De Prada - Il Fondatore Dell'Opus Dei - Vol II

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Andrés Vàzquez de Prada IL FONDATORE DELL’OPUS DEI Vita di San Josemaria Escrivà (voi. II) "Dio e Audacia " Edizione italiana a cura di Aldo Capucci Traduzione di Agostino Donà LEONARDO INTERNATIONAL

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De Prada - Il Fondatore Dell'Opus Dei - Vol II

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Andrés Vàzquez de Prada IL FONDATORE DELL’OPUS DEI

Vita di San Josemaria Escrivà (voi. II) "Dio e Audacia"

Edizione italiana a cura di Aldo Capucci Traduzione di Agostino Donà

L E O N A R D O I N T E R N A T I O N A L

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ISBN 88-86482-90-6

Traduzione dì Agostino Donà L'edizione italiana dei 3 volumi dell’opera è a cura di Aldo CapucciOpera pubblicata su licenza di Fundaciónr StudiumIl Fondatore dell’Opus Dei, volume II © 2002 by Fundación Studium© 2003 Leonardo International srlprima edizione febbraio 2003prima ristampa maggio 2003seconda ristampa novembre 2005

Ufficio Informazioni della Prelatura delPOpus Deiper l’Italia in InternetMilanoe-mail: [email protected] http://www.opusdei.it

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PRINCIPALI ABBREVIAZIONI USATE NEL TESTO

Archivio Generale della Prelatura Appunti intimi Autografi vari del FondatoreLe Lettere a tutti i membri dell’Opera, autentici scritti fondazionali, vengono citate con la data e con la nume­razione a margine che compare nel testo della Lettera stessa; per es.: Lettera 24-12-1951, n. 7"Nell9Epistolario del Fondatore è raccolta la corrispon­denza personale; le lettere sono citate con la sigla EF e la dataDocumento dell’Archivio Generale della Prelatura (AGP)Sezione dell’AGP relativa al Servo di Dio Isidoro Zorza- no Ledesma

POI, P02, ecc. Raccolte di documenti a stampa (Sezioni dell’AGP)PM Processo Madrileno, seguito dal numero del foglio.PR Processo Romano, seguito dal numero della pagina.RHF Registro Storico del Fondatore (Sezione dell’AGP).Sum. Summarium della Causa di beatificazione e canonizza­

zione. Positio super vita et virtutibus, Roma 1988^ Viene citato il testimone e il numero corrispondente del Summarium.

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Capitolo IXGUERRA E RIVOLUZIONE:

PRIGIONIERI NELLA CITTÀ

1 .1 frutti dell’odioI fattori che dominarono la vita spagnola dal 1936 al 1939 sono di così tragica connotazione che, per inter­pretarne dovutamente gli avvenimenti, è necessario un minimo di conoscenza dell’intreccio politico nel quale si svolsero. In tali circostanze la figura del Fondatore del- l’Opus Dei risalta per la grandezza eroica e in pari tem­po umile. Una inesatta interpretazione della realtà stori­ca renderebbe d’altra parte inintelligibile la portata e la ragione del suo comportamento. Ancor più se si tiene in conto che un fattore chiave della tragedia spagnola fu di natura religiosa. Di guerre civili la Spagna ne ha viste molte, ma un aspetto peculiare di quella del 1936 fu di scatenare nel Paese una delle persecuzioni religiose più accanite e sanguinose registrate in venti secoli di cristia­nesimo1. Nello spazio di pochi mesi fu versato il sangue martire di una dozzina di Vescovi e di più di seimila sa­cerdoti e religiosi. Questo semplice dato - scarno, obiet­tivo e impressionante - illumina tetramente la scena. Ed è molto improbabile che il lettore possa cogliere in mo­do giusto e in tutto il suo significato il comportamento del Fondatore, se prescinde da questi eventi; come pure gli riuscirà piuttosto incomprensibile l’operato di quel

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sacerdote se non riconosce innanzitutto la radice cristia­na dei motivi che lo portarono a perdonare di tutto cuo­re i colpevoli, a chiedere al Signore perdono per i crimi­ni commessi e a far tesoro, per il futuro, della lezione della storia.

Nel luglio 1936 tutta la Spagna, senza eccezione tra paesi e città, era percorsa da un’enorme tensione, causa­ta dalle rivendicazioni sociali, dal dissesto dell’econo­mia nazionale, dallo scarso prestigio del governo e dalla frustrazione delle aspirazioni regionaliste. C’erano scio­peri continui, fame, disordini, azione di agitatori rivolu­zionari che aizzavano le masse e che favorivano di rim­balzo gli atteggiamenti controrivoluzionari favorevoli a misure di forza. Il regime, sull’orlo del collasso, vacilla­va sotto le spinte estremiste, mentre una congiura mili­tare preparava un colpo di Stato per ristabilire i fonda­menti della smarrita autorità della Repubblica. Come era stato possibile arrivare a tale estremo?2.

Non è necessario risalire ai secoli passati, alle guerre civili del XIX secolo, al ritardo storico nello stabilire i princìpi democratici nelle istituzioni politiche3, o attri­buire la gravità del conflitto al carattere bellicoso degli spagnoli. Quando, nel 1931, la monarchia cadde e si stabilì la Repubblica, mezza Spagna ne salutò l’avvento con gioia e speranza. Iniziava una nuova era, che avreb­be potuto correggere errori e istituire un regime demo­cratico, giusto e rappresentativo. Ma dalla costituzione del Governo provvisorio fino all’elaborazione della nuova Costituzione, i governanti e i membri dell’Assem­blea Costituente impressero al nuovo regime uno stile spesso radicale, difficilmente accettabile da una buona parte degli Spagnoli4.

La storia della seconda Repubblica spagnola, nel pe­riodo fra la sua instaurazione nel 1931 e l’inizio della guerra civile nel 1936, è estremamente agitata. Vi si possono agevolmente distinguere diverse tappe: un pri­mo periodo costituente, al quale fece seguito un biennio

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di riforme radicali che coinvolsero la Chiesa, l’Esercito, il sistema educativo e le questioni regionali, la questione agraria e l’organizzazione del lavoro5. Lo scontento ge­nerato dall’operato dei governi sfociò in un minoritario e male organizzato golpe militare di segno monarchico, che fallì a Siviglia nell’estate del 1932. Non fu né il pri­mo né l’unico tentativo di modificare con la forza il cor­so degli avvenimenti. La vita politica spagnola, già im­pregnata di radicalismo, si fece sempre più violenta. Nel novembre 1933 ebbero luogo le elezioni generali e la Camera cambiò di colore politico. La precedente mag­gioranza, dominata da socialisti e repubblicani di sini­stra, venne sostituita da una formata dalla CEDA (Con­federazione Spagnola delle Destre Autonome), e dai partiti radicale, liberal-democratico e agrario6.1 rappre­sentanti della CEDA, il partito più numeroso della nuo­va maggioranza, accettando il postulato che fosse indif­ferente la forma istituzionale (monarchia o repubblica), si proclamavano conservatori e difensori degli ideali cattolici. Il biennio 1934-35 fu caratterizzato da una politica che cercò di modificare gli estremismi del perio­do precedente. Si tentò di troncare anche questa nuova fase mediante un’azione di forza, questa volta più acca­nita, meglio preparata e di maggior portata rispetto a quella del 1932: fu il tentativo rivoluzionario di sinistra del 1934, che fallì a Madrid e in Catalogna, ma trionfò nelle Asturie, dove si scatenò una sanguinosa rivoluzio­ne7; per domarla e restaurare l’ordine costituzionale fu necessario l’impiego dell’esercito8.

A partire dalla rivoluzione dell’ottobre 1934 si acce­lerò la lacerazione di tutta la nazione. Settori di destra e di sinistra finirono col propendere verso gli estremismi politici, senza possibilità di intesa neppure fra i modera­ti dell’una e dell’altra parte; divenne impossibile impedi­re l’approssimarsi dello scontro, al di fuori delle regole democratiche.

Nel febbraio 1936 le forze politiche di destra e di sini­9

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stra (queste ultime unite nel programma del Fronte Po­polare) andarono alle urne per le elezioni generali; quasi tutti in realtà erano alla ricerca, più che del potere de­mocratico, del potere politico che consentisse loro di schiacciare definitivamente l’avversario. Le forze di sini­stra vinsero di stretta misura le elezioni, che non servi­rono purtroppo a placare gli animi. Al contrario, con una sinistra sempre più divisa, l’astio fra gli antagonisti politici continuò a crescere, fino a far precipitare irrime­diabilmente il Paese nel caos. Una serena convivenza non era più possibile9.

L’odio tra gli avversari non era esclusivamente politi­co. Se ne possono ricercare le origini nel tormentato processo che, nel corso del XIX secolo, contrappose il tradizionalismo conservatore al liberalismo progressi­sta. A questo si dovrebbe aggiungere la resistenza di molti capitalisti e proprietari a risolvere i pressanti pro­blemi di giustizia lavorativa, che acuivano vecchie ten­sioni sociali, mentre la propaganda demagogica incitava alla lotta armata del proletariato. Il fermento dell’odio s’infiltrò nell’animo dei cittadini, inondandolo di ranco­re e di violenza. Altre cause prossime del conflitto furo­no gli errori commessi dai governi repubblicani. Per esempio le riforme di Azana, concernenti principalmen­te l’Esercito e la Chiesa. L’Esercito fu inutilmente umi­liato, allontanando così molti militari dalla causa re­pubblicana e inducendoli alla cospirazione e al golpe militare. Quanto alla Chiesa, Je misure decisamente lai- ciste erano frutto di un’ideologia settaria e non teneva­no conto del fatto che la maggior parte della popolazio­ne era formata da cattolici praticanti10. Altri errori, come qualche caso di corruzione e di palese disonestà tra alcuni governanti membri del Partito Radicale, la mancanza di sensibilità sociale o di senso di opportunità in altri, il generale radicalismo della politica europea di quegli anni e la crisi delle democrazie, contribuirono al­l’ulteriore perdita di prestigio da parte del regime e a10

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confermare i violenti nel ricorso a soluzioni radicali e traumatiche11.

Alla fine fu innescato il detonatore, un grave fatto che fece precipitare le decisioni degli incerti12 e accelerò l’in­tesa tra i carlisti e il Generale Mola, che fu il capo del­l’insurrezione: l’assassinio di José Calvo Sotelo, uno de­gli esponenti monarchici di punta dell’opposizione parlamentare, avvenuto il 13 luglio 1936. Lo eseguiro­no le forze di Pubblica Sicurezza, come rappresaglia per il precedente assassinio di José Castillo, tenente di un re­parto d’assalto. Di lì a pochi giorni iniziò a sollevarsi l’esercito13.

Si sollevarono per prime le guarnigioni militari delle piazzeforti africane14, la sera del 17 luglio. Il governo non fu colto di sorpresa dall’insurrezione militare, ma credeva di poter domare la ribellione in quanto i posti chiave delPEsercito erano nelle mani di generali legati all’Esecutivo. Dopo ventiquattr’ore la situazione era piuttosto confusa, poiché alcune guarnigioni si andava­no unendo ai ribelli, mentre i partiti di sinistra e le orga­nizzazioni sindacali operaie chiedevano al governo di armare le milizie popolari15. Nella drammatica notte fra il 18 e il 19 luglio il Presidente della Repubblica cercò di trovare una soluzione transitoria glia nuova situazione. Il governo di Casares Quiroga fu sostituito da quello di Martìnez Barrio, con ministri più moderati, allo scopo di tranquillizzare i generali della stessa tendenza. Ma il nuovo governo dovette subire, come quello precedente, le pressioni dei partiti e dei sindacati operai intese ad ar­mare le milizie socialiste e comuniste16. Le autorità ten­tarono di opporre resistenza a consegnare le armi agli iscritti ai sindacati, ma già alle prime ore del mattino del19 luglio circolavano per Madrid migliaia di operai ar­mati di fucili, consegnati loro alcune ore prima in diver­se caserme. Nella caserma de la Montana invece, nono­stante gli ordini contraddittorii ricevuti, gli ufficiali si

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rifiutarono recisamente di consegnare alle milizie rivo­luzionarie le armi del deposito.

* * *Domenica 19 luglio il Padre stava lavorando con i suoi nella nuova Residenza al n. 16 di via Ferraz. Guardando dai balconi si accorsero di un crescente andirivieni di guardie e di curiosi davanti alla casa. Quella parte della via non aveva di fronte alcun edificio, bensì uno slargo che consentiva di vedere lo spiazzo della caserma de la Montana, che stava a duecento passi dalla Residenza17. Nelle ultime ore della sera arrivava fin lì il baccano delle milizie popolari che, a pugno alzato, percorrevano con armi e bandiere il centro della capitale. Verso le dieci di sera il Padre rimandò a casa quelli che avevano la propria famiglia a Madrid, chiedendo loro di telefonargli una vol­ta arrivati, per tranquillizzarlo18. Isidoro Zorzano e José Maria Gonzàlez Barredo rimasero invece con lui19.

Nel frattempo, la caserma rimaneva chiusa nelle sue alte mura, in un silenzio pregno di minaccia. Durante la notte si udirono sparatorie intermittenti. Appena si fece giorno, fu possibile notare un gran movimento intorno all’edificio: erano i preparativi per assaltare la caserma, preceduti da un forte cannoneggiamento. Gli assediati rispondevano al fuoco con fucili e mitragliatrici20. Pal­lottole vaganti colpivano l’edificio della Residenza e scheggiavano i balconi, obbligando il Padre e i suoi a ri­fugiarsi nello scantinato. A metà mattina si scatenò l’as­salto. Il cortile della caserma fu presto pieno di cadave­ri. Le masse di miliziani che avevano fatto irruzione nella caserma ne uscivano armate di fucili, lanciando urla esaltate.

Il Padre, che da alcuni mesi sentiva “parlare di assas- sinii di preti e suore, di incendi, di assalti e di orrori”21, si rese conto che indossare la veste talare equivaleva a tentare la divina Provvidenza. Più che imprudente, sa­rebbe stato un atto temerario. Lasciò la tonaca in came­12

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ra sua e indossò una tuta blu da lavoro, che in quei gior­ni stavano usando per i lavori della casa22. Era passato mezzogiorno quando il Padre, Isidoro e José Maria Gonzàlez Barredo pregarono la Santissima Vergine, si raccomandarono agli Angeli Custodi e, uno per volta, uscirono dalla porta posteriore. Per la fretta il Padre di­menticò di coprirsi il capo, la cui ampia tonsura denun­ciava con evidenza la sua condizione di sacerdote; passò così tra i gruppi dei miliziani i quali, eccitati per il corso degli eventi, non gli prestarono alcuna attenzione.

Arrivò a casa della madre, non lontano dalla Residen­za. Parlò per telefono con Juan Jiménez Vargas e si ac­certò che tutti i suoi figli fossero sani e salvi. Il sacerdo­te, che per la prima volta si trovava senza breviario, avendolo lasciato nella Residenza, non aveva molto da fare. Accese la radio. Le notizie trasmesse erano confuse e allarmanti e la notte si presentava lunga e caldissima. Recitò un rosario dopo l’altro. L’appartamento si trova­va ai piani alti di una casa di via Doctor Càrceles, all’e­stremità opposta dell’incrocio con via Ferraz. Su tetti e terrazze si udivano i passi concitati dei miliziani alla ri­cerca dei franchi tiratori che sparavano dall’alto.

Don Josemaria pensò di cominciare un diario, che è telegraficamente sintetico, poiché non aveva alcuna vo­glia di mettersi a fare lo storico. Il 20 luglio si legge que­sta prima annotazione:

“Lunedì, 20 - Preoccupazione per tutti, specialmente per Ricardo. Preghiamo la Santissima Vergine e gli Angeli Custodi. Intorno all’una faccio il segno della Croce ed esco per primo. Arrivo a casa di mia madre. Parlo al te­lefono con Juan. Notizie dalla radio. Tutti sono arrivati a casa. Pessima nottata, molto caldo. Tre parti del Rosa­rio. Non ho il breviario. Miliziani sul terrazzo”23.Pennellate sommarie che ci rivelano le impressioni del

suo animo di fronte agli avvenimenti e la preoccupazio­13

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ne per la sorte dei suoi figli, specialmente per Ricardo Fernàndez Vallespm, sorpreso dagli avvenimenti mentre si trovava a Valencia. Quel lunedì 20 luglio Josemarìa aveva celebrato la Messa nella Residenza, ma non pote­va sospettare che per molto tempo non l’avrebbe cele­brata di nuovo. Attraverso le cadenze di quel breve dia­rio, che non andò oltre il sabato 25 luglio, sappiamo dove corressero il suo pensiero e il suo cuore:

“Martedì 21: senza Messa (...). Mercoledì 22: senza ce­lebrare (...). Giovedì 23: Comunioni spirituali. SenzaMessa! (...). Venerdì 24: senza Messa!”.Il giovedì trovò in casa un messale e cominciò a cele­

brare ogni giorno, per devozione, una “Messa secca”: riproduceva le cerimonie della Santa Messa, leggeva con attenzione e devozione tutte le preghiere liturgiche, ec­cetto la Consacrazione, poiché gli mancavano il pane e il vino per poter consacrare; quando arrivava alla Co­munione faceva una comunione spirituale24.

Fu una settimana angosciosa. Tutta la Spagna viveva ore di tragica incertezza. Non era agevole ricostruire la situazione del Paese. Nessuna informazione della stam­pa o della radio era affidabile. Don Josemarìa telefonò all’impresa di pompe funebri che stava di fronte a Santa Isabel. Così il martedì seppe che avevano bruciato la chiesa. A questa notizia si sovvenne improvvisamente di quanto gli era accaduto quattro o cinque anni prima, quando un giorno, mentre usciva da Santa Isabel, gli era venuta in mente l’ispirazione divina che la chiesa sareb­be stata bruciata25. Purtroppo, il convento di Santa Isa­bel non rappresentava un’eccezione: altre chiese di Ma­drid stavano bruciando e le rimanenti erano state poste sotto sequestro, secondo notizie apprese per strada da Juan Jiménez Vargas. Nell’appunto che porta la data di mercoledì 22 luglio si legge: “Dicono che stanno impri­gionando i sacerdoti”.14

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Senza molto sforzo d’immaginazione e avendo sotto gli occhi il ricordo fresco delle scene viste alla caserma de la Montana, don Josemaria passò mentalmente in rassegna i pericoli ai quali erano esposti i ministri del Si­gnore. Quella stessa settimana, quasi fosse stato dato un segnale, iniziò una caccia implacabile a sacerdoti e reli­giosi, gettati in carcere o portati al martirio. Conventi e case parrocchiali rimasero deserti26. Non c’era altra via di scampo che nascondersi. Nell’appartamento sotto­stante a quello della signora Dolores si erano rifugiati una monaca e un religioso agostiniano27. Don Jose­maria intensificò la preghiera e la mortificazione, come dimostra una riga del suo diario: “Orazione: Signore, Santissima Vergine, San Giuseppe, Angeli Custodi, San Giacomo”.

Cercando nell’appartamento, trovò un Eucologio Ro­mano, col quale potè recitare l’ufficio dei defunti. Tutta la famiglia cominciò una novena alla Madonna del Pilar e, visto che faceva un caldo spaventoso, don Josemaria intraprese la lotta ascetica contro la sete: “Non bere ac­qua, per tutti, specialmente per i nostri”, annotò il mer­coledì. Il Padre non si rassegnava al fatto di restare pri­vo di notizie sui suoi figli. Perciò fece in modo che Juan spedisse delle cartoline a Valencia, per rassicurare Ri­cardo Fernàndez Vallespm e Rafael Calvo Serer e chie­dere loro notizie.

Don Josemaria voleva tornare a stabilirsi in via Fer- raz, ma Juan, che andava tutti i giorni a piedi da casa sua a quella della signora Dolores, gli fece presenti i pe­ricoli ai quali si sarebbe esposto, dovendo passare attra­verso molti posti di blocco dei rivoluzionari. D’altra parte non poteva neppure lavorare, perché le carte e i documenti dell’Opera stavano sì in un baule nell’appar­tamento di via Doctor Càrceles, ma chiuso a chiave e la chiave era rimasta nella Residenza di via Ferraz. Il gio­vedì, Juan e Isidoro si assunsero il compito di recarsi al­la Residenza e portarono al Padre le chiavi, un portafo­

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glio e il certificato di riconoscimento personale, che era l’unico documento d’identità che possedesse28. Don Jo- semaria era pronto ad affrontare l’imprevisto, qualora fosse stato necessario abbandonare precipitosamente l’appartamento della madre; si lasciò crescere i baffi per non essere riconosciuto.

Si giunse così a sabato 25 luglio, ultima data annotata sul diario. Né il governo repubblicano né i rivoltosi sa­pevano ancora da che lato si sarebbe inclinata la bilan­cia. La sorte era incerta. Coinvolta in una inestricabile mischia, con il Paese artificiosamente diviso e frammen­tato tra forze ostili, la nazione si dibatteva sulla soglia di una guerra civile. Gli animi di tutti gli spagnoli erano interiormente in conflitto e dilaniati nei sentimenti.

Radio Madrid spargeva una incessante gragnuola di notizie imbandite al pubblico dal governo, che annun­ciavano l’insuccesso dell’insurrezione militare, la resa dei ribelli, il bombardamento e la distruzione di quanti opponevano resistenza alle vittoriose forze repubblica­ne. Per distogliere la mente della madre da catastrofi e disastri, don Josemaria cercava di tenerla occupata gio­cando a carte o ascoltando con lei Radio Siviglia29. Le dichiarazioni del generale Queipo de Llano, che parlava dell’imminente entrata a Madrid delle forze ribelli che stavano marciando per liberare la capitale, pur se men­zognere, rappresentavano una goccia di ottimismo30. In quei giorni non si pensava ancora a una guerra civile, bensì a un colpo di stato militare e alla repressione dei moti rivoluzionari.

La mattina di sabato 25 luglio, Juan era appena en­trato nel vestibolo della Residenza di via Ferraz in cerca di alcune carte, quando nell’appartamento fece irruzio­ne una pattuglia di anarchici, tra i quali c’eràno l’autista e il cuoco del precedente padrone di casa, il conte del Reai. Probabilmente i miliziani ignoravano chi fossero i nuovi inquilini. Ispezionarono l’appartamento. Nella camera che aveva occupato il Padre scoprirono una ve­16

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ste talare, un cappello e altri oggetti, come alcuni cilici e alcune discipline insanguinate, che denunciavano con ogni evidenza la presenza di un prete. Alle loro pressan­ti domande Juan rispondeva come poteva, in modo va­go, per salvare il salvabile, dando a intendere che tutto appartenesse ad alcuni studenti di Medicina (in sala di studio i miliziani avevano già visto teschi e ossa); disse che il padrone era uno straniero e che il cappellano non ci andava mai31.

Senza altre verifiche, essi dichiararono l’edificio re­quisito a nome della C.N.T. (Confederazione Nazionale del Lavoro, un sindacato anarchico) e andarono a casa di Juan a proseguire la perquisizione, ancor più perico­losa di quella dell’Accademia, perché Juan aveva in ca­mera sua, in un baule, uno schedario con gli indirizzi degli studenti che frequentavano la Residenza, oltre ad altri documenti il cui possesso equivaleva a una condan­na a morte32. La perquisizione della stanza fu minuzio­sa, ma inspiegabilmente i miliziani non trovarono il baule, che rimase nascosto dietro l’anta aperta dell’ar­madio. Comunque, alla fine, invitarono Juan ad andare con loro, il che, nel gergo del terrore, significava che “lo portavano a fare una passeggiata” o, in altre parole, che l’avrebbero fucilato; cosa che era all’ordine del giorno e prevista nei compiti delle pattuglie. Fu allora che sua madre si interpose in modo drammatico e il capo degli anarchici, pistola in pugno, senza un motivo plausibile, mutò improvvisamente parere e si mise a spiegare: “Noi non ammazziamo nessuno. Quelli che ammazzano sono i socialisti. Portiamo questa - e indicò la pistola - solo come profilassi... Rimanga pure!”33.

Quella sera stessa, Juan e Alvaro del Portillo com­mentavano fra loro gli avvenimenti degli ultimi giorni e si chiedevano come sarebbe andata a finire. “Se trionfa la rivoluzione comunista - si dissero -, qui non si potrà continuare e dovremo pensare a una Residenza all’este­ro”34. Entrambi-avevano ben presente l’impegno di pro-

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seguire a fare l’Opera se fosse venuto a mancare il Fon­datore e confermavano la propria sicurezza nella verità dell’affermazione che il Padre era solito fare: “L’Opera di Dio viene a compiere la Volontà di Dio. Perciò siate profondamente convinti che il Cielo è impegnato affin­ché si realizzi”35. Basandosi su una logica così semplice, serbavano la ferma convinzione e la viva speranza che al

] Padre non sarebbe accaduto nulla36. Di fatto, durantegli anni della persecuzione religiosa, tutti i membri del- l’Opera sfuggirono parecchie volte in modo miracoloso- o, se si vuole, in modo inverosimile e inspiegabile - dalle mani dei loro persecutori.

Don Josemarfa, oltre alle grazie fondazionali, posse­deva qualità umane che da tempo gli consentivano di af-

!r frontare una situazione storica avversa e di svolgere con|! audacia e naturalezza le attività apostoliche proprie del­

la sua missione. Indubbiamente il Signore aveva dotato quel giovane sacerdote di una pace interiore e anche di un vigore fisico sorprendenti, date le circostanze in cui svolse il suo ministero. Nelle sue Caterine narra, in quanto fatto eccezionale e quasi per confermare questi doni, di una delle rarissime occasioni in cui non riuscì a dominare la paura. Era, racconta, “una paura fisiologi­ca, puerile, di restare di notte al buio in chiesa”. Acca­deva nel 1930, nel “Patronato de Enfermos”. “Una paura sciocca”, ma che non riusciva a superare e che gli impediva di avvicinarsi al tabernacolo. Finché - scrive - “una sera, di ritorno dall’Accademia, ebbi una mozione interiore: “vai, senza paura”: “non avrai mai più pau­ra”. Non ho propriamente udito le parole: le ho perce­pite, queste o molto simili, ma comunque con quel si­gnificato. Andai nella chiesa buia. C’era solo la luce del Tabernacolo. La fronte appoggiata sull’Altare. Non ho mai più avuto paura”37.

Libero da allora dalle radici della paura, passione che arriva a distoreere i giudizi e la volontà, don Josemaria potè dedicarsi pienamente alle sue attività, nonostante18

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fosse esposto a burle, ingiurie e sassate. La figura di quel sacerdote avvolto nel suo mantello era ben nota nelle periferie e nei desolati sobborghi di Madrid, dove si recava a far visita agli ammalati o a fare catechesi. E aveva proprio bisogno di una buona dose di audacia e di coraggio per continuare a esercitare le funzioni del proprio ministero come se nulla fosse cambiato nelle condizioni ambientali.

Pur essendo libero da quel tipo di paura che paralizza l’azione, nei mesi successivi alla proclamazione della Repubblica dovette anche affrontare l’odio che serpeg­giava ovunque. “Dio mio! - si chiedeva - perché que­st’odio contro i tuoi?”38. La sua serenità purificava i suoi sentimenti ed egli, ricambiando l’odio con l’amore, aveva fatto il proposito di “lapidare” con le avemarie coloro che proferivano espressioni grossolane e indecen­ti contro di lui. Fino a poco tempo prima si indignava: “Ora, nell’udire queste parole ignobili, mi sento tremare dentro”39, si legge in una Caterina del settembre 1931.

Quello stesso anno, poche settimane dopo, aveva ri­badito un proponimento sacerdotale che mantenne vivo sino alla fine dei suoi giorni: “Io devo parlare soltanto di Dio”40. Dunque, coinvolto com’era in un programma divino che doveva svolgere in mezzo al mondo, don Jo- semarìa sopportava in silenzio le avversità contro cui si imbatteva ogni giorno. Immerso nella realtà sociale, al di sopra e al di fuori delle ideologie politiche, il Fonda­tore adempì la sua missione dal 1931 al 1936 in mezzo a un clima di bufera e di odio crescente. Gli era toccato di vivere una successione di situazioni drammatiche che sembravano giungere ora al parossismo della follia. Era come se l’intera nazione, con l’esplosione della polverie­ra di odio in cui si era trasformata, dovesse sprofondare senza rimedio in un abisso di malvagità. Per colmo di sventura, le sue aspirazioni di apostolo si rivolgevano a compatrioti che, per diverse ragioni o aizzati dalla pro­paganda, pensavano che la soluzione dei problemi pas­

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sasse anzitutto attraverso la distruzione della Chiesa di Cristo.

“L’Opera di Dio - aveva scritto il Fondatore - non l’ha immaginata un uomo per risolvere la deplorevole situazione della Chiesa in Spagna dal 1931”41. Riservò quindi le sue energie a compiere fedelmente il disegno, più grande, universale e perenne, del quale si era fatto carico il 2 ottobre 1928.

2. Un fuggitivo in cerca di rifugioDolores Escrivà, desiderosa di pace, diceva in famiglia che per il giorno della festa di San Giacomo, patrono della Spagna, tutto sarebbe ritornato alla normalità. Il diario raccolse l’invocazione all’Apostolo: “Sabato, 25. San Giacomo salvi la Spagna!”42.

All’inizio del mese di agosto la situazione era sconvol­ta e confusa in tutta la Spagna. Continuava la lotta in tutto il Paese ed era evidente la completa divisione dei comandi militari al momento dell’insurrezione. I milita­ri protagonisti della rivolta avevano ipotizzato una rapi­da presa di potere da parte dell’esercito, ma essa si era trasformata ora in una lotta sanguinosa, a carattere in pari tempo rivoluzionario e di guerra civile. In effetti, la cospirazione militare fallì in molti luoghi, poiché il co­mando era per la maggior parte nelle mani di persone che parteggiavano per il governo repubblicano, special- mente a Madrid e a Barcellona, dove si trovava il grosso degli effettivi dell’esercito. Peraltro nelle grandi regioni rurali, per esempio in Galizia, Leon, Castiglia, Navarra e Aragona, la popolazione si unì con entusiasmo all’in- surrezione. Il risultato fu imprevedibile. Nella zona re­pubblicana il potere, teoricamente in mano al governo, passò di fatto ai comitati delle milizie rivoluzionarie dei partiti e dei sindacati locali. Invece, nella zona che poi si sarebbe chiamata nazionale, le forze armate di stanza20

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nei paesi e nelle città furono inquadrate sotto l’autorità dei comandi militari degli insorti.

Col passare dei giorni, diminuivano le speranze di una rapida fine del conflitto, che minacciava di prolun­garsi sino alla fine dell’estate. Tutta Madrid era oggetto di perquisizioni domiciliari alla ricerca di persone so­spette. In genere le perquisizioni seguivano piste ricava­te da schedari politici o da qualche delazione; di queste, le più terribili erano le denunce fatte ai miliziani dai vi­cini o dai portinai delle case43, poiché erano a conoscen­za dei movimenti degli inquilini. Nell’appartamento sot­tostante a quello della signora Dolores c’era una comunista, una cuoca; donna per nulla affidabile e che probabilmente sapeva che al piano di sopra stava nasco­sto un prete. Sapendolo, il sacerdote stava all’erta e pronto a fuggire a qualsiasi ora del giorno o della notte. Per ulteriore difficoltà, egli non aveva un documento sindacale o politico che potesse essergli utile in caso di controlli dei miliziani. La signora Dolores gli aveva dato la vera che era appartenuta al marito, per farlo sembra­re sposato; per il figlio portare quell’anello fu come ere­ditare una santa reliquia del padre44.

Dopo un paio di settimane che don Josemaria stava rinchiuso nell’appartamento, fecero la loro apparizione nel quartiere le pattuglie dei miliziani. L’8 agosto accad­de quello che temevano. Alle prime ore del mattino il portiere avvisò, allarmato, che era imminente una per­quisizione. Senza attendere altro avviso, il sacerdote uscì in strada, disposto a percorrere una lunga via dolo­rosa. Cominciava a compiersi il presentimento che ave­va avuto secondo cui, a partire dall’agosto 1936, il Si­gnore gli avrebbe mandato una croce. Lo aveva annotato negli Appunti intimi, alcune settimane prima, senza immaginarne l’imminente compimento: “Vittima! Su di una Croce senza spettacolo”45.

Quel giorno, 8 agosto, andò vagando da una parte al­l’altra di Madrid, col pericolo di cadere nelle mani di

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qualunque drappello di miliziani e di finire in carcere. A tarda sera andò a dormire in una pensione di via Menéndez y Pelayo, dove alloggiava José Maria Albare- da, un giovane professore che egli aveva conosciuto nel­la Residenza di via Ferraz e che giovedì 23 luglio aveva fatto visita al Padre in via Doctor Càrceles, in compa­gnia di Juan e di Isidoro Zorzano.

Il giorno successivo, come da accordo preso in prece­denza, andò a casa di Manolo Sainz de los Terreros, che abitava in via Sagasta 3146. Manolo aveva iniziato la propria direzione spirituale con il Padre nel giugno 1933 nella casa di via Martmez Campos, mostrandogli la pro­pria anima “senza nascondergli nulla”. A mezzogiorno don Josemaria riuscì a salire nell’appartamento senza farsi vedere dal portinaio. La sera stessa vi giunse anche Juan Jiménez Vargas. La famiglia di Manolo era in va­canza ed egli viveva da solo con Martina, un’anziana do­mestica sorda e flemmatica. I due nuovi ospiti dovevano rimanere in assoluta clandestinità a tutti gli effetti; non dovevano sapere nulla di loro i vicini e men che meno il portinaio, che doveva rispondere al comitato politico delle case dell’entrata e dell’uscita dei condomini. Perciò si dovevano muovere con cautela e in silenzio, per non sollevare sospetti. Facevano la spesa Manolo o Martina, facendo notare che acquistavano provviste per due per­sone, anche se, al momento della distribuzione, le bocche erano quattro. Manolo, uomo deciso e impetuoso, non era tipo da impaurirsi facilmente; ma da quando, alla fi­ne di giugno, avevano messo in carcere suo fratello, la sua casa era schedata. In quel periodo le perquisizioni erano metodiche. Due giorni dopo l’arrivo del Padre, i miliziani si presentarono a perquisire un altro apparta­mento della stessa casa, nel quale in precedenza era stato catturato il conte di Leyva47.

Con don Josemaria anche l’ordine entrò in quella ca­sa. Si preparò un orario, che comprendeva le pratiche di pietà, le ore di lavoro e quelle dei pasti. Ciò che mag­22

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giormente preoccupava il Padre era di non avere notizie dei suoi figli. Ci si può quindi immaginare la sua grande gioia quando, verso la metà di agosto, Manolo si fece dare dal portinaio dell’edificio della Residenza di via Ferraz diverse lettere, tra le quali una di Pedro Casciaro. Poco più avanti, il giorno 25, giunse una lettera di Ri­cardo, proveniente da Valencia e indirizzata a Isidoro, nella quale diceva di stare bene. In quei giorni, il Padre comunicava per mezzo di Isidoro e di Manolo con quel­li che stavano a Madrid e con sua madre, benché questa preferisse non sapere con precisione dove si trovasse suo figlio48.

Poco tempo dopo che don Josemarìa aveva lasciato la casa della madre vi ebbero luogo le temute perquisizio­ni. Non una sola, ma varie; nel corso delle quali porta­rono via alcune persone della famiglia in cui lavorava la domestica comunista. Una volta i miliziani entrarono e perquisirono tutti gli appartamenti, tranne quello della signora Dolores. Ruppero anche i sigilli che erano stati apposti alla porta accanto per ordine dell’Ambasciata inglese, dato che la proprietaria, di nazionalità britanni­ca, aveva lasciato la Spagna allo scoppio della rivoluzio­ne49. La signora Dolores e i suoi figli tremavano, in tre­pidante silenzio, tutte le volte che udivano i miliziani salire rumorosamente le scale; ma non accadde mai, per quanto strano possa apparire, che perquisissero l’appar­tamento degli Escrivà.

Nell’appartamento di via Doctor Càrceles era rimasto il baule pieno di carte private e documenti relativi al- l’Accademia e alle attività apostoliche. Don Josemarìa aveva riposto la sua completa fiducia nelle mani di Dio e della madre, che “ne serbava la chiave e non la lascia­va per nulla al mondo”50. Ma Carmen e Santiago, nel ti­more che vi si trovassero annotazioni che potessero compromettere terze persone, si fecero dare la chiave e, in effetti, fra le carte trovarono un quaderno con nomi, indirizzi e telefoni che ritennero prudente bruciare.

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Abile nel rovistare, Santiago s’imbatté senza dubbio in alcuni scritti spirituali dal contenuto intenso, dei qua­li ci dà notizia: “Fu allora che lessi il diario che Jose­maria aveva tenuto nel corso di diversi anni. Ricordo i quaderni di cerata nera”. Si trattava, è evidente, degli Appunti intimi del Fondatore51. Quel baule, posto sotto la protezione della Provvidenza e l’amorevole vigilanza della signora Dolores, conteneva un’importante porzio­ne dello spirito e dell’ancor breve storia dell’Opera. In via Doctor Càrceles il baule cominciò una lunga odissea che durò tutta la guerra e lo vide uscire indenne da tra­sferimenti e perquisizioni.

(Tre anni dopo, quasi si fosse imbattuto in una vec­chia conoscenza, il Fondatore annotava: “Madrid!, 13 aprile 1939: Dopo quasi tre anni riprendo le mie Cateri­ne su questo quaderno rimasto interrotto nel luglio 1936. Gesù ha voluto che il nostro archivio si conser­vasse, in un modo abbastanza singolare. E si è servito di mia madre e di Carmen come strumenti”)52.

Nell’appartamento di via Sagasta il Padre viveva molto isolato, senz’altra compagnia che quella di Juan, poiché Manolo imponeva agli ospiti la sua decisione di mantene­re a tutti i costi l’incognito e di non ricevere visite. Un giorno, facendo un’eccezione all’eccessiva riservatezza, Manolo li presentò a due rifugiati dell’appartamento sot­tostante, ma senza rivelare a questi la condizione sacerdo­tale di don Josemaria. Non fu peraltro necessario che lo facesse. Vista la familiarità con cui don Josemaria tratta­va i temi religiosi, se ne resero subito conto; peraltro il sa­cerdote non desiderava altro, perché in caso di bisogno potessero ricorrere al suo ministero. Uno di essi (Pedro Maria Rivas, allora avvocato a Madrid e più tardi religio­so) riferisce di lui che “in quei giorni di guerra era pieno di pazienza e di pace dello spirito”53.

Quei signori apprezzavano la conversazione di don Josemaria, per cui salivano sovente nell’appartamento di Manolo per chiacchierare con lui. In caso di allarme,24

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gli ospiti erano già preparati su che cosa fare: non appe­na si fosse udito suonare alla porta, i rifugiati si sareb­bero ritirati verso la scala di servizio. Nel frattempo, Martina si sarebbe preparata ad aprire la porta, con cal­ma e senza fretta. Con la scusa della propria sordità, avrebbe trattenuto i visitatori, senza lasciarli entrare. In caso di pericolo il segnale convenuto era di alzare molto la voce, in modo che i visitatori fossero costretti a di­chiararsi, dando tempo ai rifugiati di arrivare alla scala di servizio e di salire nel solaio.

Il 28 agosto Manolo si portò a casa un suo cugino, di nome Juan Manuel. La mattina di domenica 30 agosto10 misero al corrente delle precauzioni prese per il caso di una perquisizione. Fecero una prova, senza prevedere quanto sarebbe stata opportuna. Poche ore più tardi, mentre Manolo era fuori di casa e Martina stava prepa­rando il pasto, si udì un gran vociare sulle scale e poco dopo suonò il campanello. Il Padre, Juan e Juan Manuel si ritirarono cautamente verso la scala di servizio men­tre Martina, con calma, si dirigeva alla porta. I miliziani cercavano di entrare per fare la perquisizione e Martina11 tratteneva gridando, molto immedesimata nella sua parte di sorda: “Qui non c’è nessuno. Sono sorda. Non sento niente”.

Per la scala di servizio i tre salirono in solaio ed entra­rono nel primo bugigattolo che trovarono aperto: era uno spazio angusto che fungeva da soffitta e deposito di carbone. Stavano piegati in due perché l’altezza non con­sentiva di stare in piedi. Erano le prime ore del pomerig­gio e il calore si fece asfissiante. Seduti fra polvere, ragna­tele e carbonella, stavano immobili in attesa della fine. Qualsiasi rumore li poteva tradire e, se fossero stati sco­perti, la cosa più probabile era che li fucilassero54. Dopo diverse ore di attesa si accorsero che stavano già ispezio­nando il piano sottostante al solaio. Il Padre, nel dubbio che Juan Manuel, che stava con loro da meno di due gior­ni, si fosse reso conto o meno della sua condizione, gli

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disse: “Sono sacerdote”. Poi, rivolgendosi a entrambi, ag­giunse: “Stiamo in un momento difficile; se volete, fate un atto di contrizione e io vi do l’assoluzione”55.

Juan Manuel ricevette l’assoluzione. Fu un istante che dominò tutti i suoi ricordi di quell’epoca: “Non ho mai dimenticato il mio incontro con don Josemarìa - confes­sa -, dato che tutti pensavamo che fossero gli ultimi mo­menti della nostra vita (...). Ebbe molto coraggio a dir­mi che era sacerdote, poiché avrei potuto tradirlo e, nel caso fossero entrati, avrei potuto cercare di salvare la vi­ta denunciandolo”56.

Appena ricevuta l’assoluzione, Juan domandò al Pa­dre: “Se ci prendono, che cosa accadrà?”; gli rispose: “Figlio mio: ce ne andiamo diritti in Cielo”.

A questo punto delle sue memorie, Juan fa un’impor­tante digressione sulla natura della propria paura, chia­rendo che non provava esattamente il timore di essere fucilato, ma una sensazione strana che non gli toglieva la pace. “Stando lì il Padre ero sicuro che non ci sarebbe stato nulla da temere e, per contribuire al clima di sicu­rezza - dichiara -, verso le tre del pomeriggio mi sono addormentato ”57.

Mentre dormiva profondamente, dedito a così altrui­stici propositi, i miliziani perquisivano coscienziosa­mente la casa: dall’alto in basso e dal basso in alto. Tan­to a fondo, che non ebbero tempo di arrivare agli ultimi solai. Verso le nove di sera, finalmente, cessarono i ru­mori. I tre scesero cautamente le scale e suonarono alla porta di servizio del quarto piano, a sinistra, nella casa dei conti di Leyva. Fu loro aperto. Erano sudati, assetati e sporchi di polvere e di carbonella. Chiesero un bic­chiere d’acqua. Raccontarono loro che Manolo era tor­nato a casa durànte la perquisizione e se l’erano portato via, chiudendo l’appartamento a chiave.

Furono prestate loro delle camicie del conte, incarce­rato da tempo, mentre venivano lavate le loro. Li invita­rono generosamente a restare nell’appartamento, poiché26

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era presumibile che per un certo tempo non ci sarebbero state altre perquisizioni. Si sbagliavano. Il giorno suc­cessivo, alle otto di mattina, i miliziani erano già “al la­voro” e continuarono meticolosamente la perquisizione sospesa la sera precedente. Entrarono nell’appartamen­to di fianco, al quarto piano a destra, e in quello sotto­stante. “In alcuni momenti - racconta Mercedes, la fi­glia del conte di Leyva - provammo una paura terribile, ma il Padre conservava il buonumore, facendoci molto ridere, nonostante fosse preoccupato per i suoi”58. In uno dei momenti di maggior pericolo la contessa59 pro­pose di recitare il Rosario. Subito il Padre disse: “Lo di­rigerò io, che sono sacerdote”60. Vista la frequenza delle perquisizioni in quella zona, decisero di cambiare rifu­gio61. Due cameriere della contessa andarono a parlare con José Maria Gonzàlez Barredo, affinché cercasse un luogo dove il Padre potesse nascondersi. L’unico rifugio che egli trovò fu la casa degli Herrero Fontana; i loro due figli conoscevano don Josemaria e fruivano della sua direzione spirituale. La famiglia abitava al piano rialzato di piazza Herradores, numero 4.

L’operazione di trasferimento, che si prospettava sicu­ra, li portò a finire in bocca al lupo. Una notte la piazza fu improvvisamente invasa da pattuglie di poliziotti e miliziani, che obbligarono i portinai ad aprire i portoni di tutte le case e fecero una retata perquisendo tutti gli appartamenti della piazza, con grande agitazione e schiamazzo notturno. Inspiegabilmente, il portinaio del numero 4 non se ne diede per inteso e lasciò chiuso. E, cosa ancor più strana, i miliziani non cercarono neppu­re di forzare il portone.

Secondo Juan, fu questo uno dei numerosi casi che di­mostravano “che il Padre godeva di una speciale prote­zione, uno fra i tanti episodi che avevano come protago­nisti gli Angeli Custodi”62. Di fronte a ciò, poco potevano fare le pattuglie delle perquisizioni. “Non pos­sono nulla né i miliziani né nessun altro”, pensava Juan

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Jiménez Vargas ogni volta che si affrancava dalla morte. Come contropartita, quel giovane sacerdote era costret­to ad andare di casa in casa mendicando un rifugio, sen­za sapere dove e come lo avrebbero accolto. Perché la paura di tenere nascosto un sacerdote, esponendosi al rischio di essere incarcerati o martirizzati, faceva sì che molti buoni cristiani gli chiudessero la porta. La pere­grinazione alla ricerca di un nascondiglio “era una cosa molto dura, perché non era solo una sensazione di ab­bandono fisico”: era come sentirsi completamente privo di protezione63.

Fortunatamente, in mezzo alla prova, don Josemarfa sentiva di avere sempre Dio paternamente al suo fianco. Portava dentro, nel suo intimo, la gioia e la pace, anche quando esternamente lo colpivano l’insicurezza e l’ab­bandono. È arduo capire come, nello stesso momento, ci fosse posto in lui per elementi contraddittorii, perché sulla pace dell’anima pesava l’angoscia dell’incertezza e il freddo della solitudine offuscava il calore del suo otti­mismo. Nella ricerca di un rifugio il Signore gli faceva sentire, coinvolgendo la sua vita affettiva, una dolorosa sensazione di abbandono: la stessa di tutti coloro che non avevano una casa, quella dei miserabili senza un tetto, quella dei perseguitati senza nascondiglio; quella dei membri dell’Opera in pericolo, fuggitivi alcuni, altri isolati, altri in prigione.

Furono infruttuose le ricerche presso amici e cono­scenti, mentre una figlia dei conti di Leyva cercava di farlo accettare presso l’Ambasciata di Cuba. Un giorno, stanco e senza un rifugio, capitò nella casa di Alvaro Gonzàlez Valdés, padre di José Maria Gonzàlez Barre- do, in via Caracas 13.

Il terrore rivoluzionario continuava a crescere. Dagli schedari di associazioni d’ogni genere - politiche, cultu­rali, sportive o religiose - e dalle delazioni di vicini, colle­ghi, portinai o nemici personali, i miliziani ottenevano lunghi elenchi di persone da ricercare64. Per questo moti­28

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vo, i cambi di nascondiglio dei ricercati avvenivano a volte con tale segretezza e rapidità che passava del tempo prima che la famiglia avesse notizie dal nuovo rifugio.

Era questo il caso di Alvaro del Portillo, che era riu­scito a rifugiarsi con uno dei suoi fratelli in una casa sita in un vicolo al quale si accedeva da via Serrano e il cui padrone era un amico di famiglia. Era nascosto da un mese quando, all’inizio di settembre, decise di recarsi agli uffici della Sovrintendenza a Ponti e Fondazioni, dove lavorava prima della guerra, per riscuotere gli sti­pendi arretrati. Con quel poco denaro in tasca, decise di prendere una birra a La Mezquita, un bar in piazza Alonso Martìnez, senza pensare che, seduto in bella vi­sta a un tavolino all’aperto, avrebbero potuto chiedergli i documenti, dei quali era privo. Provvidenzialmente non fu la polizia, ma Alvaro Gonzàlez Valdés a vederlo e ad avvicinarsi, dicendogli: “Grazie a Dio che la trovo! Sa chi si trova in casa mia? Il Padre! Mi ha chiesto di ri­posare un po’, perché non ne può più, non sta in piedi. Ma del portinaio, a quanto sembra, non ci si può fidare, e se se ne è accorto siamo tutti in pericolo”65.

Il problema era di facile soluzione. Si recarono imme­diatamente in via Caracas e Alvaro portò il Padre via con sé. Pochi giorni dopo si unì a loro Juan Jiménez Vargas. Nel nascondiglio vicino a via Serrano passarono tranquillamente il resto del mese di settembre. La casa si trovava nelle adiacenze di alcuni edifici della Direzione Generale di Pubblica Sicurezza. Il proprietario aveva messo sul balcone un cartone con la bandiera argentina, sperando che potesse garantire qualcosa. Nessun espe­diente era mai eccessivo. I rapporti con l’esterno e le commissioni erano incombenza della cuoca dei prece­denti inquilini, una donna avanti d’età e senza peli sulla lingua, e di Selesio, l’autista, che veniva ogni tanto.

Il Padre dava le meditazioni e celebrava con i suoi le “messe secche”; e per riempire le ore, dato che non ave­vano libri da leggere, s’intrattenevano a parlare, evitan­

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do di cadere nell’ozio o nell’inerzia. Al di là della parete della villetta operava la radiotrasmittente della Direzio­ne Generale di Pubblica Sicurezza, che trasmetteva inin­terrottamente i messaggi alla polizia.

Il Padre stava già da tre settimane nella villetta, in compagnia di Alvaro, di suo fratello Pepe del Portillo e di Juan. Nel relativo benessere del loro nascondiglio giunse il primo ottobre, vigilia dell’ottavo anniversario della fondazione dell’Opera. Il Padre si attendeva un fa­vore dal Cielo, uno di quegli “zuccherini” con cui Dio era solito addolcire il suo zelo apostolico, con l’invio di qualche nuova vocazione. Questa volta sognava con vi­va attesa la sorpresa che il Signore gli aveva preparato: “Alvaro, figlio mio, domani è il 2 ottobre; quale carezza ci avrà riservato il Signore?”66.

Lo seppe ben presto. Quella stessa mattina arrivò Ramón, un altro fratello di Alvaro, con notizie allar­manti. Erano tutti in pericolo. I miliziani potevano pre­sentarsi da un momento all’altro. Avevano già perquisi­to il domicilio dei proprietari della villetta di via Serrano e avevano assassinato sei persone di quella fa­miglia, tra le quali un sacerdote. Era necessario abban­donare quel rifugio. La bandiera argentina non era un ostacolo che potesse fermare i miliziani. Prima di andar­sene, il Padre diede loro l’assoluzione e sentì l’anima colmarsi di gioia al pensiero del martirio. Contempora­neamente ebbe la sensazione di smarrire ogni coraggio, sentì il corpo che si afflosciava e, per la debolezza e la paura, le gambe cominciarono a tremargli67.

Il regalo atteso dal Signore fu la luce interiore perché il sacerdote comprendesse, in modo tangibile, che tutta la sua fortezza era in prestito. La grazia che sperava per il 2 ottobre gli venne concessa alla vigilia.

Ben presto si riebbe e cominciarono a cercare un altro nascondiglio. Il Padre telefonò a José Maria Gonzàlez Barredo e rimasero d’accordo di incontrarsi sul Paseo de la Castellana, l’arteria principale che taglia Madrid30

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da nord a sud, non lontana dalla villetta. Uscì in strada, ma dopo non molto tempo ritornò nella villetta. Era co­sì angosciato che, ancora fuori dalla porta, scoppiò in singhiozzi. “Padre, perché piange?”, gli chiese Alvaro.

Nei brevi momenti che era rimasto fuori di casa aveva incontrato una persona che lo aveva informato dell’as­sassinio di don Lino Vea-Murguìa, il sacerdote che con lui visitava gli ospedali e si occupava delle donne dell’O- pera. Aveva avuto anche particolari del martirio di un altro sacerdote, suo grande amico, don Pedro Poveda, della cui morte era già a conoscenza68.

Il Padre spiegò poi anche perché era ritornato tanto presto. Effettivamente si era visto con José Maria Gonzàlez Barredo nel luogo convenuto sul Paseo de la Castellana. Felice di aver trovato soluzione al problema, Barredo aveva estratto una chiave dalla tasca del gilet e l’aveva consegnata a don Josemaria. Apriva un apparta­mento che apparteneva ad alcuni amici che si trovavano fuori Madrid. Il portinaio, oltretutto, era persona di fi­ducia. Tutto era risolto. C’erano obiezioni?

Il Padre lo aveva ascoltato attentamente, cercando di capire bene la situazione:

- “Ma da solo in casa d’altri, che cosa posso dire se si presenta un visitatore o se arriva una telefonata?”.- “Non si preoccupi. C’è una domestica, anch’essa della massima fiducia, che potrà anche aiutarla per tutto ciò di cui possa avere bisogno”.- “Che età ha questa donna?”- “Mah, forse ventidue o ventitré anni”.Allora il Padre aveva tirato fuori la chiave che si era

già messo in tasca e gli aveva detto:- “Figlio mio: non ti rendi conto che sono sacerdote e che, con la guerra e la persecuzione, tutti quanti abbia­mo i nervi a pezzi? Non posso e non voglio stare chiuso giorno e notte con una donna giovane. Ho un impegno

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con Dio che sta al di sopra di tutto. Preferirei morire piuttosto che offendere Dio, piuttosto che mancare a questo impegno d’Amore”.Poi, per fargli meglio capire con i fatti, aveva aggiunto:- “Vedi questa chiave che mi hai dato? La getto in quel tombino”.Detto e fatto: si era avvicinato alla grata e ve l’aveva

gettata69.Il 2 ottobre, di mattino presto, abbandonarono il na­

scondiglio. Giusto in tempo, perché poco dopo giunsero i miliziani a perquisire la villetta. Il Padre, accompagna­to da Àlvaro, era andato a casa di Juan.

Senza documenti, alla ventura, ricominciarono anco­ra una volta la peregrinazione. Fu così che capitarono ancora in piazza Herradores, dove abitava Joaquxn Her- rero Fontana con la sorella, la madre Mariana e la non­na, vedove entrambe, e dove già era stato ospite alcune settimane prima. Il Padre trascorse le ore di quel 2 otto­bre raccolto in orazione pregando Dio per i suoi figli. Tutto andava bene. Ma la paura insinuò rapidamente un’idea ossessiva nella mente della nonna. Alla buona signora venne la mania di ripetere: “Un prete in casa! Ci ammazzeranno tutti. Un prete in casa! Ci ammazzeran­no tutti”70.

In fondo non aveva torto. L’ossessione senile della nonna aveva fondati motivi di buon senso. Figlia e nipo­te cercarono di calmarla: tutto fu vano. In tali condizio­ni non ci fu altra cosa da fare che pensare a un rapido trasferimento del sacerdote.

Il giorno 3 il Padre, Àlvaro e José Maria Gonzàlez Barredo stavano seduti, stanchi e abbattuti, sul bordo del marciapiedi della Glorieta de Cuatro Caminos, quando a Barredo venne l’idea risolutiva. Perché non andare a trovare Eugenio Sellés, giovane professore del­32

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la Facoltà di Farmacia che conosceva il Padre dalla Re­sidenza di Ferraz e che non aveva esitato a offrire gene­rosamente la propria casa? Sellés abitava con sua mo­glie alla Colonia Albéniz, nel quartiere di Chamartm, al capolinea del tram della Città Giardino. Bisognava poi attraversare un terreno aperto, dove di notte arrivavano le pattuglie per fucilare gruppi di prigionieri. Fu questo il percorso che il Padre fece con Alvaro e José Maria al tramonto del giorno successivo, facendo un lungo giro per evitare i posti di controllo dove bisognava esibire i documenti. José Maria, dopo essere rimasto un po’ in casa dei Sellés, ritornò a Madrid71.

In quei giorni i giovani sposi impararono molto dalla discrezione, dal buon umore e dalla simpatia dei loro due ospiti. Tutte le sere, tutti e quattro in ginocchio, re­citavano il Rosario. Ai Sellés rimase impressa, soprat­tutto, la serena fiducia del sacerdote, “che faceva sì che ci si comportasse con assoluto abbandono nel Signore, senza alcuna tensione, come se non accadesse nulla di speciale”72.

Continuavano intanto le ricerche di un rifugio stabile per il Padre. Martedì 6 ottobre, Joaquìn Herrero Fonta­na si presentò sul finire del giorno a casa di Juan per informarlo che tutto era sistemato. Sia Juan che Joaquìn cercavano da diversi giorni di far entrare don Josemaria in una clinica psichiatrica. Juan aveva tentato nella Co­lonia del Parque Metropolitano, senza successo. Joa- quìn, che lavorava nell’Hospital de Urgencia, fu più for­tunato. Poiché aveva, i documenti necessari per muoversi liberamente per Madrid, riuscì a localizzare e parlare con Àngel Suils, conterraneo del Padre e suo compagno di scuola a Logrono73. Il dottor Suils dirigeva una clinica per malati mentali. Fu messo al corrente di chi fosse il “malato” e fu deciso il suo ingresso nella cli­nica per il giorno successivo.

Il pomeriggio di martedì il Padre e Alvaro lasciarono la casa dei Sellés. Alvaro andò in cerca di un altro rifugio

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e il Padre passò la notte in casa di Joaquìn74. Il mattino del 7 ottobre, alle dieci, si presentarono entrambi a casa di Juan. Là li prelevò un’automobile di quelle che presta­vano servizio ali’Hospital de TJrgencia; era guidata da un miliziano. Fecero sedere il paziente sul sedile posteriore, da solo. Davanti, vicino al miliziano, si sedette Joaquìn, che riferisce quanto accadde nel trasferimento: “Dissi al­l’autista che la persona che stava dietro era un malato mentale, non pericoloso, ma con grandi manie. Lo por­tavano in clinica per curarlo. Il Padre parlava da solo e ogni tanto diceva di essere il dottor Maranón. L’autista protestava: ‘Se è così pazzo, tanto vale sparargli un paio di colpi e non perdere tempo’”75.

Dallo spiccio suggerimento del miliziano possiamo arguire quali sarebbero stati i suoi sentimenti se si fosse reso conto che il “pazzo” era un ministro del Signore.

3. Nella clinica del dottor SuilsIl Padre portava un abito blu con un golf grigio e una camicia, ma senza cravatta. Coloro che lo avevano co­nosciuto alcuni mesi prima rimanevano sorpresi per la sua estrema magrezza, per i baffi e per i capelli rasati a zero; tanto corti che quando, in un giorno di agosto, andò dal barbiere, questi, soddisfatto del proprio lavoro e forse lanciando un’occhiata alla vera matrimoniale ap­partenuta al defunto signor José, commentò: “Ecco, sua moglie non la riconoscerà”76. Il corredo del nuovo ve­nuto era povero e scarso: un vecchio soprabito, caritate­volmente datogli dalla madre degli Herrero Fontana in previsione degli imminenti giorni di freddo, e biancheria varia, capi sciolti provenienti da diversi proprietari77.

La clinica dove lo internarono era una villetta alla pe­riferia di Madrid, in una zona semiurbanizzata, con estese aree edificabili e terreni incolti. L’edificio, di re­cente costruzione e dotato di giardino, era costituito di34

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tre piani: un seminterrato, dove stavano i malati menta­li gravi, e altri due piani per i malati in osservazione. Sulla carta intestata della clinica si leggeva:

Clinica Psichiatrica della Ciudad Lineai Casa di Riposo e di Salute Malattie mentali, nervose, tossicomanie Cure moderne Direttore Medico:

Dottor Àngel Suils via Arturo Soria, 492 - Telef. 51188 - Ciudad Lineai

(Madrid)In prossimità della Strada per l’Aragona78.Quando arrivarono, il dottor Suils era assente. Il col­

loquio di accettazione lo fece il suo aiuto, dottor Tur- rientes, il quale, senza mezzi termini, disse a don Jose­marìa: “Senta, so che lei è sacerdote, ma qui deve andarci piano a parlare di queste cose”79. Il nuovo ospi­te serbò un prudente silenzio, senza fare alcuna promes­sa. Smise di ripetere di essere il dottor Maranón e si­mulò, per conto suo e a proprio rischio, una afonia isterica. Questa cautela gli consentiva, senza compro­mettersi, di studiare l’ambiente del nuovo rifugio.

Don Josemarìa, che occupava una camera nel piano sovrastante al seminterrato, dovette sentire terribilmente l’isolamento dei primi giorni. Martedì 13 ottobre Juan scrisse nel suo diario: “Mentre stavo per uscire di casa mi telefona il medico di guardia della clinica. Il Padre sta bene. Possiamo andare a trovarlo se vogliamo (...). La madre di Herrero (lui non era in casa) dice che è una sciocchezza andare a trovare il Padre. Lo sa bene che è preoccupato non sapendo nulla di noi, ma non si può fa­re altro. Ha ragione, benché penso quanto starà pregan­do il Padre, completamente isolato. Anche a noi piace­rebbe vederlo, ma non vogliamo creare complicazioni per sciocco sentimentalismo. Perciò questo pomeriggio

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sono andato a casa di Suils. Gli ho detto che il Padre non si deve preoccupare di nessuno, come se non fossimo a Madrid. Né telefono né altro. Unicamente se ci fosse pe­ricolo per lui, mi avvertano a casa mia. Mi racconta che ha simulato una afonia isterica. Ora dice già qualcosa, ma molto poco, per non destare sospetti”80.

Juan Jiménez Vargas, abituato al pericolo, intendeva a modo suo gli “sciocchi sentimentalismi”. Durante gli ultimi giorni si faceva in quattro per servire gli altri del- l’Opera. Fece visita ad Àlvaro, che cercava di rifugiarsi nell’ambasciata del Messico. Si preoccupò di informarsi sulle condizioni di Chiqui. Si trovò con José Maria Gonzàlez Barredo, con Isidoro e con Vicente Rodriguez Casado, altro membro dell’Opera che non poteva uscire di casa per il pericolo di essere imprigionato. E infine stava facendo per il Padre qualcosa che egli non s’imma­ginava: che potesse celebrare la Messa81.

In quei primi mesi di terrore la persecuzione fu spie­tata. I sacerdoti che non erano stati assassinati o impri­gionati stavano nascosti. Le chiese, bruciate o destinate a usi profani. Le sacrestie, smantellate. Si ritornava alla Chiesa delle catacombe. Al corrente delle tribolazioni e angosce dei cattolici spagnoli, la Santa Sede concesse la facoltà di celebrare “il Santo Sacrificio senza altare, senza paramenti sacri e usando, invece del calice, un decoroso bicchiere di vetro”82. Queste disposizioni concernenti il culto nella Chiesa della clandestinità im­piegarono alcune settimane per giungere a conoscenza dei fedeli nella zona repubblicana.

Non conoscendo bene il personale e l’organizzazione della clinica, era sommamente rischioso tentare che il Pa­dre vi potesse celebrare la Messa, senza avere preso tutte le precauzioni. Eugenio Sellés, che abitava non troppo lontano dalla clinica, offrì la propria casa per celebrarvi la Messa. Tuttavia la cosa non potè avere seguito.

