De Prada - Il Fondatore Dell'Opus Dei - Vol I

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Andrés Vàzquez de Prada IL FONDATORE DELL’OPUS DEI Vita di San Josemarfa Escrivà (voi. I) “Signore, fa’ che io veda!” Edizione italiana a cura di Aldo Capucci Traduzione di Agostino Donà LEONARDO INTERNATIONAL

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De Prada - Il Fondatore Dell'Opus Dei - Vol I

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Andrés Vàzquez de Prada

IL FONDATORE DELL’OPUS DEI

Vita di San Josemarfa Escrivà (voi. I) “Signore, fa’ che io veda!”

Edizione italiana a cura di Aldo Capucci Traduzione di Agostino Donà

L E O N A R D O I N T E R N A T I O N A L

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ISBN 88-88828-06-0

Traduzione di Agostino Donà L'edizione italiana dei 3 volumi dell'opera è a cura di Aldo Capucci

Opera pubblicata su licenza di Fundación StudiumIl Fondatore dell’Opus Dei, © 2002 by Fundación Studium© 2003 Leonardo International srlseconda edizione maggio 2003Ristampa seconda edizione novembre 2005

Ufficio Informazioni della Prelatura delPOpus Deiper l’Italia in InternetMilanoe-mail: [email protected] http://www.opusdei.it

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PRESENTAZIONE

Che cos’è una biografia? Biografia, in senso stretto, è la narrazione della vita di una persona fuori del comune; come genere scientifico, essa ricade a buon diritto nell’ambito della Storia. Però una vita non è qualcosa a sé, come un isolotto sperduto nell’oceano, ma si svolge e si sviluppa in mezzo a una comunità. Il singolo indivi­duo è legato a un luogo, è partecipe di una certa cultu­ra e appartiene a una patria. Inoltre, in qualsiasi epoca e Paese égli viva, gli avvenimenti contribuiscono a se­gnarne l’esistenza. Perciò la messa a fuoco biografica, necessariamente, non si potrà limitare a ciò che riguar­da esclusivamente la persona in questione. Il ricercato­re, e poi il lettore, devono tenere presenti molte altre circostanze culturali e sociali, allo scopo di puntualizza­re i fatti e collocare al posto giusto la verità storica.

Metodo di ricerca. In genere, il biografo adotta un si­stema di esposizione cronologica, analizzando fino in fondo la realtà storica, per proseguire poi nella descri­zione del corso degli eventi che riguardano il protagoni­sta, dalla culla alla sepoltura. E presumibile che l’auto­re cominci con il descrivere la famiglia e il clima dome­stico, l’educazione ricevuta e gli episodi della prima in­fanzia, che consentono di intravederne l’incipiente per­sonalità. Ma deve anche evitare finzioni e fantasie, la­

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vorando in stretta aderenza a un rigoroso metodo di ri­cerca e ai procedimenti scientifici che concernono in particolare le fonti. In tal modo, ogni biografia che possa vantarsi di obiettività scientifica rappresenta una vera sfida, perché il biografo è costretto a intraprendere il compito preliminare di reperire documenti e testimo­nianze per sottoporli poi al vaglio critico, se necessario. (Il ricercatore, per quanto affidabili possano essere le fonti di cui dispone, non è mai esentato dal faticoso la­voro preliminare che consiste nel selezionare le testimo­nianze, nel valutarne l’importanza e nell’inserirle nel quadro storico).

Abbondanza delle fonti. Quando, tempo addietro, credendo di aver adempiuto il gravoso impegno di rac­colta delle testimonianze e di altre fonti storiche, mi ac­cingevo a tracciare le linee conduttrici del presente libro, la mia sorpresa fu grande. Il materiale indispen­sabile, dal quale non era possibile né giusto prescinde­re, era così abbondante da eccedere il più ambizioso programma biografico. Era necessario ridurlo e concen­trarsi sulla figura del Fondatore, senza disperdere l’at­tenzione su fatti secondari. Solo grazie a questa scelta le vicende dell’Opus Dei intimamente legate alla sua mis­sione personale possono venire esposte con completez­za. Invece altri temi di per sé importanti, quali la genesi dello spirito dell’Opus Dei, l’espansione del suo mes­saggio nei cinque continenti, la descrizione del panora­ma culturale e sociale in cui si muove il Fondatore, e quant’altro ancora, vengono trattati in modo succinto, in quanto tutto questo sarà senza dubbio materia di fu­turi studi. Tenendo presente tutto ciò, mi sono attenuto strettamente all’intenzione biografica, in modo che la narrazione non esca dal seminato. Allo stesso tempo, come dimostrano le note, mi sono attenuto al rigore documentale e alle altre esigenze critiche che sono la base della veracità storica.

La visione oggettiva della realtà storica. A proposito

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del lavoro di ricerca da me svolto, sono stato molto aiutato da una qualità presente nella persona e negli scritti del Fondatore, per la quale gli sono molto grato. Mi riferisco alla visione oggettiva del fatti. Don Jose­marfa possedeva in grado molto elevato la dote intel­lettuale di valutare in modo giusto e con retto criterio la realtà storica. Stava sempre nell’atteggiamento vigile di considerare le cose e le situazioni alla luce dei dise­gni divini, prescindendo da gusti, preferenze personali e interessi egoistici. Essendo egli sempre rivolto a Dio, la scia lasciata dalla sua vita è lineare, semplice e profonda. La si può riassumere dicendo che si dedicò corpo e anima a compiere i piani divini sull’Opus Dei. Il 2 ottobre 1928, dopo dieci anni di attesa nel presen­timento di qualcosa che sarebbe accaduto, fu preso per mano da Dio, che lo introdusse nella Storia. Quel gio­vane sacerdote ricevette assieme la missione di fare l’Opus Dei e il relativo carisma. A partire da quella data, Dio e Josemarfa - Josemarfa condotto per mano da Dio - avrebbero vissuto insieme una lunga e mera­vigliosa avventura.

Le due facce della biografia. Ecco quindi il tema fon­damentale della presente biografia: seguire passo passo la gestazione dell’Opus Dei, finché l’uomo scelto per realizzare questa colossale impresa mette il punto finale al proprio compito. In questo don Josemarfa impiegò tutta la sua esistenza. Il che equivale ad affermare che il carisma ricevuto operò per tutti quegli anni nella sua anima, identificando la sua persona con l’Opus Dei. Fa­cendosi egli stesso Opus Dei. Questa è l’altra faccia della biografia.

Logica divina e logica umana. Dio, come fa un Padre con suo figlio, insegnò a Josemarfa la “logica di­vina” , a volte sconcertante e molto lontana dalla “ logi­ca umana” , che giudica e agisce secondo criteri terreni. Invece i giudizi di Dio poggiano amorevolmente sul senso della filiazione divina; sulla Croce, segno gioioso

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della vittoria di Cristo; sul potere illimitato della pre­ghiera; sulla misteriosa fecondità delle contrarietà... La visione oggettiva della realtà storica che possedeva il Fondatore, sopra ricordata, è qualcosa di più che una mera perspicacia chiaroveggente; è il dono di penetrare l’essenza della storia, saggiamente governata dalla Provvidenza. Alle realtà religiose, ai fatti soprannatu­rali, egli applicò categorie proprie della logica divina, in sintonia con la propria missione, divina e universale, alPinterno della Chiesa.

La statura del Fondatore. Per apprezzare dovutamen­te la grandezza della sua persona, è necessario seguirlo nella sua progressiva maturazione spirituale. Questo iti­nerario di crescita interiore è allo stesso tempo fonte di amore e via crucis di sofferenza, per una progressiva identificazione con Cristo. Non sono necessari, quindi, elogi agiografici, perché la sua santità è evidente e si erge in modo impressionante davanti ai nostri occhi.'

Poco dopo aver ricevuto la sua missione divina, don Josemaria si paragonava a un povero uccellino che svo­lazza qua e là. Ma un’aquila lo afferra e “fra i suoi arti­gli poderosi l’uccellino sale, sale molto in alto, oltre le montagne della terra e le vette innevate, oltre le nubi bianche e azzurre e rosa, ancora più su, fino a guardare in faccia il sole ... E allora l’aquila, liberando l’uccelli­no, gli dice: Forza, vola!...” 1.

Nelle pagine di questo libro intendiamo anche proiet­tare la visione dell’itinerario mistico di un’anima.

Padre di una grande famiglia. In questi nostri tempi, Dio ha suscitato un uomo per il bene della Chiesa e delle anime. Dono divino per il quale dobbiamo essere riconoscenti: a Dio in primo luogo, e in parte a don Jo- semarìa, che ha preso docilmente su di sé l’onere di as­secondare i disegni divini. Egli non voltò le spalle al mondo; si interessò al suo cammino e al suo progresso. Mise audacia e ottimismo nelle proprie aspirazioni apo­stoliche. Proclamò che la santità non è fatta solo per al­

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cuni privilegiati. Aprì insomma, con il suo messaggio, i cammini divini della terra. Strade di santificazione per tutti coloro che, nel bel mezzo del mondo, si identifica­no con Cristo, lavorando per amore di Dio e degli altri uomini.

Alla missione del Fondatore appartiene anche il cari­sma della sua paternità: Padre e Pastore di una porzio­ne del popolo di Dio. Già in vita ebbe, come gli antichi patriarchi, un’ampia discendenza spirituale. Il 17 mag­gio 1992, giorno in cui la Chiesa gli tributò ufficial­mente l’onore degli altari, un’immensa folla di figli del suo spirito - persone di tutte le razze e di ogni condi­zione di vita - affollava piazza S. Pietro a Roma.

Sono grato del valido aiuto ricevuto da monsignor Al­varo del Portillo, allora Vescovo Prelato dell’Opus Dei; dal suo successore Monsignor Javier Echevarria, Vesco­vo Prelato attuale; e da coloro che si sono assunti l’one­re di accertare l’esattezza di alcuni dati di questo libro.

Andrés Yàzquez de Prada

1 Appunti, n. 244.

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PRINCIPALI ABBREVIAZIONI USATE NEL TESTO

AGPAppuntiAVFLettera

EF

DIZL

POI, P02, ecc.PMPRRHFSum.

T

Archivio Generale della PrelaturaAppunti intimiAutografi vari del FondatoreLe Lettere a tutti i membri dell5Opera, autentici scritti fondazionali, vengono citate con la data e con la nume­razione a margine che compare nel testo della Lettera stessa; per es.: Lettera 24-12-1951, n. 7.NclV Epistolario del Fondatore è raccolta la corrispon­denza personale; le lettere sono citate con la sigla EF e la data.Documento.Sezione dell’Archivio Generale della Prelatura relativo al Servo di Dio Isidoro Zorzano Ledesma.Raccolte di documenti a stampa (Sezioni dell’AGP).Processo Madrileno, seguito dal numero del foglio.Processo Romano, seguito dal numero della pagina.Registro Storico del Fondatore (Sezione dell5AGP).Summarium della Causa di beatificazione e canonizza­zione. Positio super vita et virtutibus, Roma, 1988. Viene citato il testimone e il numero corrispondente del Summarium.Testimonianza.

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Capitolo I

L’EPOCA DI BARBASTRO (1902-1915)

1. L’ascendenza familiare

Josemaria Escrivà de Balaguer nacque a Barbastro (nella regione spagnola dell’Aragona) il 9 gennaio 1902 e morì a Roma il 26 giugno 1975.

Poche settimane prima della sua morte, mentre cerca­va di rileggere nella giusta luce la propria esistenza, ma­nifestava un profondo senso della Provvidenza divina dicendo: “Il Signore mi ha fatto vedere come mi ha con­dotto per mano” 1. Fra gli anni che vanno dal 1902 al 1975 ci fu per lui una data di eccezionale importanza: il 2 ottobre 1928, giorno della fondazione dell’Opus Dei. Questo fatto soprannaturale ha segnato la sua vita in modo tale che in ogni riferimento autobiografico si ri­specchia l’incancellabile consapevolezza di una missione personale. Come quando descrisse la propria venuta al mondo:

“Dio nostro Signore fece in modo che la mia vita fosse normale e comune, senza nulla di straordinario.Mi fece nascere in un focolare cristiano, come sono di solito quelli della mia terra, da genitori esemplari che praticavano e vivevano la propria fede”2.

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Josemarìa nacque alla fine di un giorno d’inverno, verso le dieci di sera. Per questo motivo, con senso umo­ristico, definiva i suoi primi momenti come passi da “nottambulo” , in quanto aveva cominciato a vivere con una notte intera davanti a sé. Anche se con questa espressione alludeva velatamente alla lunga notte di oscurità che, per anni, avvolse la sua missione spirituale3.

Il giorno successivo, 10 gennaio, fu iscritto all’Ana­grafe, dove si legge, fra altri dati:

«Che questo bimbo nacque alle ventidue di ieri nel do­micilio dei suoi genitori, calle Mayor, n. 26.Che è figlio legittimo di Don José Escrivà, commercian­te, di 33 anni, e di Donna Dolores Albàs, di 23 anni, ori­ginari rispettivamente di Fonz e di Barbastro.Che è nipote in linea paterna di Don José Escrivà, defun­to, e di Constancia Cerzàn (sic), originari rispettivamen­te di Peralta de la Sai e di Fonz.E in linea materna di Don Pascual Albàs, defunto, e di Donna Florencia Blanc, originari di Barbastro.E che il succitato bimbo deve essere iscritto con i nomi di José Maria, Juliàn, Mariano»4.

Alcuni giorni dopo, il 13 gennaio, festa liturgica del­l’ottava dell’Epifania, nella quale si commemorava il Battesimo del Signore, il Règgente del Vicariato della cattedrale di Barbastro impose al bambino, al fonte bat­tesimale, i nomi che già apparivano nel registro dello Stato Civile: José, nome del padre e del nonno; Maria, per devozione alla Santissima Vergine; Juliàn, quello del santo del giorno; Mariano, per riguardo al padrino di battesimo5.

Con il passare degli anni, Josemarìa dimostrò una profonda riconoscenza al sacerdote che gli aveva ammi­nistrato questo sacramento. Il reggente si chiamava Àn- gel Malo - nome difficile da dimenticare - e la memoria di lui sarebbe stata presente quotidianamente nel me­

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mento delle Messe che don Josemaria avrebbe celebrato per mezzo secolo6. Identici sentimenti di gratitudine serbò per i padrini di battesimo.

Quanto al fonte battesimale della cattedrale di Barba­stro, di bella e accurata fattura, esso è uno degli oggetti artistici descritti nel Liber de Gestis del Capitolo, all’an­no 16357. Ben poco gli valsero, tuttavia, antichità e bel­lezza. Nel 1936, quando passò anche da lì la furia ico­noclasta, fu frantumato e i pezzi gettati nel fiume. À quel fonte avevano ricevuto le acque del battesimo mi­gliaia di cristiani, tra i quali la madre di Josemaria. A quel fonte battesimale, da bambino egli vide battezzare le sue sorelline più piccole. I suoi resti erano dunque de­gni di rispettosa considerazione. Fu così che, quando nel 1957 il Vescovo e il Capitolo della cattedrale gli regala­rono i frammenti salvati dalla distruzione, chiese che gli fossero inviati a Roma per ricomporli e dar loro onore­vole sistemazione:

“Sono appena giunti a Roma” - scriverà nel 1959 - “i resti del fonte battesimale della Cattedrale di Barbastro, che Sua Eccellenza e l’eccellentissimo Capitolo hanno voluto regalare all’Opus Dei, e non posso fare a meno di ringraziare il Signor Vescovo - come farò direttamente anche con il Capitolo - per questa delicatezza, che tanto mi ha commosso.Quelle venerabili pietre della nostra santa chiesa Catte­drale, una volta restaurate qui in Italia dai miei figli, oc­cuperanno un posto d’onore nella Casa Generalizia.Grazie di nuovo, Eccellenza, per questa cortesia, che ri­corderemo sempre con profonda riconoscenza”8.

Non fu il fonte battesimale l’unica vittima della bar­barie marxista. Maggiori danni ha subito lo Stato Civile di Barbastro. In quella stessa epoca furono ridotti in ce­nere archivio e documenti. L’atto di nascita oggi esisten­te non è quindi l’originale del 1902, ma una copia au­tenticata del 19129. Per inciso, diremo che la copia

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contiene alcuni lievi errori di nomi e di luoghi. Poco im­portava questo al padre di Josemarfa, fatta eccezione per una inesattezza ortografica che toccava nella sostan­za la sua parentela. José, uomo quanto mai pacifico, non era disposto a subire passivamente alterazioni del proprio cognome.

Il fatto è che in alcuni documenti il cognome “Escrivà” appare alterato in “Escribà” 10. Questa inno­cente svista ortografica non stupiva più di tanto, dato che in spagnolo non esiste differenza fonetica fra la “b” e la “v” . Il guaio era che, pronunciando il nome con una trasposizione dell’accento sulla penultima sillaba, si ri­chiamava qualcosa di ben diverso: il niente affatto ono­revole binomio evangelico degli “ scribi e farisei” .

Non era che una lieve burla lo scherzo dei compagni di scuola, che facevano arrossire Josemarfa con la fac­cenda degli “ scribi e farisei” 11 e non lasciavano in pace neppure sua sorella Carmen. Finché un giorno il padre, indignato, prese le difese del cognome, esigendo da Jo­semarfa che non tollerasse oltre battute di quel genere. Avvertimento che rimase ben impresso nel figlio, il qua­le avrebbe dovuto ingaggiare una vera battaglia contro la “b” . In una nota sulla sua vita interiore, del maggio o giugno 1935, così scriveva, riferendosi alla voluta parti­colarità della propria firma:

“Ho incominciato intorno al 1928 ad esagerare la V del mio cognome, solo perché non scrivessero Escrivà con la b”. E in una nota posteriore ricordava: “È stato mio pa­dre (che sta in Cielo) a ordinarmi che non tollerassi la b nel cognome: mi disse qualcosa sulla nostra ascenden­za... Ott. 1939” 12.

Da tali errori ortografici non andava esente il Reggen­te che lo battezzò in cattedrale. L’equivoco nella regi­strazione del suo battesimo egli non lo scoprì che nel 1960, a quanto si legge nella lettera di risposta a una

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persona che gli aveva inviato la fotocopia del suo atto di battesimo:

“Mi ha fatto piacere la fotocopia dell’atto di battesimo, ma mi ha rivelato che il buon don Àngel Malo sbagliò il cognome Escrivà scrivendolo con la b. Non sarebbe pos­sibile - se c’è spazio! - inserire una nota a margine con la rettifica?”13.

Simili lamentele fanno capire che la difesa del cogno­me è stata una campagna di lunga durata; e questo spaccato di lealtà familiare rivela, del resto, una profon­da sintonia tra padre e figlio.

Ma chi erano gli Escrivà e da dove proveniva la loro ascendenza? Originari di Narbona, i loro antenati ave­vano attraversato i Pirenei, già avanzato il XII secolo, per stabilirsi nella regione catalana di Balaguer, nel di­stretto di Lerida confinante con l’Alta Aragona. Il ramo degli Escrivà rimasto nella regione aggiunse al proprio cognome il toponimico “de Balaguer” , mentre un altro ramo andò a stabilirsi a Valencia, dopo che Giacomo I il Conquistatore ebbe espugnato la città, nel 123814. Jose­marìa Escrivà, discendente dal ramo catalano, nel 1940 chiese e ottenne di avere come primo cognome la forma, “Escrivà de Balaguer” , per distinguerlo da quello degli altri rami familiari15. À Balaguer era nato, nel 1796, il suo bisnonno José Maria Escrivà Manonelles, che stu­diò medicina e si stabilì a Perarrua, sposandosi con Vic- toriana Zaydìn y Sarrado. Ebbero sei figli. Uno di essi fu ordinato sacerdote; il secondo, José Escrivà Zaydìn, sposò nel 1857 Constancia Corzàn Manzana, originaria di Fonz, unendo nomi illustri delle casate del Ribagorza con quelli dell’Alta Aragona. Pure sei furono i figli di questa coppia; il minore, José, fu il padre del nostro Jo­semarìa16.

José Escrivà Zaydìn, che non arrivò a conoscere suo nipote poiché morì nel 1894, ricoprì a intervalli cariche

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pubbliche locali e dovette fronteggiare gli eventi e gli infortuni del secolo: aspre lotte ideologiche e di partito, diverse guerre carliste e, in più occasioni, aperte perse­cuzioni contro la Chiesa. Se si dà credito ai racconti che ci sono giunti sul suo conto, dovette essere un uomo estremamente conservatore nelle usanze e fortemente radicato nel paese dove si era stabilito, perché a Fonz, località avita della madre, rimase tutta la famiglia. Tutti ad eccezione del figlio minore, il padre di Josemaria17.

Forse la crisi che colpì l’agricoltura dell’Alta Aragona intorno al 1887 lo costrinse a guadagnarsi la vita fuori da Fonz. Le persistenti siccità, le crude gelate e, per col­mo di sventura, la fillossera nei vigneti, spinsero molti ad abbandonare i campi. Risulta che già prima del 1892 il giovane José si era stabilito a Barbastro, a poca di­stanza da Fonz18. Abitava in una strada chiamata via Rio Ancho, in una casa di proprietà di Cirilo Latorre, dove a pianterreno si trovava il negozio di tessuti “ Ciri­lo Latorre” , più noto alla gente come “ Casa Servando” . Poco dopo la morte del padre, il giovane José si associò a Jerónimo Mur e a Juan Juncosa, creando una società denominata “Sucesores de Cirilo Latorre” . Successiva­mente, quando nel 1902 il signor Mur si ritirò, gli altri due soci costituirono la nuova società “Juncosa y Escrivà” 19.

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Dolores Albàs y Blanc, madre di Josemaria, appartene­va a una famiglia originaria di Ainsa, capoluogo del So- brarbe, a metà strada fra Barbastro è le vette dei Pirenei. Nel XVIII secolo gli Albàs erano assurti al rango della nobiltà contadina del luogo. Ma non si stabilirono a Barbastro fino al XIX secolo, quando nel 1830 un certo Manuel Albàs Linés si sposò con Simona Navarro y Santias20. Da essi nacquero quattro figli. I due maggiori, Pascual e Juan, contrassero matrimonio nello stesso giorno con due sorelle, Florencia e Dolores Blanc. Le

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due coppie andavano perfettamente d’accordo e anda­rono ad abitare in due appartamenti della stessa casa (al numero 20 di Via Romero), casa che ben presto, a moti­vo della numerosa prole che la popolava, fu chiamata “la casa dei bambini”21.

Pascual e Florencia avevano già dodici figli (dei quali solo nove sopravvissero) quando nel 1877 Florencia diede alla luce due gemelle. Le bambine furono battez­zate con i nomi di Dolores e Maria de la Concepción. Quest’ultima morì due giorni .dopo la nascita. L’altra di­venne a suo tempo la madre di Josemarfa. E quando questi, già sacerdote, ebbe occasione di affermare pub­blicamente quale grande beneficio spirituale rappresenti una pronta iniziazione alla vita cristiana in virtù del sa­cramento del battesimo, citava il caso dei suoi genitori: “che furono battezzati lo stesso giorno in cui nacquero, pur essendo nati sani”22. Questo viene confermato dai certificati di battesimo. In quello della madre si dice: «Ho battezzato solennemente una bimba nata alle due del pomeriggio dello stesso giorno (23 marzo 1877)»; e in quello del padre si legge: «Ho battezzato solenne­mente un bimbo nato alle ore dodici dello stesso giorno (15 ottobre 1867)»23.

Come si vede, la famiglia era numerosa e le usanze cristiane. Per cui non sorprende il fatto che, al momento di essere ricevuto in seno alla Santa Madre Chiesa, il piccolo Josemarfa avesse tre zii sacerdoti: don Teodoro, fratello del padre José, don Vicente e don Carlos, fratel­li della madre, Dolores. Aveva inoltre, da parte di ma­dre, due zie religiose: Cruz e Pascuala. Tutto questo sen­za estendere la ricerca alla parentela più lontana24.

Quando il Fondatore stava a Burgos, durante la guer­ra civile spagnola, il 10 gennaio 1938 gli presentarono un sacerdote che era parroco a Madrid, il quale imme­diatamente si affrettò con gioia a informare don Jose­marfa che era amico di Carlitos, Alfredo e José, tre sa­cerdoti parenti della madre25. Notizia che commentò

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con un obiter dictum\ “ si vede che la famiglia di mia madre è conosciuta perfino in Siberia”26. È un modo di dire, un riferimento agli abbondanti parenti della ma­dre. Don Carlos, don Alfredo e don José erano tre sa­cerdoti imparentati con le due coppie di fratelli che si erano sposate lo stesso giorno.

Il 19 settembre 1898 José Escrivà - «celibe, originario di Fonz, abitante a Barbastro, commerciante» - si sposò con Dolores Albàs - «nubile, originaria di Barbastro e qui abitante» -. Gli sposi avevano trenta e ventun anni di età, rispettivamente. Il matrimonio fu celebrato nella cappella del Santo Cristo dei Miracoli, in cattedrale, e officiato da don Alfredo Sevil, zio della sposa, Vicario Generale dell’Arcivescovo di Valladolid, uno di quelli “conosciuti perfino in Siberia”27.

Il Santo Cristo dei Miracoli era una bella scultura li­gnea medievale, che si trovava in una cappella addossa­ta alle mura che cingevano la cattedrale, e che era stata costruita nel 1714 su uno dei torrioni dell’antica cerchia difensiva. Questo fondersi della cattedrale con le mura, frequente in molte altre città-fortezza del Medioevo, era un simbolo consono con la storia dei loro abitanti.

L’epopea di Barbastro cominciò con la sollevazione degli indigeni contro i dominatori romani, alla morte di Giulio Cesare. A questo episodio fece seguito l’assalto alla cittadina da parte della legione di Sesto Pompeo. Si susseguirono poi inarrestabili e ripetute ondate di inva­sori: visigoti, franchi e musulmani. Barbastro crebbe e nell’XI secolo diventò una piazzaforte importante e ben munita del regno arabo di Saragozza. “ Cittadella della regione” la definisce uno storico arabo. Città ricca e po­polosa, con buoni orti e migliori mura. Nel 1064 i cri­stiani assediarono la fortezza, cuneo che espandeva il potere moresco fino alle valli dei Pirenei. Il Papa Ales­sandro II proclamò la crociata, alla quale parteciparono truppe provenienti dall’Italia e dalla Borgogna. Ad esse si unirono, presso Barbastro, i guerrieri normanni agli

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ordini del duca di Aquitania, le masnade del Vescovo di Vich e truppe della Catalogna capitanate dal conte di Urgel28. Nel mese di agosto di quell’anno le forze cri­stiane irruppero nella piazzaforte, da dove furono slog­giate l’anno successivo, dopo un breve assedio, da Moctàdir, re arabo di Saragozza. Dall’effimera vittoria dei cristiani trasse ispirazione la leggenda per intonare, ben lungi dalla verità storica, un’eroica “canzone di ge­sta” : Le siège de Barbastre29.

La città fu definitivamente riconquistata nel 1100 da Pietro I di Aragona, che le concesse uno statuto giuridi­co privilegiato. La moschea principale fu trasformata in cattedrale, e vi fu trasferita la vecchia sede episcopa­le di Roda. Nella cattedrale di Barbastro fu sancita l’u­nione dell’Aragona con la Catalogna mediante il matri­monio di Petronilla, figlia del re Ramiro “il Monaco” , con Raimondo Berengario IV di Catalogna. Barbastro ebbe il rango di città nobile e fu sede delle Cortes con­vocate nel 1196. La sua gloria durò poco. Le città del- l’Alta Aragona divennero ombre di un glorioso passato quando i confini militari e commerciali si spostarono verso il sud. Zurita, lo storico aragonese, riferisce che, a partire dalla presa di Barbastro, i rudi montanari del nord «facevano guerra ai mori, non come prima, quan­do si seguivano certe regole, ma con una furia e una veemenza incredibili»30.

Passò il tempo. Le mura e i torrioni che prima cinge­vano i due vecchi castelli di Barbastro furono abbattuti nel 1719 dal duca della Atalaya. E, come si è detto, su uno di essi fu costruita la cappella nella quale si sareb­bero sposati i genitori di Josemaria. Fu riempito il fossa­to, favorendo l’espansione urbanistica, e furono livellati i baluardi. I cittadini vissero secoli di pace, turbati solo di quando in quando; ma confitta nel cuore di Barba­stro vi fu sempre una spina di irrequietezze storiche.

Quando il re Pietro I, dopo la presa di Barbastro, vi creò una sede episcopale, rivale della vicina Huesca,

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nacquero interminabili conflitti ecclesiastici. Nel 1500, gli abitanti, per riaffermare la propria indipendenza dal­la diocesi di Huesca, costruirono una nuova cattedrale, insistendo con ostinazione nelle loro pretese, ottenendo infine che, su istanza e pressione del re Filippo II, il Papa Pio V erigesse, con una bolla del 1571, la sede episcopa­le di Barbastro. Ma quando la diocesi «si cullava tran­quilla all’ombra di gloriosi ricordi e tradizioni» - la­menta uno storico del secolo scorso - in virtù del Concordato del 1851 fra la Spagna e la Santa Sede, fu unita nuovamente a quella di Huesca, e la cattedrale mi­seramente ridotta al rango di collegiata31.

Tutta la città si dolse del fatto come di un affronto, il che contribuì a creare una certa intesa fra l’autorità ec­clesiastica e la popolazione di Barbastro. Grazie alla te­nacia di quanti gestirono la questione, fu tenuta in so­speso l’applicazione del provvedimento concordatario. Più tardi, d’accordo con la Santa Sede, fu istituita per la diocesi, con Regio Decreto del 1896, un’Amministrazio­ne Apostolica32.

* * *

Appena sposati José e Dolores andarono a vivere in una casa della calle Mayor, di fronte al nobile edificio degli Argensola. Il loro appartamento era piuttosto grande. Alcuni balconi davano sull’angolo della piazza conti­gua, nel centro stesso della città, non lontano da via Ri- cardos, nella quale aveva il proprio negozio la ditta “Successori di Cirilo Latorre” .

Per la festa della Madonna del Carmine - 16 luglio 1899 - alla giovane coppia nacque una figlia. Le misero i nomi di Maria del Carmen, Constancia, Florencia. I due ultimi sono quelli delle nonne. Sull’atto di battesi­mo della figlia i genitori vengono indicati come «abitan­ti e commercianti» di Barbastro33. Termine, quello di commerciante, che non disdice alla loro buona condi­zione sociale, osserva con un certo puntiglio la barones­

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sa di Valdeolivos, perché «a quel tempo a Barbastro i commercianti costituivano l’aristocrazia della popola­zione». Per quanto si riferisce agli sposi, essa aggiunge che la loro situazione economica era «buona e agiata» e che erano «molto stimati da tutti»34.

José, che aveva un certo spirito imprenditoriale ed era molto metodico, dopo pochi anni vissuti a Barbastro aveva una rete di relazioni commerciali estesa a tutta la regione, anche se il suo centro operativo continuò a es­sere in via Ricardos. Barbastro era capoluogo di circo- scrizione, centro commerciale di molti paesi all’intorno, e contava più di settemila abitanti. Per la sua buona ubi­cazione geografica, fra Huesca e Lerida, capoluoghi di provincia, e il suo collegamento ferroviario con la linea Barcellona-Saragozza, era un centro obbligato per gli acquisti e le trattative commerciali di tutta la regione. Le sue fiere periodiche di bestiame e prodotti agricoli mantenevano attivo il commercio.

Dopo otto anni di presenza in città, la figura di José Escrivà si era già fusa con l’ambiente sociale di Barba­stro. Era conosciuto in chiesa, per strada e al circolo. Si faceva notare se non altro per il suo aspetto elegante. Fin da lontano si notava la sua eleganza nel vestire, di­screta e senza esagerazioni. Portava la bombetta e aveva una piccola collezione di bastoni da passeggio. Era un uomo cortese, piacevole e mite, anche se non troppo espansivo e piuttosto parco di parole. Dimostrò sempre rettitudine verso i dipendenti, generosità verso i biso­gnosi e devozione verso Dio. Il suo tempo era diviso fra gli affari e la famiglia35.

Affari e famiglia prosperavano. All’inizio del 1902 ebbero un altro figlio. Al bambino, nato il 9 gennaio, fu posto il nome di suo padre. (Più avanti negli anni avreb­be unito i suoi due primi nomi di battesimo per formare quello di Josemarìa, per la sua devozione congiunta per S. Giuseppe e la Santissima Vergine)36.

Con un nuovo bambino in casa, Dolores (“Lola” per

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la famiglia) vide aumentare il proprio lavoro, come pure la bambinaia. La padrona di casa, più giovane di suo marito di quasi dieci anni, era di media statura, di modi gentili e di serena bellezza. Era adorna di una naturale signorilità e si dimostrava disinvolta e semplice nella conversazione. A detta di quanti la conobbero, si distin­gueva per «la pazienza e il buon carattere»37, forse ere­ditati dalla madre Florencia, che seppe educare quella numerosa prole della quale Lola fu il penultimo anello.

Dopo l’ostinato tira e molla fra le sedi episcopali, ri­stabilita la pace per Decreto Reale nel 1898 - anno in cui si sposarono i genitori di Josemarfa - si fece carico della diocesi don Juan Antonio Ruano y Martin, primo Vescovo Amministratore Apostolico di Barbastro. Il nuovo prelato si trovò di fronte a molte cose in sospeso, per cui, con energici interventi, si diede da fare per siste­mare gli affari ecclesiastici. Con criterio ampio, seguen­do una pratica tradizionale e legittima per le chiese spa­gnole fin dal Medioevo, il 23 aprile 1902 amministrò la Cresima a tutti i bambini della città38.1 cresimati forma­vano due gruppi consistenti: 130 bambini e 127 bambi­ne. Negli atti di questa Cresima collettiva sono annota­ti, in ordine alfabetico, i nomi dei bambini; l’elenco occupa sei fogli. Nel gruppo dei bambini appare Jose­marfa, che allora aveva tre mesi, e tra le bambine sua sorella Carmen, che aveva meno di tre anni39.

Il bambino aveva circa due anni quando i suoi genito­ri ritennero che fosse giunto il momento di lasciare una testimonianza storica della sua infanzia. Ma quando cercarono di fotografarlo nudo per l’album di famiglia, proruppe in un pianto tanto sfrenato e lanciò tali urla che fu necessario desistere dall’operazione. Mamma Lo­la con pazienza e rassegnazione gli fece indossare un ve­stitino e così, con l’espressione ancora a metà fra il sor­riso e il pianto, gli fu fatta la famosa foto per i posteri40.

Intorno alla stessa epoca, a causa di una grave malat­tia, fu sul punto di morire. Forse si trattò di un’infezio­

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ne acuta. Familiari e conoscenti ricordavano per filo e per segno quanto accadde e il fatto che il bambino era stato dato per spacciato dai medici, che già «vedevano l’esito fatale, inevitabile e immediato»41. La notte prima dell’evento sorprendente, il dottor Ignacio Camps Val- dovinos, medico della famiglia, si era recato a far visita al bambino. Era un medico esperto, dotato di un buon occhio clinico, ma a quel tempo non era possibile arre­stare il decorso virulento dell’infezione. Data la gravità del caso era andato a casa degli Escrivà un altro medico loro amico, Santiago Gómez Lafarga, medico omeopa­ta. E giunse il momento in cui il dottor Camps dovette dire a José: «Guarda, Pepe: non supererà la notte!».

I genitori stavano chiedendo a Dio, con molta fede, la guarigione del figlio. Dolores cominciò, con grande fi­ducia, una novena alla Madonna del Sacro Cuore; ed entrambi i genitori promisero alla Vergine di condurre in pellegrinaggio il bambino, se fosse guarito, all’imma­gine che si venerava nella cappella di Torreciudad.

II giorno seguente, di prima mattina, il dottor Camps andò di nuovo a far visita alla famiglia per fare le con­doglianze, poiché era certo che il bambino fosse morto. «A che ora è morto il bambino?», fu la sua prima do­manda mentre entrava. E José, con gioia, gli rispose che non solo non era morto, ma che era completamente guarito. Il medico entrò in camera e vide il bambino nel lettino, attaccato alle sbarre, che saltellava pieno di vita.

I genitori compirono la promessa. A dorso di cavalca­tura e per sentieri impervi, fecero più di venti chilome­tri. Dolores portava il bambino in braccio. Seduta in sel­la alla amazzone, passò dei brutti momenti, sospesa fra dirupi ed erte scoscese che strapiombavano sul fiume Cinca. Lassù stava la chiesetta di Torreciudad, dove, ai piedi della Santissima Vergine, offrirono il bambino in ringraziamento42.

Anni dopo, ricordando questo episodio, Dolores ri­petè più di una volta al figlio: «Figlio mio, la Vergine ti

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ha lasciato in questo mondo per fare qualcosa di gran­de, perché eri più morto che vivo»43. Da parte sua, Jose- marfa lasciò una testimonianza scritta, nel 1930, della propria convinzione di essere stato guarito dalla Vergine Santissima: “Signora e Madre mia! Tu mi hai dato la grazia della vocazione; mi hai salvato la vita, quand’ero bambino; mi hai ascoltato molte volte!...”44.

2. «Quei candidi giorni della mia fanciullezza»

Dalla malattia non gli rimase alcuna conseguenza. Go­deva di perfetta salute. Era «l’invidia di tutte le mamme di Barbastro», abituate a vedere il bambino, seduto sul balcone e con le gambe penzoloni tra le barre della rin­ghiera, che dall’alto salutava gioioso i passanti45.

Forte e sveglio, il piccolo possedeva una grande capa­cità di osservazione, grazie alla quale trattenne nella memoria fatti accaduti in tenera età. Fra quei primi ri­cordi vi sono le preghiere apprese dalle labbra della ma­dre e che, con l’aiuto del papà o della mamma, recitava quando si alzava da letto o vi si coricava. Preghiere in­genue, brevi e infantili, al Bambino Gesù, alla Santa Vergine o all’Angelo Custode:

“Angelo mio Custode, dolce compagnia,né di notte né di giorno, non andar via.Se mi lasci, che cosa sarà di me?Angelo mio Custode, prega Dio per me”46.

Alcune di esse imparate anche dalle nonne:

“Sono tuo, sono nato per te: che cosa vuoi, Gesù, dame?”47.

Più avanti, il bambino avrebbe recitato il «Benedetta sia la tua purezza» e l’offerta alla Santa Vergine:

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“Signora mia e Madre mia, io mi dono interamente a voi, e in prova del mio affetto filiale vi consacro in que­sto giorno i miei occhi, le mie orecchie, la mia lingua, il mio cuore. In una parola, tutto il mio essere. E poiché sono tutto vostro, Madre di bontà, proteggetemi e difen­detemi come cosa e possesso vostro”48.

Per tutta la vita fu grato ai suoi genitori per queste preghiere, che gli rimasero incise nella mente e nel cuo­re. Le recitò spesso e fece ricorso ad esse nei momenti di aridità spirituale49.

Non aveva ancora raggiunto il pieno uso di ragione quando incominciò a unirsi alla recita del rosario in fa­miglia, o a recarsi a Messa con i genitori, o ad assistere alla funzione a S. Bartolomeo, un oratorio accanto alla sua casa dove gli Escrivà si recavano tutti i sabati a reci­tare la Salve Regina50. I suoi ricordi erano soprattutto legati alle feste domestiche di Natale, quando insieme a Carmen aiutava il padre a montare il presepio, cantan­do in famiglia canti natalizi popolari. Si ricordava so­prattutto di uno che diceva: «Madre, alla porta c’è un Bambino». Le parole della canzone avevano un ritornel­lo in cui il Bambino Gesù ripeteva: «Sono venuto sulla terra per patire». Questa canzone lo accompagnò dalla culla alla sepoltura. “ Quando avevo circa tre anni” - raccontava in famiglia - “mia madre mi cantava questa canzone, mi prendeva fra le braccia e io mi addormenta­vo placidamente”51. Nei suoi ultimi anni, quando la sentiva cantare nel periodo natalizio, si commuoveva, raccogliendosi in preghiera.

* * *

La signora Dolores viveva dedita interamente alla pro­pria famiglia. Insieme al marito, concentrò i suoi sforzi nell’educazione di Carmen e Josemarfa, creando un am­biente familiare al quale si aggiunsero poi i figli che più tardi il Signore inviò loro. La padrona di casa era una

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donna di carattere e di molto buon senso. E quando il bambino, che come tutti i bambini aveva piccoli capric­ci e manie, s’impuntava a non voler mangiare qualcosa, senza perdere la calma gli diceva: «Non lo vuoi mangia­re? Ebbene, non mangiarlo» e non gli dava nient’altro52.

Un giorno gli misero davanti un piatto che non gli piaceva ed egli, prevedendo che poi sarebbe rimasto a digiuno, lo gettò arrabbiato contro la parete tappezzata. Non fu cambiata la tappezzeria. Per diversi mesi rimase lì la macchia, perché il bambino non si scordasse troppo in fretta del suo gesto di rabbia53.

Le fini doti pedagogiche della madre a volte erano ac­compagnate da detti proverbiali o da frasi con la mora­le. Alla tendenza alla trascuratezza, al lasciare le cose buttate là o rivoltate a rovescio, opponeva un saggio av­vertimento: «Gli altri non son fatti per riordinare quello che noi lasciamo in disordine». Non abusava mai del servizio domestico e non disdegnava di servire gli altri. «Non mi si sfileranno certo gli anelli!», era solita ripete­re e il suo esempio era un soave e continuo invito per i suoi figli. Li preveniva anche dai giudizi temerari: «Non c’è parola mal detta, bensì mal compresa»; questo per­ché non si scandalizzassero per la malizia di qualcuno54.

Con il passare degli anni, nelle considerazioni di Jose­maria sul comportamento umano sarebbero apparsi, qua e là, alcuni detti sapienziali uditi dalla signora Do­lores.

“Da piccolo” - raccontava - “c’erano due cose che mi davano fastidio: dare un bacio alle amiche di mia ma­dre, che venivano a farle visita; e mettermi vestiti nuovi. Quando indossavo un abito nuovo, mi nascondevo sot­to il letto e mi rifiutavo di uscire in strada, cocciuto...; e mia madre, con un bastone di quelli che usava mio pa­dre, batteva dei colpetti per terra, dolcemente, e allora uscivo: per paura del bastone, non per altro.Poi mia madre mi diceva con affetto: “Josemaria, ver-

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gognati solo di peccare” . Molti anni dopo mi sono re­so conto che in quelle parole c’era una verità molto profonda”55.

A difesa del bambino si deve dire che esistevano pa­recchi buoni motivi perché gli sbaciucchiamenti di quel­le buone signore a volte gli divenissero insopportabili, soprattutto quelli di una lontana parente di sua nonna, persona in età alla quale spuntavano i baffi, che punge­vano la faccia del bambino quando lo baciava. La ma­dre si rendeva certamente conto del fastidio che davano a Josemarìa quando lo abbracciavano lasciandogli la faccia tutta macchiata di cipria e di belletto. Quando la avvertivano di una visita, prima di uscire in anticamera, la signora Dolores diceva al bambino, con uno sguardo d’intesa: «Questa sarà tutta stuccata e non la possiamo far ridere perché se no le cade la crosta»56.

I bambini non videro mai litigare i loro genitori. In casa c’era affetto, rispetto e un tratto cortese anche con le persone di servizio, che erano come parte della fami­glia. Quando una delle ragazze di servizio si sposava, i coniugi Escrivà la provvedevano di un corredo da spo­sa, come se si trattasse di una figlia57.

I genitori erano molto mattinieri, nonostante si cori­cassero per ultimi. Al mattino il signor José usciva per recarsi al lavoro con estrema puntualità e si sapeva sem­pre dove stava e a che ora sarebbe ritornato. Il bambino aspettava con impazienza e vivo desiderio il ritorno del signor José. A volte gli correva incontro; alla fine della giornata andava al negozio di via Ricardos e si divertiva a contare le monete della cassa, mentre suo padre ap­profittava per spiegargli le nozioni elementari della somma e della sottrazione. E sulla strada del ritorno a casa, in autunno, José comperava le caldarroste e se le metteva nella tasca del cappotto. Allora Josemarìa, in punta di piedi, metteva dentro la manina alla ricerca

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delle castagne, trovandosi la tenera stretta della mano del padre58.

La gente di Barbastro li vide per molti anni passeg­giare insieme. Quella stretta relazione di fiducia e ami­cizia che esisteva tra padre e figlio era dovuta all’atten­zione del signor José, che coltivava in Josemarfa la generosità e la sincerità. Non lo picchiò mai. Solo una volta gli sfuggì un affettuoso scappellotto di fronte alla cocciutaggine del bambino, che si voleva sedere su una sedia alta in sala da pranzo, perché voleva essere come i grandi59.

Il padre lo invitava ad aprire il cuore e a raccontargli quello che lo preoccupava, allo scopo di aiutare il bam­bino a vincere reazioni impulsive del suo carattere inci­piente o a sacrificare gusti e capricci. Il signor José lo ascoltava senza fargli fretta e soddisfaceva le domande proprie della curiosità infantile davanti alla vita. ÀI bambino faceva piacere vedere che il padre si dimostra­va disponibile a essere interrogato e che, se gli faceva una domanda, “ lo prendesse sempre sul serio”60.

I due coniugi insegnarono ai figli a praticare la carità nei fatti e senza ostentazione: a volte dando un conforto spirituale, a volte aggiungendo un’elemosina. Esisteva a quel tempo, in molti paesi e città di Spagna, l’abitudine di dare l’elemosina in un giorno fisso della settimana, nelle case delle famiglie agiate. A quanto riferisce un ni­pote della famiglia, gli Escrivà praticavano questa usan­za: il signor José, dice Pascual Albàs, «era molto genero­so nell’elemosina; tutti i sabati si formava una gran coda di poveri che andavano a chiedere l’elemosina e per tutti c’era sempre qualcosa»61. Al piccolo Josemarfa rimase indelebilmente impressa l’immagine di una zin­gara che non veniva di sabato, come gli altri poveri. La vedeva talvolta di sera entrare in casa con familiarità, su invito della madre. La zingara, quasi avvolta nel miste­ro, stava a parlare con la signora Dolores nella camera di questa, dove non le potevano interrompere, poiché

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non vi avevano accesso neppure i parenti più prossimi. Il bambino non capì mai le ragioni di queste visite sin­golari. Quanto alla zingara, che si chiamava Teresa, sep­pe solo in modo molto vago che era una donna che si sacrificava per la sua gente e che veniva a consigliarsi per qualche segreta pena62.

Per il bambino era un momento di gioia quando di­stribuiva, fra i mendicanti che chiedevano l’elemosina alla porta della cattedrale, le monete che il signor José gli dava quando la famiglia assisteva alla Messa, le do­meniche e i giorni di festa63. Avvicinandosi alla catte­drale, imponente nella sua austera mole di pietra, Jose­maria si affrettava, pieno di compassione, a soccorrere un povero storpio appoggiato all’ingresso. Poi, una vol­ta entrati, con la luce che filtrava dagli alti finestroni, il suo sguardo saliva lungo la schiera di snelle colonnine per perdersi nell’intreccio di nervature che corrono sulle volte. Passando davanti a una delle cappelle laterali, un’immagine della Santissima Vergine giacente trattene­va la sua curiosità; quella vista affascinava dolcemente il bambino. Per la festa dell’Assunzione l’immagine ve­niva esposta alla venerazione dei fedeli, poiché rappre­sentava la Dormizione della Vergine.

Un quarto di secolo più tardi, nel 1931, nella festa del 15 agosto, echeggeranno nel suo cuore i ricordi emozio­nati della fanciullezza:

“Giorno dell’Assunzione di Maria 1931: (...).Sono davvero felice, perché mi sembra di essere presen­te... con la Trinità beatissima, con gli Angeli che ricevo­no la loro Regina, con tutti i Santi, che acclamano la Madre e Signora.E ricordo quei candidi giorni della mia fanciullezza: la cattedrale, così brutta di fuori e così bella dentro... come il cuore di quella terra, buono, cristiano e leale, celato dietro le asperità del carattere contadino.In mezzo a una cappella laterale si ergeva il tumulo su

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cui riposava l’immagine della Madonna dormiente... Il popolo passava, con rispetto, e baciava i piedi della “Vergine del Letto”...Mia mamma, mio papà, i miei fratelli e io andavamo sempre insieme a sentir Messa. Mio padre ci dava l’ele­mosina, che portavamo con gioia allo storpio che stava addossato al palazzo episcopale. Poi mi affrettavo a prendere l’acqua benedetta, per darla ai miei. La Santa Messa. Poi, tutte le domeniche, nella cappella del Santo Cristo dei Miracoli recitavamo un Credo. E il giorno dell’Assunzione - come ho detto - era d’obbligo “adora­re” (così dicevamo) la Vergine della Cattedrale”64.

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La Nella casa paterna - dice di sé don Josemarìa - “cer­cavano di darmi una formazione cristiana, e lì l’ho ac­quisita, più che a scuola, anche se dai tre anni mi hanno fatto frequentare una scuola di religiose e dai sette anni una scuola di religiosi”65.

La scuola materna delle Figlie della Carità, dove stette dal 1905 al 1908, consisteva in una sola aula ad anfitea­tro. Nella parte bassa si intrattenevano i più piccoli con giochi e canzoni e si insegnava loro il sillabario. Sul fon­do, invece, a diverse altezze della gradinata, le suore for­mavano dei gruppi a parte con i bambini più grandicelli, spiegando loro il catechismo, la storia sacra, e qualche nozione di scienze naturali, chiamate anche, con nome meno pretenzioso, “ lezioni di cose” . Josemarìa si distin­se nella scuola materna, non tanto per merito suo, quanto perché i suoi genitori gli avevano fatto prima a casa lezioni di catechismo e di aritmetica e gli avevano insegnato a leggere. Ma fu una suora a iniziarlo ai primi passi della scrittura66.

Di quegli anni di scuola materna gli rimase impresso nella memoria un doloroso evento della sua prima in­fanzia, attorno ai tre anni. Questa memorizzazione pre­coce, anche se non prodigiosa, era dovuta in gran parte

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all’impressione causata dall’intensità di sentimenti o da qualsiasi scontro troppo brusco con la realtà. Non si trattava di un’impressione alla cieca, ma la sensibilità del bambino, davvero straordinaria, risvegliava nella sua anima lo sforzo di capire il significato e le conse­guenze dei fatti.

Accadde un giorno che qualcuno disse alla bambi­naia, che andò a prenderlo all’uscita dell’asilo per con­durlo a casa, che Josemaria aveva picchiato una bambi­na, cosa non vera e che peraltro gli fruttò un forte rimprovero. Quell’accusa ingiusta lo colpì profonda­mente nelPanima. Fu in questo modo che comprese il senso della giustizia, così che da quel momento in poi gli rimase impresso che non si deve giudicare prima di aver ascoltato l’accusato67.

Le suore avevano tale buona opinione del bambino che, nel giugno 1908, alla fine della sua permanenza nella scuola materna, lo proposero come candidato a un concorso per “Premi alla virtù” . Il concorso faceva par­te di un programma di iniziative con cui l’Amministra- tore Apostolico di Barbastro, mons. Isidro Badia y Sar- radell, si proponeva di celebrare nella diocesi i 50 anni dell’ordinazione sacerdotale di Papa Pio X 68. Fu nomi­nata una giuria per l’aggiudicazione dei premi. Il premio al quale aspiravano le scuole materne, consistente «in trenta pesetas per ciascuno», veniva promesso «al bam­bino di ciascuna delle scuole di istruzione primaria di questa città che sia modello agli altri per la sua applica­zione e il buon comportamento».

Il 4 ottobre 1908 ebbe luogo la manifestazione lette- rario-musicale e la distribuzione da parte del Vescovo dei diplomi ai concorrenti. Nel concorso sulle virtù in­fantili furono premiati diversi bambini: uno della scuola materna comunale, due della scuola degli Scolopi e Jo­semaria come allievo della scuola delle Figlie della Ca­rità. Al termine della manifestazione fu inviato un tele­gramma a Roma, rinnovando al Papa, in occasione

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della ricorrenza, la testimonianza di amore filiale di tut­ta la diocesi.

Subito giunse a Barbastro la risposta:

«Roma, 6.Amministratore Apostolico.Il Santo Padre, grato filiale omaggio occasione suo Giu­bileo sacerdotale, benedice con affetto Signoria Vostra, autorità, clero e fedeli di Barbastro. Cardinale Merry del Val»69.

3. La prima Comunione

Nell’ottobre 1908 Josemarfa divenne alunno degli Scolo- pi. La scuola di Barbastro dei Padri Scolopi fu la prima che questi religiosi aprirono in Spagna70. Il loro fondato­re, S. Giuseppe Calasanzio, era nato nello stesso paese in cui era vissuto il nonno paterno di Josemarfa, Peralta de la Sai, a 20 chilometri da Barbastro. La scuola era poco distante dalla casa degli Escrivà.

Due giorni dopo aver ricevuto il telegramma del Car­dinale Merry del Val, il Vescovo di Barbastro diede ini­zio a una visita pastorale alla diocesi. Fin dal mese precedente veniva ricordata, nella parrocchia dell’As­sunzione, nella cattedrale, l’importanza che si confessas­sero gli adulti e tutti i bambini preparati a farlo, per lu­crare così le indulgenze della visita pastorale. Fu durante quell’anno scolastico 1908-1909, durante il quale il bambino frequentava il “giardino d’infanzia” degli Scolopi, che la signora Dolores preparò personal­mente il figlio alla prima confessione. Lo condusse poi dal proprio confessore, padre Enrique Labrador71. Il bambino aveva sei o sette anni quando sua madre lo ac­compagnò in chiesa.

Allora gli uomini si confessavano sul davanti del con­fessionale e le donne alla grata laterale. Il buon Scolopio

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accolse il bambino il quale, inginocchiandosi, scompar­ve del tutto dietro la porticina del confessionale; la do­vette aprire perché si inginocchiasse all’interno. Il peni­tente incominciò a sgranare i propri peccati mentre padre Labrador lo ascoltava con un sorriso. Per un mo­mento il bambino si scoraggiò, pensando che non lo prendesse sul serio, cosa che invece faceva il signor José. Alla fine, il confessore gli fece una breve raccomanda­zione e gli impose la penitenza.

Questa prima confessione gli procurò una grande pa­ce di spirito. Ritornò a casa di corsa, per annunciare che doveva compiere la penitenza. Sua madre si offrì di aiu­tarlo. “N o” - rispose il bambino - “la penitenza la fac­cio da solo. Mi ha detto il padre di farmi dare un uovo fritto”72.

ir * *

A quel tempo aveva due sorelle minori: Maria Asun- ción, nata il 15 agosto 1905, e Maria de los Dolores, nata il 10 febbraio 1907. Una terza, Maria del Rosario, venne al mondo il 2 ottobre 190973.

Con cinque figli, la madre aveva acquisito buona esperienza per governare l’infanzia. Data la sua condi­zione sociale, aveva un buon servizio domestico. Oltre alla cuoca e a una ragazza per le pulizie della casa, pote­va contare su una bambinaia e su di un ragazzo che, di quando in quando, dava loro una mano nei lavori meno adatti alle donne. La signora Dolores era una donna sempre in movimento e la si vedeva sempre mettere in ordine la casa, poiché aveva uno spiccato senso pratico. Per quando i bambini tornavano da scuola, a volte ac­compagnati dai loro amici, aveva destinato una stanza per i giochi, che chiamavano la “gabbia dei leoni”74. Nel suo modo di fare usava con discrezione la flessibi­lità o si dimostrava inflessibile, secondo i casi. A volte i bambini strepitavano a tavola, nei giorni di festa, quan­do veniva servito il pollo. Pareva che tutti si fossero

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messi d’accordo per reclamarne una coscia. La signora Dolores, senza batter ciglio, cominciava a moltiplicare cosce di pollo: tre, quattro, sei: quante ne occorrevano. Tuttavia non tollerava capricci e neppure che i bambini andassero in cucina a mangiare fuori orario. La cucina era per i bambini una tentazione permanente. Invece la signora Dolores vi entrava solo eccezionalmente, per ve­dere come andavano le cose o per preparare qualche piatto fuori dal comune. E fuori dal comune erano i cre- spillos, che comparivano il giorno del suo onomastico o in limitate occasioni familiari75. Era un dolce alla porta­ta di qualsiasi tasca e non implicava alcun segreto culi­nario se non quello di saperli presentare come si deve: delle foglie di spinaci passate in una pastella di farina e uova; venivano quindi fritte in padella con poco olio bollente e poi, tiepide e spolverate di zucchero, veniva­no servite in tavola. In casa degli Escrivà si salutava sempre con entusiasmo il giorno dei crespillos.

Vi era anche un’altra ragione, a parte i dolci o le pa­tate fritte, per cui il bambino vagava nei pressi della cu­cina: le donne di servizio gli raccontavano cose diver­tenti e storielle. Soprattutto M aria, la cuoca, che conosceva una storia di ladri, senza tragedie né violen­ze. Una, una sola; ma la raccontava in modo magistrale e il bambino non si stancava mai di sentirla ripetere76. Ascoltando Maria cominciarono ad affiorare le sue do­ti di narratore.

Alcuni pomeriggi, quando Carmen ritornava da scuo­la con le sue amiche, si chiudevano a giocare nella “gab­bia dei leoni” . La signora Dolores, accondiscendente con le loro preferenze, le intratteneva o dava loro vecchi capi di vestiario per giocare. «Spesso ci fermavamo a far merenda - riferisce Esperanza Corrales - e ricordo che ci davano pane con cioccolato e arance»77.

Se Josemaria non era uscito con i suoi amici, le rag­giungeva per farle divertire. «Gli piaceva farci giocare - racconta la baronessa di Valdeolivos -. Molte volte an­

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davamo a casa sua e ci tirava fuori i suoi giochi: aveva molti rompicapi»78. Aveva anche soldatini di piombo, birilli e un grande cavallo di cartapesta con le ruote che faceva montare a turno dalle bambine e le portava a spasso per la stanza tirando il cavallo per la cavezza. E se le bambine litigavano, il proprietario della cavalcatu­ra metteva pace con delle buone tirate di trecce.

«Ma ciò che più gli piaceva quando stava con noi - ri­corda Adriana, sorella di Esperanza - era sedersi su una sedia a dondolo del soggiorno e raccontarci delle storie- normalmente storie paurose, per spaventarci - che in­ventava lui stesso. Aveva una viva immaginazione e noi- comprese Chon e Lolita, le sue sorelle, che avevano tre e cinque anni meno di Josemarfa - lo ascoltavamo at­tentamente e un po’ impaurite»79.

5[-

Dal 1908 al 1912, anno in cui iniziò gli studi liceali, Jo­semarfa frequentò la scuola elementare. Secondo la nor­mativa allora vigente, la giornata scolastica era di sei ore di lezione, tre al mattino e tre al pomeriggio. Per il figlio degli Escrivà l’orario si prolungava: al pomeriggio faceva i compiti con la supervisione di un insegnante, perché ne potesse trarre maggior profitto. Un corso do­po l’altro gli alunni studiavano le stesse materie, ma ogni anno con maggiore ampiezza. Il programma delle materie era un combinato enciclopedico di disparati in­gredienti; si andava dalle nozioni di igiene e dai rudi­menti del diritto fino al canto e al disegno80.

L’insegnamento specifico e principale della scuola era la scrittura, arte in cui gli Scolopi avevano una meritata fama. Il “carattere scolopio” della scrittura era un ro­busto carattere spagnolo, alto, grosso e senza ornamen­ti o tratti stravaganti81. Diventarne abili richiedeva molta applicazione. I principianti imbrattavano fogli su fogli. Le righe assumevano curvature capricciose, come il profilo di una catena di monti. Si macchiavano le dita

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immergendo la cannuccia della penna nel calamaio. Poi interveniva il maestro, che correggeva i bambini. Mo­strava loro come impugnare la penna e, perché trac­ciassero le righe in orizzontale, metteva sotto alla carta una falsariga, le cui linee rettilinee e parallele traspari­vano dal foglio.

Con il passare degli anni, questi ricordi avrebbero su­scitato nella mente di Josemarìa delle metafore sopran­naturali. Nella sua onnipotenza, Dio non ha bisogno né di falsariga né di cannuccia, perché “come noi uomini scriviamo con la penna, il Signore scrive con la gamba del tavolo, perché si veda che è Lui a scrivere” 82.

Josemarìa acquisì ben presto uno stile calligrafico che si mantenne facilmente riconoscibile per tutta la sua vi­ta. La sua personalità traspare dai tratti energici, ampi e semplici, che rendono la scrittura inconfondibile fin da­gli albori della sua vita scolastica. Nei suoi tratti si rive­la un temperamento deciso, franco e generoso.

Da piccolo - raccontava sua sorella Carmen - «faceva molta attenzione a non ledere i diritti altrui: preferiva perdere piuttosto che un suo compagno fosse danneg­giato»83. Qualcosa di analogo riferisce un suo compa­gno di scuola, dicendo che «non era litigioso, e cedeva facilmente, per non litigare»84. Il che non significa che Josemarìa avesse un carattere pusillanime, a quanto si può dedurre dal suo litigio con un altro scolaro, sopran­nominato “zampe sporche” . Per motivi ignoti se le die­dero di santa ragione fino a restare entrambi pienamen­te soddisfatti. Comunque, Josemarìa imparò che la violenza è un’arma che non convince mai l’avversario, per cui da quel momento in poi rinunciò a usarla85.

La sua tendenza ad essere generoso con i suoi compa­gni rivela una incipiente magnanimità, che andava unita alla sua grande delicatezza nel tratto, come conferma l’eccezionaiità della sua zuffa con “zampe sporche” . Viene a proposito ricordare l’episodio di alcuni ragazzi­ni di Barbastro che inchiodarono un pipistrello a un

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muro e lo lapidarono crudelmente. A Josemaria, al qua­le la sensibilità della sua natura impediva di prendere parte a così crudele divertimento, rimase ben impresso il ricordo di quell’evento86. Ricordava anche che in due occasioni, mentre andava tranquillamente per la sua strada, gli si era avvicinato da dietro un cane e lo aveva morsicato, tutte e due le volte improvvisamente e senza che l’animale fosse stato provocato. Sopportò coraggio­samente il dolore e si recò a casa della zia Mercedes per farsi curare, preoccupato di non dare un dispiacere a sua madre87. Con avvenimenti di questo genere gli si andò forgiando il carattere per sopportare ben maggiori tribolazioni morali o fisiche, anche se non riuscì mai a vincere la propria naturale resistenza a sfoggiare un ve­stito nuovo o a farsi notare in qualsiasi altro modo. Or­mai non si nascondeva più sotto il letto, come faceva da piccolo; ora adottava un’altra tattica. Se gli alunni della classe si dovevano fare una foto di gruppo, per esempio, li si avvertiva di venire tutti ben vestiti nel giorno previ­sto. Josemaria non ne faceva cenno in casa. Poi, quando la foto veniva mandata ai genitori, la signora Dolores veniva colta di sorpresa. Non era necessario fare delle verifiche: era evidente che tutte le madri si erano preoc­cupate che i loro figli fossero ben agghindati; il suo era l’unico che non portava il vestito bello.

«Josemaria - gli diceva sua madre -, vuoi forse che ti comperiamo degli abiti vecchi?»88.

In casa Escrivà, nonostante si vivesse agiatamente, si facevano economie utilizzando cose che ad altri sareb­bero sembrate inservibili. Vi regnava l’ordine. Se un bambino rompeva un vaso o un altro oggetto di valo­re, se ne incollavano subito i pezzi o li si mandava ad aggiustare con delle graffette. In casa c’erano diversi orologi e tutti segnavano la stessa ora. Il signor José, senza essere maniaco, amava la puntualità, perché non si sa mai dove si va a finire con il disordine. Saggezza che la padrona di casa riassumeva in un detto popola­

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re quando, raccogliendo le cose del cucito, ammoniva sua figlia Carmen: «Con i fili che si buttano il demo­nio fa una corda»89.

Suo padre fu sempre il suo migliore amico. A lui face­va ricorso il bambino in cerca di chiarimenti a problemi o a difficoltà, sapendo in anticipo che la risposta del babbo sarebbe stata soddisfacente. Così potè capire per­ché lo tenessero a corto di denaro e, nello stesso tempo, in casa rispettassero le decisioni che prendeva. E non gli aprivano la corrispondenza con gli amici né lo sorve­gliavano di nascosto. Questa fiducia con cui lo trattava­no i genitori contribuì non poco a renderlo padrone e responsabile delle sue azioni.

Dal papà seppe della “questione sociale” : i rapporti fra operai e imprenditori, le associazioni per la difesa degli interessi comuni dei lavoratori e il tema tanto di­scusso della giusta retribuzione dei salariati90. Per la ve­rità a Barbastro non esistevano conflitti sociali. Nella zona non esistevano grandi industrie né popolazione proletaria e neppure latifondi. La piccola borghesia, i piccoli proprietari che si dedicavano al lavoro dei campi e i commercianti locali condividevano pacificamente il pane e le buone usanze con dipendenti e coloni.

Benché il popolo, seguendo tradizioni plurisecolari, si conservasse praticante e devoto in tema di religione, tut­ta la nazione era percorsa da lotte ideologiche. Barbastro non faceva eccezione alle lacerazioni esistenti in tutta la Spagna. La diversità si rispecchiava nelle attività del tem­po libero dei suoi vari circoli: “La Union" (L’Unione), “El Porvenir” (L’Avvenire), “El Siglo Nuevo" (Il Secolo Nuovo), o “La Amistad” (L’Amicizia). Di quest’ultimo era socio il signor José. La stampa regionale rifletteva le medesime differenze d’opinione delle discussioni nei caffè. I giornali più diffusi: “La Cruz del Sobrarbe” (La Croce del Sobrarbe), “La Època" (L’Epoca), “El Pah" (La Nazione), “El Eco del Vero" (L’Eco del Vero) e “El Cruzado Aragonés” (Il Crociato Aragonese)91.

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Non sarebbe stato facile far mettere d’accordo i catto­lici spagnoli per risolvere la “ questione sociale” . Papa Leone XIII, nell’enciclica Rerum Novarum (15-V-1891), aveva sancito sul piano dottrinale i princìpi etici dell’or­dine economico, risvegliando la coscienza dei fedeli. È un fatto che il programma di rinnovamento sociale fu intrapreso con un certo ritardo e fu l’esempio di altri Paesi a trascinare gli spagnoli92. Nel periodo che va fra il 1902 e il 1915, gli abitanti di Barbastro, e in partico­lare José Escrivà, cercarono di porre rimedio alla que­stione. Nel 1903 fondarono il giornale “El Cruzado Aragonés” ; crearono il “Salón de Buenas Lecturas” (1907) e si fecero promotori di un “Centro Católico Barbastrense” (1909), con lo scopo di «promuovere la difesa e la realizzazione dell’ordine sociale e della civiltà cristiana, secondo gli insegnamenti della Chiesa»93. Tut­ti questi progetti, senza dubbio, mostravano buona vo­lontà, ma la grande battaglia si stava combattendo negli ambienti intellettuali più elevati, cioè nelle istituzioni universitarie e di ricerca scientifica. I cattolici avrebbero subito ben presto le conseguenze di ùna inerzia intellet­tuale che si trascinava da secoli.

Il signor José aveva responsabilità sui dipendenti della “Juncosa y Escrivà” e quelli della fabbrica di cioccolato aggiunta al commercio di tessuti. Era un buon padrone. Retribuiva i suoi dipendenti con giustizia e si preoccu­pava anche delle loro esigenze spirituali. Ogni anno pa­gava di tasca propria delle conferenze quaresimali per i suoi dipendenti. Organizzava l’orario di lavoro in modo che tutti potessero assistervi e, per delicatezza, affinché non si sentissero obbligati ad andare per la sua presen­za, si asteneva dal parteciparvi94.

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In Spagna i bambini normalmente non facevano la prima Comunione prima dei dodici o tredici anni, se­condo un’usanza seguita pure in molti altri Paesi. Fu a

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seguito di un decreto del 1910 di S. Pio X che quell’età fu anticipata all’inizio dell’uso di ragione, cioè intorno ai sette anni95. L’epoca della disposizione coincideva con i preparativi per il Congresso Eucaristico Interna­zionale, previsto a M adrid per il giugno del 1911. Perciò in tutte le parrocchie della Spagna si fece un’in­tensa catechesi, affinché potesse accostarsi a ricevere la Sacra Eucaristia il maggior numero possibile di bambini.

Un religioso scolopio, padre Manuel Laborda de la Virgen del Carmen - “padre Manolé” , come lo chiama­vano con affettuosa dimestichezza gli alunni -, si oc­cupò della preparazione di Josemaria. E, in attesa che arrivasse il tanto atteso giorno della prima Comunione, insegnò al bambino una preghiera che ne teneva vivo il desiderio: «Vorrei, Signore, riceverti con la purezza, l’u­miltà e la devozione con cui ti ricevette la tua santissima Madre; con lo spirito e il fervore dei santi»96. Preghiera che, da allora, recitò con molta frequenza.

La vigilia del giorno fatidico venne il parrucchiere a sistemargli i capelli; ma questi, mentre cercava di affer­rare una ciocca di capelli con il ferro rovente per fargli un ricciolo, gli procurò una bruciatura sulla testa. Il bambino sopportò senza lamentarsi, per evitare una sgridata al parrucchiere e non causare un dispiacere. In seguito, sua madre finì per scoprire la cicatrice della bruciatura97. Fu da allora che, nei giorni di festa, il Si­gnore avrebbe sempre annunciato a Josemaria la pro­pria presenza con la dolce notizia di un dolore o di qual­che contrarietà, “come una carezza”98.

Fece la prima Comunione il 23 aprile 1912, esatta­mente a dieci anni dalla cresima. Era la festa di S. Gior­gio, patrono dell’Aragona e della Catalogna, giorno tra­dizionale per questa cerimonia, che ebbe luogo nella chiesa della scuola degli Scolopi. Al momento di riceve­re la Santa Comunione pregò per i suoi genitori e per le

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sorelle, e supplicò Gesù che gli concedesse la grazia di non perderlo mai.

Ricordò sempre con fervente candore gli anniversari di questa data, in cui il Signore, come egli soleva dire, “volle venire a impadronirsi del mio cuore”99.

4. Sventure familiari

Josemarìa si recò a Huesca, capoluogo della provincia, per fare l’esame di ammissione al ginnasio, l’i l giugno 19121°°.

Al ritorno da Huesca trovò sua sorella Lolita malata. Aveva compiuto cinque primavere. Era la più piccola in quel momento, perché l’altra sorella, Rosaria, era morta due anni prima, l’ i l luglio 1910, quando aveva solo no­ve mesi. Alla vigilia del secondo anniversario della mor­te di sua sorella, Lolita se ne andò in Cielo a farle com­pagnia101. In casa si creò un triste vuoto. Josemarìa si trovava tra le sue due sorelle, Carmen, la maggiore e Chon (Asunción). I genitori accettarono serenamente la disgrazia, senza ribellioni o risentimenti contro Dio. La mortalità infantile era elevata a quell’epoca, ma non per questo meno dolorosa per le famiglie.

Come facevano tutte le estati, gli Escrivà andarono in vacanza a Fonz, un paese vicino, sull’altra sponda del fiume Cinca, a circa quindici chilometri da Barbastro. Posto in cima a un valico, con la chiesa in alto e l’abita­to sparso giù per il declivio, il paese aveva qualche vec­chio stemma in case di antica tradizione nobiliare. Là viveva la nonna Constancia con due dei suoi figli, Jose- fa e don Teodoro. L’arrivo del terzo figlio, accompa­gnato dalla nuora e dai nipoti di Barbastro, era sempre motivo di gioia.

In quelle giornate estive, la curiosità infantile di Jose­marìa, mai del tutto soddisfatta, si estasiava davanti alla natura. Assorbiva paesaggi e scene piene di colore e di

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movimento, mentre immagazzinava nella memoria lo sviluppo segreto di quelle sorprese quotidiane. In segui­to, passati gli anni, quando si trattava di trarne degli in­segnamenti sulla vita interiore, i ricordi sarebbero fluiti caldi e nitidi.

“Nelle mie vacanze estive, quand’ero bambino, mi di­vertivo a veder fare il pane. Allora non pretendevo di trarne degli insegnamenti spirituali: mi interessava per­ché le domestiche mi facevano un gallo con la pasta del pane. Ora ricordo con gioia tutta la cerimonia: era un vero rito preparare accuratamente il lievito - una palla di pasta fermentata conservata dall’infornata preceden­te - che si univa all’acqua e alla farina passata al setac­cio. Fatta la miscelatura e l’impasto, lo coprivano con una coperta e, così protetto, lo lasciavano riposare fin­ché si rigonfiava a più non posso. Poi, messolo a pezzi nel forno, ne usciva quel pane buono, pieno di buchi, meraviglioso. Se il lievito era ben conservato e ben pre­parato, si lasciava disfare - scompariva - in quella gran quantità, in quella massa che gli era debitrice della qua­lità e del valore.Si riempia di gioia il nostro cuore al pensiero di essere proprio questo: lievito che fa fermentare la massa”102.

Faceva escursioni in montagna, ai monti del Bunero, sui cui contrafforti si trova Fonz; o ancora più in alto, per le valli che salivano fino ai Pirenei:

“Porto impresso nella mia mente fin da bambino il ri­cordo di certi segnali che, nelle montagne della mia ter­ra, venivano piantati ai margini delle strade: si trattava di lunghi pali, generalmente dipinti di rosso, che colpi­vano la mia attenzione. Mi spiegarono che quando cade la neve e copre sentieri, campi e pascoli, boschi, rocce e dirupi, quelle aste emergono come un riferimento sicu­ro, perché tutti rintraccino il sentiero da seguire.Nella vita interiore succede qualcosa di simile. Ci sono primavere ed estati, ma arrivano anche gli inverni, i

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giorni senza sole e le notti orfane di luna. Non possiamo permettere che l’amicizia con Cristo dipenda dal nostro umore, dai mutamenti del nostro carattere”103.

Agli eventi quotidiani, ai lavori casalinghi o campe­stri, alle usanze popolari, egli sarebbe poi stato in grado di aggiungere conseguenze soprannaturali. Nel suo mo­do di considerare poeticamente la vita di tutti i giorni ri­vivono dolcezze o sofferenze spirituali:

“Ricordo che nella mia terra, quand’era giunto il tempo della mietitura e ancora non esistevano le moderne mac­chine agricole, caricavano a fatica a dorso di mulo o di poveri asinelli i covoni della messe. E giungeva un mo­mento nella giornata, a mezzogiorno, in cui arrivavano le mogli, le figlie, le sorelle,... con il capo coperto con grazia da un fazzoletto affinché il sole non bruciasse loro la pel­le, più delicata di quella degli uomini, e portavano del vi­no fresco... La bevanda rifocillava gli uomini già stanchi, li rianimava, li fortificava... Così vedo te, Madre mia be­nedetta, mentre noi lottiamo per servire Dio, venire a ria­nimarci nel corso di questa nostra giornata... Attraverso le tue mani ci giungono tutte le grazie”104.

Infine, nelle sue parabole e nei suoi commenti al Van­gelo si colgono immagini in cui si conservano con fre­schezza lontani ricordi dell’infanzia:

“Ricordo di aver visto, da bambino, i pastori avvolti nelle loro zimarre di vello di montone, nelle crude gior­nate degli inverni pirenaici, quando la neve tutto rico­pre, scendere per i tratturi di quella mia terra, con i loro cani fedelissimi e l’asinelio caricato di tutti i loro attrez­zi, con in cima a tutto alcuni paioli, nei quali preparava­no i pasti per sé e i decotti che applicavano sulle ferite delle pecore.Se qualcuna di esse si feriva, se si rompeva una zampa, si riproduceva la scena disegnata nelle antiche stampe: se la portavano sulle spalle. Ho visto anche come il pastore

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- gente rozza, che sembra incapace di un gesto di tene­rezza - porta amorevolmente fra le braccia un agnello appena nato”105.

Dall’attenta osservazione di cose e persone ricavò ogni genere di lezioni: l’apparente stoltezza del seminare una semente che, sotterrata, scompare alla vista; il lavo­ro costante e insostituibile dell’asino che fa girare e gira­re la noria; o il debito spirituale che contrasse con sua nonna Constancia: vedendola di continuo con il rosario in mano, arrivò più facilmente a comprendere che tutti gli sforzi si devono basare sulla preghiera incessante106.

* * *

Nell’autunno del 1912 Josemarfa iniziò gli studi supe­riori. L’orario ufficiale delle lezioni era dalle nove alle dodici e, al pomeriggio, dalle due alle cinque. Al matti­no, però, si entrava un’ora prima per assistere alla Mes­sa nella chiesa della scuola. Gli alunni portavano un so­prabito di colore blu con i bottoni di metallo e un berretto con visiera di pelle verniciata.

Il programma del primo anno della scuola media infe­riore comprendeva: lingua castigliana, geografia, nozio­ni di aritmetica e geometria, religione. Quando giunse il momento di fare gli esami all’istituto di Lerida, ottenne dei voti eccezionali107.

Maturò il carattere del ragazzo, che diventò meno lo­quace e più riflessivo. Tutto sembra indicare che sia sta­to durante quell’anno scolastico (1912-1913), dopo aver perduto le due sorelline, che fece un gesto sorpren­dente. Una sera le sue sorelle Carmen e Chon stavano nella “gabbia dei leoni” e giocavano con alcune amiche. Si divertivano a fare dei castelli con le carte da gioco.

«Ne avevamo terminato uno - riferisce la baronessa di Valdeolivos - e Josemarfa lo abbattè con una manata. Ci rimanemmo male quasi fino alle lacrime.

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“Perché fai questo, Josemarìa?”Molto serio rispose: “Questo è ciò che fa Dio con le per­sone: costruisci un castello e, quando è quasi terminato,Dio te lo distrugge” »108.

È probabile che pensieri repressi per lungo tempo fos­sero infine affiorati in modo violento. Si accese così una nuova luce nella sua mente: Dio è padrone delle anime e dispone di esse indipendentemente dai nostri progetti personali.

Alla fine dell’estate, Chon si ammalò gravemente. Aveva otto anni. Un giorno, quando sembrava ormai imminente l’epilogo della malattia, «giocando con me e con altri bambini - racconta ancora la baronessa di Val- deolivos - Josemarìa ci disse:

“Vado a vedere come sta mia sorella”.Chiese di lei, e sua madre gli rispose: “Asunción sta beneormai, si trova già in Cielo”»109.

Era il 6 ottobre 1913. I genitori non volevano che Carmen e Josemarìa entrassero nella stanza dove si ve­gliava la piccola Chon, ormai composta. In un momen­to di disattenzione il ragazzo riuscì ad entrare per prega­re e accomiatarsi dalla sorellina. Era la prima volta che Josemarìa vedeva un cadavere110.

Rifletté molto su tutto questo: l’innocenza delle bam­bine; la loro scomparsa a scalare dalla minore fino alla maggiore; l’inquietante vicinanza delle tre morti. Rimu­ginò lungamente nell’immaginazione i particolari del caso. Proseguendo la successione naturale delle morti, dopo la recente dipartita di Chon, egli sarebbe stato il prossimo a morire. E non si peritava di manifestarlo apertamente: “L’anno prossimo tocca a me” , diceva111. Allora la signora Dolores, per confortarlo, gli ricordava che la Santissima Vergine lo aveva salvato da piccolo e che lo avevano portato in pellegrinaggio a Torreciudad.

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«Non preoccuparti, perché io ti ho offerto alla Vergine ed Ella avrà cura di te», lo assicurava. Josemaria cessò di parlare della sua prossima morte, per la fiducia che gli ispiravano le parole della mamma e per la sofferenza che le procurava con così funesti presagi. L’anno scola­stico 1913-1914 acquietò la sua ànima, fu una breve pausa prima delle tribolazioni che si avvicinavano. Si buttò in pieno nello studio.

Gli Scolopi erano molto pii e ben preparati. Jose­maria nutrì per loro un sincero affetto. Ne ammirava la pazienza. E così come conservò il ricordo della can­tilena della recita del sillabario o delle preghiere nella scuola materna delle monache, di quell’anno scolastico 1913-1914 gli rimase ben impressa l’arietta del qui, quae, quod in latino112. Tuttavia, la sua materia prefe­rita era la matematica, in cui ottenne la lode tutti gli anni. Lo affascinavano l’esattezza, la disciplina menta­le, la logica delle deduzioni, il modo di ragionare con ordine e precisione. Si trovava bene con il professore. Era il miglior alunno della classe. Ma il maestro non teneva conto della focosità di carattere del ragazzo, che esplodeva impetuoso di fronte alla minima ingiu­stizia. Un giorno lo chiamò alla lavagna per interro­garlo, ma la domanda che gli fece non era su cose già spiegate in classe. Il professore insisteva. L’alunno si arrabbiò e, gettando violentemente il cancellino contro la lavagna, girò su se stesso e, mentre ritornava al pro­prio posto, protestava ad alta voce: “ Questo non l’ha spiegato” 113.

La storia non finì qui. Perché “alcuni giorni dopo - raccontò - me ne andavo con mio padre per strada e ci venne incontro proprio quel frate. Pensai: Addio! Ades­so lo racconta al babbo... Invece quegli si fermò, gli disse una cosa amabile e se ne andò senza dire altro. Gli fui così grato per il suo silenzio che tutti i giorni prego per lui” 114.

Alla fine dell’anno scolastico si trasferì a Lerida con i

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suoi compagni di scuola per sostenere gli esami nella scuola statale. In quelle circostanze, lontano dalla scuo­la, senza vigilanza, a volte accadeva che fra i suoi com­pagni nascessero delle conversazioni sconvenienti. Jose­marfa cercava di interromperle, o si appartava a recitare il rosario in riparazione. Più volte di notte lo colse il sonno mentre sgranava il rosario115.

Il risultato degli esami fu brillante. Il settimanale di Barbastro, “juventud” (Gioventù), si fece eco dei voti ottenuti da Josemaria116.

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A uno sguardo superficiale, la rovina economica degli Escrivà appare come una nuova disgrazia nella serie ininterrotta di sventure familiari. «In pochi anni - rias­sume una persona che conobbe i fatti - sarebbero passa­ti da una situazione economica agiata al fallimento del­l’attività commerciale che dava loro da vivere. In quegli stessi anni erano morte una dopo l’altra le tre bambine che erano nate dopo Josemarfa»117.

In seguito, questi avrebbe scoperto la chiave sopran­naturale per interpretare l’intimo significato di quegli avvenimenti che cadevano, violenti come un uragano, su tutta la famiglia:

“Ho sempre fatto soffrire molto coloro che mi stavano attorno. Non ho provocato catastrofi, ma il Signore, per colpire me che ero il chiodo - perdonami, Signore! - da­va un colpo al chiodo e cento al ferro di cavallo. E vidi mio padre come la personificazione di Giobbe. Persero tre figlie, l’una dopo l’altra, in anni successivi e rimasero senza un soldo. Sentii le unghiate dei miei piccoli com­pagni; perché i bambini non hanno cuore o non hanno testa, o forse non hanno né testa né cuore...”118.

Carmen e suo fratello non si resero conto della crisi in cui si dibatteva l’attività del padre finché il signor José e

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la signora Dolores non lo fecero loro capire. I due co­niugi non volevano rendere partecipi i figli, sarebbe sta­to un colpo troppo forte, delle proprie sofferenze. Ritar­darono la notizia per qualche tempo; breve, peraltro, perché fu impossibile nascondere l’imminente rovina degli affari del signor José. Tutto si svolse nel breve tem­po di due autunni: quello del 1913, in cui morì Chon, e le ultime settimane del 1914, in cui avvenne il definitivo fallimento della “Juncosa y Escrivà” .

Nel corso di quell’anno sopraggiunse, in tutta la re­gione, una recessione economica che fu causa di cessa­zioni e liquidazioni di molte aziende commerciali, come accadde a Maurizio Albàs, uno dei fratelli della signora Dolores. Ma il caso del fallimento della “Juncosa y Escrivà” fu diverso115*.

Dapprima ci fu il mancato rispetto degli impegni da parte di Jerónimo Mur, ex-socio del signor José; il si­gnor Escrivà «subì un grande rovescio economico, do­vuto, a quanto ho udito dai miei genitori - spiega Martin Sambeat -, al fatto che il socio della ditta non si comportò in modo corretto». E, facendosi eco delle voci che circolavano a Barbastro, Adriana Corrales riferisce che «gli amici ritenevano che il fallimento fosse l’ultima conseguenza di un brutto tiro giocato a quella brava persona che era José Escrivà»120.

In pochi mesi le avversità finirono con lo smantellare quanto di superfluo benessere poteva esistere in casa di Josemarìa. Accadde in modo visibile e veloce. Le amiche di Carmen lo descrivono. All’inizio, dice una di esse, «dovettero distaccarsi da molte cose»121. Poco dopo la morte di Chon licenziarono la bambinaia. Poi dovettero fare a meno della cuoca e più avanti della donna di ser­vizio. Carmen aiutava la madre nelle faccende domesti­che e si adattarono alle ristrettezze senza un lamento. A paragone delle sofferenze morali e delle umiliazioni che dovettero sopportare, gli inconvenienti della povertà materiale rappresentavano ben poca cosa. I due coniugi

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spiegarono ai figli che era necessario accettare con sere­nità la nuova situazione economica, permessa dal Signo­re. E un giorno, davanti a tutta la famiglia riunita, il si­gnor José spiegò come si dovevano comportare di fronte alla povertà: «Dobbiamo vedere tutto con senso di re­sponsabilità, perché non si deve fare il passo più lungo della gamba e, d’altra parte, questa povertà va vissuta con decoro, anche se è umiliante, senza che la notino gli estranei e senza farlo sapere»122.

La cosa sorprendente in tutto questo non fu la probità dimostrata dal signor José, né lo spirito di sacrificio de­gli Escrivà nel sopportare serenamente un rovescio di fortuna. In fin dei conti il fallimento dell’azienda era, in parte, imposto dalle circostanze e dalla crisi economica generale del Paese. Ciò che più meravigliò parenti ed estranei fu l’eroica decisione presa dal signor José, il quale, perduta la ditta, - racconta il figlio - “ avrebbe potuto mantenere una posizione brillante per quei tempi se non fosse stato un cristiano e un uomo onesto”123.

Questa cristiana onestà consistette nel fatto che per­donò, fin dal primo momento e con grande benevolen­za, coloro che erano stati la causa della sua rovina. Pregò per loro ed evitò di toccare l’argomento per impe­dire che in famiglia nascesse del rancore contro di loro. Inoltre, quando fu decretato il fallimento con sentenza del tribunale, poiché il patrimonio sociale risultava in­sufficiente a pagare i creditori, chiese se esistesse l’obbli­go di stretta giustizia di risarcirli con i propri beni priva­ti. Gli risposero che non vi era moralmente obbligato124. Nonostante questo, quell’uomo onesto si attenne al pro­prio senso della giustizia e «liquidò tutto ciò che posse­deva per pagare i creditori»125.

Quindi mise a disposizione tutti i propri beni. Ven­dette la casa. Soddisfece tutti i propri debiti e finì in ro­vina. Ma non fino all’estremo di non avere da mangia­re o di non avere neppure gli occhi per piangere; sono, queste ultime, espressioni che gli amici di Josemaria

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udirono in casa propria, prendendone alla lettera il si­gnificato, come indica un episodio raccontato dalla ba­ronessa Valdeolivos: «Ricordo frasi che udivo e che mi rimanevano impresse; perciò mi meravigliai, un pome­riggio, di vedere Josemarìa che faceva merenda con pa­ne e prosciutto. Dissi a mia madre: “Mamma, perché dicono che gli Escrivà stanno così male? Oggi Jose­marìa ha fatto un’ottima merenda” . Mia madre mi spiegò che, in effetti, non stavano poi tanto male da non poter fare merenda...»126.

Nacquero subito incomprensioni e critiche da parte di alcuni parenti della signora Dolores, che considerarono una ingenuità il comportamento del marito. A che cosa serviva quel comportamento liberale e romantico di di­staccarsi dai beni di cui la sua famiglia aveva bisogno?

Josemarìa, commenta Pascual Albàs, «dovette soffrire abbastanza, poiché la sua famiglia attraversò momenti difficili e dolorosi; alcuni degli zii presero le distanze, per non doverli aiutare»127. Uno di questi era Carlos Albàs, fratello della signora Dolores, che diceva in giro che la condotta di suo cognato era stata una grossa stu­pidaggine: «Pepe è stato uno sciocco - diceva -; avrebbe potuto conservare una buona posizione economica e in­vece si è ridotto in miseria»128.

Le disgrazie, tuttavia, rafforzarono l’unità della fami­glia. Moglie e figli si sentivano orgogliosi della nobile decisione presa dal capofamiglia. Un modo di agire così schiettamente cristiano suscitava in Josemarìa sentimen­ti di ammirazione, che gli avrebbero fatto esclamare, a molti anni di distanza:

“Ho un santo orgoglio: amo mio padre con tutta la mia anima e credo che abbia un posto molto alto in Cielo, perché ha saputo sopportare tutta l’umiliazione che im­plica il trovarsi in mezzo a una strada in maniera così di­gnitosa, così meravigliosa, così cristiana”129.

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D’altro lato, egli sentiva una forte ribellione interiore, per la durezza della prova e per le dolorose umiliazioni che ne derivavano. In seguito ne avrebbe chiesto perdo­no al Signore, confessando la propria resistenza ad ac­cettare la situazione della famiglia: “mi ribellavo davan­ti alla situazione di allora. Mi sentivo umiliato. Chiedo perdono” 130.

Considerò e riconsiderò i disegni della Provvidenza, che rade al suolo i progetti degli uomini e che, senza tanti riguardi, invia la rovina economica e altre afflizio­ni ai cristiani. Solamente la fede viva ed esemplare dei genitori mantenne il figlio al di sopra delle contrarietà.

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Durante il 1914, alcuni mesi prima della sentenza di fallimento, José Escrivà si preoccupò per il futuro della famiglia. La condizione economica degli Escrivà era ca­duta a livelli incompatibili con la precedente condizio­ne sociale e, benché nelPintimità della casa fossero pre­parati a vivere nelle ristrettezze, le circostanze impedivano loro di continuare come prima. Barbastro era una cittadina in cui difficilmente si sarebbe potuto riprendere un’attività, a motivo del fallimento. Il signor José non disponeva di risparmi o di beni da offrire in garanzia. Convivere con l’incomprensione altrui o tro­varsi a faccia a faccia con quanti avevano abusato della sua fiducia, portandolo alla rovina, metteva a dura prova la sua dignità di persona integerrima. Fu così che, dopo essersi consultato con la moglie, cercò di aprire nuove prospettive alla famiglia, pensando princi­palmente al futuro dei figli131.

Non gli fu difficile trovare lavoro in un’altra loca­lità. Aveva molti amici e conoscenti fra i commercianti del ramo tessile. Inoltre, l’onestà del signor José era di dominio pubblico e si sapeva che là perdita dei suoi beni era il risultato di un’encomiabile generosità. Per questo ben presto si accordò con il proprietario di una

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ditta di tessuti di Logrono, Antonio Garrigosa y Bor- rell. Il posto che questi gli affidò, pur essendo di fidu­cia quanto alla gestione dell’azienda e ai rapporti con la clientela, era ben lontano dalla condizione di so­cio132. Nei primi mesi del 1915 il signor José si trasferì a lavorare a Logrono.Per la prima volta i genitori dovettero separarsi. La si­gnora Dolores sarebbe rimasta a Barbastro con i figli fi­no alla fine dell’anno scolastico. La disavventura econo­mica aveva lasciato in lei un marchio indelebile di sofferenza: «Ricordo molto bene la signora Lola negli ultimi tempi passati a Barbastro, quando, ormai senza servizio, faceva i lavori domestici - racconta Adriana Corrales -. La vedo mentre stira, seduta su una seggioli­na bassa. Noi allora credevamo che stesse male di salute e che avesse mal di cuore»133.Il male di cui soffriva la signora Dolores non aveva nul­la a che vedere con una malattia cardiaca.

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NOTE CAPITOLO I

1 Parole del Fondatore riportate in: Mons. Josemarìa Escrivà de Balaguer y el Opus Dei. En el 50 aniversario de su fundación, Eunsa, Pamplona 1982, pp. 21-27. Cfr AGP, POI 1975, p. 357.2 Meditazione del 14-11-1964. Quanto all’influsso delle virtù dei genitori nella sua prima formazione, cfr Javier Echevarria, Sum. 1775 e 1798; San­tiago Escrivà de Balaguer y Albàs, PM f. 1297; Martin Sambeat, Sum. 5678.3 Espressione che conferma quanto indicato più sopra, e cioè che in quasi tutte le descrizioni autobiografiche si trova sempre - in modo più o meno implicito - un riferimento alla sua vocazione del 2 ottobre 1928. Cfr Al­varo del Portillo, Sum. 3; Javier Echevarria, Sum. 1760.4 Cfr Appendice documentale, documento VI.Nel testo originale ci si riferisce ai genitori di San Josemarìa e ad altri per­sonaggi, premettendo al nome, secondo l’uso spagnolo il “ Don” o “Dona” (Don José, Dona Dolores, ecc.); nella traduzione italiana si è pre­ferito normalmente ometterli o sostituirli (il signor José, ecc.). Sono stati mantenuti soltanto nei documenti dell’Appendice (NdT).5 Cfr Appendice documentale, documento VII.6 Cfr Javier Echevarrfa, Sum. 1763; Joaquin Alonso, PR, p. 1649. Sulla gratitudine che egli nutrì verso i padrini di battesimo, cfr Alvaro del Por­tillo, PR, p. 19; Angel Camo, AGP, RHF, T-02846, 1. - Per l’inciso relativo al nome del sacerdote, va tenuto presente che in spagnolo l’aggettivo “malo” significa “cattivo” (NdT).7 Cfr Liber de gestis del Capitolo, anno 1635, fol. 38v.8 C 2828, 21-IV-59. I resti del fonte battesimale furono portati a Roma nel 1959. Il Fondatore, dopo il necessario restauro, lo fece mettere all’in­gresso dell’oratorio di Santa Maria della Pace - oggi chiesa prelatizia del­

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l’Opus Dei - come pila per l’acqua benedetta, con accanto una lapide commemorativa che recita:HVNC SACRVM BAPTISMATIS FONTEM SANCTAE ECCLESIAE CATHEDRALIS BARBASTRENSIS + IN QVO CONDITOR NOSTER EIVSQUE MATER ET SOROR AQVAM REGENERATIONIS ACCE- PERVNT + HISPANICO BELLO FLAGRANTE ANNO MCMXXXVI IN ODIVM RELIGIONIS DIRVPTVM + OPERI DEI AB EPISCOPO ET CAPITOLO ANNO MCMLVII DONO DATVM + CONSILIVM ATQVE ASSESORATVS CENTRALIS AD PRISTINAM FORMAM ANNO MCMLIX RESTITVERE FECERVNT.9 Cfr Appendice documentale, documento VI.10 L’errore di trascrizione del cognome fu così frequente da allarmare il si­gnor José. In effetti, egli stesso nel proprio atto di battesimo a Fonz appa­re come “figlio legittimo di José Escribà y Zaydin” (cfr Appendice docu­mentale, documento II). Successivamente, l’errore verrà ripetuto e molti­plicato negli atti di battesimo del figlio, come si vedrà in seguito, e di tre figlie. Della maggiore si dice che “Maria del Carmen Constancia Florencia Escribà” era figlia di “Don José Escribà” ; che il padre di “Maria Asun- ción Escribà” era “ Don José Escribà” e il padrino, “ Don Teodoro Escribà” ; di “Maria Dolores Escribà” , che il padre e il nonno si chiamava­no “José Escribà” ; e nell’atto di morte dell’ultima riappare “Escribà” . Fanno eccezione gli atti di battesimo e di morte di Maria del Rosario Escrivà, dove non vi sono errori. (Cfr Archivio della parrocchia dell’Às- sunzione di Barbastro, Libro dei Battesimi, XLIII, fol. 22; XLIV, fol. 35, 64v; Libro dei Defunti, XLV, fol. 14v.Quanto a Josemarfa, ci si imbatte nella dizione “Escribà” in diverse occa­sioni: nel documento del 20-11-1925 di dispensa pontificia per difetto di età canonica ai fini dell’ordinazione sacerdotale, che inizia: “Beatissime Pater, Diac. Joseph M. Escribà... (Sacra Congregano de Sacramentis, Prot. n. 871/25; AGP, RHF, D-03263); nella lettera dell5Arcivescovo di Saragoz­za ad Antonio Lasierra, presidente della Provincia, del 19-XII-25 (AGP. RHF, D-05188); nel salvacondotto del Comando Militare di Fuenterrabfa, 12-XII-37 (AGP, RHF, D-15073); sulla busta di una lettera di Julio M. Cortés Zuazo, 8-X-52 (AGP, RHF, D-15282); ecc.11 Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 57.12 Appunti, n. 1273. Nel 1939, quando egli rilesse quanto aveva scritto nel 1935 circa la difesa della “v” di “Escrivà” , rammentò gli anni dell’in­fanzia, quando suo padre, con giusto orgoglio di gentiluomo, per dimo­strare al figlio che la difesa di una lettera non era un capriccio o una mania, in quanto il nome veniva forgiato dalla storia di molte generazioni, aveva parlato a Josemarfa della famiglia, della “nostra ascendenza....” . Ma i puntini sospensivi dell’appunto del 1939 nascondono un più ampio significato. Come un corso d’acqua che la terra inghiotte e che riappare più lontano: se infatti si ritorna indietro, nei suoi quaderni degli Appunti intimi, nella prima settimana del giugno 1933 (che reca un’annotazione ulteriore scritta nel dicembre 1934), si legge: “Allontana da te la sfiducia

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che nasce dalla consapevolezza della tua miseria. È vero: per il tuo presti­gio economico sei uno zero..., per il tuo prestigio sociale” (Nota successi­va del Padre: “I miei genitori avevano raccontato cose che facevano inten­dere che non fosse così: ma così era per quanto si riferisce a me - Die. 1934” ), “un altro zero; e un altro per le tue virtù, e un altro per il tuo ta­lento..., ma a sinistra di queste negazioni c’è Cristo... e che cifra incom­mensurabile ne risulta!” (Appunti, n. 1017).Fra i suoi antenati ce ne furono di famosi, come S. Giuseppe Calasanzio e Michele Serveto. Ad essi fece riferimento in pubblico Mons. Escrivà in qualche occasione:“Un mio antenato, Michele Serveto, fu bruciato dall’inquisizione prote­stante di Calvino, a Ginevra. Anche se un po’ alla lontana, mio fratello eio siamo gli unici parenti della famiglia” (efr AGP, P04 1972, p. 655; sul processo di Serveto: Registres de la Compagnie des Pasteurs de Genève au temps de Calvin (tomo II, R. M. Kingdon, 1553-1564; Accusation et procès de Michel Servet, 1553, E. Droz, Genève 1962).E in altra occasione:“ C’è un santo mio lontano parente che io amo molto. Non fraintendere!Io non sono affatto un santo... Un altro mio antenato è stato bruciato dal- l’Inquisizione protestante. Comunque non sono neppure un eretico... Cia­scuno è quello che è, indipendentemente dai suoi antenati. Quel santo, dunque, Giuseppe Calasanzio, diceva: “Se vuoi essere santo, sii umile; se vuoi essere più santo, sii più umile; se vuoi essere molto santo, sii molto umile” ” (efr AGP, P04 1972, p. 353; sulla storia e sullo spirito di S. Giu­seppe Calasanzio, si veda: Epistolario di S. Giuseppe Calasanzio, edito e commentato da Leodegario Picanyol, Roma 1950-51).13 C 3022, 26-XI-60.14 Fra i documenti della cancelleria di Giacomo I il Conquistatore, negli Archivi della Corona di Aragona, in quelli di Valencia e in quelli concer­nenti la ripartizione del regno, appare un Guillem Escrivà, notaio di Gia­como I (1227-1251): efr M. Batllori, El cronista Bernat Desclot i la fami- lia Escrivà, in Storiografia e Storia. Studi in onore di Eugenio Dupré The- seider, Università degli Studi di Roma, Bulzoni Editore, Roma 1974, pp. 123-150; A. Huici, Colección diplomàtica de ]aime I, el Conquistador, I, 1, Valencia 1916: L Miret i Sans, Itinerari de laume I ((el Conaueridor”, Barcellona 1918.15 II Ministero della Giustizia, attraverso la Direzione Generale dei Regi­stri e Notariati, accordò che fosse aggiunta la dicitura “de Balaguer” a formare il nome composto “Escrivà de Balaguer” , autorizzandone l’uso da parte di Josemaria e di Carmen il 18-X-1940, e del fratello Santiago il 12-XI-1940. Il 18 ottobre 1940 il Direttore Generale comunicò al Giudice di prima istanza, n. 9 di Madrid, l’ordinanza del Ministro della Giustizia, su proposta della Direzione Generale dei Registri e Notariati.16 Sul ramo degli Escrivà, efr Famiglia Escrivà de Balaguer-Albàs (AGP,

‘RHF, D-12131) e Appendice documentale, documento I.17 Quando era in vena di confidenze, il padre raccontava a Josemaria fatti

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e avventure della propria gioventù: una volta gli avevano regalato una bi­cicletta con le gomme piene, con cui circolava a gran velocità per il paese, suscitando la meraviglia dei paesani, finché, in una clamorosa caduta, si ruppe un braccio; allora suo padre, il nonno di Josemarìa, dopo aver rega­lato la bicicletta a qualcuno, lo ammonì severamente: “Non voglio vederti mai più su quella macchina infernale” (cfr AGP, P04 1972, p. 809).18 A Fonz risiedettero per molti anni la madre e due dei fratelli del signor José: don Teodoro e Josefa. Cfr Maria del Carmen de Otal Marti, baro­nessa di Valdeolivos, Sum. 5986; Esperanza Corrales, AGP, RHF, T- 08203, p. 1.19 Martin Sambeat, AGP, RHF, T-03242, p. 2.Il nome di José Escrivà venne incluso all’epoca nei “Libros de matncula” della parrocchia dell’Assunzione, nei quali si raccoglievano i dati concer­nenti il precetto pasquale dei fedeli, in osservanza delle norme dettate dal Concilio di Trento. Alcuni volumi che raccoglievano i fogli annuali sono andati perduti. Per quanto ha attinenza con la nostra storia, nel volume del 1882 appare per la prima volta il nome di Dolores (la madre di Josemarìa), allora di quattro anni, domiciliata in casa dei suoi genitori, in via Romero 20. Nei volumi dal 1892 al 1893 è registrato il suo precetto pasquale a 15 e 16 anni, e per la prima volta quello del signor José, domiciliato in via Rio Ancho, 8. È molto probabile che il signor José risiedesse a Barbastro ancor prima del 1892; ma i volumi dal 1882 al 1892 sono andati perduti.20 Cfr AGP, RHF, D-12131 e Famiglia Escrivà de Balaguer-Albàs, Appen­dice documentale, documento I.21 Martin Sambeat, AGP, RHF, T-03242, p. 2; Sixta Cermeno, AGP, RHF, T-02856, p. 3; Angel Camo, AGP, RHF, T-02846, p. 1.22 Meditazione del 6-1-1970.23 Cfr Appendice documentale, documenti III e II.24 Cfr Santiago Escrivà de Balaguer y Albàs, Sum. 7320. Teodoro Escrivà Corzàn fu sacerdote beneficiato di Casa Moner, una cappellania fondata a Fonz nel 1889 da Joaquin Moner y Siscar. Era obbligo del cappellano ce­lebrare tutti i giorni la Santa Messa nell’oratorio semipubblico della casa dei Moner, in via Cerbuna, conosciuta come “ Casa Bardaxi” . Nel 1901 fu costituita, nell’antica casa dei Moner, una nuova cappellania.Vicente Albàs, ordinato nel 1892, aveva studiato nei seminari di Teruel e di Barbastro. Fu economo di Ramastué y Coscojuela del Sobrarbe e parro­co di Olvena (1900-1918); poi beneficiato della Cattedrale di Burgos (1918-1925). Diventò cieco e visse a Saragozza fino alla morte, nel 1950. Carlos Albàs fu ordinato nel 1894, fu coadiutore di Laspuna e nominato familiare dal Cardinale Cascajares nel 1897. Fu poi canonico arcidiacono del Capitolo della Cattedrale di Saragozza. Cfr Carmen Lamartm, AGP, RHF, T-04813, p. 1. Morì l’ l-II-1950.Maria Cruz era Carmelitana calzata del convento dell’incarnazione di Huesca; il nome da religiosa era Maria de Jesus. Morì il 27-11-1938. Pascuala, Figlia della Carità, morì a Bilbao il 7-III-1910.

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Cugino della signora Dolores era Mariano Albàs Blanc, padrino di batte­simo di Josemarìa. Nato nel 1866, si sposò nel 1896 con Carmen Mora; rimasto vedovo nel 1899, entrò in seminario. Fu ordinato sacerdote nel 1902 e fu beneficiato a Barbastro e cappellano delle Serve di Maria. Nel 1915 viveva in via Argensola al n. 26, dove abitavano anche gli Escrivà prima di lasciare Barbastro. Fu amministratore della diocesi e morì assas­sinato in odio alla religione durante la guerra civile.Mons. Escrivà fu anche imparentato da parte di madre con Mons. Cruz Laplana Laguna, che fu vescovo di Cuenca dal 1921 al 1936, anno in cui morì assassinato. Cfr Appunti, nn. 598, 1146 e 1739; Lettera 15-X-1948, n. 200.25 Don Carlos è il già menzionato fratello della signora Dolores. Don Al­fredo Sevil era zio della stessa; e don José Blanc Barón era fratello della nonna Florencia ed era stato vescovo di Avila (cfr Carmen Lamartfn, AGP, RHF, T-04813, p. 1).26 Appunti, n. 1476. Conferma l’affermazione il fatto che il primo episo­dio successivo al rientro in Spagna dopo la traversata dei Pirenei nel di­cembre 1937 si riferisca alle amiche della signora Dolores.27 Cfr Appendice documentale, documento IV, atto di matrimonio. Per la cappella dove furono celebrate le nozze, cfr Appunti, n. 229, nota 248. La famiglia degli Albàs apparteneva alla parrocchia dell’Assunzione, ubicata nella cattedrale. Dalla consultazione dei libri parrocchiali si ricavano i se­guenti dati: nel 1877, quando fu battezzata la signora Dolores, era parro­co don Teodoro Valdovinos. Negli anni 1898 e 1899, in cui contrasse ma­trimonio ed ebbe la prima figlia, non c’era parroco, ma un sacerdote eco­nomo, don Màximo Lafita. Nel 1902, quando fu battezzato Josemarfa, il Reggente era don Angel Malo Arias.28 Cfr F. Fita, Cortes y Usajes de Barcelona en 1064. Textos inéditos, BAH, tomo XVII (1890), pp. 385-428; R. Menéndez Pidal, La Espaha del Cid, voi. I, Espasa-Calpe, Madrid 1969, pp. 147-151; Kitab Ar- Rawd Al- Mi’tar, Valencia 1963, pp. 86-89. Sulla storia di Barbastro: E. Bernad Royo, Aragón de 1902 a 1923, in AA. W , Aragón en su Historia, Sara­gozza 1980; E. Fernàndez Clemente, Aragón contemporàneo (1833- 1936), Madrid 1975; R. del Arco, Historia de Barbastro (inedita; redatta nel 1950); S. Lopez Novoa, Historia de Barbastro, 2 voli., Barcellona 1861 (riedita a Barbastro 1981); S. Lalueza, Barbastro, in AA. W , Dic- cionario de Historia Eclesiàstica de Espana, voi I, Madrid 1972, pp. 183- 187; E. Gros Bitria, Los Umites diocesanos en el Aragón orientai, Saragoz­za; R. Marti Ibarz, Vision retrospectiva de Barbastro en las primeras déca- das de este siglo, in Realizaciones, 26 (1981), p. 10.29 Le siège de Barbastre fu edito la prima volta da J. L. Perrier a Parigi nel 1926. Un riassunto della chanson in A. Becker, Der Siège de Barbastre, in Beitrdge zur Romaniscben Philologie, Halle a. S., Max Niemeyer, 1899, pp. 252-266.

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30 Cfr Jerónimo Zurita, Anales de la Corona de Aragón, libro I, Rey don Sancho Ramhez.31 Cfr S. Lopez Novoa, op. cit., I, p. 233.32 Cfr S. Lalueza, Barbastro, op. cit., pp. 183-187; ed E. Coros Bitria, op. cit. Il primo Vescovo Amministratore Apostolico della diocesi fu Mons. Juan Antonio Ruano y Martin (1898-1905).33 Cfr Appendice documentale, documento V.34 Cfr Maria del Carmen de Otal Marti, Sum. 5986.35 Così lo ricordano i suoi contemporanei; Esperanza Corrales: «Il signor José era di Fonz, un paese vicino, un po’ più a nord, sulla sponda sinistra del Cinca, a pochi chilometri da Barbastro. Apparteneva a una famiglia di proprietari terrieri che proveniva da Balaguer (Lerida). Era commerciante e si era stabilito qui da quando, con altri soci, aveva avviato un commer­cio di tessuti, “Eredi di Cirilo Latorre” , che si sarebbe chiamato poi “Jun­cosa y Escrivà” . Si trovava in via Generale Ricardos, dove passa la strada che va da Tarragona a San Sebastiàn. Vi facevano anche la lavorazione del cioccolato. Era un negozio con attività differenziate, come era abituale in una città come Barbastro. Quando il signor José si sposò con la signora Lola - così chiamavamo Dolores Albàs - era molto conosciuto e aveva rapporti commerciali in tutta la zona» (AGP, RHF, T-08203, p. 1).Adriana Corrales, la sorella di Esperanza, dice che «il signor José parlava poco, ma colpiva il suo sereno e accogliente sorriso (...). Aveva anche una grande signorilità. Era un uomo dal portamento elegante (...). Aveva una solida vita di pietà, che si manifestava nella pratica delle devozioni tradi­zionali: il Rosario in famiglia, la Messa e la Comunione frequente, ecc.» (AGP, RHF, T-08202, p. 4). Cfr pure Martin Sambeat, AGP, RHF, T- 03242, p. 1; e Pascual Albàs, AGP, RHF, T-02848, p .l.36 Cfr Appendice documentale, documento VI e VII; Alvaro del Portillo, Sum. 7. Quando, da piccolo, gli chiedevano come si chiamasse, risponde­va: “José” , che era anche il nome di suo padre. Ma molti anni dopo com­mentò: “Non mi spiego come potevo essere tanto sciocco! Perché non si può separare Maria da Giuseppe, né viceversa” (cfr anche AGP, P03 1974, p. 1125).Seguendo la traccia del dialogo interiore del Fondatore con se stesso, si può rilevare che il periodo in cui effettuò il cambiamento del nome è indi­cato da un’annotazione della fine di giugno del 1936: “Josemaria, in Croce!” (cfr Appunti, nn. 1282 e 1371). E nella sua corrispondenza, a partire dalla lettera C 136, del 26-XI-1935, firmerà “Josemaria” .37 Adriana Corrales, AGP, RHF, T-08292, p. 4; Martin Sambeat, RHF, AGP, T-03242, p. 2.38 Nell’Alto Medioevo era consuetudine amministrare la cresima subito dopo il battesimo; ma, a partire dal Concilio di Colonia (1280), nella Chiesa latina si cominciò a preferire l’età di ragione. Il Catechismo del Concilio di Trento, pur ammettendo il conferimento del sacramento della confermazione ai neonati già battezzati, raccomanda di non farlo finché

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non abbiano raggiunto l’età della ragione. In Spagna e in Portogallo, non­ché nelle nazioni evangelizzate da questi Paesi, continuò l’antica consuetu­dine che i Vescovi, quando facevano le visite pastorali, amministrassero la cresima a bambini di qualsiasi età; consuetudine che il Codice di Diritto Canonico del 1917 non revocò né condannò. Papa Leone XIII scriveva il 22-VI-l897 al Vescovo di Marsiglia raccomandando caldamente che ve­nisse amministrata la cresima ai bambini prima che facessero la prima Co­munione.39 L’atto originale di cresima si trova nell’archivio della parrocchia dell’As- sunzione. L’estratto dell’atto, con la correzione del cognome in “Escrivà de Balaguer” , dice:«Nei fogli 1 e 2 del libro XLIII dei Sacramenti (Cresime) consta che D. Jo­semarìa Escrivà de Balaguer y Albàs ha ricevuto la Confermazione, insie­me ad altri bambini e bambine, nella santa chiesa cattedrale di questa cittàil ventitré aprile millenovecentodue. Il santo Sacramento della Conferma­zione lo amministrò l’ecc.mo e rev.mo Mons. Antonio Ruano y Martin, Vescovo di Barbastro; padrini Don Ignacio Camps e Dona Juliana Erruz».40 Cfr Maria Dolores Fisac, AGP, RHF, T-04956, p. 28.41 «Fra i miei ricordi di Josemarìa - riferisce Pascual Albàs - spicca, negli anni dell’infanzia, avendolo sentito raccontare diverse volte da mio padre,il pellegrinaggio che i genitori di Josemarìa fecero alla Madonna di Torre- ciudad, portandolo in braccio - aveva due anni - per ringraziarla della sua guarigione, avvenuta per intercessione di Maria, da una grave malattia a motivo della quale i medici avevano dato per certa la sua morte imminen­te» (Pascual Albàs, AGP, RHF, T-02848, p. 1). Ed Esperanza Corrales rac­conta: «Gli Escrivà, e con loro molti che li frequentavano a Barbastro, eb­bero sempre la convinzione che all’intercessione della Madonna fosse do­vuta la guarigione di Josemarìa dalla grave malattia che aveva contratto a due anni. I medici ne avevano già annunciato la morte inevitabile e immi­nente. Restava solo la preghiera della madre, unita alla promessa di fare un pellegrinaggio a Torreciudad con il bambino. E fu proprio ciò che ac­cadde. La malattia sparì inaspettatamente e il piccolo Josemarìa si salvò nonostante le pessime previsioni dei medici. Quando si fu ristabilito, i ge­nitori, con il bambino in braccio, adempirono la promessa di andare pelle­grini a ringraziare la Madonna di Torreciudad» (AGP, RHF, T-08203, p. 5). Cfr pure Martin Sambeat, Sum. 5678 e Santiago Escrivà de Balaguer, Sum. 7320.42 Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 13; Javier Echevarrìa, Sum. 1767-1768; Francisco Botella, Sum. 5608; José Luis Muzquiz, Sum. 5792.43 Mons. Alvaro del Portillo aggiunge: «Ho udito questa frase direttamen­te dalla madre del nostro Fondatore» (PR, p. 32). Altre varianti: «Figlio mio, tu eri più morto che vivo; se Dio ti ha tenuto sulla terra sarà per qualcosa di grande...» (AGP, POI 1977, p. 121). Cfr anche Javier Eche­varrìa, Sum. 1767.44 Appunti, n. 122. Nel 1934, mentre faceva gli esercizi spirituali, scrisse

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un lungo elenco di favori ricevuti, il primo dei quali era la propria guari­gione: “Meditazione. Ciò che Dio nostro Signore ha dato a me in partico­lare: 1) per mezzo di sua Madre - mia Madre - quand’ero bambino, mi ha restituito la salute” (Ibidem, n. 1756). Cfr anche Silvestre Sancho, Sum. 5393.45 Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 56. Circa la sua completa guarigione: Martin Sambeat, Sum. 5678; Santiago Escrivà de Balaguer, Sum. 7320; Pascual Albàs, AGP, RHF, T-02848, p. 1.46 Cfr «Elenco delle preghiere che il Servo di Dio apprese dai suoi genitori; udite direttamente dal Servo di Dio e fedelmente trascritte», Mons. Joa- quin Alonso, PR, p. 1651, doc. 41. Un altro esempio: “Sacro Cuore di Gesù, in Te confido. Sacro Cuore di Maria, sii la salvezza mia” . Cfr anche: Alvaro del Portillo, Sum. 22; Javier Echevarria, Sum. 1796; Javier de Ayala, Sum. 7623.47 Eccone altre di questo genere: “Son le dodici, / Gesù non viene. / C’è un fortunato / che lo trattiene?” . Cfr Alvaro del Portillo, PR, p. 43; Javier Echevarria, Sum. 1777; Jesus Alvarez Gazapo, PR, p. 1272.48 Cfr «Elenco delle preghiere...», già citato.49 Cfr Colloqui con Mons. Escrivà, Milano 19875, n. 103; AGP, P04 1972, p. 748; AGP, P04 1974, p. 114.50 Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 45; Encarnación Ortega, PM, f.27v; Maria del Carmen de Otal Marti, Sum. 5995.51 Cfr AGP, POI XII-1957, p. 47; Alvaro del Portillo, Sum. 24.52 Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 10.53 Per la macchia sulla tappezzeria: Javier Echevarria, Sum. 1794.54 Su questi episodi: cfr Lettera 29-XII-1947/14-II-1966, n. 8. Cfr anche Alvaro del Portillo, PR, p. 55.55 Le citazioni dei tre capoversi sono prese da: Lettera 24-111-1931, n. 39; Meditazione del 14-11-1964; Lettera 9-1-1932, n. 39. Cfr pure: Lettera 6- V-1945, n. 44; Alvaro del Portillo, Sum. 10; Javier Echevarria, Sum. 1793; Francisco Botella, Sum. 5608.56 Cfr AGP, P04 1974, p. 433.57 Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 55. José Escrivà aveva una così alta stima delle persone di servizio che diceva al figlio: «Josemaria, alle persone che lavorano al servizio della casa si deve rispetto come a tutti e come se fos­sero parte della famiglia, perché lo sono» (Javier Echevarria, Sum. 1789. Cfr anche Lettera 29-VTI-1965, n. 26.58 Su questi episodi, cfr Alvaro del Portillo, Sum. 27, 28 e 29.59 Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 10.60 Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 27; Javier Echevarria, Sum. 1794.61 Pascual Albàs, AGP, RHF, T-02848, p. 2; Esperanza Corrales, AGP, RHF, T-08203, p. 2.

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62 Cfr Javier Echevarria, Sum. 1771.63 Fin dalla più tenera età, il piccolo a Natale teneva molto a recarsi alla Messa “del gallo” , quella di mezzanotte; così pure alle tre Messe del gior­no dei defunti, colpito dalla solennità della liturgia. Cfr Javier Echevarria, Sum. 1770 e 1776.64 Appunti, nn. 228 e 229. Sulle immagini del Santo Cristo dei Miracoli e sulla cappella dell’Assunzione, cfr S. Lopez Novoa, op. cit., I, p. 255-260. Sulla devozione del Fondatore a questo Crocifisso: Alvaro del Portillo, Sum. 23. L’immagine, come pure quella della Madonna, fu distrutta nel 1936, all’inizio della guerra civile.65 Cfr Meditazione del 14-11-1964; Francisco Botella, Sum. 5609. Santiago Escrivà de Balaguer traccia in poche parole il percorso della formazione di suo fratello da bambino: «Le persone che hanno influito sulla formazione morale e religiosa del Servo di Dio furono, in primo luogo, i nostri genito­ri, specialmente nostra madre. La sua formazione intellettuale la ricevette dapprima in una scuola materna delle Figlie della Carità e, quando fu un po’ più grande, nella scuola dei Padri Scolopi di Barbastro» (cfr Santiago Escrivà de Balaguer, PM, f. 1297). La scuola delle Figlie della Carità fu la prima scuola femminile che ebbe in Spagna la Congregazione fondata nel 1633 da S. Vincenzo de’ Paoli e da Santa Luisa di Marillac.Alla fine del XVIII secolo, un canonico di Barbastro, don Antonio Jimé- nez, lasciò tutti i suoi beni alle Figlie della Carità per la fondazione di una scuola per bambine; nel 1782 i superiori in Spagna della Congregazione inviarono a Parigi sei giovani donne affinché si formassero nello spirito e nelle attività della Congregazione, per farle poi tornare in Spagna. Erano quattro catalane e due aragonesi, una delle quali era di Barbastro e si chiamava Maria Blanc, casualmente il secondo cognome della signora Do­lores, madre di mons. Escrivà (cfr S. Lopez Novoa, op. cit., voi. I, p. 321). Nel 1790 tutte e sei ritornarono in Spagna e nel 1792 fu fondata la scuola di Barbastro (cfr ibidem, pp. 320-324).La Legge Sull’Educazione del 1857, nota come Legge Moyano, regola­mentò l’educazione in Spagna per più di un secolo, con numerose modifi­che apportate con Decreti, regolamenti, ecc.66 Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 33. L’alunno serbò gratitudine alle Figlie della Carità per i loro insegnamenti e quando, diversi anni dopo, seppe che una delle suore, amica e compagna della signora Dolores, era stata as­sassinata durante la guerra civile, non potè trattenere le lacrime.67 Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 19; Javier Echevarria, Sum. 1774.68 Cfr il Bollettino Ecclesiastico Ufficiale del Vescovado di Barbastro, anno XL, n. 18, del 24-XI-1908, che riunisce le circolari dell’anno prece­dente, i bandi di concorso, i risultati e i premi.69 Cfr ibidem.70 Le Scuole Pie, ufficialmente autorizzate dalla Santa Sede nel 1617, si diffusero, insieme alla Congregazione religiosa, in Europa e in America. Già nel 1677 la città di Barbastro manifestò al Superiore Generale degli

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Scolopi la richiesta di aprirvi una scuola. La fondazione fu approvata dal Papa e dal Re Carlo II nel 1679, ma, a causa di certe difficoltà e ingiusti­zie, i suoi professori si ritirarono. Successivamente alcuni parenti di S. Giuseppe di Calasanzio donarono i propri beni e nel 1721 fu aperta una scuola pubblica di insegnamento delle lettere e della grammatica latina (cfr S. Lopez Novoa, op. cit., I, pp. 307-314). La scuola, che si trovava nel quartiere di Entremuro, fu ampliata con una magnifica chiesa.71 Sulla visita pastorale, cfr “ Osservazioni sulla S. Visita Pastorale” , nel Bollettino Ecclesiastico Ufficiale del Vescovado di Barbastro, anno 1908, p. 180. Sulla preparazione fatta dalla madre, cfr Florencio Sànchez Bella, Sum. 7539; Javier de Ayala, AGP, RHF, T-15712, p. 4. Cfr anche AGP, RHF, D-04311-7.Padre Enrique Labrador de Santa Lucia era nato a Codonera (Teruel) nel 1855. Stette a Barbastro dall’ottobre 1902 all’agosto 1909. Avrà avuto 52 anni quando il piccolo Josemarfa fece la sua prima confessione. Morì pochi anni dopo, nel 1912, a Daroca.72 Javier Echevarrfa, Sum. 1780; Alvaro del Portillo, Sum. 40.In un incontro durante il viaggio di catechesi nella penisola iberica, nel 1972, raccontò:“Ci sono molti che non amano e che disprezzano il Sacramento e dicono persino, per esempio, che confessare i bambini è una perdita di tempo e che i bambini si spaventano.Mia madre mi portò dal suo confessore quando avevo sei o sette anni e ne fui felice. Questo ricordo mi ha dato sempre molta gioia... Sapete che cosa mi diede per penitenza? Ve lo dico, così vi divertirete. Sento ancora le risa­te di mio padre, che era molto pio, ma non bigotto. Non venne in mente al buon prete - era un fraticello molto simpatico - altro che questo: “dirai alla mamma che ti dia un uovo fritto” . Quando lo dissi a mia madre, commentò: “ figlio mio, il padre avrebbe potuto dirti di mangiarti un dolce, ma un uovo fritto” ...Si vede che gli piacevano molto le uova fritte! Non è incantevole? Che al cuore del bambino - che ancora non sa nulla della vita - vada il confesso­re della madre a dirgli che gli diano un uovo fritto... È magnifico! Quel­l’uomo valeva un Perù!” (AGP, P04 1972, p. 312).73 Gli atti di battesimo si trovano negli archivi della parrocchia dell’Assun­zione di Barbastro, Libro dei Battesimi XLIV, fol. 35, 64 e 115v, rispetti­vamente.74 «La mia sorella più grande, Esperanza, - racconta Adriana Corrales - diventò intima amica di Carmen, la sorella maggiore di Josemarfa, perché avevano praticamente la stessa età (...). Molte ore della mia infanzia le ho passate nella casa degli Escrivà, in via Argensola, con i balconi che davano sulla piazza (...). Alcune volte restavamo in una stanza che avevano desti­nata ai bambini e che chiamavamo “la gabbia dei leoni” , perché alla si­gnora Dolores faceva piacere che giocassimo a casa sua» (Adriana Corra­les, AGP, RHF, T-08202, p. 1).75 Cfr Alvaro del Portillo, PR, p. 28; Lettera 29-VII-1965, n. 49.

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76 Javier Echevarria, PR, p. 1921; Jesus Alvarez Gazapo, Sum. 4464.77 «Alla signora Dolores - aggiunge - faceva piacere collaborare ai nostri giochi. Alcune volte ci lasciava delle cose vecchie - ce ne sono sempre in una casa - perché ci potessimo travestire» (cfr Esperanza Corrales, AGP, RHF, T -08203, p. 3).78 Maria del Carmen Otal Marti, AGP, RHF, T-05080, p. 1.79 Adriana Corrales, AGP, RHF, T-08202, p. 8.80 Nella scuola elementare seguì i corsi delle seguenti materie: Dottrina cristiana e nozioni di Storia Sacra; Lingua castigliana, Lettura, scrittura e grammatica; Aritmetica; Geografia e Storia; Elementi di Diritto; Nozioni di Geometria; Nozioni di Scienze fisiche, chimiche e naturali; Nozioni di igiene e fisiologia umana; Disegno, Canto; Lavori manuali e Educazione Fisica.Il ciclone rivoluzionario del 1936 si portò via la maggior parte dei docu­menti dell’archivio della scuola dei Padri Scolopi. Restano tuttavia i Regi­stri delle presenze e i Quaderni di Padre Manuel.I Registri delle presenze contengono i fogli per il controllo delle presenze degli alunni. Non sono in buono stato di conservazione. Vi compaiono i dati inerenti al nostro alunno nel Registro della Escuela completa de ninos0 Escuela de Escribir (1904-1912) e nel Registro della Escuela de Amplia- ción o Escuela Nueva.1 Quaderni di Padre Manuel erano i quaderni in cui Padre Manuel Labor- da segnava l’elenco degli alunni della classe. Si conservano i quaderni, cu­citi fra loro senza un ordine preciso, dal 1872 al 1915, anno in cui smise di insegnare.Ci sono anche alcuni dati sul piccolo Josemarìa nel Bollettino Ufficiale del Vescovado, anno LV, n. 18, 18-24/XI/1908, p. 284, e nel settimanale “Ju- ventud” (Gioventù) del 13-111-1914 e del 12-VI-1914.Da questi documenti risulta che durante l’anno scolastico 1908-1909 egli era alunno della Escuela de parvulos e durante l’anno 1910-11 della Escuela elemental completa. Benché non ci siano elementi, si può dedurre che nell’anno 1909-10 abbia frequentato la Escuela elemental incompleta. Nell’anno 1911-12 appare iscritto alla Escuela de ampliación e l’i l giu­gno 1912 superò gli esami dell’insegnamento primario, entrando nel ba- chillerato (equivalente agli studi superiori in Italia) all’istituto di Huesca. Risulta pure che durante gli anni scolastici 1912-13 e 1913-14 abbia fre­quentato il primo e secondo anno di bachillerato; il settimanale “]uven- tud” lo citò come uno degli alunni migliori dei Padri Scolopi. Nella scuola non ci sono dati sulla sua frequenza durante l’anno 1914-15, in cui fece il terzo di bachillerato {eh il certificato redatto a Barbastro il 14-11-1984 da P. Vicente Moreno degli Scolopi, Rettore della scuola: AGP, RHF, D- 04311-8).81 Cfr J. Lecea Pellicer, Las Escuelas Pias de Aragón en el siglo XVIII, Madrid 1972, pp. 48 e ss. e 264 e ss.82 Alvaro del Portillo, Monsenor Escrivà de Balaguer; instrumento de Dios

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(pubblicato nel libro En Memoria de Mons. Josemaria Escrivà de Bala­guer, EUNSA, Pamplona 1976), p. 34. E in Josemaria Escrivà, Cammino, Milano 199734, n. 882, si legge un’altra immagine scolastica, autobiogra­fica, riferita al divino: “Abbi compassione del tuo bambino: guarda che voglio scrivere ogni giorno una grande pagina nel libro della mia vita... Ma sono così rozzo! Se il Maestro non mi guida la mano, invece di aste dritte, dalla mia penna escono certe cose storte, certi scarabocchi che non si possono mostrare a nessuno.Gesù, d’ora in poi scriveremo sempre in due” .83 Cfr Encarnación Ortega, AGP, RHF, T-05074, p. 90. «Josemaria aveva molti amici - riferisce Esperanza Corrales, amica di Carmen - figli di fa­miglie conoscenti dei suoi genitori e compagni di scuola. A volte si riuni­vano a casa degli Esteban - il padre era notaio - proprietari dell’immobile in cui si trovava il negozio “Juncosa y Escrivà” . Abitavano al primo piano della stessa casa di via Generale Ricardos. Lì si riunivano, con Josemaria, i fratelli Esteban, i Cagigós, i Sambeat, i Lacau, i Fantoba» (Esperanza Cor­rales, AGP, RHF, T-08203, p. 10).84 Martin Sambeat, Sum. 5681. E Martin Sambeat aggiunge che «era buon amico di tutti e giocava come tutti ai giochi abituali di quei tempi, quali la trottola con la frusta, le bocce, la pelota, il cerchio e i tori». Pa­scual Albàs, cugino di Josemaria, ricorda che «riportava dei voti splendi­di; era molto intelligente. In casa ci portavano sempre ad esempio i bei voti che otteneva Josemaria. Era di ottimo umore, molto allegro e costan­te nell’adempiere i suoi doveri, devoto; già si notava la sua spiccata perso­nalità» (AGP, RHF, T-02848, p. 1).85 Cfr Alvaro del Portillo, PR, p. 88; Javier Echevarria, Sum. 1774 e 1775.86 Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 62; Javier Echevarria, Sum. 1775.87 Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 18; Javier Echevarria, Sum. 1774.88 Cfr Javier Echevarria, Sum. 1793 .89 Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 31.90 Nell’anno 1898, quando si sposavano i genitori di Josemaria, si chiude­va una tappa della storia di Spagna. Il 10 dicembre, con il Trattato di Pa­rigi, svaniva l’impero coloniale spagnolo. La perdita di Cuba, Portorico e delle Filippine ebbe disastrosi effetti sul morale di tutta la nazione; ma produsse, allo stesso tempo, una resurrezione critica degli spiriti e delle idee di alcuni intellettuali, noti in seguito come la generazione del e98. Analogamente al resto d’Europa, venne in luce anche il problema operaio, rimasto latente nei vent’anni precedenti nei quali, con la restaurazione monarchica del 1874 e la flessibile Costituzione del 1876, si era ottenuto un lungo periodo di pace e di ordine, in cui conservatori e liberali si alter­navano al potere. Tuttavia, le tensioni esistenti nella vita spagnola erano di natura più profonda: riforme sociali, esigenze economiche e rivendica­zioni operaie.91 “La Cruz del Sobrarbe” , fondato intorno al 1889, era di ispirazione carlista; “La Època” era conservatore; “El Pats” , della corrente liberale di

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Sagasta; “La Defensa” , fondato nel 1887 come indipendente, passò poi alla corrente liberale di Castelar; “El Eco del Vero” era repubblicano; “El Cruzado Aragonés” , fondato nel 1903, era cattolico; infine, “Juventud” , fondato nel 1914, era della diocesi. Su Barbastro alla fine del XIX secolo, vedi: P. Riera y Sans, Diccionario Geogràfico3 Estadtstico, Histórico... de Espana, Barcellona 1882, voi. II, pp. 48 e ss.92 Un tentativo di questo tipo fu l’impresa apostolica sociale del Cardinale Cascajares, Arcivescovo di Valladolid. Questa iniziativa politica ebbe assai poco successo; la sua breve esperienza non fu soddisfacente e produsse forti reazioni anticlericali, (cfr G. Redondo, La Iglesia en la Edad Contem­porànea, in AA. W , Historia de la Iglesia, voi. Ili, Madrid 1985, p. 173). Leone XIII, con l’enciclica Graves de communi, pubblicata il 18-1-1901, rinnovò l’appello della Rerum novarum (15-V-1891) a favore dell’azione congiunta dei cattolici; e incaricò il Cardinale Primate di Toledo e i suoi successori di dirigere tale azione. Di particolare importanza fu la lettera che il Cardinale Primate inviò ai vescovi il 16-X-1909. Le sue indicazio­ni furono a loro volta raccolte da Mons. Isidro Badia y Sarradell, vesco­vo di Barbastro, per la sua diocesi, nella Lettera Pastorale pubblicata il 9-II-1910.93 Cfr Bollettino Ecclesiastico Ufficiale del Vescovado di Barbastro, anno LVII, n. 5 (22-111-1910), pp. 96-105. Lo statuto del Centro Católico Bar- bastrense fu presentato al Vescovo A.A. di Barbastro, che lo approvò con decreto 8-XII-1908. Alcuni giorni dopo, il 16-XII-1908, fu presentato anche al Governo Civile di Huesca. Ne firmavano la presentazione 14 persone, fra le quali figura al sesto posto José Escrivà, padre di Jose- maria. Erano pure fondatori del Centro Juan Juncosa, socio in affari del padre di Josemaria nell’azienda “Juncosa y Escrivà” , e il cognato di que­sti, Mauricio Albàs.Il Centro Católico Barbastrense ebbe, fin dalla fondazione, un carattere marcatamente sociale. Un anno dopo la sua costituzione, in adempimento di quanto prescritto dall’art. 7, fu creata la Mutualidad Católica, che com­prendeva una Cassa di Mutuo Soccorso, una Cassa di Risparmio e un Monte di Pietà (cfr Bollettino Ufficiale della Diocesi, LVII, n. 6 (1-IV- 1910), pp. 107-130, in cui è pubblicato il regolamento della Mutualidad Católica, con l’approvazione del Vescovo A.A. e del Governo Civile).Nel 1910 il Vescovo costituì il Consiglio Diocesano delle Associazioni Cattolico-Operaie per coordinare tutte le iniziative sociali della diocesi e vi nominò esattamente le stesse persone che facevano parte della Giunta del Centro Católico Barbastrense.94 Cfr Javier Echevarria, Sum. 1761; Joaqum Alonso, PR, p. 1648; José Ramon Madurga, PM, f. 269.95 “Aetas discretionis tum ad Confessionem tum ad S. Communionem ea est, in qua puer incipit ratiocinari, hoc est circa septimum annum...” (in A.A.S., II, n. 1 5 ,15-VIII-1910, p. 582).96 Alvaro del Portillo, Sum. 42. Cfr Javier Echevarria, Sum. 1778, che ag­giunge: «Serbò sempre un ricordo molto affettuoso dell’anziano Scolopio

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che gli insegnò la comunione spirituale. Da quando, bambino, si prepara­va a ricevere la prima Comunione, non cessò di ripeterne la formula. L’ho udito predicare molte meditazioni servendosi di questa preghiera, ripeten­dola parola per parola. Diceva che riempie l’anima di pace e di serenità, anche nei momenti di aridità o di scrupoli, quando l’anima si vede così povera e così carica di miserie di fronte alla meraviglia di Dio che ci si dona senza riserve». Cfr anche Jesus Alvarez Gazapo, Sum. 4278.Su P. Manuel Laborda, cfr AGP, RHF, D-04311-7. P. Manuel Laborda de la Virgen del Carmen era nato a Borja (Saragozza) nel 1848 e aveva allora64 anni. Era professore di Religione, Storia, Latino e Calligrafia. Morì a Barbastro nel 1929.97 Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 18; Javier Echevarria, Sum. 1781; Encar- nación Ortega, AGP, RHF, T-05074, pp. 45 e 140.98 II 28 marzo 1950, anniversario delle nozze d’argento sacerdotali, diceva ad alcune figlie sue: “È stato un giorno pienamente felice, fatto non comu­ne alle date importanti della mia vita, nelle quali il Signore ha sempre vo­luto mandarmi qualche contrarietà” . E raccontò: “Persino il giorno della mia prima Comunione, quando stavano vestendomi e pettinandomi, volle­ro farmi i riccioli e mi fecero una bruciatura con il ferro rovente. Non era una cosa grave, ma per un bambino di quell’età poteva bastare” . Cfr En- carnación Ortega, AGP, RHF, T-05074, pp. 45 e 140.99 Alvaro del Portillo, Sum. 42; cfr anche AGP, POI 1969, p. 116. Ecco al­cune annotazioni dai suoi Appunti:“23 aprile 1931: S. Giorgio. Sono diciannove anni da quando ho fatto la mia prima Comunione” (n. 194).“ Giorno di S. Giorgio, 1932. Oggi sono vent’anni da quando ho rice­vuto per la prima volta la santa Comunione. S. Giorgio, prega per me” (n. 707).“Vigilia di S. Marco, 1933. Ieri ventidue anni dalla mia prima Comunio­ne. Dio mio!” (n. 989).“23 aprile: S. Giorgio! Non dimentico che oggi è l’anniversario della mia prima Comunione. Quante cose tralascio di annotare!” (n. 1180).“ 30 aprile 1936. (...) A Valencia, il giorno di S. Giorgio, anniversario della mia prima Comunione, mi sono comportato come un fannullone, o me­glio, come un perfetto asinelio: ragliare, e poi... Posso dire che non so reci­tare bene neppure un’avemaria. Madre, mamma del cielo!” (n. 1332).Cfr anche C 209, 29-IV-1937.100 Cfr Appendice documentale, documento Vili. Nonostante l’afferma­zione sulla libertà d’insegnamento della Legge del 1857, lo Stato in Spa­gna si riservò sempre il diritto di esaminare e di conferire qualsiasi titolo. Riconosceva la libertà di istituire centri privati di insegnamento seconda­rio, ma questi dovevano non solo attenersi ai programmi e ai testi ufficia­li, ma anche spedire gli alunni a fare gli esami nei centri pubblici abilitati a conferire i titoli. Quando le scuole venivano riconosciute, acquisivano solo il diritto che l’insegnamento ai propri alunni fosse riconosciuto: ben­ché questi alunni non fossero “ufficiali” , godevano comunque migliore

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considerazione dei “ liberi” . Questa era la condizione della scuola dei Padri Scolopi di Barbastro.101 Gli atti di morte di Maria del Rosario e di Maria de los Dolores si tro­vano nell’archivio della parrocchia dell’Assunzione di Barbastro, nel Libro dei Defunti, XLTV, rispettivamente nel foglio 14 e nel foglio 72.102 Lettera 24-111-1930, n. 5.103 B. Josemarìa Escrivà, Amici di Dio, Milano 19965, n. 151.104 Meditazione dell’8-VI-1964.105 Lettera 29-IX-l957, n. 22.106 Cfr Alvaro del Portillo, PR, p. 43; Javier Echevarria, Sum. 1777; Jesus Alvarez Gazapo, PR, p. 1272.107 Ebbe il massimo in tutte le materie e la Lode (Premio) in Aritmetica e Geometria. Cfr Appendice documentale, documento Vili.108 Maria del Carmen Otal Marti, AGP, RHF, T-05080, p. 2; cfr anche Al­varo del Portillo, Sum. 67.109 Maria del Carmen Otal Marti, Sum. 5988. L’atto di morte di Maria Asunción si trova nell’archivio della parrocchia dell’Assunzione di Barba­stro, nel Libro dei Defunti, XLV, foglio 31v.110 Alvaro del Portillo, PR, p. 78; Javier Echevarria, PR, p. 52; Maria del Carmen Otal Marti, Sum. 5986.111 Cfr Alvaro del Portillo, PR, p. 78; Javier Echevarria, aggiunge: «Più di una volta commentò a sua madre: “ Ora tocca a me” ; oppure: “ l’anno prossimo tocca a me” » (Sum. 1785). Cfr anche Francisco Botella, Sum. 5609: «Disse in uno di quei momenti: “La prossima volta tocca a me” ; al che sua madre replicò: “No, tu sei consacrato alla Madonna” »; ed Encar- nación Ortega, PM. f. 28, che aggiunge: «Pensava che poi sarebbe toccato a lui, perché erano morte dalla più piccola alla più grande. So che il Servo di Dio soffrì molto e che per non far soffrire sua madre non tornò a ripe­tere che il prossimo a morire sarebbe stato lui».112 Cfr Javier Echevarria, Sum. 1791; Joaquin Alonso, PR, p. 1659.113 Alvaro del Portillo, Sum. 19.114 AGP, POI 1978, p. 390.115 Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 36; Javier Echevarria, Sum. 1800; Encar- nación Ortega, PM, f. 28v; José Ramon Madurga, PM, f. 270.116 Cfr “Juventud”, Barbastro 13-111-1914 e 12-VI-1914; anche Appendice documentale, documento Vili.117 Adriana Corrales, AGP, RHF, T-08202, p. 9.118 Meditazione del 14-11-1964. Cfr Lettera 29-XII-1947 / 14-11-1966, n. 6; Alvaro del Portillo, Sum. 47; Javier Echevarria, Sum. 1788; Esperanza Corrales, AGP, RHF, T-08203, p. 6.119 La baronessa di Valdeolivos dice che alla rovina lo portò un socio della sua azienda (cfr Maria del Carmen Otal Marti, Sum. 5988).

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120 Martin Sambeat, Sum. 5680; Adriana Corrales, AGP, RHF, T-08202, p. 11.121 Esperanza Corrales, AGP, RHF, T-08203, p. 3.122 Citato da Alvaro del Portillo, Sum. 49.123 Meditazione del 14-11-1964; cfr anche Martin Sambeat, AGP, RHF, T~ 03242, p. 3.124 Circa il suo comportamento con quanti avevano causato la rovina, cfr Alvaro del Portillo, Sum. 50; Esperanza Corrales, AGP, RHF, T- 08203, p. 5. Alvaro del Portillo precisa di aver udito dalle labbra del Fondatore che suo padre chiese consiglio, consultandosi con un claretiano della comunità che reggeva la chiesa del Cuore Immacolato di Maria, a Barbastro. Questi gli confermò quello che già gli avevano detto anche altri: che non era ob­bligato a garantire con il suo patrimonio personale (cfr Sum. 48).125 Pascual Albàs, AGP, RHF, T-02848, p. 2.126 Maria del Carmen Otal Marti, AGP, RHF, T-05080, p. 3; cfr anche Maria del Carmen Otal, Sum. 5988.127 Pascual Albàs, AGP, RHF, T-02848, p. 2.128 Riferito da Mons. Escrivà e da sua sorella Carmen ad Alvaro del Por­tillo: PR, p. 79. “Pepe” è il diminutivo di “José” .129 AGP, POI 1970, p. 1071. Citato da Alvaro del Portillo, Sum. 50. Cfr anche Pascual Albàs, AGP, RHF, T-02848, p. 2; Esperanza Corrales, AGP, RHF, T-08203, p. 5; e Adriana Corrales, AGP, RHF, T-08202, p. 11.130 Meditazione del 14-11-1964; AGP, POI 1975, p. 219; cfr anche Encar- nación Ortega, PM, f.28.131 Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 69 e 70; Javier Echevarria, Sum. 1802; Francisco Botella, Sum. 5610; Esperanza Corrales, AGP. RHF, T-08203, p. 3.132 Cfr Martin Sambeat, Sum. 5681; Encarnación Ortega, PM, f. 28v; José Romeo, AGP, RHF, T-03809, p. 3.133 Adriana Corrales, AGP, RHF, T-08202, p. 11; Esperanza Corrales, AGP, RHF, T-08203, p. 6.

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Capitolo II

L’EPOCA DI LOGRONO (1915-1920)

1. “La Gran Città di Londra”

Durante gli ultimi mesi di permanenza a Barbastro, Jo- semarfa si applicò intensamente allo studio. «Lasciò un buon ricordo fra i suoi compagni e professori. E a tutti è dispiaciuta la loro partenza», afferma uno dei suoi ex compagni di scuola1.

Nel giugno del 1915 andò a fare gli esami alla scuola statale di Lerida. Ebbe dei buoni voti in francese e in storia di Spagna e il massimo dei voti in geometria. In latino invece ebbe solo la sufficienza, poiché si emo­zionò e non riuscì ad esprimersi con scioltezza, nono­stante le speranze che avevano riposto in lui i suoi pro­fessori2.

Nei primi giorni di luglio, come d’abitudine, la fami­glia si recò a Fonz per passarvi l’estate. Mancandogli la compagnia di suo padre, che si trovava lontano, a Lo­grono, Josemaria si dedicò interamente alla lettura, per distrarsi dalle recenti preoccupazioni. La predisposizio­ne a leggere l’aveva fin da piccolo, quando il babbo gli acquistava molte fiabe e lo aveva abbonato a una rivista per bambini: “ Chiquitm” . Anche suo padre leggeva molto, poiché gli piaceva stare al corrente di quanto ac­cadeva nel mondo, in particolare degli avvenimenti poli­

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tici e religiosi, economici e culturali. Il suo quotidiano preferito era “La Vanguardia” (L’Avanguardia) e, tra le riviste, “La Ilustración Espanola” (L’Illustrazione Spa­gnola) e “Bianco y Negro” (Bianco e Nero)3.

Avendo parecchio tempo libero davanti a sé, il ragaz­zo si immerse nei racconti di Giulio Verne. Quelle av­venture fantastiche, con un continuo palcoscenico di terre e usanze esotiche, di favolose invenzioni e di peri­coli inimmaginabili, lo assorbivano completamente. Ma quando l’autore si impelagava in fastidiose descrizioni scientifiche, Josemarìa passava rapidamente le pagine per ritrovare il filo dell’azione romanzesca4.

Da Fonz ritornarono a Barbastro all’inizio di settem­bre, non appena ebbero notizia che il signor José aveva approntato un appartamento a Logrono. Subito libera­rono da mobili e masserizie la casa della calle Mayor, dov’erano nati tutti i figli dei coniugi Escrivà e che da alcuni mesi non era più di loro proprietà5.

Fra il 4 e l’8 del mese, Barbastro celebrava la festa della Natività della Madonna, proprio mentre gli Escrivà stavano preparandosi a partire. Si ebbero i com­miati, probabilmente penosi. In quegli ultimi giorni, la norma di condotta della signora Dolores era di compor­tarsi come se nulla fosse accaduto. Era nemica di addii e malinconici rimpianti. E una mattina attorno alla metà di settembre, molto presto, gli Escrivà presero la dili­genza che portava a Huesca. A quanto pare, nessun pa­rente uscì a salutarli.

«Ricordo il commiato una mattina presto - riferisce Esperanza Corrales -. Era già cominciato l’anno scola­stico, perché di là ci recammo a scuola. La signora Lola non voleva addii e, per questo, c’eravamo solo noi, le amiche di Carmen»6.

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Il ragazzo lasciava a Barbastro parenti e amici; e i ricor­di dell’infanzia; e la tomba di tre sorelle nel cimitero.

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Tutto ciò lo legava in modo indimenticabile alla sua ter­ra natale, nella quale non tornò più a risiedere, anche se continuò a seguire passo passo gli avvenimenti della sua storia. Il più triste di tutti ebbe luogo ventun anni dopo che gli Escrivà se n’erano andati, nell’estate del 1936. Con la dominazione marxista, la diocesi di Barbastro piombò nel lutto, pagando un forte tributo di sangue. Dei 140 sacerdoti appartenenti al clero secolare, 123 su­birono il martirio, compreso il Vescovo Amministratore Apostolico. Analoga sorte subirono i religiosi. Furono assassinati 9 padri scolopi, 51 tra religiosi e novizi clare- tiani e 20 benedettini del monastero di Pueyo. La fami­glia Escrivà dovette piangere la morte di alcuni parenti7.

In seguito la diocesi di Barbastro, che per nove secoli era passata attraverso incertezze, contese e violenze, do­vette affrontare nuovi problemi. Le numerose sedi ve­scovili che erano rimaste vacanti, per il martirio dei ve­scovi e le distruzioni di ogni genere avvenute durante la guerra civile, suggerivano di provvedere a una riorga­nizzazione ecclesiastica. Fra i progetti di riforma c’era la soppressione della diocesi di Barbastro, ragion per cui già nel 1945 i barbastrini chiesero l’intercessione di Monsignor Escrivà presso il Nunzio di Sua Santità in Spagna. Don Josemaria non aveva mai accondisceso a fare raccomandazioni, neppure a favore dei propri fami­liari. Ma quel caso fu un’eccezione di rilievo8. La dioce­si riuscì a superare le difficoltà, ma di nuovo si presentò il pericolo vent’anni più tardi. Correvano insistenti e fondate voci circa la soppressione della sede vescovile. La gente di Barbastro dovette ricorrere ancora una volta al suo illustre concittadino, che intercedette per iscritto presso Paolo VI, esponendo le ragioni storiche, sociali e pastorali che ne consigliavano la conservazione, per il bene della Chiesa e delle anime. Come si dice alla fine di un Appunto rivolto al Santo Padre: “Vorrei infine insi­stere di nuovo sul fatto che è solo l’amore per la Chiesa e per le anime che mi muove a scrivere queste righe, e a

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supplicare umilmente il Santo Padre perché non si sop­prima la diocesi di Barbastro”9.

Con il passare del tempo, si fece ancor più palese il suo amore per il suo paese natio: “ Ogni giorno che passa” - scrisse - “mi sento sempre più unito alla mia amatissima città di Barbastro e a tutti i barbastrini: il mio ricordo e il mio affetto sono molto profondi” 10. Non era un sempli­ce sentimento di nostalgia posto in essere dagli anni. I ri­cordi affondavano le radici nelle dure circostanze che obbligarono la famiglia a lasciare quella terra. E l’affetto che sentiva Josemaria era tanto più vivo in quanto l’evo­cazione di Barbastro gli richiamava ricordi di suo padre:

“Sono molto barbastrino e cerco di essere un buon figlio dei miei genitori” - scriveva da Roma al sindaco di Bar­bastro, il 28 marzo 1971 “Lascia che ti dica che mia madre e mio padre, anche se dovettero andarsene dà quella terra, ci inculcarono, con la fede e la pietà, un grande affetto per le rive del Vero e del Cinca. In parti­colare, ricordo di mio padre cose che mi inorgogliscono e che non si sono cancellate dalla mia memoria, nono­stante che me ne sia andato di lì a tredici anni: gesti di carità generosa e nascosta, fede coraggiosa senza osten­tazioni, grande fortezza nel momento della prova, molto unito a mia madre e ai suoi figli. Così il Signore ha pre­parato la mia anima, con questi esempi pregni di dignità cristiana e di eroismo nascosto, sempre sottolineato da un sorriso, affinché più tardi io diventassi suo povero strumento - con la grazia di Dio - nel compimento di una sua Provvidenza che non mi allontana dal mio ama­tissimo paese. Perdonami questo sfogo. Non ti posso na­scondere che questi ricordi mi riempiono di gioia”11.

* * *

Logrono festeggiava il suo Patrono, S. Matteo, dal 20 al27 settembre. Pochi giorni prima, gli Escrivà si stabiliro­no nell’appartamento preso in affitto dal signor José, al numero 18 di via Sagasta, diventato successivamente il

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12. Si trovava al quarto piano. Al di sopra aveva soffitte e lucernari, per cui prometteva freddo e caldo. Il signor Garrigosa, proprietario della ditta dove lavorava il signor José, diede loro una mano per le prime difficoltà, poiché, a quanto riferisce Paula Royo, figlia di uno degli impiega­ti, «si rivolse a mio padre chiedendogli che, insieme alla sua famiglia, offrisse amicizia al signor José Escrivà e alla signora Dolores Albàs, che venivano da Barbastro, dove avevano avuto un rovescio di fortuna»12.

Gli affari del signor Antonio Garrigosa y Borrell gode­vano di buona prosperità. La ditta si chiamava “Grandes Almacenes de Tejidos” (Grandi magazzini di tessuti) e aveva due attività commerciali a Logrono. Una in via della Stazione, con “vendite all’ingrosso e consegne an­che in provincia” . L’altra stava in via dei Portici, al nu­mero 28, all’angolo con via S. Biagio; in quest’ultimo ne­gozio, che si chiamava “La Gran Ciudad de Londres” (La gran città di Londra), si offrivano alla clientela di Logrono le “ultime novità” della moda dell’epoca. Il si­gnor Garrigosa era un commerciante imprenditore, in sintonia con il nome un po’ altisonante del suo negozio e dei suoi magazzini. La ditta andò avanti molti anni e prosegue ancor oggi, anche se il nome si è ridotto a un più modesto “La Ciudad de Londres”13.

Logrono, capoluogo della provincia che porta lo stes­so nome (oggi “Comunidad Autònoma de la Rioja” ), at­traversava un periodo fiorente. La sua popolazione era considerevolmente aumentata. Nel 1915 aveva circa 25.000 abitanti. Lo sviluppo demografico, dovuto in gran parte all’immigrazione, camminava di pari passo con una crescente attività economica. La zona, che si estendeva sulla riva destra dell’Alto Ebro, doveva a que­sto fiume e ai suoi affluenti la fertilità delle sue terre. La ricchezza agricola consisteva principalmente in estesi vi­gneti e in uliveti, nella coltura di cereali e frutta, e di or­taggi in terreni irrigui. Durante la Prima Guerra Mon­diale, nella quale tutta l’Europa era coinvolta, in Spagna

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ci si trovava in piena espansione economica, a motivo delle materie prime e dei manufatti che dalla Spagna, Paese neutrale, si inviavano ad altri Paesi belligeranti, specialmente la Francia. Logrono trasse beneficio dalle proprie notevoli esportazioni, perché alla produzione agricola affiancava industrie di trasformazione, con pro­duzione vinicola, di farine, di conserve di frutta e di or­taggi, di olio, di insaccati e lavorazione di tabacchi.

La popolazione di Logrono era provinciale e riserva­ta, senza pericolo di grandi tensioni sociali o di zuffe politiche. L’ordine e la dignità erano imposti dalle tradi­zioni e dal lavoro. Esisteva un certo equilibrio sociale, con predominio politico dei liberali, il cui strumento di espressione era il quotidiano “La Rioja” , mentre il suo antagonista, il “Diario de la Rioja” , si proclamava “cat­tolico indipendente” e conservatore.

A suo agio nell’ambiente provinciale, José Escrivà si abituò alle passeggiate domenicali con la famiglia. Ele­gantemente vestito, con la bombetta e il bastone, anda­va a passeggiare in riva all’Ebro, come attesta Paula Royo: «Le due famiglie uscivano insieme quasi tutte le domeniche al pomeriggio, intorno alle quattro, a pren­dere il sole. Di solito li andavamo a prendere noi in via Sagasta, dove abitavano; passavamo il ponte di ferro sull’Ebro e proseguivamo per la strada di Laguardia o quella di Navarra, facendo una passeggiata (...). Al ri­torno dalla passeggiata ci riunivamo in casa, dove tra­scorrevamo il resto del pomeriggio facendo merenda o giocando»14.

La via Sagasta, dove vivevano gli Escrivà, incrociava via del Mercato, che attraversava Logrono da est a ovest. La parte più centrale, con case dagli ampi porticati in successione, era una zona di negozi e di attività com­merciali. Lì stava “La Gran Ciudad de Londres” , al n. 28 di via del Mercato, più comunemente nota come via dei Portici. La distanza dall’appartamento degli Escrivà fino al fabbricato in cui lavorava il signor José non era

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molta, anche perché a Logrono non esistevano grandi distanze. Essendo un uomo puntuale, metodico e preci­so - lo fu fino all’ultimo giorno di vita -, aveva delle abitudini fisse. Quasi tutti i giorni usciva alle sette meno pochi minuti, per assistere alla Messa nella parrocchia di S. Giacomo, che si trovava vicino15. Ritornava poi per fare colazione, e riusciva verso le nove meno un quarto, diretto al negozio.

Presso “La Gran Ciudad de Londres” lavorava come dipendente, incaricato delle vendite al pubblico16. Que­sto era per lui un perpetuo e nostalgico richiamo del tempo in cui, a Barbastro, conduceva da proprietario un’azienda identica. A motivo delle sue conoscenze e della sua distinzione sociale, dell’età e dell’esperienza, gli venne assegnato un posto al di sopra degli altri im­piegati del negozio. Lo stipendio, tuttavia, era modesto. E in mille modi traspariva dalla vita degli Escrivà che non avevano denaro da buttare.

La signora Dolores si dedicava alle faccende domesti­che e fu «in quei difficili momenti di crisi economica, nei quali avrebbero potuto trovarsi un po’ sbilanciati a Logrono, un buon appoggio per suo marito e per i fi­gli»17. Della padrona di casa, un compagno di Jose- maria che la conobbe a Logrono ci testimonia che «era una donna che manteneva sempre un clima signorile, consono con quello della famiglia dalla quale proveniva e nella quale era stata educata»18. Evidentemente la si­gnora faceva dei lavori di casa cui precedentemente provvedeva il servizio domestico, ma si dedicò di buon grado ai compiti familiari che le erano cari.

Secondo i ricordi di Josemaria, furono “tempi molto duri” 19, specialmente per suo padre, che spese la vita fronteggiando fatiche e ostacoli, anche se «era molto al­legro e sopportava con grande dignità il cambiamento di posizione»20. Pertanto il clima familiare che attornia­va Josemaria, per quanto duro riuscisse al ragazzo, non era amareggiato dalla tristezza dell’avversità né indurito

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da una stoica rassegnazione di fronte alla disgrazia. Vi­ceversa, in casa Escrivà si respirava un’umile serenità, fatta di modi cortesi e discreti silenzi. Il capofamiglia, del quale viene riferito che «era veramente un santo»21, era per tutti il modello. È probabile che dicessero pro­prio questo quanti avevano conosciuto il suo passato a Barbastro e il suo presente a Logrono, in quanto egli «aveva una grande pazienza e si adattava a tutto, lo si vedeva sempre allegro ed era spontaneo e semplice nel tratto. Viveva tutta la sua vita con una fiduciosa e gioio­sa rassegnazione, nonostante il rovescio di fortuna che aveva subito. Non parlava mai delle sue preoccupazioni né si lamentava della propria situazione»22.

2. L’Istituto di Logrono

Era necessario, a tutti i costi, dare una buona educazio­ne ai figli: questa decisione era presente nell’animo dei coniugi Escrivà prima di partire da Barbastro. Essendo capoluogo di provincia, Logrono aveva istituzioni e ser­vizi amministrativi adeguati. Per quanto si riferisce al si­stema educativo - “Instrucción Publica” , come si chia­mava allora - esso si articolava in un centro ufficiale di insegnamento secondario - detto “ Istituto Generale e Tecnico” -, due “Scuole Normali” , una per maestri e l’altra per maestre, e una “Scuola Industriale e di Arti e Mestieri” .

A Josemarìa mancavano allora tre anni per terminare il liceo. Quindi trasferì la propria documentazione sco­lastica dall’istituto di Lerida a quello di Logrono e si iscrisse come alunno non ufficiale per l’anno scolastico 1915-191623. Il passaggio da una scuola di religiosi, co­me era quella degli Scolopi, a una scuola pubblica avrebbe forse potuto rappresentare un cambiamento troppo brusco per Josemarìa, e molto probabilmente questo era il pensiero del signor José. La maggior parte

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degli alunni che frequentavano le lezioni all’istituto si recavano al pomeriggio presso una scuola privata per ri­passare le materie. Due erano le scuole private che si di­sputavano il prestigio di un buon livello di insegnamen­to: quella di S. Giuseppe, tenuta dai Fratelli Maristi, e quella di S. Antonio che non essendo retta da religiosi si considerava laica, nonostante si fregiasse del nome di un santo.

Fra queste due scuole c’era una certa competizione, che si manifestava in modo palese negli annunci pubbli­citari e negli articoli pubblicati dalla stampa24. La scuo­la di S. Giuseppe si vantava di possedere «un’aula-mu- seo di fisica, chimica e storia naturale; una spaziosa cappella per le funzioni del culto; un dormitorio per gli alunni interni, grande, comodo e ben ventilato; e un grande cortile per la ricreazione, con un magnifico sferi­sterio da poco restaurato». Sfida pubblicitaria alla quale rispondeva la scuola di S. Antonio mettendo in mostra il proprio potenziale accademico, in quanto, oltre alle ma­terie del liceo, poteva offrire «lezioni speciali di calligra­fia, disegno, francese, inglese, tedesco e arabo volgare». (E non dovevano essere trascurabili gli effetti degli an­nunci, per la spettacolarità dell’elenco delle lingue stra­niere e dell’esplicito riferimento ai Paesi allora in guer­ra). La rivalità fra le due scuole si rispecchiava, in definitiva, nel risultato degli esami, vale a dire, in mera statistica. Se ci si attiene esclusivamente ai risultati sco­lastici, sembra che la scuola di S. Antonio fosse in van­taggio su quella di S. Giuseppe25.

Tuttavia, la circostanza che aveva maggior peso nel­l’animo dei coniugi, e per la quale si decisero a iscrivere Josemaria nella scuola di S. Antonio, non aveva nulla a che vedere con le precedenti considerazioni. Cercavano, semplicemente, di evitare che sorgessero imprevedibili rivalità tra il loro figlio e un altro scolaro loro parente. «I suoi genitori scartarono l’ipotesi che frequentasse la scuola dei Fratelli Maristi di Logrono - ci viene riferito

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- perché in essa studiava un parente e volevano impedi­re che potesse nascere fra i due ragazzi una situazione di tensione o di pericolosa emulazione»26.

Josemaria frequentava al mattino le lezioni all’istituto e studiava le materie nell’altra scuola al pomeriggio. Sua sorella Carmen, nel frattempo, faceva i suoi studi alla Scuola Normale per maestre di Logrono27.

iS* * *

L’Istituto di Logrono era di recente costruzione ed era stato edificato su un’area dove anticamente esisteva un convento di carmelitane28. Aveva delle belle aule e otti­mi laboratori di chimica e fisica, nonché un’aula di sto­ria naturale. La sua facciata principale dava su via Mu­ro de Cervantes, che era il prolungamento di via del Mercato. Sul davanti c’era uno spazio attrezzato a giar­dino. In quell’ampio edificio si trovavano anche la bi­blioteca provinciale, il museo delle riproduzioni artisti­che, la scuola normale e quella di arti e mestieri.

Durante i tre anni di permanenza nell’istituto di Lo­grono, l’alunno fece fruttare al massimo le proprie doti di intelligenza e di applicazione. Il corpo docente era, nel suo insieme, di elevato livello professionale e uma­no. Josemaria imparò non solamente dalle spiegazioni che venivano impartite a lezione, ma anche dall’esempio e dalla moralità dei propri maestri. Negli esami di fine anno ebbe ottimi voti. Basta scorrere le pagelle29. Quelle del quinto corso (1916-1917), che sono le più basse del suo curriculum di Logrono, registrano tre Ottimo e due Notevole; sono basse relativamente, cioè in rapporto al suo brillante curriculum30.

I due Notevole di cui parliamo devono anche essere valutati nel contesto storico. Uno di essi era stato preso nella materia “Psicologia e Logica” , il cui insegnamento era affidato a don Calixto Terés y Garrido, sacerdote diocesano e docente di filosofia dal 1912. Quel sacerdo­te aveva un’aureola di prestigio, poiché di lui si diceva

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che avesse vinto il concorso a cattedra davanti a un col­legio giudicante che non vedeva di buon occhio i preti. Era cappellano delle Sorelle dei Poveri e viveva con la madre in una modesta casetta con un piccolo orto. Sem­plice, buono, lavoratore, non gli mancavano buone di­sposizioni nei confronti degli alunni; ma si dimostrava più che rigoroso se si trattava di dare un voto media­mente alto, fosse pure un semplice Notevole. E davvero dunque un fatto straordinario che l’anno successivo don Calixto, quando fece a Josemarìa l’esame di etica e dirit­to, materia del sesto corso, gli abbia conferito il massi­mo dei voti e la lode.

Delle eccellenti doti pedagogiche del sacerdote l’alun­no ricordava l’approfondita esposizione che fece loro del marxismo durante una lezione del corso 1917-1918, sapendo mettere l’argomento e le sue implicazioni alla portata dell’uditorio.

Professore e alunno nutrivano un affetto reciproco. Nonostante la barriera rappresentata dalla differenza di età, ben presto si trattarono da amici. E quando Jose­marìa divenne sacerdote, si scambiavano consigli nelle difficoltà. Poi passarono molti anni senza che si vedesse­ro, finché in una delle sue visite a Logrono, l’antico alunno fece visita a don Calixto. L’anziano docente, in­dicando il banco su cui si sedeva Josemarìa, gli diceva con malcelata emozione: «Lì ti sedevi tu, ragazzo mio, lì ti sedevi tu»31.

Il secondo Notevole era stato preso in fisica, materia insegnata dal professor Rafael Escriche, proveniente dall’istituto di Mahón. Allora era a Logrono da non più di due anni. Anche lui era uomo molto tirato nei voti. Delle sue prove di laboratorio - era incaricato di chimi­ca - i suoi alunni ricordavano, con gustosa malizia, l’a­spettativa che aleggiava al momento degli esperimenti: si sarebbero formati dei precipitati dai liquidi? le so­stanze avrebbero cambiato colore?; sarebbe ingiusto at­

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tribuire la colpa a qualcuno, ma certo è che i pronostici della scienza non sempre si avveravano32.

Il professor Escriche, uomo metodico e di gran buon senso, all’inizio dell’anno scolastico, nell’autunno del 1917, trovò il laboratorio in uno stato di incredibile di­sordine e sporcizia. Non per nulla erano trascorsi diver­si mesi di vacanza. Tutta la strumentazione era sparpa­gliata e gli armadi erano sporchi e pieni di polvere. Per non perdere giornate di lezione, propose agli alunni di lavare solamente le provette o gli oggetti di cui avevano bisogno e che, una volta finito, li lasciassero ben puliti al loro posto. In questo modo, dopo poche lezioni riu­scirono ad avere tutto il materiale lucido e in ordine sul­le scaffalature. Josemaria, che possedeva il dono di sa­per ricordare ciò che di utile racchiudeva l’episodico, non dimenticò mai l’insegnamento di quelle lezioni di chimica. Quando nel corso della sua esistenza si imbat­teva in analoghe situazioni di fretta e di disordine, ap­plicava il procedimento del professore33.

* * *

Il trasferimento da Barbastro, che implicò un penoso sra­dicamento per tutta la famiglia, riuscì particolarmente pesante a Josemaria, nel quale cominciavano a forgiarsi i tratti del carattere. Con il duro impegno di adattarsi a un altro ambiente sociale e a un nuovo stile di vita si scon­trarono in primo luogo i genitori, che con il loro esempio prepararono la strada a Carmen e a Josemaria.

La famiglia non aveva parenti prossimi a Logrono, salvo quel ragazzo che studiava dai Maristi. José Escrivà si fece allora delle amicizie attraverso le occasio­ni che gli offriva il lavoro. Grazie anche alla sua educa­zione e alla distinzione della persona, ampliò ben presto la cerchia delle conoscenze, ma certo senza darsi alla vi­ta di società. A Logrono esistevano diversi centri ricrea­tivi - l’ ”Ateneo Riojano” , il “ Circulo de la Amistad” (Circolo dell’Amicizia), il “ Circulo Católico” - che il

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capofamiglia, per ragioni di economia familiare, non frequentava. Fin dal primo momento, trovandosi in una città ad essi estranea, genitori e figli, per un istintivo moto di affetto e di difesa, vivevano concentrati intorno al focolare domestico. Così Josemaria comprese «l’im­portanza di affrontare le difficoltà ben uniti»34. Altra le­zione che apprese da suo padre.

Al tempo in cui si iscrisse alla scuola S. Antonio, se­condo un lontano ricordo di Paula Royo, amica di fami­glia, «Josemaria era molto alto per la sua età - quattor­dici anni - ed era piuttosto robusto. Portava ancora i pantaloni corti: lo ricordo con un abito grigio scuro, con calze nere fino alle ginocchia e un piccolo berretto. Era molto bello: mi sembra di rivederlo in questo mo­mento. Era sempre allegro e aveva una risata contagio­sa»35. I professori ebbero presto per lui una grande sti­ma; e il ragazzo si andò conquistando amici fra i compagni, per la sua naturale capacità di adattamento e «per la lealtà verso i compagni»36.

Queste qualità - generosità, lealtà e spirito di servizio- le portava alle estreme conseguenze, distaccandosi da tutto pur di favorire gli altri, senza mezze misure o titu­banze. Per questo, la signora Dolores, che lo conosceva meglio di chiunque altro, si vide costretta ad avvertirlo che, se si dava in tal modo agli altri, avrebbe sofferto molto in questa vita37.

Con il passare del tempo, si ritrovò qualche volta con i compagni di allora. Quando lo riconoscevano, lo ab­bracciavano con effusione, ricordando i giorni di scuo­la; come accadde una volta con uno, al quale Josemaria era solito spiegare pazientemente gli argomenti della le­zione che l’altro non aveva capito38.

A lungo andare si compirono le previsioni della ma­dre. La vita portò al ragazzo innumerevoli delusioni e dispiaceri, benché Josemaria non si sia mai pentito del proprio modo di essere e non abbia mai tentato di porre un freno al proprio cuore generoso. Nel 1971, avendo

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ancora in bocca il sapore amaro di una delusione arre­catagli da un “amico” , scrisse: “Perché mai deve acca­dere che, nonostante le mie miserie, io debba sempre es­sere più amico dei miei amici di quanto non lo siano di me questi “amici” ? Sicuramente è perché questo distac­co, se lo accetto - fiat! - mi fa molto bene”39.

Il fondo della sua natura non cambiò di molto con il passare degli anni. Con lealtà e generosità illimitate, si donava senza riserve, con traboccante cordialità. Alcu­ne amicizie intavolate allora con i suoi compagni di scuola si saldarono in legami più stretti e di profondo contenuto spirituale, come fu il caso di Isidoro Zorzano40. Per farla breve, quando nel 1918 il Vescovo di Calahorra e La Calzada chiederà informazioni sugli studi di Josemarìa, la risposta - pur nella sua laconicità formale - è esaltante per il ragazzo: «L’interessato - scrive il Rettore del Seminario di Logrono - ha risieduto a Logrono e ha studiato in questo Istituto; è stato di modello agli altri studenti per la sua applicazione e la sua condotta»41.

3. Maturità di un adolescente

Agli scossoni subiti dalla famiglia fece seguito una lunga serie di sofferenze morali e di privazioni fisiche, che se­gnarono profondamente il suo trapasso dall’infanzia al­l’adolescenza. Forse è questo uno dei periodi più nebu­losi della sua vita. Probabilmente la crisi si prolungò per alcuni mesi, durante i quali ingaggiò con se stesso una battaglia tenace e dolorosa. Velatamente, nelle sue con­fidenze dell’età adulta, lasciò intravedere che per qual­che tempo gli mancarono le chiacchierate amichevoli con il padre, nelle quali il figlio gli apriva il cuore chie­dendogli consiglio.

Dopo la morte di sua sorella Chon rimuginava un’i­dea, pungente come una spina. Era un pensiero che lo

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perseguitava con insistenza nel vedere la sventura acca­nirsi con gli innocenti. Perché, Signore, perché? Jose- maria, ancora bambino e dotato di un profondo senso della giustizia, si perdeva in penose meditazioni, cercan­do un raggio di luce che gli chiarisse ciò che gli appariva incomprensibile. Invano. L’esasperazione dei sentimenti gli impediva di vedere con chiarezza le ragioni:

“Fin da bambino ho pensato tante volte al fatto che ci sono molte anime buone alle quali tocca soffrire molto sulla terra; pene di ogni genere: rovesci di fortuna, nau­fragio della famiglia; e che si vedono calpestare ogni le­gittimo orgoglio... Allo stesso tempo, vedevo altre perso­ne, che non sembravano buone - non dico che non lo fossero, perché non abbiamo il diritto di giudicare nessu­no - alle quali ogni cosa andava a meraviglia. Finché un certo giorno feci la considerazione che anche i cattivi fan­no cose buone, anche se non le compiono per un motivo soprannaturale; e compresi che Dio li doveva in qualche modo premiare sulla terra, dato che poi non avrebbe po­tuto premiarli nelPeternità. Mi ricordai allora della frase: “Si ingrassa anche il bue che andrà al macello”42.

A Logrono ebbero inizio il disagio e la resistenza di Josemaria ad accettare la nuova situazione. La sua gene­rosità, quell’impulso a darsi senza riserve e senza misura agli altri, mal si adattava alla mediocrità e alle ristrettez­ze economiche della famiglia. Il ragazzo si rendeva con­to con difficoltà che la ricchezza morale si trova molto al di sopra dei beni materiali.

Sua madre, aiutata da Carmen, si affannava nelle mil­le incombenze della casa: cucinare, lavare, comprare al mercato tirando sui prezzi. Del padre conosciamo parti­colari più intimi, probabilmente noti al figlio: a metà pomeriggio, per evitare di consumare qualcosa al caffè, il signor José prendeva una caramella per ingannare lo stomaco. Benché non avesse smesso di fumare, si era imposta una razione giornaliera di sei sigarette che egli

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stesso si arrotolava, riponendole accuratamente in un portasigarette d’argento, ricordo di tempi migliori43. L’economia della casa era improntata al risparmio e le spese venivano sottoposte a prudente vigilanza, secondo il detto della signora Dolores: «M ai fare il passo più lungo della gamba»44. Agli occhi di Josemaria, tutto in casa portava il segno di una sofferta povertà, che riusci­va intollerabile al suo carattere focoso. Sentiva impulsi di ribellione, che solo a fatica riusciva a reprimere. Ma­gnanimo e disposto al sacrificio, lo addolorava profon­damente la silenziosa sofferenza dei suoi genitori.

Quando si acquietò la burrasca, quando poco dopo comprese con chiarezza le ragioni cristiane di quella po­vertà, si sentì orgoglioso proprio di ciò che, nell’infan­zia, aveva giudicato una vergogna della famiglia; e lo proclamava pieno di gioia ai propri figli spirituali:

“Se mi rinfacciano la povertà dei miei genitori, rallegrate­vi e dite che il Signore ha voluto così perché la nostra Opera, la sua Opera, si facesse senza mezzi umani: non ho dubbi che sia così. Del resto i miei genitori, l’uno e l’al­tra silenziosamente eroici, sono il mio grande orgoglio”45.

Ma allora non lo vedeva. La povertà, indubbiamente, comportava umiliazioni d’ogni genere. Per l’ampio pa­rentado della signora Dolores, Logrono era l’esilio degli Escrivà; e, secondo alcuni di essi, un esilio meritato.

La prova più dura attraverso la quale passò Josemaria, più dolorosa delle privazioni, fu la silenziosa sofferenza dei suoi genitori, il sorriso e la serenità dei quali facevano capire la forza d’animo con cui accettavano le avversità. Ma quella mite cappa di gentilezza lasciava comunque trasparire le molte rinunzie che cercava di nascondere. Questo, invece di calmare il ragazzo, lo faceva soffrire e le ondate irrompevano dolorosamente nella sua anima. Non osava parlarne con il babbo; per il momento erano interrotte le conversazioni a cuore aperto che prima ave­

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vano luogo durante le passeggiate della domenica; parla­vano invece di altri argomenti, poiché a Josemarìa sem­brava ingiusto e poco nobile fare «commenti che potesse­ro ferire la sensibilità dei suoi genitori»46.

Dei giorni felici dell’infanzia era rimasta in mente a Josemarìa una stampa che, per motivi circostanziali, andò a far parte del suo approvvigionamento spirituale. Comprendeva due disegni giapponesi; in uno si leggeva:

“ “L’uomo presuntuoso” , e rappresentava una famiglia riunita intorno a un tavolo che aveva al di sopra, in ci­ma a un palo, una grande luce. Da lontano la luce at­traeva, attirava l’attenzione. Ma se uno si avvicinava, vedeva che la famiglia era fredda, senza la luce e il calo­re di un vero focolare domestico. L’altro disegno era in­titolato: “L’uomo prudente” . Era un’altra famiglia, con una luce molto in basso, collocata sul tavolo, al centro di tutti i volti. Non attirava l’attenzione, non vi era nulla di appariscente. Ma chi vi si avvicinava trovava il calore di una famiglia vera”47.

Dio volle che l’aiuto salvifico gli venisse attraverso la sua famiglia. Josemarìa trovò fra i suoi il calore dell’af­fetto. Il tempo agì come sedativo di inquietudini e im­pulsi e più tardi sarebbe arrivato a scoprire il profondo significato di quegli avvenimenti. Non solo nella sua mente si invertirono i termini e ciò che gli era stato cau­sa di vergogna e umiliazione gli apparve con lo splendo­re della virtù; ma vide anche l’ordine provvidenziale e la logica divina racchiusi nella sequenza degli avvenimenti:

“Dio mi ha fatto passare attraverso tutte le umiliazioni, attraverso ciò che mi sembrava una vergogna e che ora vedo come manifestazione delle tante virtù dei miei geni­tori. Lo dico con gioia. Il Signore doveva prepararmi; e poiché le persone intorno a me rappresentavano ciò su cui ero più sensibile, colpiva proprio lì. Umiliazioni d’o- gni genere, ma sopportate con signorilità cristiana: lo

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vedo ora e con sempre maggior chiarezza, con sempre maggior gratitudine per il Signore, per i miei genitori, per mia sorella Carmen...”48.

In seguito, con lo sviluppo positivo della personalità, il ragazzo andò acquisendo una maturità non comune per la sua età. Davanti ai suoi amici appariva serio e ri­flessivo, qualità non incompatibili con l’allegria e con un vivace senso dell’umorismo. La signora Dolores, in modo molto espressivo, affermava che Josemaria «era sempre stato un bambino più maturo della sua età»49. Nuotando egli controcorrente, senza lasciarsi travolgere dalle sventure, si placò la crisi della sua adolescenza. E alla fine il suo spirito si aprì prematuramente agli ideali della gioventù. Perciò, rivedendo questo remoto periodo della propria vita, avrebbe avuto in seguito parole di perdono e di riconoscenza per tutti: “Il Signore” - dice­va - “andava preparando le cose e mi dava una grazia dopo l’altra, passando sopra ai miei difetti, ai miei erro­ri di bambino e ai miei errori di adolescente”50.

Considerati in se stessi, i dati raccolti nell’incartamento scolastico di Josemaria ci danno pochi lumi sulla perso­na e servono solamente da indice di valutazione delle sue attitudini intellettuali, anche se forniscono indiretta­mente alcune informazioni di non poco interesse sul ca­rattere e i gusti del ragazzo51.

Negli esami del quarto anno di liceo (1915-1916) gli fu assegnato Ottimo con lode in Precettiva letteraria e Composizione. La lode non aveva solo valore onorifico, ma esentava dal pagamento delle tasse scolastiche relati­ve a una materia dell’anno scolastico successivo; l’alun­no poteva scegliere a suo piacimento la materia alla quale applicare l’esenzione. Esercitando questo diritto, in data 1° settembre 1916 Josemaria rivolse istanza al direttore dell’istituto perché venisse applicata alla Storia

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generale della letteratura la lode che gli era stata conces­sa in Precettiva letteraria52.

Docente di letteratura era il prof. Luis Arnaiz, uomo di squisita sensibilità letteraria e incline all’emozione estetica53. A quanto diceva Josemaria, si emozionava quando leggeva ad alta voce Cervantes, il che suscitava nel ragazzo altri ricordi lontani; infatti, fra i libri che gli Escrivà avevano portato con sé da Barbastro, per la maggior parte classici, c’era una bella e antica edizione del Don Chisciotte in sei volumi, che da bambino spesso egli riprendeva per leggere e per rivederne le figure.

Nelle lezioni di letteratura, Josemaria potè assaporare a suo piacimento tutti i classici, dagli scrittori medioe­vali a quelli del Secolo d’Oro della letteratura spagno­la54. Passati gli anni, gli aneddoti letterari e storici, in prosa o in versi, sarebbero sgorgati freschi e spontanei, all’unisono con la dottrina cristiana.

