carlo Faelli, Sum. 3461. Cfr pure Alejandrò Cantero Farina, Sum. 6594. Sulla storia clinica, cfr l’estratto elaborato dal Dipartimento di Me­dicina Interna dell’Università di Navarra, RHF, D-15111.178 “Aveva una sete inestinguibile. La tollerava con senso soprannaturale e senza che noi ce ne rendessimo conto. Teneva a freno il desiderio e la ne­cessità di bere moltissima acqua, con vero spirito di mortificazione. Un particolare fra tanti: spesso ritardava il momento di accostare il bicchiere alle labbra, anche se aveva la lingua secca e indurita; molte volte addirittu­ra si limitava a rinfrescarsi la bocca, senza bere” (Javier Echevarrìa, Sum. 2091).

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179 Cfr Àlvaro del Portillo, Sum. 475.180 Ibidem.181 Kurt Hruska, Sum. 3490.182 Ibidem, 3493.183 Ibidem, 3494.184 Carlo Faelli, Sum. 3462; cfr pure Javier Echevarria, Sum. 2821.185 Carlo Faelli, Sum 3463; cfr anche Lettera 14-IX-1951, n. 7.186 Forgia, n. 791. Ad Àngel Jolfn Moreno, un fedele dell’Opus Dei amma­lato di emofilia, scrisse una volta: «Mi fa invidia vedere come ti tratta il Si­gnore, perché tu lo consoli con le tue sofferenze, mentre tante anime non lo amano e si dimenticano di lui» (in EF-581111-1).187 Juliàn Herranz, PR, p. 814.188 Ibidem.189 Cfr Mario Lantini, Sum. 3709; e Alberto Taboada, RHF, T-03358, p. 357.- In spagnolo la frase giocosa è in rima: \Te conozco, bacalao, aunque ven- gas disfrazao! (NdC).190 Cfr Àlvaro del Portillo, PR, p. 624; Luigi Tirelli, PR, p. 1630.191 Cfr Francisco Monzó, RHF, T-03700, p. 20.192 AGP, P04 1974,1, p. 124.193 Kurt Hruska, Sum. 3491.194 “Alcuni giorni prima - riferisce Àlvaro del Portillo - il professor Faelli aveva prescritto un nuova marca di insulina ritardata e aveva indicato di somministrargliene 110 unità. Come al solito, fui io a occuparmi di fargli le iniezioni. Mi premuravo di leggere con attenzione le avvertenze accluse a ogni medicina e notai che il foglietto illustrativo diceva che ogni dose di questo nuovo tipo di insulina equivaleva a circa una volta e mezzo quella normale. Perciò (...), e tenendo anche presente che dosi elevate di insulina aumentavano molto le emicranie di cui il Padre soffriva, malgrado le indi­cazioni del medico ridussi la dose. Ciò nonostante, si scatenò una reazione di tipo allergico, per me allora sconosciuta. Lo comunicai al prof. Faelli, ma questi mi disse di continuare a usare quell’insulina” (Sum. 478).195 Ibidem.196 Ibidem.197 Javier Echevarria, Sum. 2092.198 Cfr Àlvaro del Portillo, Sum. 479. Riferendosi a quell’esperienza, il Fondatore raccontò a don Àlvaro che «aveva avuto il tempo di chiedere perdono a Dio per tutti gli errori di cui si riteneva colpevole e persino per una cosa che in passato non aveva compreso. Si trattava di questo: una volta il Signore gli aveva fatto capire che sarebbe morto diversi anni dopo. (...) Gli chiese perdono anche di questo, perché non l’aveva capito» (ibi­dem).199 Carlo Faelli, Sum. 3461. Altri testimoni confermano l’affermazione che la guarigione avvenne proprio quel giorno. Encarnación Ortega, per esem­pio, riferisce che il Padre aveva un forte diabete e che “il 27 aprile 1954, do­po che gli fu iniettata insulina ritardata, ebbe uno shock anafilattico, dopoil quale improvvisamente si ritrovò guarito. Quel pomeriggio stesso disse a

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Maria José Monterde e a me che il Signore aveva ascoltato tutte le nostre preghiere e gli aveva concesso una nuova tappa feconda” (Sum. 5381).200 Carlo Faelli, Sum. 3461.201 “Col passar del tempo - testimonia mons. Echevarria -, come conse­guenza dell’antico diabete, ebbe un inizio di cataratta. Quando gli fu dia­gnosticata, reagì con la sua abituale serenità e allegria, offrendo al Signore i fastidi conseguenti. Cercò di non diminuire il lavoro, anche se l’oculista gli aveva consigliato di leggere meno e addirittura di non leggere per qualche tempo. Ricordo che per un po’ pregò che fossimo noi a leggergli a voce altai documenti. Ho già detto come si univa a noi per la recita del Breviario. Il diabete gli causò anche una insufficienza renale, che avrebbe potuto avere gravi conseguenze, e una insufficienza cardiaca; a motivo dell’una e dell’al­tra soffriva di stasi polmonare, con sintomi di asfissia alla sera, quando si coricava. Gli capitò diverse volte e reagì sempre con senso soprannaturale, mettendosi con grande pace nelle mani del Signore. Per l’insufficienza rena­le e l’insufficienza cardiaca, negli ultimi anni ebbe per lunghi periodi versa­menti sinoviali ai gomiti e alle ginocchia, che al solo contatto con gli indu­menti gli producevano fortissimi dolori, che gli impedivano o gli rendevano difficile camminare o muovere le braccia. Non si lamentò mai e si sottopose a cure che talvolta peggiorarono la situazione. Non si lamentò mai per una terapia sbagliata, anche se era stata violenta, poco efficace e persino danno­sa” (Sum. 2096; cfr Àlvaro del Portillo, Sum. 479).

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Capitolo XIX

L’UNITÀ DELL’OPERA

1. H Congresso Generale di Einsiedeln (1956)

Guarito dal diabete, don Josemaria si sentì libero, come chi viene scarcerato dopo una lunga prigionia, e ricu­però nuove energie, indispensabili per continuare ad af­frontare coraggiosamente la dura fatica cui si era assog­gettato per ottenere i frutti sperati del proprio sacrificio. Fin dagli inizi, doveva assolvere il duplice compito di dare coesione all’Opera e, nello stesso tempo, di diffon­derla in tutto il mondo. Obiettivi che potevano sembra­re contraddittori, poiché l’uno richiedeva di rinsaldare l’intimo legame dei membri dell’Opus Dei con lo spirito e la persona del Fondatore, mentre l’altro portava inve­ce a separarli, a disperderli in terre lontane per diffonde­re un messaggio divino. L’una e l’altra cosa erano indi­spensabili per un’impresa contraddistinta da uno spirito universale. L’Opus Dei doveva crescere, ma senza perde­re la propria essenza.

Ecco perché il Fondatore dovette fare sforzi titanici per salvaguardare l’unità dell’Opera senza limitarne l’e­spansione. Parte di questo sforzo fu l’impegno per co­struire gli edifici della sede centrale.

Nel 1950, meditando sugli eventi storici che periodi­camente coinvolgono popoli e nazioni, considerava che

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a molte imprese, promosse da Dio per il bene delle ani­me, non era mancato l’aiuto dei potenti della terra. Per secoli, re e governanti, patroni e mecenati, avevano in­nalzato chiese, costruito ospedali, fondato scuole, costi­tuito rendite per le istituzioni benefiche. Non erano mancati governi che avevano perseguitato la Chiesa in patria nello stesso tempo in cui la aiutavano con genero­sità nelle colonie. In quel momento, a don Josemarìa sembrava che le cose fossero cambiate. Gli Stati non svolgevano più una missione caritativa ed erano sempre meno i privati che contribuivano con il proprio patri­monio alle grandi opere di Dio:

«Questa è la volontà di Dio - scriveva ai suoi figli - e dovete ringraziarne la divina Provvidenza. Se volete ve­dere compiuti i vostri desideri di amare Dio, di favorire la comprensione e la convivenza fra gli uomini, sappiate che potete contare solo sul potente aiuto della grazia di­vina, sulla vostra vita generosamente dedicata al servi­zio di Dio e delle anime - in laetitia: cum gaudio et pa­ce; nella letizia, con la gioia e la pace - e sul vostro lavoro professionale, compiuto con il massimo impegno e con perfezione»1.

Il Fondatore fissava con largo anticipo i principi gene­rali cui attenersi nella ricerca di fondi e di sovvenzioni per le imprese apostoliche di utilità sociale promosse dai fedeli delPOpus Dei2.

Correvano i primi mesi del 1951 quando si profilò una soluzione ai problemi finanziari che gli procurava­no tante apprensioni. Don Àlvaro era amico del mar­chese Giovanni Bisleti, proprietario di un’estesa tenuta in prossimità del lago di Fondi, vicino a Terracina. Bi­sleti desiderava vendere la proprietà e don Àlvaro pro­pose al Padre un’idea, vantaggiosa sia per il marchese che per i contadini. L’operazione consisteva nell’acqui- stare a credito tutta l’azienda, a un prezzo ragionevole. In seguito, i mille e più ettari di terreno sarebbero stati divisi in lotti e venduti a condizioni molto favorevoli al­

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le trecento famiglie di contadini che già li coltivavano3. Sia il Padre sia don Àlvaro dettero al progetto una du­plice finalità. Da un lato risolvere un problema econo­mico, tenendo presente il benessere dei contadini e delle loro famiglie, dall’altro intraprendere un’attività apo­stolica a Terracina. Il risultato, superate non poche diffi­coltà, fu un successo.

Don Josemaria intuì subito i possibili sviluppi. Il 1° giugno 1951 scriveva al Consiglio Generale:

«Ho fondate speranze per ritenere che, con l’aiuto di Dio e grazie al lavoro instancabile di Àlvaro, arriverà presto il momento, forse entro agosto, in cui vi potremo dire: ‘Non inviate più denaro per il Collegio Romano, perché abbiamo risolto il problema; accettiamo solo l’aiuto, piccolo o grande che sia, degli americani’. Pre­ghiamo, perché ne vale la pena. In questo mese del Sa­cro Cuore facciamo dimenticare al Signore le nostre mi­serie e otteniamo da Lui che ci dia la soluzione per questa grande impresa romana»4.

L’operazione, senza dubbio, avrebbe apportato un grande sollievo economico: una piccola parte della tenu­ta, con la vecchia cascina dell’azienda agricola, sarebbe stata usata come casa per ritiri e luogo di riposo per gli alunni del Collegio Romano; un’altra parte, coltivabile, sarebbe servita per ricavarne prodotti agricoli destinati ai Centri di Roma.

Un anno dopo, le trattative di don Àlvaro erano anco­ra in corso, ma la speranza del Fondatore dava corpo ai suoi sogni:

«Àlvaro va avanti con Terracina, che sarà il pane, il ri­poso e la salute delle persone del Collegio Romano. Dal­la tenuta ci portano già molte cose. Il Signore non ci ab­bandonerà e arriveremo felicemente alla conclusione»5.

Era molto grato per le modeste quantità di prodotti che riuscivano ad arrivare a Roma da Salto di Fondi, come era chiamata la tenuta di Terracina. Formaggi, uo­va, frutta e carne di animali domestici erano un aiuto di

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un certo peso per Villa Tevere e per gli altri Centri di Roma. Si avvicinava l’estate del 1952 e si pensò di uti­lizzare la cascina dell’azienda agricola per farvi passare l’estate agli studenti del Collegio Romano. Ma era in cattive condizioni e le donne dell’Opera non si sarebbe­ro potute dedicare all’amministrazione della casa finché non fossero stati fatti i lavori di ristrutturazione. Per ri­solvere il problema, al Padre venne in mente la sua soli­ta grande risorsa: la sorella Carmen.

«Se Carmen non viene, non possiamo andare a Terra- cina»6, pensava il Fondatore. Ma, conoscendo bene la sorella, preferì, anche per delicatezza, che fosse don Alvaro a scrivere a Madrid. Come avrebbe potuto pre­tendere che Carmen andasse a Roma, lasciando solo, anche se per poco tempo, il fratello Santiago? I due sta­vano ricominciando per l’ennesima volta a farsi una propria vita. Avevano trascorso i primi mesi del 1952 alla ricerca di un appartamento a Madrid per loro due, in attesa della «soluzione definitiva», cioè di stabilirsi a Roma7. Santiago stava studiando l’italiano e si prepara­va a esercitare la professione di avvocato a Roma. Il lo­ro legame con l’Opera era rimasto inalterato, come ri­cordava loro don Josemaria:

«Roma, 22 marzo 1952.Carissimi Carmen e Santiago, ho ricevuto il vostro bi­

glietto e sono contento perché, senza dubbio, a casa vo­stra avrete maggiore tranquillità, fino a che non ci sarà la soluzione definitiva.

Sono felice che siano lì con voi Pepe, Manolo e Luis, perché così non vi mancherà certo l’allegria e, inoltre, continuerete a stare vicino all’Opera; so che vi sarebbe costato molto, dopo averle prodigato tanto affetto, fin dall’inizio e per tanti anni. Scrivetemi più di frequente.

Non so se oggi Àlvaro vi potrà scrivere, perché è fuo­ri per la questione di Terracina»8.

L’altro motivo era che, pur non dubitando della ge­nerosità di sua sorella, era assolutamente sicuro che, se

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glielo avesse chiesto don Àlvaro, avrebbe acconsentito a farsi carico della casa di Terracina, come era già acca­duto per La Pililla e Molinoviejo. Era noto a tutti che Carmen aveva lo stesso carattere forte di suo fratello e che talvolta sembrava anche un po’ scontrosa. Ma era altrettanto evidente che i suoi modi di fare mascherava­no a malapena un cuore delicato, dolce e affettuoso. Carmen rispondeva nello stesso modo, ma forse con maggior foga, con cui aveva reagito la signora Dolores quando il figlio le aveva regalato un libro su don Bo­sco, con la segreta intenzione di farle venire la voglia di imitare mamma Margherita. Bastava che suo fratello Josemarìa le chiedesse qualcosa, perché dicesse un ‘no’ deciso9.

L’iniziale rifiuto si trasformava poi rapidamente in un assenso generoso. I suoi dinieghi, infatti, avevano l’uni­co scopo di affermare la propria indipendenza dall’Ope- ra, di cui non faceva parte, ma erano evidentemente mo­mentanei, una specie di artificio con cui proteggeva pudicamente la propria generosità e scansava elogi e ringraziamenti10. Poi si metteva a lavorare con la massi­ma generosità11.

Benché i suoi fratelli non avessero bisogno di spinte per decidersi, don Josemarìa, già all’inizio di agosto, li incoraggiava: «Sono sicuro che sarete molto contenti di stare in Italia, anche se ora l’idea di venirci vi costa»12. Il 16 agosto Carmen e Santiago giunsero a Roma.

Nonostante l’operazione fosse ben impostata, il fra­zionamento e la vendita della tenuta di Terracina si protrassero per un certo tempo. I contadini erano restii a comprare, per la difficoltà di ottenere crediti in un pe­riodo di forte crisi economica. Furono date loro facili­tazioni ancora maggiori perché riuscissero ad acquista­re i lotti di terreno e alla fine, dopo un paio d’anni, l’operazione potè dirsi conclusa13. I contadini divenne­ro proprietari di terreni che pagarono a rate con i ricavi ottenuti dalla coltivazione. Delle loro famiglie si occu­

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pavano, sotto l’aspetto spirituale, alcuni sacerdoti del­l’Opus Dei.

Il terreno di cui don Àlvaro aveva conservato la pro­prietà cominciò a essere utilizzato nel 1952; fino al 1966 gli alunni del Collegio Romano residenti a Villa Tevere vi si recavano a turno, durante i mesi estivi, per riposare e per studiare. Il luogo non era certamente un paradiso turistico ma era comunque assai meglio del caldo di Roma. Era una zona di recente bonifica, con dune e pinete, dove frinivano le cicale tutto il giorno, al centro di un immenso arco di spiagge non frequentate e lambite dal Mar Tirreno. All’estremo nord del litorale si levava il promontorio del monte Circeo e all’estremità sud si vedevano le bianche case di Sperlonga, spesso ve­late da una tenue bruma.

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Le risorse di Salto di Fondi aiutarono il Fondatore ad avvicinarsi alla soluzione dei problemi economici: un al­tro dono concesso dal Signore a sollievo delle necessità complessive dell’Opera in quegli anni. Si trattava co­munque di un rimedio parziale, non certo in grado di ri­solvere, miracolosamente e per incanto, tutte le neces­sità. Le preoccupazioni, soprattutto per i lavori di Villa Tevere, restavano e si ripercuotevano sulla salute del Pa­dre e di don Àlvaro. Ad esse si aggiungeva il peso del­l’impegno apostolico e il pungolo incessante della oppo­sizione dei buoni, che ostacolavano il loro lavoro. Il Padre decise di recarsi in pellegrinaggio a Bari, al San­tuario di S. Nicola14. All’aiuto di S. Nicola, ‘nominato’ intercessore per i problemi economici dell’Opus Dei, aveva fatto ricorso molti anni prima, quando aveva do­vuto aprire i primi Centri a Madrid.

L’anno successivo don Josemaria conobbe Leonardo Castelli, col quale don Àlvaro aveva stretto una cordiale amicizia. Castelli aveva un’impresa di costruzioni, era

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onesto ed estremamente generoso. Il Padre aveva biso­gno proprio di qualcuno come lui, non perché si aspet­tasse regali, ma per avere quel minimo di aiuto necessa­rio per concludere i lavori. Castelli mise a disposizione di don Josemaria la propria azienda, oltre a concedergli credito e dilazioni di pagamento15. Il 20 aprile 1955 fu firmato il contratto con l’impresa Castelli, che subentrò nel cantiere dal mese successivo. Fu così possibile ripren­dere il lavoro a buon ritmo, anche se l’esaurimento fisico e le preoccupazioni economiche di don Àlvaro non ces­savano, come si deduce dalle lettere del Fondatore:

«Roma, 22-XI-1956. Àlvaro non si ferma, anche se non sta bene: il medico gli fa prendere un mucchio di medicine e sta migliorando lentamente; forse perché il medico, in tutte le ricette, oltre al nome della medicina, scrive: ‘molto riposo’ . Il riposo, però, lui non vuole prenderselo, e io non oso imporglielo, finché non risol­viamo il problema economico»16.

Nel 1958 Àlvaro fu sottoposto a un controllo medico approfondito. Era malato così gravemente che negli ul­timi giorni del 1958 sembrava imminente un’operazio­ne17. Ecco ciò che scrisse il Padre in una lettera agli inizi del 1959:

«Continuo a ripetere omnia in bonum!, anche se a volte la nostra mente non arriva a capire i disegni del Si­gnore. Dico questo perché Àlvaro, dopo un migliora­mento durato quarantotto ore, ha avuto una ricaduta; ieri sera aveva la febbre a quaranta. Oggi verrà lo spe­cialista: si ipotizza un’operazione, ma io spero che non sia necessaria. Benché quasi non dorma da tanto tempo e soffra molto, Àlvaro è contento e di buon umore, no­nostante la febbre. Pregate»18.

Dovettero operarlo. Tre anni dopo, nel maggio 1962, ebbe una grave ricaduta:

«Àlvaro è in clinica - scriveva il Fondatore - ma ab­biamo la speranza che non sia necessaria un’altra opera­zione. Pregate perché, anche se molti dei miei figli sono

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eroici e persino santi canonizzabili (non faccio mai que­ste affermazioni a cuor leggero), Àlvaro è un modello ed è quello che più ha lavorato e più ha sofferto per l’Ope­ra e che ha saputo incarnare meglio il mio spirito. Pre­gate»19.

Per fortuna la nuova operazione non fu necessaria e don Àlvaro, senza concedersi una pausa di riposo, si im­merse nel lavoro preparatorio del Concilio Vaticano II20.

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La firma del contratto con l’impresa Castelli fece rina­scere le speranze del Fondatore di concludere i lavori di Villa Tevere, senza ulteriori ritardi. Fu così possibile di­sporre di posti sufficienti per accogliere i nuovi alunni del Collegio Romano. Il Padre ritenne pure giunto il momento di normalizzare l’attività di governo, riunen­do a Roma tutto il Consiglio Generale dell’Opera21. La decisione sarebbe stata presa in occasione di un nuovo Congresso Generale, ormai imminente: gli Statuti del­l’Opus Dei prevedevano infatti che si svolgesse ogni cin­que anni. Vi avrebbero preso parte i membri elettori o congressisti, uomini e donne separatamente22. Il primo Congresso Generale si era svolto a Molinoviejo, nel 1951. Il secondo fu convocato per il 1956. Il Padre scel­se un albergo nella località di Einsiedeln, un posto tran­quillo, in cui sarebbe stato possibile trascorrere alcuni giorni di lavoro e di preghiera. Einsiedeln è un paesino svizzero di poche migliaia di abitanti, noto per un famo­so santuario mariano. I grandi spazi, la sobrietà del tempio barocco, l’ampia spianata, chiamata Kloster- platz, su cui si affaccia il santuario, colpiscono il visita­tore. Il Padre, con il pensiero rivolto alla Madonna, par­lava, nelle lettere e nelle conversazioni, del suo pellegrinaggio a Einsiedeln23. Aveva preparato tutto ac­curatamente, cominciando a chiedere preghiere a tutti. All’inizio del 1956 scriveva già: «Pregate e fate pregare

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per il lavoro del prossimo Congresso Generale»24. Il 3 luglio fece un viaggio a Einsiedeln, per verificare che al- l’Hotel Pfauen, dove avrebbero preso alloggio i congres­sisti, fosse tutto pronto. Inoltre, provvide a inviare in anticipo a tutti i congressisti un elenco dei candidati che egli proponeva, in quanto Presidente Generale, per il rinnovo delle cariche25, affinché avessero il tempo di ri­flettere. Nell’imminenza del Congresso, che ebbe luogo dal 22 al 25 agosto 1956, il Padre ne comunicò data e luogo alla Santa Sede.

Il 19 agosto, tre giorni prima dell’inizio, nove elettori presentarono a Roma una mozione da sottoporre allo studio dell’assemblea di Einsiedeln; nessuno di loro era spagnolo di nascita o di lingua. Provenivano infatti da­gli Stati Uniti, dall’Italia, dal Portogallo, dalla Germa­nia, dall’Irlanda e dall’Inghilterra. La mozione propone­va che lo spagnolo (o meglio, come in seguito fu specificato e deciso, il castigliano) fosse adottato come lingua ufficiale negli incontri fra membri dell’Opus Dei di diverse Nazioni e nella redazione dei documenti in­terni26. La proposta era motivata dal fatto che l’espan­sione universale dell’Opera consigliava di adottare un’unica lingua.

Perché lo spagnolo? I proponenti spiegavano:“L’Opera è nata in Castiglia, il castigliano è la lingua

del Fondatore e i primi documenti dell’istituto sono scritti in castigliano. Ciò renderà più efficace il nostro lavoro, contribuirà a rafforzare l’unità interna ed è, inoltre, un omaggio di affetto per nostro Padre”27.

Nella seconda sessione del Congresso, il 24 agosto, fu letto e approvato il verbale della riunione precedente e si passò a esaminare i due punti all’ordine del giorno: il trasferimento a Roma del Consiglio Generale e il rinno­vo delle cariche del Consiglio stesso28.

Le relative decisioni furono comunicate alcuni giorni dopo alla Santa Sede, con una lettera indirizzata al car­dinale Valerio Valeri:

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«Roma, 10 settembre 1956.Eminenza Reverendissima,Ho il piacere di comunicare all’Eminenza Vostra che,

a seguito delle decisioni del II Congresso Generale del- l’Opus Dei, tenutosi recentemente a Einsiedeln, la Curia Generale dell’istituto è stata trasferita a Roma, in viale Bruno Buozzi 73. Inoltre, come mio dovere, le invio in allegato l’elenco dei nuovi membri del Consiglio Gene­rale dell’Opus Dei, eletti nel Congresso»29.

L’unità e l’impegno apostolico dell’Opera furono rafforzati dalle decisioni prese a Einsiedeln. Con il tra­sferimento a Roma del Consiglio cominciò una nuova fase del governo dell’Opera30, a proposito della quale mons. Àlvaro del Portillo, Prelato dell’Opus Dei, avreb­be espresso in seguito questo giudizio: “Fu un’autentica benedizione, perché la presenza fisica quotidiana del Fondatore accanto ai suoi figli del Consiglio Generale fu il fattore decisivo per il mantenimento del buono spi­rito, per l’unità dell’Opera e per la sua espansione”31. Il Fondatore riuscì così a creare le condizioni ideali per studiare e- portare a compimento la formazione delle persone dell’Opera, a vantaggio della sua diffusione in tutto il mondo.

2. La morte di zia Carmen (1957)

Carmen, la sorella del Fondatore, morì a Roma il 20 giugno 1957. Morì romana e come una persona dell’O- pera, con cui si era immedesimata in tanti anni di gene­roso servizio. Era giunta per la prima volta nella Città Eterna nell’aprile 1948, su richiesta del fratello, per da­re una mano nella conduzione dell’appartamento di piazza della Città Leonina. Don Josemaria ricorse di nuovo a lei nel 1952 per Salto di Fondi ed ella prestò di nuovo la sua abnegata collaborazione agli apostolati dell’Opera. Vi rimase per tutto il periodo della ristruttu­

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razione del vecchio casale, isolato, privo di acqua pota­bile, di telefono e di altre comodità. Dopo un anno, Sal­to di Tondi era già abitabile e gli alunni del Collegio Ro­mano poterono utilizzare la tenuta.

Ma Carmen e Santiago non ritornarono in Spagna e decisero di rimanere a Roma. Santiago per lavorare co­me avvocato e Carmen per fare compagnia al fratello minore e per essere disponibile, nel caso l’Opera avesse ancora bisogno del suo aiuto. Abitavano in una villetta di via degli Scipioni, nel quartiere Prati, e vi trascorsero quattro anni, certamente fra i più felici della loro vita. Circondata dall’affetto dei suoi nipoti, Carmen trascor­reva giorni tranquilli e felici, sempre affaccendata e sen­za sentirsi mai sola; in gioventù aveva rinunciato al ma­trimonio a favore dell’Opera, ma ora si trovava ad avere una famiglia numerosissima. A più di cinquant’anni, il suo affetto per i nipoti era ancora straordinario. Voleva bene a tutti, ma aveva le sue preferenze, che non era faci­le indovinare. Talvolta soffriva, vedendo partire quelli o quelle a cui voleva bene e sapendo che forse non avrebbe più rivisto nessuno di loro; allora usciva in una delle sue battute paradossali: “Non voglio assolutamente cono­scere più nessuno, perché non appena comincio ad affe­zionarmi, se ne vanno in America”32.

Le relazioni con suo fratello Josemarìa erano di profondissimo affetto, anche se vissuto con riserbo da entrambi; così era stato anche per la signora Dolores, quando si era dovuta abituare all’idea che, pur abitando nella stessa casa, avrebbe visto il figlio ben poche volte. Carmen ci mise molti anni ad accettare il sacrificio di ‘suo fratello’ (così si esprimeva nel riferirsi a lui, mentre abitualmente diceva ‘Santiago’ quando si riferiva al mi­nore). Il distacco dalla famiglia, sacrificio esigente, me­ditato e volontario da parte del Fondatore, era costato molte lacrime a Carmen, benché poco propensa a pia­gnistei sentimentali, quando si occupava dei primi centri dell’Opera a Madrid. A Roma, il suo cuore si era rasse­

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renato e lo diceva ai nipoti: “All’inizio piangevo molto quando, pur abitando in via Diego de Leon, vedevo mio fratello solo una volta al mese. Ora mi sto abituando, perché lui dice che deve dare buon esempio”33.

Zia Carmen era una donna di forte e sana costituzio­ne, alta e di bella presenza. Aveva capelli e occhi scuri, un fare svelto e deciso, lo sguardo buono e la bocca fine ed energica. La sua conversazione era sciolta e gradevo­le, senza cadere nella loquacità. Si esprimeva con spirito e vivacità e le sue osservazioni erano acute, sincere e centrate34.

La villetta di via degli Scipioni era una dimora allegra, che ospitava tertulias e riunioni; qualche volta venivano i nipoti, altre volte le nipoti. In casa si aggirava Chato, un boxer di razza (a Madrid, aveva avuto altri cani - Chucbi e Pistón - più vivaci, ma meno voluminosi). Carmen amava la natura. Nel bel mezzo della stanza di cucito teneva una grande voliera, che spostava se veniva qualcuno in visita, perché ostacolava la visuale. Come la Nonna, Carmen aveva un giardino pieno di fiori; rac­coglieva rose per l’oratorio dei Centri dell’Opera e colti­vava fragole in terrazza. Come la Nonna, vegliava sulla salute di tutti. Offriva a merenda paste, dolci e croccan­ti e, nei giorni di festa, inviava ai Centri dolci e caramel­le. A chi si accomiatava da lei per recarsi all’estero era solita fare regali, che ora sono ricordi di lei sparsi in tut­to il mondo: Lisbona, Madrid, Londra... Carmen e San­tiago si erano portati dalla Spagna alcuni oggetti di fa­miglia che davano calore di casa e conservavano la dolce memoria del passato. Da Madrid proveniva un ri­camo di nonna Florencia: un lavoro ad ago del secolo XIX, una specie di esame di laurea per le giovani di buona famiglia. Nella sala da pranzo della Villa Vec­chia, in una vetrina tappezzata di velluto arancione, era conservato tutto ciò che rimaneva del vasellame della famiglia Escrivà: coppe, bicchieri, un recipiente di cri­stallo e argento per preparare il ponce e altri oggetti di

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cristallo e ceramica, fra cui tre piatti da dolce di maioli­ca gialla, con bordatura floreale e centro di foglie in ri­lievo.

Eppure Carmen, sempre attiva, amante del lavoro, dell’ordine e della pulizia, era minacciata da un male oscuro che ne stava minando le forze. Nessuno se ne re­se conto se non poco prima del Natale 1956. Si sentiva debole e sempre affaticata, nonostante fosse sempre sta­ta forte e resistente. Soffriva di inappetenza e di nausea. In poche settimane dimagrì a vista d’occhio; fu portata dal medico.

Si seppe la diagnosi il 4 marzo 1957, giorno molto importante a Villa Tevere, perché era stato invitato mons. Samoré a consacrare l’altare dell’oratorio della Santissima Trinità, dove il Padre avrebbe celebrato abi­tualmente la Messa. Lo stesso giorno era stato ultimato l’oratorio del Consiglio Generale, il cui altare sarebbe stato consacrato dal Padre35.

Carmen era stata accompagnata dal medico da Encar­nación Ortega, che era la Segretaria Centrale: a lei fu comunicata la diagnosi. Quando tornarono a casa, il Padre e don Àlvaro stavano con mons. Samoré, ma En- carnita trovò il modo di dire a don Àlvaro che secondo il medico si trattava di un brutto cancro. La sera dello stesso giorno il Padre doveva consacrare l’altare dell’o­ratorio del Consiglio Generale. Non gli fu detto nulla, per timore che la preoccupazione gli avrebbe impedito di dormire. Il Padre era impaziente di sapere il risultato della visita, ma decise di non fare domande e di offrire al Signore questo sacrificio per la salute della sorella. Il giorno dopo, di primo mattino, chiese a Encarnación, che gli riferì che si trattava di un cancro al fegato36.

Furono prescritti altri esami e analisi, per verificare l’andamento della malattia. Il 23 aprile, anniversario della prima Comunione del Padre, fu chiaro che il male era a uno stadio avanzato. Due giorni dopo don Jose-

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maria scrisse a suo fratello Santiago, a Madrid, per dar­gli la triste notizia:

«Carissimo Santiago, prego in particolare per te e per le tue cose, in questi giorni in cui sei assente da Roma. Il Signore permette che soffriamo apprendendo che Car­men, a quanto affermano i medici dopo molte analisi e radiografie, è affetta da un cancro praticamente incura­bile. Le stiamo molto vicini ed è serena: se le scrivi, non fare cenno a nulla di tutto ciò. A suo tempo, se non mi­gliora, glielo faremo sapere»37.

Attese tre o quattro giorni prima di far sapere a Car­men che la malattia era incurabile. Voleva prepararla, perché la notizia ravvivasse in lei la speranza sopranna­turale, sebbene fosse ben preparata spiritualmente. E chi meglio di don Àlvaro avrebbe potuto comunicargliela?

«La malattia di Carmen segue il suo decorso - scrisse il 1° maggio a quelli di Madrid -. Don Àlvaro le ha dato la notizia e lei l’ha accolta - Laus Deo\ - come una per­sona santa dell’Opus Dei: con fortezza, con serenità, con pace.

Io continuerò a cercare di forzare la mano a nostro Si­gnore fino all’ultimo, sperando che Isidoro ce ne otten­ga la guarigione, ma sono pronto ad accettare la Santa Volontà di Dio, anche se con molte lacrime: con lei se ne andrà un’epoca eroica della nostra Opera»38.

Don Josemarìa soffriva molto. Spesso correva dal Si­gnore e, in ginocchio davanti al tabernacolo, con la te­sta appoggiata al bordo dell’altare, si sfogava con Lui e, implorandolo fra i singhiozzi, cercava di strappargli la guarigione della sorella. Accettava con amore i disegni divini, ma insisteva con il Signore, chiedendo che ogni traccia di cancro scomparisse, quasi ‘pretendendo’ un miracolo, una completa guarigione39.

I medici davano a Carmen due mesi di vita. Come aveva sperato don Josemarìa, ricevette la notizia con se­renità, senza lacrime né angoscia, con molta pace. “Àlvaro mi ha comunicato la sentenza” , diceva in quei

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giorni ai suoi nipoti40. Finché le fu possibile, continuò a vigilare sui lavori di casa, annotando ogni giorno lé spe­se, prendendosi cura delle piante e degli animali. E bi­sbigliava sottovoce alcune giaculatorie.

Il Padre si preoccupò dell’assistenza spirituale. Don Àlvaro parlò con p. Jenaro Fernàndez, Procuratore Ge­nerale degli Agostiniani Recolletti, uomo di profonda vita interiore, che divenne un testimone ammirato della limpidezza di coscienza della malata41; fu una scelta ri­spettosa nei confronti di Carmen, per non imporle l’aiuto di un sacerdote dell’Opera. Il 15 maggio il Fon­datore, non del tutto tranquillo, partì per la Francia, con don Àlvaro. La vigilia della partenza si recò a tro­vare la sorella ed ebbe con lei una conversazione di to­no ottimista e soprannaturale, durante la quale entram­bi seppero nascondere il proprio forte coinvolgimento emotivo. Entrambi ricordavano bene l’episodio del 1941, quando don Josemaria, in partenza per Lerida dove avrebbe tenuto un corso di ritiro per sacerdoti, si era accomiatato dalla madre ammalata. Il Fondatore chiese alla sorella la stessa cosa che aveva chiesto allora alla madre: offrire a Dio le sue sofferenze per il lavoro apostolico che si accingeva a fare in Francia nei giorni seguenti42.

Vi si recò passando da Firenze e fece tappa a Lour­des, per chiedere esplicitamente alla Madonna la guari­gione della sorella. Eccezione sorprendente, perché a Lourdes si era sempre limitato a ringraziare, senza chie­dere nulla. Non appena rientrato a Roma, si recò in via degli Scipioni. Carmen era molto peggiorata, si aggra­vava di giorno in giorno. La assistevano il fratello San­tiago e, a turno, i suoi nipoti e le sue nipoti. In tutti i Centri dell’Opera si pregava senza interruzione per la sua guarigione43.

In giugno si acuirono i dolori e la malata, in preda a una sete invincibile, respirava a fatica. Sopportava le proprie sofferenze senza emettere un lamento, offrendo­

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le al Signore per le necessità dell’Opera. Sapeva che non sarebbe guarita e ripeteva con gioia alcune giaculatorie che le addolcivano l’attesa della morte; “ Gesù, Giusep­pe a Maria, assistetemi nell’ultima agonia” ; “ Gesù, Giu­seppe e Maria, spiri in pace con Voi l’anima mia”44.

C’era sempre qualcuno a vegliarla e anche don Jose- maria non la lasciava, preparandola al transito. Le par­lava del Cielo, della Santissima Trinità, della Madonna, degli Angeli e dei Santi, incoraggiandola “a trasformare in gloria i dolori del corpo”45. Talvolta iniziava tra i due fratelli un dialogo intenso, che aveva per oggetto l’altra vita e alimentava la speranza, senza nascondersi il pas­saggio obbligato della morte e della sepoltura. «Carmen - le disse un giorno don Josemaria -, i tuoi resti ripose­ranno accanto ai miei»46. Ne fu molto contenta: per lei era una novità e una grazia del Cielo sapere che avrebbe trovato riposo nella sua famiglia, nella casa dei suoi ni­poti attuali e futuri.

A metà giugno il cuore cominciò a venir meno e, con una certa frequenza, bisognava somministrarle ossige­no. La malattia stava compiendo il suo corso. Don Josemaria

le chiese se voleva ricevere l’Unzione degli infermi e Carmen assentì con gioia. Egli indossò cotta e stola e, con voce rotta dall’emozione, cominciò a recitare le pri­me preghiere; ma scoppiò in singhiozzi e non gli riuscì di portare a termine la cerimonia. Chiese di continuare a don Àlvaro, che amministrò il sacramento, mentre il Padre, in un angolo della stanza, cercava di nascondere la sua pena47.

Il giorno successivo, 19 giugno, portò il Viatico alla sorella. Le spiegò la cerimonia e l’aiutò a ripetere le gia­culatorie del rituale. «Credi che l’Ostia Santa che tengo in mano è il Corpo di Cristo?» “ Credo!” . «Ora ripeti con me: Signore, io non sono degna...»48.

Amministrato il Viatico, don Josemaria ritornò a Vil­la Tevere. Lavorò fino a sera e poi tornò a casa della so­rella. Era la seconda notte che passava accanto a Car­

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men, senza chiudere occhio. In ginocchio, ai piedi del letto, con gli occhi fissi sull’immagine della Madonna appesa alla parete, ripeteva la preghiera mariana Bendi- ta sea tu pureza e sottolineava con forza la supplica fi­nale: «Non lasciarla, Madre mia, non lasciarla»49. Ripe­teva ad alta voce l’atto di affidamento dell’anima al Signore, intercalandolo con giaculatorie, mentre la inco­raggiava: «Carmen, ti siamo tutti vicino. Carmen, pre­sto sarai con Dio. Carmen, presto vedrai la Madon­na»50. La malata, con gli occhi chiusi, assentiva con un cenno del capo. Infine José Luis Pastor, il medico che l’assisteva, costatando che il cuore si era fermato, disse al Padre che era morta.

Erano le due e mezzo del mattino del 20 giugno. La salma fu composta e un paio d’ore dopo, al chiarore dell’alba, il Padre si preparò per celebrare nell’oratorio della casa51. Era la festa del Corpus Domini. Dopo aver avvisato i presenti che avrebbe celebrato la Messa per l’eterno riposo dell’anima di Carmen, si accostò con raccoglimento all’altare. Forse perché era molto scosso, in quel momento chiese un segno divino che gli confer­masse che Carmen era nella gloria. Ma si pentì subito della richiesta, temendo che potesse essere una tentazio­ne. Celebrò con gran devozione la Messa dei defunti e, giunto al memento dei vivi, si concentrò in preghiera, senza però ricordarsi affatto di Carmen; non se ne ri­cordò neppure al memento dei defunti, come se qualcu­no gli oscurasse la memoria. Durante il ringraziamento successivo alla Messa, egli comprese con chiarezza che questa dimenticanza era il segno del Cielo richiesto: Carmen non aveva bisogno di suffragi. Sentì nella sua anima una certezza che veniva da Dio; la sua pena si tramutò in gioia e volle avvisare don Àlvaro e don Ja­vier Echevarria di quel che gli era accaduto durante la celebrazione della Messa, impegnandosi a farne una re­lazione scritta52.

Più tardi, a Villa Tevere, il Padre disse ai suoi figli:

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«Le lacrime sono terminate nel momento in cui è morta; ora sono contento, figli miei, riconoscente al Si­gnore che l’ha portata in Cielo; con la gioia dello Spirito Santo»53.

Ma nonostante il sorriso del Padre e queste dichiara­zioni, i suoi figli non erano del tutto convinti, poiché sul volto gli si leggeva ancora un intenso dolore. Dovette insistere:

«Sì, figli, dovete felicitarvi con me: Carmen è già in Cielo. Desiderava ardentemente vedere presto Dio Pa­dre, Dio Figlio e Dio Spirito Santo, e la Santissima Ver­gine, e gli Angeli... Pregate per lei, offrite suffragi, ma io sono sicuro che già gode di Dio; ma proprio certo, com­pletamente sicuro»54.

Il Padre parlava loro con tale semplicità e naturalezza della sua sicurezza morale, che a nessuno di loro venne in mente che fosse sottinteso qualche fatto straordina­rio. Né egli intendeva spiegare di più, per un motivo di umiltà. Aggiunse solo qualcosa, per aiutarli a capire:

«E lo stesso che vi abbiamo raccontato di Isidoro, ma corretto e aumentato». Accomiatandosi, ribadì, scan­dendo bene le sillabe:

«Sono venuto perché vediate che il Padre è al-le-gro, con-ten-to, con la gioia dello Spirito Santo»55.

P. Fernàndez, che aveva assistito spiritualmente Car­men negli ultimi mesi di vita, affermò di non aver mai visto un ammalato tanto unito a Dio.

Dal canto suo, il Fondatore scrisse che Carmen aveva fatto «una morte santa, dopo una vita esemplare di sa­crificio»56. I suoi resti, come le era stato promesso, avrebbero riposato nella cripta dell’oratorio di Santa Maria, «per privilegio della Santa Sede e con l’autoriz­zazione del governo italiano»57, dove un giorno sareb­bero stati deposti anche quelli del Fondatore. Il feretro fu traslato da via degli Scipioni alla sede centrale dell’O­pus Dei il 23 giugno. Sulla lapide del loculo si legge una

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iscrizione in lettere di bronzo dorato: CARMEN, 16- VII-1899 - 20-VI-195758.

Anni dopo, in segno di riconoscenza verso sua madre e sua sorella per tutti i sacrifici fatti per l’Opera, egli fe­ce erigere e dedicare alla Madonna due cappelle59. L’u- na, in ricordo della madre, dedicata alla Madonna Ma- ter Dolorosa, fu costruita nel Centro di Tor d’Aveia, vicino a L’Aquila, e inaugurata qualche tempo dopo la morte del Fondatore. L’altra, dedicata alla Madonna del Carmine in ricordo di Carmen, fu terminata nel 1975 e si trova a Roma, nella sede definitiva del Collegio Ro­mano della Santa Croce.

Dopo la morte del Fondatore, tra le sue carte fu tro­vata una busta sigillata su cui egli stesso aveva scritto: «Aprire solo dopo la mia morte. Mariano. 2-VII-1957». Ecco il testo delle sei pagine autografe:

«Quando Àlvaro mi disse che il medico non dava più di due mesi di vita a mia sorella Carmen, fui invaso dal­la tristezza. Per i primi dell’Opera e per me, Carmen si identificava con venticinque lunghi anni di sofferenze e di gioie nell’Opus Dei.

Dopo aver accettato, piangendo, la volontà di Dio, decisi di iniziare una battaglia di preghiere con il Signo­re: ho pregato e ho fatto pregare tutti. E continuai a piangere amaramente, anche se a volte temevo che avrei dato cattivo esempio, qualora gli altri se ne fosse­ro accorti: ma ho sempre respinto subito questo pensie­ro, perché siamo creature di Dio ed è stato Lui a darci un cuore.

Dopo alcuni giorni, avendo visto la meravigliosa pre­parazione di Carmen per andare a godere del Cielo e la sua ammirevole serenità, capii - e lo dissi - che la logica di Dio Nostro Signore non è tenuta ad adattarsi alla po­vera logica umana.

Giunsero il momento di amministrare a mia sorella gli ultimi sacramenti e poi la lunga agonia, quasi due giorni, a forza di ossigeno e iniezioni. Anche allora con­

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tinuai a chiedere la guarigione di Carmen, per interces­sione di Isidoro, finché, alla fine, accettando pienamente la Santissima Volontà di Dio, recitai lentamente la pre­ghiera che mi dà la pace: Fiat, adimpleatur... Mi sentivo spossato, con una stanchezza che mi ricordava la lotta di Giacobbe con l’Angelo.

Non appena mia sorella morì - ‘E finita’, disse José Luis Pastor, il medico che l’assisteva - recitai un respon­sorio e, poiché l’ora lo consentiva, scesi in oratorio a ce­lebrare la Santa Messa.

All’inizio, in un istante, mi venne il pensiero di chie­dere al Signore un segno chiaro che l’anima di mia so­rella, per la quale stavo per offrire la Messa con la fa­coltà di altare privilegiato, fosse nella gloria del Cielo. Resomi conto di ciò che avevo chiesto, senza alcuna partecipazione della mia volontà, respinsi quel pensiero e mi pare di averne chiesto perdono al Signore, perché era come tentare Dio.

Salito all’altare, proseguii la Santa Messa normalmen­te fino al primo memento: mi accorsi, non senza sorpre­sa, che stavo applicando la Messa non per mia sorella, morta pochi minuti prima, ma per un’altra intenzione. Mi corressi, offrendo il Santo Sacrificio per l’anima di Carmen. Proseguii di nuovo normalmente, fino al me­mento dei defunti: ancora una volta, senza rendermene conto, avevo offerto la Santa Messa per un’altra inten­zione. Riformulai l’intenzione: per l’anima di Carmen. E provai una grande sicurezza, una gioia immensa, una ri- conoscenza senza limiti per la bontà di Dio, avendo j compreso, con una certezza che non è umana, che il Si­gnore, nella sua bontà infinita, aveva voluto darmi ‘un segno chiaro’ che Carmen era già entrata in gaudium Domini sui.

Da quel momento mi sono sentito diverso: sono finite le lacrime e ho provato una gioia, anche fisica, che non esito a definire un frutto dello Spirito Santo, concesso a questo miserabile peccatore dalla divina bontà. Dopo

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tutto ciò, mi costa fatica fare suffragi, ma li faccio e li faccio fare perché così vuole la Chiesa.

Roma, 25 giugno 1957»60.Quando il Fondatore faceva visita assieme ai suoi figli

alla tomba di Carmen, recitava insieme a loro un re­sponsorio per i defunti dell’Opera e per i genitori e i fra­telli defunti dei membri dell’Opus Dei61. Sopra l’archi­trave dell’ingresso alla cripta dove riposano i resti mortali di Carmen c’è una lapide, che inizia con queste parole: Ad perpetuam omnium Operis Dei defunctorum memoriam; a perpetua memoria di tutti i defunti delPO­pus Dei.

3. La battaglia della formazione

Agli inizi dell’impresa di Villa Tevere il Padre, privo di risorse economiche per costruire il complesso di edifici della sede centrale delPOpus Dei, aveva fatto il possibi­le per far capire ai suoi figli la necessità di rimboccarsi le maniche tutti insieme per realizzare il progetto, per­ché dal completamento di quegli edifici dipendeva la rapida espansione dell’Opera e il servizio che avrebbe­ro prestato alla Chiesa. Il primo periodo - gli anni dal 1949 al 1954 - era stato una dura prova, un’intermina­bile angoscia in mezzo a un’indicibile povertà. Le sup­pliche del Padre si erano elevate al Cielo in toni forte­mente commossi. Benché non fossero cessate le difficoltà e le sofferenze, già qui raccontate, comincia­rono a notarsi i confortanti risultati di cinque anni di lavoro. Nell’agosto 1954, terminati gli esami nelle Uni­versità e negli Atenei pontifici, il Fondatore aveva final­mente pronti i primi frutti da distribuire. E facile intui­re la sua gioia nel leggere tre lettere simili inviate ai Consiglieri del Messico, degli Stati Uniti e del Cile, nel­le quali, come faceva spesso, utilizzò metafore cariche di significato spirituale:

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«Se mi siete fedeli, se non ci lasciate soli, dal prossimo anno ci saranno leve numerose di sacerdoti che avranno ottenuto a Roma i titoli accademici ecclesiastici. Ciò si­gnifica che, dal dicembre 1955 in poi, ogni anno potrà arrivarvi un certo numero di persone... se rispondete al­le mie chiamate, che sono chiamate di Dio.

Bisogna convincersi che non basta avere qui degli uc­cellini - che, grazie a Dio, non mancano - e del mangi­me, che finora non siamo riusciti a far arrivare in quan­tità sufficiente, ma occorre anche la gabbia: gli edifici del Collegio Romano della Santa Croce. Sappiate che finché non terminiamo, fino all’ultimo mattone e all'ul­tima sedia, è come se la casa dell’Opera ci andasse a fuoco. È necessario, più di qualsiasi altra cosa, spegnere questo incendio»62.

L’allegoria sugli studenti, sul loro mantenimento e sull’alloggio, aveva una sua morale: se le nuove Regioni volevano sacerdoti, dovevano contribuire a sostenere Villa Tevere:

«Ti andrebbero bene sei sacerdoti? - scrisse il Padre al Consigliere del Messico - .Te li manderò ogni anno, purché non ci lasciate alla mercè dei muratori e con le preoccupazioni economiche»63.

Poco importava che i fedeli dell’Opus Dei aumentas­sero considerevolmente, come stava accadendo in Co­lombia, se mancavano i sacerdoti sufficienti per formar­li; difficilmente sarebbero andati avanti64. Per poter inviare sacerdoti in tutte le Regioni bisognava disporre di una buona quantità di «alunni, di orazione, di sacrifi­ci e di aiuti economici»65.

I lavori di Villa Tevere terminarono il 9 gennaio 1960, giorno in cui il Fondatore compì cinquantotto anni. Per varie settimane gli alunni del Collegio Romano avevano lavorato intensamente, pitturando pareti e soffitti e dan­do i ritocchi conclusivi. Nel frattempo, il Padre consul­tava incredulo il Rituale Romano: non riusciva a trova­re, perché non c’era, la cerimonia che gli serviva, e cioè

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«la formula per benedire l’ultima pietra di un edificio, la più importante, poiché indica simbolicamente il lavoro duro, faticoso e perseverante di molte persone per lun­ghi anni»66. Si sarebbe dovuto accontentare di una for­mula generica di benedizione?

Il 9 gennaio, alle undici, tutti avevano fatto gli auguri al Padre per il suo compleanno e si accingevano a cele­brare la fine dell’ardua tappa della costruzione, che era stata una specie di «miracolo continuo»67. Iniziare quel­la avventura era stato un atto di fede viva; continuarla, una pazzia divina; ultimarla, una fedeltà eroica. Forse tornò in mente al Fondatore il rimprovero che aveva udito nel fondo dell’anima, mentre distribuiva la Comu­nione alle suore di Santa Isabel: «Le opere sono amore, non i bei ragionamenti». Tanti anni di fatiche erano sta­ti una degna risposta all’insegnamento ricevuto allora. Forse per questo, riferendosi ai muri di Villa Tevere, era solito dire: «Sembrano di pietra, ma sono di amore»68.

Uscirono tutti nel cortile su cui dava l’abside dell’ora­torio dei Santi Apostoli. Cominciò a piovigginare, ma non si bagnarono molto, perché la cerimonia fu breve. Dopo che don Àlvaro ebbe letto ad alta voce il testo di una pergamena, in cui si ringraziava il Signore per la conclusione dei lavori, essa fu collocata in una cassetta di piombo, che conteneva le monete di infimo valore dei Paesi in cui c’erano fedeli dell’Opera. Prima che il capo­mastro del cantiere murasse la cassetta in un vano pre­disposto sulla parete esterna dell’abside, il Padre rivolse qualche parola ai presenti, ricordando loro che non era amico delle ‘prime pietre’: ne aveva visto posare molte che poi non erano andate oltre la cerimonia d’inaugura­zione. Spiegò loro perché era davvero importante avere collocato l’ultima pietra69.

Il Pensionato, che era stata la prima sede del Collegio Romano, era stato completamente demolito per costrui­re i nuovi edifici. Tuttavia, le nuove strutture annesse al­la sede centrale dell’Opus Dei non erano la sede definiti­

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va del Collegio Romano, ma solo una sistemazione provvisoria, che per ora poteva bastare. Il Collegio Ro­mano, eretto nel 1948, aveva funzionato nei primi anni nella portineria della Villa Vecchia, in uno spazio angu­sto e con un ridotto numero di alunni, per lo più già laureati nelle Facoltà civili. Nonostante l’estrema po­vertà e le tante e dolorose difficoltà, la crescita era stata continua e il Fondatore aveva potuto esprimere la pro­pria soddisfazione:

«Il Collegio Romano: la pupilla dei miei occhi! Que­st’anno vengono anche dal Messico, dal Portogallo, dal- l’Irlanda, dall’Italia, dalla Spagna... » 70.

Era il 1952. Alcuni dei nuovi alunni erano le primizie delle nuove Regioni. Mentre il Fondatore si dibatteva nelle difficoltà economiche, il Collegio Romano stava prendendo corpo. A poco a poco il numero di alunni aumentava continuamente ogni anno, anche se il Padre non era del tutto contento, poiché si era prefissato di ar­rivare a «un massimo di duecento»71 e la gabbia non aveva ancora capienza sufficiente per tanti uccellini. Ma ciò non toglie che nel 1953 c’erano centoventi alunni a Villa Tevere e che, ventidue anni dopo, nel 1975, quan­do fu terminata la sede definitiva del Collegio Romano nelle immediate vicinanze di Roma, il Fondatore rag­giunse la meta sognata. Per tutto questo tempo, Dio aveva premiato e compensato la sua fede e le sue soffe­renze. Quale dono migliore per risarcirlo in vita, che la gioia di vedere il frutto delle sue fatiche?

«Questi ragazzi del Collegio Romano - sospirava compiaciuto - sono tutti una grande benedizione di Dio. Vale la pena soffrire e lavorare, per vedere questo frutto maturo»72.

«Per me è evidente - scrisse in un’altra occasione - che il Signore gode del Collegio Ronìano della Santa Croce, dove lo si ama tanto»73.

Verso la metà degli anni cinquanta il Fondatore pote­va dunque rallegrarsi di aver vinto una corsa col tempo,

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evitando un notevole ritardo nel lavoro apostolico. La prova di aver raggiunto l’obiettivo stava nell’abbondan­za di frutti tangibili:

«E una gioia vedere quanto è efficace il Collegio Ro­mano della Santa Croce: ora escono sessanta nuovi dot­tori in materie ecclesiastiche. Studiate con Àlvaro che co­sa conviene che facciano: alcuni potranno essere ordinati in dicembre o in gennaio, se in giugno non è possibile»74.

Il Fondatore aveva chiaro in mente il progetto da molto tempo; già nel 1950 aveva spiegato l’importanza spirituale del Collegio Romano della Santa Croce e ciò che avrebbe significato per lo sviluppo dell’Opera75.

Nei suoi progetti, il Collegio Romano, almeno per al­cuni anni e fino a quando le Regioni non si fossero svi­luppate, sarebbe stato «lo strumento efficacissimo per provvedere di strumenti tutte le Regioni»76. Il sistema per forgiare laici e sacerdoti era un agile ingranaggio composto di diversi elementi: la grazia di Dio era quello fondamentale e decisivo; poi venivano lo sforzo e il la­voro dell’uomo; in terzo luogo, gli indispensabili mezzi economici. Il Padre faceva presente ai Consiglieri delle nuove Regioni, che gli chiedevano persone e soprattutto sacerdoti, che era necessario non cadere in «un circolo vizioso»77. Se volevano persone formate per sviluppare il lavoro apostolico, dovevano prima mandare a Roma dal proprio Paese qualcuno in grado di prepararsi a ri­cevere gli Ordini sacri78. Ma non bastava che gli man­dassero persone; dovevano anche concorrere a sostenere le spese per la loro formazione, l’alloggio e gli studi79. Il Fondatore creò un sistema di borse di studio e applicò il principio del do ut des. Non esitava a ribadirlo con chiarezza:

«Se tutti facessero come voi - scrisse al Consigliere del Cile - non so che cosa accadrebbe. Poi vorrete sacer­doti, ma senza borse di studio, non ci saranno sacerdoti per il Cile»80.

Anche a quelli della Colombia ricordava che l’aiuto al

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Collegio Romano doveva essere effettivo, non solo un buon desiderio:

«Gradisco molto i desideri ma, se ci fermiamo ai desi­deri, purtroppo non potranno venire altri sacerdoti in Colombia»81.

Fu ancora più esplicito con quelli del Perù:«Sono felice che vi ricordiate del Collegio Romano: se

arrivano borse di studio dal Perù - dal Perù! -, il Perù avrà altri sacerdoti. Altrimenti non li avrà»82.

Ben presto il Collegio Romano assicurò a tutte le Re­gioni «continue leve di sacerdoti»83. Valeva la pena for­nire risorse e dare una mano a terminare i lavori, per­ché, alla fin fine, il Padre era un Padre affettuoso che non abbandonava le Regioni povere, impossibilitate a pagare borse di studio.

Il Fondatore aveva concepito il Collegio Romano come uno strumento di strumenti, per romanizzare POpera e mantenerla unita. Non pensò mai di formare superuomini e neppure voleva a Roma i migliori di ogni Regione. Aveva sognato di disporre di un “eserci­to” di sacerdoti e di laici, ben formati, pronti a partire da Roma verso Paesi lontani, portatori di un medesi­mo messaggio e di un unico spirito. Ora, ogni anno aveva una nuova leva di sacerdoti pronti per partire. Così scriveva, nel 1957, ai suoi figli in procinto di di­ventare sacerdoti:

«In questi momenti in cui il Signore ha voluto spargere la sua semente - in così pochi anni - per una divina di­spersione in tanti Paesi, il Seminatore vuole che l’esten­sione non faccia affievolire l’intensità. Voi, tra i vostri fratelli, avete la missione chiara e soprannaturale di con­tribuire efficacemente affinché non si perda di intensità, perché sarete sempre strumenti di unità e di coesione»84.

Nell’aprile 1958 si rivolgeva ancora una volta ai nuo­vi sacerdoti:

«Carissimi, non vi ripeterò, perché lo avete sentito dire mille volte, che voi sacerdoti siete uno strumento

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efficace di unità nel nostro Opus Dei. Ma voglio dirvi di non dimenticare mai che una chiara manifestazione di questo dovere - essere strumenti di unità - sta nel- l’amare e servire con identico, lieto e costante sacrifi­cio i vostri fratelli e le vostre sorelle della nostra Opera e gli altri miei figli della Società Sacerdotale della San­ta Croce»85.

* * *

Non appena gli fu possibile, il Fondatore eresse in Ro­ma, con decreto del 12 dicembre 1953, il Collegio Ro­mano di Santa Maria. Questo Centro internazionale per la formazione delle donne dell’Opus Dei aveva la stessa finalità di quello degli uomini: garantire una più stretta unione con Dio e preparare le persone a una feconda azione di apostolato. Il Collegio - afferma il decreto di erezione - “ sarà frequentato nell’Urbe, che è centro e capo della Chiesa Cattolica e sede di S. Pietro, Vicario di Cristo, e dei suoi Successori, da persone provenienti da tutte le Nazioni, affinché sia per l’Opus Dei strumen­to speciale di unità e di coesione”86.

Romanizzarsi per il Fondatore equivaleva a essere più universali, più cattolici. Non avrebbe mai tollerato che si parlasse di un Opus Dei nazionalista: lo rifiutava con estrema durezza:

«Se, dòpo che il Signore mi avrà chiamato a sé, in qualche parte del mondo qualcuno dei miei figli cercas­se di fare un Opus Dei nazionale - un Opus Dei irlande­se, francese o spagnolo, per esempio - mi solleverei dal­la tomba per sconfessarlo, perché causerebbe una diabolica divisione nella nostra famiglia, nella quale dobbiamo essere tutti uniti, interessarci tutti di tutti, senza mai creare barriere nazionalistiche o qualsiasi tipo di discriminazioni»87.

La storia del Collegio Romano di Santa Maria è mol­to simile a quella del Collegio della Santa Croce. Non

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solo quanto agli scopi e al funzionamento, ma anche per le ristrettezze in cui nacque e per la rapida crescita, an­no dopo anno. La differenza principale consiste nelle date dell’erezione e del trasferimento nella sede definiti­va. La storia del Collegio Romano della Santa Croce - come è stato detto - cominciò nel giugno del 1948, quando don Josemaria ebbe la chiara percezione che era giunta l’ora di Dio, il momento dell’espansione dell’O- pera. La risposta immediata e generosa del Fondatore a questo suggerimento divino fu l’erezione, il 29 giugno 1948, del Collegio Romano della Santa Croce, che gli consentì di preparare le persone necessarie. La storia del Collegio Romano di Santa Maria iniziò invece più tardi. Nel settembre 1952 non era ancora giunto il momento propizio, per la scarsità di persone pronte: «Per ora - scrisse - non possiamo cominciare il lavoro del Collegio Romano per le donne»88.

Questo ritardo fu in parte dovuto alla improvvisa cre­scita dell’apostolato in Italia, cui il Padre aveva dato una forte spinta nel gennaio 1949, tracciando un ambi­zioso programma di espansione nelle città universitarie. In quel momento in Spagna, che era allora il vivaio del­POpus Dei, il numero delle donne dell’Opera era decisa­mente inferiore a quello degli uomini, il che preoccupa­va il Padre89. Oltre alle persone necessarie per portare avanti l’ampio e specifico apostolato femminile, c’era bisogno delle donne per aprire Residenze e Centri a Ro­ma, Milano, Napoli e Palermo, per la sede dell’Assesso­rato Centrale e per la Casa di ritiri. La preghiera del Fondatore ebbe lentamente ragione delle abbondanti difficoltà, per risolvere le quali egli non aveva altra ri­sorsa che quella, peraltro infallibile.

La sede del Collegio Romano di Santa Maria fu tro­vata in modo inatteso e provvidenziale. Nel 1948 il me­dico aveva prescritto al Padre di fare passeggiate. Dopo una giornata di intenso lavoro era solito andare in auto a Castelgandolfo, per camminare all’aria aperta. Passeg­

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giava con don Àlvaro sulla strada che domina il lago di Albano, proprio davanti a una casa che apparteneva al­la contessa Campello. Ammiravano il magnifico pano­rama, ma spesso il Padre si voltava a guardare la casa, che gli era piaciuta. Recitava avemarie e le faceva recita­re a don Àlvaro, formulando l’intenzione che l’edificio potesse divenire di loro proprietà. Non si trattava certo di un palazzo, ma era molto ben situato, a poca distan­za da Roma e vicino alla residenza estiva del Papa. Non era in buono stato, perché la contessa lo utilizzava per accogliere profughi dei Paesi comunisti dell’est europeo, soprattutto romeni90.

Nella primavera del 1948 la contessa permise a don Àlvaro di tenervi un ritiro, cui presero parte alcuni gio­vani italiani. L’anno successivo gli offrì addirittura la ca­sa, ma poiché il terreno su cui era costruita apparteneva alla Santa Sede, bisognò intraprendere i passi necessari; Pio XII lo concesse di buon grado in usufrutto. Il 21 lu­glio 1949 la casa divenne disponibile. Quel giorno il Pa­dre annotò sul suo calendario liturgico: «Castelgan- dolfo! Laus Deo!». La chiamò Villa delle Rose e la destinò a futura Casa di ritiri e Centro di Studi per le donne dell’Opera91. Dieci anni dopo, nel 1959, Papa Giovanni XXIII cedette in proprietà all’Opus Dei il ter­reno. La cessione giunse in un momento molto opportu­no, poiché l’edificio di via di Villa Sacchetti, annesso a Villa Tevere, non era più in grado di ospitare le alunne del Collegio Romano di Santa Maria, tanto erano cre­sciute di numero. Il Fondatore decise di ampliare l’edifi­cio di Castelgandolfo perché le alunne vi si potessero trasferire. Il 7 luglio 1959 fu dato inizio alla progetta­zione, il 19 aprile 1960 ai lavori di ristrutturazione92.

Il Padre, che aveva da poco posato l’ultima pietra di Villa Tevere, si ritrovò nuovamente alle prese con opere edili. D’altra parte, le frequenti visite al cantiere di Villa Tevere e l’esperienza accumulata anche grazie agli errori, gli consentivano di seguire la nuova ristrutturazione sen­

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za doversi arrampicare sulle impalcature. Aveva dunque deciso di seguire da casa lo studio e la verifica dei proget­ti. Ma il 1° gennaio 1962 si recò al cantiere di Villa delle Rose assieme a don Àlvaro e, come c’era da aspettarsi, si accorse di molte cose che non andavano bene. Da quel giorno seguì da vicino i lavori. Si ripeteva la storia di Vil­la Tevere ed egli scriveva a Encarnita Ortega:

«Il Collegio Romano di Santa Maria va avanti, pur con molti debiti. Ho un gran desiderio che la gabbia venga terminata e che si riempia di uccellini. Quanta gloria darà a Dio Nostro Signore, il lavoro che vi si farà!»93.

Terminati i lavori di ristrutturazione, il Padre decise di inaugurare la nuova sede il 14 febbraio 1963. Alle di­ciassette e trenta vi celebrò la Messa, dopo aver consa­crato l’altare. Al momento della Comunione dovette ri­cordare il primo oratorio dell’Opera, nella Residenza di via Ferraz, a Madrid, perché vi accennò nelle poche pa­role che disse prima di distribuire la Comunione:

«Con il tuo permesso, Sovrano Signore Sacramentato.Figlie mie, davanti a Gesù Sacramentato e alla sua

Santissima Madre, che è Madre nostra, provo la stessa riconoscenza della prima volta in cui abbiamo potuto avere un tabernacolo; la prima volta che abbiamo potu­to dire al Signore, con le parole dei discepoli di Em- maus: resta con noi, perché senza di Te si fa sera.

Voglio dirvi, con queste poche parole, di sentire anche voi un grande fervore, un grande entusiasmo nel vostro cuore; un entusiasmo che si deve tradurre in opere, per­ché le opere sono amore e non le belle parole (...).

Non deludete Dio nostro Signore. Non deludete là sua Madre benedetta. Non deludete me, che ripongo tante speranze, tanto amore e tanta fiducia in questa casa»94.

Chiedeva loro fedeltà, di essere all’altezza delle sue speranze. Non aveva nulla da rimproverare loro. Anzi, aveva pronto un nuovo strumento per l’espansione del- l’Opera, che sarebbe funzionato in parallelo a quello de­

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gli uomini. Nelle sue lettere di quell’epoca si susseguono espressioni di elogio:

«I due Collegi Romani sono una benedizione: quanto splendido lavoro faranno, in questo mondo, queste mie figlie e questi miei figli!»95.

«I ragazzi del Collegio Romano della Santa Croce hanno concluso splendidamente i loro studi. E così pure le mie figlie del Collegio Romano di Santa Maria. È un magnifico vivaio per servire la Chiesa, per fare il bene e per portare la pace all’umanità intera»96.

L’ultima visita alle sue figlie di Villa delle Rose fu la mattina stessa della sua morte, il 26 giugno 1975.

* * *

Il Fondatore diceva spesso ai suoi figli che «l’ignoranza è il peggior nemico della nostra Fede e anche il maggio­re ostacolo al compimento della Redenzione»97. Ne so­no vittima non solo persone poco istruite, ma anche tanti che godono di prestigio professionale in molti campi, come la politica, l’economia, la medicina, l’indu­stria, ecc., ma sono privi di formazione religiosa. Cri­stiani che sono stati influenzati da false dottrine e spesso si sono allontanati dalla Chiesa. Per questo il Fondatore ripeteva così spesso che i suoi figli, oltre alla preparazio­ne professionale, dovevano avere una profonda cono­scenza della dottrina cattolica, in grado di resistere ai mutamenti dei tempi e delle mode scientifiche.

A questo proposito il Fondatore non dava credito all’i­spirazione carismatica98. L’ignoranza - affermava senza mezzi termini - si sconfigge studiando e lo studio richiede fatica, perché la scienza non la si riceve gratuitamente:

«Non aspettiamoci da Dio una luce speciale, che non ha motivo di concederci, visto che ci dà strumenti uma­ni adeguati, come lo studio e il lavoro»99.

Dal canto suo non aveva certo condotto una vita co­moda. Era stata una continua milizia ed egli non cono­

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sceva l’ozio. A Molinoviejo, nell’estate del 1947, men­tre stava riferendo ai suoi figli i risultati della sua per­manenza a Roma, disse loro: «L’Opus Dei ha vinto - con l’aiuto di Dio - prima la battaglia teologica e poi la battaglia giuridica». E continuò: «Ora sta combattendo la battaglia della formazione che, se siete fedeli, termi­nerà presto»100.

Nella battaglia della formazione si era impegnato fin dagli inizi dell’Opera. Pur trattandosi di una soluzione transitoria, con il Decretum laudis, del febbraio 1947, di­sponeva della base giuridica per lo sviluppo universale degli apostolati dell’Opus Dei in tutto il mondo. Vinta, quindi, la battaglia giuridica, potè dedicarsi compieta- mente a dare alle sue figlie e ai suoi figli una formazione completa101. La nuova fase di questa battaglia, più esi­gente e più impegnativa che in passato, portò al “Piano di Studi” del 1951, che conteneva i programmi dei corsi isti­tuzionali di Filosofia e di Teologia. Esso stabiliva che tut­ti i fedeli dell’Opus Dei, senza eccezione, dovevano segui­re un adeguato programma di studi, senza che ne soffrisse la loro situazione familiare e professionale. Per ampiezza e per rigore, i programmi di ogni materia, almeno nel ca­so dei numerari, erano impegnativi quanto quelli delle Università Pontificie di Roma102. Il 14-11-1955 fu stabilito un analogo Piano di Studi per le donne dell’Opus Dei. Anche le numerarie avrebbero così potuto acquisire una solida formazione dottrinale, studiando Filosofia, Teolo­gia, Sacra Scrittura, Liturgia e Diritto Canonico103.

I piani di studi furono lodati dalla Santa Sede. In oc­casione del venticinquesimo anniversario della fonda­zione dell’Opus Dei, il Cardinale Pizzardo, Prefetto del­la Sacra Congregazione per i Seminari e le Università, inviò al Fondatore una lettera in cui elogiava calorosa­mente la Ratio Studiorum dei fedeli dell’Opus Dei. Il Cardinale sottolineava soprattutto il fatto che i numera­ri laici facessero un biennio filosofico e un quadriennio teologico “ alla stregua dei sacerdoti” 104.

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Le parole di Pizzardo furono di consolazione per il Fondatore, perché, diceva nella risposta, «fra tutte le re­sponsabilità che il Signore ha voluto mettere sulle mie povere e umili spalle, la profonda formazione spirituale e scientifica dei membri dell’istituto è da me sentita con maggiore premura e con maggior peso»105. Per questo istituì numerosi Centri di formazione, per i quali sareb­bero passati tutti i numerari, sia nelle singole Regioni, sia a Roma (i centri interregionali, cioè il Collegio Ro­mano di Santa Maria e quello della Santa Croce)106. Sebbene il Fondatore avesse previsto che alcuni fedeli si dedicassero alle scienze ecclesiastiche, il suo forte inte­resse per i Piani di Studi non aveva solo motivazioni scientifiche, visto che «la missione peculiare e principale dell’Opus Dei non è coltivare le scienze ecclesiastiche, bensì santificare le professioni laicali»107. Infatti, tutto il sapere umano può essere trasformato in strumento di apostolato; inoltre, una migliore conoscenza delle Scien­ze Sacre è garanzia di stabilità nella vita interiore e di un rapporto più profondo con Dio.

Con il tempo, l’unità nella formazione filosofico-teolo- gica dei membri contribuì a dare maggior coesione intel­lettuale a tutta l’Opera, senza però imporre una piatta uniformità. In accordo con il Magistero della Chiesa, l’insegnamento sarebbe stato impartito «secondo lo spi­rito, la dottrina e i princìpi» di S. Tommaso, escluso l’ob­bligo di rifarsi unicamente ai suoi insegnamenti, poiché l’Opus Dei non ha una dottrina teologica propria108.

«L’Opus Dei - ha affermato esplicitamente il Fonda­tore - non sosterrà né promuoverà una propria scuola teologica. I fedeli dell’Opus Dei devono avere sempre un forte senso della libertà: qua libertate Christus nos li- beravit, con la libertà che Cristo ci ha conquistato. Lo spirito di libertà è una delle caratteristiche essenziali della nostra Opera»109.

Una simile libertà nell’opinabile e il rispetto per le al­trui convinzioni che non si condividono sono garanzia

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di convivenza e di unione110, una ulteriore dimostrazio­ne dello spirito di unità all’interno dell’Opus Dei e della sua apertura nelle relazioni interpersonali.

4. L’arte di governare

La decisione di trasferire a Roma il Consiglio Generale, presa a Einsiedeln nel Congresso generale del 1956, die­de inizio a una nuova fase nel governo dell’Opera'.' Per­mise, infatti, di attuare compiutamente il sistema di go­verno concepito dal Fondatore e stabilito negli Statuti dell’Opus Dei.

La struttura organizzativa non fu né un ritrovato spontaneo, né un’elaborazione di modelli ripresi da altre istituzioni ecclesiastiche o civili. L’Opus Dei era infatti un fenomeno pastorale senza precedenti e, così come non aveva all’inizio un quadro giuridico appropriato, non poteva avere neppure un sistema di governo bell’e pronto. Il Fondatore dovette navigare a vista. In un pri­mo momento non ebbe necessità di alcun regolamento, poiché bastavano le decisioni e gli orientamenti dati di persona, visto che i direttori dei primi centri dell’Opera li aveva accanto a sé. In seguito, negli anni successivi alla guerra civile, dato l’abbondante lavoro e la necessità di assentarsi frequentemente da Madrid, scelse Àlvaro del Portillo come suo primo collaboratore nei compiti di go­verno, e lo nominò Segretario generale. La scelta del Pa­dre di evitare il rischio di fare un vestito e di metterci dentro la creatura era dettata dalla prudenza e in sinto­nia con la realtà. Dava disposizioni a voce o per iscritto, con lettere, note e avvisi. All’inizio era sufficiente, ma col passare del tempo, dovendo presentare l’istanza per l’ap­provazione dell’Opus Dei come Pia Unione, dovette redi­gere alcuni documenti, fra i quali il Regolamento111, nel quale indicava, come Organi direttivi a livello nazionale, il Consiglio e l’Assemblea112.

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Due anni dopo, nel 1943, spinto dalle circostanze e dal rapido sviluppo dell’Opera, dovette pensare all’ere­zione diocesana della Società Sacerdotale della Santa Croce e Opus Dei. Allegati all’istanza con cui si chiede­va il nihil obstat della Santa Sede c’erano i Lineamenti in cui è descritto compiutamente il regime di governo nei suoi tre gradi - generale, territoriale e locale - e sono delineate cariche, criteri di nomina e competenze113.

Il Fondatore non aveva fretta di stabilire un sistema di governo finché lo sviluppo dell’Opera non lo richiedes­se. Tuttavia formulò alcune indicazioni, che sono consi­derazioni di carattere generale, una sorta di preambolo all’arte del governo che, più che alla struttura o all’orga­nizzazione, mirano, al buon funzionamento. Una delle prime notazioni su questa materia compare negli Ap­punti intimi'.

«23-XI-1930. Ritengo che il governo dell’Opera di Dio non deve essere dittatoriale-, molta democrazia. E molta obbedienza»114.

Poco più di un mese dopo tornò sull’argomento:«Lo si è già detto, ma insisto: il governo dell’Opera di

Dio non deve essere dittatoriale. Ma nessuna falsa de­mocrazia. Una elezione prudente, in base a principi de­mocratici che verranno stabiliti»115.

E chiaro che il Fondatore voleva accuratamente evita­re un governo che degenerasse in tirannia, mancanza di libertà, protagonismo o violenza. Le sue prime ricerche di un sistema di governo per l’Opus Dei erano già volte a impedirlo. Nella Istruzione per i Direttori, coloro cioè che «sono partecipi delle preoccupazioni di governo», che iniziò a scrivere nel maggio 1936 pensando alla prossima apertura di un centro a Valencia e di un altro a Parigi, tornò sull’argomento e sull’idea del governo col­legiale come correttivo contro la tirannia:

«Si stabilisce che in tutte le nostre case e Centri, in tutte le nostre attività, ci sia un governo collegiale, per­ché né voi né io ci possiamo fidare esclusivamente del

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nostro criterio personale. Questa decisione non è stata presa senza una particolare e speciale grazia di Dio (...). Serve un governo collegiale perché non si possa mai dire di nessuno di voi: ti hanno costituito in autorità e sei di­ventato un tiranno»116.

Il Fondatore aborriva a tal punto la tirannia e amava tanto la libertà, che nel corso della sua vita volle ribadi­re mille volte questa idea. Perché nell’Opera, a tutti i li­velli, è necessario un governo collegiale? Ecco la sua ri­sposta:

«Perché non si cada nella tirannia. E una questione di prudenza, perché con un governo collegiale le cose si studiano meglio, si possono correggere gli errori, si può assicurare maggiore efficacia alle attività apostoliche già ben avviate. Se governa una sola persona, i mali sono incalcolabili ed è difficile evitare la dittatura e il dispoti­smo»117.

Un’altra possibile risposta, discretamente velata dal­l’umiltà del Fondatore, è che l’istituzione della collegia­lità a tutti i livelli di governo nacque da una esplicita ispirazione divina. Senza forzare il filo della riflessione, questa idea compare discretamente nel testo: «Questa decisione non è stata presa senza una particolare e spe­ciale grazia di Dio: perciò sarebbe un grave errore non rispettarla»118. La collegialità è, quindi, essenziale per il governo dell’Opus Dei.

Man mano che l’Opera si sviluppava, il Fondatore stu­diava con attenzione le necessità dell’espansione aposto­lica. Lo sviluppo in tutto il mondo richiese una direzione generale centralizzata a Roma, per mantenere l’unità. Non era una novità perché, fin dalla fondazione, il Padre ebbe sempre presente l’universalità dell’impresa. Tale realtà prevedeva peraltro una suddivisione in Regioni, circoscrizioni territoriali coincidenti, in linea di massima, con i confini di una Nazione. Nella mente del Fondatore ai governi regionali competeva promuovere iniziative, consolidare le attività e risolvere in loco i problemi con­

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seguenti. Infine i Consigli locali, cioè i direttori di ogni Centro, si sarebbero dovuti occupare personalmente di ciascuno dei membri presenti nei singoli luoghi.

Questo schema di governo è già tracciato nei Linea- menta del 1943; venne poi pienamente sviluppato nello lus Peculiare del 1947 e ampliato in alcuni punti nel Codex Iuris Particularis del 1950. Quest’ultimo, in vi­gore dall’approvazione definitiva dell’Opus Dei, è in buona sostanza vigente ancora oggi, salvo i cambiamen­ti di terminologia119.

Il Fondatore decise dunque che i criteri, o principi, di collegialità e di universalità sarebbero stati a fondamen­to del sistema di governo. L’idea era feconda, ma resta­vano da distribuire funzioni e competenze. Il Fondatore alPinizio non fu quindi in grado di definirne i dettagli e di valutare l’efficacia del sistema prima che fosse com­pletamente funzionante. D’altra parte, non esistevano istituzioni analoghe con le quali potersi confrontare. Inoltre, le svariate condizioni di vita familiare e sociale dei fedeli delPOpus Dei, le loro esigenze professionali, le disparità di cultura e di formazione e, infine, i mille mo­di in cui facevano apostolato rifuggivano da ogni tenta­tivo di rigido incasellamento normativo.

AlPinizio il Padre governò assieme a poche persone, evitando di dare troppe indicazioni. A Roma, affrontan­do e risolvendo i problemi concreti dell’apostolato del- l’Opera, cominciò a raccogliere un’abbondante espe­rienza di governo. Dava disposizioni solo quando se ne presentava la necessità, nemico com’era della casistica, della burocrazia e delle teorie che fanno perdere tempo ed energie e ritardano le decisioni. L’attività apostolica si faceva strada liberamente, assecondando il soffio del­lo Spirito, senza troppa organizzazione o piani collettivi controllati dal vertice. Le iniziative nascevano dalla «spontaneità apostolica della persona»120.

Ci si può chiedere, per curiosità, quale fu il risultato di una funzione di governo intesa esclusivamente a for­

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nire ai membri dell’Opus Dei «l’assistenza spirituale ne­cessaria alla loro vita di pietà e a una adeguata forma­zione spirituale, dottrinale-religiosa e umana»121, come unico obiettivo e compito dell’Opera in quanto tale. Tutto il resto era ed è riservato alla libera e responsabile azione personale di ciascuno. Il Fondatore si rendeva conto che questo era un modo disinvolto e ottimista di dirigere un’impresa apostolica? Sì, perché in svariate oc­casioni disse che l’Opus Dei, da questo punto di vista, era una organizzazione disorganizzata o, se lo si preferi­sce, una disorganizzazione organizzata111.

Già in una Istruzione del 1941 il Fondatore afferma­va che l’Opera, a motivo della secolarità dei suoi fedeli, deve essere una disorganizzata organizzazione, una «pe­culiare organizzazione divina che ha l’apparente disor­ganizzazione di tutte le cose vitali»123.

L’Opera - scrisse nel 1959 - non ha una finalità apo­stolica unica e specialistica, ma ha tutte le specializza­zioni della società umana. Perciò, nell’Opus Dei

«è presente tutta la società attuale e sarà sempre così: intellettuali e uomini d’affari, professionisti e artigiani, imprenditori e operai, diplomatici, commercianti, con­tadini, economisti e letterati; giornalisti, uomini dello spettacolo e del circo, sportivi. Giovani e anziani, sani e malati. Una organizzazione disorganizzata, come lo è la vita, meravigliosa; una specializzazione vera e autentica dell’apostolato, perché tutte le vocazioni umane, digni­tose e oneste, diventano apostoliche, divine»124.

Non soltanto aveva previsto questa organizzata disor­ganizzazione, ma la considerava una logica conseguenza del vivere il genuino spirito dell’Opus Dei. Anzi, «la be­nedetta disorganizzazione» nasce, diceva nel 1967, da un «giusto e necessario pluralismo, che è una caratteri­stica essenziale del buono spirito dell’Opus Dei, e che a me è sembrato sempre l’unico modo serio e corretto di concepire l’apostolato dei laici»125.

Organizzazione disorganizzata vuol dire che «il prima­

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to è tenuto dallo spirito e non dall’organizzazione; che la vita dei fedeli non viene compressa da direttive, piani e riunioni. Ciascuno, unito agli altri da uno stesso spirito e da uno stesso desiderio di santità e di apostolato, si impe­gna liberamente a santificare la propria vita ordinaria»126.

Il Padre aveva previsto la crescita disorganizzata, vita­le, alimentata da una linfa divina. Ancora agli inizi, po­co dopo aver fondato l’Opus Dei, aveva cercato di met­tere per iscritto le linee essenziali dell’apostolato che i suoi membri avrebbero dovuto sviluppare. Quegli sche­mi, ricchi di suggestione e poco sistematici, furono og­getto delle chiacchierate con gli amici di Madrid duran­te le passeggiate sulla Castellana o negli incontri al Sotanillo. I quadri sinottici dell’Opera, scrisse negli Ap­punti intimi, «mi sono serviti come traccia per racconta­re il nostro segreto alle anime che Dio mi ha fatto incon­trare»127. Don Josemarìa, giovane sacerdote, parlava a quanti lo ascoltavano di un lavoro apostolico ancora in­cipiente. Tutti lo ascoltavano incantati, mentre svelava loro un futuro favoloso. Alcuni si entusiasmavano, mentre altri, più scettici, a mente fredda pensavano di aver dato retta a impossibili chimere. Trent’anni dopo la realtà aveva superato, di molto, quei vividi sogni.

* * *

Nella Istruzione per i Direttori il Fondatore aveva con­densato fin dal 1936, ben al di là di indicazioni mera­mente tecniche, la propria scienza sul modo di governa­re e di dirigere le anime nell’Opera128. La funzione del Direttore - scrisse - «non è un lavoro burocratico», ma un impegno per cercare la santità129. Una missione so­prannaturale con l’obiettivo, per quanti esercitano una carica di governo, di ottenere la santità dei loro fratelli e la propria. Governare «è un compito di servizio e di amore», significa «darsi agli altri», dimenticando se stessi «per pensare esclusivamente ai nostri fratelli»130.

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Un incarico di direzione nelPOpera è «una opportunità in più per servire»131. Aveva tanto viva nell’anima l’idea del governo come servizio continuo che una volta, in­contrando un suo figlio, da poco nominato nel Consi­glio Generale, gli chiese: «Quando vieni a dormire nella Villa Vecchia?» (il Centro del Consiglio). Ma subito si corresse: «Non a dormire: a vegliare».

Ai Direttori destinava questi consigli:«Si senta strumento al servizio della Chiesa; nelle cari­

che, veda i carichi; non veda diritti, ma doveri; si faccia tutto a tutti, persuaso che la ragione della sua esistenza sulla terra è una lieta, volontaria e attuale servitù»132.

L’ «arte di governare servendo»133 esclude il Direttore proprietario, che fa e disfa a suo arbitrio e capriccio, e si comporta da vero tiranno. Il Direttore proprietario - di­ceva il Fondatore tra il serio e il faceto - «l’ho ammaz­zato molti anni fa, colpendolo alla schiena, come i tradi­tori»134. Le cinque regole del buon governo nell’Opera assestavano al Direttore tiranno cinque pugnalate, an­che se ne bastava una sola per toglierlo di mezzo:

«Non mi stancherò di dirvi che ci sono cinque punti che sono la base della scienza di governo nell’Opus Dei: avere sempre visione soprannaturale, senso di responsa­bilità, amore per la libertà degli altri - ascoltarli! - e per la propria, essere convinti che il governo deve essere col­legiale, che i Direttori si possono sbagliare e che, in tal caso, hanno l’obbligo di porre rimedio»135.

Il Padre (allora Presidente Generale) era attentissi­mo. Se doveva esprimere il suo parere nelle riunioni collegiali, lo faceva per ultimo, per evitare che gli altri ne fossero influenzati, sia pure inconsapevolmente. Ri­spettava completamente la libertà altrui: «Io non sono altro che un voto», diceva136. Era certo che il buon fun­zionamento dell’attività di governo avrebbe prodotto ottimi risultati, a condizione che tutti mettessero in pratica i criteri stabiliti. Se non l’avessero fatto, non avrebbero certo potuto pretendere di ricevere particola­

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ri luci dal Cielo. «Se le cose si fanno in questo modo - insegnava il Fondatore - il lavoro è più facile, più effi­cace, più sereno, e la grazia di Dio più abbondante»137. Rispettava tutte le competenze previste nel Codex e raccomandava con insistenza ai suoi figli del Consiglio Generale di correggere subito chi fosse andato oltre le proprie attribuzioni. Accadeva spesso - racconta uno di loro - che il Padre correggesse gli scritti in partenza per qualche Regione quando notava che violavano le competenze dei destinatari, togliendo loro iniziativa e responsabilità138. Aveva talmente a cuore il rispetto del­le competenze, che una volta riconsiderò nottetempo una certa questione e il mattino successivo, alle sette e mezzo, chiamò un membro del Consiglio per dirgli di cambiare una indicazione rivolta ai suoi figli inglesi, perché, affermò, «ci stiamo intromettendo». La cosa doveva essere decisa liberamente dalla Commissione di quel Paese139.

Il Fondatore non si limitava a non intromettersi nelle materie che esorbitavano dalle proprie competenze. Esi­geva che i dirigenti delle diverse Regioni conoscessero bene i diritti che competevano loro e li esercitassero. Voleva che gli organismi intermedi non declinassero le proprie responsabilità e non rimandassero al livello su­periore le questioni che essi stessi potevano risolvere. Ricordava ai Direttori che avevano il dovere di assolve­re tutti gli obblighi inerenti alla loro carica. «Ognuno assolva i propri compiti»140, diceva, per ricordare loro di non scaricare le proprie responsabilità.

Il Fondatore non si aspettava illuminazioni gratuite dal cielo. Pretendeva uno studio ben fatto e un lavoro sèrio, «come in un laboratorio: si studia il fatto in sé, poi i precedenti, e i casi analoghi. Soltanto alla fine si può prendere una decisione»141. In genere, per evitare l’improvvisazione, prima di decidere qualcosa, sintetiz­zava il problema in un appunto che esaminava poi nella preghiera142. Nello studio e nelle decisioni di governo

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non mostrava mai precipitazione. Risolveva le questioni con diligenza, dando tempo al tempo, con serenità, stu­diandole approfonditamente se erano cose importanti. «Sapete perfettamente - scriveva ai Direttori - qual è il criterio che raccomando per riuscire a lavorare bene: le cose urgenti possono aspettare, le cose molto urgenti devono aspettare»143.

Il Padre coniugava spontaneamente la serietà richiesta dall’attività di governo con il buon umore. Un giorno del 1965, le Direttrici dell’Assessorato stavano esami­nando assieme a lui una questione urgente. Una testi­mone racconta che fioccavano i pareri più disparati. Ba­stò una simpatica battuta di spirito del Padre per... riportare la calma144.

Non abbandonava mai «il punto di vista soprannatu­rale», perché non si dimenticassero che «dietro alle car­te bisogna vedere le anime»; chiedeva lumi a Dio per svolgere lealmente i propri compiti145. Prima e dopo le brevi riunioni di governo con l’Assessorato Centrale, si recava a salutare il Signore nell’oratorio. Una volta, ter­minata una riunione, si trattenne in oratorio e, guardan­do il Tabernacolo, disse:

«Signore, ho fatto quello che potevo e ho suggerito al­le mie figlie come inquadrare la soluzione di questo pro­blema; ora spetta a Te fare in modo che tutto vada bene, come hai sempre fatto nella storia dell’Opus Dei»146.

Nel governo dell’Opera, c’era un punto sul quale si mostrava particolarmente zelante e prudente: la difesa dello spirito dell’Opus Dei. La sua fedeltà arrivava a manifestazioni appassionate; coglieva la minima devia­zione e vi poneva immediatamente rimedio147.

A tutti i fedeli dell’Opus Dei raccomandava una fran­chezza libera da timori o diffidenze nel rapporto con i Direttori. «Sappiate che nell’Opera il governo si basa sulla fiducia»148.

Era convinto che nell’Opus Dei nessuno fosse indi­spensabile, «neppure io, che sono il Fondatore»149, ag­

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giungeva. Ripeteva spesso, umilmente: «Sono un po­veruomo e mi dovete aiutare»150. Una volta, udendo un membro del Consiglio Generale dire: “Noi che aiutiamo il Padre a governare...” , lo interruppe: «No! Voi non aiutate il Padre a governare. Voi governate con il Pa­dre»151, per ribadire ancora una volta l’importanza del governo collegiale.

Già nel 1948 il Fondatore riteneva che dovesse ben presto iniziare l’espansione apostolica in Europa e in America. Era consapevole di dover accelerare la forma­zione dei suoi figli, uomini e donne, in vista di un im­portante obiettivo. Si preparava la grande diaspora ed egli, per non interrompere la continuità delle attività apostoliche, aveva bisogno di persone che sostituissero i direttori, i quali a loro volta sarebbero dovuti andare lontano. Nel febbraio del 1948 aveva scritto ai membri del Consiglio Generale, a Madrid, ricordando loro che il Consiglio, «oltre che organo centrale di governo, deve essere scuola dove si formino le squadre che dovranno comporre le Commissioni delle Regioni che nasceranno: preparare uomini di governo, questa è una missione fondamentale del Consiglio»152. Il Padre perseverò in questo impegno nonostante le persecuzioni, la penuria di mezzi economici, la malattia e la faticosa ricerca di una configurazione giuridica stabile.

La formazione dei direttori fu un capitolo importante. Il Padre, che guardava al futuro, orientava coloro che gli sembravano possedere le doti di governo. Seguiva al­la lettera quel che aveva scritto egli stesso: il Direttore doveva essere «nello stesso tempo uno scopritore, un formatore, un distributorè di persone»153. Tratta va j di­rettori e le direttrici - riferisce Encarnación Ortega - “senza eccessivo rigore e senza eccessiva indulgenza” 154, ma era esigente e alimentava in tutti il senso di respon­sabilità. Prima di designare e nominare qualcuno per una carica, “pregava a lungo e con calma” 155. Poi ricor­dava agli interessati di tenere «ben presente che dispiace

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a Dio chi ambisce cariche, o desidera mantenerle»156. Ripeteva spesso alle sue figlie e ai suoi figli che «le cari­che si accettano con gioia, si esercitano con gioia e si la­sciano con gioia»157.

Pensando al futuro e alla continuità dell’Opera, consi­gliava loro di non rimandare la soluzione dei problemi, di non rallentare il ritmo delle attività. Per riuscirci do­vevano far tesoro dell’esperienza di chi li aveva precedu­ti, sforzandosi di migliorarla «e trasmetterla ad altri, in modo da poterci vantare che molti ne sappiano più di noi, e comincino da dove noi abbiamo terminato: servi­remo loro da piedistallo»158.

5. Consummati in unum!Villa Tevere era una vera scuola di vita. Il Padre aveva fatto in modo che visitandola se ne ricavasse una lezione di storia dell’Opus Dei e vi si potesse vedere la materia­lizzazione del suo spirito. La casa era popolata di ricor­di: dalla terrazza in cima all’edificio, fino alla cripta sot­terranea dove riposavano i resti mortali di zia Carmen. Nella altana, un locale nella parte superiore dell’edifi­cio, con un’ampia vista su Roma, volle mettere una lapi­de in latino:

«Come risplendi, Roma! Com’è ridente e bella la vista che da quassù ci offri. Di quanti antichi e grandiosi monu­menti sei ricca. Ma solo tu puoi vantarti di possedere un gioiello ancor più nobile e puro: il Vicario di Cristo»159.

Dentro e fuori la casa, nei corridoi, nelle sale e negli oratori, nei cortili, sugli archi e sui muri, il visitatore si imbatte in oggetti che risvegliano un ricordo o evocano un evento della storia dell’Opera: qualche mattone del Pensionato, recuperato dalla demolizione; un quadro della casa della Nonna; un bicchiere usato dal Padre co­me calice durante la guerra civile. Sono insegnamenti le iscrizioni sulle architravi delle porte, le frasi ricamate

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sugli arazzi, i testi incisi sulle lapidi, siano motti o giacu­latorie. Le statue, le ceramiche, i quadri, le fontane, le vetrate, gli affreschi e le vetrine, sono una specie di cate­chesi. Ma il Padre aveva profuso le sue principali cure negli oratori. I tabernacoli, i soggetti delle pale d’altare, i materiali impiegati nella costruzione, perfino i più pic­coli dettagli ornamentali, tutto era passato dalle sue ma­ni, attraverso le istruzioni date agli architetti160. Dedicò una attenzione particolare all’oratorio del Consiglio Ge­nerale, che chiamò “della Pentecoste” . Nonostante l’e­norme penuria di risorse, volle che questo oratorio fosse uno sfoggio di generosità e di gratitudine, anche a costo di aggravare i debiti. Con uno splendido gesto, commis­sionò un tabernacolo che potesse riflettere la sua devo­zione da innamorato161.

Nel 1954 fece fare i primi disegni. Il Padre voleva che il tabernacolo fosse non solo dignitoso, ma il più ricco possibile. Nonostante la sua grande povertà, non volle preoccuparsi di quanto sarebbe costato e mise nel pro­getto ancor più impegno del solito, per il particolare si­gnificato dell’oratorio del Consiglio Generale, che era in certo qual modo il centro di tutta l’Opera162. Non appe­na ricevette i disegni dei prospetti, scrisse di suo pugno sul foglio l’iscrizione da mettere sulla porta del taberna­colo: consummati in unum/163. Nel maggio 1956, due anni dopo i primi disegni, gli furono inviate a Roma al­cune diapositive a colori dell’opera, quasi terminata. Il 29 settembre il tabernacolo arrivò a Villa Tevere e il 1° ottobre il Padre scriveva alla Commissione regionale della Spagna:

«Il tabernacolo è meraviglioso: sono molto contento anche per l’affetto e la ricchezza con cui è stato decora­to l’interno. Mi pare che lo si possa definire veramente opus Dei»164.

Il Padre si commosse che fosse stata profusa tanta ric­chezza nella parte interna, quella nascosta alla vista. Il tabernacolo ha la forma di un tempietto circolare, con

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colonnine, tra le quali ci sono quattro nicchie con sta­tuette d’argento dei santi intercessori dell’Opera: S. Pio X, S. Nicola da Bari, S. Tommaso Moro e il Santo Cura­to d’Ars. La cupola è di stile rinascimentale, così come tutto il resto, ed è sormontata da una croce. Il taberna­colo è molto ricco, con intarsi di lapislazzuli, smalti e angeli intagliati in avorio. La porta è ricoperta di smalti e pietre dure, che incorniciano sei piccoli rilievi con sce­ne della vita di Gesù. Sopra la porta c’è la scritta con- summati in unum!, di cui spiegò il significato il Giovedì Santo del 1975, facendo a voce alta la propria orazione:

«È come se fossimo tutti qui, stretti a Te, senza abban­donarti né di giorno né di notte, in un cantico di ringra­ziamento e - perché no? - di richiesta di perdono. Ma te­mo che ti possa dispiacere se dico così. Tu ci hai sempre perdonato; sei sempre disposto a perdonare gli errori, gli sbagli, il frutto della sensualità o della superbia.

Consummati in unum! Per riparare..., per farti piace­re..., per ringraziare, che è un obbligo fondamentale»165.

La sera del 4 marzo 1957, il Padre consacrò l’altare dell’oratorio166. Prima della cerimonia rivolse alcune parole ai suoi figli lì riuniti:

«L’Opus Dei, Nostra Madre, si sta sviluppando ed estendendo in tutto il mondo, con una meravigliosa po­vertà. Ma a Gesù abbiamo preparato questo tabernaco­lo, il più ricco che siamo riusciti a fare. Vi abbiamo vo­luto mettere in bella evidenza le sue parole, consummati in unum, affinché i cuori di tutti noi, come all’inizio an­che ora e per sempre, siano un solo cuore. Affinché si avverino le parole della Scrittura: multitudinis autem credentium erat cor unum et anima una»167.

L’iscrizione sulla porta del tabernacolo voleva essere un esplicito richiamo all’importanza dell’unità. Nelle omelie, nelle tertulias o nelle lettere, faceva spesso riflet­tere i suoi figli su questo tema. Pochi mesi dopo la con­sacrazione dell’altare scriveva loro:

«Sul tabernacolo dell’oratorio del Consiglio Generale

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ho fatto mettere le parole consummati in unum; tutti, con Cristo, siamo una cosa sola! Immersi nella fucina del Signore, dobbiamo conservare sempre questa mera­vigliosa unità di mente, di volontà, di cuore. Nostra Madre, mediante la quale arrivano agli uomini tutte le grazie - canale splendido e fecondo - ci dia, con l’unità, la chiarezza, la carità e la fortezza»168.

Il Fondatore vedeva i suoi figli strettamente uniti, no­nostante la distanza fisica; mai soli né dispersi; forti, con la fortezza della carità di Dio:

«Nessuno di voi è solo, nessuno è un verso sciolto: siamo versi dello stesso poema, epico, divino. E ci tenia­mo tutti che resti sempre intatta questa unità meravi­gliosa, l’armonia che ci rende forti ed efficaci nel servi­zio di Dio, ut castrorum acies ordinata, come un esercito schierato in battaglia.

Ora parlo all’orecchio di ciascuno di voi: ricordati, fi­glia o figlio mio, che la tua debolezza, la debolezza degli altri, e la mia stessa debolezza, si uniscono nella carità di Dio se siamo consummati in unum, e diventano una grandissima forza, perché il fratello aiutato dal fratello è come una città fortificata, frater qui adiuvatur a fratre quasi civitas firma!»169.

* * *

La liberalità del Padre per quanto si riferiva alla dignità del culto liturgico e all’abbellimento degli oratori, non si fermava nonostante l’indebitamento aumentasse. E bisognava ancora comprare i mobili e molte altre cose. Per questo, la cerimonia dell 'ultima pietra, il 9 gennaio 1960, pur con tutto il suo significato simbolico, non vo­leva dire che proprio tutto fosse finito. C’è per esempio la storia dell’ultimo copriletto. È una storia di non gran­de importanza, una fra le tante che si sono intrecciate nella costruzione di Villa Tevere. Ma il Padre racco­mandò alle sue figlie di serbare memoria dell’accaduto.

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Nel 1956 in tutta Villa Tevere nessun letto aveva il suo copriletto. Naturalmente il Padre se n’era reso con­to, ma aveva necessità ben più pressanti. Così come gli alunni del Collegio Romano si mangiarono tre pia­noforti, furono mangiati pure molti metri di tessuto. Te­stimonia Fiorendo Sànchez Bella: “Dal 1955 al 1957, in occasione dei miei viaggi da Roma a Barcellona, il Padre mi chiese delicatamente di procurare del tessuto per fare i copriletti; ma i miei amici fabbricanti mi davano il de­naro, e il denaro veniva speso in generi alimentari, non certo in tessuto per i copriletti” 170.

Dopo qualche tempo, arrivarono i primi copriletti. An­che se la situazione economica non migliorava, le Ammi- nistratrici proposero al Padre di acquistare i copriletti un po’ per volta, cominciando dalle stanze dei membri del Consiglio Generale. Il Padre disse di invertire l’ordine: avrebbero iniziato dalle numerarie ausiliarie, poi sarebbe toccato al Collegio Romano, quindi al Centro del Consi­glio; lui sarebbe stato l’ultimo ad avere il copriletto171.

Il 28 febbraio 1964, entrato nella sua camera, rimase di stucco vedendo il letto dotato di un copriletto e disse: «Josemarìa, sei diventato ricco! Viva il lusso e chi lo ha procurato»172.

Chi poteva avergli procurato un tale lusso se non le sue figlie? Due giorni dopo, il 1° marzo, egli telefonò a Mercedes Morado, la Segretaria Centrale:

«Grazie, figlia mia, che Dio ti benedica! Che sorpresa l’altro giorno, entrando in camera mia. Non credevo ai miei occhi e mi sono detto: Josemarìa, sei diventato ric­co! Dopo 36 anni, per la prima volta ho un copriletto.

Tu sai che in questi anni ho chiesto sempre di essere l’ul­timo ad avere un copriletto. Desideravo darvi due insegna- menti: primo, il grande affetto che ho per le mie figlie e per questo ho chiesto che foste voi le prime ad averne uno; se­condo, la povertà, perché vi rendeste conto che si può be­nissimo fare a meno del copriletto. Figlia mia, vorrei che in futuro tu raccontassi alle tue sorelle questo episodio»173.

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Due giorni dopo, in una lettera al Consigliere della Spagna, aggiunse un allegro post scriptum:

«Una grande notizia! Da tre o quattro giorni provo molta soggezione a entrare in camera mia, perché mi hanno messo un copriletto. Vorrà dire che finalmente abbiamo soldi per comprare un copriletto? Benedetta povertà! Amatela, senza fare scena, con tutto quello che comporta. Laus D eo!»174.

* * *

La «meravigliosa unità di mente, di volontà, di cuore» che il Fondatore voleva per i suoi figli era profondamen­te radicata nello spirito dell’Opus Dei:

«Tutti noi, fedeli dell’Opus Dei - sacerdoti e laici, nu­merari, oblati175 e soprannumerari, uomini e donne, ce­libi o nubili e sposati - conduciamo la stessa vita spiri­tuale: non ci sono eccezioni. Abbiamo un solo focolare e una sola zuppiera»176.

La zuppiera dalla quale tutti prendono il nutrimento contiene un unico cibo spirituale, adatto a tutte le diver­se condizioni o circostanze di vita in cui si può trovare un fedele dell’Opus Dei. E diceva loro:

«Siamo come frazioni con lo stesso denominatore. Un numeratore amplissimo e diversissimo, a seconda delle circostanze di ciascuno. Un denominatore comune: una dottrina spirituale specifica o peculiare, che ci spinge a cercare la santità personale»177.

I fedeli dell’Opera, intendeva dire il Fondatore, man­tengono la propria personalità, ben differenziata, un nu­meratore rappresentato dal carattere e dalle doti indivi­duali. Ma tutti possiedono qualcosa in comune, qualcosa di specifico ed efficace: una calamita che attrae tutti nello stesso modo a cercare la santità secondo lo spirito dell’Opus Dei. «Ma la migliore garanzia dell’u­nità dell’Opera consiste nell’unione di tutti i membri con la persona e le intenzioni del Padre»178.

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NOTE AL CAPITOLO XIX

1 Lettera 14-11-19SO, n. 12. «Tuttavia - proseguiva - dobbiamo anche fare in modo che lo Stato sovvenzioni le nostre opere corporative, perché ciò non è affatto in contrasto con la giustizia e il retto ordine delle cose. Tutti gli Stati sono soliti sovvenzionare i cittadini che dirigono opere di educa­zione o di beneficenza: dunque, se ci aiutano, non sarà un privilegio - cosa che aborriamo - ma un ragionevole diritto. Infatti, con le iniziative aposto­liche formiamo la gioventù, aiutiamo i bisognosi, educhiamo buoni cittadi­ni e svolgiamo altre attività, che vanno a vantaggio di tutta la società. Le nostre attività - che hanno tutte un fine di apostolato - fanno risparmiare allo Stato ingenti spese che sarebbe obbligato a sostenere» (ibidem, n. 13).2 In una lettera al Consiglio Generale il Padre fece riferimento a un prestito che, in Spagna, era stato negato: «Mi dispiace che lo Stato non abbia con­cesso il prestito chiesto per riuscire ad aprire quei Centri. Ma forse è una cosa provvidenziale, perché si veda ancora una volta che la nostra Opera non ha avuto aiuti ufficiali» (in EF-490706-1). Mons. Àlvaro del Portillo dichiara: “In effetti, anche se quell’aiuto sarebbe stato dovuto per giustizia, dato che lo Stato spagnolo concedeva con facilità sovvenzioni per iniziative formative cattoliche, fu provvidenziale, giusta l’intuizione del Fondatore, che il Governo di Franco non volesse aiutare l’Opus Dei, anche se poi non sono mancate dicerie e calunnie su un presunto appoggio del Fondatore al regime franchista” (ibidem, nota). Tre anni dopo egli fece una richiesta al Capo dello Stato, anch’essa con esito negativo. Cfr Lettera a Francisco Franco Bahamonde, in EF-521007-1.3 A questa iniziativa di carattere sociale, che ebbe l’effetto di rendere i con­tadini proprietari delle terre che lavoravano, si aggiunse una attività di istruzione e di assistenza tecnica svolta da una scuola agricola diretta da fe­deli dell’Opus Dei; fu anche eretta una parrocchia per dare assistenza spiri­tuale agli agricoltori e alle loro famiglie. Su questa iniziativa sociale a favo­re dei lavoratori dei campi, cfr L3Osservatore Romano, 22-XII-1955.4 Lettera, in EF-510601-3.

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5 Lettera ai suoi figli del Consiglio Generale, in EF-520422-2.6 Lettera ai suoi figli del Consiglio Generale, in EF-520702-2.7 Cfr Lettere ai fratelli Carmen e Santiago Escrivà de Balaguer, in EF- 520128-1 e EF-520227-1.8 Lettera, in EF-520322-1.9 Cfr Javier Echevarria, Sum. 2118. In realtà Carmen faceva poi di buon grado qualsiasi cosa le venisse richiesta. Il suo cuore era nell’Opera.10 Era lo stesso comportamento di suo fratello Josemaria, che indirizzava subito al Signore qualsiasi dimostrazione di gratitudine nei propri confron­ti: «Non ringraziate me, ma Dio», diceva. Il 4 febbraio 1975, per esempio, mentre era all’aeroporto di Madrid, in partenza per il suo terzo viaggio in America, Lynden Parry Upton, una giornalista nata in Rhodesia, converti­tasi al cattolicesimo e fedele dell’Opus Dei, riuscì a salire sull’aereo e a par­lare con il Padre. Ella lo ringraziò molto, ma il Padre le rispose: «Abbiamo tutti tanti motivi per cui essere grati al Signore!». “E anche a lei, Padre”, ripetè la giornalista ringraziandolo di nuovo. «A me no - le rispose -. Dio scrive una lettera e la mette in una busta. Si prende la lettera e si getta la busta nella spazzatura. Io sono la busta» (Lynden Parry Upton, RHF, T- 05085, p. 14; cfr pure Alejandro Cantero, Sum. 6688).11 Mons. Javier Echevarria precisa che don Josemaria “chiedeva a sua ma­dre e ai fratelli sacrifici e aiuti, mai però a suo proprio vantaggio” (Sum. 2116). Cfr Àlvaro del Portillo, Sum. 514.12 Lettera a Carmen e Santiago Escrivà de Balaguer, in EF-520801-3. Non era la prima volta che i due fratelli si recavano in Italia. L’anno precedente (1951), erano arrivati a Roma, in treno, il 12 maggio. Cfr Renato Mariani, RHF, T-03345, p. 5. Dopo l’estate del ’52, Carmen rientrò a Madrid per tornare poi di nuovo in Italia nell’inverno 1952-53, per prendersi cura del­la sistemazione di Salto di Fondi.13 Cfr Lettere ai suoi figli del Consiglio Generale, in EF-540601-10, EF- 540603-1 e EF-550316-2.14 Partì in auto da Roma il 6 luglio 1954, con don Àlvaro. Tornarono a Roma il giorno dopo, passando per Napoli (cfr annotazioni sul calendario liturgico del Padre, in RHF, D-l5689).15 Cfr Àlvaro del Portillo, PR, p. 1734; Jesus Àlvarez Gazapo, PR, p. 1330; Joaqum Alonso, PR, p. 1852; Fernando Valenciano, PM, f. 1161v. C’è un’ampia corrispondenza del Padre con la famiglia Castelli (cfr per esem­pio Lettere, in EF-560411-1, EF-580102-1, EF-580228-1, ecc.).16 Lettera ai suoi figli della Commissione regionale della Spagna, in EF- 561122-1.17 Cfr Lettera ai suoi figli della Commissione regionale della Spagna, da S. Gallo, in EF-580924-3; Lettera a Pedro Casciaro, in EF-581002-1. Il Padre cercava il modo di diminuire il lavoro di don Àlvaro.18 Lettera ai suoi figli della Commissione regionale della Spagna, in EF- 590102-1.19 Lettera a Fiorendo Sànchez Bella, in EF-620501-1.20 Cfr Lettera a José Maria Hernàndez Gamica, in EF-621116-2.21 Fin dal 1947 il Fondatore, aiutato da don Àlvaro che era il Procuratore

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Generale, aveva governato l’Opera da Roma, mentre il resto del Consiglio Generale era rimasto a Madrid, dove si concentrava un rilevante impegno apostolico. La soluzione non era priva di inconvenienti e il Fondatore l’a­veva accettata “con l’autorizzazione e persino il suggerimento della Santa Sede” (cfr Àlvaro del Portillo, Sum. 735). In effetti, quando il Fondatore aveva fatto presente l’impossibilità di trasferire subito a Roma il Consiglio Generale, la Santa Sede gli aveva risposto che sarebbe bastato chiedere, di volta in volta e per iscritto, il voto deliberativo o consultivo del Consiglio Generale (cfr Sum. 736).22 I Congressi Generali ordinari sono riunioni periodiche degli ‘elettori’ delle diverse Regioni i quali, a norma degli Statuti, esaminano il lavoro svolto a partire dal precedente Congresso, propongono iniziative aposto­liche e procedono al rinnovo delle cariche nel Consiglio Generale. At­tualmente i Congressi Generali hanno luogo ogni otto anni. Si chiamano ‘elettori’ i fedeli della Prelatura che hanno voce attiva nell’elezione del Prelato.23 Cfr Lettera ai suoi figli del Consiglio Generale, da Friburgo, in EF- 560706-1.24 Lettera ai suoi figli del Consiglio Generale, in EF-560110-1.25 II Fondatore desiderava che i congressisti avessero il tempo sufficiente per «poter deliberare e votare in coscienza» (AGP, Sezione Giuridica, VI, D-15785).26 II testo originale della mozione è in AGP, Sezione Giuridica, VI, D- 15631.27 Ibidem. Nel verbale della 3a sessione del Congresso si legge: “Il Padre ha ritenuto opportuno che tale mozione sia sottoposta al Congresso, ma con la condizione che non si parli di spagnolo, ma di castigliano; con questa specifica è stata approvata all’unanimità” (AGP, Sezione Giuridica, VI, D- 15786). Volle evitare il riferimento alla lingua spagnola per scongiurare qualsiasi sospetto di nazionalismo o di imposizione della propria lingua madre; tutti sanno inoltre che in Spagna si parlano anche altre lingue, e che il Fondatore non era castigliano, ma aragonese. Cfr anche Sum. 5459.28 Nel verbale della 2a sessione del Congresso si legge: “Trasferimento del Consiglio Generale a Roma. Ha preso la parola il nostro Presidente Gene­rale per dire che, essendo l’Opera diffusa praticamente in tutta Europa e in America, oltre ad avere qualche Centro nel continente africano, sembrava giunto il momento, e così proponeva al Congresso, di trasferire a Roma il Consiglio Generale dell’Opus Dei, la cui sede ufficiale è attualmente a Ma­drid” (AGP, Sezione Giuridica, VI, D-15785). Il Congresso, tra l’altro, sta­bilì anche il modo, affettuoso e insieme rispettoso, di accogliere e di saluta­re il Padre (cfr Àlvaro del Portillo, PR, p. 931).29 Lettera, in EF-560910-1. Ecco com’era costituito il Consiglio Generale della Società Sacerdotale della Santa Croce e Opus Dei dopo le nomine ef­fettuate dal Congresso:Mons. Josemaria Escrivà - Presidente Generale Don Àlvaro del Portillo - Segretario Generale Don Giorgio de Filippi - Procuratore Generale

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Don Severino Monzó - ConsultoreDott. Richard Rieman - ConsultoreDott. Nuno Girào Ferreira - ConsultoreIng. Bernardo Fernàndez Ardavin - ConsultoreProf. Juliàn Herranz - Prefetto degli studiAvv. Joaqufn Alonso - Amministratore Generale.I membri del Consiglio provenivano da cinque Nazioni. Nel 1966 il Consi­glio Generale sarebbe stato costituito da persone provenienti da quattordi­ci Nazioni (cfr Colloqui, op. cit., n. 53).II I Congresso Generale delle donne dell’Opus Dei si era svolto a Los Rosa- les nel 1951. Il secondo ebbe luogo a Roma, due mesi dopo quello di Ein­siedeln. Vi furono rinnovate le nomine per l’Assessorato Centrale (già tra­sferitosi a Roma nel 1953), che risultò composto da donne di dodici nazionalità (cfr ibidem).30 Cfr Joaquin Alonso, Sum. 4689. Nei dieci anni trascorsi dal giugno 1946, data del primo viaggio a Roma del Fondatore, al Congresso Genera­le del 1956, egli aveva inviato al Consiglio Generale 176 lettere.31 Àlvaro del Portillo, Sum. 736.32 Manuel Botas, RHF, T-08253, p. 14 .1 primi a congedarsi per andarsene in America erano stati Pedro Casciaro, José Luis Muzquiz e Ricardo Fernàndez Vallespin.33 Mercedes Anglés Pastor, RHF, T-08385, p. 46. Voleva insegnare con l’e­sempio ai suoi figli che i doveri che riguardano Dio vengono prima di quel­li verso la famiglia d’origine; perciò parlava poco dei suoi congiunti. Vole­va evitare ciò che chiamava ‘familiosV, cioè l’eccessivo attaccamento alla propria famiglia d’origine. Benché amasse molto il fratello Santiago, per esempio, a motivo di altri impegni non potè recarsi a benedire il suo matri­monio (cfr Jesus Àlvarez Gazapo, Sum. 4303; Ernesto Julia, Sum. 4117). Peraltro non imponeva la stessa austerità ai suoi figli e li esortava a com­portarsi sempre in modo delicato e affettuoso.34 Jesus Àlvarez Gazapo afferma che Carmen assomigliava molto al fratel­lo: “Anche in lei la naturalezza e semplicità del carattere facevano passare inosservato il suo lavoro silenzioso, ma molto efficace” (Sum. 4302).35 Cfr Àlvaro del Portillo, Sum. 518.36 Cfr ibidem.37 Lettera, in EF-570425-1; cfr anche José Luis Pastor, Sum. 6074.38 Lettera ai suoi figli della Commissione regionale della Spagna, in EF- 570501-1.39 Cfr Javier Echevarrìa, Sum. 2122.40 Cfr Àlvaro del Portillo, Sum. 518.41 Ibidem, 519.42 Cfr Javier Echevarrìa, Sum. 2123.43 A Federico Suàrez Verdeguer, che aveva fatto sapere al Padre di aver of­ferto la propria vita per la guarigione di zia Carmen, scrisse: «Roma, 4-VI- 57. Che Gesù mi ti protegga, Federico. Grazie per la tua lettera e per l’af­fetto che tutti avete per Carmen. Eppure, no: prega, affidane la guarigione a Isidoro e che sia fatta la santa Volontà di Dio. Tu hai molto da lavorare

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nel mondo: non ci pensare neppure a sostituirti. Un abbraccio e l’affettuo­sa benedizione del Padre» (Lettera, in EF-570604-1).44 Cfr AGP, POI 1977, p. 663.45 Santiago Escrivà de Balaguer, Sum. 7343.46 AGP, POI 1977, p. 662. Quando seppe della diagnosi, il Fondatore, “do­po qualche riluttanza, accolse il desiderio del Consiglio Generale di seppel­lire la sorella nella cripta di viale Bruno Buozzi”, cioè di Villa Tevere (Erne­sto Julia, Sum. 4117). Jesus Àlvarez Gazapo testimonia che il 25 aprile il Padre gli diede, in quanto architetto incaricato della direzione dei lavori di Villa Tevere, l’incarico di predisporre nel sottosuolo di quella che oggi è la chiesa prelatizia di Santa Maria della Pace “una piccola cripta, che fosse luminosa e accogliente, dove poter andare a pregare volentieri e senza pau­ra, sia di giorno che di notte, per potervi seppellire Carmen, se il Signore l’avesse chiamata a Sé” (Sum. 4304).47 Cfr Àlvaro del Portillo, Sum. 520; Javier Echevarria, Sum. 2124. Maria Rivero, presente alla celebrazione del sacramento, testimonia: “Terminata la cerimonia, Encarnita Ortega, Iciar Zumalde, Mary Altozano e io an­dammo nella stanza accanto. Il Padre, seguito da don Àlvaro, arrivò poco dopo, e ci disse: «Figlie mie, vi devo chiedere scusa per il cattivo esempio che vi ho dato piangendo». Allora intervenne don Àlvaro e-disse ciò che avremmo voluto dire noi (...): ‘Padre, lei ci ha sempre detto che dobbiamo avere cuore e in questa occasione ci ha dimostrato di averlo: anche questo è stato un esempio’” (Maria Rivero Marin, RHF, T-05110, pp. 8-9). Oggiil rituale dell’Unzione degli infermi è cambiato.48 Cfr AGP, POI 1977, p. 667.49 Cfr Maria Rivero, RHF, T-05110, p. 8. Maria Begona de Urrutia, che era presente, racconta che il Padre disse alle donne dell’Opera che stavano assistendo Carmen: “ «Fate quello che dovete fare... Io sto soltanto davan­ti a Dio». Era tale il suo modo di pregare, o piuttosto di parlare con il Si­gnore, con la Santissima Vergine, con gli Angeli Custodi, che mi sentii tra­sportata in Cielo” (RHF, T-06897, p. 40).50 Javier Echevarria, Sum. 2125.51 La casa di via degli Scipioni aveva un oratorio, con il permesso di cele­brarvi la Messa. Non vi si conservava il Santissimo. Carmen e Santiago si recavano a Messa in una chiesa vicina. Il Padre aveva il privilegio dell’alta­re portatile.52 “Manteneva il riserbo sull’accaduto - testimonia mons. Echevarria -, perché nessuno dimenticasse, basandosi sugli eventi soprannaturali che il Signore permetteva nella vita del? Opus Dei, che la nostra strada consiste nella santificazione della vita ordinaria; e anche per umiltà, perché chi ve­nisse a conoscenza di tali doni straordinari non pensasse che il Fondatore li meritava per le sue virtù” (Sum. 2126).53 Àlvaro del Portillo, Sum. 522.54 Ibidem. Le parole “ma proprio certo” sono in italiano nel testo (NdC). La lettera di condoglianze del Cardinale Tedeschini contiene la stessa idea. Dopo aver espresso le condoglianze, aggiunse: “Tuttavia, per la perfetta santità con cui la sua compianta sorella è andata incontro alla morte, non

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posso fare a meno di farle le mie congratulazioni, sicuro come sono che el­la gode già della luce eterna nella beata visione di Dio”; e ricordava che, essendo stata sepolta a Roma, “questa santa degli Escrivà de Balaguer è di­venuta romana” (Lettera del 27-VT-l957, originale in RHF, D-30802).55 AGP, POI 1977, pp. 664 e 668. Il processo di beatificazione di Isidoro Zorzano Ledesma era iniziato PII ottobre 1948.56 Lettera a José Maria Nerin Ubiergo, da Einsiedeln, in EF-570802-1.57 Ibidem.58 Nei giorni precedenti al trasferimento dei resti mortali a Villa Tevere, il Padre chiese alle sue figlie, che vegliavano il corpo di Carmen, di metterle attorno i fiori dei quali ella si prendeva cura (cfr Mercedes Anglés Pastor, RHF, T-083385, pp. 55 e 56.59 Don Josemaria parlò di questi progetti con l’architetto il 17 giugno 1970. Per la cappella del Carmine fu il Fondatore stesso a dare le indica­zioni necessarie, per quella della Mater Dolorosa fu il suo successore, mons. Àlvaro del Portillo (cfr Jesus Àlvarez Gazapo, RHF, T-15729, p. 22).

60 AGP, RHF, AVF-0040.61 Cfr AGP, POI 1979, p. 1142. “Nel giugno 1958, alla vigilia del primo anniversario della morte di zia Carmen, riferisce Àlvaro del Portillo, il no­stro Fondatore consacrò l’altare dell’oratorio della Dormizione della Ver­gine, nella nostra sede centrale; nel documento che il Padre è solito inserire nel sepolcro degli altari che consacra, era scritto: Nec oblivisci potui soro- rem meam desideratissimam, Mariam a Monte Carmelo} quae totis virib'us magnoque corde operam vitamque suam dedit in adiutorium buius paupe- ri peccatoris. «Perché io potessi - aggiungeva il Padre - portare avanti più facilmente la fondazione dell’Opus Dei» (cfr Istruzione 31-V-1936, n. 66, n. 93)” .62 Lettera ad Adolfo Rodriguez Vidal, Consigliere del Cile, in EF-540811- 2. Le lettere ai Consiglieri del Messico, Pedro Casciaro, e degli Stati Uniti, José Luis Muzquiz (in EF-540810-1 ed EF-540811-1), contengono le me­desime espressioni.63 Lettera a Pedro Casciaro, in EF-540810-1.64 Cfr Lettera a Teodoro Ruiz, in EF-541019-8. In effetti, i sacerdoti del­l’Opus Dei avevano un campo immenso di apostolato, con uomini e don­ne; inoltre si occupavano della formazione specifica di tutti i membri, di buona parte della direzione spirituale e di vegliare sull’unità dell’Opera.65 Lettera a Xavier de Ayala, in EF-550306-2.66 Amici di Dio, n. 5.67 Cfr Àlvaro del Portillo, Sum. 599.68 Ibidem, 612.69 Cfr Jesus Àlvarez Gazapo, Sum. 4462. Nel pomeriggio dello stesso gior­no, il Padre tenne una semplice cerimonia di ringraziamento anche con le donne dell’Opera. Cfr Isabel La Porte, Sum. 5116.70 Lettera a José Luis Muzquiz, in EF-520930-1; cfr pure Ignacio Celaya, Sum. 5885. Il Fondatore aveva pensato in un primo tempo di acquistare per la sede del Collegio Romano della Santa Croce l’oratorio del Gonfalo­

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ne. Poiché alla fine non fu possibile, alunni e professori dovettero alloggia­re nel Pensionato e, in seguito, nei nuovi edifici di Villa Tevere. Le trattati­ve per l’oratorio del Gonfalone erano iniziate nel 1948 (cfr Lettera a Fran­cisco Botella, in EF-490114-1) ed erano ancora in corso nel giugno del 1949. Il Fondatore scriveva infatti al Consiglio Generale: «Potete conside­rare sicura la faccenda di Castelgandolfo e quella del Gonfalone, benché la vicenda si prolunghi ancora per questioni burocratiche» (in EF-490610-1). Ma tra le pratiche burocratiche naufragarono anche le speranze.71 Lettera ai suoi figli del Consiglio Generale, in EF-540603-1.72 Lettera ad Amadeo de Fuenmayor, in EF-540421-1.73 Lettera ai suoi figli del Consiglio Generale, in EF-551224-1.74 Lettera ai suoi figli del Consiglio Generale, in EF-560508-1.75 Cfr Lettera a Pedro Casciaro, in EF-500923-7.76 Lettera a Manuel Botas, in EF-550306-9.77 Cfr Lettera a Teodoro Ruiz, in EF-520906-2.78 Cfr Lettera a Pedro Casciaro, in EF-530202-1.79 Cfr Lettera a Ricardo Fernàndez Vallespm, in EF-540302-10. Ad ogni modo arrivavano spesso aiuti in natura. Da Milano e da Palermo, per esempio, inviavano vino (cfr Lettera ai suoi figli di Palermo, in EF~ 540405-10).80 Lettera ad Adolfo Rodrfguez Vidal, in EF-540302-9.81 Lettera a Teodoro Ruiz, in EF-540323-8.82 Lettera a Manuel Botas, in EF-540323-1.83 Lettere a Pedro Casciaro e a Manuel Botas, in EF-540930-2 ed EF- 540930-1.84 Lettera ai suoi figli in procinto di essere ordinati sacerdoti, in EF- 570724-1.85 Lettera ai suoi figli in procinto di essere ordinati sacerdoti, in EF- 580402-1.86 Decreto di erezione del Collegio Romano di Santa Maria, 12-XII-1953, in Amadeo de Fuenmayor e altri, op. cit., Appendice documentale, doc. 36, pp. 785-786. Il Fondatore spiegava così la missione del Collegio Ro­mano: «Sapete che cosa vuol dire Collegio Romano della Santa Croce? Collegio, figli miei, deve essere per noi un insieme di cuori che formano - consummati in unum - un cuore solo, che vibra dello stesso amore. Unione di volontà che costituiscono un unico volere, quello di servire Dio. Coesio­ne di intelligenze aperte ad accogliere tutte le verità che illuminano la no­stra comune vocazione divina. Romano, perché noi dell’Opus Dei, per di­sposizione della nostra anima, del nostro spirito, siamo molto romani. Perché a Roma risiede il Santo Padre, il Vice-Cristo, il dolce Cristo in terra. Della Santa Croce, perché il Signore, un 14 febbraio, ha voluto mettere la Croce sulla sommità dell’Opera, come si fa in un edificio... E perché la Croce di Cristo è incisa nella vita dell’Opera dalla sua origine, così come deve essere nella vita di ciascuno dei miei figli. Infine anche perché la Cro­ce è il trono della regalità del Signore e noi dobbiamo situarla ben alta, in cima a tutte le attività umane» (cit. da Mario Lantini, Sum. 3599).Sul Collegio Romano di Santa Maria: cfr Àlvaro del Portillo, Sum. 598 e

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613; Javier Echevarria, Sum. 2193; Encarnación Ortega, PM, f. 45v; Mer­cedes Morado, PM, f. 1035.87 Javier Echevarria, Sum. 2198.88 Lettera ad Amadeo de Fuenmayor, in EF-520911-1.89 «Ho bisogno - scriveva il Fondatore - di un maggior numero di donne delPOpera in Italia: i Centri di Milano e di Palermo sono ancora senza l’Amministrazione e questa casa - queste case - dei Parioli hanno bisogno perlomeno di raddoppiare il numero di persone che se ne occupano...; inoltre, con l’aiuto di Dio, da un momento all’altro ci sarà bisogno di loro a Terracina» (Lettera al Consiglio Generale, in EF-510608-1).90 Cfr Àlvaro del Portillo, PR, p. 777 e Sum. 614.91 Cfr Lettere ai suoi figli del Consiglio Generale, in EF-490615-1, e ai suoi figli in Inghilterra, in EF-490706-3. Dal 1949 al 1954 si tennero a Villa delle Rose i corsi di formazione per gli italiani dell’Opera (il primo comin­ciò il 31 agosto 1949), che dal 1955 si svolsero invece nel Castello di Urio, sul lago di Como. Cfr Lettera a Xavier de Ayala, in EF-490829-3.92 Cfr Àlvaro del Portillo, Sum. 614; Mercedes Morado, RHF, T-07902, p. 65. La simbolica prima pietra della nuova sede fu un quadro della Madon­na col Bambino, che era appartenuto alla Nonna. Cfr Teresa Acerbis, Sum. 4960.93 Lettera, in EF-620710-1. Poiché i lavori si protraevano, il 7 settembre 1962, su indicazione del Padre, alcune numerarie e numerarie ausiliarie an­darono ad abitare una parte della casa, per metter fretta agli operai e ter­minare quanto prima. Il giorno dopo, don José Luis Muzquiz celebrò in un oratorio provvisorio e lasciò il Santissimo nel tabernacolo. Cfr Mercedes Morado, RHF, T-07902, p. 67.94 Mercedes Morado, RHF, T-07902, p. 68; cfr Teresa Acerbis, Sum. 4960 e Lettera alle sue figlie del Messico, in EF-630200-1.95 Lettera ai suoi figli del Consiglio Generale, in EF-560110-1.96 Lettera alla Commissione regionale della Spagna, in EF-570704-1.97 «Infatti, scriveva Tertulliano, desinunt odisse qui desinunt ignorare, ces­sano di odiare quando cessano di ignorare (Tertulliano, Ad Nationes, 1, 1)». Cfr Lettera 9-1-1951, n. 8.98 Cfr Juliàn Herranz, Sum. 3911.99 Cfr Àlvaro del Portillo, PR, p. 954; cfr anche Javier Echevarria, Sum. 2281.100 Àlvaro del Portillo, PR, p. 954; cfr anche Florencio Sànchez Bella, Sum. 7512.101 All’inizio, il Padre in persona impartiva lezioni e istruzioni di formazio­ne spirituale, ascetica e apostolica ai primi membri delPOpera. Fin dalla nascita dell’Accademia DYA (1933) aveva organizzato un corso di apolo­getica per universitari. Nella Residenza di via Ferraz (1934) aveva conti­nuato a tenere circoli di studio, conversazioni, ritiri mensili, a impartire di­rezione spirituale, ecc. Terminata la guerra civile, aveva aperto i primi Centri di Studi: nel 1941 per gli uomini in via Diego de Leon e nel 1945 per le donne a Los Rosales.102 “Nei cinque anni (1956-1961) in cui sono stato Prefetto degli Studi, so­

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no stato testimone costante dell’enorme impegno del Padre per assicurare ai suoi figli una profonda e solida formazione dottrinale, filosofica e teolo­gica” , dichiara mons. Juliàn Herranz, “e della rigorosa applicazione a tutte le Regioni del Piano di Studi del 1951 (con programmi e calendari che su­perano, in rigore scientifico e ore di lezione, i piani di studio delle migliori Facoltà ecclesiastiche)” (Sum. 3911).103 II Fondatore avrebbe voluto far iscrivere le sue figlie alle Facoltà eccle­siastiche, ma le norme dell’epoca non lo consentivano. Non mancò di ma­nifestare al Romano Pontefice il proprio dispiacere, circa il fatto che le donne, libere di frequentare le università pubbliche, non potessero iscriver­si a quelle ecclesiastiche. Pur avendo ricevuto su questo punto una risposta negativa, volle comunque che le sue figlie seguissero gli studi di filosofia e teologia nel Collegio Romano di Santa Maria e nei Centri di Studi regiona­li, in modo analogo agli uomini, cioè con rigore e livello universitari. Cfr Javier Echevarria, Sum. 2199; Juliàn Herranz, Sum. 3917.104 Cfr Lettera del Card. Pizzardo al Fondatore, del 24 settembre 1953, in Amadeo de Fuenmayor e altri, op. cit., Appendice documentale, doc. 39, pp. 790-792. Anche il Card. Valerio Valeri si complimentò con lui in que­sta occasione, rilevando con ammirazione che nell’Opus Dei tutti ricevono una solida formazione di carattere ascetico, culturale, professionale e apo­stolico, “che comincia con solide basi e continua, poi, ininterrotta, per tut­ta la vita” . Cfr Lettera del 25 settembre 1953, in Amadeo de Fuenmayor e altri, op. cit., Appendice documentale, doc. 38, pp. 789-790. Già molti an­ni prima il Fondatore aveva scritto: «Non considerate mai conclusa la vo­stra formazione: per tutta la vita, con una meravigliosa umiltà, avrete biso­gno di perfezionare la vostra preparazione umana, spirituale, dottrinale religiosa, apostolica e professionale» (Lettera 6-V-1945, n. 19). Sulla for­mazione permanente dei sacerdoti, cfr Àlvaro del Portillo, Sum. 764.105 Lettera, da Madrid, in EF-531009-1.106 Cfr Rolf Thomas, Sum. 7685 e 7686.107 Lettera 9-1-1951, n. 20.108 II Concilio Vaticano II raccomanda di “approfondire i misteri della fe­de e vederne il nesso, avendo S. Tommaso per maestro” (Optatam totius, n. 16). Da questo - scriveva il Fondatore - «non si può dedurre che tutti ci dobbiamo limitare ad assimilare e a ripetere solamente gli insegnamenti di S. Tommaso. La cosa è ben diversa: dobbiamo certamente coltivare la dottrina del Dottore Angelico, ma nello stesso modo in cui la coltiverebbe lui, se fosse in vita. Per questa ragione, talvolta bisognerà portare a termi­ne ciò che egli ha soltanto iniziato e, per la stessa ragione, accoglieremo tutte le conclusioni di altri autori che si ispirano alla verità» (Lettera 9-1- 1951, n. 22).109 Ibidem, n. 23. Questo principio non ammette eccezioni ed è valido in qualsiasi campo del sapere: «Anche per quanto si riferisce al sapere profes­sionale, i membri non debbono costituire una “scuola dell’Opus Dei”, poi­ché il nostro spirito - così aperto e così pieno di comprensione per tutti - porta necessariamente a rispettare tutte le opinioni lecite» (ibidem, n. 24).110 La fiducia del Fondatore nell’efficacia della libertà è ammirevole: «Dal­

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la libertà nascerà un sano senso di responsabilità personale che vi renderà sereni, forti e amici della verità e, al tempo stesso, vi terrà lontani da tutti gli errori, perché avrete un sincero rispetto per le legittime opinioni degli altri e saprete non solo rinunciare alla vostra opinione, quando vi rendere­te conto che è difforme dal vero, ma anche accettare un altro punto di vi­sta, senza sentirvi umiliati per aver cambiato parere» (ibidem, n. 25).111 II Regolamento della Pia Unione Opus Dei (19 marzo 1941) consiste di soli 13 articoli (cfr Amadeo de Fuenmayor e altri, op. cit., Appendice do­cumentale, doc. 5, pp. 728-730).112 Gli articoli 4-8 stabiliscono che gli organi direttivi nazionali dell’Opus Dei sono il Consiglio e l’Assemblea. Il primo è formato da Presidente, Se­gretario e tre Consultori. L’Assemblea si riunisce ogni nove anni per elegge­re un nuovo Consiglio. Le decisioni si prendono sempre a maggioranza as­soluta.113 L’originale dei Lineamenta della Società Sacerdotale della Santa Croce si trova nell’archivio della Sacra Congregazione dei Religiosi; ve ne sono copie nell’archivio dell’Arcivescovado di Madrid-Alcalà. Cfr Amadeo de Fuenmayor e altri, op. cit., Appendice documentale, doc. 9, pp. 733-738. La sezione Regimen comprende gli articoli 26-52. Nel Governo generale della Società, il Presidente (chiamato Padre) è assistito da un Segretario ge­nerale, da tre Vicesegretari e dai Delegati delle circoscrizioni territoriali, che sono governate dalle Commissioni, composte ciascuna da un Consi­gliere, un Difensore e tre membri. Quanto al regime locale, ogni Centro, se ha un numero sufficiente di fedeli, ha un Direttore, un Vicedirettore e un Amministratore.114 Appunti, n. 115.115 Ibidem, n. 139, del 26-XII-1930.116 Istruzione 31-V-1936, nn. 28 e 32. Il testo prosegue: «La pretesa di vo­ler cambiare tutto e subito è una dimostrazione evidente della mancanza delle qualità necessarie per governare, della mancanza di maturità, dello spirito tirannico nemico del governo collegiale. Coloro che fanno così pen­sano che chi li ha preceduti e i Direttori centrali siano degli sciocchi, inca­paci di dirigere».117 Lettera 24-XII-1951, n. 5. «Il governo collegiale - scrisse in un’altra occasione - è manifestazione di umiltà, perché significa che nessuno si fida solo del proprio giudizio (...). Noi uomini abbiamo una evidente tendenza ad agire in modo dittatoriale, a seguire la nostra ragione, il nostro criterio, le nostre vedute: in noi si annida un tiranno. Dovete dimostrare il buono spirito facendo in modo che nell’Opus Dei non nascano tirannie» (Lettera 29-IX-1957, n. 61).118 Istruzione 31-V-1936, n. 28. Il Fondatore considerava sempre nell’ora­zione queste importanti questioni di governo e chiedeva luce allo Spirito Santo per risolverle. Era solito dire a don Àlvaro e ai suoi figli: «Io non avevo nessuno che mi spiegasse queste cose; me le metteva in testa lo Spiri­to Santo» (cit. da Àlvaro del Portillo, Sum. 735).119 Lo Ius Peculiare del 1950, approvato dalla Santa Sede, riflette intera­mente lo sviluppo istituzionale del governo dell’Opus Dei. Il governo cen­

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trale compete al Prelato, coadiuvato dai suoi Vicari e da due Consigli, uno per gli uomini (Consiglio Generale) e uno per le donne (Assessorato Cen­trale). Il Consiglio Generale, oltre al Prelato, comprende il Vicario Genera­le, il Sacerdote Segretario Centrale, tre Vice-segretari, i Delegati Regionali, il Prefetto degli Studi e l’Amministratore Generale. L’Assessorato Centrale comprende la Segretaria Centrale, la Segretaria dell’Assessorato, tre Vice­segretarie, le Delegate Regionali, la Direttrice degli Studi, la Direttrice del­le Ausiliarie e la Procuratrice Centrale. Cfr Codex luris Particularis, art. 125 e ss.120 Colloqui, op. cit. n. 19.121 Ibidem.122 Cfr ibidem, n. 63; e Lettera 9-1-1959, n. 11; Alvaro del Portillo, Sum. 577.123 Istruzione 8-XII-1941, n. 11 e nota 12.124 Lettera 9-1-1959, n. 11.125 Colloqui, op. cit., n. 19.126 Colloqui, op. cit., n. 63. A partire dal 2 ottobre 1928, l’Opus Dei iniziò il suo cammino storico al ritmo di Dio, seguendone le ispirazioni. Nel giu­gno 1930, poche settimane dopo aver aperto le porte dell’Opera alle don­ne, don Josemaria scrisse: «Semplici cristiani. Massa che lievita. Nostra ca­ratteristica è l’ordinario, con naturalezza. Mezzo: il lavoro professionale. Tutti santi! Dedizione silenziosa» (Appunti, n. 35). Poche parole, ma mol­to significative, che sintetizzano l’Opus Dei. Sono indicati i fini e i mezzi dell’azione apostolica, è proclamata la chiamata universale alla santità, il lavoro professionale è dichiarato strumento di santificazione e sono de­scritte alcune caratteristiche dello spirito dell’Opus Dei: lievito apostolico nella massa sociale, umiltà personale e collettiva, l’offerta quotidiana di ciò che è piccolo e normale.Pochi giorni dopo, comprendendo che l’Opera sarebbe stata un fiume sen­za argini, scriveva: «E necessario determinare chiaramente i campi d’azio­ne» (Appunti, n. 42, giugno 1930). Ma la cosa non era facile, poiché l’apo­stolato dell’Opus Dei tende a mobilitare tutti i cristiani con la chiamata universale alla santità e il lavoro professionale dei suoi fedeli, «senza to­gliere nessuno dal suo posto», opera come lievito nella società, secondo ca­ratteristiche proprie di una concezione laicale, nella quale lo spirito d’ini­ziativa e di libertà primeggia sulla struttura organizzativa. Dopo avere cercato per alcuni mesi di individuare gli apostolati specifici, egli scrisse: «Da tempo mi arrovellavo, senza riuscire a capire come impostare, nella pratica, l’Opera di Dio, affinché appaia chiaramente come associazione di laici» (Appunti, n. 140, 27-XII-1930). Nella terminologia del Fondatore, semplice cristiano, laico, equivale a cristiano normale, cittadino normale, che vive e lavora nel mondo e che lo ama. Giunse poi il giorno memorabile del 7 agosto 1931 (cfr voi. I, pag. 401), nel quale vide «il Signore che trion­fava, attraendo a sé tutte le cose». Al Fondatore fu mostrato l3apostolato specifico, che trascende ogni limitazione: mettere Cristo al vertice di tutte le attività umane. «E compresi - raccontava - che sarebbero stati gli uomi­ni e le donne di Dio a innalzare la Croce con la dottrina di Cristo sul pin­nacolo di ogni attività umana» (Appunti, n. 217).

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127 Appunti, n. 205, del 15-VII-1931.128 Nella Istruzione del 31-V-1936 compaiono le idee del Fondatore sulla direzione dell’Opera, in base alle quali strutturò successivamente il regime di governo.129 Istruzione 31-V-1936, n. 14; cfr Teresa Acerbis, Sum. 5004.130 Juliàn Herranz, Sum. 3920.131 Istruzione 31-V-1936, n. 11. Il Padre continuò per tutta la vita a ripete­re ai suoi figli: «Per servire, servire: in questa frase è racchiusa una gran parte del nostro spirito» (ibidem, n. 9).132 Istruzione 31-V-1936, n. 7.133 Ibidem, n. 26.134 Ibidem, nota 37.135 Ibidem, n. 27.136 Giuseppe Molteni, PR, p. 690; Encarnación Ortega, Sum. 5341.137 Istruzione 31-V-1936, n. 30.138 Francisco Vives, Sum. 7461. Quando nacque la Regione italiana, disse spesso che voleva evitare, per sé e per i suoi successori, la tentazione di go­vernare direttamente l’Opera in Italia. Per questo motivo, quando il Consi­glio Generale si trasferì a Roma, decise di spostare a Milano le sedi della Commissione regionale e dell’Assessorato dell’Italia, affinché avessero la stessa autonomia delle altre Regioni (cfr Mario Lantini, Sum. 3694).139 Cfr Fernando Valenciano, Sum. 7121; Mercedes Morado, RHF, T- 07902, p. 13.140 Javier Echevarria, Sum. 2325. Non si occupò solo di far funzionare a dovere il Consiglio Generale, ma anche di formare i direttori e le direttrici dei governi regionali. A questo scopo organizzò riunioni per coloro che og­gi sono i Vicari regionali (1956, 1966, 1967, 1969); per i Delegati regiona­li (1958, 1963, 1965, 1967); per le Segretarie regionali (1965, 1968, 1969); per gli incaricati di seguire vari aspetti del lavoro apostolico (cfr Joaqum Alonso, Sum. 4691; Juliàn Herranz, PR, p. 848).- Nell’originale, il richiamo alla responsabilità di ognuno è sintetizzato da un proverbio: Cada palo que aguante su vela. Letteralmente: ogni albero [di una nave] regga la propria vela (NdC)141 Istruzione 31 - V-l 93 6, n. 31.142 Cfr Francisco Vives, Sum. 7461.143 Istruzione 31-V-l936, n. 43.144 Maria Begona Àlvarez Iràizoz, RHF, T-04861, p. 37.145 Cfr Giuseppe Molteni, Sum. 3793. «Nelle carte dovete sempre vedere le anime» (Mercedes Morado, RHF, T-07902, p. 109).146 Francisco Vives, Sum. 7462.147 Cfr Ignacio Celaya, Sum. 5946; Juliàn Herranz, Sum. 3920.148 Lettera 29-IX-1957, n. 53.149 Àlvaro del Portillo, PR, p. 856.150 Fernando Valenciano, Sum. 7121.151 Umberto Farri, PR, p. 94; cfr pure Juliàn Herranz, Sum. 3940.152 Lettera, in EF-480226-1.153 Istruzione 31-V-l936, n. 20.

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154 Encarnación Ortega, Sum. 5342.155 Cfr Javier Echevarrìa, Sum. 2322.156 Istruzione 31-V-1936, n. 12. Con queste e con altre idee sull’esercizio del governo nell’Opus Dei, compose un documento articolato in sette pun­ti, concernenti lo spirito di servizio con cui si ricevono e si esercitano le ca­riche, e la eventuale tentazione di ambirle e di desiderare di conservarle.157 Carmen Ramos, Sum. 7397.158 Lettera 29-IX-19S7, n. 52. La missione dei Direttori - diceva ai suoi fi­gli - è «una scuola, nella quale chi dirige, e finché dirige, si dedica a istrui­re gli altri affinché possano sostituirlo con rapidità ed efficacia, se vengono chiamati a quell’incarico» (Istruzione 31-V-19363 n. 12, nota 11). Non sempre accade lo stesso nella vita di tutti i giorni, poiché chi possiede un segreto professionale grazie al quale ha avuto successo cerca di tenerlo per sé, in modo da rendersi insostituibile. A questo proposito, il Fondatore raccontava: «Ricordo il caso pittoresco del cuoco di un seminario nel qua­le soggiornai durante i miei viaggi di lavoro sacerdotale attraverso la Spa­gna, il quale, quando preparava qualche piatto che a lui sembrava straor­dinario - per la verità non lo era affatto -, faceva uscire dalla cucina i subalterni, perché non imparassero la ricetta» (Lettera 29-IX-1957, n. 52). Il Fondatore ha elaborato molti consigli utili per coloro che devono dirige­re istituzioni civili o ecclesiastiche: sulla prudenza e sulla giustizia, sull’a­more per la verità e sui disastrosi effetti dell’adulazione, della menzogna e delle lusinghe; sulla rettitudine e sulla calunnia; sul fanatismo e sul modo di rapportarsi con le persone; infine, sugli inetti costituiti in autorità e su coloro che hanno paura di rovinarsi la carriera. La maggior parte di questi consigli, che potrebbero formare un trattato, è raccolta nella Istruzione per i Direttori e in alcune lettere (cfr in particolare la Lettera 7-X-1950, nn. 35-46; e Lettera 24-XII-1951, nn. 5-11).159 Ecco il testo latino della lapide: O QUAM LUCES / ROMA / QUAM AMOENO HINC RIDES PROSPECTU / QUANTIS EXCELLIS ANTI- QUITATIS MONUMENTIS / SED NOBILIOR TUA GEMMA ATQUE PURIOR / CHRISTIVICARIUS / DE QUO / UNA CIVE GLORIARIS / A. MDCCCCLI.160 Cfr Jesus Àlvarez Gazapo, Sum. 4436 e 4437.161 Contro la sciatteria nel culto divino, che prende a pretesto la povertà, scrisse: «Quella donna che in casa di Simone il lebbroso, a Betania, unge il capo del Maestro con un ricco profumo, ci ricorda il dovere di essere splen­didi nel culto di Dio. Tutto il lusso, la maestà e la bellezza mi sembrano ben poco. E contro coloro che biasimano la ricchezza dei vasi sacri, dei paramen­ti, delle pale d’altare, si innalza la lode di Gesù: Opus enim bonum operata est in me, ha compiuto un’opera buona verso di me» (Cammino, n. 527).162 Cfr Àlvaro del Portillo, Sum. 715. L’oratorio del Consiglio Generale - dice mons. Javier Echevarrìa - “era l’oratorio principale, il cuore dell’Opus Dei” (Sum. 2122). Il Padre chiamava Betania gli oratori dei Centri dell’O­pera e nell’abside di Santa Maria della Pace, l’attuale chiesa prelatizia, vol­le che Lazzaro, Marta e Maria fossero rappresentati accanto alla Madonna e agli Apostoli.

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163 Cfr AGP, POI 1975, p. 111.164 Lettera, in EF-561001-1. Si complimentò con i suoi figli che lavoravano nei laboratori Talleres de Arte Granda, dove era stato fatto il tabernacolo (cfr Lettera, in EF-570415-1). Nel 1930 aveva scritto: «Mi ha fatto molto male sentir dire a un sacerdote che i vasi sacri non devono essere preziosi; che preferisce - diceva - vedere il SS.mo Sacramento in recipienti di stagno piuttosto che vedere persone nel bisogno; e ben volentieri venderebbe ostensori, calici e pissidi... Dio mio! Io, che ti ho offeso tanto e che senza alcun dubbio valgo ai tuoi occhi infinitamente meno di quel prete, sono di parere molto diverso: con il tuo aiuto, i tabernacoli dell’Opera di Dio, cas­seforti per il tesoro più grande, saranno molto ricchi esternamente, anche se completamente coperti dal conopeo, e all’interno faremo in modo che siano incrostati da grappoli di brillanti e perle e rubini - sangue e lacrime - di espiazione, che solo Tu vedrai, Dio mio» (Appunti, n. 112, del 17/19- XI-1930).165 Omelia del Giovedì Santo 1975 (AGP, POI 1975, p. 110).166 In quel periodo erano stati terminati diversi oratori di Villa Tevere. Il giorno precedente era stato consacrato l’altare di Santa Maria, nella sagre­stia grande; il giorno seguente quello della Cappella delle Reliquie. Nel po­meriggio, mons. Antonio Samoré consacrò l’altare dell’oratorio della San­tissima Trinità, l’oratorio del Padre, e alla cerimonia assistette un piccolo gruppo di alunni del Collegio Romano, in rappresentanza di tutte le Regio­ni. Per questo motivo la consacrazione dell’altare dell’oratorio della Pente­coste fu spostata alla sera; era il giorno in cui si venne a sapere che zia Car­men era ammalata di cancro.167 AGP, POI 1975, p. 117.168 Lettera 29-IX-1957, n. 83.169 Lettera 28-111-1955, n. 31.170 Florencio Sànchez Bella, Sum. 7487.171 Mercedes Morado, RHF, T-07902, p. 49.172 Maria Begona Àlvarez, RHF, T-04861, p. 66.173 Mercedes Morado, RHF, T-07902, p. 50.174 Lettera a Florencio Sànchez Bella, in EF-640303-1.175 II nome di Oblato fu presto sostituito con quello di Aggregato.176 Lettera 8-VIII-19S6, n. 10. Aveva già espresso questo concetto: «La nostra Opera, figli miei, è una famiglia sana, perché tutti - fedeli alla co­mune vocazione all’Opus Dei che abbiamo ricevuto, sia laici che sacerdoti- aspiriamo alla santità propria della vocazione cristiana. Una famiglia sa­na ha bisogno di una sola zuppiera, perché nessuno ha bisogno di una die­ta. E in una famiglia in cui c’è un malato che bisogna preparare pasti diffe­renziati. Per la vita spirituale dei fedeli dell’Opera abbiamo un solo cibo, un medesimo spirito: una sola zuppiera» (Lettera 2-II-194S, n. 10).177 Lettera 8-XII-1949, n. 29.178 Àlvaro del Portillo, Sum. 716.