Le ultime righe del diario di Juan Jiménez Vargas, nel­le quali si parla di questo argomento, trasudano ottimi-36

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sino: “È meravigliosa l’imprudenza di Sellés. In casa sua no, ma nella clinica credo che sarà possibile. Evidente­mente, senza che nessuno lo possa neppure immaginare. In casa di Joaquìn ne avrebbero dispiacere. Sua madre mi diceva ieri che si ricorda sempre di me perché mi sto giocando la vita (!!!) a furia di camminare per strada. Le risposi che devo avere sette vite come i gatti e che anco­ra me ne restano perché, fra tutti i medici (?) e le batoste che ho subito per 23 anni, non sono riusciti a toglierme­ne che quattro o cinque”83.

Scriveva queste frasi la sera del 15 ottobre ed è l’ulti­ma annotazione del diario. Perché una mattina, ormai deciso il piano per far uscire il Padre affinché celebrasse la Messa in casa di Eugenio Sellés, “proprio mentre sta­vo aspettando Isidoro per andare insieme alla clinica - ricorda Juan - arrivò una pattuglia in via S. Bernardo e mi catturarono”84. (Juan abitava con i genitori in via S. Bernardo).

51' * *

Quando Maria Luisa Polanco, infermiera nella casa di cura del dottor Suils, ricostruisce le sue memorie, si sor­prende di conservare un’immagine tanto nitida di quel sacerdote: è uno dei ricoverati che ricorda meglio. A quasi mezzo secolo di distanza, l’immagine che l’infer­miera conserva della clinica psichiatrica assume colori attenuati dalla nostalgia del passato: “Un piccolo villino molto grazioso, circondato da un giardino”85. Per il giardino, nelle fredde giornate di sole di fine autunno, vedeva passeggiare don Josemarìa, avvolto in una co­perta mentre parlava con qualche altro rifugiato.

La casa di cura non aveva certamente l’aspetto lugu­bre e tenebroso dei manicomi pubblici dell’epoca, nei quali i malati sopportavano le proprie miserie dietro le inferriate. E non era neppure un luogo di ozio e disten­sione, come la dicitura igienistica e bonaria “Casa di Ri­poso e di Salute” poteva lasciar supporre. Giuridica­

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mente, la casa di cura funzionava come società colletti­va in accomandita, approvata dal Sindacato Medico di Madrid e provincia. Benché diretta dal “compagno Àngel Suils”, la casa di cura - lo certificano le autorità dell’epoca - “è controllata dal personale della stessa, tutto affiliato alla Unione Generale dei Lavoratori (UGT)”, il Sindacato socialista.

La “Casa di Riposo e di Salute” era passata, da cen­tro di “sfruttamento capitalista”, a essere una società di lavoratori, il preambolo dei cui statuti costitutivi recita­va: “I sottoscritti, ex lavoratori della ‘Casa di Riposo é di Salute’ di via Arturo Soria, 492 (Ciudad Lineai), deci­dono di formare una società in conformità con gli statu­ti dell’Unione Generale dei Lavoratori, per svolgere il loro lavoro di cura di malati mentali, nervosi e tossico­mani, che finora hanno svolto nel luogo citato, sotto forma di attività imprenditoriale che è stata abbandona­ta dal suo proprietario José Irus Lahoz, attualmente al­l’estero. Oltre agli statuti della U.G.T., i destini della So­cietà saranno retti dai seguenti articoli: (...)”86.

L’organico del personale stabile era costituito da due medici, tre infermiere, un amministratore, un paio di guardiani (incaricati di custodire i dementi), una cuoca e una lavandaia. Quanto all’orientamento politico, le infermiere erano di varia estrazione: due di esse erano comuniste e capaci di denunciare un sacerdote; la terza, Maria Luisa Polanco, persona di fiducia del dottor Suils, era invece falangista. Suo fratello, anch’egli falan­gista, era stato assassinato a Bilbao e lei, persona nota a Suils, si trovava nella casa di cura come rifugiata. Alme­no uno dei guardiani era un comunista sfegatato. Quan­to all’amministratore della clinica, sappiamo solo che la società collettiva non era esente dalle terribili ispezioni rivoluzionarie. In una di quelle effettuate in precedenza dai miliziani in cerca di “faziosi” nella “Casa di Riposo e di Salute”, si portarono via proprio l’amministratore, Fiorentino. “Non preoccuparti di cambiare abito, com­38

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pagno; ti tratterremo solo dieci minuti a Belle Arti per­ché tu faccia una dichiarazione e ritornerai con la stessa macchina”, gli avevano detto87. IL meno che si possa di­re è che non rispettarono la promessa: non tornò né a piedi né in macchina e di lui non si seppe più nulla.

Il personale sanitario aveva in carico una ventina di pazienti. I più gravi vivevano nel seminterrato. La con­dizione dei malati di mente là rinchiusi muoveva a com­passione: era sommamente tristè, se non tragica.

C’era un’anziana - la signora Carmen - il figlio della quale, dopo aver commesso un delitto passionale, si era suicidato. Questa signora passava in modo brusco e re­pentino dalla più profonda apatia alla più rabbiosa esa­sperazione. Un altro di quei pazzi soffriva continua- mente di delirio di persecuzione e camminava per i corridoi e in giardino a ritmo frenetico, sputando e mi­nacciando i suoi invisibili aggressori. Ma il caso più ce­lebre e pittoresco era quello di uno schizofrenico grave, il signor Italo (che chiamavano “signor Italo, illustre farmacista”; al che rispondeva con autentica modestia: “colto farmacista, che non è la stessa cosa!”). “Un giorno - racconta don Josemaria - si avvicinò a me e mi disse a bruciapelo: ‘Signore, si saturi dell’ambiente, cammini impettito, butti via quelle idee..., si tolga gli occhiali... e starà bene’”88.

Al primo e al secondo piano si trovavano i malati “in osservazione”. Per la maggior parte erano rifugiati sani e dotati di senno, che simulavano malattie nervose o squilibri psichici. A parte questi “pazienti in osservazio­ne”, c’erano dei casi speciali, come quello di un bambi­no di sei anni, nipote di uno dei medici assistenti; i suoi genitori erano stati assassinati in Estremadura e la don­na che ne aveva cura era riuscita a fuggire con lui a Ma­drid; gli assassini si erano messi alla ricerca dell’orfano, col sinistro proposito di eliminare l’ultimo erede di una famiglia di proprietari terrieri, dei possedimenti dei qua­li si erano appropriati. Da ultimo, c’era anche chi, en­

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trato come falso malato ma sottoposto a una costante tensione angosciosa, era diventato pazzo sul serio89.

Dopo l’arresto di Juan, fu Isidoro Zorzano a fungere da collegamento e da messaggero. Isidoro era nato a Buenos Aires ed era provvisto di documenti argentini e di un bracciale con i colori nazionali; questo gli consen­tiva di circolare per Madrid con relativa sicurezza. An­dava con una certa frequenza a far visita al Padre e gli portava notizie della famiglia dispersa. In ottobre, Vi- cente Rodrìguez Casado si rifugiò nella Legazione della Norvegia. Alvaro del Portillo, dopo diverse settimane alla ricerca di un tetto dove riparare, finì in una dipen­denza della Legazione della Finlandia; ma per poco tem­po, poiché il 3 o il 4 dicembre le milizie assaltarono le dipendenze che battevano bandiera finlandese ed egli finì nella prigione di Sant’Antonio, tristemente famosa. Vi finì anche Chiqui (soprannome di José Maria Hernàndez Gamica); Manolo Sainz de los Terreros e Juan si trovavano invece nella prigione di Porlier90.

Le massicce incarcerazioni di persone non affiliate ai partiti rivoluzionari ebbero luogo in occasione dell’avan­zata delle truppe nazionali in direzione di Madrid; alla fine di ottobre del ’3 6 esse si trovavano già alle porte del­la capitale, ma all’inizio di novembre furono fermate dall’esercito repubblicano grazie ai rinforzi, appena giunti, delle Brigate Internazionali91. Dal giardino della casa di cura si vedevano i bagliori dell’artiglieria dalle parti della Puerta de Hierro, della Città Universitaria e della Casa de Campo, con grande gioia di alcuni malati della clinica di Suils. Il signor Italo infatti, che scambiava le cannonate per i fuochi d’artificio di una festa popola­re, esclamava: “I pazzi si trovano a Madrid: sono tutti alla festa popolare, al centro di Madrid. Come stiamo bene qui, nella nostra tranquillità”92. Non fu certo il pre­ludio di una festa, ma l’annuncio di una orribile carnefi­cina. Nel timore di lasciarsi alle spalle dei nemici, le mili­zie effettuarono a Madrid una sanguinosa e inumana40

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repressione contro la cosiddetta “quinta colonna”, nelle retroguardie93. Le prigioni popolari erano stracolme e durante il mese di novembre furono sistematicamente “svuotate”. Obbedendo a consegne rivoluzionarie, alcu­ni autocarri venivano riempiti di prigionieri e, di notte, partivano in direzione del tristemente celebre Paracuel- los del Jarama, o altri luoghi nelle vicinanze di Madrid, dove venivano eseguite fucilazioni di massa94.

Il distretto della Città Universitaria, vicino al quartie­re di Arguelles, all’interno del quale si trovava via Doc- tor Càrceles, dovette essere evacuato. La famiglia degli Escrivà fece resistenza ad abbandonare la casa, nella speranza che le truppe nazionali occupassero presto il quartiere, che si trovava sul fronte dei combattimenti. Per questo motivo rimasero per alcuni giorni isolati, poiché Isidoro non poteva avvicinarsi alla zona e quindi informare il Padre della situazione dei suoi.

A novembre già inoltrato, la signora Dolores fu co­stretta ad abbandonare la casa e a sistemarsi in un al­bergo della Calle Mayor, vicino alla Puerta del Sol. Portavano ben poche cose: “Una valigia con l’impre­scindibile e il baule con le carte dell’Opera”, racconta il figlio Santiago95. Il baule - racconta Jiménez Vargas - “diventò un incubo”96. Appena seppe del trasferimen­to, Isidoro andò all’albergo e si portò gli Escrivà nel­l’appartamento di Àlvaro Gonzàles Valdés, padre di Jo­sé Maria Gonzàlez Barredo97. L’appartamento era semivuoto perché il figlio, José Maria, si era rifugiato nella casa di cura del dottor Suils all’inizio di novem­bre, quando si ebbe una recrudescenza di perquisizioni e di incarcerazioni, collegate con l’avanzata delle trup­pe nazionali verso Madrid.

Gli Escrivà si presentarono in via Caracas n. 13 con tutto il loro bagaglio, che era ben scarso. Ma il baule non oltrepassò la portineria: il portiere, allarmato alla vista di un baule di quelle dimensioni, pretese, non si sa perché, di guardarci dentro. Naturalmente non glielo

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consentirono. Ma il portinaio si intestardì e non desi­stette dal suo proposito. Anche Carmen fu irremovibile, e gli rispose che, “per principio, non aveva nessuna vo­glia di aprirlo e piuttosto lo avrebbe lasciato nell’andro­ne; e là rimase”98.

Alla fine fu Santiago a pagare il conto della diatriba. Il portiere si oppose, in modo tassativo, che Santiago abi­tasse in quella casa. Forse perché immaginava che il ra­gazzo fosse in età militare e aveva paura che, se ci fosse stata una perquisizione, lo si considerasse responsabile di aver nascosto nuovi inquilini. Viste le circostanze e che la faccenda si andava complicando (a pochi passi dalla casa c’erano due ceke99 e la caserma della colonna anarchica Spartacus, che pochi giorni prima aveva assassinato 50 guardie civili), Isidoro e la signora Dolores decisero che Santiago andasse a far compagnia a suo fratello nella ca­sa di cura, dove fu accolto come accompagnatore di un “malato in osservazione”. Il dottor Turrientes lo accolse in casa sua e lo accompagnò in tram alla casa di cura; il baule con le carte lo seguì poco dopo100.

La tranquillità nella “Casa di Riposo e di Salute”, co­me si può immaginare, era piuttosto relativa. Una volta vi si presentò una pattuglia di miliziani: andavano a col­po sicuro. Si portarono via il duca di Penaranda, fratello del duca di Alba101. Il Padre ebbe notizia dell’accaduto soltanto il giorno successivo. Con profonda pena si ri­volse energicamente al direttore della casa di cura e pro­testò per non essere stato avvertito. “D’ora in poi - gli disse - di qui non sarà portato via nessuno senza che io prima lo confessi e gli dia l’assoluzione”102.

Nonostante gli avvertimenti che gli aveva dato il dottor Turrientes quando era entrato nella casa di cura, don Jo- semarfa, col suo zelo sacerdotale, aveva avvicinato uno per volta tutti i rifugiati, dopo alcuni giorni di cauto ap­proccio. L’assistente del dottor Suils confessa candida­mente il fallimento dei suoi consigli: “Ho la sensazione - dice - che parlasse con tutti”103. Nonostante tutti i rifu­42

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giati condividessero lo stesso pericolo, non esisteva alcun legame tra loro, ma piuttosto la sfiducia creata dal timore di una delazione. Ciascuno aveva la propria storia perso­nale; e se aprivano il loro cuore era perché prima quel sa­cerdote aveva rivelato loro la propria condizione ministe­riale. “Il clima tra i residenti alla casa di cura era di sospetto”, riferiscono i marchesi de las Torres de Oràn, che ben presto divennero amici di don Josemarìa104.

A parte gli ammalati mentali, il resto delle persone della casa di cura aveva vita ed esperienze molto parti­colari. Perfino il personale della casa di cura, associatosi “per svolgere il proprio lavoro nella cura delle malattie mentali”, cercava - come dice l’ultima riga degli statuti costitutivi - “la collaborazione amichevole, in uno stes­so ideale, verso il conseguimento di un benessere mate­riale ottenuto mediante il lavoro”105. Le circostanze sto­riche avevano messo sulla stessa barca persone fra le più disparate. Suils e Turrientes proteggevano i rifugiati co­me reazione contro la criminalità imperante in tempo di guerra. Per altri soci, la fortuna di diventare proprietari di un’attività imprenditoriale, per quanto collegata con una delle più tristi condizioni dell’essere umano, li ren­deva inclini a chiudere un occhio sulla provenienza del cliente. Di questo si era già reso conto Juan Jiménez Vargas quando, il 10 ottobre, scriveva sul suo diario: “Eravamo un po’ preoccupati per la casa di cura. Ci sembra che non abbiano affatto vergogna quando si tratta di farsi pagare e questo non è una buona garanzia sulla sicurezza di quel posto. Lo sapevo già e mi è sem­brata una ragione per tentare, perché si sarebbero pre­stati pur di farsi pagare”106.

Si deve dire, per dovere di giustizia, che tutto conside­rato il cibo non era né cattivo né scarso. Santiago affer­mava che era il posto dove aveva mangiato meglio; anche se il suo stomaco non era imparziale, perché si portava dietro dall’appartamento di via Doctor Càrceles una bella fame arretrata. Il pasto consisteva di un unico piatto, che

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variava da un giorno all’altro: fagioli, ceri, lenticchie, riso e arance per frutta. Di questa fornitura si doveva esser grati all’affiliazione sindacale dell’azienda. Il signor Italo, invece, non era impressionato dagli sforzi culinari della cuoca. Nei giorni tranquilli e luminosi passeggiava per il giardino, abbracciava un vaso da fiori senza terra e lo in­naffiava a goccia a goccia, con affetto, sicuro che vi sa­rebbero germogliati dei filetti impanati107.

Con l’arrivo di José Maria Gonzàlez Barredo e, poco dopo, del fratello Santiago, per don Josemarìa cominciò una nuova fase nella casa di cura. I tre abitavano la came­ra contigua a quella dei marchesi de las Torres de Oràn. Dopo aver preso le dovute precauzioni per evitare sacrile­gi, don Josemarìa celebrava la Messa quasi ogni giorno. Isidoro gli procurava il vino e il pane. Nella camera c’era un armadio molto grande; celebrava la Messa su uno dei ripiani, tenendone aperte le porte. Così, se qualcuno fosse entrato all’improvviso, il contenuto dell’armadio restava nascosto a un primo sguardo. Per maggior sicurezza chie­deva aiuto a Maria Luisa Polanco: “Vuole vigilare sul di­vano mentre celebro la santa Messa? - diceva all’infer­miera - E se si avvicina qualcuno, bussi alla porta o parli ad alta voce”108. Il divano era in una posizione strategica del corridoio, fra la stanza del Padre e quella di un’altra infermiera, comunista. Dopo aver celebrato la Messa, egli distribuiva la Comunione ad alcuni dei rifugiati e, nel ca­so che qualcuno volesse confessarsi, rivelava con discre­zione la propria condizione di sacerdote.

Quando la signora Carmen, l’anziana impazzita a causa del suicìdio del figlio, riposava nella sua calma apatica, era una persona molto cortese e piena di atten­zioni; ma negli attacchi di frenesia sputava atroci insul­ti. Non faceva sconti a nessuno, eccetto a don Jose­marìa, cui dava affettuosamente del vecchietto. “Il signor Josemarìa è tanto buono - diceva - che deve esse­re per lo meno un generale”; e altre volte: “Il signor Jo­sé non è il signor José, ma San José”109.44

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Tali elogi non erano certamente la miglior raccoman­dazione nei confronti dei guardiani o delle infermiere del fronte popolare. Una di esse aveva seri sospetti che don Josemarìa fosse un prete rifugiato. Il Padre mise ra­pidamente rimedio ai sospetti. Un giorno, fingendo un vaneggiamento, abbassò la voce e in tono confidenziale le dichiarò di essere il dottor Maranón, ma le disse che doveva serbare ancora a lungo l’incognito110.

José Maria Gonzàlez Barredo, del quale nessuno sem­brava sospettare, cominciò a creare una certa preoccu­pazione al Padre e a Santiago: cercava di farsi passare per pazzo, ma gli mancava la capacità per una messin­scena credibile. Si comportava in maniera così strana, con comportamenti tanto esageratamente realistici, che la sua condotta sconcertava perfino i matti veri. Accen­deva le luci a ore inverosimili e saltava ripetutamente dalla finestra, dalla stanza al giardino e dal giardino alla stanza; per fortuna l’altezza era poca e non rischiava di farsi male cadendo.

Con i primi freddi il Padre ebbe lievi disturbi di carat­tere reumatico. Qualcuno gli prestò una stufetta, che egli passò immediatamente ai marchesi suoi vicini, so­stenendo di non averne bisogno111. All’inizio di dicem­bre i medici, invece di prescrivergli una semplice terapia con salicilati, decisero di sottoporlo a una cura consi­stente nell’iniettargli un preparato, allora molto in voga, a base di veleno d’api. Forse il dottor Suils pensava di ottenere due effetti in uno: da una parte prevenire ulte­riori attacchi reumatici e, dall’altra, provocare una forte reazione che convincesse il personale che si trattava di un vero malato. Gli effetti del veleno furono “fulminan­ti e terribili”, a quanto riferisce suo fratello112: il pazien­te restò paralizzato e in preda a fortissimi dolori; poteva muovere la testa solo con grande difficoltà; la sua ali­mentazione consisteva solo in un succo d’arancia. Ma dopo quindici o venti giorni di letto si era già abbastan­

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za rimesso. Bisogna ammettere che, benché debole e fiacco, era guarito dalla forma reumatica.Continuavano a comparire squadre di miliziani, per perquisire la casa di cura o anche per caso. Poiché la vil­letta si trovava nei pressi della strada per l’Aragona, sul­la quale transitavano in continuazione autocarri che an­davano e venivano dal fronte, in caso di sosta nelle vicinanze la truppa scendeva a sgranchirsi le gambe, a curiosare o a riempire le borracce ai rubinetti della casa di cura. In questi casi i dementi esercitavano la funzione di scudi protettivi. Il direttore della casa di cura aveva dato ordine che, in tali circostanze, i malati fossero fatti uscire dal seminterrato e lasciati a passeggiare libera­mente per il giardino. I miliziani, o perché li ritenevano aggressivi o perché i matti ispiravano loro una penosa ripulsa, si ritiravano rapidamente. Di uno di questi in­terventi fu protagonista il signor Italo: imbattutosi in un gruppo di miliziani, uno dei quali portava a tracolla la custodia della maschera antigas, fece mostra di esami­narla e chiese loro: “Con tutto il rispetto e se lo ritengo­no opportuno (questo matto era molto cortese e compi­to nel parlare), potrebbero spiegarmi come funziona questo strumento musicale a fiato?”113.

Finalmente Isidoro portò al Padre un documento di identità molto atteso: un semplice foglio su carta inte­stata, recante il timbro del “Comitato-Delegazione del Partito Nazionalista Basco - Madrid” e con il seguente testo: “Chiediamo alle Autorità e alle Milizie di tutti i Partiti del Fronte Popolare di consentire la libera circo­lazione di José Maria Escriba Albas, essendo persona devota al Regime. - Madrid, 23 dicembre 1936 - Per il Comitato (firma)”114.

I nazionalisti baschi non erano del tutto allineati all’i­deologia del Fronte Popolare, benché la speranza di ot­tenere l’autonomia politica li tenesse dalla parte del Go­verno della Repubblica115. Una carta priva di una foto dell’interessato, che non era neppure affiliato al Partito46

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Nazionalista Basco, aveva ben poco valore di fronte al controllo di una pattuglia. Ma almeno don Josemarìa poteva servirsene per parare il primo colpo.

Isidoro, informatore e messaggero del Padre, gli por­tava notizie da via Caracas e dalle prigioni in cui si tro­vavano i suoi figli. Manteneva corrispondenza con quel­li dell’Opera che si trovavano a Valencia e svolgeva altre opere di misericordia116; mentre il Fondatore, dal suo isolamento, unito a Dio nella sofferenza e nella preghie­ra, manteneva vivo il legame con i membri dispersi del­l’Opera. Di quel periodo, in cui si facevano prelievi dal­le carceri117 per le fucilazioni notturne, esistono episodi impressionanti. Tutti avevano la certezza che il Padre avesse strappato i suoi figli dagli artigli della morte a forza di supplicare il Signore. Il caso di Chiqui è uno fra i tanti: si trovava già sull’autocarro con gli altri prigio­nieri che venivano portati alla fucilazione, quando si udì una voce che lo chiamava per nome e gli ordinava di scendere. L’autocarro si avviò verso la morte e Chiqui ritornò nella sua cella118.

Riferendosi a questi eventi, Juan Jiménez Vargas rac­conta che “sino alla fine del 1936 accaddero una serie di episodi dai quali si vede che tutti ci siamo salvati, più di una volta, in modo umanamente inspiegabile. Alcuni di questi fatti avvennero nelle carceri”119. In novembre Juan si trovava nella prigione di Porlier, della quale ve­niva svuotata una galleria dopo l’altra, portando i pri­gionieri alla fucilazione. Il giorno 26 toccò a lui. I pri­gionieri venivano messi in fila e fatti poi salire su un autocarro che li attendeva in strada. Juan, con tre perso­ne davanti a lui, rimase in attesa della seconda spedizio­ne. Il camion ritornò solamente poco prima che facesse giorno. Passò mezz’ora e nessuno diede ordine che par­tisse un’altra spedizione; anzi, i responsabili considera­rono terminata l’operazione e per il momento non pre­levarono più i prigionieri di quella galleria.

L’orazione del Padre fu lo scudo dell’Opera. In un47

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modo o nell’altro, tutti i suoi figli beneficiarono della sua preghiera tenace, instancabile e fiduciosa, fatta in intimità con il Signore.

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Nella casa di cura, il clima di tranquillità e di fiducia che si era instaurato fu ben presto turbato. Era il mese di gennaio 1937 quando Isidoro, che si era impegnato a ottenere l’ordine di scarcerazione di Juan Jiménez Var- gas, riuscì finalmente a farlo uscire dal carcere di Por- lier. Dopo aver trascorso quindici giorni nascosto a casa dei suoi genitori, senza documenti ed esposto al rischio di essere imprigionato di nuovo, fu ammesso, grazie a un intervento del Padre, nella casa di cura120.

Contemporaneamente vi arrivarono altri due rifugiati: un capitano di aviazione e un falangista di Logrono, di nome Alessandro, della famiglia dei Làscaris Comne- no121. La presenza di questi tre nuovi personaggi produs­se una psicosi di timore e di sfiducia. Tra i “pazienti in os­servazione” si fece improvviso silenzio, come in uno stagno di rane al minimo rumore sospetto. Coloro che di solito andavano a confessarsi o a chiedere consigli al sa­cerdote non uscivano più dalla loro stanza. Nessuno pas­seggiava più in giardino. Il dottor Suils, avendo avuto no­tizia di una imminente perquisizione, invitò con fermezza Làscaris ad andarsene e lo stesso fece con José Maria Gonzàlez Barredo e Juan. Per la pace di tutti, e in partico­lare per la sicurezza del Padre, questi tornarono nelle ri­spettive abitazioni. Furono consumate le Sacre Specie che don Josemarìa conservava in camera sua per amministra­re la Comunione quando non poteva celebrare la Messa.

Passarono diversi giorni e, quando ci si rese conto che si era trattato di un falso allarme, l’ottimismo ritornò tra • i “pazienti in osservazione” e nella casa di cura ricomin­ciarono le passeggiate in un clima di fiducia. Tuttavia, quanto accaduto aveva fatto soffrire molto il Padre. Re­cuperata la calma, andò a parlare col direttore, per infor-48

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marlo di quanto era andato ripetendosi in quei giorni: “Io non posso stare in un luogo da cui sono stati scaccia­ti i miei figli”122; lo rimproverò, anche se con serenità, e gli comunicò di aver deciso di trovare rifugio altrove.

In una delle visite che Isidoro gli fece, ormai nel feb­braio 1937, il Padre venne a sapere che il giorno 5 Chi- qui era stato trasferito dal carcere di Sant’Antonio di Madrid al carcere penale di San Miguel de los Reyes, a Valencia. Dopo mesi di silenzio, in cui si era servito di Isidoro per comunicare con quelli che stavano a Valen­cia, il Padre non potè resistere e, presa la penna, scrisse direttamente a loro:

“Madrid, 10 febbraio 1937.Cari amici: avevo molta voglia di scrivervi e, alla fine, oggi approfitto della visita di Isidoro per dargli questa lettera.La mia testa sembra che vada meglio: sto ormai da lun­go tempo in questo manicomio e, anche se a bassa voce, mi consolo pensando che sto rinchiuso qui per il mio be­ne, per ordine di mio Padre; inoltre non dimentico mai che non ci sono guai che durino cent’anni.La mia grande preoccupazione, in questa solitudine, in mezzo a tanti poveri malati come me, sono i miei figli. Quanto penso a loro e allo splendido futuro della nostra famiglia!In questo momento, Chiqui sta in primo piano (se mai il mio cuore potesse distinguere dei piani tra i miei ragaz­zi, tutti ugualmente amati): vedete se per mezzo di qual­che vostra amica potete aiutarlo nella sua attuale e preoccupante situazione.Questo povero pazzo vi abbraccia e vi vuol beneJosemariaScrivete a Isidoro123.

* * ss-

A partire da allora, le porte di accesso all’intimità del Fondatore, per qualche tempo socchiuse, si spalancano,

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mentre la sua anima si espande nella corrispondenza con i suoi figli. Dal febbraio al settembre 1937, quando sarebbe uscito dall’asilo del Consolato dell’Honduras, sono più di 170 le lettere da lui scritte dalla clandesti­nità ai membri dell’Opus Dei. In esse è condensato il vi­goroso ardore del suo spirito. Dagli stretti spazi fra le ri­ghe sfuggono gli affetti del suo cuore, che sostengono nella fede i suoi figli e alimentano le loro speranze nel futuro dell’impresa divina in cui tutti erano impegnati.

Il Fondatore non poteva rimanere più a lungo inattivo nella “Casa di Riposo e di Salute”. L’espulsione di due dei suoi gli appariva un intollerabile martirio e chiedeva a Dio di poter abbandonare quanto prima la casa di cu­ra. José Maria Gonzàlez Barredo, per mezzo di un suo amico che a sua volta lo era del genero del Console del- l’Honduras, fu accolto nella sede del Consolato di quel Paese. Una volta entrato, egli ottenne che vi entrassero anche il Padre e Santiago Escrivà124.

Alla vigilia del trasferimento nel nuovo rifugio, il Pa­dre scrisse ancora a quelli di Valencia:

“Carissimi amici, sono appena andato a trovare, nel ma­nicomio, il mio povero fratello Josemarìa e, sapendo quanto vi interessate a lui, praticamente vi racconterò solo di lui.C’era da aspettarsi che finisse in una casa di salute perché, dall’ottobre 1928, era completamente pazzo: sapete che cosa dice di essere? Un asinelio. Meno male che non si mette a ragliare, anche se il 9 gennaio, quando ha com­piuto 35 anni, sosteneva che erano 35 ragli. E di ottimo umore: pieno di ottimismo, sicuro che la sua idea fissa sarà ben presto - dice - una meravigliosa réaltà. Pensa continuamente ai suoi figli e, attaccato com’è alla tradi­zione - è proprio matto -, li benedice, ciascuno in partico­lare, varie volte al giorno. Ora gli viene in mente - sa che c’è una guerra - che il suo Chiqui, al quale manca solo un anno per diventare ingegnere minerario, potrebbe guarire e mettersi a lavorare con qualche architetto nei lavori di50

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fortificazione. Al piccolo Orologiaio (un suo amico che gli altri non conoscono) dà l’incarico di cercare, con mol­te raccomandazioni, un medico che curi il malato.Mi ha incaricato di fare gli auguri a Chiqui per il suo onomastico (così mi ha detto e così scrivo) e ha aggiun­to: e per la sua festa di rinnovo.In verità, il povero Josemaria è matto da legare: ogni giorno sempre di più.Saluti molto affettuosi, e perdonate questa lettera assurda. Un forte abbraccio da MarianoMadrid, 12 marzo 1937125.Questa lettera contiene esempi di quella sorta di cifra­

rio che utilizzò a motivo della censura. Eliminando gli elementi che possono rappresentare un rischio per il de­stinatario - e rischio grave era la corrispondenza con un sacerdote - , ne rimane chiaro il senso. La chiave è molto semplice: consiste nel mettere in bocca a un suo ipotetico fratello - il pazzo Josemaria - quanto desidera comuni­care loro. Questo sdoppiamento, in cui egli vede se stes­so in terza persona, fa parte degli artifici stilistici usati nelle Caterine116. Per associazione d’idee, il tema della pazzia - pazzia d’amore divino - gli consente di espri­mersi liberamente e apparentemente a sproposito. Così stabilisce, in parallelo, un duplice ordine di riferimenti, quello della realtà materiale e comune e quello della realtà spirituale raffigurata. E finirà poi con l’adottare l’atteggiamento un po’ svampito di un nonno, che gli consentirà, con senile debolezza, di raccontare ai suoi “nipoti” ogni genere di “bambinate” e di cose divine127.

È comunque sorprendente che non sia mai incappato nella censura di guerra. Evidentemente, nessuno si prese la briga di esaminare con cura la corrispondenza di un nonno che, se non altro, poteva destare sospetti per il suo strano modo di esprimersi. Il Padre era perfetta­mente al corrente dei pericoli ai quali si esponeva e Juan Jiménez Vargas glielo ricordava continuamente, ma il

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suo affetto per la famiglia dell’Opera passava al di so­pra di tutti i rischi. Le sue lettere viaggiavano sotto la tutela della Madonna: nella corrispondenza del tempo di guerra e anche in seguito egli utilizzò il nome di Ma­riano, uno di quelli con cui era stato battezzato battez­zato, in segno di devozione a Maria.

4. Nel Consolato dell’HondurasIl 14 marzo lasciò la casa di cura, provvisto di un certifi­cato medico di questo tenore:

“Madrid, 14 marzo 1937. In data odierna esce da que­sta Casa di Cura il signor José Maria Escribà Albàs. Al­lo stato attuale non è completamente guarito, per cui gli viene proibito ogni genere di lavoro, preoccupazioni, viaggi e qualsiasi altro tipo di attività.Nella Casa di Cura era accompagnato da suo fratello Santiago, di 15 anni, che è opportuno che continui a sta­re con lui.Il Direttore Dott. A Suils - matricola 4245”128.Celebrata la santa Messa e distribuita la Comunione,

il sacerdote - nel racconto della marchesa de las Torres de Oràn - diede loro alcune cartine da sigarette, piegate in modo che essi potessero consumare, senza toccarle, le Sacre Specie che rimanevano e comunicarsi così nei giorni successivi alla sua partenza129.

Dalla protezione del Dott. Suils passò così a quella di Pedro Jaime de Matheu Salazar, diplomatico del Salva­dor, che in quel periodo svolgeva l’incarico di Console Generale Onorario della Repubblica dell’Honduras. La residenza consolare si trovava al 51 bis (poi 53) del Pa- seo de la Castellana. L’edificio mostrava all’esterno, gra­zie alla facciata, una signorilità di cui all’interno non c’era traccia. Il vestibolo di ingresso, al primo piano,52

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pur essendo ampio, aveva ben poca luce e alcuni mobili vecchi gli conferivano un’aria di abbandono. Sulla sini­stra, attraverso una porta a cristalli piombati, si entrava in un grande salone in disuso, che aveva un ampio bel­vedere con vista sul Paseo de la Castellana; ma affac­ciarsi sulla strada era tassativamente proibito. Contiguo al salone c’era un altro locale, riempito di mobili antichi e moderni di buona fattura. Era evidente che la famiglia del Console vi aveva ammucchiato le sue migliori mas­serizie per fare posto ai rifugiati negli altri locali dell’ap­partamento. Accanto al locale di passaggio dal vestibolo c’era anche un’ampia stanza da bagno, l’unica di cui di­sponessero i rifugiati130.

Dall’altro lato del vestibolo la disposizione era diver­sa. Un ampio corridoio, con porte su entrambi i lati, da­va su altrettante camere, occupate da gruppi o famiglie di rifugiati. All’inizio, quando vi giunsero il Padre e suo fratello in una macchina con la bandiera dell’Honduras, non c’era una camera disponibile. Il grande salone, che serviva da sala da pranzo, aveva un enorme tavolo ro­tondo, che tutte le sere diventava un “letto rotondo”, quando i rifugiati senza camera propria stendevano i materassi sotto il tavolo.

Tre giorni dopo il suo arrivo il Padre scrisse di nuovo ai suoi figli di Valencia, per avvisarli del nuovo rifugio:

“Ho visto il povero Josemarìa e mi ha assicurato che non si trova più in manicomio (è la sua mania del mo­mento) e che si è messo in un ginepraio. È molto conten­to. Il Dottore me lo lascia vedere ogni giorno”131 (vale a dire che ogni giorno celebrava la santa Messa).Nell’ultima settimana di marzo si recarono a fargli vi­

sita al Consolato la signora Dolores e Carmen:“È venuta a trovarmi la nonnina; e prima è venuta an­che mia sorella; immaginatevi la gioia - scriveva a quelli

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di Valencia - dopo tanto tempo che non ci vedevamo. Che cosa sarà quando il povero pazzo potrà riabbraccia­re i suoi figli!”132.L’impressione che l’incontro produsse sulle due donne

fu sconcertante, pur nella gioia, perché al Consolato la signora Dolores riconobbe suo figlio soltanto dalla vo­ce, l’unica cosa che in lui non era cambiata133. Un così breve incontro non servì che a turbare il suo cuore; alla gioia della visita seguì la tristezza della separazione:

“Sapete - so di essere fuori dal tempo - che ho molta vo­glia, davvero molta, di riabbracciare la nonnina e che forse sarà possibile? L’ho vista per dieci minuti, negli ulti­mi nove mesi: e ora mi sembra di volerle ancor più bene, come pure a zia Carmen, perché hanno difeso molto be­ne le mie cose e perché, quando le ho viste, le ho trovate molto sciupate, invecchiate. Oltretutto, chi sa mai se sarà necessario chiedere loro qualche altro sacrificio? ”134.L’idea di cercare la collaborazione, diretta e piena di

dedizione, della signora Dolores negli apostolati dell’O- pera si farà rapidamente strada nella sua testa, perché la settimana successiva insisteva con quelli di Valencia:

“Vi chiedo di ricordarvi della nonnina, perché lei si ri­corda molto di voi; e inoltre perché le circostanze l’han­no messa in mezzo ai suoi nipoti... e chissà mai che sia destinata a dedicare loro, come faccio io, il tempo che le resta da vivere! È una cosa a cui pensare con calma”135.Nell’incontro con sua madre le chiese di tenersi ancora

il famoso baule, che conteneva l’archivio dell’Opera136. Alcuni giorni prima di uscire dalla casa di cura lo aveva spedito in via Caracas, dicendo a Isidoro di portare alla nonna tutte le carte e le lettere e di custodirle nel baule.

Ma arrivò il momento in cui nel baule non ci stavano più altre carte. Allora la signora Dolores cominciò a to­54

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gliere lana dal materasso e a sostituirla con le carte. E Santiago racconta, caricando un po’ le tinte, che “nel materasso sul quale dormiva mia madre c’erano più car­te che lana”137. Non ci furono perquisizioni. Solo di quando in quando facevano la loro comparsa in casa i miliziani per chiedere coperte e materassi per il fronte. In tali occasioni, la nonna si metteva rapidamente a let­to, simulando una malattia.

Nel migliore dei casi, la vicinanza con i miliziani era cosa da far tremare i polsi. Di fronte alla casa avevano il Monastero della Visitazione, trasformato ora in caser­ma della brigata anarchica Spartacus, e una ceka della C.N.T.; non molto lontano c’era la ceka dell’ispettorato Generale delle Milizie Popolari, che aveva una dipen­denza in via Caracas. In quei giorni, poco tempo dopo che il Padre si era rifugiato nel Consolato dell’Hondu- ras, la signora Dolores fu costretta ad abbandonare per qualche ora il baule e ad allontanarsi di là perché, in uno degli scontri fra comunisti e anarchici, ci fu il peri­colo che facessero saltare la polveriera della brigata Spartacus; se così fosse stato, si sarebbe portata all’altro mondo mezzo quartiere138.

La marchesa de las Torres de Oràn racconta, rievocando la permanenza di don Josemarìa nella casa di cura: “Par­lava con entusiasmo dell’Opera. Non ricordo che parlas­se di altri argomenti. Aveva una grande premura di usci­re di là, poiché diceva che in quel luogo non poteva lavorare”139. Con questo pensiero entrò nel Consolato; elo mantenne, visto che alcuni giorni dopo scrisse dal suo nuovo rifugio ai suoi figli: “(...) a Madrid non c’è alcun bisogno di quel poveretto, pazzo e stranito; in un altro luogo potrà continuare a diffondere la sua pazzia”140.

Il Fondatore aveva due possibili soluzioni per conti­nuare a fare l’Opera. La prima, una specie di suicidio, era di ritornare a lavorare apertamente, con enorme ri­

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schio per la sua vita. L’altra era di restare nel Consolato attendendo il momento di poter uscire per unirsi ai suoi figli nell’altra zona del Paese, dove i sacerdoti non erano perseguitati. Il temperamento del Padre non era certo fatto per stare rinchiuso e inattivo. Gli ripugnava profondamente imitare la condotta di Capitan Avana, pronto a far imbarcare i suoi seguaci per avventure peri­colose, mentre lui se ne stava tranquillamente sulla ter­raferma (il paragone non reggeva, poiché il rischio che un sacerdote correva standosene per strada era altissi­mo. Inoltre, la sua condizione di rifugiato era frutto del­le circostanze e non di un suo capriccio).

“Non mi è mai piaciuto - scrisse a Isidoro - il modo di fare del Capitano Arana. Sovente, per esempio poco fa, mi viene il pensiero di uscirmene in strada. Ma subito mi sovviene la realtà e penso che mi ritroverei, tu sai che è successo per alcuni giorni, senza sapere dove dormire, nascondendomi come un criminale (...). Per il mio carat­tere, questa vita da rifugiato è non piccola tortura...; tut­tavia non vedo altra soluzione. Pazienza e, se alla fine ce ne sarà la possibilità, me ne andrò; se no, aspetterò rin­chiuso che passi la bufera”141.La dispersione dei membri dell’Opera e le vicissitudini

e peripezie che tutti dovettero affrontare senza poter de­cidere il proprio destino rendevano imprescindibile un lavoro di coordinamento, che sarebbe stato ancor più necessario se un giorno il Fondatore avesse lasciato Ma­drid. Quale sarà stata quindi la sua sorpresa quando Isi­doro gli prospettò l’opportunità di chiedere all’Amba- sciata argentina di essere messo in condizione di andarsene all’estero, nella sua qualità di cittadino nato a Buenos Aires142.

Per iscritto, affinché ci potesse pensare con calma, il Padre gli espose “i prò e i contro della cosa”. In primo luogo, per la sua condizione di straniero, non avrebbe56

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dovuto temere persecuzioni e poteva fruire della libertà che mancava ai suoi fratelli, per occuparsi delle neces­sità dell’Opera. E non doveva dimenticare che alcuni si trovavano lontani da Madrid. Quelli di Valencia non sa­rebbero forse rimasti isolati se lui se ne fosse andato al­l’estero? Se invece rimaneva nella capitale, avrebbe po­tuto ricevere e orientare coloro che fossero passati per Madrid, coordinando i rapporti epistolari di tutti. In fin dei conti, che pericoli poteva correre? “Certamente - ra­gionava don Josemaria - gli stessi che avrebbero dovuto affrontare le donne e i bambini di Madrid, compresa mia madre: se li ritenessi così terribili, mi credi capace di abbandonare mia madre e Carmen?’ Sì, forse, c’è il pericolo della fame...”.

Fatte queste considerazioni, lasciava a Isidoro la li­bertà di decidere: “Sappi che la visione che ho del tuo problema non ti deve condizionare: tu agisci con la mas­sima libertà (...). Se vedi le cose in un altro modo, dim­melo: io voglio solo non sbagliare, fare quello che al momento della mia morte vorrei aver fatto”143.

La decisione che prese Isidoro, di non abbandonare il proprio posto nella capitale, fu nobile e distaccata: “Non mi aspettavo altro da te, Isidoro. La soluzione che hai dato al tuo problema è quella che vuole il Signore, senza alcun dubbio”, lo rassicurò il Fondatore144.

Isidoro aveva ancora vivo il ricordo dell’ultima festa di san Giuseppe, il 19 marzo, quando lui e Manolo Sainz de los Terreros, appena uscito di prigione, erano stati invitati a pranzo in via Caracas. La signora Dolo­res e Carmen volevano celebrare in famiglia una festa piena di ricordi per le persone dell’Opera. Quel gesto implicava grandi sacrifici per le due donne che, proba­bilmente, nei giorni successivi dovettero digiunare. Quella volta si erano fuse simbolicamente le due fami­glie del Fondatore145.

Nel frattempo, Juan Jiménez Vargas aveva ricevuto dall’Ordine dei Medici il decreto di arruolamento come

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tenente medico in un battaglione della brigata Sparta­cus. D’accordo con il Padre, avrebbe cercato di passare nella zona nazionale non appena arrivato al fronte del Jarama. Ci provò varie volte, ma senza vera volontà di successo. Qualcosa dentro di lui faceva forte resistenza: “Non c’era un pensiero preciso ma, al momento di ten­tare, mi sentivo incapace di passare dall’altra parte e di lasciare il Padre a Madrid”146.

In quei giorni attendevano la visita di Ricardo Fernàndez Vallespìn, che veniva a Madrid con tre o quattro giorni di permesso, poiché dipendeva dagli uffi­ci militari delle Fortificazioni a Valencia, dov’era stret­tamente vigilato. Dopo lo scoppio della guerra, Ricardo si era affiliato alla U.G.T., il sindacato socialista, grazie alla garanzia di un architetto comunista della sua leva, e ultimamente era stato destinato a dirigere le opere di fortificazione sul fronte di Teruel. L’idea era che venisse accolto come rifugiato nel Consolato; sarebbe entrato sotto il nome di Ricardo Escrivà, facendosi passare per un parente del Padre. Ma quando arrivò a Madrid ed espose al Padre il suo piano di passare alla zona nazio­nale attraverso il fronte di Teruel, lasciò ad altri il posto destinato a “Ricardo Escrivà”. Così si ebbe uno scam­bio delle parti, perché Juan, invece di disertare, ritornò a Madrid e fece il suo ingresso nel Consolato come “Ri­cardo Escrivà”, mentre Ricardo passò pochi giorni do­po nell’altra zona della Spagna, attraverso il fronte di Levante147.

Il Padre non nascondeva la propria costante preoccu­pazione: “Sono angosciato, non avendo notizie dei miei figli di fuori: che voglia ho di vedere i miei ragazzi!”. Lo affliggeva soprattutto la sorte di Chiqui, in prigione a Valencia. Insisteva affettuosamente con gli altri perché ne avessero cura, “perché Josemarìa è in ansia se la sa­lute del bimbo non migliora al più presto”148: cioè, se non esce presto di prigione.

Il Padre stava con l’animo sospeso, più che per la sa-58

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Iute del corpo, per il pericolo che correvano la salute dell’anima e la perseveranza nella vocazione. Protegge­va i membri dell’Opera con la sua orazione, offrendosi in espiazione per pagare al posto loro, se fosse stato necessario:

“Vale tanto la salute! - scriveva loro È un fatto che Josemarìa ha detto e dice tutti i giorni al suo Amico di rifarsi su di lui, ma di proteggere i suoi figli dai pericoli di questa catastrofe. Ed è sicuro che la perseveranza sarà unanime”149.Aveva davanti agli occhi i patimenti di tanti innocenti,

dei numerosi cristiani privati dei sacramenti, di coloro che soffrivano in silenzio nelle carceri; e la durata della guerra: “Nove mesi... sono tanti, Signore”150.

Proprio allora, dopo nove mesi di guerra e di rivolu­zione, l’opinione pubblica internazionale cominciò uffi­cialmente a venire a conoscenza delle sanguinose atro­cità perpetrate in Spagna. Crimini che Papa Pio XI rivelò a tutto il mondo nell’enciclica Divini Redempto- ris, del 19 marzo 1937, che condannava gli errori e i mali derivati dal marxismo: il flagello comunista si è scatenato in Spagna, affermava, “con una violenza più che furibonda. Non si è abbattuta l’una o l’altra chiesa, questo o quel chiostro, ma quando fu possibile si di­strusse ogni chiesa e ogni chiostro e qualsiasi traccia di religione cristiana, anche se legata ai più insigni monu­menti d’arte e di scienza. Il furore comunista non si è li­mitato a uccidere vescovi e migliaia di sacerdoti, di reli­giosi e religiose (...), ma fece un numero molto maggiore di vittime tra i laici di ogni ceto, che fino al presente vengono, si può dire ogni giorno, trucidati a schiere per il fatto di essere buoni cristiani o almeno contrari all’a­teismo comunista”151. Alcuni mesi dopo, quarantotto Vescovi spagnoli firmarono una lettera collettiva sulla persecuzione religiosa condotta in Spagna e sulla posi­

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zione ufficiale della Gerarchia ecclesiastica di fronte a tali fatti. La lettera è in data 1 luglio 1937 e si rivolge ai Vescovi di tutto il mondo: “La Chiesa non ha voluto questa guerra e non l’ha cercata (...); chi l’accusa di aver provocato questa guerra o di aver cospirato per essa, o anche di non aver fatto quanto fosse in suo potere per evitarla, non conosce o falsifica la realtà”152.

La rivoluzione marxista si accanì contro la Chiesa, cercando di sradicare il cristianesimo. “La prova più eloquente del fatto che la distruzione dei templi e l’ucci­sione sistematica e in massa dei sacerdoti fu una cosa premeditata sta nel numero spaventoso (...), intorno a seimila. Si diede loro la caccia con i cani, li si inseguì sui monti; furono ricercati con impegno in ogni nascondi­glio. Furono uccisi senza alcun processo; sul posto, nella maggior parte dei casi senz’altro motivo che la loro fun­zione sociale”153.

5. “La storia della buona pipa”Il modo più sicuro per mettersi in salvo era chiedere asilo alle Ambasciate. Fin dai primi giorni dell’insurrezione, quando a Madrid le milizie avevano scatenato il terrore, le sedi diplomatiche accolsero centinaia di fuggitivi, fra i quali c’era un’alta percentuale di sacerdoti e religiosi. Poi, nell’autunno del 1936, quando ci fu una recrudescenza della furia persecutoria e iniziarono le fucilazioni di mas­sa, non solamente gli edifici ufficiali delle rappresentanze diplomatiche, ma anche le loro pertinenze e dipendenze si riempirono di rifugiati. Dopo alcuni mesi era tale l’assem­bramento delle persone in questi luoghi che, di fronte al­l’evidenza del prolungarsi della guerra, gli ambasciatori dei diversi Paesi cercarono di ottenere l’evacuazione dei rifugiati, che nella capitale superavano già i 13.000154.

Il 27 marzo 1937 il governo repubblicano emanò fi­nalmente le condizioni generali per l’evacuazione dei ri­60

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fugiati dalle sedi diplomatiche, subordinata all’impegno di “non ammettere in seguito, quali che fossero le circo­stanze, nuovi rifugiati”. Secondo gli accordi i capi delle varie rappresentanze diplomatiche dovevano chiedere l’evacuazione con liste chiuse e dettagliate, con le foto­grafie dei rifugiati155.

Il Consolato Generale o Legazione dell’Honduras of­friva una protezione di seconda classe. Non era sede di una missione diplomatica ma solo di un ufficio consola­re, nel quale abitava Pedro Jaime de Matheu, lo status del quale, agli effetti della trattativa, non andava oltre quello di Console Generale Onorario156. Nei mesi di feb­braio e marzo 1937 erano uscite dalla Spagna spedizioni organizzate dalle Ambasciate dell’Argentina e del Messi- co, con centinaia di persone. Don Josemarìa credeva cheil trasferimento al Consolato dell’Honduras gli avrebbe aperto le porte per uscire da Madrid. Era un pensiero ra­gionevole, ma erroneo, come poi si sarebbe visto.

Avevano lasciato la casa di cura del dottor Suils con l’idea di iscriversi nell’elenco che avrebbe preparato il Consolato dell’Honduras. Dopo che don Josemarìa, il fratello Santiago e Juan avevano anticipato il prezzo del viaggio, furono loro assegnati rispettivamente i numeri 23, 92 e 35. Ma ben presto il Padre ebbe il sospetto che la faccenda si arenasse, poiché nella lettera a Isidoro del20 aprile gli chiese di andare a salutare l’Ambasciatore del Cile e di consegnargli una nota per informarlo della loro iscrizione nell’elenco delle persone da far uscire. “Mi dicono - spiegava a Isidoro - che verrà fatta uscire una spedizione ogni settimana: se il Signor Ambasciato- re ci richiedesse, la prossima settimana potremmo esser fuori. In caso contrario... chi lo sa!”157.

Il ricorso arrivava troppo tardi, perché Aurelio Nunez Morgado, Ambasciatore del Cile, fu costretto a lasciare la Spagna quella stessa settimana a causa dei difficili rapporti con Àlvarez del Vayo, Ministro del governo re- pubblicano158.

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Alla fine di aprile il Fondatore era convinto che fra non molto avrebbe lasciato il suo rifugio: “Nulla di cer­to, ma sembra imminente”. Tuttavia, otto giorni dopolo assalirono i dubbi, poiché l’unica possibilità rimasta sembrava dipendere da quanto sarebbe riuscito a fare José Maria Albareda, il giovane professore che aveva frequentato la Residenza di via Ferraz: “Di qui non ce ne andremo mai, se José Maria non smuove la questione del Cile; non so quando se ne andrà Josemarìa: forse presto, forse tardi, forse... mai”159.

La speranza che il Consolato dell’Honduras fosse un trampolino adatto per saltarsene all’estero risultò falla­ce. Quel rifugio divenne una trappola senza uscita; colo­ro che non lo abbandonarono volontariamente vi rima­sero rinchiusi fino al termine della guerra civile. Oggi è facile saperlo, ma in quel momento chi avrebbe potuto indovinarlo?

La settimana dopo, la prima di maggio, don Jose­marìa stava almanaccando altre possibili soluzioni: “Il Cile? Il Cile o la Cina..., che importa? Insistiamo”160. Isidoro insistette presso l’Ambasciata del Cile, dove gli dissero che le loro liste erano chiuse ed era impossibile una nuova iscrizione poiché erano già state inviate al governo. Quando lo seppe, il Padre non si dette per vin­to e scrisse: “Cile: badate che quello che vi hanno detto è lo stesso che dicono qui, per scoraggiare quelli che in­sistono (...) Se vogliono, lo possono fare-.t proprio il lo­ro mestiere sistemare le cose più difficili!”161.

Le ragioni diplomatiche non bastavano a disarmare il Padre, che cercò subito dopo di far breccia nell’Amba­sciata della Turchia, non senza aver messo in guardia i suoi figli contro la scusa diplomatica che “le liste sono ormai chiuse”. Fece fare un nuovo tentativo162, tornan­do a esortare i suoi figli di Madrid affinché insistessero con ostinazione, avendone o no l’occasione (gli vennero forse in mente i consigli di S. Paolo a Timoteo?).62

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“Oggi non ho altro argomento da trattare che questo: evacuazione, evacuazione ed evacuazione. Insistete, mo­lestate, in modo opportuno e inopportuno: siate insi­stenti. Che cosa abbiamo a che vedere noi con queste lotte? Dobbiamo andarcene da Madrid e dalla Spagna: è chiara la mia intenzione? So che fate quello che potete, e ve ne sono molto grato, ma bisogna che facciate più di quanto potete”163.Le sue lettere della metà di maggio contengono quasi

solo interrogativi sulla possibilità di lasciare il consolato. Ma i suoi commiati non sono esenti da un certo umori­smo: “Sabato, 15 maggio 1937. Dal profondo di tutte le profondità!”164. E quando alla fine del mese scrisse a Va­lencia, la lettera è piena di un sano scetticismo: “È triste sentirsi stranieri e sfollati senza che mai avvenga l’eva­cuazione. Di nuovo (sembra la storia della buona pipa) pare che torni a profilarsi la possibilità della partenza (...) Io, francamente, se non vedo non credo”165.

In giugno sembrò rinascere la speranza e i riferimenti alla possibilità di andarsene tornarono a essere presenti e insistenti nelle lettere del Padre: “Bisogna insistere quanto più possibile col Cile o con la Svizzera e bisogna procurarsi i documenti. Mettetecela tutta. Qui non si può andare avanti. Non ci accoglierebbero in Svizzera o in Turchia o in qualsiasi altro posto?”166.

Ventiquattro ore dopo era svanita ogni illusione: “Addio speranze!”167. Le speranze erano svanite a tal punto che alla metà di giugno il Console dell’Hondurasli informò che da parte sua non avrebbe più fatto alcun passo per l’evacuazione. Con questo intendeva evitare illusioni e delusioni ai rifugiati. Forse era anche un mo­do di difendersi, dato che il Console non osava rivelare loro la gravità della situazione. Egli era veramente in una situazione senza uscita. Intanto era dubbia, debole e precaria la competenza di un Console Onorario a ne­goziare con un Ministro del Governo; inoltre il Console

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si era legato le mani quando aveva ufficialmente inviato al Governo l’elenco degli internati. Esso comprendeva un totale di 32 persone, comprese donne e bambini. Se si fosse scoperto che il numero delle persone alle quali era stato accordato asilo nel Consolato dell’Honduras era tre volte superiore, ne sarebbero venuti guai seri. Perciò era preferibile non muoversi per evitare sgrade­voli sorprese168.

Poco dopo, il 29 giugno, in occasione dell’onomastico del Console, i rifugiati gli consegnarono tre fogli pieni di firme, recanti questa intestazione:

“A S. Ecc.za il Sig. Pedro Jaime de Matheu- i rifugiati, con gratitudine -

Madrid, 29 giugno 1937”.I tre fogli comprendevano 88 nomi; il primo di essi

era quello di Juan Manuel Sainz de los Terreros, colui che con Juan Jiménez Vargas aveva ricevuto dal Padre l’assoluzione nel solaio169.

Ma don Josemarìa non si dava per vinto e non voleva credere che tutto fosse perduto. Si propose un nuovo obiettivo: ottenere passaporti argentini, pur sapendo che anche quella sarebbe stata una “storia infinita”: “Jose­marìa? - si chiedeva retoricamente in una lettera a quelli di Valencia - Sembra che riappaia una possibilità che se ne vada. Questa è... la storia della buona pipa”170.

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Quando don Josemarìa giunse al Consolato dell’Hon­duras, lui e i suoi compagni fecero i nomadi per un lun­go periodo, in transumanza diurna per vestiboli e corri­doi; al momento di coricarsi si accampavano nella sala. Sotto al tavolo, che di giorno era quello della sala da pranzo, mettevano i materassi l’uno accanto all’altro e seminavano attorno gli oggetti più disparati. “Dovreste64

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vedere, ogni sera, il daffare per trasformare la sala da pranzo in un letto più o meno rotondo!”171.

Quel salone senza mobili veniva disseminato di tazze, coperte, libri e tovaglioli, valigie, quadri, boccali, strofi­nacci per le pulizie e oggetti per la cura personale. “Le sedie? Provengono da diverse famiglie; ce ne sono anche da cucina; ma di sera le mettiamo nella stanza da ba­gno. La stanza da bagno?...”172. La stanza da bagno, l’unica di cui disponevano i rifugiati di quel piano, era utilizzata da un trentina di persone e i turni mattutini erano rigidamente regolamentati.

Con il Padre, Santiago e José Maria Gonzàlez Barredo c’erano anche Àlvaro del Portillo, giunto la sera prima, ed Eduardo Alastrué, giunto il giorno successivo. Eduar­do, che faceva pure parte della famiglia dispersa, era sta­to in carcere in una ceka di via Fomento nel mese di no­vembre ed era stato messo inspiegabilmente in libertà quando ormai era certo che lo avrebbero ucciso173.

Fino alla metà di maggio non ebbero a disposizione una camera tutta per loro. Poi fu assegnato loro un lo­cale, alla fine del corridoio, che probabilmente un tem­po era stato un deposito di carbone, accanto alla porta della scala di servizio. Era stretto e col pavimento di mattonelle, che la sera scompariva sotto i materassini e le coperte. Di giorno, opportunamente arrotolati e ac­costati alla parete, i materassini servivano per sedersi. Una finestra angusta dava su un cortile interno, così buio che durante il giorno bisognava tenere accesa la lampadina che pendeva dal soffitto, fioca, nuda e soli­taria. In questo triste e angusto tugurio il Padre orga­nizzò la vita dei suoi. La descrizione che fece della stan­za, per far sorridere quelli di Valencia, è soffusa di humour, ma esatta e realistica:

“Non si possono stendere i cinque materassi di nostra proprietà. Ne bastano quattro per tappezzare tutto il pavimento. Vi devo descrivere casa nostra? Quando si

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toglie l’accampamento, in un angolo ci sono, ripiegati, con le coperte e i cuscini all’interno, due materassi, uno sull’altro. Un po’ di spazio. I due materassi di José B. e di Alvaro sono sistemati allo stesso modo e sopra di lo­ro, ben arrotolato e avvolto in un funebre panno nero, c’è il materassino di Eduardo. Segue il calorifero - con cinque elementi tisici - che sostiene un’asse di legno: ta­volo per le vettovaglie e per sei tazzine, più o meno pu­lite, che servono per tutti gli usi possibili. Poi una fine­stra che dà su un cortile buio, ma proprio buio. Sotto la finestra una cassa da imballaggio, con alcuni libri e una bottiglia per i banchetti. Sopra la cassa, due piccole va­ligie (su una di esse scrivo, tenendola sulle ginocchia; ho scritto in mille diverse posizioni... piene di gravità... per i muscoli, ma completamente ridicole e instabili). Accanto alla cassa, altre due valigette, accostate alla pa­rete in un angolo, che sostengono una valigetta e una scatola di latta, dove teniamo i vari arnesi per la pulizia personale. Dietro le valigie, la porta. Anche se blocchia­mo la porta, non vi respingo dalla stanza (potreste en­trare quando volete: la porta non si chiude, è rotta). Non vi resta che ammirare la corda, che taglia un ango­lo della stanza e serve per appenderci cinque asciuga­mani; e il bel paralume di autentica carta di giornale che questo nonno, in un momento di buonumore, ha messo attorno alla lampadina nuda e cruda che pende dal sudicio filo. E che non vi venga in mente di toccare l’interruttore della luce, perché poi accendere diventa un’impresa: è rotto. Basta così?”174.Distribuite nelle varie stanze del corridoio alloggiava­

no più di trenta persone (nelle stanze del piano superio­re ve n’erano altre sessanta)175. Con una simile densità di popolazione, la convivenza, nella strascicata monoto­nia delle ore, diventava difficile. La vita del rifugiato era priva di interessi, a parte la speranza di qualcosa che non arrivava mai: uscire di lì o che finisse la guerra. Di conseguenza, lo scoramento alterava la resistenza ner­vosa del rifugiato, fino a immergerlo in una profonda66

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apatia. In quell’atmosfera mancava persino la forza ne­cessaria per ammazzare il tempo, che trascorreva con inesorabile lentezza, lasciando nello spirito la persisten­te orma del tedio e del vuoto. E se anche un ricordo o una parola risvegliavano momentanee scintille di inte­resse, accendendo uno sprazzo di odio o di ribellione, ben presto esse si estinguevano.

Nella convivenza forzata, neppure le relazioni sociali erano gradevoli e tranquille. Si verificavano continui screzi, esplodevano lamentele o recriminazioni. Tutti, privi della disciplina che dà il lavoro, si dedicavano, co­me animali in gabbia, a rimuginare sulle proprie nume­rose preoccupazioni e non di rado finivano col non ca­pire più niente. Le coscienze si annebbiavano. Alla fine, quasi tutti erano dominati da una duplice ossessione: la fame e la paura176.

In un primo momento, la protezione di una sede di­plomatica significava aver superato il rischio di deten­zione o il pericolo di morte. Ma poi, a poco a poco, so­praggiungeva uno spaventoso senso di insicurezza che attanagliava l’immaginazione. Nel caso del Consolato dell’Honduras, i rifugiati non potevano dimenticare che non si trovavano sotto la sicura protezione della bandiera di una sede diplomatica e della sua Ambascia­ta, bensì in un Consolato Generale, per cui le voci di un possibile assalto e l’insufficiente garanzia dell’asilo ne accrescevano la paura. Tanto più quando giunse la no­tizia della violazione del Consolato del Perù, che avven­ne nella notte tra il 5 e il 6 maggio 1937; le autorità di Madrid inviarono l’esercito nei locali del Consolato e fecero prigionieri tutti i rifugiati, in totale 300 spagnoli e 60 peruviani177.

Questa notizia provocò una crisi di panico collettivo in un gruppo di rifugiati del Consolato dell’Honduras. Temevano che fosse in pericolo la loro sicurezza nel ca­so in cui don Josemarìa, che celebrava la Messa quasi ogni mattina nel vestibolo dell’appartamento, fosse de­

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nunciato da qualcuno e arrivasse la polizia178. Neppure il Console, a quanto riferisce la figlia, si riteneva al sicu­ro: “Le persone avevano paura di venire compromesse per cui, da quando mio padre gli disse che era pericolo­so celebrare la santa Messa, la celebrava sempre nella loro stanza”179.