Un giovedì santo, facendo ad alta voce la sua orazio­ne personale, ricordava cose della propria giovinezza:

“Fin da ragazzo, Signore, fin dalla prima volta che ho potuto leggere la poesia galiziana di Alfonso il Saggio, mi sono commosso al ricordo di alcune sue strofe.Mi colpivano i suoi poemi, come quello del monaco che nella sua semplicità aveva chiesto alla Madonna di con­templare il cielo. Andò in cielo mentre pregava - questolo comprendiamo tutti noi, lo comprendono tutti i miei figli, tutti, perché siamo anime contemplative - e quan­do rientrò in sé dalla sua orazione non riconosceva più alcun monaco del monastero. Erano passati tre secoli! Elo comprendo con maggior profondità, quando conside­ro che Tu sei rimasto nel Tabernacolo per duemila anni perché io ti possa adorare e amare e possedere; perché possa mangiarti e alimentarmi di te, sedermi alla tua ta­vola, divinizzarmi! Che cosa sono tre secoli per un’ani­ma che ama? Che cosa sono tre secoli di dolore, tre se­coli di amore, per un’anima innamorata? Un istante!”55.

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Le letture giovanili fecero presa in fondo alla sua ani­ma, impregnandola di bellezza. In numerose occasioni si servirà di ricordi letterari, come mezzo per esporre pro­getti o idee; lo si vede, per esempio, nella lettera scritta a Roma il 7 giugno 1965, mezzo secolo dopo il suo pas­saggio dall’istituto di Logrono:

“Ora rinverdisco le mie passioni giovanili leggendo l’an­tica letteratura castigliana, della quale pure si serve il Si­gnore per confermarmi nella sua pace. Mi spiegherò con un esempio: tu sai quante volte, tutte quelle in cui a me, che sono un peccatore, vengono attribuite con troppa frequenza rivelazioni e profezie (nientemeno), ho dovuto dire che non è vero niente. Tutt’al più, di fronte alla fede della gente, concedo - perché mi sembra un dovere di giustizia - che, se per caso ciò che dicono fosse vero, sarà frutto della bontà di Dio, che premia la fede e le altre virtù degli interessati. Ma “io non c’entro per niente”. Ebbene, leggendo Gonzalo de Berceo nella sua “Vita di S. Domenico di Silos” - a proposito, sottoscrivo volen­tieri ciò che lui stesso ne dice: “Avrà almeno la virtù, credo, di un buon bicchiere di vino” - e tenendo presen­te il divario che separa il ‘200 dal ‘900 e, a maggior ra­gione, un santo da un peccatore, mi ha consolato, come una grande luce di Dio, leggervi: “Profetava ciò che ac­cader doveva,/ profetava e lui stesso non capiva”. Non è una benedizione del Cielo che persino dai passatempi possiamo ricavare la sapienza divina, offerta da un buon chierico vissuto più di settecento anni fa?E, per continuare a divertirti, ti racconto un altro aned­doto - per così dire - letterario: dovrei dire della mia confusione letteraria.In parecchie occasioni mi piaceva ricordare - parlando di cose spirituali - un verso che attribuivo al “Cantar del mìo Cid” : “e la preghiera saliva cavalcando in cielo”. Non mi dirai che non sia espressivo. Rileggo in questi giorni quell’antico componimento e ho dovuto ricono­scere che la mia memoria di vecchio ha commesso in buona fede un errore, quasi imperdonabile. Perché l’ori­

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ginale, a pensarci bene, è più realistico e più aderente alla “nostra teologia”. Dice così: “la preghiera detta, poi ca­valcava”. Prima, pregare; poi, cavalcare: che significa la­vorare, lottare - disporsi a lottare e lavorare e lottare, per un cristiano, è pregare: mi rendo conto che questo verso della Canzone di gesta si adatta molto bene al no­stro modo di agire di cristiani comuni e contemplativi. Meglio di quell’altro che usciva - tra la nebbia - dalla fe­rita rimasta aperta nella mia fantasia di adolescente”56.

* *

Carmen riteneva il fratello «un ragazzo normale, di ca­rattere aperto»57; quando però era il momento di diver­tirsi, se erano presenti delle ragazze, Josemaria non si sentiva del tutto a suo agio. Non partecipava a balli, fra l’altro perché non si era mai proposto d’imparare a bal­lare. Suo padre invece sì, era stato un eccellente balleri­no. «Tuo padre - gli raccontava la mamma - era capace di ballare sulla punta di una spada»58. Comunque sua madre non voleva arrivare in ritardo rispetto a ciò che sarebbe prima o poi accaduto: che il figlio si innamoras­se di una ragazza. Quindi non esitò a dargli subito un sano consiglio, espresso in un detto popolare: «Se ti de­vi sposare, cercati moglie: non tanto bella da incantare, né tanto brutta da spaventare»59.

La sua prima adolescenza gli tolse molte ritrosie e ma­linconie, mettendo allo scoperto una certa veemenza giovanile. Estremamente ordinato e puntuale, Josemaria non sopportava il disordine, dando segni di impazienza, di nervosismo o di asprezza60. Questa insofferenza im­paziente per i piccoli disguidi in fatto di ordine poteva avere nascosti punti di contatto con il suo gusto per la geometria e la matematica; ma è chiaro che le scienze esatte non erano responsabili del suo carattere forte.

Per tutta la vita Josemaria ha dovuto lottare contro il naturale impeto del proprio temperamento, per sot­tomettere quel torrente di sana energia trasformandolo

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in forza regolata e in fortezza d’animo per superare ostacoli61.

Vi era anche un altro aspetto del suo carattere che denunciava, anche se in modo diverso, la focosità gio­vanile: era il suo romantico idealismo. Estro vaporoso al quale dava sfogo sia in espressione poetica sia in fer­vore patriottico; oppure si traduceva in esaltanti senti­menti di libertà e di giustizia, come gli accadde nel caso dell’indipendenza dell’Irlanda62. La sua famiglia riceve­va ogni settimana la rivista “Bianco y Negro” , illustra­ta da ampi servizi fotografici sulle vicissitudini della prima guerra mondiale. Tutta la Spagna, pur mantenen­dosi neutrale, era divisa nelle simpatie per gli uni o per gli altri contendenti. Il signor José aveva marcate sim­patie filotedesche, forse per i sentimenti antifrancesi, durati circa un secolo nell’Alta Aragona, per l’invasione e gli eccessi delle truppe napoleoniche.

Ma ciò che causò l’ansia di Josemaria nei confronti della situazione irlandese fu il motivo della libertà reli­giosa: “All’epoca avevo quindici anni” - raccontava - “e leggevo con avidità sui giornali gli avvenimenti della Prima Guerra... Ma soprattutto pregavo molto per l’Ir- landa. Non andavo contro l’Inghilterra, ma a favore della libertà religiosa”63.

>1- >!*

Durante le lunghe passeggiate estive dell’estate 1917, padre e figlio conversavano sulle aspirazioni professio­nali di Josemaria. Nel successivo anno scolastico avreb­be terminato il liceo ed era necessario decidere in antici­po verso quali studi si sarebbe orientato. Il ragazzo non aveva dubbi: aveva già deciso. Pensava di diventare ar­chitetto, poiché era dotato di eccellenti attitudini per la matematica e il disegno. Il babbo cercò discretamente di indirizzarlo alla giurisprudenza, perché notava in lui fa­cilità di parola, passione per la storia e la letteratura e la capacità di stare con gli altri.

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Josemarìa non si lasciò convincere. Nella definizione che diede il padre della scelta del figlio, intenzionato se­condo lui a diventare «un muratore raffinato», c’era qualcosa di più di un’affettuosa punta di ironia64. La scelta del ragazzo di voler affrontare gli stùdi di archi­tettura, dispendiosi e lunghi, implicava per la famiglia un pesante sacrificio economico, del quale forse egli al­lora non si rendeva conto, mentre molti anni dopo lo avrebbe riconosciuto: “In casa proseguirono la mia edu­cazione avviandomi agli studi universitari, nonostante la rovina familiare, mentre avrebbero potuto, secondo giustizia, farmi fare un lavoro qualsiasi”65.

Mancavano ancora alcuni mesi di attesa. Una tregua che aumentava l’apprensione del signor José, man mano che passava il tempo. Il futuro era nelle mani del Signo­re. E Dio ebbe infatti l’ultima parola, confermando an­cora una volta che le sue vie sono imperscrutabili.

Nel 1934, dalla prospettiva della propria vocazione sacerdotale, Josemarìa meditava sulle probabili conse­guenze dei suoi sogni professionali del 1917:

“La vocazione sacerdotale! Dove starei ora se tu non mi avessi chiamato? Sarei probabilmente un avvocato pre­suntuoso, un letteratucolo vanitoso o un architetto com­piaciuto dei suoi progetti (a tutto questo si era pensato intorno agli anni 1917 o 1918)”66.

4. Orme sulla neve

L’intervento divino nella sua esistenza era stato fino a quel momento silenzioso; le dure lezioni ricevute erano derivate dai dolorosi eventi familiari. E ora Dio, come per gioco e senza manifestarsi apertamente, gli andava incontro con eventi minuti, che sarebbero apparsi mere banalità a una persona meno sensibile. Invece, per un’a­nima semplice e ricettiva ai tocchi della grazia, diventa­

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vano segni tangibili dell’amore divino. Ecco come il Si­gnore mantenne desta l’anima del ragazzo:

“Il Signore mi preparò a mia insaputa con cose apparen­temente insignificanti, delle quali si serviva per seminare nella mia anima una divina inquietudine. Mi riesce per­ciò facile comprendere appieno l’amore così umano e così divino di Teresa del Bambino Gesù, che si commuo­ve quando dalle pagine di un libro spunta un’immagi- netta con la mano ferita del Redentore. Anche a me so­no accadute cose di questo genere, che mi commossero e mi portarono alla comunione quotidiana, alla purifica­zione, alla confessione... e alla penitenza”67.

In casa degli Escrivà si recitava il rosario tutti i giorni e si perpetuavano le tradizionali devozioni dei tempi di Barbastro. Essi frequentavano la parrocchia di Santiago el Reai, il cui parroco, don Hilario Loza, conosceva be­ne tutta la famiglia. Là andava il ragazzo a confessarsi e a comunicarsi, anche se durante l’anno scolastico le do­meniche e i giorni festivi ascoltava la messa nella scuola di S. Antonio. Il signor José continuava ad aiutare i po­veri con le sue elemosine, soprattutto attraverso la co­munità delle Figlie della Carità, che di quando in quan­do lasciavano a casa sua un’immagine della Madonna della Medaglia Miracolosa, racchiusa in un’urna68. La statuetta veniva affidata a turno alla devozione delle va­rie famiglie.

Un’altra chiesa che gli Escrivà erano soliti visitare era quella di Santa Maria della Rotonda. Uscendo dalla lo­ro casa e svoltando a sinistra all’incrocio con via del Mercato, si finiva in piazza della Costituzione dove sor­geva la chiesa, il monumento più insigne della città. La facciata formava una grande nicchia, chiusa a semicu­pola fra due torri. La nicchia, quasi una gigantesca con­chiglia lavorata in splendido barocco, fungeva da bal­dacchino all’entrata del tempio.

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Il parroco era don Antolìn Oriate, molto amico del si­gnor José e massima autorità ecclesiastica della città, poiché era abate della Collegiata di Santa Maria della Rotonda e arciprete delle tre parrocchie di Logrono69.

Logrono apparteneva all’antica diocesi di Calahorra e la Calzada, poiché non era stata portata a termine la ri­strutturazione dei territori ecclesiastici prevista nel Con­cordato del 1851 tra il governo spagnolo e la Santa Se­de. In virtù del Concordato Logrono sarebbe dovuta diventare capoluogo della diocesi. Le autorità ecclesia­stiche fecero opposizione e a sua volta il governo non cedette: ci fu così un lungo periodo di sede episcopale vacante (dal 1892 al 1927). La Santa Sede dovette no­minare degli Amministratori Apostolici, con residenza a Calahorra. Dal 1911 al 1921 la diocesi fu retta da don Juan Plaza Garcia, Vescovo titolare di Hippo70. Il clero di Logrono, oltre a quanti stavano nelle parrocchie, era composto dai canonici e beneficiati della Rotonda, dai cappellani dell’ospedale e dell’asilo, dai professori del seminario e dai cappellani militari71. Fra le comunità re­ligiose vi erano i Fratelli Maristi, che reggevano il colle­gio di S. Giuseppe; i Gesuiti, ai quali era affidata la chie­sa di S. Bartolomeo; e diverse comunità femminili: Carmelitane Scalze, Agostiniane, Religiose della Madre di Dio, Figlie della Carità, Adoratrici, Serve di Gesù...

Era questa la situazione nell’autunno del 1917, quan­do le Carmelitane Scalze approvarono, con atto capito­lare del 23 ottobre, la venuta di due Padri Carmelitani che dovevano prendersi cura del convento72. Il primo di essi, padre Juan Vicente de Jesus Maria, giunse a Lo­grono l’i l dicembre; pochi giorni dopo arrivò padre Jo­sé Miguel de la Virgen del Carmen; i due, insieme a un fratello converso, Pantaleón, costituirono la comunità cui venne affidata la chiesa del convento. L’atto inaugu­rale dei loro servizi pastorali e liturgici fu celebrato il 19 dicembre con una solenne funzione. Il tempo non con­tribuì affatto a dare splendore alla cerimonia. Fin dal

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principio del mese le nubi scaricavano su Logrono piog­gia e neve. Ma benché il martedì, 18 dicembre, la neve si fosse in gran parte sciolta, il freddo della notte congelò le acque del disgelo. I fedeli che assistettero alla solenne inaugurazione della nuova sede dei Carmelitani dovette­ro rischiare scivoloni e cadute. Predicò padre Juan Vi- cente, il quale «salutò emozionato la città ed offrì i ser­vizi spirituali della nuova comunità carmelitana»73.

Seguirono giornate molto crude, con il cielo sconvolto e un freddo molto intenso in tutta la Rioja. Da venerdì28 nevicò senza interruzione; per due giorni caddero fiocchi piccoli e compatti. L’Anno Nuovo irruppe con temperature glaciali: il termometro scese a quindici gra­di sotto zero. Comunicazioni interrotte, mercati chiusi. Molte persone morirono di freddo.

A partire dal 3 gennaio gli spazzini municipali, con il rinforzo di un centinaio di giornalieri assunti dalla Giunta municipale, furono impegnati per diversi giorni a togliere la neve da strade e marciapiedi. Mercoledì 9 gennaio, compleanno di Josemarìa, avevano terminato il loro lavoro, grazie anche alla pioggia del giorno pre­cedente. Ma tornò il freddo e la tempesta di neve si pro­lungò per un’altra settimana74.

Nel frattempo, il Signore aveva preceduto il com­pleanno di Josemarìa con una sorpresa che cambiò il corso della sua vita. Durante quei giorni di vacanze na­talizie, una mattina presto, vide per strada le orme la­sciate nella neve da due piedi scalzi. Si fermò a guardare con curiosità l’impronta lasciata dai piedi nudi di un frate e, commosso nel più profondo dell’anima, si do­mandò: Se altri fanno tanti sacrifici per Dio e per il prossimo, io non sarò capace di offrirgli nulla?75.

Le orme nella neve erano di padre José Miguel. Se­guendo quella candida traccia il ragazzo si recò dal car­melitano alla ricerca di direzione spirituale. Portava già dentro di sé “ una divina inquietudine” , che lo tra­sformò nel profondo, portandolo a una vita di pietà più

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intensa, alla pratica dell’orazione, della mortificazione e della comunione quotidiana76. “Ero solo un adolescen­te” - dirà poi - “quando il Signore gettò nel mio cuore una semente infuocata d’amore”77.

Un cambiamento così radicale non fu che il preludio a più pressanti richieste del Signore:

“ (...) ho incominciato a presagire l’Amore, a rendermi conto che il cuore mi chiedeva qualcosa di grande e che fosse amore (...). Non sapevo che cosa Dio volesse da me, ma si trattava evidentemente di una chiamata. A che cosa, sarebbe stato chiaro in seguito... Nel frattempo mi rendevo conto della mia inutilità e ripetevo quella litania che non è frutto di falsa umiltà, ma di conoscenza di me stesso: non valgo nulla, non ho nulla, non posso nulla, non sono nulla, non so nulla...”78.

La semente infuocata gettata nel suo cuore lo brucia­va di dentro e al tempo stessalo lasciava nell’oscurità. Con la luce della grazia il Signore faceva sì che si ren­desse conto della chiamata, ma non con chiarezza abba­gliante, bensì nella penombra, quasi nelle tenebre.

Passarono circa tre mesi. Padre José Miguel, colpito dalle sue buone disposizioni, gli suggerì di entrare nel- l’Ordine dei Carmelitani79. Il ragazzo portò la proposta all’orazione e chiese al Cielo luci per scoprire che cosa si nascondeva dietro la misteriosa chiamata che gli risuo­nava nel cuore.

Gettando uno sguardo all’indietro, comprese che, fin dalla mattina in cui aveva visto le orme sulla neve, qual­cuno lo conduceva direttamente verso l’Amore80. Il Si­gnore lo aveva preparato e gli aveva fatto nascere nell’a­nima una “ divina inquietudine” . Tanto che, nello scoprire le orme lasciate nel biancore della neve e nel rendersi conto che erano di un religioso, vi aveva visto le orme di Cristo e l’invito a seguirlo. In un gesto silen­zioso, impresso sul bianco, seppe vedere una chiamata.

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E immediatamente, con lo spirito di generosità che por­tava dentro di sé, si sentì spinto a decidere sul momen­to, senza alcun rinvio, l’offerta di se stesso.

Nelle settimane seguenti e fino al giorno in cui il Car­melitano lo invitò a entrare nel suo Ordine, Josemaria aveva fatto una decisa virata interiore. Come è possibile che un fatto tanto trascurabile lo spingesse a impegnare tutta la propria volontà nel fermo desiderio di offrire le proprie facoltà al Signore, senza sapere i contenuti di ciò cui si stava impegnando? La sproporzione fra quel tenue evento, «apparentemente insignificante», e la pronta e forte reazione del ragazzo rispecchia la tempra del carattere, veemente e nobile, e la sua grande capa­cità di amore. Il tappeto di neve ben presto divenne ter­reno melmoso. Ma Josemaria manteneva ferma la pro­pria determinazione, senza tirarsi indietro e, senza mutare la risposta, con perseveranza. In quelle brevi set­timane la disponibilità ad accogliere la grazia ingrandì la ferita d’amore dell’adolescente.

Era ormai primavera. Entro un paio di mesi, termina­te le lezioni, ci sarebbero stati gli esami finali. Fu dun­que costretto a decidersi. Pensò alle difficoltà che uno specifico vincolo di natura religiosa avrebbe comporta­to in vista della realizzazione dei piani divini di cui ave­va il presentimento. Se avesse rinunciato a una profes­sione civile e fosse diventato un religioso, gli sarebbe stato possibile aiutare economicamente i suoi genitori? La vita conventuale non lo attraeva e l’idea di farsi reli­gioso non calmava la sua segreta inquietudine. Inoltre, il giorno in cui avesse udito la risposta su quel che Dio gli chiedeva e che ribolliva nella sua anima, non sarebbe stato meglio trovarsi libero e senza legami?81. Prese una rapida decisione: diventare sacerdote ed essere così di­sponibile a tutto. Poi comunicò la decisione a padre José Miguel e lasciò la direzione spirituale del Carmelitano82.

Chi avrebbe mai detto che tutto avrebbe avuto inizio dall’incontro fortuito con le orme di un frate scalzo?

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No, quell’incontro non aveva nulla di casuale, ben lo sa­peva Josemarìa. Era un favore divino. Per questo, la ri­sposta del ragazzo era stata di totale distacco, senza pre­tendere in anticipo prove o segni straordinari. E subito cominciò a ricevere una copiosa pioggia di grazie che, in breve tempo, misero la sua anima in condizione di pale­se maturità, a giudicare dalla proposta che gli fece il suo direttore spirituale.

Non era tuttavia il cammino dei religiosi ciò che Dio gli chiedeva. Lo vide ben presto e con chiarezza e lo disse al Carmelitano. Poi, con una generosità incredibile e con una fede gigantesca, non a rimorchio della grazia bensì, per così dire, quasi precedendo il Signore, decise di farsi sacerdote. Era un passo eroico, una risposta estrema, che nessuno gli aveva chiesto esplicitamente di dare. E non si trincerò dietro la certezza di non essere chiamato a una vita conventuale. Scelse il sacerdozio come base per rag­giungere un ideale; come il mezzo più appropriato, nelle proprie circostanze personali, per identificarsi con Cristo, in attesa di una risposta che presagiva, ma non vedeva. Al Signore toccava ora il nuovo invito, che il futuro sacerdo­te non poteva indovinare. A partire da allora, nell’oscu­rità della sua fede, Josemarìa avrebbe gridato al Signore come il cieco di Gerico, con il vivo desiderio che gli mani­festasse la sua Volontà. Aveva il fermo presentimento che avrebbe scoperto l’avventura della propria esistenza.

“Per anni, a partire dai primi momenti della mia voca­zione a Logrono” - scriveva nel 1931 - “ebbi sempre sulle labbra una giaculatoria: “Domine, ut videam!” Senza sapere per che cosa, ero persuaso che Dio “mi vo­leva per qualcosa”. Sono sicuro di averlo scritto una o più volte a mia zia Cruz (Suor Maria de Jesus Crucifica- do) nelle lettere che le mandavo al convento di Huesca.La prima volta che ho meditato il passo di S. Marco del cieco al quale Gesù diede la vista, quando quegli rispose al “che cosa vuoi che ti faccia” di Cristo, “Rabbonì, ut

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videam”, questa frase mi rimase fortemente impressa. E nonostante molti (come accadde al cieco) mi dicessero di tacere (...), io dicevo e scrivevo, senza sapere perché: “Ut videam!, Domine, ut videam!”. E altre volte: “Ut sit!” Signore, che veda. Che sia”83.

Confermatosi nella decisione di abbracciare il sacer­dozio, lo comunicò a suo padre. Egli stesso ce ne rac­conta la reazione:

“E mio padre mi rispose”:- Figlio mio, ti rendi conto che non avrai un amore sulla terra, un amore umano?“Mio padre si sbagliava. Se ne rese conto dopo”.- Non avrai una casa - “si sbagliava!” - Io però non mi opporrò.“E gli spuntarono le lacrime; è l’unica volta che ho visto piangere mio padre” .- Non mi opporrò; anzi, ti presenterò a una persona che ti potrà orientare84.

In quel momento un pensiero gli passò per la testa: e gli obblighi di giustizia nei confronti dei suoi genitori? Essendo l’unico figlio maschio della famiglia spettava a lui portarla avanti in un futuro neppure troppo lontano, visto che l’età dei genitori, per di più messi a dura prova dalla vita, era piuttosto avanzata; e la signora Dolores non aveva più avuto figli da dieci anni. In quel momen­to, senza soffermarsi su altre considerazioni, con la fi­ducia che proviene da una grande fede e dalla coscienza di aver dato tutto ciò che il Signore gli domandava, gli chiese che i suoi genitori potessero avere un figlio ma­schio che lo potesse sostituire. Sicuro che sarebbe acca­duto, non si preoccupò più di questa richiesta85.

Era già maggio. La notizia che si sarebbe fatto sacerdote correva tra amici e conoscenti. Don Antolin Onate, l’ar­

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ciprete, la accolse con gioia. Su richiesta del padre, ebbe un colloquio con il ragazzo e potè confermare al signor José la vocazione del figlio86. La stessa cosa gli disse don Albino Pajares, un altro sacerdote con il quale Jose­maria aveva parlato su suggerimento di suo padre87. Tutti i conoscenti della famiglia furono colti di sorpresa dalla notizia: «I suoi genitori - riferisce Paula Royo - ne parlarono preoccupati ai miei, ma non gli fecero mai al­cuna difficoltà. Non ce l’aspettavamo che volesse diven­tare sacerdote»88.

Josemaria prese a frequentare la chiesa di Santa Ma­ria della Rotonda, dove si recava a sentir messa. Si trat­teneva a lungo in orazione e si confessava con don Ci­riaco Garrido, canonico penitenziere della Collegiata. Don Ciriaco era un sacerdote dal corpo minuto ma dal­le grandi virtù. Don “ Ciriaquito” , come lo chiamavano affettuosamente per la bassa statura, fu uno dei primi che “ diedero calore alla mia incipiente vocazione” , scrisse poi Josemaria89.

Il 28 maggio terminò gli esami e ottenne il titolo fina­le. Sgombrato il temuto problema dell’iscrizione ad Ar­chitettura, il padre consigliò di nuovo al ragazzo di iscriversi a Legge, facoltà compatibile con gli studi ec­clesiastici, benché la prima cosa fosse capire come en­trare in seminario90.

5. Nel Seminario di Logrono

Don Antolin, uomo ben informato su tutto quanto aves­se a che fare da vicino o da lontano con l’andamento del­la diocesi, mise al corrente il signor José sulla prassi per entrare in seminario. Bisognava subito chiedere al Vesco­vo la convalida delle materie studiate al liceo e, senza perdere tempo, era opportuno far preparare il candidato in Latino e Filosofia perché, prima di accedere agli studi teologici, avrebbe dovuto sostenere un esame nelle due

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materie. José Escrivà pregò l’arciprete e don Albino di cercare i professori per il figlio; peraltro, naturalmente, il pagamento dei compensi uscì dalle sue tasche91.

I mesi estivi del 1918 furono di grande siccità. Ci fu­rono preghiere pubbliche e il Vescovo dispose che nelle Messe si recitasse la preghiera “ad petendam pluviam” , «allo scopo di ottenere dall’Onnipotente il rimedio alla persistente siccità che inaridisce i campi e minaccia di distruggere gran parte dei prodotti agricoli, che costitui­scono la principale ricchezza della nostra amata dioce­si»92. Alcuni giorni prima, il 29 agosto, il Prelato aveva fissato per il primo ottobre l’inaugurazione ufficiale del­l’anno scolastico 1918-1919, sia per il Seminario Conci­liare di Logrono, sia per quello di Calahorra93. Essendo la storia della diocesi piuttosto tormentata, come già abbiamo detto, non deve destare meraviglia che vi esi­stessero due seminari. Basti sapere che, a partire dal 1917, le funzioni docenti erano suddivise fra i due cen­tri: nel seminario di Logrono veniva svolto il piano di studi ecclesiastici solo fino al terzo anno di Teologia94.

Sul Bollettino Ecclesiastico della diocesi furono pub­blicate prima dell’inizio dell’anno scolastico le modalità per l’iscrizione al seminario. Quanti avevano conseguito il titolo finale degli studi superiori dovevano prima su­perare un esame di Latino, Logica, Metafisica ed Etica, come aveva correttamente anticipato don Antolìn. Frat­tanto, il cielo si presentava senza nubi e la preghiera ad petendam pluviam si prolungava oltre ogni aspettativa. Le lezioni non poterono avere inizio il primo ottobre com’era previsto; non a causa della siccità, bensì per una forte epidemia influenzale. Passarono i giorni e il 6 novembre Josemarìa rivolse un’istanza al Vescovo, nella quale scriveva: “ sentendo la vocazione ecclesiastica, do­po aver frequentato e concluso gli anni di liceo, prego laS.V. si degni concedermi di effettuare l’esame di Latino, Logica, Metafisica ed Etica, per poi frequentare il primo anno di Sacra Teologia”95.

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A motivo dell’epidemia, estesasi a tutta la regione, i seminari rimasero chiusi fino al 29 novembre; scompar­sa che fu “ la funesta epidemia influenzale” , il Prelato ordinò che in tutte le parrocchie si cantasse un Te Deum e si recitasse un Pater noster «per le vittime, e special- mente per i sacerdoti del clero che erano morti come eroi della carità, non risparmiandosi nel compimento del proprio ministero»96.

Mentre l’influenza faceva le sue vittime e Josemaria superava gli esami, fu necessario osservare un’altra con­dizione per entrare in seminario, che riguardava gli alunni provenienti da altra diocesi: dovevano ottenere il consenso dei rispettivi Vescovi. Josemaria inviò un’i­stanza al Vescovo di Barbastro, il quale rispose a quello di Calahorra il 12 novembre:

«José Maria Escrivà Albàs, di diciassette anni d’età, na­tivo di questa città, residente a Logrono da tre anni con la sua famiglia e, a quanto manifesta, con vocazione allo stato ecclesiastico, Ci ha richiesto Vexeat per la Diocesi di Calahorra. Con la presente, prendendo in considera­zione le ragioni esposte da detto giovane e previa accet­tazione di quella diocesi, lo escardiniamo da questa di Barbastro e trasferiamo tutta la giurisdizione che sullo stesso ci compete ratione originis all’ecc.mo Sig. Vesco­vo di Calahorra, che potrà conferirgli tutti gli Ordini minori e maggiori se lo ritiene opportuno»97.

* *

Il “Vecchio Seminario” di Logrono doveva il suo nome sia all’antica datazione dei servizi prestati come centro di insegnamento ecclesiastico, sia al merito della sua ve­tustà, che non era poca. Il fatiscente edificio era datato 1559, anno in cui i Gesuiti avevano aperto una scuola a Logrono che, dopo la loro espulsione, sarebbe poi pas­sata in proprietà della diocesi. Nel 1776 s’incominciò a utilizzarlo come seminario, ma la sua vita accademica

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subì notevoli interruzioni per lunghi periodi. Dal 1808 al 1815 divenne caserma per le truppe napoleoniche; in seguito fu anche ospedale militare e carcere dei prigio­nieri carlisti.

Il decrepito edificio non conobbe la luce elettrica fino al 1910. Era una smisurata costruzione rettangolare con cortile interno e si elevava per cinque piani. Camere e aule, ampie e più che sufficienti, erano in un pietoso sta­to di abbandono. Per completare il quadro, nel 1917 il piano terra era stato occupato da un plotone di Artiglie­ria, con la relativa dotazione di uomini e cavalli98.

Il regime di vita in tanto venerabile dimora era regola­to dalle norme scritte e promulgate il primo gennaio 1909 da Gregorio Aguirre, Cardinale Arcivescovo di Burgos e Amministratore Apostolico di Calahorra e La Calzada. Disciplina interna che devono osservare i si­gnori collegiali che appartengono al predetto, era que­sto il titolo del testo ufficiale che regolava la vita del se­minario. Vi erano specificati l’orario, i “principali doveri” e le “proibizioni speciali” . Tra queste ultime ve­niva esplicitamente «proibita ogni comunicazione con gli alunni esterni» da parte degli alunni interni99.

Interni ed esterni formavano due gruppi separati e in­dipendenti, per ragioni disciplinari, allo scopo di evitare che gli esterni fossero lo strumento per burlare le severe regole dell’internato, facendo acquisti o eseguendo inca­richi dietro le spalle delle autorità. Gli alunni esterni dèi seminario erano, solitamente, coloro che avevano la fa­miglia a Logrono. Questi alunni mangiavano e dormi­vano nelle loro case, mentre per il resto il regime di inse­gnamento e di vita di pietà era lo stesso degli altri, senza eccezioni di sorta.

Josemaria entrava in seminario alle sei e mezza di mattina. Facevano orazione e poi assistevano alla mes­sa; qualche volta veniva un padre gesuita a predicare. Poi gli esterni andavano a casa propria a fare colazione e ritornavano (almeno quelli che studiavano teologia)

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prima delle dieci. Alle dodici e trenta terminavano le le­zioni. Pranzavano con la propria famiglia e alle tre del pomeriggio ritornavano in seminario, dove assistevano ad altre lezioni e avevano poi tempo libero fino alla re­cita del rosario, seguita da una predica o dalla lettura spirituale100.

Josemaria non abusò mai della libertà che gli offriva la propria condizione di alunno esterno. Un condiscepo­lo, Màximo Rubio, anch’egli residente a Logrono con la propria famiglia, dice di lui che «era puntualissimo ed esemplare. Da quanto si poteva vedere, aveva un vero desiderio di perfezione»101. Gli interni avevano anche alcuni obblighi particolari; fra questi, quello di occupar­si della catechesi alla domenica. Non così gli esterni. A uno dei seminaristi interni, Amadeo Bianco, rimase ben impressa nella memoria la figura di Josemaria, perché era l’unico alunno esterno che andava volontariamente a dare una mano nella catechesi domenicale102.

Il seminario si trovava in fondo a via Sagasta, non lontano dal domicilio degli Escrivà. Successivamente, nel 1918, la famiglia lasciò il vecchio appartamento per trasferirsi in un nuovo edificio di via Canalejas. Si trat­tava anche qui di un quarto piano, meno centrale del precedente103.

In quei giorni, Josemaria ebbe una sorpresa. La mam­ma chiamò in disparte lui e Carmen, per annunciare lo­ro che era in attesa di un bambino. Benché fosse eviden­te il suo stato di gravidanza, i figli non l’avevano neppure sospettato. A Josemaria venne allora in mente la supplica fatta a Dio alcuni mesi prima ed ebbe la cer­tezza che sarebbe nato un maschio104.

Quelle settimane d’inverno furono contrassegnate da una raccolta intimità familiare. Il 28 febbraio 1919 la signora Dolores diede alla luce un bambino e ciò fu per Josemaria una palese conferma della propria chiamata. Come avrebbe scritto in seguito, era una chiara risposta alla sua petizione:

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“A seguito di una mia supplica, nonostante che già da diversi anni i miei genitori non avessero figli e non fosse­ro più giovani, a seguito di una mia supplica - ripeto - Dio nostro Signore (dopo nove o dieci mesi da quando gliel’ho chiesto) fece sì che nascesse mio fratello (...). Un fratello maschio, così come avevo chiesto”105.

Due giorni dopo, don Hilario Loza battezzò il bam­bino nella parrocchia di Santiago el Reai e gli pose il nome di Santiago Justo. Fecero da padrini Carmen e Josemarìa106.

Durante i due anni di studio nel seminario di Logrono (1918-1920), Josemarìa studiò molto a fondo le materie del primo anno di Teologia, riportando la votazione ec­cezionale di Meritissimus107. Ne lasciò solamente una - Luoghi Teologici, chiamata anche Teologia Fondamen­tale - per l’anno 1919-1920. In questo secondo anno accademico potè quindi disporre di un certo tempo libe­ro108. Approfittò di quei mesi per approfondire i temi fi­losofici e il latino.

6. Sacerdozio e carriera ecclesiastica

Le testimonianze su Josemarìa dei compagni di semina­rio sono precise e concise e fra loro concordi. Dice di lui Amadeo Bianco: «Era molto accurato nel portamento esteriore: portava una giacca blu, il colletto alto e chiu­deva la camicia con un laccio». E Luis Alonso riferisce: «Vestiva sempre con molta eleganza, in abito completo e scuro, di buon taglio»109.

Quanto al carattere, come ricorda Pedro B. Larios, si dimostrava «molto aperto e comunicativo, simpatico, divertente, allegro e gradevole». «Quello che attirava maggiormente l’attenzione - osserva Amadeo Bianco - era il suo sorriso aperto e amabile: era un riflesso della sua letizia interiore»110. Toccando un altro aspetto del­

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la sua personalità, Màximo Rubio riferisce che «era un uomo di carattere, di forte temperamento» e che «ebbe un grande influsso sulla pietà e la spiritualità dei semi­naristi»111.

Questi ricordi acquistano maggior rilievo se messi a confronto con l’opinione che avevano dell’alunno e del suo comportamento i Superiori del seminario. Ecco quella laconica, riportata in una breve nota informativa, del Rettore don Valeriano Cruz-Ordónez: «Il richieden­te ha fatto il liceo nell’istituto e si è diplomato in Arti; è un giovane di assai buone disposizioni e di ottimo spiri­to»112. Josemaria si confessava probabilmente con il Di­rettore della Disciplina, don Gregorio Fernàndez An- guiano, che egli ricorderà sempre come “ quel santo sacerdote” 113. Oltre ad essere uomo di grande pietà, don Gregorio era dotato di sorprendenti doti di coman­do. Nel 1921 fu nominato Vicerettore del seminario e in breve tempo, con mano ferma, si mise a coltivare le ani­me dei seminaristi, che da lungo tempo erano ridotte a un campo incolto per quanto si riferisce alla direzione spirituale.

All’interno del seminario la disciplina era rigida. Gli esterni, invece, conducevano una vita un po’ diversa: nei fine settimana avevano del tempo libero da dedicare agli amici e ad altri interessi.

Josemaria conduceva un’intensa vita di pietà. Qual­che compagno ricorda di «averlo visto durante le pas­seggiate con il rosario tra le mani»114. Accadeva anche spesso che alla sera, uscendo dal seminario, si recasse al­la Rotonda per trattenersi davanti al Santissimo115. La sua vita di pietà non era frutto di sentimentalismo, ma della divina inquietudine che lo consumava, spingendo­lo a trascinare con senso apostolico i propri compagni. In modo tale che «il suo modo di pensare e di agire ebbe peso anche sugli stessi seminaristi», grazie alla forza dell’esempio116.

Nei giorni lavorativi si dedicava allo studio. Le dome­

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niche le riempiva con la catechesi ai bambini di mattina e le passeggiate con la famiglia il pomeriggio, evitando qualsiasi occasione di stare assieme o di conversare da solo con le amiche di Carmen. «Nonostante ci cono­scessimo - dice Paula Royo, i cui genitori uscivano a passeggio con gli Escrivà - non arrivai ad avere amicizia con Josemaria»117. Màximo Rubio, condiscepolo di Jo­semaria, riferendosi in particolare agli anni di semina­rio, fa capire la delicata cura con cui proteggeva la pu­rezza dei propri sentimenti: «Tutti, e naturalmente anch’io, avevano di lui un alto concetto per quanto si ri­ferisce alla purezza»118. Ma la sua accurata delicatezza non andava contro il buon senso, come dimostra un suo commento aneddotico che non ha nulla di bigotto.

A Logrono, le istituzioni militari abbondavano quan­to quelle ecclesiastiche. Conventi e caserme davano una nota severa di ordine alla città, che ospitava due reggi­menti di Fanteria: il 24° “Bailén” e il 39° “ Cantabria” ; il 13° reggimento di Artiglieria a cavallo; l’Ospedale mi­litare e la Sussistenza militare. Accanto a queste comu­nità della patria e della Chiesa, a un isolato da “La Gran Ciudad de Londres” , in via del Mercato, si trova­va la Manifattura Tabacchi, nella quale lavorava una variopinta schiera di sigaraie.

Nella Rotonda o nella chiesa di Santiago el Reai, Jo­semaria vedeva tra i fedeli devoti fisionomie note, siga­raie della fabbrica di tabacchi o militari dei diversi reg­gimenti. Gli ufficiali ormai canuti e le sigaraie che avevano ormai perduta l’avvenenza della gioventù tra­sportavano l’immaginazione del giovane all’altro ver­sante della vita. Vedeva militari e sigaraie, ormai sul pendio della caducità, che cancellavano con il pentimen­to antiche frivolezze e qualche sproposito. E chissà se è da queste riflessioni che ebbe inizio la devozione che egli ebbe sempre per Maria Maddalena, la santa penitente, esempio dell’amore contrito:

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“Quando sentivo i presagi dell’Opera, ma ancora non sapevo con chiarezza che cosa mai il Signore volesse da me, cominciai ad assistere ogni giorno alla santa Messa. Ben presto mi resi conto che nella chiesa che frequenta­vo si recavano diverse sigaraie ormai avanti negli anni e militari con i baffi bianchi. Si poteva arguire che gli uni e le altre stessero riparando i peccati di gioventù. Quelle sigaraie e quei colonnelli pentiti mi ricordavano Maria Maddalena”119.

Lo stile di Josemaria e le sue qualità - educazione, al­legria e intelligenza - gli davano un indiscutibile presti­gio davanti ai seminaristi. Fuori del seminario, invece, accadeva l’inverso. Nel suo andare e venire, il giovane seminarista incontrava spesso gli ex compagni di studio. A volte scambiavano un saluto, un gesto gioviale; ma al­tre volte incrociava sguardi provocatori di ironia o di­sprezzo, che gli rimanevano dolorosamente impressi nell’anima:

“Ricordo con che espressione di compassione - quasi guardandomi dall’alto in basso - mi fissavano i compa­gni dell’istituto quando, finita la scuola, iniziai la carrie­ra ecclesiastica”120.

Questa semplice osservazione - dolorosa per il semina­rista - rispecchia la situazione sociale dello stato ecclesia­stico, e indirettamente della Chiesa, nella Spagna degli inizi del XX secolo. Gli sguardi ironici degli ex compagni di scuola non erano evidentemente frutto di inimicizia personale. Esprimevano piuttosto, insieme a un lieve toc­co di anticlericalismo, il disprezzo della borghesia liberale per il “seminarista” . Era raro all’epoca trovare, nei semi­nari, degli studenti in possesso del diploma liceale. Anco­ra più raro era trovare dei sacerdoti con una laurea civile.I giovani dotati di prestigio intellettuale, sociale o econo­mico, quando sentivano una chiamata vocazionale prefe­rivano entrare in qualche Ordine religioso o in qualche

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Istituto di maggior lustro121. In questo contesto si spiega come gran parte del clero secolare avvertisse una latente e ingiusta umiliazione da parte di certi strati della società che esibivano, insieme alla miscredenza religiosa, il fatuo prestigio delle scienze civili. Per molti l’entrata in semina­rio equivaleva, umanamente parlando, a sacrificare posi­zioni di futuro benessere materiale. Potevano diventare preti di paese, parroci in città, cappellani di conventi o militari. Al massimo sarebbero riusciti a ottenere un ca­nonicato, una cattedra o altre prebende, per la loro mag­giore capacità intellettuale o per altre doti personali. Nel caso di Josemarìa, l’entrata in seminario implicava la ri­nuncia a una carriera di maggior rilievo sociale ed econo­mico, come avrebbero consentito gli studi di Architettura e di Diritto. Ai suoi occhi era ben palese la prospettiva ec­clesiastica quando, una volta ordinato, si sarebbe inserito nelPingranaggio della vita:

“Ne uscivano per proseguire la carriera... Si comporta­vano bene e cercavano di andare da una parrocchia a un’altra migliore. Chi era meglio preparato concorreva a un canonicato. Con il passare del tempo, li mettevano nel Capitolo, dal quale uscivano le persone necessarie per collaborare nel governo della diocesi, per la forma­zione del clero in seminario...”122.

Per alcuni chierici, infine, essere sacerdote significava quasi un’occupazione amministrativa. Idea che Josemarìa non condivideva nel modo più assoluto. Il giovane semi­narista non si sentiva chiamato a una carriera siffatta:

“Non era quello che il Signore mi chiedeva e me ne ren­devo conto: non volevo essere sacerdote per essere sacer­dote, “el cura”, come dicono in Spagna. Veneravo il sa­cerdote, ma non volevo per me un sacerdozio così”123.

Se Josemarìa decise di farsi sacerdote fu perché ritene­va che, in quel modo, avrebbe avuto maggior facilità

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per compiere l’occulto disegno di Dio, convinto che fos­se il cammino adeguato per conoscerne la Volontà124.

Non fu l’esempio della famiglia - sia da parte del si­gnor José che da parte della signora Dolores egli aveva vari zii ecclesiastici - a condurlo al sacerdozio. Egli lo disse con chiarezza:

“Non avevo mai pensato di farmi sacerdote né di dedi­carmi a Dio. Non mi ero posto questo problema perché credevo che non mi riguardasse. Anzi: mi dava fastidio il pensiero che potessi approdare un giorno al sacerdozio, tanto che mi sentivo anticlericale. Amavo molto i sacer­doti, perché la formazione che ricevetti in casa mia era profondamente religiosa; mi avevano insegnato a rispet­tare, a venerare il sacerdozio. Ma non come cosa per me: per altri”125.

Dalla “divina inquietudine” , dal disagio interiore, Jose­maria era passato alla certezza che il Signore “lo voleva per qualcosa” . Presagiva l’Amore; e, adeguandosi all’a­more, si donava, sacrificando tutte le aspirazioni umane racchiuse nel suo cuore. Per il suo modo di reagire, per la prontezza e la gioia con cui decise di farsi sacerdote, pro­babilmente non considerò quel tributo un sacrificio, bensì una gioiosa donazione di tutto il proprio essere.

Il suo “ut videaml” era supplica di innamorato impa­ziente, un volerne sapere di più per dare tutto ciò che gli fosse richiesto, una petizione di luce per incamminarsi verso il compimento della Volontà di Dio. Intendeva la propria vocazione al sacerdozio come parte integrante di un’altra chiamata, al di fuori per il momento dalla portata del suo sguardo. Si trovava quindi non al tra­guardo, alla meta, bensì all’inizio di un cammino per il quale presentiva la Volontà di Dio. Si aprì allora nella sua vita la tappa dei “presagi” o “presentimenti” , come egli stesso raccontava: “Fin dagli inizi del 1918 ebbi dei presentimenti. In seguito continuavo a “vedere” , ma

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senza che fosse chiaro ciò che il Signore voleva da me: e però “vedevo” che il Signore voleva qualcosa. Chiedevo e continuavo a chiedere” 126.

Josemaria, nemico di ogni mediocrità, aveva prepara­to l’intera sua anima a ricevere la pienezza specifica della vocazione al sacerdozio, che concepiva come un ideale d’amore. E non ci dobbiamo stupire se, così come alcuni suoi ex compagni non avevano capito la sua entrata in seminario, in seguito alcuni seminaristi si meravigliarono della sua indifferenza per tutto ciò che significava “far carriera” . La sua alta stima per il sacerdozio non venne mai meno, come evidenzia un episodio del 1930:

“Pochi giorni fa” - scrisse - “una persona, con poco tat­to, mi chiese, senza che le fosse stato dato pretesto per farlo, se noi che seguiamo la carriera sacerdotale abbia­mo una pensione per quando saremo vecchi... Mi indi­gnai. Poiché non gli rispondevo, l’importuno insisteva. Allora mi venne la risposta che, a mio avviso, non am­mette replica: “Il sacerdozio - gli dissi - non è una car­riera: è un apostolato!”. Questa è la mia convinzione. E ho voluto scriverlo in queste note perché, con l’aiuto del Signore, non mi dimentichi mai della differenza”127.

Facendo alcuni passi indietro nella nostra storia, si comprende meglio la reazione del signor José, il quale, conoscendo bene il ragazzo e i suoi ardori giovanili, gli consigliava prudenza e riflessione: “Figlio mio, pensaci bene” - gli diceva -. “E molto duro non avere casa, non avere famiglia, non avere un amore sulla terra. Pensaci

9 * ^ * v 33 1 9 &ancora un po ; io pero non mi opporro .La notizia che gli era stata data così all’improvviso,

con i cambiamenti e riassestamenti familiari che ne sa­rebbero derivati e, soprattutto, la percezione dell’ideale abbagliante del quale sembrava pervaso il figlio, strap­parono al padre due lacrime di commozione. Anch’egli dovette vincersi interiormente e prendere una decisione:

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“Non mi opporrò” . Forse pensava agli eroici sacrifici che la perseveranza su quella strada di santità avrebbe richiesto al figlio. Egli tuttavia non sarebbe vissuto fino ad assistere alPordinazione sacerdotale di Josemarìa.

Passarono gli anni e il 23 gennaio 1929, a Madrid, accanto al letto di una moribonda santamente vissuta Josemarìa le affidava questo incarico: “Se non riesco a essere un sacerdote, non solo buono, ma santo, allora chiedi a Gesù che mi porti via quanto prima!” 129.

* * *

Tutto sembrava indicare che il luogo più appropriato per studiare Legge, come aveva suggerito il signor José, fosse Saragozza. A Saragozza vivevano anche alcuni fra­telli della signora Dolores: Mauricio, sposato con zia Mercedes; Carlos, canonico arcidiacono della cattedra­le; e con lui Candelaria, ormai vedova, con la figlia Manolita Lafuente. A Saragozza esistevano una Univer­sità Pontificia e una Università Civile. Anche la poca di­stanza e le buone comunicazioni con Logrono sembra­vano indicare Saragozza come il luogo più indicato per fare degli studi ecclesiastici e civili.

La possibilità e le condizioni del trasferimento da Lo­grono al seminario di Saragozza erano maturate duranteil 1919, a quanto racconta la baronessa di Valdeolivos. Il suo racconto ha per scenario il periodo estivo degli Escrivà, che si erano recati, come gli altri anni, a Fonz: «Qualche estate dopo, probabilmente nell’estate del 1919, il signor José, padre di Josemarìa, venne a Fonz a vedere i suoi fratelli. Aveva le fotografie dei suoi figli: di Santiago, che era nato da poco, di Carmen e di Jose­marìa. Ce le mostrava molto orgoglioso dei suoi figli (...). Poi, indicando Josemarìa, disse pensoso: “ Questo mi ha detto che vuol essere sacerdote, ma allo stesso tempo vuole studiare Legge. Ci costerà un certo sacrifi­cio...” »130. Indubbiamente, mantenerlo agli studi fuori di Logrono comportava un sacrificio economico per tutta la

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famiglia. Comunque, era evidente che il precedente orien­tamento di Josemaria di diventare architetto, a Barcello­na o a Madrid, avrebbe comportato un onere maggiore.

Josemaria manifestò le proprie intenzioni al Rettore del seminario ad anno scolastico già avanzato. Il Retto­re, conoscendo le doti intellettuali dell’alunno e le buo­ne disposizioni vocazionali, gli prestò il proprio appog­gio. Poi, nella prima metà del giugno 1920, e probabilmente con la mediazione dello zio Carlos al quale la madre avrà chiesto di interessarsi a favore del nipote, ottenne dal Cardinale Arcivescovo di Saragozza l’incardinamento nella sua arcidiocesi.

Il passo successivo fu quello di richiedere Vexeat per trasferirsi da Logrono a Saragozza, per continuarvi gli studi ecclesiastici. Fece quindi istanza al Vescovo di Ca­lahorra e La Calzada allo scopo di ottenere l’escardina­zione131. La richiesta fu accolta, previa informazione fa­vorevole del Rettore del seminario di Logrono nei termini, come già detto, di «giovane di assai buone di­sposizioni e di ottimo spirito»132. Josemaria passò quin­di a dipendere dal Cardinale Arcivescovo di Saragozza, come consta nel “Libro dei Decreti Arcivescovili” in cui, in data 19-VII-1920, viene registrato il seguente ti­tolo: «Dn. José Maria Escrivà Albàs - Lettere di incardi- nazione in questa Arcidiocesi, a suo favore»133.

In data 28 settembre 1920 si trova un’altra concisa scrittura mediante la quale il Cardinale Arcivescovo dàil permesso all’alunno di entrare nel seminario di S. Francesco di Paola134. Inizia così una nuova tappa nella vita del seminarista.

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NOTE CAPITOLO II

1 Martin Sambeat, Sum. 5679. Josemaria a tredici anni era «un ragazzo piuttosto alto, forte, portava calze lunghe fino al ginocchio e pantaloni corti, come tutti quelli della sua età a quel tempo (...); sereno, amabile, in­telligente» (cfr Maria del Carmen Otal, AGP, RHF, T-05080, p. 1).

! 2 Nel sistema di insegnamento non statale, come si è detto, si potevano fa­re gli studi fuori degli Istituti ufficiali dello Stato e gli alunni privati si reca­vano, alla fine dell’anno scolastico, a farsi esaminare negli Istituti statali. Era d’uso presentare un elenco degli alunni con un giudizio indicativo dei voti che ciascuno meritava secondo i suoi professori. Nell’elenco presenta-

! to dagli Scolopi, Josemaria figurava come il migliore del suo corso. Cfr Al­varo del Portillo, Sum. 37; e Appendice documentale, documento Vili.3 Cfr Francisco Botella, Sum. 5608; Pedro Casciaro, Sum. 6331; Santiago Escrivà de Balaguer y Albàs, PM, f. 1297.

i 4 Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 64.5 «La famiglia rimase molto a mal partito e mia nonna - riferisce la baro­nessa di Valdeolivos - fece in modo di aiutarli e acquistò la loro casa, ma la famiglia continuò ad abitarvi finché si trasferì a Logrono» (Maria del Car­men Otal Marti, Sum. 5988).6 Esperanza Corrales, AGP, RHF, T-08203, p. 6; e Alvaro del Portillo, Sum. 69.7 Cfr S. Lalueza: Martirio de la Iglesia en Barbastro, ed. Obispado de Bar­bastro, Barbastro 1989, pp. 172; G. Campo Villegas, C.M.F.: Està es nue-

\ stra sangre (51 Claretianos martires, Barbastro 1936), Pubblic. claretiane,Madrid 1990, pp. 380; Vicente Càrcel Orti: La persecución religiosa en Espana durante la segunda repùblica (1931- 1939), Rialp, Madrid 1990; A. Montero: Historia de la persecución religiosa en Espana, 1936-1939, Madrid 1961, pp. 209-223 e763 e ss.; A A .W : Diccionario de Historia

i Eclesiàstica de Espana, op. cit., voi I, p. 185.

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8 Nell’art. 5 del Concordato del 1851, come già detto, era stabilita la sop­pressione della diocesi di Barbastro e il suo accorpamento a quella di Hue­sca. Tuttavia, il percorso storico del Concordato del 1851 della Spagna con la Santa Sede fu molto accidentato e gran parte degli articoli concordatari non arrivò ad avere applicazione. Per lunghi periodi il Concordato rimase lettera morta. Lo Stato ruppe le relazioni con la Santa Sede durante la pri­ma Repubblica spagnola (1873-1874) e distrusse i fondamenti giuridici del Concordato (peraltro mai formalmente disdetto) durante la seconda Re­pubblica (1931-1936). Con gli Accordi del 1946 lo Stato spagnolo cercò di aggiornare alcune delle sue disposizioni, finché, nel 1953, il Concordato fu rinegoziato. Cfr S. Lopez Novoa, op. cit., voi I, pp. 233 e ss.; AA. W ., Diccionario de Historia..., op. cit., voi. I, pp. 581-595.Martin Sambeat attesta: «Le relazioni del Fondatore e dell’Opus Dei con il Nunzio in Spagna credo fossero molto buone poiché, quando si cercò di sopprimere la diocesi di Barbastro, ci siamo documentati su chi potesse avere qualche influenza sulla Nunziatura, affinché si interessasse per evita­re il colpo di mano della soppressione, e si convenne che Mons. Escrivà fosse una di queste persone» (Sum. 5682; cfr anche Florencio Sànchez Bel­la, Sum. 7495).Il Fondatore aveva l’abitudine di non fare raccomandazioni, tranne quan­do era in gioco il bene dei suoi concittadini; quando si parlò di sopprimere la diocesi di Barbastro, egli ricorse al Nunzio nel 1945 e poi alla Santa Se­de, e persino al Santo Padre Paolo VI (cfr Alvaro del Portillo, Sum. 1448). In una lettera del novembre 1970 il Fondatore scrisse al Sindaco di Barba­stro: “Per la carica esclusivamente spirituale che il Signore mi ha affidato, la mia regola di condotta è stata sempre di non fare mai alcuna raccoman­dazione, eccetto quando si tratta di una questione che riguarda la mia amatissima città di Barbastro o la sua terra. Sono convinto che, agendo in questo modo, compio il mio dovere di sacerdote e di barbastrino” (cfr C 4721, 13-XI-70).Sulla documentazione storica che si riferisce a questa questione e sui passi ufficali presso la Santa Sede il biografo non ha fatto ricerche, ritenendolo un argomento estraneo a questa storia. Sull’argomento, cfr Manuel Garri- do, Barbastro y el Beato Josemana Escrivà. Consiglio Comunale di Barba­stro 1995, pp. 111-123.9 C 5793, 29-1-1966 (Appunto II, pp. 305-306).10 C 4882, 28-VI-1971; cfr pure C 4721, 13-X-I-70.11 C4826, 28-111-1971.12 Paula Royo, AGP, RHF, T-05379, p. 1; e Sum. 6296.13 Cfr Annuario della Vita Ufficiale, del Commercio e Industria, della Pro­vincia di Logrono - 1915, edito da Hijos de Alesón, Logrono 1915. Per tutti i dati su quell’epoca (1915-1920) a Logrono, cfr la tesi di laurea di Jaime Toldrà, Fuentes para una biografia del Beato Josemarìa Escrivà, Fundador del Opus Dei, Università di Navarra, Pamplona 1994.14 Paula Royo, AGP, RHF, T-05379, p. 1.

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15 Paula Royo, AGP, RHF, T-05379, p. 2; e Sum. 6298. Per alcuni anni do­po la guerra civile via Portales divenne via Generale Mola, e così compare in diversi documenti.16 Cfr Santiago Escrivà de Balaguer y Albàs, PM, f 1297v, par. 9; e José Romeo, Sum. 7847.17 Paula Royo, AGP, RHF, T-05379, p. 2; e Sum. 6298.18 Francisco Moreno Monforte, AGP, RHF, T-02865, p. 9.19 C 2806, 14-1-1959.20 Paula Royo, AGP, RHF, T-05379, p. 2.21 Francisco Moreno Monforte, AGP, RHF, T- 02865, p. 9.22 Ibidem.23 Cfr Appendice documentale, documento VIII.24 Cfr i resoconti in “La Rioja Ilustrada33 del 12-VIII-1907 e anche gli an­nunci in Annuario... della Provincia di Logrono, cit.25 I professori del S. Antonio erano “ laureati in Scienze o Lettere” , mentre sembra che non lo fossero quelli del S. Giuseppe. Nel 1917 era direttore del S. Antonio Bernabé Lopez Merino, docente dell’istituto.Quanto ai risultati scolastici, il signor José potè certamente notare sulla stampa locale dell’estate 1915, a grandi titoli, i risultati degli esami di fine anno: «Istituto di S. Antonio: Matriculas de Honor (Ottimo con Lode), 61; Sobresalientes (Ottimo), 128; Notables (Notevole), 123. Scuola di S. Giu­seppe: Matriculas de Honor, 37; Sobresalientes, 98; Notables, 88; Aproba- dos (Sufficiente), 136; Suspensos (Bocciati), 2» (cfr quotidiano “La Rioja” , del 3, 6 e 8 luglio 1915).Per quanto si riferisce al carattere “ laico” , il S. Antonio, a giudicare dai re­soconti giornalistici, aveva un cappellano fisso, che «in un bellissimo ora­torio celebrava quotidianamente il Santo Sacrificio della Messa» (cfr il ser­vizio Scuola di Studi inferiori e superiori di S. Antonio a Logrono, in “Rioja Ilustrada” , Logrono 12-VIII-1907). Ma forse la scuola cambiò conil passare degli anni, perché don Josemaria, in una annotazione privata del 17-XI-1930, scriveva: “Ricordo che sono andato per un certo tempo a una scuola diretta da laici, che si chiamava di Sant’A.; e di Sant’A. si ricordava­no solamente una volta all’anno - nel giorno della sua festa - per fare una cerimonia religiosa, che serviva come pubblicità o propaganda della scuo­la” (Appunti, n. 105).26 Javier Echevarria, Sum. 1804.27 Paula Royo, Sum. 6298.28 Un noto storiografo carmelitano, riferendosi all’antico convento di Lo­grono, dice: «Quella casa fu una di quelle che maggiormente soffrirono dall’espulsione, poiché fu demolita per costruire un Istituto di scuola se­condaria e il resto dell’antica proprietà fu trasformato in un giardino pub­blico» (P. Silverio de Santa Teresa, Historia del Carmen Descalzo, tomo XIII, Burgos 1946, p. 832).

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29 Cfr Appendice documentale, documento Vili. Nel giugno 1916 Jose­maria fece gli esami del quarto anno, unico alunno libero a ottenere voti così alti.Le materie e i voti di quell’anno furono:- Precettistica Letteraria e Composizione: Ottimo con lode- Francese (secondo corso): Ottimo- Storia Universale: Notevole- Algebra e Trigonometria: Ottimo- Disegno (primo corso): Ottimo30 Le materie e i voti dell’anno scolastico 1916-1917 sono:- Psicologia e Logica: Notevole- Storia della Letteratura: Ottimo- Fisica: Notevole- Fisiologia e Igiene: Ottimo- Disegno (secondo corso): OttimoCfr pure Alvaro del Portillo, PR, p. 147.Come Direttore dell’istituto di Logrono, in data 26 settembre 1941 Don Calixto firmò una Certificazione Accademica Personale di don Josemaria (cfr Archivio dell’istituto “Pràxedes Mateo Sagasta” ).31 Javier Echevarria, Sum. 1819; cfr anche Francisco Botella, Sum. 5612. Mons. Alvaro del Portillo riferisce di aver avuto una volta una lunga con­versazione privata con don Calixto, durante la quale questi fece tali elogi delle virtù umane e cristiane del suo ex alunno, da indicarlo come caso esemplare per tutto l’istituto (cfr PR, p. 147).32 Cfr le Memorie Annuali dell’istituto, poi stampate e conservate nell’uffi­cio del Direttore dell’istituto “Pràxedes Mateo Sagasta” di Logrono; e Al­varo del Portillo, Sum. 99.33 Alvaro del Portillo, PR, p. 149. Cfr Javier Echevarria, Sum. 1822.34 Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 74.35 Paula Royo, AGP, RHF, T-05379, p. 2.36 Encarnación Ortega, PM, f. 29v.37 Alvaro del Portillo, Sum. 96; cfr anche Javier Echevarria, Sum. 1795.38 Cfr Javier Echevarria, PR, p. 79.39 C 4 8 8 9 ,19-VIII-1971.40 Cfr Francisco Botella, Sum. 5611; Juan Jiménez Vargas, PM, f. 909v.41 Cfr Archivio della diocesi di Calahorra: risposta alla richiesta di infor­mazioni da parte dell’Amministratore Apostolico, Vescovo di Hippo (Ca­lahorra, 8-XI-1918).42 Citato da Alvaro del Portillo, Sum. 67; Meditazione del 4-II-1962. Jo ­semaria non era ancora giunto a scoprire il profondo significato di ciò che scrisse in Cammino, cit., n. 699: “ Croce, travagli, tribolazioni: ne avrai finché vivrai. Per questa via è passato Cristo, e il discepolo non è più del Maestro” .

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43 Cfr La Gazeta del Norte, Logrono, 28-VI-l975, p. 3 (intervista con Ma­nuel Ceniceros).44 Cfr AGP, PO6, V, p. 267.45 C 4919, 14-X-1971.46 Commento udito da Mons. Javier Echevarria direttamente dalle labbra del Fondatore (cfr Sum. 1814).47 Lettera 24-X-1965, n. 29. In precedenza, in data 2-IX-1931, annotava negli Appunti (n. 259): “Tutto questo mi ricorda una certa caricatura giapponese: l’uomo pratico (apostolico, diremmo noi) mette il suo unico fanale a poca altezza, per illuminare di notte la sua famiglia, che s’intrat­tiene a chiacchierare illuminata dall’umile fiamma; l’uomo presuntuoso (lo pseudoapostolo) mette la sua lampada in cima a un palo di venti me­tri, perché da lontano si possa pensare: che bella luce hanno lassù! Ma es­sa non illumina gli estranei né riscalda la casa dei suoi, che per giunta re­stano al buio” .48 AGP, POI 1975, pp. 357-358.49 Cfr Francisco Botella, Sum. 5612.50 Meditazione del 14-11-1964. Al cambiamento e alla maturazione del suo carattere contribuirono in modo speciale i suoi genitori. Egli non dimen­ticò mai l’esempio dei suoi e il debito contratto con loro. Ecco una lettera del 1949: “Ho avuto molto vicino al mio cuore dei buoni modelli, che in­quadravano con una nobile allegria le disavventure, che non esageravano il peso della Santa Croce e non trascuravano gli obblighi del proprio stato” [Lettera 8-XII- 1949, n. 202).In Messico, il 27 maggio 1970, durante un incontro con professionisti, Mons. Escrivà riassunse la storia con queste parole: “A mio padre non andò affatto bene negli affari. E ne ringrazio Dio, perché così io so che co- s’è la povertà; altrimenti, non lo avrei saputo. Vedete quanto bene ne è ve­nuto? Ora amo di più mio padre... Era così meraviglioso che seppe serbare una serenità immensa e sopportare le difficoltà con pace e nobiltà cristia­ne” (AGP, POI 1970, p. 943).51 Cfr Appendice documentale, documento Vili.52 Lo scritto recita così: “ ... espone rispettosamente alla S.V. quanto segue: avendo ottenuto negli esami sostenuti nello scorso mese di giugno la vota­zione di Ottimo con lode nella materia “Precettiva letteraria e Composizio­ne” e avendo diritto ad applicare una Lode in conformità con quanto pre­visto nella normativa vigente, rivolge istanza alla S.V. affinché voglia concedergli di applicare detta Lode alla materia “Storia Generale della Let­teratura” . Nella certezza di ottenere quanto dovutogli dal retto criterio della S.V., prego Dio che ce la conservi per molti anni. Logrono, 1 settem­bre 1916” (documentazione scolastica dell’istituto Pràxedes Mateo Saga- sta, protocollo 265/6935).- Si è tradotta l’espressione spagnola Matncula de Honor; con il concetto della Lode, ben noto nel curriculum studiorum italiano (NdT).

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53 Sul collegio dei docenti: cfr archivio dell’istituto “Pràxedes Mateo Saga- sta” di Logrono: «Personale facoltativo di questo Istituto durante l’anno scolastico 1916-1917, con indicazione della data in cui sono entrati a far parte del collegio docente i titolari di cattedra di ruolo e il numero da essi occupato nella graduatoria del 1° gennaio 1915, approvata con Ordinanza Reale del 9 febbraio 1916».54 Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 64 e 65; Pedro Casciaro, Sum. 6331; Javier Echevarrfa, Sum. 1812.55 AGP, POI 1970, pp. 487-488; AGP, P06, V, p. 275; citato da Alvaro del Portillo, Sum. 65.Ecco il testo originale del Canto n. 3: «Como Santa Maria feze estar o monge trezentos anos ao canto de passarya...»:...«fez-lo entrar en hua orta / en que muitas vezes ja entrara; mais aquel dia / fez que hua font’achou mui crara e mui fremosa / e cab’ela s’assentou....A tan gran sabor avia / daquel cant’e daquel lais, que grandes trezentos anos / esteveo assi, ou mays...»(Cantigas de Santa Maria, edito da Walter Mettmann; Acta Universitatis Conimbrigensis, voi. II, 1961, pp. 6-7; Coimbra 1954-1972, 4 volumi).56 C 3647, 7-VI-1965. Quanto alle citazioni letterarie, cfr Gonzalo de Ber- ceo, Vida de Santo Domingo de Silos, strofa 757 (in Poetas Castellanos an- teriores al siglo XV, BAE, voi. 57, Madrid 1952, p. 63); e Menéndez Pidal, Cantar del Mio Cid, 3 volumi, Madrid 1908-1911, pp. 518, 910 e 1027 (per quanto si riferisce ai w. 54-55).- La frase “Io non c’entro per niente” è in italiano nel testo (NdT).I versi del poema citati descrivono la partenza del Cid per l’esilio, la sua entrata a Burgos, la sua preghiera nella cattedrale e l’uscita dalle mura, per poi attraversare il fiume Arlanzón:«La oración fecha, / luego cavalgava; saliò por la puerta / e Arlangon passava».Josemaria ne serbò in mente l’aroma poetico spirituale, al di fuori delle cir­costanze storiche, cosicché nel suo ricordo gli sfoghi appassionati si univa­no alla pia esaltazione. Il fatto è che la lettura del poema suscita nei giova­ni lettori una corrente impetuosa di prospettive ideali di fronte all’onestà, alla nobiltà, alla lealtà e cortesia dell’eroe. La riflessione su questi temi la­sciò, senza alcun dubbio, un’orma profonda nei sentimenti del giovane Jo­semaria.«Il Cid - dice lo storiografo dell’eroe - risveglia sempre un grande e palpi­tante interesse con la sua grande opera contrastata e disapprovata (...) e sarà sempre un potente incitamento per la gioventù» (cfr Menéndez Pidal, La Espana del Cid, ed. Espasa-Calpe S.A., Madrid 1947, voi. I, prologo al­la I edizione).57 Alvaro del Portillo, Sum. 75.58 Alvaro del Portillo, Sum. 87.59 Alvaro del Portillo, Sum. 87.

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60 Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 96.61 II Fondatore ammetteva di avere un carattere forte - un “caratteraccio” , diceva in italiano - commentando che «il Signore, con la sua grazia, aveva voluto servirsi anche di quel difetto per insegnargli a non cedere quando la difesa dei diritti di Dio esige di non cedere; a dire il vero, a noi non sem­brava un difetto, bensì una parte dei doni che, anche dal punto di vista umano, Dio aveva concesso al nostro Fondatore e che egli ha messo sem­pre più al servizio della virtù soprannaturale della fortezza» (cfr Alvaro del Portillo, Sum. 96).62 Dal tempo della distribuzione delle terre ai protestanti sotto ElisabettaI e della terribile repressione di Cromwell (1649), esisteva una ingiusta soggezione dei cattolici irlandesi ai nuovi padroni protestanti. Durante il XVIII e il XIX secolo fu lentamente corretta una legislazione civile e pe­nale in base alla quale i cattolici erano discriminati nella vita politica e sociale.Continuava, nonostante tutto, la discriminazione per motivi religiosi; e quando, all’inizio del XX secolo, apparvero forti movimenti autonomistici, il motto dei protestanti dell’Ulster ha ancora il sapore dell’antico antipapi­smo: Home Rule is Rome Rule.Durante la prima Guerra Mondiale, quando l’Inghilterra era già bellige­rante, gli indipendentisti tentarono la sollevazione armata con l’aiuto della Germania. Le armi, inviate per mezzo di un sottomarino, furono catturate dagli Inglesi; ma la sollevazione, fissata per il 23 aprile 1916, scoppiò nella Settimana di Pasqua. Fu repressa dalle truppe inglesi e il 3 maggio ebbero inizio le esecuzioni capitali di alcuni ribelli, o patrioti. L’indipendenza ir­landese non sarebbe stata riconosciuta che nel 1921.Gli avvenimenti furono riferiti dalla stampa spagnola. Comunque erano di dominio pubblico. Cfr The Times - History of thè War, voi. Vili, Londra 1916, pp. 414 e ss.63 Citato da Alvaro del Portillo, Sum. 76; cfr anche Javier Echevarria, Sum. 1816.64 Cfr Javier Echevarria, Sum. 1825; Alvaro del Portillo, Sum. 101; Paula Royo, Sum. 6300.Lo ricordava negli ultimi anni della sua vita. Durante la permanenza in Brasile, nel 1974, il Fondatore dovette consacrare alcuni altari e, maneg­giando con energia la cazzuola per collocare al suo posto la pietra sacra e sigillarla, diceva a un professionista che gli stava accanto: “Non ne sono proprio capace! Non è vero, figlio mio? E io che volevo diventare architet­to... Tu non mi assumeresti neppure se fossi rimasto l’ultimo muratore di­sponibile” (AGP, P04 1974,1, p. 42).65 Appunti, n. 1688.66 Appunti, n. 1748.67 Meditazione del 14-11-1964.68 Alvaro del Portillo, Sum. 73, 79 e 81; Paula Royo, AGP, RHF, T- 05379, p .2 .

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69 L’autorità dell’abate sugli altri parroci di Logrono è dimostrata dal fatto che i Superiori del Seminario di Saragozza chiesero le informazioni ufficia­li sulla condotta del seminarista Josemarìa, nell’estate del 1921, proprio a don Antolfn, benché la famiglia fosse nella giurisdizione della parrocchia di Santiago el Reai (cfr Alvaro del Portillo, Sum. 79).70 L’antichissima diocesi di Calahorra, il cui territorio ai tempi dei romani faceva parte della provincia Tarraconense, ebbe varie vicissitudini nel cor­so della storia. Quando, nel X secolo, Nàjera fu riconquistata ai musulma­ni, vi fu trasferita l’antica diocesi di Calahorra; e a Nàjera i vescovi risie­dettero per più di un secolo, nonostante Calahorra fosse territorio cristiano fin dal 1046. Queste terre di frontiera fra la Castiglia e la Navar- ra subirono le tensioni politiche create dalle lotte fra regni cristiani, i cui re stabilirono la sede episcopale ora a Calahorra, ora a Santo Domingo de la Calzada. Durante il basso Medioevo, tuttavia, i vescovi risiedettero a Lo­grono, benché la diocesi portasse il nome di Calahorra e La Calzada. Nel XVII e nel XVIII secolo la diocesi andò perdendo importanza; e nel Con­cordato del 1851, nell’intento di ristrutturare le circoscrizioni ecclesiasti­che, era prevista la costituzione, a spese dei territori di Calahorra e La Cal­zada, di una nuova diocesi, quella di Vitoria. Nel 1962 fu portato a termine lo smembramento dei territori e la creazione di un’altra diocesi. In questo modo si adempiva solamente in parte a quanto previsto dal Con­cordato, poiché la sede episcopale di Calahorra non fu trasferita a Lo­grono (cfr F. de Coello y P. Madoz, Mapa de Logrono con Umites de obi- spados, Madrid 1851; F. Bujanda, La diócesis de Calahorra y La Calzada, Logrono 1944; E. Hinojosa, Calahorra and La Calzada in AA. W , The Catholic Encyclopedia, III, New York 1908; AA. W , Diccionario de Hi- storia Eclesiàstica de Espana, op. cit., voi I, pp. 305 e ss.).Per tutti i dati su ecclesiastici, cariche e statistiche della diocesi, cfr YAn­nuario Ecclesiastico, edito annualmente da E. Subirana a Barcellona (cfr la voce Diocesi di Calahorra e Santo Domingo de La Calzada).71 Durante gli anni che Josemarìa trascorse a Logrono, furono canonici della cattedrale, fra gli altri, don Valeriano Cruz-Ordónez, Rettore del se­minario; don Francisco Xavier de Lauzurica, in seguito intimo amico del Fondatore quando fu Vescovo ausiliare di Valencia e poi Amministratore Apostolico di Vitoria e Arcivescovo di Oviedo; don Ciriaco Garrido Làza- ro, che fu per qualche tempo confessore di Josemarìa (cfr Annuario Eccle­siastico, cit., anni dal 1915 al 1920).72 Accanto alla chiesa delle Carmelitane c’era una foresteria. Il Vescovo di Calahorra, don Juan Plaza y Garcia, vide con soddisfazione l’arrivo dei Carmelitani a Logrono. Nella sua licenza c’era una clausola: «Per ora, due dei Padri carmelitani che devono formare la nuova Comunità potranno es­sere ospitati nella Foresteria di detto convento delle Madri carmelitane, pa­gando loro a questo titolo quanto sia giusto, e cercando quanto prima pos­sibile di stabilirsi in una casa separata dal convento». Il 23 ottobre 1917 le monache di Logrono diedero il loro assenso (cfr P. Silverio de Santa Teresa, Historia del Carmen Descalzo, tomo XIII, Burgos 1946, p. 832).

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73 Ibidem, p. 833.74 Secondo il Servizio Metereologico Nazionale nel dicembre 1917 a Lo­grono nevicò per 9 giorni e poi per 3 giorni nel gennaio 1918. Per la stam­pa locale (“La Rioja” ), le gelate e la neve si misuravano dalle conseguenze; per questo si dedicò a descrivere per filo e per segno la vita cittadina. Per esempio: fu ordinato di buttare paglia sulle strade per evitare le cadute dei passanti (29-XII-1917); freddo a -8 gradi il 30 dicembre, ma la temperatu­ra discese fino a -16 gradi di minima il giorno successivo; i negozi di carne e di pesce dovettero chiudere per congelamento della merce; l’ultimo gior­no dell’anno morirono, a causa del freddo, tre persone; il 2 gennaio 1918 nevicò abbondantemente per diverse ore e le tubazioni dell’acqua scoppia­rono; il giorno successivo il vino gelò nelle borracce delle guardie notturne, una delle quali affermò di aver visto un lupo vicino alla caserma di artiglie­ria (cfr le sezioni: 25 anni fa e, 50 anni fa nelle date corrispondenti de “La Nueva Rioja” ).Il Fondatore non indicò una data precisa per il suo repentino cambiamento di vita e per il segno esterno che lo aveva causato, che viene ora descritto nel testo. Le espressioni che usò nelle sue conversazioni o nei suoi scritti sono sempre state vaghe: “Avevo quattordici o quindici anni...” {Medita­zione del 19-III-1975); “ ... a partire dai quindici anni” (Lettera 29-XII- 1947 / 14-11-1966, n. 19); “Dai quindici o i sedici anni...” (Ibidem, n. 16); “Da quando avevo quindici anni...” (Lettera 25-V-1962, n. 41); “fino a se­dici anni compiuti” (Appunti, 1637).Proprio questa imprecisione dubbiosa (14 o 15 anni; 15 o 16 anni) sembra indicare il riferimento mentale a un cambio di data annuale, o in relazione al Capodanno o al giorno del suo compleanno (9 gennaio), o forse a en­trambi. Pertanto, valutando i dati sopra riferiti (la forte nevicata che chiu­se l’anno 1917 e il fatto che furono spazzate a fondo le strade prima del 9 gennaio) non è azzardato supporre che la data sia da collocarsi fra la vigi­lia di Capodanno e il compleanno di Josemaria.75 Citato da Alvaro del Portillo, Sum. 77.Anche in altre testimonianze viene riferito il pensiero del Fondatore sull’o­rigine della propria vocazione:«Nel 1964, parlandomi della sua vocazione al sacerdozio, Mons. Escrivà mi disse, facendo una domanda a se stesso: “ Quale è stata l’origine della mia vocazione sacerdotale? Una cosa apparentemente futile: l’orma dei piedi scalzi di un Carmelitano sopra la neve” ; e mi spiegò che, pensando al sacrificio di quel religioso per amore di Dio, chiese a se stesso che cosa stesse facendo per il Signore. Pensò allora che forse Dio lo chiamava in quel momento, lì sulla strada, e che, se così fosse stato, per il suo amore al- l’Eucaristia si sarebbe chiamato fra’ Amatore di Gesù Sacramentato» (Je­sus Alvarez Gazapo, Sum. 4279).«Il Fondatore raccontava che gli aveva fatto una grande impressione vede­re sulla neve le orme di un Carmelitano scalzo; pensò allora che lui faceva poco per Dio. E scoprì che il Signore si aspettava qualcosa di concreto da lui» (Encarnación Ortega, PM, f. 30).«Il Padre, a quanto mi disse, cominciò a sentire il desiderio di una vita cri­

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stiana più perfetta e impegnata quando, durante l’inverno 1917-18, os­servò sulla neve le impronte dei piedi di un religioso Carmelitano (...). A quanto disse, sentì la chiamata al sacerdozio dopo aver visto quelle orme sulla neve» (José Luis Muzquiz, PM, f. 350v).Sull’episodio delle orme sulla neve, fra gli altri, cfr pure Francisco Botella, Sum. 5610; Pedro Casciaro, Sum. 6337.76 Meditazione del 14-11-1964.«Si è trattato di un cambiamento - afferma Mons. Alvaro del Portillo - dettato dalla sua disponibilità a fare qualcosa di grande, di eroico se fosse stato necessario, per il Signore; è la disponibilità che cerca attivamente di seguire la Volontà divina» (Sum. 80; cfr pure Sum. 94).«Fu nel dicembre 1917 o nel gennaio 1918 che si rese conto per la prima volta che il Signore lo chiamava al suo servizio, ma senza sapere in che co­sa né in che modo. Da allora incominciò a cercare in tutti i modi di rag­giungere una sempre più intensa intimità con Dio, e si dedicò all’orazione e alla vita di pietà e di penitenza con vera generosità» (Javier Echevarrfa, Sum. 1831). Cfr anche José Luis Muzquiz, PM, f. 349v.77 Lettera 25-1-1961, n. 3.78 Meditazione del 19-111-1975. Cfr Appunti, n. 179, nota 193.79 I testimoni usano espressioni diverse, ma che coincidono nella sostanza: «Gli suggerì di farsi Carmelitano scalzo» (Alvaro del Portillo, Sum. 84); «Gli propose di farsi Carmelitano» (Javier Echevarrfa, Sum. 1808; «Que­sto padre cercò di verificare se in lui ci fosse un germe di vocazione carme­litana» (José Ramon Madurga, PM, f. 270v).80 “Fu mia Madre del Carmelo a spingermi al sacerdozio. Io, Madre mia, fino a sedici anni compiuti avrei riso di chi avesse detto che avrei indossato una tonaca. Fu all’improvviso, alla vista di alcuni religiosi Carmelitani, scalzi sulla neve... Così sei obbligata, dolce Vergine dei Baci, a condurmi per mano come un tuo bimbo piccolo!” (Appunti, n. 1637). (La “Vergine dei Baci” , come si dirà più avanti, era una statuetta della Madonna di sua proprietà).81 Scrisse negli Appunti, n. 290: “Senza dubbio Gesù voleva che io gridassi dalle mie tenebre, come il cieco del Vangelo. E gridai per anni, senza sape­re che cosa chiedevo. E ho gridato molte volte la preghiera “ut siti” , che sembra chiedere un nuovo essere” .82 Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 84; Javier Echevarrfa, Sum. 1808 e PR, p. 131; Jesus Alvarez Gazapo, Sum. 4280; Pedro Casciaro, Sum. 6337.Lo stato ecclesiastico, come sacerdote secolare, gli lasciava una libertà di scelta e di movimento che gli consentiva di badare alle necessità della fami­glia, cosa che considerava un dovere di giustizia; di svolgere una professio­ne civile compatibile con il sacerdozio, come facevano alcuni docenti dell’i­stituto; e di avere maggiore disponibilità di fronte alle richieste del Signore, dato che non sarebbe stato vincolato dal voto di obbedienza.Mons. Escrivà conservò per tutta la vita un grato ricordo di questo religio­so. Nel 1938 si rividero a Burgos (cfr Appunti, n. 1484). Padre José Miguel

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morì il 23 settembre 1942 (cfr le rassegne biografiche in occasione della sua morte in “Ecos del Carmelo y Fraga” , Burgos 15-XII-1942, pp. 212- 214, e in “El Monte Carmelo” , 44 (Burgos 1943), p. 58).83 Appunti, n. 289. Cfr Alvaro del Portillo, PR, p. 159; Pedro Casciaro, Sum. 6337; José Romeo, AGP, RHF, T-03809, p. 2.Quando stava al seminario di Logrono scrisse qualche volta alla zia Car­melitana. Lettere che furono distrutte, secondo l’uso delle Carmelitane, do­po esserse state lette. In Appunti, n. 98, esiste un altro riferimento a questo convento di Carmelitane: “Forse sarebbe opportuno trovare persone che, in modo specialissimo, si preoccupassero di pregare e di soffrire per coloro che lavorano. Le monachelle del Convento di S. Michele di Huesca (le pre­diligo) e i lebbrosi di Fontilles lo faranno molto bene. Inviare loro un’ele­mosina mensile, chiedendo preghiere e sofferenze. Per quanto possiamo dare loro, ne ricaveremo un guadagno ben maggiore” .84 AGP, P04 1974, II, p. 398 (il testo citato si trova anche in Alvaro del Portillo, Sum. 105).“Si sbagliava!” , nel senso che non poteva immaginarsi la vita del Fondato­re dell’Opus Dei, attorniato dall’affetto umano e soprannaturale dei suoi figli spirituali; e anche nel senso che un sacerdote innamorato di Dio non sente mai la solitudine, poiché è sempre in compagnia del suo Amore, co­me ripeteva Mons. Escrivà.85 «L’ho sentito raccontare più volte - riferisce Mons. Alvaro del Portillo- che, dopo avere rivolto al Signore questa richiesta, piuttosto precisa, con la supplica esplicita che fosse un maschio, non se ne preoccupò più» (Sum. 111).Cfr pure Jesus Alvarez Gazapo, Sum. 4281; José Romeo, AGP, RHF, T- 03809, p. 3; Javier de Ayala, AGP, RHF, T-15712, p. 4.Una nota di coscienza scritta durante il ritiro spirituale a Segovia, nel 1932, riporta quali fossero allora le sue disposizioni interiori e come fosse disposto ad adempiere ai suoi obblighi filiali verso la famiglia, prima di de­cidersi a essere sacerdote: “ Se fossi rimasto laico - mi conosco perfetta­mente per dirlo - o non mi sarei sposato o lo avrei fatto quando fossi stato in grado di mantenere decorosamente due case: quella di mia madre e la mia” (Appunti, n. 1688).86 Don Antolin Onate Onate fu Abate della Collegiata dal febbraio 1905 fino al gennaio 1943, in cui morì. L’Abate era anche parroco, perché alla Collegiata era assegnata una circoscrizione parrocchiale. Alcuni anni dopo fu lui a informare l’arcivescovado di Saragozza affinché Josemaria potesse ricevere gli ordini minori. Attualmente non esiste a Logrono la carica di Abate, bensì quella di Decano con il relativo Capitolo, dato che la Colle­giata è diventata Con-cattedrale della diocesi, che ora si chiama di “ Ca­lahorra, La Calzada y Logrono” (cfr Annuario Ecclesiastico, cit.; e Diccio- nario de Historia Eclesiàstica de Espana, op. cit., voi I, pp. 305 e ss.).87 Don Albino Pajares era cappellano militare. Nel maggio 1913 vinse il concorso per entrare nel Corpo Ecclesiastico delVEsercito. Fu destinato a

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Logrono, al Reggimento di Fanteria “ Cantabria” , n. 39, dal febbraio 1917 al maggio 1920.Josemaria fu riconoscente per tutta la vita a questi sacerdoti che lo aiutaro­no agli inizi della sua vocazione sacerdotale (cfr Alvaro del Portillo, Sum. 110; e Javier Echevarria, Sum. 1809).88 Paula Royo, AGP, RHF, T-05379, p. 2. Una cognata della signora Dolo­res ricorda una visita fatta a Logrono: «Andammo anche noi a Logrono, in casa di José e Lola: era un appartamento simpatico, sistemato con gusto. Ci parlarono della decisione di Josemaria di farsi sacerdote. Non posso precisare i particolari, ma ricordo che Josemaria era in contatto con un carmelitano e che anzi, in un primo momento, aveva pensato di farsi car­melitano, ma subito vide che non era questa la sua strada, bensì quella di sacerdote secolare» (Carmen Lamartin, AGP, RHF, T-04813, p. 2). Gli al­tri testimoni dicono invece che non pensò di farsi carmelitano.Cfr anche Javier Echevarria, Sum. 1829; Santiago Escrivà de Balaguer y Albàs, PM, f. 1298.89 Cfr Appunti, n. 959, in cui ricorda don “ Ciriaquito” fra i propri confes­sori. Don Ciriaco Garrido Làzaro fu nominato coadiutore di Santa Maria della Rotonda nel 1899; nell’ottobre del 1916 fu nominato canonico qua- si-penitenziere. La sua principale attività pastorale fu il confessionale. Morì a Logrono nel 1949 (cfr breve ricordo biografico nella pubblicazione di F. Abad, Las Adoratrices de Logrono. Un siglo al servicio de la Rioja, Logrono 1984, pp. 40-42).Sulle visite di don Josemaria alla Rotonda, cfr Javier Echevarria, Sum. 1810, 1846 e 2798.90 Cfr Appendice documentale, documento Vili. Aveva terminato gli studi e un certificato scolastico era sufficiente per provarlo. A certi effetti ammi­nistrativi la legge esigeva che si ottenesse il Diploma, per cui nella sua pra­tica personale universitaria risulta che «gli fu rilasciato il diploma di “Ba- chiller Superior” dal Rettore dell’Università di Saragozza (6-Vili-1923)». Circa il consiglio di suo padre di fare gli studi di Legge, cfr Javier Eche­varria, Sum. 1829; Alvaro del Portillo, Sum. 102; e Jesus Alvarez Gazapo, Sum. 4280. Quest’ultimo testimone aggiunge che «fu un consiglio pruden­te» perché, come avrebbe commentato in seguito il Fondatore, il Signore se ne era servito per fargli acquisire una mentalità giuridica, che gli sarebbe stata poi molto utile.91 Don Albino Pajares gli diede lezioni private di latino durante l’estate: cfr Joaqum Alonso, PR, p. 1696; e Alvaro del Portillo, PR, p. 162.92 Vescovado di Calahorra e La Calzada, Bollettino Ecclesiastico, anno 59, n. 15, 4-IX-1918, p. 300.93 Ibidem, p. 294.94 Cfr F. Bujanda, Historia del viejo Seminario de Logrono, Instituto de Estudios Riojanos, Logrono 1948.Il Vescovo Juan Plaza y Garcia il 30 settembre 1914 riformò il piano di studi del Seminario (cfr ibidem, p. 179; e Bollettino Ecclesiastico, cit., an­

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no 55, n. 25, 29-X-1914, pp. 382-387, con il nuovo piano in cui sono elen­cate lezioni, professori e libri di testo per le Facoltà di Filosofia e Teologia).95 Cfr certificato: AGP, RHF, D-03385; l’originale è nell’archivio della dio­cesi di Calahorra.96 Bollettino Ecclesiastico, cit., anno 59, n. 20 (20-XI-1918), p. 368; e an­che ibidem, n. 21 (5-XII-1918), p. 382.97 Cfr il certificato: AGP, RHF, D-03385. L’originale si trova nell’archivio del Seminario della diocesi di Calahorra, La Calzada e Logrono, protocol­lo n. 1136. L’istanza del richiedente (Logrono, 6-XI-1918) è accompagnata da un certificato di Battesimo (Barbastro, 29-VI-1918) e da quello di Cre­sima (Barbastro, ll-XI-1918).98 Cfr Statistica del Vescovado di Calahorra e La Calzada (nel XXV Anni­versario della Consacrazione Episcopale delVEcc.mo e Rev.mo Vescovo Mons. Fidel Garda Martmez, 1921-1946), Logrono 1946, pp. 36-38.Cfr F. Bujanda, Historia del viejo Seminario de Logrono, op. cit., pp. 160- 161; e “ L<z Gazeta del Norte” (edizione di Rioja), Bilbao 30-IV-1978. Mons. Fidel Garcia Martmez iniziò i lavori del seminario che doveva riuni­re quello di Logrono e quello di Calahorra e che fu inaugurato nel 1929. Il vecchio seminario fu demolito nel 1934.99 Cfr Seminario Conciliare del Vescovado di Calahorra e La Calzada, sta­bilito in Logrono. Disciplina interna che devono osservare i Signori colle­giali che vi appartengono, Logrono 1909. È diviso in: “Distribuzione del tempo”; “Modo di impiegare il tempo”; “Principali doveri” e “Proibizioni speciali” . Alcuni particolari elencati fanno sospettare quale fosse uno dei principali problemi della convivenza nel seminario: «Osservare con atten­zione le regole di buona educazione in refettorio, nella ricreazione e con particolare cura quando si deve trattare con estranei».100 «Tutti i seminaristi che ho conosciuto e che avevano la famiglia a Lo­grono erano alunni esterni del seminario», dice Paula Royo (Sum. 6301). Era il Vescovo che dispensava dall’obbligo dell’internato (cfr Regola n. 16: Bollettino Ecclesiastico, cit., 4-IX-1918, p. 298). Nei seminari spagnoli, gli esterni erano più del venti per cento (cfr E. Subirana, ed., Annuario Eccle­siastico, Anno 1925, Barcellona 1925; e Alvaro del Portillo, Sum. 116. Cfr anche Javier Echevarria, Sum. 1835).101 Màximo Rubio, Sum. 6283; e Javier Echevarria, Sum. 1840.102 Cfr intervista a Amadeo Bianco (AGP, RHF, D-05390); e Bollettino Ec­clesiastico (29-X-1914), p. 387, dove le lezioni di catechismo sono previste alle dieci del mattino. Cfr anche Alvaro del Portillo, PR, p. 179; Javier Echevarria, Sum. 1844; José Ramon Madurga, PM, f. 272v.103 II cambio di domicilio risulta, fra altri documenti, dalle registrazioni della parrocchia di Santiago el Reai, nella cui circoscrizione si trovava an­che via Canalejas, in cui le case non avevano numero, bensì delle lettere; l’indirizzo degli Escrivà era: via Canalejas L.

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104 Cfr Alvaro del Portillo, Sum. I l i ; anche Encarnación Ortega, PM, f. 32; José Romeo, AGP, RHF, T-03809, p. 3.105 Appunti intimi, n. 1688. Uno dei testimoni riporta un commento del Fondatore sulla nascita di suo fratello: “Santiago nacque a seguito di una mia preghiera al Signore; è chiaro, perché è nato dieci mesi dopo (il 28 feb­braio 1919). Mia madre da dieci anni non aveva più avuto figli. I miei ge­nitori erano fisicamente sfiniti dalle molte contrarietà e avanzati negli an­ni” (Jesus Alvarez Gazapo, Sum. 4281).Il ginecologo che assistè la signora Dolores fu il Dottor Suils; uno dei suoi figli era compagno di Josemarfa nellTstituto e lo aiutò a Madrid du­rante la persecuzione religiosa (cfr Juan Jiménez Vargas, AGP, RHF, T- 04152/1, p. 100).106 L’originale dell’atto di battesimo si trova nell’archivio della parrocchia di Santiago el Reai, Libro dei Battesimi XXV, foglio 370, n. 579, e dice quanto segue: «Santiago Justo Escrivà Albàs. Nella città di Logrono, capo­luogo della provincia omonima, Diocesi di Calahorra e La Calzada, il due marzo millenovecentodiciannove, io don Hilario Loza, sacerdote della par­rocchia di Santiago El Reai di detta diocesi, ho battezzato solennemente un bambino al quale ho posto i nomi di Santiago Justo, dandogli come avvo­cato S. Giuseppe. È nato, a quanto dichiarato, il 28 febbraio scorso alle ore otto, in via Canale) as L; è figlio legittimo di José Escrivà, nativo di Fonz (Huesca) e di Maria Dolores Albàs, nativa di Barbastro; suoi nonni paterni sono José Escrivà e Constancia Corzàn, nativi di Fonz; nonni materni, Pa- scual Albàs e Florencia Blanc, nativi di Barbastro; suoi padrini sono stati José Maria Escrivà e Carmen Escrivà, nativi di Logrono, che ho avvertito della parentela spirituale e degli obblighi contratti; testimoni Marco Lopez e José Ruiz, qui residenti. In attestazione di quanto sopra firmo nella stessa data. Hilario Loza. Nota a margine: Per disposizione dell’Illmo. Signor Giudice Diocesano si attesta che il primo cognome “Escrivà” di Santiago viene modificato nel senso di chiamarsi “Escrivà de Balaguer” . Il parroco: J. Santamaria».Ci sono alcuni piccoli errori nell’atto, come il fatto che il nonno appaia co­me nativo di Fonz, e Josemarfa e Carmen di Logrono.107 Sui piani di studio e i libri di testo della materia, cfr Bollettino Ecclesia­stico, cit., n. 25, 29-X-1914, p. 382.I voti ottenuti da Josemarfa negli anni scolastici 1918-19 e 1919-20 sono riportati in diversi luoghi: Bollettino Ecclesiastico, cit., anno 60, n. 14, 14- VII-1919, p. 230; ibidem, anno 61, n. 12, 10-VII-1920, p. 190; AGP, RHF, D-15020. Nel Libro dei Certificati di Studio, voi. I - che inizia nel 1912 - foglio 348, n. 693, della Segreteria del Seminario Metropolitano di Sara­gozza, gli atti relativi ai due anni di Logrono appaiono fusi in uno solo: 1919-1920. Cfr Appendice documentale, documento IX.108 Nelle istruzioni date per lo svolgimento dell’anno scolastico 1918-19 (.Bollettino Ecclesiastico, cit., n. 15, 4-IX-1918, p. 294) all’art. 3 si diceva: «Non sarà ammesso a iscriversi al primo anno di Teologia (corso abbrevia-

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to) chi non ha compiuto i 21 anni». Tale norma non riguardava comunque Josemaria, che frequentò 5 anni di Teologia e non il corso abbreviato.109 Cfr Amadeo Bianco, AGP, RHF, D-05390; e Luis Alonso Balmaseda, AGP, RHF, D-05391.110 Cfr Pedro Baldomero Larios, AGP, RHF, D-05392; e Amadeo Bianco, AGP, RHF, D-05390.111 Màximo Rubio, Sum. 6279. José Maria Millàn fu uno degli alunni esterni con i quali fece stretta amicizia. Che fossero intimi amici è evidente da una lettera che questi scrisse al Fondatore il 6-IX-1933 per chiedergli consiglio: «Che te ne sembra? Tu mi avresti consigliato molto bene. Ho

! una grande curiosità di conoscere il tuo criterio (che sempre ho venerato)»(AGP, RHF, D-04833; cfr Alvaro del Portillo, PR, p. 179); o anche da quel­la che il Fondatore diresse al Rev. José Maria Millàn il 25 novembre 1940: “ Carissimo Pepe, è vero che ci siamo ritrovati dopo vent’anni. Farà bene a tutt’e due (...). Quando ci vedremo, continueremo le nostre confidenze,

l Cerchiamo di farlo quanto prima” (C 903, 25-XI-40).112 L’originale si trova nell’archivio diocesano di Calahorra (non classifica­to). Una copia autenticata in AGP, RHF, D-09678.113 Dal 1915 al 1921 fu Rettore del seminario don Valeriano-Cruz Ordónez Bujanda; segretario, don Gregorio Lanz; e direttore di disciplina, don Gregorio Fernàndez Anguiano.Don Gregorio dava lezioni di Fisica, Chimica, Geologia, Fisiologia e Storia Naturale. Quando nel 1921 il nuovo Vescovo Amministratore Apostolico, Mons. Fidel Garcia Martinez, nominò se stesso Rettore del seminario, de­legò di fatto il governo al nuovo vicerettore eletto, don Gregorio Fernàn-

1 dez Anguiano.Il Fondatore cita don Gregorio fra quelli che sostennero la sua vocazione. “Gesù, mi rendo conto con gratitudine che non ho mai potuto dire “Non habeo hominemì” ” (Appunti, n. 959). Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 118. Dopo aver lasciato la direzione spirituale con padre José Miguel, Jose­maria ricorse a don Ciriaco Garrido Làzaro, canonico della Collegiata; e in seguito anche al vicerettore del seminario, D. Gregorio Fernàndez (cfr Al­varo del Portillo, Sum. 85; e Javier Echevarria, Sum. 1809).114 Juan Cruz Moreno, AGP, RHF, T-07331. Questi, alunno esterno del se­minario, aggiunge: «Si deve tener presente che il nostro orario prevedeva la recita del Rosario in comune, a metà pomeriggio, il che significa che egli ne recitava almeno due parti».115 Mons. J. Echevarria racconta, a questo proposito, che mentre accom­pagnava il Fondatore in visita alla Collegiata di Logrono nel 1972, l’affol-

i lamento di antichi ricordi gli fece sgorgare dall’anima una sincera confes­sione: “Ho passato qui molto tempo in adorazione di Gesù Sacramentato!” e con gioia devota ripeteva: “ quante ore ho passato qui!” (Sum. 1846 e 1810).116 Màximo Rubio, Sum. 6278.117 Paula Royo, Sum. 6297 e 6304.

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118 Màximo Rubio, Sum. 6291.119 Citato da Alvaro del Portillo, Sum. 95.120 Appunti, n. 53.121 La condizione sociale del sacerdote - a parte la deferenza religiosa - di­pendeva dal posto o dall’incarico che svolgeva. Nei paesi era una delle for­ze vive, come si diceva allora, insieme al sindaco, al medico, al farmacista e al maestro. Ma non erano molti i sacerdoti secolari che avevano accesso, per il loro prestigio personale, alle alte sfere della società. In alcuni docu­menti dell’epoca si intravede un sottofondo di ammirazione per il fatto che Josemarìa avesse fatto il liceo. Per esempio, quando il Rettore del semina­rio informa che l’interessato «proviene dal liceo dell’istituto ed è diploma­to in Arti» (AGP, RHF, D-09678).In Spagna, le confische dei beni ecclesiastici e la conseguente mancanza di mezzi materiali contribuirono a rendere deficitaria la formazione del clero, poiché molte diocesi non avevano ancora dei Seminari Conciliari o manca­vano di mezzi per il loro buon funzionamento. Il Concordato del 1851 cercò di porvi rimedio, in modo che le diocesi avessero «almeno un semi­nario sufficiente all’istruzione del clero» (art. 28).Si cercò, sempre con il Concordato, di sistemare la situazione economica fissando le dotazioni statali per il sostentamento del Culto e del Clero in ragione dei beni ecclesiastici confiscati. Ma l’instabilità dei governi, le crisi finanziarie dello Stato nel corso del XIX secolo e la disorganizzazione am­ministrativa ridussero il clero alla miseria. La retribuzione statale diminuì nel corso degli anni. Questa situazione, indirettamente, si rifletteva sul li­vello sociale delle persone che entravano nei Seminari.122 AGP, P04 1974, II, p. 398.123 Meditazione del 14-11-1964.124 Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 109.125 AGP, P03 1975. p. 218. Citato da Alvaro del Portillo, Sum. 104; cfr J a ­vier Echevarria, Sum. 1834; Encàrnación Ortega, PM, f. 30v.126 Appunti, n. 179, nota 193.117 Appunti, n. 127; cfr B. Josemarìa Escrivà, Forgia, Milano 19965, n. 582. La testimonianza di Mons. Pedro Cantero ci fa capire come Jose­marìa conservava nella sua purezza la vocazione sacerdotale dodici anni dopo essere entrato in seminario: «Compresi (nel 1930) che Josemarìa era un sacerdote con un grande spirito di orazione e Amore di Dio e con una grande dedizione. Ciò che più mi edificava era, senza dubbio, questa dedi­zione a Dio. Pur essendo egli un uomo con doti umane eccezionali, atte a farlo eccellere in molte attività, lo vedevo distaccato da tutto: aveva lascia­to tutto; anche cose legittime, come tutto ciò che riguardava il “ fare carrie­ra ecclesiastica” , come dicevamo allora. Non aveva alcuna aspirazione a risplendere umanamente e non lo muoveva altro pensiero che la piena de­dizione al servizio della Chiesa, dove e nel modo in cui Dio lo aveva chia­mato» (AGP, RHF, T-04391, p. 5).

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128 Meditazione del 14-11-1964.129 Appunti, n. 1594.130 Maria del Carmen Otal Marti, AGP, RHF, T-05080, p. 3; cfr Joaqufn Alonso, PR, p. 1690.131 AGP, RHF, D-09678. Il documento originale si trova nell5Archivio dio­cesano di Calahorra. Alla lettera manoscritta di istanza al Vescovo è alle­gata, pure manoscritta, la richiesta di informazioni dell’Ordinario al Ret­tore del Seminario e la risposta di questi.132 Ibidem.133 Cfr AGP, RHF, D-09678. L’annotazione originale si trova nel Libro dei Decreti Arcivescovili - che è un libro di registrazioni iniziato nel 1919 - al fol. 156, n. 1489. Questo libro era archiviato nel Notariato dell’arcivesco­vado, ma successivamente fu trasferito, insieme a tutti i documenti di que­sto ufficio, all’Archivio diocesano di Saragozza.134 Cfr AGP, RHF, D-03296-3. Don Carlos, su richiesta della sorella Dolo­res, favorì l’entrata di suo nipote in seminario (cfr Alvaro del Portillo, Sum. 126). Prima di partire per Saragozza, Josemarìa aveva ottenuto mez­za borsa di studio, che “deve aver richiesto lo zio Carlos, l’Arcidiacono” (cfr Appunti, n. 1748).

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Capitolo III

SARAGOZZA (1920-1925)

1. Il Seminario di S. Carlo

Nel 1960, nel discorso di investitura per la laurea hono­ris causa conferitagli dall’Università di Saragozza, don Josemaria rammentò ai presenti alcuni suoi “ricordi in­cancellabili di tempi ormai lontani” :

“Anni trascorsi alPombra del Seminario di S. Carlo sulla via del mio sacerdozio, dalla tonsura clericale ricevuta dalle mani del Cardinale Juan Soldevila, in un raccolto oratorio del palazzo arcivescovile, fino alla prima Mes­sa, celebrata un mattino di buon’ora, nella Santa Cap­pella della Vergine”1.

Del Seminario di S. Carlo fece parte fino al giorno dell’ordinazione sacerdotale. Nella scheda personale del seminarista, il Rettore del seminario scrive di suo pugno che vi era entrato il 28 settembre 19202. Quattro anni e mezzo esatti durò la sua appartenenza al S. Carlo, poi­ché Josemaria ricevette l’ordinazione presbiterale il 28 marzo 1925.

Allora a Saragozza erano in funzione due seminari per la preparazione al sacerdozio: il Seminario Conci­liare e quello di S. Carlo. Gli studenti dei due centri fa­

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cevano insieme gli studi ecclesiastici nell’Università Pontificia, le cui aule occupavano il piano terreno di un edificio di Piazza della Seo (la cattedrale), di fianco al palazzo arcivescovile. La storia e le caratteristiche del­l’edificio del S. Carlo, dove Josemaria risiedette dal 1920 al 1925, sono analoghe a quelle del vecchio Semi­nario di Logrono. Dal 1558 era stato una residenza dei Gesuiti. Aveva quattro piani e uno spazioso cortile in­terno, con un’ampia chiesa dagli eleganti stucchi in sti­le barocco, addossata al retro dell’edificio3. Edificio e chiesa furono incamerati nel 1767 dopo l’espulsione dei Gesuiti e ceduti poi da Carlo III per fondare il Semi­nario Sacerdotale di S. Carlo Borromeo, obiettivo del quale non era educare i giovani e farne dei virtuosi se­minaristi; lo scopo del Reale Seminario aveva più ardite ambizioni: il miglioramento e l’istruzione del clero, im­presa in piena sintonia con il Secolo dei Lumi. I suoi membri erano tutti dotti sacerdoti secolari, dotati di prestigio e vaste cognizioni. Dipendevano direttamente dall’Arcivescovo e a loro venivano affidati compiti spe­ciali, quali la preparazione delle visite pastorali del pre­lato, l’esame degli ordinandi o la collaborazione alla concessione delle facoltà ministeriali.

Un secolo dopo, spenti i lumi dell’illuminismo e pro­sciugati i fondi, il vecchio istituto si ridusse a una mezza dozzina di sacerdoti, che si rifugiarono al secondo piano e si occupavano del servizio liturgico della chiesa4. Così stavano le cose quando, nel 1885, il Cardinale Franci­sco de Paula Benavides, che reggeva l’arcidiocesi, ebbe l’idea di creare un seminario per studenti poveri. A con­ti fatti, il cardinale vide che poteva disporre, oltre alle risorse economiche del patrimonio del S. Carlo, di tutta una serie di locali vuoti che potevano ospitare un centi­naio di ragazzi. Infatti era evidente che per il piccolo gruppo di prestigiosi chierici - noti come “i signori del S. Carlo” - era decisamente eccessivo quell’enorme in­sieme di locali. Con grande rapidità portò a buon fine il

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progetto e il nuovo seminario, con cinquantadue alunni borsisti, fu inaugurato il 4 ottobre 1886. Purtroppo i calcoli del Cardinale Benavides erano eccessivamente ottimistici. Il prelato non era un amministratore capace né aveva esperienza imprenditoriale; aveva solo lodevoli intenzioni. Incominciarono subito a piovere difficoltà e imprevisti. Non essendosi preoccupato prima del corpo insegnante, fu precipitosamente ottenuto dalle autorità che i seminaristi frequentassero, a titolo provvisorio, le aule del Seminario Conciliare5. Formula transitoria che il tempo s’incaricò di rendere abituale.

Una volta ottenuto «lo scopo caritativo di accogliere i molti giovani di famiglie povere che, ispirati da Dio, bus­sano alla porta del Santuario, con la nobile aspirazione di venire accolti nelle file levitiche», il cardinale si rese pure conto che ai suoi protetti mancava una normativa disciplinare. A questo si poteva più facilmente rimediare: si occupò personalmente di redigere un Regolamento, che apparve nel gennaio 1887. Nel preambolo, rivolgen­dosi «al Rettore, ai Direttori e agli alunni del nostro Se­minario per i poveri di S. Francesco di Paola», esprime il desiderio che le regole servano al buon governo di detto seminario, «che tanto rianima il nostro spirito abbattu­to, grazie alle fondate speranze che ci offre»6.

Ma il “Seminario per i poveri” trascinò una vita gra­ma. Alla morte del Cardinale Benavides, nel 1895, l’ar­civescovo Alda suo successore si propose di risanare le finanze dell’istituzione. Mise fine ai concorsi per le bor­se di studio e incominciò ad ammettere anche seminari­sti in grado di pagare. Da allora in poi il S. Francesco di Paola, o “Seminario per i poveri” , fu conosciuto con il nome generico di S. Carlo, nome che useremo qui per maggior chiarezza. In poco o nulla si differenziava or­mai dal Seminario Conciliare, salvo che per il numero degli alunni, per il luogo di residenza e per l’uniforme7. Il Conciliare aveva circa centocinquanta seminaristi, fra interni ed esterni, mentre il S. Carlo non arrivava a qua­

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ranta. Gli alunni del Conciliare avevano una mantella blu con una fascia inserita. L’uniforme del S. Carlo era una mantella nera, senza maniche, con una fascia rossa che recava il loro scudo: un sole con raggiera, al centro del quale si leggeva la parola CHARITAS; e, come co­pricapo, una berretta nera a quattro punte, rifinita con una nappa viola al centro8.

Al terzo piano del S. Carlo abitavano gli studenti di teo­logia mentre sopra, al quarto, c’erano le camere dei più giovani, quelli di lettere e filosofia. Le camere erano pic­cole, ma non vi era necessità di maggiore spazio poiché i mobili si riducevano al letto, un tavolo con una sedia, un portacatino con la brocca per l’acqua, il comodino con una bugia e la candela e un attaccapanni. La bian­cheria, i libri e quant’altro erano tenuti nella valigia o nel baule che ogni seminarista aveva portato con sé.

Gli impianti igienici erano in sintonia con la vetustà dell’edificio; con molta benevolenza li si poteva definire insufficienti. I seminaristi non disponevano che di un bagno per ogni piano, con un rubinetto per riempire d’acqua le brocche del portacatino. Vi era la luce elettri­ca, ma con tale scarsa e misera rete di illuminazione che occorreva per forza il complemento delle candele di se­go. Infatti soltanto la cappella, il refettorio, la sala di studio, i corridoi e la scalinata avevano lampadine elet­triche. Non così le camere individuali, per cui ogni setti­mana veniva consegnata a ogni seminarista una candela9.

Si alzavano alle sei e mezzo e avevano trenta minuti per la pulizia personale. Fu dopo la prima sveglia che Jo­semaria ebbe la prima sgradevole sorpresa, poiché non trovò da nessuna parte tracce di una doccia o di una va­sca da bagno. Alle sette tutti facevano mezz’ora di medi­tazione nella cappella loro riservata del terzo piano, una stanza con il soffitto a volta, dove si diceva Messa in po­

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che occasioni e dove solitamente non si conservava il Santissimo10. Poi scendevano per la Messa nella chiesa di S. Carlo, entrando dal cortile del seminario. In chiesa erano loro riservate le prime panche e di solito la Messa era celebrata dal Presidente del Seminario.

Facevano la prima colazione in silenzio, mentre veni­va letta 1’“Imitazione di Cristo” o un altro libro spiri­tuale. Subito dopo uscivano tutti in fila per recarsi all’U- niversità. Evitavano di percorrere il Corso, che era la via di maggior traffico, e sotto la vigilanza degli Ispettori si immettevano nel dedalo di strade e stradine che condu­cono alla cattedrale della Seo.

Università Pontificia e Seminario Conciliare stavano nello stesso edificio. Il Seminario Conciliare, intitolato a S. Valero e S. Braulio, era stato fondato nel 1788 e, do­po varie peripezie, nel 1848 ebbe una nuova sede, edifi­cata sull’area dell’antica Deputazione del Regno, ridotta in macerie dagli eserciti di Napoleone. Nel 1897 il suo corpo docente e i suoi corsi vennero elevati al rango di Università Pontificia, titolo che mantenne fino al 193311.

Gli alunni del S. Carlo, che non ebbero mai un corpo docente indipendente, vi ascoltavano due ore di lezione al mattino, inframmezzate dallo studio e dalla ricreazio­ne, e rientravano verso le dodici e trenta per il pranzo. In refettorio si manteneva il silenzio, mentre un alunno leggeva qualche libro del Martirologio o della Storia Sa­cra, finché l’ispettore che presiedeva dava il permesso di parlare12.

Dopo un momento di ricreazione, uscivano ancora per dirigersi all’Università attraverso le stesse stradine percorse al mattino. Dopo un’ora di lezione ritornavano in seminario per fare merenda e dedicarsi allo studio. La sala di studio era comune, munita di banchi, e lo studio avveniva sotto la vigilanza di un Ispettore. Le ore di stu­dio erano interrotte dalla recita del rosario e dalla lettu­ra spirituale13.

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Alle nove si cenava e subito dopo, recitate le preghiere della sera e fatto l’esame di coscienza, tutti si ritiravano a dormire.

2. D libro «De vita et moribus»

All’epoca, il Presidente del Seminario Sacerdotale di S. Carlo era Monsignor Miguel de los Santos Diaz Góma- ra; Vicepresidente era don Antonio Moreno Sànchez. Fra i sacerdoti appartenenti all’illustre fondazione veni­va nominato il Rettore del Seminario di S. Francesco di Paola. Nel 1920 era don José Lopez Sierra, il quale ave­va alle sue dipendenze due Ispettori che lo coadiuvava­no nei compiti di governo e disciplina. Gli Ispettori ve­nivano scelti fra gli studenti degli ultimi due anni di Teologia14. Una delle loro principali incombenze era quella di inoltrare le note disciplinari e ogni altra consi­derazione concernente la condotta dei seminaristi in un rapporto mensile che veniva esaminato dal Rettore e poi trascritto su un libro ufficiale. I giudizi del Rettore, una volta scritti, acquistavano valore definitivo.

Detto libro era costituito da fogli stampati di formato in folio, con una sezione destinata ai dati anagrafici del seminarista e, più sotto, cinque colonne intitolate: Pietà- Applicazione - Disciplina - Carattere - Vocazione. A fianco delle colonne venivano riportati i risultati degli anni accademici, divisi per anni; sull’altro lato c’era po­sto per le “osservazioni generali” . Il libro recava scritto sul frontespizio: “De vita et moribus degli alunni del Se­minario di S. Francesco di Paola” . Questo famoso regi­stro, che contiene in sostanza la storia e le gesta dei se­minaristi, inizia a partire dal febbraio del 191315.

Il foglio dedicato a Josemarìa porta il numero 111. In alto, accanto ai dati anagrafici, si legge: «Suo referente è Don Carlos Albàs Blanc». Suo zio Carlos, l’arcidiacono, uomo di una certa influenza nell’ambiente ecclesiastico

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di Saragozza, fu la buona e la cattiva ombra del semina­rista. Ricevette subito il seminarista a braccia aperte e, probabilmente, si dovette a lui quanto trascritto dal Rettore due righe più sotto: «Usufruisce di mezza borsa di studio». Non si può dubitare delle buone disposizioni dell’arcidiacono nei confronti della famiglia, ma si deve aggiungere, a onor del vero, che solo una mezza dozzina di seminaristi del S. Carlo erano paganti.

Nelle prime settimane Josemaria uscì spesso a pranza­re con suo zio Carlos le domeniche e altri giorni festivi, giorni consentiti dal Regolamento. Accettò anche gli in­viti di un altro fratello della mamma, lo zio Mauricio, che era rimasto vedovo di recente e aveva una famiglia numerosa. Ma preferì, per evitare disturbo agli zii, dira­dare le visite domenicali. Oltretutto non gli piaceva fare cose diverse dagli altri e fruire di un trattamento specia­le, che avrebbe potuto suscitare gelosie fra i compagni16.

Dieci giorni dopo la sua entrata in seminario, Jose­maria fu nominato zelatore dell’Associazione dell’Apo- stolato della Preghiera per l’anno scolastico 1920- 1921; forse perché, fin dall’inizio, era stata scoperta in lui una solida vita di pietà. «Era l’unico dei seminaristi, a quanto ne so, che scendesse in chiesa nelle ore libe­re», dice un suo compagno17; ciò naturalmente non comporta un giudizio negativo sulla devozione degli al­tri seminaristi, dato che, come si è visto dall’orario, non scarseggiavano gli atti religiosi. Con precisione, ma senza pretesa di completezza, Jesus Lopez Bello, condiscepolo di Josemaria, ne fa un elenco: «Al matti­no, in comune, offerta delle azioni; meditazione e santa Messa. Prima e dopo il pranzo, visita al Santissimo. Al pomeriggio, rosario e lettura spirituale. A fine giornata, visita al Santissimo ed esame di coscienza. Di sabato, nel pomeriggio, ufficio sabatino. Durante il mese di maggio, un atto mariano, con una predica. Le sette do­meniche di S. Giuseppe. La novena dell’immacolata. Il settenario dell’Addolorata. L’ottavario al Bambino Ge­

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sù, a Natale. Ogni mese avevamo un ritiro e una volta all’anno gli esercizi spirituali»18.

In quell’orario dal ritmo incalzante, disseminato di at­ti religiosi, la devozione personale si manifestava piutto­sto, come dice Aurelio Navarro, «nell’intensità e nella partecipazione con cui ciascuno cercava di vivere gli atti comuni»19. Allineato su questa idea, Arsenio Górriz, un altro seminarista, riferisce che Josemaria «era devoto, molto devoto» e che lo si notava «più che per quello che faceva, per come lo faceva»20. In seminario proseguiva nell’abituale recita delle tre parti del rosario e il suo cuore palpitava, impaziente, nel ripetere giaculatorie: “Domine, ut videaml”, “Domine, ut siti” , che mantene­vano viva la chiamata del Signore avvenuta a Logrono. E quasi a rafforzare questo stato di allerta, approfittan­do del tempo libero all’Università Pontificia, si recava alla vicina basilica del Pilar a chiedere le stesse cose da­vanti all’immagine della Madonna: “Domina, ut siti ”21.

L’arrivo delle feste interrompeva la monotona succes­sione dei giorni nel calendario ecclesiastico. In tali occa­sioni i seminaristi si alzavano mezz’ora più tardi, non avevano lezioni e si godevano una passeggiata. Sulle ta­vole del refettorio compariva un gradito rinforzo di cibi e di vino. La diversità del pasto era la vera caratteristica delle feste, poiché veniva servito agli studenti un piatto principale, di carattere straordinario22. (Comunque, ve­niva sempre rispettata la scala gerarchica. I sacerdoti del S. Carlo avevano ogni giorno due piatti, uno di carne e uno di pesce. Motivo per cui la perifrasi usata dai semi­naristi per indicare i prestigiosi sacerdoti della casa co­me “ i signori del S. Carlo” aveva un certo ironico tono di ammirazione).

X * * *

Josemaria entrò nel Seminario di S. Carlo con uno spiri­to di distacco. Sapeva che un nuovo genere di vita, la convivenza con altri seminaristi, avrebbe necessaria­

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mente significato un cambiamento di abitudini e la ri­nuncia a molte comodità domestiche. Quasi ad esprime­re simbolicamente tale rinunzia, giunto in seminario re­galò al portinaio il tabacco, la pipa e gli altri ammennicoli da fumatore che portava con sé. Così, con un gesto definitivo, smise di fumare23. Ma certo non po­teva immaginarsi che questa tappa della sua vocazione sacerdotale sarebbe stata per lui un’autentica prova del fuoco. La diversità di cultura e di abitudini, a cui non era avvezzo, non fu tuttavia il maggiore ostacolo da su­perare, perché Josemaria, per adattarsi alla mentalità e alle abitudini dei seminaristi, cercava di avere buoni rapporti con tutti, dimostrandosi servizievole24.

Lo sforzo per adattarsi alle circostanze del S. Carlo iniziava di primo mattino. Josemaria, che a casa sua si lavava con acqua fredda ogni giorno dalla testa ai piedi, estate e inverno, aveva bisogno di riempire diverse broc­che d’acqua tutte le mattine per non interrompere que­sta sana abitudine25.

Nel seminario non entravano mai donne. Alcuni ser­vitori si dedicavano alle pulizie generali. (E non occorre insistere sul fatto che la pulizia dei vari ambienti lascia­va piuttosto a desiderare). Quanto alla biancheria per­sonale e ai cambi delle lenzuola, ciascuno si arrangiava. Josemaria ebbe la fortuna che a lavargli la biancheria provvedessero in casa dello zio Carlos26. Pensava lui a pulirsi accuratamente le scarpe e a spazzolarsi la veste talare, come ordinava il Regolamento27.

Leggendo qua e là le dichiarazioni dei compagni di Josemaria circa le caratteristiche principali della sua persona, si vede come esse siano invariabilmente orien­tate sulla sua affabile cortesia e proprietà nel vestire. «Josemaria era un signore dalla testa ai piedi, in tutto il suo comportamento: nel modo di salutare, nel modo di trattare le persone, nel modo di vestire, nell’educazione con cui mangiava - racconta uno dei suoi compagni senza avvedersene, rappresentava un forte contrasto

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con ciò che allora era consueto»28. E sul suo aspetto e sul modo di presentarsi un altro seminarista racconta quanto accadde un giorno in cui quelli del S. Carlo an­darono a far visita al manicomio: «Vedemmo molti paz­zi, alcuni dei quali facevano veramente impressione; per esempio, uno che diceva di comandare più di ogni altro perché lui era il re in persona; e, alla fine, una vecchia pazza si mise a dire che Josemarìa era il suo fidanzato, perché lo vedeva di bella presenza e ben vestito. È pro­prio vero che lo si vedeva sempre molto a posto»29.

Con il passare degli anni il figlio assomigliava sempre di più a suo padre quanto a distinzione e ai modi. Ma che cos’era accaduto del bambino che a Barbastro si na­scondeva sotto il letto quando aveva un vestito nuovo? E del ragazzo che si rifiutava di mettersi gli abiti miglio­ri quando erano in programma le foto di gruppo a scuo­la? Da quei giorni la famiglia aveva percorso molta stra­da. La fortuna aveva voltato le spalle al signor Escrivà; la povertà lo obbligava ora a conservare un abito usato come se fosse nuovo.

La cura della persona e la pulizia mattutina gli valsero ben presto un soprannome:

“Quando sono entrato in seminario mantenni l’abitudi­ne di tenere ben puliti scarpe e abiti; per questa ragione, incomprensibilmente, per alcuni che prima che entrassi in seminario mi avrebbero trattato con la massima con­siderazione, io divenni “il signorino” ! Un altro motivo di strana meraviglia, per quei buoni seminaristi (che era­no tutti migliori di me e che poi, in gran parte, hanno esercitato il loro ministero come ottimi sacerdoti, parec­chi di loro fino al martirio) veniva dal fatto che mi lava­vo - cercavo di fare la doccia - tutti i giorni: anche per questo c’era l’epiteto di “signorino””30.

L’espressione “ signorino” è chiaramente un eufemi­smo. L’epiteto aragonese che alcuni compagni gli appic­

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cicavano, quasi un insulto, si potrebbe tradurre “dame­rino”31. Sapendo quanto gli dava fastidio la mancanza di igiene o di pulizia, uno degli studenti, dai modi rozzi e aggressivi e che puzzava di sporco e di sudore, gli si avvicinava per strofinarsi a lui con aria sfacciata. «Si deve avere odore d’uomo!», gli diceva. Finché un gior­no, con le ascelle zuppe di sudore, gli passò la manica sulla faccia. Josemaria fu sul punto di esplodere, ma si dominò, opponendo all’affronto parole fin troppo mi­surate: “Non si è più uomini per il fatto di essere più sporchi”32.

La cosa non finì lì. Le burle si rivolsero ben presto al­la sua vita di pietà. Le visite quotidiane alla basilica del­la Madonna del Pilar gli meritarono il nomignolo di “rosa mystica” , motto di pessimo gusto in bocca a un seminarista e irriverente nei confronti della Madonna33. Furono oggetto di critica anche le lunghe visite al San­tissimo nella chiesa di S. Carlo e il suo zelo apostolico nelle conversazioni. “Ecco che viene il sognatore!” , di­cevano tra loro ad alta voce i compagni, riecheggiando le parole dei figli di Giacobbe. Alcuni in seminario lo conoscevano come “il sognatore”34. Josemaria cercava di fare orecchio da mercante ai soprannomi, anche se gli dispiacevano perché l’insulto lo feriva in quanto voluta- mente malizioso e, ancor più, perché venivano infranti i legami di convivenza e di amicizia35.

Questo comportamento di alcuni compagni, dovuto principalmente a mancanza di educazione, invidia o ignoranza, lasciò un penoso ricordo nella sua anima. Dieci anni dopo, scrivendo degli appunti riservati, Jose­maria si sfogava a tu per tu con il Signore e iniziava la­mentandosi della bassa estrazione sociale delle vocazio­ni sacerdotali e del deficitario livello di educazione e di cultura esistente in alcuni seminari:

“Vocazioni dei seminari, ho detto: peccato che le fami­glie, anche se sono devote, siano restie a inviare i propri

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figli nei seminari! In molte regioni spagnole, nei semina­ri si vedono solamente, con rare eccezioni, figli di poveri braccianti” .E continua: “Dopo aver constatato che nei nostri Semi­nari si vedono magnifici esempi di virtù (...), mi permet­to di dire, con la massima franchezza, che saranno pure santi coloro che vi abitano, ma molto male educati. Ci saranno delle eccezioni. Si soffre veramente quando si è nati e cresciuti in un altro ambiente”36.

Ricordando le difficoltà avute a Saragozza nel cammi­no della propria vocazione sacerdotale, così raccontava a un gruppo di persone che lo ascoltavano, il 14 feb­braio 1964:

“Passò il tempo e successero molte cose dure, tremende, che non vi racconto perché a me non causano pena, ma a voi la produrrebbero certamente. Erano colpi di accet­ta che Dio nostro Signore dava per modellare - da que­sto albero - la trave che doveva servire, suo malgrado, per fare la Sua Opera. E quasi senza rendermi conto ri­petevo: “Domine, ut videam! Domine, ut siti”. Non sa­pevo di che cosa si trattasse, ma continuavo ad andare avanti, avanti, senza essere all’altezza della bontà di Dio ma desiderando ciò che più tardi avrei ricevuto: una quantità di grazie, una dopo l’altra, che non sapevo co­me definire e che chiamavo operative, perché dominava­no la mia volontà a tal punto che quasi non dovevo fare alcuno sforzo”37.

Le cose “ dure, tremende” , i “colpi di accetta” non sono, evidentemente, le grossolanità di alcuni seminari­sti. Prova ne sia che l’eco degli avvenimenti cui si riferi­sce era così doloroso che, dopo quarant’anni, risuona­va ancora nella sua memoria; in genere il fluire della vita lascia i ricordi studenteschi dormienti e tersi come le pietre levigate dalla corrente del fiume. (Passato il tempo, avrebbe definito “piccolezze” quelle imperti­

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nenze, ben poca cosa se paragonate al gran bene che aveva fatto alla sua anima la permanenza in seminario, del quale “non ricordavo che cose buone” )38. No; sono altri i ricordi del S. Carlo in cui bisogna individuare più amare radici.

Quel sacerdote che nel 1964 faceva resistenza a fru­gare nel passato mettendo in luce degli avvenimenti personali lasciò, a condizione che fossero resi di pub­blica ragione solo dopo la sua morte, una piccola trac­cia di quei “colpi di accetta:” nel luglio 1934, mentre esaminava il percorso della propria vocazione sacerdo­tale, si domandava, a tu per tu con il Signore: “Dove sarei io ora, se tu non mi avessi chiamato?” . E rispon­deva in coscienza:

“Forse - se tu non avessi impedito la mia uscita dal Se­minario di Saragozza, quando credetti di aver sbagliato strada - mi starei agitando nei tribunali spagnoli, come fanno altri miei compagni di Università..., anziché al tuo fianco, proprio perché (...) ci fu un momento in cui mi sentii profondamente anticlericale, io che amo tanto i miei fratelli nel sacerdozio!”39.

Attraverso questa confessione si intravede la resistenza a seguire lo stile clericale imposto dall’ambiente. Nella sua anima si scatenò una terribile bufera, a motivo delle difficoltà incontrate al S. Carlo. Ma non dubitò mai del suo cammino. Alla fine, venne l’intervento di salvezza del Signore, che lo confermò nella sua vocazione.

Non deve meravigliare quindi che molti dei suoi com­pagni abbiano tratto delle conclusioni erronee sul futu­ro del seminarista di Logrono. Considerando la cultura e la buona educazione di Josemarìa, pensarono che non sarebbe arrivato a essere sacerdote, perché «aveva la possibilità di esercitare altre professioni migliori», come racconta uno dei domestici del seminario40. Questa ipo­tesi è tanto ingenua quanto gratuita. Rivela un comple­

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to misconoscimento dell’elevatezza delle mire di Jose­maria, il quale fin dal primo momento si rese conto che non gli restava che una sola via: passare sopra alle im­pertinenze di qualche seminarista e insieme distaccarsi da certi gusti e inclinazioni, come si era un giorno di­staccato dal tabacco e dagli strumenti del fumo. Altri furono, e ben diversi, gli ostacoli che si frapposero al suo cammino.

La vocazione di Josemaria aveva la caratteristica di non aver ancora raggiunto la sua pienezza. In virtù di questo fatto, la ragione ultima della sua presenza al S. Carlo nasceva dal desiderio di dare una risposta ai pre­sagi d’amore che sentiva da circa tre anni. Né l’ambien­te del seminario, al quale non era assuefatto, né le burleo la grossolanità di qualche compagno erano sufficienti a provocare una crisi di vocazione che mettesse alla pro­va la fedeltà del giovane alla chiamata divina. Subiva, invece, il turbamento emotivo di sentimenti anticlerica­li, che salivano, come una marea, dentro la sua anima, generando una sana ribellione contro ogni tentativo di abbassare la sua tersa concezione del sacerdozio a una lucrativa “carriera ecclesiastica” . Su questo punto era del tutto riservato, anche se in qualche modo ciò traspa­riva all’esterno. «Si notava che portava dentro qualcosa che faceva sì che il seminario rappresentasse una cornice troppo stretta per le sue aspirazioni», dice uno dei suoi compagni41. In fondo, era un “ sognatore” di cose divi­ne. Per tutta la vita lo fu. E avevano in un certo senso ragione quelli che lo chiamavano con questo nome.

Ad anno scolastico già avanzato, arrivavano al Retto­re, don José Lopez Sierra, confuse notizie sul seminari­sta di Logrono. Il comportamento indipendente del ni­pote dell’arcidiacono, la singolarità della sua pietà, le sue personali idee e commenti sulla carriera ecclesiastica e vaghe notizie su soprannomi, insulti e discordie, tutto contribuì a far sì che il Rettore si formasse un’opinione per nulla favorevole di Josemaria il quale, a suo modo

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di vedere, viveva e agiva in evidente contrasto con la maggior parte dei seminaristi.

Alla fine dell’anno scolastico, nell’estate del 1921, il Rettore mise per iscritto la propria opinione sul giova­ne, nella pagina riservata a lui del libro De vita et mori- bus: «Pietà: bene; applicazione: regolare; disciplina: re­golare; carattere: incostante e altero, ma educato e attento; vocazione: sembra averla»42.

La notazione “ regolare” con la quale ne definisce l’applicazione e la dedicazione allo studio non concorda con gli eccellenti risultati ottenuti negli esami, che in ef­fetti vengono trascritti subito dopo, ad uno ad uno, dal­lo stesso Rettore. Il “regolare” in disciplina è smentito dalle note informative mensili dell’ispettore incaricato di mantenerla; Josemaria è uno dei pochi alunni ai quali non è stato imposto neppure un castigo durante l’anno. Per quanto poi si riferisce al carattere, l’apprezzamento sembra pensato ed equilibrato; tuttavia non rispecchia la testimonianza degli altri seminaristi43.

Quanto alla vocazione, non vi è motivo di dubitare dell’onestà del Rettore nel giudicare Josemaria; ma un “ sembra averla” , benché in apparenza innocente, appa­re un po’ diffidente e, scritto dal Rettore nel libro De vi­ta et moribus alla fine dell’anno scolastico, rivela una certa sfiducia. D’altra parte, l’ispettore Santiago Lucus qualifica la vocazione di Josemaria con un “bene”44, il che poco si adatta al reticente giudizio del Rettore. Qua­li ragioni possono spiegare questo inconsapevole pre­giudizio di don José Lopez Sierra? Forse lo lasciava in­quieto il piccolo turbamento che il nuovo seminarista stava causando nel S. Carlo? È possibile che l’aspetto e il modo di essere di quel giovane gli facessero temere per la sua perseveranza? Un fatto è certo: il Signore per­mise che il Rettore travisasse i fatti che aveva sotto gli occhi. E quali dubbi poterono assalire Josemaria, per confessare poi che credeva di “aver sbagliato strada” ? Quando fu sul punto di uscire dal seminario?

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Sembra chiaro che, in funzione della disciplina e del­l’andamento generale del seminario, il Rettore avesse dubbi molto seri sull’opportunità che Josemarìa risie­desse al S. Carlo. L’interessato, da parte sua, serbò per sé questa terribile prova interiore, senza trattenersi a ri­ferire gli ostacoli che trovò sul proprio cammino. Ben­ché avesse una ferma certezza della propria vocazione, ancora non sapeva che cosa sarebbe venuto dopo i divi­ni presentimenti:

“Ed io, mezzo cieco, stavo sempre aspettando il perché. Perché mi faccio sacerdote? Il Signore vuole qualcosa: ma che cosa? E in un latino decadente, afferrandomi alle parole del cieco di Gerico, ripetevo: “Domine, ut vi- deam! Ut sit! Ut siti”. Che sia ciò che tu vuoi e che io ignoro. “Domina, ut sit” ”45.

È possibile che il Rettore avesse ancora dubbi agli ini­zi dell’anno scolastico 1921-1922, perché il 17 ottobre scrisse al Rettore del Seminario di Logrono chiedendo informazioni su Josemarìa:

«Abbia la bontà di informarmi quanto prima, in margi­ne a questo scritto, sulla condotta morale, religiosa e di­sciplinare di un ex alunno esterno del seminario da lei diretto, José Maria Escrivà Albàs, nativo di Barbastro, figlio legittimo di José Escrivà e di Dolores Albàs, resi­denti a Logrono, e su quant’altro lei ritenga opportuno circa la sua vocazione allo stato sacerdotale e sulle qua­lità personali, restituendomi questa richiesta con le informazioni richieste. Dio la conservi a lungo. Saragoz­za, 17 ottobre 1921. José Lopez Sierra, Rettore»46.

Ed ecco la risposta a giro di posta: «Durante la sua permanenza in questo seminario osservò una condotta morale, religiosa e disciplinare irreprensibile, dando chiare prove della sua vocazione allo stato ecclesiastico.

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Dio la conservi a lungo. Logrono, 20 ottobre 1921. Gregorio Fernàndez, Vicerettore»47.

Passando in rassegna le persone che la Provvidenza gli aveva messo al fianco per dare calore alla sua “incipien­te vocazione” , Josemaria scriverà anni dopo:

“A Logrono, quel santo sacerdote, vicerettore del semi­nario, don Gregorio Fernàndez. A Saragozza, don José Lopez Sierra, il povero Rettore del S. Francesco, che il Signore cambiò a tal punto che, dopo aver fatto davvero di tutto perché abbandonassi la mia vocazione (cosa che fece con la massima rettitudine di intenzione), fu il mio unico difensore contro tutti”48.

In queste brevi righe è racchiusa la chiave di quanto accadde e il ruolo assegnato al Rettore del seminario nei piani divini. Il cambiamento avvenuto nel Rettore fu davvero miracoloso. Josemaria lo vide come una rispo­sta del Cielo alle sue preghiere e come una conferma della propria vocazione al sacerdozio. Liberato dai pre­giudizi sull’"incostante e altero” seminarista, secondo la negativa nota sul famoso libro, il Rettore scriverà suc­cessivamente: «Ottimo seminarista, si distingue dagli al­tri del suo anno per la perfetta educazione; affabile e semplice nel tratto, di notoria modestia, rispettoso verso i superiori, compiacente e bonario con i compagni, mol­to stimato dai primi e ammirato dai secondi»49.

3. Studio e vacanze

Al mondo del seminario, già di per sé chiuso, lo legava e vincolava ancor più il regolamento. Per fortuna quelli del S. Carlo ne avevano addolcito il rigore con una tol­lerante interpretazione del testo. Così, per esempio, la tassativa proibizione di fumare veniva applicata senza

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eccezioni ai seminaristi più giovani, cioè i “filosofi” . Ai “teologi” , invece, era permesso fumare a porte chiuse50.

Era anche proibito affacciarsi alla finestra o salire a divertirsi sulla terrazza del tetto51. Ma non vi era posto migliore per i giochi e la ricreazione della terrazza del quarto piano, ampia, protetta da un’alta recinzione e con grandi finestroni sulla piazzetta del S. Carlo. Era il luogo favorito per giocare a palla; Josemaria preferiva però passeggiare per i lunghi corridoi che si snodavano sui quattro lati del cortile. Uno di essi era quasi buio e un ispirato umorista aveva scritto su una delle pareti le parole del Salmo: Per diem sol non uret te, neque luna per noctem-. non c’è pericolo che ti scotti il sole di gior­no, né la luna di notte52.

Per quanto concerne altre proibizioni, abbiamo già vi­sto con quale scrupolo i seminaristi osservassero quella di non usare soprannomi o nomignoli53.

La vigilanza nel Seminario Conciliare era ancora più stretta che nel S. Carlo, dato che gli alunni abitavano e studiavano in un edificio dal quale uscivano solo nei giorni di passeggiata. Quelli del S. Carlo attraversavano ogni giorno le strade del vecchio centro; prendevano aria, vedevano il sole e mantenevano il contatto con la vita della città, fino a dove lo consentivano la “compo­stezza, ordine e simmetria” alle quali erano tenute le file dei seminaristi durante il percorso di andata e ritorno all’Università54.

L’Università Pontificia di S. Valero e S. Braulio era si­tuata nel centro storico di Saragozza, che era stata in origine colonia romana. Prospera città della provincia romana Tarraconensis, era stata visitata dalla Madonna durante la sua vita mortale, secondo quanto racconta un’antica tradizione, per incoraggiare l’apostolo Giaco­mo nell’opera di evangelizzazione; e in onore della Ma­donna fu costruito un tempio. Durante l’occupazione musulmana non fu interrotto il culto cristiano, finché fu

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ristabilita la gerarchia ecclesiastica dopo la riconquista della città, nel 111855.

L’arcidiocesi di Saragozza comprendeva un vasto ter­ritorio con diverse sedi suffraganee, fra le quali quella di Barbastro. Dal 1902 la reggeva il Cardinale Soldevila, uomo che aveva fatto coscienziosamente gli studi eccle­siastici e possedeva grandi doti oratorie e di governo. Eccelse per la sua attività pastorale e per le riforme che introdusse nel regime diocesano. Diede impulso ai lavo­ri di restauro della basilica del Pilar e ne estese la devo­zione mariana all’America spagnola. Era stato elevato al cardinalato nel 191956.

Saragozza aveva all’epoca circa 140.000 abitanti, di cui la metà immigrati in città negli ultimi vent’anni. Lo sviluppo industriale - zuccherifici da bietole, mulini, fabbriche tessili e metallurgiche - comportò forti cam­biamenti sociali e ne fecero un luogo di scontro del mo­vimento operaio e di agitazioni anarchiche57.

I seminaristi non ricevevano né leggevano giornali. Quello che accadeva fuori del seminario o non li inte­ressava o li coglieva di sorpresa. Solo quanti avevano la famiglia a Saragozza erano al corrente di ciò che acca­deva nel mondo. Durante l’autunno del 1920 Jose- maria ebbe occasione di percorrere la città per le sue vi­site domenicali a casa degli zii, ma fu per poco tempo. Un’occhiata al suo curriculum, mostra l’impressionante numero di materie che dovette affrontare al suo arrivo da Logrono. Seguiva le lezioni di cinque materie del se­condo anno di Teologia (De Verbo Incarnato et Grafia, De actibus et virtutibus, Oratoria sacra, Patrologia, Li­turgia), alle quali dovette aggiungerne altre quattro, dato che il piano di studi di Saragozza non coincideva con quello di Logrono58. Due di esse (Greco ed Ebrai­co) erano del primo ciclo e le altre due (Introductio in S. Scripturam ed Exegesis Novi Testamenti) del primo anno di Teologia.

Fece i suoi studi con profondità, senza che gli occor­

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resse eccessivo impegno; ma gli succedeva lo stesso di tutti gli studenti: al momento degli esami “non mi senti­vo affatto tranquillo”59. Le votazioni di quell’anno in Greco e in Ebraico (solamente un meritus) sono un’ec­cezione nel suo brillantissimo fascicolo accademico60. Suo zio, l’arcidiacono, gli parlava dell’importanza del greco per lo studio della Patristica; e il nipote «da parte sua, superato l’esame, dedicò molto tempo al ripasso della materia finché raggiunse un livello francamente accettabile»61.

* * *

Del corpo docente dell’Università facevano parte pro­fessori di ogni tipo: chi era saggio e chi lo era meno, chi possedeva doti pedagogiche e chi no, professori pieni d’iniziativa e altri soggetti all’abitudine. Josemaria cer­cava di assimilare ciò che di positivo vedeva in ciascu­no di essi, cosicché i suoi ricordi vertono sempre sull’a­neddotico.

Del professore di Teologia Morale, saggio e prudente, raccontava che, quando iniziava la trattazione della virtù della castità e dei vizi ad essa contrari, dava agli alunni il consiglio di S. Alfonso Maria de’ Liguori: raccomandarsi alla Santissima Vergine e studiare serenamente62.

Da don Santiago Guallart, professore di Oratoria Sa­cra, imparò a non fidarsi delPimprovvisazione, inficiata da vanitosa spontaneità o da pigrizia mentale. Una vol­ta don Josemaria raccontava a un gruppo di persone: “Io non improvviso nulla e in genere nessuno improvvi­sa. Ricordo che ebbi un professore di oratoria, uomo molto conosciuto e molto ammirato, soprattutto per le sue improvvisazioni. Un giorno otto o dieci alunni sta­vano chiacchierando con lui, ed egli disse loro: “Io non ho improvvisato neppure una sola volta... Quando mi invitano in qualche posto, so che mi chiederanno di dire qualcosa e mi preparo accuratamente” ”63.

L’orizzonte intellettuale di Josemaria non era limitato

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agli studi ecclesiastici. Si distingueva dagli altri compagni di seminario per la sua “ampia cultura” e in particolare per il suo interesse per gli aspetti umani degli avvenimen­ti, come riferisce uno di essi: «Era sommamente umano: dotato di un grande senso dell’umorismo, aveva una ca­pacità critica che gli consentiva, sempre con garbo, di co­gliere l’aspetto divertente delle cose. Ammiravo molto gli epigrammi che scriveva in un piccolo taccuino ricoperto in tela cerata che teneva in tasca e sul quale scriveva spesso. Erano frasi acute, piene di ingegnosità, con una carica festosa o satirica e con un grande senso umano. Erano epigrammi che sorprendevano perché implicava­no una non comune padronanza della lingua castigliana e una grande familiarità con gli autori classici: ripensan­doci in seguito, mi ricordavano un po’ lo stile di Aristo­fane in “Le vespe” . Erano pieni di una filosofia molto umana della vita e alla fine suggerivano una morale»64.

Per uno di quei casi fortuiti che non mancano mai nella vita, le sue doti oratorie e letterarie ebbero occa­sione di venire allo scoperto. Per divertimento degli stu­denti c’era l’abitudine di tenere delle serate informali, senza rigore accademico65. Per una di esse, organizzata in onore di don Miguel de los Santos, Presidente del S. Carlo, il Rettore si vide costretto a chiedere la collabo- razione di Josemaria. Il tipo di manifestazione e il ruolo del festeggiato richiedevano un intervento di un certo li­vello letterario. Don Miguel, eletto pochi mesi prima Vescovo titolare di Tagora e nominato Ausiliare di Sara­gozza, era stato consacrato il 19 dicembre 1920. Era un ecclesiastico di grande cultura: laureato in Teologia a Saragozza e in Diritto Canonico e Filosofia all’Univer- sità Gregoriana di Roma; quanto ai titoli civili, era lau­reato in Legge all’Università di Saragozza e dottore in Diritto all’Università Centrale di Madrid66.

Josemaria fece resistenza alle pressioni del Rettore, ma alla fine dovette cedere. Il tema scelto per la sua dis­sertazione fu il motto del nuovo Vescovo: Oboedientia

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tutior. Quando gli toccò, lo svolse in latino, sotto forma di composizione poetica. Le considerazioni sulla parti­colare sicurezza che conferisce l’attenersi ai consigli dei superiori e l’eleganza dell’esposizione gli valsero l’ap­prezzamento del vescovo e della mezza dozzina di sacer­doti del S. Carlo presenti alla festa67.

Sul secondo anno trascorso a Saragozza ci è pervenu­to un altro episodio, anch’esso concernente gli studi. Una delle materie dell’anno scolastico 1921-1922 era De Deo Creante e veniva spiegata in latino da don Ma­nuel Pérez Aznar. Al professore piaceva fare spiegazioni dense e metodiche nella prima parte del corso. Poi, nel secondo trimestre, una volta raggiunta la vetta, inco­minciava la discesa con un pragmatico sistema di do­mande e chiarimenti. Vegliava sull’ortodossia, era di­chiaratamente tomista e affrontava in modo critico errori ed eresie, non senza somministrare agli alunni “ l’antidoto al veleno” . Da lui Josemarìa imparò, a quanto egli stesso affermava, l’importanza di utilizzare gli antidoti, quando si devono maneggiare fonti biblio­grafiche pericolose per la conoscenza dottrinale del let­tore, perché questo veléno - diceva - si trasmette “quasi per osmosi”68.

L’episodio si riferisce a una delle lezioni in cui veni­vano poste delle domande. Don Manuel, con un tocco di bizantinismo, chiese a Josemarìa circa la biblica co- stola del nostro progenitore: si trattava di una costola naturale o fuoriserie? (Utrum costa Adami fuerit supe- rogatoria an naturalis). Preso alla sprovvista tra l’origi­ne di Èva e la costola di Adamo, Josemarìa cercò di di­vagare e prendere tempo. Parlò dapprima in latino, lungamente e con calma, su nostro padre Adamo, per proseguire poi con Èva. Ma, per quanti giri facesse, non gli veniva in mente alcuna idea per salvarsi. Si di­lungava più di quanto non consentisse la pazienza del professore, il quale, interrompendo le divagazioni, lo

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apostrofò in castigliano: «Bene, ma dove abbiamo la­sciato questa benedetta costola?»69.

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Dei conti del seminario, estremamente semplici, si occu­pava il Rettore. Le spese generali della casa erano a cari­co del Reale Seminario di S. Carlo. E poiché quasi tutti i seminaristi fruivano di una borsa di studio o prestavano dei servizi che li esentavano dal pagamento, neppure il calcolo delle entrate era un’operazione complicata. Nel­l’anno scolastico 1920-1921, per esempio, le entrate consistevano nel ricavo della vendita di dodici stemmi per le mantelline dei collegiali, più l’importo di quattro pensioni e mezza. Dei cinque seminaristi che pagavano la retta al S. Carlo, la mezza pensione era quella di Jose­maria, che fruiva di mezza borsa di studio.

Dobbiamo esser grati alla scrupolosa precisione del Rettore nel computo dei giorni di permanenza in semi­nario e degli importi da pagare. Secondo i rendiconti di quell’anno scolastico, Josemaria pagò 157 pesetas e 50 centesimi per 252 giorni di permanenza (la pensione completa era di una peseta e 25 centesimi al giorno)70.1 252 giorni sono esattamente quelli che vanno dalla sua entrata (28 settembre 1920) alla chiusura dei conti (7 giugno 1921). La permanenza ininterrotta dei seminari­sti da settembre a giugno era normale e prevista dal re­golamento71.

In quei lunghi mesi lontano dalla famiglia il seminari­sta mantenne frequenti rapporti epistolari con i familia­ri, ragguagliandoli sugli studi e sulle aspirazioni giova­nili e cercando di incoraggiarli. Il Natale del 1920 fu il primo che passò fuori di casa; avrà ricordato con no­stalgia il Natale passato a Barbastro e l’antica canzone natalizia che la madre gli cantava e che ora certamente ella utilizzava per far addormentare suo fratello Santia­go (Guitìn, come lo chiamavano familiarmente):

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«Madre, alla porta c’è un Bambino,/ più bello del solepiù bello,/ e dice di aver tanto freddo...»72.

Quando riceveva notizie da Logrono, rileggendo i pic­coli eventi domestici indovinava, tra le righe, le diffi­coltà della famiglia e le sofferenze di suo padre73. Quan­do arrivavano le vacanze estive, la sua presenza in casa era un’iniezione di gioia. Faceva visita a don Hilario, il parroco di Santiago el Reai, e si metteva a sua disposi­zione. Cercava di distrarre il babbo e di fargli compa­gnia e di alleviare le fatiche di sua madre. Prendeva per mano il piccolo Guitìn e lo portava a passeggio. Nell’e­state del 1922 - il fratello aveva tre anni e mezzo - si fe­cero una foto su una panchina del parco. Josemaria con un abito grigio scuro, cravatta nera e cappello di paglia. Guitìn con un vestito bianco, un berrettino calato fino agli occhi e un’espressione di circostanza74.

Dall’amicizia di Josemaria con un compagno semina­rista, Francisco Moreno, nacque l’idea di passare alter­nativamente alcuni giorni di riposo, durante le vacanze, in casa delle rispettive famiglie. Fu così che Francisco passò qualche breve periodo a Logrono, invitato dagli Escrivà. I due seminaristi facevano delle gite sulle rive dell’Ebro e molto spesso arrivavano al negozio del si­gnor José, “La Gran Ciudad de Londres” , per accompa­gnarlo, facendo un giro più ampio, fino a casa. «Era una passeggiata gradevole, benché mi facesse soffrire non poco il vedere quell’uomo, ancor giovane di età, co­sì prematuramente invecchiato», riferisce Francisco Moreno, che attribuisce al signor José un maggior nu­mero di anni rispetto ai 55 che aveva allora. Ricordava pure che «dopo aver passato lunghe ore dietro al banco del negozio aveva i piedi gonfi, a tal punto da doversi togliere le scarpe quando arrivava a casa»75.

Il cuore materno della signora Dolores si effondeva in piccole premure domestiche, per esempio nella cura af­fettuosa con cui preparava la prima colazione dei due

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seminaristi: «Voleva darci cose - riferisce l’ospite - che non potevamo avere quando stavamo a Saragozza»76.

Della permanenza in casa dei Moreno ci sono notizie più ricche, poiché vi si riuniva un gruppo di amici della stessa età. Di questo gruppo facevano parte Antonio, il fratello di Francisco, che studiava medicina a Saragozza e che Josemarìa pure conosceva, e i due fratelli Antonio e Cristóbal Navarro. Su quei giorni di vacanza riferisce Francisco Moreno: «Non ricordo bene se siano state due o tre le estati in cui Josemarìa passò alcuni giorni - quindici o venti - con la mia famiglia a Villel, un paese vicino a Teruel, dove mio padre aveva esercitato come medico. Tutti in casa mia lo apprezzavano molto perché si faceva voler bene: era garbato, discreto e prudente, ma allo stesso tempo affettuoso ed espansivo. Inoltre, spuntava sempre il suo naturale e meraviglioso senso umoristico. Il suo arrivo a Villel era per quella casa una gran festa e quando se ne andava si notava che aveva la­sciato un grande vuoto. Per mia madre era come uno dei figli»77.

Portava abito scuro e cravatta nera, per non nascon­dere la propria condizione di seminarista. Assisteva ogni giorno alla Messa e la serviva al parroco se ve n’e- ra bisogno. Il sacerdote del paese, un santo uomo che soffriva della “malattia del sonno” , faceva molta pena a Josemarìa. Il sonno lo assaliva nei momenti più inop­portuni, in piena celebrazione liturgica o mentre predi­cava dal pulpito78.

Al mattino andavano a passeggio sulle rive del Turia, ricco dell’acqua delle vicine sorgenti. I suoi compagni facevano il bagno seminudi, ma Josemarìa non lo face­va, per pudore. Ritornavano per pranzo e, passate le ore della calura, nei lunghi pomeriggi estivi organizzavano escursioni nei paraggi: alla Pena del Cid o al Santuario de la Virgen de Fuensanta, in montagna. Se alla gita si univa qualche ragazza, il seminarista trovava sempre un pretesto per rimanere a casa a lavorare. Ma la sua as­

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senza non passava inavvertita alle ragazze. Carmen Noailles, a proposito di come egli non stesse con le ami­che dei suoi compagni, assicura che «si notava chiara­mente la decisione e la saldezza della sua vocazione al sacerdozio»79.

Quando il gruppo andava al circolo del paese a gioca­re a carte, Josemaria rimaneva in camera sua a leggere o a scrivere. Traduceva in versi giocosi gli avvenimenti della giornata e delle escursioni, e illustrava i versi con degli schizzi, in un quaderno intitolato: “Avventure di alcuni ragazzi di Villel nel loro andirivieni fra Saragozza e Teruel”80.

Nei lunghi momenti in cui rimaneva a casa, chiacchie­rava con la madre dei Moreno, che ancora non si era riavuta dalla recente vedovanza. Per la povera donna era consolante parlare con Josemaria; e quando, come accadeva spesso, parlava della perdita del marito, Jose­maria le diceva: “Non voglio vederla triste. Non pianga, signora Moreno. Dobbiamo pregare molto per lui. Io, se me lo consente, offrirò la Messa per lui” 81.

4. “Forgiatore” di futuri sacerdoti

Insieme al buon comportamento, alla pietà e alla cultu­ra del seminarista di Logrono, vennero a conoscenza del Presidente e degli altri sacerdoti del Reale Semina­rio le burle con cui alcuni si rivolgevano a Josemaria. Ciò contribuì a estendere ancor più la sua fama fuori del S. Carlo. Non ci si poteva attendere che da un male uscisse qualcosa di buono. Tuttavia si adempiva il pro­verbio secondo cui “non tutto il male vien per nuoce­re” . (Questa paradossale verità, sia detto tra parentesi, è stata sempre presente nella vita di Josemaria. In epo­che diverse, tutta una serie di deplorevoli episodi - in fondo, provvidenziali - finirono per trasformarsi in gioia, per cui egli ha tradotto cristianamente le sue

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esperienze con l’affermazione: “Dio scrive diritto anche su delle righe storte” )82.

Forse per qualche frase del Presidente o del Rettore del S. Carlo, diventato ormai strenuo difensore del se­minarista, il nome di Josemaria giunse all’orecchio del cardinale, il quale dalle finestre del palazzo vedeva ogni giorno i collegiali sfilare all’entrata dell’Università. Una volta lo mandò a chiamare. Altre volte, incontrando la fila degli alunni del S. Carlo per strada o in chiesa, chie­deva al seminarista notizie della sua vita e dei suoi studi. Una volta - riferisce un compagno - ho udito che gli di­ceva: «Vieni a trovarmi quando hai un momento di tempo»83.

Grazie alla lunga esperienza ecclesiastica il cardinale non tardò a scoprire nel seminarista eccezionali doti di pietà, maturità di giudizio e capacità di governo. Altri­menti non si spiega il fatto che, prima delle vacanze esti­ve del 1922, comunicasse al Rettore la propria decisione di nominare Josemaria Ispettore del S. Carlo, coprendo così un incarico che alla fine dell’anno si rendeva vacan­te. Fu con una punta di umorismo che comunicò anche all’interessato il proprio desiderio che accettasse l’inca­rico fin dal successivo anno scolastico, alludendo con discrezione a uno dei nomignoli del seminarista: «Ti darò la tonsura - gli disse - perché non voglio che i se­minaristi ti vedano vestito da “ signorino” »84. (Non es­sendo ancora chierico poteva usare abiti civili e vestire da “ signorino” ).

Il 28 settembre ci fu l’inaugurazione dell’anno accade­mico 1922-1923. Quello stesso giorno fu conferita a Jo­semaria la tonsura, a lui solo, in una cappella del palaz­zo arcivescovile. Nella stessa data prese possesso dell’incarico di Ispettore del S. Carlo, che mantenne fino all’ordinazione sacerdotale, il 28 marzo 192585.

Passati gli anni, egli ricordò l’evento - “la tonsura cle­ricale ricevuta per mano del Cardinale Juan Soldevila, in un raccolto oratorio del Palazzo Arcivescovile” 86 -

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come una delle pietre miliari del suo cammino verso il sacerdozio.

Gli Ispettori del Seminario Conciliare erano tutti sa­cerdoti. Al S. Carlo gli Ispettori erano di solito un dia­cono e un chierico con gli ordini minori. Questi Ispetto­ri - chiamati anche Direttori o Superiori - avevano l’incarico di vegliare sul rispetto del Regolamento, cu­rando la disciplina; presiedevano, a nome del Rettore, gli atti comunitari o svolgevano le funzioni che il Retto­re delegava loro. Gli Ispettori del S. Carlo erano due. Il Primo Ispettore comandava in assenza del Rettore. Era questo il ruolo assegnato a Josemarìa, che era coadiuva­to dal Secondo Ispettore, Juan José Jimeno87.

Il fatto che un seminarista che non aveva ancora rice­vuto gli ordini minori occupasse il posto di Ispettore o Direttore, senza avere al di sopra altra autorità che quella del Rettore, rende l’idea dell’audacia del cardi­nale. In primo luogo perché dovette anticipargli la ton­sura, affinché l’incarico ricadesse su un chierico. E an­che per l’illimitata fiducia riposta nel giovane, posto a guardia della disciplina tra coloro che pochi mesi prima avevano messo a dura prova la sua permanenza in se­minario. Il prelato doveva sentirsi molto sicuro della sua scelta.

L’incarico di Direttore comportava dei vantaggi mate­riali, quali quello di disporre di un famiglio, di pasti e camera speciali, di essere esentato dal pagamento della pensione e di ricevere una gratifica di cinquanta pesetas all’anno. Inoltre le tasse per i diritti di esame all’Univer- sità erano a carico del seminario88. A tutti i sacerdoti del S. Carlo veniva assegnato un famiglio, le cui prestazioni domestiche non avevano carattere servile; erano il mez­zo con cui alcuni seminaristi si pagavano gli studi e la retta. Rispettando questa usanza, l’ispettore accettò i servizi del famiglio che gli fu assegnato, benché non ap­pena poteva ne facesse a meno, perché gli era imbaraz­zante avere un compagno come domestico. Il famiglio si

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chiamava José Maria Roman Cuartero, e del comporta­mento del Direttore ci riferisce alcune notizie:

«Mi ha sempre impressionato la sua bontà e la pazienza nei miei confronti. Ricordo, per esempio, che, quando si rendeva conto, mentre gli rifacevo il letto, che mi arrab­biavo perché non riuscivo a stendere le lenzuola sul ma­terasso rapidamente e di un colpo solo, allora lui mi di­ceva qualche frase affettuosa o scherzava. Ricordo pure che divideva il suo pasto con me, perché i direttori ave­vano un pasto speciale, senza dare peso alla cosa. Mi rendo conto ora che faceva queste mortificazioni senza che si notasse, con grande naturalezza»89.

Ora Josemaria aveva maggior libertà di movimento per adempiere le sue pratiche di pietà e per entrare e uscire dal seminario. La posizione di Direttore gli con­sentiva di frequentare i sacerdoti del S. Carlo, che risie­devano ai piani superiori. E con il Presidente, Mons. Miguel de los Santos, arrivò ad avere una confidenza ta­le che questo Vescovo conservò fino alla morte la corri­spondenza e gli appunti sulle conversazioni che intratte­neva con il suo giovane amico90.

Alcuni sabati o domeniche pomeriggio Josemaria si trovava con i suoi amici, i nipoti di don Antonio More­no, Vicepresidente del S. Carlo, nella stanza di questo buon sacerdote. Si ritrovavano così assieme i giovani amici delle estati di Villel91.

Don Antonio si trovava al S. Carlo da molti anni. Nel manoscritto della “Storia della fondazione del Semina­rio per i poveri di S. Francesco di Paola” compare il suo nome come predicatore degli esercizi spirituali ai semi­naristi nell’anno accademico 1892-1893, quando era ancora in vita il Cardinale Benavides92. Benché di età veneranda aveva ancora un fisico robusto, una ricca esperienza sacerdotale e alcune piccole manie. Gradiva la compagnia dell’ispettore, che ascoltava con piacere le

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sue chiacchiere e si lasciava sconfiggere quando gioca­vano a domino, per non dare esca al malumore di don Antonio che era di quelli che non sanno perdere. Poi, per festeggiare, il sacerdote tirava fuori dall’armadio qualcosa da mangiare davanti al quale Josemaria, cari­tatevolmente, non faceva troppo lo schifiltoso.

Il Vicepresidente aveva una vita alle spalle e, come a tutti i vecchi, faceva piacere ricordarne alcuni eventi per lui memorabili. In particolare, gustosi episodi delle visi­te pastorali dell’Arcivescovo di Saragozza ai paesi della diocesi. Alcuni di essi erano situazioni da metter paura a un seminarista. Ma, al momento di trarne la morale, don Antonio gli diceva: “Josemaria, non ci si deve mai fidare di nulla, di nulla”93.

Josemaria assimilò ben presto alcuni accorgimenti cri­stiani, frutto dell’esperienza di vita. Uno di essi fu: è me­glio troncare in tempo e fuggire le occasioni. Un suo com­pagno del S. Carlo riferisce a questo proposito che un giorno, mentre passavano per le stradine del centro della città diretti alle aule universitarie, la fila dei seminaristi incrociò due ragazze, che cercarono di attirare gli sguardi di Josemaria. Il giorno successivo stavano piantate allo stesso posto, aspettando il seminarista e provocandolo in modo procace. E al terzo, visto che non faceva loro la mi­nima attenzione, gli rinfacciarono il proprio disappunto:

«Siamo così brutte che non ci guardi neppure?»

E Josemaria, senza neppure guardarle, replicò loro seccamente:

“Non siete altro che delle sfacciate!”94.

Sembra che l’accaduto giunse anche all’orecchio di suo padre a Logrono95.

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Il cardinale aveva conferito a Josemarìa la tonsura per­ché sembrava inconcepibile che qualcuno, senza essere chierico ed essendo ancora in abiti da “ signorino” , fosse Direttore del seminario. La prima occasione che si pre­sentava al seminarista per ricevere gli Ordini Minori erano le Tempora d’Avvento, poco prima di Natale. Il 20 novembre 1922 rivolse, quindi, un’istanza al cardi­nale nella quale “ supplica umilmente che si degni di am­metterlo, nelle prossime Tempora di S. Tommaso Apo­stolo, ai Sacri Ordini Minori”96.

Furono fatte, con la dovuta riservatezza, le opportu­ne ricerche su vari aspetti della vita, degli studi e del comportamento dei richiedenti; fra di esse, se il semina­rista «ha manifestato decisa vocazione allo stato eccle­siastico».

Nella risposta del Rettore, riferita a tutti gli aspiranti agli Ordini Minori del S. Carlo, in data 23 novembre era scritto:

«I signori succitati, senza eccezione, hanno osservato buona condotta morale e religiosa (...), confermando nel loro comportamento esterno la vocazione sacerdotale e a mio giudizio non sono incorsi in alcuna nota sfavore­vole in relazione a quanto mi si chiede»97.

Gli Ordini di Ostiario e Lettore furono conferiti a Jo­semarìa dal Cardinale Soldevila il 17 dicembre; quelli di Esorcista e di Accolito, quattro giorni dopo98.

Si: * *

La principale preoccupazione degli Ispettori, per non di­re l’unica, era il mantenimento della disciplina. Nel Se­minario di S. Carlo, a differenza di quello Conciliare, i Direttori erano ancora studenti. Pertanto essi erano spesso, a motivo delle loro funzioni, tra l’incudine e il martello. Il compito di Ispettore «non era affatto facile, perché era allo stesso tempo direttore e alunno, e i semi­

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naristi si comportavano secondo la loro giovane età»99. Josemaria dovette imparare a conservare il giusto equili­brio fra le esigenze del Regolamento, che lo obbligava­no a reprimere le esuberanze giovanili, e l’amicizia verso i propri compagni. Coloro che gli succedettero come Ispettori nel 1925 e nel 1926, Agustìn Callejas e Jesus Val, testimoniano che il suo spirito cameratesco con tut­ti «era altrettanto forte quanto il suo senso di responsa­bilità nel compimento dell’incarico: non fece mai restar male nessun seminarista»; e «faceva uso della sua auto­rità in modo affabile, senza intemperanze. Non s’impo­neva arbitrariamente come può accadere spesso in chi comanda»100.

Josemaria si sforzò di agire con tatto, senza far pesare le proibizioni del Regolamento in questioni di poco con­to, per poter esigere invece su punti più importanti. Tol­lerava per esempio che i più grandi fumassero; faceva in modo che le letture in refettorio fossero brevi, consen­tendo di parlare; oppure, quando c’era pentimento, ben volentieri condonava il castigo.

Un giorno trovò un pezzo di cartone polveroso e ab­bandonato sul quale, con lettere dorate su fondo rosso, erano scritte le tre parole dell’inno di S. Paolo alla ca­rità: Caritas omnia suffert. Probabilmente era servito da ornamento nei festeggiamenti per S. Francesco di Paola. Era anche l’emblema che i seminaristi portavano sulla divisa: un sole contornato da raggi e nel centro la paro­la Charitas.

“Sul mio tavolo di lavoro” - ricordava il giovane Ispet­tore del S. Carlo - “misi questo promemoria: “caritas omnia suffert” . Volevo imparare a fare tutto per amore e insegnarlo con l’esempio ai seminaristi”101.

Su di lui ricadeva, insieme al Rettore, il compito di formare i seminaristi sotto il profilo umano e spirituale, poiché allora al S. Carlo non c’era un direttore spiritua­

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le. Ogni settimana venivano da fuori dei confessori e, se qualcuno lo desiderava, i sacerdoti del S. Carlo erano disponibili nei confessionali della chiesa, mentre don Miguel de los Santos celebrava la Messa al mattino102.

In quanto Direttore Josemaria teneva, nella sala di studio, alcune brevi allocuzioni ai seminaristi, sulle feste liturgiche o sul modo di espletare qualche cerimonia di culto. Fu lui a dare inizio alla consuetudine di uscire tut­ti i sabati pomeriggio con gli studenti del S. Carlo per andare a far visita alla Madonna del Pilar103.

Il Rettore, il quale lo definisce, con frase lapidaria, «forgiatore di giovani aspiranti al sacerdozio», prose­gue dicendo che «il suo motto era di conquistare tutti a Cristo, che tutti fossero una sola cosa in Cristo»104. L’I­spettore fu guidato dalla carità in tutte le sue azioni, cercando di fare dei suoi fratelli sacerdoti degli autentici “uomini di carità” :

“Questa mia preoccupazione non è recente; la predico da quando avevo 21 anni e ho cercato di viverla con tut­te le mie forze. È possibile che nel Seminario di S. Carlo si conservino delle mie carte - perché sono sempre stato favorevole a mettere le cose per iscritto - di quando ero Superiore, con osservazioni piene di comprensione, in cui lodavo i cambiamenti in meglio dei seminaristi e par­lavo di carità e della necessità di dare esempio di carità”105.

Gli scritti a cui si riferisce sono stati ritrovati dopo la sua morte nell’archivio del Reale Seminario di S. Car­lo106. Si tratta delle note informative mensili che, come Ispettore, consegnava a don José Lopez Sierra. Copro­no il periodo dall’ottobre 1922 al marzo 1925, senza soluzione di continuità, eccezion fatta per i mesi estivi. Si nota subito che non sono compilate con frasi fatte. Nella sezione del foglio mensile relativa al titolo “con­dotta” , che gli altri Ispettori erano soliti lasciare in

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bianco, o al massimo riempivano un paio di volte al­l’anno con aggettivi incolori e poco compromettenti, poiché in quella colonna entrava anche la voce “voca­zione” , si può notare invece che Josemarìa seguiva da vicino ciascun seminarista. E se gli altri, forse per non approfondire troppo, si scaricavano la coscienza con un “ bene” o un “regolare” , il nuovo Ispettore soppesa­va religiosamente i propri giudizi con espressioni chia­re. Dietro le sue parole c’è sempre un palpito cordiale. Nei nomi dei seminaristi vedeva delle anime destinate al sacerdozio.

Sul retro dei fogli dei rapporti mensili era consuetudi­ne annotare i “castighi imposti dall’ispettore” e i “casti­ghi del Sig. Rettore” , registrando seccamente i fatti; per esempio: “Tizio un giorno in ginocchio in refettorio per aver fumato e mentito al Rettore” . Josemarìa era solito registrare informazioni più complete, aggiungendo ante­fatti, cause e circostanze. Così scriveva, per esempio:

“Il Sig. R.P., da quando è stato castigato (il giorno 12) dal Sig. Rettore sino alla fine del mese, si è comportato in modo tale da sembrare un altro: è obbediente, rispet­toso e desideroso di far bene”107.

Com’era prevedibile, il primo scoglio che dovette su­perare fu quello di imporsi come Direttore, facendo vale­re il peso della sua autorità. Nacquero le resistenze: subi­to affiorarono, da parte di un gruppo di ribelli, scaramucce e sfide. Nel Rapporto del novembre 1922, riferendosi a quattro seminaristi intrattabili, Josemarìa scrisse:

“Tengono in ben poco conto il rispetto dovuto al Supe­riore e quando li si riprende, per quanto amorevole pos­sa essere la riprensione, rispondono in malo modo e al­cuni, come il Sig. C., fa delle smorfie per far ridere la Comunità”108.

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I riottosi ci misero un po’ di tempo ad ammansire, ma alla fine si impose la pazienza del Direttore che nel feb­braio 1923 compilò il seguente rapporto:

“Non posso fare a meno di rallegrarmi nel riconoscere che nei cinque mesi trascorsi dell’anno accademico i Si­gnori A. e C., da indisciplinati che erano, sono diventati alunni docilissimi e diligenti. La stessa cosa sta accaden­do con il Sig. L.”109.

Cercava generosamente scusanti per tutti. Nei rap­porti si trovano considerazioni come le seguenti:

“ (...) gli fu condonato il castigo perché, piangendo, pro­mise di correggersi; i Signori M. e L. molte volte, anzi, il più delle volte, commettono delle mancanze senza ren­dersi conto di commetterle”110.

Questa comprensione non impediva, soprattutto es­sendoci di mezzo la vocazione al sacerdozio, che i suoi giudizi fossero chiari e spassionati:

“Invece” - scrisse nello stesso rapporto di febbraio - “non so che cosa dire della vocazione di questi altri Si­gnori: M.M., P.R. e C.M. I primi due, come si può rile­vare dai rapporti dei mesi precedenti, fin dall’inizio del­l’anno accademico ne hanno combinate varie. Sono sempre incline a giudicare a favore: per questo ho detto che davano segni di averla; oggi ritengo mio obbligo manifestare, spassionatamente, il mio modo di vedere. Il Sig. C.M. è andato sempre peggio, fin dall’inizio dell’an­no, nel suo gran difetto di mancare di rispetto al Supe­riore. Si tenga presente, inoltre, che tutti questi Signori si comunicano tutti i giorni o quasi” .

Un anno dopo, nel febbraio del 1924, i seminaristi del S. Carlo erano talmente cambiati che Josemaria scrisse con soddisfazione:

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“Desidero far presente, perché rende l’idea dello spirito attuale del Seminario, che quando ho comminato un ca­stigo collettivo agli allievi, non solo non ci sono state proteste, ma anzi, hanno accettato di buon grado il rim­provero, giudicandolo più che giusto”111.

Don José Lopez Sierra arrivò ad avere una tale fiducia nel suo Direttore che «di fatto gli venne progressiva­mente delegando le proprie funzioni», fino a tal punto che «lasciò il Seminario praticamente nelle mani di Jose­maria»112.

Il progresso dei seminaristi rispecchia la vita di pre­ghiera dell’ispettore, che era centrata su di loro: “Con quale gioia annotavo i progressi di quei ragazzi! Erano l’oggetto del mio dialogo col Signore, poiché a Lui chie­devo, con sua Madre, che se ne prendesse cura” 113.

Il «forgiatore di giovani aspiranti al sacerdozio», co­me diceva in modo altisonante il Rettore, era già sud- diacono quando scrisse, nel novembre del 1924, il se­guente commento:

“Non ho osato affermarlo l’anno scorso, nel caso che si trattasse solamente di un cambiamento passeggero; ma poiché, grazie a Dio, non è così, lo voglio segnalare. In particolare dall’immacolata del 1923, la cui devota nove­na è stata fatta da tutti con grande fervore, si nota un meraviglioso cambiamento in tutti gli allievi anziani; cambiamento che si ripercuote sui più giovani. Il merito è senza dubbio della Madonna, e - ripeto - dato che sicu­ramente è l’ultimo anno che io sto in questo amato Semi­nario, non posso esimermi dal fare un breve riassunto”.

Citava i nomi di alcuni seminaristi, in precedenza lon­tani dalla vita di pietà e ora docili e devoti: “sono enor­memente cambiati, sono altre persone” , scriveva con in­contenibile gioia. Forse aveva il presentimento che fosse l’ultima volta che tastava il polso al seminario e che fos­se necessario fare una sintesi di commiato?

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“In tutti - annotava - c’è molto fervore: è stata messa una corona al Crocifisso del quarto piano, che non l’ave­va! le missioni; gli addobbi del nostro oratorio; i canti dei primi venerdì, del diciannove del mese, delle sabatine... Un particolare: più di una volta mi è stato chiesto il per­messo di abbreviare il tempo della ricreazione per poter stare più tempo in oratorio nell’adorazione del Sacro Cuore e durante la novena dell’immacolata dell’anno scorso; è aumentata la quota mensile dell’Apostolato. Nel tratto reciproco si vede che non invano S. Francesco di Paola è il patrono della casa: carità, carità sempre: se qualcuno manca contro di essa, lo riconosce e accetta la giusta correzione; è un fatto che ora, quando vengono ri­presi, non replicano e accettano persino con piacere - è la verità - la medicina del castigo. Direi altro, ma credo che questo basti. Quando se ne è andato qualche cattivo elemento, è stata opera di Maria Immacolata. Sia tutto a maggior gloria di Dio e sua. Con quanto ho scritto, non voglio dire che i nostri ragazzi siano angeli, poiché il fat­to che siano “ragazzi” lo dimostrano i castighi di ogni mese: qui tutti abbiamo le nostre mancanze”114.

Il cartoncino che teneva nel suo studio di Ispettore, il caritas omnia suffert, gli serviva da promemoria nello sforzo di dare unità in Cristo a tutti i seminaristi. Du­rante i due anni e mezzo in cui si dedicò alla loro forma­zione, Josemarìa sentì su di sé, in ogni momento, l’onere gioioso di preparare futuri ministri del Signore, dedican­dosi a un compito che era quasi una sfida per un giova­ne seminarista come lui. E non tanto per gli anni, quan­to per la sua scarsa esperienza degli ambienti ecclesiastici. Ma s’impegnò a fondo nell’incarico, con­fermando ancora una volta l’avvertimento che gli aveva dato la madre: «Josemarìa, soffrirai molto nella vita, perché metti il cuore tutto intero in quello che fai»115.

(Così era, infatti: si metteva corpo e anima in quello che aveva tra le mani. In quest’epoca di Saragozza, si dava anche all’ispirazione poetica. “ Scrivevo dei versi

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orribili e, mettendo nella firma tutti gli slanci della mia vita, li firmavo così: “ Il chierico Cuore” ” )116.

Con un temperamento simile non gli fu necessario tracciarsi un programma d’azione. Gli bastò seguire alla lettera le parole di S. Paolo:

“Ricordo sempre con emozione” - scriverà un giorno ri­svegliando i ricordi - “le parole della prima lettera di S. Paolo ai Corinzi, che ho tenuto per tanto tempo davanti agli occhi quando ero Superiore nel Seminario di S. Car­lo, a Saragozza: “La carità è paziente, è benigna la ca­rità; non è invidiosa la carità, non si vanta, non si gon­fia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non go­de dell’ingiustizia, ma si compiace della verità. Tutto co­pre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta” ”117.

Dall’impegno di forgiare i propri fratelli del Semina­rio uscì egli stesso trasformato per lo sforzo costante di praticare quell’insieme di virtù umane e soprannaturali- pazienza, prudenza, cortesia, sacrificio, carità...- che aveva esercitato per più di due anni come Ispettore del S. Carlo. A sostenere le virtù dei seminaristi c’erano sempre l’esempio, le buone maniere, il consiglio, l’affet­to e la vita di pietà di Josemaria. Alla fine di un proces­so tanto laborioso, si era arricchito di valide esperienze nel campo della direzione spirituale, nel giusto uso del­l’autorità e nell’arte di governo.

Forse il titolo di Direttore o Ispettore del seminario, di cui ufficialmente si fregiava Josemaria, può suonare magniloquente o esagerato applicato a un giovane semi­narista con ancora diversi anni di studio davanti a sé. Ma ci si deve attenere ai fatti. Nessuno può dare ciò che non ha, assioma di ancor più evidente validità nelle atti­vità di formazione. Perciò, sulla scia della trasformazio­ne operata fra i seminaristi del S. Carlo, è innegabile che la maturità raggiunta da Josemaria fosse il diretto risul­

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tato della sovrabbondanza della sua vita interiore e del­l’esercizio delle virtù di governo.

5. Un evento deplorevole

Appassionato di letteratura, Josemaria impiegava nella lettura il tempo libero da lezioni o dallo studio. Annota­va frasi e pensieri. Come Direttore aveva accesso alla bi­blioteca del seminario, nella quale era andata «a finire la famosa biblioteca che, con molta spesa e altrettanta in­telligenza, l’eccellentissimo signor Manuel de Roda ave­va messo insieme a Roma e poi accresciuto a Madrid, quando era Segretario di Stato di sua maestà»118. Jose­maria vi stava come un topo nel formaggio e non perse l’occasione di avere tanti e così preziosi libri a portata di mano. Ciò risvegliò in lui un bellissimo desiderio di cul­tura, nutrito dai classici della letteratura e della spiritua­lità. Vi si applicava rubando ore al sonno. Di notte i se­minaristi vedevano filtrare sotto la porta dell’ispettore la luce tremolante e incerta di una candela119.

Per due anni potè fruire di un fecondo periodo di let­ture. Più avanti, Josemaria non avrebbe più avuto tanto tempo né occasione tanto propizia per quel tipo di libri, salvo la necessità che ebbe a volte di consultare i classi­ci. Lesse con profondità mistici e asceti, studiando le na­scoste operazioni della grazia. In modo particolare gli piacevano le opere di Santa Teresa.

Nel giugno 1923 sostenne gli esami del quarto anno di Teologia con il massimo dei voti, completando così gli studi di licenza nella Facoltà Pontificia120. Era arriva­to il momento di iniziare gli studi civili, come già deciso prima di lasciare il Seminario di Logrono per quello di Saragozza. Il trasferimento conteneva il permesso impli­cito del Vescovo di Calahorra e La Calzada di studiare Legge a Saragozza, poiché fin dal tempo di Leone XIII era di competenza dei vescovi il concedere o il negare ai

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chierici il permesso di frequentare le università laiche. Non molto tempo prima, il 30 aprile 1918, la Sacra Congregazione Concistoriale aveva emanato delle nor­me per «prevenire i grandi pericoli che, come insegna una lunga e triste esperienza, minacciano la santità di vita e la purezza della dottrina dei sacerdoti che fre­quentano dette Università»121.

Il Cardinal Soldevila, che aveva piena fiducia nella fe­deltà di Josemarìa alla vocazione sacerdotale e nella sal­dezza delle sue convinzioni dottrinali, gli aveva conces­so il permesso necessario122. Il corpo docente di Saragozza, del resto, era ben lungi dall’essere un nido di eretici.

Ben presto, in modo inatteso e tragico, scomparve il cardinale. Il pomeriggio del 4 giugno 1923, mentre si re­cava in automobile a fare una visita nei dintorni del ca­poluogo, fu crivellato di colpi da alcuni anarchici. L’au­tista e il famiglio che lo accompagnava rimasero feriti. Josemarìa si recò a vegliare la salma e a pregare per lui.Il giorno dopo, la notizia riempiva le prime pagine dei giornali. Al momento non si seppero né il motivo, né l’i­dentità degli assassini. Per quasi due anni l’arcidiocesi di Saragozza rimase sede vacante.

Nell’estate del 1923 Josemarìa stava preparando a Logrono due materie preliminari alle discipline giuridi­che: “Lingua e letteratura spagnola” e “Logica fonda- mentale” . Al mattino si trovava con un altro studente, José Luis Mena, per ripassare le materie e si interroga­vano l’un l’altro su temi di letteratura123. Verso la metà di settembre andarono a Saragozza per gli esami.