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Capitolo XX

L’ESPANSIONE DELL’APOSTOLATO

1. La parabola del trapianto

Il Padre aveva dato un’importanza fondamentale alla “ battaglia per la formazione” , al fine di romanizzare l’Opus Dei. Ma subito dopo veniva l’espansione, cioè la semina in tutto il mondo, al servizio della Chiesa e delle anime, del messaggio universale ricevuto il__2 ottobre 19281. Era lo stesso zelo apostolico che a Madrid, gio­vane sacerdote, lo spingeva a cantare ignem veni mittere in terram..., frase che, senza capirne il significato, il fra­tellino ripeteva in giro per la casa, storpiandone le paro­le. Con il passare del tempo e la crescita dell’Opera, il ritornello era rimasto lo stesso: Sono venuto a portare fuoco sulla terra... Affinché il fuoco non si spegnesse, si procurò dei ‘promemoria’ che gli ricordassero le mete di espansione universale.

Per esempio, aveva fatto mettere un planisfero nel ve­stibolo della residenza di via Jenner. Un altro lo volle anche in via Diego de Leon, oltre al mappamondo che c’era in camera sua. E anche a Villa Tevere - racconta mons. Javier Echevarrìa - decise di decorare con lo stes­so elemento la parete di una stanza: “In uno spazioso ambiente della sede centrale fece mettere un planisfero sul quale venivano colorate le nazioni in cui l’Opus Dei

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era stabilmente presente; gli spazi colorati si estendeva­no man mano che si espandeva l’apostolato. Lo volle perché servisse da ricordo per la preghiera dei membri del Consiglio Generale. Era il Fondatore stesso a far no­tare che bisognava colorare un nuovo Paese, quando vi cominciava il lavoro apostolico dell’Opera, segno evi­dente di quanto desiderasse che servissimo la Chiesa di Dio in tutto il mondo con un lavoro umile, semplice, continuo e ben fatto. Ho potuto vedere il Fondatore raccolto in orazione davanti a quel mappamondo”2.

Il suo posto di comando era Roma, perché lì, diceva, «c’è il cuore dell’Opera, che ne consente la diffusione in tutto il mondo, per portare il nostro messaggio di pace e di gioia»3. E dalla Città Eterna scriveva ai suoi figli:

«Che desiderio ho che presto possano passare per Ro­ma, in modo continuo e ordinato, tanti miei figli e figlie, per poi tornare alle loro Regioni con un cuore più inna­morato della Chiesa e più romano!»4.

Spargersi per i cinque continenti non significava di­sperdersi, poiché tutti insieme formavano una famiglia molto unita, la famiglia dell’Opus Dei. Il Fondatore non si sentiva mai lontano dai suoi figli:

«Noi non ci separiamo mai, anche se fisicamente sia­mo lontani gli uni dagli altri. Voi, che ora ve ne andate, lascerete qui un pezzo del vostro cuore, ma dovunque si trovi uno di voi, là saremo tutti, grazie al desiderio di stare uniti. Non ci diciamo addio e neppure arrivederci; siamo sempre consummati in unum»5.

Il Padre si figurava il trasferimento dei suoi figli in al­tri Paesi come un vero e proprio trapianto dell’Opus Dei, una espansione apostolica dalle caratteristiche par­ticolari. In una lettera del 1960, in cui trattò questo ar­gomento, ribadendo con intensi accenti il cuore univer­sale dell’Opus Dei, scriveva: «Noi non ci spostiamo in gruppi numerosi: un contadino non seppellisce interi sacchi di grano in un campo, ma sparge la semente»6. Così si fa nell’Opera, perché il suo spirito universale

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«detesta ogni nazionalismo e rifugge dal formare un gruppo chiuso, una specie di colonia nazionale, una ci­sti»7. Inoltre, il modo di fare apostolato «ci fa essere il lievito nascosto nella massa»8 e basta un po’ di lievito per fermentare la massa. Un ridotto gruppo di uomini e di donne, preparati, capaci di adattarsi e di identificarsi con la Nazione dove si recano, sono sufficienti per il trapianto:

«Provochiamo così il meraviglioso fenomeno pastora­le della vocazione, che si può paragonare alla formazio­ne di una perla: introduciamo all’interno della conchi­glia una minuscola particella, affinché la perla preziosa che si forma non sia un corpo estraneo, ma il prodotto, nel nostro caso attraverso un processo soprannaturale, del fuoco della grazia di Dio che i vostri fratelli hanno acceso, per dare compimento ai desideri del Signore: Ignem veni mittere in terram, et quid volo nisi ut accen- daturf (Le 12,49); sono venuto a portare il fuoco sulla terra, e che cosa voglio se non che arda?»9.

Il Fondatore si esprimeva con immagini evangeliche: il seminatore che sparge la semente, il pizzico di lievito che fermenta la massa, la perla preziosa. Ed ecco l’e­spansione apostolica presentata nella parabola del tra­pianto.

«Molti di voi forse hanno assistito a un trapianto, in agricoltura o nel giardinaggio, e sanno che la pianta ha bisogno di rafforzarsi in un vivaio, prima di essere spo­stata. Ma questo non basta; se non se ne segue con at­tenzione la crescita, la pianta non mette radici e muore.

Guardate con quanta cura il giardiniere fa un trapian­to. Mette la pianticella o il germoglio in un vaso di ter­racotta o di legno e lo lascia in una serra, finché non di­venta abbastanza forte. Poi espone il vaso all’aperto, perché prenda luce, aria e il calore del sole. E quando è ormai pronta per i rischi del trapianto, l’agricoltore aspetta il momento giusto e, lasciandola dentro il vaso, se è di legno, la mette nella terra nuova; dopo un certo

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tempo il recipiente marcisce e si fonde con la terra e la pianta non risente del cambiamento.

Se il vaso è di terracotta, il giardiniere toglie la pianta con le radici e la terra circostante - il suo ‘ambiente’ - e la introduce con gran cura nel buco scavato nel terreno nuovo.

L’agricoltore aveva prima lasciato il buco aperto per­ché prendesse aria, ne aveva tolto le pietre o le aveva sepolte in profondità, con cura, affinché l’acqua, senza ristagnare, potesse filtrare e impregnare più facilmente il terreno. Dopo aver piantato l’albero, con le radici anco­ra immerse nella terra originale, lo sorveglia con atten­zione, gli dedica ogni cura possibile: lo concima, ag­giunge terra di buona qualità, pota i rametti superflui, finché non si consolida e sembra essersi adattato al nuo­vo posto che occupa»10.

Nel 1951, mentre l’Opera diffondeva nel mondo il buon odore di Cristo, don Josemaria rendeva grazie a Dio nel sapere che qualcuno, sorpreso dalla vitalità del­POpus Dei, diceva: Come corre l’Opera! «Non sanno - scriveva - che io ho fatto tutto il possibile, perché non corresse; abbiamo tenuto a freno questo cavallo giovane perché non si impennasse»11. In quegli anni l’Opus Dei aveva messo radici in Spagna, Italia, Portogallo e Messi- co, e si stava trapiantando in Inghilterra, Irlanda, Stati Uniti, Cile, Argentina, Colombia e Venezuela. Per il Fondatore erano tempi di dura prova, che affrontò fa­cendo le consacrazioni delPOpus Dei alla Sacra Fami­glia, al Cuore di Gesù e a quello di Maria. Era pure il lungo, interminabile periodo in cui si era trovato senza risorse materiali e pieno di debiti, tanto da esprimersi in questo modo: «Se avessi saputo, quando ricevetti la mia missione, tutto ciò che mi doveva piombare addosso, sarei morto»12.

Come procedeva l’espansione dell’Opera? Secondo il Fondatore non era né veloce né lenta, ma andava “ al passo di Dio” 13. Venivano prese le opportune precau­

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zioni affinché lo spirito dell’Opus Dei, per sua natura universale, non apparisse estraneo, per qualche impru­denza, alle caratteristiche del nuovo Paese. «Questo mo­do di fare - spiegava ai suoi figli - comporta che sappia­mo mantenere la calma; sembra lento, ma è più sicuro ed efficace, ed è anche la strada più rapida per giungere alla meta. Ne abbiamo fatto l’esperienza»14.

L’operazione di trapianto era delicata, esigeva prepa­rativi accurati e prudenti:

«Siamo abituati a studiare prima attentamente le ca­ratteristiche del Paese, le difficoltà che potremmo trova­re, il modo più conveniente di cominciare il lavoro, con quale opera corporativa è più conveniente iniziare, su quali mezzi economici potremo contare, con quali per­sone del luogo prendere i primi contatti, ecc.

Ho definito molte volte questo lavoro preliminare la preistoria di una Regione; io stesso l’ho fatta in diversi Paesi, con alcuni dei vostri fratelli che Dio nostro Signo­re, nella sua grande bontà, ha messo al mio fianco»15.

Il vero motore della preistoria erano «l’orazione inin­terrotta e una continua mortificazione»16. Il Fondatore ripeteva senza mai stancarsi che l’orazione è lo strumen­to indispensabile, l’arma, la risorsa, il ‘segreto’ dell’O­pus Dei17.

Ma c’erano anche gli strumenti umani e materiali. Chi si prepara per una spedizione calcola il percorso, le tappe, il necessario per il viaggio; nello stesso modo il Fondatore preparava un trapianto. Non aveva bisogno di tante persone per cominciare, non più di tre o quat­tro18. Era molto importante invece che chi si trasferiva avesse le qualità necessarie per superare gli ostacoli do­vuti a certe particolarità del Paese di destinazione. Per esempio le condizioni climatiche e fisiche, come il clima tropicale, l’altitudine o l’umidità, a cui alcuni organismi non riescono ad abituarsi. Altre volte la difficoltà pote­va consistere nell’incapacità di adeguarsi al nuovo am­biente per motivi vari: stile di vita, costumi, lingua o ali­

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mentazione. La somma di tutte o di alcune di queste dif­ficoltà avrebbe potuto creare all’interessato non poche complicazioni. Conviene tener conto di tutto, diceva il Padre, «ma non bisogna neppure esagerarne l’importan­za, se ci sono una buona formazione e vita interiore»19, condizioni di cui è dotata ogni anima che intenda spen­dersi al servizio di Dio.

«Oltre a queste disposizioni fondamentali, non biso­gna dimenticare la buona terra, la zolla che avvolge le radici e contribuisce a far sì che la pianta si adatti al nuovo clima e al nuovo nutrimento. La terra che porta­te con voi nel trapianto, figlie e figli della mia anima, è il buono spirito dell’Opus Dei, che è universale, che ama tutte le anime senza eccezione, che non è nazionalista, che induce a darsi generosamente e con gioia, che è ser­vizio e non dominio, che è spirito di amore!»20.

Per le necessità dell’espansione apostolica, il Fondato­re rinunciò a tenersi vicine alcune persone che avrebbe­ro potuto aiutarlo nel governo dell’Opera, sempre più oneroso. Trattenne a Roma quelle strettamente necessa­rie al funzionamento della sede centrale. Questa rinun­cia era una silenziosa manifestazione della fede e della speranza che lo sorreggevano nelPavviare un trapianto. In tono scherzoso, diceva: «Resterò solo come un cane! Ma ne vale la pena»21.

Il Padre aveva scritto una mezza dozzina di suggeri­menti, a mo’ di istruzioni per chi doveva occuparsi degli inizi del lavoro in Italia22, validi anche per le tappe suc­cessive dell’espansione apostolica.

Vi si legge che i fedeli dell’Opus Dei, per la maggior parte professionisti che andavano a esercitare la propria professione in altri Paesi, "avrebbero dovuto cominciare dissodando il terreno e adattandosi al nuovo ambiente. Quindi si sarebbero impegnati in una profonda attività apostolica con studenti.

Fu ciò che accadde nella maggioranza dei casi. Alcuni si trapiantavano e, non appena possibile, aprivano una resi­

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denza per studenti. Non sempre peraltro il Fondatore potè seguire regole fisse, perché talvolta, pur avendo poche per­sone pronte, si vide costretto ad anticipare alcuni obiettivi a motivo delle insistenze dei Vescovi, molti dei quali chie­devano che l’Opus Dei lavorasse nelle loro diocesi.

Una volta iniziata l’attività apostolica, la presenza delle donne dell’Opus Dei diventava imprescindibile per avviare nuove iniziative apostoliche e per occuparsi del­l’amministrazione dei primi Centri. Ma il Padre voleva che le sue figlie si recassero nei nuovi Paesi solo quando tutto era pronto per accoglierle: un alloggio dignitoso, l’oratorio tutto per loro, ecc.23. “La delicatezza e l’affet­to del Padre per le sue figlie - racconta una di loro - si manifestarono al massimo grado quando iniziava il la­voro in un nuovo Paese. Ci si recavano prima gli uomi­ni, con qualche sacerdote; e poi ci andavamo noi, quan­do erano già state risolte le difficoltà degli inizi”24.

Nel febbraio del 1948, quando era imminente l’avvio del lavoro dell’Opera in alcuni Paesi, aveva incoraggiato le sue figlie ad affrontare l’ostacolo delle lingue straniere:

«Quest’anno è, sarà, l’anno della vostra grande espansione: dovete essere sante e... studiare le lingue. L’Assessorato decida come fare, perché in un centro si parli francese, in un altro italiano, in un altro inglese e anche in portoghese, per quelle che debbono andare nel­l’amatissimo Portogallo... e in Brasile»25.

Il Padre, senza precipitare le cose, voleva che le donne andassero quanto prima a lavorare dove già era stato fatto l’ingrato lavoro di dissodare il terreno e pertanto era sempre attento a capire quando le sue figlie potesse­ro partire. A volte, l’attesa si prolungava per mesi o per anni. Non fu così nel caso degli Stati Uniti e del Messi- co, dove le prime numerarie arrivarono presto.

Nel marzo 1950 il Padre, in una lettera a Pedro Ca­sciaro, aggiungeva un post scriptum per le sue figlie:

«Per le ragazze: Gesù mi protegga queste figlie! Sono molto contento e mi aspetto molto da voi. Scrivetemi e

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raccontatemi tutti i particolari del viaggio. La nostra Santissima Madre di Guadalupe vi sorrida sempre»26.

Nel maggio 1950 scriveva a Chicago:«Carissime, non sapete con quanta gioia ho ricevuto

prima la vostra cartolina e poi la vostra lettera. Sono si­curo che il Signore ci ha preparato molte cose grandi e belle nella vostra America»27.

Talvolta la partenza delle donne dell’Opera per qual­che Paese dove i tentativi di dissodare il terreno erano stati particolarmente ostici, fu ritardata di molto. In que­sti casi il Padre esortava delicatamente i suoi figli a impe­gnarsi, sottolineando i vantaggi che avrebbe comportato la presenza femminile, «perché senza di loro le cose van­no più lentamente e peggio»28; inoltre, «senza le donne sarete sempre incompleti»29. Normalmente però il trasfe­rimento delle donne dell’Opera in nuovi Paesi non pre­sentava gravi problemi. Anche loro erano abituate a co­minciare da zero, nella più assoluta povertà, e a cercare un lavoro professionale col quale farsi strada.

C’era ancora, comunque, una significativa differenza numerica tra uomini e donne dell’Opus Dei; il Padre di­ceva scherzando che l’Opera avrebbe zoppicato finché le sue due gambe non fossero state lunghe uguali. In effetti, per uno sviluppo armonico, era necessario che le attività degli uomini e delle donne andassero di pari passo. Nel 1951 il Padre si rese conto che bisognava raddoppiare il numero di persone che lavoravano in Italia30. La situa­zione giunse a preoccuparlo, poiché le donne delPOpera erano ancora poche e molte di esse non sufficientemente formate per andare in altri Paesi. Pertanto frenò i suoi progetti di espansione apostolica e, nel 1952, decise di non aprire per alcuni anni nuove residenze per studenti in Spagna, «per evitare la necessità di continui sposta­menti delle persone che stanno nei centri femminili»31, e per dare spazio e tempo alla loro formazione.

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Tutto ciò quanto alle persone, ma quali erano i mezzi? La risposta il Padre l’aveva già data in Canimino32.

Che cosa mai poteva dare a coloro che andavano in altre nazioni, se non i suoi consigli e la benedizione pa­terna? Non era poco e i suoi figli gliene erano grati più che se avessero ricevuto beni materiali o denaro, perché bastava a trasmettere loro la sicurezza e la speranza che tutto sarebbe andato bene. Il Signore voleva che comin­ciassero privi di tutto. Anzi, presto le posizioni si inver­tivano e il Padre si vedeva obbligato a chiedere loro l’e­lemosina per i lavori della sede centrale.

Pedro Casciaro, che si trasferì in Messico con altri due numerari, racconta: “Arrivammo con la benedizio­ne del Fondatore, un’immagine della Madonna che ci aveva regalato (lo faceva ogni volta che si iniziava da qualche parte), e senza mezzi materiali” 33. Luis Sàn- chez-Moreno, che da Roma stava per tornare in Perù, così descrive il commiato: “Mi intrattenne con affetto, mi diede alcuni ottimi consigli, poi la sua benedizione, un’immagine della Madonna e un crocifisso”34. Il Padre suppliva alla mancanza di mezzi materiali e di denaro con l’orazione e l’affetto.

Come il giardiniere della parabola, aveva ogni genere di cure per l’alberello trapiantato. Sul piano spirituale lui e i suoi figli erano consummati in unum, perché non li lasciava mai soli: «Sapete bene che da lontano vi fac­cio molta compagnia»35, scriveva alle sue figlie in Mes­sico. E così iniziava una lettera a quelli che erano in Au­stralia: «Quanta compagnia vi faccio da qui!»36.

Si interessava di loro in ogni momento. Che vita face­vano? Progredivano nello studio della lingua? Avevano amici? Mangiavano abbastanza?

«Quando scrivete - chiedeva al Consigliere degli Stati Uniti - raccontateci molte cose, con ampiezza di partico­lari; così mi illudo di stare anche fisicamente con voi in questi primi tempi americani, che sono tanto di Dio»37.

La sua non era semplice curiosità, ma forte sentimen­

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to paterno e anche prudenza di governo. Alle sue figlie degli Stati Uniti scriveva:

«Nisa, io gradisco molto quando mi scrivete e mi rac­contate cose minute della vostra vita, perché ho il diritto di saperle e perché così mi sembra di farvi ancora più compagnia»38.

Leggeva con piacere le lettere che gli arrivavano dal­l’Europa o dall’America e insisteva che gli scrivessero spesso, raccontandogli «piccoli episodi, particolari, cose da nulla»39. E infatti gli raccontavano tutto. In Messico, per esempio, tenevano in casa alcuni piccoli coccodrilli. Il Padre non ebbe dubbi che non fosse opportuno, e lo spiegò con chiarezza al Consigliere40.

Se gli giungeva notizia di qualche malattia, il Padre non aveva pace fino a quando non riceveva notizie ag­giornate. Quando, in Messico, si ammalò Guadalupe Ortiz de Landàzuri, chiese subito al Consigliere infor­mazioni precise e quindi le scrisse:

«Guadalupe, che Gesù mi ti protegga.Sono contento, perché so che stai bene. Devi lasciarti cu­rare, perché non ci possiamo permettere il lusso di am­malarci: dormi, mangia, riposa, perché così fai piacere a Dio. Per te e per tutte la benedizione più affettuosa divostro Padre , , . A1Mariano» .

Interessandosi di tutti e conoscendo i progressi, i do­lori e le gioie di tutti, il Padre creava, attorno a sé e ovunque fossero i suoi figli, un clima di famiglia che era «vincolo di unità»42. Un sostegno necessario nel perio­do di ambientamento in un altro Paese, che poteva an­che essere lungo: «Non dimenticate - ricordava loro il Fondatore - che il lavoro all’inizio è oscuro e ridotto, ma è necessario passare per questa tappa per arrivare a quelle successive»43. Il Padre diceva spesso che avevano le medesime risorse con le quali egli nel 1928 aveva co­minciato la fondazione: gioventù, grazia di Dio e buon

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umore. «Sono molto contento dei vostri primi passi a Napoli - scriveva alle sue figlie -. Avanti, con il buon umore e la grazia di Dio»44. La gioventù, evidentemen­te, era un dato scontato.

La fatica, le piccole contrarietà, l’impazienza o le sof­ferenze quotidiane potevano minare le energie di chi si era trapiantato in un nuovo Paese. Il Fondatore era pronto ad asciugare le lacrime, a dare consigli, a trovare soluzione ai problemi, a risollevare gli spiriti con le espressioni che il Signore gli dettava. Vi sono parecchie lettere di questo genere.

A un suo figlio in Ecuador:«E logico che si debba soffrire - tu, io e gli altri -, per­

ché il dolore è la prova dell’amore: non ci toglie la pace, se abbiamo lo spirito dell’Opus Dei, ed è segno di fecon­dità soprannaturale. Non è vero?»45.

A quelli che stavano a Vienna, appesantiti dall’appa­rente mancanza di risultati, raccomandava di accordarsi con quelli che stavano in Germania per riposarsi, senza peraltro abbandonare il lavoro. E aggiungeva: «Tutto ciò non ha importanza, se continuate a fare le Norme e vi organizzate per riposarvi»46.

Quando il pessimismo cominciava a diffondersi tra colo­ro che non vedevano i risultati di tanti loro sforzi, i figli ri­correvano al Padre in cerca di consolazione ed egli racco­mandava di guardare gli eventi da una prospettiva più ampia e soprannaturale. Così scriveva alle donne in Irlanda:

«Mi giunge notizia che siete un po’ abbattute, pessi- miste. E vi scrivo per dirvi che avete soltanto motivi di gioia e di ottimismo.

Tuttavia, quando si sta troppo vicino a un quadro - è il vostro caso - non è facile vedere la buona qualità del­la pittura; mi rendo conto della situazione e vi suggeri­sco di parlare sinceramente con il vostro Consigliere»47.

Metteva tutti in guardia con ottimismo dall’impazien­za o dallo scoraggiamento, nel caso di una apparente sterilità del lavoro:

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«Se è così, rallegratevi e armatevi di fortezza, perché la tribolazione porterà con sé molti frutti. Quando si con­ficca un chiodo nella parete e il chiodo penetra senza dif­ficoltà, non è in grado di sostenere un grande peso. Ma se il muro oppone resistenza, il chiodo sarà in grado di reggerlo. Passano mesi - a volte anni - di apparente ste­rilità. Tuttavia non dimenticate che se la semina è di san­tità, non va mai perduta; altri raccoglieranno i frutti»48.

Non tutti, naturalmente, riuscivano ad adattarsi. «Se il trapianto ti costa, scriveva il Padre a un suo figlio -, non è né un fallimento, né una umiliazione lasciare un Paese per lavorare altrove»49. Quando poi in un nuovo Paese chiedevano l’ammissione all’Opera i primi, il Fon­datore li chiamava affettuosamente “il mio primogeni­to” o “ la mia primogenita” , sottolineando la responsa­bilità spirituale che comportava la primogenitura, perché il loro esempio doveva contribuire a edificare l’Opus Dei in quella Nazione. A Dick Rieman, il primo statunitense, il Padre scrisse:

«Sii uomo di orazione, mortificato ed eucaristico. Co­sì potrai essere un buon appoggio per la tua America grande e generosa (...). Il primo: hai considerato qual­che volta quanta grazia di Dio e che benedetta responsa­bilità comporta?»50.

Il Fondatore completò la “parabola del trapianto” con un altro insegnamento:

«Spesso i giardinieri o gli ortolani, per far crescere di­ritti gli alberi appena trapiantati, gli mettono accanto un palo di legno, lungo, grosso e robusto, che non può produrre nessun frutto, ma ha solo il compito di assicu­rare la crescita e i frutti dell’albero piccolo e giovane. Che dedizione, che umiltà!

I Direttori e i sacerdoti, in special modo, debbono fa­re da sostegno e gioire della vita, del rigoglioso sviluppo e dei frutti degli altri. Fare da sostegno con un meravi­glioso senso di paternità, per far sì che i trapiantati met­tano radici e crescano in Cristo Gesù»51.

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2. La preistoria: i viaggi in Europa

«Quanto mi piacerebbe vedervi nel vostro elementol»52, scriveva il Padre nel 1964 ai suoi figli del Venezuela, che vi operavano da tredici anni nello spirito di queste paro­le del Fondatore: «La mentalità dei miei figli non è quel­la dell’emigrante: vanno in un nuovo Paese per amarlo, per servirlo con abnegazione»53. Lo aveva ricordato an­ni prima proprio a quelli del Venezuela:

«Siate comprensivi, perdonate, trattate tutti con deli­catezza e con affetto sincero e continuate a servire con tutte le vostre forze la benedetta terra venezuelana, che è la vostra nuova Patria, mentre servite le anime»54.

Il Fondatore dovette aspettare più di vent’anni per fa­re visita ai suoi figli d’America, per vederli nel loro ele­mento. Essi lo invitavano ad attraversare l’Atlantico, ma il Padre adduceva motivi di povertà, di lavoro o di mancanza di tempo55 e davvero era molto assorbito dal­l’attività di governo. Le sue funzioni, sempre più impe­gnative, lo obbligavano a risiedere nella sede centrale, il cuore dell’Opera. Così descriveva a un suo figlio la pro­pria situazione: «Sono sommerso dalle carte e morto di lavoro»56. Non voleva muoversi dal suo posto di co­mando, certo com’era che l’espansione dell’Opus Dei nel mondo dovesse compiersi «a Roma e da Roma». La vigilanza operosa sullo sviluppo istituzionale dell’Opus Dei non gli consentiva dunque di assentarsi da Roma salvo che per brevi viaggi.

Tra l’altro, la situazione generale dell’Europa del do­poguerra non era la migliore per viaggiare. Proprio nel momento in cui gli Stati europei avrebbero dovuto provvedere alla propria riorganizzazione, scoppiò la co­siddetta guerra fredda. La tensione ideologica fra le due grandi potenze vincitrici, Stati Uniti e Unione Sovietica, degenerò in lotta per la supremazia militare ed econo­mica. Di fronte alla minaccia dell’espansione territoriale sovietica e all’aggressività dei partiti comunisti europei,

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nel 1949 fu stabilita un’alleanza difensiva politico-mili­tare: la NATO. L’URSS rispose, nel 1955, con il Patto di Varsavia che, sotto la direzione di Mosca, collegava i Paesi satelliti comunisti.

Il confronto tra le due parti, iniziato con il blocco so­vietico di Berlino, scatenò, nei Paesi comunisti, la perse­cuzione contro le istituzioni considerate di ostacolo alla dottrina marxista. Prima fra tutte la Chiesa cattolica, la cui gerarchia fu sottoposta a processi clamorosi, come nel caso del Cardinale Mindszenty in Ungheria, nel 1949, di Beran e di Stepinac. Alla morte di Stalin, nel 1953, ascesero al potere gli antistalinisti; si verificarono rivolte e nuove repressioni comuniste, per esempio nella Germania Orientale. La più importante sollevazione po­polare avvenne in Ungheria, nel 1956, brutalmente re­pressa con le armi, grazie anche alla passività dell’Occi- dente. Tale era, a grandi linee, la situazione europea negli anni in cui il Fondatore, nonostante tutto, decise di preparare personalmente l’inizio dell’apostolato in Germania, in Austria e in Svizzera; cioè di scriverne la preistoria, come premessa del trapianto57.

* * *

Nel novembre del 1949 il Padre, che in quei mesi aveva fatto vari viaggi in Italia, decise di fare una scorribanda apostolica nell’Europa centrale, per conoscere la situa­zione dei Paesi di lingua tedesca. Partì da Roma il 22 e si fermò in varie città del nord Italia: Genova, Milano, Como, Torino58. Da Milano inviò una lettera ai suoi fi­gli in Messico, nella quale diceva:

«Siamo qui da alcuni giorni per sistemare la casa, ma siamo diretti in Austria e in Germania, nella speranza di aprire quanto prima anche là un paio di centri, con l’aiuto di Dio. Non trascurate di pregare per le cose che ora abbiamo per le mani, perché sono molto importanti per tutta l’Opera»59.

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Trascorse due giorni a Innsbruck, dove ebbe uno scambio di vedute con alcuni professori delFUniversità, compreso il Rettore. Il 30 novembre giunse a Monaco di Baviera. Il mattino seguente, dopo aver celebrato la Mes­sa, andò a trovare l’Arcivescovo, il Cardinale Faulhaber, che lo accolse con grandissimo affetto60. Parlarono lun­gamente, in latino, dei problemi pastorali delle diocesi tedesche, dei cattolici esuli dai Paesi dell’Est che cercava­no rifugio nella Germania Occidentale e dell’Opera. Il Cardinale si mostrò molto contento del programma di iniziare dalla Baviera il lavoro dell’Opus Dei in Germa­nia. Il 4 dicembre il Fondatore era di ritorno a Roma.

In diversi Paesi aspettavano l’Opus Dei con impazien­za. Ma la premura del Padre per l’apostolato non diven­tava mai precipitazione. Negli anni tra il 1950 e il 1954 ci furono i faticosi lavori di Villa Tevere, l'opposizione dei buoni in Italia, la battaglia per la formazione dei nuovi membri dell’Opera e l’espansione in molti Paesi del continente americano. In Germania si iniziò dunque con brevi soggiorni durante le vacanze accademiche, finché il 1° maggio 1953 fu trovata a Bonn una casa, vecchia e malandata ma di un certo stile. Sistemata e ampliata nel corso degli anni, sarebbe diventata la Resi­denza per studenti Althaus. All’inizio dovettero affron­tare le prevedibili difficoltà: la lingua, la mancanza di denaro, l’impazienza e la stanchezza61. Il Padre, come faceva sempre con i suoi figli sparsi in tutto il mondo, cercava di rinverdire la loro speranza, di infondere otti­mismo e buon umore, senza nascondere che era inevita­bile passare attraverso difficoltà prima di assaporare i frutti. Nelle sue lettere li incoraggiava a essere pazienti, a lasciar passare il tempo per consolidare il trapianto-.

«Siate pazienti, perché Roma non è stata costruita in un giorno: le vocazioni arriveranno, solide e numerose. Ma non si improvvisano, tanto meno con il carattere tedesco»62.

Circa un anno dopo la miracolosa guarigione dal dia­

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bete, intraprese un lungo viaggio che prevedeva di pas­sare per la Svizzera e poi valutare la situazione dell’Au­stria. Partì da Roma il 22 aprile 1955. Passò per Milano e Como e poi visitò il santuario di Einsiedeln e le città di Zurigo, Basilea, Lucerna, Berna, Friburgo, St. Gallen63. Vicino alla frontiera tedesca, bastò un sommesso sugge­rimento di don Àlvaro perché il Padre decidesse di salu­tare i suoi figli in Germania, prima di attraversare la frontiera austriaca, anche se la deviazione era di almeno un migliaio di chilometri64.

Il 1° maggio portò quindi una indimenticabile e inat­tesa sorpresa a quelli di Althaus. Il Fondatore racco­mandò ai suoi figli gioia e lavoro; era ormai arrivata l’o­ra del raccolto:

«Figlio mio - disse a uno di loro - non ti fa sognare la fiducia che il Signore ha riposto in noi? Sembra che ab­bia condizionato la fecondità del lavoro alla nostra fe­deltà. Che grande responsabilità! E che sentimenti di fi­liazione divina, quando consideriamo la fiducia del Signore! Che gioia pensare all’imminente raccolto in questa terra tedesca... !

L’Opera profuma già di frutti maturi, è una realtà vi­va, benché ventisei anni non siano nulla per un ente mo­rale, e ancor meno per una famiglia che il Signore ha vo­luto far nascere e che durerà finché ci saranno uomini sulla terra, per servire la Chiesa, per diffondere il regno di Cristo, per il bene delle anime, per fare felice l’uma­nità portandola a Dio»65.

Il 3 maggio, a Dusseldorf, ottennero dal Consolato austriaco il visto di entrata e il giorno 7 giunsero a Vien­na. Alloggiarono all’Hotel Bellevue, vicino a una stazio­ne ferroviaria che mostrava i segni della guerra. Il Padre e don Àlvaro, in veste talare, calpestarono in lungo e in largo le strade della città, ancora divisa in quattro zone occupate militarmente da francesi, inglesi, sovietici e americani. Per strada videro soldati sovietici, che indi­rettamente riportarono alla loro memoria la barbara

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violenza anticattolica della guerra civile spagnola, per­petrata in nome dell’ideologia marxista.

A Roma un gruppo di fedeli dell’Opus Dei stava stu­diando il tedesco, in vista di un trasferimento in Austria66. Pochi giorni prima di partire da Roma, il 15 aprile 1955, il Padre aveva scritto ai suoi figli in Germa­nia: «Se i russi se ne vanno e le cose in Austria si siste­mano, sarà il caso di pensare a Vienna...»67. Si dava in­fatti per imminente la firma, fra le Potenze vincitrici, del trattato sullo Stato austriaco, che avrebbe consentito la partenza delle truppe di occupazione. Il Fondatore non aveva l’intenzione di cominciare il lavoro in una città occupata. I suoi figli non temevano il martirio, ma non dovevano andarselo a cercare e perciò egli non li man­dava nei Paesi a regime comunista, dove non c’era un minimo di libertà. Sarebbe stato tentare Dio: «Io non espongo temerariamente i miei figli - affermava -. Io, che vi voglio bene come vostra madre, non vi posso mandare dove lei non vi manderebbe»68.

Rimase a Vienna tre giorni, fece visita al Nunzio, mons. Dellepiane, e parlò a lungo con il Vescovo ausi­liare, mons. Franz Jachym, della possibilità di iniziare le attività apostoliche dell’Opera in Austria. Il 12 maggio era di ritorno a Roma.

Il 16 novembre dello stesso anno 1955, iniziò un nuo­vo viaggio apostolico in Europa. È possibile ricostruirlo grazie alle annotazioni sul suo calendario liturgico e alle lettere o cartoline che spedì da diverse città: La Spezia, Milano, Como. In Svizzera passò per Losanna e Gine­vra. Giunto a Parigi, il 22 novembre pranzò nel Centro di Boulevard Saint Germain. Da Versailles andò a Char- tres e Lisieux, dove pregò sulla tomba di santa Teresina. Proseguì per Rouen, Amiens e Lilla e passò in Belgio, per incontrare alcune persone a Lovanio e Anversa. Si recò poi a Breda, Rotterdam, L’Aja, Amsterdam e Utre­cht, per scrivere la preistoria dei Paesi Bassi. In Germa­nia rivide i suoi figli nella Residenza Althaus, di Bonn, e

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li esortò con forza a fare molto apostolato, perché i tempi erano maturi:

«Ormai è finita la preistoria della Regione tedesca: oggi comincia la storia dell’Opera in Germania. Sì, oggi, 30 novembre 1955, entriamo nella storia di questa Re­gione. Subito non accadrà nulla, ci vorranno alcuni me­si... Dovete pazientare. Verranno persone, non ci ferme­remo solo a Bonn, cominceremo a portare avanti molte attività»69.

Nei primi giorni di dicembre si recò a Colonia, Mona­co di Baviera, Salisburgo e Linz. Il giorno 3, a Vienna, alloggiò all’Hotel Bristol. La mattina seguente celebrò la Messa nella cattedrale di Santo Stefano. Durante il rin­graziamento, mentre pregava davanti all’immagine di Maria Pòtsch, la invocò per la prima volta con la giacu­latoria Sancta Maria, Stella Orientis, filios tuos adiuva! Non fu soltanto una frase affettuosa, come tante altre che era solito rivolgere alla Madonna. Dalle lettere di quei giorni si deduce che con quella fiduciosa invocazio­ne intendeva affidare alla Madre di Dio il futuro apo­stolato nei Paesi europei del blocco sovietico. Lo stesso giorno scrisse in Spagna: «Continuo a pensare che Vien­na sia un magnifico cuneo di penetrazione per l’Oriente e che i miei figli austriaci daranno molta gloria a Dio nostro Signore (...): oggi ho fatto un proposito di devo­zione verso la Santissima Vergine»70. Cinque giorni do­po volle ribadire:

«Posso affermare con sicurezza che Dio nostro Signo­re ci darà mezzi abbondanti (facilitazioni, persone) per lavorare sempre meglio per Lui nella parte orientale del­l’Europa, finché si apriranno per noi - so che si apriran­no - le porte della Russia (...). Fa’ in modo che tutti re­citino molte volte questa giaculatoria: Sancta Maria, Stella Orientis, filios tuos adiuva!»71.

Tornò a Bonn il 7 dicembre e il 10 era a Roma. A Vil­la Tevere raccontò le impressioni del viaggio: «Figli miei, c’è molto bisogno di voi nel mondo»72.

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Il 23 giugno 1956 partì di nuovo. Si recò prima in Sviz­zera (Berna e Losanna); poi in Francia (Lione, Versailles, Parigi). A Parigi celebrò la Messa nell’appartamento di Boulevard Saint Germain. Il 1° luglio giunse in Belgio, di lì andò in Germania e poi tornò a Roma, passando per la Svizzera, il 18 luglio. In agosto, instancabile, era di nuovo in Svizzera per assistere al Congresso Generale del 1956, che si tenne a Einsiedeln dal 21 al 25 agosto.

Il Fondatore non aveva ancora concluso la preistoria dell’Austria e della Svizzera, quando in Ungheria scop­piò la sollevazione popolare contro il regime comunista. Alcuni giorni prima che le truppe sovietiche la invades­sero, il Padre scriveva ai suoi figli in Germania: «Consi­derando le recenti vicende dell’oriente d’Europa, prego e soffro, pensando con impazienza al nostro lavoro da voi e in Austria»73.

Nel 1957 si recò fuori Italia in varie occasioni. In maggio rimase due settimane in Francia. In agosto, do­po essersi riposato alcuni giorni a Einsiedeln, si recò in Germania, Belgio, Olanda e Svizzera. Il 24 agosto, festa di S. Bartolomeo, celebrò la Messa nella Residenza uni­versitaria Eigelstein, in funzione dall’autunno preceden­te: era il primo Centro che le sue figlie avevano aperto a Colonia74.

Il periodo della preistoria stava terminando. Nel 1958, a Parigi, celebrò la Messa per le sue figlie che vi si erano stabilite; nella seconda metà di settembre, di ri­torno da Londra, andò a L’Aja, a Colonia e a Zurigo. Il Padre scriveva contento all’Assessorato Centrale: «Mol­te cose belle in Olanda, Germania e Svizzera. Belle come quelle in Inghilterra»75. Lo stesso giorno, festa della Madonna della Mercede, scriveva anche ai suoi figli del­la Spagna: «Ho molta voglia di vedervi, per raccontarvi tante cose belle, anche dell’Olanda, dove abbiamo con­cluso la preistoria dei Paesi Bassi»76.

* * »

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Le pietre miliari che scandivano l’intenso programma di visite a città e persone, e cioè la preistoria apostolica dell’Opus Dei in Europa, erano i pellegrinaggi ai san­tuari mariani, sulle tombe dei santi o nei luoghi dove erano vissuti. Einsiedeln, Lourdes, Loreto, Fatima, Wil- lesden, il Pilar a Saragozza o la Medaglia Miracolosa a Parigi; Assisi, Bari, Lisieux, Ars, Siena77.

Il Fondatore, dopo le scorribande apostoliche assieme a don Àlvaro, poteva ben dire ai suoi figli, senza timore di esagerare: «Conosco la Germania quanto e più di voi»78.

Erano viaggi rapidi e fruttuosi, vere e proprie incur­sioni, perché, pur desiderando far conoscere l’Opera a molti Vescovi, non poteva assentarsi a lungo dall’Italia. La scomodità dell’automobile, le grandi distanze e i continui trasferimenti comportavano un grande consu­mo di energie. Offriva al Signore con gioia stanchezza e disagi, allietava i viaggi con molte canzoni e molti rosa­ri79. Faceva spesso a voce alta l’orazione del pomeriggio e invitava quelli che lo accompagnavano a meditare il testo evangelico in cui il Signore dice agli apostoli: “Vi ho scelti perché andiate e portiate frutto...” , ut eatis.

Dai viaggi riportava a Roma tanti insegnamenti, ricor­di e notizie, che sfruttava per la propria vita interiore o per necessità pratiche. Da Losanna mandò agli architetti di Villa Tevere una cartolina in cui era ritratta una piaz­za. Vi scrisse: «Bella fontana! Abbracci. Mariano»80. A buon intenditor, poche parole. Quella foto ispirò la Fon­tana degli Asinelli, nel cortile di Villa Tevere.

A Vienna vide una colonna con una iscrizione dedica­ta alla Santissima Trinità: Deo Patri Creatori; Deo Filio Redemptori; Deo Spiritui Sanctificatori. Parole che vol­le far incidere sulla pala d’altare dell’oratorio del Padre, a Villa Tevere81.

Molto significativo per indicare le ristrettezze in cui vivevano i fedeli dell’Opera è ciò che gli capitò a Parigi il 28 giugno 1956, nel Centro di Boulevard Saint Ger- main. Dopo che il Padre ebbe celebrato la Messa, tutti si

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recarono in sala da pranzo per la colazione. Essendo i commensali più numerosi del solito, erano state tirate fuori tutte le stoviglie disponibili, compresa una tazza scheggiata e senza manico, che fu coperta con un tova­gliolo come tutte le altre e relegata nel posto più scomo­do, nella speranza che passasse inosservata. Ma il Padre andò a sedersi proprio lì. Sollevò il tovagliolo e si trovò di fronte alla più evidente dimostrazione della loro po­vertà. Non era certo l’esempio migliore del giusto di­stacco dalle cose materiali ma, date le circostanze (si era agli inizi del lavoro in Francia), il Padre ne fu molto contento: i suoi figli, nella loro povertà, si comportava­no con molta dignità. Volle portarsi a Roma la tazza e la espose in una vetrina di ricordi, assieme a porcellane, ventagli e altri oggetti privi di qualsiasi altro valore che non fosse la loro piccola e semplice storia.

Accadde poi che un giorno un ecclesiastico, venuto in visita, si soffermasse davanti alla tazza scheggiata ed esclamasse, forse vittima di un eccesso di cortesia: “Ma è di onice! Che bella stoviglia!” . Il Fondatore gli rispose: «Che Santa Lucia le conservi la vista! Lei pensa che sia di onice, e invece è di cielo, perché è una meravigliosa dimostrazione della povertà che si vive nell’Opus Dei, con tanta gioia, con tanto amore. Ed è una testimonian­za della santa furbizia dei miei figli, che tentavano di nascondermi le loro ristrettezze»82.

Quando il Padre giunse a Londra nel 1958, i fedeli del- l’Opera erano in Inghilterra da quasi dodici anni. Vi ri­mase dai primi di agosto fino alla metà di settembre e ri­tornò nell’isola anche nelle quattro estati successive, fino al 1962. Questo è il motivo per cui, dopo la Spagna e l’Italia, il Regno Unito è il Paese dove il Fondatore del­l’Opus Dei visse più a lungo. Fino ad allora non aveva mai attraversato la Manica. Si recò in Inghilterra per va­

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ri motivi, fr,a i quali lo zelo apostolico e il desiderio di vedere i suoi figli.

Il 25 luglio era stato in Svizzera e aveva celebrato la Messa in un Centro dell’Opera a Zurigo. Il giorno dopo si era recato al santuario di Einsiedeln. Si era poi tratte­nuto due giorni a Parigi, per vedere le sue figlie nel Cen­tro di Rouvray e i suoi figli in quello di Boulevard Saint- Germain. Il 4 agosto attraversò il Canale della Manica, da Boulogne a Dover. È una data memorabile per la sto­ria dell’Opera in Inghilterra, dove i primi fedeli si erano stabiliti nel Natale del 1946. Nel 1950 il Padre aveva scritto loro:

«State costruendo buone fondamenta e, se lo fate con gioia, persuasi del vostro ruolo di fondatori, consapevoli della vostra responsabilità, presto, molto presto, la vo­stra casa avrà un’altra fisionomia e comincerete ad assa­porare i frutti: vi assicuro che, se siete fedeli, saranno ab­bondantissimi»83.

Per anni, da lontano, era stato loro accanto con l’ora­zione, affinché riuscissero a superare una situazione am­bientale alla quale non erano abituati:

«Vi ho inviati, ben sapendo dove vi stavo mandando- aveva scritto loro -, perché ero e sono convinto che siete capaci di trasformare la prosa umana di ogni gior­no in un poema divino»84.

Il 4 aprile 1952 i londinesi dell’Opus Dei avevano la­sciato l’appartamento di Rutland Court, che occupava­no dal 1947, e si erano trasferiti a Hampstead, a nord di Londra. La casa, ampia e con un vasto giardino, diven­ne la Residenza universitaria Netherball House. Tre me­si dopo giunsero a Londra le donne dell’Opera85. Nella primavera del 1954 ci furono le prime richieste di am­missione all’Opera. Il Padre scrisse loro:

«Sono molto contento, perché si è rotto il ghiaccio e cominciano le vocazioni. Tuttavia, non dimenticate che il vostro ambiente è più difficile che nei Paesi di tradi­zione cattolica. Abbiate pazienza se le cose procedono

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lentamente; a me sembra che si vada di buon passo, gra­zie a Dio»86.

Questa era la situazione quando, il 4 agosto 1958, il Fondatore giunse in Inghilterra. Sul retro di una foto­grafia che gli diedero da firmare, scrisse: Sancta Maria, Sedes Sapientiae, filios tuos adiuva. Oxford-Cambridge, 5-VIII-195887.

Fece un giro per Londra e giunse nella City, dove tut­ti, burocrati, impiegati con bombetta, abito scuro e col­letto inamidato, traffico intenso, autobus rossi e taxi ne­ri, si muovevano in un via vai febbrile. Si notavano volti e abiti esotici: indiani, africani, cinesi, arabi...

Sulle facciate degli edifici spiccavano antiche insegne: Established in 1748; ... in 1760; ... in 1825... Il Padre considerava le conseguenze di una così lunga tradizione: solidità professionale, rapporti d’affari in tutti i conti­nenti, ricchezza, potere economico..., una corazza seco­lare e inattaccabile. La City era un vecchio albero cente­nario con le radici affioranti dal terreno.

Il Fondatore valutava la situazione alla presenza di Dio. Sarebbe stato sufficiente il suo impegno coraggioso, in quel crocevia del mondo? Sentì la tentazione dello scora­mento nel paragonare le proprie energie con il potere della City. Ma non si lasciò abbattere. Di fronte al Signore con­cluse, con un atto di fede, che smuovere quel mondo - tante anime e tante attività - e portarlo a Cristo avrebbe richiesto una leva e uno sforzo ben più che umani.

Visitò alcune zone di Londra e altre città vicine: il Parlamento, Fleet Street, Westminster, Whitehall; Oxford, Saint Albans... La mattina di domenica 10 agosto andò di nuovo nella City, ancora più impressio­nante senza l’animazione dei giorni feriali: strade deser­te e vuote, edifici sprangati, morti e silenziosi. A Mi­chael Richards, il primo numerario inglese, che si trovava al Collegio Romano, scrisse:

«La tua Inghilterra, briccone, è una grande bella cosa! Se ci aiutate, soprattutto tu, lavoreremo sodo in questo

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crocevia del mondo: pregate e offrite, con gioia, piccole mortificazioni »8 8.

Furono giorni di preghiera e di lavoro. Pensando alla gente che camminava per le strade, a tanti che non ama­vano Dio o avevano una conoscenza superficiale di Cri­sto, si sentiva impotente e si rivolgeva supplice al Signo­re, come un bambino che deve ricorrere a suo padre. Ricorreva all’orazione, “ il segreto dell’efficacia delPO­pus Dei” , che paragonava in quei giorni londinesi a un grande ombrello con cui ripararsi dai capricci del tempo e difendersi dalle contrarietà.

Lunedì 11 andò a Cambridge. Mercoledì pomeriggio, in una tertulia a Netherball House, incoraggiò i suoi fi­gli a iniziare a Oxford, a Cambridge e a Manchester, mostrando loro le possibilità apostoliche offerte dall’In­ghilterra, vero crocevia del mondo, dove passavano per­sone di tutti i continenti e di tutte le nazionalità, anche di Paesi nei quali l’Opera non era ancora giunta e dove era attesa. I suoi figli lo ascoltavano con attenzione.

Si recò a Michaelham Priory, a Eastbourne... Il 15 agosto rinnovò la consacrazione dell’Opera al Cuore di Maria nel santuario di Willesden. Avrebbe potuto smuovere l’Inghilterra?

Forse fu allora che il Signore gli rispose chiaramente con una locuzione, che gli sarebbe rimasta impressa per sempre: “Tu non puoi. Io sì!” . Tu certamente non sarai in grado, ma io sì89.

Tornato a Roma, vi fece riferimento in una medita­zione:

«Poco più di un mese fa stavo in una Nazione che amo molto. È un posto in cui pullulano le sette e le ere­sie e regna una grande indifferenza verso le cose di Dio. Nell’osservare quello scenario rimasi turbato e mi sentii incapace, impotente: Josemaria, qui non puoi fare nulla. Era vero: io, da solo, non potrei combinare niente; sen­za Dio, non riuscirei nemmeno a sollevare una pagliuz­za da terra. La mia povera inefficacia era così evidente

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che quasi mi rattristai. Ma questo non va bene. Può for­se rattristarsi un figlio di Dio? Tutt’al più può sentirsi stanco, come un asinelio fedele che tira il carro; ma tri­ste, no. È una brutta cosa la tristezza!

Improvvisamente, in mezzo a una strada in cui anda­vano e venivano persone provenienti da ogni parte del mondo, dentro di me, nel fondo del cuore, sentii l’effica­cia del braccio di Dio: tu non puoi nulla, ma Io posso tutto; tu sei l’inettitudine, ma Io sono l’Onnipotenza. Io sarò con te e ti donerò l’efficacia! Condurremo le anime alla felicità, all’unità, lungo il cammino del Signore, ver­so la salvezza! Anche qui semineremo pace e gioia in ab­bondanza!»90.

Il Fondatore mise in pratica docilmente l’invito del Si­gnore, benché privo di risorse materiali e nonostante i fe­deli inglesi dell’Opus Dei fossero pochissimi. Con grande fede e audacia si impegnò a realizzare progetti di rapido sviluppo. Fece trasferire in un luogo più adatto la Com­missione regionale, fece venire altre persone, provvide al­l’amministrazione della Residenza Netberhall House. Il 17 agosto visitò varie chiese di Londra, alcune cattoliche (Spanish Place, St. Etheldreda, la cattedrale di Westmin- ster), altre anglicane (l’Annunciazione di Bryanston Street, Westminster Abbey, Hannover Square), nella spe­ranza di ottenere che una chiesa della città fosse affidata ai sacerdoti dell’Opus Dei.

Aveva1 anche l’obiettivo di cominciare un’attività apo­stolica a Oxford. Dopo aver preparato un promemoria sui passi da fare con le autorità accademiche, il 21 agó­sto ricevette un professore del King’s College di Londra, per decidere il modo migliore di andare avanti. Il 26 agosto mons. Craven, Vescovo Ausiliare di Londra, al corrente del progetto, parlò con l’amministratore della cattedrale di Westminster, mons. Gordon Wheeler: c’era la possibilità di acquistare a Oxford una casa con terre­no, sulla riva del fiume: la futura Grandpont House. Il Padre seguì da vicino lo sviluppo del progetto.

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Ricevette anche i membri irlandesi dell’Opera e non interruppe mai i contatti epistolari con Roma. Si pro­curò dodici pietre sacre da altare, che consacrò il 28 agosto. Ne diede alcune agli irlandesi. Le pietre sacre sa­rebbero servite per oratori che non c’erano ancora. An­ticipava i sogni, dava materia alle speranze.

Il 26 agosto e il 3 settembre si recò a Canterbury, nel­la chiesa di S. Dunstano, a pregare sulla tomba dove giace la testa di S. Tommaso Moro91.

La sua prima permanenza a Londra volgeva al termi­ne. La vigilia della partenza impartì la benedizione ai suoi figli inglesi. Sulla prima pagina di una Bibbia in in­glese scrisse: Semper ut iumentum, Londini, 15-IX-58. Il 16 settembre, passata la dogana del porto di Dover, si congedò da loro con la giaculatoria Sancta Maria, Regi­na Angliae, filios tuos adiuva!.

Era molto contento, e lo aveva scritto ai suoi figli del­la Spagna:

«Vi dico solo che penso che la nostra permanenza in Inghilterra sia provvidenziale e che qui possono sorgere molte iniziative per la gloria di Dio. Pregate, ricorrete co­me sempre all’intercessione di nostra Madre Santa Ma­ria e vedremo grandi cose fatte dal nostro Opus Dei per il bene di tutte le anime in questo crocevia del mondo»92.

Il clima, anche se mite e moderatamente piovoso, non fu per lui particolarmente riposante. Tuttavia l’Inghil­terra aveva un grande vantaggio: nessuno per strada lo riconosceva, né gli dedicava troppa attenzione93.

Pregò e fece pregare molto per il progetto di Oxford e curò con attenzione i rapporti con le autorità civili, ac­cademiche ed ecclesiastiche. Grandpont House fu infine ottenuta e il 22 aprile 1959, non appena saputa la noti­zia, egli inviò uno stringato ma eloquente telegramma: «Auguroni. Mariano».

Nell’estate del 1959, il 16 luglio, il Padre tornò a Woodlands, la casa a nord di Londra dove aveva abita­to l’anno prima. Da Roma fece venire gli architetti, cui

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diede istruzioni per progettare un College universitario a Oxford. Intendeva far mettere sulla sommità dell’edi­ficio una guglia con una statua della Madonna, sempre illuminata. La Santissima Vergine, ritta su un ponte sot­to cui appaiono onde bianche e azzurre, campeggia an­che nello scudo di Grandpont, con il motto ipsa duce.

Il 15 agosto, festa dell’Assunzione, Michael Richards celebrò la sua prima Messa solenne nella cattedrale di Westminster. Quel giorno stesso il Padre era partito per l’Irlanda. Arrivò a Dublino nel pomeriggio e il giorno successivo celebrò la Messa nella Residenza Ely. Al ter­mine, fece il ringraziamento ad alta voce e disse ai suoi figli: «Il Signore vi ha scelti per cominciare il lavoro in Irlanda e per farvi strumenti delle sue meraviglie, nono­stante siate così poca cosa, nonostante tutto; io stesso sono un pover’uomo»94.

Si recò poi nella Residenza Nullamore, dove si stava svolgendo un corso estivo internazionale con quaranta ragazzi di varie nazionalità che si dedicavano con entu­siasmo a imparare l’inglese. Andò anche a Galway, dove c’era un altro Centro. Il 18 agosto, con don Àlvaro, fece visita all’Arcivescovo di Dublino; la sera del 19 era di ri­torno a Londra95.

L’anno precedente, poco prima di lasciare l’Inghilterra, aveva scritto al Consigliere della Colombia, invitandolo a riposarsi per dare buon esempio, «come faccio io con i miei figli, visto che sono venuto in Inghilterra a riposa­re»96. Per la verità, non si riposava affatto e nell’estate del 1959 era in piena attività apostolica, per continuare ciò che aveva iniziato nel 1958. Ormai erano entrati in pos­sesso della casa e dei terreni di Grandpont, a Oxford, e il Padre si occupava del progetto definitivo97. Scriveva: «Qui riposiamo, lavoriamo e preghiamo. Preghiamo molto»98. Ma, per amore di obiettività, qualche giorno dopo preci­sò: «Siamo qui a lavorare, più che a riposare»99.

Fu anche intervistato dal quotidiano The Times, che, il 20 agosto del 1959 gli dedicò una pagina, Spanish

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founder of Opus Dei, di carattere molto elogiativo. Si inseriva in una serie di ritratti dedicati a figure di fama internazionale.

In settembre incontrò a Winchester l’Arcivescovo di Portsmouth, nella cui diocesi si trovava Grandpont, e a Londra il Cardinale Godfrey e mons. Craven.

Nell’estate del 1960 tornò in Inghilterra per la terza volta. Partecipò a varie tertulias con i suoi figli, ricevette persone provenienti dall’Irlanda, dalla Francia e dalla Spagna. Suggerì di portare avanti il progetto di una nuova residenza con un maggior numero di posti, desti­nata a studenti del Commonwealth: maturò l’idea di ampliare a questo scopo Netherhall House.

Ebbe occasione di vedere alcune grandi realizzazioni del passato: il palazzo della stampa in Fleet Street, i ma­gnifici colleges delle Università, le enormi dimensioni del cortile del Christ’s Church College di Oxford. Si ren­deva conto che tentare di fare cose di tale livello sarebbe costato un grande sforzo. Per questo tornò a pregare con intensità sulla tomba di S. Tommaso Moro.

Nell’estate 1961 alloggiò in un’altra casa, al n. 21 di West Heath Road, non lontano dalla precedente. Fu raggiunto dalla notizia del probabile rinvio, per questio­ni formali, dell’ordinazione di un gruppo di sacerdoti dell’Opera, prevista a breve a Madrid. Per risolvere il problema decise di recarsi subito da mons. Leopoldo Eijo y Garay, che era solito trascorrere l’estate a Vigo100.

Domenica 23 luglio partì in aereo da Londra con don Àlvaro per Biarritz, dove il Consigliere della Spagna lo attendeva con un’auto. Pernottarono a Vitoria e il gior­no dopo, dall’alba al tramonto, attraversarono la mese- ta, l’altipiano castigliano, su una vettura piuttosto len­ta, con un caldo insopportabile. Abbracciò mons. Leopoldo: qual era problema? Non c’era alcun proble­ma, era tutto sistemato. Il Vescovo di Madrid non vede­va il Fondatore da molto tempo e non aveva voluto ri­nunciare alla gioia di incontrarlo...101.

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Trovandosi vicino a Tuy, il Padre volle andare a saluta­re don Eliodoro Gii, il sacerdote e amico che lo aveva aiu­tato generosamente fin dagli inizi delPOpera, per il quale sentiva un forte debito di riconoscenza. Potè vederlo solo a notte fonda e andò a letto tardi, esausto. Il 25 luglio, S. Giacomo, era festa grande a Santiago di Compostella. Vi si recò per incontrare i suoi figli e le sue figlie e per far visita al Cardinale. Il 27 era di ritorno a Londra.

Suggerì che la Commissione regionale dell’Inghilterra si spostasse in una sede più adatta. Era sempre in con­tatto con Roma e gli arrivavano continue notizie sullo sviluppo degli apostolati delPOpera. Il 5 settembre in­traprese il viaggio di ritorno. Sull’auto che lo portava al­l’aeroporto di Southend si mise a cantare una vecchia strofa, che gli era molto cara: “Mio bocciolo, bel boc­ciolo,/ già ti stai svolgendo in rosa: / già si fa vicino il tempo / di spiegarti qualche cosa” .

Nel 1962 si recò per l’ultima volta in Inghilterra, dove era appena stata inaugurata la nuova sede della Com­missione regionale. Diede nuovo slancio all’apostolato, partecipò a tertulias con gruppi numerosi di persone, lanciò idee per il lavoro con i giovani. E intanto prega­va, pregava.

Lo si poteva trovare a recitare il rosario o a pronun­ciare giaculatorie nelle chiese anglicane, nella solitudine dei templi senza tabernacolo: per esempio a Westmin- ster Abbey, in All Hallows, o in Saint Bartholomew, da­vanti a un’immagine della Madonna.

Anche in seguito, a Roma, seguì da vicino lo sviluppo dei progetti in Inghilterra. Cominciò a funzionare un club giovanile a sud di Londra, a Manchester fu aperta la Residenza universitaria Greygarth e nel Sussex una casa di ritiri, Wickenden Manor. Molte altre iniziative furono sviluppate, fra cui quelle portate avanti dalle donne dell’Opera, come la Residenza per studentesse Asbwell House, a Londra, un’altra a Bangor e un’altra a Manchester.

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Fu completamente ristrutturato l’edificio di Netherball House, che sarebbe stato inaugurato il 1° novembre 1966 dalla Regina Madre, thè Queen Mother, che si trattenne cordialmente e a lungo con il direttore e con i residenti inglesi, asiatici, africani, americani e passò poi a visitare la Scuola di Scienze domestiche e alberghiere diretta dalle donne dell’Opera. Al termine della visita, la Regina Madre pronunciò, dinanzi alle autorità presenti, agli studenti e al gruppo promotore di Netherhall House (presieduto da un anglicano), un sentito discorso nel quale sottolineò l’importanza dell’iniziativa e lo spirito di servizio che la sorreggeva102.

3. Nuovi Paesi (1952-1962)

La prima fase dell’espansione apostolica dell’Opera eb­be luogo fra il 1948 e il 1952; la seconda si può situare nel decennio 1952-1962. Parlando ai suoi figli il 2 otto­bre 1962, il Padre illustrò le fatiche della meravigliosa avventura del trapianto:

«Il Padre conosce meglio di tutti gli inizi dell’Opera nei vari Paesi, con tutte le difficoltà e tutte le speranze... Perciò vi posso assicurare che, umanamente parlando, tutte le Regioni sono in condizioni migliori e hanno maggiori risorse di quando dovetti cominciare io, il 2 ottobre 1928. Non potete immaginare quanto sia costa­to portare avanti l’Opera. Ma che meravigliosa avven­tura! È stato come coltivare un terreno selvatico: prima bisogna sradicare gli alberi, togliere le erbacce, spostare le pietre, poi arare la terra a fondo e concimare (...).

Una volta dissodata, la terra deve riposare, prendere aria. Poi vengono la semina e le mille cure necessarie al­le piante: prevenire le malattie, difenderle dai nubifra­gi... Bisogna saper aspettare, lavorare e soffrire molto, prima di raccogliere il grano nei granai»103.

Il Padre avrebbe dato qualsiasi cosa pur di evitare sof­

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ferenze ai suoi figli. Desiderava che tutti fossero felici e avrebbe voluto essere l’unico a soffrire. Ma era impossi­bile evitare che iniziare in nuovi Paesi costasse molte sofferenze. Grazie al suo esempio, tutti i suoi figli impa­rarono a praticare l’apostolato del sorriso, a inghiottire le lacrime, a superare le difficoltà. Circa gli inizi in Ger­mania, Alfonso Par racconta che nel 1957, a Colonia, subito dopo avere visitato la prima Residenza delle don­ne dell’Opera in Germania, il Padre in auto gli parlò con ampi dettagli del lavoro che tutti loro si sarebbero dovuti impegnare a fare nel Paese. Gli espose molti pro­getti e chiese la sua opinione. Alfonso, piuttosto scon­certato, si mise a elencare tutte le grandi difficoltà che avrebbero dovuto affrontare, ma il Padre lo interruppe: «Questo lo sapevo già. Ma questo è il motivo per cui sei qui tu: superare le difficoltà»104.

Non è facile farsi il quadro esatto dei sacrifici che ri­chiese lo sviluppo dell’Opera nelle diverse Nazioni. I racconti di vita quotidiana sono sempre permeati di si­gnificativi silenzi e rivelano dimenticanze non certo ca­suali. Non è difficile dedurre che, su scala minore, si sia­no ripetute le difficoltà affrontate a suo tempo dal Fondatore. Forse per questo egli volle incoraggiare i suoi figli attribuendo loro gratuitamente il titolo di cofondatori. Non mancarono contrarietà, solitudine e umiliazioni, e altre situazioni quale quella che si intuisce in una lettera al Consigliere del Messico:

«Roma, 9 luglio 1953.Carissimo Perico, che Gesù mi ti protegga. Ho letto la

tua lettera e con gioia ho visto che hai il mio stesso spi­rito (...). Se non fosse così, non saremmo il Buon Pasto­re. Ma ti proibisco di fare l’offerta di te stesso, perché al Signore basta il tuo desiderio e... perché per noi sarebbe molto comodo. Dobbiamo morire vecchi, consunti dal lavoro e pieni di buon umore. D’accordo?

Un abbraccio. La benedizione di tuo Padre»105.Pedro Casciaro aveva inteso offrire la propria vita

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perché il trapianto apostolico in Messico avvenisse sen­za perdite di persone. Anche a Burgos, nel 1938, Pedro aveva chiesto al Signore di passare a lui la malattia del Padre. Troppo comodo, gli rispondeva stavolta il Fon­datore. Lo spirito dell’Opus Dei richiede una consape­vole partecipazione alla fatica106. In buona parte, furo­no proprio le innumerevoli contrarietà a favorire la diffusione dell’Opera in tutto il mondo:

«Sapete perché l’Opus Dei si è tanto sviluppato? Per­ché hanno trattato l’Opera come un sacco di frumento:lo hanno percosso e sbattuto, ma il seme è così piccolo che non sono riusciti a romperlo; si è sparso ai quattro venti, è caduto in tutti i crocevia del mondo dove ci so­no cuori affamati di Verità, preparati per riceverlo...

Accade sempre così quando si cerca di ostacolare il la­voro di Dio. Gli uccelli del cielo e gli insetti, nonostante i danni che con la loro voracità provocano alle piante, diffondono la fecondità, perché il seme resta loro attac­cato alle zampe e lo portano lontano. Il Signore volle che arrivassimo in questo modo, con la sofferenza della dif­famazione, in luoghi nei quali forse non saremmo potuti arrivare tanto presto: il seme non va mai perduto»107.

Il Fondatore, grato a Dio per il costante ritmo dell’e­spansione in nuovi Paesi, scriveva nel 1959 al Vescovo di Madrid:

«Il Signore e la sua Santissima Madre benedicono ab­bondantemente il loro Opus Dei che, infatti, è presente in tutto il mondo non dominato dal comuniSmo; e parti­colarmente impegnato in attività che ci ha affidato la Santa Sede (...), senza dimenticare le mie figlie e i miei figli che svolgono la loro missione per le strade di Lon­dra, di Madrid, di Parigi, di Washington, di Roma»108.

Effettivamente l’Opera si era stabilita nel 1951 in Co­lombia e in Venezuela, l’anno successivo in Germania, nel 1953 in Perù e in Guatemala, nel 1954 in Ecuador, nel 1957 in Svizzera e in Uruguay, nel 1958 nel Salva­dor, in Kenya e in Giappone, nel 1959 in Costarica e in

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Olanda...109. Da tutte le parti del mondo pervenivano al Fondatore nuove richieste, come dichiarava egli stesso nella citata lettera sul trapianto, che è del 1960: «Ci chiamano continuamente e con insistenza, persino dai luoghi più remoti»110. Alcune richieste provenivano dal­la Santa Sede, ma la maggior parte dai Vescovi o dai Nunzi e Delegati Apostolici111. Pur non potendo soddi­sfarle tutte, non diede mai risposte negative112. Il Fon­datore manteneva viva la speranza di tutti e lasciava aperta la possibilità di una soluzione non troppo lonta­na nel tempo.

Egli stesso, infatti, provava un ardente desiderio di soddisfare quanto prima le richieste che riceveva. Si comprende, perciò, quanto sia stato lungimirante il suo impegno per terminare al più presto gli edifici della sede centrale e per mettere a regime il Collegio Romano della Santa Croce, e quanto eroiche e prudenti le sue fatiche. Altrimenti l’espansione non ci sarebbe stata, o perlome­no sarebbe stata molto più lenta. Già nel 1960 risultava del tutto giustificato ciò che aveva affermato qualche anno prima: interrompere i lavori di Villa Tevere avreb­be comportato un ritardo di mezzo secolo per il lavoro apostolico dell’Opera. Riecheggiava sempre nella sua anima il «comando imperativo del Signore: andate e in­segnate a tutte le genti»113. Alcuni, diceva il Fondatore, vedono la redenzione dell’umanità avvolta nella nebbia di un vago scetticismo: «La vedono con prospettiva di secoli, di molti secoli...: sarebbero un’eternità, se la si portasse a compimento al ritmo del loro impegno»114. Per lui invece era una necessità immediata cui bisognava provvedere con il massimo ardore e la massima genero­sità: niente tentennamenti meschini né rinvii, per nessun motivo.

Pur sapendo di non poter tracciare personalmente la preistoria delle Nazioni asiatiche, africane o americane, così come aveva fatto per l’Europa, tuttavia non rinun­ciò a parteciparvi per quanto gli era possibile. Gli giun­

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gevano notizie dei suoi figli e figlie in terre lontane e li teneva presenti nel suo cuore - consummati in unum! -, scriveva loro spesso e li aiutava con i suoi consigli. No­nostante fosse chiuso fra le mura di Villa Tevere, il Pa­dre, con la sua orazione e la sua mortificazione, era pre­sente su tutti i fronti dell’espansione apostolica115.

Il Vescovo di Osaka mons. Taguchi era ricco di zelo apostolico, desideroso di cristianizzare il Giappone e preoccupato per i giovani della sua diocesi. La città di Osaka è al centro di un agglomerato urbano popolato da più di sette milioni di persone, con varie Università, cinque delle quali protestanti, e molte scuole secondarie. Purtroppo i giovani che uscivano dalle scuole cattoliche frequentavano poi Università laiche, spesso inquinate dall’ideologia marxista, finendo per mettere a repenta­glio la fede116.

Nel 1957, durante un viaggio a Roma, il Vescovo chiese consiglio alla Curia. Il Cardinale Ottaviani gli parlò dell’Opus Dei con grande entusiasmo e gli suggerì di incontrare mons. Escrivà. Potè così esporre a don Jo­semarìa e a don Àlvaro il progetto di creare nella sua diocesi una istituzione di insegnamento superiore117.

Il Padre gli promise che avrebbe riflettuto sulla richie­sta e poco dopo mandò a fargli visita don José Luis Muzquiz, Consigliere dell’Opus Dei negli Stati Uniti, che in quel momento si trovava a Roma. Il Vescovo lo invitò a recarsi in Giappone e, pensando che se fosse giunto in primavera e avesse trovato i famosi ciliegi in fiore avrebbe fatto una relazione più favorevole, gli chiese di arrivare a metà di aprile. José Luis Muzquiz raccontò a Villa Tevere il gesto cortese del Vescovo e il Padre, che conosceva bene José Luis, ingegnere e più propenso a farsi impressionare dalla tecnologia e dalla scienza che non dalla bellezza della natura, gli disse

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scherzando: «Mi sembra che a te dei ciliegi non te ne importi molto, ma fa pure il viaggio quando dice il Ve­scovo»118. José Luis tornò negli Stati Uniti e il Padre, scrivendogli, mise il suo viaggio sotto la protezione del­la Madonna: «Che il Signore e la sua Santissima Madre, Stella maris, ti benedicano nel tuo prossimo viaggio in Giappone»119.

Giunto a Tokyo, mandò una lettera al Padre che, pie­no di gioia, scrisse sulla busta: «La prima lettera dal Giappone. Sanata Maria, Stella maris»120. E prese l’abi­tudine di scrivere sempre la giaculatoria Stella maris sul­le lettere da e per il Giappone121.

Al suo ritorno a Roma, José Luis informò il Padre sul viaggio e sui colloqui avuti con diversi Vescovi delle re­gioni di Honshu e Kyushu. Da parte sua, mons. Taguchi continuava a insistere con perseveranza perché a Osaka si facesse una Università cattolica. Il 7 maggio 1958 scriveva a Josemaria Escrivà:

“Vorrei ringraziare S. E. per aver mandato in Giappo­ne il Rev.do José L. Muzquiz, al fine di studiare la possi­bilità di iniziare una Università cattolica nella zona di Osaka (...). So bene che cominciare una Università non è un compito facile, ma so pure che lo sforzo per avviar­la sarà davvero un grande servizio alla Chiesa in Giap­pone. Prego, con la speranza che molto presto possiamo avere una Università diretta dall’Opus Dei nella zona di Osaka” 122.

L’8 novembre 1958 arrivò in Giappone, per stabiliti­si, José Ramón Madurga123, e altri lo raggiunsero di lì a poco. Il Padre diede loro istruzioni perché cercassero ca­sa e preparassero l’arrivo delle donne dell’Opera. Co­minciò subito a chiedere al Signore che in quel Paese ci fossero molte vocazioni per l’Opus Dei124; si sentiva molto vicino ai suoi figli di laggiù:

«Gesù mi protegga i miei figli del Giappone», scrive­va loro nell’ottobre 1959. «Carissimi, vi siamo sempre stati molto vicini, soprattutto nei giorni del tifone. Spe­

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ro che presto vengano alcuni vostri fratelli dagli Stati Uniti: ormai è giunto il momento»125.

Passò qualche mese. Nella primavera del 1960, il Pa­dre riunì a Roma un gruppo consistente di Numerarie, alle quali trasmise gioia e coraggio. Alcune di loro si pre­paravano per andare in Kenya, altre in Giappone, a co­minciarvi il lavoro delle donne dell’Opera. Il Fondatore ribadiva con insistenza che non sarebbero partite da sole per quei Paesi, ma che egli sarebbe stato spiritualmente con loro nell’avventura in terre lontane. «Andiamo in Kenya, andiamo in Giappone, a cercare anime per Ge­sù!»126. Chiedeva a tutti di pregare intensamente e di of­frire sacrifici per questa intenzione, affinché tutta l’Ope­ra si sentisse coinvolta e ognuno potesse far proprie le parole del Padre: «Non andate da sole perché andate con Cristo e con Cristo ci siamo anche tutti noi»127.

Nel 1959 José Luis Muzquiz fece un secondo viaggio in Giappone. Rientrò a Roma e il Padre lo incalzò con mille domande premurose: stavano bene i suoi figli? Che cosa mangiavano, che vita conducevano? Imparare la lingua o adattarsi a nuovi costumi non era facile, ma almeno potevano abituarsi all’alimentazione giapponese alternandola con quella europea128. Quanto alle iniziati­ve da promuovere, prima che partissero per il Giappone aveva suggerito loro di creare un istituto di livello uni­versitario, poiché non erano in grado di fare una Uni­versità. Avrebbero così potuto avvicinare gli studenti al messaggio cristiano e fare un apostolato ad fidem129.

A causa dello scarso numero di cattolici, in Giappone servivano più persone che altrove per svolgere un apo­stolato efficace. Il Fondatore incoraggiò i suoi figli del Brasile e del Perù a fare apostolato con i nissei (figli di giapponesi immigrati), affinché in futuro fossero pro­prio loro, già cattolici, a svolgere un vasto apostolato nella loro patria d’origine130.

I fedeli dell’Opera in Giappone avviarono nella città di Ashiya un’importante iniziativa professionale, il Seù

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do Language Institute, per l’insegnamento delle lingue e per la conoscenza della cultura occidentale e della dot­trina cattolica131. Nel 1960 anche le donne dell’Opera partirono da Roma alla volta del Giappone; il Padre ri­peteva loro di sentirsi personalmente partecipe della nuova avventura. Erano da poco giunte ad Ashiya che già ricevevano un saluto paterno: «Un affettuoso augu­rio per l’inizio del vostro lavoro in codesto Paese e la be­nedizione per le mie giapponesi»132.

Mons. Javier Echevarrìa, che era accanto al Padre nel periodo dell’espansione, testimonia che tutti i Vicari re­gionali dell’epoca “ sono concordi nelPaffermare che l’abbondante lavóro che si è sviluppato in tutte le Na­zioni è dovuto al costante impulso del Fondatore. Nelle sue lettere, infatti, notavano la sua assidua vicinanza e la fiduciosa attenzione con cui si interessava dei loro problemi e che era in grado, inoltre, di prevedere le so­luzioni adeguate con il necessario anticipo. Tutti i mem­bri dell’Opera, anche quelli che non lo conoscevano, riuscivano a cogliere il suo affetto soprannaturale e umano per ciascun Paese”133.

ij-

Nella storia dei rapporti che l’Opus Dei ebbe con la Ge­rarchia ecclesiastica delle numerose diocesi in cui era presente, vi fu un episodio isolato che mise alla prova le qualità di governo del Fondatore. Isolato, ma degno di interesse per due motivi. Da un lato perché mette in luce la prudenza del Padre, la sua pazienza e la sua serenità di fronte alle difficoltà. Dall’altro perché è una confer­ma del suo affetto e del rispetto per i Vescovi, segno del­l’amore per la Chiesa sempre presente nella sua vita.

Nel febbraio 1945 don Josemarìa aveva fatto visita per la prima volta al Cardinale Patriarca di Lisbona, Manuel Gon^alves Cerejeira, durante il viaggio intrapreso dopo l’incontro con suor Lucia, la veggente di Fatima134. Lo vi­

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de di nuovo in settembre ed ebbero modo di parlare a lungo dell’Opus Dei. Il primo Centro in Portogallo fu aperto a Coimbra nel 1946. Malgrado il Cardinale lo de­siderasse vivamente135, a Lisbona fu possibile aprire un Centro soltanto il 23 gennaio 1951, a seguito dei colloqui che il Cardinale ebbe con il Fondatore, uno a Roma il 28- X-1950 e un altro a Lisbona 1’8-1-1951.

Durante i due incontri don Josemaria aveva notato che il Cardinale, nonostante il sincero affetto che gli di­mostrava, si metteva sulla difensiva se si toccava il tenia dell’apostolato nella sua diocesi, quasi attribuisse ai fe­deli dell’Opus Dei uno zelo eccessivo136. Avvertito dal Fondatore, il Consigliere del Portogallo, don Javier de Ayala, si adoperò per tenere sempre ben informato il Cardinale circa l’attività dei fedeli dell’Opera, perché non la confondesse con l’apostolato dei religiosi. Tutta­via, il Cardinale ebbe qualcosa da ridire circa alcuni obiettivi apostolici, tanto che il Consigliere ritenne op­portuno informarne immediatamente il Fondatore, dal quale ricevette una risposta tranquillizzante:

«Fai bene ad andare spesso dal Cardinale Patriarca (...). Potrà così rendersi conto del nostro modo di fare e perderà del tutto le prevenzioni»137.

Seguendo alla lettera il consiglio del Fondatore, il Consigliere del Portogallo ebbe frequenti contatti con il Cardinale e gli chiese verbalmente il consenso per l’ere­zione di un Centro delle donne dell’Opus Dei. La conces­sione fu data il 1° agosto 1952 e il Centro fu eretto il 2 marzo 1953. Frattanto, don Josemaria si vide costretto dal proprio senso del dovere a intervenire in difesa del carisma fondazionale, avendo avuto notizia di alcuni commenti infelici pronunciati dal Cardinale, che non comprendeva appieno la natura secolare dell’Opus Dei. Passarono alcuni mesi. L’apostolato dell’Opus Dei in Portogallo si sviluppava, con piena conoscenza delle au­torità ecclesiastiche. Ed ecco che, nella settimana di Na­tale del 1954, giunse al Consigliere una lettera del Cardi-

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naie, dal contenuto inatteso e sorprendente. “Ho saputo- scriveva il Cardinale - che l’Opus Dei ha l’intenzione di stabilirsi definitivamente a Lisbona e mi vedo costret­to a sottoporre alla sua attenzione i seguenti tre punti” . Sembrava una specie di bomba a scoppio ritardato e sen­za che fosse suonato l’allarme, visto che l’Opus Dei si era stabilito nella diocesi, con il permesso del Cardinale, già da quattro anni. Nei “tre punti” , in estrema sintesi, egli affermava che a Lisbona l’Opus Dei non era canonica- mente eretto poiché, sia nel caso degli uomini che in quello delle donne, egli non aveva inteso concedere un’autorizzazione definitiva. Pertanto le venie per erigere i Centri erano state concesse in via provvisoria e soltanto “a titolo di esperimento” 138.

Il 6 gennaio 1955 il Fondatore scriveva al Consigliere del Portogallo raccomandandogli di stare sereno, perché «questi episodi sono transitori»139 e aggiungeva alcuni consigli su come comportarsi:

«Siate pazienti, sopportate con gioia e in silenzio que­sta piccola contrarietà e continuate a lavorare senza far chiasso, come avete fatto finora e - ripeto - abbiate mas­simo rispetto e venerazione verso per quel santo signore, come richiedono il nostro stile e il nostro spirito»140.

Così fecero, ma la situazione non si risolse141. Resosi conto che al Cardinale era stata fatta giungere la calun­nia che l’Opus Dei voleva sottrarsi alla sua giurisdizio­ne, il Fondatore pensò di recarsi egli stesso a Lisbona per spiegarsi ma, impossibilitato a lasciare Roma, mandò don Àlvaro del Portillo, dopo aver molto prega­to il Signore perché il Cardinale comprendesse di nutrire «ingiuste prevenzioni»142.

Il 17 e il 18 maggio 1956 don Àlvaro ebbe due lunghi colloqui con il Patriarca di Lisbona, il quale diede libero sfogo alle proprie lamentele. Era convinto che il Consi­gliere gli nascondesse cose che erano sulla bocca di tutti, come per esempio che l’Opus Dei si era impadronito di una banca. Don Àlvaro gli chiarì che il Consigliere non

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avrebbe mai potuto informarlo di una cosa del tutto in­sussistente, poiché l’Opus Dei non aveva acquisito nes­suna banca. Aggiunse che i membri dell’Opus Dei eserci­tano liberamente le proprie attività professionali, pubbliche o private, senza doverne informare i direttori e le autorità ecclesiastiche, o renderne conto al Vescovo, come tutti gli altri cattolici di qualsiasi diocesi. Il Cardi­nale si rasserenò e riprese un atteggiamento favorevole, tanto che don Àlvaro gli chiese e ottenne il consenso per erigere un terzo Centro dell’Opus Dei a Lisbona: erezio­ne che fu comunicata al Patriarca il 30 luglio 1956143. Il rapporto con il Patriarca tornò dunque a essere cordiale.

Passò un anno senza particolari novità; ma, sul finire dell’estate del 1957, il Fondatore ricevette una lunga let­tera del Patriarca di Lisbona, datata 16 settembre, che diceva, fra l’altro: “L’anno scorso venne in Portogallo il Procuratore Generale, Rev. Àlvaro del Portillo, con l’in­carico, credo, di chiarire la situazione. Entrambi abbia­mo parlato con la massima sincerità e fiducia (...). E passato un anno e sono a comunicarle una mia decisio­ne. In questo periodo ho pregato, ho riflettuto e mi sono consigliato, e la decisione è questa: in coscienza non ri­tengo che, per ora, sia conveniente ammettere l’Opus Dei nel Patriarcato di Lisbona; pertanto le sue attività a Lisbona debbono cessare”144. Seguivano alcune precisa­zioni giuridiche145.

Il Fondatore rispose al Patriarca il 30 settembre. Lo informava che, «dopo aver attentamente letto e medita­to quanto l’Eminenza Vostra Reverendissima ha voluto scrivermi, ho sottoposto l’intera questione al Consiglio Generale»146. Il Consiglio Generale - continuava -, visti i gravi dubbi di diritto sollevati dalla questione, si era dichiarato incompetente a trattarla e aveva rimesso alla Santa Sede la soluzione del problema147.

Il Cardinale, a sua volta, si dichiarava pronto a obbe­dire alle disposizioni della Santa Sede, con lettera del 6 ottobre, cui il Fondatore rispose il 21 ottobre in tono

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conciliante, ricordando al Patriarca che «l’affetto e ve­nerazione per l’Eminenza Vostra non sono mutati, per­ché la presente non è una questione personale, ma un problema di diritto, che ambedue abbiamo deferito al giudizio della Santa Sede»148.

La questione di diritto non fu di difficile soluzione. Il 13 novembre il Nunzio in Portogallo, mons. Cento, ri­ceveva la decisione della Santa Sede, che confermava il diritto dell’Opus Dei al pacifico possesso dei tre Centri, legittimamente eretti a Lisbona149.

Il Cardinale e il Fondatore per molti anni non ebbero occasione di incontrarsi. Un giorno l’ottuagenario Car­dinale seppe che don Josemaria avrebbe trascorso alcuni giorni a Lisbona e chiese di vederlo. Il 5 novembre 1972 il Padre, don Àlvaro e don Javier Echevarria, allora se­gretario del Fondatore, si recarono nella casa di esercizi dove abitava il Cardinale:

“Il Card. Cerejeira - racconta mons. Echevarria - co­minciò a chiedere perdono al Padre per le sofferenze causate e per le grandi difficoltà che aveva frapposto an­ni addietro. Il Padre lo interruppe affettuosamente e gli disse che non c’era nulla da perdonare e che non si era mai sentito offeso; anzi, lui pure chiedeva sinceramente perdono, casomai gli avessimo potuto dare qualche di­spiacere.

Il Cardinale si rese conto che il Padre gli parlava sì con accenti sinceri, ma per tranquillizzarlo, dato che lui non aveva mai avuto motivi oggettivi di lamentela per il lavoro apostolico dell’Opera nella sua ex diocesi. Per­ciò, dopo aver ascoltato le parole affettuose del Padre, Cerejeira insistette che, in coscienza, sentiva il dovere di chiedere perdono, perché a suo tempo si era incompren­sibilmente irrigidito e, con le sue pretese, era caduto in un abuso di autorità. Disse che aveva avuto il tempo di ripensare con calma all’accaduto e si era reso conto di quanto il suo comportamento fosse stato fuori luogo e contrario al diritto. Poi il Cardinale, visibilmente soddi­

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sfatto, come se si fosse tolto un peso di dosso, concluse: Ora posso morire tranquillo”150.

4. Le opere corporative

Lo scopo principale dell’Opus Dei è la formazione dei suoi fedeli, «ma l’anelito per la santità delle anime, che è proprio del suo spirito, fa sì che alcune volte anche l’Opus Dei in quanto tale incoraggi la nascita di opere e iniziative apostoliche»151, che si chiamano corporative in quanto l’Opus Dei “ assume la responsabilità della formazione dottrinale e spirituale che vi viene imparti­ta”152. Si tratta delle più svariate attività sportive, cultu­rali, artistiche, educative o artigianali (ambulatori medi­ci, scuole agrarie, enti per la formazione professionale, scuole, ecc.), che vengono svolte con finalità di servizio sociale. Sono tutte iniziative apostoliche, vivificate dallo spirito laicale dell’Opus Dei. L’attività professionale dei cittadini che vi lavorano è pienamente laicale e si svolge nell’ambito delle leggi civili153.

Il Fondatore ebbe ad affermare che «il frutto maggio­re del lavoro dell’Opus Dei è quello che ottengono i suoi membri personalmente, con l’apostolato dell’esempio e dell’amicizia»154. Tuttavia, egli si rendeva conto che ogni progetto apostolico di grande respiro richiede la cooperazione e il lavoro congiunto di molte persone. La prima opera corporativa era stata l’Accademia DYA, nata per la formazione della gioventù universitaria. Se­guirono le Residenze universitarie, che si moltiplicarono rapidamente. Per lungo tempo, peraltro, egli accarezzò l’idea di creare una istituzione universitaria di alto livel­lo. Sognava di mettere Cristo in cima alle attività umane e pregò intensamente per parecchi anni per avere l’occa­sione di creare centri accademici in grado di contribuire a «costruire una società più giusta»155.

Nel 1951 decise di porre le fondamenta di una Uni­

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versità. Scelse come sede la città di Pamplona e diede ad alcuni suoi figli spagnoli l’incarico di fare il primo pas­so: istituire lo Studio Generale di Navarra156. Partivano praticamente da zero. Nell’aprile 1952 giunsero a Pam­plona due docenti universitari, José Maria Albareda e Amadeo de Fuenmayor. Il Vescovo di Pamplona, mons. Delgado, li indirizzò alle autorità locali, che li accolsero favorevolmente e promisero di studiare la possibilità di un aiuto economico. Mons. Delgado racconta che nei due docenti “ si palpava la fede viva e operativa del Pa­dre e la fiducia in lui dei suoi figli”157.

Tre mesi dopo, in luglio, fu Ismael Sànchez Bella, an­ch’egli docente universitario, ad avviare materialmente la futura università. Giunto a Pamplona, presentò la do­manda di aiuto economico alla Diputación Forai, l’or­gano di governo della Navarra, che godeva di grande autonomia amministrativa e finanziaria, la quale, il 14 agosto, si impegnò a contribuire per due anni con un ammontare pari alla metà della somma richiesta. L’aiu­to era del tutto insufficiente sia per avviare una Univer­sità, sia, a maggior ragione, per assicurarne la sopravvi­venza. M a san Josemaria disse di andare avanti e, dall’ottobre successivo, il suo “sogno universitario” co­minciò a divenire realtà. Nella storia, la fondazione di una Università ha sempre avuto alle spalle un grande mecenate, un Re o un Papa, che garantivano la dotazio­ne patrimoniale, oppure uno Stato, che la inseriva nel proprio bilancio con i vari capitoli di spesa.

Lo Studio Generale di Navarra nacque invece privo di qualsiasi dotazione patrimoniale. Francisco Ponz, uno dei primi Rettori delPUniversità, afferma che “ la straor­dinaria fede soprannaturale del Padre, la sua fiduciosa speranza, l’impeto dell’amore di Dio che lo spingeva ad avviare l’Università di Navarra e tutte le opere che in­traprendeva ci contagiavano e impedivano qualsiasi in­certezza di fronte a un progetto che a molti sembrava una pazzia” 158. Ma la pazzia era comunque intessuta di

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prudenza e di buon senso: ai suoi figli impegnati in quell’impresa il Padre ricordava infatti che bisognava avere pazienza, dar tempo al tempo, poiché le cose grandi nascono piccole e crescono lentamente. Anzi, era proprio questo il consiglio che dava: «Cominciate a far­la piccola, perché così diventerà un aquilotto e non un uccelletto allo spiedo»159.

Nacque piccola e si sviluppò progressivamente. Nel­l’ottobre 1952 cominciò con la Scuola di Legge. I do­centi erano otto e gli studenti una quarantina160. Dopo due anni il Fondatore suggerì di studiare la creazione di una Scuola di Medicina. Il parere unanime delle persone interpellate fu di aspettare: mancavano le risorse econo­miche, la sede, le apparecchiature e i servizi tecnici, per non parlare del corpo docente. Ci sarebbe voluta una lunga e costosa preparazione. Il Fondatore considerò at­tentamente il parere negativo, ma consigliò di ristudiare il problema. Essi, forti della fede del Padre, decisero di cominciare: nell’ottobre 1954 ebbero inizio la Scuola di Medicina e la Scuola per Infermiere161. L’anno successi­vo iniziò la Scuola di Storia162. Nel 1958 fu la volta del­l’istituto di Giornalismo e dello IESE, Instituto de Estu- dios Superiores de la Empresa (Istituto di Studi Superiori Imprenditoriali)163. Infine, con l’inaugurazio­ne di quella che sarebbe stata la futura Facoltà di Scien­ze (1959) e con la nascita dell’istituto di Diritto Canoni­co, aggregato all’Università Lateranense, lo Studio Generale di Navarra era ormai pronto a trasformarsi ufficialmente in una Università164.

In occasione dell’erezione dell’istituto di Diritto Ca­nonico, fatta dalla Santa Sede nel 1959, il Fondatore volle presentare ai cardinali, arcivescovi e vescovi spa­gnoli la nuova iniziativa accademica dello Studio Gene­rale di Navarra. Da Londra, nell’agosto 1959, scrisse a 15 vescovi nei seguenti termini: l’istituto di Diritto Ca­nonico «sarà un grande servizio a Dio, contribuirà effi­cacemente a formare laici con le idee chiare sul Diritto

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pubblico della Chiesa e aiuterà le diocesi a preparare sa­cerdoti zelanti, in grado di lavorare nelle Curie vescovili o di insegnare nei Seminari»165.

Lo sviluppo dello Studio Generale induceva alcuni ve­scovi a sperare che presto si trasformasse in una univer­sità166. Da parte sua, il governo regionale desiderava il riconoscimento legale dei titoli rilasciati dallo Studio Generale e il Fondatore vide che l’unica strada per otte­nerlo era ricorrere all’art. 31 del Concordato del 1953 tra la Santa Sede e il Governo spagnolo167. Il Cardinale Tardini, con il beneplacito di Giovanni XXIII, appoggiò con entusiasmo il progetto di erigere lo Studio Generale di Navarra come università della Chiesa. Il Fondatore avanzò dunque la richiesta, benché avrebbe preferito il riconoscimento civile da parte dello Stato168.

Il 3 aprile 1960 inoltrò una istanza al Cardinale Piz- zardo, chiedendo l’erezione dello Studio Generale di Navarra in Università, poiché “riuniva le condizioni ri­chieste dalla Costituzione Apostolica Deus scientiarum Dominus” e obbediva alle prescrizioni sul corpo docen­te, residenze per studenti, ecc.169. Il 6 agosto 1960 la Santa Sede, con il Decreto Erudiendae, eresse l’Univer- sità di Navarra e il 15 ottobre nominò mons. Escrivà Gran Cancelliere170.

Nella seconda metà di ottobre del 1960 il Fondatore dovette partecipare a numerose cerimonie pubbliche, re­ligiose o accademiche. Alcuni mesi prima il Nunzio in Spagna aveva chiesto e ottenuto che i sacerdoti dell’O­pus Dei si facessero carico della Basilica Pontificia di S. Michele, a Madrid171. Il 30 aprile 1960 il Padre era sta­to designato membro numerario del Colegio de Aragón, “ alto consesso di eminenti Aragonesi, i cui talenti e civi­che virtù danno prestigio, al di fuori dei suoi confini, al­la terra che li vide nascere”172. Dall’Università di Sara­gozza doveva poi ricevere la laurea honoris causa in Lettere e Filosofia173. Infine, doveva presenziare, a Pam- plona, alla solenne cerimonia di erezione della nuova

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Università e ricevere il titolo di Figlio adottivo di Pam­plona, conferitogli il 5 ottobre I960174. Non c’è dubbio che dovette sconfiggere la sua naturale ripugnanza per poter partecipare alla lunga serie di festeggiamenti in suo onore.

Partì da Roma il 10 ottobre e passò alcuni giorni a Madrid. Erano ormai molti anni che faceva soltanto viaggi brevissimi in Spagna e c’erano moltissimi fedeli dell’Opus Dei che non lo avevano mai visto. Lunedì 17 ottobre celebrò la Messa nell’affollatissima Basilica di S. Michele, rievocando, non senza commozione, là sua pri­ma Messa a Madrid, che aveva celebrato proprio in quella Basilica nell’aprile 1927.

In quei giorni era letteralmente assalito dalle dimo­strazioni di affetto. Non vi era abituato ed erano in con­trasto con il suo proposito di nascondersi e scomparire. La vigilia della partenza per Saragozza scriveva ai mem­bri del Consiglio Generale:

«Carissimi: Gesù mi protegga questi figli! Tutto va molto bene, ma ho molta voglia di ritornare nel mio cantuccio»175.

Il 21 ottobre il Rettore dell’Università di Saragozza, nel corso di una cerimonia accademica molto solenne, gli conferì la laurea honoris causa. Il Padre tenne una le­zione magistrale dal titolo Le orme dell’Aragona nella Chiesa universale, in cui non mancò di ricordare il pe­riodo di vita universitaria trascorso a Saragozza176. Dal­la conclusione della cerimonia, e fino a quando si trat­tenne in città, una fila interminabile di persone, fra cui tanti amici e vecchi conoscenti, si recò al palazzo arcive­scovile, dove mons. Casimiro Mordilo lo aveva costret­to a rimanere. “ Giovani e meno giovani - afferma un te­stimone -, tutti cercavano di avvicinarsi a nostro Padre per ottenere da lui una benedizione, un segno di croce tracciato in fronte, un bacio, una carezza, o anche sol­tanto per sfiorare la sua tonaca” 177. Pur mostrandosi grato delle dimostrazioni di affetto, sembrava profon­

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damente immerso in altri pensieri, come se tutto ciò nonlo riguardasse. Che ne fu di tanti riconoscimenti? L’anel­lo dottorale che gli era stato dato a Saragozza finì appe­so a un orecchio di un asinelio di terracotta, esposto in una vetrina di Villa Tevere178.

La permanenza a Saragozza fu breve e piena di ricor­di: la giaculatoria Domina, ut siti, che aveva ripetuto tante volte, ogni giorno, nella basilica del Pilar; la sua prima e dolente Messa nella cappella della Vergine; l’a­mato seminario di S. Carlo e le lunghe veglie in chiesa, sulla tribuna, da solo con il Santissimo; la cappella del palazzo arcivescovile, nella quale il Cardinale Soldevila gli aveva conferito la tonsura, che visitò con emozio­ne179. Quante gioie e quante sofferenze...

Il 24 ottobre si recò a Pamplona. Il giorno successivo, per le strade della città pavesate a festa, sfilò un lungo corteo di docenti dello Studio Generale e di altre Univer­sità spagnole, di autorità civili locali e regionali. Rag­giunsero la cattedrale, dove l’Arcivescovo, mons. Delga- do, celebrò la Messa, presente un terzo dell’episcopato spagnolo. Nel salone gotico della cattedrale ebbe poi luogo la cerimonia di erezione: il Nunzio, mons. Anto- niutti, lesse il Decreto che erigeva lo Studio Generale in Università cattolica. Seguirono i discorsi del Vicepresi­dente del Governo regionale e del Ministro della Giusti­zia in rappresentanza del Capo dello Stato. Poi, il Gran Cancelliere pronunciò un discorso di ringraziamento180. Nel pomeriggio si svolse la cerimonia per il conferimento del titolo di Figlio adottivo di Pamplona. Mons. Escrivà spiegò brevemente il ruolo dell’Università:

«Vogliamo fare della Navarra un centro culturale di prim’ordine al servizio della Chiesa, nostra Madre. Vo­gliamo che qui si formino uomini dotti con un senso cri­stiano della vita. Vogliamo che in questo ambiente, pro­pizio per una serena riflessione, si coltivi la scienza fondata sui più solidi princìpi e che la sua luce illumini tutte le vie del sapere»181.

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Nella sua concezione globale dell’Università era cen­trale l’idea del servizio. L ’Università al servizio del mon­do è il titolo del discorso che pronunciò, durante la so­lenne cerimonia accademica svoltasi la mattina in quello che oggi è il Museo diocesano182.

Il Padre guardava all’integrazione di tutti i saperi, dal­la teologia alle scienze umane e sociali, dalle scienze del­la natura a quelle tecniche, perché scopo della nuova Università era “promuovere la ricerca (...), istituire cor­si specialistici (...), contribuire alla elaborazione di una sintesi della cultura che armonizzi (...) l’unità della ve­rità umana, illuminata e vivificata dalla fede cattoli­ca” 183. Josemarìa Escrivà aveva fondato l’Università con un’autentica ispirazione cristiana e dunque aperta a tutti, senza discriminazioni, libera e autonoma. Dalle sue aule dovevano uscire uomini e donne leali, amanti della verità:

«L’Università - diceva nel 1974 - sa che la necessaria obiettività scientifica rifiuta giustamente la neutralità ideologica, l’ambiguità, il conformismo, la viltà; l’amo­re per la verità impegna la vita e tutto il lavoro dell’uo­mo di scienza e ne sostiene l’onestà di fronte alle diffi­coltà che si possono presentare»184.

Che cosa si aspettava il Fondatore da una così com­plessa impresa accademica? Successo, prestigio, effica­cia? No, dall’Università, così come da tutte le opere cor­porative, si attendeva frutti spirituali e apostolici. «Misuro l’efficacia di queste attività - affermava - in base al grado di santità che raggiungono coloro che vi lavorano»185.

Gli obiettivi che si proponeva il Padre erano sempre soprannaturali, come esigeva il messaggio del 2 ottobre 1928: Dio chiama a santificarsi in mezzo al mondo me­diante l’esercizio della professione. Lo dimostra questo episodio. Nell’ottobre 1960 un membro dell’Opera, preside della Facoltà di Medicina dell’Università di N a­varra, gli espose i propri progetti sul lavoro universita­

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rio. Il Padre gli chiese: «Tu, che cosa sei venuto a fare a Pamplona?». Quegli gli rispose: “Per collaborare alla nascita dell’Università” . Il Padre, con la rapidità che gli era caratteristica e alzando il tono di voce, gli disse con energia: «Figlio mio, tu sei venuto qui per farti santo; se ci riesci, avrai vinto su tutta la linea»186.

L’Università aveva iniziato un nuovo importante pe­riodo della sua esistenza, ma bisognava affrontare un aspetto rilevante. Alcuni mesi prima dell’erezione del- l’Università, l’Arcivescovo di Pamplona scriveva al Car­dinale Pizzardo che il decreto di erezione “è il requisito preliminare perché, dopo opportuni negoziati tra i due poteri, quello ecclesiastico e quello civile, la nuova Uni­versità possa conferire titoli accademici con pienezza di effetti civili” 187. Gli ‘opportuni negoziati’ che, in base al Concordato, avrebbero potuto facilmente e amichevol­mente trovare sbocco in un Decreto Legge, furono inve­ce oggetto di una complicata trattativa durata un anno e mezzo. Alla fine fu firmata una convenzione tra la Santa Sede e lo Stato spagnolo, che richiese il superamento di notevoli difficoltà188.

Gli ostacoli provennero da vari settori. In primo luo­go da uomini politici legati al Movimento Nazionale, che avevano una concezione autoritaria dello Stato ed erano ostili alla libertà dell’insegnamento universitario. Concezioni analoghe erano sostenute da professori uni­versitari che si rifacevano a una certa tradizione liberale189. A un certo punto fu fatta addirittura circola­re la voce che l’Opus Dei aveva voluto l’erezione dell’U­niversità di Navarra senza sentire prima il parere dei Ve­scovi spagnoli190. Era invece chiaro a tutti, in primo luogo al Nunzio, che fin dall’inizio era stata seguita la strada indicata e consigliata dalla Santa Sede.

Nell’aprile 1962 fu firmato l’accordo fra lo Stato spa­gnolo e la Santa Sede, ratificato il mese successivo da entrambe le parti. Il decreto del Ministero dell’Educa- zione Nazionale, che riconosceva il valore legale dei ti­

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toli rilasciati dall’Università di Navarra, fu pubblicato P8 settembre 1962.

Alcuni mesi prima, il Fondatore aveva ringraziato l’allora Pro-Nunzio Apostolico, Cardinale Antoniutti, per «l’affettuosa sollecitudine e la santa fermezza con cui ha saputo portare avanti la vicenda». E aggiungeva: «Non posso dimenticare le difficoltà - alcune incom­prensioni - che Vostra Eminenza ha dovuto superare; ma la gioia del felice risultato le ha ampiamente com­pensate»191.

Il Fondatore si era dovuto impegnare a fondo, con tutta la santa fermezza del suo carattere e forte di ragio­ni di giustizia e di buon senso, per abbattere una barrie­ra di incredibile ostinazione e di pregiudizi, per sconfig­gere gli antichi rancori politici di alcune autorità civili e della stampa di un regime autoritario. Nella lettera ad Antoniutti non entrò nei dettagli, come invece si sentirà libero di fare in una lettera a Paolo VI del 14 giugno 1964, quando ormai l’orizzonte si era rasserenato:

«Di fronte alla resistenza da parte dello Stato a trarre le conseguenze legali (il riconoscimento civile) di un atto solenne della Chiesa (l’erezione dell’Università Cattoli­ca), andai in Spagna e protestai dapprima con Franco e poi, uno dopo l’altro, con tutti i Ministri. Gli unici due colloqui sgradevoli e pieni di tensione furono quelli conil Ministro Solìs, Segretario della Falange e Capo dei Sindacati, e soprattutto con Castiella»192.

L’Università aveva anche seri problemi di finanzia­mento, non avendo un patrimonio proprio. Il numero delle Facoltà e delle Scuole e i relativi costi crescevano di anno in anno. I contributi delle istituzioni locali e di quelle private ne coprivano solo il 30%. Per raccogliere fondi fu creata nel 1962 l’Associazione degli Amici del­l’Università di Navarra193. Far fronte ai problemi eco­nomici fu una continua battaglia, combattuta anno do­po anno, senza mai ricorrere all’aiuto della Chiesa o della Gerarchia ecclesiastica. «Eccellenza - aveva detto

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il Fondatore all’Arcivescovo di Pamplona - tutti i beni della diocesi e tutto quello che lei investirà qui sarà per i suoi sacerdoti. A noi non dia mai nulla: neppure lo sti­pendio di una Messa»194.

* * *

In quegli anni, mons. Gastone Mojaisky Perrelli, Dele­gato Apostolico per l’Africa Orientale e Occidentale Britannica, rifletteva sull’incerto futuro del continente africano. In pochi decenni, alla spartizione coloniale dell’Africa era seguita una brusca e precipitosa decolo­nizzazione. Vi avevano contribuito diversi fattori, fra cui il più importante era stato l’affermazione dei princì­pi di libertà e democrazia anche per il terzo mondo, al termine della seconda guerra mondiale. Il nazionalismo africano aveva preso piede rapidamente, erano nati i partiti politici indigeni, frutto anche di una massiccia ri­chiesta di partecipazione popolare alla vita politica e al­l’amministrazione della cosa pubblica. Nel 1960 più di venti Stati avevano ottenuto l’indipendenza.

Mons. Mojaisky Perrelli valutava tutte le conseguenze del fervore libertario che invadeva il continente. La vita­lità delle masse, a lungo represse dai regimi coloniali, poteva ovunque esplodere con violenza, rischiando di distruggere ogni istituzione sociale e di lasciare dietro di sé il vuoto. Che cosa ne sarebbe stato del cattolicesimo in Africa e, in particolare, in Kenya? Il Paese era appena uscito dalla sanguinosa guerra dei Mau-Mau e l’Inghil­terra ne stava preparando l’indipendenza. Nelle nazioni vicine, gli eventi si succedevano rapidissimi, il mondo politico e quello culturale introducevano riforme e le istituzioni religiose, in qualche modo, facevano a gara per riuscire a radicarsi sul territorio.

Anglicani e Protestanti non avevano perso tempo: “Siamo stati preceduti nella Federazione Centro-Africa­na (le due Rhodesie e il Nyassaland) - scrisse mons.

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Mojaisky Perrelli -, dove pochi mesi fa la Regina Madre inglese ha inaugurato una Università. Lo stesso in Ugan­da (il territorio più cattolico della Delegazione Apostoli­ca), dove è già in funzione il Makerere College. Non vo­glio perdere l’ultimo round,” 195.

La lettera era indirizzata a mons. Escrivà, che aveva conosciuto a Roma e per il quale nutriva la stima e la venerazione dovute a un santo:

“Mombasa, 26 ottobre 1957.Ill.mo e Venerato Monsignore, voglio avvalermi del­

l’antica amicizia per chiederle una grande carità a favo­re della Chiesa in queste terre. Lei conosce le necessità e le promesse delle Missioni in Africa. Siamo ora a un punto cruciale: il numero di cristiani, l’incremento delle conversioni, il prossimo passaggio all’autogoverno, ecc., fanno sì che si stia giocando una partita di portata straordinaria per il futuro dell’Africa.

Entro vent’anni, e chissà poi per quanto tempo, sarà ormai stabilito se il cattolicesimo sarà la religione della maggioranza o comunque di maggiore influsso in que­sta terra, oppure - Dio non voglia - se sarà ridotto a... una delle tante sette cristiane.

Quindi è di enorme importanza fondare una Univer­sità Cattolica: fosse anche solo una facoltà o i primi cor­si di una facoltà. Arrivare prima degli altri è essenziale (...)•

Veda dunque davanti a Dio se mi può fornire quanto prima alcuni elementi in grado di creare a Nairobi, in Kenya, una facoltà di Ingegneria Civile. Dovrebbero es­sere di madrelingua inglese e il Direttore possibilmente originario della Gran Bretagna (Oxford o Cambridge). Devo aggiungere che Propaganda Fide ci aiuterebbe economicamente.

La prego di rispondermi (positivamente) e veda se può mandare qualcuno per studiare il progetto in loco. Cordialmente in Domino” 196.

Era difficile rispondere di no a una supplica così sa­

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cerdotale e cattolica, tanto simile a quella fatta anni pri­ma da mons. Caggiano, Vescovo di Rosario, che aveva invocato “i chiodi di Cristo” . Il cuore del Padre batteva all’unisono con quello di Cristo: avrebbe fatto qualsiasi cosa per il bene delle anime. Dopo averci pensato alla presenza di Dio, rispose:

«Roma, 4 novembre 1957.Cara Eccellenza, mi è giunta la sua lettera del 26 otto­

bre e le voglio rispondere immediatamente.Non può immaginare fino a che punto siamo ora im­

pegnati nel lavoro (...); non abbiamo neppure le perso­ne che ora sarebbero necessarie, e sarà così almeno per qualche anno.

Tuttavia, l’appello di Vostra Eccellenza è tanto sacer­dotale che è impossibile dire di no. Perciò, come deside­ra V.E., alla fine di gennaio verranno due miei figli inge­gneri, di cui uno di madrelingua inglese, per vedere in loco con V.E. il modo più rapido di iniziare questa atti­vità. Dopo che essi avranno riferito al Consiglio Gene­rale, cercheremo di mettere in atto con la maggior rapi­dità possibile il progetto della Facoltà di Ingegneria, che ci auguriamo sia la premessa per una Università com­pleta.

L’aiuto economico di Propaganda Fide sarà veramen­te necessario, perché siamo sovraccarichi di oneri a mo­tivo delle numerose iniziative apostoliche che l’Opus Dei ha iniziato contemporaneamente in diverse nazioni.

Non dimentichi, Eccellenza, di ricordarci al Signore.Un affettuoso abbraccio dal suo aff.mo amico in Do­

mino, Josemaria Escrivà»197.

Nell’ottobre del 1958, per incarico del Padre, Pedro Casciaro fece un viaggio in Kenya per rendersi conto del­la situazione198. L’Inghilterra stava preparando l’indipen­denza del Kenya mediante un governo di transizione multirazziale. Il Fondatore accondiscese ai desideri della Santa Sede di fondarvi una Università cattolica, purché il

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governo garantisse il rispetto della titolarità e dell’auto­nomia del centro accademico. Poiché non fu possibile ot­tenerle, si decise di modificare il progetto educativo, puntando a una scuola secondaria. Né la Sacra Congre­gazione, né mons. Mojaisky Perrelli, né l’Arcivescovo di Nairobi, mons. John Joseph McCarthy, erano in grado di indicare che cosa fosse meglio fare, anche perché il si­stema educativo vigente (quello britannico) richiedeva due anni di corso intermedio tra la scuola secondaria e l’università e in Kenya non esistevano i centri speciali per far compiere agli alunni questi due anni199, rendendo di fatto impossibile, agli studenti locali di ridotte disponibi­lità economiche, di iscriversi all’università.

Fu il Padre - testimonia Pedro Casciaro - a suggerire la creazione di un Istituto di Insegnamento Superiore e di una residenza per studenti. Lo Strathmore College, d’accordo con l’indole secolare dell’Opus Dei, avrebbe dovuto soddisfare quattro criteri fondamentali: “ 1. Il College doveva essere interrazziale; 2. Doveva essere aperto ai non cattolici e ai non cristiani; 3. Il College non doveva essere riconosciuto come scuola missiona­ria; 4. Gli alunni avrebbero pagato almeno una cifra simbolica, per evitare che sottovalutassero l’insegna­mento e che si risentissero”200.

Strathmore College fu inaugurato nel marzo 1961, mentre la Nazione era in piena transizione politica. Le elezioni legislative del 1961 aprirono al Kenya la strada all’autonomia e all’indipendenza, ottenuta nel 1963. Le autorità coloniali e locali dell’epoca vedevano con mol­to scetticismo il futuro di un college interrazziale, inter- tribale e interconfessionale. Era la prima esperienza di quel genere nell’Africa orientale e nessuno pensava che potesse durare a lungo. Fin dall’inizio vi furono ammes­si africani, bianchi e indiani, alunni di tutte le religioni e di diverse tribù. Il Padre dettò una sorta di principio­guida per Strathmore: «Non c’è che una razza, la razza dei figli di Dio»201.

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Nello stesso periodo, le donne dell’Opera, seguendo le indicazioni del Fondatore, aprirono Kianda College, la prima scuola di segretariato del Kenya. Era una vera promozione sociale della donna kenyota poiché Kianda, cui erano ammesse alunne di qualsiasi condizione socia­le, formò per molti anni il personale necessario per gli organismi pubblici e le imprese private202.

La pacifica convivenza, senza discriminazioni e pre­giudizi, nonostante le diversità esistenti fra i gruppi reli­giosi, etnici e tribali, che si venne a creare nei due colle- ges fu un fatto meraviglioso. “Se non si fossero seguiti tali criteri, quando il Kenya raggiunse l’indipendenza Stratbmore sarebbe scomparso o sarebbe stato espro­priato”203, afferma Pedro Casciaro.

il* * *

Una iniziativa di carattere corporativo «non è un’atti­vità religiosa o ecclesiastica e ufficialmente cattolica»204. Ecco perché il Fondatore, in armonia con lo spirito del- l’Opus Dei, mise la condizione che Strathmore College «non doveva essere riconosciuto come scuola missiona­ria». I fedeli dell’Opus Dei non sono religiosi, scriveva il Fondatore, «e dunque non possono essere neppure mis­sionari. Il nostro lavoro apostolico, che svolgiamo come una missione, è identico nell’ultimo dei cosiddetti Paesi di missione e sulle strade asfaltate di Roma o di Londra, di Parigi, di Madrid, o di New York»205.

In che modo un laico può compiere questa missione?«Vivi la tua vita ordinaria, lavora dove già sei, adempì

i doveri del tuo stato e compi fino in fondo gli obblighi corrispondenti alla tua professione o mestiere, maturan­do, migliorando ogni giorno. Sii leale, comprensivo con gli altri, esigente verso te stesso. Sii mortificato e allegro. Sarà questo il tuo apostolato. E senza che tu ne com­prenda il perché, data la tua pochezza, le persone del tuo ambiente ti cercheranno e converseranno con te in modo

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naturale, semplice, all’uscita dal lavoro, in una riunione di famiglia, sull’autobus, passeggiando, o non importa dove; parlerete delle inquietudini che si trovano nel cuo­re di tutti, anche se a volte alcuni non vogliono renderse­ne conto. Le capiranno meglio quando cominceranno per davvero a cercare Dio»206.

Il lievito apostolico è la testimonianza cristiana della parola e dell’esempio offerta nel rapporto quotidiano con i propri amici e colleghi di professione. Questo la­voro costante, umile e silenzioso, sembra progredire len­tamente, ma alla lunga è molto efficace.

Un giorno il Fondatore ricevette una lettera da un amico, il domenicano p. Silvestre Sancho, Rettore del- l’Università di S. Tommaso a Manila, il quale gli sugge­riva che l’Opera cominciasse a lavorare nelle Filippine. Il Padre gli rispose nel novembre 1956, spiegandogli i motivi per cui non poteva accedere alla richiesta:

«Carissimo padre Sancho, ho ricevuto la tua lettera, che ho veramente gradito, e per me sarebbe stata una grande gioia risponderti affermativamente. Ma poco tempo fa ho ricevuto dalla Santa Sede l’indicazione che il nostro Istituto si faccia carico di un territorio di mis­sione, ed è meglio aspettare, perché non so quante per­sone dovranno andarci»207.

Alcuni mesi prima, infatti, il Segretario della Segrete­ria di Stato, mons. Samoré, aveva comunicato a mons. Escrivà che Pio XII desiderava affidare all’Opus Dei una delle Prelature nullius che sarebbero state erette in terri­tori di missione. Mons. Samoré si era poi recato perso­nalmente dal Fondatore e gli aveva indicato, su una car­tina del Perù, i territori corrispondenti alle future Prelature, chiedendogli di scegliere quella che gli sem­brava più adatta per l’Opera. Ma il Padre non volle sce­gliere e disse che preferiva che scegliessero prima le altre istituzioni interpellate; l’Opus Dei avrebbe accettato il territorio rimasto. In seguito si seppe che sarebbe tocca­ta all’Opus Dei la Prelatura nullius di Yauyos208.

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Questa disponibilità, veramente cattolica, era stata sempre presente nella sua anima, e aveva caratterizzato tutta la sua vita. Desiderava che gli slanci di apostolato suoi e dei suoi figli non restassero sulla carta. Così trat­teggiava lo zelo di un uomo apostolico: «Comincia da ciò che è alla sua portata, cioè il lavoro ordinario di ogni giorno, e a poco a poco estende in cerchi concentri­ci il suo anelito di messe: in seno alla famiglia, nel luogo di lavoro, nella società civile, in una cattedra universita­ri, nell’assemblea politica, fra tutti i suoi concittadini di qualsiasi condizione sociale; arriva fino alle relazioni tra i popoli, abbraccia nel suo amore razze, continenti, ci­viltà diversissime»209.

Questi profondi sentimenti trovano eco, fra mille al­tre occasioni, negli auguri di Natale che inviò ai suoi fi­gli e alle sue figlie nel 1956. Chiedeva copiose grazie al divino Bambino affinché «il nuovo anno - con la vostra fedeltà, che è felicità - si colmi di vocazioni e di opere apostoliche, di carità, a tutte le latitudini della terra»210. Eppure, nonostante il fervore apostolico di tanti nuovi Paesi nei quali l’Opera era già arrivata, il Padre non era soddisfatto, vedendo quanto ancora restava da fare. La sua grandezza d’animo e la sua generosità superavano di molto le sue possibilità. Aveva davanti un mare senza sponde. Per il momento dovette accantonare i progetti sul Belgio per cominciare in Brasile e in Canada211, ri­nunciare alle Filippine finché non fosse avviata la Prela­tura in Perù.

Una Costituzione Apostolica, del 12 aprile 1957, eres­se una Prelatura nullius, affidata all’Opus Dei. Era costi­tuita dai territori delle province di Huarochirì e Yauyos, staccati dalla diocesi di Lima. Il primo Prelato sarebbe stato mons. Ignacio Orbegozo, dell’Opus Dei212. Cinque anni dopo, il Cardinale Landàzuri, Arcivescovo di Lima, e il Prelato di Yauyos chiesero di comune accordo alla Santa Sede una modifica dei limiti della circoscrizione ecclesiastica e fu così aggregato alla Prelatura il territorio

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della provincia civile di Canete213. La Prelatura raggiun­se i 15.000 chilometri quadrati di estensione, con una popolazione di circa 165.000 abitanti. Mons. Orbegozolo descrisse come un territorio “poverissimo e isolato per mancanza di strade. Situato fra i tremila e i seimila metri sul livello del mare e carente di tutto, con più di novanta chiese semidistrutte e in stato di abbandono, dopo venti­cinque anni senza sacerdoti”214.

Fin dall’inizio il Prelato potè contare su diversi sacer­doti diocesani soci della Società Sacerdotale della Santa Croce, ai quali i rispettivi Vescovi avevano dato il per­messo di trasferirsi nella Prelatura. Dedicarono mesi a perlustrare il territorio, a visitare paesi e villaggi misera­bili sperduti fra le montagne o disseminati sull’altipia­no. Dovettero cavalcare su mulattiere sospese tra il cielo e l’abisso, così strette che ogni passo falso li metteva a rischio di precipitare. Amministravano i sacramenti: battesimo, matrimonio, unzione degli infermi. Ripara­vano chiese diroccate. Confessavano e celebravano Messa. Non tutta la popolazione capiva il castigliano, perché molti parlavano quechua, ma ciò non era di ostacolo per predicare e consolare i fedeli. Gli inizi furo­no particolarmente duri. Il Padre a Roma era sempre at­tento, in attesa di notizie. Da Parigi, nel gennaio 1958, scrisse loro alcune bellissime parole:

«Parigi, 30 gennaio 1958.Carissimi Ignazio e tutti, Gesù mi protegga i miei figli

di Yauyos.Quanto desiderio avevo di scrivervi! Ma vi hanno già

detto che tra malattie e lavoro improrogabile mi è stato praticamente impossibile. Vi sono particolarmente vici­no: prego e faccio pregare per voi, vi faccio compagnia e sono orgoglioso di voi.

So bene come è faticoso dissodare: stiamo cercando di far sì che quanto prima vengano altri vostri fratelli, per­ché arriviate a essere venti più il Prelato. Ci impegnere­mo per davvero e sono sicuro che ce la faremo.

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Siate uomini d’orazione, compitemi le Norme. Siate sempre allegri e ottimisti. Mangiate, dormite, abbiate cura gli uni degli altri, obbedendo con spirito sopranna­turale al vostro Prelato. Siate sinceri, vivete la pratica benedetta della correzione fraterna. E non dimenticate che questo povero peccatore, che è vostro Padre, vi pre­senta tutti i giorni al Signore e alla nostra Santissima Madre Maria come le primizie del lavoro missionario, che faremo anche a Nairobi e a Osaka. Un mare di Amore senza sponde!

Con tutta l’anima vi benedice, vi abbraccia e vi vuol bene vostro Padre. Mariano»215.

Uno dei primi sacerdoti che si erano recati a Yauyos, dopo diversi anni di lavoro apostolico testimonia che il Padre “ si preoccupò così tanto di quella particella della Chiesa, che sembrava non avesse nulla di più importan­te cui badare”216. Vegliava su di loro con la sua preghie­ra, li aiutava con i suoi consigli, apriva loro la strada con le sue iniziative pastorali e li proteggeva con il suo affetto e la sua tenerezza di Padre:

«Vi ho sempre presenti nella mia orazione e desidero aiutarvi a vincere nelle mille piccole cose eroiche che non mancano mai ai figli di Dio nella sua Opera»217.

Nelle notti di insonnia, il Padre volava con l’immagi­nazione al loro fianco. Camminava con loro su e giù per i monti, partecipava alle loro fatiche...

«Gesù mi protegga questi figli di Yauyos.Carissimo Ignacio, la tua lettera per il 2 ottobre mi ha

arrecato tanta gioia. Vi seguo sempre - vi faccio compa­gnia - nel vostro lavoro sacerdotale, negli episodi che rac­contate, che mi fanno invidia, nella vostra apparente soli­tudine. Quanto prego per voi! (...). Quanto mi piacerebbe vedervi con calma e chiacchierare con tutti e con ciascuno di voi! Spero che il Signore mi regali quanto prima questa gioia: anch’io ho cuore e polmoni per Yauyos»218.

Aveva un grande desiderio di vedere fiorire nella dura terra delle Ande la speranza di giovani vocazioni, che in

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II

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futuro dessero continuità al lavoro dei sacerdoti venuti dall’Europa. A tal fine era necessario aprire un semina­rio, vivaio di futuri sacerdoti, nella Prelatura di Yauyos. Se si fossero impegnati a raggiungere questo obiettivo, entro una ventina d’anni ci sarebbero potute essere le prime ordinazioni.

«Ogni volta che arriva una tua lettera - scriveva a mons. Orbegozo - la leggo e la rileggo, perché le vostre notizie mi riempiono di gioia. Si stanno adattando al­l’ambiente i miei figli che sono arrivati da poco?

Prego per voi ogni giorno, soprattutto per i bambini che state preparando: sogno già le vocazioni sacerdotali della Prelatura di Yauyos, che matureranno fra i piccoli indios. Forse non sarà un lavoro facile, ma è molto importante e sarà molto fecondo per l’avvenire religioso di quelle terre. Riposate il necessario? Non tralasciate di dormire e di mangiare normalmente: fare altrimenti non può produrre nulla di buono, neppure sul piano spirituale.

Compitemi le Norme e siate sempre allegri, contenti; non sentitevi mai soli, perché - consummati in unum! - siamo tutti, con il cuore e con le nostre preghiere, a Yauyos»219.

Il Prelato di Yauyos testimonia che accadde proprio così, perché, “dopo poco più di venticinque anni, quella terra tanto amata dal Fondatore e tanto presente nel suo cuore e nella sua preghiera di ogni giorno è un territorio ecclesiastico con una struttura invidiabile. Ha un Semi­nario maggiore e venti sacerdoti indigeni. E opere di apostolato di prima qualità: una stazione radio, scuole elementari, scuole agricole, un istituto magistrale, corsi di formazione professionale e, soprattutto, un alto livel­lo di vita cristiana tra i fedeli”220.

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NOTE AL CAPITOLO XX

1 Cfr Lettera 16-VI-1960, n. 1. Mons. Juan Hervàs Benet racconta che, nel gennaio 1945, mentre metteva a parte don Josemaria delle impressioni ri­cavate da un viaggio a Cuba e negli Stati Uniti, si rese conto che “estende­re il suo lavoro a quelli e a molti altri Paesi era una meta prevista da sem­pre, perché l’Opera era nata universale (...). Da quello che mi diceva e, soprattutto, da come lo diceva, ho capito che quella espansione gli ardeva dentro da molto tempo, perché in don Josemaria l’Opus Dei era come un fuoco di zelo che lo bruciava” (in Un santo per amico, op. cit., p. 163).2 Javier Echevarria, Sum. 2229.3 Lettera a Maria Elina Gainza Ortega, in EF-561203-1. Il Fondatore dice­va spesso che l’espansione dell’Opera era stata fatta «a Roma e da Roma» (cfr Àlvaro del Portillo, Sum. 632).4 Lettera 7-X-1950, n. 53.5 AGP, POI 1975, p. 1554.6 Lettera 16-VI-1960, n. 5.7 Ibidem.8 Ibidem.9 Ibidem, n. 6.10 Ibidem, nn. 10 e 11.11 Lettera 14-IX-1951, n. 2.12 Ibidem, n. 3.13 Racconta Mercedes Morado che il Padre “diceva spesso che dovevamo ‘andare in fretta, al passo di Dio’ e che spettava a lui, eventualmente, fre­narci e agire con prudenza” (RHF, T-07902, p. 95). Cfr Juan Hervàs Benet, in Un santo per amico, op. cit., p. 163.14 Lettera 16-VI-l 960, n. 6.15 Ibidem, n. 12.16 Ibidem.17 Un fedele dell’Opera, arrivato a Roma nell’ottobre 1959, racconta che il Padre, pochi giorni dopo, invitò lui e altri alunni del Collegio Romano a visitare gli oratori di Villa Tevere. Giunti nella Sacrestia Maggiore disse:

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«Ora vi svelerò il segreto dell’Opus Dei». “Sorridendo per le nostre espres­sioni stupite, entrò nell’Oratorio del Consiglio, si inginocchiò davanti al tabernacolo e lesse una frase degli Atti degli Apostoli scritta sulla porta di un armadio biblioteca: Erant omnes perseverantes unanimiter in oratione; ecco, ci disse, questo è l’unico segreto dell’Opus Dei: la preghiera, causa della nostra efficacia” (Alfonso de Càrdenas Rosales, RHF, T-06503, p. 4).18 Ci furono nazioni in cui per i primi mesi, o anni, i fedeli dell’Opera che vi si erano trasferiti non superarono il numero di tre o quattro.19 Lettera 16-VI-1960, n. 18.20 Ibidem, n. 13. Le risorse spirituali erano certamente il miglior bagaglio di cui dotarsi. Un giorno dell’estate del 1962 il Padre era in Inghilterra, at­torniato da un gruppo di studenti di Manchester, uno dei quali gli chiese un suo ricordo da conservare nella Residenza Greygarth, di Manchester, perché “del Padre non abbiamo nulla” . «Sì invece - fu la risposta -, avete il mio spirito e lì c’è tutto. È quanto di meglio vi possa dare» (AGP, POI XI- 1962, p. 76).21 José Luis Muzquiz, RHF, T-04678, p. 15. Il Padre non mancava né di fe­de né di generosità. Nel 1960, egli chiese a Olga Marlin, una numeraria ir­landese, di stabilirsi a Nairobi, consigliandole di pensarci in piena libertà e di fargli sapere che cosa aveva deciso. Olga fu impressionata dalla fede del Padre. In Irlanda le donne dell’Opera erano ancora poche e alcune di loro stavano per trasferirsi in Kenia e in Giappone. Disse alla Direttrice che il Padre aveva una grande fede per pensare che sarebbero venute altre a pren­dere il loro posto. “Fede? - le rispose - La fede del Padre sta nel chiedere a ragazze giovani come te di cominciare l’Opus Dei in un nuovo continen­te!” (RHF, T-08425, p. 1). -22 Nota dattiloscritta del Fondatore delVOpus Dei, con indicazioni per l'i­nizio del lavoro apostolico in diverse città d3Italia (1-1948), in RHF, D- 15731.23 Cfr Lettere ai suoi figli negli Stati Uniti, in EF-490706-2; Lettera ad Adolfo Rodriguez Vidal, in Cile, in EF-500901-11, al quale scrisse: «Penso che, per riuscire a fare le cose che ti proponi, per la data che indichi ti oc­corrono un gruppo di ragazzi e l’amministrazione. Allora sì che potreste fare un buon lavoro. Ma perché vengano le ragazze è indispensabile che la casa abbia: 1) un altro ingresso, ecc...» (seguono altre sette condizioni).24 Mercedes Morado, RHF, T-07902, p. 106. Mercedes Morado fece parte dell’Assessorato Regionale della Spagna dal 1952 al 1956 e dell’Assessora­to Centrale dal 1956 al 1973. Circa gli inizi dell’apostolato delle donne dell’Opera in alcuni Paesi riferisce: “Nel mese di ottobre del 1956 un grup­po di numerarie partì per la Germania. Gli uomini dell’Opera vi si erano stabiliti già da alcuni anni, ma noi non ci andammo finché non fu pronto un edificio adatto a cominciare una attività corporativa: una residenza per studentesse.L’anno successivo si iniziò a Marilia, una cittadina del Brasile. Anche in quel caso, il gruppo che vi si trasferì, formato da persone di diverse nazio­nalità, tra cui alcune portoghesi, che conoscevano già la lingua, si mise in viaggio solo quando la casa fu pronta. Arrivarono il 20 settembre 1957 e,

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come mi ha raccontato Amparo Bollain, che era a capo del gruppo, trova­rono la casa pulita e la tavola preparata per la prima colazione; c’erano an­che fiori in diverse stanze. Alcune signore, che avevano conosciuto l’Opera grazie al lavoro dei sacerdoti, portarono loro il pranzo e la cena per il pri­mo giorno.All’inizio del lavoro in Uruguay, a Montevideo, accadde lo stesso: le nume­rarie che ci andarono trovarono la casa con tutto l’occorrente per i primi giorni. Anche lì iniziammo presto una Scuola Alberghiera” (ibidem). Talvolta il Fondatore decise di fare diversamente e, in via eccezionale, le donne avviarono una specifica iniziativa apostolica, mentre le persone che si sarebbero occupate dell’Amministrazione dei Centri arrivarono in segui­to. Cfr Lettere ai suoi figli in Argentina, in EF-520211-1, e in Uruguay, in EF-570502-4.25 Lettera alle sue figlie dell’Assessorato Centrale, in EF-480205-1.26 Lettera, in EF-500305-1.27 Lettera alle sue figlie negli Stati Uniti, in EF-500531-1.28 Lettera ai suoi figli in Colombia, in EF-520722-1.29 Lettera a Teodoro Ruiz, Consigliere della Colombia, in EF-520814-4. Cfr Lettere a Xavier de Ayala, Consigliere del Portogallo, in EF-540302-3 e EF-540420-2.30 Cfr Lettera ai suoi figli del Consiglio Generale, in EF-510608-1.31 Lettera ad Amadeo de Fuenmayor, in EF-520911-1.32 L’origine di questo punto di Cammino (n. 470) è narrata da José Maria Gonzàlez Barredo (RHF, T-04202, p. 5) che una volta accompagnò il Pa­dre a far visita a un amico ammalato, Manuel Valdés Ruiz. Dopo che il Pa­dre gli ebbe illustrato il lavoro apostolico dell’Opera, il malato, che era afono, scrisse su un pezzo di carta: “Ma... e i mezzi?” .33 Pedro Casciaro, Sum. 6347.34 Luis Sànchez-Moreno, Sum. 6427. Quando mandava i suoi figli in altri Paesi, conferma Juan Larrea, non dava loro denaro, ma solo una benedi­zione (Sum. 6025). L’espansione iniziò negli anni cinquanta, quando era senza denaro e pieno di debiti. Quando partivano per terre lontane, il Fon­datore li accomiatava dicendo: «Figli miei, mi duole di non potervi dare un aiuto materiale, ma vi do quanto ho di meglio: una croce, un’immagine della Santissima Vergine e la mia benedizione di Padre» (César Ortiz- Echagiie, PM, f. 988v). Le piccole croci che egli consegnava in queste occa­sioni erano fatte con il legno delle travi dell’edicola mariana di Molino­viejo. Venivano conservate, in segno di unità, nelle sedi delle Commissioni regionali dei vari Paesi. A Molinoviejo, il 24 settembre 1947, i membri più anziani dell’Opera si erano impegnati a vegliare affinché non venisse mai meno l’unità morale, spirituale e giuridica dell’Opus Dei.35 Lettera, in EF-500620-7.36 Lettera, in EF-640408-1.37 Lettera a José Luis Muzquiz, in EF-500313-3.38 Lettera alle sue figlie negli Stati Uniti, in EF-500923-2.39 Cfr Lettere alle sue figlie in Messico, in EF-500620-7, EF-500901-8, EF- 500923-6; ai suoi figli in Inghilterra, in EF-500923-4.

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40 Cfr Lettera a Pedro Casciaro, in EF-520714-1.41 Lettera, in EF-521117-1. Nelle sue lettere agli ammalati usava sempre un tono particolarmente affettuoso e familiare: «Ho saputo, tempo fa, che ti avevano operato di appendicite e che, grazie a Dio, tutto era andato be­ne. Non farci altri scherzi di questo genere, birbante. Stai bene sul serio?» (Lettera a José Montanés Moreno, in EF-580420-1).42 Cfr Lettera a tutti i suoi figli, in EF-661220-1.43 Lettera alle sue figlie negli Stati Uniti, in EF-500620-2.44 Lettera alle sue figlie di Napoli, in EF-531118-1.45 Lettera a Joaqum Madoz Montoya, in EF-50502-2.46 Lettera ad Alfonso Par Balcells, in EF-570720-1.47 Lettera alle sue figlie in Irlanda, in EF-610214-1. Dovunque, prima o poi, nascevano piccole difficoltà. Il Padre dava sempre consigli, umani e soprannaturali, di buon senso: «Mettete in atto i mezzi spirituali e umani e aspettate serenamente. Anch’io ci sono passato» (Lettera a Juan Bautista Torello, in EF-661020-1).48 Lettera 16-VI-1960, n. 25.49 Lettera a Hector Raynal Garcia, in EF-650323-4.50 Lettera a Richard Rieman, in EF-500901-10; cfr pure Javier Echevarria, Sum. 2227.51 Lettera 16-VI-1960, n. 24.52 Lettera, in EF-640314-1.53 Lettera 16-VI-1960, n. 19.54 Lettera a Odón Moles, in EF-570502-3. Ai suoi figli in Cile, tra i quali c’erano alcuni spagnoli, scrisse: «Cercate di essere dei buoni spagnoli, ma non dovete dare alla vostra attività un’impronta filo spagnola, di tipo poli­tico: siete lì per essere apostoli e far radicare l’Opera» (Lettera, in EF- 520814-3).55 «Anche a me piacerebbe venire nella vostra terra», scriveva a Dick Rie­man, «da cui mi aspetto tanti frutti per la gloria di Dio, ma in assenza di un motivo valido - prima o poi ci sarà - non posso fare un viaggio che non si accorda con la povertà» (Lettera, in EF-610703-1).56 Lettera a Juan Bautista Torello, in EF-640505-1.57 Mons. Àlvaro del Portillo spiega: “Ho udito molte volte il Fondatore parlare della preistoria del lavoro in un determinato Paese. Ciò significa che, molto prima che si stabilisse il primo Centro dell’Opera in una Nazio­ne, nostro Padre - ne sono stato testimone - aveva fertilizzato il terreno con preghiere e mortificazioni; aveva percorso le città, pregato nelle chiese, preso contatti con la Gerarchia, visitato tanti tabernacoli e santuari maria­ni, affinché, a suo tempo, le sue figlie e i suoi figli trovassero il terreno già dissodato. Dissodato e seminato, perché, come era solito dire, aveva lan­ciato a piene mani, per le vie e per le strade, il seme delle sue avemarie, del­le canzoni sull’amore umano che trasformava in orazione, delle sue giacu­latorie, della sua penitenza lieta e piena di speranza” (Instrumento de Dios, p. 36, in En memoria de Mons. Josemaria Escrivà, Pamplona 1976). Cfr pure Àlvaro del Portillo, Sum. 632.58 Cfr Àlvaro del Portillo, Sum. 638.

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59 Lettera, in EF-491125-3; cfr anche Lettera ai suoi figli in Portogallo, da Milano, in EF-491125-4.60 Cfr Lettera al Cardinale Michael Faulhaber, in EF-500413-1.61 Cfr Lettera ad Alfonso Par Balcells, in EF-520904-1; Rolf Thomas, Sum. 7689. Alfonso Par, che fu Consigliere della Germania, racconta un episo­dio emblematico della povertà di tutta l’Opera: “Dalla Germania voleva­mo cooperare ad alleviare l’onere dei lavori di Villa Tevere. Ogni volta che mi recavo a Roma, Fernando Inciarte mi dava qualche marco. A Roma li davo a don Àlvaro con molta vergogna, perché si trattava di cifre ridicole,50 o 100 marchi. Il Padre non dimenticò mai di ringraziarci. Qualche vol­ta, alla presenza degli alunni del Collegio Romano, accennò ai nostri pic­coli aiuti. Io mi vergognavo molto, poiché avremmo voluto aiutare molto di più, ma allora in Germania eravamo agli inizi e potevamo fare ben po­co” (T-04264, p. 72).62 Lettera ai suoi figli in Germania, in EF-540601-14; cfr pure Lettera ad Alfonso Par Balcells, in EF-540817-9.63 Da St. Gallen scriveva: «Quanto lavoro ci attende in Svizzera! Stiamo se­minando avemarie su tutte le sue strade, sicuri che i miei figli cominceran­no presto il loro lavoro in questa Nazione, che ha una posizione tanto stra­tegica, da tutti i punti di vista, compreso quello apostolico» (Lettera ai suoi figli del Consiglio Generale, in EF-550430-1).64 Cfr Alfonso Par Balcells, RHF, T-04264.65 AGP, Sezione Espansione apostolica, Germania, II/I.66 Cfr Lettera ad Alfonso Par Balcells, in EF-550105-3.- San Josemaria usava spesso il verbo patear, letteralmente ‘calpestare’ (co­sì è stato tradotto) o ‘percorrere a piedi’, per descrivere le sue camminate in una città nuova, per conoscerla, preparare o consolidarvi il lavoro del­l’Opus Dei; era quasi una simbolica ‘presa di possesso’, durante la quale pregava intensamente per i suoi abitanti (NdC).67 Lettera ad Alfonso Par Balcells, in EF-550415-11.68 II Trattato fu firmato in maggio ed entrò in vigore alla fine di luglio.69 AGP, Sezione Espansione apostolica, Germania, II/I; Alfonso Par Balcel­ls, RHF, T-04264. Il diario del Centro registra lo storico evento: “Ora sia­mo un piccolo seme, un piccolo chicco di grano^Ma già spunta un germo­glio, siamo già storia” (Diario di Althaus, Bonn, 30-XI-1955, in AGP, Sez. N, 3 leg. 0001-27).70 Lettera ai suoi figli del Consiglio Generale, da Vienna, in EF-551204-2.71 Lettera ai suoi figli del Consiglio Generale, da Locamo, in EF-551209-1; cfr Joaqum Alonso, Sum. 4678. “Da quanto mi ha raccontato in più di un’occasione - testimonia il Cardinale Franz Kònig, Arcivescovo emerito di Vienna - si trattenne a pregare davanti all’immagine miracolosa di Ma­ria Pòtsch e lì si impresse nella sua memoria una sorta di ispirazione. Del tutto spontaneamente, egli pregò: Marias Stella Orientis, ora prò nobis” (Sum. 5254).72 Cfr AGP, POI XII-1955, p. 17.73 Lettera ad Alfonso Par Balcells, in EF-561020-5.74 Cfr Carmen Mouriz Garda, RHF, T-05437, p. 50.

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75 Lettera, da St. Gallen, in EF-580924-1.76 Lettera, da St. Gallen, in EF-5 80924-3.77 Cfr Àlvaro del Portillo, Sum. 837. Si recò in pellegrinaggio ad Ars nel 1953 e poi nel 1956, 1958, 1959 e 1960.78 Cfr Àlvaro del Portillo, Sum. 630; Javier Echevarrìa, Sum. 2220; AGP, P06, IV, p. 25.79 Cfr AGP, POI 1979, p. 943.80 AGP, POI 1970, p. 20.81 II Padre ebbe a dire: «Vienna è l’unica capitale dove ho visto un monu­mento alla Santissima Trinità» (AGP, POI 1981, p. 823).82 AGP, P04 1974, II, p. 525.83 Lettera a Juan Antonio Galarraga in EF-500220-2.84 Lettera ài suoi figli in Inghilterra, in EF-500124-3.85 Cfr Lettera alle sue figlie in Inghilterra, in EF-520706-1. Cfr anche Juan Antonio Galarraga, RHF, T-04382, p. 3.86 Lettera a Juan Antonio Galarraga, in EF-540405-6.87 Cfr Diario di Netherhall House, Londra, 4 e 5-VIII-1958, in AGP, Sez. N, 3 leg. 0285-29. Il giorno dell’arrivo a Londra, disse a coloro che lo ac­compagnavano che sarebbe stato opportuno cominciare a lavorare nell’U- niversità di Oxford (cfr Juan Antonio Galarraga, RHF, T-04382, p. 7).88 Lettera, da Londra, in EF-580800-3 ’ È una grande bella cosa, è in italia­no nel testo (NdC).89 Cfr Àlvaro del Portillo, PR, p. 1506; Javier Echevarrìa, Sum. 2782.90 Meditazione, 2-XI-1958, citata da Àlvaro del Portillo in Sum. 1642.91 Cfr Juan Antonio Galarraga, RHF, T-04382, p. 9.92 Lettera, da Londra, in EF-580813-1.93 Ci fu almeno un’eccezione, qualche giorno dopo l’arrivo. Mentre stava passeggiando nella City, vestito con il clergyman, un tizio con uno strano turbante e abiti dai colori scialbi si fermò a guardarlo con curiosità. «Che co­s’ha da guardare? È vestito in modo più strano di noi», disse il Padre agli al­tri che stavano con lui (cfr Juan Antonio Galarraga, RHF, T-04382, p. 11).94 AGP, POI 1982, p. 757.95 Cfr AGP, Sezione Espansione apostolica, Irlanda, II/2; Àlvaro del Portil­lo, Sum. 850.96 Lettera a Teodoro Ruiz, da Londra, in EF-580904-3.97 Cfr Lettera a mons. Benjamin de Arriba y Castro, da Londra, in EF- 590809-1.98 Lettera ai suoi figli del Consiglio Generale, da Londra, in EF-590814-1.99 Lettera ai suoi figli in Spagna, da Londra, in EF-590825-2.100 Competeva a mons. Eijo, nella cui diocesi si doveva svolgere l’ordina­zione, concedere la dispensa dagli interstizi, cioè dagli intervalli canonici che dovevano intercorrere fra il suddiaconato, il diaconato e il presbitera­to. I novelli sacerdoti erano venticinque.101 II Vescovo incaricò lo stesso don Josemarìa di comunicare per iscritto a mons. Garcia Lahiguera la concessione della dispensa dagli interstizi (cfr Lettera a José Maria Garcia Lahiguera, da Santiago di Compostella, in EF- 610725-1).

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102 Nel 1980 fu mons. del Portillo, il successore di san Josemaria, a recarsi in Inghilterra e in Irlanda. Nel corso di varie riunioni incoraggiò i fedeli e i cooperatori delPOpus Dei a portare a compimento le mete indicate dal Fondatore poiché, malgrado tanto lavoro fatto, stavano ancora rompendo il guscio, come fanno i pulcini quando spuntano dall’uovo. Ebbe anche un incontro con un migliaio di persone nella University College School, nel corso del quale ricordò loro che dovevano concludere ciò che vent’anni prima san Josemaria aveva avviato.103 AGP, P06, II, p. 225.104 Alfonso Par Balcells, RHF, T-04264.105 Lettera a Pedro Casciaro, in EF-530709-1.106 Cfr Lettera ai suoi figli del Consiglio Generale, in EF-490728-1. «Fin­ché il Signore vorrà lasciarti sulla terra, per te morire sarebbe una vigliac­cheria. Vivere, vivere e patire e lavorare per Amore: questo è il tuo compi­to» (Forgia, n. 1037); «Penso che sia ‘una comodità’ il morire presto, perché dobbiamo desiderare di lavorare molti anni per Lui e, con Lui, al servizio degli altri» (ibidem, n. 1039). Per l’episodio di Burgos, cfr voi. II, cap. XI, §3.107 Parole del Fondatore, del 29-XII-1970. Cfr pure Àlvaro del Portillo, In- strumento de Dios, op. cit., p. 40.108 Lettera, in EF-590324-1.109 Cfr Àlvaro del Portillo, Sum. 599. Nel decennio successivo toccò al Pa­raguay (1962), all’Australia (1963), alle Filippine (1964), alla Nigeria e al Belgio (1965), al Portorico (1969).110 Lettera 16-VI-1960, n. 1.111 Mons. Àlvaro del Portillo riferisce che Antonio Caggiano, Vescovo di Rosario in Argentina e futuro Cardinale, chiese una volta al Padre di invia­re i fedeli dell’Opus Dei nella sua diocesi: “Glielo chiedo per i chiodi di Cristo”, gli disse. E il Fondatore gli rispose: «È così sacerdotale la richiesta di Vostra Eccellenza, che farò tutto il possibile per esaudirla, anche se in questo momento non abbiamo né i mezzi né le persone» (Sum. 1180). Per gli inizi a Bogotà, nel 1951, e l’offerta dell’Arci vescovo Crisanto Luque Sànchez, cfr la corrispondenza con mons. Antonio Samoré, Nunzio in Co­lombia: Lettera al Fondatore, 22-V-1951, in AGP, Sezione Espansione apo­stolica,> Colombia, 1/1, 1; risposta del Fondatore, in EF-510601-1. Nel 1952, il Nunzio Apostolico in Venezuela, Mons. Armando Lombardi, aspettava l’arrivo di alcuni membri dell’Opus Dei a Caracas (cfr Lettera al Fondatore del 26-1-1952, in AGP, Sezione Espansione apostolica, Venezue­la, I/l, 1). Talvolta, cedendo alle insistenze di qualche Vescovo, il Fondato­re dovette promettere l’invio di membri dell’Opera in diocesi molto lonta­ne, come accadde, per esempio, con mons. Hugo Bressane de Araujo, Arcivescovo di Marilia, in Brasile (cfr Lettere, in EF-560921-1, EF- 561120-1, EF-570211-1, ecc.), o con il Cardinale Paul Émile Léger, di Montreal, che voleva che la sua diocesi fosse la prima del Canada ad acco­gliere l’Opus Dei (cfr José Luis Muzquiz, PM, f. 369v).112 Cfr Ernesto Julia, Sum. 4120.113 Lettera 16-VI-1960, n. 1.