Al mattino presto, quando gli altri rifugiati non si era­no ancora alzati, il Padre predicava la meditazione ai suoi. “Le sue parole - ricorda uno degli ascoltatori -, al­cune volte serene, altre volte impetuose e commosse, sempre luminose, discendevano su di noi e sembrala che si posassero sulla nostra anima”180. Commentava il Vangelo, parlava loro della persona e della vita di Cristo e tutti si preparavano per assistere alla Messa.

Poi il sacerdote appendeva alla parete un crocifisso e stendeva i corporali su una valigia. Terminata la Mes­sa, le Sacre Specie non consumate erano conservate in un portafoglio, che veniva tenuto ogni giorno a turno da uno di loro, per poter comunicare altre persone o per consentire a Isidoro di distribuire la comunione ai membri dell’Opera che si trovavano fuori dal Consola­to. Nella povertà di quella stanzetta la Messa aveva l’intimità di un’antica catacomba. Nel raccontarlo a quelli di Valencia, con semplice e festosa naturalezza, il Padre aggiungeva gli ingredienti necessari per difender­si dalla censura:

“Ed ecco, miei cari, che il signor Emanuele mi invita a pranzo con la famiglia. E noi andiamo. Come no, con la fame che abbiamo} Il fatto è che, con la difficoltà di la­sciare Madrid, non c’è nulla di quello che in altri tempi ritenevamo necessario. Oggi, e così negli altri giorni, non essendoci un tavolo, lo si è improvvisato con una cassa di legno che deve aver contenuto arance. Su di es­sa, una, due o tre valigie. Poi una salvietta, non proprio pulita - povero signor Emanuele! - e due più piccole, molto comuni. Abbiamo fatto in modo che il banchetto

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fosse presieduto da un ritratto del padrone di casa, bel­lamente appeso alla parete con l’aiuto di un ago. Quan­do tutto si è concluso, nonostante la penuria, ci è avan­zato pane per alcuni giorni. E questi ragazzini si sono comportati come un’associazione a delinquere: sembra incredibile, ma mi hanno rubato il portafoglio, il piccolo portafoglio africano che mi aveva portato Isidoro, e, per non litigare tra loro, lo conserva ogni giorno uno, con un turno rigoroso. E io sopporto, quasi avessi la testa fra le nuvole”181.Per qualche tempo avevano tenuto riposto il Santissi­

mo (‘TAmico”) nel vestibolo, in un mobile chiuso a chia­ve (“la madia del Pane”). Verso la fine di aprile, don Jose- maria, che era bloccato a causa di un reumatismo e non poteva andare a fare le abituali visite al Signore, si serviva di due bambinetti per inviare messaggi all’Amico.

I bambini poi ritornavano a rendere conto del mes­saggio recapitato al Signore. “E che cosa gli hai detto?”, chiedeva don Josemaria a uno di essi, che era andaluso. Il piccolo rispondeva con un forte accento della sua ter­ra: “Che dia a lei le tre cose, e altre ancora di cui ha bi­sogno”.

II modo in cui questi bambini salutavano l’Amico lo commuoveva: “Non so chi abbia insegnato loro a farlo ma, sarà per debolezza senile o altro, mi commuovo nel vedere questi due piccoletti - sanno bene che senza mangiare non si può vivere! - avvicinarsi alla madia del Pane... e mandare un bacio, ben dato e schioccante, at­traverso la serratura!”182.

Un altro provvedimento, nato dalla prudente cautela del Console, fu che questi ridusse sensibilmente la fre­quenza delle visite di Isidoro al Consolato. L’edificio era controllato da guardie che, per strada, chiedevano i do­cumenti di identificazione a quanti entravano e usciva­no; ma questo non rappresentava un rischio per Isidoro per la sua nazionalità argentina. Quanto al divieto del

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Console, lo eludeva facilmente salendo non per la scala principale, ma per quella di servizio. Bussava lievemente alla porta alla fine del corridoio, si faceva aprire e nes­suno si accorgeva della sua visita183. Altre volte erano i fratelli di Alvaro - Teresa e Carlo, bambini di nove e dodici anni - che si portavano via senza pericolo lettereo biglietti che poi recapitavano a Isidoro184.

All’insicurezza determinata dal timore di un’irruzioneo di una delazione si aggiungevano i morsi della fame. I viveri scarseggiavano e l’approvvigionamento era diffi­cile in una città accerchiata dalle truppe nazionali. Nella maggior parte degli asili diplomatici la fame si fece sen­tire con forza quando fu deciso per la popolazione civile il razionamento mediante tessere annonarie, delle quali i rifugiati non disponevano, anche se avevano predispo­sto proprie fonti di rifornimento185. La fame li attana­gliava a tradimento e in silenzio, offuscando la ragione. Spesso il tema del cibo si introduceva nella conversazio­ne dei rifugiati con ossessiva nostalgia, sotto forma di ricordi e racconti gastronomici.

Se si fa una ricerca nelle numerose e lunghe lettere di quei mesi di reclusione, durante i quali don Josemarìa raramente lasciava passare un giorno senza scrivere, ci si rende conto che il tema della fame e del cibo era af­frontato del tutto eccezionalmente e sempre con una no­ta di buonumore.

In che cosa consisteva il suo cibo? Scrivendo a quelli di Valencia, egli dava notizie di sé e del fratello:

“Il piccolo Santiago è rimasto con le sole ossa; le mie, anche se qualcuno dirà che non è vero, hanno ancora troppa carne, nonostante non si mangi altro che due me­stoli di riso a mezzogiorno (di riso ne abbiamo fin qui: fin sopra alla tonsura, se mi si consente il termine, retro­grado, oscurantista e clericale) e alla sera altri due me- stolini di zuppa d’aglio. Non vi è male che duri cent’an­

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ni. Paco: non è vero che non mi si riconosce, sentendomi persino parlare di cibo?”186.E più avanti: “Adesso ci cambiano ogni tanto il menù. Il nonno che parla de re culinaria!, direbbe un classico. Ebbene, sì; la fame, o meglio, l’appetito fa miracoli. Ieri a mezzogiorno ci hanno dato riso con le fave: certe fave di veneranda età alle quali non hanno voluto togliere le loro consistenti bucce... E alla sera, cipolle crude con pezzi di arancia (ci è parso meraviglioso, ma rivoluzio­nario: quanta fretta, il giorno successivo!) e poi, in quel­le grosse tazze che già conoscete, una buona quantità di un liquido molto liquido, con un vago sapore di cannel­la che prendeva alla gola. Ci hanno assicurato che era cioccolato. Al giorno d’oggi si fanno tante scoperte!”187.Il tono giocoso con cui si rivolgeva ai suoi figli valen-

ziani, allo scopo di rasserenarli e dissiparne le preoccu­pazioni, è in rude contrasto con quello delle lettere a quelli di Madrid, che erano perfettamente a conoscenza della fame che si pativa nel Consolato, dove si raccoglie­vano persino le briciole di pane.

Senza dubbio Isidoro fece qualche richiesta a quelli del “Levante felice”, come erano chiamate allora le fer­tili province valenziane, lontane dal fronte di guerra e con abbondanza di viveri:

“Ah! Se mandano qualcosa da Valencia - scriveva il Pa­dre a Isidoro - non dimenticatevi che ho qui quattro dei nostri, molto affamati. Per me basta quello che danno. Ma loro e Santiago hanno bisogno di altro (...). Quanto mi dà fastidio anche solo parlare, e ancor più scrivere, del problema del cibo!”188.Due giorni dopo, perché non interpretassero la sua

precedente richiesta come un impellente grido di affa­mati, puntualizzava: “Pane? Ne abbiamo (...). E fate at­tenzione a non inviare nulla che voi non abbiate. Vo­

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glio, esigo, che in primo luogo vi preoccupiate di voi stessi. E chiaro, no?”189.

Dell’angosciosa scarsità di generi commestibili rende l’idea anche il giubilo con cui salutò l’arrivo di provvi­ste, il 5 maggio: “Oggi ci hanno portato formaggio e uova, da parte di mio nipote Isidoro. Sono mesi che non vedevamo e non sentivamo l’odore di simili vivande”190.

Prima di tutto, quel sacerdote si preoccupava di ripar­tire fra tutti gli alimenti che riuscivano a procurarsi. Non si lasciava guidare dal detto popolare: “Chi divide e riparte si prende la miglior parte”. Al contrario, si in­gegnava per dare l’impressione di mangiare quanto gli altri. In realtà, e senza farsi notare, si prendeva la parte peggiore. Approfittava della penuria per stringere ancor più la cinghia. Ma non tutti i suoi digiuni non venivano notati. A questo proposito suo fratello Santiago raccon­ta che tutti i rifugiati attendevano la sera della domenica come bambini, nella speranza di qualche ghiottoneria: la cena delle domeniche era costituita da pane fritto con cioccolata. Ma “la domenica Josemaria non cenava mai”191. Anzi, per prevenire le compiacenze del gusto, continuò anche al Consolato la sua abitudine di assapo­rare aloe. Il prodotto era in vendita ed egli non voleva farne a meno. Le circostanze della guerra e delle priva­zioni cui era sottoposto non lo inducevano a sottrarsi allo spirito di penitenza fin nei più piccoli dettagli, anzi, al contrario. Di qui la nota a Isidoro del 30 maggio: “Fammi avere una mezza peseta di aloe. Sicuramente l’avranno nella farmacia di Eugenio, o in qualsiasi dro­gheria. Che sia in polvere”192.

* * *Fra gli innumerevoli dati e notizie contenuti nella copio­sa corrispondenza del Fondatore dal Consolato c’è un fatto particolarmente curioso; qualcosa che forse colpi­sce proprio per la sua assenza; qualcosa che sarebbe sta­to logico trovare nelle sue lettere e che invece il lettore72

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r

non trova. Consiste nel fatto che non compaiano riferi­menti né commenti a temi politici: non si trovano allu­sioni a governi, né a zone, né a frónti di combattimento; neppure sono citate città liberate o occupate, amici o nemici, vittime o colpevoli. Questi silenzi non sono mo­tivati dalla censura, ma da ragioni di carattere sopran­naturale, come risulta dai racconti di quanti condivide­vano la condizione di rifugiato nel Consolato. Mentre le conversazioni degli altri vertevano sulla fame o sull’an­damento della guerra, don Josemarìa evitava di parlare della contesa fratricida che straziava la nazione e i suoi non mostravano uno spirito bellicoso: in sua presenza non si commentavano le operazioni militari né i crimini delle retrovie. Si dimenticava e si perdonava.

La presenza benefica del sacerdote spargeva serenità. La sua conversazione, consolante e soprannaturale, la­sciava negli animi un’impronta di dolcezza. Fino al pun­to da considerare un dono divino ciò che, visto con oc­chi umani, era una pessima conseguenza della guerra. “A volte pensavamo: magari durasse per sempre tutto questo! - riferisce uno di coloro che stavano con il Pa­dre - . Infatti mai in precedenza avevamo conosciuto nulla di meglio della luce e del calore di quella misera stanza. Era questa la reazione, tanto assurda rispetto al­le circostanze quanto logica secondo il nostro modo di vedere le cose, alla quale ci inducevano la pace e la feli­cità che gustavamo giorno dopo giorno”193.

Quando era necessario, il Fondatore non si rifiutava di toccare il tema della guerra, da lui sempre considera­ta una calamità, ma, con spirito sacerdotale, apriva le braccia ai contendenti di entrambi gli schieramenti. Nel­la preghiera del sacerdote, quando celebrava il Santo Sacrificio, era presente l’oceano di sofferenze provocato dalla guerra: al fronte, nelle prigioni, negli ospedali, nel­le case, nei nascondigli.

L’atteggiamento di don Josemarìa non era di freddo distacco. Obbediva a una squisita carità, dominata da

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una visione più alta, soprannaturale, di quanto stava ac­cadendo nel mondo: “Era molto preoccupato - dice il genero del Console - di quanto stava accadendo, ma al­lo stesso tempo stava al di sopra delle circostanze (...). Non si pronunciò mai con odio o rancore, né mai giu­dicò nessuno; al contrario, era solito dire: ‘Tutto questo è spaventoso, è una tragedia’. Lo addolorava quanto stava accadendo, ma non in un senso meramente uma­no. E quando noialtri festeggiavamo una vittoria, don Josemarìa rimaneva in silenzio”194.

* * *

La stanzetta del Consolato diventò presto una specie di centro operativo, da cui uscivano le lettere del Padre, piene di pittoresche descrizioni, notizie varie, incarichi, note spirituali e consigli su questioni materiali e anche resoconti di gioie e di preoccupazioni. Era tale il suo de­siderio di sapere cose dai suoi figli e tante le questioni che aveva tra le mani che presto cominciò a numerare alcune volte i paragrafi delle lettere, passando da un te­ma all’altro: “Non è una mania - spiegava loro - ma co­sì faccio in modo che mi rispondiate su tutto”195.

Uno degli obiettivi era quello di reclamare i beni e i mobili perduti della Residenza di via Ferraz 16, poiché l’edificio era stato requisito dalle milizie anarchiche del­la C.N.T. il 25 luglio 1936, il giorno in cui vi avevano sorpreso Juan Jiménez Vargas.

Egli era venuto a sapere che il consuocero del Conso­le, al quale i miliziani avevano distrutto la villetta, aveva fatto un reclamo ufficiale per i danni subiti. Subito il Pa­dre pensò: perché non reclamare dal Governo un inden­nizzo a nome della FES (Fomento de Estudios Superio- res), la società cui era intestata la Residenza? Si impegnò nella cosa con tanto slancio da far sembrare che dalla sua soluzione dipendesse il futuro di tutti loro, benché non fosse ancora scontato che riuscissero a usci­re sani e salvi dalla guerra.74

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Cominciò dunque una specie di lotta senza quartiere, con ostacoli e difficoltà e una mobilitazione generale di forze e di volontà. Il 23 aprile chiese a Isidoro di verifi­care presso l’Ambasciata argentina le pratiche da svol­gere e i documenti da presentare. Il pomeriggio del gior­no stesso gli scrisse di nuovo informandolo di aver parlato con il consuocero del Console e dandogli istru­zioni per ricuperare dal notaio il verbale della costitu­zione della FES e il contratto di acquisto della casa di via Ferraz196.

Con i primi passi che fece Isidoro apparvero le prime difficoltà197. L’inventario dei beni, i documenti di costi­tuzione della società e il contratto di compravendita del­l’immobile non erano in suo possesso: erano rimasti alla Residenza e non era possibile ricuperarli, se pure ci sta­vano ancora. Si cercò allora di presentare la FES come “Società Internazionale”, dato che alcuni soci erano stranieri. Isidoro Zorzano, cittadino argentino e presi­dente della FES, presentò un’istanza all’Ambasciatore delPArgentina in cui si reclamava dallo Stato spagnolo l’indennizzo del danno subito; danno che in base all’in­ventario era quantificato in 1.078.900 pesetasX9%.

Non era passata una settimana da quando il Padre aveva concepito l’idea, che già scriveva a Isidoro una lettera di sollecito; eccone il primo paragrafo:

“Sabato, 1-5-37.Molto bene il tuo reclamo per mezzo dell’Ambasciata del tuo Paese. Ma bisogna fare in frettai Dal ritardo di uno o due giorni potrebbe dipendere il buon esito della faccenda. Inoltre, sii molto chiaro con il Signor Segreta­rio. Non lasciare nulla in sospeso. Che le carte vadano avanti quanto prima”199.Non erano molte le persone su cui il Padre poteva

contare per questa operazione. A parte i rifugiati nel Consolato dell’Honduras e Vicente Rodrìguez Casado,

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rifugiato presso l’Ambasciata della Norvegia, solo altri tre erano liberi a Madrid e due a Valencia; perché Chi- qui era in prigione, Rafael Calvo Serer era malato in un paese presso Alicante, e Pedro Casciaro si trovava a Torrevieja. Gli altri erano nascosti, oppure nella zona nazionale. Comunque fosse, tutti furono mobilitati per l’operazione Residenza, dal momento in cui Isidoro fece sapere a quelli di Valencia che anch’essi, per indicazione del Padre, dovevano contribuire al successo del ricorso facendo indagini e pratiche. Infatti Valencia era la sede ufficiale del governo da quando il Consiglio dei Ministri aveva lasciato Madrid nel novembre 1936; ed era quin­di il luogo dove si dovevano svolgere le pratiche ammi­nistrative.

Pedro Casciaro, che in quei giorni era tutt’altro che in una fase euforica, si vide complicare la vita quando rice­vette l’incarico di arruolare suo nonno nell’impresa del­la richiesta di indennizzo. In effetti, essendo costui sud­dito britannico e avendo a suo tempo elargito un contributo alla FES, avrebbe potuto presentare un’istan­za all’Ambasciata britannica chiedendo un indenniz­zo200.

Fin dall’inizio il Padre trasmise a tutti una forte pre­mura, poiché le due questioni che consumavano le sue energie, il reclamo e la possibilità di uscirsene dal Con­solato, s’intrecciavano: “Fretta. C’è fretta per tutto: per­ché ce ne possiamo andare nel nostro Paese e per pre­sentare il ricorso”201.

A che cosa portava tutto quell’impegno vitale in uno Stato in piena guerra, i cui uffici amministrativi si erano precipitosamente trasferiti a Valencia, lasciando a Ma­drid archivi e documenti? Quale successo avrebbe mai potuto avere un reclamo per un appartamento requisito e saccheggiato dagli anarchici della C.N.T. e distrutto poi dalle cannonate? A chiunque sarebbe parso evidente che gli sforzi non sarebbero approdati a nulla e che tut­to il tempo e la fatica sarebbero stati sprecati.76

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Ma il Padre sapeva bene quanto fosse remota la spe­ranza di successo: “Sia che si ottenga qualcosa, sia che non si ottenga nulla, tutti noi avremo la coscienza tran­quilla per aver fatto tutto il possibile per difendere il pa­trimonio della FES. Non è così?”202.

Frattanto insegnava loro rapidamente a portare avan­ti con perseveranza le cose di Dio e dell’Opera: “Forza con la faccenda della casa, nonostante le buche e i diru­pi del percorso. Può accadere che la vettura si rovesci. Allora la si rimette sulle ruote, si riparano i guasti e si prosegue il cammino come se nulla fosse. Sempre con­tenti: con la gioia e con la pace, che mai, per nessun mo­tivo, mi dovete perdere”203.

Nelle avversità avrebbero imparato l’ordine e la dili­genza, senza lasciare pigramente le cose per il “doma- ni”204. “Domani, domani! Ve lo ripeto: Oggi, adesso! Domani e dopo sono parole definitivamente abolite dal nostro lessico. D’accordo?”205.

Era già da un mese che si erano lanciati ed ecco che egli spingeva Isidoro, e gli altri con lui, a insistere nella faccenda del reclamo: “Senza impazienza, ma con per­severanza: una goccia dopo l’altra sulla roccia degli ostacoli. Mi ricevono bene? Ottimo. Mi ricevono ma­le? Meglio ancora. Continuerò - la goccia d’acqua - a farmi vedere con santa sfacciataggine, ignorando di­spiaceri e umiliazioni, sbuffate e volgarità (quanto ci guadagno!), sempre contento e in pace, finché si stan­cheranno (io non mi devo stancare, dev’essere il vostro proposito) e finiranno per ricevermi con accoglienza cortese: come un amico... o come una calamità inevita­bile (...). Ho parlato chiaro! E una confidenza del si­gnor Emanuele”206.

Questa santa sfacciataggine, armata di cocciutaggine e disposta a subire umiliazioni, non era solamente una tattica umana, ma un comportamento che obbediva a una ispirazione del Signore: “E una confidenza del si­gnor Emanuele”:

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“Figli: vi eravate illusi che si possa andare avanti senza vincere le resistenze? E chiaro che sempre e in tutto trove­remo difficoltà, alcune volte grandi, altre volte piccole. È vero che le prime, di solito, si notano meno, perché sono eccitanti; è nelle seconde, che bruciano alla nostra super­bia, che Egli ci attende. Sì, nel fare anticamera; negli atteg­giamenti scortesi; nel sentirsi dire: ‘quest’individuo’...; nel­la cortesia di ieri, che oggi diventa scortesia”207.L’energia interiore del Padre, che non si lasciava certo

rinchiudere nella crosta di tedio che soffocava gli altri rifugiati, cercava di dare una nuova e superiore dimen­sione alle fatiche, di scrollarsi di dosso la pigrizia, per dare sempre cose da fare ai suoi figli, per tenerli lontani dalla superbia, dalla noia e dalle preoccupazioni e per far sì che tenessero in esercizio le facoltà dell’anima, soffocate dalle circostanze del momento. Il Padre voleva infondere in loro morale di vittoria e spirito sportivo per vincere barriere e resistenze, anche quando si rivela­vano insuperabili. Non per mancanza di tenacia, ma per gli ostacoli tipici della burocrazia:

“E ben naturale che ciascuno badi alla propria conve­nienza. Così imparerete a vivere... e ad essere cocciuti. Non dobbiamo avere la paura della chiocciola che, quando le sue corna urtano un ostacolo, le ritira e si rin­chiude nel guscio del suo egoismo. E meglio lo slancio, l’iniziativa e la perseveranza del toro bellicoso, che fa a pezzi, con i mezzi di cui dispone, gli ostacoli che si op­pongono alla sua corsa. È vero che a noi non mancano - non ci mancheranno mai - ostacoli e impedimenti, ma è anche vero che abbiamo dovizia di mezzi... se li voglia­mo usare. Non è così? Quindi, impieghiamoli: i nostri - proprio così! - e in pari tempo quelli del signor Emanue­le. E poi, stiamocene sempre contenti”208.Anche se il Padre si era congratulato con lui per avere

inoltrato il reclamo per mezzo dell’Ambasciata dell’Ar­78

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gentina, per la verità Isidoro si era cacciato in un bel pa­sticcio. Dopo tre settimane di tentativi, nonostante là premura che gli faceva il Padre e l’obbediente docilità di Isidoro, tutto era quasi fermo allo stesso punto209.

Come il Padre aveva già previsto un mese prima, avrebbero avuto bisogno dell’aiuto di san Nicola, inter­cessore davanti a Dio per le questioni economiche del- l’Opera, affinché le carte non si perdessero nei meandri degli uffici statali e la faccenda non finisse con l’essere una nuova versione della “storia della buona pipa..., che non finisce mai. L’ultima parola ce l’ha il signor Ni­cola. Noi, diamoci da fare”210.

I timori di don Josemaria erano fondati. Documenti e passaggi si insabbiavano e san Nicola da Bari - Dio sa perché - si era affezionato alla storia della buona pipa.

Per quanto concerne il reclamo di Julio Casciaro, il nonno di Pedro, il risultato non fu brillante. Il punto de­bole era proprio l’incertezza della sua cittadinanza. Questo distinto signore aveva settantanni e un carattere un po’ apatico. Il suo passaporto britannico, emesso a Valencia il 21 aprile 1937, con le firme del Console del­la città e del Viceconsole provvisorio di Alicante, era va­lido per soli sei mesi e non era rinnovabile, a meno che l’interessato avesse dimostrato la propria nazionalità britannica con altri documenti. Basta dire, per non di­lungarsi, che il 9 giugno Isidoro inviava a Pedro Cascia­ro i vari documenti, allegati a uno “scritto che imposta­va ricorso contro lo Stato spagnolo, attraverso l’Ambasciata inglese, per l’indennizzo del valore della casa di via Ferraz 16, a Madrid, e di tutti i mobili, mas­serizie, biblioteca, libri, attrezzature di laboratorio, qua­dri, ecc., in essa esistenti”. Nel frattempo si cercava af­fannosamente il certificato di nascita di Julio Casciaro nell’archivio del Consolato di Cartagena, dov’era resi­dente, e si consultavano libri e carte nel Consolato Ge­nerale di Valencia; tutto senza successo211.

Visto che questo tentativo era entrato in un vicolo cieco,79

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quelli di Madrid, smaliziati dall’esperienza delle ultime settimane, stavano già proponendo a Isidoro altre iniziati­ve, cercando di coinvolgere uno svizzero, un boliviano che era stato nella Residenza di via Ferraz e un paraguaiano, compagno di Manolo Sainz de los Terreros212.

6. “I giorni peggiori di questo periodo”La vita nella stanza del Consolato dell’Honduras tra­scorreva tranquilla e calma. Quelli che stavano assieme al Padre si alzavano di buon mattino e andavano in ba­gno a turno. Poi il sacerdote era solito predicare una meditazione e celebrare la Messa. Prendevano una tazza di tè per prima colazione. Poi proseguiva la mattinata, piena di lavoro213.

Don Josemarìa, nel suo ruolo di nonno bonaccione inteso a eludere la censura, scriveva ai suoi nipoti di Madrid e di Valencia, riempiendo le pagine di solidi punti da meditare, tra scherzi e spunti affettuosi. Poi, a mezza mattina, la stanza si trasformava in sala di stu­dio. Studiavano o leggevano francese, inglese, tedesco. Mentre il nonno, per rallegrare la lettura dei suoi figli valenziani ai quali dirigeva la lettera, fingeva spiritosa­mente di trovarsi in mezzo a un terribile putiferio. Era davvero una finta volutamente esagerata; infatti gli altri rifugiati si riferivano agli inquilini del fondo del corri­doio chiamandoli “quelli del sussurro”. Di là non usci­va mai un tono di voce più alto degli altri214.

“Questo nonno non voleva scrivervi ancora. Ma oggi, mentre cercavo di fare qualcosa di utile e, dopo alcuni preliminari, stavo per immergermi nel primo punto del mio lavoro..., la ragazzaglia che dobbiamo sopportare si è messa urlare e non c’è pazienza d’uomo che resista né testa che si possa concentrare su un lavoro serio. Ah, la mia stanza, con la mia solitudine e il mio silenzio! Noi

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vecchi abbiamo bisogno di quiete: il chiasso, le risate, la confusione degli sciocchi sono incompatibili con la mia età. Pazienza, vero? D’accordo. Perché non mi manchi nulla me ne hanno assegnati alcuni per la tavola e altri per la mia scheletrica umanità: lavora, Mariano. Che la­vori qualcun altro!(...) Miei cari, la mia vita è molto monotona: ma sto

* sempre a cento leghe dal luogo fisico in cui mi trovo e quindi non posso parlare di monotonia. Chiacchiero a più non posso con il mio vecchio Amico. Penso alla mia famiglia, forse più del dovuto. Sono in pace. Esterna­mente sono serio, ma sono allegro. E, nonostante la mia allegria, a motivo degli anni, dei ricordi, del pensiero dei miei figli e nipoti in pericolo, e per qualche altra ragione di comprensibile egoismo, è raro il giorno in cui non piango, anche più del giusto.Josemarìa, che ragiona meglio da quando lo abbiamo portato fuori dal manicomio, mi ha persuaso che ai miei figlioli farà molto bene, per formarsi un carattere forte, questo penoso clima di lotta in cui si trovano gli spagno­li. Inoltre, essendo essi stranieri, possono e debbono re­starsene al di fuori per evitare il contagio di certi am­bienti; e ben vaccinati, senza mai trascurare le Norme del medico, è difficile che perdano la salute: è questo che mi interessa.(...) Quando mi ritrovo, passati gli anni da quando ho messo su casa, con la famiglia sparpagliata e sempre più numerosa, penso di aver bisogno di un cuore più grande del mondo. E mi scuso per i miei momenti di malinconia e di puerile stupidità (ahimè, i bambini e i vecchi!) e vorrei abbracciarvi tutti con tutta l’anima (sono un nonno ap­piccicoso), affinché i colpi che potreste ricevere piovano invece sulle dure spalle di chi vi scrive. Non c’è da stupirsi che, avendo io tanti debiti personali, mi sia permesso di diventare garante per tutti, in questi momenti di econo­mia dissestata. E spero che lo si accetti: con che gioia, selo si accetta, e sarà così, io darò fino all’ultimo centesimo! (...) Siate forti. E non arrabbiatevi se il nonno vi abbrac­cia con tutta la sua anima. Mariano.

Madrid, 30 aprile 1937”215.

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All’ora di pranzo andavano tutti insieme nella sala da pranzo della tavola rotonda, dove venivano serviti il più delle volte un po’ di pane e un piatto di minestra di riso, cibo a volte rinforzato da lenticchie o carrube216.

Ritornavano poi nella loro stanza per la tertulia. Poi leggevano o lavoravano. Il Padre era solito stare un po’ con la famiglia del Console, la moglie del quale era allo­ra piuttosto malata. Per un certo periodo era solito fare là l’orazione del pomeriggio e le visite al Santissimo, fin­ché decise di non conservare più il Signore nel mobile dell’appartamento del Console217.

Dopo cena - minestrine di pane o verdura cotta, op­pure insalata cruda - recitavano il rosario, facevano un’altra tertulia, e alla fine dispiegavano ordinatamente i materassini per dormire.

Passare la giornata accanto al Padre era come stare avvolti nell’affetto e nella sicurezza. Non lo videro mai- lo afferma il genero del Console - fare “un gesto di in­quietudine o di depressione: era una persona che rende­va facile e gradevole la convivenza, che non creava pro­blemi di alcun tipo, né faceva mai commenti negativi, sia nei confronti del governo rosso che di quello bianco,o dei bombardamenti o delle difficoltà”218. La sua com­pagnia riusciva gioiosa a tal punto che, pur immersi in simili circostanze, a uno dell’Opera sfuggì spontanea­mente dalle labbra ciò che tutti pensavano: “Non può durare ancora a lungo, siamo troppo felici”219.

* * *Al tramestio del giorno per i corridoi e nel vestibolo, con discussioni e grida, faceva seguito il silenzio della notte. Quel piano era, come diceva scherzando il Padre, “una gabbia di grilli”220, per nulla conveniente alla sua anima che aveva bisogno di raccoglimento.

In mezzo all’apparente uniformità delle giornate, l’immaginazione e il cuore lo portavano a parlare con Dio della situazione dei suoi figli. Si sentiva quasi fore­82

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stiero al suo corpo e ai suoi sensi. Ripassava mental­mente la situazione di ciascuno: carcerati, rifugiati o na­scosti, ammalati e alcuni di cui non aveva notizie. Biso­gnava insistere, perché l’Amico li conservasse sani di corpo e di anima e perché concedesse a lui un cuore grande, grandissimo^ in cui ci fosse posto per tutti.

In una lettera del 1° maggio tornò a ricordare a quelli di Valencia la promessa fatta il giorno prima a tutta la sua famiglia: “Figli miei - poveri figli miei! - ora che sa­pete che il nonno ha preso l’impegno formale di pagare i debiti familiari, non mettetevi a dilapidare...”221.

Nel leggere le lettere, i nipotini avrebbero capito che cosa voleva dire “diventare garante per tutti, in questi tempi di economia dissestata”? Sì, certamente compren­devano l’impegno preso dal sacerdote nei confronti del Signore di espiare le colpe proprie e altrui, pagando per gli innumerevoli peccati che disgregavano la nazione spagnola; e che le sue spalle erano pronte a sobbarcarsi i colpi per evitare che li subissero loro. Infatti i destinata- ri leggevano avidamente e ricordavano con piacere le lettere del nonno; scrive Pedro Casciaro a Isidoro: “Pos­so dire, con una certa esagerazione, che le sue lettere me le imparo a memoria, perché qui, così lontano dalla fa­miglia, sono molto solo e non trovo altro calore che nel­le sue parole, molto espressive. Egli si lamenta alcune volte di esprimersi con difficoltà. Ah, se potesse essere al posto mio... Io sono, chiedo perdono all’asino, il classi­co asinelio che legge e non sa parlare”222.

I suoi figli sapevano fin troppo bene in che cosa con­sisteva lo spirito di penitenza, per averlo sentito dal Fondatore innumerevoli volte; come sfruttare i fastidi, le fatiche e le contrarietà della vita d’ogni giorno, ele­vandole al piano soprannaturale, divinizzando il dolore e le sofferenze. Poco prima che scoppiasse la guerra ci­vile aveva scritto: “Nella prosa dei mille piccoli dettagli di ogni giorno c’è poesia più che sufficiente per sentirsi sulla Croce”223.

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Nell’agosto 1936, quando aveva dovuto abbandonare la casa della madre, si era scontrato per tutta Madrid, nei nascondigli in cui si era rifugiato, contro “i mille piccoli dettagli di ogni giorno”, solitudine, fame, perse­cuzione, malattia, con i quali aveva composto la sua poesia divina. E non erano certo né prosaici né piccoli. L’abbandono era stato crudele e prolungato. Aveva pati­to la fame. La malattia nella casa di cura l’aveva ridotto pelle e ossa. E la persecuzione non era finita. Erano tutti segni della dura purificazione passiva alla quale il Si­gnore lo stava sottoponendo. Il Fondatore, docilmente e generosamente, portava la Croce con eleganza, senza abbandonare le sue abituali mortificazioni. Il suo spirito di penitenza lo portava ad addolcire la vita al prossimo. Cercava di consolare gli afflitti, di non creare problemi di convivenza, di fare piccoli servizi ai rifugiati. Cercava di non parlare della guerra né di se stesso. Sopportava la fame senza lamentarsi. Dominava la propria curiosità. Sorrideva e coltivava il buonumore, infondendo in tutti serenità e gioia. Era gentile, puntuale e ordinato. Offri­va a Dio le privazioni e le contrarietà, che non erano po­che. E a tutto il resto aggiungeva le discipline a sangue.

Spesso infatti, senza spiegarne il motivo, il Padre chie­deva di essere lasciato solo nella stanza, o approfittava che gli altri stessero in sala da pranzo, e si infliggeva le discipline. Un giorno dovette comunque farlo alla pre­senza di un testimone, poiché Alvaro stava nella stanza con la febbre, coricato sopra un materassino. “Copriti la faccia con la coperta”, gli disse il Padre. E comincia­rono i colpi, forti e ritmati. Alvaro per curiosità li contò: mille, tutti dati con uguale forza, tutti con lo stesso ritmo. Il pavimento - racconta il testimone - era cosparso di sangue e, prima che rientrassero gli altri, il Padre lo ripulì per bene224-

Il Signore accettò la sua generosa offerta. Non solo per il bene dei suoi, ma anche in riparazione degli innu­84

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merevoli crimini e offese commessi durante la guerra. Il pensiero di tutto ciò lo schiacciava:

“Oggi il nonno è triste - scrisse ai nipoti di Valencia -, avvilito, nonostante l’amabilità e l’affetto dei miei; e no­nostante la pazienza eroica di mio nipote Juanito... che riesce a non fare il prepotente. Il fatto è che si ricorda della sua gioventù e la paragona alla vita attuale: e gli viene una gran voglia di comportarsi bene per quelli che si comportano male; di fare il Don Chisciotte, riparan­do, soffrendo, scontando. Il risultato è che gli si mettono a correre la mente e la volontà (l’Amore), e l’Amore arri­va per primo. Ma arriva così inutile, del tutto privo di opere!... Il nonno è triste, perché non ce la fa - vecchio, senza forze - se non l’aiutano, con la loro giovinezza, i nipoti della sua anima”225.In una lettera del 6 maggio a quelli di Madrid gli

sfuggì una confidenza ancor più amara: “In tutto questo tempo, i giorni peggiori sono quelli che passo immerso in... questa profondità! Naturalmente si sta meglio in prigione: vi si soffre e si offre la sofferenza, ma non è la via giusta”226.

Le ore della sua giornata erano piene di cose da fare. Viceversa, buona parte della notte la passava in bianco. “Alcune notti or sono - raccontava il Padre, questa volta a quelli di Valencia - intorno alle due di mattina, più o meno, si è svegliato vostro zio Santiago, che fruisce con Jeannot e con me di due materassi, e mi ha gridato: ‘Ma che succede, stai piangendo?’. E poi ha avuto l’imperti­nenza di dire che passo le prime ore del giorno dedican­domi al flamenco. La verità è che non so a che cosa atte­nermi; forse, vecchio e nonno, come sono, canto e piango. Ma sempre con una gioia molto profonda e pie­na di speranza: che non ha nulla a che vedere con il fla­menco”227. Che cosa accadeva al Padre, sempre così se­reno e allegro, ottimista e coraggioso?

Dieci giorni dopo, il 30 maggio, si sfogava di nuovo,85

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al termine di una lunga lettera a quelli di Valencia: “Vuoi che ti dica, Paco, che cosa succede al nonno? Telo dirò solo in parte: in primo luogo preoccupazioni molto intime, molto... sue (poiché non ho nulla di mio); e poi, l’hanno colpito in ciò che più lo fa soffrire, i nipo­ti. E questo è... quasi tutto”228.

Come sempre, il Signore dava “un colpo al chiodo e cento al ferro di cavallo”. Il Padre soffriva per i suoi fi­gli: per mancanza di notizie, immaginando le loro pene. Ma questa confidenza fatta a Paco Botella è molto vela­ta, a mezze parole, reticente. Quali erano le vere preoc­cupazioni che lo prostravano? Che cosa gli accadeva?

Sappiamo che non era la prima volta che gli succede­va. Se ripercorriamo con calma i suoi Appunti, ci imbat­tiamo in una annotazione che reca espressioni simili. Ri­sale all’estate-autunno 1931, periodo di grandi sofferenze e di grandi doni. I sintomi erano una “grande tribolazione e senso di abbandono”, con tentazioni di ribellione contro la volontà di Dio, e di “cose basse e vi­li”. Per quali motivi? “Per la verità, i soliti. Ma è qual­cosa di molto personale che, senza togliermi la fiducia in Dio, mi fa soffrire (...) e penso, come a un rimedio, alla carezza di una forte malattia che il Signore, lo so, m’invierà a suo tempo”229.

Le “preoccupazioni molto intime”, quel “qualcosa di molto personale” che lo faceva soffrire era la tappa di pu­rificazione passiva con cui Dio lo distaccava, fino dal mi­dollo, da ogni affetto che non fosse il Volere divino. Già in precedenza era stato trasportato fino alle vette della contemplazione mistica, “fino a guardare fisso il sole”230.

Di questo periodo di dura purificazione passiva, invia­ta da Dio all’anima, il Fondatore ha lasciato alcune note, scritte nel Consolato. In una di esse, del sabato 8 maggio 1937, si legge: “I giorni peggiori di questo periodo sono questi che passo in Honduras”. Sono le stesse parole del­la lettera del 6 maggio a quelli di Madrid. E proseguiva: “Credo di aver sofferto poche volte più di così”231.86

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Tutto ciò era spiegabile: egli era inchiodato alla Croce prevista già tempo prima che scoppiasse la guerra civile. Croce amorosamente accettata con tutte le sue sofferen­ze fisiche e morali; ivi compresa la purificazione mistica di tutto il suo essere, che fu intensa e ripetuta e che ten­teremo di spiegare più avanti, in un capitolo successivo.

* * *Il piano superiore era considerato facente parte del Consolato. Era pieno zeppo di rifugiati, tra cui c’erano padre Recaredo Ventosa e altri sacerdoti del Sacro Cuore. Con padre Ventosa don Josemaria si confessava ogni settimana232. Possiamo immaginare quale sia stata la sorpresa del religioso quando, alle prime ore del mattino di domenica 9 maggio, fu svegliato perché qualcuno dal piano di sotto lo voleva vedere con urgen­za. Ce lo racconta il protagonista dell’episodio, in una sua annotazione:

“Domenica, 9 maggio 1937. - Questa notte ho sofferto terribilmente. Meno male che ho potuto sfogarmi, all’u- na e mezzo o due del mattino, col religioso qui rifugiato. Ho chiesto molte volte, con molte lacrime, di morire presto nella grazia del Signore. È codardia: questo soffri­re come non mai, credo non sia altro che una conse­guenza della mia offerta come vittima all’Amore Miseri­cordioso. Morire - pregavo - perché dall’alto potrò essere d’aiuto, mentre quaggiù sono un ostacolo e temo per la mia salvezza. Capisco però che Gesù vuole che io viva soffrendo, e che lavori. Fa lo stesso. Fiat”233.La sua angoscia era così terribile che si ammalò. Si alzò

dal letto soltanto sabato 15 maggio. Il venerdì successivo scriveva questa nota, chiaramente autobiografica:

“In carne viva. Ecco come ti trovi. Tutto ti fa soffrire, nelle potenze dell’anima e nei sensi. E tutto ti è di tenta­zione... Povero figlio!”234.

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Il tormento interiore, la purificazione passiva, che ve­niva da lontano, durò parecchio tempo:

“Domenica 23 maggio 1937. - Ecco la mia orazione di questa notte, di fronte al timore di non compiere la Vo­lontà di Dio e alle preoccupazioni che sento per la mia salvezza: Signore, portami via: dall’altro mondo - dal purgatorio - potrò fare di più per l’Opera e per i miei figli e figlie. Tu troverai un altro strumento, più adatto di me e più fedele, per portare avanti l’Opera sulla terra”235.Nel pieno della notte dello spirito coglieva con tutte le

sue potenze, grazie a una vivissima chiarezza infusa, la propria inettitudine come strumento per fare l’Opera, la propria indegnità per non avere adempiuto fedelmente la sua missione, e la propria miseria di peccatore merite­vole di castigo.

Della battaglia che stava conducendo nelle oscurità dell’anima ci giungono, da una nota del 26 maggio, al­tre voci sorprendenti:

“Gesù, se non sarò lo strumento che desideri, quanto prima portami via nella tua grazia. Non temo la morte, nonostante la mia vita peccatrice, perché sono memore del tuo Amore: il tifo, la tubercolosi o una polmonite...o quattro fucilate, che differenza fa?”236.Una suprema angoscia invadeva il suo essere e, nudo

davanti a Dio, con fiducia filiale, proclamava il primato dell’amore sulla morte: “Non temo la morte, nonostan­te la mia vita peccatrice, perché sono memore del tuo Amore”. Ma accanto all’amore divino viveva, mistica- mente purificato, l’amore per l’Opera e l’amore di pa­ternità per le sue figlie e i suoi figli. Poi ammetterà le “preoccupazioni molto intime, molto... sue”. Quanto erano lontani i suoi nipoti valenziani dall’immaginare che cosa stava accadendo al nonno! “Ho dubbi e ango­sce terribili quando penso alla mia salvezza. Oh Dio!

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Oh Madre! Permetterete che mi danni? San Giuseppe, Padre e Signore! Il mio piccolo orologiaio! San Pietro! San Paolo! San Giovanni!”237.

Il nonno dominava eroicamente la feroce battaglia dei suoi sentimenti, per non mostrarsi lamentoso nelle sue lettere. Serbava per sé le pene e le spine e cercava di es­sere ameno, riferendo ai nipoti fatti gioiosi. Magari un po’ coloriti, o con pennellate proprie della letteratura picaresca o di una farsa popolare. Scriveva quando la luce del giorno si era portata via l’orribile notte di “dubbi e angosce terribili”, in cui aveva temuto di dan­narsi; con l’animo ancora scosso dal clamore della mor­te, pronto a farsi mettere al muro e farsi fucilare dai mi­liziani; eppure gli restava ancora un fondo di arguzia per raccontare ai suoi nipoti qualche episodio divertente della notte insonne:

“Dal nonno a Perico, via Paco, per tutti i suoi nipoti. Madrid, mercoledì 26 maggio 1937.Il nonno dorme poco (mi sto mettendo in ridicolo) e nel­l’ombra della notte il silenzio fu rotto da un rumore di campana profondo e vibrante, quasi un orologio di cat­tedrale; era l’una: dooong! E si udì insieme la voce la­mentosa e rotta di un essere con la sottana: ‘Poverina! è proprio sola!”238.Il Fondatore passava molte notti in bianco e, pur es­

sendo in fondo al corridoio, gli giungevano i silenzi e i rumori dei rifugiati; in questo caso aveva udito il rintoc­co dell’una dell’orologio del vestibolo e una voce di donna che ne sottolineava la notturna solitudine.

Le tremende prove interiori non gli toglievano la pace. Le sue lettere restavano una cascata di buonumore, “una delizia di Dio”, dice Paco Botella, che soggiunge: “Sottolo scherzo e la genialità delle sue parole s’indovinava un’enorme sofferenza, la preoccupazione per tutti”239.

I suoi nipoti non seppero mai della terribile purifica­

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zione attraverso la quale passò la sua anima, anche se si resero conto del logoramento del suo fisico. In occasio­ne di una visita fatta al Consolato in compagnia di Ma- nolo Sainz de los Terreros, Isidoro traccia uno stupendo ritratto del Padre: “Ieri sono stato con Manolin a trova­re il nonno; poiché erano già alcuni mesi che non lo ve­deva, il bimbo lo ha trovato piuttosto peggiorato. In ef­fetti è dimagrito moltissimo; della sua precedente espressività gli è rimasta solo la vivacità degli occhi; continua però ad avere la stessa tempra di sempre; le sue parole vivificano, infondono vitalità; sono una vera scossa che fa disprezzare le piccole cose materiali alle quali uno ancora si afferra, con le loro molteplici imper­fezioni. Dopo aver parlato con lui ci si sente più leggeri, come se ti avessero tolto qualcosa che ti dava fastidio. Bisogna avere per lui il massimo affetto, dato che lui pensa continuamente ai suoi piccoli: ci passa in rassegna mentalmente in ogni istante. Ci ricorda soprattutto quando fa visita ogni giorno al nostro grande protetto­re, il signor Emanuele”240.

7. “Gli affari del nonno”Dal giorno in cui era stato costretto a rinchiudersi, il Fondatore continuava a fare l’Opera con l’intenso dia­logo con il Signore e con un apostolato epistolare per il quale la censura non era il maggiore ostacolo, visto chelo saltava con genialità e buonumore. In una lettera del 29 aprile 1937 ricordò ai suoi figli del “Levante felice” la responsabilità che avevano di fare l’Opus Dei nel caso della sua scomparsa:

“Spero - e aspetto - di potervi abbracciare presto. In­tanto non dimenticatevi di questo povero vecchio e se il vecchio - è legge naturale - si defilasse, tocca a voi con­tinuare, con sempre maggior zelo, gli affari della fami­

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glia. Ti dico in confidenza (confidenza da nonno a nipo­te) che, vedendomi proprietario di tante ossa sconosciu­te, mi ritrovo in perfetta salute; e, sarà quello che sarà, penso che la mia vita sarà ancora lunga, fino a vedere in marcia, ben sistemata, tutta la piccinaglia dei miei figli e nipoti. M a..., c’è un ma; non dimenticare che, te lo ripe­to, se m i defilo , non dovete abbandonare per nessun motivo i miei affari, che daranno ricchezza e benessere a voi tutti. La vita? Bah!... La Vita!!(...) Figlioli miei! Vedo un affare, per un futuro prossi­mo, talmente splendido che sarebbe sciocco pensare che qualcuno lasci perdere l’occasione di arricchirsi e di es­sere felice. Hanno ragione di affermare che, arrivati ai settanta (ottanta ne ho io), si accentua l’avarizia! Vi vor­rei tutti coperti dai raggi del Sole, che faccia brillare sui miei l’oro puro, acquistato, ben acquistato, con lo sfor­zo di portare avanti il patrimonio di casa mia.Mariano, dici molte sciocchezze. È vero. Ma ciò che si ha per natura sino alla fossa dura. Sono sempre stato ambizioso. Ho voluto tutto. E inoltre, poiché non pare una strada tortuosa, penso di spingervi la mia gente. Ambizione! Benedetta ambizione! Quanti ostacoli abbat­ti!... Quando si ambiscono le vette è ben difficile finire nei pantani, che poi sono degli strapiombi. Se mi riservo- benedetta ambizione, nobilissima ambizione! - per le cose grandi, e siamo nati per le cose grandi, allora saprò, con gli aiuti opportuni, non fermarmi a quelle piccole. L’ho detto. Non dico di disprezzare le cose piccole, per­ché sarebbe una assurdità, dato che le cose grandi, le più grandi, si ottengono a forza di piccoli sforzi”.Poi li informò, molto velatamente, dell’impegno serio

preso con il Signore di riparare i debiti propri e quelli al­trui, implorando protezione per i suoi affari:

“Non so se sai che per la famiglia, che è sempre il mio debole, mi sono messo in un pasticcio economico: mi so­no impegnato a pagare tutti i debiti. Non ti dico altro. Tu non puoi ignorare che anch’io, di debiti, ne avevo un

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sacco. Così si sono alleate la fame con la voglia di man­giare. Ora mi sento davvero vecchio, senza forze, debole in tutto. Ma quel che è detto è detto. Non torno indie­tro. Abbiate compassione, tu e gli altri nipoti, e aiutate­mi come potete. Non sarebbe bello che le mie ambizioni finissero in un crack economico, oppure non riuscissi più a far fronte ai pagamenti! Tremo: faccio conto asso­luto sullo sforzo e sul sacrificio di tutta la mia gente”241.Due mesi dopo, interiormente irrobustito dalle dure

prove cui il Signore lo sottoponeva, tornava alla sua im­presa - i suoi affari - con rinnovato ottimismo:

“Questo vostro nonno - scrisse loro il 24 giugno - si è rimesso in sella. Che notizia! E, vi assicuro, con più vi­gore di prima della malattia, anche se ora pesa quaranta chili di meno”242.Le avversità di quei giorni non scoraggiavano il Fon­

datore, “poiché la guerra non solo non ostacola, ma può anche conferire maggiore slancio a molte imprese, se chi le dirige non si addormenta” 243.

Il Fondatore aveva certamente molta voglia di dare nuovo slancio alla sua impresa divina e l’impazienza lo consumava:

“Quando incomincerò a lavorare, e sarà presto, rina­scerò. Sappiate che il nonno è soddisfattissimo di tutti i suoi nipoti, senza eccezione. E chiaro? E pensa che essi sapranno sempre vivere con ottimismo, con gioia, con testardaggine, con la convinzione che i nostri affari de­vono necessariamente progredire e con l’intima persua­sione che tutto è per il bene”244.Davvero era tutto per il bene? Verso la metà di giugno

egli venne a sapere che Pepe Isasa, uno dei membri del- l’Opera nell’altra zona della Spagna, era morto al fronte nel mese di aprile. Subito Isidoro comunicò agli altri il92

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desiderio del Fondatore che facessero suffragi per la sua anima, recitando le tre parti del rosario e offrendo la Comunione: “Il nonno mi dice: avvisa i miei nipoti che portino tre mazzi di rose alla Madre del signor Emanue­le da parte di Pepe e che, se possono, facciano colazione con questo buon amico”245.

Per il nonno, la perdita di questo nipote fu una “noti­zia agrodolce”. Così scrisse a quelli di Valencia:

“Il nonno non è in grado di dirvi nulla. Vi ha dato un in­carico, che già vi avrà comunicato Ignacio246: tre mazzi di rose sul suo sepolcro, e far visita al signor Emanuele.Il signor Emanuele: quanto gli sono grato! Le mie lacri­me - non mi vergogno di dire che ho pianto - non sono una protesta per la morte del mio amatissimo nipote; l’accetto, ma vi prego che, insieme a me, raccomandiatei miei piccoli perché non se ne vada più nessuno.State contenti però. Non vi ho raccontato molte volte che il nonno ha una Casa molto grande, dove lo aspetta­no già un bel po’ di nipoti?È troppo comodo andarsene. Bisogna starcene qui e di­ventare vecchi, per portare avanti gli affari, magnifici e ricchi, che la vostra famiglia ha tra le mani da più di ot­to anni”247.Era evidente che Y affare dell’Opus Dei, grande e uni­

versale, aveva bisogno di molta gente. L’anelito aposto­lico, incontenibile, del Fondatore oltrepassava le fron­tiere, nonostante egli fosse recluso:

“Sono stato contagiato dei pazzi desideri di mio fratello Josemaria - è matto, matto da legare; non per niente è stato in manicomio - e vorrei mettermi a correre per questo mondo così piccolo, da polo a polo, e sciogliere tutti i ghiacci, spianare tutte le montagne, sradicare tutti gli odi, rendere felici tutti gli uomini e fare in modo che diventi una felice realtà il desiderio di un solo ovile e di un solo pastore.Mi sembra che la testa mi esploda, in un fuoco d’artifi-

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ciò. È un miracolo che non succeda davvero. Nella testa di un uomo (nel cuore sì) non ci stanno tante cose grandi. Magari avessi tante teste e tanti cuori, giovani e puliti, per riempirli di idee e di slanci nobili ed esaltanti!Anche se non ci credi, moccioso, mezz’ora fa stavo ricu­cendo un paio di calzini di uno dei miei nipoti più scatena­ti. La pazzia non impedisce di avere i piedi per terra”248.I grandi voli apostolici dell’immaginazione, mentre

rammendava abilmente i calzini dei suoi figli, lo porta­vano lontano col pensiero, ai membri dell’Opera disper­si. Il servizio di Isidoro, segretario e incaricato della po­sta che usciva dal Consolato, era preziosissimo. Egli la inviava ai vari destinatari. Le lettere destinate al “Le­vante felice” (“Dal Nonno a Perico, tramite Paco, per tutti i nipoti”) giungevano a Valencia, indirizzate a Paco Botella; poi a Torrevieja, dove per un lungo periodo stette Pedro Casciaro; poi le leggeva Rafael Calvo Serer, convalescente ad Alcalali, un paese presso Alicante; alla fine venivano conservate, dopo che tutti, compreso Chi- qui, in prigione a Valencia, avevano ben assimilato ciò che il Padre aveva scritto.

II cuore di Josemarìa si effondeva nelle lettere. E una volta Juan Jiménez Vargas, rilevando le forzature espressive cui era costretto a causa della censura, disse: “Tutto questo sembrerà ridicolo, col tempo!”. “Il ridi­colo non esiste”249, gli rispose il Padre. Le confidenze del nonno erano, per i suoi nipoti, la vita, un tesoro. “Cominciammo a fare orazione con le sue lettere”, rac­conta Paco Botella. Quando tutti le avevano meditate, “Pedro le raccoglieva e le portava via, perché fossero custodite al sicuro. E lo furono sino alla fine della guer­ra. Le lettere del Padre rimasero in attesa, nella cassetta di sicurezza di una Banca”250.

Grazie al suo disprezzo per il senso del ridicolo, il nonno mostrava senza veli lo straordinario affetto che sentiva per i suoi nipoti. A tal punto che Isidoro, comu­94

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nicando a quelli di Valencia l’immensa gioia di tutti per la notizia che Chiqui era uscito di prigione, aggiunse di propria iniziativa: “Non ti puoi immaginare la preoccu­pazione del nonno; è stato agitatissimo; veramente il suo affetto per i nipoti rasenta il delirio, è la sua più grande ossessione; che responsabilità per i piccoli se non sanno ricambiarlo allo stesso modo”251. Il nonno legge­va e rileggeva le lettere ricevute, al punto che Àlvaro gli chiese scherzando se avrebbe appeso “le lettere al bave­ro con uno spillo, per tenerle sempre sottocchio”252.

Chiqui, uscito di prigione, andò qualche giorno a ri­prendersi ad Alcalalì, dove stava Rafael Calvo Serer. En­trambi ricevettero lo stesso giorno una lettera da Madrid:

“Dal nonno a Chiqui, 27 luglio 1937.Amatissimo bambino mio, dalla gioia che mi hanno da­to le tue righe, puoi dedurre quanto mi sarebbe dispia­ciuto che mi scrivesse Paco e non tu, dopo essere stato dimesso dalla casa di cura. Fissazioni di vecchio!Ti ho molto pensato. Ti ho fatto più compagnia di quan­to tu possa pensare. Ho importunato continuamente il signor Angelo perché avesse per mio nipote la stessa cu­ra che avrei avuto io. Suppongo che mi avrà ascoltato e mi ascolterà ancora. È un ottimo amico mio! Probabilmente presto (sul serio) mio fratello Josemarìa, con suo figlio Jeannot, verrà nel nostro Paese. Farò in modo che Ignacio ti scriva, per fartelo sapere.Com’è andata con Rafa? E un bambino ma, per l’amore che mostra per i suoi fratelli, pur essendo così piccolo, si è guadagnato il mio cuore”253.Ed ecco la lettera a Rafael Calvo Serer.“Dal nonno a Rafa. Salute. 27 luglio 1937.Ragazzo mio! Ecco poche righe per te solo.Il tuo scritto, benché Alvaro ne rida, me lo sono letto non so quante volte. Adesso può essere che tocchi a te il turno di sentire le fragorose risate di questi bambini che

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vivono con il loro nonno. Gentaglia! Bene: sai già che non è vero; i miei piccoli sono buonissimi.L’affetto che hai per i tuoi fratelli - il nostro Chiqui! - mi ha toccato il cuore. Il signor Emanuele e io ti ringra­ziamo veramente di tutto il tuo naturale buon compor­tamento. Vedrai che abbraccio ti darò, mio piccolo Ra­fael, quando mi capiterai a tiro!Coraggio. Rimettiti, anche se hai l’ulcera, fino ad aver salute da vendere. Se ti è possibile, cerca di vedere ogni giorno il Figlio della signora Maria: è un grande Amico, non ti pare?Ricordati molto della famiglia (il nonno non osa dirti di ricordarti di lui) e cerca di acquisire sempre di più le ca­ratteristiche del nostro casato.Tutti ti abbracciano forte, insieme a me. Mariano”254.* * *

Era evidente che l’impresa aveva bisogno di manodope­ra, ma i pochi lavoratori di cui disponeva avevano biso­gno di cure. Di questo si rese conto il Fondatore dall’im­mobilità del suo rifugio. Essendo padre di famiglia, doveva vegliare per i suoi o ricorrere a sua madre, perché si prendesse cura di coloro che si trovavano allo sbando per Madrid, senza una casa e senza una mano femminile per cucire o per rammendare la biancheria. “Mamma, ri­cordati che sei la nonna dei miei figli”255, le scrisse.

Era pure consapevole che la bufera della guerra gli ave­va strappato gran parte delle prime donne dell’Opera: “Credo che mi manchi un nipote - il mio Pepe - e non so quante nipoti”, diceva con dolore256. Del piccolo gruppo di donne che avevano chiesto l’ammissione all’Opus Dei, riuscì a localizzarne solo una, Hermógenes, e incaricò Isi­doro di dirle che, nel caso avesse visto le altre, chiedesse loro preghiere, ma non dicesse loro dove stava, per evita­re rischi e preoccupazioni257. Eppure, in tali circostanze eccezionali giunse una nuova vocazione femminile, grazie alla... posta e passando per la censura di guerra.96

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Lola (Dolores) era la sorella di Miguel Fisac che, quando abitava nella Residenza di via Ferraz, aveva chiesto l’ammissione all’Opera. Ora si trovava nascosto in casa dei genitori, a Daimiel, un paese della Mancha. Don Josemarìa gli scriveva lettere attraverso Lola. Fu Miguel a prendere l’iniziativa di prospettare alla sorella la possibilità della sua vocazione all’Opera. In seguito fu il Padre a farla pensare a questa possibilità258, insi­stendo presso il Signore affinché si degnasse di chiamar­la all’Opera; glielo scrisse alla vigilia della festa della Vi­sitazione di Maria, anche per ringraziarla delle vettovaglie che aveva spedito da Daimiel:

“Dal nonno, per Lola, da Tegucigalpa (!), il primo lu­glio, vigilia della festa di mia Madre, 1937.Amatissima piccola mia, sapessi quanto gradisco le tue continue premure! È proprio impossibile che il signor Emanuele non ti faccia innamorare e non si adempia co­sì il mio desiderio, sempre più vivo, che tu faccia parte della mia famiglia.10 lo spero, credimi. E perdonami che ti parli con tanta franchezza: sono gli anni... e l’affetto che sento per tutti voi. Mi perdoni, non è vero?”259.11 Signore esaudì ben presto il suo desiderio, perché

due settimane dopo il Fondatore le scrisse: “Solo questo, piccola mia: sono felice di poterti chiamare nipote”260.

Il mese successivo, passato il tempo necessario perché Lola maturasse la sua decisione, le scrisse di nuovo:

“Per mia nipote Lola.Carissima piccola, il nonno, con i tuoi doni, diventa go­loso. Non ti dico altro. Buonissime le tue ciambelline\ Si lecca le dita... persino Jeannot, con il suo grande naso dottorale.Il signor Emanuele... Ora taccio. Solo una domanda: co­me va l’innamoramento? E un’altra: è vero, è vero che lo

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preferisci a tutti e vuoi - con volontà efficace - far parte della famiglia di questo nonno?Scusami, piccola: noi vecchi siamo sempre pieni di do­mande! Inoltre penso che ti abbiano già detto che Ma­riano è ben felice che gli si facciano confidenze; in parti­colare, confidenze d’Amore.Immagino che arrossirai nel rispondere. Ma non lo ve­drò e quindi, che importa? Oltretutto hai la possibilità di dirmi soltanto: ‘Nonno, alla sua domanda rispondo di sì’. Francamente, Lola, non ci penso neppure che pos­sa essere un no. Ormai lo sai: mi aspetto che comincino le tue confidenze.Quando parlo con Emanuele, gli ricordo ogni giorno i tuoi genitori e tutta la tua famiglia. Ma quando nomino te, gli dico sempre la stessa cosa: dipende esclusivamente da te tradurre in realtà le nostre chiacchiere. Non dimen­ticare che nella mia casa c’è molto lavoro, e lavoro duro, siamo pietre da costruzione: sono gli inizi, le fondamen­ta. Peraltro c’è anche qualcosa che non si trova da nessu­na parte: la gioia e la pace; in una parola: la felicità.Basta, per oggi mi fermo qui. Affettuosi abbracci ai tuoi genitori e non dimenticarti di tuo nonno. - Mariano”261.

* * sfr

Giunta l’ora di coricarsi, quando finalmente si calmava la confusione (“in questa solitudine, di cui godiamo, pur con tale eccesso di compagnia”, diceva il nonno)262, egli chiacchierava con Àlvaro, coricato sul materassino a fianco, degli “affari familiari”. Che cosa gli diceva?

Frammezzo alle righe, fatte di tratti ampi e vigorosi, di una lettera del nonno a quelli di Valencia, scorrono in­tercalate, quasi in un solco, le righe scritte con la minuta grafia di Àlvaro, in cui si parla degli affari familiari:

“Abbiamo avuto la gioia enorme della notizia di Chiqui. Che voglia di riunirci tutti e tutti insieme per un certo periodo, per toglierci di dosso tutta la polvere! Accadrà sicuramente a suo tempo; e forse sarà necessario per ri­prendere con rinnovato brio gli affari che il nonno, in­

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sieme a noi, ha per le mani. Alla sera, quando gli altri sono ancora alzati, il nonno e io, sdraiati sui materassini stesi, parliamo di tutte queste cose di famiglia.E vero che le circostanze intralceranno lo sviluppo degli affari. Ci sarà ogni genere di inconvenienti: la mancanza di soldi, di persone, di tutto. Tuttavia, nonostante la sua età, il nonno non si lascia mai prendere dal pessimismo. La mancanza di denaro non preoccupa lui e neppure noi. Tutto sta nel lavorare con molto slancio, che assieme alla fede nel successo sconfigge qualsiasi cosa. Questo dice il povero vecchio. Ma quello per cui soffre di più - senti­mento compatibile con la speranza che lo anima - è la scarsità di persone. Contando tutti i membri della fami­glia, siamo davvero pochi; che cosa sarà, pertanto, se fra di loro qualcuno muore o diventa inutile per l’impresa! (...) Fin da ora, e per quando si potrà lavorare, si prenda la fermissima decisione di stare molto uniti al resto della famiglia e, soprattutto, al signor Emanuele e al povero nonno. Se lo merita! Del resto, è perfettamente logico. Senza una cieca adesione a quelli che, in qualsiasi ambi­to, stanno a capo, è impossibile giungere a un buon risul­tato. Spero che non vi lamenterete, visto che, pur stando voi così lontani, vi racconto le conversazioni che, stando coricati, facciamo il nonno e io”263.Lavoro e responsabilità erano un salutare rimedio per

il Fondatore, che dimenticava se stesso per vivere il det­to evangelico: non veni ministrari, sed ministrare, che traduceva liberamente così: “Non sono venuto a dar fa­stidio, ma a sopportare”264.