Don Carlos, l’arcidiacono, a quei tempi vedeva spesso suo nipote e gli piaceva parlare con lui. L’amico di Lo­grono ne ricorda le gentilezze; era solito invitare a casa lui e Josemarìa, per offrire loro la merenda. «Don Car­los era - a quanto racconta - un sacerdote che incuteva rispetto. Mi ricordo persino che facevamo merenda a base di cioccolato spagnolo con spumoni»124. (Per la ve­

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rità, non si vede che rapporto ci possa essere tra il seve­ro carattere del canonico e il cioccolato con spumoni).

D’accordo con lo zio, Josemaria decise di iscriversi al­la Facoltà di Diritto come alunno “non ufficiale” , pen­sando di poter assistere alle lezioni, ma non volendo es­sere obbligato a seguire rigorosamente il corso. In questo modo avrebbe potuto fare gli studi con una certa libertà, facendo gli esami in giugno o nella sessione straordinaria di settembre. Coloro che affermano che “fece simultaneamente” o che “alternò” gli studi civili con quelli ecclesiastici non si esprimono con proprietà, dato che li fece consecutivamente, cioè che iniziò i corsi universitari di Legge dopo aver terminato il quarto an­no di Teologia. Perciò, mentre il suo curriculum eccle­siastico mostra ordine e continuità, l’andamento degli studi civili ha carattere discontinuo, frammentario, por­tato avanti in base alla necessità del momento, in circo­stanze difficili da prevedere.

Presentato da suo zio, andò a consultarsi circa i suoi studi con Carlos Sànchez del Rio, all’epoca Segretario Generale dell’Università, al quale fece impressione, fin dal primo momento, la “personalità distinta” del seminari­sta. Ancora con la mediazione dell’arcidiacono, fece visi­ta al professore di Diritto naturale, che lo ricevette «con sorpresa e con piacere - confessa - nel vedere che un se­minarista, già a buon punto con i suoi studi del semina­rio, volesse fare simultaneamente gli studi civili e quelli ecclesiastici, cosa certamente rara a quel tempo»125.

Fra le materie scelte per il primo anno da Josemaria c’erano Diritto naturale, di cui era professore Miguel Sancho Izquierdo; Istituzioni di diritto romano, materia insegnata da un sacerdote, don José Pou de Foxà; e Isti­tuzioni di diritto canonico, che competeva a Juan Mo- neva y Puyol126. Questi tre professori costituivano un triumvirato di eccezionale statura intellettuale. Il loro influsso fu di grande importanza sullo sviluppo della personalità di Josemaria e sull’acquisizione di un’acuta

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mentalità giuridica. Con loro ben presto l’allievo stabilì un’amicizia autentica e cordiale127.

Provvidenziale fu anche, per l’adempimento dei suoi futuri compiti fondazionali, il fatto che durante l’anno 1923-1924 frequentasse le lezioni di Diritto canonico contemporaneamente nell’Università civile e in quella ecclesiastica. Titolari delle due cattedre erano docenti dalla mente eccelsa, quali Juan Moneva e don Elias Ger Puyuelo. Il primo era titolare della materia nella Facoltà di Diritto; il secondo era docente del quinto corso di Sa­cra Teologia128.

Alle loro ammirevoli conoscenze, univano entrambi una singolare propensione all’acutezza di pensiero e ai detti proverbiali. Don Elias, per esempio, adottava un’inconfondibile pedagogia che sotto l’apparenza pit­toresca delle espressioni denotava grande prudenza sa­cerdotale. Di lui Josemaria ricordava alcuni detti, pieni di garbo e di senso comune129.

Le trovate dell’altro non erano meno argute e azzec­cate. Juan Moneva era, dentro e fuori Saragozza, sulla bocca di tutti, anche se le sue originalità rasentavano a volte la stramberia. Egli affibbiò all’allievo un appellati­vo affettuoso, “ il pretino” , e continuò a ricordarsi di lui fino al momento in cui si accomiatò per sempre dai suoi amici. Infatti anche Josemaria ricevette, in una busta a lui indirizzata, scritta di pugno dal vecchio professore, l’annuncio della morte di costui. Evidentemente Juan Moneva - personaggio geniale fino alla morte - aveva preparato egli stesso le buste per le partecipazioni fune­bri, lasciando ai familiari l’incarico di spedirle per po­sta130. Il suo ex alunno, in occasione del conferimento della laurea honoris causa da parte dell’Università di Sa­ragozza, gli dedicò queste commoventi parole, che han­no l’eco di un’orazione funebre:

“Oggi vorrei rievocare con affettuoso rispetto i nomi ditutti gli insigni giuristi che qui furono miei maestri; con-

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sentitemi di fare almeno il nome di uno di essi, per espri­mere a lui la grata riconoscenza che devo a tutti e a cia­scuno: sto parlando del professor Juan Moneva y Puyol.Di tutti i miei professori di allora fu quello con il quale ho avuto maggiore dimestichezza e poi un’amicizia che si mantenne viva, in seguito, fino alla sua morte. Egli mi di­mostrò in più occasioni un sincero affetto; da parte mia potei apprezzare sempre il tesoro di forte pietà cristiana, di convinta onestà di vita e di ammirevole quanto discre­ta carità, che si nascondeva in lui sotto l’apparenza, per alcuni ingannevole, dell’acuta ironia e della gioviale ric­chezza del suo ingegno. Per lui e per gli altri miei maestri il mio commosso ricordo; auspico che a lui, e a quanti come lui sono ormai trapassati da questa vita, il Signore abbia conferito il premio dell’eterna beatitudine”131.

L’amicizia dell’ispettore del S. Carlo con don Elias fu breve, dato che quest’ultimo morì nel novembre del 1924. Tuttavia non dimenticò mai un apologo che nel­l’ottobre dell’anno precedente, all’inizio dell’anno acca­demico, don Elias raccontò a lezione. C’era una volta un commerciante di cannella. Acquistava il prodotto allo stato naturale e, mediante un mulino a sfere, lo riduceva in polvere finissima. Un giorno il mulino smise di funzio­nare. Le sfere si erano consumate ed era necessario im­portarne altre dalla Germania. Passò il tempo. Il ricambio non arrivava e bisognava macinare la cannella. Un ami­co, vedendolo triste, consigliò al commerciante di andare al torrente a cercare dei sassi della grandezza delle sfere ormai inservibili, di incassarli nel mulino e di farli girare a vuoto per diversi giorni, senza immettere la cannella.

Così fece e, in capo a quindici giorni, a furia di sfrega­re e rullare l’uno contro l’altro, i sassi si erano levigati fino a diventare lisci come le sfere tedesche.

A questo punto del racconto, il professore fece una breve pausa e, rivolgendosi a Josemarìa, soggiunse:

“Così Dio tratta quelli che ama. Mi capisci, Escrivà?”132.

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Josemaria ne trasse l’insegnamento che Dio si serve degli attriti con il prossimo per levigare le asperità del nostro carattere. Negli anni successivi serbò assoluto silenzio su di un fatto spiacevole, salvo un vago riferi­mento a “un grosso dispiacere” , occorsogli quando era seminarista a Saragozza133. Tutto fa sospettare, se ci pensiamo un po’, che l’apologo della cannella nascon­da un evento molto duro e doloroso. Uno dei suoi com­pagni, Jesus Lopez Bello, dice che giravano «voci di una lotta» sostenuta con un altro seminarista134. E un allievo del Seminario Conciliare, che si affretta a defini­re il fatto come «di scarsa importanza», racconta che «un altro seminarista, un uomo già fatto, nativo della Rioja, che aveva più di quarant’anni e che, a quanto egli stesso diceva, quando viveva in Argentina era stato segretario del Governatore di Buenos Aires, provocò Josemaria e ci fu un violento scontro»135. Francisco Ar- tal Ledesma, che riferisce quanto sopra, conosceva sen­za dubbio il soggetto, poiché soggiunge che «l’eco del­l’accaduto fu dovuta alle caratteristiche dei due protagonisti». Il seminarista della Rioja era impertinen­te e «capace di far uscire dai gangheri chiunque» e Jo­semaria «incapace di un’azione violenta, nonostante la sua giovane età».

Il più qualificato testimone oculare fu il Rettore, che nel libro De vita et moribus, sul foglio intitolato a Jose­maria, descrisse sommariamente il fatto al quale era sta­to presente, nonché le sue conseguenze:

«Ebbe un alterco con Julio Cortés e gli fu imposto il re­lativo castigo, la cui accettazione e il cui adempimento rappresenta per lui una gloria essendo stato, a mio avvi­so, il suo avversario che attaccò per primo e con più vio­lenza, profferendo contro di lui parole grossolane e in­degne di un chierico, e alla mia presenza lo insultò nella Cattedrale della Seo»136.

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Il dispiacere di Josemaria lo si deve misurare in base alla sua sensibilità, tenendo oltretutto presente che era Direttore del S. Carlo ed aveva ricevuto gli Ordini Mi­nori. L’ultima volta che era venuto alle mani era stato a Barbastro con “zampe sporche” . Gli insulti di quel tizio probabilmente lo esasperarono: reagì con le parole e l’altro venne alle mani.

Benché si fosse legittimamente difeso, Josemaria ave­va perduto la compostezza, nelle parole e nei fatti. Ac­cusò il colpo tanto profondamente da perdere la sere­nità di spirito; volle aprire la sua anima per lettera a don Gregorio Fernàndez, già suo direttore spirituale e vice­rettore del Seminario di Logrono. In data 26 ottobre 1923 don Gregorio gli rispose:

«Mi dispiace profondamente il tuo scontro con Julio, non tanto per lui, che ha ben poco da perdere, quanto per te; mi rendo conto che fu inevitabile da parte tua, ma vorrei che non ti fossi mai trovato nella situazione di difenderti con espressioni tanto forti: conosco la no­biltà dei tuoi sentimenti e sono sicuro che oggi non al­berga nel tuo cuore la minima traccia di risentimento (...). Non devi parlare dell’accaduto con altri all’infuori di Dio» 137.

Ascoltò il consiglio e seppellì la faccenda nel suo cuo­re. Solo dopo la sua morte, tra le sue carte ne comparve una che completa la storia:

«Fra alcune carte - racconta Monsignor Javier Eche- varria - abbiamo trovato un biglietto da visita del semi­narista che aveva provocato l’incidente nella Seo, sul quale era scritto anche il luogo di lavoro: un ospedale della Croce Rossa nel sud della Spagna. Quest’uomo aveva scritto poche parole sotto il proprio nome, Julio Cortés: “Pentito, e nel modo più remissivo e incondizio­nato. Mea culpa”»138.

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6. «Domina, ut sit!»

Sulle rive dell’Ebro, a Saragozza si erge la splendida ba­silica del Pilar sul luogo dove, in epoca musulmana, ci fu un tempio dedicato a Maria Santissima. La sua co­struzione iniziò nel rinascimento, attraversò il barocco e fu terminata, in pieno XVIII secolo, con soluzioni neo­classiche. Dentro la basilica si trova la Santa Cappella della Madonna del Pilar, magnifica cornice che racchiu­de la colonna [el pilar) sulla quale, a quanto racconta la tradizione, la Santissima Vergine ha posato i piedi. La colonna è rivestita di bronzo e argento, e sostiene una piccola statua che rappresenta la Madonna, avvolta in un voluminoso manto e con il Bambino in braccio.

Fin dal suo arrivo a Saragozza, Josemarìa si impose la grata consuetudine di far visita al Pilar, sfruttando i rita­gli di tempo libero fra le lezioni. Finché rimase a Sara­gozza, lo afferma lui stesso, lo fece ogni giorno:

“La devozione per la Vergine del Pilar inizia nella mia vita fin da quando, con la loro pietà di aragonesi, i miei genitori la infusero nell’anima di tutti i loro figli. Più tar­di, durante i miei studi sacerdotali e anche quando ho frequentato la facoltà di Diritto all’Università di Sara­gozza, le mie visite al Pilar erano quotidiane”139.

Da quando era divenuto Ispettore vi conduceva i se­minaristi a recitare una Salve Regina. Benché la devo­zione impregnasse tutta la sua vita interiore, il ricordo che gli rimase di quegli anni fu quello di uno sforzo sol­tanto mediocre di corrispondere alla chiamata divina, “ lavorando solo con ridotta intensità” 140. (Forse perché aveva in mente un passato ancora libero dalle terribili lotte ascetiche che seguirono). Le sue pratiche di pietà erano avallate dalla mortificazione - sgarberie, insulti, grossolanità - e non mancava la penitenza corporale, poiché usava il cilicio141. Avvolto dall’oscurità, conti­

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nuava senza posa a implorare la chiarezza sulla propria chiamata:

“Avevo il presentimento che il Signore volesse qualcosa; passarono parecchi anni senza che sapessi che cos’era, e intanto dicevo di continuo una giaculatoria, ricordando­mi del cieco del Vangelo, cieco anch’io quanto al mio avvenire e al servizio che Dio desiderava da me; “Domi­ne, ut videam! Domine, ut siti”, ho ripetuto per anni: che sia, che si faccia ciò che Tu vuoi; che io sappia, dà luce alla mia anima. Le luci non venivano, ma evidente­mente pregare era la strada giusta”142.

Più di ogni altro vantaggio procuratogli dal suo inca­rico, all’ispettore faceva piacere la libertà di tempo e di movimenti, perché gli consentivano di conversare con PAmico. Josemaria, assiduo e appassionato lettore di Teresa d’Avila, avrà accolto con un sorriso ciò che la Santa racconta di sé: «Il Signore le aveva dato una fede così viva che, quando sentiva dire dagli altri che avreb­bero desiderato vivere al tempo in cui Nostro Signore era sulla terra, rideva tra sé e sé, sembrandole che posse­dendo nel Santissimo Sacramento lo stesso Cristo che allora si vedeva, non vi fosse altro da bramare»143.

A Logrono Josemaria era solito rimanere a lungo in orazione, il pomeriggio, accanto al tabernacolo della Rotonda. E continuò le visite nella chiesa del S. Carlo, benché i suoi impegni come Superiore del seminario non gli lasciassero molto tempo libero. Ma era tale il suo de­siderio di intrattenersi con il Signore - l’amore ha sem­pre nuove risorse - che ben presto scoprì un angolo par­ticolarmente attraente vicino all’altare maggiore, dove si trovava il tabernacolo.

Non appena si spegnevano le luci nel seminario, Jose­maria si recava dal secondo piano dell’edificio alla zona residenziale dei sacerdoti e, da lì, alla parte alta della chiesa del S. Carlo. Quel piano stava sopra le volte delle

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cappelle laterali; aveva ampie tribune, situate fra i con­trafforti del tempio, da dove partivano le nervature che si incrociavano al di sopra della navata. Josemaria s’in­ginocchiava in una di queste tribune, situata sulla destra della chiesa e dominante il presbiterio. Salutava il Si­gnore con la fede viva di cui parla Teresa e fissava gli occhi sul tabernacolo attraverso la grata, mentre il tre­molio della lampada del Santissimo accendeva in uno scintillio momentaneo l’oro della pala d’altare o faceva danzare le ombre nella profusione barocca di nicchie, statue e medaglioni144.

Con la notte davanti a sé, senza interruzioni e con la solitudine che ricolmava gli spazi del tempio, il semina­rista dalla tribuna e il Signore presente nel tabernacolo intavolavano una lunga conversazione, sempre uguale e sempre diversa. Josemaria aveva coltivato intensamente l’amicizia del Signore in quegli ultimi anni. Si sapeva de­streggiare con fiducia e semplicità in un lungo dialogo, senza suono di parole. Parlavano con scioltezza, con l’intimità con cui lo possono fare gli amici.

I pensieri di Josemarfa si saranno a volte affollati nel­la supplica e altre volte gli avranno incendiato l’anima di affetti. Della sua preghiera sappiamo con certezza che era costante e che già da diversi anni ripeteva la stessa supplica: “Domine, ut videam! Domina, ut siti” . E sap­piamo che la supplica non veniva esaudita, ma non per questo egli cessava di chiedere la stessa cosa, giorno e notte. Questa coraggiosa ed eroica perseveranza non era intrisa di dubbi o di scoraggiamenti. Non si trattava neppure di una promessa, ma di presagi d’Amore. E il linguaggio e le pene degli innamorati Josemaria li com­prendeva perfettamente.

In quelle veglie chiedeva forza nella lotta ascetica, lu­ce per i suoi compiti di governo e prontezza nella rispo­sta alla grazia. Persino i particolari delle annotazioni che faceva sui progressi dei seminaristi gli servivano - diceva - “per dialogare con il Signore” .

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Le visite notturne alla chiesa si ripetevano spesso, si andava facendo sempre più frequente quella sua veglia d’amore per il Signore. A partire da allora, quando la sua anima, per qualunque motivo, aveva bisogno di parlare a lungo e intensamente con Gesù dopo una dura giornata di lavoro, egli sapeva quando e dove averLo a sua disposizione. Per questo, mettendo avanti il Vange­lo, potrà scrivere con conoscenza di causa, come diret­tore spirituale, un silenzioso rimprovero:

“ “Pernoctans in oratione Dei” - passò la notte in ora­zione. Così riferisce S. Luca, del Signore. Tu, quante vol­te hai perseverato così? - Allora...”145.

* * *

Il 14 maggio 1924 rivolse un’istanza al Vicario Capito­lare dell’arcidiocesi, ancora vacante dopo l’assassinio del cardinale, nella quale esponeva il suo desiderio di ri­cevere il suddiaconato “ sentendosi chiamato allo stato sacerdotale” 146. Il Vicario, com’era suo dovere, chiese informazioni al Rettore, il quale rispose che l’aspirante aveva osservato «buona condotta morale e religiosa, ri­cevendo con frequenza il sacramento della Penitenza e ogni giorno quello della Comunione»147.

Il Suddiaconato gli fu conferito da don Miguel de los Santos il 14 giugno, nella chiesa del S. Carlo148.

Poco prima aveva superato gli esami del quinto anno di Teologia, ottenendo in tutti il voto di meritissimus. Nel suo fascicolo accademico, ormai completo, com­paiono venti materie: sedici con il massimo voto (meri­tissimus), due con benemeritus e altre due, il Greco e l’Ebraico, con meritus149.

Come suddiacono «si sentiva già ministro di Dio»150. La vicinanza al sacerdozio lo riempiva di gioia. Ma, pro­babilmente per questo motivo, incominciarono a deterio­rarsi le relazioni del suddiacono con lo zio Carlos. All’ini­zio l’arcidiacono l’aveva accolto sotto la sua protezione,

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aiutandolo a entrare nel S. Carlo con mezza borsa di stu­dio, invitandolo spesso a casa e prestandogli altri piccoli servizi. Tuttavia, come dichiara uno degli amici intimi di Josemaria, il nipote «non potè mai avere delle relazioni molto cordiali con suo zio»151. Questi era uno dei parenti che avevano criticato il gesto eroico del signor José, quan­do si era distaccato cristianamente, a motivo del fallimen­to, dai beni della famiglia, mettendo così gli Escrivà ai confini della povertà. Con il passare degli anni, il rappor­to fra l’arcidiacono e il seminarista si fece sempre più dif­ficile, perché Josemaria non accondiscese mai ad assecon­dare i piani che don Carlos si era mentalmente tracciato rispetto alla futura carriera del nipote.

Sixta Cermeno, sposata con un cugino di Josemaria allora residente a Saragozza, spiega che l’arcidiacono, «consapevole dell’importanza della sua carica nell’arci- diocesi, si considerava una figura di rilievo nella fami­glia e responsabile di essa»152. A questa figura di protet­tore e di consigliere univa una concezione della carriera ecclesiastica molto diversa dall’idea che il nipote aveva del sacerdozio. Il primo credeva di «essere arrivato al culmine»; il secondo «non aveva il minimo interesse a far carriera con il sacerdozio»153.

Durante le vacanze estive, Josemaria preparò gli esa­mi della Facoltà di Diritto. Era un bel gruppo di mate­rie. Il professor Sànchez del Rio riferisce i particolari:

«Era nel mese di settembre dell’anno 1923 o 1924 che feci parte delle Commissioni che lo esaminarono in Di­ritto canonico e in Diritto romano (gli esami degli alun­ni liberi avvenivano sempre davanti a una Commissio­ne). Entrambe le Commissioni erano formate da Juan Moneva, da José Pou e da me. Ricordo che, all’inizio dell’esame di Diritto canonico, Juan Moneva, ordinario della materia, si rivolse a lui in latino chiedendogli se vo­lesse fare l’esame in questa lingua; senza esitare egli ri­spose di sì e così fece; le sue risposte furono ottime, con­

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crete e concise; in un latino corretto rispondeva rapida­mente, in forma breve e chiara; fu un esame brillante. L’esame di Diritto romano mise in evidenza la speciale predilezione che aveva per questa disciplina»154.

» !' 51-

Quando andava a far visita al Pilar doveva spesso fare la coda con gli altri fedeli prima di riuscire a baciare il trat­to di colonna non rivestito, consunto dalle labbra di ge­nerazioni e generazioni di cristiani. Lì, nella Santa Cap­pella, ripeteva le sue insistenti giaculatorie: "Domine, ut sit!” , che sia ciò che Tu vuoi e che io ignoro! E così pure, rivolto alla Santissima Vergine: “Domina, ut sit!”155.

Non contento di baciare la colonna, desiderava avvi­cinarsi alla sacra immagine. A quanto raccontò poi, al­cuni mesi prima si era avvalso di uno stratagemma per riuscirci, perché era consentito baciare il manto che ri­vestiva l’immagine solo ai bambini e alle autorità:

“Poiché ero buon amico di diversi sacerdoti che avevano cura della basilica, un giorno potei fermarmi in chiesa dopo la chiusura delle porte. Mi diressi verso l’immagi­ne della Madonna, con la complicità di uno di quei buo­ni sacerdoti, ormai defunto, salii quei pochi gradini che così bene conoscono i bambinetti e, avvicinatomi, baciai l’immagine di nostra Madre”156.

L’Ispettore aveva in camera sua, al S. Carlo, una ri- produzione in gesso di quell’immagine. Non valeva granché. Proveniva dal famiglio del Cardinal Soldevila e ad essa ricorreva chiedendo, in maniera incessante, la sua mediazione perché si compisse quanto prima la Vo­lontà divina:

“A una semplice immagine della Madonna del Pilar affi­davo in quegli anni la mia preghiera, affinché il Signore mi concedesse di capire ciò che la mia anima già presagi­va. “Domina! - le dicevo in un latino non propriamente

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classico, ma abbellito dall’affetto - ut siti”, che sia di me quello che Dio vuole che sia”157.

La sua preghiera era così insistente che si mise a inci­dere la giaculatoria, con la punta di un chiodo, sulla ba­se della statuetta che rimase a Saragozza quando Jose- maria dovette andarsene di lì. E non la rivide fino al 1960, a Roma, quando una delle sue figlie dell’Opus Dei gli mostrò una statuetta della Madonna del Pilar che era rimasta fino ad allora in casa di un suo parente;, a Saragozza. Gliela facevano avere a Roma - raccontò poi lui stesso - perché era stata sua:

“Padre, è arrivata qui una statuetta della Madonna del Pilar che lei aveva a Saragozza. Le risposi: no, non mi ri­cordo. E lei: sì, la guardi; c’è una cosa scritta da lei. Era una statuetta tanto brutta che mi pareva impossibile fos­se stata mia. Me la mostrò e sotto la base, con un chio­do, c’era scritto sul gesso: “Domina, ut sit! ”, con un so­lo punto esclamativo, come sono solito fare con le giaculatorie che scrivo in latino. “Signora, che sia!” . E una data: 24-5-924.Il fatto è che molte volte, figli miei, il Signore mi umilia. Mentre a volte mi dà una straordinaria chiarezza, molte altre volte me la toglie, perché non abbia alcuna sicurezza in me stesso. Poi viene e mi concede qualche zuccherino.Vi avevo parlato molte volte dei presentimenti, anche se talvolta pensavo: Josemarìa, forse hai ingannato, hai mentito... Quella statuetta era la materializzazione della mia preghiera di molti anni e di cui vi avevo parlato tan­te volte”158.

7. Morte di José Escrivà

Il 27 novembre 1924, Josemarìa ricevette un telegram­ma di sua madre in cui gli si chiedeva di recarsi a Lo­grono, poiché suo padre si era gravemente ammalato.

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Prese il treno del pomeriggio. Alla stazione di Logrono10 aspettava Manuel Ceniceros, il figlioccio del signor Garrigosa, che lavorava come impiegato al negozio “La Gran Ciudad de Londres” . Era stato Manuel a mandare11 telegramma, su richiesta della signora Dolores159; dal tono del telegramma e dall’ansia con cui il Presidente del Seminario, Monsignor Miguel de los Santos Diaz Gómara, gli aveva comunicato la notizia, Josemaria già prima di lasciare Saragozza si era reso conto che suo pa­dre era già morto. Entrato in casa, vide la salma pieto­samente composta dalla madre e dalla sorella. Riposava sul pavimento della sala, sopra una trapunta color gra­nata. Il figlio sfogò la sua pena con molte lacrime e pregò con grande serenità cristiana.

Gli raccontarono l’accaduto. Al mattino presto, dopo colazione, il signor José si era messo a giocare con il pic­colo Guitìn. Si era inginocchiato un momento davanti all’immagine pellegrina della Vergine della Medaglia Miracolosa, alla quale era molto devoto e che si trovava in quei giorni in casa degli Escrivà. Aveva poi salutato i familiari, prima di andare al lavoro, ma prima di arriva­re alla porta lo aveva colto un malore. Con un grido si era appoggiato allo stipite della porta ed era poi caduto di schianto. Al rumore della caduta erano corse Carmen e la moglie. Lo avevano steso sul letto e, rendendosi conto della gravità del suo stato, avevano subito avvisa­to il medico e il parroco. Il medico non aveva potuto fa­re nulla. Due ore più tardi, dopo aver ricevuto gli ultimi sacramenti, moriva senza aver ripreso conoscenza160.

“La Gran Ciudad de Londres” aveva aperto al pub­blico alle nove, come al solito. I dipendenti si erano sor­presi che non fosse ancora arrivato il signor José. Era una cosa insolita il ritardo di un uomo sempre estrema- mente puntuale. Il proprietario, colto da un presenti­mento, aveva mandato Manuel a casa Escrivà, in via Sa­gasta, per informarsi se era accaduto qualcosa. Poco dopo José Escrivà moriva161.

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Josemaria, con il cuore spezzato dal dolore, confortò i suoi. Al piccolo Santiago, che stava per compiere sei an­ni, rimase molto impresso il gesto di suo fratello quan­do, davanti alla salma, promise di fare per loro le veci di padre. («Davanti a mia madre, a mia sorella e a me dis­se - sono le parole che ricorda - che non ci avrebbe mai abbandonati e avrebbe avuto cura di noi»)162.

Josemaria si occupò dei preparativi per i funerali e la sepoltura: la bara, le esequie, la tomba e il resto. La fa­miglia non disponeva di denaro sufficiente per le spese necessarie. In così amara circostanza, Josemaria dovette recarsi da don Daniel Alfaro, un cappellano militare amico di famiglia. Gli fu per sempre riconoscente per il suo caritatevole prestito. Ben presto gli restituì il dena­ro, ma non cessò mai di pregare per lui, per gratitudine, durante la Messa; per alcuni anni nel memento dei vivi e poi in quello dei defunti163.

Vegliarono la salma tutta la notte. Erano presenti gli amici di Logrono e i conoscenti del defunto. Mancava­no i parenti.

Il giorno seguente ci fu la sepoltura. Prima di chiudere la cassa, Josemaria ritirò il crocifisso che il padre teneva tra le mani: una croce povera e consunta che prima era passata dalle mani della nonna Constancia164.

Il piccolo corteo attraversò il ponte, andando verso il cimitero. Josemaria andava davanti, da solo, come unico parente del defunto. La madre e la sorella erano rimaste a casa, poiché non usava che le donne della famiglia prendessero parte alla sepoltura. Accanto alla tomba si recitò il responsorio finale e subito dopo don Daniel Al­faro, su richiesta di Josemaria, ne recitò un altro.

Calarono la cassa nella fossa. Il figlio lasciò cadere il primo pugno di terra. Il becchino gli diede la chiave con la quale avevano chiuso la bara. Ritornarono in città e, sulla strada del ritorno, mentre attraversavano il ponte sul fiume Ebro, l’orfano meditava sul proprio abbando­no. Mise la mano in tasca ed estrasse la chiave della ba­

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ra. Con decisione, quasi per distruggere ciò che poteva rappresentare un simbolico attaccamento contrario alla vocazione, buttò la chiave nel fiume. “A che scopo” - disse fra sé - “dovrei conservare questa chiave, che può essere per me una specie di legame?” 165.

Seguirono giorni di lutto e di intimità familiare. Il ca­so volle che il primo dicembre si facesse il censimento municipale della popolazione. Nessun documento avrebbe potuto indicare con maggior semplicità il cam­biamento avvenuto nel domicilio degli Escrivà, del fo­glio di censimento firmato dal “capofamiglia” : «Dolo­res Albàs, Vedova Escrivà»166.

Anche se ufficialmente la vedova appariva come ca­pofamiglia, fu il figlio maggiore a farsi carico di tutti, decidendo che dopo qualche settimana non appena fos­se riuscito ad affittare un appartamento a Saragozza, li avrebbe portati a vivere con sé. All’improvviso era ca­duto sulle spalle del giovane seminarista il pesante onere di dover provvedere al sostentamento della famiglia. Le speranze riposte nel fratello piccolo, la cui nascita egli aveva chiesto al Signore dopo aver deciso di farsi sacer­dote, per poter essere sostituito, erano state vane. Ora avrebbe dovuto fare da padre, più che da fratello mag­giore, a Santiago167.

Esaminò la propria situazione. Era suddiacono e, co­me tale, vincolato da impegni assunti davanti alla Chie­sa, fra cui quello di dedicarsi nel celibato al servizio di Dio. Nella presente situazione gli sarebbe stato possibile ottenere la dispensa dal celibato. Chi se ne sarebbe po­tuto meravigliare in vista dei suoi nuovi obblighi? Tutta­via, nonostante la recente disgrazia, si sentì interiormen­te fortificato e più che mai confermato nella vocazione. La sua illimitata fiducia nella Provvidenza aveva risolto il problema. Se la morte di suo padre fosse avvenuta pri­ma del suddiaconato, non avrebbe forse potuto sorgere in lui il fondato dubbio se continuare o meno fino al sa­cerdozio168?

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Ora, come contropartita di questa nuova disgrazia fa­miliare, gli appariva con maggior chiarezza il significato della propria vita e la mano di Dio, che lo conduceva at­traverso la sofferenza. Attraverso la via del dolore veni­va spogliato degli affetti umani, delle risorse materiali e di quanto avrebbe potuto rappresentare un appoggio nel futuro. Davanti ai suoi occhi sfilavano le tre sorelli­ne morte a Barbastro, il fallimento del commercio di suo padre, le ristrettezze economiche e la famiglia orfa­na a suo carico. Tutto faceva parte della storia della sua anima, che il Signore stava forgiando a colpi di sventure nella sua famiglia:

“Ho fatto sempre soffrire molto quelli che mi stavano intorno. Non ho provocato delle catastrofi ma il Signo­re, per colpire me che ero il chiodo - perdona, Signore - dava un colpo al chiodo e cento al ferro del cavallo. E vidi mio padre come la personificazione di Giobbe. Per­sero tre figlie, una dopo l’altra, in anni successivi, e sono rimasti senza un soldo”169.

José Escrivà era morto consumato dal lavoro e dalle preoccupazioni; da lui il figlio apprese una lezione che non avrebbe mai dimenticato:

“Lo vidi soffrire con serenità, senza mostrare la soffe­renza. E vidi un coraggio che fu per me una scuola, per­ché poi ho sentito tante volte che mi veniva a mancare la terra sotto i piedi e che mi cadeva il cielo addosso, come se stessi per essere schiacciato fra due lastre di ferro.Con quelle lezioni e con la grazia del Signore, forse ho perduto in qualche occasione la serenità, ma poche volte (...).Mio padre è morto esausto. Aveva sempre il sorriso sul­le labbra ed era di una simpatia particolare”170.

Riconosceva il ruolo svolto dai suoi genitori nei piani divini e l’esemplarità delle loro virtù. La figura del pa­

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dre - paziente e sereno di fronte alle avversità, dimenti­co di se stesso e al servizio del prossimo - crebbe santa­mente nella memoria del figlio, conservata con una con­vinzione più profonda del solo affetto filiale:

“Logrono!” - scriveva in una lettera del 9 maggio 1938 “Ricordi molto intimi: in quel camposanto stanno i resti di mio padre, che per me - per molte ragioni - sono reli­quie: spero di “riscattarli”, un giorno”171.

8. La prima Messa

Due settimane prima della morte del padre, Josemaria aveva fatto istanza per ricevere il diaconato, “ sentendo­si chiamato allo stato sacerdotale” 172. E poco dopo, proprio nei giorni della morte di José Escrivà, il Segreta­rio dell’Arcivescovado preparò la rogatoria dell’ordina­zione che il Vicario Capitolare inviò in data 5 dicembre alla diocesi di Calahorra e La Calzada. Sia il parroco di Logrono, don Ilario Loza, sia il cappellano militare don Daniel Alfaro e altri testimoni fecero le dovute dichiara­zioni sulla condotta e la buona fama del suddiacono. Concluse le pratiche, il 20 dicembre don Miguel de los Santos conferiva a Josemaria l’Ordine Sacro del diaco­nato, nella chiesa del S. Carlo173.

E molto probabile che abbia trascorso alcuni giorni a Logrono prima di ritornare al S. Carlo a ricevere il dia­conato, poiché Paula Royo ricorda i fatti divertenti che Josemaria le aveva raccontato circa la ricerca di un ap­partamento a Saragozza174. La situazione familiare con­sigliava, evidentemente, il trasferimento. Entro alcuni mesi sarebbe stato ordinato sacerdote e incardinato a Saragozza; economicamente gli sarebbe stato impossibi­le mantenere due case e, inoltre, gli sarebbe stato intol­lerabile stare lontano dai suoi nelle nuove circostanze.

L’appartamento che, a titolo provvisorio, Josemaria

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prese in affitto era al terzo piano di una casa stretta e soffocata in via Urrea. Di là si trasferirono alcune setti­mane dopo a un modesto appartamento al n. 11 di via Rufas175.

I rapporti di Dolores Escrivà con alcuni parenti della sua famiglia, già non troppo cordiali fino a quel mo­mento, peggiorarono a motivo della morte del marito e divennero freddi e tesi. Questo brusco cambiamento eb­be luogo quando gli Escrivà decisero di trasferirsi a Sa­ragozza. Non deve stupire la reazione di don Carlos, au­toritario e pago della propria importanza nell’ambito ecclesiastico. Non aveva neppure assistito ai funerali di suo cognato a Logrono, ma si indignò vivamente quan­do seppe che presto gli Escrivà sarebbero comparsi a Sa­ragozza. A quanto dice Pascual Albàs, uno dei nipoti, i fratelli della signora Dolores avevano pensato persino di passarle un piccolo importo, a titolo di pensione, se fos­se rimasta a Logrono. L’arcidiacono pensava pure che «Josemarìa doveva lasciar perdere qualunque altro stu­dio, ricevere l’ordinazione e trovarsi un posto, per man­tenere sua madre e i fratelli», come racconta Sixta Cer- meno176.

È probabile che negli zii albergasse in fondo il rifiuto, mosso dalla vanità o dalla mondana vergogna, di dover aver a che fare, nei rapporti sociali, con dei parenti im­poveriti. Inoltre, una nipote che viveva con l’arcidiaco­no, chiamata Manolita, riuscì ad avvelenarlo al punto da inimicare definitivamente lo zio contro il nipote177. Lo si vide quando, poco dopo che gli Escrivà si erano trasferi­ti a Saragozza, ebbe luogo un grave incidente familiare. Josemarìa, accompagnato da Carmen, era andato con la migliore intenzione a far visita allo zio Carlos. L’arcidia­cono, come primo saluto di benvenuto, pronunciò delle frasi fuori tono e piuttosto grossolane. Parole che, a buon intenditore, venivano più o meno a dire:

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«Che diavolo siete venuti a fare a Saragozza? A esibire a tutti la vostra povertà?».

Carmen, senza degnarsi di rivolgergli la parola, disse al fratello:

«Josemaria, andiamocene di qui, ché in questa casa non siamo ben visti».

L’arcidiacono non fece marcia indietro né si scusò per quegli insulti che equivalevano a un ceffone178. Jose­maria non si lagnò del trattamento ricevuto. In varie oc­casioni cercò di riavvicinarsi a don Carlos, ma senza ri­sultato. Solamente i fatti luttuosi della guerra civile fecero dimenticare all’arcidiacono gli antichi pregiudizi. All’inizio degli anni quaranta, il nipote andò a trovare don Carlos a Saragozza. «Don Josemaria non voleva che pensassero - riferisce una persona che lo accompa­gnava - che avesse serbato qualche risentimento»179. Uscì contento dalla visita; non lui era cambiato, bensì lo zio. I sentimenti di josemaria nei confronti del fratello di sua madre furono sempre di eccezionale carità. Quando ricevette notizia della morte di don Carlos si affrettò a scrivere poche righe ai propri fratelli, Carmen e Santiago, in data 6 gennaio 1948:

“Ho saputo della morte di don Carlos: vi chiedo di offri­re suffragi per la sua anima; dato che si è comportato così male con la mamma e con noi, ritengo che siamo più obbligati a pregare per lui. Se farete così, farete pia­cere a Dio nostro Signore, e io ve ne sarò grato”180.

(La notizia, peraltro, era sbagliata. Lo zio morì due anni dopo).

* * *

La famiglia si adattò alla nuova vita senza lamentarsi. I parenti più agiati non diedero loro alcun aiuto. Poco

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dopo il loro trasferimento in via Rufas, un nipote della signora Dolores che lavorava in banca andò ad abitare con loro, il che comportò un certo sollievo economico, poiché pagava 150 pesetas di pensione181.

Gli impegni come Ispettore e l’assistenza come diaco­no alle funzioni della chiesa del S. Carlo trattenevano Josemaria fuori di casa. Dall’esercizio del diaconato gli rimasero impresse emozioni indelebili. Era tale il deside­rio con cui aveva atteso quel momento, così grande era il rispetto per Gesù Sacramentato, che quando toccava le Sacre Specie gli tremavano le mani e persino tutto il corpo. La prima volta che gli capitò fu durante una Esposizione solenne, quando dovette inserire la lunetta con l’ostia nell’ostensorio. In quel momento chiese inte­riormente al Signore di non abituarsi mai ad averlo vici­no. Fino al termine della sua vita perdurò l’impressione di quel fortunato incontro; e nel 1974 confessava che a volte gli tremavano ancora le mani, come la prima vol­ta182. Nella chiesa del S. Carlo distribuiva la Comunio­ne ai fedeli e tra questi a sua madre:

“In questa casa di S. Carlo ho ricevuto la formazione sa­cerdotale” - commenterà diversi anni dopo -. “Qui, a questo altare, mi avvicinai tremante per prendere le Sa­cre Specie e dare per la prima volta la Comunione a mia madre. Non potete immaginare... Passo da emozione ad emozione”183.

Sognando il proprio sacerdozio gli sembrava lunga l’attesa. Aveva solamente ventitré anni, per cui dovette richiedere la dispensa pontificia per difetto di età cano­nica. Il 20 febbraio 1925 gli giunse da Roma la risposta positiva184; e il 4 marzo presentò istanza al Vicario Ca­pitolare, nella quale scriveva:

“Desiderando ricevere l’Ordine Sacro del Presbiterato alle prossime Tempora della quinta settimana di Quare­

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sima, sentendosi chiamato da Dio allo stato sacerdotale, supplica la S.V. Ill.ma che si degni di concedergli le op­portune lettere dimissorie, previa verifica dei requisiti ri­chiesti dai sacri Canoni”185.

Le pratiche furono fatte secondo la prassi canonica e con una certa urgenza, poiché il sabato delle Tempora cadeva quell’anno il 28 marzo. I documenti della prati­ca sono l’esame di sufficienza nel Reale Seminario di S. Carlo, la lettera rogatoria del Vicario alla diocesi di Ca­lahorra, le pubblicazioni a Logrono e la risposta del parroco di Santiago el Reai, completata da quattro informazioni rese sotto giuramento che dichiaravano che «don José Maria Escrivà Albàs è degno di essere ammesso a quanto richiesto». Quest’ultimo documento, datato Logrono 23 marzo, fu poi spedito a Calahorra, da dove, approvato il tutto, i documenti ritornarono al­la Segreteria dell’Arcivescovado di Saragozza186.

Il sabato delle Tempora, 28 marzo 1925, fu celebrata nella chiesa di S. Carlo la cerimonia dell’ordinazione sa­cerdotale; gli conferì il presbiterato il Vescovo Miguel de los Santos Diaz Gómara187.

L’ordinando seguì con grande concentrazione le varie cerimonie liturgiche: l’unzione delle mani, la traditio in- strumentorum, le parole della consacrazione... Emozio­nato e confuso davanti alla bontà del Signore, considerò un’inezia le difficoltà patite fin dal giorno della sua chiamata, e si sentì inondato di gratitudine come un in­namorato felice188.

Fece i preparativi per la sua prima Messa. Non la si poteva chiamare solenne; sarebbe stata una Messa reci­tata, il lunedì della Settimana di Passione, con i para­menti viola e offerta in suffragio di suo padre. Il novello sacerdote inviò l’immagine ricordo a poche persone, a causa del lutto. Avrebbero celebrato l’evento nell’inti­mità. Fece stampare, sul verso di alcune immaginette della Madonna, l’invito a ricordo della circostanza:

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«Il PresbiteroJosé Maria Escrivà y Albàscelebrerà la sua prima Messa nella Santa e Angelica Cappella del Pilar di Saragozza, il 30 marzo 1925, alle dieci e mezza del mattino, in suffragio dell’anima di suo padre D. José Escrivà Corzàn, che si è addormentato nel Signore il 27 novembre 1924.A.M.D.G.Invito e ricordo»189.

Non gli era stato facile ottenere la Santa Cappella; ma era suo vivo desiderio celebrare proprio lì, nel luogo in cui si recava tutti i giorni e dove gridava il suo “Domi­na, ut sit!” Del resto, la Messa fu più dolorosa di quan­to il celebrante potesse prevedere, anche se poi nascose la memoria e le circostanze dell’evento in una frase es­senziale: “nella Santa Cappella, davanti a pochissime persone, ho celebrato senza chiasso la mia prima Mes­sa” 190.

Il fratello Santiago, che aveva sei anni, ricorda la sem­plicità della cerimonia e l’esiguità delle presenze: «Fu una Messa recitata, alla quale abbiamo assistito mia madre, mia sorella Carmen, io e pochi altri». Sua cugi­na, Sixta Cermeno, ne fa una relazione più esauriente:

«Mio marito e io eravamo gli unici della famiglia Albàs che, insieme a sua madre, abbiamo assistito a quella pri­ma Messa (...).C’eravamo la madre di Josemaria (la zia Lola), sua so­rella, il bambino (che aveva allora sei anni), mio marito e io, due ragazze di Barbastro che si chiamano de Cortés ed erano intime amiche di Carmen (avevano la stessa età) e qualcun altro che non conoscevo: mi pare di ricor­dare due o tre sacerdoti e probabilmente erano presenti alcuni amici delPUniversità o del seminario. E difficile dirlo perché, come è noto, la Cappella del Pilar è sempre piena di gente»191.

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L’assenza dei sacerdoti della famiglia della signora Dolores e l’esiguo numero dei presenti davano un’im­pressione di solitudine. «I suoi zii Carlos, Vicente e Ma­riano Albàs - riferisce Amparo Castillón - non furono presenti, nel 1925, alla sua prima Messa, alla quale io ho assistito, e mi resi conto che era molto solo»192.

Il Rettore, don José Lopez Sierra, aggiunge che i sa­cerdoti amici della famiglia fecero da padrini d’altare e, in vena patetica, descrive la scena nella Santa Cappella: la madre «era sciolta in un mare di lacrime e a momenti sembrava sul punto di svenire», mentre noi in ginoc­chio, «senza neppure muovere le ciglia, immobili per tutta la Messa, contemplavamo i movimenti sacri di quell’angelo in terra » 193.

L’emozione della signora Dolores, che quella mattina si era alzata benché ammalata, si alimentava al ricordo dei grandi sacrifici che lei e il marito avevano sopporta­to per potere un giorno assistere a quella cerimonia. Questo pensiero dovette attraversare anche la mente di sua nipote, Sixta Cermeno, la quale dice di ricordare che «accanto all’intimità del momento si notava una nota triste» e che la madre piangeva «probabilmente perché pensava alla recente perdita di suo marito»194.

Il novello sacerdote desiderava che sua madre fosse la prima persona a ricevere dalle sue mani una delle parti- cole da lui consacrate. Ma non ebbe questa gioia poiché una brava donna si fece avanti e s’inginocchiò quando stava per distribuire la comunione, per cui Josemaria si vide obbligato a darla a lei per prima, per non apparire sgarbato195. Terminata la Messa, in sacrestia ebbe luo­go, come consuetudine, il baciamani; poi i saluti augu­rali e il commiato del piccolo gruppo di presenti. Di quella prima Messa Josemarfa serbò un sapore di sacri­ficio. Se la ricordava come “una raffigurazione del dolo­re, con mia madre vestita a lutto” 196.

All’altare, mentre celebra la santa Messa, il sacerdote esercita il suo ministero liturgico nel modo più eccelso.

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Lì si immola quella stessa Vittima che si è offerta sulla Croce per redimere tutta l’umanità. Josemaria, identifi­cato personalmente e definitivamente con Cristo in virtù del sacramento dell’Ordine, fece del Sacrificio Eucaristi­co il centro della propria vita interiore. E, come alla vi­gilia della sua prima Comunione aveva ricevuto in ri­cordo la dolorosa carezza di una bruciatura per una distrazione del parrucchiere, così anche ora gli rimase impresso nella memoria il sacrificio di un devoto deside­rio: dare la Comunione a sua madre prima che a chiun­que altro nella sua prima Messa. Il Signore, evidente­mente, lo attirava sempre più verso la Croce con queste piccole dimostrazioni di predilezione.

Nell’appartamento di via Rufas erano invitati a pran­zo i nipoti della signora Dolores, le due amiche di Car­men venute da Barbastro e poche altre persone amiche. Il modesto ricevimento abbinava la povertà al buon gu­sto. La padrona di casa aveva preparato un eccellente piatto di riso197.

Quando ebbero finito di mangiare, il sacerdote si ri­tirò in camera sua. Gli avevano appena notificato la sua prima nomina nella carriera ecclesiastica. Andò con il pensiero agli avvenimenti degli ultimi mesi e ai recenti fatti della giornata. Aveva qualche motivo di pensare che il Signore continuasse il ben noto martellamento: “un colpo al chiodo e cento al ferro del cavallo” . Scon­solato, protestava filialmente e fra i singhiozzi con il Si­gnore: “ Come mi tratti, come mi tratti!” 198.

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NOTE CAPITOLO III

1 Cfr J. Escrivà de Balaguer, Huellas de Aragón en la Iglesia Universal, in “Universidad” , Saragozza 1960, n. 3-4, p. 6.2 Cfr Appendice documentale, documento X.3 Se leggiamo i commenti del famoso autore del Viaje de Espana capiremo quanto sia mutevole il gusto artistico: «La chiesa che fu dei Gesuiti e oggi del Reale Seminario di S. Carlo - scriveva Antonio Ponz verso la fine del XVIII secolo - assomiglia al negozio di un venditore di specchi, special- mente la cappella della Comunione. Tutto questo fa contrasto con ottimi stucchi che, imitando il marmo, fanno da fregio o da balza a tutta la chiesa e alle cappelle. Il meglio che vi ho trovato è stato l’altare di S. Lupercio (...). Il cattivo gusto di questa chiesa supera quanto ho riferito di essa, e non so a che cosa pensasse padre Norberto Caimo o Vago Italiano quan­do, in una lettera del 7 luglio 1755, scrisse di questa chiesa che era “la più vaga” , vale a dire la più graziosa di Saragozza, come pure la più ricca di oro e di oggetti preziosi;vsenza dubbio dovettero ingannarlo le dorature, e gli stucchi che egli prese per marmi» (A. Ponz, Viaje de Espana, tomo XV, lettera II, 33, Madrid 1788; riedito da M. Aguilar, Madrid 1947, p. 1318). E ben noto comunque il sistematico disprezzo di Ponz per l’arte barocca.4 Cfr E. Subirana, Annuario Ecclesiastico, cit., (Arcidiocesi di Saragozza), in cui sono elencati, anno per anno, i sacerdoti membri del Reale Semina­rio di S. Carlo.5 In data 6 settembre 1886 apparve nel Bollettino Ufficiale della Diocesi il bando di concorso per 50 borse di studio.Nell’archivio dei libri appartenenti al Seminario esisteva un fascicolo fatto di fogli bianchi rilegati, 83 dei quali manoscritti. Si tratta della Storia della fondazione del Seminario dei poveri di S. Francesco di Paola, in cui si par­la degli inizi, nell’anno 1886, e sono riferiti alcuni avvenimenti e usanze del seminario fino all’anno scolastico 1905-1906.Nell’anno 1897-98 si verificarono due fatti importanti: uno nel Seminario

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Conciliare, che passò al rango di Università Pontificia, con tre Facoltà: Fi­losofia, Teologia e Diritto Canonico; l’altro nel Seminario di S. Francesco, dove si cominciò ad ammettere seminaristi paganti (pp. 77-79).6 Regolamento per il regime e il buon governo del Seminario dei Poveri di S. Francesco di Paola della Città di Saragozza, disposto dall'Eminentissi­mo e Reverendissimo Mons. Francisco de Paula Cardinal Benavides, Arci­vescovo di Saragozza, etc., Saragozza 1887. Salvo che per l’orario e qual­che altro punto, il Regolamento restò in vigore anche durante gli anni che Josemaria passò nel seminario.7 Durante l’anno 1920-21 c’erano in totale 37 alunni, 23 dei quali studia­vano latino, 11 filosofia e 23 teologia (cfr Fogli di iscrizione e Verbali degli esami). «I due seminari erano equiparati - racconta Hugo Cuberò, un con­discepolo di Josemarfa - e l’uno serviva semplicemente di ampliamento al­l’altro: non esistevano privilegi né differenze nell’appartenere a uno dei due» (Hugo Cuberò Berne, AGP, RHF, T-02859, p. 1).Nell’anno 1897-98, quando l’Arcivescovo decise l’ammissione di seminari­sti paganti, la retta fu fissata a 1,25 pesetas al giorno; importo che non cambiò per più di 25 anni: cfr Historia de la Fondación, op. cit., pp. 78-79; e Rendiconti economici dei corsi 1920-1925 del Seminario di S. Francesco di Paola, visti ed esaminati dalla Giunta Economica del Reale Seminario Sacerdotale di S. Carlo (questi manoscritti, insieme a tutta la documenta­zione del Seminario di S. Francesco di Paola, sono stati recentemente tra­sferiti all’Archivio Diocesano di Saragozza).Per quanto concerne gli allievi interni del Seminario Conciliare, il Regola­mento stabiliva, per la «retta degli alunni diocesani ed extradiocesani», quanto segue: «Gli alunni diocesani pagheranno in ragione di 1,50 pesetas al giorno; gli extradiocesani 2,50 pesetas»; e inoltre che, «oltre alla pensio­ne stabilita all’articolo precedente, saranno dovute per ogni posto 20 pese­tas per l’uso del letto di ferro con materasso, tavolo, tavolino da notte, portacatino, brocca per l’acqua, attaccapanni, sedia e bugia, ecc.» (cfr Re­golamento disciplinare del Seminario Generale Pontificio di S. Valero e S. Braulio di Saragozza, anno 1925, articoli 222 e 223).Come si deduce dalla pensione degli alunni extradiocesani, i due seminari erano sovvenzionati.8 Poco dopo l’inaugurazione del seminario fu deciso che i seminaristi usas­sero questa uniforme, che fu loro imposta in una solenne cerimonia dallo stesso cardinale il 5 dicembre 1886 (cfr Historia de la fundación, op. cit., anno 1886-1887).9 Sembra che verso la fine degli anni venti tutte le camere avessero già la luce elettrica. Sui seminari di Saragozza, cfr F. Torralba, Reai Seminario de San Carlos Borromeo de Zaragoza, Saragozza 1974; e J. Cruz,, El Semina­rio de Zaragoza. Notas históricas, Saragozza 1945.10 La meditazione veniva fatta leggendo ad alta voce alcuni punti dell’ope­ra di P. Francisco Garzón, Meditaciones espirituales, sacadas en parte de las del V. P. Luis de la Puente, Madrid 1900.

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11 Per concessione di Carlo III fu destinato a seminario dapprima il Colle­gio dell’Eterno Padre, che era stato dei Gesuiti. Durante il primo assedio di Saragozza da parte delle truppe napoleoniche il Collegio fu utilizzato come polveriera e distrutto da un’esplosione nel 1808. Dieci anni dopo furono destinati a seminario i piani alti del S. Carlo, finché, nel 1848, lo si trasferì nell’edificio di piazza della Seo.Sulla riorganizzazione degli studi ecclesiastici e la creazione di nuove Uni­versità Pontificie in Spagna, cfr Diccionario de Historia Eclesiàstica de Espana, op. cit., voi. IV, pp. 2427-2428.Nel Regolamento disciplinare del Seminario Pontificio si diceva: «Gli alun­ni del Seminario si classificano in interni, del Conciliare o del S. Francesco, ed esterni» (cit., art. 49); e più oltre: «I collegiali del Seminario di S. Fran­cesco si uniformano in tutto al piano di studi del Pontificio, ore di lezione e materie dei corsi, e si devono sottomettere, durante la loro permanenza in questo Seminario, alla disciplina dello stesso» (art. 51).12 Uno dei libri di lettura usati in refettorio era quello di Juan Maria Solà S.J., La profeda de Daniel, Barcellona 1919. Lo si rileva dal Rendiconto economico dell’anno 1921-1922: «Profecia de Daniel, Ley de expiación del P. Solà per la lettura in refettorio: ricevuta n. 4, 16,50 pts.».13 Per la lettura spirituale si utilizzava Ejercicio de Perfección di P. Alonso Rodrìguez S.J.14 Dal 1920 al 1922 gli ispettori furono i chierici Santiago Lucus e Luis Torrijo; il primo, suddiacono; il secondo aveva ricevuto gli ordini minori. Cfr Bollettino Ufficiale della Diocesi, Saragozza 1922, pp. 5- 15.15 Cfr Appendice documentale, documento X.16 Altri due suoi zii, Florencio e Carmen, andavano con una certa frequen­za a trovare Josemaria in seminario. «Eravamo soliti andare la domenica pomeriggio e parlavamo passeggiando per quei grandi corridoi» (Carmen Lamartm, AGP, RHF, T-04813, p. 3).Cfr anche Javier Echevarria, Sum. 1895; Francisco Moreno Monforte, AGP, RHF, T-02865, p. 6.17 Cfr Francisco Moreno Monforte, AGP, RHF, T-02865, p. 5. Cfr anche il Libro delle Riunioni dell3Associazione dell3Apostolato della Preghiera del Sacro Cuore di Gesù del Seminario di S. Francesco di Paola (1902-1934); i dati relativi agli anni 1920-1925 si trovano nelle pagine manoscritte 92- 103. L’associazione a volte viene chiamata semplicemente Apostolato della Preghiera (cfr AGP, RHF, D-03454). Il Direttore e i Vicedirettori della Giunta erano i Superiori del Seminario (Rettore e Ispettori).Su questa associazione cfr pure E. Subirana, op. cit., 1924, p. 45, dove ne vengono specificati gli scopi e gli esercizi ed altri atti di pietà cui può pren­dere parte “ogni genere di fedeli” .18 Jesus Lopez Bello, Sum. 6005.19 Aurelio Navarro, AGP, RHF, T-02863, p. 2.20 Arsenio Górriz, AGP, RHF, T-02867, p. 2.

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21 Meditazione del 14-11-1964. Un’altra pia pratica personale era quella della Via Crucis, che solitamente si faceva in Quaresima: Josemarìa «l’ave­va talmente inserita nella sua vita che spesso ripeteva questa pratica di pietà, anche fuori dal tempo di Quaresima» (Javier Echevarria, Sum. 1861); era anche nota la sua «devozione per la Passione del Signore, che alimentava fra i seminaristi» (Jesus Lopez Bello, Sum. 6011).22 Era una portata di secondo, che veniva chiamato “entrada” . Il Regola­mento del Seminario Conciliare fornisce i dati sull’alimentazione degli alunni: «Al mattino caffelatte; a mezzogiorno, minestra, lesso di carne con verdure e lardo, frutta o dolce; per merenda, pane e frutta di stagione; a ce­na, insalata, verdura e un secondo. In entrambi i pasti verrà data una ra­zione di vino. Le domeniche e nelle feste di seconda classe si aggiungerà al pasto una portata; nelle feste di prima classe il pasto consisterà nella pael- la, due portate, pane biscottato, dolce e vino dolce; nelle feste dei Patroni (Immacolata, S. Valero e S. Braulio) verranno serviti minestra, tre portate, una razione e mezza di vino rosso, pane biscottato, riso al latte, caffè e un bicchierino di liquore» (cit., art. 227).23 Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 145; e Pedro Casciaro, Sum. 6319.24 Cfr Agustm Callejas, AGP, RHF, T-02861, 3.25 «Nel Seminario non c’era riscaldamento in nessun locale, nonostante la durezza dell’inverno a Saragozza» (Jesus Lopez Bello, Sum. 6015).Cfr anche Alvaro del Portillo, Sum. 138; Javier Echevarria, Sum. 1857.26 Sixta Cermeno, sposata a José Maria Albàs, anch’egli nipote del Cano­nico Arcidiacono, parla delle buone disposizioni di don Carlos nei con­fronti di Josemarìa: «L’attenzione dello zio Carlos andava da particolari materiali - per esempio, era in casa sua che si lavava e sistemava la bian­cheria di Josemarìa: lavora per me la nipote della donna che tutti i sabati ritirava in Seminario la biancheria di Josemarìa per tenergliela in ordine - fino a interessarsi con i superiori o i professori del Seminario su come pro­cedeva, perché era una persona dalle molteplici relazioni, a motivo del suo rango nella diocesi come canonico e del suo carattere» (AGP, RHF, T- 02856, p. 1).27 L’art. 51 diceva: «Tutti i giorni, quando si alzano al mattino, rifaranno il letto con cura e attenzione, provvederanno a lavarsi e pettinarsi e a spazzo­larsi i vestiti, senza alcuna scusa».28 Francisco Moreno Monforte, AGP, RHF, T-02865, p. 4.29 José Maria Romàn, AGP, RHF, T-02864.30 Lettera 14-IX-1951, n. 75.31 “Nelle camere non c’era lavabo” - raccontava don Josemarìa - “e per lavarmi da capo a piedi dovevo procurarmi tre o quattro brocche d’acqua; forse era questo che scandalizzava qualcuno” (AGP, P03 1976, p. 180). «Il fatto è - racconta Mons. Alvaro del Portillo - che per questo motivo inco­minciarono a chiamarlo pijaito, un termine aragonese che significa “signo­rino” in senso spregiativo» (Sum. 138); e Mons. Javier Echevarria testimo­

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nia: «Si lavava dalla testa ai piedi tutti i giorni, con acqua fredda. Il suo comportamento sorprese alcuni compagni, che cominciarono ad applicar­gli il soprannome di pijaito, parola che in Aragona significa “il signorino” , persona di eccessiva ricercatezza» (Sum. 1857).«A quei tempi i seminaristi di Saragozza - racconta Francisco Artal, alun­no del Seminario Conciliare - provenivano per la maggior parte da am­bienti rurali e avevano il livello culturale delle famiglie contadine dei paesi dell’Aragona (...). Ricordo che a Belchite, dove facevamo gli studi umani­stici, ci davano lezioni di buone maniere e che un professore ci diceva che dovevamo essere ben educati e per questo dovevamo imparare le buone maniere, senza dimenticare che chi cerca di essere santo acquisisce anche la buona educazione: “Cercate di essere santi - diceva - perché così la buona educazione vi sarà data in aggiunta” » (Francisco Artal, AGP, RHF, T- 02858, p. 1).32 Cfr Alvaro del Portillo, PR, p. 222; Javier Echevarria, Sum. 1865; e Francisco Moreno Monforte, AGP, RHF, T-02865, p. 5, il quale dice di averlo sentito commentare quella volta: “Non credo che la sporcizia sia una virtù” .33 Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 139; Javier Echevarria, Sum. 1858.34 Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 139; Encarnación Ortega riferisce che «eb­be, fin dalla prima giovinezza, uno zelo ardente per la salvezza delle anime e ricordo di aver sentito raccontare da sua sorella Carmen che, per questo zelo, in seminario lo chiamavano “sognatore” » (Sum. 5366).35 Cfr Javier de Ayala, AGP, RHF, T-15712, p. 2.36 Appunti, nn. 53-54.37 Cfr Meditazione del 14-11-1964.38 II Fondatore sapeva vedere il lato positivo delle piccole contrarietà mate­riali del S. Carlo, che definiva “piccolezze” (cfr Alvaro del Portillo, Sum. 158). Anche sua sorella Carmen diceva di avergli spesso sentito dire che «del seminario non ricordava che cose buone» (cfr Encarnación Ortega, PM, f. 31; e anche Javier de Ayala, AGP, RHF, T-15712, p. 2).39 Appunti, n. 1748. E una delle annotazioni scritte durante gli esercizi spi­rituali che fece nel luglio 1934.40 José Maria Romàn, AGP, RHF, T-02864.41 Agustin Callejas, AGP, RHF, T-02861, p. 5.42 Cfr Appendice documentale, documento X.43 Ecco, ad esempio, la testimonianza di un compagno, Aurelio Navarro, che dice di Josemaria: «Quando era in seminario era molto semplice, per nulla altezzoso» (AGP, RHF, T-02863, p. 3).Sullo stesso fòglio del libro De vita et moribus, materialmente attaccati ai voti, il Rettore scriveva i risultati degli esami, anno per anno.44 Cfr AGP, RHF, D-07056. I moduli che gli Ispettori dovevano riempire e consegnare ogni mese erano stampati con la dicitura Rapporto sulla con­

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dotta dei seminaristi del S. Francesco di Paola. Vi erano segnati tutti i nomi degli alunni e le colonne in cui si scriveva la valutazione (bene, regolare, poca o male) nei singoli aspetti. Sul retro dei moduli erano indicati i casti­ghi imposti dagli Ispettori e dal Rettore.Eccezionalmente, nell’ottobre del 1920, a fianco della colonna Condotta, l’ispettore Lucus inserì una colonna Vocazione, nella quale assegnò 26 Be­ne e 9 Regolare.45 AGP, P04 1974, II, pp. 398-399.46 AGP, RHF, D-15016. Il Rettore del Seminario de S. Francesco di Paola si rivolse al Rettore del Seminario Conciliare di Logrono; ma fu il Viceretto­re, D. Gregorio Fernàndez Anguiano, che era stato Prefetto di Disciplina di Josemaria, che gli rispose; abbiamo già visto infatti che il nuovo Vescovo della diocesi, Mons. Fidel Garda Martmez, aveva avocato a sé la carica di Rettore e governava il seminario con l’aiuto dei Vicerettori (cfr E. Subira- na, op. cit., 1922).47 Ibidem (Archivio diocesano. Documenti del Reale Seminario Sacerdota­le di S. Carlo, cartella n. 7. Documentazione dei seminaristi, 1921-1925).48 Appunti, n. 959.49 Appendice documentale, documento X b).50 Cfr Regolamento per il regime..., cit., art. 60: «È proibito fumare, come pure mangiare e bere fuori dal refettorio». Cfr il retro dei moduli informa­tivi degli Ispettori, sui quali, come già detto, venivano indicati i motivi del castigo e le circostanze (AGP, RHF, D-15022).51 Cfr Regolamento per il regime..., cit., art. 56.52 Sai CXX, 6 (versione della Vulgata). Non dimenticò l’episodio; nel 1930 scrisse: “Antichi edifici senza luce (“per diem sol non uret te, neque luna per noctem33, ho letto nella stanza di un seminarista, scritto sulla finestra)” (Appunti, n. 55); e dieci anni dopo tornò a scrivere: “Vi scrivo dal semina­rio, che è un casermone vecchio, brutto e antipatico e sporco. Non mi me­raviglierei che qualche seminarista avesse messo sulla propria finestra que­sta iscrizione: per diem sol non uret te, neque luna per noctem” (C 869, 4-VII-1940).53 Cfr Regolamento per il regime..., cit., art. 63, che iniziava: «Si daranno sempre del lei, e in assenza di qualcuno si dirà “il signor tale” , con il co­gnome: non si consentirà l’uso di soprannomi o nomignoli di alcun gene­re».54 Cfr Regolamento per il regime..., cit., art. 49.55 Con i veterani delle legioni che avevano combattuto contro le tribù di montagna del nord della Spagna durante le cosiddette guerre cantabriche, Augusto fondò una colonia, chiamata Caesaraugusta (Saragozza), che si trovava nella provincia Tarraconense, una delle tre in cui i Romani divise­ro la Penisola Iberica.Il re Alfonso I “el Batallador”, dopo aver riconquistato Saragozza agli ara­bi, restaurò la gerarchia ecclesiastica e nominò vescovo Pedro de Liébana,

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che dapprima stabilì la propria sede nel tempio del Pilar, che era stato chie­sa cristiana per secoli, e successivamente in quella che era stata la grande moschea di Saragozza (poi distrutta da un incendio e trasformata nella cat­tedrale della Seo). I canonici dell’una e dell’altra sede episcopale (El Pilar e La Seo) andarono in causa sul primato delle rispettive cattedrali finché, con una Bolla del 1675, Papa Clemente X mise pace fra i due capitoli, uni­ficandoli, con residenza annuale alternata fra le due cattedrali.Sulla storia ecclesiastica di Saragozza, cfr Diccionario de Historia Eclesià- stica de Espana, op. cit., voi. IV, pp. 2806 e ss.; cfr anche E. Subirana, op. cit., 1925, p. 314.56 Juan Soldevila y Romero era nato a Fuentelapena (Zamora), nel 1843; aveva studiato a Valladolid ed era stato ordinato nel 1867. Nel 1875 era canonico di Orense e segretario del Vescovo. Alla morte della regina Mer­cedes pronunciò un’orazione funebre che gli valse, da parte del re Alfonso XII, la nomina a predicatore reale (1878). Dal 1880 resse la diocesi di Ta- razona e Tudela, fino al 16-XII-1901, quando fu nominato alla sede di Sa­ragozza. Si preoccupò dell’andamento della sua diocesi (basilica del Pilar, situazione materiale del clero, delle scuole elementari e della beneficenza sociale) e di progetti sociali in Aragona. Come Senatore del Regno difese, con la parola e gli scritti, gli interessi della Chiesa (cfr Diccionario de Hi­storia Eclesiàstica de Espana, op. cit., voi. IV, p. 2499).57 Agli inizi del secolo, in conseguenza della perdita delle due colonie di Cuba e Portorico da dove proveniva lo zucchero di canna, prese piede a Saragozza l’industria saccarifera da bietole e con essa la fabbricazione di alcool, la distillazione della melassa e l’essiccazione delle polpe zuccherine. Aumentò considerevolmente la popolazione operaia socialmente sradicata, e quindi l’incremento dei movimenti socialisti e le agitazioni di massa. Ma le tensioni nacquero con la comparsa degli anarcosindacalisti della Confe­derazione Nazionale dei Lavoratori (CNT), per la maggior parte dipen­denti dai sindacati di Saragozza e di Barcellona.Fra il 1917 e il 1923 ci furono a Saragozza 23 morti per colpi d’arma da fuoco.58 Nell’archivio della segreteria del Seminario Metropolitano di Saragoz­za si trovano i seguenti libri, in cui sono conservati i voti scolastici degli alunni.Nel Libro delle immatricolazioni quelli che si riferiscono a Josemarìa si trovano nei fogli 89, 96, 104 e 113. I voti degli esami venivano ricopiati sul Libro dei voti degli esami; quelli relativi a Josemarìa si trovano nei fogli 129, 139, 151 e 164. Infine, nel Libro dei certificati degli studi, dove si an­notavano in sintesi le votazioni di ciascun alunno, si trovano nel I volume (iniziato nel 1912), foglio 348, n. 693. Le annotazioni sul libro De vita et moribus del Rettore del S. Francesco di Paola sono incomplete. Cfr AGP, RHF, D-15020.Per quanto si riferisce al Piano di Studi dell’Università Pontificia di Sara­gozza, cfr Statuti dell’Università, nn. 33-36 e 39; e il Regolamento accade­mico..., cit., art. 31 e 33.

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59 “Ero invece molto sereno, perché avevo rettificato l’intenzione” , sog­giungeva (citato da Javier Echevarria, Sum. 1881).60 Cfr Appendice documentale, documento IX.61 Francisco Moreno Monforte, AGP, RHF, T-02865, p. 4.62 Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 163. L’elenco dei professori di don Jose­maria all’Università Pontificia di Saragozza è riferito da Joaqufn Alonso, Sum. 4595.63 Citato da Alvaro del Portillo, PR, p. 250; cfr pure Javier Echevarria, Sum. 1880.64 Agustin Callejas, AGP, RHF, T-02861, p. 2.65 Cfr Regolamento accademico..., cit., art. 67-74, nei quali si parla di Ac­cademie e di altri atti letterari. Le Accademie avevano carattere pubblico, più o meno solenne, e per gli alunni la presenza era obbligatoria: c’era il sostenitore di una tesi, che la esponeva per venti o trenta minuti, in latino o in spagnolo; poi due alunni argomentavano contro la tesi. Per le circostan­ze dell’insieme, l’atto al quale si fa riferimento doveva essere piuttosto una “veglia letteraria” .66 D. Miguel de los Santos Diaz Gómara era nato a Fitero (Navarra) il 5- VII-1885. Fece gli studi nei seminari di Pamplona e di Saragozza. Fu ordi­nato presbitero nel 1909 e nel 1912 divenne canonico per concorso della Chiesa Metropolitana di Saragozza. L’8-VII-1920 fu nominato Vescovo Ausiliare di Saragozza e poi consacrato nel tempio del Pilar (cfr E. Subira- na, op. cit., 1925). Vescovo di Osma-Soria nel 1924; di Cartagena-Murcia nel 1935; Amministratore Apostolico di Barcellona nel 1939. Morì nella sede diocesana di Cartagena-Murcia nel 1949. È possibile quindi che la fe­sta di cui si parla abbia avuto luogo in occasione della sua consacrazione.67 Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 131; Javier Echevarria, Sum. 1853.68 Alvaro del Portillo, Sum. 167.69 Francisco Artal, AGP, RHF, T-02858, p. 3.70 Cfr Rendiconti economici..., cit. Quelli del corso 1920-21 andavano dal5 giugno 1920 al 7 giugno 1921. Il totale delle entrate ammontava a 2474 pts. e 60 cent.; quello delle spese a 619 pts. e 60 cent.Il Cardinale, dopo che ebbe visto e approvato i rendiconti, scrisse sull’ulti­mo foglio dell’anno 1920-21 che, delle 1855 pts. di avanzo (la differenza fra dare e avere), «mille pesetas siano introitate nei fondi del Seminario Sa­cerdotale di S. Carlo, e le rimanenti 855 pts. siano segnate come prima partita in “dare” dei conti successivi».71 «Quanto al tempo di permanenza degli alunni nel seminario, sarà norma generale e ordinaria che la loro entrata avvenga alla vigilia dell’apertura del corso e non escano fino a dopo aver terminati gli esami» (Regolamento disciplinare..., cit., art. 168). Nel corso 1921-22, Josemaria pagò la mezza pensione di 261 giorni e dai conti si vede che, analogamente all’anno pre­cedente, non si allontanò da Saragozza per tutto il corso.

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72 Alvaro del Portillo, Sum. 24.73 «Vedendolo serio - riferisce un amico - gli chiesi che cosa gli accadesse e mi disse qualcosa come: “Ho ricevuto una lettera da mio padre e mi rac­conta... Il poverino non se lo merita!” » (Francisco Moreno Monforte, AGP, RHF, T-02865, p. 3).74 Circa i rapporti con il suo parroco a Logrono, cfr Alvaro del Portillo, Sum. 180. Don Hilario Loza, parroco di Santiago el Reai, quando gli fu chiesto un certificato di buona condotta del suo ex parrocchiano con riferi­mento ai periodi di vacanza trascorsi da Josemaria a Logrono, scrisse: «Nei periodi che ha trascorso in casa dei suoi genitori ha osservato una condotta irreprensibile (...) quale compete a un giovane che aspira allo sta­to sacerdotale, ricevendo con frequenza i santi Sacramenti di Penitenza e Comunione, e assistendo alle feste religiose. Logrono, 6 marzo 1924» (Pratica per il Suddiaconato, ora nell’Archivio diocesano di Saragozza).75 Francisco Moreno Monforte, AGP, RHF, T-02865, p. 10.76 Ibidem, p. 9.77 Ibidem, p. 7.78 Ibidem, p. 8; cfr anche Alvaro del Portillo, Sum. 149; Javier Echevarrfa, Sum. 1867.79 Carmen Noailles, AGP, RHF, T-02855, p. 2.80 Antonio Navarro, AGP, RHF, T-05369, p. 2. Il quaderno è andato per­duto durante la guerra civile.81 Ibidem.82 Cfr Alvaro del Portillo, Monsenor Escrivà de Balaguer; instrumento de Dios, op. cit., p. 29.- Si è preferito nel testo mettere la classica espressione proverbiale in italia­no, anche se l’originale spagnolo “No hay mal que por bien no venga” (let­teralmente “Non c’è male che non venga per il bene” ) richiama da vicino l’espressione paolina (Rm 8, 28) “ Omnia in bonum - Tutto concorre al be­ne per coloro che amano Dio” , che il Santo utilizzò per tutta la vita come regola per affrontare le difficoltà (NdC).83 Francisco Moreno Monforte, AGP, RHF, T-02865, p. 6; Javier Eche­varrfa, Sum. 1852.84 Alvaro del Portillo, Sum. 151. Il Rettore dice che fu «in seguito Diretto­re dei seminaristi, distinzione che gli conferì l’Em.mo Signor Cardinale an­cor prima che ricevesse i Sacri Ordini, a motivo della sua esemplare con­dotta, non meno che della sua applicazione» (Appendice documentale, documento X b).Circa l’anticipazione della tonsura, cfr Francisco Botella, PM, f 209v; José Luis Muzquiz, PM, f 351.85 Nel foglio che lo riguarda del libro De vita et moribus, nella sezione Os­servazioni generali, si dice testualmente: «E nominato Ispettore nel settem­

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bre 1922 e ha ricevuto la tonsura il 28 dello stesso mese» (foglio 111; cfr AGP, RHF, D-03235). Cfr Appendice documentale, documento X a). Nell’art. 1 si parla del «Rettore» e del «Direttore»; l’art. 27 li chiama «Su­periori» (cfr Regolamento per il regime..., cit.). L’uso di chiamare «Ispetto­ri» i Direttori fu introdotto nell’anno 1889-90 (cfr Historia de la funda- ción del Seminario de Pobres..., op. cit., pp. 31-38).Nella documentazione personale di Mons. Escrivà nell’Archivio della Se­greteria Generale dell’Arcidiocesi di Madrid esiste una scheda da lui stesso manoscritta alla fine della guerra civile, fra i cui dati figura il seguente: “Direttore del Seminario di S. Francesco di Saragozza (settembre 1922 - marzo 1925)” (AGP, RHF, D-08074/5). Cfr Javier Echevarria, Sum. 1868. La data della sua cessazione appare, come è ovvio, nei rendiconti economi­ci del Seminario, anno 1924-25, accanto a un’uscita per gratifica: «Ispetto­re Escrivà, che cessa dall’incarico il 28 marzo».86 J. Escrivà de Balaguer, Huellas de Aragón en la Iglesia Universale in “ Universidad” 3-4 (1960) pp. 3-4. Cfr anche Libro degli Ordini Sacri del- l’Arcivescovado di Saragozza (dal 27-V-1889 al 1947), foglio 327, n. 4410. Vi è indicato il luogo in cui gli fu conferita la Prima Clericalis Ton­sura: «in hujus nostr. archiep. sacell. particulares».Mons. Alvaro del Portillo riferisce che per due volte lo accompagnò a Sara­gozza con lo scopo di far visita all’Arcivescovo, la prima volta a Mons. Mordilo e la seconda a Mons. Cantero. Ogni volta volle recarsi nella cap­pella dove aveva ricevuto la tonsura, nel palazzo arcivescovile. Si inginoc­chiò e pianse emozionato, recitando l’orazione della cerimonia di tonsura: Dominus pars haereditatis meae, et calicis mei, tu es qui restitues haeredi- tatem meam mihi (Sai 15,5). Cfr Sum. 189.87 Successivamente a loro furono nominati un Diacono e un ordinato in Ordini Minori. Il Rettore del Seminario Conciliare governava coadiuvato da Prefetti e Aiutanti di Disciplina (questi ultimi «scelti tra gli alunni più meritevoli»: Regolamento disciplinare..., cit., art. 23). Jesus Val, AGP, RHF, T-06889, 1.88 Se si esaminano con attenzione i rendiconti economici del seminario, si vedrà che tutti gli anni compare in Avere una scrittura per una gratifica agli Ispettori di 100 pts; e un’altra, variabile, per diritti di esame. Nell’an­no 1922-23, per esempio, si trova registrato: «Diritti di esame dei signori Ispettori D. José Maria Escrivà e D. Juan José Jimeno; ricevute n. 2 e 3, ...20 pts». E più oltre: «Gratifica ai signori Ispettori Escrivà e Jimeno...100 pts» (cfr Rendiconti economici, cit.).89 José Maria Roman, AGP, RHF, T-02864. Sulla sintonia esistente fra l’i­spettore e il famiglio, cfr Jesus Lopez Bello, Sum. 6000; Javier Echevarria, Sum. 1873.90 A questo proposito dichiara Mons. Javier Echevarria: «Arrivò ad avere grande confidenza con Mons. Miguel de los Santos Diaz Gómara. Questo Vescovo ebbe una così profonda stima per il suo sottoposto, il seminarista Josemarìa Escrivà, che - con il passar del tempo - si considerò molto ami­co suo e conservò per moltissimo tempo lettere e appunti di conversazioni

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che aveva avuto con Josemaria, quando questi era seminarista e quando iniziò a lavorare come sacerdote. Purtroppo questo archivio è andato per­duto, perché la persona che ne aveva cura, adempiendo un mandato del buon Vescovo, dopo la sua morte distrusse tutto il materiale» (Sum. 1853).91 Antonio Navarro, AGP, RHF, T-05369, p. 2.92 Cfr Historia de la fundación del Seminario de Pobres..., op. cit., pp. 52- 59; Alvaro del Portillo, Sum. 132; Javier Echevarria, Sum. 1853.93 Cfr Alvaro del Portillo, PR, pp. 244-245. Don Antonio Moreno morì il 14-1-1925 e gli succedette, come vicepresidente del S. Carlo, don Luis La­tte Jorro (cfr E. Subirana, op. cit., 1925, p. 314 e 1926, p. 395).94 Hugo Cuberò Berne, AGP, RHF, T-02859, p. 2.95 II signor José si trovava dal barbiere a Logrono, quando sentì dire che certe donne insidiavano suo figlio a Saragozza. Non appena potè parlare con Josemaria, gli disse che era preferibile essere un buon padre di famiglia che un cattivo sacerdote. Con la massima tranquillità di coscienza, il figlio gli spiegò l’accaduto: alcune donne, in effetti, avevano cercato di provocar­lo, ma egli era andato subito a parlarne al Rettore, esponendogli la propria disposizione d’animo di anteporre il sacerdozio alla vita stessa. Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 162; e Javier Echevarria, Sum. 1877.96 Istanza che compare nella “Pratica delle Ordinazioni delle Tempora di Avvento del 1922” , nell’Archivio diocesano di Saragozza.I poteri del sacerdozio cattolico - potere di offrire il Sacrificio eucaristico, di amministrare i sacramenti e di predicare la parola di Dio - furono con­cessi in pienezza alla Chiesa da Nostro Signore. La Chiesa li può comuni­care, più o meno completamente, ai soggetti che li ricevono. Questo impli­ca diversi gradi, che costituiscono i singoli Ordini. Di istituzione divina sono solo il sacerdozio ministeriale propriamente detto (nei suoi gradi: epi­scopato e presbiterato) e il diaconato.Nel corso dei secoli, gli Ordini vennero distinti in Ordini Maggiori: episco­pato, presbiterato, diaconato e suddiaconato (quest’ultimo non è di istitu­zione divina); e Minori: ostiariato, lettorato, esorcistato e accolitato (tutti di istituzione o di diritto ecclesiastico).97 Ibidem.98 Ibidem. Cfr Appendice documentale, documento XI.99 Jesus Lopez Bello, AGP, RHF, T-02862, p. 3.100 Jesus Val, AGP, RHF, T-06889, p. 2.101 Citato da Javier Echevarria, Sum. 1871.102 Jesus Val, AGP, RHF, T-06889, p. 3.103 Jesus Lopez Bello, Sum. 6010.104 Appendice documentale, documento X b).105 Alvaro del Portillo, Sum. 153.106 Anche questi manoscritti furono trasferiti all’Archivio diocesano di Sa­ragozza. Cfr AGP, RHF, D-15022.

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107 La frase sta nel Rapporto del mese di marzo 1923; si trova scritta sul retro, accanto alla lista dei Castighi dell'ispettore (cfr il Rapporto origina­le nell’Archivio diocesano di Saragozza).108 Rapporto del mese di novembre 1922 (ibidem, p. 573v).109 Rapporto del febbraio 1923 (cfr ibidem, p. 573v).110 Rapporto dell’aprile 1923 (cfr ibidem).111 Rapporto del febbraio 1924 (cfr ibidem).112 Jesus Val, AGP, RHF, T-06889, p. 5.113 Citato da Javier Echevarrfa, Sum. 1874.114 Rapporto del mese di novembre 1924.115 Javier Echevarrfa, Sum. 1795.116 C 653, 4-IX-1938.117 Lettera 7-X-1950, n. 34.118 A. Ponz, Viaje de Espana, op. cit., p. 1318. Di Manuel de Roda, mini­stro di Carlo III, che, con i suoi consigli, provocò l’espulsione dei Gesuiti dalla Spagna, si dice che - cocciuto come ogni aragonese - abbia lasciato la propria biblioteca al Reale Seminario di S. Carlo per dimostrare che non era né antiecclesiastico né antireligioso; che fosse antigesuita era noto a tutti.119 Cfr Agustfn Callejas, AGP, RHF, T-02861, p. 4; Aurelio Navarro, AGP, RHF, T-02863, p. 1; Francisco Moreno Monforte, AGP, RHF, T-02865, 3.120 Cfr Appendice documentale, documento IX; Libro dei risultati degli esami, cit., foglio 151; Libro dei certificati degli studi, voi. I, foglio 348, n. 693.Per ottenere la licenza nelle diverse Facoltà dell’Università Pontificia biso­gnava aver superato: tre corsi per la Filosofia, due per il Diritto Canonico e quattro per la Teologia (cfr Statuti dell3Università, nn. 39-42; Regolamen­to accademico..., cit, art. 37). Esisteva anche la cosiddetta carriera abbre­viata, seguita da alcuni seminaristi, che comprendeva solo due corsi di Teo­logia.121 Bollettino Ecclesiastico Ufficiale dell3Arcivescovado di Saragozza, anno LIX, n. 5 (11-111-1920), pp. 134-135.Cfr anche l’istruzione “Perspectum est Romanos Pontifices33 di Leone XIII (21-VII-1896) e il Motu proprio “Sacrorum Antistitum33 di Pio X (1-IX- 1910).122 Mons. Peralta, Vescovo di Vitoria, riferisce: «A quel tempo si riteneva già un fatto singolare alternare gli studi ecclesiastici con quelli della Fa­coltà di Diritto all’Università di Saragozza; non era frequente e solo ecce­zionalmente lo si consentiva a qualcuno. Mons. Escrivà aveva ottenuto il permesso dal Cardinale Soldevila» (Francisco Peralta, AGP, RHF, T- 06887, p. 2).Cfr anche Mons. José Lopez Ortiz, Sum. 5264; Javier de Ayala, AGP, RHF, T-15712, p. 3, che aggiunge: «Una volta l’ho sentito dire che era molto

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grato al Cardinale Soldevila per avergli accordato il permesso di effettuare simultaneamente gli studi di diritto e quelli di teologia».123 AGP, RHF, D-05194, p. 1.124 Ibidem, p. 2.125 Carlos Sànchez del Rio, AGP, RHF, T-02853, p. 1; Miguel Sancho Iz- quierdo, PM, f. 141.126 Luis Palos, AGP, RHF, T-07063, p. 2.Le altre tre materie alle quali si era iscritto nall’anno 1923-24 erano: Eco­nomia politica, Storia Generale del Diritto spagnolo e Diritto Civile spa­gnolo (I corso): cfr Appendice documentale, documento XII.127 Alvaro del Portillo, Sum. 173; Javier Echevarria, Sum. 1884.128 Joaqum Alonso, Sum. 4598.129 Cfr José Luis Soria Saiz, AGP, RHF, T-07920, allegato II; e AGP, RHF, D-15249.130 José Lopez Ortiz, Sum. 5303; Alvaro del Portillo, Sum. 176; Javier Echevarria, Sum. 1885 e 1886.131 Cfr J. Escrivà de Balaguer, Huellas de Aragón en la Iglesia Universale in “ Universidad” 3-4 (1960) pp. 3-4.132 Citato da Alvaro del Portillo, PR, p. 221; cfr pure Javier Echevarria, PR, p. 176.133 II riferimento è piuttosto indefinito, ma chiarisce le circostanze: “Quan­do ero molto giovane” - raccontava don Josemarìa - “e stavo nel Semina­rio di Saragozza, una volta ho avuto un grande dispiacere. In quei giorni il professore di Diritto canonico cominciò a raccontarci questa storia: c’era una volta un commerciante che comperava cannella allo stato naturale... Le sue parole mi fecero molto bene. Effettivamente nessuno di noi si santi­fica grazie a chissà chi, ma confrontandoci con le persone che abbiamo al nostro fianco” (cfr Alvaro del Portillo, PR, p. 221; e Javier Echevarria, PR, p. 176).134 Cfr Jesus Lopez Bello, Sum. 6013.135 Francisco Artal, AGP, RHF, T-02858, p. 4.136 Annotazione manoscritta del Rettore, il Rev. don José Lopez Sierra. Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 147.Julio Cortés Zuazo aveva 43 anni ed era allievo del Seminario Conciliare; aveva fatto la cosiddetta carriera abbreviata (scelta da chi entrava in semi­nario in età matura o aveva difficoltà nello studio). Don José Lopez Sierra- con don Miguel Carnicer, don Luis Latre e don Blas Navascués - fece parte del tribunale, presieduto dal Vescovo Ausiliare e incaricato dal Car­dinale Soldevila di esaminare «della sufficienza della dottrina, secondo l’Ordine al quale aspirano,i seguenti signori...». Nell’elenco degli Ordini Minori si citava Josemarìa come promosso e in quella del Suddiaconato si citava D. Julio Cortés Zuazo come respinto, con la firma dei membri del

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tribunale e la data del 29-XI-1922 (cfr Pratica delle Ordinazioni delle Tempora di Avvento del 1922, in Archivio diocesano di Saragozza).137 Lettera del rev. Gregorio Fernàndez Anguiano, 26-X-1923, in AGP, RHF, D-15449.138 Javier Echevarria, Sum. 1865. Sul biglietto da visita era stampato: «Ju-lio Ma. Cortés - Cappellano del Sanatorio Antitubercolosi - “El Neveral”- Jaén», con la data manoscritta: «8-X-1952» (cfr originale in AGP, RHF, D-15282).139 La Virgen del Pilar, articolo pubblicato in AA. W ., Libro de Aragón, Saragozza 1976, pp. 97 e ss. Ci sono riferimenti anche in altri scritti; per esempio: “Durante il tempo che ho trascorso a Saragozza facendo i miei studi sacerdotali (...) le mie visite al Pilar erano per lo meno quotidiane” (Recuerdos del Pilar, articolo pubblicato in “El Noticiero”, quotidiano di Saragozza, ll-X-1970). Cfr anche Alvaro del Portillo, Sum. 142.La storia architettonica del tempio del Pilar è molto complessa per le vicis­situdini dei progetti, dell’esecuzione dei lavori, degli ampliamenti e restau­ri, che non hanno avuto sosta fino al secolo attuale. Su questo ed altri aspetti storici, cfr R. del Arco, El tempio de Nuestra Senora del Pilar en la Edad Media, in AA. VV., Estudios de la Edad Media de la Corona de Aragón, voi. I, Saragozza 1945; F. Fita, El tempio del Pilar y San Braulio de Zaragoza. Documentos anteriores al siglo XVI, in Bollettino della Rea­le Accademia di Storia, 44 (1904).140 Cfr Meditazione del 14-11-1964.141 Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 144; Javier Echevarria, Sum. 1862. Il Re­golamento per il regime..., cit., art. 52, dice: «Non entreranno per nessun motivo nella camera di un altro in nessuna occasione». Tuttavia, un testi­mone oculare afferma: «I seminaristi commentavano le mortificazioni che faceva. Ricordo che un giorno uno mi disse di essere stato nella sua came­ra e di avervi trovato un cilicio. Io con poca discrezione lo raccontai subi­to a Josemaria ed egli, con un’espressione molto seria, mi disse deciso: “Parlare di questo è di cattivo gusto: sono cose che non si devono com­mentare” . In un’altra occasione ricordo che mi disse: “Paco, la carne è de­bole. Per questo ci sono i cilici” » (Francisco Moreno Monforte, AGP, RHF, T-02865, p. 6).142 Lettera 25-V-1962, n. 41.143 Santa Teresa-d’Avila, Cammino di perfezione, 34, 6.144 Cfr A. Ansón y B. Boloqui, Zaragoza barroca, in AA. W ., Guia históri- co-artistica de Zaragoza, Saragozza 1983, pp. 248-255.In un viaggio che fece a Saragozza nell’ottobre 1960, il Fondatore visitò la chiesa di S. Carlo. Uno dei presenti ricorda che, dirigendosi verso l’al­tare maggiore e «indicando una tribuna riparata da una grata, che si tro­va nella parte superiore destra del presbiterio, disse: “ Qui ho passato molte ore in preghiera, di notte” » (Florencio Sànchez Bella, AGP, RHF, T-08250, p. 2).145 Cammino, n. 104.

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146 Pratica per il Suddiaconato, compresa in Pratica per le Ordinazioni del­le Tempora di Pentecoste del 1924, Archivio diocesano di Saragozza.Nella stessa data venne fatta un’altra istanza al Vicario Capitolare, in cui Josemaria “Supplica V. S. Ill.ma che si degni di concedergli di potersi ordi­nare a titolo di servizio della diocesi” (ibidem).Pure con la stessa data figura nella pratica per il Suddiaconato una sua di­chiarazione che dice: “Certifica di essere esente da obblighi militari. Lo at­testa agli effetti conseguenti, in Saragozza, 14 maggio 1924. José Maria Escrivà y Albàs” (ibidem).Alcuni giorni dopo, nel Rapporto che il Rettore del Seminario di S. France­sco di Paola inviò alla Segreteria dell’Arcivescovado in data 18 maggio, si fece notare che il signor Escrivà è stato dichiarato «totalmente» esentato dal servizio militare «per difetto fisico della vista» (ibidem).147 Pratica per le Ordinazioni delle Tempora di Pentecoste del 1924, Archi­vio diocesano di Saragozza.148 Cfr Appendice documentale, documento XI.149 Cfr Appendice documentale, documento IX.150 «Ci commentava con gioia e con precisione quali erano le funzioni del suddiacono nelle cerimonie liturgiche; le conosceva perfettamente per aver­le vissute con una partecipazione molto immediata e per averle svolte» (Ja­vier Echevarrfa, Sum. 1899).151 Francisco Moreno Monforte, AGP, RHF, T-02865, p. 2.152 Sixta Cermeno, AGP, RHF, T-02856, p. 1.153 Francisco Moreno Monforte, AGP, RHF, T-02865, p. 3.154 Carlos Sànchez del Rio, AGP, RHF, T-02853, p. 1; cfr anche Javier Echevarrfa, Sum. 1886.155 Lettera 29-XII-1947 /14-11-1966, n. 19.I seminaristi del S. Francesco di Paola editarono nel 1924 un numero della rivista La Verdad (La Verità), con la collaborazione dell’ispettore, da quanto riferisce Agustfn Callejas: «Ci mettemmo molto impegno per far uscire una rivista del seminario perché si notasse la nostra presenza nel Conciliare. Ci costò molto lavoro, ma alla fine vide la luce il primo nume­ro, che poi fu anche l’ultimo perché non ci permisero di farne uscire altri.Si chiamava “La Verdad33 (Ta Verità). Josemarfa scrisse un articolo su cul­tura e letteratura e io un altro su alcuni aspetti della vita pubblica spagno­la in quel momento» (Agustfn Callejas, AGP, RHF, T- 02861, p. 5).Dalla descrizione non è facile capire a quale articolo si riferisca, dato che le firme sono pseudonime. Ma è interessante rilevare che vi si trova una lun­ga poesia su “La venuta della Madonna del Pilar33, firmata II Trovatore, e che nella presentazione redazionale della rivista si legge: «Santissima Vergi­ne del Pilar (...) benedici la nostra umile rivista e sii Tu, Te ne preghiamo, la Direttrice, non solo onoraria, ma effettiva, de La Verdad» (cfr copia de La Verdad in AGP, RHF, D-15488).

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156 Recuerdos del Pilar (in “El Noticiero” , Saragozza ll-X-1970); cfr an­che AGP, RHF, P03 1978, pp. 21-22.157 J. Escrivà de Balaguer, La Virgen del Pilar, nel Libro de Aragón, op. cit., p. 97.158 AGP, P03 1975, pp. 222-223; cfr anche Alvaro del Portillo, Sum. 141; Javier Echevarria, Sum. 2556; Jesus Alvarez Gazapo,Sum. 4281.Il cugino, Pascual Albàs Llanas, attesta: «L’immagine proveniva dalla casa di D. Carlos Albàs e Manolita, sua nipote, la diede a mia moglie» (Pascual Albàs, AGP, RHF, T-02848, 2).Fra gli altri resoconti del fatto cfr, ad esempio, quello di Encarnación Or- tega:«Approfittando di un viaggio da Roma in Spagna (...), Mercedes Morado, all’epoca Segretaria dell’Assessorato Centrale dell’Opera, prese a Saragoz­za - le era stata consegnata da alcuni parenti di nostro Padre - una statuet­ta di gesso della Madonna del Pilar, che era appartenuta al nostro Fonda­tore. Non appena arrivò a Roma, la consegnammo al Padre. “Padre, gli dicemmo, è arrivata qui un’immagine della Madonna del Pilar che lei ave­va a Saragozza” . Nostro Padre rispose di non ricordarsene ma io insistetti: “Sì, la guardi, c’è una cosa scritta da lei” . Gli mostrai la base della statuet­ta, su cui si poteva leggere una giaculatoria incisa con un chiodo: “Domi­na, ut siti” , seguita da una data: “24-5-1924” . Le parole latine erano se­guite da un punto esclamativo, come faceva nostro Padre tutte le volte che scriveva una giaculatoria in latino.Il Padre allora riconobbe la statuetta e la propria scrittura e si emozionò molto» (Encarnación Ortega, AGP, RHF, T-05074, p. 169). La data scritta sulla base non è dunque il 24 settembre, come erroneamente è stato talvol­ta riportato, bensì il 24 maggio.159 Da un’intervista pubblicata da “La Gaceta del Norte”, Logrono 28-VI- 1975, p. 3.160 Sulle circostanze della morte del signor José Escrivà, cfr Alvaro del Por­tillo, Sum. 182; Javier Echevarria, Sum. 1891; Paula Royo, AGP, RHF, T- 05379, p. 3. L’atto di morte si trova nei registri dello Stato civile di Lo­grono, sezione 3a, p. 586.161 Manuel Ceniceros riferisce, parlando del signor José: «Quel giorno tar­dava a venire e il padrone mi disse di andare a casa sua, che era allora al n.18 di via Sagasta (oggi n. 12), all’angolo con la Via Vecchia, e lo trovai che stava molto male; morì poco dopo» (cfr l’intervista citata, che contiene al­cuni errori). Quindi gli Escrivà avevano lasciato la casa di via Canalejas ed erano tornati in via Sagasta, al secondo piano anziché al quarto.162 Santiago Escrivà de Balaguer y Albàs, Sum. 7321.163 Su questo fatto e sul suo profondo senso della giustizia: Ernesto Julià, Sum. 4206. Cfr anche Alvaro del Portillo, Sum. 183; Francisco Botella, Sum. 5616.164 Cfr Appunti, n. 583.165 Citato da Alvaro del Portillo, Sum. 183; Javier Echevarria, Sum. 1893.

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166 Cfr Comune di Logrono, censimento municipale dell’ l dicembre 1924 (in base alla delibera municipale dell’8 marzo 1924), foglio d’iscrizione n. 1579.167 La differenza di età fra i due fratelli - diciassette anni - obbligò don Jo­semaria ad occuparsi del sostentamento e dell’educazione di Santiago, del­la sua formazione umana e spirituale e, per molti anni, a svolgere funzioni di consiglio verso i membri della sua famiglia. Cfr Alvaro del Portillo, PR, p. 22.168 «Sopportò con grande fiducia nel Signore e grande fortezza d’animo la morte di suo padre e non per questo modificò la propria decisione di farsi sacerdote», dice uno dei testimoni (cfr Francisco Botella, Sum. 5616); «La morte di suo padre lo riconfermò nella sua vocazione» (cfr Encarnación Ortega, PM, f. 32); spiegando i fatti e le circostanze, Mons. Javier Eche- varria commenta: «Anzi, intese come una chiara manifestazione della Provvidenza divina il fatto di aver già ricevuto il Suddiaconato; considerò l’impegno assunto di dedicare al Signore tutta la vita nel celibato come un obbligo dal quale non poteva tirarsi indietro in quel momento straordina­rio, anche se sapeva bene che avrebbe potuto ottenere una dispensa con re­lativa facilità, viste le urgenti ragioni che l’avrebbero motivata» (PR, p. 216).169 Meditazione del 14-11-1964. Cfr Lettera 29-XII-1947 / 14-11-1966, 6; Alvaro del Portillo, Sum. 47 e 506; Esperanza Corrales, AGP, RHF, T- 08203, p. 6.Il significato dell’espressione popolare spagnola usata dal Fondatore, già apparsa altre volte nel testo, è che per ogni colpo di martello che il Signore dava a lui per forgiarlo spiritualmente, coloro che stavano intorno a lui, soprattutto i familiari, ne ricevevano molti di più. Era un modo indiretto e doloroso di formarlo.A quanto riferisce Mons. Javier Echevarria, «quando toccava questi argo­menti e altre vicissitudini che dovette affrontare, il Servo di Dio - pieno di gratitudine verso il Signore - si esprimeva dicendo che “erano come colpi d’ascia che Dio Nostro Padre doveva dare al tronco della mia vita per far­mi sempre più simile all’immagine di Cristo che voleva che fossi” ; o com­mentava che il Signore, per prepararlo, dava “un colpo al chiodo e cento al ferro del cavallo, perché così mi faceva soffrire di più” . Qualsiasi paragone usasse, concludeva dicendo: “ Grazie, Signore, per avermi trattato così; e perdona la mia durezza nel non saper seguire con la dovuta delicatezza le chiamate che allora mi facevi” » (PR, p. 1316).170 Meditazione del 14-11-1964. Il 28 settembre 1932 scriveva:“Da ieri porto con me un piccolo crocifisso, con l’immagine sciupatissi­ma, che mio padre (riposi in pace) portava sempre con sé e che a lui fu consegnato alla morte di sua madre che lo usava abitualmente. Poiché è povera cosa ed è molto sciupato, non mi azzarderò a darlo a nessuno, e in questo modo la santa memoria di mia nonna (grande devota della Santis­sima Vergine) e di mio padre aumenterà il mio amore alla Croce” (Ap­punti:, n. 829).

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E due mesi dopo, il 27 novembre 1932, annotava:“Oggi sono otto anni che morì mio padre! Otto anni che sono stati, nono­stante i miei peccati, una continua, paterna provvidenza di Dio verso di noi. Così, giorno per giorno, sempre in povertà, senza che io guadagnassi a sufficienza per mantenerci. Fiat, adimpleatur; laudetur et in aeternum su- perexaltetur iustissima atque amabilissima Voluntas Dei super omnia. Amen. Amen” (Appunti, n. 880).171 C 572 , 9-V-1938.172 L’istanza di Josemaria al Vicario Capitolare di Saragozza dice: “Deside­rando ricevere nelle prossime Tempora il Sacro Ordine del Diaconato, avendone gli opportuni requisiti e sentendosi chiamato allo stato sacerdo­tale, supplica la S. V. Ill.ma che si degni di concedergli le opportune lettere dimissorie (...). Saragozza, 11 novembre 1924” (nella Pratica per le Ordi­nazioni delle Tempora di Avvento del 1924, nell’Archivio diocesano di Sa­ragozza).Vi si trova allegato, anch’esso in data 11-XI-1924, un certificato firmato dal Rettore del seminario, don José Lopez Sierra: «Certifico che il suddia­cono José Maria Escrivà y Albàs ha esercitato varie volte l’Ordine del sud- diaconato nella chiesa del Seminario Sacerdotale di S. Carlo» (ibidem). Fra le dichiarazioni dei testimoni sulla condotta dell’ordinando si trova quella di «don Daniel Alfaro, presbitero, il quale, dopo aver affermato di dire il vero sotto giuramento», fu interrogato e disse che «conosce perfettamente don José Maria Escrivà Albàs per averlo frequentato a Logrono durante le vacanze che ha passato in casa dei suoi genitori» (ibidem).173 Cfr Appendice documentale, documento XI.174 Dice che probabilmente lasciarono l’appartamento «all’inizio del 1925», dato che le sembra che passarono ancora il Natale del 1924 a Lo­grono (Paula Royo, AGP, RHF, T-05379, p. 3).175 José Romeo, AGP, RHF, T-03809, p. 3; Sixta Cermeno, AGP, RHF, T- 02856, p. 2.176 Sixta Cermeno, AGP, RHF, T-02856, p. 1.Un primo cugino del Fondatore scrive: «Mio zio morì senza lasciare prati­camente nulla, dato che viveva del suo impiego da Garrigosa, un negozio di Logrono. Ho sentito dire che i miei zii Carlos - canonico di Saragozza -, Mariano - anch’egli sacerdote, fucilato poi a Barbastro durante la guerra -, Vicente - che fruiva di un beneficio ecclesiastico a Burgos - e Fiorendo Albàs avevano pensato di passare loro una somma se fossero rimasti a Lo­grono; non so perché (...) gli zii furono molto contrariati della decisione della famiglia di venire a Saragozza accanto a Josemaria e non li aiutarono per niente» (Angel Camo, AGP, RHF, T-02846, p. 3); «Alcuni degli zii pre­sero le distanze per non doverli aiutare», spiega un altro cugino di Jose­maria (cfr Pascual Albàs, AGP, RHF, T-02848, p. 2).Josemarfa «ebbe sempre per lo zio don Carlos Albàs sentimenti di com­prensione e di carità cristiana» (Francisco Botella, Sum. 5617).Mons. Javier Echevarrfa ci spiega che «Don Carlos, che era un uomo auto­

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ritario, pretese, senza riuscirci, che suo nipote facesse le cose che lui stesso aveva deciso» (Sum. 1897).177 Cfr Santiago Escrivà de Balaguer y Albàs, Sum. 7322.Francisco Moreno riferisce di Josemarìa che «in casa di suo zio trovò un atteggiamento di forte disistima e freddezza nei confronti suoi e della sua famiglia, da parte in modo particolare della nipote, sua cugina» (Francisco Moreno Monforte, AGP, RHF, T-02865, p. 6).Forse la cugina Manolita temeva di perdere la propria influenza sullo zio. Ma si tratta probabilmente di semplici pettegolezzi (Alvaro del Portillo, Sum. 188).178 Alvaro del Portillo, Sum. 187; Javier Echevarria, Sum. 1897.179 Cfr Javier de Ayala, AGP, RHF, T-15712, p. 4. Quando si profilò il peri­colo che lo Stato sopprimesse i contributi per il culto e il clero, don Jose- marìa annotò, in data 17 ottobre 1931: “Ho detto alla mamma e ai miei fratelli che, se tolgono lo stipendio al canonico arcidiacono di Saragozza e a suo fratello, scriverò loro in modo affettuoso offrendo loro il mio aiuto. Bisogna ricambiare il male con il bene” (Appunti, n. 336; cfr anche Alvaro del Portillo, Sum. 188; e Santiago Escrivà de Balaguer y Albàs, Sum. 7322).180 C 1325, 6-1-1948; cfr Alvaro del Portillo, Sum. 188. Don Carlos Albàs morì il 1° febbraio 1950 (cfr AGP, RHF, D-15243).181 Angel Camo, AGP, RHF, T-02846, p. 2.182 Nel novembre 1970 il Fondatore raccontava che un giorno, durante il lavabo della Messa, gli tremavano le mani al pensiero che tra poco avrebbe toccato l’Ostia Consacrata. Si ricordò di quando per la prima volta aveva toccato il Signore in una Esposizione eucaristica e gli sgorgarono dal cuore parole da innamorato: “Signore, fa’ che non mi abitui a stare vicino a Te; che Ti ami come quella volta, quando Ti toccai tremando di fede e d’amo­re” (cfr Articoli del Postulatore, n. 355; Umberto Farri, Sum. 3337). Cfr anche Ernesto Julià, Sum. 4184; Joaquìn Alonso, Sum. 4597.183 Florencio Sànchez Bella, AGP, RHF, T-08250, p. 2.184 Cfr Documento della Sacra Congregano De Sacramentis del 20 feb­braio 1925, prot. n. 871 (incluso nella Pratica per il Presbiterato: cfr AGP, RHF, D-03263).La dispensa richiesta era di dieci mesi. Nella risposta della Sacra Congre­gazione ne veniva lasciata la concessione alla discrezione dell’Ordinario ut prò suo arbitrio et conscientia dispensationem largiatur (cfr ibidem).185 Cfr Pratica per il Presbiterato3 Tempora di Quaresima 1925. Archivio diocesano di Saragozza.Le “lettere dimissorie” furono richieste al Vicario Capitolare perché l’Arci- diocesi era ancora nella condizione di sede vacante.Nella pratica, con data 4-III-1925, si trova un certificato a firma del Ret­tore, don José Lopez Sierra, in cui si dichiara che «il Diacono don José Maria Escrivà y Albàs ha esercitato solennemente il suo ministero nella chiesa di S. Carlo» e un altro, firmato dall’ordinando, in cui certifica che

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“da quando ha ricevuto l’Ordine Sacro del Diaconato, il giorno 20 dicem­bre 1924, è risieduto esclusivamente nel Seminario di S. Francesco di Pao­la di Saragozza” .In data 5 marzo venne aggiunto alla pratica un altro certificato, manoscrit­to dall’ordinando, ma firmato da don José Lopez Sierra, in cui si espone che l’ispettore «dall’ultima ordinazione ha ricevuto i Santi Sacramenti con la dovuta frequenza e la Santa Comunione quotidianamente, come è pro­prio di un aspirante al sacerdozio».186 Cfr ibidem.187 Cfr Appendice documentale, documento XI.188 Cfr Javier Echevarria, Sum. 1903; Francisco Botella, PM, f. 211; José Luis Muquiz, PM, f. 35lv.Per tutta la vita pregò per i diaconi che con lui avevano ricevuto il presbite­rato (cfr Javier Echevarria, Sum. 1904); un altro teste dichiara: «Aveva un particolare affetto per i condiscepoli del seminario di S. Francesco di Pao­la. Nell’anno 1975 la sua leva sacerdotale celebrò le Nozze d’Oro e tutti lo ricordarono con vero affetto; il Servo di Dio mi incaricò di partecipare a suo nome alla cerimonia e di essere affettuoso con loro» Florencio Sànchez Bella, Sum. 7480).Una volta gli fu chiesto quali fossero i suoi ricordi di quel giorno ed egli così rispose: “ Guarda, figlio mio: non ricordo nulla che vi possa racconta­re ora. Ma mancherei alla verità se non dicessi che di quei momenti ricor­do molto; tutto, penso” » (citato da Alvaro del Portillo, PR, p. 283).189 Per l’immaginetta ricordo: cfr AGP, RHF, D-15285.Circa il carattere familiare della festa: José Lopez Sierra, AGP, RHF, D- 03306; Martin Sambeat, AGP, RHF, T-03242, p. 3.190 Recuerdos del Pilar, op. cit., p. 67.191 Santiago Escrivà de Balaguer y Albàs, Sum. 7322; Sixta Cermeno, Agp, RHF, T-02856, p. 1; era presente anche la famiglia del professor Moneva (cfr Alvaro del Portillo, Sum. 194).192 Amparo Castillón, AGP, RHF, D-15285, p. 1.193 José Lopez Sierra, Appendice documentale, documento X b).194 Sixta Cermeno, AGP, RHF, T-02856, p. 2.195 Alvaro del Portillo, Sum. 194; Javier Echevarria, Sum. 1905; Umberto Farri, PR, p. 29.196 Encarnación Ortega, PM, f. 32v.197 Sixta Cermeno, AGP, RHF, T-02856, p. 2.198 Manuel Botas Cuervo, AGP, RHF, T-08253, 59.

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Capitolo IV

GIOVANE SACERDOTE (1925-1927)

1. La parrocchia di Perdiguera

Perdiguera, della cui parrocchia don Josemaria era stato nominato Reggente Ausiliare, era un paese a ventio venticinque chilometri da Saragozza1. Il parroco, unico sacerdote del paese, era da tempo assente perché gravemente malato. Per il novello sacerdote, che non si aspettava una destinazione lontano dalla propria fami­glia e neppure una nomina così improvvisa, fu un duro colpo. In curia si sapeva benissimo che i neo ordinati venivano destinati a parrocchie dove potessero acquisi­re, sotto la guida di altri sacerdoti, le prime esperienze pastorali. Oltretutto, a Saragozza non c’era scarsità di clero2. Se si riflette un po’ sulla faccenda nasce inevita­bilmente il sospetto, nella gestione della cosa, di un in­tervento premeditato e urgente di una mano non ami­chevole. Senza attardarsi a fare ricerche sul tema, senza protestare davanti alla durezza di una disposizione che10 allontanava dalla propria famiglia, don Josemarfa obbedì con prontezza. Il giorno seguente, martedì 31 marzo, partì per la sua nuova destinazione su un carret­to trainato da muli.

L’abitato di Perdiguera aveva circa ottocento abitanti.11 paese, situato su un rilievo appena accennato in una

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pianura posta a sud della zona dei Monegros, si trova­va in mezzo a terreni aridi. Al di sopra dei tetti si erge­va, pesante e massiccia, la mole della chiesa. In fondo, all’orizzonte, si stagliava la Sierra de Alcubierre. Ben­ché non fosse molto distante dal capoluogo, il paese si trovava fuori mano ed era mal comunicato.

Il sacrestano della parrocchia, Urbano Murillo, era a letto ammalato da alcuni giorni per cui toccò al figlio Teodoro, un ragazzo sveglio, accompagnare don Jose­maria alla casa dove avrebbe alloggiato3.

Il Reggente ispezionò subito la chiesa, che era dedica­ta a Maria Santissima Assunta. Era tuttora ben conser­vata, nonostante i secoli di vita e la struttura ne confer­mava la solidità dell’aspetto che presentava una singo­lare mescolanza di elementi gotici con decorazioni geo­metriche aggettanti in stile mudejar, tutto in cotto. Aveva una sola navata e sulla pala d’altare rinascimen­tale, di non cattiva fattura, troneggiava una statua della Santissima Vergine. Ma la trascuratezza e la sporcizia dell’interno lo colpirono al cuore, non appena arrivato, soprattutto per il deplorevole stato in cui si trovavano il tabernacolo e l’altare. Bisognava spazzare e pulire la chiesa per poter celebrare la Messa il giorno successivo.

La casa in cui era ospitato era di una onesta famiglia di contadini. Molto modesta, per non dire molto pove­ra. Come la maggior parte delle abitazioni del paese, consisteva di un piano terra dove stava la cucina e sul retro una porta che dava su di un cortiletto. Al piano superiore stavano le camere. La famiglia era composta da Saturnino Arruga, sua moglie Prudencia Escanero e un ragazzo di dieci o dodici anni4.

Don Josemaria vide con sorpresa che quella buona gente gli aveva preparato un letto formidabile. Sopra un ampio letto, con testiera e base di metallo dorato, erano stati messi un paio di soffici materassi e un piu­mino variopinto. Il suo scherzoso commento secondo cui, per arrivare sul letto, avrebbe dovuto prendere la

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rincorsa e saltare, aveva lo scopo di mascherare con buon umore la penitenza di dormire sul pavimento, che era esattamente la posizione dalla quale vedeva innal­zarsi il letto come un’imponente costruzione. Quel ca­tafalco oscillava e scricchiolava al minimo movimento, con una “sagra notturna di rumori” adatta a interrom­pere il sonno più profondo. A giudicare dalle facezie con cui descriveva l’impalcatura del letto, deve averci dormito ben poche volte5.

Il giorno successivo al suo arrivo a Perdiguera riservò il Santissimo nel tabernacolo e si occupò di organizzare le attività della giornata. Mancavano solo pochi giorni alla Settimana Santa e il suo desiderio era che tutti i parrocchiani si accostassero al sacramento della Peni­tenza per adempiere poi il precetto della Comunione pasquale. Aiutato dal sacrestano e da suo figlio mise in pratica il proposito di conoscere quanto prima le fami­glie della parrocchia. Come assicura Teodoro, il chieri­chetto, benché vi fossero circa duecento case «fece visi­ta a tutte le famiglie del paese in poco tempo»6. Man mano che andava conoscendo i parrocchiani, si rese conto della scarsa dottrina degli adulti e dell’assoluta ignoranza del catechismo da parte dei loro figli. Subito il Reggente si propose nuove mete: organizzare delle ca­techesi per gli adulti e per i bambini e preparare questi ultimi alla prima Comunione.

Passata la Settimana Santa e i lunghi riti liturgici don Josemarìa, accompagnato dal chierichetto, fece visita e confessò tutti i malati costretti a letto, mettendosi a di­sposizione per portare loro la santa Comunione, se lo desideravano. Il giovane sacerdote ambiva di dare so­lennità alla Messa visto che, fosse o no festa, celebrava la Messa cantata tutti i giorni, senza badare se Paf­fluenza di fedeli era scarsa7. La maggior parte della gente si alzava all’alba per recarsi al lavoro nei campi. Perdiguera viveva del frutto delle terre coltivate, dei vi­gneti e degli uliveti. I campi della zona erano duri, ma

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esistevano anche alcuni pascoli dei quali fruivano le greggi di pecore e di capre degli abitanti.

Quando aveva qualche momento libero don Jose­maria si dedicava alla lettura o allo studio. A mezzo­giorno sedeva alla tavola dei contadini e prendeva, di buona voglia e con appetito, quanto preparato da Pru- dencia. Non erano certamente piatti raffinati, però ab­bondanti e sostanziosi: del buon pane, legumi, maiale o montone, il tutto con molto olio e molti condimenti piccanti. Dopo mangiato, quando la gente faceva la sie­sta, se ne andava con il chierichetto a fare un giro nei dintorni. Oltre a fare esercizio fisico, don Josemaria ne approfittava per illuminare cristianamente il suo giova­ne accompagnatore. Prendevano per il cosiddetto “Pas­seggio dei preti” , che mai mancava nei paesi e nemme­no a Perdiguera, e facevano ritorno dalla contrada Uli­veto. Teodoro ha ora dimenticato il tema delle chiac­chierate, ma non un certo comportamento del Reggen­te: «Durante le passeggiate si chiacchierava e ricordo solo che raccoglieva dei sassolini che si metteva in tasca; non ho mai osato chiedergli perché lo facesse»8, confessa con rispettosa sincerità. (Oltre a essere gente discreta, i Murillo di Perdiguera furono fedeli alla tra­dizione parrocchiale, a quanto racconta Teodoro men­tre dà la stura ai ricordi: «Mio padre, Urbano Murillo, morto anni fa, era il sacrestano della parrocchia del- l’Assunzione di Perdiguera, in provincia di Saragozza. Già prima di lui, mio nonno era stato sacrestano. Io al­lora ero il chierichetto; con il tempo sono diventato sa­crestano e spero di continuare questo lavoro finché il Signore mi darà vita»)9.

Se il chierichetto fosse stato meno riguardoso e avesse chiesto al sacerdote la ragione di così strano procedimen­to, forse lo avrebbe messo in imbarazzo. Perché ciò che tanto incuriosiva il ragazzo non era una mania da colle­zionista, bensì un rudimentale metodo ascetico per tenere conto delle preghiere o delle mortificazioni fatte. Il peri­

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colo stava nel sistema, in quanto la conta poteva indurre a una soddisfatta vanità. L’esperienza e il tempo tuttavia insegnarono ben presto al giovane sacerdote a lasciare che il conteggio lo tenesse il suo angelo custode10.

Don Josemaria trascorreva il pomeriggio in chiesa. Esponeva il Santissimo, recitava il rosario e, al giovedì, teneva l’Ora Santa. Prima e dopo si chiudeva nel con­fessionale, aspettando con pazienza che vi si recassero i penitenti, in genere bambini o vecchie. Talvolta veniva anche qualche giovane o un uomo maturo. Il Reggente era contento di vedere che aumentava il numero di quanti si accostavano alla confessione. Ma un giorno, mentre usciva di chiesa, colse al volo, nell’atrio della chiesa, una battuta di un ragazzo ai suoi amici: «Acci­denti al prete! Se non stavo attento, quasi riesce a tirar­mi fuori tutto»11. Solamente l’ignoranza, il non sapere che nel tribunale della Penitenza il confessore è, oltre che giudice, strumento di misericordia, potè indurre quel giovane a commettere un tal sacrilegio. Il dolore che provocò nel confessore questa mancanza di since­rità nella confessione lo spinse a offrire, per alcuni anni, preghiere e mortificazioni in riparazione. Era la seconda volta che la sua fine sensibilità sacerdotale pa­tiva un serio dispiacere in pochi giorni. La prima volta glielo aveva procurato la trascuratezza e l’abbandono in cui aveva trovato il tabernacolo. Da allora in poi, quando scorgeva da lontano una chiesa, in città o in campagna, ripagava con un atto d’amore la presenza eucaristica del Signore in quel tempio.

Erano passate solo tre settimane dal suo arrivo e la parrocchia funzionava già con regolarità, quando ebbe una visita inattesa. Il padre del parroco malato si pre­sentò all’improvviso, reclamando, a nome del figlio, i diritti di altare e stola per le Messe che aveva celebrato il Reggente, le Ore Sante più recenti e gli altri diritti parrocchiali. Don Josemaria scrisse a suo zio Carlos, chiedendogli parere e consiglio su quella che considera­

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va una pretesa ingiusta e sfacciata. Avrebbe potuto, è vero, rivolgersi direttamente alla Curia, ma volle ap­profittare della circostanza come pretesto per gettare, con delicatezza, un ponte che servisse a ristabilire buoni rapporti con l’arcidiacono.

Non tardò ad arrivare la risposta ufficiale dell’Arci- vescovado, in data 24 aprile, il che lascia sospettare un certo disinteresse dell’arcidiacono per il nipote:

«Segreteria dell’Arcivescovado di Saragozza.Don José Maria Escrivà. - Perdiguera.Mio caro amico, tuo zio Carlos, che parte oggi per Bur- gos, mi ha lasciato la lettera che gli hai scritto e alla qua­le rispondo:1 - Puoi e devi firmare i certificati dei sacramenti.2 - Essendo tu il responsabile di quanto accade durante l’assenza del Parroco (che se n’è andato senza alcun per­messo) non puoi consentire che il padre né alcun altro della famiglia riscuota il denaro che i fedeli danno per i defunti.3-1 diritti parrocchiali sono di tua esclusiva competen­za. Per carità e per un breve periodo, quale quello che si può supporre egli impieghi per tornare, puoi dargli la metà dei diritti, ma facendo notare che sono tuoi.4 - Mostra questa lettera al padre del sacerdote, se lo ri­tieni opportuno, affinché sappia che si deve assoluta- mente astenere da qualsiasi intervento in parrocchia. Di conseguenza che non succeda più che riscuota Ore Sante e Messe che celebri tu.5 - Di tutto ciò di anormale che tu abbia osservato nella parrocchia sei obbligato a render conto al Signor Vica­rio e non a tuo zio, anche se il Signor Arcidiacono è mol­to ascoltato nel Vicariato.Sono il tuo affezionatissimo Juan Carceller 24 aprile 1925»12.

I documenti della Segreteria arcivescovile non con­tengono il seguito della storia. Don Josemarìa aveva il

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cuore tenero, ma aveva anche una famiglia alla quale provvedere. La cosa più probabile è che, attenendosi al suggerimento del Segretario, abbia condiviso i diritti parrocchiali con la famiglia dell’altro sacerdote.

Con una delicatezza quasi scrupolosa, per non confondere le cure spirituali con i doni materiali dei fe­deli, il Reggente rifiutava tutto ciò che potesse significa­re, anche lontanamente, una ricompensa ai suoi servizi ministeriali. I contadini, vedendo che il sacerdote non accettava regali, avrebbero voluto almeno portare qual­cosa alla sua famiglia a Saragozza, quando andavano nel capoluogo a vendere i prodotti della loro terra o dell’ovile. Ma il Reggente tagliò di netto anche questa possibilità. Non riuscirono mai a sapere l’indirizzo della signora Dolores per portarle formaggio, frutta o pollame. Il figlio si rifiutò di dare loro l’indirizzo, anche se, come dice suo fratello Santiago, qualche regalo commestibile sarebbe stato assai opportuno per gli abi­tanti di via Rufas13.

Saturnino e Prudencia, in casa dei quali il sacerdote era ospitato, avevano parecchie occasioni di parlare con lui. Don Josemaria avrebbe voluto contraccambiare in qualche modo i favori di quella famiglia. Gli dispiaceva che il loro figlio non potesse partecipare alle lezioni con le quali preparava un gruppo di bambini alla prima Co­munione. Il ragazzo usciva di casa al mattino presto con le sue capre e non ritornava fino al tramonto. Il Reggen­te finì con lo spiegargli il catechismo la sera. Dopo un po’ di tempo, per vedere se fosse preparato, gli chiese:

“Se fossi ricco, molto ricco, che cosa ti piacerebbe fare?”Il ragazzino si mise prudentemente sulla difensiva, pri­ma di avventurarsi a rispondere:“Che cos’è essere ricco?”Il sacerdote gli spiegò alla meglio che essere ricco voleva dire avere molto denaro, molti vestiti, molta terra, vac­che molto grasse e splendide capre:

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“Che cosa faresti se fossi ricco?” , insisteva don Jose­maria. Il ragazzo ebbe un’improvvisa ispirazione, s’illu­minò in viso ed esclamò: “Mi mangerei certi piatti di zuppa col vino !...” .

Il Reggente, udita la risposta, divenne molto serio pensando dentro di sé: “Josemaria, sta parlando lo Spi­rito Santo” 14. Perché tutte le ambizioni di questo mondo, per quanto grandi possano essere, non sono altro che un prosaico piatto di zuppa, nulla che valga veramente la pena.

Pensò di raccogliere per iscritto questo ed altri episodi analoghi, verificatisi nelle brevi settimane passate nel paese, sotto il titolo di “Storia di un pretino di paese” 15, allo scopo di aprire gli occhi a qualche prete novello e aiutarlo nella sua vita di pietà. Trent’anni dopo abboz­zava in una meditazione un avvenimento che, senza dubbio, faceva parte delle peripezie del suo passaggio per Perdiguera. Certamente sarebbe entrato a buon di­ritto nella citata “Storia” se il Reggente avesse deciso di scriverla. I tratti sono autobiografici.

Un certo pretino ordinato da poco arrivò in un paese della provincia, con poche case e pochissimi abitanti. Incamminatosi verso la chiesa, si imbattè in alcuni chie­rici che giocavano a carte. A quanto pare, quei suoi col­leghi non avevano molto da fare.

Il pretino passò loro innanzi e quelli lo invitarono a fare una partita. Ma il giovane chierico si scusò molto cortesemente. Disse di non saper giocare e se la svignò. Andò in chiesa a fare una visita, stando un po’ in com­pagnia del Santissimo, com’era sua abitudine fare ogni pomeriggio e com’era solito fare anche tutte le mattine.I giocatori non se ne scandalizzarono; perché avrebbero dovuto? Ma, naturalmente, sorrisero per il candore del pretino, che avrebbe ben potuto fare un pisolino pome­ridiano e uscire poi, come ogni prete rispettabile, a fare

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una passeggiata per luoghi solatii nei mesi invernali o per siti freschi e ombreggiati d’estate.

Quando il pretino uscì di chiesa quelli che giocavano a carte gli vociarono da lontano: “Rosa mystical, Rosa mystical”16. Era il motto che alcuni gli avevano affibbia­to nel seminario di Saragozza. Presto corse per i paesi vicini la storia e pure il soprannome “il mistico” con il quale qualcuno incominciò a riferirsi al Reggente.

A don Josemarìa serviva di consolazione l’essere al servizio delle anime. Grande fu perciò la sua gioia quando vari bambini furono pronti per la prima Comu­nione. Ma questo, come molti altri dati pastorali, non si trova nei libri della parrocchia. Se dovessimo giudica­re solo in base a ciò che lasciò annotato sui fogli del­l’archivio parrocchiale, il suo lavoro apparirebbe molto ridotto. Durante la sua permanenza a Perdiguera ci fu una sola morte. Un po’ più numerosi furono i battesi­mi, che riguardarono quattro bambini ai quali furono imposti i nomi di Isidoro, Pascual, Mariano e Carme- Io17. La scarsa popolazione della parrocchia e la breve permanenza del Reggente non consentono di tirare con­clusioni statistiche valide, che comunque non sarebbero sufficienti a definire in che cosa consiste il lavoro in una parrocchia rurale. Don Josemarìa cessò dal suo in­carico il 18 maggio 1925, il giorno successivo all’entra­ta nell’arcidiocesi di Monsignor Rigoberto Doménech, successore del Cardinal Soldevila18.

L’epitaffio del Reggente di Perdiguera lo traccia Teo­doro Murillo, sacrestano della parrocchia, quando nel 1975 rende la seguente testimonianza:

«Dei sacerdoti che si sono succeduti nel paese è don Jose- marìa quello che ha lasciato in me, e non saprei dire esat­tamente perché, un ricordo incancellabile. Era molto alle­gro, di umore eccellente, molto educato, semplice e affettuoso. Nel poco tempo che si fermò gli ho voluto mol­to bene e ho sofferto veramente per la sua partenza»19.

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2. Gli studi di Legge

L’attività svolta a Perdiguera, primizia del suo ministero sacerdotale, era stata assorbente. Don Josemaria non potè avere un momento di riposo. Tuttavia, essendo giovane e resistente, né le fatiche e le penitenze, né le veglie e le notti sul pavimento lasciarono traccia di stanchezza. Di ritorno a casa si trovò di fronte al saluto spontaneo di sua sorella: «Come sei ingrassato!»20. La cucina di Prudencia e il desiderio del chierico di non re­spingere ciò che compariva su quella umile tavola ave­vano molto a che vedere col suo buon aspetto: soprat­tutto il pane, i legumi, le patate e i grassi.

Josemarfa, fine osservatore, non ebbe bisogno di mol­to tempo per rendersi conto della condizione di sua ma­dre e dei fratelli. Da anni vivevano nelle ristrettezze, ma dalla morte del capofamiglia rasentavano la miseria. Sixta Cermeno, che continuava a far visita con una cer­ta frequenza all’appartamento di via Rufas, racconta che sua zia Dolores «in quel periodo soffriva molto, an­che se non lo faceva vedere». Anche senza mettersi d’ac­cordo essi facevano in modo, con ogni mezzo, che non fossero visibili ai visitatori le difficoltà economiche della casa. «Ricordo per esempio - continua Sixta - che una domenica pomeriggio stavamo insieme e la zia disse che avrebbe preparato una cioccolata facendo il gesto di vo­lermi offrire qualcosa, ma ora ho la sicurezza che quella fosse tutta la loro cena»21.

Avendo davanti agli occhi uno stato di necessità tanto pressante, il giovane sacerdote non si poteva permettere ambiziosi progetti a lungo termine. In primo luogo do­veva risolvere la sua relazione ecclesiastica con la Curia; questione sospesa dalla sua ordinazione e che, per i pre­cedenti di Perdiguera, non sembrava promettere una fe­lice soluzione. Era anche più o meno chiaro che la lette­ra inviatagli a Perdiguera dal Cancelliere Segretario dell’Arcivescovado racchiudeva, fra le righe, un avverti­

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mento piuttosto chiaro: lasciare in pace suo zio Carlos. A che prò insistere?

Don Josemaria si trovava, alla fin dei conti, a dover fronteggiare, e non su un piano di teorico idealismo, i problemi reali e imperiosi della “carriera ecclesiastica” . Non sapeva esattamente che strada seguire. Da un latolo attraeva l’esercizio del suo ministero; si sentiva fuori posto lontano dall’altare ed era disposto a qualsiasi sa­crificio. Ma dall’altro doveva considerare le proprie cir­costanze personali e in particolare gli obblighi verso la propria famiglia. Tutto ciò, indubbiamente, restringeva molto la lista di possibili posti ecclesiastici da richiede­re. A maggior ragione tenendo presente che non prende­va alcuna decisione senza averla prima considerata alla luce dei “presagi dell’Amore divino”22.

Dopo molte ricerche, non trovò nulla di consistente e utile per coprire le sue urgenti necessità economiche di capofamiglia. Finché, alla fine e dopo qualche insucces­so, ottenne un posto con cui soddisfare il suo zelo di sa­cerdote. In un modo o nell’altro, non si sa come, finì nella chiesa di S. Pietro Nolasco, più conosciuta con il nome di chiesa del Sacro Cuore, retta dai Padri Gesuiti. Lì cominciò provvisoriamente a lavorare nel mese di maggio, poco dopo essere rientrato da Perdiguera. Gli stipendi, come ci si può immaginare, erano insufficienti per sopperire alle spese familiari.

Considerando le cose da vicino, la preoccupazione che aveva la signora Dolores era un’altra. Temeva che suo figlio fosse destinato di nuovo fuori città. E con il coraggio proprio di una madre, benché sapesse che non era il momento adatto, si decise a chiedere una racco­mandazione a suo fratello, il canonico. Al piccolo San­tiago rimase impressa la dolorosa scena accaduta quan­do sua madre si presentò, ancora in lutto e portando lui per mano, a casa dello zio Carlos, per supplicarlo che si prendesse cura di Josemaria: «Mia madre desiderava - egli racconta - che, una volta ordinato sacerdote, si fer­

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masse a Saragozza con noi. Andò a chiederlo a suo fra­tello don Carlos, che aveva molta influenza in Curia. Io accompagnai mia madre ma suo fratello don Carlos, lo ricordo come se fosse ora, la ricevette di mala grazia e a spintoni ci buttò fuori di casa»23.

Un altro problema che doveva risolvere il novello sa­cerdote era quello degli studi civili. Alcuni mesi prima aveva iniziato gli studi giuridici. Ora, dopo appena un anno, le circostanze e la situazione degli Escrivà erano talmente cambiate che si vedeva costretto a terminare quanto prima gli studi di Legge. Il giovane sacerdote prevedeva che l’unica possibilità compatibile con la pro­pria condizione sacerdotale era di dedicarsi all’insegna­mento, se voleva provvedere alla famiglia.

In data 29 aprile, mentre era ancora a Perdiguera, aveva inviato un’istanza al Decano della Facoltà di Di­ritto in cui chiedeva, avendo fatto privatamente gli studi delle materie di Diritto politico e Diritto civile, di pre­sentarsi agli esami del successivo mese di giugno24. Du­rante l’anno accademico 1924-1925 gli eventi si erano succeduti in modo così coinvolgente per don Josemaria - la morte del padre, il diaconato, il trasferimento della famiglia, l’ordinazione sacerdotale, la destinazione a Perdiguera e infine il ministero in S. Pietro Nolasco - che aveva potuto dedicarsi ben poco allo studio. Quan­do si accinse a preparare, con entusiasmo e tenacia, le materie di Diritto politico e civile, ben presto si rese conto che pretendeva di mettere troppa carne al fuoco. Si presentò solamente all’esame di Diritto civile, che su­però comodamente25.

Controllando il proprio curriculum accademico si rese conto che, grazie allo sforzo dell’anno precedente in cui nella sola sessione del settembre 1924 era riuscito a superare sei materie, si trovava già a metà strada26. Pieno di ottimismo, tracciò un nuovo piano di batta­glia, cercando di preparare altri due esami durante l’e­state del 1925. Si trattava di Diritto penale e Diritto

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amministrativo. Arrivato però il mese di settembre, lo studente non si presentò agli esami27. Forse gli fu im­possibile prepararsi a causa dei nuovi impegni liturgici e pastorali in S. Pietro Nolasco; o forse il senso di re­sponsabilità gli impediva di tentare la sorte se non pa­droneggiava la materia.

Tuttavia, né lo studio né la prudenza gli evitarono una bocciatura in Storia di Spagna, materia in cui Jose­marìa pensava di essere ben preparato, per la sua pas­sione e per le letture fatte28. Il docente di storia era co­nosciuto fra gli studenti per la sua suscettibilità, alla quale univa la gravità della figura e il tono magistrale delle lezioni. Essendo “ allievo libero” , Josemarìa non era obbligato ad assistere alle lezioni. Ma il professore prese a male le assenze dell’allievo, quasi questi disprez­zasse lezioni di tale livello. Arrivati gli esami fece dire a Josemarìa che non si presentasse, perché lo avrebbe bocciato; e così accadde. L’allievo, dispiaciuto per la palese ingiustizia dal momento che aveva dato prova della propria preparazione, per evitare un ulteriore ar­bitrio fece avere al docente un messaggio in cui, espo­nendo le proprie ragioni, chiedeva che, prima di presen­tarsi di nuovo all’esame, gli fossero date garanzie sulla possibilità di superarlo. Il professore riconobbe il pro­prio ingiusto modo di procedere e lo assicurò che sa­rebbe stata sufficiente la sua presenza all’esame, avendo già dato dimostrazione di conoscere bene la materia29.

A quel punto, gli studi di Legge stavano risultando per Josemarìa una faticosa gara a ostacoli; tutto lascia­va prevedere che il terminarli gli sarebbe costato molto sacrificio. L’impegno assunto quando era ancora in vita suo padre, del quale venerava la memoria, gli dava forza per continuare a combattere. Nello stesso tempo, per gratitudine e lealtà, si sentiva impegnato con Dio, la cui chiamata non era ancora stata esplicitata nei particolari.

Questo spiega in parte la sua sicurezza interiore e il

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ftraboccante ottimismo. Con questo spirito iniziò l’anno accademico 1925-1926. Aveva il fermo proposito di terminare, in questa seconda tappa del suo passaggio per la Facoltà di Diritto, le materie che gli mancavano per prendere la licenza. Contava, naturalmente, sulle sessioni di giugno e di settembre.

Un compagno di Josemaria che conosceva l’Univer- sità ecclesiastica e che, come lui, studiò poi Diritto di­chiara, piuttosto sorpreso, che anche se in quelle istitu­zioni di insegnamento regnavano valori sociali comple­tamente diversi, Josemaria, che nel Seminario eccelleva per le sue «aspirazioni culturali», non ebbe alcun pro­blema di adattamento. Anzi, tali caratteristiche gli gio­varono enormemente all’Università civile, nel cui am­biente «si inserì perfettamente»30.

Forse la veste talare contribuiva a dargli un tocco di prestigio in quanto era una novità fra gli allievi. E un fatto che la veste clericale, indossata con naturalezza ed eleganza, non rappresentò mai una barriera fra Jose­maria e i suoi compagni. Alcuni studenti amici, come Juan Antonio Iranzo, consideravano la tonaca «uno specchio del concetto che egli aveva della dignità del sa­cerdozio e del proprio desiderio di apostolato»31.

Fin dal primo momento si sentì nell’Università come un pesce nell’acqua. Don José Lopez Ortiz racconta che nel giugno 1924, poco dopo essere stato ordinato pre­sbitero, andò a Saragozza per sostenere degli esami e fece amicizia con l’allora Ispettore del S. Carlo, che lo aiutò a orientarsi nella Facoltà: «Josemaria era molto ben preparato e conosceva quell’ambiente che a me era sconosciuto; generosamente, come fosse la cosa più na­turale, mi forniva validi orientamenti sui diversi argo­menti che si riferivano agli studi»32. In quel periodo, l’uno portava l’abito degli Agostiniani e l’altro portava la veste talare e non era ancora stato ordinato suddia­cono. L’Agostiniano, che si trovava in un ambiente per lui estraneo, fu sorpreso dalla scioltezza con cui si de­

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streggiava Josemaria. «In Facoltà - dice - osservavo che tutti lo conoscevano e che, per il suo carattere co­municativo e allegro, lo apprezzavano molto. Poiché era l’unico seminarista, alcuni amici lo chiamavano af­fettuosamente “ il pretino” , con il soprannome che gli aveva affibbiato il professore di Diritto canonico, Mo­neva Puyol, che stimava moltissimo Josemaria»33.

Il giovane sacerdote non stava mai da solo. L’attratti­va della sua conversazione e della sua persona riuniva intorno a lui gli studenti, che si avvicinavano al croc­chio «per sentirlo chiacchierare», poiché «si sentivano attratti dalla sua personalità». Luis Palos, che ce lo rac­conta, conservava una nostalgica immagine del “preti­no” , ancora vivida nella sua vecchiaia: «Mi pare anco­ra di vederlo, nei chiostri dell’antico edificio dell’uni­versità o in piazza della Maddalena, mentre passeggia­va con altri; oppure nella Biblioteca della Cerbuna, ora soppressa. È evidente che su di noi aveva molta attratti­va. Era di mentalità aperta, di spirito universale»34. Que­st’ampiezza di vedute e di sentimenti era, in buona parte, frutto della sua condizione sacerdotale.

Il sacerdozio era la vocazione a partire dalla quale il Signore lo avrebbe chiamato a compiere un disegno di­vino di ampia portata facendogli conoscere, a suo tempo, ciò che non gli aveva ancora rivelato. Josemaria era stato prelevato tra gli uomini, in quanto sacerdote, per partecipare dell’eterno sacerdozio di Cristo a bene­ficio degli altri uomini suoi fratelli. Con la consacrazio­ne mediante il sacramento dell’Ordine, gli era stato conferito un segno indelebile, che lo vincolava alla mis­sione della Chiesa, rendendolo un altro Cristo e ammi­nistratore dei suoi sacramenti.

Di questa tremenda dignità aveva un così alto concet­to che, a quanto testimoniano i suoi amici, esso traspa­riva nei suoi modi e nell’aspetto esterno, come espres­sione della coscienza della sua nuova personalità. Il gio­vane sacerdote era straordinariamente delicato in tutto

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ciò che implicava presa in giro o burla allo stato cleri­cale, specialmente quando stava in compagnia di uni­versitari. Uno di essi racconta che Josemarìa «sopporta­va con semplicità le intemperanze dei colleghi - parole sconvenienti, barzellette un po’ al limite - e sapeva uscire con disinvoltura da situazioni che per un altro sarebbero state pericolose»35. Ma se la conversazione scivolava in modo sconveniente, non appena si sfiora­vano materie scabrose o una mancanza di rispetto verso il sacerdote, il giovane chierico tagliava corto in modo tassativo, senza perdere il decoro e la calma e senza poter evitare, a volte, di arrossire in viso.

Il rispetto dovuto al sacerdozio lo viveva egli stesso in modo esemplare, facendo in modo, per quanto possi­bile, che la sua compostezza e gravità non fossero me­nomate a contatto con il mondo studentesco. Era com­preso così profondamente della necessità di essere mi­surato nel comportamento che questa preoccupazione appare e riappare nelle sue note scritte. E infine resterà fissata, con uno sfondo autobiografico, nel criterio d’a­zione che consigliava a ogni cristiano:

“Non mettere il Sacerdote nel pericolo di perdere la gra­vità. È una virtù che, senza sussiego, egli deve possedere sempre.Come la chiedeva - Signore, dammi... ottant’anni di gra­vità! - quel giovane sacerdote, nostro amico!Chiedila anche tu, per tutti i Sacerdoti, e avrai fatto una buona cosa”36.

Il giovane cappellano raddoppiava le sue attenzioni pernon dare motivo a possibili pettegolezzi, andando oltre aquanto richiesto da una discreta prudenza. Faceva atten­zione a non uscire in strada in compagnia di sua madre odi sua sorella, perché questo non potesse causare scandaloin chi non era al corrente della loro parentela. Con le ra­gazze che seguivano studi universitari nella Facoltà di Di­

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ritto, poche invero in quegli anni, si comportava con cauta amabilità, senza eccedere in dimostrazioni di cortesia37.

La veste talare - ripetiamo - non fu mai di impedi­mento per don Josemarfa il quale, per strada o all’Uni­versità o nelle funzioni di cappellano in S. Pietro Nola­sco, sapeva muoversi con naturalezza, consapevole del valore dell’abito. Anzi, come racconta un suo compa­gno di studi, «non cessava di far notare la propria con­dizione sacerdotale»38. Il novello sacerdote era nobil­mente orgoglioso di possedere tale tesoro e dignità. Un motivo che lo induceva ad amare con tutto il cuore i propri fratelli nel sacerdozio, a difendere con le unghie e con i denti l’onore dei ministri dell’altare e a cercare di ricostituirlo quando veniva macchiato.

Don Josemarfa fu testimone di qualche triste evento di questo tipo, come ciò che accadde a un caro amico del se­minario, che ben presto abbandonò il ministero sacerdota­le. La conversione di quell’anima richiese un lungo cammi­no di preghiera e di veglie. Intorno al 1930 - riferisce uno studente - «don Josemarfa mi chiedeva di pregare per co­stui e, in confidenza, mi raccontò qualcosa della sua pre­ghiera e mortificazione per questa intenzione»39. Un’altra persona testimonia diversi anni dopo che don Josemarfa «lo ricordava molto, lo raccomandava nell’orazione e cer­cava di non perdere il contatto con questa persona, pen­sando sempre che potesse essere recuperabile»40. «Lo am­monì a parole e per iscritto per tirarlo fuori da una pessima situazione», insiste un terzo. Finché, alla fine della sua vita, quel peccatore, ormai riconciliato con Dio, si rese conto che Josemarfa «era stato l’amico più fedele e lo strumento di cui Dio si era valso per farlo ritornare alla Chiesa»41.

Altre volte si trattava di persone di maggiore età alle quali il giovane sacerdote, dopo essersi mortificato e avere a lungo pregato, si avvicinava armato di carità e di simpatia42.

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Il 25 aprile 1926, con il nobile intento di fare un buon passo avanti negli studi civili, ma con eccesso di ottimi­smo, rivolse al decano della Facoltà di Diritto un’istan­za nella quale rispettosamente dichiarava:

“Desiderando essere ammesso, nella prossima sessione, agli esami delle seguenti materie: Diritto Politico, Diritto Penale, Diritto Amministrativo, Diritto Pubblico Inter­nazionale, Diritto Mercantile e Procedure giudiziarie”,... ecc.43.

Era deciso a portare avanti tutte queste materie, ben­ché sapesse che lo zelo apostolico che portava dentro di sé, sommato agli obblighi come cappellano di S. Pietro Nolasco, non gli avrebbe lasciato molto tempo libero.

Al momento degli esami, vedendo prossimo il perico­lo, fece i suoi calcoli e lasciò per la sessione di settem­bre il Diritto penale e le Procedure giudiziarie. Delle altre materie fece gli esami nel mese di giugno, pren­dendo un Ottimo con Lode, due Notevole e un Appro­vato. Delle altre due materie, oltre che di Elementi di Amministrazione pubblica e Diritto privato internazio­nale, fece gli esami dopo l’estate. Gli mancava dunque una sola materia per terminare44.

3. La cappellania di S. Pietro Nolasco

L’ideale che perseguiva don Josemaria nelle sue attività sacerdotali, mentre era in attesa di una decisione dall’al­to, gli costava molte privazioni. I presagi di una chiama­ta nascosta perduravano. Dopo avere risposto con prontezza alla chiamata divina, a Logrono all’inizio del 1918, quel ragazzo, ora sacerdote, continuava nel 1925 a interrogarsi sulla propria misteriosa vocazione. L’atte­sa di qualcosa di sublime lo aiutava a superare la cruda realtà quotidiana, della quale una delle ineludibili esi­

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genze era quella del pane quotidiano per il sostentamen­to della propria famiglia.

Se la Provvidenza avesse disposto le cose in altro mo­do, don Josemarìa, con l’aiuto del Cardinal Soldevila o di qualcuno dei propri parenti, avrebbe già usufruito di un beneficio ecclesiastico o di un posto ben rimunerato. Ma a nulla serviva lamentarsi. Il Cardinale era morto e i suoi zii - canonici e beneficiari di prebende- sembrava­no averlo rinnegato. Per quanto concerne le facoltà mi­nisteriali, la prima volta gli erano state concesse per sei mesi da don José Pellicer, Vicario di Saragozza45. Le suc­cessive proroghe e rinnovi delle facoltà “per celebrare e assolvere” gli furono concesse da Monsignor Rigoberto Doménech46.

Il nuovo prelato era stato consacrato vescovo nel 1916 e aveva svolto il suo lavoro pastorale per otto anni a Maiorca. Nel 1926, da poco stabilitosi a Saragozza, si dedicò alla riforma del seminario e al cambio degli inca­richi nella curia diocesana. Anche le nomine ecclesiasti­che erano soggette alle umane vicissitudini della storia. Forse fu in occasione di queste rimozioni che un eccle­siastico pieno di esperienza con la massima rettitudine d’intenzione consigliò don Josemarìa di evitare ogni ec­cesso nel lavoro e, soprattutto, di non scrivere su argo­menti che potessero metterlo in contrasto con opinioni altrui, perché gli sarebbe stato molto difficile fare mar­cia indietro47.

Le vicissitudini alle quali lo sottopose la vita avrebbe­ro consentito a don Josemarìa di accertare quanto di ve­ro ci fosse in quel consiglio. Poiché è noto che chi lavora per rinnovare la società suscita, presto o tardi, inimici­zie e ostacoli che finiranno per frapporsi sul suo cammi­no. Per il momento, la sorte del giovane sacerdote non era oggetto di invidia da parte di nessuno; semmai, di commiserazione.

Come già si è detto, ritornato da Perdiguera non trovò altro lavoro sacerdotale che la cappellania della

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chiesa di S. Pietro Nolasco. Secondo quanto certificherà più avanti padre Celestino Moner S.J., egli svolse il suo incarico con piena soddisfazione di tutti:

«Certifico che il Presbitero don José Maria Escrivà, dal­l’aprile o maggio 1925 fino al marzo 1927, ha prestato il proprio servizio come Cappellano aggiunto, per celebra­re la santa Messa, amministrare la santa Comunione, esporre e conservare il Santissimo Sacramento; e sempre con edificazione di tutti e senza dare motivo alcuno di lagnanza nello svolgimento del suo incarico»48.

Era tale il suo zelo spirituale per celebrare il Santo Sa­crificio, che riteneva ben impiegata tutta una vita di de­dizione e di lavoro, se fosse stato necessario, per ordi­narsi sacerdote e dire Messa. Le sue buone disposizioni pastorali e la diligenza che vi esplicò furono valutate in modo positivo dal Rettore della chiesa. Nel mese di set­tembre gli offrì un contratto in termini provvisori, e dunque l’accordo non stabiliva un impegno duraturo e non risolveva interamente le necessità economiche del cappellano. Don Josemaria accettò, perché non aveva altro appiglio al quale afferrarsi se voleva svolgere una funzione sacerdotale retribuita. Ecco quanto stipulato:

«Obblighi e diritti del Sig. Cappellano che sta al servizio della chiesa di San Pietro Nolasco.Nei giorni festivi, nei primi venerdì del mese e negli altri giorni solenni, starà al servizio della chiesa dalle sei del mattino fino alle 10.30.Negli altri giorni dalle 7 alle 9.30 o 10 del mattino. Quando ci fosse Messa cantata o nella Settimana Santa sarà presente per rivestirsi se occorresse.Nei primi venerdì del mese, durante le Quarant’Ore, nel mese di giugno e ogni volta che ci siano funzioni al po­meriggio con esposizione del SS., sarà puntuale all’ora della funzione per esporre e aiutare in ciò che sia oppor­tuno.

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i Quando fosse necessario, laverà i purificatoi.Celebrerà la santa Messa all’ora che gli verrà indicata. Avrà una elemosina fissa per la Messa, che sarà di 3 pe­setas.Per i servizi di cui sopra riceverà 2 pesetas al giorno.Nei giorni di festa farà la prima colazione in sacrestia.Nel giorno che per qualsiasi ragione non svolgesse gli in­carichi, non gli saranno devolute entrambe le elemosine, se non invia un sostituto che lo supplisca in tutto.

1 II Padre Superiore della chiesa potrà, se lo giudica op­portuno, scegliere un altro cappellano, avvisando 8 gior­ni prima l’interessato che deve cessare.D’accordo sulle condizioni, le accetto in Saragozza il 10

| settembre 1925.José Maria Escrivà, Sacerdote»49.

(Se si ha la curiosità di sapere a quanto ammontava- i no gli stipendi mensili del cappellano, si conserva un

foglietto relativo a Messe ed altri servizi del mese di ot­tobre, per un totale di 155 pesetas)50.

La chiesa era situata in un vecchio quartiere di Sara-l gozza, non lontano dal S. Carlo. Sotto il profilo archi-

tettonico non aveva nulla di particolare. Peraltro era una chiesa molto frequentata, per cui i Gesuiti richiede­vano l’aiuto di alcuni sacerdoti secolari. Le attività

i erano numerose e varie: sabatine ed esercizi mensilidelle Figlie di Maria; Messa delle Madri Cristiane la terza domenica del mese; esercizi mensili dell’Associa- zione della Buona Morte il terzo venerdì del mese;

j Istruzione Dogmatica tutte le domeniche alla Messadelle nove; Conferenze di S. Vincenzo de’ Paoli per si­gnore; Prime Domeniche per uomini; Messa domenica­le dei Congregati dell’Annunciazione e di S. Luigi Gon-

! zaga; festa mensile dei Congregati di S. Stanislao;Messa le prime domeniche del mese per le domestiche della Congregazione delle Figlie di Maria e di Santa

j Zita e al pomeriggio rosario e predica. Infine, per com-! pletare il quadro dei servizi di S. Pietro Nolasco, si ag-

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giungano gli esercizi spirituali per operai, per uomini, per i membri delle Conferenze di S. Vincenzo, per le maestre associate...51.

Da tutta questa fervente attività apostolica derivava­no molti altri servizi non specificati nel contratto di cappellania e che il sacerdote si caricava con gioia sulle spalle: catechesi, assistenza spirituale ai malati, sostitu­zioni impreviste, nonché l’ampio capitolo delle confes­sioni. Come a Perdiguera, don Josemarìa stava seduto ore e ore nel confessionale se non lo chiamavano per altre incombenze52. Già prima di essere ordinato senti­va una profonda venerazione per il sacramento della Penitenza:

“Quando ero studente all’Università di Saragozza” - raccontava - “avevo un amico che conduceva una vita sregolata e con altri siamo riusciti a ottenere che andasse a confessarsi.Sono passati tanti anni che ne posso parlare con libertà, perché è impossibile localizzare il sacerdote che oltretut­to sarà stato una buona persona. Questo amico, dun­que, andò al Pilar, si confessò e ritornò molto contento.Il suo commento fu:- Quel sacerdote dev’essere stato cantoniere.- Perché?, gli chiedemmo.- Mi ha dato come penitenza di fare sette stazioni per sette giorni”53.

Si dovette chiarire allo studente in che cosa consiste­vano le “ stazioni” ; e don Josemarìa imparò a imporredelle penitenze facili, che egli completava poi con ora­zioni e mortificazioni personali54.

La sua prudenza nel rapporto con le donne non gliimpediva di conoscere a fondo la psicologia femminileattraverso le sue penitenti. Dal confessionale diresse molte coscienze. Sembra che per qualche tempo in quel periodo abbia confessato delle suore, a quanto dice un amico55.

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A parte le attività liturgiche ed altre proprie del suo ministero, trovava sempre il tempo per conoscere colo­ro che aveva intorno a sé e diventare molto amico loro. La cerchia universitaria in cui si muoveva il giovane sa­cerdote era molto ampia, dato che offriva la propria amicizia a braccia aperte senza fermarsi di fronte a di­versità di carattere o a divergenze ideologiche. «Ricor­do anche i nomi di alcuni che, come me, a quell’epoca gli stavamo attorno e gli eravamo amici - riferisce Luis Palos -. Per esempio, Pascual Galbe Loshuertos, che aveva fama di miscredente; Juan Antonio Iranzo, ben­ché fosse più giovane; i fratelli Jiménez Arnau: José An­tonio, che fu poi ambasciatore, scrittore e direttore del­la Scuola Diplomatica, e suo fratello Enrique, oggi notaio a Madrid...»56.

Alla sua simpatia e al suo modo di essere accondi­scendente e comunicativo si aggiungevano altre qualità, molto apprezzate dagli studenti. «Ricordo la sua co­stante allegria: sorrideva sempre. Aveva un ottimo umo­re ed era molto generoso con gli amici», dichiara Do­mingo Fumanal57. Era sempre disposto a fare favori. Nel primo periodo della sua frequenza nelle aule della Facoltà, un gruppo di allievi di Juan Moneva, docente di Diritto canonico, gli chiese di dare loro lezioni di lati­no. Desideravano sapere quanto bastava per tradurre i canoni. Don Josemaria dava loro lezione tre giorni alla settimana. Gliene furono grati anche perché le lezioni furono gratuite58.

Il “pretino” utilizzava la sua innata attrattiva perso­nale per fare apostolato. Dice David Mainar: «Prendeva parte alle nostre riunioni forse perché aveva già qualche progetto, un suo progetto»59. Ma le sue intenzioni, che erano solo di avvicinare anime a Cristo, erano manifeste quanto la veste che portava, la cui presenza fisica e rap­presentatività è rilevata da un altro collega: «Nelle con­versazioni fra noi Josemaria non stonava e rispettava il nostro modo di essere»60, anche se dovette imparare a

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osservare la compostezza dovuta alla veste clericale e a capire fin dove poteva arrivare una conversazione. Il che non impediva che all’uscita dalle lezioni andasse con gli amici al bar Abdón, in corso dell’indipendenza, poiché lo invitavano a prendere qualcosa. E al bancone del bar o per strada continuavano a parlare di cose divi­ne e umane61.

Quando, durante l’anno accademico 1925-1926, in piazza della Maddalena don Josemarìa si presentò già ordinato sacerdote, quelle amicizie acquistarono un to­no spirituale più elevato. Senza urtare, come se fosse la cosa più naturale del mondo, avvalendosi del proprio prestigio e dell’amicizia, riuscì man mano a far vivere ai suoi compagni alcune devozioni, come la visita quoti­diana alla Madonna del Pilar. E per alcuni di essi, oltre che amico e confidente, divenne anche confessore e di­rettore spirituale62. In quel sacerdote, pieno di ottimi­smo e di zelo, gli universitari vedevano, dice Domingo Fumanal, «un “romantico” di Cristo: un innamorato di Cristo; un uomo di fede totale nel Vangelo»63. Perché il suo ideale di gioventù continuava a essere vivo, intenso e rafforzato. Era fatto di amore, di sostanza di amore, che si propagava e si estendeva a quanti gli stavano vici­no. L’esistenza di don Josemarìa, più che devota, era do­nazione radicale imbevuta d’amore.

Come dice una delle persone a lui più vicine, Franci­sco Moreno, l’amico di Teruel, Josemarìa «si mise in re­lazione con professori di grande statura intellettuale, con i quali mantenne una sincera amicizia per tutta la vita»64. Peraltro, il fatto davvero straordinario delle re­lazioni che il giovane sacerdote mantenne con professo­ri del prestigio di Juan Moneva, José Pou de Foxà o Mi­guel Sancho Izquierdo fu che la loro reciproca amicizia giunse fino a un piano di eguaglianza. Il geniale Juan Moneva professava verso il suo allievo un affetto in pa­ri tempo amichevole e paterno65. Il professore di Diritto naturale, Miguel Sancho Izquierdo, sentiva per lui «una

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grande venerazione, nonostante la differenza di età»; e lasciò una calda testimonianza della personalità dell’al­lievo66. All’elenco si deve aggiungere il nome di altri maestri: il professore di Diritto penale, Inocencio Jimé- nez Vicente, e l’ordinario di Storia del Diritto, Salvador Minguijón67. E in modo del tutto particolare divenne in­timo amico di Josemaria don José Pou de Foxà, “amico leale e nobile e buono”68: così lo definì con piena co­scienza don Josemaria, poiché egli fu, nel corso degli an­ni, consigliere e appoggio morale del giovane allievo in diverse occasioni.

Per legge di vita, quelle leve di studenti di Saragozza finirono per disperdersi. Alcuni si sposarono. Altri an­darono a stare in province lontane; occuparono i più svariati posti di lavoro o scomparirono durante la guer­ra civile. Nei crocevia della storia il giovane sacerdote si imbattè di nuovo in alcuni di essi: fra’ José Lopez Ortiz, Juan Antonio Iranzo, Luis Palos, i fratelli Arnau... E poi, in circostanze altamente rischiose, nell’autunno del 1937 a Barcellona, mentre si stava preparando a passa­re clandestinamente i Pirenei durante la guerra civile, si incontrò di nuovo con uno dei suoi professori e con uno dei suoi compagni. In effetti, in piena persecuzione reli­giosa si mise a cercare nella città catalana, con grave ri­schio, il sacerdote don José Pou de Foxà per parlare con il vecchio amico e ricevere la grazia del sacramento del­la Penitenza69.

In quegli stessi giorni ebbe luogo anche il suo incon­tro con un altro amico di vecchia data, al quale i com­pagni di Università avevano affibbiato la fama di ateo perché non praticava la propria fede. Ebbe un colloquio con lui e cercò di ravvivare una fede mezzo spenta, fa­cendo leva sul reciproco affetto che esisteva dai tempi di Saragozza fra sacerdote e incredulo. Finita la guerra, don Josemaria si trovava a Madrid; l’altro era emigrato in Francia, spinto fino alla malinconia dalla propria si­tuazione e infine precipitato nella disperazione e nel sui­

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cidio. I giudizi di Dio sono imperscrutabili. Il sacerdote esercitò con il suo ex compagno la carità della preghiera e poi, dopo la sua fine, l’unico atto di amicizia possibile: «pregava per lui, pensando alla misericordia di Dio»70.

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Ricordando forse le catechesi di Logrono e di Perdigue- ra, don Josemaria faceva apostolato con la gente umile. Il giovane cappellano riuscì a mettere insieme un picco­lo gruppo di ragazzi che nelle ore libere della domenica andava a insegnare la dottrina cristiana ai bambini po­veri del quartiere di Casablanca, all’uscita di Saragozza per la vecchia strada di Teruel. Coloro che lo accompa­gnavano erano per la maggior parte giovani universitari delle Congregazioni Mariane o studenti che frequenta­vano la chiesa di S. Pietro Nolasco71.

4. Ingiustizie provvidenziali

La traumatica frattura che la repentina morte del signor José aveva prodotto nella vita familiare segnò senza ri­medio l’avvenire degli Escrivà. Tuttavia questa perdita, da una parte, riaffermò la vocazione del figlio e, dall’al­tra, lo costrinse a riadattare la propria esistenza al servi­zio della madre e dei fratelli. Gli studi di Diritto - che aveva intrapreso con calma e che finì in gran fretta - in­vece di essere una liberazione diventarono il suo giogo. A partire dal 1926 e soprattutto da quando ebbe termi­nato gli studi alla Facoltà di Diritto, si dedicò con conti­nuità all’insegnamento. Non per vocazione professiona­le, ma come inevitabile mezzo per guadagnare il pane per i suoi, cosa che lo fece sentire come un forzato ai re­mi. “Sono un galeotto dell’insegnamento”72, esclamerà aprendo la propria anima.

Gli Escrivà a Saragozza vivevano poveramente e senza un barlume di speranza di miglioramento. Così

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Istando le cose, non immaginavano che la situazione sa­rebbe addirittura peggiorata con il tempo. A un punto tale che più avanti, quando don Josemarìa analizzò i propri mezzi di sussistenza, scrisse: “Non so come po­tremo vivere... Per la verità - lo racconterò a suo tempo- viviamo così da quando io avevo quattordici anni, anche se la situazione si è acutizzata a motivo della morte di papà”73.

Dentro casa la famiglia sopportava le ristrettezze con dignità, salvando ad ogni costo le antiche tradizioni fa­miliari e le abitudini del tempo del signor José. Di Guitìn, il piccolo Santiago, si racconta un episodio che manifesta, per inciso, l’orma che lasciò fra i suoi il capo- famiglia, uomo “molto generoso nelle elemosine” . L’ele­mosina degli Escrivà ora usciva dalla loro stessa po­vertà; accadde che si presentò in casa della signora Dolores una suora accompagnata da una bambina del­l’ospizio, a chiedere l’elemosina: “arrivò una santa suo­rina, che conduceva per mano una creatura educata nel­l’ospizio tenuto da quella venerabile comunità e, quando chiese l’elemosina, il piccolo le consegnò la mo­desta somma che sua madre gli dava ogni mese e, con ingenuità priva di qualsiasi malizia, disse alla suorina che rideva divertita: sorella, per tutt’e due”74.

In circostanze così avverse, rubando ore al giorno e ore al sonno, riuscì a terminare gli studi. Continuava a non arretrare di un passo dall’ideale con cui vedeva il sacerdozio. Andando a cercare spiegazioni alla scarsa fortuna dell’ex Ispettore del S. Carlo, nei primi tempi della sua vita di sacerdote compare un fatto strano per non dire anomalo. Eccolo: il fatto che a due giorni dalla sua ordinazione gli fosse conferito un incarico in manie­ra fulminea e che, successivamente e per due lunghi an­ni, risiedesse a Saragozza senza riuscire a risolvere la sua situazione di sacerdote incardinato nella diocesi, ma sprovvisto di sostentamento economico75.

E vero comunque che don Josemarìa non incrociò le

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braccia. Per conto suo, muovendo influenze ed amicizie, aveva cercato dei posti dove esercitare il proprio mini­stero. Tentativi che lo avevano portato ad accettare la cappellania, aggiunta e provvisoria, di S. Pietro Nola­sco. Non sappiamo nulla di concreto su tali tentativi; esiste però una curiosa traccia documentaria di successi­vi tentativi falliti.

C’è infatti una lettera, datata 19 dicembre 1925, con cui l’Arcivescovo di Saragozza risponde così al Presiden­te della Provincia:

«Egregio e distinto amico; rispondo alla sua gentile let­tera in cui mi raccomanda D. José Escribà (sic) per la cappellania delle Madri Riparatrici, per informarla con grande mio rammarico che da otto giorni è stata conces­sa a D. Manuel de Pablo, dal quale è stata accettata.Avrò molto piacere di poterLa servire in altra occasio­ne, poiché lei sa di poter disporre con assoluta libertà del suo aff.mo amico e Prelato che la benedice. - L’Arci­vescovo»76.

L’altra occasione di “poterLa servire” si presentò, bel­la e pronta, alla fine di marzo; e questa è la risposta che, in data 3 aprile 1926, l’Arcivescovo diede al Presidente della Provincia:

«Egregio e distinto amico, quando ho ricevuto la sua gentile lettera in cui mi raccomandava D. José Escrivà, Presbitero, per la cappellania delle monache dell’incar­nazione, era già stata fatta e firmata la nomina a favore di altra persona. Mi dispiace veramente di non poterla compiacere, ma comprenderà che non è per mancanza di volontà»77.

Queste lettere danno l’impressione che le cappellanie gli siano state negate a causa dell’eccessivo numero di candidati o per m aggiori meriti da parte dei pretendenti78. Esaminando però freddamente il com­

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portamento della curia si è costretti ad accettare l’opi­nione meglio informata di chi conosceva le segrete cose della vita ecclesiastica di Saragozza. Ciò che accadeva induce a pensare che qualcuno, avvalendosi della pro­pria influenza, facesse il possibile per cacciarlo dalla diocesi, con le buone o a bastonate79.

Questo giudizio concorda con i fatti e non ha nulla di avventato, visto che anche don José Pou de Foxà, con la sicurezza che gli davano i suoi molti contatti con le autorità diocesane e con l’angusto mondo cleri­cale, non aveva dubbi in merito. Al corrente dell’isola­mento che circondava il giovane sacerdote e del fatto che questi «non aveva spazio» a Saragozza, gli consi­gliò di andare a Madrid80.

Esiste anche un’annotazione del 1931 nella quale don Josemaria fa un cenno dell’ostilità tenuta dalla curia, quando afferma: “Sarebbe molto interessante che rac­contassi qui quanto è accaduto con le mie lettere testi­moniali a Saragozza, ma non lo racconto” 81. Il suo unico e caritatevole commento su tutto questo fu che il Signore permise che venissero fatte “ delle ingiustizie provvidenziali”82. Provvidenziali perché, aprendogli al­cune porte e chiudendone altre, Dio lo avviava, passo passo, al luogo e al momento che aveva scelto per ri­spondere al suo grido: “Domine, ut videamì” Il sacer­dote, come un povero cieco, continuava a fare dei ten­tativi senza sapere dove sarebbe andato a finire.

Anche se non se ne conosce la data, fu probabilmen­te nel settembre del 1926, quando ancora gli mancava di superare l’esame di Pratica forense, che fece un viag­gio a Madrid. Scopo del viaggio era di assumere infor­mazioni circa gli studi di dottorato nell’Università Centrale83. Il grado accademico di “ dottore” , un primo passo verso la docenza, era anche il pieno com­pimento dei desideri di suo padre defunto. In quei giorni gli si presentò anche la possibilità di fare lezioni in un nuovo centro scolastico di Saragozza, il che era

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sempre meglio che farle a domicilio. Il centro si chia­mava “Istituto Amado” .

Santiago Amado Lóriga, capitano di Fanteria e lau­reato in Scienze, stava cullando da tempo il progetto di aprire a Saragozza una scuola di preparazione ai con­corsi dei più diversi ambiti professionali e specialmente quelli per accedere alle Accademie Militari. L’istituto che portava il suo nome cominciò a funzionare nell’ot­tobre del 1926. Nei pieghevoli pubblicitari, in cui si da­vano ragguagli sul corpo insegnante, compare nell’elen­co «D. José Maria Escrivà, Presbitero»84. Nella Sezione Giuridica dell’istituto i laureati in Diritto venivano pre­parati per i concorsi e gli studenti universitari venivano assistiti nel ripasso delle materie. A giudicare dalla let­tera che gli invia uno dei suoi alunni il 26 maggio 1927, don Josemarìa si occupava di preparare un pic­colo gruppo di studenti.

La lettera è di Nicolàs Tena che in tono gioviale e fa­miliare gli racconta del proprio esame di Diritto cano­nico; nel commiato si ha la prova della semplicità e dello zelo apostolico con cui il sacerdote trattava con i suoi alunni: «Padre, mi sono confessato e comunicato, e su questo le dovrò scrivere una lunga lettera»85.

Avvalendosi di una Ordinanza Reale del 1926, don Josemarìa si presentò all’esame nella sessione straordi­naria del gennaio 1927; fece l’esame di Pratica forense e terminò così gli studi di licenza86. Nel numero 2 di “Alfa-Beta” , rivista dell’istituto Amado, del febbraio 1927, ne compare la notizia in un trafiletto ben in evi­denza, non privo di ampollosità: «Ha terminato bril­lantemente gli studi di Diritto il nostro amato presbite­ro e collega nel corpo docente, don José Maria Escrivà. Poiché la sua modestia non ci consente di congratularci con lui, ci complimentiamo con noi stessi, sicuri che la sua cultura e il suo talento saranno sempre per il nostro istituto base per le più solide promesse di trionfo»87.

Nel numero 3, del marzo 1927, di “Alfa-Beta” , il di­

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rettore della rivista si lamentava che in quel numero, dedicato «alla raccolta di scritti dei nostri professori di Diritto», non potesse figurare la collaborazione del professor Luis Sancho Seral, che era assente e aveva ap­pena vinto a Madrid la cattedra di Diritto civile dell’U- niversità di Saragozza. (È ovvio che Santiago Amado non perdeva occasione di accrescere il prestigio del suo istituto esaltandone il corpo docente). Fra le collabora­zioni alla rivista da parte dei professori si trova: «La forma del matrimonio nell’attuale legislazione spagno­la», di José Maria Escrivà y Albàs, Presbitero e avvoca­to, Professore dei corsi di Diritto canonico e romano al­l’istituto Amado»88.

Il mese successivo non compare più il nome di don Josemarfa nell’elenco dei professori.

5. Da Saragozza a Madrid

Se non fosse per l’encomiabile cura - un autentico sesto senso storico - con cui don Josemarfa conservò carte e documenti fin dai primi momenti, spinto dai presagi sul futuro, al biografo mancherebbero i necessari riferimen­ti materiali per analizzare importanti avvenimenti della sua vita. Viceversa, molte delle persone con cui egli fu in contatto non ebbero la medesima preoccupazione. Co­sicché spesso è necessario ricostruire i fatti attraverso la corrispondenza che don Josemaria conservava, cioè con le lettere che gli giungevano in risposta alle sue.

Di questa corrispondenza indirizzata a don Josemarfa fanno parte diverse lettere di febbraio e marzo 1927, che mettono un poco più allo scoperto le «ingiustizie provvidenziali» di Saragozza. La prima di esse, datata Segovia, 7 febbraio 1927, comincia così:

«Mio caro amico, con il piacere di sempre ho ricevuto eho letto la gradita tua del giorno 4, che mi informa della

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tua situazione (...). Ricordo perfettamente ciò di cui par­lavamo a Saragozza, le ore tanto piacevoli passate in tua compagnia, e perciò, quando sono arrivato a Madrid, ho parlato di te con uno dei nostri Padri per vedere se potessi ottenere che intercedesse per te davanti al Prelato di Madrid, il quale, sicuramente, gli deve non piccoli fa­vori. Non l’ho trovato molto disposto a fare la racco­mandazione in quanto sa come sia assediato da petizioni di chierici che si vorrebbero intrufolare a corte»89.

L’autore della lettera, padre Prudencio Cancer, clare- tiano, era da tempo amico degli Escrivà, forse perché proveniva da Fonz o da Barbastro, oppure perché aveva esercitato il ministero in quest’ultima città90.

Nel viaggio che don Josemaria aveva fatto a Madrid alla fine di settembre per informarsi sul dottorato in Di­ritto, si era reso conto di dover collegare molti altri fili prima di stabilirsi nella capitale con il proposito di tra­sferirvi la famiglia. Senza alcun dubbio, il claretiano co­nosceva la situazione economica in cui si trovava la fa­miglia degli Escrivà, poiché espresse al giovane sacerdote il desiderio che «la tua povera madre e i tuoi buoni fratelli» possano «trascorrere questa vita senza le ansietà e preoccupazioni in cui devono vivere in mezzo alle ristrettezze, alle quali ha voluto assoggettarli la sa­piente Provvidenza di Dio»91.

La seguente lettera di padre Cancer è datata Segovia, 28 febbraio 1927:

«Mio stimato amico, a Madrid ho ricevuto la tua prima lettera con la certificazione dei tuoi esami e a Segovia quella successiva. A Madrid ti ho molto raccomandato a due Padri con una nota sui tuoi intenti e desideri. En­trambi hanno potuto parlare con diversi Prelati e uno di essi mi ha nominato una o due persone molto in vista di Saragozza con le quali tentare ciò che prima mi sembra­va più facile ottenere: cioè un collocamento a Saragozza da parte del tuo Vescovo. I due o tre Padri ai quali ho

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parlato della tua situazione si sono molto stupiti che, avendo tu doti e meriti di tanto rilievo quali io dicevo loro, il Prelato non ti dia una sistemazione e ti lasci par­tire dalla sua diocesi. Sembra incredibile che C. A. abbia una tale influenza su un Prelato di così elevate qualità e nuovo, da non osare darti un posto per riguardo a lui. La soluzione di rimanere a Saragozza sembrava loro la più facile. Il fatto di venire a Madrid comporterà sicura­mente serie difficoltà»92 ecc. ecc.

La risposta del claretiano dimostra a chiare lettere che le nuove informazioni ricevute sulla posizione di Jose­marìa nell’ambiente ecclesiastico di Saragozza gli aveva­no aperto gli occhi. E capì, alla fine, le difficoltà nelle quali si imbatteva il giovane sacerdote per ottenere un posto nella diocesi, cosa che «prima mi sembrava più facile da ottenere», scriveva il religioso. Da ultimo, la misteriosa riservatezza con cui si riferiva all’arcidiaco­no, don Carlos Albàs (“ C. A.” ), che, superando l’auto­rità del Prelato, aveva dichiarato suo nipote persona non gradita nella diocesi, riconduce alle “ ingiustizie provvidenziali” . E molto probabile che sia stato don Jo­sé Pou de Foxà ad aprire gli occhi a padre Cancer, poi­ché nel commiato di una lettera così privata gli manda­va i suoi saluti, come se si trattasse di un membro della famiglia: «Salutami il Sig. Dr. Pou, tua madre e i fratelli. Tuo aff.mo amico P. Cancer»93.

Avvezzo all’abile gestione di amicizie e influenze, pa­dre Cancer non si scoraggiava davanti ai possibili incon­venienti al trasferimento del suo amico a Madrid. Ma il suo ottimismo cadeva nel prendere in considerazione il più grave degli ostacoli. A tal punto che - come diceva a don Josemarìa nella lettera del 28 febbraio - «credo che sarebbe più facile trovarti un impiego in qualche diocesi dove i Prelati siano nuovi o siano amici dei Padri ai qua­li sopra accennavo». Qual era l’ostacolo tanto temuto?

* * *

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La forte centralizzazione amministrativa, la crescita del­la popolazione e altre circostanze storiche avevano fatto della capitale spagnola il punto di riferimento di tutto il Paese. A Madrid, oltre a tanta brava gente, accorrevano avventurieri e parassiti. Alcuni cercavano pane e lavoro. Altri, potere, fama o ricchezza. Alla capitale emigrava­no anche sacerdoti di altre diocesi. L’afflusso di chierici nella città sede della Corte aveva assunto tale entità che la Santa Sede fu costretta a intervenire. Tramite la Nun­ziatura Apostolica fu inviata una circolare a tutti i ve­scovi spagnoli nei seguenti termini:

«I gravi danni che sta subendo la capitale di questa Mo­narchia, a motivo del fatto che vi si riuniscono Sacerdoti dalla condotta poco regolare e disordinata dalle diverse Diocesi della Spagna, hanno posto la Santa Sede nella necessità di proibire, come effettivamente proibisce, a tutti gli Ordinari di questo Regno di accordare d’ora in poi lettere dimissorie ai Sacerdoti della propria giurisdi­zione per recarsi in questa Città e Corte di Madrid e sua Diocesi, a meno che esistano ragioni particolari per farlo e vengano presi preventivi accordi con l’Ordinario di detta Diocesi»94.

Queste misure di divieto, che avevano lo scopo di li­mitare la presenza di sacerdoti extradiocesani a Madrid, sono del 1887. Negli anni successivi dovette essere nuo­vamente ricordata ai Prelati spagnoli perché, come dice­va un’altra circolare del 1898, «non sono cessati i gravi inconvenienti che avevano suggerito la citata disposizio­ne»95. Nel 1909 il Sinodo Diocesano di Madrid elevò la disposizione al rango di legge. I successivi prelati dovet­tero ripetutamente ricordare che il sacerdote che avesse avuto necessità di trasferirsi nella diocesi della Corte per risiedervi, avrebbe dovuto presentare il permesso del proprio Ordinario e ottenere, inoltre, il beneplacito del Vescovo di Madrid96.

Nel bel mezzo di questa problematica situazione, don

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Josemaria ricevette una lettera di padre Cancer - datata Segovia, 9 marzo 1927 - in cui questi gli scriveva in to­no di giubilo:

«Caro amico, possiamo già cantare un Te Detoni Cre­do di sì. Per spiegarmi ti dirò che ho saputo casualmen­te che nella chiesa di S. Michele a Madrid, vicina alla calle Mayor, sotto la giurisdizione dell’Ecc.mo Signor Nunzio e retta dai Padri Redentoristi che vi hanno una casa, c’è una Messa fissa quotidiana con uno stipendio di 5,50 pesetas e che per ottenerla è necessario solo il consenso del Sig. Nunzio. Ho visto spalancarsi il cielo, quando l’ho saputo; poiché la grande difficoltà per an­dare a Madrid, anche se in possesso di buone referenze, era il permesso del Prelato di quella città, come mi pare di averti detto. Quindi, guarda come il Signore appiana la strada»97.

Veramente piovuta dal cielo si presentava la solu­zione al suo problema, perché la Chiesa Pontificia diS. Michele non dipendeva dal Vescovo di Madrid ma ricadeva sotto la giurisdizione del Nunzio. Perché, co­me si vedrà, il Prelato di Madrid-Alcalà era estrema- mente severo nella concessione di un permesso agli extradiocesani.

Allegato alla lettera di padre Prudencio Cancer c’era uno scritto del Rettore di S. Michele al claretiano, che chiariva alcuni punti:

«Naturalmente il Sacerdote da Lei raccomandato può ottenere licenza dal Sig. Nunzio Apostolico per celebra­re in questa chiesa (...). Non è una cappellania, ma esi­stono garanzie sufficienti che non gli vengano a mancare celebrazione e stipendio finché rimarrà a Madrid.Per ottenere le licenze dal Sig. Nunzio deve portare rego­lari facoltà ministeriali del suo Prelato. E inoltre un do­cumento in cui lo autorizzi a vivere a Madrid con il suo beneplacito. Sua Eccellenza desidera pure che il Prelato nello stesso documento dica almeno una parola che indi­

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chi il buon comportamento del sacerdote. È quello che si esige sempre e con questo può venire con la massima tranquillità»98.

Don Josemarìa dovette prendere una decisione a tam­buro battente, tanto più se si tiene presente ciò che, alla fine del suo scritto, aggiungeva il Rettore di S. Michele: «Se può venga presto: lo riceveremmo fin da ora». Do­po aver parlato della faccenda in famiglia, decisero che, mentre Josemarìa si sarebbe trasferito a Madrid e avrebbe cercato casa per loro, sua madre e i fratelli sa­rebbero andati a Fonz a vivere con lo zio Teodoro99.

Il primo passo da fare era ottenere il permesso del- l’Arcivescovo per andare a Madrid a fare gli studi per il dottorato, oltre a procurarsi qualche lettera di presenta­zione. Don Josemarìa espose con franchezza al Prelato il desiderio di conseguire il dottorato in Diritto, e la sua ferma determinazione, al di sopra di tutto, di adempiere gli obblighi propri del suo ministero. Il 17 marzo gli venne accordato per due anni il permesso per studiare alPUniversità di Madrid; e cinque giorni dopo ottenne le relative lettere di presentazione100.

Una volta ottenute le autorizzazioni, passò a occu­parsi delle pratiche universitarie. Previo pagamento delle relative tasse, ritirò il proprio titolo di Licenziato in Diritto e chiese il trasferimento del proprio incarta­mento personale alPUniversità di Madrid101. Le tasse ammontavano a 37,50 pesetas, somma equivalente a una settimana di spese minime familiari. (A Madrid la vita era ancor più cara. Lo stipendio per la Messa da celebrare a S. Michele era insufficiente a mantenere una persona. Di questo si preoccupava il claretiano, che era convinto che «con 5,50 pesetas non può vivere una famiglia»).

In quei giorni don Josemarìa s’imbatté in un ex com­pagno e parlarono della sua andata a Madrid.

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- «Che cosa farai a Madrid?», gli chiese l’amico.- “Mi troverò un posto di precettore o lavorerò dando lezioni”, rispose il sacerdote102.