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114 Solco, n.l.115 Cfr Teresa Acerbis, PR, p. 1932.116 Cfr AGP, Sezione Espansione apostolica, Giappone, 1/1, 1. Mons. Paul Yoshigoro Taguchi era Vescovo di Osaka e Amministratore Apostolico del­la Prefettura Apostolica di Shikoku dal 1941; nel 1969 divenne Arcivesco­vo e nel 1973 Cardinale.117 II Fondatore già nel 1930 aveva scritto: «Missioni. Non si può essere cristiani senza che il cuore insegua questo apostolato (...) Se io non sapessi che il Signore mi vuole per la sua Opera, mi preparerei subito, imparando la lingua, per andare missionario in Giappone, non appena fossi libero dai miei obblighi famigliari» {Appunti, n. 102, del 3-XI-l930). «L’apostolato fra gli stranieri ora viene molto trascurato. Quando vedo quei gruppi cji ci­nesi, che stanno in tutti gli angoli di Madrid a vendere ninnoli, mi si spezza il cuore!» {ibidem, n. 97, del 25-X-1930). I fedeli dell’Opus Dèi che vivono in terre di missione svolgono il loro servizio alla Chiesa e^dle anime col proprio lavoro professionale, come gli altri cittadini. Dunque non sono missionari.118 José Luis Muzquiz, RHF, T-04678/1, p. 32; cfr anche Àlvaro del Portil­lo, Sum. 631.119 Lettera a José Luis Muzquiz, in EF-580300-3.120 José Luis Muzquiz, RHF, T-04678/1, p. 47. Il 1° maggio 1958 José Luis Muzquiz, per incarico del Padre, si recò a Nagasaki, per baciare la terra dei martiri giapponesi (cfr ibidem, p. 647).121 Cfr Lettera a José Luis Muzquiz, in EF-5 80500-1.122 AGP, Sezione Espansione apostolica, Giappone 1/1,1.123 Cfr Lettera a José Ramon Madurga, in EF-5 81100-3.124 Cfr Lettera a José Ramon Madurga e Fernando Acaso Gómez, in EF- 590500-1.125 Lettera ai suoi figli in Giappone, in EF-591000-1.126 Olga Marlin, RHF, T-08425, p. 1.127 Ibidem. Cfr Teresa Acerbis, PR, p. 1904. Con molto senso soprannatu­rale, il Fondatore spiegava ai suoi figli che il lavoro apostolico che svolge­vano lontano dal proprio Paese d’origine era un lavoro di tutta l’Opera, cui partecipava anche chi stava a Roma. Così scriveva, per esempio, a quelli che erano in Germania: «Scrivetemi tutti a lungo, perché sono felice di leggere particolari del vostro - del nostro - lavoro» (Lettera ad Alfonso Par Balcells, in EF-550105-3).128 Cfr José Luis Muzquiz, RHF, T-04678/1, p. 81.129 Cfr Fernando Valenciano, Sum. 7097. “Mons. Escrivà fu sempre ani­mato da un profondo spirito missionario e si preoccupò con sollecitudine che l’Opera arrivasse quanto prima anche in Paesi di missione” (Ernesto Julia, Sum. 4137).130 Cfr Àlvaro del Portillo, Sum. 633. Cfr pure Lettera 16-VI-1960, n. 37.131 Cfr José Ramon Madurga, PM, f. 292; Àlvaro del Portillo, Sum. 631.132 Lettera alle sue figlie in Giappone, in EF-600700-2.133 Javier Echevarrìa, PR, p. 613.134 II Cardinale Manuel Gon^alves Cerejeira era nato nel 1888. Ordinato

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sacerdote l’l-IV-1911, fu promosso alla sede di Lisbona il 18-XI-1929, po­chi mesi dopo l’ordinazione episcopale. Creato Cardinale nel Concistoro del 16-XII-1929. Morì il 2-VIII-1977. Per il viaggio del Fondatore in Por­togallo nel febbraio 1945, cfr voi. II, cap. XV, §5.135 Nella lettera commendatizia dell’l-III-l946, con cui chiedeva al Santo Padre la concessione all’Opus Dei del Decretum laudis, il Cardinale espri­meva grandi elogi sul Fondatore dell’Opus Dei: “D.D. Ioseph Maria Escrivà de Balaguer; vir est vere pius, animarum zelo imbutus, doctus, Su- perioribus piane subditus, illud vero spiritu poenitentiae, docilitate, apo- stolatus desiderio, castimonia atque eximia membrorum cultura excellens, optimum ac nostris temporibus medium demonstratur aptissimum societa- tem civilem penetrandi eamque ad veram vitam cristianam reducendi” (Fo­tocopia in AGP, Sezione Espansione apostolica, Portogallo 1/2, 1); e ag­giungeva: “Apud Universitatem Conibricensem centrum actionis constituit, quod prò mea quoque Diocesi universaque Lusitania ardenter exopto” .136 Cfr Lettera a Xavier de Ayala, in EF-501028-6; cfr anche EF-500313-2.137 Lettera a Xavier de Ayala, in EF-520715-1.138 Lettera del Cardinale Manuel Gongalves Cerejeira a don Xavier de Ayala, del 21 dicembre 1954 (originale in AGP, Sezione Espansione apo­stolica,, Portogallo 1/2, 2).139 Lettera a Xavier de Ayala, in EF-550106-1.140 Ibidem.141 In una lettera il Fondatore suggerì al Consigliere di chiedere al Nunzio di intervenire (in EF-551107-1).142 Cfr Lettera a Xavier de Ayala, in EF-560418-6.143 Relazione del Rev. Àlvaro del Portillo, del 31 ottobre 1957, in EF- 571104t-3.144 Lettera del Cardinale Manuel Gongalves Cerejeira, del 16-IX-1957, ori­ginale in AGP, Sezione Espansione apostolica, Portogallo 1/2, 3.145 Ibidem. Nella già citata relazione del 31 ottobre 1957, don Àlvaro del Portillo, unico testimone di questo caso, registra sia le affermazioni del Cardinale e le circostanze da lui riferite, sia gli aspetti dottrinali e pratici che riteneva ne derivassero.146 Lettera, in EF-570930-1 (in italiano).147 Cfr Lettera a mons. Valerio galeri, in EF-570930-2.148 Lettera, in EF-571021-1 (in italiano). L’originale della lettera del Cardi­nale Cerejeira del 6 ottobre 1957 è in AGP, Sezione Espansione apostolica, Portogallo 1/2, 5.149 Cfr copia della lettera del 13-XI-1957 del Segretario della Sacra Con­gregazione dei Religiosi, p. Arcadio Maria Larraona, al Nunzio in Porto­gallo, mons. Fernando Cento, in AGP, Sezione Espansione apostolica, Por­togallo 1/2, 6. Il Cardinale Cerejeira scrisse di nuovo al Fondatore il 2 gennaio 1958, insistendo sulla propria versione dei fatti. San Josemaria gli rispose il 12 febbraio, ricordandogli che si trattava di fatti passati e che c’e­ra stata una decisione della Santa Sede; gli riaffermò anche la propria affet­tuosa stima. Cfr Lettera, in EF-580212-1.

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150 Relazione del Rev. Javier Echevarria, del 6-XII-1972, originale in AGP, Sezione Espansione apostolica, Portogallo, 1/2, 8.151 Lettera 31-V-1954, n. 32; cfr anche Colloqui..., op. cit., 27.152 Rolf Thomas, Sum. 7686. Ci sono comunque molte altre iniziative, in­traprese da membri dell5Opus Dei assieme ad altri cittadini, cattolici o no, che non si possono definire corporative, proprio perché POpus Dei, in quanto tale, non si assume la responsabilità della direzione spirituale.153 Cfr Lettera 15-VIII-1953, n. 22; e anche Colloqui, 18.154 AGP, POI 1967, p.17; cfr anche Colloqui, 31.155 Colloqui, 82. In ambito educativo, nel 1951, a Bilbao nacque Gaztelue- ta, che realizzava un progetto del Fondatore relativo all’educazione cristia^ na. Era una scuola secondaria, che puntava alla collaborazione dj genitori, insegnanti e alunni, in un clima familiare e di cooperazione, mediante la. pratica di virtù umane quali la sincerità, la lealtà, il cameratismo, l’allegria.156 L’ordinamento universitario spagnolo vigente non consentiva la crea­zione di Università civili non statali. Per questo motivo l’iniziativa fu deno­minata Studio Generale e non Università, ripristinando un nome con cui nel Medioevo venivano designate le istituzioni universitarie.157 Enrique Delgado Gómez, in Un santo per amico..., op. cit., p. 110.158 Francisco Ponz, RHF, T-04151, p. 18. Il primo Rettore dello Studio Ge­nerale fu Ismael Sànchez Bella; nel febbraio 1960 gli succedette José Maria Albareda; nel giugno 1966 divenne Rettore il prof. Francisco Ponz. Cfr Lettere a José Maria Albareda, in EF-591205-1, e a Ismael Sànchez Bella, in EF-591205-2.159 Mario Lantini, PR, p. 599.16° jj preventivo per quell’anno accademico era di 238.700 pesetas. Cfr Àlvaro del Portillo, Sum. 617.161 Cfr Àlvaro del Portillo, Sum. 617; Ismael Sànchez Bella, RHF, T-06305, p 17; Amadeo de Fuenmayor, RHF, T-02769, p. 8. - Le “Scuole” citate nel testo divennero “Facoltà” non appena lo “Studio Generale” si trasformò in università (NdC).162 j primi anni erano comuni ai corsi di laurea di Lettere e Filosofia.163 Lo IESE nacque a Barcellona e solo in seguito fu aggregato all’Univer- sità di Navarra.164 II Fondatore volle creare l’istituto di Diritto Canonico per dare un effi­cace contributo alla ricerca in questo campo e alla formazione sia di nume­rosi sacerdoti del clero spagnolo che di laici. Don Àlvaro del Portillo, in una lettera dell’8 maggio 1958, spiegò l’idea del Fondatore: “ 1) Erigere non una Facoltà di Diritto Canonico, ma un Istituto Canonico all’interno della Facoltà di Legge: poi sarebbero stati creati altri Istituti - di Filosofia scolastica, di Sacra Teologia, di Storia Ecclesiastica, ecc. - sempre all’inter­no delle varie Facoltà. Gli alunni avrebbero avuto la possibilità di ricevere una formazione cattolica completa, e lo Studio Generale sarebbe divenuto così una efficacissima Università Cattolica, aperta anche al clero. 2) Natu­ralmente, gli Istituti sarebbero stati creati poco per volta, con calma. Solo quello di Diritto Canonico sarebbe cominciato subito. 3) Per quest’ultimo non sarebbe stata chiesta l’erezione, ma solo l’aggregazione a un Ateneo

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rPontificio” (originale in AGP, Sezione Espansione apostolica, Università di Navarra, 1/1,9). Il decreto di aggregazione dell’istituto di Diritto Canonico all’Università del Laterano fu firmato dal Card. Pizzardo, Prefetto della Sa­cra Congregazione per i Seminari e le Università il 12 giugno 1959 (origi­nale in AGP, Sezione Espansione apostolica, Università di Navarra, 1/1,14, 2°). A partire dal 1960, dopo l’erezione dell’Università, furono aperti mol­ti altri centri di insegnamento: l’istituto di Arti Liberali (1960), la Scuola Tecnica Superiore di Ingegneria Industriale (1962), la Scuola per Assistenti Sociali (1963), l’istituto di Filosofia e le Facoltà di Architettura, di Scienze Biologiche e di Farmacia (1964), di Scienze Fisiche e l’istituto Internazio­nale di Scienze dell’Educazione (1965), l’istituto Teologico (1967), la Scuo­la di Ingegneria Tecnica Industriale (1969) e la facoltà di Teologia (1969); ecc. Cfr Francisco Ponz, RHF, T-04151, pp. 49-50.165 Lettera a mons. Benjamin de Arriba y Castro, da Londra, in EF- 590809-1. Nelle risposte i Vescovi espressero la propria gratitudine: “Tutte queste nuove attività dell’Opus Dei dimostrano una magnifica vitalità e so­no un servizio di elevata qualità alla Chiesa, che necessariamente rallegra­no quanti la amano al di sopra dei propri piccoli interessi. Oggi stesso scri­verò al Card. Pizzardo esprimendogli la mia soddisfazione” (dal Card. José Maria Bueno Monreal, Arcivescovo di Siviglia, al Fondatore, 12-VIII- 1959; originale in AGP, Sezione Espansione apostolica, Università di Na­varra, 1/6, 33). “Sebbene fossi già riconoscente per il grande lavoro che svolge tra noi l’Opus Dei (...), questo passo da gigante mi induce a uscire dalla mia silenziosa ammirazione per ringraziarlo sinceramente per la pre­dilezione che ha avuto per la mia Diocesi e per l’efficace lavoro che vi svol­ge, facendoci partecipi dei frutti del suo apostolato” (dall’Arci vescovo di Pamplona, mons. Enrique Delgado Gómez, 28-VII-1959, in ibidem).166 Cfr lettera di mons. Pedro Cantero Cuadrado, Vescovo di Huelva, al Fondatore, 17-VIII-l 959, in ibidem.167 L’articolo stabiliva: “La Santa Chiesa potrà liberamente esercitare il di­ritto che le compete, secondo il can. 1375 del Codice di Diritto Canonico, di organizzare e dirigere scuole pubbliche di qualsiasi ordine e grado, an­che per laici” (A.A.S., XXXV (1953), p. 648).168 Sull’intervento del Card. Tardini, cfr lettera al Card. José Maria Bueno Monreal, in EF-610317-1, nella quale il Fondatore scrisse: «Il Card. Tardi­ni mi ha espresso la volontà della Chiesa di erigere lo Studio Generale di Navarra in Università». Sul carattere secolare della nuova Università mons. Javier Echevarrìa afferma: “La secolarità dello spirito dell’istituzio­ne era assicurato dalle Facoltà civili e dall’elevato livello degli obiettivi ac­cademici e della ricerca scientifica” (Sum. 2202).169 Cfr Lettera a mons. Giuseppe Pizzardo, in EF-600403-2. Accompagna­vano la richiesta altre tre lettere, indirizzate alla Santa Sede. Quella del- l’Arcivescovo di Pamplona (25-IV-1960), fra le ragioni che consigliavano una sollecita erezione dello Studio Generale in Università, elencava “la ma­turità raggiunta” , “l’opportunità stessa (...): difficilmente in Spagna si ri­peteranno circostanze più favorevoli per condurre i necessari negoziati col potere civile”; “la garanzia del prestigio scientifico dei professori, della pu­

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rezza dottrinale degli insegnamenti e della continuità nel tempo di tutta l’attività” (ibidem, copia in AGP, Sezione Espansione apostolica, Univer­sità di Navarra, 1/3, 13). Le altre lettere erano di Miguel Javier Urmeneta Ajarnaute, Sindaco di Pamplona, indirizzata al Nunzio mons. Ildebrando Antoniutti (25-IV-1960, ibidem, 1/3, 15) e di Miguel Gortari Errea, Vice- presidente della Diputación Forai (9-V-1960, ibidem, 1/3, 14).170 Cfr decreto della Sacra Congregazione per i Seminari e le Università, 6 agosto 1960, festa della Trasfigurazione del Signore (A.A.S.,, LII (1960), pp. 988-990). L’originale del decreto con il quale mons. Josemaria Escrivà veniva nominato Gran Cancelliere dell’Università di Navarra è in RHF, D-15102.171 La Basilica era affidata ai Redentoristi, i quali informarono il Nunzio, mons. Antoniutti, che avrebbero dovuto lasciarla. Il Nunzio insistette viva­mente perché fosse affidata a sacerdoti dell’Opus Dei. Cfr César Ortiz- Echagiie, Sum. 6852; Lettera a mons. Ildebrando Antoniutti, in EF- 591031-1.172 Originale della nomina in RHF, D-11781. Era stata proposta dal Presi­dente della Institución Fernando el Católico, il 5 aprile 1960. Cfr anche Lettera ad Antonio Zubiri Vidal, in EF-600531-1.173 La proposta della Facoltà di Lettere e Filosofia fu approvata dal Retto­re e autorizzata dal Direttore Generale dell’insegnamento Universitario il21 aprile 1960. L’Qrdinanza del Ministero dell’Educazione Nazionale fu pubblicata sul Boletin Oficial del Estado n° 128 (28-V-1960). L’originale del diploma di Dottore honoris causa è in RHF, D-05206. Cfr anche Lette­ra a Juan Cabrera Felipe, da Londra, in EF-600717-1.174 II titolo era stato concesso dalla Giunta Municipale nella seduta del 5 ottobre 1960 “a riprova di cordiale ammirazione e gratitudine” per la fon­dazione dello Studio Generale di Navarra. Originale in RHF, D-11716. Cfr Lettera a Miguel Gortari Errea, da Madrid, in EF-601019-2.175 Lettera, da Madrid, in EF-601019-1. Sulla prima Messa a Madrid, cfr voi. I, cap. V, nota 2.176 Cfr Universidad, 3-4 (1960), Segreteria Pubblicazioni, Università di Sa­ragozza.177 Alejandro Cantero, RHF, T-06308, p. 56; cfr anche Lettera a mons. Ca­simiro Mordilo, da Parigi, in EF-601030-3; e Florencio Sànchez Bella, RHF, T-08250, p. 2.178 Cfr Maria del Carmen Sànchez Merino, RHF, T-05132, p. 115; Bianca Fontàn, Sum. 6949.179 Cfr Javier Echevarria, Sum. 1898.180 Uno dei Vescovi presenti alla cerimonia racconta: “Ricordo ancora - mi sembra di vederlo - il gesto personale ed espressivo di don Josemaria quan­do, mentre camminava al centro dello splendido corteo del corpo docente dell’Università, mi avvicinai a lui per manifestargli la mia soddisfazione e la mia gioia; si portò le mani al capo e mi sussurrò: Eccellenza, che vergo­gna! Che vergogna per me!” (Santos Moro Briz, in Un santo per amico, op. cit., p. 218).181 Discorso, 25-X-1960, Pamplona, Nuestro Tiempo, n. 78, 1960. Sul

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pensiero pedagogico del Fondatore, cfr Francisco Ponz, La educación y el quehacer educativo en las ensenanzas de Monsehor Josemaria Escrivà de Balaguer; in Memoria de..., op. cit.182 Alcuni anni dopo, ribadiva: «È necessario che l’Università formi gli stu­denti a una mentalità di servizio: servizio alla società, promuovendo il be­ne comune con il loro lavoro professionale e con la loro azione nella vita pubblica» (Colloqui, op. cit., 74). In un’altra occasione disse: «Salveranno il nostro mondo non coloro che vorrebbero narcotizzare la vita dello spiri­to, riducendo tutto a questioni economiche o di benessere materiale, ma coloro che hanno fede in Dio e nel destino eterno dell’uomo» (Discorso 9- V-1974, Pamplona; in Josemaria Escrivà de Balaguer y la Universidad, 1993, p. 108).183 Studio Generale di Navarra, Memoria e Preventivo annuale 1959/60, pp. 5-6. Archivio Università di Navarra. Cfr Discorso 7-X-1972, Pamplo­na, in Josemaria Escrivà de Balaguer..., op. cit., p. 98. Cfr pure E Gesù che passa, 10.184 Discorso 9-V-1974, Pamplona, in Josemaria Escrivà de Balaguer..., op cit., p. 106. Ogni attività, ogni iniziativa, ogni lavoro, nell’idea del Fonda­tore, dovevano essere sale, dottrina e lievito apostolico, non certo una cosa neutra e insipida. Nel 1963 scriveva al Consigliere della Spagna: «Mi han­no appena dato il primo numero della rivista che fanno le mie figlie: l’ho sfogliato con entusiasmo, per parecchie ragioni, e mi sono piaciuti la pre­sentazione e le illustrazioni, ma ti scrivo subito perché tu dica loro da par­te mia che mi ha fatto l’impressione di un piatto molto appariscente, ma senza sale: una rivista così avrebbe potuto farla un gruppo di donne paga­ne. Non si possono dire, con grazia femminile, alcune cose - notizie, com­menti: dottrina! - che si leggano con piacere e tocchino l’anima?» (Lettera a Florencio Sànchez Bella in EF-630927-1). Era una rivista nella quale la­voravano autonomamente alcune donne delPOpera.185 Lettera 31-V-1954, n. 34. Testimonia Ismael Sànchez Bella: “Ogni volta che il Padre si riferiva al nostro lavoro nell’Università di Navarra, insisteva sul suo carattere apostolico: «Università Cattolica? - diceva - Apostoli­ca!»” (RHF, T-06305, p. 19). Il Fondatore non voleva assolutamente un insegnamento neutro (cfr Ignacio Celaya, Sum. 5905).186 Cfr Eduardo Ortiz de Landàzuri, RHF, T-00171, pp. 1-2. Cfr anche Ja­vier Echevarria, Sum. 2203; Àlvaro del Portillo, Sum. 708.187 Lettera di Mons. Enrique Delgado Gómez, 25-IV-1960; cfr AGP, Sezio­ne Espansione apostolica, Università di Navarra, 1/3, 13.188 Dopo aver ricevuto una nota dalla Nunziatura (19-XI-1960), il Mini­stero dell’Educazione Nazionale costituì una commissione per il riconosci­mento dei titoli dell’Università. Il governo si tenne completamente al di fuori. Nel maggio 1961 il progetto di convenzione fu sottoposto all’esame dei Rettori delle Università spagnole e del Consiglio di Stato. Terminato l'i­ter, l’accordo fu pubblicato sul Boletm Ofidai de la Cortes Espaholas (13- IV-1962) affinché i Procuratori formulassero le proprie osservazioni in merito. La Commissione Affari Esteri del Parlamento diede parere favore­vole. Il Capo dello Stato firmò Patto di ratifica (10-V-1962) e lo scambio

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delle ratifiche ebbe luogo in Vaticano (19-V-1962). Il testo fu pubblicato sul Bolettn Ofidai del Estado il 20-VII-1962. Cfr Amadeo de Fuenmayor, El Convenio entre la Santa Sede y Espana sobre Universidades de estudios civiles, Pamplona, 1966, pp. 70-73.189 A titolo d’esempio, nel parere elaborato dalla Commissione ministeriale che studiò il progetto di convenzione dell’aprile 1962, si legge che non si volle optare per un “sistema di completa libertà universitaria, uguale per tutte [le università] perché, una volta introdotto nella nostra legislazione, implicherebbe un cambiamento radicale dei princìpi del diritto accademico spagnolo, le cui ultime conseguenze sono imprevedibili” (Proposta della Commissione Ministeriale sul riconoscimento degli studi svolti nella Uni­versità di Navarra, 21-V-1961; Archivio Storico, Università di Navarra). Per il Movimiento Nacional, il partito unico creato dal Generale Franco, cfr voi. II, cap. XII, nota 98.190 Cfr Lettere a mons. José Maria Bueno Monreal, in EF-601123-1 ed EF- 610317-1; e a mons. Marcelino Olaechea Loizaga, in EF-611013-1.191 Lettera, in EF-620407-1.192 Lettera in EF-640614-1. Nella lettera al Papa il Fondatore spiegò che nella Convenzione erano state introdotte clausole e condizioni più rigorose di quelle vigenti per le Università dello Stato, imponendo, per esempio, cheil 75% dei professori dell’Università di Navarra fossero ordinari di Univer­sità statali (cfr ibidem; e Àlvaro del Portillo, PR, p. 781; César Ortiz- Echagùe, Sum. 6844).193 Cfr Memorias della Università di Navarra. Nell’anno accademico 1964/65 l’Università aveva 3.374 alunni, nel 1992/93 era passata a 12.420 alunni, nel 2002-2003 a 16.500.194 Enrique Delgado Gómez, in Un santo per amico, op. cit., p. 118. A mons. Abilio del Campo, Vescovo di Calahorra, che aveva suggerito che le diocesi contribuissero al sostentamento dell’Università pagando le spese dei propri studenti iscritti alle Facoltà di Teologia o Diritto Canonico, scrisse: «Devo dirti che apprezzo moltissimo la tua stupenda intenzione, ma è principio costituzionale del Consiglio non ricevere mai alcun aiuto dalle diocesi; l’unica cosa che l’Università e io stesso desideriamo dai Rev.mi Vescovi è che preghino e facciano pregare per i frutti culturali e apostolici dei centri di studi ecclesiastici dell’Università di Navarra» (Lette­ra, da Madrid, in EF-721020-1).195 Lettera di mons. Gastone Mojaisky Perrelli, 26-X-1957, originale in AGP, Sezione Espansione apostolica, Kenya, 1/1,1.196 Ibidem.197 Lettera a mons. Gastone Mojaisky Perrelli, in EF-571104-1.198 Cfr Lettera ai suoi figli in Messico, in EF-5 81017-1.199 Lettera a Mons. John Joseph McCarthy, in EF-591022-1. Mons. Mc- Carthy era stato consacrato nel 1946 e promosso alla sede arcivescovile di Nairobi nel 1953.200 Pedro Casciaro, Sum. 6345. Sulla contribuzione simbolica, cfr più ol­tre, cap. XXI, § 6.201 Javier Echevarrìa, Sum. 2224. Cfr anche Colloqui, op. cit., 71. All’atto

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dell’indipendenza la popolazione del Kenya era costituita da 50.000 euro­pei, 200.000 asiatici e più di 9 milioni di africani. Il Padre sognava l’arrivo dei primi kenyoti nell’Opus Dei, «strumenti per l’efficace sviluppo del no­stro lavoro apostolico in Africa» (Lettera a Pedro Casciaro, in EF-620203- 1). Poco dopo il loro arrivo in Kenya, chiese alle sue figlie: «Quando verrà la prima?» (in EF-620430-1).202 Cfr Teresa Acerbis, Sum. 4986; Carmen Ramos, Sum. 7370; Bianca Fontàn, PM, f. 1082v. Anche il Kianda College era retto dallo stesso spiri­to cristiano di Strathmore.203 pecjro Casciaro, Sum. 6345. “Poco dopo - ricorda mons. Echevarria - iniziò il lavoro in Nigeria, con lo stesso programma: servire tutti senza di­scriminazioni. Anche lì vi furono dimostrazioni di stima e di gratitudine per il lavoro dei fedeli dell’Opus Dei. Quando scoppiò la ribellione del Bia- fra, il Padre, pronto ad accettare la volontà di Dio, ma comunque viva­mente preoccupato per la vita dei suoi figli e per ciò che poteva loro acca­dere, pregò molto e fece pregare. Ricevette una loro lettera quando ormai erano stati espulsi dal Paese i membri di tutte le altre istituzioni cattoliche. Gli riferirono che le autorità governative li avevano trattati con molto ri­spetto e stima, quasi fossero cittadini del Paese, perché avevano visto che essi non avevano praticato alcuna discriminazione di tipo razziale, religio­so o tribale. Aggiunsero che continuavano a lavorare ciascuno al proprio posto, senza aver dovuto subire alcuna molestia” (Sum. 2225).204 Lettera 12-XII-1952, n. 30.205 Lettera 19-111-1954, n. 35.206 Amici di Dio, n. 273.207 Lettera, in EF-561108-1.208 Alla fine del 1956, prima che fossero erette le Prelature, il Fondatore seppe che la diocesi spagnola di Maiorca si era impegnata a inviare sacer­doti in Perù per occuparsi di Yauyos. Il Fondatore scrisse subito a mons. Samoré: «Siamo sempre disposti ad andare a Yauyos (e in qualsiasi altro luogo che ci indichi la Santa Sede), ma mi permetto rispettosamente di chiedere se non sarebbe meglio inviarci in un altro posto, affinché nessuno possa affermare che disturbiamo il lavoro apostolico svolto da altri sacer­doti diocesani spagnoli» (Lettera, in EF-561229-1). Scrisse le stesse cose anche a mons. Francesco Lardone, Nunzio in Perù dal 1953: «Mi addolo­rerebbe che in Spagna si potesse pensare che cerchiamo di soppiantare la diocesi di Maiorca» (Lettera, in EF-561231-1). La verità era che il territo­rio era vastissimo e i sacerdoti pochi. Cfr Lettera a mons. Lardone, in EF- 570125-1. L’ultima visita pastorale nei territori di Yauyos risaliva addirit­tura ai tempi di S. Toribio di Mogrovejo (attorno al 1580). L’impegno dell’Opus Dei nella Prelatura di Yauyos fu cosa del tutto eccezionale (cfr Lettera a José de Orbegozo y Telleria, in EF-570514-3). Quando mons. Sa­moré chiese al Fondatore se fosse disponibile ad assumere la cura pastora­le di alcuni territori di missione in Perù, questi gli spiegò che non rientrava nelle finalità delPOpus Dei farsi carico di strutture o di iniziative ecclesia­stiche, ma che accettava, dato che mons. Samoré gli trasmetteva un deside­rio esplicito del Papa; ribadì tuttavia che il lavoro apostolico a Yauyos

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avrebbe avuto un carattere eccezionale, perché normalmente i sacerdoti dell’Opera sono sacerdoti secolari, diocesani, nelle diocesi in cui si trovano (cfr Javier Echevarria, Sum. 2384). D’altra parte, le iniziative apostoliche che i fedeli dell’Opus Dei intrapresero a Yauyos e a Canete, per esempio l’istituto rurale per contadini Valle Grande, o il Centro di formazione pro­fessionale per contadine Condoray, ebbero caratteristiche completamente laicali.209 Lettera 16-VII-1933, n. 15.210 Lettera, in EF-561200-2.211 Cfr Lettere ai membri della Commissione regionale della Spagna, in EF- 561122-1; a Manuel Botas Cuervo, in EF-561031-1; a mons. Hugo Bressa- ne de Araujo, in EF-561120-1; ecc.212 Cfr A.A.S., XLIX (1957), pp. 307 e 881. Eretta la Prelatura, il Santo Padre nominò Prelato mons. Ignacio Maria de Orbegozo y Goicoechea, che prese possesso della carica il 2-X-1957.213 L’annessione di Canete rappresentava un considerevole aiuto, perché apportava le risorse necessarie per il mantenimento degli altri territori, tut­ti molto poveri e senza sacerdoti. Il decreto con cui la Santa Sede modifica­va i confini della circoscrizione ecclesiastica è del 24 marzo 1962. Cfr A.A.S., LIV (1962), p. 735.214 Ignacio Maria de Orbegozo, Sum. 7277. All’atto della costituzione del­la Prelatura, il Prelato non aveva il carattere episcopale (cfr Lettera a José de Orbegozo y Telleria in EF-570514-3). Mons. Orbegozo fu consacrato Vescovo titolare della chiesa di Ariasso il 25 gennaio 1964 e il 26 aprile 1968 fu nominato Vescovo di Chiclayo (cfr Lettera a José de Orbegozo y Telleria in EF-631203-2, e a mons. Ignacio Maria de Orbegozo, in EF- 640205-1).215 Lettera, in EF-580130-1.216 Alfonso Fernàndez Galiana, RHF, T-00161, p. 2.217 Lettera a mons. Ignacio Maria de Orbegozo e ai propri figli di Yauyos, in EF-590317-1.218 Lettera, in EF-591014-1.219 Lettera, in EF-600216-2.220 Ignacio Maria de Orbegozo, Sum. 7277.

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Capitolo XXI

LINEAMENTI PER UN PROFILO

1. La paternità spirituale

In questo capitolo si farà il tentativo di tratteggiare un profilo del Fondatore dell’Opus Dei; tentativo, perché de­scrivere e valutare le grandi figure dell’umanità è un’im­presa difficile. Le prime tappe di una vita, e cioè l’infan­zia, la fanciullezza e l’adolescenza, possono essere descritte senza difficoltà, poiché i dati biografici di un giovane sono sempre limitati e le sue prospettive sono in genere semplici e univoche. Con il passare degli anni e il susseguirsi degli eventi emergono invece le passioni, i pro­getti si definiscono e riesce difficile cogliere con un solo sguardo tutte le potenzialità di un uomo d’azione, tanto più se possiede una ricca vita interiore. Per tratteggiarne la figura non basta allora rievocare una serie di ricordi, di episodi più o meno significativi. I grandi personaggi della storia, come san Josemarìa, interpretano il loro destino in virtù di una missione ricevuta dall’alto. Per comprenderli davvero bisogna osservarli senza soluzione di continuità, contemplarne l’intelligenza luminosa, la volontà pronta e l’intera tensione esistenziale. È necessario anche cono­scerne le inclinazioni, le tendenze ereditate e le scelte de­terminate da una volontà consapevole.

* si- *

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Dal 2 ottobre 1928 don Josemarìa aveva assunto la pro­pria missione di Fondatore. Consapevole della divinità dell’impresa, già nei primi anni aveva scritto: «Non ab­biamo il diritto di cedere, decurtare o cambiare nulla dello spirito e dell’organizzazione dell’Opera»1. Concet­to già espresso, in tono quasi drammatico, negli Appun­ti intimi: «Gesù, che la tua Opera non si allontani mai dal suo fine: maledici fin da questo momento, Signore, chi dovesse cercare - non ci riuscirebbe, ne sono sicuro- di cambiare il cammino che tu ci hai indicato»2. Co­sciente dell’importanza storica di una grande missione universale, quale gli appariva l’Opus Dei, il Fondatore cercava forza e rifugio nell’orazione e nella mortifica­zione, sentendosi del tutto indegno, uno «strumento inetto e sordo», assai meno idoneo di chiunque altro:

«Signore! Perché hai cercato me - che sono la nega­zione - quando c’erano tanti uomini santi, sapienti, ric­chi e pieni di prestigio?»3.

Nella missione affidatagli da Dio non si considerava affatto imprescindibile. Presentiva che il Signore l’a­vrebbe lasciato in vita finché P Opera non fosse stata so­lidamente costituita ma tuttavia, negli anni rischiosi pri­ma e durante la guerra civile spagnola, domandava ai primi membri dell’Opus Dei: «Se il Signore si prendesse la mia vita (...) tu continueresti a lavorare per portare avanti l’Opera, anche a costo dei tuoi averi, del tuo onore e della tua attività professionale, mettendo, in­somma, tutta la tua vita al servizio di Dio nella sua Opera?»4. Che fosse pienamente cosciente, alla presenza di Dio, del rilievo storico che avrebbero assunto le sue azioni, a motivo della chiamata che aveva ricevuto, lo si intuisce sia dalla sua lotta per tracciare la strada sicura che i suoi figli avrebbero percorso nel futuro, sia dalla cura con cui conservò carte, appunti, lettere, ricevute, fatture e biglietti di viaggio. Questa consapevolezza non comportava negli altri un’identica evidenza, spesso cela­ta dalla normalità degli eventi che si susseguivano, e

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pertanto dovette passare molto tempo prima che egli la manifestasse a coloro che lo avevano seguito:

«Figli miei, vi devo fare una considerazione che, quand’ero giovane, non osavo pensare né manifestare; ma ora mi sembra di dovervela dire. Nella mia vita ho conosciuto diversi Papi, molti cardinali, moltissimi ve­scovi. Di fondatori dell’Opus Dei, invece, ce n’è solo uno, benché sia un povero peccatore come me; sono as­solutamente certo che il Signore ha scelto il peggio che ha trovato, perché così si veda più chiaramente che l’O­pera è sua. Ma Dio vi chiederà conto di essermi stati vi­cini, perché mi ha affidato lo spirito delPOpus Dei e io ve l’ho trasmesso»5.

Una volta, nel 1955, a Roma, due Direttrici dell’As­sessorato Centrale delPOpus Dei andarono a trovare mons. Pedro Altabella, buon amico del Padre fin dal 1934. Egli disse loro che non si rendevano pienamente conto di ciò che il Fondatore rappresentava, ma che sa­rebbe giunto il momento in cui il nome di Josemaria Escrivà sarebbe stato conosciuto fin negli angoli più sperduti del mondo. Esse lo raccontarono al Padre che, con la massima semplicità, affermò: «Figlie mie, è vero. Per questo, tutti i giorni, prostrato a terra, recito il sal­mo Miserere»6.

Respingeva con ripugnanza qualsiasi accenno di culto della personalità, perché l’Opus Dei, ripeteva, «non è opera mia: è di Dio e soltanto di Dio!»7. Quanto a lui, si accontentava del ruolo dell’asina di Balaam:

«Nell’Opera è tutto di Dio, non c’è niente di mio, ep­pure Dio, per parlare agli uomini, si è servito anche del­l’asina di Balaam»8.

Certo dell’origine soprannaturale delPOpus Dei, guar­dava con fiducia al futuro. Quando sarebbe stato chia­mato a rendere conto a Dio, altri avrebbero continuato. Voleva solo lasciare l’Opera ben salda sulle fondamenta, ‘scolpita’ fin nei particolari, affinché resistesse al logorio del tempo e, se mai ve ne dovesse essere il pericolo, alla

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debole volontà degli uomini. Aveva riportato nel Codex, il Diritto particolare dell’Opera, tutto ciò che era essen­ziale dello spirito dell’Opus Dei e chiedeva ai suoi di in­carnarlo fedelmente, di non snaturarlo, perché, diceva loro, «il Codex è perpetuo, santo e inviolabile»9. Poiché confidava pienamente nell’assistenza divina, faceva con­siderare ai suoi figli che «di solito, quando scompare il Fondatore, in molte istituzioni avviene una specie di ter­remoto. Io non ho alcuna preoccupazione: nell’Opus Dei non succederà nulla di simile»10.

Ad ogni modo, il diritto particolare dell’Opera, pur descrivendone fedelmente lo spirito, sarebbe rimasto lettera morta se il Fondatore non avesse trasmesso una dottrina viva, uno stile, una tradizione, uno spirito che consentissero di incarnare durevolmente quel modo di cercare la santità. Con la sua costanza e con il suo affet­to, il Fondatore si preoccupò direttamente di trasfon­derlo nella vita interiore dei suoi figli. Nelle conversa­zioni, nelle meditazioni, nelle tertulias, dava loro indicazioni pratiche, consigli confidenziali, o spiegava il significato dei vari episodi della storia dell’Opus Dei.

Una volta, durante una tertulia, dopo aver detto che don Àlvaro stava per pubblicare un libro, il Fondatore spiegò che anch’egli avrebbe desiderato scriverne alcuni; ma si interruppe e, indicando a don Àlvaro i volti dei presenti, esclamò: «Guarda che biblioteca! Sono queste le mie opere!»11.

Talvolta il Padre prendeva sottobraccio uno studente del Collegio Romano appena arrivato a Roma, o qualcu­no che incontrava in un corridoio di Villa Tevere, e si fa­ceva accompagnare in giro per la casa12. Parlavano e at­traversavano sale, cortili, oratori... Ogni tanto il Padre scopriva una imperfezione: una parete segnata, una ma­niglia che non chiudeva bene, una macchia per terra. Non andava a caccia di trascuratezze, ma tuttavia si ac­corgeva di cose che altri, pur essendo passati molte volte di là, non avevano affatto notato. Indubbiamente aveva

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un sesto senso che gli derivava dall’abitudine di guardare il mondo “con le pupille dilatate dall’amore” 13.

Il mancato rispetto dell’orario, una porta sbattuta, un attrezzo scomparso erano cose che lo facevano soffrire molto, quando significavano il disprezzo per le piccole cose o approssimazione e, in definitiva, mancanza di amore e di presenza di Dio: attraverso una negligenza si sarebbe potuta infiltrare la tiepidezza. Se la cosa non era di poco conto, riuniva gli alunni del Collegio Romano per farli riflettere. Perché nessuno se n’era accorto? Era­no forse diventati insensibili? Quante volte gli avevano sentito dire che le anime grandi tengono in gran conto le cose piccole?

Fare l’Opus Dei non voleva dire soltanto offrire a un gruppo scelto di persone un cammino di santificazione basato sulle realtà quotidiane. Il piano divino aveva di­mensioni universali, doveva contribuire a rinnovare la vita cristiana di uomini e donne di ogni Paese e, nell’ani­ma del Fondatore, questo zelo era impresso a fuoco as­sieme al carisma fondazionale. Dio voleva aprire un sol­co profondo nella storia dell’umanità e voleva farlo servendosi del Fondatore, che aveva scelto per diffonde­re il messaggio e lo spirito dell’Opus Dei. Davanti a Dio egli era e si sentiva direttamente responsabile:

«Sono il Fondatore - diceva - e so che cosa mi ha chiesto il Signore. Se delegassi e abbandonassi la mia re­sponsabilità, mi giocherei l’anima e il Signore me ne chiederebbe strettissimo conto»14.

Aveva una grande libertà di spirito, ma anche la profonda convinzione di non poter fare sconti a se stes­so sul contenuto della sua missione. «Ho l’incarico di difendere ciò che è soltanto del Signore, anche a costo della mia vita, perché mi ha chiesto di impiegarla in questo compito»15. In effetti, dovette affrontare enormi difficoltà e resistenze, risolvere “un mucchio di cose im­possibili” 16 e, spesso, scontrarsi con la «più brutale in­comprensione »17.

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Visse continuamente di fede e affermava che non avrebbe mai potuto dubitare «della divinità dell’Operao della sua realizzazione»18, anche se Dio avesse per­messo che rimanesse solo nell’impresa. Sperò, contro ogni speranza, che all’Opera non sarebbero mancati apostoli: «Verranno in molti: Dio lo farà!»19, scrisse nel 1930. Nel 1934, quando aveva solo un piccolo gruppo di seguaci, quasi una famiglia, cominciò a esercitare il suo carisma di «Padre, maestro e guida di santi»20.

Questa paternità di spirito, grande e feconda come quella dei patriarchi dell’Antico Testamento, arrivò a pervadergli l’anima. Giunse a suggerire che sulla sua pietra tombale venisse scritto:

GENUIT FILIOS ET FILIAS21.Agli inizi non si dedicò ad analizzarla. In seguito, si ac­

corse non senza sorpresa che non era solo di natura spiri­tuale, ma andava solidamente unita a un’ardente affetti­vità. Era un affetto nobile che non si esauriva nel sentimento, ma si consolidava in un legame umano e so­prannaturale con coloro che percorrevano il cammino dell’Opera22. Gli nacque il timore di togliere qualcosa a Dio, di rubargli una parte del cuore dei suoi figli. Ma il Signore gli fece vedere che, quanto più amava loro, tanto più amava Lui23. Allora, lo assalì un dubbio d’altro gene­re: con l’aumento delle persone dell’Opera e l’inevitabile ‘distribuzione’ del suo affetto, avrebbe amato di meno i singoli? «Quando saremo migliaia di persone in tutto il mondo, ci vorremo bene allo stesso modo? Vorrò bene ai miei figli quanto gliene voglio ora che sono pochi?»24.

Passarono gli anni, la famiglia crebbe e il Padre potè affermare:

«Ho la gioia di dirvi che il mio affetto per voi è inten­so come una volta, anche se ora siete migliaia, e che amo ciascuno dei miei figli come se fosse l’unico, con tutta l’anima. Il Signore, che ha ingrandito il mio cuore e lo ha reso capace di tutta questa meraviglia, dilaterà anche i vostri cuori, se non vi separate da Lui»25.

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L’affetto del Padre divenne un aspetto caratteristico ed essenziale dello spirito dell’Opus Dei. La sua pater­nità era un dono dello Spirito, che lo incitava a diffon­dere l’amore, perché crescesse, si moltiplicasse e si espandesse ad altre anime. Perciò, con S. Paolo, elevava grato l’anima a Dio, “dal quale procede ogni paternità nei cieli e sulla terra”26, per la paternità spirituale che, per grazia divina, aveva assunto «con la piena coscienza di essere sulla terra solo per realizzarla»27.

Il Padre era ben consapevole degli affetti che gli arde­vano nel petto. I suoi figli, testimonia il fratello Santia­go, “lo chiamavano Padre, ma lui era come una madre buona e affettuosa”28. Viveva per loro, si rendeva subito conto se qualcuno era dimagrito, se aveva mal di testa, se aveva bisogno di comprare un capo di vestiario. I suoi consigli erano molto materni: «In questo periodo - scriveva a un Consigliere - non preoccuparti di tutti i problemi di governo della Regione, dormi bene, mangia e riposati»29. Se non gli arrivavano notizie, pensava su­bito che fosse accaduto qualcosa ai suoi figli e non si da­va pace finché non li sapeva sani e salvi. Un giorno, a Roma, dopo una forte nevicata notturna, chiese se le in­caricate degli acquisti ai mercati generali, uscite in auto molto presto, avessero con sé le catene da neve. Pregò di avvisarlo quando fossero tornate e quando lo chiamaro­no per dirgli che era andato tutto bene, rispose: «Grazie a Dio. Di’ loro da parte mia che ci hanno tenuto per tut­to il tempo con le braccia in croce, a pregare per loro perché non accadesse nulla. Non lo facciano più»30.

Il Padre indovinava, intuiva lo stato d’animo dei suoi figli, persino i più intimi crucci. Un giorno, osservando attentamente una foto giuntagli dal Messico, che ritrae­va un gruppo di sue figlie, si accorse che qualcosa non andava bene. E scoprì, in effetti, che una delle persone ritratte aveva un problema serio31.

Un giorno sembrava particolarmente stanco e un suo figlio, medico, gli disse: “Padre, lei deve cercare di dor­

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i

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mire” . Gli rispose: «Se dormissi non vi vorrei bene. È l’affetto che mi toglie il sonno»32.

Il Padre stava vicino ai suoi figli, li rendeva partecipi degli eventi familiari durante le tertulias, apriva loro il cuore in confidenze paterne, informandoli dello svilup­po dell’Opera nel mondo. Ma in un certo senso si tene­va prudentemente lontano, quando teneva per sé le no­tizie dolorose, le contrarietà e le difficoltà del governo. Serbava soltanto per sé anche le esperienze personalissi­me degli inizi della fondazione. Tuttavia, questa com­prensibile distanza non era affatto una barriera. Tratta­va i suoi figli con assoluta fiducia e con la naturalezza di un padre e di un amico. Si rivolgeva loro con epiteti scherzosi, come ‘brigante’, ‘bandito’, ‘mascalzone’, ‘fac­cia tosta’, e sapeva come conquistarsi il loro cuore. Le tonalità dell’affetto sono più evidenti nelle sue lettere, quando il destinatario pativa una pena o una malattia, ma risuonano anche in tante altre occasioni:

«Carissimo Quinito, Gesù mi ti protegga. Bandito, c’è qualcuno che ti vuol bene più del Padre? Qui sulla terra nessuno. Hai capito?»33.

«Carissimo Michael, Gesù mi ti protegga. Nella mia lettera precedente ti ho dato del vagabondo, ma sono stato parsimonioso, perché sei un bel po’ brillo. Viva lo Jerez! Ora però, sul serio: lasciati curare, così ti rimette­rai prima»34.

«Vi voglio bene perché siete figli di Dio, perché avete deciso liberamente di diventare miei figli, perché cerca­te di essere santi, perché siete molto fedeli e molto sim­patici: tutti i miei figli lo sono. Vi voglio bene con lo stesso affetto delle vostre madri e così come siete: con i vostri corpi e le vostre anime, con le vostre virtù e i vo­stri difetti.

Figli miei, sono molto contento di dirvi queste cose! A tu per tu non sarei capace di farlo e vi confesso che a volte devo farmi forza per non commuovermi, per non mostrarvi qualche lacrima, per non ripetervi che vi vo­

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glio molto, molto bene... Perché vi amo con lo stesso cuore con cui amo il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, e la Santissima Vergine; con lo stesso cuore con cui ho amato mia madre e mio padre. Vi amo come tutte le madri del mondo messe insieme, tutti allo stesso modo, dal primo all’ultimo»35.

Gli costava fatica separarsi da loro e spiritualmente se li teneva sempre accanto. Se era a Roma il suo pensiero andava a quelli di fuori, se si assentava da Roma, vi tor­nava col pensiero, per non lasciarli soli. «Con la testa e con il cuore rimango in mezzo a voi», scriveva da Lon­dra ai membri del Consiglio Generale36.

I suoi figli erano il suo orgoglio e la sua fortezza. «Che cosa avrei fatto senza di voi?»37:

«Ho davvero bisogno di tutti voi; ciascuno di voi è la mia fortezza. Infatti, quando faccio orazione vi presento molte volte al Signore con orgoglio, come le madri pre­sentano i loro figli, e dico sempre: Signore, non guarda­re me, ne respicias peccata meai...

Signore - aggiungo -, io dovrei stare prostrato bocco­ni davanti a Te, come un verme. Ma guarda i miei figli, guarda il miracolo di questi figli, di queste figlie, che ti danno la loro gioventù, il loro cuore puro; guarda le lo­ro virtù... Mi adorno con la vostra donazione di ogni giorno, figli miei, e così ho una certa autorità per poter parlare con Nostro Signore. Vedete? Ecco le mie creden­ziali: la vostra dedizione»38.

II Padre era sempre controllato e distaccato da tutto, ma non dai suoi figli che, diceva, erano la sua «occasio­ne prossima» per interrompere il lavoro e trattenersi con loro. Essi non erano da meno e l’affetto delicato con cui ricambiavano le sue sollecitudini paterne lo spingeva a migliorare nella vita interiore:

«Il cuore mi si attacca ai miei figli, io non lo nascondo e credo che voi lo notiate, ma è qualcosa che mi avvici­na a Dio: voi mi spingete a essere più fedele e io deside­ro essere sempre più fedele, anche per voi»39.

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Una semplice frase affettuosa lo consolava, anche quando gliela scriveva uno dei suoi tanti figli che non avrebbe mai conosciuto di persona. Nel giugno del 1964, per esempio, ebbe un grosso dispiacere e, proprio in quei giorni, ricevette una lettera in seguito alla quale scrisse al Consigliere della Spagna:

«La frase ‘Padre, le vogliamo molto bene’ che mi scri­ve un minatore, aggiungendo più o meno: ‘non sia tri­ste, non soffra’, mi è arrivata in fondo al cuore»40.

La corrispondenza al traboccante affetto del Padre ge­nerava un legame spirituale di paternità e di filiazione che assicurava una forte coesione umana e soprannatu­rale a tutta l’Opera.

2. Carattere e personalità

L’amore del Padre per i suoi figli era un dono divino orientato alla loro santificazione, nell’ambito della chia­mata all’Opus Dei. La paternità e la filiazione, egli ne era certo, sarebbero durate oltre la sua morte:

«Quando il Signore mi avrà chiamato alla sua presen­za, quasi tutti voi - è la legge della vita - sarete ancora sulla terra. Ricordatevi allora di quello che vi diceva il Padre: vi amo molto, vi voglio un bene da pazzi, ma vi voglio fedeli. Non dimenticatelo: siate fedeli. Vi amerò anche quando avrò lasciato questo mondo per andare a godere di Dio, per l’infinita sua misericordia. Siate certi che allora vi amerò ancora di più»41.

C’era una sorta di ritornello con cui il Padre insegnava ai suoi figli a orientare l’affetto al fine soprannaturale: «Figlie mie, vi voglio molto bene, ma vi voglio sante»42. Altre volte, chiedeva ai suoi figli, stretti attorno a lui: «Figli miei, sapete perché vi amo tanto?». Essi tacevano e il Padre completava: «Perché vedo scorrere in voi il Sangue di Cristo»43.

L’amore limpido e soprannaturale di cui il Padre si

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serviva per condurre alla santità le anime che il Cielo gli aveva affidato aveva anche un altro aspetto: comporta­va una responsabilità che, sotto il profilo umano, era poco piacevole. I suoi figli, come è ovvio, avevano difet­ti e commettevano errori, soprattutto quelli che faceva­no parte da poco dell’Opera e non ne conoscevano bene le consuetudini e lo spirito e il Padre doveva svolgere continuamente il suo ruolo di «maestro e guida di san­ti». A lui, che soffriva nel vedere le mani delle sue figlie screpolate dai lavori domestici, costava molto, per esempio, doverle riprenderle per qualche errore, consi­derando tra l’altro la loro buona volontà.

Insomma, soffriva «prima, durante e dopo» la corre­zione44. ma il suo dovere era quello di formare i suoi fi­gli nello spirito dell’Opera e lo adempiva sempre: quan­do conversava con loro, quando faceva rilevare una trascuratezza, un lavoro mal fatto o una mancanza di criterio. Se talvolta doveva riprendere energicamente, lo faceva, palesando il suo temperamento forte45.

Spesso bastava un suo sguardo per insegnare qualcosa, un semplice gesto poteva impartire una lezione forte e in­dimenticabile46. Un giorno in cui si trovò a pranzare in una Residenza universitaria in una città della Spagna, si accorse che il vino era di marca, pur senza essere di lus­so. Subito si alzò da tavola e se ne andò senza mangiare. Era una lezione di sobrietà: un modo per far capire che il Padre non ammetteva eccezioni per la sua persona e che per lui non c’era bisogno di un trattamento speciale47. Una ragazza che lavorava lì come domestica si sentì chiamata all’Opera dopo questa lezione di povertà.

Quando riprendeva soffriva di più di chi stava correg­gendo, ma sapeva che farlo era un suo preciso dovere, per avvicinare a Dio i suoi figli. Se non lo facessi, diceva loro, vorrebbe dire che «non amo né Dio né voi»48. Correggeva sempre e chiunque, senza fare differenze in base alle responsabilità o all’esperienza, agli anni o alla salute. Non si stancava di ripetere avvisi e consigli su

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questioni di ordine, di povertà, di cura delle cose picco­le, sull’importanza di portare a termine gli incarichi. Se un incarico non era stato compiuto, ne chiedeva conto e se il responsabile si scusava cominciando a dire “Il fatto è che...” , il Padre tagliava corto, perché diceva che frasi come “ il fatto è che...” , “ credevo che...” , “pensavo che...” erano pessime scuse che non voleva sentire dai suoi figli e dalle sue figlie49. Invece, insegnava loro a compiere il proprio dovere con iniziativa, con amore, impegnandosi fino in fondo con costanza e concretezza. Ubbidire - spiegava ai suoi figli - non significa muover­si come un automa o un cieco, rigido come un cadavere, perché «noi ai morti diamo pietosa sepoltura»50.

I testimoni sono concordi nelPaffermare che, quando il Padre correggeva con decisione, non perdeva la pace. Fatta la correzione, cercava di rasserenare l’animo del­l’interessato con un sorriso o con una parola dolce, ade­guandosi al suo stesso consiglio: «Moderate il carattere e non prendete decisioni quando siete stanchi o di catti­vo umore. Se avete sofferto, non fate soffrire gli altri, perché senza volerlo ci mortifichiamo già abbastanza a vicenda»51. Il Padre voleva dare ai centri dell’Opus Dei il tono e il clima adeguati; perciò doveva badare a tutto, vigilare e dare esempio52.

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Si è detto molto, a ragione, sulla prudenza del Fondatore nei rapporti con le donne in genere e con le sue figlie inspecie. Quando si recava in un centro femminile si faceva sempre accompagnare da don Àlvaro o da un altro sacer­dote. Ma, in quanto Padre e maestro spirituale, non le trattò diversamente dai suoi figli, nel momento di for­marle o di correggerle53. Il primo giorno in cui tre nume­rarie ausiliarie si recarono ad abitare a Villa delle Rose aCastelgandolfo, per metterla in ordine in vista delle atti­vità di formazione che avrebbe ospitato, la trovarono in

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condizioni pessime, immersa nella sporcizia e con i topi che scorrazzavano per stanze e corridoi. Nell’imminenza della notte, la paura ebbe la meglio e una di loro, Concha Andrés, disse al Padre che volevano dormire insieme in una stessa camera. Il Padre, paternamente, si impose: «Figlie mie, se avete paura ora, come potrò mandarvi tra poco in Africa, nel Congo, o da qualsiasi altra parte? No, figlie mie, fatevi forza e ciascuna dorma nella propria ca­mera»54.

Forse la parola giusta per indicare il comportamento del Padre con le donne è ‘cavalleria’, vocabolo che sot­tintende un’ampia gamma di virtù: lealtà, onestà, ele­ganza, correttezza, cortesia, moderazione... Don Jose­maria l’aveva apprezzata nel proprio padre, che definì un “gentiluomo cristiano” al quale era molto grato per l’esempio delle virtù.

Fra gli insegnamenti che il Fondatore apprese da bambino nella casa degli Escrivà c’è un aspetto di edu­cazione notato da molti. Dorita Calvo racconta che nel 1945, recatasi per la prima volta nella residenza di via Zurbaràn per parlare con il Padre, fu colpita dal suo comportamento: “Mentre cercavo di far passare il Pa­dre per primo, mi sorpresero la sua semplicità e corte­sia, perché non acconsentì”55. Anche Kurt Hruska, il dentista che lo ebbe in cura a Roma, fa un’osservazione analoga: “ Quando incontrava qualcuno nel corridoio dello studio, era sempre cortese: faceva un passo indie­tro e lasciava passare le signore”56. Egli stesso conferma questa consuetudine nella chiusa di una lettera a una ni­pote: «Per la mamma, per il papà (le signore hanno la precedenza), e per ciascuno dei tuoi fratelli, tanti baci. Per te anche un abbraccio e una affettuosa benedizione da Josemaria. Ti invio una medaglia molto graziosa»57.

Oltre alla buona educazione, alla cortesia che, in fon­do, è umiltà, questo suo comportamento comprova an­che la rinuncia all’importanza che la società gli ricono­sceva per la sua condizione di sacerdote. Tuttavia, la

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sua gentilezza non gli impediva di avere un atteggia­mento tutt’altro che formale quando doveva correggere qualcuno, più di una volta anche le sue figlie. Dichiara Encarnación Ortega: “Aveva un carattere energico e forte, contro il quale lottò per tutta la vita. Ricordo va­rie occasioni in cui dimostrò questa energia nel farmi un rimprovero; dopo mi chiedeva scusa per le maniere energiche, anche se ribadiva la giustezza del suo rimpro­vero”58.

Ma ecco una testimonianza, in un certo sensó com­plementare, di un’altra sua figlia, che riferisce un’espres­sione udita dalle labbra del Padre: «Voglio bene alle mie figlie più di una madre, anche se non le conosco. Ma seio non avessi alzato la voce, l’Opera non sarebbe andata avanti»59.

Il Padre, così esigente con i suoi figli, era esigente an­che con se stesso? Ecco un suo proposito: «Andare al passo di Dio anche se dovessi lasciarci la vita»60. Una ri­soluzione che lo aiutava a essere costante e che egli mise in pratica con eroica fortezza superando, con la magni­fica tempra della sua volontà, qualsiasi ostacolo nel cammino verso Dio. Non procrastinava mai la pronta esecuzione di ciò che si proponeva. Non ammetteva scu­se per rinviare le cose dicendo a se stesso: sarà l’ultima volta. «Non credo alle ultime volte - affermava -. L’ulti­ma è già passata!»61.

Chi aveva il compito di fare al Fondatore le opportu­ne osservazioni? Egli era completamente disponibile a obbedire: «Mi piacerebbe non essere dell’Opus Dei - di­ceva - per chiedere subito l’ammissione, essere l’ultimo e passare la vita a obbedire»62.

Prima dell’approvazione definitiva del 1950, il Fon­datore aveva dovuto ingaggiare con la Santa Sede un fi­liale tira e molla per salvaguardare lo spirito dell’Opus Dei. Tra le obiezioni che gli venivano fatte c’era che, in linea di principio, egli non avrebbe potuto ricevere cor­rezioni dai fedeli dell’Opera: come Presidente non pote­

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va dipendere da chi gli era inferiore, lo sconsigliava una consuetudine plurisecolare. Ma il Padre non si convin­ceva, perché non voleva essere privato, lui solo nell’O- pus Dei, di un tale meraviglioso aiuto per la propria santificazione:

«Tutti i miei figli hanno a disposizione un mezzo che deriva dal Vangelo, la correzione fraterna. È un meravi­glioso mezzo di santità, anche se in chi la riceve provoca dolore e tutti, chi la fa e chi la riceve, debbono farsi for­ti ed essere umili e mortificati. E io, che sono un po­veruomo, e quelli che mi succederanno, che saranno migliori di me ma anch’essi poveri uomini, non possia­mo avere questo strumento di santità?»63.

Alla fine la spuntò: la Santa Sede approvò la figura dei Custodes del Presidente Generale dell’Opus Dei (ora del Prelato)64.1 due Custodi (i primi furono don Àlvaro del Portillo e don Javier Echevarria), avevano il compito di ammonire, di consigliare e di aiutare il Padre in tutti gli aspetti spirituali e materiali. Il Padre potè acquietare la propria sete di obbedienza. Apriva l’anima ai Custo­des, ne seguiva i suggerimenti, li consultava sul pro­gramma di lavoro. Inoltre, se si recava in un Centro, si affidava completamente al Direttore locale per tutto quanto si riferiva agli orari della casa. «Qui comandi tu», gli diceva65. Mons. Javier Echevarria racconta che il Padre esortava ripetutamente lui stesso e mons. Àlva­ro del Portillo a fargli, per amore di Dio e per l’affetto che avevano per lui, tutte le osservazioni necessarie, «senza farmene passare una»66.

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Se ci si interroga sugli aspetti più rilevanti del carattere del Fondatore, si può affermare che, a differenza della maggior parte delle persone, non gli si può applicare il detto popolare: ciò che si ha per natura, sino alla fossa dura67. In lui, infatti, i tratti non ancora definiti del tem­

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peramento infantile si trasformarono nel corso degli an­ni, non per cause puramente naturali, ma per il suo impe­gno di sottomettere le passioni e di correggere i difetti, con l’aiuto della grazia e dei genitori. Ma tutto ciò non poteva cancellare la sua netta personalità umana.

Fin dalla prima infanzia vi sono episodi, già narrati, che rivelano in lui temperamento e carattere. Era ancora un bimbo quando, arrabbiato perché gli avevano servito una pietanza che non gli piaceva, gettò il piatto contro la parete. Quando si nascondeva sotto il letto se arriva­va in casa qualche visita che non gli andava a genio, ci voleva tutta l’autorità materna per sconfiggere la sua ti­midezza e per farlo uscire.

Ma vi sono due episodi ancor più significativi, pure già ricordati. Poco tempo dopo la morte delle due sorel­line più piccole, Josemaria, che poteva avere 11 anni, stava osservando le altre sorelle che giocavano con le amiche. Avevano costruito un castello con le carte da gioco, quando all’improvviso Josemaria lo abbatté con una manata. «Questo è ciò che fa Dio con le persone - disse -. Costruisci un castello e, quando è quasi termina­to, Dio te lo distrugge». Anche se non aveva ancora compreso il mistero della sofferenza e della Croce, ave­va però già la capacità di impregnarsi di dolore. L’episo­dio è comunque rivelatore della sua energia e acutezza spirituale.

Una scena analoga, rivelatrice di un carattere impulsi­vo, avvenne quando il professore di matematica lo mandò alla lavagna e, dopo alcune domande, gliene fece una su un argomento che non aveva ancora spiegato. Davanti a ciò che gli sembrava un’ingiustizia, Josemaria gettò indispettito il cancellino contro la lavagna, fece dietrofront e tornò al suo banco protestando.

Non è necessario riportare altri episodi, poiché quelli narrati sono sufficienti per delineare alcuni elementi es­senziali del suo temperamento, in cui si mescolano la ru­videzza con la timidezza, l’impazienza con l’energia, lo

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spirito ribelle con un acuto senso della giustizia. C’è an­che un altro aspetto dominante: l’ostinazione, ben pre­sto superata grazie alla fermezza dei genitori. L’ostina­zione di Josemarìa bambino si trasformerà rapidamente in tenacia, grazie alla sua lotta con se stesso per elimi­narne i tratti negativi. Nel periodo di Saragozza, gli anni dell’invocazione Domine, ut videam/, paziente e perse­verante, il futuro Fondatore acquisì la costanza e la fer­mezza che avrebbe chiamato «santa ostinazione», quel­la di chi si dimostra tenace e risoluto, ma non cocciuto e incapace di correggersi.

Indubbiamente Dio gli diede le qualità necessarie per la sua missione. Ma riuscire a svilupparle o a perfezio­narle fu il frutto di una diuturna ascesi, guidata dall’a­more e dal desiderio di rendersi idoneo ai disegni divini, anche se egli si considerò sempre «uno strumento inetto e sordo».

Il Fondatore era estremamente docile e pronto a cam­biar parere su una questione già studiata, se veniva a co­noscenza di ulteriori dati che modificavano il problema oppure se si accorgeva di essersi sbagliato. Non esitava a cambiare idea perché, diceva, «non sono un fiume, che non può tornare indietro» e anzi si correggeva con gioia perché «correggersi toglie l’amaro dall’anima»68 e non è affatto «un’umiliazione dell’intelligenza»69. Egli stesso raccontava ai suoi figli che una delle grazie che da molto tempo il Signore gli aveva concesso era la gioia che provava quando si correggeva. Il Padre riconosceva spesso di essersi sbagliato e ricordava al suo Custode, Javier Echevarrìa, di parlargli sempre con assoluta li­bertà perché, diceva, «ne ho bisogno e sono grato dal profondo dell’anima per ogni luce che mi aiuta a correg­germi, a migliorare, a modificare le mie decisioni»70.

Il suo carattere era ardente e impulsivo. Negli Appun­ti intimi ne registrò egli stesso alcune manifestazioni, specialmente l’aggressiva indignazione con cui reagiva agli insulti che riceveva per le strade di Madrid, negli

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anni 1930-3171. Ma alla fine riuscì, con uno sforzo tita­nico, a dominarsi, tanto da armonizzare sempre impe­tuosità e pacatezza, fortezza e dolcezza. Chi potrebbe ri­conoscere nel temperamento esplosivo della sua gioventù ‘l’uomo di pace’ che sarebbe divenuto?

«Dopo tanti anni di continua e fraterna amicizia, tu sai bene - scriveva a mons. Casimiro Mordilo - che so­no uomo di pace e che il Signore mi ha dato un buon umore imperturbabile e la più assoluta incapacità di por­tare rancore. Perciò non posso litigare con nessuno»72.

Il risultato fu che, una volta rimosso ogni esito di pas­sionalità, purificata l’intenzione, rimasero il vigore del temperamento e la soavità del tratto, armonicamente fu­si. Chi gli stava vicino ne era il testimone migliore. Mons. Javier Echevarria lo definisce una “persona dal carattere nobile e forte, rapido e lucido nelle decisioni” . E aggiun­ge: “Tuttavia, per tutta la vita fu sempre affabile, affet­tuoso e amabile, accondiscendente e attento alle necessità degli altri”73. Altri, che non lo frequentavano assidua­mente, poterono farsi un giudizio in base a fugaci impres­sioni ricavate da una breve conversazione o da un rapido incontro. Rimase viva in tutti l’immagine di un ‘uomo di pace’, sorridente e affabile, anche se intuivano l’energia nascosta del suo carattere. Il dott. Hruska, il suo dentista di Roma, racconta di “ aver avuto la sensazione che egli avesse in sé un magnetismo, una forza e un fluido tali che quanti si avvicinavano a lui si sentivano leggeri e traspor­tati come una piuma (...). Quando veniva da me mi face­va sempre un grande piacere: entrava una ventata di feli­cità, di serenità, come se avessi preso un tranquillante”74.

Tuttavia, in alcune occasioni, dai gesti e dalle parole del Fondatore traspariva il suo temperamento passiona­le, esplosivo. Non era per mancanza di autodominio, bensì perché l’energia interiore era tale da sgorgare a fiotti nelle situazioni difficili, nei rimproveri, ma, soprat­tutto, quando c’era da difendere il suo patrimonio spiri­tuale. D’altra parte, che cosa sarebbe stato il Fondatore

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se non avesse avuto un carattere forte, un’indomabile fermezza, uno zelo santo e appassionato? Come avrebbe potuto risolvere cose impossibili e superare mille ostaco­li, lottando senza posa? Come avrebbe potuto mantenere calma e lucidità avendo la mente occupata da tanti pro­getti e da una miriade di preoccupazioni che avrebbero fatto uscir di senno un grande imprenditore?75.

Il suo modo di essere, in definitiva, gli fu di aiuto. Do­minare un carattere tanto forte lo costrinse a sostenere una continua lotta ascetica e la grande energia, messa in­teramente al servizio della sua missione di Fondatore, gli consentì di portare avanti l’Opus Dei con vigore76. Altri­menti, lo diceva egli stesso, «l’Opera non esisterebbe».

Un’altra qualità del suo carattere, già evidente nei ci­tati episodi dell’infanzia, è la sensazione che provava, un po’ vergogna e un po’ timidezza, quando le persone in visita cercavano di fare di lui il centro dell’attenzione. Con gli anni si trasformò nell’avversione per tutto ciò che fosse spettacolare, nella fuga dal protagonismo. Amava la semplicità e la naturalezza. Rifuggiva dall’af­fettazione, dalla cerimoniosità e dalla ricercatezza.

Da qui il programma, frutto del suo carattere e sempre invariabilmente realizzato nella sua vita, espresso dal ben noto «nascondermi e scomparire»77. Per lui non era solo una scelta di vita ma, come scrisse nel 1934, «l’evi­dente Volontà di Dio su di me»78, una caratteristica dello spirito ricevuto in quanto Fondatore dell’Opus Dei.

3. Le assurdità dei santi

Come si può definire un santo? È l’uomo che vive im­merso in Dio, intento a compiere per amore la Sua Vo­lontà e disposto a servirlo con tutte le forze. Santo è chi consuma la propria vita nell’anelito di essere sempre più intimamente unito a Dio, nel quale tiene fissi la mente e il cuore e al quale dedica appassionatamente la propria

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esistenza. Inevitabilmente, il suo comportamento appa­re diverso da quello della maggior parte delle persone e può capitare che alcuni giudichino la sua eccezionalità come mancanza di equilibrio, esagerazione, modo di fa­re strano, anormale e irragionevole. Ma se il santo, co­me un innamorato, è davvero concentrato su tutto ciò che concerne l’amato, cioè Dio, che cosa c’è di strano se si lascia prendere da “manie da innamorato” , o si impe­gna in una “pazzia d’amore” ?79. Chi lo guarda con oc­chi profani lo giudicherà fuori di senno e non potrà mai comprenderlo se non si rende conto che è Dio la causa delle sue “pazzie” . Lo scrisse anche mons. Escrivà:

«Le follie dei santi, le loro assurdità, non sono ne l’una né l’altra cosa, bensì i frutti ragionevoli dell’azione di Dio nelle anime, a seconda del tempo, delle circostanze sociali di ogni epoca e delle peculiari necessità della sua Chiesa e dell’umanità nei diversi momenti della storia»80.

I grandi santi sono persone alle quali è stata affidata una missione divina a servizio dell’umanità. Sono chia­mati a convertire i popoli, a diffondere il messaggio evan­gelico o a cambiare la direzione della storia. Devono esse­re strumenti di Dio, docili come bambini nelle sue mani, per poter operare con grande potenza. La loro energia viene da Dio e Dio, aiutandoli con la sua grazia, li utilizza come strumenti - profeti, apostoli, riformatori o fondato­ri -, come grandi leve per smuovere il mondo. Nessuna sorpresa se, inevitabilmente, si scontrano con l’ambiente che li circonda e vengono chiamati sognatori illusi, pazzi, eretici, visionari e sono fatti oggetto di contumelie e di persecuzioni. Neppure loro si aspettano altro.

Nel 1932 il Fondatore scriveva: «Dobbiamo convin­cerci che i santi - noi non ci crediamo tali, ma vogliamo esserlo - sono necessariamente persone scomode, per­ché con l’esempio e la parola sono un continuo motivo di disagio per le coscienze che vengono a patti con il peccato»81.

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Don Josemaria ne fu consapevole fin dall’inizio: chi lotta per essere santo dà fastidio alla società in cui ope­ra. Prevedeva quale sarebbe stato il suo destino e quello dei suoi figli, una volta avviati i suoi progetti di aposto­lato universale82. Si dedicò a formare coloro che lo se­guivano affinché cercassero la santità in mezzo al mon­do, scopo principale del messaggio che diffondeva. «Chi non è intenzionato a essere santo per davvero, è meglio che se ne vada»83, diceva loro. E ricordava anche che sì, il santo è scomodo, «ma ciò non significa che debba es­sere insopportabile. Il suo zelo non deve mai essere amaro, la sua correzione non deve mai ferire, il suo esempio non deve mai essere uno schiaffo morale sul volto di chi lo osteggia»84.

Nel corso degli anni, dopo molteplici e amare espe­rienze, dopo aver patito in prima persona la persecuzio­ne, il Fondatore si convinse sempre di più che i santi danno fastidio:

«Tante volte penso che Dio nostro Signore ci prende anche un po’ in giro: ci ispira desideri di santità... e poi ci fa scoprire che i santi sempre, o quasi sempre, hanno dato fastidio, sono state persone... scomode, cocciute»85.

La generosa azione della grazia di cui il Fondatore fu strumento fece sì che gli venisse attribuita fama di com­piere miracoli, soprattutto negli anni quaranta, prima che si trasferisse a Roma: lo chiamavano “ il prete dei miracoli” . Nulla poteva riuscirgli più sgradito, perché era l’esatta negazione del suo ‘nascondersi e scompari­r e dell’essere considerato un caso straordinario, un fe­nomeno da baraccone:

«Non so perché tanti insistono a venire per vedere me, che sono un prete grasso e insignificante. Vengono a vedere la bestia rara e se faccio miracoli. Ma che storia è questa? Quali miracoli farei? Accadono cose che ad al­cuni non sembrano normali, ma in realtà lo sono. E se poi il Signore vuol fare qualcosa che esula dalla norma­lità, è Lui a farlo, non certo questo povero prete»86.

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Per don Josemaria la Provvidenza ordinaria di Dio era già abbastanza straordinaria e gli bastava. Chiedeva a Dio che la sua lotta per la santità, così come quella dei suoi figli, passasse sotto silenzio, perché non si avveras­se il detto secondo cui per sopportare un santo ce ne vo­gliono due87. «Sono nemico di ciò che esula dalla nor­malità»88. «Sapete che non mi piace vivere di fantasia. Le quattro zampe ben piantate per terra! Così serviamo il Signore per davvero, sempre attenti a ciò che vuole»89. Il Padre era molto pratico e tagliava le ali a ogni fanta­sticheria. Insegnava ai suoi figli che ben poche volte avrebbero dovuto compiere gesta eroiche. La base della santificazione era il corso ordinario della vita, la mono­tonia della normalità quotidiana.

Sono le piccole contrarietà di ogni giorno, le difficoltà quotidiane che, se si superano con amor di Dio, aiutano a santificarsi:

«È logico che accadano tante piccole cose, che supe­riamo con la carità - in omnibus cantasi - e che ci aiu­tano a diventare santi! Se non fosse così, la vita dei figli di Dio nel suo Opus Dei sarebbe già il cielo in terra. Non può essere così, il cielo ce lo dobbiamo guadagnare con le piccole cose della vita di ogni giorno»90.

Il Padre cercava di mettere ogni giorno più amore nei suoi impegni quotidiani. Per riuscirci era sempre in lotta accanita con se stesso. Mons. Javier Echevarria raccolse una sua osservazione a questo riguardo:

«Ci sono molti modi per fare un regalo: si può telefo­nare a un negozio, oppure mandarci qualcuno, ma si può anche andare personalmente a comprarlo. Chi rice­ve il regalo non lo verrà mai a sapere, ma è evidente che i diversi modi rivelano l’interesse e l’affetto di chi rega­la. Ebbene, Dio vede le nostre intenzioni: non si tratta di adempiere un dovere, ma di amare!»91.

Un amore profondo e sofferto ardeva silenziosamente nella sua anima. Il fuoco che lo alimentava era tutto suo, molto caratteristico, espressione di uno stile perso-

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naie. Come il pittore lascia sulla tela la sua impronta, che differenzia la sua pennellata da quella di un altro, così accade per il santo. Gli accenti del Padre erano da innamorato. Da innamorato era il suo linguaggio e da innamorato i suoi sogni e le sue espressioni: «fare la se­renata al Signore», «fargli la corte»; intonava canzoni d’amore cui dava un significato divino; parlava di «vez­zeggiamenti» e di «carezze»92.

Desiderava vivamente che le sue figlie si organizzasse­ro per preparare da sé il pane e il vino per celebrare la Messa, coltivando frumento e viti. «In questo modo - spiegava loro - accarezzeremo Dio che nasce nelle nostre mani, preparando le specie in cui discenderà»93. Una vol­ta, dopo essere passato davanti al tabernacolo e aver fat­to una genuflessione lenta e profonda, si avvicinò al ta­bernacolo chiedendo perdono ad alta voce per non aver accompagnato il gesto con il pensiero: «Perdonami, Ge­sù, perché non ti avevo salutato con il cuore»94.

I suoi scritti e la sua predicazione sono costellati di esplosioni d’amore, forti e mistiche, tenere e infuocate:

«Considera ciò che di più bello e di più grande c’è sulla terra..., ciò che piace alPintelletto e alle altre facoltà..., e ciò che è godimento della carne e dei sensi... Considera il mondo, e gli altri mondi che brillano nella notte: tutto l’U- niverso. Ebbene, tutto ciò, unito a tutte le follie del cuore soddisfatte..., non vale niente, è niente e meno di niente, a confronto di questo Dio, mio! - tuo! -, tesoro infinito, perla preziosissima, umiliato, fatto schiavo, annichilito in forma di servo nella grotta dove volle nascere, nella botte­ga di Giuseppe, nella Passione e nella morte ignominio­sa... e nella pazzia d’Amore della Santa Eucaristia»95.

Tutta la predicazione del Padre e l’esempio della sua vita conducevano direttamente a Dio, per poi diventare azione apostolica. Sintetizzava il suo programma in una parola, «divinizzarsi»96 e consigliava pure l’infallibile metodo: prendere «la strada giusta, cioè la Santissima Umanità di Cristo».

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«Seguire Cristo: questo è il segreto. Stargli molto vici­no, vivere con Lui, come fecero i primi dodici; tanto vi­cini da poterci identificare con Lui (...). Ma non dimen­ticate che stare con Gesù vuol dire, senza possibilità di dubbio, imbattersi nella sua Croce. Se ci abbandoniamo nelle mani di Dio, è frequente che Egli permetta che as­saporiamo il dolore, la solitudine, le contrarietà, le ca­lunnie, la diffamazione, la derisione, dall’interno e dal­l’esterno: perché vuole configurarci a sua immagine e somiglianza, e permette perfino che ci chiamino pazzi e ci prendano per stolti»97.

Innamorato di Cristo e immedesimato con lui, il Fon­datore dell’Opus Dei invitava a scoprire le ricchezze del­la filiazione divina, fondamento della vita del cristiano, che per i fedeli dell’Opus Dei si traduce - sono parole sue- «in un desiderio ardente e sincero, insieme tenero e profondo, di imitare Gesù Cristo come suoi fratelli, figli di Dio Padre, e di stare sempre alla presenza di Dio. Fi­liazione che conduce a una vita di fede nella Provvidenza e a una dedizione serena e gioiosa alla divina Volontà»98.

* * *

La vita interiore del Padre cresceva, alimentandosi della ricchezza racchiusa nell’Umanità di Cristo. Se qualcuno manifestava il desiderio di imparare qualcosa da lui, ri­spondeva:

«In poche cose posso esservi d’esempio. Tuttavia, no­nostante i miei errori personali, penso di potermi porre come esempio di uomo che sa amare»99.

I suoi slanci di innamorato riuscivano a elevare gli af­fetti umani a un’altezza soprannaturale e mistica. Sape­va sempre trovare la perla preziosa, il quid divinum che si nasconde in ogni evento, grande o piccolo che sia. Si nutriva della considerazione della filiazione divina che Cristo ci ha guadagnato. In conclusione, era un uomo che sapeva amare, che grazie all’amore sapeva trasfor­

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mare il lavoro e il riposo in vita contemplativa, in occa­sione di preghiera100.

Altre caratteristiche della sua persona erano la finezza di spirito nel tratto familiare e sociale, la cordialità e la cortesia che esprimeva nelle situazioni più normali e scontate: cercava di scoprire i gusti di una persona; aspet­tava l’occasione opportuna per dare una notizia; sapeva ascoltare, non interrompeva senza necessità, moderava l’impazienza; evitava le discussioni, dimostrava rispetto e cortesia verso tutti, lottava contro l’ozio; aveva cura degli abiti, era ordinato, riparava ciò che si guastava. Tutti questi dettagli, appresi nell’infanzia nella casa paterna, erano frutto di molteplici virtù, che vanno dalla cortesia all’abnegazione101. Metteva amore di Dio in tutto ciò che faceva, riportandolo così alla sua vita contemplativa.

Il suo comportamento, fin nei più piccoli particolari, era elevato al piano soprannaturale dal suo amore di Dio. Per questo non concepiva che si tenessero in poco conto le virtù umane, perché sono l’ordito di tutta la nostra vita; lo scrisse, con un pizzico di arguzia, in Cammino:

«Non crediamo che serva a qualcosa la nostra appa­rente virtù di santi, se non va unita alle comuni virtù di cristiani. Sarebbe come ornare di splendidi gioielli la biancheria intima»102.

Le virtù umane e civiche che l’apostolo inserito nella società deve praticare non sono un capriccio, bensì il «fondamento delle virtù soprannaturali». «È vero che nessuno si salva senza la grazia di Cristo. Ma se l’indivi­duo conserva e coltiva un principio di rettitudine, Dio gli spianerà la strada; e potrà essere santo perché ha sa­puto vivere come persona dabbene»103. Questo timbro di laicità che il Fondatore applica alla vita contemplati­va appare spesso sottolineato nei suoi scritti: «Tutti hanno sofferto in questa vita. E di cattivo gusto che una persona parli della sua sofferenza e ne perda l’eventuale merito spirituale»104. Non sarebbe stato più logico che

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il pensiero di un uomo che aveva tanto sofferto per amore di Cristo si elevasse a considerazioni più sublimi della perdita del merito soprannaturale? Altrove lo ave­va fatto: «Mi basta avere davanti a me il Crocifisso per non azzardarmi a parlare delle mie sofferenze»105. Tut­tavia, quello che davvero sorprende è il suo appellarsi al senso di urbanità e alla buona educazione, cioè un senti­mento convenzionale per cui è innanzitutto di cattivo gusto e poco elegante parlare di se stessi, diventando il centro della conversazione e affliggendo gli altri con i propri crucci.

Ogni devozione del Fondatore portava impressi in cer­ta misura i lineamenti dello spirito dell’Opus Dei. Per esempio, la sua dimestichezza con gli Angeli, piena di fi­ducia, naturalezza e deferenza. Era una devozione colti­vata da bambino, esplicitata anche in una ingenua pre­ghiera infantile: «Angelo mio custode, dolce compagnia, di notte o di giorno non andare via»106. Non venne mai meno e si trasformò rapidamente in una autentica amici­zia. Dopo l’ordinazione sacerdotale cominciò a invocare anche il suo Arcangelo ministeriale107. La sua fede era così robusta, che registrò negli Appunti intimi numerosi favori ottenuti per intercessione angelica, tanto che si sentì in dovere di chiarire: «Non ho la pretesa che gli An­geli mi ubbidiscano. Ma ho l’assoluta sicurezza che i Santi Angeli mi ascoltano sempre»108.

Mons. Àlvaro del Portillo riferisce che, al termine delle tertulias serali, il Padre, mentre usciva dal locale e prima di superare la soglia della porta, si tratteneva un brevissi­mo istante per lasciar passare i suoi due Angeli109, parti­colare di cui non si poteva accorgere chi non conosceva il piccolo segreto. Era un gesto di deferenza che dimostra la viva fede del Fondatore e la naturalezza con cui tratta­va i suoi Angeli e ci ricorda anche la finezza di modi chelo portava a cedere il passo.

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Il Fondatore esercitò tutte le virtù cristiane, ma se si do­vesse indicare una virtù umana che visse in modo parti­colare, questa è la magnanimità, che comprende diverse virtù naturali e conduce direttamente e rapidamente a una donazione totale, creando le condizioni soggettive per darsi a Dio. Josemaria la possedeva fin da ragazzo e per questo, quando vide in un giorno d’inverno le orme di piedi scalzi sulla neve, si arrese di colpo e senza con­dizioni all’azione della grazia. La generosità che dimo­strò negli anni della gioventù fa da sfondo a questa de­scrizione di tale virtù:

«Magnanimità: animo grande, capiente, che fa posto a molti. E la forza che ci fa uscire da noi stessi, permet­tendoci di intraprendere opere grandi, a beneficio di tut­ti. Nel magnanimo non c’è posto per la meschinità, non viene a patti con l’avarizia, non fa calcoli egoistici né si serve di raggiri. Il magnanimo impiega senza riserve le sue forze in ciò che vale la pena; è quindi capace di of­frire se stesso. Non si accontenta di dare: semplicemente si dà. Così può arrivare a capire qual è la più grande di­mostrazione di magnanimità: darsi a Dio»110.

Egli non perse in nessun momento della vita questa grandezza d’animo, tanto necessaria perché il carisma fondazionale operasse conformemente alla natura di impresa universale, di origine divina, dell’Opus Dei. In­sieme alla consapevolezza di essere stato scelto come Fondatore, Dio gli aveva anche concesso l’umile convin­zione di non averne alcun merito. La vita spirituale del Padre poggiava sulla sicurezza di non valere nulla e di non essere nulla. Si autodefiniva un “asinelio rognoso” , uno “straccio sudicio” , uno “strumento inetto e sordo” , un “sacco di miserie” , “nulla e meno di nulla” . Davanti a Dio, si considerava un “ fondatore senza fondamen­to” , “ debolezza più grazia di Dio” , un “grande scioc­co” , “una misera fonte di miseria e di amore” , “un pec­catore che ama alla pazzia Gesù Cristo” . Aveva chiesto che sulla sua tomba venisse scritto Peccator e lo spiega­

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va così: «Perché lo sono e perché sento di esserlo»111. Erano definizioni che gli venivano alle labbra sponta­neamente e con semplicità e che ce lo mostrano muover­si tra la grandezza e la piccolezza, tra la magnanimità e l’umiltà.

Il Fondatore svolse la sua missione generosamente, con prontezza d’animo, al passo di Dio, fino a consu­marsi. Pregava senza soluzione di continuità e grazie al­la preghiera portò avanti l’Opus Dei. Una volta disse a don Javier Echevarria: «Javi, ricordatene per sempre! L’unico mezzo che abbiamo avuto e avremo sempre nel- l’Opus Dei è l’orazione. Pregare, pregare sempre! Anche se talvolta può sembrare di avere a disposizione tutti i mezzi umani, non è così! L’unica essenza dell’Opus Dei è la preghiera»112.

Nonostante fosse per davvero un uomo di orazione, in quanto Fondatore di una grande impresa apostolica era anche chiamato all’azione. La sua vita contemplati­va riuniva l’una e l’altra cosa e, con l’esempio e con la parola, insegnava ai suoi figli a fonderle nell’unità di vi­ta. Continuamente, in cento modi diversi, li incoraggia­va a essere contemplativi in mezzo al mondo.

Un pomeriggio d’estate, mentre il Padre era a Castel- gandolfo assieme ai suoi figli, giunse il momento previ­sto per fare l’orazione e il direttore glielo fece presente, ma egli replicò: «Ebbene, ciò che stiamo facendo non è forse orazione?»113. Una sua figlia racconta che un gior­no il Padre, alzandosi dopo aver lavorato a tavolino, disse: «Mentre lavoravo su queste carte ho mantenuto la mente e il cuore accanto al Tabernacolo; lo faccio sempre dal mio posto di lavoro»114.

Il suo programma era molto semplice: «Dobbiamo di­vinizzare la nostra vita, dobbiamo immergerci comple­tamente nell’amore di Dio, affinché agisca attraverso ciascuno di noi»115. Gli bastava un attimo - un pensiero fugace, una giaculatoria - per tuffarsi in Dio e per river­sare il fuoco che gli ardeva nel cuore in ciò di cui si sta­

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va occupando, dandosi, spendendosi, perché «fare le opere di Dio non è un grazioso gioco di parole, ma un invito a consumarsi per Amore»116. Pensando alle tante persone che hanno perduto il senso del soprannaturale e si dimenticano di servire Dio, il Padre ambiva lavorare nel nascondimento, in silenzio, con efficacia. Considera­va meraviglioso e invidiabile «consumarsi in un cantuc­cio, per il bene delle anime»117.

Con la grazia di Dio, a ventisei anni il Fondatore ave­va già la statura morale necessaria per compiere la sua missione. Nel 1964 scrisse una frase che si sarebbe po­tuta adattare a qualsiasi giorno della sua vita:

«Ho molto lavoro - il lavoro, nel nostro Opus Dei, è una malattia endemica e incurabile - e ho bisogno che preghiate per me, perché riesca a fare tutto bene e per­ché sia buono, fedele e allegro»118.

Consumò la vita facendo l’Opus Dei con fedeltà, co­scienziosamente. Il lavoro era tanto e le braccia insuffi­cienti per lavorare dall’alba al tramonto nella vigna del Signore; non ci si poteva permettere che venissero meno:

«Nell’Opera non possiamo permetterci il lusso di am­malarci e sono solito chiedere al Signore di mantenermi sano fino a mezz’ora prima di morire. C’è molto da fare e abbiamo bisogno di star bene per lavorare per Dio. Perciò dovete aver cura di voi, per poter morire vecchi, molto vecchi, spremuti come limoni, accettando fin d’o­ra la Volontà del Signore»119.

Quando uno dei suoi figli moriva, il Padre non riusci­va a nascondere il dolore e andava davanti al tabernaco­lo a sfogarsi filialmente. Poi se ne dava ragione: «Dio ne sa di più; non è un cacciatore in agguato, è un giardinie­re, che cura i fiori, li annaffia, li protegge e li recide solo quando sono più belli, rigogliosi. Dio coglie le anime quando sono mature»120. Restava comunque la pena che Dio se lo fosse preso, perché quel suo figlio avrebbe potuto lavorare ancora a lungo121.

Il Fondatore aprì nuove strade per tante anime, elevò

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le aspirazioni religiose di milioni di cristiani e indicò nuovi destini alla società. Ecco una sua affermazione, di grande valenza storica: «Ho pregato tanto, da poter af­fermare che tutti i sacerdoti dell’Opus Dei sono figli del­la mia orazione»122.

4. Un maestro di spiritualità

Per giungere a contemplare la Santissima Umanità di Cristo, Dio e Uomo, il Fondatore consigliava la lettura della Passione del Signore:

«Nei primi anni del mio lavoro sacerdotale, regalavo spesso il Vangelo o libri in cui si narrava la vita di Gesù: perché è necessario conoscerla bene, averla ben presente nella mente e nel cuore, in modo che, in ogni momento, senza più bisogno di libri, chiudendo gli occhi, possia­mo contemplarla come in un film e, quando dobbiamo decidere come comportarci, possiamo richiamare alla mente le parole e i gesti del Signore»123.

Si emozionava, contemplando «il fatto meraviglioso di un Dio che ama con un cuore umano»124 e cercava di avere sempre presenti i patimenti del Salvatore, che ama e soffre per redimere il mondo:

«Meditiamo su questo Signore, coperto di ferite per amor nostro. Usando un’espressione che si avvicina alla realtà, anche se non arriva a dire tutto, potremmo ripe­tere con un autore antico: ‘Il corpo di Gesù è un grande quadro di dolori’»125.

Don Josemaria era solito regalare libri di autori clas­sici, dal tono fortemente realista. Nel Trattato dell’ora­zione e della meditazione di S. Pietro di Alcantara, del 1533, lo stile è terso, intenso, talvolta patetico. Ecco la descrizione dell’Ecce Homo:

“ Quando apro gli occhi e vedo il quadro di dolori che mi viene messo innanzi, il cuore mi si spezza di dolore (...). Metti te stesso al posto di Colui che patisce e pensa

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quanto soffriresti se in una parte così sensibile come la testa ti configgessero molte grosse spine che penetrasse­ro fino all’osso. Ma che dico spine? Non potresti sop­portare neppure una puntura di spillo” 126.

Nel 1574 fu pubblicata la Vita di Cristo di Luis de Granada. Pilato pronuncia l'Ecce Homo:

“Immaginati quel volto divino, gonfio per le percosse, insozzato dagli sputi, martoriato dalle spine, cosparso di sangue in parte recente e fresco, in parte annerito e secco (...). Non sembrava più lui e addirittura non sem­brava quasi più un uomo, ma un quadro di dolori uscito dalle mani di quei crudeli pittori e di quel pessimo go­vernatore” 127.

Il Fondatore regalava spesso anche La Passione del Signore, del gesuita Luis de la Palma, edito in Alcalà nel 1624. Il suo stile barocco è dignitoso, erudito, devoto, anche se un po’ ridondante. Le scene sono vive, elo­quenti, difficili da dimenticare. Ecco come è descritto il medesimo punto:

“Pilato lo presentò al popolo così com’era, ferito e sanguinante, quasi nudo, con la clàmide lacerata e la co­rona di spine. Pallido e sporco, quasi non si reggeva in piedi dalla debolezza. Pilato aveva il Signore al fianco e bastava guardarlo perché anche il cuore più duro e in­callito ne avesse compassione. Si fece silenzio. Pilato, a voce alta, disse: Ecce Homo!” 12S.

La tradizione dei classici, oltre che realista, è vigoro­sa. Il francescano S. Pietro di Alcantara ci presenta un quadro gotico, fortemente segnato dal dolore. Il dome­nicano Luis de Granada dipinge un quadro rinascimen­tale, in cui brilla il sangue a rivoli. Nello stile del Fonda­tore si aggiunge un tono di intima commozione. Ecco come rappresenta la condanna a morte di Gesù:

«La corona di spine, confitta con violenza, ne fa un Re di burla... Ave Rex ludaeorum! Salve, Re dei Giu­dei! {Me 15,18). Lo percuotono ferendolo al capo. E lo schiaffeggiano... e gli sputano addosso. Incoronato di

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spine e vestito con cenci di porpora, Gesù viene mostra­to al popolo: Ecce Homo! Ecco l’uomo. E di nuovo i pontefici e le guardie gridarono: Crocifiggilo, crocifiggi­lo! (Gv 19,5-6). Tu e io, non siamo forse tornati a inco­ronarlo di spine, a schiaffeggiarlo, a coprirlo di sputi?

Mai più, Gesù, mai più...»129.Ed ecco le considerazioni che ne scaturiscono:«Il cuore si commuove nel contemplare la Santissima

Umanità del Signore ridotta una piaga (...). Guarda Ge­sù. Ogni squarcio è un rimprovero; ogni colpo di flagel­lo, un motivo di dolore per le tue offese e per le mie»130.

In queste riflessioni, che conducono al pentimento e a propositi di vita nuova, sta la forza dello stile. Basta uno sguardo, colto in mezzo alla confusione che regna sulla strada che sale al Calvario:

«Vi è un frastuono di grida; e, a intervalli, brevi silen­zi: forse quando Cristo fissa lo sguardo su qualcuno: ‘Se qualcuno vuol venire dietro a me, prenda la sua croce di ogni giorno e mi segua’»131.

Meditare la Passione di Cristo dà forza al cristiano, lo avvicina al Maestro, eccita nella sua anima la compun­zione e la riconoscenza. Eppure, ci sono persone che non scoppiano in lacrime di dolore e di amore davanti alla Passione di Cristo. «Forse è perché - dice il Fondatore - tu e io assistiamo alle scene, ma non le ‘viviamo’»132. Ge­sù va accompagnato da presso:

«Apri il Santo Vangelo e leggi la Passione del Signore. Leggere soltanto? No: vivere. La differenza è grande. Leggere è ricordare una cosa passata; vivere è trovarsi presente in un avvenimento che sta accadendo proprio adesso, essere con gli altri in quelle scene»133.

Presenza viva significa entrare nel Vangelo, immagi­narsi di essere fisicamente accanto a Gesù, di fargli com­pagnia. Il Fondatore praticava questo metodo di con­templazione già nel 1931, quando scrisse Santo Rosario, seguendo il cammino di infanzia spirituale che il Signore gli aveva mostrato. Egli pensava che ogni cristiano do­

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vrebbe memorizzare la Passione, per poterla evocare spesso, con una partecipazione personale e attiva: «In­terporre le nostre spalle quando lo flagellano, offrire il nostro capo alla corona di spine»134; anzi, di più, metter­si dentro le piaghe del Signore.

Alla fine, compiuto il Sacrificio, quando Gesù pende esanime dalla Croce, quando tutto sembra perduto e la solitudine avvolge il mondo, Nicodemo e Giuseppe d’A- rimatea chiedono coraggiosamente a Pilato il corpo del Signore:

«Io salirò con loro fino ai piedi della Croce, mi strin­gerò al Corpo freddo, al cadavere di Cristo, con il fuoco del mio amore..., lo schioderò con i miei atti di ripara­zione e con le mie mortificazioni..., lo avvolgerò nel len­zuolo nuovo della mia vita limpida, e lo seppellirò nel mio cuore di roccia viva, dal quale nessuno me lo potrà strappare, e lì, Signore, puoi riposare! Quand’anche tut­to il mondo ti abbandoni e ti disprezzi..., serviaml Ti servirò, Signore!»135.

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Il Fondatore teneva il pensiero fisso in Dio, sia negli esercizi di pietà, sia nelle ore di lavoro. In virtù del prin­cipio dell 'unità di vita, trasformava il lavoro e le sue oc­cupazioni in preghiera e contemplazione. Parlava di ‘materialismo cristiano’, del valore divino racchiuso nel­le cose di ogni giorno: «Per divinizzarci, per prima cosa dobbiamo essere molto umani».

«No, figli miei! Non ci può essere una doppia vita, non possiamo essere come degli schizofrenici, se voglia­mo essere cristiani: vi è una sola vita, fatta di carne e di spirito, ed è questa che dev’essere - nell’anima e nel cor­po - santa e piena di Dio: questo Dio invisibile lo tro­viamo nelle cose più visibili e materiali»136.

In quanto maestro di spiritualità, con la sua predica­zione intendeva diffondere il messaggio che «si sono

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aperti i cammini divini della terra» e perciò insegnava a materializzare le cose spirituali, utilizzando le potenze dell’anima e i sensi:

«Per favorire l’orazione - consigliava - conviene mate­rializzare anche ciò che vi è di più spirituale; ricorrere alla parabola, come insegna il Signore. La dottrina deve arri­vare alPintelligenza e al cuore attraverso i sensi: ora non ti stupirà che io ami tanto parlarti di barche e di reti»137.

Come testo di meditazione preferiva il Vangelo: la vita del Signore, quella della Madonna e degli Apostoli, l’in­contro di Gesù con personaggi secondari. Era sua abitu­dine entrare nel racconto evangelico. Un giorno, durante la Messa, racconta un testimone, don Josemaria stava leggendo il brano del capitolo 4 di S. Giovanni, dove si legge dell’incontro di Gesù con la Samaritana al pozzo di Giacobbe. Mentre leggeva, gli sfuggì un’esclamazione: «Che donna!». Una volta terminata la Messa, manifestò all’accolito la sua ammirazione per quella donna che, nonostante le sue miserie, è tra i pochi che riconoscono il Messia e che inizia subito a fare proselitismo138.

Gli bastavano poche parole per descrivere il carattere dei personaggi del Vangelo, tuttavia, a partire da brevi accenni sapeva elaborare ampi commenti, con profondo senso soprannaturale e con molto buon senso, come in questo caso su S. Giuseppe:

«Gesù dovette rassomigliare a Giuseppe in molti aspetti: nel modo di lavorare, nei lineamenti del suo ca­rattere, nell’accento. Il realismo di Gesù, il suo spirito di osservazione, il modo di sedere a mensa e di spezzare il pane, il gusto per il discorso concreto, prendendo spun­to dalle cose della vita ordinaria: tutto ciò è il riflesso dell’infanzia e della giovinezza di Gesù, e quindi pure il riflesso della dimestichezza con Giuseppe»139.

A forza di leggere e di meditare la vita di Gesù, appre­se lo stile delle parabole e riusciva con semplicità, in modo comprensibile a tutti, a «materializzare perfino le cose più spirituali». Da un evento in sé poco significati­

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vo, per esempio, ricavava subito un’immagine che inter­pretava in termini spirituali. La contemplazione della natura lo conduceva immediatamente a Dio, alle cose divine. Una volta, passeggiando lungo una spiaggia vici­no a Valencia, vide un filare di alberi che si stendeva tra il mare e i campi coltivati. Gli alberi erano tutti contor­ti, sbatacchiati dal vento e bruciati dalla salsedine. «Co­sì dovete essere tutti voi - disse a chi gli stava accanto vicino -, alberi di prima linea, che si consumano per proteggere gli altri alberi della Chiesa»140.

Tanti fatti della vita quotidiana lo commuovevano profondamente e lo disponevano alla contemplazione, perché gli ricordavano parabole evangeliche. Ecco come inizia una sua omelia:

«Mi è rimasta impressa, e me ne sono servito più vol­te per la mia orazione, una scena a cui ho assistito molti anni fa percorrendo una strada di Castiglia: degli uomi­ni conficcavano con forza nel terreno dei pali e vi fissa­vano la rete che avrebbe delimitato il recinto per il greg­ge. Poco dopo, giunsero sul posto i pastori con le pecore, con gli agnelli; li chiamavano per nome ed essi, a uno a uno, entravano nell’ovile per restare, tutti insie­me, al sicuro»141.

Vedeva se stesso come pecora di Cristo e pastore dei suoi figli nell’Opus Dei:

«Amo tanto l’immagine di Cristo circondato a destra e a sinistra dalle sue pecore, che ne ho fatta collocare una nell’oratorio in cui abitualmente celebro la Santa Messa; e in altri posti ho fatto incidere, per risvegliare la presen­za di Dio, le parole di Gesù: ‘Conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me’ (Gv 10,14), affinché in ogni istante consideriamo che Egli ci richiama, ci istruisce e ci dirige come un buon pastore il suo gregge»142.

«Sveglia o richiamo della presenza di Dio» era tutto ciò che ricordava al Fondatore la sua missione: le parole e gli oggetti che risvegliavano la sua attenzione interiore e il suo amore. Li chiamava anche «accorgimenti uma­

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ni», intendendo non solo gli oggetti sacri, come i croci­fissi e le immagini della Madonna o i brani della Sacra Scrittura, ma anche le cose più svariate: un asinelio, una carta geografica, un fiore, una foto di famiglia, un mat­tone... Nel 1928, a Madrid, don Josemaria teneva sul tavolo un piatto di ceramica di Talavera, rotto e riaggiu­stato con punti di metallo, nel quale vedeva raffigurata la propria fragilità, ricomposta dall’amore di Dio143.

Gli oggetti più banali diventavano così simboli e ri­cordi che incitavano all’ascesi o alla contemplazione. A Villa Tevere si ritrovano un po’ dappertutto disegni, iscrizioni, cartigli, scudi..., un modo vivo per favorire la presenza di Dio.

Il Fondatore sentiva premura di vedere compiuta la propria missione divina e ci si impegnava con tutte le forze, utilizzando immagini evangeliche che sintetizza­vano con forza ed efficacia i suoi sentimenti:

«Possiamo comprendere le meraviglie della chiamata divina. La mano di Cristo ci raccoglie dal granaio: il Se­minatore stringe nella sua mano piagata la manciata di grano. Il sangue di Cristo bagna la semente, la imbeve. Poi il Signore getta in aria quel grano, affinché morendo sia vita e, affondando nella terra, sia capace di moltipli­carsi in spighe dorate»144.

* * *

Il Fondatore amava definirsi un sacerdote che parlava soltanto di Dio, e lo era. La sua dedizione alla missione apostolica lo portò a predicare il messaggio della santi­ficazione in mezzo al mondo, consacrandovi per intero le sue facoltà. I suoi rapporti dapprima con centinaia di giovani, poi con donne e uomini più maturi, sacerdoti e laici, gli diedero una tale conoscenza dell’anima umana e tanta fu la grazia che accompagnò il suo lavoro sacer­dotale, che difficilmente si può trovare un direttore d’a­nime con maggiore esperienza. I libri che scrisse per for­

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mare uomini e donne di preghiera e di criterio cristiano ne offrono un saggio. Molte pagine, poi, sono autobio­grafiche e in esse egli ci riferisce la sua lotta e le sue de­bolezze, di cui Dio vuole sempre servirsi per aiutare gli uomini a diventare santi:

«Esamino la mia condotta e mi sgomento di fronte al cumulo delle mie negligenze. Mi basta ripercorrere le poche ore che ho trascorso in piedi in questo giorno, per scoprire tante mancanze di amore, di corrispondenza fe­dele. Mi addolora davvero il mio comportamento, ma non mi toglie la pace. Mi prostro davanti a Dio e gli espongo con chiarezza la mia situazione. Subito ricevo l’assicurazione della sua assistenza e sento in fondo al cuore che Egli mi ripete lentamente: ‘meus es tu! {Is 43,1); sapevo - e so - come sei, avanti!’»145.

Il Fondatore andava avanti, come un rompighiaccio, facendo strada agli altri. Parlava della propria esperien­za, delle difficoltà che aveva incontrato, della tattica che aveva applicato e dei mezzi per superare gli ostacoli. Per non parlare troppo di se stesso e preservare l’umiltà, narrava gli episodi della propria vita in terza persona:

«Diceva - senza finta umiltà - quel nostro amico: ‘Non ho avuto bisogno di imparare a perdonare, perché il Signore mi ha insegnato ad amare’»146.

Per evitare riferimenti personali e restare nell’anoni­mato utilizzava espedienti letterari, soprattutto quando doveva descrivere atti virtuosi: «Raccontano di un’ani­ma... C’era un povero sacerdote... Un mio conoscente una volta ha sognato... So di uno che usava come se­gnalibro...». Viceversa non aveva difficoltà a mostrare le sue debolezze, se potevano essere di insegnamento per gli altri. Talvolta, per esempio, la sera, mentre attornia­to dai suoi figli ripassava la giornata di lavoro, gli sfug­giva una esclamazione contrita: «Signore, Josemaria non è contento di Josemaria»147.

Nella predicazione e negli scritti usava in modo carat­teristico i pronomi ‘tu’ e ‘io’, affinché chi ascoltava o

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leggeva non rimanesse da solo a prendere decisioni im­pegnative. Quando esaminava la condotta delle persone che dirigeva, non si esimeva mai dallo spronarle alla santità, facendo in modo che formulassero un proposi­to, seppur molto piccolo, di miglioramento. Ma non pretendeva di imporre un metodo specifico di orazione0 un particolare cammino spirituale148.

Don Josemarìa fu indubbiamente un maestro di vita interiore, per la sua dottrina e per il dono del consiglio, ma soprattutto per aver scalato per primo le vette che conducono alla santità. Nella direzione spirituale era, nello stesso tempo, comprensivo ed esigente. Conduce­va le anime lungo un percorso inclinato, intensificando­ne la vita di pietà ed eliminandone difetti e imperfezioni.1 delicati suggerimenti di cui sono pieni i suoi libri non provengono certo da uno studio teorico, ma dall’esame di coscienza personale e dalla sua stessa lotta ascetica.

Scrisse in Solco: «Lascia che ti ricordi, tra gli altri, al­cuni sintomi evidenti di mancanza di umiltà:

pensare che ciò che fai o dici è fatto o detto meglio di quanto dicano o facciano gli altri;

volerla avere sempre vinta;discutere senza ragione o, quando ce l’hai, insistere

caparbiamente e in malo modo;dare il tuo parere senza esserne richiesto e senza che

la carità lo esiga... » 149.È sempre stato così: i maestri di vita interiore acquisi­

scono una fine perspicacia proprio grazie allo sforzo di liberarsi dei propri difetti:

«Quanto più si procede nella vita interiore, tanto più chiaramente ci si accorge dei difetti personali. L’aiuto della grazia diventa come una specie di lente d’ingrandi­mento, per cui la più piccola inezia di fango, il granello di polvere quasi impercettibile, risaltano in dimensioni gigantesche, perché l’anima acquisisce la finezza divina, e così anche la più piccola ombra disturba la coscienza che apprezza soltanto il lindore di Dio»150.

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5. Amare appassionatamente

Risalendo agli eventi più significativi della vita del Fon­datore prima del 1928, ci si rende conto che il Signore10 preparò per caricarsi sulle spalle il peso glorioso di un’impresa divina. L’elezione divina risale alle origini del mondo, perché, come scrive S. Paolo agli Efesini, Dio “ci ha scelti prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto” 151. Questa frase riempiva di dolcezza il cuore di Josemaria, perché «esiste una gioia più grande che sentirsi amato in questo modo dal Creatore dei cieli e della terra?»152. Come i grandi santi della storia, un giorno egli s’imbatté in un simbolo vivo dell’amore di Dio e si emozionò nel più profondo dell’anima, provando «una dolce scossa». Davvero «l’incontro di Dio con ciascun uomo è ineffa­bile e irripetibile»153. Ciò che caratterizzò la risposta di Josemaria, ancora ragazzo, fu la sua risolutezza: non esitò a donarsi. A partire da quel momento esatto s’im­barcò in un progetto di amore, in una divina avventura di cui ignorava gli sviluppi.

La voce di Dio lo chiamò per nome: “Ego vacavi te nomine tuo: meus es tu! Ti ho chiamato per nome, tu mi appartieni” 154. Per tutta la vita queste parole del profeta Isaia avrebbero risvegliato nella sua anima ricordi inef­fabili:

«Non so che cosa capiti a te..., ma io ho bisogno di confidarti la mia emozione interiore quando leggo le pa­role del profeta Isaia: ‘ego vocavi te nomine tuo, meus es tu!’. Io ti ho chiamato, ti ho portato nella mia Chiesa, sei mio! Dio mi dice che sono suo! C ’è da diventare pazzi d’Amore !»155.

La chiamata - afferma il Fondatore - «è una cosa ma­gnifica, come quando ci si innamora (...). Bisogna dare11 cuore indiviso, intero, perché altrimenti il cuore si at­tacca ad altro»156. Inoltre, il Signore è geloso: «Gesù non si accontenta di ‘compartecipare’: vuole tutto»157.

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L’episodio delle orme di piedi scalzi nella neve ci mo­stra un cuore adolescente, generoso, ardente e appassio­nato: «Che bello dare il cuore a Dio quando si hanno quindici anni!»158. Ma questo avvenimento non fu che l’inizio di una lunga avventura di amore, di fedeltà, di gioia e di sacrifici, per essere sempre disponibile alla Vo­lontà divina. Tale costanza non è il risultato di un entu­siasmo passeggero, ma una caratteristica incancellabile della personalità del Fondatore, sublimata dalla grazia divina.

Un’audacia senza limiti, alimentata dal distacco, lo spinse a rischiare tutto senza riservarsi nulla, come il mercante di perle di cui parla il Vangelo, che vendette ogni cosa per comperare una perla meravigliosa, di grande valore. Donarsi interamente all’Amore implicò enormi sacrifici. Il giovane studente rinunciò al sogno di diventare architetto e di fondare una famiglia. Dovette seguire strade più difficili, senza badare ai propri gusti, respingendo qualsiasi possibilità di deviare dalla via che gli era stata mostrata. Non fu una infatuazione passeg­gera. Passò dieci anni a ripetere continuamente «Domi­ne■, ut videamì», con un esercizio di perseveranza tipico di chi è veramente innamorato e sa aspettare anni nel dolce tormento dell’attesa.

Né in privato né in pubblico faceva mistero di essere follemente innamorato: «Sono matto da legare, ma per il Signore»159. Tutto il suo essere traboccava di amore di Dio, come si legge negli Appunti intimi: «Vorrei scrivere libri di fuoco e farli correre per il mondo come una fiamma viva che illumini e riscaldi gli uomini, trasfor­mando tanti poveri cuori in braci, per offrirli a Gesù co­me rubini della sua corona di Re»160.

Questi libri sono Cammino, Santo Rosario, Via Cru­cis, Solco, Forgia, È Gesù che passa, Amici di Dio... Nella lettura ci si rende subito conto che il linguaggio e le espressioni sono l’eco dei pensieri dell’autore: «acca­rezzare Dio, essere pazzo d’amore, divinizzare la nostra

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vita, sentirsi coccolato dal Signore, divinizzarci». Espressioni che conducono direttamente alla «via giu­sta» che il Fondatore raccomandava per avvicinarsi a Dio: la santissima Umanità di Cristo161. «Dobbiamo es­sere Cristocentrici: mettere Cristo al centro della nostra vita»162. Cristo è il Mediatore, intorno al quale gravita­no i cieli e la terra. In Cristo, perfetto Dio e perfetto Uo­mo, troviamo un ideale veramente divino, perché l’uo­mo, che si identifica in Cristo, divenuto un altro Cristo mediante la grazia, si divinizza per partecipare delle ric­chezze dei figli di Dio.

«Mi riempie di gioia considerare che Cristo ha voluto essere pienamente uomo, di carne come noi»163, diceva commosso il Fondatore. Ha preso carne come la nostra. Gli uomini lo amano con un cuore di carne e con il cuo­re gli uomini si intendono con Dio164.

Don Josemarìa non considerò virtù acquisita, ma un dono naturale, possedere un cuore estremamente delica­to. Perciò talvolta si propose come «esempio di uomo che sa amare»165. Qual era il suo modo di amare? Non era un amore “disincarnato” o “ spiritualista” , perché «Dio non ci chiede cose disumane»166, e nemmeno mi­surato e mediocre. Per lui l’Amore stava sullo stesso pia­no di passioni fortissime, talvolta violente ed esclusive, impetuose ed egoiste:

«Mi dici di sì, che ami. Bene: ma ami come un avaro ama il suo oro, come una madre ama suo figlio, come un ambizioso ama gli onori o un povero sensuale il suo piacere? No? Allora non ami»167.

Con audacia da innamorato chiedeva un cuore a mi­sura del Cuore di Gesù, «un Cuore amante e amabilissi­mo, che ama fino alla morte e soffre; che si riempie di gioia e di dolore; che si entusiasma per i cammini degli uomini, e ci mostra quello che conduce al Cielo»168. Un cuore per essere «molto umani e molto divini»169, stret­tamente uniti a Dio, immersi in Lui, affinché il suo amo­re agisca attraverso ciascun uomo. Non metteva limiti

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all’amore. Amava con incredibile entusiasmo le cose del Cielo e della terra, perché «è in mezzo alle cose più ma­teriali della terra che ci dobbiamo santificare, servendo Dio e tutti gli uomini»170.

Da questa profonda unità di vita nasceva in lui «la necessità e quasi l’istinto soprannaturale di purificare tutte le azioni, di elevarle al piano della grazia, di santi­ficarle e di trasformarle in occasione di unione persona­le con Dio, per compiere la sua Volontà, e in strumento di apostolato»171. Don Josemaria apparteneva a quel genere di «anime contemplative che portano la propria cella nel cuore e che percorrono tutte le strade della ter­ra per renderle divine, santificando il lavoro»172. Era uomo di spirito sacerdotale e di mentalità laicale, che si definiva ora «un peccatore che ama pazzamente Gesù Cristo», ora «un sacerdote di Cristo che ama appassio­natamente il mondo»173.

ir 55- *

“Dio ha tanto amato il mondo - dice S. Giovanni - da dare il suo Figlio Unigenito, perché chiunque crede in Lui non muoia, ma abbia la vita eterna” 174. Con assolu­to distacco, don Josemaria mise al servizio della corre- denzione tutto ciò che aveva ricevuto da Dio: le sue doti, il carisma di fondatore e lo stesso Opus Dei con le sue at­tività apostoliche. Tutta la sua vita per un’unica missio­ne: in tutte le sue parole c’è un’unica intonazione, nei suoi progetti un’unica ispirazione; per questo nei suoi scritti si ritrova un peculiare stile letterario. Il suo lin­guaggio va ben oltre ciò che uno spirito mediocre po­trebbe considerare “ sufficiente” per rivolgersi a Dio. Nei suoi «libri di fuoco» le espressioni dell’amore crepitano come scintille e i cuori che li leggono, come rubini infuo­cati, si sentono trascinare in un mistico olocausto175.

Il linguaggio dei santi è stato sempre colmo di iperboli, di espressioni veementi, di eccessi poetici. San Josemaria

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non fece eccezione; ecco come un punto di Forgia trasmet­te l’eco del grido di Gesù, così come egli l’aveva udito:

«Io ti sento gridare, o mio Re, a viva voce, ancora og­gi vibrante: Ignem veni mittere in terram, et quid volo nisi ut accendatur? Sono venuto a portare il fuoco sulla terra, e che altro voglio se non che arda?»176.

Il discepolo risponde con tutto se stesso, disposto ad appiccare il fuoco al mondo intero: «Eccomi, perché mi hai chiamato!». E lo supplica di dargliene la forza:

«O Gesù..., irrobustisci le nostre anime, spianaci la via e, soprattutto, inebriaci d’Amore! Trasformaci in falò viventi, per incendiare la terra con il fuoco divino che Tu hai portato»177.

«Sciogli e infiamma il mio cuore di bronzo, brucia e purifica la mia carne immortificata, riempi il mio intel­letto di luci soprannaturali, fa’ che la mia lingua procla­mi l’Amore e la Gloria di Cristo»178. Per assicurarsi che l’incendio attecchisca, chiede agli Angeli che soffino sulla brace nascosta dei cuori e invoca la Santissima Vergine:

«Dolce M adre..., portaci alla follia che renda pazzi del nostro Gesù anche altri. Maria, Dolce Signora: l’A­more non sia, in noi, falso incendio di fuochi fatui, pro­dotto magari da cadaveri in decomposizione...: sia au­tentico fuoco divoratore, che incendi e bruci tutto ciò che tocca»179.

La vita del Fondatore fu davvero la vita di un mistico in mezzo al mondo, la vita di un uomo perdutamente innamorato di Cristo.

6. Il carisma fondazionale

Don Josemaria non pensò mai di fare il letterato. Pur avendone certamente le doti, preferì, senza alcuna esita­zione, mettere la sua penna al servizio delle anime. Scrisse molto a questo scopo, ma non tutto ciò che avrebbe voluto; a motivo della vastità dei suoi impegni

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fondazionali, dovette rinunciare a molti progetti. La mancanza di tempo influì sulla struttura delle sue opere, che non compose in maniera sistematica e accademica. Per lo più sono pensieri rivolti alle anime che vogliono essere contemplative in mezzo al mondo. Cammino, Solco e Forgia sono tre raccolte di riflessioni vivaci e brevi; Colloqui comprende alcune interviste; E Gesù che passa e Amici di Dio sono raccolte di omelie.

Alcuni di questi libri nascono dagli Appunti intimi e furono pubblicati dopo la morte dell’autore. Gli Appun­ti sono, in buona parte, mirabili note di vita interiore, che rivelano una stupefacente precocità spirituale, che si sviluppa in parallelo alla gestazione dell’Opus Dei. Essi contengono, per esempio, le tracce essenziali dello spiri­to del Fondatore e delle ispirazioni fondazionali, che sa­ranno ora trattati al fine di comprendere la parte avuta da don Josemarìa nel plasmare l’Opus Dei e il ruolo che vi hanno avuto le ispirazioni divine.

Sinteticamente, si può affermare che la realizzazione storica dell’Opus Dei è emanazione del carisma fonda- zionale, una grazia speciale di Dio, incarnato nella per­sona del Fondatore180. Quando egli ricevette l’incarico di iniziare l’Opus Dei aveva «ventisei anni, grazia di Dio e buon umore». In che misura si unirono al carisma la sua giovane età e il suo buon umore, ossia con la sua personalità e il suo stile di vita, le sue virtù e le sue qua­lità umane?

La teologia insegna che in questo genere di eventi Dio rispetta la libertà della persona, senza imporsi né co­stringere. D’altra parte, l’agire di don Josemarìa è carat­terizzato dalla docilità alle mozioni divine, in modo che la sua volontà, fedele alle luci della missione ricevuta, si adeguava al volere di Dio, ma senza dismettere le carat­teristiche della sua personalità: fede gigante e amore ap­passionato, senso positivo e pratico della vita, genero­sità, ottimismo e altre virtù umane che possedeva già prima della fondazione.

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Sul modo di operare della grazia, ecco una annotazio­ne del giugno 1930: «Mentre cercavo di riassumere le at­tività dei membri, il Signore mi ha forse fatto intravedere una scintilla. Naturalmente, mi rendo conto che non è una cosa definitiva, una illuminazione, bensì un piccolo sprazzo di luce»181. Se ne deduce che i lumi del carisma fondazionale non davano a don Josemaria le soluzioni pronte per ogni questione particolare, ma gli servivano di orientamento per trovare il modo pratico di fare l’O- pus Dei. Tutto ciò gli richiedeva impegno fisico e menta­le, lo sforzo necessario per non farsi sfuggire tali piccoli sprazzi di luce. Le illuminazioni straordinarie del Signo­re, non molto frequenti, avevano lo scopo di mostrargli l’essenza dell’Opus Dei, ispirandogli alcune «idee-ma­dri» che egli doveva poi sviluppare per proprio conto.

Don Josemaria conobbe lunghi periodi in cui il Signo­re gli ritirò ogni luce e altri in cui dovette lasciarsi con­durre per mano senza poter vedere, docile come un bambino. Uno dei periodi di silenzio, cui già si è accen­nato a suo tempo, iniziò nell’ottobre 1928, subito dopo aver ricevuto «l’illuminazione su tutta l’Opera»182. Da quel momento fu privato delle ispirazioni con le quali il Signore in precedenza lo aveva assistito. «Passò più di un anno senza che Gesù parlasse: per dare la prova che il suo asinelio era solo lo strumento... e un pessimo stru­mento!»183. L’attività fondazionale rimase momentanea­mente sospesa finché, nel novembre 1929, don Jose­maria riebbe un aiuto speciale e concreto, «il rinnovo della corrente spirituale di divina ispirazione per l’Ope- ra di Dio, che permise di delineare e determinare ciò che Lui voleva»184.

L’Opus Dei è opera di Dio e non degli uomini. Ciò chiarisce in che cosa consiste la cooperazione del Fon­datore al disegno divino. Don Josemaria vide, per illu­minazione soprannaturale, l’essenza del progetto e rice­vette il seme dell’Opus Dei nella mente e nel cuore. Scelto da Dio, competeva a lui la realizzazione del piano

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divino. Per farlo aveva pur sempre bisogno di assistenza dall’alto, perché doveva lavorare entro il dettame della grazia fondazionale. Se s’imbatteva in ostacoli umana­mente insuperabili, aspettava che il Signore gli indicasse la strada con illuminazioni speciali. «Dio farà luce al momento giusto», scrisse in uno di questi momenti185.

Non è facile peraltro trovare un giusto equilibrio spiri­tuale, abbandonandosi nelle braccia della divina Provvi­denza, senza cadere nella presunzione che Dio sia al pro­prio esclusivo servizio come un deus ex machina: sarebbe tentare Dio. Dopo avere fatto un atto di fede sul fatto che il Signore lo avrebbe illuminato nel tempo e nel modo che avrebbe giudicato opportuni, don Josemaria continuava a riflettere sull’attività specifica dell’Opera:

«Può sembrare che mi preoccupi del sostentamento dell’Opera e che non abbia sufficiente fiducia nella divi­na Provvidenza. Non è così. Quante volte l’ho toccata con mano! Ma non bisogna tentare Dio (...). Ci sono opere di zelo piccole, che comportano pochi costi, ma non arrivano a compimento perché la fede, che certuni dicono di avere nella Provvidenza, non è tale: è pretesa di obbligare Dio a fare miracoli senza necessità»186.

Il sistema per evitare il falso provvidenzialismo consi­ste sì nell’avere molta fede, ma anche «nell’utilizzare tutti i mezzi che impiegheremmo in un’altra questione, (insieme all’Orazione e all’Espiazione)»187. Ecco uno dei principi pratici ai quali il Fondatore si ispirò sempre e che trasmise ai fedeli dell’Opus Dei: non aspettarsi mi­racoli se prima non sono stati utilizzati i mezzi adeguati e non si è lavorato con impegno.

Man mano che l’impresa si sviluppava, «andavo an­notando e delineando l’Opera», diceva il Fondatore con la sua modestia188. Conviene qui ricordare che i quader­ni degli Appunti intimi iniziano dalla metà di marzo del 1930, un mese dopo che il Signore aveva provveduto a correggere l’idea di don Josemaria che nell’Opus Dei non ci sarebbero state donne.

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Era l’inizio della fondazione. Don Josemarìa non ave­va ancora a Madrid un confessore fisso con il quale aprire la propria anima. Ciò che scriveva negli Appunti erano pensieri e idee da meditare alla presenza di Dio.

Nelle prime annotazioni salta all’occhio del lettore at­tento la prontezza con cui don Josemarìa faceva entrare le donne in tutti i suoi progetti apostolici, indicandone con audacia i campi d’azione specifici. Fin dall’inizio egli previde per loro attività analoghe a quelle degli uo­mini, da svolgere in piena autonomia. Era commosso e riconoscente per la novità: il Signore voleva nell’Opus Dei anche le donne.

Il Fondatore vedeva gli uomini e le donne dell’Opera impegnati a «immunizzare dalla corruzione l’intera so­cietà», ma con la gioia di perfezionarla, risanarla e la­varla dai suoi peccati. La immaginava come un malato che avrebbe recuperato la salute che viene da Cristo gra­zie a una cura nuova ed efficace di «iniezioni endoveno­se, cioè agli uomini e alle donne, che entreranno nel si­stema circolatorio di ogni classe sociale»189.

Accanto all’attività di apostolato universale dei fedeli dell’Opus Dei, svolta in seno al mondo, senza lasciare il proprio posto, abbandonare la professione o cambiare di stato, il Fondatore indicava specifiche iniziative. In una nota del 13 marzo 1930, a proposito dell’apostola­to delle donne dell’Opera in altri Paesi, annotava la pos­sibilità di creare un centro docente, una «Accademia di lingue vive che, come ogni altra impresa, paghi allo Sta­to le imposte e che si faccia pagare il giusto dalle alunne: non dare niente gratis»190. Don Josemarìa, infatti, non voleva privilegi per le future iniziative apostoliche e non desiderava che fossero annoverate tra le istituzioni di beneficenza esenti da imposte, a meno che non ci fosse un valido motivo giuridico.

Nel 1933, quando fu aperta l’Accademia DYA, la pri­ma opera corporativa dell’Opus Dei, don Josemarìa vol­le che fosse un’iniziativa di carattere civile. La sua men­

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talità laicale (che è rimasta nell’Opus Dei) gli fece segui­re sempre lo stesso criterio pensato nel 1930 per l’« ac­cademia di lingue vive». Dunque, nessun privilegio. Pa­garono tutte le tasse previste ed ebbero gli stessi diritti di altre Accademie simili. Nel 1961, prima che fosse inaugurato Strathmore College, a Nairobi, il Fondatore spiegò ai suoi figli che questa scuola interrazziale avreb­be accolto studenti non cattolici e non cristiani; non do­veva in nessun modo essere confessionale191.

Nei primi tempi, quando tutto era ancora da fare, don Josemaria cercava di prevedere le difficoltà del fu­turo. Come avrebbero fatto le donne dell’Opera dopo alcuni anni, prive di sacerdoti che si occupassero della loro direzione spirituale e dell’amministrazione dei sa­cramenti nei loro Centri? Nelle località rurali - scrisse - «si faccia una convenzione con il parroco - dandogli un compenso dignitoso e generoso - affinché vada ogni giorno a ora fissa nel Centro dell’Opera»192. Nelle case in città «ci siano cappellani ben pagati» e «queste cap­pellate siano molto ben dotate, così da poter scegliere personale ben formato, in tutti i sensi»193.

Il Fondatore desiderava inoltre che si chiedesse al par­roco di fare mensilmente una esposizione solenne del Santissimo Sacramento nei Centri delle donne e, per tale occasione, raccomandava alle sue figlie di non rispar­miare generosità e devozione: «Siano splendide con il Signore: molte candele di buona cera, molta ricchezza nell’ostensorio e nei paramenti, molto fervore, molta orazione»194.

A tali raccomandazioni, esplicitate in vista di un futu­ro che la fede del Fondatore anticipava, si aggiungevano altri spunti che nascevano dalle sue esperienze pastorali. Tanti uomini, per esempio, si allontanavano dalla Chie­sa perché non potevano prender parte agli atti di culto che si svolgevano durante l’orario di lavoro. Bisognava dunque riavvicinarli alle parrocchie, dar loro la possibi­lità di ricevere i sacramenti, convincerli che recarsi in

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chiesa non è cosa di donne. In una società sempre più lontana da Dio, don Josemaria cercò di estendere a tutti la conoscenza e la pratica della religione. Riassumeva il suo programma d’azione in poche parole: «Ci sia viri­lità, arte, puntualità, devozione seria e solida: sono sicu­ro che gli uomini risponderanno»195.

L’accenno alla «virilità» tocca anche un aspetto esteti­co; bisognava far sparire dalle chiese ogni decorazione inopportuna e sdolcinata, ristabilendo il buon gusto nel­l’arte sacra. Il senso del decoro liturgico portava don Jo­semaria a denunciare l’imperante sciatteria: «Molta luce elettrica, sulla pala d’altare e persino sul tabernacolo dell’Esposizione. Festoni e siparietti da teatrino di pro­vincia. Orribili fiori di carta e di pezza. Immagini ma­nierate, di marzapane. Pizzi e leziosità femminili su ca­mici e tovaglie... »196.

La ricchezza di idee, di suggerimenti per l’apostolato, di soluzioni pratiche o di osservazioni estetiche di cui so­no pieni gli Appunti ci consente da una parte di ammira­re l’ampiezza dei progetti che nascevano nella mente del Fondatore, dall’altra di verificare come e quando presero corpo, col passare del tempo, tante cose che nel 1930 erano soltanto in germe, molte delle quali hanno uno stretto legame con la vita interiore di don Josemaria.

Dalla sua pietà eucaristica, per esempio, nacquero pregevoli soluzioni artistiche per molte chiese e oratori, tanta ricchezza nei vasi sacri e negli ostensori, una cura particolare per la pulizia della biancheria per l’altare e della sacrestia, una assoluta fedeltà nel seguire le norme liturgiche. Impegnava tutta la propria generosità nel culto eucaristico e tutti i suoi figli appresero dal suo esempio e dalla sua parola la grande devozione per il Santissimo Sacramento. Si proponeva di ricompensare con gratitudine e magnificenza i ministri del Signore. Tuttavia, nel progettare la pubblicazione di una rivista da inviare a tutti i Parroci, precisava che sarebbe dovuta essere «molto a buon mercato, ma non gratis»197.

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Nel caso che le donne dell’Opera si fossero dovute oc­cupare del necessario per il culto in parrocchia, suggeri­va loro di non dimenticarsi di fornire anche «quasi gra­tuitamente - mai però gratis, mai niente gratis! - le ostie e il vino per il Santo Sacrificio»198. Indicazione analoga a quella già ricordata sulle rette della «Accademia di lin­gue vive»199.

Per impartire formazione a persone di modesta condi­zione economica, bisognava - scrisse il Fondatore - in­dirizzarle a un Centro adeguato alle loro possibilità, do­ve potessero usufruire di «comodità a buon mercato, ma non gratis»200.

Perché questa insistenza su non dare mai nulla gratis? Don Josemarìa era naturalmente generoso e dunque non si trattava di una sorta di taccagneria. Don Jose­marìa spiegava con semplicità lo scopo dell’avvertimen­to: «Noi esseri umani siamo abituati a non dare molta importanza a ciò che non ci costa denaro. Perciò, mai nulla gratis»201. Proverbi popolari sono stati inventati per dire che ciò che costa poco viene stimato poco.

Alla fine di agosto del 1930 scriveva ancora negli Ap­punti: «Si è già detto altre volte, come un principio irri­nunciabile dell’Opera di Dio, che nulla è gratis. E credo che così debba essere»202. Abbastanza rapidamente, il principio del «nulla gratis» si trasformò in un concetto più organico: «l’apostolato del non dare»203, che consi­ste, secondo don Josemarìa, nel fare apostolato con buon senso204. Questi princìpi di economia nell’apostolato na­scondono una fine carità. Dando una modesta somma, infatti, coloro che beneficiano dei centri di assistenza o di insegnamento possono affermare in coscienza di contri­buire al mantenimento del centro e considerare cosa pro­pria gli impianti e le attrezzature. Forse l’interessato non si rende nemmeno conto che le cose gli vengono date quasi gratuitamente e il suo piccolo sacrificio economico fa sì che non si senta umiliato, che si impegni di più e ab­bia maggiore considerazione per ciò che ha pagato205.

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Si tratta di norme pratiche, nate dall’intenzione di ot­tenere la massima efficacia apostolica; ma sono anche genuina espressione della mentalità laicale e dello slancio che don Josemaria cercava di dare al suo apostolato. La realizzazione storica dell’Opus Dei, il suo radicamento nella società, non furono un’operazione astratta sulla base di una teoria sociologica, ma un tentativo di ricri­stianizzare la società dalPinterno, come il lievito fa lievi­tare la pasta o come un’iniezione endovenosa agisce sul­l’organismo di un paziente. Il Fondatore si assunse anche il compito, come è logico, di sistematizzare la nuova dot­trina teologica e pastorale che stava nascendo.

Egli, dovendo materializzare lo spirito dell’Opus Dei, andò avanti a tutti, con l’esempio e con la parola. Per esempio, praticò l’«apostolato del non dare», l’«aposto­lato dell’orazione», P«apostolato ad fidem», l’«aposto- lato della mensa»; e ancora quello epistolare, quello del­la dottrina, quello della discrezione, quello dell’amicizia e della confidenza, dell’intelligenza, della sofferenza; e, infine, come si è visto, «l’apostolato del divertimento», l’«apostolato dell’esempio» e persino in prima persona P«apostolato degli apostolati», cioè il servizio domestico nelle Residenze. È logico che le molteplici sfaccettature del suo apostolato richiedessero tempo e sforzo per por­tare avanti un’impresa la cui realizzazione era superiore alle sue forze. Riferendosi alla propria pochezza di stru­mento nelle mani di Dio, scriveva, nel dicembre 1931:

«Rileggendo ieri certe annotazioni del primo quader­no di Caterine ho capito quanto grande fosse la mia ignoranza della vita spirituale. Questa deprecabile cir­costanza, Gesù, mi ha fatto accostare a Te con più amo­re, perché si ammira di più l’artista che crea un’opera meravigliosa con uno strumento grossolano e spropor­zionato»206.

L’Opus Dei andò avanti «al passo di Dio». Molte vol­te don Josemaria non trovò soluzione ai problemi, forse perché non c’era, come nel caso della collocazione giuri­

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dica. Altre volte, mancandogli una illuminazione straor­dinaria, agiva quasi alla cieca, sotto la mozione della grazia e seguendo un’idea vaga che prendeva forma len­tamente, così come acquistano consistenza gli oggetti man mano che la luce li illumina. Quando accadeva questo insperato prodigio, confessava subito il proprio stupore e la propria gratitudine:

«Mi spavento nel vedere ciò che fa Dio: io non ho mai pensato a queste Opere che il Signore ispira, così come si stanno compiendo. All’inizio, si vede chiaramente un’idea vaga. Poi è Lui a trasformare le ombre sfumate in qualcosa di preciso, definito e fattibile»207.

Verso la metà del giugno 1930 don Josemaria, riassu­mendo ciò che aveva annotato sullo spirito, l’organizza­zione e gli apostolati dell’Opera, scriveva:

«Da un certo tempo in qua il Signore mi vuole umilia­re, affinché non mi creda un superuomo, non creda che le idee che Egli mi ispira siano farina del mio sacco e non pensi di meritare da Lui la predilezione di essere suo strumento... E mi ha fatto vedere con estrema chia­rezza che sono un miserabile, capace delle cose peggiori e più vili»208.

Lo stupore e il senso di inadeguatezza si accentuava­no nel rileggere le note degli Appunti:

«Non avrei mai potuto prevedere, prendendo nota delle ispirazioni, che potesse venirne fuori un’Opera così (...). Nessuno può sapere meglio di me che tutto quanto accade non è stato pensato da me, ma è cosa di Dio»209.

Il contenuto di questo capitolo è stato riservato soprat­tutto a ciò che è accaduto agli inizi, quando il Padre ave­va davanti a sé tutta una vita per “delineare” l’Opera; compito al quale dedicò molti anni di fatiche. Nel dina­mismo della Storia i grandi uomini si giudicano in base al servizio prestato a un’alta causa. Che cosa possiamo dire del Fondatore? La chiave della sua personalità sta nel suo intimo rapporto con il Signore della Storia, perché la fon­dazione dell’Opus Dei accadde tra Dio e san Josemaria.

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NOTE AL CAPITOLO XXI

1 Istruzione 19-111-1934, n. 20.2 Appunti, n. 342, del 20-X-1931.3 Ibidem, n. 642, del 9-III-1932.4 Ibidem, n. 1287, del 3-X-1935.5 AGP, POI 1971, p. 13.6 Maria Begona Àlvarez Iràizoz, RHF, T-04861, p. 113.7 Javier Echevarrìa, Sum. 3029. Nel 1960 il Padre venne a sapere che il sin­daco di Barbastro intendeva mettere una targa commemorativa sulla fac­ciata della sua casa natale; gli scrisse subito, pregandolo di non farlo (cfr Lettera a José Maria Cancer Gómez, in EF-600330-3).8 César Ortiz-Echagùe, Sum. 6899. Per l’episodio biblico dell’asina di Ba­laam, cfr Num cap. 22.9 Javier Echevarrìa, PR, p. 681.10 AGP, POI 1971, p. 11.11 Tertulia con gli alunni del Collegio Romano, 10-111-1956. «I monumenti che voglio lasciare siete voi, figli miei», disse loro in un’altra occasione (AGP, POI 1975, p. 1617).12 Alberto Taboada, RHF, T-03358, n. 1366.13 Alvaro del Portillo, Sum. 1006.14 Javier Echevarrìa, Sum. 2279.15 Ibidem, PR, p. 1690.16 Xavier de Ayala, Sum. 7600.17 Meditazione 2-X-1962, in AGP, P09, p. 58.18 Appunti, n. 1699, del 10-X-1932.19 Ibidem, n. 48, del 16-VI-1930.20 Ibidem, n. 1725, del 22-VI-1933; cfr pure n. 1152, dell’11-III-1934.21 Cfr omelia, 9-1-1968, in AGP, P09, p. 90.22 «Quanto vi voglio bene, figli miei! A tu per tu non riuscirei a dir velo. Vi voglio bene con tutta l’anima, vi amo più dei vostri genitori, anche se non vi ho mai visto. Questo affetto che ho per voi, figli, non è una carità uffi­

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ciale, arida, è carità vera e affetto umano sensibile, perché siete il mio teso­ro. Quando sarete vecchi, raccontate che il Padre vi amava così» (AGP, POI 1971, p. 10).23 Cfr Jesus Àlvarez Gazapo, PR, p. 1443.24 Alvaro del Portillo, Sum. 677.25 Ibidem.26 Ef3, 15.27 Lettera 6-V-194S, n. 23.28 Santiago Escrivà de Balaguer, Sum. 7333, 7334.29 Lettera a Teodoro Ruiz, da Londra, in EF-580904-3.30 Mercedes Morado, RHF, T-07902, p. 166.31 Encarnación Ortega, Sum. 5365.32 José Luis Soria, RHF, T-07920, Allegato I, p. 25.33 Lettera a Joaqum Madoz Montoya, in EF-570502-2.34 Lettera a Michael Richards, in EF-640510-3.35 AGP, POI 1971, p. 10.36 Lettera a Joaqum Alonso, in EF-610814-1.37 César Ortfz-Echagùe, Sum. 6898.38 AGP, POI 1971, p. 12.39 Ibidem, p. 9; cfr Amici di Dio, op. c i t n. 125.40 Lettera a Florencio Sànchez Bella, in EF-640623-2.41 AGP, POI 1971, p. 12.42 Teresa Acerbis, Sum. 4997; cfr Bianca Fontàn, Sum. 6955; Joaqum Alonso, Sum. 4840.43 Francisco Vives, Sum. 7458.44 Mario Lantini, Sum. 3614.45 Cfr Manuel Botas, RHF, T-08253, p. 34, dove racconta un episodio che coinvolgeva Pedro Casciaro. Il Padre si divertiva alle espressioni di Pedro e a volte era proprio lui a stuzzicarlo. Scriveva ai suoi genitori: «Il vostro Pedro è splendido; lavora in modo meraviglioso e, essendo furbo, sa sfruttare molto bene, anche con me, la simpatia e le virtù umane che Dio gli ha dato» (Lette­ra a Pedro Casciaro Parodi ed Emilia Ramirez Pastora in EF-540730-1).46 Abbondano le testimonianze sul fatto che solo con lo sguardo il Padre riusciva a correggere e a insegnare. Don José Lopez Sierra, Rettore del Se­minario di S. Francesco di Paola a Saragozza, afferma che don Josemaria possedeva questa qualità fin da allora, quando svolgeva le funzioni di Ispettore: “Non era favorevole ai castighi, sempre dolce e compassionevo­le, la sua semplice presenza sempre attraente e simpatica tratteneva i più indisciplinati, un lieve e accogliente sorriso gli si disegnava sulle labbra quando osservava nei suoi seminaristi un atto edificante; tuttavia uno sguardo discreto, penetrante, triste a volte e compassionevole, reprimeva i più ribelli” (RHF, T-03306).47 José Ramon Madurga, RHF, T-05848, p. 71.48 Alvaro del Portillo, Sum. 1336. «Poiché devo essere padre e madre ho l’obbligo di correggere, di aiutare, e vi assicuro che non mi manca com­prensione per la persona che sbaglia. Ma se non mi preoccupassi che si correggano, non vorrei loro bene» (Javier Echevarria, Sum. 3102).

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49 Mercedes Morado, RHF, T-07902, p. 122; José Luis Muzquiz, RHF, T- 04678/1, p. 130.50 Lettera 3l-V-1954. «Nell’Opus Dei, figli miei, obbediamo con la testa e con la volontà, non come cadaveri. I cadaveri non mi servono; li seppelli­sco pietosamente». Cfr AGP, POI IX-1966, p. 48; e AGP, PO6 V, p. 180.51 Lettera 7-X-1950, n. 38.52 II Fondatore non transigeva con il cattivo gusto o con la sciatteria. A Roma, in una Residenza femminile, c’era un busto di gesso dorato, stile Luigi XIV. Oltre che brutto, faceva a pugni con l’arredamento della casa. Il Padre lo vide e invitò le sue figlie a farlo cadere “per sbaglio” : lo fecero, di­vertendosi molto (cfr Carla Bernasconi, RHF, T-08199, p. 255). Gli piace­va conservare cose modeste, che però avevano un valore simbolico. Cor­reggeva rapidamente anche le grossolanità, come quando, rientrando un giorno nel Centro di via Diego de Leon, avvertì un forte odore di pesce frit­to. «Mi va bene che si mangino sardine - disse -. Ma non ammetto che la casa puzzi di sardine» (cfr Jesus Urteaga, RHF, T-00423, p. 69; e anche Joaqum Alonso, Sum. 4840).53 Cfr Encarnación Ortega, RHF, T-05074, p. 128.54 Rosalia Lopez Martìnez, RHF, T-07918, n. 3.2.5.55 Dorotea Calvo, RHF, T-04906, p. 22.56 Kurt Hruska, Sum. 3494. Consuelo de Matheu, che conobbe il Fondato­re mentre era rifugiato nel Consolato dell’Honduras durante la guerra civi­le, in circostanze in cui era molto facile dimenticare le convenzioni sociali e la buona educazione, dice: “Se dovessi definire don Josemaria direi che era un vero gentiluomo” (RHF, T-05050, p. 5).57 Lettera a Maria José Escrivà de Balaguer Garcia-Herrero, in EF-650525-3.58 Encarnación Ortega, Sum. 5356.59 Maria Begona Àlvarez Iràizoz, RHF, T-04861, p. 20.60 Javier Echevarria, Sum. 3094.61 Ibidem, Sum. 3096.62 Ibidem, Sum. 3214.63 Àlvaro del Portillo, Sum. 976.64 “ Ut bono spirituali Praelati et eiusdem valetudini consulant, sint duo Cu- stodes seu admonitores (Codex iuris particularis Operis Dei, art. 132, 6).65 Cfr Florencio Sànchez Bella, Sum. 7565.66 Javier Echevarria, Sum. 3211. Una sua figlia, che lavorò nella sede cen­trale, racconta: “A volte il Padre passava dalla cucina quando stavamo friggendo patate e allora chiedeva: ‘Àlvaro, me ne mangio una?’. Se don Àlvaro faceva segno di no, tirava dritto, rivolgendoci il suo amabile e indi­menticabile sorriso, senza insistere” (Begona de Urrutia, RHF, T-06897, p. 4). Conoscendo il senso dello humour del Padre e di don Àlvaro, è proba­bile che ci fosse tra loro una tacita intesa per far divertire le persone del­l’Amministrazione domestica; forse a don Josemaria venivano anche in mente le birichinate della sua infanzia, quando entrava in cucina mentre Maria, la cuoca di casa Escrivà, friggeva le patate (cfr voi. I, cap. I, § 3).67 II detto spagnolo “Genio y figura, hasta la sepultura”, liberamente adat­tato nel testo italiano, si riferisce al letterato e scrittore satirico francese

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Francois Rabelais (1494-1553); sembra sia stato pronunciato dal notaio dopo la sua morte, a commento delle sue ultime volontà testamentarie: “Non ho lasciato nulla, ho un sacco di debiti... il resto ai poveri” (NdC).68 Alejandro Cantero, Sum. 6687; Pedro Casciaro, Sum. 6355; César Ortiz-Echagiie, Sum. 6899.69 Cfr Jesus Àlvarez Gazapo, Sum. 4421.70 Javier Echevarria, Sum. 3239. Talvolta fece ammenda anche per invo­lontari fraintendimenti dell’infanzia: «Mi sento in debito con la douce Trance - scriveva nel 1963 - e penso di doverla amare con un affetto spe­ciale... e di doverlo dimostrare» (Lettera ai suoi figli in Francia, in EF- 631205-1). Quando visitava Notre-Dame a Parigi, o Lourdes, Tours, Chartres, Lisieux, si sentiva un solo spirito con i francesi. Pensava infatti di avere un debito con questo Paese e lo voleva saldare. Eccone la spiegazio­ne: l’invasione napoleonica aveva lasciato in Spagna un funesto ricordo, per le atrocità della soldataglia. Per più di un secolo, i libri di scuola e la memoria popolare contribuirono a tener vivo il sentimento antifrancese, nel cui clima era cresciuto anche don Josemaria. Più tardi il suo cuore, grande e cattolico, respinse meschinità e rancori. Perché i popoli si devono odiare per le colpe passate dei loro governanti, tanto più dopo varie gene­razioni? Don Josemaria, per mettere in ridicolo questi odi plurisecolari, raccontava una storiella. Un cieco cantava stornelli e ballate patriottiche, colme di lodi per la Spagna e di vituperi per la Francia: ‘Cari francesi, ve le hanno suonate a Roncisvalle...’. Finché un giorno qualcuno gli chiese: “Mi dica, perché canta solo le cose positive per la Spagna e tace quelle negati­ve? E perché passa sotto silenzio le cose buone di altri Paesi e ne mette in luce quelle cattive?” . “Perché sono un cieco spagnolo. Le cose belle degli altri Paesi le lascio cantare ai ciechi stranieri” (cfr p. José Llamas Simón, RHF, T-02869, p. 9).71 Cfr Appunti, n. 114, del 21-XI-1930; n. 211, del 26-VII-1931; n. 222, del 10-VIII-1931; n. 348, del 26-X-1931; ecc.72 Lettera, in EF-560414-2.73 Javier Echevarria, Sum. 3088.74 Kurt Hruska, Sum. 3492 e 3493. L’influsso della lotta ascetica sul tem­peramento gli fece raggiungere un equilibrio ben rilevato da alcuni testi­moni. Il Fondatore, afferma uno di essi, “aveva di natura un carattere im­petuoso, forte, vivo, deciso; eppure nella vita di tutti i giorni era tranquillo, pacifico, pacato, riflessivo, sobrio nel parlare, senza una parola più del ne­cessario e molto garbato nei modi; l’impetuosità della sua natura era vinta dalla sua virtù, dalla mortificazione, dalla pazienza e dalla carità” (Eduar­do Alastrué, Sum. 5542; cfr anche Juan Bautista Torello, Sum. 5236).75 Talvolta qualcuno sorprendeva il Padre con la testa fra le mani, concen­trato, e lo udiva esclamare: «Come è possibile che la testa non mi scoppi?».76 Più di una volta il Fondatore affermò: «Il Signore si è servito anche del mio caratteraccio per portare avanti l’Opus Dei» (Javier Echevarria, Sum. 3088).77 Cfr Jesus Àlvarez Gazapo, Sum. 4408.78 Lettera a Francisco Moràn, da Madrid, in EF-340426-1. «Ho cercato di

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camminare al passo di Dio - scrisse ai suoi figli -, con mansuetudine e con naturalezza, senza squilli di trombe e senza arroganza; il mio motto è stato nascondermi e scomparire, affinché si vedesse solo l’azione di Dio nelle anime e nella sua Santa Chiesa» (Lettera 31-V-1954, n. 1).79 Fin dai primi tempi, il Fondatore parlava di ‘innamoramento’, per indi­care l’amore di Dio da parte dell’anima: cfr Cammino, nn. 419, 425, 999; Solco, nn. 795, 799, ecc.80 Lettera 25-V-1962, n. 98.81 Lettera 9-1-1932, n. 73.82 Negli Appunti intimi (n. 206, del 15-VII-1931) si trovano alcuni quadri sinottici di iniziative apostoliche, che sono precedenti al 1930 e, probabil­mente, inseriti in seguito negli Appunti. Nel quadro II, si legge, scritto di traverso sull’elenco delle attività: «I santi sono persone scomode».83 Javier Echevarrìa, Sum. 3097 e 3265.84 Lettera 9-1-1932, n. 74.85 Lettera a Fiorendo Sànchez Bella, in EF-641110-2. In Solco, n. 558, ri­torna la stessa idea: «I santi risultano sempre ‘scomodi’ per gli altri».86 José Lopez Ortiz, Sum. 5312.87 Cfr Lettera a Fiorendo Sànchez Bella, in EF-641110-2.88 Lettera 6-V-1945, n. 4.89 Lettera ai suoi figli del Consiglio Generale, in EF-461216-2.90 Lettera a Roberto Salvat Romero, in EF-640220-1.91 Javier Echevarrìa, Sum. 2864.92 Cfr Javier Echevarrìa, Sum. 2845; Juan Udaondo, Sum. 5079.93 Mercedes Morado, RHF, T-07902, p. 120.94 Maria Begona Àlvarez Iràizoz, RHF, T-04861, p. 91.95 Cammino, n. 432. Mons. Juliàn Herranz racconta che, P8 gennaio 1955, il Padre disse ai docenti e agli alunni del Collegio Romano della Santa Croce che sarebbe stato felice di celebrare la Messa con un calice che nascondesse un grosso diamante alla base, al di sotto della coppa, in­visibile a tutti. Quel diamante nascosto, umile, ignorato, avrebbe sentito su di sé il calore e il fuoco d’amore del Sangue di Cristo e a lui avrebbe ri­cordato continuamente l’ambizione della sua vita: essere un innamorato di Cristo che, imitando gli anni di lavoro ordinario e nascosto di Gesù a Nazaret, sapesse starsene nascosto, compiendo fedelmente la Volontà di Dio (cfr Sum. 3917).96 Cfr Javier Echevarrìa, Sum. 2865.97 Omelia 26-XI-1967 (Amici di Dio, nn. 299 e 301).98 Javier Echevarrìa, Sum. 2498.99 AGP, POI 1971, p. 9.100 II lavoro - scrisse il Fondatore - «se è Opus Dei, è anch’esso orazione: non possiamo dire se chi mette in pratica lo spirito dell’Opus Dei è attivo o contemplativo, perché l’azione è contemplazione e la contemplazione è azione, in unità di vita» (Lettera 31-V-1954, n. 20). L’obiettivo della for­mazione ascetica che il Fondatore dava ai suoi figli era di farli diventare «contemplativi in mezzo al mondo» (Juliàn Herranz, Sum. 3909).101 Cfr Javier Echevarrìa, Sum. 1775; Joaqum Alonso, Sum. 4844. Consi­

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gliava ai direttori dell5Opera di praticare «una cortesia che è dimostrazione di buona educazione e anche di finezza spirituale, perché è carità di Cri­sto» (Istruzione 31-V-1936, n. 24).102 Cammino, n. 409.103 Amici di Dio, n. 75. «Non saprei dire qual è la principale virtù umana: dipende dal punto di vista. La questione, per di più, è oziosa, perché non si tratta di vivere una o alcune virtù: è necessario lottare per acquistarle e praticarle tutte. Ciascuna si intreccia con le altre: lo sforzo per essere since­ri - ad esempio - ci rende giusti, lieti, prudenti, sereni» (ibidem, n. 76). Cfr anche Istruzione V-1935 / 10-IX-1950, n. 70.104 Lettera 14-IX-1951, n. 3.105 Solco, n. 238.106 Joaquin Alonso, Sum. 4771.107 II Fondatore era persuaso di avere un Arcangelo ministeriale: «Non è scritto da nessuna parte che i sacerdoti abbiano un Arcangelo ministeriale, ma io lo chiedo al Signore con tanta fede e ho fatto ricorso a lui con tanta devozione che, se non l’avevo, sono sicuro che il Signore me l’avrà conces­so» (Javier Echevarrìa, Sum. 2646).108 Appunti, n. 647, dell’11-III-1932.109 Alvaro del Portillo, Sum. 325.110 Amici di Dio, n. 80.111 Javier Echevarrìa, Sum. 3238 e 3237; Mercedes Morado, Sum. 6937.112 Javier Echevarrìa, Sum. 2559.113 Alberto Taboada, RHF, T-03358, n. 1345; cfr Maria Begona de Urru- tia, RHF, T-06897, p. 55.114 Mercedes Morado, Sum. 6929.115 Javier Echevarrìa, Sum. 2865.116 E Gesù che passa, n. 21. L’idea della generosa dedizione compare spes­so nei suoi primi scritti e si ritrova poi in Cammino (n. 420): «Che poca cosa è una vita per offrirla a Dio!». Circa il «prodigarsi» nel servizio di Dio cfr la sua traduzione del testo di 2 Cor 12, 15: «Ben volentieri io mi prodigherò e mi logorerò fino a consumarmi per la vostra anima» (AGP, POI III-1961, p. 16).117 Javier Echevarrìa, Sum. 3249.118 Lettera a Santiago Escrivà de Balaguer e a Gloria Garcia-Herrero Ruiz, da Elorrio, in EF-640718-1. Altrove scrisse che il lavoro, nell’Opus Dei, è «una malattia cronica, contagiosa, incurabile e progressiva» (AGP, P04 1974, II, p. 186).119 Istruzione 31-V-1936, nota 95. «Spesso penso che è troppo comodo morirsene presto. Non desidero la morte: dobbiamo desiderare di vivere molto e di lavorare» (Lettera 15-X-1948, 11).120 AGP, POI 1975, p. 767.121 «Morire è una cosa buona - si legge in Forgia, n. 1037 -. Però, finché il Signore vorrà lasciarti sulla terra, per te morire sarebbe una vigliaccheria. Vivere, vivere e patire e lavorare per Amore: questo è il tuo compito». Il Fondatore diceva di non condividere alcuni versi che ritornano spesso nel­la poesia sacra e profana del Secolo d’Oro spagnolo, apparsi per la prima

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volta nel Cancionero de Valencia del 1514: “ Yen muerte, tan escondida, / que no te sienta venir; / porque el piacer de morir / no me tome a dar la vi- da” (Vieni morte, così di soppiatto / che non ti senta venire; / perché il pia­cere di morire / non torni a darmi la vita). E trasformava il celebre sospiro di S. Giovanni della Croce, “muero porque no muero" (muoio perché non muoio) in un’affermazione di S. Paolo: “Non sono più io che vivo, ma Cri­sto vive in me” (Gal 2, 20).122 Lettera 8-VIII-1956, n. 5.123 È Gesù che passa, n. 107.124 Ibidem.125 Ibidem, n. 95.126 S. Pedro de Alcantara, Tratado de la oración y meditación, cap. IV.127 Fray Luis de Granada, Vida de Jesucristo, cap. XXIV.128 Luis de la Palma, La Passione del Signore, Milano 1979, pag. 125.129 Santo Rosario, terzo mistero doloroso.130 Via Crucis, I stazione, 5° punto di meditazione.131 Ibidem, II stazione.132 Ibidem, Vili stazione.133 Ibidem, IX stazione, 3° punto di meditazione. Prima di meditare la Pas­sione, S. Pietro di Alcantara (Trattato, cit. cap. IV) fa un “piccolo pream­bolo” , nel quale insiste sull’opportunità di “avere Cristo presente davanti agli occhi, averlo davanti quando patisce” . E prosegue: “Metti dapprima davanti ai tuoi occhi la precedente immagine del Signore e le eccelse sue virtù (...). E dopo averlo guardato così, ed esserti preso diletto dal contem­plare una così eccelsa figura, volgiti a guardarlo così come è qui (...). Guardalo molto attentamente, dentro e fuori (...). E non pensarci come a cosa ormai passata, ma presente; non come a dolore altrui, ma come a tuo proprio dolore” . Questo stile di contemplazione non era riservato ai tratta­ti, ma veniva utilizzato anche nelle omelie. S. Giovanni d’Avila, in un ser­mone di Natale, afferma: “La Vergine e il suo Bambino benedetto rimasero quaranta giorni nella grotta! Non ci sia alcuno che, con il pensiero, non faccia loro visita almeno mattino e sera, ogni giorno; prostratevi davanti al Bambino e alla Vergine benedetta, baciate loro i piedi e offrite qualcosa; recitate il rosario o pensate a qualche espressione di devozione. Andiamoci ora, noi tutti qui presenti, alla grotta di Betlemme, dove dimora la Vergi­ne” (El nino ha nacido para nuestra salud, Madrid 1992).134 AGP, POI 1973, p. 129; vedi anche Amici di Dio, n. 216.135 Via Crucis, XIV stazione, primo punto di meditazione.136 Colloqui, nn. 114.137 AGP, P06 IV, p. 84. «Nostro Signore utilizzava questo procedimento. Gli piaceva insegnare in parabole tratte dall’ambiente che lo circondava: il pastore e le pecore, la vite e i tralci, le barche e le reti, la semente che il se­minatore sparge nel campo...» (Amici di Dio, n. 254).138 Cfr José Luis Soria, RHF, T-07920, allegato I, p. 26.139 È Gesù che passa, n. 55.140 Florencio Sànchez Bella, PM, f. 1421.141 Amici di Dio, n. 1.