Era responsabile “di sei bocche e di altrettanti stoma­ci”265. E, a lungo andare, dovette arrendersi all’evidenza della fame; se non per sé, almeno per i giovani con cui stava. Vincendo la ripugnanza a trattare questioni ali­mentari, cedette all’imperio della fame. Come un pove­ro un po’ imbarazzato, timidamente, mendicava cibo per i suoi. Ecco una breve nota a Isidoro: “Se vi fosse possibile, vi sarei grato che portaste qualcosa da man­

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giare: perché si fa la fame in questi giorni. Se non è pos­sibile, non preoccupatevi. Pazienza. Già ci stiamo abi­tuando”266.

Isidoro, ricevuto questo scritto attraverso i fratellini di Alvaro che l’avevano portato fuori dal Consolato, gli rispondeva il giorno dopo: “Di commestibili da potervi portare stiamo molto male, poiché in questi giorni non c’è nemmeno frutta. Quando riceveremo gli insaccati che ci annunciano da Daimiel li manderemo (...). Il pro­sciutto che inviamo viene da Pedro. Il vino lo danno col contagocce”267. “Non preoccupatevi dei commestibili - rispose il Padre -. Stringeremo la cinghia di un altro bu­co. C’è un fatto: sto ingrassando. Credetemi”268.

Il vino che gli procuravano era molto scarso; per alcu­ni giorni non potè celebrare la Messa perché era diven­tato aceto. Questo era peggio della fame: “Il nonno sa­rebbe felice se avesse del vino”, scriveva a quelli di Valencia. “Non sono un ubriacone, ma poiché piace al signor Emanuele, vorrei averlo (...). Povero nonno, che non ha vino per il suo stomaco malato! Delle mille pri­vazioni è quella che mi costa di più”269.

Dal Levante o da Daimiel arrivavano ogni tanto prov­viste di cibo. Ma, col rigore dei digiuni e delle penitenze,il nonno era ridotto a pelle e ossa, anche se sopportava la debolezza con buon umore e ottimismo, riferendosi a se stesso come “ quel quarto di chilo di baccalà che è vo­stro nonno”270. Continuò a indebolirsi e Isidoro, che lo vedeva spesso, raccontava allarmato a quelli di Valen­cia: “È dimagrito in modo atroce. Lui la mette sul ride­re: ma è solo l’ombra di quello che era”271.

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Il 24 luglio 1937, dodici mesi dopo che gli anarchici ave­vano sequestrato la Residenza di via Ferraz (ora inabita­bile, colpita ancora da cannonate al terzo piano e sul tet­to), Isidoro inviava per iscritto al Fondatore le proprie considerazioni sull’anno trascorso: “Dice Juan, e ha ra­100

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gione, che dobbiamo correggere coi fatti le sciocchezze * commesse l’anno scorso. Sono il primo a riconoscer­lo”272. Punto di vista sul quale il Fondatore si mostrava pienamente d’accordo, poiché scriveva: “Il fatto è che siamo stati, per tutto l’anno, troppo ingenui”273. Le esperienze accumulate in relazione alla possibilità di la­sciare il Consolato confermavano loro di essere nelle ma­ni di Dio; egli lo scrisse quello stesso giorno a Lola Fisac:

“La partenza di Josemarìa? Chi lo sa! Se non la sistemail signor Emanuele, che è tanto influente, con il console del suo Paese, va p$r le lunghe. Ti ho già detto l’altra volta che è la storia della buona pipa”274.Anche su questo era d’accordo Isidoro, che teneva

informato Pedro Casciaro: “A volte sembra che la sua possibile partenza sia imminente, altre volte sembra di guardarla con un telescopio a forte ingrandimento. Ora siamo in fase telescopica”275. Insomma, erano stati tantii tentativi falliti nelle trattative col mondo diplomatico che il nonno, deluso, era comunque pronto ad abbando­nare la Legazione dell’Honduras. Impaziente di occu­parsi degli affari - fare il suo apostolato -, decise infine una data: “Alla fine del mese o ai primi di agosto me ne andrò, è sicuro”276.

In quei giorni erano già stati avviati tentativi di pro­curare a don Josemarìa un passaporto argentino, ma era necessario presentare un certificato di nascita. Poiché Isidoro aveva appena ricevuto due certificati, pensarono che, opportunamente ritoccati e cambiando i nomi, po­tessero servire al Padre e a Juan per chiedere i passapor­ti. Sabato 31 luglio essi uscirono dal Consolato con Isi­doro, per farsi le foto. Il giorno successivo incaricarono Carmen di confezionare per loro due bracciali con i co­lori della Repubblica Argentina, come quello che porta­va Isidoro277.

In quei giorni anche Tomàs Alvira, un amico di José101

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Maria Albareda, era riuscito ad avere il certificato di nascita di un altro argentino, con l’idea di ottenere un passaporto e di uscire dalla Spagna come suddito stra­niero; ne parlò con Isidoro e i due decisero di comune accordo che sarebbe stato meglio servirsi di quest’ulti­mo certificato per dare un passaporto al Padre. Cancel­larono con la scolorina i dati personali, ma la carta si rapprese in modo tale che la si dovette stirare con un ferro da stiro caldo. Poi, con una macchina per scrivere con gli stessi caratteri di quelli del certificato, lo riempi­rono con i dati del Padre e lo consegnarono al Consola­to. Sarebbero dovuti ritornare tre o quattro giorni dopo a ritirare il passaporto.

Frattanto la scolorina aveva lasciato sulla carta alcu­ne macchie accusatrici; e quando l’interessato si pre­sentò personalmente, il Console (o forse un Segretario d’Ambasciata) ebbe parole di rimprovero per l’autore dell’imbroglio. Don Josemarìa reagì prontamente e re­plicò: “Sono avvocato e sono sacerdote. Date le circo­stanze, come avvocato lo difendo e lo giustifico, come sacerdote lo benedico”278. Gli presentarono le loro scu­se, ma non gli diedero il passaporto.

Il Padre accettò la contrarietà senza farne una tragedia, a giudicare da quanto scrisse a Isidoro: “Mi adeguo pie­namente e sono contento, credimi”279. E subito, due gior­ni dopo il fallimento del tentativo, diede un incarico ben preciso a quelli di Madrid: “Che nessuno dia tregua al si­gnor Emanuele”; e lo stesso a quelli di Valencia: “Impor­tunate il signor Emanuele affinché, se è opportuno, riesca a farci uscire e a farci andare nel nostro Paese”280.

Il terrorismo sfrenato delle milizie rivoluzionarie, an­che se non era scomparso, era diminuito considerevol­mente281. Santiago abitava ora con la madre e la sorella e circolava liberamente per Madrid, vestito con una tuta e provvisto di due tessere, una di anarchico della C.N.T. e l’altra del Soccorso Internazionale. Isidoro aveva an­che ottenuto dalla sua Ambasciata un certificato di la­102

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voro, imprescindibile per poter giustificare la sua per­manenza a Madrid.

Un’altra faccenda di vitale importanza, quale era quella dei generi commestibili, fu in parte risolta grazie alla generosità di quelli del Levante e di Daimiel. Come diceva Isidoro, “sembra quasi di mangiare per corri­spondenza”282. I pacchetti postali o le spedizioni per corriere contenevano piccole quantità per molte bocche, ma erano pur sempre qualcosa.

Il 20 agosto, con il pacchetto di cibarie, arrivò a Isi­doro una lettera da Daimiel “Per il nonno”. Era la ri­sposta, breve e piena di pudore, alle domande di due settimane prima e diceva né più né meno quanto segue: “Nonno, alle sue domande rispondo di sì; senza ombra di dubbio lo preferisco davvero a tutti e mi considero molto felice di far parte della sua famiglia. Non la di­mentica sua nipote. Lola”283.

Non potevano mancare alcune parole di ringrazia­mento da parte del nonno:

“Per LolaAmatissima piccola mia, la tua ultima lettera mi ha ve­ramente rallegrato. Più del prosciutto, naturalmente: an­che se il prosciutto - me l’hai chiesto e ti rispondo - è il migliore che abbiamo mai mangiato da queste parti. Ri- conoscentissimo. Ora, te lo racconto in segreto, tocca a me arrossire: non è bene vivere a sbafo, come faccio io. Ma... il signor Emanuele è un buon pagatore.Però non voglio abusare: hai già fatto troppo per questo povero nonno.Saluta con affetto i tuoi e ricevi un abbraccio da

Mariano. 22 agosto 1937”284.Nonostante i ripetuti tentativi, la situazione restava

identica. Don Josemaria decise allora di lasciare il rifu­gio e di andare ad abitare con sua madre, in via Cara­cas, provvisto di un certificato di malattia redatto dal Dott. Suils285. Ma le cose si complicarono. Era necessa­

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rio prima di uscire procurarsi una tessera sindacale e un certificato di lavoro affinché il “comitato di edificio”, che controllava le entrate, le uscite e la permanenza dei residenti, lo autorizzasse a risiedervi286. Invece il piano di Juan sembrava ben avviato; ma alla fine anch’esso andò storto. “Chiunque potrebbe pensare - commenta Isidoro - che il signor Emanuele non desideri che se ne vada; ma, nonostante ciò, continuiamo a fare passi in altre direzioni”287.

Quella stessa settimana - era la fine di agosto - a Ma­drid comparve Chiqui. “E ha avuto fortuna, il gran mo­nello - scrisse il nonno ai nipoti - perché gli ho dato la stupenda colazione del signor Emanuele”288; aveva po­tuto ricevere la santa Comunione dalle mani di don Jo­semaria.

Quel costante insistere a cercare una nuova soluzione non appena falliva un tentativo ebbe alla fine successo. Don Josemaria si lambiccava il cervello su come procu­rarsi documenti a prova di controlli di polizia e militari, e alla fine ebbe una nuova idea: e se il Console gli avesse dato un certificato di lavoro come contabile del Conso­lato?289.

Malgrado i suoi dubbi che Pedro Jaime de Matheu ac­cogliesse la proposta, riuscì a convincerlo. In quel regno della fame lo nominò nientemeno che Intendente; gli venne dato un documento in cui il Console Generale della Repubblica dell’Honduras certificava laconica­mente che “José ESCRIBÀ ALBÀS, di 35 anni, celibe, è al servizio di questa Cancelleria in qualità di INTEN­DENTE”290.

Sotto una foto, in abito scuro e con cravatta, appare la “Firma dell’interessato e impronta digitale destra”. “José Escribà”, lasciandosi trasportare da un moto spontaneo, firmò “Josemaria Escrivà”. Quando si rese conto dell’errore era ormai troppo tardi e per la prima e ultima volta nella sua vita fu costretto a correggere la v di Escrivà in una evidentissima b. Ma perché preoccu­104

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parsi della firma, dal momento che tutte quelle carte - i certificati del Dott. Suils e del Console - erano “più fal­si di Giuda”?

Felice di avere finalmente dei documenti e di poterse­ne uscire per strada, scrisse a quelli di Daimiel, pronto a inaugurare il suo incarico, senza dimenticare, soprattut­to, che avrebbe potuto portare loro la Sacra Eucaristia:

“31 agosto 1937Cara nipote, ti comunico che mio fratello Josemarìa è stato nominato “Intendente” del Consolato Generale dell’Honduras. Naturalmente, è responsabile degli ap­provvigionamenti del Consolato. E gli è venuto in mente che, se lì gli fornite in quantità fagioli, ceci, lenticchie, olio, farina, ecc., lui - Josemarìa - con piacere potrebbe intraprendere il viaggio a Daimiel (accompagnato dal si­gnor Emanuele) con una macchina ufficiale del Consola­to. Quindi, vedi se laggiù c’è la possibilità di comperare le vettovaglie citate; e se è possibile comunicatemi prezzi e quantità di ciascun genere che si potrebbero acquistare.Se non si tratterà di una quantità di un certo rilievo, S.E.il Signor Console non deciderà che si faccia il viaggio.Che gioia se Josemarìa riuscirà a vedervi!In attesa di tua risposta, vi abbraccia Mariano”291.

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NOTE AL CAPITOLO IX

1 “Il terrore in Spagna fu simile a quello della guerra civile russa in quan­to, in entrambi i casi, il clero fu una delle vittime principali della violenza. La persecuzione contro la Chiesa cattolica fu maggiore di qualsiasi altra mai vista nell’Europa occidentale, compresi i momenti più duri della Rivo­luzione francese. Il numero di ecclesiastici assassinati - circa 7.000 - fu proporzionalmente identico a quello delle stragi comuniste in Russia, te­nendo presente la differenza di popolazione, benché sembra che in Russia fossero più comuni le torture” (Stanley G. Payne, El catolicismo espanol, Barcellona 1984, p. 214. Cfr Fernando de Meer Lecha-Marzo, Algunos aspectos de la cuestión religiosa en la guerra civil (1936-1939), in Anales de Historia Contemporànea, n. 7 (1988-1989), pp. 111-125).2 Per una sintetica visione d’insieme, cfr Carlos Seco Serrano, De la demo- cracia republicana a la guerra civil, in Historia General de Espana y Amé- rica, Volume XVII: La Segunda Republica y la guerra, Madrid 1988, pp. XIII-LX; e Stanley G. Payne, La quiebra de la Segunda Republica, in Mi­guel Alonso Baquer, La guerra civil espahola (sesenta ahos después), Ma­drid 1999, pp. 17-32.3 Certamente la Costituzione del 1876 e la Legge Elettorale del 1890 sta­bilivano princìpi democratici nelle istituzioni. Ma altro è che questi princì­pi avessero un effetto reale in un Paese che, nel 1900, aveva un tasso di analfabetismo superiore al 60%.4 Questo periodo è ancor oggi fonte di polemica fra gli storici: “La storia politica della Seconda Repubblica spagnola è una delle più controverse e mitizzate dell’Europa del XX secolo. La Repubblica iniziò pacificamente con un gradimento relativamente ampio, anche se naturalmente c’erano atteggiamenti molto diversi nei vari ambienti della società spagnola. In due anni essa introdusse una serie di riforme - alcune discutibili quanto a prudenza o efficacia - e produsse i sommovimenti politici più importanti che la Spagna avesse mai conosciuto. In capo a tre anni essa divenne il caso più evidente di decadenza e di radicalizzazione politica nell’Europa

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del XX secolo, e si disintegrò in una grande guerra civile rivoluzionaria e controrivoluzionaria. Gli storici non sono neppure d’accordo sul perché tutto ciò accadde. Ormai non è più ammessa l’interpretazione propagan­distica, ampiamente accettata all’estero durante la guerra civile e la II guerra mondiale, che attribuiva tutto a una cospirazione della destra con­tro la democrazia, ma non esiste neppure una interpretazione condivisa da tutti. L’esperienza repubblicana può esser vista come il conflitto e il collas­so delle forze parlamentari, il fallimento di un tentativo di riforma, oppu­re come un processo rivoluzionario e brodo di coltura di una cospirazione delle destre. Fu tutte queste cose, ma anche altro” (Stanley G. Payne, El régimen de Franco. 1936-1975, Madrid 1987, pp. 47-48).5 Cfr Stanley G. Payne, Antecedentes y crisis de la democracia, in Stanley G. Payne e Javier Tusell, La guerra civil. Una nueva visión del conflicto que dividió Espana, Madrid 1996, pp. 26-27.6 Su un totale di 492 deputati, la CEDA ne ottenne 115, seguita dai Radi­cali di Lerroux con 102. L’insieme dei piccoli partiti di destra (Agrari, Tradizionalisti, Partito Nazionalista Basco, Partito Nazionalista Spagnolo e Lega Catalana, ecc.) raggiunse i 124 seggi. I piccoli partiti della destra repubblicana (Conservatore, Liberal-Democratico e Progressista) otten­nero un totale di 30 deputati; il blocco di sinistra, composto da alcuni partiti di area borghese (Azione Repubblicana, Sinistra Repubblicana, Fe­derali e ORGA) e da altri rivoluzionari (Partito Socialista, Partito Radi- cal-Socialista, Partito Comunista e Unione Socialista della Catalogna), ebbe 120 deputati.7 In Gonzalo Redondo, Historia de la Iglesia en Espana. 1931-1939, Voi.I, La Segunda Republica (1931-1936), Madrid 1993, p. 412, appare il se­guente bilancio della rivoluzione nelle Asturie, fra vittime e danni: “Morti: Guardia Civile, 100; Esercito, 98; Forza pubblica e Carabinieri, 86; Reli­giosi è sacerdoti, 34; civili, 1051. - Feriti: Esercito e Forza pubblica, 900; civili, 2051. - Edifici incendiati, fatti saltare o danneggiati: Edifici pubblici (caserme, municipi, ecc.), 63; Chiese, 58; centri di cultura, 5; fabbriche, 26; edifici privati, 730. Inoltre, 58 ponti, 31 strade e 66 linee ferroviarie interrotti”.8 La cosa politicamente più grave fu la crescita dell’orientamento nettamen­te rivoluzionario in un settore dei socialisti, deciso a “bolscevizzare” il par­tito, rispetto all’ala moderata dello stesso (cfr Burnet Bolloten, La guerra civil espanola: Revolución y contrarrevolución, Madrid 1989, pp. 73-89).9 Cfr Stanley G. Payne, Antecedentes..., op. cit., pp. 35-40 e 61-94.10 Si può avere un’idea della complessità dei motivi che condussero alla guerra dalla lettura del Informe acerca del levantamiento ctvico-militar de Espana en Julio de 1936, datato 13-VIII-1936 e inviato a Roma dal Car­dinale Gomà, riportato da Maria Luisa Rodriguez Aisa, El Cardenal Gomà y la guerra de Espana. Aspectos de la gestión publica del Primado. 1936-1939, Madrid 1981, pp. 371-378. Cfr Fernando de Meer Lecha-

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Marzo, op. cit., pp. 111-113. Cfr pure Stanley G. Payne, La revolución espanola, Madrid 1972.11 Cfr Michael Alpert, El ejército republicano en la guerra civile Madrid 1989, p. 16; cfr anche la testimonianza di Churchill, in Charles A. Wil- loughby, Bailén y la cabeza de puente espanola: 1808-1948, Madrid 1952, pp. 59-60.12 Fra i quali c’era ancora il Generale Francisco Franco.13 Cfr Burnet Bolloten, op.cit, pp. 95-97. Cfr pure il ricordo personale di un testimone qualificato degli avvenimenti: Julian Marias, Una vida pre­sente. Memorias I (1914-1951), Madrid 1988, cap. XII, La guerra civile pp. 187-192. Le parole del leader socialista Indalecio Prieto, scritte il gior­no successivo all’assassinio di Calvo Sotelo, dimostrano la tensione sociale cui si era giunti: “Se la reazione sogna un colpo di Stato incruento, come quello del 1923, si sbaglia di grosso. Se presume di trovare indifeso il regi­me, s’inganna. Per vincere dovrà passare sopra all’argine umano che le op­porranno le masse proletarie. Sarà, come ho detto molte volte, una batta­glia all’ultimo sangue, perché ciascuna delle parti sa che l’avversario, se vince, non le darà scampo. E se anche ciò dovesse accadere, sarebbe prefe­ribile un combattimento decisivo a questo continuo stillicidio” (Indalecio Prieto, in El Liberal del 14-VII-1936).Il 12 luglio il Generale Mola stabilì la data del golpe militare: “A partire dalle ore 0 del giorno 17” (cfr F.B. Màiz, Mola, aquel hombre, Barcellona 1970, p. 264). Cfr pure Antonio Gonzàlez-Betes, Franco y El Dragon Ra­pide, Madrid 1987, dove, alle pp. 107 e ss., si legge che l’aereo con questo nome, che trasportò il Generale Franco in Marocco all’inizio dell’insurre­zione, iniziò il volo verso la Spagna P II luglio.Il motivo addotto dai militari per l’insurrezione era la situazione critica che la Spagna attraversava: cfr Alocución del General Franco radiada desde Tenerife; il Bando declarando el estado de guerra en Sevilla emana­to dal Generale Queipo de Llano o il Manifesto del General Mola del 3- VD-1936.14 La Spagna e la Francia esercitavano all’epoca il protettorato su territori dell’attuale Marocco.15 Erano formazioni paramilitari, parzialmente armate, collegate a diver­si partiti. L’espressione “milizie popolari” indicava una volontà di distri­buire le armi “al popolo”, ma in realtà voleva dire consegnarle ai mili­tanti dei partiti e dei sindacati rivoluzionari, decisi a impadronirsi della situazione. La richiesta peraltro coincise con l’abbandono del servizio militare da parte di molti soldati - specialmente a Madrid, Barcellona, Cartagena, Valencia e altre città - per effetto di un decreto, emanato dal Presidente della Repubblica poco dopo l’insurrezione, che li esentava dal giuramento di obbedienza ai propri ufficiali. Nel momento in cui l’eser­cito si disfaceva, nasceva la figura del miliziano o della miliziana popo­lare, nuclei armati raggruppati in base alle affinità politiche e che costi­tuirono un serio problema per i governi, che tentarono - con alterna vo­lontà e fortuna - di inquadrarli nella disciplina militare. A Madrid que­

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wsto obiettivo non fu raggiunto in misura apprezzabile se non nel maggio 1937; prima i miliziani, al di fuori di ogni controllo governativo, impo­sero nelle strade la propria legge, almeno nei primi mesi del conflitto (cfr Burnet Bolloten, op. cit., pp. 411-423; e, per la situazione di Ma­drid, Javier Cervera Gii, Madrid en guerra. La ciudad clandestina3 1936- 19393 Madrid 1998, pp. 109-110).16 II governo di Martinez Barrio durò meno di 24 ore e non fu neppure pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale. Ne fu nominato un altro il giorno 20, con José Girai primo ministro. Uno dei problemi più gravi che erano all’o­rigine di questi veloci mutamenti era la consegna delle armi ai miliziani, che Casares Quiroga e Martinez Barrio cercarono invano di impedire. Erano consapevoli che, se non lo avessero impedito, il loro governo sareb­be stato meramente nominale e che il potere reale sarebbe stato nelle mani delle milizie. Fu proprio questo che indusse alle dimissioni Martinez Bar­rio e che Girai invece approvò: “Ma quel governo era tale solo di nome; trascinato irrimediabilmente dagli eventi, esso assistette al rapido dissol­versi del regime repubblicano del 1931, fra l’incudine della ribellione mili­tare e il martello della rivoluzione sociale. Il primo ministro ammise che in tutti i ministeri si erano insediati immediatamente i comitati del Fronte Popolare, per aiutare i ministri e sorvegliarli, privandoli di ogni parvenza di vera autorità” (Burnet Bolloten, op. cit., p. 109. Per questo l’autore parla dell’avvento di una “Terza Repubblica”, nata dalla rivoluzione in atto).“Casares Quiroga, prima di dimettersi (cosa che fece la sera del 18 luglio), aveva consigliato a mons. Eijo y Garay, Vescovo di Madrid, di abbando­nare la città per motivi di sicurezza e questi partì per Vigo il pomeriggio stesso (...). I miliziani il giorno 19 assaltarono il Vescovado di Madrid e crivellarono di colpi il ritratto di mons. Eijo y Garay” (Javier Cervera Gii, op. cit., pp. 44 e 45).17 “Coloro che avessero voluto entrare nella caserma de la Montana il gior­no 19 avrebbero dovuto superare le postazioni d’assedio della Guardia Ci­vile e della Guardia di assalto; poi c’era un battaglione di socialisti e, più indietro, gruppi di popolani armati” (Javier Cervera Gii, op. cit., p. 45).18 Cfr Juan Jiménez Vargas, AGP, RHF, T-04152-III, p. 15; Alvaro del Por- tillo, Sum. 879.19 Cfr José Miguel Pero-Sanz, Isidoro Zorzano. Il carisma della normalità3 Milano 1999, p. 148.20 Una descrizione molto dettagliata degli avvenimenti in Javier Cervera Gii, op. cit., pp. 45-48. Erano stati trasportati nella piazza di Spagna due cannoni e due carri da combattimento.21 Appunti, n. 1325 del 25-111-1936.22 Dichiara Juan Jiménez Vargas che “la tonaca era una sentenza di morte” (RHF, T-05152/1, p. 16; cfr Santiago Escrivà de Balaguer, RHF, T- 07921, p. 18). Mostrare la tonsura clericale comportava gli stessi pericoli (cfr Alvaro del Portillo, Sum. 879). Quanto alla tuta blu da lavoro, cfr

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Lettera a Maria Dolores Fisac Sema, in AGP, RHF, EF-370813-1 (tutte le lettere del Fondatore del periodo fra il luglio 1936 e il 7 ottobre 1937 fu­rono scritte a Madrid).23 II diario consiste di due fogli manoscritti (cfr Appendice documentale, documento XVI). Dura cinque giorni, ha carattere schematico e le nume­rose abbreviazioni sono state sostituite, nella trascrizione del testo, con le parole complete. L’originale è conservato in AGP, RHF, D-15223..24 Cfr Àlvaro del Portillo, PR, p. 1001; Javier Echevarria, Sum. 2420.25 Cfr Appunti, n. 1620, del 24-VIIM940.26 Cfr Burnet Bolloten, op. cit., pp. 117-118. Il giorno 19 a Madrid furo­no ancora celebrate alcune Messe; poi in giornata furono attaccate e sac­cheggiate una decina di chiese. “Nella notte fra il 19 e il 20 a Madrid bru­ciarono altri 34 edifici religiosi. Nel periodo compreso fra sabato 18 e martedì 21, le prime settantadue ore di rivoluzione, furono saiccheggiate nella capitale spagnola 46 chiese, cioè il 34,8% di quelle esistenti”. “Nel 1939, alla fine della guerra civile, la situazione delle 210 chiese che esiste­vano a Madrid era la seguente: distruzione totale, 45; distruzione parziale, 56; danni lievi, 84; senza danni, 14; intatte, 11. Quelle distrutte parzial­mente, e anche quelle che avevano subito lievi danni o erano rimaste in­denni, erano state tutte saccheggiate” (Gonzalo Redondo, Historia de la Iglesia en Espana. 1931-1939. Voi. II: La guerra civil (1936-1939). Ma­drid 1993, p. 20 è nota 6. Cfr Raymond Carr, La tragedia espanola. La guerra civil en perspectiva, Madrid 1977, pp. I l i e ss.).27 La monaca era figlia del tenènte colonnello Paniagua, che abitava nello stesso edificio degli Escrivà; l’agostiniano era padre Nemesio Morata, ce­lebre arabista, che era fuggito dal monastero di El Escoriai (cfr Àlvaro del Portillo, Sum. 879; Santiago Escrivà de Balaguer, RHF, T-07921, p. 19). Nei primi giorni della rivoluzione, sino alla fine del mese di luglio, è docu­mentato l’assassinio di 41 sacerdoti a Madrid. Lo studio più dettagliato disponibile ha accertato l’assassinio di 435 sacerdoti della diocesi di Ma­drid-Alcalà durante la guerra, il 38,8% del totale (José Luis Alfaya Cama- cho, Como un rio de fuego. Madrid 1936. Barcellona 1998, pp. 64-88 e 285-309. A essi bisogna aggiungere, nella stessa diocesi, i 451 religiosi e73 religiose assassinati o scomparsi durante la guerra (cfr Gonzalo Redon­do, Historia de la..., Voi. II, op. cit., p. 20). L’impresa di contare i semplici fedeli assassinati per la loro condizione di cristiani non è facile, per il nu­mero elevato e per la quasi impossibile localizzazione delle fonti, benché il lavoro di Javier Cervera Gii apporti elementi interessanti e significativi.28 Cfr José Miguel Pero-Sanz, op. cit., p. 149.29 Su tutto questo, cfr Diario, RHF, D-15223 (Appendice documentale, documento XVI) e Juan Jiménez Vargas, RHF, T-04152-III, pp. 21 e ss.30 Cfr Ian Gibson, Queipo de Llano. Sevilla, ver ano de 1936 (con las cbarlas radiofónicas completas), Barcellona 1986.31 Cfr Juan Jiménez Vargas, RHF, T-04152-III, pp. 26-28.

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32 Questi altri documenti, che si trovavano pure nel baule, erano tessere della AET (Associazione degli Studenti Tradizionalisti) non compilate, ma firmate da Juan Jiménez Vargas e da lui conservate dal tempo in cui era stato segretario di questa organizzazione a Madrid, alcuni anni prima. C’era il pericolo che i miliziani, trovando tutto nel baule, collegassero gli studenti della Residenza con i membri di questa organizzazione politica (cfr ibidem, p. 29).33 Ibidem, pp. 29-30. Javier Cervera Gii (op. cit., pp. 68-78) ha condotto uno studio dettagliato sulle passeggiate avvenute a Madrid da luglio a di­cembre 1936. Dai 3000 casi studiati, conclude che il gruppo sociale più “passeggiato” fu quello dei sacerdoti e dei religiosi (18,11%), mentre la percentuale fu inferiore per studenti e medici (5% e 4% rispettivamente).34 Juan Jiménez Vargas, RHF, T-04152-III, pp. 30-31.35 Istruzione 19-111-1934, n. 47; cfr anche Appunti, n. 1287, del 3-X- 1935; Alvaro del Portillo, Sum. 675.36 Circa questa sicurezza e questo ottimismo, Jiménez Vargas scrive: “La spiegazione è molto semplice. Non dubitavamo mai del futuro immediato, convinti, naturalmente, che al Padre non sarebbe accaduto nulla. Capiva­mo però la necessità di avere la massima prudenza e di aver cura della sua sicurezza personale. Sapevamo che doveva fare l’Opera e questo ci dava una solida speranza, una chiara certezza che tutto si sarebbe risolto” (RHF, T-04152-III, p. 34).37 A ppunti, n. 178, del 20-111-1931. Per le Caterine, cfr il cap. VI del voi. I della presente opera (NdC).38 Ibidem, n. 212, del 26-VII-1931.39 Ibidem, n. 291, del 18-IX-1931.40 Ibidem, n. 431, del 29-XI-1931.41 Istruzione 19-111-1934, n. 6.42 Cfr Diario, RHF, D-15223 (Appendice documentale, documento XVI).43 Circa l’attività dei portinai come informatori, cfr Javier Cervera Gii, op. cit., p. 189.44 Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 879.45 Appunti, n. 1372, del 30-VI-1936.46 L’appartamento era al terzo piano a sinistra (il n. 31 divenne, anni dopo, il n. 33), all’angolo con via Alonso Martinez, di fronte all’antico bar La Mezquita (cfr Juan Jiménez Vargas, RHF, T-04152-III, pp. 40-41).47 Cfr Juan Jiménez Vargas, RHF, T-04152-III, pp. 36 e ss. Il conte di Leyva era, dal 1925, Juan José Conde-Luque y Garay.48 Cfr José Miguel Pero-Sanz, op. cit., p. 150 e Diario di Manuel Sainz de los Terreros Villacampa, del mese di agosto 1936, in RHF, D-03637. Do­lores Escrivà dovette aspettare alcuni giorni per sapere dove si era rifu­giato il figlio, per l’atteggiamento assolutamente riservato di Manolo Sainz de los Terreros, il quale - come testimonia Santiago Escrivà de Ba-

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laguer - “non ci diceva dove si trovava. Probabilmente mia madre prefe­riva non sapere dove stesse e si accontentava della notizia che stava bene” (RHF, T-07921, p. 19).49 Su tutti questi avvenimenti, cfr Juan Jiménez Vargas, RHF, T-04152-III, pp. 38 e ss.; Santiago Escrivà de Balaguer, RHF, T-07921, pp. 20 e ss.50 Juan Jiménez Vargas, RHF, T-04152-III, p. 39.51 Santiago Escrivà de Balaguer, RHF, T-07921, pp. 20-21; e anche Juan Jiménez Vargas, RHF, T-04152-III, pp. 39-40; Appunti, nota prelimina­re, p. 3.52 Appunti, n. 1595.53 Pedro Maria Rivas Garcia-Calderón, RHF, T-03175. Rivas si rifugiò in seguito in casa di alcuni conoscenti e poi, dal 16 ottobre 1936 fino alla li­berazione di Madrid nel 1939, in via del Prado sotto la protezione del- l’Ambasciata del Cile. Nel 1946 entrò tra gli Ospedalieri di San Giovanni di Dio. Morì a Ciempozuelos (Madrid) nel 1993.54 Cfr Juan Jiménez Vargas, RHF, T-04152-III, pp. 50-52.55 Juan Manuel Sainz de los Terreros Ranero, RHF, T-05127; Alvaro del Portillo, Sum. 880.56 Juan Manuel Sainz de los Terreros Ranero, RHF, T-05127.57 Juan Jiménez Vargas, RHF, T-04152-III, pp. 51-52. Sui sentimenti di Juan, v. ibidem, p. 52.58 Mercedes Conde-Luque Herrero, RHF, T-04925, p. 1.59 La contessa si chiamava Mercedes Herrero y Velàzquez.60 Mercedes Conde-Luque Herrero, RHF, T-04925, p. 3.61 Le ricerche per trovare un nuovo rifugio furono lunghe, rischiose e in­fruttuose. In alcuni casi, perché non si riusciva a superare la paura di na­scondere in casa un sacerdote, come accadde con la famiglia di Miguel Banón. Altre volte, come nel caso dei Leyva, perché c’erano altri rifugiati in casa e il pericolo si moltiplicava. Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 881.62 Juan Jiménez Vargas, RHF, T-04152-III, p. 55.63 Ibidem, p. 58.64 Cfr Javier Cervera Gii, op. cit., pp. 175-179. L’autore analizza detta­gliatamente il rastrellamento in città dei potenziali nemici della rivoluzio­ne, i modi più comuni in cui veniva condotto e cita alcuni di coloro che furono catturati.65 Alvaro del Portillo, Sum. 882.66 Alvaro del Portillo, PR, p. 614. Sugli “zuccherini” (che si è preferito alla traduzione letterale “ditate di miele” - NdC), cfr Javier Echevarrìa, Sum. 3267.67 Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 466, 882 e 1499; Javier Echevarrìa, Sum. 2418; Joaquìn Alonso Pacheco, Sum. 4632.

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68 Don Pedro Poveda fu incarcerato il 27 luglio e assassinato il 28 di primo mattino. Don Lino Vea-Murgufa fu catturato a casa sua al termine della Messa e fucilato qualche ora dopo, il 16 agosto, nel cimitero dell’E- st. Cfr la descrizione dettagliata in José Luis Alfaya Camacho, op. cit., pp. 91-93 e 96; e Antonio Montero Moreno, Historia de la persecución reli­giosa en Espana, Madrid 1961, p. 594; Alvaro del Portillo, Sum. 1471.69 Alvaro del Portillo, Sum. 882-883; Joaqufn Alonso Pacheco, Sum. 4632.70 Cfr Juan Jiménez Vargas, RHF, T-04152-III, p. 60; Joaquìn Herrero Fontana, RHF, T-04812.71 Su tutto questo cfr Eugenio Sellés Marti, RHF, T-02012, p. 1; Alvaro del Portillo, Sum. 883; Juan Jiménez Vargas, RHF, T-04152-III, p. 62.72 Eugenio Sellés Marti, RHF, T-02012, p. 2.73 II dottor Àngel Suils Pérez era nato a Logrono nel 1906 e aveva fre­quentato il liceo nellTstituto Generale di Logrono, come don Josemarìa. Suo padre, Àngel Suils Otto, era medico, conosceva gli Escrivà e aveva as­sistito la madre alla nascita di Santiago Escrivà; suo nonno era stato socio della Garrigosa, l’azienda di Logrono nella quale lavorò José Escrivà (Juan Jiménez Vargas, RHF, T-04152-III, p. 64).74 Le fonti, su questo punto, sono piuttosto vaghe quanto alle date, e a volte si contraddicono leggermente, ma è comprensibile, dopo 40 anni. Tuttavia sono conservate parte delle note del diario di Juan Jiménez Var­gas, che comprende i giorni dal 6 al 15 ottobre. Completando le abbrevia­zioni, vi si legge, alla data del 7 ottobre: “Alle 10 sono venuti a casa mia il Padre e Joaquìn. Subito dopo Chiqui, che si è confessato con il Padre. La domestica di Joaquìn gli diceva questa mattina: buon giorno, Padre. [}oa- quìn] ha telefonato al Parque per far venire qui la macchina e ci ha avver­titi di avvisare la portinaia che avrebbe chiesto del dottor Herrero Fonta­na. Abbiamo nascosto a casa mia il documento di riconoscimento. Suils gli firmerà il certificato, sicuramente con un nome falso” (originale in RHF, D-15347; cfr Appendice documentale, documento XVII). Cfr pure Eugenio Sellés Marti, RHF, T-02012, p. 2; e Juan Jiménez Vargas, RHF, T- 04152-III, pp. 64-65.75 Joaquìn Herrero Fontana, RHF, T-04812. Il dottor Maranón era un ce­lebre medico, noto scrittore e repubblicano di nobili convinzioni liberali.76 Lettera ai suoi figli di Valencia, in EF-370505-4.77 Cfr il Diario già citato: RHF, D-15347 (Appendice documentale, docu­mento XVII)78 Cfr RHF, D-15348.79 Cfr RHF, D-15348. Per tutto quanto si riferisce alla sua permanenza nella casa di cura del Dott. Suils, cfr Juan Jiménez Vargas, RHF, T-04152- III, pp. 64 e ss.; Maria Luisa Polanco Fernàndez, RHF, T-04835; Santiago Escrivà de Balaguer, RHF, T-07921, pp. 20 e ss.; Carmen Penalver Gómez de las Cortinas, marchesa de las Torres de Oràn, RHF, T-05090.

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80 Diario già citato: RHF, D-15347 (cfr Appendice documentale, docu­mento XVII).81 Cfr Juan Jiménez Vargas, RHF, T-04152-III, pp. 65-66.82 Davanti alla vastità e alla crudeltà della persecuzione religiosa nella zona repubblicana e alle difficoltà per amministrare i sacramenti, alcuni Vescovi e Superiori religiosi si rivolsero alla Santa Sede. In una lettera del22 agosto 1936 il Segretario di Stato, Cardinale Pacelli, annunciava al Ge­nerale dei Missionari del Cuore Immacolato di Maria che il Romano Pon­tefice conferiva, estendendola ufficialmente a tutti i sacerdoti, la grazia ri­chiesta di celebrare la Messa senza altare né paramenti “finché durino le dolorosissime circostanze attuali” (cfr Antonio Montero Moreno, op. cit., pp. 99-100).83 Annotazione del 15 ottobre 1936 (cfr RHF, D-15347; Appendice docu­mentale, documento XVII).84 Juan Jiménez Vargas, RHF, T-04152-III, p. 66; cfr José Miguel Pero- Sanz, op. cit., p. 154.85 Maria Luisa Polanco Fernàndez, RHF, T-04835.86 RHF, D-15348 e anche il Certificato del Sindacato Medico: RHF, D- 03414.87 Cfr Maria Luisa Polanco Fernàndez, RHF, T-04835. A Fiorentino suc­cesse il nuovo amministratore, Celso Lacalzada, di Logrono, conoscente del Dott. Suils. Il suo nome compare, con il resto del personale, tra i fir­matari dello statuto costitutivo della società della casa di cura.88 Lettera ai suoi figli di Valencia, in EF-370505-4. Il farmacista malato di mente era Italo Della Torre Morasso (cfr Àlvaro del Portillo, Sum. 884).89 Sull’ambiente della casa di cura e dei malati mentali, cfr Juan Jiménez Vargas, RHF, T-04152-III, pp. 71-74; Maria Luisa Polanco Fernàndez, RHF, T-04835.90 Cfr José Miguel Pero-Sanz, op. cit., pp. 153-160; Juan Jiménez Vargas, RHF, T-04152-III, pp. 67-69; Àlvaro del Portillo, Sum. 884. Sulle vicende che coinvolsero le ambasciate, cfr Aurelio Nunez Morgado, Los sucesos de Espana vistos por un diplomàtico, Buenos Aires 1941 e Madrid 1979; Javier Rubio Garcia-Mina, Asilos y canjes durante la guerra civil espano- la. Aspectos humanitarios de una contienda fratricida, Barcellona 1979. Cfr pure Burnet Bolloten, op. cit., p. 119; Javier Cervera Gii, op. cit., pp. 229-233; sulle prigioni, ibidem, pp. 79-84.91 Le Brigate Internazionali furono create per iniziativa dell’Internazionale Comunista (Komintern) e reclutarono volontari in tutto il mondo. Cfr Burnet Bolloten, op. cit., pp. 205-207; George Esenwein, El Frente Popu- lar. La politica republicana durante la guerra civil, in Stanley G. Payne e Javier Tusell, op. cit., pp. 367-370.92 Cfr Juan Jiménez Vargas, RHF, T-04152-III, pp. 71-72.93 “L’espressione quinta colonna trae origine dalla guerra civile spagnola,

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nelle settimane che precedettero l’assalto di Madrid. Non è ben chiaro chi ne sia stato l’autore, ma la tesi più probabile l’attribuisce al generale Mola. Agli inizi di ottobre del 1936, ritenendo che la presa di Madrid fosse imminente, il capo delle truppe nazionali affermò che la capitale sa­rebbe caduta per l’azione delle quattro colonne del generale Varela che vi si stavano avvicinando (...) e di una quinta colonna che si trovava all’in­terno. Questa dichiarazione fu quanto meno sfortunata e certamente scon­siderata, perché quando venne a conoscenza dei miliziani, l’azione dei quali durante i primi mesi della guerra non si fermava davanti a conside­razioni morali, essi scatenarono una vera caccia all’uomo per catturare ed eliminare i presunti membri della quinta colonna, cosa che provocò una sfrenata persecuzione intesa a ripulire le retrovie dai traditori (...). Hugh Thomas attribuisce la creazione dell’espressione quinta colonna al giorna­lista britannico Lord St. Oswald in un reportage inviato al Daily Tele- graph in settembre” (Javier Cervera Gii, op. cit., pp. 139-140).94 Dal caos iniziale dell’insurrezione militare, nell’agosto 1936 andò deli­neandosi la mappa della Spagna divisa in due, con le frontiere delle due zone controllate dagli insorti o dal governo repubblicano. La superiorità di quest’ultimo era netta quanto a estensione territoriale e a popolazione (Madrid, Barcellona e Valencia erano repubblicane); in territorio repubbli­cano c’erano le industrie, i mezzi finanziari e le riserve d’oro della Banca di Spagna. Tuttavia, la confusione dei governanti repubblicani e la man­canza di disciplina e di coesione delle milizie rivoluzionarie permisero agli eserciti nazionali di riportare in equilibrio la situazione (il territorio e gli effettivi dell’una e dell’altra parte) ancor prima dell’inverno 1936. L’avanzata delle truppe nazionali su Madrid, nell’ottobre 1936, arrivò fino ai sobborghi della capitale, costringendo il governo a trasferirsi a Valencia. Fu allora che vennero effettuati gli arresti arbitrari e il sistematico prelievo di carcerati per le fucilazioni di massa, di notte, nei sobborghi di Madrid. “Su un totale di 17.000 fucilati o assassinati a Madrid, quasi la metà mori­rono in quel fatidico novembre” (Ramon y Jesus Salas Larrazàbal, Historia generai de la guerra de Espana, Madrid 1986, p. 161). Cfr pure Rafael Casas de la Vega, El Terror..., op. cit., pp. 191-228; Matilde Vàzquez e Ja­vier Valero, La guerra civil en Madrid, Madrid 1978, pp. 118-119.95 Santiago Escrivà de Balaguer, RHF, T-07921, p. 20.96 Juan Jiménez Vargas, RHF, T-04152-III, p. 77.97 Cfr José Miguel Pero-Sanz, op. cit., p. 155.98 Santiago Escrivà de Balaguer, RHF, T-07921, p. 21.99 Nelle ceke, oltre che nelle prigioni, aveva luogo la repressione incontrol­lata e arbitraria a Madrid. “Secondo Peter Weiden, la parola ‘ceka3 fu usata in tutta la Spagna per indicare i temuti tribunali (molte volte auto- convocatisi) che sorsero in molte località allo scopo di eliminare il ‘nemico fascista’, sovente a seguito di delazioni di scarsissima affidabilità. In origi­ne Ceka è la sigla in russo della ‘Commissione Straordinaria Panrussa per la soppressione della controrivoluzione e del sabotaggio’, la prima polizia

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politica sovietica, diventata successivamente OGPV, NKVD e KGB. Le ceke proliferarono principalmente a Madrid, oltre che a Barcellona e a Valencia” (Javier Cervera Gii, op. cit., p. 60). L’autore ne ha localizzato più di duecento nella Madrid di quegli anni; se ne può trovare la mappa con l’indicazione delle più importanti alle pp. 64 e 65 dell’opera citata; l’edificiò della Residenza DYA, sito in via Ferraz n. 16, è incluso a pag. 63 nella relazione in quanto sede di una delle ceke “più tristemente celebri per la loro attività repressiva”. Cfr pure Rafael Casas de la Vega, El Ter- ror: Madrid 1936. Investigación de victimas y catàlogo de victimas identi- ficadas, Madrid 1994, pp. 75-120.100 Cfr Santiago Escrivà de Balaguer, RHF, T-07921, p. 22; José Miguel Pero-Sanz, op. cit., p. 155.101 Duca di Penaranda de Duero era allora Hernando Stuart Fitz-James Falco, mentre suo fratello Jacobo era duca d’Alba.102 Alvaro del Portillo, Sum. 896.103 RHF, D-15348.104 Carmen Penalver Gómez de las Cortinas, marchesa de las Tòrres de Oràn, RHF, T-05090, p. 1. Il marchese si chiamava Manuel Maria Fernàndez de Prada y Vasco.105 Cfr Statuto costitutivo (RHF, D-15348).106 RHF, D-15347 (Appendice documentale, documento XVII); l’annota­zione sul diario è del 10 ottobre.107 Cfr Juan Jiménez Vargas, RHF, T-04152-III, p. 71.108 Maria Luisa Polanco Fernàndez, RHF, T-04835.109 Juan Jiménez Vargas, RHF, T-04152-III, p. 72. “San José” è evidente­mente S. Giuseppe.110 Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 885; e Juan Jiménez Vargas, RHF, T- 04152-III, p. 74. Barredo racconta un altro episodio a questo proposito: “Il Padre avvolse i suoi occhiali in un foglio di carta bianco e vi scrisse sopra: ‘Questi sono gli occhiali del Dottor Maranón’” (José Maria Gonzà- lez Barredo, RHF, T-04202, p. 14).111 Cfr Carmen Penalver Gómez de las Cortinas, RHF, T-05090, p. 2.112 “Arrivai a pensare che quelle iniezioni lo avessero ucciso” (RHF, T- 07921, p. 22). Sulla cura e le sue conseguenze, cfr Juan Jiménez Vargas, RHF, T-04152-III, pp. 80-81.113 Cfr José Maria Gonzàlez Barredo, RHF, T-04202, p. 14; Juan Jiménez Vargas, RHF, T-04152-III, p. 71.114 RHF, D-15068.Nel diario di Juan Jiménez Vargas al 15 ottobre si legge: “Sarebbe oppor­tuno parlare con Elordi e cercare di ottenere al Padre un salvacondotto come nazionalista basco” (RHF, D-15347; Appendice documentale, docu­mento XVII). Erano i giorni in cui, a motivo dell’avanzata delle truppe na­zionali verso Madrid, i documenti delle persone venivano esaminati casa

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per casa e molti venivano imprigionati perché, prosegue l’annotazione sul diario, “non basta la carta d’identità. Esigono documenti di affidabilità del Fronte Popolare”.Il proposito di Juan si fermò lì, poiché quella stessa settimana fu incarce­rato. Isidoro si mise in rapporto con Elordi che, in quanto basco, conosce­va persone del Partito Nazionalista Basco, a Madrid. Elordi si era diretto spiritualmente con don Josemarìa e aveva assistito alle lezioni di forma­zione nella Residenza di via Ferraz durante l’anno accademico 1934-35. In Noticias di agosto e di settembre 1935 compare il suo nome e il Padre cita una sua lettera, ricevuta durante le vacanze estive (cfr RHF, D- 037696).Quanto alla grafia “Escriba”, non si tratta di un errore, ma di una consa­pevole alterazione, non priva di ironia. Il cognome così modificato com­pare in tutti i documenti ufficiali finché il Padre non uscì dalla zona re­pubblicana: cfr la dichiarazione del Dott. Àngel Suils del 14-111-1937 (RHF, D-15067) e del 22-VIII-1937; il Certificato del Consolato Generale dell’Honduras, l-VIII-1937 (RHF, D-15070); il salvacondotto del 25-X-1937 (RHF, D-15125).115 Cfr Fernando de Meer Lecha-Marzo, El Partido Nacionalista Vasco ante la guerra de Espana (1936-1937), Pamplona 1992. Quando, il primo ottobre 1936, il Parlamento repubblicano (Cortes) approvò lo Statuto basco e il 7 ottobre fu costituito il Governo Provvisorio Basco, la quasi to­talità di Guipuzcoa e gran parte di Alava (territori delle Province basche) erano già state inglobate nella zona nazionale, mentre il resto era isolato dalla capitale spagnola, “il che consentì ai Baschi di accentuare il proprio autonomismo, per cui di fatto la loro delegazione a Madrid (Comitato- Delegazione del Partito Nazionalista Basco - Madrid) acquistò un rispetto e uno status simili a quelli di un’ambasciata o di una legazione (...). Il nu­mero di persone alle quali la Delegazione basca fornì un documento vali­do per salvaguardare la propria vita a Madrid oscilla tra 2.350 e 2.850 (...). Insomma, l’importanza della Delegazione basca a Madrid durante la guerra civile fu analoga a quella esercitata dalle rappresentanze diplomati­che e, in alcuni casi, persino con funzioni più ampie” (Javier Cervera Gii, op. cit., p. 354. Cfr anche Jesus de Galfndez, Los vascos en el Madrid si- tiado, Buenos Aires 1945).116 Cfr José Miguel Pero-Sanz, op. cit., pp. 155-160.117 “In questa situazione di enorme violenza all’interno delle carceri arrivò il mese di novembre e le prigioni di Madrid divennero lo scenario degli episodi più luttuosi della guerra civile: il prelievo in massa di detenuti che venivano poi assassinati con operazioni che mettevano in evidenza l’assen­za totale di qualsiasi controllo sulla situazione da parte delle autorità re­pubblicane. Questi massacri, comunemente chiamati prelievi di detenuti, ebbero luogo tra il 7 novembre e il 4 dicembre 1936 (...). I giorni in cui ebbero luogo queste spedizioni sono noti attraverso la documentazione della Direzione Generale di Pubblica Sicurezza e le testimonianze contenu­te nel Processo Generale di Madrid” (Javier Cervera Gii, op. cit., pp. 84-

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85. L’autore descrive alcune di queste operazioni. Cfr pure Ian Gibson, Paracuellos: cómo fue, Barcellona 1983; Carlos Fernàndez, Paracuellos del ]arama: $Carrillo culpableì, Barcellona 1983; e Rafael Casas de la Vega, El T e r r o ro p . cit., pp. 135-190).118 Cfr Àlvaro del Portillo, Sum. 888; Juan Jiménez Vargas, RHF, T- 04152-III, p. 78.119 Juan Jiménez Vargas, RHF, T-04152-III, p. 79.120 Cfr José Miguel Pero-Sanz, op. cit., p. 156.121 Cfr Santiago Escrivà de Balaguer, RHF, T-07921, p. 23; Juan Jiménez Vargas, RHF, T-04152-III, p. 85.122 Santiago Escrivà de Balaguer, RHF, T-07921, p. 23; cfr anche Juan Jiménez Vargas, RHF, T-04152-III, p. 87.123 Lettera ai suoi figli di Valencia, in EF-370210-1.124 José Maria Gonzàlez Barredo racconta che, dopo aver trascorso alcu­ni giorni a casa di suo padre, fece in modo, attraverso il suo amico Ma­nuel Valdés che conosceva il genero del Console dell’Honduras, che lo venissero a prendere a casa con un’auto del Consolato. Una volta dentro, ottenne il permesso che il Padre e Juan Jiménez Vargas vi fossero accolti come rifugiati senza farlo sapere al Console, che si trovò davanti al fatto compiuto (cfr RHF, T-04202, p. 16; e José Luis Rodrìguez-Candela Man- zaneque, RHF, T-05120, p. 1). José Luis Rodrìguez-Candela, genero del Console, non conosceva personalmente il Padre, anche se ne aveva senti­to parlare da alcuni amici che l’avevano invitato a frequentare l’Accade- mia DYA (cfr ibidem).125 Lettera ai suoi figli di Valencia, in EF-370312-1. L’architetto che lavo­rava nelle fortificazioni era Ricardo Fernàndez Vallespin (cfr più oltre).126 Per esempio, quando scriveva: “Mio Dio, Amore: frusta l’asinelio, che non merita altro che botte” (Appunti, n. 388, del 12-XI-1931; vedi anche ibidem, n. 1128, dell’11-II-1934, e n. 1371, del 30-VI-1936).127 Già da tempo, come sappiamo, il Padre parlava della propria “pazzia” divina, dell’”idea fissa” di fare l’Opera; e di coloro che vi erano ammessi diceva che erano nuovi “pazzi” che entravano nel “manicomio”. Fra i ter­mini dal doppio significato ci sono quelli di pane (Eucaristia), tavolo (alta­re), Dottore, Amico, don Manuel (l’Emanuele, il Signore), la Madre del si­gnor Emanuele (la Madonna), rose (rosario), fare colazione col signor Emanuele (ricevere la santa Comunione), il piccolo Orologiaio (l’Angelo Custode), la “festa di rinnovo” (rinnovo degli impegni col Signore da parte delle persone dell’Opera); ecc.128 Originale in RHF, D-15067.129 In questo modo, alcune persone poterono comunicarsi ogni giorno per dieci o dodici giorni (Carmen Penalver Gómez de las Cortinas, RHF, T- 05090, p. 4).130 Sull’immobile, cfr Eduardo Alastrué Castillo, RHF, T-04695, pp. 10-

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11. Sull’arrivo del Padre e del fratello nel Consolato, cfr Santiago Escrivà de Balaguer, RHF, T-07921, p. 25.131 Lettera ai suoi figli di Valencia, in EF-370317-1. La frase che è stata scritta in corsivo consente nell’originale spagnolo un gioco intraducibile di parole: “ ...que se ha metido en honduras” è un modo di dire prover­biale (equivale a “cacciarsi in un guaio”), ma l’espressione letterale (“è entrato in honduras”) consentiva ai destinatari di comprendere il messag­gio (NdC).132 Lettera a Francisco Botella Raduàn, in EF-370325-1.133 Pesava già meno di 50 chili, principalmente come effetto dell’ultima malattia, patita durante il mese di dicembre nella casa di cura di Suils (cfr Lettera a Francisco Botella, in EF-370328-1). Avrebbe poi perso altro peso durante la permanenza nel Consolato dell’Honduras.134 Lettera ai suoi figli di Valencia, in EF-370414-1.135 Lettera ai suoi figli di Valencia, in EF-370421-1.136 Così scriveva in una lettera a quelli di Valencia: “La nonna resterà a Madrid, per aver cura delle cose vecchie che ancora non si sono perse e delle scartoffie del suo figlio maggiore” (cfr EF-370406-1).137 Santiago Escrivà de Balaguer, RHF, T-07921, p. 24.138 Cfr ibidem; e Juan Jiménez Vargas, RHF, T-04152-III, p. 88.Tali scontri furono episodi della lotta per il potere all’interno della fazione repubblicana, nel momento in cui iniziava una certa ricomposizione dello Stato. I comunisti, per impadronirsi del potere, cercarono l’intesa con i so­cialisti ma dovettero fronteggiare l’opposizione sempre più esasperata degli anarchici o di elementi marxisti non filosovietici. Lo scontro finì col provo­care una guerra civile interna fra le componenti del Fronte Popolare, che culminò nei cosiddetti “eventi del maggio 1937”, particolarmente dram­matici in Catalogna. I comunisti riuscirono a piegare gli oppositori (spesso con la pura e semplice eliminazione fisica) e a dominare la situazione a par­tire dalla metà del 1937 (cfr Burnet Bolloten, op. cit., pp. 587 e ss.).139 Carmen Penalver Gómez de las Cortinas, RHF, T-05090, p. 3.140 Lettera ai suoi figli di Valencia, in EF-370406-1.141 Lettera a Isidoro Zorzano Ledesma, in EF-370331-1. Il “Capitano Arana” è il nome di un personaggio proverbiale, che si applica a chi fa cor­rere rischi agli altri, guardandosi bene però dal correrli anche lui (NdC).142 Cfr José Miguel Pero-Sanz, op. cit., pp. 160-163; Diario di Isidoro Zorzano, dal 3-III-1937 al 26-111-1939, scritto a Madrid durante la guerra civile (originale in IZL D-1122), annotazione del giorno 28-111-1937.143 Lettera a Isidoro Zorzano, in EF-370328-2.144 Lettera a Isidoro Zorzano, in EF-370330-2. La decisione presa da Isido­ro fu rapida e, come scrisse al Padre, comunicata subito alla signora Dolo­res: “Per la tua famiglia è stata una grande gioia sapere che puoi andare con R.(icardo) e che io rimango qui” (Lettera di Isidoro del 31-III-1937, in

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AGP, IZL D-1213, 130). Isidoro comunicò al Fondatore la propria decisio­ne per mezzo di questa lettera e non di persona perché in quei giorni non gli consentivano di entrare nella Legazione dell’Honduras (cfr Diario di Isi­doro, annotazione del 30-111-1937, in IZL, D-1122). Comunicò le stesse cose anche a Pedro Casciaro, scrivendogli a Valencia: “Resterò per fare compagnia agli altri e per potermi fare carico della casa quando tutto tor­nerà normale” (Lettera del 16-IV-1937, in IZL, D-1213, 132).145 Cfr Juan Jiménez Vargas, RHF, T-04152-III, p. 92.146 Ibidem, p. 95.147 A Madrid, Ricardo si era accordato su una frase convenzionale che sa­rebbe stata trasmessa dalla Radio Nazionale per indicare che si trovava sano e salvo nell’altra zona. Tuttavia non si seppe nulla di lui per alcune settimane. Ricardo passò al momento giusto, in modo provvidenziale, “e ce la fece per un pelo, perché andarono a cercarlo il giorno successivo” (cfr ibidem, p. 95). Non ebbero però la certezza che fosse riuscito a passa­re nella zona nazionale se non al principio di giugno del 1937 (cfr Lettera ai suoi figli di Madrid, in EF-370605-1).148 Lettera a Francisco Botella, in EF-370605-1.149 Lettera ai suoi figli di Valencia, in EF-370328-1.150 Lettera ai suoi figli di Valencia, in EF-370409-1.151 Acta Apostolicae Sedis, voi. XXIX, 1937, p. 75.Sullo stato dell’opinione internazionale nei confronti della guerra di Spa­gna, cfr p. es. Javier Tusell e Genoveva Garcia Queipo de Llano, El catoli­cismo mundial y la guerra de Espana, Madrid 1993.152 Antonio Montero Moreno, op. cit., p. 728. Alcune righe dopo si legge: “...anche se la guerra fosse stata di carattere politico o sociale, è stata tanto grave la sua ripercussione di ordine religioso ed è apparso talmente chiaro fin dall’inizio che una delle parti belligeranti mirava alla elimina­zione della religione cattolica in Spagna...” (ibidem). Sulle ripercussioni internazionali della “Lettera collettiva dei Vescovi spagnoli ai Vescovi di tutto il mondo in occasione della guerra di Spagna”, cfr Gonzalo Redon- do, Historia de la..., Voi. II, op. cit., pp. 310 e ss.; Fernando de Meer Lecha-Marzo, Algunos aspectos..., op. cit., pp. 116-119. Cfr pure Isidro Gomà y Tomàs, Por Dios y por Espana. Pastorales - Instrucciones pasto- rales y Articulos - Discursos - Mensajes - Apéndice (1936-1939), Barcello­na 1940. Per un’analisi della “Lettera collettiva” e delle sue ripercussioni, cfr Alfonso Àlvarez Bolado, S.J., La implicación de la Iglesia, in Miguel Alonso Baquer, op. cit., pp. 268-274.153 Cfr Antonio Montero Moreno, op. cit., p. 733. Sulla persecuzione reli­giosa a Madrid, cfr José Luis Alfaya Camacho, op. cit., passim.Alla fine della guerra civile, il numero di vittime della persecuzione religio­sa ammontò a 13 Vescovi, 4184 sacerdoti, 2365 religiosi e 283 religiose. Naturalmente, a queste cifre bisogna aggiungere le migliaia di persone as­sassinate per il solo fatto di essere cattoliche (cfr Antonio Montero More­no, op. cit., p. 762). Per rendersi conto di ciò che ha significato questo

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massacro, conviene tenere presente che fu perpetrato solo sulla metà del territorio, cioè nella zona repubblicana.L’analisi di queste cifre rivela che il calcolo di Montero pecca per difetto: cfr Vicente Càrcel Orti, La persecución religiosa en Espana durante la Se­gunda Republica (1931-1939), Madrid 1990, pp. 234 e ss.; e i martirologi di alcune diocesi o regioni, come le Asturie (A. Garralda, La persecución religiosa del clero en Asturias (1934 y 1936-1937), Avilés 1977, 2 volumi) o Barbastro (Santos Lalueza Gii, Martirio de la Iglesia de Barbastro 1936- 1938, Barbastro 1989); cfr anche, nel I voi. del presente lavoro {Il Fonda­tore deWOpus Dei, Milano 1999), la nota 7 del II capitolo.Fra il 7 e il 25 ottobre 1936, tre settimane dopo l’entrata dell’esercito del Generale Franco a San Sebastiàn, furono fucilati dalle truppe nazionali un religioso e nove sacerdoti secolari, accusati di essere nazionalisti baschi. Il Cardinale Gomà informò di questo fatto il Generale Franco il 26 ottobre. Franco gli assicurò che avrebbe immediatamente bloccato queste fucila­zioni e diede gli ordini relativi. Tuttavia, tra il 27 ottobre e il 7 novembre furono fucilati altri tre sacerdoti. Finora non si è trovata la documentazio­ne dei giudizi sommari espletati dalla giurisdizione militare. Cfr Anastasio Granados, El Cardenal Gomà, primado de Espana, Madrid 1969, p. 145; e Maria Luisa Rodriguez Aisa, El Cardenal Gomà y la guerra de Espana, Madrid 1981, pp. 49 e 62-65. Fu assassinato anche R Antonio Bombin O.F.M. a Laguardia (Alava): cfr Joseba M. Goni Galarraga, La guerra civil en el Pats Vasco: una guerra entre católicos, Vitoria 1989, p. 229.154 Nel capitolo dedicato alla ricerca di rifugi nella Madrid in guerra, Ja­vier Cervera conclude che i luoghi più sicuri erano le Ambasciate e analiz­za le conseguenze di questo fatto (op. cit., pp. 339-374). Il suo studio è fi­nora il più completo e documentato sul numero dei rifugiati presso le rap­presentanze diplomatiche di Madrid. Il censimento da lui elaborato (pp. 369-374) assomma per l’inizio del 1937 a circa 14.000 unità; a questi bi­sognerebbe aggiungere i rifugiati menzionati in note informative che non ne precisano il numero. Secondo questi dati, l’ambasciata che accolse il maggior numero di rifugiati fu quella francese: 2240. Cfr pure Maria del Carmen Gómez Reoyo, Madrid 1936-1939: el asilo diplomàtico en la guerra civil espanola, tesi di laurea (inedita), relatore Antonio Fernàndez Garcfa, Dipartimento di Storia Contemporanea, Università Complutense, Madrid 1985. L’autrice distingue i rifugiati legali da quelli reali, più nu­merosi, e tiene per buona, quanto ai legali9 la cifra di 11.000. Si può vede­re anche Javier Rubio Garcia-Mina, op. cit., e José Luis Alfaya Camacho, op. cit., pp. 181-193.155 Cfr Javier Rubio Garcfa-Mina, op. cit., p. 476: “Condizioni generali del 17 marzo 1937 per l’evacuazione dei rifugiati diplomatici”. L’ultima riga del documento lasciava ampio margine all’arbitrio: “Il Ministero degli Esteri, sempre entro dette norme, procederà adeguandosi a criteri di relazioni politiche”. Quindi non si presupponeva un diritto all’evacuazio­ne, bensì a negoziare, per i diversi Paesi, secondo gli interessi dello Stato, calibrando le pressioni politiche e il peso internazionale della controparte.