Don Josemaria aveva già pensato al modo di ottenereil necessario complemento economico. Tuttavia, l’amico si credette obbligato a consigliarlo su questo punto, ri­cordandogli che l’insegnamento esige, oltre ad un baga­glio di conoscenze e ad un metodo pedagogico, simpatia di modi e attrattiva personale. Non che don Josemaria mancasse di tali doti, ma il fatto è che aveva fama di non abdicare ai suoi princìpi morali di fronte ai conven­zionalismi della vita sociale, specialmente perché, essen­do sacerdote, non doveva dare la benché minima occa­sione di scandalo.

Intorno al 20 marzo le cose si complicarono. La curia diocesana gli notificò, all’improvviso, la destinazione al­la parrocchia di Fombuena per la Settimana di Passione e la Settimana Santa, cioè dal 2 al 18 aprile103.

D ’altro lato e nella stessa data, il Rettore di S. Miche­le reclamava urgentemente la sua presenza: «Se potesse venire subito - gli diceva in una lettera - le sarei grato, essendo questo il periodo nel quale abbiamo più biso­gno di sacerdoti»104.

Tutto stava andando troppo perfettamente bene per­ché il diavolo non ci mettesse la coda. Un’occasione così favorevole, avendo praticamente già il permesso di risie­dere nella capitale, non si sarebbe più ripresentata. Avrebbe dovuto presentarsi in Curia a rifiutare l’incari­co di Fombuena? Grazie a Dio si consultò con sua ma­dre e, seguendone il consiglio, accettò la destinazione temporanea:

“Poche volte la mamma è entrata nelle mie cose, ma quando lo ha fatto (nella mia prima Messa, nella mia andata a Fombuena) i suoi sembrano suggerimenti di Dio. Ha sempre indovinato”105.

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In seguito, nessuno avrebbe avuto il pretesto per ac­cusarlo di mancanza di interesse nell’esercizio del suo ministero o di mancanza di lealtà verso la diocesi. Quanto alla buona occasione, se era Dio a offrirgli quel posto a Madrid, non sarebbe stato capace di con­servarglielo per due o tre settimane? Scrisse quindi al parroco di Badules, dal quale dipendeva Fombuena, e al Rettore di S. Michele, dal quale dipendeva la sua fu­tura sistemazione.

La lettera di risposta ricevuta da Madrid non porta la data. In essa il Rettore si scusava di non essersi affretta­to a rispondere e insisteva sull’urgenza del caso e sul­l’impazienza con cui lo si attendeva:

«Le sarei molto grato se non ritardasse la sua venuta ol­tre il tempo che mi indica, poiché abbiamo bisogno della sua messa. L’attendiamo quindi nei primi giorni della settimana di Pasqua»106.

La risposta del parroco era molto più circostanziata e alla buona, anche se nel suo lungo periodare dimostrava una singolare disinvoltura nell’uso delle virgole e della punteggiatura in genere:

«Badules, 26 marzo 1927.Sig. don José Maria Escrivà - Saragozza.Egregio e carissimo confratello, ricevo la sua nella qua­le mi dice che viene a servire la parrocchia di Fombue­na, dal giorno 1 fino a Pasqua e in risposta alla sua le devo dire che le ho già trovato ospitalità la migliore di quello che vi si può trovare e quella che dà maggiori ga­ranzie poiché nella stessa casa viene ospitata la Signora Maestra che è nipote di un parroco e di tutta fiducia la casa è quella del signor Giudice di quel paese persona semplice come pure tutta la sua famiglia. Il viaggio si fa dalla stazione di Carinena dove si chiede il biglietto per Daroca che è in combinazione con un autobus che at­tende a Carinena l’arrivo dei viaggiatori e lì si sale con­

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servando il biglietto del treno che viene solo mostrato all’uscita dalla stazione e poi lo richiedono sull’auto­bus, e anche se il biglietto è fino a Daroca, arrivati a Mainar si scende e lì c’è il “pedone” (postino) che viene qui e poi a Fombuena il quale si trova già in vista quan­do Lei scenderà e potrà venire trasportato poiché ha un cavallo e potrà portarle le cose se lei le ha come valigia, borsa, ecc. In quei giorni non ci sarà molto da fare qualche predica la Domenica e il Venerdì dei Dolori e la Settimana di Passione e nella Settimana Santa il Venerdì Santo la dottrina per bambini e bambine dalle 11 alle12 celebrare al mattino la Messa e qualche confessione non più di dieci o dodici ogni giorno e al pomeriggio novena, rosario e nient’altro comunque quando verrà le darò più ragguagli, il paese è piccolo e brutto ma 15 giorni ci starà bene, più a lungo no.E quanto le può dire questo suo affezionatissimo confra­tello che la saluta e avrà molto piacere di conoscerla. Leandro Bertràn Parroco».

L’informazione era completata dalle indicazioni del poscritto:

«Poiché il viaggio è lungo in quanto si parte alle 9 del mattino e si arriva qui alle tre del pomeriggio cerchi di portarsi qualcosa da mangiare in viaggio (...).Può venire il sabato giorno 2 per celebrare lì la Domeni­ca di Passione»107.

Sabato 2 aprile 1927 la famiglia Escrivà partì per Fonz e il giovane sacerdote per Fombuena. Per due settimane intere, fino alla Pasqua di Risurrezione, fece le veci del parroco in quel paese di 250 anime, lontano da Sara­gozza e a sette chilometri da Badules, paese dove nor­malmente risiedeva il parroco. La chiesa di Fombuena, come quella di Perdiguera, era dedicata alla Vergine Assunta.

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Non si conserva alcuna relazione sulle attività pasto­rali di quel prete arrivato da Saragozza. Si può tuttavia supporre che lo zelo sacerdotale dimostrato in S. Pietro Nolasco fosse sufficiente a fargli organizzare, come a Perdiguera, visite alle famiglie del paesino, servizi litur­gici, catechesi e lunghe ore di confessionale. Non esiste traccia della sua permanenza neppure nei libri dei Sa­cramenti della parrocchia. Non se ne può attribuire la colpa al nuovo parroco in carica. Si deve supporre sem­plicemente che durante quel breve periodo le donne del paese non abbiano dato alla luce bambini da battezzare e che i parrocchiani di quel piccolo gregge non abbiano dovuto piangere defunti.

Del suo passaggio a Fombuena conosciamo peraltro un particolare, a prima vista insignificante: che il sacer­dote, lì come altrove, portava sempre con sé, come reli­quia di famiglia, il crocifisso che era stato tra le mani di suo padre prima della sepoltura108.

Il ricordo di quei lontani giorni del suo ministero a Perdiguera e a Fombuena riempiva di gioia l’anima di Josemarìa:

“Sono stato due volte in parrocchie rurali. Che gioia, quando me ne ricordo! Mi inviarono là per arrecarmi fastidio, ma mi fecero un gran bene. Anche allora alcuni cercavano di dar fastidio. Mi fecero un bene colossale, colossale, colossale! Con che piacere me ne ricordo!”109.

Man mano che passavano gli anni vide con maggior chiarezza l’intimo significato di quelle nomine e come Dio permetteva che lo conducessero da un posto all’al­tro come un asinelio:

“Ho sempre cercato di compiere la Volontà di Dio. Mi hanno condotto da un posto all’altro come si conduce un asino tirandolo per la cavezza, e molte volte a ba­stonate”110.

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Il lunedì di Pasqua, 18 aprile, ritornò a Saragozza. Quella notte dormì all’Hotel Barrio, del quale conservò accuratamente il conto, come cippo storico del cammi­no che intraprendeva verso la capitale111.

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Quando don Josemaria, quasi guardasse dal di fuori, ri­percorreva nell’orazione la propria esistenza, gli si apri­va la visuale di un ampio paesaggio che fluiva con il passar del tempo. All’interno della visione, gli avveni­menti salienti della sua vita si incastravano l’un l’altro in modo provvidenziale, con contrasti di luci e ombre forti, ma non stridenti, secondo una logica divina che incanalava le cose, ordinatamente, verso il futuro.

Che cosa aveva capito di questa logica quando da bambino a Barbastro, aveva abbattuto un castello di carte con una manata? È questo che Dio faceva con le persone? Lasciava forse costruire per poi buttare a terra l’edificio appena terminato?

E quali laceranti pensieri saranno passati per la testa di quel ragazzo che andava cercando spiegazione ai ro­vesci di fortuna, di famiglia e di nobili ambizioni, che tante anime buone pativano? Quale segreta giustizia muoveva la mano di Dio nel colmare di successo e di be­ni gente che calpestava i suoi comandamenti? Perché, Signore, perché?

Dal momento in cui egli era stato battezzato, Dio sta­va conducendo nell’anima di Josemaria un’opera stu­penda e silenziosa. Più avanti, quando fece la prima Comunione, quel bambino nominò Gesù padrone del proprio cuore, supplicandolo di concedergli la grazia di non perderlo mai. E il Signore, che già gli aveva dato dei genitori esemplari, gli diede una pioggia di favori, confermando tutta la famiglia sulla via della Croce, via che Josemaria da piccolo non capiva. Perché la chiama­ta alla Croce è sempre per via del dolore e del sacrifi­cio. Poi le disgrazie familiari di Barbastro e le ristrettez­

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ze e le umiliazioni di Logrono portarono il ragazzo sul­l’orlo della ribellione. Ma le ispirazioni della grazia temprarono la sua anima, maturandola. E ben presto si dischiuse in essa, fin da un’età molto precoce, una divi­na inquietudine.

Il giorno in cui Josemaria vide le orme sulla neve si gettò, senza vacillare, nelle braccia di Dio. Da quel mo­mento il suo desiderio fu soltanto di compiere la Vo­lontà divina. Poi comprese definitivamente che il distac­co e la generosità sono propri dell’amore. Comprese dove conduceva la logica divina secondo cui il Signore priva coloro che ama di beni materiali, di persone ama­te e di comodità. In tal modo Josemaria volontariamen­te e gioiosamente divenne lui stesso distacco. Si abban­donò totalmente, con tutto il proprio essere, con tutte le proprie aspirazioni, al desiderio di identificarsi con Cri­sto e decise di divenire sacerdote.

Venne poi una dura e lunga prova. Perché negli anni della sua permanenza al S. Carlo, il Signore continuò a modellare in lui l’immagine di Cristo. Suo padre morì in un momento critico, in cui era ancora possibile a Jose­maria tornare indietro. Perciò il nobile gesto di gettare nel fiume la chiave della bara, al ritorno dal cimitero, si­gnificava nientemeno che la decisione di distaccarsi da qualsiasi legame umano, anche se legittimo, che potesse ostacolare il suo accesso all’ordinazione sacerdotale.

Il Signore lo purificava con il dolore, scaricando colpi dove più gli poteva far male, senza risparmiare quanti gli stavano intorno, in particolare la sua famiglia. Jose­maria ne era talmente persuaso che ben presto enunciò la regola valida per tutta la sua vita: “Il Signore, per col­pire me che ero il chiodo - perdonami, Signore - dava un colpo al chiodo e cento al ferro del cavallo” 112.

Questo modo divino di forgiare i santi richiede da es­si una umiltà e una fedeltà incredibili, per lasciar fare al Signore e non mettere alcun ostacolo. Dal silenzio del giovane sacerdote sui “colpi” che Dio gli dava a Sara­

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gozza si deduce non che li seppellisse nella dimentican­za, bensì tutto il contrario: rimasero così marcati nella sua memoria che preferiva non farne parola. Di questo modo di procedere di Dio, a colpi di scalpello e di mar­tello, per fare della sua persona una pietra squadrata sulla quale costruire la sua Opera, aveva un ricordo vi­vo e duro. Coloro che cercano di schivare la volontà di Dio - ammoniva - soffriranno inutilmente, finendo ri­dotti a un mucchio informe di ghiaia113.

Esperienza dopo esperienza, in modo faticoso e rapi­do, imparò le vie della Sapienza. Finché, con il passare degli anni e con un’intensa azione dello Spirito Santo nella sua anima, acquisì una specie di istinto sopran­naturale per scoprire nella storia e nella concatenazio­ne degli avvenimenti il sigillo inconfondibile della Provvidenza. Nei motivi che costrinsero gli Escrivà a trasferirsi da Barbastro a Logrono e poi a Saragozza e nelle difficoltà che ora lo assediavano fino a costrin­gerlo ad abbandonarla, indovinava un segreto perché. Quando aveva deciso di andare a Madrid, buttato fuo­ri a spintoni da Saragozza, ma condotto dall’alto dalla mano di Dio, era sicuro dell’esistenza di qualche oc­culto disegno divino che lo attendeva nella capitale spagnola. Quel continuo trasferirsi, da Barbastro a Lo­grono e di qui a Saragozza per finire poi a Madrid, non era quindi un percorso capriccioso e labirintico, bensì un’ascesa disciplinata, passo dopo passo, fino al­la vetta dalla quale Dio gli avrebbe mostrato l’impresa divina che gli aveva preparato. (Era anche prefigura­zione del secondo grande itinerario della sua vita, che avrebbe dovuto percorrere per portare a compimento il progetto fondazionale che il Signore, tra breve, avrebbe deposto nelle sue mani).

Il sacerdote nutriva ancora la speranza di una rispo­sta al suo “Domine, ut videam\” . Presentiva nella fede il prossimo avverarsi del “Domine, ut siti” . E fra gli in­dizi che gli annunciavano l’avvicinarsi di quell’ora

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tanto agognata stavano le note di un piccolo taccuino con la copertina di tela cerata del quale ci parla Agustìn Callejas, suo compagno di seminario a Saragozza. In quel libriccino Josemaria raccoglieva epigrammi festosi, massime e aneddoti. Accanto a queste annotazioni ve n’erano altre di carattere autobiografico, provenienti da Logrono, prime divagazioni di uno scrittore adolescen­te in cui, con la trasparenza dell’acqua pura, si vedeva il fondo della sua anima in frasi fatte di ambizione spi­rituale e di sentimenti ardenti.

“Avrò avuto diciotto anni, o forse meno” - ricorda Josemaria - “ quando mi sono sentito spinto a scrivere, disordinatamente” 114. Fra gli scritti c’erano anche delle poesie piene di ingenuità, firmate dal “ Chierico Cuore” , e brevi bozzetti e battute per la progettata “Storia di un pretino di paese” ; e citazioni tratte dai classici, da Santa Teresa, dagli storici, da poeti e da romanzieri. Ma tra questo disordinato cumulo di note ve n’erano alcune più intime. E questo è sorprendente: che di quando in quando, dentro o fuori dell’orazione personale, Jose­maria si sentisse spinto a prendere nota di un pensiero, di un suggerimento apostolico, di un’indicazione venuta dal Cielo. Molte note, senza alcun dubbio, erano di ispirazione divina. Altre, folgorazioni di luce che apri­vano nuove strade alla sua comprensione. Ma da un certo tempo in poi i favori divini erano diventati così frequenti che lo sgocciolare di grazie era ormai una pioggia torrenziale. Fu probabilmente in questo ultimo periodo di Saragozza che incominciò a ricevere alcune locuzioni divine, che rimanevano impresse a fuoco nella sua anima. Egli le trasferiva con rispetto su alcuni fo­glietti, come testimonianza scritta del fatto e come ma­teria per la sua orazione.

Forse il ritmo crescente di questi eventi soprannatu­rali straordinari rafforzava i presentimenti dell’arrivo di qualcosa che, come lo spuntare del giorno, era precedu­to dal chiarore dell’alba.

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Esisteva inoltre un altro indizio del fatto che presto avrebbe toccato la meta, dato che nessuno tra coloro che esaminano da vicino la sua storia potrà fare a meno di interrogarsi e sorprendersi del lavoro svolto da un giovane seminarista. Josemaria era il primo a meravi­gliarsi, per esempio, dell’infusione di pietà a tutto un seminario: “Senza dubbio è stata la Madonna a fare questo” , scrisse per spiegare il miglioramento dei semi­naristi nella devozione e nel comportamento.

Con questo stesso spirito apostolico era passato nelle aule dell’Università ecclesiastica e dell’Università civile. Con zelo incomparabile aveva svolto il proprio ministe­ro in parrocchie rurali e in parrocchie urbane e aveva fatto apostolato e direzione spirituale fra diverse perso­ne e in diversi luoghi. Quali esperienze doveva ancora fare? A venticinque anni di età, nell’imminenza di parti­re per Madrid, vedeva con meraviglia che il Signore lo aveva arricchito con un’esperienza di ministero tanto copiosa quanto difficile da acquisire in così breve lasso di tempo. Approfittando della sua generosa disponibi­lità, lo aveva condotto rapidamente attraverso una scuo­la di apprendimento spirituale dalla quale, normalmen­te, non si esce maestri se non in capo a una vita intera.

Don Josemaria si accorse che questa vertiginosa atti­vità pastorale aveva avuto caratteristiche molto pecu­liari. I campi nei quali aveva svolto il suo apostolato abbracciavano settori sociali che fino ad allora erano rimasti incolti. D’altra parte, il suo zelo si rivolgeva in egual misura a chierici e a laici, a religiosi e a religiose, a gente di tutti gli strati sociali e di tutte le professioni. In questo senso era un autodidatta che avanzava con­dotto per mano da Dio; e di conseguenza aveva l’intima convinzione che il consiglio di suo padre, di intrapren­dere a Saragozza gli studi di Diritto, fosse stato provvi­denziale. Nella sua testa fervevano numerose intuizioni. Idee non acquisite sui libri né udite dai saggi. Ed era tale la densità di iniziative che ciascuna di esse richiede­

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va uno sforzo peculiare e appropriato per essere svilup­pata. Non si trattava di attività sulla carta, meramente teoriche. Quel giovane sacerdote si era già confrontato con esse negli ambienti contadini o cittadini, nel confes­sionale o nei centri intellettuali. La direzione spirituale, per esempio, era una pratica non molto estesa fra i laici. E don Josemarìa, cui non piaceva la mediocrità, cercava di far scoprire ai suoi amici elevati orizzonti, facendo in modo che le anime dessero frutto secondo le possibilità personali.

Le numerose ispirazioni divine erano come scintille luminose che mettevano l’anima di don Josemarìa in stato di allerta per l’azione. Dopo di esse veniva la spin­ta di maggiori grazie: efficaci, abbondanti, complete. Il sacerdote sentiva in modo palpabile che la propria energia per l’azione era inesauribile. È chiaro che dove­va affrontare ostacoli, vincere resistenze, lottare contro la fatica, contro la mancanza di mezzi e la scarsità di tempo. Ma nonostante tutto questo, la sua strada, sem­pre fiancheggiata da spine, gli risultava più percorribile di quanto ci si potesse attendere. Così voleva il Signore. Perciò quelle abbondanti grazie, che rafforzavano le sue facoltà in maniera così evidente e tangibile, egli volle chiamarle “ operative” . Si impadronivano in modo tanto completo della sua volontà che, nel lavoro di ogni giorno - disse - “quasi non dovevo fare sforzo” 115.

Riesaminando la propria vita giovanile, gli venivano facilmente in evidenza quanto numerose fossero state le “provvidenze” del Signore, con le quali lo preparava alla missione che avrebbe ricevuto più avanti. In altre occasioni, tuttavia, scopriva nuove “provvidenze” che tempo addietro gli erano passate inavvertite. Era forse stata una “pigrizia” sua il non essersi laureato in Sacra Teologia quando stava a Saragozza, prima che venisse modificata l’organizzazione ecclesiastica degli studi uni­versitari?

“A questo proposito” - scrisse nel dicembre 1933

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- “ho pensato spesso che forse a motivo della mia pi­grizia non mi era laureato a suo tempo a Saragozza. Tuttavia, a parte le ragioni umane, ne vedo altre so­prannaturali. Se fossi stato dottore in Teologia avrei si­curamente fatto il concorso di canonico o quegli altri concorsi da burla che si fecero ai tempi di Primo de Ri­vera per insegnare Religione negli istituti di insegna­mento secondario e non sarei passato per tutto ciò che ho passato a Madrid, e chi sa mai se Dio mi avrebbe ispirato POpera definitivamente! È stato Egli a condur­mi, servendosi di avversità senza numero e persino della mia poltroneria” 116.

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NOTE CAPITOLO IV

1 II decreto di nomina a Reggente Ausiliare del Parroco di Perdiguera è scritto in annotazione originale nel Libro del Registro dei Documenti Arci- vescovili (1922-1942), foglio 278, n. 2697 (30-111-1925).2 L’arcidiocesi di Saragozza aveva 20.409 Kmq; il numero di abitanti era di 475.614. Le parrocchie erano 380; i sacerdoti 852, senza contare 334 reli­giosi, molti dei quali erano sacerdoti (cfr E. Subirana, Annuario Ecclesia­stico, cit., 1924, p. 196).«Nel mese di marzo 1925 il Parroco, don Jesus Martmez Pirrón, era as­sente da Perdiguera per malattia» (cfr Teodoro Murillo, AGP, RHF, T- 02849, p. 1).3 La parrocchia di Perdiguera apparteneva alla categoria di “Entrada” , cioè il gradino inferiore per importanza; disponeva di una casa ad uso del curato. Probabilmente la casa era rimasta occupata dai mobili e dalle cose del parroco; e don Josemarìa preferì alloggiare in un’altra casa (cfr Scheda interna sugli incarichi parrocchiali, Archivio diocesano; e AGP, RHF, D- 03296, 4).4 Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 206. Nel paese questa casa ospitale era nota come Casa de las mangas (cfr Teodoro Murillo, AGP, RHF, T-02849, p. 1).5 I rapporti del Reggente con la famiglia degli Arruga erano estremamente cordiali e, come attesta Mons. Javier Echevarria, «prepararono con affetto e deferenza la stanza di cui disponevano, mettendovi il miglior letto che c’era in casa» (Sum. 1915).6 Teodoro Murillo, AGP, RHF, T-02849, p. 2. Poiché gli uomini lavorava­no fuori di casa per gran parte del giorno, don Josemarìa «si organizzò per far visita alle case quando gli uomini erano presenti» (Javier Echevarria, Sum. 1909).7 Teodoro Murillo, AGP, RHF, T-02849, p. 2. Cfr anche: Umberto Farri, PR, p. 31; Francisco Botella, PM, f. 21 lv.

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8 Teodoro Murillo, AGP, RHF, T-02849, p. 2.9 Ibidem, p. 1.10 Mons. Alvaro del Portillo racconta che quando chiese l’ammissione al- l’Opera, il Fondatore gli consigliava di recitare giaculatorie, fare comunio­ni spirituali e offrire piccole mortificazioni, spiegandogli che alcuni autori ascetici raccomandavano di tenerne il conto; ma che esisteva il pericolo di insuperbirsi, per cui era meglio lasciarle contare all’angelo custode (cfr Sum. 204; cfr anche Javier Echevarrfa, Sum. 1913).11 Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 200; Javier Echevarrfa, Sum. 1911. Il Reg­gente aveva le facoltà ministeriali «per celebrare e assolvere» dal giorno stesso dell’ordinazione, il 28-III-1925, concesse da D. José Pellicer Gufu, Vicario Capitolare dell’Arcidiocesi, per sei mesi (cfr Libro delle concessioni delle Facoltà Ministeriali dell3Arcivescovado - anni 1902-1952 - foglio 227, n. 5980; AGP, RHF, D-03296/2).12 L’originale in AGP, RHF, D-l 1694.Il viaggio di don Carlos a Burgos, qui citato, era forse in relazione alla ma­lattia della madre, Florencia Blanc Barón (nonna di don Josemarfa) che morì due giorni dopo, il 26 aprile; viveva a Burgos con un altro figlio, don Vicente, canonico della cattedrale. Cfr Carmen Lamartfn, AGP, RHF, T- 04813, p. 1.13 Cfr Santiago Escrivà de Balaguer y Albàs, Sum. 7323.14 Alvaro del Portillo, Sum. 202; Javier Echevarrfa, Sum. 1910; AGP, POI 1977, p. 264; AGP, POI 1975, p. 225.15 Di questo libro progettato nulla ci è pervenuto, salvo qualche altro epi­sodio. Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 205; Javier Echevarrfa, Sum. 1908.16 Cfr Alvaro del Portillo, PR, p. 299. In maniera più sintetica ci dà notizia di questa meditazione anche Mons. Juliàn Herranz, che indica come data del racconto il 24 febbraio 1958 (cfr PR, p. 889).17 Cfr Archivio della parrocchia della Madonna Assunta, di Perdiguera: Li­bro dei Battesimi, tomo VII, fogli 44-44v; e Libro dei Defunti, tomo VII, foglio 22.18 AGP, RHF, D-03296-4.19 Teodoro Murillo, AGP, RHF, T-02849, p. 1.20 Cfr Alvaro del Portillo, PR, p. 302.21 Sixta Cermeno, AGP, RHF, T-02856, p. 2. Un altro testimone racconta che dopo la morte del signor José e il trasferimento a Saragozza, «stavano nelle più grandi ristrettezze. Vivevano in un piccolo appartamento della modesta via Rufas. Le difficoltà furono di ogni genere: penuria autentica nei pasti - a volte patirono la fame -, estrema modestia nell’arredamento, massima attenzione anche sulle spese più piccole e a non sciupare gli abi­ti». E aggiunge un’affermazione di Carmen che, pur senza lamentarsi, «rac­contava che le persone che trattavano con la famiglia in quei tempi non si

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resero mai conto che la loro penuria arrivasse a tanto» (Javier de Ayala, AGP, RHF, T-15712, p. 58).22 Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 265; e Javier Echevarria, Sum. 1930.23 Santiago Escrivà de Balaguer y Albàs, Sum. 7322. Da quel momento, don Carlos Albàs non volle più riannodare i rapporti con la sorella e i nipoti.24 Istanza inclusa nella sua pratica personale, presso l’archivio della Fa­coltà di Diritto dell’Università di Saragozza (una copia autentica si trova presso l’archivio della Facoltà di Diritto dell’Università Complutense di Madrid; cfr AGP, RHF, D-15047).La ricevuta ufficiale, con il numero d’iscrizione 14 per la sessione di giu­gno, porta la data del 30 aprile 1925. Vi si dice che l’alunno è nativo di Barbastro e ha 22 anni; in realtà aveva 23 anni, e l’errore compare anche nell’istanza.25 Cfr Pratica Accademica personale e Registro di Identità Scolastica, negli archivi della Facoltà di Diritto delle Università di Madrid e di Saragozza; cfr anche Appendice documentale, documento XII.26 Cfr ibidem.27 Cfr ibidem.28 La materia “ Storia di Spagna” apparteneva al gruppo dei cosiddetti “ Studi Preparatori” e faceva parte degli insegnamenti di un’altra Facoltà, quella di Lettere e Filosofia. Agli Studi Preparatori faceva seguito il Corso di Licenza, costituito dalle materie di carattere propriamente giuridico, il cui insegnamento veniva impartito nella Facoltà di Diritto.29 Sull’incidente dell’esame di Storia di Spagna, cfr Javier de Ayala, AGP, RHF, T-15712, p. 43; nella leale modifica di atteggiamento fatta dal docen­te, il Fondatore intravvide un’importante norma di condotta: non avere vergogna o timore a rettificare quando si è sbagliato (cfr Alvaro del Portil­lo, Sum. 171).30 David Mainar, Sum. 6142.31 Juan Antonio Iranzo, AGP, RHF, T-02850, p. 1.32 José Lopez Ortiz, AGP, RHF, T-03870, p. 1.33 Ibidem, p. 2.34 Luis Palos, AGP, RHF, T-07063, p. 1.35 Juan Antonio Iranzo, AGP, RHF, T-02850, p. 1; Domingo Fumanal, AGP, RHF, T-02852, p. 2.36 Cammino, cit., n. 72.37 «Il Fondatore ci ha raccontato - riferisce Mons. Echevarria - che, du­rante il suo periodo universitario, erano poche le donne iscritte all’Univer- sità. Con quelle che frequentavano, il Fondatore dell’Opera mantenne un tratto di sobria cortesia e naturalezza, senza stranezze: le salutava cortese­mente e se gli chiedevano qualcosa rispondeva educatamente, ma cercava - come ha fatto sempre - di limitare il suo rapporto con le donne allo stretto

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necessario; questo comportamento era noto anche ai suoi compagni, che mai lo videro parlare da solo con una donna, nei corridoi dell’Università né altrove» (Sum. 1887).38 Domingo Fumanal, AGP, RHF, T-02852, p. 2.39 José Romeo, AGP, RHF, T-03809, p. 3.40 Juan Jiménez Vargas, AGP, RHF, T-04152/1, p. 20.41 Fiorendo Sànchez Bella, Sum. 7550.42 Ecco un esempio del suo zelo sacerdotale per ricuperare anime traviate: quando stava a Madrid seppe che un giovane sacerdote di un’altra diocesi, abbandonato il proprio ministero, lavorava in un’erboristeria. Trovato il negozio vide un giovane lavorante, gli si avvicinò e disse a bassa voce: “Buon giorno, fratello” . “Ma lei chi è e come fa a conoscermi?” , rispose costui. Don Josemarìa gli disse che voleva parlare con lui e gli fissò un ap­puntamento. Dopo aver pregato e fatto penitenza per questa persona, si recò all’incontro e ne ottenne un completo ravvedimento. Quegli non potè ritornare alla sua diocesi perché il suo Vescovo non lo riteneva prudente, a motivo della notorietà del caso, unico scandalo fra il migliaio di sacerdoti della diocesi, fedeli alla propria vocazione. Fece però un periodo di prova nella diocesi di Madrid, quindi don Josemarìa gli acquistò gli abiti sacer­dotali e il sacerdote fu destinato a un paesetto della provincia. Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 405; Javier Echevarria, Sum. 1976.43 Cfr la pratica accademica personale (già citata) e l’Appendice documen­tale, documento XII.44 Cfr Appendice documentale, documento XII.45 Come già detto, le facoltà che gli furono conferite appena ordinato era­no valide per celebrare e assolvere: «valeat etiam ad mulierum confessiones audiendas».Il 22 settembre 1925 gli furono rinnovate le facoltà «fino al sinodo di otto­bre», e il 5 ottobre 1925 tornarono a dargli le facoltà per altri sei mesi (cfr Libro delle Facoltà Ministeriali (1902-1952) foglio 230, n. 6094 e foglio 231, n. 6108); il 3 luglio 1926 gli furono concesse per un anno (cfr ibidem, fogl. 235, n. 6244). Sul periodo dal 5-III-1926 al 3-VII-1926, cfr Bollettino Ufficiale dell3Arcidio cesi di Saragozza, anno LXV n. 1 (1-1926) p. 9, Circo­lare n. 2, in virtù della quale, secondo una prassi abituale in tutte le dioce­si, insieme agli altri sacerdoti ordinati il 2 8-III-1925 gli venivano prorogate le facoltà fino al superamento degli esami annuali, per lo spazio di un triennio (cfr lo stampato accreditante e autenticato delle facoltà concesse a don Josemarìa, in AGP, RHF, D-03296-2 e D-03296-5).46 Mons. Rigoberto Doménech y Valls (1870-1955) aveva fatto gli studi nel Seminario Centrale di Valencia. Era Dottore in Sacra Teologia e in Diritto canonico. Era Vescovo di Maiorca quando fu eletto e presentato per la sede metropolitana di Saragozza con R.D. 13 novembre 1924. Prese possesso della sede solo nel maggio 1925 (cfr E. Subirana, cit., 1926, p. 390).

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47 “Fra i ricordi che affiorano ora alla mia memoria con viva attualità” - scrisse nel 1945 - “ve n’è uno di quando ero giovane sacerdote. Da allora ho ricevuto con discreta frequenza due consigli unanimi per “ fare carrie­ra” : prima di tutto, non lavorare, non fare molto lavoro apostolico, perché ciò suscita invidie e crea nemici; in secondo luogo non scrivere, perché tut­to quello che si scrive - anche se lo si scrive con precisione e chiarezza - di solito viene male interpretato (...). Ringrazio Dio Nostro Signore di non aver mai seguito questi consigli e sono contento perché non mi sono fatto sacerdote per “fare carriera” ” (Lettera 2-II-1945, n. 15).48 L’originale in AGP, RHF, D-03876. Il certificato è datato Saragozza, 11- III-1931 e lo richiese don Josemaria per ottenere delle lettere testimoniali, che l’arcivescovo di Saragozza vergò il 28-111-1931.49 L’originale in AGP, RHF, D-03876.50 In AGP, RHF, D-15264 si trova un foglietto originale che dice: «Ottobre

- D. José Escrivà sac. - 31 Messe, a 4 pts. - 124 pts. -Apostolato -3 1-Totale -1 5 5 » .

E, scritto di pugno da don Josemaria: “S. Pietro Nolasco - Saragozza” .«Il Padre - riferisce José Romeo - celebrava la Messa ogni giorno nella chiesa di S. Pietro Nolasco, retta dai PP. Gesuiti, ed io ero solito andare a servirla nei periodi di vacanza scolastica. Celebrava la Messa senza fretta e con cura e sembrava che nulla lo potesse distrarre. Ascoltando la sua Mes­sa s’imparava nella pratica quello che poi mi spiegò: il Santo Sacrificio era il centro di tutta la vita interiore. Al termine, era solito dedicare al ringra­ziamento alcuni minuti, durante i quali stava in profondo raccoglimento» (José Romeo, AGP, RHF, T-03809, p. 1).51 Su queste attività nelle grandi solennità o feste, cfr la Cronaca religiosa del quotidiano “El Noticiero33 di Saragozza. (La chiesa di S. Pietro Nola­sco vi appare a volte con il nome di “ Chiesa del Sacro Cuore” ). Cfr anche Alvaro del Portillo, Sum. 217; Javier Echevarria, Sum. 1924.Alcune testimonianze, come quella di José Romeo, danno un’idea dell’apo­stolato che don Josemaria faceva in quel periodo fra i suoi amici: «Lo co­nobbi quando avevo 13 o 14 anni. Non avevo ancora terminato gli studi liceali: probabilmente era l’anno scolastico 1924-25. Il Padre andava mol­to spesso a casa della mia famiglia perché era compagno di studi, alla Fa­coltà di Diritto dell’Università di Saragozza, di mio fratello Manuel che poi morì nella guerra spagnola. Il Padre, Manuel ed altri amici si riunivano molte volte al pomeriggio per preparare degli appunti o per studiare. In questo modo conobbe anche tutta la mia famiglia» (José Romeo, AGP, RHF, T-03809, p. 1).52 Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 171; Francisco Botella, PM, f. 21 lv; Juan Jiménez Vargas, AGP, RHF, T-04152/1, p. 22.53 Cfr AGP, P04 1972, p. 760; citato anche da Alvaro del Portillo, PR, p. 312.

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- È probabile dal contesto che qui per “stazione” si intenda la recita davan­ti al Santissimo Sacramento di tre Pater; Ave e Gloria consecutivi (NdC).54 A questo episodio - narrato in un incontro con sacerdoti durante la sua catechesi in Spagna nel 1972 - egli aggiungeva: “Voi non fate così, neppu­re con i vostri fratelli sacerdoti. Ci penseranno loro a pregare (...). Impone­te loro una penitenza breve” . E un’altra volta, riferendosi a don Alvaro del Portillo, suo confessore dal 1944 in poi, diceva: “Alvaro è solito darmi per penitenza un’avemaria. Poi mi dice: “ le sue penitenze le faccio io” . E certa­mente io ho fatto lo stesso, figli miei, perché non ho mai imposto grandi penitenze” (AGP, POI 1970, p. 995).Altre testimonianze sul tema: «Era solito imporre delle penitenze molto leggere, che completava lui stesso, facendo forti penitenze: con cilici che lui stesso si costruiva, mettendoci chiodi, ecc., e anche pregando e mortifican­dosi per la conversione dei renitenti» (Pedro Casciaro, Sum. 6391). «Consigliava ai suoi figli sacerdoti di imporre una penitenza facile e di supplire essi stessi con la penitenza personale» (Fernando Valenciano, Sum. 7138).55 Domingo Fumanal, AGP, RHF, T-02852, p. 3.56 Luis Palos, AGP, RHF, T-07063, p. 1.57 Domingo Fumanal, AGP, RHF, T-02852, p. 1.58 Juan Antonio Iranzo, AGP, RHF, T-02850, p. 1; Domingo Fumanal, AGP, RHF, T-02852, p. 1.59 David Mainar, Sum. 6141.60 Domingo Fumanal, AGP, RHF, T-02852, p. 2.61 Cfr Fernando Vivanco, AGP, RHF, T-03713, p. 2.62 «Quando divenne sacerdote, mi piaceva confessarmi con lui. E lo facevo con molta frequenza», dice Fernando Vivanco, ibidem.63 Domingo Fumanal, AGP, RHF, T-02852, p. 2.64 Francisco Moreno Monforte, AGP, RHF, T-02865, 7.65 Javier de Ayala, AGP, RHF, T-15712, p. 3.66 II professore Miguel Sancho Izquierdo lo giudicava, da come lo vedeva in aula, «un alunno intelligente, ben dotato e buono studente» (Sum. 5504). Circa questa amicizia, Mons. Javier Echevarrfa dichiara: «Ho visto di persona l’amabilità e l’autentico affetto con cui si trattavano. Don Mi­guel dimostrava verso di lui una grande venerazione, nonostante la diffe­renza di età. Don Josemarfa, da parte sua, quando vedeva questo professo­re lo salutava sempre con grande affetto, chiamandolo “don Miguel, il mio maestro” , affermazione che don Miguel non voleva accettare, poiché era persuaso che colui che si presentava come suo discepolo lo superava in tut­ti gli aspetti spirituali e umani» (Sum. 1885).67 Cfr Appunti, n. 1554. L’amicizia con il professor Inocencio Jiménez fu duratura e divenne occasione di servizio apostolico, che si estese al resto della sua famiglia. Luis Palos ricorda bene che «Josemarfa fu buon amico

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del professor Inocencio e della sua famiglia. Sono sicuro che i suoi figli, Jo­sé Antonio e Maria, lo ricordano molto bene. José Antonio Jiménez Salas ha la cattedra di Geotecnica nella Scuola di Ingegneria; Maria è una donna molto intelligente, valida intellettuale, che fu bibliotecaria e ora è pratica- mente cieca. Il professor Inocencio fu un grande sociologo cristiano e, in­sieme a Severino Aznar e a Salvador Minguijón, fu l’animatore del “Insti- tuto Nacional de Previsión” (Luis Pàlos, AGP, RHF, T-07063, p. 3; Alvaro del Portillo, PR, p. 338).Sulla sua frequentazione e la sua amicizia con altri professori della Facoltà di Diritto di Saragozza, cfr Carlos Sànchez del Rio, AGP, RHF, T-02853, pp. 1-4; Alvaro del Portillo, Sum. 175 e 176; Francisco Botella, Sum. 5616; Javier de Ayala, Sum. 7577.68 Appunti, n. 959; cfr anche ibidem, nn. 231, 407, 751, 1344 e 1357.69 Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 1447; Juan Jiménez Vargas, PM, f. 917; e C 362, 20-X-1937, nella quale fece sapere a sua madre dell’incontro a Bar­cellona con don José Pou.70 Cfr Juan Jiménez Vargas, AGP, RHF, T-04152/1, pp. 199-201; Pedro Casciaro, AGP, RHF, T-04197, pp. 5-7.71 Cfr Juan Antonio Cremades, AGP, RHF, T-05846, p. 1. Cfr Francisco Botella, PM, f. 21 lv; José Ramón Madurga, PM, f. 274v. In una testimo­nianza si dice che una volta il Fondatore, «nel 1941, passeggiando per la strada del Canal, giunti all’incrocio con l’antica via per Valencia, a Casa­blanca, che anche a quel tempo era un quartiere di Saragozza molto mode­sto e che egli conosceva bene, ci raccontò che vi aveva organizzato delle ca­techesi cui partecipavano degli studenti» (Javier de Ayala, AGP, RHF, T-15712, p. 2).72 Appunti, n. 441.73 Appunti, n. 387.74 Lettera 7-X-1950, n. 47. A quanto raccontano coloro che li frequenta­vano, l’elemosina come opera di misericordia fu un costume radicato in tutta la famiglia. Cfr per esempio José Lopez Ortiz, Sum. 5267.75 Don Josemarìa era stato ordinato sacerdote ad titulum servitii dioecesis.76 AGP, RHF, D-05188.77 Ibidem.78 Cfr Javier Echevarria, Sum. 1917.79 Alvaro del Portillo, Sum. 235.80 «Ricordo che don José Pou de Foxà, uomo di grandi relazioni e ottimo conoscitore della vita ecclesiastica della città, mi raccontò nel 1942 che egli stesso aveva consigliato al Padre di andarsene a Madrid. “In quella situa­zione - mi raccontò - Josemarìa qui non aveva spazio” » (Javier de Ayala, AGP, RHF, T-15712, p. 2).81 Appunti, n. 193. Le “lettere testimoniali” sono i documenti emessi dal

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Vescovo a favore di un suddito della propria diocesi, per attestarne davan­ti ad un altro Prelato la buona condotta.82 Queste parole furono la schietta risposta del Fondatore a una domanda di Mons. Alvaro del Portillo su quanto era accaduto con le sue “testimo­niali” alla curia di Saragozza (cfr Appunti, n. 193, nota 209).83 Su questo viaggio del Fondatore riferisce Mons. Javier Echevarria: «Gli ho sentito dire in molte occasioni che era andato a Madrid nel 1926; tutta­via, non ci risulta da nessun documento in quale epoca dell’anno abbia avuto luogo il viaggio» (Sum. 1945).L’Università di Madrid, chiamata allora Centrale, aveva Facoltà e Scuole Superiori per ogni genere di insegnamento ed era l’unica in Spagna in cui, in quegli anni, si potessero fare gli studi per ottenere il Dottorato nelle va­rie discipline.84 Cfr la rivista mensile Alfa-Beta, pubblicazione dell’istituto Amado. Il primo numero è del gennaio 1927 (cfr AGP, RHF, D- 04357-8).85 Cfr lettera di Nicolas Tena Tejero, in AGP, RHF, D-04743.86 L’Ordinanza Reale consentiva agli alunni ai quali mancassero una o due materie per finire i corsi accademici di presentarsi agli esami nel mese di gennaio, senza dover aspettare la sessione ordinaria d’esami di giugno. L’i­stanza porta la data del 10 gennaio 1927 ed è redatta nei seguenti termini: “ (...) che, trovandosi nelle condizioni previste dall’Ordinanza Reale del 22 dicembre 1926, poiché gli manca solo l’approvazione nell’esame di “Prati­ca forense” per finire gli studi (...)” (Cfr Pratica personale..., cit.).87 Cfr Rivista Alfa-Beta, anno I, febbraio 1927, p. 16.88 Cfr ibidem, marzo 1927, pp. 10-12. Altri studi apparsi in questo nume­ro: El retracto de Abolorio o Derecho de la Saca, di Pedro de la Fuente, magistrato provinciale; Significado de la locución “ius ad rem”, di Ramon Serrano Suner, avvocato dello Stato; e Comentarios a la Ley Hipotecaria, di J.M. Franco Espés, avvocato.89 Lettera di P. Prudencio Cancer CMF, in AGP, RHF, D -l5003-6. La lette­ra è su carta intestata del Collegio dei Missionari Figli del Cuore Immaco­lato di Maria - Segovia” ed è indirizzata al “Rev. José Maria Escrivà - Sa­ragozza” .90 Con lettera del 9-X11-1927 P. Cancer gli diceva che a Madrid, «in via Orfila 12, vive mia cugina di Fonz, Antonia Santaliestra». La familiarità e l’affetto con cui si interessava della madre e dei fratelli di don Josemaria indicano una consuetudine di grande amicizia. Per i rapporti che ebbe con don Josemaria l’opera di T. L. Pujadas CMF, El Padre Postius: un hombre para la Iglesia, Barcellona 1981, ne parla diffusamente (cfr p. 327). Ma va chiarito che per quanto riguarda i dati e le valutazioni sul Fondatore del- l’Opus Dei, quest’opera contiene degli evidenti errori, spiegabili con il fat­to che si fonda su testimonianze orali, rese imprecise dal tempo. L’errore principale consiste nel collocare questi avvenimenti un anno e mezzo più tardi di quando accaddero realmente, il che distorce sostanzialmente la realtà dei fatti. In particolare si afferma che il Fondatore, nell’ottobre

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1928, assistè agli esercizi spirituali che P. Cancer predicò nel seminario di Madrid. Gli interventi di P. Cancer vengono collocati, nel libro, dopo tali esercizi.Dalla documentazione esaminata è provato a sufficienza che la collabora­zione di P. Cancer all’arrivo del Fondatore a Madrid si è concentrata nei mesi di febbraio e marzo 1927. È comunque ben documentato che nell’ot­tobre del 1928 il Fondatore assistette agli esercizi spirituali nella Casa Cen­trale dei Padri Lazzaristi, situata in via Garcia de Paredes, a Madrid (cfr Bollettino Ufficiale del Vescovado di Madrid-Alcalà, l-XII-1928, p. 384).91 Lettera citata del 7-II-1927.92 Lettera di P. Prudencio Cancer a don Josemaria (originale in AGP, RHF, D-15003-5).93 Comunque non sembra che P. Cancer si fosse reso ben conto di ciò che voleva fare don Josemaria: stabilirsi a Madrid con la famiglia per termina­re gli studi per il Dottorato in Legge.94 Circolare della Nunziatura Apostolica di Madrid ai Rev.mi Prelati del­la Spagna (30-XI-1887), nell’Archivio della Segreteria Particolare del- l’Arcivescovado di Madrid. Allora il Nunzio in Spagna era Mons. Angelo di Pietro.95 Circolare della Nunziatura Apostolica di Madrid ai Rev.mi Prelati della Spagna (5-V-1898), nell’Archivio della Segreteria Particolare dell’Arcive- scovado di Madrid. All’epoca il Nunzio era Mons. Giuseppe Francesco Nava di Bontifé.96 Cfr Sinodales Diocesanos, lib. IV, tit. IV, const. V (in Primo Sinodo Dio­cesano di Madrid-Alcalà. Convocato e presieduto dalVEcc.mo e Rev.mo Mons. José Marta Salvador y Barrera, e celebrato nella Santa Chiesa Catte­drale di questa Città nei giorni 10, 11 e 12 febbraio del 1909, Madrid 1909, pp. 369-370).Mons. José Maria Salvador y Barrera, Vescovo di Madrid-Alcalà, pubblicò il 10 giugno 1914 sul Bollettino Ufficiale del Vescovado una circolare nella quale si ripetevano le disposizioni già menzionate circa i sacerdoti extra­diocesani, cui aggiunse una Istruzione del 15 novembre 1910 e numerose Circolari già precedentemente pubblicate sul Bollettino. Disposizioni che dovette richiamare ancora l’anno successivo (cfr Bollettino Ufficiale del Vescovado di Madrid-Alcalà, 20-XII-1915, pp. 727-729). E per eliminare futuri abusi decretò «non consentire per il futuro di celebrare la santa Mes­sa, neppure per un giorno solo, ai Sacerdoti che si presenteranno qui senza aver preventivamente chiesto e ottenuto l’attestazione di beneplacito stabi­lita dalla Nunziatura, a meno che per l’urgenza del viaggio vi fosse impos­sibilitato, nel qual caso sarà sufficiente una lettera o un biglietto di V. Ecc.za o del suo segretario in cui si dichiari che l’interessato non cerca di stabilire la propria residenza a Madrid, ma vi deve restare pochi giorni per risolvere le questioni oggetto della sua venuta» (Circolare di Mons. José Maria Salvador y Barrera ai Vescovi della Spagna, p. 2, in AGP, RHF, D- 08068).

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97 Lettera di P. Prudencio Cancer a don Josemarìa, in data 9-III-1927 (ori­ginale in AGP, RHF, D-15003-5), manoscritta e su carta intestata.98 Lettera di P. A. Santiago CSSR a P. Prudencio Cancer, Madrid 7-III-1927 (originale in AGP, RHF, D-15003-6).99 Era tale la fiducia che tutti i familiari avevano in Josemarìa, da far loro ritenere che le sue decisioni sarebbero state “la cosa migliore” , come testi­monia il fratello: cfr Santiago Escrivà de Balaguer y Albàs, Sum. 7325.100 Cfr Archivio Diocesano di Saragozza, Libri del Registro dei Documenti Arcivescovili (1922-1942), anno 1927, fol. 120, n. 1813 (17 marzo 1927: «Permesso per due anni a Madrid per motivi di studio») e fol. 121, n. 1820 (22 marzo 1927: «Commendatizie per Madrid, per due anni»).A questo proposito, Mons. Echevarria dichiara: «Nel suo esposto all’Arci- vescovo di Saragozza sottolineò - era questa la sua intenzione - che, pur frequentando i corsi universitari, avrebbe dedicato la parte più importante della propria giornata all’attività pastorale, per continuare ad alimentare nella propria anima l’amore al ministero per il quale era stato ordinato. Condizionava al lavoro sacerdotale la sua attività di ricerca per il dottora­to e la redazione della tesi» (Sum. 1945).101 In virtù di un Decreto Reale del 10 marzo 1917 (“ Gazeta de Madrid” del 15 marzo), su proposta del Ministero della Pubblica Istruzione e Belle Arti, non occorreva «alcuna convalida né aver esercitato per ottenere il ti­tolo corrispondente a ciascun grado», qualora fossero stati superati tutti gli esami del relativo piano di studi.Le tasse per i diritti attinenti al grado di Licenza furono pagate il 15 marzo 1927 (cfr Pratica personale, Archivio della Facoltà di Diritto, Università di Saragozza). Come risulta dalla pratica, il trasferimento a Madrid fu fatto il30 marzo 1927.102 Domingo Fumanal, AGP, RHF, T-02852, p. 1.103 Nell’Archivio diocesano di Saragozza e negli archivi parrocchiali di Fombuena e Badules non esiste alcun riferimento alla permanenza di don Josemarìa in queste parrocchie.Nel Libro del Registro dei Documenti Arcivescovili (1922-1942) dell’arci- diocesi di Saragozza, fol. 300, n. 3190, del 28-111-1931, a motivo di alcune lettere testimoniali in preparazione presso la Curia Arcivescovile di Sara­gozza, sono segnati dei dati relativi a studi ecclesiastici e incarichi pastora­li del Fondatore. Su una copia manoscritta e autentica fatta da lui, intitola­ta: “Nota dei meriti che desidera far constare nelle lettere testimoniali” , datata Madrid 12 marzo 1931, si legge in un paragrafo: “6.- Nell’aprile 1927 fu incaricato della parrocchia di Fombuena, fino a dopo la Pasqua di Risurrezione di quell’anno” (originale in AGP, RHF, D-15334).104 Lettera di P. A. Santiago a P. Prudencio Cancer, Madrid 20-111-1927 (originale in AGP, RHF, D-15003-6). Dato che la lettera fu probabilmente inviata a Segovia e di là rispedita da P. Cancer, arrivò forse a Saragozza in­torno al 24 marzo.105 Appunti, n. 640. Cfr Javier Echevarria, Sum. 1917.

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P. Cancer, nella citata lettera a don Josemarfa, parlava di «due persone molto influenti a Saragozza» e più oltre gli diceva: «Ti potrò prestare l’aiu­to di cui hai bisogno; ma deve essere al momento giusto, poiché forse pri­ma hai bisogno di questo aiuto per altri passi che tu devi fare». Il passo previo al trasferimento a Madrid era il permesso per lasciare la diocesi di Saragozza. Come vi riuscì con tanta facilità?Sembra che in tutta la vicenda del trasferimento a Madrid e delle pratiche nella Curia di Saragozza siano stati implicati diversi amici di don Jose­marfa: fra loro sicuramente don José Pou de Foxà e don Luis Latre Jorro, con i quali mantenne contatti epistolari poco dopo il suo arrivo a Madrid (cfr AGP, RHF, D-04355).Don Luis Latre Jorro fu segretario per le visite pastorali del Cardinale Sol- devila. Il giorno dell’attentato in cui il Cardinale morì assassinato, don Luis era con lui in auto e fu ferito. Nel 1925 era ordinario di Filosofia nel- l’Università Pontificia di Saragozza (cfr Bollettino Ecclesiastico Ufficiale dell3Arcivescovado di Saragozza, voi. Statistiche dell3Arcivescovado di Sa­ragozza, l-IV-1925, pp. 16-17). Nel 1925 sostituì don Antonio Moreno Sànchez nella carica di Vicepresidente del Reale Seminario Sacerdotale di S. Carlo (cfr E. Subirana, cit., anno 1925, p. 314, e anno 1926, p. 395). Era amico di don José Pou de Foxà (cfr lettera di don Luis Latre Jorro a don Josemarfa, Saragozza 9-V-1927, in AGP, RHF, D-15003-8).106 La lettera di P. A. Santiago a don Josemarfa (originale in AGP, RHF, D- 15003-7) è scritta su carta intestata: “Il Rettore dei PP. Redentoristi - Piaz­za Conde de Miranda 2 ” . L’inizio della lettera («giorni fa ho ricevuto la sua graditissima, alla quale non ho risposto») lascia supporre che fu scritta verso la fine di marzo. La domenica di Pasqua cadeva quell’anno il 17 aprile. Perciò don Josemarfa era atteso a Madrid intorno al 20 aprile.107 L’originale è in AGP, RHF, D-15334. Si chiamava “pedone” il postino appiedato, benché in questo caso disponesse di una cavalcatura.i°8 <£Questo crocifisso” - avrebbe scritto più tardi - “mi tenne compagnia nelle mie peregrinazioni. Fu con me a Fombuena e venne con me a Ma­drid” (Appunti, n. 583).109 AGP, P04 1972, p. 99.110 Javier Echevarrfa, Sum. 3212-3213; citato anche da Alvaro del Portillo, Sum. 1562.111 Cfr la fattura originale in AGP, RHF, D-15247/2.112 Meditazione del 14-11-1964.113 Cfr Appunti, n. 704.114 Appunti, n. 414.115 Meditazione del 14-11-1964.116 Appunti, n. 1090.

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Capitolo V

LA FONDAZIONE DELL’OPUS DEI

1. Madrid, città e capitale del Regno

Attento al tono ultimativo che si percepiva nella nota del Rettore, con la quale gli comunicava che lo si atten­deva a Madrid «nei primi giorni della settimana di Pa­squa», don Josemaria si presentò a S. Michele non ap­pena giunto nella capitale, il 19 aprile 1927, martedì dopo Pasqua. Mostrò al Rettore i documenti per ottene­re le facoltà per l’esercizio del proprio ministero e per poter celebrare la Messa1.

Come prima soluzione, don Josemaria si era stabilito in una pensione in via Farmacia, nel dedalo di stradine che salivano alla Red de San Luis. Di là si scendeva fino alla Puerta del Sol. A poca distanza dalla Plaza Mayor c’erano una volta due chiese: S. Miguel de los Octoes, dove era stato battezzato Lope de Vega, e S. Giusto, am­bedue poi demolite. Al posto di quest’ultima fu edificata una nuova chiesa, ceduta nel 1892 al Nunzio Apostoli­co e posta sotto la sua giurisdizione: la Chiesa Pontificia di S. Michele2.

Nonostante la sua importanza storica come capitale del Regno fin dall’epoca di Filippo II, il territorio eccle­siastico della Corte di Madrid aveva continuato a di­pendere per secoli dalla sede di Toledo, senza costituire

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diocesi indipendente. Nel Concordato del 1851 ne era prevista l’erezione come suffraganea di Toledo. Peraltro questa decisione fu applicata soltanto nel 18853. Non si potè però evitare che la Corona, i nobili e persino gli stessi ecclesiastici fondassero conventi, costituissero pa­tronati o dotassero di rendite chiese e cappelle al di fuo­ri della giurisdizione ordinaria, che era allora quella del­l’arcivescovo di Toledo. In questo modo e sotto l’egida di privilegi ed esenzioni, esistevano a Madrid varie giu­risdizioni, come quella personale del Nunzio, quella Pa­latina dei regnanti e quella Castrense.

Durante i primi giorni Josemaria cercò di informarsi sulle pratiche da fare all’Università, con l’intenzione di presentarsi agli esami nella prima sessione raggiungibi­le. Nella sua pratica personale risulta che in data 28 aprile 1927 chiese al Decano (Preside) della Facoltà di Diritto l’iscrizione all’esame di “ Storia del diritto inter­nazionale” , del corso di dottorato. Nell’intestazione dell’istanza si legge:

«Don José Maria Escrivà y Albàs, nato a Barbastro in provincia di Huesca, di 25 anni d’età, che abita in que­sta capitale in via Farmacia n. 2», ecc.4.

All’istanza è allegato un certificato, con il timbro del Collegio Ufficiale dei Medici, steso dal dottor José Blanc Fortacìn nei seguenti termini: «Don José Maria Escrivà y Albàs, di 25 anni, ha ricevuto tutte le vaccina­zioni. Madrid, 29 aprile 1927»5. Blanc Fortacìn prove­niva da una famiglia imparentata con la signora Dolo­res e il certificato ha tutta l’aria di essere stato ottenuto in fretta.

Come alcuni altri chierici giunti alla capitale don Jo­semaria si trovava piuttosto solo. Abituato all’attività apostolica di S. Pietro Nolasco, non trovava in S. Mi­chele possibilità né collaborazione per un impegno simi­le. Non se ne deve fare una colpa al padre Rettore, che

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gli aveva già anticipato che non si trattava di una cap­pellania vera e propria, bensì di celebrare una Messa ogni giorno, con diritto a uno stipendio di cinque pese­tas e cinquanta centesimi6.

Questo importo non copriva neppure la pensione di un giorno in via Farmacia, che era di sette pesetas7. Con l’idea di trovare un alloggio più modesto e conveniente continuò le ricerche e seppe che in via Larra era stata inaugurata da pochi mesi una Casa Sacerdotale con trenta camere. Si trattava di un’opera benefica per sa­cerdoti condotta dalle Dame Apostoliche del Sacro Cuore di Gesù. In un loro bollettino si legge: «Casa Sa­cerdotale. - Ha funzionato tutto l’anno, e molto bene. Pare che i signori sacerdoti siano soddisfatti (...). Spen­dono cinque pesetas, l’elemosina che si suol dare per la Messa (...) e fruiscono di un eccellente trattamento nel cibo, nelle pulizie, ecc. (...). Il sig. Vescovo ha avuto la bontà di inaugurarla egli stesso, e il sig. Vicario, che tanto apprezza questa Opera, si è offerto di andare a ce­lebrarvi la Messa per lasciarvi il Santissimo, nella gra­ziosissima cappella che ha questa Casa Sacerdotale»8.

È molto probabile che il cambio di alloggio sia avve­nuto il 30 aprile. Comunque, fino alle prime settimane del mese di maggio poco si sa con esattezza dei movi­menti e degli studi di Josemaria. Tutto lascia supporre che qualcosa non abbia funzionato nei piani tracciati con tanto ottimismo da padre Cancer quando propone­va di cantare un Te Deum e dava istruzioni al suo pro­tetto: «È opportuno quindi - gli scriveva - che, senza fa­re ancora trasloco, tu venga a Madrid a negoziare l’incarico, accettarlo, parlare con il Sig. Nunzio e vedere come aprirti la strada»9.

Due settimane dopo essere giunto a Madrid non ave­va ancora trattato la faccenda, non era riuscito a parlare con il Nunzio e non poteva aprirsi la strada. Questo è quanto si apprende dalla lettera di don Luis Latre, vice­

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presidente del S. Carlo di Saragozza, che il 9 maggio ri­spose a quella inviatagli da don Josemarìa:

«Caro amico, il giorno stesso in cui ho ricevuto la gradi­ta tua, giunta per espresso, l’ho inviata a mio fratello che stava a Madrid, affinché si rendesse meglio conto dei tuoi desideri e li potesse meglio illustrare a D. Ino- cencio, che quel giorno stava a Cercedilla, ma che appe­na ritornato a Madrid fu informato delle tue aspirazioni (...). Non ti dico quanto mi farà piacere sapere che tu ti sia ben sistemato per il momento. E dico per il momen­to, perché non credo che tu sia soddisfatto dell’attuale situazione, dato che lo stare separato da tua mamma e dai tuoi fratelli in queste condizioni non credo che con­venga a nessuno di voi. Il buon fraticello è dispiaciuto di non aver potuto aiutarti. Il meno che potrebbe fare ora è di procurarti con le sue conoscenze delle lezioni private e raccomandarti al Sig. Vescovo, direttamente o per tra­mite di altre persone, affinché tu possa entrare in qual­che chiesa come ascritto, per poter avere dei buoni sti­pendi e buoni diritti.Nel frattempo cerca di aver pazienza e, soprattutto, di essere molto buono ed evitare compagnie che ti potreb­bero danneggiare enormemente. Studia quanto puoi, af­finché se Dio permette che ti si chiudano le porte della Città e Capitale, tu possa rientrare qui quanto prima e metterti a disposizione del nostro Prelato, che ha tanta carenza di personale.Con D. José Pou parliamo spesso di te; si lamenta della tua poca fortuna. Dice di averti scritto pochi giorni fa»10.

In che cosa avrebbe potuto aiutarlo don Inocencio Jiménez, suo ex professore di Diritto penale? L’analisi delPincartamento accademico conferma che don Jose­marìa non si presentò all’esame in nessuna delle sessio­ni, da giugno a settembre11, con gran detrimento del suo portafoglio, poiché per iscriversi aveva dovuto pagare quarantadue pesetas più altre gabelle, cioè l’equivalente

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di otto giorni di pensione. E ancora non aveva trovato il modo di guadagnarsi la vita dando lezioni.

*1'

Buona parte dei sacerdoti di via Larra erano in età ma­tura, ma non mancavano anche alcuni giovani, come don Fidel Gómez e don Justo Villameriel, che prepara­vano concorsi per diventare cappellani militari; don Avelino Gómez Ledo, che era stato ordinato a Madrid; e don Antonio Pensado. Quest’ultimo, che proveniva da Santiago de Compostela, era, come don Josemaria, sa­cerdote extradiocesano12.

Il caso di don Antonio è emblematico del criterio usato dal Vescovo di Madrid nella concessione di facoltà a sa­cerdoti forestieri. Don Josemaria aveva un esempio di ciò che poteva succedergli. In effetti, dal 1922 al 1926 don Antonio, con il permesso del proprio Prelato, aveva fre­quentato i corsi di Filosofia e Lettere a Madrid. Allora cominciò l’odissea. Il 26 ottobre 1926 gli venne comuni­cato dalla Segreteria del Vescovado di Madrid che non gli sarebbero state prorogate le facoltà nella diocesi avendo terminato gli studi che lo costringevano a risiedere nella capitale. Riuscì tuttavia a ottenere il permesso per un an­no per celebrare la Messa nel monastero dell’Incarnazio- ne, fondazione dei Reali di Spagna e con giurisdizione esente13. Ma nel febbraio del 1927 il Vescovo di Madrid fece pressioni su quello di Santiago affinché anch’egli riti­rasse le facoltà al chierico se questi si fosse rifiutato di rientrare nella propria diocesi; il motivo addotto era di non eludere le disposizioni della Santa Sede concernenti gli extradiocesani che dalle province emigravano nella ca­pitale. Privato dunque delle facoltà per celebrare la Mes­sa, ma deciso a rimanere a Madrid, don Antonio si cercò prontamente un posto all’Ospizio Provinciale e presentò nel mese di aprile un’istanza al vescovado chiedendo le facoltà per svolgere l’incarico. La richiesta fu respinta14.

Un sacerdote, per esercitare le funzioni proprie del

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ministero, doveva essere in possesso delle apposite fa­coltà concesse dal Vescovo della diocesi. Facoltà di con­fessare, predicare e celebrare la Messa; potevano essere concesse per un tempo limitato o illimitato. Di conse­guenza, se un sacerdote non aveva le facoltà o se l’auto­rità ecclesiastica gliele ritirava, la sua condizione si face­va davvero critica. Infatti non poteva amministrare lecitamente i sacramenti né ottenere i diritti di stola e d’altare. In questa situazione senza via d’uscita si trova­va don Antonio Pensado.

Nel maggio 1927, nella residenza di via Larra, don Josemaria e don Antonio strinsero amicizia ma la vici­nanza fu breve. Don Antonio fu costretto poco dopo a lasciare la capitale.

Don Josemaria si trovava da un mese nella residenza quando a Donna Luz Rodriguez Casanova, fondatrice delle Dame Apostoliche, giunse notizia dello zelo di quel giovane sacerdote e del suo desiderio di essere utile con il proprio ministero. La difficoltà stava nel fatto che non aveva il permesso di celebrare la Messa a Madrid, ad eccezione della chiesa di S. Michele. Ella dovette ve­dere in lui qualcosa di speciale per decidere di nominar­lo cappellano della chiesa del “Patronato de Enfermos” (Patronato degli Infermi). Il sacerdote dovette chiedere previamente il problematico permesso diocesano, cosa che fece il 10 giugno, a quanto si legge nella sua istanza:

“Don José Maria Escrivà y Albàs, della diocesi di Sara­gozza, con permesso del suo Ordinario concesso il 17 marzo 1927, desiderando restare in questa capitale, in via Larra, Casa Sacerdotale, n. 3, per il tempo di due an­ni, supplica V.S. Ill.ma che si degni di concedergli l’op­portuna autorizzazione per poter celebrare il Santo Sa­crificio della Messa nella chiesa del “Patronato de Enfermos” .Dio conservi V.S. Ill.ma per molti anni.Madrid 10 giugno 1927”15.

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Conoscendo i precedenti in materia è tanto più ammi­revole l’influenza di Donna Luz. (In seguito il richieden­te stesso avrebbe scritto come riuscì a ottenere le facoltà per l’esercizio del proprio ministero: “La prima volta che mi furono date nella diocesi di Madrid, su richiesta di M. Luz Casanova, furono generali, se non ricordo male: di celebrare, confessare e predicare” )16. Chi era questa influente signora? Luz Rodrìguez Casanova, fi­glia della marchesa di Onteiro, aveva fondato nel 1924 a Madrid la Congregazione delle Dame Apostoliche, i cui fini specifici erano le opere di carità e d’insegnamen­to fra i bisognosi; era una donna intraprendente e di grande vita interiore17.

All’epoca occupava la sede episcopale di Madrid Mons. Leopoldo Eijo y Garay, i cui dati biografici nel 1927 erano più o meno simili a quelli di altri Prelati. La vita di questo vescovo si differenzia perché presto si in­trecciò con quella di don Josemarìa. Era nato a Vigo nel 1878. Aveva studiato nel Seminario di Siviglia e alla Gregoriana di Roma. Ordinato nel 1900, divenne prima vescovo di Tuy (1914) e poi di Vitoria (1917), prima di prendere possesso della diocesi di Madrid-Alcalà nel 192318. La tempra spirituale della sua persona e l’eleva­to livello culturale caratterizzarono le sue azioni di go­verno. Rende l’idea del suo stile un rapporto scritto sul­la situazione degli ecclesiastici nella capitale spagnola. Si tratta della minuta manoscritta di una lettera datata Madrid 18-11-1933, nella quale rispondeva a un cardi­nale della Curia Romana che intercedeva per la conces­sione delle facoltà a un sacerdote extradiocesano:

«Ho ricevuto il pregiato scritto di Vostra Eminenza del 9 corrente (...) e ho l’onore di informarla di quanto segue.È sempre stato desiderio di molta parte del clero spa­gnolo venire a vivere a Madrid, dove non solo non c’è alcun bisogno di altri sacerdoti, ma ce ne sono già più di quanti ce ne dovrebbero essere. Adempiendo al dovere

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di cooperare ai desideri di questa Sacra Congregazione che non vuole l’affollamento di chierici extradiocesani nelle grandi capitali, ho sempre fatto la massima atten­zione di non concedere facoltà per rimanere a Madrid a coloro che non avessero motivo canonico sufficiente in tal senso (...).E questa una vera croce per questa diocesi, in cui quasi tutti i giorni si devono rifiutare quattro o cinque petizio­ni del genere (...). Il Presbitero Jerónimo Munoz, della diocesi di Avila, si trova fra questi. Il Conte di Santa En- gracia se l’è portato quale proprio cappellano e, quando ha richiesto per lui le facoltà di celebrare, gli ho detto che non gliele posso concedere perché la Santa Sede melo proibisce (...). Ora la mia umile supplica alla Sacra Congregazione è che, tanto al Presbitero Munoz quanto a tutti gli altri che facessero la stessa richiesta, si voglia rispondere non expedire.Altrimenti tutti gli extradiocesani che aspirano a risiede­re a Madrid si rivolgeranno con una petizione alla Santa Sede e, se venisse loro concesso, la metà del clero spa­gnolo, specialmente coi tempi che corrono, verrebbe qua, con danno veramente grave per la Diocesi e per la Chiesa»19.

Come si vede, a don Leopoldo non tremava la mano nell’impugnare la penna. La lettera è permeata di fer­mezza e di chiarezza e dimostra che il Prelato non arre­trò mai, nonostante le pressioni, dal criterio restrittivo nella concessione di facoltà. Il permesso che fu concesso a don Josemaria nel 1927 fu limitato a un anno. Con parsimonia gli sarebbe stato prorogato il permesso me­diante periodici tramiti presso il Vicariato di Madrid; il che lasciava il sacerdote con il fiato sospeso e in conti­nuo timore. E questa la situazione di fondo che inqua­dra la condizione di instabilità dei sacerdoti extradioce­sani nella città di Madrid. Le scarne registrazioni del Libro delle Facoltà Ministeriali della Curia richiedono una buona dose di immaginazione per indovinare i di­

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spiaceri compendiati in ogni riga. Così, nel Libro n. 8, foglio 53, si legge:

«Escrivà Albàs, don José Maria - Saragozza.8 giugno 1927: un anno, nel “Patronato de Enfermos”.11 giugno 1928 fino al 22 marzo 1929 e assolvere.23 marzo 1929: quattro mesi.23 luglio 1929 sino alla fine di giugno 1930».

E nel foglio 55:

Escrivà Albàs, don José - Saragozza.15 luglio 1930: sei mesi Patronato e confessare.14 gennaio 1931: sei mesi.23 giugno 1931: un anno, a Santa Barbara»20.

Per forza dovevano essere brevi tali registrazioni, da­to l’inesauribile travaso di chierici nella capitale. Basti dire che nel 1927 dipendevano dalla Curia 533 sacer­doti extradiocesani e 648 diocesani, questi ultimi ripar­titi in tutta la provincia, per cui la maggior parte dei sa­cerdoti residenti a Madrid capitale non appartenevano alla diocesi21.

Don Josemaria, straordinariamente fedele nell’osser­vanza delle disposizioni ecclesiastiche, dovette chiedere la proroga delle facoltà ministeriali che aveva portato da Saragozza, poiché stavano per scadere. Nel frattem­po, per adempiere a quanto indicato dal canone 130 del Codice allora in vigore (di sostenere durante il triennio successivo all’ordinazione un esame sulle sacre discipli­ne) chiedeva l’autorizzazione affinché lo esaminasse il Rettore di S. Michele22.

A Saragozza concessero quanto richiesto con lettera del 17 giugno 1927 del Vicesegretario diocesano; e padre Santiago, Rettore di S. Michele, esaminò il giovane pre­sbitero23. Gli fece scegliere dei temi di Teologia Morale e di Dogmatica e lo sottopose a un lungo esame scritto. Nel proprio resoconto, che consegnò all’esaminato per­

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ché lui stesso lo spedisse a Saragozza, spiegava le ragioni per le quali gli aveva dato il massimo dei voti24.

Le facoltà ministeriali di Saragozza arrivarono al sa­cerdote con una lettera del 9 luglio, per il periodo di un anno, con l’obbligo di rinnovo annuale fino al 1931. Poi gli furono concesse per cinque anni e quelle generali e perpetue nel 193625. Don Josemarìa fu sempre diligente per quanto concerne i suoi permessi di residenza, per evitare che scadessero le lettere dimissorie e commenda­tizie emanate da Saragozza, con le quali poteva giustifi­care la propria presenza a Madrid, fuori dalla diocesi di origine, per poter esercitare il proprio ministero. Come si vedrà, i libri di governo diocesano non registrano i molti dispiaceri procurati al richiedente. In ogni caso, paragonati alle lacrime che gli avrebbe causato la condi­zione di extradiocesano a Madrid, tali incidenti signifi­cano ben poca cosa.

2 .1 residenti di via Larra

Al poco daffare di S. Michele fece seguito la cappellania del “Patronato de Enfermos” , che fu come passare dalla fame alla sazietà. Il Patronato era la sede centrale delle Dame Apostoliche e aveva annessa una chiesa pubblica. Durante l’estate del 1927 il cappellano a poco a poco entrò nella sfera delle attività benefiche e apostoliche dell’istituzione anche se, al momento, non era affatto obbligato a farlo:

«Il Cappellano del “Patronato de Enfermos” - spiega una delle Dame - curava gli atti di culto della Casa: cele­brava la Messa tutti i giorni, faceva l’Esposizione del Santissimo e dirigeva la recita del Rosario. Non doveva, a motivo del suo incarico, occuparsi dello straordinario lavoro che veniva svolto dal Patronato fra i poveri e i malati - in generale, con i bisognosi - della Madrid di

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allora. Tuttavia, don Josemaria approfittò della circo­stanza della nomina a Cappellano per dedicarsi genero­samente, con sacrificio e disinteresse, a un ingente nu­mero di poveri e di malati che giungevano alla portata del suo cuore sacerdotale»26.

Don Josemaria abitava in via Larra, a pochi minuti dal Patronato. Ben presto, seguendo l’esempio dei gio­vani residenti, si incaricò di piccole riparazioni e di una quantità di faccende a servizio dei suoi compagni. Vi abitava da poche settimane, quando iniziarono le va­canze estive e alcuni sacerdoti si allontanarono da Ma­drid. Nell’estate del 1927 rimasero pochi residenti stabi­li, mentre comparivano spesso dei chierici di passaggio per Madrid che si trattenevano pochi giorni in via Lar­ra. Uno di questi visitatori fu don Joaquin Maria de Ayala, che passò quattro giorni nella residenza, dal 15 al 19 giugno27. Quando, alla fine del mese, dovette chie­dere un favore a qualcuno a Madrid, pensò alla benevo­la e servizievole disponibilità di quel simpatico sacerdo­te aragonese che aveva conosciuto in via Larra. Don Joaquin era Rettore del Seminario di Cuenca e per cari­ca e per età era un chierico di prestigio che poteva con semplicità chiedere un favore al giovane sacerdote. Pri­ma era stato canonico dottorale e ciò traspare dalla let­tera che da Alange (provincia di Badajoz) inviò a don Josemaria in data 30 giugno. Iniziava partendo, con una ispirata invocazione, dalla onnipotente virtù della bontà e ai suoi ampi orizzonti, per scendere poi, dal proemio di lodi, agli “ inconvenienti” della virtù: «Uno è l’abuso che ne possono fare coloro con i quali la si esercita. E gliene darà prova questa lettera. Lei dimostrò la sua bontà nei miei confronti quando ho avuto il piacere di convivere con lei in occasione del Congresso Francesca­no e ora ne abuserò»28.

Fatta la premessa, passava a chiedergli di ritirare, do­po aver verificato che fosse pronta, una veste talare che

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aveva lasciato a Madrid perché gli sistemassero il collo. E, già che c’era, pregava don Josemaria di acquistargli delle pietrine per l’accendino, che non riusciva a trovare a Cuenca. Chiuse la lettera con i saluti per i residenti, «specialmente ai beniamini, signori Plans e Pensado».

Nulla si sa di Plans e poco di don Antonio Pensado, che, tallonato dalla minaccia del Vescovo di Madrid, ri­tornò a Santiago de Compostela, da dove il 30 luglio scrisse al suo amico don Josemaria. Nella lettera lo pre­gava di dire alla signora Aurora - l’incaricata dell’am­ministrazione della residenza - che aveva fatto la racco­mandazione che gli aveva richiesta. Si rivolgeva a lui in quanto era sicuro che avrebbe trascorso lì l’estate: «Suppongo che in casa - scrive - sarai quasi solo perché saranno partiti quelli che andavano in vacanza, mentre saranno aumentati quelli di passaggio»29.

Fra la corrispondenza dell’estate 1927 si conserva una lettera di padre Cancer del 19 luglio, in rispósta a una di don Josemaria. Questi imparò ben presto a fare affida­mento esclusivamente sull’aiuto divino e non sulle rac­comandazioni umane, comprese quelle degli ecclesiasti­ci. Dalle domande e dalle congetture del religioso ci si rende conto che era pieno di curiosità davanti al riserva­to silenzio del suo protetto di un tempo. Egli scrive:

«Ero ormai preoccupato per il tuo silenzio. Come gli an­dranno le cose a Madrid a questo povero pretino che non mi dice nulla? Se la deve passare male, molto male.La tua ultima lettera mi ha un po’ tranquillizzato, ben­ché (...) sia convinto che tu mi nasconda molte cose per non farmi dispiacere (...).Credevo che ormai tu avessi trovato qualcosa di più che la cappellania della Pontificia, qualche lezione privata o qualche centro docente..., un posto di praticante con qualche avvocato di grido, qualche entrata supplemen­tare per l’aiuto in una parrocchia o casa religiosa. Non mi dici nulla di tutto questo, né dell’accoglienza o del rapporto con il sig. Nunzio; né dei tramiti di padre Ra-

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monet, così abile, così conoscitore del mondo e con tan­te buone conoscenze; né della tua situazione con il sig. Vescovo diocesano, con il Seminario, con il tuo Prelato di Saragozza. Hai forse lasciato del tutto la Pontificia per servire la signora Luz Casanova? (...).Credevo che a quest’ora tu avessi già una segreteria epi­scopale e qualche cattedra di assistente procurata da qualche illustrissimo o eccellentissimo amico del padre Ramonet. Chissà che non ci si veda presto»30.

È evidente che padre Cancer, con tante supposizioni e colpi alla cieca, non sapeva con certezza in che stato si trovasse il cappellano del “Patronato de Enfermos” .

Nella corrispondenza con i suoi don Josemarìa li informava dei passi fatti. Cercava di incoraggiarli, ma non aveva ancora risolto la propria situazione in modo tale da poter pensare al trasferimento della famiglia a Madrid. Anche da lontano lasciava trasparire la tene­rezza; il fratello Santiago ricorda che Josemarìa gli face­va avere ogni settimana le stesse riviste infantili che un tempo comperava a lui il signor José, quando abitavano a Barbastro31.

Da maggio sino alla fine di novembre del 1927 allog­giò nella residenza di via Larra. Furono solo pochi mesi, ma di tale intensità che la memoria del suo passaggio ri­mase bene impressa ne due sacerdoti che a quel tempo componevano il gruppo dei “giovani” : Avelino Gómez Ledo e Fidel Gómez Colomo. La convivenza con sacer­doti di età avanzata, riferisce don Avelino, esigeva «una speciale pazienza e comprensione nel trattare con loro e don Josemarìa ne dava l’esempio»32. Questi sacerdoti, con ottant’anni alle spalle, rievocano la figura del loro compagno di pensionato; don Fidel lo definisce come «una persona cordiale, trasparente, leale»33. Mentre di lui don Avelino sottolinea, a dimostrazione dell’affetto umano e dei sentimenti sacerdotali, che si ricordava sempre del giorno del suo onomastico, la festa di

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Sant’Andrea Avellino, non molto conosciuto in Spagna e pertanto data per lo più ignorata; don Josemaria era l’unico che gli faceva gli auguri «in modo affettuoso e soprannaturale»34.

Dal “Patronato de Enfermos” veniva portata avanti la direzione di molte opere di misericordia. I residenti di via Larra erano estranei a questo apostolato, ad eccezio­ne del giovane cappellano il quale, alla fine dell’estate, vi era già coinvolto in pieno. Da quanto racconta don Fidel, il cappellano non ne faceva ostentazione, benché con simpatia e zelo apostolico cercasse di trascinare con sé altri chierici nelle visite a poveri e ammalati dei quar­tieri poveri. «Ricordo che un giorno - dice un testimone oculare - in uno di quei quartieri don Josemaria prese in braccio un bambino piccolo, sporco e coperto di piaghe, e gli diede due baci»35.

Al mattino gli abitanti della Casa Sacerdotale cele­bravano la Messa a ore diverse e in luoghi diversi, e al pomeriggio erano occupati in parrocchie, cappelle o al­tri impegni. L’unica occasione in cui si ritrovavano era l’ora di pranzo. Dopo mangiato, passavano un po’ di tempo a chiacchierare. In queste chiacchierate, o tertu- lias, veniva toccato ogni genere di temi ed erano mo­menti dei quali il giovane sacerdote aragonese approfit­tava per inserire nella conversazione temi apostolici o per aprire inattesi orizzonti partendo da qualche noti­zia di stampa.

In una di queste conversazioni, riferisce don Fidel, «stavamo commentando qualche avvenimento che ora non ricordo e mi parlò della necessità di fare apostola­to anche con gli intellettuali, perché, soggiungeva, sono come le cime innevate: quando la neve si scioglie, scen­de l’acqua che fa fruttificare le valli. Non ho mai di­menticato questa immagine, che così bene rispecchia il suo ideale di portare Cristo fino al vertice di tutte le at­tività umane»36.

Colpiva i suoi colleghi «la sincerità con cui parlava e,

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soprattutto, la sua giovialità, che in lui non era solo frut­to dell’età - aveva allora venticinque anni - bensì l’e­spressione della gioia interiore, di una vocazione sacer­dotale vissuta con pienezza di senso soprannaturale»37.

Nonostante le avversità, il giovane cappellano non «se la passava male», come immaginava padre Cancer. Godeva di uno splendido ottimismo che era per lui co­me una seconda natura, perché, come avrebbe scritto più tardi, si trovava sotto l’influsso di “quelle mozioni, quelle spinte della grazia, quel volere qualcosa, che io non sapevo che cosa fosse”38. Andava avanti senza sa­pere dove andava, senza sentire la stanchezza della mar­cia. Ed erano nove lunghi anni che andava ripetendo il “ Domine, ut videaml” .

3. L’Accademia Cicuéndez

Nel novembre 1927 don Josemaria prese in affitto un piccolo appartamento al n. 46 di via Ferdinando il Cat­tolico, non troppo lontano dal “Patronato de Enfer- m os” . Finalmente gli Escrivà si riunirono a Madrid. Buona notizia, della quale si rallegrava anche padre Cancer, il quale gli rispondeva da Segovia il 9 dicembre: «La tua lettera mi ha procurato una grande gioia. Le mie felicitazioni a tua mamma e ai fratelli. Sperate sem­pre nel Signore»39. Desiderava sollevare il loro spirito, facendo salutari considerazioni spirituali.

Il Signore gettò un misericordioso velo sulle tribola­zioni future, nascondendo per il momento alla famiglia l’avvenire che l’attendeva. Per la terza volta gli Escrivà riorganizzavano la loro vita in una città estranea, senza sospettare di essersi messi proprio nell’occhio del ciclo­ne e che l’uragano che incombeva su Madrid stesse per scatenarsi. Dopo un lungo periodo di assestamento sot­to l’egida della Costituzione del 1876, appena salito al trono Alfonso XIII incominciarono a rivelarsi i malesse­

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ri della nazione. I problemi sociali, occupazionali ed economici, ai quali si sommò il disagio dell’esercito, condussero nel 1923 alla dittatura del generale Primo de Rivera. In poco tempo venne restaurato l’ordine, venne conclusa la guerra in Marocco, fu dato impulso alle opere pubbliche, la moneta si rafforzò e migliorò il tenore di vita; a costo, naturalmente, delle libertà politi­che e civili.

Il regime potè godere di breve popolarità. Sette an­ni dopo si era già bruciato; di fronte ai primi disastri economici il generale fu costretto a dimettersi. A que­sto punto all’apparato della dittatura veniva a man­care un ricambio governativo; per cui nel 1930 la monarchia entrò in un vicolo cieco40. Ma non antici­piamo gli eventi...

Gli Escrivà si erano appena stabiliti a Madrid quando don Josemarìa dovette riprendere la dura fatica dell’in­segnamento. Si ripetè la situazione di Saragozza: lezioni private sotto la vigilanza della signora Dolores. Suo fra­tello Santiago ricorda qualche episodio di quel primo domicilio madrileno: «Josemarìa dava varie lezioni pri­vate, talvolta nell’appartamento di via Ferdinando il Cattolico. Veniva a prendere lezioni una ragazza e Jose­marìa faceva in modo che fosse sempre presente mia madre, che cuciva. Dava lezione anche a ragazzi più grandi di me, che chiamavamo “ quelli della prozia” , perché li accompagnava una loro prozia molto simpati­ca, della quale non ricordo il cognome»41.

All’Istituto Amado di Saragozza sostituì l’Accademia Cicuéndez, nella quale insegnava, come a Saragozza, Diritto romano e Istituzioni di Diritto canonico. Fra i due centri di insegnamento naturalmente esistevano grandi differenze quanto ad antichità e specializzazione. In un annuncio pubblicitario del 1918 sul quotidiano “ABC” di Madrid, l’Accademia Cicuéndez veniva de­scritta come «specializzata in Diritto. Centro di studi con internato, diretto da sacerdoti»42. Secondo quanto

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asseriva il regolamento, oggetto dell’Accademia era «promuovere l’insegnamento privato degli studi giuridi­ci, preparando con grande accuratezza esclusivamente alla professione di Avvocato». Direttore e proprietario era don José Cicuéndez, sacerdote, avvocato e laureato in Sacra Teologia43.

L’Accademia occupava il primo piano di un edificio di via S. Bernardo, n. 52, angolo via del Pez, vicino all’U­niversità Centrale, ed era molto conosciuta fra gli uni­versitari. Come professore don Josemaria manteneva al­ta la bandiera della Accademia. Le sue spiegazioni in classe non si limitavano a un’esposizione teorica, ma cercavano con esempi e casi pratici di fissare gli argo­menti nella mente degli allievi. Oltre ad essere profon­do, era anche ameno. Tanto che, come dice uno di essi, Mariano Trueba, aspettavano volentieri di andare alle sue lezioni «perché erano gradevoli e familiari»44.

Si dimostrava esigente nell’insegnare e desideroso di far rendere al massimo i propri alunni. Seguendo l’espe­rienza di Saragozza con gli allievi dell’istituto Amado, propose loro di studiare i canoni sul testo latino del Co- dex. Iniziativa che fu accolta con scetticismo, poiché era notoria la scarsa preparazione in latino degli alunni. Tuttavia, alcuni mesi più tardi, poterono verificare con sorpresa che, grazie al metodo didattico di don Jose­maria, se la cavavano con una certa disinvoltura45.

I suoi ex alunni testimoniano, in maniera molto espressiva, il comportamento e il carattere del docente di Diritto romano: «molto gradevole, semplice e pater­no», afferma Manuel Gómez Alonso46. «Era facile fare amicizia con lui - aggiunge molto spesso, finite le le­zioni, lo accompagnavo per la strada verso casa sua».

Secondo Juan Cortés Cavanillas, essi «si sentivano at­tratti dalla figura del loro professore, dal punto di vista pedagogico e anche per il suo portamento sia umano che sacerdotale»47. Gli allievi dell’Accademia erano in gran parte ragazzi che, per varie ragioni, non potevano

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frequentare le lezioni della Facoltà. Si attenevano al si­stema del “ libero insegnamento” e potevano iscriversi a qualsiasi Università, presentandosi per lo più alle sessio­ni straordinarie di esami in settembre, perché durante le vacanze estive riuscivano a dedicare più tempo allo stu­dio. Don Josemarìa aveva con loro attenzioni veramente paterne. Da una lettera del suo ex professore di Diritto romano, datata 27 giugno 1928, sappiamo che don Jo­semarìa non esitò nel ricorrere a lui affinché gli inviasse appunti e programmi da Saragozza, in quanto un grup­po di studenti sarebbe andato là a fare gli esami di Dirit­to romano, Storia del Diritto ed Economia politica. Il professor Pou de Foxà accettò l’incarico e gli scrisse:

«Caro José Maria, mi giunge la tua lettera del 21 (...). Quanto ai tuoi allievi, credo di poterli iscrivere qui per i tre esami da te indicati. Ti ho mandato tre copie degli appunti e del programma (...). Saluti affettuosi a tua mamma e ai tuoi fratelli»48.

Fra coloro che frequentavano le lezioni dell’Accade- mia c’era un uomo di una certa età, buon padre di fami­glia, che cercava di ottenere un titolo universitario per migliorare la propria situazione economica. Il lavoro che faceva ne consumava le energie in modo tale che fi­niva le giornate sfibrato, non più in grado di dedicare tempo alla famiglia e allo studio. Don Josemarìa sentiva per lui una particolare compassione, forse vedendo ri­flesse in lui le proprie difficoltà di Saragozza. E così, per un duplice sentimento di pietà e di fraternità, lo aiutò ad andare avanti dandogli delle lezioni straordinarie, senza riscuotere altro premio che la soddisfazione di ve­derlo laureato49.

Nell’Accademia c’era una buona intesa fra tutti, dal direttore al fattorino. Quest’ultimo si chiamava José Margallo e la sua parte nella presente storia è davvero minima. Di lui don Josemarìa conservò un bigliettino in

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cui gli faceva gli auguri di Pasqua, firmato «il fattorino dell’Accademia»50, forse inviato con la speranzella di una mancia, ma nel quale si manifestava la buona vo­lontà e lo sforzo calligrafico del ragazzo.

Il giovane sacerdote, che aveva sempre curato i buoni rapporti con tutti a fini apostolici, si dedicava sempre più alla corrispondenza epistolare e augurale. Alla vigi­lia del suo onomastico, il 18 marzo 1930, andò a fare gli auguri in anticipo al direttore dell’Accademia, poiché il giorno successivo era festivo. Don José Cicuéndez ri­cevette compiaciuto gli auguri, rendendosi conto solo pochi minuti dopo che anche don Josemaria celebrava il proprio onomastico nel giorno di S. Giuseppe. Ma il suo docente di Diritto romano era già uscito in strada, per cui, in tono di scusa e di pentimento, il direttore gli scrisse un breve biglietto:

«Mio stimato amico, ieri è venuto personalmente a far­mi gli auguri (...). Quando Lei era già per strada e io sta­vo parlando con Chacón, mi sono ricordato che c’era un altro José oltre a me e La chiamai due o tre volte, ma Lei non mi udì. Poiché risuonava ancora nelle mie orecchie il memento nel Santo Sacrificio della Messa del quale Lei mi ha fatto dono, non ho dimenticato di farlo a fa­vore Suo: “oremus prò invicem ut salvemini” . I miei più cordiali auguri (...). Madrid, 19 marzo 1930»51.

* *

L’anno 1927-1928 fu il primo anno in cui lavorò all’Ac­cademia. Il contratto di insegnamento gli fu rinnovato annualmente, con reciproca soddisfazione, forse fino al 193352. Don Josemaria faceva lezione nel turno del po­meriggio. Per il resto della giornata era immerso nei compiti propri del suo ministero e in altre occupazioni inerenti alla cappellania del Patronato. Persino nei brevi momenti liberi, prima e dopo le lezioni, faceva aposto­lato con gli studenti. Mariano Trueba lo descrive, sotto

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l’aspetto del vigore apostolico, come «uomo dinamico, di aspetto forte e con un buon colorito in viso. Molto diretto nel rapporto con gli altri e con il desiderio di en­trare nella vita di tutti»53.

All’uscita dall’Accademia alcuni studenti lo accompa­gnavano per un tratto sulla strada di casa, chiacchieran­do di molte cose. Un certo giorno uno gli obiettò che era impossibile continuare a credere finché c’erano dei sa­cerdoti che si prendevano gioco della religione condu­cendo una doppia vita e negando con la condotta ciò che predicavano in pubblico. Don Josemaria gli replicò, con un bel paragone, che il sacerdozio è come un pre­ziosissimo liquore, che può essere versato sia in una taz­zina di porcellana che in una di fango54.

Le disposizioni interiori di quel professore sacerdote erano così trasparenti per i suoi discepoli che, fatte salve le distanze proprie del rapporto con un docente, lo trat­tavano come amico e compagno. Li impressionava l’or­dine del suo aspetto e l’eleganza dei suoi modi. Fu gran­de quindi la sorpresa degli alunni il giorno in cui si presentò in classe con la veste talare tutta macchiatà di bianco. Doveva essergli capitato qualcosa di strano per­ché non avesse avuto il tempo di spazzolarla. Insistette­ro molto - dice Mariano Trueba - ed egli raccontò loro l’accaduto. Si trovava sulla piattaforma del tram quan­do notò che un muratore, con la tuta sporca di calce, gli si stava avvicinando con cattive intenzioni, che il sacer­dote intuì dallo sguardo. A quel punto, anticipandone il proposito, lo abbracciò strettamente mentre gli diceva in modo disarmante: “Vieni, figlio mio infarinati con me! Sei contento?”55.

«Fra me e me - racconta Mariano Trueba - pensai che don Josemaria aveva potuto farlo solo perché era un santo e lo dissi ai miei compagni»56.

Maggior stupore produsse in loro il commento di uno dei professori che insegnavano alPAccademia. A quanto pare, quel giovane sacerdote aragonese dal portamento

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distinto e dottorale, alternava la spiegazione del Codice e delle Pandette con le visite a poveri e malati nei rioni miserabili della città. La cosa non li convinse e la fecero oggetto di scommesse. Seguendolo di nascosto, andaro­no a finire all’estremo nord, al quartiere di Tetuàn de las Victorias; e un altro giorno nel sobborgo del paese di Vallecas, a sud57.

4. Il "Patronato de Enfermos”

Il “Patronato de Enfermos” , del quale don Josemarìa era primo cappellano - il secondo era don Norberto Ro- drìguez Garda - si trovava in via Santa Engracia al nu­mero 13. L’edificio era stato costruito con l’idea che fos­se la sede centrale della fondazione creata da Luz Rodrìguez Casanova. Nelle note del progetto erano rac­colti i princìpi ai quali si doveva ispirare la sua architet­tura: «Che sia una composizione semplice, ma ben fat­ta, senza lussi decorativi, ma solida e permanente, come deve essere la carità, che è l’idea principale che ispira questo edificio»58. Il risultato fu una costruzione solida e semplice, in cui l’edificato in mattoni si combinava con le parti in pietra e un’allegra e vistosa decorazione di piastrelle smaltate di Talavera.

Per davvero la colonna che sosteneva il “Patronato de Enfermos” era la carità. Da quel solido tronco parti­vano diversi rami, nei quali trovava posto una quantità di opere di beneficenza e di apostolato: “ Opera della Preservazione della Fede” , “ Opera della Sacra Fami­glia” , “Mense di Carità” , “ Società di Protezione” , “ Roperos di S. Giuseppe” , ecc.59. Iniziative che il gio­vane cappellano sintetizzava felicemente in unico con­cetto: “L’opera di Dona Luz sono le quattordici opere di misericordia”é0.

Nel “Patronato de Enfermos” , come in un quartier generale, si organizzava la lotta contro l’ignoranza e la

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miseria. Da lì si dirigevano scuole, mense, centri sani­tari, cappelle e catechesi, sparsi per tutta Madrid e nei quartieri di periferia. Al pian terreno di Santa Engracia c’era una mensa pubblica e, al primo piano, un’infer- meria con venti letti e servizi medici. Tutte le sale e le camere del Patronato davano su un grande cortile in­terno che confinava con una chiesa pubblica; in essa il cappellano era solito celebrare la Messa al mattino presto. La celebrava in modo «riflessivo e devoto, arri­vando a impiegarci anche tre quarti d’ora»61. (In se­guito, don Josemaria, per riguardo verso i fedeli, avrebbe cercato di non superare la mezz’ora, mettendo un orologio sull’altare).

Pedro Rocamora, uno studente di Legge che a volte gli serviva la Messa, racconta che quando celebrava «si verificava in lui una specie di trasfigurazione. Non sto esagerando - prosegue - . La liturgia per lui non era un atto formale, ma trascendente. Ogni parola aveva un profondo significato e una sottolineatura personale. Assaporava i concetti. Allora molti di noi non sapeva­no a memoria la Messa in latino. In questo modo io potevo seguire una per una le parole della liturgia. Jo­semaria sembrava distaccato dall’ambiente umano cir­costante e come legato da lacci invisibili con la divinità. Questo fenomeno giungeva al culmine al momento del Canone. Qualcosa di strano accadeva in quel momen­to, in cui sembrava che Josemaria stesse come distacca­to dalle circostanze in cui si trovava (chiesa, presbite­rio, altare) e che si affacciasse a misteriosi e remoti orizzonti celesti»62.

Ritornando in sacrestia, quando cessava la tensione con cui avevano seguito la Messa, agli accoliti spunta­vano le lacrime.

Fra gli accoliti ci fu un seminarista, Emilio Caramaza- na, che durante le vacanze del mese di agosto degli anni1927, 1928 e 1929 gli servì la Messa. Il cappellano lo colpiva per «la maniera squisita» con cui viveva la litur-

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già. Lo si vedeva - dice - «molto concentrato, come as­sorto, soprattutto al Canone»; ma, nonostante fosse im­merso nella Messa, «pregava molto bene, si capiva il suo latino fin dall’ultimo angolo della cappella, che era abbastanza grande»63.

La pietà del cappellano manteneva svegli e attenti tut­ti i presenti. José Maria Gonzàlez Barredo, un giovane studente che abitava con i suoi genitori vicino al Patro­nato, riferisce che il cappellano, per la sua figura giova­nile e la sua contagiosa allegria, era conosciuto in casa come “il sacerdote giovincello” , dato che non ne sape­vano il nome64.

Nei giorni lavorativi frequentavano la cappella i fede­li del vicinato e alcuni poveri e malati che risiedevano nel Patronato. Ma nei giorni di precetto e nei fine setti­mana la chiesa era stipata. Perciò, per accogliere tutti, si spostava il tramezzo che separava il refettorio dalla cap­pella, in modo che si potesse seguire la Messa dal refet­torio. La gente ascoltava con piacere le omelie, semplici e ben preparate. Don Josemaria, riferisce Maria Vicenta Reyero, una delle Dame Apostoliche, «era un predicato­re e un catechista serio e rigoroso»65.

Dopo la Messa spiegava il catechismo della dottrina cristiana e conversava con vecchi e bambini, «sempre disposto ad ascoltarli e a risolvere i loro dubbi e le loro difficoltà. Il cappellano si era imposto l’abitudine di passare per il refettorio, per conoscere sempre meglio la gente, i loro problemi e «le cose che c’erano dentro cia­scuno. Era un amico e un santo sacerdote», afferma Asunción Munoz, un’altra delle Dame66.

Nei fine settimana si svolgevano nel Patronato ogni genere di attività. Per il cappellano l’impegno pastorale cominciava di primo mattino nel confessionale. Ogni sabato venivano a Santa Engracia i malati poveri dei quartieri più vicini, per lo meno quelli i cui acciacchi non impedivano di arrivare fino al Patronato, dove rice­vevano cure materiali e spirituali, in ambulatorio e in

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cappella. Le domeniche poi era il turno dei bambini e delle bambine delle scuole che le Dame Apostoliche ave­vano nei diversi quartieri. Confluivano tutti a Santa En- gracia e don Josemarìa li confessava. Il numero di per­sone che vi giungevano era talmente elevato che un’aiutante delle Dame ricorda che una sua cugina, che si chiamava Pilar Santos, «davanti alla quantità di ma­lati di cui si aveva cura, di bambini che si confessavano o che facevano la prima Comunione, diceva: “Qui nel Patronato si fa tutto a tonnellate” »67.

E non si tratta di un’espressione esagerata. Nell’anno1928, per esempio, nel Patronato ci si prese cura di 4.251 malati; si confessarono 3.168 persone; fu ammi­nistrata l’Estrema Unzione a 483 moribondi; furono ce­lebrati 1.251 matrimoni; e furono conferiti 147 battesi­mi68. Le statistiche parlano da sole, senza contare poi che il preparare al matrimonio religioso persone da lun­ghi anni in situazione irregolare, o l’ottenere che perso­ne lontane dalla Chiesa si decidessero a confessarsi, ri­chiedeva più di una visita di persuasione e di un cristiano tira e molla, particolari non riportati dai bol­lettini statistici.

Il cappellano andò man mano occupandosi, volonta­riamente, delle opere di misericordia del Patronato. In primo luogo le attività di formazione dottrinale, come 1’” Opera della Sacra Famiglia” , che si tenevano in via Santa Engracia69. A poco a poco, finì con l’occuparsi anche delle attività esterne. Fra queste ce n’era una che le Dame tenevano in predilezione. Si trattava dell’”Ope­ra di Preservazione della Fede in Spagna” : «opera diffi­cile, ingrata, molto dispendiosa e, di conseguenza, di grande impegno»70. Era, in effetti, un apostolato di rot­tura, che si svolgeva nelle strade dei quartieri di perife­ria e che si opponeva frontalmente all’organizzata pro­paganda anticattolica di cui era fatta oggetto la cintura proletaria di Madrid. Nello spazio di un mattino sorge­vano dei baracconi che servivano da scuole laiche o an-

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i!

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ticattoliche. Le Dame accettavano la sfida e aprivano scuole nei dintorni, emulando le sette per impedir loro di impadronirsi dell’anima innocente dei bambini.

Nel 1928 le Dame disponevano a Madrid di 58 scuo­le con un totale di 14.000 bambini. (Tali cifre erano parzialmente frutto dell’emulazione apostolica di fronte all’aumento delle scuole anticattoliche). Di conseguenza ai servizi del cappellano, senza che formasse parte delle sue strette competenze, si venne a sommare il compito di preparare ogni anno 4.000 bambini alla prima Co­munione. La catechesi eucaristica consisteva nel dare lo­ro alcune lezioni e nel parlare con ciascuno di loro per accertarne il grado di comprensione e le disposizioni, dopo aver loro spiegato a fondo, in tre giorni, quanto concerneva la ricezione del Sacramento71.

Naturalmente, don Josemaria non si recava alle 58 scuole, una per una. Coloro che non stavano troppo lontano dal Patronato, come s’è detto, andavano in via Santa Engracia per la Messa, le confessioni e la cate­chesi. Ma sparse per Madrid, nei quartieri più esterni, c’erano altre sei piccole chiese o cappelle che dipende­vano dalle Dame Apostoliche72. Disgraziatamente non avevano un sacerdote fisso. Si cercava e non si trovava altra soluzione che la buona disponibilità del cappella­no. «Era molto buono - riferisce una delle ausiliarie delle religiose -, era sempre disponibile per tutto, non faceva mai difficoltà»73. E don Josemaria non dimen­ticò mai il tempo impiegato nelle confessioni di quei bambini poveri:

“Ore e ore da ogni parte, tutti i giorni, a piedi da una parte all’altra, fra poveri che si vergognavano e poveri miserabili, che non avevano nulla di nulla; fra bambini con il moccio fino in bocca, sporchi, ma bambini e cioè anime gradite a Dio. Che indignazione sente la mia ani­ma di sacerdote quando dicono ora che i bambini non si devono confessare finché sono piccoli! Non è vero! De­

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vono fare la loro confessione personale, auricolare e se­greta, come gli altri. E che bello, che gioia! Furono mol­te le ore in quel lavoro e mi dispiace che non siano state di più”74.

Come indica il suo nome, il “Patronato de Enfermos” era un centro assistenziale per persone povere, che si re­cavano in via Santa Engracia per essere operate nella cli­nica o per entrare nell’infermeria. Le Dame e le loro au- siliarie inoltre percorrevano le strade di Madrid facendo visita a malati e moribondi e alleviando la miseria spiri­tuale di persone che mancavano della più elementare istruzione religiosa.

Per collocare nella dovuta prospettiva lo zelo aposto­lico del giovane cappellano del Patronato è necessario sommare alle già citate attività anche il lavoro delle visi­te a domicilio. Casi in cui l’aiuto del sacerdote era im­prescindibile, perché bisognava confessare, celebrare matrimoni o preparare a ben morire: il tutto in fretta e nel poco tempo disponibile. Al di fuori delle urgenze, che erano frequenti, don Josemaria aveva delle date fis­se per il turno di visite. La vigilia del primo venerdì del mese andava a confessare e il giorno successivo portava la Comunione a questi malati. Nelle altre settimane fa­ceva un percorso eucaristico il giovedì, in un’automobi­le prestata a Donna Luz Casanova; negli altri giorni an­dava in tram o a piedi75. Molti ammalati vivevano in luoghi lontani o difficili da raggiungere. Ma le distanze non furono mai un problema per don Josemaria, il qua­le, senza farsi pregare, si trasferiva dall’uno all’altro dei quattro punti cardinali della capitale. Egli, riferisce Jo- sefina Santos, «portava la Comunione indifferentemen­te a malati che vivevano a Tetuàn de las Victorias, o nel­le vicinanze del Paseo de Extremadura, o a Magìn Calvo, o a Vallecas, Lavapiés, San Millàn, o nel quartie­re del Lucero o alla Ribera del Manzanares»76.

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Normalmente il cappellano non si concedeva un mo­mento di ozio. Tutte le sue ore erano sovraccariche di compiti assillanti. Prima o dopo le lezioni all’Accademia passava a trovare qualche malato. Asunción Munoz, la Dama incaricata delle urgenze o dei casi difficili, ricor­da: «Molte volte bisognava legalizzare la loro situazio­ne, sposarli, risolvere problemi sociali e morali urgenti. Aiutarli sotto molti aspetti. Don Josemaria si occupava di tutto, a qualsiasi ora, con costanza, con dedizione, senza la minima fretta, come chi sta adempiendo alla propria vocazione, al suo sacro ministero di amore. Con don Josemaria avevamo l’assistenza assicurata in ogni momento. Amministrava i sacramenti e non dovevamo dar fastidio alle parrocchie a ore inopportune»77.

Grazie alla disponibilità del cappellano era naturale che gli piovessero incarichi. Li riceveva sorridente; li adempiva «con piacere, di buon grado, allegramente, prontamente, senza mai opporre difficoltà». Il fatto è che «i malati per lui erano un tesoro: li portava nel cuore»78.

Una volta una delle Dame Apostoliche si era informa­ta su un ammalato. Era un moribondo, noto come un arrabbiato anticlericale. La religiosa ricorse a don Jose­maria; forse il cappellano avrebbe potuto fare qualcosa, nonostante il malato fosse già entrato in coma.

“Me ne stavo andando verso la casa di quel poveruo­mo” - riferisce il cappellano - “e, giunto nella via (Car­dinal Cisneros), mi sono ricordato che, mentre mi stava­no dando l’appunto concernente il malato, avevo protestato dicendo: è sciocco pensare che riesca a fare qualcosa. Se sta delirando, può mai capitare di trovarlo in condizione di confessarsi? In ogni modo, andrò e lo assolverò sub condicione”.

Avendo “l’abitudine di pregare la Vergine Maria nel­l’andare a far visita agli ammalati” , recitò un memora­

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re, chiedendo che il moribondo potesse essere assolto presente a se stesso e non sub condicione. Giunto nella casa, i vicini lo avvertirono che non avrebbe potuto fare nulla: poco prima era venuto un sacerdote della parroc­chia, che se n’era andato senza poterlo confessare per­ché il malato non aveva ripreso conoscenza. Non si sco­raggiò. Chiamò per nome il vecchio moribondo:

Pepe!Mi rispose subito, del tutto presente a se stesso.- Vuole confessarsi?- Sì, mi disse.Feci uscire tutti. Si confessò, con molto aiuto da parte mia, com’è naturale. E ricevette l’assoluzione”79.

«Gli volevamo molto bene e ci trovavamo bene con lui - dice Margarita Alvarado parlando di don Jose­marìa - perché risolveva sempre i problemi». Se si pre­sentava un caso difficile, se un malato in pericolo di morte si rifiutava di ricevere i sacramenti, se ne affidava il compito al cappellano, con la certezza che «avrebbe avuto ragione della sua ostinazione e gli avrebbe aperto le porte del cielo»80.

Uno di questi casi fu quello di un malato gravissimo, del quale le religiose del Patronato gli parlarono rattri­state, perché si rifiutava di accogliere il sacerdote. Don Josemarìa prese nota di quanto accadde con quel mori­bondo, ostinato peccatore:

“Arrivai a casa del malato. Con la mia “santa e aposto­lica” facciatosta, ho spedito fuori la moglie e sono rima­sto da solo con il poveretto. “Padre, quelle signore del Patronato sono delle seccatrici, impertinenti. Soprattut­to una di loro”... (si riferiva a Pilar, che è una santa ca­nonizzarle!). Ha ragione, gli ho detto. E mi sono zittito, perché continuasse a parlare lui. “Mi ha detto di confes­sarmi... perché sto per morire: morirò, ma non mi con­fesso!” . Allora io: finora non le ho parlato di confessio­

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ne, ma, mi dica: perché non si vuol confessare? “A di­ciassette anni ho fatto giuramento di non confessarmi e l’ho mantenuto”. Così disse. E mi disse pure che nean­che quando si era sposato - aveva circa cinquant’anni - si era confessato... Meno di un quarto d’ora dopo aver­mi detto queste cose, si confessava piangendo”81.

Fra le centinaia di malati che dovette assistere negli anni della sua cappellania al Patronato non venne mai meno al sacerdote, attraverso il suo ministero, l’efficacia infallibile della grazia. «Non ricordo un solo caso - assi­cura Asunción Munoz - in cui abbiamo fallito nel no­stro intento»82. Un’affermazione così assoluta, così esente da eccezioni, non è facilmente credibile. Però il cappellano non la mitiga, la dà per buona e vera assicu­rando che nelle sue visite ai malati all’epoca del Patro­nato, “per grazia di Dio sono sempre riuscito a confes­sare tutti prima che morissero” 83.

Normalmente si dava al cappellano un foglietto con la data, il nome e l’indirizzo dei malati. Come si può ve­dere dai fogli che sono stati conservati il sacerdote, che aveva sempre poco tempo a disposizione, studiava l’e­lenco e lo riordinava, stabilendo i percorsi più efficaci e utili. Gli elenchi, che di solito comprendevano cinque o sei nominativi, comportavano camminate di vari chilo­metri attraverso luoghi inospitali, sguazzando nel fango d’inverno e riempiendosi di polvere d’estate, calpestan­do sporcizia e mucchi di spazzatura. Molti di questi per­corsi iniziavano nel centro della capitale e si perdevano nei sobborghi, tra schiere ineguali e disordinate di tugu­ri. Ci sono dei fogli in cui compare l’indirizzo del mala­to, ma senza il nome. In alcuni casi l’indirizzo non è completo. In altri, sembra che sia stato organizzato di proposito un percorso adatto ai salti irregolari di un ca­vallo sulla scacchiera delle strade madrilene.

Alcuni elenchi hanno dell’incredibile. Quello del 17 marzo 1928, dedicato alla confessione dei malati, elenca

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13 nomi. Le distanze sono spaventose. Gli indirizzi van­no dal centro di Madrid (rione degli Ambasciatori) fino al rione di Delicias a sud, passando poi per la Ribera de Curtidores e ritornando in via Franco Rodriguez, nel rione Tetuàn de las Victorias, a nord di Madrid. Non erano rari i percorsi che superavano i dieci chilometri.

In altri casi, come per esempio quello del foglietto del 4 luglio 1928, non compare il nome del malato n. 6, ma solo dove lo si potrà trovare: «Zarzal 10, strada di Cha- martìn, poco prima di arrivare, sulla destra, dove c’è un deposito di benzina». Il sacerdote ebbe forse delle diffi­coltà nel seguire le indicazioni, perché aggiunge di suo pugno: “Prima c’è una pescheria” . È probabile che con­servasse i foglietti per fare ulteriori visite, viste le succes­sive annotazioni o cancellazioni di nomi e indirizzi84.

Il giovane cappellano, sempre disposto a farsi una camminata per assistere un ammalato, andava a piedi o in tram fino ai sobborghi della capitale e spesso attra­versava da un capo all’altro la città alla ricerca di anime deturpate o moribonde. Con l’uso, le suole delle sue scarpe si consumavano molto in fretta. Ma la sua gioia aumentava di pari passo al lavoro pastorale.

Alla grazia di Dio, che gli veniva data con abbondan­za, don Josemarìa univa molta abilità. Come osserva Maria Vicenta Reyero, tutti restavano contenti «e i ma­lati che visitavamo a domicilio chiedevano che ritornas­se lui a confessarli, e non altri»85. Quando c’erano com­plicazioni, alle Dame rimaneva sempre il ricorso al cappellano, come si accenna in un foglietto del 24 feb­braio 1928: «Ha dei grossi pasticci, desidera confessar­si, sarebbe bene che andasse don José M aria»86.

A volte lo sorprendevano all’improvviso, in strada, dei casi in extremis non programmati sull’elenco. Così accadde, per esempio, un giorno che passava nelle vici­nanze del parco del Retiro, non lontano dal giardino zoologico. Un guardiano dello zoo, straziato a unghiate e a morsi dagli orsi, fu trasportato precipitosamente in

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un Pronto Soccorso. Il cappellano riuscì a entrare dietro al ferito il quale, a segni, gli fece capire di volersi confes­sare. Gli diede l’assoluzione seduta stante87.

Gli anni della sua cappellania nel “Patronato de En- fermos” furono anni di lavoro snervante, ai limiti della resistenza fisica e della capacità di resistenza del suo sto­maco, perché molte volte l’unica cosa che poteva dare ai mendicanti che gli chiedevano l’elemosina era il panino della colazione88. Alla fine della giornata, quando le Da­me passavano per la cappella, vedevano il cappellano con la testa fra le mani, in ginocchio e appoggiato all’al­tare, che pregava accanto al tabernacolo, per ore89.

Fra le note del “Patronato de Enfermos” che don Jo­semaria ha conservato c’è un foglio scritto a caratteri grandi e tratti decisi - la sua inconfondibile scrittura - che dice: “Fac, ut siti”90. In quei mesi degli anni 1927 e 1928 quel giovane sacerdote continuava a implorare per un ideale divino che presentiva nei suoi presagi sopran­naturali, frammisti a locuzioni interiori, che annuncia­vano l’imminenza di ciò che tanto anelava91. Con vive aspirazioni di apostolato e con l’anima ardente, cantava ad alta voce:

“Quando avevo dei presagi che il Signore voleva qualco­sa e non sapevo che cosa, dicevo gridando, cantando (era tutto ciò che potevo fare!), alcune parole che sicura­mente, pur se mai le avrete pronunciate con la bocca, al­meno le avrete assaporate con il cuore: “Ignem veni mit- tere in terram et quid volo nisi ut accendatur?” ; sono venuto a mettere a fuoco la terra e che altro voglio se non che arda? E la risposta: “ Ecce ego quia vocasti m e!” , eccomi, perché mi hai chiamato”92.

L’appartamento di via Ferdinando il Cattolico risuo­nava dei canti. E il fratellino Santiago, che lo sentiva e non voleva essere da meno, ripeteva la canzone, stor­piando e distruggendo il latino93.

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Queste parole del Signore, riferite da S. Luca, occupa­rono molte ore della meditazione del giovane sacerdote e furono, senza alcun dubbio, oggetto di una speciale tensione delPanima, per il tono con cui descriveva la commozione interiore che provava. Con il fuoco viene rappresentato nella Sacra Scrittura l’amore ardente di Dio, sceso dal cielo sulla terra per infiammare gli uomi­ni. Di questo amore divino era acceso il cuore sacerdo­tale di don Josemaria; e con tale foga che le parole gli sfuggivano con impazienza, intonando un cantico d’a­more, senza che potesse reprimerle.

Data la sua ansia e l’insistenza nel ripetere il grido del Signore, si deve dare per certo che tutto il suo essere vi­brasse a queste parole e si identificasse pienamente con il desiderio divino di offrire il suo Amore a tutto il mon­do, a tutte le genti. Perché, come ci viene detto nella pa­rabola del banchetto del gran re, tutti gli uomini sono invitati alla festa. Dal significato di questo grido don Jo­semaria trasse molte iniziative, ispirate dal Signore, per adempiere il fervente desiderio di incendiare ilJ mondo intero. Nel suo zelo apostolico vedeva la Redenzione come una meravigliosa avventura divina che si sta con­sumando nella storia e che esige da parte nostra una de­dizione radicale: farci una cosa sola con Cristo, avere i suoi stessi sentimenti nei confronti di tutta l’umanità e afferrarci alla Croce redentrice.

Di queste ispirazioni don Josemaria prendeva nota scrivendole su foglietti sparsi e da ciascuna di esse trae­va dei suggerimenti pratici o un orientamento apostoli­co, che poi trasferiva su un quaderno di appunti. Guar­dandosi attorno, egli non aveva bisogno della sua grande esperienza pastorale per notare nelle anime la mancanza di unità di propositi. Considerava con pena che le credenze dei cristiani nell’agire pratico erano sle­gate dalla loro vita privata, familiare e sociale. Da nes­suna parte veniva offerta ai fedeli la possibilità di di­spiegare una vita pienamente cristiana in tutte le sue

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manifestazioni. Quanto a mettere il fuoco di Cristo al­l’interno della società, ci si trovava ancora in un terre­no incolto. Purtroppo il processo storico seguiva la strada inversa. Da ogni parte si cercava di sloggiare Dio dalla società, relegandolo nelle chiese o in un ango­lo delle coscienze:

“L’apostolato veniva concepito come un’azione diversa e distinta dalle azioni normali della vita comune: meto­di, organizzazioni, propagande che si incrostavano sugli obblighi familiari e professionali del cristiano - a volte impedendogli di compierli con perfezione - e che costi­tuivano un mondo a parte, senza fondersi né interagire con il resto della sua esistenza”94.

Esisteva un procedimento per avviare le anime verso Dio e far loro accettare l’invito universale all’Amore? Era possibile cristianizzare la società e rimuovere il mondo con l’apostolato? Fluivano nella sua mente le ispirazioni come frecce lanciate nell’oscurità contro un bersaglio invisibile; grazie alPinsieme di illuminazioni di cui il Signore faceva dono a quel giovane sacerdote, la risposta a molti dei problemi esaminati era già scritta nei suoi appunti. Don Josemarìa sapeva che le soluzioni che trovava a quegli interrogativi non provenivano dalla sua mente o dalle sue riflessioni, ma da fonte divina.

Sbalordito dalle luci che riceveva, la sua anima e dai panorami apostolici che si estendevano davanti ai suoi occhi, rispondeva prontamente al Signore: “Eccomi, perché mi hai chiamato” . Lo stava facendo già dal 1918, ma ora questo “ecce ego quia vocasti me\” aveva una speciale risonanza. Era un modo nuovo di dire al Signore che si trovava a sua completa disposizione e che stava aspettando qualcosa, ormai imminente, che indo­vinava essere un disegno amoroso di Dio nei confronti di tutta l’umanità. In qualche modo egli presentiva di esserne parte; ma senza poter immaginare in che cosa

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consistesse la sua partecipazione. Lo avrebbe raccontato in seguito:

“Intravedevo una nuova fondazione - benché prima del 2 ottobre io non sapessi che cosa fosse - che apparente­mente non avrebbe avuto un fine ben determinato”95.

5. Il 2 ottobre 1928

Il rione di Chamberi, nel quale si trovava il Patronato, era il prolungamento verso nord del vecchio centro di Madrid. Zona di espansione, nella quale predominava­no case della classe media di quattro o cinque piani ed estese aree non edificate fra conventi, palazzetti e uffici amministrativi. Abbondavano anche gli edifici di matto­ni, costruzioni di fine secolo, che presentavano una mi­scellanea di stili e ornamenti mudejar con decorazioni geometriche gotiche.

L’appartamento degli Escrivà, a una certa distanza dal Patronato, era in accordo con la situazione economica della famiglia, che dipendeva interamente dalle entrate di don Josemaria. Non è necessario dire che erano nelle ristrettezze, anche se non sappiamo fino a qual punto. Una delle Dame Apostoliche azzarda un’osservazione assai prudente, dicendo che l’economia degli Escrivà «non doveva essere particolarmente buona, poiché vive­vano semplicemente»96. Anche sul lato della docenza non si conoscono le entrate di don Josemaria. Un dato isolato, relativo all’estate del 1928, ci dà un’idea della preoccupante situazione della famiglia. Il 31 agosto don Josemaria si iscrisse a tre esami del dottorato in Legge, dovendo così versare di colpo 150 pesetas97. Si trattava di una somma troppo rispettabile per permettersi di non presentarsi poi all’esame di Storia della Letteratura giu­ridica, che era uria delle materie. Gli altri due esami li superò in modo soddisfacente il 15 settembre.

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Se al cappellano mancava il tempo per studiare e il denaro per pagare le tasse d’esame, com’è che potè sborsare le 150 pesetasì La verità è che non uscirono dalla sua tasca; il pagamento della somma fu un atto di generosità da parte di don José Cicuéndez, che sapeva che il suo docente di Diritto canonico e romano non aveva un soldo98.

Finita la sessione straordinaria d’esami di settembre, all’università e nelle accademie si fruiva di un paio di settimane di riposo prima d’iniziare il nuovo anno. Don Josemaria, che era solito fare tutti gli anni gli esercizi spirituali di sette giorni, approfittò della pausa accade­mica. Il secondo cappellano del Patronato lo supplì nel­le sue funzioni ed egli sistemò le cose per partecipare a un corso di esercizi per sacerdoti diocesani". La Casa Centrale dei Lazzaristi, dove si sarebbero tenuti, si tro­vava vicino al Patronato. Era un ampio edificio di mat­toni di quattro piani costruito intorno a un cortile e giardino interno, con camere semplici e austere che da­vano su lunghi corridoi. Addossata alla costruzione, al­l’entrata di via Garda de Paredes, si trovava la chiesa diS. Vincenzo de’ Paoli, oggi Basilica della Milagrosa, ter­minata nel 1904. Dietro si trovava «un ampio terreno coltivato, fertilissimo, dalle svariate gradazioni di verde e lussureggiante, con diversi riquadri tagliati da sentieri e vialetti, coperti di frondosi alberi, alcuni da frutta, al­tri da ombra»100. Con lo scorrere degli anni quegli enor­mi spazi aperti di orti e giardini, che si estendevano fino a Cuatro Caminos alternati a grandi aree libere e zone edificate, sono stati progressivamente inghiottiti dall’e­spansione della città.

Gli esercizi iniziavano domenica 30 settembre e dura­vano fino al 6 ottobre. La domenica pomeriggio si pre­sentò don Josemaria, provvisto dei suoi effetti personali e di un bel po’ di carte e di foglietti. In questi fogli, come abbiamo detto, aveva raccolto, fra altre cose, le grazie straordinarie che il Signore gli aveva dispensato per die­

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ci anni, principalmente sotto forma di ispirazioni e illu­minazioni101.

In seguito spiegò con semplicità l’origine e il contenu­to di quelle carte, che vennero a far parte dei cosiddetti Apuntes intimos (Appunti intimi) che egli chiamava Ga- talinas (Caterine): “Non so se da qualche parte ho indi­cato l’origine di queste note, le “Caterine” . Se non ho detto nulla, attesto che, senza alcun dubbio, avevo circa diciott’anni, o forse prima, quando mi sentii spinto a scrivere, senza alcun ordine prestabilito... Ora ricordo che di ciò se ne parla nelle schede iniziali. Questo è suf­ficiente” 102.

Ma con queste dichiarazioni suscita curiosità e la­scia insoddisfatti, perché queste “ schede iniziali” non esistono più. La loro storia fu breve. Le ricopiò sul primo quaderno dei suoi Appunti e in seguito gettò il quaderno nel fuoco. Nelle sue pagine si trovavano molti eventi di carattere soprannaturale e poiché egli pensava, logicamente, che se qualcuno le avesse lettelo avrebbe preso per un santo, decise di distrugger­le103. In effetti le annotazioni rivelavano, al di sopra di ogni altra considerazione, quanto fosse davvero straordinaria la sua vita. La fedeltà di don Josemarìa ai presentimenti dell’Amore era eroica, dopo dieci an­ni di abnegata fedeltà alla grazia. La sua fede, certa­mente, era gigante. La sua speranza, irremovibile. E il suo amore traboccava nelle opere. Ma quel giovane sacerdote, dimenticando l’attesa e i dispiaceri, si rite­neva ben ripagato con le grazie ricevute. Solo lui sape­va fino a che punto fosse debitore.

A questo punto il Signore, che lo stava preparando fin dal giorno della nascita per mettere nelle sue mani un incarico divino capace di smuovere il corso della storia, giudicò ormai maturo il suo eletto. Don Jose­marìa aveva solo ventisei anni e aveva camminato in modo ammirevole al passo di Dio, senza riserve né re­more. E il Signore, sempre geloso delle anime predilet­

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te, non volle farsi vincere quanto a generosità. Oltre a dargli presagi d’amore, lo andò colmando di grazie. Il giovane sacerdote era consapevole dell’occulto dono dei favori straordinari che riceveva, anche se non di tutti; della serenità e del buonumore che spargeva in­torno a sé; delle proprie doti come consigliere e guida delle anime. Notava la mano di Dio nella fortezza di fronte alle avversità, nell’efficacia apostolica delle pro­prie parole, nella docilità con cui si modellavano al ca­lore del suo ministero sacerdotale i poveri e i malati del Patronato, i bambini o gli universitari. Sembrava che gli ostacoli si appianassero al suo passaggio e lo condu­cessero su una rotta che lo avvicinava a un volere divi­no lungamente sognato e presagito.

Finalmente, il suo incessante clamore - “Domine, ut videam\ Domine, ut siti ” - aveva raggiunto la vetta dal­la quale avrebbe potuto scorgere un progetto divino che non proveniva da ieri, né da dieci anni prima, ma dall’e­ternità dell’Amore di Dio. Ora il cuore di quel giovane sacerdote era come la gemma di un fiore sul punto di esplodere.

si- * *

Agli esercizi partecipavano sei sacerdoti. Si alzavano al­le cinque del mattino e si ritiravano alle nove di sera. In mezzo: esami di coscienza, Messa, prediche da ascolta­re, ufficio divino...104.

Il martedì mattina, 2 ottobre, festa degli Angeli Cu­stodi, dopo aver celebrato la Messa, don Josemaria si trovava in camera sua a leggere le note che aveva porta­to con sé. All’improvviso gli sopraggiunse una grazia straordinaria, con la quale comprese che il Signore dava risposta alle sue insistenti petizioni, al suo “Domine, ut videaml” e al “Domine, ut siti” .

Serbò sempre un comprensibile riserbo su questo me­raviglioso evento e sulle circostanze personali105. Esatta­

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mente tre anni dopo avrebbe descritto così la sostanza di quanto accaduto:

“Ricevetti l’illuminazione su tutta l’Opera, mentre legge­vo quelle carte. Commosso, mi inginocchiai - ero solo nella mia camera, fra una meditazione e l’altra -, resi gra­zie al Signore, e ricordo con emozione il suono delle cam­pane della parrocchia di Nostra Signora degli Angeli”106.

Sotto la luce potente e ineffabile della grazia gli fu mo­strata l’Opera nel suo insieme; «vidi», è questa la parola che usava sempre quando parlava di quanto accaduto. L’inattesa visione soprannaturale assorbiva in sé tutte le parziali ispirazioni e illuminazioni del passato, distribui­te sui foglietti che stava leggendo, e le proiettava verso il futuro, con una nuova pienezza di significato107.

Furono istanti di indescrivibile grandiosità. Davanti ai suoi occhi, dentro l’anima, quel sacerdote in preghie­ra vide disegnato il panorama storico della redenzione umana, illuminato dall’Amore di Dio. In quel momento, in modo inesprimibile, colse il contenuto divino dell’ec­celsa vocazione del cristiano che viene chiamato, in mezzo alle proprie occupazioni terrene, alla santifica­zione della propria persona e del proprio lavoro. Con quella luce vide l’essenza dell’Opera - strumento ancora senza nome - destinata a promuovere il disegno divinò della chiamata universale alla santità e vide come dal­l’interno dell’Opera - strumento della Chiesa di Dio - irradiavano i princìpi teologici e lo spirito soprannatu­rale che avrebbero rinnovato il mondo. Con immenso stupore comprese, nell’intimo della sua anima, che tale illuminazione era non solo la risposta alle sue petizioni, ma anche l’invito ad accettare un incarico divino.

Subito, dopo la torrenziale effusione della grazia, il sacerdote fu invaso da quel sentimento di singolare agi­tazione che provano le anime davanti alla sovrana pre­senza del Signore. Ma quando nella coscienza della

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creatura si scatenano timore e paura, allora l’anima ode un confortante «non temere!»:

“Sono parole divine di incoraggiamento” - questo testo del Fondatore ha carattere autobiografico “Nel Vec­chio e nel Nuovo Testamento, Dio e gli esseri celesti le pronunciano per innalzare la miseria dell’uomo e di­sporlo a un colloquio di illuminazione e di amore, alla fiducia in cose apparentemente impossibili o difficili, al­le quali non arriva la forza della creatura” .“Vi posso assicurare, figli miei, che queste anime non ambiscono né desiderano le manifestazioni di questa or­dinaria provvidenza straordinaria di Dio e che hanno una profonda consapevolezza di non meritarle: vi torno a ripetere che il loro sentimento di fronte ad esse è di ti­more, di paura. Ma poi l’incoraggiamento del Signore - ne timeasl - comunica loro una sicurezza irremovibile, le incendia con impeti di fedeltà e di dedizione; dà loro luci chiare per compiere la sua amabilissima Volontà; e le infiamma perché si lancino a traguardi inaccessibili per le capacità umane”108.

Disponibile ormai a “un colloquio di illuminazione e di amore” , si effuse nella gratitudine, mentre dal profondo del suo essere prorompeva con ritmo impa­ziente il Domine, ut siti Ora, davanti a un panorama di completa chiarezza, oltre i presagi e i presentimenti, quell’anima si arrendeva con gioia alla vocazione fonda- zionale per portare a termine il disegno divino109.

Nella stanza del sacerdote raccolto in preghiera giun­geva lo scampanio festoso della chiesa di Nostra Signora degli Angeli, nel vicino rione di Cuatro Caminos. Quello scampanio rimase per sempre impresso nella sua memo­ria: “Risuonano ancora nelle mie orecchie” - diceva nel 1964 - “le campane della chiesa di Nostra Signora degli Angeli, che festeggiavano la loro Patrona”110.

ij-

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Per quel giovane sacerdote la data del 2 ottobre 1928 aveva ormai un ben preciso significato. Era la data della fondazione dell’Opus Dei. Per questo esiste in tutti i suoi resoconti una grande vigilanza di stile per evitare ambiguità di interpretazione; isolava appositamente l’e­vento soprannaturale dalle altre circostanze personali:

“E giunse il 2 ottobre 1928. Stavo facendo alcuni giorni di ritiro, perché dovevo farli, e fu allora che venne al mondo l’Opus Dei”111.

Quel fatto storico fu un avvenimento imprevisto e inatteso. Non fu affatto il concepimento di un’impresa umana, ma il risultato di una irruzione divina nella sto­ria dell’umanità. “L’Opera irruppe nel mondo quel 2 ot­tobre 1928” , dirà il Fondatore, esprimendosi in modo impersonale, in una sua meditazione112.

Doveva restare ben chiara l’origine. Don Josemaria ebbe sempre la ferma consapevolezza che il protagoni­sta di quell’evento, l’autore principale, colui che domi­nava la situazione con la sua maestà e aveva preso l’ini­ziativa irrompendo imperiosamente nell’anima del suo servo, era il Signore. “ Quel giorno” - diceva - “ il Signo­re fondò la sua Opera, suscitò l’Opus Dei” 113.

Quindi, collocando se stesso in secondo piano, evitò l’uso della parola “fondatore” . Si attribuì sempre un ruolo secondario, quello di ricettore dell’illuminazione divina, persona gratuitamente scelta dal Signore per giocare con lui, come un padre gioca con il suo bambi­no piccolo:

“Ancora una volta si è compiuto ciò che dice la Scrittu­ra: ciò che è inetto, ciò che non vale nulla, ciò che - si potrebbe dire - quasi neppure esiste..., tutto questo il Si­gnore prende e mette al proprio servizio. Così prese quella creatura, come proprio strumento”114.

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E ancor più esplicitamente scrisse nel 1934:

“L’Opera di Dio non l’ha immaginata un uomo (...). Da molti anni il Signore l’ispirava a uno strumento inetto e sordo, che la vide per la prima volta il giorno dei Santi Angeli Custodi, il due ottobre millenovecen- toventotto”115.

Quella illuminazione costituì, per sempre, il suo uni­co punto di riferimento storico quanto all’origine del­l’Opera, considerando quel 2 ottobre come la data di un invito, e della risposta da parte sua alla chiamata fondazionale116.

“È ragionevole” - diceva un 2 ottobre - “che vi rivolga alcune parole nella giornata odierna, in cui inizio un nuovo anno della mia vocazione all’Opus Dei. So che voi ve le aspettate, anche se vi devo dire, figli dell’anima mia, che provo una grande difficoltà, quasi un grande imbarazzo a mostrarmi in questo giorno. Non è una lo­gica modestia. È la costante convinzione, la chiarezza meridiana della mia personale indegnità. Mai mi era passato per la testa, prima di quel momento, che avrei dovuto compiere una missione fra gli uomini”117.

*5* >!•

La data del 2 ottobre era la pietra miliare che indicava con esattezza il momento storico in cui la mente del Fondatore era stata illuminata da “un’idea chiara gene­rale” della sua missione118. La cosa sorprendente è che a quel fatto soprannaturale se ne aggiunge un altro gran­demente significativo: le ispirazioni, che aveva ricevuto con una certa regolarità, cessarono improvvisamente. A partire dal 2 ottobre 1928 smisero di fluire, come se si fosse seccata la vena della sorgente. “Sono terminate le prime ispirazioni”, scriveva poi nei suoi Appunti. E il si­lenzio divino si prolungò fino al mese di novembre del

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1929, in cui “ riprende di nuovo l’aiuto speciale, molto concreto, del Signore”119.

Le note che aveva portato con sé per meditarle duran­te gli esercizi spirituali contenevano idee, a quanto pare, prive di un ordine sistematico. Nei giorni successivi agli esercizi le ricopiò ordinatamente, secondo l’illuminazio­ne generale da poco ricevuta “ su tutta l’Opera” . La vi­sione unitaria del progetto divino evidenziava, con nuo­ve dimensioni, quanto in precedenza gli era stato ispirato in maniera frammentaria. E all’interno di que­sto scenario di incommensurabili dimensioni storiche «vide l’Opus Dei quale il Signore lo voleva e come avrebbe dovuto essere nel corso dei secoli»120.

Nel quaderno di appunti che distrusse erano compre­se le annotazioni che si riferivano alla fondazione, fino al marzo 1930. Ma ciò che vide il 2 ottobre 1928 non si spense mai nella sua mente né mai cessò di ardergli nel cuore. Da quella data, la luce ricevuta da Dio - sulla chiamata universale alla santità e sulla ricerca della pie­nezza della vita cristiana in mezzo al mondo e attraver­so il lavoro professionale - costituì la sostanza della sua predicazione. Si mise anche a redigere i documenti che in seguito avrebbe consegnato ai suoi figli dell’Opus Dei. Nel più antico di questi scritti, una lunga lettera datata 24 marzo 1930, il Fondatore dà l’impressione, nelle prime righe, di riascoltare l’eco amoroso del grido: “Ignem veni mittere in terram et quid volo nisi ut accen- datur”, e di voler far conoscere al mondo la missione di­vina che il Signore gli aveva affidato:

“Il cuore del Signore è un cuore di misericordia, che ha compassione degli uomini e a loro si avvicina. La nostra donazione al servizio delle anime è una manifestazione di questa misericordia del Signore, non solo verso di noi, ma verso l’umanità intera. Perché ci ha chiamati a santi­ficarci nella vita ordinaria di tutti i giorni”121.

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Un simile disegno divino, questa chiamata universale alla santità, alla perfezione cristiana, è una chiara dimo­strazione dell’amore infinito del Signore, che “ha gli oc­chi e il cuore attenti alle moltitudini, a tutte le persone” . E il Fondatore lanciava al mondo il suo proclama, a no­me proprio e a nome di quanti lo avrebbero seguito. So­no parole audaci e imperiose, di chi ha ricevuto da Dio una missione personale di fronte alla storia:

“Dobbiamo rivolgerci sempre a tutti quanti, perché non c’è creatura umana che non amiamo, che non cerchiamo di aiutare e di comprendere. Tutti ci interessano, perché tutti hanno un’anima da salvare, perché a tutti possiamo consegnare, in nome di Dio, un invito a cercare nel mon­do la perfezione cristiana, ripetendo loro: estote ergo vos perfecti, sicut et Pater vester caelestis perfectus est (Mt 5,48); siate perfetti come lo è il vostro Padre celeste”122.

Dio non discrimina le anime, come assicura Egli stes­so, e non stabilisce delle eccezioni, affinché nessuno si possa scusare adducendo di non essere stato invitato. Sono cadute barriere e pregiudizi:

“Siamo venuti a dire, con l’umiltà di chi si sa peccatore e poca cosa - homo peccator sum (Le 5,8), diciamo con Pietro - ma con la fede di chi si lascia guidare dalla ma­no di Dio, che la santità non è cosa per privilegiati: che il Signore chiama tutti, che da tutti si attende Amore: da tutti, dovunque si trovino; da tutti, di ogni condizione, professione o mestiere. Perché la vita normale, ordina­ria, poco appariscente, può essere mezzo di santità: non è necessario abbandonare il proprio stato nel mondo per cercare Dio, se il Signore non dà a un’anima la vocazio­ne religiosa, poiché tutte le strade della terra possono es­sere occasione di un incontro con Cristo”123.

Dio va direttamente incontro agli uomini, senza to­glierli dal loro posto: dalla terra in cui abitano, dalla

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professione che esercitano, dalla situazione familiare in cui si trovano. Dio ci aspetta tutti nelle cose piccole, nel­le cose normali, perché raramente nella vita succedono cose straordinarie. Dio lo si deve scoprire, quindi, nelle cose di ogni giorno:

“La cosa per noi straordinaria” - proseguiva il Fondato­re - “è l’ordinario: l’ordinario fatto con perfezione. Sor­ridere sempre, passando sopra - con eleganza anche umana - alle cose che importunano, che danno fastidio: essere generosi senza misura. In una parola, fare della nostra vita normale una continua preghiera”124.

Nei piccoli eventi quotidiani, vissuti con amore e alla perfezione, nelle fatiche e nelle difficoltà, nelle gioie, in un lavoro professionale eseguito bene, nel servizio alla società e al prossimo, è sempre racchiuso un tesoro. Per­ché il lavoro professionale e le relazioni sociali costitui­scono l’àmbito e la materia che i cristiani devono santi­ficare, facendosi santi nel disimpegno degli obblighi familiari e civili. Nella chiamata universale alla santità è implicito, pertanto, il valore santificante del lavoro of­ferto a Dio, il valore cristiano di attività secolari che ci distaccano da questo mondo senza cessare di essere ben presenti in esso. Cosicché l’anima da tutto prende occa­sione per santificarsi, per divinizzarsi.

“Nella normalità della nostra vita, mentre camminiamo sulla terra accanto ai nostri colleghi di professione - “ogni simile ama il suo simile”, dice il proverbio e così è la nostra vita - Dio nostro Padre ci dà l’occasione di esercitarci in tutte le virtù, di praticare la carità, la for­tezza, la giustizia, la sincerità, la temperanza, la povertà, l’umiltà, l’obbedienza...”125.

Pertanto, le scienze e l’arte, l’economia e la politica, l’artigianato e l’industria, il lavoro domestico e qualsiasi altra professione onorevole non sono più profane o in­

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differenti. Perché ogni attività, vivificata nell’unione con Cristo, esercitata con rettitudine e spirito di sacrificio, con amore per il prossimo e con perseveranza, con l’in­tenzione di dare gloria a Dio, viene nobilitata e acquista valore soprannaturale.

In quel periodo così il Fondatore scriveva in una Cate­rina-. “Cristo nostro Re ha reso manifesto il suo deside­rio” . E poi, in poche parole, compendiava tale dottrina e il modo di raggiungere la santità:

“(...) stando noi sempre nel mondo, nel lavoro ordina­rio, nei nostri doveri di stato e lì, attraverso ogni cosa, santi!”126.

Il nucleo essenziale del messaggio divino, messaggio di amore e di santificazione, richiedeva una missione apostolica allo scopo di spargere la buona novella per tutti gli angoli della terra e un’opera o istituzione per propagarla fra gli uomini. Fu questa la missione che ri­cevette don Josemarfa quel 2 ottobre e, in quel preciso momento, il Signore gli pose tra le mani lo strumento per compiere l’impresa apostolica:

“Da quel giorno” - scrisse - “l’asinelio rognoso si rese conto dello splendido e pesante carico che il Signore, nella sua bontà inesplicabile, gli aveva messo sulle spal­le. In quel giorno il Signore fondò l’Opera”127.

Splendido carico perché quel giovane sacerdote, alter Christus, stava per diventare araldo del nuovo messag­gio per l’umanità: messaggio “vecchio come il Vangelo e nuovo come il Vangelo” . Tuttavia vedeva se stesso, nel migliore dei casi, come un umile e disprezzabile asinelio sul quale, alPimprowiso, era stato posto un carico pre­zioso e pesante. Dolce peso, condiviso dal Signore, che era entrato nel più profondo della sua anima. A rigore di termini, così sentiva don Josemaria la propria vocazione:

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“Se mi chiedete come si nota la chiamata divina, come uno se ne rende conto, vi dirò che è una visione nuova della vita. È come se si accendesse una luce dentro di noi; è un impulso misterioso, che spinge l’uomo a dedi­care le sue più nobili energie a un’attività che, nella pra­tica, prende la consistenza di un dovere. Questa forza vi­tale, che è come una valanga travolgente, è ciò che altri chiamano vocazione.La vocazione ci porta - senza che ce ne rendiamo conto- a prendere nella vita una posizione, che manterremo zelanti e gioiosi, ricolmi di speranza persino nel mo­mento estremo della morte. E un fenomeno che conferi­sce al lavoro un senso di missione, che nobilita e valo­rizza la nostra esistenza. Gesù entra con un atto di autorità nell’anima, nella tua, nella mia: questa è la chiamata”128.

Le sue due petizioni, instancabilmente ripetute per più di dieci anni, erano ormai una realtà che aveva preso corpo. La supplica “Domine, ut videaml” veniva esau­dita con la rivelazione del disegno divino sulla sua vita, per il bene di tutta l’umanità; E nel momento in cui Diolo aveva accettato come strumento per realizzare l’Ope- ra - “un essere con anima divina” - il suo “Domine, ut siti ” aveva ottenuto risposta:

“Indubbiamente, Gesù voleva che io gridassi dalle mie tenebre come il cieco del Vangelo. E ho gridato per anni, senza sapere quello che chiedevo. E ho gridato molte volte la preghiera “ut siti”, che sembra chiedere un esse­re nuovo...E il Signore diede la luce agli occhi del cieco - malgrado lui stesso (il cieco) - e annuncia la venuta di un essere con anima divina, che darà a Dio tutta la gloria e stabi­lirà il suo Regno per sempre”129.

Il presentimento, avuto a Logrono, che sarebbe so­praggiunto “qualcosa” che, secondo le sue parole, “ sta­va al di sopra di me e in me” 130, si era compiuto. Al di

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sopra di lui stava il piano divino e dentro di lui la grazia fondazionale necessaria per affrontare le difficoltà e portarlo a termine. Aveva quindi capacità ed esperienza sufficienti per realizzarlo, come è provato dal fatto che il Signore avesse messo interamente nelle sue mani la fondazione dell’Opera. Era carico di virtù soprannatu­rali e umane; conduceva una vita contemplativa in mez­zo alle sue occupazioni e al lavoro; possedeva impeto apostolico, doti di governo e zelo per le anime. In una parola, aveva già, in germe, lo spirito che richiedeva la fondazione. Senza altro maestro al di fuori dello Spirito Santo, incarnava già l’Opera come Fondatore. E così, dalla semente che il Signore aveva sparso nella sua men­te e nel suo cuore, sarebbe germogliato tutto lo spirito e tutta la realtà dell’Opera.

Dio affidava a don Josemaria una missione di caratte­re soprannaturale pienamente iscritta nella missione del­la Chiesa: trasformare in una realtà tangibile il disegno della chiamata universale alla santità in ogni tempo.

“Suscitando in questi anni la sua Opera, il Signore ha voluto che mai più si ignori e si dimentichi la verità che tutti devono santificarsi e che alla maggior parte dei cri­stiani compete di santificarsi nel mondo, nel lavoro ordi­nario. Per questo, finché ci saranno uomini sulla terra, esisterà l’Opera. Occorrerà sempre questo fenomeno: che ci sono persone di tutte le professioni e mestieri che cercano la santità nel loro stato, nella loro professione o mestiere, essendo anime contemplative nel bel mezzo della strada”131.

L’Opera veniva a essere, in seno alla Santa Chiesa, un mezzo di incremento apostolico, con lo scopo di procla­mare ai quattro venti la buona novella e di dare testimo­nianza della ricerca della santità in mezzo al mondo:

“Ci ha scelti lo stesso Cristo” - scriveva il Fondatore - “affinché in mezzo al mondo - nel quale ci ha posti e

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dal quale non ha voluto segregarci - cerchiamo la santi­ficazione ciascuno nel proprio stato e - insegnando, con la testimonianza della vita e della parola, che la chia­mata alla santità è universale - promuoviamo fra perso­ne di tutte le condizioni sociali, e specialmente fra gli intellettuali, la perfezione cristiana in seno alla stessa vita civile”132.

L’Opera veniva a rispondere al grido “ ignem veni mit- tere in terram” con una mobilitazione apostolica atta ad annunciare dappertutto, con l’esempio e la dottrina, il desiderio ardente del Signore. Ma nell’adempiere questa missione i membri dell’Opera avrebbero agito come fe­deli normali, uguali agli altri cittadini, con i quali hanno in comune usanze, professione e preoccupazioni sociali. Avrebbero compiuto questa missione senza la velleità di distinguersi, ma con naturalezza, dal di dentro della so­cietà, lievito in mezzo alla massa, per condurre il mondo a Dio, per mettere ai suoi piedi il lavoro e i cuori degli uomini. “Voi e io sappiamo e crediamo” - scriveva il Fondatore - “che il mondo ha l’unica missione di dare gloria a Dio. Questa vita ha ragion d’essere solo in quanto prepara il regno eterno del Creatore”133.

Perciò, dal momento in cui apparve l’Opera, si udì un nuovo grido nella vita e negli scritti di quel sacerdote:

“ ...arriverà presto la Pentecoste dell’Opera di Dio... e il mondo intero udrà in tutte le lingue le ardenti acclama­zioni dei soldati del Gran Re: Regnare Christum volu- mus!”n4.

if* >1-

Il Signore, che non forza mai la nostra libertà, chiese a don Josemaria il suo assenso; quello del giovane sacer­dote fu un “ sì” al progetto divino pieno di convinzione e di fervore. Inoltre, il Fondatore, con molta umiltà, tra­sformò la risposta in un gioioso “ serviam!” , servirò!, giaculatoria che recitò ogni giorno per tutta la vita. Era

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un grido di piena sottomissione alla volontà di Dio, l’af­fermazione della sua piena disponibilità a realizzare l’O­pera e il rifiuto di qualsiasi ribellione. Perché, diceva ai suoi figli, “ si ode un colossale non serviam nella vita del singolo, nella vita familiare, negli ambienti di lavoro e nella vita pubblica” 135.

Il 2 ottobre quel sacerdote si rese perfettamente con­to della propria povertà e dell’imponente aiuto di cui aveva bisogno. Senza tirarsi indietro, chiese al Signore luce e forza: “Una volontà di ferro che, unita alla gra­zia divina, ci porti a completare, per la gloria di Dio, la sua Opera, affinché Cristo Gesù regni per davvero, perché tutti con Pietro andranno a Lui per l’unica stra­da, M aria!” 136.

E volendo riassumere in poche parole quale fosse l’o­rientamento della sua fondazione e quali finalità perse­guisse, lo sigillò in tre giaculatorie, nelle quali sintetizza­va il cammino di santificazione dei membri dell’Opera:

“Gesù è il modello: imitiamolo! Imitiamolo servendo la Chiesa Santa e tutte le anime. “ Cbristum regnare volu- m us” , “Deo omnis gloria” , “ Qmnes cum Petro ad Ie- sum per Mariam” . In queste tre frasi sono indicati con la chiarezza necessaria i tre fini dell’Opera: Regno effettivo di Cristo, tutta la gloria a Dio, anime”137.

Egli comprese anche, fin dal primo momento, che dal suo comportamento personale nel compimento dell’im­presa divina dipendevano grandi cose per la Chiesa e per la storia del mondo. Sapeva di essere in possesso di un prezioso carisma; però, come il “ servo buono e fede­le” della parabola evangelica, lo doveva mettere a frut­to. Il Fondatore vide, il 2 ottobre, che era necessario aprire, con lo sforzo personale e le grazie inerenti al proprio carisma di Fondatore, una strada che ancora non esisteva. Predicare quel messaggio di santità in mez­zo al mondo, mobilitare le anime all’apostolato, guidare

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e rinnovare spiritualmente moltitudini di fedeli nel seno della Chiesa sarebbero stati avvenimenti senza prece­denti storici. Era logico prevedere che, con il crescere dell’Opera, con l’esercizio dell’apostolato e la ricerca della santità nel mondo, si sarebbe prodotto un inatteso fenomeno pastorale e ascetico che avrebbe richiesto nuovi modelli nella prassi e nella teoria. Il processo di fondazione avrebbe quindi avuto un lungo e difficile percorso, che non avrebbe avuto fine che alla morte del Fondatore. Egli possedeva lo spirito dell’Opera. Egli era il tronco dal quale sarebbero usciti i rami e i frutti.

Il Fondatore non vide i particolari di quel lungo e pe­noso itinerario accidentato che lo avrebbe condotto alla meta. Ma vide l’Opera proiettata nei secoli, come dise­gno provvidamente realizzato da Dio. Per quanto lo ri­guardava, era disposto a cominciare a costruire quanto prima, perché di una cosa era sicuro fin dall’inizio; che tutto ciò gli sarebbe costato sangue e lacrime:

“...so bene” - scriveva fiducioso - “che noi, i primi che cominciamo a lavorare, dobbiamo ammassare, spargen­do lacrime di sangue, il calcestruzzo per le fondamenta di cui vi sto parlando. Non perderemo né la fede né la gioia: tutto potremo in Colui che ci conforterà”138.

Jj-

In quei giorni di ritiro dai Lazzaristi riconobbe la mano provvidenziale del Signore, che aveva preparato la pie­tra fondazionale attraverso i gravi eventi che avevano obbligato la famiglia a peregrinare da Barbastro a Lo­grono, da Logrono a Saragozza e da Saragozza a Ma­drid. Con questa luce, la sua vita acquistò un senso completo e nuovo. Dio lo aveva portato fino alla capita­le per immergerlo a fondo nei problemi dell’umanità.

“Ieri sera, andando per strada, consideravo” - scriverà nei suoi Appunti - “che Madrid è stata la mia Damasco,

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perché qui mi sono cadute le squame dagli occhi dell’a­nima (...) e qui ho ricevuto la mia missione”139.

Prese in esame i mezzi materiali dei quali disponeva per la sua missione e si rese conto della propria nudità. Il Signore lo aveva progressivamente spogliato, nel cam­mino della vita, di tutti gli impedimenti. “Mi trovavo al­lora solo con l’unico bagaglio dei miei ventisei anni e del mio buon umore” 140, disse facendo i conti. (E in un’altra occasione: “Nell’Opera abbiamo incominciato a lavorare, quando il Signore volle, con una mancanza assoluta di mezzi materiali: ventisei anni, la grazia di Dio e buon umore. E basta” )141.

6. Una campagna di orazione e di mortificazione

Terminato il ritiro, don Josemarìa si immerse nel lavoro del Patronato. Si mise subito alla ricerca di anime, con il desiderio di trasmettere ovunque il messaggio universale della santità142. Esaminò l’elenco dei giovani che cono-

c sceva, alcuni dei quali erano studenti dell’Accademia Cicuéndez143. Uno dei primi ai quali parlò del suo ideale apostolico fu Pedro Rocamora, che conobbe nel 1928. Glielo presentò uno studente di Architettura, José Ro­meo Rivera, il quale a sua volta aveva conosciuto il sa­cerdote tramite il proprio fratello Manuel, collega di don Josemarìa nella Facoltà di Diritto a Saragozza. A loro si aggiunsero Juliàn Cortés Cavanillas e qualche al­tro allievo dell’Accademia.

Attorniato da questi amici, il sacerdote usciva a pas­seggio e, chiacchierando, esponeva loro le proprie ambi­zioni spirituali. Troppo ambiziose, secondo Pedro Roca­mora, che racconta di averlo sentito parlare «come un uomo ispirato. Meravigliava, a noi che gli stavamo vici­no, la sua certezza di coscienza di dover dedicare la vita a quest’idea. Aveva preso l’impresa su di sé come uno

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che sa di dover adempiere una sorta di destino, segnato nella propria vita.

- Ma tu credi che questo sia possibile?, gli dicevo io. E lui mi rispondeva:

Sappi che questa non è una mia invenzione, è una vo­ce di Dio”144.

Non sempre le conversazioni avvenivano passeggian­do. A volte il sacerdote cercava un luogo tranquillo per leggere ai suoi accompagnatori, riuniti intorno a un ta­volo, le annotazioni del quaderno che portava con sé. Se c’era bel tempo, uscendo dalle lezioni dell’Accademia andavano sulla via Castellana, all’angolo con via del Ri- scal, a sedersi all’aperto sulla terrazza di una birreria. Più spesso il gruppo andava a finire al “Sotanillo” . Que­sto locale - bar, birreria, caffetteria, tutto insieme - era situato in una zona molto centrale: nella via di Alcalà, fra via Cibeles e Piazza dell’indipendenza. L’ingresso era a piano terra e bisognava scendere alcuni gradini, poi­ché stava in un seminterrato.

Don Josemaria si trovava a suo agio nell’ambiente del “Sotanillo” , attorniato dai suoi giovani amici. Juan, il proprietario, e suo figlio Angel si abituarono a vedere il sacerdote accompagnato dagli studenti. Quando lo ve­devano entrare, si scambiavano a voce alta una specie di parola d’ordine: «È arrivato, con i suoi discepoli»145.

Sforzandosi di ricordare gli amici, don Josemaria ri­salì persino agli anni di studio a Logrono. In effetti, Isi­doro Zorzano, in una lettera del 9 dicembre 1928, gli chiese notizie della sua vita146; questo indica che il sa­cerdote riannodò i rapporti con questo suo compagno dell’istituto di Logrono, che aveva poi frequentato a Madrid la Facoltà di Ingegneria. Ora viveva a Cadice e lavorava nei cantieri navali di Matagorda. A questa let­tera fece seguito una lunga corrispondenza, fonte di sor­prese per entrambi.

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Ben presto ampliò il campo apostolico frequentando sacerdoticche già conosceva. Il suo aspetto evidentemen­te giovanile non sembrava il più idoneo a predicare in una società in cui non mancavano chierici eredi di abi­tudini e tradizioni multisecolari. E non poteva neppure dimenticare la propria delicata situazione di sacerdote extradiocesano a Madrid, che lo faceva sentire “come una gallina nel pollaio altrui” 147. Ma nonostante tutto non stette troppo a pensarci su. Uno dei primi sacerdoti che cercò di entusiasmare all’apostolato fu don Norber­to, l’altro cappellano del Patronato. Le sue intenzioni, in un primo tempo, erano puramente caritatevoli. Don Norberto a quell’epoca era prossimo ai cinquant’anni ed era stato colpito da una malattia nervosa che gli ave­va impedito di svolgere incarichi ecclesiastici. Si era ri­messo, ma aveva avuto una ricaduta. Fino alla sua mor­te fu di salute malferma, anche se in generale di ottimo zelo apostolico e di vita interiore148. Le Dame Apostoli­che, che lo conoscevano dal 1924, vedevano crescere l’amicizia fra i due cappellani. Sapevano che cosa signi­ficava vederli insieme nelle visite ai malati e ai bambini delle scuole. «Don Josemaria - dice una di loro - lo por­tava con sé per poterlo aiutare: perché si sentisse utile e apprezzato»149.

Uno dei primi sacerdoti ai quali parlò a fondo della propria vocazione fu, senza alcun dubbio, don José Pou de Foxà. Il professore di Diritto romano di Saragozza scriveva da Avila il 4 marzo 1929 a don Josemaria, chie­dendogli che andasse a prenderlo alla stazione e che gli prenotasse una camera in albergo. Le parole di commia­to lasciano intravedere la sua impazienza di incontrarsi a faccia a faccia con il suo ex allievo: «Poiché ci vedre­mo presto - scriveva - non ti dico altro, poiché presto ti abbraccerà il tuo amico, José»150.

Pou de Foxà rimase a Madrid diverse settimane, du­rante le quali ebbe occasione di parlare con calma con il giovane amico. Il professor Carlos Sànchez del Rio, che

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in quei giorni si trovava anch’egli a Madrid per un con­corso a una cattedra di Diritto romano, riferisce che an­davano insieme loro tre «quasi tutte le sere, piuttosto tardi, in un bar che si chiamava “El Sotanillo” , che si trovava in via Alcalà. Lì avevamo delle gradevoli con­versazioni in cui ci scambiavamo impressioni su ogni genere di argomenti»151.

Don Josemarìa, che non trascurava occasione per fare nuove amicizie con sacerdoti, continuava a mantenere la sua antica amicizia con i sacerdoti che risiedevano in via Larra, dove seminava speranze per il futuro. Così conobbe, per esempio, don Manuel Ayala, di passaggio per Madrid nel 1929. Don Manuel serbò sempre un grato ricordo dei suoi brevi incontri con il cappellano del Patronato, che gli rivelò parte dei suoi ideali: “A quel tempo gli confidai qualcosa dell’Opera. Ed egli la ricorda con affetto” , scrisse poi don Josemarìa152.

Nell’estate del 1929 un giorno si presentò al Patrona­to per celebrare la Messa don Rafael Fernàndez Claros, giovane sacerdote di San Salvador che studiava all’isti­tuto Cattolico di Parigi. Quando terminò il ringrazia­mento, il cappellano gli si avvicinò. Chiacchierarono un po’. «Mi sono bastati pochi momenti - dice il salvado­regno - per apprezzare in tutto il suo altissimo valore il tesoro di santità che serbava con cura quella delicata anima sacerdotale»153. Questa amicizia si mantenne vi­va nel corso degli anni e generò un legame di ordine più elevato: «Come corrisponderò, Padre, alle sue dimostra­zioni di bontà? - gli scriveva don Rafael da Parigi, il 4 novembre 1929 -. Non altrimenti che accettando, e lo faccio senza alcuna riservarla sua delicata proposta di patto spirituale sacerdotale»154.

Su questo patto di fraternità il salvadoregno scrisse in un’altra sua lettera da Parigi, il 20 marzo 1930: «I miei reiterati ringraziamenti per il fedele adempimento della sua promessa di ricordarmi nella Santa Messa. A mia vol­ta, io la ricordo tutti i giorni nell’augusto Sacrificio»155.

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Il cappellano del Patronato cominciò a creare un’au­tentica mobilitazione di anime e di preghiere: “Dall’an­no 1928” - raccontava - “cercai di avvicinarmi ad ani­me sante, persino a persone sconosciute che avevano, come ero solito dire, “ faccia da buoni cristiani” : e chie­devo loro preghiere” 156.

Un giorno del 1929 s’imbatté per strada, alle sei del mattino, in un sacerdote sconosciuto. Lo fermò e gli chiese di pregare per una sua intenzione. (Il sacerdote era don Casimiro Mordilo, che divenne alcuni anni do­po arcivescovo di Madrid)157. E non era un caso unico, perché Avelino Gómez Ledo, compagno alla residenza di via Larra, ricorda bene lo zelo con cui Josemaria gli chiedeva allora orazione e penitenza, «in maniera viva, stimolante». Più tardi, quando ormai il cappellano del Patronato non viveva più nella residenza, s’incontrò un giorno casualmente con don Avelino in piazza Cibeles. Don Josemaria, ci racconta costui, «camminava avvolto in un mantello e mi colpì il suo assoluto raccoglimento; non v’è dubbio che stesse pregando per strada. Ebbi l ’impressione che mi fosse improvvisamente apparsa una di quelle anime che vivono in maniera straordinaria l’unione con Dio; e mi disse, di nuovo, che raccoman­dassi il suo lavoro apostolico, con preghiera e mortifica­zione»158.

Passavano i mesi e il sacerdote continuava a mendica­re aiuto: “Continuo a chiedere orazione e mortificazioni a molta gente. Che paura ha la gente dell’espiazio­ne!” 159, esclamava con pena e sorpresa.

Anche un’aiutante delle Dame Apostoliche riferisce, con ilare semplicità, che nessuno riusciva a sfuggire alla campagna di preghiera promossa da don Josemaria.

- “Prega molto per me, prega molto per me”, le diceva ilcappellano.

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E la donna pensava: «Che cosa vorrà mai fare don Jo­semaria che chiede tanta preghiera?»160.

Nel gennaio 1929, quando una delle Dame fu in pun­to di morte, il cappellano la supplicò di intercedere per lui nell’altra vita: o santo o morto!

“Ricordo, a volte con un certo timore” - scriverà poco dopo nei suoi Appunti intimi - “nel caso fosse tentare Dio o fosse orgoglio, che quando era moribonda Merce­des Reyna (...), senza averci pensato prima, mi capitò di chiederle quanto segue: Mercedes, chieda al Signore, dal cielo, che se non dovessi essere un sacerdote non dico buono, ma santo, mi porti via da giovane, quanto pri­ma. In seguito, ho fatto la stessa richiesta a due altre persone - una signorina e un ragazzo - perché tutti i giorni nella Comunione rinnovino davanti al buon Gesù quest’aspirazione”161.

Assistè la Dama negli ultimi giorni della sua malattia. Poi don Josemaria cercò la sua protezione e ne visitò spesso la tomba. Il 31 luglio cominciò una novena, pre­gandola per le proprie intenzioni e andando ogni giorno a recitare il rosario in ginocchio davanti alla tomba di Mercedes162. L’Opera stava avviandosi e il Fondatore si sentiva spinto a darsi totalmente, con generosità, in olo­causto, anche se non mostrò mai la minima inclinazione a offrirsi come vittima. Il “vittimismo” (la scelta spetta­colare del sacrificio, come se uno sdegnasse di offrire a Dio le sofferenze e le piccole croci quotidiane) era qual­cosa di molto distante dal suo modo di essere e di pen­sare; e, quanto a non piacergli, neppure la parola stessa gli andava a genio.

La sua anima andava in cerca di qualcosa di speciale da offrire in espiazione. Perciò, trenta giorni dopo aver terminato la novena al camposanto, per intuito spiritua­le, chiese al Signore senza titubanze che lo spogliasse della sua salute, in atto espiatorio:

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“Il giorno 11 agosto 1929, secondo una nota che presi quel giorno su un’immaginetta che ho nel breviario, mentre davo la benedizione con il Santissimo Sacramen­to nella chiesa del “Patronato de Enfermos”, senza aver­ci pensato prima chiesi a Gesù una malattia forte, dura, in espiazione”163.“Credo che il Signore me l’abbia concessa”, soggiunse.

7. Il 14 febbraio 1930

Ripensando ai suoi grandi slanci apostolici a partire dal2 ottobre, don Josemaria ne fece questo semplice rias­sunto: “Fin dal primo momento ci fu un’intensa attività spirituale e cominciai a cercare vocazioni” 164. Ma da dove nasceva l’impulso, davanti alla Dama moribonda, di chiedere al Signore di essere un sacerdote santo, se non perché vedeva la propria anima quasi sprofondata “nella tiepidezza e nell’abbandono” ?165.

Per quanto possa suonare stonata, questa non è un’affermazione gratuita e senza fondamento. La con­vinzione dell’enorme dislivello esistente fra i propri ten­tativi apostolici e la grandiosità dell’impresa che gli era stata affidata provocava nella sua coscienza un serio travaglio:

“Che cosa può fare una creatura che deve compiere una missione, se non ha mezzi, né età, né scienza, né virtù, se non ha nulla?”, chiedeva a se stesso. “Andare da sua madre e da suo padre, ricorrere a coloro che possono qualcosa, chiedere aiuto agli amici... Questo ho fatto io nella vita spirituale. Certo, a colpi di disciplina, batten­do il tempo. Ma non sempre: c’erano dei periodi in cui non ci riuscivo”166.

Vedendo il divario fra l’alta missione e le sue scarse ri­sorse, gli sembrava che la sua anima cadesse in un sopo­re invincibile:

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“Dopo il 1928, anche se ho cominciato a lavorare subi­to, ho pure patito sopore. Ego dormivi, et soporatus sum; et exsurrexi, quia Dominus suscepit me (Sai 3,6); mi sono addormentato, sono caduto quasi in un sopore; e fu il Signore che mi svegliò e mi portò a lavorare con sempre maggiore intensità”167.

Passato un numero di anni sufficiente a far decantare vecchi ricordi, gli si presentava ancora alla mente, con dolore, l’ombra delPimmaginaria resistenza di cui nella sua eroica umiltà si rimproverava: “ Il Signore sa bene che ho cominciato a lavorare nell’Opus Dei malvolen­tieri e per questo vi chiedo mille volte perdono” , scrive­va ai suoi figli quasi scusandosi168. Sembrava che, ora che il Signore aveva dato risposta ai suoi ardenti deside­ri di molti anni di preghiera, gli cedesse la volontà, qua­si si sentisse interiormente lacerato:

“Volevo e non volevo. Volevo compiere ciò che era una missione tassativa e dal primo giorno si fece un intenso lavoro spirituale. Ma non volevo, nonostante fossi stato dai quindici ai ventisei anni a implorare Gesù Cristo Nostro Signore, dicendogli come il cieco del Vangelo: Domine, ut videam! (Le 18,41); Signore, fa’ che io veda. Altre volte, con un latino da bassa latinità: Domine, ut siti, che avvenga quello che Tu vuoi e che io ignoro! E lo stesso alla Santissima Vergine: Domina, ut sit!” 169.

Faceva apostolato con autentico impegno e convin­zione. “ Sempre senza una vacillazione, benché io non volessi!”, tornava a insistere170. Egli stesso non si pote­va spiegare questa apparente contraddizione, questa specie di resistenza interiore. È evidente che non gli mancava la forza della volontà per adempiere la sua missione; il fatto è che, benché la sua dedizione fosse to­tale, aspirava a mete sempre più generose.

Aveva ricevuto - non aveva dubbi - una “idea chiara, generale” di ciò che sarebbe stata l’Opera, ma non di

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come realizzarla. È per questo che dal 2 ottobre, essen­dosi interrotte le ispirazioni, restò a mezza luce, con una chiarezza generale che illuminava il disegno divino, ma sprovvisto di luci specifiche e pratiche per plasmarlo tangibilmente. Per dirla con le sue stesse parole, si inter­ruppe “quella corrente spirituale di divina ispirazione” con la quale “ si andava profilando e definendo ciò che Egli voleva”171. Per attenerci ai suoi sentimenti dobbia­mo ammettere che nel suo spirito stava galleggiando l’immagine di un carico pesante e divino, di fronte al quale si sentiva privo di coraggio. Se lo rinfacciò sem­pre: “Sono stato codardo. Mi faceva paura la Croce cheil Signore metteva sulle mie spalle” 172.

(Questa idea della codardia non è altro, nella vita dei santi, che espressione di umiltà. Vale a dire che è il frut­to della loro personale impressione, di fronte alla gran­dezza degli inviti divini, di rispondere con scarso entu­siasmo e pigrizia nel donarsi).

Ma questo presunto timore o codardia, rende forse sufficiente ragione delle sue inquietudini? Non converrà cercare delle cause più attinenti al suo modo di essere nel quale, sicuramente, non albergavano indecisione, ti­more o pusillanimità? Fin da bambino - come abbiamo visto - al suo carattere ripugnavano la cerimoniosità e l’ostentazione. Questa tendenza naturale finì con il met­tere profonde e soprannaturali radici nel suo essere: “Ho sentito nella mia anima, da quando mi sono deciso ad ascoltare la voce di Dio - a presagire l’amore di Gesù -, un grande desiderio di nascondermi e scomparire; di vivere quel illum oportet crescere, me autem minui (Gv 3,30); conviene che cresca la gloria del Signore e che io passi inosservato” 173.

Da qui la sua ripugnanza, come egli stesso confessa­va, dato che l’idea di “dare inizio a una nuova fondazio­ne potrebbe essere segno di superbia, di un desiderio di eternarsi” 174. Fin da ragazzo aveva sentito una grande

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diffidenza verso le cose straordinarie, un’invincibile re­pulsione per le novità clamorose:

“Voi sapete” - scriveva ai suoi figli nel 1932 - “che av­versione ho sempre avuto verso l’impegno di alcuni - ma ciò si può basare su ragioni molto soprannaturali, che in ogni caso è la Chiesa a dover giudicare - per fare nuove fondazioni. Mi sembrava - e mi sembra tuttora - che ci fosse una pletora di fondazioni e di fondatori: ve­devo il pericolo di una specie di psicosi fondazionale, che conduceva a creare cose non indispensabili, per mo­tivi che consideravo ridicoli. Pensavo, forse con scarsa carità, che in qualche occasione il motivo non fosse nep­pure importante: l’essenziale era creare qualcosa di nuo­vo e chiamarsi fondatore”175.

La più logica spiegazione dei sentimenti contradditto­ri del Fondatore - l’accettazione di una missione e la re­sistenza a fondare qualcosa di nuovo - è l’intervento di­vino. Esso si riconosce chiaramente nell’interruzione delle ispirazioni di carattere pratico che aveva ricevuto fino all’ottobre 1928. Con questo ottenne una nuova conferma dell’origine soprannaturale dell’Opera, poiché una fondazione, oltre ad andare al di là delle sue capa­cità naturali, era estranea ai suoi gusti personali. Veden­dolo dunque navigare fra la resistenza e l’entusiasmo, il Signore decise di entrare nel gioco:

“Il Signore (...) vedendo la mia resistenza e quel lavoro in pari tempo entusiasta e debole, mi diede l’apparente umiltà di pensare che nel mondo ci potessero essere già delle cose che non si differenziavano da ciò che Egli mi chiedeva. Era una codardia poco ragionevole; era la co­dardia della comodità e la prova che a me non interessa­va essere fondatore di alcunché”176.

In mezzo a queste incertezze d’animo, senza cessare di

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lavorare per l’Opera, cullava il segreto desiderio - senza alcun fondamento - di trovarsela già fatta altrove:

“Con una falsa umiltà, mentre lavoravo alla ricerca del­le prime anime, delle prime vocazioni e le formavo, dice­vo: Ci sono troppe fondazioni. A che scopo farne altre? Non potrò forse trovare già fatto nel mondo ciò che vuole il Signore? Se esiste, meglio è andarci, essere sol­dato semplice piuttosto che fondare, che può essere se­gno di superbia” 177.

Cercò quindi di ottenere informazioni prima su istitu­zioni spagnole e poi estere. Ma, quando le esaminava da vicino, si accorgeva che non erano ciò che cercava: “Mi giunsero nelle mani” - scriveva negli Appunti - “notizie su molte istituzioni moderne (in Ungheria, Polonia, Francia, ecc.), che facevano cose strane... Ma Gesù ci chiedeva, nella sua Opera, come virtù sine qua non, la naturalezza!” 178.

Non specificava in che cosa consistessero le stranezze. Sappiamo tuttavia che fin dal primo momento lo spirito dell’Opera fu caratterizzato da cose affatto diverse: “ semplicità, non attirare l’attenzione, evitare esibizioni­smi, fare tutto apertamente” . In una parola: “ la ripu­gnanza di fare spettacolo” 179.

Nel novembre 1929 don Josemarìa era intento a que­sta ricerca infruttuosa quando nella sua anima ricomin­ciarono a sgorgare le ispirazioni180. “Il rinnovarsi di quella corrente spirituale di divina ispirazione” , dopo più di un anno di siccità, portò con sé le luci pratiche per avviare i compiti fondazionali. Tutto ciò costituiva una prova tangibile che era il Signore a condurre quell’impre­sa divina; don Josemarìa lo scrisse nei suoi Appunti:

“Il silenzio del Signore, dal giorno 2 ottobre 1928, festa dei Santi Angeli e vigilia di Santa Teresina, fino al mese di novembre del 1929, dice molte cose (...): evidenzia in modo indubbio che l’Opera è di Dio poiché, se non fos­

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se stata ispirazione divina, sarebbe stato ragionevole che, terminati i santi esercizi nell’ottobre 1928, imme­diatamente, con più entusiasmo che mai perché ormai l’impresa era stata delineata, questo povero prete avesse continuato a prendere appunti e a disegnare l’Opera. Non fu così: passò più di un anno senza che Gesù par­lasse. E passò, fra altre ragioni, per questo: per dare la prova che il suo asinelio era solo lo strumento... e un pessimo strumento !”181.

* * *

Aveva già dimenticato i suoi tentativi di informarsi quando un giorno gli giunsero tra le mani alcuni stam­pati su organizzazioni apostoliche182. Ricostruendo i fatti, scriverà nel 1948: “Alla fine fui informato sui Pao- lini del Cardinal Ferrari. Sarà questo? Cercai di infor­marmi (doveva essere alla fine del 1929)...” 183.

(In un’altra rivista - “Il Messaggero Serafico”- che a volte distribuiva ai malati, apparvero anche alcuni arti­coli sulle fondazioni, in Polonia, di padre Honorato)184.

Ecco però come prosegue il racconto sui Paolini:

“ ...e venuto a conoscenza che nella Compagnia di San Paolo c’erano anche donne, scrissi nelle mie Caterine (se non le ho bruciate, appariranno fra i pacchi dell’archi­vio e ci si potranno leggere le stesse cose che ora scri­verò): anche se l’Opus Dei non differisse dai Paolini in altro che nel non ammettere neppure lontanamente le donne, la differenza è già notevole ” 1 8 5 .

La frase cui si rimanda si trovava, probabilmente, nel quaderno andato distrutto. Tuttavia consta che le sue espressioni su questo punto contenevano sempre una netta esclusione dell’elemento femminile. “Avevo scrit­to” - dirà in un’altra occasione -: “non ci saranno mai donne - neppure per scherzo - nell’Opus Dei”186.

Evidentemente il 2 ottobre 1928 non «vide» né gli eventi né i dettagli storici, bensì il nucleo essenziale del

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messaggio divino. Si può pensare che in tali circostanze, con la ripugnanza che sentiva a fondare qualcosa di nuovo e senza illuminazioni pratiche per fare nuovi pas­si nella fondazione, decidesse di ammettere donne nel­l’impresa? Almeno aveva - come opinione personale - un’idea propria, chiara e tassativa: le donne non erano chiamate a far parte dell’organizzazione187.

Il Signore non tardò molto a correggere questo crite­rio restrittivo:

“Passò poco tempo” - scriverà negli Appunti intimi -.“Il 14 febbraio 1930 stavo celebrando la Messa nella cappella della vecchia marchesa di Onteiro, madre di Luz Casanova, che assistevo spiritualmente quando ero cappellano del Patronato. Durante la Messa, subito do­po la Comunione, tutta l’Opera femminile! Non posso dire che vidi, ma sì che intellettualmente, nei particolari (poi ho aggiunto altre cose sviluppando la visione intel­lettuale), ho colto ciò che doveva essere la Sezione fem­minile dell’Opus Dei. Resi grazie e a suo tempo andai al confessionale di padre Sànchez. Mi ascoltò e mi disse: questo viene da Dio come tutto il resto”188.

Il 14 febbraio comprese intellettualmente e nei parti­colari quanto concerneva le donne: qualcosa che era già implicito nella visione generale del 2 ottobre. A questo punto ebbero fine le titubanze e le ricerche su istituzioni somiglianti:

“Annotai nelle mie Caterine l’evento e la data: 14 feb­braio 1930. Poi dimenticai la data e lasciai passare il tempo senza che mai più mi capitasse di pensare, nella mia falsa umiltà (era spirito di comodità, paura della lotta), di essere soldato semplice: era necessario fondare, senza alcun dubbio”189.

L’una e l’altra fondazione lo colsero di sorpresa. So­prattutto quella delle donne: con la mente priva di luce e

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con la volontà divisa tra il volere e il non sapere. E alla fi­ne un’opinione espressa con fermezza, sull’esclusione del­le donne. Ma con questo non si faceva ancor più evidente l’origine divina dell’Opera? Il Fondatore lo ammise:

“Ho sempre pensato - e lo penso ancora - che il Signo­re, come in altre occasioni, mi abbia “manovrato” abil­mente in modo che avessi una prova esterna oggettiva che POpera era sua. Io: non voglio donne nell’Opus Dei! Dio: io invece le voglio”190.

Sui paradossi fondazionali compose, a suo tempo, un ispirato florilegio, poiché non erano ancora finite le sor­prese:

“La fondazione dell’Opus Dei avvenne senza di me; la Sezione femminile contro la mia opinione personale e la Società Sacerdotale della Santa Croce quando io volevo trovarla e non la trovavo”191.

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!NOTE CAPITOLO V

1 Cfr AGP, RHF, D-15247/2. È molto probabile che a Madrid non potè ce­lebrare la Messa fino al giorno successivo (a quel tempo non era consentita la celebrazione della Messà vespertina); forse lo aveva già fatto a Saragoz­za prima di prendere il treno (cfr Alvaro del Portillo, Sum. 332; Javier Echevarria* Sum, 1947).2 Quando don Joseriiaria arrivò a Madrid, là chiesa pontificia di S. Miche­le era retta da una comunità di Padri Rèdentoristi, come è stato detto; at­tualmente essa è affidata a sacerdoti della Prelatura della Santa Croce e Opus Dei. Cfr AA. W i, Diccionario de Historia Eclesiàstica de Espaha, op. cit., voi IL, p. Ì3§1.3 La diocesi di Madrid fu creata con la Bolla Romani Pontifices Praedeces- sores di Leone XIII, promulgata il 7 marzo 1885. Due giorni dopo un De­creto Reale nominava il primo Vescovo di Madrid. La sede matritense fu elevata al rango di sede arcivescovile dipendente direttamente dalla Santa Sede dalla Bolla Romanorum Pontificum semper di Paolo VI (25-111- 1964).4 Cfr Pratica accademica personale, Archivio della Facoltà di Diritto del­l’Università Complutense di Madrid; AGP, RHF, D-03365.5 AGP, RHF, D-15155. Il certificato fu forse presentato assieme all’istanza, nonostante sia in data differente; ma può essere invece che nel presentare l’istanza gli sia stato richiesto un certificato di vaccinazione.6 Cfr lettere già citate di P. A. Santiago, del 7-III-1927 (AGP, RHF, D- 15003-6) e di P. Cancer, del 9-ÌII-1927 (AGP, RHF, D-15003-5).7 Esiste una ricevuta, su carta non intestata, con data 30 aprile 1927, per l’importo di 78 pesetas, corrispondenti a dieci giorni di pensione e varie. Sul retro del foglio c’è il conto, che indica che la pensione giornaliera è di 7 pts. Scritta con una diversa calligrafia si legge la parola Farmacia (cfr AGP;, RHF, D-15247-2).

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8 Bollettino Trimestrale dell3Opera Apostolica “Patronato de Enfermos”, n. 72, Madrid, gennaio 1928, pp. 12-13.9 Lettera già citata di P. Cancer a don Josemarìa, del 9-III-1927 (AGP, RHF, D-15003-5).10 Lettera di don Luis Latre a don Josemarìa, datata Saragozza 9-V-1927 (originale in AGP, RHF, D -l5003-8); la trascrizione è stata emendata di qualche errore dattilografico). Si noti il «metterti a disposizione del nostro Prelato che ha tanta scarsità di personale» per quanto si riferisce alle «in­giustizie provvidenziali» del capitolo precedente.11 Cfr Appendice documentale, documento XII.12 Don Fidel Gómez Colomo aveva studiato nel Seminario di Toledo ed era stato ordinato sacerdote nel 1925. Ascritto al Vicariato Militare, arrivò a essere Tenente Vicario della Marina. Morì a Madrid nel 1980.Don Justo Villameriel Meneses si preparava al concorso di cappellano mi­litare, che vinse nel 1927.Mons. Avelino Gómez Ledo era stato ordinato sacerdote a Madrid nel 1918. Fu coadiutore nella parrocchia della Concezione di Madrid e poi in quella di Nostra Signora degli Angeli. Dal 1940 fu parroco di Sant5Agosti­no, pure a Madrid. Morì nel 1977.Don Antonio Pensado Rey era nato nel 1897 ed era stato ordinato sacer­dote nel 1920 a Santiago di Compostella.13 II Monastero dell’incarnazione delle Agostiniane Recollette fu fondato da re Filippo III e dalla moglie Margherita d’Austria. Nella sua chiesa fu eretta la parrocchia del Palazzo Reale e fin da tempi antichi il Cappellano Maggiore di Sua Maestà (carica che tradizionalmente spettava all’Arcive­scovo di Santiago) vi godeva di giurisdizione esente. Perciò il Vescovo di Madrid non aveva giurisdizione su questa chiesa; e neppure l’aveva l’Or­dinario Palatino (o Procappellano Maggiore di Sua Maestà) dal quale di­pendeva la giurisdizione di tutti i Patronati Reali, eccetto proprio quello dell’incarnazione (cfr Diccionario de Historia Eclesiàstica de Espana, op. cit., voi. I, pp. 338-9; voi. II, pp. 1382-83; voi. Ili, p. 1887; voi. IV, pp. 2743-2746).14 La comunicazione d’ufficio del Vicario Generale di Madrid (27-1-1927) all’Arcivescovado di Santiago è molto energica. In risposta fu inviata da Santiago una comunicazione (1-II-1927) in base alla quale all’interessato venivano ritirate le facoltà nella sua stessa diocesi fino al suo rientro. La settimana successiva smise di celebrare la Messa nell’incarnazione. Dal te­nore della lettera che scrisse il 30-VII-1927, don Antonio dev’essere rima­sto a Madrid per tutto il mese di giugno 1927. Non consta che si sia incar­dinato nella diocesi di Madrid. Tutti i dati citati si trovano nell’Archivio della Segreteria dell’Arci vescovado di Madrid e nell’Archivio del Seminario Maggiore di Santiago di Compostella.15 Non sembra ci siano testimonianze sul come e sul perché Donna Luz Rodrìguez Casanova si sia interessata a favore di don Josemarìa.