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142 Ibidem. «Non avete mai udito il Signore che parla di pecore e di greggi? Con quale tenerezza! Come gioisce nel raffigurare il Buon Pastore! (...). Anche l’Opus Dei è un gregge di Cristo, con il suo Buon Pastore e le sue pecore. Nell’Opera ci sarà sempre un Padre che potrà dire: Cognosco oves meas et cognoscunt me meae, conosco i miei figli e i miei figli conoscono me. Il Buon Pastore, nell’Opus Dei, sarà sempre colui che presiede: il Pa­dre, chiunque egli sia» (Tertulia 13-III-1955; AGP, PO6 II, p. 51).143 Cfr José Luis Soria, RHF, T-07920, p. 74.144 È Gesù che passa, n. 3.145 Amici di Dio, n. 215.146 Solco, n. 804.147 AGP, POI 1970, p. 994.148 Cfr Amici di Dio, n. 117.149 Solco, n. 263.150 Amici di Dio, n. 20.151 Ef 1,4; cfr Forgia, n. 10.152 AGP, POI 1974, p. 950.153 AGP, POI 1971, p. 352.154 Is 43, 1.155 Forgia, n. 12.156 AGP, POI 1968, p. 450.157 Cammino, n. 155.158 AGP, POI 1972, p. 464.159 AGP, POI 1974, p. 255.160 Appunti, n. 218, del 7-VIII-1931.161 Cfr Amici di Dio, n. 299.162 AGP, POI 1974, p. 255.163 È Gesù che passa, n. 107. In una omelia pronunciata nella festa del Sa­cro Cuore di Gesù, il 17-VI-1966, il Fondatore disse: «Quando parliamo del cuore umano non ci riferiamo solo ai sentimenti, ma alludiamo a tutta la persona che vuol bene, che ama e frequenta gli altri. Nel modo umano di esprimerci, il modo raccolto dalle Sacre Scritture perché potessimo inten­dere le cose divine, il cuore è considerato come il compendio e la fonte, l’e­spressione e la radice ultima dei pensieri, delle parole e delle azioni» (ibi­dem, n. 164).164 Cfr ibidem, n. 166.165 AGP, POI 1971, p. 10, già citato in questo capitolo.166 AGP, POI 1974, II, p. 45.167 Cammino, n. 316.168 Solco, n. 813.169 Amici di Dio, n. 75.170 Colloqui, n. 113.171 Statuta, n. 80, par. 2 (in Amadeo de Fuenmayor e altri, op. cit., Appen­dice documentale, doc. 73, p. 890).172 AGP, P04 1974, II, p. 109.173 Colloqui, n. 118. L’omelia pronunciata P8-X-1967 nel campus dell’U- niversità di Navarra reca il titolo Amare il mondo appassionatamente. In

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Solco (n. 290) l’autore ribadisce: «Il mondo ci aspetta. Sì! Amiamo appas­sionatamente questo mondo perché Dio ce l’ha insegnato: 6Sic Deus dilexit mundum...’: così Dio ha amato il mondo; e perché è il luogo del nostro campo di battaglia - una bellissima guerra di carità -, affinché tutti rag­giungiamo la pace che Cristo è venuto a instaurare».174 Gv 3, 16.175 Cfr Appunti, n. 218, del 7-VTII-1931.176 Porgia3 n> 52.177 Forgia, n. 31.178 Forgia, n. 3.179 Forgia, n. 57.180 Inutile tornare qui a sottolineare il motto del Fondatore, «nascondersi e scomparire», che caratterizzò la sua vita interiore e l’umiltà collettiva del­l’Opera.181 Appunti, n. 44, del giugno 1930.182 Ibidem, n. 306, del 2-X-1931.183 Ibidem, n. 475, del 12-XII-1931.184 Ibidem, n. 179, del 20-111-1931.185 Ibidem, n. 60, del 16-VI-1930.186 Ibidem, nn. 60 e 61, del 16-VI-1930.187 Ibidem, n. 61, del 16-VI-1930.188 Ibidem, n. 475. Testo del 12-XII-1931; annota don Àlvaro: “Il 2 otto­bre 1928 venne delineata tutta l’Opera, meno il lavoro con le donne; poi, a poco a poco, con le illuminazioni del Signore e con l’esperienza, venne la realizzazione esterna, che il Padre andava compiendo; in primo luogo, la spiritualità propria e l’apostolato personale” .189 Appunti, n. 14, del 13-111-1930; cfr pure n. 77, del 28-VII-1930. Si ri­trova questa immagine in una delle Istruzioni (19-111-1934, n. 42): «Siamo una iniezione endovenosa nel sistema circolatorio della società».190 Appunti, n. 12, del 13-111-1930.191 L’Opus Dei possiede comunque un autentico “spirito missionario”, vol­to alla diffusione della dottrina e della fede cristiana. Il Fondatore spiegò al Nunzio in Kenya che «l’Opus Dei è e deve essere sempre, nella foresta afri­cana o sull’asfalto delle grandi città, eminentemente missionario» (Lettera a mons. Gastone Mojaisky Perrelli, in EF-571116-1. Altrove, il Fondatore insisteva: «Il Signore ha voluto fin dal primo momento che la sua Opera avesse un cuore cattolico, universale. Nell’adempimento della nostra mis­sione divina, anche se non possiamo né vogliamo chiamarci missionari, dobbiamo arrivare a tutti i Paesi e agli uomini di ogni razza, lingua e con­dizione» (Lettera 16-VI-1960, n. 1).192 Appunti, n. 9, del marzo 1930.193 Ibidem, n. 8, del marzo 1930.194 Ibidem, n. 11, del marzo 1930.195 Ibidem, n. 5, del marzo 1930.196 Istruzione 9-1-1935, n. 252; cfr anche Cammino, n. 542 e Lettera 9-II- 1932, n. 22.197 Appunti, n. 51, del 16-VI-1930.

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198 Ibidem, n. 9, del marzo 1930.199 Ibidem, n. 12, del 13-111-1930.200 Ibidem, n. 46, del 15-VI-1930.201 Ibidem, n. 56, del 16-VI-1930.202 Ibidem, n. 87, del 25-VIII-1930.203 Nell’estate del 1968 il Padre risiedette per alcune settimane a Sant’Am­brogio Olona, vicino a Varese; in quei giorni rilesse, dopo molti anni, i quaderni degli Appunti intimi. Vi ritrovò i «famosi quadri sinottici», nei quali era compreso, in forma molto sintetica, tutto ciò che si riferiva agli apostolati dell’Opus Dei, mezzi, persone, formazione, spirito, ecc. Vi com­pare anche «l’apostolato del dare» e «l’apostolato del non dare» (Appunti, nn. 205-206, del 15-VII-1931), un tema che passò poi in Cammino (n. 979): «Fa parte della condizione umana stimare poco quello che costa po­co. Questa è la ragione per cui ti consiglio ‘l’apostolato del non dare’».204 Cfr Appunti, nota 10.205 In molte opere corporative di apostolato si assegna mezza borsa di stu­dio agli studenti dalle ridotte possibilità economiche. Agli studenti lavora­tori delle classi serali si chiede di pagare una retta molto minore degli stu­denti normali. Attualmente, nel Congo, negli ambulatori condotti da persone dell’Opera, si paga l’assistenza solo se la posizione economica del­la famiglia del paziente lo consente.206 Appunti, n. 474, dell’11-XIM931.207 Ibidem, n. 65, del 16-VI-1930.208 Ibidem, n. 66, del 16-VI-1930.209 Ibidem, nn. 67 e 71. In una lettera del 1931, ribadiva: «Quando deside­ra compiere qualche opera, Dio impiega mezzi sproporzionati, affinché si noti chiaramente che l’opera è sua. Per questo voi e io, che conosciamo be­ne il peso opprimente della nostra meschinità, dobbiamo dire al Signore: anche se conosco la mia miseria, tuttavia capisco di essere uno strumento divino nelle tue mani. Non ho mai dubitato che il lavoro che ho fatto nel corso della mia vita al servizio della Santa Chiesa l’abbia fatto il Signore, non io, benché si sia servito di me» (Lettera 24-III-1931, n. 31).

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Capitolo XXII

L’EPOCA DEL CONCILIO VATICANO II

1. La vita di tutti i giorni

Negli anni sessanta il Padre si occupò principalmente di governare e di sviluppare l’Opus Dei. Per un lungo pe­riodo dovette contare su una collaborazione parziale di don Alvaro, molto impegnato nella preparazione del Concilio Vaticano II, i cui lavori egli stesso seguì assi­duamente. La sua vita trascorreva senza particolari no­vità, secondo un orario piuttosto rigoroso. Oltre alla preghiera e alle ore di lavoro, che per lui erano un tutt’uno, non gli restava altro tempo libero che l’orario dei pasti, sempre molto brevi, i momenti di incontro coni suoi figli e quelli riservati a ricevere visite.

Cominciava la giornata con una giaculatoria: per ma­nifestare il desiderio di servire, non appena lo svegliava­no si inginocchiava sul pavimento e lo baciava, dicendo: Serviam! (Ti servirò!). Poi faceva il segno della croce sul­la fronte, sulle labbra e sul petto, recitando una breve preghiera: «Ti offro, Signore, tutti i miei pensieri, tutte le mie parole e le azioni di questo giorno e la mia vita inte­ra, per amore»1. A volte, questo primo sforzo ascetico gli costava enormemente2. Don Josemarìa conosceva infatti molto bene il peso di un corpo esausto per la fatica e quanto fosse duro alzarsi dal letto senza fare concessioni alla pigrizia. A Madrid, quando era giovane, talvolta ar­

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rivava a casa così sfinito da non riuscire a tirarsi fuori dal letto. Ora, invece, il momento di alzarsi lo trovava quasi sempre sveglio, nonostante la stanchezza. Prima che facesse giorno si metteva al lavoro: programmava gli impegni della giornata, prendeva alcune note e decideva a chi assegnare alcuni incarichi. Talvolta passava ore e ore in veglia accanto a Gesù Sacramentato, nella tribuna che dalla sua stanza di lavoro si affacciava sull’oratorio. Ma nel 1968 il medico gli prescrisse non meno di sette ore e mezzo di riposo, perché soffriva di insonnia, e gli proibì di alzarsi prima dell’ora prevista3.

Sul muro di fronte al suo letto, c’erano alcune pia­strelle smaltate con un’invocazione: Aparta, Senor, de mi lo que me aparte de Ti! (Allontana, Signore, da me ciò che mi allontana da Te). L’insonnia non lo allonta­nava dal Signore ed egli continuava a ringraziarlo per tutti i benefici che gli elargiva e si preparava a celebrare la Messa, vegliava sul sonno dei suoi figli e si sentiva vi­cino a quanti di loro, in quel momento e in altri conti­nenti e fusi orari, stavano lavorando. Se poi gli veniva un’idea valida, la annotava utilizzando carta e penna sempre a portata di mano sul comodino.

Una notte, verso le quattro, dovette chiamare il medi­co poiché un crampo gli aveva completamente immobi­lizzato la gamba sinistra. Sparito il crampo, invitò il me­dico a tenergli un po’ di compagnia. “Padre, ma non stava dormendo?” , gli chiese. «No, figlio mio, stavo piangendo», gli rispose4. Il dolore per la notizia che imo dei suoi figli voleva abbandonare l’Opera non lo lascia­va dormire.

Aveva scelto lui stesso la propria camera da letto: era una stanza piccola, di circa dieci metri quadrati. Il pavi­mento era di piastrelle bianche e azzurre, i mobili, sem­plici e austeri, erano un letto di ferro, un comodino, un tavolo, una sedia, una poltrona di legno, una lampada a stelo e uno sgabello. Sulla testata del letto, appeso alla parete, un rosario dai grani grossi e alcune piastrelle con

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la scritta: lesus - Christus - Deus - Homo. C’erano an­che un quadro della Sacra Famiglia e un Crocifisso5. Ac­canto al letto, prima che il Padre guarisse dal diabete, era stato messo un campanello. Era rimasto anche dopo, nel caso avesse avuto necessità di svegliare qualcuno: «Non voglio morire senza gli ultimi Sacramenti», diceva6.

Si alzava sempre puntualmente ed era solito lasciare in ordine tutto quello che usava. Dopo essersi lavato, puliva accuratamente il pavimento e il lavabo perché non vi restasse sporcizia. Arieggiava la stanza e rimette­va tutto a posto, per risparmiare lavoro a chi faceva le pulizie. Erano sorprendenti la cura e l’abilità con cui cercava di prolungare la vita dei capi di vestiario. Per molto tempo ebbe solo due vesti talari, una delle quali raggiunse i vent’anni di onorato servizio. Dichiara in proposito Encarnita Ortega: “Aveva una veste talare rammendata che usava abitualmente; per ricevere gli ospiti ne metteva un’altra migliore. Ne sono testimone oculare e mi sono presa la libertà di contare le pezze del­la veste, che erano diciassette”7.

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Dalla sua camera si recava in oratorio, dove faceva mezz’ora di orazione mentale. Poi celebrava il Santo Sa­crificio, momento culminante della sua giornata. Spesso celebrava la Messa in privato, nel cosiddetto “oratorio del Padre” , dedicato alla Santissima Trinità. Se qualcuno parlava al Fondatore del “ suo oratorio” , veniva subito corretto: «Io non possiedo nessun oratorio: è l’oratorio del Padre, non il mio, perché io sono di passaggio»8. Mentre indossava i paramenti sacri, si preparava con grande raccoglimento, rivolgendo il pensiero a quel mo­mento supremo. Perché, come spiegava ai suoi figli il Giovedì Santo del 1960, la Santa Messa è «il dono stesso della Trinità alla Chiesa, il centro e la radice della vita spirituale del cristiano e il fine di tutti i sacramenti»9.

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Santiago Escrivà de Balaguer, nipote del Fondatore, racconta un episodio. Ancora bambino, un giorno era entrato di corsa in sacrestia, per raccontare qualcosa allo zio. Ma questi, che stava rivestendosi per celebrare la Messa, lo guardò e gli disse: «Bambino, adesso sono Cristo»10. Quelle parole lo colpirono moltissimo. Per comprenderne il profondo significato bastava assistere a una Messa del Padre. Tutti i testimoni affermano con il medesimo stupore che sull’altare don Josemana, sen­za fare nulla di strano, si trasformava. Da quando gli studenti che gli servivano la Messa nella chiesa del Pa­tronato de Enfermos tornavano in sacrestia con le la­crime agli occhi, fino agli ultimi tempi della sua vita, il fervore del Padre non diminuì. Anzi, divenne ancor più ardente, in un continuo crescendo durato quarantanni, una Messa dopo l’altra, un giorno dopo l’altro. Nel- l’avvicinarsi all’altare tremava d’impazienza e d’amore. Confessava ai suoi figli: «Salgo all’altare con ansia e, più che toccarlo con le mani, lo abbraccio con affetto elo bacio come un innamorato; perché sono proprio un innamorato!»11.

Sentiva di essere in uno scenario divino, attorniato dagli angeli che adoravano la Santissima Trinità, unito alla Vergine e a tutti i Santi, in qualche modo presenti all’olocausto di redenzione universale. Quando pronun­ciava il Dominus vobiscum, anche se era presente sol­tanto un accolito, si rivolgeva «a tutta la Chiesa, a tutte le creature della terra, a tutto il creato, anche agli uccel­li e ai pesci»12. Don Josemaria in quel momento rappre­sentava Gesù Cristo, Sacerdote eterno:

«La Messa è azione divina, trinitaria, non umana. Il sacerdote che celebra serve al disegno del Signore, pre­stando il proprio corpo e la propria voce; ma non agisce

« in nome proprio, bensì in persona Christi, nella Persona di Cristo e in nome di Cristo»13.

Osservava con amore le prescrizioni liturgiche e si im­medesimava nel sacro mistero. Le letture, le genuflessio­

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ni, il bacio dell’altare o un semplice inchino del capo infondevano una grande devozione, per la riverenza e la fede che manifestavano14. Ci furono periodi - testimo­nia mons. Alvaro del Portillo - in cui la celebrazione della Santa Messa lo estenuava: si immedesimava in Cristo sofferente, partecipando ai dolori del Calvario. La terminava sudato, stanco, come se avesse fatto uno sforzo sovrumano15. Si caricava sulle spalle, sacerdotal­mente, il peso dell’Opus Dei. Nell’offertorio della Mes­sa, offrendo l’ostia, metteva sulla patena le malattie e le tribolazioni delle sue figlie e dei suoi figli e quelle di tut­to il mondo. Si ricordava delle necessità materiali e spi­rituali di quanti componevano la grande famiglia del- l’Opera quando recitava, nel memento dei vivi, il suo “scioglilingua” : pregava per le sue figlie e per i suoi fi­gli, per i genitori dei suoi figli, per le famiglie dei suoi fi­glie e delle sue figlie, e «per tutti coloro che si sono avvi­cinati all’Opera per cercare di farci del male o per cercare di farci del bene; se è stato per farci del bene, per ringraziarli; se è stato per farci del male, per perdonare loro di tutto cuore, affinché Dio perdoni me»16.

5 * ss-

Finita la Messa e i dieci minuti di ringraziamento, face­va colazione con un caffelatte freddo e un pezzo di paneo di focaccia. Dedicava poi alcuni minuti a leggere il giornale, scambiandosi le pagine con don Alvaro. I pro­blemi del mondo e della Chiesa di cui leggeva lo porta­vano a pregale per le persone: appoggiava il capo sul palmo della mano destra e, a occhi chiusi, entrava dol­cemente in orazione. Già molti anni prima gli era capi­tato di mettersi a pregare leggendo il giornale, a M a­drid, come si legge negli Appunti intimi, ma negli ultimi anni divenne ancora più frequente17. Ma non stava nelle nuvole, anzi, cercava di vedere se sul giornale erano an­nunciati scioperi dei servizi e dei trasporti e avvisava le

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sue figlie dell’Amministrazione perché ne tenessero con­to, per le eventuali interruzioni di gas e di elettricità, o chiusure di negozi e mercati18.

Subito dopo, in oratorio o nella stanza di lavoro, reci­tava il Breviario e leggeva per alcuni minuti il Nuovo Testamento, del quale spesso annotava qualche frase, utile per la predicazione o la preghiera personale.

Lavorava sempre nello studio di don Àlvaro, comin­ciando dalle questioni di governo dell’Opera: prima di affrontarle si metteva alla presenza di Dio, chiedendo allo Spirito Santo di illuminarlo. Durante le ore di lavo­ro non si dimenticava mai della Messa e innalzava il cuore a Dio per ringraziarlo dei benefici ricevuti nella Comunione del mattino; prolungava così la Messa del mattino fino a mezzogiorno, quando recitava VAngelus e cominciava a prepararsi per la Messa del giorno suc­cessivo19.

Terminate le questioni di governo, veniva il momento di sbrigare la corrispondenza personale: le lettere che gli inviavano i suoi figli, gli amici e i conoscenti. Don Àlva­ro assicura che il Padre non leggeva mai una lettera sen­za pregare per chi l’aveva scritta o per la risoluzione del problema che esponeva20.

Riceveva poi le visite, persone provenienti da tutte le parti del mondo, in cerca di consolazione o di consiglio spirituale. Le accoglieva a Villa Tevere oppure nel conti­guo Centro delle donne, in via di Villa Sacchetti21. La durata prevista per ogni incontro era di un quarto d’o­ra, ma talvolta il Padre li prolungava. Per sfruttare al meglio il tempo il Padre si proponeva di parlare soltanto di Dio. Prima dell’incontro recitava mentalmente il ver­setto di un Salmo: Pone, Domine, custodiam ori meo22 e affidava l’interlocutore all’Angelo Custode23. A chi an­dava a trovarlo, il Padre regalava un rosario, «perché lo consumino recitandolo», o una medaglia commemorati­va dell’Opera. Chi lo incontrava riceveva, soprattutto, preziosi consigli spirituali.

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All’una e venti recitava con i membri del Consiglio Generale le Preci dell’Opera e all’una e mezzo si sedeva a tavola assieme ai due Custodes, don Àlvaro e don Ja­vier Echevarrìa. Per anni, anche dopo la guarigione dal diabete, dovette seguire una dieta, peraltro assiai sempli­ce. Prendeva per primo piatto un po’ di verdura poco condita; come secondo, carne o pesce, generalmente alla griglia e senza contorno; poco pane e niente vino, eccet­to nei giorni di festa. La cena era ancor più frugale: alla minestra o alla verdura aggiungeva un po’ di formaggio, oppure una frittata, e un frutto24. Non si dimenticava mai di “mettere una croce” in ogni piatto, cioè di fare qualche piccola mortificazione: per esempio, rimandava un sorso d’acqua, evitava di fare commenti sul cibo, si serviva con parsimonia di ciò che preferiva o con più abbondanza di ciò che non gli piaceva25. Se c’erano in­vitati, la sua simpatia e la sua piacevole conversazione assorbivano l’attenzione dei commensali, che non si ac­corgevano della sua rigida dieta.

Dopo pranzo, si recava a fare una visita al Santissimo e poi in soggiorno, dove per una mezz’ora conversava con i suoi figli del Consiglio Generale sui fatti del gior­no, sulle notizie dell’apostolato, su episodi divertenti.

Non faceva la siesta. Prima di riprendere il lavoro fa­ceva la lettura spirituale: prediligeva i trattati classici. Alle cinque meno venti prendeva un caffè, un bicchiere d’acqua o un frutto. Nella seconda metà del pomeriggio faceva mezz’ora di meditazione e recitava la parte di ro­sario del giorno; le altre due poste le recitava nel corso della giornata26.

Talvolta, a metà pomeriggio il Padre aveva già consu­mato tutte le sue energie, a motivo dell’insonnia nottur­na e dell’intenso lavoro della mattinata, e faceva fatica ad andare avanti. Una volta confidò a don Javier Eche- varria:

«Ieri pomeriggio ero molto stanco e sono andato a fa­re orazione. Sono entrato in oratorio e ho detto al Si­

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gnore: sono qui, come il cane fedele ai piedi del suo pa­drone; non ho neppure la forza per dirti che ti amo; ma Tu lo sai già!»27.

Continuava a lavorare fino all’ora di cena. Dopo ce­na, prima di riprendere il lavoro, seguiva il telegiornale e gli accadeva la stessa cosa di quando leggeva il giorna­le. Gli avvenimenti lo portavano a Dio, a pregare per la sua Chiesa e perché rimediasse alle sofferenze degli uo­mini28.

t’c Si'

La disponibilità del Padre verso i bisognosi era nasco­sta, fatta di silenzio e di sacrificio. È questo uno dei trat­ti più amabili della sua figura. Non abbandonò mai nes­suno alla sua sorte29. A tutti dava un aiuto, materiale o spirituale, sia che gli raccontassero personalmente le lo­ro pene e le loro gioie, sia che gli scrivessero aprendogli il cuore. Il Padre rispondeva alle lettere offrendo sempre soluzioni e parole di incoraggiamento. Tutti i suoi figli potevano scrivergli liberamente e ciò contribuiva a stringere il legame di famiglia delPOpus Dei. Era sem­pre al corrente degli eventi importanti che riguardavano loro o le loro famiglie: malattie, nascita o morte di per­sone care.

L’Opera era cresciuta molto e dirigerla era divenuto per il Padre molto più faticoso e complesso che in passa­to. Si rese anche conto che i problemi di governo, le pra­tiche, le richieste di dati, rendevano meno frequente e più difficile lo scambio di notizie familiari, i racconti sull’apostolato. Nel 1963, scriveva ai direttori della Commissione della Spagna:

«Mi accorgo che, da quando trattiamo i problemi di governo in modo metodico (ormai sono diversi anni ed è più sicuro e giusto fare così), le nostre lettere hanno perso il sapore dei primi tempi. Dato che i problemi spi­rituali e materiali sono scritti in prosa amministrativa,

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non dimenticatevi, quando mi scrivete, di raccontarmi anche qualche bell’episodio, perché io possa assaporare la bellezza - la poesia - del vostro apostolato. Meno male che, quando ci incontriamo, mi raccontate tante cose belle. Dio vi benedica! Pregate per me e chiedete al Signore e alla sua Santissima Madre che mi facciano buono e fedele: semper ut iumentum/»30.

Con lo sviluppo dell’Opera era inevitabilmente au­mentata anche la quantità di carte e documenti, anche se il Padre cercava di ridurla. Sbrigava ciò che chiamava la “prosa amministrativa” , ma soprattutto godeva nel sentire il racconto delle iniziative apostoliche, delle nuo­ve avventure nelle quali i suoi figli si lanciavano portan­do lo spirito dell’Opus Dei in luoghi e situazioni sempre nuovi, della “poesia dell’apostolato” . La quantità di la­voro (e i nuovi tempi) lo obbligò anche a cambiare vec­chie abitudini, per rendere tutto più veloce e funzionale:

«... prima scrivevo tutto a mano o con qualche mac­china più o meno vecchia (ma le correzioni erano tutte di mio pugno), ma dagli anni cinquanta, più o meno, ho cominciato a usare il registratore a nastro o il dittafono e ormai non scrivo quasi più nulla. È meglio così: lavo­rare in questo modo è più rapido e più comodo. Io par­lo, poi trascrivono a macchina a doppio spazio tutto quello che dico, e il nastro si può riutilizzare; è anche economico»31.

In occasione del Natale del 1966, il Padre fece gli au­guri a tutti i suoi figli:

«Ogni anno l’Opera cresce, le attività si moltiplicano e le anime che collaborano al lavoro apostolico sono sempre più numerose. Conservate sempre, con questa crescita, il nostro clima di famiglia, che è vincolo di unità»32.

Dal 1960, per mantenere il “clima di famiglia” , aveva l’abitudine di scrivere ai suoi figli per il quarantesimo compleanno, che considerava una meta importante di maturità. D ’altra parte era anche il segno che la giovi­

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nezza se ne stava andando... Perciò, se qualche volta fa­ceva lo stesso con le sue figlie, si inventava qualche giro di parole per evitare di fare riferimento all’età, oppure scherzava delicatamente sul conto degli anni:

«Come vedi - scrisse a una di loro -, facciamo un’ec­cezione e ti scriviamo queste righe: per festeggiare la tua giovinezza. L’anno prossimo sei obbligata a com­pierne trentanove: figlie mie, voi riuscite sempre a gua­dagnarci»33.

Con i suoi figli aveva maggiore libertà per esprimersi e le sue lettere di auguri avevano toni diversi, a seconda del destinatario:

«Mille auguri per le tue quaranta primavere: ora co­mincia la tua giovinezza»34.

«Quarant’anni, a ben guardare, non sono poi tanti: due volte venti. Mille auguri per il tuo compleanno e perché so che tu, come tutti noi, sarai sempre giovane: ad Deum, qui laetificat iuventuteml»2’5.

«Mille congratulazioni perché stai diventando vec­chio (40!) e hai saputo spendere bene la tua prima giovi­nezza con garbo divino»36.

«Mi sono ricordato oggi di pregare per te in modo speciale, perché sei ormai un signore d’età-, quarant’an­ni!»37.

«Anch’io in fondo non ho più di quarant’anni: venti più venti. Perché ho cominciato la mia Opera a 26 e ora ne ho 62: le cifre sono le stesse»38.

Di lettere di questo tipo ce n’è a decine.

* * *

Il Padre arrivava alla fine della giornata molto affatica­to, anche se non smetteva di lavorare che alle nove e mezzo, quando si trovava con i membri del Consiglio per la tertulia della sera. Alle dieci in punto, in orato­rio, faceva l’esame di coscienza e poi si ritirava in silen­zio in camera.

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Prima di coricarsi, prostrato sul pavimento, recitava il Salmo 50, il Miserere, con cui terminava una giornata iniziata con il Serviam! Poi, in ginocchio e con le braccia in croce, seguendo una consuetudine che rimontava agli anni della guerra civile, recitava davanti alPimmagine della Madonna tre «avemarie per la purezza», chieden­do questa virtù per tutti, nell’Opera, nella Chiesa e nel mondo.

Serbava il crocifisso nel taschino del pigiama per ba­ciarlo durante la notte, e spargeva sul letto alcune gocce di acqua benedetta. Ripassava mentalmente la giornata, provando dolore e chiedendo perdono per le sue man­canze: pauper servus et humilis. Si sentiva poca cosa. Poi andava col pensiero alla Comunione del giorno suc­cessivo e si donava al Signore con una preghiera sempli­ce e breve: «Gesù, mi abbandono in Te, confido in Te, riposo in Te».

2. Il Concilio (1962-1965)

Ai primi di ottobre del 1958 si diffuse la notizia che il Pa­pa era gravemente ammalato. Pio XII spirò alle prime lu­ci del 9. Il Fondatore aveva seguito con attenzione e an­goscia le notizie sulla malattia, elevando intense preghiere al Signore e chiedendo ai suoi figli di fare lo stesso e di unirsi ancora di più al Vicario di Cristo, per essere più uniti a Dio. Ricordava con vero affetto la figura fragile e cortese del Papa, che nel 1950 aveva concesso all’Opus Dei la definitiva approvazione pontificia. Presenziò addo­lorato alle solenni esequie: il passaggio del feretro per le vie di Roma, la silenziosa sfilata della folla davanti alla salma, la sepoltura nella cripta di S. Pietro e la successiva novena di lutto39. Il funerale si svolse il 19 ottobre, cele­brato dal Cardinale Tisserant, davanti al Collegio Cardi­nalizio. Dai Paesi di oltre cortina potè venire a Roma il Cardinal Wyszynski, ma non Stepinac e Mindszenty.

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Non appena fu convocato il Conclave, il Fondatore prese a ripetere ai suoi figli: «Amiamo il Papa ancor pri­ma che venga eletto, da buoni figli»40. Circolavano sva­riate voci e ipotesi sui papabili e si facevano molti nomi, soprattutto di italiani: Ottaviani, Ciriaci, Lercaro, Siri, Ruffini, Masella... E poi Roncalli, Tisserant, Agagia- nian... Il 25 ottobre le porte del Conclave furono sigilla­te e per tre giorni interi ci fu attesa in piazza S. Pietro, fi­no a che, il 28 ottobre 1958, alle cinque del pomeriggio, il camino della Cappella Sistina cominciò a emettere un incerto fumo grigio; poco dopo, al grido di “ fumata bianca!” , la folla cominciò a ingrossarsi rapidamente.

Il Fondatore dell’Opus Dei stava seguendo l’avveni­mento da casa e subito, senza aspettare il nome dell’elet­to, si inginocchiò e si mise a pregare per lui: «Oremus prò Beatissimo Papa nostro: Dominus conservet eum et vivificet eum. Dio lo protegga e lo sostenga, lo renda fe­lice sulla terra e lo liberi dai suoi nemici...».

Il Cardinale Protodiacono, affacciato alla loggia di S. Pietro, proclamò: “Annuntio vobis gaudium magnum: habemus Papam..., cardinalem Roncalli” . Il Fondatore, visibilmente emozionato, ricevette la prima benedizione impartita da Giovanni XXIII alla folla e a coloro che se­guivano l’evento in televisione41.

Giovanni XXIII era un uomo di temperamento bene­volo e ottimista ed era ancora agile e forte, nonostante fosse vicino agli ottant’anni; era basso e robusto, con una buona dose di saggezza contadina. Era stato per molti anni segretario del Vescovo di Bergamo. Nel 1925 era stato nominato Visitatore Apostolico in Bul­garia, dove la sua naturale simpatia ammorbidì i rap­porti con le autorità, ostili a Roma. Nel 1934 era dive­nuto Delegato Apostolico in Turchia, allora sotto il duro regime laicista di Kemal Atatiirk. Non ebbe un compito facile neppure nella Grecia del generale Me- taxas e del Metropolita ortodosso Damaskinos. Nel 1945 era stato nominato Nunzio a Parigi, con l’arduo

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compito di alleggerire le pressioni esercitate su alcuni vescovi, accusati di collaborazionismo con i tedeschi, affinché rinunciassero all’incarico. Nel 1953 era dive­nuto Cardinale e, poco dopo, Patriarca di Venezia. In quest’ultimo periodo aveva avuto occasione di sentir parlare dell’Opera e di visitare in Spagna alcune resi­denze universitarie dirette dall’Opus Dei42.

Con grande sorpresa di tutti, il 25 gennaio 1959, du­rante una cerimonia nella basilica di S. Paolo, il Papa an­nunciò ai Cardinali la decisione di convocare un Conci­lio Ecumenico. L’ispirazione, spiegò il Santo Padre, gli era venuta dal Cielo e gli era nata dentro, disse ancora “come fiore di inattesa primavera”43. Il Fondatore non dubitò un istante della divina ispirazione: “Ricordo mol­to bene - dice mons. Alvaro del Portillo - con che gioia ed emozione accolse l’annuncio della convocazione”44.

Il 17 maggio 1959 fu costituita una Commissione an­tipreparatoria del Concilio, presieduta dal Cardinale Tardini, il quale nel giugno successivo chiese suggeri­menti e temi per il Concilio a tutti i Cardinali, Vescovi, Prelati e Superiori religiosi, Università e Facoltà di Teo­logia. Furono istituite le Commissioni e i Segretariati preparatori del Concilio che cominciarono a studiare le proposte e i suggerimenti allo scopo di elaborare gli schemi da presentare ai Padri conciliari.

Il Natale del 1961, meno di tre anni dopo il primo an­nuncio, il Romano Pontefice convocava ufficialmente il Concilio per il 196245. Tra gli obiettivi della grande as­semblea ecumenica figurava il rafforzamento della fede della Chiesa, mostrandone l’unità e la vitalità, e l’azione in favore dell’unione con Roma dei cristiani non cattolici.

L’11 ottobre 1962, nel grandioso scenario della Basili­ca Vaticana, alla presenza dei Padri conciliari, degli os­servatori e delle autorità civili, il Sommo Pontefice lesse il discorso di apertura nel quale, con espressioni lucide e decise, affermava che la celebrazione del Concilio, no­nostante le voci improntate al timore e al pessimismo

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che “nei tempi moderni non vedono che prevaricazione e rovina” , era storicamente opportuna. Il principale obiettivo era di custodire e insegnare in modo più effica­ce il sacro deposito della dottrina cristiana. Il Concilio - proseguiva - vuole trasmettere con purezza e integrità la dottrina, che è patrimonio comune di tutti gli uomini. Considerando, poi, l’unità che Cristo implorò per la sua Chiesa, è dovere di quest’ultima promuovere l’unità del­la grande famiglia cristiana.

Le sessioni del Concilio si aprirono dunque sulla nota di ottimismo del Papa, contrario ai ‘profeti di calamità’ che annunciano sempre eventi infausti e imminente la fi­ne dei tempi. Le cose non stavano certamente così, ma comunque le nazioni erano divise in blocchi contrappo­sti: da un lato le democrazie, dall’altro il totalitarismo comunista, e la contrapposizione era molto seria. Gli scontri fra i due blocchi erano continui ed era comincia­ta la corsa agli armamenti nucleari. In concomitanza con l’apertura del Concilio, gli Stati Uniti, che avevano attuato un blocco navale attorno a Cuba, lanciarono un ultimatum per chiedere il ritiro dei missili sovietici dal­l’isola. Fu allora evidente che la pace mondiale era in­certa e che la minaccia dissuasiva delle armi atomiche non creava altro equilibrio che quello del terrore. D’al­tra parte, anche la Chiesa era esposta all’aggressione dell’ideologia marxista e ci voleva molta fede per pensa­re che avrebbe saputo respingerla mantenendo incolume la sua dottrina.

Come reagì il Fondatore alla convocazione del Conci­lio? Quale ruolo svolse? Nel Concilio convocato da Giovanni XXIII egli vide soprattutto il soffio dello Spi­rito Santo, che ringiovanisce e assiste la sua Chiesa. Spe­rava in cuor suo che l’auspicato rinnovamento favorisse la diffusione in tutto il mondo del messaggio di santità che egli predicava dal 192 846. Era convinto che dal Concilio sarebbero derivati abbondanti benefici per tut­ta la Chiesa. Il Santo Padre aveva fatto un appello ai fe­

deli affinché pregassero Dio per il felice svolgimento della grande impresa e perché la preghiera comune fosse «accompagnata da quella penitenza cristiana che la ren­de più accetta a Dio e più efficace»47. Il Fondatore dettò gli opportuni orientamenti affinché non mancassero mai la preghiera e la mortificazione di tutti i membri dell’Opus Dei, dalla fase antipreparatoria fino alla chiu­sura del Concilio e oltre48. Desiderava che il Papa ne fosse informato e perciò chiese a vari collaboratori del Santo Padre di riferirgli che «nell’Opus Dei si prega sen­za posa per la Sua amatissima persona e per le Sue in­tenzioni»49. Il giorno del compleanno di Giovanni XXIII (25 novembre 1962), poco dopo la solenne aper­tura del Concilio, scrisse al segretario del Papa:

«La prego ancora di voler manifestare al Santo Padre quanto sono contento e ottimista per il Concilio Ecume­nico, quanto si prega e quanti sacrifici si offrono in tut­to il mondo dai membri dell’Opus Dei per queste grandi Assise della Chiesa, volute da Papa Giovanni!»50.

Il contributo personale del Fondatore al Concilio Va­ticano II consistette, anzitutto, in una continua e intensa preghiera. Così scriveva ai suoi figli nell’imminenza del­la chiusura del Concilio: «Figlie e figli miei, mi siete te­stimoni dell’amore con cui in questi anni ho seguito il lavoro del Concilio, cooperando con la mia orazione e, in tante occasioni, con il mio lavoro»51. Fin dal primo momento, infatti, si prese a cuore l’assemblea ecumeni­ca e cercò di collaborare nel modo più opportuno fin da quando il Concilio era ancora un progetto. Studiò poi a fondo i documenti e le allocuzióni pontificie e si rallegrò molto nell’apprendere che il Papa desiderava che i lavo­ri dell’assemblea avessero un orientamento pastorale. Era convinto che il fatto che Padri conciliari provenienti da tutte le parti del mondo si incontrassero a Roma, avrebbe favorito straordinariamente la missione evange­lizzatrice della Chiesa, grazie allo scambio di esperienze. Vedeva, inoltre, nel Concilio uno stimolo al rinnova-

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mento spirituale di tutti i cristiani e infine nutriva la speranza che sarebbe emerso uno spazio giuridico per i nuovi cammini di spiritualità e per le nuove forme di vi­ta cristiana e, quindi, per l’Opus Dei52.

La lettera con cui il Cardinale Tardini chiedeva a tutte le autorità ecclesiastiche e accademiche suggerimenti e temi per il Concilio spinse il Fondatore, che continuava a chiedere preghiere a tutti, a organizzare a Villa Tevere un gruppo di lavoro53 e a mobilitare i fedeli delPOpus Dei che avrebbero potuto dare un contributo specifico. Non erano molti, perché l’Opus Dei era un’istituzione giova­ne, ma il Padre non ci pensò due volte a privarsi per tut­to il tempo necessario dell’aiuto di alcuni dei suoi più di­retti collaboratori, benché ciò aumentasse di molto il suo lavoro. «Non importa, figli miei - diceva l’ha voluto il Santo Padre. Noi dobbiamo sempre servire la Chiesa co­me la Chiesa vuole essere servita»54. Nella fase iniziale, il Segretario Generale delPOpus Dei, don Àlvaro del Por­tillo, fu nominato Presidente della Commissione antipre­paratoria sui laici e membro di un’altra Commissione. In seguito fu nominato Segretario della Commissione sulla disciplina del clero e del popolo cristiano e Consultore di altre tre Commissioni conciliari55.

Il Fondatore, invece, non prese parte personalmente ai lavori del Concilio, benché sarebbe potuto essere no­minato Padre conciliare in quanto Presidente di un Isti­tuto Secolare. Ma tale nomina, in una circostanza tanto solenne, sarebbe potuta essere considerata una tacita ac­cettazione dello status giuridico delPOpus Dei. Il Fon­datore, come si vedrà in seguito, da anni ne chiedeva la revisione, considerandolo provvisorio, e per questo mo­tivo, che trovò comprensione presso la Curia, preferì ri­nunciare alla nomina. Mons. Capovilla, interpretando il desiderio di Giovanni XXIII, lo invitò allora a conside­rare la possibilità di intervenire come Perito del Conci­lio56. Il Fondatore lo ringraziò, ma espose le ragioni per cui preferiva non accettare, rimettendosi comunque alle

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decisioni del Papa. Al Concilio presero parte alcuni Ve­scovi provenienti dal clero dell’Opus Dei: mons. Ignacio Orbegozo, Prelato di Yauyos (Perù), mons. Luis Sàn- chez-Moreno, Vescovo ausiliare di Chiclayo, e il Vesco­vo ausiliare di Oporto, mons. Alberto Cosme do Ama­rai, Aggregato della Società Sacerdotale della Santa Croce. Il contributo del Fondatore dell’Opus Dei al Concilio - come vedremo - fu di diversa natura e ben più importante, a prescindere dai consigli e dagli orien­tamenti che più di una volta gli furono chiesti57.

* * *

In quel periodo, mons. Escrivà chiese al Papa un’udien­za, poiché voleva aprirgli il suo cuore. Giovanni XXIIIlo ricevette il 5 marzo 1960. Il dialogo fu cordialissimo e confidenziale, anche perché il Papa, con il suo caratte­re affabile e bonario, invitava a superare ogni formalità protocollare. Il Fondatore era emozionatissimo, come gli accadeva sempre alla presenza del Santo Padre, il ‘Vicecristo’58, tanto che gli tremavano le mani e la voce. Con fiducia filiale espose al Papa il lavoro apostolico che l’Opus Dei svolgeva nel mondo e fece cenno all’ina­deguatezza della situazione giuridica. Chiese una solu­zione, ma il Papa non gli potè promettere altro che di investire del problema la Curia, una volta concluso il Concilio59.

Il Papa fu favorevolmente impressionato dalla spon­taneità piena di rispetto con cui mons. Escrivà gli si era rivolto, per illustrargli l’universalità degli apostolati del­l’Opus Dei:

« ‘Santo Padre, nella nostra Opera tutti gli uomini, sia­no o meno cattolici, hanno trovato sempre accoglienza: non ho imparato l’ecumenismo da Vostra Santità’. Egli rise commosso, perché sapeva che, fin dal 1950, la Santa Sede aveva autorizzato l’Opus Dei ad accogliere come cooperatori i non cattolici e perfino i non cristiani»60.

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Il Papa sorrise paternamente a questa sortita del Fon­datore. Giovanni XXIII, che aveva svolto missioni di­plomatiche in Paesi tradizionalmente separati da Roma, non a caso aveva indicato, tra le finalità del Concilio, l’unione con i ‘fratelli separati’, e conosceva bene l’apo­stolato ad fidem dei membri dell’Opus Dei61.

Alla fine dell’udienza entrò anche don Àlvaro e fu an­ch’egli ritratto in una fotografia con il Papa: don Àlvaro è alla sinistra di Giovanni XXIII, mentre alla destra si ve­de il Fondatore, vestito da Prelato domestico, visibilmen­te emozionato di trovarsi accanto al Vicario di Cristo.

I mesi di intenso lavoro che precedettero il Concilio passarono rapidamente. Mons. Escrivà era compieta- mente assorbito dal governo delPOpera e dalla sua espansione in tutto il mondo, ma non si dimenticava certo del problema di trovare e di ottenere per l’Opus Dei una configurazione giuridica definitiva, appropriata alla sua natura e al suo spirito. La solenne apertura del Concilio era fissata per l’autunno del 1962 ed egli, ben sapendo che da quel momento in poi non sarebbe stato facile ottenere un colloquio con Giovanni XXIII, chiese e ottenne un’udienza privata. Il 27 giugno potè aprire ancora una volta al Pontefice il suo cuore, parlandogli dello spirito e degli apostolati dell’Opus Dei. Il Papa, come nell’udienza del 1960, ebbe così la possibilità di rendersi conto dei nuovi orizzonti che prospettavano per la Chiesa.

Pochi giorni dopo, avendo ancor vivo il ricordo della visita al Padre comune di tutti i cristiani, egli scrisse ai suoi figli per far loro condividere «i sentimenti che pro­vo per l’indimenticabile udienza». Per dovere della mia carica, scrisse, «più volte ho avuto l’onore e la gioia di videre Petrum, ma amo potervi assicurare che quest’ul­timo incontro con il Vicario di Cristo è stato particolar­mente significativo per la nostra Opera». Facendo capi­re che gli argomenti trattati erano oggetto di riserbo, raccontava loro che l’affetto non gli avrebbe più fatto

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dimenticare tanti piccoli particolari dell’udienza: «Non solo il giorno e l’ora, bensì anche lo sguardo attento e pieno di paterna benevolenza, il gesto soave della mano, il calore affettuoso della Sua voce, la grave e serena leti­zia riflessa sul Suo volto (...). Ci ha tutti nel Suo cuore. Egli ci conosce e ci comprende perfettamente»62.

Il Fondatore mantenne il riserbo sui contenuti della conversazione con Giovanni XXIII, ma qualcosa si può intuire dai successivi rapporti intrattenuti con il segreta­rio personale del Papa, mons. Loris Capovilla. Il 30 giu­gno 1962, tre giorni dopo l’udienza, il Fondatore gli scriveva che era desiderio di Sua Santità che mons. Ca­povilla lo potesse ricevere:

«E quindi in esecuzione di tale Augusto desiderio (...) che mi permetto (...) la preghiera che Ella voglia accor­darmi un incontro in cui, oltre al piacere di fare la Sua conoscenza, dovrei adempiere all’Augusta preghiera del Santo Padre di consegnare nelle mani della S.V. del ma­teriale concernente l’Opus Dei»63.

Ci fu l’incontro, cui seguì una lettera alla quale il Fondatore rispose il 21 luglio 1962, apprezzando la «rapidità con cui il Santo Padre ha capito lo spirito e lo scopo dell’Opus Dei: vale a dire, cercare la vita di per­fezione evangelica e fare l’apostolato ognuno nel pro­prio posto di lavoro, nella propria professione, e senza diventare dei frati, dei religiosi, pur amando e veneran­do molto coloro che hanno, nella Chiesa, questo modo di servire Dio»64.

Si comprende allora l’ottimismo che impregna la let­tera scritta a tutti i Centri dell’Opus Dei dopo l’udienza papale del giugno 1962. Forse il Fondatore intravide la possibilità di dare compimento al cammino giuridico dell’Opus Dei e si adoperò intensamente per non dover attendere la fine del Concilio. Quando ritornò da Lon­dra, dove aveva trascorso alcune settimane, cercò subito di incontrare nuovamente mons. Capovilla, «per dirgli a voce ciò che per iscritto sarebbe difficile comunicare»65.

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Nell’autunno del 1962 si tenne la prima sessione con­ciliare, conclusasi P8 dicembre. I lavori erano andati a ri­lento, si era dovuto cambiare il regolamento e le sessioni sarebbero riprese nel settembre dell’anno successivo.

A Natale scriveva a mons. Capovilla per fargli gli au­guri:

«Illustrissimo e caro Monsignore,non sembrandomi opportuno chiedere udienza al

Santo Padre né volendo togliere a Lei un po’ del Suo prezioso tempo, Le scrivo due righe per pregar La di vo­ler umiliare a Sua Santità i miei filiali auguri, accompa­gnati dalla continua orazione e dai sacrifici, miei e di tutti i miei figlioli nell’Opus Dei, per la Sua venerata e amatissima Persona»66.

Il Fondatore avrebbe desiderato ottenere una nuova udienza prima della seconda fase del Concilio e dopo qualche mese, approfittando dell’invio di alcune pubbli­cazioni, aggiunse fra parentesi una frase: «Quanto mi farebbe piacere poter vedere Sua Santità»67.

Non fu possibile: il Papa morì il 3 giugno 1963, dopo una lunga agonia.

* * *

Di nuovo furono celebrati funerali solenni e di nuovo si tenne il Conclave, nel quale, il 21 giugno 1963, fu eletto il Cardinale Montini, che prese il nome di Paolo VI. Lo stesso giorno il Fondatore inviò un telegramma al Cardi­nale Cicognani, Segretario di Stato, rinnovando la sua fervente adesione al Pontefice e facendo voti per un fe­condo Pontificato68. Alcuni giorni dopo scrisse a mons. Capovilla per fargli le condoglianze e dirsi certo che Pao­lo VI avrebbe continuato a percorrere lo stesso luminoso cammino del compianto Pontefice. E aggiungeva: «Mons. Montini è stata la prima mano amica che mi fu tesa quando venni a Roma, nell’ormai lontano 1946»69.

Alcuni giorni prima il Fondatore aveva ricevuto da

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mons. Leopoldo Eijo y Garay numerosi documenti rela­tivi alla storia dell’Opera e alla sua fondazione. Forse l’anziano Patriarca sentiva avvicinarsi la sua ultima ora. Il Fondatore gli scrisse: «L’avremo presto a Roma?»70. Non ebbe mai risposta, perché mons. Leopoldo morì poche settimane dopo.

«Puoi immaginare il mio dolore - scriveva il Fondato­re al Vescovo ausiliare di Madrid - perché gli ho sempre voluto veramente bene. Benché sia sicuro che Dio avrà premiato con il Cielo il suo lungo e fecondo sacerdozio, sto offrendo suffragi per l’eterno riposo della sua anima e spero che abbia avuto una grande ricompensa per la visione soprannaturale e il coraggio che seppe dimostra­re, quando furono necessari per aiutare l’Opus Dei e questo peccatore»71.

Il 29 settembre 1963 Paolo VI inaugurava la seconda sessione del Concilio, che durò fino a dicembre. Nei pri­mi giorni del 1964 il Papa si recò in pellegrinaggio in Terrasanta. Al suo ritorno, il 24 gennaio, ricevette in udienza privata il Fondatore dell’Opus Dei. Nella lunga conversazione emersero ricordi comuni, gioie e tristez­ze, il trasferimento a Roma di mons. Escrivà e il suo tira e molla con la Curia sui problemi giuridici. Su questo tema il Fondatore si dilungò, visto che non era ancora risolto. Terminata l’udienza, consegnò a Paolo VI una lettera in cui esprimeva la grande venerazione e gratitu­dine che l’Opus Dei aveva per il Papa. Eccone un brano:

«Memore della grande benevolenza dimostrata all’O- pera e al suo umile fondatore e dei consigli, cortesie e incoraggiamenti di cui Vostra Santità fu così larga sin dal lontano 1946, allorché ricopriva la carica di Sostitu­to della Segreteria di Stato, il sottoscritto depone ai pie­di di Vostra Santità quello che ritiene essere l’animo e la pastorale dell’Opus Dei: il desiderio di servire la Chiesa come Essa desidera essere servita. Tale è il programma che ha sempre guidato l’attività sacerdotale del sotto- scritto, nei trentasei anni di vita dell’Opus Dei»72.

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Così riassunse l’udienza in una lettera a mons. Igna- cio Orbegozo, Prelato di Yauyos, in Perù:

«Il Santo Padre mi ha ricevuto alcuni giorni orsono, in una udienza cordialissima di più di tre quarti d’ora; ho parlato di tutto con la fiducia che mi infonde l’amore per Pietro che il Signore ha posto nel mio cuore. Mi ha abbracciato diverse volte, si è emozionato ricordando cose del passato, e anch’io mi sono commosso. Alla fine gli dissi che Alvaro mi aveva accompagnato ed egli lo fece entrare, per ricordare con lui gli incontri che aveva­no avuto dal 1946 in poi. Il Papa ha detto ad Alvaro: ‘Sono diventato vecchio’. E vostro fratello gli ha rispo­sto: ‘Santità, è diventato Pietro’. Prima di accomiatarci con una lunga e affettuosa benedizione per tutti e per ciascuno, per ogni attività, per ogni intenzione, volle farsi con noi due fotografie, mentre mormorava sotto­voce ad Alvaro: ‘Don Alvàro, don Alvàro...’»73.

L’affettuosa accoglienza di Paolo VI incoraggiò don Josemarìa a confidargli alcune riflessioni personali su te­mi che aveva molto a cuore per il bene esclusivo delle anime. Gli inviò dunque una lunga lettera, datata 14 giu­gno 196474, uno sfogo filiale, che non richiedeva alcuna risposta. Durante l’estate del 1964 si assentò da Roma. Il 15 agosto scrisse a mons. Dell’Acqua, chiedendo di esse­re ricevuto di nuovo da Paolo VI: l’udienza ebbe luogo il10 ottobre. Don Josemarìa ebbe modo di esporre di nuo­vo ciò che lo preoccupava, come si vedrà in seguito75.

Era profondamente commosso per le dimostrazioni di benevolenza del Pontefice76. In una lettera al Consigliere della Spagna, rivivendo l’emozione dell’udienza, scrisse: «Mi sono sentito ripagato di tante cose offerte al Signo­re in laetìtia in questi trentasette anni!»77.

* * X

11 Fondatore seguì assiduamente lo svolgersi del Conci­lio. Benché non intervenisse personalmente nei lavori, la

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sua collaborazione fu egualmente intensa. Dopo aver preso accordi con la Presidenza e con la Segreteria del Concilio per parlare con i Padri conciliari, nel rispetto del segreto d’ufficio, fornì a parecchi di loro materiale di studio e di lavoro78. Dedicava ogni giorno un certo tempo a questi incontri, a cominciare dai Padri Conci­liari che erano membri dell’Opus Dei. “Tutti i pomerig­gi conversava un’ora con noi - riferisce uno di loro - aiutandoci, consigliandoci e illuminandoci sui temi in discussione”79.

Il Fondatore aveva una visione ampia, universale e profonda della Chiesa, non solo in base alle letture o alla conoscenza teorica, ma soprattutto grazie alle esperienze fatte personalmente in Spagna, in Italia, in Inghilterra e al suo lavoro di governo dell’Opus Dei in più di venti Paesi. Questa vasta esperienza pastorale indusse, per esempio, il Cardinale Siri e altri a consultarsi con il Fondatore, nel desiderio di ampliare le proprie esperienze diocesane alla dimensione ecumenica proposta dal Concilio80.

Alcuni Prelati conoscevano già il Fondatore, altri lo conobbero durante il Concilio. Alcuni erano mossi dalla curiosità di conoscere la sua opinione sugli argomenti di­battuti, altri dalla speranza di trovare risposte adeguate al problema del ruolo dei laici nella Chiesa. Tutti rimase­ro impressionati dalle sue ammirevoli doti di consiglio e dal senso soprannaturale con cui trattava i problemi81. La sua gradevole conversazione e la sua limpida visione del futuro della Chiesa attrassero a Villa Tevere un nu­mero sempre maggiore di visitatori. Joaqum Mestre, al­l’epoca segretario dell’Arcivescovo di Valencia, mons. Olaechea, racconta di averlo accompagnato molte volte nella sede centrale dell’Opus Dei e di aver potuto consta­tare che “numerosi Vescovi entravano e uscivano da quella casa e a volte dovevano aspettare il loro turno per riuscire a parlare con il Fondatore”82.

Molti Padri conciliari cercavano, forse senza render­sene conto, il calore della sua compagnia e la pace che

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egli riusciva a trasmettere. Al Cardinale Francois Marty rimase un ricordo molto spirituale delle sue conversa­zioni con il Fondatore: era un uomo che parlava soltan­to di Dio. “Una conversazione con lui - dice - sembrava un momento di orazione” 83.

Uno di quei giorni si recò a Villa Tevere un gruppo di Prelati di lingua francese; fra essi - racconta mons. Her- ranz - Pallora Arcivescovo di Reims, Cardinale Marty, il Vescovo di Liegi, mons. Guillaume Marie van Zuylen, il Vescovo di Saint-Claude, mons. Claude Constant M a­rie Flusin, il Vescovo di Angers, mons. Henri Mazerat, e mons. Willy Onclin, decano della Facoltà di Diritto Ca­nonico di Lovanio e perito di varie Commissioni conci­liari. La conversazione si orientò sull’apostolato dei laici e uno degli ospiti, ripetendo un’idea abbastanza diffusa tra i Padri conciliari, disse che ai laici compete animare cristianamente le strutture temporali, quelle del mondo, per trasformarle.

Il Fondatore dell’Opus Dei, con molta decisione e con un amabile sorriso, intervenne:

«Purché abbiano anima contemplativa, Eccellenza! Altrimenti non trasformeranno nulla, anzi, saranno loro a farsi trasformare e i cristiani, invece di cristianizzare il mondo, si mondanizzeranno»84.

L’influsso di don Josemaria sui Padri conciliari che andavano a trovarlo traeva forza dalla sua autorità mo­rale. “Benché non l’abbia mai visto nei luoghi delle ses­sioni - riferisce mons. Hervàs -, (...) tuttavia la sua pre­senza spirituale, rispettosa del lavoro dei Padri conciliari, senza imporre alcun punto di vista, fu chia­rissima e di grande importanza per noi che partecipava­mo a quella grande Assemblea” 85.

Il Fondatore si aspettava dal Concilio l’aggiornamen­to della pastorale e la conferma del deposito intangibile della fede della Chiesa (quod semper, quod <ubique, quod ab omnibus creditum est)86. Ribadiva la necessità di rispettare in tutta la sua integrità l’autorità del Papa,

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perché, prima che nel dibattito conciliare cominciasse a essere messa in discussione, presentiva già gli attacchi che sarebbero stati mossi al primato della Sede Aposto­lica, con il pretesto di adeguare la struttura gerarchica della Chiesa al moderno concetto di democrazia. Tali previsioni, basate anche su avvenimenti della storia del­la Chiesa non insoliti nell’epoca dei Concili Ecumenici, cominciarono presto ad avverarsi87.

Espresse le sue preoccupazioni in una lettera ai suoi figli del 2 ottobre 1963, mentre iniziava la seconda ses­sione del Concilio:

«Conoscete molto bene, figlie e figli carissimi, la mia preoccupazione e il mio dispiacere per la confusione dot­trinale teorica e pratica che si sta diffondendo dovunque e che è dovuta a diverse circostanze del nostro tempo e anche a interpretazioni erronee, a insinuazioni tenden­ziose e a notizie false che, in occasione del Concilio Ecu­menico Vaticano II, sono state propalate ad arte»88.

Sulla stampa e negli altri mezzi di comunicazione socia­le, la vita del Concilio veniva presentata in modo artefat­to, trasmettendo al pubblico e agli stessi Padri conciliari un’immagine deformata dei lavori. Il dibattito veniva spesso commentato in chiave ideologica, descrivendo le diverse opinioni come espressioni di schieramenti con­trapposti, mosse strategiche in vista di future battaglie, scontri fra il vecchio e il nuovo, tradizione e modernità. Naturalmente, questa interpretazione dialettica della sto­ria conciliare, oltre alla forzatura che conteneva, ignorava completamente l’azione dello Spirito Santo. Anche alcuni mezzi di informazione di ispirazione cattolica facevano, con gran dolore del Fondatore, commenti completamente privi di senso soprannaturale, ispirandosi a ideologie con­dannate dal Magistero della Chiesa89.

Prima che iniziasse la terza fase conciliare, che si svol­se dal 14 settembre al 21 novembre 1964, in febbraio e in agosto il Fondatore aveva scritto altre due lettere ai suoi figli su tali argomenti90. Vi erano fortissime pres­

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sioni sui Padri conciliari perché rivedessero precedenti decisioni del Magistero su temi non previsti nei lavori; oppure venivano diffuse notizie, spesso violando il se­greto d’ufficio, che seminavano la confusione. Si solleci­tava una ’apertura al mondo’ e un ‘aggiornamento’ del­le strutture e della dottrina della Chiesa, senza alcun limite o discernimento. In una delle lettere del 1964, il Fondatore citò gli «impazienti e sfrenati riformisti, che manifestano una irritabilità patologica nei confronti del principio di autorità»91. Smascherava «la nuova legione di improvvisati riformatori, anche tra il clero e tra i reli­giosi» i quali, con un penoso infantilismo, avrebbero voluto cambiare usanze e istituzioni per il solo gusto del cambiamento. «Sono abbagliati - scriveva il Fondatore- dal progresso del mondo moderno e, senza saper co­gliere i valori profondi o i segni migliori dei tempi, si lanciano in ima corsa febbrile che arreca danno alle loro anime, sterilità al loro lavoro e fa sorridere ironicamen­te i nemici della Chiesa e dello Stato»92.

Da un certo momento in poi molti Padri conciliari si accorsero di ciò che stava accadendo, delle critiche esterne al Concilio, dell’impegno di molti perché i lavori non si limitassero agli obiettivi indicati previamente dal Papa. Era divenuto difficile far svolgere serenamente le sessioni, sulle quali qualcuno cercava di far pesare le in­terpretazioni indotte dai mass media. Preoccupato, Pao­lo VI decise di anticipare la conclusione del Concilio elo comunicò ai suoi collaboratori, fra cui mons. Del­l’Acqua93. Al Fondatore questa decisione sembrò pru­dente e il 23 aprile 1964 scrisse a Paolo VI:

«Oso confidare a Vostra Santità (...) il doloroso senti­mento di ansietà che mi prende quando constato come l’attuale Concilio Ecumenico, dal quale lo Spirito Santo saprà ricavare abbondanti frutti per la sua Santa Chie­sa, sia stato finora occasione perché si originasse uno stato di grave malessere - oserei dire, di confusione - negli animi dei Pastori e delle loro greggi: sacerdoti, se­

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minaristi e fedeli (...). Desidero infine aggiungere, Santo Padre, che prego, che preghiamo molto tutti quanti nel- l’Opus Dei, per la Sua Augusta e Amatissima Persona e le Sue intenzioni, perché possa giungere in breve tempo a compimento l’attuale Concilio, e per il grande lavoro che si renderà necessario nel periodo postconciliare»94.

Il 14 settembre 1965 iniziò l’ultima sessione del Con­cilio Vaticano II. Il 4 ottobre, Paolo VI, a New York, tenne un discorso all’ONU. Di ritorno a Roma, pro­mulgò vari Decreti e Dichiarazioni. L’assemblea conci­liare era prossima a concludersi e il Fondatore esortava i suoi a stringersi attorno al Papa: «State molto vicini al Romano Pontefice, il dolce Cristo in terra: seguite gior­no per giorno i suoi insegnamenti, meditateli nell’ora­zione, difendeteli con la parola e con la penna»95.

Da parte sua, il Fondatore cercava sempre di far arri­vare al Papa qualche notizia che lo potesse rallegrare, anche perché sapeva che talvolta il Pontefice era trattato con poco rispetto in pubblico e in privato. Paolo VI vol­le mostrare pubblicamente il suo apprezzamento per l’Opus Dei e per il suo Fondatore: pochi giorni prima della chiusura del Concilio, volle inaugurare il Centro ELIS, un’opera sociale per la gioventù operaia situata a Roma, nel quartiere Tiburtino. Il progetto era nato anni addietro, quando Giovanni XXIII aveva deciso di desti­nare a un’attività sociale i fondi raccolti in occasione dell’ottantesimo compleanno di Pio XII e di affidarne all’Opus Dei la realizzazione e la gestione96.

Mons. Dell’Acqua precisò che era stato il Papa a vo­lere che l’inaugurazione avvenisse durante il Concilio, affinché i Padri conciliari potessero visitare il Centro e apprezzare, oltre all’affetto del Papa per l’Opus Dei, la sollecitudine del Pontefice per gli strati sociali più bi­sognosi97.

Il 21 novembre Paolo VI inaugurò la chiesa parroc­chiale e tutti gli altri edifici. Il Santo Padre, nel discorso ufficiale pronunciato nei locali del Centro ELIS, ringra­

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zio con espressioni vibranti quanti avevano lavorato per realizzare il progetto, che era “un’altra prova dell’amo­re della Chiesa” . Il Fondatore, rispondendo al discorso del Papa, descrisse brevemente la nascita del Centro e la sua funzione di servizio alla gioventù, per insegnare ai giovani «che il lavoro santificato e santificante è parte essenziale della vocazione del cristiano»98.

Il Fondatore, toccato dalla presenza del Vicario di Cri­sto, lesse il suo discorso con evidente emozione. Anche Paolo VI era profondamente commosso e, prima di la­sciare il Centro ELIS, mentre abbracciava don Josemaria, esclamò, davanti a tutti: “Qui tutto è Opus Dei”99.

L’8 dicembre 1965 si svolse la cerimonia di chiusura del Concilio Vaticano II.

3. L’epoca postconciliare

La chiusura del .Concilio fu accolta con sollievo dai teolo­gi e dai periti che lavoravano da anni a ritmi proibitivi nelle Commissioni del Vaticano II. Don Alvaro ricuperò la libertà di movimento che da temjto non aveva e il Pa­dre pensò di fare un viaggio apostolico in Grecia. Da tem­po accarezzava l’idea di iniziarvi l’attività dell’Opus Dei.

Il 26 febbraio 1966 partirono in nave da Napoli. Poi­ché non era una gita turistica, il Padre acconsentì sol­tanto a fare una passeggiata fino al Partenone, ma non volle spendere tempo e denaro per visitare altri monu­menti. Gli interessava solo capire se in quella nazione ci sarebbe stato spazio per il lavoro apostolico dell’Opus Dei100. Entrarono in qualche chiesa: c’erano solo poche donne che pregavano nella penombra. Ambienti solitari e vuoti, che mettevano tristezza. Ad Atene e a Corinto passarono per i luoghi nei quali la tradizione colloca la predicazione di S. Paolo. Il Padre cercò di immedesimar­si nei sentimenti dell’Apostolo. Il suo spirito era assorto nell’orazione e lo si intuisce nella paterna sincerità di

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una lettera scritta da Atene il 10 marzo ai suoi figli del Consiglio Generale:

«Sta volgendo al termine questo viaggio, che senza dubbio è anche la preistoria dell’Opera in queste terre. Preghiamo (a volte vorrei fare meno orazione, ma non ci riesco), vi ricordiamo e pensiamo al futuro lavoro, l’O­pera di Dio, che si dovrà fare su questa sponda del Medi- terraneo: non sarà facile, ma nemmeno difficile»101.

Il giorno precedente erano stati sullo stretto di Corin­to, del cui bellissimo paesaggio non volle godere se non per i pochi minuti m cui acconsenti a salire sul ponte, interrompendo il lavoro nella cabina della nave102. Il perseverante raccoglimento interiore che il Padre man­tenne nel viaggio era dovuto, in buona parte, al dolore che provava per gli attacchi al Romano Pontefice. Il 14 marzo era di ritorno a Roma e, un mese dopo, confida­va a mons. Dell’Acqua che nel corso del viaggio in Gre­cia non avevano fatto «praticamente altro che pregare per il Vicario di Cristo»103.

Nonostante tutto, l’impressione generale che il Fon­datore ricavò dal viaggio fu che vi erano scarse possibi­lità di cominciare il lavoro in Grecia. Il clima sociale e religioso al momento non era favorevole per svolgervi un’attività apostolica di grande respiro. La prudenza in­vitava ad aspettare che qualcosa cambiasse: non era il momento opportuno per cominciare104. Espresse queste riflessioni anche in una breve nota per mons. Dell Ac­qua, per tenerlo informato su un tema che forse poteva interessare al Papa105-

Un’altra questione che stava a cuore al Fondatore era la creazione di una Facoltà di Teologia nell’Università di Na­varra. Prima ancora di rientrare a Roma, da Atene, scrisse a un suo caro amico, mons. Marcelino Olaechea, Arcive­scovo di Valencia e Presidente della Commissione per i Se­minari della Conferenza episcopale spagnola. Fece una raccomandata, non fidandosi troppo delle poste locali:

«Le scrivo queste righe per pregarla di avere la bontà

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di dirmi com’è andata la questione della nuova facoltà di teologia dell’Università di Navarra. Sarò molto felice, per il mio spirito di sacerdote secolare, che si possa fare- la si farà comunque - con la simpatia dei suoi venerati colleghi, perché questo lavoro sarà per il loro servizio.

Ieri sono stato a Corinto e con tanto affetto ho affida­to al Signore tutte le attività del mio Arcivescovo di Va­lencia; ho invocato in particolar modo S. Paolo, nel luo­go che la tradizione indica come la sua tribuna»106.

Quattro giorni dopo, l’Arcivescovo di Valencia comu­nicava ufficialmente al Fondatore che nell’Assemblea plenaria della Conferenza il progetto della nuova Fa­coltà era stato accolto con grande soddisfazione da par­te dei Vescovi107. Questa iniziativa di mons. Escrivà, Gran Cancelliere dell’Università di Navarra, nasceva dal suo amore per la Chiesa e dal desiderio di mettere in pratica quanto prima i suggerimenti del Concilio. La Dichiarazione conciliare sull’educazione (Gravissimum educationis), promulgata il 28 ottobre 1965, stabiliva infatti che nelle Università cattoliche prive della Facoltà di Teologia dovesse esserci almeno un Istituto o una cat­tedra di Teologia, per svolgere la ricerca e promuovere il dialogo con i fratelli separati108. Il Fondatore, consape­vole della confusione dottrinale affiorata negli anni del Concilio, aderì immediatamente al dettato della Dichia­razione conciliare. Già il 22 novembre 1965 tutti i Ve­scovi della provincia ecclesiastica di Pamplona gli ave­vano chiesto di ottenere dalla Santa Sede l’erezione della Facoltà109. Prudentemente, però, il Gran Cancelliere volle sentire il parere anche degli altri Vescovi spagnoli. Fu così che, su istanza dell’Episcopato spagnolo, si lan­ciò in un’impresa che si sarebbe rivelata molto onerosa.Il 20 aprile 1966 il Fondatore dell’Opus Dei rivolse al Santo Padre la richiesta dell’erezione canonica di una Facoltà di Teologia110.

La risposta della Curia fu dilatoria111. Passarono sei mesi. In dicembre, PAssemblea plenaria della Conferen­

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za episcopale spagnola tornò a chiedere alla Santa Sede l’erezione della Facoltà di Teologia a Pamplona112, con una istanza che don Josemaria inviò il 27 dicembre alla Sacra Congregazione per i Seminari e le Università113. La risposta della Curia, pur senza essere negativa, era ambigua e condizionata a un nuovo studio, “affinché questo Sacro Dicastero possa essere convenientemente informato sulla effettiva capacità dell’Opus Dei, soprat­tutto quanto a personale docente, di affrontare un’im­presa tanto ardua” 114. Era ormai di pubblico dominio che il progetto era ostacolato. Il Fondatore non potè fa­re a meno di dar credito alle voci, perché provenivano dai vescovi ed erano ben documentate. Perciò, il 2 mar­zo 1967 scrisse a mons. Dell’Acqua, avvisandolo di aver sentito voci di «manovre e pressioni, come se si volesse evitare a tutti i costi l’erezione della Facoltà». La lettera, e gli allegati, rivelano lo sconcerto del Fondatore di fronte all’evidenza di un inspiegabile ostruzionismo a un progetto raccomandato dal Concilio e dall’Episcopa- to spagnolo. La posizione del Fondatore era spiacevole, fra l’incudine e il martello, come spiegava a mons. Del­l’Acqua in un post scriptum:

«Mi trovo, infatti, in una posizione difficile, perché, da una parte, non posso dare l’impressione al Venerabi­le Episcopato Spagnolo che non voglia tener conto della loro richiesta; né, d’altro lato, posso dare loro una ri­sposta che, poiché dovrebbe far riferimento al fatto che si è ancora in attesa di indicazioni della Santa Sede, po­tesse far sembrare che la loro decisione di farci creare la predetta Facoltà non è ben accolta»115.

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Alla fine dell’aprile 1966 si tenne a Roma il Congresso Generale dell’Opus Dei.

Avvicinandosi l’estate e il caldo, il medico raccomandò al Padre un periodo di riposo. Non rifuggiva dall’idea,

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anzi la consigliava a tutti, ma poi lui non riusciva a met­terla in pratica. «Questa estate - raccontava nel luglio1966 al fratello Santiago e alla cognata Yoya - non po­trò fare a meno di riposare un po’, perché non ci riesco da tre anni, anche se sono andato fuori Roma»116.

In effetti, nel 1964 aveva trascorso parte dell’estate a Elorrio, un paesino dei Paesi Baschi, da dove aveva scritto ai suoi figli:

«Siamo in questo angolo fresco e umido e ogni giorno, non ci crederete, facciamo una passeggiata di due ore e più: ormai facciamo parte del paesaggio, ci conoscono i contadini, le mucche e i cani, che non ci abbaiano più contro. Penso che se anche a Roma riusciremo a trovare tutti i giorni l’occasione per camminare un po’, dopo la clausura monacale di questi anni, cui siamo stati costret­ti a dispetto di tutte le regole - mea culpa! - e del buon senso, staremo più in salute e potremo servire meglio il Signore nel suo Opus Dei. Mi aiuterete a compiere que­sto difficile proposito: così lo compirà anche don Àlvaro, poiché per lui è una medicina necessaria»117.

Aveva passato l’estate del 1965, immerso nel lavoro, a Cafaggiolo, vicino a Firenze, in una località chiamata II Trebbio. Abitava in una vecchia casa isolata, senza te­lefono, di proprietà di un’anziana signora. Aveva porta­to con sé carte e documenti da preparare per la stampa. Si divertiva a definire la casa come una «topaia medioe­vale», ma non gli dispiaceva quel luogo, «un angoletto di Toscana», dove riuscì a fare qualche sortita per la campagna, per sgranchirsi le gambe. Ad ogni modo, a giudicare da quanto scrisse al fratello Santiago, alla fine era più stanco che riposato:

«Sono appena rientrato a Roma: ho un lavoro enor­me, ma con la grazia di Dio, nonostante non mi sia af­fatto riposato questa estate perché c’era molto da fare, spero che ce la farò a portare questo peso, come un buon asinelio»118.

Nell’estate del 1966 andò di nuovo a nascondersi

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nell’ «angoletto di Toscana», dove si fermò a lavorare dal 14 luglio al 17 agosto, senz’altra interruzione che un breve rientro a Roma alla fine di luglio. Il 17 agosto era a Villa Tevere, in procinto di partire per Parigi. Ma pri­ma scrisse a padre Arrupe, Preposito Generale dei Ge­suiti, promettendogli che avrebbe pregato per il buon esito dell’imminente Congregazione Generale della Compagnia. Non erano parole di circostanza, perché auspicava molti beni spirituali per la Compagnia. «Per questa intenzione - scrisse al Padre Generale - ho fatto celebrare ben volentieri cento sante Messe»119.

Si fermò alcuni giorni ad Avrainville, vicino a Parigi. Visitò Couvrelles, un Centro per convegni e ritiri spiri­tuali non lontano da Soissons, diretto da fedeli dell’O- pus Dei. Passò poi diverse settimane in Spagna. Fece un controllo medico generale nella Clinica Universitaria di Pamplona. L’Arcivescovo di Saragozza, mons. Pedro Cantero, suo vecchio amico, lo riempì di gioia, invitan­dolo a celebrare la Messa all’altare dove aveva ricevuto la tonsura e a pregare davanti alla Santissima Vergine nella basilica del Pilar120. Il 7 ottobre 1966, in una ceri­monia intima e discreta, gli fu conferito il titolo di figlio adottivo di Barcellona, decretatogli dalla Giunta muni­cipale nel 1964. Il Sindaco, José Maria de Porcioles, gli rivolse le seguenti parole:

“Barcellona Le è grata, monsignore, perché, grazie al suo Opus Dei, nel quale pulsano tanti cuori barcellone- si, sono state create opere di rilievo quali l’istituto di Studi Superiori dell’impresa, il cui prestigio è interna­zionalmente riconosciuto, i Collegi universitari Dàrsena e Monterols” (segue un elenco di altri centri e istituzioni educative di ogni genere), “che riflettono una notevolis­sima preoccupazione sociale” 121.

Il Fondatore rispose affermando, fra l’altro:«A Barcellona ho dato tante prove di affetto, ora inte­

ramente filiale. Quando, passato il tempo, qualcuno scriverà la storia dell’Opus Dei, vi si leggeranno molti

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eventi - quanti, in questo momento, mi tornano alla memoria! - che videro la luce in questa Città Comitale, tra di voi e all’ombra della Santissima Vergine della Mercede»122.

Il 12 ottobre 1966 era di ritorno a Roma. Fra le lette­re di ringraziamento per le attenzioni ricevute durante il viaggio, ne scrisse una al dottor Ortiz de Landàzuri che, insieme ad altri medici, lo aveva visitato:

«Al mio ritorno a Roma, voglio scriverti queste righe per esprimere ancora una volta la mia gratitudine a te e a tutto il tuo meraviglioso gruppo della Clinica dell’Uni- versità di Navarra. Ti prego di farlo sapere a tutti. Mi entusiasmano il vostro affetto, la vostra dedizione e la vostra competenza»123.

Nella cartella clinica del paziente furono registrate in­sufficienza renale progressiva, ipertensione arteriosa e alterazioni vascolari. Il 26 settembre gli erano state pre­scritte le terapie necessarie. Alcune settimane dopo, il 2 dicembre, da Roma informavano che lo stato ipertensi- vo e le manifestazioni metaboliche post-diabetiche si erano normalizzati124.

Nel 1962, quando fu deciso di sviluppare nel Concilio i te­mi della spiritualità e dell’apostolato dei laici, il Fondatore scriveva pieno di speranza ai suoi figli: «Sapeste quanto mi rallegra sapere che il Concilio si occupi dei temi che dal 1928 riempiono la nostra vita!»125. Effettivamente, l’espe­rienza dello spirito e dell’apostolato dell’Opus Dei avreb­be dato un notevole contributo allo studio e allo sviluppo di questi argomenti nel Vaticano II126.

E sorprendente osservare la coincidenza dei contenuti dei documenti ufficiali del Concilio con la dottrina pre­dicata da molti anni dal Fondatore che, una trentina di anni prima, era stata da alcuni ritenuta azzardata ed eretica, mentre ora veniva confermata in modo solenne.

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In primo luogo, la chiamata universale alla santità, della quale il Fondatore aveva scritto nel 1930:

«La santità non è cosa per privilegiati: perché il Si­gnore chiama tutti, da tutti si aspetta Amore; da tutti, dovunque stiano; da tutti, qualunque sia il loro stato o la loro professione»127.

Il testo parallelo si trova nella Costituzione dogmatica sulla Chiesa (Lumen Gentium, 40 e 41), dove si legge: “E chiaro dunque a tutti che tutti i fedeli di qualsiasi stato o grado sono chiamati alla pienezza della vita cri­stiana e alla perfezione della carità (...). Tutti coloro che credono in Cristo saranno così ogni giorno più santifi­cati nelle loro condizioni, nei doveri o circostanze della loro vita e grazie ad esse, se tutte le ricevono con fede dalla mano del Padre celeste e cooperano con la volontà divina, manifestando a tutti, nello stesso servizio tempo­rale, la carità con la quale Dio ha amato il mondo” .

Il Signore - afferma il Decreto sul ministero e la vita dei sacerdoti ( Presbyterorum Ordinis, 2 e 12) - ha reso partecipe tutto il suo Corpo Mistico dell’unzione dello Spirito: “Tutti i fedeli formano un sacerdozio santo e re­gale” . E i presbiteri, che il sacramento dell’Ordine con­figura a Cristo Sacerdote e che hanno già ricevuto il do­no della grazia nel Battesimo, “possono tendere alla perfezione, anzi, debbono tendervi” .

Nelle parole del Fondatore prima citate si intravedono il lavoro svolto sin dalla gioventù con i sacerdoti dioce­sani e l’impegno nella direzione spirituale di laici, uomini e donne, cui suggeriva un ideale di vita contemplativa, con ‘anima sacerdotale’ e ‘mentalità laicale’. Si leggano le parole di una sua lettera dell’l l marzo 1940:

«Tutti noi, pertanto, siamo chiamati a far parte di questa divina unità. Con anima sacerdotale, facendo della Santa Messa il centro della nostra vita interiore, cerchiamo di stare con Gesù tra Dio e gli uomini»128.

Le parole del Decreto, quando definisce la santa Mes­sa centrum et radix, ne sono un’eco letterale129.

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Il Concilio delineò anche l’essenza e il ruolo del laica­to. All’interno del compito assegnato alla Chiesa, la missione evangelica dei fedeli assume caratteristiche speciali. La vocazione cristiana è, per sua stessa natura, vocazione all’apostolato. La missione specifica viene svolta mediante ‘l’apostolato del lavoro’ . Il Decreto Apostolicam actuositatem (n. 2) afferma: “ Siccome è proprio dello stato dei laici che essi vivano nel secolo e in mezzo agli affari secolari, essi sono chiamati da Dio affinché, ferventi di spirito cristiano, a modo di fermen­to esercitino nel mondo il loro apostolato” .

Questo testo sembra ispirarsi alle convinzioni espres­se da mons. Escrivà in uno scritto del 1932:

«Bisogna respingere il pregiudizio che i comuni fedeli debbano limitarsi ad aiutare il clero negli apostolati ec­clesiastici. Non c’è motivo perché l’apostolato dei laici sia solo una partecipazione all’apostolato gerarchico: essi hanno il dovere di fare apostolato (...). E non per­ché ricevano una missione canonica, ma perché sono parte della Chiesa»130.

Anche la Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mon­do moderno (Gaudium et spes) adotta un’ottica nuova, piena di ottimismo, di fronte alla crisi di crescita dell’u­manità. La Chiesa non deve disertare la civitas terrena, disinteressandosi della cultura e della tecnica. Essa pro­clama la dignità della persona, creata a immagine di Dio, e incoraggia l’integrazione del cristiano nelle atti­vità terrene.

Il Concilio ha anche proclamato (Gaudium et spes, 34) che il lavoro è presente nel piano divino: “Per i cre­denti una cosa è certa: l’attività umana individuale e collettiva, ossia quell’ingente sforzo col quale gli uomini nel corso dei secoli cercano di migliorare le proprie con­dizioni di vita, considerato in se stesso, corrisponde alle intenzioni di Dio” . >

Il mandato conferito all’uomo nella Genesi, di sotto­mettere al proprio dominio le cose della terra, ordinan­

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dole al Creatore, prosegue il documento conciliare, “va­le anche per le ordinarie attività quotidiane” .

Ci si può immaginare la gioia di mons. Escrivà nel ve­dere che il Concilio sanciva solennemente che «la Chie­sa non respinge il mondo in cui vive, né il suo progresso e sviluppo, ma lo comprende e lo ama»131. La rivaluta­zione teologica del lavoro, punto di incontro di Dio con la vita del cristiano comune, avrebbe contribuito alla diffusione del messaggio dell’Opus Dei:

«Leggendo i decreti del Concilio Vaticano II si vede chiaramente che parte importante di questo rinnova­mento è appunto la rivalutazione del lavoro ordinario e della dignità della vocazione del cristiano che vive e la­vora nel mondo»132.

Grande fu pure la sua esultanza quando il Magistero ‘approvò’ «i cammini divini della terra»:

«Una delle mie maggiori gioie è stata vedere che il Concilio Vaticano II ha proclamato con grande chiarez­za la vocazione divina del laicato. Senza ombra di pre­sunzione, devo dire che, per quanto si riferisce al nostro spirito, il Concilio non ha significato un invito a cam­biare, ma ha invece confermato quello che, per la grazia di Dio, stavamo vivendo e insegnando da tanti anni»133.

Ma la gioia per le decisioni del Concilio non attenua­va alcuni suoi timori. Ancor prima della chiusura, scri­veva ai suoi figli:

«Il Concilio sta terminando: è stato già detto più vol­te che la prossima sessione sarà l’ultima. Quando questa lettera giungerà nelle vostre mani il periodo postconci­liare sarà già cominciato e il mio cuore trema al pensie­ro che possa essere occasione di nuove ferite nel corpo della Chiesa. Gli anni successivi a un Concilio sono sempre importanti, perché richiedono docilità per appli­care le decisioni adottate e anche fermezza nella fede, spirito soprannaturale, amore per Dio e per la sua Chie­sa, fedeltà al Romano Pontefice»134.

Da persona previdente e responsabile qual era, egli

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diede ai suoi figli alcune norme di prudenza adatte alla nuova temperie, per garantirne la salute spirituale: evi­tare gli scritti di autori dalla dottrina incerta, attenersi ai criteri della Costituzione dogmatica Dei Verbum del Vaticano II e ai princìpi fondamentali della dottrina di S. Tommaso d’Aquino, essere fedeli e docili al Magiste­ro della Chiesa e del Papa135.

Il Fondatore prestò fermo assenso e piena obbedienza agli insegnamenti delle Costituzioni e dei Decreti conci­liari136. Quando lasciavano spazi di discrezionalità, co­me Padre e Pastore dell’Opus Dei sceglieva ciò che più sosteneva la vita di pietà137.

Un fine senso liturgico gli consentiva di cogliere gli abusi, nell’esercizio del culto, di chi modificava a pro­prio capriccio la lex orandi, forzando le disposizioni dei documenti conciliari e ignorando che il culto deve sem­pre favorire il raccoglimento, l’adorazione e la pietà. Lo addoloravano soprattutto gli abusi nella celebrazione del Santo Sacrificio della Messa, centro della vita del cristiano. Spiegava ai suoi figli:

«Bisogna introdurre il Popolo al culto liturgico, inse­gnandogli ad amare la Santa Messa, come c’insegna la Chiesa, sempre fedeli a ciò che la Gerarchia legittima- mente decide, senza ridurre il profondo significato della liturgia a un mero simbolismo comunitario: perché nella liturgia deve avvenire anche il misterioso incontro per­sonale dell’uomo con il suo Dio, in un dialogo di lode, di ringraziamento, di supplica e di riparazione»138.

La sua anima sacerdotale era sensibile a qualsiasi cambiamento nell’ Or do Missae. Il 24 ottobre 1964, scrivendo ai suoi figli in Spagna, non riuscì a reprimere un sospiro, quasi un lamento:

«Ci cambiano un’altra volta la liturgia della Santa Mes­sa: a quasi sessantatré anni mi sforzo con l’aiuto di Javi di ubbidire alla Madre Chiesa fin nelle cose più piccole, an­che se non posso negare che certi cambiamenti non neces­sari mi addolorano. Ma ubbidirò sempre con gioia»139.

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Pochi mesi dopo scriveva loro di nuovo: «Sono qui che cerco di celebrare la Santa Messa con l’attenzione di un sacerdote novello (...). È una cosa stupenda, anche qui sulla terra, imparare a ubbidire e voler ubbidire»140. Con il trascorrere degli anni l’esperienza di Dio nella Messa che celebrava era sempre più ricca e faceva sgor­gare nella sua anima un atto di adorazione e di ringra­ziamento141.

Davanti alla grave crisi che la Chiesa pativa nel suo seno, qual era il giudizio del Fondatore dell’Opus Dei? Nel 1967, rispondendo a una domanda, definì il mo­mento ‘positivo’ e ‘delicato’ al tempo stesso:

«È positivo, senza alcun dubbio, perché le ricchezze dottrinali del Concilio Vaticano II hanno collocato la Chiesa intera - tutto il Popolo sacerdotale di Dio - di fronte a una nuova tappa, immensamente ricca di spe­ranze, di rinnovata fedeltà al disegno divino di salvezza che le è stato affidato. Ed è anche un momento delicato, perché le conclusioni teologiche cui si è giunti non sono di carattere, per così dire, astratto o teorico, ma costi­tuiscono una teologia estremamente viva, ossia dotata di immediate e dirette applicazioni di ordine pastorale, ascetico e normativo, che toccano nelPintimo la vita in­terna ed esterna della comunità cristiana»142.

Benché le disposizioni del Concilio avessero solo ca­rattere pastorale, il momento era delicato. Ci fu infatti chi ne fece un’interpretazione estranea al contesto e alle fonti tradizionali della Chiesa, cercando la novità come strumento di rinnovamento ecclesiale; ne sortì una dif­fusa confusione in materia di fede e di morale. I prota­gonisti di tale disorientamento dottrinale facevano ap­pello a un presunto ‘spirito del Concilio’, basato su arbitrarie teorie teologiche alla moda. Gli autoriforma­tori si arruolavano nelle file del progresso, bollando co­me retrogradi o conservatori coloro che non seguivano il loro esempio e si mantenevano fedeli alla dottrina del Magistero cattolico. Tra questi ultimi, è giusto dirlo,

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c’era anche chi esagerava sull’altro versante, aggrappan­dosi al vecchio in quanto tale, senza ammettere possibi­lità di cambiamento o di sviluppo. Il Fondatore non potè evitare di essere accusato di paternalismo, di inte­gralismo, di trionfalismo e altri aggressivi ismi di questo genere143. Contro tale rozza semplificazione egli si ribel­lava energicamente: «Integralismo! Progressismo! A me piace serbare integro il tesoro della fede e progredire nella sua conoscenza»144.

In altre circostanze avrebbe seguito la consuetudine di tacere, perdonare, pregare e servire. Ma non se la senti­va di tacere nel momento in cui la Verità era falsificata, la dottrina della Chiesa tradita, il popolo cristiano tur­bato da aspre contese. Per fortificare i suoi figli nella fe­de e salvarli dalla confusione dottrinale, scrisse loro una lunga lettera, datata 19 marzo 1967, che cominciava così: «Fortes in fide: così vi vedo, figlie e figli carissimi; forti nella fede, mentre offrite con fortezza divina la te­stimonianza della vostra fede in tutti gli ambienti del mondo»145. E continuava:

«Conviene che vi dica subito che questo documento è esclusivamente pastorale: vuole pertanto insegnarvi a custodire e a difendere il tesoro della dottrina cattolica, accrescendone i frutti soprannaturali nelle vostre anime e nella società nella quale vivete. Non direbbe la verità chi affermasse, se vi metto in guardia perché il clima at­tuale non corroda la vostra fede, che sono integralista o progressista, riformatore o reazionario. Qualsiasi quali­fica di questo tipo sarebbe ingiusta e falsa. Sono un sa­cerdote di Cristo, che ama la dottrina chiara esposta in termini precisi e dal contenuto ben noto, che ammira e ringrazia Dio per tutti i grandi progressi della sapienza umana, perché contribuiscono, se sono veramente scien­tifici, ad avvicinarci al Creatore»146.

Il tono del lungo documento è sereno e pieno di spe­ranza. Eccone la conclusione:

«Questi brutti momenti passeranno, sono sempre

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passati. Nella Chiesa non sono mai mancati malati e malattie (...). Ottimisti, allegri! Dio è con noi! Ogni giorno mi riempio di speranza. La virtù della speranza ci fa vedere la vita così com’è: bella, di D io»147.

Per quanto ci si trattenga a illustrare la confusione dot­trinale di quegli anni, è impossibile descriverne compiuta- mente le tristi conseguenze. Della crisi che attraversava la Chiesa don Josemaria parlò con il Cardinale Hòffner in diversi incontri, a lungo e serenamente. Il Cardinale testi­monia la propria sorpresa per la speranza soprannaturale che percepì in mons. Escrivà, quando afferma che “ciò non lo spaventava e neppure la crisi di identità che scuo­teva sacerdoti e religiosi: perché il Signore e lo Spirito Santo vivono e operano nella Chiesa” 148.

La situazione non migliorò. Nel 1972, sette anni do­po la chiusura del Concilio, Papa Paolo VI esprimeva pubblicamente la delusione sua e di molti cristiani. Non avevano forse avuto la speranza che, una volta finito il Concilio, un sole meraviglioso sarebbe comparso nella storia della Chiesa? “Invece - disse il Papa in una ome­lia - venne un giorno di nubi, di burrasca, di tenebre, di ricerca affannosa e di incertezze” 149. Inoltre - continua­va -, “ qualcosa di preternaturale apparve nel mondo, con l’intenzione di turbare e di soffocare i frutti del Concilio Ecumenico” . Il Padre da parte sua continuava a pregare e ad adottare prudenti misure affinché l’Opus Dei rimanesse fedele alla dottrina di Cristo.

* * *

La confusione dottrinale era una prova ulteriore della ne­cessità, per i cristiani, di una formazione religiosa solida e scientifica. Agli occhi del Gran Cancelliere dell’Università di Navarra era necessario erigere quanto prima la Facoltà di Teologia accanto agli altri Dipartimenti e Facoltà:

«Un uomo privo di formazione religiosa non è comple­tamente formato. Perciò la religione dev’essere presente

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nelPuniversità; e dev’essere insegnata al livello più alto, scientifico, di buona teologia. Una università in cui la reli­gione è assente è una università incompleta: perché igno­ra una dimensione fondamentale della persona umana, che non esclude, anzi, richiede, le altre dimensioni»150.

Il desiderio di mons. Escrivà stava diventando un incu­bo. Spuntavano ostacoli nuovi, che frustravano i suoi in­tenti. Da più di un anno non si muoveva nulla e i Vesco­vi spagnoli si chiedevano chi o che cosa si opponesse al loro desiderio, ripetutamente espresso alla Santa Sede; di erigere una Facoltà di Teologia a Pamplona151. Scrivendo a mons. Dell’Acqua, il Fondatore mostrava di conoscere l’autore dell’ostruzionismo: «Una certa persona, il cui comportamento non sembra ragionevole»152.

Prevedendo comunque che la Sacra Congregazione avrebbe procrastinato la decisione chiedendo informa­zioni supplementari o introducendo nuove condizioni, il Gran Cancelliere pensò di chiedere un’approvazione ad experimentum per cominciare i corsi teologici. Era una soluzione provvisoria, che non pregiudicava la possibi­lità di ottenere quanto prima una Facoltà. Il 31 marzo1967 don Alvaro, seguendo le indicazioni del Padre, propose a mons. Garrone l’erezione ad experimen­tum153. Dopo due mesi tornò a insistere, poiché Testate si avvicinava e bisognava fare i preparativi necessari154.

Finalmente, il 19 giugno, arrivò la tanto attesa risposta della Sacra Congregazione, a firma del Cardinale Pizzar- do. Nel tipico linguaggio curiale e senza sbilanciarsi sulla soluzione definitiva, concedeva di iniziare i corsi di Teolo­gia, in attesa del momento opportuno per fare l’erezione canonica della Facoltà. C’era poi un’espressione piuttosto sibillina: “Bisogna aggiungere che delicate circostanze di incidenza locale consigliano di non pronunciarci ancora sull’inizio ufficiale della Facoltà” 155. Veniva comunque ri­messa alla discrezione del Gran Cancelliere la decisione di iniziare i corsi, premessa indispensabile per la futura ere­zione della Facoltà di Teologia.

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Il Fondatore venne ben presto a conoscenza delle ca­lunniose insinuazioni sottintese dall’espressione “delica­te circostanze di incidenza locale” . Alla Santa Sede era giunta l’accusa di alcuni sacerdoti della diocesi di Pam- plona secondo cui l’Arcivescovo, senza consultare il Ca­pitolo, aveva ceduto all’Università di Navarra alcuni be­ni della Chiesa. Don Àlvaro del Portillo scrisse subito al Cardinale Garrone per smentire la falsa accusa: “Mi permetto di attestarle ancora una volta che nulla mai è stato chiesto o ricevuto per l’Università di Navarra da Sua Eccellenza l’Arcivescovo di Pamplona: non un sol­do, né un metro quadrato di terreno” 156.

La convinzione di avere così rimosso l’ultimo ostaco­lo per la conclusione della vicenda era solo un’impres­sione. Per non dilungarsi, basti dire che il decreto di ere­zione canonica della Facoltà di Teologia dell’Università di Navarra pervenne al Gran Cancelliere solo il 13 no­vembre 1969157.

4. L’ultimo romantico

Le difficoltà che l’Opera incontrò negli anni sessanta non provenivano dall’opposizione di una sola persona o di un determinato gruppo. Il Fondatore dovette affron­tare resistenze di ogni genere, come accade a qualsiasi istituzione di un certo peso storico. In realtà, l’Opus Dei e il suo messaggio furono molto ben accolti in tutto il mondo e lo dimostra la rapida espansione delle sue ope­re di apostolato in un gran numero di nazioni.. Tuttavia, resistenze e contrarietà ci furono, anche se non è interes­sante soffermarsi a descriverle nei particolari. Qualcosa è già stato detto in relazione al periodo postconciliare. Si può aggiungere che ci furono attacchi provenienti da­gli ambienti politici. Il Fondatore dovette affrontare nuove dicerie e falsità Sull’Opera, che venivano periodi­camente diffuse. Le campagne diffamatorie ebbero ori­

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gine in Spagna e si estesero ben presto ad altri Paesi. Il Fondatore vi era talmente abituato che le contrarietà non gli facevano perdere la pace o la gioia, ma solo il tempo. Dietro agli attacchi all’Opera era solito vedere la Provvidenza di Dio, che li utilizzava come strumenti di purificazione spirituale. Durante una di queste campa­gne, così scriveva ai suoi figli, con grande serenità:

«Non abbiamo mai smesso di vedere l’intervento del­la Provvidenza Divina nelle manciate di fango che pe­riodicamente ci vengono buttate addosso, con una fre­quenza che permette di individuare la mano poco pulita di alcuni santi uomini e dei loro corifei... Benedico Dio, perché quando il Nilo usciva dal suo letto, poi vi ritor­nava - tutto torna sempre vittoriosamente a posto - e i campi inondati restavano asciutti e fecondi»158.

Non ingaggiava una lotta senza quartiere con chi lo insultava. Era una gara d’amore e una semina di pace e di gioia. Così proseguiva la lettera:

«Dovunque siamo circondati dalla preghiera, dall’af­fetto e dall’aiuto materiale di milioni di cuori. E Pietro - Pietro! - ci guarda con amore speciale. Avanti così: de­voti, laboriosi, studiosi, apostolici senza discriminazio­ni, portate amore dove non ce n’è. Così la Santissima Vergine, nostra Madre, continuerà a sorridere guardan­do il mare aperto, sconfinato, che è l’Operà di Suo Fi­glio, l’Opus Dei, e potremo seminare pace e gioia fra tutti gli uomini, anche fra coloro che non vogliono ave­re un cuore grande (poveretti!), e faremo per Gesù, da un polo all’altro della terra, un lavoro esclusivamente soprannaturale, spirituale, apostolico»159.

Se si osservano gli eventi in un’autentica prospettiva storica, non era forse inevitabile che si ripetesse ciò che era già accaduto, cioè che la novità dello spirito dell’O­pus Dei e la sua vivacità apostolica urtassero contro i ri­gidi schemi tradizionali? Il messaggio dell’Opus Dei comportava l’impegno di cercare la santificazione delle attività familiari, professionali e civili, comprese quelle

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di carattere politico, e ciò implicava un autentico cam­biamento di mentalità fra i cristiani. Tanto più se si tie­ne conto della situazione politica in Spagna, di cui si tratterà poco oltre.

Furono attacchi e campagne denigratorie condotti talvolta con passionalità, con settarismo o malafede. In fin dei conti, miserie umane che ogni fedele cristiano deve sopportare con carità. In quei casi, il consiglio del Fondatore era: «Comprendere che non ci comprenda­no»160, atteggiamento liberale e generoso di chi è pron­to a perdonare gli errori e a rivestirsi dei sentimenti di Cristo, per voler bene sia ai fratelli in Cristo, sia ai ne­mici della Chiesa, che vorrebbero rinchiudere i cristiani nelle catacombe.

«Non cambiamo le carte in tavola: è logico che i ne­mici di Dio e della sua Chiesa non ci amino. Ed è altret­tanto logico che, nonostante tutto, noi li amiamo: cari- tas mea cum omnibus vobis in Christo Iesu!»161.

A parole e con gli scritti, il Fondatore non si stancava di parlare di libertà ai suoi figli. Perché lo faceva? Il mo­tivo sarebbe potuto essere la situazione politica della Spagna dopo tanti anni di governo autoritario, ma in realtà l’insistenza di mons. Escrivà non riguardava esclusivamente questo o quel Paese. La sua dottrina ave­va una profonda dimensione fondazionale e per questo insisteva tanto su questo tema. Nel 1954 scriveva:

«Non mi stancherò mai di ripetere che una delle ca­ratteristiche più evidenti dello spirito dell’Opus Dei è l’amore per la libertà e per la comprensione: sul piano umano, voglio lasciarvi in eredità l’amore per la libertà e il buon umore»162.

Brandiva alta la bandiera della libertà e gli piaceva de­finirsi «l’ultimo romantico, innamorato della libertà»163. Per essa sospirava perché, se manca, l’amore non può esprimersi. Ringraziava Dio di tutto cuore perché gli aveva concesso di affrontare «la grande avventura della libertà»164. Non appena i suoi figli arrivavano all’Opera,

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insegnava loro la libertà in modo pratico, diceva, come fa l’anatra: «Le anatre lasciano che i loro piccoli si muo­vano liberamente, anche se li sorvegliano discretamente, perché imparino ad amministrare la loro libertà e riesca­no quanto prima a nuotare per conto proprio»165.

Voleva morire come un romantico innamorato e così fu. La sua vita fu una continua lotta per la libertà di spi­rito, perché soltanto la libertà personale rende l’uomo «capace di meritare o di offendere, di perdonare o di serbare rancore, di odiare o di amare»166. Inoltre, il «dono prezioso della libertà», che il Fondatore esaltò tante volte, era così necessario che, se mancava, gli apo­stolati dell’Opus Dei soffocavano. «La libertà e la con­seguente responsabilità sono il sigillo dell’attività laica­le, anche nell’apostolato»167.

La libertà, «caratteristica essenziale dello spirito» del- l’Opus Dei, era implicita, fin dal 1928, nella vita e nel­l’apostolato dei suoi futuri membri. Divenne esplicita, per grazia fondazionale, il 7 agosto 1931, quando il gio­vane Fondatore, nel momento dell’elevazione dell’Ostia Santa nella Messa, comprese che «saranno gli uomini e le donne di Dio ad innalzare la Croce con la dottrina di Cristo sul pinnacolo di tutte le attività umane... E vidi il Signore trionfare e attrarre a sé tutte le cose»168. Prepa­rare la strada al trionfo di Cristo in tutta l’attività uma­na richiedeva previamente di cancellare le errate conce­zioni della grande maggioranza dei cattolici circa l’azione apostolica.

«Anche fra i cattolici che sembrano responsabili e de­voti, è frequente l’errore di pensare di essere obbligati soltanto a compiere i propri doveri familiari e religiosi e non i doveri civici. Non è egoismo, ma solo mancanza di formazione »169.

Di conseguenza, il Fondatore difendeva energicamen­te il diritto dei cattolici di intervenire attivamente nella vita pubblica. A coloro che si impegnavano nei partiti politici, nella pubblica amministrazione o rivestivano

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cariche di governo, aveva sempre ricordato che lo face­vano a titolo personale. Un principio molto chiaro. Don Josemarìa, per esempio, scrisse che in politica ogni membro dell’Opera è personalmente libero e, dunque, unico responsabile delle proprie azioni o idee: «I Diret­tori dell’Opera non potranno mai imporre un criterio politico o professionale, ossia temporale, ai propri fra­telli»170. A chi aveva scelto la politica come professione, ripeteva:

«Come tutti gli altri membri dell’Opera nelle loro oc­cupazioni temporali, voi, quando operate nel vostro ambito, non fate valere la vostra condizione di cattolici né di membri dell’Opus Dei; non vi servite della Chiesa né dell’Opera: perché sapete che non potete immischiare né la Chiesa di Dio né l’Opera in cose contingenti (...). Voi che sentite vocazione per la politica lavorate senza timore e tenete presente che, se vi tiraste indietro, fare­ste un peccato di omissione. Lavorate con serietà pro­fessionale, senza trascurare le esigenze tecniche del vo­stro lavoro, per prestare un servizio cristiano a tutto il vostro Paese, pensando alla concordia fra le nazioni»171.

L’Opus Dei rimane, quindi, fuori dalla politica: «Li­bertà, figli miei. Non aspettatevi mai che l’Opera vi dia consegne temporali»172. Non soddisfatto dei suoi nume­rosi avvertimenti, prese delle misure pratiche e decise, per esempio, che l’Opus Dei come tale non editasse mai riviste, giornali o altre pubblicazioni, salvo il Bollettino Ufficiale della Prelatura {Romana). Lo fece perché non accadesse ciò che capita spesso nelle nazioni e nei partiti politici, e cioè «che una ventina di esaltati si impongano alla massa dei cittadini»173.

ì'r *

In quegli anni, in Spagna, il diritto di scelta e di azione politica di cui deve godere ogni cittadino non era rispetta­to, perché il regime del Generale Franco era nato durante

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la guerra civile (1936-1939), ed era costruito su premesse che offrivano giustificazione a un esercizio autoritario e personale del potere. Nel 1957 Franco volle rinnovare il Governo174 e distribuì gli incarichi fra le forze politiche che componevano il Movimento Nazionale: falangisti, tradizionalisti carlisti, democratici cristiani franchisti, monarchici legittimisti, e, come già aveva fatto in prece­denza, personaggi al vertice della Pubblica Amministra­zione di cui apprezzava la competenza professionale175. Motivo del cambiamento furono lo studio e l’applicàzio- ne delle riforme sociali, politiche, amministrative ed eco­nomiche di cui la nazione aveva bisogno. Ad ogni modo, il nuovo governo era il prodotto della concezione di unità nazionale, politica e sociale del Capo dello Stato, che escludeva il pluralismo politico e sociale176.

Uno degli obiettivi del nuovo Governo era di allineare l’economia spagnola a quella del mondo occidentale. I colloqui con il Fondo Monetario Internazionale e con la OCSE misero in evidenza la necessità di un piano di sta­bilizzazione e di misure liberalizzatrici proprie di un’e­conomia di mercato. Se ne occuparono il Ministro delle Finanze Mariano Navarro Rubio e il Ministro del Com­mercio, Alberto Ullastres, sostenuti dal consenso della maggior parte degli operatori economici. Il Piano di Sta­bilizzazione fu approvato nel luglio 1959. Due anni do­po cominciarono gli studi per i futuri Piani di Sviluppo, che consentirono l’espansione dell’economia.

La presenza nel Governo spagnolo di due membri del­l’Opus Dei, Navarro Rubio e Ullastres, suscitò com­menti di diversa natura negli ambienti politici e sociali. Alcuni settori del Movimento Nazionale li definirono, in senso spregiativo, ‘tecnocrati’177, per alludere con questa etichetta alla loro appartenenza all’Opus Dei e squalificarli sul piano politico. In realtà, se costoro fu­rono nominati ministri fu soltanto per volontà di Fran­co, che assommava tutti i poteri dello Stato, e, natural­mente, per loro libera scelta. Il far parte dell’Opus Dei

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non ne condizionò mai le decisioni politiche, salvo per quanto riguarda il rigore professionale e la sensibilità morale nell’esercizio del mandato. Anch’essi, come gli altri colleghi di governo cattolici178, cercavano di pren­dere secondo coscienza le decisioni di carattere politico ed erano consapevoli che l’azione politica doveva ri­specchiare la fede che professavano179.

Diversi testimoni raccontano che, dopo la nomina di Alberto Ullastres, un Cardinale si sentì in dovere di con­gratularsi con il Fondatore, il quale, però, lo interruppe con decisione: «A me non interessa per nulla, non mi ri­guarda; per me è lo stesso che sia ministro o spazzino: l’unica cosa che mi interessa è che si faccia santo con il suo lavoro»180.

Il successo del Piano di Stabilizzazione rese possibili i successivi Piani di Sviluppo181. Nel corso del 1962, gira­vano voci di cambiamenti nel Governo, anche per dare risposta alle domande di una società sempre più consa­pevole dei propri diritti politici e sociali182. Durante la crisi di Governo183, il Fondatore seppe che in alcuni set­tori della vita pubblica spagnola l’Opera era considerata come un gruppo politico. La Segreteria Generale dell’O- pus Dei emise allora un comunicato che, fra l’altro, af­fermava: “I membri dell’Opus Dei sono completamente liberi nel pensiero e nell’azione politica, come qualsiasi altro cittadino cattolico. Dentro l’istituzione possono esserci, e di fatto ci sono, persone di idee politiche diffe­renti e addirittura opposte, ma l’Opus Dei non ha asso­lutamente nulla a che vedere con i meriti o i demeriti dell’azione personale dei suoi membri. Deve dunque es­sere chiaro che l’Opus Dei non è legato a nessuna perso­na, a nessun regime e a nessuna idea politica” 184.

Non era raro che persone in visita dal Fondatore, sia autorità civili che ecclesiastiche, gli domandassero per­ché l’Opus Dei non assumesse una posizione politica chiara, per far capire da che parte stava. Oppure perché non dava ai suoi figli orientamenti in questo campo.

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Il Fondatore non si stancava di ripetere loro che «i membri dell’Opus Dei svolgono l’azione politica in pie­na libertà, nella misura che ritengono opportuna e quin­di con responsabilità personale, secondo quanto detta loro la propria coscienza di cittadini cristiani, e non tol­lerano che altri possano essere coinvolti nelle legittime decisioni che ciascuno di loro ha preso»185.

Gli venivano fatte molte pressioni perché obbligasse i membri dell’Opus Dei a ritirarsi dal Governo spagnolo. Ma egli rispondeva sempre che non era in suo potere li­mitare o condizionare la libertà di qualsiasi suo figlio. Non competeva a lui di pronunciarsi autorevolmente sotto il profilo dottrinale su un regime politico, ma alla Santa Sede o ai Vescovi del Paese in questione186. Intima­re ai suoi figli di ritirarsi da quello o da qualunque altro Governo non condannato dall’autorità ecclesiastica sa­rebbe stato un tradimento dello spirito dell’Opus Dei.

Negli anni sessanta, mentre era in corso una violenta campagna contro l’Opera in diverse nazioni, uno dei di­rettori della Commissione Regionale della Spagna ricor­da di avergli sentito dire una semplice frase, che nascon­de tuttavia grandi sofferenze: «Figlio mio, se questi tuoi fratelli non fossero ministri, io avrei molti meno proble­mi; ma se io dessi questa indicazione, non rispetterei la loro libertà e distruggerei l’Opera»187.

Passavano gli anni, ma il Fondatore, a Roma dal 1946, non intendeva venir meno alla regola che si era imposto di nascondersi e scomparire. Non assisteva alle cerimonie pubbliche organizzate dalle autorità civili di qualsiasi Paese, come per esempio ai ricevimenti delle ambasciate. Declinava gli inviti che gli venivano fatti come Presidente Generale dell’Opus Dei. Voleva dimo­strare con i fatti che l’Opera non aveva nulla a che vede­re con i Governi o con l’una o l’altra nazione188.

Il suo nascondimento era confortato dalla presenza dei suoi figli, cui era grato perché, come scriveva loro nel 1966, con la fedeltà e l’affetto «avete reso più sop­

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portabile il mio volontario e necessario esilio da venti anni a questa parte. Dico esilio perché lo è e spesso devo superare la psicosi dell’esiliato, anche se ho tanto affetto per l’Italia e specialmente per Roma».

«Ho detto che questo esilio è necessario. E lo è per ra­gioni soprannaturali: lo esigeva positivamente l’univer­salità dell’Opera, che è nata cattolica e doveva manife­starsi a tutti come romana-, in negativo, c’era la necessità di evitare una commistione politica (il che è stato ben risolto con il mio allontanamento dalla Spa­gna) e così sarebbe stato più facile per tutti far com­prendere la libertà di cui godono i miei figli in tutte le questioni temporali, in cui ciascuno opera secondo quanto gli detta la sua retta coscienza»189.

A un uomo di esuberante vitalità interiore, pieno sem­pre di nuove energie, pronto a intraprendere viaggi apo­stolici e desideroso di andare a trovare i suoi figli, dove­va costare moltissimo starsene rinchiuso, come dimostrano le sue definizioni della vita a Roma («clau­sura monacale»)190 o delle sedi del suo lavoro estivo a Elorrio o al Trebbio («luoghi reconditi»).

La lontananza dalla Spagna e la vita ritirata a Roma non scongiuravano il trattamento ingiusto e calunnioso di cui veniva fatto periodicamente oggetto, anche da par­te di vari organi di stampa. Egli non perdeva la pace, né vi dava troppa importanza. Quando, tuttavia, gli attacchi contro POpera diventarono attacchi contro la Chiesa, il Fondatore, per difenderla, non volle più sopportare in si­lenzio le ingiurie. Accadde nei primi mesi del 1964, quan­do in Olanda si scatenò una durissima campagna contro l’Opus Dei, con ripercussioni in molti altri Paesi. Motivo? La principessa Irene, figlia della regina di Olanda, si era convertita al cattolicesimo e un sacerdote delPOpus Dei era stato lo strumento di Dio per la sua conversione.

Il Padre, per dissipare la tristezza e il timore dei suoi figli in Olanda, scrisse loro invitandoli a seguire la sua bella norma di condotta:

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«Quando il Signore permette che gruppi di fanatici si sfoghino, con tante calunnie, è segno che voi e io dob­biamo saper tacere, pregare, lavorare, sorridere... e aspettare. Non date importanza a queste sciocchezze: amate veramente tutte le anime. Caritas mea cum omni­bus vobis in Christo Iesu!»191.

Della gravità e della viltà degli attacchi rende l’idea la lettera che il 27 marzo 1964 il Fondatore inviava a mons. Jan Van Dodewaard, Vescovo di Haarlem, per fargli gli auguri di Pasqua:

«Continuano ad arrivarmi da codesta amata Nazione pubblicazioni nelle quali ci riempiono di ingiurie, di fal­sificazioni e di calunnie così mostruose che, nonostante sia quasi un sacerdote anziano, non me le sarei potute immaginare neppure lontanamente. Ma non si preoccu­pi, Eccellenza, perché tutto ciò mi fa amare ancor di più l’Olanda e tutti gli olandesi»192.

Di pochi giorni dopo è una breve lettera di risposta a Carrero Bianco, braccio destro di Franco:

«Le tue parole mi hanno fatto veramente piacere e hanno rinnovato in me la psicosi dell’esiliato per il ser­vizio di Dio. Spero che Egli voglia disporre le cose per­ché un giorno io possa venire con calma in Spagna, sen­za la preoccupazione che il viaggio mi faccia mancare alla povertà, per fare un bel lavoro sacerdotale»193.

Questa lettera, del 3 aprile, breve e affettuosa, che però aiuta a comprendere il valore che l’autore dava alle espres­sioni “psicosi dell’esiliato” e “lavoro sacerdotale” , chiude un’epoca, perché nel volgere di poche settimane il Fonda­tore diede una svolta importante al modo di inquadrare in termini soprannaturali le contrarietà. Un accurato esame del contenuto e dello stile delle sue lettere ci rivela il cam­biamento. Una prima traccia appare il 10 maggio 1964, in una lettera ai suoi figli inglesi, nella quale fece alcune con­siderazioni di cui egli stesso si sorprese: «Perdonatemi questa considerazione superflua, che ho appena fatto»; «oggi la mia penna è piena di considerazioni!». Il fatto è

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che stava riflettendo sulla mancanza di comprensione di alcuni cattolici verso i loro fratelli nella fede:

«A volte può accadere - e purtroppo è accaduto, a motivo o in occasione del Concilio - di essere compren­sivi e condiscendenti con coloro che non hanno la nostra fede (questo va bene: è il nostro spirito, dal 1928) ma poi di non esserlo altrettanto con i nostri fratelli (e questo non va affatto bene e bisogna evitare che succeda)»194.

La cosa non gli faceva affatto piacere: «Sto diventando vecchio. Se preferite, dirò che sto smettendo di essere giovane. Forse è questo il motivo che mi fa considerare le tristi esperienze del mondo, cui non si può porre rimedio finché non si potrà parlare chiaro, finito il Concilio»195.

In un’altra lettera con la stessa data raccontò al Con­sigliere della Spagna un fatto recente e tornò sull’idea del ‘parlare chiaro’:

«Ora ti racconterò che mi si è ravvivata la devozione, che in me è di vecchia data, per Santa Caterina da Siena: perché seppe amare filialmente il Papa, perché seppe servire con tanto sacrificio la Santa Chiesa di Dio e... perché seppe parlare eroicamente. Sto pensando di no­minarla Patrona (intercessore) celeste dei nostri aposto­lati dell’opinione pubblica. Vedremo!»196.

Si vede con chiarezza che il suo programma abituale con cui affrontava le contrarietà (“tacere, pregare, lavo­rare e sorridere” ) si avviava a una sostanziale modifica, con la ferma decisione di procedere a proclamare la ve­rità, ad assumere la difesa dell’onore di Dio, della Chie­sa e del Romano Pontefice.

Un atteggiamento insieme coraggioso e caritatevole, che nasceva dal proposito di non tollerare infamie con­tro Dio e coloro che lo servono. Diverso era il caso delle ingiurie personali, che avrebbe comunque sopportato come aveva sempre fatto.

In effetti, cominciò subito a parlare chiaro. Il 23 mag­gio 1964 scriveva a Sua Altezza Reale Francisco Javier di Borbone-Parma:

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«Altezza, ho ricevuto le sue affettuose espressioni e con molto piacere le scrivo questa lettera per dirle che Ella non mi deve ringraziare, perché non ho fatto altro che compiere il mio dovere di sacerdote: servire tutte le anime senza tener conto di alcun’altra considerazione, soprattutto se di natura temporale o politica. Fare altri­menti, come Le ho detto di persona, è cosa del tutto estranea alla nostra Opera, che è solo ed esclusivamente spirituale e apostolica (...).

Mi duole davvero per gli ingiusti attacchi contro la Principessa, in Olanda; anche contro di noi, senza alcuna ragione, in quel Paese, che io amo, c’è una continua cam­pagna di grossolane calunnie e di insulti inauditi, che con gioia offriamo a Dio per le anime di chi li propala e per la nostra santificazione. Omnia in bonum!»197.

La cortesia non impedisce la schiettézza e alla lettera al Principe egli allegò una nota, in cui scriveva:

«Mi sorprende moltissimo, benché sia molto amico della libertà politica e molto rispettoso delle opinioni al­trui, che nella riunione di Montejurra ci fossero dei car­telloni che insultavano soltanto alcuni miei figli perché, facendo uso della loro libertà, giustamente la pensano co­me gli pare. Tanto più, perché in Spagna le persone che non pensano come i carlisti sono molte. Ribadisco il mio stupore e non riesco a capire il perché di tale predilezione. Rispetto tuttavia la disgustosa libertà di questi signori di Montejurra e non voglio lamentarmi più di tanto.

E giunto però nelle mie mani uno stampato intitolato Basco Rosso (non meglio identificato, ma carlista nel contenuto), n. 89, anno 12, che reca un articolo dal tito­lo ‘Agli Spagnoli’, firmato ‘Alcuni ex combattenti’, nel quale l’Opera è attaccata e calunniata. Non posso tolle­rarlo e c’è da vergognarsi che persone che fanno parte della cosiddetta Comunione carlista si prestino a diffa­mazioni di questo stile. Spero, è un dovere di cristiana giustizia, che i capi dell’organizzazione faranno in modo che questi fatti non si ripetano. Altrimenti dovrò pren­

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dere le mie decisioni, dato che non si tratta di un’infa­mia contro di me, che sono sempre disposto a sopporta­re in silenzio, ma contro Dio Nostro Signore e coloro che, consacrandogli la propria vita, lo servono»198.

* * *

Ispirandosi al coraggio di Santa Caterina, il Fondatore sentì in coscienza il dovere di far conoscere a Paolo VI il proprio giudizio sulla complessa situazione religiosa e politica della Spagna. Invece di inviare una memoria informativa, preferì scrivere una lettera, per adoperare uno stile meno ufficiale. Il tono di questa lunga lettera, datata 14 giugno 1964, è infatti piuttosto confidenziale. L’autore intendeva ripercorrere alcuni eventi di storia recente e trattare di questioni che riguardavano la vita della Chiesa. Nelle prime righe dichiarava di voler «aprire ancora il cuore al Santo Padre», raccontandogli cose che «mai prima d’ora ho messo per iscritto», certo che «con questa lettera servo fedelmente la Chiesa di Dio e il Sommo Pontefice»199.

Lo scritto ripercorre la storia della Spagna dal 1900 fino a quella più recente: la caduta della Monarchia, l’avvento della Repubblica nel 1931, la guerra civile e poi la pace. Mons. Escrivà vi manifestava la sua preoc­cupazione per il futuro del proprio Paese, perché «in Spagna tutto è legato alla vita di un uomo che, in buona fede, è anche lui persuaso di essere provvidenziale»200. Nel fare riferimento al rinnovamento e all’ampio e posi­tivo risveglio religioso avvenuto in Spagna dal 1939, ne sottolineava peraltro alcune caratteristiche meno positi­ve: scarsità di dottrina, eccesso di pietismo, esagerazioni nel culto pubblico... Quindi affermava:

«Nel momento attuale, data l’età di Franco, le circo­stanze cominciano a diventare gravi, se non si predi­spongono misure che conducano ad una evoluzione, e piuttosto rapida»201.

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Desiderava che tale evoluzione non compromettesse la fede religiosa degli spagnoli e l’azione pastorale della Gerarchia della Chiesa. Per questo, la Gerarchia avreb­be dovuto preparare i cattolici perché intervenissero li­beramente nelle questioni dello Stato. E continuava:

«Mi si potrebbe domandare che cosa ho fatto io in questo senso. Ho sempre cercato di non essere necessa­rio: di formare gente che, ben preparata dottrinalmente, potesse lavorare meglio di me. Mi sono sforzato di lavo­rare, perché so che il lavoro è preghiera; e di pregare, perché è il fondamento di ogni azione»202.

Il resto della lettera contiene il racconto di episodi che riteneva opportuno portare a conoscenza.

Il Fondatore voleva che anche i suoi figli si mobilitas­sero a difesa della Chiesa, della sua dottrina e delle sue istituzioni. Per amore della verità, scrisse ai fedeli del- l’Opus Dei una lettera datata 15 agosto 1964, che ini­ziava così: «Per compiere la nostra missione di dare dot­trina e fare l’immensa catechesi che è l’Opera di Dio, dobbiamo essere portatori della verità e uomini ricolmi della carità di Cristo»203.

«Figlie e figli miei, conoscete bene la storia della Chie­sa e sapete che il Signore è solito servirsi di anime sem­plici e forti per rappresentare la sua Volontà in momen­ti di confusione o di sopore della vita cristiana. Io mi sono innamorato della fortezza di Santa Caterina, che dice la verità alle più alte personalità, con ardente amo­re e chiarezza diafana»204.

Con la stessa chiarezza il Fondatore sottolineava le difficoltà del momento, manifestazioni della miseria umana. Mentre la Chiesa chiama i suoi figli a rinnovar­si interiormente e a produrre abbondanti frutti di san­tità, gli uomini la defraudano con il proprio comporta­mento meschino:

«L’umanità fa molto chiasso, e noi uomini, invece di cercare l’intimo dialogo di riconciliazione con Dio e la crescita della santità, tergiversiamo, rendendo difficile

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al povero, alla gente semplice, ai novelli pastori di Be­tlemme, riconoscere prontamente la voce del Messia, l’immagine del Messia, in mezzo al clamore delle nostre miserie»205.

* * *

Nel novembre 1964, in occasione di un viaggio a Pam­plona, volle informare il Generale Franco del suo arrivo in Spagna. Un gesto cortese, che rispondeva al suo desi­derio di tenere un atteggiamento rispettoso verso le au­torità politiche, secondo la dottrina paolina:

«Eccellenza, mettendo piede in terra spagnola, per presiedere, nell’Università di Navarra, la cerimonia di conferimento di due dottorati honoris causa a due Ret­tori di università, adempio il gradito dovere di presenta­re a S.E. il mio rispettoso saluto.

Non dimentico di pregare ogni giorno per la nostra amatissima Spagna e per tutti gli Spagnoli, specialmente per S.E., per i suoi e per tutti coloro che hanno il compi­to di governare la nostra Patria»206.

Le relazioni tra mons. Escrivà e Franco furono im­prontate al necessario rispetto tra il Capo dello Stato e un sacerdote che si definiva un cittadino in esilio volon­tario. Quando, due anni dopo, il Fondatore si recò di nuovo all’Università di Navarra, tornò a scrivere al Ca­po dello Stato:

«Eccellenza, essendo giunto nella benedetta terra di Navarra, ritengo mio primo dovere inviare a S.E. un sa­luto pieno di rispetto e di considerazione, poiché non potrò recarmi a Madrid»207.

I due anni compresi fra le due lettere (autunno 1964, autunno 1966) furono caratterizzati da continue campa­gne diffamatorie contro l’Opus Dei e il Fondatore sentì la necessità di dire ai suoi figli di non tenere la bocca chiusa:

«Dovete sempre stare all’erta: vigilate et orate, sem­pre sereni, con la gioia, la pace e il coraggio di chi è nel

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giusto. Non possiamo tacere, perché l’Opera, nostra Madre, è e sarà ancora minorenne, nonostante il passa­re degli anni, e ha bisogno che i suoi figli la difendano veritatem facientes in cantate. Ho scritto al Santo Padre tre volte, e oggi la quarta, perché bisogna toglierci il fango di dosso. Devo dire che il Papa ha per noi molto affetto e lo dimostra»208.

Una settimana dopo ribadiva:«Ora è necessario che non dimentichiate il consiglio

evangelico: vigilate et oratei Non possiamo più tollerare la calunnia e l’insinuazione velenosa: su cento casi, cento hanno origine nella mia amatissima Spagna. Basta!»209.

Dopo la lettera del 1964, mons. Escrivà fece in modo di inviare periodicamente alla Segreteria di Stato le noti­zie che riteneva utili. Vi fu una nutrita corrispondenza fra il Cardinale Dell’Acqua e il Fondatore e la loro fu una fraterna amicizia. In tutte le lettere si notano il profondo affetto e la devozione per il Romano Pontefi­ce. Eccone un esempio:

«Chiedo scusa a S. E. se racconto queste cose senza pudore alcuno: ma, davanti a Dio e davanti al Papa, de­sidero sempre essere sincero e spontaneo come un bim­bo. Allo stesso tempo, vorrei poter offrire continuamen­te al Santo Padre tanti motivi di conforto e di gioia. Mi rammento che, nel 1946, l’allora Sostituto di Sua San­tità, mons. Montini, volle gentilmente dirmi una volta che mi sentiva parlare con tanto piacere delPOpus Dei, perché di solito non Gli arrivavano altro che brutte no­tizie, sulle cose che non andavano bene nel mondo. Per questo è grande la pena che provo quando alcune fra le notizie che invio - perché mi sembra che possano essere veramente utili -, non sono troppo consolanti”210.

In effetti, non tutte le notizie che inviava al Papa era­no consolanti. Ma aveva deciso di non tacere su ciò che riguardava la Chiesa e l’Opera. In varie occasioni dovet­te prendere la penna, poiché giungevano a Roma, dalla Francia e dalla Spagna, gli schizzi di fango di campagne

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di stampa che travisavano la natura spirituale dell’Opus Dei, negandone anche la dimensione universale211. In questi casi esponeva al Papa la realtà oggettiva dei fatti, la falsità delle accuse e l’origine degli attacchi. Com’era logico, questi sgradevoli avvenimenti, anche se non gli toglievano la pace interiore, lo facevano soffrire. Visti dall’alto, erano un cumulo di bassezze, di meschinità, di piccinerie:

«Mi ha fatto pena leggere l’osceno e mordace anoni­mo che hanno inviato dalla Spagna. E inevitabile che il demonio non sia contento: quando va bene per gli agnel­li non va bene per i lupi. L’ho bruciato. State tranquilli perché il vostro lavoro e quello dei vostri fratelli - l’O­pus Dei - sale fino in Cielo come un profumo soave»212.

Come far fronte alle maldicenze dei nemici di Dio e della sua Chiesa? Il Fondatore pensò fosse utile conce­dere interviste a giornali di diverse nazioni. La prima fu concessa al corrispondente di Le Figaro e pubblicata nel maggio 1966213. L’intenzione era semplice: dire la ve­rità, ribadendo instancabilmente che nell’Opus Dei tutti agiscono con completa libertà personale, senza che la diversità nell’agire o nelle opinioni costituisca un pro­blema, poiché «il pluralismo che esiste ed esisterà sem­pre fra i membri dell’Opus Dei è una manifestazione di buono spirito, di onestà di vita, di rispetto per le legitti­me opzioni di ciascuno»214.

La prospettiva offerta dal tempo trascorso consente ora di affermare che l’Opera, per volere di Dio, doveva passare attraverso ripetute e dolorose prove. In occasio­ne delle elezioni sindacali in Spagna, per esempio, furo­no pubblicati articoli che invocavano una maggior li­bertà sindacale, alcuni dei quali erano scritti da persone dell’Opus Dei. Ci fu una violenta reazione dei giornali del regime, la cosiddetta Stampa del Movimento, e del quotidiano sindacale Pueblo. Mons. Escrivà decise di intervenire, non per il danno di fronte all’opinione pub­blica che quei giornali potevano causare alla sua perso­

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na, ma perché tutta la vicenda «era montata su calunnie e rappresentava, pertanto, un’offesa a Dio»215. Su sua indicazione, il Consigliere della Spagna, Florencio Sàn- chez Bella, si recò a protestare presso i dirigenti della Se­greteria Generale del Movimento e dei Sindacati. Non avendo ottenuto alcun risultato, nel mese di ottobre rin­novò la protesta presso il Ministro Segretario Generale del Movimento, pure senza risultato216. Il Fondatore fu informato dei retroscena di quella campagna, organiz­zata da persone

«che non digeriscono ciò che è spirituale e, anche se si riuscisse a far bere loro il vino di Cana, sarebbe inutile, perché lo trasformerebbero subito in aceto. Acquirente e venditori simili a quelli che descrive Cervantes, manigoldi in definitiva, che sono capaci di bastonare una donna che non può difendersi, o di lanciare palate di fango contro un sacerdote, che non deve difendersi, perché è obbligato a mostrarsi mansueto. Tutti costoro non dimostrano al­tro che una codarda vigliaccheria, che bisogna perdonare e, ci mancherebbe altro, noi li perdoniamo»217.

Ma il sacerdote aveva deciso di difendersi e scrisse una lettera, chiara, decisa e caritatevole, a José Solìs Ruiz, Ministro Segretario Generale del Movimento:

«Roma, 28 ottobre 1966.Stimato amico, mi giunge fin qua il chiasso della cam­

pagna contro l’Opus Dei che la stampa della Falange, dipendente da S.E., porta avanti così ingiustamente.

Ripeto ancora una volta che i membri dell’Opera, tutti e ciascuno, sono liberissimi, come se non facessero parte dell’Opus Dei, in tutte le cose temporali e in quelle teolo­giche che non sono di fede e che la Chiesa lascia alla libe­ra discussione tra gli uomini. Perciò non ha senso evi­denziare l’appartenenza di una determinata persona all’Opera quando si tratta di questioni politiche, profes­sionali, sociali, ecc., così come non sarebbe ragionevole, parlando delle attività pubbliche di S.E., tirare in ballo sua moglie o i suoi figli, la sua famiglia.

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Le pubblicazioni che traggono ispirazione dal suo Mi­nistero utilizzano proprio questo metodo ingiusto e così non ottengono altro che di offendere Dio, confondendo ciò che è spirituale con ciò che è terreno, mentre è evi­dente che i Direttori dell’Opus Dei non possono fare nulla per inibire la legittima e completa libertà persona­le dei membri i quali, d’altra parte, si assumono sempre la piena responsabilità dei propri atti e rendono eviden­te, di conseguenza, che la pluralità di opinioni tra i membri dell’Opera è e sarà sempre una ulteriore mani­festazione della loro libertà e una prova del loro buono spirito, che li porta a rispettare le opinioni altrui.

Quando attaccate o approvate il pensiero o l’agire pubblico di un cittadino, abbiate l’onestà, che è un do­vere di giustizia, di non fare alcun riferimento all’Opus Dei: questa famiglia spirituale non interviene e non può mai intervenire in opzioni politiche o terrene, perché i suoi fini sono esclusivamente spirituali.

Spero che abbia compreso la mia sorpresa davanti al­le avvisaglie e poi allo scatenarsi di questa campagna diffamatoria: sono sicuro che si renderà conto della in­giustizia che commettete e delle responsabilità che in co­scienza vi assumete davanti al giudizio di Dio, per l’er­rore di denigrare una istituzione che non influisce, e non può influire, sull’uso che, in quanto cittadini, i membri che la formano, sparsi nei cinque continenti, fanno della propria libertà personale, senza sottrarsi alla responsa­bilità personale.

La prego di mettere fine a questa campagna contro l’Opus Dei, dato che l’Opus Dei non è responsabile di nulla. Altrimenti, penserò che non mi ha capito e sarà chiaro che S.E. non è capace di comprendere e di rispet­tare la libertà, qua libertate Cbristus nos liberavit, la li­bertà cristiana degli altri cittadini. Accapigliatevi pure, benché io non sia amico dei litigi, ma non immischiate ingiustamente in queste lotte ciò che è al di sopra delle passioni umane.

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Approfitto dell’occasione per abbracciarla e benedir­la, con i suoi, in Domino»218.

Il Fondatore era veramente un romantico, che lottava per la libertà senza fare politica219. La politica è l’arte del governo, tanto varia nel metodo e nelle fonti che la ispirano, ma non bisogna dimenticare che è anche la porta di accesso al potere. Per mons. Escrivà il rispetto per la libertà era la miglior garanzia di unità interna del­l’Opera, mentre l’ambizione di potere avrebbe portato rapidamente alla disgregazione. Tale è la condizione dell’uomo: una perenne tentazione di imporre la propria volontà agli altri. Per queste ragioni, oltre che per quelle soprannaturali, il Fondatore affermava che «un Opus Dei impegnato in politica è un fantasma che non è mai esistito, non esiste e non potrà mai esistere: l’Opera, se accadesse questa impossibile eventualità, si dissolvereb­be immediatamente»220.

5. Il marchesato di Peralta

La corrispondenza del Fondatore con personalità della vita politica non è abbondante. Con Franco mantenne sempre una rispettosa distanza; con Juan di Borbone, Capo della Casa Reale di Spagna, una cortese e affet­tuosa imparzialità politica221. La prima volta che mise in disparte il protocollo e gli si rivolse con semplicità, cordialità e deferenza, fu il 21 novembre 1966:

«Signore, ho appena letto la sua affettuosa lettera del15 corrente, che mi ha dato tanta gioia. Quanto mi pia­cerebbe vedere con calma Sua Maestà e chiacchierare! Non pensa di venire a Roma? Lei sa che prego tutti i giorni per l’Augusta Persona del mio Re e per tutta la Famiglia Reale: con ciò non faccio altro che dare conti­nuità personalmente agli ideali di lealtà che ho imparato dal mio defunto padre.

Ma il mio compito, che non dimentico mai, non è di

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fare politica, bensì di difendere la legittima libertà cri­stiana nelle scelte temporali cui hanno diritto tutti gli uomini. So bene che S.M. la pensa allo stesso modo: vincere non basta, bisogna convincere con la condotta e con la dottrina.

Le cerimonie di Londra sono andate molto bene: la Regina fu molto contenta e ha lasciato tutti contenti222.

Mi consenta, Signore, di darle un abbraccio molto forte, anche se non è protocollare, prima di dichiararmi suo affezionatissimo in Domino

Josemescrivà de B.»223.Il legame di simpatia tra il Fondatore e Juan di Borbo­

ne traeva origine dalla lealtà che suo padre, José Escrivà, aveva sempre avuto nei confronti della Corona di Spagna. Fin da piccolo, don Josemarìa aveva sentito raccontare in casa le storie degli antenati della famiglia. L’illustre lignaggio, l’amore per il Re e per gli alti ideali patriottici erano rimasti incisi nella sua memoria e nella sua tenera anima di bambino e poi di adolescente. La simpatia per Juan di Borbone non era certo fondata su un ragionamento politico o su interessi personali, ma piuttosto legata a ricordi e tradizioni familiari e al desi­derio filiale di onorare la memoria di José Escrivà224.

Quasi nascosto nella corrispondenza del Fondatore c’è anche un altro tratto di devozione filiale, un ricordo den­so di emozione. È in una lettera al fratello Santiago del 20 marzo 1964, nel giorno che fino a poco tempo prima la liturgia chiamava Venerdì di Passione, o “dei sette Do­lori di Maria” :

«Sono contento di scrivervi oggi, nella festa della mamma (riposi in pace), perché i miei figli hanno voluto continuare a celebrare nelle nostre case di tutto il mon­do l’onomastico della Nonna e, per devozione verso la Santissima Vergine e per affetto verso la mamma, hanno ottenuto dalla Santa Sede che per noi questa festività non sia soppressa. Immaginatevi la mia gioia. Pregate per me, perché sia buono, fedele e sempre allegro»225.

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La signora Dolores, la Nonna, così come zia Carmen, erano entrate nella storia dell’Opus Dei per i loro meriti e i loro sacrifici. L’affetto dei primi membri dell’Opera per la famiglia degli Escrivà nasceva da affetto gratuito e spontaneo e da riconoscenza soprannaturale. Da quella famiglia, per volere della divina Provvidenza, proveniva il Fondatore. Lì era nata la sua vocazione. La storia, fino al 20 giugno 1957, data della morte di Carmen, è stata fin qui raccontata. Dopo la sua morte, il fratello minore, Santiago, visse un momento molto doloroso e il Fonda­tore lo invitò ad abitare per qualche tempo con alcuni membri dell’Opus Dei, per alleviare la sua solitudine.

Ma anche per lui gli eventi si susseguirono rapida­mente. Nel settembre del 1957 fu fissata la data di fi­danzamento di Santiago con la signorina Gloria Garcìa- Herrero, chiamata ‘Yoya’ in famiglia226. Don Josemarìa, come capofamiglia, partì da Roma il 21 gennaio 1958 per chiedere Yoya in sposa per suo fratello227. Il 7 aprile fu celebrato il matrimonio. Don Josemarìa non fu pre­sente alla cerimonia, perché volle offrire al Signore un altro sacrificio. D’altra parte, non assisteva neppure alle prime Messe dei suoi figli sacerdoti.

Gli sposi si stabilirono a Roma, dove Santiago lavorò fi­no al 1961; poi ritornò in Spagna e si stabilì a Madrid. Dio benedisse i due sposi con parecchi figli: ne ebbero nove. Il Fondatore seguiva da vicino nascite e battesimi e la crescita fisica e spirituale dei piccoli. Ne riceveva le fotografie, ma talvolta, se si recavano a Roma, aveva occasione di vederli.I genitori insegnavano loro la dottrina cristiana e cercava­no sempre di fissare date opportune perché lo zio potesse amministrare loro la prima Comunione228. Il Padre non di­menticava mai di fare gli auguri alla cognata e al fratello in occasione di anniversari o di feste familiari. Anche i piccoli scrivevano allo zio, raccontandogli delle loro avventure, dei loro amici, dei giocattoli che avevano ricevuto dai Re Magi... Lo zio, oltre a dedicare loro sempre qualche riga, talvolta scriveva una lettera personale all’uno o all’altro:

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«Roma, 29-111-1968.Cara Mariajosé, poiché oggi mi dedico a rispondere a

lettere importanti, risponderò anche alla tua. La torta che mi hai inviato era magnifica, così ben disegnata da te, nel giorno del nostro onomastico! Peccato che non era possibile mangiarla: un’altra volta sarà più saporita, anche se non così grande. Ho molta voglia di vederti: al­lora mi racconterai come preghi, come studi, le amiche simpatiche che hai... e tante altre cose. Ti abbraccia e ti benedice tuo zio, Josemaria»229.

Tutti i giorni nella Santa Messa pregava per i due coniu­gi e per i nipoti, così come per i parenti di tutti i suoi figli delPOpus Dei, per i benefattori dell’Opera e per quelli che non lo erano tanto. Una volta scrisse che gli sarebbe pia­ciuto vedersi attorno tutti i nipoti230, ma non pensò mai di fare un viaggio solo per andarli a trovare; aveva molti figli sparsi per il mondo dai quali non si era mai potuto recare.

Da quanto si sa circa la nascita di Santiago a Logrono, la nuova famiglia era frutto della fede dimostrata da ra­gazzo da Josemaria, quando aveva comunicato ai genito­ri il proprio desiderio di farsi sacerdote. Poi, davanti alla salma del padre e in presenza della madre, della sorella e del piccolo Santiago, don Josemaria aveva promesso che non avrebbe mai abbandonato la famiglia e che ne avrebbe avuto cura come se ne fosse stato il padre. Non è ammirevole che, quarant’anni dopo, questo impegno fosse ancora vivo? Il 15 luglio 1968, mentre stava per partire da Roma, scriveva a Yoya e a Santiago:

«Desidero che trascorriate una felice estate nella pace del Signore, e una festa dell’Apostolo S. Giacomo piena di gioia. Questo chiederò, e chiedo ogni giorno, nella Santa Messa»231.

Poi consigliava a Santiago di mettersi nelle mani di un buon medico per seguire una dieta dimagrante232. Ma a questo punto affiora una contenuta lamentela:

«Non ti nascondo che mi fai soffrire, anche perché non ricevo mai due righe da te; neppure ora, che mi aiutereb­

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be tanto, nel momento in cui, per questi tuoi piccoli, sto compiendo un dovere che mi costa non poca fatica»233.

Quale il ‘dovere’ cui accennava? Sembra quasi che il Fondatore si aspettasse di dover portare un nuovo, gra­voso fardello. Pochi giorni prima, la Commissione Per­manente del Consiglio di Stato spagnolo aveva espresso un parere giuridico su una richiesta presentata alcuni mesi prima, d’accordo con il fratello, da mons. Escrivà. Il 12 luglio il Consiglio dei Ministri deliberò e, su pro­posta del Ministro della Giustizia, il 24 luglio il Capo dello Stato firmò il seguente decreto:

“Accogliendo la richiesta di don José Maria Escrivà de Balaguer y Albàs, in conformità con quanto stabilito dal­la Legge (...), riabilito in suo favore, senza pregiudizio di terzi aventi miglior diritto, il titolo di Marchese con la denominazione di Peralta, per lui e peri suoi legittimi successori, previo il pagamento dell’imposta speciale e l’adempimento degli altri requisiti complementari”234.

L’interessato, come d’uso, ringraziò il Capo dello Sta­to; nella lettera vi sono alcuni particolari sorprendenti. La questione che la motiva è appena accennata, con la sola citazione del decreto e non del contenuto, e il bene­ficiario afferma che, «più che esercitare un diritto», ha compiuto un “durissimo” dovere:

«Roma, 3 agosto 1968 Eccellenza,ho il piacere di ringraziarla per la bontà che ha dimo­

strato per la mia famiglia firmando il Decreto 1851/1968, del 24 luglio.

Penso di avere l’obbligo di manifestare a S.E. che, in verità, più che esercitare un diritto, ho compiuto un do­vere che è stato per me penosissimo e che è stato reso meno duro dalla nobile comprensione di S.E.

Mi è grato dichiararmi di S.E. aff.mo in DominoJosemescrivà de B.»235.

* Si- »

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Dopo la fine della guerra civile, la fama di santità di don Josemarìa era già diffusa, sia negli ambienti ecclesiastici, sia nel mondo accademico. Per i suoi figli egli era anco­ra di più: un santo fondatore, il cui apostolato con il passare del tempo si sarebbe diffuso in tutto il mondo. I seguaci di quel santo sacerdote erano ancora pochi, ma pienamente consapevoli della grandezza dell’impresa. Erano appena all’inizio, eppure coloro che avevano con­diviso con il Fondatore l’esperienza della guerra si senti­vano responsabili di conservare e di trasmettere ai po­steri i suoi insegnamenti, i racconti delle grazie fondazionali di cui avevano conoscenza, i documenti e gli altri scritti di carattere biografico. C’erano anche gli episodi dell’infanzia e dell’adolescenza, le notizie sulla famiglia, i ricordi di Barbastro, Logrono, Saragozza e Madrid; gli eventi legati alla prima chiamata del Padre, alla vocazione sacerdotale e alla fondazione dell’Opus Dei. Dalla guerra si salvò il famoso baule, zeppo di car­te e di ricordi, custodito dalla Nonna.