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156 Cfr Consuelo de Matheu Montalvo, RHF, T-05050, p. 1; José Luis Ro- driguez-Candela Manzaneque, RHF, T-05120, p. 1. Si trattava, quindi, di un’estensione dell’asilo consolare.157 Lettera a Isidoro Zorzano, in EF-370420-3. Cfr le memorie dell’Amba­sciatore del Cile, allora Decano del Corpo Diplomatico à Madrid, Aurelio Nunez Morgado, op. cit.158 Cfr Javier Rubio Garcia-Mina, op. cit., p. 47; Javier Cervera Gii, op. cit., p. 367.159 Lettera ai suoi figli di Valencia, in EF-370421-1.160 Lettera a Isidoro Zorzano, in EF-370503-1.161 Lettera ai suoi figli di Madrid, in EF-370504-1.162 Lettera ai suoi figli di Madrid, in EF-370505-5.163 Lettera ai suoi figli di Madrid, in EF-370506-1.164 Lettera a Isidoro Zorzano, in EF-370515-2. Come più sopra (cfr nota 131) c’è qui un gioco di parole; in spagnolo honduras significa letteral­mente “le profondità”; nella lettera, scritto con la maiuscola (“Del fondo de todas las Honduras!”), richiamava il Paese e il suo Consolato (NdC).165 EF-370530-1. La “storia della buona pipa” fa riferimento al gioco col­loquiale della risposta da dare a un bimbo che vorrebbe gli si raccontasse una storia. “Vuoi che ti racconti la storia della buona pipa?”; e davanti al sì o al no del bimbo, si continuava: “Non dire sì o no, ma se vuoi che ti racconti la storia della buona pipa”; e così via fino a che il bambino si stancava di chiedere.166 Lettera ai suoi figli di Madrid, in EF-370606-2.167 Lettera ai suoi figli di Madrid, in EF-370607-1. Nella lettera la delu­sione è espressa con un proverbio: Nuestro gozo en un pozo (lett.: “La no­stra gioia è in fondo a un pozzo”) (NdC).168 Cfr Lettera ai suoi figli di Valencia, in EF-370701-2. Secondo la comu­nicazione ufficiale del Console Generale dell’Honduras al Ministero degli Esteri spagnolo, all’inizio del 1937 nel Consolato si erano rifugiate 32 persone (27 in età militare e 5 tra donne, bambini e anziani); alla fine del1938 l’elenco fu mantenuto invariato (cfr Javier Rubio Garcia-Mina, op. cit., p. 32). Come sappiamo da testimoni de visu, in vari casi i rifugiati reali erano il triplo di quelli legali.169 L’originale, consegnato dalla figlia del Console, in RHF, D-11074. Cfr pure Juan Manuel Sainz de los Terreros, RHF, T-05127; Recaredo Ventosa Garcia, in Un santo per amico. Testimonianze sul Beato Josemaria Escrivà, Fondatore delVOpus Dei, Milano 2001, p. 354 (in seguito citato Un santo per amico..., op. cit.).170 Lettera ai suoi figli di Valencia, in EF-370701-2. “In questa attività (di organizzare le partenze dalla città) si distinsero le ambasciate latinoameri­cane, soprattutto quelle dell’Argentina, del Cile e del Messico. Anche

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rFrancia, Inghilterra e Turchia organizzarono e portarono a termine diver­se spedizioni” (Javier Cervera Gii, op. cit., p. 357).171 Lettera ai suoi figli di Valencia, in EF-370417-1.172 Ibidem.173 Cfr Juan Jiménez Vargas, RHF, T-04152-III, pp. 78-79.174 Lettera ai suoi figli di Valencia, in EF-370526-1.175 Per la vita dei rifugiati al piano superiore, cfr Recaredo Ventosa, in Un santo per amico..., op. cit, pp. 353 e ss).176 Cfr Eduardo Alastrué, RHF, T-04695, p. 13; José Luis Rodriguez-Can- dela Manzaneque, RHF, T-05120, p. 3; Juan Jiménez Vargas, RHF, T- 04152-III, p. 95.177 Circa questo assalto, Javier Cervera Gii in op. cit., p. 363, avverte che “fu messa in libertà la maggior parte dei rifugiati, ma 18 di essi, giovani e conosciuti per la loro appartenenza alla destra, furono portati in carcere alla Direzione Generale di Pubblica Sicurezza...”. Là furono torturati in modo tale che la stessa Direzione Generale aprì un’inchiesta sui carcerieri. Dopo diversi trasferimenti carcerari furono tutti condannati a morte, ma l’intervento di diversi altri Paesi e della Croce Rossa Internazionale otten­ne la sospensione della sentenza (cfr ibidem, pp. 244-245; Javier Rubio Garcfa-Mina, op. cit., p. 83).178 I sacerdoti del piano superiore dovettero smettere di celebrare la Messa, a causa della paura dei rifugiati (cfr Recaredo Ventosa, in Un santo per amico..., op. cit., pp. 353 e ss.).179 Consuelo de Matheu Montalvo, RHF, T-05050, p. 3.180 Eduardo Alastrué, RHF, T-04695, p. 19.181 Lettera ai suoi figli di Valencia, in EF-370519-1.Il Padre, che era giunto nel Consolato alla metà del mese di marzo, cele­brò la Messa fin dal primo giorno e conservò il Santissimo in una scatolet­ta d’argento chiusa in un mobile-scrittoio, nel vestibolo; lì facevano la vi­sita al Santissimo finché, nel mese di maggio, lo si dovette ritirare, ceden­do alle pressioni del Console di fronte al panico dei rifugiati, che temeva­no un’incursione della polizia. Da allora le Sacre Specie furono conservate nel modo descritto.182 Lettera ai suoi figli di Valencia, in EF-370501-1. Alla fine di maggio decise di non conservare più il Santissimo (cfr Lettera ai suoi figli di Va­lencia, in EF-370530-1).183 Cfr José Miguel Pero-Sanz, op. cit., p. 160.184 Cfr Lettera a Isidoro Zorzano, in EF-370420-1.185 Sull’approvvigionamento di viveri delle Ambasciate e del personale di­plomatico, cfr Javier Rubio Garcia-Mina, op. cit., p. 176; Javier Cervera Gii, op. cit., pp. 355-356.186 Lettera ai suoi figli di Valencia, in EF-370406-1; cfr anche Eduardo Alastrué, RHF, T-04695, p. 16.

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187 Lettera ai suoi figli di Valencia, in EF-370426-1. Tra le battute della corrispondenza affiorano, di tanto in tanto, alcune lampanti verità: “Oggi ci hanno dato riso e lenticchie, e nient’altro: (...) Si è vivi per miracolo, non ti pare?” (Lettera a Isidoro Zorzano, in EF-370508-2).188 Lettera a Isidoro Zorzano, in EF-370430-3.189 Lettera ai suoi figli di Madrid, in EF-3705:02-l.190 Lettera ai suoi figli di Valencia, in EF-370505-1.191 Santiago Escrivà de Balaguer, RHF, T-07921, p. 26.192 Lettera a Isidoro Zorzano, in EF-370530-3. Sulle sue mortificazioni, cfr Alvaro del Portillo, Sum. 365; Eduardo Alastrué, Sum. 5552.193 Cfr Eduardo Alastrué, RHF, T-04695, p. 18.194 José Luis Rodrìguez-Candela Manzaneque, RHF, T-05120, p. 1.195 Lettera ai suoi figli di Madrid, in EF^370523^1. Alcune delle lettere giungono fino a 17 paragrafi, dedicati a diversi argomenti; cfr p. es. la Lettera ai suoi figli di Madrid, in EF-370525-1, che, è importante notarlo, non venne spedita a distanza di tempo o con ritardo, perché due giorni prima ne aveva scritta loro un’altra, con una numerazione di 8 paragrafi; e il giorno dopo scrisse loro di nuovo su altri 7 punti.196 Cfr Lettera a Isidoro Zorzano, in EF-370423-1.Fin dall’anno 1933 il Padre dirigeva spiritualmente la contessa de Huma- nes, Maria Francisca Messia y Eraso de Aranda, donna ben nota, anche per le sue virtù. Era una Grande di Spagna ma nonostante fosse molto ricca viveva poveramente, molto distaccata dai suoi beni. A lei fa riferi­mento l’episodio del n. 638 di Cammino. Tra l’altro aveva regalato i pro­pri gioielli perché li si vendesse e si usasse il ricavato per l’Opera. È molto probabile che, nel perquisire la Residenza di via Ferraz nel luglio 1936, i miliziani avessero rubato i gioielli e altri oggetti di valore che il Fondatore custodiva per pagare l’immobile. La contessa de Humanes morì il 23 lu­glio 1936, poco dopo lo scoppio della guerra civile.L’atto costitutivo della Società Fomento de Estudios Superiores (FES) fu redatto nello studio notarile di Juan José Esteban y Royo in data 2 no­vembre 1935; i soci fondatori erano Isidoro Zorzano, Ricardo Fernàndez Vallespin, José Maria Gonzàlez Barredo e Manuel Sainz de los Terreros.Il contratto di vendita della casa di via Ferraz 16 dal proprietario, Javier Azlor-Aragón, alla FES fu redatto nello studio notarile di Luis Sierra Ber- mejo, in data 17 giugno 1936; comparvero davanti al notaio, “come unici soci e a nome della Società Civile Fomento de Estudios Superiores” i me­desimi soci fondatori.197 Su questo argomento, cfr José Miguel Pero-Sanz, op. cit.^pp. 170-171.198 Tra le partite e i titoli che costituivano l’inventario per la richiesta dei

^ìanni c’erano i seguenti:- Accademia (mobili, laboratorio e varie) ....... 154.820 pesetas- Residenza (mobili, arredi, attrezzature) ....... 240.400 pesetas- Immobile (via Ferraz, 16): opere murarie ....... 110.000 pesetas

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(Cfr lettera di Isidoro a Pedro Casciaro Rarmrez, del 3-V-1937, in IZL, D- 1213, 139).Come si vede, non compare alcuna richiesta in merito alla proprietà del­l’immobile, ma solo per le opere di riparazione. In effetti, nel contratto di compravendita al quarto comma si legge: “L’acquirente prende possesso dell’immobile acquistato non appena viene firmata la presente scrittura”. Di comune accordo fra le parti era stato fissato il prezzo di acquisto del­l’immobile in 400.000 pesetas, da pagarsi in quattordici annualità di 43.032 pesetas; le annualità a loro volta venivano divise in quattro parti uguali, “che saranno versate a scadenze trimestrali posticipate, fissando il primo pagamento al 30 settembre dell’anno in corso” (3° comma). Il gior­no stesso, il 17 giugno 1936, al momento della stipula, la società acqui­rente versò 6.000 pesetas “come anticipo e a conto della prima scadenza trimestrale”.Agli effetti giuridici, la situazione era piuttosto complicata. Il contratto di compravendita era stato presentato il 20 luglio 1936 (probabilmente da Isidoro) all’ufficio del Registro; ma data la situazione politica non se ne fece nulla, poiché “su nostra indicazione nel mese di agosto” - scrive Isi­doro in una nota sulla questione - non furono pagate le Tasse di Registro e di Bollo, ragion per cui la proprietà “attualmente non è iscritta al nome di Fomento. A tutti gli effetti ufficiali, il proprietario attuale è ancora il precedente. Per questo motivo non ci possono dare una copia registrata della scrittura” (cfr RHF, D-15711).Molte erano le difficoltà che si presentavano al buon esito del ricorso, fra le quali non piccola era quella della verifica ufficiale della distruzione o della scomparsa degli oggetti inventariati; verifica impossibile da effettua­re essendo l’immobile in zona di guerra (cfr ibidem).199 Lettera a Isidoro Zorzano, in EF-370501-2.200 Ecco la lettera di Isidoro a Pedro Casciaro:“Madrid, 3 maggio 1937.Carissimo amico, Mariano mi dice di metterti al corrente del problema del quale mi sto occupando. Tu sai che la mia casa di via Ferraz è stata semi­distrutta e i mobili che vi si trovavano sono scomparsi; protetto dalla mia qualità di straniero, ho inoltrato all’Ambasciatore argentino uno scritto per ottenere dallo Stato spagnolo il risarcimento dei danni causati alla casa in questione e ai mobili. La casa è della Società “Fomento de Estu- dios Superiores”, della quale sono presidente; in tale qualità ho inoltrato il reclamo dato che, come comproprietario di quanto distrutto o scomparso, ho diritto di considerare come miei i beni della Società e di chiedere il con­gruo risarcimento del danno, che ascende, secondo l’inventario che ho al­legato allo scritto, a 1.078.900 pesetas. Ho appena scritto a Paco e a Eu­genio affinché si occupino del problema a Valencia. Mariano mi ha chie­sto se tuo nonno, essendo inglese, può fare qualcosa in tal senso. Affida l’incarico agli A.C. [Angeli Custodi] e al signor Nicola [San Nicola], che sono molto influenti. Fate tutte le mosse che potete, non trascurate nulla; facilitare le cose con regali, se necessario; non immagini quanto impegno metta Mariano in questa faccenda. Tienimi al corrente di quello che riu-

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sdrai a fare. Con la tua lettera spedisco anche quella a Paco e a Eugenio. Un abbraccio dal tuo buon amico, Isidoro” (Lettera del 3-V-1937, in IZL, D-1213, 139).201 Lettera ai suoi figli di Madrid, in EF-370502-1.202 Lettera ai suoi figli di Madrid, in EF-370513-1. E in un’altra lettera: “Bisogna seguire la cosa, anche se non si ottiene nulla. Vi assicuro che, in ogni caso, ci guadagneremo. Essendo vecchio, so bene quello che dico” (Lettera ai suoi figli di Madrid, in EF-370518-1).203 Lettera ai suoi figli di Madrid, in EF-370516-1.204 Lettera a Isidoro Zorzano, in EF-370519-2.205 Lettera ai suoi figli di Madrid, in EF-370513-1.206 Lettera ai suoi figli di Madrid, in EF-370521-2.Era così sicuro d’interpretare la volontà di Dio su questo punto che il giorno successivo scrisse a Isidoro di dirlo a quelli di Valencia, tramite Paco Botella: “Quando scrivi a Paco, copiagli i primi paragrafi della mia lettera di venerdì scorso: quelli che si riferiscono al dovere di essere... sec­catore. Sono convinto che gli faranno molto bene” (EF-370522-1).207 Lettera ai suoi figli di Madrid, in EF-370513-1.208 Lettera ai suoi figli di Madrid, in EF-370518-1.Questo insieme di consigli sono veri compendi ascetici sulla virtù della fortezza. Il contenuto di queste lettere indirizzate ai suoi figli di Madrid veniva poi trasmesso, testualmente per quanto si riferisce a questi consigli, ai membri dell’Opera che stavano nel Levante. Cfr p. es. le Lettere di Isi­doro a Pedro Casciaro, del 18-V-1937, e a Francisco Botella, del 23-V- 1937, in IZL D-1213, 158 e 166.209 Per presentare il reclamo, gli uffici dell’Ambasciata dell’Argentina a Va­lencia chiedevano un certificato di nazionalità. Il certificato si otteneva a Madrid e per averlo non bastava il certificato di nascita, unico documento che Isidoro possedeva. Quindi era necessario chiedere a Buenos Aires un certificato originale; più tardi gli chiarirono che non lo si poteva neppure considerare ufficialmente cittadino argentino finché non avesse compiuto il servizio militare. Giunse il mese di luglio. Arrivò il certificato di nascita e il Padre gli scrisse: “Finalmente! Meglio tardi che mai” (EF-370701-4). Quanto alla documentazione rilasciata a questo scopo a Isidoro Zorzano dalla sua Ambasciata, cfr “Certificato di cittadinanza argentina, rilasciato dal Consolato della Repubblica Argentina”, Madrid, 12-1-1938 (IZL, D- 1018) e “Libretto di arruolamento” (la cartolina-precetto argentina) Ma­drid 29-VII-1937 (IZL, D-1019). Per quanto si riferisce all’istanza, cfr la sua corrispondenza: Lettere a Pedro Casciaro, dell’ll-V-1937 e del 12-V-1937; ai rifugiati nella Legazione dell’Honduras, del 13-V-1937 e del 20-V-1937; a Francisco Botella, del 28-V-1937 e del 9-VI-1937; a Pedro Casciaro, del 9- VI-1937; ai rifugiati nella Legazione dell’Honduras, del 24-VII-1937; e a Francisco Botella, del 29-V1I-1937 (IZL, D-1213, 147, 148, 151, 173, 190, 191, 230 e 234). In quest’ultima lettera Isidoro chiese a quelli di Valencia di

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portare all’Ambasciata argentina alcuni documenti da allegare alla pratica dell’istanza. Cfr José Miguel Pero-Sanz, op. cit., pp. 170-171.210 Lettera ai suoi figli di Valencia, in EF-370601-1.211 Cfr la corrispondenza di Pedro Casciaro: le lettere in data 8, 10, 13 e 16 marzo 1937 a Isidoro Zorzano da Torrevieja (RHF, D-15702) e i dati del passaporto di Julio Casciaro (ibidem).212 “Oggi ci sono poche novità da comunicare - scrisse Isidoro nella lette­ra del 6-VI-1937 -. 1. L’amico svizzero di Michele non ha potuto fare nulla essendo un giorno festivo. 2. Abbiamo pensato che il boliviano della SO.CO.IN., Pablo Garcia de Paredes, potrebbe essere utile come “socio” per il reclamo. Forse Barredo sa dove abita. Manolo mi ha detto che ha pensato a un suo compagno paraguaiano” (Lettera di Isidoro ai rifugiati nella Legazione dell’Honduras, in IZL, D-1213, 185). Per la SO.CO.IN. (Società di Collaborazione Intellettuale), cfr il Voi. I del presente lavoro, op. cit., pp. 616-617.213 Le meditazioni del Padre erano riprodotte “con sufficiente approssima­zione” da Eduardo; venivano trascritte e Isidoro le ritirava, insieme alla corrispondenza, per farle meditare anche dagli altri membri dell’Opera (cfr Eduardo Alastrué, RHF, T-04965, p. 19; José Miguel Pero-Sanz, op. cit., pp. 160-161).214 Cfr Consuelo de Matheu Montalvo, RHF, T-05050, p. 1; Juan Manuel Sainz de los Terreros Ranero, RHF, T-05127.215 Lettera ai suoi figli di Valencia, in EF-370430-1.216 Cfr Lettera ai suoi figli di Valencia, in EF-370406-1.217 Cfr Lettera ai suoi figli di Valencia, in EF-370530-1; Consuelo de Matheu Montalvo, RHF, T-05050, p. 3. Non fu prima dell’inizio di mag­gio, perché in una delle note scritte allora si può leggere: “Giovedì 6-V-37: hanno chiesto di togliere la S.C.” (la Santa Comunione, cioè il Santissimo Sacramento) (Appunti, n. 1377).- Tertulia, termine già apparso nel I volume della presente opera, indica una conversazione o chiacchierata di tipo familiare, che talora anima, ad esempio, il dopopranzo; si è preferito mantenerlo, mancando un equiva­lente italiano (NdC).218 José Luis Rodrìguez-Candela Manzaneque, RHF, T-05120, p. 2.219 Questa frase, di José Maria Gonzàlez Barredo, è riferita da Eduardo Alastrué in RHF, T-04695, p. 16.220 Lettera a Isidoro Zorzano, in EF-370508-2.221 Lettera ai suoi figli di Valencia, in EF-3 70501-1.222 Lettera di Pedro Casciaro da Torrevieja, 13-V-1937 (cfr RHF, D- 15702).223 Appunti, n. 1372, del 30-VI-1936.224 Alvaro del Portillo, PR, p. 486. Alvaro era già stato malato nei giorni

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precedenti il 10 marzo 1937 (cfr Appunti, nn. 1381 e 1382, del 10 e ll-V- 1937).225 Lettera ai suoi figli di Valencia, in EF-370421-1.226 Lettera ai suoi figli di Madrid, in EF-370506-1. Anche qui appare il gioco di parole consentito dal significato di honduras (“profondità”).227 Lettera ai suoi figli di Valencia, in EF-370519-1.228 Lettera ai suoi figli di Valencia, in EF-370530-1.229 Appunti, n. 274, del 9-IX-1931.230 Appunti, n. 244, del 31-VIII-1931.Mons. Àlvaro del Portillo, sulla ricchezza della vita di orazione del Fonda­tore, afferma: “Lo Spirito Santo lo portò indubbiamente ad altissime vette di unione mistica nel mezzo della vita quotidiana, a volte attraverso duris­sime purificazioni passive dei sensi e dello spirito” (Sacerdotes para una nueva evangelización, in La formación de los sacerdotes en las circunstan- cias actuales. XI Simposio Internazionale di Teologia, Università di Na­varca, Pamplona 1990, p. 989).231 Appunti, n. 1379, dell58-V-1937.Nell’Archivio Generale della Prelatura si conservano alcune note scritte dal Padre nel Consolato dell’Honduras, su delle schede. Cominciò a scri­verle nell’aprile 1937; mancano le prime 22 note. Queste “note dell’Hon­duras” sono raccolte in Appunti, nn. 1374-1394 (cfr ibidem, nota 1016).232 “Cominciò ad avere un grande affetto per me e, dopo la prima volta che parlammo, mi chiese di confessarlo. Il Padre si confessò con me diver­se volte durante la sua permanenza nella Legazione (...). Confessavo anche quelli che stavano con il Padre” (cfr Recaredo Ventosa Garcia, in Un santo per amico..., op. cit, p. 354).233 Appunti, n. 1380.234 Ibidem, n. 1388, del 21-V-1937.235 Ibidem, n. 1389.236 Ibidem, n. 1391.237 Ibidem.238 Lettera ai suoi figli di Valencia, in EF-370526-1.239 Francisco Botella, RHF, T-00159/1, p. 17. Il Padre, evidentemente, cer­cava di tenerli allegri: “Se avete riso, ho raggiunto il mio scopo” (Lettera ai suoi figli di Valencia, EF-3 70426-1).240 Lettera di Isidoro a Maria Dolores Fisac, Madrid, del 4-V1-1937, in IZL, D-1213, 183.241 Lettera a Pedro Casciaro, in EF-370429-1.242 Lettera ai suoi figli di Valencia, in EF-370624-1.243 Lettera ai suoi figli di Valencia, in EF-370421-1.244 Lettera ai suoi figli di Madrid, in EF-370605-1

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245 Lettera di Isidoro a Francisco Botella, 13-VI-1937 (IZL D-1213, 196).246 Ignacio (Ignazio) è il nome che indica Isidoro Zorzano nelle lettere scritte in chiave.247 Lettera ai suoi figli di Valencia, in EF-370615-1. Pepe Isasa era morto a Pinto, sul fronte di Madrid, il 23 aprile 1937.248 Lettera ai suoi figli di Valencia, in EF-370815-1.249 Lettera a Rafael Calvo Serer, in EF-370515-1.250 Francisco Botella, RHF, T-00159/1, pp. 15-16.251 Lettera di Isidoro a Pedro Casciaro, 4-VII-1937 (IZL D-1213, 217).Il Padre era costretto a tener conto dei silenzi e dei vaghi accenni imposti dalla morsa della censura sulla posta, a proposito della salute spirituale, dei suoi nipoti. Una malintesa discrezione in questo campo lo irritava; in­quieto per mancanza di informazioni, qualche volta si lamentò con Paco Botella perché non rispondeva a tono alle sue domande. “Paco - gli scri­veva - , non vedi che il povero nonno, preoccupato per i suoi piccoli, sta sulle spine?” (Lettera ai suoi figli di Valencia, in EF-370725-3).252 Non era una battuta del tutto fuori dalla realtà: lo confessa lui stesso in un paragrafo di quella lettera: “Rafaelm: mi sono letto il tuo scritto per tre volte in due ore. È vero che faccio la stessa cosa con tutti i nipoti. Jean- not e Alvarote, che sono sempre attenti a questi particolari, mi hanno preso molto in giro” (Lettera ai suoi figli di Valencia, in EF-370624-1).253 Lettera a José Maria Hernàndez Gamica, in EF-370727-4.254 Lettera a Rafael Calvo Serer, in EF-370727-2.255 Lettera ai suoi figli di Madrid, in EF-3 70529-2.256 Lettera ai suoi figli di Valencia, in EF-370707-1.257 Lettera ai suoi figli di Madrid, in EF-370525-1.258 La lettera a Maria Dolores Fisac (EF-370521-1) è breve: “Per Daimiel - Con che gioia ho letto le tue righe, Lola, nipotina mia! Sapete bene che non dimentico mai voi e la vostra famiglia. Ah, come sarei felice se tu di­ventassi nipotina mia! - Vostro Mariano - Madrid, 21 maggio ‘37”.259 Lettera a Maria Dolores Fisac, in EF-370701-1. Tegucigalpa, come è noto, è la capitale dell’Honduras.260 Lettera a Maria Dolores Fisac, in EF-370714-1.261 Lettera a Maria Dolores Fisac, in EF-370805-1.262 Lettera ai suoi figli di Valencia, in EF-370505-4.263 Lettera ai suoi figli di Valencia, in EF-370707-1. In questa lettera del Fondatore sono effettivamente vergate, negli spazi fra le righe, le parole di Àlvaro del Portillo e di Juan Jiménez Vargas.264 Lettera ai suoi figli di Valencia, in EF-370526-1.265 Lettera ai suoi figli di Valencia, in EF-370505-1.266 Lettera a Isidoro Zorzano, in EF-370629-1.

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267 Lettera di Isidoro ai rifugiati nella Legazione dell’Honduras, 30-VI- 1937, in IZL D-1213, 214.268 Lettera ai suoi figli di Madrid, in EF-370701-3.269 Lettera ai suoi figli di Valencia, in EF-370707-1.270 Lettera ai suoi figli di Valencia, in EF-3 70601-1.271 Lettera di Isidoro a Pedro Casciaro, 15-VIII-1937, in IZL D-1213, 247. “Volete sapere quanto peso? 57 chili” (Lettera ai suoi figli di Valencia, in EF-370905-1).272 Lettera di Isidoro ai rifugiati nella Legazione dell’Honduras, 24-VII- 1937, in IZL D-1213, 230.273 Lettera a Isidoro Zorzano, in EF-370725-6.274 Lettera a Maria Dolores Fisac, in EF-370725-2.275 Lettera di Isidoro a Pedro Casciaro, 24-VII-1937, in IZL D-1213, 229.276 Lettera ai suoi figli di Madrid, in EF-370725-4.277 Cfr Lettera a Isidoro Zorzano, in EF-370801-3.278 Cfr Tomàs Alvira Alvira, RHF, T-04373, p. 3. Questo modo di fare va inquadrato nel contesto sociale del momento, nel quale, a causa della guerra e della rivoluzione, era in atto una grave frattura nella convivenza sociale e nelle norme di comportamento.279 Lettera a Isidoro Zorzano, in EF-370804-2.280 Lettera ai suoi figli di Madrid, in EF-370806-2.Con lettera del 12 agosto, Isidoro informò quelli di Daimiel che il tentati­vo di far uscire il nonno era fallito: “Nonostante tutto - aggiunse - poiché tutti in famiglia siamo molto testardi, continuiamo a insistere finché il si­gnor Emanuele si intenerisca alle nostre richieste” (Lettera di Isidoro a Maria Dolores Fisac, 12-VIII-1937, in IZL D-1213, 244).281 Era riuscita una certa ricostruzione dello Stato e c’erano maggiori ga­ranzie di sicurezza, sebbene l’atteggiamento sospettoso nei confronti della “quinta colonna” fosse molto pronunciato. L’azione poliziesca era molto intensa e nelle mani degli elementi comunisti, che si erano impadroniti della maggior parte delle leve del potere. Cfr Javier Cervera Gii, op. cit., pp. 104-105.282 Lettera di Isidoro a Maria Dolores Fisac, 26-V-1937 (IZL D-1213,171).283 Lettera ricevuta a Madrid il 20-VIII-1937: RHF, D-15703. *È la risposta alla domanda contenuta nella lettera del Fondatore del 5- VIII-1937, già citata. L’altra domanda che le faceva nella lettera era: “Vuoi - con volontà efficace - far parte della famiglia di questo nonno?” (EF-370805-1). Lola mostrò un certo nervosismo, dal momento che nella lettera scrisse di essere “molto felice di prendere parte alla sua famiglia”, anziché di far parte.284 Lettera a Maria Dolores Fisac, in EF-370822-1.

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285 Cfr Lettera a Isidoro Zorzano, in EF-370820-1. Isidoro si recò dal Dott. Suils, il quale stese il seguente certificato:“Casa di riposo e di salute per la cura di malati mentali, nervosi e tossico­mani / Direttore Dott. Àngel Suils, via Arturo Soria 492 (Ciudad Lineai) / Telefono n. 51188 / Orario di visita: ore 15-17Madrid, 22 agosto 1937Certifico che José Maria Escribà Albàs, di 35 anni, è stato da me curato dai 29 anni di età per una psicosi endogena che lo colpisce a periodi. Viene dimesso in data odierna dopo l’ultimo attacco della malattia, che ha costretto a internarlo in questa casa di cura per diversi mesi, data la diffi­coltà di curarlo a domicilio nella situazione attuale. Da oggi gli consentia­mo di andare a vivere con sua sorella.Il Direttore: Dott. A. Suils” (originale in RHF, D-15067).286 Da una parte, Alvaro Gonzàlez Valdés, in casa del quale abitava la si­gnora Dolores con i figli, era pieno di dubbi e timori; dall’altra, se si fosse presentato al comitato come malato, era probabile che lo avrebbero invia­to in qualche paese lontano da Madrid, non avendo un mestiere (cfr Lette­ra di Isidoro ai rifugiati nella Legazione dell’Honduras, 10-VTII-l 937, in IZL D-1213, 253).287 Lettera di Isidoro a Francisco Botella, 23-VIII-1937 (IZL D-1213, 256).288 Lettera ai suoi figli di Valencia, in EF-370825-1.289 Cfr Lettera a Isidoro Zorzano, in EF-370828-1.290 II documento recitava:“Consolato Generale dell’Honduras - Paseo de la Castellana, 51 bis- Madrid - Telefono 45097.Il Consolato Generale della Repubblica dell’Honduras, America Centrale, con sede ufficiale in questa città, certifica che José Escribà Albàs, di 35 anni, celibe, è al servizio di questa Cancelleria in qualità di intendente e chiediamo alle Autorità Civili di prestargli ogni appoggio e protezione, per reciprocità, come pure di facilitargli la circolazione per il disimpegno delle sue funzioni. - Madrid, 1 agosto 1937 - Il Console Generale: F. Matheu” (in RHF, D-15070).291 Lettera a Maria Dolores Fisac, in EF-370831-1.

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Capitolo XVERSO LA LIBERTÀ

1. Le attività di un... IntendenteDon Josemarìa uscì in strada con passo deciso, senza preoccuparsi troppo se l’abito che gli aveva regalato il Console gli andava un po’ largo. Aveva una camicia pu­lita e una cravatta ben sistemata, il che era un segno di­stintivo delle poche persone che camminavano per le strade di Madrid sicure di se stesse e protette da docu­menti validi, cioè dei diplomatici stranieri o delle auto­rità civili. Con la bandierina sul bavero e in tasca le sue credenziali di Intendente di una Repubblica centroame­ricana, don Josemarìa camminava relativamente sicuro e fiducioso, dopo oltre un anno, attraverso la sua vec­chia Madrid. Se a questo si aggiunge il pallore dei molti mesi passati all’ombra, chi avrebbe potuto riconoscere sotto le sembianze di un affamato burocrate l’ex Retto­re di Santa Isabel?1.

Non appena fuori dal Consolato, si diresse a casa di Isidoro, dove potè riunirsi con Manolo Sainz de los Ter­reros, con Chiqui e con Rafael Calvo Serer. Quest’ulti­mo era venuto, con due giorni di permesso, esclusiva- mente per stare con il Padre; ritornò poi a Valencia per inquadrarsi nelle Brigate Internazionali, cui era stato de­

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stinato. Chiqui sarebbe rimasto alcuni giorni a Madrid prima di ripresentarsi all’Armata dell’Andalusia2.

La linea di comportamento che aveva deciso di adotta­re era improntata alla naturalezza, a molta audacia e a non mostrare mai incertezza nelle decisioni. Per prima cosa andò a stabilirsi nella camera in affitto che gli aveva procurato il padre di Eduardo Alastrué3. Era una camera al quarto piano a sinistra di via Ayala n. 67. Abituato com’era ad avere in camera un’immagine della Madonna alla quale rivolgere ogni tanto sguardi affettuosi, gli pesò subito quella mancanza. Si diresse allora al centro di Madrid, in un negozio di Plaza del Angel, in cui sperava di trovare quel genere di merce anche se nella vetrina si vedevano solo cornici e specchi. Quando chiese un’im­magine della Madonna, oggetto allora proibito e molto pericoloso, si accorse che nel retrobottega si produsse un certo scompiglio. Per convincere il padrone della propria buona fede e di non essere un poliziotto in borghese, gli mostrò il documento di Intendente e, non senza un certo spavento, quel buon negoziante tirò fuori una litografia della Mater Dolorosa e gli consegnò, con evidente nervo­sismo, l’immagine clandestina4.

Il giorno successivo, con la raccomandazione di un amico di José Maria Gonzàlez Barredo, si presentò al Consolato del Panama, dove chiese e ottenne un certifi­cato a nome di “Ricardo Escribà”, destinato a Juan Jiménez Vargas, che due giorni dopo andò ad abitare con il Padre in via Ayala. Legati per ipotetici servizi a due Repubbliche d’oltremare, entrambi provvisti di do­cumenti falsi, si facevano passare per fratelli5. Almeno, avevano questa intenzione. Juan, utilizzando una vec­chia prescrizione di un oculista, ordinò a un ottico degli occhiali neri, che Isidoro andò a ritirare. Erano il suo travestimento.

Ma sorse una difficoltà insuperabile. Juan non riusci­va a trattare con naturalezza il suo nuovo parente. No­nostante il Padre insistesse perché gli desse del tu, visto134

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che dovevano passare per fratelli, non ci fu verso. In Juan era così radicato ormai il sentimento di filiazione al Padre che era superiore alle sue forze anche solo il tentarci. Non gli venivano alle labbra le opportune for­me grammaticali. Per il resto, la parentela era possibile: fisicamente non erano troppo diversi, pur essendo Juan più basso e magro di costituzione, anche se allora pesa­va due chili più di don Josemarìa.

In quei primi giorni di settembre il Padre si riunì ogni giorno con la sua famiglia e con le persone dell’Opera. Di solito mangiava con la signora Dolores. Ma il 4 set­tembre tutti quelli dell’Opera che circolavano libera­mente per Madrid andarono al ristorante Heidelberg. Nel 1933/34 avevano pranzato lì in qualche ricorrenza. Cercavano di rivivere il passato. Nel locale poche cose erano cambiate, forse di più il personale di servizio, e certamente il menù, scarso e costoso: una peseta ogni piatto. Scrivendo per dare notizia di questo pranzo, il Padre non specificò il numero di piatti. Si deve presume­re che fossero due più il dessert, perché, pur essendo ri­goroso con il proprio stomaco, non imponeva digiuni forzati ai suoi figli6.

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La lettera collettiva dell’Episcopato spagnolo sulla perse­cuzione religiosa, datata 1 luglio 1937 e resa pubblica nell’agosto successivo, ebbe importanti ripercussioni sul­l’opinione pubblica internazionale7. Nella zona repubbli­cana fu fatto tutto il possibile per mettere sotto silenzio le denunce e controbattere le accuse. La sua pubblicazio­ne fu utile, perché servì a frenare la persecuzione scate­natasi da quando era esplosa la guerra civile8.

Del Governo di Negrìn, formato nel maggio 1937, fa­ceva parte, come Ministro della Giustizia, un nazionali­sta basco, cattolico, Manuel Irujo9. Irujo cercò di con­vincere il governo repubblicano dei gravi danni che causava alla Repubblica l’atteggiamento spietato contro

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i.

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la Chiesa. Egli presentò anche un progetto legislativo per ristabilire il culto e la tolleranza religiosa. I suoi col­leghi del Governo non assecondarono lo sforzo solitario del Ministro della Giustizia, ma approfittarono della sua fatica per dare ampia diffusione, sul piano interna­zionale e a scopi meramente politici, alle misure propo­ste che purtroppo non andarono mai oltre a una dichia­razione d’intenti. Continuò l’ostilità contro i cattolici, più in sordina, ma altrettanto pericolosa; e la Chiesa continuò a essere ridotta alla clandestinità10. I dati di cui disponiamo dimostrano che, nel periodo cui ci rife­riamo, erano praticamente cessati gli assassinii e l’incar­cerazione di preti e frati. La caccia e la cattura sistemati­che dei primi mesi della contesa avevano raggiunto il loro obiettivo e si erano attenuate. Il culto cattolico era clandestino e il possesso di libri o immagini religiose era ancora pericoloso. L’infuriare dell’uragano aveva con­dotto molti ecclesiastici a ingrossare le file dei martiri; gli altri erano in prigione o nascosti da parecchio tem­po, alcuni dispersi nelle grandi città dove esercitavano eroicamente il loro ministero, rischiando la prigione o il martirio. Don Josemaria fu uno di questi11.

I suoi primi passi furono rivolti a ottenere notizie dei suoi figli. Nella Legazione della Norvegia, in via Abascal, si era rifugiato Vicente Rodriguez Casado. Quando il Pa­dre vi si presentò, inatteso, Vicente non lo riconobbe fin­ché non udì il suono della sua risata. A partire da allora, si videro quasi ogni giorno. S’incontravano nella portine­ria e andavano a parlare in garage. Seduti dentro un’au­tomobile, il Padre predicò a Vicente una meditazione12.

Fece visita anche alla famiglia di Ricardo Fernàndez Vallespm, dove ebbe la buona notizia che era giunta, ri­spedita dalla Francia, una lettera in cui Ricardo comu­nicava di star bene. Andò poi a trovare José Maria Al- bareda nella pensione di via Menéndez y Pelayo. Dall’inizio della guerra civile, questo buon amico aveva fatto molto per l’Opera e il Padre in quei giorni pregava136

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con intensità per la sua vocazione. Poco dopo arrivò Tomàs Alvira, l’amico di Albareda, e il sacerdote parlò a fondo con entrambi13.

In seguito fece visita alle famiglie che, generosamente, gli avevano offerto rifugio nei momenti più difficili, co­me i Leyva e gli Herrero Fontana; diede il suo nuovo in­dirizzo allo scopo di offrire, a loro e ai loro amici, i suoi servizi di sacerdote14. Don Josemarìa cercava di celebra­re la Messa ogni giorno, andando poi di casa in casa a portare la Comunione a chi lo desiderava. Sua sorella Carmen gli confezionò alcuni piccoli corporali per con­servare il Santissimo in un portasigarette di metallo, che egli mise dentro a una fodera con la bandiera dell’Hon- duras. E non di rado egli, senza svestirsi, passava la not­te in preghiera con le Sacre Specie sul petto15.

Una delle persone che vedeva con frequenza era Ramón del Portillo, il padre di Àlvaro, gravemente am­malato. La famiglia di costui era dispersa: alcuni si tro­vavano nella zona nazionale. La madre, messicana di nascita, a Madrid era riuscita a trovare ospitalità con il marito in un appartamento di proprietà dell’Ambascia­ta del Messico. Era una donna di grande rettitudine, che attendeva la morte del marito insieme ai due figli picco­li, Teresa e Carlos, i bambini che andavano al Consola­to dell’Honduras a ritirare le lettere del Padre per Isido­ro. Non ci si poteva fidare di tutti i rifugiati; per evitare una delazione, non appena don Josemarìa arrivava nel­l’appartamento, i bambini gridavano in modo da farsi sentire: “C’è il dottore! C’è il dottore!”. I piccoli stava­no al gioco; ma né loro né Àlvaro erano consapevoli della gravità della malattia. Inoltre, privo com’era di documenti, Àlvaro non poteva arrischiarsi a uscire dal Consolato16.

In quei giorni Albareda raccontò al Padre che un suo conoscente, Dìaz-Ambrona, era rifugiato nell’Amba- sciata di Cuba e che sua moglie aveva dato alla luce una bimba nel Sanatorio Riesgo, allora sotto la protezione

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dell’Ambasciata inglese. I coniugi cercavano un sacer­dote per far battezzare la figlia. Albareda li avvisò che il Padre era disponibile e il battesimo fu fissato per le sette pomeridiane di un certo giorno; sembrava inutile racco­mandare di mantenere la massima discrezione. Ma don Josemarìa seppe che i genitori, felici per la circostanza, avevano invitato anche altre persone oltre ai padrini, di­mentichi della situazione di clandestinità. Decise allora di arrivare due ore prima del previsto, battezzò la neo­nata e si allontanò, nonostante i genitori cercassero di trattenerlo per il festeggiamento familiare17.

L’8 settembre José Maria Albareda chiese l’ammissio­ne all’Opera18. Con alcuni suoi amici, con Tomàs Alvira e con altri conoscenti che riuscì a localizzare a Madrid, don Josemarìa si propose di dare un corso di ritiro spiri­tuale, come quelli della Residenza di via Ferraz; anche se non avevano oratorio, né terrazza sulla quale passeg­giare nei momenti liberi, né sicurezza di non incappare in una retata della polizia. In una lettera del 10 settem­bre il Padre raccontava a quelli di Valencia gli eventi della prima settimana fuori dal Consolato:

“Madrid, 10 settembre 1937.Prendo la penna di malavoglia. E non per mancanza di desiderio, ma per le mille piccole cose che mi mettono di pessimo umore quando non riesco a dimenticarle,Àlvaro, povero ragazzo, sta passando momenti molto amari, perché suo padre, rimasto a Madrid con la mo­glie (la madre di Àlvaro) e i due piccoli (di nove e undici anni) per stare insieme, mentre il resto della famiglia se n’è andata dalla Spagna, suo padre, dicevo, è malato gravemente di una tubercolosi alla laringe. Vi potete im­maginare la situazione. La mamma di Àlvaro è molto coraggiosa, ma non è possibile che la povera signora si privi della compagnia di suo figlio, in queste circostanze. Vedremo come si potrà risolvere.Ricardo e Josemarìa vivono in una cameretta con terraz­za, che hanno preso in affitto, a poco prezzo, nel quar-

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tiere di Salamanca. Josemaria pranza con la nonna; e Ri­cardo con mio figlio José Maria Albareda. Pranza? O cena? Chissà se si può dire così...Vi mando un ritratto di mio fratello, autentico, così com’è ora: mostra, a quanto dicono, la sua espressione naturale.In questi giorni, il pazzo pretende di fare delle conferen­ze, come quelle che faceva a casa sua, passeggiando sul terrazzo. Assicura che avrà un uditorio dai sette ai nove professori universitari. Nientemeno! Da parte mia, gli auguro di rifarlo, anzi, di trifarlo.10 esco abbastanza spesso e faccio cose che mi piaccio­no. Essendo attaccato alla tradizione, mantengo le mie classiche abitudini: acqua, vino e pane a più non posso. Inoltre - è un privilegio di noi vecchi - ascolto confiden­ze e do consigli, prudenti per il peso degli anni, a tutta la nidiata, e persino a quelli che non sono bambini. Le mie gambe? Per ora non ho reumatismi, ma non so quanto resisteranno.11 giorno 8 è venuto a trovarmi José Maria Albareda per chiedermi di entrare nella nostra casa: poiché è un fidan­zato a modo, uomo serio e di sicuro avvenire, ho accon­disceso. Ditelo alla signora Maria, perché si interessi a queste vicende amorose.Molto grato per i vostri ripetuti doni, che ci risolvono il conflitto gastronomico di mezzogiorno. Ma il nonno non vuole che facciate sacrifici economici. Di sicuro ave­te fatto più di quanto potevate. E non voglio. Non vo­glio assolutamente che vi priviate di qualcosa per noi. È chiaro?Rafa! Che cosa sapete di lui? Con che gioia lo abbracciai e che pena per la sua partenza! Ditemi qualcosa.Lola non mi dice nulla. Sono disposto ad andare a tro­varli, accompagnato dal signor Emanuele. Resto in atte­sa. Sono preoccupato per Alvaro.Scrivetemi molto. Ricevete tutti e tre (e gli altri non an­cora nati?) un forte abbraccio dal vostro nonno

MarianoMio fratello dice che vi ricordiate dei suoi esercizi”19.

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2. “Quel pazzo che hanno assassinato”A quel tempo, nonostante la signora Dolores avesse va­ticinato che i gravi disordini nazionali sarebbero finiti il 25 luglio, festa di san Giacomo Patrono di Spagna, era già trascorso un anno di guerra. Durante l’estate del 1937 le truppe nazionali avevano occupato la costa can- tabrica e, una volta conquistata Santander, sloggiato le forze repubblicane dalle Asturie, inglobando nella loro zona tutta la parte nord della penisola. Il governo di Negrìn perdeva la propria superiorità di forze in campo, per cui, bilanciandosi il numero dei combattenti, la guerra prometteva di durare a lungo. Solo gli ottimisti continuavano a ritenere che la fine fosse vicina.

Il Fondatore passava mentalmente in rassegna gli eventi degli ultimi mesi. Era ben nota la fame che atta­nagliava con sempre maggior forza la popolazione di Madrid. Che cosa non avevano subito i suoi figli nelle prigioni! In quella di Sant’Antonio erano stati detenuti per alcuni mesi Àlvaro e Chiqui. A volte i miliziani, con feroce sadismo, avevano dato loro da mangiare persino escrementi umani20. Dopo aver superato mille traversie, Chiqui si trovava di nuovo a Madrid agli inizi del set­tembre 1937, abbronzato e di ottimo aspetto, a godersi alcuni giorni di licenza militare. “Chiqui sta stupenda­mente - scrisse Isidoro in tono esultante - ed è persino ingrassato, perché è un accaparratore: mangia in caser­ma e poi va a casa sua a ripetere l’esercizio; non vuole che nessuno approfitti della sua porzione di rancio”21.

Il Padre poteva ringraziare il Signore per esser riuscito a localizzare tutti i suoi figli della zona repubblicana. Aveva anche buone notizie di Ricardo, già passato ai nazionali. Nessuno seppe fino a qualche tempo dopo che Ricardo era scampato miracolosamente, attraver­sando di notte due fronti, proprio alcuni giorni prima che arrivasse da Madrid l’ordine di imprigionarlo come “fascista”22.140

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E l’elenco dei morti, degli assenti o degli assassinati? Era cosa rara che una famiglia non avesse avuto qualche disgrazia. Così accadeva anche tra i membri dell’Opera. Pepe Isasa era caduto al fronte. Manolo aveva perso due fratelli, uno in guerra e l’altro assassinato. Il padre e un fratello di Albareda erano stati assassinati a Caspe allo scoppio della guerra...23.

Tra le scomodità che comportava lo stare rinchiusi, a don Josemarìa riusciva particolarmente sgradevole la coabitazione con la sporcizia, anche se non gli mancaro­no mai acqua, sapone e qualche prodotto per liberarsi, come diceva usando le parole di Santa Teresa, dalla “gentaglia”: cimici, pulci e pidocchi. Nel Consolato, per quanto i rifugiati si impegnassero, i pidocchi (pipis) si erano dimostrati restii a sloggiare volontariamente il territorio consolare. E se ci soffermiamo a considerare le condizioni del locale, che prima era servito da carbo­naia, i veri intrusi erano i rifugiati. Santiago, vicino di materassino del Padre, quando questi intestava le lettere “da Tegucigalpa”, gli suggeriva di scrivere “da Pipisja- gua”. Gli insetti erano padroni del campo: oltre alla “gentaglia”, ne abbondavano altri24.

La camera che il Padre divideva con Juan nella pen­sione di via Ayala, con due materassi sul pavimento, era incomparabilmente superiore. Aveva il grande vantag­gio di disporre di un bagno proprio, senza le fastidiose strozzature di orario né la lunga clientela mattutina del Consolato. E benché le mattine di fine estate si stessero rinfrescando, il sacerdote non tralasciò mai il bagno in acqua fredda; e non lo faceva per capriccio, ma perché mancava la doccia. Come mortificazione, tali immersio­ni non erano gradevoli né raccomandabili per un orga­nismo denutrito25. Il suo corpo, messo a dura prova dal­la fame e dal logoramento morale, era sul punto di ricadere nell’esaurimento, nei reumatismi o di cedere al diabete, del quale cominciavano già a manifestarsi alcu­ni sintomi, come la frequente necessità di orinare. Pro­

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babilmente passarono sotto silenzio alcuni attacchi di febbre, poiché in una lettera di quell’estate 1937 si leg­ge: “Madrid è stremata e si avverte molto il caldo. Para­dosso: a volte ho freddo e mi devo avvolgere in una grande coperta finché non reagisco. Cose di stomaco, senza dubbio”26.

All’ora di pranzo, don Josemaria passava dai suoi, in via Caracas. E molte volte, al pomeriggio, accompagna­va la madre a fare una passeggiata. Così la signora Dolo­res finì per abituarsi al volto emaciato del figlio, che non aveva riconosciuto alcune settimane prima quando era andata a fargli visita al Consolato. Sofferenze e privazio­ni avevano lasciato traccia nei madrileni e anche nella si­gnora Dolores, i cui capelli si erano ingrigiti. Il figlio ve­deva nel volto della madre un sereno velo di afflizione che gli ricordava la Madonna Addolorata che aveva comprato in Plaza del Àngel. Madre e figlio potevano parlare ora senza timore delle angosce e dei pericoli del passato. Nella mente del sacerdote sfilavano i ricordi.

Quel passato, così carico di eventi per entrambi, risa­liva solo al 20 luglio 1936, quando don Josemaria era arrivato a casa della madre vestito con una tuta e di na­scosto dai vicini. Subito dopo erano cominciati gli assal­ti a chiese e conventi e la caccia ai sacerdoti. Non ci si poteva fidare dei vicini, perché tra la servitù c’erano pa­recchie donne comuniste; e secondo quanto riferito dal fratello Santiago, “qualcuno della casa aveva detto che nel nostro appartamento si era rifugiato un sacerdote e che lo si doveva uccidere”27.

Come sappiamo, don Josemaria era dovuto fuggire precipitosamente pochi giorni dopo, alla notizia di un’imminente perquisizione, alla quale ne seguirono poi altre. Nell’appartamento sottostante a quello della si­gnora Dolores viveva un militare in pensione che si chiamava Paniagua, il quale aveva un figlio cadetto, sfuggito per miracolo all’assalto alla caserma de la Montana, e un altro figlio falangista; durante una incur­142

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sione, i miliziani avevano imprigionato diverse persone della famiglia. Ma da quella volta, incredibilmente, non erano più entrati in casa degli Escrivà né avevano fatto verifiche, benché la figura del sacerdote, “inconfondibi­le perché portava sempre la tonaca”, fosse molto nota nel quartiere28.

Juan Jiménez Vargas riferisce che pochi giorni dopo la fuga di don Josemarìa, gli Escrivà assistettero a un tene­broso evento: “Un assassinio per strada, nelle prime ore della sera. Udirono un gran tramestio e, supponendo che fosse una delle pattuglie che facevano incursioni nelle ca­se, guardarono dal balcone, naturalmente di soppiatto e attraverso gli spiragli delle persiane (...) Videro alcuni miliziani che rincorrevano un tale che non riuscì a fuggi­re e fu ucciso; il suo cadavere rimase sulla strada”29.

Non erano rari questi assassinii per strada. Due mesi dopo questo fatto, nell’ottobre 1936, le sorelle di don Norberto, il sacerdote del “Patronato de Enfermos”, si presentarono nell’appartamento di via Doctor Càrceles: “Ricevemmo - racconta Santiago Escrivà - la visita di due sorelle di un sacerdote amico di Josemarìa, don Norberto, al quale ho già accennato. Vennero per chie­derci del denaro che, secondo loro, dovevamo al fratel­lo. Poiché non era vero, la conversazione stava diven­tando tesa, a tal punto che arrivarono a dire a mia madre - ignoro come se lo fossero inventato - che ave­vano visto Josemarìa morto, impiccato a un albero, in strada. Allora non riuscii a trattenermi, dissi ciò che pensavo di loro e le cacciai fuori”30.

Anche concedendo un certo margine di fantasia a quelle brave donne, la portata della notizia e la trucu- lenza dei dettagli difficilmente si accordavano con una bugia; le chiacchiere delle sorelle di don Norberto non erano pura invenzione: su questo punto erano meglio informate del fratello di don Josemarìa. Se non proprio loro, altri vicini avevano visto il cadavere e udito i mili­ziani vantarsi di aver impiccato un prete. Una notizia di

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questo rilievo non potè fare a meno di diffondersi per il quartiere, tanto più che il corpo era rimasto esposto agli sguardi di tutti i passanti.

E probabile che Carmen e la madre restassero qualche giorno nell’angoscia dell’incertezza, poiché in quei gior­ni Josemarìa si era rifugiato in via Sagasta e spesso pas­savano alcuni giorni senza che giungessero notizie sue. La cosa più verosimile, tuttavia, è che alla signora Dolo­res la notizia della morte violenta del figlio fosse giunta da qualche vicino e che madre e figlia l’avessero nasco­sta a Santiago. Il quale, naturalmente, ritenne una fan­donia la storia delle sorelle di don Norberto, poiché in ottobre don Josemarìa si era rifugiato, sano e salvo, nel­la casa di cura del dottor Suils31.

L’ultimo a sapere di essere stato assassinato fu pro­prio la vittima in questione, che il 18 settembre scriveva ai suoi figli di Valencia, senza poter dire loro con certez­za se era stato... fucilato o impiccato:

“Una notizia in ritardo: a me in persona hanno detto di­verse volte che mio fratello Josemarìa l’avevano trovato impiccato a un albero; alla Moncloa, secondo alcuni; se­condo altri, in via Ferraz. C’è chi ha identificato il cadave­re. Un’altra versione della sua morte: l’hanno fucilato”32.Come è possibile che nelle 170 lettere scritte dal Con­

solato non si parli mai di questa “notizia in ritardo”? La risposta è molto semplice. Fino ad allora don Jose­marìa non aveva mai potuto avere una lunga e tranquil­la conversazione con sua madre. Fu senza dubbio la si­gnora Dolores che lo mise al corrente delle diverse versioni che correvano sulla sua presunta morte. Non è infatti un argomento che possa saltare fuori casualmen­te e capricciosamente dalla memoria di quel sacerdote; in quei giorni del settembre 1937 era una notizia di sor­prendente attualità, che ritornava in vari paragrafi della lettera a quelli di Valencia:144

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“Immaginate la faccia del nonno, davanti a simili notizie. Sarebbe veramente da invidiare, per un pazzo come mio fratello, una fine del genere con l’aggiunta della fossa co­mune. Che cosa avrebbe potuto desiderare di meglio, il poveraccio, che era già moribondo nella camera lussuosa di una dispendiosa casa di cura! No, mi correggo: questa maniera di morire (normale, senza rumore né spettaco­lo), come un vile borghese, si accorda meglio con la sua vita, la sua opera e il suo cammino. Morire così - ah, si­gnor Emanuele -... ma pazzo, di mal d’Amore”.Quest’ultimo pensiero - la contrapposizione tra una

morte violenta e spettacolare, in mezzo alla strada, e la morte silenziosa in un letto, come stava per accadergli nella casa di cura del Dott. Suils - lo avrebbe poi raccol­to in Cammino, definendo più “eroico”, rispetto a una morte spettacolare, “morire senza farsi notare, in un buon letto, come un borghese..., ma di mal d’Amore”33.

E in un altro punto della stessa lettera, dedicato a sol­levare lo spirito di una persona ancora sotto l’effetto del dolore per la morte del padre, riprese l’argomento della “notizia in ritardo”: “Io - ridi pure! - non penso di mo­rire, ma di defilarmi, proprio così, defilarmi”34.

Fra gli scritti posteriori del Fondatore c’è un altro ri­ferimento a questo evento, in una lettera del 1943, indi­rizzata ai membri dell’Opus Dei:

“Né prima né dopo il 1936 sono mai intervenuto, diret­tamente o indirettamente, in politica: se mi sono dovuto nascondere, incalzato come un criminale, è stato solo perché confessavo la fede, anche se il Signore non mi ha ritenuto degno della palma del martirio; in una di queste occasioni, davanti alla casa in cui abitavamo, impiccaro­no una persona che era stata scambiata per me”35.Non si seppe mai l’identità della vittima. Quel mor­

to, tuttavia, ebbe un trattamento migliore del milite ignoto. Non ebbe una tomba, ma riposò nella gratitu­

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dine del Fondatore e ci fu sempre per lui una fiamma accesa nella sua memoria. “Mi consta - testimonia Ja­vier Echevarrìa - che pregò tutta la vita per questa per­sona, chiedendo anche perdono al Signore per coloro che l’avevano assassinata”36.

Quel sacerdote si rese conto, ancora una volta, che la sua vita era in prestito e che il Signore aveva sbaragliato la furia dei suoi persecutori, consentendo così una certa tranquillità a quelli della sua famiglia.

3. “Il signor Emanuele ne sa più di noi”Don Josemarìa, che nell’ultimo anno era passato di rifu­gio in rifugio, sentiva ora la gioiosa premura di mettere in pratica i propri desideri di aiutare le anime; come un atleta al quale le circostanze per lungo tempo non han­no permesso di allenarsi. Il progetto di recarsi a Daimiel con un’auto diplomatica, per far visita a Miguel Fisac e a sua sorella Lola e portare loro il Santissimo Sacramen­to, non si potè realizzare. Gli dispiacque davvero molto e si può credere che sia dispiaciuto anche ai rifugiati nel Consolato. Dovette sorgere qualche difficoltà insupera­bile, probabilmente in relazione ai permessi di approvvi­gionamento, perché il 19 settembre scrisse a Daimiel: “Carissima Lola: pazienza. Il signor Emanuele ne sa più di noi. Peccato per il viaggio sfumato!”37.

Invece il suo proposito di dare un ritiro spirituale a giovani studenti e professori andò in porto. Tennero la prima meditazione il 20 o il 21 settembre. Vi assistette­ro Isidoro Zorzano, José Maria Albareda, Juan Jiménez Vargas, Manolo Sainz de los Terreros, Tomàs Alvira e un altro amico, Àngel Hoyos. Le riunioni di un gruppo di giovani, tutti uomini, avvenissero in una casa o per strada, rischiavano per forza di attirare l’attenzione al­trui, per esempio dei portinai incaricati dei controlli nel­le case. Per questo il Padre, nei tre giorni di durata degli146

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esercizi spirituali, fece le meditazioni in orari e in luoghi diversi. Alcune volte utilizzò la casa di Isidoro, altre vol­te quella della signora Dolores in via Caracas, o le pen­sioni di Alvira e Albareda, i cui proprietari erano perso­ne di fiducia. Il sacerdote la mattina dava mezz’ora di meditazione, alcuni punti per l’esame di coscienza e qualche indicazione; poi se ne andava. I partecipanti uscivano a intervalli irregolari e se ne stavano per stradao al parco del Retiro, per continuare le loro riflessioni passeggiando oppure per concentrarsi nella recita del rosario. Il pomeriggio, all’ora e nel luogo concordati in precedenza, avevano un’altra meditazione.

L’ultimo giorno il Padre celebrò la Messa nella pen­sione dove abitava Tomàs Alvira, al primo piano di via General Pardinas 2838. La padrona, la signora Matilde Velasco, aveva preparato con gran cura un tavolo, ma quando il sacerdote, in borghese e senza alcun paramen­to, cominciò a celebrare la Messa, ella non vi potè assi­stere. Aveva il compito di controllare, dal vestibolo, co­loro che passavano per le scale, per evitare sgradevoli interruzioni39. Nonostante non avesse potuto assistere alla Messa, la padrona, durante la prima colazione di quanti vi avevano partecipato, notò qualcosa di singola­re nella conversazione e nelle maniere del sacerdote. La impressionò anche il sorprendente e silenzioso gesto del Padre che, mortificando la fame, accarezzò un’arancia e la lasciò là, elegantemente dimenticata sul tavolo. Quando sparecchiò, la signora Matilde raccolse con ve­nerazione l’arancia toccata da quel sacerdote. “Arancia- testimonia Juan Jiménez Vargas - che quarantanni dopo quella famiglia ancora conserva”40.

Negli ultimi mesi in cui era rimasto rinchiuso nel Consolato il Padre aveva mantenuto i contatti con le sue figlie attraverso Isidoro. Questi si era incontrato diverse volte con Hermógenes Garda, consigliando alle donne dell’Opera, per incarico del Padre, di pregare, ma di non tentare di vederlo. Il tutto, per la precisione, allo scopo

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di evitare loro preoccupazioni. Ora, avendo una certa li­bertà di movimento, era disponibile per le sue figlie. Pertanto pensò di ripetere con loro gli esercizi spirituali che aveva appena dato agli uomini41.