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L’istanza è diretta all’“Ill.mo Vicario Generale della Diocesi di Madrid-Al­calà” (cfr AGP, RHF, D-15147).16 Appunti, n. 178.17 Nata nel 1873, era figlia di Fiorentino Rodriguez Casanova e di Leóni- des Garcia San Miguel. Il titolo del marchesato di Onteiro, per sé e per i suoi discendenti, fu conferito alla madre, già vedova, con Reale Decreto del 15-VII-1891, a motivo dei servigi resi dal marito alla nazione.Le Dame Apostoliche, fondate il 24-V-1924, ottennero l’approvazione de­finitiva da Pio XII nel 1950. La Fondatrice morì in fama di santità l’8-I- 1949. Il 25-1-1958 fu aperto il suo Processo di Beatificazione (cfr E. Iturbi­dè, El amor dijo si. Luz R. Casanova, Pamplona 1962).18 Nel 1927 era Dottore in Sacra Teologia (1900) e in Diritto canonico (1902); Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine Civile di Beneficenza; Consi­gliere per la Pubblica Istruzione; Accademico della Pontificia Accademia Romana S. Tommaso d’Aquino e della Reale Accademia della Lingua Spa­gnola (1926). In precedenza era stato professore di Lingua ebraica nel Se­minario di Siviglia; Canonico di Jaén (1904) e di Santiago di Compostella (1908); cfr E. Subirana, cit., 1927, p. 249.19 Minuta manoscritta del 18-11-1933, nell’Archivio della Segreteria Gene­rale dell’Arcivescovado di Madrid.20 Ibidem, Libro delle Facoltà Ministeriali, n. 8, fogli 53 e 54. Si noti che all’istanza del 10-VI-1927 corrisponde la concessione in data 8-VI-1927: l’unica spiegazione, tenute presenti le circostanze, è che le prime facoltà gli siano state concesse su richiesta di Donna Luz due giorni prima che don Josemaria inviasse l’istanza. “ Santa Barbara” è il nome di una chiesa.21 Cfr E. Subirana, cit., 1927, p. 247.22 II canone 130, par. 1, del Codex luris Canonici del 1917 recitava: «Ex- pleto studiorum curriculo, sacerdotes omnes, (...) examen singulis annis saltem per integrum triennium in diversis sacrarum scientiarum disciplinis, antea opportune designatis, subeant secundum modum ab eodem Ordina­rio determinandum».23 La risposta alla sua richiesta di essere esaminato dal Rettore del S. Mi­chele dice:«Carissimo nel Signore. Sua Ecc. Ill.ma ha disposto che, per rinnovare le facoltà ministeriali, dato che Lei si trova nella condizione prevista dal ca­none 130, si può presentare lì per essere esaminato» (originale in AGP, RHF, D-15003-10)24 Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 487. Mons. J. Echevarria precisa che fu il Rettore stesso a consegnargli «la documentazione in una busta aperta, per­ché s’incaricasse egli stesso di spedirla per posta»; la chiuse e la mise nella prima cassetta postale che trovò all’uscita da S. Michele (cfr Sum. 1947).25 A partire dall’8-VII-1927 gli furono concesse facoltà per un anno in tre occasioni; poi finalmente per cinque anni il 10-VI-1931 (cfr Archivio Dio­

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cesano di Saragozza, Libro delle concessioni delle facoltà ministeriali, anni 1902-1952; fogli 242, 250, 258, 268, 273, 311).Circa le facoltà del 1936 scrisse: “31-V-1936. In questi giorni il Signore, per mezzo del Vescovo di Pamplona e di don José Pou, mi ha sistemato le facoltà di Saragozza: l’Arcivescovo me le ha concesse generali perpetue” (Appunti, n. 1344).Quanto alle lettere dimissorie e commendatizie, gli furono rinnovate an­nualmente dal 1929 al 1931, quando gli fu concesso il permesso di risiede­re a Madrid fino al 1936 (cfr Libro del Registro dei Documenti Arcivesco­vili, Archivio diocesano di Saragozza: anno 1929, f. 406; 1930, f. 191; 1931, f. 300; e anno 1931, foglio 318, numero 3.367: “Permesso per Ma­drid, per cinque anni, e Commendatizie” ).26 Asunción Munoz, AGP, RHF, T-04393, p. 1. Asunción Munoz Gonzàlez (1894-1984) fu una delle prime religiose delle Dame Apostoliche del Sacro Cuore. Conobbe don Josemarìa nel 1927 e quando nel 1929 fu nominata Maestra delle Novizie nel Noviziato di Chamartin de la Rosa (Madrid), il Fondatore l’aiutò con i suoi consigli.27 Don Joaqum Maria de Ayala Astor era nato a Novelda (Alicante) e fu ordinato sacerdote nel 1901. Canonico Dottorale di Cuenca, fu nominato Rettore del Seminario nel 1922. Morì assassinato nel 1936. Cfr S. Cirac, Crònica Diocesana Conquense de la Època Roja, voi. II, Martirologio de Cuenca, Barcellona 1947, pp. 178-181.Si trattenne alla Residenza di via Larra in occasione di un congresso che ebbe luogo a Madrid il 15-19 giugno 1927 (cfr S. Eijan, OFM, Crònica de fiestas cwico-religiosas y especialmente el IV Congreso Nacional de Terciarios Franciscanos que con caràcter iberoamericano se celebrò en Madrid los dìas 15, 16, 17, 18 y 19 de junio de 1927, en conmemoraciòn del VII centenario de la muerte de San Francisco de Asis, Barcellona-Ma- drid 1930).28 Lettera del Rev. Joaqum Maria de Ayala a don Josemarìa, 30-VI-1927 (originale in AGP, RHF, D-06929).29 Cfr lettera di don Antonio Pensado a don Josemarìa, 30-VII-1927 (originale in AGP, RHF, D-05186). Aurora Balenzàtegui era ausiliare delle Dame Apostoliche, incaricata dell’amministrazione della residenza di via Larra.Si conservano due ricevute della pensione di don Josemarìa, firmate da Au­rora Balenzàtegui: una del 5-VIII-1927 (pensione dal 30 luglio al 5 agosto) e l’altra del 19-VIII-1927 (pensione dal 13 al 19 agosto); ambedue in AGP, RHF, D-15246.30 Lettera di P. Prudencio Cancer a don Josemarìa, datata Segovia 19-VII- 1927 (originale in AGP, RHF, D-15003-5).31 Cfr Santiago Escrivà de Balaguer y Albàs, AGP, RHF, T-07921, p. 7; Ja­vier Echevarria, PR, p. 70.32 Avelino Gómez Ledo, AGP, RHF, T-03714, p. 1.33 Fidel Gómez Colomo, AGP, RHF, T-01364, p. 1.

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34 Avelino Gómez Ledo, AGP, RHF, T-03714, p. 2.35 Ibidem, p. 1.36 Fidel Gómez Colomo, AGP, RHF, T-01364, p. 1.37 Avelino Gómez Ledo, AGP, RHF, T-03714, p. 1.38 Lettera 29-XII-1947 / 14-11-1966, n. 16.39 Lettera di P. Cancer a don Josemaria, 9-XII-1927 (originale in AGP, RHF, D-15003-5).40 II Fondatore, che aveva vissuto e sofferto il burrascoso periodo della Dittatura e della Seconda Repubblica spagnola, riassumeva con acume e brevi pennellate la situazione storica per quello che poteva riguardare la Chiesa in una lettera del 14-VT-1964 a Paolo VI; eccone alcuni paragrafi: “Nel 1923 il generale Primo de Rivera fece un colpo di Stato e, d’accordo con Alfonso XIII, instaurò una dittatura, che durò fino al 1930. Benché, considerato nel suo assieme, l’operato di Primo de Rivera sia stato assai benefico per la Spagna, sotto molti aspetti lese - come ogni dittatura - la li­bertà degli Spagnoli. Tale mancanza di libertà, approvata - o tollerata - dal Re, provocò un forte movimento di reazione contro la monarchia, ani­ma del quale erano alcuni noti intellettuali anticattolici, alcuni uomini del­la “ Asociación Católica Nacional de Propagandistas” , diretta dall’allora giornalista Sig. Herrera, e i dirigenti sindacali anarchici e marxisti. Si pre­parava l’inizio del moto pendolare che sposta le masse da un estremo - la mancanza di libertà - a quello opposto: il libertinaggio. Moto pendolare che è sempre potenzialmente grave, ma che è estremamente pericoloso in popoli appassionati e che continua tuttora a incombere come una minaccia sulla Spagna.Il 14 aprile 1931, in seguito allo stato di tensione creatosi soprattutto a Madrid per la vittoria repubblicana nelle elezioni amministrative in alcune fra le città più importanti della Spagna, e per il timore di una possibile guerra civile, Alfonso XIII preferì allontanarsi dal Paese, e fu proclamata la repubblica” (C 5 7 5 3 ,14-VI-1964).41 Santiago Escrivà de Balaguer y Albàs, AGP, RHF, T-07921, p. 8.42 Cfr “A £C” , Madrid 19-IX-1918, p. 27; Alvaro del Portillo, Sum. 490. Le testimonianze non dicono come egli sia entrato in contatto con l’Acca- demia, benché una delle ragioni potrebbe essere il fatto che vi insegnavano diversi sacerdoti, fra cui don Salvador Pérez, don Angel Ayllón e don Isido­ro Arquero, che era incaricato dell’internato.43 Cfr Estratto del Regolamento dell’Accademia, stampato (originale in AGP, RHF, D-03395). Don José Cicuéndez Aparicio era, dal luglio 1910, cappellano - prima della chiesa e poi della scuola - del Reale Patronato di Santa Isabel. Il 2-II-1931 presentò un’istanza all’intendente Generale della Reai Casa e del Patrimonio, in cui esponeva il proprio stato di salute (esau­rimento e nevrastenia acuta) e chiedeva tre mesi di aspettativa. Il giorno 9 dello stesso mese gli furono concessi. Il 12-V-1931 chiese una proroga e il 4-VII-1931 il Ministero degli Interni gliela accordò, sospendendo però lo stipendio (cfr Archivio del Patrimonio Nazionale, sezione Pratiche perso­

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nali, Cassa 182/17, Pratica del Cappellano José Cicuéndez Aparicio). Morì a Villa de Don Fadrique (Toledo) nel novembre 1932, a 58 anni di età, do­po una lunga malattia che lo privò delle facoltà mentali alcuni mesi prima della morte (cfr Alvaro del Portillo, Sum. 271).Quando Don Cicuéndez dovette abbandonare Madrid a causa della malat­tia, divenne Direttore dell’Accademia il professor Floriàn Ruiz Egea, che era Dottore in Filosofia e Lettere e bibliotecario della Biblioteca Municipa­le di Chamberì. Era sposato, senza figli. Morì assassinato durante la guerra civile (cfr Manuel Gómez-Alonso, AGP, RHF, T-03771, p. 1).44 Mariano Trueba, AGP, RHF, T-03277.45 Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 496, e Javier Echevarria, PR, p. 473, che citano Juliàn Cortés Cavanillas, ex alunno di don Josemaria nell’Accade- mia Cicuéndez e poi divenuto un noto giornalista. Negli anni ‘50 fu corri­spondente da Roma del quotidiano “ABC” di Madrid e potè fare spesso visita al Fondatore e avere contatti con Mons. Alvaro del Portillo e Mons. Javier Echevarria, che includono nelle loro dichiarazioni cose raccontate da lui stesso.46 Manuel Gómez-Alonso (AGP, RHF, T-03771, 1), che era stato alunno dell’Accademia nel 1930-31.47 Citato da Javier Echevarria, Sum. 2105.48 Lettera autografa di don José Pou de Foxà, 27-VI-1928 (originale in AGP> RHF, D-15309-1).49 Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 498.50 L’originale si trova in AGP, RHF, D-03395-8.51 L’originale si trova in AGP, RHF, D-03395-8.52 Esiste una lettera di don Angel Ayllón del 27 luglio 1928, su carta inte­stata dell’Accademia, indirizzata a don Josemaria e sulla quale è scritto “Presente” , cioè che il destinatario si trovava a Madrid. Essa dice:«Caro José Maria, ho appena ricevuto una lettera del Direttore con alcune istruzioni che ti devo comunicare per le lezioni del prossimo agosto. Ti pre­go quindi di farmi il favore di passare dall’Accademia per parlare piuttosto a lungo. Nel pomeriggio entro le sette. Presenta i miei devoti omaggi alla tua Signora Madre e ricevi un abbraccio dal tuo migliore amico e collega» (AGP, RHF, D-03395-7).L’ultima annotazione Sull’Accademia Cicuéndez nei suoi Appunti è del 28-1-1932, al n. 591. Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 490. Per quanto si rife­risce all’apostolato del Fondatore con alunni e professori, i riferimenti so­no più frequenti: cfr Appunti, nn. 362, 420, 492, 591; e Javier Echevarria, Sum. 2109.53 Mariano Trueba, AGP, RHF, T-03277. Mariano Trueba fu alunno di don Josemaria all’Accademia durante il corso 1928-29. Era iscritto alla Fa­coltà di Diritto come alunno libero e frequentava l’Accademia per accele­rare gli studi. Fu poi Magistrato del Lavoro a Vizcaya.54 Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 494, che ascoltò questo episodio da José

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Manuel Sanchiz Granerò, che fu alunno di don Josemarìa nel corso 1927- 28, divenne avvocato e fu membro del Consiglio Superiore di Protezione dei Minori.55 Mariano Trueba, AGP, RHF, T-03277. Negli anni sessanta qualcuno, che aveva udito Mariano Trueba raccontare questo episodio, lo mise per iscritto e lo inviò a don Josemarìa. Quando lo lesse, questi annotò in calce allo scritto: “Lo ricordo, 12-2-66” (cfr Joaqum Alonso, PR, p. 1742).56 Mariano Trueba, AGP, RHF, T-03277.57 Ricordo di Juan Cortés Cavanillas ripreso in Alvaro del Portillo, Sum. 496 e Javier Echevarria * Sum. 210 5.58 II progetto fu di Luis Ferrerò; la costruzione fu terminata nel 1924 e inaugurata dal re Alfonso XIII. Cfr Guìa de Arquitectura y Urbanismo de Madrid, tomo II: Ensanche y Crecimiento, capitolo: Ensanche Chamben: Patronato de Enfermos de Santa Engracia, edito dal Collegio degli Archi­tetti di Madrid, Madrid 1984.59 Cfr la pubblicazione delle Dame Apostoliche: Bollettino Trimestrale del- VOpera Apostolica “Patronato de Enfermos33, n. 72, gennaio 1928; n. 78, gennaio 1930.L’Opera di Preservazione della Fede consisteva in scuole per bambini; le Mense di Carità davano da mangiare ai poveri; la Casa Sacerdotale era una residenza per sacerdoti; l’Opera della Sacra Famiglia cercava di lega­lizzare situazioni familiari irregolari, la Società di Protezione assicurava prestazioni mediche e farmaceutiche e pure i funerali; i Roperos di S. Giu­seppe raccoglievano abiti usati; l’Opera della Perseveranza faceva catechesi e formazione di ragazze giovani, l’Associazione delle Anime del Purgatorio offriva suffragi per i defunti, ecc. (cfr ibidem, gennaio 1930, pp. 2-10).60 Aniceta Alvarez Sànchez de Leon, AGP, RHF, T-04865, p. 3.Nacque a Daimiel (Ciudad Reai) nel 1910. Conobbe don Josemarìa fra il 1927 e il 1931, in quanto aiutante delle Dame Apostoliche del Patronato.61 Cfr Maria Vicenta Reyero, Sum. 5970. La testimone (una Dama Apo­stolica che conobbe e trattò personalmente con il Fondatore) precisa che don Josemarìa «era solito celebrare la santa Messa le domeniche e qualche altro giorno nell’oratorio privato della marchesa di Onteiro».62 Pedro Rocamora, AGP, RHF, T-05829, p. 6. D. Juliàn Cortés Cavanillas e D. José Maria Gonzàlez Barredo, dice un altro teste, «mi hanno descritto l’emozione che provavano nel servirgli la Santa Messa, emozione che giun­geva alle lacrime» (Florencio Sànchez Bella, Sum. 7481).63 Emilio Caramazana, AGP, RHF, T-05335, p. 3.64 José Maria Gonzàlez Barredo, AGP, RHF, T-04202, p. 1. Riferisce anche ciò che gli scriveva sua sorella, in ricordo del cappellano del Patronato: «Mi colpì moltissimo un sacerdote che recitava il rosario con tale devozio­ne e attenzione da farmi restare stupefatta» {ibidem).65 Maria Vicenta Reyero, Sum. 5969.66 Asunción Munoz, AGP, RHF, T-04393, p. 2. Religiosa delle Dame Apo­

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stoliche (1894-1984). Conobbe il Fondatore nel 1927 nel “Patronato de Enférmos” durante gli àrlni in cui ne fu cappellano.67 Jdsefina Sàntos* ÀGP, RHF, T-05255, p. 2. Nacque a Segovia nel 1895. Fu aiutante delle religiose nel Patronato, dove conobbe don Josemaria frail 1927 e il 1931,68 Cfr Bollettino Tfimestralé.t., cit., n. 72* gennaio 1928, p. 14; e n. 78, gennaio 1930, p. 12. Le Statìstiche del 1927 sono simili: 4.396 malati visi­tati; 3225 confessioni; 486 iiitziòììi dei malati} 1,192 matrimoni e 161 bat­tesimi (cfr ibidem).69 «Nel Patronato c’erano anche altre attività, alle quali immagino che avrà preso parte anche don Josemaria: la preparazione di futuri sposi e la catechesi per operai», dice Margarita Alvarado Cogheffi* che fu ausiliaria laica delle religiose del Patronato e lì conobbe don Josemaria. Alcuni anni dopo si fece Carmelitana Scalza con il nome di M. Milagros del Santisimo Sacramento (cfr Margarita Alvarado Coghem, AGP, RHF, T-04676,1),Là sua supposizione è ben fondata poiché fra le carte che si conservano del Fondatore c’è un biglietto dell’Opera della Sacra Famiglia, che porta la da­ta del 18-1114928, vigilia di S. Giuseppe, che dice:«Reverendo Don José Maria, mentre le faccio i nostri auguri, la preghiamo di tenete venerdì prossimo una lezione agli sposi nel Patronato, parlando della Fede (sono conversazioni di un’ora, intorno alle otto e un quarto del­la Sera)» (originale in AGP, RHF, D-03283).7Ù Cfr Bollettino Trimestrale..., cit., gennaio 1928, p. 7.71 Cfr ìbidem, gennàio 1928* 7; gennaio 1930, p. 5.Josefimì Santos (ÀGP, RHF* T-05255, p. 2) riferisce che «alla domenica si riunivano nel Pattònato tutti i bambini delle scuole che le Dame Apostoli­che avevano nei diversi quartieri: don Josemaria li confessava».D’altra parte, Maria Vicentà Reyero testimonia (Sum. 5969) che infonde­va vita cristiana «con le sue lezioni e le spiegazioni del catechismo e del Vangelo ai bambini della prima Comunione, nei tre giorni precedenti alla cerimonia».72 Cfr Bollettino Trimestrale..., cit., gennaio 1930, p. 10.«Don Josemaria andava anche nelle scuole che avevamo nei sobborghi di Madrid (...); annualmente facevano la prima Comunione circa 4.000 bam­bini* Faceva loro lezioni e parlava amichevolmente con ciascuno, usando tutta la sua simpatia personale, tutta la sua energia di apostolo, per porta­re Ì cuori di quei piccoli alla conoscenza e all’amore per Gesù Cristo» (cfr Àsunción Munoz, AGP, RHF, T-04393, p. 3).Maria Vicenta Reyero (Sum. 5968) dice che «ascoltava con altri sacerdo­ti le confessioni dei bambini della prima Comunione che molto spesso venivano a farlo nella nostra chiesa». Nel “Patronato de Enfermos” don Josemaria era aiutato, in queste e in altre attività, dall’altro cappellano, don Norberto Rodriguez Garcia (cfr Àsunción Munoz, AGP, RHF, T- 04393, p. 4).73 Margarita Alvarado Coghem, AGP, RHF, T-04676, p. 1.

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74 Meditazione del 19-111-1975.75 «Allora non c’era l’abitudine che dalle parrocchie venisse portato il Si­gnore se non in casi gravi; Luz Casanova chiese il permesso al Vescovado e le fu concesso; perciò don Josemaria portava la Comunione a tutti i malati che lo chiedevano» (Josefina Santos, AGP, RHF, T-05255, p. 2).«Salvo casi eccezionali - riferisce Margarita Alvarado - ai malati portava la santa Comunione il giovedì, con un’automobile che prestavano a Don­na Luz Casanova. Negli altri giorni andava in tram oppure a piedi, come poteva, A volte con il cattivo tempo, perché ci si occupava dei malati sia d ’inverno che d’estate» (Margarita Alvarado Coghem, AGP, RHF, T- 04676, p. 1).76 Josefina Santos, AGP, RHF, T-05255, p. 2.77 Asunción Munoz, AGP, RHF, T-04393, p. 2. La testimonianza di Mons. Alvaro del Portillo ci avverte che don Josemaria svolgeva questa attività con il consenso dei parroci, a norma del Diritto canonico (Sum. 255).78 Asunción Munoz, AGP, RHF, T-04393, p. 2; Maria Vicenta Reyero, Sum. 5979.79 Appunti, nn, 119 e 120,80 Margarita Alvarado Coghem, AGP, RHF, T-04676, p. 2; Asunción Munoz, AGP, RHF, T-04393, p. 1.S1 Appunti, n. 178.82 Asunción Munoz, AGP, RHF, T-04393, p. 1. Da Mercedes Sagiiés, che fu presente ai fatti, Mons. Alvaro del Portillo raccoglie la seguente testimo­nianza: da quando don Josemaria si occupò della cura spirituale dei mala­ti, non accadde mai che uno di loro morisse senza ricevere i sacramenti (Sum. 257).83 Ernesto Julia, PR, p. 1074. “È evidente” - scrisse don Josemaria - “che potrei raccontare la grande bontà e la giustizia di Dio, da me constatate nelle visite agli ammalati” (Appunti, n. 121).84 In AGP, RHF, D-03283 si conserva un buon numero di foglietti dell’O­pera Apostolica e di note inviate al cappellano per le visite ai malati, relati­ve agli anni 1927, 1928 e 1929.85 Maria Vicenta Reyero, Sum. 5976; in una annotazione del 25-XI-1927, per esempio, si legge: «Il malato di via Artistas 8 vuole che vada un’altra volta don José; le Dame Catechiste dicono che è peggiorato» (AGP, RHF, D-03283).86 Cfr ibidem.87 Ernesto Julià, PR, p. 1074.88 Udito dalle labbra del Fondatore da Mons. Javier Echevarrfa (Sum. 1958).89 Josefina Santos, AGP, RHF, T-05255, p. 1; cfr anche Javier Echevarrìa, Sum. 1958.90 Cfr AGP, RHF, D-03283.

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91 «Non gli mancarono allora - spiega Mons. Alvaro del Portillo - favori straordinari, locuzioni divine che s’imprimevano a fuoco nella sua anima e lasciavano un’impronta indelebile nella sua mente» (cfr Sum. 532).92 Meditazione del 2-X-1962.93 Cfr A. del Portillo, Monsenor Escrivà de Balaguer; instrumento de Dios, op. cit., p. 30.94 Lettera 6-V-1945, n. 41.95 Lettera 29-XII-1947 / 14-11-1966, n. 17.96 Maria Vicenta Reyero, Sum. 5972. Si conserva un biglietto del Direttore dell’Accademia con la firma di don José Cicuéndez, in data 30-VI-1930, con il quale inviava a don Josemarìa «l’importo della mensilità di giugno», ma non vi si fa cenno della cifra (cfr AGP, RHF, D-03395).97 Le 150 pesetas erano per le gasse (127), per l’inoltro della pratica (7), per il Patronato Universitario (15) e per la marca da bollo sulla domanda. Gli altri due esami ai quali si iscrisse erano Storia del Diritto internazionale, e Filosofia del Diritto.98 Don Josemarìa non disponeva di risparmi, né di tempo per prepararsi agli esami, per cui poteva prevedere di non potersi presentare all’esame di Storia della Letteratura giuridica, che sarebbe stato di lì a due settimane. Ragione questa che lascia supporre il contributo gratuito di don José Ci­cuéndez, poiché sappiamo che in qualche altra occasione gli pagò i diritti d’esame (cfr Alvaro del Portillo, Sum. 271).Per quanto concerne i due esami superati, è probabile che Filosofia del Di­ritto l’avesse preparata l’anno precedente, visto che il 29 agosto aveva pre­sentato la domanda d’iscrizione all’esame pagando i relativi diritti, ma non potè o non volle presentarsi alla sessione di settembre 1927. Quanto alla Storia del Diritto internazionale, egli aveva già una buona base di cono­scenze giuridiche, visto che a Saragozza era stato promosso con lode in Di­ritto pubblico internazionale.99 Nell’agosto 1928 la Segreteria del Vescovado pubblicava una circolare sugli Esercizi spirituali in cui si diceva: «In conformità con la pratica in uso in questa Diocesi negli anni precedenti, avranno luogo diversi turni di Esercizi spirituali per Sacerdoti nel prossimo autunno. Si ricorda, a questo proposito, l’obbligo che hanno di parteciparvi coloro che non l’abbiano fatto negli ultimi tre anni, in conformità con quanto disposto dal Codice di Diritto Canonico» (Bollettino Ufficiale del Vescovado di Madrid-Alcalà, n. 1469, 16-VIII-1928, p. 249).I Lazzaristi avevano organizzato tre turni: il secondo era dal 30 settembre al 6 ottobre: cfr ibidem, p. 250.100 Cfr Guìa de Arquitectura y Urbanismo de Madrid, op. cit., tomo II, p. 10; cfr anche Anales de la Congregación de la Misión de las Hijas de la Ca- ridad, tomo IX, Madrid 1901, pp. 254-301; M. Horcajada, Resena Histó- rica de las Casas de la Misión fundadas en Espana desde 1704 basta nue- stros dias, Madrid 1915, pp. 481-509. L’edificio ha subito negli anni quaranta una profonda trasformazione e buona parte dell’antica costruzio­

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ne è ora un ospedale. Il resto, ristrutturato e ampliato, è attualmente la re­sidenza della Comunità dei Padri Lazzaristi che si occupano dell’annessa Basilica della Milagrosa.Cfr Anales de la Congregación de la Misión..., cit., p. 290. Agli inizi del se­colo la Casa Centrale dei Lazzaristi occupava un enorme isolato, dentro il quale si trovava l’antica proprietà della Casa de los Cipreses e gli orti della Quinta de Hortaleza.101 II 2 ottobre 1928 ricevette l’illuminazione soprannaturale sull’Opera “mentre leggevo quelle carte” (Appunti, n. 306).102 Ibidem, n. 414. Per gli Appunti intimi cfr il capitolo successivo.103 A questo riguardo racconta Mons. Alvaro del Portillo: «Nostro Padre mi ha detto in diverse occasioni che la ragione che lo spinse a distruggerlo fu che vi aveva annotato molti eventi di tipo soprannaturale e molte grazie straordinarie che il Signore gli aveva concesso. Passando gli anni, poiché non voleva che, basandoci su quei doni straordinari, lo considerassimo un santo, mentre - nostro Padre lo affermava con profonda convinzione -, “non sono altro che un peccatore”, prese la decisione di bruciare quel do­cumento» (cfr ibidem, Nota preliminare, p. 4).104 Al turno precedente dei Lazzaristi (16-22 settembre) assistettero 25 sa­cerdoti; al successivo (14-20 ottobre), 39 sacerdoti: cfr Bollettino Ecclesia­stico del Vescovado di Madrid-Alcalà, n. 1476 (l-XII-1928), p. 384. Il di­rettore degli esercizi era Padre Laredo: cfr Anales de la Congregación de la Misión..., cit., tomo XXXVI, Madrid 1928, p. 609.Secondo quanto prescriveva l’orario, si celebrava la santa Messa fra le set­te e le otto; poi si faceva la colazione e l’esame di coscienza e alle nove si recitavano le Ore Minori, seguite dalla lettura del Nuovo Testamento. Fra questa lettura e la predica successiva delle ore undici c’era tempo libero, per meditare. Fu in questo tempo libero - fra le dieci e le undici del matti­no - che ebbe luogo il fatto che si narra (cfr AGP, RHF, D-03610: Impiego del tempo per chi pratica gli esercizi).105 Quando doveva parlare di quel momento straordinario di grazie il Fon­datore, per umiltà, era molto evasivo; ma c’era un’altra ragione per cui non entrava nei particolari: per dimostrare ai suoi figli che l’Opera non si basava “ su miracolismi; vi ho insegnato con fermezza di non desiderare mai cammini interiori di carattere straordinario” (Lettera 6-V-1945, n. 4).106 E di seguito: “ho ricopiato con una certa unità le note sciolte che avevo scritto fino ad allora ” (Appunti, n. 306).107 Commentando le “note sciolte” , dice J. L. Illanes: «Tutte quelle realtà, che erano fino ad allora come pezzi staccati di un mosaico ancora non as­semblato, acquisiscono improvvisamente il loro senso compiuto sotto la luce superiore che Dio ora gli comunica» (cfr J. L. Illanes, Dos de octubre de 1928: alcance y significado de una fecha, in AA. W , Mons. Josemaria Escrivà de Balaguer y el Opus Dei, Pamplona 1982, p. 78).Interpretazione possibile purché si ammetta che il mosaico era incompleto, che l’illuminazione diede una nuova dimensione alle ispirazioni precedenti

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e che la fondazione - come si vedrà più avanti - esigeva nuove luci divine, per sottolineare l’origine soprannaturale dell’Opera.108 Lettera 6-V-1945, nn. 4-5. Il Fondatore raccontava le proprie esperien­ze personali, anche quando scriveva in terza persona. Su questo cfr anche la Meditazione del 14-11-1964.109 Di nuovo ripeteva il suo ecce ego quia vocasti me (cfr Meditazione del 2-X-1962), séguito della chiamata di Logrono nel 1918 e della sua rispo­sta, quando implorava luce come il cieco di Gerico. Gesù “entrava con quell’atto di autorità nelPanima” (Lettera 9-1-1932, n. 9), ed essa gli si ar­rendeva piena di gratitudine perché egli lo chiamava chiaramente “a lavo­rare nella sua Opera, con una vocazione ben definita” (Lettera 11 -III- 1940, n. 32).110 Meditazione del 14-11-1964; nel 1974 parlava della gioia e “veglia dello spirito che lasciarono nella mia anima - è già passato quasi mezzo secolo - le campane di Nostra Signora degli Angeli” (Lettera 14-11-1974, 1).111 Meditazione del 14-11-1964.112 Meditazione del 2-X-1962.113 Appunti, n. 306; Lettera 14-11-1950, n. 3. Dice Mons. Echevarria: «Il Fondatore non concepì il proposito di fondare l’Opus Dei. Il Signore gli fe­ce vedere l’Opera il 2 ottobre 1928, mentre stava facendo gli esercizi spiri­tuali nel Convento dei Padri Lazzaristi, situato in via Garcia de Paredes, a Madrid (...). Fu quindi un’ispirazione che il Signore trasmise esclusivamen­te al Servo di Dio. Perciò, non è stata un’idea che abbia concepito per con­to suo, e neppure un progetto nato con la partecipazione di altre persone» (Sum. 2139).114 Meditazione del 19-111-1975.115 Istruzione 19-111-1934, nn. 6-7.116 In una annotazione degli Appunti intimi si legge: “Vigilia dei Santi An­geli Custodi, 1 ottobre 1933. Domani sono cinque anni da quando ho vi­sto l’Opera” (n. 1055).Anni dopo, rileggendo questa annotazione, commentava a Mons. del Por­tillo: “Secondo me, è il modo più chiaro per dirlo: da quando ho visto l’O­pera!” (Ibidem, nota 808). Il Signore, quindi, aveva fondato; ed egli aveva “visto” .Spiega Mons. del Portillo, «Nella mente del Padre - in ciò che Dio aveva inciso nella sua anima - non esisteva un fenomeno associativo: perché in questo caso l’Opus Dei non sarebbe ancora stato fondato finché non ci fos­sero stati per lo meno due soci: il Padre e il primo dei suoi figli. Invece l’af­fermazione che l’Opus Dei fu fondato il 2 ottobre 1928, sempre ribadita da nostro Padre, dimostra con chiarezza che nostro Padre vedeva l’Opera come opera di Dio, e lui era solamente uno strumento con cui Dio l’aveva realizzata. Nel momento in cui Dio nostro Signore prese tra le sue mani questo strumento affinché cominciasse a lavorare e gli fece vedere che cosa voleva, l’Opus Dei era fondato» (Appunti, n. 306, nota 300).

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117 Meditazione del 2-X-1962.118 Mons. del Portillo trascrive quanto disse il Fondatore nel 1968 su que­sto momento: “Ho avuto dei presagi fin dagli inizi del 1918. Poi continua­vo a “vedere” , ma senza sapere con esattezza che cosa volesse il Signore: “vedevo” che il Signore voleva qualcosa da me. Io pregavo e continuavo a pregare. Il 2 ottobre 1928 viene “l’idea chiara generale” della mia missio­ne. A partire dal 2 ottobre 1928 non ho più avuto le ispirazioni che il Si­gnore mi stava dando” (Appunti, n. 179, nota 193).119 ìbidem.120 Alvaro del Portillo, Sum. 532.121 Lettera 24-111-1930, n. 1.122 Ibidem, n. 2.123 Ibidem.124 Ibidem, n. 12.125 Ibidem, n. 14.126 Appunti, n. 154.127 Ibidem, n. 306.128 Lettera 9-1-1932, n. 9.129 Appunti, n. 290.130 Lettera 25-V-1962, n. 41.131 Lettera 9-1-1932, n. 92.132 Lettera 14-11-1944, n. 1.133 Lettera 9-1-1932, n. 5.134 Appunti, n. 240.135 Lettera 14-11-1974, n. 10.136 Appunti, n. 215.137 Appunti, n. 171.138 Appunti, n. 93.139 Appunti, n. 993.140 Lettera 11-III-1940, n. 32.141 Lettera 29-XII-1947 /14-11-1966, n. 11.142 Era consapevole di avere assunto “un grande impegno divino e umano” (Meditazione del 3-III-1963).143 Pedro Rocamora, AGP, RHF, T-05829, p. 1; Alvaro del Portillo, Sum. 679; José Romeo, AGP, RHF, T-03809, p. 1.144 Pedro Rocamora, AGP, RHF, T-05829, pp. 2-3.145 Appunti, n. 410, nota 359 e n. 479, nota 393.- Letteralmente sotanillo significa “cantinetta” (NdT).146 «Raccontami quello che fai. Seguirai alla fine la carriera consolare?»

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(AGP, IZL, D-1213, lettera n. 3). Secondo la testimonianza di don Jose­maria al processo di Beatificazione di Isidoro Zorzano, il Fondatore lo in­contrò un giorno a Madrid intorno al 1927, incontro fugace, al quale ne seguirono altri due sulla via Castellana; poi ci fu l’incontro dell’agosto 1930, di cui si parla più oltre nel racconto (cfr Copia Pubblica Transumpti Processum... Servi Dei Isidoro Zorzano Ledesma, anno 1968, voi. IV, fo­glio 1074). Cfr José Miguel Pero-Sanz: Isidoro Zorzano Ledesma, Milano, 1999.147 Citato da Alvaro del Portillo, Sum. 240.148 Don Norberto Rodrìguez Garcia era nato ad Astorga (Leon) nel 1880 ed era stato ordinato nel 1905. Nell’ottobre 1910 risiedeva già a Madrid con i suoi genitori e svolgeva il suo ministero sacerdotale all’Ospedale Ge­nerale. Nel 1914 si ammalò di una forma nervosa. Guarito, ebbe una rica­duta, e fu per un po’ inabile a svolgere incarichi ecclesiastici. Nel settembre 1924 era secondo cappellano del “Patronato de Enfermos” , incarico che tenne fino all’ottobre 1931. In seguito occupò diverse cappellanie di reli­giose e fu coadiutore in una parrocchia di Madrid. Morì P8-V-1968.149 Asunción Munoz, AGP, RHF, T-04393, p. 4.150 Lettera di don José Pou de Foxà a don Josemaria, Avila 4-III-1929 (ori­ginale in AGP, RHF, D-15309).151 «L’Opera era già nata, ma allora non ce ne parlava», dichiara Carlos Sànchez del Rio (cfr AGP, RHF, T-02853, 1).152 Cfr Appunti, n. 1476. Nel 1938, quando anni dopo il Fondatore andò a Burgos, don Manuel era segretario del Seminario della città, che era stato Università Pontificia fino al 1931.153 R. Fernàndez su “La prensa gràfica” , San Salvador, 24-X-1973. Don Rafael Fernàndez Claros è stato Canonico Teologo della cattedrale di San Salvador.154 Lettera di don Rafael Fernàndez Claros a don Josemaria, 4-XI-1929 (AGP, RHF, D-15511).155 Lettera di don Rafael Fernàndez Claros a don Josemaria, 20-111-1930 (AGP, RHF, D-15511). Con analoga finalità apostolica don Josemaria si era iscritto con altri sacerdoti a una Pia Unione, come raccontato negli Ap­punti, n. 536: “Il 12 marzo 1929, giorno di S. Gregorio Magno, don Nor­berto e io fummo iscritti a Lisieux all’Unione sacerdotale dei fratelli spiri­tuali di Santa Teresina” .156 Lettera 29-XII-1947 / 14-11-1966, n. 6. Con il tempo - scriveva nel 1931 - arrivò a sentire una necessità incalzante di chiedere preghiere a tut­ti: “Ho una vera fissazione di chiedere preghiere: a religiose e sacerdoti, a laici devoti, ai miei malati, a tutti chiedo l’elemosina di preghiere per le mie intenzioni, che sono, naturalmente, l’Opera di Dio e le vocazioni per essa” (Appunti, n. 302); e nel 1932: “ Continuo a chiedere preghiere, persino a persone sconosciute, religiose per esempio, che avvicino per strada, chie­

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dendo alla loro bontà l’elemosina spirituale di un “padrenostro” ” (Ibidem, n. 569).157 Cfr Appunti, n. 569, nota 472.158 Cfr Avelino Gómez Ledo, AGP, RHF, T-03714, 2.159 Appunti, n. 195.160 Josefina Santos, AGP, RHF, T-05255, p. 1.161 Appunti, n. 70; cfr ibidem, n. 1594. L’annotazione è dei primi giorni di luglio 1930. Mercedes Reyna O’Farril era una religiosa del “Patronato de Enfermos” morta in fama di santità il 23 gennaio 1929. Il Fondatore si sentì “ spinto ad affidarsi alla sua protezione” fin dalla sua morte, poiché l’aveva assistita negli ultimi giorni (cfr Appunti, nn. 174, 178, ecc.).162 II 31 luglio 1929 iniziò una novena: “Per nove giorni andai al cimitero: a piedi andata e ritorno, dopo aver recitato in ginocchio il santo rosario sulla sua tomba” (Appunti, n. 178). E il giorno successivo, in una lettera a Rosaria Reyna (C 3, l-VIII-1929), diceva: “ Sto facendo una novena a Mercedes (ho cominciato il giorno di S. Ignazio) e vado tutti i giorni alla sua tomba: le chiedo due cose ben precise. Le sarò grato, Signora, se mi aiuterà a importunare sua sorella” .163 Appunti, n. 432; ibidem, n. 1732, nota 1014. Riguardo all’idea del far­si vittima, il Fondatore chiarì in varie occasioni: “Non mi è mai venuto na­turale essere o chiamarmi vittima” (ibidem, n. 413, nota 362). “Non ho mai avuto simpatia né per la parola né per il contenuto del vittimismo” (ibidem, nn. 1372 e 1014. Cfr anche ibidem, n. 1380).164 Lettera 29-XII-1947 /14-11-1966, n. 90.165 Appunti, n. 839.166 Meditazione del 19-111-1975.167 Lettera 8-XII-1949, n. 5.168 Lettera 24-XII-1951, n. 249.169 Lettera 29-XII-1947 / 14-11-1966, n. 19.170 Appunti, n. 306.171 Appunti, n. 179.172 Ibidem, n. 1870. Ancora dopo molti anni gli veniva in mente la propria presunta mancanza di corrispondenza alle grazie fondazionali; e pochi me­si prima della morte si chiedeva: “Quali mezzi ho messo in atto? Non mi sono comportato bene. Sono stato persino codardo...” (Meditazione del 19-111-1975).173 Lettera 29-XII-1947 / 14-11-1966, n. 16.174 Ibidem, n. 17.175 Lettera 9T-1932, n. 84.La stessa idea si trova in Appunti, n. 373, scritta il 3-XI-1931. Tuttavia, questo pensiero risale a parecchio tempo prima, poiché nello stesso punto il Fondatore affermava di avere già scritto sull’argomento. Poiché nei nu­

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meri precedenti non si trova alcun passo che parli della questione, si deve concludere che l’annotazione facesse parte del primo quaderno di Appunti, poi bruciato e perciò fu scritta prima del marzo 1930.176 Meditazione del 14-11-1964. Nel 1951 aveva espresso lo stesso pensiero nella Lettera 14-IX-1951, n. 3.177 Appunti, n. 1870. Don José Luis Muzquiz ricorda di avergli sentito dire che, nei mesi successivi al 2 ottobre 1928, “non aveva nessun desiderio ^i essere fondatore” e che se avesse trovato qualche organizzazione simile al- l’Opera, “egli vi sarebbe entrato con gioia come soldato sieniplice ̂ (cfr J q- sé Luis Muzquiz, AGP, RHF, T- 0467S/1, pt 118), ^178 Appunti, n. 1870. L’espressione “cpse strana” non è us^ta in senso peg­giorativo, ma è riferita a cose in contrasto cqn la naturalezza prQpria dei membri dell’Opus Dei, che sarebbero dovuti essere cittadini e fedeli qual­siasi (cfr Lettera 29-XII-1947 / 14-11-1966, n. 17).179 Meditazione del 14-11-1964. Si rese ben presto conto che in Spagna non esistevano istituzioni di questo tipo; ma gli giunsero notizie di nuove fon­dazioni apparse in altri Paesi: Italia, Svizzera, Germania, Polonia, ecc. (cfr Mons. Alvaro Del Portillo, Sum. 536).180 “Ricomincia l’aiuto speciale, molto concreto, del Signore” (cfr Appunti, n. 179, nota 193).181 Ibidem, n. 475. Poco tempo dopo scriveva ai membri dell’Opera: “Molte volte - benché non sia capace di fare la scena - ho avuto la tenta­zione, il desiderio, di mettermi in ginocchio per chiedervi perdono, figli miei, perché per la ripugnanza a fondare, nonostante avessi abbondanti motivi di certezza per fondare l’Opera, feci resistenza quanto potei: mi ser­va di scusante davanti a Dio nostro Signore il fatto che dal 2 ottobre 1928, pur nel bel mezzo di questa mia lotta interiore, ho lavorato per compiere la Santa Volontà di Dio, cominciando il lavoro apostolico dell’Opera. Sono passati tre anni e ora vedo che forse il Signore ha voluto che subissi allora e che ancora continui a provare una completa ripugnanza, perché abbia sempre una prova esterna del fatto che tutto è suo e nulla è mio93 (Lettera 9-1-1932, n. 84).- Anticamente la memoria di Santa Teresa del Bambino Gesù, ora fissata al 1° ottobre, era il 3 ottobre (NdC).182 Queste informazioni gli giungevano attraverso le riviste religiose spa­gnole. Nel testo del 25-VIII-1930 parlava di qualcosa che stava già facen­do da alcuni anni. “Da parecchio tempo, oltre a portare riviste religiose ai malati (“El Mensajero” , “El Iris de Paz” , riviste missionarie e altre di di­verse congregazioni), le ho distribuite tranquillamente e senza pudori per la strada: nei quartieri bassi ci fu un periodo in cui non potevo passare per le strade senza che mi chiedessero riviste” (Appunti, n. 86).«Se non ricordo male - dichiara J. L. Muzquiz - disse che gliele aveva date un suo amico, Alejandro Guzmàn» (AGP, RHF, T-04678/1, p. 20).183 Appunti, n. 1870. Mons. del Portillo ricorda che il Fondatore gli parlò molte volte di un vecchio amico e condiscepolo della Facoltà di Diritto di

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Saragozza, Enrique Luno Pena, che una volta visitò il “Patronato de Enfer­mos” e che gli parlò dei Paolini, sui quali aveva pubblicato anche un arti­colo sulla rivista “Acción Social" nel 1928. Per l’articolo: E. Luno Pena, Pan y Catecismo, in La Acción Social, n. 73, Saragozza, 1-1928, 7.Inoltre, nel numero del 1928 di un annuario ecclesiastico che allora aveva grande diffusione in Spagna, apparve un ampio articolo sulla fondazione del Cardinal Ferrari. Cfr P. Voltas, CMF, Hombres y hechos de la Iglesia contemporànea. El Cardenal Ferrari. Su Obra. La Compania de San Fa­bio, in E. Subirana, op. cit., 1928, pp. 105-128.184 Cfr L. Martmez de Munecas* Un gran Apóstol de la Acción Católica, in “£ / Mensajero Seràfico”, 1-1-1930, pp. 15-16; 16-1-1930, pp. 50-51; e 1- 11-1930, pp. 81-83. In questi articoli si leggeva che, soppressi in Polonia dal governo zarista gli Ordini religiosi, P. Honorato Kozminski di Biala Podlaska aveva promosso vocazioni religiose organizzandole di nascosto: i membri facevano voti, ma vivevano nel mondo senza abiti religiosi e senza vita regolare di comunità. A partire dal 1892 aveva fondato varie Congre­gazioni religiose, maschili e femminili, per le diverse categorie sociali.P. Laureano Martmez de Munecas era un cappuccino spagnolo che allora risiedeva a Cracovia e lavorava nelle fondazioni di P. Honorato. Successi­vamente ritornò in Spagna e, nel 1950, fondò la Congregazione delle Mis­sionarie Francescane del Suburbio.185 Appunti, n. 1870.Il Fondatore confidò a José Luis Muzquiz che, dopo aver letto le citate rivi­ste, “ne fui molto tranquillizzato e scrissi che quelle associazioni erano completamente diverse dalla fondazione che il Signore voleva da me; e inoltre che c’era un’altra differenza fondamentale: in quei gruppi c’erano donne, mentre nell’Opera non ci sarebbero state donne” (AGP, RHF, T- 04678/1, p. 20).186 Meditazione del 14-11-1964. Pedro Casciaro attesta che «arrivò a scri­vere: “Nell’Opus Dei non ci saranno donne, neppure per scherzo” » (Sum. 6338); e Bianca Fontàn Suanzes dichiara che «all’inizio, il Servo di Dio aveva assicurato che non avrebbe lavorato con donne “neppure per scher­zo” » (PM, f. 1061).187 II 2 ottobre 1928, commenta Mons. del Portillo, il Fondatore vide l’O- pera come era e continuerà a essere sino alla fine dei secoli: sacerdoti e lai­ci in cerca della santità mediante il compimento dei loro doveri familiari e sociali, benché senza esplicito riferimento, per allora, al posto che nell’O- pus Dei sarebbe spettato alle donne e alla Società Sacerdotale della Santa Croce (Sum. 537).L’illuminazione che ricevette il 2 ottobre era “ su tutta l’Opera” : nucleo spi­rituale e messaggio di santità; ma non su dettagli di composizione e di struttura. Per questo, a parer suo, non c’era posto nell’Opera per le donne o, per dirla con le sue parole, “ io non pensavo che nell’Opus Dei ci doves­sero essere donne” (Lettera 29-VTI-1965, n. 2); oppure: “Non ci saranno mai donne” . (Il 2 ottobre 1928 ricevette “l’illuminazione su tutta l’Ope­

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ra” ; il 14 febbraio 1930 “colse” , con una nuova grazia di Dio, un altro aspetto di quel panorama).188 Appunti, n. 1871. Una volta, predicando una meditazione, raccontò: “Andavo a casa di un’anziana signora di ottant’anni che si confessava con me per celebrare la Messa nel piccolo oratorio che aveva. E fu lì, dopo la Comunione, durante la Messa, che venne al mondo la Sezione Femminile. Poi, a suo tempo, andai di corsa dal mio confessore, il quale mi disse: que­sto viene da Dio come il resto” (Meditazione del 14-11-1964). Si noti l’e­spressione “Poi, a suo tempo” , scritta nel 1964.189 Appunti, n. 1872. Fra i documenti conservati nell’Archivio Generale della Prelatura si trova una lettera di A. Slatri, datata Milano 21-VII-1930, in cui si informava il Fondatore sui Paolini e l’Opera del Card. Ferrari; ci sono anche due lettere di P. Laureano Martmez de las Munecas, datate 4- 11-1932 e l-IV-1932, inviate da Cracovia, sulle fondazioni di P. Honorato in Polonia (cfr AGP, RHF, D-15059 e D-03293).Vista la data, queste lettere non hanno evidentemente nulla a che vedere con la ricerca di un’istituzione simile all’Opera, quale la vide il Fondatore il 2 ottobre 1928, ma solo con questioni di carattere organizzativo e giuri­dico; in quegli anni, specialmente nel 1932, egli consultò le costituzioni e i regolamenti di altre istituzioni (cfr Appunti, n. 716, del 10-V-1932). Si consultò su alcuni punti pratici anche con altre persone, come P. Sànchez (cfr ibidem, n. 769, del 7-VII-1932) o P. Postius (cfr ibidem, n. 769 del 7- VII-1932 e n. 808, del 12-VIII-1932); ecc.190 Appunti, n. 1871. Nella meditazione del 14-11-1964 disse: “Perché non ci fosse dubbio che fosse Lui a voler compiere la sua Opera, il Signore agi­va dall’esterno. Io avevo scritto: non ci saranno mai donne - neppure per scherzo - nell’Opus Dei. E pochi giorni dopo..., il 14 febbraio, affinché si vedesse che non era cosa mia, bensì contro la mia inclinazione e contro la mia volontà” .191 Citato da Alvaro del Portillo, Sum. 537.

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Capitolo VI

GLI “APPUNTI INTIMI”

1. Perché “Opera di Dio” ?

Da poco meno di due anni gli Escrivà abitavano nell’ap­partamento di via Ferdinando il Cattolico quando, nel settembre del 1929, la signora Dolores dovette trasferir­si con i figli in via José Maranón. La nuova casa era col­legata con il “Patronato de Enfermos” , ma con un in­gresso indipendente. Il cambio di casa non fu fatto per desiderio di miglioramento, ma perché l’appartamento era assegnato alla cappellania. Era comodo per una per­sona ma molto piccolo per una famiglia; aveva il van­taggio che comunicava con l’edificio principale, consen­tendo al cappellano di recarsi in chiesa senza dover uscire in strada1.

E probabile che la signora Dolores vedesse con mag­gior frequenza il figlio, anche se è solo una supposizio­ne, se si tiene conto delle crescenti attività del sacerdo­te. Perché, oltre agli obblighi della cappellania e le corse di assistenza benefica nei vari quartieri per far vi­sita a malati e bisognosi, aveva molte altre cose da fare. A parte il dovere di mantenere decorosamente la madre e i fratelli come era giusto, doveva terminare gli studi per il dottorato in Diritto, ragione della sua venuta a Madrid. Uno dotato di minor brio e ottimismo di don

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Josemaria si sarebbe scoraggiato sentendosi imprigio­nato in una rete di impegni sempre più fitta.

Alla retribuzione per il suo incarico di cappellano, in­sufficiente per soddisfare le necessità della famiglia, si sommavano le entrate provenienti dall’Accademia Ci­cuéndez e i guadagni di alcune lezioni private2. Nell’in­sieme tutto ciò non toglieva gli Escrivà dalle ristrettezze che sopportavano con dignità fin dagli anni di Lo­grono. Il sostentamento della famiglia, sempre proble­matico, sollecitò la sua inventiva per riuscire a provve­dere ai suoi3. Più di un progetto professionale gli era passato per la testa, in un volo passeggero che presto svaniva assorbito com’era dalla esigente e ineludibile missione di fare l’Opera.

Davanti alla pressione divina e all’instabilità delle cir­costanze familiari, la corda si rompeva dov’era più sotti­le e cioè negli studi di Diritto. Don Josemaria fece quello che potè e se non fu molto non fu per colpa sua. Il 15 dicembre 1929 presentò un’istanza al Preside della Fa­coltà per iscriversi agli esami di Storia della letteratura giuridica e di Politica sociale per la sessione di gennaio 19304. Come sempre, i desideri andavano oltre le sue possibilità. Si potè presentare solamente all’esame di Storia della letteratura giuridica e ottenne un Notevole. Quanto alla tesi dottorale, che costituiva il lavoro più impegnativo per il dottorato, si interessò per trovare un tema di ricerca adatto, con il consiglio del suo ex profes­sore Pou de Foxà, al quale scrisse il 7 marzo 1930:

“Avrà ricevuto alcuni giorni fa una lunga lettera. Oggi le scrivo per mandarle questi fogli sui quali ho copiato i documenti di Diritto canonico che ha la Biblioteca Na­zionale nella Sezione Manoscritti, per sapere se lei ravvi­sa il modo di sfruttare qualcuno di questi manoscritti per la mia tesi: facendo, per esempio, un commento o una critica dell’opera, con un prologo, e alla fine, la bi­bliografia. Se ritiene che nulla di tutto questo mi possa

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servire, le sarei grato - abusando io, come sempre, del suo affetto e della sua bontà - se mi indicasse un argo­mento specifico e le fonti”5.

Prese corpo l’argomento di ricerca per il dottorato con la scelta di un tema di Storia del Diritto canonico concernente l’ordinazione di meticci e figli di meticci nell’America spagnola durante l’epoca coloniale6. Due anni più tardi aveva raccolto materiale sufficiente per poterne informare di nuovo Pou de Foxà:

“Pensavo di inviarle un bel po’ di pagine, ma mi è im­possibile scrivere altro.Ne parleremo se, alla fine, non potrò evitare il mio viag­gio nella città dell’Ebro (...). Se non ci vediamo, in giu­gno le manderò un chilo di carte: si armi di pazienza per leggerle”7.

Come si vede non gli mancava impegno e buona vo­lontà. Ma gli mancavano altri ingredienti, non meno imprescindibili, per finire il lavoro:

“Non ho soldi”. - scriveva negli Appunti - “Poiché de­vo lavorare, a volte eccessivamente, per sostenere la mia casa, non mi resta né tempo né stato d’animo per il lavo­ro del dottorato”8.

In questa frase così breve, detta con tale soavità, sono racchiusi gli oneri materiali che pesavano su don Jose­maria, il quale, sprovvisto di mezzi economici, doveva mantenere sé e i suoi familiari con ore extra di lavoro all’Accademia, senza dimenticare i suoi interminabili obblighi di cappellano. Come poteva dedicarsi alla ricer­ca e allo studio per il dottorato? Oltretutto, non abbia­mo ancora ricordato il suo più gioioso e pesante carico.

Portare avanti l’Opera era un compito gravoso. Per quante ore gli dedicasse don Josemaria, erano sempre poche poiché era chiaro che la fondazione richiedeva

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molta preghiera, molto sacrificio e molto apostolato. Don Josemarìa cercava con tutti i mezzi di ampliare il campo del proprio apostolato. Chiedeva alle Dame e alle signore che cooperavano nel Patronato nomi e indi­rizzi di giovani, loro parenti o conoscenti. Chiedeva loro con insistenza di pregare per le sue intenzioni spiri­tuali. In questo modo, nel suo andare e venire, nella sua febbrile attività apostolica, il cappellano stava procla­mando, se non a parole almeno con i fatti, la novità dell’Opera. E gli rimase sempre il dubbio se le Dame, nell’affaccendarsi del cappellano, avessero mai sospet­tato l’esistenza di un proposito sconosciuto.

“Ma non vi rendevate conto” - chiedeva loro molti anni dopo don Josemarìa - “quando stavo nel Patronato, quando frequentavo quei ragazzi giovani, che c’era qualcosa...?”9.

Con ingenuità e disorientata dal labirinto del tempo, Josefina Santos confessa:

«Non mi ero resa conto di nulla».

L’apostolato che don Josemarìa andava facendo al- l’Accademia, alla residenza Larra e nel Patronato, con giovani e sacerdoti, ebbe presto occasione di estendersi. Nel 1930 iniziò fra persone dedite ad arti e mestieri, un lavoro analogo a quello che portava avanti con gli stu­denti. Esso forse ebbe inizio in una missione per perso­ne di svariate professioni organizzata dal Patronato, in cui il cappellano fu incaricato di fare una predica e di confessare il giorno successivo. Era la prima volta che predicava ufficialmente a Madrid davanti a un pubbli­co di lavoratori. La funzione si svolse nella cosiddetta Cappella del Vescovo, attigua alla chiesa di Sant’An­drea. Don Josemarìa sentì l’emozione di quel momento e si rivolse ai fedeli con parola disadorna, così come gli

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usciva dal cuore, libera dagli ornamenti retorici e dai gesti ampollosi dell’oratoria tradizionale. Per dominare il nervosismo e non tenere le mani a penzoloni, si ag­grappò strettamente alla ringhiera del presbiterio; fis­sando in viso i presenti, parlò con autentico ardore. Era il 13 giugno 1930.

“Ero presente quando, nella Cappella del Vescovo, un giovane avvocato” - si riferisce a se stesso - “parlava di religione a un centinaio di operai. Gli riuscì molto bene. Ne ebbi grande gioia. Questo sarà (anche se non in luo­go sacro) e qualcosa di più...”10.

Dedicò del tempo alla formazione personale di queste persone. Andava a confessarle nei loro centri di riunio­ne e approfittava di ogni incontro per aiutarle11. In que­sto modo ben presto ebbe un gruppo di lavoratori chelo seguiva: “Al momento ci sono anche, nell’Opera, im­piegati e artigiani” , annotava nel dicembre 193012. La chiamata universale alla santità era per persone di tutte le professioni: “I soci che sono artigiani e operai” - continuava la nota - “ devono essere ben consapevoli della bellezza del loro mestiere, davanti a Dio” . E quan­do, in seguito, aderì al gruppo un pittore, osservò: “La sua vocazione è per l’orazione e per l’arte”13.

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L’Opera, che nei suoi primi mesi conduceva una “vita di gestazione, non ancora nata, ma attivissima” , comincia­va a germinare storicamente14. Con il pudore di una madre alla sua prima gravidanza, scrisse il Fondatore: “L’Opera cresceva al di dentro, non ancora nata, in ge­stazione: c’era solo apostolato personale” 15. Senza esempi da seguire né sistemi da copiare si rese conto che, a poco a poco, i tratti che delineavano una nuova spiritualità nascevano dalle sue esperienze personali. Per divina ispirazione, le idee e gli schemi di quella che sa­

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rebbe stata l’organizzazione interna dell’Opera si tradu­cevano in note su note, che il Fondatore inseriva poi nei suoi Appunti. Rileggendo ciò che aveva già scritto nel giugno 1930, si meravigliava davanti a tale grandiosità:

“E continuo a riflettere su quanto ho scritto per convin­cermi subito che ci vuole un’immaginazione da roman­ziere pazzo da legare o una febbre a quaranta gradi per arrivare, con la ragione umana, a pensare a un’Opera così; se non venisse da Dio, sarebbe il progetto di un ti­zio ubriaco di superbia”16.

Tuttavia, l’Opera non era stata ancora battezzata giu­ridicamente. Per il momento agli occhi del Fondatore importava ben poco che essa non avesse nemmeno un nome proprio. Era conosciuta genericamente come “POpera” , così come avrebbe potuto chiamarsi “il la­voro” o “la missione” . Qualcosa che indicasse un com­pito, una dedizione, un progetto di lavoro apostolico, qualcosa che evocasse l’idea di una preghiera che dalla terra si eleva a Dio a lode del suo nome. Per don Jose­maria l’importante era che stava mettendo in pratica il messaggio centrale dell’Opera e che venisse già al suo fianco, o meglio che lui andasse a cercarla, gente di ogni condizione e mestiere per ascoltare la buona no­vella. Non importava che si trattasse di un pugno di anime, perché da quel piccolo gruppo sarebbe cresciuta con il tempo un’impresa vigorosa e universale. Nella se­mente era contenuto l’albero del futuro.

Non deve meravigliare il suo silenzio, conoscendo la ripugnanza di don Josemaria per tutto ciò che compor­tava ostentazione, in conformità con il suo “nasconder­si e scomparire” . Lo spiegava egli stesso:

“Non misi all’Opera alcun nome. Avrei desiderato, se fosse stato possibile - non lo era - che non avesse nome, né personalità giuridica (...). Nel frattempo, chiamava­mo il nostro lavoro semplicemente così: “L’Opera””17.

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Questa espressione generica soddisfaceva l’umiltà del Fondatore, che sperava che il Signore, a tempo debito, avrebbe dato il nome appropriato. In ogni caso la sua idea circa il nome era che dovesse rispondere a due ca­ratteristiche peculiari. In primo luogo, che non facesse alcun riferimento alla sua persona, che non fosse colle­gato a “Escrivà” . E poi che non consentisse di ricavar­ne degli appellativi per i membri, che erano e dovevano sempre essere fedeli cristiani comuni. La soluzione sa­rebbe stata quella di trovare un nome astratto18. L’Ope­ra rimase senza un nome specifico per parecchio tempo.

Benché in precedenza don Josemarìa avesse aperto la propria coscienza ad alcuni confessori, in quel periodo non aveva un direttore spirituale19. Perciò non aveva nessuno - scrisse - “al quale aprire l’anima e comunica­re nel foro della coscienza la cosa che Gesù mi aveva chiesto”20. Stando così le cose, avendo sentito dire nel Patronato che padre Sànchez si prendeva molta cura dei suoi penitenti, una mattina ai primi di luglio del 1930 si recò alla residenza dei gesuiti di via della Fior per chiedergli di dirigere la sua anima:

“Allora con calma gli parlai dell’Opera e della mia ani­ma. Entrambi abbiamo visto in tutto la mano di Dio. Restammo d’accordo che io gli portassi alcuni fogli - era un pacchetto di fogli in formato un ottavo - sui quali avevo annotato i particolari di tutto il lavoro. Glieli portai. Padre Sànchez andò a Chamartm per un paio di settimane. Al ritorno, mi disse che l’Opera era di Dio e che non aveva difficoltà a essere il mio confes­sore. Il pacchetto di fogli l’ho bruciato alcuni anni fa. Mi dispiace”21.

A partire da quel momento, la fine di luglio 1930, don Josemarìa ebbe colloqui periodici con il suo nuovo direttore spirituale per trattare non i temi della fonda­zione, bensì quanto concerneva la sua anima...

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“Ma ritorniamo al nome della nostra Opera” - ricorda il Fondatore “Un giorno andai a parlare con padre Sànchez, in un parlatorio della residenza della Fior. Gli parlai delle mie cose personali (gli parlavo dell’Opera solo in quanto aveva rapporto con la mia anima) e il buon padre Sànchez alla fine mi domandò: “Come va quest’Opera di Dio?” Per strada, cominciai a pensare: “Opera di Dio. Opus Dei! Opus, operatio..., lavoro di Dio. Questo è il nome che cercavo!” E in seguito si chiamò sempre Opus Dei”22.

Quel nome si adattava a meraviglia all’Opera, che fra i lineamenti essenziali ha la santificazione del lavoro. Il nome compendiava la Teologia della santificazione del lavoro, con tutte le considerazioni che ne derivano: di­gnità della vocazione del cristiano che vive e lavora nel mondo, possibilità di un incontro personale con Cristo nei nostri compiti di ogni giorno; il lavoro come stru­mento di apostolato e di corredenzione; la fatica e le at­tività umane, divenute preghiera e sacrificio, che l’uma­nità offre al Creatore: “Deo omnis gloria” ; insomma la santificazione del lavoro, che trasforma i figli di Dio in anime contemplative.

Aveva trovato il nome giusto, che aveva il vantaggio, nel suo significato, di essere un nome “astratto, perché non se ne potesse trarre un appellativo comune per i soci dell’Opera”23. Non aveva prima di allora fissata l’attenzione su questo nome nonostante che, in realtà,lo stesse usando già da molto tempo. E padre Sànchez non stava forse ripetendo ciò che aveva letto nei fogli che don Josemaria gli aveva portato in luglio ?

In realtà fu così, perché in uno degli appunti sulla fondazione - probabilmente di fine marzo, ma comun­que precedente al giugno 1930 - si legge: “non si tratta di un’opera mia, ma dell’Opera di Dio”24.

La citata relazione sulla domanda del suo confessore fu scritta nel 1948, quando don Josemaria cercò di ri­

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costruire le fonti storiche andate perdute (le aveva bru­ciate). È evidente che in tale occasione non consultò gli Appunti che si erano salvati, cioè quelli successivi al marzo 1930. Infatti, se lo avesse fatto, vi avrebbe tro­vata una propria annotazione in data 9 dicembre 1930, nella quale si legge:

“Li'Opera di Dio: oggi mi chiedevo: perché la chiamia­mo così? E rispondo per iscritto (...). Il padre Sànchez, nella sua conversazione, riferendosi alla famiglia non ancora nata dell’Opera, la chiamò 1’“Opera di Dio”. Allora - e solo allora - mi resi conto che nei fogli citati la si chiamava così. E questo nome (Opera di Dio!) che sembra un azzardo, un’audacia, quasi una sconvenienza, il Signore volle che fosse scritto la prima volta senza che10 sapessi quello che scrivevo; e volle il Signore metterlo sulle labbra del buon padre Sànchez, affinché non ci fos­sero dubbi che è Lui che comanda che la sua Opera si chiami così: VOpera di Dio”25.

11 nome gli veniva offerto non dal suo confessore, ma da Dio attraverso il suo confessore. Infatti, come dice chiaramente in questa annotazione, era stato scritto in precedenza rispetto alle date in cui per la prima volta aveva mostrato i suoi appunti a padre Sànchez. Il Fon­datore aveva scritto il nome dell’Opera senza rendersi conto della portata di ciò che stava scrivendo.

È chiaro che, benché alcune volte avesse usato quel nome per riferirsi alla sua impresa apostolica, in realtà il nome Opera di Dio - Opus Dei - non era stato conia­to come tale. Nel suo significato più profondo era una denominazione azzardata e ambiziosa, pur denotando che non era creazione di uomini. Don Josemaria non la utilizzò, dato che in bocca a lui, in rapporto con il suo “nascondersi e scomparire” , l’espressione sarebbe sem­brata presuntuosa. Forse attendeva un segno esterno, che venne quando il Signore lo avvalorò per mezzo di padre Sànchez. Un elemento in più per non dimenticare

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che l’Opera era cosa di Dio e non una sua invenzione. Il Fondatore dell’Opera si vedeva come uno strumento che Dio umiliava di quando in quando, perché non di­menticasse che le idee gli venivano ispirate dall’alto e non erano solo farina del suo sacco26.

Il nome Opus Dei univa all’essenza dell’Opera - la santificazione del lavoro - l’origine divina della sua nascita.

* * ir

Dev’essere stato verso la fine del 1930 quando don Jose- maria notò che Dio gli chiedeva un maggiore impegno nel compito fondazionale. Per farlo era necessario sco­vare del tempo libero in giornate totalmente piene di la­voro. I doveri della cappellania e le visite ai malati del Patronato erano il capitolo che gli consumava più tem­po. Se avesse lasciato il “Patronato de Enfermos” avreb­be avuto molte ore libere, ma gli si sarebbero presentati altri problemi. Sarebbe stato costretto anche a lasciare l’appartamento del cappellano e a dover aumentare le entrate. Ma non era questo il peggio, quanto le diffi­coltà che le disposizioni vigenti creavano ai sacerdoti extradiocesani e il rigore delle norme in base alle quali si concedevano loro le facoltà ministeriali. Secondo quanto stabilito dalle autorità ecclesiastiche diventava praticamente impossibile la residenza a Madrid a coloro che non avessero un valido motivo ecclesiastico. Don Josemarìa ricordava la storia di Antonio Pensado, com­pagno della residenza di Larra, che aveva dovuto ab­bandonare Madrid.

A Natale del 1930 stava quindi cercando il modo di ottenere un incarico pastorale compatibile con la sua missione divina. Tramite una dama di palazzo, che col- laborava con il Patronato, fu presentato ad alcuni fun­zionari della Casa Reale27, che gli procurarono un in­contro con il Segretario del Patriarca delle Indie, don Pedro Poveda28.

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Era il 4 febbraio 1931 quando il cappellano andò a far visita a don Pedro, uomo avanti negli anni e dai modi affabili. Don Josemaria gli espose molto breve­mente i propri desideri. L’altro promise di appoggiar­lo per ottenere la nomina a Cappellano d’Onore di Sua Maestà.

“Di che cosa si tratta?”, domandò il postulante.

Don Pedro gli spiegò che si trattava di un titolo ono­rario, senza incarichi pastorali di alcun genere, con certi privilegi quanto al vestiario e...

“Ma con questa nomina” - interruppe il cappellano- “posso risolvere il problema della mia incardinatone aMadrid?”

No. Era una nomina meramente onoraria e senza alcun diritto a incardinarsi nella capitale e quindi non risolveva il suo caso e non lo toglieva d’impiccio.

“Allora non m’interessa affatto” , replicò29.

Grande fu la meraviglia di don Pedro nel vedere che un giovane sacerdote rifiutava una carica tanto prestigio­sa e ambita dà altri chierici, per la semplice ragione che si voleva incardinare a Madrid per servire le anime. Per questo servizio spirituale - pensava da parte sua don Jo­semaria - non aveva bisogno di compensi né di titoli. E neppure di denaro. E se Dio si era visibilmente impegna­to a spogliarlo di mezzi materiali, non si sarebbe anche preoccupato lui di coprire le spese dell’apostolato?

Poche settimane dopo aver respinto l’offerta del Se­gretario del Patriarca delle Indie, don Josemaria iniziò un’altra trafila ufficiale. Alcune signore, che collabora- vano anch’esse con il “Patronato de Enfermos”, lo pre­sentarono al Sottosegretario del Ministero di Grazia e

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Giustizia, dal cui dipartimento dipendevano gli affari ecclesiastici30. Il dignitario in questione, il signor Martì- nez de Velasco, aveva un posto che gli sarebbe andato alla perfezione, adattandosi esattamente ai desideri del cappellano. Promise di contattare quanto prima don Josemaria. Era il 10 aprile 1931. Non ebbero tempo di stabilire la data del colloquio, perché quattro giorni dopo in Spagna veniva proclamata la Repubblica.

Di questo fallito tentativo lasciò scritto nei suoi Ap­punti: “Dio non l’ha voluto. E a me non importa nulla. Sia benedetto!”31.

2. Le “Caterine”

Questi Appunti intimi ai quali si fa riferimento sono degli scritti di carattere riservato che il Fondatore, per suo esplicito desiderio, volle che non fossero letti prima della sua morte32. Erano scritti antichi e fra essi si tro­vavano le note che Josemaria portò con sé per leggerle e meditarle durante il ritiro dell’ottobre 1928. Ma, come si è detto, il primo quaderno di note e i foglietti primitivi non ci sono pervenuti, poiché furono distrutti dal loro autore. Gli Appunti che si conservano partono dal secondo quaderno, iniziato nel marzo 1930.

Le annotazioni erano solitamente brevi, su svariati temi, e all’inizio le scrisse per proprio profitto spirituale e per considerarli nell’orazione. Le chiamava Caterine perché, come era stata Santa Caterina da Siena a suo tempo, erano strumento per mantenere e ravvivare la tensione spirituale che tempo addietro avevano suscita­to nella sua anima le grazie straordinarie che aveva ri­cevuto fin dalla sua prima chiamata a Logrono33. Lo avrebbe scritto egli stesso:

“Sono note ingenue - le chiamavo Caterine per devozio­ne alla Santa di Siena - che scrissi per molto tempo stan­

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do in ginocchio e che mi servivano come ricordo e solle­citazione. Credo che, in genere, mentre scrivevo con semplicità puerile, stavo facendo orazione”34.

Gli Appunti, tutti manoscritti, occupano otto quader­ni, senza contare quattordici appendici di fogli sciolti. Non sono integri e in più occasioni sono stati sul punto di scomparire. “Ho bruciato” - confessò il loro autore- “uno dei quaderni di appunti miei personali - anni fa- e li avrei bruciati tutti se qualcuno con autorità, e poi la mia stessa coscienza, non me l’avessero vietato”35.

Da quando ebbe come direttore spirituale padre Sàn­chez, don Josemarìa utilizzò gli Appunti anche allo scopo di manifestargli con maggior chiarezza le disposi­zioni della propria anima. Nel terzo quaderno, in una annotazione della fine di febbraio 1931, si legge:

“Quando scrivo queste Caterine (così chiamo sempre queste note) lo faccio perché mi sento spinto a conserva­re non solo le ispirazioni di Dio - credo fermissimamen­te che siano divine ispirazioni - ma anche cose della vita che sono servite e possono servire per mia utilità spiri­tuale e perché il mio padre confessore mi conosca me­glio. Se così non fosse, mille volte avrei strappato e bru­ciato foglietti e quaderni, per amor proprio (figlio della mia superbia)”36.

A quel tempo, il Fondatore aveva già un piccolo gruppo di persone che lo seguivano, fra cui alcuni stu­denti, ai quali faceva conoscere lo spirito dell’Opera at­traverso il commento che faceva loro di alcune sue an­notazioni. Pedro Rocamora, lo studente che gli serviva Messa nel “Patronato de Enfermos” , ricorda che alcune domeniche pomeriggio egli riuniva diversi giovani e leg­geva loro alcune pagine di un quaderno con la coperti­na di tela cerata, oppure commentava loro solo due o tre brevi pensieri37. In questo modo, poiché conservava tra quelle note ispirazioni divine e pensieri sul proprio

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stato d’animo, era esposto alla possibile indiscrezione di quanti leggevano alcune pagine del quaderno. Ciò lo decise a separare, in seguito, quanto doveva trattare con il proprio confessore da ciò che si riferiva all’Opera e ai suoi apostolati, come scrisse il 10 maggio 1932:

“Sto perdendo la libertà di annotare le mie cose in que­ste Caterine perché, non essendosi fatta a parte una rica­pitolazione di quanto si riferisce all’Opera di Dio, se de­vo far conoscere l’Opera mi espongo a far conoscere il resto. Per questo, con l’aiuto di Dio, cercherò di fare questo lavoro quest’estate, separando tutto ciò che è personale e che annoto per il mio direttore e per me”38.

Più volte considerò seriamente la possibilità di dar fuoco a tutti i suoi Appunti intimi; ma il confessore glielo aveva proibito. Egli stesso si rendeva conto che l’attestare questi fatti era un modo di vivere l’umiltà e la semplicità, benché gli costasse moltissimo.

“Ci sono parecchi momenti” - diceva a se stesso - “in cui mi infastidisce l’avere scritto o lo scrivere le Caterine.Le brucerei, se non mi fosse stato proibito. Devo prose­guire sulla strada della semplicità. Ormai cerco di sper­sonalizzare tutto ciò che è possibile”39.

Seguendo la strada della semplicità si vedeva obbliga­to dalla forza delle circostanze a esporre davanti allo stesso interessato, padre Sànchez, le scortesie che ogni tanto gli venivano dal suo confessore.

“Ho scritto questo nei dettagli” - osservò in una delle Caterine in merito a una mancanza di riguardo da parte del confessore - “perché, sicuramente, il P. Sànchez lo dovrà leggere e vedrà che queste piccolezze - che si pre­sentano con relativa frequenza - mi infastidiscono: per­ciò credo che mi servano molto”40.

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Ma se passava sotto silenzio i dati che interessavano la sua vita interiore, dove sarebbe andato a finire? “ Ormai le Caterine non hanno più nulla di intimo. Ometto di annotare tante cose!” , lamentò una volta41.

Considerando le cose con obiettività, senza inutili la­mentele per quanto si è perduto, gli si deve essere grati che, nonostante tutto, i suoi appunti siano molto gene­rosi e spontanei. Spontanei anche nei momenti in cui l’autore usa cautela, come nella Caterina del 3 dicembre 1931, in cui scrisse:

“Stamane sono ritornato sui miei passi, come un bambi­netto, per salutare la Madonna nella sua immagine in via Atocha, sulla parte alta della casa che ha in quel luo­go la Congregazione di San Filippo. Mi ero dimenticato di salutarla: quale bambino perde l’occasione di dire a sua Madre che le vuol bene? Signora mia, che io non di­venga mai un ex-bambino.Non racconterò più dettagli come questo, perché non accada che, esponendoli ai quattro venti, perda queste grazie”42.

È quando stava per descrivere possibili stati di con­templazione mistica, o altri stupendi fatti soprannatu­rali, che l’autore degli Appunti ricorreva al silenzio, alla “ spersonalizzazione” , oppure lasciava a metà il raccon­to: “Ho rinnovato il mio proposito di non scrivere nulla sull’orazione” - ci dice in una Caterina - “a meno che mi venga ordinato o che mi ci veda costretto. Se an­noto qualcosa, perché potrà essermi o essere utile, devo togliere i riferimenti personali”43.

Il risultato finale è che, con tali precauzioni, il lettore rimane nel chiaroscuro quanto a fenomeni ed esperien­ze soprannaturali. Serva d’esempio la Caterina del gior­no successivo a quello in cui aveva fatto il proposito di non riferire particolari sulla propria orazione:

“ 12 dicembre 1931. Oggi Gesù mi ha aperto i sensi,

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durante la recita dell’Ufficio Divino, come poche volte. In pochi attimi, è stata un’ubriacatura”44. E con questo dà per liquidata la faccenda.

La trovata di “ spersonalizzare” , che è adottata spesso nelle Caterine, equivale a presentare i fatti nudi e crudi, senza succo né sostanza, o a volte sfumati nelle parole e nella descrizione, oppure in terza persona. Così annotò il 10 aprile 1932: “Ieri, in un luogo dove si parlava e si sentiva musica, mi venne l’orazione con una consolazio­ne inesplicabile” . Raccontava poi che stava preparando alla prima Comunione le bambine della scuola di Santa Isabel, e terminava lo scritto, senza spiegazioni interme­die, con queste parole: “Subito dopo, l’ubriacatura di Amore: le mie solite sciocchezze!”45.

Naturalmente il lettore si chiederà in che cosa consi­stesse 1’“ ubriacatura d’Amore” o quali fossero le sue solite “ sciocchezze” . Ma l’autore delle Caterine non dà altre spiegazioni.

Ci sono anche occasioni nelle quali metteva il veto alla “spersonalizzazione” per esprimere ciò che sentiva, come quando scrisse:

“Non voglio astenermi dall’annotarlo, anche se da tem­po ho spersonalizzato le Caterine: molte volte, un po’ stanco della lotta (Egli mi perdona), invidio il malato ro­gnoso, abbandonato da tutti in un ospedale: sono sicuro che si guadagna il Cielo molto comodamente”46.

Si può ritenere soddisfatto il lettore da questa descri­zione bruscamente interrotta? È bene che prima di ri­spondere ricordiamo di nuovo quanto detto all’inizio: che per il loro autore, la finalità degli Appunti intimi èlo sfogo per la coscienza e la raccolta di grazie e avveni­menti per portarli alla meditazione. Con tali premesse, noi lettori siamo degli intrusi che entrano furtivamente a curiosare nel segreto di un’anima. Perciò non ci deve sorprendere che si metta al riparo in un guscio di di­

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screzione e di silenzio. Benché in altre occasioni, lo si deve dire, l’autore non cerchi di spersonalizzare gli eventi. Accade semplicemente che la sua penna scorra per vie diverse rispetto alla curiosità o alla comprensio­ne di chi legge la Caterina. Così, per esempio, alla fine di febbraio del 1932 annotava:

“Sabato scorso sono stato al Retiro dalle dodici e mezza all’una e mezza (è la prima volta, da quando sto a Ma­drid, che mi permetto questo lusso) e cercai di leggere un giornale. L’orazione veniva con tale impeto che, contro la mia volontà, dovevo interrompere la lettura: e allora quanti atti di Amore e di abbandono ha messo Gesù nel mio cuore e sulle mie labbra!”47.

Comprende il lettore che don Josemarìa non si per­metteva il lusso di passeggiare per un parco pubblico? Intendeva allora far sapere che si sentiva rapito in ora­zione? No, si riferiva a qualcosa di più semplice: che cercava di leggere un giornale e non ci riusciva. Basta verificare che nelle ultime righe della precedente Cateri­na aveva appena annotato le ondate di orazione che lo invadevano quando si metteva a leggere un giornale: “Voglio annotare, perché è piuttosto strano, che spesso Gesù mi concede orazione quando leggo il giornale”48.

(Si può osservare pure che, preoccupato di scrivere l’episodio della lettura del giornale, si dimenticò del proposito precedente di non fare precisazioni, e ancor meno descrizioni, di fenomeni relativi all’orazione).

In generale, tutte le Caterine che verosimilmente si ri­feriscono a fatti soprannaturali straordinari richiedono, per la loro corretta comprensione, un’ulteriore aggiunta della stessa specie. Vale a dire, una elevazione spirituale che, analogamente all’alzo per le armi da fuoco, com­pensi in un certo senso l’evidente “ spersonalizzazione” effettuata dall’autore. Così, per esempio, quando parla di lacrime si deve intendere, probabilmente, il dono

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delle lacrime; e in molte occasioni in cui parla di orazio­ne dobbiamo pensare, secondo il testo, ad un’alta ora­zione contemplativa. E se, sovente, si dichiara pieno di miserie e di peccati, è perché così si vedeva alla luce delle grazie divine che Dio, per sua misericordia, è solito concedere ai santi. Una conoscenza di sé che li porta alla persuasione di essere grandi peccatori.

E non mancano neppure dei momenti in cui, trasci­nato dalla semplicità, si comprometteva, come quando annunciava: “Uno di questi giorni cercherò di scrivere delle Caterine con ricordi della mia vita, nella quale si vedono veri miracoli”49. (Naturalmente, non gli capitò mai di dare compimento a questa inopinata promessa).

* * 55-

“Gli scopi di queste Caterine” - riassunse il Fondatore in una di esse - “ sono l’Opera e la mia anima”50. All’Ope­ra si riferiscono le luci fondazionalì sulla sua essenza so­prannaturale, le caratteristiche dello spirito, i princìpi del governo e dell’organizzazione. Le ispirazioni ricevu­te dal Fondatore sull’insieme dell’Opera erano come idee-madri, dalle quali deduceva modi, mezzi e casi pra­tici. Di carattere generale è, per esempio, la Caterina del 7 ottobre 1931, scritta esattamente un mese dopo che il Signore aveva confermato con una locuzione l’universa­lità e la perennità dell’Opera:

“Intendo che le caratteristiche dell’Opera di Dio saran­no: unità, universalità, ordine e organizzazione”51.

Dalle linee generali il Fondatore passava poi alla prassi, al particolare, alla realizzazione pratica. Tali idee o iniziative apostoliche a volte venivano attuate tal quali al momento opportuno; altre volte venivano ri­toccate o corrette, secondo quanto riteneva meglio il Fondatore. Così, per esempio, in una Caterina del 1931:

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“(...) sarebbe opportuno che i soci leggessero ogni gior­no, privatamente, un capitolo del Nuovo Testamento (tutti lo stesso, ogni giorno” )52.

(La lettura del Nuovo Testamento rimase come norma quotidiana di pietà, ma non l’uniformità e la lunghezza dei testi).

Del tutto eccezionalmente era il Signore stesso che fissava esplicitamente i particolari, come appare in una Caterina del dicembre 1931:

“Quando ci riuniamo per parlare espressamente dell’O- pera, prima di iniziare la conversazione diremo: “In no­mine Patris, et Filii et Spiritus Sancti. Amen. - Sancta Maria, Sedes sapientiae, ora prò nobis” . Me lo ha chie­sto Gesù stamane nella Basilica di Atocha”53.

Negli Appunti intimi si trovano suggerimenti d’ogni genere, non tutti propriamente fondazionali ma comun­que inerenti alla vita di pietà, al modo di vestire, agli atti liturgici e all’apostolato54.

Il nocciolo di novità che l’Opera comportava nella teo­logia ascetica e pastorale si riflette anche nel lessico che il Fondatore usava. La terminologia, l’ininterrotta battaglia con le parole in funzione di una retta comprensione di quanto voleva esprimere, costituì per lui una dura impre­sa. Perché l’autore delle Caterine intendeva comunicare qualcosa che era essenziale alla natura del messaggio rice­vuto (la santificazione in mezzo al mondo); mentre le espressioni del linguaggio ascetico usuale non si adattava­no a questa idea e il loro significato tradizionale snatura­va ciò che il Fondatore cercava di esprimere. Questo sfor­zo ininterrotto che si percepisce negli Appunti per ottene­re una maggiore chiarezza di espressione si riferisce, in molte occasioni, all’organizzazione dell’Opera e dei suoi membri. Si parla allora per esempio di gradi e di soci, per distinguere la natura e lo spirito laicale dell’Opera da

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quanto è proprio dei religiosi. Oppure si paragona l’Opus Dei a un Ordine militare in mezzo al mondo, chiamando all’inizio i suoi membri Cavalieri Bianchi o Dame Bian­che, nomi che ben presto abbandonò.

A volte la voglia di trovare i vocaboli esatti era con­dannata al fallimento, dato che non esistevano nel lessi­co corrente parole che esprimessero una donazione ra­dicale del cristiano al servizio del Signore senza un mu­tamento della situazione sociale, familiare e professio­nale. “Volevo trovare una parola castigliana diversa da “vocazione” , che racchiudesse un analogo significato” . La si dovrà indicare con chiamata?, si domandava in una Caterina55.

Da qui deriva che in questi dettagli terminologici, come in molti altri aspetti della fondazione storica, esi­sta una chiara differenza fra ciò che appartiene all’es­senza dell’Opera, che il Fondatore ricevette per divina illuminazione il 2 ottobre 1928, e i successivi tentativi umani per la sua messa in opera. L’autore degli Appunti intimi riconosce in anticipo, già nel marzo 1930, cioè fin dalle prime pagine delle Caterine, che “tutte le note scritte in questi fogli sono un germe che assomiglierà all’essere completo così come assomiglia un uovo al ga­gliardo pollo che uscirà dal suo guscio”56.

51- * *

Le note rimanenti riguardano l’anima del Fondatore e trattano della sua vita interiore, gli stati della sua co­scienza e le circostanze esterne in cui svolge l’apostolato e il suo ministero.

La base della conoscenza che egli aveva di se stesso, l’umiltà del Fondatore, partiva da un assioma:

“Pura matematica: José Maria = Asinelio rognoso”57.

Definizione che si trova spesso nelle Caterine, a volte sintetizzata nella sigla b.s. (“ borrico sarnoso” )

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nelle note per il direttore spirituale. In una Caterina del 9 ottobre 1931 descriveva l’orazione di quel gior­no su questo tema:

“Oggi nella mia orazione mi sono confermato nel pro­posito di farmi santo. So che ci riuscirò: non perché sia sicuro di me stesso, Gesù, ma perché... sono sicuro di Te. Poi ho considerato che sono un asinelio rognoso. E ho chiesto - chiedo - al Signore che guarisca la rogna delle mie miserie con la soave pomata del suo Amore: che l’Amore sia un cauterio che bruci tutte le croste e ri­pulisca tutta la rogna della mia anima: che io vomiti il mucchio di spazzatura che c’è dentro di me. Poi, ho de­ciso di essere un asinelio, ma non rognoso. Sono il tuo asinelio, Gesù, che non ha più la rogna. Dico così perché tu mi ripulisca, poiché non mi lascerai mentire... E del tuo asinelio, Bambino Gesù, fa’ quello che vuoi: come i bambini discoli della terra, tirami le orecchie, frusta for­te questo asinaccio, fallo correre quanto ti piace... Vo­glio essere il tuo asinelio, paziente, lavoratore, fedele... Fa’ che il tuo asinelio, Signore, domini la sua povera sensualità di asino, che non risponda recalcitrando allo sprone, che porti con piacere il carico, che il suo pensie­ro e il suo raglio e il suo lavoro siano impregnati del tuo Amore, tutto per Amore!”58.

Con la stessa franchezza con cui dava sfogo alla pro­pria anima scopriva, a volte, quell’insieme di sentimenti sopiti che tanto ci dicono su di una persona. Quando, per esempio, scriveva: “La morte - Donna Pelata - sarà per te una buona amica” 59, non stava facendo uno scherzo tetro di cattivo gusto. Dava libero sfogo a una sorridente familiarità con la conclusione della vita. In contrasto con questa vena filosofica di buon umore, si svela il ritmo drammatico della sua vita interiore, densa e appassionata:

“Signore! Dammi la virtù dell’ordine, (Credo che sia una virtù, e anche fondamentale; per questo la chiedo).

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Signore!! Fa’ che sia a tal punto tuo che non entrino nel mio cuore neppure gli affetti più santi, se non attraverso il tuo Cuore piagato.Signore!!! Signore! Fa’ che impari a tacere (perché di ta­cere non mi sono mai pentito; di parlare, molte volte). Signore!! Fa’ che non ti offenda mai deliberatamente, neppure in modo veniale.Signore! Dammi ogni giorno più amore per la santa pu­rezza, più zelo per le anime, maggior conformità alla tua benedettissima Volontà”60.

Agli Appunti arrivano anche l’eco e gli stridori degli eventi quotidiani di quei giorni, insieme alle questioni della sua famiglia. Le Caterine sono veramente una rete a strascico. Attraverso queste pagine scorrono, frammi­schiate, esplosioni impetuose di amor divino e dichiara­zioni ingenue, come quella del marzo 1934:

“Una notizia fresca: mi sono tagliato i capelli a zero.Che umiliazione essere così grasso!”61.

Espresso in questo modo, con semplice neutralità, il taglio dei capelli ci dice poco. Tuttavia, esso ha implica­to per lui una notevole mortificazione, aumentata da quell’incipiente ingrassare, nonostante i grandi digiuni e le penitenze corporali.

Gli Appunti intimi non costituiscono propriamente un diario, né per il contenuto delle pagine né per la di­scontinuità delle annotazioni che abbracciano essenzial­mente il periodo 1930-1940. Ciononostante essi rap­presentano un’autentica e inesauribile fonte autobio­grafica. Nel loro insieme sono pagine di grande ricchez­za spirituale, che trasudano da ogni parte grazia divina. L’autore vi appare al naturale, trasparente, con inge­nuità da bambino, mezzo nascosto al riparo del riserbo con cui vengono scritti gli appunti. A volte a bassa voce, quasi scusandosi, riferisce particolari minuscoli e deliziosi che forse sarebbero potuti passare inosservati,

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ma che rivelano un magnifico fondo di virtù e di gran­dezza di spirito. Altre volte sfuggono lamentele e giubi­lo, o grida di dolore e di entusiasmo. E l’anima del Fon­datore che sovente si sfogava nelle annotazioni.

“Ritengo” - confessava - “che queste Caterine finiscano con l’essere... un millepiedi: cose meravigliose, che sono di Dio, e puerilità e alleluia da monachella sciocca o da fraticello scemo, che sono espansioni della mia povera piccola anima”62.

Da questa varietà di composizione deriva, per ciò stesso, un’invitante e saporitissima lettura. Il fatto è che al di sopra di tutto esiste un invisibile agglutinante au­tobiografico. Lo stile dell’autore infonde vita e arguzia alle Caterine, qualunque sia il tema che trattano, dando­ci l’immediata evidenza di un cuore focoso e innamora­to. Si veda, per esempio, la sua indignazione per la tra­scuratezza nella liturgia e negli oggetti e luoghi sacri:

“Fa pena vedere come preparano gli altari e i presbitèri per la celebrazione delle feste. Oggi, in una scuola ricca, la pala d’altare era piena di ridicoli ornamenti floreali, posti sopra gradini di legno dipinti a metà. Il tabernaco­lo di solito è messo in tal modo che il sacerdote, anche se è di buona statura, deve sempre salire su un panchetto per aprire, chiudere e per prendere il Signore. Le carte- gloria, in equilibrio instabile... E i sacerdoti pure in equi­librio instabile, perché devono fare vere piroette da charleston per non battere la testa contro una bruttissi­ma lampada di ottone dorato che pende bassissima sul presbiterio o per non finire con il naso per terra, incespi­cando nelle mille pieghe del tappeto, sistemato sui gradi­ni dell’altare, probabilmente dopo essere stato dismesso per vecchiaia dal salotto di una di quelle bigotte, più co­lorate di un pappagallo, che vengono di mattina, già ben dipinte, a ricevere nel loro sepolcro, imbiancato e con macchie di carminio, il Signore della semplicità, Gesù. E

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i canti!... sono tali che si può dire di avere assistito a una Messa, più che cantata, ...ballabile!E meno male se, dietro alla pala d’altare, oltre a una gradinata di legnaccio grezzo, sulla quale ogni giorno passa Cristo in mano al sacerdote per essere esposto, meno male se non c’è un mucchio di ciarpame pieno di polvere che trasforma il luogo santo in un ripostiglio del mercato delle pulci di Madrid. Tutto ciò l’ho visto di persona”63.

Lo stile ricorda molto quello di Teresa di Gesù, per il linguaggio comune, la spontanea semplicità, la scioltez­za di espressione. Tuttavia, fra la Vita della santa e gli Appunti intimi esiste una netta diversità. Nonostante la disinvoltura stilistica delle Caterine, quando arriva il momento di descrivere esperienze mistiche personali don Josemaria scantona. Questo comportamento, que­sta fedeltà alla massima “nascondersi e scomparire”, è il marchio che il Fondatore, per volontà divina, lasciò impresso nell’Opera come caratteristica di predilezione:

“Altre istituzioni” - si legge in una Caterina - “hanno come prova benedetta della predilezione divina il di­sprezzo, la persecuzione, ecc. L’Opera di Dio avrà que­sto: passare inosservata”64.

3. La seconda Repubblica spagnola

Il 14 marzo 1931 don Josemaria annotava questo, pen­siero: “Che poca cosa è una vita per offrirla a Dio!... e se la vita è di un asino... e di un asinelio rognoso!! (...). Nonostante tutto, mi attendo grandi cose, entro que­st’anno 1931”65.

Un mese più tardi, il 14 aprile, in Spagna veniva pro­clamata la seconda Repubblica. Evento di grande riso­nanza storica; rumoroso, più che grande. E, natural­mente, non una delle “grandi cose” che egli si attende­

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va. Le “grandi cose” perdurano nel presente divino, mentre l’avvento di nuovi regimi e di rivoluzioni passa presto a costituire un anello morto nella catena degli avvenimenti passati.

Come conseguenza dei risultati delle elezioni munici­pali del 12 aprile Re Alfonso XIII abbandonò il trono e si esiliò volontariamente per evitare spargimenti di san­gue. In un clima di manifestazioni e di tumulti di piazza si costituì un governo provvisorio, messo insieme dai partiti repubblicani. Il vuoto lasciato dal vecchio regi­me sarebbe stato riempito da un’ondata eccitata di vio­lenze popolari. I politici che avevano conquistato il po­tere erano quasi tutti nemici dichiarati della Chiesa, e intendevano creare in gran fretta uno stato laicista66. Dalle elezioni generali del 28 giugno 1931, alle quali, in segno di protesta, molti cattolici si astennero dal parte­cipare, uscì un’Assemblea Costituente che doveva ela­borare la nuova Costituzione. I deputati erano per la maggior parte socialisti, massoni e radicali; i loro senti­menti e ideologie erano aggressivamente anticattolici67.

Nel frattempo si verificarono eventi dolorosi. L’11 maggio in tutta Madrid bruciavano, con la passività complice delle autorità e della polizia, conventi, chiese e scuole di insegnamento secondario condotte da reli­giosi68. La prima chiesa bruciata fu quella della casa professa dei Gesuiti, in via della Fior. Visto l’atteggia­mento tollerante verso gli incendiari adottato dal go­verno nella capitale della nazione, i capoluoghi di pro­vincia non vollero essere da meno. Il vandalismo incen­diario si propagò immediatamente a molte altre città: Siv iglia, M alaga, Valencia, M urcia, Alicante, Cadice...69. In tre giorni, dall’11 al 13 maggio, furono bruciati moltissimi edifici, quasi tutti chiese e conventi.

Nel caldo dell’estate in Parlamento fu discusso, senza perdere tempo, un progetto di Costituzione frutto di un laicismo arrabbiato. Progetto incomprensibile sotto il profilo democratico, in un Paese a schiacciante maggio­

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ranza cattolica, ma nel quale era carente la formazione civico-religiosa e sussisteva un forte odio anticlericale, come avrebbe descritto in seguito il Fondatore:

“A quell’epoca - nel 1928 - (...) nonostante l’ambiente religioso e il fondo cattolico della mia patria, gli uomini erano abbastanza lontani da Dio. Nessuno si occupava di loro. Le donne avevano di solito un certo pietismo, quasi sempre privo di basi dottrinali. Gli uomini si ver­gognavano di essere devoti. Si respirava l’aria dell’Enci- clopedia: e perdurava la triste spinta del XIX secolo”70.

I dibattiti parlamentari sulla questione religiosa s’im­perniarono sull’articolo 26, che mirava alla completa sottomissione della Chiesa alle leggi civili, con ogni ge­nere di impedimenti e proibizioni. Si proibiva ai religio­si l’esercizio dell’insegnamento. Si minacciava di nazio­nalizzare tutti i beni degli Ordini religiosi; e si ordinavalo scioglimento di quanti facessero voto «speciale di obbedienza ad autorità diversa da quella legittima dello Stato» (chiara allusione ai Gesuiti)71. Ben poco potè fare la minoranza cattolica in Parlamento per evitare l’approvazione dell’articolo.

II 9 dicembre veniva promulgata una Costituzione che era un insulto ai sentimenti cattolici e ai diritti della Chiesa. Di fronte a così sfacciato sopruso non si fece attendere la dichiarazione collettiva dei Vescovi, il 20 dicembre 1931, che dichiarava in maniera «pubblica e ufficiale la ferma protesta e la riprovazione collettiva dell’Episcopato per l’attentato giuridico contro la Chie­sa perpetrato dalla Costituzione appena promulgata»72.

Così, unilateralmente e senza rispettare il Concorda­to in vigore, fu provocato l’ingiustificato scontro fra il nuovo Stato e la Chiesa. E l’attacco prese corpo in base a quanto stabilito dalla legislazione attuativa degli articoli della Costituzione. Il 22 gennaio 1932 fu disciolta la Compagnia di Gesù. Subito dopo furono

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secolarizzati i cimiteri. Quindi fu varata la legge del di­vorzio. La massima tensione fu raggiunta l’anno suc­cessivo quando, il 17 maggio 1933, fu approvata dal Parlamento la legge sulle Confessioni e Congregazioni religiose, in esecuzione dell’articolo 26 della Costitu­zione. Con questa legge il culto cattolico finiva nelle mani dell’autorità civile; tutti i beni ecclesiastici erano dichiarati di proprietà pubblica nazionale; agli Ordini e Congregazioni veniva proibito l’esercizio dell’inse­gnamento; e infine lo Stato si riservava il diritto di an­nullare le nomine ecclesiastiche73.

La risposta fu una nuova lettera collettiva dell’Epi- scopato spagnolo (25 giugno 1933)74 e, da parte della Santa Sede, l’enciclica Dilecfissima nobis (3 giugno 1933) di Pio XI, in cui si legge:

«Non mancammo (...) di far spesse volte presente agli attuali governanti di Spagna quanto era falsa la via da essi seguita e di ricordar loro come non è con il ferire l’a­nima del popolo nei suoi più profondi e cari sentimenti che si può raggiungere quella concordia di spiriti, la quale è indispensabile per la prosperità di una nazione (...). Ma ora non possiamo non levare nuovamente la nostra voce contro la legge, recentemente approvata, “ intorno alle Confessioni e Congregazioni religiose”, costituendo essa una nuova e più grave offesa non solo alla religione e alla Chiesa, ma anche ai decantati princì­pi di libertà civile sui quali dichiara basarsi il nuovo re­gime spagnolo»75.

I politici e gli intellettuali laicisti spagnoli avevano in mano il controllo del potere e della propaganda. Gui­dati soltanto dall’odio per la Chiesa, aggravarono la si­tuazione eccitando il rancore delle masse operaie con­tro le istituzioni religiose e i loro membri76.

Questo, è bene non dimenticarlo, è lo scenario nel quale si muove il Fondatore a partire dal 1931. Questi sono i fatti storici che occorre tenere presenti se si

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vuole valutare la portata delle sue parole e dei suoi at­teggiamenti.

Le pagine più dense degli Appunti intimi corrispon­dono proprio agli anni della Repubblica (1931-1936). Anche quando la finalità delle annotazioni mirava so­lamente all’Opera e alla sua anima, i quaderni di ap­punti sono coinvolti nelle circostanze storiche e i riferi­menti alla persona del Fondatore si intersecano con gli eventi pubblici.

* * *

L’avvento della Repubblica (14 aprile 1931) fu uno scossone che risuonò tragicamente nella vita di quel sa­cerdote, come si legge in una Caterina-.

“La Vergine Immacolata difenda questa povera Spagna! Dio confonda i nemici di nostra Madre la Chiesa! La Repubblica spagnola: Madrid per ventiquattro ore è sta­ta un immenso bordello... Sembra che ora ci sia calma. Ma la massoneria non dorme... Anche il Cuore di Gesù veglia! Questa è la mia speranza. Quante volte, in questi giorni, ho compreso, ho udito le voci potenti del Signore che vuole la sua Opera!”77.

La preoccupazione di don Josemana non era fatta di ragioni politiche. Prendeva gli avvenimenti come veni­vano, con serenità, al di fuori di valutazioni di parte. Al momento di giudicare fatti di natura politica o sociale, il Fondatore metteva sempre al primo posto il fine so­prannaturale delle anime. In questa prospettiva non gli importava tanto il genere di regime, quanto le conse­guenze che la politica dei governi avrebbe avuto sulla vita cristiana dei cittadini. E così consigliava di fare a quanti lo seguivano da vicino, chiedendo loro che rivol­gessero la mente a Dio, come suggeriva a uno dei suoi seguaci nel maggio 1931:

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“Carissimo Isidoro, ho ricevuto con molta gioia il tuo scritto, che tutti attendevamo impazienti (...). Notizie: non ti faccia né caldo né freddo il cambiamento politico: ti importi solo che non offendano Dio. E ripara”78.

Il suo istinto non lo ingannava nel ricevere la Repub­blica con tanta diffidenza. Lo dimostrarono subito i fatti. La settimana successiva a Madrid incominciavano a bruciare i conventi. Bruciava la chiesa dei Gesuiti e aleggiavano spesse coltri di fumo nel cielo di Madrid quando il cappellano, temendo un assalto alla chiesa del “Patronato de Enfermos” e un sacrilegio, decise di ritirare quanto prima le Ostie consacrate. Parlò con Manuel Romeo, colonnello dell’esercito, che aveva co­nosciuto a Saragozza e che abitava non lontano, per portare il Santissimo a casa sua. Poi, in abiti borghesi, con un vestito del figlio del colonnello, accompagnato dal fratello Santiago e da un alunno dell’Accademia Ci- cuéndez, entrò nella chiesa del Patronato79.

“Cominciò la persecuzione” - raccontava in una Cateri­na “Lunedì 11, accompagnato da Manuel Romeo, dopo essermi vestito in borghese con un abito di Colo, mi sono comunicato con la Forma dell’ostensorio e, con una pisside piena di Ostie consacrate avvolta in una ve­ste talare e in un po’ di carta, siamo usciti dal Patronato da Una porta secondaria, come ladri”80.

Il gruppo uscì su via Santa Engracia verso Cuatro Caminos, in silenzio, confondendosi con i passanti. Fra le lacrime, “da solo con Gesù nella pisside” , in­fiammato dal dolore di espiazione per tanti sacrilegi, egli diceva nel profondo dell’anima: “ Gesù, che ogni incendio sacrilego aumenti il mio incendio di Amore e di Riparazione” 81.

(Depose la pisside in casa dei Romeo; e non fu l’uni­ca volta che dovette ritirare precipitosamente il Signore dal tabernacolo)82.

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Anticipando il giudizio storico su quanto stava per soffrire la Chiesa in Spagna, definiva i fatti in poche pa­role: “Accadde che l’inferno si scatenò a Madrid”83. Ciò causò anche il trasferimento degli Escrivà a un nuovo domicilio:

“Il giorno 13 sapemmo che si cercava di bruciare il Pa­tronato: alle quattro del pomeriggio ci recammo con le nostre cose in via Viriato 22, in un brutto appartamento- lato interno - che provvidenzialmente trovai”84.

Si era scatenata una campagna contro la Chiesa. L’anticlericalismo agitava la stampa; questa eccitava le masse e il popolo perseguitava i ministri del Signore85. Ciò che un paio d’anni prima era impensabile, era già possibile alla vigilia della Repubblica:

“Ieri” - scrisse il 22 novembre 1930 - “dal barbiere ho tenuto un comizio, stanco di sentire che prendevano per oro colato le opinioni di quei giornalucoli indecenti che si chiamano “Il Sole” e “La Voce”. Oggi venivo da Cha- martm. Il padre Sànchez mi aveva appena esortato, a proposito di quanto ho appena detto, a non tacere se è per il bene del prossimo, ma a parlare in modo tranquil­lo, senza intemperanze e senza arrabbiarmi”86.E continua il racconto: Non molto lontano dal negozio del barbiere, camminando verso il Patronato, “giunto presso via del Cisne, in via Fernàndez de la Hoz, sono passato vicino a un gruppo di muratori. Uno di essi, in tono di burla, gridò: la Spagna nera! Udire questo e vol­tarmi verso di loro, con aria decisa, fu tutt’uno. Mi ri­cordai di quello che aveva detto il padre e parlai tran­quillo, senza arrabbiarmi. Alla fine mi diedero ragione, compreso quello che aveva gridato il quale, insieme a un altro di loro, mi strinse la mano. Questi, di sicuro, non insulteranno più un altro sacerdote”87.

La sua vivacità di carattere difficilmente passava sopra a sconvenienze o grossolanità verso la persona di

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un sacerdote. Faceva bene padre Sànchez a moderare il temperamento del giovane cappellano. Ma sarebbe in­giusto attribuire gli alterchi al temperamento di don Jo­semaria, poiché le cose si aggravarono in tal misura dall’avvento della Repubblica che gli incidenti erano al­l’ordine del giorno.

Tra la fine di luglio e i primi di agosto del 1931 andò a fare la novena davanti alla tomba di Mercedes Reyna, la Dama Apostolica morta in odore di santità, sepolta nel cimitero dell’Est, noto anche come La Almudena. Si può vedere che non si tratta più di episodi isolati:

“Uno di quei giorni” - scriveva — “accanto a una delle due fontane che ci sono sul percorso che va dalla strada di Aragona all’Est, c’era un gruppo di bambini e di donne che facevano la coda per riempire d’acqua broc­che, recipienti, bidoni di latta. Dal gruppo dei bambini venne una voce: “Un prete! Prendiamolo a sassate” . Con un moto più veloce della volontà chiusi il breviario che stavo leggendo e li affrontai: “Sfacciati! È questo che vi insegnano le vostre madri?” . E aggiunsi anche al­tre parole”88.

(Sarebbe interessante sapere quali parole). Da quanto scrisse in occasione di un’altra visita al camposanto, non si trattava solamente di birichinate o di sfacciatag­gine di bambini:

“Un altro caso: la via di Lista, verso la fine. Questo po­vero prete veniva, stanco, dalla novena. Un muratore si scosta da un lavoro che stanno facendo e dice, insultan­te: “Uno scarafaggio, schiacciamolo!”. Molte volte fac­cio finta di non sentire l’insulto. Questa volta no. “Che coraggioso! - gli dissi- Prendersela con un signore che le passa accanto senza offenderla! E questa la libertà?” . Gli altri lo fecero tacere dandomi ragione, senza parole. Poco oltre un altro muratore volle in qualche modo spiegarmi il perché della condotta del suo compagno:

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“Non è bello, ma, lo vuol sapere?, è l’odio” . E ne fu sod­disfatto ”89.

La demagogia politica aveva spalancato le chiuse dell’odio. Cosa triste per un sacerdote che, nel suo co­stante peregrinare da un quartiere all’altro della capi­tale, vi si imbatteva da ogni parte. Ma se servono altri esempi, non doveva scavare molto nella memoria per trascriverli sugli Appunti. Eccone un altro dei giorni della novena:

“Ancora? Ecco. Tranne l’ultimo giorno, credo che negli altri otto rimanenti aspettasse la mia uscita dal cimitero un diavolo con l’aspetto di un ragazzo di dodici o quat­tordici anni. Questi, quando mi ero allontanato di alcu­ni passi dal portico del cimitero, intonava con un tono da clarinetto, che arrivava fino al midollo delle ossa, le strofe più canagliesche dell’inno di Riego. - Che sguar­di quelli di un operaio che lavorava con altri nella piaz­zetta che sta davanti al cimitero! Se si potesse assassina­re con gli occhi, in questo momento non starei scrivendo le mie Caterine. Ricordo di essere stato guar­dato così una volta nei viali della periferia. Dio mio! Perché quest’odio per i tuoi?”90.

Le cose peggiorarono. Divennero popolari le sassate non meno degli incendi. Il cappellano ricevette più di una sassata, anche se non ne ha fornito i particolari. Le donne del “Patronato de Enfermos” dovevano ar­marsi di molto coraggio per continuare le opere di be­neficenza. Alcune furono malmenate nel quartiere di Tetuàn: «Le trascinarono per strada, colpendole in testa con un punteruolo da ciabattino. Una di loro, Amparo de Miguel, cercò eroicamente di difendere le altre; le strapparono i capelli e la maltrattarono fino a sfigurarla»91.

Il consiglio sugli eventi storici - “Non ti faccia né caldo né freddo il cambiamento politico: ti importi solo

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che non offendano Dio”92 - il sacerdote lo applicava interamente a se stesso. Con il risultato che il suo carat­tere si ribellava; non per i soprusi politici, ma per le of­fese al Signore. Quindi fece il fermo proposito di placa­re gli scatti con i quali dimostrava il suo zelo per la casa di Dio. Allo scopo di dominarsi e di riparare s’im­pose una dura penitenza: non leggere i giornali. In que­sta battaglia ascetica, che fu un’autentica epopea, non ci furono solo allori. I dibattiti parlamentari sulle fac­cende religiose sconfiggevano i suoi buoni propositi. Alcune volte ne usciva vincitore, altre volte vinto:

“Letture: al di fuori di quelle di devozione e di studio (...), ultimamente mi ero proibito persino “Il Secolo Futuro” . Il non leggere giornali per me implica di soli­to una mortificazione non piccola; tuttavia, con la gra­zia di Dio, vi sono stato fedele sino alla fine della di­scussione parlamentare della Legge (!) contro le Con­gregazioni religiose. Che lotte, le mie! Queste epopee le possono capire solo coloro che ci sono passati. Alcune volte, vincitore; la maggior parte delle volte, vinto. - Fatta la storia di questo piccolo evento della mia vita d’ogni giorno, considero la faccenda davanti a Dio no­stro Signore e vedo che, dato l’apostolato in cui Egli mi ha messo, ho bisogno di stare al corrente delle cose che accadono nel mondo e, per armonizzare questa neces­sità con la mortificazione nella lettura, arrivo alle se­guenti conclusioni:...” .

(E di seguito, per tenersi al corrente degli accadimenti del mondo, si imponeva una lettura disciplinata, fissan­do i confini del come e del quando)93.

Anche così, la veemenza del suo zelo per la gloria del Signore lo scuoteva a fondo, come accadde quando fu approvato il famoso articolo 26 della Costituzione:

“Giorno di Santa Teresa di Gesù, 1931. Ieri, quando so­no venuto a conoscenza dell’espulsione della Compa­

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gnia di Gesù e degli altri accordi anticattolici del Parla­mento, ho sofferto. Avevo mal di testa. Sono stato male fino al pomeriggio. Perché poi al pomeriggio, in borghe­se, sono salito a Chamartìn con Adolfo: il padre Sànchez e tutti gli altri Gesuiti erano felici di patire persecuzione per il loro voto di obbedienza al Santo Padre. Che cose belle ci ha detto e con quale serenità!”94.

Gli insulti che riceveva per la strada, più che ferirlo,lo alteravano: ardeva di santa indignazione. Dapprinci­pio non riusciva a passarli sotto silenzio. Poi trovò un rimedio spirituale a burle e volgarità e, senza perdere la serenità, raddoppiò le preghiere per coloro che lo in­giuriavano:

“Proseguono le raffiche di insulti ai sacerdoti” - scrive­va al principio di agosto del 1931 - “Ho fatto il propo­sito, che rinnovo, di tacere anche se m’insultano, anche se mi sputano addosso. Una sera, nella piazza di Cham- berì, mentre mi recavo a casa di Mirasol, qualcuno mi ha tirato in testa una manciata di fango, che quasi mi ha tappato un’orecchia. Non ho fiatato.Anzi: il proposito di cui sto parlando è di “lapidare” questi poveri odiatori a forza di avemarie. Credevo che tale proposito fosse ben solido, ma l’altro ieri non l’ho vissuto per due volte, facendo una chiassata, invece di conservare la mansuetudine”95.

A forza di tenere a bada ingiurie e rispondere con avemarie, creò un nuovo abito nella sua focosa natura. Poche settimane più tardi scrisse questa Caterina:

“ 18-IX-1931. Devo ringraziare il mio Dio per un note­vole cambiamento: fino a poco tempo fa, gli insulti e le burle che, per il fatto di essere sacerdote, mi venivano ri­volte da quando è venuta la repubblica (prima, rarissime volte), mi facevano reagire con violenza. Mi sono pro­posto di raccomandarli con un’avemaria alla Santissima Vergine quando avessi udito grossolanità o indecenze.

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L’ho fatto. Mi è costato. Ora, quando sento parole igno­bili, mi intenerisco tutto, come regola generale, conside­rando la disgrazia di questa povera gente che, così fa­cendo, crede di fare una cosa giusta perché, abusando dell’ignoranza e delle passioni, hanno fatto credere loro che il sacerdote, oltre a essere un pigro parassita, sia lo­ro nemico, complice del borghese che le sfrutta. La tua Opera, Signore, aprirà loro gli occhi!”96.

Non sempre riusciva a mantenere questo atteggia­mento. A volte la ribellione interiore erompeva energi­camente. Una di queste esplosioni ebbe luogo a motivo dello scioglimento della Compagnia di Gesù, come an­notava negli Appunti:

“Il sopruso di cui è stata vittima la Compagnia ha pro­dotto in me una sensazione fisiologica di stanchezza e, naturalmente, di indignazione. Ho avuto ancora, per questo motivo, un alterco su di un tram. Ora tacerò. La società codarda in cui viviamo è un intreccio di egoismi.La tua Opera, Gesù, la tua Opera!”97.

L’Opera era ancora una creatura “ in gestazione” , una semente divina che stava mettendo radici neU’anima del Fondatore.

In pochi mesi, fra il 1931 e il 1932, si verificò un brusco cambiamento nella vita spagnola. L’odio reli­gioso aveva inasprito la convivenza civile. Nei settori intellettuali si respirava accanimento contro le attività religiose, la pietà e la dottrina; nel frattempo don Jo- semaria cercava di portare avanti l’Opera che il Signo­re gli chiedeva, sotto lo stendardo del Regnare Chri- sturn volumus.

“È molto bello” - pensava il Fondatore - “quello che Dio vuole; e d’altra parte non capisco, non vedo perché essendo così necessaria, non sia stata intrapresa prima

5 v??98un opera cosi .

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4. Dal “Patronato de Enfermos” al Patronato di Santa Isabel

Dalle date fondazionali - 2 ottobre 1928 e 14 febbraio 1930 - don Josemaria era uscito fermamente disposto a compiere la volontà di Dio e a cercare la santità, poiché era questo il messaggio che da quel momento in poi do­veva predicare a tutti. Desiderio che esprimeva in modo incisivo quando scriveva, nell’aprile 1930:

“Signore, desidero veramente, una volta per tutte, abor­rire smisuratamente tutto ciò che abbia sentore di om­bra di peccato, anche veniale”99.

In quel primissimo periodo della gestazione comprese che era necessario, prima che l’Opera diventasse di do­minio pubblico, maturare interiormente:

“Non è ancora arrivata la mia ora: prima devo imparare a soffrire, devo avere capacità di orazione; ho bisogno di ritiro e di lacrime”100.

Comprese allora che la futura solidità dell’Opera esi­geva che il Fondatore stesso seppellisse se stesso nelle fondamenta, con molta preghiera e molta espiazione. Scrisse nell’ottobre 1930:

“Sto considerando - e lo scrivo qui perché poi, leggen­dolo, me ne convinco a fondo e mi fa bene - che gli edi­fici materiali, nella loro costruzione, hanno grande so­miglianza con quelli spirituali. E così come la banderuola dorata del grande edificio, per quanto brilli e stia in alto, non conta nulla per la solidità della costru­zione, mentre viceversa una vecchia pietra squadrata na­scosta nelle fondamenta, sottoterra, dove nessuno la ve­de, è di importanza capitale perché non crolli la casa... anche se non brilla come il misero ornamento dorato là in alto... Così in questo grande edificio che si chiama

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“l’Opera di Dio” e che riempirà tutto il mondo, non bi­sogna dare importanza alla banderuola che luccica. Questo verrà! Le fondamenta: da esse dipende la solidità di tutto l’insieme. Fondamenta profonde, molto profon­de e salde: le pietre di queste fondamenta sono l’orazio­ne; la malta che le unirà ha solamente un nome: espia­zione. Pregare e soffrire, con gioia. Scavare molto in profondità; poiché per un edificio gigante occorre una base anch’essa gigante”101.

Perciò si tracciò un piano di priorità nella sua vita in­teriore:

“Primo, orazione; poi, espiazione; in terzo luogo, molto in terzo luogo, azione” (novembre 1930)102.

In accordo con questo piano compose una preghiera affinché la recitassero ogni giorno i membri dell’Opus Dei, nome che aveva dato all’Opera poco prima. (A quel tempo, come si vedrà, don Josemaria aveva solo tre seguaci). Ce lo racconta in una Caterina del 10 di­cembre 1930:

“In questi giorni stiamo facendo delle copie delle “Pre- ces ab Operis Dei sociis recitandae”. Le ha approvate il mio confessore. Si vede che il Signore, perché così deve essere nel profondo la sua Opera, ha voluto che inco­minciasse dalla preghiera. Pregare sarà il primo atto uf­ficiale dei membri dell’Opera di Dio. Per ora il lavoro è personale: ci riuniamo solo per fare orazione”103.

Don Josemaria mendicava preghiere per la strada, come abbiamo detto. Chiedeva agli ammalati che of­frissero i propri dolori sull’altare dell’espiazione, poiché aveva una fede indistruttibile che le sofferenze dell’in­nocente strappano le grazie al Signore e compensano le nostre miserie. Armato di questa fiducia, si attendeva dalla preghiera dei poveri i miracoli del cielo. E non si

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meravigliava che queste sue suppliche non rimanessero mai senza risposta. Per lui era un fatto comprovato:

“Di questo ho una felice esperienza: quando, senza sen­timentalismi, ma con vera fede, ho chiesto al Signore o alla Madonna qualche cosa spirituale (e anche qualcuna materiale) per me o per altri, me l’ha concessa” (10 feb­braio 1931)104.

Fra i tanti casi, ricordava la caduta vertiginosa del giornale “Il Sole” e l’apparizione del “ Crogiolo” . Era ricoverata al “Patronato de Enfermos” una povera donna, chiamata Enriqueta. Era mezza scema. Con la sua balbuzie diceva al cappellano: «Padre, le voglio molto bene». Il cappellano le raccomandò di offrire le comunioni per una sua intenzione (che chiudesse “Cro­giolo” , il giornale anticlericale).

“La superbia dei sapienti” - scrisse poi negli Appunti - “sarebbe stata confusa dall’umiltà di una povera igno­rante. E così è stato. “Crogiolo” è morto. Stanno per editare un altro quotidiano - “Luce” - ma sono sicuro che, se Enriqueta la Tonta continua a pregare, questa lucerna resterà presto senza stoppino”105.

Don Josemaria non smise mai di chiedere preghiere, mendicando dappertutto questa elemosina spirituale, a tal punto, affermava, che era in lui quasi una seconda natura106.

E ne dava le ragioni: “ Sono sicurissimo del potere senza limiti della preghiera (...). La preghiera anticiperà l’ora (l’ora di concludere la gestazione) dell’Opera di Dio. Perché l’orazione è onnipotente” 107. Per lui essa rappresentava l’ossigeno, che non si finisce mai di respi­rare; o la panacea per ogni genere di mali. Se arrivano fatica e preoccupazioni, un momento di orazione - scris­se - “è lo scacciapensieri per noi che amiamo Gesù” 108.

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Nel frattempo, i tristi avvenimenti politici avevano scos­so tutta la Spagna e creato un clima generale di disagio, che si nota dall’interruzione delle Caterine per quasi due mesi. Quando le riprese, in data 15 luglio 1931, il Fon­datore scrisse nelle prime righe: “ Quante cose avrei po­tuto annotare a partire dall’orribile e sacrilego incendio dei conventi! Più avanti ne dirò qualcosa” 109.

È presumibile che con il cambio di casa degli Escrivà la formazione catechetica e la preparazione alla prima Comunione nelle scuole delle Dame Apostoliche e le vi­site domiciliari ai malati, il lavoro del cappellano fosse enorme. Tuttavia si ha la certezza che le impressioni che smise di annotare nei suoi Appunti durante la primave­ra del 1931 siano estranee ai fatti politici di quei giorni. Quando scriveva “più avanti ne dirò qualcosa” , non si riferiva a quelle vicende, ma allo stato della sua anima, descritto in una bella pagina del 31 agosto. Quattro anni di lotta a Madrid; poi, l’inondazione di grazie fon- dazionali. E sempre la sua docilità, il suo abbandono nelle braccia del Signore, come il bambino si abbando­na sicuro in quelle di suo padre. Dio lo aveva condotto a un’alta orazione di unione, dandogli altezza e ampiez­za di orizzonti, attirandolo vicino a Sé:

“Mi vedo come un povero uccellino che, abituato a vo­lare soltanto da albero ad albero o, al più, fino al balco­ne di un terzo piano..., una sola volta ebbe l’ardire di ar­rivare fino al tetto di una casetta, che non era proprio un grattacielo... Ma ecco che un’aquila afferra il nostro eroe - lo aveva scambiato per un pulcino della sua razza- e, fra i suoi artigli poderosi, l’uccellino sale, sale molto in alto, oltre le montagne della terra e le vette innevate, oltre le nubi bianche e azzurre e rosa, ancora più su, fino a guardare in faccia il sole... E allora l’aquila, liberando l’uccellino, gli dice: - Forza, vola!...Signore, che io mai più torni a volare rasoterra! Che sia sempre illuminato dai raggi del Sole divino - Cristo -

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nell’Eucaristia! Che il mio volo non s’interrompa fino atrovare il riposo del tuo Cuore!”110.

Dio gli stava chiedendo da molti mesi di lasciare il “Patronato de Enfermos” per dedicarsi con maggiore intensità all’Opera. Pochi giorni prima dell’avvento della Repubblica sembrava che avesse già risolto il pro­blema, quando si verificò il brusco cambiamento di re­gime politico e la persecuzione contro la Chiesa. Il luogo fondazionale e apostolico di don Josemarìa stava a Madrid, dove doveva esercitare il proprio ministero sacerdotale, con disponibilità di tempo per dedicarsi al­l’apostolato specifico dell’Opera. Ma come sacerdote extradiocesano, incespicava nella nota difficoltà di otte­nere il permesso e le facoltà dal Vescovo di Madrid.

A questo punto, peraltro, né l’uno né l’altro proble­ma lo preoccupavano, sicuro che Dio avrebbe portato avanti la sua Opera. Don Josemarìa era capace, per sal­vare un’anima, di esporsi a gravi pericoli: a contrarre una malattia o che non gli venissero rinnovate facil­mente le facoltà ministeriali. Di fatto aveva già corso entrambi i rischi. Frequentando i malati aveva rischiato molte volte di contrarre malattie contagiose. Quanto alla sua condizione di giovane sacerdote extradiocesa­no, si era messo in evidenza in qualche altra occasione, trascinato dall’ardente zelo per le anime. Un giorno, fa­cendo visita ai malati segnalati dal Patronato, lo avvisa­rono che un giovane tubercolotico aspettava la morte in un bordello, dove abitava sua sorella, una prostituta.Il pericolo di dannazione eterna di quell’anima lo ango­sciò; chiese e ottenne il permesso dal Vicario Generale di tentare di confessare il moribondo e amministrargli gli ultimi sacramenti. Andò a far visita al malato, insie­me ad Alej andrò Guzmàn, ottimo cristiano e già avanti negli anni, dall’aspetto grave, con una bella barba, av­volto in un mantello. Ottenne dalla tenutaria della casa la promessa che nel giorno in cui avrebbe portato il

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Viatico non vi si sarebbero arrecate offese al Signore. Eil giorno stabilito, accompagnato dal Guzmàn, portò la Comunione al tubercolotico111.

La verità è che non era facile per il sacerdote lasciareil “Patronato de Enfermos” , nonostante tante valide ragioni soprannaturali. Con il tempo, il suo cuore aveva messo radici in quel lavoro fra i bambini, i mala­ti e i poveri:

“Sto per lasciare il Patronato. Lo lascio con pena e con gioia. Con pena perché, dopo quattro anni abbon­danti di lavoro nell’Opera Apostolica, durante i quali ci ho messo ogni giorno l’anima, posso ben dire che in quella Casa Apostolica ho messo una buona parte del mio cuore... E il cuore non è un rottame inservibile da buttare via in malo modo. Con pena anche perché un altro sacerdote, nella stessa situazione, nel corso di questi anni si sarebbe fatto santo. Io, invece... Con gioia, perché non ce la faccio più! Sono convinto che Dio non mi vuole più in quest’Opera: lì mi annichilo, mi annullo. Intendo sul piano fisico: di questo passo finirei con l’ammalarmi e quindi a non poter svolgere lavoro intellettuale”112.

Non trovava il modo di lasciare il Patronato e fu il Signore che gli risolse la faccenda, a quanto riferì negli Appunti:

“Non termino queste righe senza aggiungere che è statoil Signore a mettere il punto finale. Io andavo chiedendo nella Santa Messa che si sistemassero le cose per poter smettere di lavorare nel Patronato. Credo che sia stato il quinto giorno di questa petizione quando il Signore mi ascoltò: è stato lui, non v’è dubbio, perché esaudì am­piamente la mia supplica... La concessione fu accompa­gnata da umiliazione, ingiustizia e disprezzo. Sia bene­detto! (...). Nel giorno di Sant’Efrem il Signore mi concesse di lasciare le Dame Apostoliche”113.

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Non sappiamo in che cosa fosse consistita l’umilia­zione, nel momento in cui si svincolò dal Patronato. Ma la decisione presa era già di dominio pubblico se un religioso della Sacra Famiglia, Luis Tallada, scrisse a don Josemarfa alla fine di giugno: «Ho saputo da una lettera dei Padri che Ella stava per lasciare il Patronato. La notizia in parte mi ha sorpreso, come Lei può imma­ginare, e prevedo che sarà difficile per Donna Luz tro­vare un sostituto che possa riempire il vuoto che la se­parazione da Lei determinerà in quella simpatica opera. Non abbondano le persone con spirito di sacrificio e di abnegazione »114.

La festa di Sant’Efrem cadeva il 18 giugno. Peraltro, l’ex cappellano continuò a prestare i suoi servizi nel Pa­tronato per dare tempo alle Dame di trovare un sostitu­to. In mezzo ai torbidi di quella instabilità sociale non era facile coprire il posto vacante. Per quattro mesi, dal giugno all’ottobre, rimase a fare il cappellano e visitare malati. Gli costava andarsene di lì, dove aveva buona parte del suo cuore e dove aveva la possibilità di alle­viare e offrire le sofferenze del prossimo per muovere a compassione il Signore: “Penso che alcuni malati, fra quelli che ho assistito fino alla morte durante i miei anni apostolici (!), facciano forza al Cuore di Gesù” 115, meditava fra sé.

Si sarebbero assuefatte le Dame all’idea che da allora in poi non avrebbero più avuto un cappellano disponi­bile per i casi difficili? Il giorno del commiato definiti­vo, il 28 ottobre, ebbe una piccola contrarietà che colpì molto la sua sensibilità. Forse un commento ingiusto dietro le spalle e di cui si rese conto in seguito, facendo visita ai marchesi di Miravalles116.

Aveva senso il passaggio dal “Patronato de Enfer- mos” al Patronato di Santa Isabel, nel quale don Jose- marìa si vide impegnato all’ultimo momento e con il quale non risolveva la precaria vita economica della fa­miglia? Lasciava un posto fisso, anche se assorbente e

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poco retribuito, per entrare come cappellano interinale in un convento, senza nomina ufficiale e “ senza riceve­re alcuna retribuzione” 117.

Del passaggio a Santa Isabel non era interamente re­sponsabile don Josemaria; e non fu affatto una decisio­ne ponderata. Fu piuttosto la conseguenza delle circo­stanze politiche e, lo si deve riconoscere, dell’estrema generosità del giovane sacerdote. Infatti accadde che, dopo aver lasciato ufficialmente il “Patronato de Enfer- mos” senza tuttavia abbandonarne il servizio, ebbe no­tizia della situazione precaria in cui si trovavano le reli­giose agostiniane del convento di Santa Isabel. Ormai da parecchio tempo il loro cappellano, don José Ci- cuéndez, era malato. Lo avevano supplito i padri Ago­stiniani Recolletti. Tutto era andato bene fino all’avven­to della Repubblica, quando per quei buoni religiosi tutto era divenuto più complicato. Per recarsi dalle mo­nache dovevano attraversare tutto il parco del Retiro, o attraversare strade sterrate e scendere, presso il muro di cinta del Giardino Botanico, fino ad Atocha, per risali­re poi per via Santa Isabel. Zona solitaria, di sobborghi o terreno aperto, non molto raccomandabile per chi ve­stiva un abito talare118.

I terreni che occupava il convento di Santa Isabel erano compresi nella proprietà di campagna del segre­tario di Filippo II, Antonio Pérez. Dopo che i beni di costui erano stati confiscati dalla Corona, nel 1595 nella proprietà era sorta una scuola per bambini poveri, orfani e abbandonati. Alla quale, in onore della princi­pessa Isabel Clara Eugenia, fu dato il nome di Santa Elisabetta, regina di Ungheria.

Vi si trasferì anche, nel 1610, il monastero delle Agostiniane Recollette della Visitazione di Nostra Si­gnora, fondato a Madrid nel 1589 dal beato frate Alonso de Orozco. Le monache agostiniane abitaro­no parte della scuola e si occuparono delle bambine. Passarono dei secoli e, dopo non poche vicissitudini

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storiche, dal 1876 erano le religiose dell’Assunzione a condurre la scuola119.

Nel 1931 le due istituzioni - il Collegio delle Reli­giose dell’Assunzione e il Convento delle Agostiniane Recollette - formavano il Reale Patronato di Santa Isa- bel. Con l’avvento della Repubblica era stata nominata una Commissione dipendente dal Governo per ammi­nistrare tutti i Patronati che erano stati legati alla Co­rona. Le autorità civili repubblicane quindi, senza tener conto dell’autorità ecclesiastica, avocarono a sé la provvista di posti nei Patronati120. D ’altro lato, l’an­tica Giurisdizione ecclesiastica Palatina, della quale don Gabriel Palmer era Vicario Generale, continuò a funzionare finché fu soppressa dalla Santa Sede, che nel 1933 ne trasferì le attribuzioni al Vescovo di M a­drid-Alcalà121.

Questa è, a grandi linee, la storia dei Patronati che un tempo dipendevano dalla Cappella Reale. Il mona­stero delle Agostiniane e il collegio dell’Assunzione at­traversarono nel periodo repubblicano altre difficoltà oltre a quelle meramente giuridiche. Fin da tempi remo­ti, il Patronato di Santa Isabel contava su un Rettore e due cappellani per la cura spirituale delle monache. Mail fatto è che le cappellanie, che per secoli non avevano creato problemi, si trovavano in una situazione deplo­revole e le monache erano senza assistenza spirituale. In effetti, il 16 giugno 1931 cessava dal suo incarico il Rettore don Buenaventura Gutiérrez Sanjuàn, tolto dai ruoli di servizio per Ordinanza Ministeriale122. Il primo cappellano, don José Cicuéndez, era assente per malat­tia dal dicembre 1930123. Quanto al secondo cappella­no, don Juan Causapié, era da tempo passato a un altro Patronato Reale, quello di “Nuestra Senora del Buen Suceso” , di cui era stato nominato Rettore Amministra­tore interinale il 9 luglio 1931124.

In una situazione tanto desolante e dopo aver atteso al convento un sacerdote per un paio di settimane, le

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monache di Santa Isabel cercarono di assicurarsi quello che consideravano un aiuto piovuto dal cielo. Decisero in fretta e furia di nominare cappellano don Josemaria, come egli raccontava negli Appunti il 13 agosto 1931:

“In questi giorni le monachelle di Santa Isabel - di quel­lo che fu Patronato Reale - cercano di ottenere la mia nomina come cappellano di quella Santa Casa. Umana­mente parlando, anche per l’Opera, credo che mi con­venga. Ma me ne sto tranquillo. Non cerco neppure una raccomandazione. Se il mio Padre Celeste sa che sarà per la sua gloria, sistemerà lui la faccenda”125.

La cappellania gli avrebbe procurato continuità ec­clesiastica per risiedere a Madrid, il che rappresentava un grande vantaggio per il Fondatore e per i suoi apo­stolati. Comunque gli sembrava cosa più perfetta non andare in cerca di raccomandazioni. Ma da questo at­teggiamento di passivo abbandono nelle mani di Diolo tolse il suo direttore spirituale, padre Sànchez Ruiz, che gli consigliò di interessarsi attivamente della fac­cenda. Da quanto si può arguire dalle annotazioni di questi mesi negli Appunti, le speranze di ottenere il posto apparivano e scomparivano, come le anse dei meandri di un fiume.

Il 21 settembre non erano definite le pratiche con le autorità civili, ma finalmente don Josemaria potè anno­tare, con gioia e consolazione:

“Giorno di S. Matteo, 1931. Ho celebrato per la prima volta la Santa Messa in Santa Isabel. Tutto per la gloria di Dio”126.

Di fatto, così era già cappellano di Santa Isabel, il che risolveva almeno in parte i suoi problemi di sacerdote extradiocesano. Ma l’ottenere una nomina ufficiale dalle autorità civili era un’altra questione. Continuò a darsi da fare durante l’autunno.

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Padre Sànchez insisteva con lui perché si impegnasse al massimo per ottenere definitivamente la cappellania. Don Josemaria seguiva docilmente il parere del suo confessore. Alcune volte trovava provvidenziale il corso che prendevano le cose, quando qualcuno si of­friva di dargli una mano. Altre volte arrivava alla con­clusione che la faccenda si complicava sempre più. “ Sembra che il demonio si metta a complicare la fac­cenda di Santa Isabel, come se gli dispiacesse molto” , annotava il 12 novembre127. Fu davvero provvidenzia­le constatare, la settimana successiva, di avere evitato di essere espulso dalla diocesi di Madrid. In effetti, come cappellano di Santa Isabel, ora era passato sotto la giurisdizione ecclesiastica palatina, trattandosi di un posto in un antico Patronato Reale. Proprio in quei giorni il Vescovo di Madrid stava rispedendo alle dio­cesi d’origine i chierici extradiocesani, stando a quanto leggiamo negli Appunti:

“Un’altra delicatezza di Gesù verso il suo asinelio: da queste Caterine si deduce che ora appartengo alla giu­risdizione del Sig. Patriarca delle Indie. Ora, si sa cheil Sig. Vescovo di Madrid fa firmare a tutti i sacerdoti della capitale dei fogli che, secondo quanto afferma pubblicamente, non hanno altro scopo che di inviare alle loro rispettive diocesi i signori Preti che non siano di questa diocesi di Madrid-Alcalà. Natural­mente, da come Dio ha disposto le cose, tutto questo non mi riguarda”128.

Dalla sera al mattino, senza sforzo da parte sua, don Josemaria si vedeva quindi garantita la permanenza a Madrid. Quanto a ottenere dal governo la nomina uffi­ciale retribuita, egli chiedeva al Signore “che, purché convenga per l’Opera, mi procuri questa sistemazione. Ma se mi dovesse allontanare, sia pure di un millime­tro, non la voglio né la chiedo”129.

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5. Nuove luci fondazionali

Nel momento in cui sistemava le cose per tenere il Fon­datore più vicino alla Croce temprando la sua anima nel dolore, Dio stava anche levigando lo strumento che do­veva portare a compimento i piani divini sull’Opus Dei. Durante l’estate del 1931, in mezzo a grandi tribolazio­ni, don Josemaria ricevette nuove luci sul messaggio centrale della dottrina e dello spirito dell’Opus Dei. Illu­minazioni che gli facevano comprendere aspetti già im­pliciti nell’essenza dell’Opera. Dio lo assisteva così nei suoi compiti fondazionali, dandogli la falsariga per la loro realizzazione, persino nei particolari.

Quando i suoi fratelli si recarono a Fonz per passarvi le vacanze estive, don Josemaria rimase solo con sua madre nell’appartamento di via Viriato, dove si era sta­bilito dopo aver lasciato l’abitazione annessa al “Patro­nato de Enfermos” . Fu allora che il Signore cominciò a operare le “grandi cose” presagite dalla sua anima mesi addietro. Una di esse ebbe luogo il 7 agosto 1931. L’ac­caduto affiora in una lettera del 1947:

“Mi vergogno” - confessava prima di iniziarne la rela­zione - “ma ve lo scrivo, adempiendo alle indicazioni che ho ricevuto: poche cose di questo genere vi raccon­terò” . E proseguiva:“Il giorno della Trasfigurazione, mentre celebravo la santa Messa nel “Patronato de Enfermos” in un altare laterale, mentre alzavo l’Ostia ci fu un’altra voce senza suono di parole.Una voce, come sempre, perfetta e chiara: Et ego si exaltatus fuero a terra, omnia traham ad me ipsuml (Gv 12,32). E il concetto preciso: non è nel senso in cui lo dice la Scrittura; te lo dico nel senso che mi mettiate in cima a tutte le attività umane; che, in tutti i luoghi del mondo, ci siano dei cristiani con una dedizione perso­nale e liberrima, che siano altri Cristi”130.

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È chiaro che, se non fosse esistita un’annotazione su quanto accaduto quel giorno, sarebbe difficile calibrareil fatto in senso soprannaturale, perché il pudore non consentiva al sacerdote che una confessione a metà. Or­bene, ecco la Caterina relativa a quel giorno:

“7 agosto 1931. Questa diocesi celebra oggi la festa della Trasfigurazione di nostro Signore Gesù Cristo. Nel formulare le intenzioni della santa Messa, mi sono reso conto del cambiamento interiore operato da Dio in me, in questi anni di residenza nella ex-Corte... Un cambia­mento avvenuto nonostante me stesso: senza la mia cooperazione, posso dire. Credo di aver rinnovato il proposito di indirizzare tutta la mia vita al compimento della Volontà divina: l’Opera di Dio. (Proposito che rin­novo in questo istante con tutta l’anima). Giunse il mo­mento della Consacrazione: nell’alzare la Sacra Ostia, senza perdere il dovuto raccoglimento, senza distrarmi- avevo appena fatto mentalmente l’offerta all’Amore misericordioso - si presentò al mio pensiero, con forza e chiarezza straordinarie, quel passo della Scrittura: “et si exaltatus fuero a terra, omnia trabam ad me ipsum” (Gv 12,32). In genere, di fronte al soprannaturale, ho paura. Poi viene il “ne timeas! sono Io”. E compresi che saranno gli uomini e le donne di Dio ad innalzare la Croce con la dottrina di Cristo sul pinnacolo di tutte le attività umane... E vidi il Signore trionfare e attrarre a sé tutte le cose.Pur sentendomi vuoto di virtù e di scienza (l’umiltà è la verità..., senza fronzoli), vorrei scrivere dei libri di fuoco e farli correre per il mondo come una fiamma viva, che dia luce e calore agli uomini e trasformare tanti poveri cuori in braci ardenti per offrirli a Gesù come rubini della sua corona di Re”131.

Questa nuova luce era una grazia specifica che con­fermava il messaggio del 2 ottobre, sottolineando il va­lore del lavoro professionale all’interno dello spirito dell’Opera, come mezzo di santificazione e di apostola­

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to132. Nello stesso tempo viene messa in risalto la fun­zione del lavoro nell’economia della Redenzione, come eco del “ricapitolare tutte le cose in Cristo” di cui scri­ve S. Paolo agli Efesini133.

Cristo, innalzato sulla croce per essere guardato dagli uomini, è segno di salvezza per molti. La guari­gione redentiva dell’umanità guastata dal peccato dei nostri progenitori nel paradiso terrestre era già prefi­gurata dal serpente di bronzo che Mosè fece innalzare perché fossero risanati quanti erano stati morsi dai ser­penti nel deserto.

Così pure Cristo, inchiodato sulla croce, oggetto delle burle dei nemici e del dolore degli amici, è segno di con­traddizione per molti. Ma non sta in questa visione del Salvatore, condannato a morte e vittima sul Calvario, il significato della locuzione ricevuta da don Josemaria nella festa della Trasfigurazione, bensì nel fatto che Egli vuole che si stabilisca il dominio del suo amore attraver­so le attività degli uomini. Affiora di nuovo sulle labbra del Fondatore il “regnare Christum volumus” : mettere ai piedi di Cristo tutte le attività degli uomini, il prodot­to dei loro sforzi e la creatività della loro intelligenza, come piedistallo di lode (“Deo omnis gloria” ), affinché regni sulle volontà degli uomini e domini tutto il creato.

La potenza creativa dell’uomo, partecipazione del potere creatore di Dio, si mette in evidenza nella sua vocazione umana, nella sua vocazione professionale. E allora che lo spirito di laboriosità, alla ricerca dell’ope­ra perfetta da offrire a Dio applicandosi al lavoro con la massima intensità, lo trasforma in mezzo di santifica­zione e di apostolato. Perciò, consacrando a Dio le opere delle nostre mani e della nostra intelligenza, ele­viamo la vocazione umana all’ordine soprannaturale; operazione che, per azione della grazia, racchiude un effetto santificante che avvicina il cielo alla terra. Così realizziamo davvero la riconciliazione di tutte le cose con Dio; perché, dall’interno del mondo, l’intera crea­

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zione sarà attratta dalla Croce verso l’alto, per essere offerta da Cristo al Padre.

Il lavoro per il cristiano non è solamente un obbligo familiare o un dovere verso la società. Il lavoro ci inse­risce in pieno nell’economia della Redenzione ed è stru­mento apostolico per partecipare alla missione salvifica della Chiesa, secondo quanto diceva il Fondatore:

“Considerando la grandezza del nostro compito aposto­lico in mezzo alle attività umane, cerco di tenere presen­ti nella memoria, accanto alle scene della morte - del trionfo, della vittoria - di Gesù sulla Croce, alcune sue parole: et ego si exaltatus fuero a terra, omnia traham ad meipsum (Gv 12,32)-, quando sarò innalzato sopra la terra, attirerò tutto a me.Uniti a Cristo mediante l’orazione e la mortificazione nel nostro lavoro di ogni giorno, nelle mille circostanze umane della nostra vita semplice di cristiani comuni, compiremo la meraviglia di mettere tutte le cose ai piedi del Signore, innalzato sulla Croce, dove si è lasciato in­chiodare dall’amore per il mondo e per gli uomini.In questo modo tanto semplice, lavorando e amando nei compiti propri della nostra professione o mestiere,10 stesso che facevamo quando Egli ci è venuto a cerca­re, adempiamo l’impegno apostolico di mettere Cristo in cima e nella profondità di tutte le attività degli uomi­ni: perché nessuna delle attività oneste è esclusa dal­l’ambito del nostro lavoro che diventa manifestazione dell’amore redentore di Cristo.In questo modo, il lavoro è per noi non solo il mezzo naturale per provvedere alle necessità economiche e per stare in logica e normale comunità di vita con gli altri uomini, ma è anche - e soprattutto - il mezzo specifico di santificazione personale che Dio nostro Padre ci ha indicato è il grande strumento di apostolato e di santifi­cazione che ci ha messo a disposizione per fare in modo che in tutto il creato risplenda l’ordine da Lui voluto.11 lavoro, che deve accompagnare la vita dell’uomo sulla terra (cfr Gn 2,15), è per noi nello stesso tempo - e in

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grado massimo, perché alle esigenze naturali se ne uni­scono altre di ordine prettamente soprannaturale - il punto d’incontro della nostra volontà con la volontà salvifica del Padre celeste”134.

i r * *

Fin dall’inizio il Signore aveva mostrato al Fondatore l’Opus Dei come un disegno di portata universale, cat­tolica. Non a caso una Caterina del 2 ottobre 1930 af­fermava, con fede assoluta, che l’Opera di Dio “riem­pirà il mondo intero” 135.

In quei giorni dell’estate 1931 l’anima di don Jose- maria - come spiegheremo più avanti - era immersa in grandi tribolazioni. Di esse il Signore si serviva per puri­ficarne gli affetti e condurlo a un totale abbandono nel­la Provvidenza, benché all’intorno le circostanze stori­che fossero davvero calamitose. Nonostante tutto, don Josemaria non incrociò le braccia in attesa di tempi più propizi. La missione che gli era stata affidata lo incalza­va. In seguito, ricordando questi anni in cui il Signore lo pressava perché vivesse esclusivamente di fede, lasciò te­stimonianza scritta dell’aiuto divino:

“I primi passi, in verità, non sono stati per nulla facili. Ma il Signore, tutte le volte che era necessario - non parlo di miracolismi, ma del modo abituale con cui il Padre del Cielo tratta i propri figli quando sono anime contemplative -, è accorso sempre a darci la fortezza so­prannaturale (...). E fece udire la sua locuzione chiara, intorno all’anno trenta, non una ma molte volte, dicen­do: et fui tecum in omnibus ubicumque ambulasti! (2 Re 7,9), sono stato e sarò con te dovunque tu vada”136.

Questa locuzione era stata descritta nei suoi Appunti l’8 settembre 1931, festa della Natività della Madonna:

“Ieri pomeriggio, alle tre, mi sono recato sul presbiterio della chiesa del Patronato a fare un po’ di orazione da­

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vanti al Santissimo Sacramento. Non ne avevo voglia. Ma lì restai, come un fantoccio. Talora, ritornando in me, pensavo: Tu vedi, buon Gesù, che se sto qui è per Te, per farti piacere. Nulla. La mia immaginazione an­dava a briglia sciolta, lungi dal corpo e dalla volontà, allo stesso modo in cui un cane fedele, sdraiato ai piedi del padrone, dormicchia sognando corse e caccia e ami­coni (cani come lui) e si agita e guaisce in sordina... ma senza staccarsi dal suo padrone. Così stavo io, proprio come un cane, quando mi resi conto che, senza volerlo, ripetevo delle parole latine cui non avevo mai fatto caso e che non avevo motivo di serbare nella memoria. Persi­no ora, per ricordarle, dovrò leggerle sulla scheda che porto sempre in tasca per segnarmi ciò che Dio vuole. (Sul foglietto di cui sto parlando, mosso istintivamente dall’abitudine annotai, lì nel presbiterio, quella frase, senza darle importanza): così dicono le parole della Scrittura che mi trovai sulle labbra: “Et fui tecurn in omnibus ubicumque ambulasti, firmans regnum tuum in aeternum”. Applicai l’intelligenza al senso della frase, ripetendola adagio. E ieri pomeriggio, e oggi stesso, quando ho riletto queste parole (poiché, ripeto, quasi che Dio si fosse impegnato a confermarmi che erano sue, non le ricordo da una volta all’altra) ho compreso bene che Cristo Gesù voleva dirmi, per nostra consola­zione, che l3Opera di Dio starà con Lui in ogni luogo,

■ consolidando il regno di Gesù Cristo per sempre”137.

Con queste parole divine veniva confermato il caratte­re universale e perenne dell’Opera, al servizio della Chie­sa. Il Signore gli faceva capire così l’ininterrotta conti­nuità della missione dell’Opus Dei sulla terra. Fortificato da questa locuzione, il 9 gennaio 1932 il Fondatore scri­veva per tutti i membri dell’Opus Dei (quei pochi di allo­ra e l’immensa moltitudine che egli si attendeva), con as­soluta fede soprannaturale nell’impresa divina:

“Abbiate pertanto l’assoluta sicurezza che l’Opera com­pirà sempre con divina efficacia la propria missione;

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perseguirà sempre il fine per il quale il Signore l’ha vo­luta sulla terra; sarà con la grazia divina - per tutti i se­coli - uno strumento meraviglioso per la gloria di Dio: sit gloria Domini in aeternum! ('Sai 104,3\) " l3S.

Di fronte alla situazione storica di sommovimento quasi rivoluzionario nel quale si trovava sommerso, il Fondatore confermava i suoi sull’origine soprannatura­le dell’Opera, facendo loro vedere che non si trattava di un’istituzione o di un’organizzazione apostolica passeg­gera, provocata dalla persecuzione religiosa in Spagna. L’Opera non veniva a colmare una necessità del mo­mento per poi scomparire come altre organizzazioni, una volta restaurata la pace politica e sociale. Nel seco­lo XIX, e anche nel XX, erano stati molti gli istituti nati in occasione delle persecuzioni religiose e che veni­vano a colmare un vuoto, a svolgere le attività pastorali precedentemente svolte dagli Ordini e dalle Congrega­zioni espulse dai vari Paesi.

La loro vita era destinata ad essere effimera, fino ad esaurimento delle circostanze che le avevano rese neces­sarie. In una Caterina egli chiariva che con l’Opera non sarebbe accaduto:

“Mentre vedremo cadere grandi “apostolati” tumul­tuosi, che ora suscitano fervore ed entusiasmi umani, l’Opera di Dio, sempre più forte e vigorosa, durerà sino alla fine”139.

Ancora risuonava nell’anima del Fondatore l’eco della locuzione del 7 settembre, quando il 14 dello stes­so mese il Signore gli mostrò la via della perennità del­l’Opera: l’identificazione dei suoi membri con Gesù Cristo nell’umiliazione della Croce:

“Festa dell’Esaltazione della Santa Croce, 1931. Che gioia mi ha dato l’epistola di oggi! In essa lo Spirito San­to, tramite S. Paolo, ci insegna il segreto dell’immorta­

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lità e della gloria (...). Questo è il cammino sicuro: attra­verso l’umiliazione, fino alla Croce; dalla Croce, con Cristo, alla Gloria Immortale del Padre”140.

* *

Il 21 settembre ritornarono da Fonz i suoi fratelli, Car­men e Santiago. Avevano un bell’aspetto. Nello stesso giorno, festa di S. Matteo, come abbiamo visto, don Josemaria celebrava per la prima volta la Messa in Santa Isabel, con il beneplacito del Patriarca delle In­die, autorità ecclesiastica palatina dalla quale dipende­va il convento.

E fu il giorno dopo, forse mentre ritornava da Santa Isabel, che la gioiosa chiarezza di sapersi figlio di Dio s’impossessò di tutto il suo essere, mentre s’immergeva a lungo in un’orazione di unione e di ringraziamento, camminando per strada. Lo raccontava in una Caterina:

“Mi misi a considerare le bontà del Signore nei miei confronti e, pieno di gioia interiore, avrei gridato per la strada, perché tutti sapessero della mia filiale gratitudi­ne: Padre! Padre! E, se non gridando, a bassa voce conti­nuavo a chiamarlo così (Padre!) molte volte, sicuro di fargli piacere”141.

Per un lungo periodo solo a fatica riusciva a tratte­nersi dal manifestare ad alta voce i sentimenti filiali verso Dio. Tutta la sua giornata era permeata di affetti e l’orazione si prolungava dal mattino alla sera; anche se una volta, l’i l ottobre, scrisse: “ Sia chiaro che faccio poca orazione e non nel momento giusto” . Due giorni dopo, il 13 ottobre, puntualizzava:

“L’altro giorno ho detto che faccio poca orazione e de­vo correggermi o, meglio, spiegare il concetto: non ho ordine - faccio il proposito di averlo da oggi -, non fac­cio la meditazione (pure da oggi fisserò un’ora al gior­no); ma quanto all’orazione di affetti, vari giorni la fac-

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ciò dalla mattina alla sera; certo, in alcuni momenti in modo speciale”142.

Il 16 ottobre fu una giornata memorabile, densa di preghiera. Fu uno di quei giorni in cui riuscì a malape­na a leggere qualche riga del giornale, poiché lo tra­scorse rapito in unione contemplativa:

“Giorno di Santa Edvige, 1931. Volevo fare orazione, dopo la Messa, nella quiete della mia chiesa. Non ci sono riuscito. Ad Atocha ho comprato un giornale (l'ABC) e ho preso il tram. Fino a questo momento in cui scrivo, non sono riuscito a leggere più di un para­grafo del giornale. Ho sentito affluire l’orazione di af­fetti, copiosa e ardente. Così in tram e fino a casa. Que­sto appunto che scrivo non è altro che il prosieguo, in­terrotto solo per scambiare due parole con i miei - che non sanno parlare d’altro che della questione religiosa - e per baciare molte volte la mia Madonna dei Baci e il nostro Gesù Bambino”143.

Quando, in seguito, dovette fornire dei particolari sull’orazione di quel giorno, “l’orazione più alta” che mai avesse avuto, spiegando quella straordinaria grazia di unione con Dio mentre andava in tram e camminava per strada, vi individuerà una lezione. Il Signore gli aveva fatto comprendere che la consapevolezza della fi­liazione divina doveva stare nel cuore stesso dell’Opera:

“Sentii l’azione del Signore che faceva affiorare nel mio cuore e sulle mie labbra, con la forza imperiosa di una necessità assoluta, questa tenera invocazione: Abbai Pater! Mi trovavo per strada, in tram (...). Probabil­mente lo invocai ad alta voce.E vagai per le strade di Madrid, forse un’ora, forse due, non posso dirlo: il tempo passò senza che me ne accor­gessi. Dovettero prendermi per pazzo. Stavo contem­plando con luci che non erano mie questa stupefacente

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verità, che restò accesa come una brace nella mia anima per non spegnersi mai più”144.

Il messaggio del 2 ottobre 1928, la chiamata alla san­tità in mezzo al mondo, tornava a ripetere la dottrina vecchia e nuova del Vangelo: “estote ergo vos perfecti, sicut et Pater vester caelestis perfectus est; siate perfetti, come lo è il vostro Padre celeste”145.

Il 16 ottobre 1931 percepì, nella misteriosa profon­dità della filiazione divina, la portata di questa sorpren­dente realtà. Non nel modo in cui l’aveva vissuta fino ad allora, ma proiettata all’interno della specifica mis­sione fondazionale, come spiegava ai suoi figli:

“Vi potrei dire persino quando, il momento e fino a dove ci fu la prima orazione da figlio di Dio.Ho imparato a chiamarlo Padre nel “Padre nostro”, fin da bambino; ma sentire, vedere, ammirare il desiderio di Dio che noi siamo figli suoi..., fu per strada, e su un tram - per un’ora, un’ora e mezza, non so Abba, Pater!, dovevo gridare.Ci sono nel Vangelo delle parole meravigliose (tutte lo sono,): nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare (Mt 11,27). Quel giorno, quel giorno Egli volle in maniera esplici­ta, chiara, tassativa, che insieme a me voi vi sentiate sempre figli di Dio, di questo Padre che sta nei cieli e che ci darà quello che chiediamo nel nome di suo Fi­glio (...)”14é.

Ancora nel 1971, predicando una meditazione, rivi­veva il ricordo sorprendente di quella giornata, che fu una conferma dell’ineffabile qualità dell’essere figlio di Dio e del fatto che l’Opera era, veramente, Opus Dei:

“Ti ringrazio, Signore, per la tua continua protezione e per i tuoi interventi, a volte molto evidenti - io non lo chiedevo, non lo merito! - affinché non rimanga alcun

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dubbio che l’Opera è tua. Mi viene alla mente questa meraviglia della filiazione divina. Fu in una giornata molto assolata, per la strada, in un tram: Abba, Pater! Abba, Pater! (,..)”147.

Con questa nuova luce fondazionale il Signore gli fece capire che, sebbene la coscienza della filiazione di­vina esistesse già nell’Opera, doveva essere il fonda­mento del suo spirito. Così scrisse il Fondatore:

“Compresi che la filiazione divina doveva essere una ca­ratteristica fondamentale del nostro spirito: Abba, Pater! E che, vivendo la filiazione divina, i miei figli sa­rebbero stati pieni di gioia e di pace, protetti da un muro inespugnabile; avrebbero saputo essere apostoli di questa gioia e avrebbero saputo comunicare la loro pace, anche nella sofferenza propria o altrui. Proprio per questo: perché siamo persuasi che Dio è nostro Padre”148.

L’anima del Fondatore, arricchita da questa partico­lare consapevolezza della filiazione divina, infuse que­sta realtà in tutti gli aspetti dello spirito dell’Opera. Le verità e i misteri cristiani - tutti noi, redenti dal peccato, siamo stati elevati all’ordine soprannaturale e resi figli adottivi di Dio, deificati dalla grazia e chia­mati all’intimità con la Trinità Beatissima - ebbero da allora uno speciale rilievo nella meditazione e nella vita interiore di don Josemana. A tal punto che la ca­ratteristica della filiazione divina finì con l’informare tutto lo spirito dell’Opus Dei e la vita di pietà di cia­scuno dei suoi membri, che cercano di vivere l’autenti­ca libertà dei figli di Dio; persone che lavorano non come salariati, ma come eredi della gloria; che si sfor­zano in modo particolare di trattare Dio con l’intimità di un figlio che sa di essere amato; che nel loro apo­stolato si sentono corredentori con Cristo per ricon­durre le anime al Padre; e che ricevono la gioia e il do-

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lore, la malattia o la morte, come venute dalle mani amorevoli di nostro Padre Dio.

* * *

Nei giorni seguenti all’alta marea di affetti filiali che lo sorprese in tram, continuò a ricevere luci dal Signore. Una notte si coricò recitando una delle giaculatorie con le quali dava sollievo alla sua anima in caso di tribola­zioni: “ Sia fatta, si compia, sia lodata ed eternamente esaltata la giustissima e amabilissima Volontà di Dio sopra tutte le cose. Amen. Amen” . Il giorno successivo annotò:

“Come risposta del Cielo al mio grido di questa notte, in anticipo e perché sì, questa mattina alle nove, quan­do stavo andando a prendere il tram per Chamartm, mi sorpresi a recitare un versetto che, pure perché sì o per abitudine (naturalmente, credendo che venisse da Dio) scrissi su di una scheda.- timor Domini sanctus, perma- nens in saeculum saeculi; iustitia Domini vera iustificata in semetipsa (Sai 19,10). Elevati e giusti sono i tuoi giu­dizi, Signore; santo è il timore del Signore, ma, accet­tando con tutta l’anima i tuoi giudizi, ti chiedo, Gesù mio, di condurmi per cammini di Amore”149.

Per tutto quel giorno non riuscì a comprendere il giusto significato del “ timore di Dio” . Che sofferenza e che angoscia lo scontro nella sua anima fra il timore di Dio e il gusto del recente “Abba, Pater! Abba, Pater!” che ancora assaporava150. Il suo spirito non riacquistò la calma neppure di notte. Al mattino andò a trovare il suo confessore, che gli spiegò il senso del “ timor Domini” , che deve essere inteso come timore di offendere Dio, che è la Somma Bontà, o timore di allontanarsi da Lui, che è nostro Padre. Erano cose ben note a don Josemaria, ma in quei momenti sentì come se il Signore gli togliesse un velo dagli occhi, come spiegò in una Caterina:

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“30-X-1931. Oggi sono piuttosto stanco, indubbia­mente come conseguenza della commozione spirituale di questi ultimi giorni, soprattutto di ieri. - Non capi­sco il mio accecamento nel tradurre il timor poiché altre volte, per esempio nella frase “initium sapientiae timor Domini” , per timore ho sempre inteso riveren­za, rispetto. - Gesù, mi metto con fiducia nelle tue braccia, nascondendo il capo nel tuo petto amorevole, con il mio cuore vicino al tuo Cuore: voglio solo ciò che vuoi Tu”151.

Fu una lezione pratica, mediante la quale rimase im­presso nel cuore del Fondatore la natura del dono del timore di Dio, che non è paura servile, bensì timore fi­liale di offendere nostro Padre Dio.

Era tanto frequente l’essere immerso nell’orazione contemplativa che, in qualche occasione e per rispar­miarsi spiegazioni, scriveva di stare “ senza fare ora­zione” , senza aggiunte. Sabato 12 dicembre stava a colazione in casa di amici “ senza fare orazione” , quando il Signore gli pose nella mente e sulle labbra una nuova luce:

“Ieri sono stato a colazione in casa dei Guevara. Stando lì, senza fare orazione, mi sorpresi - com’è accaduto altre volte - a dire: “Inter medium montium pertransi- bunt aquae” (Sai 104,10). Credo che in questi giorni ho avuto altre volte sulle labbra queste parole, perché sì, ma non davo loro importanza. Ieri le ho dette con tanta evidenza che ho sentito l’impulso di annotarle e le ho capite: sono la promessa che l’Opera di Dio vincerà gli ostacoli e che le acque del suo Apostolato passeranno oltre tutti gli ostacoli che si presenteranno”152.

Con quel messaggio il Signore gli voleva dire che l’a­zione apostolica, lo sviluppo dell’Opera, si sarebbe aperta la strada come un torrente che scava gole tra le rocce. Non voleva anche avvertirlo che il suo cammino

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non sarebbe stato spedito? Il Signore, senza dubbio, gli dava in anticipo vigore, ottimismo e pazienza, senza la­sciargli vedere di colpo in che cosa sarebbero consistiti gli ostacoli perché, come diceva il Fondatore stesso nel 1968, “ se, in quei momenti, avessi visto che cosa mi at­tendeva, sarei morto, tanto grande è stato il peso di ciò che si è dovuto soffrire e gioire!” 153.

6. Una croce senza Cirenei

Don Josemaria andava a caccia di preghiere con avidità, da ogni parte. Della corrispondenza dell’autunno 1931 si conservano due lettere. La prima, del professor Pou de Foxà, è datata Saragozza, 20 novembre e dice così: «Mio caro e indimenticabile José Maria, ho ricevuto la tua lettera, che mi ha fatto ridere con i tuoi racconti. Mi sembrano bene i tuoi propositi: tener duro e andare avanti, ché un aragonese non arretra; e, come dici, se l’Opera è importante, lo è anche l’Artefice, mentre tu sei solo l’impasto del quale Dio farà ciò che desidera, se l’impasto, di fango in fin dei conti, non si ribella allo Scultore. Credimi che con piacere prego e pregherò che sostenga il tuo impegno; ne avrei un guadagno anch’io, poiché avrò una particina nelle tue preghiere, che senza dubbio mi frutteranno grazie per aver ragione delle me­schinità e bassezze di questa terra (...). Il mio ricordo a tua mamma e ai fratelli e per te un forte abbraccio dal tuo amico José Pou de Foxà»154.

S’intuisce chiaramente che il cappellano di Santa Isa­bel aveva scritto al suo amico chiedendogli preghiere e lamentandosi di essere strumento inadeguato a porre le basi di una grande impresa soprannatùrale; al che don José rispondeva incoraggiandolo a mettersi con docilità nelle mani del divino Scultore, che modellerà a suo pia­cere il fango di cui dice di esser fatto.

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La seconda lettera è di don Ambrosio Sanz, canonico di Barbastro:

«Barbastro, 17 dicembre 1931.Carissimo amico, ho ricevuto la tua lettera del 26 del mese scorso e ho anche ricevuto il tuo fonogramma di auguri.Che cosa ti succede che mi parli di belle croci e chiedi preghiere con tanta premura? Hai qualche tribolazione addosso o, come cireneo della carità, vuoi aiutare altri a portarla? Sai che partecipo a tutte le tue gioie e a mag­gior ragione alle tue pene, per cui se posso fare qualco­sa, disponi, che le mie tanto povere preghiere, più pove­re di quanto tu non supponga, non ti mancheranno. Ho parlato con qualche cappellano di suore di clausura e ho fatto la richiesta che mi hai affidato.Abbiti cura di te e non essere tanto attento al cielo da dimenticare che hai ancora i piedi appoggiati sulla terra.Affettuosi saluti a tua mamma e ai fratelli. Ti vuol bene e ti abbraccia A. Sanz»155.

Senza dubbio, don Josemaria gli aveva scritto facen­dogli gli auguri per la festa di Sant’Ambrogio, il 7 di­cembre, e ne aveva approfittato per aprirgli il cuore chiedendogli preghiere. Aveva quindi messo in forte ap­prensione il canonico, nella cui risposta si intuisce una certa preoccupazione. Perché, mentre José Pou de Foxà sbrigava i “racconti” di don Josemaria con buon umore e dandogli corda, don Ambrosio non sapeva nulla delle belle croci né di quali cirenei parlasse. E temendo un po’ per la salute del suo giovane amico, gli raccoman­dava che, nel prendersi cura delle cose dello spirito, non dimenticasse l’aspetto materiale dell’esistenza.

Ma no; con la sua croce e le sue pene sulle spalle, il cappellano andava per Madrid su una strada seminata di grazie stupende e di sofferenze non comuni. Assieme alla brezza di mistica esultanza, che elevava e cullava la

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sua anima al di sopra delle miserie di questo mondo, al Fondatore non mancava un lungo gemito di tribolazio­ni. In settembre comparvero i primi sintomi di una do­lorosa prova, che si prolungò nel corso dell’autunno 1931. Si legge nei suoi Appunti:

“Mi trovo in grande tribolazione e abbandono. Motivi? Per la verità, i soliti. Ma è qualcosa di personalissimo che, senza togliermi la fiducia nel mio Dio, mi fa soffri­re, perché umanamente non vedo via d’uscita possibile dalla mia situazione. Si presentano tentazioni di ribel­lione: e dico serviam!”156.

Tre settimane dopo, il 30 settembre 1931, annotava:

“Mi trovo in una situazione economica più preoccu­pante che mai. Non perdo la pace. Ho assoluta fiducia, una vera sicurezza, che Dio mio Padre risolverà presto questa faccenda una buona volta. Se fossi solo!... allora la povertà, me ne rendo conto, sarebbe una delizia. Sa­cerdote e povero: privo perfino del necessario. Meravi­glioso!”157.

La trasparenza delle note autobiografiche degli Ap­punti intimi consente di vedere con chiarezza gli stati e i moti della sua anima. “Tutte le cose della mia anima - senza nascondere nulla - le ho comunicate e le comuni­cherò sempre al mio direttore spirituale” , si legge in una Caterina1 5 8 .

Ma quando consegnò le Caterine in eredità ai suoi figli spirituali raccomandava loro di non esibirle ai quattro venti: “Abbiate il pudore di non mettere in mo­stra la mia anima” , diceva loro159. Voleva evitare di esporre in pubblico le ristrettezze e i sacrifici patiti dai suoi familiari.

Sapendo da tempo come lo trattava il Signore, che, per colpire lui, “ dava un colpo al chiodo e cento al

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ferro del cavallo” , preferì affrontare la faccenda diret­tamente. Così scriveva il 2 ottobre 1931:

“Lo affrontai” - si riferiva al Signore - “e gli dissi che il padre Sànchez mi aveva proibito di chiedergli quella cosa; e che perciò non gliela chiedevo, ma (così, brutal­mente) volevo che sistemasse i miei e se la prendesse solo con me”160.

(Ciò che il confessore gli aveva proibito era di chiede­re una grave malattia).

Per rimediare in qualche modo alle sofferenze della madre e dei fratelli decise di avere ancora maggiori at­tenzioni verso di loro: “Vedrò in mia madre la Santissi­ma Vergine; in mia sorella Carmen, Santa Teresa o Santa Teresina; e in Guitìn, Gesù adolescente” 161. (Con Santiago la cosa non era facile, perché “ il ragazzino ha, come me, un pessimo temperamento” ).

Quanto riferiva più avanti (26 ottobre 1931) avrebbe potuto chiarire ciò che scriveva a don Ambrosio sulle belle croci:

“A questa mia mancanza di formazione sono do­vuti parecchi dei miei momenti di scoraggiamento, delle ore - o giorni - di difficoltà e di malumore. Generalmente, Gesù mi dà la croce con la gioia - cum gaudio et pace - e una croce con gioia... non è una croce. Per la mia natura ottimista, ho abitual­mente una allegria che potremmo chiamare fisiolo­gica, da animale sano; non è questa la gioia alla quale mi riferisco, ma a quella soprannaturale, che proviene dall’abbandonare tutto e abbandonarsi nelle braccia amorevoli del Padre-Dio” 162.

Subito dopo spiegava in che cosa consisteva la croce senza cirenei, sul cui misterioso senso s’interrogava il buon canonico di Barbastro:

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“Signore, il grave peso della mia croce è che ne sono partecipi altre persone. Dammi, Gesù, una croce senza cirenei. Ho detto male: avrò bisogno della tua grazia, del tuo aiuto, come in tutto. Con Te, Dio mio, non c’è prova di cui abbia paura: penso a una malattia dura, unita per esempio a una cecità totale - una croce mia, personale - e audacemente avrei, Gesù, la gioia di gri­dare con fede e con il cuore in pace, dalla mia oscurità e sofferenza: Dominus illuminatio mea et salus meal... Ma se la croce fosse il tedio, la tristezza? Io Ti dico, Si­gnore, che con Te sarei lietamente triste”163.

Così meditava il sacerdote, senza riuscire a capire se il fatto che la sua famiglia fosse partecipe di quel peso costituisse un sollievo o se invece lo rendesse più pesante:

“Neppure ora so, Gesù, se sia eccesso o mancanza di generosità il mio desiderio di una croce senza cireneo. Eccesso, perché mi dolgo tanto per la croce altrui... Mancanza, perché sembra una ribellione verso ciò che Tu vuoi; perché sembra che desideri non la tua Croce, ma una croce di mio gusto”164.

Con la sensibilità e l’immaginazione dolorosamente agitate, la sua anima era quasi in carne viva poiché sen­tiva pietà per il peso della croce sui propri familiari:

“Oggi Gesù ha reso più pesante la Croce - la Santa Cro­ce - sulle povere spalle dei cirenei: e che male mi fa!”165.

Queste ultime Caterine le scriveva in ginocchio nella sua povera cameretta, non per una speciale devozione, ma per mancanza di spazio: “ Già da parecchi giorni” - spiegava - “per necessità, poiché devo scrivere in came­ra mia e non c’è posto per una sedia, scrivo le Caterine in ginocchio. E mi viene da pensare che, essendo una mezza confessione, sia gradito a Gesù che le scriva sem­

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pre così, in ginocchio; cercherò di compiere questo pro­posito” 166. In mezzo alle angustie vedeva chiaramente che doveva risolvere da una parte la situazione canoni­ca, con la nomina ufficiale per la cappellania di Santa Isabel; e dall’altra, ottenere la tranquillità economica per i suoi. Egli stesso si meravigliava che la famiglia po­tesse continuare a vivere in quelle condizioni. “Non so come potremo vivere” , si chiedeva167. Ma è ben vero che vivevano così da quando avevano lasciato Barba­stro, benché le cose si fossero aggravate in modo allar­mante a Saragozza. Ora, a Madrid, la vita era per loro quasi un miracolo quotidiano. Per evitare dispiaceri a sua madre e ai fratelli, don Josemarfa li alimentava di speranze, affermando che le cose sarebbero migliorate:

“Finora ho nascosto a mia madre e ai miei fratelli la no­stra vera situazione. L’ho fatto altre volte. Signore, Gesù mio, non è che io non voglia cirenei - voglio ciò che vuoi Tu - ma, con vera generosità e per tuo Amore, vorrei evitare loro queste sofferenze”168.

Alla fine di novembre la situazione si aggravò169; erano tali le ristrettezze che si decise a chiedere dei pre­stiti agli amici: non gli diedero denaro ma almeno si scusavano con ottime ragioni. Finché il Signore gli ispirò l’idea di ricorrere a una banca, dove chiese e ot­tenne un prestito di trecento pesetas. Il giorno stesso, 26 novembre, comprese nuovi aspetti della povertà e del distacco mentre riceveva la benedizione con il San­tissimo nella chiesa di Medinaceli:

“E allora” - annotava al rientro a casa - “ho capito molte cose. Non sono meno felice perché sono nell’indi­genza o nell’abbondanza. Non devo chiedere nulla a Ge­sù; mi limiterò a fargli piacere in tutto e a raccontargli le cose come se Egli non le sapesse, come fa un bambino piccolo con suo padre”170.

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Fu quello il giorno in cui scrisse a don Ambrosio chiedendogli preghiere. Che cosa avrebbe pensato il ca­nonico se avesse letto quest’altra Caterina del 29 no­vembre?:

“Ora che davvero la Croce è solida, pesante, Gesù siste­ma le cose in modo da riempirci di pace. Signore, che Croce è questa? Una Croce senza Croce. Con il tuo aiu­to, conoscendo la formula dell’abbandono, saranno sempre così le mie Croci”171.

Il Signore, in un soffio, gli restituì la pace, facendogli constatare il meraviglioso e umanamente inesplicabile comportamento della madre e della sorella, “ammire­volmente disposte a ciò che Dio vuole” 172.

Pochi giorni dopo (il 10 dicembre 1931) avrebbe scritto:

“Dio nostro Signore sta inondando di grazia i miei (...). Ora non è accettazione: è gioia. Davvero in questa casa siamo tutti matti”173.

Sotto Natale si ammalò Carmen, poi la signora Dolores e, la sera dopo, dovette mettersi a letto il fratello. Sem­brava un ospedale. Don Josemaria vide l’occasione di passare dei giorni digiunando senza che nessuno se ne accorgesse e ne approfittò subito. Ma la madre conosce­va bene i suoi polli; don Josemaria descrisse quanto ac­cadde la sera del 20 dicembre in maniera un po’ monca e con comprensibili riserve:

“La mamma, poveretta, si è un po’ innervosita - cosa del tutto naturale - dicendo “non può continuare così” e si è arrabbiata con me perché non ho cenato né preso nulla: “per questo ti senti la testa vuota”, mi ha detto. A nome loro ho offerto a Gesù i brutti momenti che stan­no passando. Poi abbiamo recitato, come d’abitudine, il

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santo Rosario. Fino alle undici in punto ho cercato di fare orazione”174.

Indubbiamente la testimonianza è unilaterale. Per com pletarla bisognerebbe sentire l ’altra parte, la madre, che ci spiegherebbe le mortificazioni e i digiuni del figlio, che non mangiava né di giorno né di sera e aveva dei capogiri di pura debolezza. Comunque, la collera della signora Dolores era già superata quando il mattino dopo don Josemaria scrisse questa tranquil­la Caterina:

“Oggi (sono appena ritornato da Santa Isabel) trovo la mamma con molta pace, come sempre, mentre lavora nelle cose di casa, anche questo come sempre”175.

In quei giorni il cappellano era sotto pressione. Lo spingeva il suo confessore, lo spingeva la signora Dolo­res. Don Josemaria doveva riconoscere che, in effetti, nella capitale tutta la famiglia subiva delle purificazio­ni passive, come annotava in una Caterina del 23 di­cembre176.

La signora Dolores si era armata di serenità e vedeva piovere disgrazie senza prendersela:

“È l’ultima volta che prendo nota di cose del genere” - . scrisse il 30 dicembre -. “Sono sbalordito di vedere con

quale tranquillità, come se parlasse del tempo, mia ma­dre, poveretta, diceva ieri sera: “Non ce la siamo mai passata tanto male come adesso”; e poi abbiamo conti­nuato a parlare di altre cose, senza perdere l’allegria e la pace. Che buono sei, Gesù, che buono! Saprai tu come ricompensarla”177.

Ma due settimane dopo aver fatto il proposito di non scrivere più cose sulla famiglia, ecco un’altra Caterina che fa eccezione178.

Il diavolo, padre dell’angoscia, dovette infine rendersi

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conto di quale fosse il tallone d’Achille di quel sacerdo­te paziente, e insistè nell’attaccarlo sul fronte familia­re179. Davanti all’insinuazione diabolica, il sacerdote si armò di pazienza e fortezza per resistere all’attacco. Questa era la sua supplica:

“Gesù, poiché sono il tuo asinelio, dammi la cocciutag­gine e la fortezza dell’asino per compiere la tua amabile Volontà”180.

Nel frattempo la signora Dolores, ancora all’oscuro dell’impresa soprannaturale che il figlio aveva tra le mani, si diede da fare per conto suo. Forse all’inizio del febbraio 1932 scrisse a monsignor Cruz Laplana, Ve­scovo di Cuenca, con il quale aveva un legame di pa­rentela181. Gli espose la situazione in cui si trovava Jo­semaria e gli chiese consiglio. Il Prelato le fece pervenire una risposta per mezzo di un certo canonico che passò per Madrid uno di quei giorni. Il canonico era don Joa- quìn Maria de Ayala (lo stesso che nell’estate del 1927 aveva chiesto per lettera a don Josemaria che gli ricupe­rasse una veste talare e gli comperasse le pietrine per l’accendino); e il contenuto del messaggio, un generoso invito. Lola - le diceva il Prelato - perché non viene a trovarmi tuo figlio? Ho un posto di canonico per lui182.

Come poteva non sfruttare il demonio questa nuova occasione per tentarlo? Su questo argomento, don Jose­maria parlò con don Norberto, l’altro cappellano del “Patronato de Enfermos” . Ecco la Caterina del 15 feb­braio 1932:

“Poi (a don Norberto lo raccontai, quando accadeva e dopo, sentendo le suggestioni del nemico) poi mi fa ve­nire in mente che l’ecclesiastico di Cuenca disse alla mamma che io andassi a concorrere a un canonicato va­cante della cattedrale... In seguito, il mio padre Diretto­re, che mi disse che l’Opera doveva cominciare a Ma­drid e che a tutti i costi io dovevo restare qui. Insomma,

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Satana è furbo, cattivo e spregevole, ma mi ha fatto ve­dere, come mi diceva ridendo don Norberto, mentre a me sembrava che non sarebbe mai potuto accadere, che posso perdere la gioia e la pace (non le ho perse) e pos­sono darmi dei dispiaceri!”183.

Dalla tentazione uscì vittorioso e disposto a “ fare pressioni su Gesù” affinché desse a quelli di casa sua, ai cirenei, “con la pace dello spirito che ora hanno, il be­nessere materiale” 184.

Un minimo di benessere economico alla famiglia tardò ad arrivare. Per un paio d’anni, durante i quali Dio si fece pregare, le cose andarono di male in peggio.Il che non impedì che il cappellano di Santa Isabel, sempre alle prese con la sua croce, esclamasse contento: “ Signore: io sono l’uomo felice che non aveva neppure la camicia” 185.