Quando don Alvaro del Portillo divenne Segretario Generale dell’Opus Dei, decise discretamente di far rac­cogliere i documenti che un giorno sarebbero serviti a scrivere la biografia del Fondatore. Intorno al 1962, al­cuni suoi figli, spinti dall’amore filiale e dall’interesse storico, cercarono di ricostruire la genealogia della fami­glia236. Si recarono presso diversi archivi parrocchiali per ottenere copia degli atti di nascite e di matrimoni, perché sarebbe stato strano che, consapevoli della dimensione storica della figura del Fondatore, non si fossero preoc­cupati di procurarsi i documenti che lo riguardavano237. Da queste ricerche emersero legami di parentela in linea diretta con personaggi della nobiltà aragonese, il che fa­ceva presumere il diritto degli Escrivà de Balaguer a fre­giarsi di qualche titolo nobiliare238.

Nel 1965 don Alvaro permise di fare ricerche in tal senso, ricostruendo l’albero genealogico, a condizione che ciò non comportasse costi per l’Opera239. Al termine

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della ricerca, un esperto genealogista del Regno di Ara­gona certificò che a don Josemaria competevano per di­ritto due titoli: la Baronia di S. Filippo in linea paterna e materna, e il Marchesato di Peralta nella linea mater­na240. Si trattava di un professionista estraneo alPOpera e di riconosciuto prestigio nel suo campo; tuttavia, quando fu detto al Fondatore che aveva diritto a due ti­toli, egli si rifiutò di chiederne la riconferma e proibì ai suoi figli di tornare a occuparsene. Nessuno osò insiste­re, perché i motivi del rifiuto erano chiari: nel suo caso, il Deo omnis gloria non si poteva certo accordare con un titolo altisonante. Il marchesato, che tra l’altro non serviva a nulla né portava con sé alcun vantaggio, non poteva armonizzarsi con il motto nascondersi e scompa­rire che aveva caratterizzato tutta la sua vita. Poiché don Josemaria non mostrò alcun interesse per la faccen­da, le ricerche vennero sospese.

Un particolare interessante è che, quando gli fu comuni­cato il suo diritto a due titoli nobiliari, non mostrò alcuna sorpresa. Probabilmente lo sapeva già per tradizione ora­le, essendogli pure note le discendenze familiari di epoche più remote, come per esempio la sua parentela con S. Giu­seppe Calasanzio e con l’eretico Michele Serveto.

Tuttavia, dopo un po’ di tempo, i suoi figli, soprattut­to don Alvaro e Pedro Casciaro, tornarono alla carica, presentandogli la questione non come un capriccio, ma come un dovere di giustizia241. Come primogenito, solo lui aveva il diritto di reclamare i titoli242, ma poi avreb­be potuto trasferirli a suo fratello Santiago e così ricom­pensare i molti sacrifici, anche economici, fatti dagli Escrivà per l’Opus Dei. Aveva in sospeso un debito di gratitudine e per soddisfarlo con giustizia non poteva invocare il proprio distacco dagli onori umani.

Il Fondatore non aveva mai richiesto le nomine e le onorificenze che aveva ricevuto fino ad allora243. Erano titoli onorifici accademici o civili che aveva accettato, più che altro, per non deludere chi gli voleva bene e de­

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siderava onorarlo. Il caso della convalida dei titoli nobi­liari era diverso, dato che doveva chiederla personal­mente, il che ripugnava al suo carattere, che rifuggiva privilegi ed eccezioni.

E un fatto che gli onori non condizionarono mai il suo comportamento e le sue abitudini. Per esempio, era frequente che un Cardinale, un Vescovo o qualche alta autorità civile gli si rivolgesse chiamandolo Eccellenza. Don Josemaria tagliava corto e chiariva: «Mi chiami don Josemaria o don Escrivà, o Padre; ma non mi chia­mi così, perché non mi piace»244.

Diverse volte il Fondatore fu sul punto di essere nomi­nato vescovo di una diocesi spagnola. Quando, nel 1960, ne corse la voce non senza fondamento, andò dal Cardinale Tardini per dirgli che non aspirava ad alcun titolo o carica, dentro la Chiesa o fuori. «Non accetterei neppure la mitria di Toledo con la porpora, anche se me la offrissero con insistenza»245.

Ricevette anche riconoscimenti per l’azione sociale o benefica svolta da opere corporative dell’Opus Dei. In questi casi, il Fondatore non attribuiva alcun merito a se stesso, ma alla grazia di Dio e al lavoro delle sue figlie o dei suoi figli. Era solito ripetere un detto italiano: «Il sangue del soldato fa grande il capitano»246.

Quando infine decise di riesaminare la questione del titolo nobiliare, che lasciava presagire conseguenze assai sgradevoli, la gratitudine filiale dovette giocare un ruolo decisivo. In effetti, era evidente che, non appena avesse ricevuto il titolo, i suoi detrattori si sarebbero scatenati e sarebbero riprese dure campagne di stampa e con esse le calunnie, le dicerie, le critiche, le maldicenze...

Il Fondatore, come faceva sempre, esaminò la cosa nell’orazione. Poi parlò con i due Custodes e chiese pre­ghiere, perché il Signore lo illuminasse. Quindi chiese consiglio a persone prudenti, eminenti ecclesiastici, car­dinali della Curia e prelati, fra cui i cardinali Dell’Ac­qua, Antoniutti, Larraona, Marella e Bueno Monreal,

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mons. Casimiro M ordilo, mons. Abilio del Campo e mons. Enrique Delgado247.

Fu decisivo il parere del Cardinale Larraona, il quale gli disse che per lui, in quanto Fondatore delPOpus Dei, richiedere il titolo non era solo un diritto ma addirittura un obbligo. Non aveva sempre raccomandato ai suoi figli di adempiere tutti i doveri e di esercitare tutti i loro diritti di cittadini? Se il Fondatore avesse rinunciato a un diritto che tutti erano concordi nel riconoscergli, che cosa avreb­bero fatto quelli che sarebbero venuti dopo di lui? Da­vanti a questo ragionamento il Fondatore si arrese248. Era tra l’incudine e il martello. Da una parte si esponeva alle critiche compiendo un gesto che riteneva doveroso, ma che altri avrebbero ritenuto frivolo e vanitoso; dall’altra doveva insegnare con l’esempio ai suoi figli lo spirito ge­nuino dell’Opus Dei, dimostrando così ancora una volta che la santificazione passa attraverso la Croce.

Sia pure controvoglia, decise di esercitare quello che, con un eufemismo, chiamava «un dovere antipatico»249. Per la verità era un atto eroico intessuto di pietà filiale, di giustizia, di umiltà e di fortezza. Il titolo, del tutto onorifico, non gli interessava, né egli pensava di utiliz­zarlo. Invece, sapeva bene quanti fastidi gli avrebbe pro­curato. Per limitarli e per non danneggiare l’Opera, si assunse personalmente tutta la responsabilità della cosa e impose ai suoi figli la condizione che le spese non fos­sero a carico delPOpus Dei250.

Le pratiche amministrative furono rapide. L’istanza di riconoscimento del titolo di Marchese di Peralta fu pre­sentata al Ministero di Giustizia il 15 gennaio 1968. Dieci giorni dopo, prevedendo ciò che stava per scate­narsi, don Josemarìa scrisse al Consigliere della Spagna una lettera di spiegazioni:

«Roma, 25 gennaio 1968.Carissimo Florencio, Gesù mi protegga i miei figli del­

la Spagna.In questa vita, nonostante la mia debolezza e le mie

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miserie, il Signore mi ha dato le forze per adempiere se­renamente i doveri più antipatici.

Ora, dopo averci pensato bene davanti a Dio e avere chiesto gli opportuni consigli, mi dispongo a compierne uno che a me risulta antipatico soltanto per la mia si­tuazione personale: per chiunque altro sarebbe una cosa piacevole e tranquilla.

A sessantatré anni penso ai miei genitori, che hanno dovuto soffrire tanto - ne sono sicuro - perché il Signore doveva preparare me come strumento, benché inetto. Credo che questa sia la prima volta che, riguardo alle co­se di questo mondo, posso osservare il dolcissimo precet­to del Decalogo. Finora, e vi chiedo perdono per il mio cattivo esempio, ho utilizzato la mia famiglia per portare avanti l’Opera, compresi Carmen e, in un certo senso, an­che Santiago. Nel caso attuale, mi ha spinto a fare quel che faccio non solo l’evidenza di un nostro buon diritto, ma anche la possibilità di aiutare i figli di mio fratello.

D’altra parte, osservo rettamente lo spirito dell’Opera: essere uguali agli altri. Me lo faceva notare un Cardinale di Curia, la scorsa settimana: la sua condotta, diceva, è ra­gionevole e coerente con il modo di essere dell’Opus Dei.

Ieri, al telefono, vi ho fatto dire da Àlvaro che non m’importano i commenti, che nessuno farebbe se si trat­tasse di un altro cittadino spagnolo, e vi prego che, se dicono o scrivono qualcosa di spiacevole, che sarà co­munque ingiusto, facciate orecchi da mercante. Ad ogni modo, se prudentemente si può evitare, sarebbe meglio evitarlo, anche se alla fin fine non ha importanza.

Vi ho aperto la mia coscienza: è, da parte mia, un do­vere ragionevole e soprannaturale.

Un grandissimo abbraccio. Sono contento di tutto il lavoro di anime che fate nella nostra terra amatissima.

Vi vuol bene e vi benedice vostro Padre, Mariano»251.Passati i tre mesi previsti dalla legge senza che nessu­

no impugnasse la richiesta del titolo, il 26 aprile 1968 fu presentata la documentazione relativa252. Il decreto

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del 24 luglio riconobbe al richiedente il titolo di Mar­chese di Peralta; il Brevetto di riabilitazione porta la da­ta del 5 novembre 1968253.

Il Fondatore non sbagliò le sue previsioni. Ci furono critiche, qualcuno gridò allo scandalo, qualcun altro si stracciò le vesti. Il Padre non aprì bocca e non menzionò mai il titolo254. Col passare dei mesi lo strepito si calmò e, dopo un conveniente intervallo di tempo, don Jose­maria, come aveva deciso fin da principio, cedette il ti­tolo al fratello255.

Il 22 luglio 1969, dopo trent’anni di governo, Franco, in base alla Legge di Successione del 1947, fece designa­re dal Parlamento Juan Carlos di Borbone come suo successore a Capo dello Stato, con il titolo di Re. Il Pa­dre inviò una lettera al Re designato, confermando ciò che aveva scritto nel 1966 a suo padre, Juan di Borbo­ne. Vi ribadiva che l’Opus Dei era estraneo a ogni schie­ramento partitico e a ogni attività politica e confermava la libertà di ciascuno dei suoi membri nelle questioni temporali:

«Roma, 16 settembre 1969Altezza, approfitto con piacere dell’occasione di po­

terle inviare a mano queste righe, per presentarle la mia personale adesione alla Dinastia, come fu sempre per i miei antenati, nella linea paterna e materna, a partire dal regno di Filippo V.

Tanto il suo Augusto Padre che S.A. mi hanno dimo­strato da tanti anni la loro amicizia, alla quale ho sem­pre cercato di corrispondere. Ma nello stesso tempo ho fatto loro presente la realtà, chiara e inequivocabile, che l’Opus Dei è un’istituzione con esclusive finalità aposto­liche e spirituali, che lascia ciascuno dei suoi membri completamente libero in tutte le cose temporali, come se non facesse parte dell’Opera.

Perciò sono certo che S.A. avrà considerato del tutto naturale che solo alcuni membri dell’Opus Dei in Spa­gna - e non in quanto membri dell’Opera, ma come li­

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beri cittadini - si sono dichiarati in questi ultimi tempi a favore di S.A. Gli altri, o sono indifferenti riguardo a questo specifico problema politico, oppure si dimostra­no contrari. Ho avuto queste notizie da fonti esterne, dato che all’interno dell’Opera gli argomenti temporali non si possono toccare. Ho pensato subito di approfit­tare della prima opportunità per mettere S.A. a cono­scenza di questi aspetti. Ed è questa la ragione principa­le che mi ha indotto a scriverle, mentre ho la gioia di dirle che chiedo al Signore che La aiuti e La illumini, in modo che S.A. possa conquistarsi la libera volontà di tutti gli spagnoli.

Col vivo desiderio di vederLa, prega ogni giorno per S.A.R., per la Principessa Sofia e per gli Infanti e rimane di S.A.

devotissimo in Domino, Josemescrivà de B.»256.

6. «Di fatto, non siamo un Istituto Secolare»

Nel maggio 1962, in una lettera indirizzata ai membri dell’Opus Dei con incarichi direttivi e di formazione, il Fondatore spiegava la situazione giuridica dell’Opus Dei. Conteneva espressioni sofferte: «Intuisco il vostro disagio, perché vedete in pericolo la barca sulla quale un giorno ci siamo imbarcati con Cristo»257. Il Fondatore non nascondeva loro i propri timori e li aiutava a ren­dersi conto della delicatezza del momento storico:

«Il cielo azzurro e limpido che brillava sul nostro apo­stolato il 24 febbraio 1947, quando abbiamo ricevuto il Decretum laudis e credevamo, forse ingenuamente, che le concessioni che abbiamo dovuto fare per ottenere il riconoscimento giuridico non ci avrebbero danneggiato, si è andato sempre più rabbuiando. Oggi, dopo pochi anni - dal 1947 al 1962, in cui scrivo questa lettera - si può già dire che navighiamo sotto nubi minacciose»258.

Con la promulgazione della Costituzione Apostolica

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Provida Mater Ecclesia, il 2 febbraio 1947, fu data vita agli Istituti Secolari. Tre anni dopo, nel 1950, il Fondato­re chiese alla Santa Sede l’approvazione definitiva dell’O- pus Dei, che ne avrebbe consentito l’espansione apostoli­ca in tutto il mondo. Ma l’evoluzione nell’interpretazione delle norme che reggevano gli Istituti Secolari e l’accesso accordato a società e movimenti apostolici eterogenei, cambiarono la natura giuridica degli Istituti Secolari, tan­to che la secolarità, che era la loro caratteristica peculiare e distintiva rispetto agli Ordini, alle Congregazioni e alle altre Società religiose, divenne un concetto estremamente ampio e indeterminato, ambiguo e confuso, fino a svuo­tarsi di significato.

Nel 1947 il Fondatore era consapevole di non avere altra scelta che inserire l’Opus Dei nella normativa degli Istituti Secolari. Lo fece controvoglia, perché in alcuni aspetti dovette «concedere, senza cedere»; nei documen­ti presentati alla Curia, tuttavia, aveva sempre definito chiaramente il genuino spirito dell’Opus Dei. Ciò nono­stante, cominciò a diffondersi l’idea erronea che l’Opus Dei fosse un ulteriore gradino nell’evoluzione dello sta­to religioso, anche perché, fra l’altro* gli Istituti Secolari dipendevano dalla Sacra Congregazione dei Religiosi259. La loro natura e la loro spiritualità erano le più diverse, dai semplici movimenti apostolici fino a istituzioni pro­priamente religiose. La conseguenza di questa situazio­ne fu la tendenza ad applicare e interpretare la normati­va propria ed esclusiva degli Istituti Secolari secondo gli schemi tipici dei religiosi. Lo dimostrava il tentativo del 1951 di attentare all’unità istituzionale dei membri del­l’Opus Dei; per fortuna Dio lo aveva impedito260.

Il rischio, dunque, era che gli Istituti Secolari finissero per essere assimilati tout court alle Congregazioni e alle altre istituzioni religiose261. Tale pericolo nel 1952 era già diventato, secondo il Fondatore, «una realtà eviden­te»262. Era necessario correre ai ripari, prima che la si­tuazione peggiorasse. Che cosa poteva fare per difende­

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re il suo carisma in quella situazione? In primo luogo, pregare. In secondo luogo, far sapere, dapprima priva­tamente, poi pubblicamente, che l’Opus Dei, che nel 1947 e nel 1950 aveva dovuto accettare una soluzione inadeguata, non aveva più nulla a che fare con la confi­gurazione giuridica che - di fatto e, in non pochi casi, di diritto - gli Istituti Secolari stavano assumendo.

Cominciò quindi a ripetere questi concetti, a voce e per iscritto:

«Di fatto non siamo un Istituto Secolare, né di qui in poi ci può essere applicato questo nome: il significato attuale del termine differisce molto dal significato origi­nario che aveva quando la Santa Sede lo usò per la pri­ma volta, concedendoci il Decretum laudis, nell’anno1947» 263>

La citazione è tratta da una lettera indirizzata ai suoi figli e datata 2 ottobre 1958, nella quale, in occasione del trentesimo anniversario della fondazione dell’Opus Dei, sintetizzò le proprie riflessioni sulla incompatibilità della natura, dello spirito e dell’apostolato dell’Opus Dei con la configurazione giuridica di Istituto Secolare.

Per evitare equivoci sulla secolarità dell’Opus Dei e confusioni circa le caratteristiche della vocazione all’O- pera, decise, con il consenso della Santa Sede, di inserire nella terminologia interna alcuni vocaboli di uso indi­scutibilmente laicale (il termine ‘Direttori’, per esempio, sostituì ‘Superiori’ ) e proibì ai membri di partecipare «ai congressi o assemblee di coloro che vengono definiti come appartenenti allo stato di perfezione»264. Ma so­prattutto pregò e fece pregare tutti i suoi figli, anche con l’offerta a Dio del lavoro professionale, e celebrò e fece celebrare migliaia di Messe, con l’intenzione di porre ri­medio alla situazione265.

Nel 1958, dopo l’elezione di Giovanni XXIII, sembrò che la Chiesa sperimentasse un certo rinnovamento e il Fondatore si sentì spinto a riproporre la questione del problema istituzionale dell’Opus Dei e a richiedere la

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revisione del suo statuto giuridico. Prima di farlo uffi­cialmente, volle consultare per iscritto il Cardinale Tar- dini, Segretario di Stato, per verificare l’opportunità del­la richiesta. L'Appunto reca la data del 19 marzo I960266 e vi è sintetizzata la storia dell’Opus Dei dal 2 ottobre 1928, quando il Fondatore vide un’istituzione i cui membri non sarebbero stati religiosi né in alcun mo­do equiparabili ai religiosi. Il suo affetto per i religiosi era fuori discussione, li amava e li venerava con tutte le sue forze, ma l’apostolato che l’Opus Dei avrebbe fatto in mezzo al mondo sarebbe stato svolto con naturalezza da laici che esercitavano il proprio lavoro professionale nella società civile267.

Egli chiedeva che l’Opus Dei cessasse di dipendere dalla Sacra Congregazione dei Religiosi e passasse alla Congregazione Concistoriale268. Proponeva poi che ve­nisse creata una Prelatura nullius, con un piccolo terri­torio proprio in cui incardinare i sacerdoti; la Santa Se­de avrebbe confermato gli Statuti vigenti, debitamente ritoccati, e tutti i rescritti e le dichiarazioni pontificie successive concernenti l’Opus Dei269.

Tuttavia la richiesta non fu accolta bene per una cir­costanza sfortunata. Don Alvaro racconta che, per inca­rico del Padre, si era recato dal Cardinale Tardini per dargli tutta la documentazione. Mentre attendeva, entrò nella stanza il Cardinale Valeri, Prefetto della Sacra Congregazione dei Religiosi, dalla quale dipendevano gli Istituti Secolari. Naturalmente il cardinale sarebbe stato ricevuto prima di lui e don Alvaro, sapendo che prima o poi sarebbe stato informato della cosa, preferì parlargliene mentre attendevano. Il Cardinale Valeri mostrò di non comprendere i motivi che don Alvaro gli esponeva anche perché, per ragioni di principio, non vo­leva che l’Opus Dei passasse a dipendere da un’altra Congregazione. Quando don Alvaro fu ricevuto da Tar­dini, questi, prendendo i documenti, gli disse: “Questo non lo guardo neppure, è inutile”270. Non era un rifiuto

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momentaneo perché poco dopo, nell’udienza del 27 giu­gno 1960, il Segretario di Stato ripetè al Fondatore che non era il momento opportuno per presentare la richie­sta ufficiale al Santo Padre. A suo parere era meglio che le cose seguissero il loro corso, perché restava ancora molto cammino da fare. “Siamo ancora molto lontani”, gli disse271.

L’insuccesso non scoraggiò il Fondatore. La sua gran­de fede lo induceva a pensare che, comunque, l’iniziati­va avrebbe dato i suoi frutti in seguito. Alcuni mesi do­po scrisse una nuova lettera ai suoi figli, in cui esponeva tutto ciò che aveva nell’anima.

Noi vogliamo soltanto - diceva loro - «il triste privi­legio di poter respirare»272. Aveva la ferma intenzione di non fermarsi finché l’Opus Dei non avesse ottenuto l’in­quadramento giuridico adeguato e per questo chiedeva continuamente a tutti preghiere e sacrifici. Qualche tem­po dopo, nel giugno 1961, morì il Cardinale Tardini e il Cardinale Ciriaci, al corrente della problematica, assi­curò mons. Escrivà di voler riprendere la questione, portandola all’attenzione del Pontefice273. Viste le insi­stenze del Cardinale, a don Josemarìa non sembrò op­portuno deluderlo, anche se riteneva l’iniziativa «con­traria a ciò che la mia testa mi suggerisce»274.

Si procedette rapidamente e il 7 gennaio 1962 il Fon­datore scriveva al Cardinale Cicognani, Segretario di Stato, perché facesse pervenire a Giovanni XXIII una lettera in cui chiedeva formalmente la revisione dello statuto giuridico dell’Opus Dei e suggeriva due possibi­lità, allo scopo di «chiarire definitivamente il carattere secolare dell’istituto»275: erigere l’istituto in Prelatura nullius oppure affidare al Presidente dell’Opus Dei una Prelatura nullius.

Passò del tempo e non giungeva risposta276. Come era sua abitudine, mons. Escrivà ricorse alla Madonna e il16 aprile fece una romena a Pompei con l’intenzione che «si risolva definitivamente l’inquadramento giuridi­

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co dell’Opus Dei», come si legge in una nota per l’archi­vio, in cui esprimeva l’indefettibile speranza che tutto sarebbe andato a buon fine:

«Con molta fede in Dio Nostro Signore e nella prote­zione di Santa Maria nostra Madre, spero che, ora o più avanti, si trovi la formula, quella che vediamo per ora o un’altra, affinché mi possa presentare sereno al giudizio del Signore, perché avrò potuto compiere la sua Santa Volontà»277.

La risposta fu negativa. Il 20 maggio 1962 il Segreta­rio di Stato gli comunicava che “la proposta di erigere l’Opus Dei in Prelatura nullius non può accogliersi, per­ché è lontana dal presentare una soluzione e invece in­contra difficoltà pressoché insuperabili, giuridiche e pratiche”278.

Il Fondatore, consapevole del proprio dovere di tra­smettere alle generazioni successive un Opus Dei strut­turato e configurato con piena fedeltà al volere divino, accolse con dolore la risposta negativa. Tuttavia l’ac­cettò con serenità e piena adesione al Romano Pontefi­ce, sapendo che, in un modo o nell’altro, la soluzione al­la fine sarebbe arrivata279.

* * *

Il 3 giugno 1963 morì Giovanni XXIII e gli successe Paolo VI. Il 2 ottobre il Fondatore inviò uno scritto al Santo Padre, proponendo di completare gli Statuti del 1950 con le aggiunte e i cambi introdotti e approvati successivamente. Erano lievi modifiche, che non altera­vano la configurazione giuridica dell’Opera, ma chiari­vano alcuni punti di carattere ascetico e apostolico280.

Il 24 gennaio 1964 il Fondatore fu ricevuto da Paolo VI, che si interessò della questione istituzionale. Il 14 febbraio il Fondatore ringraziò per iscritto Sua Santità per l’udienza concessagli e gli confermò ciò che gli ave­va detto direttamente: «Non abbiamo fretta: tuttavia è

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grande la nostra speranza nel definitivo auspicato ordi­namento»281.

Continuò a ripetere lo stesso concetto:«Non abbiamo fretta - si legge in una nota riservata

al Santo Padre - perché siamo sicuri che la Santa Chiesa non trascurerà di darci finalmente la soluzione giuridica adeguata»282.

A mons. Dell’Acqua:«Non ho fretta, anche se mi preme il pensiero che in

qualunque momento il Signore potrà dirmi: redde ratio- nem villicationis tuae. Ma penso che, a Concilio finito, forse si potrebbe studiare la nostra questione»283.

Nella lunga e faticosa ricerca di una soluzione giuridi­ca per incanalare le acque copiose degli apostolati del­l’Opus Dei, il Fondatore aveva consumato le sue migliori energie fisiche e spirituali. Aveva ottenuto dalla Santa Se­de l’approvazione definitiva dell’Opus Dei, ma gli man­cava la configurazione giuridica appropriata, un abito su misura per la realtà teologica e pastorale dell’Opera, e non smise mai di cercarla. Il suo ripetere “non ho fretta” significa solo che si era reso conto delle circostanze sfa­vorevoli mentre invece celava una santa impazienza, una serena e instancabile testardaggine nel percorrere l’ulti­mo tratto dell’itinerario giuridico delPOpus Dei. La sua fede gli diceva che era Dio a non avere fretta e che ci avrebbe pensato Lui al momento opportuno. A Dio si appoggiava il Fondatore, nella certezza che avrebbe por­tato avanti la Sua Opera, come aveva fatto sin dal 1928.

Conoscendo il carattere indomito del Fondatore, quel “non ho fretta” non corrisponde affatto al suo tempera­mento. In diversi scritti di quei mesi, infatti, si esprime­va, circa la questione, come chi sperimenta «un’ango­scia di coscienza»284, perché nella sua soluzione «ne va di mezzo la salvezza della mia anima»285, ma anche la speranza che, presto o tardi, sarà trovata la formula per l’inquadramento giuridico delPOpus Dei, per potersi così «presentare sereno al giudizio del Signore»286.

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Il diniego opposto alla istanza presentata su suggeri­mento del Cardinale Ciriaci bloccò per il momento ogni altra iniziativa. Alla fine di maggio del 1962, addolora­to per le difficoltà sopraggiunte, il Fondatore scrisse una lettera a quanti nell’Opus Dei avevano incarichi di dire­zione. Cominciava implorando con il salmista la miseri­cordia di Dio:

«Signore, non mi respingere nel tempo della vecchiaia (...). Tu mi hai istruito, o Dio, fin dalla giovinezza. E ora, nella vecchiaia e nella canizie, Dio, non abbando­narmi»287.

Ripercorreva poi tutta la sua vita, ricordando che il Signore, fin dalla prima giovinezza, lo aveva condotto per mano, e proseguiva:

«Anche ora, che sto entrando nell’ultima tappa della mia vita e sto diventando, o meglio, sono vecchio, anche se voi pensate, per la vitalità che vedete in me, che sia molto giovane, sento che Dio mio Padre non cesserà di condurmi per mano, perché non mi manchino mai la pace e la gioia, mentre vedo avvicinarsi la possibilità che sorgano nuove incomprensioni contro l’Opera nel cre­puscolo della mia vita»288.

E la prima volta che nei suoi scritti riferiva a sé il ter­mine “vecchiaia” , non certo per stanchezza, ma per una considerazione sempre più viva della fugacità del tem­po: «Sto diventando vecchio. Se preferite, dirò che sto smettendo di essere giovane»289.

In un’altra occasione scrisse: «Penso sempre che sono diventato vecchio»290. Ma lo pensava più frequentemen­te di quanto lo dicesse, visto ciò che egli stesso narrava:

«Che non si dimentichino di pregare per questo pec­catore. Stavo per dire vecchio peccatore, ma non l’ho detto. Non l’ho detto per due ragioni: perché il Santo Padre, forse perché ha cinque anni più di me, mi ha det­to sorridendo, nell’ultima udienza: ‘Non deve dire più che è un vecchio!’; e poi perché, pensandoci bene, ora non sono giovane e non ho più bisogno di fare quel con­

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teggio... di migliaia di anni che facevo una volta. D’ora in poi farò una somma, ottimistica fino a un certo pun­to, contando solamente gli anni nei quali ho cercato di servire Dio Nostro Signore nel suo Opus Dei: non sono neanche trentasette. Questo perché sono di manica lar­ga: lo spero, per l’Amore che ho messo in tutti i giorni di questi anni, alcune volte molto lunghi e altre volte tanto brevi. Pregate, pregate per me, perché mi si fa sera e sono ancora giovane nel servizio delle anime»291.

L’episodio citato ebbe luogo il 10 ottobre 1964. Du­rante la seconda udienza concessagli da Paolo VI, questi cercò di mitigare l’oppressione di coscienza che il Fon­datore provava circa la difficoltà di risolvere il proble­ma dello statuto giuridico dell’Opera. Il Papa gli disse che, finiti i lavori del Concilio, sarebbe stato possibile trovare una soluzione292. Il Fondatore era disposto ad attendere, senza fretta.

7. Il Congresso Generale speciale (1969-1970)

Il 24 gennaio 1964, lo stesso giorno in cui era stato rice­vuto a braccia aperte per la prima volta da Paolo VI in una indimenticabile udienza, don Josemaria incalzava i suoi figli perché perseverassero nella preghiera:

«Continuate a pregare per l’intenzione speciale della quale ho parlato al Papa; importunate Dio Nostro Si­gnore perché tenga presente questa intenzione tanto grande! Ci spinge solo il desiderio di servire meglio la Chiesa e l’umanità intera, di rafforzare lo spirito dell’O- pera, di consolidare la nostra donazione e di dare mag­giore efficacia al nostro apostolato. Vi chiedo di pregare molto per questa grande intenzione, per la quale offro la Messa tutti i giorni»293.

La preghiera per “ la grande intenzione” era indispen­sabile, perché la strada era disseminata di difficoltà. Ne venne a conoscere casualmente qualcuna, per esempio il

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5 maggio 1964, quando mons. Paul Philippe, allora Se­gretario della Congregazione dei Religiosi, fu invitato a pranzo nella sede centrale dell’Opus Dei. Il Fondatore gli illustrò in dettaglio uno scritto sulla natura e lo spiri­to dell’Opus Dei e sulle insuperabili difficoltà che incon­trava a causa dello status giuridico degli Istituti Secola­ri. Mons. Philippe disse alla fine: “Che peccato! Poco fa ho dovuto esprimere il mio parere su alcune questioni attinenti l’Opus Dei e vedo che mi sono sbagliato in pie­no, che non ho interpretato bene ciò che ora, dopo que­sto dialogo con Lei, capisco benissimo”294. Parole che furono sufficienti al Fondatore per confermarsi nell’idea che sarebbe stato molto opportuno spiegare a esperti e consultori quali fossero le difficoltà che gli impedivano di servire al meglio la Chiesa.

Il 10 ottobre 1964 Paolo VI, come si è detto, concesse a don Josemaria una nuova udienza, che si svolse in un clima molto affettuoso. Il Papa gli disse che “ i Decreti del Vaticano II, ormai in pieno svolgimento, potrebbero forse fornire in futuro elementi validi per risolvere il problema istituzionale dell’Opus Dei”295. Convennero quindi di aspettare la fine del Concilio per studiare a fondo la questione, per risolvere la quale, chiarì il Fon­datore, non voleva che fosse trovata una forma giuridi­ca esclusiva per l’Opera o fondata sul privilegio296.

Il Concilio Vaticano II terminò i lavori l’8 dicembre 1965. I documenti conciliari mettevano in risalto la chiamata universale alla santità proclamata da Cristo e la missione e dignità dei laici, temi per i quali mons. Escrivà è annoverato tra i precursori della dottrina con­ciliare. Egli aveva anticipato non solo le formulazioni teoriche, ma anche, con l’Opus Dei, la realizzazione pa­storale vivente. In questa linea di rinnovamento e come prolungamento delle strutture giurisdizionali necessarie all’azione apostolica dei laici, si aprirono nuove pro­spettive nel regime della Chiesa. In effetti, tra i docu­menti conciliari figura il Decreto Presbyterorum ordinis

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(7-XII-l965), che raccomandava la costituzione di Dio­cesi o Prelature personali, per l’attuazione di peculiari iniziative pastorali297.

Il Fondatore vedeva finalmente vicina la tanto deside­rata soluzione giuridica. Anelava di ritornare agli inizi, quando l’Opera, pur senza una veste giuridica, non pre­sentava le anomalie canoniche che era stato costretto ad accettare. Arrivava il momento di fare a ritroso la stra­da percorsa dal 1947 e di abbandonare la configurazio­ne di Istituto Secolare. Il 6-VIII-1966 Paolo VI pro­mulgò il Motu proprio Ecclesiae Sanctae, che comprendeva alcune norme attuative dei decreti del Concilio e specificava con maggior precisione la figura delle Prelature personali298.

La gioia provata da don Josemarìa nel vedere tanto vicina la soluzione giuridica appropriata per l’Opus Dei fu offuscata dal dolore per le enormi difficoltà in cui la Chiesa si stava dibattendo. Un malinteso ‘spirito conci­liare’ aveva provocato una crisi dottrinale e lo sconcerto nel popolo di Dio, attaccando usanze e credenze tradi­zionali. In una lettera del 2 marzo 1967, il Fondatore manifestava a mons. Dell’Acqua il proprio stato d’ani­mo davanti alla sofferenza della Chiesa e la perplessità per la sfiducia incomprensibile che dimostravano nei suoi confronti alcuni ambienti ecclesiastici299.

Si recò in diversi santuari della Santissima Vergine in pellegrinaggio di riparazione e di supplica per la Chiesa, per il Papa e per l’Opera. In Francia si recò a Lourdes, in Spagna a Sonsoles, al Pilar e dalla Madonna della Mercede, in Svizzera a Einsiedeln, in Italia a Loreto.

Nella primavera del 1969 venne indirettamente a sa­pere che nella Curia romana era stata costituita una Commissione speciale per introdurre modifiche negli Statuti dell’Opus Dei, senza consultare il Fondatore300. Don Josemaria si rendeva perfettamente conto del peri­colo che, modificando gli Statuti, fosse falsata la natura dell’Opus Dei. Tutto lo spingeva ad agire rapidamente,

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per bloccare l’iniziativa. Ma a chi rivolgersi per esporre le proprie ragioni?

Seguì la lezione dello spirito dell’Opus Dei: prima di tutto i mezzi soprannaturali, l’orazione e la mortificazio­ne; poi anche quelli umani, l’intelligenza e la volontà. Il suo fu un atto prolungato ed eroico di amor di Dio. Vis­se alla lettera il primo comandamento: “Amerai il Signo­re Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente”301.

In una meditazione dettata ai suoi figli, nell’Epifania del 1970, esponeva questo metodo: «Tu, Signore, ci hai dato l’intelligenza per ragionare e servirti meglio. Ab­biamo l’obbligo di fare da parte nostra tutto il possibile: insistenza, cocciutaggine, perseveranza nella nostra ora­zione»302. Così, concentrato nel servizio e attento a ciò che accadeva, si accinse a difendere con tutti i mezzi l’e­redità divina ricevuta il 2 ottobre 1928. «Sereni, sereni! - diceva ai suoi figli -. Non potranno farci nulla, Signo­re (...). Ne sono sicuro»303.

* * *

Il Motu proprio Ecclesiae Sanctae raccomandava agli Istituti Religiosi e Secolari di aggiornarsi, in armonia con il Magistero del Concilio Vaticano II e con lo spirito dei loro fondatori. In un primo momento, don Josemarìa non ritenne opportuno procedere a tale revisione. Però, date le nuove circostanze, vi ravvisò una strada per fer­mare l’iniziativa della Commissione speciale di cui aveva avuto notizia. Non c’era tempo da perdere. Con una let­tera del 20 maggio 1969, indirizzata al Cardinale Anto- niutti, chiese di convocare un congresso: «Desidererem­mo ora procedere al rinnovamento e adattamento del nostro attuale diritto peculiare (...) e chiediamo l’auto­rizzazione affinché, per quanto riguarda il periodo di tempo stabilito per portare a termine detta revisione, es­so venga computato a partire dalla data odierna»304. La

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risposta affermativa è dell’l l giugno305. Due settimane dopo, il 25-VI-1969, il Fondatore convocò un Congresso Generale speciale per il 1° settembre 1969.

Era desiderio del Padre che tutte le Regioni fossero rappresentate nel Congresso, per evidenziare l’unità del­l’Opera e la collegialità del governo. Furono pertanto convocate 192 persone (87 uomini e 105 donne), delle più diverse provenienze, età e condizioni306.

I lavori durarono due settimane e si svolsero in due assemblee parallele, una per gli uomini e l’altra per le donne, ognuna divisa in quattro Commissioni. L’assem­blea degli uomini fu chiusa il 15 settembre, quella delle donne il giorno dopo. La seconda parte del Congresso si sarebbe svolta nel settembre dell’anno seguente, il 1970. In questa prima parte furono presentate in totale 177 proposte e molti emendamenti, che resero manifesta l’u­nità d’intenti di tutti i partecipanti. Tuttavia il Fondato­re volle che, nell’Opera, tutti partecipassero, sia pure in­direttamente, alle decisioni finali. Decise quindi che nell’intervallo fra la prima e la seconda parte si svolges­sero alcune Settimane di Lavoro, per consentire alle di­verse Regioni di elaborare e studiare proposte o iniziati­ve da inviare poi a Roma, per le sessioni conclusive del Congresso307. Per il momento, precisò il Fondatore alla Santa Sede il 22 ottobre 1969, ci si era limitati “a elabo­rare criteri generali”308.

Erano gli stessi criteri che il Fondatore ripetè instanca­bilmente lungo tutto l’itinerario giuridico dell’Opus Dei e cioè che la natura canonica di Istituto Secolare, del tut­to appropriata per altre istituzioni della Chiesa, era ina­deguata alla realtà sociale, spirituale e pastorale dell’O­pus Dei; che al momento dell’approvazione dell’Opera, perché potesse usufruire di un regime a carattere univer­sale, era stata operata una forzatura, inserendola tra gli Istituti di perfezione; che l’ordinamento canonico vigente non corrispondeva a una caratteristica essenziale dell’O­pus Dei, cioè la secolarità propria dei comuni fedeli e dei

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sacerdoti diocesani; che, di conseguenza, il Congresso aveva espresso l’auspicio di uscire dal quadro giuridico degli Istituti di perfezione. Pertanto, il Congresso aveva preso atto, «con vivo senso di gratitudine e di speranza, che dopo il Concilio Vaticano II possono esistere, in seno all’ordinamento della Chiesa, altre forme canoniche, con regime a carattere universale, che non richiedono la pro­fessione dei consigli evangelici da parte dei componenti la persona morale»309. Si rimandava esplicitamente al Decreto Presbyterorum Ordinis, n. 10, e al Motu pro­prio Ecclesiae Sanctae, n. 4, cioè ai documenti che cita­vano le Prelature personali.

Il Fondatore aveva programmato in due parti lo svolgi­mento del Congresso (settembre 1969 e settembre 1970) anche per scongiurare l’intervento di coloro che pensava­no di riformare l’Opus Dei senza tener conto del suo Fon­datore. Così, durante lo svolgimento del Congresso, sa­rebbe stata fatta la revisione del diritto particolare dell’Opus Dei d’accordo con l’autorità ecclesiastica e la normativa del Concilio Vaticano II. Inoltre, sarebbe stata mobilitata tutta l’Opera, consultando tutti i 50.000 mem­bri, uniti e perseveranti nell’orazione e nelle volontà.

Il 16 settembre 1969, giorno di chiusura della prima parte del Congresso, don Josemaria, dopo avere molto meditato, fece un passo delicatissimo e coraggioso. Scrisse una lettera a Paolo VI, nella quale implorava dalla paterna bontà di Sua Santità che non venisse inter­rotto l’esercizio del diritto, affermato dal Motu proprio Ecclesiae Sanctae, di proseguire il lavoro di adattamen­to giuridico, secondo le direttrici del Concilio Vaticano II. E proseguiva:

«Se questa mia filiale attesa dovesse essere delusa e si ritenesse di dover prematuramente interrompere il legit­timo e pacifico esercizio di tale diritto (di cui usufruisco­no peraltro tutti gli Istituti dipendenti dalla S. Sede), per motivi a me sconosciuti, oserei ancora pregare la S. Vo­stra di voler benevolmente accogliere e valutare le ragio­

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ni addotte nell’Appunto che si allega: documento che nelle mie intenzioni non vuol essere altro che una umile, filiale e sincera esposizione delle preoccupazioni che oc­cupano il mio animo addolorato»310.

Seguiva un’altra lettera, con la stessa data, anch’essa indirizzata a Paolo VI, che serviva di introduzione al- Y Appunto, dove esponeva una lunga serie di fatti e pre­sentava un allegato Ricorso formale alla Santa Sede contro le attività della Commissione speciale incaricata di decidere sul futuro canonico delPOpus Dei311. Ecco la lettera:

«Beatissimo Padre,dinnanzi all’eventualità che una Commissione specia­

le della Santa Sede prenda delle decisioni nei confronti delPOpus Dei senza essere noi al corrente del merito della questione e senza essere previamente interpellati, dopo averlo considerato a lungo alla presenza di Nostro Signore, e pensando alla salvezza eterna della mia ani­ma nonché a quella di tante migliaia di soci ed associate delPOpus Dei che vedrebbero compromessa la loro vo­cazione, e volendo altresì che il giudizio della Storia non possa incolparmi di non aver posto da parte mia quanto stava nelle mie mani per salvaguardare la figura genuina delPOpus Dei, esprimo rispettosamente a Vostra Santità la richiesta di voler benevolmente prendere in conside­razione Punito Appunto»312.

Dopo questo preambolo, affrontava pacatamente nel- PAppunto la questione specifica:

«Come mi succede da anni ormai, sono sempre l’ulti­mo di Roma a conoscere le notizie o le voci che circola­no sulla Curia Romana. Anche adesso, al mio ritorno a Roma per presiedere la prima parte del nostro Congres­so Generale, mi sono stati riferiti dei rumori che, a quanto sembra, circolano da tre o quattro mesi, secon­do i quali sarebbe stata creata una Commissione specia­le, con l’incarico di giudicare l’Opus Dei a proposito di non ben precisate accuse e di introdurre modificazioni

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nelle Costituzioni dell’Opera. Questa Commissione sa­rebbe segreta e deciderebbe senza interpellarci»313.

Il Fondatore spiegava che, trattandosi di una questio­ne assai grave e degli interessi della Chiesa, non si era accontentato di raccogliere voci imprecisate, ma aveva cercato di sapere come stavano davvero le cose. Si chie­deva poi quale fosse il motivo di rivedere il diritto del- l’Opus Dei, poiché nessuno l’aveva richiesto, anzi, il Pa­pa stesso aveva affermato la convenienza di differire la questione.

Nella Conclusione dell’Appunto suggeriva che non venisse né studiato né deciso nulla sulla situazione giuri­dica dell’Opus Dei. Se proprio sembrava necessario, chiedeva che non fosse la Commissione a farlo, ma che si procedesse con giustizia e che fosse consentito all’O- pus Dei replicare a eventuali critiche o chiarire errori o interpretazioni difformi. Lo scritto si chiudeva con que­ste parole:

«Dichiaro, infine, che, se mi sono espresso con la mia consueta sincerità, l’ho fatto per il mio amore alla Santa Chiesa di Dio, per il mio amore e la mia lealtà al Som­mo Pontefice, per il mio desiderio di servire le anime — specialmente quelle che il Signore mi ha affidato, e che sono sparse in tutto il mondo —, e perché voglio salvare anche la mia anima. E tutto questo l’ho fatto, dopo aver pregato a lungo e con costanza, aver chiesto l’aiuto del­la Madre di Dio, ed alla presenza di Nostro Signore, rendendomi perfettamente conto della mia personale re­sponsabilità.

Roma, 16 settembre 1969»314.

Il Cardinale Jean Villot, Segretario di Stato di Sua Santità, il 9 ottobre ricevette il Fondatore e gli comu­nicò che la Commissione speciale aveva una finalità molto limitata, cioè di esaminare le Costituzioni degli Istituti Secolari formati da sacerdoti. Nel corso del col­loquio, il Cardinale gli fece anche capire che alcune

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espressioni del suo scritto erano dispiaciute al Santo Pa­dre, che disapprovava il richiamo ai diritti315. Non è escluso che il Cardinale, per la poca padronanza della lingua italiana o per aver voluto fare una sintesi sbriga­tiva, avesse interpretato o riferito male il pensiero del Papa. Tuttavia, ciò che disse causò un immenso dolore al Fondatore, che precisò, con molta calma:

«Eminenza, dica da parte mia al Santo Padre che non sono né Lutero né Savonarola; che accetto di tutto cuo­re le decisioni del Santo Padre e che scriverò una lettera per confermarmi completamente disponibile, nelle mani del Romano Pontefice, al servizio della Chiesa»316.

Due giorni dopo, l’i l ottobre 1969, scrisse dunque a Paolo VI, ringraziandolo per l’informazione ricevuta, attraverso il Segretario di Stato, sulla Commissione spe­ciale. Manifestava poi profondo dolore per averlo rat­tristato con il suo scritto, poiché aveva sempre conside­rato un titolo d’onore dimostrare la «lealtà di buon figlio della Chiesa, fedele al Santo Padre fino alla mor­te»317. Chiedeva dunque sinceramente perdono, ma ri­tornava sulla questione di fondo, affermando di voler deporre nelle mani del Papa la propria speranza che la questione istituzionale fosse risolta in modo definitivo. Per questo, nell’àmbito del Congresso Generale, avreb­be fatto un attento studio che rispecchiasse l’autentica realtà della vita e della fisionomia spirituale dell’Opus Dei, per potere poi «rimettersi serenamente al buon giu­dizio delle persone che l’illuminata prudenza di Sua Santità designerà per lo studio della nostra situazione giuridica»318.

Il 14 ottobre il Fondatore ebbe un colloquio con mons. Benelli, Sostituto alla Segreteria di Stato per gli Affari Ordinari. La conversazione fu «affettuosa e cor­diale», ed entrambi approfittarono «dell’occasione per esporre, con lealtà e sincerità cristiane, le rispettive informazioni e impressioni»319. Tuttavia, dal fatto che il Fondatore facesse il possibile per ottenere un nuovo in­

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contro con mons. Benelli, «per trattare con calma gli ar­gomenti che ci interessano»320, si può dedurre che non erano arrivati a chiarire tutti gli aspetti della questione.

* ì’r *

Negli ultimi mesi del 1969 e nei primi del 1970 si svolse­ro le Settimane di Lavoro, durante le quali i fedeli dell’O- pera furono informati dei temi studiati nella prima parte del Congresso; in particolare si trattò della necessità di ottenere una configurazione giuridica appropriata. Con grande ampiezza di vedute, il Fondatore invitò a collabo­rare a questo lavoro anche i membri più giovani dell’O- pera e persino i Cooperatori e altre persone che parteci­pavano alle attività apostoliche. Pertanto intervennero più di 50.000 persone, di 77 Paesi. In totale furono pre­sentate 54.781 comunicazioni, che vennero inviate a Ro­ma alle Commissioni del Congresso Generale321.

Il 1° aprile 1970 il Padre volle ricorrere ancora una volta all’intercessione della Madonna, facendo un pelle­grinaggio penitente in diversi santuari della Spagna e del Portogallo. A Madrid, all’inizio del viaggio, ebbe una piacevole sorpresa. L’immagine della Madonna di Torre- ciudad, di cui era stato da poco terminato il restauro, era stata momentaneamente portata nel Centro di via Diego de Leon. La prima e unica volta in cui il Padre l’aveva vi­sta era stato nel 1904, quando, a due anni d’età, dopo la sua sorprendente guarigione, i genitori lo avevano porta­to da Barbastro fino alla cappella di Torreciudad, per of­frirlo alla Vergine. Il Fondatore chiese perdono ad alta voce per ‘averla trascurata’ per... sessantasei anni:

«Perdonami, Madre mia! Avevo due anni e ora ne ho sessantotto. Che ingrato sono! Ma ti amo molto, con tutta l’anima. Sono molto felice di poterti baciare e di pensare alle migliaia di anime che ti hanno venerato e sono venute a dirti che ti amano, e alle migliaia di anime che verranno.

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Prima non me ne rendevo conto, ma ora mi sembri bella, bellissima e sento il bisogno di dirti che ti amo. Perdonami, ma sei tanto Madre che tu mi capisci se, non appena ti ho visto, invece di ringraziarti per il tuo affetto e la tua protezione, ho cominciato a chiedere. E ora ti ripeto che ti amo con tutta l’anima»322.

Si recò poi a Saragozza, al santuario del Pilar, dove, quando era seminarista, aveva pregato con insistenza per chiedere il compimento - Domina, ut sit! - di ciò che ancora ignorava.

Martedì 7 aprile si diresse verso il nord e i Pirenei. I paesaggi verso Barbastro ravvivavano tanti ricordi del­l’infanzia e memorie di storie locali: il vecchio castello di Montearagón, sede di re; Siétamo, il paese dove fino all’inizio del X X secolo si faceva il cambio dei cavalli della diligenza che collegava Barbastro con Huesca; il monastero di El Pueyo, in cima a una collina, che gli abitanti di Barbastro avevano acquistato negli anni del­la alienazione dei beni di manomorta per restituirlo alla Chiesa... Il Padre non volle fermarsi a Barbastro. Aveva fretta di arrivare a Torreciudad per compiere la sua pro­messa di pellegrino.

Sulla strada, non asfaltata e con un fondo di ghiaia e pietrisco, era stato messo un cippo un chilometro prima della cappella della Madonna323. Il Padre volle prose­guire scalzo. Iniziò la recita del rosario, mentre comin­ciava a piovigginare. Camminò per quasi un’ora in testa al gruppo di persone che lo accompagnavano, recitandoil rosario ad alta voce. Dopo aver fatto sosta nella cap­pella, salì fino alla spianata dove stavano costruendo il santuario. Era un vasto spiazzo con uno scavo grande e profondo, destinato a ospitare la cripta con quaranta confessionali, e il Padre lo benedisse con grande fede324.

Ritornò a Madrid e pochi giorni dopo, il 13 aprile, partì per Fatima. Sulla strada che portava al santuario,lo aspettava un bel gruppo di suoi figli portoghesi. Co­me a Torreciudad, si scalzò e si avviò pregando fino alla

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cappella della Vergine. Qualcuno cercò di impedire al Padre di camminare a piedi nudi sul pietrisco:

«Ma che cosa avrò mai fatto? - protestò - Camminare scalzo! Ma se lo fa l’ultimo contadino, che va avanti per chilometri e chilometri senza farci caso. E io, che ho per­corso solo pochi metri, dovrei piuttosto vergognarmi!»325.

Era andato a Fatima per ringraziare, ma anche per pregare la Madonna, certo che, nella sua onnipotenza supplice, avrebbe ascoltato le sue preghiere. La pregava per la Chiesa, perché la liberasse dai suoi nemici, e pér l’Opera. Dimostrava comunque sicurezza e ottimismo: «Oggi, qui, più ottimista che mai».

La visita fu breve, ma la sua orazione era stata inten­sa; lo spiegava ai suoi figli al momento del commiato:

«Nei brevi momenti di colloquio con la Madonna, che ho vissuto in silenzio, ho cercato di dirle tutto quel­lo che porto dentro, tutte le preghiere di questi mesi e tutte le preghiere che i miei figli avranno fatto»326.

* *

Rientrò a Roma il 20 aprile. Ma una impetuosa forza interiore lo spingeva a proseguire il pellegrinaggio ma­riano. Il primo maggio decise di recarsi oltre Atlantico, al santuario messicano della Madonna di Guadalupe. Più grandi erano le difficoltà, più audace il suo amore.

Il 15 maggio 1970, accompagnato da don Àlvaro e da don Javier, atterrò in Messico. Data l’ora tarda, il san­tuario era chiuso. A Pedro Casciaro, che egli aveva mandato in Messico vent’anni prima, e agli altri che erano andati ad attenderlo all’aeroporto, disse: «Sono venuto a trovare la Madonna di Guadalupe e, visto che ci sono, anche a trovare voi»327.

Il suo primo incontro con la Vergine, nella basilica, fu di intensa contemplazione. Se ne stette un’ora e mezzo in ginocchio, assorto, affascinato, lo sguardo fisso sull’im­magine. La devozione dei fedeli che entravano e usciva­

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no dal tempio, alcuni trascinandosi sulle ginocchia e tut­ti con l’espressione supplice, ha la sua spiegazione nella storia dell’indio san Juan Diego. All’inizio di dicembre del 1531, costui udì una voce dolce che in lingua nabua- tl gli chiedeva dove andasse. Vide una Signora circonfusa di luce che espresse il desiderio che le venisse costruito un tempio proprio in quel luogo, poiché da quel santua­rio voleva spargere'i suoi favori sui popoli da poco usciti dal paganesimo. La storia racconta pure che il Vescovo di Città del Messico, Juan de Zumàrraga, non diede su­bito ascolto all’indio e, quando questi gli si presentò di nuovo con lo stesso messaggio, gli chiese delle prove. La Signora apparve allora a Juan Diego per la terza volta e fece fiorire miracolosamente un roseto, mettendo una bracciata di rose nella tilma, il mantello dell’indio. Quando questi si presentò dal Vescovo e aprì il mantello, le rose caddero per terra e il loro profumo riempì la stan­za, mentre sul tessuto del mantello apparve impressa l’ef­figie che si venera nel santuario.

Da una tribuna del tempio, alla stessa altezza dell’im­magine e al riparo da sguardi indiscreti, il Padre fece una novena. Mostrò umilmente a Maria le sue mani vuote:

«Non trovo in me virtù. Madonna, se tuo Figlio aves­se trovato uno straccio più sporco di me, non sarei io il Fondatore dell’Opus Dei»328.

L’unica sua credenziale, la migliore, era di essere figlio di una Madre tanto misericordiosa. Ricorreva alla Ver­gine con audacia, come un bambino che sa solo chiede­re, «come un bambino piccolo, convinto che i grandi debbono ascoltarlo»329.

Il Padre pregava insieme a tutti i suoi figli, a nome di tutti i fedeli dell’Opus Dei. «Imploriamo come un bam­bino piccolo, come una piccola famiglia, e voglio che l’Opera sia sempre così: una piccola famiglia molto uni­ta, anche se siamo sparsi dappertutto. E ti chiediamo pretendendo, fiduciosi nell’intercessione di tua Madre, sapendo che ci devi ascoltare»330.

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Era una orazione insistente, piena di audacia e di sem­plicità filiale:

«Madre, veniamo da Te; Tu ci devi ascoltare. Chie­diamo ciò che è utile per servire meglio la Chiesa, per conservare meglio lo spirito dell’Opera. Non puoi fare a meno di ascoltarci! Tu vuoi che si compia tutto quello che tuo Figlio desidera e tuo Figlio vuole che siamo san­ti, che facciamo l’Opus Dei. Ci devi ascoltare!»331.

Il Padre perseverava nella sua orazione, esigente, fidu­cioso, insistente, implorando che, per intercessione della Madonna di Guadalupe, andasse a buon fine la “ inten­zione speciale” che avrebbe modellato giuridicamente l’Opera in conformità con la sua realtà teologica. Era questo il motivo e la speranza del suo viaggio in Messico:

«Siamo venuti a chiederti, accanto a tua Madre, che tu porti a compimento il nostro cammino a coronamen­to della chiamata che abbiamo ricevuto»332.

Terminata la novena, si dedicò alla seconda parte del programma-, i suoi figli. «Figli miei - diceva loro -, non sono venuto in Messico per insegnare, ma per impara­re». Eppure insegnò, e molto, a gruppi numerosi di per­sone, dentro e fuori la capitale. Nel pomeriggio del 3 giugno andò nella valle di Amilpas, nello Stato di More- los, dove era stata ricostruita una grande chiesa in stile coloniale in una tenuta chiamata Montefalco, con una casa per ritiri e altre opere apostoliche promosse da membri delPOpus Dei, fra cui una scuola agraria e cen­tri di formazione per contadine. I lavoratori della zona accorsero numerosi per sentir parlare il Padre, che pre­dicava loro cose meravigliose:

«Nessuno vale più di un altro, nessuno! Siamo tutti uguali! Ognuno di noi vale il Sangue di Cristo. Non è meraviglioso? Non ci sono razze, non ci sono lingue. Non c’è che una sola razza: la razza dei figli di Dio»333.

I contadini di Montefalco pendevano dalle sue labbra, colpiti e commossi:

«Guardate il volto bellissimo, magnifico, che Maria

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Santissima ha lasciato nelle mani di Juan Diego, nel suo mantello. Vedete che ha lineamenti indios e lineamenti spagnoli. Perché c’è solo la razza dei figli di Dio»334.

Rientrò nella capitale, dove lo attendeva altro lavoro. Dal 9 al 17 giugno risiedette a Jaltepec, vicino al lago di Chapala. Un giorno, dopo aver intrattenuto un gruppo di sacerdoti, si ritirò affaticato in una stanza, per ripo­sarsi. Nella stanza c’era un quadro che ritraeva la Ma­donna di Guadalupe mentre dona una rosa a Juan Die­go. Lo fissò intensamente e disse qualcosa sottovoce. Il notaio Alberto Pacheco, che era presente, lo udì: «Vor­rei morire così: guardando la Santissima Vergine mentre Lei mi dà un fiore»335.

Il 22 giugno, vigilia della sua partenza dal Messico, andò ad accomiatarsi dalla Vergine di Guadalupe. Il santuario era stracolmo di fedeli dell’Opus Dei e di mol­te altre persone vicine agli apostolati dell’Opera. Uscì emozionato e con la certezza che la Madonna aveva ascoltato la sua preghiera fin dal 24 maggio, ultimo giorno della novena.

ir * 55-

A Roma, il 30 agosto 1970 riprese il Congresso Genera­le speciale. Nella seduta inaugurale, il Fondatore ri­cordò lo scopo della riunione, perché tutti fossero in perfetta sintonia con ciò che il Signore voleva, cioè che «lo spirito, la vita e le modalità dell’apostolato dell’O­pera trovino una adeguata e definitiva configurazione giuridica nel diritto della Chiesa»336.

Il lavoro delle Commissioni consisteva principalmente nello studio delle comunicazioni che le Assemblee regio­nali avevano inviato a Roma dopo le Settimane di Lavo­ro. Ma la revisione del diritto particolare dell’Opera ri­chiedeva l’impegno di specialisti, ragion per cui fu istituita una Commissione tecnica. La chiusura delle ses­sioni plenarie del Congresso ebbe luogo il 14 settembre,

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ma il Congresso restava aperto e le sue conclusioni sa­rebbero servite “per fondare e incanalare il lavoro ese­cutivo della Commissione tecnica”337.

La prima conclusione, approvata all’unanimità, diceva testualmente: “Pregano il Fondatore e Presidente Gene­rale dell’Opera perché, nel momento e nella forma che riterrà più opportuni, rinnovi davanti alla Santa Sede la sua umile e fiduciosa petizione perché si risolva definiti­vamente il problema istituzionale dell’Opus Dei”338.

Nelle note sciolte del Fondatore si legge una breve fra­se, scritta in anni lontani: «Corri più con la testa che con i piedi»339. Potrebbe essere il consiglio di non agire con precipitazione, oppure un appello a far collimare il pen­siero con le opere. Ma si potrebbe benissimo applicare alla situazione in cui si trovava la revisione istituzionale dell’Opus Dei. Dopo anni di attesa, sembrava che le cose fossero sul punto di andare a buon fine, salvo qualche ri­tocco di scarso rilievo. Tuttavia, attenendosi alla prima conclusione del Congresso Generale speciale, che lascia­va al suo criterio la scelta dei tempi e dei modi, il Fonda­tore ritenne più prudente aspettare tempi migliori.

Il cammino fondazionale, iniziato nel 1928, era ormai completato, anche se il Fondatore non avrebbe toccato la meta: sarebbe morto senza vedere l’Opus Dei eretto in Prelatura personale, sebbene ne avesse la certezza.

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NOTE AL CAPITOLO XXII

1 Alvaro del Portillo, Sum. 320.2 Del “minuto eroico” nel momento di svegliarsi, si parla in Cammino, n. 206.3 Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 320.4 José Luis Pastor, Sum. 6075.5 Cfr Rosalia Lopez Martinez, Sum. 7006; Carmen Ramos, Sum. 7365. La sua camera, riferisce mons. Javier Echevarrìa (cfr Sum. 3087), era molto calda d’estate e molto fredda d’inverno. Non se ne lagnò mai, perché vole­va evitare spese inutili. Nel 1964 si guastarono i tubi di scarico e per alcu­ni giorni nella stanza ci fu un odore terribile, ma il Fondatore non volle cambiare camera fino a quando, dopo parecchio tempo, il guasto non fu localizzato e riparato.6 Jesus Àlvarez Gazapo, RHF, T-15729, p. 5; cfr Javier Echevarrìa, Sum. 2733.7 Encarnación Ortega, Sum. 6329.8 Alvaro del Portillo, Sum. 332; Javier Echevarrìa, Sum. 2011.9 Amici di Dio, n. 87.10 Santiago Escrivà de Balaguer y Garcia Herrero, Sum. 7307.11 AGP, POI 1969, p. 304.12 Ibidem; cfr pure Javier Echevarrìa, Sum. 2013.13 Amici di Dio, n. 86.14 Negli ultimi vent’anni fu mons. Javier Echevarrìa a servire la Messa al Fondatore. Egli dichiara: “Per vent’anni l’ho osservato attentamente per imparare dalla sua pietà e non l’ho mai dovuto avvertire di qualche picco­lo difetto nel quale si incorre inconsciamente, come per esempio una dizio­ne troppo rapida, una posizione sbagliata, una genuflessione troppo preci­pitosa, o la distrazione di non guardare Gesù Sacramentato” (Sum. 2014). Mons. Juliàn Herranz testimonia a sua volta: “Nei ventidue anni in cui so­no vissuto con lui, ho avuto molte occasioni di ascoltare la sua Messa, di servirgliela e, a volte, di concelebrare con lui. Era esattissimo nell’osservan­za delle rubriche. Sono sempre rimasto profondamente colpito dalla gran­

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de pietà, dal profondo raccoglimento e dall’amorevole delicatezza con cui rinnovava il Santo Sacrificio. Ricordo perfettamente la pacatezza con cui leggeva i testi liturgici, l’atteggiamento contrito con cui recitava la preghie­ra penitenziale, il tremore che coglievo nelle sue dita quando si purificava nel lavabo o presentava all’adorazione l’Ostia e il Calice dopo la consacra­zione; la profonda adorazione che accompagnava la sua lenta genuflessio­ne dopo l’ostensione delle sacre Specie. Tutti i suoi movimenti erano im­prontati a solennità e naturalezza. Tutto faceva capire con quale amore e spirito di preghiera viveva ogni momento della Messa” {Sum. 3876).15 Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 338.16 Alvaro del Portillo, Lettera 30-IX-197S, n. 29.17 Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 321.18 Cfr Bianca Fontàn, RHF, T-06210.19 Cfr Javier Echevarria, Sum. 2012.20 Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 322.21 Cfr Mercedes Morado, RHF, T-07902, p. 81.22 “Poni, Signore, una custodia alla mia bocca” (Sai 140, 3).23 Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 322; Javier Echevarria, Sum. 3070.24 Cfr Dora del Hoyo, Sum. 7041; Javier Echevarria, Sum. 3070.25 Cfr Javier Echevarria, Sum. 3064.26 Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 325; Joaqum Alonso, Sum. 4690.27 Javier Echevarria, Sum. 2558. Scrisse a uno dei suoi figli: «Quando sei stanco, pensa che il lavoro, il troppo lavoro, per noi che siamo figli di Dio nel suo Opus Dei, è una malattia incurabile. Sorridi e dà ad altri questo buono spirito» (Lettera a Jesus Urteaga, EF-640510-5).28 Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 325.29 Mons. Alvaro del Portillo riferisce un esempio di eroico distacco, acca­duto verso il 1942. Una ragazza, che desiderava entrare in convento e non aveva la dote, andò dal Fondatore in via Diego de Leon. Don Josemaria chiamò Isidoro Zorzano, che era l’amministratore, e fece consegnare alla ragazza tutto il denaro che aveva in cassa (cfr Sum. 299).30 Lettera, in EF-630522-1.31 Lettera a Fiorendo Sànchez Bella, in EF-661110-1.32 Lettera, in EF-661220-5.33 Lettera a Mercedes Morado, da Elorrio (Spagna), in EF-640722-2.34 Lettera ad Andrés Rueda Salaberry, in EF-620611-1.35 Lettera all’Autore, in EF-631218-1.36 Lettera a Juan Bautista Torello, in EF-601100-3.37 Lettera a Jesus Urteaga, in EF-611207-1.38 Lettera a Lorenzo Martin Nieto, in EF-640611-1.39 Cfr Javier Echevarria, Sum. 2353.40 AGP, POI X-1958, p. 65.41 Cfr Javier Echevarria, Sum. 2354.42 Quando era Patriarca di Venezia, il Cardinale Roncalli fece un pellegri­naggio in Spagna e a Santiago di Compostella visitò la Residenza La Estila, diretta da membri dell’Opus Dei. Impressionato da ciò che vide, scrisse sul libro delle firme una frase eloquente: “23-VII-1954. + Angelo Giuseppe,

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Cardinale Roncalli, Patriarca di Venezia. Obbedienza, allegria e pace” . Vi­sitò anche la Residenza universitaria Miraflores, a Saragozza.43 Nel Motu proprio Superno Dei nutu (5-VI-1960), che costituiva le Com­missioni preconciliari, si legge: “Riteniamo ispirazione dell’Altissimo l’idea di convocare un Concilio Ecumenico, che fin dall’inizio del nostro Pontifi­cato si presentò alla nostra mente come fiore di inattesa primavera” . Nella Costituzione Apostolica di convocazione del Concilio (.Humanae salutis, 25-XII-1961), il Santo Padre scrisse che “accogliendo come venuta dall’al­to una voce intima del Nostro spirito, abbiamo ritenuto essere ormai ma­turi i tempi per offrire alla Chiesa cattolica e al mondo il dono di un nuovo Concilio Ecumenico” .44 Àlvaro del Portillo, Sum. 946.45 Cfr Bolla Humanae salutis (25-XII-1961), n. 16.46 Cfr Giacomo Barabino, Sum. 4526. Mons. Barabino, allora segretario del Cardinal Siri, conobbe il Fondatore all’inizio del Concilio.47 Humanae salutis, n. 18.48 II Fondatore, “con il gran desiderio di assecondare la volontà del Papa” , scrisse “a tutti i suoi figli, chiedendo di raddoppiare la preghiera per la per­sona e le intenzioni del Papa, affinché lo Spirito Santo, attraverso Maria Santissima, effondesse le sue grazie per il successo dell’iniziativa” (Ignacio Celaya, Sum. 5926). “Il Fondatore inviò una nota circolare a tutti i Centri, chiedendo di pregare offrendo ogni giorno una parte del Rosario, la S. Messa, qualche mortificazione e tutto ciò che la pietà di ognuno avesse suggerito, perché lo Spirito Santo illuminasse il Papa e i suoi diretti colla­boratori” (Ernesto Julià, Sum. 4142).49 Lettera a mons. Loris Capovilla, da Londra, in EF-620925-1. Mons. Ca­povilla era segretario del Santo Padre dal 1961. Nel 1967 fu nominato e consacrato Arcivescovo di Chieti. Le lettere tra il Fondatore e gli organismi e le persone della Santa Sede sono redatte in italiano.50 Lettera a mons. Loris Capovilla, in EF-621125-1.51 Lettera 24-X-1965, n. 4.52 Cfr Àlvaro del Portillo, Sum. 947.53 Cfr Javier Echevarria, Sum. 2456.54 Cfr Àlvaro del Portillo, Sum. 949; Juliàn Herranz, Sum. 3932.55 Altri membri dell’Opus Dei collaborarono alla preparazione e allo svolgi­mento del Concilio: per esempio don Juliàn Herranz, che fu Ufficiale della Commissione per la disciplina del clero e del popolo cristiano e della Com­missione pontificia per la revisione del Codice di Diritto Canonico; mons. Salvador Canals, Prelato Uditore della Sacra Romana Rota, che lavorò co­me Perito in diverse Commissioni conciliari. Altri, professori di Teologia e Diritto canonico, come don Amadeo de Fuenmayor, don Xavier de Ayala eil professor Pedro Lombardia, collaborarono nell’applicazione delle norme del Concilio. Cfr Àlvaro del Portillo, Sum. 954. Il Fondatore, rispondendo il28 giugno 1960 a una richiesta ufficiale del Cardinale Tardini, elencò dodi­ci membri dell’Opus Dei fra i quali scegliere qualcuno da far lavorare nelle Commissioni preparatorie del Concilio (cfr Lettera, in EF-600628-1).56 Cfr Àlvaro del Portillo, Sum. 953-954. Il 21 marzo 1961 il Fondatore fu

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nominato Consultore della Commissione pontificia per l’interpretazione autentica del Codice di Diritto Canonico (RHF, D-15103).57 Per esempio, il 1° marzo 1963 don Àlvaro del Portillo, Segretario della Commissione conciliare per la disciplina del clero e del popolo cristiano, chiese ufficialmente al Fondatore un voto su temi da inserire nel manuale per i parroci e nel Direttorio catechistico (cfr RHF, D-15263, dove è ripor­tata anche la risposta, datata 5 marzo 1963).58 Cfr Javier Echevarrìa, Sum. 2354.59 Cfr Àlvaro del Portillo, Sum. 950.60 Colloqui, n. 22.61 Fin dai primi tempi dell’Opera, il Fondatore desiderava svolgere un in­tenso apostolato ad fidem. Quando chiese alla Santa Sede di poter ammet­tere come cooperatori dell’Opus Dei persone non cattoliche, la risposta fu negativa, perché nessuno aveva mai chiesto una cosa simile. “Monsignore, lei chiede sempre cose nuove!” , gli dissero. Egli tornò a insistere e gli fu ri­sposto con un dilata. Il dilata - diceva il Fondatore - «è una formula mol­to saggia trovata dalla Curia romana per dire che uno la ragione ce l’ha, ma loro non possono dargliela» (Javier Echevarrìa, Sum. 2145). Il Padre lasciò passare del tempo e nel 1950, in occasione dell’approvazione defini­tiva degli Statuti, vi inserì la figura dei cooperatori non cattolici (cfr Àlvaro del Portillo, Sum. 541-542; Joaqum Alonso, Sum. 4676; Mario Lantini, Sum. 3582). I cooperatori, che non sono membri dell’Opus Dei, collabora- no alle iniziative apostoliche con la preghiera e le elemosine e spesso con il loro lavoro. Questa “realtà di spirito e di fatto” fu approvata dalla Santa Sede nel 1950. Il Fondatore scrisse ai suoi figli: «Protestanti di varie con­fessioni, ebrei, maomettani, pagani, grazie alla nobile amicizia con una mia figlia o un mio figlio, cominciano a partecipare alle iniziative di apostola­to. Hanno così l’occasione di conoscere progressivamente la ricchezza del­la dottrina cristiana. A diversi di loro il Signore darà la grazia della fede, premiando così la loro buona volontà, dimostrata nella leale collaborazio­ne a opere di bene» (Lettera 12-XII-1952, n. 33).62 Di questa lettera (in EF-620712-1) inviò copia al Segretario del Papa, mons. Capovilla, sperando che la facesse giungere al Santo Padre, affinché potesse constatare l’affetto che nutrivano per lui i fedeli dell’Opus Dei (cfr Lettera, in EF-620716-1).63 Lettera, in EF-620630-1.64 Lettera, in EF-620721-1. La corrispondenza del Fondatore con mons. Capovilla (dieci lettere in dieci mesi) è abbondante. Alcune lettere si riferi­scono all’invio di fotografie con dedica di Giovanni XXIII, che il Fondatore chiese per tutti i Centri dell’Opera; altre riguardano la collocazione, per ini­ziativa del Papa, di due lapidi commemorative della visita dell’allora Cardi­nale Roncalli alle Residenze universitarie di Saragozza e di Santiago di Compostala. Cfr Lettere, in EF-620802-1, da Londra; in EF-621125-1, ecc.65 Lettera, in EF-620925-1. Sul colloquio, cfr EF-621125-1.66 Lettera, in EF-621200-1.67 Lettera, in EF-630428-1.68 Telegramma a mons. Amleto Giovanni Cicognani, in EF-630621-1. Circa

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la visione di fede del Fondatore, mons. Giovanni Cheli racconta che, duran­te il periodo di sede vacante, ebbe a fare alcune ipotesi sul possibile succes­sore di Giovanni XXIII. Mons. Escrivà troncò immediatamente il discorso dicendo: «Anche se l’eletto venisse da una tribù di selvaggi, con gli anelli al naso e alle orecchie, mi butterei subito ai suoi piedi e gli direi che tutta l’O­pera è al suo incondizionato servizio» (Giovanni Cheli, Sum. 5256).69 Lettera, in EF-630624-1.70 Lettera a mons. Leopoldo Eijo y Garay, in EF-630618-1.71 Lettera a mons. José Maria Garcia Lahiguera, da Parigi, in EF-630902-1.72 Lettera, in EF-640124-1. Il Papa, che durante l’udienza si era interessato della situazione giuridica dell’Opus Dei, chiese al Fondatore una copia del Codex. Pochi giorni dopo, il 14 febbraio, il Padre, tramite mons. Dell’Ac­qua, gliela inviò con una lettera di accompagnamento e con un documento sullo spirito dell’Opus Dei (De spiritu), un Appunto sintetico su natura, spirito e configurazione giuridica dell’Opera, e la lettera del Fondatore ai membri dell’Opus Dei sulla questione istituzionale dell’Opera (in EF- 581002-1), il cui testo completo è in Amadeo de Fuenmayor e altri, op. cit., Appendice documentale, doc. 40, pp. 792-795. Cfr Lettera a S.S. Pao­lo VI, in EF-640214-2.73 Lettera, in EF-640205-1.74 Cfr Lettera a S.S. Paolo VI, in EF-640614-1.75 Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 568; e anche Javier Echevarrìa, Sum. 2538.76 Cfr Autografo di S.S. Paolo VI al Fondatore dell’Opus Dei, l-X-1964, in RHF, D-15239.77 Lettera a Florencio Sànchez Bella, in EF-641024-2.78 Cfr Àlvaro del Portillo, Sum. 956.79 Ignacio de Orbegozo, Sum. 7283.80 Cfr Giacomo Barabino, Sum. 4524.81 Cfr Fernando Valenciano, Sum. 7119.82 Joaqum Mestre Palacio, Sum. 6534. Un altro teste parla di “un numero impressionante di Cardinali, Arcivescovi e Vescovi, provenienti da ogni parte” (Juan Udaondo, Sum. 5045).83 Cardinale Francois Marty, Lettera postulatoria a S.S. Giovanni Paolo II, Parigi 8-1-1979.84 Juliàn Herranz, Sum. 3933. Durante l’incontro qualcuno osservò anche che la missione propria dei laici è ordinare le strutture secolari secondo il volere divino. Il Fondatore aggiunse: «Sì, ma prima devono essere loro ben ordinati dentro: essere uomini e donne di profonda vita interiore, anime di orazione e di sacrificio. Se no, invece di ordinare le realtà familiari e socia­li, porteranno in esse il proprio disordine personale» (ibidem).85 Juan Hervàs Benet, in Un santo per amico, op. cit., p. 172.86 Cfr Ignacio Celaya, Sum. 5927.87 Oltre a una profonda fede nell’azione dello Spirito Santo nel Concilio, aveva un acuto senso teologico e capacità di discernimento. Mons. Rolf Thomas testimonia che, dopo aver visto una trasmissione televisiva sui te­mi dibattuti nel Concilio, alla quale partecipava il professor Hans Kung, il Fondatore ne ebbe una penosa impressione e la commentò in tono addolo­

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rato. Aveva già intuito ciò che sarebbe successo in seguito (cfr Sum. 7700).88 Lettera 2-X-1963, n. 1.89 Cfr Joaqum Alonso, Sum. 4705. La stampa e gli altri mezzi di comunica­zione spiegarono gli interventi dei Padri conciliari in termini di contrappo­sizione, dividendoli grossolanamente in due fazioni in lotta fra loro: pro­gressisti o integralisti; buoni o cattivi; ciechi difensori del dogma o favorevoli alla sua revisione. “Non c’è da meravigliarsi che, nelle ultime sessioni conciliari, molti interventi e atteggiamenti dei Padri furono condi­zionati, molto più di quanto essi stessi immaginassero” (Louis Bouyer, Cat­tolicesimo in decomposizione, Brescia 1969, p. 22).90 Lettera 14-11-1964; Lettera 15-VIII-1964.91 Lettera 15-VIII-1964, n. 10. La lettera di febbraio era rivolta in partico­lare agli studiosi di scienze filosofiche e teologiche. Il Fondatore vi ricorda­va il principio di «sentire sempre con la Chiesa di Cristo». Favoriva anche la libertà della ricerca, senza altri limiti che quelli indicati dal Magistero della Chiesa, e consigliava ai suoi figli di difendere sempre l’autorità del Romano Pontefice e di rifuggire «prudentemente da ogni estremismo e dal­lo smodato desiderio di novità. Si attengano a ciò che è più sicuro; preferi­scano sempre ciò che meglio corrisponde alla Tradizione» (Lettera 15- V1II-1964, nn. 12-13).92 Lettera 15-VIII-1964, n. 56.93 Angelo Dell’Acqua era nato a Milano il 9-XII-1903. Ordinato sacerdoteil 9-V-1926, fu consacrato Vescovo il 27-XII-1958 e il 17-11-1963 nomina­to Sostituto della Segreteria di Stato per gli Affari ordinari. Creato Cardi­nale da Paolo VI il 26-VI-1967, fu nominato Vicario per la Diocesi di Ro­ma il 13-1-1968. Morì il 27-VIII-1972. Mons. Dell’Acqua ebbe occasione di confidare al Fondatore “la grande preoccupazione che il Santo Padre Paolo VI nutriva a motivo dei problemi che si stavano manifestando nel Concilio e che portava continuamente questa situazione alla sua orazione personale e chiedeva consiglio a molti suoi collaboratori perché gli manife­stassero la loro opinione sull’opportunità di accelerare i lavori conciliari e di concluderlo” (Javier Echevarria, Sum. 2466; cfr pure Àlvaro del Portil­lo, Sum. 958).94 Lettera, in EF-640423-2. Nella stessa data (Lettera, in EF-640423-1) il Fondatore scriveva a mons. Angelo Dell’Acqua: «Allego una lettera per il Santo Padre, dettata solo dall’amore che ho per la Santa Chiesa e per il Ro­mano Pontefice. Mi attengo comunque al di lei miglior parere», perché fosse consegnata o meno al Papa. “Questa corrispondenza - dichiara mons. Àlvaro del Portillo - non era solo il risultato della stretta amicizia che li univa, ma veniva incoraggiata in questo senso dallo stesso Santo Pa­dre” (Sum. 957). Si può affermare che in quel momento la crisi ecclesiale era già in atto. Un celebre storico della Chiesa, Hubert Jedin, in un primo tempo restio ad ammetterlo, avrebbe affermato: “La crisi era presente, ori­ginata da chi non era soddisfatto delle conclusioni del Concilio, ma le ve­deva come la raffica iniziale destinata a scatenare innovazioni radicali che, nelle intenzioni, avrebbero dovuto vanificare i decreti del Concilio” (Storia della mia vita, Brescia 1987, p. 324). Qualche altro autore, come il filosofo

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francese Jacques Maritain, riteneva che la crisi esistesse già prima del Con­cilio, sotto forma di apostasia immanente (intenzionata, cioè, a rimanere all’interno della Chiesa). Durante il Concilio essa cominciò ad affiorare, sotto la spinta manipolatrice dei mezzi di informazione, come un crescente malessere di fondo, rivolto a diffondere l’idea della necessità di ‘cambia­menti’ nella Chiesa, invocati in nome del cosiddetto ‘spirito del Concilio’ (cfr Jacques Maritain, Il contadino della Garonna, Brescia 1969, p. 16).95 Lettera 24-X-1965, n. 73.96 Dalla prima richiesta della Segreteria di Stato in merito al progetto di Giovanni XXIII, fino al 1965, anno dell’inaugurazione, il Fondatore do­vette fare e chiedere molti sacrifici. Per realizzare un’attività sociale di tale portata servivano molte persone e per trovarle l’Opera, soprattutto in Ita­lia, dovette rinunciare ad altre attività apostoliche e chiedere maggior im­pegno di tempo e di lavoro a tante persone (cfr Umberto Farri, Sum. 3421; Teresa Acer bis, Sum. 4962). Il progetto comprendeva il Centro ELIS pro­priamente detto, con una residenza, un centro di formazione professionale (meccanica, elettronica, saldatura, ecc.), biblioteca, strutture sportive, cor­si di educazione familiare, ecc.; la Scuola Alberghiera Femminile Interna­zionale (SAFI), con le attività collegate; la chiesa parrocchiale di S. Giovan­ni Battista al Collatino, affidata a sacerdoti dell’Opus Dei.97 Cfr Alvaro del Portillo, PR, p. 988; Javier Echevarria, Sum. 2358. Molti Cardinali e Vescovi, trovandosi in quei giorni a Roma, visitarono il Centro e la Scuola per ispirarsi ai metodi di formazione umana e cristiana in vista di future iniziative sociali apostoliche nelle loro diocesi (cfr Teresa Acer bis, Sum. 4964).98 L'Osservatore Romano, 22/23-XI-1965.99 Fernando Valenciano, Sum. 7109; Javier Echevarria, Sum. 2359. Il Fon­datore si emozionò tanto per l’incontro con il Papa che, nei giorni successi­vi, lo affermò più di una volta: «Ero molto emozionato. Mi sono sempre emozionato, con Pio XII, con Giovanni XXIII e con Paolo VI, perché ho fede» (Alvaro del Portillo, Sum. 786). Mons. Francesco Angelicchio riferi­sce che il Fondatore, pur essendo abituato a parlare in pubblico, nel dare il benvenuto al Papa non riusciva quasi a controllare la voce e a impedire che gli tremassero i fogli in mano (cfr Sum. 3518).100 Cfr Javier Echevarria, Sum. 3081.101 Lettera, in EF-660310-1.102 Cfr Javier Echevarria, PR, p. 1893.103 Lettera, in EF-660421-2. In Grecia aveva acquistato una piccola icona che, come dimostrazione di affetto filiale, fece arrivare a Paolo VI attraver­so mons. Dell’Acqua (cfr ibidem).104 Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 846.105 La nota Lavoro apostolico in Grecia fu allegata a una lettera a mons. Angelo Dell’Acqua (in EF-660428-1). Sono particolarmente interessanti alcuni punti: «Ciò che mi è parso determinante, ai fini della possibilità di un’azione apostolica, è stata la constatazione della strettissima connessione fra il potere temporale e l’autorità religiosa ortodossa: fino al punto che sono rimasto convinto che uno straniero che cercasse di diffondervi la dot­

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trina cattolica correrebbe il rischio di essere tacciato di attentatore all’unità del Paese. Per questo ritengo che l’unica via possibile per svolgervi l’apo­stolato sia quella di formare nel migliore dei modi - fuori dalla Grecia — cittadini cattolici del Paese. E che costoro, quando ritornino nella propria Nazione, sappiano procacciarsi la fiducia e la stima dei loro compatrioti e concittadini, per l’esempio di sincero amore alla Patria che daranno, per il prestigio professionale che si guadagneranno, e per lo spirito di leale com­prensione e di dialogo».106 Lettera, in EF-660310-2.107 Cfr Lettera a mons. Marcelino Olaechea, in EF-660321-1.108 Cfr Gravissimum educationis, nn. 10 e 11.109 Cfr RHF, D-15291. La lettera era firmata da quattro Prelati: l’Arcive­scovo di Pamplona e i Vescovi di Jaca, di San Sebastiàn e della diocesi di Calahorra, La Calzada e Logrono.110 Cfr Lettera a S.S. Paolo VI, in EF-660421-1.111 Cfr Lettera alla Sacra Congregazione per i Seminari e le Università, re­lativa all’erezione canonica di una Facoltà di Teologia a Pamplona, del 16- V-1966, in RHF, D-15293.112 Cfr Nota allegata alla lettera a mons. Angelo Dell’Acqua, in EF- 661205-3.113 Cfr Lettera a mons. Gabriel Marie Garrone, Pro-Prefetto della Sacra Congregazione per i Seminari e le Università, in EF-661227-1.114 Lettera della Sacra Congregazione per i Seminari e le Università del 16 marzo 1967, in RHF, D-15295.115 Lettera, in EF-670302-1.116 Lettera a Santiago Escrivà de Balaguer e a Gloria Garcia-Herrero, in EF-660717-2.117 Lettera ai suoi figli del Consiglio Generale, in EF-640815-1.118 Lettera a Santiago Escrivà de Balaguer e a Gloria Garcia-Herrero, in EF-650915-1. Il programma per il periodo estivo prevedeva la preparazio­ne per la stampa di alcune lunghe lettere e delle ultime Istruzioni sullo spi­rito e gli apostolati delPOpus Dei. «Era ora! - scrisse -. Invece la quarta edizione del Catechismo dell’Opera è rimandata. Pazienza, sarà forse la strenna di fine anno. Sono tutti sovraccarichi di lavoro e non si può suona­re le campane e andare in processione» (Lettera a Florencio Sànchez Bella, in EF-650525-2).119 Lettera, in EF-660817-2. «Sono sicuro - gli scrisse pure - che, con la grazia di Dio e l’aiuto della sua Santissima Madre, Lei e io e i molti santi RR. Padri gesuiti (...) riusciremo a fare in modo che la carità di Cristo ri­splenda sempre, senza eccezioni». Rispondeva a una lettera del 27 luglio di p. Pedro Arrupe, che dice: “Stimatissimo mons. Escrivà, mi è giunta la sua lettera del 26 giugno scorso e la prego di scusare il ritardo con cui le ri­spondo, ma cominciavo in quei giorni gli Esercizi Spirituali e volevo inoltre avere l’occasione di trasmettere al Superiore di p. Zeigler la sua richiesta, affinché lo richiami in merito a quanto Ella mi indicava nella sua lettera. Non occorre che le dica, monsignore, quanto mi dispiaccia questo genere di atteggiamenti da parte di membri della Compagnia, che vorrà conside­

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rare come imprudenze personali, ben lungi dal rappresentare la grande sti­ma e apprezzamento che la Compagnia di Gesù ha per lo spirito e le opere dell’Opus Dei. Si avvicina ormai la nostra Congregazione Generale, nella sua seconda Sessione, e spero che pregherà per noi in modo speciale in questo tempo, perché tutte le questioni e gli studi che vi si svolgeranno so­no di grande importanza e responsabilità. La ringrazio molto per i suoi au­guri per il mio onomastico e per le sue preghiere. Con sincero affetto” (RHF, D-30804).120 Cfr Lettera a mons. Pedro Cantero, in EF-661015-1.121 Cfr El Noticiero Universal, Barcellona, 8-X-1966.122 Discorso dell’Ecc.mo e Rev.mo Mons. Josemana Escrivà davanti al Consi­glio comunale di Barcellona, in ringraziamento per la sua nomina a Figlio Adottivo della Città, 7-X-1966, Barcellona 1966. Il discorso è riportato anche in Laureano López-Rodó, Memorias, voi. II, Barcellona 1991, pp. 86 e ss.123 Lettera a Eduardo Ortiz de Landàzuri, in EF-661015-2.124 RHF, D-15111. Storia clinica del periodo compreso fra il 26-IX-1966 eil 10-111-1972.125 Lettera 25-V-1962, n. 92.126 Quando, l’8 dicembre 1962, Giovanni XXIII annunciò che il nome di S. Giuseppe, patrono del Concilio, sarebbe stato incluso nel canone della Mes­sa, il Cardinale Larraona telefonò subito al Fondatore: “Rallegramenti!” . Era sicuro infatti che avrebbe accolto con grande gioia la notizia, per la sua devozione al santo Patriarca, protagonista efficace della vita nascosta di Ge­sù (cfr È Gesù che passa, n. 44). “Quante volte, durante l’approvazione dei documenti del Concilio, sarebbe stato giusto parlare con il Fondatore del­l’Opus Dei e dirgli: Rallegramenti, perché ciò che le sta a cuore, ciò che lei ha insegnato instancabilmente dal 1928, è stato solennemente proclamato dal Magistero della Chiesa!” (Alvaro del Portillo, Mons. Escrivà de Bala- guer, testigo del amor a la Iglesia, Madrid 1976, p. 8).127 Lettera 24-111-1930, n. 2. Ecco, fra molti altri, un testo del 1939: «Hai l’ob­bligo di santificarti. Anche tu. Chi pensa che la santità sia un impegno esclusi­vo di sacerdoti e di religiosi? A tutti, senza eccezione, il Signore ha detto: ‘Siate perfetti, com’è perfetto il Padre mio che è nei cieli’» (Cammino, n. 291).128 Lettera 11-111-1940, n. 11.129 “Considerava la santa Messa, lo scrisse e lo ripetè molte volte, centrum et radix vitae interioris, parole che si ritrovano ad litteram nel Decreto conciliare Presbyterorum Ordinis, n. 14” (Juliàn Herranz, Sum. 3876). Cfr omelia pronunciata il 14-IV-1960, in È Gesù che passa, n. 87; e Lettera 28-111-1955, n. 5.130 Lettera 9-1-1932, n. 32.131 Colloqui, 26.132 Ibidem, 55.133 Ibidem, 72. Sul riconoscimento da parte di eminenti personalità eccle­siastiche della figura di mons. Escrivà come precursore del Vaticano II, cfr Card. Sebastiano Baggio (Avvenire, Milano, 26-VII-1975); Card. Joseph Frings (Fiir die Menschen bestellt, Erinnerungen des Alterzbishofs von Kòln, Colonia, 1973, pp. 149-150); Card. Franz Kònig (Corriere della Se­

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ra, Milano, 9-XI-1975). Il Card. Sebastiano Baggio affermò: “La vita, l’o­pera e il messaggio di mons. Escrivà, come ebbi occasione di scrivere subi­to dopo la sua morte, costituiscono una svolta o, più esattamente, un capi­tolo nuovo e originale nella storia della spiritualità cristiana, se la si pensa come un cammino rettilineo sotto la guida dello Spirito Santo (...). Solo il tempo permetterà di valutare tutta la portata storica del suo insegnamento, sotto tanti aspetti autenticamente rivoluzionario e anticipatore del messag­gio solennemente proclamato dal Concilio Vaticano II, proprio in quella che può definirsi come la sua essenza: la chiamata universale alla santità” (Sum. 5259). Anche il Santo Padre Giovanni Paolo II ha riconosciuto pub­blicamente il Fondatore dell’Opus Dei come precursore del Concilio a pro­posito della teologia del laicato, che ha caratterizzato la Chiesa del Vatica­no II e del post-Concilio (cfr L'Osservatore Romano, 20-21 agosto 1979). In tempi più recenti, in occasione del Congresso teologico di studi sugli in­segnamenti di Josemaria Escrivà svoltosi nell’Ateneo Romano della Santa Croce (12-14 ottobre 1993), il Papa ricevendo i partecipanti affermò che “l’azione dello Spirito Santo ha come finalità il costante rinnovamento del­la Chiesa, affinché possa adempiere con efficacia la missione che Cristo le ha affidato. Nella storia recente della vita ecclesiale, questo processo di rinnovamento ha un punto di riferimento fondamentale: il Concilio Vatica­no II (...). La profonda consapevolezza che la Chiesa attuale ha di essere al servizio di una redenzione che riguarda tutte le dimensioni dell’esistenza umana, fu preparata, sotto la guida dello Spirito Santo, da un graduale progresso intellettuale e spirituale. Il messaggio del Beato Josemaria, al quale avete dedicato le giornate del vostro congresso, costituisce uno degli impulsi carismatici più significativi in questa direzione” (L'Osservatore Romano, 22 ottobre 1993).134 Lettera 24-X-1965, n. 4.135 Cfr Rolf Thomas, Sum. 7702; Lettera 2-X-1963, n. 18.136 £fr pranz Kònig, Sum. 5254; Ignacio Maria Orbegozo, Sum. 7284; Àlvaro del Portillo, Sum. 964; Francesco Angelicchio, Sum. 3527.137 Cfr Giuseppe Molteni, PR, p. 709; Umberto Farri, Sum. 3392; Pedro Casciaro, Sum. 6315.138 Lettera 15-VIII-1964, n. 19. “Per quanto concerne la riforma liturgica, accettò le successive disposizioni della Santa Sede, dimostrando però una prudenza lungimirante nel distinguere tra lo spirito del Concilio e i chiari abusi verificatisi nella celebrazione della santa Messa e nella traduzione dei testi liturgici” (Joaqum Alonso, Sum. 4705). Circa il clima intollerante del­l’epoca è significativo il racconto del teologo Louis Bouyer, membro di una Commissione liturgica e incaricato con un’altra persona di tradurre in francese il canone romano della Messa. Fu loro indicato di evitare l’uso di alcune parole, come ‘oblazione’, ‘sacrificio’, ‘immolazione’, ecc. e, a segui­to delle loro proteste, furono sostituiti nell’incarico (cfr Le métier de théo- logien, Parigi 1979, p. 79).139 Lettera a Florencio Sànchez Bella, in EF-641024-2. Mons José Maria Garcfa Lahiguera ricorda quanta fatica costò al Fondatore celebrare la Messa secondo il nuovo rito: “Aveva sempre posto tale intensità nella cele­

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brazione della santa Messa, che persino la rubrica più insignificante aveva per lui un valore enorme (...). La devozione che metteva nella celebrazione era così straordinaria che, sull’altare, sembrava trasfigurarsi. Di conse­guenza, il più piccolo cambiamento lo poteva distrarre e questo gli causava una grande sofferenza” (José Maria Garcia Lahiguera, in Un santo per amico, op. cit., p. 147).140 Lettera a Fiorendo Sànchez Bella, in EF-650409-2.141 Cfr ibidem; cfr anche Joaqum Alonso, Sum. 4705.142 Colloqui, 23.143 Cfr Rolf Thomas, Sum. 7702.144 Vincenzo Montillo, PR, p. 1013. “L’arbitraria distinzione tra cattolici progressisti e integralisti lo rattristava, perché la considerava una prova evidente della perdita del senso profondo dell’unità e della carità cristiana e un sintomo della mancanza di visione soprannaturale nell’affrontare le questioni dottrinali e morali” (Joaqum Alonso, Sum. 4705). Sulla posizio­ne del Fondatore - né progressista né integralista - in epoche storiche mu- tevoli, scrive p. Ambrogio Eszer, O.P., Relatore Generale della Congrega­zione per le Cause dei Santi: “Dal punto di vista ecclesiale, Josemarìa Escrivà inizia a operare in una situazione nella quale le risposte pastorali tradizionali cominciavano a dare i primi segni di inadeguatezza di fronte alla grande sfida dell’umanesimo ateo o agnostico. Negli ultimi anni assiste alla crisi di delusione di coloro che avevano cercato di superare Y impasse preconizzando l’adattamento della Chiesa al mondo. Neppure qui la sua risposta cambia col tempo e, con il suo stile diretto caratteristico, appare perfettamente adeguata alle nuove esigenze. È il ritorno a un cristianesimo radicale, cristocentrico e teocentrico, centrato sull’affermazione del prima­to della grazia, della comunione di vita con Cristo mediante l’orazione e i sacramenti, che generano l’uomo nuovo e lo trasformano in testimone di Cristo nel proprio ambiente professionale” (Ast le vieron. Testimonios so- bre Mons. Escrivà de Balaguer, Madrid 1992, p. 69).145 Lettera 19-111-1967, 1. Sull’espressione fortes in fide (1 Pt 5,9), cfr Let­tera 2-X-1963, n. 8.146 Lettera 19-111-1967, 3. La lettera è un ripasso, sommario ma completo, delle verità fondamentali, a partire dal commento al Credo della Chiesa.147 Ibidem, nn. 149 e 150.148 Joseph Hòffner, Sum. 3763. Riflettendo sulla portata storica del Vatica­no II, Maritain descrive la situazione nell’epoca postconciliare con una feli­ce immagine. La Chiesa, depositaria del tesoro della Rivelazione e assistita sempre dallo Spirito Santo, subisce l’urto impetuoso di una furiosa mareg­giata. “Così appare il Concilio: come un isolotto custodito dallo Spirito di Dio in mezzo a un oceano che trascina via tutto, il falso e il vero mescolati insieme” (Jacques Maritain, Il contadino..., op. cit., p. 79).149 Insegnamenti di Paolo VI, Roma 1972, p. 708.150 Colloqui, 73.151 Cfr Lettera a mons. Angelo Dell’Acqua, da Madrid, in EF-670502-2.152 Ibidem.153 Lettera 31-111-1967; alla lettera era allegata una documentazione di cir­

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ca 60 pagine sui precedenti. Cfr AGP, Sezione Espansione apostolica, Uni­versità di Navarra, Facoltà di Teologia, 1/2, 156.154 Lettera di Alvaro del Portillo, del 3 giugno 1967, a mons. Gabriel Ma­rie Garrone, cfr ibidem, 1/3, 192. Era già stata annunciata la prossima ele­vazione di mons. Garrone alla dignità cardinalizia.155 Lettera della Sacra Congregazione per i Seminari e le Università, 19-VI- 1967; RHF, D-15300.156 Lettera 26-VIII-1967; cfr AGP, Sezione Espansione apostolica, Univer­sità di Navarra, Facoltà di Teologia, I / 3, p. 258. Il Capitolo Metropolita­no, nella seduta del 16-VT1967, accondiscese a mettere a disposizione del- l’Università alcuni locali della Cattedrale per insediarvi il Centro Teologico. Il senato accademico accettò le condizioni stabilite dal Capito­lo, e cioè che il Capitolo avrebbe istituito una Commissione per orientare e sorvegliare i lavori di adattamento dei locali, tutte le spese sarebbero state a carico dell’Università e l’utilizzo dei locali sarebbe stato concesso per un massimo di cinque anni. Cfr Accordo tra il Capitolo e l’Università, 16-22 giugno 1967, in ibidem, 258. L’accordo era a vantaggio del Capitolo, poi­ché i locali erano in pessime condizioni. Cfr anche Lettera a mons. Dell’Ac­qua, in EF-670603-1.157 II decreto di erezione, emanato dalla Sacra Congregazione per l’Educa- zione Cattolica, è datato l-XI-1969 ed è firmato dal Prefetto, Card. Ga­briel Marie Garrone, in AGP, Sezione Espansione apostolica, Università di Navarra, Facoltà di Teologia, II / 2, 419.158 Lettera a Florencio Sànchez Bella, in EF-640229-2.159 Ibidem.160 Cfr Vicente Mortes Alfonso, Sum. 7234.161 Lettera ai suoi figli in Spagna, in EF-651002-1. Sulla sua santa tolleran­za e comprensione, un teste del processo sulla vita e le virtù del Fondatore dell’Opus Dei racconta che una volta gli fece visita una persona che gli dis­se: “Padre, io sono ebreo” . Mons. Escrivà gli rispose: «E allora?». “Sono anche massone” . «Ma sei anche figlio di Dio, no?». E lo abbracciò. (Fer­nando Valenciano, Sum. 7097). Riguardo alle critiche calunniose di alcuni marxisti, il Fondatore disse: «È logico che i comunisti parlino male dell’O­pus Dei, ma non è logico e non lo sarà mai, che i membri dell’Opus Dèi parlino male dei comunisti. Ma sul comuniSmo dobbiamo dire la verità: è un cumulo di eresie e riduce l’uomo a mera materia, senza tener conto dei diritti più elementari della persona umana» (cit. da Javier Echevarrìa, Sum. 2264).162 Lettera 31-V-l954, n. 22.163 Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 652.164 Lettera 8-XII-1949, n. 61.165 Ibidem, n. 67.166 Lettera 30-IV-1946, n. 1.167 Lettera 12-XII-1952, n. 37.168 Appunti, n. 217.169 Lettera 9-1-1932, n. 46. Il Fondatore suggeriva che già nei catechismi per i bambini fossero enunciati i princìpi di dottrina sociale, «sui quali non

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si può cedere quando si opera nella vita pubblica; e che si affermasse, nello stesso tempo, il dovere di agire, di non astenersi, di prestare la propria col­laborazione per servire con lealtà, e con libertà personale, il bene comune» (:ibidem, n. 45). Solco, n. 301, dà una risposta a quanti vorrebbero rinchiu­dere la religione nel privato delle coscienze: «Non è vero che vi sia opposi­zione tra l’essere buon cattolico e il servire fedelmente la società civile. Non c’è motivo di scontro fra la Chiesa e lo Stato, nel legittimo esercizio della loro rispettiva autorità, di fronte alla missione che Dio ha loro affida­to. Mentono - proprio così, mentono - quelli che affermano il contrario. Sono gli stessi che, in ossequio a una falsa libertà, vorrebbero ‘amabilmen­te’ che noi cattolici tornassimo nelle catacombe».170 Lettera 9-1-1932, n. 50.171 Lettera 9-1-1959, n. 51.172 Ibidem, n. 36. Le convinzioni politiche di un fedele dell’Opus Dei, Ra­fael Calvo Serer, monarchico e sostenitore di Juan di Borbone (padre di Juan Carlos, attuale re di Spagna), lo portarono a scrivere, nel 1953, sulla rivista francese Écrits de Paris, un articolo molto critico sull’operato del governo spagnolo nel 1951. Per questo fu cacciato dal Consiglio Superiore delle Ricerche Scientifiche. Il Fondatore aveva sempre rispettato la libertà politica di Calvo Serer, come quella di tutti i suoi figli, ma quando seppe che era stato ingiuriato come “una persona senza famiglia” , non esitò a prenderne le difese. Si recò a Madrid, chiese di essere ricevuto dal Genera­le Franco e gli disse chiaro e tondo di non poter tollerare che di un suo fi­glio si dicesse che non aveva famiglia, perché apparteneva a una famiglia soprannaturale, l’Opera, e aveva un Padre, lui stesso (cfr Alvaro del Portil­lo, Sum. 650; Javier Echevarria, Sum. 2245).173 Lettera 8-XII-1949, n. 68.174 II Governo era stato cambiato già nel settembre 1942, nel luglio 1945 e nel luglio 1951.175 II Governo del 1957 era così costituito: Sottosegretario alla Presidenza: Luis Carrero Bianco, militare, pienamente identificato con le idee di Franco; Affari Esteri: Fernando Maria de Castiella y Maiz, democratico cristiano franchista; Interni: Camilo Alonso Vega, militare, franchista e monarchico; Giustizia: Antonio Iturmendi Banales, tradizionalista carlista; Esercito: An­tonio Barroso y Sànchez-Guerra, militare e monarchico; Aviazione: José Rodriguez y Diaz de Lecea, militare; Marina: Felipe José Abàrzuza Oliva, militare; Finanze: Mariano Navarro Rubio, avvocato del Consiglio di Stato; Industria: Joaqum Planell Riera, militare e ingegnere industriale; Commer­cio: Alberto Ullastres Calvo, docente di Economia; Opere Pubbliche: Jorge Vigón Suerodfaz, militare e monarchico legittimista; Agricoltura: Cirilo Cà- novas Garcia, ingegnere agronomo; Lavoro: Ferrmn Sanz-Orrio y Sanz, fa­langista; Edilizia pubblica: José Luis Arrese y Magra, falangista; Educazio­ne: Jesus Rubio Garcia-Mina, falangista; Informazione e Turismo: Gabriel Arias-Salgado, franchista; Segretario generale del Movimiento: José Solis Ruiz, falangista; Ministro senza portafogli: Pedro Guai, economista.176 Cfr la Dichiarazione programmatica del Governo, sui quotidiani spa­gnoli del 28-11-1957.

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177 Alberto Ullastres dichiarò, alcuni anni dopo: “Eravamo servitori dello Stato e avevano ragione di chiamarci così. Eravamo stati chiamati perché i politici non si intendevano di economia, allora scienza praticamente nuova in Spagna, e chiamarono noi tecnici; in particolare me, che mi consideravo e mi considero un tecnico. Ad alcuni politici la cosa riuscì piuttosto fastidiosa” (citato da Laureano Lopez Rodo, Memorias, tomo I, Madrid 1990, p. 91).178 Alcuni ministri erano membri di associazioni di fedeli e non per questo le rappresentavano nel Governo.179 Conviene ricordare che la Gerarchia della Chiesa in Spagna non si pro­nunciò mai contro la partecipazione dei cattolici alle istituzioni politiche del regime di Franco.180 Juliàn Herranz, Sum. 3905.181 II Commissariato del Piano di Sviluppo fu creato il 26 gennaio 1962, su suggerimento della Banca Mondiale e dell’OCSE. Ne fu nominato commis­sario Laureano Lopez Rodo. Il Commissario fu posto alle dipendenze della Presidenza del Governo, nonostante l’opposizione di Navarro Rubio, che desiderava farlo dipendere dal Ministero delle Finanze. Per questo motivo, Navarro Rubio rassegnò le dimissioni, che Franco respinse. Cfr la testimo­nianza di Mariano Navarro Rubio in Franco visto por sus ministros, Bar­cellona 1981, p. 90.182 Per farsi un’idea dell’evoluzione della società spagnola e dei suoi pro­blemi, è opportuno ricordare alcuni avvenimenti significativi del 1962: gravi problemi di lavoro e agitazioni sindacali, particolarmente acuti in Vizcaya, nelle Asturie e a Barcellona; una forte crisi nel sindacato unico universitario; il primo incontro dell’opposizione interna ed esterna, in oc­casione del Congresso del Movimento Europeo tenutosi in giugno a Mona­co di Baviera; la richiesta del governo spagnolo di entrare nel Mercato Co­mune; l’acutizzarsi del dissenso delle organizzazioni operaie cattoliche. Inoltre, il Principe Juan Carlos di Borbone si sposò nel mese di maggio, rafforzando la scelta in suo favore da parte del Capo dello Stato. Ci fu poi l’apertura del Concilio Vaticano II, che tante ripercussioni avrebbe avuto anche in Spagna.183 Nel 1962, uno dei cambiamenti più significativi nel governo fu la nomi­na di Manuel Fraga Iribarne a Ministro dell’informazione e del Turismo. Fraga si era posto come obiettivo la promulgazione di una Legge sulla Stampa che garantisse maggiore libertà d’informazione. Tra i nuovi mini­stri ci fu Gregorio Lopez Bravo, ingegnere navale e membro soprannume­rario dell’Opus Dei, che dal 1960 era Direttore Generale dell’istituto Spa­gnolo per la moneta estera.184 Comunicato della Segreteria Generale dell’Opus Dei, Roma, 17-VI- 1962. Per capire l’origine degli erronei giudizi sull’Opera, occorre tener presente che, non essendovi a quel tempo in Spagna libertà di associazione politica e neppure i canali per l’espressione del pluralismo, talune manife­stazioni religiose, culturali e sociali, che per loro natura sono estranee a ta­le ambito, potevano acquistare valenza politica. D’altra parte, chi pensava a un coinvolgimento politico dell’Opus Dei non teneva presente che l’Opus Dei è per sua natura, e cominciava a esserlo anche di fatto, una realtà uni­

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versale. Forse per questo furono generalizzate circostanze contingenti che riguardavano invece soltanto la Spagna.185 Lettera 7-X-1950, n. 36. Vicente Mortes Alfonso, teste al processo di canonizzazione, era membro soprannumerario delPOpus Dei. Dall’aprile 1957 ricoprì alti incarichi politici e dal 1969 fino al 1973 fu Ministro per l’Edilizia pubblica. Ecco la sua testimonianza: “In diverse occasioni gli esternai il mio dolore per l’incomprensione e le calunnie di determinate persone o gruppi politici della Spagna circa l’Opus Dei e la politica. Il Pa­dre mi rispose sempre che dovevo mettere in pratica la carità, annegare il male nell’abbondanza del bene, ‘dare lepre per gatto’ e comprendere che non ci comprendessero. Tuttavia, mi diceva che avevo il dovere, per il buon nome della Chiesa e dell’Opera, di chiarire la verità con tutta la forza necessaria, cercando di non offendere le persone, bensì di segnalare gli er­rori, sempre in tono cordiale e disteso. Mi raccomandava sempre di ascol­tare gli altri, di lasciar loro esprimere le proprie opinioni in piena libertà e, quando esponevo le mie, di partire dall’idea che non ci sono altri dogmi che quelli definiti dalla Chiesa e quindi che quasi tutto in politica è discuti­bile” (Sum. 7234).186 Cfr Javier Echevarrìa, Sum. 2247.187 César Ortiz-Echague, Sum. 6845. Cfr anche le interviste con Jacques Guillemé-Brulon, del 16-V-1966, e con Tad Szulc, del 7-X-1966, in Collo­qui, nn. 38 e 48.188 Cfr Javier Echevarrìa, Sum. 2259. Il Fondatore scrisse: «Dal 1950, né io né il Segretario Generale dell’Opus Dei abbiamo assistito ad alcun atto uffi­ciale, che fosse o no religioso» (Lettera a S.S. Paolo VI, in EF-640614-1).189 Lettera a Florencio Sànchez Bella, in EF-661019-3.190 Cfr Lettera ai suoi figli del Consiglio Generale, da Elorrio (Spagna), in EF-640815-1.191 Lettera ai suoi figli in Olanda, in EF-640320-2. Due mesi prima aveva scritto, per rasserenarli: «Carissimi figli, Gesù mi protegga tutti voi sempre in laetitia! Spero, lo so, che accadranno tante cose belle nella stupenda ter­ra dei tulipani. Mangiate, dormite, divertitevi, perché non c’è motivo per fare diversamente» (Lettera, in EF-640519-1).192 Lettera, in EF-640327-1.193 Lettera a Luis Carrero Bianco, in EF-640403-1.194 Lettera a Patrick Cormac Burke, in EF-640510-1.195 Ibidem.196 Lettera a Florencio Sànchez Bella, in EF-640510-4.197 Lettera, in EF-640523-1.198 Ibidem. Il Fondatore diede a mons. Dell’Acqua una copia di questa let­tera per conoscenza di Sua Santità (Lettera, in EF-640528-1).199 Lettera (in italiano) a S.S. Paolo VI, in EF-640614-1. Il 12 giugno il Fon­datore scrisse a mons. Angelo Dell’Acqua, allegandogli la lettera per il San­to Padre: «La prego caldamente di leggerla e, soltanto nel caso in cui V. E.lo ritenga opportuno, di inoltrarla nelle Auguste Mani del Papa: mi rimetto molto volentieri al Suo illuminato e caro giudizio, e sarò ben lieto nell’accet­tare la Sua decisione, qualunque essa sia» (Lettera, in EF-640612-1).

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200 Lettera a S.S. Paolo VI, in EF-640614-1. A tale proposito, scriveva: «Uomo provvidenziale, ripeto, si è chiamato Franco durante questi anni, in ogni tono ed in ogni occasione. Potrei presentare a Vostra Santità una grossa antologia di discorsi e documenti episcopali - di praticamente tutti i Vescovi -, nei quali si elogia in modo iperbolico il Caudillo, che è in verità un buon figlio della Chiesa soggettivamente, e molte volte anche obiettiva­mente. E la Gerarchia ecclesiastica, gli Ordini e le Congregazioni religiose hanno tratto buon profitto - se mi fosse lecito, a volte direi che ne hanno approfittato - dalla buona disposizione del Generassimo nei confronti del­la Chiesa».201 Ibidem.202 Ibidem.203 Lettera 15-VIII-1964, n. 1.204 Ibidem, n. 13.205 Ibidem, n. 9. Ecco alcune sue affermazioni sul dialogo dottrinale: «Se si tende una mano a coloro che hanno la disgrazia di non credere, ma con l’al­tra si colpisce il fratello nella fede, non potremo dire ragionevolmente che questo è un dialogo giusto, ma semmai un comportamento incoerente. Se il ritorno alla vita della cristianità primitiva, una benedetta realtà sempre pre­sente nell’Opera, significa relegare la Chiesa nelle catacombe - per la verità la vorrebbero mettere nelle fogne, con i ratti, non con gli uomini -, cerche­remo di dimostrare, con il Magistero ecclesiastico, che per venti secoli lo Spirito Santo non ha lavorato invano» (ibidem, n. 20).206 Lettera a Francisco Franco Bahamonde, da Pamplona, in EF-641129-1. I due primi dottori honoris causa dell’Università di Navarra furono Miguel Sancho Izquierdo e Juan Cabrera.207 Lettera a Francisco Franco Bahamonde, da Pamplona, in EF-660927-1.208 Lettera ai suoi figli in Spagna, in EF-651002-1.209 Lettera a Fiorendo Sànchez Bella, in EF-651009-2. Sull’origine delle ca­lunnie, il Fondatore dichiarava nel 1971: «L’origine è in Spagna e solo in Spagna, per la gelosia religiosa di alcuni, per la passione politica di pochi altri, molto pochi, e per la superficialità di quanti ripetono ciò che sentono, perché li diverte» (ABC, Madrid 24-111-1971, intervista di Juliàn Cortés Cavanillas).210 Lettera a mons. Angelo Dell’Acqua, EF-650604-1. Nella corrispondenza ci sono l’invio a Paolo VI della prima copia di Cammino in edizione per bi­bliofili (Lettera, in EF-660125-1); l’invio di una copia della prima edizione polacca al Cardinale Stefan Wyszynski (Lettera, in EF-661220-3); il raccon­to dell’espansione dell’Opera in Nigeria e il progetto di creare una univer­sità in Africa (Lettera, in EF-650524-1); la commozione per l’esortazione del Papa ai fedeli sulla chiamata universale alla santità come messaggio del Concilio, fatta durante un’udienza generale nella Basilica Vaticana (Lettera, in EF-660322-1); i commenti all’udienza privata che ottenne dal Santo Pa­dre attraverso mons. Dell’Acqua: «Non riesco ad abituarmi a questi felici incontri, anche se mi trovo sempre a mio agio, come un figlio che conversa con suo Padre» (Lettera, EF-660129-2). L’udienza ebbe luogo il 25 gennaio 1966 e in quella occasione consegnò al Santo Padre una nota sulla diocesi di

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Barbastro, di cui sembrava si ipotizzasse la soppressione. Trattò anche del progetto di una Facoltà di Medicina nell’Università Cattolica di Friburgo e due residenze universitarie in quella città (cfr ibidem).211 Sulle falsità diffuse da Le Monde, cfr Lettere a mons. Angelo Dell’Ac­qua, in EF-641112-1; in EF-650919-1; in EF-650921-1; su quelle della ri­vista La Croix, articoli del 26 aprile 1966 e giorni successivi, cfr Lettera, in EF-660511-1; sulla campagna organizzata da Le Nouvel Observateur e Le Canard Enchaìné, cfr Lettera, in EF-660611-1.212 Lettera a Richard Stork, Consigliere dell’Opus Dei nel Regno Unito, in EF-661121-3.213 II corrispondente era Jacques Guillemé-Brulon. Con questa e con altre in­terviste, rilasciate nel 1967 e nel 1968 su temi di attualità (situazione post­conciliare, organizzazioni religiose, apostolati dell’Opus Dei, ecc.) fu edito il libro Colloqui con mons. Escrivà. All’articolo di Le Figaro fu dato il titolo L'apostolato dell3Opus Dei nei cinque continenti (cfr nn. 34 e ss.).214 Ibidem, n. 38.215 Lettera a mons. Dell’Acqua, in EF-661029-1, Appunto; cfr pure Lette­ra, in EF-661201-1.216 César Ortiz-Echagiie, Sum. 6845. Che l’Opus Dei non fosse e non sia un’organizzazione monolitica e che ci sia un legittimo pluralismo tra i suoi fedeli, fu dimostrato dal fatto che sia nel Governo di Franco, sia nella Segre­teria Generale del Movimento e nell’Organizzazione Sindacale, sia fra coloro che, insieme ad altri, criticavano duramente la mancanza di rappresentatività dei sindacati, e dunque su sponde opposte, c’erano membri dell’Opus Dei.217 Lettera a Florencio Sànchez Bella, in EF-661101-1. Alcuni giorni prima aveva scritto ai suoi figli in Spagna: «Sapete bene che io, come tutti i sacer­doti dell’Opus Dei, non parlo mai di politica: mio compito è pregare e sta­re sulla Croce con le due braccia aperte, affinché nessuna anima si senta re­spinta» (Lettera a Florencio Sànchez Bella, in EF-661019-3).218 Lettera a José Solis Ruiz, in EF-661028-1. In data 29-X-1966 il Fonda­tore inviò a mons. Dell’Acqua copia della lettera: «Allego fotocopia di una lettera che ho inviato al ministro Solis. Penso che gli farà impressione e spe­ro che sarà indotto a riflettere dal fatto che, nell’esporgli le ragioni sopran­naturali e logiche che ritengo convenienti, lo chiamo ‘Eccellenza’ invece di dargli del tu» (in EF-661029-1, Appunto). La lettera fu inviata in copia an­che a Juan di Borbone, che rispose da Estoril, in Portogallo, il 15 novembre: “Carissimo don José Maria, mi è stata consegnata a mano una copia della tua brillante ed energica lettera al Ministro Segretario Generale del Movi­mento, nella quale protesti per l’ingiusta campagna di stampa contro l’O­pus Dei. Ritengo che sia stato molto giusto chiarire ciò che certe persone non hanno voluto capire fin da principio e che era decisamente necessario bloccare una volta per tutte. Ho letto anche con piacere della visita della Regina Madre d’Inghilterra a Netberhall House, a Londra, e gli appropriati commenti della stampa. Raccomandandomi alle tue valide preghiere, ti mando un forte abbraccio e ti bacio la mano, tuo aff.mo” (RHF, D-30752).219 Cfr Lettera a Juan di Borbone, in EF-661121-1.220 ABC (Madrid), 24-111-1966.

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221 Fra le lettere degli anni sessanta, sono state già citate le due al Generale Franco (note 206 e 207). Per la corrispondenza con Juan di Borbone, cfr Lettere, in EF-640105-1; EF-661121-1; EF-670624-1; EF-680201-1; EF- 680621-1.222 La Regina Madre d’Inghilterra il 1° novembre aveva inaugurato Netherhall House, a Londra. N223 Lettera a Juan di Borbone, in EF-661121-1. Più di una volta il Padre raccontò ai suoi figli un episodio, poi riferito da uno dei testi del Processo di Canonizzazione: “Il Padre mi raccontò che era stato a trovarlo il Capo della Casa Reale spagnola al quale, in tono amabile e sorridente, aveva detto: «Altezza, ho dei figli monarchici, ma ne ho anche di repubblicani»” (Alfredo Lopez Martinez, Sum. 5749). “Josemescrivà de B.” è uno dei, mo­di utilizzati dal Fondatore per firmare le sue lettere.224 II Fondatore si mantenne sempre fedele al principio di rispettare qual­siasi opinione in materia politica, mentre lui personalmente se ne teneva al di fuori. Rispondendo a Juan di Borbone, che gli aveva scritto il 6-XI- 1971, con una lettera piuttosto estesa (in EF-711110-1), spiegava con chia­rezza tali princìpi: «Di questo non sapevo nulla, perché vivo altrove e per­ché nessuno mi parla di politica, neppure della politica della Spagna. Perciò tutte le notizie che mi dà per me sono nuove (...). Questa lettera è in linea con la mia consuetudine di non intromettermi in questioni temporali e al tempo stesso una delicata ma chiara dimostrazione della lealtà che de­vo a Vostra Maestà (...). Non scelgo la neutralità. Rifiuto la neutralità, perché nelle cose soprannaturali si deve stare con Cristo oppure contro Cristo: non si può essere neutrali. Invece nelle cose terrene ho l’obbligo di non giudicare e di abbondare nella carità verso tutti: questo è l’insegna­mento che trasmetto ai miei figli (...). Non sposiamo la neutralità e non adottiamo tattiche umane: rispettiamo delicatamente le legittime opinioni degli altri nelle cose temporali, come per tanti anni ho avuto sempre la gioia e l’onore di dire a Vostra Maestà. E questo benché in alcuni casi non manchino coloro che personalmente mi fanno soffrire. Al di là di ogni con­siderazione, io non devo essere uomo di parte nelle cose terrene, per potere così prendermi cura sul piano spirituale di qualsiasi anima, senza distinzio­ne (...). Può essere sicuro che né gli intrighi di alcuni, né le incredibili ca­lunnie e diffamazioni di altri, faranno cambiare il sicuro criterio sacerdota­le che - per grazia di Dio - è stato e sempre sarà la mia linea di condotta».225 Lettera a Santiago Escrivà de Balaguer, in EF-640320-1. - Il venerdì do­po la I Domenica di Passione, oggi venerdì della V Settimana di Quaresi­ma, era una volta dedicato ai Dolori della Madonna ed era l’onomastico della madre del Fondatore, Dolores Escrivà (NdC).226 Cfr Lettera a Santiago Escrivà de Balaguer, in EF-571002-1.227 Cfr Lettera a José Sinués Urbiola, in EF-571231-2; Àlvaro del Portillo, Sum. 507.228 Cfr Lettera a Santiago Escrivà de Balaguer e a Gloria Garcia-Herrero, in EF-660617-2.229 Lettera a Maria José Escrivà de Balaguer Garcia-Herrero, in EF- 680329-13.

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230 Cfr Lettera a Santiago Escrivà de Balaguer e a Gloria Garcia-Herrero, in EF-631200-3.231 Lettera a Santiago Escrivà de Balaguer e a Gloria Garcia-Herrero, in EF-680715-2.232 Cfr ibidem.233 Ibidem.234 II Decreto 1851/1968, del 24 luglio 1968, fu pubblicato sul Bollettino Ufficiale dello Stato n. 186, del 3 agosto 1968, p. 11539.235 Lettera a Francisco Franco Bahamonde, in EF-680803-1. Il Generale Franco era senza dubbio al corrente di tutta la vicenda. Si comprende dun­que la brevità dello scritto.236 £fr fiorendo Sànchez Bella, Sum. 7489.237 Cfr Javier Echevarria, Sum. 2043, dove fra l’altro si afferma che il Pa­dre, quando, nelle tertulias, il discorso cadeva su famiglie nobili imparen­tate con gli Escrivà o con i Blanc, evitava ogni solennità, facendo subito qualche commento umoristico.238 Cfr Àlvaro del Portillo, Sum. 386.239 Cfr ibidem. Fiorendo Sànchez Bella testimonia che “approfittando di viaggi apostolici o di riposo”, visitò personalmente gli archivi della Corona d’Aragona, quelli del Regno di Valencia e gli Archivi Generali di Vienna (Sum. 7489).240 All’inizio fu consultato Gregorio Arranz, avvocato del Ministero della Giustizia (cfr ibidem). La documentazione per l’istanza di riabilitazione fu preparata da Adolfo Castillo Genzor, Segretario della Reale Accademia dei Nobili e delle Belle Arti di S. Luigi, di Saragozza, esperto genealogista e storico del Regno di Aragona.241 Cfr Pedro Casciaro, Sum. 6321.242 Cfr Decreto Reale dell’8-XII-1922 e Ordine Reale del 21-X-1922.243 All’epoca aveva ricevuto diverse nomine ecclesiastiche: membro hono­ris causa della Pontificia Accademia Teologica Romana (19-XII-1956; cfr RHF, D-15099); Consultore della Sacra Congregazione per i Seminari e le Università (23-VII-1957; cfr RHF, D-15101); Gran Cancelliere dell’Univer- sità di Navarra (Decreto della Sacra Congregazione per i Seminari e le Uni­versità, 15-X-1960; cfr RHF, D-15102); Consultore della Commissione Pontificia per l’interpretazione autentica del Codice di Diritto Canonico (21-111-1961; cfr RHF, D-15103); ecc. Nell’ambito civile, oltre alle distin­zioni già ricordate, aveva ricevuto le Grandi Croci spagnole, a proposito delle quali era solito dire a chi lo complimentava: «Alla presenza di Dio, ti assicuro che non me ne importa nulla, non mi fanno né freddo né caldo; Punica Croce di cui m’importa, che amo e che voglio portare con garbo tutti i giorni, è la Croce del mio Signore Gesù» (Javier Echevarria, Sum. 2765). Per la Gran Croce di S. Raimondo di Penafort (23-1-1954) scrisse una lettera di ringraziamento al Capo dello Stato (in EF-540126-1), in cui insisteva sull’universalità dell’Opus Dei. Quanto alla Gran Croce di CarloIII (Decreto del 18-VII-1960), scriveva da Londra a una persona che lo complimentava: «Mi aiuti a ringraziare Dio Nostro Signore per la Croce che ha voluto mettere sulle mie spalle trentadue anni fa e preghi per me,

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perché la porti sempre con garbo e con gioia» (Lettera a Sergio Fernàndez Larram, in EF-600805-3). Quattro anni dopo ricevette la Gran Croce del- POrdine Civile di Beneficenza (26-XI-1964), in considerazione dei suoi meriti e servizi in campo sociale. Il Fondatore ringraziò il Ministro degli Interni: «Penso sempre che sono diventato vecchio senza che il Signore ab­bia voluto mai farmi mancare la sua Santa Croce. Ma ora devo ringraziare per quella che, senza alcun merito personale, hanno voluto impormi. Gra­zie, per questa gran croce di beneficenza; non sono io a meritarla, ma i miei figli, per il continuo e generoso lavoro che fanno con le classi più umi­li della nostra amatissima Spagna; la prego di presentare il mio rispettoso ringraziamento a S.E. il Capo dello Stato» (Lettera a Camilo Alonso Vega, da Pamplona, in EF-641128-1). Cfr pure Florencio Sànchez Bella, Sum. 7490 e 7491.244 Javier Echevarria, Sum. 2286.245 Javier Echevarria, Sum. 2764; Àlvaro del Portillo, Sum. 385.246 Florencio Sànchez Bella, Sum. 7491.247 Cfr Àlvaro del Portillo, Sum. 387 e 388; Javier Echevarria, Sum. 2045; Florencio Sànchez Bella, Sum. 7489.248 Cfr ibidem. Il Fondatore diceva ai suoi figli: «Molte volte è più difficile esercitare un diritto che compiere un dovere» (Fernando Valenciano, Sum. 7081).249 Incontratosi con alcuni Vescovi spagnoli, spiegò loro le ragioni del suo gesto: «Non l’ho fatto per me; non ne ho bisogno e non lo utilizzerò mai (...). L’ho fatto esclusivamente per il diritto che compete alla mia famiglia e che si perderebbe per mia negligenza; è un’esigenza della virtù della pietà che mi obbliga nei confronti di mio fratello e dei miei nipoti poiché, essendo io il capofamiglia, nessun altro può fare questa richiesta al mio posto» (citato da Enrique Delgado Gómez, in Un santo per amico, op. cit., p. 124).250 Le spese per le pratiche furono sostenute “con molta generosità, dal si­gnor José Badrinas” (cfr Florencio Sànchez Bella, Sum. 7489).251 Lettera a Florencio Sànchez Bella, in EF-680125-2.252 L’istanza di don Josemaria Escrivà per ottenere il riconoscimento a suo favore del titolo di Marchese di Peralta è dell’l l gennaio 1968 (Documen­tazione relativa alla riabilitazione del titolo di Marchese di Peralta, in RHF, D-15105). La pratica fu preparata dal già citato specialista Adolfo Castillo Genzor.253 Decreto e Brevetto in RHF, D-15105.254 Cfr Rolf Thomas, Sum. 7676.255 La cessione del titolo nobiliare a favore di Santiago Escrivà de Balaguer e la relativa accettazione (22 giugno 1972) furono fatte con atto notarile, cfr RHF, D-15105.256 Lettera a Juan Carlos di Borbone, in EF-690916-1.257 Lettera 25-V-1962, n. 24.258 Ibidem.259 L’assimilazione degli Istituti Secolari alle Congregazioni Religiose ne vanificava la natura secolare. Il Fondatore scrisse: «Le persone, e non solo

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l’uomo della strada e le autorità civili, ma anche quasi tutti gli ecclesiastici, compresi alcuni membri della Gerarchia, considerano religiosi tutti coloro che fanno parte di un Istituto Secolare, per il solo fatto che ne sono mem­bri e che dipendono dalla Sacra Congregazione dei Religiosi» (Lettera 25- V-1962, n. 23).260 Secondo la Costituzione Provida Mater Ecclesia (art* ^ 1, 2) la Sacra Congregazione dei Religiosi poteva applicare agli Istituti Secolari, come di­ritto suppletivo, alcune prescrizioni particolari del diritto dei religiosi. Il Codice di Diritto Canonico del 1917 stabiliva, n e l c a n o n e 500, che “senza speciale indulto apostolico, nessun istituto religioso maschile può avere a sé sottoposte congregazioni di donne o avere la cura o direzione di tali re ì- giose come a esso specialmente affidata”. Una simile disposizione espone­va a un grave rischio l’unità istituzionale dei membri dell Opus Dei.261 Per esempio, i voti emessi negli Istituti S e c o l a r i v e n iv a n o considerati vo­ti pubblici religiosi o a essi equiparati. Scrisse il F o n d a t o r e : «Non disprez­ziamo i voti: sentiamo per essi la grande stima che la teologia ci insegna ad avere. Ma poiché alcuni vogliono dare la forza g i u r i d i c a di un atto pubb i~ co a un atto di devozione privata, ci sono d ’ i n t r a l c i o : rimaniamo con le virtù» (Lettera 31-V-1954, n . 9). . . .262 Lettera 12-X1I-1952, n. 2. Il Fondatore temeva che potesse ripetersi a storia di S. Francesco di Sales, che voleva fondare una istituzione per le donne che aspiravano alla santità in mezzo al m o n d o ; la fondazione si tra­sformò in una Congregazione religiosa di rigorosa clausura (crr Alvaro ae Portillo, Sum. 562).263 Lettera 2-X-1958, n. 9.2,64 Jfoìclgffi3 12.265 Lettera 2-X-1958, n. 10, dove si legge pure: «Così facendo, ci rivolgia­mo con filiale fiducia a Dio, affinché si degni di metter fine a questa preoc- cupazione spirituale. Con la stessa fiducia filiale, e in v o c a n d o intercessio­ne della Beata Vergine Maria, Madre nostra - Cor Mariae Dulcissimum iter para tutumì -, informerò la Santa Sede, al m o m e n t o opportuno, di questa situazione, di questa preoccupazione» (ibidem, nn. 10 e H)*266 Cfr Appunto, allegato alla lettera a mons. D o m e n ic o Tardini, m EF- 600319-1.267 Ibidem, n. 2. Indicava anche un altro grave motivo per ^ revisione del­lo Statuto e cioè che migliaia di persone si erano d e d ic a te al servizio de a Chiesa nell’Opus Dei a condizione di continuare a e s s e r e comuni fede ì cri­stiani. Nell 'Appunto il numero di membri era specificato: 25.671 numerari e numerarie, con 307 sacerdoti; 1.118 aggregati e 3.565 soprannumerari, oltre a diverse centinaia di sacerdoti associati (cfr ibidem? n. 8).268 Con la riforma di Paolo VI (15-VIII-1967), la Sacra Congregazione Concistoriale avrebbe preso il nome di C o n g r e g a z i o n e per i Vescovi.269 Alcuni studiosi segnalano un aspetto importante, c io è che da que mo­mento, il Fondatore cominciò risolutamente a ispirarsi alle categorie e a e strutture della giurisdizione ecclesiastica ordinaria” (A. de Fuenmayor e a - tri, op. cit., p. 456).270 Alvaro del Portillo, Sum. 563.

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271 AGP, Sezione giuridica, VI, D-15611.272 Lettera 25-1-1961, n. 62.273 Cfr Nota del Fondatore per l’Archivio dell’Opus Dei, in EF-620420-2.274 Ibidem.275 Lettera a S.S. Giovanni XXIII, in EF-620107-2; cfr Lettera al Card. Amleto Cicognani, in EF-620107-1. Testo di entrambe in A. de Fuenmayor e altri, op. cit., Appendice documentale, doc. 44 e doc. 43, pp. 799-802.276 II Cardinale Segretario di Stato chiese al Card. Ciriaci un parere sulla ri­chiesta del Fondatore, il quale fece avere al Card. Ciriaci un Appunto (8- III-1962) in cui riassumeva la storia delle approvazioni dell’Opus Dei, le motivazioni, le soluzioni proposte, ecc. Il Cardinale insistette ancora per­ché il Fondatore chiarisse per iscritto i dubbi che alcuni Prelati ayevano manifestato sulla soluzione proposta.277 Nota del Fondatore per l’Archivio dell’Opus Dei, in EF-620420-2. La sua preghiera era continua. Il 1° aprile 1962, dettando una meditazione, chiedeva con insistenza la grazia: «Signore, fai brillare la tua luce! Fanne una delle tue! Che si veda che sei Tu!» (AGP, POI 1982, p. 1378).278 Lettera del Card. Amleto Cicognani al Fondatore, 20-V-1962, in A. de Fuenmayor e altri, op. cit., Appendice documentale, doc. 45, pp. 802-803.279 II 3 giugno il Fondatore scrisse al Card. Cicognani per dare riscontro al­la risposta e aggiunse con umiltà: «Non posso esimermi dal ringraziare S. Em. Rev.ma per avermela comunicata, giacché così mi ha dato modo di di­mostrare ancora una volta la mia completa e perfetta adesione alla Santa Sede» (EF-620603-1; in A. de Fuenmayor e altri, op. cit., Appendice docu­mentale, doc. 46, p. 804). Il 27 giugno il Fondatore fu ricevuto da Giovanni XXIII in udienza privata e come sempre si commosse per l’affetto del Papa.280 La Sacra Congregazione dei Religiosi, con lettera del 2 agosto 1950, aveva concesso speciali facoltà al Fondatore per proporre chiarimenti, cambiamenti o modifiche complementari che ritenesse opportune per l’e­spansione e le necessità dell’Opera. Cfr A. de Fuenmayor e altri, op. cit., Appendice documentale, doc. 33, p. 783.281 Lettera a S.S. Paolo VI, in EF-640214-2; testo completo in A. de Fuen­mayor e altri, op. cit., Appendice documentale, doc. 48, pp. 806-807.282 Lettera a S.S. Paolo VI, in EF-640214-2, n. 20 della nota riservata allegata.283 Lettera a mons. Angelo Dell’Acqua, da Parigi, in EF-640815-2; testo completo in A. de Fuenmayor e altri, op. cit., Appendice documentale, doc. 49, pp. 807-810.284 Lettera al Card. Amleto Cicognani, in EF-620603-1; testo completo in A. de Fuenmayor e altri, op. cit., Appendice documentale, doc. 46, p. 804.285 Lettera 25-V-1962, n. 26. «Quando mi domandano se appartengo a un Istituto Secolare, rispondo sempre di no, perché devo salvarmi l’anima e perché questa è la verità» (ibidem, n. 3).286 Nota del Fondatore per l’Archivio dell’Opus Dei, in EF-620420-2.287 Sai 70, 9, 17 e 18.288 Lettera 25-V-1962, n. 1.289 Lettera a Patrick Cormac Burke, in EF-640510-1.290 Lettera a Camilo Alonso Vega, da Pamplona, in EF-641128-1. «Pregate

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per me - scrisse al fratello e alla cognata - perché ho molto lavoro impor­tante sulle mie spalle e ormai sono vecchio» (Lettera, in EF-660401-1). E ai suoi figli: «E ora, con l’umidità del Tevere - con gli anni! - mi è venuta una signora lombaggine» (Lettera a Florencio Sànchez Bella, in EF- 640908-4). Qualche volta il Fondatore si concedeva un pizzico di umori­smo, come quando in Spagna i suoi figli tentarono di farlo fotografare da un noto fotografo catalano, Català-Roca: «Vedo che siete decisi a immor­talare questo vecchio rudere, cercando di ottenere qualche buona fotogra­fia. Vi prego di non martirizzarmi troppo» (Lettera a Rafael Caamano, da Pamplona, in EF-660922-1). «Che Dio vi perdoni! Queste cose si fanno quando l’interessato ha venti begli anni e non quando è un vecchio cadente di sessantacinque» (Lettera a Florencio Sànchez Bella, da Pamplona, in EF- 660922-2).291 Lettera a Florencio Sànchez Bella, in EF-641215-2. Il «conteggio di mi­gliaia di anni», nacque così: nei primi tempi della fondazione pensava di essere troppo giovane e chiedeva al Signore che gli concedesse la gravità di un ottantenne. In seguito, fra il serio e il faceto, diceva spesso ai suoi figli: «Sapete quanti anni ha il Padre?»; e faceva la somma, cominciando dal­l’età di Gesù: ipse Christus 2.000 anni + 80 dentro + 62 fuori; in totale, 2.142 anni (cfr Maria Begona Àlvarez Iràizoz, RHF, T-04861, p. 77).292 Cfr Àlvaro del Portillo, Sum. 568; Mario Lantini, Sum. 3631.293 AGP, POI 1982, p. 1388.294 Cfr Lettera a mons. Angelo Dell’Acqua, da Parigi, in EF-640815-2; te­sto completo in A. de Fuenmayor e altri, op. cit., Appendice documentale, doc. 49, pp. 807-810. Cfr anche Àlvaro del Portillo, Sum. 567.295 Cfr Lettera di mons. Àlvaro del Portillo, del 28-XI-1982, n. 37, in Ren­dere amabile la verità. Raccolta di scritti di mons. Àlvaro del Portillo, Città del Vaticano 1995, p. 71.296 Cfr Àlvaro del Portillo, Sum. 568.297 Cfr Decreto Presbyterorum Ordinis, n. 10 (A.A.S. LVHI (1966), p. 1007).298 II Motu proprio Ecclesiae Sanctae tratta, al n. 4, delle Prelature perso­nali: “Inoltre, per la realizzazione di particolari compiti pastorali o missio­nari in favore di determinate regioni o di gruppi sociali, che richiedano uno speciale aiuto, può essere utile che la Santa Sede eriga Prelature che consti­no di presbiteri del clero secolare, con una specifica formazione, sotto il re­gime del proprio Prelato, e fornite di statuti propri. (...) Nulla impedisce che laici, celibi o sposati, mediante convenzione con la Prelatura, si dedi­chino con la propria competenza professionale al servizio dei suoi compiti e delle sue iniziative” (A.A.S., LVIII (1966), p. 760).299 Cfr Lettera a mons. Angelo Dell’Acqua, in EF-670302-1.300 Cfr Appunto allegato a una lettera a S. S. Paolo VI, in EF-690916-2.301 Le 10,27.302 Meditazione del 6-1-1970, nell’oratorio della Pentecoste, a Roma (AGP, P09, p. 116).303 AGP, P09, pp. 115 e 116.304 Lettera al Card. Ildebrando Antoniutti, Prefetto della Sacra Congrega­zione dei Religiosi, in EF-690520-2 (testo completo in A. de Fuenmayor e

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altri, op. cit., Appendice documentale, doc. 50, pp. 811-812). Fra i motivi che lo indussero a cambiare idea c’era l’intenzione, esplicitata a vari Prefet­ti della Curia, di insistere sul fatto che l’Opus Dei non poteva essere inseri­to nella cornice della vita consacrata.305 La risposta del Card. Antoniutti è in A. de Fuenmayor e altri, op. cit., Appendice documentale, doc. 51, p. 812.306 Sullo svolgimento del Congresso, cfr A. de Fuenmayor e altri, op. cit., pp. 512 e ss. Cfr AGP, Atti del Congresso Generale speciale, I, 2-IX-l969.307 Non appena si concluse, il Segretario Generale dell’Opus Dei, Àlvaro del Portillo, informò la Santa Sede sullo svolgimento della prima parte del Congresso e sulla preparazione della seconda parte (cfr Lettera al Card. Il­debrando Antoniutti, 18-IX-1969, in A. de Fuenmayor e altri, op. cit., Ap­pendice documentale, doc. 52, p. 813).308 Lettera al Card. Ildebrando Antoniutti, Prefetto della Sacra Congrega­zione dei Religiosi, in EF-691022-1 (testo completo in A. de Fuenmayor e altri, op. cit., Appendice documentale, doc. 54, pp. 814-817).309 Ibidem. Con l’espressione “professione dei consigli evangelici” , egli identificava la Vita consacrata’, propria dello stato religioso.310 Lettera a S.S. il Papa Paolo VI, in EF-690916-2.311 Ecco alcuni brani del Ricorso:«Avuta notizia della costituzione di una speciale Commissione Pontificia per conoscere, in iure et in facto, alcuni aspetti dell’organizzazione giuridi­ca e dell’attività apostolica dell’Opus Dei (...), con il presente atto si pro­pone formale exceptio suspicionis contro tre dei cinque Membri della sud­detta Commissione Pontificia» (seguono i nomi dei ricusati e le conseguenze giuridiche della ricusazione, stabilite dal canone 1613).«La exceptio suspicionis che si produce potrà essere, al momento opportu­no, adeguatamente documentata e provata: si chiede dunque ampia facoltà di prova. A norma del c. 1614, par. 1 e trattandosi di ricusazione della maggioranza del Collegio, l’eccezione deve essere vista non dal Collegio medesimo, bensì dal Delegante. Ora, poiché nel caso si tratta di Commis­sione Pontificia, si ritiene che la exceptio suspicionis deve essere esaminata dal Romano Pontefice».312 Lettera di presentazione dell 'Appunto (16-IX-1969).313 Appunto, n. 1.314 Conclusioni, n. 4.315 Cfr Àlvaro del Portillo, Sum. 804; Javier Echevarria, Sum. 2360.316 Javier Echevarria, Sum. 2360.317 Lettera a S. S. Paolo VI, in EF-691011-2.318 Ibidem.319 Lettera a mons. Giovanni Benelli, Sostituto della Segreteria di Stato, in EF-691029-1.320 Ibidem. Nella lettera del Fondatore non si fa cenno a un intervento di mons. Benelli nella questione. In nota all’Appunto del 16 settembre 1969, mons. Àlvaro del Portillo afferma che la Commissione speciale “non giun­se a fare alcun lavoro in relazione alla situazione giuridica dell’Opus Dei e, di fatto, fu subito sciolta” .

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321 Atti del Congresso Generale speciale, del 30-VIII-1970; AGP, RHF, Se­zione giuridica, VII, D-15256.322 AGP, POI 1970, p. 501.323 Cfr César Ortiz-Echagiie, Sum. 6860; AGP, POI 1982, pp. 1488 e ss. In automobile, poco prima di arrivare a Torreciudad, il Padre canticchiò una jota, inventata sul momento: «L’amore dei villani / difficilmente l’ottieni; / ma dopo molti anni / resta un amore vero» (ibidem, p. 554). - Nella libera traduzione del testo, “villani” , che non ha senso negativo, traduce batur- ros, termine che indica i popolani aragonesi. La jota è un’aria popolare, anch’essa aragonese, che si canta con l’accompagnamento di chitarre e di una graziosa danza ritmica (NdC).324 Ibidem, p. 1499. Per la storia e il significato della costruzione del san­tuario di Torreciudad, cfr più avanti, cap. XXIV, § 1.325 AGP, POI 1982, p. 1506.326 Ibidem, p. 1508.327 Ibidem, p. 1317.328 AGP, POI 1970, p. 937.329 AGP, POI 1982, p. 1319. La sua preghiera alla Vergine aveva una spe­ciale intonazione filiale. Alcune settimane prima, nel libro delle firme di Torreciudad, aveva scritto: «Madre mia e mia Signora di Torreciudad, Re­gina degli Angeli, monstra Te esse Matrem e rendici buoni figli, figli fedeli. Torreciudad, 7 aprile 1970» (AGP, POI 1982, p. 1499).330 Ibidem, p. 1321.331 Ibidem. “In questo contesto di preghiera universale aperta a tutte le ne­cessità degli uomini - scrisse mons. Javier Echevarria ai fedeli della Prela­tura -, pregava con perseveranza per l’Opus Dei, affinché il Signore, nella sua Bontà e Potenza infinite, proteggesse la sua Opera e conservasse integri e inviolati, anche mediante l’approvazione da parte dell’Autorità ecclesia­stica di uno statuto giuridico adeguato, lo spirito, la natura e le modalità dell’apostolato propri dell’Opus Dei” (Lettera, I-V-1995).332 AGP, POI 1982, p. 1324.333 AGP, POI 1970, p. 950.334 Ibidem.335 AGP, POI 1976, p. 451.336 Atti del Congresso Generale speciale II, 30-VIII-1970; AGP, Sezione giuridica, VII, D-15256.337 Atti del Congresso Generale speciale II, 14-IX-1970; in A. de Fuen- mayor e altri, op. cit., Appendice documentale, doc. 55, pp. 817-820.338 Ibidem.339 RHF, AVF-80.

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Capitolo XXIII

SANTITÀ E GRANDEZZA DELLA CHIESA

1. «M i duole la Chiesa»

La novena davanti alla Madonna di Guadalupe aveva fatto scomparire dal volto del Padre i segni della tensio­ne spirituale che lo aveva spinto a restare ore e ore in gi­nocchio, con lo sguardo fisso sulPimmagine miracolosa. Le aveva affidato le sue pene e, al momento del com­miato, il suo volto sereno e sorridente rifletteva la pace del suo spirito:

«Non ti chiedo altro, Madre: ho messo nelle tue mani tutto ciò che mi occupava l’anima, il cuore, la testa, tut­to il mio essere. Sono sicuro che mi hai ascoltato e me ne vado da qui contento e sereno»1.

Dalla conclusione della prima parte del Congresso Generale speciale, tutta l’Opera pregava all’unisono per la stessa intenzione; per il Natale del 1969, il Padre chiese di nuovo ai suoi figli di unirsi alle sue intenzioni2. Appoggiandosi gli uni agli altri, ricolmi della medesima fiducia, tutti speravano di ottenere, grazie alla preghiera perseverante, ciò che il Padre chiedeva. Molti anni pri­ma, il 12 dicembre 1931, festa della Madonna di Gua­dalupe, il Signore aveva fatto risuonare nella sua anima le parole di un Salmo: «Le acque passeranno attraverso le montagne». Il Fondatore non aveva dimenticato que­

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sta promessa, e lo scrisse a uno dei suoi figli: «Otterre­mo quello che ci attendiamo - inter medium montium pertransibunt aquae! - con la grazia di Dio e la potenza supplicante di Maria Santissima»3.

Nel maggio 1970, durante la permanenza in Messico, gli furono mostrate le fotografie del modello in gesso di un Cristo che il Padre aveva commissionato a uno scul­tore romano. Egli lo approvò e la scultura fu completata l’anno successivo. Era un Cristo a grandezza naturale, in bronzo dorato. Un Cristo ancora vivo, inchiodato alla Croce e coronato di spine. Aveva gli occhi aperti, che guardavano il mondo con infinito amore. Lo aveva com­missionato in vista del compimento della sua “grande in­tenzione” , la “ intenzione speciale” della configurazione giuridica definitiva dell’Opus Dei e aveva progettato di sistemarlo nella cappella della Santa Croce, in costruzio­ne all’interno della nuova sede del Collegio Romano, che sarebbe potuta diventare la chiesa prelatizia dell’Opus Dei4. Il Padre, con gli occhi della fede, già vedeva la Pre­latura personale divenuta realtà. Vedeva anche le doloro­se circostanze in cui versava il Popolo di Dio e, mosso dallo sguardo redentore di Cristo sulla Croce, offrì il sa­crificio della rinuncia a entrare nella terra promessa, cioè a vedere compiuta in vita l’ultima intenzione fondazio- nale. Durante una meditazione diceva ai suoi figli:

«Sono passati quarantaquattro anni dagli inizi e cam­miniamo ancora nel deserto: un viaggio più lungo della peregrinazione del popolo eletto nel Sinai. Ma nel no­stro deserto sono sbocciati i fiori e i frutti, in modo me­raviglioso. È diventato un’oasi frondosa, anche se sem­bra una contraddizione»5.

Aveva peraltro l’intima gioia di sapere che la questio­ne istituzionale, se non era risolta, aveva comunque una soluzione chiara. Questo problema passò dunque in se­condo piano rispetto ad altre grandi preoccupazioni6.

Un mattino del 1970, don Javier Echevarria si accorse che era sconvolto, inquieto, quasi avesse avuto un gran­

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de dispiacere. Si accingeva a celebrare la Messa e, prima di entrare nell’oratorio, fece un profondo sospiro, quasi a volersi liberare da un peso opprimente: «Dio mio!». “Padre, che cosa succede?” . «Succede... che mi duole la Chiesa!»7.

In diverse occasioni il Papa aveva manifestato in pub­blico il proprio dolore per la triste situazione della Chie­sa, in parte conseguenza di “una falsa e abusiva inter­pretazione del Concilio” , che altro non era che “una rottura con la tradizione, anche sul piano dottrinale, che arriva a ripudiare la Chiesa preconciliare e a per­mettersi di concepire una Chiesa nuova, quasi reinven­tata dall’interno nella sua costituzione, nel dogma, nelle usanze e nel diritto” 8. Paolo VI aveva stigmatizzato an­che la “mancanza di fiducia” nella Chiesa di un gran numero di cristiani, tra i quali, purtroppo, non manca­vano sacerdoti e religiosi, nei quali crescevano la con­flittualità e lo scontento. Il Papa denunciava le critiche negative che affioravano dovunque, il fascino della vio­lenza, l’irrequietezza delle coscienze, l’influsso delle so­ciologie atee e la seduzione dell’ideologia marxista, fon­te di sentimenti anticristiani, di odio, di minacce di sovversione e di lotta di classe. “È impossibile - riassu­meva Paolo VI - non rendersi conto dei gravi e pericolo­si effetti che ciò procura nella Chiesa: confusione e sof­ferenza nelle coscienze, impoverimento dello spirito religioso, dolorose defezioni tra le persone consacrate a Dio, guasti alla fedeltà e alla indissolubilità matrimonia­le, indebolimento del movimento ecumenico e incapa­cità morale a contenere l’irruzione dell’edonismo”9.

Al Padre giungevano spesso cattive notizie; alcune le ricavava dai giornali. Intorno al 1970 lesse di due furti sacrileghi: dopo aver forzato i tabernacoli i ladri aveva­no buttato a terra le Sacre Specie e rubato le pissidi10.