Raccogliendo notizie sulle ragazze dell’Opera, seppe che una di esse, Antonia Sierra, molto ammalata, si tro­vava a Castellón, vicino a Valencia. Come era accaduto a suo tempo con Maria Ignacia, don Josemarìa la consi­derava un vero tesoro; era tubercolotica dal 1933 e ora moribonda, un’anima di espiazione. Per lettera chiese a quelli di Valencia di farle visita:

“Eccovi l’indirizzo di una povera mia nipote, malata e povera e straordinariamente buona, tesoro che il pazzo che è stato assassinato sfrutta ormai da anni: Antonia Sierra. Sanatorio Hospital. Villafranca del Cid (Castel­lón). Da tanto tempo passa da un ospedale all’altro. Se poteste farle visita ve ne sarei molto grato. Almeno fate­le arrivare quindici pesetas, che Ignacio vi invia per po­sta e, se possibile, qualcosa che una tubercolotica in fase avanzata possa mangiare. Sarei felice se poteste darle la consolazione di una vostra visita!”42.Quasi ogni giorno celebrava la Messa e predicava per

un gruppo di persone. Spesso si trattava di comunità di religiose. Mentre erano stati migliaia i sacerdoti assassi­nati durante la persecuzione, il numero di suore marti­rizzate era inferiore a trecento43. Imprigionarle avrebbe creato problemi, poiché tutte le prigioni del Paese erano stracolme. Perciò, con la tacita connivenza del vicinato e della polizia, alcune comunità si erano rifugiate in ap­partamenti e pensioni. Una volta che don Josemarìa si stava recando a far visita al suo amico Ale j andrò Guzmàn, un attimo prima di entrare nella casa fu acco­stato da una donna che, presolo sottobraccio, lo allon­tanò da quel luogo, perché proprio in quel momento i miliziani stavano facendo una perquisizione nell’edifi-148

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ciò44. Era il numero 12 di via Hermosilla, dove alloggia­va una comunità di religiose Riparatrici. Due o tre mo­nache che non ci stavano per mancanza di spazio, tra cui la sorella di Alejandro, abitavano nell’appartamento contiguo45. È probabile che don Josemaria le abbia assi­stite spiritualmente più di una volta, perché un anno do­po, una volta passato nella zona nazionale, incontrò due di loro ad Avila; una lo riconobbe subito ed ebbe un’esclamazione di sorpresa: “Ma è il diplomatico!”. In effetti, don Josemaria aveva cercato di avere l’aspetto del diplomatico, con la bandierina sul bavero, la cravat­ta ben annodata e una grande borsa con lo stemma del- l’Honduras, dentro la quale teneva un pezzo di pane du­ro nel caso non fosse potuto ritornare a casa a mangiare46.

Alcune congregazioni di monache, avendo assistito alle barbarie del terrorismo delle milizie, vivevano anco­ra sotto l’incubo della paura, con i nervi a fior di pelle. Tale era il caso di una comunità di Terziarie Cappuccine che nel 1936 prestavano la loro opera nella casa di cura Villa Luz, in via General Oraà. All’inizio della guerra trovarono rifugio in una pensione, a spese di un carita­tevole benefattore. Un anno dopo erano ancora là, con una vita conventuale piuttosto rilassata. “Avevamo pau­ra, tanta paura - confessa suor Ascensión Quiroga, una di loro - tanto che, per non mostrare la nostra condizio­ne di religiose, ci vestivamo e ci truccavamo in modo da evitare delazioni. Io personalmente stavo esagerando a tal punto che, oltre a nascondere il mio stato, mi piace­va farmi e credermi bella”47.

Vennero a conoscenza del lavoro di don Josemaria; lo fecero avvisare ed egli si recò alla pensione per dare loro sostegno interiore. Tenne loro una conversazione spiri­tuale, una specie di predica. “Erano tali le idee e le cose che ci disse - ricorda suor Ascensión - che ne fummo impressionate e formulammo sinceri desideri di donarci

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interamente a Cristo, come il giorno della nostra profes­sione religiosa”.

Chiamando in causa se stesso, il sacerdote disse loro: “Siamo tutti codardi, abbiamo paura di dare la vita per Iddio”. “Mi impressionò il suo modo di predicare - continua suor Ascensión -: non era una predica, si trat­tava dell’orazione personale di un santo, fatta ad alta voce”. Da quel giorno non cercarono più di dissimulare la propria condizione e smisero di incipriarsi48.

A eccezione di questi episodi, sappiamo poco del servi­zio ministeriale di don Josemarìa in quel periodo. Alcune volte, quando andava a occuparsi di monache rifugiate, si fece accompagnare da Juan fin nelle vicinanze del luogo dove era diretto49. Altre persone, invece, andavano a far­gli visita in via Ayala. In alcuni casi, nel suo incessante movimento per Madrid, il Signore gli fece trovare anime bisognose di aiuto. Così per esempio accadde con “una religiosa dispersa” di cui, per grazia divina, egli penetrò il pensiero e le occulte intenzioni; ed ella, contrita per la propria deviazione, consapevole dell’intervento sopran­naturale, chiese al sacerdote di confessarsi50.

51- * *

Nelle sue lettere dal Consolato il Padre aveva dovuto educare gli animi: talvolta raccomandando pazienza, al­tre premendo per risolvere qualche questione, ma sem­pre sollevando lo spirito dei suoi figli:

“Coraggio e calma. Non perdere mai il controllo di se stessi, con l’aiuto del signor Emanuele: è questo lo spiri­to della nostra famiglia; così abbiamo sempre gioia e pa­ce. In questo mondo a tutto c’è rimedio, tranne che alla morte; e a volte il rimedio è migliore di ciò che non ri­chiede alcun aggiustamento”51.La soluzione stava nell’importunare il signor Ema­

nuele, nel pregarlo con insistenza:150

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“Dato che fate visita al mio vecchio e carissimo s ig n or Emanuele - aveva scritto a quelli di Valencia - vi prego di ricordargli tre questioni che ho già trattato con lui:1 ) il rientro nel nostro Paese del mio povero fratello paz­zo, Josemarìa;2) il buon esito del reclamo che è stato presentato, trami­te l’Ambasciata, al Governo della Repubblica spagnola;3 ) che ispiri la nonna affinché, se fosse necessario, sia di­sposta a un certo sacrificio per il bene di tutta la fami­glia”52.A parte la signora Dolores, sempre ben disposta al sa­

crificio, tutto il resto era andato male. Nulla era andato a buon fine. Sia riuscire ad abbandonare Madrid sia il famoso reclamo erano stati come “la storia della buona pipa”, cioè la storia infinita. Perché Dio faceva il sordo? Il signor Emanuele non sapeva forse quanto se la stava­no passando male? Così scriveva a quelli di Valencia il 25 luglio 1937:

“Oggi, festa di san Giacomo, è esattamente un anno da quando ho dovuto abbandonare la mia casa. Tuttavia so­no contento. Emanuele sa molto bene ciò che ha tra le mani e spero che le nostre cose di famiglia si sistemino prima, più e meglio di quanto possiamo sognare. È chiaro che da parte nostra dobbiamo usare i mezzi opportuni”53.Si davano da fare e si sentivano tranquilli, ma le cose

che intraprendevano fallivano dalla sera alla mattina. Così scrisse il 25 agosto, mentre era ancora al Consola­to, dopo che era svanito il piano di andare a vivere con la madre, grazie a un certificato di malattia steso dal Dottor Suils:

“Tutti i progetti di tornare alla sua attività professionale sono stati frustrati, nonostante il certificato rilasciato dal Dott. Suils? Bene, e con ciò? Essendo aragonese, in­siste con pertinacia e continua a non darsi per vinto (...).

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Fiducia. Grazie al signor Emanuele, non possiamo mai dubitare del rapido successo degli affari della nostra fa­miglia. È naturale che ci siano inconvenienti; ma gli uo­mini si rafforzano davanti agli ostacoli. Forza! D. e au­dacia! Non è così? Quindi, stiamo sicuri in ogni momento che il successo arriverà”54.Non bisognava solo respingere le preoccupazioni, ma

anche sostenere la fede, l’ottimismo e la speranza, con l’antico motto dell’Accademia DYA, perché “il signor Emanuele ne sa più di noi, dice sempre mio fratello, il pazzo”55. “Il signor Emanuele ne sa più di noi” era, in effetti, l’espressione favorita del Fondatore nella corri­spondenza dal Consolato. Con una simile fede e una ta­le ostinazione, potevano naufragare progetti e cadere fulmini; il sacerdote manteneva imperterrito la sua con­vinzione: “Il signor Emanuele ne sa più di noi. Qualsiasi cosa accada, tutto è per il bene”56, perché tutto viene dalle mani di Dio, nostro Padre.

Quel sacerdote aveva un principio ben chiaro: guar­dare tutto con occhi di fede. Da ciò provenivano la sua docilità alle ispirazioni dall’alto e la sua completa dedi­zione all’impresa divina di fare l’Opera. Per controparti­ta, aveva anche un punto debole: gli s’inteneriva il cuore e portava fino alle conseguenze estreme il rispetto per la libertà e per i diritti del prossimo.

“Io... non dico niente - scriveva ai suoi figli di Madrid Ho l’abitudine di tacere e di dire quasi sempre: “Be­

ne”, o “molto bene”. Nessuno potrà dire in verità, alla fine della giornata, di aver fatto una cosa o l’altra, non dico per un ordine, ma neppure per un suggerimento del nonno. Quando penso di dover parlare, mi limito a esporre in termini chiari e definiti i dati di ciascun pro­blema; anche se la vedo chiara, non do né darò mai la soluzione concreta. Ho un’altra strada per influenzare dolcemente ed efficacemente la volontà dei miei figli e nipoti: prendermi il disturbo di importunare il mio vec­

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chio Amico, il signor Emanuele. Magari io non perda mai la bussola e sappia lasciar fare ai miei con la massi­ma libertà... finché verrà il momento di tirare la corda!E arriverà. Naturalmente, ormai mi conoscete, nono­stante la debolezza del mio cuore, non sarò mai capace di sacrificare la vita, neppure un minuto della vita di qualcuno, per mia comodità o per mia consolazione. Tanto che starò sempre zitto (ne parlerò col signor Emanuele) anche se le decisioni dei miei figli mi sem­brassero un vero disastro”57.È scontato che, anche in quelle difficili circostanze, il

Fondatore doveva fare l’Opera. Ma era opportuno passa­re alla zona nazionale per riunire i membri dell’Opera che vi si trovavano e continuare senza intoppi il lavoro apo­stolico? Non volendo imporre il proprio criterio, si consi­gliò con i suoi figli, i quali insistettero sul fatto che il Pa­dre doveva passare dall’altra parte. La decisione, evidentemente, spettava a lui e fu oggetto di molta pre­ghiera e di molte incertezze. Spiega mons. Àlvaro del Por­tillo: “Lo addolorava l’idea di lasciare in una situazione precaria, nella zona rossa, alcuni suoi figli e figlie. Inoltre a Madrid sarebbero rimasti anche la madre e i fratelli. Il Fondatore dell’Opus Dei rimase in dubbio per molto tempo: a volte vedeva chiaro di dover fuggire; altre volte gli sembrava che fosse suo obbligo fermarsi e affrontare il martirio, se fosse stato necessario. Alla fine, dopo molta preghiera, prese la decisione di andarsene”58.

Come si è visto, i suoi tentativi, che non furono pochi, fallirono. Si muoveva liberamente per Madrid, ma senza avere una soluzione per uscire dalla zona rossa:

“Piccoletti miei! - scrisse a Valencia il 18 settembre - . Il nonno ha molta voglia di abbracciarvi, ma poi gli capita sempre qualche intoppo. Andrà bene così. Comunque, chissà, non dispero di realizzare presto i miei desideri. In fin dei conti... il signor Emanuele ne sa più di noi”59.

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Il fatto è che la sua situazione era migliorata. Fra sta­re rinchiuso nella “gabbia dei grilli” del Consolato e ri­cevere la carezza del sole di Madrid passava una bella differenza. Nella stessa epoca, l’anno prima, era privo di documenti in una capitale sottoposta a ispezioni e controlli, in un momento in cui l’arresto equivaleva, nel migliore dei casi, a finire in prigione; e l’aggravante di essere un prete era un invito ad assassinarlo. Ora eserci­tava il suo ministero, seppure con cautela e pericolo.

Don Josemarìa era riuscito a mettere insieme una col­lezione di documenti di contenuto vario, benché nessu­no fosse sicuramente affidabile. Il più vecchio era una tesserina del “Comitato-Delegazione del Partito Nazio­nalista Basco” di Madrid, datato 23 dicembre 1936, per la “sua libera circolazione, essendo persona gradita al Regime”60.

Conservava anche un certificato redatto, a titolo per­sonale, da un Avvocato Procuratore del Tribunale di Madrid, datato 15 marzo 1937. L’avvocato in questione era Juan José Esteban Romero, già compagno di don Jo­semarìa alla scuola degli Scolopi di Barbastro, il quale certificava che “José Maria Escrivà Albàs, qui residente, di 35 anni d’età, presta servizio in questo ufficio duran­te l’orario di lavoro”61. Non era superflua l’apparente ripetizione inerente agli “orari di lavoro”, trattandosi di un certificato di lavoro. È vero che nella Madrid del 1937, in cui erano state già date severe disposizioni uffi­ciali affinché coloro che non avevano un lavoro fisso sloggiassero dalla capitale, nessuno sarebbe andato molto lontano con un certificato di quel genere. E nes­suno si sarebbe preso neppure il disturbo di verificarne la veridicità, perché nell’estate del 1937 le autorità com­petenti avevano già decretato che i certificati di prati­cante di studio legale non avevano alcuna validità62.

Aveva anche il certificato medico del Dott. Suils, data­to 14 marzo 1937, datogli quando aveva lasciato il sana­torio. Del paziente si diceva che “allo stato attuale non è154

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completamente guarito, per cui gli viene proibito ogni genere di lavoro, preoccupazioni, viaggi e qualsiasi altro tipo di attività”63. Il Dott. Suils sembrava chiedere solo che lo lasciassero in pace. Ma il rischio che correva il pa­ziente se avesse esibito il certificato era che lo trasferisse­ro dalla capitale a un manicomio del “Levante felice”.

Quanto all’altro certificato medico, anch’esso del Dott. Suils, del 22 agosto 1937, in cui si affermava che da sei anni soffriva “di una psicosi endogena che lo col­pisce a periodi”, sarebbe stato utile o dannoso a secon­da dell’interpretazione dell’eventuale interlocutore64.

In questo mucchio di documenti si distingueva, so­prattutto, il fiammante e coraggioso certificato di Inten­dente della Cancelleria del “Consolato Generale della Repubblica dell’Honduras - America Centrale”, nel quale si richiedeva a favore dell’interessato di “facilitar­gli la circolazione per il disimpegno delle sue funzio­ni”65. Non era una nomina in piena regola, ma il docu­mento, di per sé, ispirava rispetto.

Non gli mancava neppure l’imprescindibile sponda ri­voluzionaria. Aveva una tessera della Confederazione Nazionale del Lavoro (C.N.T.) a nome di José Escribà Albàs; numero di matricola 522; data di iscrizione: 9- VI-1937, con il timbro del Sindacato Unico dei Funzio­nari di Tribunale, Avvocati e Funzionari in Generale. Nel “Foglio annuale delle quote mensili” figurano paga­te le quote dei mesi di giugno, luglio, agosto e settem­bre, in ragione di 2 pesetas e 25 centesimi al mese. La “Carta Confederale - 1937” che accompagna la tessera è la numero 90893066.

La famiglia Escrivà, a eccezione della signora Dolores, a un certo punto sarebbe stata tutta provvista - chi l’a­vrebbe mai detto - di documenti del sindacato anarchico della C.N.T. Costretti dalle circostanze storiche, molti buoni cristiani si erano visti obbligati, per il semplice fat­to di essere residenti nella zona repubblicana, ad arruo­larsi nell’esercito popolare, accanto a coloro che si pro­

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clamavano nemici della Chiesa67. Accadeva anche il con­trario68. Vale qui la storiella che una volta don Josemaria raccontò ai suoi. Giunse una volta a Saragozza un conta­dino e andò a visitare la cattedrale. Alcuni buontemponi gli dissero che il pavimento era fatto a scacchiera, con grandi lastre di marmo bianche e nere, e che stesse molto attento a dove metteva i piedi, curando di non calpestare quelle bianche, perché i guardiani della cattedrale aveva­no ordine di prendere a bastonate chi lo avesse fatto. Il contadino saltava come un passero da una lastra nera al­l’altra. Credendolo matto, i guardiani si avvicinarono per convincerlo ad andarsene. Ma quello rispose loro in tono arrogante: la verità è che vi dà fastidio che sia riu­scito a stare sul nero!69.

L’aneddoto si potrebbe applicare a metà della Spagna. Alcuni caddero sul bianco e altri sul nero, spesso indi­pendentemente dalle loro idee. Alcuni ebbero il vento a favore e altri contro, a seconda delle loro preferenze po­litiche. Comunque tutti dovettero adattarsi, ciascuno nel luogo dove lo aveva sorpreso la guerra, la quale riu­scì a dividere molte famiglie e separò i genitori dai figli.

Nella primavera del 1937, nelle retrovie repubblicane si scatenò una guerra intestina tra le diverse forze rivo­luzionarie. La C.N.T. ne uscì sconfitta e fu oggetto di un’insidiosa persecuzione da parte degli stalinisti. Fu al­lora che, volendo emulare i sindacati socialisti e comu­nisti, gli anarchici aprirono le loro file a nuovi adepti, senza curarsi della loro ideologia né della loro prove­nienza. Circostanza di cui approfittarono tutti coloro che poterono, e fra essi gli Escrivà; aderirono alla C.N.T., che era l’unico modo per potersi muovere nella Madrid rossa70.

Un giorno infatti si presentarono in via Caracas alcu­ni miliziani socialisti a chiedere i documenti di lavoro. Carmen e la signora Dolores non li avevano (l’ordine di lasciare Madrid per coloro che non potevano dimostra­re di avere un lavoro erano vigenti dal gennaio 1937);156

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perciò dissero loro di prepararsi, perché sarebbero ritor­nati dopo qualche giorno a prenderle per trasferirle a Valencia71. Isidoro, saputo dell’urgenza del caso, andò a trovare José Maria Albareda che, assieme a Tomàs Alvi­ra, conosceva persone che lavoravano al Sindacato Inse­gnanti della C.N.T., in piazza Colón, nella Casa dell’O- rologio. La maggior parte dei professori e del personale delle Scuole Normali apparteneva al Sindacato sociali­sta della U.G.T., mentre quelli della C.N.T. avevano scarsi aderenti e quindi scarso potere in questo settore. Questa fu la ragione per cui un buon numero di religio­si e religiose approfittarono delle circostanze per iscri­versi, agli inizi del 1937, alla C.N.T. e ottenere un posto di lavoro. In seguito ci fu un’epurazione e alcuni finiro­no in carcere72.

José Maria Albareda, che era professore all’istituto Velàzquez di Madrid, si offrì di risolvere la faccenda del permesso di lavoro di Carmen presso il Sindacato della C.N.T., poiché Carmen aveva ottenuto alla Scuo­la Normale di Logrono il titolo di Maestra. Tutto sem­brava sistemato, ma si creò una grande confusione e l’ufficio fu chiuso. Carmen dovette tornare alcuni gior­ni dopo, accompagnata da Isidoro, a ritirare il docu­mento. Un funzionario di mezza età e dall’aspetto bo­nario, probabilmente un religioso in incognito, consegnò a Carmen un certificato di dattilografa del sindacato, avvertendola con chiarezza che non le ve­nisse in mente per nessun motivo di andarci sul serio. Evidentemente quella brava persona non lo diceva per caso. “Finalmente - scrisse Isidoro in giugno - si è ri­solta la faccenda del certificato di lavoro di Carmen: questo pomeriggio l’ho accompagnata al sindacato e ce l’hanno dato, dopo che era rimasto bloccato perché il segretario era fuggito nell’altra zona con tutti i fon­di. Oggi corre voce che sia passato tutt’intero anche il battaglione Spartacus, del quale si ricorderà Ricar­do”73. Ricardo, cioè Juan Jiménez Vargas, non poteva

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certo dimenticare il suo breve servizio come tenente medico della brigata Spartacus della C.N.T. sul fronte di Jarama; né la forza interiore che lo aveva trattenuto ogni volta che era stato sul punto di disertare e passare il fronte. Le voci sul tradimento della brigata Sparta­cus facevano comunque parte della campagna bolsce­vica per screditare politicamente la C.N.T., di estrazio­ne anarchica.

La signora Dolores decise di festeggiare il permesso di lavoro con una merenda in famiglia. “La nonna ci ha invitati domenica a prendere il tè; noi nipoti ci an­dremo tutti”, scrisse Isidoro74. Ora che la madre e la sorella sarebbero potute rimanere a Madrid grazie à quel permesso, don Josemarìa suggerì di procurare i documenti che permettessero a Santiago di uscire dal Consolato e di circolare liberamente per la capitale. Li si ottenne per l’implacabile insistenza di don Jose­marìa, il quale, dalla stanzetta del Consolato dell’Hon- duras, seguiva la faccenda. La cosa era difficilissima ma, iniziata nel mese di maggio, fu conclusa nella se­conda metà di luglio.

Né Carmen né la signora Dolores, per quanto potes­sero immaginare, si rendevano davvero conto della re­clusione in cui si trovava Santiago. Perciò, mentre le pratiche erano in corso, il Fondatore manifestò i propri timori a Isidoro: “Ho un gran desiderio che il piccolo stia con la nonna. Mia madre non si rende conto di che cosa voglia dire stare qui”75.

Dapprima si cercò di ottenere una tessera di studente e di iscrivere il ragazzo al corso estivo di una scuola. A questo scopo era necessario presentare gli avalli politici di due persone, dotate di una tessera precedente alla ri­voluzione, che garantissero che il cittadino in questione era favorevole al regime. Ma questi documenti venivano verificati dal Sindacato studentesco, dove ogni tentativo portava verso un pericoloso vicolo cieco76.

Si dovette cambiare rotta. Il ragazzo fu iscritto alle le­158

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zioni del Soccorso Rosso Internazionale e una volta ot­tenuta, senza inganni, una tessera della C.N.T. e pure un certificato del Dott. Suils, per chiudere la bocca al Co­mitato che controllava la casa di via Caracas, Santiago potè andare a vivere con sua madre77.

Il 27 luglio il Padre scriveva con gioia a Pedro Casciaro:“Ti ho detto che zio Santi vive, da alcuni giorni, con la nonna? Mi assicurano che non è solo contento, ma addi­rittura estasiato. Appartiene al S.R.I. (Soccorso Rosso Internazionale) e alla C.N.T. (Sindacato della Federazio­ne Anarchica Iberica). Mi dicono che veste una tuta e che assiste alle lezioni che il Soccorso Rosso tiene in una accademia”78.La tessera della C.N.T. del 9 giugno 1937 e la Carta

Confederale del Padre (n. 908930) a nome di José Escribà Albàs furono ottenute, a quanto sembra, sen­za particolare difficoltà; forse presentando solamentei certificati di lavoro79. È chiaro che a quel tempo una tessera di affiliato alla C.N.T. la cui sezione riservata alle quote iniziava nel giugno 1937, cioè un anno do­po la rivoluzione, certamente poteva creare molti so­spetti.

Fra i diversi piani per uscire dalla zona controllata dal Fronte Popolare, il più diretto e meno compromet­tente era quello per via diplomatica; ma Dio non lo aveva consentito. E neppure era riuscito a don Jose- maria di procurarsi un passaporto argentino con il fal­so certificato di nascita. A che cosa gli serviva, dunque, tutto il suo arsenale di documenti se non trovava una via di fuga? Sua madre e i suoi fratelli avevano risolto il problema, perché pensavano di restare a vivere a Ma­drid. La sua intenzione, invece, era di uscire dalla capi­tale; ma qualsiasi spostamento esigeva il relativo salva- condotto.

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4. La partenza da MadridEra ormai vicina la fine di settembre quando José Maria Albareda ricevette una lettera da Barcellona. Albareda sapeva che qualcuno della sua famiglia era fuggito in Francia attraverso i Pirenei. La lettera era di un sacerdo­te suo amico, don Pascual Gaiindo, che era riuscito a trovare la pista delle persone che l’avrebbero aiutato a passare la frontiera e ora, con prudenza e con linguag­gio in chiave, inviava l’informazione a Madrid80.

Fu comunicato al Padre e ci si mise a studiare la fatti­bilità e i rischi di una simile avventura; ci si mise alacre­mente a cercare di procurarsi salvacondotti per muoversi all’interno della zona repubblicana, e denaro. Ma pro­prio ora che tutti erano concordi sul piano di evasione, cominciarono le incertezze del Padre. Un giorno accetta­va di andare con Juan e José Maria Albareda a Barcello­na, il giorno successivo si tirava indietro. Faceva resi­stenza pensando ai membri dell’Opera che sarebbero rimasti in una situazione precaria, e poi alla madre e ai fratelli, esposti ai pericoli della guerra, o alla grave ma­lattia del padre di Alvaro, che poteva morire da un mo­mento all’altro. Alla fine don Josemarìa accettò di uscire da Madrid, accompagnato da tutti coloro che si sarebbe­ro potuti procurare i documenti per il viaggio81.

Grazie alla generosità di amici e persino di gente poco conosciuta, si riuscì ad avere una buona provvista di de­naro82. Per ottenere i salvacondotti era necessario pre­sentare il documento di lavoro e un avallo politico. Ci si dovette allora arrabattare con le carte e ricorrere a per­sonaggi pittoreschi, astuti e capaci di muoversi nella bu­rocrazia83. Si fece tutto con premura per poter uscire quanto prima da Madrid: se possibile, nella prima setti­mana di ottobre. Ma le previsioni non servivano a nulla. Era infatti questione di opportunità e non di organizza­zione. Per ciascuno il problema dei soldi e dei documen­ti si risolse come Dio volle.160

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Il primo ottobre, vigilia del nono anniversario della fondazione dell’Opus Dei, il Padre scriveva a quelli di Valencia: “Domani la mia piccola compie nove anni: quanti ringraziamenti farò per tutto il giorno! È piccoli­na, ma si vede che cresce robusta”84. E annunciava loro la propria visita a Valencia, accompagnato da Juan, “entro pochi giorni”.

Negli uffici del Sindacato Nazionale dei Servizi Pub­blici della C.N.T., il “compagno José Escribà” ebbe un avallo politico per ottenere il salvacondotto di viaggio dalla Direzione Generale di Pubblica Sicurezza. Vi era scritto: “Madrid, 5 ottobre 1937. All’Ufficio Passapor­ti della Direzione Generale di Sicurezza. - Salute, com­pagni. Vogliate autorizzare e concedere salvacondotto per recarsi a Barcellona e ritorno entro il termine di 30 giorni per risolvere questioni di famiglia al compagno di questa “Sezione Avvocati” Jose Escribà Albas, tesse­ra n. 522. - Vostri e della Causa. - Per il Comitato - il Segretario Guillermo Zendón”85. “Risolvere questioni di famiglia” era una delle poche ragioni veritiere nel­l’intrico di quei documenti che don Josemaria definiva “più falsi di Giuda”86.

A partire da quel momento i preparativi furono acce­lerati e fu fissato per la partenza l’8 ottobre. Juan sa­rebbe andato due giorni prima a Valencia per preparare la sistemazione logistica di tutti. Nel frattempo, don Jo- semarìa fece numerose visite, d’òbbligo e urgenti, alle persone che assisteva: Diede gli ultimi sacramenti a Ramón del Portillo, con l’intenso dolore di chi s'apeva che non avrebbe potuto assisterkr ntl momento della morte87. Riferendosi poi all’affaccendarsi di qruei gior­ni, vigilia della partenza, nella lettera del 9 ottobre Isi­doro scrisse che, sotto la spinta delle circostanze, tutto era stato “molto precipitoso, ma bisognava approfitta­re dell’occasione ”

Il 6 ottobre, di pomeriggio, Juan partì da Madrid su un autocarro che trasportava damigiane di vino e che lo

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lasciò a Tembleque. La capitale era allora una città asse­diata e le comunicazioni stradali e ferroviarie erano li­mitate ad alcune zone. A Tembleque Juan prese il treno per Valencia e la mattina del 7 giunse a casa di Paco Bo­tella. Fecero poi visita a Eugenio Sellés, che abitava in via Eixarchs 16, nell’appartamento di un collega della Facoltà di Scienze; Eugenio offrì la possibilità di ospita­re il Padre89. Per Pedro Casciaro e Paco Botella le gior­nate del 7 e 8 ottobre, passate in compagnia di Juan Jiménez Vargas, erano state straordinariamente anelate. Passarono ore a parlare90. Le notizie e i chiarimenti alle lettere del Padre e di Isidoro, ricevute da Madrid, copri­vano tutto un anno di isolamento e di eventi straordina­ri. Valencia era allora un brulichio di gente di fuori: fun­zionari dello Stato, sudditi stranieri e immigrati da tutta la Spagna. Al contrario di Madrid era una città di pas­saggio, per cui l’apparizione del gruppo che accompa­gnava il Padre non sarebbe sembrata strana né avrebbe attirato l’attenzione.

Pedro era destinato alla Scuderia militare91, in una ca­serma di Valencia; Paco a servizi ausiliari dell’Esercito, con libertà di movimento e con la possibilità di vivere in famiglia. La sera del 7, Juan se ne andò con Pedro, “parlando sempre di ciò che era accaduto durante la re­ciproca lontananza. Alle 11 arrivammo alla pensione di Pedro. Lui avrebbe voluto proseguire e parlare ancora; ma poco dopo aver recitato le Preci, io crollo e mi ad­dormento, mentre lui fa l’orazione mentale e recita una parte del rosario”92.

Non sapendo se da Madrid sarebbero arrivati in tre­no o in macchina, i tre passarono la mattinata andando e tornando dalla stazione. Poi decisero di aspettare a ca­sa di Paco. Erano le otto di sera quando suonò il campa­nello. Tra l’emozione dell’attesa e l’aspetto del Padre, ir­riconoscibile e in borghese, Pedro e Paco provarono uno strano nervosismo, finché si trovarono tra le sue brac­cia. Gli altri aspettavano in strada e li si distribuì nel162

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modo previsto: il Padre e José Maria Albareda in casa di Eugenio Sellés; Manolo Sainz de los Terreros e Tomàs Alvira nella pensione di Pedro; e Juan in casa di Paco93. Cenarono tutti insieme nella Hospederia del Comercio, un ristorante nel quale si trovarono accanto ad alcuni poliziotti, ai quali l’aspetto di Pedro non ispirò alcuna fiducia. Davanti all’inevitabile sgomento di tutti i com­mensali, costoro chiesero i documenti solo a Pedro, che era l’unico ad averli perfettamente in regola94.

La mattina successiva andarono tutti alla Messa in casa di Eugenio Sellés. Il Padre, avendo saputo che il portinaio della casa era in realtà un sacerdote e pensan­do che avrebbe potuto aver bisogno del suo aiuto mini­steriale, chiese che fosse avvisato. I due sacerdoti si con­fessarono e si servirono reciprocamente la Messa95.

Questo sacerdote che faceva il portinaio era conosciu­to come Pepe. Era vivo per miracolo perché, mentre lo stavano portando in auto per sparargli un colpo in testa e buttarlo fuori, essendo responsabile dell’imperdonabi­le delitto di essere sacerdote, un comunista aveva con­vinto i rivoluzionari a lasciarlo a lui, assicurando che lo avrebbe consegnato al Governo Militare. Il comunista, da poco militante e di buoni sentimenti, si era reso subi­to conto delle intenzioni omicide dei suoi compagni e riuscì poi a nasconderlo a Valencia come portinaio96.

Per evitare sospetti da parte di poliziotti o di altri, il Padre chiese a Pedro e a Paco di dargli del tu, e di chia­marlo Mariano. Ma, come era accaduto con Juan, riuscì solo a ottenere che evitassero l’uso esplicito del lei. Il Padre approfittò di quella giornata per parlare loro a lungo di fedeltà alla vocazione e di fiducia illimitata in Dio nostro Padre. Espose loro il suo ardente desiderio di recuperare la libertà di movimento per poter svolgere il suo apostolato con tutti i giovani che erano passati per la Residenza di via Ferraz e che ora si trovavano nell’al­tra zona. Chiese loro anche la generosità di sacrificare progetti professionali, in vista del lavoro di apostolato

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che avrebbero dovuto fare non appena fosse finita la guerra97. E poiché il treno per Barcellona partiva alle undici di sera, il Padre ebbe tempo di scrivere a Isidoro, passando però sotto silenzio i pericoli che avevano cor­so durante il viaggio nei vari posti di controllo. A Puer- to de Contreras i miliziani, in effetti, avevano chiesto lo­ro i documenti, ginocchio a terra e puntando i fucili contro l’auto98.

È giusto parlare qui dei discreti silenzi del Fondatore. Ma ancor più della sua discrezione risalta lo spirito eroico che traspare dalle sue lettere, con lo sforzo di infondere ogni giorno ottimismo contro la stanchezza e la mediocrità, nonostante la disinvoltura delle espressio­ni utilizzate. Le sue lettere a quelli di Valencia erano sta­te per mesi non soltanto un mezzo per comunicare noti­zie, ma anche una sorridente elemosina per risollevarelo spirito dei propri figli. È vero che non era facile riu­scire a divertire con battute e facezie; in molte occasioni doveva cercare di cavare sangue dalle rape e in altre, ec­cezionalmente, la sua scorta di buon umore era talmen­te esaurita da dover confessare il fallimento: “(...) Vorrei mettercela tutta per scrivervi una battuta, ma... non mi viene: ho la gola secca”99.

Grazie a Dio, il 9 ottobre era in vena e così scriveva a Ignacio, nome di battaglia di Isidoro:

“Carissimo Ignacio, siamo arrivati benissimo, alle otto di sera. Eravamo partiti all’una. Dopo Tarancón, ci sia­mo fermati al primo paese, abbiamo mangiato il pro­sciutto e la carne che avevano José Maria e Tomàs, i no­stri biscotti e il torrone. Ah!, e pure pane di frumento (sì: c’è pane di frumento), più alcuni pomodori in insala­ta che il nostro compagno di Saragozza ha fatto saltar fuori. Lungo la via abbiamo catturato due prede: una pernice, che è venuta a sbattere contro la macchina at­traversando la strada a bassa quota; e un cane che, pro­mosso montone, oggi si saranno mangiato i ricchi ma­drileni.164

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Nipotini cari e fantastici (...). Ricorderò tutti i miei pic­coli e te, e così pure Lola e i suoi figli, nelle mie chiac­chierate col signor Emanuele, durante il viaggio.Vi abbraccia MarianoSabato 9-X-37”100.Il treno per Barcellona partiva dunque alle ventitré.

Pedro e Paco accomiatarono i partenti. Se fosse andata bene la prima spedizione, ne avrebbero organizzata una seconda per quanti erano rimasti a Madrid e a Va­lencia. Nel momento in cui il treno stava partendo, ri­cevettero la benedizione per il viaggio: il Padre, con la mano seminascosta sul petto, dove portava la scatolet­ta metallica con il Santissimo (il famoso portasigarette con i corporali preparati da Carmen e la guaina con la bandiera dell’Honduras), fece il segno della croce, men­tre ripeteva con un leggero moto delle labbra: “Beata Maria intercedente, bene ambuletis, et Dominus sit in itinere vestro et angeli eius comitentur vobiscum”101. Quando l’avrebbero rivisto? Pedro e Paco si fermarono sulla banchina, tristi. Tristi e allegri, e con l’immagina­zione sciolta. “Dormii molto poco, quella notte”, rac­conta Paco102.

Meno ancora dormirono i viaggiatori. I vagoni del treno erano uno spazio aperto, senza scompartimenti. E alla partenza da Valencia erano affollatissimi. I sedili di legno erano rotti e sudici. Nel corridoio centrale erano ammonticchiate persone disposte a dormire per terra, per la maggior parte miliziani che venivano dal fronte in licenza. Si udivano spesso bestemmie e parolacce. Il Pa­dre passò la notte chiedendo perdono al Signore e, di fronte alla possibilità di un sacrilegio in caso di un con­trollo, decise, di buon mattino, di consumare le Sacre Specie; si passarono l’un con l’altro il portasigarette nel gabinetto del vagone, per potersi comunicare tutti. Do­menica 10 ottobre, poco prima di mezzogiorno, il treno

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arrivò a Barcellona. Don Josemarìa spedì subito poche righe a Isidoro per avvisarlo che erano arrivati103.

José Maria Albareda andò ad abitare in via Repubbli­ca Argentina, 60, dove la vedova di Montagut aveva ac­colto la madre di José Maria Albareda con i suoi due ni­poti. Una delle figlie della vedova, perspicace e svelta, aveva messo un cartello sulla porta di casa, come se si trattasse di un appartamento sequestrato dagli anarchici della F.A.I. Al riparo di tale protezione se ne stavano tranquilli. Vi si era stabilito persino don Pascual Gaiin­do, il sacerdote che aveva inviato a Madrid le informa­zioni per passare in Francia.

Il Padre, con il resto del gruppo, andò all’Hotel Cen­trale, in via Rambla de Estudios, 8. Nonostante la not­tata trascorsa in treno senza dormire, dedicarono il po­meriggio della domenica a passeggiare per la città, per allenare i muscoli, nel caso fossero dovuti partire presto da Barcellona.

Il giorno dopo don Josemarìa celebrò la Messa per tut­ti nella casa di via Repubblica Argentina. Poi la signora Pilar, madre di José Maria Albareda, diede loro gli ele­menti per trovare gli intermediari per passare la frontie­ra. Senza perdere tempo, seguirono le indicazioni ricevu­te e giunsero in un locale alla Ronda de San Antonio, n. 84, dove servivano pasti e bevande. Là chiesero, senza preamboli, di Mateo, che era poi la persona che stava al banco, un banco di marmo bianco come quello delle lat­terie. Più tardi seppero che l’uomo si chiamava Mateo Mollevì Roca, anche se al momento lo ribattezzarono con il nomignolo di “Mateo il lattaio”. Era una persona di mezza età, flemmatica e che ispirava fiducia104.

Dopo qualche schermaglia verbale per superare la dif­fidenza, si accordarono di vedersi il giorno dopo. Mateo spiegò allora che il contatto era un certo Vilaró; lo avrebbero trovato il giorno dopo all’angolo del bar Flo­ra, nella Gran Via de las Gorts. Mercoledì 13, all’ora convenuta, vi si recò Juan con un giornale tagliato a166

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metà, il segnale. Ma l’altro non si fece vedere. È proba­bile che avesse già trovato altri clienti. Secondo Mateo, il prezzo che Vilaró riscuoteva per ogni persona era di mille pesetas105.

5. Bloccati a BarcellonaErano a Barcellona da tre giorni e l’ottimismo del Padre circa il passaggio in Francia andava crescendo, a giudi­care dal tono delle notizie che inviava. “L’impressione è buona”, scrisse per prima cosa a Isidoro domenica 10 ottobre. “Sto migliorando, lentamente ma decisamen­te”, gli scriveva in una cartolina del 12 ottobre, facen­dogli capire che il piano procedeva106. E mercoledì 13, in una lunga lettera a Isidoro, dopo averlo informato che “entro pochi giorni” pensava di finire il viaggio, an­che se “può allungarsi un po’”, esponeva il suo nuovo piano. L’idea del Padre era di organizzare una seconda spedizione con tutti i membri dell’Opera che stavano a Madrid. A questo scopo dovevano avere i documenti in regola per riunirsi a Valencia, non appena avessero rice­vuto istruzioni da Pedro Casciaro. Poi, prevedendo la sua prossima partenza da Barcellona, chiuse la lettera con queste caute righe, sicuro della propria partenza:

“Forse andrò via prima di ricevere una sua lettera. Pre­gherò una buona amica che riceva lei la risposta e me la faccia avere. Perciò, non mi scriva all’albergo, ma all’in­dirizzo che le darò sotto.Saluti affettuosissimi e un abbraccio, con ricordi al si­gnor Emanuele e a sua Madre.

MarianoSpedisca la risposta a “Cecilia Sànchez via Repubblica Argentina, 60 - Barcellona”Può inserirvi un’altra busta aperta che dica:“Si prega di consegnare a Mariano”107.

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L’imprevista decisione presa dal Padre quel mercoledì, 13 ottobre, ebbe due conseguenze. Perché mentre scrive­va questa lettera a Isidoro, designando Pedro Casciaro come coordinatore di una seconda spedizione, inviò an­che a Valencia un telegramma, invitando Pedro a passa­re per Barcellona, allo scopo di esporgli nei dettagli il suo piano e affinché conoscesse personalmente Mateo e gli altri intermediari. Solo così si spiega perché quel mercoledì pomeriggio Pedro e Paco, allarmati dal tele­gramma, pensarono che fosse desiderio del Padre che Pedro si aggiungesse senza tardare alla spedizione che stava per partire da Barcellona (il telegramma, com’è lo­gico, era molto conciso). Pedro fece subito i preparativi. Si procurò alcuni fogli della Direzione Generale della Scuderia militare e riempì un modulo per ottenere il fo­glio di via e prendere la sera stessa il treno delle undici per Barcellona108.

Quando Juan ritornò all’Hotel Centrale con la faccia lunga, l’aspetto stanco e il giornale tagliato a metà sotto braccio, era in ritardo di tre ore. Raccontò che l’inter­mediario non era comparso. L’avversità fu solo appa­rente, come si vedrà. Quella spedizione di fuggitivi mol­to probabilmente finì male.

Quindi per il momento la partenza da Barcellona ve­niva procrastinata. Poiché non avevano molto denaro, pensarono di lasciare l’albergo e di andare in una pen­sione sita al 371 della Gran Via Diagonal, dove erano al sicuro dai delatori109. In effetti, il 14 ottobre si tra­sferirono tutti, tranne Albareda, nella pensione della si­gnora Rafaela vedova Cornet, donna capace di trattare bene i suoi ospiti e al corrente della condizione sacer­dotale di don Josemarìa. Lo stesso giorno giunse a Bar­cellona Pedro Casciaro. Il Padre lo mise al corrente del­la situazione e del piano di una seconda spedizione ed egli la sera stessa ritornò in treno a Valencia. Giunto in caserma fu premiato secondo i suoi meriti: sedici giorni di cella di rigore110.168

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La lettera del Padre del giorno 13 causò un compren­sibile fermento quando Isidoro trasmise agli altri mem­bri dell’Opera le indicazioni per riunirsi a Valencia con Pedro. Ma tutto si bloccò allorché, alcuni giorni dopo,lo stesso Pedro fece giungere dalla sua cella (in realtà, la caserma non aveva cella; era stata adattata una stanza apposta per lui) le informazioni giuste.

Isidoro, nella lettera del 21 ottobre, cercando di cor­reggere il malinteso sull’immediata riunione a Valencia, comunicò a quelli di Madrid: “Il nonno ha chiamato Pe­rico perché andasse a Barcellona. Al suo ritorno a Va­lencia scrive dicendo che ‘entro 10 o 12 giorni saranno a casa di José Ramón; bisogna avere 30 anni e disporre di tre libri; per ora la cosa non è fattibile, vedremo in se­guito’. Queste sono frasi del nonno ritrasmesse da ra- dio-Pedro”111.

Quelli di Madrid erano quindi informati che, venuto a mancare l’intermediario Vilaró, gli altri ritardavano la partenza da Barcellona; che per andare a “casa di José Ramón” dovevano disporre di 3.000 pesetas a testa; e che non dovevano ancora lasciare Madrid. José Ramón Herrero Fontana era il più giovane nell’Opera. L’inizio della guerra civile lo aveva colto nella zona nazionale. Sua madre e i fratelli erano rimasti a Madrid, in piazza Herradores, dove si era rifugiato anche don Josemaria. La “casa di José Ramón” indicava la libertà e la zona nazionale.

La docilità di Pedro che, di fronte a una necessità del­l’Opera, si era giocato il tutto per tutto impressionò il Padre, che ricominciò a preoccuparsi, non per la sorte dei suoi figli, che sapeva nelle mani di Dio, ma per i ri­schi ai quali si esponevano. Il Signore permise dunque che lo assalissero di nuovo i dubbi e che la sua anima fosse di nuovo turbata al pensiero di lasciare vigliacca­mente abbandonati a Madrid coloro che più avevano bisogno di lui.

Era il 15 ottobre e si trovava da solo con Juan nella169

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pensione; gli comunicò la propria decisione irrevocabile di tornare a Madrid, mentre gli altri dovevano seguire il piano previsto, e se ne uscì. “Fu senza dubbio il peggior momento della mia vita - confessa Juan - e lo ricordo ancora come se fosse oggi”112. Che cosa avrebbe detto agli altri quando sarebbero rientrati?

Mezz’ora dopo il Padre fu di ritorno. Senza dubbio aveva visto chiaramente quale era la volontà di Dio e che era suo dovere continuare l’impresa, nonostante ostacoli e pericoli. “Fu impressionante - continua Juan- l’umiltà con cui mi chiese perdono per il brutto mo­mento che mi aveva fatto passare. Non raccontai agli al­tri nulla di quanto era successo”113.

Grazie alle indicazioni della signora Pilar o di don Pa­scual Gaiindo e alla propria determinazione, don Jose- maria trovò il recapito di Pou de Foxà, il sacerdote do­cente di Diritto Romano a Saragozza, suo fedele amico e consigliere. L’incontro con lui fu il balsamo di cui aveva bisogno, come scrisse a Isidoro alcuni giorni più tardi:

“Barcellona, 20 ottobre 1937Mio buon amico, ho ricevuto il tuo scritto. Mi addolora la morte del signor Ramón, benché me la aspettassi: fa presente a questa famiglia tanto amata quanto partecipo della loro pena.Ci ricordiamo sempre di tutti. La nonna abbia cura di sé e dei suoi piccoli. Presto vedremo José Ramón.Di’ a Lola che parlo abbastanza a lungo con Pou: sta be­ne. Tarderò un po’ a scrivervi di nuovo.Avete ricevuto lettere da Periquillo?Vi abbraccia affettuosamente Mariano”114.Nella pensione della signora Rafaela il Padre celebrava

la Messa quasi ogni giorno; le altre volte lo faceva a casa della famiglia Albareda, alla presenza di altre persone. Poi portava con sé il Santissimo, per comunicare coloro che non avevano potuto assistere alla Messa. Tali riunio­ni clandestine non erano esenti da pericoli. La signora170

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Rafaela, forse per indicazione del sacerdote, si fermava a vigilare in corridoio, nel caso suonassero alla porta115.

Mentre attendevano notizie da “Mateo il lattaio”, don Josemarìa riempiva le ore libere con una crescente dedizione al suo ministero. Come a Madrid, anche a Barcellona esisteva una rete clandestina di ecclesiastici che si giocavano la vita amministrando i sacramenti ai fedeli116. Ma non sempre era facile stabilire contatto con essi. Un giorno Tomàs Alvira incontrò per strada Gayé Monzón, un amico di Saragozza, la cui madre, che viveva a Badalona, dal 1936 non aveva ancora trovato un sacerdote che la confessasse. Stabilita una data, don Josemarìa e Tomàs partirono per Badalona con Gayé Monzón. Scesero dall’autobus e, camminando vicino al mare, il sacerdote pregava ad alta voce Salve, Regina, Mater misericordiae...

Al cadere della sera, la signora Pilar Monzón si acco­miatava da Tomàs, sottolineando che “il Padre le aveva detto cose per la sua vita spirituale che nessuno mai le aveva detto”117.

Tomàs aveva buone relazioni sociali. Poco dopo l’ar­rivo a Barcellona lessero sulla stampa della nomina di Pascual Galbe Loshuertos a magistrato del Tribunale della Catalogna, in rappresentanza della Generalitat, cioè della suprema autorità catalana. Pascual era stato compagno di Tomàs all’istituto di Saragozza per tutto il liceo. Anche il Padre ricordava Pascual, che era stato suo compagno alla Facoltà di Diritto e aveva notoria fa­ma di ateo. L’ultima volta che si erano visti era stato a Madrid tempo addietro: Pascual era su un tram; all’al­tezza della Glorieta de San Bernardo, vicino all’Ospeda- le della Principessa e non lontano dall’Accademia Ci- cuéndez, vedendo il sacerdote, era saltato dal tram in movimento per abbracciare il suo vecchio amico118. Senza dubbio aveva un gran cuore e non si era vergo­gnato di manifestare il proprio affetto per un sacerdote, in quei momenti e sulla pubblica via.

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Ma le circostanze erano cambiate in peggio: come avrebbe reagito ora? Tomàs, fiducioso anche per la sua vecchia amicizia e d’accordo con il Padre, si recò un giorno in Tribunale. Il magistrato non potè nascondere la propria emozione nel vedere il suo vecchio compa­gno. Nel corso della conversazione, al momento oppor­tuno, Tomàs lo informò che anche don Josemarìa si tro­vava a Barcellona e desiderava vederlo. “Non qui! Non qui! - esclamò quegli allarmato - È meglio che venga a pranzo a casa mia”119.

Fissata per telefono la visita, don Josemarìa che, come sappiamo, non aveva denaro superfluo comperò alcuni giocattoli per i due bambini di Pascual e, accompagnato da Juan, arrivò a casa del magistrato. I due amici si strinsero in un grande abbraccio. Il pranzo fu cordialis­simo; e quando moglie e figli si furono ritirati, la con­versazione divenne più intima: “Che gioia vederti, Jose­marìa! Non sai quanto ho sofferto, perché credevo che ti avessero ucciso”.

Poi offrì al suo amico la possibilità di restare a Barcel­lona, esercitando l’avvocatura con documenti che avrebbero garantito la sua sicurezza personale. Il sacer­dote lo ringraziò per l’offerta, ma non accettò: “Non ho esercitato prima perché m’interessava solo essere sacer­dote; potrei farlo qui, dove mi sparereste per il solo fat­to di esser prete?”120.

Don Josemarìa gli spiegò di trovarsi lì per passare nel­l’altra zona. Pascual cercò allora di dissuaderlo, facendo­lo riflettere sul rigore dei controlli nella zona di frontiera e la durezza delle punizioni: ai fuggitivi arrestati si appli­cava la pena di morte. Vedendo che non lo convinceva, gli offrì il suo aiuto incondizionato; se avesse avuto la sfortuna di esser catturato, avrebbe dovuto avvertirlo.

Pascual aprì il cuore all’amico. Gli confessò la propria delusione politica: era in una brutta situazione. Gli anar­chici gli avevano assegnato una guardia del corpo: più per sorvegliarlo che per proteggerlo, perché diffidavano172

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di lui. Il sacerdote gli parlò di Dio, cercando di ravvivare in quell’anima la fede e la speranza. Il magistrato si trin­cerava dietro i vecchi luoghi comuni e i pregiudizi di chi ha sprecato imprudentemente le proprie riserve intellet­tuali. Del suo ottimismo non restavano altro che le cene­ri e la sua speranza era una flebile luce. Pascual conti­nuava a servirsi delle argomentazioni di un tempo:

“Senti, figlio mio, tu per affermare queste cose - lo in­terruppe il sacerdote - ti sei letto quattro o cinque libri che non avresti dovuto leggere. Ma per avere un minimo di cultura teologica si deve leggere molto di più. Quan­do avrai letto tutto ciò di cui hai bisogno potrai esprime­re delle opinioni”121.A Pascual vennero le lacrime agli occhi... Rimasero

d’accordo di vedersi un altro giorno nel suo ufficio. Du­rante questo secondo colloquio, in Tribunale era in cor­so il processo contro alcuni che erano stati catturati pri­ma di raggiungere la frontiera di Andorra. Furono condannati a morte. “Vedi quello che ti aspetta”, gli disse Pascual. Ma poiché lo spettacolo non modificò la decisione del sacerdote, gli ripetè: “Se ti prendono, di’ che sei mio fratello”122.

* * *Dal giorno in cui Vilaró non si era presentato, essi di­pendevano interamente da “Mateo il lattaio”. Ogni tan­to, con molte precauzioni, andavano in cerca di notizie. Mateo, flemmatico e tranquillo, raccomandava loro cal­ma e molta pazienza. Erano ormai da più di una setti­mana a Barcellona, quando un giorno Mateo li mise sul­le tracce di un’altra persona che organizzava spedizioni di fuga. Si chiamava Rafael Jiménez Delgado. Era un militare provvisto di documenti della Unione Generale dei Lavoratori (U.G.T.) e con l’immaginazione piena zeppa di idee e di progetti di evasione. Andarono a tro-

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vario a casa sua. Constatarono che non gli mancavano né ingegno né passione per l’avventura. I suoi piani era­no per lo più irrealizzabili e inoltre pericolosissimi e strampalati123.

Il 22 ottobre Mateo diede loro eccellenti notizie. La spedizione si poteva considerare ormai cosa fatta. Da un giorno all’altro sarebbe arrivato a Barcellona un cer­to Pallarés, compagno del figlio di Mateo, un uomo molto capace. Di fronte a questa promessa, Juan, per in­carico del Padre, andò a Valencia a prendere Paco e Pe­dro Casciaro affinché si unissero alla spedizione124.

Domenica 24 ottobre apparve sui giornali catalani una notizia allarmante: le guardie di frontiera avevano sorpreso nella zona pirenaica una spedizione di fuggiti­vi. La Vanguardia di Barcellona dava la notizia a tutta pagina: “CATTURATI NOVE FUGGITIVI. Un morto e tre feriti”. Descriveva poi i particolari, forniti dall’a­gente di frontiera Mateo Badìa, del reparto di Seo de Urgel. La cronaca si chiudeva con una frase elogiativa: “Il capo della polizia, colonnello Burillo, non appena è venuto a conoscenza dell’azione dell’agente Mateo Badìa, ha telegrafato al Ministro, proponendolo per una promozione ”125.

Secondo il calcolo delle date delle spedizioni per la frontiera di Andorra, era molto probabile che si trattas­se di quella organizzata da Vilaró, di cui si è parlato. Il racconto della sparatoria dimostra che anche gli orga­nizzatori delle spedizioni erano persone decise, pronte a difendersi. Molti di loro erano contrabbandieri di pro­fessione e altri erano valenti attivisti, come Pallarés.

Col rafforzamento della vigilanza ai posti di frontiera, scomparvero come per incanto le tracce degli interme­diari e divennero ancor più vaghi i già deboli indizi di viaggi clandestini. E non era per paura. Lo stesso Mateo fu sul punto di cadere nelle mani della polizia; alla fine di novembre riuscì a fuggire in Argentina, dove rimase sino alla fine della guerra. Alla fine di dicembre, mentre174

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cercava di salvare uno dei feriti della sua spedizione, fu catturato Pallarés, che poco dopo venne fucilato126.

Per forza s’imponevano alcuni giorni di attesa e di preparativi. Il Padre e i suoi dovevano allenarsi in previ­sione delle lunghe marce in montagna. Ogni giorno se ne andavano a percorrere le erte salite di Barcellona, dal porto fino al Montjuic o dalla città vecchia fino al Tibi- dabo. Negli ultimi giorni di ottobre ci fu tempo pessi­mo: freddo e pioggia. Pensando al freddo e alle nevicate in montagna acquistarono impermeabili e qualche indu­mento invernale.

Un altro nemico del fisico era la fame; non era facile placarla, perché non avevano soldi per mangiare. L’ulti­mo pasto degno di questo nome l’avevano fatto, in via eccezionale, per festeggiare il giorno di S. Raffaele, il 24 ottobre; era costato loro 15 pesetas a persona. Quel giorno gli ospiti fecero anche un generoso omaggio alla signora Rafaela: le regalarono, su suggerimento di don Josemaria, un mazzo di fiori. Era un gesto di cortesia che la vedova non riceveva da molto tempo, ancor me­no da parte dei suoi pensionati127.

Il denaro scarseggiava già prima di dover pagare gli onorari - se così si possono definire - agli organizzatori della spedizione. Ogni giorno di attesa era un attentato ai loro risparmi. Facendo un po’ di conti, videro che, se davvero fossero state chieste loro 2.000 pesetas a perso­na, non avrebbero avuto di che pagare. Questa era l’ul­tima cifra indicata da Mateo, ma con una scrupolosa condizione addizionale: che le 2.000 pesetas dovevano essere di quelle “buone”, cioè in biglietti della Banca di Spagna delle serie in circolazione prima del 18 luglio 1936, che erano moneta legale nell’altra zona. Per tale ragione, i “biglietti buoni” erano conosciuti e ambiti e non era facile trovarne in circolazione. Segno evidente che gran parte della popolazione che si trovava in zona repubblicana sperava nella vittoria dei nazionali o si fa­ceva prudente in vista del futuro.

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Era necessario cercare subito altro denaro, e di quello “buono”. La cosa sorprendente è che lo trovarono e che tutto accadde in modo provvidenziale. Fu Francisco Gayé, l’amico di Tomàs Alvira, figlio della maestra di Badalona che don Josemarìa aveva confessato, che risol­se loro in buona parte il problema. Gayé era impiegato nella Banca Ispano-Americana e, a seguito delle pressio­ni e delle preghiere persuasive di Tomàs, si impegnò a rastrellare biglietti “buoni” cambiandoli con altri. Agì - con coraggio, spinto dalla fede di Tomàs, benché nelle banche il controllo su questi biglietti fosse assai rigoro­so128. Tomàs non era ancora dell’Opera ma, per sinto­nia con gli altri, stava abituandosi al fatto che gli inter­venti degli Angeli Custodi, in tempi così sconvolti, fossero all’ordine del giorno129.

Il 25 ottobre, quando Juan si presentò all’improvviso a Valencia, ebbe una sorpresa non piccola. Non sapeva nulla della punizione inflitta a Pedro, che doveva sconta­re ancora una settimana. Andò con Paco Botella a far vi­sita al recluso. Là, sui due piedi, per conto loro e a pro­prio rischio, decisero di partire per Barcellona il giorno stesso in cui Pedro sarebbe stato rimesso in libertà; e che nel frattempo Juan andasse a Daimiel, il paesino della Mancha dove stava nascosto Miguel Fisac, anch’egli del­l’Opera e fratello di Lola. Era nascosto già da più di un anno nella soffitta della casa dei suoi genitori, per cui l’operazione del suo prelievo comportava rischi, poiché non aveva documenti e gli era mancato l’esercizio fisico durante i mesi in cui era rimasto rinchiuso. Il primo pro­blema ebbe facile soluzione, poiché gli fu compilato un permesso sui moduli timbrati della Direzione Generale della Scuderia militare che Pedro aveva in casa130.

Juan andò a Daimiel il 27 ottobre e il 30 era di ritorno a Valencia con Miguel, pallido come un cadavere. Il 31, alle nove del mattino, Pedro fu rimesso in libertà, non senza una forte reprimenda del Comandante, che lo mi­nacciò di un castigo esemplare nel caso di recidiva. Pe-176

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dro, con il volto atteggiato a compunzione, gli assicurò che quanto era accaduto non si sarebbe ripetuto131. Pro­babilmente intendeva dire che non sarebbe più tornato in cella, perché la diserzione l’aveva già decisa fin dal suo ritorno da Barcellona.

Il 2 novembre, alle otto del mattino, quando il Padre stava terminando la Messa, i quattro di Valencia arriva­rono nella pensione della signora Rafaela. Raccontaro­no le loro avventure e diserzioni e la piena del fiume Ebro, che era straripato ad Amposta. L’inondazione li aveva costretti a passare lì la notte e a recarsi sull’altra riva la mattina seguente per prendere il treno. Per evita­re sospetti, i nuovi ospiti si divisero: tre andarono a vi­vere in una casa di via Repubblica Argentina che pro­curò loro la vedova di Montagut132.

Come aveva consigliato “Mateo il lattaio”, non c’era altra soluzione che aspettare condizioni più favorevoli. A complicare e peggiorare le cose, nelle ultime settima­ne di ottobre i fiumi della Catalogna erano straripati, provocando ovunque inondazioni. Il Padre, in una car­tolina del 30 ottobre, lo diceva con pazienza a Isidoro: “Mio stimato amico, due parole per salutarla e per dirle che, per le piogge, ho ritardato il mio viaggio di quattro o sei giorni”133.

A complicare ulteriormente le cose, il 31 ottobre av­venne il trasferimento del Governo repubblicano da Va­lencia a Barcellona, con una recrudescenza delle misure poliziesche per l’aumento dell’influenza comunista134. Non era raro leggere sui giornali notizie come quella su La Vanguardia del 31 ottobre: “L’ordine pubblico: privi di documenti. Sono stati arrestati dalla polizia, perché senza documenti, un’ottantina di individui sorpresi in vari caffè, luoghi per il gioco del frontón, cabarets e al­tri locali di divertimento”. Senza documenti erano i va- lenziani, provvisti per i buoni uffici di Pedro di docu­menti militari, peraltro scaduti, in quanto egli, naturalmente, non poteva prevedere che la permanenza

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a Barcellona si sarebbe protratta così a lungo. E i salva- condotti di quelli di Madrid, anch’essi lontani dall’im- maginare che avrebbero dovuto aspettare per un mese, erano pure scaduti.

L’unica cosa era darsi da fare per cancellare le date, so­stituendole con altre più aggiornate. In questa operazio­ne fu inestimabile la collaborazione di uno zio di Tomàs Alvira, che lavorava in un proprio ufficio nell’ammini­strazione di un ospedale135. Con un buon solvente e una macchina per scrivere con lo stesso tipo di caratteri, al­cuni furono sistemati. Documenti come il salvacondotto del Padre e quello di Tomàs ebbero facile soluzione, poi­ché la loro validità era di trenta giorni a partire dal 5 ot­tobre: bastò mettere un 2 davanti al 5 per prorogarne la validità fino al 25 novembre. I permessi militari, invece, erano concessi di solito per pochi giorni, con le date ben specificate; fu così che alla metà di novembre i permessi avevano subito più di una raschiatura. Era ovvio che non tutti quei documenti avrebbero superato una dili­gente verifica da parte della polizia. Il Padre, quando le cose sembravano non avere soluzione umana, ricorreva immancabilmente agli Angeli Custodi e insegnava ai suoi a fare altrettanto. Come dice Juan, qualcuno dei loro in­terventi fu “spettacolare”136.

Mateo continuava a dar loro speranza. Era stata già or­ganizzata una nuova spedizione. Correndo in avanti conil desiderio, il 6 novembre il Padre inviò a Isidoro una cartolina: “Suppongo che tutta la famiglia stia bene. Qui stanno benissimo e, da un momento all’altro, il nonno andrà a casa di José Ramón con i suoi sette nipotini”137.

La partenza del nonno, “da un momento all’altro”, fu ritardata di un paio di settimane. La guerra dei nervi li coglieva, oltretutto, con lo stomaco vuoto. Non aveva­no le tessere del razionamento e non era prudente cerca­re di ottenerle. Era sempre possibile, naturalmente, comprare viveri al mercato nero, ma mancava il denaro. L’unica cosa che avevano in abbondanza era la fame.178

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Facevano un solo pasto al giorno, e molto scarso. Di per sé gli esercizi di marcia erano convenienti per allenarsi ma, per il consumo energetico che implicavano, non erano molto compatibili con la fame138.