7. La via dell’infanzia spirituale

Nei mesi di settembre e ottobre 1931, quando nel cuore del giovane sacerdote germinavano copiosi gli affetti di amore, il Signore lo confermava nel cammino del vero abbandono filiale. E dal torrente di quelle grazie fu po­tenziata un’altra sorgiva: la vita dell’infanzia spirituale.

“Avevo l’abitudine quand’ero giovane” - scrisse il Fondatore - “di non utilizzare alcun libro per la medi­tazione. Recitavo, assaporandole una ad una, le parole del Pater noster e mi soffermavo - gustandola - sulla considerazione che Dio era Pater, mio Padre, che mi dovevo sentire fratello di Gesù Cristo e fratello di tutti gli uomini.Era una continua meraviglia, la contemplazione di esse­re figlio di Dio! Dopo ogni riflessione mi sentivo raffor­zato nella fede, più sicuro nella speranza, più acceso d’amore. E nasceva nella mia anima la necessità, essen­

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do figlio di Dio, di essere un figlio piccolo, un figlio bi­sognoso. Da qui nacque nella mia vita interiore la vita d’infanzia, che ho vissuto finché ho potuto - finché posso - e che ho sempre raccomandato ai miei, lascian­doli liberi”186.

Il 2 ottobre, festa degli Angeli Custodi, terzo anniver­sario della fondazione dell’Opus Dei e allora vigilia della festa di Santa Teresina di Lisieux, invocò ardente­mente gli spiriti celesti e in modo speciale il proprio Angelo Custode:

“Gli dissi cose affettuose e gli chiesi che mi insegnasse ad amare Gesù, almeno... almeno come l’ama lui. In­dubbiamente Santa Teresina (...) volle anticiparmi qual­cosa per la sua festa e ottenne dal mio Angelo Custode che mi insegnasse oggi a fare orazione di infanzia. Che cose puerili dissi al mio Signore! Con la fiduciosa confi­denza di un bambino che parla al suo Amico Grande, del cui amore è sicuro. Che io viva solo per la tua Opera- gli chiesi - che viva solo per la tua Gloria, che viva so­lo per il tuo Amore (...). Ricordai e riconobbi lealmente che faccio tutto male: questo, Gesù mio, non ti può sor­prendere: è impossibile che io faccia una sola cosa giu­sta. Aiutami Tu, fallo Tu per me e vedrai come riesce be­ne. Poi, audacemente e senza allontanarmi dal vero, ti dico: impregnami, ubriacami del tuo Spirito e così farò la tua Volontà. La voglio fare. Se non la faccio è per­ché... non mi aiuti.E ci furono affetti amorosi per la Madre e Signora mia, e mi sento in questo momento molto figlio di Dio mio Padre”187.

Questa Caterina è la primizia del nuovo cammino in­trapreso. Poi don Josemarìa attraversò, in raccogli­mento interiore, alcuni giorni di orazione affettiva e fervida, mentre fuori correvano voci allarmanti di una nuova ondata di incendi a chiese e conventi. Il 14 otto­bre seppe che era stato approvato il famigerato artico­

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lo 26 della Costituzione, che comportava l’espulsione della Compagnia di Gesù. La sera stessa andò a trova­re il suo confessore a Chamartm. Il pericolo non ri­guardava solamente i Gesuiti. Tutti i conventi e le resi­denze di religiosi erano esposti al pericolo di essere as­saltati. Gli studenti cattolici, per proteggerli, montava­no la guardia di notte. Il 15 ottobre, festa di Santa Te­resa di Gesù, il cappellano si presentò in clausura. Le monache erano intimorite dalle allarmanti notizie che circolavano. Le rassicurò come potè, parlando con ca­lore e ottimismo:

“Oggi sono entrato nella clausura di Santa Isabel. Ho incoraggiato le monache. Ho parlato loro di Amore, di Croce e di Gioia... e di vittoria. Via l’angoscia! Siamo al principio della fine. Santa Teresa mi ha ottenuto dal no­stro Gesù la Gioia (con la maiuscola) che oggi ho men­tre, a quanto sembra, umanamente parlando, dovrei es­sere triste per la Chiesa e per le mie cose (che vanno male, in verità). Molta fede, espiazione e, al di sopra del­la fede e dell’espiazione, molto Amore. Inoltre, stamane, per purificare due pissidi e non lasciare il Santissimo Sa­cramento in chiesa, ho dovuto consumare il contenuto di quasi mezza pisside, pur avendo dato parecchie parti- cole a ciascuna religiosa”188.

Le religiose lo premiarono per quella semina di gioia:

“Uscendo dalla clausura, in portineria, mi hanno mo­strato un Bambin Gesù che era un Sole. Non l’ho mai vi­sto così bello! Incantevole. L’hanno denudato: sta con le braccine incrociate sul petto e gli occhi socchiusi. Bellis­simo: me lo sono mangiato di baci... e ben volentieri melo sarei rubato”189.

Da allora, ogni settimana andava alla ruota del con­vento e la monaca addetta gli passava il bambinello. Era l’epoca in cui s’intrecciavano nella sua anima gioie

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e afflizioni, l’ardente fluire di affetti nell’orazione e dure prove nelle quali chiedeva una croce senza cirenei. La devozione al Bambino Gesù andava riempiendo la sua vita interiore:

“Il Bambino Gesù: come mi ha avvinto questa devozio­ne da quando ho visto il grandissimo brigante che le mie monache conservano nella portineria della clausu­ra! Gesù Bambino, Gesù Adolescente: mi piace vederti così, Signore, perché... posso osare di più. Mi piace ve­derti piccolino, indifeso, per illudermi che tu abbia biso­gno di me”190.

Man mano che si radicava nella sua anima la solida devozione all’infanzia di Cristo, don Josemaria si ren­deva conto di quanto paradossale fosse questo compor­tamento spirituale, in quanto richiedeva, allo stesso tempo, fortezza e squisita delicatezza:

“Riconosco la mia goffaggine, Amor mio..., tanto gran­de che persino quando voglio accarezzare faccio male. Addolcisci i modi della mia anima: dammi, voglio che tu mi dia, nella forte virilità della vita d’infanzia, la delica­tezza e dolcezza con cui i bambini trattano, con intima effusione d’amore, i loro genitori”191.

Per questa strada, che non era di infantilismo senti­mentale, il Signore rendeva più forte la sua anima, come osservava in una Caterina:

“Cammino d’infanzia. Abbandono. Fanciullezza spiri­tuale. Tutto questo che Dio mi chiede e che io cerco di avere non è infantilismo, bensì forte e solida vita cri­stiana”192.

Con la fiducia di un bambino piccolo davanti a Dio suo Padre, adattò non senza sforzo le antiche abitudini dell’orazione a quel nuovo cammino d’infanzia, convin­

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cendosi “ sempre più di quanto bello e soave sia questo cammino, perché conduce i peccatori ad avere gli stessi sentimenti che hanno avuto i santi” 193.

La maggior parte delle Caterine in cui raccolse idee sulla vita d’infanzia spirituale o espresse sentimenti per­sonali di questo genere sono relative al dicembre 1931 e al gennaio 1932. Il 30 novembre, primo giorno della novena dell’immacolata Concezione, scriveva: “Quan­do recito il rosario o - come ora in Avvento - faccio altre devozioni, contemplo i misteri della vita, passione e morte di nostro Signore Gesù Cristo, prendendo parte attiva nelle azioni e negli avvenimenti, come testimone e servo e compagno di Gesù, Maria e Giuseppe” 194.

Già allora si era abituato a recitare il rosario contem­plando i misteri della vita del Signore come un bimbo piccolo trasportato sulla scena dei fatti e presente come testimone. A giudicare dalle osservazioni che aggiunge­va (per esempio: “Mi dispiace annotare questi partico­lari, che potrebbero far pensare bene o non male di me. Sono pieno di miserie)” 195, tutto lascia supporre che questo modo di recitare il rosario lo immettesse in una elevata preghiera contemplativa.

Il secondo giorno della novena, primo dicembre, si aspettava - senza chiederlo - un favore, un segno di progresso nella via dell’infanzia spirituale, un regalo nella novena alla Madonna. Lo ricordava esplicitamen­te in una Caterina: ,

“Madre Immacolata, Santa Maria, Signora mia: qualco­sa mi darai in questa novena alla tua Concezione senza macchia. Ora non chiedo nulla - a meno che non me lo comandino - ma ti espongo il desiderio di arrivare alla perfetta infanzia spirituale”196.

E una mattina, dopo aver detto Messa, alla fine del ringraziamento, scrisse tutto d’un fiato, accanto al pre­sbiterio nella sacrestia di Santa Isabel, il libro Santo

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Rosario. Non sappiamo con certezza in quale giorno della novena; ma sappiamo che la vigilia della festa del­l’immacolata, il 7 dicembre, stava leggendo in Santa Isabel a due giovani “ il modo di recitare il rosario” , poiché fu questa l’intenzione con cui lo scrisse: aiutare altri a recitarlo197.

In seguito, quando scrisse il prologo, raccontò al let­tore il segreto della via dell’infanzia spirituale:

“Amico, se vuoi essere grande, fatti piccolo. Per essere piccolo bisogna credere come credono i bambini, amare come amano i bambini, abbandonarsi come sanno ab­bandonarsi i bambini, pregare come pregano i bambini (...). Fatti piccolo. Vieni con me, e vivremo - ecco il noc­ciolo della mia confidenza - la vita di Gesù, di Maria e di Giuseppe”.

Così, dolcemente, s’introduce il lettore nella scena:

“Non dimenticare, amico, che siamo bambini. La Signo­ra dal dolce nome, Maria, è raccolta in preghiera. Tu puoi essere, in quella casa, quello che preferisci: un ami­co, un servitore, un curioso, un vicino... - Quanto a me, in questo momento non oso essere nessuno. Mi nascon­do dietro di te e contemplo attonito la scena: L’Arcange­lo pronuncia il suo messaggio”198.

Della presentazione del Santo Rosario sono anche queste righe:

“L’inizio del cammino che ha per termine l’amore folle per Gesù, è un fiducioso amore alla Madonna”.

In casa sua conservava una piccola immagine della Vergine, in legno intagliato, che aveva l’abitudine di ba­ciare ogni volta che usciva o entrava (“ la mia Vergine dei Baci: finirò per mangiarmela” , esclamava in una Ca­terina)199. Ma tutte le immagini della Madonna, non

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solo quella, lo commuovevano. Soprattutto quelle che trovava buttate per strada, incisioni o immaginette sudi­cie e polverose. O quelle che gli venivano incontro nelle sue scorrerie per Madrid, come l’immagine di ceramica su cui posava ogni giorno gli occhi quando lasciava Santa Isabel. Questa immagine, che si trovava sulla ter­razza di una casa di via Atocha, presenziò, pochi giorni dopo che aveva composto il Santo Rosario, a uno stra­no evento raccontato in una Caterina-.

“Ottava dell’immacolata Concezione, 1931. Ieri pome­riggio alle tre, mentre mi dirigevo al collegio di Santa Isabel per confessare le bambine, in via Atocha sul mar­ciapiede di S. Carlo, quasi all’angolo con via Santa Inés, incrociai tre giovani, più che trentenni. Quando mi furo­no vicini, uno di essi si fece avanti gridando: “adesso gliele dò”, e alzò il braccio con un gesto tale che il colpo mi sembrò inevitabile. Ma prima che riuscisse ad aggre­dirmi uno degli altri due gli disse in modo imperioso: “No, non picchiarlo” . E subito dopo, in tono burlesco, piegandosi verso di me, soggiunse: “Asinelio, asinelio” . Attraversai all’angolo di Santa Isabel con passo tran­quillo, e sono sicuro di non aver manifestato nulla all’e­sterno della mia interna trepidazione. Mi ha impressio­nato sentirmi chiamare (da simile difensore!) con il nome - asino, asinelio - che ho davanti a Gesù. Ho subi­to recitato tre avemarie alla Santissima Vergine, che pre­senziò all’evento con la sua immagine posta nella casa di proprietà della Congregazione di S. Filippo”200.

(L’appellativo di asinelio non era noto se non al suo confessore). Il giorno successivo, annotò altre impres­sioni su quanto accaduto:

“16 dicembre 1931. Ieri mi sentivo stanco, certamente in conseguenza dell 'assalto in via Atocha. Sono convin­to che fu cosa di origine diabolica. Anche don Norbertolo pensa. Colui che cercò di aggredirmi aveva una terri­bile faccia da folle. Degli altri due non ricordo nulla.

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Sul momento - e neppure dopo - non ho perduto la pace. E stata una trepidazione fisiologica, che mi ha ac­celerato i battiti del cuore e, me ne sono reso conto, non è trasparita all’esterno neppure con un gesto. Mi stupì, come ho raccontato, il tono ironico, burlesco con cui mi ha chiamato, per due volte, asinelio. Istintivamente ho innalzato il mio cuore e mi sono messo a recitare tre avemarie alla Madonna. Poi, ho annotato alla lettera su una scheda le parole di quelle persone”201.

Alla devozione mistica verso la Vergine dei Baci è ispirata una delle più belle e sublimi pagine degli Ap­punti. Non è una fantasia letteraria, come a prima vista potrebbe apparire, bensì incandescente esperienza inte­riore. Un’esperienza mistica, in cui l’audacia del deside­rio diventa comando, con cui i bambini aprono il regno dei Cieli.

Giunse il 28 dicembre, festa dei Santi Innocenti, gior­no in cui in Spagna si fanno gli scherzi, le cosiddette inocentadas202. Il cappellano andò a Santa Isabel e trovò che, per ventiquattro ore, una novizia avrebbe fatto da priora del convento e la monaca più giovane da vicepriora. Si vedevano Madri austere e d’età com­piere con gran divertimento i lavori imposti dalla prio­ra del giorno. Ritornando a casa, don Josemaria baciò la sua Madonna e incominciò la meditazione. Presa la penna, assorto in orazione, scrisse questa Caterina:

“Un bambino fece visita a un certo Convento (...). Bambino: tu sei l’ultimo asino, meglio, l’ultimo animale fra gli amanti di Gesù. E tocca a te, per diritto, comanda­re in Cielo. Sciogli l’immaginazione, lascia libero anche il tuo cuore... Voglio che Gesù mi perdoni... del tutto. Che tutte le anime benedette del purgatorio, purificate in me­no di un secondo, ascendano a godere del nostro Dio..., perché oggi faccio io le sue veci. Voglio... sgridare alcuni Angeli Custodi che conosco - per scherzo s’intende, ma un po’ anche sul serio - e ordino loro di ubbidire (pro­

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prio così: ubbidire) all’asinelio di Gesù in cose che sono a tutta gloria del nostro Re-Cristo. E dopo aver comanda­to molto, molto, direi a mia Madre Santa Maria: Ma­donna, nemmeno per scherzo voglio che tu smetta di es­sere la Signora e l’imperatrice di tutto il creato. Allora Lei mi darebbe un bacio in fronte, lasciandomi, come se­gno di tanta grazia, una grande stella sopra gli occhi. E con questa nuova luce vedrei tutti i figli di Dio che ver­ranno fino alla fine del mondo, intenti a combattere le battaglie del Signore, sempre vincitori con Lui... e udrei una voce più che celestiale, come il fragore di grandi ac­que e il rombo di un tuono possente, eppure dolce nono­stante la sua intensità, come il suono di molte cetre suo­nate all’unisono da un numero infinito di suonatori, che dice: Vogliamo che regni! A Dio tutta la gloria! Tutti, con Pietro, a Gesù per mezzo di Maria!...E prima che questo giorno meraviglioso giunga alla fine, oh, Gesù, gli dirò, voglio essere un fuoco di pazzia d’A- more! Voglio che la mia sola presenza sia sufficiente a in­cendiare il mondo, per molti chilometri all’intorno, di un incendio inestinguibile. Voglio sapere che sono tuo. Poi, venga la Croce: non avrò mai paura dell’espiazione... Sof­frire e amare. Amare e soffrire. Magnifico cammino! Sof­frire, amare e credere: fede e amore. Fede di Pietro. Amo­re di Giovanni. Zelo di Paolo. Restano ancora all’asinelio tre minuti di “divinizzazione”, buon Gesù, e allora co­manda... che Tu gli dia più Zelo che a Paolo, più Amore che a Giovanni, più Fede che a Pietro. L’ultimo desiderio: Gesù, che non mi manchi mai la Santa Croce”203.

Due giorni dopo, ristabilita la serietà nel convento, le monache gli permisero di portarsi a casa la statuetta di Gesù Bambino. Il sacerdote si portò via il Bambinello avvolgendolo nel mantello, per fare insieme a lui gli au­guri natalizi a mezzo mondo. Approfittando dell’occa­sione, lo fece fotografare:

“Oggi mi sono preso il “Bambin Gesù di Santa Teresa”. Me l’hanno lasciato le Madri Agostiniane. Siamo andati

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a fare gli auguri a Fra’ Gabriele, dai Carmelitani, che ne fu contento e mi donò un’immaginetta e una medaglia. Poi sono andato dal Padre Joaquin, direttore di don Norberto. Abbiamo parlato dell’Opera di Dio. Di là sono andato dalle Ancelle dell’Amore Misericordioso e mi sono trattenuto a lungo con Madre Pilar. Poi a casa di Pepe R., dove abbiamo fotografato il Bambino. Prima di andare a casa sono salito da don Norberto, perché vedesse il Bambinello. A casa mia, la mamma re­citò ad alta voce un padrenostro e l’avemaria. E qui terrò Gesù fino a domani”204.

Quando e come imparò la vita di infanzia spirituale ce lo racconta in una Caterina del gennaio 1932:

“Non ho conosciuto sui libri il cammino di infanzia fi­no a dopo che Gesù mi ha fatto camminare su questa strada”205.“Ieri per la prima volta” - scrisse il 14 gennaio - “ho co­minciato a dare un’occhiata a un libro che devo leggere con calma molte volte: “Piccola via di infanzia spiritua­le”, del Padre Martin. Con questa lettura mi sono reso conto che Gesù mi ha fatto sentire, persino con le stesse immagini, la via di Santa Teresina. In queste Caterine si trova annotato qualcosa che lo prova. Leggerò pure con calma la “Storia di un’anima” ”206.

La sua anima era già tanto ricca di grazie che, nono­stante i ripetuti propositi di non riferire fatti straordinari, gli sfuggivano inevitabilmente, nelle Caterine, alcuni even­ti soprannaturali. Così fu per due locuzioni del 1932:

“Stamane, come d’abitudine” - scrisse il giorno 4 - “quando stavo per uscire dal Convento di Santa Isabel, mi sono avvicinato un istante al Tabernacolo, per acco­miatarmi da Gesù dicendogli: Gesù, qui c’è il tuo asinel­io... Vedi Tu che cosa fare con il tuo asinelio... E intesi immediatamente, senza parole: “Un asinelio fu il mio

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trono a Gerusalemme” . Questo fu il concetto che com­presi, con assoluta chiarezza”207.

In quel momento lo assalì un dubbio. Con l’attenzio­ne concentrata sull’asina di cui parla S. Matteo, credet­te che la locuzione fosse un’interpretazione erronea, forse diabolica, del Vangelo. Appena giunto a casa con­sultò il Vangelo e placò il suo spirito. Gesù era entrato a Gerusalemme cavalcando un asinelio208.

Da tempo, quando vedeva una comunità di religiose in preghiera diceva, mettendo in atto il metodo dell’infanzia spirituale: “Gesù, non so loro quanto ti amino, ma io ti amo più di tutte loro insieme”209. Ora, poco dopo la lo­cuzione dell’asinelio, mentre ribadiva la propria mancan­za di generosità verso il Signore, gli sfuggì negli Appunti un’altra delle numerose locuzioni che ricevette:

“16 febbraio 1932. Da alcuni giorni ho un forte raffred­dore: è stata l’occasione perché si manifestasse la mia scarsa generosità con il mio Dio, diminuendo l’orazione e le mille piccole cose che un bambino - e ancor più un bambino asinelio - può offrire al suo Signore ogni gior­no. Mi stavo rendendo conto di questo e che rimandavo i propositi di dedicare più interesse e tempo alle pratiche di pietà, ma mi tranquillizzavo pensando: più avanti, quando ti sentirai bene, quando si assesterà la situazione economica dei tuoi... allora! E oggi, dopo aver dato la Santa Comunione alle monache, prima della Santa Mes­sa, dissi a Gesù quello che tante e tante volte gli dico, di giorno e di notte: (...) “Ti amo più di loro” . Immediata­mente ho inteso, senza parole: “Le opere sono amore, non i bei ragionamenti” . Vidi subito con chiarezza quanto io sia poco generoso, e mi vennero alla mente molti particolari cui non pensavo né davo importanza, che mi fecero comprendere con molta evidenza la mia mancanza di generosità. O Gesù: aiutami, perché il tuo asinelio sia completamente generoso. Opere, opere!”210.

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(Nuova grazia che, come premio al suo desiderio di amare, il Signore gli concedeva perché si conoscesse meglio interiormente; e, d’altro lato, divino sprone per esigere una maggiore donazione di tutte le sue facoltà).

* * *

“Mi attendo grandi cose, in questo anno 1931” , aveva scritto nel mese di marzo negli Appunti. La sua aspetta­tiva fu ampiamente superata. Dodici mesi dopo era così ricólmo di grazia divina da sentirsi traboccare, come so­no manifesti in un ubriaco gli effetti del vino; così pieno di Dio che gli veniva voglia di implorare una tregua.

“Mi sento inondato, ubriaco di grazia di Dio. Che gran­de peccato se non corrispondo! Ci sono dei momenti - oggi stesso - in cui mi viene voglia di gridare: Basta, Si­gnore, basta!” (11-III-1932)211.

L’aquila divina aveva afferrato l’uccellino e lo aveva innalzato ad altezze da vertigine. Il Signore aveva im­presso definitivamente nella sua anima il sentimento della filiazione divina, che spingeva il suo spirito ad ac­cettare con amore qualsiasi evento, “ senza badare se sia- come li definisce il mondo - favorevole o contrario, perché, venendo dalle sue mani di Padre, anche se il colpo di scalpello ferisce la carne, è pur sempre una prova di Amore, che toglie le nostre asperità per avvici­narci alla perfezione” (29-XI-1931)212.

Il suo coraggio nel percorrere sentieri di dolore e di espiazione fu premiato dal trionfo dell’amore che, da allora in poi, s ’impose nella sua anima su qualsiasi altro sentimento:

“Gesù, ho molti desideri di riparazione. Il mio cammino è amare e soffrire. Ma l’amore mi fa gioire nella soffe­renza, a un punto tale che ora mi sembra impossibile di poter mai soffrire. L’ho già detto: non c’è nessuno che

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mi possa dare un dispiacere. Anzi, aggiungo: non c’è nessuno che mi possa far soffrire, perché la sofferenza mi dà gioia e pace” (24-I-1932)213.

Da allora in poi, la vita di quel sacerdote fu sempre una normale, serena e amabile combinazione di grandi pene e di grandi gioie. Pene agrodolci, che non gli to­glievano la pace; e gioie mai veramente complete.

Immergendosi negli Appunti intimi si vede e si misu­ra quanto Dio aveva operato nel corso di un anno nella sua anima, semplificandola nell’orazione e attraendola negli affetti.

“Ora tra Maria e me, tra Gesù e me, ...nessuno! Prima cercavo dei santi intermediari” (7-IV-1932)214.“Ora vado direttamente al Padre, a Gesù, allo Spirito Santo, a Maria. Ciò non significa che non abbia delle de­vozioni (S. Giuseppe, gli Angeli, le anime del purgatorio, Domenico, Giuseppe Calasanzio, Don Bosco, Teresa, Ignazio, Saverio, Teresina, Mercedes, ecc.), ma la mia ani­ma indubbiamente si semplifica R.Ch.V.” (26-H-1932)215.

Proseguiva la vita di infanzia spirituale, giovane e au­dace, e la preghiera del sacerdote sgorgava ora in modo imperioso:

“L’espressione della mia orazione “io voglio” è una ma­niera infantile di chiedere. Quindi non esco dalla stra­da” (14-I-1932)216.

Il Fondatore uscì dal 1931 anche con una singolare abitudine. Cominciare a leggere un giornale e immer­gersi in Dio era un tutt’uno. Al principio questo fatto, che si era ripetuto parecchie volte nel corso dell’anno, gli sembrò curioso, come già abbiamo rilevato217. Ma ben presto vide diventare frequenti e inesplicabili le ari­dità o i favori che lo coglievano alPimprowiso, fuori

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tempo e fuori luogo; in modo intempestivo e, molte volte, travolgente:

“È incomprensibile: so di qualcuno che è freddo (nono­stante la sua fede, che non ammette limiti) accanto al fuoco divinissimo del Tabernacolo e poi, in mezzo alla strada, fra il rumore di automobili, tram e persone, o mentre legge un giornale, sperimenta folli rapimenti di Amore di Dio” (26-III-1932)218.

Stava forse ricevendo lezioni pratiche su come si può avere vita contemplativa nel traffico congestionato, nel brulichio di persone o nell’ozio di una lettura?

Il diavolo, nel frattempo, non se ne stava inattivo. Scrollava quell’uomo di Dio. Dapprima con l’insinua­zione che non aveva diritto a condannare alla povertà la sua famiglia per la “pazzia” dell’Opera. Poi cercando di rubargli la tranquillità, seminando zizzania nella fac­cenda della nomina ufficiale nel Patronato di Santa Isa­bel. Alla fine, vedendo quanto poco successo aveva, de­cise di aggredirlo, con il permesso del Signore.

Da principio il sacerdote non si rese conto che si trat­tava della rabbia del “grandissimo tignoso” - così chia­mava il diavolo219 - finché divenne vittima di uno specia­le tipo di violenze. Una domenica di marzo, a mezzogior­no, si recava tranquillamente leggendo il breviario a dare una lezione privata, quando di punto in bianco si prese una violenta pallonata. Si dominò e non voltò neppure il capo “per vedere se fosse casualità o malizia”220.

Dieci giorni dopo, il mercoledì santo, andò a confes­sare le bambine interne del Collegio di Santa Isabel. Stava ritornando per via Duca di Medinaceli quando scorse dei ragazzi che giocavano sul marciapiede del- l’Hotel Palace. Smaliziato da esperienze similari, si portò rapidamente dall’altro lato della strada, ma non riuscì a evitare l’inevitabile:

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“Un formidabile calcio di punta e... pumi, la botta sulla lente destra degli occhiali e sul naso. Non ho neppure vol­tato la testa. Ho tirato fuori il fazzoletto e con calma ho continuato a camminare mentre ripulivo gli occhiali (...). Ho colto subito l’astio diabolico (non poteva essere cosa fortuita) e la bontà di Dio che lo lascia abbaiare, ma non mordere. Là cosa più logica sarebbe stata la rottura della lente, dato che aveva ricevuto un colpo non da poco... O magari una ferita al mio occhio destro. La prima eventua­lità mi avrebbe procurato un bel dispiacere, perché sono in difficoltà a pagare i pochi tram che devo necessaria­mente prendere... In fin dei conti: Dio è mio Padre”221.

Non c’è due senza tre, come riferisce un’altra Caterina-.

“Lunedì, 11 aprile. Ieri, mentre camminavo per via Al- varez de Castro - sul marciapiedi, leggendo il breviario- per prendere il 48 in direzione dell’ospedale, mi hanno tirato un’altra gran pallonata! Mi sono messo a ridere.Si è arrabbiato”222.

Don Josemana, con gran senso umoristico, si rende­va conto che Dio “lascia che il diavolo abbai, ma non morda”223. Anche un’altra volta, a quel tempo, sentì in modo chiarissimo che l’inferno ruggiva contro l’Opera di Dio. “Accadde alle dodici del mattino di un giorno di sole, sulla passeggiata di via Martìnez Campos, al­l’angolo con la Castellana”224. Non diede altre spiega­zioni, poiché aveva “ spersonalizzato” le Caterine dai fatti soprannaturali che riguardavano la sua persona. Ma probabilmente l’accaduto si riferisce a un’annota­zione di qualche settimana prima in cui si legge:

“L’inferno è furibondo, urla e rugge, perché Satana in­travede le anime che l’Opus Dei porterà a Gesù e l’insie­me del suo agire nel mondo: l’effettivo regno di Cristo in tutta la società: Regnare Christum volumus”225.

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NOTE CAPITOLO VI

1 Cfr Santiago Escrivà de Balaguer y Albàs, Sum. 7325; Alvaro del Portil­lo, Sum. 249; Joaqum Alonso, PR, p. 1738.2 Cfr Appunti, nn. 620 e 656. Allora come oggi dare lezioni private non era un lavoro continuativo; in certi periodi era particolarmente difficile trovare alunni. Per questo motivo ci furono dei momenti in cui, proprio mentre aveva urgente necessità di denaro per far fronte a pagamenti di scadenza immediata, si trovò senza alunni. In uno di questi momenti an­gosciosi, in cui non vedeva alcuna soluzione, gli offrirono delle lezioni pri­vate. Dopo averle accettate, annotò: “Questo mi consentirà di pagare l’af­fitto (questo mese non avrei potuto farlo) e l’iscrizione di Guitin” - il fra­tellino - “all’istituto. Siano rese grazie a Dio” (ibidem, n. 620). Le lezioni private gli imponevano a volte di procurarsi delle dispense, di svolgere pratiche accademiche e, persino, di accompagnare gli allievi in altre città per gli esami. In una lettera indirizzata a Pou de Foxà, dell’8-IV-1932, don Josemarìa gli parlò di uno di questi viaggi.3 Cfr Lettera di Isidoro Zorzano, 9-XII-1928 (AGP, IZL, D-1213, 3).4 Cfr Pratica Accademica personale, cit., e Appendice documentale, docu­mento XII.5 C 7, 7-III-1930. Con l’accumularsi di mille cose da fare, l’impegno per la tesi di laurea si faceva sempre più difficile.6 Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 485.7 C 28, 8-IV-1932.8 Appunti, n. 1676.9 Josefina Santos, AGP, RHF, T-05255, p. 2.10 Appunti, n. 39; cfr ibidem, nota 52.La cosiddetta Cappella del Vescovo a Madrid era stata fondata nel 1520 da Francisco Vargas y Carvajal, consigliere segretario dei Re Cattolici e poi di Carlo V, e da suo figlio Don Gutierre, Vescovo di Plasencia.

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11 Cfr Appunti, n. 163. Tale fu il caso di un impiegato di commercio, del quale si fa cenno (cfr ibidem, n. 444).12 Ibidem, n. 137.13 Ibidem, n. 200.14 Ibidem, n. 179, nota 193.15 Ibidem, n. 164. La nota porta la data del 27-VI-1932. Il Fondatore par­lerà in altre occasioni di “segreto della gestazione” (ibidem, n. 205, nota 225) e di “ Opera non-nata” (ibidem, n. 89).16 Ibidem, n. 67.17 Ibidem, n. 1867.18 Ibidem, n. 1310; Alvaro del Portillo, Szwz. 542.19 Fra i sacerdoti con i quali ricordava di aver parlato c’erano don Nor­berto, di cui s’è parlato; un canonico di Tarazona che poi lo fu di Toledo, probabilmente don Angel del Barrio (cfr E. Subirana, cit., 1928, p. 453), poi cappellano della Cappella dei Re (di don Angel esiste una lettera da­tata Toledo 18 agosto 1944, indirizzata a don Josemaria, nella quale gli ricordava la loro dimestichezza e le «inquietudini» che manifestava intor­no al 1928: cfr originale in AGP, RHF, D-12807); don Josemaria men­zionò anche “un sacerdote valenziano e un giovane religioso della Con­gregazione della Sacra Famiglia” (cfr Appunti, n. 1864; e Alvaro del Por­tillo, Sum. 327).20 Appunti, n. 1864.21 Ibidem, n. 1866. Questo scritto fu redatto nel 1948 senza aver consul­tato il n. 73 degli Appunti, scritto intorno al 26 luglio 1930, e che dice te­stualmente: “Domenica 6 luglio ho consegnato a P. Sànchez questi fogli, nel Patronato, quando venne per gli esami della Preservazione della Fede. Lunedì 21 dello stesso mese, a Chamartin, il Padre mi ha restituito le note e si è impegnato a essere il nostro Direttore. Laus Deol”22 Ibidem, n. 1868.23 Ibidem, n. 1867.24 Cfr Ibidem, n. 21 e anche il n. 73. Prima del 6 luglio 1930, in diversi luoghi degli Appunti aveva scritto di “Opere di Dio” (cfr nn. 32 e 38) o di “ Opera di Dio” (cfr nn. 4 e 72).25 Ibidem, n. 126. In nota mons. Alvaro del Portillo commenta: «In altre occasioni il Padre ci ha spiegato che quando udì Padre Sànchez parlare dell’Opera di Dio, unì questo nome all’essenza dell’Opera di santificare il lavoro, trasformandolo in preghiera. E con questa nuova interpretazione la denominazione Opera di Dio non gli apparve più cosa presuntuosa, bensì perfettamente logica; e considerò inoltre un mandato divino - come è scritto qui - il fatto che si chiamasse così: Opera di Dio, Opus Dei» (ibi­dem, nota 146).26 Cfr ibidem, n. 66.27 Era Donna Carolina Carvajal, sorella del Conte Aguilar de Inestrillas.

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Sui passi compiuti a Palazzo c’è un riferimento in una lettera inviata a don Josemaria da Isidoro Zorzano (Malaga 26-1-1931): «Mi racconterai come va avanti la faccenda del Palazzo» (cfr AGP, IZL, D-1213, n. 13).28 Don Pedro Poveda Castroverde fu il fondatore delle Teresiane. Nacque a Linares (Andalusia) nel 1874. Fu ordinato sacerdote nel 1897; fu profes­sore al seminario di Guadix (Granada). Nel 1906 si trasferì nelle Asturie, dove svolse una intensa attività pedagogica e fondò nel 1911 due scuole di Magistero, a Gijón e ad Oviedo. Nel 1921 divenne membro della Cappel­la Reale a Madrid; nel 1931 venne nominato segretario della Giurisdizio­ne Palatina. Fu assassinato in odio alla religione il 28-VII-1936. La sua Causa di canonizzazione fu iniziata nel 1955. Il processo diocesano ter­minò nel 1958 e nel 1980 la Congregazione per le Cause dei Santi emise il decreto detto di introduzione della Causa. Cfr A. Serrano, La estela de un Apóstol, Madrid, 1942; S. de Santa Teresa OCD, Vida de D. Pedro Pove­da Castroverde, Madrid 1942; Flavia Paz Velàzquez, Cuadernos Biogràfi- cos, ed. Narcea 1986, 1987, ecc. La beatificazione di Pedro Poveda da parte di S.S. Giovanni Paolo II ha avuto luogo il 10 ottobre 1993.29 Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 240; e Javier Echevarria, Sum. 3250. «L’incarico era una meta ambita da molti», spiega Mons. Echevarria; e prosegue: «A seguito di questa conversazione nacque fra i due sacerdoti una profonda amicizia e, nonostante la differenza d’età, D. Pedro Poveda chiamava molte volte don Josemaria per confidarsi fraternamente, per chiedergli consiglio e aiuto nel ministero sacerdotale».30 Nei suoi Appunti, n. 192, racconta che, dopo che ebbe rifiutato la Cappellania Onoraria palatina, “ la marchesa de los Alamos, Maria Luisa Guzmàn, Maria Machimbarrena e sua nipote Maruja (figlia della prima), tutt’e quattro, mi accompagnarono al Ministero di Grazia e Giustizia per presentarmi al Sottosegretario D. José Martmez de Vela- sco. Quattro giorni dopo, la repubblica...” . “Venerdì scorso” (il 17-IV- 1931), “ in casa di Aguilar de Inestrillas, mi presentarono alla signora Martmez de Velasco, che si affrettò a dirmi - e si vedeva che diceva il vero - che a suo marito era dispiaciuto di non aver avuto il tempo di si­stemare un suo parente e me” .31 Ibidem.32 II pacchetto che conteneva gli Appunti intimi era conservato nell’archi­vio della Prelatura insieme ad altre cose, in una busta sulla quale il Fonda­tore aveva scritto: “In qualsiasi caso, dopo la mia morte queste carte - come pure i quaderni che costituiscono i miei Appunti intimi — devono es­sere consegnati a don Alvaro, senza che nessuno li legga prima, affinché faccia a parte le annotazioni opportune, dato che questo figlio mio è l’uni­co che, avendogli io parlato di questi scritti molte volte e a lungo, è in grado di commentare e chiarire tutto quanto debba essere commentato o chiarito. Roma, 2 settembre 1968” .33 “I santi” - scriveva nel 1932 - “ sono sempre delle persone scomode, uo­mini o donne - la mia santa Caterina da Siena! - perché con il loro esem­

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pio e la loro parola sono un continuo motivo di disagio per le coscienze che sono immerse nel peccato” (Lettera 9-1-1932, n. 73).34 Appunti, n. 1862 (Roma, 14-VI-1948).35 Ibidem. “Ho bruciato il quaderno n. 1” , scrisse nella pagina iniziale del quaderno n. 2.36 Appunti, n. 167.37 Pedro Rocamora, AGP, RHF, T-05829, p. 2.38 Appunti, n. 713. In una Caterina del 24-V-1932 si legge: “Proposito: se non c’è vera necessità, non parlerò mai delle mie cose personali” (ibidem, n. 735). Probabilmente bruciò il primo quaderno dopo Pestate, poiché scrisse altrove - come si era proposto - le note del ritiro spirituale del 1932, che fece in ottobre. (Al ritorno a Madrid, dopo aver fatto a Segovia i suoi esercizi spirituali, scrisse nei suoi Appunti: “ 14 ottobre 1932: con­serverò a parte gli appunti dei miei esercizi spirituali” cfr Appunti, nn. 839 e 1701). L’ultima volta che negli Appunti compare un riferimento che indica l’esistenza del primo quaderno è dell’11 dicembre 1931, dove si dice che stava leggendo “una delle note sciolte del primo quaderno a don Lino” , un altro sacerdote, “per fargli conoscere l’Opera più nei particola­ri” (.Appunti, n. 470). E il giorno precedente commentava che, rileggendo una “certa annotazione del primo quaderno di Caterine” , aveva compreso un punto sconosciuto della propria vita spirituale (cfr ibidem, n. 474).39 Ibidem, n. 996.40 Ibidem, n. 379.41 Ibidem, n. 1040.42 Ibidem, n. 446.43 Ibidem, nn. 472 e 477.44 Ibidem, n. 475.45 Ibidem, n. 691.46 Ibidem, n. 1115. Pure eccezionale, per esempio, è quanto scrisse il 26 novembre 1931: “Dopo la Santa Messa, oggi, nel ringraziamento e più tardi nella chiesa dei Cappuccini di Medinaceli, il Signore mi ha inondato di grazie. Si è adempiuto ciò che dice il Salmo: Uinebriabuntur ab ubertate domus tuae; et torrente voluptatis tuae potabis eos” . Pieno di gioia verso la Volontà di Dio, sento di avergli detto con S. Pietro: ecce reliqui omnia et secutus sum te. E il mio cuore si rese conto del “centuplum recipies” ... Ho vissuto davvero il Vangelo del giorno” (n. 415).47 Ibidem, n. 619. E molto probabile che talvolta dovesse abbreviare la strada attraversando il parco del Retiro, ma certamente non lo faceva per passeggiare (cfr n. 473).48 Ibidem, n. 618.49 Ibidem, n. 349. “Per fortuna” - commentava alcuni anni dopo rileggen­do questa nota - “nonostante il cammino d’infanzia che percorrevo, non

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scrissi questi appunti. Per lo meno non ricordo di averli scritti” (cfr ibi­dem, nota 334).50 Ibidem, n. 263.51 Ibidem, n. 311.52 Ibidem, n. 343.53 Ibidem, n. 471.54 Ibidem, n. 342.55 Ibidem, n. 13.56 Ibidem, n. 14.57 Ibidem, n. 116.58 Ibidem, n. 313.59 Ibidem, n. 875.- L’espressione usata (in spagnolo Dona Pelada) fa allusione al tradiziona­le simbolo del teschio (NdT).60 Ibidem, n. 15.61 Ibidem, n. 1166.62 Ibidem, n. 423.63 Ibidem, nn. 458-459. La ragione di scrivere una Caterina è non solo uno sfogo alla sua santa indignazione, ma anche quello di dare un avver­timento per gli oratori che l’Opera avrebbe avuto in futuro, nei quali - termina la nota - “ si eviterà di cadere in simili disattenzioni verso il no­stro Re-Cristo” .64 Ibidem, n. 581; cfr Lettera 24-111-1930, n. 21.65 Appunti, n. 173.66 II Governo provvisorio, nel quale c’erano due cattolici e cinque masso­ni, si autodefinì, fin dalla sua costituzione il 14 aprile, come “governo di pieni poteri” , dandosi uno statuto giuridico il cui art. 3 sanciva come base della propria politica la libertà di credenze e di culto (cfr Gaceta de Ma­drid, n. 105, 15-IV-1931, 195).Il clero e i cattolici accettarono serenamente gli eventi e il nuovo ordine politico, anche se preoccupati per l’impostazione anticlericale delle forze repubblicane. Il 24 aprile il Nunzio, Mons. Tedeschini, inviò una lettera a tutti i Vescovi, trasmettendo loro indicazioni sulla posizione da adottare: «...essere desiderio della Santa Sede che vostra Eccellenza raccomandi ai sacerdoti, ai religiosi e ai fedeli della sua diocesi, che rispettino i poteri co­stituiti e obbediscano ad essi per il mantenimento dell’ordine e del bene comune» (cfr F. de Meer, La Cuestión religiosa en las Cortes Constituyen- tes de la II Repùblica Espanola, Pamplona 1975, pp. 30-31).La Santa Sede sperava che il governo rispettasse i diritti della Chiesa e il Concordato vigente.67 I partiti più rappresentati nell’Assemblea Costituente furono: Socialisti (117), Radicali (93), Radical-Socialisti (59) e Sinistra Repubblicana della

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Catalogna (43). Il resto era formato da piccole fazioni di 9 partiti (cfr Republica Espanola. Cortes Constituyentes, Madrid 1932, p. 124). La Camera era formata da 406 deputati in totale. Durante le elezioni la de­stra non potè o non seppe organizzarsi, per cui la rappresentanza parla­mentare non corrispondeva alla realtà della società spagnola.681 giorni 11, 12 e 13 maggio bruciarono 107 edifici religiosi, quasi tutti chiese e conventi. La polizia assistette agli incendi senza fare nulla per fer­mare gli atti vandalici, benché fin dal giorno prima le autorità fossere a co­noscenza che sarebbero scoppiati disordini. A Madrid, forze dell’ordine as­sistettero passive all’incendio della chiesa di via della Fior. Tale passività del governo contribuì a che gli incendi si ripetessero in molte altre città della Spagna senza che la forza pubblica si decidesse a intervenire. Per tutto ciò che si riferisce al contesto politico, religioso e sociale della II Repubblica spagnola, cfr Stanley G. Pane, La primeva democracia espanola: la Segunda Republica, 1931-1936, Barcellona 1995; Richard H. Robinson, Los orige- nes de la Espana de Franco: derecba, Republica y Revolución 1931-1936, Barcellona 1974; Gonzalo Redondo, Historia de la Iglesia en Espana, 1931- 1939, voi I, La Segunda Republica (1931-1936), Madrid 1993.69 Gli incendi di chiese e conventi non accaddero soltanto nel maggio 1931, ma si ripeterono molte volte durante la Repubblica Spagnola: nel gennaio 1932 a Saragozza, Cordoba e Cadice; nell’aprile 1932 a Siviglia; in luglio a Granada; in ottobre a Cadice, Marchena e Loja; nel dicembre 1933 bruciarono a Saragozza 10 chiese e conventi e a Granada 6 chiese, ecc. Tutto ciò prima dello scoppio rivoluzionario delle Asturie nel 1934 e degli incendi in tutta la Spagna nel 1936 durante i mesi di governo del Fronte Popolare e prima della Guerra Civile (cfr A. Montero, Historia de la Persecución religiosa en Espana, op. cit., pp. 26-27).70 Lettera 29-XII-1947 /14-11-1966, n. 28.Il progetto di Costituzione fu reso noto il 18 agosto. Gli articoli che si ri­ferivano a questioni religiose erano l’art. 3: «Non esiste religione di Stato»; l’art. 24, con il quale tutte le confessioni religiose erano sottomes­se alle leggi generali del Paese e veniva annunciato che «lo Stato scioglierà tutti gli Ordini religiosi e nazionalizzerà tutti i loro beni»; l’art. 25, sulla libertà di coscienza e i limiti all’esercizio del culto; l’art. 41, che preconiz­zava il divorzio; e gli art. 46 e 47 sull’insegnamento.Ciò provocò la pubblicazione di due importanti documenti sulle relazioni fra la Chiesa e lo Stato: la Lettera pastorale del Card. Segura (15-VIII-1931) e il Messaggio della provincia Ecclesiastica Tarraconense; vi erano condannate le dottrine della separazione tra Chiesa e Stato e il laicismo, se­condo gli insegnamenti di Papa Leone XIII: «La Lettera pastorale del Card. Segura e il Messaggio dei Vescovi tarraconensi erano, sul piano dei princì­pi, una dichiarazione di assoluta incompatibilità tra la Chiesa e la Costitu­zione che voleva darsi la Repubblica» (F. de Meer, op. cit., pp. 84-85).71 Sul dibattito parlamentare sull’art. 26 della Costituzione (24 del proget­to), approvato dal Parlamento il 14 ottobre, cfr F. de Meer, op. cit., pp.129 e ss.

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Non appena fu nota la redazione definitiva e l’approvazione dell’art. 26 della Costituzione, Papa Pio XI inviò il 16 ottobre un telegramma alla Gerarchia e ai «fedeli figli della Chiesa di Spagna», protestando contro le offese ai «sacrosanti diritti della Chiesa, che sono i diritti di Dio e delle anime», e invitando tutti a «unirsi alle sue intenzioni nella celebra­zione del Santo Sacrificio la domenica di Cristo Re, affinché cessi la grande tribolazione che affligge la Chiesa e la nazione spagnola» (cfr Bollettino Ufficiale del Vescovado di Madrid-Alcalà, n. 1546, 1931, pp. 405-406).72 La pastorale collettiva dell’Episcopato spagnolo portava la data del 20 dicembre 1931, ma fu resa pubblica nelle diocesi il primo gennaio 1932.73 Cfr “ Gaceta de Madrid”, 3-VI-1933. La legge era stata approvata il 17 maggio, ma doveva essere autenticata e firmata dal Presidente della Re­pubblica, Alcalà Zamora che, molto indeciso, la firmò solo il 2 giugno.74 II documento dell’Episcopato iniziava ricordando che la Gerarchia spa­gnola, nella dichiarazione collettiva del dicembre 1931, «espose il profon­do dissenso della Chiesa di fronte agli eccessi dello Stato che violavano la coscienza cristiana e i diritti confessionali», senza che si potesse accusare le autorità ecclesiastiche di aver sobillato i fedeli, sempre rispettosi dell’or­dine pubblico. Poi analizzava «il durissimo trattamento a cui viene sotto­posta la Chiesa in Spagna. Essa viene considerata non come persona mo­rale o giuridica riconosciuta e rispettata debitamente all’interno della lega­lità costituita, ma come un pericolo da individuare e sradicare con norme e interventi di ordine pubblico» (cfr Dichiarazione delVEpiscopato a se­guito della legge sulle Confessioni e Congregazioni religiose, in Bollettino Ufficiale del Vescovado di Madrid-Alcalà n. 1585, 1933).75 AAS, 25 (1933), pp. 275-276. L’arcivescovo di Toledo, Mons. Gomà, appena nominato, pubblicò la lettera pastorale Horas graves (12-VII- 1933), in cui affermava energicamente che «i tentacoli del potere statale sono arrivati dappertutto e hanno potuto penetrare tutto, obbedendo ra­pidamente all’unico pensiero che li informa: quello di annientare la Chie­sa» (cfr A. Montero, op. cit., p. 32).76 Le basi legali erano pronte e, in conformità con lo spirito laicista e la mancanza di rispetto per le dichiarazioni sulle libertà umane contenute proprio nella Costituzione, applicarle voleva dire dare il via all’odio fratri­cida e, in definitiva, preparare la Guerra Civile 1936-1939.Il primo presidente del Governo repubblicano e presidente della Repub­blica, Niceto Alcalà Zamora, scrisse in seguito che la Costituzione spin­geva alla guerra civile: «Si è fatta una Costituzione che è un invito im­plicito alla guerra civile, dalla dottrina - in cui prevale la passione sulla serenità equilibratrice - alla prassi, in cui l’improvvisazione e l’equili­brio instabile sostituiscono l’esperienza e la solida armonia dei poteri» (N. Alcalà Zamora, Los defectos de la Constitución de 1931 , Madrid 1936, p. 51).L’atteggiamento della Gerarchia e dei cattolici spagnoli era stato fin dal primo momento di sottomissione ai poteri costituiti. A questo scopo in

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ogni diocesi furono date disposizioni da parte dei vescovi. Quelle del Ve­scovado di Madrid-Alcalà sono raccolte nella Circolare n. 93, Sul rispetto e l'obbedienza ai Poteri costituiti, come aveva chiesto Sua Santità attraver­so il Nunzio Apostolico (cfr Bollettino Ufficiale del Vescovado di Madrid- Alcalà, n. 1534,1-V-1931, pp. 173-175).77 Appunti, n. 191. La nota porta la data del 20 aprile 1931.78 C18,5-V-1931.79 In data 26 aprile 1931 il Vescovo di Madrid, per evitare sacrilegi, decre­tava in quali casi si poteva vestire l’abito secolare, a motivo dello sgomen­to provocato dagli avvenimenti del 14 aprile e del loro carattere antieccle- siastico (cfr Circolare Ad clerum sive saecularem sive regularem circa usum vestis talaris, in Bollettino Ufficiale del Vescovado di Madrid- Alcald, n. 1534, l-V-1931, pp. 176-177).Santiago Escrivà de Balaguer, che aveva allora 12 anni, ricorda: «Ho ac­compagnato Josemarìa a portare il Santissimo dalla cappella del Patrona­to, in via Nicasio Gallego, alla casa di Pepe Romeo, in via Santa Engracia angolo Maudes, quasi a Cuatro Caminos. Forse ci accompagnava anche Cortés Cavanilla, ma non lo ricordo. Sicuramente ci siamo andati a piedi, perché ricordo la folla, la gente sui marciapiedi, ecc. Josemarìa era vestito da civile con un abito di Pepe Romeo e con un berretto che gli copriva l’ampia tonsura che allora portava. Per strada si poteva circolare poiché, pur essendoci un clima rivoluzionario, l’agitazione era soprattutto vicino ai conventi» (AGP, RHF, T-07921, p. 12). Cfr anche Alvaro del Portillo, PR, p. 1353; e Mario Lantini, Sum. 3562.80 Appunti, n. 202.81 Ibidem, nn. 724 e 573.82 Portò il Santissimo a casa dei Romeo le sere dell’ l l , 12 e 16 maggio, quest’ultima volta per un falso allarme. Cfr Appunti, n. 202.83 Ibidem, n. 424.84 Ibidem, n. 202. Cfr Santiago Escrivà de Balaguer y Albàs, Sum. 7325; Joaqum Alonso, PR, p. 1738.85 “In questa campagna che si è fatta e si fa contro i religiosi, i sacerdoti e la Chiesa, mi sono rafforzato nell’opinione, già manifestata nelle Caterine, che ci sia un’organizzazione segreta che muove il popolo (sempre bambi­no) con la stampa, giornali, libelli, calunnie, propaganda a voce. Poi lo portano dove vogliono: pure all’inferno” (Appunti, n. 331).86 Ibidem, n. 114.87 Ibidem.88 Ibidem, n. 210.89 Ibidem, n. 211.90 Ibidem, n. 212. Le parole di una strofa dicevano: «Se preti e frati sapes­sero / le bastonate che li aspettano / andrebbero in coro a cantare: / li­bertà, libertà, libertà». E probabile che si riferisca a questa strofa.

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91 Margarita Alvarado Coghem, AGP, RHF, T-04676, 1.92 C 18, 5-V-1931.93 Le conclusioni erano:“a) Devo leggere un quotidiano: “Il Secolo” , visto che sono abbonato.b) Pur senza comprarli - perché devo vivere sempre la povertà - se mi ca­pita tra le mani qualche altro giornale cattolico e c’è qualcosa di interes­sante, leggerlo.c) In nessun giornale leggere articoli meramente letterari o ricreativi.d) Non leggere riviste illustrate e neppure scorrerle (...). Fanno eccezione le riviste scientifiche e - naturalmente - quelle che trattano delle missioni cattoliche.e) Leggerò “Il Secolo” la mattina successiva alla sua uscita” (Appunti, n. 1726).“Il Secolo futuro” (El Siglo Futuro) era un giornale tradizionalista nel quale lavorava don Antonio Sanz Cerrada, un sacerdote amico di don Jo- semaria, che scriveva con lo pseudonimo di “Fray Jumpero” . Era un gior­nale a orientamento cattolico e don Josemaria lo leggeva per amicizia verso di lui, anche se spesso non condivideva la linea del giornale (cfr ibi­dem, n. 1691).94 Ibidem, n. 327. La data della nota è 15-X-1931.95 Ibidem, n. 222.96 Ibidem, n. 291. Un mese dopo gli insulti non turbavano minimamente la sua pace esteriore; il 26-X-1931 scriveva:“Prendo nota di un curioso progresso che ho notato in me. Ne ho già par­lato. Prima, gli insulti mi facevano arrabbiare. Poi mi facevano gioire. Ora risate, burle e insulti mi lasciano tranquillo come se fossero rivolti a un muro” (ibidem, n. 348).97 Ibidem, n. 590.98 Ibidem, n. 164.99 Ibidem, n. 28.100 Ibidem, n. 28.101 Ibidem, n. 92.102 Ibidem, n. 111. Questa trilogia si ripetè, nella pratica e nei propositi della sua vita interiore, in diversi modi. Per esempio, facendo di questi tre aspetti i punti di esame di coscienza quotidiano (cfr ibidem, n. 75), o considerando gli aspetti dell’apostolato come apostolato di preghiera, espiazione ed azione (cfr ibidem, n. 129); ovvero: “Pregare, pregare e pregare. Espiare, espiare ed espiare. Poi... lavorare solo per la sua glo­ria!” (ibidem, n. 154).103 Ibidem, n. 128. L’insistenza del Fondatore sulla preghiera e la mortifi­cazione continue fecero presa su quanti lo seguivano. «Mi convinco sem­pre più - scriveva Isidoro Zorzano - che solo con il Suo aiuto possiamo raggiungere il nostro obiettivo; è necessario che con la preghiera, l’azione

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e l’espiazione, otteniamo questa grazia singolare» (Lettera di Isidoro a don Josemaria, 27-X-1931; AGP, IZL, D-1213, n. 18).Queste idee, come si può vedere dalle lettere del Fondatore a Isidoro Zor­zano, riflettono gli insegnamenti ricevuti: “Le fondamenta devono essere, prima di tutto, la preghiera e l'espiazione (sacrificio)” (C 12, 23-XI-1930); “spero che presto le cose si mettano in modo (...) che l’azione accompagni l’apostolato nascosto di preghiera e sacrificio” (C 21, 3-IX-1931).104 Appunti, n. 160. È commovente la sua fede nei meriti della sofferenza degli innocenti, come si vede da una Caterina. “ Giorno di S. Giovanni Evangelista, 1930. Oggi, fin dal mattino, avevo offerto le mie azioni al simpaticissimo Apostolo amato da Cristo... Il Signore volle ricompensare la miserabile miseria dei miei meriti mettendomi davanti un malatino di sedici anni, tisico; quando sono uscito dalla visita (al n. 11 di via Cana- rias), offrii l’anima di quel bambino sofferente al Santo Apostolo. E S. Giovanni mi ripagò subito” (27-XII-1930) (n. 140).105 Ibidem, n. 522. Il Fondatore attribuiva anche la precedente caduta de “Il Sole” , un giornale antireligioso, all’efficacia della preghiera innocen­te di Enriqueta la Tonta (cfr ibidem, nota 431; e Alvaro del Portillo, Sum. 1189).Persino negli Appunti intimi il Fondatore evitava l’uso della prima per­sona. Quando narrò questo fatto cercò di “ spersonalizzarlo” , quasi fosse un’idea di don Norberto, che era sicuramente al corrente di quanto accaduto, ma la sintassi lascia intravedere che era lui stesso a esortare Enriqueta.“Intorno agli anni dal 1927 al 1931” - raccontò altrove - “si dirigeva spi­ritualmente con un certo sacerdote una povera donna, ritardata mentale, ignorante e priva di cultura, ma di una squisita finezza d’animo. La chia­mavano Enriqueta la Tonta. A quel tempo in Spagna godeva di una gran fama un quotidiano duramente anticattolico, diretto da un gruppo di in­tellettuali, che stava causando grave danno alle anime e alla Chiesa. Un giorno quel sacerdote, - saldo nella fede e privo di altre armi - chiese alla poverina: “Da oggi, fino a che te lo dirò, pregherai per una mia intenzio­ne” . L’intenzione era che il giornale cessasse le pubblicazioni; e dopo poco tempo si compì di nuovo ciò che dice la Scrittura: quae stulta sunt mundi elegit Deus ut confundat sapientes (1 Cor, 1,27); che Dio ha scelto gli sciocchi secondo il mondo per confondere i saggi: quel giornale chiuse per la preghiera di una povera scema, che continuò a pregare per la stessa in­tenzione, e allo stesso modo chiusero un secondo e un terzo quotidiano, che avevano preso il posto del primo e che facevano gran danno alle anime” (Lettera 7-X-1950, n. 12).L’ispiratore di “Il Sole” , di “ Crogiolo” e di “Luce” era José Ortega y Gas- set (cfr Appunti, n. 522; sulla storia e la crisi di questi giornali, cfr Gonza­lo Redondo, Las empresas politicas de José Ortega y Gasset. “El Sol”, “Crìsol” y “Luz” (1917-1934), Madrid 1970).106 Cfr Appunti, n. 302.107 Ibidem, n. 390.

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108 Ibidem, n. 430.109 Ibidem, n. 205.110 Ibidem, n. 244.111 Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 257 e 258.112 Appunti, n. 207.113 Ibidem, nn. 208 e 209. Sant’Efrem era il 18 giugno, ma egli smise di lavorare al Patronato solo il 28 ottobre 1931 (cfr Appunti, n. 209, nota 236) quando le religiose trovarono un sostituto. Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 257. Conferma il dato della sua uscita dal Patronato il fatto che, nel registro di concessione delle facoltà ministeriali, alla data del 23 giugno 1931, è indicata la chiesa di Santa Barbara e non quella del Patronato.114 Lettera del P. Luis Tallada a don Josemaria, 30-VI-1931 (originale in AGP, RHF, D-15399).Le Dame Apostoliche avevano un noviziato a Chamartin dal 1929; ne era cappellano il P. Superiore della Sagrada Familia a Madrid (cfr E. Iturbide, El Amor dijo si, Pamplona 1962, p. 177). In quegli anni fu Maestra delle novizie Àsunción Munoz (cfr ibidem, pp. 175-176), la quale dichiara che anche il cappellano del Patronato andava spesso a far loro visita (Asun- ción Munoz, AGP, RHF, T-04393, p. 4). Da quanto si apprende dalla cor­rispondenza con P. Luis Tallada, don Josemaria conobbe anche altri reli­giosi della Sagrada Familia a Madrid.115 Appunti, n. 689.116 Ibidem, n. 356. Mons. Alvaro del Portillo, commentando questo inci­dente, scrive: «si trattò di piccolezze senza importanza, a quanto mi assi­curò nostro Padre, ma il Signore permise che gli dolesse molto» (ibidem, nota 338). Poi si accomiatò dalle religiose, non solo dimenticando ciò chelo aveva fatto soffrire, ma chiedendo loro scusa: “La faccenda del Patro­nato l’ho sistemata come mi ha detto Padre Sànchez: con molto affetto; sono tornato a chiedere scusa se non sono stato loro di edificazione con il mio carattere, ecc.” (ibidem, n. 363). Per l’ammirazione e la gratitudine che ebbe sempre per le Dame Apostoliche e per le loro attività, cfr Alvaro del Portillo, Sum. 447; e Javier Echevarria, Sum. 2077.117 Cfr l’istanza presentata da don Josemaria al Ministero del Lavoro, il 26-1-1934, in Archivio del Patrimonio Nazionale, sezione Patronati Reali, Patronato di Santa Isabel, Incartamento personale di Josemaria Escrivà, Cassa 182/21.118 La prima notizia che ebbe sull’abbandono in cui si trovava la cappella- ma di Santa Isabel fu nel mese di luglio, tramite una delle Ausiliarie delle Dame Apostoliche, Catalina Garcia del Rey (Appunti, n. 354).Suor Cecilia Gómez Jiménez, ricordando le notizie che giravano nel con­vento, dice: «A quanto ho sentito dire dalle religiose, venire qui a celebra­re significava rischiare la vita; e poiché nessuno voleva venire, rimasero senza cappellano» (Sum. 6515).119 Cfr José Luis Sàenz Ruiz-Olalde O.A.R., Las Agustinas Recoletas de

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Santa Isabel la Reai, de Madrid, Reai Monasterio de Santa Isabel, Madrid 1990; e Leticia Sànchez Hernàndez, El convento de Santa Isabel: Madrid 1589-1989 (in {tReal Fundación del Convento de Santa Isabel de Ma­drid”, Patrimonio National, 1990).120 Cfr Decreto del 20-IV-1931 sui Beni del Patrimonio della Corona, in “ Gaceta de Madrid" (21 e 22 aprile 1931) e Decreto del 22-IV-1931, conil quale veniva creata una Giunta presso il Ministero degli Interni per di­rigere i Patronati dell’estinta Casa Reale, in “ Gaceta de Madrid” (24 aprile 1931).Cfr Decreto del 20-XI-1931 sulla Provvista di personale per sedi vacanti nei Patronati della Corona, in “ Gaceta de Madrid33 (26 novembre 1931). Le sedi allora vacanti o che si rendessero tali, dice il decreto, «saranno provviste dal Presidente della Repubblica o dal Capo del Governo, su pro­posta del Ministro degli Interni».121 Don Gabriel Palmer era Vicario Generale della Giurisdizione Palatina, dalla quale dipendevano i Patronati Reali e che aveva la propria sede nel “Patronato del Buen Suceso” (cfr Archivio del Patrimonio Nazionale, se­zione citata, Cassa 2756/22).Cfr Comunicazione del Consiglio d’Amministrazione del Patrimonio della Repubblica, indirizzata a S. E. R. Mons. Ramon Pérez Rodriguez, Patriar­ca delle Indie, in data 2 febbraio 1933, perché si prendesse cura dell’archi­vio e dell’ufficio della estinta Pro-Cappellania Maggiore di Palazzo (che esercitava allora la giurisdizione palatina), sita in via Quintana, 2 (in Ar­chivio del Patrimonio Nazionale, sez. Patronati Reali, Cassa 2756/22).122 Sugli obblighi del cappellano, cfr Joaquin Alonso, PR, p. 1738; Cecilia Gómez Jiménez, Sum. 6510; Juan Jiménez Vargas, Sum. 6703; Santiago Escrivà de Balaguer y Albàs, Sum. 7328.Don Buenaventura Gutiérrez y Sanjuàn fu ordinato a Toledo nel 1904; di­venne Cappellano d’Onore di Sua Maestà il 29 gennaio 1909 e Rettore del Reai Patronato di Santa Isabel l’I dicembre 1919. Ricoprì l’incarico finché «cessò il 16 giugno 1931 in virtù dell’Ordine Ministeriale che elimi­nava dall’organico del servizio attivo tutto il personale applicato alla Cap­pella del fu Palazzo Reale» (Archivio del Patrimonio Nazionale, Sez. Pa­tronati Reali, Patronato di Santa Isabel, Pratica personale di D. Buenaven­tura G. y S., Cassa 182/20); cfr anche E. Subirana, op. cit., 1931, p. 430.123 Don José Cicuéndez Aparicio - il già citato direttore dell’Accademia Cicuéndez - era stato nominato cappellano di Santa Isabel nel luglio 1910 (cfr, nell’Archivio ora citato, la sua pratica personale, cassa 182/17; cfr anche E. Subirana, cit., 1931, p. 430).124 Cfr Comunicazione indirizzata a Don Juan Causapié, Maggiordomo della Fondazione, Ospedale e chiesa del “Buen Suceso” , dal Ministero degli Interni, nella quale gli veniva notificata la nomina a Rettore Ammi­nistratore interinale, firmata dal Dr. Cifuentes, Madrid, 9 luglio 1931 (nella Pratica personale di don Juan Causapié, Archivio citato, Cassa 178/73); cfr anche E. Subirana, cit., 1931, p. 430.

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125 Appunti, n. 225.126 Ibidem, n. 294.127 Ibidem, n. 387.128 Ibidem, n. 403.129 Ibidem, n. 497.130 Lettera 29-XII-1947 / 14-11-1966, n. 89.131 Appunti, nn. 217 e 218. Nella diocesi di Madrid-Alcalà la festa della Trasfigurazione del Signore era celebrata il 7 agosto, dato che il giorno 6 era impedito perché ricorreva la festa dei Santi Giusto e Pastore, Patroni principali della diocesi.La capitale della Spagna è stata sempre chiamata la “ Villa de Madrid” e, durante la monarchia, la “ Villa y Corte” , perché vi risiedeva la Corte reale. Quando don Josemaria scriveva queste righe era stata da poco pro­clamata la Repubblica: per questo utilizza l’espressione “ex Corte” .L’offerta all’Amore Misericordioso è una preghiera, molto diffusa a quel tempo, che dice così: «Padre Santo, per mezzo del Cuore Immacolato di Maria, ti offro il tuo amatissimo figlio e ti offro me stesso in Lui, per Lui e con Lui, secondo tutte le sue intenzioni e a nome di tutte le creature» (cfr Alvaro del Portillo, Sum. 337 e 1118). Di questa devozione si tornerà a parlare più avanti, in questo capitolo.132 Sulla grazia ricevuta il 7-VIII-1931 danno la loro testimonianza, per averne udito il racconto dalla bocca del Fondatore: Alvaro del Portillo, Sum. 1711; Javier Echevarrìa, PR, p. 1698; Mario Lantini, Sum. 3741; Ju- liàn Herranz, PR, p. 982. Sul lavoro come mezzo di santificazione e di apostolato, idea sempre presente nella predicazione e negli scritti del Fon­datore, cfr ad esempio Lettera 11-III-1940, nn. I l e 13; È Gesù che passa, nn. 14, 39, 105, 156, 183.133 E f 1,10.134 Lettem i 1 -III-1940, n. 13.135 Appunti, n. 92.136 Lettera 29-XII-1947 / 14-11-1966, n. 5.137 Appunti, n. 273. Prima della locuzione del 7-IX-1931 aveva scritto del- l’Opus Dei: “Riempirà tutto il mondo; e si estenderà anche per l’intero orbe (...), affinché la terra intera sia un solo gregge e un solo Pastore” (ibi­dem, nn. 92 e 134).138 Lettera 9-1-1932, n. 93.139 Appunti, n. 629.140 Ibidem, n. 284. Nella Istruzione 19-111-1934, nn. 28 e 29, c’è questo pensiero, collegato a quanto espresso il 10 settembre 1931 (Appunti, n. 277), e riferito esplicitamente all’Opera e a ciascuno dei suoi membri. Ec­cone il contenuto:“Nostro Signore non vuole per la sua Opera una personalità effimera: ci chiede una personalità immortale, perché vuole che nell’Opera ci sia un

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gruppo inchiodato alla Croce: la santa Croce ci renderà durevoli, sempre con lo stesso spirito del Vangelo, che porterà l’apostolato d’azione come frutto saporito dell’orazione e del sacrificio.In questo modo si ritorna a vivere, da parte dell’Opera e di ciascuno dei suoi membri, il divino segreto che S. Paolo insegnava ai Filippesi (2, 5-11), strada sicurissima dell’immortalità e della gloria: attraverso l’umiliazione, fino alla Croce; dalla Croce, con Cristo, alla gloria immortale del Padre” .141 Appunti, n. 296.142 Ibidem, nn. 317 e 326.143 Ibidem, n. 334.Anni dopo, ricordando quel giorno, scriverà: “L’orazione più alta l’ebbi (...) stando su un tram e, subito dopo, mentre vagavo per le strade di Madrid, contemplando questa meravigliosa realtà: Dio è mio Padre. So che, senza poterlo evitare, ripetevo: Abba, Pater! Immagino che mi prendessero per pazzo” (Istruzione V-35/IX-50, n. 22, nota 28). Il Si­gnore gli confermava così che “ la strada non impedisce il dialogo con­templativo; l’agitazione del mondo è, per noi, luogo di orazione” (Let­tera 9-1-1959, n. 60).Riferendosi alla filiazione divina, fondamento dello spirito dell’Opus Dei, scrisse: “Questo aspetto tipico del nostro spirito nacque con l’Opera e nel 1931 prese forma: in momenti umanamente difficili, nei quali avevo tutta­via la certezza dell’impossibile, di ciò che oggi è divenuto realtà” (Lettera 9-1-1959, n. 60).144 Ibidem e Lettera 8-XII-1949, n. 41; cfr anche Alvaro del Portillo, Sum. 1077 e 1297.145 Lettera 24-111-1930, n. 2.146 Meditazione, del 24-XII-1969.147 Meditazione del 2-X-1971.148 Lettera 8-XII-1949, n. 41.149 Appunti, n. 357. Il solo pensiero che fosse possibile aver paura di Diolo faceva soffrire. Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 1030; Javier Echevarria, Sum. 2517.150 Cfr Appunti, n. 358. Non appena tranquillizzatosi, gli venne uno di quegli intensissimi trasporti di orazione che lo colmavano di gioia interio­re (cfr ibidem, nn. 358-359).151 Ibidem, n. 364. Cfr anche Alvaro del Portillo, Sum. 1030; Mario Lan- tini, Sum. 3666; Ignacio Celaya, Sum. 5935; ecc.152 Appunti, n. 476.153 Parole di un’omelia del 2-X-1968, raccolte in AGP, P02 1968.154 Lettera di don José Pou de Foxà a don Josemaria, 20-XI-1931 (AGP, RHF, D-15309).155 Lettere di don Ambrosio Sanz a don Josemaria, 17-XII-1931 (AGP, RHF, D-15241). Don Ambrosio Sanz Lavilla fu ordinato a Santander nel

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1911. Era dottore in Sacra Teologia e in Diritto Canonico. Fu canonico di Barbastro nel 1927 e professore del Seminario della città fino al 1956, anno della sua morte (cfr E. Subirana, cit., 1928, p. 103).Nella Caterina n. 423 si legge: “Ieri ho scritto al canonico di Barbastro don Ambrosio Sanz, chiedendogli preghiere” ; e datò lo scritto 28 novem­bre, all’epoca “vigilia dell’Apostolo Sant’Andrea” (Appunti, n. 421). Don Ambrosio dice di aver ricevuto la lettera «del 26 scorso». È possibile che, salvo errore di memoria, don Josemarìa abbia datato al 26 la lettera, che però proseguì a scrivere e spedì il 28.156 Appunti, n. 274 (9-IX-1931).157 Ibidem, n. 301.158 Ibidem, n. 560.159 Ibidem, nota preliminare.160 Appunti, n. 307; cfr Meditazione, 14-11-64.161 Appunti, n. 335.162 Ibidem, n. 350.163 Ibidem, n. 351.164 Ibidem, n. 355.165 Ibidem, n. 356 (28-X-1931).166 Ibidem, n. 363.167 Ibidem, n. 387 (2-XI-1931).168 Ibidem, n. 388.169 Cfr ibidem, n. 415.170 Ibidem, n. 416.171 Ibidem, n. 429.172 Ibidem, n. 426.173 Ibidem, n. 467.174 Ibidem, n. 493.175 Ibidem.176 “In questa Madrid” - era il cristiano lamento della signora Dolores - “noi stiamo passando il purgatorio” (ibidem, n. 500, 23-XII-1931).177 Ibidem, n. 523.178 Cfr ibidem, n. 564 (14-1-1932).179 Cfr ibidem, n. 597 (15-11-1932).180 Ibidem, n. 596.181 Su questo Vescovo, cfr Sebastiàn Cirac Estopanào, Vida de Don Cruz Laplana, Obispo de Cuenca, Barcellona 1943.182 AGP, POI, 1979, p. 251.183 Appunti, n. 598 (15-11-1932).

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184 Ibidem, n. 599.185 Ibidem, n. 587.186 Lettera 8-XII-1949, n. 41.187 Appunti, n. 307.188 Ibidem, n. 328. L’art. 26 della Costituzione approvato il 14 ottobre 1931, diceva: «Vengono sciolti gli ordini religiosi che statutariamente im­pongano, oltre ai tre voti canonici, un altro voto speciale di obbedienza ad autorità diversa da quella legittima dello Stato».Non c’era dubbio sull’obiettivo perseguito. Con decreto pubblicato il 24 gennaio 1932 vennero sciolti i centri d’insegnamento, i noviziati e le resi­denze della Compagnia di Gesù. Cfr Gonzalo Redondo, Historia de la Iglesia en Espana (1931-1939), Rialp, Madrid 1993, voi. I, pp. 164 e ss.189 Appunti, n. 328. «Quell’immagine del Bambino Gesù - commenta Mons. Alvaro del Portillo - diede occasione a nostro Padre di fare molta orazione e molti atti d’amore verso la santissima Umanità di Gesù. Era so­lito chiederlo alle suore specialmente nel periodo natalizio e lo faceva dan­zare, lo ninnava e lo vezzeggiava».190 Ibidem, n. 347. Questa Caterina così prosegue: “mi fai sentire che l’O­pera di Dio non avrà devozioni né immagini particolari, specifiche, come hanno di solito i membri di famiglie religiose. (L’Amore Misericordioso - e la sua dottrina - è universale)” .La devozione “all’Amore Misericordioso” che il Fondatore citava qui fu una sua devozione privata. Da testimonianze scritte sue e di altri sappia­mo che la praticò fin dai primi anni del soggiorno a Madrid (cfr Appunti, nn. 432 e 1380; Alvaro del Portillo, Sum. 1268) e che tutti i giorni faceva l’offerta all’Amore Misericordioso dopo la Consacrazione della Messa (cfr Appunti, n. 217; Alvaro del Portillo, Sum. 337, 1118 e 1119; Javier Eche- varrìa, Sum. 2580; Joaqum Alonso, Sum. 4751). Diffondeva anche questa devozione fra altre persone, distribuendo o inviando immaginette (cfr Ap­punti, n. 1029; José Ramon Herrero Fontana, AGP, RHF, T-05834, p. 1). La devozione all’Amore Misericordioso è complemento e sviluppo della devozione al Sacro Cuore di Gesù. Nacque in Francia intorno alla figura di Santa Teresa di Lisieux e del suo cammino di infanzia spirituale; ne è stata promotrice una religiosa dell’Ordine della Visitazione, Marie Thérè- se Desandais.191 Appunti, n. 570.192 Ibidem, n. 435. Il giorno successivo (l-XII-1931) aggiunse: “Infanzia spirituale! L’infanzia spirituale non è semplicioneria spirituale, né mol­lezza: è cammino saggio e vigoroso che, per la sua difficile facilità, l’ani­ma deve intraprendere e continuare portata per mano da Dio” (ibidem, n. 438).193 Ibidem, n. 574.194 Ibidem, n. 435.195 Ibidem.

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196 Ibidem, n. 437.197 Cfr ibidem, n. 454, nota 382. Inviò al suo confessore l’originale mano­scritto, del dicembre 1931, con una nota nella quale si legge: “Le invio questi fogli ciclostilati, che hanno lo scopo di spingere i nostri amici sulla via della contemplazione” (cfr AGP, T HF, D-04668). E l’I gennaio 1932 scrisse: “Ieri sono stato da P. Sànchez. Mi ha restituito, postillati, i miei fogli sul santo rosario” (.Appunti, n. 529).Un’edizione molto modesta, con l’intenzione di farla oggetto di regalo, fu fatta nel 1934 a Madrid, nella tipografia di via Juan Bravo 3, con licenza ecclesiastica. Il titolo è: “Santo Rosario, di José Maria” .La prima edizione dopo la guerra civile (José Maria Escrivà: Santo Rosa- rio, Edizioni Turia, Valencia) fu stampata probabilmente all’inizio di ot­tobre 1939, dato che la licenza ecclesiastica ha la data del 2-X-1939. Questa edizione porta già un prologo del Vescovo di Vitoria e ha il for­mato di un opuscolo.La prima edizione commerciale (Josemaria Escrivà de Balaguer: Santo Rosario, ed. Minerva, Madrid 1945), a differenza delle precedenti, ha il formato di un libro, di dimensioni ridotte ed elegantemente illustrato. L’autore ampliò leggermente il testo del 1934, limitatamente al commen­to di alcuni misteri.198 Santo Rosario, primo mistero gaudioso.Un appunto del 15 agosto 1931 sembra indicare che in precedenza già aveva sperimentato il metodo di contemplazione enunciato: “ Giorno del- l’Assunzione della Madonna, 1931: ieri e oggi ho importunato, quasi con troppa insistenza, la Santissima Vergine, chiedendole protezione per l’O- pera di Dio. Da questa sera farò una novena a nostra Madre, commemo­rando la sua assunzione al cielo in corpo e anima. Davvero mi riempie di gioia, e mi sembra di essere presente con la Trinità beatissima e con gli Angeli, a ricevere la loro Regina, con tutti i Santi, che acclamano la Madre e Signora” (Appunti, n. 228).199 Ibidem, n. 226 (13-VIII-1931). Citazioni in date successive sulla “Ver­gine dei Baci” (o “Madonna dei Baci” , come è stato tradotto altre volte): ibidem, nn. 239, 325, 488, 701 e 702.200 Ibidem, n. 484.Mons. A. del Portillo fa il seguente commento: «A nostro Padre non pia­ceva raccontare avvenimenti di tipo soprannaturale che avessero un rap­porto con la sua persona. Tuttavia, questo episodio me l’ha riferito in più di un’occasione. Mentre lo raccontava, faceva notare che l’ora del giorno non era propizia alle allucinazioni, poiché si trattava di una giornata di sole pieno ed erano solamente le tre del pomeriggio. Mi raccontava di aver udito dire da quello che aveva preso le sue difese: asinelio, asinelio', nessuno conosceva questa definizione che nostro Padre dava di se stesso - a parte Dio Nostro Signore - se non il suo confessore, P. Sànchez. Il Padre attribuì l’attacco a un’azione diabolica e la difesa al suo Angelo Custode» (ibidem, n. 484, nota 397).201 Ibidem, n. 485.

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202 II “giorno dei Santi Innocenti” equivale al April-fooVs day nei Paesi di lingua inglese; e i relativi scherzi, ai poissons d’avril dei francesi e al pesce d’aprile degli italiani.203 Appunti, nn. 516, 517e518.204 Ibidem, n. 528. «Riferiva la Madre Carmen de San José, ormai defun­ta, che era sacrestana al tempo in cui don Josemaria era cappellano, che c’era nella comunità un piccolo Gesù Bambino, che veniva portato in chiesa solo nelle feste natalizie per l’adorazione; quando glielo passavano attraverso la ruota, lo udivano trattare il Bambinello con molta familia­rità e affetto e indirizzargli dei saluti come se fosse vivo; alcune volte il Servo di Dio ottenne di poter portare a casa sua il Bambinello per fare orazione davanti a lui; poi lo restituiva alla comunità» (Cecilia Gómez Jiménez, Sum. 6511).Le religiose di Santa Isabel hanno pubblicato recentemente un’immaginet- ta del Gesù Bambino con il seguente testo:BAMBINO GESÙ DI MONSIGNOR ESCRIVÀ«Nel Reale Monastero di Santa Isabel delle Agostiniane Recollette di Ma­drid-Atocha, fondato dal Beato Alonso de Orozco nel 1589, è racchiusa una ricca storia di arte e di santità. Fra i suoi tesori, di cui moltissimi furo­no distrutti dalle fiamme durante la guerra civile (1936-39), si conserva una piccola statuetta del Bambino Gesù, di legno intagliato, forse del XVII secolo, che veniva esposta anticamente, e ancora oggi, alla venera­zione dei fedeli durante le festività del Natale.Di questo monastero fu Cappellano e Rettore maggiore, dal 1931 al 1936, monsignor Josemaria Escrivà de Balaguer, fondatore dell’Opus Dei. Fra le religiose contemplative è ancora molto viva la memoria di quel giovane sacerdote, amantissimo dell’Eucaristia e completamente dedito all’orazio­ne. Esse coltivano il ricordo di qualche episodio singolare verificatosi fra padre Escrivà e il Divino Bambinello. Si crede che egli abbia ottenuto da Lui qualche grazia straordinaria. Il padre si portava spesso a casa sua la già celebre immagine, con il permesso della Priora. E quando la restituiva si dimostrava commosso e pieno di gioia. A quel tempo ardeva di fervore mistico e scrisse il libro Cammino con il titolo di Considerazioni spirituali, come pure il trattatello II Santo Rosario.Per contemplare e venerare questo piccolo simulacro del Bambino Gesù di Monsignor Escrivà arrivano al monastero delle Agostiniane Recollette persone dai paesi più lontani».205 Appunti, n. 560.206 Ibidem, n. 562; e proseguiva così:“ Credo di averla già letta una volta, ma senza darle importanza e senza che, a quanto pare, lasciasse traccia nel mio spirito. Fu per prima Merce­des che fece sì che io comprendessi e ammirassi e volessi praticare la sinte­si della sua vita mirabile: nascondersi e scomparire. Ma questo program­ma di vita, che in lei era conseguenza, frutto saporito della sua intima e profonda umiltà, non è altro, in fin dei conti, che il nòcciolo dell’infanzia

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spirituale. Allora Teresina mi prese e mi portò, con Mercedes, per mezzo di Maria mia Madre e Signora, all’Amor e di Gesù” .Il suo criterio nei confronti di questa via di spiritualità lo espresse in una Caterina del 2-1-1932: “Quando dico in queste Caterine che il Signore desi­dera per i soci la conoscenza e la pratica della vita d’infanzia spirituale, non è mia intenzione “uniformare” le anime degli “uomini di Dio” . Al contrario (...), quello che vedo è: 1) bisogna far conoscere a tutti e a cia­scun socio la vita di infanzia spirituale; 2) non si forzerà mai nessuno a se­guire questa via, né alcun’altra via spirituale determinata” (ibidem, n. 535). Come scriverà più tardi, non imponeva ai suoi figli spirituali questo cammino, ma lo raccomandava (cfr Lettera 8-XII-1949, n. 41).207 Appunti, n. 543, del 4-II-1932.208 “Ero un po’ turbato” - continua la Caterina - “perché ricordavo sola­mente il passo del cap. 21 di S. Matteo e ritenevo che Gesù fosse salito su un’asina per entrare a Gerusalemme; in questo momento apro il santo Vangelo (di quanta esegesi ho bisogno!) e leggo nel cap. 11 di S. Marco, ai versetti 2,4-5-7: Et ait illis: ite in castellum, quod contra vos est, et statim introeuntes illue, invenietis pullum ligatum, (...). Et duxerunt pullum ad Iesum: et imponunt illi vestimenta sua, et sedit super eum (cfr anche: Le 19,30 e 35; Gv 12, 14 e 15). - R. Ch. V.Bambino buono: digli a Gesù molte volte al giorno: ti amo, ti amo, ti amo...” .Mons. del Portillo commenta: «Fu una sorta di zuccherino che il Signore diede a nostro Padre, riempiendolo di gioia e di pace. A proposito del commento del Padre - “ di quanta esegesi ho bisogno!” - è bene tenere presente che ebbe sempre il massimo dei voti nell’esegesi della Sacra Scrit­tura, di cui frequentò quattro corsi. Fu il Signore che lo rese cieco per un momento, affinché sentisse il bisogno di verificare i passi testamentari e non avere così motivo di dubitare: anche nostro Padre lo spiegava così» (;ibidem, nota 451; cfr Javier Echevarrfa, Sum. 3272; Juliàn Herranz, Sum. 4029; José Luis Muzquiz, sum. 5853; César Ortiz-Echague, Sum. 6902).209 Appunti, n. 421.210 Ibidem, n. 606; cfr Cammino, n. 933. Circa questa locuzione interiore del Signore, Mons. del Portillo commenta che «diede una forte spinta a nostro Padre», non perché stesse pregando poco, ma perché «il Signore gli chiedeva di più, e con questa locuzione gli diede luce affinché si rendesse conto di “molti particolari cui non davo importanza” » (ibidem, nota 496; cfr Javier Echevarrfa, Sum. 3272; Juliàn Herranz, PR, p. 982; Ernesto Julia, Sum. 4245; Giovanni Udaondo, Sum. 5083; Cecilia Gómez Jiménez, Sum. 6517; Maria Isabel Laporte, Sum., 5189).211 Appunti, n. 653.212 Ibidem, n. 430.213 Ibidem, n. 582. Così prosegue l’annotazione: “Don Norberto mi dice molte volte che non sarà sempre così e soffrirò. Non lo credo, Gesù: Tu

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non mi puoi togliere ciò che mi hai dato tanto generosamente. Ma se fosse, da questo momento e per sempre ti dico: si faccia” .214 Ibidem, n. 690.115 Ibidem, n. 618. Il Fondatore aveva organizzato le proprie devozioni nel corso della settimana: “La domenica la dedicherò alla Trinità Beatissi­ma. Il lunedì, alle mie buone amiche le Anime del Purgatorio. Il martedì, al mio Angelo Custode e a tutti gli altri Angeli Custodi, e a tutti gli Angeli del cielo senza distinzione. Il mercoledì, al mio Padre e Signore S. Giusep­pe. Il giovedì, alla Santa Eucaristia. Il venerdì, alla Passione di Gesù. Il sa­bato, alla Vergine Santa Maria, mia Madre” (ibidem, n. 568, del 18-1-1932).Di Mercedes Reyna, religiosa delle Dame Apostoliche, si è già parlato. Don Josemaria aveva intenzione di scriverne la biografia e per qualche tempo raccolse documentazione dalla famiglia di Mercedes. Nel suo Epi­stolario ci sono diverse lettere a Rosaria Reyna de Ribas, sorella di Merce­des (cfr C 2, 21-VII-1929; e anche Lettere 3, 4, 5, 6, 8, 9, 11 e 13).In una lettera a Rosaria Reyna del 28-1-1932, poiché la famiglia chiedeva le lettere di Mercedes, chiese una proroga per il suo lavoro biografico, il ritardo del quale, scriveva, è dovuto “anzitutto alle circostanze politiche; poi all’incendio dei conventi, che mi obbligò a traslocare, trasferendomi dal Patronato; e infine alla dura necessità di far fronte alla vita (...). D’al­tra parte i momenti attuali non sono propizi per buttarsi in avventure edi­toriali: anche questo ha contribuito a trattenermi sulla strada che mi ero tracciata” (C 25, 28-1-1932). Come si vede da lettere successive (cfr C 27, 5-II-1932; C 29, 17-IV-1932; C 37, l-X-1932), don Josemaria dovette re­stituire i documenti, senza aver lavorato alla biografia di Mercedes Reyna.216 Appunti, n. 563.217 Cfr ibidem, n. 618.218 Ibidem, n. 673.219 Ibidem, n. 556.220 Ibidem, n. 659 (13-111-1932).221 Ibidem, n. 671 (23-111-1932).222 Ibidem, n. 693 (ll-IV-1932).223 Ibidem, n. 671.224 Ibidem, n. 482.225 Ibidem, n. 393.

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Capitolo VII

LA GESTAZIONE DELL’OPERA

1. Tra gli ammalati: “sublime servizio”

Alla fine del XVI secolo a Madrid esistevano quattordi­ci piccoli ospedali. Un capitano del Reggimento delle Fiandre, Bernardino de Obregón, poi conosciuto come l’Apostolo di Madrid, convinse re Filippo II a fonderli in uno solo. Fu creata una Giunta per gli Ospedali e il progetto del nuovo edificio fu affidato a Herrera, l’ar­chitetto dell’Escorial. Furono scelti dei terreni vicini alla proprietà di Antonio Pérez, dove fu costruito il conven­to di Santa Isabel, confinante con l’Ospedale della Pas­sione, destinato alle donne1.

Ma iniziare i lavori e dare la stura alle liti fu tutt’uno. E non deve destare meraviglia perché lo svincolamento di fondazioni, cappelle e chiese collegate con gli ospeda­li moltiplicò i ricorsi presso le autorità ecclesiastiche. I lavori rimasero fermi per quasi un secolo e non furono ultimati che ai tempi di Carlo III. L’antico Ospedale del­la Passione fu demolito nel 1831 e sul medesimo terreno di via Atocha fu costruita la sede della Facoltà di Medi­cina di S. Carlo2.

Quando don Josemarìa usciva da Santa Isabel si tro­vava di fronte l’imponente costruzione dell’Ospedale Generale (chiamato pure Provinciale), in una delle cui

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ali era stato sistemato il Policlinico, che dipendeva dalla Facoltà di Medicina. Nell’estate del 1931, quando anco­ra non aveva lasciato del tutto il lavoro del “Patronato de Enfermos” , guardando l’imponente edificio gli veni­vano inevitabilmente in mente i malati che abbandona­va. Lo turbava il fatto che ben presto, il giorno in cui avesse preso commiato dalle Dame Apostoliche, si sa­rebbe aperto un tremendo vuoto nella sua anima. (“Nel “Patronato de Enfermos” il Signore volle che io trovassi il mio cuore di sacerdote” , confessava)3.

(Il lavoro negli ospedali, la vicinanza alla sofferenza, l’offerta dei dolori e la preghiera dei malati in lacrime: furono queste le radici dalle quali il Fondatore trasse vi­talità soprannaturale agli inizi dell’Opera).

Il tempo passava e il 28 ottobre 1931 lasciò definiti­vamente il “Patronato de Enfermos” . Nello stesso gior­no il Signore pose rimedio alle sue preoccupazioni dan­dogli in eredità una grande abbondanza di malati dei quali occuparsi:

“Un altro favore del Signore” - scrisse -. “Ieri ho dovu­to lasciare definitivamente il Patronato e quindi i malati; ma il mio Gesù non vuole che li lasci e mi ha ricordato che Lui sta inchiodato in un letto d’ospedale...”4.

Per dare continuità alle sue opere di misericordia con i malati, Dio si servì del sacrestano di Santa Isabel, An­tonio Diaz, il quale gli parlò della Congregazione di S. Filippo Neri. Questa Congregazione, detta dei “Filippi­ni” , si occupava dei malati dell’Ospedale Generale5. Don Josemarfa si informò, si consultò con il confessore e annotò lieto negli Appunti: “Da domenica prossima comincerò ad esercitare questo sublime servizio”6. L’8 novembre assistè per la prima volta alla riunione della Congregazione. Secondo le Costituzioni, il numero di fratelli, tutti laici, era di 70 al massimo; fra di essi veni­va eletto un Fratello Maggiore. A quel tempo si attene­

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vano ancora, nelle consuetudini e cerimonie, alle anti­che usanze delle Costituzioni. Le domeniche, alle quat­tro in punto del pomeriggio, si presentavano i fratelli, ridotti allora, nel 1931, a poco più di una dozzina7. Si vestivano di una veste nera e andavano a pregare nella cappella della Congregazione. Poi, fatta la distribuzione degli incarichi, a coppie o in gruppi di tre o quattro per­correvano le sale loro indicate, non senza aver prima raccolto materiale dal deposito: asciugamani, catini, sa­pone, bende, forbici, ecc.

Nelle Costituzioni viene precisato che i Filippini dove­vano prestare i loro servizi ai malati «con molta umiltà e rispetto, vedendo in ciascuno l’immagine viva di Cri­sto». Vi sono indicati anche, per capitoli, i compiti spe­cifici dei fratelli: «Rifare i letti ai poveri»; «avere uno speciale riguardo per gli asmatici»; «lavare i piedi e provvedere al taglio dei capelli e delle unghie ai poveri»; «quando occorre, si ripuliscano i vasi da notte», ecc.8.

Nelle lunghe ore passate ogni giorno al capezzale dei malati, affratellato ai loro dolori, testimone delle loro miserie, consolando con la sua presenza e cancellando le miserie dell’anima nel sacramento della Penitenza, don Josemarìa riusciva a vedere la figura amabile e sofferen­te di Cristo riflessa nei malati. Cristo misericordioso, Cristo paziente, Cristo caricato del peso e della bruttura del peccato, Cristo che condivide i nostri dolori e le no­stre pene. E il sacerdote, altro Cristo, si identificava con i malati nel dolore e nella misericordia. Sentiva il vivo desiderio di vedere e aiutare Cristo nei malati. Desideri che portavano il cuore di don Josemarìa all’ospedale. In una Caterina del marzo 1932 si legge:

“I bambini e i malati. Nello scrivere queste parole - Bambino, Malato - sento la tentazione di usare la maiuscola, perché, per un’anima innamorata, essi so­no Lui”9.

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La Congregazione viveva una vita languida per lo scarso numero di fratelli, per la loro insufficiente prepa­razione sanitaria e per i numerosi ostacoli che venivano frapposti al loro lavoro spirituale. Dall’avvento della Repubblica il clima delle corsie era divenuto ostile e per­sino aggressivo. E le notizie delle lotte di fuori arrivava­no, caricate di odio, fino a quel rifugio della sofferenza, come ricorda un compagno di don Josemaria: «Era un lavoro durissimo e molto ingrato. Il clima anticattolico era generalizzato e molti malati ci insultavano. Ci occu­pavamo di tagliare loro i capelli, raderli, tagliare le un­ghie, lavarli e pulire le sputacchiere. Era davvero ripu­gnante. Andavamo le domeniche pomeriggio e ne uscivamo con la nausea »10.

Per mancanza di spazio i malati riempivano le sale e i corridoi erano disseminati di materassi11. Per di là pas­savano i Filippini come una carezza di misericordia, cal­mando la desolazione o la disperazione dei pazienti. Uno di loro ricorda «la scia spirituale» che lasciava don Josemaria al suo passaggio, «dando sollievo allo spirito di malati e moribondi»12.

Tra i fratelli della Congregazione che frequentavano l’ospedale negli anni 1931 e 1932 c’erano Luis Gordon, Jenaro Làzaro e Antonio Medialdea. Luis era un giova­ne ingegnere industriale con una buona posizione eco­nomica, che dirigeva una fabbrica a Cienpozuelo, nelle vicinanze di Madrid. Jenaro, scultore di professione, aveva circa trent’anni. Antonio Medialdea era dipèn­dente di un’azienda commerciale13. C’erano altri fratelli più anziani, come il vecchietto che era a capo del grup­po con cui don Josemaria andò una domenica. Il sacer­dote era meravigliato dal fatto che, finito il suo compito in una corsia, il vecchietto si accomiatasse ingenuamen­te con una “pietosa assurdità” : “Fratelli, che Dio vi dia la salute del corpo... (qui una gran pausa, e poi tutto di seguito) ... e quella spirituale, se conviene” 14.

In questo “ sublime servizio” a contatto con la soffe­

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renza, don Josemarìa maturava e si arricchiva. La sua impressione, dopo aver passato la prima domenica con i Filippini, fu espressa in due parole: “Ne fui edificatissi- mo” . Annotazione che ripetè tre domeniche dopo, quando gli toccò per compagno il singolare vecchietto: “E rimasi edificato” 15. L’aiuto materiale che potevano prestare a tanti malati, nel sistemarli o nel curarne l’igie­ne, era certamente poca cosa. Era considerevole, invece, il bene che facevano alle anime, a volte con un semplice gesto di carità o con poche parole di cristiana consola­zione. Ci fu il caso commovente di uno zingaro che, do­po aver perdonato generosamente i suoi nemici, si deci­se a riconciliarsi con Cristo, perché “gli era penetrato nell’anima ciò che aveva sentito dire da qualche fratello di S. Filippo, mentre soccorreva altri malati” 16. Era una domenica del febbraio 1932 quando uno dei fratelli andò ad avvertire don Josemarìa che un moribondo non voleva ricevere i Santi Sacramenti:

“Era uno zingaro, ferito a pugnalate in una rissa” - scrisse il sacerdote -. “Accettò subito di confessarsi. Non voleva lasciare la mia mano e, poiché lui non ce la faceva, volle che gli mettessi la mano davanti alla bocca per baciarmela. Era in uno stato spaventoso: espelleva escrementi dalla bocca. Faceva veramente pena. A gran voce giurò che mai più avrebbe rubato. Mi chiese un Crocifisso. Non l’avevo, gli diedi un rosario. Se lo arro­tolò al polso e lo baciava, dicendo frasi di profondo do­lore per aver offeso il Signore”17.

Dopo esser stato con lui, il cappellano aveva un’in­combenza e si allontanò. Fino al martedì successivo non seppe nulla della morte di quell’uomo; e annotò negli Appunti:

“Un ragazzo, fratello di S. Filippo, è venuto a raccontar­mi che lo zingaro fece una morte edificante, dicendo fra l’altro, mentre baciava il Crocifisso del rosario: “Le mie

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labbra sono putride, io non posso baciarti” . E gridava perché le sue figlie lo vedessero e capissero di avere un buon padre. Per questo, senza dubbio, mi aveva detto: “Mi metta il rosario, che si veda, che si veda” . Gesù, l’ho fatto già, ma torno a offrirti quest’anima, per la quale ora reciterò un responsorio”18.

Don Josemarfa trascinò in queste visite domenicali al­cuni giovani che dirigeva spiritualmente, come José Ro­meo e Adolfo Gómez Ruiz. A questi studenti si aggrega­rono altri amici e compagni, come Pedro, il fratello di Adolfo, e uno studente di Diritto che si chiamava José Manuel Doménech19. Verso le sei e mezza del pomerig­gio terminava il giro delle corsie e, insieme al sacerdote, essi raggiungevano passeggiando il centro di Madrid. Questi giovani non erano abituati alla vita di ospedale. Ne uscivano con lo stomaco rivoltato, con un fetore persistente che impregnava i vestiti e con la visione nau­seante di pus, piaghe e miserie di ogni genere. Appena mettevano i piedi in strada, più di uno vomitava per il ribrezzo. Era molto meritorio per loro sopportare que­sta naturale ripugnanza, poiché a casa loro godevano, per contrasto, di molta pulizia e benessere. Tale era la condizione di Luis Gordon, che si recava all’ospedale con la propria automobile.

Probabilmente Luis aveva letto quanto era scritto nel­le Costituzioni dei Filippini, cioè che il fine della Con­gregazione è la pratica delle virtù «in tutto ciò che con­duce alla consolazione, alla salute spirituale e corporale dei poveri, senza omettere cosa alcuna, per quanto umi­le e ripugnante possa essere, prestandosi e rendendosi utile nel pulire i vasi da notte, scopare e pulire i pavi­menti fra i letti, e altri esercizi che la pratica suggeri­sca»20. Una domenica gli toccò accompagnare don Jose- maria. Il sacerdote si prese cura di un tubercolotico e chiese a Luis di pulirgli il vaso da notte. Vedendolo pie­no di sputi gli sfuggì un gesto di repulsione; ma si con­

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trollò e, senza proferire parola, andò a un gabinetto in fondo alla sala. Don Josemaria gli andò dietro dopo un momento per aiutarlo. Se lo trovò nel pieno svolgimen­to del suo compito. Dal rubinetto aveva messo dell’ac­qua nell’orinale e, rimboccatosi fino al gomito le mani­che della camicia, lo puliva a fondo con una mano ripetendo, con un’espressione lieta: «Gesù, che faccia buon viso!»21.

I rivolgimenti storici ruppero il ritmo delle attività che i fratelli stavano prestando nell’Ospedale Generale. Nel­l’estate del 1932 s’interruppero le loro iniziative di ca­rità. È chiaro che le disposizioni ufficiali rispetto ai ser­vizi che svolgevano suore e religiosi nei pubblici ospedali raggiunsero anche i Filippini. Il governo cerca­va di sostituire le Figlie della Carità con infermiere di professione e con personale laico. Si cercava, senza alcu­na remora, di farla finita con la pratica caritativa di as­sociazioni cattoliche come la Congregazione dei Laici di S. Filippo Neri e furono sospese le funzioni dei cappella­ni di ospedale22.

Le visite dei Filippini poterono però riprendere più avanti. E don Josemaria, che nell’aprile 1932 aveva già fatto la sua ascrizione ai Filippini, chiese all’organismo direttivo di essere di nuovo confermato nella fraternità: «Questa Giunta degli Anziani - gli fu notificato - nella riunione tenutasi oggi 10 giugno ha accordato, con una­nimità assoluta, di considerarla come fratello della no­stra amata Congregazione, secondo i suoi buoni deside­ri. Madrid, 10 giugno 1934. Il Fratello Segretario, Tomàs Mìnguez»23.

È molto verosimile che, mosso dal desiderio di assiste­re i malati, si rifacesse ai diritti acquisiti da tempo imme­morabile dalla Congregazione. E tutto sembra indicare che, poiché gli ospedali non disponevano di cappellani in quanto soppressi dal governo, don Josemaria cercasse l’egida di una nomina, un qualsiasi pezzo di carta24, per recare assistenza ai pazienti dell’Ospedale Generale.

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2. L’Ospedale del Re

Per effetto della nuova Costituzione repubblicana le chiese, le associazioni e gli istituti religiosi sarebbero stati privati da allora in poi di ogni aiuto economico da parte dello Stato e dei municipi. Anzi, era prevista «la totale estinzione entro due anni dello stanziamento per il clero»25. L’intenzione era di farla finita con la Chiesa, se non in maniera violenta, per inanizione dei suoi ministri.

Uno dei chierici coinvolti in tali provvedimenti era don José Maria Somoano, un giovane sacerdote ordi­nato nel 1927 dal Vescovo di Madrid e che nel 1931 ri­copriva l’incarico di cappellano nell’Ospedale del Re26. L’ospedale stava all’estremo nord di Madrid, a sette chilometri dal centro, praticamente isolato in mezzo al­la campagna. Il nome completo, Ospedale Nazionale delle Malattie Infettive, spiega la ragione dell’isolamen­to. Era stato inaugurato nel 1925. (Dal regime prece­dente gli veniva il nome di Ospedale del Re)27. Vi si cu­ravano i casi epidemici e le malattie contagiose tra le quali la terribile tubercolosi, malattia che allora causa­va il maggior numero di ricoveri e che era la causa principale dei decessi.

Il 2 gennaio 1932 la monaca incaricata della ruota nel monastero di Santa Isabel, su esplicita richiesta del cap­pellano, offrì preghiere e mortificazioni per il buon esito di una faccenda che don Josemaria aveva tra le mani. Nel frattempo egli, accompagnato da don Lino, altro giovane sacerdote, si presentò all’Ospedale del Re per parlare con il cappellano Somoano, che era impaziente di sapere dell’Opera. “Non fu inutile l’orazione e l’e­spiazione” - scriverà due giorni dopo negli Appunti - “questo amico appartiene già all’Opera”28. (Era questo il periodo in cui don Josemaria - come vedremo tra po­co - conquistò i primi seguaci sacerdoti). Agli occhi del Fondatore, fu un’acquisizione eccellente, una vocazione

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di prima classe, un autentico tesoro per il lavoro di apo­stolato; una leva per smuovere i cieli, come annotava negli Appunti:

“Con José Maria Somoano abbiamo ora, come si dice, un magnifico collegamento, perché questo nostro fratel­lo sa, in modo ammirevole, incanalare la sofferenza dei malati del suo ospedale affinché il Cuore del nostro Ge­sù acceleri l’ora della sua Opera, mosso da così eccelsa espiazione”29.

Don Josemarìa valutava talmente importante la pre­ghiera del dolore per lo sviluppo dell’Opera, che questo stupendo contributo era più che sufficiente per ammet­tere una persona all’Opera:

“Don Lino ieri ci parlò di una malata dell’Ospedale del Re, anima molto gradita a Dio, che potrebbe essere la prima vocazione di espiazione. Con il consenso di tutti, don Lino le comunicherà il nostro segreto. Anche se mo­risse prima dell’inizio ufficiale - cosa probabile, perché sta male - varranno di più le sue sofferenze”30.

Il Fondatore si sentiva mosso interiormente dal Signo­re per lavorare tra i malati, considerando il fondamento del dolore espiatorio indispensabile per iniziare l’Opera. Quando, il 7 marzo 1932, don Lino gli propose di ac­cettare «la cappellania dell’ospedale degli incurabili, che si trova vicino a quello del Re», avrebbe accettato, se sua madre non si fosse opposta31.

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Il 29 gennaio 1925, non appena terminato il primo pa­diglione dell’Ospedale de Re, vi entrarono i primi pa­zienti: due malati di tubercolosi polmonare. Prima di loro e tre mesi prima che vi fosse un direttore, vi si era­no già insediate le Figlie della Carità. A capo di queste religiose infermiere stava suor Engracia Echevarria, che

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rimase nell’ospedale ininterrottamente fino al 1936. Al­la comunità appartenevano suor Isabel Martin - infer­miera, farmacista e sacrestana della cappella, in periodi diversi - e suor Maria Jesus Sanz, incaricata della cuci­na e dei magazzini. Queste tre religiose conobbero don Josemaria, in modo speciale la superiora, suor Engracia che, fortunatamente, ha lasciato una testimonianza di notevole peso su quel periodo agitato. Con la disinvol­tura dei suoi novantanove anni suonati, suor Engracia fa una coraggiosa dichiarazione: «Conservo con grande lucidità - dice - i ricordi di quel periodo, non solo quanto alle date, ma anche per ciò che si riferisce ai particolari e al tipo delle persone e degli avvenimen­ti»32. Era senza dubbio donna di governo e di notevole perspicacia. Subito si rese conto che quel giovane sacer­dote, che era comparso nell’ospedale nei primi mesi del1932, era il direttore spirituale di Somoano. E non le sfuggì neppure che le sue visite, oltre ad essere opere di misericordia, obbedivano a un bisogno apostolico. Per questo, in diverse occasioni gli mandò delle persone di cui occuparsi33.

Le visite di don Josemaria all’ospedale, all’inizio spo­radiche, ben presto divennero regolari. In poche setti­mane si rese conto della finezza d’animo del cappellano Somoano, al quale “ il solo pensiero che ci fossero dei sacerdoti che salivano all’altare poco preparati faceva spargere lacrime di Amore e di Riparazione”34. E furo­no tante le profanazioni, gli oltraggi e i sacrilegi com­messi dalle masse rivoluzionarie nella primavera del 1931, che il cappellano si sentì spinto a offrire la pro­pria vita per la Chiesa in Spagna. (Una delle religiose udì l’offerta di Somoano in cappella, senza che lui no­tasse la sua presenza)35. Don Josemaria, che non ne sa­peva nulla, si sorprese varie volte sentendogli dire frasi come: “Morirò presto: vedrai”36. Un po’ incuriosito, voleva chiedergli il perché ma, per un motivo o un altro, non si presentò mai l’occasione buona per farlo.

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Somoano morì la notte di sabato 16 luglio, dopo due giorni di agonia, avvelenato. Fu sepolto il lunedì; e don Josemaria, che tante speranze aveva riposto in questa vocazione, la offrì al Signore. Era morto martire, avve­lenato in odio al sacerdozio. Al ritorno dal funerale an­notò nei suoi Appunti:

“ 18 luglio 1932. Il Signore si è preso uno dei nostri: José Maria Somoano, sacerdote ammirevole. Morì vittima della carità nell’Ospedale del Re (del quale è stato cap­pellano sino alla fine, nonostante tutte le furie laiche) nella notte della festa di N. Signora del Carmelo - della quale era devotissimo e ne portava il santo scapolare - e, poiché questa festa cadeva di sabato, è certo che quella stessa notte ha raggiunto Dio. Anima bellissima (...). La sua vita di zelo gli guadagnò le simpatie di tutti coloro che con lui convivevano. Lo si è seppellito questa matti­na (...). Oggi, di buon grado, ho dato a Gesù questo no­stro socio. Sta con Lui e ci sarà di grande aiuto. Avevo riposto molte speranze nel suo carattere, retto ed energi­co; Dio lo ha voluto per Sé: sia benedetto”37.

Don Josemaria si sentì impegnato a colmare il vuoto che la morte del cappellano aveva creato. «A quell’epo­ca - riferisce suor Engracia - siamo rimaste senza cap­pellano e in quelle circostanze venne don Josemaria Escrivà, che allora era un giovane sacerdote che aveva forse solo trent’anni e disse che non mi preoccupassi di non avere più un cappellano ufficiale; che di notte o di giorno e a qualsiasi ora, sotto la mia responsabilità, lo dovevo chiamare, a seconda della gravità del malato che chiedeva i Santi Sacramenti»38. Il cappellano di Santa Isabel dovette trovare un buco nella propria giornata, già abbastanza intensa. Attraversava tutta Madrid, dal sud al nord, da Atocha a Fuencarral e arrivava attraver­so i campi fino all’ospedale. Vi andava tutti i martedì, per confessare i malati. Ma, aumentando i penitenti e

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allungandosi le visite, si vide costretto ad andare a con­fessare anche al sabato39.

I malati aspettavano con vera ansia l’arrivo del gio­vane sacerdote. Si attendevano da lui una parola di conforto, un gesto, un semplice sorriso che riscaldasse il cuore. «Vedevo che, quando veniva a confessare e ad aiutare, con le sue parole di incoraggiamento, i nostri malati - racconta suor Maria Jesus - lo aspettavano con gioia e speranza. Li ho visti accettare il dolore e la morte con un fervore e una donazione che ispiravano devozione a noi che stavamo loro intorno»40. «I malati che morivano all’ospedale non avevano paura della morte - assicura suor Isabel -. La guardavano in faccia e la ricevevano perfino con gioia». E la suora ricorda il caso di una ragazza malata, la cui unica consolazione era di guardare e riguardare la fotografia del fidanzato che aveva sopra il comodino. Don Josemarìa le parlò e le infuse una tale consolazione che non si preoccupò più del conforto che le dava il ritratto e «morì molto santamente»41.

Quasi tutte le domeniche e i giorni festivi celebrava la Messa per tutto l’ospedale e predicava l’omelia. Se face­va bel tempo, si diceva Messa nel giardino, all’aria aper­ta, benché la situazione politica non fosse certo propizia alle manifestazioni di carattere liturgico. Il giovane sa­cerdote non si ritraeva di fronte al pericolo. «Quando lo conobbi - chiarisce su questo punto suor Engracia - era giovane, ma molto sensato, molto serio e coraggioso»42. Dava testimonianza della propria condizione con l’a­spetto e il modo di vestire, poiché portava sempre la ve­ste talare. Tuttavia, l’aria che tirava era di continua sfi­da al sacerdote, come si deduce dalla morte di Somoano e dalle parole, chiare e laconiche, di suor Engracia: «Il nostro ospedale era allora distante dalla città. C’era op­posizione al clero da parte della maggioranza delle per­sone che vi lavoravano. Don Josemarìa ebbe sempre un atteggiamento sereno, ma energico. Si vedeva, già da al­

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lora, che aveva stoffa per governare. Era un uomo con grande serenità per tutto»43.

Arrivare fino all’Ospedale del Re in aperta campagna in abito religioso o clericale significava esporsi a insulti e pietrate. («Noi venivamo spesso prese a sassate»44, di­ce suor Maria Jesus. Don Josemaria non sarà stato trat­tato con maggior affetto). All’interno dell’ospedale il sa­cerdote era esposto al contagio delle malattie infettive. Per confessare nelle corsie affollate era necessario stare con l’orecchio vicino al cuscino e quindi al rantolo profondo dei moribondi, agli sputi e ai colpi di tosse dei tubercolotici.

La storia delle sorelle Garcfa Escobar è emblematica di ciò che a quei tempi significava la tubercolosi. C ’e­ra a Hornachuelos, in provincia di Cordova, una fa­miglia con tre figlie: Braulia, Benilde e Maria Ignacia. Braulia era iscritta a Magistero alla Scuola Normale di Cordova; una ragazza che viveva nella sua stessa pensione le trasmise la tubercolosi. La famiglia fece subito richiesta di un posto all’Ospedale del Re. Passò del tempo e, mentre erano in attesa di un letto libero, si ammalò anche Maria Ignacia, contagiata da sua so­rella. Data la gravità del suo stato, nel 1930 occupò il posto riservato a Braulia. Il suo male era incurabile; la malattia e i dolori le consumavano il corpo, in modo lento e inesorabile45.

Maria Ignacia era l’ammalata della quale don Jose­maria aveva annotato: “ anima molto gradita a Dio, potrebbe essere la prima vocazione di espiazione” . Nella primavera del 1932 fu ammessa nell’Opera, poi­ché don Josemaria sapeva che ella offriva al Signore i propri dolori per accelerare la maturazione spirituale dell’impresa apostolica alla quale collaborava don So- moano. Ben presto le sue sorelle, che dopo alcuni mesi si erano trasferite a Madrid per starle accanto poiché la sua fine si avvicinava rapidamente, seppero che ap­parteneva all’Opus Dei. In diverse occasioni constata­

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rono gli effetti delle visite in corsia di don Josemaria. «Rimasi colpita - dice Benilde - dalla gioia e dalla se­renità di tutte quelle donne, madri di famiglia, povere, separate dai loro figli per il timore del contagio e che, appena vedevano entrare don Josemaria, si riempivano di una profonda felicità»46.

Il Fondatore seguiva con affetto quella inestimabile vocazione, incoraggiandola nella sua funzione espiato­ria e offrendo al Signore i crudeli dolori che pativa la malata. Nei giorni in cui il sacerdote le faceva visita, la malata non poteva contenere la propria esultanza. La gioia di Maria Ignacia - racconta sua sorella Braulia - era allora evidente e non vedeva l’ora di darle la gran­de notizia: «È stato qui don Josemaria. Sono molto contenta»47.

Era nell’Opera da un anno, fedele alla propria voca­zione, quando entrò nell’ultima fase del suo calvario. «Io stavo con lei giorno e notte - riferisce Braulia -. Aveva dolori terribili; era piagata dalla testa ai piedi; l’ultima vertebra era deformata e sporgeva molto. Si era consumata, era anche molto più piccola di statura. Cla- rita, l’infermiera, poteva sollevarla senza alcun aiuto»48.

In maggio iniziò un intensissimo olocausto espiatorio e di lì a pochi giorni, a quanto si legge negli Appunti in­timi, le fu amministrato il Viatico:

“Giorno di Sant’Isidro, 15 maggio 1933. Ieri ho ammi­nistrato il Santissimo Viatico a mia sorella Maria Garda. È vocazione di espiazione. Malata di tubercolo­si, fu ammessa nell’Opera con il beneplacito del Signore. Anima eccelsa. Ha fatto con me la confessione generale prima di ricevere la Comunione. Mi accompagnò all’o­spedale nazionale (del Re) Juanito J. Vargas. Questa no­stra sorella ama la Volontà di Dio: vede nella malattia, lunga, penosa e diffusa (non ha nulla di sano) la benedi­zione e le predilezioni di Gesù e, benché affermi nella sua umiltà di meritare il castigo, il terribile dolore che

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sente in tutto l’organismo, soprattutto per le aderenze addominali, non è un castigo, è una misericordia”49.

Quattro mesi sul bordo dell’agonia; poi una nota ne- crologica del Fondatore che comunicava ai suoi seguaci nell’Opera la morte di Maria Ignacia:

“La vigilia dell’Esaltazione della Santa Croce, il 13 set­tembre, si è addormentata nel Signore questa prima no­stra sorella della nostra Casa del Cielo (...). La preghiera e la sofferenza sono state le ruote del carro di trionfo di questa nostra sorella. Non l’abbiamo perduta: l’abbia­mo guadagnata. Alla notizia della sua morte vogliamo che la pena naturale si trasformi presto nella gioia so­prannaturale di sapere con certezza che ormai abbiamo più potere in cielo”50.

Un’altra malata, Antonia, diede il cambio a Maria Ignacia come “ anima di espiazione” 51. Quanto a don Josemaria, quante migliaia di ore consumate al capez­zale dei moribondi e quanti malati assistiti nelle sale affollate degli ospedali! Aveva vegliato tanti morti che persino nel pietoso esercizio di comporre cadaveri ac­quistò abilità e perizia52. Ma essendo un uomo che, a detta di suor Isabel, «non faceva ostentazione della propria persona né di ciò che faceva», è difficile sapere quali ospedali visitava. Uno dei pochi dati su questo punto è la testimonianza di monsignor Cantero, un sa­cerdote che studiava a Madrid e che, in alcune occasio­ni, accompagnò don Josemaria. «Sono stato in diversi ospedali - precisa monsignor Cantero Ospedale Ge­nerale, Ospedale del Bambino Gesù, Ospedale della Principessa, Ospedale del Re»53. Negli Appunti intimi è citato l’Ospedale della Principessa incidentalmente, perché don Josemaria fu interrotto, l’8 maggio 1933, mentre annotava alcune Caterine', e conclusa l’interru­zione, di ritorno dall’ospedale riprese la penna per rac­contare quanto accaduto:

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“Ho dovuto interrompere perché sono venuti prima un sacerdote e poi due signorine a darmi il nome di un gio­vane malato grave dell’Ospedale della Principessa. Il pa­dre del malato - entrambi contadini dell’Estremadura - non voleva che si confessasse il suo ragazzo “che una volta..., da bambino, si era confessato e comunicato”, perché non si spaventasse. Sono andato all’ospedale. Grazie a Dio, si è confessato. Che ignoranza! Homines et iumenta salvabis, Domine!”54.

(La sua fama di confessore di moribondi doveva esse­re grande, se in un caso urgente andavano ad avvisarlo prima un sacerdote e poi due signorine. Va notata anche la prontezza nell’andare e nel risolvere il problema).

L’Ospedale della Principessa si trovava a circa trecen­to metri dalla Accademia Cicuéndez, risalendo per via S. Bernardo, all’incrocio con via Alberto Aguilera. Il centro dipendeva dalla Beneficencia Sanitaria ed era aggregato alla Facoltà di Medicina. Le sale avevano duecento e più letti e sfruttavano al massimo lo spazio, per cui non c’era posto nemmeno per i comodini. Nel­l’ospedale lavorava nel dicembre 1933 un giovane me­dico, Tomàs Canales Maeso, alle dipendenze del dottor Blanc Fortacìn, lo stesso che aveva firmato nel 1927, poco dopo l’arrivo a Madrid di don Josemaria, il suo certificato di vaccinazione. Un certo giorno Tomàs trovò il suo capo che parlava con un sacerdote, che gli volle presentare come «un gran sacerdote, mio parente e compaesano (di Barbastro), che non è un trabucaire» (con trabucaire si definiva il prete politicante)55. Dopo questa presentazione, Tomàs se lo ritrovò spesso nelle corsie: «Lo vedevo a diverse ore del mattino - riferisce il giovane medico - per cui ne deduco che ci doveva stare tre o quattro ore». Forse approfittava della vici­nanza dell’ospedale per recarvicisi dall’Accademia. In ogni caso, aveva le sue sale preferite, poiché era solito trattenersi in quelle delle malattie contagiose. Fu avvi­

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sato ripetutamente del rischio che correva; al che ri­spondeva invariabilmente, sorridente e sereno, che “lui era immunizzato contro tutte le malattie”56.

Nel servizio ai malati risiedevano la saldezza e l’ener­gia occulta del nascente Opus Dei. Lo affermava il Fon­datore volgendo lo sguardo al passato, poco prima di terminare il suo viaggio sulla terra:

“Furono anni intensi, in cui l’Opus Dei cresceva al di dentro senza che ce ne rendessimo conto (...). La fortez­za umana dell’Opera sono stati i malati degli ospedali di Madrid: i più miserabili; quelli che vivevano nelle loro case, perduta anche l’ultima speranza umana; i più igno­ranti dell’estrema periferia”57.

Davvero la sua anima si fortificò alla scuola della sof­ferenza, nelle lunghe agonie, nella fermezza d’animo da­vanti al dolore. Quante riflessioni e pietosi episodi pro­vengono dalle sue visite ai malati; e quanti atti eroici rimarranno nascosti per sempre! Una Caterina del 14 gennaio 1932 è come il canto trionfale del dolore: “Be­nedetto sia il dolore. Amato sia il dolore. Santificato sia il dolore... Glorificato sarà il dolore!”58.

La storia di questa Caterina egli la raccontò in pub­blico durante la catechesi del 1974 nel continente ame­ricano:

“Era una povera donna perduta, che un tempo era appar­tenuta a una delle famiglie più aristocratiche della Spa­gna. Io la trovai già in disfacimento; in disfacimento nel corpo, mentre guariva nell’anima, in un ospedale per in­curabili. La poveretta era stata carne da caserma. Aveva marito, aveva figli; aveva abbandonato tutto, era impazzi­ta per le passioni, ma poi quella creatura seppe amare. Mi ricordavo di Maria Maddalena: sapeva amare”59.

Con il corpo cauterizzato dal dolore e l’anima purifi­cata dal pentimento, entrò in agonia. Il sacerdote le am­

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ministrò gli ultimi aiuti spirituali e alle soglie della mor­te le andò sussurrando all’orecchio la litania del dolore. Ella, con la voce rotta, ripeteva le frasi gridando. “Poco dopo morì e sta in Cielo e ci ha aiutato molto” , sog­giungeva il Fondatore60.

Grazie a tanta preghiera, alcune volte bagnata di san­gue e altre di lacrime, si andava facendo l’Opera.

3 .1 primi seguaci

Nel Piccolo bozzetto che Maria Ignacia scrisse sulle virtù di don José Maria Somoano, si racconta che questi disse alla malata: «Maria, si deve pregare molto per un’intenzione che è per il bene di tutti (...). Preghi senza posa, perché lo scopo dell’intenzione di cui le parlo è molto bello». E così percorreva le sale «incoraggiando tutti i malati a offrire preghiere e tutte le loro sofferenze per la sua intenzione»61. Poiché gli volevano molto be­ne, ci fu una risposta ammirevole alle sue richieste. Maria Ignacia racconta il caso di una donna sulla qualei medici, alla disperata, fecero un tentativo estremo: un’operazione alla gola senza anestesia, dolorosissima. Mentre la attraversavano con un trequarti, un grosso punteruolo a tre spigoli, ella sentiva un dolore insop­portabile e ripeteva fra sé: «Dio mio! per l’intenzione di don José M aria»62. Quando affrontavano interventi cruenti, i malati - proseguiva il racconto - «ricordavano sempre questa intenzione».

All’inizio del 1932 Maria Ignacia fu presa da forti febbri e da dolori continui; poiché neppure lei, che an­cora non apparteneva all’Opera, conosceva l’intenzione per la quale il cappellano don Somoano li faceva prega­re con tanta insistenza, gli disse:

«Don José Maria, penso che la sua intenzione debba va­lere molto, perché da quando lei mi ha suggerito di pre­

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gare e di offrire, Gesù si sta comportando con me in mo­do splendido. Di notte, quando i dolori non mi lasciano dormire, passo il tempo ricordando ripetutamente al Si­gnore la sua intenzione»63.

In seguito, quando la paziente apparteneva già all’O- pera, il cappellano le spiegò che per costruire bene l’O- pus Dei era necessario gettare delle solide fondamenta di santità: «Non puntiamo al numero, questo mai! - le diceva il cappellano -. Anime sante... anime in intima unione con Gesù... anime consumate dal fuoco dell’a­more divino, anime grandi! Mi capisce?».

Nel manoscritto della malata si leggono subito dopo altre parole del cappellano sullo stesso argomento: «Le si devono dare solide fondamenta. Per questo cerchiamo che le fondamenta siano di pietra di granito (...). Le fon­damenta prima di tutto, poi verrà il resto»64. Occorre­vano anime che aspirassero alla santità e occorreva an­che il numero perché potesse avviarsi il lavoro nei vari apostolati; vale a dire: qualità e, almeno, un pugno di vocazioni.

Un’annotazione del febbraio 1932 mostra la fretta di don Josemarìa, il cui desiderio prorompeva: “ Gesù, ve­do che la tua Opera può iniziare presto”65. Questa santa impazienza era uno sprone che il Fondatore trasmetteva ai suoi: al cappellano Somoano e a Maria Ignacia, a quanti stavano lontano e a chi viveva a Madrid: a questi di persona e a quelli per lettera.

“L’Opera di Dio la sta chiedendo Lui a gran voce. Ma vuole che la chiediamo noi di continuo, con il nostro comportamento... E che non siamo di ostacolo. L’ora in­dubbiamente si avvicina, anche se non ci sembra”66.

Un’eco di questa premura si ha nel Piccolo bozzetto di Maria Ignacia e nella corrispondenza di Isidoro il quale, scrivendo nel Natale del 1931 da Malaga ai suoi

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«buoni amici» di Madrid, chiese loro di fortificarsi inte­riormente per «quando Lui avrà bisogno di noi». E si accomiatava con queste parole: «Spero da Lui che que­ste festività ci siano proficue e che l’anno prossimo ci conceda di andare in palestra, poiché sarà segno che sia­mo al completo in qualità e in quantità»67. (Spontanea­mente e senza che nessuno gli avesse chiesto la sua opi­nione in proposito, Isidoro scrisse da Malaga nel marzo 1932: «Credo che il segno divino per cominciare la no­stra missione sarà quando arriveremo a dodici»)68.

* * *

A volo d’uccello, lontane le vicissitudini di quegli anni, il Fondatore richiamava la condizione assai diversa dei primi che lo avevano seguito:

“C’era un po’ di tutto: c’erano universitari, operai, pic­coli imprenditori, artisti... Io allora non sapevo che qua­si nessuno avrebbe perseverato; ma il Signore sapeva che il mio povero cuore - fiacco, codardo - aveva bisogno di quella compagnia e di quella fortezza”69.

Più che di vocazioni sicure, si trattava di persone, gio­vani per la maggior parte, che si avvicinavano al sacer­dote in cerca di direzione spirituale. Ma il Signore conti­nuava a giocare con lui come si gioca con un bambino. Una serena lettura degli Appunti mostra in che cosa consisteva questo gioco, questo incessante andirivieni di anime, molte delle quali si entusiasmavano presto e pre­sto perdevano l’entusiasmo. Il gruppo iniziale dal quale fu attorniato era formato da Pepe Romeo, don Norber­to Rodrfguez e Isidoro Zorzano, che erano, a loro volta, continuatori dei “discepoli” del Sotanillo. Pepe era della famiglia nella cui casa aveva portato il Santissimo dal Patronato, nei giorni in cui bruciavano le chiese a Ma­drid. Don Norberto, secondo cappellano del “Patronato

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de Enfermos”, si autovincolò all’Opera prima che lo in­vitasse il Fondatore, il quale raccontò così la storia:

“ (...) quando, con una certa titubanza, una sera gli co­municai il segreto, mi aspettavo che dicesse: lei è un vi­sionario, un pazzo. Invece, quando terminai di leggere le antiche schede, contagiato da divina pazzia, con il tono più naturale del mondo mi disse: la prima cosa da fare è l’Opera maschile”70.

Quanto a Isidoro, compagno di studi a Logrono, con il quale manteneva un’affettuosa corrispondenza e con cui si era trovato per strada in diverse occasioni prima dell’estate del 1930, ebbe luogo un nuovo e provviden­ziale incontro, riferito in una Caterina del 25 agosto:

“Ieri, giorno di S. Bartolomeo, mi trovavo a casa dei Ro­meo e mi sentii inquieto - senza motivo - e me ne andai prima dell’ora logica per andar via, dato che era ragio­nevole che aspettassi il ritorno a casa del signor Manuel e di Colo. Poco prima di arrivare al Patronato, in via Ni- casio Gallego incontrai Zorzano. Gli avevano detto cheio non c’ero ed era uscito dalla Casa Apostolica con l’in­tenzione di andare a Sol, ma la sicurezza di incontrarmi- mi disse - lo indusse a ripassare per via Gallego”71.

Isidoro, che lavorava come ingegnere in Andalusia, era andato a Madrid spinto dalle sue inquietudini spiri­tuali. Alle prime parole, don Josemaria vide che il Si­gnore gli inviava un’anima servita su un vassoio. E gli fissò un appuntamento nel pomeriggio al “Patronato de Enfermos” con l’intenzione di parlargli dell’Opera. “Nel pomeriggio” - prosegue la Caterina - “ Isidoro è venuto: abbiamo parlato; è molto contento; vede, come me, il dito di Dio. Adesso so - diceva - perché sono ve­nuto a Madrid” .

Passarono dei mesi dall’incontro con Isidoro. Mentre stava per essere proclamata la Repubblica, nell’aprile

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1931, don Josemaria scrisse con esultante ottimismo: “I nostri uomini e donne di Dio, nell’apostolato di azione, abbiano per motto: Dio e a u d a c ia !” 72. E nella Caterina successiva enumerava la forza umana disponibile per la sua impresa: “5 aprile 1931. Ieri, domenica di Risurre­zione, don Norberto, Isidoro, Pepe ed io abbiamo reci­tato le preci dell’Opera di Dio”73.

Era tutta lì l’Opera: un giovane studente, un ingegne­re, un sacerdote d’età e ammalato e, alla loro testa, don Josemaria. “I nostri uomini e donne di Dio” , le agogna­te vocazioni, tardarono a venire. Ma il Signore gli con­cesse di conoscere giovani in grado di capire l’Opera. In virtù di una specie di istinto soprannaturale, ebbe il pre­sentimento che nella sua attività di proselitismo esisteva una serie di curiose coincidenze tra le vocazioni e le fe­ste degli Apostoli.

“Per la storia dell’Opera di Dio” - scriveva in una Cate­rina dell’8 maggio 1931 - “è molto interessante anno­tare queste coincidenze. Il 24 agosto, giorno di S. Bar­tolomeo, ci fu la vocazione di Isidoro. Il 25 aprile, giorno di S. Marco, ho parlato con un altro (...). Il gior­no dei Santi Filippo e Giacomo (l-V-1931) ho avuto l’occasione - senza cercarla - di parlare a due. Uno di essi, con il quale ho avuto un lungo colloquio, vuole es­sere dell’Opera”74.

(Non si trattava di una mera ipotesi, poiché tre giorni prima, mentre fissava un colloquio con un giovane, gli venne da pensare: “Visto che il Signore sistema le cose per domani, che sia la festa di un Apostolo? Andai in sa­crestia, presi il calendario... S. Giovanni ante p o rtam la- tinam l Non ebbi dubbi sulla vocazione di Adolfo” .

Quando scriveva queste righe aveva già avuto modo di verificare la validità delle “coincidenze” , dato che ag­giunse: “ Così è stato. Ormai è socio. Dio lo benedi­ca!)”75. Da allora si abituò ad aspettarsi regali come pio­

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vuti dal cielo nelle feste degli Apostoli: “Mi domandavo ieri pomeriggio, più di una volta: che regalo faranno do­mani all’Opera i Santi Apostoli?”76. (Lo scriveva nella festa dei Santi Filippo e Giacomo).

Così pure aveva già osservato in precedenza un’altra strana “coincidenza” : che le vocazioni erano fulminanti e si decidevano senza vacillare:

“Finora, dato curioso, tutte le vocazioni all’Opera di Dio sono state repentine. Come quelle degli Apostoli: conoscere Cristo e seguire la chiamata. Il primo non du­bitò. Venne con me dietro a Gesù alla ventura (...). Il giorno di S. Bartolomeo, Isidoro; per S. Filippo, Pepe M.A.; per S. Giovanni, Adolfo; poi, Sebastiàn Cirac: co­sì tutti. Nessuno dubitò; conoscere Cristo e seguirlo fu tutt’uno. Gesù, fa che perseverino; e invia altri apostoli alla tua Opera”77.

Se nel primo resoconto che fece sui suoi seguaci si ac­corse delle coincidenze cronologiche e se nel secondo ri­levò che gli interessati non avevano opposto resistenza o remore alla vocazione, due anni dopo, nel 1933, scoprì che la sua permanenza e il suo ministero nel Patronato di Santa Isabel non era stato un evento fortuito nella storia dell’Opera. Non era evidente che al suo apostola­to era legata tutta una catena di vocazioni? “ Carmen, Hermógenes, Modesta..., Gordon, Saturnino, Antonio, Jenaro...”78. Di questi nomi, i primi tre sono donne che frequentavano il confessionale del cappellano in Santa Isabel e che si donarono nell’Opera. E don Saturnino de Dios era un sacerdote amico di don Josemarìa, della Congregazione dei Filippini.

Dello zelo che spingeva don Josemarìa a reclutare ani­me da notizia un paragrafo della lettera del 5 maggio 1931, nella quale diceva a Isidoro:

“Il giorno di S. Marco ho parlato con uno... Il giorno dei Santi Filippo e Giacomo, con due... Domani, S. Gio­

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vanni Apostolo ante portarti latinam, con un altro. Un pittore, un dentista, un giovane medico, un awocatino... Inoltre, Dorai, dell’Istituto-Scuola, mi ha inviato una bellissima lettera”79.

Poiché non mancavano certo feste di Apostoli nel cor­so del calendario liturgico, che cosa si faceva di questa messe di vocazioni?

Per quanto frequenti fossero le festività, il fatto è che il volume delle vocazioni non aumentava mai. Perché il numero aumentava ma poi, quando alcuni abbandona­vano l’impresa, si riduceva come nel caso dei soldati di Gedeone. Alcuni non avevano la taglia spirituale e altri se ne andavano attardandosi per strada. Fra loro Adolfo, al quale aveva parlato il giorno di S. Giovanni ante portam latinam. Nel chiarire la situazione di Adolfo verso l’Opera, il 31 ottobre 1933, fece una rapi­da e sommaria conta delle forze:

“Vedendo chiaramente che non ha vocazione, cessa di appartenere alPOpera.Fra i morti e... i “morti” ..., sono sette, Signore!”80.

Adolfo compreso, erano quattro coloro che ultima­mente avevano cessato di seguirlo. Il Fondatore ne sof­friva, anche se comprendeva che per perseverare nell’O- pera non bastavano le qualità personali né la buona volontà, ma era necessaria la chiamata divina. Ma che dire delle altre tre perdite, cioè dei membri dell’Opera defunti negli ultimi mesi? Si trattava di anime elette, con una vocazione molto chiara. Per primo Dio si era preso il cappellano Somoano; e per ultima Maria Ignacia, che aveva adempiuto con sovrabbondanza alla sua funzione di anima espiatoria. (E chiaro che, quando il sacerdote fece la propria contabilità spirituale, la perdita di Maria Ignacia l’aveva messa, come abbiamo visto, nella colon­na dell’“Avere” . “Non l’abbiamo perduta: l’abbiamo

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guadagnata”, si legge nella nota necrologica redatta alla morte della malata)81.

Chi poteva prevedere che Luis Gordon sarebbe mortolo stesso anno in cui aveva chiesto di essere membro dell’Opera? Giovane, sano, con una brillante carriera e un’invidiabile situazione sociale, riuniva tutte le condi­zioni necessarie per aiutare a mettere le fondamenta ma­teriali e apostoliche che cercava don Josemarìa. Il Signo­re se lo era preso senza alcun preavviso di una morte acerba. E nella nota necrologica redatta dal Fondatore il 5 novembre 1932, giorno della morte, si proclamava un lungo elenco delle sue virtù: “Buon modello: obbedien­te, discretissimo, caritatevole fino allo sperpero, umile, mortificato e penitente... uomo di Eucaristia e di orazio­ne, devotissimo a Maria Santissima e a Santa Teresi- na..., un padre per gli operai della sua fabbrica, che lo hanno pianto sinceramente alla sua morte” 82.

Meditando le due prime morti - Somoano e Gordon - avvenute quando aveva più bisogno di una buona ma­nodopera apostolica e di anime mature, don Josemarìa ripercorse con il pensiero la storia della propria vita; e con tali ricordi davanti agli occhi, terminava la nota ne­crologica con queste parole:

“Amiamo la Croce, la Santa Croce che pesa Sull’Opera di Dio. Il nostro gran Re Cristo Gesù ha voluto portarsi via i due meglio preparati, affinché non riponiamo le speranze in cose terrene, neppure nelle virtù personali di alcuno, ma solo ed esclusivamente nella sua Provvidenza amorosissima ”83.

Quando si lamentava filialmente con il Signore del fatto che i morti fossero già sette, egli mostrava di cono­scere per esperienza la “ logica divina” e non si scorag­giava. Continuava a utilizzare i mezzi soprannaturali; ritornava alla preghiera, alla mortificazione, all’aposto­lato attivo, pur sapendo che nella pesca apostolica mol­

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te anime gli sarebbero scivolate di mano. “Mi misi a la­vorare” - racconterà con un velo di stanchezza - “e non era facile: le anime sfuggivano come sfuggono le anguil­le nell’acqua” 84.

Negli esercizi spirituali che il Fondatore fece nel 1934, gli venne in mente di riunire le numerose grazie e favori singolari ricevuti dal Cielo e dei quali si ricorda­va, sotto il titolo: “ciò che Dio nostro Signore ha dato a me in particolare” . Nell’elenco compare un attributo non facile da catalogare e che viene descritto così: “ Quel non so che di santificatore, che fa sì che s’infiam­mino le anime di molti quando io parlo loro, anche se da parte mia mi ritrovo spento” 85. Effettivamente era già da anni che nelle anime che entravano in contatto con lui si verificavano indicibili cambiamenti. Lo sculto­re Jenaro Làzaro che le domeniche pomeriggio, all’usci­ta dall’Ospedale Generale, si tratteneva a parlare con don Josemaria, riferisce i propri ricordi: «Quelle con­versazioni produssero in me un’impressione incancella­bile: era un uomo di Dio, che trascinava verso di Lui le persone che frequentava»86.

Quel 2 gennaio 1932, quando andò all’Ospedale del Re per spiegare l’Opera a don Somoano, si sentiva fisi­camente abbattuto (spento, come dice lui): “A seguito della conversazione con don Norberto, la mattina di quel giorno mi sentivo senza forze; e al pomeriggio, quando parlavo con Somoano, ero più impacciato del solito. Ormai questo amico appartiene all’Opera”87.

Dai frutti siamo in grado di riconoscere quel “non so che di santificatore” che aveva la sua parola. Ancor più se leggiamo quello che Maria Ignacia scrisse nel suo Pic­colo bozzetto, circa lo stato d’animo di Somoano dopo che aveva conversato dell’Opera con don Josemaria: «Ricordo che mi raccontò come un fatto unico quanto gli accadde il primo giorno in cui aveva accettato di far­ne parte: che la notte non potè prendere sonno per la grande gioia che provava»88.

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Anche don Pedro Cantero notò la stupenda penetra­zione spirituale della sua parola, poiché nel raccontare il primo incontro con don Josemaria in un corridoio della Facoltà di Diritto di Madrid, nel settembre 1930, sog­giunge che, dopo il saluto e la prima chiacchierata, «ini­ziò un’amicizia che sarebbe durata per tutta la vita (...). Josemaria entrò a poco a poco nella mia anima, facendo un vero apostolato da sacerdote a sacerdote»89. Venne la Repubblica; accaddero grandi soprusi e sacrilegi, già accennati; i due amici non si videro per qualche tempo. Inaspettatamente, la sera del 14 agosto 1931, quando nel cielo della capitale «sembrava ancora aleggiare il fu­mo degli incendi dei conventi», don Josemaria si pre­sentò a casa del suo amico. Tirò fuori dal suo abbatti­mento don Pedro, che si trovava con l’animo triste e pessimista; e il potere della sua parola operò in tal mo­do che, come dice testualmente monsignor Cantero, «cambiò la prospettiva della mia vita e del mio ministe­ro pastorale»90. Ciò che don Pedro non seppe è che il Fondatore, per ottenere questo cambiamento, si era ap­poggiato sull’orazione e sulla mortificazione che aveva chiesto a Isidoro Zorzano, a don Norberto, alle mona­che di Santa Isabel, ai malati degli ospedali e persino al suo Angelo Custode91. Perché era abituale per don Jose­maria cercare la “complicità” degli angeli nelle sue im­prese apostoliche.

* *

Quando don Josemaria ricordava la grande varietà di condizioni che esisteva in quanti lo seguivano nei primi tempi, come se il Signore volesse dimostrare che nell’O- pus Dei ci sarebbe stato ogni genere di persone e di pro­fessioni: “universitari, operai, piccoli imprenditori, arti­sti...” , è strano che nell’elenco non faccia menzione dei sacerdoti. Tuttavia egli aveva già avviato delle riunioni per sacerdoti, chiamate “conferenze del lunedì” , che ini­

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ziarono il 22 febbraio 1932, il lunedì precedente alla fe­sta di S. Mattia:

“Lunedì scorso” - annotava negli Appunti - “ci siamo riuniti per la prima volta cinque sacerdoti. Continuere­mo a riunirci ogni settimana, per immedesimarci. Ho dato a tutti la prima di una serie di meditazioni sulla no­stra vocazione”92.

Alcuni di questi sacerdoti si erano uniti a don Jose­maria fin dai primi momenti e in maniera imprevista, come nel caso di don Norberto e di don Lino Vea- Murguia93; altri, come don José Maria Somoano, un po’ dopo. Per trasmettere loro lo spirito dell’Opera don Jo­semaria andava incontro a un lungo lavoro. Più lungo di quanto non immaginasse, dato che doveva creare in loro un legame soprannaturale e umano fatto di affetto e di dottrina, che li unisse alla sua persona in quanto Fondatore dell’Opus Dei. E per lavorarne le anime li portava con sé a far visita ai malati negli ospedali o ad occuparsi della catechesi in parrocchie e scuole94.

Dell’interesse che metteva nella formazione di quel gruppo di sacerdoti rende l’idea quanto Maria Ignacia riferisce del cappellano Somoano: «Quando al lunedì ri­tornava dopo aver partecipato alle riunioni spirituali della nostra Opera, solo a guardarlo gli si notava la contentezza e la soddisfazione e il quadernetto in cui conservava gli appunti delle meditazioni e altre cose del genere era il suo gioiello più prezioso»95.

Sicuramente don Josemaria predicava ai sacerdoti con l’esempio e metteva nelle sue parole il calore vibrante della sua fede e del suo ottimismo, facendo loro scorge­re ideali infuocati. Tutto ciò è riflesso nell’atteggiamen­to di don Somoano, stando al necrologio che ne fece la settimana stessa della sua morte: “ Con quale entusia­smo ascoltò, nella nostra ultima riunione sacerdotale, il

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lunedì precedente alla sua morte, i progetti dell’inizio della nostra azione!”96.

Le presenze alle prime riunioni raramente superava­no la mezza dozzina. “Lunedì scorso” - si legge negli Appunti, in data 28 settembre 1932 - “ci siamo riuniti, con don Norberto e a casa sua, Lino, José Maria Vegas, Sebastiàn Cirac ed io. Si è parlato dell’Opera e abbia­mo recitato un responsorio per José Maria Somoa- no”97. (La metà di quel gruppo morì martire in odio al­la religione, poiché don Lino Vea-Murgìa e don José Maria Vegas furono tra le migliaia di sacerdoti assassi­nati nel 1936)98.

Nel lavoro di formazione delle anime che aveva intor­no a sé, don Josemarìa dovette fare anche ricorso alla corrispondenza, poiché alcuni di coloro che dirigeva si trovavano fuori Madrid. Attraverso le lettere di Isidoro Zorzano, che per alcuni anni risiedette a Malaga, ci ren­diamo conto di che cosa significava la parola scritta e ardente di don Josemarìa. Pochi giorni dopo quella me­morabile conversazione del 24 agosto a Madrid, quan­do Isidoro scoprì la propria vocazione, questi scriveva, al suo rientro a Malaga:

«Malaga, 5-9-1930. (...) Il tema della nostra ultima con­versazione mi ha molto soddisfatto, dato che mi ha sug­gerito nuove idee e mi ha fatto concepire nuove speran­ze, o meglio, speranze già perdute (...). L’ottimismo che mi hai iniettato lo vedo in pericolo, sento la necessità di starti vicino e di orientarmi definitivamente, con il tuo aiuto, nella nuova era che hai aperto ai miei occhi e che era precisamente l’ideale che mi ero forgiato e che rite­nevo irrealizzabile»99.

E dopo una settimana:

«Malaga, 14-9-1930. (...) Mi dici che la tua lettera era lunga, ma a me è sembrata molto breve; l’ho letta diver­se volte, poiché conforta grandemente il mio spirito. Og­

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gi mi sono comunicato, secondo il tuo consiglio, unen­domi allo spirito dell’Opera di Dio; ora sono compieta- mente confortato, ora trovo il mio spirito invaso da un benessere, da una pace, che non avevo mai sentito fino­ra; devo tutto alPOpera di Dio»100.

Si avvicinava il secondo anniversario dell’inizio del la­voro dell’Opera con le donne; e questo campo apostoli­co era praticamente deserto. C’era un evidente ritardo nelle vocazioni. Chiunque potrebbe credere che il Fon­datore se la prendesse con calma, ma non era così. Rin­chiuso nel confessionale di Santa Isabel, attendeva pa­zientemente - seminando l’attesa di preghiere - che il Signore gli inviasse anime.

“Domenica 8 novembre 1931”. - si legge negli Appunti- “Credo che venerdì scorso il Signore mi abbia messo davanti un’anima per cominciare, a suo tempo, il ramo femminile dell’Opera di Dio”101.

E il martedì successivo scriverà a Isidoro: “ Sai che credo che il Re mi abbia mandato un’anima per comin­ciare il ramo femminile?” 102. Quest’anima ebbe delle in­certezze, finché un giorno chiese al sacerdote un collo­quio, decisa a chiedere l’ammissione all’Opera. Da qualche tempo don Josemaria non scriveva Caterine e, quando prese la penna per annotare la data dell’evento, si rese conto di un’altra “coincidenza” :

“Proprio ieri, 14 febbraio 1932, giorno della prima vo­cazione femminile, ricorrevano esattamente due anni da quando il Signore aveva chiesto l’Opera delle donne. Che buono è Gesù!”103.

Poche settimane dopo chiese l’ammissione Maria Ignacia. Carmen Cuervo, la prima vocazione femminile, e la nuova “vocazione di espiazione” s’incontrarono al- l’Ospedale del Re domenica 10 aprile 1932. E il lunedì

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successivo, quando si incontrarono i sacerdoti, don Jo- semaria propose loro di recitare un Te Deum104. Era il minimo. Grazie a Dio, ormai era avviato il lavoro con le donne. Ma se non aveva difficoltà ad avvicinarsi alle malate sofferenti e contagiose, ben diverso era il com­portamento di don Josemaria con le donne sane. Man­teneva, inflessibile, le distanze, ricevendole nel confes­sionale; e la sua delicatezza con le prime donne dell’Opera arrivò al punto di affidarle alla direzione spi­rituale di don Norberto o di don Lino105.

Nel terzo anniversario della fondazione non si na­scondeva che l’apostolato, per quanto si riferiva alle donne, era abbastanza fiacco. Il Fondatore non si sco­raggiava, continuava ad aspettare vocazioni senza spa­zientirsi: “ 14 febbraio 1933. Sono oggi tre anni da quando il Signore chiese l’Opera femminile. Quante grazie, da allora! Finora, le donne sono poche” 106.

Un anno dopo si ripeterà la scena della visita di Car­men Cuervo a Maria Ignacia nell’Ospedale del Re; ma cambiarono il luogo dell’incontro e i personaggi: ora era Hermógenes che andava a far visita ad Antonia nel- l’Ospedale Generale:

“ 14 febbraio 1934. Oggi sono quattro anni da quando il Signore ispirò il ramo femminile. Ho fatto in modo che Hermógenes porti ad Antonia, malata in ospedale, un regalo. Vediamo quando mi invierai, mio Dio, la donna che possa mettersi alla loro testa all’inizio, lasciandosi formare!”107.

La storia dei primi che lo seguirono - studenti, sacer­doti, donne - fu un tessere e un disfare, un continuo farsi e sgretolarsi. Don Josemaria sapeva fin troppo be­ne che alcuni dei seguaci che Dio gli inviava per inco­raggiarlo non avrebbero resistito; ma intanto avrebbe­ro migliorato la loro vita interiore. Era consapevole, come dice il proverbio latino (anguillam cauda tene-

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bat), di pretendere a volte di afferrare le anguille per la coda: gli sfuggivano.

Nonostante ciò, non perdeva l’ottimismo soprannatu­rale, né di fronte ai cedimenti né di fronte alle morti, an­che se il suo cuore accusava le perdite con grande dolo­re. Più gravi conseguenze comportò il lasciare le vocazioni femminili alla cura di altri sacerdoti, poiché essi non arrivarono mai a capire del tutto lo spirito del- l’Opus Dei.

Nel 1939 don Josemarìa aggiunse una breve nota ad una delle antiche Caterine, spiegando, in brevissime pa­role, che per mancanza di tempo da dedicare alle donne, aveva affidato a don Norberto e a don Lino il compito di formare le vocazioni femminili; e che questo compito non era stato portato a termine108.

4. Un ritiro spirituale accanto a S. Giovanni della Croce

“Sapesse la voglia che ho di solitudine!” - scriveva l’8 aprile 1932 a don José Pou de Foxà - “Ma il miele non è fatto per la bocca dell’asino e mi devo contentare di una vita di confusione e movimento, ballando per tutto il giorno di qua e di là. Sia benedetta e amata la Vo­lontà di Dio”109.

La sua vita era davvero un via vai inarrestabile. Mes­sa, funzioni in chiesa, confessioni di monache e di fedeli a Santa Isabel; confessioni di suore e preparazione di bambine alla prima Comunione nella scuola dell’Assun- zione; visite agli ospedali; e conversazioni, e direzione spirituale di giovani e di sacerdoti, ecc.110. Questa pe­sante dedizione pastorale non gli dava beneficio econo­mico, per cui era costretto ad aggiungere a tutto il resto le lezioni nell’Accademia Cicuéndez e le lezioni private a domicilio. Impossibile prescindere da tali occupazioni.

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Da quelle pastorali perché le esigeva la sua anima; e da quelle di docenza perché le esigeva il suo mantenimento, o almeno quello del resto della famiglia.

Il desiderio di solitudine, verso cui sospirava nella let­tera sopra citata, gli sembrava a volte una tentazione, quando la stanchezza o il demonio gli suggerivano che non sarebbe stato male dedicarsi a un’esistenza di mag­gior tranquillità spirituale, libera dall’agitazione del la­voro apostolico. Lo si legge in una Caterina:

“La tentazione torna a sussurrarmi nelle orecchie la vi­ta di pace e di virtù, non già del Padre X o di Fra’ Nes­suno, ma di un pretino sconosciuto nell’ultima parroc­chia rurale, senza grandi lotte né grandi ideali di azione immediata...”111.

Per respingere le tentazioni di condurre un diverso ge­nere di vita, che lo assalirono intorno all’aprile 1932, il cappellano sfruttava la potente supplica delle anime in­nocenti. Nei giorni in cui andava a preparare le bambi­ne della prima Comunione, chiedeva loro di recitare con lui, tutti insieme, “un’avemaria per il santo a legna­te” 112. (Avranno capito quelle anime tenerelle chi era il “ santo a legnate” ?). Ma il motivo per cui scriveva la let­tera a Pou de Foxà era un altro. “Se Dio non provvede diversamente” - gli comunicava don Josemaria - “do­vrò venire a Saragozza nel giugno prossimo, perché un figlio dei Guevara si presenti agli esami” 113.

Il suo confessore lo costrinse a comprarsi un cappello e una veste talare prima di mettersi in viaggio. (Doveva essere ridotto piuttosto male a vestiario). Comperò an­che “un quaderno nuovo, poiché pensavo di fare un dia­rio di caterin e” nA.

Quando rientrò a Madrid, il 13 giugno, il quader­no era ancora bianco: non aveva scritto nessuna Cate­r in a ; aveva però inviato delle brevissime lettere alla famiglia115.

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L’estate 1932 fu movimentata. Non potè trovare la solitudine cui aspirava. Il 10 agosto a Madrid ci fu una disorganizzata insurrezione alla quale partecipò un cer­to numero di ufficiali dell’esercito e alcuni gruppi di stu­denti monarchici. Il governo e la forza pubblica erano stati preavvertiti, per cui ben presto la rivolta fu soffo­cata e la pace ristabilita. I congiurati finirono in prigio­ne. José Manuel Doménech, uno di coloro che accom­pagnavano le domeniche don Josemaria all’Ospedale Generale, racconta l’accaduto: «Avevo preso parte, in­sieme ad altri studenti di Madrid, ai fatti del 10 agosto. Eravamo andati al mattino presto, armati, a occupare l’edificio delle Poste. La maggior parte di noi fu arresta­ta e spedita al Carcere Modello, prima nel settore dei prigionieri politici e poi in isolamento, con un regime carcerario rigoroso»116. Finì in carcere anche Adolfo Gómez, quello del giorno di S. Giovanni ante portam la- tinam, uno dei giovani che di notte vigilavano conventi e chiese per evitare incendi e assalti.

Negli Appunti di quella giornata si legge:

“Giorno di S. Lorenzo, 10 agosto 1932. Questa mattina alle cinque mi hanno svegliato degli spari, vere scariche di mitragliatrici. Sono andato a Santa Isabel vestito da civile. Il nostro Adolfo è prigioniero: è un’anima grande, che capisce l’ideale e si sa sacrificare per esso. Il Signore ce lo protegga”117.

Lo stesso giorno si recò dove si trovava Adolfo, ma non gli fu consentito vederlo. Passò diversi giorni di dolorosa attesa, senza poter parlare con il prigioniero. Finalmente riuscì a fargli recapitare poche righe di conforto.

“Vigilia di S. Bartolomeo, 23-VIII-1932. Siamo riusciti a mandare alcune cose ad Adolfo. Tutti i giorni vado al carcere. Credo che oggi, visto che andrò con sua madre,

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riuscirò a vederlo. Non farò più annotazioni su questo argomento”118.

Quel giovane sacerdote si recava al Carcere Modello in veste talare, «benché il far visita ai detenuti significas­se mettersi in evidenza ed esporsi ad essere perseguita­to», commenta José Antonio Palacios, uno studente in­carcerato119. Don Josemaria fece la conoscenza con alcuni di quegli universitari esaltati. Parlava con loro nel parlatorio dei prigionieri politici, una lunga galleria con un’inferriata continua e con le sbarre molto strette. Raccomandava loro serenità e buon umore. Parlava lo­ro della Madonna e della visione soprannaturale del la­voro, affinché non cadessero nell’ozio e continuassero a offrire al Signore alcune ore di studio. Date le circostan­ze, i libri non erano la principale preoccupazione di que­sti studenti agitati. Ma il sacerdote diceva loro le cose in modo così persuasivo - osserva José Antonio - che «per impiegare il tempo io mi misi a dare lezioni e a ripassare il francese»120.

Un certo giorno, José Manuel Doménech udì dalla cella gridare il suo nome. Aperto il portellino, una guar­dia carceraria gli consegnò una busta. Dentro la busta c’era un libro del Piccolo ufficio della Madonna, che re­cava la seguente dedica:

Beata Mater et intacta Virgo, gloriosa Regina mundi, in­tercede prò Hispanis ad Dominum “A José M. Doménech, con tutto l’affetto Madrid, agosto 1932 José M. Escrivà”121.

«Mi fece una profonda impressione l’affetto del Pa­dre e la sua preoccupazione per la mia vita interiore - dirà José Manuel egli sapeva che conoscevo e recita­vo il “piccolo ufficio” ». Nel mese di settembre don Jo­semaria perse le tracce di molti di loro. Gran parte dei

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prigionieri politici furono deportati in Africa; ma non per questo sospese le visite a quanti erano rimasti nel Carcere Modello122.

Per tutta l’estate il sacerdote avvertì un gran desiderio di solitudine, di ritiro spirituale. Due mesi dopo che se ne era lamentato con l’amico Pou de Foxà, si legge di nuovo in una nota del primo giugno:

“Ho bisogno di solitudine. Anelo un lungo ritiro, per stare con Dio, lontano da tutto. Se Egli lo vuole, me ne darà l’occasione. Lì sedimenterebbero molte cose che ri­bollono dentro di me; e Gesù, sicuramente, preciserà particolari importanti per la sua Opera”123.

Finalmente, in settembre sistemò le cose. Con l’auto­rizzazione del Provinciale dei Carmelitani si preparò a fare una settimana di ritiro spirituale a Segovia, nel con­vento dove riposano i resti di S. Giovanni della Croce. Il2 ottobre scriveva:

“Giorno dei Santi Angeli Custodi, vigilia di Santa Tere- sina, 1932: quattro anni! Anche il Signore ha voluto ri­cordarmelo, inviando una vocazione femminile (...). Do­mani vado a Segovia, agli esercizi, accanto a S. Giovanni della Croce. Ho chiesto, ho mendicato molta preghiera. Vedremo”124.

Arrivò al convento dei Carmelitani Scalzi di Segovia lunedì 3 ottobre 1932. Immediatamente si dedicò a pre­parare il piano del ritiro, che pensava di fare nel più completo isolamento, com’era sua abitudine, senza ascoltare sermoni o prediche. La sua cella portava un “ bel numero” , il 33, che gli ricordava doppiamente le Persone della Santissima Trinità, e un cartiglio che dice­va: Gloriatio. Et in timore Dei sit tibi gloriatio. Eccl. 9,23. (Subito gli vennero in mente i brutti momenti che aveva passato nell’ottobre dell’anno precedente, quando mentre contemplava la propria filiazione divina il Si­

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gnore aveva coperto nella sua mente il giusto significato del timor Domini. Una coincidenza troppo strana per­ché l’iscrizione non gli apparisse un promemoria da par­te del Signore)125.

Adattò il piano del ritiro alle esigenze dell’orario con­ventuale. Si sarebbe alzato alle cinque meno un quarto; alle cinque e mezza un’ora di meditazione; poi la santa Messa; alle otto, colazione; alle nove e mezza, un’altra ora di meditazione. Alle undici e mezza il pranzo. Al po­meriggio, altre due meditazioni di un’ora, rosario e let­tura. Alle sei e un quarto della sera: cena, esame e disci­plina. Alle dieci, dopo aver recitato le preci, sarebbe andato a coricarsi126.

Il convento godeva di una magnifica vista. In distan­za, al di sopra della zona alberata che scendeva fino al­l’avvallamento del fiume, si elevava un sottile promon­torio con un castello erto sullo sperone. Don Josemarìa era convinto che il Signore lo avrebbe trattato bene per­ché stava “ in casa di sua Madre, nel Carmelo” . E gli venne di colpo il lontano ricordo di Logrono, dei carme­litani scalzi che camminavano sulla neve127. Così aveva avuto inizio la sua storia; e ora si trovava in un conven­to del Carmelo, da solo con il suo Dio.

* * *

Le note dei suoi primi giorni di ritiro sono brevi. Poche righe bastano per indicare il corso dei suoi pensieri.

“Primo giorno. Dio è mio Padre. - Non mi separo da questa considerazione (...). Io sono di Dio... e Dio è per me.Secondo giorno, mercoledì. - O Domine!, tuus sum ego, salvum me fac! -E t a te numquam separari permittas! - Signore, non è tanto facile farsi santo! - Lo credo bene che ti dicesse la Madre Teresa: “Per questo hai così po­chi amici” .Terzo giorno, giovedì. Né la considerazione della gravità

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del peccato, né la vista dei castighi eterni che meritò e merita, mi smuovono (...). Sono così freddo. Tutt’al più aggiro il problema per gridare al mio Dio: ti amo, per­ché sei buono: io sono un miserabile... Castigami, ma fa che ogni giorno ti ami di più”128.

Pure del terzo giorno, 6 ottobre, è questo appunto:

“Oggi, nella cappella di S. Giovanni della Croce (vi pas­so tutti i giorni alcuni momenti di solitudine piena di compagnia) ho visto che, per iniziare le riunioni sacer­dotali e tutte le altre in cui si tratti dell’Opera di Dio, fa­remo la seguente preghiera (...): 1) Veni Sancte Spiritus.2) Sancte Michael, ora prò nobis. -Sancte Gabriel, ora prò nobis. -Sancte Rapbaèl, ora prò nobis. 3) In nomine Patris, et Pilii et Spiritus Sancti. Amen. A) Sancta Maria, Sedes Sapientiae, ora prò nobis”129.

Lo speciale significato di queste parole sarebbe passa­to inavvertito se non esistessero altre testimonianze au­tobiografiche concordanti e complementari, come per esempio quanto scrisse nel 1941:

“Passavo lunghi momenti di orazione nella cappella do­ve sono conservati i resti di S. Giovanni della Croce: e lì, in quella cappella, ebbi la mozione interiore di invocare per la prima volta i tre Arcangeli e i tre Apostoli - la cui intercessione noi dell’Opera chiediamo ogni giorno nelle nostre Preci - prendendoli da quel momento come Pa­troni delle tre opere che compongono l’Opus Dei”130.

Questa mozione soprannaturale veniva a risolvere, come si spiegherà più avanti, la struttura dell’Opera e la sua organizzazione apostolica. Del venerdì, quarto gior­no di ritiro, sono queste considerazioni:

“Il Regno di Gesù Cristo. Questo è ciò che è mio! (...) L’asinelio! Non è più un asino rognoso (...). Con le sue povere spoglie fanno tamburi da guerra e tamburi e

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zampogne da pastori. Potessero servire così le spoglie dell’asinelio di Gesù, per suonare nella grande guerra per la gloria di Dio e per il regno universale ed effettivo di Cristo, mio Signore..., e per cantare strofe infuocate, canzoni di pastori di Betlemme, al Bambino che nacque per morire per me! (...).Sentii come se dentro di me mi dicessero: “Ma se sei un ipocrita... Stai perdendo il tempo, dedicandoti a... co­struire frasi” . E in quell’istante, quasi per confermare quel pensiero, mi capitò una cosa sciocca - che sto per dire - mentre guardavo l’Alcàzar di Segovia: quel castel­lo sta chiedendo a gran voce, così stagliato nel cielo - sembra di cartone - dei soldatini di piombo, perché si possa divertire un bambino figlio di giganti. Dubitai: an­che prima avrò costruito delle frasi senza sostanza? Ma percepii chiaramente: no, stavo facendo orazione”131.

Nel suo ritiro seguiva un piano personale, per pro­prio conto, ma non a suo capriccio. Padre Sànchez gli aveva dato una traccia per orientarlo. Inoltre il suo confessore avrebbe letto in seguito tutto quello che egli avrebbe scritto durante quei giorni. (“Faccio questo in­ciso” - avvertì esplicitamente - “ affinché, leggendo le mie note, il mio padre Sànchez veda come vado: non sono uscito dal ghiaccio, eccezion fatta per alcuni lam­pi di fervore” )132.

La domenica meditava sulla purezza: “ la santa purez­za, umiltà della carne” 133 e decise di rinnovare nelle ma­ni della Vergine alla fine del ritiro l’impegno sacerdotale di fedeltà d’amore. Passò poi ad esaminare il proprio di­stacco, proponendosi di essere più generoso e di lasciare tutto alla cura del Signore134. Fece subito dopo una di­chiarazione di sottomissione della propria volontà: “So­no deciso a obbedire sempre al mio Padre spirituale. Così pure ai miei superiori gerarchici” 135.

Dal luglio 1930 si confessava con padre Valentin Sàn­chez Ruiz, ad eccezione delle settimane in cui il buon ge­suita si tenne nascosto quando divenne esecutivo il de­

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creto che scioglieva la Compagnia. Fin dal primo mo­mento fu molto chiaro a tutti e due che la missione fon- dazionale e il governo dell’Opera erano materie estranee alla direzione spirituale che egli si attendeva dal confes­sore. Il suo confessore non era direttore dell’Opera di Dio, bensì direttore del sacerdote. (Sulla direzione spiri­tuale di padre Sànchez, don Josemaria scrisse: “Non ha avuto nulla a che vedere con l’Opera, perché mai lo la­sciai intervenire o esprimere opinioni” )136.

Con questa premessa e con assoluta semplicità, di­chiarava: “Tutte le cose della mia anima - senza riser­varmi nulla - le ho comunicate e le comunicherò sempre al mio direttore spirituale” 137. Così stando le cose, die­tro a questo fermo comportamento si scorge quanto gli costasse mettere a nudo la propria anima in materie chelo potessero innalzare agli occhi altrui.

“Giorno di S. Marco, 25 aprile 1932. Questa mattina sono stato con il mio padre Sànchez. Avevo deciso di raccontargli del giorno 20; sentivo una certa ripugnanzao vergogna. Mi è costato, ma gliel’ho detto”138.

Il fatto a cui si riferiva non è cosa da poco. Alcuni giorni prima, alla sera, prima di coricarsi, si era racco­mandato a S. Giuseppe e alle Anime del purgatorio per le quali aveva una speciale devozione, affinché lo sve­gliassero alle sei meno un quarto. (Doveva ricorrere a loro, poiché al sonno si univa lo sfinimento). E questa è la Caterina che racconta l’accaduto:

“Questa mattina - come sempre quando lo chiedo umil­mente, qualunque sia l’ora in cui mi corico - mi svegliai da un sonno profondo come se mi stessero chiamando, sicurissimo che fosse arrivato il momento di alzarmi. In effetti, erano le sei meno un quarto. Ieri sera, pure d’abi­tudine, chiesi al Signore di darmi la forza per vincere la pigrizia quando mi fossi svegliato, perché - lo confesso a mia vergogna - mi costa enormemente una cosa così

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piccola e sono parecchi i giorni in cui, nonostante questa chiamata soprannaturale, rimango a letto per un po’. Oggi ho pregato, quando ho visto l’ora, ho lottato... e sono rimasto a letto. Alla fine, alle sei e un quarto della mia sveglia (che è rotta da tempo) mi sono alzato e, pie­no di umiliazione, mi sono prostrato a terra riconoscen­do la mia mancanza - serviaml, servirò! - mi sono vesti­to e ho cominciato la meditazione. Bene: fra le sei e mezza e le sette meno un quarto ho visto, per un certo tempo, che il volto della mia Madonna dei Baci si riem­piva di letizia, di gioia. La fissai bene: credetti che sorri­desse, perché mi faceva questo effetto, ma le labbra non si muovevano. Molto sereno, ho detto a mia Madre tan­te cose affettuose”139.

Non era la prima volta che gli accadevano cose simili. Cercava di non dar loro importanza. Era restio ad am­mettere “facilmente la straordinarietà di certe cose” . E dopo essersi sottoposto ad una prova, nel caso si trat­tasse di una suggestione dei sensi, dovette arrendersi al­l’evidenza.

“Sono giunto a fare delle prove” - scrisse - “nel caso fosse una mia suggestione, perché non ammetto facil­mente la straordinarietà di certe cose. Inutilmente: il volto della mia Madonna dei Baci, quando io appo­sta, cercando di suggestionarmi, volevo che sorrides­se, continuava nella serietà ieratica che ha la povera scultura”140.

La piccola scultura della Madonna dei Baci, Sanata osculorum Virgo, faceva davvero cose stupende: “ In- somma, la mia Signora, Santa Maria, (...) ha fatto una carezza al suo bambino” 141.

Il discepolo spirituale di padre Sànchez taceva molte piccole umiliazioni, attraverso le quali andò progreden­do sulla via della pazienza. Gli dispiaceva veramente, fi­no alle lacrime, il dover andare in tutta fretta, dopo aver

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fatto delle lezioni o aver fatto visita ai malati, correre al­la disperata fino a Chamartin, dove risiedeva il padre gesuita da quando era stata incendiata la casa in via del­la Fior. Chiedeva di lui e non poche volte il portiere gli riferiva che doveva tornare un altro giorno. Non si ren­deva conto il suo confessore che non aveva tempo per arrivare fin là, fuori della capitale? E neppure era il caso di dirgli che era stato costretto ad andarci a piedi, facen­do una camminata per quei luoghi fuori mano, perché non aveva i pochi miseri centesimi per il tram142.

Padre Sànchez era un buon direttore di anime e don Josemaria gli era molto riconoscente, perché anche il fa­stidio delle attese a Chamartin gli fece “molto bene” 143. Nei suoi Appunti e nella sua corrispondenza ci sono al­cuni discreti elogi del confessore. Ci sono anche alcune osservazioni, come quelle appena ricordate delle attese e dei viaggi a vuoto, che non sarebbero state molto gradi­te al suo confessore, ma egli le annotava pur sapendo che l’interessato le avrebbe lette. Tuttavia questo parti­colare aspetto delle sue relazioni con il confessore era materia secondaria ed episodica. L’essenziale, insisteva il Fondatore, era “compiere la Volontà di Dio, manifesta­ta chiarissimamente sulla sua Opera” 144.

Negli ultimi giorni del ritiro a Segovia meditò sulla Passione e Resurrezione del Signore, non senza che il diavolo - “ il tignoso” - gli facesse passare un brutto momento con i suoi imbrogli nella notte tra la domenica e il lunedì:

“Ieri sera il demonio, che se ne va a spasso per la mia cella, tornò a rimestare cose passate. Ho passato un brutto momento. E anche questa mattina. Te lo offro, Dio mio, come espiazione. Ma sono debole, non posso nulla, non valgo nulla: non mi lasciare. Afflitto, ho avuto un colloquio con mio Padre Giovanni della Cro­ce: così mi tratti in casa tua? Come permetti che il ti­

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l

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gnoso mortifichi i tuoi ospiti? Credevo che tu fossi più accogliente...”145.

*

Al ritiro si era portato dei quesiti di coscienza ai quali era necessario dare risposta quanto prima, dato che in­cidevano sulla sua dedicazione all’Opera. Il primo che si pose fu quello degli studi: “Devo fare il Dottorato in Di­ritto civile e in Sacra Teologia?” 146. Per maggiore chia­rezza di analisi decise di trascrivere e numerare le ragio­ni prò o contro. Ne trasse il proposito di presentare la tesi in Diritto e di ottenere il Dottorato in Sacra Teolo­gia nel 193 3147.

Passò al secondo quesito: “ Conviene che io faccia dei concorsi, per esempio a qualche cattedra universita­ria?” . Dopo avere discusso animatamente con se stesso, scrisse: “Ragioni a favore: onestamente non ne vedo” . E non le vedeva in quanto era fermamente persuaso che Dio non aveva bisogno di questo per costruire la sua Opera: “ Cercare un’occupazione civile, visto quanto detto fin qui, sarebbe dubitare della divinità dell’Opera, che è il mio fine sulla terra”148.

D’altra parte, tutto sembrava sconsigliare la cattedra. Benché propendesse per il Diritto canonico, materia sul­la quale aveva lavorato nei suoi ultimi anni di docenza a Saragozza e a Madrid, la preparazione avrebbe richiesto molti anni e molto studio. Questo senza pensare all’a­spetto economico: come avrebbe mantenuto, nel frat­tempo, la famiglia?

Per il “contro” stavano anche ragioni soprannaturali di gran peso. Dedicarsi a una cattedra significava rubare tempo all’Opera di Dio. La sua vocazione gli richiedeva una disponibilità totale: “Essere solo, esclusivamente - e sempre - sacerdote: padre direttore di anime, nascosto, sepolto in vita, per Amore” 149.

Lasciò per ultimo il più delicato dei problemi, poiché era una faccenda in cui erano coinvolte altre persone. Si

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trattava “della famiglia, la mia famiglia” . Don Norber­to gli aveva dato su questo punto una nota perché la meditasse. Don Josemarìa andò a considerare la que­stione accanto al Tabernacolo: “Vediamo che cosa dice Gesù!” 150. Don Josemarìa vide che l’appunto di don Norberto inquadrava il tema “tutto sul piano divino” . Adduceva solamente ragioni soprannaturali, inconfuta­bili ma, in un certo senso, disumanizzate, dato che, nel suo caso particolare, gli richiedevano di scrollarsi di dosso ogni affetto verso i propri consanguinei.

Mettendo al di sopra di ogni altra considerazione l’in­quadramento “ sul piano divino” come base della sua analisi, don Josemarìa passò in rivista serenamente i fat­ti e le ragioni che avevano presieduto lo svolgimento della sua vita e di quella della sua famiglia. Davanti a lui sfilarono i ricordi, netti e talvolta brutali: il sacrificio dei genitori per dargli una buona educazione dopo la rovi­na familiare; le speranze che avevano riposto in lui e il “danno economico” comportato dalla sua scelta per il sacerdozio; l’aver aggravato la situazione della famiglia nel rifiutare un incarico ecclesiastico per seguire la “pazzia divina” 151. Arrivò così alla conclusione che la “maniera pratica” di proteggere la sua famiglia era di lasciar agire il Signore:

“Le cose di Dio si devono fare alla maniera divina. Io sono di Dio, voglio essere di Dio. Se lo sarò veramente, Egli - senza indugio - sistemerà tutto, premiando la mia Fede e il mio Amore, e il silenzioso e per nulla piccolo sacrificio di mia madre e dei miei fratelli. Lasciamo che operi il Signore”152.

Prima di terminare gli esercizi, si tracciò un “pro­gramma minimo di vita spirituale” che comprendeva di­verse pratiche: il breviario, un’ora di orazione al matti­no e un’altra la sera, mezz’ora di ringraziamento dopo la Messa; recita del santo rosario, rivivendone le scene;

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esami di coscienza a mezzogiorno e la sera; visita al San­tissimo; preci dell’Opera; lettura del Nuovo Testamento e di qualche altro libro spirituale. A questo programma aggiunse un foglio di “Propositi” , quali il “non disprez­zare le cose piccole, invocare il mio Angelo Custode, ac­quisire un contegno grave e modesto, ecc.” Tutto questo unito a nuove mortificazioni corporali: cilicio quotidia­no; dormire per terra tre volte alla settimana; e digiuno assoluto, senza pane né acqua, un giorno alla settimana.

Infine, prima di lasciare Segovia, fece un’esplicita af­fermazione della sua fede nell’origine soprannaturale dell’Opera, irrobustendo così il suo deciso impegno di donazione:

“Per terminare: sento che, anche se dovessi rimanere so­lo nell’impresa se Dio lo permette, anche se mi trovassi disonorato e povero - più di quanto lo sia ora - e mala­to... non dubiterò né della divinità dell’Opera, né della sua realizzazione! E confermo la mia convinzione che i mezzi sicuri per compiere la Volontà di Gesù, prima di agire e di muoversi, sono: pregare, pregare e pregare; espiare, espiare ed espiare”153.

5. Il lavoro di S. Raffaele

Nel ritiro di Segovia stabilì di non avere davanti a sé che due vie: “La via della Croce: compiere la Volontà di Dio nella fondazione dell’Opera, che mi condurrà alla san­tità (...); e la via ampia - e corta! - della perdizione: compiere la mia volontà”154.

“ Ora, subito, che cosa posso fare io per l’Opera?” , si chiedeva impaziente e deciso a seguire la via della Cro­ce. Fedele al suo motto di utilizzare i mezzi soprannatu­rali (orazione ed espiazione) prima di lanciarsi nell’atti­vità apostolica, fece impressionanti propositi di espiazione di tutti i suoi sensi, interni ed esterni. Il nuo­

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vo elenco di mortificazioni, che completa quello che aveva fissato a Segovia, è del 3 dicembre 1932. Sono nove determinazioni tassative, concrete, precedute da un secco: “Non guardare mai!”155.

Era questa una risposta a una considerazione che aveva fatto il sesto giorno di ritiro: “A che scopo guar­dare” - si chiedeva - “ se il mio mondo sta dentro di me?” 156. Non significava disdegno; era un’intima ri­nuncia ascetica al godimento illimitato della vista, alla curiosità per un’infinità di forme piacevoli, alla diver­sità di luci e colori e alla grazia degli esseri. La decisio­ne di non posare mai la vista su cosa alcuna va intesa, per quanto contiene di olocausto, in rapporto alla viva­cità del suo sguardo, pronto a scoprire le bellezze del mondo esterno, scivolando su di esse come chi accarez­za un fine velluto: “Dio mio!” - si legge in una Caterina del 14 novembre 1932 - “trovo grazia e bellezza in tut­to ciò che vedo; custodirò la vista in ogni momento per Amore” 157. Gli altri propositi costituivano un ampio e fitto programma di mortificazioni dei sensi corporei e delle potenze interiori.

* * *

Fin dal momento della fondazione l’Opera era perfetta­mente “disegnata” 158, ma era necessario compierla con l’apostolato, cercando vocazioni e trasmettendo lo spiri­to proprio dell’Opus Dei. In quel momento don Jose­maria contava su un gruppo di sacerdoti, un altro di giovani e due o tre donne, tutti preparati a rispondere a una chiamata di santità in mezzo al mondo. Aveva an­che altre persone che si dirigevano con lui. Da tempo aveva visto la necessità di organizzare l’apostolato per­sonale che svolgeva con persone tanto diverse fra loro ed era alla ricerca del modo in cui strutturarlo. Nell’in­certezza, pensò di creare un’associazione per studenti universitari, con il nome di Pia Unione di Santa Maria della Speranza159. Finché, giovedì 6 ottobre 1932, men­

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tre faceva orazione nella cappella di S. Giovanni della Croce, durante il suo ritiro spirituale di Segovia, ebbe “la mozione interiore di invocare per la prima volta i tre Arcangeli e i tre Apostoli” : S. Michele, S. Gabriele e S. Raffaele; S. Pietro, S. Paolo e S. Giovanni160. Da quel momento li considerò Patroni dei diversi campi aposto­lici che compongono l’Opus Dei.

Sotto la protezione di S. Raffaele sarebbe stato messoil lavoro di formazione cristiana della gioventù; le voca­zioni per l’Opera che ne fossero venute sarebbero state poste sotto la protezione di S. Michele, allo scopo di formarle spiritualmente ed umanamente. I padri e le madri di famiglia che avessero partecipato alle attività apostoliche o entrassero a far parte dell’Opera avrebbe­ro avuto per Patrono S. Gabriele.

Ultimamente era giunto alla conclusione che l’aposto­lato con i giovani non doveva essere organizzato in un’associazione, bensì svolgersi in un’istituzione di do­cenza privata; per esempio, un’accademia161. Ma prima si verificò un cambiamento nella vita di don Josemarìa che, pur avendo a prima vista poco a che vedere con il lavoro di S. Raffaele, è decisamente collegato all’inizio della formazione dei giovani studenti.

“Dopo aver fatto insistente orazione al Signore” - si leg­ge in un’annotazione del 9 dicembre 1932 - “trovai in modo provvidenziale un appartamentino decente per vi­verci con la mia famiglia. Deo gratias. Ho chiesto un credito alla Corporazione per pagarlo, come l’altro, in un anno. Così posso cambiare casa”162.

L’appartamento era un piano nobile a sinistra, al nu­mero 4 di via Martìnez Campos. Il costo era di 1380 pesetas l’anno, in mensilità anticipate163. Aveva sicura­mente dei vantaggi se don Josemarìa intonò il Deo gratias. Di nuovo la signora Dolores fece un trasloco. Questa volta in un appartamento ampio, dove avreb­

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bero fatto miglior figura le sue capacità, perché in via Viriato non c’era posto neppure per le sedie. Fu così che, senza aspettare di avere un’accademia, don Jose­maria incominciò a riunirsi con sacerdoti e studenti; si incontravano ed egli dava loro delle conversazioni di formazione.

Le 1380 pesetas che s’impegnò a pagare annualmente non ci autorizzano a presumere un miglioramento nella situazione economica degli Escrivà. E sufficiente il se­guente episodio, accaduto pochi giorni dopo la firma del contratto di affitto:

“Ieri si è fermato il mio orologio da tasca” - scrisse don Josemaria -. “La faccenda era piuttosto complessa, per me: perché non ho un altro orologio e perché il mio ca­pitale ammonta, oggi, a settantacinque centesimi (...). Parlando con il mio Signore gli suggerii che fosse il mio Angelo Custode, al quale Egli ha dato più arte che a tutti gli orologiai, a sistemare il mio orologio. Sembrò che non mi avesse ascoltato, dato che mi misi a muove­re, a toccare e ritoccare, invano, l’orologio guasto. Al­lora (...) mi sono inginocchiato e ho iniziato un padre­nostro e un’avemaria, che forse non arrivai neppure a finire, perché ho preso di nuovo l’orologio, ho toccato le lancette... e si è messo in moto! Ho ringraziato il mio buon Padre”164.

(A quanto sembra, non si trattava di un caso isolato o fortuito. Il suo Angelo custode se la cavava con la mec­canica: “D’ora in poi lo chiamerò l’orologiaio” , scris­se165. All’angelo, sicuramente, non mancò il lavoro, per­ché passarono diversi mesi prima che don Josemaria potesse pagarsi la sistemazione dell’orologio).