Purtroppo, molte ferite inferte al Corpo Mistico di Cristo provenivano non dagli estranei, ma da persone che avrebbero dovuto difenderlo11. Numerose strutture

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ecclesiastiche si dissolvevano e nel clero spuntava il dubbio sulla ‘identità’ del sacerdote e sulla sua funzione ministeriale. Gli oltraggi commessi talvolta nella cele­brazione della santa Messa impedivano che i fedeli be­neficiassero del tesoro infinito che è il Sacrificio eucari­stico. Un giorno raccontarono al Fondatore che in Germania un membro dell’Opera era entrato in una chiesa per partecipare alla Messa, ma aveva preferito uscire senza comunicarsi, dopo aver sentito che il sacer­dote, invece della formula della Consacrazione, aveva detto: “Questa è la mia comunità con Cristo”12.

Gli oggetti liturgici, i quadri, le statue e i confessiona­li finivano ammucchiati nelle sacrestie o nei magazzini delle chiese; spesso il tabernacolo veniva spostato in un angolo buio. La nuova ‘pietà religiosa’ considerava tutte queste cose anticaglia ingombrante e provvedeva a sven­dere ciò che aveva un valore artistico. Nel 1971, fu re­galata al Padre una scultura in legno della Madonna a grandezza naturale, molto bella ma anche molto rovina­ta. Quando giunse a Roma, il Padre espresse la propria gioia di vederla restituita al culto, ma anche il proprio dolore poiché era stata strappata alla pietà dei fedeli ed era passata per le mani di mercanti senza scrupoli. La fissò, ed esclamò, addolorato: «Madre, chissà da dove ti hanno scacciata!»13. Come riparazione, volle che ai suoi piedi non mancassero fiori freschi, finché non fosse sta­ta restaurata a dovere14.

Mentre le chiese venivano smantellate, il dogma cri­stiano era attaccato e si rifiutava l’obbedienza alla legit­tima autorità ecclesiastica15. Le comunità religiose subi­rono numerosissime defezioni, tanto da svuotare interi conventi. Non pochi seminari rimasero senza alunni, o vi furono abbandonati gli studi teologici. In molti con­venti fu messo in discussione il regime di clausura. Co­me si è visto, fra il 1969 e il 1970 il Padre, andando pel­legrino da un santuario all’altro, chiedeva con insistenza alla Madonna che intercedesse per il bene della Chiesa.

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Con gli auguri per il nuovo anno 1969, scriveva ai suoi figli in Spagna:

«Un anno nuovo, nel quale dobbiamo chiedere tutti all’unisono che il Signore, per intercessione della sua Santissima Madre, restituisca unità e autorità alla Chie­sa di Dio, che agli occhi del mondo intero sembra quasi distrutta. Ma non è così, perché lo Spirito Paraclito la governa»16.

Al Cardinale Dell’Acqua, che poteva capirlo, scriveva: «Mi ha grandemente rallegrato vedere ancora una vol­

ta come Dio Le ha concesso la grazia di capire a fondo il nostro spirito, e, come punti essenziali di esso, l’amore e la lealtà continua verso la Santa Chiesa ed il Papa, e l’an­sia apostolica di condurre a Cristo tutte le anime. Questa Sua affettuosa comprensione ci è stata e ci è di grande sti­molo e conforto per amare ogni giorno di più la Chiesa nostra Madre e il Vicario di Cristo.in terra»17.

* * si-

La terribile crisi del popolo di Dio era percepita dal Fondatore con singolare lucidità18 e gli era causa di in­dicibile preoccupazione. Tuttavia, non tutti i cristiani provavano altrettanta angoscia, forse perché non tutti si rendevano conto della gravità della situazione della Chiesa, o perché non se ne sentivano parte, o perché non la consideravano una Madre e non ne condivideva­no le pene, da buoni figli.

Di fronte all’indifferenza, alla freddezza e all’odio, il Fondatore aveva gridato fin da giovane il proprio amo­re limpido: «Che gioia poter dire con tutte le forze della mia anima: amo mia Madre la santa Chiesa»19.

Di fronte alla viltà, alla ribellione, alla slealtà, egli pro­fessava una lealtà salda ed eroica, già espressa, anni ad­dietro, in Cammino-. «Quel grido - serviamì - significa volontà di ‘servire’ fedelissimamente, anche a prezzo dei beni terreni, dell’onore e della vita, la Chiesa di Dio»20.

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Forse molti cristiani, ancor prima di perdere la fede, ave­vano già abbandonato la lealtà dovuta alla Chiesa. La virtù umana della fedeltà, nell’insegnamento del Fonda­tore, è inseparabile dalla virtù soprannaturale della fede.

Da molto tempo, infatti, egli aveva avvertito l’impor­tanza di sviluppare armonicamente le virtù umane e quelle soprannaturali. Lo considerava fondamentale per la formazione integrale che voleva dare alle persone nel- l’Opus Dei:

«Figlie mie, insegnate a tutte ad avere nel cuore e nel­la testa uno spirito di lealtà, fine carità di Cristo, che è virtù quasi ignota agli esseri umani, anche a quelli che si considerano cristiani»21.

Nel 1972 pronunciò una omelia sulla difesa della dot­trina e sulla lealtà dovuta alla Chiesa, in cui si chiedeva: da chi è formata la Chiesa? E rispondeva:

«Gens sancta, popolo santo, composto da creature piene di miserie; questa apparente contraddizione segna un aspetto del mistero della Chiesa. La Chiesa, che è di­vina, è anche umana, perché è formata da uomini, e gli uomini hanno i loro difetti (...).

Quando il Signore permette che la debolezza umana appaia, la nostra reazione deve essere quella di chi vede la propria madre ammalata o maltrattata: deve amarla di più, moltiplicare le manifestazioni esterne e interne di affetto. Se amiamo la Chiesa, non sorgerà mai dentro di noi l’interesse morboso di presentare come colpe della Madre le miserie di alcuni suoi figli. La Chiesa, Sposa di Cristo, non ha nessun motivo di intonare alcun mea cul­pa. Noi invece sì: mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa! {...).

Nostra Madre è Santa, perché è nata pura e conti­nuerà a essere senza macchia per l’eternità. Se qualche volta non riusciamo a intravedere la bellezza del suo volto, siamo noi a doverci pulire gli occhi»22.

Nella vita del Padre la sofferenza divenne collirio di purificazione. Aveva una visione interiore talmente chia­

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ra, da intuire subito e nei particolari le terribili conse­guenze della distruzione della fede nel mondo contem­poraneo. Il futuro gli si presentava come un libro aper­to, nel quale riusciva a leggere il baratro verso il quale era avviata l’umanità se avesse preso a ignorare le realtà soprannaturali: un nero abisso che avrebbe inghiottito le anime. La sofferenza aveva preparato il Fondatore a tale chiaroveggenza, frutto di un intenso amore per Cri­sto e per la sua Chiesa, della cui missione si sentiva re­sponsabile. E non capiva come mai i cristiani, davanti alla grande impresa della Redenzione, mantenessero un atteggiamento passivo e inerte.

Pensando al rischio che tante anime si perdessero, il Pa­dre rinnovava l’invito alla preghiera: «Bisogna pregare per le anime, per la Chiesa, perché vogliono inchiodare un’altra volta Cristo sulla Croce»23. In quegli amari fran­genti, metteva in gioco tutta l’energia interiore di cui di­sponeva e tutta la sua affettività, poiché aveva raggiunto una armonica compenetrazione delle sue forze sopranna­turali e umane, che si traduceva in un vivo zelo apostoli­co24. Un simile dominio, esercitato su tutta la sua perso­na, dà la misura della sua sofferenza. Era addolorato per le anime e il dolore gli strappava le lacrime: «Non sono mai stato un piagnone, ma quelle erano lacrime molto dolci, che bruciavano gli occhi: me le dava Dio»25.

Il Padre faceva grandi sforzi per non far capire agli altri le sue enormi sofferenze interiori, ma nelPintimità con Dio si sfogava liberamente. Non riusciva a contenere le lacrime durante la Messa e il ringraziamento, tanto che il pianto continuo gli produsse una forte irritazione agli oc­chi. I suoi figli lo accompagnarono a fare una visita oculi­stica, temendo una malattia, ma non era un fenomeno di competenza medica. Era il dono divino delle lacrime26.

Don Javier Echevarrìa, testimone di quell’immenso dolore, afferma che il Padre aveva l’anima affranta da quando, “a partire dagli anni sessanta, in tutto il mondo cominciò la grande diserzione di sacerdoti e di religiosi.

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Era un grido di dolore che gli usciva in continuazione dalle labbra. Gli doleva la Chiesa, come era solito dire; gli facevano male le anime che tradivano la propria vo­cazione e quelle che subivano lo scandalo di tante diser­zioni; gli doleva la confusione che i nemici della Chiesa seminavano”27.

Nulla di quanto accadeva intorno a lui lo lasciava in­differente, poiché aveva una predisposizione naturale a condividere la gioia e il dolore altrui, a farsi tutt’uno con i sentimenti del prossimo, a soffrire, anche fisica- mente, nel suo cuore paterno, con chi soffriva. Questa capacità di prendere parte alla sofferenza altrui era un’eredità familiare. Una volta, dopo una spontanea reazione di sofferenza, disse ai presenti: «Non preoccu­patevi, mi viene dalla famiglia, perché anche mia madre, quando accadeva una cosa simile, ne soffriva lei stessa, immediatamente»28. Non riusciva, dunque, a restare in­differente di fronte alle numerose offese commesse con­tro il Signore, il quale con il proprio sangue aveva paga­to generosamente la redenzione dell’umanità.

Alla sofferenza morale si aggiunsero molti dolori fisici e l’una e l’altra cosa si alternavano o si univano. Nel 1970 si risvegliò l’insufficienza renale cronica di cui sof­friva. Gli si gonfiarono le articolazioni delle braccia e delle ginocchia, con versamenti sinoviali e forti dolori, che cercava di nascondere29. Diceva a don Àlvaro del Portillo e a don Javier Echevarria:

«Sono poca cosa questi malanni, che voglio offrire continuamente al Signore assieme all’altra sofferenza - per la Chiesa - che invece è molto importante; ne viene fuori un bel miscuglio! Il dolore fisico costa, ma costa ancora di più se unito a un dolore morale che si trascina da tempo; ma bisogna dire fiati, accettando con gioia la volontà di Dio»30.

L’insufficienza renale gli causava dolori sempre più forti, ma non per questo interrompeva l’intenso lavoro, riuscendo a far prevalere le risorse spirituali. Il 14 di­

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cembre 1970 diceva ai suoi figli: «Sono molto stanco e mi tengo in piedi a forza di giaculatorie»31. Patimenti fi­sici e sofferenze morali sfociavano nella dolorosa preoc­cupazione per la Chiesa e per le anime e talvolta lo si udiva pronunciare frasi molto significative:

«Amo la Chiesa con tutta l’anima e ho bruciato la mia giovinezza, la mia maturità e la mia vecchiaia per servirla. Non lo dico con rimpianto, poiché tornerei a farlo mille volte»32.

«Mi addolora la situazione della Chiesa. Ma pazien­za, dobbiamo aspettare e chiedere al Signore che questa valanga si arresti»33.

Il 1° novembre 1970 parlò ai membri del Consiglio Generale mostrando una evidente emozione. Nella vita, disse, giungono a volte momenti di oscurità. Si possono superare soltanto con la fede, perché Dio esiste, anche se è un Deus absconditus. Senza dubbio il Padre era provato da qualche grave peso, perché lo stesso giorno, mentre dialogava con il Signore, i suoi figli lo udirono dire queste parole: «Ti sto dando, Signore, gli ultimi spiccioli. Non ne posso più!»34. Dava tutto, con genero­sità, e Dio, per non essere da meno, gli donava nuovo dolore. Don Javier Echevarria ricorda alcune sue espres­sioni del 1971:

«Non so che cosa voglia dire non soffrire. La mia vita è stata piena di dolore, vissuto con pace e con gioia so­prannaturale. Da principio ho cercato che non si notas­se. Ora, il Signore calca la mano e fa bene, anche perchélo merito, affinché io sappia sfruttarlo e mi serva di puri­ficazione: voglio mettere a frutto questa mortificazione passiva, amando dolcemente la dolce Volontà di Dio»35.

Molte notti dormiva poco o nulla. La preoccupazione per le anime, i pericoli cui erano esposte, tutto gli impe­diva di prendere sonno. Si sentiva inquieto36.

Voleva riparare per le migliaia di defezioni. Per affron­tare tale enorme peso dovette ricorrere allo Spirito San­to, che continua ad assistere la Chiesa nelle ore di lutto e

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di oscurità, «anche negli avvenimenti che a volte non ca­piamo e che ci causano lacrime e dolore»37. Si sentiva in­vaso dall’afflizione, da una sofferenza senza sollievo:

«Mi rendo perfettamente conto - diceva ai suoi figli - che non ottengo nulla rattristandomi, ma non riesco a evitarlo; mi fa pena la Chiesa, mi fanno pena le anime! Mi riempio di tristezza, anche se dentro sono pieno di pace, perché il Signore non conosce sconfitte. Spesso concludo la giornata molto stanco per lo sforzo di prega­re continuamente, di chiedere e implorare, sempre, con la fiducia che il Signore mi deve ascoltare; allora cerco di trasformare in orazione anche il peso di questa stanchez­za e offro a Dio le mie miserie, i miei buoni desideri fra cui quello di riuscire a concludere tante cose alle quali non arrivo perché mi manca materialmente il tempo, mentre dico tra me e me, in un abbandono totale: Signo­re, per la tua Chiesa, per tutte le anime, per le mie figlie e i miei figli, per me! Guarda che è la tua Chiesa, che noi siamo i tuoi figli, che le anime sono tue! Così, mi accingo a ricominciare la mia lotta e la mia orazione»38.

Il Padre viveva in perfetta veglia di spirito. La preoc­cupazione per le anime, l’orazione ininterrotta e le lacri­me copiose avevano affinato ancora di più la sua vita interiore. Col passare degli anni, l’abitudine non aveva appannato l’intimità del suo rapporto con il Signore nell’Eucaristia. Era vivo nella sua memoria il tremore che lo aveva colto quando, diacono, per la prima volta aveva toccato l’Ostia Santa. Con la stessa finezza di sen­timenti celebrò la Messa del 14 novembre 1970 durante la quale disse interiormente al Signore: «Signore che non mi abitui a stare vicino a Te; che ti ami come la pri­ma volta che ti toccai, tremante di fede e d’amore»39.

Con umiltà e profonda gratitudine si rivolgeva in ogni occasione a Dio nostro Padre. Se si accorgeva di una pic­cola trascuratezza, si affrettava a chiederne perdono. Si pentiva persino delle distrazioni involontarie nella pre­ghiera. Ringraziava per tutti i beni ricevuti, anche quelli

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di cui non era consapevole o di cui non si ricordava. Il 19 aprile 1971 si era messo delle scarpe nuove e nelle ter- tulias con le sue figlie o con i suoi figli, quel giorno o i successivi, disse loro varie volte: «Rendo grazie a Dio perché mi calzate, mi curate, mi date da mangiare. Prima non ringraziavo per tutto questo, ma ora sì, perché vedo che sono tutti suoi benefici. Lo ringrazio anche di avere due mani, due occhi, di essere normale»40.

Il dolore per i maltrattamenti che la Chiesa subiva e per le gravi mancanze commesse dagli uomini influenza­va anche il suo sentimento della natura. Se la giornata era luminosa e soleggiata - «un giorno chiassoso», dice­va - considerava l’euforia della natura quasi un insulto all’afflizione della Chiesa41. Non voleva gioirne. Se la giornata era grigia e piovosa, i suoi occhi irritati ne ave­vano sollievo. Esternamente doveva combattere contro la tristezza, le tentazioni della malinconia e del pessimi­smo. Eppure aveva passato tutta la sua vita lottando per conservare l’allegria, nonostante le avversità, e metten­do in guardia i suoi figli dai “musi lunghi” ; raccoman­dava loro «il sorriso continuo, che tante volte costa, e molto, servendo il Signore con gioia e servendo, pure con gioia, gli altri per Lui»42. Questo era lo spirito del- l’Opus Dei e, con la grazia di Dio, il Padre riusciva a sconfiggere la tristezza.

Di quel periodo, una delle sue figlie racconta che “si notava come la speranza crescesse di giorno in giorno nella sua anima: Egli era certo che Dio non avrebbe mancato di assistere la sua Chiesa perseguitata (...). E ci invitava a essere ottimiste e liete, ma con un ottimismo fondato sull’orazione e sulla riparazione”43.

Se la sua anima giungeva a provare l’amarezza della tristezza, subito si aggrappava alla roccia salda della fi­liazione divina e considerava, con ottimismo, che tutto viene dalla Provvidenza misericordiosa di Dio Padre. Poi si abbandonava in Lui, si metteva completamente nelle sue mani. Non era la dolce quiete di un’anima as­

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sopita, ma il risultato di uno sforzo faticoso, come spie­gava ai suoi figli l’ i l dicembre 1972:

«È duro, perché l’anima mette in esercizio le potenze che Dio ci ha dato per proseguire il cammino. E arriva­no momenti in cui è necessario prescindere dalla memo­ria, sospendere l’intelligenza, piegare la volontà. E duro, ripeto, perché l’attività dell’anima è logica, come l’oro­logio carico che fa necessariamente tic-tac. A volte è molto duro, perché comporta che a settant’anni si torni all’infanzia autentica: non preoccuparmi se le mosche mi spaventano né se mi danno o no da mangiare. Lo fa­ranno certamente. Mi metto nelle braccia di Dio mio Padre, ricorro a mia Madre Maria Santissima e confido pienamente, nonostante le asperità del cammino»44.

Contava sull’orazione di tutti i suoi figli, che lo faceva sentire forte della fortezza altrui. Si appoggiava, in mo­do particolare, sulla preghiera dei membri del Consiglio Generale e dell’Assessorato Centrale e, in modo ancora più speciale, sull’efficacia dell’orazione e della mortifi­cazione delle sue figlie Numerarie Ausiliarie45.

2. Locuzioni divine

Era il mese di febbraio 1962. Il Padre disse agli alunni del Collegio Romano della Santa Croce: «Le cose vanno avanti, pregate. Se va a buon fine, ve lo dirò; se no, vi dirò che non è andata»46. Si riferiva evidentemente alla sua intenzione speciale, la definitiva sistemazione giuri­dica dell’Opus Dei, sempre oggetto delle sue pressanti richieste al Signore, perché mostrasse la sua onnipoten­za e la sua misericordia. A volte, quando dirigeva la me­ditazione ai membri del Consiglio Generale, fissava il Tabernacolo e diceva: «Signore, fatti vedere! Fanne una delle tue! Che si veda che sei Tu!»47. Non chiedeva un miracolo, ma piuttosto una bella sorpresa che desse glo­ria a Dio e lasciasse tutti a bocca aperta.

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In quei giorni aveva chiesto alla Santa Sede, su insi­stenza del Cardinale Ciriaci, l’erezione dell’Opus Dei in Prelatura nullius. Si è narrato precedentemente che la ri­chiesta non fu accolta. Il Fondatore, deluso, ma non sor­preso, accettò umilmente la risposta negativa della Santa Sede. Rispettando la promessa, informò i suoi figli del tentativo fallito ma, nello stesso tempo, li incitò a non perdere la visione soprannaturale e a continuare a prega­re per l’intenzione speciale, “importunando” Dio nostro Signore con costanza, con perseveranza, senza tregua:

« ‘Il Dio di ogni grazia, il quale vi ha chiamati alla sua gloria eterna in Cristo, Egli stesso vi ristabilirà, dopo una breve sofferenza vi confermerà e vi renderà forti e saldi’ (1 Pt 5,10). Perciò, a ciascuno di voi dico: clama, ne cesses, quasi tuba exalta vocem tuam {Is 58,1); grida, non stancarti di pregare, leva in alto la tua voce, che ri­suoni come una tromba»48.

I suoi figli lo ascoltavano e pregavano. Come Fonda­tore e come Padre, spettava a lui prendersi cura della lo­ro salute spirituale ed egli apriva loro gli occhi su quan­to stava succedendo49. Dovevano quindi mantenersi forti nella fede, saldi nella dottrina, fedeli al Magistero della Chiesa. Così li esortava: «Nell’Opus Dei, ve l’ho ripetuto in continuazione, facciamo sempre in modo di sentire cum Ecclesia, di essere in sintonia con la Chiesa di Cristo, Madre nostra»50.

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La vita del Padre era diventata un silenzioso olocausto. Dio lo rendeva partecipe della Croce di Suo Figlio. Per lui, la partecipazione al travaglio della Redenzione era un invito amorevole e paterno, un onore e una carezza, e serviva per purificarlo, cosa che accettava e benediva in spirito di riparazione: «A settant’anni - confessava - capisco che tutti i colpi che ho ricevuto sono serviti per purificarmi, perché sono un miserabile»51.

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Da questo punto di vista, è impossibile distinguere fasi nella vita del Fondatore, perché la sua esistenza non fu altro che una continua purificazione. Fin da bambino fu investito dal dolore, dalla presenza della morte e dai ro­vesci economici della famiglia; poi, nel corso degli anni, da infinite difficoltà e umiliazioni, da grandi contrarietà, dalla persecuzione e da innumerevoli sofferenze. Tutta la sua vita appare segnata da difficoltà umanamente insu­perabili. Ma egli non si lamentò mai ed è davvero sor­prendente la sua capacità di sopportare tante vicissitudi­ni con serenità e allegria. Quale molla interiore lo sorreggeva, impedendogli di farsi sconfiggere dalla di­sgrazia, di cedere di fronte all’avversità o di sgomentarsi davanti ai pericoli? Certamente, la consapevolezza della filiazione divina gli infondeva una straordinaria energia spirituale. L’amore trionfava sul dolore, perché, spiegava ai suoi figli, perfino ciò che ci può sembrare un male è voluto da Dio per il nostro bene:

«Non dimenticate che se il Signore ci manda una gioia, è perché ci ama; e se ci manda qualche pena, è per avere la prova che lo amiamo»52.

* * *

Nel 1970 erano già trascorsi otto anni dalla solenne inaugurazione del Concilio Vaticano II e da quando egli aveva scritto ai suoi figli per chiedere loro preghiere ininterrotte per la Chiesa e per l’Opera. L’8 maggio di quell’anno, una settimana prima di partire per il pelle­grinàggio in Messico, udì risuonare nella sua anima, con assoluta chiarezza, la voce del Signore: Si Deus no- biscum, quis contra nos?53. Fu uno squarcio di luce nel buio, che gli diede grande conforto e rafforzò la sua si­curezza nella potenza divina: Dio non perde battaglie e continua ad accorrere in aiuto dei suoi figli.

Rientrato dal Messico, il Padre trascorse alcune setti­mane a Premeno, nel nord Italia, vicino al lago Maggio­

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re, per riposare e lavorare. La mattina del 6 agosto 1970 don Javier Echevarrìa si recò come sempre in cap­pella per servire la Messa al Padre, e lo trovò davanti al­l’altare, raccolto in orazione. Stava meditando e assapo­rando con profonda consolazione alcune parole con cui il Signore gli aveva fatto capire di gradire molto e di te­nere molto presente l’incessante clamore per la Chiesa e per l’Opera54. Alcuni anni dopo, raccontò l’accaduto, cercando di spersonalizzarlo:

«C ’era un’anima che stava passando un periodo di grande sofferenza (non è l’anima di un santo: è un’ani­ma come la vostra, che ha alti e bassi e che è fragile e deve essere spesso riaggiustata) e, quando meno se lo aspettava, mentre pregava molto per una cosa che anco­ra non è avvenuta, udì nell’intimo del suo cuore: clama, ne cessesi Non è che a quell’anima piaccia sentire alcun­ché: ne soffre. Ma dette ascolto e continua a pregare, gridando, con fortezza. Non smettere di pregare, ti ascolto: clama, ne cessesi»55.

Raramente il Padre raccontava pubblicamente episodi di questa natura, salvo che lo ritenesse necessario per il bene dell’Opera e dei suoi figli. Si sa poco, dunque, del­le numerose grazie straordinarie che ricevette. Ne cono­sciamo solo alcune e fra queste ciò che accadde il 23 agosto 1971. Trascorreva alcuni giorni a Caglio, un paesino vicino a Como, nel nord Italia. Quella mattina, dopo aver celebrato la Messa e fatto il ringraziamento, si era messo a leggere il giornale quando, con grande chiarezza e con forza irresistibile, sentì imprimersi nella sua anima un’altra locuzione divina: Adeamus cum fi­ducia ad thronum gloriae ut misericordiam consequa- mur56: ricorriamo fiduciosi al trono della gloria, per ot­tenere misericordia.

Alle locuzioni del 1970, che tanto lo aiutarono nella sua perseverante orazione per la Chiesa, seguì presto una “ scoperta” : l’azione, l’effusione dello Spirito Santo nella Messa. Il Padre giunse così a capire come fosse av­

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venuta, per bontà divina, «la fioritura dell’Opus Dei in persone di ogni razza, lingua e nazione»57. Non era mai stato favorevole a proporre devozioni particolari, ma sentì la necessità che la famiglia dell’Opus Dei facesse una ulteriore consacrazione: avrebbe offerto l’Opera al­lo Spirito Santo, affinché fosse sempre uno strumento fedele al servizio della Chiesa58.

Alle dodici e trenta del 30 maggio 1971, giorno di Pentecoste, fece la consacrazione nell’oratorio del Con­siglio Generale. Dietro all’altare, una grande vetrata il­luminata riproduce la scena della Pentecoste. Don Àlva­ro lesse il testo della consacrazione59, che implorava lo Spirito Santo di effondere sui suoi fedeli, elencandoli, i doni dell’intelletto, della sapienza, della scienza, del consiglio, del timore, della fortezza “che ci renda saldi nella fede, costanti nella lotta e fedelmente perseveranti nell’Opera di Dio” . Infine, il dono della pietà “che ci dia il senso della nostra filiazione divina, la coscienza gaudiosa e soprannaturale di essere figli di Dio e, in Ge­sù Cristo, fratelli di tutti gli uomini”60.

Non mancava la preghiera per tutto il Popolo di Dio e per i suoi pastori, per la cui situazione erano state spese tante lacrime:

“Ti supplichiamo di assistere sempre la tua Chiesa, e specialmente il Romano Pontefice perché ci guidi con la sua parola e il suo esempio e affinché raggiunga la vita eterna insieme al gregge che gli è stato affidato; che mai manchino i buoni pastori e che tutti noi fedeli, serven­doti con santità di vita e integrità nella fede, raggiungia­mo la gloria del Cielo”61.

Il Padre fu investito da una nuova pioggia di grazie. Il grido clama, ne cesses rinnovò nella sua anima uno spi­rito di veglia, che lo teneva in tensione, sempre attento a Dio. Ogni locuzione divina era un passo avanti, un gra­dino nell’ascesa, parte di un gioco silenzioso tra Dio e l’anima. Le parole si imprimevano a fuoco nel suo spiri­to e accendevano il suo amore.

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Guidato dallo Spirito Santo, cercò rifugio nel Cuore Sacratissimo di Gesù, tabernacolo della misericordia di­vina. Ai primi di settembre del 1971, quando fece ritor­no da Caglio, consigliò ai suoi figli di recitare spesso una giaculatoria: Cor Iesu Sacratissimum et Misericors, dona nobis pacem!62. Era anche un modo per rivelare loro qualcosa dell’azione dello Spirito Santo nella sua anima. Essi ne prendevano puntualmente nota, dopo le meditazioni o le tertulias nelle quali veniva alla luce qualche nuova esperienza spirituale. Nell’ottobre 1971, per esempio, confidò loro l’atto di abbandono che ave­va composto: «Signore, Dio mio, nelle tue mani abban­dono il passato, il presente e il futuro, il piccolo e il grande, il poco e il molto, il temporale e l’eterno»63. E aggiunse: «Per arrivare a questo atto di abbandono, bi­sogna lasciarci la pelle».

Le locuzioni divine imponevano al Padre un maggior distacco. Poco dopo il clama, ne cessesi diceva ai suoi fi­gli: «La mia attenzione è sempre fissa in Dio; sto più fuo­ri della terra che in terra»64. Le locuzioni riconducevano la sua vita interiore ai sentimenti misericordiosi del Cuore di Gesù, facendole imboccare nuove strade d’Amore. Tut­tavia, il Padre sosteneva che la sua corrispondenza alla grazia era insoddisfacente e affermava, sconsolato: «In qualsiasi professione, dopo tanti anni, sarei già un mae­stro. Nell’amore di Dio sono sempre un apprendista»65.

Le locuzioni erano rapidi tocchi della grazia che ravvi­vavano la sua anima e la sostenevano nella continua lot­ta contro lo scoraggiamento. Erano magistrali pennellate del divino Artista, che provocavano risposte eroiche da parte del Fondatore. Il Padre aveva l’esperienza sufficien­te per riconoscere ciò che di inconfondibile hanno le pa­role di Dio. Nel suo caso particolare, lo descriveva così: «Era qualcosa di breve, concreto, che non udivo con le orecchie,... e che non avevo cercato»66.

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Non è raro che gli uomini pensino di poter fare a meno di Dio, di potergli voltare le spalle e di vivere per proprio conto. «Si sbagliano - diceva il Fondatore - . Anche se non lo sanno, giacciono come il paralitico della piscina probatica: incapaci di muoversi verso le acque che salva­no, verso la dottrina che riempie l’anima di gioia»67. Non si rendono conto di avere nell’anima un vuoto fatto di tristezza e di desolazione spirituale. Ci sono anche cri­stiani che si considerano a posto perché sanno di essere dentro la Chiesa. Certamente, «stare nella Chiesa è già molto: ma non basta. Dobbiamo ‘essere’ Chiesa, perché nostra Madre non ci deve mai essere estranea, al di fuori, lontana dai nostri pensieri più profondi»68.

Indubbiamente, chi si accontenta di ‘stare’ nella Chie­sa non ne ha compreso la realtà soprannaturale, il suo mistero. La considerano una struttura umana anziché una istituzione di origine divina e non percepiscono l’in­divisibile unità tra il Popolo di Dio e il suo Capo, Gesù Cristo, Sposo e santificatore del suo Corpo mistico. For­se dimenticano la debolezza della condizione umana, i difetti e le miserie di coloro che ne fanno parte, e che la Chiesa è governata da uomini, sia pure assistiti dallo Spirito Santo. Forse giudicano con superficialità e non riescono a cogliere il mistero santificatore della Chiesa, che - come proclama il Fondatore - penetra fino alla vi­ta eterna, per la salvezza degli uomini:

«Santa, Santa, Santa! Così osiamo inneggiare alla Chiesa, evocando l’inno in onore della Beatissima Tri­nità. Tu sei Santa, Chiesa, Madre mia, perché ti ha fon­dato il Figlio di Dio, che è Santo; sei Santa, perché così ha voluto il Padre, fonte di ogni santità; sei Santa, per­ché ti assiste lo Spirito Santo, che abita nelTanima dei fedeli, per riunire i figli del Padre, che abiteranno nella Chiesa del Cielo, la Gerusalemme eterna»69.

Di fronte alla meschinità dell’uomo, risplende la gran­dezza misericordiosa della Chiesa che, dopo averci ac­colti nel suo seno con il Battesimo, ci santifica con cura

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materna. La sua grandezza risalta nel potere sacerdotale che proviene da Cristo, la cui mediazione salvifica tra Dio e gli uomini in essa si perpetua.

Il Padre contemplava il mistero ineffabile della Chiesa e soffriva vedendo i cristiani che ne laceravano brutal­mente l’unità. Amava la Chiesa alla follia, perché era la ragione della sua vita e la ragione dell’esistenza dell’O- pus Dei. Perché esisteva l’Opera se non per servire la Chiesa? Sarebbe stato felice di vivere in tempi di perse­cuzione per essere obbligato a testimoniare con il marti­rio la sua fedeltà alla Chiesa70. Spesso confessava ai suoi figli questo suo amore:

«Figli miei, il bene della Chiesa al di sopra di tutto! La fede della Chiesa va difesa sempre, anche a costo del­la vita, in tutte le circostanze»71.

Il Padre paragonava gli attacchi alla Chiesa al tentati­vo di strappar via a viva forza i blocchi di pietra di una cattedrale. Avrebbe voluto baciarli con amore e rimet­terli al loro posto72. Era una questione d‘amore73. La Chiesa, ferita e maltrattata, chiedeva fedeltà ai propri fi­gli, aveva bisogno di loro e il miglior modo per aiutarla consisteva nell’amare di più e meglig. Il Fondatore ave­va offerto la propria vita per la Chiesa e per il Papa e continuò a offrirla ogni giorno74. Molti testimoni ricor­dano che la mattina del 26 giugno 1975, poche ore pri­ma di andare in Cielo, dopo aver pregato nella Messa per la Chiesa e per il Papa, rinnovò l’offerta della sua vi­ta «e di mille vite, se le avessi»75.

* * 55-

Che cosa fare? Il Padre continuava a chiederselo. Come scongiurare tanta ribellione e tanto disprezzo contro la Chiesa? Come arginare una valanga che minacciava di abbattere credenze, consuetudini e devozioni millenarie?

Vedeva chiaramente che la Chiesa aveva bisogno del­l’impegno di tutti i cristiani. La Domenica delle Palme

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del 1971 predicò un’omelia, invitando i fedeli a essere più leali alla dottrina di Cristo: tutti ne dovevano sentire l’obbligo, nessuno escluso:

«Questa forza non è una violenza contro gli altri, ma fortezza per combattere le proprie debolezze e le proprie miserie, coraggio di non mascherare le proprie infedeltà, audacia per confessare la fede anche quando l’ambiente è ostile»76.

Il Padre predicava la battaglia interiore contro l’egoi­smo, la sensualità e la superbia. Chi non lotta continua- mente è esposto a ogni genere di schiavitù: del potere o del denaro, della vanità o della carne. L’unico modo per attirare lo sguardo misericordioso del Signore è l’orazio­ne, lo sforzo per starGli più vicini. Nei momenti critici della storia dell’umanità, l’unica possibile salvezza è la supplica dei fedeli pentiti e l’intercessione dei santi per i peccatori. Per questo il Padre aveva gridato in Cammino:

«Un segreto. - Un segreto a gran voce: queste crisi mondiali sono crisi di santi»77.

Come Pastore dell’Opera, al Padre toccava il compito di guidarla spiritualmente, in primo luogo con l’esem­pio. La sua vita di pietà era una splendida lezione di fe­de per quanti gli stavano accanto. Era straordinario l’immenso amore per Gesù Eucaristico che egli mostra­va nelle azioni, nei gesti e nelle parole, nelle visite al ta­bernacolo, nella celebrazione della Messa, nelle proces­sioni eucaristiche e in altre cerimonie liturgiche78.

Si prendeva cura delle anime, vigilando sulla forma­zione dottrinale, facendo giungere ai fedeli dell’Opus Dei e a tante altre persone vicine agli apostolati dell’O- pera criteri sicuri sui libri che venivano pubblicati, sul valore del contenuto o sulle tendenze degli autori. Ve­gliava anche attentamente sul compimento delle norme di pietà, sull’amministrazione dei sacramenti, sulla cura del culto e sull’intenso lavoro pastorale dei sacerdoti dell’Opera, prendendo i provvedimenti necessari per tu­telare la fedeltà dei suoi figli.

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Le anime correvano il pericolo di perdersi, e il Padre si assunse la responsabilità di mettere in salvo i fedeli dell’Opus Dei. Lo fece con un atteggiamento positivo: armato della sicurezza della fede, suonava loro la cari­ca, non certo la ritirata. Creato da Dio, il mondo era buono, ma la cattiveria umana lo stava guastando: era necessario purificarlo e restituirlo a Dio. Era un impe­gno gigantesco, ma ai cristiani toccava mettere da parte la nostalgia del passato, andare controcorrente e lottare in mezzo al mondo, senza contaminarsi.

Il Padre amava parlare di barche e di reti: della barca di Pietro, delle reti di Cristo e della missione dei dodici Apostoli, che il Signore aveva reso “pescatori di uomi­ni” . Spesso, durante una meditazione o un incontro con le sue figlie o con i suoi figli, proponeva qualche para­bola ecologica. Erano gli anni in cui cominciavano ad alzarsi voci in difesa della natura, proteste contro il pe­ricolo di estinzione di specie animali o vegetali, contro l’inquinamento atmosferico o delle acque, contro la mo­ria dei pesci. Ecco una di queste parabole:

«Può succedere che qualche pesce, qualche persona, vedendo ciò che sta succedendo in tutto il mondo e al­l’interno della Chiesa di Dio, di fronte a questo mare che sembra pieno di sporcizia, davanti a questi fiumi pieni di cose ripugnanti, dove non trova né cibo né ossi­geno; se qualche pesce, stavo dicendo, pensasse - e stia­mo parlando di pesci che pensano, perché hanno un’a­nima - e si facesse venire in mente di dire: ‘Basta, faccio un salto e... fuori! Non vale la pena vivere in questo modo. Mi rifugerò sulla riva e prenderò una boccata d’aria, respirerò un po’ di ossigeno. Basta!’.

No, figli miei; noi dobbiamo continuare in mezzo a questo mondo putrido, in mezzo a questo mare di acque torbide, in mezzo a questi fiumi che attraversano le grandi città e i villaggi e che non hanno nelle loro acque la virtù di fortificare il corpo, di spegnere la sete, perché avvelenano. Figli miei, dobbiamo stare sempre nel bel

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mezzo alla strada, in mezzo al mondo, cercando di crea­re intorno a noi uno specchio di acqua limpida, affinché vengano altri pesci e con il concorso di tutti riusciamo ad ampliare lo specchio d’acqua, purificando il fiume, restituendo le sue qualità alle acque del mare.

Non scoraggiatevi mai. Coraggio! Bisogna nuotare controcorrente, invocando la Vergine, il Cuore materno e purissimo di Maria Santissima: Sancta Maria, refu- gium nostrum et virtusl, sei il nostro rifugio e la nostra fortezza. State tranquilli. Non vogliamo andarcene dal mondo. Non vogliamo accorciare i giorni, anche se di­ventano molto lunghi, anche se vediamo che coloro che ne hanno il potere non purificano le acque e contribui­scono a contaminare i fiumi, a gettare sostanze nocive nei grandi mari, che non riescono a liberarsene (...).

Questo, figli miei, è ciò che a nome vostro e mio chie­do molte volte al Signore. Che questo mondo che Egli ha fatto, e che noi uomini stiamo rovinando, torni a es­sere uguale a quando è uscito dalle sue mani: bello, sen­za corruzione, un’anticamera del Paradiso”79.

3. Nella casa del Padre comune

La visita che il Papa fece al Centro ELIS il 21 novembre 1965 dimostrò in modo evidente la venerazione del Fon­datore verso il Vicario di Cristo: egli, infatti, non riuscì a nascondere la commozione per la presenza del Santo Pa­dre, messa in risalto dal tremito della mano che reggeva i fogli su cui stava leggendo le parole di benvenuto. Il giorno successivo ringraziò per lettera il Papa per la sua venuta e per «aver sentito così vicino e caloroso il Suo Paterno affetto»: per lui e per tutti si era trattato di un eccezionale motivo di incoraggiamento e di gioia80.

Una settimana dopo serbava ancora «così vive e com­moventi le immagini di quel felicissimo avvenimento» che sentì la necessità di ringraziare mons. Angelo Del­

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l’Acqua, Sostituto della Segreteria di Stato, che si era molto impegnato per preparare la visita:

«Con fraterna confidenza, Le dirò che durante tutto il tempo in cui ho avuto l’alto onore di accompagnare Sua Santità, l’emozione non mi ha mai lasciato. Io, ho avuto già occasione di dirlo altre volte a S. E., sono un povero peccatore, ma, per grazia di Dio, con una fede forte ed un grande amore per Gesù Cristo, la Sua Chiesa ed il Suo Vicario. Mi ha colmato, perciò, di intima commo­zione poter trovarmi così vicino al dolce Cristo in terra: ed in questa circostanza lo è stato in modo particolare, perché si aggiungeva anche il grande affetto che nutro per la Persona di Sua Santità. In quei momenti, infatti, ritornava alla mia memoria, accompagnato da sentimen­ti di viva riconoscenza, il ricordo di tante premure che il Santo Padre ha avuto verso la mia persona fin da molti anni fa. Ricordavo specialmente che fu proprio Pallora Mons. Montini a procurarmi la gioia della mia prima udienza concessami da S.S. Pio XII, di f.m. - la prima volta che potevo parlare con il Papa! - e come Gli mani­festai poi l’intensa emozione provata in quell’incontro che era stato possibile grazie a Lui. Le dico tutto questo perché so che così S. E. potrà capirmi meglio e non si meraviglierà quando talvolta Le confessi che provo una grande - santa - invidia per Lei, perché ha la fortuna di vedere spesso il Santo Padre e di parlarGli»81.

Negli anni successivi al Concilio furono introdotte numerose riforme nella organizzazione ecclesiastica, nella pastorale e nella liturgia, spesso ad experimentum, ma senza alcuna autorizzazione della Santa Sede o dei Vescovi. Ne nacque un gran disordine, poiché comincia­rono a esserci vistose differenze tra le novità introdotte da alcuni e le disposizioni dell’autorità ecclesiastica. Poiché al Papa arrivavano rapidamente queste e altre cattive notizie, mentre nessuno si curava di fargliene ar­rivare di buone82, il Fondatore dell’Opus Dei approfit­tava di tutte le occasioni per procurargli qualche motivo

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di gioia, manifestandogli per iscritto, direttamente o at­traverso il Sostituto della Segreteria di Stato, mons. Del­l’Acqua, la propria assoluta e filiale adesione alla Catte­dra di S. Pietro. Da una parte sentiva l’esigenza di far conoscere questi sentimenti di devozione per il Santo Padre, dall’altra desiderava consolarlo, per quanto in suo potere, e fargli dimenticare la scarsa considerazione in cui lo tenevano in alcuni ambienti; le belle notizie che gli faceva pervenire riguardavano i frutti dell’apostolato dei fedeli dell’Opus Dei.

Su richiesta di mons. Dell’Acqua, inoltre, il Fondatore inviava alla Segreteria di Stato il suo parere su diverse que­stioni, sempre disponibile al servizio della Chiesa e delle anime. Questo è il motivo, oltre naturalmente alla profon­da e reciproca amicizia, della copiosa corrispondenza tra il Fondatore e il Sostituto della Segreteria di Stato.

Ma questo rapporto indiretto con il Romano Pontefi­ce non gli bastava. Il Fondatore desiderava incontri per­sonali, voleva udire la voce del Papa, vedere il suo volto, trovarsi accanto a lui. D’altra parte, quando era ricevu­to in udienza era così a suo agio, ancorché emozionato, che il tempo filava via veloce ed egli non riusciva a dire tutto ciò che si era preparato.

Nel dicembre 1965 Cammino aveva già raggiunto, nelle diverse edizioni, due milioni di copie. Per questo motivo ne fu stampata un’edizione speciale in castiglia- no per bibliofili. Il ricavato fu destinato a un’opera so­ciale dell’Opus Dei a Siviglia. Il Fondatore volle donare al Papa la prima copia e chiese di poterlo fare di perso­na, come sincera testimonianza della sua piena adesione filiale al Vicario di Cristo83.

L’udienza, preparata da mons. Dell’Acqua, ebbe luo­go il 25 gennaio 1966. Quattro giorni dopo, don Jose- maria gli scriveva, per ringraziarlo e raccontargli le sue impressioni:

«Non può immaginare la gioia profonda e la commo­zione intensa che provo ogniqualvolta mi è consentito

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di parlare con Sua Santità. Ringrazio Iddio per l’amore e la venerazione grande che mi ha dato di sentire verso il Romano Pontefice: non riesco, infatti, ad abituarmi a questi felici incontri, pur trovandomi sempre perfetta­mente a mio agio, come un figlio che conversa con suo Padre. Penso, però, che probabilmente solo dopo un mese di frequenti conversazioni con il Santo Padre mi riuscirebbe di esprimere con maggior scioltezza tutto quello che sento dentro di me»84.

Un anno e mezzo dopo questo incontro con Paolo VI,il Fondatore chiese nuovamente udienza, per consegnar­gli personalmente alcune medaglie commemorative del Centro ELIS e, come egli stesso scrisse, «per approfitta­re dell’occasione e parlare con il Santo Padre esclusiva- mente di cose che gli diano consolazione e gioia»85.

L’udienza ebbe luogo la mattina del 15 luglio 1967. Nel pomeriggio, con il cuore pieno di gioia, ringraziò mons. Dell’Acqua, da poco nominato Cardinale, per i suoi buoni uffici:

«Poter essere ricevuto dal Vice-Cristo in terra è per me sempre un preziosissimo dono del Signore, un moti­vo di grande conforto, e un vigoroso impulso per l’ani­ma mia e per il lavoro apostolico di tutto l’Opus Dei»86.

Gli raccontò poi del dono fatto al Santo Padre delle medaglie commemorative della sua visita al Centro ELIS del 1965, e dei racconti sul fecondo lavoro aposto­lico delle sue figlie e dei suoi figli, lieto di avergli dato qualche buona notizia «in mezzo alle quotidiane e gra­vose preoccupazioni che Gli impongono la Sua Altissi­ma missione e ia Sua instancabile premura apostolica». E proseguiva:

«Eminenza, nella meravigliosa Udienza di stamane mi sono sentito ricompensato di tante sofferenze che il Si­gnore, nella Sua amorosa Provvidenza, ha permesso che affrontassi durante questi 40 anni: e tutto ciò lo debbo a Vostra Eminenza. Stia certo che, così come ogni giorno prego per la Chiesa di Dio e per il Papa, non manco di

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ricordare pure ogni giorno Vostra Eminenza nelle mie preghiere. Pregare è, d’altronde, l’unica cosa che posso fare. Il mio povero servizio alla Chiesa si riduce a que­sto. Ed ogni volta che considero la mia limitatezza, allo­ra mi sento pieno di forze, perché so e sento che è Iddio che fa tutto e che interviene con il Suo potere per dare vigore alla piccolezza di creature come me, che non han­no nulla da dare e che non sono nulla»87.

Ai primi di settembre del 1967 il Fondatore si trovava al Castello di Urio, una casa per ritiri e convegni sul La­go di Como, da dove si recò poi nel nord dell’Europa per visitare alcuni Centri dell’Opera e sostenere l’espan­sione apostolica. Giunto a Parigi, scrisse al Cardinale Dell’Acqua per confermargli che la sua preghiera per la salute del Santo Padre, in quei giorni ammalato, era continua e che sperava in una pronta guarigione. Com­pletò la lettera con il racconto di un episodio, evidente­mente narrato perché fosse riferito al Papa e lo confor­tasse nella malattia.

Mentre il Fondatore si trovava ad Avignone e passeg­giava con don Àlvaro davanti al Palazzo dei Papi, tre omaccioni, soldati della Legione Straniera, ubriachi fra­dici, notando le vesti talari, si erano avvicinati. Forse il vino aveva provocato in loro una esaltazione di senti­menti filantropici e religiosi, fatto sta che tutti e tre, in coro, si rivolsero a don Àlvaro, chiedendo notizie della salute del Papa: Farce que nous aimons beaucoup le Pa­pe, gli dissero con grande serietà. Don Àlvaro li tran­quillizzò e li invitò a pregare per il Santo Padre; promi­sero di farlo e si allontanarono barcollando.

La lettera si chiudeva con la richiesta al Cardinale di avere «la bontà di presentare al Padre Comune la sua fi­liale adesione di orazione e di affetto»88. L’amore del Fondatore per il Papa aveva profonde radici teologiche. In lui vedeva il Vicario di Cristo e il Padre comune dei cristiani, al di sopra delle qualità personali di questo o di quel Pontefice. Oltre che teologico, era un affetto

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squisitamente umano e l’atteggiamento del Fondatore di fronte ai dolorosi avvenimenti degli anni susseguenti lo avrebbe confermato.

* * si-

Nel mese successivo all’incontro di Avignone con i tre legionari, il Fondatore completò il suo viaggio in Euro­pa. Si recò poi in Spagna per presiedere, come Gran Cancelliere dell’Università di Navarra, la cerimonia di consegna di sei lauree honoris causa e la seconda As­semblea degli Amici dell’Università di Navarra. L’8 ot­tobre 1967 celebrò la santa Messa nel campus dell’Uni­versità, davanti a trentamila persone giunte da diverse città della Spagna e da altri Paesi. Il Padre era stanco per le fatiche delle settimane precedenti, ma si riprese subito davanti a una folla che rappresentava «una imponente manifestazione di fede e di amore per la Santa Chiesa e (benché mi vergogni a dirlo) anche di affetto verso di me, che sono un peccatore che ama Gesù Cristo»89.

Dalla Spagna ritornò a Roma, dove riposò per qual­che giorno ed ebbe un colloquio con il Cardinale Del­l’Acqua, nel quale trovò «una sincera e sacerdotale comprensione» dei problemi che lo preoccupavano. Ne fu incoraggiato e decise di confidarsi fraternamente conil Cardinale. D’altra parte l’amicizia era reciproca e tan­te volte era toccato al Fondatore consolare e consigliareil Sostituto. Ciò che desiderava confidargli non era cosa di poco conto e prima di farlo esitò a lungo. Non per il timore che i giudizi che avrebbe espresso fossero infon­dati, poiché non gli mancavano le prove, ma perché si conosceva e sapeva di essere abituato a esprimersi con grande chiarezza. Il 29 ottobre 1967 si decise a scrivere:

«Mi perdoni, Eminenza, queste mie confidenze. Io so­no sempre sereno, contento ed allegro. Ma un arco non può rimanere sempre in tensione: e per questo sento il vivo bisogno di comunicare a qualcuno questo dolore

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che pesa sull’anima mia da tanti anni ormai. Mi creda, Eminenza, che non sto esagerando, perché sono molti i fatti dolorosi che ancora taccio. D’altro canto, V. E. mi conosce bene ormai. E penso che anche il Santo Padre sappia che parlo sempre con molta sincerità, senza ama­rezza né risentimenti; che voglio dire le cose accompa­gnandole sempre con la massima chiarezza e con la massima carità. È anzi proprio la carità di Cristo che mi spinge a difendere questa Opera di Dio che Lui ha affi­dato alle mie mani, e la vita apostolica, efficace, santa e silenziosa dei miei figli»90.

La lettera rivela un dolore sincero; non si trattava di nuove calunnie, ma di insidie provenienti da un Asses­sore della Curia, che millantava la propria opinione per­sonale come fosse la posizione ufficiale della Segreteria di Stato91. «Ma non crede, Eminenza, che sarebbe ora ormai che, in nomine Domini, cessasse questa contrad­dizione assurda, senza motivo — che male abbiamo fat­to? —, e perfettamente evitabile, giacché proviene della Casa del Padre Comune?»92.

Il fatto era che certe persone non comprendevano, sul piano teorico e pratico, lo spirito e gli apostolati dell’O­pus Dei:

«Ritengo che la causa umana di un atteggiamento del genere sia da ricercare nel fatto che quelle persone non sanno — non entra loro in testa — che cosa sia un laico; né comprendono che cosa voglia dire lavorare senza am­bizioni al servizio della Santa Chiesa, senza compromet- terLa, usando di quella santa libertà di cui gode ogni lai­co entro quel campo di azione che gli conferisce il fatto di essere stato battezzato, di essere un semplice fedele. Han­no una tale idea del laico, che quando vogliono dimostra­re che li amano, subito pensano... a farli diaconi!»93.

Così proseguiva, in tono più confidenziale:«Continuerò a sforzarmi per amare e servire ogni gior­

no meglio la Chiesa. Ieri, pensando a questo durante la celebrazione della Santa Messa, ho pianto lacrime dolci

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ed amare: quando ero giovane mi capitava spesso, ma adesso erano vari anni ormai che non mi succedeva. Non tema, Eminenza: tutti questi fatti dolorosi che Le ho esposto non impediscono che vada crescendo sempre più il nostro amore per la Santa Chiesa e per il Papa. Come sa, ho fatto recentemente un viaggio: non è stato per cer­care applausi per me, ma per servire la Chiesa e salvare anime. Mi sono infatti giunte notizie di molte conversioni avvenute in quei giorni, e rendo molte grazie a Dio che si vuol servire di me come strumento per salvare anime»94.

Infine, riferiva al Cardinale che, nel rinnovare ogni anno la Consacrazione dell’Opera al Cuore Sacratissi­mo di Gesù, ripeteva assieme a tutti i fedeli dell’Opus Dei: “Dacci un amore grande per la Chiesa e per il Pa­pa, che si concreti in opere di servizio”95.

>1- i r

Alcuni mesi prima di ricevere la lettera ora citata, il Cardinale Dell’Acqua aveva lasciato l’incarico di Sosti­tuto della Segreteria di Stato per gli Affari Ordinari e gli era succeduto mons. Giovanni Benelli96. Il nuovo Sosti­tuto era stato Consigliere nella Nunziatura di Madrid e, dopo essere stato consacrato Vescovo l’ i l settembre 1966, Pro-Nunzio Apostolico nel Senegai e Delegato Apostolico dell’Africa Occidentale, nel giugno del 1967 era stato chiamato alla Segreteria di Stato97.

L’avvicendamento fra Dell’Acqua e Benelli rappre­sentò per il Fondatore, e per la storia dell’Opera, qual­cosa di più che un cambio di attori. Infatti, cambiò an­che lo scenario, lo stile, la politica. In alcuni ambienti curiali ci fu un raffreddamento nei confronti dell’Opera. Inoltre, si chiuse il canale di comunicazione attraverso Dell’Acqua e le notizie sull’Opus Dei non arrivavano al­trettanto facilmente all’orecchio del Pontefice. Un pri­mo segno del cambiamento fu, come è stato detto, la difficoltà e la lentezza con cui veniva condotto, in seno

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alla Curia, l’iter delle pratiche per l’erezione della Fa­coltà di Teologia dell’Università di Navarra.

Passavano i mesi e il Fondatore aveva un gran deside­rio di comunicare personalmente al Papa notizie sull’at­tività apostolica dei membri dell’Opus Dei e di confi­darsi sul problema istituzionale. Gli scriveva ogni tanto per manifestargli la propria «filiale e indiscussa adesio­ne alla Cattedra di Pietro» e assicurargli le ferventi pre­ghiere dei suoi figli98. Ma non riusciva a ottenere alcuna udienza. Si risolse allora a chiederla, nel dicembre 1968, attraverso il Prefetto dei Palazzi Apostolici. Ma passa­vano le settimane e non c’era risposta. Fu così che il 24 febbraio 1969 si rivolse per iscritto a mons. Benelli, chiedendo i suoi buoni uffici per ottenere la sospirata udienza. Allegò allo scritto una lettera per Paolo VI, nel­la quale esprimeva il vivo desiderio di manifestare per­sonalmente la profonda venerazione e gratitudine che nutriva per il Papa99.

La settimana successiva ricevette una lettera autografa del Santo Padre, che accoglieva i sentimenti di filiale devo­zione e ringraziava paternamente per la consolazione che gli procuravano le buone notizie sull’attività apostolica dell’Opus Dei100. Dell’udienza richiesta, nessuna notizia.

Nella primavera del 1969 mons. Escrivà ebbe la noti­zia della costituzione della Commissione speciale incari­cata di riformare gli Statuti dell’Opus Dei, di cui si è raccontato nel capitolo precedente. Il prudente e tempe­stivo intervento del Fondatore riuscì a scongiurare il pe­ricolo, ma non per questo migliorò l’atteggiamento di alcuni uomini di Curia nei confronti dell’Opus Dei. Le continue difficoltà sembravano suggerire che non fosse il momento propizio per riproporre qualsiasi iniziativa circa la questione istituzionale.

Non erano episodi isolati. Dalle confidenze di alcuni illustri ecclesiastici, mons. Escrivà apprese che intorno alla sua persona, e all’insaputa del Santo Padre, si stava creando il vuoto, in un clima di ostilità101.

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‘Cadevano in disgrazia’ anche quanti dichiaravano la propria amicizia con il Fondatore, il quale, comunque, era grato per la lealtà di molti altri. Il 27 aprile 1970 scriveva al Cardinale Dell’Acqua:

«Mi ha grandemente rallegrato vedere ancora una volta come Dio Le ha concesso la grazia di capire a fondo il nostro spirito, e, come punti essenziali di esso, l’amore e la lealtà continua verso la Santa Chiesa ed il Papa, e l’ansia apostolica di condurre a Cristo tutte le anime. Questa Sua affettuosa comprensione ci è stata e ci è di grande stimolo e conforto per amare ogni giorno di più la Chiesa nostra Madre ed il Vicario di Cristo in terra. Mi ha pure profondamente commosso - ed anche di questo non posso che esserLe estremamente grato - la fortezza di S.E. per cogliere ogni occasione per diffondere la verità sulla nostra Opera. È il Suo un grande servizio che sta rendendo alla Chiesa, ma - è doveroso che lo dica - è anche un servizio eroico, nelle attuali circostanze»102.

Sembra davvero incredibile che le circostanze fossero tali da fargli considerare ‘eroica’ la lealtà del Cardinale. Anche per questo il Fondatore si recò presso alcuni san­tuari della Madonna in Spagna e in Portogallo, implo­rando soccorso dal Cielo.

Pochi giorni dopo aver scritto la lettera ora citata, la sua anima veniva scòssa dalla voce di Dio, che gli dice­va: Si Deus nobiscum, quis contra nosì Se Dio è con noi, chi sarà contro di noi? Il 6 agosto 1970 venne a consolarlo una nuova locuzione: Clama, ne cessesi Gri­da, non stancarti!

Quando Dell’Acqua fu nominato Cardinale Vicario di Roma, il Fondatore si premurò di congratularsi con lui. Desiderava vederlo ma, scrisse il 10 novembre 1970, «nelle circostanze attuali, temo che la mia presenza nel Suo ufficio al Laterano possa in qualche modo supporreo essere origine di difficoltà per S. E .»103.

Per risparmiare notizie sgradevoli al Santo Padre e per

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il grande amore che aveva per la Chiesa, preferiva tace­re, come aveva fatto per quasi quarantanni104. Si impo­se volontariamente il silenzio ma non restò passivo, continuando a lavorare per formare le anime ed esortar­le all’apostolato:

«Per quanto mi riguarda - scrisse al Cardinale -, con­tinuo a pregare ed a lavorare, soprattutto scrivendo: perché, come ben sa, da molti anni, per amore alla Chiesa e alle anime, Escrivà de Balaguer osserva uno scrupoloso silenzio,... ma Escrivà scrive!»105.

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Il Fondatore non aveva più rivisto il Papa dopo l’avvi­cendamento alla Segreteria di Stato dell’estate del 1967. Delle sue richieste di udienza Paolo VI non sapeva nulla. A Roma girava la voce che l’Opus Dei non era ben vi­sto, contribuendo ad alimentare il clima di sfiducia ver­so don Josemarìa e la sua Opera106.

In questo contesto, gli giunse una lettera del Cardina­le Jean Villot, datata 25 gennaio 1971. Gli si chiedeva di comunicare alla Segreteria di Stato i nomi di tutti i membri dell’Opus Dei che lavoravano nella Curia Ro­mana. Già diversi Cardinali suoi amici avevano infor­mato il Fondatore di aver ricevuto la sconcertante indi­cazione di non assegnare alcun incarico ecclesiastico a fedeli dell’Opus Dei. La richiesta del Cardinale Villot, formulata in modo secco e senza spiegazioni, era proba­bilmente motivata dalle voci calunniose che alcuni ave­vano fatto circolare: si diceva che l’Opus Dei tentasse di controllare il governo della Chiesa. Sembrava ormai es­sersi scatenata una vera e propria caccia alle streghe107.

Non è dato sapere che cosa pensasse il Cardinale Vil­lot. Forse le pressioni di qualcuno lo avevano convinto che quel modo di procedere fosse giustificato. Comun­que, si sa che il Signore suole servirsi delle beghe degli uomini per purificare le anime dei suoi santi.

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Don Josemaria rispose al Cardinale Villot con una let­tera molto ben meditata. Iniziava in tono ufficiale:

«Roma, 2 febbraio 1971.Mi è giunta la Sua stimata del 25 gennaio scorso, e

con piacere mi premuro di rispondere a quanto mi chie­de, anche se si tratta di dati già da molto tempo in pos­sesso della Santa Sede.

Tutti i soci dell’Opus Dei, infatti, che prestano attual­mente servizio nella Curia Romana - che erano già ben conosciuti come tali, perché essi, come qualsiasi altro socio dell’Opera, non hanno mai occultato la loro ap­partenenza alla nostra Associazione - occuparono i ri­spettivi incarichi su esplicita richiesta della stessa Santa Sede, che era quindi al corrente della loro appartenenza all’Opera prima della loro nomina»108.

Forniva poi i dati richiesti: nome di ciascuno, incarico svolto, Cardinale che ne aveva richiesto l’entrata nella Curia, ecc. L’elenco era breve109. In totale, quattro ave­vano un lavoro stabile e altri quattro o cinque lavorava­no occasionalmente come Consultori di Sacre Congre­gazioni o di Commissioni.

L’ultima parte della lettera ipotizzava però l’esistenza di una macchinazione montata da qualche detrattore dell’Opus Dei:

«Certo di aver risposto esaurientemente a quanto ri­chiestomi da S. E., rimango a Sua completa disposizione per qualsiasi ulteriore chiarimento. Ritengo, comunque, che tale evenienza non dovrebbe presentarsi, perché sia i soci dell’Opus Dei che le attività apostoliche collettive che essi promuovono al servizio delle anime e della Chiesa sono sempre ben conosciuti ovunque da tutti. Inoltre, poiché richieste come quella testé giuntami non sono notoriamente usuali, mi permetterò, quando mi si offra l’occasione di incontrarLa, di raccontarLe qualche aneddoto, che potrà forse spiegare come essa possa es­sersi originata»110.

In precedenza, il Cardinale Villot aveva sempre mo­

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strato cordialità e simpatia verso l’Opus Dei111. Analogo era il caso di mons. Benelli, il quale, negli anni trascorsi in Spagna, in Francia e in Senegai, aveva mantenuto una affettuosa amicizia con il Fondatore112. Poco dopo essere stati nominati alla Segreteria di Stato, tuttavia, entrambi cominciarono a comportarsi più freddamente, passando dalla cordialità alla diffidenza. Don Josemaria si man­tenne equanime, senza serbare il minimo risentimento e pregando per coloro che gli creavano difficoltà. Cercò di conoscere i motivi dello strano comportamento dei due prelati, pronto a correggere ciò che poteva avere sbaglia­to. Tutto invano. Cercò il dialogo ma trovò il silenzio.

Probabilmente le cause di tale atteggiamento negativo verso l’Opus Dei furono diverse. Si era in un periodo di effervescenza postconciliare e di tensioni dottrinali. Non è strano che la saldezza delle convinzioni del Fondatore, la crescita degli apostolati dell’Opera e il diverso modo di vedere la missione del laico cristiano nella vita della Chiesa, non convincessero chi aveva una diversa visione teologale della storia113. Un’altra ragione, forse la più importante, sta nel fatto che mons. Benelli era convinto - certamente con il desiderio di servire la Chiesa - che l’O- pera avesse il dovere di intervenire nella situazione poli­tica spagnola, che era giunta a un punto di transizione che per la Chiesa poteva diventare delicato114. In effetti, il problema della libertà dei laici nelle questioni tempo­rali era un aspetto che già in passato aveva dato adito a molte incomprensioni e a dispiaceri per il Fondatore. Questa pare l’ipotesi più logica per spiegare il mutato at­teggiamento di mons. Benelli, il quale non volle mai spie­garne il vero motivo a mons. Escrivà115.

Va detto peraltro che, con il passare del tempo, la dif­fidenza del Sostituto nei confronti dell’Opera scompar­ve e in lui nacque invece un affetto sincero. Nel giugno 1975, non appena seppe della morte di don Josemaria, si recò a pregare, sinceramente commosso, davanti ai suoi resti mortali. In seguito, già Arcivescovo di Firenze

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e Cardinale, il 3-V-1979, chiese per lettera al Santo Pa­dre l’introduzione della Causa di Beatificazione di mons. Escrivà. La morte prematura gli impedì di testi­moniare al processo, ma le seguenti espressioni, tratte dalla lettera citata, appaiono molto significative: “Il ri­cordo che serbo del Fondatore è quello di un uomo di virtù, animato da un grande amore per la Chiesa. Mi parve sempre molto deciso quando si trattava di cercare il bene della Chiesa e delle anime, mostrandosi fedelissi­mo nel seguire le indicazioni della Santa Sede, alla quale professava incondizionata devozione” . “Riflettendo su questi fatti, penso che sarebbe conveniente considerare l’opportunità di proporre la figura di mons. Escrivà co­me modello di virtù cristiane ai sacerdoti e ai laici, ini­ziandone la Causa di Beatificazione” 116.

Tornando indietro con il racconto, i pregiudizi e l’osti­lità di alcune persone della Curia durarono anni. Semina­vano la diffidenza, ostacolavano il progresso delle inizia­tive apostoliche, cercavano di umiliare il Fondatore117. Nell’autunno del 1972 ci fu un altro triste episodio. Il Fondatore, rientrato a Roma dopo due mesi trascorsi in Spagna e in Portogallo, trovò ad attenderlo una lettera “ strettamente riservata” , datata 30 ottobre. Era del Car­dinale Villot e chiedeva al Fondatore di dargli “esplicita certezza” del fatto che né il diritto particolare né la prassi dell’Opus Dei “comportano l’obbligo o l’usanza (da par­te dei membri) di manifestare, ai loro Superiori o ad altre persone qualificate, cose apprese a motivo del servizio fatto alla Chiesa o alla Santa Sede in generale” 118 e, in particolare, a determinati organismi ecclesiastici.

Il Fondatore lo rassicurò immediatamente per iscritto che «il diritto e la prassi dell’Opus Dei non inducono mai, né direttamente né indirettamente, ad alcuna viola­zione del segreto professionale. Colgo anzi l’occasione per affermare che lo spirito e l’ascetica dell’Opus Dei fa­voriscono invece tutt’altro stile di comportamento»119.

Si metteva addirittura in dubbio l’onore sacerdotale,

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che don Josemana aveva sempre avuto tanto a cuore; la richiesta, inoltre, sembrava insinuare un dubbio positi­vo. Il Fondatore reagì con fermezza, anche se la sua ri­sposta fu serena, soprannaturale e mansueta. Ma non rinunciò ad esprimersi con la consueta schiettezza:

«Non posso nasconderLe che il tenore della domanda fattami ha sollevato nel mio animo un sentimento di sor­presa e di comprensibile dolore, nato esclusivamente — mi creda — dal grande amore che ho per la Chiesa al cui bene da tanti anni ho dedicato la mia vita, penso non inutilmente, nonché dalla ferma certezza, che pure ho, del buono spirito con cui i miei figli la servono ovunque, spesso in circostanze assai difficili e umanamente ingra­te. Posso però assicurarla allo stesso tempo che il Signo­re, fedele sostegno della mia debolezza, mi ha subito aiu­tato a sollevarmi, anche con il ricordo delle cose che costituiscono appunto il motivo della mia richiesta.

Sarei, infatti, grato all’Eminenza Vostra se volesse beni­gnamente comunicare al Santo Padre che sono tornato ieri da un lungo viaggio durato due mesi, nel quale tutti i gior­ni, e per parecchie ore al giorno, non ho fatto altro che pre­dicare a molte migliaia di persone di ogni condizione socia­le la necessità che hanno, oggi più che mai, di rafforzare ed accrescere nei loro cuori l’amore alla Chiesa e al Papa, fon­damento e custode dell’unità e della verità in quanto Suc­cessore di San Pietro. Con ciò ho semplicemente continua­to a fare quello che con l’aiuto di Dio sto facendo fin dal 1925, anno della mia Ordinazione sacerdotale»120.

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A poco a poco, con il passare del tempo, l’assedio si al­lentò. Finalmente, il 5 giugno 1973, il Fondatore otten­ne una udienza con Paolo VI: sarebbe stata l’ultima. Il Papa lo salutò con affetto. Erano trascorsi quasi sei anni dal precedente incontro:

“Perché non mi viene a trovare più spesso?” , si la­

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mento il Papa. Ci fu un momento di silenzio, che il Fon­datore interruppe raccontando lo sviluppo dell’Opera nei cinque continenti. Ogni tanto Paolo VI lo interrom­peva e, guardandolo con ammirazione, esclamava:

“Lei è un santo” .«No, no. Sua Santità non mi conosce. Io sono un po­

vero peccatore».“No, no. Lei è un santo” , insisteva il Papa.Turbato e pieno di vergogna, il Fondatore cercò di

sottrarsi alle lodi: «Sulla terra non c’è che un santo, il Santo Padre»121.

Circa la sua fama di santità, molti che lo conoscevano erano dello stesso parere del Papa: cardinali, vescovi e prelati; nunzi e consiglieri di nunziatura; impiegati di cu­ria; teologi e canonisti122. Anche coloro che talvolta non comprendevano il suo atteggiamento fermo, oppure i suoi stessi oppositori, lo rispettavano e lo stimavano, considerandolo un uomo di Dio, un santo123. Era sì una persona di carattere forte, ma al tempo stesso amabile e accogliente e molti lo cercavano per chiedergli consiglioo per trovare consolazione. Trattava tutti con carità e af­fetto, fossero alti dignitari ecclesiastici o subalterni.

Vedeva nel Romano Pontefice il ‘Padre comune’ e il Va­ticano era per lui «la casa del Padre comune e non un’a­nonima centrale amministrativa»124. Per tutta la vita, quando fu necessario, prese le difese della Curia Romana. Diceva: «Vi si cela molto lavoro, molto sacrificio, molta santità, che passano inavvertiti agli occhi della maggior parte delle persone»125.

4. «Lottare, per amore, fino all’ultimo istante»

Negli Appunti intimi c’è una annotazione, scritta proba­bilmente il 31 dicembre 1932. E una riflessione sulla vita e il trascorrere del tempo. Sembra quasi la traccia di una meditazione o di una omelia:

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«1932, fine d’anno. La fine dell’anno si presta a serie e proficue riflessioni, che ci preme non sprecare. Siamo di passaggio..., la cometa..., i fiumi... Non ne siamo del tutto convinti! È scomparso un anno! Un altro anno di vita? Un anno di meno!»126.

Frasi, parole disorganiche, accenni non sviluppati, che toccano il tema della caducità della vita e del suo corso fugace e irripetibile; cose note, ma non per questo meno vere. Seguono altre considerazioni sullo stesso te­ma e sul momento finale in cui ci spoglieremo della car­ne. La vita trascorre a cavallo del tempo, è un viaggio. Tutti, senza eccezione, arriveremo all’ultima tappa:

«Guardate che la fine si avvicina: come le onde sulla spiaggia, come le foglie che cadono, una dopo l’altra... Prima uno, poi quell’altro e l’altro ancora, e voi e io. La nostra patria: il Cielo»127.

Molti anni dopo, il 31 dicembre 1971, in un’altra fine d’anno, il Padre, immerso in Dio, ripensava a tanti eventi. Non all’avventura della fondazione, ma alla si­tuazione in cui la Chiesa si trovava in quel momento. Si vedeva che era stanco, molto stanco. «Non sono gli an­ni; credo che sia l’amore»128, disse ai suoi figli del Con­siglio Generale che lo ascoltavano in silenzio.

Era notte alta. Giungeva fino a loro il suono dei canti natalizi che gli alunni del Collegio Romano intonavano in soggiorno, dall’altro lato del giardino. Il Padre comin­ciò a parlare lentamente. Cercava di fare una sintesi del­l’anno che si concludeva. Quel giorno aveva trascritto su una scheda alcune riflessioni e si era segnato una frase che riassumeva i suoi pensieri. Trasse di tasca l’agenda e lesse: «Questo è il nostro destino sulla terra: lottare, per amore, fino all’ultimo istante. Deo gratias!»129.

Poi confidò loro il proprio dolore e l’amore per la santa Chiesa, che stava subendo tante tribolazioni: «Non ce ne possiamo disinteressare. Abbiamo detto di no all’amore della terra per salvare le anime. Tanto più abbiamo il dovere e il diritto di occuparcene!»130.

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Terminava il 1971 ed egli considerava le sofferenze che aveva patito negli ultimi anni e la loro origine. Sen­za lasciarsi vincere dallo scoraggiamento, decise di co­minciare una vita nuova, rinnovando al Signore l’offerta di un generoso sacrificio, riaffermando il proposito di servirlo, non perché cominciava un nuovo anno, ma perché tutti i giorni sono ugualmente buoni per darsi a Dio. Disse ai suoi figli che per tutta la vita aveva rico­minciato, riaggiustando la sua vita interiore, facendo at­ti di contrizione, gettandosi pentito nelle braccia di Dio, come il figlio prodigo di ritorno alla casa paterna. «La vita umana è, in un certo senso, un continuo ritorno verso la casa di nostro Padre, Dio. Un ritorno attraverso la contrizione»131.

Quel 31 dicembre fece, quindi, una confessione gene­rale e si preparò a cominciare una nuova vita al servizio della Chiesa. Trasformò il detto “anno nuovo, vita nuo­va” nel suo programma per il 1972: «Anno nuovo, lotta nuova». Un anno era un tempo troppo breve per cam­biare il mondo, ma il Padre non era pessimista e non si fermava solo a considerare la fugacità del tempo. La buona volontà di migliorare nella vita interiore, con l’aiuto della grazia, avrebbe reso soprannaturalmente fecondi quei dodici mesi:

«Il tempo è un tesoro che se ne va, che sfugge, che scorre tra le mani come l’acqua sulle rocce. Ieri è passa­to e l’oggi sta passando. Domani sarà presto un nuovo ieri. La durata di una vita è molto breve. E tuttavia quante cose si possono fare in così breve spazio per amore di D io!»132.

La Chiesa aveva bisogno di figli fedeli, che riparassero per i figli sleali. Si dedicò quindi a instillare nelle anime, a cominciare dai suoi figli, l’amore per la Chiesa e l’im­pegno di riparare per le molte offese che le si arrecavano. Per questa strada molti si sarebbero avvicinati alla san­tità, o almeno avrebbero lottato per eliminare qualche difetto e per migliorare, perché, spiegava il Padre, «la

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santità consiste nell’avere difetti e nel lottare contro di essi, anche se moriremo con i nostri difetti»133.

Chiese la collaborazione delle sue figlie e dei suoi figli. Continuò a esortare tutta l’Opera a un deciso impegno di vita interiore e concluse il 1972 con un lungo viaggio di catechesi in Spagna e in Portogallo, incontrando un’enorme quantità di persone.

* * *

La mattina del 1° gennaio 1972, il Padre cominciò subi­to col rileggere l’appunto della sera precedente ai suoi figli del Collegio Romano: «Questo è il nostro destino sulla terra: lottare, per amore, fino all’ultimo istante. Deo gratias!». Li esortò a ricominciare ancora una volta la lotta interiore, ricordando loro le parole della Sacra Scrittura: “ La vita dell’uomo sulla terra è una mili­zia” 134. Il sacramento della Confermazione rende i cri­stiani milites Cbristi. «Non vergognatevi di essere solda­ti di Cristo, persone che devono combattere!»135.

«Voi, figli miei, lotterete sempre, e anch’io cercherò di farlo, fino all’ultimo istante della mia vita. Se non lottia­mo, vuol dire che non stiamo andando bene. Sulla terra non possiamo mai avere la tranquillità dei poltroni, che si lasciano andare perché sanno che l’avvenire è sicuro. L’avvenire di noi tutti è incerto, nel senso che possiamo tradire nostro Signore, la nostra vocazione e la fede»136.

Dovevano combattere per non farsi asservire dal pecca­to e per ottenere la pace, che è conseguenza della guerra che il cristiano deve sostenere «contro tutto ciò che, nella sua vita, non viene da Dio: la superbia, la sensualità, l’e­goismo, la superficialità, la meschinità di cuore»137.

Nei giorni successivi, mentre si avvicinava il 9 gennaio, giorno del suo compleanno, il Padre diceva scherzando che stava per «compiere sette anni». Alludeva alla peren­ne gioventù spirituale del cristiano e al cammino di infan­zia spirituale che egli da tempo aveva intrapreso. Con la

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chiarezza di coscienza che dà l’intimità con Dio, diceva: «Josemaria: tanti anni, altrettanti ragli»138. I membri del Consiglio Generale gli regalarono un piccolo altorilievo di marmo bianco. Rappresentava il Buon Pastore, con la pecora perduta o ferita sulle spalle, il cane, la bisaccia e il bastone; don Alvaro aveva fatto aggiungere una dedica in latino: “9 gennaio 1972: a nostro Padre, nel settimo de­cennio della sua nascita, con tanto affetto” 139.

In poco tempo e con tanto lavoro, le sue figlie aveva­no preparato una pianeta di broccato d’oro, utilizzando anche resti di paramenti antichi. Sulla pianeta erano sta­te ricamate una rosa e alcune parole che rievocavano in­timi ricordi nel cuore del Padre: Adeamus curn fiducia ad thronum gloriae, ut misericordiam consequamur. Sulla palla, anch’essa preparata per l’occasione, si legge­va: Bonus Pastor, come ringraziamento di tutta l’Opera per le sue premure di Padre e di Pastore che, anche in quell’ora di lotta e di smarrimento, pensava alla salute spirituale dei suoi figli:

«Non voglio che i miei figli si perdano nel deserto senz’acqua che sembra sia diventata oggi la Chiesa, per­ché stanno prosciugando le fonti dei sacramenti. Nono­stante l’aridità e la siccità, nella Chiesa di Cristo ci sono molte oasi di pace, con acque abbondanti e freschi pa­scoli per le anime. Uno di questi luoghi pieni di verde è l’Opus Dei e dipende da ciascuno di noi che continui a esserlo»140.

La mattina del 9 gennaio gli alunni del Collegio Ro­mano parteciparono alla Messa che il Padre celebrò nel­l’oratorio di Santa Maria della Pace. Dopo la lettura del Vangelo rivolse loro una breve omelia, prendendo spun­to dalla parabola evangelica dei due uomini saliti al Tempio a pregare:

«Voi e io non possiamo fare la preghiera del fariseo. Faremo quella del pubblicano: Signore, io non merito di stare qui, ma ti amo. Signore, non merito la tua grazia, ma tu me la dai copiosa e per questo sono un’anima di

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orazione. Signore, non merito di stare nella tua Chiesa, ma tu vuoi che io sostenga un poco la tua Santa Chiesa con la mia vita limpida, con la mia fede, la mia speranza e il mio amore»141.

Le intenzioni della sua Messa erano «quelle di sem­pre: la Chiesa, il Papa, l’Opera»142.

Nel corso dell’anno il Padre continuò a insistere sugli stessi temi, poiché i disastri erano sotto gli occhi di tutti. In alcune occasioni le sue parole furono terribilmente forti. Diceva, per esempio, che il Corpo Mistico, la Chiesa, «sembra un cadavere in putrefazione», ma subi­to, con fede e ottimismo, tranquillizzava i suoi figli: «Non temete, ho detto sembra, perché quel Corpo - la Chiesa - è immortale: lo Spirito Santo l’assiste e la vivi­fica in modo ineffabile»143.

Ciò che stava succedendo era davvero molto triste. Non era sufficiente - diceva loro il Padre - lamentarsi o osservare freddamente le cose, quasi che gli eventi che accadevano alla Chiesa fossero «cose archeologiche, di mero interesse storico. No! Sono pugnalate al Cuore di Cristo»144. Bisognava chiedere perdono a Gesù, diffon­dere la verità e aiutare quelli che vacillavano, con tanto amore e senza perdere la serenità.

Si susseguirono alcune feste di famiglia. Il 14 febbraio era la data fondazionale delle donne dell’Opera e della Società Sacerdotale della Santa Croce. Il Fondatore, co­me tante altre volte, si sentiva a disagio, perché provava un’intima vergogna, considerando la propria piccolezza davanti a Dio.

Il 19 marzo era la festa di S. Giuseppe e anche l’ono­mastico del Padre. In mezzo all’allegria generale, non dimenticò di raccomandare ai suoi figli di lottare tutti uniti, a gomito a gomito, con ottimismo: «È vero che al­cune volte sembra di aver perso una battaglia, ma pote­te essere certi che Cristo non perderà la guerra»145.

Arrivò la Settimana Santa del 1972. Come avveniva da qualche anno per iniziativa di alcuni membri dell’O­

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rpera, giunsero a Roma molte centinaia di ragazzi e di ra­gazze, provenienti da diversi Paesi, per trascorrere la Pa­squa nel cuore della Chiesa universale. Il mercoledì santo il Papa li ricevette in udienza e durante la settimana par­teciparono a vari incontri con il Padre. Egli ricordò loro la necessità di lottare, se davvero amavano la pace, per­ché la pace delPanima è conseguenza della guerra: «Non credo ai pacifisti che non lottano contro se stessi, ‘al di dentro’. Lo vogliamo o meno, tutti dobbiamo affrontare una guerra interiore, personale, continua»146.

Subito dopo Pasqua il Padre si mise in viaggio, benché fosse leggermente raffreddato. Si fermò a Lourdes per pregare la Madonna poiché, disse, «era da maleducati passare da lì senza salutarla»147. Arrivò a Pamplona nel pomeriggio del 6 aprile. Fu sottoposto a un controllo nella Clinica Universitaria e gli fu trovato un focolaio di broncopolmonite, con febbre alta148. Nelle tertulias esortò gli studenti dell’Università a essere «uomini che lottano», pronti a esserlo per tutta la vita. Perché, dice­va loro, in guerra si può perdere una battaglia, due, tre..., ma non ha importanza, se si vince l’ultima. Tutta­via, nella vita interiore, che è anch’essa guerra e batta­glia, «è meglio non perderne neppure una, perché non sappiamo quando dobbiamo morire»149.

Il 14 aprile giunse a Madrid, dove risiedette come sempre nel centro di via Diego de Leon. In un incontro con i giovani del Centro di Studi parlò ancora della guerra e della pace, della lotta e dell’ultima battaglia:

«Vi dirò tutti i giorni le stesse cose, perché le sento profondamente»150.

* * *

Trascorse luglio e agosto a Civenna, sulle Prealpi lecche- si, vicino al lago di Como. Il clima era temperato. Face­va l’esercizio fisico prescritto dai medici: una passeggia­ta al giorno, sulla riva del lago o nei paesi vicini. Si

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riposava con la penna in mano, tanto che a ragione potè dire: «Ho scritto più del Tostado!»151.

Al Castello di Urio, una casa per ritiri e convegni sulle rive del lago di Como, un gruppo di giovani universitari dell’Opera stava partecipando a un corso di studio e di formazione. Il Padre si recò alcune volte a trovarli e parlò ancora una volta della Chiesa. Erano in corso le Olimpia­di di Monaco di Baviera e il Padre aveva seguito qualche gara in televisione. Assistendo a quella di salto con l’asta gli era rimasta impressa l’immagine dell’atleta che, dopo un errore, tornava indietro a testa bassa e si concentrava prima di saltare di nuovo. Paragonò lo sforzo nelle com­petizioni sportive all’impegno nella vita interiore, anche se non lo convincevano affatto quella sorta di culto reso al corpo umano e il ‘fuoco sacro’ dell’Olimpiade. Non era contrario allo sport, tutt’altro, ma la solennità delle cerimonie olimpiche risvegliava il suo dolore per il diffon­dersi degli abusi nella liturgia della Chiesa: «Proprio ora, che tutte le cerimonie civili, militari, accademiche, sono piene di gesti liturgici, vogliono sottrarre al Signore il cul­to!»152. Indebolendo la Chiesa, si impoveriva il mondo.

Ai giovani del Castello di Urio il Padre ripeteva che bi­sognava adoperarsi per la difesa della Chiesa, perché pro­prio il Signore aveva affermato: “Non sono venuto a por­tare pace, ma una spada” . Ma con quali armi combattere?

«Fin dall’inizio ho sempre insegnato che l’unica arma che abbiamo nell’Opus Dei è la preghiera: pregare gior­no e notte. E ora continuo a ripetere la stessa cosa: pre­gate! Ce n’è molto bisogno. Pregate, perché il crollo che ha subito il mondo è dovuto al fatto che nella Chiesa non si prega più»153.

5. Un viaggio di catechesi nella Penisola iberica (1972)

Al Padre non bastava aver parlato di Dio, negli ultimi mesi, a qualche centinaio di ragazzi e di ragazze. Era

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troppo poco in quell’ora che gli appariva tanto critica perché il diavolo stava seminando zizzania nel mondo e molti di coloro che avrebbero avuto il dovere di predi­care la verità a gran voce se ne stavano zitti. L’ignoran­za, la mancanza di istruzione religiosa, era la causa principale degli errori teorici e pratici. Bisognava, per­ciò, smuovere molta gente, dare dottrina a piene mani per combattere la confusione.

Quando, alcune settimane dopo, qualcuno gli chiese pubblicamente quale fosse la sua maggiore preoccupa­zione, il Padre rispose senza esitare:

«Di solito non ho preoccupazioni. Di occupazioni, in­vece, ne ho molte, una dietro l’altra. Non ho orologio, perché non ne ho bisogno: quando finisco una cosa ne comincio un’altra e sto tranquillo. Ma la grande occu­pazione della mia vita e della mia anima è amare la Chiesa, perché è una Madre con tanti figli sleali, che di­mostrano con i fatti di non amarla. Tu e io dobbiamo amare molto la Chiesa e il Romano Pontefice»154.

A Civenna, nell’estate del 1972, decise un piano d’a­zione. Avrebbe fatto una nuova ‘scorribanda catechisti­ca’, come diceva simpaticamente155. Il progetto prevede­va di percorrere tutta la Penisola iberica, fermandosi nelle principali località dove sarebbero potute convenire le persone in contatto con le attività apostoliche dell’O­pus Dei156. Avrebbe cominciato da Pamplona, dove, al­l’inizio di ottobre, era in programma un’importante ce­rimonia accademica, che egli doveva presiedere come Gran Cancelliere dell’Università. L’enorme numero di persone che accorse a ogni incontro superò le più otti­mistiche previsioni degli organizzatori e la capacità ri­cettiva degli ambienti in cui si svolsero le riunioni.

Avrebbe retto la salute del Padre? Nel riassunto della sua storia clinica, figurano in quelle date, oltre ai risul­tati delle analisi, alcune scarne annotazioni dei medici: “ 9-X-72: visitato a Pamplona. Trovato bene” . Erano i giorni iniziali della scorribanda. Negli ultimi giorni di

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permanenza in Spagna, altra visita e altra annotazione: “22-XI-72: visitato a Barcellona. Ha avuto rinite e fa­ringite. Per il resto sta bene, nonostante l’intensissimo lavoro al quale si è sottoposto negli ultimi due mesi” 157.

Dati alla mano, in quei due mesi il Padre ebbe una media di tre o quattro riunioni al giorno, con un gran numero di partecipanti, talvolta varie migliaia di persone. Inoltre rice­vette continuamente piccoli gruppi e famiglie, che gli face­vano visita a qualsiasi ora del giorno. Agli incontri pubblici parteciparono più di centocinquantamila persone. Fu un viaggio pastorale che mise a dura prova la resistenza fisica del Padre. Poiché però egli non si lamentava, non denun­ciava malesseri e non mostrava segni di fatica, anzi, era sempre sorridente, disinvolto e disponibile a tutto, tutti erano convinti che stesse benissimo. Per avere qualche dub­bio, basta forse leggere ciò che scrisse da Roma al Consi­gliere della Spagna, dieci giorni dopo il suo rientro: «Penso che sarai molto stanco dopo la botta di due mesi di viaggi per tutta la Penisola»158. E gli suggeriva di andare a ripo­sarsi per qualche tempo in un posto tranquillo.

Non gli passò neppure per la testa di prendersi lui un po’ di riposo. Appena rientrato a Villa Tevere, trovò la sgradita lettera del Cardinale Villot di cui si è già parla­to. In contrasto con l’ottimismo che pervade l’informa­zione medica di novembre, quattro settimane dopo comparvero sintomi inattesi: elevata velocità di sedi­mentazione e diminuzione della concentrazione dei glo­buli rossi, una certa compromissione della funzione re­nale, tendenza all’aumento dei valori di urea nel sangue, ecc.159. Anche se in ritardo, l’organismo pagava lo scot­to dello sforzo compiuto nella sua attività pastorale; nulla di drammatico, ma le riserve vitali diminuivano.

* * i'r

Il 4 ottobre il Padre arrivò a Pamplona dalla Francia, pronto a cominciare la sua catechesi. Passando per

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Lourdes aveva affidato all’intercessione della Madonnai risultati del viaggio. La prima grande riunione si svolse il giorno 6. Da quel momento, il clima gioioso degli in­contri e il tono semplice e affettuoso del Padre, disponi­bile a rispondere a domande d’ogni genere, li trasforma­rono in una grande tertulia famigliare. «Vengo a parlare di quello che volete», cominciò. «Non vi farò una predi­ca. Vediamo se prendete coraggio e tirate fuori i temi che vi interessano»160. Rotto il ghiaccio, le domande co­minciarono a piovere: “Padre, come ci si accorge della vocazione all’Opus Dei?” , chiedeva un giovane; “ Che cosa ci dice per i nostri genitori?” , interveniva una ra­gazza; “Padre, siamo un gruppo di contadini...” .

Il 7 ottobre presiedette la cerimonia di conferimento delle lauree honoris causa a tre illustri professori: Paul Ourliac, di Tolosa, il marchese di Lozoya, dell’Univer- sità di Madrid, ed Erich Letterer, di Tubinga. Il solenne cerimoniale prevedeva la consegna ai tre personaggi del­le insegne dottorali (berretto, anello, libro e diploma) e un discorso conclusivo del Gran Cancelliere161.

Gli Amici dell’Università di Navarra tenevano in quei giorni una Assemblea Generale. Il Padre volle incontrar­li, per ringraziarli della loro cooperazione e dei sacrifici economici con cui stavano dando un aiuto decisivo per la sopravvivenza dell’Università. Salutò professori, bi­delli, donne delle pulizie e personale amministrativo; domenica 8 ottobre ebbe un incontro con membri del­l’Opera e con moltissimi cooperatori della Navarra e di altre province. Il Padre li incoraggiò a pregare per il mondo e per la Chiesa:

«Non è forse vero che un fedele si avvicina a un sacer­dote per cercare sostegno, luce e consiglio? Molte volte ci vanno pieni di speranza, di buona volontà, con il de­siderio di essere aiutati, ma non trovano né il consiglio, né il sostegno, né la fede: trovano solo dubbi e tenebre. Non voglio pensare che questo succeda. Non voglio! Preghiamo tutti insieme perché questo non avvenga»162.

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Il 10 ottobre partì per Bilbao e alloggiò nella casa per ritiri Islabe, dove ricevette le persone a piccoli gruppi, tranne un affollato incontro con sacerdoti, il giorno stesso del suo arrivo. Il Padre riversò il suo cuore nel lo­ro. Parlò lungamente di molti problemi di attualità pa­storale e di liturgia e, soprattutto, della carità che dove­vano dimostrare ai loro confratelli di tutto il mondo:

«Ci hanno sempre detto che un sacerdote non si salva e non si condanna da solo (...). Quindi, cerchiamo di sal­vare i sacerdoti, è uno stretto dovere di giustizia. Non li salveremo chiudendoci a riccio: dobbiamo trattarli con affetto, sforzarci. Non possiamo formare un gruppetto isolato, dobbiamo aprirci così, con le braccia in croce. Facciamogli vedere che li amiamo per davvero!»163.

Ricordò con gioia i periodi che aveva trascorso in par­rocchie rurali, poco dopo la sua ordinazione sacerdotale a Saragozza. Prima di accomiatarsi, si inginocchiò davanti a tutti i sacerdoti presenti per ricevere la loro benedizione.

Nella scuola Gaztelueta incontrò alcune centinaia di ge­nitori degli alunni. Parlò loro della formazione dei figli e del lavoro educativo dei genitori. «Non basta mettere al mondo i figli: questo lo sanno fare anche gli animali». Li si deve formare e preparare alla fede. Raccontò loro, a mo’ di esempio, ciò che un ragazzo gli aveva appena narrato:

«Padre, un mio amico chiede perché fin da bambini ci hanno insegnato solo la religione cattolica, e non tutte le altre religioni... Gli risposi con grande sincerità: figlio mio, di’ al tuo amico che, quando è nato, sua madre non avrebbe dovuto dargli il suo latte, ma erba medica, fieno, biada... e anche il suo latte, perché potesse scegliere»164.

Si fermò a Madrid dal 13 al 30 ottobre. Ebbe incontri in molti luoghi, sia di mattina che di pomeriggio. I più numerosi si svolsero nell’aula magna della scuola Taja- mar, nel quartiere popolare di Vallecas. Fra il 1930 e il 1936 don Josemaria aveva percorso spesso quei luoghi fuori mano per far visita ai malati, confessare i bambini e consolare molti infelici. Anni dopo, i suoi figli aveva­

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no cominciato a dare lezioni ai bambini del quartiere, utilizzando come aule le stalle di una vecchia casa colo­nica, trasformate in seguito in un istituto scolastico che non aveva nulla da invidiare ai migliori centri educativi di Madrid. L’aula magna, benché molto grande, fu in­sufficiente ad accogliere tutta la folla che accorse. Il Pa­dre tuttavia continuava a chiamare tertulias le affollate riunioni che vi ebbero luogo, perché il clima restava fa­migliare: si parlava, si facevano domande e venivano date risposte. Era lo stesso metodo che aveva sempre se­guito per la catechesi dei bambini: domande e risposte.

Il Padre non predicava e non faceva conferenze, ma chiacchierava con semplicità con i presenti, anche quan­do erano migliaia di persone. La sua parola e la sua pre­senza avevano il meraviglioso potere di trasformare la folla in un piccolo gruppo. E se, dopo un attento silen­zio, scoppiava un applauso assordante, il Padre se ne la­mentava: «Avete applaudito, ma a me non piace: perché la gente potrebbe dire che siamo una folla, mentre in realtà siamo una famiglia, una famiglia molto unita»165.

In genere, le tertulias cominciavano con alcune consi­derazioni del Padre su un tema di attualità, o con un pensiero ricavato dalla lettura spirituale. Il giorno prima della sua partenza da Madrid entrò nell’aula magna di Tajamar e disse: «Di voi e di me dice S. Paolo che dob­biamo conversare delle cose del Cielo, e ora faremo pro­prio questo». Rispondendo poi a una domanda, li invitò a meditare la vita del Signore:

«Pensa ai suoi tre anni di vita pubblica. Pensa alla Passione, alla Croce, che era l’affronto peggiore. Pensa alla morte di Cristo, alla sua Risurrezione. Pensa alle tertulias che faceva il Signore, specialmente dopo la Ri­surrezione, quando (...) parlava di molte cose, di tutto quello che gli chiedevano i discepoli. Qui lo stiamo un po’ imitando, perché voi e io siamo discepoli del Signore e vogliamo scambiarci impressioni: facciamo una tertu- lia. Pensa alla sua Ascensione in Cielo»166.

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Il Padre veniva preso e portato di qua e di là, da un in­contro a un altro. Durante gli spostamenti in auto chie­deva: a chi parliamo?167. Appurato da chi si andava, fos­sero giovani, o famiglie, oppure persone di qualunque età, stato e professione, preparava qualche idea, ma poi per rispondere alle domande si affidava allo Spirito San­to. La sua caratteristica principale era la spontaneità: non si perdeva in giri di parole e parlava con chiarezza di qualunque tema avesse rapporto con Dio. Per esempio, a proposito delle donne che andavano in giro poco vestite, pensando in questo modo di trovare più facilmente mari­to, faceva osservare simpaticamente che la cosa più pro­babile era che si pigliassero un bel raffreddore168.

Era atteso anche in Portogallo. Il 30 ottobre arrivò a Oporto. Risiedette a Enxomil, una casa per ritiri e con­vegni situata nelle vicinanze. Il Padre era felice, anche se dispiaciuto di non parlare il portoghese. Passarono di lì numerosi gruppi, alcuni ridotti, altri di centinaia di per­sone provenienti da Oporto, Coimbra, Braga, Lamego e Viseu. La mattina del 2 novembre si recò a Coimbra, per far visita, nel Carmelo di Santa Teresa, a Suor Lucia, la veggente di Fatima. Il Padre confidò alla Madre Prio­ra del Convento: «Don Àlvaro e io, da moltissimi anni, facciamo ogni giorno un memento nella santa Messa per la vostra amata Comunità, specialmente per Suor Lucia, che fu lo strumento di cui si servì il Signore per dare inizio all’attività dell’Opus Dei in Portogallo»169.

Il colloquio durò circa due ore e Suor Lucia diede loro alcuni opuscoli di propaganda del Rosario, con la pre­ghiera di diffonderli durante il resto del viaggio. Il Padre si recò poi, come altre volte, all’antico monastero di Santa Chiara, dove sono conservati, in un’urna d’argen­to, i resti di Santa Elisabetta del Portogallo. Don Jose­marìa aveva in comune con lei l’ascendenza aragonese e le si rivolgeva con familiarità, chiamandola «la mia compaesana, Elisabetta d’Aragona»; alla sua interces­sione affidava il lavoro dell’Opera in Portogallo170.

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Proseguì il viaggio verso il santuario di Fatima, dove arrivò alle quattro del pomeriggio. Gli si strinsero intor­no molte persone che lo aspettavano impazienti sulla spianata. Poiché nella basilica si stava celebrando una Messa, il Padre non volle entrare subito e iniziarono a recitare una posta del Rosario davanti alla prima stazio­ne della Via Crucis. Dopo aver pregato nella basilica, il Padre e quanti lo accompagnavano si recarono nella cappella delle apparizioni e vi recitarono la Salve Regi­na. Il Padre partì poi per Lisbona.

Il giorno successivo, 3 novembre, ci fu la prima tertulia per famiglie, nel padiglione del Club Xénon. Nonostante le fatiche di quelle settimane, il Padre era felice e sembra­va persino ringiovanito. Diceva ai suoi ascoltatori, ed era vero, che mentre parlava loro faceva orazione. Riusciva a stare e a far stare tutti alla presenza di Dio e tutti afferra­vano la verità di alcune parole che aveva pronunciato: «L’Opus Dei è un posto meraviglioso per vivere e per mo­rire, senza paura della vita e senza paura della morte»171. Continuò la sua catechesi senza un attimo di tregua, mat­tina e pomeriggio tutti i giorni, fino al 6 novembre, quan­do partì dall’aeroporto di Lisbona diretto a Siviglia.

A Siviglia, il Padre incontrò molti fedeli dell’Opus Dei. A Pozoalbero, una casa per ritiri vicino a Jerez de la Frontera, si intrattenne con altre migliaia di persone accorse alla sua catechesi. Fu necessario preparare una zona recintata, contigua alla casa, sul lato che dava al giardino. Un tempo in quel luogo c’erano un magazzino per attrezzi agricoli e un torchio. Per questo il cortile dove si svolgevano le tertulias era chiamato El Lagar, il torchio. Fu coperto con un grande telone, non per pro­teggerlo dai raggi del sole, ma dalla pioggia, perché la settimana precedente, mentre il Padre era in Portogallo, una perturbazione atlantica si era scaricata con forza sull’Andalusia. Fu sistemato anche un palco. Sullo sfon­do, alle spalle del Padre che parlava andando su e giù davanti al pubblico variopinto proveniente dalle provin­

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ce meridionali, faceva bella mostra un arazzo con la scritta: Sempre fedeli, sempre lieti, con coraggio e con calma. Erano le parole di un brindisi che il Padre stesso aveva fatto, proprio a Pozoalbero, il 2 ottobre 1968.

Un giorno, durante un incontro affollato, un ragazzo gli domandò che cosa volesse dire il motto con coraggio e con calma e come potesse essere applicato al rapporto con Dio.

«Vuol dire che si deve avere coraggio e andare adagio. Coraggio e calma vuol dire proprio questo: che tu sia coraggioso, ma non precipitoso»172.

Gli ponevano le domande più diverse: sul significato del dolore, le preoccupazioni di lavoro, la malattia o la ribellione dei figli. Il sorriso si alternava con la serietà. Talvolta il Padre, inaspettatamente e senza che nessuno glielo avesse chiesto, spalancava con semplicità la pro­pria anima. Raccontava i contenuti della sua orazione utilizzando un paragone significativo per il luogo dove si trovavano: il duro lavoro di coloro che pigiavano l’uva nel torchio:

«Anch’io mi metto al di sopra di me stesso. Mi calpe­sto per bene: tu non sei nulla, non vali nulla, non puoi nulla, non sai nulla, non hai nulla... E tuttavia sei taber­nacolo della Trinità, perché lo Spirito Santo risiede nella nostra anima in grazia e fa in modo che la nostra non sia la vita di un animale, ma quella di un figlio di Dio»173.

Qualcuno gli chiese che cosa provava vedendo riuniti insieme tanti suoi figli e ripensando a quando l’Opera contava solo su una dozzina di persone. Forse in quel mo­mento gli tornarono in mente gli inizi della fondazione:

«Vi ho detto, me l’avete sentito dire molte volte e in momenti molto duri, di sognare perché comunque sare­ste rimasti sempre al di sotto della realtà. Non è vero? Ve l’ho detto quando eravate in pochi. Ora torno a ripe­tere la stessa cosa: sognate e la realtà supererà sempre i vostri sogni»174.

Il 13 novembre il Padre partì per Valencia, dove rima­

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se fino al 20. Senza perder tempo, riprese la catechesi il giorno successivo al suo arrivo a La Lloma, una casa per ritiri nei pressi del capoluogo.

Gli ritornarono in mente i suoi primi viaggi a Valen­cia e le sue passeggiate sulla spiaggia con i ragazzi di S. Raffaele. Già nel 1936, quando la nazione era nel caos e tutto sembrava crollare, il Padre non aveva perso la spe­ranza e aveva fatto i preparativi per l’espansione dell’O- pera a Valencia e a Parigi. Era poi scoppiata la guerra civile e i viaggi erano ripresi solo nel dopoguerra... Ri­cordava il primo corso di ritiro spirituale predicato a Burjasot e il Cubil, il misero appartamento dove era ri­masto per un giorno intero su una brandina, tremante di febbre, con una vecchia tenda per coperta. E la prima edizione di Cammino, stampata a Valencia nel 1939. Erano passati più di trent’anni, ma l’eco dei suoi ricordi era assai vivo.

Accanto all’ingresso de La Lloma, su una cassapanca, c’era una copia di Cammino. Sulla prima pagina il Padre scrisse: «Electi mei non laborabunt frustra. Valentiae, 14- XI-1972» 175: i miei eletti non faticheranno invano. Era ancora giovane, aveva una incredibile capacità di entusia­smo apostolico, non intendeva proprio riposare sugli al­lori e possedeva una vita interiore in continua e vigorosa crescita. I ricordi non gli provocavano un vano compiaci­mento, ma lo riempivano di un’immensa gratitudine.

Il 17 novembre consacrò un altare nella Residenza universitaria La Alameda. Vi lasciò un documento con questa scritta:

«Quanto a lungo ho desiderato, tanti anni fa, che l’Opus Dei venisse in questa città; finché il Signore ha concesso generosamente al suo servo di avere anche qui figli e figlie; tornando a Valencia, il mio cuore di Padre felice ha pronunciato innumerevoli atti di ringrazia­mento a D io ...»176.

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Oltre a tenere incontri aperti a tutti, nelle città per le quali passò il Padre fece visita ad alcuni conventi di clausura. Anche le religiose lo volevano ascoltare, per­ché molte di quelle comunità cooperavano con le loro preghiere all’attività apostolica dell’Opus Dei in tutto il mondo. Lo ricordò al Padre, invitandolo, la Badessa del monastero di S. Giuseppe di Alloz, nella Navarra. Egli accolse molto volentieri l’invito, per il grande amore che nutriva per le anime che dedicano la propria vita a Dio nella clausura. Lo spiegava alle Carmelitane di Cadice:

«In tutto il mondo vi sono molti conventi e monasteri che hanno con noi questa unione spirituale. Ci fanno par­tecipare dei loro beni spirituali, che sono tanti, e noi li rendiamo partecipi del nostro lavoro apostolico. Perciò mi sento tra voi come un fratello tra le sue sorelle»177.

Si era recato prima dalle religiose cistercensi di Alloz, e anche lì aveva creato un clima di tertulia. Per far capi­re che i fedeli dell’Opus Dei non sono religiosi, aveva spiegato loro la vocazione all’Opus Dei come «una spe­ciale chiamata di Dio», ragion per cui «non posso dire di invidiarvi, perché la mia vocazione è quella di essere contemplativo per le strade del mondo»178. Poi le mise in guardia contro i pericoli del rilassamento della disci­plina religiosa, insistendo con energia: «Madre badessa, fortezza!, fortezza!, fortezza!». Le monache ascoltavano rapite, fra lacrime e sorrisi.

A Madrid, non potè esimersi dal salutare le Agosti­niane recollette del Reai Patronato de Santa Isabel, del quale era stato Rettore. La loro chiesa in tempi lontani era stata data alle fiamme, ma il presbiterio, l’altare e la grata da cui le monache si comunicavano suscitarono in lui ricordi molto vivi.

In Portogallo, come già si è detto, visitò il Carmelo di Coimbra. Il 10 novembre, a Pozoalbero, nonostante le numerose visite che ricevette e i tanti incontri, trovò il tempo per fare una ‘scappata’ dalle Carmelitane Scalze di Cadice. Durante la permanenza a La Lloma, visitò le

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Carmelitane a Puzol, un convento immerso in un aran­ceto. Il suo saluto abituale, quando visitava un conven­to, era un complimento e un’espressione di gratitudine: «Siete il tesoro della Chiesa». Alle Carmelitane di Puzol disse:

«La Chiesa sarebbe arida senza di voi e noi non po­tremmo dire: attingete acqua con gioia alle sorgenti del­la salvezza. È qui che attingete le acque di Dio, perché noi possiamo trasformare la terra arida in un giardino pieno di aranci. Senza il vostro aiuto non faremmo nul­la, per questo vengo a ringraziarvi (...). Siate mille volte benedette!»179.

La sua ultima catechesi in una clausura ebbe luogo nel monastero delle Clarisse di Pedralbes, a Barcellona. Quando il Padre entrò nella chiesa, lo accolse il suono gioioso dell’organo. Nel parlatorio, accanto alla cappel­la del Santissimo, confessò loro che era lì per imparare, non per insegnare. Lo ascoltavano in silenzioso racco­glimento: «Non vi mancheranno vocazioni se non vi im­borghesite, se tenete viva la fiamma dell’Amore, perché l’Amore fa i grandi miracoli»180. Il tempo passò in un baleno e le monache risero di gusto ad alcune battute del Padre. Prima di accomiatarsi le supplicò, per amore di Dio, di dargli l’elemosina della preghiera, affinché fosse buono e fedele in quei momenti di slealtà.

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Il 20 novembre, quando arrivò a Barcellona, lo aspetta­va un gran numero di persone del posto e di altre regio­ni spagnole e persino gente che veniva dall’estero. Le tertulias si succedettero ininterrottamente per dieci gior­ni in diversi luoghi: scuole, palestre, auditori, case per ritiri e scuole agrarie. Per prima cosa si recò a trovare la Madonna della Mercede, patrona della città.

Com’era prevedibile, il tema del lavoro e del tempo da dedicare agli affari servì da spunto al Padre per parlare

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molto della santificazione del lavoro. Approfittò per dire alle persone di quella industriosa regione che il lavoro e la fatica non sono necessariamente ‘cristiani’, se hanno per obiettivo soltanto il guadagno e i beni materiali. Nell’aula magna dell’istituto di Studi Superiori dell’impresa (IESE), si svolse una tertulia in cui era inevitabile toccare tali argo­menti, poiché l’uditorio era composto da docenti e im­prenditori, personalità del mondo della finanza e degli af­fari. Il Padre giunse sul palco con un volume, dal quale spuntavano vari segnalibri. Dichiarò subito ai presenti la propria assoluta ignoranza in tema di soldi: «Quando ve­do tre monetine insieme, mi gira la testa». Riferendosi alle professioni dei presenti, disse: «Alcuni vi guardano con diffidenza, e altri dicono male di voi perché vi occupate di affari, ma il Signore raccomanda il vostro lavoro e Gesù racconta cose molto divertenti»181. Il Padre aprì allora il Nuovo Testamento (era questo il libro che aveva con sé) al capitolo 19 di S. Luca. Un uomo potente, prima di partire per un viaggio in terre lontane, aveva dato una certa quan­tità di denaro ai suoi servi perché lo investissero e, al suo ritorno, glielo restituissero con gli interessi. «Non è forse un affare? Un affare modesto, di quelli che vi piacciono meno, ma è pur sempre un affare. Il Signore lo loda e an­ch’io non posso fare altro che lodarvi»182.

Il Padre continuò a citare i passi del Vangelo in cui si parla di affari. Per esempio, S. Matteo, «uno che di sol­di se ne intendeva molto», ci parla di un tesoro nasco­sto. L’uomo che lo scopre lo nasconde di nuovo e vende subito tutto ciò che ha per comprare il campo. Questo è proprio «un affare sicuro».

S. Matteo racconta un altro affare, quello della pesca. Un affare relativo perché la rete a strascico raccoglie ogni genere di pesci, quelli buoni ma anche quelli catti­vi, che vanno poi gettati via.

Il Padre commentò le parabole con buon umore, ma, a un certo punto, divenne serio e disse, a mo’ di ricapi­tolazione:

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«Il Signore loda i vostri affari. Ma se non ci mettete amore, un po’ di amore cristiano, se non aggiungete il desiderio di piacere a Dio, state perdendo il tempo»183.

Poi, sempre con il Vangelo in mano, proseguì a espor­re le difficoltà negli affari, la concorrenza sleale, ecc. Ma che cosa impediva a un uomo d’affari di impegnarsi a vivere una vita veramente cristiana? Non erano, a vol­te, il timore e i rispetti umani? Sembrava che il Padre avesse una risposta per tutto. Lesse un altro brano e commentò la storia di Zaccheo, un uomo molto ricco e basso di statura, il quale, senza paura di rendersi ridico­lo, si arrampicò su un albero per vedere Gesù...

Il Padre possedeva il “dono delle lingue” , la capacità di farsi capire da ogni genere di persone. Dio glielo aveva concesso, forse perché era particolarmente confacente al carisma di chi deve predicare la chiamata universale alla santità nell’esercizio di qualsiasi professione onesta.

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NOTE AL CAPITOLO XXIII

1 Javier Echevarria, Sum. 2404.2 Cfr Lettere alle sue figlie e ai suoi figli con gli auguri di Natale, in EF- 691220-1 e 2.3 Lettera a José Maria Hernàndez Gamica, in EF-691215-1.4 «Ho fatto fare un’effigie di Cristo crocifisso, ma senza il segno del colpo di lancia: Cristo vivo, che muore tra atroci sofferenze; e muore felice - si è dato volontariamente - per ottenere la nostra redenzione e il nostro amore. Vorrei che guardassimo l’immagine di Cristo che soffre, pieno di pace, per te, per me, per tutti; che ci decidessimo a rispondere con una donazione to­tale e senza mercanteggiare, anche se dovessimo rimetterci la vita» (citato da Javier Echevarria, Sum. 2814). Sul Crocifisso e la cappella, cfr AGP, POI 1982, p. 1308 e ss.5 AGP, POI 1972, p. 916.6 “In quegli anni - testimonia Joaqum Alonso - l’ho udito affermare più volte che la questione giuridica dell’Opera, la sua intenzione speciale, era passata in secondo piano; la necessità più pressante era lavorare fino allo stremo delle forze per favorire dappertutto la lealtà alla dottrina e alla mo­rale cattolica, l’unione con il Papa e la ricerca della santità” (PR, p. 2058).7 Javier Echevarria, Sum. 2658.8 Insegnamenti di Paolo VI, op. cit., 1972, p. 672.9 Ibidem, pp. 672-673.10 Cfr Francisco Vives, Sum. 7456.11 “Tutto è diventato un problema” , lamentava Paolo VI. “Dall’interno stesso della Chiesa, dai suoi figli più amati, sorge spesso l’inquietudine, l’intolleranza, la defezione. Sono tempi burrascosi” (Insegnamenti di Paolo VI, op. cit., 1971, p. 538).12 Cfr Joaqum Alonso, Sum. 4756.13 AGP, POI 1972, p. 57; Javier Echevarria, Sum. 2607; Àlvaro del Portil­lo, Sum. 1145.14 Cfr José Luis Pastor, Sum. 6066.

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15 Poco dopo la fine del Concilio, nella Chiesa una conclamata “necessità di revisione” si trasformò in “autocritica corrosiva”, tanto da minacciarne “l’autodistruzione” (Insegnamenti di Paolo VI', op. cit., 1969, p. 683). Si giunse, affermò Paolo VI, “a mettere in discussione l’esistenza stessa della Chiesa” , vista come struttura ecclesiastica “abusiva, deforme, precaria, no­civa, inutile” . E proseguiva: “La struttura sarebbe una derivazione illegitti­ma, o almeno non necessaria, della formula autentica della Chiesa aposto­lica” (ibidem, 1971, p. 1011).16 Lettera a Florencio Sànchez Bella, in EF-681216-1.17 Lettera, in EF-700427-2.18 Paolo VI parlò e scrisse molte volte con chiarezza della crisi che la Chie­sa stava attraversando: “Lo stato presente della Chiesa è caratterizzato da molte agitazioni, tensioni, novità, trasformazioni, discussioni... Vi è chi parla di disintegrazione della Chiesa e chi ne sogna la nascita di una nuo­va” (Insegnamenti di Paolo VI, op. cit., 1970, p. 724).19 Cammino, n. 518.20 Ibidem, n. 519.21 Lettera, in EF-480129-2.22 Lealtà verso la Chiesa, (4-VT-1972), in La Chiesa, nostra madre, Milano 1990, nn. 21-25.23 Citato da Javier Echevarria, Sum. 2660.24 Vari sono i testimoni della sua capacità di unire la carità con gli affetti umani e di esprimerla con cordialità e delicatezza; di amare Dio con lo stesso cuore - così diceva - con cui amava i suoi figli: cfr Juan Udaondo, Sum. 5054; Teresa Acerbis, PR, p. 1913; Giuseppe Molteni, Sum. 3839.25 AGP, POI 1972, p. 21. Talvolta, se aveva notizia di qualche offesa arre­cata a Dio, il Fondatore esclamava: «Mi fanno male le anime» (cfr Merce­des Morado, Sum. 6930).26 Cfr Àlvaro del Portillo, Sum. 838. «Anni fa - raccontava il Fondatore - quando era evidente l’imminenza di una tale ecatombe nella Santa Chiesa, non riuscivo a salire all’altare senza mettermi a piangere come un bambi­no. Mi venne male agli occhi e dovetti andare dall’oculista» (AGP, POI 1972, p. 20).27 Javier Echevarria, Sum. 2870.28 Ibidem, PR, p. 1519.29 Cfr l’introduzione al riassunto della storia clinica del Fondatore, elabora­ta dalla Clinica Universitaria di Navarra (RHF, D-15111). Dell’insufficienza renale si dice: “Tutta questa succinta ricostruzione dei fatti gira intorno a un processo nefroangiosclerotico, con insufficienza renale progressiva, iper­tensione arteriosa e alterazioni vascolari, che nella fase finale determinò gravi fatti circolatori, l’ultimo dei quali lo portò alla morte”.30 Javier Echevarria, Sum. 3138.31 Ibidem, Sum. 2758.32 Ibidem, Sum. 2660; cfr anche Giacomo Barabino, Sum. 4528.33 Javier Echevarria, Sum. 2661.34 José Luis Soria, RHF, T-07920, p. 23. La frase in corsivo è in italiano nel testo (NdC).

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35 Javier Echevarrìa, Sum. 2870.36 Cfr José Luis Soria, RHF, T-07920, p. 26.37 Lealtà verso la Chiesa, omelia, op. cit., n. 30.38 Citato da Javier Echevarrìa, Sum. 2659.39 José Luis Soria, RHF, T-07920, p. 15.40 Maria Begona Àlvarez Iràizoz, RHF, T-04861, p. 9. Per espressioni analo­ghe cfr Javier Echevarrìa, Sum. 2784; José Luis Soria, RHF, T-07920, p. 10.41 «Oggi non fa bel tempo, non potete uscire a passeggio», diceva ai suoi figli. «A me non importa. Sono triste guardando la Chiesa nostra Madre e non mi dispiace che persino la natura, a volte, sia triste; questa pioggia mi sembra fatta di lacrime. E allora, perché sorrido? Perché in pari tempo so­no allegro. Con l’aiuto di Dio saremo fedeli» (AGP, POI 1973, p. 311).42 Javier Echevarrìa, Sum. 2754.43 Teresa Acerbis, Sum. 4984.44 Javier Echevarrìa, Sum. 2747.45 Cfr Maria Begona Àlvarez Iràizoz, RHF, T-04861, p. 20. Marlies Kiicking testimonia che per lui “l’orazione era mezzo e fonte di energia e faceva assegnamento, in modo speciale, sulla preghiera delle Numerarie Ausiliarie” (Sum. 7177). Lo conferma la testimonianza di mons. Alvaro del Portillo: “Sono vissuto molti anni a fianco di nostro Padre e l’ho senti­to ripetere costantemente, con assoluta convinzione, che sentiva una santa invidia e una profonda ammirazione per la vocazione delle sue figlie Nu­merarie Ausiliarie” . Benché il Padre volesse bene a tutti i fedeli dell’Opera con lo stesso affetto, “si concedeva un’eccezione, che non nascondeva: ave­va una predilezione per le sue ‘figlie piccole’, come gli piaceva chiamare le Numerarie Ausiliarie” (AGP, P02 1977, p. 827).46 AGP, POI 1982, p. 1378.47 Ibidem.48 Lettera 25-V-1962, n. 44.49 Cfr Lettera 19-IIÌ-1967, n. 3.50 Ibidem, n. 5.51 Francisco Vives, Sum. 7471.52 AGP, POI 1972, p. 862.53 Cfr Rm 8, 31; cfr anche AGP, POI 1982, p. 1248; Javier Echevarrìa, Sum. 3276; Ernesto Julia, Sum. 4245; Joaqum Alonso, Sum. 4934.54 Cfr Javier Echevarrìa, Sum. 3275.55 Ibidem; cfr anche Joaqum Alonso, Sum 4934; Ernesto Julia, Sum. 4245; e Is 58, 1. «Ora non piango più - disse una volta ai suoi figli -, ma dal 6 agosto 1970 ho gridato incessantemente: clama, ne cessesi, con la piena convinzione che Dio lo vuole» (AGP, POI 1979, p. 983).56 II testo della Lettera agli Ebrei (4, 16) reca “trono della grazia” e non “trono della gloria” . Il Fondatore spiegava che la Madonna è trono della gloria per la sua continua e inseparabile unione di amore con il Padre, il Fi­glio e lo Spirito Santo. Per mezzo della sua intercessione ci rivolgiamo a Dio, facendo umilmente appello alla sua misericordia (cfr Alvaro del Por­tillo, Sum. 1130). Il Fondatore ricorreva sempre all’intercessione della Ma­donna e la locuzione “lo confermò nella necessità di rivolgersi sempre a

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Lei” (Javier Echevarria, Sum. 3276). Il Padre disse a don Àlvaro di scrivere ai membri del Consiglio per informarli di questa locuzione e fu Punica vol­ta che lo fece, a quanto ricorda Ernesto Julia (cfr Sum. 4245). Cfr anche Joaqum Alonso, Sum. 4935; Mario Lantini, Sum. 3741; Bianca Fontàn, PM, f. 1087. Mons. Juliàn Herranz, che sentì il racconto dalle labbra del Padre poco dopo il suo ritorno da Caglio, narra che in quel periodo erano già cominciati i lavori di Cavabianca, la sede definitiva del Collegio Roma­no della Santa Croce, e il Padre chiese che vi fosse collocato un bassorilie­vo in pietra con la Madonna in trono, incoronata dalla Santissima Trinità, e sul basamento le parole della locuzione. Inoltre, il Padre suggerì che, in attesa della soluzione giuridica appropriata per 1’Opera, si recitassero quel­le parole come giaculatoria, per ottenere dalla Madonna la grazia tanto de­siderata; cosa che i suoi figli fecero per tanti anni. “Per questo - continua mons. Herranz - fu grandissima la nostra gioia e la nostra gratitudine alla Santissima Vergine quando il Papa (che non sapeva nulla di tutto ciò) rese pubblica la sua decisione di erigere l’Opus Dei in Prelatura personale pro­prio il 23 agosto 1982, anniversario della speciale luce divina ricevuta dal Fondatore undici anni prima” (Sum. 4030).57 AGP, POI 1971, p. 498. Sulla “scoperta”, cfr José Luis Soria, RHF, T- 07920, p. 78, annotato il 10-11-1971.58 Cfr Ernesto Julia, Sum. 4114.59 Per la Consacrazione, da rinnovarsi tutti gli anni nei Centri dell’Opera,il Padre compose un testo che mostrò a don Àlvaro. Questi volle aggiunge­re un riferimento al Fondatore, per esprimere la fedeltà che i suoi figli avrebbero dovuto sempre dimostrargli. Il Padre non avrebbe voluto, ma poi cedette e il testo dice: “Conserva sempre nella tua Opera i doni spiri­tuali che le hai elargito, affinché, secondo la tua amabilissima volontà, in­dissolubilmente uniti a nostro Padre, al Padre e a tutti i nostri fratelli, cor unum et anima una, siamo santi e fermento efficace di santità fra tutti gli uomini. Fa’ che siamo sempre fedeli allo spirito che hai affidato al nostro Fondatore, e che sappiamo custodirlo e trasmetterlo in tutta la sua divina integrità” (PR, voi. XVII, Documenta voi. II, Opus Dei (Consacrazioni), p. 23). Su questo punto: cfr Àlvaro del Portillo, Sum. 1600.60 PR voi. XVII, Documenta voi. II, Opus Dei (Consacrazioni), p. 21.61 Ibidem, p. 22.62 La giaculatoria era stata composta nel 1952 per la consacrazione dell’O- pera al Sacratissimo Cuore di Gesù (cfr cap. XVIII, § 5). Nel ’71 vi fece ag­giungere ‘et Misericors\ Misericordioso. Cfr José Luis Soria, RHF, T- 07920, p. 17; e AGP, POI 1982, p. 1251.63 José Luis Soria, RHF, T-07920, p. 89.64 AGP, POI 1982, p. 1402. Nel Natale del 1971 scrisse ai suoi figli e figlie: «Che Dio e la sua Santissima Madre, Madre nostra - adeamus cum fiducia ad thronum gloriae, da Maria, ut misericordiam consequamur -, ci conceda­no un santo Natale e ci diano la grazia di una dedizione sempre più delicata e generosa. È desiderio del Signore e sarà anche una grande gioia per vostro Padre, che ripetiamo molto: clama, ne cessesi» (Lettera, in EF-711200-2).65 Jesus Àlvarez Gazapo, Sum. 4498, frase raccolta il 12-XI-1971.

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66 Cfr José Luis Soria, RHF, T-07920, p. 50; annotazione del 4-X-1970. Sulla brevità delle locuzioni, cfr anche Daniel Cummings, Sum. 6194.67 Lealtà verso la Chiesa, op. cit., n. 32.68 Ibidem. Cfr anche Ignacio Celaya, Sum. 5937.69 Lealtà verso la Chiesa, op. cit., n. 25.70 Cfr Giacomo Barabino, Sum. 4528.71 Javier Echevarrìa, Sum. 2655.72 Cfr Luigi Tirelli, Sum. 4554.73 Tra il 1965 e il 1975, testimonia mons. Joaqum Alonso, “il Padre soffrì molto, perché gli eventi indicavano una completa assenza di amore di Dio. Sovente l’ho udito predicare sulla dolorosa situazione della Chiesa; la sua reazione - diceva - era di cercare di riparare, amando di più. (...) Per esem­pio stimolò tutti i membri dell’Opus Dei a curare con maggiore attenzione la liturgia, l’adorazione eucaristica e la dignità del culto” (PR, p. 2211).74 Negli ultimi anni della sua vita gli atti di offerta si fecero sempre più fre­quenti. Supplicava il Signore di prendersi la sua vita e, in cambio, di spar­gere “sulla Chiesa una nuova ondata di santità, di buona dottrina e di spi­rito soprannaturale” (Àlvaro del Portillo, Sum. 790). Cfr pure: Juliàn Herranz, Sum. 3925; Mario Lantini, PR, p. 638; ecc.75 Carmen Ramos (Sum. 73 82) testimonia che, poche ore prima della morte del Padre, gli sentì dire, testualmente, che era disposto a offrire per la Chiesa e per il Papa “la sua vita e mille vite se le avesse avute” . Nelle prime ore del mattino del 26 giugno 1975, il Fondatore diede incarico a Giuseppe Molteni di recarsi da un professionista, amico di Paolo VI, per far sapere al Pontefice che da anni stava offrendo ogni giorno la sua vita per la Chiesa e per il Papa (cfr Sum. 3866). Mons. Javier Echevarrìa, presente alla conversazione del Pa­dre con Francisco Vives e Giuseppe Molteni, testimonia che “diede loro l’in­carico di andare a trovare il dottor Piazza - amico del Santo Padre -, che non stava bene in salute, affinché gli comunicassero tutto il suo affetto. Mi impres­sionarono - a tutti accadde la stessa cosa - l’affetto e la forza con cui il Fon­datore parlò (...) e la convinzione con cui disse - perché lo trasmettessero al dottor Piazza - che quella mattina, come sempre, aveva offerto la Santa Mes­sa per la Chiesa e per la persona del Papa e che, con la grazia di Dio, avrebbe dato con piacere la propria vita per il Vicario di Cristo” (Sum. 3288).76 Omelia La lotta interiore, 4-IV-1971, in È Gesù che passa, n. 82. So­prattutto in quegli anni, l’insistenza del Padre sulla lotta interiore era con­tinua. Scrisse ai suoi figli degli Stati Uniti: «Figlie e figli miei, siate fedeli, perché è il momento della lealtà. Continuate la vostra lotta personale con spirito sportivo, consapevoli della vostra debolezza - nessuno si fidi di se stesso - e sapendo che Dio nostro Padre ci ama alla follia (...). Pregate per la Chiesa, nostra Madre, che ha tanto bisogno di fedeltà in questi tempi di confusione, e pregate per me, che vi amo tanto» (Lettera, in EF-720608-2).77 Cfr Cammino, n. 301.78 Cfr, fra molti altri, Giuseppe Molteni, Sum. 3832; Javier Echevarrìa, Sum. 2010 e 2580; Bianca Fontàn, Sum. 6978.79 AGP, POI 1973, pp. 276-277. Il rispetto per la natura gli veniva dalla educazione familiare. Nel dicembre 1971 il Padre scriveva a un amico di

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Barbastro: «Mi ha fatto piacere leggere le notizie sullo sviluppo della nostra cara Barbastro; ma lascia che ti confidi una preoccupazione, anche se so che voi già ne avrete tenuto conto: è di moda - e lo è perché è una triste realtà - dire che le nuove industrie, costruzioni, ecc., comportano un certo inquina­mento dell’atmosfera, dei campi, dei fiumi, se non si prendono le opportune misure per impedirlo. Mi sembra che non possiamo fare a meno di pensarci con un certo anticipo, affinché nella nostra regione si possa continuare a godere del clima sano e incorrotto e delle acque limpide che abbiamo sem­pre avuto» (Lettera a Manuel Gómez Padrós, in EF-711220-1).80 Cfr Lettera, in EF-651122-1.81 Lettera, in EF-651130-2.82 Mons. Alvaro del Portillo racconta che mons. Montini, sentendo che il Fondatore portava buone notizie da comunicare a Pio XII, gli disse che Sua Santità ne sarebbe stato lieto, perché “qui giungono soltanto pene e dolori” (.Intervista sul Fondatore dell’Opus Dei, Milano 1992, p. 10). Il Fondatore si comportò nello stesso modo anche con Giovanni XXIII e Paolo VI: portava al Papa qualche buona notizia, per arrecare sollievo e infondere fiducia.83 Cfr Lettera a mons. Angelo Dell’Acqua, in EF-660125-1.84 Lettera a mons. Angelo Dell’Acqua, in EF-660129-1.85 Lettera a mons. Angelo Dell’Acqua, in EF-670708-1. La richiesta uffi­ciale fu presentata da don Alvaro del Portillo a mons. Nasalli Rocca, Mae­stro di Camera di Sua Santità.86 Lettera, in EF-670715-1. “Egli accoglieva tutto ciò che veniva dal Ro­mano Pontefice come se fosse venuto da Cristo stesso” (Ignacio Celaya, Sum. 5938).87 Lettera a mons. Angelo Dell’Acqua, in EF-670715-1.88 Lettera a mons. Angelo Dell’Acqua, da Parigi, in EF-670914-1.89 Lettera a mons. Angelo Dell’Acqua, in EF-671016-2. L’omelia della Messa è raccolta in Colloqui con il titolo Amare il mondo appassionata­mente. Eccone alcuni brani: «Dio vi chiama per servirlo nei compiti e at­traverso i compiti civili, materiali, temporali della vita umana: in un labo­ratorio, nella sala operatoria di un ospedale, in caserma, dalla cattedra di una Università, in fabbrica, in officina, sui campi, nel focolare domestico e in tutto lo sconfinato panorama del lavoro, Dio ci aspetta ogni giorno. Sappiatelo bene: c’è un qualcosa di santo, di divino, nascosto nelle situa­zioni più comuni, qualcosa che tocca a ognuno di voi scoprire. A quegli universitari e a quegli operai che mi seguivano verso gli anni trenta, io so­levo dire che dovevano materializzare la vita spirituale (...). Non vi è altra strada, figli miei: o sappiamo trovare il Signore nella nostra vita ordinaria, o non lo troveremo mai» (Colloqui, n. 114).90 Lettera, in EF-671029-1.91 Nella lettera, il Fondatore citava mons. Sotero Sanz, che in diverse occa­sioni aveva attaccato l’Opera. Il caso più recente si era verificato durante un colloquio con il ministro spagnolo dei Lavori Pubblici, Federico Silva Munoz, al quale mons. Sotero assicurò che era molto ben visto in Segrete­ria di Stato, eccetto che per la sua appartenenza all’Opus Dei. Il ministro gli chiarì che non faceva parte dell’Opus Dei e poi, indignato e scandalizza-

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to per il trattamento riservato ai buoni cattolici che servivano la Chiesa, ne informò alcuni amici, membri dell’Opera. Mons. Sotero Sanz dal 1970 al 1977 fu Nunzio Apostolico in Cile, dove riconobbe con molta onestà di avere fatto affermazioni temerarie e se ne scusò. Nel 1974, quando il Padre si recò a Santiago del Cile, mons. Sotero volle chiedere personalmente per­dono al Fondatore, il quale lo interruppe affettuosamente: «Carissimo So­tero, dimentichiamoci tutto il passato!» (cfr ibidem, nota 1).92 Lettera, in EF-671029-1.93 Ibidem.94 Ibidem.95 PR voi. XVII, Documenta voi. II, Opus Dei (Consacrazioni), p. 12.96 Cfr Lettere a mons. Angelo Dell’Acqua, in EF-670529-1 e 680113-1.97 Mons. Giovanni Benelli fu Sostituto della Segreteria di Stato fino a quando fu nominato Arcivescovo di Firenze, il 3-VI-1977, e Cardinale nel Concistoro del 27-VI-1977. Morì il 26-X-1982. Non appena si seppe della sua nomina alla Segreteria' di Stato, il Fondatore gli scrisse congratulando­si per la fiducia che il Papa riponeva in lui e promettendo di fargli visita «per manifestargli di nuovo personalmente tutta la mia stima e amicizia» (Lettera, in EF-670701-4). Sulla precedente corrispondenza con mons. Be­nelli, cfr Lettere, in EF-660831-1, da Avrainville, ed EF-661115-1.98 Cfr Lettera a S.S. Paolo VI, in EF-680712-2.99 Lettere a mons. Giovanni Benelli, in EF-690224-2, e a S.S. Paolo VI, in EF-690224-1.100 Cfr Lettera di S.S. Paolo VI al Fondatore dell’Opus Dei, del 26-11-1969, in RHF, D-15106. La successiva lettera del Fondatore al Papa contiene gli auguri per Natale e l’offerta, a nome proprio e di tutta l’Opera, delle pre­ghiere e dei sentimenti di unione filiale (cfr EF-691215-3).101 Su tale situazione, cfr Àlvaro del Portillo, Sum. 803; Joaquin Alonso, Sum. 4699.102 Lettera, in EF-700427-2.103 Lettera, in EF-701110-1. Cfr Lettera, in EF-701114-1.104 Cfr Lettera a mons. Angelo Dell’Acqua, in EF-671029-1. Avrebbe sop­portato tutto piuttosto che dare un dispiacere al Papa, perché “il dolore del Papa era la sua agonia” (Giacomo Barabino, Sum. 4528).105 Lettera a mons. Angelo Dell’Acqua, in EF-701110-1. - La conclusione allude al gioco di parole consentito dal cognome Escrivà, che deriva da escribano, cioè scrivano (NdC).106 Cfr Àlvaro del Portillo, Sum. 1174 e 805.107 Cfr ibidem, Sum. 805.108 Lettera, in EF-710202-1.109 I fedeli dell’Opus Dei con incarichi nella Curia erano: mons. Salvador Canals, l’avvocato Antonio Fraile Gonzàlez (assunto su richiesta del Car­dinale Adeodato Giovanni Piazza), don Juliàn Herranz (chiamato perso­nalmente dal Cardinale Pietro Ciriaci) e don Julio Atienza Gonzàlez, segre­tario del Cardinale Ildebrando Antoniutti, assunto come ufficiale minore aggiunto su richiesta dello stesso Cardinale (cfr ibidem).110 Ibidem.

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111 Cfr Àlvaro del Portillo, Sum. 802.112 Cfr Javier Echevarria, Sum. 2375.113 Cfr Joaqum Alonso, Sum. 4702.114 Cfr Àlvaro del Portillo, Sum. 802.115 Mons. Àlvaro del Portillo racconta che l’Ambasciatore della Spagna presso la Santa Sede, Antonio Garrigues Diaz-Canabate, cui era nota la si­tuazione, invitò a pranzo sia mons. Benelli che il Fondatore dell’Opus Dei, per favorire un chiarimento. A un certo punto, mons. Escrivà chiese con semplicità al Sostituto della Segreteria di Stato quale errore o ingiustizia avesse commesso, per potersi così correggere o scusare seduta stante: il suo unico desiderio era di servire la Chiesa. Mons. Benelli rispose che non ave­va nulla da dire in proposito e allora il Fondatore, con la tranquilla co­scienza di chi non serba rancore, gli chiese: «Ma allora, Monsignore, per­ché ci osteggia?». Benelli non aprì bocca. Tuttavia, col passare dei mesi, prosegue don Àlvaro, cominciò a cambiare atteggiamento, tornando a mo­strare stima per l’Opus Dei (cfr Sum. 806 e anche Juliàn Herranz, Sum. 4040, Francesco Angelicchio, PR, p. 337).116 Lettera postulatoria di mons. Giovanni Benelli, del 3-V-l979 (RHF, D- 30805). Cfr Àlvaro del Portillo, Sum. 806. Fu mons. Benelli,, in occasione della morte del Fondatore, a far pubblicare un articolo su L'Osservatore Romano.117 “Ricordo - testimonia mons. Javier Echevarria - che dal Vicariato ci chiesero conferma della data di erezione di un Centro, poiché dalla Segre­teria di Stato volevano sapere anche i minimi particolari, per far credere che la cosa si stava studiando, e che l’approvazione già data non era defini­tiva” (Sum. 2376).118 Segreteria di Stato, n. di protocollo 208080, del 30-X-1972.119 Lettera a S. Em.za Jean Villot, in EF-721201-2.120 Ibidem.121 Àlvaro del Portillo, Intervista sul Fondatore..., op. cit., , p. 14 e Sum. 787; mons Javier Echevarria riferisce che la risposta affiorò spontanea sul­le labbra del Fondatore, come egli stesso gli confidò in seguito, scaturita dalla sua riverenza filiale per il Papa (cfr Sum. 2363).122 E impossibile fare l’elenco degli ecclesiastici con cui fu in amicizia o ebbe rapporti, a partire dalle centinaia di sacerdoti che conobbe nei primi anni dell’Opera fino agli alti dignitari della Curia Romana che cominciò a fre­quentare dal 1946. Dei rapporti con Pio XII, Giovanni XXIII e Paolo VI si è già parlato. Vi sono poi prelati, vescovi, nunzi, ecclesiastici e religiosi dei Paesi nei quali l’Opus Dei si diffondeva. Lo avvicinarono numerosissimi sa­cerdoti, rappresentativi di tutti i livelli del mondo ecclesiale. Come esempio, vengono qui citati soltanto i Cardinali, gran parte dei quali di Curia e italia­ni, di cui fu amico e spesso intimo amico (cfr Àlvaro del Portillo, Sum. 795- 798): Dell’Acqua, Larraona, Palazzini, Pizzardo, Antoniutti, Parente, Marel­la, Ottaviani, Baggio, Traglia, Pignedoli, Marchetti-Selvaggiani, Violardo, Lavitrano, Tedeschini, Tardini, Piazza, Schuster, Cento, Mimmi, Siri, Ciriaci, Agagianian, ecc. Cfr Juliàn Herranz, Sum. 3925; Joaqum Alonso, Sum. 4698; José Luis Muzquiz, Sum. 5815; Fernando Valenciano, Sum. 7111.

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123 Era il caso, fra l’altro, di mons. Benelli. Cfr Lettere a mons. Giovanni Benelli, da Lima, in EF-740727-1; da Quito, in EF-740814-1; da Caracas, in EF-740830-1 e in EF-750210-1.124 Àlvaro del Portillo, Sum. 1170.125 Javier Echevarria, Sum. 2372. Non è frequente che qualcuno lodi il lavo­ro della Curia. Mons. Escrivà lo fece in una lettera ai suoi figli, valorizzan­do il lavoro nascosto di tanti ecclesiastici santi e dotti: «Hanno servito con umiltà la Chiesa e il loro servizio non procurava loro vantaggi personali e beni materiali. Non hanno desiderato onori, ma si sono dedicati generosa­mente al loro compito spirituale senza aspettarsi encomi. Si riempie il cuore di gioia pensando al nascosto eroismo di tante - di moltissime - anime san­te che, con buona dottrina e salda fedeltà verso la Sede Apostolica, hanno speso la loro vita per la Chiesa di Dio (...). Guardateli lavorare; sono vissu­ti poveri e sono morti poveri, hanno governato con dolcezza e con fortezza, hanno ascoltato tutti, di tutti si sono presi cura, decidendo con giustizia e consigliandosi con persone dotte e oneste» (Lettera 15-VIII-1964, n. 73).126 Appunti, n. 1703.127 Ibidem.128 José Luis Soria, RHF, T-07920, p. 25.129 Ibidem; anche AGP, POI 1972, p. 59.130 José Luis Soria, RHF, T-07920, p. 25.131 E Gesù che passa, n. 64.132 Amici di Dio, n. 52.133 AGP, P06, II, p. 333.134 Gb 7,1. - La frase citata è la traduzione letterale del latino Nonne mili- tia est vita hominis super terram? La traduzione CEI dice: Non ha forse un duro lavoro l'uomo sulla terrai (NdC)135 AGP, POI 1972, p. 60.136 Ibidem, p. 59.137 E Gesù che passa, n. 73.138 AGP, POI 1972, p. 15. Anche AGP, POI 1969, p. 442. Spiegava così ai suoi figli lo scherzo dei ‘sette anni’: «Dobbiamo per davvero farci bambini davanti a Dio, rinnovando ogni giorno la nostra giovinezza. Nella storia del­la Chiesa ci sono molte anime sante che hanno saputo farsi bambini, seguen­do i cammini più diversi, pur essendo già vecchi. Non vi pare logico che vi dica che non voglio compiere più di sette anni?» (AGP, POI 1972, p. 11).139 Ibidem, p. 14.140 Ibidem, p. 138.141 Ibidem, p. 146.142 Ibidem, p. 136.143 Ibidem, p. 316.144 José Luis Soria, RHF, T-07920, p. 26.145 AGP, POI 1972, p. 349.146 Ibidem, p. 420.147 Ibidem, p. 559.148 Oltre al focolaio di broncopolmonite le analisi mostrarono quantità anormali di urea nell’organismo. Il quadro acuto subì una remissione e il

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28-IV-1972 era molto migliorato. Fece ogni giorno un po’ di esercizio fisi­co, con qualche passeggiata; pesava 67 Kg. Cfr Storia clinica di mons. Jo- semaria Escrivà de Balaguer, RHF, D-15111.149 AGP, POI 1972, p. 564.150 Ibidem, p. 661.151 AGP, P04 1972,1, p. 81. Alonso Tostado de Madrigai, scrittore prolifi­co, teologo, filosofo e giurisperito, fu professore nell’Università di Sala­manca. Morì Vescovo di Àvila nel 1455. La frase pronunciata dal Padre è un detto popolare.152 Ibidem, p. 81.153 AGP, POI 1972, p. 940.154 AGP, P04 1972,1, p. 170.155 Cfr Florencio Sànchez Bella, Sum. 7483.156 Cfr César Ortiz-Echagiie, Sum. 6860.157 RHF, D-15111.158 Lettera a Florencio Sànchez Bella, in EF-721210-3.159 Cfr RHF, D-15111, in data 28-XII-1972.160 AGP, P04 1972,1, p. 41.161 Cfr Discorso, 7-X-1972, in Josemana Escrivà y la Universidad, Pam- plona 1993.162 AGP, P04 1972,1, p. 47.163 Ibidem, p. 93.164 Ibidem, p. 118.165 Ibidem, p. 535.166 Ibidem, p. 225.167 Florencio Sànchez Bella testimonia che “si lasciava portare da noi. Sali­vamo in auto, lui si metteva a pregare e prima di scendere mi domandava: «A chi parliamo?», e ricominciava con entusiasmo” (Sum. 7483).168 Per i suoi suggerimenti sulla moda femminile, cfr AGP, P04 1972,1, p. 205.169 Lettera a Madre Maria das Merces de Jesus, o.c.d., Priora del Carmelo di Coimbra, in EF-721214-2.170 Cfr AGP, POI 1975, p. 53. Il Fondatore chiamava “compaesani” altri santi, come S. Giuseppe Calasanzio e S. Vincenzo Ferreri.171 AGP, P04 1972,1, p. 315.172 Ibidem, p. 400. Il motto citato dice: Siempre fieles, siempre alegres, con alma y con calma.173 Ibidem, p. 268.174 Ibidem, p. 428.175 Ibidem, p. 451. Cfr Is 65,23.176 AGP, P04 1972,1, p. 450.177 Ibidem, p. 837.178 Ibidem, p. 827.179 Ibidem, p. 837.180 Ibidem, p. 841.181 Ibidem, p. 604.182 Ibidem, p. 605.183 Ibidem, p. 606.

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Capitolo XXIV

«IL TUO VOLTO, SIGNORE, IO CERCO»

1. Le ultime tre pazzie

Il 30 novembre 1972 il Padre tornò a Roma. L’intenso ritmo sostenuto e gli spostamenti per tutta la Spagna e il Portogallo avevano messo a dura prova il suo fisico, so­stenuto soltanto dal suo zelo apostolico. I due mesi di catechesi nella Penisola iberica, tanto ricchi di frutti, avrebbero avuto conseguenze benefiche ancora maggio­ri nel futuro poiché, grazie alla preveggenza di don Alvaro, gli incontri erano stati in gran parte filmati, conservando così per i posteri la voce, l’aspetto, le paro­le del Padre. Rientrava a Roma con un grande dolore nel cuore. A Barcellona, davanti alla folla che lo ascolta­va nella palestra della Scuola sportiva Brafa, si era scu­sato di doversi interrompere: «C’è un ammalato che mi aspetta e non ho il diritto di fare aspettare un malato, che è Cristo... Ha bisogno del padre e della madre, e io sono padre e madre»1.

Don José Maria Hernàndez Gamica, uno dei primi tre sacerdoti dell’Opus Dei, era in fin di vita in un Cen­tro dell’Opus Dei di Barcellona. Dopo essere stato a tro­varlo, il Padre disse, in un’altra tertulia:

«Oggi sono stato con un vostro fratello... Devo fare grandi sforzi per non piangere, perché vi amo con tutto il cuore, come un padre e come una madre. Erano mesi

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che non lo vedevo e mi è sembrato già un cadavere... Ha lavorato molto e con molto amore; forse il Signore ha ormai deciso di dargli già ora la gloria del Cielo...»2.

All’inizio del 1972, a don José Maria fu diagnosticato un male incurabile. Quando lo seppe, il Padre scrisse al Consigliere della Spagna per ricordargli l’affetto sopran­naturale e umano con cui nell’Opus Dei devono essere seguiti gli ammalati. Don José Maria, detto familiarmen­te ‘Chiqui’, era a Pamplona e, a meno di un miracolo, per lui non c’erano speranze di guarigione. Il Padre gli scrisse:

«So che la tua giornata è molto piena e ne sono conten­to: ti sarà più facile unirti alle intenzioni della mia Messa e della mia orazione e Maria Santissima, nostra Madre, ci otterrà dal suo Divino Figlio la fine della tremenda e in­credibile prova che la Chiesa e tutte le anime stanno at­traversando. Ho la certezza che Gesù, nostro Amore, ti ascolterà in modo speciale finché durerà la malattia che ti ha inviato: approfitta di questo privilegio»3.

Alcune settimane prima, grato alla Santissima Vergine per la pace e la serenità che il malato conservava, il Fonda­tore lo incoraggiava a continuare a ‘sfruttare’ la sofferenza:

«Continua così, figlio mio, perché le tue sofferenze sono un clamore di orazione che si innalza a Cristo no­stro Signore, per la sua Santa Chiesa, che il diavolo vuo­le distruggere»4.

Il 7 dicembre 1972 giunse a Roma la notizia della morte di don José Maria. Il Padre riunì il Consiglio Ge­nerale. Nel diario di Villa Tevere si legge, nella pagina di quel giorno:

“Ci ha detto, piangendo, che avevano appena telefo­nato da Madrid per avvisare della morte di don José Maria Hernàndez Gamica, avvenuta la notte scorsa a Barcellona, dopo che il malato aveva chiesto che gli fos­se amministrata l’Unzione degli Infermi. Il Padre ha su­bito celebrato la Messa per l’anima di don José Maria. Dapprima ci disse che, se volevamo, potevamo parteci­

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parvi; poi don Javier ci ha detto che il Padre era molto prostrato e avremmo potuto assistere alla Messa che avrebbe celebrato don Àlvaro”5.

Lo stesso giorno, il Padre scrisse a Pedro Casciaro e a José Luis Muzquiz due lettere identiche:

«Mi è giunta pochi momenti fa la dolorosissima notizia della morte di Chiqui, che riposi in pace. Il Signore se lo è portato via dopo averlo purificato. Non posso nasconder­ti che ho sofferto e soffro molto e che ho pianto»6.

Quando, come in questo caso, un suo figlio o una sua figlia veniva a mancare, il Padre si sentiva sopraffatto dal dolore e non riusciva ad abituarsi all’idea che simili eventi si verificassero con sempre maggiore frequenza. Il suo cuore di Padre ne era tanto coinvolto da sentirsi im­mensamente grato verso chi aveva assistito con affetto il malato negli ultimi momenti. Fu così anche per Chiqui7. La sua morte fu un colpo molto duro, ma molto più grande era il dolore che il Padre provava per la Chiesa, perché era una sofferenza causata dalla crudeltà degli uomini. Ma Dio lo sosteneva con una grazia speciale perché non fosse schiacciato dal dolore. Lo riconobbe in una lettera del 12 dicembre 1972:

«Non posso negare che, se il Signore e la sua amatissi­ma Madre non ci aiutassero in un modo del tutto spe­ciale, l’ora che la Chiesa attraversa ci farebbe soffrire troppo. (...) Siatemi fedeli. Compite le norme. Non mi trascurate l’orazione. Lavorate con gioia. Riparate con Amore. Alla fine, vedrete, tutta questa triste e tremenda situazione dell’umanità troverà rimedio. E arriverà il giorno, che possiamo accelerare fin da ora, in cui rin- grazieremo continuamente il Cielo: ut in gratiarum sem- per actione maneamus!»8.

A Natale aveva già scelto questa giaculatoria, espres­sione di continua gratitudine, come ‘parola d’ordine’ per il nuovo anno.

Le preoccupazioni cominciarono di nuovo a togliergli il sonno. «Questa notte non ho quasi dormito - diceva ai

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suoi figli Sono preoccupato per le anime. Mi sento co­me una belva in gabbia»9. Anche negli auguri di Natale del 1972 fece cenno ai «tremendi problemi che affliggono la Santa Chiesa»10. Tuttavia la grazia del Signore riusciva ad allontanare l’angoscia e a ravvivare la luce della spe­ranza. Soltanto con l’aiuto divino si riesce infatti a spiega­re la sua serena attività; peraltro, affrontare e risolvere i problemi lo aiutava a distrarsi, a superare le contrarietà. Sempre più spesso, parlando con i suoi figli, affermava: «Un giorno di questi me ne andrò»11. Non era un pensie­ro triste, poiché lo spingeva a sfruttare bene il tempo, sen­za perdersi in malinconie. In quel momento della sua vita, in età già avanzata, confessava al Cardinale Casariego di essere ottimista e sereno, per natura e anche per un dono gratuito del Cielo:

«Non pensi che io sia pessimista: Dio nostro Signore mi ha fatto ottimista e ottimista è lo spirito dell’Opera e anche il Santo Vangelo mi riempie di ottimismo. Tutta­via chiedo, perfino con il respiro, che si torni quanto prima a vedere il vero volto della Sposa di Cristo e che la Misericordia del nostro Padre celeste accorci questi momenti, facendo in modo che le acque tornino a scor­rere nel loro letto e non si perdano tante anime (...).