E scontato che avessero fame anche molte altre perso­ne. Questo dato non serviva di consolazione, ma muove­va a compassione. Al Padre facevano molta pena i due nipotini di José Maria Albareda, che vivevano con la nonna, Pilar. Quando il sacerdote faceva la prima cola­zione in un bar, nei giorni in cui faceva colazione, gli da­vano un decotto di malto, sostitutivo del caffè, e un paio di biscotti salati, che metteva da parte per i bambini.

“Fa giocare queste creature”, diceva a Pedro.E Pèdro, armato di carta e matita, chiedeva loro che

cosa volevano che disegnasse. I bambini non desidera­vano altro che cose commestibili. Un giorno disegnò lo­ro un piatto con un paio di uova fritte, ai quali aggiun­se, generosamente, alcune appetitose salsicce. I piccoli facevano salti di gioia. Presolo da parte, il Padre gli fece una compassionevole riflessione:

“Ma non ti rendi conto, figlio mio, che è una crudeltà mentale disegnare cose del genere a dei bambini affa­mati?”139.Andare per strada in gruppi di quattro o cinque era

pericoloso perché attirava l’attenzione. Il Padre faceva comunque in modo che, con una certa frequenza, si riu­nissero tutti insieme in una delle pensioni in cui erano alloggiati. Ciò costituiva evidentemente un pericolo, ma d’altra parte era un mezzo per evitare che qualcuno si lasciasse andare nella vita spirituale o cadesse nella de­pressione140. Il Padre era, indubbiamente, il sostegno spirituale e il perno del gruppo. Non così per quanto concerneva l’organizzazione materiale, nella quale in­tendeva soltanto ubbidire. “Uno dei primi giorni di per­manenza a Barcellona - scrive Paco Botella - il Padre ci

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comunicò che, agli effetti della partenza dalla zona ros­sa, si metteva docilmente nelle mani di Juan e ne avreb­be seguito le indicazioni. In effetti, spesso si vedevano Juan e il Padre parlare tra loro”141.

Verso la metà di novembre Mateo indicò una data si­cura per la partenza. Avrebbero lasciato Barcellona ve­nerdì 19. Diede anche istruzioni sul mezzo di trasporto, le fermate e i segnali per farsi riconoscere dai loro con­tatti. In base alle istruzioni aggiornarono per l’ultima volta i documenti con i dati precisi, laddove le carte consentivano un’ulteriore manipolazione. Alcuni salva- condotti, come quello del Padre, furono sistemati facil­mente: bastò aggiungere a macchina, nello spazio libe­ro, la nuova destinazione del viaggio142.

Per gli ultimi preparativi cercarono di risparmiare il più possibile. Dovettero comperare altre cose per il viaggio: oltre a sei impermeabili, diverse paia di scarpe di corda e degli scarponi per il Padre. Questi, che si tro­vava ancora in giacca e cravatta, a tono con l’incarico di Intendente, dovette ben presto cambiare indumenti143.

Arrivò l’ora dei commiati. Il Padre spedì diverse lette­re e cartoline: a Isidoro, al Console dell’Honduras, e due cartoline a Lola Fisac, la seconda delle quali diceva:

“Barcellona, 19 novembre 1937.Mia stimata amica, poche parole per dirti che oggi ilnonno parte con le sue nipotine, diretto alla casa di JoséRamón. Dice che ti scriverà entro un mese. Ti abbraccia.

Josemarìa”144Poi prese commiato da “Mateo il lattaio”, dimostran­

dogli la sua profonda gratitudine. Anche la signora Ra- faela soffrì per la partenza dei suoi ospiti. Mai avrebbe dimenticato la paura che l’attanagliava quando temeva che avrebbero potuto sorprendere il sacerdote durante la celebrazione della Messa. Non era per nulla una persona sempliciotta, timorosa o di scarsa memoria, perché in se­180

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guito, a ottantacinque anni, si ricordava ancora del Pa­dre come di una persona “molto prudente” e fine nei modi145. Indubbiamente era rimasta impressionata dal­l’ordine e dalla delicatezza che il sacerdote dimostrava in ogni cosa; ma anche da qualcosa di più, non facile da spiegare: l’elegante distinzione naturale. Un modo signo­rile di essere e di comportarsi, in quell’epoca, sorprende­va non poco146. È degno di menzione, per esempio, il fat­to che, dopo aver percorso Barcellona in lungo e in largo alla ricerca di ristoranti o di trattorie con prezzi alla por­tata della sua borsa, il Padre e i suoi finissero per utiliz­zare due locali, adatti per mangiare tranquilli. Uno di es­si era una trattoria popolare, piuttosto sudicia. L’altro un modestissimo bar ristorante in via Tallers 64, che si chiamava L’Aliga Roja. In questo ristorantino i tavoli avevano la tovaglia, le stoviglie erano pulite e i prezzi quasi uguali a quelli dell’osteria. Ma tutti preferivano quest’ultima, perché le porzioni erano più abbondanti, anche se non di molto. Tutti tranne il Padre, che la puli­zia e la semplicità de L’Aliga Roja facevano sentire a suo agio. Tuttavia, cedendo ai desideri altrui, si lasciava tra­scinare quasi sempre dai suoi figli, senza fare difficoltà, nel locale dalle porzioni abbondanti147.

6. La rosa di RialpJuan, in quanto medico del gruppo, era carico di serie responsabilità. Egli temeva, soprattutto, che la resisten­za fisica dei compagni venisse meno nelle dure tappe di montagna. Lo preoccupava particolarmente la salute del Padre, perché alla fine di ottobre era stato alcuni giorni a letto con la febbre alta148. Neppure Tomàs e Manolo si erano rimessi del tutto da una colite. José Maria non aveva particolari problemi, come neppure Paco e Pedro, che avevano fatto vita normale da quan­do era iniziata la guerra. Quanto a Miguel, i suoi mu­

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scoli si erano rapidamente rinforzati con le camminate di Barcellona.

Venerdì 19 novembre, alle 13, sei di loro presero l’au­tocorriera di linea che andava a Seo de Urgel. Manolo Sainz de los Terreros e Tomàs Alvira149 sarebbero parti­ti da Barcellona due giorni dopo, per evitare che un gruppo numeroso destasse sospetti. Il Padre, José Maria150 e Juan si misero a sedere nei posti anteriori; Pedro, Paco e Miguel nelle file in fondo. Secondo le istruzioni ricevute, gli ultimi tre, tutti giovani in età mi­litare e con documenti non in condizioni ottimali, scese­ro dall’autobus alla fermata di Sanahuja, dove li atten­deva una guida. A partire di là, man mano che la frontiera si avvicinava, i controlli di polizia si facevano più lunghi e rigorosi.

Il Padre, Juan e José Maria scesero poco oltre il paese di Oliana, vicino a un luogo da cui s’inerpicava la stra­da per Peramola151. Grazie a un segnale identificarono subito il contatto, che li seguì a prudente distanza, per poi a unirsi a loro in una zona riparata. Disse di chia­marsi Antonio Bach, soprannominato “Tonillo”. Era postino e funzionario del Comune; uomo deciso e co­raggioso, al quale più di un fuggitivo doveva la vita. A giudicare dal suo racconto, don Josemarìa non ci im­piegò molto a confidarsi con lui; il sacerdote vestiva una strana combinazione di capi, nessuno dei quali natural­mente era di tipo ecclesiastico: indossava pantaloni di panno color tabacco, bombati e stretti alla caviglia; un maglione di lana di colore blu, a collo alto, che gli anda­va largo; calzava scarponi con la suola di gomma, con una tomaia che purtroppo si impregnò subito d’acqua; in testa portava un basco nero152. “Poco dopo aver ini­ziato la marcia - ricordava Tonillo, già vecchio - quel signore con il maglione blu mi aveva già detto di essere sacerdote, rettore della Chiesa di Santa Isabel a Madrid. Me lo disse così, tranquillamente, come se non gli im­portasse nulla che si sapesse che era sacerdote”153.182

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Era caduta la notte quando arrivarono a Peramola. Girarono intorno al paese e Tonillo li fece entrare in un pagliaio, promettendo che sarebbe ritornato all’alba a svegliarli. Non appena si sdraiarono, fu tutto un correre, saltare e squittire di topi e ratti. Juan e José Maria, per la stanchezza, dormirono come angioletti. Non così il Pa­dre, il cui pensiero andava ai suoi rimasti a Madrid e a quelli che stavano al fronte. E cominciò a fare orazione e a rivivere ciò che aveva scritto a Lola Fisac due giorni prima: “Il povero vecchio si ricorda molto, di tutti e di ciascuno. Chiacchiera ogni giorno con calma con il si­gnor Emanuele e lì si preoccupa di tutta la famiglia”154.

Non si era ancora fatta luce quando arrivò al pagliaio Tonillo, con suo figlio Paco, un ragazzo sui quattordici anni, e chiese loro come avessero passato la notte. “Ab­biamo avuto compagnia”, gli disse il Padre; al che To­nillo si allarmò, finché non gli spiegarono che si riferiva alle scorribande dei topi.

Non c’erano ancora notizie dei tre scesi a Sanahuja. Pensarono che si fossero riposati dopo una notte di marcia. Il Padre, per incoraggiarli, lasciò un breve scrit­to in casa di Tonillo, in cui diceva:

“Monti di Rialp, 20 novembre 1937.V’immagino distrutti, dopo la notte insonne che avrete passato. Ogni cosa che vale, costa; inoltre, se lo volete, non un solo passo che fate sarà infecondo.Comunque lasciamo da parte la filosofia e sfruttate bene la paglia; non mangiatevela, però! E dormite senza far caso alla frotta di ratti che verrà a salutarvi.Siamo molto contenti e molto grati a questi buoni amici di qui; siamo solo dispiaciuti che non siano venuti i nostri buoni amici di Madrid (José Maria, Alvaro e gli altri). Mangiate bene e non dimenticatevi del signor Emanuele. Saluti dagli altri due.Vi abbraccia MarianoA domani.

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Per Paco: al ragazzo che vi consegnerà questo scritto, fateun ritratto, un disegno, in cui sembri proprio in gamba”155.Guidati da Paco Bach intrapresero la marcia verso la

masseria di Vilaró. A metà strada cominciò a far giorno, ma già avevano oltrepassato diverse dorsali e non pote­vano più esser visti nel folto dei pini. Ben presto arriva­rono al casale di Vilaró, posto su un lieve rialzo del ter­reno, con ampia visuale, in modo che, nel caso si fossero avvicinate guardie o miliziani, ci sarebbe stato il tempo di nascondersi. Il padrone della masseria, Pere Sala, si rallegrò quando il Padre gli disse di essere sacer­dote e di voler celebrare la Messa. In una delle stanze della casa fu sistemato un tavolo e da una borsa della spedizione fu tirato fuori l’occorrente, preparato a Bar­cellona: le ostie, un piccolo bicchiere di cristallo che fungeva da calice, piccoli corporali e purificatoi, un cro­cifisso, la bottiglietta con il vino per la Messa e il qua­derno sul quale erano stati copiati il canone e alcuni te­sti di messe votive156.

Il gruppo passò la giornata nascosto nel pagliaio; a se­ra, si ritirarono nella casa colonica, che stava lì accanto. Ma il Padre, che non aveva ancora notizie dei valenziani (Pedro, Paco e Miguel), non chiuse occhio. Con questa incertezza gli si risvegliava la preoccupazione per tutti gli altri dell’Opera; al mattino presto gli giunse però la noti­zia che l’altro gruppo stava già nel pagliaio di Peramola.

Iniziò così il giorno di domenica, 21 novembre. Il Pa­dre ritardò la celebrazione, in attesa di quelli di Peramo­la, che giunsero a metà della Messa. Si sedettero poi a tavola con la famiglia di Pere Sala. Gli ultimi arrivati raccontarono la loro avventura, dal momento in cui erano scesi dall’autobus alla fermata di Sanahuja: prima avevano avuto difficoltà a identificare la guida, poi a metà della notte avevano perduto la strada. Si erano persi per colpa della guida, che era uno straniero e non conosceva bene la zona e col quale si capivano a mala184

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pena, perché non parlava né catalano né castigliano. Erano riusciti ad arrivare a Peramola solo nel pomerig­gio del giorno successivo e avevano dovuto aspettare fuori dal paese che facesse buio, per poi condividere il pagliaio con i topi. Più di venti ore di cammino. Aveva­no letto il biglietto del Padre e Pedro aveva fatto un ri­tratto a matita a Paco, il figlio di Tonillo...157.

Per il torpore caratteristico della stanchezza, a Pedro si offuscavano le idee. Nonostante tutto e pur con la gioia di trovarsi insieme dopo le incertezze della vigilia, si no­tava nell’aria qualcosa di strano, di impercettibile. Seduti a tavola, stavano facendo una colazione abbondante: pa­tate, peperoni, salame, pane e vino. Che cosa non anda­va? Lo racconterà Pedro più avanti, scrivendo il diario di quanto era accaduto nella giornata e descrivendo lo sta­to d’animo del Padre: “Tuttavia siamo tutti un po’ stra­niti; il motivo è che il Padre è preoccupato e non riesce a nasconderlo: a Madrid rimane un gruppo di gente nostra che non è riuscita a partire...”158. Il pensiero del Padre, come l’ago di una bussola, puntava dritto su Madrid.

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Si trovavano nel territorio della baronia di Rialp, terra che prende nome dal fiume Rialp, volgarizzazione del latino rivus albus, che raccoglie da molte valli e gole le acque di innumerevoli rivoli per riversarle a sua volta nel Segre. Tra questi due fiumi si trovano Peramola e la masseria di Vilaró. Il paesaggio è montuoso, con vette di media altezza, aspri paesaggi e valli e contrafforti po­polati di pini e lecci.

A metà pomeriggio Pere Sala li spinse a mettersi in cammino, poiché restando nella masseria non erano fuori pericolo. Mentre stava facendosi buio, dopo solo un quarto d’ora di marcia, arrivarono in vista della chiesa di Pallerols. In un dolce pendio, tra gli alberi, si stagliavano la sagoma di una torre e il corpo di una chiesetta o cappella. La chiesa aveva, addossata all’absi­

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de, una canonica che per volume e altezza sovrastava il tetto del tempio159. Nei dintorni, ai diversi livelli del ter­reno, c’erano alcune case e stalle, apparentemente ab­bandonate. La porta della canonica non aveva serratu­ra. Seguendo Pere Sala, i fuggitivi salirono la scala fino al primo piano della casa. Era già notte e la guida accese una candela. Si trovarono in una stanza ampia e vuota, con diverse porte e un balcone che dava sulla valle. Pere aprì una delle porte e, alla fioca luce della candela, ap­parve sul fondo un piccolo spazio o recinto, con un bas­so soffitto a volta. Le mura erano annerite, l’intonaco fuligginoso e il pavimento coperto di paglia. Il piccolo spazio recintato non aveva altra aria che quella di una finestrella, sommariamente chiusa con alcune tavole. Nell’oscurità, alla luce vacillante della candela, ebbero l’impressione che si trattasse di un forno160. Era il luogo in cui dovevano dormire quella notte, senza accendere luci e chiudendo bene la porta, come raccomandò loro la guida.

Poi, tornati nella sala della canonica, senza bisogno di uscire all’esterno, scesero una scala fino alla sacrestia ed entrarono nella chiesa, seguendo Pere Sala. La guida mostrò loro le pareti completamente nude. Statue, pale d’altare e altari, persino le campane, tutto era stato strappato e distrutto dai miliziani nel 1936161. Non con­tenti di distruggere, avevano anche bruciato tutto, eri­gendo all’esterno una pira iconoclasta. Al lume incerto della candela, il Padre andava in cerca di un ricordo da portare con sé, con l’intenzione di riparare a tanfa bar­barie; ma, per quanto guardasse, non trovò nulla.

Salirono ancora nella sala della canonica per la scala interna. Pere si accomiatò, avvertendo che sarebbe tor­nato a prenderli al mattino. Cenarono col pane e salame che avevano dato loro alla masseria. Poi fecero una bre­ve tertulia e recitarono le Preci dell’Opera, lasciando tutto pronto su un tavolo della sala per celebrare la Messa il giorno successivo, poiché la sola cosa che resta­186

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va in chiesa erano i banchi. Si ritirarono nello spazio a volta, spensero la candela e si stesero sulla paglia a ripo­sare: Juan e il Padre si misero verso il fondo dello stret­tissimo alloggio; molto vicini a loro, Paco e Pedro; vici­no alla porta di entrata, José Maria e Miguel162.

Erano coricati da poco, quando Paco udì il Padre muoversi e respirare affannosamente. Subito Juan si alzò e aprì la finestrella, perché al Padre potesse arrivare un po’ di aria fresca. Ma non riuscì a dargli sollievo. A quanto riferisce Paco Botella, “dal Padre venne dappri­ma un suono tenue, che divenne poi un doloroso gemito. Poi un leggero singhiozzo, che andava aumentando”163.

Juan parlava col Padre a voce molto bassa, ma non si capiva che cosa si dicessero. Sussurrando, Pedro si fece avanti e chiese a Paco che cosa stava accadendo. Questilo chiese a Juan. Ma la risposta di Juan fu un impressio­nante silenzio: sapeva che il dubbio assillava di nuovo lo spirito del Padre e che stava passando per una tremenda prova interiore.

I singhiozzi del Padre diventavano sempre più profon­di e la sua respirazione sempre più ansimante. Tendendo l’orecchio nell’oscurità, Pedro potè udire con chiarezza, emergenti dal rumore soffocato delle voci, alcune parole di Juan che ebbero su di lui l’effetto di una mazzata: “Lei, la porteremo dall’altra parte, vivo o morto”164. Gli sembrava impossibile che uno di loro potesse trattare in quel modo il Padre. Ebbe timore. Era una cosa superiore alle sue forze. Invocò la Madonna e cadde in un profon­do sonno, vinto dalla stanchezza e dall’emozione.

Solamente Juan intravide che stava scatenandosi, in maniera ancor più terribile, la stessa prova del 15 otto­bre a Barcellona, quando il Padre era uscito di casa de­ciso a prendere un treno per Madrid perché non soppor­tava il pensiero di opporsi alla volontà di Dio e di abbandonare i suoi. Fu una notte intera di afflizione, ri­ferisce Paco Botella. “Non avevo mai visto nessuno piangere così. E da allora non ho più visto una cosa si­

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mile. Era un’angoscia che spaventava, una pena profon­dissima, che lo faceva tremare. Durò a lungo, un’ora dopo l’altra, fino all’alba. Ebbi tutto il tempo perché mi restasse impresso per sempre”165.

Alla lotta con se stesso sulla strada da percorrere, quella per Madrid o quella verso Andorra, seguì un’e­sperienza mistica terribile, inesprimibile e purificatrice. In aggiunta all’incertezza che lo angosciava dall’inizio della prova, egli sentì che gli si stringeva l’anima e l’in­telletto si offuscava. Frattanto, la brama di amore di Dio si dibatteva nelle profondità del suo spirito, lottan­do per emergere.

Al termine della lunga notte, il senso di soffocamento fu sostituito dalla compunzione e l’anima, col vivo ane­lito di vedersi confermata nell’amicizia di Dio, si sentì interiormente spinta a proporre, in maniera audace e fi­duciosa, il dubbio che lo aveva angosciato durante la notte. Il sacerdote, prostrato nella sua pena, chiese dun­que al Signore che gli concedesse, senza tardare, un se­gno tangibile che gli confermasse che stava compiendo non la propria volontà, ma la Volontà divina166.

All’alba il Padre si acquietò e proseguì la sua orazione insistente, chiedendo, per intercessione della Vergine, il sollievo della propria coscienza, ancora contrita e ango­sciata per il dubbio che aveva di non compiere la vo­lontà di Dio.

Si alzò alle prime luci per aprire la finestrella. Il suo volto, dolorosamente sereno, rispecchiava la stanchez­za, dopo una notte di lotta, e l’amarezza, ancora inchio­data nell’anima. Alcuni si alzarono con lui. Disse a Juan che non avrebbe celebrato la Messa - lo turbava il pen­siero di stare agendo contro la volontà di Dio - e chiese loro di ritirare tutto dal tavolo della sala. Poi scomparve rapidamente per la scala che scendeva nella sacrestia.

Poco dopo ricomparve al piano di sopra, trasformato e raggiante di gioia. Era felice. Dal suo volto era scom­188

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parsa ogni traccia di stanchezza. In mano teneva un og­getto di legno dorato. Una rosa.

“Juan, conservala con cura - gli disse E preparate tut­to perché celebrerò la Messa”167.

* * *

Dinanzi a un avvenimento evidentemente soprannatura­le, è estremamente sorprendente il modo di raccontarlo,o di non raccontarlo affatto, sia da parte di Juan che da parte del Padre. Testimone principale di quella notte tri­ste, Juan, o per umiltà, o per pudore, ma forse anche per temperamento, omette qualsiasi accenno agli eventi not­turni e comincia così il racconto: “La mattina successi­va, lunedì 22, accadde un fatto che, per evitare sensazio­nalismi e ogni tentativo di interpretazione, mi limito a raccontare in poche parole (...). Il Padre uscì dalla came­ra e, a quanto sembra, scese in chiesa. Ritornò dopo non molto tempo. La sua preoccupazione era scompar­sa e, benché non dicesse nulla di specifico in merito, il suo aspetto era molto allegro. Teneva in mano una rosa di legno dorato. Tutti abbiamo avuto l’impressione che quella rosa avesse un profondo significato soprannatu­rale, anche se non diede alcun chiarimento. La conservò con la massima cura e l’abbiamo messa nella borsa in­sieme al necessario per celebrare la Messa”168.

Esaminando l’accaduto sotto il profilo umano, è spie­gabile che Pedro abbia fatto ricorso al sonno per scom­parire dalla scena: “Dovrei deplorare di aver dormito molto profondamente quella notte - ragiona con se stes­so - ma, se devo essere sincero, ne sono contento. Am­metto che quando nella vita di nostro Padre ho visto da vicino eventi soprannaturali e straordinari, ho provato un certo timore e a volte ho avuto un vero trauma”169.

Il Fondatore, per umiltà e perché voleva allontanare i suoi figli dalla tentazione di attendersi miracoli, con il rischio di astenersi dall’impegno personale per risolvere

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i problemi, neppure volle mai dare troppe notizie sulla provenienza della rosa di legno: “È una rosa di legno dorato, non ha un’importanza particolare - disse a un gruppo di suoi figli nel 1961 Là, nei pressi dei Pirenei catalani, l’ebbi per la prima volta tra le mani. Fu un re­galo della Vergine, dalla quale ci vengono tutte le cose buone. Quante volte l’abbiamo chiamata Rosa Misti­ca]... Ma ormai non mi ricordo più che cosa accadde: mi ricordo solo che debbo ringraziare il Signore della sua misericordia verso l’Opera e verso di me”170.

La prima volta che fece cenno, esplicitamente e per iscritto, a quanto era accaduto a Palleròls fu negli Ap­punti intimi, il 22 dicembre 1937. Ma la redazione è co­sì involuta, allo scopo di raccontare un fatto sopranna­turale e di cancellare nello stesso tempo il proprio ruolo di protagonista, che il fatto è spogliato della sua sostan­ziale integrità, se il lettore non è al corrente di quanto è accaduto171.

La rosa di legno è ora conservata nella Curia prelati­zia dell’Opus Dei.

7. La “capanna di S. Raffaele”La mattina stessa, dopo la Messa, si riunirono con Ma- nolo e Tomàs, che erano partiti la sera prima da Barcel­lona. Tonillo li aveva ospitati in casa sua, risparmiando loro una notte con i topi nel pagliaio di Peramola. Fece­ro poi colazione tutti insieme nella masseria di Vilaró con un piatto di patate fritte con sanguinaccio della zo­na, irrorato da una buona caraffa di vino rosso. Fecero una passeggiata nei dintorni e, nel pomeriggio, la guida condusse i fuggitivi nell’interno del bosco, una mezz’o­ra di cammino oltre la chiesa di Pallerols. Arrivarono così in un luogo pieno di pini, vicino alla cima di un monte. Là c’era un capanno di tronchi, con il pavimen­to leggermente scavato nella terra. Il tetto era di rami di190

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pino. La baracca - così Pere Sala chiamava quella ca­panna - restava nascosta alla vista dalla valle. Da so­pra, invece, si dominava un ampio panorama fino al monte Aubens, al nord172.

Il Padre battezzò quel rifugio “capanna di S. Raffae­le”, in onore dell’Arcangelo patrono dell’Opera e dei viandanti. Di là, era chiaro, era già passata un’altra spedizione nella quale c’era un sacerdote; lo rivelava un altare fatto di tavole e tronchi di pino. Lo migliora­rono aggiungendo un palo verticale, al quale appesero il crocifisso.

Il giorno successivo, di buon mattino, il Padre celebrò la Messa su quel rustico altare. Per la prima volta all’a­ria libera, in un luogo spazioso e ameno. Poi alcuni sce­sero alla masseria di Vilaró in cerca della colazione. Al­tri andarono a una fonte vicina a prendere acqua. Vicino alla fonte incontrarono il parroco di Peramola, don Josep Lozano, che da quindici mesi viveva nei bo­schi, nascosto con suo fratello in una capanna173.

In tono scherzoso e per distendere gli animi, il Padre aveva bandito per quel giorno l’assemblea generale co­stituente, con apertura dei lavori a mezza mattina, sotto la sua presidenza. Lo scopo era quello di distribuire gli incarichi e di stabilire un orario di lavoro e di compi­mento delle norme di pietà.

All’unanimità venne anche approvato il seguente Re­golamento:

OrarioSveglia........Orazione.....Santa Messa

7. 7.15 7.45

PreciColazione e prima parte del Santo Rosario Raccolta della legna; passeggiata, ecc.Angelus e seconda parte................... 12Pasto, Visita al SS.mo. Passeggiata.

12

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Orazione. Lettura del diario...........Conferenza........... .............................Cena. Terza parte del Rosario. Esame e punti di esame. A dormire,

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D.O.G.Ben presto si resero conto del significato di quell’ora­

rio, che era strumento di disciplina, difesa contro l’ozio elo scoraggiamento e mezzo per rafforzare l’ottimismo174.

All’orario aggiunsero gli incarichi personali di ciascu­no: pulizia, andare a prendere l’acqua, cucina, diario, ecc. Pedro approfittò di alcuni momenti liberi per de­scrivere le sue avventure del 19 e 20 novembre. Al ripa­ro del bosco e dopo un pasto decente, la fatica di venti ore di estenuante marcia notturna sfumava in un raffi­nato lirismo. Scrisse nel diario: “La luna quasi piena era salita da un po’ all’orizzonte e proiettava la sua luce ar­gentea e fredda su monti e valli, creando prospettive di una serenità sublime”. Ma si affrettò a tornare alla dura esperienza: “Qui, con la pennate.:molto facile salire e scendere dai monti e attraversare valli; ma nella realtà questi bei concetti letterari di solito non sono altrettan­to poetici”175.

A questo punto, a Madrid sapevano già che venerdì 19 essi avevano lasciato Barcellona. -‘Che straordinaria soddisfazione! I piccoli dell’altra parte possono avere le cure del nonno. Come ne sentiamo là mkhcanza!’’, scri­veva Isidoro a quelli del Consolato. È soggiungeva: “Quanto sentiamo la vostra mancanza! Siamo rimasti solamente in nove da questa parte e per giunta separati. Almeno potessimo vivere in famiglia!”176.

La vita nella capanna di S. Raffaele, anche se illumi­nata dal sole e rinfrescata dalla brezza delle pinete, era piena di disagi. Di notte il freddo si faceva sentire inten­samente, ma non si potevano accendere fuochi. Nono­stante le operazioni di pulizia, non erano riusciti a elimi­nare i pidocchi, eredità lasciata nella capanna dai192

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precedenti inquilini. Quanto all’igiene personale, per la­varsi bisognava andare a una pozza di acqua pulita a metà strada tra Vilaró e la capanna. Alcuni, tra cui il Padre, facevano il bagno in quelle acque gelide. “Io non osavo - confessa Pedro senza vergognarsene quella scena del bagno mi ricordava i Martiri di Sebaste”177. Tuttavia furono giorni di grande felicità.

Per la prima volta dopo molti mesi potevano cantare senza timore. In una delle tertulias il Padre si mise a cantare. Intonò anche un canto popolare natalizio che ricordava di aver udito dalle suore di Santa Isabel. Il te­sto era dolcemente ingenuo e il motivo sorprendente­mente orecchiabile178.

I pasti lasciavano molto a desiderare. Benché sufficien­ti per sopravvivere, erano scarsi per gente giovane e de­nutrita, che avrebbe dovuto fronteggiare dure tappe di montagna. Di solito andavano a prendere gli alimenti al­la masseria di Vilaró o a quella dell’Ampurdané, molto vicina. Il pasto, ormai lo si sapeva, era sempre salsiccia o sanguinaccio fritto, con abbondanti patate. Il terzo gior­no, vedendo che il menù non migliorava, il Padre ne dis­se quattro a Pere Sala su quel misero cibo e su quel che costava. Pere si rabbuiò, ma il Padre aggiunse alcune pa­role affettuose per farlo rasserenare. A partire da allora la qualità e la quantità dei pasti migliorò visibilmente179.

La natura li proteggeva in tutti i modi. Vivevano da imboscati nella più genuina accezione del termine. Là stavano al sicuro, senza paura di esser sorpresi da solda­ti o da miliziani. Entro i confini del bosco, con la conni­venza dei contadini delle masserie, i rifugiati della capan­na si muovevano a loro piacimento, ben diversamente che negli stretti spazi degli asili diplomatici. Per quante scomodità ci fossero, gli imboscati si adattavano senza sforzo a quel genere di vita. A giudicare da quanto era accaduto martedì 23 novembre, quando s’incontrarono alla fonte con don Josep, il prete di Per amola, quelli del paese stavano fra i monti come a casa loro. Dal prete, il

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figlio del sacrestano venne a sapere che la “baracca” era abitata da nuovi inquilini. Quel giorno gli imboscati del paese festeggiavano qualcosa, perché alle tre del pome­riggio il ragazzo si presentò da loro, invitandoli a pren­dere il caffè in una capanna vicina. Vi andarono tutti, meno il Padre e Pedro. Insieme al sacrestano c’erano il sarto e altri personaggi di Peramola. Ci furono canti e al­legria e, con il caffè, toccarono a ciascuno anche una si­garetta e un bicchierino180.

Il Padre aveva chiesto a Pere che gli presentasse altri sacerdoti imboscati, nel caso fosse potuto esser loro uti­le. Ben presto incominciò a ricevere visite. Giovedì 25 fu una giornata movimentata, fin dal primo mattino. Alle cinque, nel buio pesto, giunse nella capanna Pere Sala, per dire che il giorno dopo sarebbe partita una spedizio­ne con guide molto esperte e che l’onorario che chiede­vano era di 2.000 pesetas a testa. In biglietti “buoni”, naturalmente. Il Padre, senza fare questioni di denaro, gli disse che si erano già impegnati con “Mateo il lat­taio” e che non pensavano di cambiare spedizione.

Poco dopo essersi alzati, arrivò don Joan, il reggente di Pallerols, e si trattenne qualche momento con il Pa­dre, che celebrò la Messa alle prime luci dell’alba. A metà mattina andò a trovarli il prete di Peramola, don Josep, con il quale andarono tutti a raccogliere funghi. Nel bosco abbondavano i porcini, i prataioli e altre spe­cie non commestibili. Don Josep insegnò loro a distin­guere quelli commestibili da quelli velenosi. Raccolsero tanti funghi che non riuscirono a mangiarli tutti. Li ar­rostivano all’aglio in una padella, mentre ripassavano mentalmente, ma senza nostalgia, il menù de L'Aliga Roja di via Tallers, il ristorante preferito dal Padre, in cui quasi tutti i piatti venivano guarniti con funghi: sal­siccia ai porcini, 7 pesetas; Filetti ai funghi, 7 pesetas; fricandò ai porcini, 3 pesetas...

Passato mezzogiorno, arrivò Pere Sala con il cibo, ca­ricato su un mulo. Questa volta lo accompagnava l’arci­194

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prete di Pons, che viveva nascosto nella masseria di Vi­laró. Il Padre e l’arciprete passeggiarono insieme per un bel po’. Tra l’altro, il sacerdote li informò che la spedi­zione della quale aveva loro parlato Pere poche ore pri­ma era un pretesto per far loro sborsare più soldi.

Il venerdì, prima di alzarsi, ebbero una gradita sor­presa. Arrivò alla capanna proprio “Mateo il lattaio”, per annunciare che la spedizione sarebbe partita il lu­nedì successivo. Dato che Mateo era un uomo dabbene, è facile indovinare i contrasti che c’erano fra gli organiz­zatori quanto a date e a prezzo. Stranamente quel gior­no stesso comparve anche Pere Sala con una scodella bella colma di salsiccia e lonza fritta. Ma quel venerdì né il Padre né Pedro mangiarono nella capanna, perché erano scesi alla masseria di Vilaró. Pedro aveva avuto l’incarico di prendere alcuni appunti sulla parrocchia di Pallerols, mentre il Padre, accompagnato dall’arciprete, esaminava l’interno della chiesa, senza trovare il benché minimo resto delle sculture in legno e delle pale d’altare distrutte dai rivoluzionari181.

Il giorno successivo, sabato mattina, furono avvisati che la partenza era stata anticipata e che sarebbero par­titi quel pomeriggio stesso. Dopo aver mangiato, fecero la visita al Santissimo Sacramento, che il Padre portava nel portasigarette di metallo, nel taschino della camicia, sotto il maglione. Man mano che il pomeriggio avanza­va, spuntarono, da varie direzioni, altri imboscati dei dintorni, che avrebbero preso parte alla spedizione. Alla fine arrivò Pallarés, uno degli intermediari. Questi noti­ficò loro che le guide esigevano ora duemila pesetas per persona, al posto delle milleduecento già pattuite. Ne nacque una non piccola confusione, poiché non c’era denaro sufficiente per tutti. Per fortuna comparve “Ma­teo il lattaio”. Informato dal Padre, Mateo si offrì di in­tercedere presso le guide. Sembrava già tutto sistemato, quando il Padre fu tradito dall’affetto per i suoi figli. Pe­dro, che ne aveva raccolto le confidenze degli ultimi

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giorni e conosceva il vero dilemma del Padre, ci raccon­ta ciò che avvenne. Allo scopo di risolvere il problema, scrive, “gli viene in mente una cosa tipicamente sua che, secondo lui, avrebbe risolto tutto: lui se ne va a Barcel­lona senza soldi; lì ne chiede in prestito e ritorna a Ma­drid (dove sono rimasti alcuni dei nostri, specialmente Àlvaro, la sua ossessione); quest’idea, come è logico, fa andare su tutte le furie Juan, che arriva a esprimersi con parole forti e dice sottovoce al Padre cose terribili. Alla fine, il Padre cede e acconsente a mettersi in marcia”182.

8. Il passaggio dei PireneiColoro che se ne stavano imboscati nella baronia di Rialp si accomiatarono dai partenti, che rischiavano forte per ottenere la libertà. E più sicuro, pensavano, continuare a nascondersi nelle baracche. Ma non si sa mai quale sia la miglior soluzione. Infatti solamente po­che settimane prima della fine della guerra fu fucilato don Joseph che all’ultimo momento passò a ingrossare le file dei sacerdoti uccisi a Lérida183. Il gruppo del Padre fu posto in salvo al di là della frontiera dalle circostanze e dalla Provvidenza. Un semplice ritardo di pochi giorni a Madrid e sarebbero potuti restare vittime dell’esplo­sione di un obice nella camera che avevano affittato in via Ayala. Un breve ritardo nel lasciare la pensione di Barcellona e a quell’ora sarebbero stati tutti in prigione: sospettando che nella pensione della via Diagonal si na­scondessero persone, la polizia vi fece una perquisizio­ne. La casa era ormai un nido senza passeri, ma la si­gnora Rafaela finì in una ceka, da dove uscì, per vero miracolo, un mese dopo184.

Erano le sei ed era ormai buio quando lasciarono la capanna di S. Raffaele. Il sacrestano di Peramola apriva la marcia. Lo seguiva Mateo e gli altri facevano del loro meglio per non distanziarsi. Chi stava davanti affrettava196

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il passo. Juan, che camminava di fianco al Padre, notò che questi, di quando in quando, chiedeva a se stesso, a bassa voce, se doveva continuare a camminare oppure ritornare indietro. “Non sapeva che cosa era meglio fa­re - spiega Juan -, come se si sentisse improvvisamente abbandonato, come se gli mancasse l’aiuto soprannatu­rale, immerso in una prova permessa da Dio, che esige­va da lui un tremendo sforzo per imporsi all’angoscia momentanea e per proseguire controvoglia. Fui colto dal panico, pensando che avrebbe potuto prendere una decisione irreversibile. Senza esitare, lo presi per un braccio, disposto a non permettere che tornasse indie­tro, e glielo dissi con una crudezza davvero irrispettosa. Lo ricordo con orrore, ma fu inevitabile, perché sapevo che la sua decisione era di non proseguire e perciò mi sono sentito obbligato a intervenire”185.

Pedro Casciaro racconta, nel diario di quelle giornate, in che cosa consisteva quella rude crudezza: “Il Padre in­siste di voler restare a Peramola per ritornare a Madrid. Juan cammina dietro a lui e, come aveva già fatto, gli ri­pete frasi come questa: ‘La portiamo ad Andorra, vivo o morto’. Il Padre adduce il pretesto di sentirsi così debole da non farcela a camminare fino alla frontiera”186.

L’episodio della rosa di Pallerols aveva rasserenato don Josemarìa nel fondo della coscienza. Ora sapeva di non andare contro la volontà di Dio, è vero; ma non per questo cessava di sentire le veementi inclinazioni del suo cuore di Padre, che desiderava stare con i suoi, dell’una e dell’altra zona. E se si metteva a considerare la situa­zione, poteva apparirgli che avessero più bisogno di lui quelli della zona repubblicana. Era evidente che il Si­gnore lo scuoteva nei suoi sentimenti paterni. D’altra parte, nell’affettuosa durezza di Juan vedeva pure con chiarezza un saldo punto di appoggio per proseguire e non far andare tutto a rotoli. Paco Botella commenta che “Juan, davanti al Padre, dimostrava un atteggia­mento di sottomissione assoluta e, nello stesso tempo,

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di energica decisione”187. Juan, testimone delle recenti prove subite dal Padre, era consapevole che il proprio compito non era di persuadere, ma di agire.

Ci fu una sosta, al buio. Mezz’ora fermi al freddo. Juan vomitò la cena. La guida ritornò con delle scarpe di corda per chi era peggio equipaggiato, perché i con­trabbandieri preferivano che le persone non abituate a camminare di notte calzassero scarpe di corda, per evi­tare scivoloni e il rumore degli scarponi sulle pietre. Proseguirono la marcia per boschi fitti e sentieri in pes­sime condizioni. Juan cadde malamente, rotolando per un pendio. Poco prima di mezzanotte la guida li condus­se all’interno di alcune grotte, ai piedi del monte Corb. Vi si entrava attraverso una cavità seminascosta da pie­tre e rovi, con una stretta porta; sopra, a strapiombo, la parete del monte. Ai membri della spedizione vennero in mente la grotta di Alì Babà e i quaranta ladroni. Era profonda, ramificata e con mura divisorie di pietra. Alla luce di una lampada videro il suolo sporco, il soffitto af­fumicato, alcune mangiatoie e una specie di cucina. Tut­to faceva capire che in quella tana avevano pernottato uomini e bestie.

Nel punto più profondo li attendeva un giovane di poco più di vent’anni, vestito con un abito di panno e ciocie, dall’aspetto severo e riservato. Gli intermediarilo chiamavano Antonio. Poi si seppe che non era il suo vero nome. Si presentò ai nuovi arrivati, a mo’ di saluto, con alcune frasi dure e autoritarie: “Qui comando io e tutti gli altri mi ubbidiscono. Andremo in fila uno dietro l’altro, senza parlare e senza fare rumore. Quando do­vrò dare qualche istruzione, la dirò al primo della fila e tutti se la passeranno l’un l’altro. Nessuno si separi dal­la fila e nessuno resti indietro. Se qualcuno sta male e non ce la fa a continuare, si fermerà e se qualcuno vuole fermarsi con lui, lo faccia”188.

Riposarono alla meno peggio. Un paio d’ore prima dell’alba si misero in cammino per erti sentieri. Attraver­198

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sarono un avvallamento e, in mezzo alla nebbia, diverse altre persone si aggregarono alla fila. Costeggiarono co­sì, mentre faceva giorno, il costone del Sultàn de Grame- neras, fra fitte pinete e boschi di lecci, per arrivare con i primi raggi del sole nascente in una località chiamata Espluga de las Vacas, sul dirupo della Ribalera. Lì vicino precipitava dalla rupe una piccola cascata d’acqua.

Il Padre si preparò a celebrare la Messa, pur col timo­re di qualche mancanza di rispetto, perché durante la marcia notturna si erano sentite bestemmie. Si trovava­no ai piedi di un alto dirupo, che li riparava dal vento e dal freddo. Li raggiunse un ragazzo, che si chiamava Jo­sé Boix e veniva da casa Juncàs, una masseria che colla- bora va con gli organizzatori delle fughe. Portava vetto­vaglie per i viandanti. José aiutò di buon grado a preparare un altare, collocando una pietra più o meno piana sopra alcune rocce staccatesi dal dirupo189.

Era domenica 28 novembre. Il Padre annunciò ai pre­senti, poco più di una ventina, che stava per celebrare la Messa e risvegliò così la curiosità di alcuni e l’aspettati­va di altri. Probabilmente nessuno di loro aveva assisti­to a una Messa dal luglio dell’anno precedente. Il Padre celebrò la Messa in ginocchio. Paco e Miguel, anch’essi in ginocchio ai due lati dell’altare, che era molto basso, sostenevano il corporale perché non volassero le parti- cole, se fosse venuto un colpo di vento. Alcuni dei com­pagni di viaggio fecero la comunione con molta devo­zione. La fece anche un giovane studente catalano, che si era aggregato al gruppo la notte precedente190.

José Boix, allora adolescente, anni dopo, nel momen­to di scrivere i suoi ricordi di uomo ormai maturo, si stupisce che il sacerdote, non appena arrivato, deside­rasse celebrare la Messa. Il ragazzo era andato molte volte al mattino incontro ad altre spedizioni di fuggitivi nelle quali, come sapeva bene, spesso non mancavano sacerdoti. “Tra quelli passati in quella zona in quegli anni non ci fu nessuno disposto a celebrare la Messa”,

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ci racconta. La devozione del sacerdote gli deve aver toccato l’anima: “Credo di essere stato testimone di un’azione propria di un sacerdote santo”, aggiunge191.

Il giovane studente che si era aggregato la notte prece­dente teneva un diario, nelle cui pagine trascriveva i mo­menti più salienti di quelle giornate. Alla data del 28 novembre si legge: “Qui ha luogo l’evento più emozio­nante del viaggio: la santa Messa. Su una roccia, ingi­nocchiato e quasi prostrato al suolo, un sacerdote che fa parte del gruppo dice la Messa. Non la recita come gli altri sacerdoti delle chiese (...). Le sue parole, chiare e colme di sentimento, toccano l’anima. Non ho mai ascoltato una Messa come quella di oggi, non so se per le circostanze o perché il celebrante è un santo”192.

Fecero colazione con pane e salame e un po’ di vino, e ciascuno si accomodò come meglio potè su quel terreno impervio, dove non c’era neppure un metro quadrato in piano. Alle tre del pomeriggio diedero loro da mangiare del coniglio fritto. Doveva essere poca roba, perché eb­bero tempo di recitare il rosario e di osservare quella zo­na rocciosa fino alle quattro, “ora - scrive il cronista di turno - in cui ci ponemmo di nuovo in marcia, assai po­co sfamati e riposati”193.

Le marce erano notturne. Ma la tappa successiva, l’a­scesa sul monte Aubens, era particolarmente pericolosa di notte. Bisognava raggiungere il crinale ancora con la luce; per questo si misero in marcia a metà pomeriggio. L’avvicinamento alle falde del monte avveniva su pendii non molto pronunciati, ma ricoperti da una macchia fit­tissima. Un’ora dopo raggiunsero il canale della Llasa, da dove si cominciava ad affrontare di petto la salita. Per la guida, che scalava agilmente le rocce e si affaccia­va senza vertigini sui precipizi, era un gioco da bambini. Cominciava a diventare buio e Antonio metteva fretta a chi si attardava. Tomàs Alvira, disfatto, si lasciò cadere a terra. Non riusciva a fare un passo in più. La guida, freddamente, diede l’ordine di continuare; bisognava200

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abbandonare quell’uomo alla sua sorte per poter rag­giungere la cima in tempo. “Sarà meglio che ritorni in­dietro, altrimenti lo dovremo lasciare sul sentiero”, dis­se. Allora il Padre parlò con Antonio e riuscì a fargli cambiare parere. Poi incoraggiò Tomàs: “Non fargli ca­so. Tu continuerai con noi come gli altri, sino alla fine”. “Ci raccomandavamo costantemente agli Angeli Custo­di”, aggiunge Tomàs nel suo racconto194.

Arrivarono in vetta che ormai era notte. Sulla cima, dopo i rovi della salita, trovarono un altipiano coperto di erba spugnosa che era una delizia per i piedi. La di­scesa sull’altro versante la fecero su terreni umidi e nei boschi di pini, sui sentieri usati dai boscaioli per far scendere i tronchi. Erano frequenti gli scivoloni e ne eb­bero le mani sanguinanti per essersi dovuti spesso ag­grappare a cespugli spinosi.

In una delle brevi soste per riposare, ormai nella valle, la guida scomparve. Ricomparve poco dopo senza dare alcuna spiegazione su dove si trovassero. A notte già molto inoltrata, con molte precauzioni e a gruppi di treo quattro, attraversarono una strada (quella di Isona), per riunirsi poco oltre un ponte (sul fiume Valldarques) e attraversare subito a guado, con l’acqua alle ginoc­chia, il fiume Sellent. Restava loro più di una lega di strada e la guida era preoccupata. Il Padre non stava in piedi ma, prendendo Antonio per un braccio, parlava con lui cercando di tranquillizzarlo. Ben presto lasciaro­no sulla sinistra il paese di Montanisell e arrivarono, di­sfatti, all’ultimo tratto della tappa quando ormai co­minciava ad albeggiare. Questo era il timore della guida, perché la strada per raggiungere casa Fenollet, dove sarebbe finita la giornata di viaggio, era visibile dal paese di Organa, dove erano acquartierate diverse unità che vigilavano la frontiera195.

Alle prime fredde luci del giorno entrarono a Fenollet, una casa colonica a mille metri di altitudine. Si trovava al riparo del monte e aveva ampi recinti per il bestiame.

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Non appena giunti, il Padre distribuì la Comunione ai suoi, consumando tutte le Sacre Specie consacrate nella Messa della Ribalera, perché la notte precedente aveva­no di nuovo udito bestemmie durante la marcia.

La guida li avvertì che mancavano ancora tre giorni di marcia, senza possibilità di approvvigionamento e, do­po aver dato ordine di non uscire dal recinto dove si tro­vavano, Antonio scomparve. C’erano stalle e ovili. I fuggiaschi si sistemarono come meglio poterono e dor­mirono tutta la mattinata tra belati, pio pio e coccodè e il tintinnio dei campanacci del bestiame. Solamente il Padre, che stava in dormiveglia, si rese conto del perico­lo che avevano corso quando, a metà mattina, erano giunti sul posto due miliziani. Chiesero alla padrona di casa se avesse visto tracce di fuggitivi. La donna non fe­ce una piega: servì loro qualche bicchiere di vino e quel­li se ne andarono. Questa notizia non proviene sicura­mente dal cronista del diario, il quale, come lui stesso racconta, era impegnato a immaginarsi in sogno la sof­fice consistenza di un pagliaio, che gli pareva “una chi­mera irrealizzabile”196.

Alle due del pomeriggio, rimessisi dalla fatica, si ri­svegliò la fame. Prevedendolo, la gente di Fenollet, la vi­gilia dell’arrivo della spedizione, aveva sacrificato un agnello. I fuggitivi appoggiarono gli zaini sulle mangia­toie e, seduti per terra, fecero onore al pasto. Il piatto forte erano fagioli con agnello. Così abbondanti, così saporiti, che la loro guida, conversando con Juan Jimé­nez Vargas, anni dopo, riconosce “che ha dimenticato molte cose, ma quel pasto lo ricorda sempre”197. Anche il cronista di turno elogiò il pasto con i fagioli. Solamen­te il Padre, ricopiando il diario a macchina, attenuò gli elogi e aggiunse: “Ce l’hanno fatto pagare salato”198.

Mentre alcuni facevano la siesta dopo mangiato, le donne della casa cucirono e rammendarono gli strappi negli abiti dei fuggitivi. Tra quella gente caritatevole c’e­ra una suora rifugiata. Il Padre, che continuava a veglia­202

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re, vedendo la stanchezza dei suoi diede ordine di alleg­gerire gli zaini. Lasciarono nella fattoria parte del baga­glio: non perché non servisse, ma per il peso intollerabi­le che rappresentava nell’arrampicarsi sui monti199.

Per coprire le necessità di nutrimento fino ad Andor­ra, tutto quello che riuscirono a comprare fu un piccolo formaggio e un pezzo di focaccia e il vino per riempire la borraccia. Appena scesa l’oscurità si misero in cam­mino. Di fronte a Fenollet si ergeva la montagna di San­ta Fe, verso la quale si diressero in fila indiana. La rotta di avvicinamento ai Pirenei consisteva in un continuo salire e scendere i monti della riva destra del fiume Se­gre, la cui valle rappresenta il corridoio naturale che da Nord a Sud conduce dalle prime pendici dei Pirenei fino alla baronia di Rialp. Nella zona che dovevano attraver­sare, a 50 o 60 chilometri dalla frontiera francese, c’era­no i luoghi più adatti per nascondersi tra i boschi, per cui il passaggio da una valle all’altra era attentamente vigilato dalla guardia di frontiera.

Dopo una faticosa salita di più di un’ora, discesero per il fianco nord della montagna di Santa Fe. Veniva poi la pianura vicina al paese di Organa: facile per il viandante ma pericolosa per il fuggiasco, la cui presenza veniva segnalata senza sconti dai latrati dei cani delle masserie. La loro guida sapeva fin troppo bene che po­che settimane prima i miliziani, richiamati insistente­mente dai latrati, avevano eliminato una spedizione a colpi di fucile.

Attraversato il fiume Cabó, cominciò la salita al mon­te Ares, nella Sierra de Prada, a 1.500 metri di altezza. L’ascensione, di notte, su terreno accidentato, dissestato e scosceso, senza vedere dove si mettevano i piedi, fu una dura prova di resistenza fisica. Il Padre, che non si era quasi riposato in casa Fenollet dallo sfinimento della notte precedente, ansimava faticosamente e aveva un battito cardiaco molto accelerato. Paco e Miguel lo aiu­tarono a salire. A tratti quasi lo sollevavano dal suolo,

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mentre lui ripeteva fra sé: “Non veni ministrati, sed mi­nistrare”200. In cima fecero una sosta. Tirava un vento freddo e cercarono di stringersi tutti intorno al Padre, a cui Juan somministrò una buona sorsata di vino zucche­rato della borraccia, per farlo reagire201. Poco oltre, tut­ta la spedizione si potè rifugiare in una stalla per il be­stiame, vicina al paese di Ares.

Quando ripresero la marcia, non tutti si erano riavuti dalla fatica. José Maria Albareda sembrava inebetito. Aveva perso la memoria e non sapeva più dove si trova­va. Rimessosi in piedi, con un incerto sorriso sul volto, dopo qualche sorso della borraccia si lasciò condurre per mano come un automa202. La fatica e lo sforzo con cui fissavano nel buio per indovinare dove mettevano i piedi e per seguire l’ombra di chi camminava davanti fa­cevano loro vedere luci e masserie sui monti, una sorta di miraggio notturno. Se cominciavano a recitare padre- nostri e avemarie, perdevano subito il conto e le decine si allungavano trascinandosi una coda di venti o trenta avemarie, ritmate in maniera ossessiva sull’aria della canzone popolare natalizia delle suore di Santa Isabel, che avevano sentito cantare dal Padre cammin facendo: “S. Giuseppe ha proprio un bel bambino / non so che cosa provo / se guardo il suo visino”; la musica e il rit­mo, racconta Pedro Casciaro, per uno strano fenomeno “finirono col diventare parte integrante della nostra fa­ticosa respirazione”203.

Improvvisamente, senza che se ne sapesse la ragione, quelli che stavano davanti si fermarono. La guida era scomparsa. Ritornò subito con uno di quelli che erano rimasti indietro e che si era lasciato cadere mezzo mor­to, desistendo dall’impresa. Antonio, temendo che fosse una finta per denunciarli o che lo trovasse una pattuglia di soldati, lo costrinse a rientrare nel gruppo, minac­ciandolo con la pistola.

Infine rasentarono un burrone e, alle prime luci del­l’alba, la guida fece entrare tutti in una stalla, sperduta204

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su un altopiano di praterie. La località si chiamava Ba- ridà, a 1.300 metri di altezza. Intirizziti dal gran freddo, morti di sonno, con scarsissime provviste e quanto re­stava di una borraccia di vino, vi passarono la mattina di martedì 30 novembre 1937204.

Quando la guida tornò alla stalla stava facendo buio; si rimisero in marcia, terrorizzati dalla prospettiva della imminente camminata. Scesero per un sentiero fino al torrente Baridà, in direzione del fiume Segre. Attraver­sando i bòschi, s’imbatterono in tronchi di alberi taglia­ti che, come nella notte precedente, provocavano cadute e contusioni.

Quando il Padre copiò a macchina, nel 1938, il ma­noscritto del Diario del passaggio dei Pirenei, a questo punto gli si intenerì il cuore al ricordo della fatica fisica, degli sballottamenti e delle cadute notturne salendo e scendendo per i monti. “Camminiamo attaccati gli uni agli altri - scrive il cronista - ed è l’unico modo per pro­cedere”. E il Padre aggiunse questo commento: “E que­sto è il procedimento trovato dalla delicata carità di questi figli della mia anima - Juanito, Paco, Miguel - per sollevarmi ed evitarmi molte cadute, così come si so­stiene il bambino piccolo che tenta di fare i primi passi: prendendolo per il vestito”205.

Ormai vicini al Segre, deviarono dal torrente e costeg­giarono la base della montagna di Creueta. Attraversa­rono poi il fiume Pallerols, avvicinandosi alla grande strada che porta a Seo de Urgel. La confluenza di questa strada con quella che scende da Noves de Segre era un punto pericolosissimo. Quelli delle masserie vicine ave­vano avvisato Antonio che per tutto il giorno i miliziani avevano sorvegliato il posto. In perfetto silenzio attra­versarono la strada, passando dall’altro lato, e dopo una lega di cammino, lasciato da un lato il paesino di Pia de Sant Tirs, proseguirono verso nord206.

Resta da dire che in una delle soste dopo la discesa dalla località di Baridà, la guida era andata in una casa

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colonica a riempire le borracce di vino e qui si unirono alla spedizione un drappello di fuggiaschi e tre o quattro uomini con grandi fardelli sulle spalle. Dal soave profu­mo che emanava dal carico, in netto contrasto con l’o­dore degli abiti dei viandanti, era evidente che si tratta­va di contrabbandieri di prodotti di profumeria. Ma oltre a questi inoffensivi e aromatici articoli, portavano le loro brave armi.

Erano le prime ore del mattino quando lasciarono il corso del Segre per andare verso l’interno seguendo un fiumiciattolo, PArabell, che li portava direttamente a nord. Il percorso era infame. Passarono diverse ore se­guendo il letto del fiume, ora fuori dall’acqua e ora den­tro, senza togliersi le scarpe. Lì si ebbe la prova di quan­to scarsa fosse la protezione assicurata dagli scarponi del Padre. Mentre le scarpe di corda, quando si usciva dal letto del fiume e si camminava sull’asciutto, spreme­vano fuori l’acqua che le inzuppava, gli scarponi invece la trattenevano. Portarli era quindi come guazzare in una pozzanghera di acqua gelata, cosa per nulla consi­gliabile per i reumatismi207. Raggiunto il paese di Ara­bell, abbandonarono il fiume e spesero le ultime energie per salire un monte dal quale si domina da lontano Seo de Urgel. Sul far del giorno si accamparono al riparo di alcune rocce, protetti dallo spessore degli arbusti della macchia. C’era vicino un caseggiato, cosa che non preoccupava le guide. La spedizione si era senza dubbio rinforzata nella notte precedente, poiché le persone che si stavano riposando dopo la salita erano ormai una quarantina.

Spuntò l’alba del 1° dicembre, con una luce fredda e un cielo nuvoloso. Agli stomaci affamati fu concesso so­lamente un boccone delle loro misere provviste. I corpi erano umidi e intirizziti dal freddo. Perseguitati da un sonno che non riusciva a imporsi a causa della scomo­dità, della fatica e della fame, passarono tutta la giorna­ta avvolti nelle coperte: tre coperte per otto persone.206

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“In queste giornate piene di fastidi, stanchezza, son­no... e fame, è molto difficile fare le nostre Norme. Se non riusciamo a dedicarvi il tempo previsto, lo abbre­viamo, ma le facciamo”208. Così si legge nel Diario. Tut­ti compivano il meglio possibile le norme di pietà - i tempi di orazione, il rosario, le giaculatorie - mentre camminavano e incespicavano; poi, fermi nei loro rifu­gi, riprendevano le forze per la tappa successiva. Il Pa­dre, di notte, pregava con tutti i suoi; di giorno, pregava per tutti i suoi: per quelli della spedizione e per i suoi fi­gli delle due zone. Il sonno lo vinceva solo a metà. Quando qualcuno si svegliava, lo trovava sempre in dormiveglia. Così lo aveva sorpreso Juan la mattina in cui i due miliziani si erano presentati nella masseria Fe­nollet. Lo registra il Diario di martedì 30 novembre: “Il Padre oggi non dorme affatto”. Mercoledì 1° dicembre,il cronista torna a insistere: “Il Padre non dorme”209. La mancanza di sonno era il suo più crudele nemico.

Cercava di vincere il sonno in preghiera210. Prosegui­va tenacemente la preghiera, mentre il sonno lo vinceva. Durante la marcia rifiutava la borraccia di vino zucche­rato che Juan gli offriva per ridargli le forze, col prete­sto che altri ne avevano più bisogno di lui. Nelle soste cedeva la sua coperta. E al momento di dividere il cibo faceva in modo che ne toccasse di più agli altri211. E sor­prendente che il suo fisico non sia crollato prima di arri­vare alla frontiera.

Erano alle porte di Andorra e questo accendeva una luce di speranza su quella che doveva essere l’ultima tappa. Ma gli inconvenienti erano assai più gravi. Il tor­pore dell’animo e la mancanza di forze impedivano loro di reagire. Avevano gli abiti strappati e le calzature di­sfatte. A metà pomeriggio il cielo diventò scuro. Volteg­giavano indecisi alcuni fiocchi di neve quando le guide li avvisarono che ci si doveva mettere in cammino. Il gruppo del Padre aveva appena finito di consumare un minuscolo pezzo di pane, l’ultima provvista rimasta, e

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Juan distribuì le ultime zollette di zucchero che aveva in serbo per i momenti di cedimento durante la notte.

Camminando in direzione nord raggiunsero un mon­te, il Cerro el Tosai, per discendere poi per il burrone del Civìs, dove passa il sentiero che va da Sant Joan Fu- mat alla Farga de Moles. Questa discesa, tra pietre che si spostavano sotto i piedi e alberi e fitti roveti nei quali i fuggiaschi lasciavano lembi di vestiti e di pelle, dovette essere terribile. “Non so come sia la strada per l’inferno, ma è difficile immaginarla peggiore di questa - scrive il cronista -. Le cadute dei giorni precedenti sono uno scherzo a paragone di quelle di oggi”212.

Il passaggio della strada che costeggia il burrone del Civìs era molto sorvegliato e, a quanto dissero le guide, alcuni plotoni di stanza ad Argolell lo avevano pattu­gliato per tutta la giornata. I fuggiaschi, prima di ripren­dere la marcia, dovettero aspettare due ore senza poter­si muovere, divisi in gruppi lungo la riva del fiume Civìs, mentre il freddo calava nelle ossa. Poi attraversa­rono cautamente il fiume, verso la mezzanotte, e si iner­picarono sulla montagna che si ergeva di fronte, così ri­pida che avevano la sensazione di risalire lungo un precipizio. Erano forse le tre del mattino quando arriva­rono in cima, al valico della Capra Morta e, lasciato quel sentiero da capre, scesero in un bosco in prossimità di Argolell. Vi si fermarono per un’interminabile mezz’ora, nascosti dietro ai tronchi degli alberi. Passa­rono in prossimità di una casa dove si vedeva una luce accesa e i cani si misero ad abbaiare furiosamente. Poi, attraversato il torrente di Argolell, risalirono il pendio che avevano di fronte. La spedizione si era dispersa e sbandata nella precipitazione degli ultimi momenti, poi­ché tutti si erano resi conto che erano ormai in Andorra. Quelli del gruppo del Padre avevano già camminato per un buon tratto quando, nell’imminenza dell’alba, deci­sero di fermarsi per attendere che facesse giorno e poter­si orientare. Seduti per terra, avvolti nelle coperte e208

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stretti gli uni agli altri, raccomandarono agli Angeli Cu­stodi che riapparisse la guida. Pochi minuti dopo udiro­no dei fischi e poi altri. Li stavano cercando. Intorno a un fuoco alcuni uomini della spedizione si stavano scal­dando, insieme alle guide e ai contrabbandieri, i quali, cameratescamente, fecero loro spazio attorno al fuoco e offrirono pane e salame. La guida, Antonio, disse il pro­prio nome: José Cirera213.

9. In AndorraI fuggiaschi, prima di accomiatarsi, recitarono insieme la Salve Regina. A piccoli gruppi, ormai su un terreno battuto, presero la strada per Sant Julia de Loria. Stava­no camminando e recitando il rosario, quando giunse ai loro orecchi un gradito rintocco di campane che pro­dusse in loro, all’improvviso, l’indescrivibile sensazione di chi ricupera la libertà e si affranca dalla paura. “Deo gratias! Deo gratias!”, ripeteva tra sé il Padre quella mattina del 2 dicembre 1937214.

All’entrata del paese i gendarmi francesi li fermarono, registrandoli come “rifugiati politici”. Fecero colazione in un bar: caffelatte e formaggio, con pane bianco, soffi­ce e ancor caldo. Domandarono che fosse loro aperta la chiesa - la prima non profanata che vedevano dal 1936 - e fecero la visita al Santissimo Sacramento. Don Jose­marìa non poteva celebrare la Messa a motivo delle nor­me liturgiche allora vigenti215.