La povertà - “mia gran signora” , la chiamava - pre­siedeva tutta la sua vita e così pure gli inizi del lavoro diS. Raffaele, l’apostolato con i giovani. Il contratto d’af­fitto era del 10 dicembre. Vediamo ora come stava a de­naro alla fine di novembre.

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In quei giorni, sulla porta di una scuola del “Patrona­to de Enfermos” , trovò un’immagine della Madonna Immacolata, buttata via e sporca di fango. Don Jose­maria era solito raccogliere le immagini sacre trovate per strada, per bruciarle poi a casa; ma questa la raccol­se con il presentimento che si trattasse di un’offesa, di una pagina di catechismo strappata per odio. “Perciò” - scrisse in una Caterina - “non brucerò la povera imma­gine - una pessima stampa, su carta brutta e lacerata -; la conserverò, la metterò in una bella cornice, quando avrò denaro... e chi mi dice che non si darà culto di amore e riparazione, con il tempo, alla “Madonna del Catechismo ” ! ” 166.

Il 2 dicembre, una settimana prima di prendere in af­fitto il nuovo appartamento, senza denaro per una pic­cola cornice, passava in rassegna la propria povertà evangelica, senza lamenti né vanità:

“Mi trovo - più che mai - senza un centesimo. La nostra povertà (mia gran signora, la povertà) è identica, da al­cuni anni, a quella di quanti chiedono l’elemosina per strada. Ci nutre e ci veste (senza nulla di superfluo e an­che senza alcune cose necessarie) nostro Padre che sta nei cieli, lo stesso che nutre e veste gli uccelli, secondo quanto dice il Santo Vangelo. Non mi preoccupa per niente, per niente, per niente questa situazione economi­ca. Siamo abituati a vivere di miracoli”167.

Ottenne un credito per l’appartamento e una cornice per la stampa. In cambio di questo favore e omaggio, chiese alla Madonna che gli procurasse una catechesi. La Madonna non si fece pregare molto.

Don Josemaria conosceva bene i quartièri fra Tetuàn de las Victorias e l’Ospedale del Re. Gruppi di baracche, disseminate fra miserabili casupole, formavano “ La Ventilla” o “Barriada de los Pinos” 168. Nel 1927 le Mis­sionarie della Dottrina Cristiana avevano costruito a

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Los Pinos la Scuola del Divino Redentore per i bambini di quella povera gente. La scuola era in un avvallamento del terreno; quando pioveva vi affluivano a torrenti tut­te le acque dei dintorni.

«Una mattina, che ricordo molto bene - racconta suor San Paolo - perché c’era stata un’abbondante nevicata e tutto era coperto di bianco, dalla sala di ricreazione del­la Comunità, che si trovava al piano superiore, vedem­mo avvicinarsi alla scuola due sacerdoti vestiti con tona­ca e mantello. Era mattina presto, perché si vedeva ancora tutto bianco e pulito; poi si trasformava tutto in un pantano. Era don Josemarìa - accompagnato da un altro sacerdote che si chiamava don Lino - che veniva a chiederci che gli lasciassimo organizzare una catechesi nella scuola»169. Questa visita fu martedì 17 gennaio, come si legge negli Appunti:“19 gennaio 1933 (...) Domenica scorsa sono andato a Pinos Altos o Los Pinos, dove si trova una scuola di reli­giose, nella quale terremo dal prossimo 22 la nostra ca­techesi. Martedì, nonostante la grande nevicata, andam­mo Lino e io a vedere il locale e a salutare le suorine, che hanno molto buono spirito, e il cappellano. Si meravi­gliarono di vederci arrivare in mezzo alla neve: con così poco ci siamo guadagnati il Signore”170.

Il gruppo dei seguaci di don Josemarìa si era allora molto assottigliato. Alcuni avevano lasciato Madrid; al­tri avevano patito “malattie e tribolazioni” ; altri ancora si erano stancati di seguirlo perché avevano “una vo­lontà che non vuole” 171. In tali circostanze fu provvi­denziale l’arrivo di uno studente di Medicina che si chiamava Juan Jiménez Vargas. Don Josemarìa parlò con lui un paio di volte. Nel secondo colloquio, il 4 gen­naio 1933, aprì allo studente il panorama soprannatu­rale dell’Opera. Dietro a questa vocazione vennero alcu­ni amici. Gli amici di Juan erano gente con ardore patriottico, assidui alle riunioni di propaganda politica

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che solitamente si svolgevano alla domenica, proprio il giorno della catechesi. Qualcosa calmò i bollori di que­gli intrepidi attivisti, tanto da far loro pensare di essere più utili nella catechesi che negli incontri politici. La pri­ma visita al rione Los Pinos fu fissata per domenica 22 gennaio.

Frattanto don Josemaria aveva già iniziato a lavorare le anime di quel gruppo di studenti. Sabato 21 gennaio Juan si presentò con due amici affinché don Josemaria desse loro una lezione di formazione religiosa. La riu­nione ebbe luogo nell’asilo di Porta Coeli, in una sala ceduta loro dalle suore:

“Sabato scorso, con tre ragazzi e a Porta Coeli, ho dato inizio, grazie a Dio, al lavoro patrocinato da S. Raffaele e S. Giovanni. Dopo la conversazione, ho fatto l’esposi­zione minore e ho dato loro la benedizione con il Signo­re. Ci riuniremo il mercoledì”172.

Juan fu impressionato dalla fede e dalla devozione che trasparivano dai gesti e dalle preghiere liturgiche, «soprattutto dal suo modo di tenere in mano l’osten­sorio e di impartire la Benedizione»173. Alcuni anni più tardi, il sacerdote avrebbe spiegato dove stava andan­do il suo pensiero mentre dava la benedizione con il Santissimo:

“Finita la lezione, andai in cappella con quei ragazzi, presi il Signore sacramentato nell’ostensorio, lo alzai, benedissi quei tre..., e ne vedevo trecento, trecentomi- la, trenta milioni, tremila milioni..., bianchi, neri, gial-. li, di tutti i colori, di tutte le combinazioni che l’amore umano può fare. E mi sono sbagliato per difetto, per­ché tutto è diventato realtà nel giro di quasi mezzo se­colo. Mi sono sbagliato, perché il Signore è stato molto più generoso”174.

* * *

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Don Gabriel, il cappellano della scuola (era nella loca­lità chiamata Arroyo), era solito celebrare la Messa alle undici per tutti i partecipanti alla catechesi. Gli studenti venivano a gruppi dal rione di Tetuàn per incontrarsi lì con don Josemaria e con don Lino, che a turno spiega­vano la dottrina. Finita la Messa, cominciavano le lezio­ni di catechismo175.

Andare ad Arroyo era di per sé un atto di eroismo, per l’evidente ostilità del quartiere, come prova un sel­vaggio attentato riferito da suor San Paolo: «Un giorno,il 4 maggio 1933, la scuola fu assaltata da un gruppo di uomini, che irrorarono di benzina alcune parti della ca­sa per appiccarvi il fuoco, mentre delle donne scalmana­te gridavano: “Non ne scampi nessuna; sono otto, am­mazzatele tutte” . Intervennero in tempo le guardie di pubblica sicurezza, evitando l’incendio»176.

Don Josemaria si occupava anche di altre catechesi, poiché andava spesso a confessare e a spiegare il cate­chismo ai bambini orfani di Porta Coeli, dove le suore dell’asilo gli avevano concesso il locale per riunirsi con gli studenti. Di quel gruppo di studenti qualcuno veniva invitato alle riunioni del mercoledì, anche con la speran­za che ne uscissero delle vocazioni, sia per il lavoro di S. Gabriele (padri di famiglia) sia per quello di S. Michele (vocazioni al celibato apostolico)177.

A titolo di lezione privata don Josemaria faceva allo­ra anche catechesi ai Sevilla. Questa famiglia era costi­tuita dalla prole di due fratelli vedovi, che avevano ri­mediato alla loro triste situazione familiare mettendo insieme tutti i propri figli e formando un’unica fami­glia, della quale si fece carico una sorella nubile, Maria Pilar Sevilla. In casa abitavano quattordici persone, compresi i domestici. La zia Pilar concertò con il sacer­dote una lezione di religione alla quale assistevano quattro o cinque bambini e le ragazze di servizio. Du­rante il 1932 e il 1933, queste lezioni avevano luogo «due volte alla settimana, mercoledì e sabato, tra le

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cinque e le sei del pomeriggio»178. Le lezioni erano molto amene. I piccoli si sedevano a semicerchio e don Josemaria metteva davanti a loro un libro di testo su un tavolino basso. Quando faceva riferimento alle illustra­zioni, le testoline dei bambini si accostavano, curiose, sopra le figure. Altre volte parlava loro dell’infanzia del Bambino Gesù o raccontava loro delle storie di quando lui era piccolo. L’uditorio non si rassegnava che le le­zioni durassero così poco. «Non se ne vada, don Jose­maria! - ripetevamo tutti i giorni, come raccontò Seve- rina, che assisteva alle lezioni con i bambini e che più avanti si fece suora con il nome di suor Benita Casado -. Che fretta ha? Perché tanta fretta?»179.

L’assalto alla scuola di Arroyo non fu un fatto isolato.Il 1933 era iniziato all’insegna della violenza, frutto del­la demagogia. La sollevazione rivoluzionaria anarchica, preceduta da scioperi e atti di terrorismo, era fissata per l’8 gennaio. Quel giorno ci fu un vistoso spiegamento del più scontato repertorio rivoluzionario. Esplosero delle bombe. Ci furono sparatorie con la forza pubblica e tentativi di assalire alcune caserme. E non mancarono incendi, assassinii e disordini di ogni genere in diverse città e paesi di tutta la Spagna. Un buon numero di anarcosindacalisti finì nel Carcere Modello, in bracci di­versi da quelli dove si trovavano José Antonio Palacios ei suoi compagni; tutti però si ritrovavano a passeggiare e a prendere aria nello stesso cortile.

Quando don Josemaria andò a far visita ai giovani re­clusi dell’estate li trovò restii a convivere con persone così contrarie alla religione. Il sacerdote consigliò loro il rispetto; la cosa migliore era mostrare loro con affetto dove sbagliavano e trattarli amichevolmente. “Ripassa­te il catechismo” - insisteva -; “ la dottrina di Cristo è chiara: amate questi uomini come voi stessi” 180. E portò loro in carcere dei catechismi perché li rileggessero. Do­po alcuni giorni di pacifica convivenza, misero in prati­ca i suoi consigli, come racconta José Antonio: «Orga­

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nizzammo delle partite di calcio mescolandoci tra noi. Ricordo che io giocavo in porta e i miei terzini erano due anarcosindacalisti. Non ho mai giocato al calcio con più eleganza e minor violenza»181.

6. Una disorganizzazione organizzata

Il 16 febbraio 1933 si compiva un anno della locuzione avuta alla balaustra di Santa Isabel. “Dio mio” - escla­mava don Josemarìa a quel ricordo “come mi duole la frase le opere sono amore, non i bei ragionamen- ti!1S2. Si sapeva, e si sentiva, nelle mani del Signore in maniera privilegiata, in continua orazione giorno e not­te (dono che si prolungò per tutta la sua vita), salvo quando il Signore interrompeva momentaneamente questa grazia. Sperimentava allora il peso morto della propria volontà:

“Ci sono momenti” - annotava il 24 novembre 1932 - “in cui, privato di quella unione con Dio che mi dava orazione continua, anche nel sonno, mi sembra di resiste­re alla Volontà di Dio. E debolezza, Signore e Padre mio, lo sai bene: amo la Croce, la privazione di tante cose che tutti ritengono necessarie, gli ostacoli per fare l’Opera, la stessa mia piccolezza e la mia miseria spirituale”183.

Non era forse una divina pazzia intraprendere la con­quista del mondo intero senza mezzi materiali? E, scri­vendo questa Caterina, si guardava intorno nella sua in­grata cameretta di via Viriato, che gli richiamava alla mente il luogo dove ebbe origine il Don Chisciotte. («Un carcere - dice Cervantes - dove ogni scomodità trova posto e dove ogni triste rumore sta di casa»). Per­ché, che cosa valeva lui, Signore?

“Nulla, al confronto del fatto meraviglioso che ciò si­gnifica: uno strumento poverissimo e peccatore che

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progetta con la tua ispirazione la conquista del mondo intero per il suo Dio, dal meraviglioso osservatorio di una stanza interna di una casa modesta, dove ogni sco­modità materiale ha la sua dimora. Fiat, adimpleatur. Amo la tua Volontà (...), sicuro - sono tuo figlio - che POpera si manifesterà presto e secondo le tue ispirazio­ni. Amen. Amen”184.

Sapendosi scelto senza alcun merito per un’impresa divina, così annotava durante il ritiro di Segovia:

“Dio non ha bisogno di me. È una misericordia amoro­sissima del suo Cuore. Senza di me l’Opera andrebbe avanti, perché è sua e susciterebbe un altro o altri, come trovò i sostituti di Eli, di Saul, di Giuda...”185.

Presto gli si presentò un’altra occasione del tutto par­ticolare per dimostrare la sua fedeltà assoluta ai piani di Dio. Dopo due anni di soprusi e di sfacciata persecu­zione alla Chiesa, i cattolici spagnoli cominciarono a reagire. Àngel Herrera, sino ad allora direttore di “El Debate” (Il Dibattito), il più influente quotidiano cat­tolico, progettava di creare un centro di formazione per sacerdoti, dal quale sarebbero usciti i futuri Assistenti ecclesiastici dell’Azione Cattolica spagnola. Angel Her­rera era allora presidente dell’Azione Cattolica e cerca­va sacerdoti di prestigio per dirigere le anime. Don Pe- dro Cantero gli parlò di don Josemaria, al quale il presidente espose i propri progetti sul centro di forma­zione. Restarono d’accordo di rivedersi P II febbraio. Della conversazione intercorsa don Josemaria fece il se­guente riassunto:

“Il Signor Herrera mi ha offerto la formazione spirituale dei sacerdoti selezionati dagli illustrissimi Prelati spa­gnoli, che si riuniranno a vivere in comunità a Madrid (nella parrocchia di Vallecas), allo scopo di ricevere que­sta formazione e la preparazione sociale che darà loro

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un Padre Gesuita (me ne disse il nome: non lo ricordo). Gli dissi che l’incarico non era adatto a me: perché que­sto non è nascondersi e scomparire. Che misericordioso è il Signore nel mettere nelle mie mani un incarico così! Nelle mie mani che non hanno mai ricevuto - lo posso dire - neppure l’ultima nomina ecclesiastica!”186.

Herrera non si diede per vinto, ma don Josemaria de­clinò anche altre richieste incompatibili con la completa dedizione all’Opera.

“Mi chiese di predicare gli esercizi a un gruppo di giova­ni (propagandisti), ma mi scusai, adducendo che non ho formazione e che sono occupato in altre cose che non mi consentono di farlo (...). Insistè molto sul fatto che dob­biamo rivederci”187.

Di ritorno a casa, raccontò per sommi capi il collo­quio, accennando alla speranza di ottenere qualche al­tro posto in futuro. «Che ti diano una cosa che serva per fare molto bene alle anime, ma che sia lucrativa», gli suggerì suo fratello Santiago188.

La meraviglia di Angel Herrera fu probabilmente maggiore di quella di don Pedro Poveda il giorno che don Josemaria ricusò l’offerta di diventare Cappellano Onorario della Casa Reale. L’incarico nell’Azione Cat­tolica non era un semplice riconoscimento onorifico; voleva dire mettere nelle sue mani la direzione spiri­tuale di un gruppo di anime selezionate e vedere rico­nosciute le proprie doti personali davanti alla Gerar­chia spagnola189.

* * *

Dopo gli eventi dell’agosto 1932, la vigilanza della poli­zia e il controllo su ogni genere di riunione diventavano sempre più stretti. Ora che don Josemaria aveva un gruppo stabile di giovani che lo seguivano, gli era im­prescindibile un tetto che proteggesse legalmente le sue

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attività apostoliche e formative. La cosa migliore sareb­be stata un’accademia di insegnamento: conclusione al­la quale giunse dopo aver respinto, come abbiamo det­to, l’idea di una Fraternità di studenti190. In quel momento l’Opera non aveva bisogno di una struttura giuridica. La sua dinamica apostolica rispecchiava la realtà stessa della vita, per cui il Fondatore arrivò a defi­nirla “una disorganizzazione organizzata” 191.

Ne frequentavano gli apostolati persone differenti per stato civile, professione, età e altre circostanze persona­li. Tra di loro e l’Opera non esisteva alcun legame giuri­dico, ma dei doveri di servizio e di fedeltà accettati libe­ramente, di buona voglia, fino a dove arrivava la risposta generosa alla vocazione divina. Accanto a que­sta disorganizzazione stavano i compiti apostolici, arti­colati sotto l’invocazione dei tre Arcangeli e con la coe­sione interna propria dello spirito dell’Opera, il cui nocciolo consisteva nella santificazione del lavoro e nel­l’apostolato attraverso l’esercizio della professione.

Le ultime vocazioni ammesse erano la riprova dell’or- ganizzata diversità dell’impresa di don Josemarìa. Juan Jiménez Vargas, che chiese l’ammissione il 4 gennaio1933, era studente. Jenaro Làzaro, che ricevette la voca­zione la vigilia del colloquio di don Josemarìa con il presidente dell’Azione Cattolica, era scultore: “Un uo­mo fatto, artista e impiegato alle Ferrovie” . La terza vo­cazione di quel periodo giunse l’i l febbraio. La sua sto­ria risaliva all’epoca del “Patronato de Enfermos” , quando il cappellano, dal suo confessionale, vedeva un giovane entrare in chiesa ogni mattina. Si salutavano; si riconoscevano per strada, ma senza arrivare mai a par­larsi. Finché il sacerdote si decise a fare un passo avanti, raccontato in data 25 marzo 1931:

“Oggi, 25, festa dell’Annunciazione della Madonna, conla mia apostolica sfacciataggine (audacia!), mi sono ri­volto a un giovane che fa ogni giorno la Comunione nel­

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la mia chiesa, con molta pietà e raccoglimento, e - aveva appena ricevuto il buon Gesù - gli ho detto: “Senta, avrebbe la carità di pregare un po’ per una intenzione spirituale per la gloria di Dio?” “Sì, padre”, ha risposto, e mi ha pure ringraziato! La mia intenzione era che lui, così devoto, fosse scelto da Dio come apostolo nella sua Opera. Già altre volte, vedendolo dal mio confessionale, avevo chiesto la stessa cosa al suo Angelo custode”192.

Due anni dopo, l’Angelo custode aveva adempiuto al suo incarico nei confronti dell’ex studente, ora professo­re in una scuola di Linares, un paese dell’Andalusia:

“Il Signore, attraverso l’Angelo Custode, ci ha portato, nel giorno dell’immacolata di Lourdes, questo giovane: è José Maria Gonzàlez Barredo. 1933 ”193.

“L’Opera cresceva al di dentro, non ancora nata, in ge­stazione” 194. Finché non fosse arrivato il momento di spuntare al di fuori, don Josemaria si dedicava a far cre­scere la fraternità tra i membri dell’Opera e a dare loro una formazione apostolica. Oltre a questo lavoro, oscu­ro e silenzioso, il suo ottimismo soprannaturale apriva orizzonti a un futuro in cui sembrava già saldamente in­serito. “In tutte le nostre case, in un posto ben visibile”- aveva scritto il 23 agosto 1932 - “si metterà il verset­to del capitolo 15 di S. Giovanni: Hoc est praeceptum menni ut diligatis invicem sicut dilexi vos” 195. Aveva for­se già un’idea di quando queste case avrebbero incomin­ciato a funzionare? Frattanto non sentiva premura di riunirsi con la sua gente nelPintimità? E la “disorganiz­zazione organizzata” non richiedeva a gran voce una vi­ta in famiglia?

Don Josemaria prese in affitto l’appartamento di Martinez Campos con l’idea di non dover ricorrere a case altrui per le riunioni con gli studenti o con i sacerdoti. In attesa dell’agognata accademia, la casa della signora Do­

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lores fece da sede dell’Opera. Nel pomeriggio del 19 mar­zo 1933 gli Escrivà attendevano, con una certa impazien­za, che venissero i giovani di don Josemaria a invadere l’appartamento. La circostanza fu solennizzata con una merenda in stile familiare, alla quale non mancarono dei pasticcini inviati dalla madre di don Norberto196.

Lì, nell’appartamento di via Martinez Campos, si fece un intenso apostolato, anche se non sempre la famiglia degli Escrivà poteva contare sulla disponibilità econo­mica necessaria per prendersi cura del gruppo di giovani che affluivano, invitati da don Josemaria. In casa della signora Dolores si davano lezioni di formazione e circo­li di studio. Si facevano simpatiche chiacchierate presie­dute da don Josemaria il quale alla fine, prima del com­miato, leggeva il Vangelo del giorno da un messale grande e faceva loro un incisivo commento con parole semplici ma che gli venivano dal profondo del cuore. «Il Padre - dice Juan Jiménez Vargas, che era uno dei pre­senti - conosceva il Vangelo molto bene e aveva fatto molta orazione sul Vangelo»197.

In quelle riunioni c’era calore di famiglia. Don Jose­maria si sforzava di far loro capire con l’esempio che cosa significava la vita in famiglia dell’Opera. «Sua ma­dre e i suoi fratelli - dice Jenaro Làzaro - collaboravano di buon grado a questo compito». Con una certa fre­quenza gli Escrivà li invitavano a prendere qualcosa. Il tono di distinzione della casa, la cortesia e l’amabilità con cui Carmen e la signora Dolores offrivano quelle merende, «non permetteva di rendersi conto a prima vi­sta del fatto che quegli inviti comportavano un autenti­co sacrificio»198. (Questa però è una riflessione successi­va di Juan Jiménez Vargas, il quale, come tutti gli altri, ammazzava l’appetito a spese della dispensa della signo­ra Dolores. Uno degli ospiti, José Ramón Herrero Fon­tana, udì una volta Santiago Escrivà, ancora bambino, dare sfogo ad alta voce alle proprie preoccupazioni: «I ragazzi di Josemaria si mangiano tutto»)199.

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In via Martmez Campos il sacerdote riceveva anche molte altre visite. In casa di Pepe Romeo incontrò un giorno Ricardo Fernàndez Vallespin, al quale mancava un anno per diventare architetto e che per guadagnare qualcosa, dava lezioni private ad altri studenti. Don Jo­semaria diede appuntamento in via Martmez Campos a Ricardo, il quale vi si presentò alla data stabilita, con l’animo un po’ sospeso e il presagio che la visita avrebbe avuto «una grande influenza» sulla sua vita. «Mi parlò delle cose dell’anima», ricorda, senza precisare meglio,lo studente. Accomiatandolo, il sacerdote gli regalò un libro sulla Passione di Cristo, sulla cui prima pagina scrisse una dedica:

+ “Madrid, 29-V-33 Cerca Cristo Trova Cristo Ama Cristo”200.

Fu allora che dovette prendere corpo il progetto del- l’agognata Accademia per sviluppare l’apostolato con gli studenti, a quanto si deduce dal colloquio che don Josemaria ebbe con Manolo Sainz de los Terreros. «In­torno alle sette e mezza - racconta questo giovane stu­dente - me ne andai tutto tranquillo in via Martmez Campos, n. 4, per incontrare “quel signor Sacerdote che voleva parlarmi dell’Accademia” . Quanto ero lontano dal prevedere... tutto quello che sarebbe successo!». La prima impressione che produsse in lui quel sacerdote -lo dichiara lui stesso - fu «una inclinazione, una parti­colare simpatia, un desiderio di confidarmi quale non ho mai sentito con altri»201. Fu così che amabilmente gli aprì la propria anima «senza lasciare nulla di nascosto».

* * *

Parte dell’ “ organizzazione” nell’Opera consisteva nel- l’assoggettarsi a determinate pratiche di vita cristiana.

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Attraverso la direzione spirituale, don Josemaria trac­ciava un programma giornaliero di norme fondamentali per alimentare la vita di orazione durante la giornata, quali la meditazione, la santa Messa, gli esami di co­scienza, la lettura del Vangelo e la visita al Santissimo Sacramento. Inoltre, i membri dell’Opera aggiungevano a queste norme alcune consuetudini e preghiere, come il recitare insieme le Preci delPOpera nelle quali, con brevi espressioni prese dalla liturgia della Chiesa e dalla Sacra Scrittura, si prega per le necessità dell’Opus Dei e dei suoi membri. Era stato il “primo atto ufficiale” , avve­nuto già nel dicembre 1930202.

Il piano di vita non si esauriva in un semplice elenco di pratiche di pietà, ma fondeva, in unità di vita, l’asce­tica propria del cristiano con l’esercizio della professio­ne. Perché, in virtù dello spirito proprio dell’Opus Dei, si tendeva a far sì che l’attività professionale dei suoi membri - un altro modo di fare orazione - sfociasse nel­l’apostolato; e l’apostolato esigeva il supporto di un’in­tensa vita di orazione. In questo modo, alle pratiche ascetiche che richiedevano un tempo fisso, si aggiunge­vano tutte le altre (esami, giaculatorie, atti di presenza di Dio, di riparazione o di considerazione della filiazio­ne divina) che servivano a mantenere sempre operante la vita contemplativa.

Nel febbraio 1933 il Fondatore ritenne che fosse arri­vato il momento di stabilire un piano unitario: “Voglio stabilire un piano di vita al quale assoggettarci tutti nel- l’Opera” - scrisse il 14 febbraio - “e obbligarci ufficial­mente a compierlo da quest’anno dal giorno di S. Giu­seppe, nostro Padre e Signore”203.

Nel mese successivo aveva già redatto delle “Norme provvisorie” , che distribuì subito ai suoi, non senza averne prima sperimentato l’adattabilità e la compatibi­lità con il genere di vita che conducevano le persone del­l’Opera. Alcune cose, come il commento del Vangelo prima di ritirarsi alla sera, erano di fatto già vissute da

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quando don Josemarìa riuniva i giovani studenti in casa della madre, in via Martìnez Campos204.

L’importanza di questo passo non consisteva nel fatto che le norme fossero una novità, bensì che la loro prati­ca venisse fatta propria dai membri dell’Opera, che si proponevano di viverle in modo stabile, armonicamente fuse con un lavoro assiduo nel corso della giornata. Mantenendo quindi l’unità di vita contemplativa in mezzo ad ogni genere di attività, facilitando così la pra­tica delle virtù, da quelle teologali fino a quelle cosid­dette naturali o umane (sincerità, ottimismo, fedeltà, al­legria, ecc.).

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NOTE CAPITOLO VII

1 II venerabile Bernardino de Obregón aveva fondato l’Ospedale dei Con­valescenti in via Fuencarral. Con l’esperienza assistenziale acquisita sug­gerì al Re la creazione di un Ospedale Generale, la cui amministrazione fu affidata a una Giunta di persone illustri e pie, presieduta da un ministro del Tribunale del Consiglio della Castiglia; esso si mantenne con donativi, elemosine e, più tardi, con rendite del Tesoro e della Municipalità di Ma­drid. Questa regia fondazione potè contare su importanti donativi e legati di Filippo II, Filippo III, Filippo V, Ferdinando VI (che fece dono della Plaza de toros di Madrid), Carlo III e Ferdinando VII. All’epoca, l’ospe­dale fu una vera rivoluzione per il mondo della sanità e fu uno dei miglio­ri ospedali d’Europa.Filippo III assistè ai funerali di Fra’ Bernardino de Obregón e ne sollecitò il processo di beatificazione.Cfr Memoria delVEcc.mo Governo Provinciale di Madrid. Il lavoro di sei anni: 1924-1929, Madrid 1929, pp. 17-23; cfr anche Come io vi ho ama­to, organo della Congregazione di laici di S. Filippo Neri (Fratelli dell’O- spedale), Madrid, 14-V-1967, n. 1, pp. 31-33.2 I lavori, secondo il progetto fatto da Herrera per incarico di Filippo II, furono sospesi per una causa intentata davanti alla Santa Sede, che si ri­solse dopo ottant’anni, cosicché la costruzione fu eseguita durante il re­gno di Ferdinando VI e terminata dagli architetti di Carlo III, Hermosilla e Sabatini.Alla Facoltà di Medicina era annesso un Policlinico, che nel 1931 occupa­va un’ala dell’Ospedale Generale ed era stato ceduto allo Stato con una convenzione secondo il Regio Decreto del 24-XII-1903 (Cfr Memoria del­VEcc.mo Governo Provinciale di Madrid, cit., p. 17).La monumentale costruzione misurava 24.200 metri quadrati; era di for­ma rettangolare e con spaziose gallerie. Aveva la capacità di 2.000 letti. Negli anni sessanta l’ospedale fu chiuso. Attualmente, parte dell’antico

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edificio dell’Ospedale Generale è stata restaurata per ospitare il Centro culturale Regina Sofia.3 Appunti, n. 731.4 Ibidem, n. 360.5 Cfr El R. R José Maria Escrivà de Balaguer y la Congregación de Herma- nos Filipenses, in Come io vi ho amato, n. 32, Madrid l-X-1975, pp. 5-6. In questo articolo vi sono notizie interessanti circa il ricordo lasciato tra i Filippini dal cappellano delle Agostiniane di Santa Isabel, benché ci siano alcune inesattezze di date. Vi si dice: «Il nostro confratello Antonio Diaz gli diede notizia della nostra esistenza e dei nostri santi esercizi con i mala­ti» (ibidem). Questo dato concorda perfettamente con quanto scritto in Appunti, n. 360; e non è in contraddizione con quanto dichiara un altro te­stimone: attraverso uno studente in medicina, Adolfo Gómez Ruiz, egli si rese conto della situazione in cui si trovava l’ospedale e pensò di collabora­re con la Congregazione dei Filippini per «avere accesso all’ospedale per prendersi cura dei malati e usare la cappella per andarci a fare orazione» (José Romeo, AGP, RHF, T-03809, pp. 7-8). L’informazione avuta da Adolfo Gómez fu evidentemente successiva a quella del sacrestano e pro­babilmente precedente alla prima visita di don Josemarìa, che fu due do­meniche dopo.

Appunti, n. 360.7 Cfr ibidem, nn. 381 e 383. La Congregazione di S. Filippo Neri dei laici servi degli ammalati del Santo Ospedale Generale di Madrid fu fondata nel 1694 e le sue prime costituzioni furono approvate dall’Arcivescovo di To­ledo, nel 1707, poi modificate e approvate di nuovo il 4-V-1745.Questa Congregazione era la continuazione di quella degli “Hermanos Obregones del Hospital” e aveva a disposizione una sala nell’Ospedale. Alla fine del XIX secolo i Filippini furono autorizzati a costruire una cap­pella e alcune sale nel giardino che circonda l’ospedale.Scopo della Congregazione era praticare la carità con i malati, «vedendo in ciascuno l’immagine viva di Cristo, riflettendo che Sua Maestà dice che quanto si fa per loro è fatto a Lui e che offre in premio la sua eterna glo­ria» (Costituzioni della Congregazione del nostro Padre e Patriarca S. Fi­lippo Neri dei Laici, Madrid 1899, p. 22).L’organizzazione di governo era formata da un Fratello Maggiore e da una Giunta degli Anziani. I Fratelli della Congregazione presenti all’Ospedale Generale di Madrid, in quanto laici, dovevano consultarsi in certi casi con due sacerdoti, chiamati Consultori.Nel 1931 i sacerdoti di S. Filippo Neri non risiedevano a Madrid, ma ad Alcalà de Henares e quindi per un certo tempo i Consultori furono sacer­doti secolari di Madrid. Cfr Libro dei Verbali della Giunta degli Anziani della Congregazione, nella sede di via Antonio Arias, n. 17.8 Costituzioni..., cit., cap. 10, p. 2 2 .1 Filippini si occupavano anche di sep­pellire i morti e di distribuire alimenti e vestiario tra i malati, per cui erano noti al popolo come Fraternità della zuppa.

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9 Appunti, n. 647 (annotazione dell’ll-III-1932).10 José Romeo, AGP, RHF, T-03809, p. 8.11 Nonostante l’ottimismo e la prudenza con cui fu redatta la citata Memo­ria del Governo Provinciale di Madrid, basta leggere i problemi originati dalla mancanza di letti nell’Ospedale per avere un’idea delle sue condizioni (cfr ibidem, p. 19). Nei Libri dei Verbali delle Riunioni del Governo di Ma­drid relativi al periodo 1930-1932 (Biblioteca del Municipio di Madrid) si può seguire la descrizione delle “calamità” alle quali si riferisce il Fratello della Congregazione, Patricio Gonzàlez de Canales, nella lettera al Rettore della Basilica di S. Michele del 18-VII-1967, in AGP, RHF, D-15312. Per esempio, ogni giorno scappavano dall’ospedale dieci o dodici malati, dato che i portieri non possono conoscere «le migliaia di malati che ci sono nel­l’ospedale» (Libro 95, f. 219, del 1931); le polemiche a motivo della sosti­tuzione, con delle infermiere, delle Figlie della Carità che lavoravano nel­l’ospedale; o le richieste dei malati di alcune sale di evitare che fossero allontanati i fratelli della Congregazione dì S. Filippo Neri (cfr Libro 96, f. 75, del 29-IX-1932).11 Fondatore a volte parlò “dell’Ospedale Generale di Madrid, poverissi­mo, pieno di malati, di cui molti sdraiati nelle corsie perché non c’erano letti” . Cfr Gonzalo Herranz, Sin miedo a la vida y sin miedo a la muerte (in Memorias..., op. cit., pp. 139-140).12 Cfr El R. R José Maria Escrivà de Balaguer y la Congregación de Her- manos Filipenses, in Come io vi ho amati, n. 32, Madrid l-X-1975, pp. 5- 6 .

13 José Romeo, AGP, RHF, T-03809, p. 8; Jenaro Làzaro, AGP, RHF, T- 00310, p. 1; Alvaro del Portillo, Sum. 263.14 Appunti, n. 433.15 Ibidem, nn. 383 e 433.16 Ibidem, n. 609.17 Ibidem, n. 608.18 Ibidem, n. 609; cfr Alvaro del Portillo, Sum. 262; Javier Echevarria, Sum. 1961.19 José Romeo, AGP, RHF, T-03809, p. 8; José Manuel Doménech, AGP, RHF, T-00872.20 Costituzioni..., cit., p. 26.21 Lettera 15-X-1948, n. 192; Alvaro del Portillo, Sum. 264; Javier Eche­varria, Sum. 1960; episodio riferito in Cammino, cit., n. 626.22 Cfr Libro dei Verbali delle Riunioni del Governo di Madrid, cit., Libro 96, specialmente f. 75, 135,136, 147, 147v, 160v e 162.In Appunti, n. 685, don Josemarìa scrisse: “5 aprile 1932: domenica scorsa ho fatto la professione nella Congregazione di S. Filippo. So che è piaciuto al Signore” .Questa annotazione si riferisce alla cerimonia, dato che di fatto assisteva

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già agli esercizi della Congregazione dal 1931 (cfr ibidem, n. 622). Non si sa comunque con certezza quanto le misure prese dalle autorità dell’Ospe- dale Generale influirono sulla Congregazione di S. Filippo Neri e sui Fra­telli durante il 1933, dato che non si trattava di una congregazione religio­sa ma di una semplice fraternità benefica.23 Cfr lettera di Tomàs Minguez (Fratello Segretario) a don Josemaria, del 10-VI-1934 (in AGP, RHF, D-15312). Secondo le Costituzioni, la Congre­gazione doveva avere due sacerdoti Consultori, senza voce né voto nel go­verno. E possibile, dato che i Padri dell’Oratorio stavano lontano da Ma­drid e il viaggio era assai rischioso, che don Josemaria svolgesse le funzioni di Consultore e dirigesse le preghiere nella cappella nel 1931 e nel 1932. Lo si deduce da quanto afferma il Fratello Patrizio: «Il P. Escrivà prese con­tatto con noi e poco dopo fu nominato P. Consultore» (cfr El R. R José Maria Escrivà de Balaguer y la Congregación de Hermanos Filipenses, in Come io vi ho amati, n. 32, Madrid l-X-1975, pp. 5-6).Da nessuna parte egli afferma di essere stato Consultore, ma il fatto che in una Caterina (in data 21-XI-1932) scrivesse che “P. Sànchez ha nelle sue mani un incartamento che si riferisce alla mia azione nella Congregazione di S. Filippo. Mi attengo all’obbedienza” (Appunti, n. 871); e il fatto che di nuovo il giorno 9-XII-1934 alludesse “alla faccenda dell’Ospedale” (ibi­dem, n. 948) lascia supporre che quando i Padri dell’Oratorio ritornarono a fare i Consultori (cfr José Romeo, AGP, RHF, T-03809, p. 8), ci dovette essere una diversità di opinioni sulla politica da seguire nell’Ospedale a se­guito degli ostacoli frapposti dalle autorità.24 Questa supposizione è suffragata da due note sciolte del 1934, che dicono: “Domenica: Santa Isabel, lezione o catechesi. Pomeriggio, Ospedale. Do­menica: mattina, Ospedale Generale” (Appunti, nn. 1794 e 1796).Gli esercizi della Congregazione si tenevano al pomeriggio nell’Ospedale Generale. Questo sembra indicare che il cappellano di Santa Isabel si pren­desse cura dei malati indipendentemente dagli orari di visita dei Filippini.25 Nella seduta del Parlamento del 22 marzo 1932, in sede di approvazione del bilancio preventivo del Ministero della Giustizia, le spese ecclesiastiche cui far fronte furono ridotte a 26.457.427 pesetas contro le 66.984.509 del preventivo del 1931. Da questo bilancio del culto e del clero dipendeva il personale ecclesiastico secolare, circa 35.000 persone (vescovi, canonici, parroci, coadiutori).26 Cfr A. Valdés, Quincuagésimo aniversario de la muerte de José Maria Somoano Berdasco, in “La Nueva Espana” del 15-VIII-1982.27 Cfr J. Torres Gost, Medio siglo en el Hospital del Rey, Madrid 1975. Al­varo del Portillo, Sum. 264. All’avvento della Repubblica, l’Ospedale del Re cambiò il nome in Ospedale Nazionale, anche se la gente continuava a chiamarlo con il nome precedente.28 Appunti, n. 541.29 Ibidem, n. 545. Così amministrava le preghiere del dolore: “Lino e i due José Maria si sono fatti carico di una vocazione per ciascuno. Ho chiesto

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che si avvalgano a questo scopo dell’espiazione dell’Ospedale del Re” (ibi­dem, n. 552). Si tratta di don Lino Vea-Murguia, don José Maria Somoano e don José Maria Vegas.30 Appunti, n. 685.31 “I suoi suggerimenti sembrano venire da Dio” . E soggiunse: “ha sempre avuto ragione” (Appunti, n. 640). E infatti, due settimane dopo che egli ebbe consultato la signora Dolores, ci fu la drastica riduzione del preventi­vo del Ministero della Giustizia per il Culto e il Clero; e poco dopo furono soppresse le cappellanie.32 Engracia Echevarrfa, AGP, RHF, T-04389, p. 1; cfr anche Isabel Martin Rodriguez, Sum. 5774; Maria Jesus Sanz Zubiria, AGP, RHF, T-05138, 1.33 Cfr Appunti, n. 1003.34 Ibidem, n. 785.35 Cfr ibidem, n. 789.36 Ibidem, n. 793.37 Ibidem, n. 785. Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 267; Joaqum Alonso, Sum. 4615. Cfr José Miguel Cejas, Con il battere dei vostri passi. José Maria So­moano e gli inizi dell3Opus Dei, Milano 1997.38 Engracia Echevarrfa, AGP, RHF, T-04389, p. 1.«La voce di bilancio accreditata a tutte le istituzioni che richiedevano la presenza del Clero venne abolita - spiega Suor Engracia -. Il Direttore del nostro Ospedale, Dottor Manuel Tapia, era un uomo di grande levatura morale, molto retto, rispettoso e onesto, ma poco informato sui doveri di un cristiano (...). Si comportò sempre molto bene. E quando sparì lo stan­ziamento per il Clero, ci chiamò proponendoci che, dal nostro stipendio di impiegate ospedaliere, da poco aumentato, devolvessimo una certa somma per coprire le spese di un sacerdote che continuasse a seguire spiritualmen­te i malati dell’Ospedale. Io feci così, perché sapevo che i malati avevano diritto a ricevere i Sacramenti e l’aiuto spirituale necessario» (ibidem). Il Decreto del Ministero degli Interni che scioglieva il Corpo dei Cappellani della Beneficenza Generale era del 26-111-1932 (cfr Bollettino Ufficiale del Vescovado di Madrid-Alcalà, 15-IV-1932, n. 1557, p. 149). All’art. 3 dice­va: «Quando un malato (...) richieda atti di culto religiosi, lo si esaudirà, qualunque sia la sua religione, purché ve ne sia la possibilità». Negli ospe­dali tale possibilità non si dava, poiché gli stanziamenti ufficiali erano sem­pre insufficienti.39 Cfr Isabel Martin Rodriguez, Sum. 5776; Maria Jesus Sanz Zubiria, AGP, RHF, T-05138, p. 2.40 Maria Jesus Sanz Zubiria, AGP, RHF, T-05138, 2.41 Cfr Isabel Martin Rodriguez, Sum. 5776 e 5777.42 Engracia Echevarrfa, AGP, RHF, T-04389, p. 2.43 Ibidem. «Era molto comune che i sacerdoti non indossassero la veste talare - testimonia José Romeo Rivera -. Il Padre portò sempre la tonaca»

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(AGP, RHF, T-03809, p. 9). Juan Jiménez Vargas riferisce che «molti sa­cerdoti, che pure si sentivano capaci di comportarsi eroicamente se si fos­se presentata l’occasione, andavano per strada in abiti civili (...). Il Padre non volle mai andare in giro in abiti civili. Anzi, portava un mantello che senza dubbio attirava l’attenzione più di un soprabito» (AGP, RHF, T- 04152/1, p. 4).44 Maria Jesus Sanz Zubiria, AGP, RHF, T-05138, 1.45 Braulia Garcia Escobar, AGP, RHF, T-04966, p. 1.46 Benilde Garcia Escobar, AGP, RHF, T-04965, p. 1.47 Braulia Garcia Escobar, AGP, RHF, T-04966, p. 3.48 Ibidem, p. 4.49 Appunti, n. 1006. Juan Jiménez Vargas, che lo accompagnava, riferisce: «Quando conobbi e frequentai il Fondatore, egli continuava ad effettuare le sue visite e ad esercitare il suo apostolato sacerdotale in detti ospedali. Una volta, occasionalmente, lo accompagnai a portare la Comunione a una malata molto grave dell’Ospedale del Re; dopo averla comunicata, la incoraggiò e l’esortò a prepararsi degnamente per l ’ora della morte» (Sum. 6702).50 Appendice documentale, documento XV.51 Ne parlava il Fondatore in una Caterina del 14-11-1934 (Appunti, n. 1136); cfr anche Natividad Gonzàlez Fortun, Sum. 5874.52 Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 315; Javier Echevarria, PR, p. 1590. Lo ri­ferisce un testimone oculare: «Un’altra volta ho accompagnato io stesso il Fondatore alla casa di una famiglia, sita nelle vicinanze di piazza di Spa­gna, dove si trovava il cadavere di un giovane al quale il Servo di Dio ave­va prima amministrato i Santi Sacramenti; egli lo rivestì in mia presenza» (Juan Jiménez Vargas, Sum. 6702).53 Pedro Cantero, AGP, RHF, T-04391, p. 9.54 Appunti, n. 1002.55 Tomàs Canales, AGP, RHF, T-02219.56 Ibidem.57 Meditazione del 19-111-75.58 Appunti, n. 563.59 AGP, P04 1974, II, p. 406.60 Ibidem. L’episodio è citato e raccolto testualmente da Alvaro del Portil­lo, Sum. 269; cfr anche Cammino, cit., n. 208.61 Piccolo bozzetto delle virtù dello zelante apostolo Don José Maria So­moano (riposi in pace) scritto da un’ammalata dell’Ospedale Nazionale (Manoscritto di Maria Ignacia Garda Escobar, del 1932, in AGP, RHF, D- 03381).62 Ibidem.

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63 Ibidem.64 Ibidem.65 Appunti, n. 615 (25-11-1932).66 C 20, 14-VIII-1931.67 Lettera di Isidoro Zorzano a don Josemaria, del 24-XII-1931 (originale in AGP, IZL, D-1213, lettera n. 19).68 Lettera del 2-III-1932 (ibidem, n. 21).69 Meditazione del 19-111-1975.70 Appunti, n. 354.71 Ibidem, n. 84.72 Ibidem, n. 186. Questo grido: “Dio e audacia!” si va ripetendo nei gior­ni successivi; cfr ibidem, nn. 190 e 224.73 Ibidem, n. 187.74 Ibidem, n. 197.75 Ibidem, n. 198.76 Ibidem, n. 997.77 Ibidem, n. 354.78 Ibidem, n. 963 (23-111-1933).Braulia Garda Escobar conobbe le prime donne dell’Opera perché andava­no a far visita a sua sorella nell’Ospedale del Re: «Mia sorella Maria Igna- cia - racconta - era meravigliosamente assistita spiritualmente dal Padre. Andavano a trovarla e a farle compagnia anche altre ragazze; alcune ap­partenevano all’Opera. Una si chiamava Modesta Cabeza ed era una ra­gazza semplice; suo direttore spirituale era don Lino. Il Padre le chiedeva di pregare per intenzioni ben precise (...). Andava all’Ospedale a far com­pagnia a mia sorella anche Carmen Cuervo Radigales, che risiedeva nel Collegio dell’Assunzione del Patronato Reale di Santa Isabel. Era “Delega­ta del Lavoro” , cosa insolita a quei tempi in cui non era normale che le donne occupassero cariche pubbliche. L’ultima del gruppo che io ricordo era Hermógenes, che lavorava in banca» (Braulia Garcfa Escobar, AGP, RHF, T-04966, pp. 2 e 3; Ramona Sànchez, AGP, RHF, T-05828, p. 2).

79 C1S,5-V-1931.80 Appunti, n. 1072.81 Appendice documentale, documento XV.82 Appendice documentale, documento XIV.83 Ibidem. Dal punto di vista economico, l’ingresso di Luis Gordon nell’O- pera avrebbe rappresentato un grande appoggio per le iniziative apostoli­che. Il Fondatore commentava che la sua morte era stata provvidenziale. L’Opus Dei continuò così a crescere nella più assoluta povertà, senza mezzi materiali. Era necessario che l’Opera nascesse povera, come Gesù a Be­tlemme (Alvaro del Portillo, Sum. 1220).

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84 Meditazione del 2-X-1962; cfr Lettera 14-IX-1951, n. 4.85 Appunti, n. 1756.86 Jenaro Làzaro, AGP, RHF, T-00310, p. 1.87 Appunti, n. 541.88 Piccolo bozzetto..., cit., in AGP, RHF, D-03381.89 Pedro Cantero, AGP, RHF, T-04391, pp. 3 e 4.90 Ibidem, p. 5.91 II 14 agosto 1931 il Fondatore scrisse a Isidoro Zorzano: “Ieri ho fatto il proposito di raccontare il nostro grande segreto ad un altro... Ti chiedo una preghiera specialissima e qualche piccola espiazione volontaria. Guar­da, questa volta “l’affare” resterà fra te e me: non chiedo preghiere a nes­suno, e neppure espiazione. Da noi dipenderà smuovere il Cuore del nostro Re... Questa vocazione, se Dio la dà, l’avrai “generata” tu, con la tua sup­plica opportuna e importuna. Puoi intensificare in questi giorni la tua vita spirituale, per non affievolirti dopo” (C 20, 14-VIII-1931).Nella lettera del 26 agosto 1931, indirizzata alle persone dell’Opera, Isido­ro rispose alla chiamata: «Ho intensificato la preghiera e, poiché le contra­rietà non mi mancano nel corso della giornata, ho abbastanza materia da offrire a Lui come espiazione (...). Tutto questo l’ho offerto affinché vada a buon fine la nostra faccenda» (Lettera di Isidoro Zorzano al Fondatore, 26-VIII-1931; originale in AGP, IZL, D-1213, n. 16); cfr anche Appunti, nn. 231, 362, 365 e 591.92 Ibidem, n. 613.93 Don Lino Vea-Murguia Bru era nato a Madrid nel 1901 ed era stato or­dinato sacerdote nel 1926. Nel 1927 divenne cappellano del “Patronato de Enfermos” e dal 1930 primo cappellano delle Ancelle del Sacro Cuore.Il 15 o 16 agosto 1936 fu assassinato a Madrid (cfr Incartamento perso­nale nell’Archivio della Segreteria Generale dell’Arcivescovado di M a­drid-Alcalà).Come si è già visto, don Norberto, dopo che don Josemaria gli aveva letto alcune Caterine, si ritenne incorporato all’Opera. Nel caso di don Lino, don Norberto agì per conto proprio, ammettendolo all’Opera senza con­sultarsi con il Fondatore (cfr Appunti, nn. 354 e 412).94 Cfr Pedro Cantero, AGP, RHF, T-04391, p. 9.95 Piccolo Bozzetto..., cit., in AGP, RHF, D-03381.96 Appendice documentale, documento XIII.97 Appunti, n. 834.Don Sebastiàn Cirac Estopanàn, che per qualche tempo ebbe come diretto­re spirituale don Josemaria, era nato a Caspe (Saragozza) nel 1903 e fu or­dinato nel 1928. Nel 1932 divenne canonico di Cuenca. Nel 1934 si tra­sferì in Germania per ragioni di studio e nel 1940 vinse il concorso per la cattedra di Filologia Greca all’Università di Barcellona. È morto nel 1970.98 Don José Maria Vegas Pérez era nato nel 1902 a Madrid e fu ordinato

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nel 1927. Nel 1928 fu ascritto alla parrocchia di S. Martino e divenne poi cappellano della Cappella del Santissimo Cristo di S. Ginesio. Nel 1935 prese possesso del Rettorato del Cerro de los Angeles. Il 27-XI-1936 morì assassinato a Paracuellos de Jarama (cfr Incartamento personale nell’Ar- chivio della Segreteria Generale dell’Arcivescovado di Madrid-Alcalà).99 Lettera di Isidoro Zorzano a don Josemaria, 5-IX-1930 (originale in AGP, IZL, D-1213, n. 7).100 Lettera del 14-IX-1930 (originale in AGP, IZL, D-1213, n. 8).101 Appunti, n. 381.102 C 22, 10-XI-1931.103 Ibidem, n. 602; “ Carmen Cuervo: così si chiama la donna che Gesù sta preparando per l’Opera di Dio” ; cfr anche n. 1872.104 Cfr Appunti, n. 693. In questa Caterina del lunedì mattina, 11 aprile 1932, a proposito della prima vocazione di espiazione, annotava: “Grazie a Dio. Oggi, nella nostra riunione settimanale, proporrò ai miei fratelli sa­cerdoti di recitare il Te Deum” .105 Cfr ibidem, n. 434.106 Ibidem, n. 931.107 Ibidem, n. 1136.108 Cfr ibidem, n. 381.“Ho seguitato a lavorare con i ragazzi” - spiegava in un’altra Caterina - “ma continuavo a sentire la necessità di cercare altre anime fra le donne” (ibidem, n. 1878); oppure “operavo in un ambiente di donne (...), ma non trovavo persone che mi sembrassero pronte” (ibidem, n. 381).109 C 28, 8-IV-1932.110 Cfr Appunti, n. 691, del 10 aprile, dove registrava: “In questi giorni preparo alla prima Comunione le bambine della scuola di Santa Isabel” .111 Ibidem, n. 402.112 Ibidem, n.710.113 C 28, 8-IV-1932.114 Appunti, n. 748.115 È possibile che la famiglia degli Escrivà stesse attraversando delle diffi­coltà che tenevano inquieto don Josemaria. Cfr C 30, 7-VI-1932 e ss.116 José Manuel Doménech, AGP, RHF, T-00872.La storia della Seconda Repubblica spagnola fu molto tormentata. Nell’e­state 1932 continuavano i disordini pubblici, gli attentati criminali contro persone e chiese, le tensioni patriottiche a motivo dell’autonomia catalana e di alcuni movimenti separatisti, cui si aggiungeva la disoccupazione e la difficile situazione economica del Paese.In queste condizioni i monarchici tramarono una cospirazione, con la par­tecipazione di alcuni militari malcontenti delle riforme dell’Esercito intra­prese dal governo repubblicano. L’insurrezione era fissata per il 10 agosto,

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alle quattro del mattino e doveva avvenire contemporaneamente a Siviglia e a Madrid. Ma non era ben organizzata e non aveva molti seguaci. Inol­tre, il governo conosceva fin dal mese di luglio l’esistenza del complotto.Il 10 agosto il generale Sanjurjo si sollevò a Siviglia, ma non gli si unirono le guarnigioni di altri capoluoghi. L’insurrezione di Madrid fu facilmente e rapidamente soffocata.117 Appunti, n. 800.118 Ibidem, n. 814.119 José Antonio Palacios, AGP, RHF, T-02750,1.120 ìbidem, p. 3.121 José Manuel Doménech, AGP, RHF, T-00872.122 Ibidem. A parte le pene comminate ai militari e ai civili che erano insor­ti e l’esproprio delle terre di quanti avevano partecipato al complotto con­tro il regime o si presumeva che lo avessero appoggiato, furono applicate altre sanzioni, come la deportazione a Villa Cisneros, nell’ex Sahara spa­gnolo, di 145 congiurati o sospetti tali, fra i quali José Manuel Doménech.1 prigionieri furono portati da Madrid a Cadice, da dove si imbarcarono per l’Africa il 22 settembre 1932. Altri sospetti o presunti implicati rimase­ro nel Carcere Modello di Madrid.123 Appunti, n. 746.124 Cfr Appunti, n. 838. Il 12 settembre 1932 don Josemarìa si recò al con­vento dei Carmelitani di Madrid a consegnare un’istanza per essere am­messo nel Terzo Ordine dei Carmelitani Scalzi. “Due cose (oltre all’Amore) mi spingono a farmi terziario carmelitano: attaccarmi maggiormente a mia Madre Immacolata, ora che mi vedo più debole che mai; e assicurare suf­fragi alle “mie buone amiche le Anime benedette del Purgatorio” ” (ibidem, n. 823). La data di ammissione nel Terz’Ordine, in risposta all’istanza, fu il2 ottobre 1932 (cfr ibidem, n. 838).125 Ibidem, nn. 1635-1636; cfr Jesus Alvarez Gazapo, Sum. 4347; Giovan­ni Udaondo, Sum. 5080.126 Cfr Appunti, n. 1634.127 Cfr ibidem, n. 1637.128 Ibidem, nn. 1637-1640.129 Ibidem, n. 1642.130 Istruzione 8-XII-1941, n. 9. Sugli Arcangeli, Patroni dell’Opera, cfr ibi­dem, nota 1211; Javier Echevarria, Sum. 2645; Mario Lantini, Sum. 3587; Joaqum Alonso, Sum. 4616; Carmen Ramos, Sum. 7361.131 Appunti, nn. 1644, 1646 e 1648.132 Ibidem, n. 1655.133 Cfr ibidem, n. 1658.134 Cfr ibidem, n. 1660.135 Ibidem, n. 1661.

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136 Così scrisse il Fondatore: “Il P. Sànchez mi ha ripetutamente fatto ca­pire (anche se non me l’ha detto) di essere il Direttore della mia anima, non il Direttore dell’Opera di Dio. E capisco, con lampante chiarezza, che così deve essere” (ibidem, n. 565). Concetto che si ripete in un’altra Cate­rina. “L’ho già detto altre volte: il P. Sànchez è il Direttore della mia ani­ma, non il Direttore dell’Opera. Perciò, la sua opinione è molto rispettabi­le; anzi, sarò sempre molto incline ad accettarla, ma so di non avere l’obbligo di assoggettarmi” (ibidem, n. 784). Di padre Sànchez scrisse in una lettera del 1947: “Non ha avuto nulla a che vedere con l’Opera, per­ché non gli ho mai consentito di intervenire o di esprimere un’opinione. Con una chiara luce di Dio, compresi che lì non potevo cedere né tollera­re che altri eseguissero ciò che il Signore chiedeva a me” (Lettera 29-XII- 1947/14-11-1966, n. 20).137 E aggiunse le ragioni che lo portavano ad agire in questo modo: perché vi si sentiva spinto in modo soprannaturale, perché ciò è quanto esige la vi­ta di infanzia spirituale e “perché in questo modo è impossibile che io sia ingannato” (Appunti, n. 560). In momenti di dubbio, di turbamento, o quando doveva prendere qualche decisione che riguardava la sua anima, consultò sempre il proprio direttore.“Andai subito dal mio P. Sànchez, per raccontargli lo stato della mia ani­ma” , annotava il 12 maggio 1932 (ibidem, n. 719). “ Sono andato da P. Sànchez, gli ho esposto lo stato della mia anima: oggi ho sofferto e così pu­re ieri. Il mio Padre Sànchez è stato molto paterno” (ibidem, n. 744).138 Ibidem, n. 708.139 Ibidem, n. 701.140 Ibidem, n. 702.141 Ibidem.142 In una Caterina del novembre 1931 riferiva uno di questi eventi. Aveva camminato fino a Chamartin per vedere padre Sànchez: “Dopo una lunga attesa scese un ragazzino, che mi disse seccamente: “Ha detto il Padre che ha molto da fare” . Allora non lo posso vedere?, gli chiesi. “ Chiaro” , mi ri­spose il ragazzino.Sono rimasto impietrito. Subito l’ho offerto a Gesù, nonostante la mia ri­bellione di superbia, e ho cercato di soffermarmi su pensieri come questo: fin troppa pazienza ha con me il padre S.! Sono noioso. Oltretutto, anche se non avesse avuto nulla da fare, questi grossi dispiaceri ti fanno molto bene, José Maria” (Appunti, n. 379; cfr anche n. 1757).Anni dopo, Mons. Escrivà stava una volta pranzando nella Casa Generali- zia dei Gesuiti a Roma e raccontava questi ricordi. Il Fratello laico della Compagnia che stava servendo a tavola interruppe con spontaneità la con­versazione con queste parole: «Mi ricordo molto bene di questo, perché toccava a me molte volte venire a dirle che Padre Valentm Sànchez non la poteva ricevere» (Javier Echevarria, Sum. 2063).143 Cfr Appunti, n. 1757.144 ìbidem, n. 1661. Sulle doti del suo direttore spirituale e sul rapporto

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con padre Sànchez, il Fondatore scrisse: “ Che grazia gli ha dato il Signore per dirigere!” (C20, 14-V1II-1931).E in un’altra lettera: “Ebbe cura di me da quel buon sacerdote che era; mi trattò molte volte con durezza e lodo la sua durezza” (Lettera 29-XII-1947 /14-11-1966, n. 20).Nelle note redatte durante gli esercizi spirituali del 1934, destinate a essere lette da P. Sànchez, scrisse: “L’interesse che Lei ha sempre dimostrato per l’Opera di Dio e per la mia anima mi riempie di gratitudine. Perciò, padre mio, le voglio molto bene in Gesù Cristo: tutti i giorni la ricordo nella mia preghiera e tutti i giorni per due volte torno a pregare per lei intra missam” {Appunti, n. 1791).145 Ibidem, n. 1665. Ultimamente erano aumentati, a quanto sembra, la rabbia del diavolo e i suoi tiri mancini. Il Fondatore non insistè sull’argo­mento con maggiori particolari. Cfr anche ibidem, nn. 719, 720, 721, 739 e 743.146 ìbidem, n. 1676. Probabilmente parlò in giugno con Pou de Foxà a Sa­ragozza; egli dovette incoraggiarlo a concludere gli studi (cfr C 28, 8-IV-1932 e Appunti, n. 780).147 Ibidem, n. 1678.Il problema vero era la sua povertà, che gli aveva già impedito di addotto­rarsi in Sacra Teologia al termine dei corsi accademici nell’Università Pon­tificia di Saragozza:“Non ho soldi. Questo comporta una duplice conseguenza: a) che, poiché devo lavorare - a volte eccessivamente - per mantenere la mia casa, non mi resta né il tempo né la voglia per lavorare al dottorato; e b) che, anche se avessi tempo, non avendo soldi, è impossibile dedicarmi a questi esercizi accademici” (ibidem, n. 1676).148 Ibidem, nn. 1680-1681.149 Ibidem, n. 1679.150 Ibidem, n. 1686.151 Cfr ibidem, n. 1688.152 Ibidem, n. 1689.153 Ibidem, n. 1699.154 Ibidem, n. 1695.155 Ibidem, n. 1702. Le altre erano le seguenti:“2) Non fare domande per curiosità.3) Non sedermi se non quando è indispensabile e sempre senza appoggiare le spalle.4) Non mangiare nulla di dolce.5) Non bere altra acqua oltre a quella delle abluzioni.6) Dal pasto di mezzogiorno non mangiare pane.7) Non spendere neppure cinque centesimi se, al mio posto, un povero mendicante non li potrebbe spendere.

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8) Non lamentarmi mai di nulla con nessuno, a meno che sia per chiedere consiglio.9) Non lodare, non criticare.Deo omnis gloria! Leggerò questa nota ogni domenica” .156 Ibidem, n. 165 8.157 Ibidem, n. 870. Per tutta la vita lottò, mortificandosi anche in cose leci­te, per custodire la vista, come mostra un curioso episodio accaduto verso la fine del 1931. Don Josemarìa era amico dei marchesi di Guevara (il mar­chese, Floro Rodrìguez Casanova, era fratello di Donna Luz Casanova). Avendo conosciuto un giovane pittore a corto di lavoro, un giorno, trovan­dosi a casa della marchesa, le chiese se ella volesse commissionargli il pro­prio ritratto. La marchesa accondiscese con piacere. Il pittore si presentò; la marchesa posò e gli diede poi un proprio abito perché terminasse il ri­tratto nel suo studio. Pochi giorni dopo il pittore andò da don Josemarìa. Era in difficoltà: aveva bisogno di sapere il colore degli occhi della marche­sa. Il sacerdote confessò di non saperlo; ma a tutto c’era rimedio: in setti­mana sarebbe andato a pranzo dai marchesi e l’avrebbe informato.Giunto il giorno del pranzo, mentre stava a tavola, raccontò ingenuamente il colloquio con il pittore e il problema di questi:«Mi guardi, Padre: ho gli occhi di un verde stupendo!», disse la marchesa. “Da ora in poi li guarderò ancor meno, sciocca!” , ribattè il sacerdote (cfr Appunti, nn. 181, 356, 450 e 462; e AGP, P04 1974, II, 510).158 II 2 ottobre 1928, scrisse il Fondatore, “era stata disegnata l’impresa” , cui doveva seguire la realizzazione, stabilendo lo spirito proprio dell’Opus Dei e portandone avanti gli apostolati; ciò significava “che questo povero prete avrebbe continuato a scrivere e a disegnare l’Opera” (ibidem, n. 475; cfr nota 391).159 Fu un’idea precedente agli esercizi spirituali a Segovia (“Pia Unione o quello che sia” , ibidem, n. 772). Don Josemarìa si consultò con padre Po- stius sulla convenienza di creare o meno in quei momenti un’associazione di giovani universitari (cfr Appunti, n. 769, del 7-VII-1932). L’idea della Pia Unione fu messa da parte ben presto. Il 29 settembre 1932 annotava: “ Oggi sono stato da P. Postius. Consiglia di non fare un’associazione di giovani. Di lavorare senza un’associazione: aprendo un’accademia, per esempio. È quello che pensavo io” (ibidem, n. 837).160 Istruzione 8-XII-1941, n. 9; cfr anche Appunti, n. 1642.Due giorni dopo, sabato, scrisse: “Ho recitato le preci dell’Opera di Dio, invocando i Santi Arcangeli nostri Patroni: S. Michele, S. Gabriele, S. Raf­faele... Ho una grande sicurezza che questo triplice appello, rivolto a per­sonaggi così alti nel regno dei cieli, debba essere - è - graditissimo all’Uno e Trino e renda più vicina l’ora dell’Opera!” (Appunti, n. 1653).Il ricorso agli Arcangeli e agli Apostoli, cercandone l’intercessione per l’a­postolato, risale a epoca molto precedente. Per esempio, il giorno di S. Giovanni Evangelista (27 dicembre) 1930, in cui si raccomandò all’Apo­stolo e ne ottenne un favore (cfr ibidem, n. 140); e il 14 gennaio 1931,

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quando si chiese in una Caterina: “ S. Giovanni (nostro Patrono?)” (ibi­dem, n. 152).In un’altra Caterina, dell’8 maggio 1931, memoria dell’apparizione di S. Michele, si legge: “Ho raccomandato l’Opera a S. Michele, il grande com­battente, e penso che mi abbia ascoltato” (ibidem, n. 198).161 Durante il ritiro spirituale a Segovia, nel 1932, in merito all’apostolato con giovani universitari scrisse che sarebbe stato posto “ sotto la protezione di Santa Maria della Speranza e il patrocinio di S. Raffaele Arcangelo. E ciò sempre senza costituire associazione di alcun genere: a base di accade­mie” (ibidem, n. 1697). Idea ripresa in un’altra Caterina: “Il lavoro di S. Raffaele e di S. Giovanni si farà sempre nelle nostre accademie, senza for­mare con gli studenti associazioni di alcun genere” (ibidem, n. 921).162 Ibidem, n. 890.163 Copia del contratto di affitto in AGP, RHF, D-15113. Nel contratto si dice: «casa di via Franco Giner (già Martinez Campos) n. 4, piano nobile a sinistra». Le mensilità erano di 115 pts. La terza delle condizioni contrat­tuali stabiliva che «il ritardo di quattro giorni nel pagamento dell’affitto è ritenuto causa sufficiente per dare inizio allo sfratto».164 Appunti, n. 892.165 Ibidem, n. 893.166 Ibidem, n. 883.167 Ibidem, n. 884.168 Negli Appunti intimi del 18 luglio 1932, riferendosi alla visita che fece a don José Maria Somoano, ormai quasi agonizzante, scrisse: “Il medico di guardia disse che lo mettevamo nei guai; dovetti andarmene dall’Ospedale del Re; dopo aver confessato alcuni bambini a “La Ventilla” , andai a casa di don Norberto” (ibidem, n. 787).169 Cfr Suor San Paolo Lemus y Gonzàlez de la Rivera, AGP, RHF, T- 05833; e Pilar Angela Hernando Carretero, AGP, RHF, T-05250, 1.170 Appunti, n. 907.171 Ibidem, n. 863.172 Ibidem, n. 913.173 Juan Jiménez Vargas, AGP, RHF, T-04152/1, p. 19. Un altro studente presente era José Maria Valentm-Gamazo; cfr AGP, RHF, T-02710.174 Cfr AGP, P04 1975, p. 278. «Molte volte il Padre ci ha detto - com­menta Mons. del Portillo - che, mentre dava la benedizione con il Santissi­mo, non vide solo tre ragazzi, ma tremila, trecentomila, tre milioni...; bian­chi, neri, gialli, di tutte le lingue e di tutte le latitudini» (Istruzione 9-1-1935, nota 25).175 José Ramon Herrero Fontana, AGP, RHF, T-05834, p. 3; e Pilar Angela Hernando Carretero, AGP, RHF, T-05250, p. 1.176 Suor San Paolo Lemus y Gonzàlez de la Rivera, AGP, RHF, T-05833.

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177 Per dirlo con parole del Fondatore, “scegliere coloro che andranno poi all’opera patrocinata da S. Gabriele e da S. Paolo, e coloro che verranno al “cuore” dell’Opera di Dio” (Appunti, n. 913, del 25-1-1933). Più avanti, quando ormai lo sviluppo dell’Opera era delineato, il Fondatore spiegava che in realtà tutti nell’Opera sono cuore, dato che esiste una sola e identica vocazione all’Opus Dei.178 Benita Casado, AGP, RHF, T-06242, pp. 1-2. Suor Benita professò co­me religiosa della Congregazione delle Serve di Maria. Luis, uno dei nipoti di Pilar Sevilla, ricorda che nel 1933 don Josemaria lo preparò alla prima Comunione, che fece il 15 marzo, e che gli regalò un quadretto-ricordo (cfr Luis Sevilla, AGP, RHF, T-06243, p. 2).179 Benita Casado, AGP, RHF, T-06242, p. 3; cfr anche Luis Sevilla, AGP, RHF, T-06243, p. 3.180 José Antonio Palacios, AGP, RHF, T-02750, 5.181 Ibidem, p. 6.182 Appunti, n. 912; cfr anche n. 606.183 Ibidem, n. 877.184 Ibidem.185 Ibidem, n. 1696.186 Ibidem, n. 925; cfr Alvaro del Portillo, Sum. 241; Javier Echevarria, Sum. 2080; Joaqum Alonso, Sum. 4618; Joaqum Mestre, AGP, RHF, T- 00181, p. 34.Angel Herrera Oria nacque a Santander nel 1886 e morì nel 1968, Cardi­nale Vescovo di Malaga. Fu il primo Presidente Generale dell’Associazione Cattolica Nazionale dei Propagandisti, che era stata fondata nel 1908 da padre Àngel de Ayala, S. J.; diresse il quotidiano “El Debate” dalla sua na­scita nel 1911 fino al 1933. Durante quegli anni si mise in evidenza per la sua azione sociale con gli studenti cattolici. Nel 1933 venne nominato pre­sidente della Giunta Centrale dell’Azione Cattolica spagnola. Fu ordinato sacerdote nel 1940, consacrato Vescovo nel 1947 e nominato Cardinale nel 1965. Sui progetti di Angel Herrera e sulla creazione del centro di for­mazione, cfr Gonzalo Redondo, Historia de la Iglesia en Espana (1931- 1939), op. cit., pp. 202 e ss.187 Appunti, n. 926. Sulla risposta negativa alle proposte di Herrera Oria, cfr Florencio Sànchez Bella, Sum. 7488.1 colloqui del Fondatore con Angel Herrera furono almeno tre, in un breve lasso di tempo, anche se fu la se­conda volta, l’i l febbraio, che affrontarono l’argomento del centro di for­mazione e fu fatta l’offerta a don Josemaria, che la declinò seduta stante (cfr Appunti, nn. 923, 925, 926, 927, 933 e 934).Nell’annotazione dell’ll-II-1933 (ibidem, n. 923) si legge: “ Senza dubbio la Madonna mi ha fatto ieri pomeriggio due regali: il secondo, che sono ri­masto zoppo e non ho quasi potuto dormire la scorsa notte (...). E il primo, che ci ha dato un’altra vocazione per l’Opera, Jenaro Làzaro” . Mons. del Portillo riferisce come rimase zoppo: quando era entrato a parlare con

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Herrera non sentiva alcun dolore; quando ne era uscito, zoppicava. Era la prima volta che aveva un attacco reumatico (cfr Sum., 242).188 Appunti, n. 927.189 Quando Mons. Olaechea era già Arcivescovo di Valencia, convinto del­la santa eroicità di quel comportamento, affidò al proprio segretario, don Joaqum Mestre Palacio, l’incarico di dare testimonianza del fatto, cosa che questi fece con le seguenti parole:«Il presidente Herrera insisteva, con validi argomenti: “Pensi, don Jose- marfa, che nel centro riunirò, con l’aiuto di Dio, i migliori sacerdoti della Spagna, e che le offro di esserne il Direttore” . Ma il Padre rispose invaria­bilmente e categoricamente: “No, no. Ringrazio, ma non accetto; perché io devo percorrere (...) la strada sulla quale Dio mi chiama. Inoltre, non ac­cetto proprio per quello che lei mi dice: perché in questo centro si riuniran­no i migliori sacerdoti di Spagna. Ed è evidente che io non sono in grado di dirigerli” » (AGP, RHF, T-00181, p. 34).Il presidente dell’Azione Cattolica spagnola e futuro cardinale rimase così impressionato per quel gesto di distacco del Fondatore che trent’anni dopolo rammentava a don Florencio Sànchez Bella (Sum. 7488).Mons. J. Echevarria riferisce così il rifiuto a Herrera: “ Ci ho pensato bene e non posso accettare. Inoltre, se di là passeranno i sacerdoti più eminenti di Spagna, ce ne saranno molti altri migliori di me e di cui io non sono cer­tamente all’altezza, che possono dedicarsi a formarli; e d’altra parte, ho già altri impegni ai quali non posso sottrarmi, perché sarebbe un tradimento di ciò che il Signore mi chiede” (Sum. 2080).Altre testimonianze: Alvaro del Portillo, Sum. 241; Joaqum Alonso, Sum. 4618; Juliàn Herranz, Sum. 3881; Francisco Botella, PM, f. 221; Pedro Casciaro, Sum. 6320.190 Cfr Appunti, nn. 768, 773 e ss. e n. 837.191 “La nostra è una disorganizzazione organizzata” , scriveva il 19 marzo1933 (ibidem, n. 956).I tentativi di trarre insegnamenti o esperienze da altre organizzazioni non servirono mai a nulla al Fondatore. Già agli inizi del 1930 andava in cerca di notizie su moderne istituzioni di apostolato in altri Paesi; se n’era di­menticato, finché un giorno, intorno al 14 febbraio 1932, giunse una lette­ra dalla Polonia di padre Laureano de las Munecas (cfr ibidem, n. 603). Era la risposta alla lettera inviata a Cracovia da don Josemarìa (cfr ibidem, n. 581). Don Lino s’incontrò a Santander con P. Laureano verso la metà del settembre 1932. Don Josemarìa non ne aspettava alcuna soluzione per l’impostazione da dare all’Opera e, d’altra parte, aveva già deciso di creare una società culturale, o una Residenza: “Non so se il P. Laureano porterà qualche soluzione pratica per impostare l’Opera di fronte all’autorità ec­clesiastica e di fronte all’autorità civile (...). I soci e le associate dovranno formare delle società culturali” (ibidem, n. 835).192 Ibidem, n. 184.193 Ibidem.

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194 Ibidem, n. 164.195 Ibidem, n. 815.196 Cfr ibidem, n. 952.Dell’offerta che la signora Dolores e Carmen fecero della loro casa per fini apostolici, Mons. Echevarria afferma: «Dalla loro franca e completa colla­borazione ha tratto beneficio lo spirito dell’Opus Dei, poiché, senza inter­venire nella fondazione, seppero assecondare il clima di famiglia che egli volle per l’Opera in adempimento della Volontà di Dio» (PR, p. 488).197 AGP, RHF, T-04152/1, p. 25; cfr anche Jenaro Làzaro, AGP, RHF, T- 00310, p. 2.198 Juan Jiménez Vargas, AGP, RHF, T-04152/1, 25.199 AGP, RHF, T-05834, p. 2; cfr anche José Ramon Madurga, PM, f. 283v; Ignacio Maria de Orbegozo, Sum. 7274; Istruzione V-35/IX-50, n. 85, nota 153.200 Ricardo Fernàndez Vallespin, AGP, RHF, T-00162, pp. 2-4. Il libro era Historia de la Sagrada Pasión, di Luis de la Palma.201 AGP, RHF, T-12082, p. 5.202 “ Si vede che il Signore, perché così deve essere nell’intimo la sua Opera, ha voluto che incominci con la preghiera. Pregare sarà il primo atto ufficia­le dei membri dell’Opera di Dio” (Appunti, n. 128).203 Ibidem, n. 935.204 Le Norme provvisorie furono scritte dal Fondatore il 24-111-1933, festa di S. Gabriele (Appunti, n. 966). Nascono da una sintesi del piano di nor­me di pietà che aveva scritto durante il ritiro spirituale del 1932 a Segovia. Cfr anche Appunti, nn. 170e939.

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Capitolo Vili

I PRIMI CENTRI DELL’OPERA

1. Una “prova crudele”

Fin dal momento in cui ci si cominciò a riunire in via Martìnez Campos, don Josemaria vide che l’apparta­mento era troppo piccolo e che era necessario disporre di un’accademia per lo sviluppo delle attività di S. Raf­faele e di S. Gabriele1. C’era bisogno di gente e di de­naro; si lanciò a cercarli. Nel marzo 1933 parlò con i primi professori della futura accademia. Quando riuscì ad accordarsi con il secondo, scrisse con traboccante ottimismo:

“Con costui e con Rocamora e con altri che sicuramente il Signore mi manderà, potremo incominciare la parte dell’Opera affidata a S. Gabriele e a S. Paolo”2.

Il primo giugno vennero a Madrid i membri dell’Ope­ra che lavoravano in Andalusia: Isidoro Zorzano e José Maria G. Barredo. Il loro arrivo significò disporre di collaboratori per un nuovo sforzo: “Si parlò dell’Acca- demia. Hanno cercato persino l’appartamento. Si lavo­ra, ed entro quest’estate sarà cosa fatta, per cominciare in ottobre” . Mentre annotava queste parole, gli sfuggì una considerazione che, in fondo, è l’indizio “spersona­

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lizzato” del fatto che aveva dilapidato le proprie energie e che fisicamente stava per soccombere:

“Il lavoro esaurisce il tuo corpo e non riesci a fare ora­zione. Stai sempre alla presenza di tuo Padre. Come i bambini piccoli, se non gli puoi parlare molto, guardalo di tanto in tanto... ed Egli ti sorriderà”3.

Il lavoro di avviare l’Accademia era talmente impe­gnativo che un momento dedicato alla lettura del gior­nale bastava per procurargli dei rimorsi:

“Ho passato momenti di vera- pena, di intenso dolore, nel vedere la mia miseria da una parte e dall’altra l’ur­gente necessità dell’Opera. Ho dovuto interrompere le mie letture (...). Mi faceva fremere di indignazione con me stesso il pensiero di aver perso e di perdere tempo... il tempo di mio Padre Dio!”4.

Ma davvero perdeva tempo?

“Si fa tardi” - scriveva negli Appunti -. “È mezzanotte meno venti e ancora mi restano delle cose da annotare. Per oggi, l’ultima Caterina: ieri ho tirato al ciclostile un foglietto in cui chiedevo orazione ed espiazione, allo scopo di ottenere luci dal Signore: perché io trovi il tem­po e possa ordinare in breve e correttamente tutto ciò che si riferisce all’organizzazione dell’Opera, così come Dio la vuole”5.

Dare lezioni private - ne era costretto - era cosa che desiderava evitare, per quanto possibile. Come ricupe­rare quelle ore? Perché Dio non dava “tranquillità e in­dipendenza economica” ai suoi, in modo che egli si po­tesse occupare esclusivamente dell’Opera? Tuttavia è un fatto certo e straprovato che il Signore veniva sempre in soccorso del focolare della signora Dolores. La cosa straordinaria di questi interventi è che accadevano pro­

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prio all’ultimo momento e in modo tale che la famiglia ne rimaneva sollevata e rinasceva la tranquillità d’ani­mo; ma senza mai tirarli fuori dalle ristrettezze econo­miche. Il tono pieno di pudore con cui si trattava la po­vertà in casa degli Escrivà rendeva quasi impossibile indovinare le difficoltà in cui versavano:

“Dio, mio Padre e Signore, di solito mi concede la gioia in mezzo alla povertà totale in cui viviamo. Anche agli altri di casa, salvo qualche breve momento, dà la stessa gioia e pace”6.

Il Fondatore era abituato agli interventi inattesi del­la Provvidenza nel caso di estreme necessità economi­che. Come capofamiglia, accanto alla missione ricevu­ta da Dio, doveva occuparsi allo stesso tempo di mantenere i suoi7.

* * «•

Non erano ancora trascorsi sette mesi da quando era stato a Segovia e già il suo spirito reclamava di nuovo la solitudine: “ Sento ogni giorno di più la necessità di ritirarmi per un certo tempo per dedicare alcuni giorni a una vita esclusivamente contemplativa: Dio e l’Opera e la mia anima” 8. Fu così che, preso accordo con i Re- dentoristi di via Manuel Silvela, si recò al convento per fare un ritiro per conto suo. Era il 19 giugno 1933. Tut­to si svolgeva con tranquillità, finché un giorno si sca­tenò in strada “una terribile baraonda” . Un gruppo di ragazzacci, davanti al cancello d’ingresso e con una lat­ta di combustibile, minacciava di incendiare il conven­to. Don Josemaria si affacciò alla finestra udendo gli schiamazzi ma ritornò a raccogliersi in silenzio, veden­do che il fratello portinaio stava all’erta e armato di un buon randello9.

In fondo, questo episodio, puntualmente raccontato, non è altro che una lieve digressione che copre in parte

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quanto capitò al sacerdote il giorno prima, giovedì 22 giugno, vigilia del Sacro Cuore, che è raccontato con semplice franchezza: “ Sentii la prova crudele che da tempo mi aveva annunciato Padre Postius” 10.

(Padre Postius, religioso claretiano che fu suo confes­sore durante i mesi in cui padre Sànchez dovette nascon­dersi, gli aveva preannunciato una forte prova, come trascritto su una Caterina: “Padre Postius, con il quale mi confesso da quando Padre Sànchez si è nascosto es­sendo entrato in vigore il decreto di scioglimento della Compagnia, mi disse anche che sarebbe arrivato il mo­mento in cui la prova sarebbe consistita nel non sentire l’impulso soprannaturale e l’amore per l’Opera” 11.

La prova dolorosa sarebbe stata il non “ sentire la di­vinità della Sua Opera” 12. Era già passato un anno e mezzo e il sacerdote serbava, probabilmente, solo un lontano ricordo dell’ammonimento).

La sera di giovedì, vigilia del Sacro Cuore, don Jose­maria stava meditando sulla morte. Se fosse soprag­giunta in quel momento, quali erano le sue disposizio­ni? Che cosa poteva strappargli? Si esaminò e si trovò distaccato da tutto, o da quasi tutto: “ Oggi non credo di essere attaccato a qualcosa. Forse - mi viene in mente - lo sono all’affetto che nutro per i ragazzi e per tutti i miei fratelli dell’Opera” . E pregava Dio che quando fosse arrivata la morte per portarlo davanti al­la Sua presenza, non lo trovasse “ attaccato a cosa al­cuna della terra” 13.

La sera stessa gli arrivò la prova suprema del distac­co. Era come se il Signore, per brevi istanti, gli avesse tolto la luce chiara del 2 ottobre 1928, lasciandolo in balia degli opposti pensieri che assalirono la sua mente. Il Fondatore descriveva così la propria angoscia:

“Da solo, in una tribuna di questa chiesa del Perpetuo Soccorso, cercavo di fare orazione davanti a Gesù Sa­cramentato esposto nell’ostensorio, quando per un

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istante e senza che ve ne fosse alcuna ragione - non ve ne sono - mi venne in mente questo pensiero amarissi­mo: “E se tutto fosse una menzogna, una tua illusione, e perdessi il tempo..., e - peggio - lo facessi perdere a tanti altri?” ”14.

Un repentino vuoto soprannaturale, una suprema an­goscia, gli annegarono l’anima nell’amarezza (“Fu que­stione di secondi” - scrisse - “ma come si soffre!” ). Al­lora, con uno sforzo di distacco, offrì al Signore, completamente, la propria volontà. Gli offrì di distac­carsi dall’Opera, nel caso fosse un inciampo:

“Se non è tua, distruggila; se lo è, rassicurami”.

Così, annullando qualsiasi possibile vacillazione, strappando da sé la promessa ricevuta sull'immortalità dell’Opera, come Abramo donava in sacrificio la creatu­ra che aveva in gestazione dal 2 ottobre 1928. Donava anche le speranze dei dieci anni precedenti, da quando a Logrono aveva cominciato a supplicare: “Domine, ut sit! Immediatamente” - soggiunse - “mi sentii confer­mato nella verità della sua Volontà sulla sua Opera” 15.

* *

Meditando durante il ritiro, fece un elenco di quelli che chiamava i suoi “peccati attuali: Disordine. Gola. La vi­sta. Il sonno” 16.

In che cosa consisteva il disordine? A quanto si legge in una nota redatta alla fine del ritiro, intitolata “Azio­ne immediata” , il rimedio al disordine era abbandonare ogni attività che non fosse direttamente finalizzata al servizio dell’Opera:

“Devo lasciare ogni attività” - scrisse -, “anche se è ve­ramente apostolica, che non sia completamente orienta­ta al compimento della Volontà di Dio, che è l’Opera. Proposito: sono arrivato a confessare settimanalmente

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in sette posti diversi; lascerò queste confessioni, tranne i due gruppetti di ragazze universitarie”17.

Non è difficile rifare il conto dei luoghi dove confes­sava regolarmente tutte le settimane: l’asilo di Porta Coeli, la scuola di Arroyo, i ragazzi della Ventilla, l’isti­tuzione Teresiana di via Alameda, l’Accademia Veritas di via O’Donnell, le bambine della scuola dell’Assun­zione e i fedeli della chiesa di Santa Isabel. Tutto questo senza citare i malati e i moribondi degli ospedali18. A Santa Isabel si metteva nel confessionale al mattino pre­sto. E tutte le mattine, tra una confessione e la lettura del breviario, udiva aprirsi violentemente la porta della chiesa e, subito dopo, uno strepito di rumori metallici, seguito dal rumore di una porta sbattuta. Incuriosito, poiché non vedeva la porta dal confessionale, per capi­re di che cosa si trattasse si appostò un giorno all’entra­ta della chiesa. Quando si aprì rumorosamente la porta, si trovò di fronte un lattaio, carico dei bidoni per la distribuzione del latte. Gli chiese che cosa facesse:

“Padre, io vengo ogni mattina, apro (...) e lo saluto: “Gesù, ecco qui Juan il lattaio” ” .

Il cappellano restò senza parole e passò la giornata ripetendo, a modo di giaculatoria: “ Signore, qui c’è questo disgraziato che non ti sa amare come Tuan il lattaio” 19.

Quanto al peccato di gola, che cosa intendeva don Josemaria? Forse si riferiva al fatto che, per migliorare il pasto e per sollevare lo spirito dei commensali, porta­va a casa, in rare occasioni, qualche dolce? “ C’era di mezzo la mia gola”20, commentava, perché gli piaceva­no le cose dolci. Ma che cosa avrebbe potuto dire della fame che lo spingeva - sono sue parole - a mangiare “troppo pane, a tal punto da credere di peccare di gola

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mangiando pane, che oltretutto mi fa ingrassare e mi rende difficile la digestione”21?

E evidente che, con le sue insaziabili esigenze di mor­tificazione, la sua coscienza si trovava più in là dei con­fini della gola e della fame. Nei giorni di ritiro scrisse una nota per il suo confessore, nella quale si legge: “In­dubbiamente, Padre, il Signore mi chiede di aumentare la penitenza. Quando gli sono fedele su questo punto, sembra che l’Opera prenda nuovo slancio”22. Risultava così che il vigore apostolico dell’Opera si rinnovava a costo delle raddoppiate penitenze del Fondatore.

La sua capacità di lavoro e il suo ardente desiderio di lavorare lo conducevano allo sfinimento. E contro le lu­singhe del sonno, che lo reclamava fin dal mattino, si serviva di stratagemmi:

“Mi sento così incline alla pigrizia” - annotava per co­noscenza del suo confessore - “che, ad alzarmi alla mia ora al mattino non mi spinge il desiderio di piacere a Gesù; infatti - non rida - mi devo ingannare dicendo: “poi ti coricherai un po’ durante la giornata”. E quan­do prima delle sei vado verso Santa Isabel, spesso mi burlo di questo peso morto che mi porto e gli dico: “asinelio mio, peggio per te: fino a questa notte non tornerai a coricarti” ”23.

Infine, per quanto riguarda la vista, il suo audace e titanico proposito di “Non guardare mai!” era indub­biamente rispettato da un’esigente finezza di coscienza, che imponeva continue rinunce ai suoi sensi.

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Pochi mesi prima, nel Bollettino ufficiale della Diocesi di Madrid-Alcalà era stata pubblicata una circolare di monsignor Eijo y Garay nella quale si annunciava che, a partire dal primo aprile 1933, venivano estinte le Giuri­sdizioni castrense e palatina. I luoghi, persone e cose

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sottoposti a quest’ultima passavano «a dipendere unica­mente dagli Ordinari diocesani rispettivi, in conformità con le norme del Diritto Canonico»24.

La prima notizia che ne ebbe il cappellano di Santa Isabel fu il 23 marzo, come annotava negli Appunti:

“Scompare la giurisdizione palatina. Questa mattina so­no stato con don Pedro Poveda e mi disse che parlerà con don Moràn e che io continuerò a stare a Santa Isa­bel come ora. Per me è lo stesso. Sono figlio di Dio: Egli si preoccupa di me. Forse è finita la mia missione in que­sto posto”25.

È molto probabile che la prima notizia gli sia giunta attraverso don Pedro Poveda, segretario del Patriarca delle Indie, poiché fu lui a consigliargli di andare a sa­lutare il Vicario Generale di Madrid, don Francisco Moràn, per esporgli la propria situazione nel Patronato di Santa Isabel. Il Vicario era il braccio destro del Ve­scovo e aveva sentito parlare di don Josemarfa fin da quando aveva ottenuto le sue prime facoltà a Madrid su richiesta di Luz Casanova. Ma non si erano mai in­contrati personalmente, finché un giorno, nel gennaio del 1931, si conobbero in metropolitana. Rimasero d’accordo di parlare al Vicariato il giorno successivo, dove furono date a don Josemarìa tutte le facilitazioni per rinnovare le facoltà ministeriali26.

Dell’alta stima in cui lo teneva don Francisco Moràn rende l’idea quanto accaduto nella Commissione dei Rettori dell’estinta Giurisdizione palatina, durante la riunione del 29 aprile 1933:

“Sono andato a trovare don Pedro Poveda, così buono, sempre così fraterno con me, e mi disse che ieri si sono riuniti i Rettori di tutti i Patronati che sono passati alla Giurisdizione ordinaria. Ed è accaduto che, quando hanno parlato del personale, il Vicario di Madrid (Moràn), che presiedeva, ha fatto di questo povero asi-

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nello un elogio tale che don P. Poveda ne fu contentissi­mo. Quando sono uscito dall’istituzione Teresiana e ho preso il 48, che vergogna, che profonda pena mi ha fatto sentire il Signore per gli elogi del Vicario!”27.

Quando don Josemaria terminò gli otto giorni di ritiro spirituale nel convento dei Redentoristi, i giovani uni­versitari avevano superato gli esami e preparavano le vacanze estive. Prima che si disperdessero, egli sfruttò l’ultima occasione di stare insieme per dar loro consigli e raccomandazioni. Poi, nel mezzo dell’estate, con la gente fuori di Madrid, il sacerdote si sentì molto solo: “ Come mi trovo solo, a volte!” - annotava il 12 agosto - “Bisogna aprire l’Accademia, succeda quel che succe­da, nonostante tutto e tutti”28.

Il 15 agosto s’interrompono le Caterine. Ma una lette­ra datata Fonz 29 agosto e indirizzata a Juan J. Vargas, ci dice dove si trova:

“Solo due righe” - dice il primo capoverso -. “È la notte dal 29 al 30 e sto vegliando mio zio, che è grave, ma re­siste con la sua tempra d’acciaio”29.

A motivo della malattia dello zio paterno, don Teo­doro, don Josemaria fece due viaggi a Fonz, assieme al resto della famiglia. Ne venne una battuta d’arresto per la messa in moto dell’accademia. Ormai di ritorno a Madrid, meditando su un nuovo anniversario della fon­dazione, don Josemaria sentì l’urgente necessità dell’a­postolato, come si intuisce dalle Caterine: ,

“ l-X-1933. Domani sono cinque anni da quando vidi l’Opera. Dio mio, me ne chiederai conto! Che mancan­za di corrispondenza alla grazia!”30. “6-X-1933. Non perdo la pace, ma ci sono momenti in cui mi sembra che mi scoppi la testa, tante sono le cose a gloria di Dio- la sua Opera - che ribollono in me, e tanta è la pena

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che mi dà il vedere che ancora non si cristallizzano in cose tangibili”31. “ 18-X-1933. Ho mal di testa. Soffro, per la mia mancanza di corrispondenza e perché non vedo l’Opera muoversi”32.

Il 26 ottobre preparò una nota per il suo confessore. Vi esaminava brevemente le cause della propria impa­zienza, lasciando intravedere una sferzata di avvilimen­to davanti alla lentezza del cammino dell’Opera:

“Mi tortura fino a farmi dolere la testa il pensiero di la­sciare incompiuta questa Volontà: 1) per il disordine della mia vita interiore (...); 2) perché non curo - non ci arrivo, non posso fare di più - i ragazzi che ci sono arri­vati, portati da Lui”33.

Iniziava il mese di novembre e le persone dell’Opera non avevano ancora trovato un locale adatto per l’ac­cademia:

“In questi giorni, di nuovo, stiamo cercando un appar­tamento. Quante scale e quante impazienze! Egli mi perdoni”34.

Il 4 novembre Ricardo, lo studente di Architettura al quale aveva regalato la “Storia della Santa Passione” con la dedica che lo invitava a cercare, trovare e amare Cristo, andò a fargli visita in via Martmez Campos. Don Josemarìa gli parlò dell’Opera. Gli spiegò chiara­mente che Dio nostro Signore voleva che questo dise­gno del Cielo, del quale gli stava parlando, si compisse sulla terra; e che aveva carattere universale. Era per tutti e per tutti i tempi. Per portarlo a compimento oc­correva un gruppo di innamorati di Cristo che santifi­cassero il proprio lavoro in mezzo al mondo e stessero inchiodati alla Croce. Entusiasmato, Ricardo racconta: «Gli dissi semplicemente: io voglio far parte di “que­sto” , perché ancora non sapevo neppure come si chia­

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masse “questo” , che era l’Opera di Dio»35. A partire da quel momento il sacerdote aveva un altro collaboratore in vista dell’accademia:

“ 13 novembre 1933 (...). In questi giorni ci occupia­mo dei mobili per l’appartamento. Si è incaricato di acquistarli Ricardo F. Vallespm. E venuto Isidoro, per­ché si fa il contratto a nome suo e - rimango sempre solo - nonostante la sua venuta devo sistemare io que­sta faccenda”36.

2. L’Accademia “DYA”

In dicembre don Josemaria cominciò un nuovo quader­no degli Appunti con la seguente notizia: “In primo luogo, è stata benedetta la Casa dell’Angelo Custode. Il giorno dellTmmacolata, in maniera improvvisata, ab­biamo fatto questo omaggio a nostra Madre (...). Che entusiasmo nei nostri ragazzi per sistemare la casa!”37.

Il 30 dicembre annotava con intima gioia: “ Questa è la prima Caterina che scrivo nella stanza della direzione dell’Accademia DYA, che è la nostra casa dell’Angelo Custode”38.

Finalmente aveva la tanto agognata accademia, che chiamò DYA (Dio e Audacia); nome che da tempo aveva destinato alla prima casa editrice che avessero fondato; ma venne prima l’accademia. Il nome coinci­deva inoltre con le iniziali di Diritto e Architettura (“Derecho y Arquitectura” - DYA), che erano le mate­rie oggetto delle lezioni. Don Josemaria fece un disegno della targa di metallo per la porta. Isidoro si occupò di farla fondere in un’officina di Malaga 39.

L’appartamento di via Luchana, numero 33, occupa­to dall’accademia, disponeva di ben pochi locali. Era un centro culturale dove gli studenti assistevano a lezio­ni o a conferenze. Di fatto, era qualcosa di più di un

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centro accademico; era un luogo di formazione cristia­na per giovani universitari, che potevano anche parlare con il sacerdote e farsi dirigere spiritualmente. L’aspira­zione di don Josemaria era che il clima che vi si respira­va fosse quello di un ambiente familiare, pensiero che espresse con queste parole: “Per quelli di S. Raffaele, l’accademia non è l’accademia. È la loro casa”40.

Aveva anche scritto, in precedenza: “ Ci sia nelle ac­cademie, insieme alla biblioteca, una buona sala di studio, comodissima, per quelli di S. Raffaele”41. Il su­perlativo, pur benintenzionato, aveva poco o nulla a che vedere con quell’appartamento. Ciò che con enfasi chiamavano sala di studio era un locale piuttosto irre­golare e piccolo, senza altra decorazione che l’immagi­ne incorniciata della Madonna del Catechismo. Lo studio dove il sacerdote riceveva era ancora più picco­lo. Se poteva vantarsi di qualcosa era di una Severa austerità. Sul tavolo c’era un teschio e sulla parete una croce di legno, nera e senza crocifisso. Se qualche cu­rioso gli chiedeva il significato della croce di legno nuda, consentiva al sacerdote di rispondergli: “ Sta aspettando il crocifisso che le manca: e quel crocifisso devi essere tu”42.

A fine pomeriggio, quando ritornava dal confessare, dalle visite ai malati o dal fare lezione, si trovava lo studio e gli altri locali occupati dagli studenti. Nono­stante si sentisse stanco morto si dominava e, rifugia­tosi nella cucina della casa, si preparava a ricevere i giovani in colloqui confidenziali e ad ascoltare le con­fessioni. I penitenti che sfilavano di là erano in tal nu­mero che, scherzando, diceva che quella cucina era una vera cattedrale43.

Non appena risolvevano un problema economico ne arrivava un altro. Con la somma che raccoglievano dai piccoli contributi di quanti frequentavano l’accademia, come ricorda lo scultore Làzaro, difficilmente copriva­no l’affitto mensile. L’acquisto di un semplice orologio

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da parete diede origine a una lunga catena di piccole frustrazioni. Per tre volte furono sul punto di compe­rarlo; ma per tre volte vi furono necessità più urgenti. Alla fine lo regalò la contessa di Humanes, non senza ammonirli che non se lo “mangiassero”44. E vero che avevano fatto un bilancio preventivo, ma a che cosa serviva se le entrate erano insufficienti? La piccola somma che all’inizio avevano messo da parte per far fronte a qualsiasi eventualità fu consumata dalle tasse per la licenza di apertura del centro di insegnamento45. Per don Josemaria l’importante era avere già uno stru­mento per il suo lavoro di apostolato e una casa per farci “vita in famiglia” con i membri dell’Opera; vale a dire, un luogo dove riunirsi e in cui i suoi figli potessero ricevere i mezzi di formazione: lezioni, conversazioni o colloqui con il sacerdote. Era l’unico modo per far loro conoscere e assimilare lo spirito dell’Opera, stando as­sieme al Padre, ascoltando le spiegazioni dalle sue lab­bra e prendendo il suo esempio come modello di com­portamento.

Da un mese era stato preso in affitto l’appartamento di via Luchana e da poco ne era stata ultimata la siste­mazione, quando accadde qualcosa che lasciò stupefatti i presenti. Era il 5 gennaio 1934, vigilia dell’Epifania. «Il Padre propose al piccolo gruppo di suoi figli lì riuni­ti - dice Ricardo F. Vallespin - che per l’inizio dell’anno accademico 1934-35, cioè nell’ottobre 1934, dovevamo aver pronta una residenza in una casa più grande, nella quale alcuni di noi potessimo vivere, così che ci sarebbe stata la possibilità di avere un oratorio con il Signore presente nel Tabernacolo»46.

(Non tutti condividevano l’ottimismo del motto della casa - “Dio e Audacia” -; ecco quanto racconta il Fon­datore di uno dei suoi sacerdoti: “Non appena aperta la Casa dell’Angelo Custode, un mio fratello sacerdote- molto preoccupato - mi suggeriva già che la chiudes­si, perché era un fallimento. Effettivamente (non rac­

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conterò la trafila) non l’ho chiusa ed è stato un succes­so insperato e palese)”47.

Impostata da poco l’accademia e mentre ancora per­duravano le difficoltà, don Josemaria era spinto dal­l’impaziente desiderio di avere una nuova casa più ampia. Benché non fosse, propriamente, irrequietezza, bensì docilità alla pressione della premura divina: “Fretta. Non è fretta. È Gesù che spinge”48. Effettiva­mente, sembrava che il Signore lo spingesse contribuen­do all’impresa. Non erano passati tre giorni che un’ani­ma caritatevole gli offrì un’elemosina sostanziosa, che il Fondatore riservò al nuovo centro che pensava di apri­re, come annotava il giorno del suo compleanno, 9 gen­naio 193449.

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La grata dietro la quale le monache di Santa Isabel si co­municavano ricordava sempre a don Josemaria la locu­zione divina: “Opere sono amore e non i bei ragiona­menti. (Eppure” - pensava, soffrendo - “che vita di tiepidezza la mia! Che miserabile sono! Fino a quando, Gesù, fino a quando!)”50. Quella locuzione era lo spro­ne che lo faceva galoppare nei suoi piani apostolici, con­ducendolo da via Martinez Campos a via Luchana e, appena sistemata l’accademia, facendolo pensare a un piano di più ampio respiro.

Quando “ i ragazzi di Josemaria” - così chiamava Santiago i giovani che suo fratello portava nella casa di via Martinez Campos - si trasferirono all’accade­mia, gli Escrivà si resero conto che il sacerdote si stava sistemando una casa indipendente. E suo fratel­lo, anima semplice e senza alcun pregiudizio, glielo ri­cordava spesso:

“Ogni giorno, quando uscivo dalla casa di mia madre”- raccontò parecchi anni dopo - “mio fratello Santiago

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si avvicinava, mi metteva le mani nelle tasche e chiede­va: che cosa ti porti al tuo nido?”51.

La casa della signora Dolores aveva mobili, arredi e oggetti di valore, che si erano salvati nella lunga pere­grinazione da Barbastro a Madrid; ma quanto all’anda­mento economico, non aveva nulla da invidiare alla Casa dell’Angelo Custode. Entrambe le case si sostene­vano per miracolo52. A quell’epoca, Carmen, la sorella di don Josemarìa, mise a frutto i propri studi di Magi­stero fatti a Logrono53. Gli Escrivà sopportavano le dif­ficoltà fin troppo bene e grande era la loro fiducia nella Provvidenza54.

Deciso ad alleviare gli oneri che gravavano sulla fa­miglia, don Josemarìa pensò che avrebbero potuto ri­sparmiare l’affitto di via Martìnez Campos se fossero andati a vivere nella casa destinata al cappellano di Santa Isabel. Consultò il Vicario della diocesi e ne ebbe il permesso di presentare un’istanza al Ministero del­l’interno, cui allegò una lettera d’appoggio di suor Maria del Sagrario, priora del convento. Il richiedente chiedeva che, svolgendo egli l’incarico di cappellano “ senza ricevere alcuna retribuzione ufficiale” , gli venis­se concesso di “occupare, come cappellano, la casa che nel convento è destinata a chi esercita tale incarico”55. L’istanza è del 26 gennaio 1934; prima di inviarla e dopo aver considerato la cosa alla presenza di Dio, aveva deciso l’opportunità di quel passo allo scopo di ottenere la nomina ufficiale e di stabilizzare, una volta per tutte, la propria situazione canonica a Madrid56.

Cinque giorni dopo gli veniva notificato che, «vista la sua istanza con la richiesta che gli venga concesso il diritto all’alloggio, esercitando in via interinale la fun­zione di cappellano delle reverende Madri Agostiniane Recollette del Monastero di Santa Isabel e la nota favo­revole emessa da detta Comunità, questo Patronato ha accordato quanto richiesto». La risposta eludeva qual­

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siasi riferimento alla nomina57. Ma il Rettore di Santa Isabel, che non era stato consultato, non prese bene l’i­niziativa del cappellano e delle suore e ancor più la suc­cessiva decisione delle autorità civili. Per questo, e per risparmiarsi dispiaceri, don Josemaria decise di non oc­cupare per il momento l’alloggio. Più che per il Rettorelo fece per altre ragioni, che espose per ordine e con precisione nelle Caterine-.

“Ragioni? 1) Che non ci possono abitare i miei senza che ci abiti anch’io. 2) Che non conviene che io viva nel convento, perché mi lego ancor più ai miei, mentreio desidero svincolarmi. 3) Che Gesù vuole, per il pros­simo anno accademico, l’internato: e ci devo vivere an­ch’io”58.

Nel frattempo, Santiago aveva già fatto visita al “nido” di via Luchana; e la signora Dolores e Carmen non erano lontane dall’intuire che cosa si nascondeva dietro la facciata dell’Accademia e l’apostolato di Jose­maria59, il quale non potè fare altro che tenere per un certo tempo la famiglia in sospeso, dopo aver loro an­nunciato la risposta favorevole del Ministero dell’inter­no. In casa Escrivà si facevano preparativi per il trasfe­rimento e ci si chiedeva quando si poteva fare il traslo­co nell’appartamento di Santa Isabel. Ma il sacerdote prendeva tempo con scuse vaghe e preferiva non af­frontare l’argomento.

Perché questa resistenza ad accettare un discreto ri­sparmio dell’affitto? Perché non se ne andavano una buona volta a Santa Isabel? Stanchi di risposte vaghe e insoddisfacenti, i familiari al completo, senza giri di pa­role, affrontarono seriamente la questione il 10 feb­braio. Gli chiedevano: perché stiamo a Madrid, dove stiamo tanto male? E il sacerdote, ascoltando la do­manda e fronteggiando in silenzio la bufera, diceva dentro di sé al Signore: “Tu lo sai perché sto qui”60.

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E il Fondatore pensava alle ragioni che, per ordine e con rigore, aveva annotato giorni addietro nelle Caterine.

* * *

Nei colloqui con il Vicario Generale, don Josemarìa lo aggiornava puntualmente sul lavoro di formazione cri­stiana che si faceva nell’Accademia DYA: conferenze, corsi di religione, lezioni di latino, un ciclo sull’apologe­tica..., e i circoli di studio, le confessioni, le conversazio­ni di formazione61. Da marzo, dopo aver ottenuto dai Redentoristi l’uso di una cappella, cominciò a dare ritiri spirituali. Una volta al mese vi si riunivano la domenica mattina venti o trenta ragazzi e finivano il ritiro a metà pomeriggio62.

Continuavano a fare la catechesi domenicale nella scuola di Arroyo e facevano visita ai malati, oppure si univano a catechesi già organizzate in altri quartieri. Queste opere di misericordia avevano i loro rischi, come si può vedere da quanto accaduto a Manolo Sainz de los Terreros e a coloro che lo accompagnava­no. Una domenica, finita la catechesi, questi andò con altri quattro o cinque studenti a far visita ad alcuni poveri a Vallecas. All’improvviso furono assaliti da una ventina di individui. Manolo ricevette tante di quelle botte e calci in testa che gli assalitori lo credet­tero morto. Sorte analoga toccò agli altri. Uno di essi, Alvaro del Portillo, insanguinato e con una spavento­sa ferita sulla testa, riuscì a fuggire anche se grave­mente ferito63.

Le notizie sull’apostolato e le attività dell’Accademia DYA si sparsero rapidamente nei circoli studenteschi ed ecclesiastici di Madrid. Lo zelo del cappellano di Santa Isabel e il suo nuovo modo di mettere a fuoco la vita cristiana, con la proposta di una santità per tutti, si fa­ceva strada a poco a poco. E don Josemarìa notò pure con gioia che, nelle sue conversazioni con il Vicario,

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questi ripeteva già, come se fossero sue, idee che prove­nivano dallo spirito dell’Opera:

“Lunedì scorso sono stato dal Vicario di Madrid. Ci an­dai per una questione del convento di Santa Isabel. Ab­biamo parlato di molte cose, del nostro apostolato, dei ragazzi... Don Moràn si fermò per un bel po’ di tempo ed è veramente cambiato: prima mi spingeva perché io andassi in cattedra; ora mi diceva: non occorrono sacer­doti-maestri, né sacerdoti-professori, bensì sacerdoti che formino maestri e professori”64.

Pochi giorni dopo questa visita, il primo marzo, gli si presentò l’occasione di parlare con il Vescovo di Cuen- ca, monsignor Cruz Laplana, lo stesso che aveva pro­messo alla signora Dolores per suo figlio un posto di canonico. Era obbligato a dargli una spiegazione per la rinuncia alla caritatevole offerta di una prebenda. A grandi linee gli parlò dell’Opera65. Allora il Vescovo comprese a che cosa fosse orientato l’impegno apostoli­co di don Josemaria e gli offrì i suoi buoni uffici per stampare a Cuenca, a condizioni molto economiche, al­cune considerazioni spirituali che, sotto forma di un piccolo libro, sarebbero servite ai giovani dell’accade­mia per fare meditazione. A questo don Josemaria allu­de in una lettera al Vicario del 26 aprile:

“In questa Casa dei Redentoristi” - scrisse - “si svolgerà un altro ritiro spirituale la prima domenica di maggio e, con l’aiuto di Dio, spero che sia fecondo, perché i giova­ni universitari hanno risposto molto bene, partecipando ai ritiri precedenti.Sono convinto che il Signore benedice questi giovani che portano avanti l’accademia, in cui troviamo tante possi­bilità per il nostro apostolato sacerdotale fra gli intellet­tuali, adempiendo, del resto, la chiara Volontà di Dio su di me, che è “nascondermi e scomparire” (...).Per motivi di economia, con l’approvazione del Vescovo

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di Cuenca, è in stampa un libretto - poi ne seguiranno altri - nella “Tipografia Moderna”, un tempo “Tipogra­fia del Seminario”, di quella città (Cuenca)”66.

Come contropartita, correvano per Madrid notizie fosche e deformate su ciò che si faceva nell’accademia. Il sacerdote lo scoprì un giorno di maggio, quando si recò a rinnovare le facoltà ministeriali. Era andato a trovare don Moràn, il quale, molto amabilmente, chiamò per telefono interno gli Uffici del Vescovado e diede le opportune disposizioni perché lo esaudissero. Mentre si avvicinava allo sportello dell’ufficio, don Jo­semaria udì che uno della curia diceva a un altro impie­gato: “ E quello che ha una setta apostolica” . Con molta calma si avvicinò allo sportello e disse:

“Senta, non si arrabbia se le dico una cosa?” .

Quegli lo guardò un po’ sconcertato; don Josemaria gli ripetè sorridente:

“Davvero non si arrabbia?No, perché dovrei?Allora, guardi: né setta, né apostolica” .

E l’impiegato:

“Come fa a sapere che mi riferivo a lei?Lo so con certezza”.“Allora ha la coda di paglia”, replicò sfacciatamente l’impiegato.“Allora, sempre sorridendo e in tono amichevole, gli dissi che di tutto quello che faccio il Vicario è perfetta­mente al corrente. E il buon G. C. mi raccontò (gli sfuggì, perché era sconcertato) che diverse volte erano state mosse accuse contro di me per l’Opera. E parlò di una lettera... e di invenzioni da burletta sul teschio e sul­la Croce che stanno in Direzione”67.

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Lunedì 28 maggio, poco dopo l’incidente dello sportel­lo, arrivando a casa trovò un messaggio dal Vescovado:lo si pregava di presentarsi da don Moràn. Non era ne­cessaria molta immaginazione per intuire quello che c’era dietro l’invito. Il giorno successivo si recò al Vicariato e, di ritorno a casa, stese il resoconto del colloquio:

“Il signor Vicario mi ricevette molto amabilmente. Mi fece sedere (chi frequenta il Vicariato sa bene la distin­zione che implica questo particolare) e mi disse: “Mi dica che cos’è quest’Accademia DYA”. Mi sono sfogato del tutto. Don Moràn, con gli occhi socchiusi, ascolta­va, assentendo con movimenti del capo. Gli dissi, in sin­tesi: 1) Che mi dava molta gioia con la sua domanda. Che nelle mie lettere (gli scrivo sovente) gli dicevo ap­posta alcune cose, dandogli così occasione per farmi delle domande. 2) Feci la storia esterna dal 2 ottobre 1928. 3) Gli feci notare che siamo andati in via Lucha- na sapendo che ci viveva un grande amico suo - del Vi­cario - perché non avevamo nulla da nascondere. 4) Parlai dei miei figli sacerdoti, lodando quelli che lui co­nosce, come deve fare un padre. 5) Mi disse di non in­terrompere i ritiri spirituali durante l’estate. 6) Mi disse pure che avevo già il permesso per pubblicare “Santo Rosario” . 7) E - qui viene il bello - mi chiese (come se a Madrid non ci fossero teologi o associazioni ad hoc) di fargli un piano di studi religiosi per universitari”68.

Uscendo dal Vescovado andava benedicendo tutti gli angeli della corte celeste per l’occasione avuta di sfo­garsi completamente. Seguendo il consiglio del suo con­fessore, aveva esposto solamente la “ storia esterna” dell’Opera. Quella intima, la gestazione della creatura spirituale, era una faccenda privata della sua anima. E, riflettendo fra sé, continuò:

“Ora, due parole: siamo clandestini? Assolutamente no. Che cosa si direbbe di una donna incinta che volesse re­gistrare allo stato civile e in parrocchia il proprio figlio

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non ancora nato? O che cercasse di iscriverlo all’Uni- versità? Signora - le direbbero - aspetti: che venga alla luce, che cresca e si sviluppi... Ora, nel seno della Chie­sa Cattolica c’è un essere non ancora nato, ma con vita e attività proprie, come un bimbo nel seno di sua madre... Calma: arriverà il momento di iscriverlo, di chiedere le approvazioni opportune. Nel frattempo, ren­derò sempre conto all’autorità ecclesiastica di tutte le nostre attività esterne, come ho fatto finora - senza pro­vocare carteggi che verranno più avanti. Questo è il consiglio di Padre Sànchez e di don Pedro Poveda, oltre che - aggiungo io - del buon senso”69.

Poi, con molto buon senso, anche soprannaturale, commentava:

“Ci vedono. Si rendono conto. Bene. Buona cosa. Forse che, quando c’è fuoco, si possono evitare il fumo, il ca­lore e la luce? Così neppure, essendoci l’Opera, potre­mo evitare il fumo della calunnia o della mormorazio­ne, né il calore del nostro apostolato, né la luce dell’Amore di Dio manifestata nel nostro esempio e nel­la nostra parola”70.

Già cominciava ad avere la nozione di ciò che impli­cava il “nascondersi e scomparire” e dell’alto prezzo che doveva pagare per questo motto divino applicato all’Opera.

3. Il Rettore di Santa Isabel

Nel maggio 1934, quasi un anno dopo aver fatto gli esercizi spirituali, tornò a sentire brama di restare solo con Dio (“ Come mi farebbero bene due o tre mesi di so­litudine, per fare orazione e penitenza!” )71. Eppure, chi l’avrebbe mai detto, quando cominciò i suoi esercizi dai Redentoristi, il 16 luglio, si scoprì ormai con “pochissi-

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ma voglia di farli”72. Per eccitarsi alla compunzione, co­me prima cosa enumerò un lungo elenco di grazie fino ad allora ricevute. C’era da restare sbalorditi: “ Grazie innumerevoli, alcune straordinarie. L’Opera di Dio!”73.

Poi meditò sulla propria vocazione al sacerdozio. Considerò la premura del Signore nei confronti del compito che gli aveva affidato e la resistenza di alcuni sacerdoti, che non avevano il suo stesso zelo74. Ripassò mentalmente il lavoro fatto nell’accademia, e si sentì del tutto insoddisfatto del proprio sforzo e dei risultati ottenuti: “ Guardo e vedo che non corriamo. Non cor­riamo a tal punto che si può dire che “non c’è l’Ope- ra” . Allora? Vediamo che cosa hanno fatto i santi”75.

Si misurò, nel desiderio, con la “ squisita prudenza” di sant’Ignazio, uomo di grandi audacie. Meditò le sante decisioni di Teresa di Gesù, che “non perdeva il tempo in smancerie” . Infine, fece i conti con se stesso. Quali risoluzioni aveva preso? Che cosa ne era stato dell’ampliamento dell’Accademia DYAì Come era stato impiegato un mucchietto di denaro che il Signore pater­namente aveva loro inviato al principio dell’anno? Al­lora gli venne in mente che, per la stessa strada per la quale gli erano arrivate seimila pese tas, poteva arrivar­gli di colpo tutto il denaro di cui aveva bisogno per la Residenza. E, incoraggiato da questo pensiero, fece la sua orazione: “Andiamo, Signore, per una volta, perché non ci dai tutto? Io aspetto”76. (Il denaro si fece co­munque aspettare).

Una delle tristi esperienze apostoliche di don Jose- maria era che molti dei giovani, non appena andavano in vacanza al termine dell’anno accademico, scompari­vano come l’acqua nella sabbia. Ne perdeva le tracce. Ogni autunno doveva pertanto ricominciare con alcuni veterani: pochi. Ma nell’estate 1934, prima che gli stu­denti se ne andassero da Madrid, studiando il proble­ma, ebbe una brillante idea: farsi dare l’indirizzo estivo, con l’intenzione di inviare loro ogni mese delle circola­

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ri, intitolate “Notizie” , per incoraggiarli nella vita inte­riore e salvare la continuità del lavoro apostolico. Aiu­tato da coloro che rimanevano a Madrid, ne stampò una copia al ciclostile, sistema piuttosto rudimentale, e glieli inviò prima di fare il suo ritiro spirituale. Due set­timane dopo, uscito dai Redentoristi, trovò sul tavolo una cinquantina di lettere. Rispose con gioia, distri­buendo consigli ai vacanzieri77.

Erano i primi giorni di agosto, in piena estate, quan­do don Josemaria girava per tutta Madrid con le perso­ne rimaste a cercare case o appartamenti liberi. Alla fine trovarono una casa grande e ben situata, in grado di ospitare l’accademia e una residenza per studenti. Ma solo per cominciare a parlare con il proprietario erano imprescindibili 25.000 pesetas. Il sacerdote lan­ciò immediatamente una campagna di preghiere, scri­vendo a destra e a manca. Tre sue lettere sono datate 5 agosto 1934 e in tutt’e tre si canta la stessa canzone; così scrisse a uno:

“Fa un triduo alla nostra Madre Immacolata, chieden­do venticinquemila pesetas, che ci occorrono subito. Qui stiamo pregando Dio e dandoci da fare, ma ci oc­corre la preghiera di tutti”78. E a un altro:“Senti, un favore: fa un triduo alla nostra Madre Imma­colata perché, se è volontà di Dio, ci mandi le venticin­quemila pesetas che ci occorrono per la Casa dell’Ange-lo Custode”79. E ad un terzo:“L’internato è necessario. Ci muoviamo, ma finora non ci sono soldi. Aiutaci: prega e fa pregare. Dobbiamo seccare nostro Padre-Dio. Tuttavia, benché sembra che dorma e non ci faccia caso, la Santissima Vergine ci aiuta... Riusciremo a completare la Casa dell’Angelo Custode! Non avere dubbi (...). Manolo, diventa bam­bino piccolo davanti al Tabernacolo e fa’ a Gesù questa preghiera, semplice, fiduciosa e audace... e perseverante: “Signore, vogliamo - per Te - venticinquemila pesetas contanti e sonanti” ”80.

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Il 30 agosto don Josemarìa, accompagnato da Juan J. Vargas e da Ricardo F. Vallespìn, si recò al santuario del Cerro de los Angeles, vicino alla capitale. Durante il ringraziamento, dopo la Messa, gli si risvegliò quel suo istinto soprannaturale di ricorrere sempre alla Madon­na. E lì consacrò POpera alla Santissima Vergine81.

Agosto fu un mese duro; lo annotava lo stesso giorno:

“Quante lacrime, in questo periodo, per i miei peccati e per la Casa dell’Angelo Custode! Visite, risposte negati­ve, sembra chiuso l’orizzonte umano... Ma con Te, Ge­sù, nonostante la mia miseria, andremo avanti”82.

Si fecero calcoli minuziosi delle entrate e delle uscite dell’Accademia-Residenza. Furono poi prosciugati i conti correnti di Isidoro Zorzano e di José Maria G. Barredo e così a stento si riuscì a pagare la caparra e la prima rata di affitto di alcuni appartamenti in via Fer- raz 50: due al primo piano e uno al secondo. «Pren­demmo possesso della casa ai primi di settembre - rife­risce Vallespìn -. Furono fatti i lavori di muratura ne­cessari per unire i due appartamenti e per mettere in uno dei bagni le docce per i futuri residenti; poi si co­minciò ad ammobiliare» 83.

Prima di dare inizio ai lavori di muratura si trovaro­no con un pericoloso deficit di 15.000 pesetas. Don Josem arìa dovette di nuovo scrivere per chiedere aiuto. Tutte le lettere del 6 settembre hanno la stessa notizia di fondo.

“Siamo qui pieni di preoccupazioni” - raccontava a don Eliodoro Gii, un sacerdote amico -: “abbiamo preso in affitto una nuova casa in via Ferraz 50. Ci sono dei bei progetti di realizzazione immediata, molto fattibili, ma, dopo aver riunito il denaro, ci mancano15.000 pesetas, che non sappiamo da dove tirar fuori. Raccomanda molto la cosa nella S. Messa e nella tua preghiera”84.

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E in un’altra lettera:

“Siamo pieni di preoccupazione per questo benedetto denaro (...). Non posso mentire: umanamente non vedo soluzione. Ma ci sarà una soluzione. Non è possibile tornare indietro. Orazione, orazione e orazione”85.

Solamente nella lettera al Vicario Generale, anch’essa del 6 settembre, si tace la pressione economica e le frasi scorrono terse e spensierate:

“Mio amato e venerato Signor Vicario, importuno an­cora l’attenzione di V.E. per farle sapere, in primo luogo, il nuovo domicilio dell’Accademia DYA: via Fer- raz 50. Hanno preso in affitto tre appartamenti, uno per l’Accademia e due per la Residenza. La casa ha un ottimo aspetto. Fino alla metà del mese non faranno il trasloco”86.

È chiaro che don Josemaria cercava di chiudersi la ri­tirata. Poteva forse tornare indietro dopo aver notifica­to ufficialmente al Vicario il nuovo indirizzo dell’Acca- demia e della Residenza? Dio aveva l’ultima parola.

* * *

Intorno a queste date gli Appunti intimi presentano una notevole lacuna di diverse settimane, che si chiude con un “Povere caterine\ Quante cose tralascio di annotare!”87. Di fatto riprendono solo a novembre avanzato, rompendo il silenzio con questa sconcertante annotazione:

“20 novembre 1934. Ormai nella Casa dell’Angelo Cu­stode - via Ferraz - scrivo oggi, finalmente, poche paro­le in queste Caterine. Scrivo per scrivere: sono tante le cose che dovrei segnare, che non ne scrivo nessuna”88.

Almeno erano già sistemati in via Ferraz. Nel frat­tempo si era risolto il problema economico che li aveva

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fatti ammattire alcune settimane prima. Le cose erano andate così: il 16 settembre don Josemaria era partito da Madrid per Fonz, dove si trovavano la madre e i fra­telli, allo scopo di proseguire le pratiche per la vendita delle proprietà che erano rimaste a loro in eredità dopo la morte di don Teodoro, avvenuta l’anno precedente. Il viaggio fu pittoresco, poiché il sacerdote condivise lo scompartimento del treno con una famiglia di Madrid che portava una scimmietta per rallegrare il viaggio. Il sacerdote, senza badare ai suoi compagni di viaggio, sfruttò il tempo impegnandosi a individuare chiese nel paesaggio: “Io mi dedicai - fin da Madrid - a uno sport divino: scrutare l’orizzonte per dire qualcosa a Gesù nei Tabernacoli del percorso”89.

Passò la notte a Monzón e il giorno successivo, giun­to a Fonz, pensò che fosse arrivato il momento di esporre alla famiglia il problema economico e di parla­re loro dell’Opera. Poi scrisse con grande gioia a quanti erano rimasti a Madrid, quasi si fosse tolto di dosso un peso dopo molti anni:

“Fonz, 17 settembre 1934.Gesù vi protegga. Sono arrivato questo pomeriggio, alle cinque. Ho parlato con la mamma e i miei fratelli: ho raccomandato molto la cosa a S. Raffaele... e ci ha ascoltati. Mia madre vi scriverà due righe. Domani andrò a Barbastro con mia sorella Carmen per siste­mare tutto”90.

Tre giorni dopo spiegava loro, con dovizie di dettagli, quanto era accaduto in quel colloquio:

“Seguendo l’ordine cronologico, brevemente, vi voglio raccontare tutto ciò che ho fatto. Vedrete: un quarto d’ora dopo il mio arrivo in paese (scrivo da Fonz, anche se imbucherò questa lettera domani a Barbastro) ho parlato dell’Opera a mia madre e ai miei fratelli, a gran­di linee. Quanto avevo importunato i nostri amici del

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Cielo in vista di questo momento! Gesù ha fatto sì che andasse tutto molto bene. Vi dirò, letteralmente, che cosa mi hanno risposto. Mia madre: “Va bene, figlio mio, ma non ti frustare e non ti rovinare la salute” . Mia sorella: “ Me l’immaginavo e l ’avevo detto alla mamma” . Il piccolo: “Se tu hai dei figli..., devono avere molto rispetto per me questi ragazzi, perché io sono... il loro zio!” . Subito tutti e tre videro del tutto naturale che il loro denaro fosse utilizzato per l’Opera. E ciò - sia gloria a Dio! - con tanta generosità che, se avessero dei milioni, li darebbero ugualmente.

Adesso parliamo di quello sterco del diavolo che è il denaro: mia madre pensa di poter ricavare 35 o 40 mila pesetas (...).

In sintesi: domani scendo a Barbastro con Guitìn - da lì andrò a Monzón per chiamarvi, perché a Barbastro vengono a sapere tutto - e il Giudice mi ha promesso che l’I ottobre finiscono tutte la scartoffie, grazie a Dio.

Naturalmente, farò in modo che si venda martedì o mercoledì prossimo - prima è impossibile - e verseremoil ricavato (...).

Nel frattempo, perché non cercate di comperare dei mobili con il pagamento a 30 giorni o più, come si fa normalmente con le fabbriche?

Naturalmente, non mi muovo di qui senza il denaro, costi quel che costi!

Un’altra cosa: loro sono d’accordo che io dorma al- l’Accademia e mi porti là tutte le cianfrusaglie della mia stanza. Così portano con sé la donna di servizio che hanno qui, che altrimenti non potrebbero portarsi per la mancanza di una camera”91.

Quelli di Madrid cominciarono a cercare mobili e ac­cessori domestici con grande entusiasmo in attesa del­l’arrivo di don Josemaria, che adempì alla promessa di non ritornare senza il denaro. Ricevettero un’altra lette­ra da Fonz, nella quale si annunciava: “Mercoledì - o forse domani - vi potrò inviare un primo pizzico delle20.000 di cui abbiamo bisogno”92.

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Al ritorno di don Josemaria si pose termine ai lavori. Ricardo, l’architetto, che sarebbe stato il direttore della Accademia-Residenza, dice che «la casa fu ammobiliatalo stretto indispensabile». Fu comperato il necessario per la cucina e le stoviglie; e fu acquistata a credito la biancheria da letto in un grande magazzino. Ma pur­troppo, poiché il denaro era bastato solo per completa­re una camera a due letti, in uno dei locali vuoti furono ammucchiati per terra materassi, coperte, lenzuola, asciugamani e cuscini93.

Don Josemaria decise di benedire quanto prima la casa. Lo fece un pomeriggio, quando era già buio. Alla scarsa luce di qualche candela, poiché c’era un guasto elettrico nella casa, percorse i locali, irrorandoli abbon­dantemente di acqua benedetta:

“Avevamo biancheria che mi avevano dato a credito cer­ti grandi magazzini, perché la pagassi non appena possi­bile. Ma non avevamo armadi per riporla. Sul pavimen­to stendemmo con cura della carta di giornale e sopra una gran quantità di cose (...). Mi ero portato dal Retto­rato di Santa Isabel un secchiello con acqua benedetta e un aspersorio. Mia sorella Carmen mi aveva confeziona­to un rocchetto splendido (...). Mi ero portato da Santa Isabel anche una stola e un rituale e benedissi la casa vuota: con che solennità e gioia, con che sicurezza!”94.

Il 30 ottobre notificò per lettera al Vicario che il nuovo centro era già in funzione:

“Si è aperto l’anno alla DYA, e spero che saranno ab­bondanti i frutti soprannaturali, nonché di cultura e for­mazione cattolica, che si dovranno ottenere in questa Casa. Ho questa sicura speranza, perché i fondamenti del nostro lavoro sono l’orazione e il sacrificio: posso af­fermare - e non esagero - che questi nostri ragazzi sono eroici. Vedesse come lavorano in prima persona - assi­stenti universitari, stesi a terra; ingegneri che pitturano

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pareti; avvocati, medici e studenti (di quelli che studia­no) che fanno le veci dei falegnami - e come mettono a disposizione i loro risparmi per questo apostolato”95.

(Non esagerava. Uno degli apprendisti falegnami era uno studente di nome José Maria Hernàndez Gamica, per gli amici Chiqui. Lo presentarono a don Josemaria in pieno trambusto. Ed egli, senza troppi preliminari, lo invitò a parteciparvi: “ Salve, Chiqui; ben arrivato! Prendi questo martello e dei chiodi e vai a inchiodare là sopra...)”96.

Appena aperta 1 Accademia di via Ferraz, il Fondato­re si trovò in mezzo a “grandi tribolazioni, interiori ed esteriori” , come vedremo subito. In quel momento il Si­gnore lo conduceva avanti, “ servendosi di numerose avversità” , pur senza mai togliergli la serenità. (“ Quan­te preoccupazioni e quante notti in dormiveglia! Ben­ché, in genere, dorma bene, perché la mia pace, grazie a Dio, è profonda e forte”, scrisse in una Caterina)97.

* * *

Le vicissitudini attraverso le quali era passata la Giuri­sdizione Palatina tennero don Josemaria in una perma­nente situazione di fatto, canonicamente instabile. Da tre anni era al servizio della Comunità delle Agostinia­ne. Esse apprezzavano la robusta vita interiore del cap­pellano, il quale, secondo l’espressione di suor Maria del Buen Consejo, era «un sacerdote che viveva di fede: era pieno di Dio». Il suo amore all’Eucaristia era tangi­bile quando portava la Comunione alle monache mala­te. Avviluppava con riverenza il portaviatico nel velo omerale, stringeva amorevolmente al petto il Santissimo Sacramento e percorreva in completo raccoglimento i corridoi della clausura. «A me don Josemaria faceva l’effetto di quei quadri che rappresentano S. Cristoforo che portava sulle spalle Gesù Bambino, e il suo peso lo faceva piegare», soggiunge suor Maria98.

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Un giorno giunse all’orecchio della Comunità che don José Huertas Lancho, Rettore del Patronato di Santa Isabel, pensava di rinunciare alla carica. Di fatto era il cappellano, e non il Rettore, a prendersi cura delle suore, per cui queste ritennero giunto il momento di ottenere finalmente la nomina effettiva di don Jose­marìa. E glielo comunicarono. Il sacerdote, però, si ri­fiutò di chiedere il Rettorato, perché il posto non era ancora vacante; ma la priora, suor Maria del Sagrario, non era disposta a rischiare che qualcun altro la battes­se sul tempo. Pertanto, dopo aver consultato il resto della Comunità e il Vicario, il 4 luglio 1934 scrisse alla Direttrice Generale di Beneficenza una lettera di richie­sta a favore del cappellano interinale:

«Precedo la rinuncia del Signor Rettore, perché tutti sanno già che se ne va e immagino che ci saranno dei sa­cerdoti che ne faranno richiesta; benché credo che Lei non procederà a concedere l’incarico sapendo che qui c’è uno che ha diritto alla nomina, tuttavia mi prendo la libertà di ricordarglielo, pregandola di perdonare se ciò turba la sua delicata coscienza.Con grande fiducia rimango la sua aff.ma, Suor Maria del Sagrario, Priora»99.

Il Rettore si assentò da Madrid e presentò la rinuncia formale all’incarico soltanto l’I ottobre. La macchina amministrativa si mise allora in moto e don Josemarìa, che non era intervenuto nella questione, scrisse al Vica­rio per informarlo che la richiesta della sua nomina a Rettore era un’iniziativa personale della Priora di Santa Isabel presso la Giunta dei Patronati: “Io non ho pre­sentato istanza in questo senso, né penso di presentarla. Mi attengo assolutamente a ciò che Dio vuole, e del tutto agli ordini di V.S. Ill.ma” 100.

L’11 dicembre il Presidente della Repubblica firmavail decreto di nomina:

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«Su proposta del Ministro del Lavoro, Sanità e Previ­denza, e in conformità con quanto disposto nel decreto 14 febbraio 1934, nomino nell’incarico di Rettore del Patronato di Santa Isabel don José Maria Escrivà Albàs, Licenziato in Diritto Civile. Dato a Madrid, 11 dicem­bre 1934.Firmato: NICETO ALCALÀ-ZAMORA Y TORRES. Il Ministro di Lavoro, Sanità e Previdenza: ORIOL AN- GUERA DE SOJO»101.

La divulgazione della notizia, contrariamente a quan­to ci si poteva attendere, non toccò minimamente don Josemarìa, perché “quasi fosse una conferma del nostro spirito, nascondersi e scomparire” , - egli commentò - “ il Signore fece in modo che i miei due cognomi venisse­ro ignorati o sbagliati in tutti i giornali e nei notiziari ra­dio” 102. Ma la cosa non finì lì. Quando il sacerdote pas­sò al Ministero dell’interno a ritirare il documento di nomina, trovò che, senza chiedergli parere né dargliene comunicazione, qualche funzionario aveva già fatto la pratica amministrativa di presa di possesso dell’incarico in data 19 dicembre103.

Don Josemarìa sapeva che la presa di possesso di una carica ecclesiastica conferita dalle autorità civili richie­deva la preventiva autorizzazione del Vescovo. Quindi, dal Ministero andò direttamente al Vescovado a comu­nicare quanto accaduto al signor Vicario. Don Franci­sco Moràn gli fece i suoi rallegramenti, promise di si­stemare le cose con il Vescovo e, saputo che presto sa­rebbero scadute le sue facoltà ministeriali, gliele pro­rogò immediatamente fino al giugno 1936104.

Il sacerdote non capiva il perché di tanta cortesia da parte del Vicario, finché la settimana successiva ricevet­te una lettera in cui il Vescovo di Cuenca lo metteva al corrente della posizione assunta dal Vescovo di Madrid a seguito delle informazioni che gli aveva dato il Vica­rio Generale. Ancora una volta ebbe la prova che dai

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mali, vale a dire dalle maldicenze sulla sua persona, Dio ricavava dei beni; e annotò:

“Il Vescovo di Cuenca mi scrive e mi racconta che, a suo giudizio, il giorno in cui parlai dettagliatamente a don Moràn - dopo le insidie - il Vicario fece poi al Ve­scovo un tale resoconto, che si spiega il motivo della be­nevolenza del Vescovado nei nostri confronti. Laus Deo, che scrive diritto su righe storte!”105.

Quando, il 23 gennaio, si presentò di nuovo a salu­tare il Vicario, questi gli assicurò che poteva conside­rarsi legittimo Rettore e che gli veniva confermata la nomina, sebbene fosse politica di don Leopoldo non avallare mai in scriptis le nomine ecclesiastiche conferi­te dalle autorità civili, dato l’atteggiamento che queste tenevano contro la Chiesa dal 1931. Gli consigliò però di comunicare la nomina all’Arcivescovo di Saragozza. Suggerimento che egli mise in atto senza ritardo, otte­nendo da Mons. Rigoberto Doménech questa burocra­tica risposta:

«Mio caro amico, riceva le mie più cordiali felicitazioni per la sua nomina a Rettore-Amministratore del Patro­nato di Santa Isabel, incarico nel quale le auguro le mag­giori soddisfazioni e chiedo al Signore che le conceda il suo aiuto per disimpegnarlo con il massimo profitto. In pari tempo la ringrazio per le sue sincere e generose espressioni»106.

La risposta, pur cortese, sembrava lasciar trapelare un tono di studiata ambiguità, che forse aveva il significato di una disapprovazione. In quegli anni di persecuzione della Chiesa, accettare una nomina ecclesiastica dalle autorità civili equivaleva a collaborare con il nemico107.

Il sospetto di don Josemaria che dietro alla lettera gentile si celassero maldicenze di curia diventò certezza. E questo nonostante le spiegazioni date da Pou de Foxà

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circa la nomina e la sua accettazione. Ciò che davvero si pensava negli ambienti clericali di Saragozza, il nuovo Rettore di Santa Isabel lo seppe più tardi, da una lettera del suo buon amico, il professore di Diritto ro­mano: «Arrivò il signor Segretario - lo informava Pou de Foxà - il quale, parlando di te, perché io lo indussi a parlare con la sana intenzione di conoscere il suo crite­rio, mi disse che le cose della repubblica non stavano bene a un sacerdote, poiché equivaleva a significare che fosse d’accordo con essa»108. Frattanto la Comunità delle Agostiniane Recollette di Santa Isabel viveva san­tamente, estranea a scrupoli politici o ecclesiastici. Erano molto contente di averla avuta vinta.

4. L’Accademia-Residenza di via Ferraz

La politica della seconda Repubblica spagnola, settaria e aggressiva in materia religiosa, culminò nella cosid­detta “Legge sulle Confessioni e Associazioni Religio­se” , del giugno 1933. Questa legge contribuì in modo decisivo ad esasperare i sentimenti di una nazione pre­valentemente cattolica, mobilitando grandi masse di credenti. Fu così che, dopo la reazione popolare alle elezioni generali del 1933, fu creato un governo di cen­tro, moderato. Di fronte alla disfatta elettorale, i socia­listi e i gruppi marxisti e anarchici si diedero a una pro­vocatoria belligeranza. Nell’ottobre 1934 scoppiò nelle Asturie un’insurrezione armata, che si trasformò in una guerra civile senza quartiere contro i poteri legalmente costituiti. Il governo dovette inviare l’esercito per sotto­mettere i rivoluzionari e la campagna dell’ “ ottobre rosso” fu lunga e sanguinosa. La “ Rivoluzione delle Asturie” lasciò dietro a sé una scia di martiri, sacerdoti e religiosi, e molte chiese bruciate o distrutte109.

Era scontato che l’anno accademico 1934-1935 do­vesse trascorrere a scossoni, data la fragilità politica del

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Paese. A causa della “Rivoluzione di Ottobre” , degli scioperi generali a Madrid e del rinvio dell’apertura delle aule universitarie, i residenti non comparivano. Si misero annunci sui giornali, ma tutto fu inutile110.1 cal­coli finanziari, tanto laboriosamente ponderati mesi prima per fare un bilancio preventivo, vennero meno per mancanza di entrate. Arrivò Natale e in via Ferraz ci si trovò in un bell’imbroglio economico.

* * *

Molte e svariate furono certamente le difficoltà che don Josemaria dovette superare agli inizi del suo apostolato. Nei giovani studenti trovava un entusiasmo iniziale che poi non riusciva a calare in profondità e che rifuggiva da assumere impegni di una disciplina fatta di rinunce e di donazione. Per quanto si riferisce alle donne, l’assi­dua attenzione con cui faceva loro conoscere l’Opera eil suo spirito non andava oltre, per mancanza di tempo, alla direzione spirituale in confessionale. Diverso fu il caso dei sacerdoti. Si trattava, in buona parte, di perso­ne di una certa età che, proprio per questo, avevano abi­tudini e comportamenti molto radicati. Per più di tre anni don Josemaria si era adoperato a fondo per infon­dere loro lo spirito giovane e soprannaturale dell’Opus Dei. A quanto pare, non arrivarono a comprendere del tutto don Josemaria e, di conseguenza, alcuni si man­tennero a una certa distanza111. Ben presto il Fondatore si rese conto di questo allontanamento, che non prove­niva da mancanza di affetto da parte dei suoi fratelli sa­cerdoti, ma dal fatto che non avevano preso un impegno chiaro di fare propria quell’impresa divina. Solamente don Somoano vi si era identificato; ma ben presto Dio se l’era preso con Sé.

Allo scopo di unire coloro che gli stavano più vicini, don Josemaria cercò di vincolarli formalmente. Cinque dei primi sacerdoti che lo avevano seguito s’impegnaro­no a vivere l’obbedienza e “ l’adesione completa all’au­

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torità dell’Opera” , in virtù di un “Impegno” fatto il 2 febbraio 1934112. Ma il loro comportamento lasciò molto a desiderare. Era evidente che il Signore dispone­va le cose in modo tale che questi sacerdoti, pur essen­do molto santi, quando si trattava di portare avanti il lavoro apostolico lasciavano solo il Fondatore. Così tutte le sue energie fisiche e tutta la sua volontà erano interamente spese nell’assecondare la spinta che il Si­gnore imprimeva all’Opera113.

La creazione dell’Accademia-Residenza DYA in via Ferraz fu la prova del fuoco attraverso la quale dovette­ro passare coloro che seguivano don Josemaria. Il motto DYA (Dio e Audacia) era lo stendardo che inal­berava il Fondatore, il quale, pieno di fede e di fiducia soprannaturale, si lanciava ben oltre le proprie possibi­lità umane. Andava al passo che Dio gli scandiva, con una fiducia e una fretta che, agli occhi di qualche sacer­dote che collaborava con lui in quel lavoro apostolico, sembravano una colossale imprudenza. La decisione di don Josemaria, che pretendeva di montare immediata­mente una Accademia-Residenza non avendo i mezzi necessari, appariva una pazzia evidente, un affare suici­da. Era un’azione paragonabile - criticava uno di loro - “a chi si lancia da grande altezza senza paracadute, di­cendo: Dio mi salverà”114. In fin dei conti, che cosa si guadagnava precipitando le cose? Non era meglio aspettare l’anno successivo per aprire l’Accademia-Re- sidenza con maggior preparazione?

Indubbiamente mancava loro audacia apostolica; e i criteri soprannaturali che il Fondatore applicava al compimento della sua missione divina non li capivano fino in fondo. Con la loro mancanza di fede stavano rallentando l’impeto che il Signore dava a tutta l’Ope­ra, per mezzo del Fondatore, per il quale era giunto il momento di avere una residenza nella quale abitare con i propri figli per formarli. Così egli si esprimeva nella sua orazione:

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“Signore, il ritardo per l’Opera non sarebbe di un an­no... Non vedi, Dio mio, quale diversa formazione si po­trà dare ai nostri avendo un internato, e quale maggiore facilità ci sarà ad avere nuove vocazioni?(...) Un anno? Non dobbiamo essere persone dalla visua­le ristretta, minori di età, di vista corta, senza orizzonti soprannaturali... Lavoro forse per me? E allora!...”115.

Il motto “Dio e Audacia” fu la pietra di paragone che distingueva quanti erano disposti a seguire don Jo­semarìa da quelli che definivano imprudenti le sue av- _ venture apostoliche: mancavano forse di fede questi sa­cerdoti? O piuttosto avevano troppa prudenza umana? Monsignor Pedro Cantero, che conosceva il Fondatore e quei sacerdoti, risponde: «Non so se seppero essere all’altezza di ciò di cui il Padre aveva bisogno. L’oriz­zonte che apriva don Josemarìa era di tale ampiezza che lo poteva capire solo chi avesse davvero la virtù della magnanimità. Mi sembra che i ragazzi giovani, con la loro audacia, capissero meglio ciò che don Jose­marìa doveva realizzare»116.

Da parte sua il Fondatore non tardò a rendersi conto del fatto che, affinché comprendessero nella sua inte­grità lo spirito dell’Opus Dei, i sacerdoti dovevano pro­venire - come più oltre si spiegherà - dalle file dei membri laici già formati nello stesso spirito117. Il Signo­re, evidentemente, si era servito degli eventi dell’Acca- demia-Residenza per purificare la sua anima, come espresse in una Caterina del gennaio 1935:

“Non è che non amino l’Opera e me - mi vogliono bene- ma il Signore permette molte cose, senza dubbio per aumentare il peso della Croce”118.

Nonostante le numerose contrarietà, interiori ed esterne, don Josemarìa si mantenne saldo, senza cedere nel suo proposito, con la sicurezza che il Signore lo avrebbe tolto dal pantano (“Perché non è cocciutaggi-

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ne: è luce di Dio che mi fa sentire saldo, come su una roccia” )119. E siccome non era uomo da attendere i mi­racoli standosene a braccia conserte, ricorse con impeto all’orazione e alla penitenza; impeto che fu frenato dal suo direttore spirituale:

“Non mi consente grandi penitenze” - scrisse “Quello che facevo prima, niente di più, e due digiuni, il merco­ledì e il sabato, e dormire sei ore e mezza, perché dice che se no nel giro di due anni sarò inservibile”120.

Per la questione economica aveva cercato chi lo aiu­tasse. Nel dicembre precedente, il giorno di S. Nicola di Bari aveva nominato questo santo Vescovo patrono del­l’Opera per le questioni economiche121. Ricorse anche a S. Giuseppe con una messa votiva di ringraziamento per i molti doni del passato... e per quelli che si atten­deva ora, per risolvere il futuro dell’Accademia122.

* * *

Da quando gli Escrivà avevano lasciato l’appartamento di via Martmez Campos per trasferirsi nei locali di San­ta Isabel, don Josemaria teneva un piede nel Patronato e l’altro in via Ferraz. Era obbligato a stare attento so­prattutto alla Residenza, dove i problemi di servizio e amministrazione erano continui. Era abituale che alla fi­ne del mese non ci fosse il denaro per pagare gli affitti degli appartamenti, o il conto del macellaio, o del pa­nettiere, o del droghiere. Vivevano in parte di credito quanto alla fornitura dei generi commestibili; per quan­to riguarda gli affitti, il sacerdote andava a trovare il proprietario, il signor Javier Bordiu, pregandolo di pa­zientare per il ritardo... «Io soffrivo - racconta Ricardo, il direttore -. Qualche volta ho pianto e le mie lacrime cadevano sul libro dei conti»123.

Se per qualsiasi motivo Ricardo doveva assentarsi don Josemaria restava in direzione fino a sera tardi. In

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queste occasioni lasciava la Residenza ad ore avanzate, per andare a Santa Isabel. Nelle notti oscure d’inverno, pensando ai pericoli che correva un sacerdote solitario per le stradine di Madrid, i suoi familiari lo aspettava­no con ansia a Santa Isabel prima di coricarsi. Stavano di vedetta dietro i vetri, finché lo vedevano comparire avvolto nel mantello in fondo alla strada. Con il tempo ci fecero quasi l’abitudine, benché la signora Dolores continuasse a restare con l’animo sospeso124.

Di fronte alle avversità degli ultimi mesi, don Jose­marìa arrivò a convincersi, come Giona, di essere di di­sturbo al progresso dell’Opera, e confessava: “È dei miei peccati, della mia ingratitudine, la colpa delle tribolazio­ni che soffriamo” . Allora dentro di lui irrompeva un grido: “Signore, castiga me e dà impulso all’Opera” 125.

E trovò il rimedio nella penitenza. (Nonostante che affermi che il suo direttore non gli consentiva “grandi penitenze” , per non ridursi inservibile in un paio d’an­ni, è un fatto che gli aveva permesso digiuni, cilici e di­scipline nei giorni di lunedì, mercoledì e venerdì)126. Padre Sànchez gli controllava le mortificazioni corpora­li quanto alla frequenza; ma come poteva calibrare l’in­tensità o i modi delle discipline? La signora Dolores in­vece sì che era al corrente di quanto fosse aspra la sua penitenza, come testimonia il suo commento quando suo figlio le parlò per la prima volta dell’Opera nella famosa riunione familiare a Fonz. Persino suo fratello sapeva che si “ ciliciava” \ Gli Escrivà erano disposti a cedere generosamente all’Opera l’eredità di don Teodo­ro. La madre gli fece solamente una richiesta: “ma non ti frustare e non ti rovinare la salute” 127. (Le sferzate delle discipline che il figlio scaricava sulle proprie carni erano un martirio per la sensibilità della madre, che ne udiva il rumore. Era impossibile evitarlo nella casa di via Martmez Campos e poi in quella di Santa Isabel, per quanto don Josemarìa aprisse i rubinetti per farne uscire rumorosi getti d’acqua. E benché ripulisse con

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cura la stanza da bagno dopo l’operazione, non sfuggi­vano agli occhi perspicaci della madre le piccole mac­chie di sangue rimaste sul pavimento o sulle pareti)128.

Appena potè, si portò le discipline nella Residenza. Toccò allora a Ricardo udire le sonore scudisciate: «Il Padre, non so con quale frequenza, si chiudeva nella stanza da bagno e cominciava a darsi colpi con la disci­plina. Ho visto, per una disattenzione del Padre, che quelle discipline non erano come quelle che utilizzava­mo noi, fatte solo di corda. Quelle del Padre avevano dei ferri, non so esattamente se fossero dei chiodi, dei dadi, o altro, ma sono sicuro che fossero dei pezzi di ferro. Il Padre non sapeva che io udivo i colpi, e io mi arrabbiavo, mi tappavo le orecchie per un bel po’, ma i colpi continuavano secchi: pam, pam, pam... Sembrava che non dovessero finire mai. Non osavo dire nulla al Padre, ma dopo che se n’era andato, entrando in bagno, vedevo che erano state discipline di sangue e che, pur essendone state accuratamente ripulite le trac­ce, trovavo qualche punto della parete di piastrelle pun­teggiato di rosso (...). Avrei dato qualunque cosa per non vedere né udire le prove di quelle penitenze»129.

Continuavano a echeggiare le critiche allarmistiche di qualche sacerdote che collaborava con don Josemaria: l’Accademia era “un fallimento; per qual motivo mi do­vrei aspettare che Dio mi faccia un miracolo. La cata­strofe! I debiti!” 130.

Don Josemaria non perse la serenità. Chiese a padre Sànchez e a don Pedro Poveda se mai avesse commesso una grave imprudenza. Entrambi lo incoraggiarono: era, indubbiamente, una prova del Signore131.

Fu così che il 21 febbraio, senza dire nulla ai sacerdo­ti, riunì tre dei suoi e propose loro una soluzione tem­poranea alla situazione economica: fare a meno di un piano e portare l’Accademia DYA a quello della Resi­denza, dove c’era spazio in abbondanza. L’anno accade­mico successivo sarebbe arrivata l’espansione, il mo­

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mento in cui sarebbe scattata la molla compressa e avrebbero recuperato quanto lasciavano in quel mo­mento132. Fu comunicata la decisione a quelli che stava­no fuori di Madrid. Tutti reagirono con fede e ottimi­smo: «Ci comprimiamo ora affinché in questo periodo embrionale possiamo acquisire la necessaria elasticità, a modo di molla, per fare a suo tempo il grande salto della tigre», scriveva Isidoro da Malaga133.

Per don Josemaria, l’abbandono del piano equivaleva a una “apparente ritirata strategica” 134, mentre per al­cuni dei suoi sacerdoti era una prova evidente del falli­mento. Per questo, e con i precedenti dei mesi trascorsi, decise la sua futura norma di comportamento nei loro confronti: “ Cercherò di tirarne fuori il meglio, fino a vedere se maturano nello spirito dell’Opera” . Quindi seguì con loro una prudente tattica di tira e molla. Ben sapeva perché non reagivano. (“Hanno poca visione so­prannaturale e uno scarso amore per l’Opera, che per loro è un figlio posticcio, mentre per me è anima della mia anima)” 135.

L’atteggiamento vacillante del gruppo di sacerdoti fu, per mesi, una costante preoccupazione per don Jose­maria. Benché li avesse chiamati all’Opera come colla­boratori e fratelli, furono invece un peso. Alcuni di essi avevano preso poche settimane prima un impegno di obbedienza, allo scopo di rafforzare l’autorità di gover­no del Fondatore. Ma il loro comportamento fu molto diverso da quello che ci si poteva attendere. Il Fondato­re, sotto l’effetto di questo amaro cruccio, disse qualche volta che essi erano stati la sua “corona di spine” . L’at­teggiamento negativo che assunsero li allontanò dallo spirito dell’Opera. Il 10 marzo egli dovette registrare un fatto penoso: “Da alcuni giorni non è possibile tene­re la Conferenza sacerdotale, che si svolgeva ogni setti­mana dal 1931 ” 136.

A partire da allora le sue relazioni con i sacerdoti dell’“ impegno” del 1934 si fecero poco meno che inso­

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stenibili e, oltretutto, gli cadde addosso la croce delle mormorazioni. Gli amici lo consigliarono di disfarsi di quel gruppo di sacerdoti, ma don Josemaria preferì chiedere loro una collaborazione sacerdotale, senza pe­raltro consentire, da quel momento in poi, che interve­nissero negli apostolati dell’Opera. Tale fu la linea che decise nel 1935:

“Senza seguire il consiglio di Padre Sànchez e di Padre Poveda (tacito, il primo; fin troppo esplicito, il secondo) di cacciare i sacerdoti, per i motivi che la carità mi im­pedì a suo tempo di indicare nelle Caterine, poiché vedo le virtù di tutti e l’innegabile buona fede, ho optato per il termine medio di sopportarli, ma al di fuori delle atti­vità proprie dell’Opera, usufruendo, quando è necessa­rio, del loro ministero sacerdotale”137.

Don Josemaria non poteva contraddire il dettato del proprio cuore. Sentiva per quei sacerdoti un affetto particolare e avrebbe poi sparso lacrime di ammirazio­ne e di santa invidia, poiché diversi di loro morirono martiri di lì a pochi mesi. In tutta la sua vita si diede da fare per i sacerdoti diocesani, perché non si trovas­sero soli o mancassero della dovuta cura spirituale. E una delle più grandi gioie del Fondatore fu che i sacer­doti diocesani con il tempo poterono incorporarsi al- l’Opera, formando parte della Società Sacerdotale della Santa Croce.

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Il 19 marzo 1935, festività di S. Giuseppe, fu un gran giorno. Quel 19 marzo irruppero nel cuore del Fondato­re tutte le amarezze degli ultimi mesi: le difficoltà mate­riali, l’apparente fallimento apostolico, le critiche e l’in­subordinazione dei sacerdoti: “ Che tu sia benedetto, Gesù, che non fai mancare a questa fondazione il sigillo regale della Santa Croce!” . In questa Caterina del 20

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marzo, che sintetizza le pene del giorno precedente, ri­cordava una lezione definitivamente impressa nella sua memoria anni addietro, quando aveva annotato:

“Gesù mi ha sempre voluto per Sé - un giorno lo spie­gherò con calma - e per questo mi ha sciupato tutte le feste, ha messo fiele in tutte le mie gioie, mi ha fatto sen­tire le spine di tutte le rose del cammino... E io, cieco: non vedevo, finora, la predilezione del Re che per tutta la mia vita ha impresso nella mia carne e nel mio spirito il sigillo regale della Santa Croce”138.

Per la prima volta ebbe luogo, quel 19 marzo, l’in­corporazione definitiva all’Opera delle vocazioni già consolidate. Volendo evitare malintesi e per evidenziare che non si trattava di fare voti o promesse come i reli­giosi, il Fondatore spiegò loro in che cosa consistesse: “ Consiste - senza voti né promesse di alcun genere - nel dedicare per sempre la vita all’Opera” . L’incorpora­zione, che si fece davanti alla povera croce di legno del futuro oratorio della Residenza, fu designata con il nome di “Schiavitù” , mutato in seguito in “Fedeltà” 139. La cerimonia era simbolicamente completata dalla con­segna di un anello che portava incisa, all’interno, la data e la parola “serviam” (servirò). E allo scopo di sottolineare fino a dove arrivava la responsabilità della donazione, don Josemaria domandava, uno per uno, a coloro che avevano già fatto la “Fedeltà” :

“Se il Signore si prendesse la mia vita prima che l’Opera abbia le necessarie approvazioni canoniche che le diano stabilità, tu continueresti a lavorare per portare avanti l’Opera, anche a costo dei tuoi averi, del tuo onore e della tua attività professionale, mettendo, in una parola, tutta la tua vita al servizio di Dio nella sua Opera?”140.

I giorni che seguirono alla festa di S. Giuseppe furo­no di grande attesa. Già da tempo tutti si stavano pre­

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parando all’arrivo del Santissimo (del “Residente” per eccellenza, come lo chiamava don Josemarìa, con la viva speranza di averlo in casa). Avere un tabernacolo in casa era stata la ragione principale dell’abbandono di via Luchana. E fu senza dubbio il demonio che, da­vanti a così grande evento, mise degli ostacoli: “Il de­monio mette degli ostacoli per ritardare la venuta di Gesù nel Tabernacolo di questa Casa” , si legge in una Caterina141. Quando egli era sul punto di chiedere il de­creto di erezione dell’oratorio, si ammalò il Vicario Ge­nerale. Ma il 2 marzo, ristabilitosi il Vicario, don Jose­marìa lo informava sui ritiri mensili e su una catechesi che svolgevano nella Colonia Popolare e terminava la lettera con una chiara allusione: “Penso che Gesù sa­rebbe molto contento, in mezzo a questa sua com bric­cola, se avessimo un vero oratorio con il Tabernaco­lo ” 142. Il 13 marzo presentò un’istanza al Vicariato, in cui ne faceva richiesta.

Destinarono all’oratorio il miglior locale dell’appar­tamento. Riuscirono ad avere un altare portatile e, come pala d’altare, un quadro con la cena di Emmaus. Trovarono anche il tabernacolo, gli ornamenti e i can­delabri, alcune cose regalate, altre in prestito. Don Jo­semarìa, nel frattempo, aveva premura che venisse l’O- spite: “ Gesù, verrai presto nella tua Casa dell’Angelo Custode, nel Tabernacolo? Ti desideriamo!” 143. Alla vi­gilia di S. Giuseppe non aveva ancora ricevuto risposta all’istanza in cui chiedeva un oratorio semipubblico144. Dovevano ancora procurarsi diversi oggetti, come le ampolline, la campanella, la palmatoria, il piattino per la Comunione, ecc. Don Josemarìa ne fece un elenco elo conservò, chiedendo a S. Giuseppe che qualche anima caritatevole ne facesse dono. Grande fu la sor­presa quando, la vigilia stessa della festa, il 18 marzo, il portiere portò di sopra un pacchetto che gli aveva con­segnato un signore. Apertolo, il sacerdote vide che con­teneva tutto quello che mancava, esattamente gli ogget­

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ti enumerati nell’elenco. Cercarono di identificare il do­natore. Il portiere non seppe dare altra indicazione che questa: era stato un signore con la barba. Non poteva essere più precisa la risposta di S. Giuseppe alle sue pre­ghiere. Consapevole di questo, in ringraziamento del favore, che consentiva la presenza di Gesù Sacramenta­to nella casa, egli decise che in tutti i futuri centri del­l’Opera la chiave del tabernacolo avrebbe avuto una catenina e una medaglia con la scritta Ite ad loseph, patriarca del Nuovo Testamento e custode della chiave del Pane degli Angeli145.

“Finalmente!... Gesù viene a vivere con noi. Et omnia bona pariter cum eo..., e tutto il bene verrà pure con Lui”, annunciava con gioia il sacerdote nella lettera del 30 marzo a José Maria G. Barredo146.

Il 31 marzo, con l’oratorio pieno di giovani, don Jo­semaria celebrò la Messa con una pianeta bianca, con l’altare adornato di fiori e le candele la cui altezza risa­liva a scala verso il Crocifisso posto sopra il tabernaco­lo. Prima di distribuire la Comunione rivolse alcune pa­role di ringraziamento al nuovo “Residente” . E, con la gioia di avere in casa il Signore, si dimenticò della lunga serie di sacrifici e scrisse al Vicario: “È stata cele­brata la Santa Messa nell’Oratorio di questa Casa, ed è stato riservato Sua Divina Maestà, compiendo piena­mente i desideri di tanti anni (dal 1928)” 147.

È sorprendente come, da questa data, il clima della Residenza apparisse cambiato, più familiare. Nei po­meriggi del sabato in via Ferraz c’era grande anima­zione. Il sacerdote dava una meditazione agli studenti e la benedizione con il Santissimo. Poi si faceva una colletta per “ i fiori della Madonna” 148. Parte del de­naro raccolto serviva per i fiori necessari all’altare, parte per le elemosine ai poveri derelitti del suburbio. (Ci si occupava anche dei “poveri della Vergine” ,

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gente caduta in miseria, poveri che si vergognavano e con dignità nascondevano la fame e le sofferenze. A questi si portava, oltre alla consolazione di una visita, un regalo qualsiasi, un dolce o un libro che non avrebbero mai potuto comprare).

Le catechesi della domenica aumentarono. Fu neces­sario organizzare due ritiri mensili. Cominciò una lezio­ne per operai a Carabanchel... Era verissimo quello che diceva don Josemaria: “Da quando abbiamo Gesù nel Tabernacolo di questa Casa, si nota in modo straordi­nario che la Sua venuta ha comportato una maggior estensione e intensità del nostro lavoro” 149.

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L’anno precedente Ricardo F. Vallespin aveva patito un attacco di reumatismi, così acuto che, se si fosse prolun­gato, gli avrebbe impedito di presentarsi a un esame del­la Scuola di Architettura. Mosso dall’amore per la Ma­donna, egli aveva fatto allora una promessa che consisteva nel recarsi a piedi da Madrid ad Avila se fos­se guarito e avesse superato l’esame: e così accadde. Ma quando lo raccontò a don Josemaria faceva già parte dell’Opera e il Fondatore lo dispensò dal compimento della promessa. Avvicinandosi la fine dell’anno accade­mico e potendo contare in via Ferraz su un buon nume­ro di giovani, dai quali attendeva vocazioni e residenti per l’anno successivo, don Josemaria fece propria l’idea di Ricardo. Voleva ringraziare la Madonna in un modo speciale per i favori che avevano ricevuto durante l’an­no. Sarebbe andato il 2 maggio al santuario di Sonsoles, in compagnia di Ricardo e di José Maria G. Barredo.

“Deciso il viaggio a Sonsoles, volli celebrare la Santa Messa nella Residenza prima di intraprendere il viaggio per Avila. Nella Messa, durante il memento, con molta forza - non era tutta mia - chiesi al nostro Gesù che ac­crescesse in noi - nell’Opera - l’Amore per Maria e che

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questo Amore si traducesse in opere. Sul treno, senza volerlo, ripensavo allo stesso tema: la Madonna è senza dubbio contenta del nostro affetto, cristallizzato in con­suetudini virilmente mariane: una sua immagine, che i nostri portano sempre; il saluto filiale entrando e uscen­do dalla stanza; i poveri della Vergine; la colletta del sa­bato; omnes ad Jesum per Mariam; Cristo, Maria, il Papa... Ma nel mese di maggio ci voleva qualcosa di più. Allora, pensai alla “romena di maggio” : abitudine che deve essere istituita - lo è già - nell’Opera”150.

Senza entrare nella città di Avila, s’incamminarono direttamente verso il santuario. Da lontano si vedeva il santuario in cima al pendio. Recitarono una parte di rosario mentre salivano, un’altra parte all’interno, da­vanti all’immagine della Madonna, e la terza parte mentre ritornavano alla stazione di Avila. Da alcuni particolari della romena il sacerdote trasse argomento per fare ai suoi delle considerazioni sulla perseveranza:

“Da Avila” - raccontava - “vedevamo il Santuario ma, com’è logico, giunti alla base del monte la Casa di Ma­ria scomparve ai nostri sguardi. Abbiamo commentato: così molte volte fa Dio con noi. Ci mostra chiaramente il fine e ce lo fa contemplare per rassicurarci nel cammino della sua amabilissima Volontà. Ma, quando siamo già vicini a Lui, ci lascia nelle tenebre e apparentemente ci abbandona. È l’ora della tentazione: dubbi, lotte, oscu­rità, stanchezza, voglia di sdraiarsi per via... Ma no: avanti. L’ora della tentazione è anche l’ora della Fede e dell’abbandono filiale nel Padre-Dio. Via i dubbi, i vacil­lamenti e le indecisioni! Ho visto il cammino, l’ho intra­preso e lo continuo. Sempre più su - coraggio! - ansi­mando per lo sforzo; ma senza fermarmi a raccogliere i fiori che a dritta e a manca mi offrono un momento di riposo e l’incanto del loro aroma e dei loro colori... e del loro possesso; so molto bene, per amara esperienza, che è cosa di un istante coglierli e vederli inaridire; e non ci sono in essi, per me, né colori, né aromi, né pace”151.

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In ricordo della romena, don Josemarìa conservò in un cofanetto un pugno di spighe, come simbolo e spe­ranza di fecondità apostolica del mese di maggio152.

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L’Accademia-Residenza riprendeva forze, quando gli giunse l’eco di calunnie e mormorazioni. Un giorno il fi­glio del proprietario di via Ferraz raccontò a don Jose­marìa che qualcuno aveva detto a suo padre:

“ “Perché avete affittato i vostri appartamenti alla DYA, che è una cosa dei massoni” ? “Caspita!- gli aveva repli­cato questi - non sapevo che i massoni recitassero ogni giorno il rosario così devotamente” ”153.

(Dal suo appartamento, il signor Bordili udiva i resi­denti recitare insieme il rosario).

Poi seppe che l’amico di uno studente che frequenta­va la Residenza si era rifiutato di entrare in casa perché aveva sentito dire: “ Questo don Josemarìa è matto” 154. Le calunnie si divulgarono rapidamente fra il clero di Madrid. In un’annotazione del 7 marzo, scrisse sugli Appunti: “Prosegue l’attacco insidioso contro l’Opera” . Alcuni giorni prima aveva incontrato un sacerdote che conosceva appena, che gli aveva chiesto:

““Come va quest’opera?”“Quale opera?”, gli replicò don Josemarìa.“L’accademia che avete”. “L’accademia, dove lavoro, è di un architetto, professore della Facoltà di Architettura””.“E la massoneria bianca?”, continuò quello con insi­stenza.“È calunnioso questo paragone”, rispose indignato allo scriteriato. “Lì non c’è nulla di nascosto e non dobbia­mo nascondere nulla: non ci sono segreti né misteri. Un gruppo di giovani, che studiano molto e cercano di vive­re da buoni cristiani..., e che quindi non meritano di es­sere offesi con insidiose affermazioni” ”155.

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Esplosero i pettegolezzi. Un “ santo sacerdote logor­roico” , scrisse don Josemaria negli Appunti, si scanda­lizzò della croce di legno dell’oratorio, perché non aveva il Crocifisso156. Matti, massoni, eretici. Veniva così impiantata, fin dal 1935, la semente delle calunnie contro l’Opera.

5. “ Padre, maestro e guida di santi”

L’estate del 1935 fu per don Josemaria una lunga e con­tinua giornata di lavoro. Con l’aiuto di quanti erano ri­masti a Madrid preparò e inviò i fogli di “Notizie” a chi stava in vacanza. Iniziò due gruppi di lezioni di forma­zione spirituale e non interruppe i ritiri mensili che dava agli studenti.

Nel mese di luglio, inatteso regalo dall’alto, gli ven­nero due vocazioni: due giovani che con il passare del tempo sarebbero stati tra i primi sacerdoti dell’Opera. Uno era Alvaro del Portillo, lo studente che a Vallecas aveva subito una terribile ferita al capo, riuscendo poi a fuggire in metrò. In marzo aveva conosciuto il sacerdo­te di via Ferraz e aveva pensato che sarebbe stato scor­tese andare in vacanza senza salutarlo. Sabato 6 luglio si presentò nella Residenza. Don Josemaria lo invitò al ritiro che avrebbe avuto luogo il giorno successivo. Quella domenica gli spiegarono per la prima volta in che cosa consisteva l’Opera e nello stesso giorno chiese di esservi ammesso157. L’altro era Chiqui, quello che era passato direttamente dalla presentazione al piantare chiodi sull’alto di una scala.

Il Fondatore era disfatto per lo strapazzo fisico e mo­rale al quale era stato sottoposto per tutto l’anno acca­demico, ma si rianimò davanti alla prospettiva di otte­nere nuove vocazioni. Aveva riposto le sue speranze nel successivo anno accademico e voleva evitare che le cir­costanze lo cogliessero di sorpresa, come nel 1934.

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“L’Opera va bene. Qui si vede D io”158, scriveva alla fine di agosto al Vicario. Ma lunghi mesi di tensione e di fatiche accumulate finirono con il minare la salute di quanti erano impegnati nel dirigere la Residenza. Il primo che finì con il soccombere alla stanchezza fu Ri­cardo, il direttore: dovette stare a letto nel mese di ago­sto159. Don Josemaria, più incallito e resistente - ma anche più esausto -, trascinò come potè la sua stan­chezza fino a settembre, quando andò a fare un ritiro spirituale dai Redentoristi di via Manuel Silvela. Alcuni mesi prima don Francisco Moràn, notandone lo sfini­mento, gli aveva offerto alcuni giorni di riposo in una tenuta di sua proprietà, a Salamanca160. Ma don Jose­maria non potè accettare.

Nel pomeriggio di domenica 15 settembre si recò al convento dei Redentoristi. Era così distrutto che il corpo non gli rispondeva. Probabilmente, da quello che scrisse poi, era più di un anno che non dormiva sette ore di seguito:

“Lunedì: sono le nove e un quarto del mattino e ancora non posso dire di aver cominciato i santi esercizi. Ieri sera ero disfatto: ho dormito dalle undici alle sei e mezza!(...) Ho vomitato parte del pasto. Sono debolissimo.(...) Non ho fatto niente (oggi non ho ancora fatto la di­sciplina: la farò prima di coricarmi) e sono sfinito, come se mi avessero bastonato. Forse faccio male a prender nota di aspetti fisiologici. Ma il fatto è che ora mi sten­derei dovunque, anche in mezzo alla strada come un barbone, per rialzarmi solo dopo quindici giorni”161.

Fece il suo primo proposito, che consisteva nel dor­mire per terra e per non più di sei ore:

“Martedì. Ho dormito per terra stupendamente (...). Poiché devo dire tutto, mi accuso di pigrizia. Addio ai propositi di ieri! Alle cinque del mattino si è messa a

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suonare una campana da cattedrale capace di svegliare un sordomuto (...). Alle sei, forte come un sansone chio­mato, e debole come un bambino per servire il mio Dio, mi sono alzato dal soffice letto. Mi sento stupendamen­te. Ergo..., all’asinelio, niente delicatezze: bastonate!”162.

Benché lontano da via Ferraz, il suo cuore vegliava su coloro che erano rimasti nella Residenza, sostenen­doli con la sua preghiera e le sue mortificazioni: “ Come mi ricordo di questi miei figli!” , scrisse nel suo ritiro. “Oggi, alle otto, ci sarà 1 ’“ emendatio” (Circolo Breve) come al solito. Alle otto in punto farò la disci­plina per loro” 163.

Il giovedì Ricardo andò al convento a consegnargli una lettera. In quel momento il sacerdote si rese conto che gli scoppiava il cuore di gioia e che voleva bene ai suoi ragazzi con tutta l’anima. Non l’aveva forse notato fino ad allora?

si- * *

Le persone dell’Opera, in maggioranza studenti, aveva­no sempre visto don Josemarìa con la veste talare. L’uni­ca eccezione era Isidoro: avevano la stessa età ed erano stati compagni di scuola a Logrono. Nel 1930 nacque fra di loro una nuova amicizia, quando Isidoro venne ammesso nell’Opera. Ma la condizione di uguaglianza nei rapporti, mentre conduceva a un più profondo affet­to umano, non potè impedire il sorgere di una impalpa­bile distanza spirituale, che finì per rendere inevitabile un rapporto diverso. Il cambiamento si nota nelle lettere che si scambiarono Isidoro e don Josemarìa durante quel periodo e, più chiaramente, nelle formule di saluto e di commiato.

Negli anni dal 1930 al 1932 le formule abituali di Isi­doro erano: «Mio caro amico José Maria» e, nei com­miati: «Ricevi un abbraccio dal tuo buon amico»164.

In un secondo periodo, nel 1933, le espressioni che

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usava correntemente non erano solo amichevoli, ma fraterne: «Mio caro fratello José Maria», oppure «Mio caro amico e fratello»; e la formula di commiato: «Ri­cevi un abbraccio dal tuo vecchio amico e fratello», op­pure «Ti abbraccia fraternamente»165. A partire dal maggio 1934 compare una nuova formula di apertura: «Mio caro Padre José M aria»166.

Invece, l’apertura e il commiato delle lettere di don Josemaria non si assoggettavano a una formula de­terminata, anche se avevano sempre un tono di caldo affetto:

“Madrid, 1-III-1931. Carissimo Isidoro (...). Ti racco­manda al Padrone e ti abbraccia fraternamente José Maria” .

E due giorni dopo:

“Madrid, 3-III-1931. Carissimo Isidoro (...). La mia be­nedizione di sacerdote e di Padre, con un forte abbrac­cio, a nome di tutto il manicomio. José Maria”167.

Tre anni dopo, la “fraternità” è stata definitivamente soppiantata e sostituita, in tutta la sua corrispondenza, da una crescente “paternità” : “A tutti la benedizione di vostro Padre, che non vi dimentica e vi chiede preghie­re. José Maria” (lettera dell’l-VI-1934)168. Questa pa­ternità spirituale e di famiglia, che fiorì nella primavera del 1934, segue a un’annotazione degli Appunti:

“Domenica, 11 marzo 1934 (...). Nell’Opera di Dio non ci sono speciali onori. Il Padre Presidente dell’Opera verrà chiamato semplicemente così: Padre. Senza reve­rendo, né illustrissimo, né altro”169.

Fin dagli inizi il Fondatore sentì la vocazione di pa­ternità: “ Gesù non mi vuole sapiente di scienza umana. Mi vuole santo. Santo e con cuore di padre” 170. Queste

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considerazioni sono in una Caterina del 1931. E nel 1933, chiedendo il permesso di inasprire le proprie pe­nitenze, esortava il suo confessore con queste parole: “ Guardi che Dio me lo chiede e inoltre è necessario cheio sia santo e padre, maestro e guida di santi” 171.

Non gli era facile chiamare figli i membri dell’Opera;lo faceva arrossire, lui che si era dato per motto “na­scondersi e scomparire” , e si rifugiava nella semplice ri­sorsa della fraternità, come confessava egli stesso:

“Fino all’anno 1933 mi causava una sorta di vergo­gna il fatto che tutte queste persone mi chiamassero Padre. Perciò io li chiamavo quasi sempre fratelli, in­vece che figli”172.

D’altra parte, la sua giovinezza gli creava difficoltà. Era sui trent’anni e pretendeva di essere capofamiglia di gente - sacerdoti o laici - che avevano la sua stessa etào erano più anziani? Molte volte recitò una sua giacula­toria: “Dammi, Signore, ottant’anni di gravità!” 173. Dopo un po’ di tempo, notò che il suo carattere acqui­siva, a poco a poco, un tocco di serietà. Le barzellette, le risate, la sana giovialità erano pur sempre cose che gli piacevano. Tuttavia questo lecito piacere, con un sottofondo di frivolezza o di festosità, a volte si tramu­tava in amarezza, causandogli un cattivo sapore in bocca. “E Gesù” - pensava - “che impone ottant’anni di gravità sul mio povero cuore, troppo giovane” 174. Il sacerdote vigilò sui propri detti e parole nella conversa­zione. Cercò di controllare i propri gusti e i modi in pubblico. Si sforzò di evitare qualsiasi mancanza di mi­sura. Si controllò persino nel modo di camminare. Non era disposto, tuttavia, a rinunciare alla vita di infanzia spirituale a favore della gravità degli anziani. Cercò al­lora di trovare una formula che mettesse insieme questi termini diversi. “ Gesù” - chiedeva - “voglio essere un

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bimbo di due anni, con ottanta inverni di gravità e sette catenacci nel mio cuore” 175.

Ma nel 1934 cominciò a cambiare idea quanto alla gravità: “La gravità: Gesù aveva, quando è morto in croce, trentatré anni. La giovinezza non mi può servi­re di pretesto. Inoltre, ormai sto finendo di essere gio­vane” 176.

Quanto ai “ sette catenacci” , era qualcosa che veniva considerando da tempo, fin da quando era stato nel convento di S. Giovanni della Croce e aveva messo per iscritto le proprie considerazioni:

“La santa purezza: umiltà della carne. Signore, sette cate­nacci per il mio cuore! Sette catenacci e ottantanni di gra­vità. Non è la prima volta che ascolti questa mia richiesta (...). Il mio povero cuore è ansioso di tenerezza”177.

La sua vita affettiva, traboccante di gioia e copiosa, si accordava malamente con gli “ottanta inverni di gra­vità” . Pretendeva di ingabbiare i sentimenti nello stesso modo in cui si sforzava per dare misura al comporta­mento. Tutto inutile. Il cuore gli sfuggiva: impossibile contenerlo. L’intensità dei suoi battiti gli incuteva timo­re. Finché il Signore gli fece vedere che quella traboc­cante tenerezza era destinata a Lui e, per Lui, ai suoi figli, e che nel suo petto esisteva una vena inesauribile di affetto, limpido e paterno. Lo scoprì il 19 settembre, quando Ricardo venne dai Redentoristi a consegnargli una lettera:

“Venne Ricardo, come ho detto, e vederlo mi diede una grande gioia. Voglio bene ai miei ragazzi con tutta la mia anima. E la mia volontà è di avere sempre per loro questo affetto, per Cristo. Tuttavia, questo pomeriggio ebbi diverse volte lo scrupolo che questo affetto (che na­turalmente è più intenso nei confronti dei figli miei che vedo più dediti all’Opera) potesse dispiacere a Gesù. Un momento fa Gesù mi ha fatto vedere e sentire che non

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gli dispiace: perché ad essi voglio bene per Lui; e perché, pur volendo tanto bene a loro, a Lui voglio bene milioni di volte di più”178.

Accanto alla funzione di Padre - che aveva assunto “con la piena coscienza di stare sulla terra solo per rea­lizzarla” 179 - il Fondatore si sentiva chiamato a essere “maestro e guida di santi” . Avrebbe intrapreso la via del magistero e della sapienza, cercando di emergere negli studi e avere una cattedra? Oppure avrebbe sacri­ficato questo nobile desiderio? Dopo averlo meditato, diede la risposta al direttore spirituale: “Il mio cammi­no è il secondo: Dio mi vuole santo e mi vuole per la sua Opera” 180.

* ir

L’anno accademico 1935-1936 iniziò con il recupero di ciò che era stato ceduto con la “ritirata strategica” di tra­sferire l’Accademia DYA al piano inferiore. All’inizio di settembre scrissero alle scuole più note delle varie provin­ce e misero annunci della Residenza sulla stampa nazio­nale. Arrivarono molte richieste di posti e, non essendo sufficienti i letti di via Ferraz 50 e non potendo riaffittare il piano dell’anno precedente, sistemarono un apparta­mento nella casa adiacente, al numero 48, per la cui siste­mazione don Josemaria dovette ricorrere di nuovo alla madre, che mise a sua disposizione 45.000 pesetasu i .

Al compimento di sette anni dalla fondazione, don Josemaria scriveva questa Caterina:

“Da quel 2 ottobre 1928, quante misericordie del Signo­re! Oggi ho pianto molto. Ora che tutto va molto bene mi sento fiacco e senza fortezza. Come ci si rende chia­ramente conto che hai fatto e fai tutto Tu, Dio mio!”182.

Il funzionamento della Residenza nell’anno preceden­te era stato davvero un miracolo quotidiano. Nel 1934

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avevano cominciato con un buon organico di domesti­ci: due ragazzi di servizio e un cuoco professionista che dovettero licenziare subito (dopo averlo ben pagato) perché non avevano residenti. Ora, fatti più accorti, ri­dussero il personale domestico a una cuoca e a un gio­vane aiutante, già fattorino nella Residenza, che faceva ogni genere di commissioni, come aprire la porta e ser­vire a tavola. La cuoca era una donna di notevole espe­rienza professionale183.

Per quanto concerne il resto del servizio, il giovane domestico certo non eccelleva nel compimento dei suoi doveri. Sacerdote e direttore facevano i lavori domestici quando i residenti uscivano di casa. Rifacevano i letti, scopavano la casa, lavavano i piatti e preparavano la tavola. Erano allenati dall’anno precedente. I residenti erano una ventina e i lavori di pulizia si facevano a mano e di buon grado:

“Il giorno di S. Carlo, 4 novembre” - si legge in una Ca­

terina - “sono trascorsi due anni dalla vocazione di Ri­cardo. L’abbiamo festeggiato la sera: lui ha lavato tutte le stoviglie della casa, io le asciugavo e le rimettevo a posto. Abbiamo terminato verso mezzanotte, con santa allegria”184.

Nel mese di novembre chiesero l’ammissione all’Ope­ra due studenti di Architettura, amici tra loro e prove­nienti entrambi dalla provincia di Valencia. Uno di essi, Pedro Casciaro, aveva conosciuto don Josemaria nel gennaio del 1935 e da allora aveva assistito alle conver­sazioni di formazione umana e spirituale organizzate dalla Residenza. L’altro aveva conosciuto l’Opera in ot­tobre; si chiamava Francisco Botella. Andarono en­trambi a vivere in via Ferraz 48185.

Lì si respirava un’atmosfera cordiale, «di pietà, di studio e di apostolato», scrive Aurelio Torres-Dulce, uno studente di Medicina che frequentava la Residen­

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za; non senza chiarire che «l’obiettivo fondamentale di tutto ciò era di ordine soprannaturale: migliorare la condotta cristiana»186. Gli studenti frequentavano la casa proprio perché non era un “ luogo di ricreazione” . Si esigeva loro impegno nello studio, “perché studiare è un obbligo grave” . Dovevano considerare la residen­za come casa propria, partecipando ad incarichi e spese. Non era consentito loro di involgarirsi, di “re­stare nel mucchio” . Li si incoraggiava a nutrire nobili ambizioni187.