Le devo confessare che, pur passando un gran brutto momento, sono molto felice, sempre contento. La tri­stezza - amaritudo mea amarissima! - non mi toglie mai la gioia e la pace: solo per pochi istanti perdo il sorriso, un dono immeritato che Gesù mi ha voluto dare in mo­do quasi permanente»12.

Il Padre sentiva il sostegno dei suoi figli. Lo disse ai membri del Consiglio Generale: «Sono al buio. Ho chia­ro soltanto che devo riparare e che ho bisogno di voi»13. Il Signore gli dava luci per vedere l’enormità dei peccati degli uomini, ma non gli permetteva di vedere i segni di una schiarita in quella lunga notte. Tuttavia, aveva la grande consolazione di poter gridare al Cielo assieme ai suoi figli, all’unisono. L’unità del padre e dei figli nella

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preghiera servì al Signore per far maturare tutta l’Opera nello spirito di orazione, per meglio servire come lievito.

Nella settimana di Pasqua del 1973 si radunarono a Ro­ma duemila giovani, provenienti dai cinque continenti. Per tutti era valsa la pena impegnarsi a risolvere in mille modi il problema di trovare i soldi necessari, visto che avevano l’obiettivo di incontrare il Papa e di stare in ter- tulia con il Padre, che li salutò con parole di stima e di affetto. Era contento di vederli a Roma:

«Se siete qui è perché siete degli incantevoli ribelli. Purtroppo, ora nel mondo c’è solo un’esplosione di su­diciume. Non si fa che parlare di sesso, di violenza, di arricchirsi a tutti i costi, di indifferenza verso gli altri. E non si parla di Dio. Ma voi, che vi siete resi conto che il mondo cerca di farvi vivere come animali, avete rispo­sto di no: non voglio essere una bestia!»14.

In giugno cadeva il venticinquesimo anniversario del­la fondazione del Collegio Romano della Santa Croce, eretto nel 1948. In un quarto di secolo vi erano passati alunni provenienti da quaranta Paesi ed erano state di­scusse più di cinquecento tesi dottorali in Teologia, Di­ritto Canonico, Filosofia o Scienze dell’Educazione. Su un muro di Villa Tevere era stati graffiti in rosso i nomi e le date dei primi alunni di ogni Nazione che avevano ottenuto il dottorato. Il primo in assoluto era quello di don Alvaro, che recava la data del 10-VI-194915.

All’inizio dell’estate il Padre si recò a Civenna, dove era già stato l’anno prima, con il programma di tratte­nersi in luglio e agosto. Che cosa faceva? Come si riposa­va? Il 20 agosto scriveva alle sue figlie dell’Assessorato Centrale: «In questo periodo sono sempre stato immerso nella mia occupazione abituale: pregare senza riposo per la Chiesa e per le anime»16. Fu più esplicito nello scrive­re, lo stesso giorno, ai suoi figli del Consiglio Generale:

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«Qui stiamo pregando molto e lavorando. Non ho dif­ficoltà a dirvi che non sono riuscito a riposare: mi fa ma­le la Chiesa e mi fanno soffrire le anime! Passo il giorno e la notte in una continua supplica al Signore e vorrei sa­per implorare ancora di più e meglio. Perciò vi prego di unirvi alle intenzioni della mia Messa, servendovi delle mie occupazioni per mantenere una ininterrotta presenza di Dio, sempre con l’intercessione di Maria Santissima, refugium nostrum et virtus!, e di S. Giuseppe»17.

Trascorse il mese di settembre nella casa per ritiri Ca- stelldaura, nelle vicinanze di Barcellona, a motivo di un’operazione cui don Àlvaro dovette sottoporsi. I me­dici delPUniversità di Navarra fecero anche un comple­to check-up al Padre. Trovarono una elevata quantità di urea nel sangue. Gli fu fatta anche una protesi dentaria. Rientrò a Roma il 29 settembre18.

Un attento esame del suo stato di salute aiuta a sco­prire correlazioni sorprendenti fra i gravi dispiaceri mo­rali e i suoi malesseri fisici. Il 17 novembre scriveva:

«Pregate per me. Poiché è impossibile chiudere gli oc­chi quando scoprite - purtroppo avviene spesso - i tristi risultati della confusione che regna nella Chiesa, pregate almeno che tutto finisca presto e unitevi all’intenzione della mia Messa, perché sto passando un gran brutto momento. E un brutto momento, ma lo vivo pieno della pace e della gioia che il Cielo mi concede»19.

È significativo che le analisi mediche effettuate il 30 no­vembre 1973 siano precedute da una scarna osservazione: “Persiste la stanchezza e la sonnolenza vespertina, con in­sonnia notturna”20. Uno stato di veglia in stretto rapporto con la “occupazione abituale” del Padre, e cioè “pregare senza riposo, giorno e notte” , per la Chiesa e per le anime.

* * *

All’inizio degli anni cinquanta, il Padre aveva chiesto al Consigliere della Spagna di recarsi in sua vece a pregare

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alla Madonna di Torreciudad, dove i suoi genitori, nel 1904, l’avevano portato in pellegrinaggio in segno di gra­titudine per averlo guarito da una grave malattia. L’antica cappella, che da un alto dirupo domina la valle del fiume Cinca, era semidistrutta. Durante la guerra civile, il furore iconoclasta dei miliziani aveva distrutto la pala d’altare e bruciato gli arredi di culto. Fortunatamente, una persona del luogo era riuscita a nascondere e a salvare l’immagine della Madonna. Lo stato di rovinoso abbandono della cappella fu riferito al Padre, ma egli non si scoraggiò: da tempo aveva formulato il proposito di innalzare santuari alla Madonna, almeno dal 1955, quando aveva espresso ai suoi figli degli Stati Uniti il desiderio di costruirne uno dedicato alla Madre del Bell’Amore21, per mettere sotto la sua protezione la santità delle famiglie. Con il passare de­gli anni, nella volontà del Padre prese corpo l’idea di por­tare a compimento almeno uno di questi progetti. Fu così che propose al Vescovo di Barbastro, mons. Jaime Flores, che l’Opus Dei si prendesse cura del Santuario della Ma­donna di Torreciudad, impegnandosi a diffonderne il cul­to. Che cosa muoveva il Padre? Anzitutto l’amore per la Santissima Vergine e la prospettiva di fare del santuario un centro che ne diffondesse la devozione, ma certamente an­che la sua personale gratitudine e quella di tutta l’Opera per il continuo aiuto di Maria Santissima.

Il 24 settembre 1962 furono ceduti in perpetuo dalla diocesi l’uso e l’usufrutto del santuario esistente, con le sue dipendenze e i terreni èircostanti22.

Ebbe inizio il restauro della scultura lignea della Ma­donna. Il Padre, che già provava un ardente fervore e so­gnava i benefici spirituali che ne sarebbero venuti, richiese alla Santa Sede l’incoronazione canonica delPimmagine23. Poiché il Padre desiderava un vero e proprio santuario, di grande ampiezza, fu chiaro che bisognava erigere una nuova costruzione, non lontana dalla cappella originaria.

Nel giugno 1967 il Padre ricevette a Roma Eliodoro Dols, l’architetto incaricato del progetto, e gli diede va­

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rie indicazioni, anche alla luce delle recenti disposizioni conciliari per il culto. Poi, in una lettera al Consigliere e ai suoi figli in Spagna, espose le ragioni che lo avevano indotto a costruire il santuario e i benefici che se ne at­tendeva:

«Mi aspetto una pioggia di grazie spirituali, che il Si­gnore concederà a quanti faranno ricorso alla Sua Madre Benedetta davanti alla sua piccola immagine, da secoli tanto venerata. Perciò desidero che ci siano molti confes­sionali, perché le persone si purifichino con il santo sacra­mento della Penitenza e, rinnovate nell’anima, confermi­no o ritrovino la propria vita cristiana, imparino a santificare e ad amare il lavoro, portando nelle proprie case la pace e la gioia di Cristo: vi do la pace, vi lascio la pace. Così accoglieranno con gratitudine i figli che il Cie­lo manderà loro, usando santamente dell’amore matri­moniale che li rende partecipi del potere creatore di Dio, e Dio non sarà respinto da queste famiglie quando le onorerà scegliendovi anime che si dedichino, con perso­nale e libera dedizione, al servizio degli interessi divini.

Altri miracoli? Per quanto numerosi e grandi possano essere, se il Signore vorrà onorare in questo modo la sua Santissima Madre, non mi sembreranno più grandi di quelli che ho appena indicato, che saranno numerosi e re­steranno nascosti, senza che si possa farne la statistica»24.

Nei santuari mariani d’Europa, come Lourdes, Fati- ma o Einsiedeln, il Padre era solito bere l’acqua delle fontane come qualsiasi altro devoto pellegrino, ma sen­za chiedere né aspettarsi miracoli.

«A Torreciudad - proseguiva la lettera -, sulle fonta­ne per saziare la sete dei fedeli, ci sarà un cartello con una scritta inequivocabile: ‘acqua naturale potabile’ . L’acqua della Madre mia e nostra, che ci aspetta fra quei dirupi, verrà da una sorgente fresca e viva che zampil­lerà senza fine per la vita eterna»25.

Doveva essere un luogo di preghiera e di penitenza, destinato a favorire l’incontro delle anime con Dio. Alla

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Madonna di Torreciudad, diceva il Padre, «non chiede­remo miracoli visibili», ma ci rivolgeremo a Lei perché faccia «molti miracoli interiori», cambiamenti nelle ani­me, conversioni, maggiore familiarità con il Signore26.

Il 6 aprile 1970, di passaggio per Madrid, il Padre eb­be occasione di vedere per la prima volta l’immagine li­gnea della Madonna di Torreciudad, una Vergine in tro­no con il Bambino, già restaurata e appositamente portata per lui dal laboratorio di restauro al Centro di via Diego de Leon. Era stato possibile datare la statua alla fine dell’XI secolo.

Il Padre ne fu conquistato. «È bellissima», esclamò entusiasta. Rimase assorto a contemplarla per una deci­na di minuti, immerso in un dialogo d’amore con la Madonna27.

Come già è stato narrato, da Madrid il Padre si recò a Torreciudad, dove potè affacciarsi sul profondo scavo delle fondazioni della chiesa e benedire con grande fede la futura cripta, nella quale sarebbero stati sistemati 40 confessionali. Il Padre sognava di fare del santuario un luogo che invitasse alla preghiera e alla penitenza e do­ve tutto fosse in funzione della catechesi. Volle che die­tro l’altare maggiore fosse collocato un grande ‘retablo’ con scene della vita della Madonna, «una catechesi scolpita nella pietra», che risvegliasse nei pellegrini l’a­more di Dio28 e risultasse comprensibile a chiunque, dagli intellettuali alle persone semplici. Inoltre, volle che nel tempio venisse collocata un’immagine di Cristo crocifisso, che lo ritraeva prima della morte, con gli oc­chi aperti, come se, rivolto ai fedeli, dicesse loro con amore: ‘Vedi? È per te che patisco tutto questo’29. Una speciale attenzione doveva pure essere dedicata al San­tissimo Sacramento che, nella pace e nel raccoglimento del santuario, doveva occupare una posizione premi­nente. Sarebbe stato ospitato in un ricco tabernacolo, il vero centro di tutte le attività apostoliche che «sarebbe­ro state svolte tra quelle montagne aragonesi in onore

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di Sua Madre, per il bene di tutte le anime e per il servi­zio della Santa Chiesa»30.

Il Padre sarebbe ritornato a Torreciudad solo nel maggio 1975, un mese prima della morte. Ma anche da lontano, con la sua fede, la sua orazione, il suo lavoro e il suo incoraggiamento, fu tale la spinta che diede a quanti erano impegnati nei lavori, che è giusto afferma­re che Torreciudad è “un monumento della fede del Pa­dre nell’intercessione di Maria Santissima”31. Lanciarsi in quella impresa costosa era una pazzia, ma una pazzia necessaria. Mezzi e risorse non ce n’erano ma, rifletten­do sulle difficoltà che il progetto comportava, il Padre, con il pensiero rivolto alla Madonna, diceva: «Torreciu­dad: abbiamo cominciato anche se, materialmente, po­tevamo contare solo sulla tua immagine di legno; ma Tu sai, Madre, quanto ti amiamo, e ci porterai avanti!»32.

Aveva fretta di aprire quanto prima il santuario ai fe­deli e mise un impegno tutto particolare perché i lavori procedessero puntualmente, senza ritardi o rallentamen­ti. Ci fu un momento di grande difficoltà economica e sembrò non ci fosse altra via d’uscita che interrompere i lavori. Ma il Padre, venuto a conoscenza della situazio­ne critica, li incoraggiò, facendo rinascere le speranze, e li avvertì, con molto buon senso: «Non dimenticate che non sono i morti a concludere le cose»33.

La coraggiosa decisione del Padre di non condiziona­re mai le attività apostoliche alle risorse economiche di­sponibili costrinse a vivere faticosamente alla giornata, fidando sui donativi che giungevano: contributi di mi­gliaia di persone, frutto di sacrifici domestici, di lavori straordinari, di rinuncia ai propri risparmi. Tutte queste generose elemosine, giunte da ogni parte della Spagna e da altri Paesi, non erano però sufficienti ad affrontare i costi che si accumulavano34. Per diminuirli, si pensò di risparmiare sull’acquisto dei materiali. Era imminente il riempimento del lago artificiale di El Grado, nella gran­de valle su cui aggettava Torreciudad, e diversi paesini

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della zona sarebbero stati sommersi dalle acque. Il Pa­dre suggerì di recuperare e utilizzare vari elementi, come pietre da costruzione, tegole, porte e infissi. Furono ri­cuperati anche materiali da vecchie case in demolizio­ne35. Nonostante tutto ciò, non mancarono maldicenze e favole sul lusso della costruzione e attacchi contro il Fondatore, accusato di ambizione di grandezza per la sua magnanimità nella devozione per la Vergine di Tor- reciudad36.

Si fece l’impossibile per finire i lavori quanto prima e il santuario fu aperto al culto nel 1975, traguardo che fu raggiunto solo grazie alla tenacia del Padre e alla sua fiducia in Dio e nella Santissima Vergine37.

51- * *

Il periodo fondazionale dell’Opera è una storia di rapida crescita e di fecondità apostolica. E non era strano che talvolta gli strumenti materiali per l’apostolato divenis­sero insufficienti. Già prima del 1970 la sede centrale dell’Opus Dei, a Roma, costruita con tanta fatica e sacri­fici, era diventata piccola. Il Collegio Romano della San­ta Croce, provvisoriamente ospitato a Villa Tevere dal 1948, esisteva già da vent’anni. Gli alunni, grazie a Dio, continuavano ad aumentare e lo spazio disponibile dimi­nuiva. Il Padre avrebbe voluto che i suoi figli avessero più spazio, potessero stare all’aria aperta e fare sport. Conveniva certamente mettere fine a quella sistemazione provvisoria, poiché gli organi centrali di governo, le cui esigenze di spazio erano pure aumentate, avevano biso­gno dei locali occupati dal Collegio Romano38.

Quando prese questa decisione il Padre aveva sessan- tacinque anni. Dopo una vita intera di duro lavoro e le tante cose che era riuscito a fare, si sarebbe potuto pren­dere un meritato riposo. Ma non era questa la sua men­talità: non si riteneva mai soddisfatto di ciò che aveva fatto, perché pensava solo a servire. Di fronte a ciò che

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restava da fare, esigeva sempre di più da se stesso, con­vinto di doverlo fare per Dio e per i suoi figli e di dover­lo fare presto: «Figli miei, per me si sta facendo sera; bi­sogna fare in fretta»39.

Decise dunque che il Collegio Romano della Santa Croce doveva lasciare la sede centrale e trasferirsi altro­ve nel più breve tempo possibile. Si diede inizio alla ri­cerca dell’immobile adatto. A Roma non mancavano vecchi palazzi e antichi edifici semidiroccati. Ma l’even­tuale ristrutturazione per adattarli alle esigenze del Col­legio Romano sarebbe risultata più costosa che buttarli giù e ricostruirli, cosa peraltro proibita dalla normativa edilizia. Per questi motivi e soprattutto per la scarsità di soldi a disposizione, il Padre decise che la cosa da fare era costruire ex novo. Si era nel novembre del 196740.

Fu acquistato un terreno sopra un rilievo che domina­va l’ampia valle del Tevere e alle cui pendici passava la via Flaminia. Proprio in quella zona si erano accampatii legionari di Costantino prima di sbaragliare le truppe di Massenzio. Il vincitore aveva poi proclamato in favo­re dei cristiani l’Editto di Milano (313 d.C.), eventi sto­rici che il Padre ricordava con piacere. La tenuta fu chiamata Cavabianca, per la vicinanza con una cava di pietra. Era un nome simbolico per un Centro Interna­zionale di formazione, da cui il Padre pensava di trarre pietre vive, candide e ben levigate41. Prima di dare inizio ai lavori fu necessaria una lunga preparazione. Per com­pletare il progetto ci vollero due anni e le pratiche per ottenere l’approvazione urbanistica, i permessi di co­struzione e le varie licenze furono molto lunghe.

La realizzazione del progetto era assai complessa. Il problema più evidente era quello del finanziamento, ma la mancanza di denaro era una cosa abituale per il Padre, quasi di ordinaria amministrazione. Riponeva tutta la sua fiducia nella Provvidenza e considerava Cavabianca l’ultima delle costruzioni di cui si sarebbe occupato42. Non erano state poche. L’ultima pietra di Villa Tevere

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era stata posata il 9 gennaio 1960, dopo dodici anni di lavori. Nell’aprile 1960 erano iniziati i lavori al Collegio Romano di Santa Maria, a Castelgandolfo. Per le attività estive era poi stata sistemata Tor d’Aveia, utilizzata dal 196743. All’inizio del 1970, quando si stava scavando per le fondazioni del santuario di Torreciudad, il Padre era già impegnato nel progetto di Cavabianca. In tutte queste avventure, egli si domandava, il Signore lo aveva mai abbandonato? Questa sicurezza nella Provvidenza faceva svanire qualsiasi dubbio. Come sempre, sarebbe andato al passo di Dio, senza fretta e senza attardarsi. Era assolutamente convinto della necessità di formare gli uomini e le donne che si sarebbero poi sparpagliati per continenti e nazioni per formare a loro volta le numerose persone che il Signore avrebbe inviato all’Opus Dei. Bi­sognava provvedere ad alloggiarli. Dove ci sono molti uccelli - diceva - ci devono essere gabbie molto ampie. Ne aveva parlato a Barcellona, nel 1972:

«A Roma, molto vicino a Villa Tevere, che pure biso­gna ritoccare perché l’abbiamo fatta molto in fretta, ab­biamo acquistato alcuni ettari e stiamo costruendo una casa per più di trecento uccelli. Vengono a trovarmi ve­scovi di tutto il mondo e mi dicono: ma lei è pazzo... Eio rispondo: sono perfettamente sano, ma quando ci so­no gli uccelli e manca la gabbia, bisogna farla. Ne ho bi­sogno per formarvi - ci staranno un anno, due, tre al massimo - figli miei intellettuali di tutti i Paesi»44.

Alcuni ecclesiastici cercavano di dissuaderlo dall’im- pegnarsi nel progetto. Costruzioni di simili dimensioni erano un’impresa pazzesca, tanto più in un momento di grave crisi della cristianità. Come pensava di riempire e di mantenere quegli edifici? Era una follia, stava com­mettendo un grave errore45.

Il Padre non lo negava, anzi, era il primo ad ammet­terlo: il progetto era un’autentica pazzia, ma una pazzia esemplare e necessaria e dunque non pensava proprio di fare marcia indietro.

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rIl 6 dicembre 1971, quando i lavori erano iniziati già

da un anno, chiese agli architetti di affidare la soluzione dei problemi economici a S. Nicola da Bari, la cui festa ricorreva quel giorno, e spiegò loro che i lavori doveva­no essere ultimati entro tre anni46. Peraltro, le difficoltà, alcune decisamente imprevedibili, ebbero inizio sin dal­l’avvio dei lavori: problemi di carattere tecnico e buro­cratico, scioperi della manodopera, aumento del prezzo dei materiali. In Italia erano anni di instabilità sociale, di tensioni sindacali, di terrorismo, con omicidi e sequestri. Insomma, non si sarebbe potuto scegliere un momento peggiore47. In tale situazione, diversi amici consigliarono al Padre di rinunciare al progetto e di costruire lontano da Roma, magari in un altro Paese. Ma la ragione princi­pale del Padre per portare a termine Cavabianca era di carattere soprannaturale: stare a Roma, essere ‘romani’, era garanzia di unità e di efficacia apostolica48.

All’inizio dei lavori di Cavabianca, il Padre racco­mandò agli alunni del Collegio Romano di non disinte­ressarsene. Ricordava loro che i nuovi edifici sarebbero stati costruiti con denaro altrui, frutto del sudore di mol­ti loro fratelli e dell’aiuto volonteroso di amici e coope­ratori, alcuni dei quali non erano neppure cristiani49. Il progetto, però, faceva arrabbiare il demonio (così dicevail Padre), che faceva il possibile per ostacolarlo50. Affin­ché Cavabianca, come Villa Tevere, fosse ancor più fon­data sul sacrificio e sull’amore di Dio, si scatenò anche in questo caso la maldicenza.

Torreciudad e Cavabianca erano due pazzie d’amore, cronologicamente parallele, con la stessa genesi mate­riale e spirituale, espressione dell’amore del Padre per le anime e della sua devozione per Maria Santissima. Due opere fondate sulla magnanimità e sulla povertà, intra­prese con speranza, curate sin nei minimi dettagli51 e portate a termine con costanza e sacrificio.

Un giorno, parlando con i suoi figli, il Padre definì Cavabianca la sua «penultima pazzia». Uno di loro gli

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domandò: “E quale sarà l’ultima?” . L’ultima, rispose il Padre, sarà «morire al momento giusto»52. Dimostrava così il suo pieno abbandono nelle mani di Dio e la sua umiltà: non voleva essere di peso ai suoi figli quando fosse invecchiato e gli fossero venute meno le forze.

2. La terza scampanata

Nel frastuono di scavatrici, autocarri e betoniere, i lavori a Cavabianca procedevano. Il Padre ne seguiva l’anda­mento sulle piante. Pur lasciando libertà agli architetti, passava però molte ore con loro, dando suggerimenti e chiedendo chiarimenti. Non gli piacevano gli edifici ma­stodontici. Preferì che Cavabianca fosse un complesso di diversi fabbricati che le desse l’aspetto familiare e grade­vole di un paesino. Ci sarebbero state zone con piccoli giardini e fontane e ampi spazi aperti con piazze, strade e molto verde. Diceva ai suoi figli: «Mi piace veder pianta­re gli alberi, anche se io non godrò dei loro frutti e della loro ombra. Sono molto contento di piantare un albero perché altri, i miei figli, ne godano l’ombra»53.

In queste considerazioni non era assente la consape­volezza della vicinanza della morte. L’idea che non sa­rebbe arrivato a vedere terminata Cavabianca gli veniva spesso. Ripeteva che per lui si stava facendo sera e che non sarebbe durato a lungo: «Ho settantuno anni e pos­so andarmene in qualsiasi momento»54. Nell’ultimo pe­riodo questo pensiero appariva dominante e, con gran­de tristezza per chi lo ascoltava, il Padre insisteva nel dire che la sua vita si avviava a conclusione, come era logico e prevedibile: «Chiedo a Dio che mi porti via per la Chiesa; qui ormai sono solo di peso e in Cielo potrò aiutarvi di più»55. Chiedeva a Dio anche la grazia di «morire senza dare fastidio»56, senza importunare nes­suno, senza creare problemi ai suoi figli.

Aveva davvero il presentimento che la fine dei suoi

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giorni non fosse lontana? Fino a che punto lo prevede­va? Non poteva certo ignorare il grado di consunzione cui lo avevano portato le fatiche fisiche e mentali di tan­ti anni, senza contare le malattie passate e presenti. Tut­tavia, a prima vista non v’era alcun indizio di una morte prossima. La forza della sua volontà disciplinata e l’e­nergia morale che continuava a mostrare smentivano che fosse avviato a un rapido declino. Si poteva affer­mare che, nonostante la tremenda usura fisica, conse­guenza di un impegno continuo ed eroico, egli procede­va, grazie a Dio, forte di una intatta integrità spirituale.

Perciò quando esclamava: «Non so quanto tempo an­cora di vita mi darà il Signore»57, non sembrava che la frase avesse uno speciale significato. C’era invece un profondo significato quando affermava di aver trascor­so la vita «senza aver combinato nulla di buono»58, per­ché in questo caso stava facendo un esame di coscienza e confessava contrito di avere sprecato la sua vita, che giudicava vuota e che avrebbe voluto riscattare con un profondo atto di dolore di amore. Si giudicava povero, sprovvisto di virtù, come un oggetto fragile e facile a rompersi. Raccontava in pubblico che, durante il viag­gio in Portogallo del 1972, i suoi figli gli avevano rega­lato una zuppiera di coccio, priva di valore ma ornata con una scritta ripetuta molte volte: Amo-te... Amo- te... Amo-te. La base era incrinata, ma tenuta insieme con punti di ferro. Il Padre vedeva se stesso rappresenta­to nell’umile zuppiera. Era l’immagine della sua vita: rotta e ricucita con punti di ferro, sempre più numerosi man mano che gli anni passavano59.

Il Padre sentiva che il tempo gli sfuggiva. Quando si dedicava a un’opera di servizio, lo faceva con impegno, per non lasciarla a mezzo, scuotendosi di dosso la stan­chezza e il peso degli anni. Allora diventava un altro, si trasformava, ricuperava come per incanto la giovinezza e il suo spirito sosteneva il corpo. Non si era mai spenta nella sua memoria l’eco della locuzione divina: «Le ope­

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re sono amore, non i bei ragionamenti». L’amore per la Chiesa, per l’Opera e per tutte le anime lo spinse, fino all’ultimo istante, a redimere il tempo che, secondo lui, aveva sprecato, nella sua vita, non riuscendo a «combi­nare nulla di buono».

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Certamente il problema più grave nel quale il Fondatore si trovò coinvolto nei suoi ultimi anni di vita fu la situa­zione della Chiesa, fonte di un dolore senza fine. Le tre ultime lettere che scrisse a tutti i suoi figli ebbero per og­getto proprio quel ‘tempo di prova’ per tutti i cristiani: due furono scritte nella primavera del 1973, la terza nel febbraio del 1974.

Nella prima, datata 28 marzo 1973, egli, per obbligo pastorale e con sollecitudine di Padre, tornava a ricor­dare loro i pericoli del tempo di dura prova che la Chie­sa attraversava:

«Da anni vi ho messo in guardia contro i sintomi e le cause della febbre contagiosa che si è diffusa nella Chiesa e che sta mettendo in pericolo la salvezza di tante anime.

Desidero insistere, affinché siate vigilanti e perseveria­te nell’orazione: vigilate, et orate, ut non intretis in ten- tationem (Mt 26,41): state all’erta e pregate! Così dob­biamo comportarci in questa notte di sonno e di tradimento, se vogliamo seguire Gesù da vicino ed esse­re coerenti con la nostra vocazione. Non è il momento di farci prendere dal sopore o di addormentarci: biso­gna perseverare svegli, in una continua veglia di orazio­ne e di semina. State all’erta e pregate! Nessuno si consi­deri immune dal contagio»60.

Seguivano molti consigli opportuni: rimanere saldi nella fede, curare gli atti di culto, trasformare tutta la vita in un atto di lode alla Santissima Trinità, partecipa­re con devozione alla santa Messa, «centro e radice del­la vostra vita interiore»; coltivare «un forte spirito di

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espiazione», chiedendo perdono «per le tante azioni de­littuose commesse contro Dio, contro i suoi Sacramenti, contro la sua dottrina, contro la sua morale»61. È sem­pre tempo di amare il Signore, ma in quei tempi di indif­ferenza e di cattiva condotta bisognava avvicinarsi an­cor più a Lui. «E questo ci obbliga a cercare l’intimità con Dio ogni giorno di più»62.

Tutta la lettera è pervasa dall’insistenza sull’impor­tanza dei mezzi soprannaturali e delle armi che il cristia­no ha sempre a disposizione per perseverare nell’amore di Cristo. E anche un appello all’impegno apostolico, perché ciascuno deve essere «un faro acceso, pieno della luce di Dio, nelle tenebre che ci avvolgono»63.

Nella chiusa della lettera, il Padre ritrovò un accento di gioia serena, perché il Signore voleva che i suoi fosse­ro sempre leali e ottimisti. Faceva loro considerare che, nelle ore di profonda crisi della storia della Chiesa, è sempre bastato un gruppo di persone decise, per oppor­re una resistenza efficace agli agenti del male:

«Ma quei pochi hanno nuovamente riempito di luce la Chiesa e il mondo. Figli miei, sentiamo il dovere di es­sere leali a ciò che abbiamo ricevuto da Dio, per tra­smetterlo fedelmente. Non possiamo, non vogliamo ca­pitolare. Non lasciatevi trascinare dalla corrente. Portate voi il clima di Cristo in tutti i posti. Preoccupa­tevi di imprimere il marchio di Dio, con carità, con af­fetto, con la chiarezza della dottrina, su tutte le creature che incontrate sul vostro cammino. Non permettete cheil miraggio della novità strappi dalla vostra anima la pietà. La verità di Dio è eternamente giovane e nuova, Cristo non è mai antiquato: Iesus Christus beri et bodie, ipse et in saecula (Eb 13,8)»64.

Tre mesi dopo il Padre ritenne opportuno scrivere una seconda lettera, datata 17 giugno 1973, in cui ribadiva ai suoi figli gli innumerevoli errori che si stavano infil­trando nella dottrina e nei costumi e confermava la tre­menda burrasca che investiva la Chiesa. Ricordava loro,

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incoraggiandoli all’apostolato, che, «in questo lungo pe­riodo di tempesta e di naufragi, dobbiamo essere per molti un’arca di salvezza»65. Purtroppo molti cristiani avevano perduto la visione soprannaturale e la capacità di guardare all’eternità, verso la quale tutti ci incammi­niamo. Davanti ai «miraggi delle cose temporali», assu­mevano atteggiamenti critici contro la tradizione e ribelli nei confronti del dogma e invocavano un «cristianesimo adulto»66. A costoro il Padre rivolgeva l’invito a prende­re il Vangelo e ad ascoltare la voce del Signore: «In verità vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli» (Mt 18,3).

Aumentava il numero di coloro che predicavano una vita priva di fede soprannaturale, esaltando ideologie contrarie a Dio:

«Soprattutto con il marxismo, che è la somma di tutti gli errori, stiamo assistendo a un sovvertimento totale: l’eternità è sostituita dalla storia, il soprannaturale dalla natura, lo spirituale dalla materia, la grazia divina dallo sforzo umano (...). Alcuni sono convinti che non sia più la Chiesa la salvezza per il mondo (la Chiesa di sempre, quella fondata da Gesù Cristo e che Gesù Cristo ha assi­stito continuamente per venti secoli), ma che il mondo debba essere la salvezza per la Chiesa»67.

A Natale fece gli auguri alle sue figlie e ai suoi figli e tornò sui temi centrali delle due lunghe lettere di mesi pri­ma. «Ho l’obbligo di dirvi queste tristi verità, di prevenir­vi, di aprirvi gli occhi alla realtà, a volte così penosa»68. Prometteva loro un terzo scritto: «Vi scriverò presto: farò suonare di nuovo la campana grande, perché nessuno si lasci vincere dal sonno». Ma non era il caso di rattristar­si, perché «il Natale non è occasione di amarezza o di pessimismo. Dobbiamo colmarci di serenità, di speranza soprannaturale, di fede: il Signore verrà, è sicuro»69.

Dopo alcune settimane, il Padre inviò effettivamente a tutta la famiglia dell’Opera la lettera annunciata a Na­tale. Volle riferirsi a questa lettera, alPavvertimento che

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conteneva e alle due precedenti, definendola «la terza scampanata», richiamando l’antica usanza, ancora pra­ticata in alcuni paesi, di chiamare a Messa con tre serie distanziate di rintocchi delle campane; l’ultima scampa­nata poco prima della celebrazione liturgica. Così ini­ziava la lettera:

«Carissimi, Gesù mi protegga le mie figlie e i miei fi­gli. Vi vengo a cercare un’altra volta, tornando a far ri­suonare la campana. Sento il dovere di avvisarvi e lo faccio nel modo in cui tradizionalmente si convocano i fedeli per condurli al Sacrificio di Gesù Cristo, ripeten­do il suono delle campane. Per annunciare l’inizio della Santa Messa risuonavano tre volte. La gente, udendo lo scampanio familiare, accelerava il passo, si affrettava verso la casa del Signore. Questa lettera è un terzo invi­to, in meno di un anno, per richiamare alla vostra ani­ma le esigenze della nostra vocazione, durante la dura prova che subisce la Chiesa. Vorrei che questo suono di campane mettesse per sempre nei vostri cuori la stessa gioia e la stessa tensione di spirito che, quasi mezzo se­colo fa, lasciarono nella mia anima le campane di No­stra Signora degli Angeli»70.

Si sentiva in dovere di mostrare loro la cruda realtà, senza nasconderla o mitigarla, di aprire loro gli occhi affinché vedessero tutta la gravità dei penosi avveni­menti che affliggevano la Chiesa. Conveniva che lo sa­pessero da una buona fonte e in modo da non sentirsene schiacciati. Pertanto, per far cogliere ai suoi figli tutto il valore soprannaturale e quello umano del momento sto­rico, li aiutava a illuminare tutto con la luce della fede, della speranza e della dottrina morale71. Con stile vigo­roso, tenne sveglia la coscienza dei suoi affinché intensi­ficassero la vita interiore ed evitassero di cedere allo scoraggiamento:

«Spero, con queste righe, di spingervi a cercare con maggiore impegno la presenza, la conversazione, il tratto e l’intimità con Dio Nostro Signore, Trino e Uno, attraverso

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la devozione familiare per la trinità della terra: la confi­denza abituale con Gesù, Maria e Giuseppe deve essere per noi e per quelli che ci stanno accanto una continua ca­techesi, un libro aperto che ci aiuti a partecipare ai misteri, misericordiosamente redentori, del Dio fatto Uomo»72.

Ogni volta che il Padre metteva a fuoco un punto spe­cifico della vita contemporanea, scopriva una crosta di miserie e di confusione. Ma sotto la crosta la carne ap­pariva viva e sana, perché egli non era assolutamente un profeta di disastri e di amarezze. Cercava invece di dare pace ed equilibrio alle anime. Non esortava i suoi figli per provocare in loro «una emozione superficiale», ben­sì «un sincero sentimento di dolore». E, con il dolore, la gioia: due fattori che il cristiano non deve mai dimenti­care. Proprio di questo tenore fu l’augurio che il Padre rivolse ai suoi figli all’inizio del 1974: «Per tutti la gioia; per me, con la gioia, la compunzione»73.

Nella lettera, tra le righe, si legge un senso di fretta. Ancora una volta emerge la fugacità del tempo e si in­dovina lo stato d’animo del Padre:

«Bisogna darsi da fare, figli miei, ve lo ripeto, perché renderemo conto del tempo inutilmente perduto. Per noi, il tempo è gloria di Dio, il tempo è sempre un’occa­sione irripetibile per seminare buona dottrina. Non esi­stono mai ragioni per trascurare l’apostolato»74.

Il comportamento del Fondatore, saldo nella fede, sen­za «cedere neppure un millimetro», fedele ai suoi impe­gni, prudente nelle decisioni, tenace e responsabile, con­servò l’unità dell’Opera impedendone la disgregazione. Nella lettera spiegava loro il perché della sua condotta:

«Figlie e figli miei, desidero dirvi con chiarezza che sento la mia responsabilità davanti a Dio per le numero­se anime che mi ha affidato; dopo aver molto pregato e aver spinto altri a pregare per lungo tempo, vi ho comu­nicato le decisioni che in coscienza stimavo prudenti, af­finché voi, in mezzo a questo caos ecclesiastico, poteste contare su sicure direttrici per orientarvi»75.

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E continuava:«Nell’Opus Dei non può starci nessuno che abbia la

disgraziata capacità di rompere la compatta unità - compatta, lo dico apposta - di fede e di buono spirito con cui, nonostante le nostre miserie personali, cerchia­mo di stare vicini al Signore»76.

* * sf-

Nella terza scampanata, il Padre esprimeva la propria gioia per le consolazioni ricevute dalle sue figlie e dai suoi figli, per la loro fedeltà e la loro vita autenticamen­te cristiana. Tutti erano stati disponibili al servizio di Dio nell’Opera, muovendosi da un posto all’altro, op­pure perseverando nello stesso luogo senza stancarsi. Per questa generosità, il Signore «ha moltiplicato la sua efficacia santificatrice: conversioni, vocazioni, fedeltà alla Chiesa in tutti gli angoli del mondo»77.

Il Padre aveva scritto personalmente sia la storia che la preistoria dell’espansione nei vari Paesi europei, fa­cendo molti viaggi fuori d’Italia, visitando città e san­tuari mariani, aprendo Centri e «riempiendo le strade di avemarie e di canzoni». Non lo faceva per capriccio, an­zi: quando i medici gli consigliavano di andarsene da Roma per cambiare aria e fare una pausa nel lavoro, ri­spondeva: «Devo stare a Roma; è la mia croce e devo abbracciarla»78.

Con l’eccezione del Messico, dove era stato in pelle­grinaggio nel 1970, non conosceva de visu le attività apostoliche dei suoi figli nelle nazioni dell’America. Avrebbe desiderato vederli lì dove stavano, ma l’occa­sione propizia non si presentava mai. I suoi figli gli scri­vevano, gli telefonavano, insistevano perché andasse a trovarli, cercavano in tutti i modi di convincerlo della necessità di vedere i Paesi dove facevano apostolato, l’ambiente in cui si muovevano e le iniziative che aveva­no avviato. La risposta del Padre era sempre la stessa:

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era povero, non faceva turismo e non andava dove gli faceva piacere, ma dove lo mandavano. Nel 1969, pri­ma che gli fosse mai passato per la mente il pensiero di fare un viaggio di catechesi in America, gli fu rivolta una domanda su questa possibilità. Egli rispose:

«Non posso fare programmi per conto mio. Non lo so, non sono io che comando. Qui il governo è collegia­le. Nell’Opus Dei non ci può essere un dittatore. Io non sono che un voto e devo sottostare alla maggioranza. Avrei molta voglia di andare non solo in America, ma anche in Africa e in Asia. Un giorno, se è opportuno, mi diranno: Padre, deve andare. E io andrò»79.

Se fosse dipeso solo dal suo desiderio, il Padre avreb­be già fatto diverse volte il giro del mondo per stare con i suoi figli dei cinque continenti. Ma la possibilità di re­carsi in America era più vicina di quello che potesse im­maginare, anche se lo colse all’improvviso e con scarsa voglia di viaggiare. Infatti, intorno al marzo 1974, i suoi figli cominciarono a suggerirgli con delicatezza di ripe­tere anche in America latina la catechesi del 1972. In li­nea di massima al Padre l’idea piaceva, perché veniva incontro al suo zelo per le anime, al desiderio di confer­mare nella fede molte migliaia di persone. L’unico ele­mento contrario era l’intima ripugnanza a porsi al cen­tro dell’attenzione generale, a essere oggetto di applausi, elogi e pubbliche dimostrazioni di affetto, come se fosse un santo; ciò lo riempiva di vergogna e lo umiliava80.

Il 25 marzo il Padre scrisse al Cardinale Mario Casa- riego, in Guatemala, una lettera in cui parlava di una possibilità del genere: «Continui a pregare perché tutto si risolva e io possa venire, con don Alvaro e don Javier, nelle sue amatissime terre»81. Un mese dopo confermava al Cardinale: «Spero di realizzare entro pochi mesi il mio desiderio di venire in quelle terre»82. Non era ancora una decisione, ma una possibilità che vedeva con piacere.

Il 9 maggio 1974, a Pamplona, il Fondatore presiedet­te la cerimonia di investitura di due dottori honoris cau­

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sa dell’Università di Navarra. Nelle vesti di Gran Can­celliere, conferì la laurea al Vescovo di Essen, mons. Franz Hengsbach, e al professor Jéróme Lejeune. Il Fon­datore pronunciò il discorso d’investitura centrandosi sulla sacralità inviolabile della vita umana: «Le vite umane, che sono sante perché vengono da Dio, non pos­sono essere trattate come semplici cose, come numeri di una statistica»83.

Sulla via del ritorno, a Madrid, amministrò la prima Comunione al nipote Josemaria84. Mentre si apprestava a tornare a Roma, i suoi figli gli proposero un cambia­mento di programma. Le settimane successive sarebbero state un’occasione propizia, forse l’unica, per la deside­rata scorribanda in America. Gliene prospettarono gli importanti benefici spirituali e cioè, in primo luogo, il miglioramento dello spirito e l’arricchimento della vita interiore di tanti suoi figli. Inoltre, avrebbe potuto util­mente consigliare i Direttori e le Direttrici delle diverse Regioni e predicare la buona dottrina a moltissime per­sone. Come si poteva prevedere, lo zelo apostolico del Padre ebbe il sopravvento e scattarono i preparativi del viaggio, che prevedeva una lunga permanenza nei Paesi dell’America latina85.

Restava un grave interrogativo: il Padre era nelle con­dizioni fisiche di intraprendere il viaggio? Prudentemen­te, fu chiesto un parere medico, che tenesse presente gli impegni che si sarebbe dovuto sobbarcare. Alcuni giorni prima si era sottoposto ad accertamenti clinici a Pam­plona; a Madrid, una équipe di medici dell’Università di Navarra ne fece altri, ancora più approfonditi.

Se si eccettuava l’insufficienza renale, che si aggravava col passare degli anni, la grande spossatezza di cui soffri­va, le pesanti conseguenze delle malattie trascorse e altri disturbi cronici minori, lo stato generale del Padre, a det­ta dei medici, era “ soddisfacente”86. Benché questo giu­dizio globale potesse sembrare un po’ ironico a qualcu­no, non fu così per il Padre, ben contento che il giudizio

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positivo sul suo stato di salute gli consentisse ampie pos­sibilità di lavoro, senza particolari restrizioni. I medici, in fondo, avevano emesso un giudizio attenendosi a cri­teri non soltanto scientifici. Infatti, nella relazione clinica furono tenute presenti possibili obiezioni: “Dopo una ponderata considerazione, decidiamo di rispondere af­fermativamente circa la possibilità del suo viaggio in America, nonostante l’impressione registrata” . “Il parere medico positivo sulla fattibilità del viaggio è stato dato tenendo presente la personalità di mons. Escrivà” 87.

Secondo i medici che lo conobbero, era un paziente docile, senza complessi. Sorrideva e collaborava, non si lamentava mai. Durante le visite mediche, alla domanda su come stesse rispondeva invariabilmente: «Io sto bene, ma costoro - e indicava don Àlvaro e don Javier, i due custodes - vi potranno spiegare quello che loro pensa­no»88. Tutto ciò non vuol dire che fosse un paziente faci­le. In realtà, a scusante dei medici, lo si potrebbe definire un paziente molto singolare. Per esempio, il lavoro este­nuante svolto nel 1972 durante la catechesi in Spagna fu da lui compiuto in modo meraviglioso, anche se il suo stato fisico ne avrebbe poi risentito. I medici non riusci­rono a darne una spiegazione convincente e neppure del perché le allarmanti alterazioni mostrate dagli esami cli­nici non trovavano riscontro nella vitalità del Padre.

Nel dare il parere sull’opportunità del viaggio in Ame­rica, i medici tennero ben presenti, oltre ai rischi, i beni che ne sarebbero derivati, insieme alla straordinaria ener­gia spirituale del Fondatore. Tuttavia, molto prudente­mente, raccomandarono una moderata attività, interval­lata da momenti di riposo, e la presenza di un medico durante il viaggio89. Quest’ultimo fu un problema di faci­le soluzione e il dottor Alej andrò Cantero fu al suo fianco da quando lasciarono Madrid; quanto a moderare la sua attività e farlo riposare..., fu tutto un altro discorso.

L’entusiasmo del Padre nei confronti dell’imminente viaggio apostolico in America latina si raffreddò rapida­

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mente. Come accadeva spesso in casi simili, si mise in viaggio controvoglia. Alla vigilia della partenza, quando veniva toccato il tema della catechesi in America, così sintetizzava il suo stato d’animo: «Non ne ho nessuna voglia, ma non ho mai fatto quello che mi andava di fa­re»90. Era proprio così. Sembrava che il Signore si pren­desse cura di privarlo di ogni sostegno umano. Il suo ri­fugio era l’orazione e intraprendeva la traversata dell’Atlantico con l’orazione dei suoi figli e figlie:

«Gesù mi protegga le mie figlie di Roma - scriveva al- l’Assessorato Centrale -. Carissime, fra pochi giorni ini­ziamo il nostro viaggio in America del Sud, ed è neces­sario che ci aiutiate con la vostra preghiera e con il vostro lavoro. Sono felice di pensare che ci farete com­pagnia in questo modo. Qui, tutte le vostre sorelle stan­no molto bene.

Un’affettuosa benedizione da vostro PadreMariano»91.

3. Il viaggio in America del Sud (1974)

L’aereo su cui il Padre si era imbarcato a Madrid la mat­tina del 22 maggio 1974 atterrò nel pomeriggio a Rio de Janeiro. Diversi membri dell’Opera salirono a bordo per dargli il benvenuto. «Pax, brigante! Alla fine ce l’hai fatta!», disse il Padre salutando affettuosamente Xavier de Ayala, il Consigliere dell’Opera in Brasile.

Adempiute le formalità burocratiche, presero un altro aereo, che dopo un’ora di volo li portò, a sera inoltrata, a S. Paolo, dove lo aspettava un nutrito gruppo di suoi figli. Erano le nove di sera quando il Padre salutò il San­tissimo nell’oratorio di Sumaré, sede della Commissione Regionale, e depose accanto al Tabernacolo una camelia rossa che una sua figlia gli aveva dato all’aeroporto.

Il giorno dopo era la festa dell’Ascensione. Al mattino il Padre ebbe le sue prime tertulias con le sue figlie del­

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l’Assessorato e dell’Amministrazione. Come prima cosa offrì loro un proposito spirituale per il mese di maggio: «A Gesù, per Maria, con Giuseppe»92.

A mezzogiorno il Padre era già stato con tre diversi gruppi di persone. A coloro che cercavano di evitargli qualche fatica adducendo il lungo viaggio del giorno precedente, replicò in tono semiserio di non essere an­dato in Brasile per riposare, ma per lavorare: «Se non mi date lavoro, me ne vado»93. Fu subito organizzata un’altra tertulia, alle sei del pomeriggio, con i giovani del Centro di Studi, che abitavano accanto alla Com­missione. Cominciò dicendo loro che la sua presenza era dovuta alla Provvidenza, benché fosse anche un suc­cesso personale del Consigliere, che per anni aveva insi­stito perché il Padre andasse in Brasile:

«Ce l’ha fatta a portarmi qua! Gliene sono molto gra­to... Ma non sei stato tu; Dio si è servito di te. E stato Dio a portarmi qua perché possa vedervi; è una gioia immensa vedere il vostro sguardo, i vostri volti, il desi­derio di comportarvi bene, di lottare»94.

Il Padre che, come è stato detto, era partito di mala­voglia, in poche ore cambiò completamente. Aveva avu­to modo di riflettere sull’affascinante avventura che lo aspettava. Non appena arrivato in Brasile aveva detto sottovoce: «Mi occorre tutta la fede umana per credere che mi trovo in Brasile»95. Poi, il mattino del primo giorno, durante gli incontri con le sue figlie, era già un altro, si era completamente ripreso e il suo cuore tra­boccava di affetto e di attenzioni per loro.

Nel pomeriggio, con i suoi figli del Centro di Studi, si mostrava ringiovanito, perfettamente a suo agio, pronto a raccontare loro le sue prime impressioni sul Brasile:

«Quando vedo tutto ciò che mi circonda, quando ve­do voi, mi sento molto contento e ringrazio molto il Si­gnore. Mi sto riposando molto qui con voi! Sono in Brasile solo da poche ore e sono già innamorato di que­sto Paese»96.

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Il Padre parlò loro di vocazione cristiana, di lotta ascetica, di sincerità. I ragazzi gli facevano domande co­me se lo conoscessero da sempre e riuscirono persino a sapere che cosa avrebbe mangiato a cena: verdura senza condimenti, una piccola frittata e un frutto. Confessò loro che il corpo gli stava dando battaglia. Diede loro la benedizione e li incoraggiò a moltiplicarsi.

Venerdì 24 maggio, fece tertulia con le sue figlie a Ca­sa Nova, sede dell’Assessorato Regionale, e definì il Brasile «una meraviglia, un intero continente». Le sue figlie presenti, in effetti, rappresentavano molte razze e molti Paesi. Alcune avevano sembianze giapponesi (era­no nissei, cioè figlie di giapponesi immigrati), altre afri­cane, altre avevano tratti nordici, orientali o latini. Quasi tutte vedevano il Padre per la prima volta e pen­devano dalle sue labbra, attentissime:

«Il Signore è contento delle mie figlie del Brasile. Ma ne vuole di più. Si è innamorato di voi e non si accon­tenta che gli diate qualcosina. Vi vuole tutte intere! In questo modo accenderà il fuoco dell’amore, non solo in Brasile, ma dovunque, partendo dal Brasile... In Brasile e dal Brasile. Mi capite? (...). Da qui dovete andare in tutti gli altri continenti. Tutta l’Asia! Tutta PAfrica! In Brasile sono venuti tanti africani contro la loro volontà.Io chiedo al Signore che ci porti molte africane»97.

Ripeteva di non essere andato in Brasile con l’intenzio­ne di insegnare, ma di imparare. Aveva «gli occhi e il cuore spalancati»98 per lasciarvi entrare tutte le cose buone che vedeva. Il mattino di sabato 25 maggio, terzo giorno di permanenza, nell’aula magna del Centro di Studi si era riunito un numeroso gruppo di persone che collaboravano agli apostolati dell’Opera. «In quarantot­to ore ho già imparato molto»99, disse loro. Aveva sco­perto anime appassionate, persone che agli occhi di Dio valevano un tesoro, famiglie che accoglievano i figli co­me un dono del Cielo, senza inaridire le fonti della vita:

«Il Brasile! La prima cosa che ho visto è una madre gran­

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de, bella, feconda, tenera, che apre le braccia a tutti senza fare differenza di lingua, di razza, di nazione e che tutti considera suoi figli. Gran cosa il Brasile! Poi ho visto che vi trattate in un modo fraterno e mi sono commosso»100.

Era felice, perché si immaginava il bene che si sarebbe potuto fare e che si sarebbe fatto «in Brasile e dal Brasi­le». Avrebbero incendiato il Paese con il fuoco dell’amo­re, con la veemenza di un rogo nella foresta. Un bosco in fiamme fa paura, è una forza devastante. Con l’aiuto di Dio, l’Opus Dei si sarebbe esteso in tutto il Brasile e poi, da quel trampolino meraviglioso, l’amore di Dio avrebbe spiccato il volo verso altri continenti. Ribadiva: «Toglie­remo il paganesimo dal mondo: soprattutto in Brasile e dal Brasile»101. Poco dopo il suo arrivo a Sumaré aveva scritto due parole nel diario del Centro: ut eatis102. Quando gliene fu chiesto il significato, la risposta del Pa­dre fu questa: «Hanno bisogno di voi in Giappone e in Africa. Per questo ho scritto ut eatis!», perché andiate103.

Al termine di una tertulia nel soggiorno del Centro della Commissione qualcuno gli chiese di benedire i pre­senti. Si misero tutti in ginocchio e il Padre, ricolmo di zelo, avvertì la grandezza della missione apostolica che voleva affidare ai suoi figli. Non li benedisse con la for­mula usuale ma, tracciato su di loro il segno della Cro­ce, come un antico profeta e patriarca pronunciò lenta­mente queste parole:

«Moltiplicatevi,come i granelli di sabbia delle vostre spiagge, come gli alberi delle vostre montagne, come i fiori dei vostri campi, come i grani aromatici del vostro caffè.Nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo»104. Si abbandonò ai ricordi. «Sapete che voi, figlie mie,

mi siete costate molto? Più degli uomini. Sapete che qualche volta, quando ero giovane, mi avete fatto pian­gere?»105. Disse queste parole alle sue figlie più grandi, il 27 maggio, nella Casa do Moinho, dove aveva consa­

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crato un altare. Volle raccontare loro, con l’identica emozione della prima volta, ciò che aveva già racconta­to molte volte: che le donne dell’Opus Dei non avevano una Fondatrice, perché la loro Fondatrice era la M a­donna; egli era stato scelto da Dio per partorirle alla Chiesa, con dolore, secondo l’espressione di S. Paolo, e le amava con cuore di padre e di madre. Non intendeva elogiare la delicatezza di sentimenti della donna, quanto piuttosto la tempra spirituale:

«Mi piace molto chiamarvi ‘donne’, perché è la paro­la che il Signore sulla Croce ha usato per rivolgersi a sua Madre. Una donna ha più coraggio e più volontà di un uomo ed è più determinata. Una donna ha un cuore... credevate che stessi per dire “più delicato e più fine di un uomo” ? No, no. L’avete più forte. Avete un cuore grande, materno. Avete il cuore di una madre che ama la virtù della santa purezza e la maternità spirituale. Lo so perché anch’io ho un cuore di madre: me l’ha dato il Signore. Ma nell’apostolato dovete fare tutto ciò che fanno gli uomini e, in più, l’apostolato degli apostolati, l’amministrazione dei Centri. Se l’Amministrazione non funziona bene, va tutto male. Per me, la cosa più impor­tante nell’Opera è PAmministrazione»106.

Il Padre rimase in Brasile per due settimane. Stette tut­to il tempo con le sue figlie e i suoi figli, quasi in seduta continua, ripassando la storia dell’Opera, dando dottri­na e rispondendo a domande. Ogni giorno si incontrava con varie famiglie, di soprannumerari o di cooperatori. Le tertulias numerose, una quarantina, ebbero luogo nell’aula magna del Centro di Studi, nella casa per ritiri Aroeira, nel Centro Convegni Parque Anhembi o nel- l’Auditorium Mauà, da 2.500 posti. Tutti luoghi che si rivelarono insufficienti. Nel Parque Anhembi si stiparo­no 4.000 persone. La diversità di lingua non fu un osta­colo: il Padre parlava in spagnolo, le domande erano in portoghese. Ma il Padre si faceva capire anche solo con i gesti e con la propria carica spirituale.

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Il 28 maggio fu portato in elicottero al santuario del­la Madonna Aparecida, patrona del Brasile, dove recitò il rosario assieme a centinaia di persone.

La vigilia della partenza, nel tardo pomeriggio del 6 giugno, al Padre costò un grande sforzo accomiatarsi dai suoi figli. Fu un momento molto intimo:

«Sapete bene che non me ne vado via: resto qui... Inoltre, nell’Opus Dei non ci separiamo mai, non ci di­ciamo addio né arrivederci, perché siamo sempre con­summati in unum (...). Vi voglio bene con tutta l’anima! Mi avete reso felice! Pregate per me. Io andrò dal Signo­re prima di voi. Rivedrò alcuni di voi qui sulla terra, al­tri solo in Cielo...».

Si udì uno spontaneo grido di protesta: “No, Padre!” . «Sì, figlio mio, me ne andrò prima di voi, è una legge

della natura. Pregate per me... Vi ripeto ciò che i due di­scepoli di Emmaus dissero al Signore: si fa sera! Dob­biamo sfruttare il tempo che ci è dato! Aiutatemi a sfruttarlo»107.

* * *

Venerdì 7 giugno 1974, il Padre atterrò all’aeroporto di Buenos Aires, proveniente dal Brasile. Il cielo era limpi­do e terso, il vento aveva spazzato via i nuvoloni dei giorni precedenti. Il sole splendeva e il clima era secco e freddo. Sulla strada per La Cbacra, la casa per ritiri chelo avrebbe ospitato durante la sua permanenza in Argen­tina, il Padre osservava il paesaggio e chiedeva spiegazio­ni a coloro che lo accompagnavano. Voleva imprimersi nella mente le caratteristiche del Paese e delle persone. Giunto a La Chacra, andò in oratorio a salutare il Signo­re, quindi, come faceva sempre, nella zona dell’Ammini­strazione per salutare le sue figlie. Gli bastarono poche parole e uno sguardo per notare la pulizia e l’ordine che vi regnava, persino nelle cose più piccole, e per ricono­scere l’amore di Dio di cui tutto era conseguenza.

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Ventiquattro ore dopo il suo arrivo aveva già tenuto diverse lunghe tertulias con i fedeli dell’Opus Dei. Ben presto si rese conto delle notevoli dimensioni del lavoro apostolico. «Sapevo che il lavoro aumentava in modo stupendo - confessò loro - ma non pensavo tanto. Rin­grazio Dio Nostro Signore. Ora non ho più bisogno del­la fede. Mi basta vedervi»108. Fin dal primo giorno, an­che dal suo tono faceto, si capiva quanto il Padre fosse contento di avere intrapreso quel viaggio. I due custodes scherzavano affettuosamente con lui durante le tertuliàs:

Don Javier: “E pensare che il Padre è partito da Roma sicuro di tornare dopo una settimana” .

«È sempre così, mi manovrano», diceva il Padre, su­scitando l’ilarità generale.

Don Àlvaro, con un sorriso complice: “Era tutto pre­visto” .

«Da non crederci! Sono partito da Roma... e non sa­pevo che mi avrebbero portato qua. Questi due mi han­no ingannato..., ma sono molto contento che mi abbia­no ingannato! Ne sono proprio felice!»109.

Sulla prima pagina del Diario della visita di nostro Padre in Argentina, volle scrivere una frase che aveva recitato tante volte per indicare che si metteva comple­tamente al servizio della Volontà divina. La sua perma­nenza in America del Sud doveva essere una spinta provvidenziale per le opere di apostolato e per la forma­zione dei suoi figli e figlie:

Fiat, adimpleatur, laudetur et in aeternum superexalte- tur iustissima atque amabilissima voluntas Dei super omnia. Amen. Amen. - La Chacra, 7-6-1974. Mariano.

Più che riprendere i racconti e le descrizioni del dia­rio, basta leggerne alcuni brevi incisi per immaginare che cosa accadeva nel cuore di chi ascoltava il Padre: “Ridiamo, ma altre volte spuntano lacrime silenziose...; abbiamo la chiarissima impressione che il Signore stia in mezzo a noi”110. “ Come si nota che dove sta il Padre c’è anche il cuore dell’Opera!” 111.

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Alle dieci di mattina di martedì 11 giugno, partì in au­to per Buenos Aires, che vedeva per la prima volta. Alle undici si incontrò in Arcivescovado con il Cardinale An­tonio Caggiano. Parlarono della dolorosa situazione del­la Chiesa. Le dimostrazioni di affetto del Cardinale com­mossero il Padre. Accompagnato dai suoi figli, passeggiò per il centro città e nel Parco Palermo. Dopo pranzo ci fu un indimenticabile incontro con i direttori regionali del- l’Argentina e con alcuni sacerdoti.

Erano impazienti di darsi da fare? Il Padre tracciava loro un programma ambizioso. Non voleva ripetere do­vunque le stesse cose, ma non potè fare a meno di dare loro la stessa consegna data ai brasiliani: «In Argentina e dall’Àrgentina! Questa terra deve fornire persone. Al­lo zelo dei miei figli argentini io offro, oltre all’Argenti­na, che non è poco, il mondo intero!»112. Voleva che ampliassero le loro ambizioni di apostolato.

Per il Padre, quegli incontri intimi e familiari a La Chacra erano un regalo del Cielo. Stava trasmettendo loro lo spirito dell’Opus Dei. A differenza dei suoi figli, egli poteva rivedere il passato, i sogni che si erano rea­lizzati, le promesse compiute. Ciò che per lui era ricor­do, per i suoi figli e figlie era realtà presente:

«Quanto sono contento! Voi non potete sapere che cosa vuol dire avere ventisei anni, la grazia di Dio, il buon umore e nient’altro; un suonare di campane e la volontà di Dio, una cosa del tutto impossibile, non avendo alcun mezzo umano; e mettersi a sognare, e poi vedere tutto realizzato, in tutto il mondo!»113.

Un altro giorno, sempre a La Chacra, lo ascoltavano attenti, mentre ricordava gli anni dei presentimenti, in cui ripeteva la giaculatoria Domina, ut sit! E confidava: «A volte penso che tutto sia un sogno..., tutto un so­gno... Ah, Dio mio! Mi sarò inventato io qualcosa, Dio mio? E tutto un sogno?... Quanto si soffre!»114.

Non era un sogno. Tanto che, nel 1924, aveva inciso la giaculatoria sulla base di una statuetta della Madon­

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na del Pilar, ritrovata molti anni dopo. Il Padre gioiva nel raccontare la sua preghiera di un tempo: «Signora, che sia! Che avvenga ciò che io non conosco. E che co­s’era? Eravate voi, figli miei, e... le mie figlie»115.

Il Padre stette a La Chacra per tre settimane, dal 7 al 28 giugno. Nella casa per ritiri, circondata dai terreni di un’antica fattoria, lo vennero a trovare centinaia di fedeli dell’Opus Dei. Ogni giorno, il soggiorno si riempiva e si svuotava di persone dell’Opera, di cooperatori, di amici, di sacerdoti e di laici. Inoltre, il Padre si recò a conoscere i vari Centri di Buenos Aires: clubs per ragazzi, residenze per studenti e altre opere cooperative. Parteciparono alle tertulias persone di tutte le età e condizioni. Vennero mol­ti da altre città argentine, dall’Uruguay e dal Paraguay. Consacrò diversi altari, fra cui quello dell’Amministrazio­ne di La Chacra. Nel documento redatto per l’occasione si leggeva:

“Mentre faceva questa consacrazione, pregava fervi­damente il Signore, che fece Regina e Madre la sua an­cella, perché usi la sua grande misericordia verso le sue figlie che qui lavorano” 116.

Mercoledì 12 giugno fece un pellegrinaggio al santua­rio della Madonna di Lujàn, Patrona dell’Argentina, dell’Uruguay e del Paraguay, ad alcune ore di viaggio da Buenos Aires. La notizia si sparse e quando il Padre ar­rivò sul piazzale trovò ad aspettarlo una gran folla, che recitò il rosario con lui.

Erano in preparazione gli incontri più numerosi, cui avrebbe preso parte un vasto pubblico: famiglie e amici dei membri dell’Opera e molte altre persone che poco sa­pevano dell’Opus Dei. Non fu facile trovare luoghi adat­ti, perché servivano sale molto capienti. Fu possibile, in modo insperato, riservare il Centro Congressi General San Martin per il 15 e il 16 giugno e la sala del Colegio de Escribanos (l’Ordine dei Notai), che era centrale e ac­cogliente, per il 18 e il 21, che erano giorni lavorativi (ma, nonostante ciò, le due sale alla fine risultarono in­

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sufficienti). Fu preso in affitto anche il Teatro Coliseo. “Chiedetelo pure, se proprio ci tenete, forse ve lo danno- disse uno che la sapeva lunga -, ma certo non riuscire­te a riempirlo!” . Il suo ampio palcoscenico si apriva su un’immensa platea a ferro di cavallo, coronata da tre piani di galleria. Il 23 e il 26 giugno il teatro era stracol­mo: più di cinquemila i presenti, oltre ogni previsione. Grazie a Dio, a partire dagli ultimi in Brasile, tutti gli in­contri furono filmati ed esistono metri e metri di pellico­la: una splendida collezione di documenti filmati della catechesi del Padre in America del Sud.

Il Padre era solito iniziare l’incontro con alcune paro­le cordiali o con un breve commento spirituale, a mo’ di preludio per la conversazione. Poi cominciavano le do­mande. Alcuni punti luminosi distribuiti nella sala aiu­tavano a individuare chi stava parlando al microfono. Poteva intervenire chiunque, naturalmente senza inter­rompere chi già aveva la parola. Il Padre era in balia del caso: non poteva evitare le domande e rispondeva come Dio gli suggeriva. Era evidente che lo Spirito Santo lo aiutava, perché le sue parole effondevano pace e gioia nell’animo di chi cercava soluzione alle proprie pene.

Furono trattati numerosi temi: la famiglia e l’educa­zione dei figli, la vita di pietà, le verità di fede di fronte alla confusione dottrinale, l’apostolato, la confessione... Negli incontri le domande della gente erano piuttosto eterogenee e le storie personali non sempre a lieto fine. Ogni tanto dalla folla si alzava una voce che chiedeva aiuto. Domenica 23 giugno, nel Teatro Coliseo, una donna riuscì a prendere il microfono. Aveva perduto un figlio che faceva parte dell’Opera e desiderava che il Pa­dre spiegasse a tutti con quale pace e gioia nell’Opus Dei si sopporta il dolore, quando il Signore lo invia. Il Padre disse che Dio non è un tiranno e non si comporta come un cacciatore, appostato per sparare un colpo mortale alla preda. Dio si porta via coloro che ama af­finché godano della sua gloria e del suo Amore. Conti­

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nuò a consolarla ma, rendendosi conto che l’emozione aveva fatto presa sul pubblico, chiese un’altra domanda. In fondo al teatro si accese una luce e si udì la voce di una donna anziana che, in preda all’emozione, cercava di leggere da un pezzo di carta:

“Padre, chiedo a Gesù di fare il miracolo di Naim” . Udendola singhiozzare, il Padre le venne in aiuto, men­tre tra la folla si fece un gran silenzio, carico di attesa.

«Dimmi, dimmi, con calma». Chi le stava accanto le prese il pezzo di carta e lesse in vece sua:

“Sto chiedendo a Gesù che ripeta il miracolo di Naim. Sono vedova e ho un unico figlio che mi ha dato la gioia più grande della mia vita quando fu ordinato sacerdote, ma anche la pena più grande, perché ora sta comportan­dosi molto male. Vorrei chiederle di pregare per la sua fedeltà e per la mia fortezza, perché riesca ad aiutarlo” .

«Sì, figlia mia, amalo di più. Ama molto tuo figlio. For­se noi non preghiamo abbastanza... Tu sì che preghi mol­to; io pregherò di più. Siamo in pochi a pregare e preghia­mo poco; dobbiamo pregare molto per i sacerdoti, per tutti i sacerdoti! Tuo figlio andrà avanti, sarà un grande apostolo. Prega, insisti. Il Signore ti ascolta, ma vuole che preghi di più. La mia preghiera si unisce alla tua e sono sicuro che i cuori di tutti noi, da chi sta là in alto fino al­l’ultimo qui sotto, sono animati dallo stesso desiderio di chiedere al Signore che tuo figlio sia un santo; lo sarà. Ve­di, c’è una specie di malattia. Tu hai posto nell’anima di tuo figlio, con la grazia del Signore, il germe della voca­zione. Continua a pregare che il seme non sia senza frut­to. Lo vedrai di nuovo produrre rami, fiori e frutti. Starte­ne tranquilla, figlia mia. Siamo tutti con te e con tuo figlio, che merita affetto e comprensione! È una malattia che c’è in giro. Preghiamo il Signore per i sacerdoti, per la santità dei sacerdoti. Sei una mamma coraggiosa. Dio ti benedica! Il Signore ti ascolta! Sta’ tranquilla!»117.

Per il Padre la cosa non si esaurì in una promessa di preghiere. La supplica di quella madre gli restò impressa

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nell’anima. “Nel viaggio di ritorno a La Chacra - si leg­ge nel diario - il Padre era più taciturno del solito: si ve­deva che pregava e ogni tanto ripeteva a don Emilio che bisognava aiutare quel sacerdote che non si comportava bene. Si vedeva che ne era molto addolorato” 118.

Il 26 giugno, nel Teatro Coliseo, si svolse l’ultimo in­contro numeroso. Il Padre parlò a lungo della Comunio­ne dei Santi, grazie alla quale noi qui - disse alla folla - possiamo parlare in modo tanto intimo e affettuoso. Tanta gente, in tutto il mondo, stava pregando per loro:

«Formiamo una grande Comunione dei Santi: tutti ci stanno inviando a fiotti il sangue arterioso, ricco di ossi­geno, puro, pulito: per questo possiamo parlare e sentir­ci a nostro agio»119.

Vide nello sguardo di tutti una muta preghiera: Padre, rimanga.

«Figli miei, grazie: grazie a Dio, grazie a voi e grazie alla Madonna di Lujàn; perché sono venuto e perché me ne andrò; ma ritornerò e allora resterò»120.

La sera precedente a quest’ultima affollata tertulia del Coliseo, al Padre era venuto il dubbio che continuare la catechesi potesse significare tentare Dio. Come era pos­sibile che tante migliaia di persone si riunissero per ascoltare un sacerdote che parlava di Dio e non accades­se mai qualcosa di sgradevole? Non era umanamente lo­gico che tanta gente lasciasse il lavoro a metà mattina «per sentire un prete che dice cose arcinote». Ma alla fi­ne dell’incontro gli parve di udire il rimprovero del Si­gnore: «Uomo di poca fede! Dopo tanti anni, perché hai dubitato?»121.

Trascorse a La Chacra la vigilia della partenza per il Cile. In mattinata si recò nella zona dell’Amministrazio- ne per stare con le sue figlie provenienti dall’Uruguay, dal Paraguay e dall’Argentina: «Non vengo a prendere commiato - esordì -. Il Padre non dice mai addio e nep­pure arrivederci; il Padre rimane (...). Sapete che non vado via; mi sarà più facile chiudere gli occhi, venire qui

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con il pensiero, ricordarvi e pregare per ciascuna, per tutte. Non abbandonatemi; non abbandonateci»122.

Alle dodici recitò con loro PAngelus e tornò nel suo studio, assieme ai custodes e al Consigliere Regionale. Il cuore del Padre si aprì alla confidenza e, in un momento in cui don Àlvaro e don Javier non erano presenti, rac­contò al Consigliere, don Emilio Bonell, che c’era stata un’epoca in cui pensava di sapere il giorno della propria morte e che i custodes ne erano al corrente. Ora, invece, non sapeva nulla; da alcuni anni il Signore non permet­teva che lo sapesse123.

A metà pomeriggio ci fu l’ultima tertulia con i suoi fi­gli, per la maggior parte molto giovani. Uno di loro gli chiese perché se ne andava. Il Padre gli rispose subito: «Perché non ho il dono dell’ubiquità e dovrei stare in molti posti. Ma io non me ne vado. Rimango con voi, con tutti»124. Fece poi una breve rassegna dei punti es­senziali dello spirito dell’Opus Dei. Lo lasciava nelle lo­ro mani, fiducioso, come si fa con un testamento.

«Non ho niente altro da dirvi. Ah, sì! Amate molto S. Giuseppe. Non separatelo mai da Gesù e da Maria».

La voce del Padre era ora velata dall’emozione: «Siamo arrivati alla fine, per ora. Ma io resterò qui.

Qui e negli altri Centri dell’Argentina. Quando meno velo aspetterete, il Padre verrà a stare un po’ con i suoi fi­gli. E voi mi farete compagnia. Quando saprete che il Si­gnore mi ha detto: redde mihi rationem villicationis tuae, rendimi conto di quello che hai fatto..., pregherete per il Padre, perché il Signore perdoni tutti i miei peccati. Se mi aiutate un po’, forse riuscirò a fare il balzo giusto nel­l’aldilà. Se moriamo d’Amore, è possibile. Credo che nel- l’Opus Dei ci sia questa malattia: morire d’Amore»125.

Era chiaro a quale sponda dell’esistenza il Padre si ri­ferisse e qual era il corso dei suoi pensieri. Qualcuno osò ancora chiedergli:

“Padre, com’è il viso della Madonna?” .«Vultum tuum, Domine, requiram! Chiedile di mo-

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stirartelo, qualche volta; figlio mio, dovremo aspettare di vederlo in Cielo. Il Signore non è tenuto a farti cose straordinarie. (...) Ma è bene che tu desideri conoscere il volto della Madre di Dio, perché è nostra Madre»126.

I direttori che il sabato precedente, 22 giugno, aveva­no pranzato con il Padre a La Chacra conoscevano già questa risposta. A tavola, quel giorno, aveva detto loro che nell’orazione del mattino aveva ripetuto molte, mol­te volte: Vultum tuum, Domine, requiram!, con lo struggente desiderio di conoscere il volto del Signore, di vederlo a faccia a faccia127.

4. Le Ande: «Non sono un uomo d’alta quota»

Con il lavoro in Brasile e in Argentina, il Padre aveva acquisito esperienza più che sufficiente per fare una fe­conda catechesi in altri Paesi. Per mettere a punto i par­ticolari dei viaggi successivi furono chiamati a La Cha­cra i Consiglieri delle altre Regioni dell’America latina. Il 12 giugno arrivò a Buenos Aires don Adolfo Rodrì- guez Vidal, Consigliere del Cile, speranzoso che il Padre potesse trattenervisi per sette giorni. Don Àlvaro pro­lungò il programma fino a nove giorni, per poter effet­tuare, in totale, undici tertulias numerose. L’arrivo in Cile era previsto per venerdì 28 giugno128.

Analogamente, con i Consiglieri del Perù, dell’Ecua­dor, della Colombia, dei Paesi dell’America Centrale e del Venezuela furono fissate date, luoghi di residenza, programmi e spostamenti del Padre. In linea di princi­pio, avrebbe riservato la prima parte della sua perma­nenza ai fedeli dell’Opus Dei; poi avrebbero avuto luo­go le riunioni di gruppi più numerosi nelle sedi delle opere corporative; verso la fine della visita, se necessa­rio, sarebbero stati tenuti incontri più numerosi. Vari imprevisti, peraltro, imposero cambiamenti radicali a questi progetti.

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L’arrivo del Padre a Santiago del Cile fu a mezzogiorno di venerdì 28 giugno 1974. Per coloro che lo attendevano all’aeroporto fu l’avverarsi di un sogno. Vedevano il Pa­dre per la prima volta. Egli scherzava, fingendosi incredu­lo. «Non ci credo... Non è vero che sono in Cile. Dove sono le Ande? Mi state ingannando. Devo avere una fede enorme per credere alla favola che le Ande, montagne im­mense, sono là dietro. Io non le ho viste!»129. Sarebbe sta­to questo il suo ritornello scherzoso durante i primi gior­ni, poiché il cielo rimase coperto e la nebbia e le nubi impedivano di scorgere la cordigliera andina.

Giunto nel Centro della Commissione Regionale, il Padre disse che preferiva fare incontri pubblici soltanto nelle sedi delle varie iniziative apostoliche, perché una riunione affollata in un luogo pubblico, per esempio un teatro, avrebbe tolto intimità di famiglia all’incontro e, data la situazione politica del Paese, poteva anche essere male interpretata. Fu deciso che le tertulias numerose si sarebbero svolte in una sala della scuola Tabancura; le altre, più ridotte, nei vari Centri, con preferenza per l’aula magna della Residenza universitaria Alameda.

Sabato 29, giorno successivo al suo arrivo a Santiago, fece due tertulias, una con le sue figlie e una nella Ala- meda con i suoi figli. Per il giorno dopo, alle undici, era previsto un incontro numeroso, che doveva svolgersi a Tabancura; sarebbero venute persone provenienti da di­verse città come Rancagua e Vina del Mar, o provincie, come Aconcagua. Ma le strade di accesso, non ancora asfaltate, divennero impraticabili per la pioggia; il pan­tano impediva il passaggio sia delle auto che dei pedoni. La pioggia torrenziale continuò ininterrotta; recarsi a Santiago era impossibile e l’incontro fu sospeso. Tutta­via, sfidando il maltempo, giunsero diverse automobili, con famiglie venute da lontano. Per non deluderle, il Pa­dre le invitò nella Residenza Alameda dove, per man­canza di spazio, molti dovettero starsene in piedi. Diede loro il benvenuto:

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«Per prima cosa vi dico che siete stati molto coraggio­si e che le signore, oltre che belle, sono state ancor più coraggiose degli uomini a venire con questo tempo! Non so come vi siate salvati dalla pioggia. Che tempo orribile! Il diavolo, a quanto pare, non vuole che lavo­riamo»130.

Il Padre era sempre propenso a non perdere tempo, a dare consigli positivi e approfittò dell’occasione che gli si offriva. Prima li avvisò che intendeva parlare solo di argomenti spirituali: «Parlo solo di Dio e dell’anima. Non parlo mai di politica». Quindi, chiarito questo punto, chiese loro di usare comprensione nella convi­venza sociale, senza rinunciare alle proprie idee cristia­ne: «Voi cileni dovete cercare di comprendervi, di per­donarvi, di convivere e di amarvi»131.

Il Padre si sforzava di non diminuire la forza della sua predicazione, ma si vedeva che il suo fisico era provato dal maltempo. Il giorno precedente, nella prima tertulia con le sue figlie, si mise a parlare di sincerità e, quasi sen­za rendersene conto, fece l’esempio della malattia. Un malato - diceva - deve essere sincero, non può nascon­dere al medico i sintomi della propria malattia, se vuole che lo guarisca. E spiegava loro che lui stesso, dopo aver parlato per ore e ore in ambienti grandi, dove era gio­coforza alzare la voce, si era preso una leggera faringite. Aveva dovuto raccontare tutto al medico, che era stato prontamente chiamato e che, dopo averlo visitato, gli aveva prescritto alcune compresse per la gola, da assu­mere ogni tre ore. Dunque - concluse -, anche per le ma­lattie dell’anima bisogna essere docili e sinceri..

Sembra che il Padre si fosse preso la faringite proprio durante il viaggio dall’Argentina. Durante il volo che lo aveva portato a Santiago del Cile si era guastato l’im­pianto di condizionamento dell’aria; la temperatura era calata bruscamente e il Padre si raffreddò, divenne afo­no e gli venne la febbre. Il 2 luglio, nel Laboratorio cli­nico dell’Università Cattolica, fu sottoposto ad alcune

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analisi. Il capo-laboratorio, prof. Croxatto, si accorse di un grave aumento di urea nel sangue e consigliò al pa­ziente di rimanere a letto e di sottoporsi a un program­ma di dialisi132.

In quei giorni, il Padre ringraziò per lettera il Governo del Cile per il cortese benvenuto con cui lo avevano ac­colto e, scusandosi, declinò l’invito per un incontro. Vol­le sottolineare che il suo «viaggio sacerdotale in terra americana» aveva l’unico scopo di aumentare nelle ani­me il «desiderio di amare Dio, di essere migliori cristiani e, quindi, migliori cittadini dei loro Paesi»; e aggiunse:

«Ricevo l’invito delle Loro Eccellenze mentre sono af­fetto da un attacco influenzale che mi impedisce qual­siasi attività. Desidero comunque attestare che prego molto, ho pregato e ho fatto pregare per questa grande nazione, specialmente quando è stata minacciata dal fla­gello dell’eresia marxista - parlo da sacerdote, l’unica norma di condotta di tutta la mia vita -; posso assicura­re alle Loro Eccellenze che continuerò a pregare Dio no­stro Signore, per intercessione della sua Santissima Ma­dre, affinché protegga e conduca le autorità e il popolo cileno verso un sempre maggiore benessere spirituale e sociale»133.

Un paio di giorni di relativo riposo misero il Padre in condizione di riprendere il piano di lavoro con rinnova­to brio e voce più ferma. Il tempo migliorò e, finalmen­te, le Ande tornarono a stagliarsi all’orizzonte. Venerdì 5 luglio il Consigliere ricevette una lettera della Priora del convento delle Carmelitane Scalze di via Pedro Val- divia, la prima casa che le religiose, nel XVII secolo, avevano aperto in quelle terre. La Madre Priora, infor­mata dell’arrivo di mons. Escrivà, scriveva di sapere che egli “in Spagna ha visitato diversi conventi di Carmeli­tane per il grande amore che ha per nostra Madre Tere­sa. Perciò speriamo che tra i suoi molti impegni possa trovare un momento per venire qui. Poiché tanto si ot­tiene quanto si spera, speriamo di ottenere dal Padre

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questa grande opera di bontà; se però non gli fosse pos­sibile, lo terremmo sempre presente nelle nostre preghie­re come se avessimo ricevuto la sua visita” 134.

La missiva toccò il cuore del Padre. Quella mattina stessa trovò il momento adatto e si recò al convento as­sieme a don Alvaro, don Javier e don Adolfo. Cominciò a parlare alle monache:

«Nutro un grande amore per la vocazione delle anime contemplative, perché nell’Opus Dei siamo contemplati­vi nel mezzo della strada. Ci capiamo molto bene e le Madri Carmelitane di tutto il mondo ci capiscono mol­to bene e ci aiutano con la loro preghiera. Vengo a chie­dere un’elemosina di preghiera: pregate. Sapete bene che la Chiesa sta andando molto male. No, la Chiesa no; la Chiesa è Santa, è la Sposa di Cristo, sempre bella, sem­pre giovane, sempre senza macchia, sempre dolce e buo­na... Noi ecclesiastici, invece...! Pregate»135.

Al di là della grata, nella penombra del parlatorio, le monache ascoltavano attente, raccolte e silenziose. Le metteva in guardia contro chi avesse tentato di imporre loro cambiamenti:

«Non cedete mai su nulla, non siate ingenue, perché il diavolo sta cercando chi divorare e voi siete un boccone prelibato (...). Se rovinano una colombaia come questa, distruggono una grande forza della Chiesa. Siate sante; se lo siete, ci aiuterete a essere santi. Pregate affinché anche noi sacerdoti lo siamo. E pregate per l’Opus Dei, per gli uomini e le donne che camminano su tutte le strade del mondo, cercando di renderle divine»136.

Parlò loro, con molta forza di persuasione, di voca­zione e di vita di pietà. Rimase per più di venti minuti, fino a che gli impegni che premevano glielo consentiro­no. Prima di andarsene impartì loro la benedizione e disse a don Adolfo di lasciare nella ruota la scatola di dolci che aveva fatto acquistare per loro: «Mi avete ad­dolcito l’anima e io vi addolcisco il palato»137.

Durante quei giorni consacrò altari, visitò Centri, si

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intrattenne con il Cardinale Arcivescovo di Santiago, tenne venticinque riunioni pubbliche e altrettante priva­te, senza mai dare segni di stanchezza. Nella sua predica­zione parlava sempre del Sacramento della Penitenza, necessità indispensabile per le anime che avevano abban­donato la pratica della fede e volevano tornare a Dio:

«La confessione, la confessione! Cristo ha elargito mi­sericordia alle creature. Le cose non vanno bene perché non ricorriamo a Lui per ripulirci, purificarci, infiam­marci (...). Il Signore sta aspettando che molte persone facciano un bel bagno nel Sacramento della Penitenza! Ha preparato per loro un gran banchetto nuziale, il ban­chetto dell’Eucaristia, l’anello dell’alleanza e della fe­deltà e dell’amicizia eterna. Bisogna che la gente si con­fessi! Voi, figlie e figli, portate le anime alla Confessione. Non rendete inutile il mio viaggio in Cile! Bisogna che molte persone si avvicinino al perdono di Dio!»138.

Lunedì 8 luglio, vigilia della partenza del Padre per Lima, ci fu una tertulia a Tabancura. Alcuni non vi po­terono assistere perché era giorno lavorativo. Ma all’ora di pranzo moltissime persone si misero in viaggio per arrivare nelle prime ore del pomeriggio al santuario del­la Madonna di Lo Vàsquez, dove il Padre era atteso. Il santuario dista dalla capitale una novantina di chilome­tri. Quando arrivò sul piazzale davanti al tempio, il Pa­dre si emozionò vedendo quante persone avevano salta­to il pranzo per recitare il rosario assieme a lui. Le suore che avevano cura del santuario avevano rivestito la sta­tua della Madonna con gli abiti migliori e non mancava una gran quantità di fiori. Prima di uscire sul piazzale il Padre si mise gli occhiali scuri, non solo per difendersi dal sole ma anche per nascondere l’emozione per l’im­minente partenza.

Il giorno dopo giunse a Lima, in Perù. Erano passati esattamente ventun anni da quando, il 9 luglio 1953, era iniziata l’attività delPOpus Dei in Perù. Il Padre, co­me nei Paesi visitati in precedenza, alloggiò nella sede

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della Commissione Regionale, Los Andes. Non si con­cesse riposo alcuno, ebbe la prima tertulia non appena arrivato e cercò di attenersi sempre al programma. Par­ticolarmente commovente fu, venerdì 12 luglio, la riu­nione nel Centro Culturale Tradiciones. Tutti i presenti erano suoi figli e c’era anche un bel gruppo di sacerdoti della Prelatura di Yauyos. Entrato nella sala li vide ed esclamò: «Non dico neppure una parola se prima questi figli miei sacerdoti non mi danno la benedizione. Ho fa­me delle vostre benedizioni!»139. Più di cinquanta sacer­doti lo circondarono per impartirgli la benedizione, ri­petendo la formula all’unisono. Poi, in ginocchio, egli volle baciare loro le mani, uno per uno. Quando don Ja­vier gli fece notare che l’incontro si stava prolungando, il Padre, deciso a continuare sino alla fine, gli rispose: «Non importa il ritardo, ma bacio le mani a tutti, come ho sempre fatto!»140. Il Padre continuò a baciare mani e a dire parole affettuose a ciascun sacerdote. Poi, all’ini­zio della tertulia, spiegò:

«Non ho fatto la commedia. Sono orgoglioso di voi e sono felice di baciarvi le mani. Non l’ho fatto solo qui,lo faccio da tutta la vita... È un’abitudine di famiglia. Siete molto buoni con m e...»141.

Sabato 13 luglio fu per il Padre una giornata di molto lavoro. Alle nove e mezzo andò a trovare il Cardinale Ar­civescovo di Lima; si recò poi a S. Vicente de Canete, che era tutto in festa perché a mezzogiorno ci sarebbe stata una tertulia con il Padre a Valle Grande, un’opera corpo­rativa dell’Opus Dei. Vi accorsero persone da Lima e dal­le zone vicine. Alcuni si erano messi in cammino prima che facesse giorno. Nella sala, gremita da circa cinque­cento persone, si vedevano fattezze di indios, di mulatti, di cinesi; erano presenti commercianti, contadini, impie­gati, insegnanti, camionisti e le alunne di Condoray, un centro educativo diretto dalle donne dell’Opera.

Il Padre parlò del lavoro, che deve esser fatto alla per­fezione perché possa piacere a Dio, e non ‘alla creola’

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(espressione locale che indica un lavoro pasticciato). Predicò sulle pratiche di pietà e li invitò a fare una bella pulizia interiore con una buona confessione, spalancan­do l’anima, e a decidersi di smettere il vizio dell’alcool. Le parole del Padre, che chiedeva loro a gran voce di cambiar vita, velavano di commozione i volti altrimenti impassibili degli indios.

Il Padre visitò Condoray e la Academia San José, dove abitano e studiano i seminaristi della Prelatura di Yauyos. Alle sei di sera era di ritorno a Lima, ma si era raffrèdda- to, probabilmente a causa del brusco cambiamento di temperatura all’uscita dal salone di Valle Grande.

Il giorno successivo si svolse un incontro generale nel giardino di Miralba, un Centro dell’Opus Dei. Era una domenica grigia e fredda, eppure vennero millecinque­cento persone, fra cui famiglie intere, con nonni e nipo­ti. Il Padre iniziò scusandosi perché la sua voce non era all’altezza delle circostanze:

«Non so se mi potrete sentire bene perché sono piut­tosto raffreddato e mezzo afono. Ma S. Paolo, che non è afono, ha scritto a quelli di Efeso: in novitate vitae am- bulemus. E dice, non solo a quelli di Efeso ma anche a tutti noi, che dobbiamo camminare in una vita nuova. Perché non ci siano dubbi, scrive ai Romani: induimini Dominum nostrum Iesum Christum, rivestitevi di no­stro Signore Gesù Cristo. La vita del cristiano è questo: vestirsi e rivestirsi con un abito e poi con un altro, sem­pre più pulito, sempre più bello, sempre più pieno di virtù gradite al Signore, pieno di vittorie su se stessi, di piccoli sacrifici, di amore. La vita del cristiano è fatta di rinunce e di affermazioni. La vita del cristiano consiste nel cominciare e ricominciare»142.

Nel pomeriggio, per distrarlo, lo accompagnarono a fare una passeggiata per Lima. Visitò la chiesa di S. Francesco e la Cattedrale, ma rientrò a casa molto stan­co. La notte dormì male. Al mattino celebrò la Messa e fece colazione. Verso le dieci lo visitò il dottor Zavala,

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specialista dell’apparato respiratorio, che diagnosticò una broncopolmonite incipiente143. Fu sospeso il pro­gramma della giornata.

Per indicazione medica, dovette rimanere a letto per il resto della settimana. Gli arrivavano regali: fiori, dolci, lettere, con l’affetto e le preghiere di tutti i suoi figli per­ché si ristabilisse. Nel diario del suo soggiorno a Lima, alla data di sabato 20 luglio, si legge: “ Oggi è tornato ad alzarsi per breve tempo, ma per prescrizione medica non ha ancora celebrato la Messa. È un esempio per tut­ti vedere quanto il Padre soffra per non poter celebrare, ma poiché celebrare gli costa tanta fatica, non gli fareb­be bene e ritarderebbe la guarigione” 144.

Domenica potè celebrare la Messa nel suo studio e, dopo pranzo, prendere parte a una tertulia con alcuni di­rettori della Commissione Regionale e con mons. Igna- cio Orbegozo, che li intrattenne raccontando mille episo­di relativi agli inizi di Yauyos e alle sue avventure sulle montagne. Al Padre occorsero altri tre giorni per ristabi­lirsi e fu necessario riaggiustare il programma affinché tutti lo potessero ascoltare. Non era solo il Padre a esser­si ammalato: a Lima c’era stata un’epidemia influenzale che aveva costretto a letto quasi la metà della popolazio­ne. Il giorno 24 ebbe una tertulia con le sue figlie, ma fi­no alla fine di luglio si andò avanti con un programma ridotto, perché non si era ancora rimesso del tutto e par­lare in pubblico gli richiedeva un grande sforzo.

Il giorno 29, nel giardino di Larboleda, la casa per ri­tiri vicino a Lima, giunsero più di tremila persone per stare con il Padre. Si avvicinava la sua partenza e, da al­cune battute fatte durante l’incontro, si intuiva che non aveva ancora superato la malattia. Senza finzioni o at­teggiamento da vittima, spiegò a tutti i presenti che il mondo senza dolore sarebbe triste, come un quadro senza ombre, che non può essere un quadro:

«Il dolore, sopportato per Amore, è pieno di sapore, è stupendo. Volersi liberare dal dolore, dalla povertà, dal­

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la miseria, è una bellissima cosa, ma non è questa la li­berazione. Liberazione è un’altra cosa. Liberazione è... sopportare con gioia la povertà, sopportare con gioia il dolore, sopportare con gioia la malattia, sopportare con un sorriso il fastidio della tosse!»145.

* * *

Il 1° agosto lasciò il Perù. In Ecuador lo aspettavano im­pazienti e ansiosi che si ristabilisse quanto prima. Ma non guarì mai completamente. Inoltre, mostrò subito i sintomi del mal d’altura, chiamato soroche, che colpisce le persone non abituate agli altipiani andini. La casa do­ve il Padre abitava era vicina a Quito, che si trova a cir­ca tremila metri di altitudine.

Alle difficili condizioni di salute del Padre si aggiunsero altri inconvenienti. Di notte non riposava bene, si alzava affaticato e in difetto di ossigeno. Soffriva di vertigini. Fa­ceva fatica a camminare da solo e accusava gli effetti se­condari della terapia cui era sottoposto. Il dottor Guiller- mo Azanza, che si prese cura di lui, rilevò che la broncopolmonite di cui aveva sofferto a Lima era riap­parsa146. Passarono diversi giorni e non si videro segni di miglioramento. Si aiutava a respirare con la mascherina dell’ossigeno; restava seduto e parlava sottovoce. Sussi­steva la speranza di uno dei sorprendenti miglioramenti che sovente si erano verificati nel suo fisico. Nei mesi pre­cedenti, in piena catechesi, era accaduto molte volte che il Padre superasse all’improvviso stanchezza e febbre. Tutti parlavano con stupore della sua energia e capacità di la­voro. Ma, spiegava don Àlvaro a coloro che abitavano con lui a La Chacra, la vitalità e la lucidità del Padre “erano parte della grazia fondazionale” 147.

Tuttavia, il processo di adattamento era lentissimo; il medico accennò che ai turisti che a Quito venivano colti dal mal di montagna veniva consigliato di andarsene. Il Padre lo udì e replicò immediatamente: «Sì, figlio mio;

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ma io non sono un turista. Sono disposto a rimanere qui il tempo necessario, finché mi sarò adattato, per poter parlare di Dio: poiché sono venuto per questo»148. Il brusco sbalzo da Lima a Quito, cioè dal livello del mare a un’altitudine di tremila metri, non l’aveva fatto per un capriccio. Peraltro, si rese conto che la convalescenza era faticosa e che non ci sarebbe stata una guarigione veloce. Perciò, accettò il consiglio di scendere dall’altitu­dine di Quito a quella di Caracas. Invece di cercare di fare ad ogni costo la sua catechesi, preferì abbandonarsi nelle mani di Dio, che sembrava aver voluto cambiare i suoi programmi. Abituato a predicare alle folle con vo­ce forte e virile, ora riusciva a farsi sentire solo da un piccolo gruppo di persone. Pochi giorni prima era stato in continua attività, muovendosi instancabilmente da un estremo all’altro di una sala o di un palco. Chi lo avrebbe riconosciuto ora, seduto in poltrona perché non riusciva a tenersi in piedi? Per un uomo come lui, abi­tuato alla conversazione agile e vivace, erano ora giunti momenti in cui, privo di forze, non poteva fare altro che rispondere con un sorriso o uno sguardo affettuoso.

Prima di partire per il Venezuela ricevette un esiguo nu­mero di persone nel giardino della casa dove abitava. Dopo aver predicato per mezzo secolo il cammino dell’infanzia spirituale il Signore lo aveva «ridotto come un infante». La questione dell’altitudine di Quito era una cosa seria.

«Per un giovincello di sette anni è un’altezza troppo elevata e raggiunta troppo in fretta», riconosceva il Pa­dre. Ma alcuni negavano:

“È colpa dell’altitudine, Padre, siamo troppo in alto” . Ma il Padre non ci stava e ne traeva considerazioni spi­rituali, con una nota di buon umore:

«È chiaro che non sono un “uomo d’alta quota” . Per­ciò Quito non mi ha fatto uno scherzo. È stato nostro Signore, che li fa volutamente e gioca con noi. Lo dice lo Spirito Santo: ludens cor am eo omni tempore, ludens in orbe terrarum, su tutta la terra si diletta con noi uomini,

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come un padre con un figlio piccolo. Ha detto: a costui, che è tanto innamorato della vita d’infanzia, di una vita d’infanzia speciale, ora gliela faccio vedere io. E mi ha ridotto come un infante. C’è di che divertirsi!»149.

Dopo la brillante catechesi in Brasile, in Argentina, in Cile e in Perù, era una contrarietà non da poco trovarsi, in un brevissimo lasso di tempo, «ridotto come un bam­bino». Ora la sua catechesi non era fatta di parole, ma di silenzi. La sua malattia fu una lezione eloquente di docilità e di sacrificio. «In Ecuador - avrebbe ripetuto in seguito - tutta la mia catechesi è consistita nel non parlare, perché il Signore non me l’ha permesso»150.

Quante volte il Padre aveva detto, come Gesù, di non essere venuto a farsi servire, ma a servire! Ma ora don Alvaro e don Javier dovevano addirittura sostenerlo a forza di braccia. «Che vergogna! Ma mi adatto. Sono molto contento», confessava ai suoi figli. Compose an­che una preghiera:

«Gesù, accetto di non essere autonomo in questi gior­ni e per tutta la vita, se tu vuoi. Tu mi darai la grazia, la gioia e il buon umore per divertirmi molto, per servirti, e perché l’accettazione di queste piccolezze sia orazione piena di amore»151.

Affermava di non essere un “uomo d’alta quota” : di non avere grandi doti e di non essere ornato di grandi virtù. Che cosa poteva fare? Avrebbe accettato i piccoli eventi, in primo luogo la sua malattia e il cambiamento di programmi voluto da Dio:

«Dio Nostro Signore si serve sempre di cose piccole. Io pensavo che avrei ballato da una parte all’altra della vo­stra bella città e di questa terra incantevole e che avrei vi­sto tante, tante persone... Il Signore non ha voluto»152.

Avrebbe offerto il disappunto del bambino contraria­to perché, diceva, «provo il sentimento di protesta di un bambino che deve stare attaccato alla mano del papà e della mamma. Invece a me piace mettermi a correre... Che umiliazione!»153.

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Così, seguendo la vita d’infanzia spirituale, si dovette adattare come un bimbo piccolo al gioco divino del Si­gnore. Lo ribadì nella tertulia del 14 agosto, vigilia della sua partenza dall’Ecuador:

«Vi devo dire che, siccome a tratti soffro di capogiri, non ho potuto celebrare la Santa Messa e mi hanno da­to la Comunione tutti i giorni; allora mi emoziono an­cor di più e amo di più Quito e tutto l’Ecuador. La pic­cola particola consacrata, che ricevo in bocca, mi ricorda che Gesù si è fatto bambino e che io devo accet­tare con gioia anche questi Suoi giochi da bambino»154.

Durante la sua permanenza a Quito non era rimasto inattivo. Lasciava il ricordo di una esemplare lezione di conformità alla volontà di Dio, trasformando ciò che a prima vista era apparso una contrarietà in qualcosa di grande valore:

«Non posso fare altro che andarmene; non posso abusare di Dio nostro Signore. Non è che non abbia fat­to nulla, perché l’impazienza e l’inquietudine di non po­ter lavorare sono orazione davanti a Dio. Qualcosa ho fatto, ma non tutto ciò che pensavo di fare qui. Pazien­za! Benché sapessi che l’Ecuador è una grande nazione, la nazione del Cuore di Gesù, non sapevo che fosse composta di anime così elette e che mi sarebbe costata una mezza malattia»155.

Partendo dall’Ecuador non serbava alcun rancore alle Ande e smise di «parlare con ossigeno prestato». I suoi sentimenti, se pure con una venatura di pena incancella­bile, erano sereni. Dimenticando quanto aveva sofferto, alcune settimane dopo scriveva a un vecchio amico ecuadoregno: «Nonostante non sia un ‘uomo d’alta quota’, come sono stato bene a Quito e quanto ho im­parato da voi e dalle persone di questo amatissimo Pae­se!»156. La sua attività esterna fu molto ridotta: si limitò a un giro in auto per Quito l’ i l agosto. Passò davanti ai Centri dell’Opera e li benedisse, ma senza uscire dalla macchina. Invece, la sua anima, come si vedrà, si era di­

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latata, con l’accrescersi della sua devozione di sempre per S. Giuseppe, maestro di vita interiore. Da alcune pa­role rivolte alle sue figlie nella tertulia del 12 agosto, si poteva intuire il corso del suo intimo colloquio con Dio. Il Padre continuava a cercare avidamente il volto del Si­gnore e raccomandava loro di fare lo stesso:

«Digli che il tuo desiderio di vedere il suo volto è im­menso, come quando, lontani dalle persone care, deside­riamo vederne le fotografie. Ma da Dio non solo non sia­mo lontani, ma possiamo identificarci in Lui e voi e io sentiamo l’obbligo di cercare questa identificazione»157.

* *

La permanenza del Padre in Venezuela può essere rico­struita grazie al diario di Altoclaro, la casa per ritiri do­ve alloggiò, a pochi chilometri da Caracas. Nelle prime pagine si legge: “Il Padre è arrivato piuttosto stanco. Facciamo di tutto perché qui possa avere un po’ di ripo­so e recuperi energie dopo più di due mesi di andirivieni nella sua scorribanda apostolica” 158. È significativo del­le sue condizioni di salute il fatto eccezionale che, giun­gendo ad Altoclaro, dopo aver salutato il Signore in oratorio non si recasse a salutare le sue figlie nella zona delPAmministrazione. Lo fece a suo nome don Alvaro, perché il Padre non si reggeva in piedi159.

Le brevi righe che fanno cenno alla salute e alle condi­zioni fisiche del Padre non consentono di capire se e quali variazioni ci fossero:

-Venerdì 16 agosto: “ Il Padre ha potuto riposare” . Alla fine della giornata: “Il Padre è molto migliorato. È stato lui ad animare la tertulia” .

- Sabato 17 agosto: “ Oggi il Padre sta meglio, anche se continua a essere molto stanco” .

- Lunedì 19 agosto: “La giornata è nuvolosa. Il Padre non si è ancora rimesso dalla stanchezza accumulata (...). La notte scorsa il Padre ha dormito poco” .

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- Martedì 20 agosto: “Il Padre stamattina stava mol­to meglio, ma a mezzogiorno non si è sentito bene e non è sceso in sala da pranzo” .

Tutti pregavano perché il Padre guarisse. La casa, quasi segno di questa speranza, era piena di fiori. Gli al­tari erano sempre adorni di orchidee fresche. Il tempo era piovoso e non invogliava a uscire. Ogni tanto il Pa­dre rileggeva le lettere che, qualche giorno prima, Fer­nando Valenciano gli aveva portato da Roma. «Faccio come le mamme - diceva -, che leggono varie volte le lettere dei figli»160. Nelle tertulias, dopo pranzo o dopo cena, raccontava ai presenti molte cose della storia del­l’Opera e parlava spesso di apostolato e della devozione a S. Giuseppe, ritratto su vari quadri della casa.

Alla fine della settimana il Padre non si era ancora ri­stabilito. Lo si deduce anche da due indizi inequivocabi­li. Innanzitutto, da quando era arrivato non aveva cele­brato Messa perché temeva di vomitare, e ciò lo faceva soffrire molto. Inoltre non si era ancora recato a saluta­re le sue figlie, nella zona riservata ai servizi domestici. La domenica precedente esse avevano mandato al Padre alcune orchidee e vari asinelli di ceramica, con un bi­glietto: “Siamo molto contente di averla ad Altoclaro. Le vogliamo molto bene. 18 agosto 1974” . Il Padre ri­spose immediatamente servendosi del medesimo bigliet­to, su cui scrisse, con una penna a sfera rossa: «Anch’io. Mariano», e disegnò una papera con il becco aperto161. La grafia del Padre, in genere energica e marcata, rivela­va il suo stato di salute: i tratti erano deboli, incerti, fa­ticosi. Era difficile riconoscerli come suoi.

Nel diario si legge che il Padre portava sotto la tona­ca, sospeso a una catenella in un reliquiario a forma di croce, un frammento del lignum Crucis, che talvolta estraeva e baciava162.

Desiderava ardentemente celebrare il Santo Sacrificio. Un pomeriggio, ad Altoclaro, si mise a passeggiare in un cortile, circondato da diversi suoi figli; si sedette in un

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angolo riparato dal vento e fu udito dire qualcosa a bas­sa voce. “Che cosa dice, Padre?” , gli domandarono.

« Vultum tuum, Domine, requiram! Vultum tuum, Domine, requiram! Ieri, non avendo potuto celebrare la Messa, ho ripetuto al Signore questa frase, molte volte: Signore, cerco il tuo volto! Signore, ho voglia di vederti! Sì, ho voglia di vedere com’è il Signore, ma non median­te la fede, bensì a faccia a faccia!...»163.

Dopo una lunga attesa, ebbe un lieve miglioramento e ne approfittò subito. La mattina del 26 agosto potè fi­nalmente recarsi nella Amministrazione di Altoclaro per vedere le sue figlie.

Furono subito programmati alcuni incontri di cate­chesi. Si sarebbero svolti ad Altoclaro, nel soggiorno, e non sarebbero stati per molte persone, per mancanza di spazio. Il primo, il 28 agosto, fu per le donne dell’Ope­ra; il giorno successivo, per gli uomini. Il terzo, più nu­meroso, fu il giorno 30. Vi assistevano pochi soprannu­merari, alcuni genitori di membri dell’Opera e alcuni sacerdoti. Si notava che il Padre stava meglio, anche se dopo l’ultima tertulia aveva un po’ di febbre. Con molto buon umore e facilità di parola raccontò un episodio ca­pitato il giorno precedente164. Riferendosi alla dottrina di S. Paolo (Rm 9, 21), citò il paragone dei due vasi, uno per uso nobile e l’altro per uso volgare:

«Ebbene, questo era un vaso di ignominia, ma così pu­lito da sembrare un vaso di elezione. Il tesoro dell’Opus Dei è la gioia di sapere di essere un tesoro, pur essendo ciascuno ciò che è: una povera cosa... pulita, che serve al suo scopo, che è a disposizione di tutti. Evviva! Abbiamo detto in modo educato quel che dovevamo dire»165.

Man mano che parlava, gli tornavano le energie e la voglia di toccare temi come l’apostolato, il valore del la­voro o il ruolo della donna nella famiglia e nella società. Incoraggiava i suoi figli e li metteva in guardia dalla «pigrizia tropicale»166.

Diverse volte, in pubblico e in privato, promise che

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sarebbe tornato presto in Venezuela, non appena possi­bile. Tutti credettero alla promessa. Il 31 agosto partì dall’aeroporto di Caracas. Era molto contento della sua permanenza ma, scherzando sulle proprie condizioni fi­siche, disse: «Me ne vado come don Chisciotte della Mancia: col cavallo fatto a pezzi»167.

* * *

Dal primo giorno in cui aveva messo piede in America, il Padre non aveva mai smesso di ripetere: «Sono venuto a imparare». Il 28 agosto 1974, tre giorni prima di fare ritorno in Europa, scrisse al Cardinale Mario Casariego:

«Quante cose ho imparato in America! La mia fede e la mia pietà sono diventate più forti, più profonde, più giuseppine, perché ho scoperto con maggior chiarezza e con maggiore profondità la figura di S. Giuseppe, mio Padre e Signore»168.

Egli aveva sempre nutrito una grande devozione per la figura di questo Santo ma, nell’ultimo periodo della sua vita, ottenne dal Cielo la grazia di riscoprire la gran­dezza spirituale di colui che sulla terra aveva fatto le ve­ci di padre del Signore. Diceva ai suoi figli, a La Cbacra, che il Signore «me l’ha voluta mostrare, far capire, solo poco tempo fa»169. Tuttavia, tale devozione è frutto di un lungo processo, che risale alla sua infanzia. Quando andava in casa della nonna Florencia, sapeva che sopra un cassettone c’era una nicchia di legno dorato con una piccola immagine di S. Giuseppe. Josemaria, bambino, non arrivava a quell’altezza e si sollevava sulla punta dei piedi, afferrando con le dita il bordo del mobile, per vedere l’immagine e chiedere al santo qualche cosa. Da quel momento in poi aveva impregnato la sua vita inte­riore e la storia del nascente Opus Dei con il ricordo vi­vo del santo Patriarca170.

Col passare degli anni, la sua affettuosa devozione creb­be ‘impetuosamente’, ma con alcune ‘lacune’. S. Giuseppe

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- pensava il Padre - non fu presente sul Calvario quando Gesù moriva sulla Croce. Come fare per non sentirne la mancanza? In Brasile, durante un viaggio in auto, trovò la soluzione. Avrebbe fatto le sue veci, avrebbe supplito alla sua assenza ai piedi della Croce, immaginando come si sa­rebbe comportato se fosse stato presente. Quale dolore il suo, che amore per la Vergine e per Gesù171! Nella cate­chesi in America si diede a elogiarlo e a raccomandarne la devozione. In Argentina disse:

«S. Giuseppe ha un enorme potere su Dio nostro Si­gnore. Gli fungeva da Padre, scelto da Lui fin dall’eter­nità, con tanta perfezione. Dopo la Madre di Dio, non c’è creatura umana perfetta e santa come Giuseppe»172.

Se lo immaginava giovane e ben piantato: «Avrebbero mai fatto sposare una ragazza di quindici o sedici anni con un vecchio?». Si immaginava i due Sposi sempre in­sieme a fare compagnia a Gesù Sacramentato:

«Uniti all’Eucaristia, alla Madre di Dio e a S. Giusep­pe... Non separateli! Io non capisco e non lo so espri­mere, ma in qualche modo fanno compagnia a Gesù nel tabernacolo. In qualche modo... ineffabile! Io non lo so dire»173.

Durante la sua permanenza in Cile, entrò nell’orato­rio della casa per ritiri Antullanca e vide un quadro chelo commosse. Alcune ore prima, in auto, stava contem­plando i misteri gaudiosi del Rosario e s’immaginava S. Giuseppe, giovane e aitante, che accompagnava la sua Sposa a trovare Santa Elisabetta. Ebbene, in quel quadro, vide per la prima volta Giuseppe rappresentato mentre accompagna la Madonna174. Ai suoi figli ne rac­comandava la devozione:

«Se vuoi avere vita interiore, ama molto S. Giuseppe, che è veramente potente. La vita interiore consiste nello stare con Dio e nessuno ha avuto maggiori occasioni di S. Giuseppe per stare con Dio nostro Signore e con la Madre di Dio. Volete che ve lo ripeta tutti i giorni e io sono felice di farlo»175.

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La Sacra Scrittura - diceva in Perù - racconta ben po­co di Giuseppe, ma «bisogna amarlo molto ed essergli grati per come ha curato Gesù Bambino». Doveva esse­re per carattere pieno insieme di fortezza, di rettitudine e di dolcezza. Nella liturgia «si legge una cosa piena di tenerezza: che S. Giuseppe si prendeva cura del Bambi­no e lo abbracciava e lo baciava... È bellissimo!... Co­me hanno fatto i nostri papà con noi»176.

In Ecuador vide diverse rappresentazioni devote di S. Giuseppe con il Bambino Gesù. Gli piacque molto una tela, decorata in oro, appesa nel corridoio di fronte alla porta della sua camera. Vi si vedeva il Bambino che inco­rona S. Giuseppe. Ne fu molto contento, perché lo trovò molto bello e molto teologico. Ogni volta che passava lì davanti faceva un atto d’amore. «Ci ho messo anni per scoprire la teologia giuseppina e qui non ho avuto altro che da guardare per averne conferma». Era così felice di questa scoperta che, già in Venezuela, tornava indietro con la memoria e diceva che «sarebbe valso la pena il mio viaggio a Quito anche solo per vedere tante immagi­ni di S. Giuseppe incoronato da suo Figlio»177.

Il Padre riprese spesso l’argomento dell’affetto teolo­gico e dell’aumento della sua devozione al Patriarca; si considerava in debito con Colui che è Maestro di vita interiore. Quando don Roberto, il Consigliere, portò un giorno la conversazione sulla possibilità di costruire una chiesa a Caracas, il Padre suggerì che si sarebbe potuta dedicare a S. Giuseppe o alla Sacra Famiglia178.

5. Il giubileo sacerdotale (1975)

Dopo due settimane in Venezuela il Padre non era anco­ra riuscito a rimettersi dalle fatiche della catechesi, dai viaggi, dai vari malesseri. La dolcezza del clima e la quiete di Altoclaro avevano migliorato la situazione e fatto sperare in una ripresa rapida e completa. Ma poi­

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ché così non accadde, si accinse a tornare a Roma senza andare in Guatemala, dove lo aspettavano impazienti tutti i suoi figli dell’America Centrale e il Cardinale Ma­rio Casariego.

Alla vigilia del ritorno in Europa, il Padre scrisse al Cardinale, mettendolo al corrente del cambiamento di programma. Da mesi - gli diceva - aveva pregustato con gioia il viaggio in Guatemala, ma ora i medici gli avevano consigliato di ritardarlo di tre o quattro mesi. Era triste rinunciarvi, ma che altro poteva fare? «Ci ho pensato con calma e, riflettendo alla presenza di Dio, ri­tengo che non abbiano torto, perché la mia assenza si è prolungata troppo. Sono sicuro che tutto sarà per il me­glio: Omnia in bonum!»179.

Nella tertulia del 30 agosto, ad Altoclaro, annunciò ai venezuelani il proposito di riprendere in seguito la cate­chesi che non era riuscito a concludere. Era quasi mez­zogiorno quando il Padre entrò nel soggiorno e, con im­mediatezza, comunicò a tutti le sue intenzioni:

«Vi voglio molto bene! Vi amo come una madre e co­me un padre. E difficile credere che debba essere così, ma è Dio che lo ha voluto...»180.

Seguirono molte domande e risposte, in un clima sere­no e affettuoso. Ma ci fu qualcosa che colse di sorpresa i presenti. All’improvviso e senza alzare la voce, perché non era in condizione di gridare, il Padre disse:

«Ho poco tempo perché ormai abbiamo deciso e devo partire per l’Europa, ma verrò presto... Tornerò, senza fretta. E allora dedicherò a ciascuno il tempo che vorrà. Badate che ho preso un impegno. Un impegno da arago­nese!»181.

Il Padre era pieno di gratitudine per aver potuto in­contrare migliaia e migliaia di persone che amavano il Signore e desideravano servire la Chiesa e le anime. La­sciava l’America dopo aver constatato, in tutti i Paesi vi­sitati, che «il Signore è buon pagatore fin da quag­giù»182. Nella sua catechesi era arrivato fin dove il

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Signore gli aveva permesso. Non si sentiva in colpa per­ché gli erano venute a mancare le energie, che aveva consumato generosamente, per non lesinare dedizione apostolica. Aveva comunque dato una bella batosta al diavolo, confermando i suoi figli nella fede e predicando la sana dottrina a tanta gente. Il suo corpo era indeboli­to, ma lo spirito si manteneva fedele. Continuava a sof­frire acutamente per la slealtà nei confronti della Chie­sa, anche se, al di sopra della sofferenza, c’era la sicurezza che Dio non perde battaglie, come tempo ad­dietro aveva scritto a mons. Marcelo Gonzàlez Martin:

«Nonostante tutto, la mia vita è piena di ottimismo, perché sono persuaso che tutto si sistemerà e che le ani­me di tutto il mondo troveranno la luce di Dio e la sicu­rezza che cercano»183.

Era ottimista per motivi soprannaturali, convinto che la contingenza storica fosse transitoria. Sperava che pre­sto spuntasse l’alba e le tenebre si dissolvessero. Confida­va nella onnipotenza dell’orazione, e pregava fiducioso:

«In questo tempo di Avvento - scriveva alla Segretaria Centrale - ricorri alla Vergine affinché Lei, che ha dato alla luce il Salvatore, si degni di abbreviare questo tem­po di oscurità e ritornino la luce e la pace nelle anime e nella Chiesa»184.

Durante la catechesi aveva cercato di dimenticarsi completamente di sé e delle proprie malattie, per lavora­re solo per Cristo e per la Chiesa. Passando da una na­zione all’altra, il Padre e don Àlvaro avevano scritto a varie persone, fra cui mons. Benelli, Sostituto della Se­greteria di Stato, il quale ricevette una prima lettera, dal Brasile, «dove il Signore benedice straordinariamente il lavoro della nostra Opera», firmata da entrambi185. In una lettera da Lima don Àlvaro aggiunse alcune parole:

“Eccellenza carissima, eccoci di nuovo a Lei con un affettuoso ricordo dal Perù. Continua questa fecondissi­ma catechesi nella quale il nostro Fondatore parla per tante ore al giorno a delle folle, facendo amare la Chiesa

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e il Vicario di Cristo. È incredibile il numero delle con­versioni e delle confessioni. Penso che al Santo Padre re­cherà consolazione quanto scrivo” .

Àlvaro del Portillo - Josemaria Escrivà186.

Solo Dio conosceva tutti gli acciacchi e le molestie che il Padre pativa. Dopo aver predicato per alcune settima­ne in Brasile e Argentina, provava enorme stanchezza: andava agli incontri con forti mal di testa, astenia, son­nolenza e febbre. Mentre si trovava ancora in Argentina avanzò il processo di formazione di cataratte, iniziato verso il 1971. Gli si abbassò molto la vista da un oc­chio, ma il suo comportamento fu ammirevole. Durante le tertulias affollate, nelle quali era bombardato da ogni genere di domande da un’estremità all’altra della plateao dei palchi, il Padre si muoveva con scioltezza, passeg­giando per il proscenio. Distingueva a malapena la luce che si accendeva accanto a chi domandava; localizzava alla meglio l’interlocutore e parlava come se stesse a tu per tu con lui. Escogitò il sistema di far salire sul palco alcuni ragazzi giovani: li prendeva per il braccio e segui­va le loro indicazioni spontanee circa la direzione verso cui doveva guardare. Poche persone sapevano o si ac­corsero che era mezzo cieco187.

* * *

Al suo arrivo a Madrid proveniente da Caracas, il 1° settembre, il Padre appariva molto stanco, ma sorriden­te. I medici, c’era da aspettarselo, gli imposero un perio­do di riposo, mentre lo sottoponevano ad analisi e con­trolli. Il 13 settembre il malato stava molto meglio, senza tosse e con appetito, e camminava con sicurezza. Ma le analisi evidenziavano un peggioramento dell’in­sufficienza renale e segni di insufficienza cardiaca a cari­co del ventricolo sinistro188. I medici lo esaminarono ancora, a Barcellona, alla fine del settembre 1974 e con­

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fermarono che stava molto meglio, più in forze e in gra­do di salire e scendere le scale senza aiuto. Per la verità, il suo aspetto non era quello di una persona malferma di salute, ma gli esami lo smentivano. Il tasso di urea nel sangue e altri parametri delle analisi erano allarmanti. Fu evidenziato nei referti: “L’impressione che si ricava da questi esami è il contrasto fra il suo stato generale ac­cettabile e i risultati decisamente patologici” 189.

Poco dopo il suo rientro a Madrid, cominciarono ad arrivargli lettere da ogni dove per ringraziarlo della ca­techesi in America del Sud. Dalla Colombia ne arrivaro­no molte. Il Padre le leggeva una per una, con gioia. Gli servivano per fare orazione e pregare Dio per ciascuna persona e per ogni necessità. Fra le righe si leggeva la delusione delle sue figlie colombiane, sia per i problemi di salute del Padre, sia per la sua mancata visita.

«Non fatemi tragedie, perché non ce n’è motivo. Poi­ché il Signore ha deciso così, non ho potuto stare con voi. Spero - ho l’intenzione -, entro poco tempo, di ve­dere le mie figlie colombiane nel loro brodo, e moltipli­cate per cento; ci aspettano tante anime in quell’amatis- simo Paese!»190.

Nella seconda parte del mese di settembre andò a ripo­sare a Castelldaura, una casa per ritiri vicina a Barcello­na. Riposare senza perdere l’abitudine del lavoro. Non voleva eccezioni nell’orario e neppure che lo si sostituisse negli impegni di governo. Non perse né la pazienza né la giovialità. Per migliorare la funzionalità polmonare gli dissero di fare esercizi di respirazione. Il Padre allora si applicò di buon umore a gonfiare palloncini di gomma o a fare profonde espirazioni, soffiando in una cannuccia e facendo le bolle in un bicchier d’acqua191.

* il- *

Nel breve periodo di riposo a Castelldaura, il Padre la­vorò sui documenti concernenti la questione istituziona­

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le dell’Opus Dei. Stava obbedendo al Papa e ne seguiva le indicazioni perché, un anno prima, nell’udienza pri­vata del 25 giugno 1973, aveva già informato Paolo VI del lavoro di revisione della struttura giuridica dell’O­pus Dei. Il Papa aveva appreso con gioia la notizia e poi la conferma che la Commissione Tecnica incaricata del­lo studio, presieduta da don Àlvaro del Portillo, lavora­va a buon ritmo. In quella occasione, il Papa aveva in­coraggiato il Fondatore a presentare i documenti alla Santa Sede non appena possibile.

Sarebbe così stato possibile dare all’Opus Dei una confi­gurazione giuridica appropriata alla sostanza del carisma fondazionale. Era la ‘intenzione speciale’ per la quale tutta l’Opera stava pregando da molti anni. Una volta ottenuta, avrebbero avuto fine gli indicibili dispiaceri e sofferenze che la questione aveva procurato al Fondatore.

Quasi mezzo secolo passato a chiedere la realizzazio­ne dell’incarico ricevuto da Dio! Fin da principio, docile alle ispirazioni divine, aveva adottato il motto Deo om- nis gloria. Si era comportato come uno strumento fede­lissimo nell’esecuzione dei mandati ricevuti e il Signorelo aveva tenuto per mano. Da quando gli aveva fatto ve­dere l’Opus Dei, gli era stato accanto nel compimento della sua missione:

«Dio mi conduceva per mano, silenziosamente, a po­co a poco, fino a costruire il suo castello: fa questo pas­so, sembrava che dicesse, metti questo pezzo qui, togli quello e mettilo là. Così il Signore costruiva la sua Ope­ra, con tratti fermi e sfumature delicate, antica e nuova coma la Parola di Cristo (...). Mi sono solo dovuto la­sciar condurre»192.

Un giorno, in Venezuela, raccontò a chi gli stava vici­no momenti intimi della storia dell’Opera e affermò di avere sempre agito come un «amanuense di Dio», che si limita a scrivere ciò che un altro gli sta dettando193.

Il 30 settembre il Padre partì da Barcellona e rientrò a Villa Tevere. Il progetto del Codex Iuris Particularis del­

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l’Opus Dei, elaborato dalla Commissione Tecnica, per mandato e sotto la continua direzione del Fondatore, era stato terminato ed esaminato dalla commissione permanente del Consiglio Generale dell’Opera. Fu pre­sentato al Fondatore, il quale - si legge nel verbale - “l’ha approvato in tutte le sue parti, in data odierna” 194, 1° ottobre 1974. Vi erano state introdotte tutte le modi­fiche necessarie per adattarlo fedelmente al carisma fon- dazionale, del quale il Padre era, “per volontà divina, il solo ed esclusivo depositario” 195. La firma del Fondato­re approvava quindi il progetto del Codex, la cui nor­mativa avrebbe costituito la base della configurazione giuridica definitiva dell’Opus Dei. Il Fondatore aveva previsto e indicato in anticipo questo passaggio, come si legge nell’ultimo paragrafo del verbale: “ Questo Codex sarà presentato alla Santa Sede nel momento in cui si chiederà la nuova configurazione giuridica che si deside­ra per P Opera, nel quadro delle prospettive aperte dalle disposizioni e dalle norme di applicazione dei Decreti emanati dal Concilio Vaticano II” 196.

Gli obiettivi per cui era stato convocato il Congresso Generale speciale erano stati raggiunti con una rigorosa revisione delle norme statutarie e il recupero di tutti gli elementi sui quali il Fondatore era stato costretto a fare concessioni; c’era ora perfetta armonia fra la normativa giuridica e lo spirito e la specifica fisionomia dell’Opus Dei. Tutto era pronto per fare l’ultimo passo.

Tuttavia, il Padre non era tanto sicuro che sarebbe toccato a lui presentare documentazione e richiesta alla Santa Sede. Ma di ciò non si preoccupava. Nel giugno precedente, a La Chacra, parlò con i suoi figli argentini della intenzione speciale e raccomandò loro calma e vi­sione soprannaturale: dovevano starsene tranquilli, con­tenti e uniti al Padre: «E se il Signore disponesse della mia vita prima che accada questo, siate uniti a chi mi succederà, ancora più uniti. Fate il proposito di amarlo con tutta l’anima»197.

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Da allora, tutte le volte che toccò il tema della que­stione giuridica lo fece con molta serenità, senza mo­strare fretta, ma chiedendo ai suoi figli che se lo pren­dessero a cuore, con responsabilità. «Non dovete giocarvi solo una vita, ma cento, se le aveste, perché POpera raggiunga la soluzione giuridica definitiva»198. In quell’epoca, qualsiasi parola pronunciata dal Padre davanti ai suoi figli aveva per loro una speciale risonan­za, quasi fosse una implicita disposizione testamentaria; inoltre, per il Fondatore, che agiva sempre al cospetto dell’eternità, il presente indicava prospettive di futuro. Nella lettera inviata ai suoi figli in occasione del Natale1974, egli ribadiva, per tutti, l’obbligo di fare l’Opus Dei e dunque chiedeva fedeltà, ricordando loro la re­sponsabilità di una missione divina. La calda richiesta di portare avanti POpera sembrava l’ecò della domanda che il Fondatore aveva fatto ai primi, molti anni addie­tro: continuerai POpera, se io muoio?

Ecco due paragrafi della lunga lettera:«Carissimi, Gesù mi protegga le mie figlie e i miei figli!Nell’inviarvi queste righe con i miei auguri più affet­

tuosi per il Santo Natale, mi piace ripetervi di nuovo, perché vi resti ben impresso in fondo al cuore, che il Si­gnore si appoggia con forza su di noi, su ciascuno, e che tutti dobbiamo sentire sulle nostre spalle, con ottimismo e con autentico senso universale, il peso benedetto di portare avanti POpera, come Dio si aspetta. Un peso che, provenendo dal Signore - iugum meum suave est et onus meum leve -, non schiaccia né opprime (...). Ab­biate nel vostro cuore la sicurezza di portare avanti un compito divino voluto da Dio, che dobbiamo svolgere con lealtà, con fedeltà nelle cose grandi e piccole, senza venir meno nella lotta personale, perché, se trascuriamo i dettagli apparentemente privi d’importanza, c’è il ri­schio che, da questa fessura, tutti i peccati e tutti gli er­rori pratici possano entrare a frotte nel castello spiritua­le, per distruggerlo»199.

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Negli incontri di quel periodo con i suoi figli di Roma volle dare un forte stimolo spirituale. La mattina di Na­tale disse loro:

«Il mondo è molto sconvolto e così pure la Chiesa. Forse il mondo sta come sta perché la Chiesa è in questa situazione. Vorrei che dal vostro cuore si levasse il grido del povero cieco del Vangelo, perché Iddio ci faccia vede­re le cose del mondo con chiarezza. Non dovete fare al­tro che obbedire nelle poche cose che vi vengono ordina­te e seguire le indicazioni dei Direttori. Dite molte volte al Signore: Domine, ut videam! Signore, fa’ che io veda! Ut videamus!: che vediamo chiaramente questa specie di rivoluzione, che in realtà è una cosa diabolica»200.

Fu tale la sua insistenza su queste giaculatorie, che il grido del cieco di Gerico divenne per loro una sorta di ritornello:

«Domine, ut videam!, che ognuno veda. Ut videa­mus!, chiediamo la luce divina per tutte le anime, senza eccezione»201.

Rispose agli auguri delle sue figlie, nella Pasqua del1975, con la medesima esortazione:

«Domine, Signore, ut videam!, che io veda! Domine, ut videant!, che vedano! Guardiamo con la luce dell’ani­ma, con chiarezza, con senso soprannaturale, le cose della terra: quelle che ci sembrano grandi e quelle che ci sembrano piccole, perché tutte sono grandi quando c’è amore e visione soprannaturale. Guardiamo con la luce della nostra intelligenza, con chiarezza di idee, ora che il mondo e la Chiesa sono pieni di falsità, delle eresie di ogni epoca, che si rizzano come vipere. Chiediamo al Si­gnore che ci conservi uniti, come è stato finora, nella ve­rità della fede. E poi di saper vedere tutti le cose della terra con la luce degli occhi, in modo tale da non dare loro importanza: sono cose che passano»202.

Affiora in queste frasi la forte sofferenza del Padre per la Chiesa di Cristo. La richiesta di ‘vedere’ esprime una metafora, sottintende due modi di ‘vedere’: uno sopran­

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naturale e un altro terreno. Il Padre infatti, non chiede­va luce per le sue pupille malate, come il cieco di Gerico. Non pregò mai il Signore di liberarlo dalle sue malattie. Cercava una visione pura del mondo, che amava appas­sionatamente ma senza rimanere soggiogato dalle sue lusinghe. Chiedeva che tutti vedessero «le cose della ter­ra con la luce degli occhi», ma senza mettervi il cuore, con totale distacco.

Ben pochi si erano resi conto della condizione fisica del Padre, che ormai ci vedeva assai poco; chi lo sapeva si commuoveva nel vedere con quale eleganza sopporta­va la malattia203.

La notte di S. Silvestro del 1974 tornò a stare con i suoi figli. Gli fu portato un Gesù Bambino. Con amore­vole delicatezza lo prese tra le braccia e si concesse, così le chiamava, alcune ‘puerilità’. Gli tornò in mente il Bambino Gesù del convento di Santa Isabel, a Madrid, che aveva baciato e ninnato. Ora, guardando con tene­rezza il Bambino, lo copriva di baci e confessava ai suoi figli: «Non provo vergogna a baciare il Bambino come quando ero piccolo, ora che me ne sto andando dal mondo: nessuna vergogna»204. Benedisse i presenti con l’immagine e poi la affidò loro, perché lo portassero a Cavabianca. Era la ‘prima pietra’ del Collegio Romano.

Il giorno successivo, Capodanno, il Padre parlò alle sue figlie del nuovo anno 1975:

«Sarà un anno molto buono. Ci saranno sofferenze ma, se le sopporterete con la grazia di Dio e con buon umore, non saranno un male, bensì un bene: dovete ricavare il be­ne da tutte le occasioni. Sarà un anno buono, figlie mie, perché ci avvicineremo più che mai al Signore»205.

La notte tra l’I e il 2 gennaio, l’insufficienza renale gli produsse un edema polmonare e un forte attacco cardia­co. Subito gli furono prestati gli aiuti spirituali e le cure mediche. La mattina dopo, nonostante la gravità dell’at­tacco e la notte agitata, il Padre si alzò. Il 3 gennaio andò in Spagna, per sottoporsi a un esame medico approfon­

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dito fatto da chi conosceva la sua storia clinica206. Da Madrid si trasferì per alcuni giorni a La Lloma, una casa per ritiri di Valencia, vicino al mare, dove era già stato nel 1972 durante la catechesi nella Penisola iberica. Lo visitò un oculista, per capire se era possibile operarlo. A La Lloma potè stare con i suoi figli in varie occasioni. Il Padre raccontò loro molti ricordi stupendi, ma anche ciò che occupava i suoi pensièri in quel momento:

«Ho già settantatré anni, li compirò entro pochi gior­ni, e sto per andarmene da questo mondo... Fra non molto festeggeremo il cinquantesimo anniversario del- l’Opera. Che cosa sono cinquant’anni per una istituzio­ne? Ci hanno presi a pedate; per questo ci siamo sparsi ovunque»207.

L’8 gennaio, vigilia del suo compleanno, era di ritor­no a Roma. Sentiva il bisogno non solo di sapere che i suoi figli gli volevano bene, ma anche di sperimentarne tangibilmente l’affetto. Naturalmente era un affetto re­ciproco, condiviso da tutti.

Con il passare dei giorni, il malato superava le aspet­tative dei medici, stupiti che si riprendesse tanto rapida­mente dai disturbi agli occhi e dagli altri malesseri. Il 13 gennaio scrisse al Cardinale Casariego per confermargli che entro poco tempo avrebbe potuto, «finalmente, rea­lizzare il sogno di andare in Guatemala»208.

Come l’anno precedente, fu chiesto il parere dei me­dici, che valutarono l’opportunità del viaggio in Vene­zuela e in Guatemala, previsto per febbraio. Ma chi po­teva controllare l’amore di Dio che fremeva nel cuore del Padre? Ricuperava le forze di giorno in giorno, mi­gliorava a vista d’occhio. Perciò, dopo una lunga e pru­dente riflessione, i medici si dissero d’accordo, ad alcu­ne condizioni: un ritmo di vita meno frenetico e più tranquillo; non superare i 1500 metri di altitudine e, in­fine, la continua vicinanza di un medico209. Anche il Pa­dre faceva i suoi preparativi di viaggio. A metà gennaio aveva già mobilitato migliaia di persone perché, con le

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loro preghiere e i loro sacrifici, raccomandassero al Si­gnore e alla Santissima Vergine il lavoro che sperava di fare in America210. Prima di attraversare l’Atlantico in­dirizzò una lettera a tutti i fedeli dell’Opus Dei in occa­sione del proprio giubileo sacerdotale, che avrebbe cele­brato di lì a due mesi:

«Carissimi, Gesù mi protegga le mie figlie e i miei figli!Vi scrivo per chiedervi che il prossimo 28 marzo, 50°

anniversario della mia ordinazione sacerdotale, preghiate in modo speciale per me, invocando come intercessori nostra Madre Maria Santissima e S. Giuseppe, nostro Pa­dre e Signore, perché io sia un sacerdote buono e fedele.

Non voglio che si svolga nessun festeggiamento, per­ché desidero trascorrere questo giubileo secondo la nor­ma consueta della mia condotta: a me spetta nasconder­mi e scomparire, perché solo Gesù risplenda. Però desidero che rimaniamo molto uniti quel giorno, con una gratitudine più profonda verso il Signore - il 28 marzo sarà Venerdì Santo - che ci ha spinti a essere par­tecipi della sua Santa Croce, cioè delPAmore che non pone condizioni.

Aiutatemi a ringraziare Dio, oltre che per l’immenso te­soro della chiamata al sacerdozio e della vocazione divina all’Opera, per tutte le sue misericordie e tutti i suoi bene­fici, universa beneficia tua, etiam ignota, anche per quelli di cui non sono stato capace di accorgermi. Ringraziamo, figlie e figli, perché, pur essendo noi così poca cosa, un nulla, il nostro Padre del Cielo, nella sua bontà infinita, ha dilatato i nostri cuori e, con il fuoco che è venuto a portare sulla terra, ha acceso un grande Amore nelle no­stre anime. Dimostriamogli inoltre una filiale riconoscen­za per avere imparato, nella sua Opera, ad amare la Chie­sa e il Romano Pontefice, con i fatti e nella verità.

Il prossimo Venerdì Santo unitevi a me nell’adorare il nostro Redentore, realmente presente nella Sacra Euca­ristia, in tutti i monumenti di tutte le chiese del mondo. Che sia un giorno di intensa e innamorata adorazione.

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Chiediamo perdono per tutti i nostri peccati e per i peccati di tutti gli uomini, con desiderio di purificazione e di riparazione davanti a tanta cecità: ut videamus!, ut videant!, perché vediamo, perché vedano.

Quel giorno, dunque, staremo molto uniti alla Santis­sima Vergine - contemplatela accanto alla Croce di suo Figlio - in raccoglimento di adorazione, di ringrazia­mento, di riparazione e di supplica. Gioia e dolore si danno appuntamento iuxta Crucem Iesu e tutte le paro­le e i gesti più belli delle creature non sono sufficienti per lodare l’Amore che si dona. Perciò, figlie e figli ca­rissimi, commemoriamo il mio anniversario sacerdotale rinnovando il proposito di mettere a frutto ogni giorno, pieni di gratitudine, ai piedi della Croce - dell’Altare -, la Vita che Cristo ci dà. La Santa Messa sia sempre il centro e la radice della nostra esistenza: questo è il mi­glior modo di festeggiare il sacerdozio.

Fin da ora mi sento profondamente commosso per l’affetto che vi porterà a ricordare in questo modo il mio 50° di sacerdozio. Cercate di vivere la festa ben uni­ti alle mie intenzioni, specialmente quelle della mia Messa. Vi meraviglierete nello scoprire quante luci e quante grazie riceveremo dal Signore se ci sforziamo di rimanere dinanzi ai suoi occhi, pregando e lavorando alla sua presenza consummati in unum!, formando un solo cuore, anelando sempre più di servire la Santa Chiesa e le anime.

Affettuosamente vi benedice vostro Padre.Mariano»211.

Il 29 gennaio partì da Roma per Madrid e il 4 feb­braio proseguì per Caracas.

* * 51-

Molti erano i motivi che lo riportavano in Venezuela: la promessa fatta, il desiderio di incontrare centinaia di figli e di figlie latinoamericani che non avrebbe più

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avuto occasione di rivedere, il suo incontenibile zelo apostolico...

“Padre - gli disse una sua figlia, pochi giorni dopo il suo arrivo -, che provvidenza di Dio averla qui!” . Il Pa­dre fu d’accordo:

«Non ci siamo riuniti per caso, o perché sì, ma perché Dio nostro Signore mi ha voluto dare questa gioia»212.

Fin dal primo momento, il Padre si mise compieta- mente a disposizione dei Direttori dell’Opera in Vene­zuela: «Io sono una cosa-, perciò farò quello che volete. È chiaro? Quello che volete»213.

Altoclaro non aveva l’aspetto raccolto e tranquillo di alcuni mesi prima. Nel campo da calcio erano stati siste­mati un palco e migliaia di sedie, il tutto coperto da un grande tendone, per proteggersi dai raggi del sole. Il Pa­dre era pronto a seguire un programma intenso, a rice­vere molte visite, a fare molti incontri numerosi, ad adattarsi all’orario della casa. Quanto a lesinare le pro­prie energie, non se ne parlava proprio. Tornava a ripe­tersi ciò che era accaduto nei viaggi precedenti. Ecco ciò che riporta il diario di Altoclaro l’i l febbraio, quando già erano cominciati gli incontri affollati: “Nostro Pa­dre si dona alle anime, alle persone, con una dedizione completa, con uno spirito profondo e gioviale e con for­ze giovanili che sembrano inesauribili. Però, una volta terminata la tertulia e la tensione relativa, si nota quan­to sforzo gli sia costato”214.

Evidentemente il Padre stava consumando le proprie energie vitali, ma non ne teneva alcun conto. Si scrolla­va di dosso la stanchezza con motivazioni soprannatu­rali. Lo si notava in particolare negli incontri con i gio­vani, che voleva condurre a contemplare grandi ideali. Anche se la sua forza fisica era minore, non così il fuoco interiore con cui sapeva entusiasmare le anime:

«Dovete fare grandi cose in Venezuela e dal Venezuela- diceva a un gruppo di ragazze - e per questo c’è biso­gno di cuori giovani e ardenti, di idee chiare, di persone

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simpatiche e meravigliose, come le mie figlie e le amiche delle mie figlie. Vediamo se lo volete davvero...; Dio sì che lo vuole! Poltrone che non siete altro, cacciate via la poltroneria!»215.

Il Padre non aveva difficoltà a passare dal tono serio all’espressione scherzosa. La serenità e il sorriso espri­mevano l’equilibrio del carattere e lo aiutavano ad af­frontare al meglio ciò che succedeva. Nella tertulia del 13 febbraio, mentre una numeraria ausiliare gli rivolge­va una domanda, la interruppe con affetto:

«Vi invidio moltissimo... Evidentemente, uomo come sono, non posso essere una numeraria ausiliare. Ma qualche volta ho pensato: Josemarìa, a te che cosa sa­rebbe piaciuto? E mi sono risposto (non spaventatevi): Non essere dell’Opus Dei. Perché? Per poter chiedere l’ammissione ed essere l’ultimo. E se fossi una donna ancor meglio, perché allora di sicuro sarei una numera­ria ausiliare»216.

Il Padre si accorgeva di tutto e dava continuamente consigli alle anime e criteri di governo ai direttori. Al suo arrivo non ebbe occasione di passare per la capitale, poiché dall’aeroporto si prendono le tangenziali che portano direttamente ad Altoclaro. Meno di venti ore dopo l’atterraggio a Caracas stava già ampliando il loro orizzonte apostolico:

«Non ho visto nulla di Caracas, ma venendo in qua ho visto casupole miserabili. Nell’Opus Dei c’è posto per tutti. La vocazione non è solo per gli universitari. Dovete darvi da fare con i ricchi e anche con le persone che hanno fame, soprattutto perché hanno fame di Dio. L’Opera è per tutti. Dovete arrivare a quelli che hanno denaro e a quelli che non hanno nulla»217.

Il programma previsto fu interamente compiuto, cosa abbastanza sorprendente perché, per la prima volta nei suoi viaggi di catechesi, il Padre accettava di stare più tempo a letto e persino di coricarsi un po’ durante la giornata, in attesa della riunione successiva. Ciò non era

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affatto tranquillizzante, piuttosto era un sistema per dis­simulare la propria stanchezza e non far capire che non era in grado di partecipare agli incontri davanti a una folla numerosa, che lo lasciava estenuato. Ma lo sostene­va un ragionamento dettato dall’amore: «Dio solo sa se potrò mai rivedere questi miei figli su questa terra!»218.

Il 15 febbraio lasciò il Venezuela. All’aeroporto di Città del Guatemala lo attendevano l’Arcivescovo, Car­dinale Casariego, e il Consigliere dell’Opus Dei per l’A­merica Centrale, don Antonio Rodrìguez Pedrazuela. Il Padre li abbracciò. “La Chiesa del Guatemala è molto contenta di averla qui, Padre”219, disse il Cardinale. In Guatemala giunsero molti fedeli dell’Opera, amici, coo­peratori e molte altre persone venute da Paesi vicini, co­me il Costarica e il Salvador, o più lontani, come la Co­lombia, gli Stati Uniti e il Canada. C’era grande attesa, perché non c’era l’assoluta certezza di poterlo vedere. Il giorno dopo, il 16, il Padre volle riaffermare la gioia di essere arrivato e scrisse queste parole su una copia della prima edizione di Cammino:

«Alle mie figlie e ai miei figli del Guatemala, una af­fettuosa benedizione: con la gioia di essere giunto - fi­nalmente! - in questa terra benedetta. Guatemala, 16 febbraio 1975. Mariano»220.

Lo stesso giorno ebbero inizio le riunioni del Padre con diversi gruppi. A metà pomeriggio fu portato in au­to in città, perché potesse benedire i Centri dell’Opera ei terreni su cui sarebbe stata costruita la sede definitiva della Commissione Regionale. Si raccoglieva alcuni se­condi in silenzio e poi con calma, davanti al terreno o alla casa, impartiva la benedizione.

Il 18 mattina stette con un gruppo numeroso di sacer­doti diocesani. «Ho molta voglia di imparare e poi di met­tere in pratica», disse loro all’inizio221. Nel pomeriggio si recò ad AltaVista, la casa per ritiri, dove benedisse l’imma­gine della Madonna del Carmine, nella cappella a lei dedi­cata, anche “in ricordo della sorella di nostro Padre, Car­

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men, che con la Nonna seppe aiutare e sostenere con gene­rosità e abnegazione gli apostolati dell’Opera”222.

Il 19 febbraio era l’onomastico di don Àlvaro. Il sole picchiava forte ed era una giornata molto calda. Quan­do qualcuno domandò “Come fare per essere fedeli co­me don Àlvaro?” scrosciò un forte applauso, al quale il Padre si unì. Ma si vedeva che non stava bene; soffriva il caldo e aveva la gola secca.

La notte ebbe sintomi di bronchite, con afonia, febbre e una grande spossatezza; furono annullati gli incontri previsti per il 20 e il 21. Era chiaro che ben difficilmente si sarebbe ripreso, perché era al limite delle forze. Non restava altro da fare che ritornare in Europa. Il Padre accettò la volontà di Dio:

«Figli miei, sono contento del lavoro in queste terre. Continuate così. Mi dispiace molto non poter restare con voi. Pazienza! Prima ero triste, ma ora sono conten­to: ho offerto tutto al Signore per il lavoro nell’America Centrale. In Venezuela stavo molto bene e sono venuto qui con la speranza di parlare con molta gente. Ma Dio non l’ha permesso. Offriamoglielo con gioia»223.

Era una grossa contrarietà. Famiglie intere si erano messe in cammino da giorni, alcuni avevano speso i pro­pri risparmi per vedere il Padre e per ascoltarlo. Chi li avrebbe consolati? Eppure, dopo il disappunto iniziale, nessuno perse la serenità.

Il giorno della partenza, il 23 febbraio, migliaia di persone venute dalla capitale con la speranza di ascol­tarlo e di salutarlo, accorsero all’aeroporto224. Il Padre era molto emozionato. Già vicino all’aereo, il Cardinale chiese una benedizione per la folla. Il Padre non potè ri­fiutarsi e, prima di salire sull’aereo, salutò e benedisse i presenti. Tre giorni dopo scriveva da Madrid:

«Carissimo Signor Cardinale,appena rientrato in Europa, sento il bisogno di scri­

verle subito, perché ho la testa e il cuore pieni di tanti sentimenti, nei quali vedo la mano amabilissima del Si­

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gnore, anche se a volte costa fatica capire i suoi piani. Sono contento, molto contento! Avevo cominciato que­sto nuovo viaggio - come mi aveva chiesto S.E. - con il desiderio di proseguire la mia catechesi in America lati­na per parlare di Dio con tante anime e per imparare ad amare e a servire meglio il Nostro Padrone. Non ho po­tuto fare tutto ciò che mi ero proposto, ma rinnovo la mia riconoscenza alla Trinità Beatissima, poiché con gioia ho visto l’abbondante lavoro apostolico delle mie figlie e dei miei figli in queste nazioni, fra cui il Guate­mala e il Salvador, sempre sostenuti dal Suo particola­rissimo affetto (...).

Termino ringraziandola per tutte le delicatezze che ha avuto verso di me e che questo peccatore non merita. Ormai le ho perdonato di avermi fatto benedire, all’ae­roporto La Aurora, la folla che con tanto affetto prega per il suo Cardinale, anche se io personalmente credo di pregare di più e di volerle ancora più bene»225.

* * *

Rientrato a Roma, tornò al lavoro abituale, contento cheil Signore gli desse «buona salute per poter affrontare con normalità i compiti quotidiani»226. La festa di S. Giusep­pe era imminente. La mattina del 19 marzo si recò a Ca­vabianca per predicare ai suoi figli e, cosa decisamente in­solita, aprì completamente il suo cuore con loro:

«Questa notte mi sono venute in mente tante cose di molti anni fa. Dico sempre che sono giovane, ed è vero: ad Deum qui laetificat iuventutem meam! Sono giovane della gioventù di Dio. Ma sono passati molti anni»227.

Continuò raccontando di essere rimasto sveglio a lun­go, ripensando alla sua vocazione e ai primi passi del­l’Opera e provando stupore davanti al cammino percor­so: i presentimenti della adolescenza e il lavoro di un giovane sacerdote con una missione universale da com­piere. Il lavoro con i moribondi degli ospedali, con i po­

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veri dei quartieri più miserabili di Madrid, con i bambi­ni della catechesi e con i malati confinati in una desolata solitudine. I ricordi gli si erano affollati nella mente e ognuno di essi significava la misericordia divina nei suoi confronti:

«Figli miei, vi sto raccontando un pochino di quella che è stata la mia orazione di stamane. Dovrei riempir­mi di vergogna e di gratitudine e di un amore più gran­de. Tutto ciò che è stato fatto finora è molto, ma è poco: in Europa, in Asia, in Africa, in America e in Oceania. Tutto è opera di Gesù, nostro Signore. E stato il nostro Padre del Cielo a fare tutto»228.

Il cammino ormai era tracciato. L’incarico ricevuto da Dio era compiuto.

«È tanta la strada che è stata percorsa, che ormai non vi potete più sbagliare. Con tutto ciò che abbiamo fatto nel terreno teologico - una teologia nuova, miei cari, e molto buona - e nell’ambito giuridico, con quello che abbiamo fatto con la grazia di Dio e di sua Madre, con la provvidenza di S. Giuseppe, nostro Padre e Signore e con l’aiuto degli Angeli Custodi, non vi potete più sba­gliare, a meno che siate persone cattive. Ringraziamo Dio. Ora è chiaro che io non sono più necessario. Nonlo sono mai stato»229.

Il tempo era passato in fretta e le novità si succedeva­no. Pochi giorni prima aveva loro annunciato la tradu­zione di Cammino in lingua quechua. Era incredibile, ma soltanto quarant’anni prima usciva a Cuenca Consi­derazioni Spirituali, la prima versione di Cammino230. Queste constatazioni gli facevano sentire il peso degli anni, come quando doveva scrivere a un suo figlio una lettera di condoglianze per la morte del padre o della madre, il che accadeva quasi ogni giorno, poiché la fa­miglia dell’Opus Dei si era estesa in modo sorprendente. Oltre che Padre, era il Patriarca di un popolo giunto da tutti i continenti, di molte razze e lingue. La storia del- l’Opera era frutto della grazia di Dio e di mezzo secolo

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di intensa attività sacerdotale. Era stato ordinato sacer­dote il 28 marzo 1925 a Saragozza, senza sapere ancora la ragione suprema della chiamata e mentre gridava Do­mine, ut videam!

Il suo giubileo sacerdotale cadeva il Venerdì Santo, 28 marzo 1975. Da mesi si preparava a celebrare la fe­sta nell’intimo della sua anima. Per quanto esaminasse la sua vita non vi trovava miglioramenti sostanziali. Il suo progresso spirituale non gli sembrava neppure al li­vello di una creatura che muove i primi passi. Giovedì Santo, vigilia dell’anniversario, non si vergognò di di­chiararlo, facendo la sua orazione ad alta voce davanti al Tabernacolo:

«Dopo cinquant’anni sono come un bimbo che bal­betta. Comincio e ricomincio ogni giorno che passa. E così sino alla fine dei giorni che mi restano: torno sem­pre a ricominciare»231.

Si volgeva al passato e rivedeva un bosco di croci, «un panorama immenso: tanti dolori, tante gioie. Ma ora sono solo gioie, solo felicità... Ormai sappiamo che il dolore è come i colpi di scalpello dell’artista, che vuole trasformare ciascuno di noi, la massa informe di cui sia­mo fatti, in un crocifisso, in un Cristo, Valter Christus che dobbiamo essere. Signore, grazie di tutto. Mille vol­te grazie!»232.

Il giorno dopo cercò di fare un bilancio della propria vita. Il risultato era molto positivo, ma non per lui, ben­sì per il Signore. Non gli restava che ridere di se stesso e ciò, date le circostanze, era un supremo atto di umiltà:

«Ho voluto tirare le somme di questi cinquant’anni e mi è venuto da ridere. Ho riso di me stesso e mi sono riempito di gratitudine verso Dio nostro Signore, perché ha fatto tutto Lui»233.

Trascorse la giornata nel raccoglimento, festeggiando dentro di sé. Si adeguò alla norma di nascondersi e scomparire e passò «un giorno di intensa e innamorata adorazione»234. Le sue figlie e i suoi figli gli regalarono

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un grande reliquiario per il lignum Crucis e alcuni vasi sacri. Ne ebbe grande gioia, perché gli oggetti erano de­stinati al culto divino, anche se pensava che per lui fos­sero troppo, ma per il Signore troppo poco235.

6. Gli ultimi giorni e la morte (26-VI-1975)

La conclusione della costruzione di Torreciudad, in cor­so da cinque anni, era prevista per l’estate del 1975 e i tempi di esecuzione erano stati rispettati. Anche lo scul­tore impegnato nella realizzazione del ‘retablo’ procede­va velocemente. Il Padre fece sapere che sarebbe stato opportuno aprire il santuario al pubblico il più presto possibile e che egli non si sarebbe recato alla cerimonia d’inaugurazione:

«Non verrò per l’inaugurazione di Torreciudad. Non appena terminati i lavori, il Consigliere impartirà la be- nedictio loci e subito dopo si darà inizio al culto»236.

Poche settimane dopo, tuttavia, le circostanze lo con­dussero al Santuario.

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Nonostante avesse dovuto lasciare Barbastro nell’adole­scenza, il Fondatore si sentì sempre legato da un vivo af­fetto alla sua città natale. La corrispondenza intercorsa con le autorità locali e con alcune famiglie di suoi parenti conferma i suoi sentimenti affettuosi. I ricordi di Barba­stro «mio amatissimo paese» lo riempivano di gioia per­ché, scrisse al Sindaco nel 1971, «mi sento molto barba- strino e cerco di essere buon figlio dei miei genitori»237. Ne diede buona prova con alcuni eccezionali servizi a fa­vore dei suoi compaesani e dell’intera zona, soprattutto con il suo efficace intervento per evitare la soppressione della diocesi di Barbastro quando, dopo la guerra civile, si procedette alla ristrutturazione delle diocesi spagnole238.

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Nel 1947 il Consiglio comunale, senza consultarlo, gli conferì il titolo di Figlio Prediletto di Barbastro. Pur ap­prezzando la dimostrazione di affetto, riuscì a evitare che fosse organizzata una cerimonia pubblica. Il Fondatore aveva una speciale maestria nell’arte di eludere i festeg­giamenti in pubblico senza arrecare dispiacere a chi vole­va organizzarli. Intorno al 1960, non appena venne a sa­pere che a Saragozza gli si voleva intitolare una strada, fece i passi opportuni affinché i promotori vi rinunciasse­ro e riuscì a evitare che lo facessero anche a Barbastro. Tuttavia, nel 1971, sempre senza consultare l’interessato, la Giunta municipale di Barbastro intitolò a suo nome il viale principale della nuova zona di urbanizzazione239. Con la stessa tecnica del ‘fatto compiuto’, senza che il Fondatore ne sapesse nulla, il Consiglio comunale, nella seduta del 17 settembre 1974, decise all’unanimità di conferire la Medaglia d’Oro della Città di Barbastro a mons. Josemarìa Escrivà, “in riconoscimento dei rilevanti meriti di esemplarità e di proiezione universale presenti nella sua persona, e della sua costante cura e preoccupa­zione per il perfezionamento, in tutti i campi, degli abi­tanti di Barbastro e del suo territorio”240.

Quando il Comune di Barbastro prendeva questa de­cisione, il Fondatore stava rimettendosi dalla fatica del viaggio nel continente americano. Quando, poco dopo, rientrò a Villa Tevere, vi trovò una lettera del Sindaco che lo avvisava dell’onorificenza. La prolungata assenza da Roma e la promessa di tornare in America lo rende­vano propenso a non intraprendere altri viaggi. Ma i suoi figli gli fecero notare che non poteva rifiutare per la terza volta l’omaggio dei suoi concittadini, tanto più che i festeggiamenti sarebbero stati ridotti e in tono fa­miliare. Il Padre intanto espresse al Sindaco i propri sen­timenti affinché se ne facesse interprete presso tutto il Consiglio:

«Anch’io spero vivamente che il Signore mi conceda la grazia di potermi riunire prossimamente con i miei

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concittadini. Lo spero e lo desidero vivamente perché sono convinto, benché mi riesca difficile pensare che sia possibile, che faranno aumentare il mio affetto e la mia preghiera per Barbastro e il suo territorio. Ti chiedo di pregare per me e per il mio lavoro sacerdotale, invocan­do la Madonna di Torreciudad che tanto bene ha fatto e farà alle anime; anch’io depongo ai suoi piedi tutti i vo­stri desideri e le vostre attività, perché Ella li benedica e li protegga»241.

Il santuario della Madonna di Torreciudad distava mezz’ora di auto da Barbastro. Era evidente che, conte­stualmente alla cerimonia di consegna dell’onorificenza, si sarebbe potuto recare al Santuario, anche per dare le ultime indicazioni necessarie. Le circostanze dunque gli consentirono di recarsi un’ultima volta nella sua terra natale.

Il viaggio era stato fissato per il maggio 1975. Il Padre era molto stanco e con vari malanni, ma non tanto da destare eccessive preoccupazioni o da far sospendere il viaggio. Il 15 partì da Roma per Madrid. Alloggiò nel Centro di via Diego de Leon, nella stanza, accanto all’o­ratorio, che aveva occupato tanti anni prima e per lui piena di ricordi. Il programma di incontri a Madrid si svolse normalmente, ma, alla vigilia del viaggio a Torre­ciudad e a Barbastro, nella notte tra il 21 e il 22 maggio, ebbe un serio attacco di cuore e un successivo edema polmonare acuto, dal quale, grazie a Dio, si riprese rapi­damente242. Il 23 a mezzogiorno era atteso a Torreciu­dad e non mancò all’appuntamento.

Il Padre vi era stato l’ultima volta nelPaprile 1970; aveva recitato il rosario lungo la strada e, sotto la piog­gia, aveva benedetto lo scavo per la cripta dei confessio­nali. Erano passati cinque anni, pieni di lavoro e di spe­ranze. Ora, con l’arrivo del Padre, erano giunti i giorni della gioia e della festa. Era circa mezzogiorno quando l’elicottero su cui viaggiava fu avvistato sul lago artifi­ciale e le campane del Santuario suonarono a festa,

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diffondendo gli allegri rintocchi per i monti e le valli vi­cine. L’elicottero atterrò sulla spianata.

Il Padre visitò la cappella antica e si soffermò a osser­vare l’insieme degli edifici costruiti attorno al Santuario: due case per ritiri, un Centro per le ricerche storiche, la torre, i portici... Tutto il rivestimento esterno era in mattoncini e l’aspetto era dignitoso, arioso e mosso nel­le soluzioni architettoniche. «Con materiale umile, della terra, avete fatto una costruzione divina»243, disse agli architetti.

Nel primo pomeriggio, assieme ad alcuni fedeli del- l’Opera, visitò tutto il Santuario. Le proporzioni, le for­me coraggiose e moderne della costruzione, l’originalità delle opere murarie, la dignità e la grandezza dell’altare, tutto lo lasciò stupefatto. All’interno, sedette in un ban­co per osservare con calma il ‘retablo’, ancora circonda­to dall’impalcatura, e ne fu affascinato.

La composizione scultorea si innalzava dal pavimento del presbiterio fino al margine del soffitto, incorniciata da un intreccio di anelli e di fronde, diffusamente deco­rata con cardi, rose e stelle. Al centro dell’ancona si apriva la nicchia con l’antica statua romanica della Ma­donna, già restaurata; al di sopra, come tema centrale, la Crocifissione; ancora più in alto, l’apertura circolare che mostrava il tabernacolo con il Santissimo. Ai due la­ti della struttura centrale, grandi riquadri con episodi della vita della Vergine: lo Sposalizio, l’Annunciazione, la Nascita di Gesù... Al di sopra di tutto, vero corona­mento dell’insieme, l’incoronazione della Madonna da parte della Santissima Trinità. Piccole nicchie con i San­ti Patroni e Intercessori dell’Opus Dei riempivano le di­visioni verticali.

Tutto l’insieme scultoreo era in alabastro, materiale piuttosto comune nella regione, arricchito da tenui to­nalità policrome. Il Padre contemplava assorto il capo­lavoro:

«È una pala d’altare magnifica. Quanti sospiri faran­

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no le vecchiette qui davanti..., e anche i giovani! Quanti sospiri! Così va bene! Solo noi dell’Opus Dei siamo tan­to pazzi da fare una cosa del genere e siamo ben conten­ti di essere pazzi...»244.

Diede alcuni suggerimenti sulla collocazione dell’or­gano, sulla sistemazione della nicchia per la statua della Madonna, sull’illuminazione del Crocifisso della cap­pella del Santissimo.

Il giorno dopo, 24 maggio, il Padre consacrò l’altar maggiore; al termine della cerimonia rivolse alcune paro­le ai presenti, ricordando che l’altare è l’ara del sacrificio:

«Ho appena consacrato un altro altare. Ce ne sono in tutto il mondo, in Europa, in Asia, in Africa, in America, in Oceania. Su questi altari i vostri fratelli offrono al Si­gnore il sacrificio della propria vita e lo fanno volentieri, perché il sacrificio con Amore è una gioia immensa, an­che nei momenti più duri. Tutti ne avete fatto l’esperien­za e sapete che non è poi così duro. Non facciamo trage­die, prendiamo la vita anche dal lato divertente, poiché sono molte le cose su cui conviene ridere»245.

«Tutte le volte che consacro un altare cerco di trarne conseguenze personali. Ricordatevi come si consacra a Dio un altare. In primo luogo lo si unge. Anche voi e io, quando siamo diventati cristiani, siamo stati unti con l’olio santo sul petto e sulle spalle. Ci hanno unto anche il giorno della Confermazione. A noi sacerdoti hanno unto le mani. Spero, con la grazia del Signore, che ci un­geranno nel giorno dell’Estrema Unzione, che non ci fa paura. Che gioia sapersi unti, consacrati, dal giorno del­la nascita fino a quello della morte! Sentirsi altare di Dio, proprietà di Dio, luogo dove Dio fa il suo sacrificio, il sacrificio eterno secondo l’ordine di Melchisedek»246.

Nel tardo pomeriggio gli fu data notizia della morte, avvenuta a Roma, di un suo figlio, don Salvador Ca- nals. Ancora una volta, al Padre non veniva risparmiato il dolore di ogni giorno: nulla dies sine cruce.

Domenica 25 maggio, nel Municipio di Barbastro, gli

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fu conferita la Medaglia d’Oro della città. La cerimonia cominciò con la lettura, da parte del Segretario, del ver­bale di conferimento. Poi, consegnata la medaglia, il Sin­daco Gómez Padrós tenne un discorso. Il Padre si incon­trava di nuovo con i suoi concittadini. Il Sindaco ritornò, con fervidi accenti, a ricordi lontani e recenti: i giochi in­fantili, la recita della Salve Regina il sabato pomeriggio nella chiesa degli Scolopi, la gioia di vedere terminata l’impresa del Santuario di Torreciudad. Il Padre rispose con alcune parole di ringraziamento, ma dovette inter­rompersi. Il suo cuore era in preda alle emozioni, eviden­ti nell’espressione e nella voce. Ne chiese scusa ai presen­ti, prima di ricominciare il suo discorso:

«Perdonatemi. Sono molto emozionato per due moti­vi: prima per il vostro affetto e poi perché ieri sera tardi mi hanno avvertito da Roma della morte di uno dei pri­mi che avevo inviato in Italia per fare l’Opus Dei. Un’a­nima nobile, un’intelligenza elevata (...). Ha servito la Chiesa con le sue virtù, con il suo talento, con il suo sfor­zo, con il suo sacrificio, con la sua allegria, con lo spirito dell’Opus Dei, che è di servizio. Dovrei essere contento di averne un altro in Cielo, dato che in una famiglia così numerosa non è raro che accada un fatto del genere. Ma sono stanco, molto stanco, molto prostrato. Mi scusere­te e sarete contenti di sapere che ho un cuore»247.

Nel pomeriggio il Padre si recò sulla spianata del San­tuario; sotto il porticato guardò le piastrelle di ceramica con la raffigurazione dei misteri del Rosario, e gli altari davanti a ogni mistero. Assieme ai presenti, si mise a re­citare il Rosario, concludendolo nella cripta, davanti al­la cappella della Madonna del Pilar. Poi il Padre entrò in un confessionale e vi si confessò con don Àlvaro, il qua­le subito dopo a sua volta si confessò con il Padre; i con­fessionali di Torreciudad erano stati inaugurati248.

Lunedì 26 maggio il Padre era già a Madrid, da dove il 31 partì per Roma. Un evento degno di nota, scono­sciuto ai più, è ricordato nella storia clinica del Fonda­

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tore: “Mentre stava a Madrid, all’alba del 30-V-1975, nuova crisi di dispnea e tachicardia, simile a quella del 21-V-l975. Termina presto e mons. Escrivà, dopo un sonno ristoratore, torna a sentirsi bene”249.

Visto quanto accadeva, è difficile pensare che il Padre non si rendesse conto della gravità della propria condi­zione. Lo conferma una eloquente annotazione persona­le, scritta poche ore dopo la crisi cardiaca della notte fra il 21 e il 22 maggio: «Dall’altra vita ci separa un dia­framma così sottile, che vale la pena essere sempre pronti per intraprendere con gioia questo viaggio»250.

Riflessione tratta dalla propria esperienza. Bisogna pensare all’altra vita con gioia, poiché non abbiamo quaggiù una dimora permanente. Il cristiano dev’essere pronto ad accogliere la morte con un sorriso.

* * *

Le crisi notturne di maggio potevano esser interpretate come l’annuncio di una morte ormai non molto lonta­na. Il Padre lo comprese, ma senza fare drammi riprese immediatamente il suo consueto lavoro, “ senza mostra­re attaccamento alla propria salute né darvi troppa im­portanza”251. Manteneva un atteggiamento sereno di santo abbandono, pronto a dedicare i giorni che il Si­gnore avesse voluto ancora concedergli al servizio della Chiesa e dell’Opera.

Non bisogna pensare che temesse il momento di la­sciare questo mondo. Egli sapeva, per divina misericor­dia, di trovarsi nella tappa dell’esistenza in cui è logico contare «i giorni che mancano»252, con la speranza di renderli più fecondi. Certamente aveva presente il con­solante pensiero che il Vescovo di Avila gli aveva scritto e che si legge su Cammino-. «No, per loro non sarà Giu­dice - nel senso severo della parola - ma semplicemente Gesù»253. Quando doveva descrivere la morte, non uti­lizzava immagini tetre ma paragoni che infondevano

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serenità. Le similitudini che impiegava erano tutte mol­to felici254.

E possibile che il Padre avesse il presentimento che gli restava poco tempo, ma più per l’irresistibile attrazione divina sulla sua anima che per l’allarmante peggiora­mento della salute. La morte lo avrebbe colto preparato e in compagnia dei suoi custodes. E se per caso fosse giunta di sorpresa, inattesa, sarebbe stato per lui un evento gioioso, «come se il Signore giungesse alle nostre spalle e noi, voltandoci, cadessimo fra le sue brac­cia»255. Era certo che, quando Sorella Morte gli avesse aperto la porta della Vita, ne avrebbe oltrepassato la so­glia tenendo per mano la Madonna, che lo avrebbe pre­sentato alla Santissima Trinità.

Lo addolorava però molto il pensiero di aver ricam­biato malamente le grazie ricevute. Questo dolore d’a­more lo portò un giorno a formulare una domanda cui diede immediata risposta. Dopo pranzo, mentre stava assieme ai suoi figli del Consiglio Generale, disse a mez­za voce:

«Il Padre? Un peccatore che ama Gesù Cristo e che non riesce mai a imparare le lezioni che Dio gli dà; un grande sciocco. Questo era il Padre! Ditelo a quelli che ve lo chiederanno, perché ve lo chiederanno»256.

Ripeteva ai suoi figli che ormai egli era solo un impic­cio; dal Cielo, invece, avrebbe potuto aiutare di più. Aveva un grande desiderio di contemplare il volto del Signore e lo aveva amorevolmente cercato nelle pagine del Vangelo. Aveva seguito le orme del Maestro, ne ave­va predicato gli insegnamenti e diffuso il bonus odor Christi, il divino profumo della sua Umanità, ma non era ancora riuscito a vederne il volto. Lo desiderava, ma le divine sembianze gli apparivano riflesse in uno spec­chio opaco, non placavano il suo desiderio. I film che ri­costruivano la vita di Gesù di Nazaret gli causavano sempre un disagio profondo, anche se sapeva che pote­vano aiutare altre persone257. Non trovava alcuna somi­

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glianza, pur remota, tra l’immagine interiore, nata dal­l’amore, e le artificiose rappresentazioni di un film. Tut­to il suo essere anelava la contemplazione, a faccia a faccia, del volto glorioso e bello di Gesù. Nei suoi ultimi giorni esclamava continuamente: Vultum tuurn, Domi­ne, requiram! Il tuo volto, Signore, io cerco. Voglio ve­dere il tuo volto, Signore258.

Il lavoro era il luogo della contemplazione. La labo­riosità era una virtù completamente integrata nella sua personalità. Ma non poteva nascondere gli anni che aveva, benché sbrigasse le sue occupazioni pastorali e di governo come se usufruisse ancora di tutte le sue forze fisiche. Riusciva a nascondere la stanchezza, ma non la debolezza delle gambe e, a volte, il lieve tremito delle mani. Arrivava esausto alle tertulias serali. Non gli im­portava che i suoi figli se ne accorgessero, perché era in famiglia. D ’altra parte, la forza della sua parola e dei suoi insegnamenti era più forte che mai259.

Pensava sempre a come trasmettere integralmente e fedelmente ai suoi figli la propria eredità: lo spirito del­l’Opus Dei e l’attività apostolica in pieno sviluppo in più di trenta Paesi260. Pensava a tutti coloro che erano dell’Opera e a coloro che vi avrebbero fatto parte nel corso dei secoli. Desiderava anche vedere conclusa la nuova sede del Collegio Romano della Santa Croce.

Prima di partire per la Spagna si era recato a Cava­bianca, dove i suoi figli alternavano lo studio al lavoro, e li trovò impegnati nel giardinaggio, nella pulizia dei pavimenti e nella pittura e decorazione della cappella della Santa Croce. A quelli che lavoravano nella cappel­la disse che li invidiava; se ne stupirono e il Padre spiegò loro che aveva fatto costruire la cappella per un motivo di pietà soprannaturale, la devozione per la Santa Cro­ce, e per un motivo di pietà umana, perché sarebbe ser­vita da camera ardente per vegliare coloro che il Signore si fosse voluto portare in Cielo mentre stavano al Colle­gio Romano261.

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Sabato 7 giugno, una settimana dopo essere rientrato a Roma, il Padre si recò di nuovo a Cavabianca. L’ora­torio di Nostra Signora degli Angeli era stato liberato dalle impalcature, perché lo potesse vedere. Il Padre si rivolse a quelli che di lì a poco avrebbero ricevuto l’or­dinazione sacerdotale e che erano in partenza per la Spagna. Veniva a salutarli, ma non a prendere commia­to, «perché noi - disse - non ci diciamo mai addio, ma arrivederci»262. Ebbe con i suoi figli una lunga tertulia, che cominciò con una considerazione sulla continuità:

«Voi siete all’inizio della vita. Alcuni cominciano e al­tri finiscono, ma tutti siamo la stessa Vita di Cristo. C’è tanto da fare nel mondo! Chiediamo sempre al Signore che conceda a tutti noi di essere fedeli, di dare conti­nuità al lavoro, di vivere la Vita con la maiuscola, l’uni­ca che valga la pena; l’altra non vale la pena, scorre via come l’acqua dalle mani. Invece, l’altra Vita!...»263.

Domenica 15 giugno ritornò a Cavabianca e, dopo aver fatto un lungo giro a piedi, per vedere il giardino, i campi sportivi, gli oratori e le fontane, si riunì con i suoi figli nella sala di lettura. Il Padre era esausto e parlava a bassa voce: «Sentivo il bisogno di sedermi. Non sembra, ma abbiamo fatto una bella passeggiata là fuori..., e che passeggiata!». Voleva che Cavabianca fosse un luogo gradevole per lavorare e riposare, per pregare e per fare sport. Gli studenti del Collegio Romano, che pitturava­no, pulivano o innaffiavano le piante, seguivano la tra­dizione in vigore fin dall’apertura del primo Centro del­l’Opus Dei. Il Padre lo ricordò:

«A quel tempo avevamo meno risorse di oggi, aveva­mo solo l’aureola dei pazzi. Di me dicevano che ero un prete giovane e pazzo. Avevano ragione e ce l’hanno an­cora. Sono felice di essere pazzo».

Intervenne don Àlvaro, per dirgli che era ancora gio­vane.

«Io giovane? Le gambe mi dicono di no, e me lo ripe­tono»264.

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Domenica 22 giugno eccolo di nuovo a Cavabianca, per fare le ultime raccomandazioni prima di andarsene da Roma. Si fermò a lungo nell’oratorio di Nostra Si­gnora: degli Angeli. Nella sala di lettura, con le librerie ancora vuote, parlò loro di allegria, ma non riuscì a evi­tare un sospiro di stanchezza:

«Sono stanco. Non sono abituato a camminare tanto e qui ho camminato su e giù...»265.

Cavabianca stava per essere ultimata, anche se man­cavano ancora molte rifiniture.

“Padre - gli chiese qualcuno -, faremo festa per l’ulti­ma pietra?”

«L’ultima pietra? Poca festa, dieci minuti. Ringrazie- remo Dio, ma per dieci minuti»266.

* * *

Mercoledì 25 giugno festeggiò in famiglia l’anniversario dell’ordinazione dei primi tre sacerdoti dell’Opus Dei. Erano rimasti don Àlvaro del Portillo e don José Luis Muzquiz, Chiqui era andato in Cielo. Li aveva ricordati nella Messa, insieme a tutti coloro che avevano ricevuto l’ordinazione sacerdotale e a quelli che sarebbero stati ordinati di lì a poche settimane. Chiedeva sempre al Si­gnore che tutti i suoi figli e le sue figlie avessero anima sacerdotale, «in particolare perché l’anima sacerdotale si radicasse profondamente in ciascuna delle sue figlie»267. Nella tertulia dopo il pranzo il Padre si mostrò felice e di buon umore. Ogni tanto si portava alle labbra un fi­schietto di terracotta, che gli avevano regalato alcune bambine di un club giovanile, e, voltandosi verso don Ja- vier, si metteva a fischiare, suscitando l’ilarità generale.

Nel tardo pomeriggio assistè alla esposizione e bene­dizione col Santissimo nell’oratorio della Sacra Fami­glia. Era stata una giornata intensa, di preghiera, ed egli giunse alla sera abbastanza affaticato. Iniziò a scendere le scale per andare alla tertulia della sera reggendo il

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vassoio con la camomilla prescritta dal medico. Gli altri cercarono di toglierglielo per fargli scendere più agevol­mente i gradini, dato che ci vedeva poco. Ma egli si op­pose e, in tono scherzoso, si lamentò: «Ma non mi la­sciate fare neppure questi piccoli sacrifici...»268.

Si sedette. Di fronte c’era una statuetta della Madon­na, cui volgeva di frequente lo sguardo, recitando inte­riormente giaculatorie269. Durante la tertulia, prima di ritirarsi a dormire, sembrò assorto, immerso in orazio­ne. Quali pensieri avranno attraversato la sua mente?

Alle otto del giorno successivo, giovedì 26 giugno, ce­lebrò la Messa, che gli fu servita da don Javier Eche- varrìa270. Era la Messa votiva della Madonna e durante la orazione colletta il sacerdote chiede “la perfetta salu­te dell’anima e del corpo” . Quel giorno ne fu particolar­mente colpito, perché ne annotò sull’agenda le ultime parole, nonostante le sapesse a memoria: A praesenti li- berari tristitia et aeterna perfrui laetitia271, concedici di esser liberati dalla tristezza presente e ammessi al godi­mento dell’eterna letizia.

Alle nove e mezzo, con don Àlvaro, don Javier e l’ar­chitetto Javier Cotelo, partì in automobile per Castel- gandolfo, dove le sue figlie lo aspettavano. Lasciata Vil­la Tevere, cominciarono a recitare una posta del Rosario, i misteri gaudiosi. Durante il viaggio, che durò più a lungo del previsto a motivo di alcuni lavori strada­li, disse che forse quel pomeriggio stesso si sarebbe po­tuto recare a Cavabianca, per vedere l’oratorio di No­stra Signora degli Angeli.

Arrivato a Villa delle Rose, il Centro di Castelgandolfo, entrò nell’oratorio, dove si trattenne in ginocchio per qualche istante. Poi si incontrò con le sue fighe, in soggior­no. In un quadro, sulla parete, la Madonna poggiava deli­catamente il viso sulla testa del Bambino, attraendolo a sé, mentre in una mano teneva una rosa dal tenue colore. Il Fondatore rivolse lo sguardo al quadro, come era sua abi­tudine ogni volta che entrava o usciva da una stanza.

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L’immagine era appartenuta alla signora Dolores, che l’aveva guardata tante volte. Era familiarmente chiama­ta la “Madonna del Bambino pettinato” , perché il Bam­bino Gesù, di due o tre anni, vi è ritratto roseo e paffu­to, con un’espressione graziosa e con i capelli biondi ben pettinati e con alcuni boccoli. Per il Padre era stata preparata una poltrona, ma egli la cedette a don Àlvaro e si sedette su una sedia. Disse:

«Avevo molta voglia di venire. Sono le ultime ore che passiamo a Roma per terminare le ultime cose; quindi per gli altri non ci sono più, ma per voi sì»272.

Ricordò loro la ricorrenza del giorno precedente, an­niversario dell’ordinazione dei tre primi sacerdoti, e che altri cinquantaquattro sarebbero stati ordinati tra bre­ve. Sembravano molti? In realtà erano pochi. Le neces­sità apostoliche li avrebbero assorbiti rapidamente.

«Vi ho sempre detto che l’acqua di Dio che è il sacerdo­zio viene subito bevuta dal terreno dell’Opera e comple­tamente assorbita. Voi avete un’anima sacerdotale, ve lo ripeto tutte le volte che vengo qui. Anche i vostri fratelli laici hanno un’anima sacerdotale. Voi potete e dovete, con l’anima sacerdotale, con la grazia del Signore e con il sacerdozio ministeriale che è in noi, aiutare noi sacerdoti dell’Opera; così noi faremo un lavoro efficace»273.

La conversazione scorreva tranquilla e amena, con racconti ed esortazioni. Dopo venti minuti il Padre si sentì male. Tacque, vinto dalla nausea. Dovette ritirarsi a riposare per alcuni minuti. Poiché non riusciva a ri­prendersi, prese commiato, chiedendo scusa per il di­sturbo arrecato.

Erano le undici e venti. Ritornarono a Roma per la via più breve. Faceva molto caldo e a questo il Padre at­tribuiva il malore. Non trovarono ingorghi ed entraro­no a Villa Tevere pochi minuti prima delle dodici. Il Pa­dre scese dall’auto con scioltezza, sorridendo. Nessuno pensava che potesse avere qualcosa di più di una lieve indisposizione.

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Entrò in oratorio e fece la solita genuflessione accura­ta e devota, per salutare il Signore nel Santissimo Sacra­mento. Si recò nella sua stanza di lavoro. Don Javier, che era rimasto indietro per chiudere la porta dell’a­scensore, udì che il Padre lo chiamava. Accorse. «Non mi sento bene», disse con voce flebile, e cadde a terra.

Ed ecco gli ultimi eventi, narrati ai fedeli dell’Opera da don Alvaro, allora Segretario Generale dell’Opus Dei, in una lettera del 29 giugno 1975:

“Abbiamo messo in atto tutti i mezzi possibili, spiri­tuali e medici. Io gli ho dato l’assoluzione e l’Estrema Unzione quando respirava ancora. Un’ora e mezzo di lotta, di speranze: ossigeno, iniezioni, massaggi cardiaci. Frattanto, io ho ripetuto diverse volte l’assoluzione (...).

Non volevamo credere che fosse morto. Per noi, è vero, si è trattato di una morte improvvisa; per il Padre, senza dubbio, è stato qualcosa che stava maturando - oso dire - più nella sua anima che nel suo corpo, perché era sempre più frequente l’offerta della sua vita per la Chiesa (...).

Lo trasportammo, con la massima venerazione e l’af­fetto, nell’oratorio di Santa Maria, posando il suo corpo davanti all’altare, dopo aver prima ritirato il candelabro votivo che vi si trovava. Il Padre era ancora vestito con la veste talare nera (...).

Furono portati anche quattro candelieri. Il corpo di nostro Padre fu composto, con grande amore. Poi fu ri­vestito, sopra la veste talare, con l’amitto, il camice, la stola e la pianeta. Il camice era di batista, color avorio, con una fodera di seta rossa sotto il pizzo di Bruxelles, dalla cintura fino ai piedi. Era il camice che usava nei giorni di festa (...). Il volto del Padre appariva straordi­nariamente sereno: una serenità che infondeva una grande pace in chi lo guardava” .

Morì come aveva desiderato: guardando un’immagi­ne della Madonna di Guadalupe. Dalle mani della Ma­donna ricevette la rosa che apre all’Amore le porte del­l’eternità.

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NOTE AL CAPITOLO XXIV

1 AGP, P04 1972, II, p. 638.2 AGP, P04 1972, II, p. 641.3 Lettera a José Maria Hernàndez Gamica, EF-720219-3. Nel caso di ma­lattie incurabili, il Padre attendeva il momento più opportuno per comuni­care al malato la gravità del suo stato e consentirgli di prepararsi spiritual- mente alla morte. Nel febbraio 1972, in una lettera al Consigliere della Spagna, suggeriva di dire a un parente prossimo di Chiqui che poteva «av­visare il resto della famiglia. Avvisatelo, comunque, che sarete voi a comu­nicare a Chiqui, al momento opportuno, la gravità del suo stato e che per­tanto cerchino di non allarmarlo inutilmente» (Lettera a Florencio Sànchez Bella, in EF-720207-1).4 Lettera a José Maria Hernàndez Gamica, in EF-720920-1.5 Diario di Villa Tevere, 7-XII-1972 (AGP, Sez. N, 3 leg. 430-06).6 Lettera a Pedro Casciaro, in EF-721207-1.7 Cfr Lettera a Florencio Sànchez Bella, in EF-721210-3. Alla fine del1972, Sofia Varvaro, una giovane numeraria malata terminale di un can­cro al fegato, fu ricoverata in una clinica di Roma. Il Padre andò a trovarlail 18 dicembre. “Padre - gli disse Sofia -, a volte ho paura che non riuscirò ad arrivare alla fine, perché sono ben poca cosa” . Il Padre le rispose: «Fi­glia mia, non avere paura! Ti aspetta Gesù! Io gli sto chiedendo la tua gua­rigione, ma sia fatta la sua Volontà. Può costare accettarla perché non la comprendiamo, ma credo che il Signore riderà un po’ di noi, perché ci ama e ci cura come un padre con il cuore di una madre. Lo capisci? Domani ti metterò sulla patena accanto all’Ostia santa e ti offrirò al Signore. E tu, qui o in Cielo, devi essere sempre molto unita al Padre e alle sue intenzioni, perché ho bisogno che tutti voi sosteniate la mia supplica» (Alvaro del Por­tillo, Intervista sul Fondatore dell3Opus Dei, Milano 1992, p. 93).8 Lettera a Xavier de Ayala, in EF-721212-1.9 José Luis Soria, RHF, T-07920, p. 26.10 Lettera ai suoi figli e figlie, in EF-721200-1.

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11 AGP, POI 1973, p. 309.12 Lettera al Cardinale Mario Casariego Acevedo, da Milano, in EF- 730725-1.13 José Luis Soria, RHF, T-07920, p. 100.14 AGP, POI 1973, p. 363.15 II Padre, per gratitudine e per giustizia, nel corso degli anni non aveva perso occasione per evidenziare a voce o con gesti dimostrativi ciò che l’e­semplare fedeltà di don Àlvaro e la sua completa e feconda dedizione rap­presentavano per POpera. Il suo onomastico e il suo compleanno, per esempio, erano festeggiati in tutta l’Opera.16 Lettera, da Civenna, in EF-730820-1.17 Lettera, da Civenna, in EF-730820-2. Chiese aiuto anche alle sue figlie della Spagna: «Faccio affidamento sulla fedeltà di ognuna: siete sempre presenti nella mia preghiera e siete le mie credenziali al cospetto di Dio» (Lettera a Carmen Ramos, da Civenna, in EF-730820-6); si rivolse anche ai suoi figli italiani, scrivendo a don Mario Lantini: «Ho bisogno ogni giorno della fedeltà di ognuno di loro, che si traduca in una continua pre­ghiera e in un lavoro ben fatto alla presenza di Dio» (Lettera, da Civenna, in EF-730825-1).18 Cfr RHF, D-15111, settembre 1973.19 Lettera a Florencio Sànchez Bella, in EF-731117-2.20 RHF, D-15111, novembre 1973.21 Cfr Lettera a José Luis Muzquiz, in EF-550120-9; Àlvaro del Portillo, Sum. 828. L’architetto Jesus Àlvarez Gazapo (Sum. 4484) riferisce che il 17 marzo 1958 fece notare al Padre che un oratorio allora in costruzione a Villa Tevere sarebbe stato di capienza insufficiente. «Non preoccuparti, gli rispose, verrà il momento di costruire tattedrali»; e conferma che il Padre progettava di costruire un santuario negli Stati Uniti, tale da consentire un’intensa attività pastorale in favore delle famiglie e dedicato a Sanata Maria Mater pulchrae dilectionis; avrebbe avuto molti altari e, nella Crip­ta, molti confessionali (ibidem).22 Scrittura di enfiteusi di Torreciudad, RHF, D-15419. La cessione fu fatta alla Inmobiliaria General Castellana S.A., cui veniva concesso, con l’assen­so del Capitolo della Cattedrale e del Consiglio di Amministrazione della Diocesi, il possesso e la possibilità di utilizzare la cappella. La Società be­neficiaria si impegnava a pagare una somma all’atto della scrittura e un ca­none annuale e inoltre a mantenere il culto pubblico dell’immagine della Madonna e a provvedere al suo restauro. La costituzione di un ente civile con la possibilità di emettere azioni aveva lo scopo di favorire il reperimen­to di aiuti economici, indispensabili per il progetto.23 II 6 maggio 1966 chiese al Cardinale Marella, Arciprete della Basilica Vaticana e Prefetto della Sacra Congregazione per la Reverenda Fabbrica di S. Pietro, l’incoronazione dell’immagine. Nella lettera erano narrati l’o­rigine e lo sviluppo della devozione alla Madonna di Torreciudad (cfr RHF, D-15431; originale negli Archivi della Parrocchia di S. Pietro in Vati­cano). Il decreto e la concessione al Fondatore della facoltà di incoronarla personalmente sono del 20 giugno 1966 (RHF, D-15104).

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24 Lettera a Florencio Sànchez Bella, in EF-670617-3.25 Ibidem.26 Cfr Javier Echevarrìa, Sum. 2614.27 Florencio Sànchez Bella, RHF, T-08250, p. 15; cfr anche Javier Eche­varrìa, Sum. 2614, il quale altrove (Sum. 2404) fa notare che nei dolci e in­timi colloqui del Padre con la Madonna, frequenti durante la sua perma­nenza a Madrid, il Padre le parlava “con la tenerezza di un bambino e con il cuore di un uomo innamorato” .28 Cfr César Ortiz-Echagiie, Sum. 6877. - Il ‘retablo’, termine sia spagnolo che italiano, deriva dal latino retro tabula, cioè “dietro la mensa dell’alta­re” . È una grande struttura lignea (detta anche ‘ancona’) disposta dietro l’altare, inquadrata in una cornice architettonica e costruita assemblando diverse parti (pannelli, cornici, ecc.) in un unico grande insieme. Ciascuna parte, talvolta a rilievo, è dipinta e decorata e i soggetti sono in genere vite di santi oppure episodi del vangelo. È una forma pittorica tipica dell’area aragonese-catalana, ma diffusasi anche in Sardegna. A Torreciudad il ‘reta- blo’ è una scultura in alabastro (NdC).29 Cfr Àlvaro del Portillo, Sum. 1033; Joaqum Alonso, Sum. 4828. Dal modello in gesso del Cristo Crocifisso, opera dello scultore Sciancalepore, furono fatti due originali, uno per Torreciudad e l’altro per il Centro Inter­nazionale Cavabianca (cfr più oltre nel testo).30 Lettera a Florencio Sànchez Bella, in EF-670617-2.31 Javier Echevarrìa, Sum. 2615.32 Ibidem; Àlvaro del Portillo, Sum. 1147.33 Florencio Sànchez Bella, Sum. 7546.34 Cfr Javier Echevarrìa, Sum. 2530; Lettere a Martin Sambeat Valón, in EF-740330-1, e a Manuel Gómez Padrós, in EF-740402-1; ecc.35 Ibidem; César Ortiz-Echagiie, Sum. 6893.36 Cfr Maria del Carmen de Otal Marti, Sum. 5993; Encarnación Ortega, Sum. 5349; Juliàn Herranz, PR, pp. 878 e 877.37 L’ultimazione della pala d’altare per l’estate 1975 ha del miracoloso. E opera dello scultore Joan Mayné, ed è in alabastro policromo, grande circa centotrenta metri quadrati, con otto grandi pannelli con scene della vita della Madonna. César Ortiz-Echagiie, che seguì il lavoro dell’artista, rac­conta che, nel 1974, un anno prima dell’inaugurazione del santuario, “il Padre mi chiese quando sarebbe stato ultimato il ‘retablo’, al centro del quale sarebbe stata messa l’immagine della Madonna. Gli risposi che, te­nuto conto che il lavoro era iniziato un anno prima, che bisognava lavora­re cinquecento tonnellate di alabastro e che, secondo i nostri studi, le anco­ne di grandezza equivalente di Huesca, del Pilar, ecc., erano state fatte in quindici / vent’anni, ne prevedevamo altri sette per quella di Torreciudad.Il Padre mi disse subito che bisognava finirla entro un anno, perché il san­tuario fosse completato al momento dell’apertura. Mi diede alcuni consi­gli, che misi subito in pratica. Un anno dopo, quando si recò a Torreciu­dad, il ‘retablo’ era terminato” (PM, f. 1012).38 Cfr Àlvaro del Portillo, Sum. 613; Mario Lantini, Sum. 3600; Ignacio Celaya, Sum. 5906.

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39 Jesus Àlvarez Gazapo, Sum. 4319.40 Cfr Jesus Àlvarez Gazapo, PR, p. 1345.41 Cfr ibidem.42 Per Cavabianca il Padre chiedeva a tutti molta preghiera e dava assicura­zioni che il Signore sarebbe venuto in aiuto. Diceva loro: «I mezzi verran­no» (Vincenzo Montillo, PR, p. 1040) e che avrebbero avuto bisogno di molto denaro, ma che non dovevano preoccuparsi, perché ci avrebbe pen­sato il Signore (cfr Jesus Àlvarez Gazapo, Sum. 4379). Fin dagli inizi della fondazione, quando mancava assolutamente di tutto, aveva sempre vissuto in pieno abbandono e fiducia in Dio, come si legge negli Appunti intimi, n. 1755: «Gesù della mia anima, te lo dico ancora: è divertente. Io lavoro per Te e tu mi potrai forse negare i mezzi materiali?».43 La tenuta di Salto di Fondi (cfr cap. XIX, § 1) fu la sede estiva del Colle­gio Romano fino al 1966. Poiché la zona era divenuta turistica e aveva perso tranquillità e isolamento, dall’anno successivo la sede estiva divenne una tenuta di montagna, negli Abruzzi, molto vicino a L’Aquila, che fu chiamata Tor d3Aveia.44 AGP, P04 1972, II, p. 608.45 Cfr Àlvaro del Portillo, Sum. 829.46 Cfr Jesus Àlvarez Gazapo, Sum. 4323. Gli studi e i progetti preliminari, necessari per ottenere le approvazioni edilizie, furono completati in due anni (1968-1970). I lavori iniziarono nel marzo 1971 (cfr Àlvaro del Por­tillo, Sum. 613).47 Cfr Jesus Àlvarez Gazapo, Sum. 4320. Le difficoltà durarono per tutto il tempo della costruzione: «Qui va come sempre - scriveva il Padre uno sciopero dopo l’altro e questo ritarda i lavori di Cavabianca. Pazienza: è un’altra cosa da offrire al Signore» (Lettera a Florencio Sànchez Bella, in EF-741107-2).48 Cfr Àlvaro del Portillo, Sum. 829.49 Cfr Àlvaro del Portillo, PR, p. 1040.50 Cfr Jesus Àlvarez Gazapo, Sum. 4323.51 II Padre incoraggiava gli architetti a definire i progetti fin nei particolari (cfr Jesus Àlvarez Gazapo, PR, pp. 1404 e 1359). L’ancona dell’oratorio di Cavabianca, che è dedicato alla Madonna degli Angeli, è in marmo poli­cromo e rappresenta scene della vita della Vergine. Il tabernacolo è visibile, sopra l’altare, attraverso un’apertura circolare, ed è “il cuore e il centro” di Cavabianca. Il Padre desiderava che favorisse la devozione dei fedeli e per questo seguì attentamente il lavoro dello scultore romano Sciancalepore, che già aveva avuto l’incarico di rappresentare Cristo sulla Croce, ancora vivo, come già descritto poco sopra (cfr Joaqum Alonso, Sum. 4828; Luigi Tirelli, Sum. 4565; Ignacio Celaya, Sum. 5939).52 Àlvaro del Portillo, Sum. 1144; anche AGP, POI 1977, p. 213.53 AGP, POI 1972, p. 163.54 AGP, POI 1973, p. 309.55 AGP, POI 1975, p. 655; cfr Àlvaro del Portillo, Sum. 1656. «Dal Cielo vi aiuterò di più, perché qui non sono che d’impiccio» (Javier Echevarria, Sum. 2050).

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56 Javier Echevarria, Sum. 3290.57 AGP, POI 1973, p. 493.58 Jesus Àlvarez Gazapo (Sum. 4498) racconta che, il 27 gennaio 1974, il Padre, dopo aver ascoltato un suo figlio suonare il violino, gli chiese da quanti anni lo suonasse. “Da ventidue”, rispose quello. «Ebbene, io ne ho settantadue, ma la vita interiore è così: bisogna suonare tutti i giorni, senza trascurare di esercitarsi nemmeno per un giorno, con perseveranza, con pa­zienza... e con la pazienza degli altri! Ho passato settantadue anni a suo­nare il violino e il contrabbasso!» - In spagnolo, l’espressione tocar el violón, suonare il contrabbasso, significa “non combinare nulla di buono” (NdC).59 Cfr AGP, POI 1974, p. 951.60 Lettera 28-111-1973, nn. 2 e 3.61 Ibidem, nn. 7 e 8.62 Ibidem, n. 8.63 Ibidem, n. 18.64 Ibidem.65 Lettera 17-VI-1973, n. 18.66 Cfr ibidem, n. 10.67 Ibidem, n. 12.68 Lettera ai suoi figli e figlie, in EF-731200-1.69 Ibidem.70 Lettera 14-11-1974, n. 1. Il riferimento è al suono delle campane della chiesa di Nostra Signora degli Angeli, a Madrid, la mattina del 2 ottobre 1928, giorno della fondazione dell’Opus Dei.71 Nella lettera, le paterne esortazioni alle pratiche di pietà e alla lealtà ver­so la Chiesa si alternano con le crude descrizioni (i rintocchi della campana grande) della situazione: «Abbiamo dovuto sopportare, e ricordarlo mi fa male al cuore, una triste e interminabile sfilata di personaggi che, masche­rati da profeti dei tempi nuovi, cercavano di nascondere, senza riuscirci del tutto, il volto dell’eretico, del fanatico, dell’uomo carnale o dell’orgoglioso offeso. Figli miei, mi duole, ma sono costretto, con questi rintocchi, a ri­svegliare le coscienze affinché questa marea di ipocrisia non vi trovi addor­mentati. Il cinismo tenta in modo sfacciato di giustificare, e persino di lo­dare, l’apostasia e le defezioni come manifestazioni di autenticità. Talvolta è capitato che, dopo clamorosi abbandoni, tali impudenti campioni di slealtà restassero negli incarichi di insegnamento della religione in centri cattolici, o a pontificare da organismi paraecclesiastici, che recentemente sono spuntati ovunque» (ibidem, n. 13).72 Ibidem, n. 1.73 Ibidem, n. 22. «Serviamo il Signore con gioia! Questo è il nostro anelito, tutto un programma di vita santa, all’inizio del nuovo anno. Per servirlo ci ha portati sulla strada divina delPOpera» (ibidem, n. 2).74 Ibidem, n. 9.75 Ibidem, n. 18.76 Ibidem, n. 19.77 ìbidem, n. 5.

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!78 RHF, D-15111: cartella clinica, relazione conclusiva.79 Àlvaro del Portillo, PR, p. 1091. «Andrò in America, dove ho desiderio di andare - disse in un’altra occasione -, (...) quando ci sarà un motivo ra­gionevole, quando un padre di famiglia numerosa e povera ci andrebbe perché è utile alla sua famiglia» (ibidem, PR, p. 1092).80 Cfr Àlvaro del Portillo, Sum. 1579; Javier Echevarria, Sum. 2049; Isabel La Porte, Sum. 5185.81 Lettera, in EF-740325-1.82 Lettera, in EF-740423-1.83 La difesa della vita era l’elemento che accomunava i due neo dottori. Nel suo discorso, il Gran Cancelliere citò la «predicazione coraggiosa e instan­cabile della fede» da parte di mons. Hengsbach, di cui non era casuale il fatto che «il suo primo scritto, nel 1934, vertesse sulla difesa della vita, di fronte a criteri aberranti che si facevano strada allora nella sua patria. La ferma difesa della vita umana ha fatto conoscere in tutto il mondo il nome del professor Lejeune, dell’Università di Parigi, che la scienza universale ri­conosce unanimemente come uno dei suoi primi e più eminenti ricercatori in Genetica» (Discorso 9-V-1974; in Josemaria Escrivà de Balaguer y la Universidad, op. cit., p. 106).84 Cfr Lettere a Santiago Escrivà de Balaguer y Albàs, in EF-740400-1, e al figlio di lui, Santiago Escrivà de Balaguer Garcia-Herrero, in EF-740400-2; Joaqum Alonso, PR, p. 1658.85 Più tardi, ricordando la partenza da Roma per la Spagna, disse: «Sono andato in America senza programmarlo, devo essere sincero. Sono partito da qui e ho detto a Javi: metti poca roba in valigia, perché dobbiamo solo andare in Navarra, prendere l’aereo a Madrid e tornare. Ma poi il viaggio è durato quattro mesi» (Àlvaro del Portillo, PR, p. 1092).86 Cfr RHF, D-15111, maggio del 1974.87 Ibidem.881 medici che lo curarono testimoniano che accettava di buon grado e con obbediente remissività ogni indicazione, senza fare domande sulla propria salute. Anche riguardo alle medicine, non chiedeva mai a che cosa serviva­no né le proprietà terapeutiche. Essi affermano: “Nelle visite mediche che gli abbiamo fatto si evidenziavano la docilità, la pazienza e il chiaro desi­derio di collaborare: non ha mai manifestato contrarietà per il disturbo che comporta ogni visita medica. Rispondeva alle nostre domande manifestan­do apertamente il proprio stato, si lasciava visitare, coricare, sollevare, estrarre il sangue, praticare radiografie ed elettrocardiogrammi, sempre di­sponibile e senza battere ciglio. Ma non si lasciava servire e non era facile aiutarlo a spogliarsi, a slacciare i bottoni e i gemelli della camicia, dato che con gesto rapido e vivace ci bruciava sul tempo. Se riuscivamo a slacciargli un bottone, ci prendeva la mano e la baciava” (ibidem).89 Nella relazione medica si legge: “È stato modificato il trattamento far­macologico, perfezionato il regime dietetico e indicato un tipo di vita che preveda un’attività apostolica meno intensa rispetto a precedenti occasioni analoghe. Il fatto che un medico lo accompagni nel viaggio ha contribuito al nostro parere positivo” (ibidem, relazione conclusiva).

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90 Alvaro del Portillo, Sum. 1568.91 Lettera, da Madrid, in EF-740516-1. Lo stesso giorno scriveva a José Luis Muzquiz: «Cerca di unirti a me con la tua orazione durante il periodo di catechesi che sto per fare in America. Con l’intercessione di nostra Ma­dre e di S. Giuseppe, nostro Padre e Signore, e con l’aiuto dei miei figli, so­no sicuro che il Signore ci benedirà sempre più» (Lettera, da Madrid, in EF-740516-2).92 AGP, P05 1974,1, p. 30.93 Fernando Valenciano, Sum. 7115.94 AGP, P04 1974,1, p. 47.95 Ibidem, p. 24.96 Ibidem, p. 209.97 AGP, P05 1974,1, p. 37.98 Ibidem, p. 202.99 AGP, P04 1974,1, p. 77.100 Ibidem, p. 244.101 Ibidem, p. 251.102 Gv 15,16.103 AGP, P04 1974,1, p. 209.104 Ibidem, p. 255.105 AGP,P05 1974,1,p. 119.106 Ibidem, p. 121.107 AGP, P04 1974,1, pp. 306-307.108 Diario della visita di nostro Padre in Argentina, 7-28 giugno 1974, p. 36; ll-VI-1974 (AGP, Sez. N, 3 leg. 1057-1).109 Ibidem, pp. 83 e 197; 15 e 27-VI-1974.110 Ibidem, p. 84; 15-VI-1974.111 Ibidem, p. 142; 21-VI-1974.112 Ibidem, pp. 34-35; ll-VI-1974.113 Ibidem, p. 38; ll-VI-1974.114 Ibidem, pp. 187-188; 26-VI-1974.115 Ibidem, p. 188; 26-VI-1974.116 AGP, P05 1974,1, p. 318.117 AGP, P04 1974,1, p. 666; anche AGP, P05 1974,1, p. 537. Il 23 giugno, nel Teatro Coliseo, il Padre diede una interessante risposta a una nota pit­trice che gli chiedeva che cosa fare affinché i suoi colleghi capissero che una vita onesta, e l’impegno per fare opere e soggetti onesti, non sono di ostacolo a chi vuole diventare un vero artista. «Figlia mia, lo sanno anche loro. Io non ho difficoltà a dirti che il nudo classico mi piace molto e mi conduce a Dio. A Roma, in Campidoglio, c’è una Venere, la Venere Capi­tolina. Non è stato Satana a metterla lì, ce l’hanno messa i Papi e ora sta in quel museo, isolata in una sala e senza alcun vestito. L’ho vista alcuni anni fa; la guardai, nella sua casta nudità, e benedissi Dio. Nessun cattivo pen­siero, nessun cattivo desiderio. Lo sanno anche i tuoi amici artisti. Sanno che per macchiare l’arte con cose brutte e oscene devono avvilire i loro pennelli e le loro matite. Figlia mia, sii artista: artista dell’anima e artista dei colori! E di’ loro con simpatia che non siano grossolani; possono essere

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creature di Dio, perché comportarsi come le bestie? E che hai udito dire da un sacerdote innamorato della Madonna, che è Madre castissima e Vergine immacolata, che ha ammirato la Venere Capitolina e ha ringraziato Dio nostro Signore» (AGP, PO5 1974,1, p. 551; AGP, P04 1974,1, p. 679).118 Diario della visita..., cit., p. 158; 23-VI-1974 (AGP, Sez. N, 3 leg. 1057-1).119 AGP, P04 1974,1, p. 695; AGP, P05 1974,1, p. 608.120 Ibidem.121 Diario della visita..., cit., p. 184; 26-VI-1974 (AGP, Sez. N, 3 leg. 1057- 1). In quel periodo in Argentina si verificavano attentati e sequestri di perso­na. Il Padre era attorniato da guardie del corpo che lo proteggevano quando il pubblico, all’entrata e all’uscita dagli incontri, gli si stringeva attorno. In un incontro si riferì ai poliziotti parlando dei suoi “angeli custodi”.122 AGP, P05 1974,1, pp. 632-635.123 Cfr Diario della visita..., cit., p. 197; 27-VI-1974 (AGP, Sez. N, 3 leg. 1057-1). Alcuni giorni prima, il 19 giugno, sul Diario è riportata una con­fidenza analoga: il Padre disse che, quando era giovane, «credevo di sapere tutto di me, persino quando il Signore mi avrebbe chiamato. Ora non lo so. Il Signore permette che non sappia niente» (p. 124).124 Ibidem, p. 204; 27-VI-1974; anche AGP, P04 1974,1, p. 703.125 Ibidem, pp. 705-706.126 Ibidem, pp. 706-707; e Diario della visita..., cit., p. 208; 27-VT-1974 (AGP, Sez. N, 3 leg. 1057-1).127 Ibidem, p. 147. Il testo della Neovulgata dice: Faciem tuam, Domine, exquiram (Sai 27,8).1281 Consiglieri dei Paesi citati nel testo erano don Vicente Pazos Gonzàlez (Perù), don Antonio Arregui Yarza (Ecuador), don Ugo Puccini Banfi (Co­lombia), don Agustfn Falceto Calvo (Uruguay), don Ramon Taboada del Rio (Paraguay), don Roberto Salvat Romero (Venezuela) e don Antonio Rodrìguez Pedrazuela (America Centrale, una sola Regione formata da va­ri Paesi).129 AGP,P04 1974, II, p. 18.130 Ibidem, p. 56.131 Ibidem.132 Cfr RHF, D-15111; Alvaro del Portillo, Sum. 1500; Javier Echevarrìa, Sum. 3140.133 Lettera, da Santiago del Cile, in EF-740703-1. Il 13 agosto 1974, men­tre era a Quito, inviò una lettera dello stesso tenore al Presidente dell’Ecua­dor, Generale Guillermo Rodrìguez Lara: «Eccellentissimo Signore, ho ri­cevuto ieri la sua cortese lettera con la quale mi augura un felice soggiorno nell’amata nazione dell’Ecuador e mi affretto a ringraziare S.E. per la sua gentilezza. Sono venuto in terra americana come sacerdote - l’unica ragio­ne della mia vita - e sono venuto a imparare: mi porto nel cuore un gran tesoro di pietà e di virtù che qui ho potuto ammirare. Non trascurerò di pregare, con affetto e con ammirazione, per questo Paese benedetto, con la certezza che il Sacratissimo Cuore di Gesù veglierà con predilezione sul po­polo ecuadoriano e sulle sue degnissime Autorità» (Lettera, da Quito, in

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EF-740813-1). Cfr anche la lettera al Presidente del Guatemala, pochi me­si dopo, in cui insisteva, «come è sempre stato abituale nella mia vita», sui fini esclusivamente pastorali della sua catechesi in Guatemala. «Per inter­cessione della Santissima Vergine e di S. Giuseppe, metto ai piedi del Signo­re il mio lavoro sacerdotale in questa terra, poiché cerco di essere solo que­sto: un sacerdote fedele» (L ettera a Kjell Eugenio Laugerud Garcìa, da Città del Guatemala, in EF-750217-1)-134 AGP, P04 1974, II, p. 106.135 Ibidem.136 Ibidem, p. 107.137 Ibidem, p. 110. Giorni dopo, il Padre ricevette una lettera in cui la Prio­ra lo ringraziava per la visita e i suoi insegnamenti: “Ci sentiamo felici e in debito con lei e con la sua Opera; saranno sempre presenti nelle nostre ora­zioni” (ibidem- e AGP, P05 1974, II, p. 95). L’anno successivo, quando le Carmelitane del monastero di Santiago del Cile seppero della morte del Pa- dre, fecero celebrare una Messa solenne alla sua memoria, ma non vollero fosse una Messa per i defunti e cantarono il Gloria, sicure che il Padre fos­se in Cielo. Cfr Javier Echevarrìa, PR> P- 2066.138 AGP, P04 1974, H, p. 214.139 Ibidem, p. 252. „140 Ibidem. Molti di quei sacerdoti lavoravano nella Academta San Jose, il Seminario Maggiore della Prelatura a Canete; il Vescovo di Yauyos era mons. Luis Sànchez-Moreno Lira (cfr Sum. 6429).4 Ibidem, p. 252

142 AGP, P04 1974, II, p. 320. La mattina del 14 luglio il dottor Alejandro Cantero aveva visitato il Padre, che aveva una faringite ed era senza voce. Cantero suggerì di annullare l’incontro previsto, ma il Padre volle farlo lo stesso (cfr Alejandro Cantero, Sum- 6648).143 Cfr RHF, D-15111.144 Diario della permanenza di nostro Padre m Perù-, 20-VII-1974 (AGP, Sez. N, 3 leg. 1056-4).145 AGP, P04 1974, n, p. 427.146 Cfr Alejandro Cantero, Sum- 6595.147 Diario... in Perù, cit., p. 192; 26-VI-1974 (AGP, Sez. N, 3 leg. 1056-4).148 RHF, D-15111. , , , , .149 AGP, P04 1974, II, p. 496. - San Josemaria, nel dire “no soy hombre dealtura” ,’sfruttava l’idèntico significato delle parole altura (altezza) e altitud (altitudine), per p a ssa re dal p ia n o umano (“non sono adatto a questa alti­tudine” ) a quello spirituale (“non sono un uomo all’altezza” ). In italiano e stata usata una perifra si p la u s ib ile (NdC). lso AGP, P05 1974, H, p. 563.151 AGP, P04 1974, H, p. 498.152 ìbidem, p. 527.153 Ibidem, p. 496.154 Ibidem, p. 527.155 Ibidem, p. 499. .1 1 . • t-t-

Lettera a Carlos Manuel L a r r e a Ribadeneira, da Barcellona, in EF-1 5 6

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740915-2. L’amicizia con Larrea risaliva alla fine degli anni quaranta, quando costui, a Roma, era ambasciatore dell’Ecuador presso la Santa Se­de. Tempo dopo, chiese l’ammissione all’Opus Dei come soprannumerario. Il 12 agosto, a Quito, il Padre diceva alle sue figlie: «Devo confessare che provo una gran pena e che la sto offrendo per l’Ecuador: in questi giorni non ho celebrato la Santa Messa. Mi ha dato la Comunione don Àlvaro, anche oggi... E non appena sento sulla mia lingua la piccola particola, mi commuovo» (AGP, P05 1974, II, p. 479).157 Ibidem, p. 531.158 Diario di Altoclaro, nei giorni in cui il Padre, per la prima volta, sog­giornò in Venezuela, dal 15-VIII-1974 al 31-VIII-1974 (AGP, Sez. N, 3 leg. 413-28).159 Cfr AGP, P05 1974, II, p. 531. Il Padre spiegava: «Sapete che nei nostri Centri viene per primo il Tabernacolo, poi le vostre sorelle, che vivono a cinquecento chilometri di distanza, e poi, all’ultimo posto, noi» (AGP, POI1973, p. 578).160 Diario di Altoclaro, p. 18; 17-VIII-1974 (AGP, Sez. N, 3 leg. 413-28).161 AGP, P05 1974, II, p. 564.1 disegni stilizzati delle papere, sempre con il becco aperto, si riferivano sia alle incessanti preghiere delle sue figlie, sia, scherzosamente, alla loro loquacità.162 Cfr Diario diAltÓclaro, p. 59; 27-VIH-1974 (AGP, Sez. N, 3 leg. 413-28).163 AGP, P04 1975, p. 213. Si ritrova il medesimo anelito in un punto di me­ditazione del libro Via Crucis: «Frequenta l’Umanità Santissima di Gesù... Ed Egli metterà nella tua anima una fame insaziabile, un desiderio ‘sproposi­tato’ di contemplare il suo Volto. In quest’ansia - che non è possibile placare qui sulla terra - troverai molte volte la tua consolazione» (VI stazione, 2), Cfr anche Diario di Altoclaro, p. 51 (AGP, Sez. N, 3 leg. 413-28) e Sai 27,8.164 “Di sera - narra il cronista del Diario - ci dirigemmo con il Padre verso il salotto. Giunto in anticamera, il Padre vide, vicino alla porta d’ingresso, una vecchia cassaforte. «Ci custodite qualche tesoro?», chiese. Don Rober­to, certo che fosse vuota, l’aprì con decisione per mostrare al Padre che in quella povera cassaforte sgangherata non c’era niente. Ma, sorpresa, den­tro c’era un vaso da notte. Pulito, ma pur sempre un vaso da notte. Qual­cuno, forse per toglierlo dal bagno dell’ingresso, aveva nascosto nella cas­saforte quell’arnese d’epoca che ora faceva bella mostra di sé” (AGP, Sez. N, 3 leg. 413-28).165 AGP, P04 1974, II, pp. 613 e 617.166 Ibidem, p. 615.167 Ibidem, p. 648.168 C 5369, 28-VIII-1974.169 Diario di Altoclaro; 27-VI-1974 (AGP Sez. N, 3 leg. 413-28).170 Cfr Javier Echevarria, Sum. 2619 e ss. La vita del Fondatore rivela una grande devozione per S. Giuseppe che, insieme alla Madonna, è Patrono di tutta l’Opera. Il Fondatore affidò a S. Giuseppe, “nostro Padre e Signore” (come diceva sempre), il primo oratorio dell’Opera in via Ferraz, e grazie al suo aiuto riuscì a trovare quanto gli occorreva e ad avere i necessari per­messi. Per mostrare la sua riconoscenza, volle che la chiave del tabernacolo

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di tutti gli oratori dell’Opera portasse una catenina con una medaglia del Santo con incisa la frase: Ite ad loseph. A lui affidava l’apostolato, in par­ticolare con la recita di una orazione il 18 marzo, vigilia della sua festa. Il Padre suggeriva di invocarlo come patrono della buona morte e nell’Opera è raccomandata la devozione delle sette domeniche di S. Giuseppe. Per molti anni poi il Fondatore immaginò che il focolare domestico di sua ma­dre e dei fratelli fosse quello di Nazaret, per ispirarsi, nel proprio compor­tamento, a S. Giuseppe. Fu grande la sua gioia quando, al tempo di Gio­vanni XXIII, il nome di S. Giuseppe fu inserito nel canone della Messa. Anche il nome del Fondatore, in cui Giuseppe e Maria sono uniti, è una di­mostrazione del suo amore e della devozione per Gesù, Giuseppe e Maria.Il 19 gennaio 1973, il fratello Santiago gli regalò un’immagine del Santo che proveniva dalla casa dei nonni materni e che era stata anche nella casa romana di zia Carmen. Era di gesso, di origine francese, non dipinta, rive­stita solo di una patina (cfr Àlvaro del Portillo, Sum. 1152).Don José Luis Soria riporta una breve e stupenda definizione del Patriarca che il Fondatore fece il 18 marzo 1974, vigilia della sua festa: «S. Giuseppe è meraviglioso! È il Santo dell’umiltà profonda, del sorriso permanente e della scrollata di spalle» (RHF, T-07920, Allegato II, p. 24). Sottolineava così la completa disponibilità di S. Giuseppe a fare la Volontà di Dio, sere­no e fiducioso nell’affrontare le difficoltà, attento alle persone che Dio gli aveva affidato.171 Cfr Àlvaro del Portillo, Sum. 354.172 Diario... in Argentina, cit., p. 199; 27-VI-1974 (AGP, Sez. N, 3 leg. 1057-1).173 Ibidem.174 AGP, P04 1974, II, p. 73.175 Ibidem, p. 85.176 Ibidem, p. 245.177 Diario di Altoclaro, p. 22; 18-VIII-1974 (AGP, Sez. N, 3 leg. 413-28).178 Ibidem, p. 38; 18-VIII-1974.179 Lettera, da Caracas, in EF-740828-1.180 AGP, P04 1974, II, p. 632.181 Ibidem, p. 640.182 Lettera al card. Mario Casariego, da Caracas, in EF-740828-1. Durante la catechesi nella penisola iberica (1972) e in Sudamerica (1974), il Fondatore si era potuto rendere conto dell’ampio lavoro svolto dai suoi figli in tutti i setto­ri: educazione, formazione dottrinale, assistenza sociale e beneficenza a favore di gente umile, ecc. Le iniziative erano numerose, così come le persone che ve­nivano aiutate ad avvicinarsi a Dio. Tra le opere corporative dell’Opera e altre promosse da fedeli dell’Opus Dei c’erano, per esempio, scuole di ogni ordine e grado, fra cui le Scuole Familiari Agrarie, per la formazione religiosa, profes­sionale e umana dei contadini. In Perù potè parlare con professori e alunni dell’Università di Piura (non ci si potè recare per ragioni di salute), situata nel­l’estremo nord del Paese, che aveva cominciato a funzionare nel 1969, anno in cui il Fondatore ne era stato nominato Gran Cancelliere. Nel 1974 l’Uni­versità aveva già un notevole sviluppo e un solido prestigio.

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183 Lettera, in EF-720219-2.184 Lettera a Carmen Ramos (in EF-731205-1), cui in seguito scrisse di chiedere «che il Signore voglia abbreviare il tempo della prova che attra­versa la Santa Chiesa» (Lettera, in EF-740502-1).185 Lettera a mons. Giovanni Benelli, da S. Paolo del Brasile, in EF- 740531-1.186 Parole di don Alvaro su una Lettera del Fondatore a mons. Benelli, da Lima, in EF-740727-1. Altre lettere da Quito, in EF-740814-1, da Cara­cas, in EF-740830-1.187 Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 1505. Nel maggio 1974 lo aveva visitatoil dottor Alejandrò Marin Lillo, che osservò nell’occhio destro una conden­sazione delle fibre cristalline e solo un terzo della capacità visiva. Cfj; RHF, D-15111.188 Cfr RHF, D-15111. L’uremia raggiunse un valore sestuplo rispetto a quello normale.189 Ibidem. Le analisi furono eseguite nella Clinica S. Giuseppe, a Barcellona.190 Lettera alle sue figlie della Colombia, da Madrid, in EF-740910-2.191 RHF, D-15111.192 Lettera 25-1-1961, n. 4. Con “il suo castello” alludeva al gioco delle co­struzioni, in cui si usano pezzi di legno di diverse forme e colori.193 Nel Diario di Altoclaro, sabato 17 agosto 1974, si legge: “Ci ha detto di essere stato solo un semplice amanuense, uno scribanus, Escrivà, un amanuense di Dio” (AGP, sez. N, 3 leg. 413-28). Più volte gli fu chiesto: “Perché ha fondato l’Opus Dei?” . A volte rispondeva negando il proprio ruolo: «Non ho fondato io l’Opus Dei; l’Opus Dei fu fondato nonostante me. E stata una volontà di Dio che si è compiuta, nuli’altro. Io sono un po­veruomo che non ha fatto altro che essere d’impiccio. Perciò non chiamar­mi fondatore di niente» (AGP, P04 1975, p. 90).194 Verbale di approvazione del Codex Iuris Particularis dell3Opus Dei (1- X-1974), in Amadeo de Fuenmayor e altri, op. cit., Appendice documenta­le, doc. 58, pp. 822-829. Cfr anche ibidem, pp. 583 e ss.195 Ibidem, p. 592. Il Fondatore fece redigere il verbale “come prova della avvenuta approvazione del Codex Iuris Particularis dell’Opus Dei, dei pre­cedenti della sua redazione e della forza obbligatoria che si attribuisce alle norme che lo costituiscono” . Vi si legge pure una breve storia delle sessioni del Congresso Generale speciale, delle proposte e delle conclusioni e “del fatto che non si era potuto fare altro che inserire nel nostro Diritto partico­lare alcune espressioni o norme proprie della parte generale della Costitu­zione Apostolica Provida Mater Ecclesia, accettando una veste giuridica che non corrispondeva alla natura del nostro spirito” . Al verbale era alle­gata la trascrizione letterale delle Conclusioni del Congresso Generale spe­ciale, approvate all’unanimità il 14-IX-1970. La prima è la richiesta che si risolva il problema istituzionale dell’Opus Dei, conferendogli “una confi­gurazione giuridica diversa da quella di Istituto Secolare, che conservi so­stanzialmente il nostro attuale diritto peculiare, ma consenta di sopprimer­ne gli elementi propri degli Istituti di perfezione e cioè la professione dei tre consigli evangelici di povertà, castità e obbedienza, e l’obbligatorietà di ta­

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le professione mediante vincoli di carattere sacro” (in Amadeo de Fuen­mayor e altri, op. cit., Appendice documentale, doc. 55, pp. 817-820).196 Quando verrà richiesta la nuova configurazione giuridica dell’Opus Dei- si legge nel verbale - “si chiederà alla Santa Sede la soppressione delle norme relative alla professione dei consigli evangelici e l’approvazione de­gli adattamenti che è necessario introdurre nel Codex Iuris Particularis, in quanto richiesti dalla nuova configurazione giuridica” (ibidem, Appendice documentale, doc. 58, p. 829).197 Aggiunse: «Dico questo perché, quando ero giovane, credevo di sapere anche il momento in cui sarei morto. Ma non raccontate in giro questa sciocchezza. Ora io, su di me, non credo a niente. Sia benedetto il Signore! Avanti! Come Dio vuole, quando Dio vuole, dove Dio vuole» (Diario... in Argentina, cit., 17-VT-1974, p. 99; in AGP, Sez. N, 3 leg. 1057-1). Alcuni giorni prima, il Padre aveva insistito per due volte sul tema della data della sua morte. Cfr ibidem, pp. 124 e 197.198 AGP, POI 1982, p. 1266,10-XD-1974.199 Lettera ai suoi figli e figlie, in EF-741200-2. Il Fondatore alludeva a un racconto popolare, dal quale gli scrittori ascetici classici hanno tratto con­seguenze morali: nel cuore della notte buia, mentre tutti dormono, una banda di briganti va all’assalto di un castello; porte e finestre sono spran­gate, ma è rimasta aperta una finestrella: i ladri vi fanno passare un bambi­no magrissimo che, una volta entrato, apre le porte ai complici.200 AGP, POI 1975, p. 779.201 Ibidem, p. 782.202 Ibidem.203 L’occhio destro aveva perso due terzi della capacità visiva; il 19 dicem­bre 1974, a Roma, l’oculista osservò una opacizzazione centrale del cristal­lino dell’occhio sinistro con alterazione della retina, diagnosi confermata in seguito a Madrid dal dottor Marin Lillo. Verso la fine di gennaio del 1975, grazie a una cura efficace, la capacità visiva era migliorata. Cfr Alejandro Cantero, Sum. 6596; RHF, D-15111.204 AGP, POI 1975, p. 65.205 Ibidem, p. 784.206 Cfr Javier Echevarria, Sum. 3142; Alejandro Cantero, Sum. 6596. Ave­va avuto un altro grave attacco di cuore, con edema polmonare acuto, la notte del 10 novembre 1974; era stato assistito da mons. Àlvaro del Portil­lo, mons. Javier Echevarria e dal dottor José Luis Soria. Due giorni dopo, a Madrid, fu visitato da Eduardo Ortiz de Landàzuri, Diego Martìnez Caro, José Manuel Martìnez Lage e Alejandro Cantero. Cfr RHF, D-15111.207 AGP, POI 1975, p. 149.208 Lettera, in EF-750113-1.209 Cfr RHF, D-15111.210 Cfr Lettere a Juan Baptista Torello, in EF-750114-2; a José Ramon Ma­durga, in EF-750121-1; a Richard Rieman, in EF-750122-1; ecc.211 Lettera, in EF-750128-2.212 AGP, P04 1975, p. 56. J213 Ibidem, p. 21.

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214 Diario di Altoclaro, 11-11-1975 (AGP, Sez. N, 3 leg. 1058-2).215 AGP, P05 1975, p. 148.216 Ibidem, p. 185.217 Diario di Altoclaro, 5-II-1975 (AGP, Sez. N, 3 leg. 1058-2). In un in­contro pubblico, il Padre rispose così a una domanda sull’educazione dei figli: «Io li porterei a vedere i quartieri della periferia di Garacas. Metterei loro la mano davanti agli occhi e poi la toglierei perché vedano le barac­che, pigiate le une alle altre; gli hai già dato la risposta! Sappiano di dover usare bene il denaro, di doverlo amministrare bene, affinché tutti in qual­che modo partecipino dei beni della terra. È molto facile dire: To sono buono’, quando non si è mai provata una vera necessità. Mi diceva una volta un amico, un uomo molto facoltoso: io non so se sono buono, perché mia moglie non si è mai ammalata, non sono mai stato senza lavoro e sen­za un soldo, i miei figli non hanno mai patito la fame, non mi sono mai trovato in mezzo a una strada, abbandonato e senza un tetto... Non so se sono un uomo onesto: che cosa avrei fatto, se mi fosse accaduto tutto que­sto? Vedete, dobbiamo fare in modo che non accada a nessuno; dobbiamo aiutare le persone ad avere, grazie al proprio lavoro, un minimo di benes­sere, una vecchiaia tranquilla e l’assistenza per le malattie, la possibilità di curare l’educazione dei figli e tante altre cose necessarie. Gli altri non ci de­vono essere indifferenti e dobbiamo fare in modo, per quanto possiamo, che si pratichi la carità e la giustizia» (AGP, P04 1975, pp. 83-84).218 Javier Echevarria, Sum. 3144.219 AGP, P04 1975, p. 225.220 Ibidem, p. 240.221 Ibidem, p. 253.222 La lapide che reca queste parole ricorda anche la benedizione del Padre (cfr AGP, P04 1975, p. 272).223 Ibidem, p. 325.224 Poco prima di uscire di casa verso l’aeroporto, il Padre entrò nell’orato­rio assieme al Cardinale Casariego e ad altri per salutare il Signore. Davan­ti all’altare recitò la benedizione per il viaggio. Il Cardinale si fece avanti, si tolse lo zucchetto e, indicando il tabernacolo e i presenti, si inginocchiò ed esclamò: “Padre, alla presenza di Dio nostro Signore e di questi suoi figli, non mi muovo di qui se non mi dà la sua benedizione” . Il Padre tracciò il segno della croce. Usciti, gli disse: «Mario, lei ha ottenuto ciò che non sa­rebbe riuscito a nessuno». In seguito, il Cardinale commentò ad altri: “Non potevo certo perdermi la benedizione di un santo” (Àlvaro del Por­tillo, PR, p. 2023; e AGP, P04 1975, p. 337).225 Lettera, da Madrid, in EF-750226-1.226 Lettera al card. Mario Casariego, in EF-750328-1.227 AGP, POI 1975, p. 800.228 Ibidem, p. 803.229 Ibidem.230 Cfr Lettera a Demetrio Molloy McDermott, in EF-750312-1. - Il que­chua è la lingua peruviana originaria (NdC).231 AGP, POI 1975, p. 809.

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232 Ibidem, p. 810.233 Ibidem, p. 809.234 Lettera ai suoi figli e figlie, in EF-750128-2.235 Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 1629.236 AGP, POI 1975, p. 814.237 Lettera a Manuel Gómez Padrós, in EF-710328-1. Cfr pure Lettere a Martin Sambeat, in EF-710330-1; a Manuel Gómez Padrós, in EF- 750324-1; ecc.238 Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 1448.239 Cfr Javier Echevarrìa, Sum. 3252 e 3253; AGP, P05 1975, p. 828; Alva­ro del Portillo, Sum. 390.240 Archivio municipale di Barbastro e RHF, D-11770. Sul conferimento della Medaglia d’Oro, cfr Manuel Garrido Gonzàlez, Barbastro y el Beato Josemarìa, Barbastro 1995, pp. 127-134. Il Consiglio comunale di Barba­stro, “nella seduta del 6 agosto 1975, su proposta della Comisión especial de Primeras Autoridades, delle forze vive e di diverse istituzioni, ha deciso all’unanimità di nominare Barbastrino dell’Anno, a titolo postumo, monsi­gnor Escrivà de Balaguer” (Archivio municipale e RHF, D-11770). Il titolo fu conferito pubblicamente il 7 settembre 1975. Cfr anche Manuel Garrido Gonzàlez, Barbastro..., op. cit., pp. 135 e 193-194.241 Lettera a Manuel Gómez Padrós, in EF-741003-1.242 II dottor Alejandrò Cantero, che pure abitava nel Centro di via Diego de Leon, riferisce (Sum. 6646): “Nella notte tra il 21 e il 22 maggio 1975, don Javier Echevarrìa mi svegliò, dicendomi di scendere con urgenza nella stan­za del Padre. Qui giunto, vidi don Alvaro del Portillo e don Javier accanto al Padre, il quale si lamentava per un dolore lancinante al torace. La fre­quenza respiratoria era di trenta al minuto, quella del polso di 150 al minu­to; l’espettorato era rosato: aveva in corso un edema polmonare acuto mol­to grave. Vidi che chiedeva a don Alvaro di impartirgli l’assoluzione”.243 AGP, POI 1975, p. 819. Poco dopo il suo arrivo, il Padre, osservatore attento, aveva guardato dall’alto, da una finestra, alcuni particolari della costruzione. Le file di mattoncini a vista erano state collocate alla stessa al­tezza con estrema perizia e componevano linee perfettamente orizzontali. Disse a uno dei suoi figli: «Stamane mi sono soffermato a guardare i mat­toni anche nei posti meno esposti alla vista e ho gioito, perché avete inse­gnato agli operai a lavorare bene, al cospetto di Dio» (César Ortiz- Echagiie, Sum. 6893). Quel lavoro, fatto alla presenza di Dio, era operatio Dei, un lavoro umano dal contenuto divino, così come quello degli ignoti scalpellini della cattedrale di Burgos, di cui aveva parlato anni prima.244 AGP, POI 1975, p. 820.245 Ibidem, p. 824.246 Ibidem.247 I discorsi della cerimonia sono in Scritti editi sparsi, Roma 1983, pp. 89-90; anche in AGP, POI 1975, pp. 829-835 e in El Noticiero di Saragoz­za, 27-V-1975. Le prime due fonti contengono anche le frasi del Fondatore pronunciate a braccio.248 “Appena giunto a Torreciudad - racconta César Ortiz-Echagùe - ci

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chiese se i confessionali fossero pronti e, alla risposta affermativa, disse: «Poiché domani è il mio giorno di confessione, avrò la gioia di inaugurarne uno» (Sum. 6872). Cfr anche Jesus Àlvarez Gazapo, Sum. 4348.249 AGP, RHF,D-15111.250 Juliàn Herranz, Sum. 3963; Giuseppe Molteni, Sum. 3928. Nota del 22- V-1975. Cfr Àlvaro del Portillo, Una vida para Dios, Madrid 1992, p. 89.251 Javier Echevarrìa, Sum. 2099, che prosegue: “Chiedeva ai medici di non trattarlo con indulgenza e di non pensare che egli potesse dedicare più tem­po al riposo, o che si potesse disinteressare di compiti che erano importan­tissimi per il servizio di Dio” . Non gli importavano i dolori fisici, “ma li ac­cettava e persino li amava perché li vedeva come carezze del Signore, un mezzo di purificazione personale. La cosa più importante era portare avanti l’Opera (...). Ho visto sempre con ammirazione come egli conducesse una vita normale di lavoro intensissimo, stimolando il lavoro di tutti, comuni­cando a tutti la sua pace e la sua gioia soprannaturale” (Juliàn Herranz, Sum. 4004).252 AGP, POI 1975, p. 761. “I mesi che vanno dal novembre 1974 al giugno 1975 trascorsero come un periodo di preparazione spirituale all’abbraccio definitivo del Signore, in un continuo crescendo” (Ernesto Julia, Sum. 4250).253 Cammino, n. 168.254 Parlava sempre della morte con soprannaturale speranza: «Dio è Signore della vita e della morte. Pertanto ha cura di noi e ci chiama nel momento più propizio e per noi più conveniente» (Javier Echevarrìa, Sum. 2735). Il Padre lo sapeva per esperienza, poiché aveva visto centinaia di sue figlie e figli, con­sapevoli di avere poco tempo ancora da vivere, che si preparavano a ben mo­rire offrendo le proprie sofferenze con gioia soprannaturale. Diceva che per coloro che il Signore chiama all’Opus Dei, esso è «il posto migliore per vive­re e per morire» (ibidem, Sum. 2732). Gli piaceva immaginare la morte come un gioioso incontro con Dio, Padre di giustizia e di misericordia; gli erano molto piaciute alcune parole di una canzone italiana di moda negli anni cin­quanta: “Aprite le finestre al nuovo sole, è primavera...”; gli sarebbe piaciu­to - diceva - ascoltarla poco prima di morire (cfr Ernesto Julià, Sum. 4256; Maria Begona Àlvarez Iràizoz, RHF, T-04861, p. 10). Anche le immagini crude e scarne sulla morte utilizzate dal Fondatore molti anni prima (in Cammino, per esempio) sono sempre piene di speranza soprannaturale.255 Umberto Farri, PR, p. 139.256 Accadde il 5 aprile 1975 (cfr Àlvaro del Portillo, Sum. 1632; Joaqum Alonso, Sum. 4712).257 Mons. Joaqum Alonso afferma: “Mi hanno colpito sempre molto la for­za e il vigore, pieni di amore, con cui parlava del suo desiderio di incontrar­si con Gesù Cristo. Ci faceva riflettere sulla grandezza di questo incontro e si domandava come sarebbe stato il volto di Cristo e il suo sguardo: era qualcosa di molto intimo nella sua anima (...). Durante le proiezioni di film sulla vita di Cristo, o nei quali apparivano scene rappresentanti il Signore, raramente restava sino alla fine perché, dopo alcuni momenti, usciva dal- l’Aula Magna dove veniva proiettato il film e tornava al lavoro. Non lo sod­disfacevano mai le rappresentazioni cinematografiche di Gesù, per via della

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ricchezza interiore dell’immagine del Signore che possedeva” (Sum. 4811). Mons. Juliàn Herranz lo conferma e riferisce che, dai sedici anni, Josemaria aveva cominciato a meditare “entrando nelle scene del Vangelo, acquistan­do dimestichezza con l’amabilissima Umanità del Signore” . Non appena in un film appariva sullo schermo la figura di Gesù, egli si alzava immediata­mente e se ne andava in silenzio. “Non sopportò mai che un attore raffigu­rasse la persona di Crisìo; ciò lo feriva nel fondo dell’anima (...). Aveva co­me impressa a fuoco (il fuoco dell’amore di un’anima contemplativa) un’immagine molto più perfetta, più ricca, più viva e più sua, della santissi­ma, dolcissima e amabilissima Umanità di Cristo” (Sum. 3945).258 Già da ragazzo recitava e meditava questo versetto del Salmo (26,8). Cfr Àlvaro del Portillo, Sum. 1294; Javier Echevarria, Sum. 2725 e 3291; Javier de Ayala, Sum. 7631; ecc.259 Sulla vitalità fisica del Padre negli ultimi giorni, cfr Jesus Àlvarez Gaza­po, Sum. 4330.260 E stato raccontato nel testo che trascorse l’ultimo periodo della sua vita difendendo la fede e la buona dottrina, con le sue catechesi e i viaggi apo­stolici. In quegli anni i suoi figli, accompagnati dalla sua preghiera, dai suoi consigli e dal suo lavoro, avevano portato l’Opus Dei in altri Paesi: in Australia (1963), nelle Filippine (1964), nella Nigeria (1965), nel Belgio (1965), nel Portorico (1969). Non bisogna poi dimenticare i libri e altri scritti. Benché fosse consapevole delle proprie qualità di scrittore, il Fonda­tore rinunciò fin dal primo momento a impegnarsi nella produzione lette­raria per dedicare tutto il tempo e le energie al servizio della propria voca­zione. La sua produzione scritta è comunque copiosa ed è il prodotto della ricchezza della sua anima, della originale dottrina circa la chiamata univer­sale alla santità e dello zelo apostolico. Basti citare Cammino, che ha una genesi davvero unica, Solco e Forgia, anch’essi un insieme di pensieri. Col­loqui è una raccolta di interviste, Amici di Dio e È Gesù che passa sono due raccolte di omelie selezionate fra le tante pronunciate dal Fondatore. Cfr cap. XXI, § 6.261 Cfr AGP, POI 1975, p. 611.262 Ibidem, p. 846.263 Ibidem, p. 847.264 Ibidem, p. 857.265 Ibidem, p. 859.266 Ibidem, p. 861.267 Lettera di don Àlvaro del Portillo, a tutti i fedeli dell’Opus Dei (29-VI-l975).268 Juliàn Herranz, Sum. 3879.269 Cfr Joaqum Alonso, Sum. 4762. “Era seduto in un angolo del soggiorno e parlò poco durante il nostro usuale incontro familiare serale; stette quasi sempre a guardare la Madonna che aveva di fronte. Lo ricordo così, mentre guardava la Madonna e si rifugiava sotto la sua protezione” (ibidem).270 Javier Echevarria, Sum. 3287.271 Joaqum Alonso, Sum. 4762; Juliàn Herranz, Sum. 4032.272 AGP, POI 1975, p. 673. In spagnolo: La Virgen del Nino peinadico.273 Ibidem.

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Indice dei nomi

Avvertenze per l’edizione italiana: in Spagna abitualmente le persone so­no designate con il cognome del padre e in successione quello della ma­dre; pertanto ognuno ha sempre doppio e in alcuni casi triplo cognome. Per non appesantire il testo italiano, nel presente volume quasi sempre il cognome completo è stato riportato solo la prima volta (es.: Dolores Fisac Sema, in seguito Dolores Fisac), tranne nei casi in cui il primo co­gnome è molto comune (es.: Garcia, Jiménez, Gonzàlez) e pertanto non è sufficiente a identificare la persona; in questi casi è stato sempre mante­nuto il doppio cognome (es.: Juan Jiménez Vargas, Ricardo Fernàndez Vallespin).Nel presente INDICE DEI NOMI tutti i cognomi sono invece riportati per intero. Non sono stati riportati i numeri di pagina relativi ai due principali testi­moni della vita di San Josemaria Escrivà, mons. Àlvaro del Portillo e mons. Javier Echevarria, in quanto citati innumerevoli volte per tutto il volume.

Abàrzuza Oliva, Felipe José: 553 ABC (quotidiano di Madrid): 556,

557Acaso Gómez, Fernando: 374 Acerbis, Teresa: 232, 299, 303,

374, 381, 436, 547, 625, 626 Agagianian, Gregorio Pietro: 456,

631Alastrué Castillo, Eduardo: 438 Albareda Herrera, José Maria: 10,

349, 376 Albàs Blanc, Dolores: 154, 247,

253, 254, 286, 299, 507, 508, 511,558, 707,723

A l l o z ( N a v a r r a ) , M o n a s t e r o d i S. G i u s e p p e : 620

Aloisi Masella, Benedetto: 456, 513

Alonso Pacheco, Joaqum: 93, 163, 233, 235, 293, 295, 303, 371, 436, 437, 439, 440, 542, 544,

546, 550, 551, 624, 626, 627, 628, 630, 631, 728, 740, 741

Alonso Vega, Camilo: 553, 560, 562

Altabella Gracia, Pedro: 385 Altozano Moraleda, Maria: 296 Àlvarez Gazapo, Jesus: 237, 239,

293, 295, 296, 297, 304, 436, 438, 541, 627, 726, 728, 740, 741

Àlvarez Iràizoz, Maria Begona: 303, 305, 435, 437, 439, 626, 740

Àlvarez Morales, Miguel: 168 Alvira Alvira, Tomàs: 142, 143,

148, 169, 170 Amalfitano, Prof.: 211 Amann Puente, Emiliano: 168 Amici di Dio: 239, 297, 381, 422,

426, 436, 439, 440, 441, 442, 541, 632, 741

743

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A m i e n s : 323A m i l p a s , v a l l e d i (Messico): 538 A m s t e r d a m : 323 A n c o n a : 192Andrés Lamberti, Concha: 395 Angelicchio, Francesco: 139, 164,

165,166, 232, 547, 550, 631 Anglés Pastor, Mercedes: 238, 295,

297Antoniutti, Ildebrando: 353, 356,

378,513, 528, 563, 564, 630, 631

ANTULLANCA, C A S A D I R I T R I (Cile):690

A n v e r s a : 3 2 3A pARECIDA, S A N T U A R I O D E L L A

M a d o n n a (Brasile): 665 Arce y Ochotorena, Manuel: 77 A r g e n t i n a : 117,176, 203-205,

236, 310, 369, 373, 665-673, 675, 684, 694, 732

Arias-Salgado y de Cubas, Gabriel: 553

Arranz, Gregorio: 559 Arregui Yarza, Antonio: 732 Arrese y Magra, José Luis: 553 Arriba y Castro, Benjamin de: 372,

377Arrupe Gondra, Pedro: 477, 548 A r s : 326, 372 A s h i y A : 342, 343

- Se id o L a n g u a g e In s t it u t e : 342

Assisi: 326 Atatiirk, Kemal: 456 A t e n e : 472, 473 Atienza Gonzàlez, Julio: 630 A u s t r a l i a : 315, 373, 741 A u s t r i a : 320, 322-325 Avignone: 592, 593 A v r a i n v i l l e ( P a r i g i ) : 477, 630 Avvenire (quotidiano di Milano):

549Ayala Delgado, Xavier de: 172,

297, 299, 344, 369, 375, 435, 543, 660, 725, 741

Azanza Jaramillo, Guillermo: 682

Bacci, Antonio: 59, 90 Badrinas Sala, José: 560 Baggio, Sebastiano: 85, 549, 631 B a n g o r (Galles): 335 Barabino, Giacomo: 232, 543,

545, 625, 628, 630 B a r b a s t r o (Spagna): 435, 511,

534, 535, 557, 629, 641, 711, 712, 713, 715, 739- M o n a s t e r o d i E l P u eyo: 535

B arcellona: 8, 26, 28, 33, 35, 45,46, 70, 83, 88, 109, 116, 290,376, 477, 549, 554, 612, 621, 635, 640, 647, 694, 695, 696, 733, 736- B a s i l ic a d e l l a M a d o n n a

d e l l a M e rc e d e : 46, 478, 527- C a st e l ld a u r a , c a s a d i r i t ir i :

640, 695- C l i n i c a S. G i u s e p p e : 736- IESE ( I s t i tu to d i S tu d i

Su p er io ri d e l l ’Im presa): 350,376, 477, 622

- L a C l in ic a : 26, 27- M o n a s t e r o d e l l e C la r i s s e d i

P e d ra lb e s : 621- R e s id e n z a u n iv e r s i ta r ia

D à r se n a : A l l- R e s id e n z a U n iv e r s it a r ia

M o n t e r o l s : 477- S c u o la sp o r tiv a B ra fa: 635- V ia M u n ta n e r : 26

B a r i: 140,168, 248, 326S a n t u a r io d i S. N ico la *. 248

B arro so y Sànchez-G uerra, A nton io : 553

Barturen P alacios, Jo sé M an uel:230

B a s ile a : 322 B av ie ra : 321Begona Àlvarez Iràizoz, Maria:

563B e lg io : 323, 325, 363, 373, 741 Bellincampi, P.: 232, 233 Benelli, Giovanni: 533, 564, 595,

596, 600, 630, 631, 632, 693,736

744

Page 738: De Prada - Il Fondatore Dell'Opus Dei - Vol III

Beran, Josef: 320 B e rg a m o : 456 B e r lin o : 10, 320 B e rn a : 322, 325 Bernasconi, Carla: 437 BlAFRA: 381 BlARRITZ: 334 B ilb a o : 91, 103, 376, 614

- ISLABE, CASA DI RITIRI: 614- R e s id e n z a U n iv e r s ita r ia

A b a n d o : 36- S c u o la G a z t e l u e t a : 376,

614Bisleti, Giovanni: 244Blanc Barón, Florencia: 254, 689B O G O T A : 3 7 3Bollam Gómez, Amparo: 369 B o lo g n a : 140,168 Bonell Zapater, Emilio: 672 B o n n : 321, 323, 324, 371

- R e s id e n z a u n iv e r s i ta r ia A lt h a u s : 321, 322, 323

Borbone e Battenberg, Juan di: 506, 507, 516, 553, 557, 558

Borbone e Borbone, Juan Carlos di: 516, 553, 554, 560

Borbone-Parma, Francisco Javier di: 497

Botas Cuervo, Manuel: 236, 238, 295, 298, 382, 436

Botella Raduàn, Francisco: 24, 82, 84, 85, 87, 88, 93, 231, 236,239, 298

Botella Valor, Juan: 88 B o u lo g n e (Francia): 328 Bouyer, Louis: 546, 550 B r a g a (Portogallo): 616 B r a s i le : 313, 342, 363, 368, 373,

660-665, 673, 684, 693, 694 BredA : 323Bressane de Araujo, Hugo: 373,

382Bueno Monreal, José Maria: 377,

380,513 B u en o s A ire s: 105, 232, 665, 667-

671, 673

- C e n t r o C o n g r e s s i G e n e r a l Sa n M a r t ìn : 6 6 8

- COLEGIO DE ESCRIBANOS: 6 6 8- L a CHACRA, p A S A D I R I T I R I :

665, 667, 682, 689, 697- P a r c o P a l e r m o : 667- T e a t r o C o l is e o : 669, 671,

731B u l g a r i a : 456 B u r g o s : 25, 338, 373

- C a t t e d r a l e : 739- H o t e l S a b a d e l l : 177

B U R J A S O T (Valencia): 619 Burke, Patrick Cormac: 231, 555,

562Bustillo Hurtado de Saracho, Tulia:

49, 160Caamano Fernàndez, Rafael: 83,

563Caballero Santos, Manuel: 239 Cabrera Felipe, Juan: 378, 556 C a d i c e : 620C a f a g g i o l o (Firenze): 476 Caggiano, Antonio: 359-360, 373,

667C a g l i o (Como): 581, 583, 627 C a l a b r i a : 109,133 Calleja Goicoechea, Alvaro: 176,

231Calvo Serer, Rafael: 553 Calvo Serrador, Dorita: 49-53, 89,

94,101,160, 395, 437 C a m b r i d g e : 330, 358 Cammino: 17, 31, 51, 84, 89, 94,

137, 141, 186, 215, 216, 223,239, 240, 304, 315,369, 407, 422, 426, 439, 440, 442, 443,444, 541, 549, 556, 571, 586, 590, 619, 625, 628, 706, 709, 717, 740, 741

Campello, Contessa: 270 Campo y de la Bàrcena, Abilio del:

380, 514 C a n a d a : 363, 373, 706 Canal Gómez, Maximiliano: 32,

84Canals Navarrete, Salvador

745

Page 739: De Prada - Il Fondatore Dell'Opus Dei - Vol III

(Babo): 8, 11,20,30-32,37,40, 78, 82, 84, 85, 87, 89,91, 96, 140, 165, 543, 630,715

Cancer Gómez, José Maria: 435 C a n e te (Perù): 364, 382, 733 Cànovas Garcia, Cirilo: 553 C a n te rb u ry : 332

- c h ie sa d i S. D u n sta n o : 332 Cantero Cuadrado, Pedro: 174,

377, 477, 549 Cantero Farina, Alejandro: 232,

240, 293, 378, 438, 659, 733, 737,739:

Capovilla, Loris Francesco: 460, 463, 464, 543, 544

C a r a c a s : 373, 632, 683, 686, 694, 703-705, 735, 736, 738- A l t o c l a r o , c a s a d i r i t ir i :

686, 687, 688, 691, 692, 704, 705

Càrdenas Rosales, Alfonso de: 368 Carneiro de Mesquita, Alberto: 10 Carrero Bianco, Luis: 496, 553,

555Casariego Acevedo, Mario: 638,

657, 689, 692, 701, 706, 726, 735,738

Casciaro Parodi, Pedro: 436 Casciaro Ramirez, Pedro: 24, 29,

86,'87,132, 164, 167, 177,202, 203,205, 230, 231,236,237, 238* 239, 240, 293, 295, 297, 298, 313, 315, 337, 359, 360, 361, 369, 370, 373, 380, 381,436, 438,512, 536, 550, 559, 637, 725

C a s t e l g a n d o l f o : 125,140,194,236, 270, 271, 394, 410, 647, . 722 {- Vil l a d e l l e R o se : 271, 273,

299, 394, 722Castelli, Leonardo: 240, 248, 249 Ca s t e l l o d i U r io , c a s a d i r i t i r i

(Como): 299, 592, 610 Castiella Maiz, Fernando Maria:

77, 356, 553

Castillo Genzor, Adolfo: 559, 560 Català-Roca, Francese: 563 C A T A N I A : 134-135, 140, 167, 168 Cayuela Santesteban, Roberto

Maria: 14, 78 Celaya Urrutia, Ignacio: 165, 297,

303, 379, 543, 545, 628, 629, 727, 728

Cento, Fernando: 347, 375, 631 Cerejeira, Manuel Gon^alves: 10,

343, 347, 374, 375 C H A P A L A , L A G U N A D I (Messico):

539C h a r t r e s : 323, 438 Cheli, G iovanni: 545 C h ic a g o : 105, 230, 314

- W o o d la w n R e s id e n c e : 230 C h ic la y o : 382, 461 Chorniqué Roncero, Miguel: 26 Ciancas, Ramiro: 25 Cicognani, Amleto Giovanni: 464,

521, 544, 562 Cicognani, Gaetano: 48, 82, 88 C ile : 117,130,176,178, 203-

205, 263, 267, 297, 310, 368,370, 630, 673-675, 684

Ciriaci, Pietro: 456, 521, 524, 562, 579, 630, 631

C i t t à d e l G u a te m a la : 706, 733- a e r o p o r t o L a A u r o r a : 708- ALTAVISTA, CASA DI RITIRI: 706

C i t t à d e l M e ssic o : 537 C iv e n n a (C om o): 609, 611, 639,

726C ivitavecchia: 8 C o im b ra : 105,109, 344, 616

- C a r m e lo d i S a n t a T e r e sa : 616

- M o n a ster o di Santa C h ia r a :616

Colegio de Aragóni 351 Colloqui con Monsignor Escrivà:

295, 302, 376, 379, 380, 426,441, 442, 544, 549, 551, 555,557, 629, 741

C o lo m b ia : 117, 203-205, 214, 215, 239, 264, 267, 268, 310,

746

Page 740: De Prada - Il Fondatore Dell'Opus Dei - Vol III

333, 338, 369, 373, 673, 695, 706, 732, 736

C o lo n ia : 10, 324, 325, 337, 549- R e s i d e n z a u n i v e r s i t a r i a

E ig e l s t e in : 325C o m o : 320, 322, 323, 581 Concilio Vaticano II: 250, 300,

445, 455-464, 466-472, 474, 475, 478, 480, 481, 483, 485, 497, 523, 525, 526, 527, 528, 530, 543, 545, 546, 547, 549, 550, 551, 554, 556, 569, 580, 697

Concilio Vaticano II} Documenti Conciliari- Apostolicam actuositatem:

480- Dei Verbum: 482- Gaudium et spes: 480- Gravissimum educationis:

474, 548- Lumen Gentium: 479- Optatam totius: 300- Presbyterorum Ordinisi 479,

526, 530, 549, 563C o n g o : 395, 444 Consideraciones Espirituales: 94,

709Marchese di Lozoya: 613 CORDOVA: 110 C o r in t o : 472, 474 Corriere della Sera (quotidiano di

Milano): 549 Cortés Cavanillas, Juliàn: 81, 82,

556Cosme do Amarai, Alberto: 461 C o s t a r ic a : 338, 706 Cotelo Villarreal, Javier: 722 COUVRELLES, CASA DI RITIRI

(Francia): 477 Craven, George Laurence: 331,

334Croxatto Rezzio, Héctor: 676 CUBA: 367, 458 Cummings, Daniel: 628 D’Amelio, Carlo: 99

Damaskinos, Giorgos Papandreou: 456

De Filippi, Giorgio: 233, 294 De Gasperi, Alcide: 127 Delapuente Rodriguez-Quijano,

Fernando: 138, 239 Delgado Gómez, Enrique: 349,

353, 376, 377, 379, 380, 514, 560

Dell’Acqua, Angelo: 163, 466,470, 471, 473, 475, 486, 502,513, 523, 527, 545, 546, 547, 548, 551, 552, 555, 556, 557, 562, 563, 571, 589, 590, 591, 592, 593, 595, 597, 629, 630, 631

Dellepiane, Giovanni: 323 Dionisi, Umberto: 104, 133, 134,

167Documenti della Curia Romana

- Decreto Primum inter: 157,171, 172, 173,174,213, 230

- Decretum laudis (Primum Institutum): 11, 16, 19, 22, 23, 37, 38, 39, 41, 48, 58, 59, 60-62, 66, 74, 78, 91, 94, 96, 98,101,113,144,149,151,152,196, 274, 375, 517, 519

- Istruzione Cum Sanctissimus: 67, 90, 92, 170

- Lettera Brevis sane: 78; 87 Documenti Pontifici

- Breve Apostolico Cum Societatis: 42, 74, 87

- Breve Mirifice de Ecclesia: 74, 94, 196

- Costituzione Apostolica Humanae Salutis: 543

- Costituzione Apostolica Provida Mater Ecclesia: 39, 40, 58, 60-62, 63, 67, 68, 90, 91, 98, 145, 151, 169, 171,175, 195, 517, 561, 736

- Motu proprio Ecclesiae Sanctae: 527, 528, 530, 563

- Motu proprio Primo feliciter: 67, 68, 90, 92,172

747

Page 741: De Prada - Il Fondatore Dell'Opus Dei - Vol III

- Motu proprio Superno Dei nutu, 543

Dols Morell, Heliodoro: 641 D o v e r : 328, 332D u b lin o : 105,116,130,176, 230,

231, 333- R e s id e n z a u n iv e r s i ta r ia E ly :

333- R e s id e n z a u n iv e r s i ta r ia

N u l l a m o r e : 333- U n iv e r s ity C o l l e g e : 231

Dusmet, Giuseppe Benedetto: 134 D u s se ld o r f : 322È Gesù che passa: 233, 239, 422,

426, 440, 441, 442, 549, 628, 632, 741

Echevarria, Javier: passim E c u a d o r : 183, 203, 232, 317,

338, 673, 682-683, 684, 685, 691, 732, 734

E ijo y Garay, L eop o ld o : 8, 9, 47, 88, 334, 372, 465, 545

E in sied e ln : 163, 243, 250, 251, 252, 276, 297, 322, 325, 326, 328, 527, 642- H o t e l P fau en : 251

El Noticiero (quotidiano diSaragozza): 739

El Noticiero Universal (quotidiano di Barcellona): 549

El Salvador: 338, 706 Elorrio (Spagna): 440, 476, 495,

542, 555 Escarré Jané, Aurelio Maria: 12,

26, 77, *79, 85 Escrivà de Balaguer Corzàn, José:

153, 507 Escrivà de Balaguer Garcia-

Herrero, Maria José: 437, 558 Escrivà de Balaguer Garcfa-

Herrero, Santiago: 730 Escrivà de Balaguer y Albàs,

Garmen: 37, 85, 92, 155, 172, 238, 246-248, 252-263, 286, 293, 295, 296, 297, 305, 508, 706, 735

Escrivà de Balaguer y Albàs,

Santiago: 37, 85, 92, 155, 172,238, 246-247, 253, 255, 293, 295, 296, 389, 436, 440, 476, 508, 509, 512, 515, 541, 548,558, 559, 730, 735

E ssen : 658E s t o r i l (Portogallo): 557 Eszer, Ambrogio: 551 E tn a : 134Faelli, Carlo: 56, 57, 65, 106, 107,

223-224, 228, 240, 241, 242 Falceto Calvo, Agustfn: 732 Farri, Francesco: 184, 233 Farri, Umberto: 184, 232, 233,

303, 547, 550, 740 Fatim a , S a n t u a r io d e l l a

M a d o n n a : 193, 326, 535, 536, 616, 617, 642

Faulhaber, Michael de: 11, 321, 371

Federico, Orlando: 166 Felici, Ettore: 231 Fernàndez Ardavm, Bernardo: 295 Fernàndez Echevarria, Jenaro: 257,

260Fernàndez Galiana, Alfonso: 382 Fernàndez Vallespin, Ricardo: 26,

36, 68, 220, 236, 238, 295, 298 Filippine: 362, 363, 373, 741 F ire n z e : 257, 476 F iu ggi: 38,40, 87 Flores Martin, Jaime: 641 Flusin, Claude Constant Marie:

468Fontàn Suanzes, Bianca: 378, 381,

436, 542, 627, 628 Forgia: 241, 373, 422, 426, 440,

442,443,741 Forlì: 44Fra5 Juan de Zumàrraga: 537 Fra' Luis de Granada: 413, 441 Fraga Iribarne, Manuel: 554 Fraile Gonzàlez, Antonio: 630 F r a n c ia : 148,177, 231, 257, 325,

327, 334, 438, 502, 527, 600, 612

Franco Bahamonde, Francisco:

748

Page 742: De Prada - Il Fondatore Dell'Opus Dei - Vol III

292, 356-358, 380, 491, 492, 496, 499, 501, 506, 516, 553, 554, 556, 557, 559

F r ib u r g o : 294, 322, 557 Frings, Joseph: 11, 13, 549 Fuenmayor Champin, Amadeo de:

78, 79, 81, 86, 87, 90, 92, 94, 142, 165, 169, 170, 171, 174, 230, 238, 239, 240, 298, 299, 301, 349, 369, 376, 380, 442, 543, 545, 562, 563, 564, 565, 736, 737

Gainza Ortega, Maria Elina: 367 Galarraga Ituarte, Juan Antonio:

176, 230, 372 G a liz ia : 103,139 G alw ay: 333Garcia de Llera Rodriguez, Luis:

81Garcia Hoz, Victor: 142,143, 148,

168, 169, 170 Garcia Lahiguera, José Maria:

174, 372, 545, 550 Garcia-Herrero Ruiz, Gloria

(Yoya): 440, 476, 508, 509,541, 548, 558, 559

Garrido Gonzàlez, Manuel: 739 Garrigues Diaz-Canabate,

Antonio: 631 Garrone, Gabriel Marie: 486, 487,

548, 552 Gawronski, Luciana (Frassati): 83 Gemelli, Agostino: 92 G e n o v a : 8-10, 26, 28-30, 37, 45,

83, 85,140,168, 320 Albergo Columbia: 30

G e rm an ia : 11, 251, 317, 320,321, 322, 323, 324, 325, 326,337, 338, 368, 371, 374, 570

G iappone: 130, 338, 340-343,368, 374, 663

G ii R ivera , E lio d o ro : 12, 335 G in e v ra : 323Giornale di Bordo della J.J. Sister:

28, 83Giovanni Paolo II: 545, 550 Giovanni XXIII: 271, 351, 456-

458, 459, 460-463, 471, 519,521, 522, 544, 545, 547, 549,562, 629, 631, 735

Girào Ferreira, Nuno: 295 Godfrey, William: 334 G o l f o d e l L e o n e : 29, 45 Gómez Iglesias, Valentin: 78 Gómez Padrós, Manuel: 629, 716,

727, 739 Gonzàlez Barredo, José Maria: 10,

93, 149, 162, 230, 369 Gonzàlez Guzmàn, Narcisa (Nisa):

57, 155, 316 Gonzàlez Lobato, Juan Antonio:

121, 164 Gonzàlez Martin, Marcelo: 693 Gori Mazzoleni, conte: 99 Gortari Errea, Miguel: 378 Gouveia, Teodosio Clemente de:

10G oyeneche,Siervo: 22, 80, 85 G r a n a d a : 10, 91,109,110,117,

164Granda y Àlvarez Buy Ila, Càndida:

213G re c ia : 456, 472, 473, 547 Griffin, Bernard: 10, 231 GUADALUPE, SANTUARIO DELLA

M a d o n n a (Messico): 536-538, 539, 567

Guai Villalbf, Pedro: 553 G u a te m a la : 338, 657, 692, 701,

706-707 G u a y a q u il: 232 Guillemé-Brulon, Jacques: 555,

557H a a r le m (Olanda): 496 Hengsbach, Franz: 658, 730 Hernàndez Gamica, José Maria

(Chiqui): 86, 87, 162, 163, 164, 168,169, 231, 293, 624, 635- 637, 721, 725

Herranz Casado, Juliàn: 93, 241, 295, 299, 300, 303, 439, 468, 543, 545, 549, 554, 627, 628, 630, 631, 727, 740, 741

749

Page 743: De Prada - Il Fondatore Dell'Opus Dei - Vol III

*

Herrera Oria, Àngel: 109, 110,162

Hervàs Benet, Juan: 367, 468, 545 Hòffner, Joseph: 485, 551 Honshu: 341 Horthy, Nicholas: 99 Hoyo Alonso, Dora del: 49-53,

542H ru sk a , Kurt: 89, 224, 241, 395,

400, 437, 438 H u a r o c h ir I (Perù): 363 H uelvA: 377I l T re b b io ( C a fa g g io lo ) : 476,

495Illanes Maestre, José Luis: 78, 94 Inciarte Arminàn, Fernando: 371 I n g h i l t e r r a : 148,176,179, 230,

231,236, 251,299, 310, 325, 327, 328, 329, 330, 332, 333, 334, 335, 357, 359, 368, 369, 372, 373, 467

In n sb ru ck : 321 Irene di Olanda: 495 I r l a n d a : 176,180, 231, 251, 266,

310, 317, 333, 334, 368, 370,372, 373

I t a l i a , passimIturmendi Banales, Antonio: 553 /./. Sister: 8, 27, 35, 83, 113 Jachym, Franz: 323 JALTEPEC (Messico): 539 Jedin, Hubert: 546 J e r e z d e l a F r o n t e r a (C ad ice ):

617- POZOALBERO, CASA DI RITIRI:

617-618, 620 Jiménez Vargas, Juan: 25, 45 Jolin Moreno, Àngel: 241 Juan Diego: 537, 539 Julia Diaz, Ernesto: 167, 295, 296,

373, 374, 543, 626, 627, 740 K en y a : 338, 342, 357-361, 368,

380, 381, 443 Kònig, Franz: 371, 549, 550 Kràmer, Peter: 80 Kucking, Marlies: 626 Kung, Hans: 545

K y u sh u (Giappone): 341 L’A ia : 323, 325 L’A q u ila : 261, 728 L'Osservatore Romano: 171, 292,

547, 550, 631 La Abadesa de Las Huelgas: 17 La Croix (quotidiano di Parigi):

557L a G r a n ja d e S a n I ld e fo n s o

(Segovia): 139, 153 L a P i l i l l a c a s a d i r i t i r i (Avila):

116,119,247 L a Porte R io s, M a ria Isabel: 237,

297, 730 L a Pum a,V incenzo: 18 L a Spezia: 9, 323 L a g o d i A lb a n o : 270 L a g o d i C om o : 299, 592, 609 L a g o d i E l G r a d o : 644-648 L a g o M a g g io r e : 5 8 0 L am e g o (P ortogallo): 616 L an dàzu ri R icketts, Ju an : 363 L antin i, G iocon da: 232 L an tin i, M ario : 164, 165, 166,

168,172, 183,186, 232, 237, 241, 298, 303, 376, 436, 544,563, 627, 628, 726, 727

L an za , A ntonio: 133,134 L a r b o l e d a , CASA DI r i t i r i (Perù):

681Lardone, Francesco: 381 Larraona Saralegui, Arcadio

Maria: 17, 20-22, 38-40, 79, 80, 195,197, 235, 375, 513,514, 549, 631

Larrea Holgum, Juan: 165, 183,232, 240, 369

Larrea Ribadeneira, Carlos Manuel: 733, 734

Laugerud Garcia, Kjell Eugenio: 733

Lavitrano, Luigi: 20, 42, 56, 59, 71, 87, 90, 152, 157, 631

Le Canard Enchaìné (settimanale di Parigi): 557

Le Figaro (quotidiano di Parigi): 503

750

i

Page 744: De Prada - Il Fondatore Dell'Opus Dei - Vol III

Le Monde (quotidiano di Parigi):557

Le Nouvel Observateur(settimanale di Parigi): 557

Lealtà verso la Chiesa, omelia:625, 626, 628

Léger, Paul Émile: 373 Lejeune, Jéróme: 658, 730 Lercaro, Giacomo: 456 LeridA : 154, 257 Letterer, Erich: 613 Liegi: 468 L i l l a : 323Lim a: 363, 632, 678-681, 683, 693

- C a t t e d r a le : 6 8 0- C e n t r o C u l t u r a le M i r a l b a :

680- C e n t r o C u l t u r a le

T rad ic iO N E S: 679- C h ie sa d i S. F r a n c e s c o : 680

Linares Mendoza, Fernando: 70,93

LlNZ: 324 LlONE: 325L isb o n a : 10,105,116, 254, 343-

347, 617- C lu b X é n o n : 617

Lisieux: 323, 326, 438 Llamas Simon, José: 438 Lleonart Amselem, Alberto José:

77Lo V à sq u e z , s a n t u a r io d e l l a

M a d o n n a (Cile): 678 L o g r o n o : 509, 511, 548 Lombardi, Armando: 373 Lombardia Diaz, Pedro: 543 L o n d r a : 105,130,176, 231, 254,

325, 327, 328, 329, 331, 332, 334, 335, 338, 350, 361, 372,377, 378, 391, 436, 463, 507,543, 544, 557, 558, 559

L o n d r a , ch iese e i s t itu z io n i- A l l H a l lo w s : 335- L’A n n u n c ia z io n e (Brya n sto n

St r e e t ): 331- R e s id e n z a u n iv e r s i ta r ia

A s h w e l l H o u s e : 335

- R e sid en z a u n iv e r s i ta r ia N e t h e r h a l l H o u se : 328,330, 331, 334, 336, 372, 557,558

- P a r la m e n to : 329- S a in t B a r th o lo m e w : 335- St. E th e ld r e d a : 331- U n iv e rs ity C o l l e g e S c h o o l :

373- W e stm in ste r Abbey: 331, 335- W estm in ster C a t h ed r a l :

331, 333- W ille sd e n , S a n t u a r io d e l l a

M a d o n n a : 330L o n d r a , v ie e lu o g h i : 328

AEROPORTO DI SOUTHEND: 335 C ity : 329, 372 F le e t S t r e e t : 329, 334 H a n n o v e r S q u a re : 331 K in g ’s C o l le g e : 331 R u t la n d C o u r t : 328 Spanish P la c e : 331 W e st H e a th R o a d : 334 W e stm in ste r : 329 W h ite h a ll : 329 WOODLANDS: 332

Longo, Salvatore: 233 Lopez Bravo, Gregorio: 554 Lopez Martmez, Alfredo: 558 Lopez Martmez, Rosalia: 49, 51,

89,161, 163, 437, 541 Lopez Ortiz, José: 12, 13, 77, 236,

439Lopez Rodo, Laureano: 549, 554 Lopez Sierra, José: 436 Lopez-Amo Marin, Victoria: 102,

161, 163 L o r e t o , s a n t u a r io d e l l a

M a d o n n a : 131,166,191,192, 193, 219, 233, 234, 326, 527

L o sa n n a : 323, 325, 326 L o u rd e s : 193, 225, 257, 326, 438,

527, 609, 613, 642 L o v a n io : 323, 468 L u c e rn a : 322 Luis de la Palma: 441 Luque Sànchez, Crisanto: 373

751

Page 745: De Prada - Il Fondatore Dell'Opus Dei - Vol III

L u jAn , sa ntu ario d ella

M a d o n n a (Argentina): 668 Mac-Mahon Jacquet, Carolina

(Carito): 52 Madoz Montoya, Joaqum: 370,

4 3 6Madrid, passimM a d rid , C en t r i d e l l 'O pus D ei

- A c ca d em ia D Y A : 2 9 9 , 3 4 8 ,4 2 9

- I s t i t u t o Ta ja m a r : 6 1 4 , 61 5- Los R o s a l e s (V il la v ic io sa d e

O d ó n ): 4 4 , 4 9 , 115 , 11 9 ,1 22 , 139 , 1 6 4 ,1 6 8 , 2 9 5 , 2 9 9

- R esid en za d i via D ieg o d e L eóN: 4 3 , 11 8 , 135 , 14 0 , 164 , 1 66 , 2 5 4 , 2 9 9 , 3 0 7 , 4 3 7 , 5 3 4 ,5 4 2 , 6 0 9 , 6 4 3 , 7 1 3 , 7 3 9

- R e sid en z a d i via F e r r a z :141 , 1 45 , 16 8 , 2 7 2 ,2 9 9 , 7 3 4

- R esid en za d i via J e n n e r : 87 , 1 4 1 ,1 6 8 , 3 0 7

- R e s id e n z a U n iv e r s it a r ia M o n c l o a : 3 6 ,1 1 9 ,1 2 2 ,1 6 8

- R e s id e n z a U n iv e r s it a r ia Z u rb a r A n : 122, 395

- VlLLANUEVA: 2 4 , 4 4 M a d r id , ch iese e i s t itu z io n i

- Basilica Po n tificia d i S. M ic h e le : 3 5 1 , 3 5 2

- N unziatura A p o st o lic a : 2 6 , 8 4 ,3 7 9

- O spedale d el R e : 173- R ea l Patro n ato d e Santa

ISABEL: 6 2 0M a d rid , vie e lu o g h i: 154

- C o n so la to d ell ’H o n d u r a s : 4 3 7

- E l S o t a n il l o : 28 1- Paseo d e L a C a st ella n a : 28 1- Pa tro n ato d e En f e r m o s : 4 4 8- Ta l l e r e s d e A r t e G r a n d a :

2 1 3 , 3 0 5- VALLECAS: 6 1 4- V ia L a r r a : 15 4- V ia M a r tIn e z C a m po s : 12 4- V ia Silvela : 153

Madurga Lacalle, José Ramon: 176, 230, 231, 341, 374, 436,737

Madurga Lacalle, Miguel Àngel: 227, 230

M a io r c a : 381 M a la g a : 109,162,174 M a n c h e s te r : 330, 335, 368

- R e s id e n z a u n iv e r s ita r ia G r e y g a r t h : 335, 368

M a n ila : 362Marchetti Selvaggiani, Francesco:

631Marella, Paolo: 631, 726 Maria das Mercès de Jesus, Priora

del Carmelo di Coimbra: 633 Mariani, Renato: 164, 293 M a r i l i a (Brasile): 368, 373 Marin Lillo, Alejandro: 736, 737 Maritain, Jacques: 547, 551 Marlin, Olga: 368 Martin Nieto, Lorenzo: 542 Martmez Caro, Diego: 737 Martmez Fausset, Alberto: 89, 159 Martmez Ferigle, Salvador: 177 Martmez Lage, José Manuel: 737 Martmez Rodrìguez, Luis Maria:

230Martini, A.: 184, 232 Marty, Francois: 468, 545 Masià Mas-Bagà, Juan: 196, 234 Matheu Montalvo, Consuelo de:

437Maycas de Alvarado, Fernando:

176, 230, 231 Mayné Torras, Joan: 727 Mazerat, Henri: 468 McCarthy, John Joseph: 360, 380 McQuaid, John Charles: 181, 231 M e ssic o : 111, 117,130,148,176,

177,179, 214, 230, 231, 236,240, 263, 264, 266, 297, 299, 310, 313, 315, 316, 320, 337,338, 369, 380, 389, 536, 538, 539,-568, 656

M essin a : 134

752

Page 746: De Prada - Il Fondatore Dell'Opus Dei - Vol III

Mestre Palacio, Joaqufn: 174, 467, 545

Metaxas, Ioannis: 456 Michaelham Priory (Sussex): 330 M ila n o : 105,131,132,140,141,

167,168,184,194,195,196,198, 234, 270, 298, 299, 303, 320, 322, 323, 371, 546, 629- U n iv e r s it à C a t t o l i c a : 131- V ia C a r l o P o e r io : 234

Mimmi, Marcello: 631 Mindszenty, József: 320, 455 Mojaisky Perrelli, Gastone: 357,

360, 380, 443 Moles Vilasenor, Odón: 202, 235,

370M o lin o v ie jo , c a s a d i r i t i r i

(Ortigosa del Monte, Segovia): 42, 44, 45, 66, 70, 103,111, 116,119, 123, 135, 136-139,147, 175, 219, 230, 247, 250,273, 369

Molloy McDermott, Demetrio:738

Molteni, Giuseppe: 303, 550, 625,628, 740

M o m b asa : 358M o n a c o d i B a v ie ra : 321, 324,

554, 610 M o n tan és M o ren o , Jo sé : 237, 370 M o n t e c a t in i (P istoia): 211,238 M o n t e f a l c o (M essico ): 538 M o n t e ju r r a (Spagn a): 498 M o n terde A lb iac , M a ria Jo sé : 242 M o n te v id e o : 369 M o n d ilo , V incenzo: 551, 728 M ontin i, G iovan n i B attista (vedi

anche P ao lo V I): 16, 24, 34, 46,64, 71, 78, 85, 88, 93, 97, 99, 128, 166, 171, 183,464, 502589, 629

M o n t r e a l : 373M o n t s e r r a t , M o n a s t e r o di: 26,

85Monzó Romualdo, Francisco: 161,

163, 233, 236, 237, 238, 239, 241

Monzó Romualdo, Severino: 295 Morado Garcia, Mercedes: 290,

299, 303, 305, 367, 368, 436,437, 439, 440, 542, 625

Moràn Ramos, Juan Francisco:438

Mordilo Gonzàlez, Casimiro: 159,352, 378, 400, 514

Moret Bondia, Salvador: 139, 166 Moro Briz, Santos: 378 Mortes Alfonso, Vicente: 168, 552,

555Mouriz Garcia, Carmen: 371 Munàrriz Escondrillas, Carlos: 163 Muzquiz de Miguel, José Luis: 45,

82, 149, 163, 165, 172, 177, 230, 235, 236, 238, 239, 240, 295, 297, 299, 340, 342, 368,369, 373, 374, 437, 631, 637, 721, 726, 731

N a g a sa k i : 374N airo b i: 358, 360, 365, 368, 380,

430- K ia n d a C o l l e g e : 361, 381- S t r a t h m o r e C o l l e g e : 360-

361,381,430N a p o li: 44,133,140,162,168,

270, 293, 370, 472 Nasalli Rocca di Corneliano,

Mario: 629 NATO: 320Navarro Rubio, Mariano: 142,

143,148, 169, 492, 553, 554 Nerin Ubiergo, José Maria: 297 New Y o r k : 10,149,177, 361,

471N ig e r ia : 373, 381, 556, 741 OCSE: 554Olaechea Loizaga, Marcelino: 380,

467, 473, 548 O la n d a : 325, 339, 495, 496, 498,

555Onclin, Willy: 468 ONU: 471O p o r to : 109, 461, 616

- ENXOMIL, CASA DI RITIRI: 616 Orbegozo y Goicoechea, Ignacio

753

Page 747: De Prada - Il Fondatore Dell'Opus Dei - Vol III

Maria: 363, 364, 366, 382, 461, 466, 545, 550, 681

Orbegozo y Telleria, José de: 381,382

Orlandis Rovira, José: 8, 26, 27, 28, 35, 77, 78, 81, 84, 96, 165

Ortega Pardo, Encarnación (Encarnita): 49-54, 89, 138, 155, 161,163, 166,167, 168,172, 188,213, 233,234, 238,241, 255, 272, 285, 296, 299, 303, 304, 436, 437, 447, 541, 727

Ortiz de Landàzuri Fernàndez de Heredia, Eduardo: 379, 478,549, 737

Ortiz de Landàzuri Fernàndez de Heredia, Guadalupe: 316

Ortiz-Echagùe Rubio, César: 369, 378,380, 435, 436, 438, 555, 557, 565, 633, 727, 739

O sa k a : 340, 341, 365, 374 Otal Marti, Maria del Carmen:

727Ottaviani, Alfredo: 340, 631 Ourliac, Paul: 613 O x fo r d : 329, 330, 331-332, 333,

334, 358, 372- C h r i s t ’s C h u r c h C o l le g e :

334- G r a n d p o n t H o u se : 331,

332, 333, 334Pacheco, Alberto: 539 Padova*. 140 Paesi B a sch i: 476 Paesi B assi: 323, 325 Palazzini, Pietro: 631 P a le rm o : 10,133,140,168,176,

230, 270, 298, 299 P am p lo n a : 349, 351, 352, 353,

355, 357, 377, 378, 474, 475, 477, 487, 501, 548, 556, 560, 562, 563, 609, 611, 612, 636, 657, 658- C a tted ra le : 35 3- G o v e r n o r e g io n a le d e l l a

N a v a r r a : 349, 351, 353

P a o la (Reggio Calabria): 134 Paolo VI: 84, 184, 356, 464, 465,

466, 470, 471, 472, 485, 499,522, 525, 526, 530, 531, 533,545, 546, 547, 555, 556, 561, 562, 563, 564, 569, 591, 596, 598, 602, 603, 624, 625, 628,629, 630, 631, 696

Par Balcells, Alfonso: 337, 370, 371, 373, 374

P a ra g u a y : 373, 668, 671, 732 Parente, Pietro: 631 P arig i: 105,117,127,130,176,

177, 179, 231, 277, 323, 325, 326, 328, 361, 364, 378, 438, 456, 477, 545, 562, 563, 592, 619, 629- B o u le v a rd S a in t G erm ain :

323, 325, 326, 328- N o tre -D a m e : 438- R e s id e n z a d i R o u v r a y : 328- S a n t u a r io d e l l a M e d a g l ia

M ir a c o lo s a : 326Parrado Garcia, Agustm: 77 Parry Upton, Lynden: 293 Pastor Dominguez, José Luis: 238,

259, 262, 295, 541, 624 Pazos Gonzàlez, Vicente: 732 P e r d ig u e r a (Saragozza): 153 Perelló Pou, Juan: 92 Pérez Embid, Fiorentino: 80 P erù : 203, 237, 268, 315, 338,

342, 362, 363, 381, 673, 678- 682, 684, 693, 732

Philippe, Paul: 526 Piazza, Adeodato Giovanni: 630,

631Piazza Ugo, 628 Pignedoli, Sergio: 631 Pio XI: 79Pio XII: 8, 16, 20, 32, 42, 46, 60,

74, 80, 84, 88, 126, 128, 145,148, 157, 165, 166, 184, 196,199, 232, 271, 362, 455, 471,547, 589, 629, 631

Pisa: 9,131,140

754

Page 748: De Prada - Il Fondatore Dell'Opus Dei - Vol III

Pizzardo , G iuseppe: 274, 300, 351, 355, 377, 486, 631

Pia y D eniel, Enrique: 77 Planell R iera , Jo aq u m : 553 Pompei, S a n t u a r io d e l l a

M a d o n n a : 193, 521 Ponz P iedrafita , Fran cisco : 82, 83,

88, 93, 376, 377, 379 P orcioles C olom er, Jo sé M a ria de:

477Portillo Diez de Sollano, Àlvaro

del, passim P o r t o g a l l o : 12,109,139,148,

176, 193, 234, 251, 266, 310, 313, 344, 345, 346, 347, 369,371, 375, 376, 534, 597, 601, 606, 616, 617, 620, 635, 650

P o r t o r i c o : 373, 741 P r e l a t u r a d i Y a u y o s: 679, 680 P rem en o (Verbania): 580 Puccini Banfi, Ugo: 732 Pueblo (quotidiano di Madrid):

503Q u ito : 232, 736, 632, 682, 683,

685, 732 Ramirez Pastor, Emilia: 436 Ramos Garcia, Carmen: 304, 381,

541, 628, 726, 736 RANCAGUA (Cile): 674 Raynal Garcia, Hector: 370 R e g g io C a la b r ia : 133,134 R e g n o U n ito : 327 Reims*. 468Ricceri, Francesco: 134, 163, 167 Richards, Michael: 329, 333, 436 Rieman, Richard: 295, 318, 370,

737Rio d e Jan e iro *. 660 Rivero Marin, Maria Presentación:

296Rodriguez Lara, Guillermo: 732 Rodriguez Pedrazuela, Antonio:

706, 732 Rodriguez Vidal, Adolfo: 45, 88,

121, 164, 230, 231,297, 298,368, 673, 677

Rodriguez y Diaz de Lecea, José:55 3

Rof Carballo, Juan: 2 5 , 2 6Roma, passimR o m a , C e n t r i d e l l 'O pus D ei

- C avabianca : 6 2 7 , 6 4 6 -6 4 9 , 70 0 , 7 1 9 -7 2 1 , 7 2 2 , 7 2 7 , 728

- c en tr o di C ittà L eo n in a : 2 5 2

- C e n t r o ELIS: 4 7 1 -4 7 2 , 5 4 7 , 5 8 8 , 591

- C o lleg io R o m a n o d ella Santa C r o c e : 1 2 3 ,1 2 4 ,1 2 5 , 1 4 0 ,1 6 5 , 2 0 2 , 2 0 3 , 2 0 8 , 2 2 0 ,2 3 7 , 2 4 5 , 2 4 6 , 2 4 8 , 2 5 0 , 2 5 3 , 2 6 1 , 2 6 4 -2 7 0 , 2 8 9 , 2 9 7 , 2 9 8 , 3 0 5 , 3 2 9 , 3 3 9 , 3 6 7 , 3 7 1 , 3 8 6 , 3 8 7 , 4 3 5 , 4 3 9 , 5 6 8 , 5 7 8 , 60 4 , 6 0 6 , 6 0 7 , 6 2 7 , 6 3 9 , 6 4 5 -6 4 9 ,7 0 0 , 71 9

- C o llegio R o m a n o d i Santa M a ria : 2 3 6 , 2 6 9 -2 7 3 , 2 9 8 ,3 0 0 , 6 4 7

- P e n sio n a t o ( V i l la T ev ere ): 1 0 2 ,1 0 3 ,1 0 4 ,1 0 5 ,1 0 6 , 123 , 1 2 5 ,1 2 9 ,1 3 0 , 13 3 , 1 3 9 ,1 4 0 , 160 , 165 , 182 , 1 8 3 ,2 0 4 , 2 6 5 , 2 8 6 , 2 9 8

- Scu o la A lberg h iera F em m in ile In t e r n a z io n a le (SAFI): 5 4 7

- Vil l a Sa c c h e t t i: 2 7 1 ,4 5 0- Vil la T e v e r e : 9 7 , 9 8 ,1 0 1 ,

111 , 1 1 2 ,1 3 0 , 15 3 , 18 4 , 189 , 2 0 2 -2 0 5 , 2 0 8 ,2 1 7 ,2 1 8 , 2 2 0 , 2 2 3 , 2 3 5 , 2 3 6 , 2 3 7 , 2 4 6 , 2 4 8 , 2 5 0 , 2 5 5 , 2 5 8 , 2 5 9 , 2 6 3 -2 6 6 ,2 7 1 , 2 7 2 , 2 8 6 , 2 8 7 , 2 8 9 , 2 9 6 , 2 9 7 , 2 9 8 , 3 0 5 , 3 0 7 , 3 2 1 , 3 2 4 ,3 2 6 , 3 3 9 , 3 4 0 , 3 5 3 , 3 6 7 , 3 7 1 , 3 8 6 ,4 1 8 , 4 5 0 , 4 6 0 , 4 6 7 , 4 6 8 ,4 7 7 , 6 1 2 , 6 3 6 , 6 3 9 , 6 4 5 , 6 4 7 , 64 8 , 6 9 6 , 7 1 2 , 7 2 2 , 7 2 3 , 7 2 5 ,72 6

- Vil la Vec c h ia ( V i l la T evere ): 1 0 1 ,1 0 3 ,1 1 0 , 2 0 5 , 2 1 8 ,2 3 8 ,2 5 4 , 2 6 6

755

Page 749: De Prada - Il Fondatore Dell'Opus Dei - Vol III

R o m a , chiese e istitu zio n i

- A E R O P O R T O D I C l A M P I N O : 5 0- B a s il ic a d i S. P a o lo f u o r i l e

MURA: 457- B a s il ic a d i S. P ie t ro : 30, 52,

84, 457, 726- C a p p e lla S is tin a : 4 5 6- C a s t e l S a n t ’ A n g e l o : 3 0- C o l o s s e o : 5 0- P a la z z o V a t ic a n o : 30- P a r r o c c h i a S . G i o v a n n i

B a t t i s t a a l C o l l a t i n o *. 5 4 7- S a n t u a r io d e l D iv in o

A m o re : 1 9 3 , 2 0 6- U niv ersità d el L a t er a n o :

165, 377R o m a , vie e lu o g h i

- C o rso R in a sc im e n t o : 8- L u n g o t e v e r e : 8 2- P ia z z a d e l l a C i t t à L e o n in a :

30, 50, 51, 89, 97,101,102,123, 159, 252

- Pia zz a N a v o n a : 8- P ia z z a S. P ie t r o : 31, 37,159,

456- P ia z z a V en ez ia : 105- Q u a r t i e r e P a r i o l i : 2 9 9- T r a s t e v e r e : 1 3 3- V i a A u r e l i a : 3 1- V ia d e g l i Scipioni: 253, 254,

257, 260, 296- V ia F lam in ia : 646- V i a S a l a r i a : 1 9 2- V ia le B r u n o Buozzi: 99,101,

233, 252, 296Roncalli, Angelo Giuseppe (vedi

anche Giovanni XXIII): 456,542, 544

R o t te r d a m : 323 ROUEN: 323Rubio Garcia-Mina, Jesus: 553 Rueda Salaberry, Andrés: 542 Ruffini, Ernesto: 10, 133, 135, 456 Ruiz Jusué, Teodoro: 239, 240,

297, 298, 369, 372, 436 R u ssia : 324S a in t A lb a n s (Inghilterra): 329

756

S a in t-C la u d e : 4 68 S a lisb u rg o : 3 2 4 Sallent Casas, Ignacio: 89, 1 05 ,

1 41 , 160 , 162 , 166 S a l t o di F o n d i (Latina): 2 4 5 , 2 4 8 ,

2 5 2 , 2 5 3 , 2 9 3 , 728 Salvat Romero, Roberto: 4 3 9 , 6 9 1 ,

7 3 2Sambeat Valón, Martin: 7 2 7 , 73 9 Samoré, Antonio: 2 5 5 , 3 0 5 , 3 6 2 ,

3 7 3 , 381 San Bernardo: 2 2 6 San Francesco di Sales: 561 San Gallo (Svizzera): 79 , 9 2 , 2 9 3 ,

3 2 2 , 3 7 1 , 37 2 San Giacomo: 3 35 San Giuseppe Calasanzio: 1 98 ,

5 1 2 , 633 San Nicola da Bari: 2 4 8 , 2 8 7 , 64 8 San Paolo (Brasile): 6 6 0 , 7 3 6

- AROEIRA, CASA DI RITIRI: 6 6 4- A u d ito r iu m M a u à : 6 6 4- Casa d o M o in h o : 663- C a sa N o va : 6 6 2- C e n t r o C o n v e g n i Pa r q u e

A n h e m b i: 6 6 4- SUMARÉ: 660

San Pietro di Alcantara: 4 1 2 , 4 4 1 San Pio X: 2 8 7 San Sinfero: 4 4 , 88 San Tommaso d’Aquino: 2 7 5 , 3 0 0 ,

4 8 2San Tommaso Moro: 2 8 7 , 3 3 2 ,

3 3 4San Toribio: 381San Vicente de Canete (Perù): 3 6 4 ,

3 8 2 , 67 9- A c ad em ia Sa n J o s é : 6 8 0 , 733- C o n d o r a y , C e n t r o d i

F o r m a z io n e P r o fe s s io n a le : 3 8 2 , 679

- I s t i t u t o R u r a le Va l l e G r a n d e : 3 8 2 , 67 9

San Vincenzo Ferreri: 633 Sànchez Bella, Florencio: 2 9 0 , 2 9 3 ,

2 9 9 , 3 0 5 , 3 7 8 , 3 7 9 , 4 3 6 , 4 3 7 ,4 3 9 , 4 4 1 , 5 0 4 , 5 1 4 , 5 4 2 , 5 4 5 ,

i

Page 750: De Prada - Il Fondatore Dell'Opus Dei - Vol III

548, 550, 551, 552, 555, 556, 557, 559, 560, 563, 625, 633,725, 726, 727, 728

Sànchez Bella, Ismael: 349, 376, 379

Sànchez Merino, Carmen: 378 Sànchez-Moreno Lira, Luis: 315,

369, 461, 733 Sancho Izquierdo, Miguel: 556 Sancho Morales, Silvestre: 362 Sangróniz y Castro, José Antonio

de: 99Sa n t ’A m b r o g io O lo n a (Varese):

444Santa Caterina da Siena: 129, 497,

499Santa Elisabetta del Portogallo:

616Santa Mercuriana: 44 Santa Sede

- C o n g r e g a z io n e C o n c i s to r ia le : 520, 561

- C o n g r e g a z io n e dei R e lig io s i: 14,15,17,18,19, 20,21,38, 39, 42, 56, 61, 63,65, 67, 68, 78, 79, 87, 195, 196, 197, 198, 200, 301, 518,520, 526, 561, 562, 563, 564

- C o n g r e g a z io n e dei R iti: 79- C o n g r e g a z io n e d e l

C o n c i l io : 92- C o n g r e g a z io n e per i

Sem in a ri e le U n iv er sit à :274, 378, 475, 548, 552

- C o n g r e g a z io n e p er i V e sco v i: 561

- C o n g r e g a z io n e p er l ’E d u c a z io n e C a t t o l i c a : 552

- C o n g r e g a z io n e p er l a R e v e re n d a F a b b r ic a d i S. P ie t ro : 726

- S a c r a P e n ite n z ie r ia : 41, 94- S e g r e te r ia d i S t a t o : 34, 85,

183, 362, 465, 502, 520, 533,546, 547, 564, 589, 590, 594, 595, 598, 600, 629, 630, 631, 693

Santa Teresina: 323Santiago d el C il e : 2 3 0 , 6 3 0 , 67 4 ,

6 7 5 , 7 3 2 , 733- M o n a ster o d elle

C arm elitan e S c a l z e : 6 7 6 ,73 3

- R e s id e n z a u n iv e r s i ta r ia A l a m e d a : 6 7 4

- S c u o la Ta b a n c u r a : 6 7 4 , 678- U niv ersità C a t to lic a : 675

Sa ntiago D i C o m p o st ella : 116 ,3 3 5 , 3 7 2 , 5 4 2 , 5 4 4- R e s id e n z a L a E s t i l a : 5 4 2

Santo Curato d’Ars: 2 8 7Santo R o sario : 17, 4 1 4 , 4 2 2 , 441 Santos, Sor Lucia dos: 3 4 3 , 6 1 6 Sanz Villalba, Sotero: 6 2 9 , 6 3 0 Sanz-Orrio y Sanz, Fermin: 553 S a r a g o z z a : 2 6 , 8 1 ,1 9 3 , 2 3 9 , 32 6 ,

3 5 2 , 3 5 3 ,3 9 9 , 4 3 6 , 4 7 7 ,5 1 1 ,5 3 5 , 5 4 3 , 5 4 4 , 5 5 9 , 6 1 4 , 7 1 0 ,7 12- B asilica d el Pil a r : 19 3 , 3 2 6 ,

3 5 3 , 4 7 7 , 5 2 7 , 535- C hiesa di Santa E n g r a c ia : 2 6- Pa la zz o A rc iv esc o v ile : 3 5 2 ,

353- R eale Sem in a rio

Sac erd o ta le d i S. C a r l o :1 54 , 2 3 9 , 353

- R e s id e n z a U n iv e r s it a r ia M ir a f l o r e s : 5 43

- Sem in ario di S. F r a n c esc o di Pa o la : 4 3 6

- U n iv e r s i t à : 351 Sartori, Cosma: 80 S c a le a (Cosenza): 1 34 Schuster, Alfredo Ildefonso: 132 ,

133 , 1 4 1 ,1 6 6 ,1 6 7 , 19 4 , 196 ,1 98 , 2 3 4 , 2 3 5 , 631

S e g o v ia : 4 2 ,1 0 3 S e n e g a l: 5 9 5 , 60 0 Serrano Castro, Armando: 89 Serveto, Michele: 5 1 2 Sforza-Cesarini, Duchessa: 9 9 , 160 SICILIA: 109 , 132 Sien a: 32 6

757

Page 751: De Prada - Il Fondatore Dell'Opus Dei - Vol III

S ié tam o (Huesca): 535 Silió Gómez-Carcedo, Xavier de:

160S ilo s , M o n a s t e r o d i S a n

D o m e n ico : 25 Silva M u noz, Federico: 629 Sinués U rb io la, Jo sé : 558 Siri, G iuseppe: 232, 456, 467, 543,

631S iv ig lia : 10, 42, 83, 91,109, 377,

590, 617- POZOALBERO, CASA DI RITIRI:

617Sofia di Grecia: 517 Solco: 374, 420, 422, 426, 439,

440, 442, 443, 553, 741 Soldevila Romero, Juan: 154, 353 Solis Ruiz, José: 356, 504, 553,

557Somoano Berdasco, José Maria:

173Soria Saiz, José Luis: 436, 441,

442, 625, 626, 627, 632, 725,726, 737

Sp agn a , passim Spellman, Francis: 10 S p e r lo n g a (Latina): 248 Sposetti, Roberto: 80 Stalin: 320S t a t i U n iti: 130,148,162,176,

177, 179, 205, 210, 230, 231,239, 251, 263, 297, 310, 313, 315, 316, 319, 340, 341, 342, 367, 368, 369, 370, 458, 628, 641,706,726

Stepinac, Alojzije: 320, 455 Stork, Richard: 557 S tu d io G e n e r a le d i N a v a r r a :

349, 350, 351, 376, 377, 378, 379- I s t i t u t o d i D ir i t t o

C a n o n ic o : 350- I s t i t u t o d i G io r n a lism o : 350- S c u o la d i D ir i t t o : 350- S c u o la d i M e d ic in a : 350- S c u o la d i S t o r ia : 350- S c u o la p er In ferm iere*. 350

Suàrez Verdeguer, Federico: 295 Sunol, Gregorio Maria: 43 SUSSEX: 335S v iz z e ra : 27, 79, 92, 320, 322,

323, 325, 328, 338, 371, 527 Szulc, Tad: 555Taboada del Rio, Alberto: 133,

162, 166, 233, 237, 238, 241, 435, 440

Taboada del Rio, Ramon: 732 Taguchi, Paul Yoshigoro: 340,

341, 374 Tardini, Domenico: 85, 97, 171,

351, 377, 457, 460, 513, 520,521, 543, 561, 631

TARRAGONA (Spagna): 10 Tedeschini, Federico: 160, 171,

199-201, 235, 296, 631 T e r r a c in a (Latina): 244-248, 299 Tertulliano: 299The Times (quotidiano di Londra):

333Thomas, Rolf: 300, 371, 376, 545,

550, 551, 560 Tirelli, Luigi: 130,133, 139, 140,

164, 165,166, 168, 232, 237, 628, 728

Tisserant, Eugenio: 455, 456 T o k y o : 341 T o le d o : 10 T o lo s a : 613T o r d ’A veia (L'Aquila): 261, 647,

728Torello Barenys, Juan Bautista:

166, 232, 370, 438, 542, 737 T o r in o : 140, 320 Torreciudad, Santuario della

Madonna: 88, 534, 535, 565, 641-645, 648, 711, 713, 716,727

T o sc a n a : 476, 477Tostado de Madrigai, Alonso: 633T o u rS : 438Traglia, Luigi: 631T rap an i: 167Travia, Antonio Maria: 85TubingA : 613

758

Page 752: De Prada - Il Fondatore Dell'Opus Dei - Vol III

T u rc h ia : 456 TuY: 335Udaondo Barinagarrementeria,

Juan: 167, 173, 194, 196, 198, 232, 233, 234, 235, 439, 545, 625

U g a n d a , 358Ullastres Calvo, Alberto: 237, 492,

493, 553, 554 U n g h e r ia : 320, 325 0 U n iv e r s it à d i N a v a r r a : 93, 349,

351, 353-356, 376, 377, 379, 380, 442, 473, 474, 478, 485, 487, 501, 556, 559, 593, 596, 613, 640, 658- C lin ic a U n iv e r s ita r ia : 477,

478, 609, 625- Fa c o ltà d i A r c h it et t u r a :

3 7 7- Fa c o ltà d i Fa r m a c ia : 3 7 7- F a c o l t à d i M e d ic in a : 354- Fac o ltà d i S c ien z e

B io lo g ic h e : 3 7 7- F a c o l t à d i S c ie n ze F isiche:

377- F a c o l t à d i T e o lo g ia : 377,

473, 474, 485, 486, 487, 548, 596

- I s t i t u t o d i A r t i L ib e ra li : 377- Istitu to d i F ilo so fia : 3 7 7- Istitu to In t e r n a z io n a le di

S c ien z e d ell ’E d u c a z io n e :377

- I s t i t u t o T e o lo g ic o : 377- S c u o la d i In g e g n e r ia

T e c n ic a In d u s t r ia le : 377- S c u o la p er A ss is te n t i

S o c ia l i : 377- S c u o la T e c n ic a S u p er io re di

I n g e g n e r ia In d u s t r ia le : 377U n iv e r s it à d i P iu ra : 735 Urbistondo Echeverria, Juliàn: 176 Urmeneta Ajarnaute, Miguel

Javier: 378 Urrutia Domingo, Maria Begona

de: 236, 296, 437, 440

URSS (Unione Repubbliche Socialiste Sovietiche): 319

Urteaga Loidi, Jesus: 88, 121, 164,166, 237, 437, 542

Uruguay: 338, 369, 668, 671, 732 U trech t: 323 Valdés Ruiz, Manuel: 369 Valéncia: 110, 277, 417, 467,

473, 474, 618, 619, 701- E l C u b il : 619- L a L lo m a , CASA DI RITIRI:

619, 620, 701- R e s id e n z a U n iv e r s it a r ia L a

A la m e d a : 619Valenciano Polack, Fernando: 85,

232, 293, 303, 374, 545, 547, 552, 560, 631, 687, 731

Valeri, Valerio: 251, 300, 375, 520 V a lic o d e l B r a c c o : 9 V a l la d o l id : 110 Van Dodewaard, Jan: 496 Van Zuylen, Guillaume Marie: 468 Varvaro, Sofia: 725 Vàzquez Galiano, Antonio: 169 V en ez ia : 457, 542 V e n e z u e la : 310, 319, 338, 373,

673, 683, 686-690, 691, 696,701, 703-706, 707, 732

V e ro n a : 168 V e r s a i l le s : 323, 325 Via Crucis: 422, 441, 734 V ia re g g io : 30V ien n a : 317, 322, 323, 324, 326

- C a t t e d r a l e d i S a n t o S te fa n o : 324

- H o t e l B e lle v u e : 322- H o t e l B r i s t o l : 324

V ig o (Spagna): 334 Vigón Suerodiaz, Jorge: 553 Villot, Jean: 532, 598, 599, 601,

612, 631 V in a d e l M a r (Cile): 674 Vince, Vladimiro: 165 Violardo, Giacomo: 631 VlSEU (Portogallo): 616 VlTORlA (Spagna): 334

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Vives Unzué, Francisco: 303, 436, 624, 626, 628

Washington: 338 Wheeler, William Gordon: 331 WlCKENDEN MANOR, CASA DI RITIRI

(Sussex): 335 WINCHESTER: 334 Wyszynski, Stefan: 455, 556

Yauyos, prelatura di (Perù): 362- 366, 381 461, 466

Zavala Stanbury, Abrahàn: 680 Zorzano Ledesma, Isidoro: 163,

177, 297, 542 Zubiri Vidal, Antonio: 378 Zumalde Madina, Iciar: 296 Z u r ig o : 322, 325, 328

760

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Indice

CAPITOLO XVI - IL FONDATORE A ROMA (1946-1948)7 1. Il secondo periodo romano di don Àlvaro

13 2. Le forme nuove di vita cristiana24 3. Una notte in preghiera34 4. In attesa di una soluzione giuridica48 5. «Una povertà vera». Gli Istituti Secolari63 6. La secolarità e il lavoro professionale

CAPITOLO XVII - ROMANIZZARE L’OPERA95 1. La sede centrale

111 2. Il governo dell’Opera tra Roma e Madrid122 3. L’ora di Dio141 4 .1 primi soprannumerari148 5. L’approvazione definitiva dell’Opus Dei (1950)

CAPITOLO XVIII - TRE ATTI DI FEDE175 1. Consacrazione alla Sacra Famiglia (14-V-1951)188 2. Cor Mariae dulcissimum, iter para tutuml201 3. Un monumento di fede e di amore205 4. L’eroismo di don Àlvaro213 5. La guarigione dal diabete (27-IV-1954)

CAPITOLO XIX - L’UNITÀ DELL’OPERA243 1. Il Congresso generale di Einsiedeln (1956)252 2. La morte di zia Carmen (1957)263 3. La battaglia della formazione 276 4. L’arte di governare 286 5. Consummati in unum!

761

Page 755: De Prada - Il Fondatore Dell'Opus Dei - Vol III

CAPITOLO XX - L’ESPANSIONE DELL’APOSTOLATO307 1. La parabola del trapianto.319 2. La preistoria: i viaggi in Europa.336 3. Nuovi Paesi (1952 - 1962).348 4. Le opere corporative

CAPITOLO XXI - LINEAMENTI PER UN PROFILO383 1. La paternità spirituale392 2. Carattere e personalità401 3. Le assurdità dei santi412 4. Un maestro di spiritualità421 5. Amare appassionatamente425 6. Il carisma fondazionale

CAPITOLO XXII - L’EPOCA DEL CONCILIO VATICANO II445 1. La vita di tutti i giorni455 2. Il Concilio (1962-1965)472 3. L’epoca postconciliare487 4. L’ultimo romantico506 5. Il marchesato di Per alta517 6. «Di fatto, non siamo un Istituto Secolare»525 7. Il Congresso Generale speciale (1969-1970)

CAPITOLO XXIII - SANTITÀ E GRANDEZZA DELLA CHIESA567 1. «Mi duole la Chiesa»578 2. Locuzioni divine588 3. Nella casa del Padre comune603 4. «Lottare, per amore, fino all’ultimo istante»610 5. Un viaggio di catechesi nella Penisola iberica (1972)

CAPITOLO XXIV - «IL TUO VOLTO, SIGNORE, IO CERCO»635 1. Le ultime tre pazzie649 2. La terza scampanata660 3. Il viaggio in America del Sud (1974) x673 4. Le Ande: «Non sono un uomo d’alta quota»691 5. Il giubileo sacerdotale (1975)711 6. Gli ultimi giorni e la morte (26-VI-1975)

743 INDICE dei nomi

761 INDICE GENERALE

762