Nel contesto dell’opprimente sconvolgimento politico del Paese, quell’ambiente era un luogo di allegria e di pace, gradevole come la meravigliosa scoperta di un’oasi nel deserto. Conoscitore degli esaltati impeti giovanili, scatenati in quella triste circostanza della storia spagno­la, don Josemaria annotò in una Caterina ciò che in loro era necessario correggere e ciò che bisognava insegnare:

“Spirito dell’Opera di S. Raffaele: non si consenta ai ra­gazzi di discutere su questioni politiche nella nostra casa; far loro vedere che Dio è quello di sempre, che non si è “tagliato le mani”; dir loro che l’apostolato che si fa con loro è di carattere soprannaturale; parlare molte volte della presenza di Dio, nei colloqui persona­li, nelle conversazioni per tutti e sempre; rendere cattoli­ci il loro cuore e la loro mente”188.

Agli inizi del 1935, José Luis Muzquiz, uno studente di ingegneria, ebbe un colloquio con don Josemaria: «Mi espose brevemente - dice José Luis - ciò che face­va l’Accademia DYA che, senza fondare alcuna nuova associazione, cercava di formare dei buoni cristiani, istruendoli e inducendoli a essere coerenti con tale con­dizione, e cercava di formare, a poco a poco, altri gio­vani disponibili a ricevere questa formazione. Mi disse che alle conversazioni o circoli partecipavano giovani di tutte le regioni della Spagna che studiavano a Ma­

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drid, di tutte le tendenze e i partiti politici, ma che non si chiedeva a nessuno a quale partito appartenesse»189.

E quando Ricardo, il direttore della Residenza, ne de­finisce il tono spirituale - «ambiente di allegria, di pace, di amore di Dio e di serenità davanti a tutte le cir­costanze avverse dell’ambiente politico e sociale» - ci sta comunicando, senza averne la pretesa, lo stato d’a­nimo del Padre190. Quel sacerdote aveva scoperto, tempo addietro, il perché della propria serenità quando tutto tremava intorno a lui:

“Credo che il Signore abbia posto nella mia anima un’al­tra caratteristica: la pace; avere la pace e dare la pace, a quanto vedo nelle persone che frequento o dirigo”191.

6. L’apostolato con le donne

Al momento di mettere le sue considerazioni per iscrit­to, don Josemaria manifestava “un particolare interesse a essere obiettivo, del tutto spassionato” . In modo par­ticolare quando si trattava dell’Opera, dell’apostolato o del processo interiore della propria vita e del carattere. Consapevole di questo, nel maggio 1935, libero da en­tusiasmi o da scoramenti, obiettivo e sereno, si mostra­va soddisfatto del cammino percorso dall’Opera mentre ne descriveva lo sviluppo:

“E vedo che tutto è avviato: S. Raffaele, S. Gabriele e S. Michele: i tre rami dell’Opera; tutto l’apostolato degli uomini. E innegabile la dedizione di tutti”192.

Proprio tutti? È chiaro che don Josemaria considera­va persi per l’Opera quei sacerdoti di cui alcuni mesi prima aveva scritto: “Purtroppo finora, senza offesa per nessuno, - tutti sono molto santi - non ho trovato un sacerdote che mi aiutasse, dedicandosi come me

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esclusivamente all’Opera”193. La speranza di scaricare su di loro una parte del lavoro era venuta meno. “Se i sacerdoti miei fratelli mi aiutano” , pensava...194. Ma lo lasciarono solo con il suo peso.

Mancanza di collaborazione che ebbe negative riper­cussioni sullo sviluppo del lavoro con le donne. In una nota dell’ottobre 1933 per il proprio confessore, com­pare già questa preoccupazione. Uno dei pensieri che inquietavano il Fondatore era “dedicare poca attenzio­ne alle nostre”, lasciando incompiuta la Volontà del Si­gnore. “Se ancora perseverano” - diceva fra sé - “è per uno speciale favore di Dio” 195. (Lo sconcertava il pen­siero di lasciare incompiuta la Volontà di Dio, e questolo induceva ad esprimersi con una certa improprietà. La sua preoccupazione derivava dalle limitazioni di tempo e anche di forza fisica. Lo riconosceva parlando dell’apostolato con i giovani, quando scrisse: “Non mi curo - non ci arrivo, non posso fare di più - dei ragazzi che sono venuti con noi” ).

A Natale del 1933 i giovani dell’Opera, con il Fonda­tore in testa, fecero un triduo allo Spirito Santo, chie­dendogli vocazioni; specialmente - annotava negli Ap­punti - “quella di una donna che faccia loro da testa (o meglio, da cuore)” 196.

Don Josemaria, che era Padre anche delle vocazioni femminili, continuava a serbare una delicata distanza nel rapporto con le donne. Non si incontrava con loro «al di fuori del confessionale; ed evitava qualsiasi gesto che potesse dare motivo a fraintendimenti», dice Nati- vidad Gonzàlez Fortun197. Dato che pensava di non aver ancora raggiunto gli “ottant’anni di gravità” , pre­ferì lasciarle in mano ad altri sacerdoti. Don Norberto e don Lino, come già detto, se ne occupavano abitual­mente. Ciò di cui don Josemaria non si sentiva molto sicuro era dei risultati. Come avrebbero potuto quei sa­cerdoti trasmettere alle donne la formazione e lo spirito proprio dell’Opera se essi stessi non l’avevano acquisi­

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to? Fu così che alcune vocazioni, che don Josemarìa si era faticosamente guadagnate nel confessionale, se ne andarono in brevissimo tempo198.

Il 28 aprile 1934 don Josemarìa riuscì a riunire per la prima volta alcune donne dell’Opera - non più di mezza dozzina - nel parlatorio del Convento di Santa Isabel; e i sabati successivi utilizzarono un locale della C asa della Studentessa, ceduto da don Pedro Poveda199. I suoi progetti di apostolato con le donne per il momento non lo assillavano e diceva tra sé, spe­ranzoso: “ Quando le mie figlie si saranno un po’ orga­nizzate...” . Ma era evidente che non lo erano molto. In quelle circostanze, don Josemarìa fece quello che potè. Perché l’apertura della Residenza di via Ferraz, la si­tuazione di tensione venutasi a creare a seguito delle critiche dei sacerdoti, nonché le angustiose difficoltà economiche, gli impedivano di occuparsi con regola­rità di quelle anime, che mancavano di orientamento e di governo. Con la presenza del Santissimo nell’orato­rio di via Ferraz cambiarono radicalmente le cose. Spesso, nelle ore in cui i residenti si trovavano fuori, il sacerdote dava a quel gruppo di donne la meditazione e la benedizione. Parlava loro della santificazione del lavoro e dell’apostolato. Si entusiasmavano udendolo parlare, benché don Josemarìa rimanesse sempre con il dubbio se capivano davvero200. «La verità è che aveva­mo sì buona volontà - commenta con semplicità Felisa Alcolea - ma nulla più»201.

Privo di altri aiuti, gli fu fisicamente impossibile met­tersi in pieno nel lavoro apostolico con le donne. Non aveva un momento libero, neanche se avesse lavorato per tutte le ventiquattro ore del giorno. I suoi obblighi come Rettore, le visite negli ospedali e, soprattutto, l’aumento della direzione spirituale degli studenti della Residenza consumavano tutte le sue forze e tutte le sue ore. Di fatto, don Josemarìa si trovò sulla soglia dello sfinimento in varie occasioni. E quando, nel 1936, so­

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praggiunse la guerra di Spagna, quelle donne, ancora poco formate nello spirito dell’Opus Dei, si sbandaro­no. Isolate e senza più assistenza spirituale, quelle inci­pienti vocazioni si sradicarono dall’Opera, a causa della forzata interruzione imposta dal conflitto. Le vie del Signore sono davvero imperscrutabili.

* * *

Con orgoglio di Padre, il Fondatore mostrava un’ammi­razione sconfinata per i suoi figli. “I miei figli laici - tut­ti - sono eroici”202, affermava con piena convinzione. In loro trovò l’aiuto necessario allo sviluppo dell’Opera. E con la convinzione soprannaturale che fossero gli stru­menti da tanto tempo attesi per mettere in moto l’im­presa soprannaturale, così pregava il Signore all’inizio dell’anno accademico 1935-1936:

“Signore, disponi le cose in modo che possiamo lavorare bene - come vuoi tu - in quest’anno appena iniziato. Gesù, che il tuo povero Asinelio sappia formare secondo la tua amabilissima Volontà questi tuoi apostoli, i nostri ragazzi di S. Michele, perché facciano l’Opera”203.

Chiunque metteva piede nella Residenza poteva per­cepire una calda temperatura umana che, a detta di un testimone, «sembrava penetrare tutto, non solo quelli che vi si trovavano, ma persino le cose materiali e in­sensibili»204. Coloro che venivano per la prima volta, dopo essere entrati in oratorio a salutare il Signore, ve­nivano presentati al Padre. Questi li riceveva nella stan­za del direttore, poiché la sua camera, piccola e scarsa­mente illuminata, era occupata da un armadio in cui si conservava l’archivio e i paramenti dell’oratorio. La ca­mera del direttore era di circa tre metri per quattro. Lo spazio era occupato da un letto senza testiera, un picco­lo armadio, un tavolo di lavoro e tre o quattro sedie205.

Lo stile di don Josemarìa era diretto, familiare e calo-

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irosamente affabile. Dopo pochi minuti, il visitatore stava trattando temi personali, aprendo la sua anima al sacerdote come se lo conoscesse da sempre. Alcuni usci­vano da quel primo incontro avviati verso una revisio­ne completa della propria vita, rinnovando progetti e ideali, con l’anima inquieta per aver scoperto orizzonti insospettati206.

Di statura medio-alta, il sacerdote appariva robusto, con la faccia rotonda e la fronte ampia. Aveva gli oc­chiali e i capelli molto scuri e molto corti. Un lieve sor­riso, trattenuto a volte da gesti di passeggera serietà, il­luminava continuamente il suo viso. La sua costituzio­ne, l’aspetto allegro e la conversazione affettuosa face­vano pensare, ingannevolmente, a una vita tranquilla e a pacifici impegni sacerdotali. Tuttavia un attento os­servatore, sotto il colorito lievemente scuro della pelle, indovinava, più che vedere, un ascetico pallore, che era la traccia lasciata dalla stanchezza di prolungate veglie e dall’asprezza di dure privazioni. La sua piacevole fi­gura fisica copriva i rigori di discipline e digiuni. Molte sere arrivava nella Residenza senza aver toccato cibo per tutto il giorno; invitava uno studente a parlare con lui mentre mangiava una frittata di un solo uovo. A volte accadeva pure che, se il ragazzo guardava il piatto con appetito, il sacerdote glielo cedesse, fingendo di non avere voglia; allora il digiuno si prolungava fino al giorno successivo207.

La pulizia della veste talare e le scarpe ben lucide smentivano ogni idea di povertà, grazie alle sue pre­cauzioni. Quando si inginocchiava in oratorio, don Josemaria faceva molta attenzione a nascondere con la tonaca le suole consumate. Quelle scarpe non le aveva mai indossate nuove; erano tra quelle scartate dai residenti208.

Nelle meditazioni predicate faceva ad alta voce la propria orazione personale. Coloro che lo ascoltavano, partecipando ai pensieri e agli affetti del sacerdote, ne

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venivano colpiti. E così pure quanti assistevano alla sua Messa: sorpresi dalla devozione del celebrante e dal suo immedesimarsi nei divini misteri, usciti dall’o- ratorio commentavano fra di loro: «Questo sacerdote è un santo»209.

7. Scritti per la formazione

Il Padre si dedicò con impegno a compiere la propria funzione di “maestro e guida di santi” . Nei suoi figli - a quel tempo, una dozzina scarsa - vedeva anime chia­mate alla santità, diamanti grezzi che dovevano essere tagliati, a uno a uno, per ottenerne il massimo splendore, secondo le doti e le qualità di ciascuno. “I soci” - regi­strava negli Appunti - “non devono essere formati in serie, bensì, senza scapito dell’unità e della disciplina, bisogna fare in modo che ciascun uomo di Dio sviluppi la propria personalità, il proprio carattere”210.

Periodicamente aveva con ciascuno di essi un collo­quio confidenziale, per guidarli nella vita interiore. Nella direzione spirituale il Padre si dimostrava esigen­te, convinto com’era che “è grave pigrizia che il diretto­re si accontenti che un’anima dia quattro quando può dare dodici”211. E, in conformità al messaggio che an­dava predicando, non si riteneva soddisfatto se i suoi figli non divenivano “santi da altare” . In questi calcoli entravano, naturalmente, anche le donne, come riferi­sce Felisa Alcolea: «Ci diceva con forza: “Dovete essere sante, ma sante da altare; io non mi accontento di meno” »212.

Fin dall’inizio, come abbiamo visto, il Fondatore utilizzò le sue note e i quaderni degli Appunti intimi per far conoscere l’Opera e il suo spirito. Ma oltre alle Caterine scrisse anche altri documenti. Ad esempio al­cune Lettere destinate a tutti, che potremmo chiamare fondazionali, in cui sviluppava punti essenziali dell’O­

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pera e del suo spirito, raccogliendo “ idee-madri” e princìpi validi per il futuro, al di sopra delle circostan­ze storiche213.

Nella formazione dei membri dell’Opus Dei, già dal 1931 aveva stabilito il principio base dell’unità e della varietà: “I soci saranno diversi fra di loro come sono diversi i santi del cielo, ciascuno dei quali ha le proprie note personali e peculiari; e tanto simili tra loro comelo sono anche i santi, che non sarebbero tali se ciascuno di essi non si fosse identificato con Cristo”214. Mentre nella conversazione personale periodica si occupava di ciò che ciascuno aveva di particolare, nelle Lettere mi­rava all’unità della formazione. La prima di queste Let­tere fondazionali è datata 24 marzo 1930. Vi esponeva la chiamata universale alla santità e il modo in cui i suoi figli dovevano praticare le virtù che conducono alla perfezione cristiana. Perché “la santità non è cosa per privilegiati”215.

Nella stessa data dell’anno successivo terminò la sua seconda Lettera, datata Madrid, 24 marzo 1931. Nelle cinquanta pagine del testo scorrono i consigli spirituali per navigare sicuri “ in un mare sconvolto dalle passioni e dagli errori umani”216. Il Fondatore indicava ai propri figli, con sollecitudine di Padre e maestro, gli ostacoli nei quali si può inciampare cammin facendo e il modo di lottare in tempo di bonaccia o in tempo di burrasca; e i mezzi umani e soprannaturali per superare scorag­giamenti e debolezze: fedeltà alla vocazione, letizia nella lotta, umiltà, sincerità, pietà, speranza, abbando­no nella filiazione divina, ricorso alla Vergine...

“L’Opera non viene a rinnovare, né tanto meno a rifor­mare nulla nella Chiesa”, avvertiva in una terza Lette­ra, del 9 gennaio 1932. E concludeva ricordando “una vecchia novità: dopo tanti secoli, il Signore si vuol ser­vire di noi perché tutti i cristiani scoprano, finalmente, il valore santificatore e santificante della vita ordinaria

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- del lavoro professionale - e l’efficacia dell’apostolato della dottrina esercitato con l’esempio, l’amicizia e la confidenza.Gesù nostro Signore vuole che proclamiamo oggi in mille lingue - e con il dono delle lingue, in modo che tutti sappiano applicarlo alle proprie vite -, in tutti gli angoli del mondo, questo messaggio vecchio come il Vangelo e come il Vangelo nuovo”217.

E come portare questa “dottrina a tutti gli angoli del mondo, per aprire i cammini divini della terrai”218. E questo il tema di un’altra sua Lettera, del 16 luglio 1933, in cui rispose a questa domanda: fare un aposto­lato di amicizia e di confidenza, scusare, comprendere, annullare il male nell’abbondanza del bene, praticare la santa transigenza con le persone e la santa intransigen­za con l’errore, essere seminatori di pace e di gioia, amici della libertà, della convivenza e del dialogo con coloro che non condividono le nostre idee.

* * *

Tempo addietro, il 30 ottobre 1931 per la precisione, don Josemaria era stato assalito da un dubbio inquie­tante a proposito delle Caterine che raccoglieva in un quaderno: il quarto quaderno, che stava per completa­re. L’incertezza che lo teneva in bilico era questa: “Non è superbia o per lo meno cosa inutile scrivere queste Ca­terine}”119.

(La domanda non era oziosa. Nel 1930 aveva dovuto affrontare un dubbio analogo e il risultato fu che bru­ciò il primo quaderno degli Appunti', un gesto di auten­tica umiltà, come si è già visto, perché non lo credesse­ro un santo).

Scomparsa ogni traccia di quanto scritto nelle date fondazionali - 2 ottobre 1928 e 14 febbraio 1930 - ri­spose a se stesso: “Naturalmente per l’Opera di Dio sa­ranno utili molte di queste note. Inoltre, credo ferma­

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mente che sono mozioni divine. Anche per la mia anima sono utili”220.

Pertanto la risposta del 1931 è di conservare gli Ap­punti; per umiltà, in quanto non si credeva un santo, e perché si rendeva conto che appartenevano al patrimo­nio dell’Opera. Ma non ci sarà in tutto questo un’om­bra di superbia?

“Superbia? No. Dal punto di vista spirituale sono evi­denti soltanto motivi di umiliazione, perché si vede chia­ra la bontà di Dio e la mia resistenza alla grazia; dal punto di vista letterario - come ho detto altre volte - questi appunti sconclusionati sono pure per me una grande umiliazione”221.

(Tuttavia, la tentazione - repressa - di coltivare le proprie doti letterarie gli si affacciava in quei giorni, poiché la settimana precedente osservava di passaggio: “Scrivo sempre peggio. Ma non importa, perché non è per un concorso letterario” )222. Le esigenze apostoliche non gli consentivano di soddisfare tali inclinazioni. Gli mancava il tempo per scrivere. A volte gliene mancava la voglia; altre, persino le forze223.

E chiaro che si rendeva conto dell’utilità degli Ap­punti. Le note che prendeva su pezzi di carta - quando ne aveva l’ispirazione - e che ricopiava poi su foglietti, per trasferirle poi sui quaderni, erano una ricchissima miniera spirituale. Vi registrava dolci effusioni di Amore, aspri pensieri ascetici, iniziative pratiche, luci fondazionali e “ idee-madri” pregnanti di soluzioni, ma che al momento erano, come am m oniva in una Caterina, “un germe che assomiglierà all’essere comple­to così come assomiglia un uovo al gagliardo pollo che uscirà dal suo guscio”224.

Nel dicembre 1932, allo scopo di fornire metodi e temi di meditazione ai suoi figli e alle altre persone che ricorrevano alla sua direzione spirituale, don Josemaria

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compilò 246 pensieri estratti dalle Caterine, li copiò a macchina e li stampò al ciclostile, sotto forma di fasci­coli. Questa prima redazione di Consideraciones espiri- tuales (“ Considerazioni spirituali” ) era anche conosciu­ta come “ Consigli”225.

In seguito, nel 1934, decise di stampare le “ Conside­razioni” , aggiungendo ai punti precedenti nuovi pensie­ri estratti dalle Caterine, fino a un totale di 43 8226. Da una lettera di don Sebastiàn Cirac, canonico di Cuenca, sappiamo che nel mese di aprile erano già avviati i con­tatti per la pubblicazione. Don Sebastiàn aveva assistito a Madrid ad alcune delle riunioni del lunedì con altri sacerdoti e ben volentieri si prese l’incarico di chiedere dei preventivi alla “Tipografia Moderna” . (Gli chiede­vano trecentodieci pesetas per cinquecento esemplari). Inoltre, per snellire la cosa, don Sebastiàn era stato no­minato censore del libro227. Tutto andava con il vento in poppa.

Finché, da quanto si apprende da un’annotazione di don Josemarìa del 18 maggio, cominciarono a soffiare venti contrari:

“Ho inviato a Cuenca le “Considerazioni” e sembra che si scandalizzino - o meglio - si spaventano per alcune parole, che peraltro non implicano alcun errore o man­canza di rispetto; per esempio, la frase “santa facciato­sta”. Ho protestato ieri con una lettera a Cirac e, ceden­do su tutto il resto, spero che il libretto uscirà con “fac­ciatosta” . È meglio che esca comunque, anche se in col­laborazione (!): verrà poi il momento di pubblicarlo senza ritocchi”228.

A giro di posta il canonico gli rispondeva: «Ho rice­vuta la tua e, dopo averla letta per conto mio, l’ho letta al signor Vescovo, al quale non è piaciuto il tuo atteg­giamento per quanto riguarda la parola facciatosta. Dice di non poter concedere l’autorizzazione a un libro

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nel quale si avvalora l’uso di una parola che suona male e che ha un cattivo significato nel linguaggio co­mune; e ti raccomanda di cambiarla con un’altra: deter­minatezza, decisione, coraggio... (...). Ti prego di tener presenti i consigli del signor Vescovo, che qui e nella sua Chiesa è oracolo divino»229.

Per quella brava persona di monsignor Cruz Laplana, era questa una parola disdicevole sulla penna di un prete, per quanto don Josemarìa la santificasse metten­dola al servizio della vita di infanzia spirituale. Poiché la faccenda minacciava di trasformarsi in una discussio­ne bizantina e poiché, d’altra parte, non era il caso di contraddire il Vescovo, oltretutto parente e amico degli Escrivà e che, in fin dei conti, doveva avallare il censore e aveva voce e voto nella “Tipografia Moderna” (un tempo “Tipografia del Seminario” ), don Josemarìa ce­dette. Non senza far constare il proprio disaccordo scri­vendo sulla stessa lettera ricevuta da don Sebastiàn:

“E dagli con la mia facciatosta! Diremo (per ora) sfron­tatezza”230.

Il biografo vorrebbe tenersi al di fuori di questo cu­rioso incidente, ma non può fare a meno di dare la pro­pria opinione. A suo modo di vedere, non si trattava di una mera questione filologica. Si può supporre che il problema, più che di lessico, fosse di prudenza ecclesia­stica e di convenzionalismo civile. Era di questo stile la precauzione dei predicatori che evitavano di pronuncia­re dal pulpito la brutta parola “maiale” , usando abili perifrasi, quali: “gli animali che guardano in basso” o “gli animali immondi” ; oppure, se la pronunciavano, si affrettavano a chiedere scusa all’uditorio. Ma don Jose­marìa non si fermava a simili puerilità; e questa è una nota a suo favore quanto al coraggio del suo stile lette­rario. (Fortunatamente i lettori, non avendo accesso agli Appunti intimi, si sono risparmiati dei sussulti a

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causa dello stile letterario, perché lì, in una Caterina dell’agosto 1931, si legge: “Margaritas ad por cosi II cibo più delicato e scelto, se viene mangiato da un maiale (questo è il suo nome, senza eufemismi) o esce dall’immondo animale trasformato in ripugnante escre­mento o si trasforma tutt’al più... in carne di maiale! Siamo angeli, per nobilitare le idee nelPassimilarle. O, almeno, siamo uomini: per trasformare gli alimenti in muscoli vigorosi e belli, o forse in cervello potente... ca­pace di comprendere e di adorare Dio. Ma... non ren­diamoci bestie come tanti e tanti!)”231.

Vi è certamente una particolare circostanza in que­sta faccenda che è opportuno spiegare. L’autore degli Appunti registrava massime e considerazioni seguen­do la propria ispirazione. E così che le annotazioni sulla “ santa facciatosta” appaiono disseminate nelle pagine del quinto quaderno, relative alla prima metà dell’anno 19 3 2232. Ma quando si trattò di lavorare sugli Appunti, nel dicembre di quell’anno, e don Jose­maria ordinò le materie, mettendo ogni cosa al suo posto, tutte le considerazioni sull’argomento finirono riunite e affratellate in una stessa pagina, con i nume­ri dal 90 in poi. Inviando le nuove “ Considerazioni spirituali” a Cuenca nel 1934, don Josemaria rispettò la distribuzione delle vecchie pagine del 1932; fu così che, sotto il titolo “ Il piano della tua santità” , il Pre­lato potè leggere:

“Il piano di santità che il Signore ci chiede è definito da questi tre punti: la santa intransigenza, la santa coazio­ne e la santa facciatosta” .“Una cosa è la santa facciatosta e un’altra l’impudenza mondana” .“La santa facciatosta è una caratteristica della vita d’in­fanzia. Questa facciatosta, trasferita alla vita sopranna­turale,...” ecc. ecc.233.

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(In totale sei “ santa facciatosta” . Può stupire la preoccupazione del Vescovo? Si capisce meglio ora il suo sussulto?).

Tornando ora alla storia, la decisione presa da don Josemaria tolse un peso al Vescovo, che ne fu pienamen­te soddisfatto, a quanto scrisse don Sebastiàn nella lette­ra del 28 maggio: «Carissimo don José Maria. La tua ultima lettera mi ha molto rallegrato per la fiducia che riponi nel signor Vescovo, al quale pure è piaciuta molto la tua condotta e la sottomissione al suo parere»234.

Il volumetto fu stampato in giugno235. In esso appari­va ripetuta l’espressione “ santo coraggio” . L’autore, fe­dele alla propria ispirazione e attento all’integrità del testo, rimase in attesa. Lasciò trascorrere il tempo. Quando giunse “il momento di pubblicarlo senza ritoc­chi” , quando venne edito Cammino, rimise la “ santa facciatosta”236. In occasioni ben più gravi della sua esi­stenza e della storia dell’Opus Dei, il Fondatore avreb­be esercitato la stessa santa cocciutaggine “di concedere senza cedere, con l’intenzione di recuperare”237.

Come era scritto nell’avvertenza preliminare del libro, le “ Considerazioni spirituali” rispondevano “alle necessità di giovani universitari laici diretti dall’autore” e, come questi spiegava, “ sono note che uso per aiutar­mi nella direzione e nella formazione dei giovani”238. Si toccavano argomenti come la pratica dell’orazione mentale; tema questo che per uno studente universita­rio era come scoprire un nuovo mondo:

“Non sai pregare? Mettiti alla presenza di Dio, e non appena comincerai a dire: “Signore,... non so fare ora­zione!...”, sii certo che avrai cominciato a farla”239.

In mille modi diversi don Josemaria sottolineava agli universitari che la strada dell’apostolato passava, prima di tutto, attraverso la santificazione dei doveri professionali:

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“Un’ora di studio, per un apostolo moderno, è un’ora di apostolato”240.

* * il-

Talvolta, la domenica pomeriggio, racconta Francisco Botella, «il Padre ci faceva andare nella sua stanza, ci sedevamo di fronte a lui intorno al suo tavolo di lavoro, ed egli, prendendo lo spunto dall 'Istruzione sullo spirito soprannaturale dell’Opera o daW Istruzione di S. Raf­faele, ci parlava dell’Opera»241.

Il Fondatore aveva scritto le “Istruzioni” a beneficio dei suoi figli, per fissare ed esporre i punti essenziali della storia, dello spirito e dell’apostolato dell’Opus Dei242. Nella Istruzione sullo spirito soprannaturale dell’Opera di Dio, per esempio, li invitava a considera­re che il disegno apostolico che stavano realizzando non era un’impresa umana, “bensì una grande impresa soprannaturale” . Divina per l’origine e la natura, per­ché “l’Opera di Dio non l’ha immaginata un uomo per risolvere la deplorevole situazione della Chiesa in Spa­gna dal 193l ”243.

Il chiaro proposito del Padre in questa Istruzione era di “marchiare a fuoco” nell’anima dei suoi figli tre con­siderazioni:

“1) L’Opera di Dio viene a compiere la Volontà di Dio. Perciò, siate profondamente convinti che il Cielo è im­pegnato a che si realizzi.2) Quando Dio nostro Signore progetta qualche opera a favore degli uomini, pensa in primo luogo alle persone che deve utilizzare come strumenti... e concede loro le grazie opportune.3) Questa convinzione soprannaturale della divinità del­l’impresa finirà con il darvi un entusiasmo e un amore così intenso per l’Opera da farvi sentire felicissimi di sa­crificarvi perché si realizzi”144.

Idee forti e affilate, che «si radicano nella mente e nel

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cuore», dice Francisco Botella. Leggerle - dice Ricardo F. Vallespin a nome di tutti - «fece un bene enorme alle nostre anime e aumentò i nostri desideri di santità e di dare persino la vita affinché si realizzasse l’Opera, com­piendo così la Volontà di Dio» 245.

E per estendere l’Opera di Dio dappertutto, “ stabi­lendo il regno di Cristo per sempre”, sarebbe stato ne­cessario trascinare con zelo di apostoli altri compagni. Questa idea costituisce il tema centrale di un’altra Istruzione nella quale il Fondatore parla di proselitismo246. Vi espone i mezzi, umani e divini, che bisogna utilizzare; descrive i possibili ostacoli; le qua­lità degli uomini, buone e cattive; chi riunisce le condi­zioni per far parte dell’Opus Dei e chi invece ne è privo e quindi non vi può trovare posto:

“Non c’è posto: per gli egoisti, i codardi, gli indiscreti, i pessimisti, i tiepidi, gli sciocchi, i pigri, i timidi, i frivoli. C’è posto: per i malati, prediletti da Dio, e tutti coloro che hanno un cuore grande, anche se più grandi sono state le loro debolezze”247.

La terza Istruzione - “per l’opera di S. Raffaele” - è datata 9 gennaio 1935. Scritta, probabilmente, nell’au­tunno del 1934, dopo la rivoluzione delle Asturie, con la casa vuota per mancanza di residenti, con critiche e pessimismi da parte di alcuni collaboratori; a dispetto di tutto ciò, il tono del documento, fin dalle righe di in­troduzione, rivela pace e ottimismo e contiene l’annun­cio di un felice futuro:

“Carissimi, da tempo si va notando la necessità di una Istruzione che indichi le norme generali che devono se­guire i formatori per inserire nell’Opera le anime dei nuovi che il Signore invia. Io non posso arrivare a tutto”248.

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8. Preparativi di espansione:Madrid, Valencia, Parigi

Dalla rivoluzione delle Asturie, nel 1934, la vita politi­ca degli spagnoli era diventata enormemente difficile. Nel febbraio del 1936 si sarebbero svolte le elezioni po­litiche. Da un lato stava il Fronte Popolare, di ispirazio­ne marxista. Dall’altro, una confusa coalizione di parti­ti di destra. Le settimane pre-elettorali furono cariche di tensione. La casa in cui abitavano gli Escrivà si tro­vava vicino all’ingresso della chiesa di Santa Isabel, esposta agli assalti o agli incendi; ritennero prudente trasferirsi altrove, in attesa di capire la piega che avreb­bero preso gli avvenimenti. E don Josemaria non perse l’occasione, a lungo attesa, di andare a vivere nella Re­sidenza di via Ferraz:

“31 gennaio 1936” - si legge negli Appunti - “È quasi mezzanotte. Mi trovo nella nostra Casa dell’Angelo Cu­stode. Gesù ha disposto le cose così bene che starò un mese intero con i miei figli. Mia madre e i miei fratelli vivranno, nel frattempo, in una pensione della calle Mayor”249.

Il Fronte Popolare, anche se non in modo travolgen­te, vinse le elezioni del 16 febbraio. Vittoria che arro­ventò gli animi rivoluzionari, accentuando il fondo an­tireligioso che già avvelenava la vita civile. Era temera­rio ritornare all’appartamento del Patronato, per cui la signora Dolores si trasferì, per la settima volta, a un nuovo domicilio. Il figlio, con il suo abituale ottimi­smo, pur nella catastrofe per la causa religiosa che la­sciava presagire la nomina di Manuel Azana a Presi­dente del Governo, vedeva anche il lato positivo della situazione:

“La mamma e i miei fratelli abitano in via Rey Francisco

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3, ora via Dottor Càrceles. Ho approfittato per dire loro che ormai rimango definitivamente ad abitare con i miei ragazzi. Non tutto il male viene per nuocere. Azana è l’occasione che non ho voluto perdere. La mamma l’ha presa bene, anche se le è dispiaciuto”250.

Ben presto si abbattè su tutta la Spagna una tempesta di disordini di piazza, crimini, scioperi e violenze d’ogni genere. L’11 marzo scriveva nelle Caterine:

“Continuano gli incendi, nelle province e a Madrid. Sta­mane, mentre celebravo la Santa Messa in Santa Isabel, per ordine superiore le guardie sono state disarmate (...). D’accordo con le religiose, ho consumato una pisside quasi piena di particole. Non so se succederà qualcosa. Signore, basta sacrilegi”251.

Quello che si temeva accadde due giorni dopo:

“Il giorno 13 hanno tentato di assaltare Santa Isabel. Hanno distrutto alcune porte. In modo provvidenziale la marmaglia è rimasta senza benzina e sono riusciti solo a incendiare parzialmente la porta esterna della chiesa, perché sono fuggiti davanti a un paio di guardie (...).La gente è molto pessimista. Io non posso perdere la mia Fede e la mia Speranza, che sono conseguenza del mio Amore (...). Oggi (il 25 marzo) in Santa Isabel, dove si spaventano per un nonnulla (non so come le monache non siano tutte malate di cuore), sentendo tutti parlare di assassinii di preti e suore, di incendi e assalti e orro­ri..., mi sono scoraggiato e - la paura è contagiosa - ho avuto timore per un momento. Non ammetterò pessimi­sti accanto a me: è necessario servire Dio con gioia e ab­bandono”252.

Nonostante l’atmosfera carica d’odio e con presagi di morte, in mezzo a notizie allarmanti, le Caterine prose­guono la loro rotta apostolica:

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“Sento la necessità, la premura di aprire case fuori Ma­drid e fuori di Spagna”, annotava il 13 febbraio. E in­torno a quella data scriveva: “Sento che Gesù vuole che andiamo a Valencia e a Parigi (...). Si sta già facendo una campagna di preghiera e sacrificio, per porre le fonda- menta di queste due Case”253.

Il progetto di espansione dell’Opera, dentro e fuori di Spagna, stava nello stesso germe della universalità del disegno divino. Ne aveva parlato don Josemarìa con il Vicario Generale nel 1934 ed ora lo informava per let­tera, datata 10 marzo 1936:

“È molto probabile che entro la prossima estate venga aperta una Casa dell’Opera nelle province - forse a Va­lencia - e sto preparando il terreno per inviare un grup­petto a Parigi...”254.

Contava su un pugno di vocazioni e già sentiva l’impa­zienza di andare alla conquista di altre nazioni? Chi lo spingeva a piani di ampliamento apostolico tanto ambi­ziosi? Come sempre, era il Signore e don Josemarìa utiliz­zava un trucco per aiutarsi, un’astuzia umana e sopranna­turale. Annunciava apertamente e in modo impegnativo i suoi progetti alle autorità ecclesiastiche, per cui, in un certo senso, si tagliava la ritirata, per non ritornare sui propri passi. Era una tattica eccellente anche per un altro motivo. Era un mezzo sicuro per riunire preghiere e mor­tificazioni per dare un buon fondamento ai progetti, come confessava a se stesso nelle Caterine, riferendosi alla lettera in cui parlava di Valencia e di Madrid al Vicario:

“Di proposito parlo di queste due case: da una parte, per ottenere molte preghiere e sacrifici; dall’altra, per bruciare le navi, come Cortés”255.

Come faceva con il Vicario Generale di Madrid, don Josemarìa spiegava gli apostolati dell’Opus Dei ai Ve­

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scovi che passavano per la capitale. Li invitava a cele­brare la Messa o a pranzare nella Residenza, per poter poi parlare con loro:

“È consolante” - annotava il 2-XI-1935 - “vedere come la Gerarchia, quando conosce l’Opera, le vuol bene”256.

Al Vescovo di Pamplona, monsignor Olaechea, parlò dell’espansione apostolica e disse che il Signore chiede­va di aprire una casa a Valencia e un’altra a Parigi257. E con il Vescovo ausiliare di Valencia, monsignor Lauzu- rica, prese l’impegno di fargli visita a breve termine: “Nella seconda metà di aprile penso di andare a Valen­cia, poiché mai apriremo Accademie o Residenze senzail beneplacito dei Vescovi”258.

Non dimenticava, naturalmente, il fondamento so­prannaturale: “Le nostre Case di Valencia e di Parigi devono basarsi sulla sofferenza” , ripeteva in una Cateri­na dell’11 marzo. “Sia benedetta la Croce! Contrarietà? Di solito non ne mancano ogni giorno”259.

Impossibile sapere quali fossero le contrarietà alle quali si riferiva, poiché dall’inizio di novembre del 1935 fino alla primavera 1936 sugli Appunti com­paiono soltanto una ventina di annotazioni260. Ma non per questo diminuiva il sacrificio silenzioso del Fondatore, secondo quanto riferiva nell’ultima Cateri­na del 1935:

“Giovedì 12 dicembre 1935. Alcuni giorni fa, nella San­ta Messa, dicevo al Signore: “Dimmi qualcosa, Gesù, dimmi qualcosa”. E come risposta vidi con chiarezza un sogno che avevo fatto la notte precedente, nel quale Ge­sù era grano, sepolto e marcito - apparentemente - per essere poi spiga piena e feconda. E compresi che questa, e non altra, era la mia strada. Buona risposta!”261.

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Nei primi momenti successivi alla nascita dell’Opus Dei,il Fondatore era ancora privo di esperienza sui passi concreti che conveniva fare. Stava a capo di una grande impresa divina che, pur essendo ben definita quanto al­l’origine, ai mezzi e ai fini soprannaturali, mancava del supporto materiale dei suoi apostolati. Doveva ancora stabilire le proprie modalità peculiari di azione e aveva in corso il lavoro di formazione dei membri. L’impegno di sviluppo iniziale consisteva, da parte del Fondatore, in un esercizio di verifica e di approssimazione analogo a quello di un bimbo che muove i primi passi:

“L’Opera di Dio non nascerà perfetta” - spiegava con Una bella immagine il Fondatore -. “Nascerà come un bambino. Prima debole. Poi, comincia a camminare. In seguito, parla e agisce per conto suo. Si sviluppano tutte le sue facoltà. L’adolescenza, la virilità, la maturità... L’Opera di Dio non sarà mai vecchia: sempre virile nei suoi impeti, e prudente, audacemente prudente, vivrà nell’eterna maturità che le deve dare l’identificazione con Gesù, il cui apostolato farà sino alla fine”262.

E dove ha le radici questa “eterna maturità” se non nell’essenza stessa dello spirito dell’Opera, in cui trova posto una maniera peculiare e positiva di valorizzare e “divinizzare” le strutture temporali, per offrirle a Dio? Una simile visione della realtà storica come occasione favorevole per l’incontro con Cristo è molto lontana dal contemptus mundi predominante nell’ambiente re­ligioso dell’epoca, per il quale liberarsi delle attività meramente temporali era il requisito preliminare a una vocazione di ricerca della santità. Ben diverso è il modo di intendere e di trattare le cose del mondo se­condo lo spirito dell’Opus Dei, che vede nel lavoro un mezzo di santificazione. I membri dell’Opus Dei ri­spondono alla chiamata divina stando nel mondo; e nel mondo continuano ad avere la loro mentalità seco­

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lare, senza cambiare professione, ma facendone lo strumento dell’apostolato.

Nasce così uno stile di vita in cui il cristiano compie la propria missione corredentrice nella normalità quoti­diana, all’interno della società alla quale appartiene, operando apostolicamente come il lievito, all’interno, adattandosi sempre alle circostanze storiche e sociali nelle quali si muove.

A quel tempo, negli anni trenta, le imprese apostoli­che erano create o promosse dalla Gerarchia ecclesiasti­ca, o da Ordini o Istituti religiosi, e svolgevano il loro apostolato come attività imposta dall’alto o dall’ester­no dell’ingranaggio sociale. Inoltre, per la maggior parte delle volte, la direzione di questi apostolati non era nelle mani dei laici. Di conseguenza, l’impegno apo­stolico proposto da don Josemaria, in consonanza conlo spirito secolare dell’Opus Dei - cioè esercitato da laici nel proprio ambiente professionale - era a quell’e­poca un fatto senza precedenti.

Già dal 1930 il Fondatore stava cercando il modo pratico con cui far apparire esternamente e con chiarez­za che i membri dell’Opus Dei erano laici, fedeli e citta­dini comuni. Cercava anche di risolvere il problema di “una netta separazione fra l’Opera di Dio, lega spiri­tuale, e le diverse attività da fare (apostolato)”263. Fu nel giorno di S. Giovanni Evangelista, il 27 dicembre 1930, che trovò la soluzione al problema, “evitando la confusione tra lo spirituale e le imprese materiali”264.

Sarebbero sorte così le opere corporative di carattere apostolico, prima delle quali fu l’Accademia DYA. L’Accademia era un centro culturale di carattere civile; come tale era stata registrata ed era stata pagata alla pubblica amministrazione la tassa dovuta. Vi si davano lezioni di Diritto e di Architettura ed era gestita da laici, perché, come aveva scritto il Fondatore in una Caterina, “ i sacerdoti saranno solamente - e non è poco - direttori di anime”265. L’accademia era, inoltre,

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un centro dell’Opera dove si impartiva formazione cri­stiana e umana. Con questa prima iniziativa l’attività apostolica dei membri dell’Opus Dei rimase quindi se­gnata con il carattere laicale. Don Josem arìa, pur dando impulso a tutta l’attività apostolica ed essendoil creatore dell’impresa, rimaneva discretamente in se­conda fila, riaffermandone così il carattere di iniziativa civile, mentre evitava nell’Accademia ogni minima ombra di clericalismo, specialmente di fronte alle auto­rità ecclesiastiche. Così si esprimeva, per esempio, nel­l’istanza del 13 marzo 1935, intesa a ottenere la con­cessione di un oratorio semipubblico, che iniziava con questo chiarimento:

“José Maria Escrivà y Albàs, presbitero, direttore spiri­tuale dell’Accademia-Residenza DYA - via Ferraz 50 - della quale è Direttore tecnico l’architetto Ricardo Fernàndez Vallespìn, Professore aggiunto alla Scuola Superiore di Architettura, rispettosamente sottopone al- l’Eccellenza Vostra, ecc.”266.

Con la creazione dell’Accademia DYA si mise in moto anche l’apostolato con giovani professionisti, al­cuni dei quali sposati; e quando l’Accademia si trasferì in via Ferraz 50, Miguel Dean, allora già laureato in Farmacia, racconta che «il Padre svolgeva un importan­te lavoro di direzione spirituale e di formazione di tutte le persone che vi passavano»267.

L’Opera non aveva personalità giuridica di alcun ge­nere e non aveva neppure una forma legale in quegli anni di insicurezza civile, di frequente soppressione del diritto di riunione e di stretta vigilanza poliziesca. Nel 1933 il Fondatore aveva pensato di creare una “Società di Collaborazione Intellettuale” (So-Co-In), che rag­gruppasse i docenti universitari, con l’intenzione che fosse il germe dell’opera di S. Gabriele. Ne elaborò il regolamento ma non lo sottopose all’approvazione

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delle autorità civili fino a dopo le elezioni politiche del febbraio 1936, come annunciava a monsignor Olae- chea nella lettera del 3 marzo:

“È stata fondata la “Società di Collaborazione Intel­lettuale” (opera di S. Gabriele) e lo “Sviluppo degli Studi Superiori” , per gestire tutta la parte economica dell’Opera”268.

Un’associazione di carattere culturale avrebbe con­sentito loro di riunirsi per ricevere le lezioni di forma­zione senza il pericolo di trovarsi fuori legge ogni volta che veniva sospeso il diritto di riunione dei cittadini. E una società civile, con fini culturali e capitale sociale costituito ad opera di soci scelti da loro, sarebbe servita per acquisire i mezzi materiali adeguati ai fini: Accade­mie, Residenze, Biblioteche, Scuole, ecc.

Man mano che crescevano - e crescevano rapidamente- accadeva loro come ai bambini: tutto diventava picco­lo. Dapprima erano state le quattro modeste stanze del­l’Accademia DYA di via Luchana. Poi il lavoro di S. Ga­briele, come scriveva il 14 ottobre 1935:

“Grazie a Dio, cresciamo. Gli abiti diventano corti (...), è l’ora di creare la “So-Co-In” e lo “Sviluppo degli Studi Superiori” . Quest’ultima società per la parte economica. La prima è l’opera di S. Gabriele”269.

Poi divenne piccola la casa, come raccontava il Fon­datore al Vicario Generale nel febbraio del 1936: “Pur avendo preso in affitto un altro piano al n. 48, la casa ci viene piccola”270.

(Lo strappo successivo sarebbero state Valencia e Parigi).

Per inciso diremo che, con la faccenda degli scossoni

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volti alla crescita apostolica, don Josemarìa finì con il convincersi che era inutile prendere misure e confezio­nare abiti in anticipo: “Si vede ciò che ho detto tante volte: è inutile fare dei regolamenti, perché dev’essere la vita stessa del nostro apostolato che, a suo tempo, ci in­dicherà il modello”271.

Compì la promessa di andare a far visita a monsi­gnor Lauzurica nella seconda metà di aprile. Come gli aveva annunciato per lettera, portava con sé il progetto apostolico della casa di Valencia, spiritualmente ben = preparato: “ Quante preghiere e sacrifici, quante ore di studio santificate, quante visite ai poveri e ore di veglia davanti al tabernacolo, e quante discipline e altre mor­tificazioni sono salite fino al Signore, in petizione di grazie per compiere la sua amabilissima Volontà!”272.

Lunedì 20 aprile, accompagnato da Ricardo Fernàn- dez Vallespìn, giunse a Valencia. Al pomeriggio don Josemarìa ebbe un colloquio con monsignor Lauzuri­ca, e gli lasciò le Istruzioni e altri scritti sull’Opera. Il martedì il Prelato invitò a pranzo i due visitatori ma­drileni. Li trattò con calorosa cordialità e promise di parlare con l’Arcivescovo per concedere loro un orato­rio semipubblico nel futuro centro che avrebbero aper­to a Valencia.

«È così che in agosto o alla fine di luglio verremo a si- stanare la Casa di S. Raffaele di Valencia», scriveva Ri­cardo273.

A Valencia, il Padre parlò con un giovane studente, Rafael Calvo Serer, che chiese l’ammissione all’Opera dopo una lunga passeggiata e una lunga chiacchierata.

A partire da quella data accadde qualcosa di total­mente inatteso, perché non c’è pagina degli Appunti in cui non trapelino dolenti e tristi note: le comunioni del sacerdote sono fredde; non sa “recitare bene neppure un’avemaria” ; gli “sembra che Gesù se ne sia andato a

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spasso” e lo lasci solo; si trova scontento di sé, “ senza voglia di nulla” ; non riesce a coordinare le idee; “un po’ zoppo, con un reumatismo, nonostante il caldo” ; senza forze per fare una mortificazione; desideroso di “qualche giorno di distensione” , perché vede che il Si­gnore lo tratta “come una palla: su e giù, e sempre a colpi. Ut iumentum!...”274.

Tutto questo lungo rosario di prove e sofferenze spi­rituali lo colse debilitato nelle forze fisiche e la sua resi­stenza ne fu erosa. Senza caricare le tinte, lo spiegava in una lettera al Vicario Generale all’inizio di maggio: “ Sento la necessità di essere molto semplice con lei, Padre. Sul piano fisico, sono grasso e fiacco, molto stanco”275.

Due giorni dopo parlò confidenzialmente con don Pedro Poveda, che in precedenza era pure passato per una situazione simile. Don Pedro gli raccomandò ciò che un tempo gli aveva consigliato anche don Franci­sco Moràn: il riposo, ancor meglio a letto. E seguì il consiglio:

“Sono andato a casa di mia madre e sono stato tutto il giorno a letto, senza parlare né vedere alcuno, e sono stato un po’ meglio. È esaurimento fisico: in questi ulti­mi otto mesi ho parlato, fra prediche, meditazioni e con­versazioni di S. Raffaele, trecentoquaranta e rotte volte, per almeno mezz’ora. Inoltre, la direzione dell’Opera, la direzione delle anime, le visite, ecc. Così si spiega che ci siano dei momenti terribili in cui tutto mi dà fastidio, persino ciò che più mi è caro. Il demonio ha fatto coinci­dere questa debolezza fisica con mille piccole cose”276.

A ben vedere, non erano poi così piccole le difficoltà che gli caddero addosso in quel tempo: gli avevano ap­pena annunciato la confisca da parte dello Stato della chiesa e del convento di Santa Isabel, che le suore avrebbero dovuto abbandonare; continuavano ad arri­

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vargli critiche, pettegolezzi e mormorazioni; non trova­va denaro per acquistare la nuova casa; stavano per scadere le facoltà ministeriali; soffriva di un forte attac­co reumatico...277.

Alla fine del maggio 1936 riassumeva la propria si­tuazione con queste parole, che lasciano trasparire forti sofferenze:

“Debole, mi sento terribilmente debole in tutto, corpo... e anima, nonostante le apparenze. Questo mi fa sentire strano. E non voglio. Aiutami, Madre nostra.Morire è una buona cosa. Come può essere che qualcu­no abbia paura della morte?... Ma per me, morire è una vigliaccheria. Vivere, vivere e patire e lavorare per Amo­re: questo devo fare”278.

Trattava se stesso come un bambino piccolo, che non si consola se prima non ha sparso dei lacrimoni e non ha attirato l’attenzione sulle sue lamentele? No, in realtà non era così; era il Signore che amorevolmente gli stringeva l’anima. E allora, ricorrendo alla vita di in­fanzia spirituale, esponeva teneramente al Signore le proprie pene:

“Signore, permetti che mi lamenti un pochino?”, gli di­ceva don Josemaria. “Ci sono dei momenti (per la mia miseria: mea culpa) nei quali mi sembra di non poterne più. Ormai mi sono lamentato. Perdonami.La mia Madre del Cielo è stata molto paziente con me durante quest’ultimo mese di maggio. Mi sono compor­tato come un figlio cattivo”279.

Ma ecco che all’improvviso negli Appunti appare una nota libera di giubilo, come se, finalmente, il sole aves­se spazzato via un mare di nubi:

“30 maggio 1936. Stanotte ho dormito stupendamente. Non mi sono svegliato che alle sei e un quarto. E da tan­

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to tempo che non dormo tanto tutto d’un fiato. Inoltre, ho una gioia interiore e una pace che non cambierei con nulla. Dio sta qui: non esiste cosa migliore che il raccon­tare a Lui le pene, perché cessino di essere tali”280.

Ebbe solamente due giorni di tregua. Tempo sufficien­te, tuttavia, per terminare di redigere l'Istruzione per i direttori, pensando ai nuovi centri da aprire di lì a poco:

“Oggi - in occasione delle prossime fondazioni a Valen­cia e a Parigi - questa Istruzione è rivolta ai miei figli che partecipano alle preoccupazioni di governo nelle Case o Centri dell’Opera”281.

Poi dava ai direttori gli opportuni consigli, trasmet­tendo loro la propria esperienza di direttore di anime e i princìpi ai quali si dovevano attenere nel governo282.

Questo piccolo raggio di sole durò ben poco. I cieli si oscurarono di nuovo e sulla sua anima tornarono ad affollarsi le nubi e i problemi:

“5 giugno 1936. Sento la necessità di un ritiro, di soli­tudine e di silenzio. Non mi sembra possibile fruire di alcuni giorni così. Che peccato! Fiat”283.

Due settimane dopo continuava ad anelare a un riti­ro; ma fisicamente era tanto affaticato che non ritenne opportuno rinchiudersi. In quei giorni stavano cercan­do una nuova casa a Madrid e un’altra a Valencia. Alla fine, mercoledì 17 giugno potè scrivere questa Caterina:

“Questo pomeriggio si firma il contratto di acquisto della casa. Non andò delusa la mia speranza, anche se in questo periodo ho dato a Gesù dei buoni motivi per abbandonarci. Un’altra prova della divinità dell’Opera: poiché è Sua, non l’abbandona; se fosse stata mia, già da tempo l’avrebbe abbandonata”284.

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Non gli sembrò vero di suonare le campane a distesa.Il giorno successivo informava il Vicario Generale di una notizia tanto lieta:

“A Valencia si sta cercando casa e presto la sistemeran­no (...). Qui c’è la buona notizia che ieri è stato firmatoil contratto di acquisto della casa di via Ferraz 16, che era del Conte del Reai”285.

Frattanto i giorni passavano rapidi. Per strada il clima era teso, con notizie di agitazioni e di violenze. Ma, in mezzo al disordine, il Fondatore aveva sufficien­te presenza di spirito per annotare sui suoi Appunti le mete apostoliche a cui tendeva, al di sopra del caos ge­nerale della nazione:

“Madrid? Valencia, Parigi? Il mondo!”286.

Passarono alcuni giorni e don Josemaria cominciò a sentirsi “ strano” . Gli venivano “nientemeno che tristez­ze e malinconie e umiliazioni” . Tutto senza motivi che spiegassero come e perché svaniva come fumo al vento l’allegria che gli faceva sempre compagnia e che gli era peculiare, “tintinnante di sonagli”287. Era certamente strano il suo stato d’animo perché negli ultimi giorni di giugno, senza perdere la pace e la tranquillità, speri­mentava una indefinibile inquietudine di spirito. Si tro­vava teso, in stato di allerta e di attesa, con “brama di croce e di dolore e di Amore e di anime”288. Due giorni dopo aver annotato queste parole, il 30 giugno 1936, il presentimento che il Signore lo attendesse sulla Croce assumeva a poco a poco certezza e consistenza. E nella sua memoria riviveva un evento ancora aperto fra lui eil Signore, accaduto sette anni prima:

“Agosto 1929 e agosto 1936: non so— ma sì che lo so - perché accosto nella mente queste due date”289, annota­

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va negli Appunti l’ultimo giorno del mese di giugno o uno dei primi giorni del luglio 1936.

Il fatto a cui allude era avvenuto l’i l agosto 1929. Mentre dava la benedizione con il Santissimo nella chiesa del “Patronato de Enfermos” , aveva chiesto al Signore, con uno slancio spontaneo, “ una malattia forte, dura, per espiazione”290. La risposta gli venne in­teriormente: la richiesta era concessa. Ora, dal più profondo del suo essere affiorava alla coscienza un im­pulso, allo stesso tempo dolce e doloroso, che lo condu­ceva ad offrirsi per Amore alla Croce di Cristo, come scrisse in una Caterina:

“Senza volerlo, con un movimento istintivo - che è Amore - apro le braccia e schiudo le mani affinché Egli mi inchiodi alla sua Croce benedetta: per essere suo schiavo - serviamì -, che significa regnare”291.

Nella coscienza del sacerdote affiorava un acceso de­siderio di conversione definitiva, di purificazione radi­cale di tutti gli affetti, “ anche di quelli che in sé sono santi”292. Di quando in quando aveva il presentimento che la data della malattia concessa dal Signore fosse prossima, forse di lì a un mese. “A volte penso” - scris­se - “che la mia offerta dell’agosto 1929, mio Padre- Dio l’accetterà il prossimo agosto”293. Ma non poteva prévedere di quale genere fossero le sofferenze che gli erano riservate per l’agosto 1936, né da dove provenis­sero. Lo assediava il pensiero di offrirsi come vittima espiatoria sulla Croce che si avvicinava, e faceva inte­riormente degli sforzi per respingere l’idea, che conside­rava esibizionistica e propizia t i la vanità o alla super­bia. L’allontanava “perché, nella prosa dei mille piccoli dettagli quotidiani, c’è poesia più che sufficiente per sentirsi sulla Croce - persino nelle giornate in cui sem­

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bra che si sia perduto tempo - vittima! su una Croce senza spettacolo”294.

Finalmente arrivava per lui il momento di stare più vicino al Signore, sulla Croce. E si faceva coraggio: “Jo­semaria, sulla Croce!”295.

E la Croce che il Signore gli aveva preparato era un inatteso olocausto di amore e di dolore, in riparazione di tutti gli orrori della guerra civile spagnola, ormai im­minente.

ir * il-

I sospirati progetti di espansione apostolica si stavano facendo realtà. Con che gioia fecero il trasloco nella nuova casa. I primi giorni di luglio trasportarono i mo­bili dal n. 50 al n. 16 di via Ferraz. Quando finirono, tutta la casa era sottosopra. La settimana successiva fe­cero ordine. Il 15 luglio erano ormai definitivamente in­sediati nella nuova casa296.

Non erano numerosi i componenti della squadra che avevano provveduto al trasloco e alla sistemazione. I membri dell’Opera che non risiedevano a Madrid erano quasi tutti partiti per raggiungere le famiglie, in provincia. Pedro Casciaro e Francisco Botella erano partiti il 3 luglio per Valencia, per riposarsi qualche giorno dallo sforzo fatto nelle ultime settimane di studio, e con l’incarico del Padre di trovare una casa per aprirvi il nuovo centro. Nella ricerca li aiutava Rafael Calvo. Tutto si svolse molto rapidamente. Il giorno 16 avvisarono per telegram­ma di aver già trovato una casa adatta. Il 17 Ricardo andò a Valencia. La mattina del 18 luglio si trovavano riuniti nell’ufficio dell’amministratore della proprietà per ultimare le clausole del contratto, quando la famiglia del­l’amministratore lo chiamò al telefono per dargli la noti­zia che l’Esercito di stanza in Africa si era sollevato e che a Barcellona si sparavano cannonate per le strade297.

I sogni di espansione, per il momento, furono brusca­mente interrotti.

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NOTE CAPITOLO Vili

1 II Fondatore, con ottimismo e anticipando la storia, in quei giorni andava raccogliendo nei suoi Appunti intimi elementi sulla struttura e il funziona­mento del lavoro di S. Gabriele. Per esempio: “Nei centri numerosi quelli di S. Gabriele dovranno essere divisi in gruppi, in base al tipo di professio­ne” (Appunti, n. 1027). Come si ricorderà, il lavoro di S. Gabriele com­prendeva l’apostolato con persone sposate.2 Ibidem, n. 957. Non perdeva occasione di contattare le persone che co­nosceva, professionisti che avevano terminati gli studi, per inserirli nella futura Accademia come professori: “30 aprile 1933: (...) Il Signore sta in­viando professori per l’Accademia: Rocamora, Gonzàlez Escudero, Luei­mo, Atanasio e i nostri. Ieri sera mi hanno portato Fernando Oriol” (ibi­dem, n. 993).3 Ibidem, nn. 1018 e 1016.4 Ibidem, n. 1021, del 13-VI-1933. In un’altra Caterina della stessa data o di pochi giorni dopo, scrisse: “Ora, con l’attuale caos politico, cado nella tentazione di leggere i giornali. Non so fare neppure questo” (cfr ibidem, n. 1024).Si trattava, molto probabilmente, di articoli sulla legge delle “ Confessioni e Associazioni Religiose” (“ Gaceta de Madrid33, del 3-VT-1933), che limi­tava il culto cattolico e sottoponeva a severe ispezioni l’attività e l’ammini­strazione degli Ordini e Congregazioni Religiosi.5 Ibidem, n. 945.6 Ibidem, n. 957.7 Cfr ibidem, n. 1050. Cfr anche ibidem, nn. 976, 986, 992, ecc.8 Ibidem, n. 1005, dell’ll-V-1933.9 Cfr ibidem, nn. 1713-1714.10 Ibidem, n. 1729.Juan Postius Sala nacque nel 1876 a Berga (Barcellona) e morì nel 1952 a

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Solsona (Lerida). Nel 1894 aveva professato nella Congregazione del Cuo­re Immacolato di Maria. A Roma terminò gli studi di dottorato in entram­bi i Diritti. Una parte importante della sua attività fu propagare la devozio­ne mariana mediante Congressi Mariani Internazionali. Fu l’organizzatore del XXII Congresso Eucaristico Internazionale del 1911 a Madrid. Fra le sue molte pubblicazioni c’è El Código canònico aplicado a Espana en for­ma de instituciones, Madrid 1926.11 Appunti, n. 599 (15-11-1932).12 Ibidem, n. 742. In una Caterina dell’aprile o del maggio 1930, si legge: “Neppure una sola volta mi capita di pensare di ingannarmi, che Dio non voglia la sua Opera. Anzi, al contrario” (ibidem, n. 27).13 Ibidem, n. 1710. Don Josemaria rispettava e seguiva le tracce per i temi di meditazione che gli aveva dato R Sànchez, come pure l’orario comunica­togli da R Gii, religioso redentorista, al suo arrivo nel convento (cfr ibi­dem, nn. 1704-1705).14 Ibidem, n. 1729. Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 464; Joaquin Alonso, Sum. 4612. Il Fondatore scrisse di avere preso nota di questo fatto, anche a parte rispetto alle note date poi a P. Sànchez alla fine degli esercizi, “perché desidero che i primi siano al corrente delle divinissime piccolezze che han­no fatto da contorno alla nascita di questa nuova milizia di Cristo. Cono­scendo ciò e insieme le mie miserie di cui dovranno accorgersi stando con me, non potranno fare a meno di amare l’Opera e di esclamare: veramente quest’Opera è... l’Opera di Dio!” (Appunti, n. 1730). I “primi” sono i pri­mi seguaci (cfr anche testo citato alla nota 18).15 Ibidem, n. 1730. Le parole di offerta dell’Opera le scrisse “nel momento preciso in cui accadeva il fatto” nella chiesa (ibidem, n. 1729).16 Ibidem, n. 1709. L’1 maggio 1933 fece, di questi “peccati attuali” , un elenco che coincide con quello degli esercizi di giugno: “Piangere: non so se la mia anima diventa fiacca; non credo; il fatto è che sono come un bambi­no. Ho difetti, peccati da bimbo cattivo: gola, pigrizia, sonno..., tutta la sensualità sveglia. E nell’orazione: quando avrò ordine nell’orazione?” (ibidem, n. 995).17 Ibidem, n. 1723.18 Ibidem, nn. 787, 938, 955 e note 685 e 1281.L’Accademia Veritas di via O’Donnell era retta dalle Teresiane; all’istitu­zione Teresiana di via Alameda, a Madrid, don Josemaria era solito recarsi con una certa frequenza a confessare, come testimoniano P. Silvestre San- cho O.P. e don Eliodoro Gii Ribera: «Ho conosciuto per la prima volta il Servo di Dio nella Casa delle Teresiane del P. Poveda, in via Alameda 7, a Madrid. Successivamente ci siamo visti in diverse occasioni» (Silvestre San- cho, Sum. 5392; Eliodoro Gii Ribera, Sum. 7747).Come si può vedere da un appunto del 1934, solamente in parte compì il proposito di smettere di confessare in alcuni posti:“Domenica: Santa Isabel. Lezione o catechesi, al pomeriggio, ospedale. Lunedì: confessioni all’Assunzione, alle 15. Riunione sacerdotale.

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Martedì: José Maria Valentin (10.30). Accademia.Mercoledì: confessioni all’Assunzione. Riunione del gruppo di S. Raffaele. Jenaro Làzaro.Giovedì: lezione. Al pomeriggio, Accademia. Confessioni, via O’Donnell, 7 (17.30).Venerdì: conversazione formativa ai primi, bambine povere di Santa Isabel (confessarle) e a Porta Coeli. Angel Cifuentes (8-9) - Pepe Romeo. 16.30 predica, Dame inglesi.Sabato: Accademia. Confessioni: bambine di Santa Isabel (9), Porta Coeli (11) e Teresiane (17.30). - Accademia - Jaime Munàrriz (8-9). Juanito J. Vargas (12) - Benedizione dalle Ancelle” (Appunti, n. 1794).19 Cfr AGP, P04 1974, II, pp. 418-419. La data di questo episodio può col­locarsi intorno al 1932-33, ma non più tardi. Suor Benita Casado testimo­nia che, quando don Josemaria parlava di come fare orazione, raccontava «la storia di Juan il lattaio che tutte le mattine diceva al Signore: “Ecco qui Juan il lattaio” » (AGP, RHF, T-06242, p. 4).10 Appunti, n. 719.21 Ibidem, n. 974.22 Nota fatta al corso di ritiro, il 22 giugno 1933. Subito dopo, fissava le discipline, i cilici, il digiuno e i giorni in cui dormire per terra, per farli ap­provare dal confessore:“ = Discipline: lunedì, mercoledì e venerdì, più un’altra straordinaria nelle vigilie delle feste del Signore o della SS. Vergine; un’altra straordinaria set­timanale, di supplica o di ringraziamento.= Cilici: due al giorno, fino all’ora di pranzo; fino all’ora di cena, uno; Martedì quello ai fianchi e venerdì quello delle spalle, come fino ad ora.= Dormire: sul pavimento, se è di legno, o sul letto senza materasso: mar­tedì, giovedì e sabato.= Digiuno: il sabato, prendendo solamente quello che mi danno come pri­ma colazione” (ibidem, n. 1724).Stabilì il tempo e il tipo di letture da fare e confessava che “ il non leggere i giornali per me rappresenta di solito una mortificazione non piccola” (ibi­dem, n. 1726). In quei tempi di disordini e di persecuzione della Chiesa era necessario essere informati e pronti.23 Ibidem, n. 1727.24 Bollettino Ufficiale del Vescovado di Madrid-Alcald, 1 aprile 1933, n. 1580, p. 114. La data della Circolare (n. 109) era quella del TI marzo 1933.Un ordine di Azana, ministro della Guerra, ai comandanti di divisione, in data 9 marzo 1932, proibiva la pratica di qualsiasi atto di culto nelle caser­me. Il Vescovado, dall’l aprile 1933, si sarebbe «fatto carico con effetto immediato di tutte la questioni che fino ad ora erano di competenza della Giurisdizione ecclesiastica militare» nel territorio della diocesi (cfr Circola­re citata).Le giurisdizioni castrense e palatina dipendevano entrambe dal Patriarca delle Indie, Ramon Pérez Rodriguez, che il 14 aprile 1933 fu nominato dal

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Papa Vescovo di Cadice, della cui sede prese possesso il 30 maggio 1933 (cfr Annuario Ecclesiastico, cit., anno 1934, p. 73). Cfr anche la nota di Mons. Eijo y Garay al Direttore Generale della Beneficenza, 24-XI-1939 (Archivio della Segreteria Generale dell’Arcivescovado di Madrid: Patro­nati, pratica “Buen Suceso”).25 Appunti, n. 963. Riferimenti al tema della sua situazione ecclesiastica in Santa Isabel: ibidem, nn. 556, 636, 719, 886.26 Sui rapporti del Fondatore con don Pedro Poveda: Appunti, nn. 251, 295, 731, 745, 938, 955. Il Fondatore lasciò pure una nota scritta sulla sua amicizia con don Pedro a motivo di alcune inesattezze espresse, molti anni dopo, dal Nunzio in Spagna Mons. Riberi (1962-1967) (cfr ibidem, nota 266 e nn. 1627 e 1628; e AGP, RHF, AVF-0041, pp. 47-48; anche Alvaro del Portillo, Sum. 240).27 Appunti, nn. 994-995. Prima del 1933, il Vicario Generale conosceva le attività del Fondatore attraverso la nomina a cappellano del “Patronato de Enfermos” , il rinnovo delle facoltà ministeriali, i permessi di celebrazione delle Messe nella chiesa del Patronato, il passaggio al Patronato di Santa Isabel, la concessione delle facoltà su richiesta di don Pedro Poveda, una visita di don Lino a nome di don Josemaria per la catechesi nella scuola di Arroyo, e qualche altro motivo.In una Caterina datata 19-VI-1933 si legge: “Sono stato a rinnovare le mie facoltà. Chi l’avrebbe mai pensato! Con grande cortesia me le hanno date subito e senza farmi pagare i diritti. Sono rimasto d’accordo di far visita qualche volta a Don Moràn, per tenerlo al corrente di quello che faccio” (n. 1025).Sulla concessione delle facoltà ministeriali nella diocesi di Madrid-Alcalà dal 1932 al 1936, cfr Libro delle Facoltà Ministeriali, n. 8, foglio 55v; n. 9, foglio 58v.28 Appunti, n. 1049.29 C 42, 29-VIII-1933. Il successivo riferimento è del 18 settembre, e vi si dà notizia della morte di don Teodoro e dell’andata di tutta la famiglia a Fonz: “Dovemmo fare due viaggi a Fonz, a motivo della morte di mio zio (che riposi in pace)” , scrisse in una Caterina (n. 1055).30 Appunti, n. 1055.31 Ibidem, n. 1057.32 Ibidem, n. 1065. E aggiunse: “Il Padre Sànchez mi ha rimproverato per la mia impazienza nel desiderare, soffrendo, che il nostro apostolato del­l’Opera cristallizzi in “qualcosa” ” (ibidem, n. 1067).33 Ibidem, n. 1732.34 Ibidem, n. 1072.35 Ricardo Fernàndez Vallespin, AGP, RHF, T-00162, p. 6. Ricardo aveva trascorso l’estate del 1933 senza poter vedere don Josemaria a causa di un attacco acuto di reumatismi che per poco non gli aveva fatto perdere l’an­no accademico, impedendogli di studiare.

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36 Appunti, n. 1077.37 Appunti, n. 1083. Ad eccezione di quanto avvenne per le prime due case di Madrid e per un’altra a Burgos (1938), nessun centro o casa dell’Opera si sarebbe più chiamata con il nome di un santo. Cfr ibidem, nota 834 e n. 1106.38 Ibidem, n. 1094.39 In una lettera datata Malaga, 13 gennaio 1934, scriveva a don Jose­maria: «La targa dell’Accademia è già terminata; è riuscita abbastanza be­ne, è copia fedele del tuo disegno» (originale in AGP, IZL, D-1213, n. 45). “La prima attività corporativa” - disse il Fondatore in una meditazione del 19-111-1975- “fu l’Accademia che chiamavamo DYA - Diritto e Architet­tura - perché vi si davano lezioni di queste materie; ma per noi la sigla si­gnificava Dio e Audacia” .Il motto “Dio e audacia!” era stato scritto per la prima volta in una Cateri­na del 27-111-1931: “I nostri uomini e donne di Dio nell’apostolato d’azio­ne abbiano per motto: “Dio e audacia!” ” (Appunti, n. 186; cfr ibidem, nn.190 e 224).40 Appunti, n. 989.41 Ibidem, n. 1071.42 Ibidem, n. 1102 (5-1-1934). Sulla croce di legno, cfr José Ramon Herre- ro Fontana, AGP, RHF, T- 05834, p. 3.43 Cfr Alvaro del Portillo, PR, p. 464; e Ricardo Fernàndez Vallespin, AGP, RHF, T-00162, p. 10.44 Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 304; anche AGP, POI VII-1955, p. 44; AGP, P03 1979, p. 251; Jenaro Làzaro, AGP, RHF, T-00310, p. 2.45 Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 302. A quanto testimonia Ricardo Fernàn­dez Vallespin (AGP, RHF, T-00162, p. 14), le difficoltà e le ansie si alterna­vano, a volte, con avvenimenti nei quali era evidente l’intervento straordi­nario della Provvidenza. Uno di quei casi è narrato nei dettagli da Juan Jiménez Vargas (AGP, RHF, T-04152/1, p. 26): mancava il denaro necessa­rio per pagare la bolletta della luce; don Josemaria, mentre riguardava del­le vecchie carte nel suo studio di Santa Isabel, strappò una busta vuota e la gettò nel cestino. Mentre la gettava gli parve però che ci fosse qualcosa dentro: era un biglietto da 25 pesetas, quanto bastava per pagare l’importo della bolletta.46 AGP, RHF, T-00162, p. 12.47 Appunti, n. 1753.48 Ibidem.49 Cfr ibidem, n. 1109. Il 7 gennaio aveva chiesto l’intervento di S. Giusep­pe: “Se il mio Padre e Signore S. Giuseppe (...) ci porta avanti questa casa, la seconda che si aprirà sarà la Casa di S. Giuseppe” (ibidem, n. 1106).50 Ibidem, n. 1120.51 Meditazione del 19-111-1975.

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52 Cfr Appunti, n. 1091.53 Cfr ibidem.54 Cfr ibidem, n. 1063.55 Istanza al Ministro del Lavoro del 26-1-1934. Originale in Archivio Ge­nerale del Patrimonio Nazionale (Palazzo Reale) - Patronati Reali - Santa Isabel, Pratica di don Josemarìa, cassa 182/21.Lettera della Priora del Convento al Ministro del Lavoro, 28-1-1934. Ori­ginale in Archivio Generale..., cit.Gli antichi Patronati Reali dipèndevano dalla Direzione Generale della Be­neficenza. Al tempo della II Repubblica spagnola questa Direzione Genera­le passò dal Ministero del Lavoro a quello degli Interni e poi alla Pubblica Istruzione.56 Cfr Appunti, n. 1125.57 Ministero degli Interni, 31-1-1934. Originale in Archivio..., cit.58 Da quanto si apprende dalla Caterina del 3 febbraio su questa questione della casa, egli riteneva di aver fatto un passo avanti quanto alla propria “stabilità” in Madrid; ma non si decideva a cambiare casa per le ragioni indicate e soprattutto per l’ultima che enumera: la speranza di vivere pre­sto in un centro dell’Opera, con il Signore nel tabernacolo: “Perché spero che Egli vada a vivere con i suoi figli - siamo figli di Dio - nella Casa del- l’Angelo Custode, a Natale del ‘34; e chi può pensare che stando lì Gesù (stiamo valutando il prezzo di una buona cassaforte per il tabernacolo) non ci stia io?” (Appunti, n. 1128).59 Cfr ibidem, n. 1124 (27-1-1934).60 Ibidem, n. 1133 (11-11-1934).61 Della conversazione del 26 gennaio 1934 con don Francisco Moràn scrisse: “Con santa facciatosta, ne approfittai per rendere ben accetti a don Moràn due dei miei fratelli sacerdoti. La cosa più importante del colloquio fu che, quando gli parlai della “accademia del sig. Zorzano”, dove prose­guo il mio lavoro con giovani universitari, mi disse: Perché non date lezio­ni di religione agli intellettuali? E si lamentò che avrebbero già potuto an­nunciare sul “Bollettino” e sugli stampati a parte (me ne diede uno) i corsi di via Luchana 33. Si vede che “Luchana 33” gli suonava bene..., prima ancora che io glielo dicessi. Rimasi d’accordo di inviargli un elenco di pro­fessori e alunni e mi diede libertà per organizzare come volessi questa fac­cenda” (ibidem, n. 1126).62 Intorno al 22 marzo annotava con gioia: “Abbiamo fatto il primo gior­no di ritiro dell’Opera, domenica scorsa. Sono contento” (ibidem, n. 1167). La cappella era in via Manuel Silvela (cfr José Ramon Herrero Fon­tana, AGP, RHF, T- 05834, p. 3); il ritiro comprendeva tre o quattro medi­tazioni date da don Josemarìa, la Via Crucis, il santo Rosàrio, la lettura spirituale, la visita al Santissimo e l’esame di coscienza (cfr Ricardo Fernàndez Vallespìn, AGP, RHF, T-00162, p. 13).Fra le attività di questo tipo svolte nell’Accademia DYA, il Fondatore

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elencò nel 1934 quelle a scadenza mensile, settimanale o quotidiana. Da esse si vede che dava anche lezioni di latino; e che non era una sola, ma nu­merose le lezioni di formazione per le persone del lavoro di S. Raffaele; e così pure i ritiri mensili (cfr Appunti, n. 1798).63 Mons. del Portillo, che ancora non andava all’Accademia DYA, raccon­ta di essere stato aggredito da un gruppo di 15 o 20 persone, che lo feriro­no alla testa colpendolo brutalmente con una chiave inglese; le sue condi­zioni furono molto critiche per alcuni mesi. Ferito e sanguinante, riuscì a salvare la vita perché corse nel metrò e potè prendere un treno che partiva in quel momento (cfr Appunti, n. 1131 e nota 851).64 Ibidem, n. 1140.65 Cfr ibidem, n. 1146.66 C 48, 26-IV-1934.67 Appunti, nn. 1187, 1188.68 Ibidem, n. 1191.69 Ibidem, n. 1192.70 Ibidem, n. 1193.71 Ibidem, n. 1184.72 Ibidem, n. 1738.73 Ibidem, n. 1743.74 Cfr ibidem, nn. 1753 e 1754.75 Ibidem, nn. 1786, 1787.76 Ibidem, n. 1790.77 C 57, 23-VII-34; C 58, 23-VH-34; C 62, 24-VII-34.78 C 65, 5-VIII-34.79 C 67, 5-VIII-34.80 C 68, 5-VIII-34.81 “Dopo la Messa, durante il ringraziamento, senza averlo deciso prima, mi venne di consacrare l’Opera alla Santissima Vergine. Credo che sia sta­to un suggerimento divino (...). Penso che oggi - così, con semplicità - ab­bia avuto inizio una nuova tappa per l’Opera di Dio” (Appunti, n. 1199).82 Ibidem.83 AGP, RHF, T-00162, pp. 17-18.84 C 73, 6-IX-34.85 C 76, 6-IX-34.86 C 74, 6-IX-34. Ricardo Fernàndez Vallespin riferisce che don Josemaria «decise che, agli effetti esterni, figurassi io come Direttore della Residenza, ed era anche opportuno che fossi io a firmare il contratto come affittuario della casa» (AGP, RHF, T-00162, p. 16).87 Appunti, n. 1202.

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88 Ibidem, n. 1203.89 C 7 9 ,17-IX-34.90 C 80, 17-IX-34.91 C 81, 20-IX-34.92 C 52, 24-IX-34.93 Ricardo Fernàndez Vallespin, AGP, RHF, T-00162, pp. 18-19.94 Meditazione del 19-111-75.95 Cfr C 55, 30-X-34.96 Meditazione del 19-111-75.97 Appunti, n. 1206.98 Maria del Buen Consejo Fernàndez, AGP, RHF, T04953.99 Originale in Archivio Generale..., cit.100 C 87, 22-XI-34.101 “ Gaceta de Madrid”, n. 347 del 13-XII-34, p. 2121. La giurisdizione delle funzioni amministrative, secondo il decreto del 17-11-1934, faceva di­stinzione fra fondazioni benefiche e benefico-docenti. Dei Patronati si oc­cupava il Ministero di Lavoro, Sanità e Previdenza.102 Appunti, n. 1205.103 II giorno 27 andò al Ministero a prendere la propria nomina e vide che gli era stato conferito il “possesso della carica”; eccone il testo: «Visto il Decreto dell’11 corrente, con il quale Ella viene nominato Rettore del Pa­tronato di Santa Isabel, le si è attribuito il possesso della carica a far data dal successivo 19. Le comunico quanto sopra per sua conoscenza e soddi­sfazione, nonché agli effetti dei relativi conteggi. Madrid, 27 dicembre 1934. Il Direttore Generale J. Saenz de Grado» (Decreto del Direttore Ge­nerale della Beneficenza del 27-XII-1934. Originale nell’Archivio della Se­greteria Generale delPArcivescovado di Madrid-Alcalà. Ne esiste copia in Archivio Generale..., cit.)104 Cfr nota autografa del Fondatore circa il colloquio del 27-XII-34 con il Vicario Generale; originale in AGP, RHF, AVF-0003.105 Appunti, n. 1214.106 Lettera di Mons. Rigoberto Doménech al Fondatore, del 2-II-1935 (ori­ginale in AGP, RHF, D-15514/2).107 Nella lettera a Pou de Foxà del 28 gennaio lo avvisava di aver scritto al- l’Arcivescovo di Saragozza, da cui dipendeva, per comunicargli la sua no­mina a Rettore e far presente che stava prestando servizi ecclesiastici in Santa Isabel dal 1931, “per disposizione del Sig. Patriarca delle Indie” e che detti servizi erano “sempre esclusivamente sacerdotali” (C 96, 28-1- 35).108 Equivaleva a bollarlo, con parola in voga qualche tempo dopo, come “collaborazionista” di un regime anticattolico, quale aveva dimostrato di

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essere la Repubblica con le sue misure contro la Chiesa. Perciò, in un lungo poscritto a una lettera dell’8-II-1935, scriveva al Vescovo di Cuenca affin­ché a sua volta “tranquillizzasse” l’Arcivescovo di Saragozza: “Per quanto a me personalmente non me ne importi nulla, come sacerdote e come base- fondamenta - dell’Opera che Dio mi ha affidato, è bene che le cose stia­no al loro posto, secondo verità. E la verità è questa:1) Che non faccio nulla senza il mio direttore spirituale.2) Che mi sono rifiutato di presentare l’istanza per chiedere il Rettorato.3) Che hanno richiesto l’incarico per me la Priora e la Comunità di Santa Isabel, con il beneplacito delPIll.mo Vicario D. Francisco Moràn.4) Che, se era cosa malfatta pretendere il Rettorato, non fui io (che ne ho fatte tante!) a farla, ma l’hanno fatta invece un bel po’ di canonici provin­ciali - fra i quali qualche Decano - e vari sacerdoti di Madrid.5) Che il Rettore precedente, come me nominato dalla Repubblica, commi­se una tale cattiva azione accettando la nomina che il suo Prelato - Plll.mo Vescovo di Astorga - Pha castigato... nominandolo suo Segretario, incarico che occupa attualmente.6) E infine, che non mi facciano inquietare perché - come lei ben sa - a una semplice indicazione del mio Prelato o del mio Padre Sànchez,, senza alcun dispiacere - perché non ho mai avuto né ho ambizione di sorta - farei la ri­nuncia al Rettorato... e a venti rettorati e canonicati che avessi, perché - gloria a Dio! - mi muove solo il desiderio ardentissimo di compiere la Vo­lontà di Gesù.7) Sarà anche bene ricordare che, avendo avuto - ed avendo attualmente - più di un’occasione per occupare cariche e per svolgere attività civili, co­me fanno altri Sacerdoti - che non per questo sono malvisti: anzi, al con­trario - non ho mai voluto occuparmi d’altro che di cose esclusivamente sacerdotali.8) Inoltre: è stato il Patriarca delle Indie - e non il governo della Repubbli­ca - che mi ha sostenuto in Santa Isabel fin dall’anno 1931. E data da allo­ra l’amicizia, della quale non sono mai abbastanza grato, del santo Padre Po veda, Segretario del Signor Patriarca (...).Credo che fosse opportuno che aprissi il cuore a V. E.; e so che V. S. Ill.ma tranquillizzerà l’Ecc.mo Signor Arcivescovo. Gesù la ripaghi mille volte” . (C 98, 8-II-1935).109 Cfr Antonio Montero, Historia de la persecución religiosa en Espana, op. cit., pp. 41-52.110 Ricardo Fernàndez Vallespin, AGP, RHF, T-00162, p. 19.111 Cfr Appunti, n. 756.112 Ibidem, n. 1127; cfr ibidem, n. 1037.113 Cfr ibidem, n. 1751.114 Ibidem, n. 1210. Forse questa infelice critica alterava idee e parole det­te da don Josemaria nelle riunioni del lunedì. In una Caterina del 1930 si può leggere:“Non si deve tentare Dio. Se, con molta fede nella Provvidenza e senza pa­

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racadute, mi butto in strada dall’alto del palazzo dei telefoni, sono un paz­zo e un cattivo cristiano. Se invece, con molta fede e un paracadute, mi butto da un aeroplano che sta volando a un chilometro da terra, probabil­mente ottengo il mio scopo e merito la qualifica di uomo prudente e buon cristiano.(...) non ci si deve fidare solo della prudenza umana (allora sì che è sicuro il tonfo); viceversa, con molta fede in Lui, bisogna utilizzare tutti i mezzi che useremmo in ogni altra faccenda (insieme all’Orazione e all’Espiazione)” (cfr ibidem, nn. 60 e 61).115 Ibidem, nn. 1754 e 1755.116 Pedro Cantero, AGP, RHF, T-04391, p. 7.117 Saturnino de Dios Carrasco, AGP, RHF, T-01478, p. 3.118 Appunti, n. 1217.Nel dicembre 1937, con la calma e l’obiettività che danno la distanza stori­ca e la grazia fondazionale, don Josemaria accettò quanto gli diceva tempo addietro padre Sànchez e cioè che quegli avvenimenti erano “una delle prove patenti della divinità della nostra impresa” : “Quando riunivo quei santi sacerdoti al lunedì, in quella che chiamavo “Conferenza sacerdota­le”, allo scopo di dar loro lo spirito dell’Opera, affinché fossero miei figli e collaboratori; quando, nel 1932 o 33, volontariamente, spontaneamente e Uberrimamente, diversi di loro fecero promessa di obbedienza nella nostra casa di Luchana, non si poteva pensare che - con la più retta intenzione, senza dubbio - si sarebbero quasi immediatamente disinteressati dell’Ope­ra” (ibidem, n. 1435).119 Ibidem, n. 1232.120 Ibidem, n. 1221. In una nota precedente (n. 1219) riferendosi al digiu­no, scrisse: “Signore, quanto mi costa il digiuno! Perché, trattandosi di una cosa tanto piccola, mi costa tanto?” .121 “Il giorno di S. Nicola di Bari” - scrisse - “ho promesso al Santo Ve­scovo, mentre stavo salendo all’altare per celebrare la Messa, che se si ri­solve la nostra situazione economica nella Casa dell’Angelo Custode, lo nominerò Amministratore dell’Opera di Dio” (ibidem, n. 1206). «Imme­diatamente, pensando che la sua fosse stata scarsa generosità - commenta Mons. del Portillo - aggiunse: “Anche se ora non mi dai ascolto, sarai il Patrono della nostra amministrazione economica” . E da allora - 6 dicem­bre 1934 - S. Nicola di Bari è il nostro Patrono per le questioni economi­che» (ibidem, nota 913).Ancor prima del giorno di S. Nicola del 1934, aveva già fatto ricorso al santo in cerca di aiuto, come raccontò egli stesso: “A Madrid, in piazza Antón Martin, si trova la parrocchia di S. Nicola. Lì fu la prima volta che ho invocato S. Nicola per “dargli una stoccata” ” (AGP, P04 1975, p. 74).122 Cfr Appunti, n. 1222.123 Ricardo Fernàndez Vallespfn, AGP, RHF, T-00162, p. 21.124 Cfr Appunti, n. 1220.

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125 Ibidem, n. 1222.126 Cfr ibidem, nn. 1795, 1796,1800, 1801 e 1804. Questi numeri riporta­no alcune note sciolte dell’anno 1934, che contengono i suoi piani di mor­tificazione corporale, periodicamente riveduti dal confessore. Le discipline non sono mai meno di tre alla settimana.In una Caterina dell’ 11 marzo 1934 si legge: “Ieri mi è costato lacrime che il P. Sànchez mi togliesse il digiuno questa settimana. Credo proprio di do­ver lottare contro la gola. Ho avuto un malore in tram e per questo non mi lascia digiunare” (Appunti, n. 1155). I digiuni ricompaiono nelle note so­pra citate.127 C 81, 20-IX-1934.128 Juan Jiménez Vargas, che abitava con il Fondatore in via Ferraz, testi­monia che «praticava mortificazioni e penitenze anche corporali fino al sangue, con le discipline e i cilici. Anche se egli cercava di nasconderci tut­to questo, non ci riusciva del tutto. Ho visto in camera sua gocce e macchie di sangue, indice di queste penitenze, e quando i “rossi” perquisirono la sua camera, trovarono in un cassetto del suo tavolo delle discipline con parti metalliche, insanguinate. Usava anche cilici, e ce ne consigliava l’uso. Dormiva per terra con una certa frequenza. In alcune occasioni passava la notte senza dormire, in preghiera. E faceva frequenti mortificazioni in pic­cole cose, per esempio ai pasti, e ce lo suggeriva. Spesso digiunava» {Sum. 6706).Cfr anche Alvaro del Portillo, Sum. 360. «Quando abitava nella nostra ca­sa - racconta il fratello Santiago - entrava in bagno e apriva tutti i rubinet­ti perché non si udissero i colpi di disciplina, ma io li udivo» (Santiago Escrivà de Balaguer y Albàs, Sum. 7346).129 Ricardo Fernàndez Vallespm, AGP, RHF, T-00162, p. 22.130 Cfr Appunti, n. 1227.131 Cfr ibidem, n. 1229.132 Cfr ibidem, n. 1234. Quel giorno, 21 febbraio 1935, fu la prima volta che il Fondatore riunì i membri dell’Opera per informarli ufficialmente di una decisione di questo genere (si trattò, in questo caso, di Ricardo Fernàndez Vallespm, Juan Jimànez Vargas e Manolo Sainz de los Terreros).133 Lettera di Isidoro Zorzano al Fondatore, del 27-11-1935 (in AGP, IZL, D-1213, n. 75).134 C I 01,27-11-1935.135 Cfr Appunti, nn. 1233 e 1232. In merito al comportamento dei sacer­doti che gli stavano intorno, il Fondatore faceva un’eccezione per due di essi: don Saturnino de Dios e don Eliodoro Gii (cfr ibidem, nn. 1217 e 1235).136 Ibidem, n. 1243.137 Ibidem, n. 1277.

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138 Ibidem, nn. 1246 e 389. Sulle sgradevoli esperienze di quei giorni, cfr ibidem, nn. 1234, 1237, 1245, 1247 e 1266.139 Ibidem, n. 1225; per alcuni dettagli sulla cerimonia: Ricardo Fernàndez Vallespin, AGP, RHF, T-00162, p. 25.140 Appunti, n. 1287 e nota 974; Juan Jiménez Vargas, AGP, RHF, T- 04152/1, p. 6. Isidoro Zorzano e José Maria Gonzàlez Barredo quel giorno non poterono fare la “Fedeltà” essendo fuori Madrid (cfr C 104, 11-111-35 e C 108, 24-111-35; cfr anche la lettera di Isidoro Zorzano del 18-111-35 in AGP, IZL, D-1213, n. 78).141 Ibidem, n. 1258.142 C 102, 2-III-35.143 Appunti, n. 1237.144 L’istanza del Fondatore al Vescovo di Madrid-Alcalà per la concessione di un oratorio semipubblico è del 13-111-1935. La visita del luogo destinato al culto venne delegata al parroco della zona, quello di S. Marco, che il 27 marzo 1935 trovò l’oratorio «nelle dovute condizioni e dotato di quanto è necessario per il culto», e procedette a benedirlo, affinché fosse «abilitato per celebrarvi la santa Messa» (cfr Relazione del Parroco di S. Marco, del 27-111-1935, in Archivio Generale dell’Arcivescovado di Madrid-Alcalà, sezione oratori (1931-1936). Il decreto di erezione dell’oratorio è del 10-IV-1935; originale in AGP, RHF, Sez. Giuridica 1/8066.145 Talvolta il Fondatore parlò di questa provvidenziale donazione di og­getti. Non fu possibile identificare il benefattore, ma don Josemaria non se ne meravigliò - riferisce Mons. Alvaro del Portillo - perché era persuaso che si trattasse di una risposta alle sue preghiere da parte dello stesso S. Giuseppe, al quale si era raccomandato (cfr Sum. 305).«Commentò alcune volte l’accaduto nelle meditazioni o nelle prediche, per invitare alla fiducia in Dio» (Juan Jiménez Vargas, PM, f.927). La frase “Ite ad Joseph ” è l’eco della raccomandazione biblica agli affamati: “ricor­rete a Giuseppe!” , che era il sovrintendente del Faraone. Sulla chiave del tabernacolo, cfr Ricardo Fernàndez Vallespin, AGP, RHF, T-00162, p. 24.146 C 109, 30-111-35.147 C 110, 2-IV-35.Venerdì 29 marzo ottenne il permesso verbale del Vicario per celebrare la Messa domenica 31 e lasciare il Santissimo nel tabernacolo (cfr AGP, RHF, AVF-0007, p. 8, del 29-111-35; e AVF-0009, p. 10, del 24-IV-35).A Isidoro comunicarono la notizia per telefono ed egli scrisse l’I aprile: «Che grande gioia mi avete procurato ieri! (...). Questa notte mi sono sve­gliato diverse volte ripensandoci» (AGP, IZL, D-1213, n. 80).148 Cfr Ricardo Fernàndez Vallespin, AGP, RHF, T-00162, p. 26; e Aurelio Torres-Dulce, AGP, RHF, T-03773, p. 3.149 C 113, 15-V-35.150 Sulla romena a Sonsoles esiste una Caterina del 7-V-1935, che dice: “Ad

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Avila nacque una “usanza” mariana, che si radicherà per sempre nell’Ope­ra. Non dico altro, perché se ne parla altrove” (Appunti, n. 1270).In effetti, della romena fu fatta una relazione, iniziata da Ricardo R Valle- spin e proseguita e conclusa dal Fondatore. La si trova in AGP, RHF, AVF-0010.- Si è preferito lasciare il termine spagnolo romena (“pellegrinaggio” ), poi­ché sia l’episodio narrato sia l’”usanza mariana” voluta dal Fondatore e praticata dai membri dell’Opus Dei è caratterizzata normalmente dalla presenza di un ridotto numero di persone, a differenza dell’idea di folla presente nell’italiano “pellegrinaggio” (NdT).151 Ibidem.152 Durante il ritorno della romena a Sonsoles accadde un episodio che don Josemarìa riferì, assieme ai punti meditati nel pomeriggio:“Al ritorno, mentre recitavamo il Santo Rosario, in latino, ecco un’upupa attraversarci in volo la strada. Mi sono distratto e ho gridato: un’upupa! Null’altro: abbiamo seguitato a pregare; io, vergognandomi un po’. Quan­te volte gli uccelli di una illusione mondana vogliono distrarci dai tuoi apo­stolati! Con la tua grazia mai più, Signore.E l’ultima cosa: i punti di meditazione che abbiamo considerato al ritorno, in treno.1) Dio nostro Padre avrebbe potuto, con buona ragione, scegliere chiunque altro per la sua Opera, al nostro posto.2) Dobbiamo contraccambiare l’Amore Misericordioso di Gesù, che ci ha scelti per la sua Opera (più o meno questo).3) Vedere quanto è bello l’apostolato dell’Opera e quanto grande sarà l’im­presa entro pochi anni - e anche ora - se corrispondiamo.La petizione: uno spirito di sacrificio totale, di schiavitù, per Amore, per l’Opera. Madrid, maggio 1935” (AGP, RHF, AVF-0010).153 Appunti, n. 1240; cfr anche n. 1295.154 Ibidem, n. 1244.155 Ibidem, n. 1267.156 Ibidem, n. 1285.157 Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 1 e 588. Egli fece suo con facilità in quel breve contatto lo spirito dell’Opera e del Fondatore, dal momento che in “Notizie” del settembre 1935, passando in rassegna le notizie che arriva­vano da coloro che stavano in vacanza, il Padre scrisse: “Alvaro del Portil­lo si è dedicato con successo, a La Granja, alla famosa pesca di cui parla S. Marco nel primo capitolo del suo Vangelo” (AGP, RHF, D-03696).158 C 126, 22-VIII-35.159 Nella lettera del 5-IX-1935 don Josemarìa gli disse: “Riccardo, figlio mio, sento la preoccupazione di non averti detto - perché non lo ritenevo necessario - di offrire bene al Signore, per mezzo di Maria, tutte le piccole contrarietà della tua malattia (...). Abbi cura di te. Non preoccuparti di niente e non tornare a casa finché non ti senti forte” (C 129, 5-IX-1935). Cfr C 130 del 6-IX-1935.

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160 Alvaro del Portillo, Sum. 452.161 Appunti, nn. 1808, 1810 e 1811.162 Ibidem, nn. 1812el813.163 Ibidem, n. 1821.164 Lettere di Isidoro Zorzano al Fondatore, del 30-X-1930 e del 27- II- 1931. Originali in AGP, IZL, D-1213, nn. 10 e 14.165 Ibidem, del 3-II-1933, del 15-11-1933, del 21-111-1933, del 24-111-1933, ecc. (nn. 26, 27, 30, 31).166 Ibidem, dell’8-V-1934, del 21-V-1934, dell’8-VI-l934, del 9-VII-1934, del 26-VII-1934, ecc. (nn. 52, 54, 56, 57, 59).167 C 15, 1-III-31; C 16, 3-III-31. (Negli scritti e nella predicazione del Fondatore è molto frequente trovare i termini “pazzo” o “matto da lega­re”, o simili; sono gli stessi che taluni gli elargivano per il suo messaggio di santità nel mondo. Ma don Josemaria trasformava queste espressioni deni­gratorie in qualcosa di positivo: nella confessione del suo fine amor di Dio, al di sopra di ogni umano pregiudizio).Ecco altre forme di commiato nella corrispondenza con Isidoro del 1931: “Un affettuoso abbraccio fraterno da questo pazzo, José Maria” (C 19, 6-V-31).“Fraternamente ti abbraccia, José Maria” (C 20, 14-VIII-31). “Fraternamente, prega per te José Maria” (C 22, 10- XI-31).168 C 51, l-VI-34.169 Appunti, n. 1152; sull’uso della parola “Padre”, ibidem, n. 1032.170 Ibidem, n. 385; l’annotazione prosegue: “Mi chiede preghiera. Mi con­duce per strade d’Amore, perché io sia una brace e un pazzo. Brace che ac­cenda di un fuoco divoratore molte anime di apostoli, anch’essi pazzi - pazzi di Cristo - che finiranno per trasformare il mondo in un falò” .171 Ibidem, n. 1725.172 Ibidem, n. 1293, del 28-X-35. Cfr ibidem 1199 e 1200.173 Ibidem, nota 357. Il 22 novembre 1931 annotava: “Signore Dio, metti ottant’anni di gravità e di esperienza sopra il mio povero cuore, troppo giovane” (n. 409).174 “Adesso, se sento queste cose divertenti, mi piacciono ancora, ma passo un brutto momento. Se le dico, se mi sfugge qualche sciocchezza, immedia­tamente provo amarezza. È Gesù che impone gli ottant’anni di gravità sul mio povero cuore, troppo giovane” (n. 465).175 Ibidem, n. 506. Uno dei propositi del corso di ritiro del giugno 1933 ri­guardava il modo di celebrare la Messa: “Messa di sacerdote anziano e grave, senza manierismi” (ibidem, n. 1720; e, in una Caterina del 6-XI- 1933, ritornò sull’argomento: “Mi manca ancora molto per avere la gra­vità che desidero” n. 1073).176 Ibidem, n. 1766.

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177 Ibidem, n. 1658.178 Ibidem, n. 1832.179 Lettera 6-V-1945, n. 23.180 Appunti, n. 678; cfr ibidem, nn. 1078 e 1080.181 Cfr ibidem, n. 1841.182 Ibidem, n. 1283.183 Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 308; Juan Jiménez Vargas, Sum. 6713 e 6716; Meditazione del 19-111-1975; C 124, 12-VIII-35.184 Appunti, n. 1298.185 La storia di queste vocazioni è differente, benché simile quanto al modo di avvicinarsi all’Opera e alla comprensione del suo carattere soprannatu­rale: «Conobbi per la prima volta don Josemaria - riferisce Pedro Casciaro- nel gennaio 1935, a Madrid, all’Accademia Residenza DYA, in via Ferraz 50; fui presentato da un mio amico d’infanzia, allora studente in Legge.Gli facevo visita ogni settimana, per confessarmi e parlare con lui. Alcune settimane dopo cominciai ad assistere ai mezzi di formazione che teneva per studenti universitari: io ero allora studente della Scuola Superiore di Architettura di Madrid. Tutto questo fino alle vacanze estive (...). Poiché temevo che egli non mi consentisse subito di chiedere l’ammissione, lo feci con una lettera, che spedii per posta. Quando pensai che ormai l’avesse ri­cevuta, andai a trovarlo. Allora egli diede inizio alla mia formazione» (Sum. 6312 e 6313).«Conobbi don Josemaria - dichiara Francisco Botella - il 13 ottobre 1935, nella Residenza di via Ferraz 50, a Madrid. A quel tempo studiavo Archi­tettura e Scienze Matematiche. Un mio compagno, Pedro Casciaro, mi condusse alla Residenza, senza che io conoscessi ancora l’esistenza dell’O- pus Dei (...). Continuai a frequentare la Residenza, partecipando ad alcuni circoli tenuti da don Josemaria. Il 23 novembre 1935 chiesi di entrare nel- l’Opera; e il 7 gennaio 1936 andai a vivere nella Residenza» (Sum. 5605).186 Aurelio Torres-Dulce, AGP, RHF, T-03773, 3.187 Cfr Appunti, nn. 1163, 1165, 1167.188 Ibidem, n. 1160.189 Sum. 5790.190 Ricardo Fernàndez Vallespm, AGP, RHF, T-00162, p. 26.191 Appunti, n. 1095.192 Ibidem, n. 1268.193 Ibidem, n. 1751. Lo scriveva nel giugno 1934.194 Ibidem, n. 1789.195 Ibidem, n. 1732.196 Ibidem, n. 1093.197 E prosegue: «Tutto ciò che si può dire in questo senso è poco. Per le as­

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sodate della sezione femminile il rapporto con don Josemaria si limitava alla direzione spirituale» (Natividad Gonzàlez Fortun, Sum. 5875 e 5869). Riferendosi ad alcune penitenti, scrisse in merito al proprio modo di trat­tarle: (...) “a me, che sono così sgradevole”; e commenta Mons. del Portil­lo: «Il Padre faceva in modo, in confessionale, di essere molto duro e sbri­gativo con le donne» (Appunti, n. 1304 e nota 987).198 Felisa Alcolea, che conobbe don Josemaria nel 1933 e chiese l’ammissio­ne all’Opera nel marzo 1934 (cfr ibidem, n. 1169), attesta: «Abbiamo avuto qualche altra riunione con don Josemaria, ma dopo poco tempo, poiché egli aveva molto lavoro, fu don Lino Vea-Murguia che si occupò in particolar modo di noi» (AGP, RHF, T-05827, 2). Conferma l’aiuto di don Lino anche un’altra testimonianza di Ramona Sànchez, che chiese l’ammissione insieme a Felisa Alcolea (cfr Appunti, n. 1196), la quale, riferendosi alla catechesi che facevano nella parrocchia di Tetuàn, dice: «Si sarebbe occupato di questa ca­techesi anche don Lino Vea-Murguia» (AGP, RHF, T-05828, p. 1).199 Cfr Appunti, n. 1181.200 In una annotazione del 26 aprile 1935 si legge: “Il sabato successivo al venerdì di Passione ho avuto un dispiacere molto grande. Tanto che mi di­spiaceva di aver convocato cinque delle nostre per quel giorno. Sono venu­te e ho parlato loro dell’Opera, in particolare del suo apostolato: si sono entusiasmate” (ibidem, n. 1265).201 Felisa Alcolea, AGP, RHF, T-05827, p. 5.202 La Caterina prosegue: “Gesù mio, che consolazione ti devono dare con la loro condotta! Non abbandonarmeli. Madre mia - Mamma del Cielo -, sii molto Madre per i miei figli” (Appunti, n. 1200).203 Ibidem, n. 1288.204 Eduardo Alastrué, AGP, RHF, T-04695, p. 1.205 Cfr Pedro Casciaro, Sum. 6319; Alvaro del Portillo, Sum. 375.206 «La conversazione con il Padre - dichiara José Ramon Herrero Fontana- apriva un mondo nuovo con orizzonti sconfinati per la vita interiore e l’apostolato. Parlava di problemi reali - era molto realistico - ma diceva cose che nessuno aveva detto fino ad allora: accanto a lui si sentiva con forza la chiamata di Dio alla santificazione in mezzo al mondo (...). L’in­contro col Padre mi trasformò: mi svelò un mondo interiore mai sognato e grandi desideri di avvicinare altri alla conoscenza e all’amicizia con Nostro Signore Gesù Cristo» (AGP, RHF, T-05834, p. 4).«Ho ancora vivo nella memoria il suo sguardo profondo che mi si è confit­to nell’anima e la sua allegria che mi ha trasformato, riempiendomi di gioia e di pace», dice un altro degli studenti dopo il primo incontro con don Josemaria (Francisco Botella, AGP, RHF, T-00159/1, p. 201).207 Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 365.208 Cfr Pedro Casciaro, Sum. 6401.209 Alvaro del Portilloj PR, p. 397; cfr anche l’impatto della sua predicazio­ne: Eduardo Alastrué, Sum. 5526.

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210 Appunti, n. 304.211 Ibidem, n. 901.212 Felisa Alcolea, AGP, RHF, T-05827, p. 5; cfr anche José Ramon Herre- ro Fontana, AGP, RHF, T-05834, p. 4.213 Cfr Appunti, Nota preliminare, p. 9, e nota 152.214 Ibidem, n. 503.215 Lettera 24-111-1930, n. 2. Questa lettera, come pure altre di quegli anni, ha subito nel corso del tempo dei ritocchi terminologici, ma la sostanza del contenuto è rimasta invariata. Per questo il Fondatore conservò la data della prima redazione.216 Lettera 24-111-1931, n. 1.217 Lettera 9-1-1932, n. 91. Alcune di queste Lettere sono molto estese. Questa è di ottanta pagine.218 Lettera 16-VII-1933, n. 1.219 Appunti, n. 368.220 Ibidem.221 Ibidem.222 Ibidem, n. 352.223 Cfr ibidem, nn. 695 e 941.224 Ibidem, nn. 14 e 527.225 C 40, 24-VII-33. Il testo avverte che tre punti sono ripresi dal Decena- rio al Espiritu Santo, di Francisca Javiera del Valle (ediz. ital. Decenario al­lo Spirito Santo, Milano 1995). Cfr anche Appunti, n. 688.226 Soppresse i tre punti ripresi dal Decenario; ma lasciò due considerazio­ni del suo confessore, con qualche variazione: “Una frase, molto bella, del P. Sànchez per i membri dell’Opera: a chi può essere un luminare non si perdona che non lo sia” (Appunti, n. 234); frase che comparirà in Conside­razioni spirituali, p. 24, e poi in Cammino, cit., n. 332: “A chi può essere un sapiente, non perdoniamo di non esserlo” . L’altra è in Appunti, n. 329 e in Cammino, cit., n. 61.227 Cfr lettera di don Sebastiàn Cirac a don Josemaria, del 9-IV-1934 (in AGP, RHF, D-15225).228 Appunti, n. 1183.229 Lettera di don Sebastiàn Cirac a don Josemaria, del 18-V-1934 (in AGP, RHF, D-15225).230 Ibidem.231 Appunti, n. 1233; questa riflessione si legge in Cammino, n. 367, ma senza la frase: “esce dall’immondo animale, trasformato in escremento”.232 Cfr Appunti, nn. 530, 580, 674, 735, ecc. Il Quaderno V inizia il 3-XII- 1931 e termina il 12-VIII-1932.233 Considerazioni spirituali, p. 37. Circa il retto uso e l’esatto significato

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della frase: “santa e apostolica facciatosta o santa facciatosta”, cfr Appun­ti, nn. 178, secondo paragrafo, e n. 1126.234 Lettera di don Sebastiàn Cirac a don Josemarìa, del 28-V-1934; origina­le in AGP, RHF, D-15225. Se con il Vescovo perse la battaglia della santa facciatosta, con don Sebastiàn perse quella “dei gerundi” . Don Josemarìa pensava di aver messo troppi gerundi, ma due di essi compaiono nella “av­vertenza preliminare” di Considerazioni spirituali, nonostante le istruzioni che aveva dato a don Sebastiàn perché li eliminasse (cfr Appunti, n. 1298). (Le forme di gerundio a cui si riferiva erano: “rispondendo alle necessità di giovani laici” e “non pretendendo con questo di colmare innegabili lacune ed omissioni)” .235 «Considerazioni spirituali, di José Maria, Cuenca, Tipografia Moderna 1934». Questa edizione di Considerazioni spirituali fu pubblicata solo con il nome dell’autore, senza cognome. Mons. del Portillo, dopo aver detto che si trattava di un accorgimento dettato dall’umiltà, aggiunge: «Ma poco dopo, nel 1939, pubblicò Cammino con il proprio nome completo: “Mi ero già fatto esperto”, era solito dire il Padre» (Appunti, n. 190, nota 206). In una lettera del 6-V1I-1934, il Fondatore scriveva così al Vicario Genera­le di Madrid: “Accludo un esemplare del libretto che hanno stampato a Cuenca. Quello del Santo Rosario non è ancora stato stampato; quando lo sarà, gliene invierò due esemplari” (C 55, 6- VII-34).236 Cfr Cammino, nn. 387, 388, 389, 390, 391.237 Alvaro del Portillo, Sum. 559. Cfr anche Lettera 29-XII-l947/14-11- 1966, n. 84; Lettera 14-IX-1951, nn. 28, 65.238 C 48, 26-IV-34.239 Considerazioni spirituali, n. 14.240 Considerazioni spirituali, n. 34.Negli Appunti intimi troviamo le seguenti note: “Un’ora di studio è oggi - e per i nostri, sempre - un’ora di apostolato” (Appunti, n. 801); e: “Ogni ora di studio - per l’Opera, per Amore - sarà davanti a Dio un’ora di ora­zione” (ibidem, n. 1677).Cammino, al n. 335, ne darà una terza versione: “Un’ora di studio, per un apostolo moderno, è un’ora d’orazione” .Nella prima pagina di Notizie del settembre 1934, si legge:- “Piano del prossimo anno accademico: Fede - Perseveranza - Cocciutag­gine! - e un comportamento coerente con la nostra fede.- Studiare, fin dal primo giorno, sapendo che adempiamo un obbligo grave.- Al di sopra dello studio: formarci spiritualmente, per vivere la vita inte­riore che deve avere un cattolico..., con tutte le conseguenze” (AGP, RHF, D-03696).241 Francisco Botella, AGP, RHF, T-00159/1, p. 5.242 Le tre “Istruzioni” scritte fino ad allora dal Fondatore erano: Istruzione sullo spirito soprannaturale delVOpera di Dio, 19-111-1934; Istruzione sul modo di fare il proselitismo, 1-IV-1934; Istruzione sull3opera di S. Raffae­le, 9-1-1935.

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243 Istruzione 19TII-1934, nn. 1 e 6.244 Ibidem, nn. 47-49.245 Francisco Botella, AGP, RHF, T-00159/1, p. 5; Ricardo Fernàndez Val- lespin, AGP, RHF, T-00162, p. 17.246 Cfr Istruzione l-IV-1934.247 Ibidem, n. 65.248 Istruzione 9-1-35, nn. 1 e 2249 Appunti, n. 1312. Subito dopo spiegava i motivi del trasferimento: “Il motivo di lasciare per un certo tempo il Convento (di Santa Isabel) è stato duplice: da una parte, per evitare i possibili disordini in vista delle elezioni; dall’altra, il fatto che la mamma esca per un po’ dalla casa di Santa Isabel, che si addice poco alla sua salute, perché è molto umida” (ibidem, n. 1313).250 Ibidem, n. 1317.251 Ibidem, n. 1320.252 Ibidem, nn. 1324-1325.253 Ibidem, nn. 1315 e 1318.254 C 146, 10-111-36. Del colloquio avuto con il Vicario, don Francisco Moràn, il 31 agosto 1934, il Fondatore scrisse una relazione, nella quale si dice fra l’altro: “Gli dissi anche che “questi ragazzi” cercano di aprire Ac­cademie con Residenza presso i principali Centri universitari stranieri. Gli sembra ammirevole. Non ricordo che espressione usò” (AGP, RHF, AVF-0002, pp. 2-4).255 Appunti, n. 1322.256 Ibidem, n. 1295. Cfr anche Alvaro del Portillo, Sum. 593; Joaqum Alonso, Sum. 4627.E proseguiva: “In questi giorni, il Vescovo di Pamplona e l’Ausiliare di Va­lencia mi hanno dimostrato un affetto che non so come ricambiare. Ancheil Vicario di Madrid, Don Francisco Moràn, che è venuto giovedì scorso a celebrare la S. Messa nel nostro oratorio, è pieno di affetto per l’Opera” .257 C 145, 3-III-36.Mons. Marcelino Olaechea Loizaga nacque a Baracaldo (Vizcaya) il 9-1- 1889. Religioso salesiano, fu ordinato sacerdote nel 1912. Fu Provinciale di Castiglia e Tarragona. Nell’anno 1934-35 era Superiore del Collegio dei Salesiani de La Redonda de Atocha, a Madrid, molto vicino al Patronato di Santa Isabel. Nel 1935 fu nominato Vescovo di Pamplona e nel 1946 Arcivescovo di Valencia. Resse questa diocesi fino al 1966. Morì a Valen­cia il 21-X-1972.258 C 144, 3-III-36.Mons. Francisco Javier Lauzurica y Torralba nacque a Yurreta (Vizcaya) il 3-XII-1890. Ordinato sacerdote nel 1917, poco dopo fu canonico archivi­sta della Collegiata di Logrono e professore di Cosmologia e Psicologia nel Seminario Maggiore della città. Nel 1931 fu nominato Vescovo ausiliare di Valencia e dal 1931 al 1936 fu Rettore del Seminario di Valencia. Nel

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1937 Mons. Lauzurica fu nominato Amministratore Apostolico di Vitoria; nel 1947, Vescovo di Palencia e nel 1949 Arcivescovo di Oviedo, città nel­la quale morì il 12-IV-1964.259 Appunti, n. 1321.260 Cfr ibidem, nn. 1320 e 1323.261 Ibidem, n. 1304.262 Ibidem, n. 409.263 Ibidem, n. 144.264 Ibidem, n. 147.265 Ibidem, n. 158.266 Segreteria Generale dell’Arcivescovado di Madrid-Alcalà - Sezione Ora­tori (1931-1936). È pure sintomatico che il Fondatore, portando il Vicario Generale a conoscenza delle iniziative apostoliche, le presenti come sue o “di questi ragazzi, che cercano di aprire Accademie con Residenza presso i principali Centri universitari stranieri” (AGP, RHF, AVF-0002, pp. 2-4).267 Miguel Deàn Guelbenzu, AGP, RHF, T-04741/1, pp. 9-10.Nelle meditazioni il Padre era solito parlare loro di vocazione matrimonia­le, alla quale erano chiamati e nella quale si dovevano santificare i giovani dell’opera di S. Gabriele, in maggioranza ancora celibi.Cfr Juan Jiménez Vargas, AGP, RHF, T-04152/1, p. 24; e Alvaro del Portil­lo, Sum. 1099.Miguel Deàn ricorda a questo proposito la conversazione che ebbe un suo amico, Angel Santos Ruiz, con il Padre: «Condussi Angel in via Ferraz. Parlò e si confessò con il Padre. So che questi gli disse: “Hai vocazione al matrimonio e ora vediamo se ti trovi una moglie buona, bella e ricca” . E soggiunse, con la sua caratteristica simpatia: “Ma te la devi cercare tu, per­ché io non sono un agente matrimoniale” » (Miguel Deàn Guelbenzu, AGP, RHF, T-04741/1, p. 8).268 C 145, 3-III-36.Nel ritiro del giugno 1933 il Fondatore considerò il lavoro apostolico del­l’opera di S. Gabriele nella prospettiva di creare una “Società di Collabora­zione Intellettuale” (So-Co-In), che sarebbe stato il germe del lavoro futu­ro, come scrisse negli Appunti intimi: “In questi giorni, in base a quanto ho visto nel mio ritiro di giugno, ho redatto Regolamenti e cerimoniale per la So-Co-In” (n. 1049).E in una nota per il suo confessore (del 26-X-1933) esponeva il desiderio di organizzare nell’Accademia DYA riunioni settimanali per professionisti: “un’altra riunione settimanale per i nostri amici (S. Gabriele) avvocati, me­dici, architetti, ingegneri, laureati in filosofia, lettere, storia, scienze, ecc., tutti giovani, allo scopo di avviarci alla fondazione della “So-Co-In” all’i­nizio dell’anno 1934” (ibidem, n. 1733).Cfr anche Miguel Deàn Guelbenzu, AGP, RHF, T-04741/1, p. 9.269 Appunti, n. 1290.270 C 141, 6-11-36.

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271 Appunti, n. 1307.272 C 144, 3-111-36.273 Diario del viaggio a Valencia, dal 20 al 23 aprile 1936, scritto da don Josemaria e da Ricardo durante i giorni di permanenza a Valencia (origina­le in AGP, RHF, D-15346).274 Cfr Appunti, nn. 1323, 1331, 1332, 1347, 1351, 1357, ecc.275 C 162, 2-V-36.276 Appunti, n. 1334.277 La confisca del Patronato di Santa Isabel e l’espulsione delle religiose non furono immediati, per cui potè ancora celebrarvi la Messa per diverse settimane (cfr C 163, l-VI-36; Appunti, nn. 1334-1337).Sulle mormorazioni contro l’Opera: ibidem, nn. 1342, 1345. Una Caterina del 31-V-1936 dice: “In questi giorni, che io sappia, religiosi di tre diversi istituti se la sono presa con noi. Persecuzione dei buoni? Cose del demo­nio” (ibidem, n. 1346). Quanto alle facoltà, alla fine di maggio l’Arcive- scovo di Saragozza gliele concesse generali perpetue (ibidem, n. 1344).278 Ibidem, n. 1350.279 Ibidem, n. 1352.280 Ibidem, n. 1343.281 Istruzione 31-V-36, n. 2.282 Ibidem, n. 27.283 Appunti, n. 1356.284 Ibidem, n. 1361.285 C 165, 18-VI-36.286 Appunti, n. 1373.287 Ibidem, n. 1365.288 Ibidem, n. 1369.289 Ibidem, n. 1371.290 Ibidem, n. 432.291 Ibidem, n. 1369.292 Ibidem, 1372.293 Ibidem.294 Ibidem.295 Ibidem, n. 1371.296 C 168, l-VTI-36; C 169, 7-VII-36; C 170, 15-VTI-36.297 Cfr Francisco Botella, AGP, RHF, T-00159/1, p. 12; e Ricardo Fernàn- dez Vallespin, AGP, RHF, T-00162, pp. 31-32.

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Appendice documentale

Indice dei documenti

I. Famiglia Escrivà de Balaguer-Albàs. Ascendenza re­cente.

II. Atto di Battesimo del padreIII. Atto di Battesimo della madreIV. Atto di Matrimonio dei genitoriV. Atto di Battesimo della sorella maggiore

VI. Atto di nascita di JosemariaVII. Atto di Battesimo di Josemaria

VIII. Studi di LiceoIX. Studi ecclesiastici nei Seminari di Logrono (1919-

1920) e Saragozza (1920-1925)X a). Dati che si riferiscono a Josemaria nel libro “De vita et

moribus”.X b). Testimonianza di don José Lopez Sierra, Rettore del

Seminario di S. Francesco di Paola, datata Saragozza, 26-1-1948.

XI. Certificazione della ricezione degli Ordini Sacri (1922- 1925)

XIL Pratica accademica degli studi nelle Facoltà di Diritto di Saragozza (Licenza) e Madrid (Dottorato)

XIII. Nota necrologica per José Maria SomoanoXIV. Nota necrologica per Luis GordonXV. Nota necrologica per Maria Ignacia Escobar

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DOCUMENTO I Famiglia Escrivà de Balaguer-Albàs. Ascendenza recente

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L’originale dell’atto di Battesimo si trova nell’archivio della parrocchia dell’Assunzione, di Fonz (Huesca), nel Libro dei Battesimi, IX, foglio 271. Contiene vari errori, fra i quali “Escribà”, “Zaidin” e “Perarruga”, al posto di “Escrivà”, “Zaydìn” e “Perarrua” .

Don Antonio Buil Salinas, Sacerdote Economo della Parrocchia di Nostra Signora e incaricato dell’Archivio parrocchiale di Fonz, diocesi di Barbastro, Provincia di Huesca,

CERTIFICO: Che nel foglio 271 del libro IX dei battesi­mi di questo archivio parrocchiale, si trova scritto un atto che, copiato alla lettera, dice così:

Sul margine: José Escribà

Al centro: Il giorno 15 ottobre del 1867, io Antonio Co- met parroco di questo paese di Fonz ho battezzato solen­nemente un bimbo nato alle dodici dello stesso giorno, fi­glio legittimo di José Escribà y Zaydin, originario di Perarrua, e Constancia Corzan Manzana, di Fonz: nonni paterni Don José, di Balaguer, e Donna Vitoriana Zaidin, di Perarruga; materni Don Antonio Corzan e Donna Nico- lasa Manzana, entrambi di Fonz; gli è stato messo il nome di José: ha fatto da madrina sua sorella Constancia, da av­vertita della parentela e degli obblighi: e ho firmato. Anto­nio Comet Quintana

Quanto sopra è copia esatta dell’originale a cui si riferi­sce. E che sia così lo certifico, firmo e timbro con il timbro della parrocchia, in Fonz, il giorno 21 gennaio 1985.

don Antonio Buil

DOCUMENTO IIAtto di Battesimo del padre

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L’originale dell’atto di battesimo si trova nell’archivio della parrocchia dell’Assunzione di Barbastro, Libro dei Battesimi, XXXVII, foglio 121.La bimba fu battezzata assieme alla sorella gemella, Maria Concepción, che morì due giorni dopo. L’atto contiene un er­rore: la nonna materna non si chiama Isidora Blanc, ma Isi- dora Barón Solsona.

Don Lino Rodrìguez Pelàez, incaricato dell’Archivio parrocchiale della parrocchia dell’Assunzione (Cattedrale), diocesi di Barbastro,

CERTIFICO: Che nel foglio 121 del libro XXXVII dei battesimi di questo archivio parrocchiale, si trova scritto un atto che, copiato alla lettera, dice così:

Sul margine: Maria de los Dolores (obiit.) Albàs. la di due gemelle

Al centro: In Barbastro, il ventitré marzo del 1877, io •Dott. don Teodoro Valdovinos, Parroco della stessa, ho battezzato solennemente una bimba nata alle due del po­meriggio dello stesso giorno, figlia legittima di Don Pa- scual Albàs e di Donna Florencia Blanc, originari e abitan­ti di questo paese, pasticceri. Nonni paterni i defunti Don Manuel, di Boltana, e Donna Simona Navarro, di questo paese; materni D. Joaquìn e Donna Isidora Blanc, defunta, di questo paese. Le si è imposto il nome di Maria de los Dolores. Madrina, sua zia Donna Dolores Blanc, sposata, di questo paese, da me avvertita di quanto abituale. Dott. Don Teodoro Valdovinos

Ciò che precede è copia esatta dell’originale. E perché così consti, firmo la presente, in Barbastro, il 21 gennaio 1985.

don Lino Rodrìguez

DOCUMENTO IIIAtto di Battesimo della madre

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L’originale si trova nell’archivio della parrocchia dell’Assun- zione di Barbastro, libro XLII dei Sacramenti (Matrimoni), fogli 51v-52. La nota a margine introduce il cambio di co­gnome.

Anche se nell’atto si afferma che José Escrivà aveva 29 an­ni, ne aveva invece già compiuti 30.

DON LINO RODRIGUEZ PELAEZ, sacerdote incari­cato della Parrocchia dell’Assunzione (Cattedrale) della diocesi di Barbastro,

CERTIFICO: che nei fogli 51v e 52 del libro XLII dei Sacramenti (Matrimoni) è scritto l’atto di matrimonio di don José Escrivà e di Donna Dolores Albàs che, copiato letteralmente, dice così:

«A Barbastro, il 19 settembre del 1898 io, don Maximino Lafita, Sacerdote economo di questa città, ho autorizzato l’HLmo signor don Alfredo Sevil, Giudice diocesano e Vica­rio Generale dell’Arcivescovado di Valladolid, Canonico e Arcidiacono eletto della stessa, il quale, alla presenza del si­gnor Don Francisco Armisén, Giudice Municipale supplen­te, assistette al matrimonio che con espressioni legittime e di persona hanno contratto in facie Ecclesiae Don José Escrivà, celibe, originario di Fonz, abitante a Barbastro, commer­ciante di 29 anni di età, figlio legittimo di Don José, di Pe- rarrua e Donna Constancia Corzàn, di Fonz; e Donna Dolo­res Albàs, nubile, originaria e abitante di Barbastro, di 21 anni di età, figlia legittima del defunto Don Pascual, di Bar­bastro e di Donna Florencia Blanc, originaria e abitante nel­lo stesso paese. Verificati tutti i requisiti necessari per la vali­dità e legittimità di questo contratto sacramentale, di cui furono testimoni Don Mariano Romero e Don Luis Sam­beat, sposati, possidenti e abitanti di questa città. I con­traenti scambiarono reciprocamente il consiglio e assenso le­gale favorevole, e assistettero alla Messa nuziale.

Alfredo Sevil e Maximino Lafita.

DOCUMENTO IVAtto di Matrimonio dei genitori

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E, perché consti, firmo il presente in Barbastro il 19 marzo 1981.

DON LINO RODRIGUEZ

Riconoscimento e legalizzazione di firma.Barbastro, 20 marzo 1981

Mons. RAIMUNDO MARTIN, Vicario Generale

Nota marginale

Don José Escrivà e Donna Dolores Albàs, 29 e 21 anni. Cat. la. Per ordine dell’Ill.mo Delegato Episcopale di que­sta diocesi di Barbastro, dettato il 27 maggio 1943, si cam­bia su questo atto il cognome Escrivà” in quello di “Escrivà de Balaguer” dovendosi leggere e scrivere d’ora in avanti “Don José Escrivà de Balaguer Corzàn”, figlio legit­timo di Don José Escrivà de Balaguer e di Donna Constan- cia Corzàn. - Barbastro, 20 giugno 1943 - José Palacio

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DOCUMENTO V Atto di Battesimo della sorella maggiore,

Carmen Escrivà de Balaguer

L’originale si trova nell’archivio della parrocchia dell’Assun­zione, in Barbastro, Libro dei Battesimi, XLII, foglio 22. Riporta vari errori di ortografia sul cognome “Escrivà”.

Don José Palacio, canonico, sacerdote incaricato della parrocchia della città di Barbastro

Certifico: che nel foglio 22 del tomo 43 dei libri di que­sta parrocchia esiste un atto che dice così:

Sul margine: Maria del Carmen Constancia Florencia Escribà.

All’interno: In Barbastro, il giorno 18 luglio 1899, io, don Maximino Lafita, parroco di questa città, ho battezza­to solennemente una bimba nata avantieri alle 7,15 della sera, figlia legittima di Don José Escrivà, di Fonz, e di Donna Dolores Albàs, di Barbastro, abitanti e commer­cianti di questa città. Nonni paterni Don José e Donna Constancia Corzàn di Fonz; materni Don Pascual e Donna Florencia Blanc, di Barbastro. Le furono imposti i nomi di Maria del Carmen, Constancia Florencia e i padrini furo­no suo zio Don Mariano Albàs, sposato e la nonna mater­na, vedova, originari e residenti di questa città, da me av­vertiti secondo il Rituale.

Don Maximino Lafita

Perché consti, autorizzo il presente certificato in Barba­stro il 24 marzo 1941

Don José Palacio

Nota a margineLa Direzione Generale dei Registri e Notariati ha consenti­to che si aggiungesse al primo cognome quello di “de Bala­guer”, a formare il composto “Escrivà de Balaguer” che userà come unico e primo; conservando come secondo quello che ha attualmente.

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DOCUMENTO VI Atto di nascita di Josemaria Escrivà de Balaguer

L’originale dell’atto di nascita non esiste più allo Stato civile di Barbastro, poiché gli archivi furono distrutti durante la guerra civile spagnola, nel 1936. Esiste tuttavia un certificato di nascita, steso il 26-IV-1912 da Joaqum Salcedo, Giudice Municipale incaricato dello Stato civile di Barbastro, per es­sere incluso nell’incartamento scolastico di Josemaria. Tale certificato si trova nell’archivio dell’istituto Generale e Tecni­co di Huesca, nella Sezione: Incartamenti degli alunni. L’atto di nascita attualmente esistente allo Stato civile di Barbastro ne è una copia fededegna, fatta dopo la morte di Mons. Jose­maria Escrivà.

Don Joaqum Salcedo y Tormo, Giudice Municipale In­caricato dello Stato civile di Barbastro.

Certifica: che nello Stato civile di mia competenza, sezio­ne delle Nascite, tomo 25, foglio 81, si trova il seguente:

Atto di nascita. - Numero 9Don José Maria Julian, Mariano Escrivà y Albàs.

Nella città di Barbastro, provincia di Huesca, alle nove della mattina del giorno 10 gennaio del 1902, davanti a Don Francisco Armisen, Giudice municipale e Don Victo- riano Claver, segretario, comparve Don Manuel Claveria, originario di Barbastro, municipio di Barbastro, provincia di Huesca, maggiorenne, vedovo, di professione messo co­munale, domiciliato in questa città in via Encomienda n. 7, presentatosi con la richiesta di iscrivere allo Stato civile un bimbo, in quanto incaricato a ciò dai genitori dello stesso,io dichiaro per scritto:

Che questo bimbo nacque alle 22 di ieri, al domicilio dei genitori, calle Mayor, n. 26.

Che è figlio legittimo di Don José Escrivà, commercian­te, di 33 anni, e di Donna Dolores Albàs, di 23 anni, ri­spettivamente originari di Fonz e di Barbastro.

Che è nipote in linea paterna di Don José Escrivà, defun­

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to, e di Donna Constancia Cerzàn (sic), originari rispetti­vamente di Peralta de la Sai e di Fonz.

E in linea materna di Don Pascual Albàs, defunto, e di Donna Florencia Blanc, originari di Barbastro.

E che il succitato bimbo deve essere iscritto con i nomi di José Maria, Juliàn, Mariano.

A tutto ciò hanno presenziato come testimoni Don Ra­mon Meliz, militare in pensione, e Don Amado Beltran, barbiere, sposati, maggiorenni e quivi domiciliati.

Letto integralmente il presente atto e invitate le persone che devono firmarlo a leggerlo direttamente, se lo credeva­no opportuno, fu timbrato con il timbro del Tribunale mu­nicipale e lo firmarono il signor Giudice, il dichiarante e i testimoni, e di tutto questo do fede.

Firme: Francisco Armisen / Manuel Claveria / Ramón Meliz / Amado Beltran / Victoriano Claver.

Concorda fedelmente con l’originale a cui rimetto. E perché consti rilascio il presente certificato in Barbastro il27 aprile 1912.

Il Giudice municipale, Joaquxn SalcedoIl Segretario, Victoriano Claver.

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DOCUMENTO VIIAtto di Battesimo di Josemaria Escrivà de Balaguer

L’originale si trova nell’archivio della parrocchia dell’Assun­zione di Barbastro, foglio 115, Libro XLIII dei Sacramenti (Battesimi). Ha una nota marginale successiva sulla modifica del cognome Escrivà in “Escrivà de Balaguer”.L’atto ripete un errore del documento precedente: il nonno pa­terno del battezzato era nato a Perarrua, non a Peralta de la Sai.

DON LINO RODRIGUEZ PELAEZ, Sacerdote incari­cato della parrocchia dell’Assunzione (Cattedrale) della diocesi di Barbastro,

CERTIFICO: che nel foglio 115 del libro XLIII dei Sa­cramenti (Battesimi) di questo archivio parrocchiale, si tro­va scritto l’atto relativo a Mons. Josemaria Escrivà de Ba­laguer y Albàs che, copiato alla lettera, dice così:

«In Barbastro, il 13 gennaio 1902 io, don Angel Malo Reggente della Vicaria Cattedralizia ho battezzato solenne­mente un bimbo nato alle 22 del giorno 9, figlio legittimo di Don José Escrivà originario di Fonz e di Donna Dolores Albàs, originaria di Barbastro, coniugi domiciliati e com­mercianti in questa città. Nonni paterni Don José, di Peral­ta de la Sai, defunto e Donna Constancia Corzan, di Fonz; materni, Don Pascual, defunto e Donna Florencia Blanc, di Barbastro. Gli furono imposti i nomi di José Maria Juliàn Mariano, essendo padrini Don Mariano Albàs e Donna Florencia Albàs, zii del battezzato, l’uno vedovo e l’altra sposata, domiciliata a Huesca e rappresentata legittima- mente da Donna Florencia Blanc, ai quali ho fatto gli av­vertimenti di rito. Firmato: don Angel Malo».

E perché consti, rilascio il presente certificato in Barba­stro, il 19 marzo 1981.

DON LINO RODRIGUEZ

Riconoscimento e legalizzazione della firma.Barbastro, 20 marzo 1981

MONS. RAIMUNDO MARTIN, Vicario generale

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Nota a margine:

DON LINO RODRÌGUEZ PELAEZ, Sacerdote incaricato della parrocchia dell’Assunzione (Cattedrale) della diocesi di Barbastro,

CERTIFICO: che nel foglio 115 del Libro XLIII dei Sa­cramenti (Battesimi) di questo archivio parrocchiale, si tro­va trascritto l’atto relativo a Mons. Josemarìa Escrivà de Balaguer con una nota a margine che dice letteralmente:

«Per Ordine dell’Ill.mo Delegato episcopale di questa diocesi di Barbastro, dettato il 27 maggio 1943, si muta su questo atto il cognome “Escrivà” in “Escrivà de Bala­guer”, dovendosi leggere e scrivere da qui in avanti “José Maria Juliàn Mariano Escrivà de Balaguer y Albàs”, figlio legittimo di Don José Escrivà de Balaguer e di Donna Do­lores Albàs.

Barbastro, 20 giugno 1943. Firmato José Palacio.»

E perché consti, rilascio il presente certificato in Barba­stro il 19 marzo 1981.

MONS. LINO RODRÌGUEZ

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DOCUMENTO Vili Studi scolastici (1912-1918)

Gli originali delle pratiche sono archiviati nelle segreterie de­gli Istituti di Huesca e Lerida; nell’istituto “Prdxedes Mateo Sagasta” di Logrono, in cui concluse il curriculum, sì trova l’incartamento completo, protocollo n. 265/6935. A differen­za di quanto fatto nel testo, qui si riporta soltanto la tradu­zione del titolo delle materie; i voti sono trascritti nell’origi­nale spagnolo. L’ordine dei voti, in senso decrescente, è: SOBRESALIENTE (con o senza PREMIO), NOTABLE, APROBADO. La ginnastica non richiedeva voto, ma una semplice nota di capacità (GANADA).

PEDRO GARCIA SANTAMARIA, SEGRETARIO DELL’ISTITUTO

“PRAXEDES MATEO SAGASTA” DI LOGRONO .CERTIFICO: Che JOSÉ MARIA ESCRIVÀ Y ALBAS, ORIGINARIO DI BARBASTRO (HUESCA), ha svolto e superato i seguenti studi:

11 giugno 1912 (Huesca)SCUOLA ELEMENTARE: APPROVATO1912-1913 (Lerida) - Scuola superiore (come alunno libero)LINGUA CASTIGLIANA: SOBRESALIENTE GEOGRAFIA GENERALE DELLA SPAGNA: SOBRESA­LIENTEARITMETICA E GEOMETRIA: SOBRESALIENTE (PREMIO)RELIGIONE (I corso): SOBRESALIENTE CALLIGRAFIA: NOTABLE1913-1914 (Lerida) - Scuola superiore (come alunno libero)LINGUA LATINA (I corso): SOBRESALIENTE GEOGRAFIA GENERALE DELLA SPAGNA: NOTABLE ARITMETICA: SOBRESALIENTE (PREMIO) RELIGIONE (II corso): SOBRESALIENTE (GRAT.a) GINNASTICA (I corso): GANADA

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1914-1915 (Lerida) - Scuola superiore (come alunno libero)LINGUA LATINA (II corso): APROBADO FRANCESE (I corso): NOTABLE STORIA DI SPAGNA: NOTABLE GEOMETRIA: SOBRESALIENTE (PREMIO) GINNASTICA (E corso): GANADA1915-1916 (Logrono) - Scuola superiore (come alunno libero)PRECETTISTICA LETT./COMPOSIZIONE: SÓBRESAL. (PREMIO)FRANCESE (II corso): SOBRESALIENTE STORIA UNIVERSALE: NOTABLE ALGEBRA E TRIGONOMETRIA: SOBRESALIENTE DISEGNO (I corso): SOBRESALIENTEPSICOLOGIA E LOGICA: NOTABLESTORIA DELLA LETTERATURA: SOBRESALIENTEFISICA: NOTABLEFISIOLOGIA E IGIENE: SOBRESALIENTE DISEGNO (II corso): SOBRESALIENTE

1917-1918 (Logrono) - Scuola superiore (come alunno ufficiale)ETICA E DIRITTO: SOBRESALIENTE (PREMIO) STORIA NATURALE: SOBRESALIENTE CHIMICA: NOTABLE AGRICOLTURA: SOBRESALIENTE

Gli è stato rilasciato il titolo di Bachiller Superior dal Ret­tore dell’Università di Saragozza, il 6-VIII-1923.

E perché consti dove convenga al richiedente e su sua ri­chiesta, rilascio il presente certificato con il V.B. dell’Ill.mo Direttore di questo Centro e con il timbro dello stesso, in Logrono, il 10-1-1984.

Firme (illeggibili): IL DIRETTORE / IL SEGRETARIO L’UFFICIALE DI SEGRETERIA

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DOCUMENTO IX Studi ecclesiastici nei Seminari di Logrono (1919-1920)

e di Saragozza (1920-1924)

I titoli delle materie, se in latino, e i voti sono trascritti in la­tino, secondo l’originale del documento. L’ordine dei voti, in senso decrescente, è: MERITISSIMUS, BENEMERITUS, MERITUS.

Don Julio Fleta Pou, docente e Segretario degli Studi del Seminario Metropolitano di Saragozza.

CERTIFICO: Che Don José Maria Escrivà, originario di Barbastro, diocesi di Barbastro, Provincia di Huesca, ha fatto e superato in questo Seminario Metropolitano di Sa­ragozza, previ gli studi di Lettere, Filosofia e il I anno di Teologia a Logrono, le materie che, con i rispettivi voti, so­no riportate qui di seguito:

Anno accademico 1920-1921II di Teologia:De Verbo Incarnato et Gratia: Meritissimus De Actibus et Virtutibus: Benemeritus Oratoria Sacra: Meritissimus Patrologia: Meritissimus Liturgia: MeritissimusDel I di Teologia:Introductio in S. Scriptum: Meritissimus Exegesis Novi Testamenti: MeritissimusDel IV di Latino:Lingua Graeca: Meritus Lingua Hebraica: Meritus

Anno accademico 1921-1922III di Teologia:De Deo Creante: Meritissimus Theologia Moralis: Meritissimus De re sacramentaria: Benemeritus Theologia Pastoralis: Meritissimus

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Anno accademico 1922-1923IV di Teologia:Exegesis Veteris Testamenti: Meritissimus De Deo Uno et Trino: Meritissimus Theol. Moralis Sacramentalis: Meritissimus Paedadogia Catechetica: Meritissimus

Anno accademico 1923-1924V di Teologia:Disquisitiones Theologicae: Meritissimus Institutiones Canonicae: Meritissimus Casus Conscientiae: Meritissimus

N.B. Nel primo tomo del Libro dei Certificati, foglio 348, n. 693, si legge quanto segue in merito ai suoi studi precedenti.

«Previ quattro anni di Latino e tre di Filosofia nell’isti­tuto Generale e Tecnico di Logrono, che convalidò in que­sto Seminario con il voto di Meritus, qui ha frequentato e sostenuto i seguenti esami:

Anno accademico 1919-1920I di Teologia:Luoghi teologici: Meritissimus Storia Ecclesiastica: Meritissimus Archeologia: Meritissimus Sociologia: Meritissimus Teologia Pastorale: Benemeritus Diritto spagnolo: Meritissimus Francese: Meritissimus»

Tanto risulta dai documenti che stanno nella Segreteria a mio carico a cui mi riferisco. E perché consti, rilascio la presente certificazione, vistata dallTll.mo Prefetto degli Studi e timbrata con il timbro del Seminario, in Saragozza, il 12-XI-1975.

V. B. Il Prefetto degli Studi (firma illeggibile) Don Julio Fleta Pou, Segretario.

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DOCUMENTO X a)Dati riguardanti il seminarista José Maria Escrivà

nel Libro “De vita et moribus” degli alunni del Seminario di S. Francesco di Paola, 1920-1925.

L’originale si trova nell’archivio diocesano di Saragozza, pro­veniente dall’archivio del Reale Seminario di S. Carlo, nel quale era conservato fino a pochi anni fa. Nel certificato si ri­pete un errore dell’originale, per il quale il padre del semina­rista è chiamato “José Maria” anziché “José” .

Don Agustin Pino Lancis, Canonico-arciprete del Salva­tore del Capitolo Metropolitano di Saragozza, Vicario Epi­scopale della Curia e Presidente del Reale Seminario Sacer­dotale di S. Carlo,

CERTIFICA:I.- Che fra i documenti esistenti nell’Archivio del Reale

Seminario Sacerdotale di S. Carlo c’è un libro intitolato “De vita et moribus” degli alunni del Seminario di S. Fran­cesco di Paola, che comincia nel febbraio del 1913. E noto che il Seminario di S. Francesco di Paola ebbe la sede ai piani alti di questo edificio del S. Carlo dal 1866 al 1945.

II.- Che nella pag. I l i di tale libro De vita et moribus constano i dati riguardanti il seminarista José M. Escrivà, relativi ai cinque anni accademici che stette in questo Semi­nario e che vanno dal settembre 1920 fino al marzo 1925. Li trascrivo letteralmente qui di seguito:

1.- Nell’intestazione, sotto la dicitura a stampa “Semi­nario di S. Francesco di Paola”, appaiono i suoi dati perso­nali:

«José Maria Escrivà Albàs, di anni 18, originario di Bar­bastro, diocesi di Barbastro, figlio legittimo di José Maria e Maria Dolores, residenti a Logrono. Suo protettore è don Carlo Albàs, domiciliato in via Espoz y Mina n. 9, terzo piano.

È entrato nel Seminario il 28 settembre 1920. Gode di mezza borsa. Ispettore».

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2. Il foglio stampato reca subito dopo sette colonne così identificate:,

CORSI ACCADEMICI - PIETÀ’ - APPLICAZIONE - DISCIPLINA - CARATTERE - VOCAZIONE- OSSERVA­ZIONI GENERALI.

3. Nella colonna I sono elencati gli anni accademici: 1920/21, 1921/22,1922/23,1923/24,1924/25. Subito do­po, nello spazio riservato alle successive 5 colonne, sono trascritti i voti riportati nelle materie di ogni anno. Non trascrivo tali voti perché già riportati nel certificato di stu­di del Seminario di S. Valero e S. Braulio, dove i seminari­sti ascoltavano le lezioni e sostenevano gli esami. Segnalo soltanto che ha riportato Meritissimus in tutte le materie teologiche tranne in due (una del II anno e una del III), in cui prese Benemeritus.

4. Nelle colonne dalla II alla V compaiono i giudizi dati su di lui nei primi quattro anni accademici (per l’anno 1924-25 non vi è alcuna annotazione).

PIETÀ’: «Bene / idem / idem / idem»APPLICAZIONE: «Regolare / bene / idem / idem»DISCIPLINA: «Regolare / bene / idem / idem»CARATTERE: «Incostante e altero, ma educato e atten­

to / idem / idem / idem»VOCAZIONE: «Sembra averla / idem / idem / Ce l’ha»

5. Nella colonna OSSERVAZIONI GENERALI appaio­no le seguenti annotazioni:

1920-21: «Viene dal Seminario di Logrono, dove ha fat­to gli studi precedenti».

1922-23: «È nominato Ispettore nel settembre 1922 e ordinato con la Tonsura il 28 dello stesso mese».

1923-24: «Ordinato suddiacono nel giugno 1924». «Ebbe un alterco con Julio Cortés e gli fu imposto il relati­vo Castigo, la cui accettazione e il cui adempimento rappre­senta per lui una gloria, essendo stato, a mio avviso il suo avversario che attaccò per primo e con più violenza, prof­ferendo contro di lui parole grossolane e indegne di un

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6. Alla fine del documento, è scritto:«Ordinato diacono nel Natale del 1924 e sacerdote il 29

marzo del 1925, smise di far parte del Seminario dall’ulti­mo giorno citato» (firma illeggibile).

Debbo dichiarare che quest’ultima annotazione ha un difetto di redazione che può confondere. L’ordinazione sa­cerdotale avvenne il 28 marzo e dal giorno 29 egli «smise di far parte del Seminario».

III. E perché consti agli effetti che si considerano oppor­tuni, firmo e timbro il presente documento in Saragozza, il 28 marzo 1984.

MONS. AGUSTÌN PINA

chierico e alla mia presenza lo insultò nella Cattedrale del­la Seo».

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DOCUMENTO Xb)Testimonianza di don José Lopez Sierra, Rettore

del Seminario di S. Francesco di Paola, datata Saragozza,26-1-1948 (AGP, RHF, D-03306).

JHS

Don José Maria Escrivà de Balaguer. Difficile impresa rac­contare la sua vita da seminarista: entrò a studiare Sacra Teologia come alunno interno, proveniente dall’istituto di Logrono, culla della sua formazione scientifica, nel Semi­nario di S. Francesco di Paola, annesso a quello di S. Car­lo, a Saragozza, mentre era Arcivescovo l’Em.mo Cardina­le Soldevila e Rettore colui che firma queste righe: peraltro neppure è tanto difficile descriverne alcuni tratti salienti, fra i quali predomina il suo zelo per l’apostolato, la sua predilezione per i giovani: la sua operetta Cammino lo mette in evidenza: a chi è diretta, se non a loro?

Dapprima come seminarista, si distingue dagli altri del suo anno per la perfetta educazione; affabile e semplice nel tratto, di notoria modestia, rispettoso verso i superiori, compiacente e bonario con i compagni, era molto stimato dai primi e ammirato dai secondi. Qualità eminenti tali da far presagire il suo fecondo apostolato.

Direttore poi dei seminaristi, carica cui lo chiamò l’Em.mo Cardinale, ancor prima che ricevesse i Sacri Ordi­ni, a motivo della sua esemplare condotta, non meno che della sua applicazione, poiché faceva assieme la carriera ecclesiastica e quella civile di Legge, a poco a poco si fu ri­velando come l’incipiente Apostolo per il cui ministero lo stava preparando il Cielo con benedizioni di dolcezza.

Forgiatore di giovani aspiranti al sacerdozio, non c’è da stupirsi che dopo sia diventato forgiatore di giovani laici: li conosceva bene, con essi era stato assieme nelle aule dell’i­stituto e dell’Università e aveva potuto osservare il vuoto della formazione religiosa dei giovani intellettuali; le istitu­zioni esistenti non erano dunque in grado di albergare nel

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loro seno questi giovani dei tempi moderni: è necessaria una nuova istituzione, che li sappia accogliere. Mi parlò varie volte di questo a motivo di un regolamento anonimo che ci capitò fra le mani casualmente e oggi posso dire provvidenzialmente, poiché la Provvidenza disponit omnia suaviter.

Nel Seminario dunque si iniziò la sua grande opera, che sta riempiendo di stupore non la Spagna cattolica, ma lo stesso centro della Cattolicità, la stessa Roma, dove oggi l’istituzione ha già qualche casa; sì, nel nostro Seminario di Saragozza si trova quasi il seme dell’Opus Dei, questa grande Opera di Dio, che doveva produrre grandi frutti; fuori del Seminario si è compiuta.

Il suo motto era guadagnare tutti a Cristo, che tutti fos­sero una sola cosa con Lui e ci riuscì, con il suo operare: non era favorevole ai castighi, sempre dolce e compassio­nevole, la sua semplice presenza sempre attraente e simpa­tica tratteneva i più indisciplinati, un lieve e accogliente sorriso gli si disegnava sulle labbra quando osservava nei suoi seminaristi un atto edificante; tuttavia uno sguardo discreto, penetrante, triste a volte e compassionevole, re­primeva i più ribelli. Con questa semplicità e soavità in­cantevole andava formando i suoi giovani seminaristi.

Si ordina sacerdote e si prepara a celebrare la sua prima Messa; allo stesso modo in cui il sole, più avanza il giorno, va aumentando la luce e il calore, così aumenta lo zelo che egli sente per l’Apostolato con i giovani. Arrivato il giorno, senza aver fatto inviti a motivo del lutto famigliare, celebra la sua prima messa nella Santa e Angelica cappella della Madonna del Pilar a Saragozza. Due sacerdoti, amici dei suoi genitori, gli fecero da padrini d’Altare: per il nuovo presbitero il primo sarebbe dovuto essere il suo Rettore ma come lasciare soli quella madre sciolta in un mare di la­crime e che a momenti sembrava sul punto di svenire, e quei due teneri giovani, il fratellino e la sorella che l’ac­compagnavano? Preferii declinare l’onore e noi quattro, in ginocchio, senza neppure muovere le ciglia, immobili per

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tutta la Messa, contemplavamo i movimenti sacri di quel­l’angelo in terra, che per la prima volta offriva il suo sacri­ficio per il suo buon padre, che aveva perduto sulla terra e che lo stava contemplando dal Cielo.

Sacerdote, la sua sete d’Apostolato lo divora: è troppo piccolo per la sua opera il campo delle parrocchie che resse in questa diocesi di Saragozza: la Provvidenza, non senza averlo prima fatto passare per grandi tribolazioni, lo con­duce a un campo ben più ampio, la popolosa Madrid, do­ve è più necessario stabilirla a causa della corruzione di molti giovani. E questo il suo campo: sembra risuonargli all’orecchio la sentenza del Divino Maestro: «La messe è molta, ma gli operai sono pochi». Il forgiatore di seminari­sti anela a essere forgiatore di giovani laici. È il suo mini­stero prediletto. Confessa, predica esercizi, pubblica vari scritti, sempre con lo sguardo rivolto ai giovani, pupilla dei suoi occhi. Per cause estranee alla mia volontà non sono in grado di indicare date, con mio grande dispiacere. Raccon­tare i particolari del suo lavoro a Madrid compete ai figli di un padre così buono.

José Lopez Sierra Saragozza, 26 gennaio 1948.

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DOCUMENTO XI Certificazione della ricezione degli Ordini Sacri (1922-1925)

Gli originali sono raccolti nel Libro degli Ordini Sacri (dal27-V-1889 al 1947), nell’Archivio diocesano di Saragozza.

FERNANDO PÉREZ AYSA, sacerdote, Canonico di questa Santa Chiesa Metropolitana e NOTAIO MAGGIO­RE dell’Arcivescovado di Saragozza.

CERTIFICO: che nel Libro degli Ordini Sacri che si conserva nell’archivio del Notariato maggiore di mia com­petenza, figurano gli Atti relativi agli Ordini ricevuti dal futuro Mons. Josemarìa Escrivà de Balaguer y Albàs. Tutti gli Ordini, fino al presbiterato, furono da lui ricevuti fra gli anni 1922 e 1925 mentre risiedeva come seminarista nell’antico Seminario di S. Francesco di Paola.

L’elenco particolareggiato delle ordinazioni, per quanto consta dal citato Libro degli Atti, è qui di seguito trascritto:

1. PRIMA TONSURA CLERICALE, conferita dal- l’Em.mo e Rev.mo Mons. Juan Soldevila y Romero, Cardi­nale Arcivescovo di Saragozza, il 28 settembre 1922 nel- l’Oratorio della sua Residenza Arcivescovile di Saragozza.- Foglio 327, n. 4410.

2. OSTIARIATO E LETTORATO, conferiti dall’Em.mo e Rev.mo Mons. Juan Soldevila y Romero, Cardinale Arci­vescovo di Saragozza, il 17 dicembre 1922, nell’Oratorio della sua Residenza Arcivescovile di Saragozza. - Foglio 329, n. 4423.

3. ESORCISTATO E ACCOLITATO, conferiti dal­l’Em.mo e Rev.mo Mons. Juan Soldevila y Romero, Cardi­nale Arcivescovo di Saragozza, il 21 dicembre 1922, nel- POratorio della sua Residenza Arcivescovile di Saragozza.- Foglio 329, n. 4426.

4. SUDDIACONATO, conferito dall’Ecc.mo e Rev.mo Mons. Miguel de los Santos y Diaz de Gómara, Vescovo ti­tolare di Tagora, su licenza dellTll.mo Vicario Capitolare dell’Arcidiocesi di Saragozza, il 14 giugno 1924, nella chiesa del Seminario Sacerdotale di S. Carlo Borromeo, di

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Saragozza, e a titolo di servizio di questa diocesi. - Foglio 350, n. 4580.

5. SACRO ORDINE DEL DIACONATO, conferito dal- l’Ecc.mo e Rev.mo Mons. Miguel de los Santos y Diaz de Gómara, Vescovo titolare di Tagora, su licenza dell’Ill.mo Vicario Capitolare dell’Arcidiocesi di Saragozza, il 20 di­cembre 1924, nella chiesa del Seminario Sacerdotale di S. Carlo Borromeo, di Saragozza. - Foglio 358, n. 4644.

6. SACRO ORDINE DEL PRESBITERATO, conferito dall’Ecc.mo e Rev.mo Mons. Miguel de los Santos y Diaz de Gómara, Vescovo titolare di Tagora, su licenza del- Plll.mo Vicario Capitolare dell’Arcidiocesi di Saragozza, il28 marzo 1925, nella chiesa del Seminario Sacerdotale diS. Carlo Borromeo, di Saragozza. Aveva ottenuto Dispensa Pontificia di dieci mesi per difetto di età canonica-Foglio 363, n. 4685.

E perché consti, rilascio il presente documento, timbrato con il timbro dell’Arcivescovado, in Saragozza, il 26 mar­zo 1981.

Mons. FERNANDO PÉREZ AYSA

Saragozza, 27 marzo 1981/ Riconoscimento e legalizza­zione della firma

AGUSTÌN PINA, Vicario Episcopale della Curia

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DOCUMENTO XII Pratica accademica degli studi nelle Facoltà di Diritto

di Saragozza (Licenza) e Madrid (Dottorato).

A differenza di quanto fatto nel testo, anche qui si riporta soltanto la traduzione del titolo delle materie; i voti sono tra­scritti nell’originale spagnolo. L’ordine dei voti, in senso de­crescente, è: MATRICULA DE HONOR, SOBRESALIEN­TE, NOTABLE, APROBADO.

Dati dall’archivio della Facoltà di Diritto di Saragozza.

UNIVERSITÀ’ DI SARAGOZZA FACOLTA’ DI DIRITTO Incartamento N. 886

JOSE ANTONIO IZUEL VERA, PROFESSORE ASSO­CIATO E SEGRETARIO DELLA FACOLTA’ DI DIRIT­TO DELL’UNIVERSITÀ’ DI SARAGOZZA.CERTIFICO: Che DON JOSE MARIA ESCRIVÀ ALBAS, originario di Barbastro, provincia di Huesca, ha frequenta­to e superato le seguenti materie del curriculum della Li­cenza in Diritto, con i voti pure qui di seguito riportati:

STUDI PREPARATORILingua e Letteratura Spagnola 1922/23: Notable Logica fondamentale idem: Sobresaliente Storia di Spagna 1923/24: Aprobado

PERIODO DELLA LICENZAPRIMO GRUPPO (1923/24)Elementi di Diritto Naturale: Notable Istituz. di Diritto Romano: Matrfcula de Honor Economia Politica: SobresalienteSECONDO GRUPPO (1923/24)Storia gener. del Diritto spagnolo: Aprobado Istituzioni di Diritto canonico: Matrfcula de Honor Diritto politico spagnolo (1925/26): Notable

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TERZO GRUPPODiritto civile spagnolo I (1923/24): Aprobado Diritto amministrativo (1925/26): Aprobado Diritto penale idem: AprobadoQUARTO GRUPPO (1925/26)Diritto civile spagnolo II (1924/25): Notable Procedure giudiziarie: Aprobado Diritto pubblico internazionale: Matrfcula de Honor Elem. di Amm.ne pubblica: AprobadoQUINTO GRUPPO Diritto mercantile di Spagna,Europa e America (1925/26): NotablePratica forense (1926/27): AprobadoDir. privato internazionale (1925/26): Notable

Trasferito a Madrid il 30 marzo 1927 con tutte le materie superate e il Grado di “Licenziato”, per frequentare il Dot­torato.Titolo di “Licenziato” in Diritto rilasciato dalle Autorità competenti il 30 giugno 1934.

E perché consti, su richiesta della parte interessata, rilascio la presente certificazione, con il Nulla Osta del Preside e il timbro della facoltà, in Saragozza, il 30 aprile 1981.

Prof. José A. Izuel

Nulla Osta: IL DECANO

(firma illeggibile)

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Dati dall’archivio della facoltà di Diritto dell’Università Complutense di Madrid

Certificazione accademica personale Tomo I, n. 03873

JUAN VIVANCOS GALLEGO, Professore Associato e Se­gretario di questa Facoltà.

CERTIFICO: Che Don José Maria ESCRIVÀ ALBAS, ori­ginario di Barbastro, provincia di Huesca, ha frequentato e superato tutte le materie della Licenza in Diritto, nell’Uni- versità di Saragozza, avendo ottenuto i voti che qui di se­guito si trascrivono: (...)

PERIODO DEL DOTTORATO: Nell’Università di Ma­drid, anno accademico 1927/28: «Storia del Diritto inter­nazionale»: APROBADO; «Filosofia del Diritto»: NOTA- BLE. Anno Accademico 1929/30: «Storia della Letteratura giuridica»: NOTABLE.

E perché consti dove convenga al richiedente e su sua ri­chiesta, rilascio la presente certificazione, su ordine e con il Nulla Osta dell’Ecc.mo Preside di questa Facoltà, con il timbro della stessa.

Madrid, 21 maggio 1981

Nulla Osta FERNANDO SEQUEIRA DE FUENTES, Vicepreside

JUAN VIVANCOS, Segretario C. CABALLERO, Capo della Segreteria.

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(originale in AGP, RHF, AVF-0098)

Nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo e di Santa Maria.

José Maria Somoano, Sacerdote (+ 16 luglio 1932).

Sabato 16 luglio 1932, giorno di Nostra Signora del Carmine - della quale era devotissimo, - alle 11 della not­te è morto, vittima della carità e forse dell’odio settario, nostro fratello José Maria.

Sacerdote ammirevole, la sua vita, breve e feconda, era un frutto maturo che il Signore volle cogliere per il cielo.

Il solo pensiero che ci fossero dei sacerdoti che osavano salire all’altare senza le dovute disposizioni, gli faceva ver­sare lacrime di riparazione.

Prima di conoscere l’Opera di Dio, dopo gli incendi sa­crileghi di maggio, quando iniziò la persecuzione mediante decreti ufficiali, fu sorpreso nella cappella dell’ospedale - del quale fu cappellano e apostolo sino alla fine, nonostan­te tutte le furie laiciste - mentre si offriva a Gesù, ad alta voce (credendosi solo) con un moto di preghiera, come vit­tima per questa povera Spagna.

Nostro Signore Gesù ne accettò l’olocausto e con una duplice predilezione - per l’Opera di Dio e per José Maria- ce lo inviò: affinché questo nostro fratello arricchisse la propria vita spirituale, accendendo sempre più il proprio cuore in incendi di Fede e di Amore; e affinché noi dell’O­pera avessimo, accanto alla Trinità Beatissima e a Maria Immacolata, chi si occupa continuamente di noi.

Con quale entusiasmo ascoltò, nella nostra ultima riu­nione sacerdotale, il lunedì precedente alla sua morte, i progetti dell’inizio della nostra azione!

Io so che potranno molto le sue istanze presso il Cuore Misericordioso di Gesù, quando chiederà per noi, pazzi - pazzi come lui, e... come Lui! - e che otterremo le abbon­danti grazie delle quali abbiamo bisogno per compiere la Volontà di Dio.

APPENDICE XIIINota necrologica per don José Maria Somoano

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È giusto che lo piangiamo. E, benché la sua vita e le cir­costanze della sua morte ci diano la sicurezza che gode del­l’eterno riposo di quanti vivono e muoiono nel Signore, è anche giusto che offriamo suffragi per l’anima del nostro fratello.

José Maria

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(originale in AGP, RHF, AVF-0098).

Luis Gordon y Picardo (+ 5 novembre 1932)

Riposò nel Signore alle prime luci del 5 novembre 1932. Un altro!

Nostra Madre se lo è preso anche lui di sabato. Abbia­mo già due santi: un sacerdote e un laico...

È un fatto che José Maria Somoano ci ha lasciato per iscritto la gradevole impressione che ebbe del carattere del nostro Luis.

Buon modello: obbediente, discretissimo, caritatevole fi­no allo sperpero, umile, mortificato e penitente..., uomo di Eucaristia e di orazione, devotissimo a Maria Santissima e a Santa Teresina..., un padre per gli operai della sua fabbri­ca, che lo hanno pianto sinceramente alla sua morte.

Il Signore ha voluto che, per consolarci della morte del nostro José Maria, parlando con Luis dicessimo: «Se Dio chiamasse te o me, che cosa faremmo, dal cielo o dal pur­gatorio, se non gridare ripetutamente, molte volte e sem­pre: Dio mio!... Loro!...i miei fratelli che stanno lottando sulla terra..., che compiano la tua volontà... appiana la strada, anticipa il momento, togli gli ostacoli... santificali!?

E Luis assentiva, perché questa considerazione è la ne­cessaria conseguenza della reale e fortissima fraternità spi­rituale che unisce i membri dell’Opera, fraternità che tanto egli sapeva vivere nella pratica.

Con che entusiasmo ora starà compiendo questo suo do­vere, degno di un fratello!

Ci serva di consolazione questa sicurezza, e amiamo la Croce, la Santa Croce che pesa sull’Opera di Dio. Il nostro

APPENDICE XIVNota necrologica per Luis Gordon y Picardo

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gran Re, Cristo Gesù, ha voluto portarsi via i due meglio preparati, affinché non riponiamo le speranze in cose ter­rene, neppure nelle virtù personali di alcuno, ma solo ed esclusivamente nella sua Provvidenza amorosissima.

L’Amore Misericordioso ha gettato altro grano nel sol­co... e quanto ci attendiamo dalla sua fecondità!

José Maria

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(originale in AGP, RHF, AVF-0098).

Maria Garcia Escobar (+ 13 settembre 1933)

La vigilia dell’Esaltazione della Santa Croce, il 13 set­tembre, si è addormentata nel Signore questa prima nostra sorella della nostra Casa del Cielo. Da tempo, su sua ri­chiesta e a motivo della gravità del suo male, le avevamo amministrato il Santo Viatico.

Quanta pace la sua! Con che naturalezza parlava di an­dare presto da suo Padre-Dio... e come accoglieva gli incari­chi che le davamo per la Patria... e le suppliche per l’Opera!

Un nostro fratello sacerdote fu lo strumento del Signore affinché Maria venisse all’Opera - vocazione di espiazione- ad offrirsi vittima volontaria per la santificazione degli altri... Ancor prima di conoscere l’Opera di Dio Maria of­friva già per noi le terribili sofferenze della sua malattia. E Gesù riceveva quei dolori in odore di soavità..., premendo di più sulla vittima, caricando maggiormente la Croce..., tanto che la malata ebbe da dire a quel sacerdote santo - il nostro Josemaria Somoano «Don José Maria, penso che la sua intenzione debba valere molto, perché, da quando lei mi ha suggerito di pregare e di offrire, Gesù si sta com­portando con me in modo splendido».

La preghiera e la sofferenza sono state le ruote del carro di trionfo di questa nostra sorella. Non l’abbiamo perduta: l’abbiamo guadagnata. Alla notizia della sua morte, vo­gliamo che la pena naturale si trasformi presto nella gioia soprannaturale di sapere con certezza che abbiamo ormai più potere in cielo.

José Maria

APPENDICE XVNota necrologica per Maria Ignacia Garcia Escobar

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Indice dei nomi

Abramo: 543 Adamo ed Èva: 152 Aguirre Garcfa, OFM, Gregorio

Maria: 102 Albàs y Blanc, Maria de los Dolores,

madre di Josemaria: 12,16, 18, 21,23, 26, 34, 45, 70, 73, 75,81, 86, 89,185,193,221,225, 251, 355, 417, 420,421, 517, 540, 554, 564, 576, 592, 610

Albàs y Blanc, Candelaria: 111 Albàs y Blanc, Carlos: 18 Albàs y Blanc, Cruz: 17, 97 Albàs y Blanc, Mauricio: 48, 111,

137Albàs y Blanc, Pascuala: 17 Albàs y Blanc, Vicente: 17 Albàs y Linés, Manuel: 16 Albàs y Llanas, Pascual: 28, 50 Albàs y Navarro, Pascual: 16 Alcalà Zamora, Niceto: 569 Alcolea Felisa: 597, 600 Alessandro II, Papa: 18 Alfaro, Daniel: 184, 187 Alfonso X, il Saggio: 87 Alfonso XIII, Re di Spagna: 287,

379 .Alonso, Luis: 104Alvarado Coghem, Margarita: 300Amado Loriga, Santiago: 244

Angelo Custode: 24, 313, 424, 430, 485, 503, 506, 516, 549, 563

Anguera de Sojo, José Oriol: 569 Aquitania, Duca di: 19 Arcangeli, Patroni dell’Opus Dei

S. Michele, S. Gabriele e S. Raffaele: 496, 505, 539

Aristofane: 151 Arnaiz, Luis: 87 Artal, Francisco: 174 Arruga, Saturnino: 216, 221 Atalaya, Duca di: 19 Ayala, Joaqum Maria de: 283, 422 Ayala, Manuel: 326 Azana, Manuel: 611

Badia y Saradell, Isidro: 31 Balanzàtegui, Aurora: 284 Bartimeo, il cieco di Gerico: 98 Benàvides, Francisco de Paula:

133, 159 Berceo, Gonzalo de: 88 Bertràn, Leandro: 253 Blanc Fortacin, José: 274 Bianco, Amadeo: 103 Bordiu, Javier: 575, 585 Botella, Francisco: 593, 608, 624

Cavalieri Bianchi: 374

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Cabeza, Modesta: 481 Calvo Serer, Rafael: 618, 624 Callejas, Agustin: 162, 258 Camps Valdovinos, Ignacio: 23 Canales Maeso, Tomàs: 474 Cancer, CMR, Prudencio: 246,

247, 284 Cantero, Pedro: 473, 485, 513,

574Caramazana, Emilio: 294 Carceller, Juan: 220 Carlo III: 132, 459 Casado Yagiie, Suor Benita: 511 Casciaro, Pedro: 593, 624 Castillón, Amparo: 193 Causapié, Juan: 398 Ceniceros, Manuel: 183 Cermeno, Sixta: 193, 224 Cervantes: 87, 512 “Chierico Cuore” : 258 Cicuéndez, José: 289, 291, 397 Cid, Rodriguez Diaz de Vivar: 88 Cirac, Sebastiàn: 481, 487, 604

Corzan Manzana, Constancia: 41, 44, 184

Cortés Cavanillas, Juan: 323 Cortés Zuazo, Julio: 174,175 Corrales, Adriana: 35, 48, 52 Corrales, Esperanza: 34, 70 Cuervo, Carmen: 481, 488

Dame Bianche: 374 Dean, Miguel: 616 Demonio (il tignoso): 436, 437,

500Diaz, Antonio: 460 Diaz Gómara, Miguel de los Santos:

136,151,159,163,179,183,191

Doménech, José Manuel: 464, 492 Doménech, Rigoberto: 223, 233,

570

Echevarrfa, Suor Engracia: 468, 469, 470

Eijo y Garay, Leopoldo: 279, 545, 569

Eli, Giudice e Sommo Sacerdote: 513

Enriqueta “la Tonta” : 392 Escanero, Prudencia: 216, 221 Escriche, Rafael: 79 Escrivà Corzan, José (padre di J.):

12, 16, 18 ,21,23,28,48,51, 69, 73, 74, 83, 92,110,111, 154, 183

Escrivà Corzan, Josef a: 41 Escrivà Corzan, Mosén Teodoro:

17, 41, 250, 547, 564, 576 Escrivà de Balaguer y Albàs,

Carmen (sorella di Josemaria): 14, 20, 22, 25, 36, 78, 83,183, 188, 224, 417, 420, 554, 564, 566

Escrivà de Balaguer y Albàs,Santiago (fratello di Josemaria): 104, 153, 154, 185, 189, 225, 241, 288, 303, 383, 417, 420, 514, 517, 552, 565

(Asunción, Dolores, Rosario: sorelline di Josemaria): 33, 35, 41, 45

Escrivà Manonelles, José Maria:15

Escrivà Zaydm, José: 15

Fernàndez Anguiano, Gregorio:175

Fernàndez Claros, Rafael: 326 Fernàndez Vallespin, Ricardo: 518,

548, 551, 562, 566, 575, 577, 583, 591,593, 609, 616, 618, 624

Ferrari, Andrea Carlo, card.: 334 Filippo II: 20, 273, 397, 459 Fumanal, Domingo: 237

Galbe Loshuertos, Pascual: 237 Garcia Escobar, Benilde: 471 Garcia Escobar, Braulia: 471 Garcia Escobar, Maria Ignacia:

471, 472, 476, 484

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Appendice documentale, documento XV, 678

Garrido Làzaro, Ciriaco: 99 Garrigosa y Borrel, Antonio: 52,

73Gedeone, Giudice di Israele: 482 Ger Puyuelo, Elias: 172 Giacobbe, il Patriarca: 141 Giacomo I, il Conquistatore: 15 Gii, Eliodoro: 562 Giuda, il traditore: 513 Giulio Cesare: 18 Gómez Alonso, Manuel: 289 Gómez Colomo, Fidel: 277, 285,

286Gómez Lafarga, Santiago: 23 Gómez Ledo, Avelino: 277, 285,

327Gómez Ruiz, Adolfo: 464, 492 Gonzàlez Barredo, José Maria:

295, 516, 539, 562, 582, 583 Gonzàlez Fortun, Natividad: 596 Gordon, Luis: 462, 464, 483

Appendice documentale, documento XIV (676)

Gorriz, Arsenio: 138 Guallart, Santiago: 150 Gutiérrez Sanjuàn, Buenaventura:

398Guzmàn, Alejandrò: 395

Hernàn Cortés: 612 Hernàndez Gamica, José Maria:

567, 586 Herrera, Àngel: 513 Herrera, Juan de: 459 Herrero Fontana, José Ramon:

517Huertas Lancho, José: 568

Iranzo, Juan Antonio: 228, 237,239

Isabel Clara Eugenia: 397

Jiménez Arnau, José A. ed Enrique: 237,239

Jiménez Vargas, Juan: 472, 515, 517, 547, 562

Jiménez Vicente, Inocencio: 239,276

Jimeno, Juan José: 158 José Miguel de la Virgen del

Carmen: 93, 94, 547, 562 Juan e Àngel, quelli del

“Sotanillo” : 324 Juan, il lattaio: 544 Juan Vicente de Jesus Maria: 94 Juncosa, Juan: 16

Kosminski, OFM., Honorato: 334

Laborda, Manuel de la Virgen del Carmen: 40

Labrador, Enrique de Santa Lucia: 32

Lafuente, Manolita: 111 Laplana Laguna, Cruz: 422, 556,

605Larios, Pedro B.: 104 Latorre, Cirilo: 16 Latre, Luis: 275 Lauzurica, Xavier: 613, 618 Làzaro, Jenaro: 462, 484, 515,

517, 550 Leone XIII, Papa: 39 Lope De Vega: 273 Lopez Bello, Jesus: 137, 174 Lopez Ortiz, OSA, José: 228, 239 Lopez Sierra, José: 136, 144, 145,

146, 147, 193 Loza, Hilario: 92, 104, 154, 187 Lucus, Santiago: 145

Mainar, David: 237 Malo Arcas, Àngel: 12, 15 Margallo, José: 290 Maria, la cuoca: 34 Martin, Isabel: 468, 470, 473 Martinez de Velasco, José: 366 Medialdea, Antonio: 462 Mena, José Luis: 170 Merry del Val, Rafael: 32 Miguel, Amparo de: 386

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Minguez, Tomàs: 465 Minguijón, Salvador: 239 Miravalles, Marchesi di: 396 Moctàdir, Re arabo: 19 Mosé: 403Moner, S.J., Celestino: 234 Moneva y Pujol, Juan: 171, 172,

180,229,237 Moràn Ramos, Francisco: 394,

546, 556, 558, 569, 581, 587, 612, 617

Mordilo, Casimiro: 327 Moreno Monforte, Antonio: 155 Moreno Monforte, Francisco: 155,

238Moreno Sànchez, Antonio: 136,

160Munoz Gonzàlez, Asunción: 295,

299, 301 Munoz, Jerónimo: 280 Mur, Jerónimo: 16, 48 Murillo, Teodoro: 216, 218 Murillo, Urbano: 216 Muzquiz, José Luis: 594

Napoleone: 135 Navarro, Antonio: 155 Navarro, Aurelio: 138 Navarro, Cristóbal: 155 Navarro Santias, Simona: 16 Noailles, Carmen: 156

Obregón, Bernardino de: 459 Olaechea Loizaga, SDB, Marcelino:

613,617 Onteiro, Marchesa di: 335 Onate, Antolm: 93, 99 Ordónez Bujanda, Valeriano-

Cruz: 105 Orozco, Alonso de: 397 Otal Marti, Carmen: 21, 45, 50

Pabloj Manuel de: 242 Paolo VI, Papa: 71 Pajares, Albino: 99,100 Palacios, José Antonio: 493, 511 Palmer, Gabriel: 398

Palos, Luis: 229, 237, 239 Pietro I di Aragona: 19 Pellicer, José: 233 Pensado, Antonio: 277, 284, 364 Pérez, Antonio: 397 Pérez Aznar, Manuel: 152 Petronilla, figlia di Ramiro “il

monaco” : 19 Plaza Garcia, Juan: 93 Portillo, Àlvaro del: 555, 586 Postius Sala, CMF, Juan: 542 Pou de Foxà, José: 238, 239, 243,

247, 290, 414, 491,571 Poveda, Pedro: 546, 559, 577,

579, 619 Primo de Rivera: 261

Raimondo Berengario IV: 19 Rettore di S. Michele: 250, 251,

273,281 “Residente” , il: 581 Reyero, Maria Vicenta: 295, 302 Reyna, Mercedes: 328, 385 Rocamora, Pedro: 294, 323, 367 Roda, Manuel de: 169 Rodriguez Casanova, Luz: 278,

293, 335, 546 Rodriguez Garcia, Norberto: 293,

422, 480, 484, 486, 517, 545 Romàn Cuartero, José Maria: 159 Romeo Rivera, José: 323 Romeo Rivera, Manuel: 323 Royo, Paula: 73, 81, 106,187 Rubio, Màximo: 105 Ruano y Martin, Juan Antonio: 22

Sàinz de los Terreros, Manolo:518, 555

Sambeat, Martin: 48 Sànchez del Rio, Carlos: 171, 326 Sànchez Ruiz, S.J., Valentin: 335,

361,367, 368, 384,388,417, 497, 542, 559, 576, 577, 579

Sancho Izquierdo, Miguel: 171 Sancho Seral, Luis: 245 Santa Engracia, Conte di: 280 Santos, Josefina: 358

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Santos, Pilar: 296 Sanz, Ambrosio: 415 Sanz, Suor Maria Jesus: 468, 470 Saul, re di Giuda: 513 Se vii, Alfredo: 18 Sevilla, Maria del Pilar: 510 Sesto Pompeo: 18 Soldevila, Juan: 131, 149, 157,

161, 181,223, 233 Somoano, José Maria: 466, 448,

476, 484, 486, 572, Appendice documentale, documento XIII, 674

Suor Maria del Buen Consejo: 567 Suor Maria del Sagrario, Priora di

Santa Isabel: 553 Suor San Pablo Lemus: 510

Alcuni santi citati:La Santa Vergine: 23, 24, 43, 87,

92,137, 141, 148,163,166, 181,238, 299, 392,417, 424, 427, 428, 429, 431, 435, 497, 506, 584

Alfonso Maria de5 Liguori: 150 Caterina da Siena: 366 Domenico: 435 Francesco di Paola: 167 Francesco Saverio: 435 Ignazio di Loyola: 435 Giuseppe, sposo di Maria: 435,

575, 581 Giuseppe Calasanzio: 32, 435 Giovanni Bosco: 435 Giovanni della Croce: 494, 496,

500

Maria Maddalena: 107, 475 Nicola di Bari: 575 Paolo, Apostolo: 162, 403, 407 Pio V: 20 Pio X: 31,40 Giacomo, Apostolo: 148 Teresa d’Avila: 169, 177, 378, 425,

435, 495, 560 Teresa di Lisieux: 333, 424, 432,

435, 483

Tallada, Luis: 396 Tena, Nicolas: 244 Terés y Garrido, Calixto: 78 Teresa, la zingara: 28 Torres-Dulce, Antonio: 593 Trueba, Mariano: 289, 292

Val, Jesus: 162Valdeolivos, baronessa di (vedi

Otal Marti, Carmen): 21, 45,50

Vea-Murguia Lino: 467, 486, 487, 510, 596

Vegas, José Maria: 487 Verne, Giulio: 70 Vich, Vescovo di: 19 Villamariel, Justo: 277

“Zampe sporche” : 36 Zaydrn y Sarrado, Vittoriana: 15 Zorzano, Isidoro: 82, 487, 539,

562Zurita, Jerónimo: 19

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Indice

5 PRESENTAZIONE

CAPITOLO I. - L’EPOCA DI BARBASTRO (1902-1915)11 1. L’ascendenza familiare 24 2. «Quei candidi giorni della mia fanciullezza»32 3. La prima Comunione41 4. Sventure familiari

CAPITOLO II - L’EPOCA DI LOGRONO (1915-1920)69 1. «La Gran Città di Londra»76 2. L’Istituto di Logroiio82 3. Maturità di un adolescente91 4. Orme sulla neve99 5. Nel Seminario di Logrono

104 6. Sacerdozio e carriera ecclesiastica

CAPITOLO III - SARAGOZZA (1920-1925)131 1. Il Seminario di S. Carlo136 2. Il libro «De vita et moribus»147 3. Studio e vacanze156 4. “Forgiatore” di futuri sacerdoti169 5. Un evento deplorevole176 6. «Domina, ut sit!»182 7. Morte di José Escrivà187 8. La prima Messa

CAPITOLO IV - GIOVANE SACERDOTE (1925-1927)215 1. La parrocchia di Perdiguera224 2. Gli studi di Legge

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240245

273282287293306323329

355366378390401414423

459466476490503512

539549559571586595600610

647648650651

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3. La cappellania di S. Pietro Nolasco4. Ingiustizie provvidenziali5. Da Saragozza a Madrid

CAPITOLO V - LA FONDAZIONE DELL’OPUS DEI 1. Madrid, città e capitale del Regno 2 .1 residenti di via Larra3. L’Accademia Cicuéndez4. Il “Patronato de Enfermos”5. Il 2 ottobre 19286. Una campagna di orazione e di mortificazione7. Il 14 febbraio 1930

CAPITOLO VI - GLI “APPUNTI INTIMI”1. Perché “Opera di Dio” ?2. Le “Caterine”3. La seconda Repubblica spagnola4. Dal “Patronato de Enfermos” al Patronato di Santa Isabel5. Nuove luci fondazionali6. Una croce senza Cirenei7. La via dell’infanzia spirituale

CAPITOLO VII - LA GESTAZIONE DELL’OPERA1. Tra gli ammalati: “sublime servizio”2. L’ospedale del Re3.‘I primi seguaci4. Un ritiro spirituale accanto a S. Giovanni della Croce5. Il lavoro di S. Raffaele6. Una disorganizzazione organizzata

CAPITOLO Vili - 1 PRIMI CENTRI DELL’OPERA1. Una “prova crudele”2. L’Accademia DYA3. Il Rettore di Santa Isabel4. L’Accademia-Residenza di via Ferraz5. “Padre, maestro e guida di santi”6. L’apostolato con le donne7. Scritti per la formazione8. Preparativi di espansione: Madrid, Valencia, Parigi

APPENDICE DOCUMENTALE Indice dei documentiI. Famiglia Escrivà de Balaguer-Albàs. Ascendenza recenteII. Atto di Battesimo del padreIII. Atto di Battesimo della madre

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652 IV. Atto di Matrimonio dei genitori654 V. Atto di Battesimo della sorella maggiore655 VI. Atto di nascita di Josemaria 657 VII. Atto di Battesimo di Josemaria 659 Vili. Studi scolastici (1912-1918)661 IX. Studi ecclesiastici nei Seminari di Logrono (1919-1920) e di

Saragozza (1920-1924)663 Xa). Dati che si riferiscono a losemaria nel libro “De vita et mori-

bus”666 Xb). Testimonianza di don José Lopez Sierra, Rettore del Semina­

rio di S. Francesco di Paola, datata Saragozza, 26-1-1948 669 XI. Certificazione della ricezione degli Ordini Sacri (1922-1925) 671 XII. Pratica accademica degli studi nelle Facoltà di Diritto di Sara­

gozza (Licenza) e Madrid (Dottorato)674 XIII. Nota necrologica per José Maria Somoano676 XIV. Nota necrologica per Luis Gordon678 XV. Nota necrologica per Maria Ignacia Escobar

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