A metà mattina si erano già sistemati nell’Hotel Pa- lacin di Les Escaldes, nei pressi della capitale del Princi­pato, Andorra la Velia. Nel pomeriggio vi si recarono tutti per inviare un telegramma al fratello di José Maria Albareda, che risiedeva a San Juan de Luz, per fare le vaccinazioni previste e per farsi le foto di cui i gendarmi avevano bisogno per preparare i loro salvacondotti. Al­l’improvviso il cuore di don Josemarìa dette un balzo,

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vedendo avvicinarsi un sacerdote in tonaca. Don Lluis Pujol, che veniva loro incontro, vide a sua volta avvici­narsi alcuni uomini, molto mal vestiti e con le scarpe rotte. “Dal gruppo - racconta - si staccò una persona che, a braccia aperte, mi salutò e disse: Grazie a Dio, fi­nalmente vediamo un prete!”216. Quell’abbraccio fu l’i­nizio di una durevole amicizia fra don Lluis Pujol e don Josemaria, che approfittò di quel primo incontro per chiedere dove avrebbe potuto celebrare la Messa il gior­no dopo.

Inviato il telegramma e svolte le altre incombenze, egli scrisse un biglietto al Console dell’Honduras, Pedro de Matheu Salazar, il che equivaleva a informare tutti i suoi a Madrid:

“Escaldes (Andorra) - 2 dicembre 1937. Mio stimatissi­mo amico, prima di ritornare sul Pacifico, dove vedrò José Luis, ho voluto visitare questo simpatico Principato di Andorra, dato che, per la situazione della Spagna, non oso arrivare fino a Madrid. Domani partirò, con mio fratello Ricardo e il resto della famiglia, per San Juan de Luz. Mi ricordi a Mila e Consuelo.Un abbraccio - Josemaria”217.Tornarono poi all’albergo, cenarono e si coricarono,

con la lodevole intenzione di recitare il santo rosario prima di mettersi a dormire, come aveva loro detto il Padre rendendosi conto che crollavano dal sonno. “Cre­do - scrive il cronista - che nessuno sia neppure riuscito a cominciarlo. Più sorprendente ancora è che non ci sia­mo addormentati mentre ci toglievamo le scarpe”218.

Al mattino, il Padre celebrò nella chiesa di Les Escal­des, non “di nascosto e in segreto”, come aveva fatto a Madrid e a Barcellona, ma con tutto il decoro che pre­scrive la liturgia. Fu una Messa di lunghi e indimentica­bili memento. Senza posa veniva alla mente del cele­brante, con la persistenza ritmica delle onde sui210

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frangiflutti, il ricordo di coloro che avevano lasciato in­dietro. Prima di salire all’altare, chiese loro di racco­mandarli al Signore; e durante la Messa, nel memento dei vivi e in quello dei defunti, si soffermò a lungo. In quello dei vivi comprese anche il Vescovo Amministra­tore Apostolico di Vitoria, che celebrava quel giorno il suo onomastico - era S. Francesco Saverio - e al quale inviò un telegramma di auguri219.

Arrivò l’atteso telegramma da San Juan de Luz, invia­to la sera prima e firmato da Pilar, marchesa di Embid, cognata di José Maria Albareda. C’era scritto: “Jacques Not verrà a prendervi domani”. Tutto il pomeriggio ri­masero in impaziente attesa della macchina, che però non comparve. Chi apparve, invece, fu José Cirera, alias Antonio, la guida, che non era riuscito a rientrare in Spagna e raccontò che se la loro spedizione avesse tar­dato ventiquattro ore, sarebbe fallita. Forti tormente di neve avevano chiuso i passi di montagna. Quanto alle peripezie dell’ultima marcia notturna, la guida ora rac­contò loro i pericoli passati e spiegò che avevano dovu­to cambiare itinerario perché in uno dei guadi che dove­vano attraversare erano appostati i carabinieri.

Quel giorno il Padre scrisse a Isidoro, con cauti giri di parole per eludere la censura:

“Escaldes (Andorra), 3 dicembre 1937.Mio grande amico, sono imbronciato con te perché non hai risposto alle due lettere che ti ho scritto: in ottobre da Praga; e verso la metà di novembre, da Parigi.Oggi, approfittando di essere venuto in gita con alcuni amici in questo Principato di Andorra, ho voluto scri­verti queste righe e pregarti di scrivermi a casa di mio cugino. Nel caso non lo ricordassi, il suo indirizzo è: ‘Signor Àlvarez. Hotel Alexandre. San Juan de Luz (Francia)’. Basterà che intesti la lettera a mio nome ed egli me la rispedirà laddove mi troverò. Mi piace tanto viaggiare! La mia famiglia: tutti in perfetta salute e sempre contenti.

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Affettuosi saluti ai tuoi fratelli. Di’ quello che vuoi alla nonna e agli zii.Ti abbraccia - MarianoOggi o domani partirò per la casa di mio cugino (S. Juan de Luz), perché mi ha inviato la sua macchina. Molti ab­bracci”220.Nel Diario sono puntualmente riferiti gli avvenimenti

di quei giorni: “Sabato, 4 dicembre 1937. Sono le sette del mattino e sta nevicando, mentre hanno inizio le no­stre attività di oggi. Il paesaggio che ci circonda, coperto di neve, ci appare in un diverso aspetto della sua bellez­za. Gli alti picchi, rivestiti di bianco, hanno una bellezza più elegante, meno rustica”221.

C’è un chilometro fra l’albergo e la chiesa di Andorra, dove il Padre celebrò la Messa per i suoi e alla quale as­sistettero pure cinque giovani che avevano fatto parte della spedizione. Il Padre cominciava a fare amicizia con don Lluis, che lo invitò a fare colazione a casa sua e lo condusse poi a far visita ai benedettini di Montserrat, che si trovavano nel collegio Meritxel.

Non smetteva di nevicare. La spedizione aveva pro­prio giocato miracolosamente d’anticipo rispetto alla nevicata. Tutti ripetevano che il valico di Envalira era chiuso e non si poteva andare in Francia. Era un grave contrattempo. La macchina stava forse aspettando dal­l’altra parte del valico.

Dedicarono il pomeriggio alla corrispondenza. Bi­glietti e cartoline in castigliano, in francese, in inglese. Scrissero a parenti, amici e conoscenti, per far loro sape­re, con la massima discrezione se si trovavano in zona repubblicana, che essi ne erano usciti. La cartolina che Tomàs Alvira e il Padre inviarono all’amico Pascual Galbe Loshuertos, giudice della Comunità catalana, era molto breve e non lo comprometteva: “Un abbraccio”, e le firme: “Josemarìa - Tomàs”222.

Approfittarono per aggiornare il Diario sul passaggio212

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dei Pirenei. Ogni giorno uno di loro a turno era stato in­caricato di redigerlo (il turno continuava anche ora). Ma poiché durante le marce notturne avevano preso so­lo note brevissime, ora, con l’aiuto di tutti, avevano l’occasione per ampliarle e completarle223.

Come risultato delle marce su terreni accidentati con scarpe di corda distrutte, Manolo aveva i piedi piagati e non poteva camminare. Per spostarsi da Andorra a Les Escaldes, che stava a un passo, doveva andare in mac­china. Al Padre, che aveva le mani doloranti e tumefat­te, Juan fece massaggi con del salicilato, credendo fosse una forma reumatica. Dopo due giorni, vedendo che il gonfiore aumentava, si accorse che erano soltanto piene di spine degli arbusti ai quali si era aggrappato durante la marcia. Con infinita pazienza gli estrasse una trentina di spine224.

Passarono cinque giorni alla mercé degli eventi atmo­sferici. Le speranze andavano e venivano. La macchina inviata dal fratello di José Maria Albareda non arriva­va. Continuava a nevicare. Il 6 dicèmbre fece giorno con un tempo splendido. A mezzogiorno, quando andarono in sala da pranzo, un signore annunciò loro che l’indo­mani pomeriggio tutti i rifugiati sarebbero potuti partire in autobus. Ma all’ora di cena la stessa persona annun­ciò che, a motivo della enorme quantità di neve accu­mulatasi, il valico non sarebbe stato transitabile prima di due o tre giorni. Il giorno 7 cessò la neve e cominciò a piovigginare. Una persona del posto che era passata dal valico portò loro alcune lettere da Hospitalet, il paese francese dove pensavano che li attendesse un’auto. Fu­rono chiariti i malintesi225, perché non si trattava di una macchina in arrivo da San Juan de Luz, ma di un tassi­sta di Hospitalet che sarebbe dovuto venire a prenderli. Poiché però il tassista aveva ritardato la partenza, il giorno successivo la neve aveva interrotto il passaggio attraverso il valico.

Ma se il valligiano che aveva portato le lettere aveva213

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potuto attraversare il valico, perché loro non avrebbero potuto passarlo in senso inverso? Pensarono anche di affittare un mezzo cingolato, ma quello del rifugio d’al­ta montagna non funzionava. Consultarono i gendarmi,i quali ribadirono che il valico era impraticabile. Forse - pensarono - era l’occasione per avere un aiuto dai re­sponsabili militari. Nell’Hotel Palacìn alloggiavano il colonnello e gli ufficiali distaccati dalla Repubblica Francese per difendere il Principato da possibili incur­sioni di miliziani spagnoli. Monsieur le Colonel guarda­va con simpatia i rifugiati politici, che incontrava ogni giorno in sala da pranzo. Era uomo di grande umanità, dai modi fini e cortesi. Misurava due metri di altezza e poco meno di circonferenza. Egli tuttavia li sconsigliò dal cercare, in quelle condizioni, di raggiungere la fron­tiera francese. Da quel momento i gentili saluti del mili­tare ebbero una più debole risposta in sala da pranzo226.

Come osserva il cronista, le avevano tentate tutte e Dio avrà avuto i suoi motivi per continuare a tenere chiuso il valico: “Dopo aver insistito tutto il giorno (il Padre dice “con poca educazione”), ci mettiamo il cuore in pace. Siamo disposti ad aspettare che il valico si apra, ma che sia presto!”227.

In quei giorni il Padre celebrò la Messa in diversi po­sti: nella cappella del collegio Meritxel, nella chiesa par­rocchiale di Les Escaldes e l’8 dicembre, festa dell’im­macolata, nel convento della Sacra Famiglia, proprio nel giorno in cui le suore rinnovavano i loro voti. La cappella era povera e la cerimonia fu semplice.

La spessa coltre nevosa che ammantava di bianco monti, case e strade prolungò la forzata permanenza del Padre ad Andorra, da dove sarebbe partito con il ricor­do lieto delle tertulias in casa di don Lluis Pujol. Un me­se dopo, ormai a Pamplona, negli Appunti intimi evo­cherà quelle serate: “Camminando lungo il fiume, ricordavo le nostre passeggiate in Andorra, dal capoluo­214

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go a Escaldes, di sera come oggi, dopo la tertulia con il buon arciprete”228.

Don Lluis Pujol, economo-arciprete di Andorra la Vel­ia, aveva legato con don Josemarìa. Il primo giorno che questi aveva celebrato la Messa nella capitale, che aveva allora una popolazione di poco più di mille abitanti, egli aveva invitato il prete forestiero a fargli visita a casa sua. Don Lluis abitava nella piazza principale, in una casa confortevole. Lì aveva il suo ufficio, una piccola stanza decentemente ammobiliata con tavolo da lavoro, casset­tiera e libreria, oltre a una poltrona e tre o quattro sedie. Ornavano le pareti alcuni quadri con scene religiose del­la vita di Sant’Ignazio e di S. Francesco Saverio, e un cro­cifisso. Sul tavolo da lavoro c’era sempre un pacco di let­tere da rispedire dall’una all’altra zona della Spagna. Il compito dell’arciprete, volontariamente accettato, consi­steva nell’aprirle, cambiare la busta e affrancarle di nuo­vo; in qualche caso speciale, anche nel tenere corrispon­denza con terze persone. Ma la nevicata di quei giorni aveva interrotto questo suo lavoro229.

“Oggi - scrive Pedro il 5 dicembre nel Diario - l’arci­prete non ci riceve nella sua stanzetta; oltrepassata una sala piuttosto spaziosa, che sembra quella da pranzo, ci fa entrare in cucina. Il fatto di riceverci in cucina, al ca­lore del caminetto, ha in Andorra, in casa dell’arciprete,lo stesso significato che a Palazzo Reale avrebbe sedersi su un cuscino o tenere il cappello davanti al re”230.

L’ospitalità di don Lluis meritava molta gratitudine perché, davanti alla tazzina di caffè e al bicchierino di anisetta gentilmente serviti dalla padrona di casa, egli li mise al corrente degli ultimi avvenimenti del mondo. In particolare di quelli del Principato di Andorra, quali l’arrivo di monsieur le Colonel o la ribellione degli an­dorrani i quali, sobillati dal Ministro spagnolo della Pubblica Istruzione, Fernando de los Rìos, avevano ne­gato al Vescovo di Seo de Urgel la prestazione di vassal­laggio231, che consisteva nel tradizionale omaggio al Ve­

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scovo di alcuni capponi e prosciutti e di dodici formaggi di pecora, oltre a millecinquecento pesetas.

Il giorno successivo don Lluis ripetè l’invito. Chiac­chierando, passarono tutti un pomeriggio gradevole. Di ritorno all’albergo, sulla sponda del rio Valira, che scen­deva gonfiato dalle nevi, tirava un vento gelido che to­glieva il respiro.

Nella festività dell’immacolata, l’arciprete invitò a pranzo don Josemaria. La conversazione tra di loro, a quattr’occhi, sarà stata indubbiamente più confidenzia­le. Don Lluis Pujol gli avrà fatto domande sulla traver­sata dei Pirenei. Era arrivata in Andorra una folla di fuggitivi, ciascuno con la sua storia e le sue tragedie alle spalle. Ma più che da qualsiasi racconto, don Lluis fu impressionato dal meditato silenzio di don Josemaria: “Ciò che più mi ha impressionato fu di sentirgli dire, a proposito di tutto quello che aveva passato in quei gior­ni sulle montagne (...), quanto segue: ‘Ho sofferto tanto che ho fatto il proposito di non raccontare nessuna sof­ferenza’. E così fu, perché né in quel giorno, né in segui­to, l’ho udito fare alcun accenno ai tormenti patiti”232.

A questo proposito, senza cercare di immaginare sup­plizi a noi meno noti, si può citare qui ciò che il Padre annotò a Pamplona il 2 gennaio 1938, in un nuovo qua­derno degli Appunti intimi: “Ho notato che mi faceva­no male ancora i piedi, anche se non sono quasi più gonfi: perché non si trattava di geloni, ma delle conse­guenze delle grandi fatiche fatte durante l’evasione”. E don Josemaria non era certo uno che si compiaceva del dolore233.

La sera il Padre raccontò ai suoi il menù che gli aveva offerto l’arciprete: antipasti vari, cannelloni, testa di vi­tello, costolette, paste... Il cronista, pieno di meraviglia, si ritiene obbligato a prenderne nota per il Diario; ma non fa alcun cenno dell’appetito dell’ospite. Dopo la fa­me lunga e terribile per cui era passato, don Josemaria216

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non aveva certo la possibilità di ingerire troppi alimenti e, infatti, non sentiva voglia di mangiare234.

Non si sa come, corse notizia che il 10 dicembre il va­lico sarebbe stato agibile e che un autobus sarebbe par­tito in quella direzione il giorno dopo, alle sette e mez­zo. Si alzarono alle sei, ascoltarono la Messa che il Padre celebrò nella parrocchia di Les Escaldes ed ebbero tempo per fare colazione e per i preparativi del viaggio. Ci furono momenti di nervosismo al momento di paga­re il conto dell’albergo; otto persone per otto giorni, a venti franchi al giorno più il dieci per cento, faceva un totale di 1.408 franchi. Bisognava tirare sul prezzo, per­ché con lo scarso denaro che rimaneva loro dovevano far fronte a ogni genere di spese e imprevisti fino ad ar­rivare in Spagna. La loro indigenza era tale che non ave­vano potuto neppure comprare altre scarpe in Andorra. Tra suppliche e tira e molla, il conto calò a 1.300 fran­chi, con soddisfazione degli ospiti e dell’albergatore. Mentre la cosa veniva sistemata, i viaggiatori si misero addosso tutti i capi di vestiario che avevano, avvolgen­dosi le gambe con carta di giornale, infilata nei calzini, per proteggersi dal freddo235.

La giornata era soleggiata. Alle otto partì un autocar­ro con venticinque persone su sedili improvvisati. Si ri­trovarono insieme a molti fuggitivi della loro spedizio­ne. Passando per la masseria di Encamp, il motore si imballò per lo sforzo e dovettero scendere tutti. Dopo un altro sforzo arrivarono a Soldeu, dove il veicolo si ri­fiutò decisamente di proseguire. Mancavano quattordici chilometri per Pas de la Casa, la zona della frontiera. Al principio la neve era gradevole sotto i passi; era poca e scricchiolante. Poco per volta finirono con l’affondare fino alle ginocchia e l’acqua, che inzuppava le scarpe di corda, si impastò con la carta di giornale che proteggevai piedi; si ritrovarono a camminare sguazzando in una massa gelida e sgradevole. A Pas de la Casa li aspettava un autobus con quattordici posti, sul quale si ammuc­

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chiarono tutti quanti. Una brigata francese aveva sgom­brato la strada dal valico fino a Hospitalet, dove c’era il controllo doganale. Presentarono i documenti e fu dato loro il permesso di circolare in Francia per sole 24 ore. Comunque il Padre era deciso a fermarsi a Lourdes pri­ma di arrivare a Hendaya236.

Trovarono il tassista che era stato ingaggiato dal fra­tello di Albareda. Aveva una vecchia Citroen, grande, ma insufficiente per otto persone. La lentezza della poli­zia di frontiera nell’effettuare le pratiche relative ai do­cumenti e l’evidente scarsa collaborazione dell’autista ritardarono la partenza. Stava facendosi buio e scende­va una fitta nebbia quando lasciarono Hospitalet. Tre­mando di freddo, nonostante si fossero imbottiti di giornali e stessero stretti nella vettura, cercarono invano di distrarre il Padre. Invece fu lui che, quando passaro­no per Tarascona, fece loro un divertente commento sul simpatico personaggio di Daudet, il famoso Tartarino, coraggioso cacciatore di leoni237.

Dormirono all’Hotel Centrale di St. Gaudens e, la mattina successiva, 11 dicembre, si strinsero di nuovo nella Citroen. Arrivarono a Lourdes molto presto. Tutto era chiuso, eccetto la cripta della basilica. Il sacerdote che ricevette don Josemarìa in sacrestia, col quale questi si capì in latino, mostrò una certa diffidenza, vedendolo così mal vestito. Il Padre chiese a Pedro di servirgli la Messa, poiché l’avrebbe celebrata per le intenzioni del padre di lui, che si trovava in una difficile situazione po­litica ed era lontano dalla pratica religiosa. Pedro seguì la Messa con emozione: “L’impressione che lasciò per sempre in me questa manifestazione di zelo sacerdotale e di affetto del nostro Fondatore verso la mia famiglia ha sicuramente contribuito a far sì che altri ricordi di quella sua prima Messa a Lourdes si siano cancellati dalla mia memoria”238.

Il Padre celebrò sul secondo altare laterale di destra, vicino alla porta di entrata della cripta. Poi si sedettero218

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a far colazione in un bar, tranquillamente, come se non avessero premura. Recitarono una parte di rosario alla Grotta. Questa visita a Lourdes era di ringraziamento per la grande famiglia dell’Opera, per i suoi membri e per coloro che le erano uniti. “Ricordava tutti coloro che erano rimasti nella zona rossa, uno per uno, e pen­sava, uno per uno, a tutti quelli che avremmo dovuto localizzare quando fossimo arrivati nell’altra zona”, scrive Juan Jiménez Vargas239.

Arrivarono a San Juan de Luz alle sei di sera. Qui Jo­sé Maria Albareda si fermò con suo fratello. Gli altri at­traversarono, ormai di notte, il ponte internazionale di Fuenterrabìa.

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NOTE AL CAPITOLO X

1 Su questo e sui particolari seguenti, cfr Juan Jiménez Vargas, RHF, T- 04152-III, pp. 154 e ss. Fino ad allora aveva usato la tuta blu di Chiqui, con cui era uscito dalla Residenza di Ferraz il 20 luglio 1936; cfr Lettera a Maria Dolores Fisac Sema, in EF-370813-1.Don Josemaria aveva con sé anche alcuni biglietti da visita intestati a “José Escribà Albàs - Intendente del Consolato dell’Honduras - Madrid”.2 La zona repubblicana poteva contare di nuovo su un esercito, costituito da volontari e da regolari. Il Governo della Repubblica, nel quale aveva sempre maggiore influenza il partito comunista, provvide a regolarizzare le milizie e a creare con nuove reclute una forza militare, chiamata Esercito Popolare, posta sotto il comando supremo del Ministero della Guerra. I co­munisti riuscirono a dominare il nuovo apparato militare, soprattutto oc­cupando i vertici del Commissariato Generale della Guerra, creato per esercitare un controllo politico-sociale sulle forze armate per mezzo di commissari politici, ufficialmente chiamati commissari delegati. Sull’Eserci­to Repubblicano, cfr Ramón Salas Larrazàbal, Historia del Ejército Copu­lar de la Repùblica, voi. I e II, Madrid 1973. Cfr pure Michael Alpert, El Ejército Republicano en la guerra civil, Madrid 1986, soprattutto il cap. 5, Los militares profesionales del ejército republicano, pp. 93 e ss., e il cap. 8, Los comunistas, pp. 219 e ss.; Rafael Casas de la Vega, Ejército Nacional y Ejército Popular de la Repùblica, in Miguel Alonso Baquer, op. cit., pp. 183-231; e Burnet Bolloten, op. cit., pp. 247-259 e 439-443 e ss.3 La stanza dava sulla strada. Non aveva letti, ma solo materassi per terra. Che fosse una camera lo si deduce anche da una ricevuta relativa al mese di settembre: “Ho ricevuto dal sig. José Escribà la somma di settanta pesetas, importo corrispondente al mese in corso, per la camera del mio apparta­mento al quarto piano a sinistra, in via Ayala n. 67 - Madrid, 13 settembre 1937 - Juan Zafra. Diconsi 70 pesetas”. Nella ricevuta del mese di ottobre si dice più chiaramente: “ ...per una camera che occupa nel mio apparta­mento in via Ayala 67, piano quarto a sinistra”. Cfr RHF, D-05201.

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4 Si trattava di una piccola riproduzione di una Addolorata di G.B. Salvi, pittore italiano del XVII secolo, noto come il Sassoferrato. Anni dopo, quando don Josemarìa lasciò Madrid, rimase al fratello Santiago (cfr Alvaro del Portillo, Sum. 889; Joaquìn Alonso Pacheco, Sum. 4636).5 Cfr Juan Jiménez Vargas, RHF, T-04152-III, pp. 118 e 121-123. Il docu­mento che possedeva Juan Jiménez Vargas era un certificato del’incaricato del Consolato del Panama in Spagna, dal quale risultava che “Ricardo Escribà Albàs è Responsabile Acquisti nella Sezione Approvvigionamenti di questo Consolato”.6 Cfr Lettera ai suoi figli di Valencia, in EF-370905-1. Nelle sue lettere di questi mesi, come pure in quelle di Isidoro, saltano agli occhi la precisione, l’ordine e la puntualità della contabilità che si riferiva all’Opera. Così, per esempio, nella Lettera ai suoi figli di Madrid, in EF-370725-5, si rivolse a Isidoro Zorzano: “Oggi avete inviato una peseta in meno, 55”. La precisio­ne contabile serviva a vivere bene la povertà. Dovevano far fronte alla fame e affrontare le prevedibili spese per il viaggio all’estero, che senza dubbio sarebbero state elevate. Il Fondatore tracciò loro una regola pratica a cui attenersi: “Adeguiamo le spese alla precaria situazione. Alla guerra come alla guerra” (Lettera ai suoi figli di Madrid, in EF-370704-1). Non era grettezza. Alcuni giorni dopo scrisse ai suoi figli di Madrid: “Spendete quanto è necessario per le vostre necessità personali, senza scrupoli” (EF- 370710-1). Infine, l’ordine nel tenere i conti consentiva di distinguere le spese di ognuno, in particolare quelle dell’Opera e quelle della famiglia Escrivà, come era giusto fare: “Fate il favore - scriveva a quel tempo - di inviarmi un bilancio della nostra situazione economica, il più dettagliato possibile. E chiaro che tutte le spese del piccolo, com’è logico, devono esse­re a carico di mia madre, senza pesare neppure per un centesimo sull’Ope­ra. Fate anche una nota, dettagliando le uscite mensili alle quali ci dobbia­mo attenere finché durerà questa situazione. Fate leggere queste righe a zia Carmen” (Lettera a Isidoro Zorzano Ledesma, in EF-370630-1).7 Come quasi tutto ciò che accadde durante la guerra civile, fu fonte di polemiche. Cfr Gonzalo Redondo, Historia de la..., Voi. II, op. cit., pp. 343-353.8 Vicente Càrcel Orti, La Gran Persecución. Espana, 1931-1939, Madrid 2000, pp. 126-146.9 La rivoluzione del luglio 1936 aveva rinchiuso la Chiesa nelle catacom­be. Unica eccezione, nella zona repubblicana, erano i Paesi Baschi dove, grazie all’autonomia e alla popolazione per la stragrande maggioranza cattolica, furono mantenuti la pratica della religione e il culto pubblico nelle chiese (cfr Fernando de Meer Lecha-Marzo, El Partido Nacionalista Vasco..., op. cit.).Il 9 gennaio 1937 il ministro Irujo presentò al Consiglio dei Ministri della Repubblica una memoria datata 7 gennaio, per convincere i colleghi del Governo del danno che la persecuzione religiosa aveva causato alla Re­pubblica. Le frasi con cui iniziava il documento bastano a delineare la portata dei guasti e le responsabilità dei governanti repubblicani: “La

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pubblica opinione del mondo civile osserva con sbalordimento e repulsio­ne la condotta del Governo della Repubblica, che non ha impedito i de­precati atti di violenza e che consente che proseguano nelle forme e nei termini ora esposti. L’ondata rivoluzionaria può essere stata considerata cieca, travolgente e incontrollabile all’inizio. Ora, la sistematica distruzio­ne di templi, altari e oggetti di culto non è più un’azione incontrollata” (cfr Vicente Càrcel Orti, La persecución religiosa..., op. cit., pp. 286-287). Il Governo di Largo Caballero aveva rifiutato le proposte di libertà religiosa elaborate da Irujo. Nel Consiglio dei Ministri del Governo Negrfn, il 31 lu­glio 1937, Irujo presentò di nuovo un progetto di decreto, che fu respinto. L’unico successo di Irujo in questo campo venne un anno più tardi, quan­do Negrfn introdusse in una dichiarazione programmatica, resa pubblica il 30 aprile 1938, un’allusione alla volontà del Governo di rispettare la li­bertà di coscienza e di assicurare il libero esercizio delle credenze e prati­che religiose, dichiarazione d’intenti che purtroppo servì a poco nella pra­tica. Irujo si dimise, per altri motivi, nell’agosto dello stesso anno. Cfr Burnet Bolloten, op. cit., pp. 784-785, 951-952 e 918; Manuel de Irujo, Memorias I y II. Un vasco en el Ministerio de Justicia, Buenos Aires 1976 e 1978; e A. de Lizarra [Andrés Maria de Irujo], Los vascos en la Republi- ca Espanola. Contribución a la historia de la guerra civil 1936-1939, Bue­nos Aires 1944, pp. 155-159 e 172-197.10 Al massimo si potè tentare la restaurazione del culto cattolico in alcuni luoghi dove i comunisti avevano meno peso, come nella Catalogna, tenta­tivo peraltro circoscritto (cfr Josep Maria Solé i Sabaté, Las represiones, in Stanley G. Payne e Javier Tusell, op. cit., p. 595; Burnet Bolloten, op. cit., passim).11 Sul cambiamento di ritmo nella persecuzione, Javier Cervera rileva che, mentre i sacerdoti erano il gruppo più numeroso (18,11%) tra gli assassi­nati nelle passeggiate (cfr cap. IX, nota 33), i chierici accusati di tradimen­to davanti ai Tribunali del Popolo di Madrid durante tutta la guerra furo­no PI % sul totale dei processati (fra 12 e 13 mila) (op. cit., pp. 76 e 155). Ha documentato che “dei sacerdoti giudicati da Tribunali del Popolo, poco più del 25% furono ritenuti nemici del regime” (op. cit., p. 155) e gli altri assolti; e, inoltre, che “le pratiche religiose (...) erano considerate un segno di ostilità verso la Repubblica” (ibidem, p. 191) e il semplice pos­sesso di libri religiosi un segno di tradimento che portava alla detenzione (ibidem, pp. 179-180). Quanto all’esercizio clandestino del ministero sa­cerdotale, si veda il capitolo Madrid, una iglesia de catacumbas, in José Luis Alfaya Camacho, op. cit., pp. 119-193. Riprova dei rischi e dei peri­coli connessi con le pratiche religiose è il timore del negoziante che ven­dette l’immagine della Vergine a don Josemarìa, e quanto racconta Tomàs Alvira, che vide arrestare una persona “perché le trovarono addosso una medaglia della Vergine” (RHF, T-04373, p. 2). Tutto ciò accadeva ancora durante l’estate e l’autunno 1937.12 Cfr Juan Jiménez Vargas, RHF, T-04152-III, p. 126.13 Cfr Antonio Vàzquez, Tomàs Alvira, Milano 1999, p. 72.

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14 Cfr Tomàs Alvira, RHF, T-04373, p. 1; Juan Jiménez Vargas, RHF, T- 04152-III, p. 125.15 Cfr Recaredo Ventosa, Un santo per amico..., op. cit., p. 355; Juan Jiménez Vargas, RHF, T-04152-III, p. 128; Santiago Escrivà de Balaguer, Sum. 7344; Àlvaro del Portillo, Sum. 889.16 Cfr Àlvaro del Portillo, Sum. 901.17 Cfr Lettera di Domingo Diaz-Ambrona ad Àlvaro del Portillo, del 9-1- 1992, riportata in Àlvaro del Portillo, Intervista sul Fondatore dell3Opus Dei, Milano 1992, pp. 30-32.18 Cfr Juan Jiménez Vargas, RHF, T-04152-III, p. 121 (Juan era solito pranzare nella pensione di José Maria Albareda); Enrique Gutiérrez Rios, José Maria Albareda. Una època de la cultura espanola, Madrid 1970, p. 109. Questa decisione era frutto dell’intensa preghiera del Fondatore: “Di’ a José Maria Albareda che mi ricordo di lui in modo speciale ogni giorno” (EF-370701-3).19 Lettera ai suoi figli di Valencia, in EF-370910-1. Con l’espressione le “classiche abitudini”, si riferiva all’amministrazione di battesimi e alla ce­lebrazione della Messa.20 Cfr Lettera ai suoi figli di Valencia, in EF-370406-1. È stato già detto che Àlvaro, catturato dai miliziani in una dipendenza dell’Ambasciata della Finlandia, andò a finire nel carcere di Sant’Antonio. C’era là una guardia soprannominata Petrov, che un giorno gli mise la pistola alla tem­pia e gli disse che avrebbe benissimo potuto ucciderlo all’istante, poiché sicuramente era un prete: per Petrov gli occhiali di Àlvaro dovevano essere un segno inequivocabile di intellettualità ecclesiastica (cfr Àlvaro del Por­tillo, Sum. 884). Petrov (o Petrof) era il soprannome di Santiago del Amo (cfr Javier Cervera Gii, op. cit., p. 80).21 Lettera di Isidoro a Maria Dolores Fisac, 8-IX-1937 (IZL D-1213, 265).22 Cfr Ricardo Fernàndez Vallespfn, RHF, T-00162, p. 37.23 Lettera di Isidoro a Maria Dolores Fisac, 21-Vili-1937 (IZL D-1213, 254); e Lettera ai suoi figli di Madrid, in EF-370725-5.24 “Questo è il paradiso degli scarafaggi - scriveva il Padre per divertire i valenziani -: ce ne sono di grandi, solenni e lucidi come uno scarabeo sacro dell’Egitto; altri sono di grandezza diversa, dalla dimensione di una punta di spillo in su. E che armonia di colori! Una vera lode al Creatore: bianco, biondo-platino, tabacco, oro, bruno, nero. Capirete che... ci diver­tiamo molto” (EF-370701-2; cfr Lettere a Pedro Casciaro Rarmrez, in EF- 370727-3; a Isidoro Zorzano, in EF-370420-1; ecc.). Un’altra volta scris­se: “Oggi, mentre Eduardico apriva un libro, apparve una magnifica cimi­ce. Meno male che gli scarafaggi non sono del tutto soli” (Lettera ai suoi figli di Valencia, in EF-370725-3).25 Cfr Juan Jiménez Vargas, RHF, T-04152-III, p. 119.26 Lettera ai suoi figli di Valencia, in EF-370725-3. Circa lo stimolo di ori­nare, conseguenza della lieve forma di diabete di cui probabilmente già

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soffriva nel 1936, scrive mons. Àlvaro del Portillo che un giorno che si trovava in via Serrano e sentì lo stimolo, si recò alla casa di Isidoro Zorza­no, che abitava nei pressi, e bussò alla porta; ma quando la madre di Isi­doro lo vide fu tale lo spavento che la prese al pensiero del pericolo che correva nell5ospitare un sacerdote, che gli chiuse la porta in faccia senza lasciarlo entrare. Un’altra volta, in analoga situazione, andò a casa di Alejandro Guzmàn (cfr Sum. 889, 890).27 Santiago Escrivà de Balaguer, Sum. 7326; e RHF, T-07921, p. 19.28 Juan Jiménez Vargas, RHF, T-04152-III, p. 139.29 Ibidem.30 Santiago Escrivà de Balaguer, RHF, T-07921, p. 20.31 La testimonianza di Jiménez Vargas, molto dettagliata su altri punti, su questo si attiene a quanto narrato da Santiago Escrivà e scrive dicendo che le due signorine “non sono più ricomparse. E non ci fu conferma della no­tizia” (RHF, T-04152-III, p. 69). Don Josemarìa, come si vedrà, ripeteva che il pover’uomo era stato impiccato davanti alla casa di via Dottor Càr- celes, dove abitava la madre, quasi a suggerire che la madre e la sorella non potevano non saperlo; questo accadde probabilmente in agosto.32 Lettera ai suoi figli di Valencia, in EF-370918-1.33 Cammino, n. 743.34 Lettera ai suoi figli di Valencia, in EF-370918-1.35 Lettera 31-V-1943, n. 45.36 Javier Echevarrìa, Sum. 2418; e Àlvaro del Portillo, Sum. 877.37 Lettera a Maria Dolores Fisac, in EF-370919-1.38 Cfr Antonio Vàzquez Galiano, op. cit., p. 77.39 Cfr Tomàs Alvira, RHF, T-04373, p. 2; Joaquìn Alonso Pacheco, Sum. 4636.40 Juan Jiménez Vargas, RHF, T-04152-III, p. 128.41 Ottimista come sempre, egli sperava di riunire da 16 a 18 persone; cfr Lettera ai suoi figli di Valencia, in EF-3 70924-1. Isidoro si era messo in contatto con Hermógenes, per incarico di don Josemarìa, anche per accer­tare la sorte di alcuni documenti che don Lino Vea-Murguia non era riu­scito a depositare in banca; la rivoluzione e l’assassinio di don Lino, il 16 agosto 1936, ne avevano fatto perdere le tracce (cfr Lettera a Isidoro Zor­zano, in EF-370828-1; Lettera di Isidoro ai rifugiati nella Legazione del­l’Honduras del 16-VIII-1937, in IZL D-1213, 251).Da quanto scrive Isidoro (“Zia Carmen invia ai nipoti alcune ciambelle fatte da Hermógenes e da lei stessa” - Lettera ai rifugiati nella Legazione dell’Honduras, del 31-V-1937, in IZL D-1213, 180), Hermógenes servì da collegamento per riunire coloro che parteciparono agli esercizi.42 Lettera ai suoi figli di Valencia, in EF-370918-1.

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43 Le religiose assassinate, tutte identificate, furono 283; cfr Vicente Càr- cel Orti, La persecución religiosa..., op. cit., pp. 238-239.44 Cfr Javier Suàrez Guanes, RHF, T-05399, p. 36. La donna si chiamava Maria Teresa Villanueva Labayen. Figlia di Miguel Villanueva, che era stato Ministro al tempo della monarchia, aveva conosciuto il Fondatore nel “Patronato de Enfermos”. Nel 1931 era entrata nelle Gerolamine del- FAdorazione e si era trasferita a Gijón. Tornata a Madrid durante la rivo­luzione dell’ottobre 1934, durante la guerra civile rimase nella capitale aiutando i cattolici, a rischio della vita e della salute. Morì nel 1942. Se ne seppe l’identità perché il Padre la rivelò in seguito a un nipote di Maria Teresa, un diplomatico che negli anni cinquanta risiedeva a Roma.45 Cfr Àlvaro del Portillo, Sum. 889. Sulle attività religiose che si svolgeva­no nell’appartamento di via Hermosilla 12, divenuto noto con il nome di “cattedrale di Hermosilla”, cfr Antonio Montero, op. cit., p. 104; José Luis Alfaya Camacho, op. cit., pp. 139-143; Javier Cervera Gii, op. cit., pp. 191 e 371.46 Cfr Lettera ai suoi figli di Burgos da Àvila, in EF-380813-1.47 Ascensión Quiroga Barrena, RHF, T-04388, p. 1.48 Ibidem, p. 2; cfr Joaqufn Alonso Pacheco, Sum. 4638.49 Cfr Juan Jiménez Vargas, RHF, T-04152-III, p. 125.50 “Un’illuminazione tua, Gesù - scrisse in una Caterina dell’11-11-193 8 -; mi hai fatto vedere con chiarezza che non fu una mia intuizione, ma una tua illuminazione, ciò che dissi durante la rivoluzione a una religiosa di­spersa, che la spinse a confessarsi con me: a confessarsi e a pentirsi di quello che io (peccatore, peccatore) in apparenza avevo indovinato” (A p­punti, n. 1482).51 Lettera a Isidoro Zorzano, in EF-370805-2. Le parole in corsivo tradu­cono il detto spagnolo alma y calma, costruito su un’assonanza difficil­mente ricostruibile in italiano (NdC).52 Lettera ai suoi figli di Valencia, in EF-370505-4.53 Lettera ai suoi figli di Valencia, in EF-370725-3.54 Lettera ai suoi figli di Valencia, in EF-3 70825-1.55 Lettera ai suoi figli di Valencia, in EF-370822-2.56 Lettera a Manuel Sainz de los Terreros, in EF-370825-257 Lettera ai suoi figli di Madrid, in EF-370505-5.58 Àlvaro del Portillo, Sum. 907; cfr pure Juan Jiménez Vargas, RHF, T- 04152-III, p. 134.59 Lettera ai suoi figli di Valencia, in EF-370918-1.60 Cfr RHF, D-15068.61 Cfr RHF, D-15069.62 Nella lettera ai rifugiati nella Legazione dell’Honduras del 21-VIII-1937 (IZL, D-1213, 255) Isidoro, parlando dei documenti dei quali avrebbe

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avuto bisogno il Fondatore per uscire dalla Legazione e per circolare con una certa sicurezza, scrisse: “Alvira mi ha detto che sono ufficialmente an­nullati i certificati di lavoro dei praticanti avvocati, perciò è necessario procurarsi un altro certificato”. Isidoro usa parole quasi identiche nel suo diario, nella stessa data (cfr IZL D-1122).63 Cfr RHF, D-15067; e Lettera ai suoi figli di Madrid, in EF-370723-1.64 RHF, D-15067. Il secondo certificato era stato chiesto per ottenere che il comitato di controllo della casa di via Caracas gli consentisse di vivere con la madre; cosa che non fu possibile, perché si oppose Àlvaro Gonzàlez Valdés, il proprietario dell’appartamento (cfr Lettere a Isidoro Zorzano, in EF-370820-1 ed EF-370823-1).65 Cfr RHF, D-15070.66 Cfr RHF, D-15071. Questo documento contiene, per l’educazione dell’i­scritto, un paio di colonne di massime e sentenze programmatiche, quali per esempio: “La tua emancipazione dev’essere opera tua”; “Non umiliar­ti di fronte a nulla e a nessuno”; “La tua patria è il mondo. La tua fami­glia, l’Umanità”; ecc. È molto probabile che don Josemaria abbia letto queste ardite, ambigue ed enfatiche sentenze per trarne suggerimenti op­pure per utilizzarle nel senso contrario. Vi erano anche altre massime marxiste e di incitamento alla lotta di classe: impossibile cambiarne il senso.67 Cfr Àlvaro del Portillo, Sum. 903; Juan Jiménez Vargas, RHF, T-04152- III, p. 112.68 È storicamente giusto avvertire che non tutti coloro che erano d’accordo con il governo della Repubblica erano nemici della Chiesa. È importante tenere presente il grande turbamento che l’insurrezione militare implicò per la vita della Spagna, in particolare per la parte del Paese dove non ebbe successo, poiché scatenò proprio ciò che voleva evitare: una rivoluzione anarchica e un’altra socialista-marxista. Pertanto, con la scomparsa di fatto della Repubblica nell’agosto 1936, ai repubblicani convinti, parecchi dei quali agnostici ma non anticattolici, e che intendevano difendere lo Stato, vennero a mancare le risorse militari e giudiziarie per difendere quel­lo che consideravano un regime improntato alla libertà di coscienza. Che il loro destino fosse segnato, nessuno lo dubita. Ma non erano anticattolici. Più problematica fu la situazione personale e di coscienza dei nazionalisti baschi o del piccolo partito democratico-cristiano di Catalogna (Unione Democratica della Catalogna) di Carrasco y Formiguera.69 Cfr Àlvaro del Portillo, Sum. 903.70 Nei primi giorni del maggio 1937 le strade di Barcellona furono teatro di un’autentica guerra intestina fra le milizie di diverse fazioni politiche. Le perdite ascesero a 400 morti e un migliaio di feriti. In queste lotte per il potere furono coinvolti socialisti e comunisti, catalanisti e libertari, stalini­sti e trotzkisti. Per ristabilire l’ordine il Governo dovette inviare da Valen­cia forze aeree, una colonna motorizzata e due cacciatorpediniere con truppe da sbarco. A seguito di questi fatti, il Governo di Largo Caballero

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cadde e Negrin ne formò uno nuovo, dal quale furono esclusi anarchici, li­bertari e antistalinisti. A quel punto riprese la repressione politica e reli­giosa secondo metodi bolscevichi, con le ceke di tortura. Anarchici e co­munisti eterodossi furono sistematicamente ricercati ed eliminati; seguen­do gli ordini di Stalin e le consegne bolsceviche, essi furono presentati al­l’opinione pubblica e al Governo come elementi ostili e infiltrati da agenti sovversivi al servizio dei franchisti. Cfr Burnet Bulloten, op. cit., pp. 525- 730; Ramon e Jesus Salas Larazàbal, Historia General de la..., op. cit., pp. 225-231 e 246.71 Juan Jiménez Vargas (RHF, T-04152-III, p. 129) colloca erroneamente il fatto “alla fine dell’estate 1937”.72 Tomàs Alvira racconta, a questo proposito: “Nel Paseo de la Castellana esisteva, ed esiste tuttora, un edificio delle assicurazioni che, avendo sulla sommità un grande orologio, era conosciuto come ‘Casa dell’orologio’. Questo edificio fu requisito dalla CNT per il suo Sindacato Insegnanti. La CNT non aveva a Madrid un Sindacato per gli insegnanti e un gruppo di professori si mise a organizzarlo. Ad esso si iscrissero in gran numero do­centi dalle idee politiche di destra e, fra essi, un gran numero di sacerdoti, religiosi e religiose, professori di istituti privati. Era un modo per ottenere documenti. Del direttivo faceva parte il sacerdote Manuel Mindàn, che dopo la guerra fu docente di filosofia all’istituto Ramiro de Maeztu; era aragonese ed era stato in seminario con il Padre. Io ero andato alcune volte nella Casa dell’orologio, per incontrare conoscenti, per motivi pro­fessionali” (RHF, T-04373). Cfr Juan Jiménez Vargas, RHF, T-04152-III, pp. 129-130 e 135-138. Cfr pure Manuel Mindàn Manero, Testigo de no- venta anos de Historia. Conversaciones con un amigo en el ùltimo recodo del camino, Saragozza 1995; nel cap. XV, pp. 339-350, vi si racconta la storia della fondazione e del funzionamento del Sindacato Insegnanti della CNT.Javier Cervera racconta che fin dall’inizio delle ostilità la CNT cercò di re­clutare iscritti a Madrid, per acquisire un peso politico che non aveva (fu continua la sua lotta con la UGT, finché nel 1938 non firmarono un patto). Qualcosa di simile si può dedurre dai dati riportati da Burnet Bol­loten, op. cit., o da José Luis Alfaya Camacho (op. cit., pp. 155-158), con testimonianze prese dalla bibliografia e da persone singole.“L’obiettivo di raggiungere una posizione di forza portò come conseguen­za all’allentamento, se non all’eliminazione, di qualsiasi controllo sulla lealtà dei nuovi iscritti. Il fatto è che non abbiamo individuato casi di per­sone non fedeli, iscritte o infiltrate in altre organizzazioni del Fronte Po­polare, se non in quella anarchica. Questa situazione avrebbe motivato più di uno scontro in seno alla Giunta di Difesa di Madrid tra i comunisti (...) e i rappresentanti anarchici, ai quali diverse volte fu fatta rilevare la pericolosità della situazione, che essi si limitavano ripetutamente a negare. Tuttavia, in contrasto con questo atteggiamento, la stessa CNT avrebbe creato nel proprio Comitato di Difesa una Sezione di Statistica, diretta da Vicente Santamaria Medina, che era anche a capo del Servizio di Contro- spionaggio dei Servizi Speciali del Ministero della Guerra. A questa sezio­

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ne del Comitato fu assegnato il compito di verificare la provenienza dei nuovi iscritti all’organizzazione sindacale, per identificare in seno ad essa coloro che erano ostili o sospetti di esserlo” (Javier Cervera Gii, op. cit., pp. 225-226).73 Lettera di Isidoro ai rifugiati nella Legazione dell’Honduras, 4-VI-1937 (IZL, D-1213, 182). José Maria Albareda, per ottenere il documento di la­voro di Carmen Escrivà, si servì delle amicizie di Tomàs Alvira, che rac­conta : “Quando mi dissero della situazione della Nonna e di zia Carmen, andai a chiedere un certificato in cui si dichiarasse che zia Carmen era im­piegata amministrativa nel Sindacato Insegnanti. Dovetti insistere un po’, ma alla fine, considerato il motivo per cui lo richiedevo, me lo diedero. In esso risultava che era dattilografa nella Sezione della Scuola Elementare (...). Fu utile perché, pochi giorni dopo, andarono da loro i miliziani, in­tenzionati a portarle a Valencia, ma, visto il certificato di lavoro di zia Carmen, le lasciarono stare” (RHF, T-04373).74 Lettera di Isidoro ai rifugiati nella Legazione dell’Honduras, 4-VI-1937 (IZL, D-1213, 182).75 Lettera a Isidoro Zorzano, in EF-370624-2.76 José Maria Albareda cercò, in un primo momento, di ottenere il libretto studentesco per Santiago. La sua impressione circa un esito favorevole, a quanto scrive Isidoro, “non è per nulla positiva, dato che occorrono avalli a garanzia delle persone degli studenti, avalli che sono gestiti dai ragazzi della FUE” (Lettera ai rifugiati nella Legazione dell’Honduras, del 7-VI- 1937, in IZL D-1213, 187). Alla fine, José Maria Albareda ne diede l’in­carico a Tomàs Alvira, il quale ce la fece, come si legge nella sua testimo­nianza: “Ottenni anche un libretto per zio Santiago dallo stesso Sindacato della C.N.T.; disponeva così di un documento valido per circolare” (RHF, T-04373).77 II 18 luglio il Padre scrisse ai suoi figli di Valencia: “Ieri pomeriggio, con la gioia che potete immaginarvi, zio Santi è andato a vivere con la nonna. Erano non so quanti mesi che non stavano insieme. Anch’io sono molto contento: perché sono più libero” (EF-370718-1). Cfr pure Lettera di Isidoro ai rifugiati nel Consolato dell’Honduras, del 20-VII-1937 (IZL, D-1213, 226). Santiago Escrivà de Balaguer afferma nella sua testimo­nianza: “Il primo a uscire dalla Legazione dell’Honduras sono stato io. Tomàs Alvira mi ottenne un libretto personale della CNT e un altro di un Ateneo Libertario. Sono andato a vivere in via Caracas con mia madre e Carmen. Con il mio libretto potevo andare spesso al Consolato a far loro visita e a portare cose. Entravo per la porta di servizio e non ho mai avuto difficoltà con i miliziani che stavano di guardia” (RHF, T-07921). Tutto ciò fu il frutto della cocciutaggine e della preghiera del Padre, e dell’obbe­dienza dei suoi figli, con i quali egli si congratulò: “Magnifica soluzione quella di zio Santi. Che bella cosa è ubbidire! Quando è stata seguita alla lettera la procedura indicata dal nonno, tutto si è risolto. Grazie al signor Emanuele” (Lettera ai suoi figli di Madrid, in EF-370714-3).

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78 Lettera a Pedro Casciaro, in EF-370727-3.79 II primo riferimento ai tentativi di ottenere libretti personali per don Jo- semaria e per Juan Jiménez Vargas è nella corrispondenza di Isidoro (Let­tera ai rifugiati nella Legazione dell’Honduras, 13-V-1937, IZL D-1213, 151): “Sindacato: Albareda sta occupandosi dei libretti sindacali; vorreb­be sapere se in quello di Ricardo è opportuno che figuri anch’egli come avvocato oppure come impiegato”. Il 17 giugno (EF-370617-1) il Fonda­tore scrisse a Valencia: “Se Eugenio manda loro un salvacondotto per an­dare a Valencia, dato che i due hanno i documenti in regola (libretto sin­dacale e carta di lavoro con fotografia), José e Ricardo verranno quanto prima a Valencia a prestare i loro servizi alla patria” (José e Ricardo sono il Padre e Juan).80 Cfr Enrique Gutiérrez Rios, op. cit., p. 108.81 Cfr Àlvaro del Portillo, Sum. 908; Juan Jiménez Vargas, RHF, T-04152-III, p. 136.82 Alla vigilia della partenza per Barcellona, Manolo Sainz de los Terreros, grazie alla generosità dei suoi vicini in via Sagasta, la famiglia Corchado, ottenne 3.000 pesetas, una somma ingente, pari allora più o meno alla paga annuale di un operaio non specializzato. Sull’aiuto prestato in questa e in precedenti occasioni a persone dell’Opera, cfr Juan Jiménez Vargas, ibidem, p. 140; e pure IZL D-01051 e D-01199.Sarebbe troppo lungo esaminare in dettaglio tutti i passi fatti per ottenere il denaro necessario a coprire le spese del passaggio nella zona nazionale. In linea di massima, si deve tenere presente che tanto José Maria Albareda quanto Tomàs Alvira, che erano stipendiati dallo Stato, portarono i propri risparmi. Gli altri (Juan Jiménez Vargas, Manolo Sainz de los Terreros, Pedro Casciaro, Francisco Botella e Miguel Fisac) furono aiutati dalle pro­prie famiglie e dagli amici, sia a Madrid che a Valencia e a Daimiel. Inol­tre, rimaneva un residuo del capitale destinato, da prima dell’inizio della guerra, all’apertura della nuova Residenza di via Ferraz 16 e all’ammorta­mento delle prime rate del pagamento dell’edificio, che non era stato uti­lizzato per lo scoppio della guerra. Furono queste le fonti di denaro, a cui si aggiunsero i contributi regolari o sporadici di amici e conoscenti fino alla partenza verso i Pirenei. Mancava ancora una somma di denaro per pagare le guide della spedizione, che venne versata più avanti, dopo la fine della guerra.83 José Maria Albareda ottenne il salvacondotto chiedendolo direttamente al Sottosegretario agli Interni, uomo dal carattere duro, docente di Agra­ria e suo compagno di scuola, che non vedeva da prima della guerra, Bi- biano Fernàndez-Osorio. Tuttavia non era privo di cuore, visto che com­prese le ragioni che costringevano Albareda ad andare a Barcellona a tro­vare sua madre, che aveva perduto il marito e un figlio, assassinati dai mi­liziani. Altre credenziali invece erano falsificate, come quella di Manolo Sainz de los Terreros, che fu scritta su carta intestata del direttore del car­cere di Sant’Antonio, per certificare che doveva fare un viaggio a Barcello­

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na per necessità di servizio (Manolo lavorava come funzionario nella pri­gione). Cfr Juan Jiménez Vargas, RHF, T-04152-III, pp. 137-138.84 Lettera ai suoi figli di Valencia, in EF-371001-1.85 II documento originale è in RHF, D-15072.86 Cfr AGP, P03 1981, p. 367.87 Cfr Àlvaro del Portillo, Sum. 901. Il 15 ottobre Isidoro avvisò quelli di Valencia della morte del signor Ramon: “Ieri sono andato a salutare la fa­miglia di Alvarito proprio nel momento critico della morte di suo padre. Lui non può uscire dalla casa dove si trova sfollato, poiché spera, restan­do lì, di potere un giorno seguire il nonno” (Lettera a Pedro Casciaro e a Francisco Botella, 15-X-1937, RHF, D-1213, 270). La “casa” è il Conso­lato. Cfr pure Lettera a Maria Dolores Fisac, 15-X-1937; e Lettera al Fon­datore, 17-X-1937 (IZL, D-1213, 271 e 273), in cui avvisa il Padre della morte del signor Ramon.88 Lettera di Isidoro a Maria Dolores Fisac, 9-X-1937 (IZL, D-1213, 268).89 Juan Jiménez Vargas, RHF, T-04152-III, p. 140; Eugenio Sellés Marti, RHF, T-02012, p. 1.90 “La notizia importante era che il Padre sarebbe arrivato il giorno succes­sivo per proseguire verso Barcellona” (Francisco Botella, RHF, T-00159/1, p. 23). Una sua brevissima lettera spedita da Madrid diceva: “Un saluto per dirti che domani, venerdì, arriveranno a Valencia le mie sorelle. Sempre tuo, Mariano” (Lettera a Francisco Botella, in EF-371007-1).91 Era un reparto che provvedeva all’acquisto, riproduzione e cura di ca­valli e muli per l’esercito.92 Cfr le pagine di introduzione del Diario della traversata dei Pirenei, in cui Juan Jiménez Vargas descrive la sua partenza da Madrid il 6 ottobre, l’arrivo a Valencia e la successiva partenza da Barcellona per raccogliere i valenziani che si unirono alla spedizione. Il racconto del Diario ricominciail 19 novembre 1937 e termina ad Andorra il 10 dicembre. Durante la permanenza nella baronia di Rialp, coloro che accompagnavano il Padre avevano stabilito un turno per raccontare gli avvenimenti del giorno. Il diario fu rielaborato all’arrivo ad Andorra e completato con le brevi note prese durante la marcia.L’anno successivo, ormai a Burgos, il Padre copiò a macchina i fogli ma­noscritti, dando al Diario un titolo: “Verso la libertà”. Trascrivendo il Diario, vi introdusse alcuni chiarimenti o ne soppresse qualche parola. In altri casi, come scrisse a Ricardo Fernàndez Vallespin, fece alcuni ritocchi: “Ho trovato il tempo di dattilografare il diario Verso la libertà. Natural­mente, ho dovuto sopprimere qualche frase troppo pittoresca” (Lettera da Burgos, in EF-381010-3).I fogli manoscritti sono 71, scritti sulle due facciate; la trascrizione a mac­china ne occupa 61. I fogli del Diario saranno qui di seguito citati come fogli, quelli di Verso la libertà come pagine. Entrambi gli originali si tro­vano in RHF, D-15323.

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93 Cfr Lettera a Isidoro Zorzano, da Valencia, in EF-371009-2.94 Per questo episodio seguiamo il diario manoscritto di Juan Jiménez Var­gas, nelle sue prime pagine (RHF, D-15323) e Francisco Botella, RHF, T- 00159/1, p. 25.95 Cfr Àlvaro del Portillo, Sum. 910. Questo sacerdote andava ogni giorno a celebrare la Messa in casa di Eugenio Sellés, dove veniva tenuto il San­tissimo (cfr Eugenio Sellés, RHF, T-02012, p. 2).96 Cfr Juan Jiménez Vargas, RHF, T-04152-III, p. 141.97 Cfr Francisco Botella, RHF, T-00159/1, p. 25.98 Cfr Juan Jiménez Vargas, RHF, T-04152-III, p. 143; Àlvaro del Portillo, Sum. 909. Nella fretta di lasciare Madrid, all’ultimo momento alcuni erano andati nell’appartamento di via Ayala per raccogliere diverse cose, fra cui l’immagine della Madonna acquistata nel negozio di cornici. Sem­brava che il demonio avesse scaricato la sua furia contro l’appartamento. Quando Isidoro e Santiago vi si recarono per prendere l’immagine, videro che un colpo di obice aveva distrutto la facciata e i colpi di mitraglia ave­vano danneggiato tutto. Il quadro della Madonna fu conservato in casa della Nonna. Poi il Padre lo regalò al fratello, che in seguito glielo restituì; fu messo nella stanza di lavoro del Segretario Generale dell’Opera, a Roma, dove abitualmente lavorava il Fondatore (cfr Àlvaro del Portillo, Sum. 889; Juan Jiménez Vargas, RHF, T-04152-III, p. 143; e Lettera a Isi­doro Zorzano, da Barcellona, in EF-371027-1).99 Lettera ai suoi figli di Valencia, in EF-3 70601-1.100 Lettera a Isidoro Zorzano, da Valencia, in EF-371009-2. “Lola” è la signora Dolores; le “chiacchierate con il signor Emanuele” sono i suoi tempi di orazione.101 Cfr Francisco Botella, RHF, T-00159/1, p. 27; Juan Jiménez Vargas, RHF, T-04152-III, p. 145.102 Francisco Botella, RHF, T-00159/1, p. 27.103 Cfr Juan Jiménez Vargas, RHF, T-04152-III, p. 145; Tomàs Alvira, RHF, T-04373, p. 4.104 Su tutto questo, cfr RHF, D-15323 e D-15373; Juan Jiménez Vargas, RHF, T-04152-III, pp. 146-148.105 Ibidem, p. 148.106 Cfr Lettere a Isidoro Zorzano, da Barcellona, in EF-371010-1 e 371012-1.107 EF-371013-1.108 Juan Jiménez Vargas, in Verso la libertà (RHF, D-15323, p. 4), parla di una lettera del Fondatore inviata a Valencia (“la lettera fu ricevuta da Paco, che la portò a Pedro all’uscita dalla caserma”). Nella corrisponden­za del Fondatore non compare però questa lettera. Anche Francisco Botel­la parla di una lettera (“nel pomeriggio riceviamo una lettera del Padre”; cfr RHF, T-00159/1, p. 27).

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Peraltro ci sono parecchi indizi che si trattasse di un telegramma, il che spiega quanto appare nel manoscritto: “Pedro arrivò il 14 a Barcellona con il noto permesso falso”. Solo nel caso di un telegramma può aver rice­vuto subito notizie da Barcellona, tre giorni prima di quelli di Madrid. (La lettera del Padre del 13-X-1937 fu ricevuta a Madrid il giorno 16. Di con­seguenza, Isidoro passò istruzioni a tutti di preparare i documenti per la partenza. Cfr Lettera di Isidoro ai rifugiati nella Legazione dell’Honduras, 16-X-1937, in IZL, D-1213, 272).Un telegramma può inoltre dare ragione del fraintendimento: un testo “te­legrafico”, oltretutto scritto in linguaggio cifrato, ben poteva essere all’o­rigine della decisione pasticciata di disertare dalla caserma a motivo del­l’urgenza del messaggio ricevuto.109 II cambiamento di residenza a Barcellona e altri dettagli della conversa­zione del Padre con Pedro del 14 ottobre sono raccontati in una nota ma­noscritta di Pedro Casciaro (cfr RHF, D-15374).110 Cfr Francisco Botella, RHF, T-00159/1, p. 28. La pena detentiva gli avrebbe precluso qualsiasi promozione, cosa che non avrà di certo turbatoil sonno di Pedro.111 Lettera di Isidoro ai rifugiati nella Legazione dell’Honduras, 21-X- 1937 (IZL, D-1213, 276). La situazione era cambiata dal 13 ottobre (quando il Padre scrisse a Isidoro) al 14 ottobre (quando parlò con Pedro Casciaro a Barcellona).112 Juan Jiménez Vargas, RHF, T-04152-IV, p. 1.113 Ibidem, p. 2; anche T-04152-III, p. 159.114 Lettera a Isidoro Zorzano, da Barcellona, in EF-371020-1.115 Cfr Juan Jiménez Vargas, RHF, T-04152-III, pp. 159-160; Rafaela Ca- ballero Alcausa vedova Cornet, RHF, T-00874; Tomàs Alvira, RHF, T- 04373, p. 4.116 Cfr Joan Marqués i Surinach, La forga de la fe a Catalunya durant la guerra civil (1936-1939), Girona 1987. Si vedano specialmente le testimo­nianze di Mn. Viceng Nolla i Gili, Per carrers i places, pp. 131-145; di Mn. Adolf Pascual i Arrufat, L’Esglesia clandestina, pp. 167-195; e di Mn. Ramon Vila i Pujol, El milicià de Déu, pp. 253-380.117 Cfr Antonio Vàzquez Galiano, op. cit., pp. 83-84.118 Cfr AGP, P03 1981, p. 596.119 Sull’incontro con Pascual Galbe Loshuertos: Juan Jiménez Vargas, RHF, T-04152-III, pp. 161-165; Alvaro del Portillo, PR, p. 1130 e Intervi­sta..., op. cit., pp. 23-24. Cfr anche Antonio Vàzquez Galiano, op. cit., pp. 84-86. La visita di Tomàs Alvira a Pascual Galbe in Tribunale secondo Juan Jiménez Vargas fu il 15 ottobre.120 AGP, P03 1981, p. 597.121 Juan Jiménez Vargas, RHF, T-04152-III, p. 165.122 Cfr AGP, P03 1981, p. 598. Il Fondatore, dichiara mons. Àlvaro del

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Portillo, “pregò sempre per quest’uomo così nobile, che cercò di salvargli la vita. Offrì molti suffragi per la sua anima quando in seguito seppe della sua morte, avvenuta in un incidente automobilistico nel sud della Francia” (Àlvaro del Portillo, PR, p. 1130).123 Cfr Juan Jiménez Vargas, RHF, T-04152-III, p. 169.124 Cfr Francisco Botella, RHF, T-00159/1, p. 28; Juan Jiménez Vargas, RHF, T-04152-III, p. 177; Lettera di Isidoro ai rifugiati nella Legazione dell’Honduras, 29-X-1937 (IZL, D-1213, 280).125 Cfr La Vanguardia, del 24-X-1937.126 Cfr Juan Jiménez Vargas, RHF, T-04152-III, p. 170, e T-04152-IV, p. 2.127 Cfr ibidem, T-04152-III, p. 171.128 Cfr Antonio Vàzquez Galiano, op. cit., pp. 82-83.129 Cfr Juan Jiménez Vargas, RHF, T-04152-III, p. 176. La faccenda dei “biglietti buoni” era di pubblico dominio. Il governo di Burgos aveva elencato attraverso Radio Nazionale le emissioni che sarebbe stato possi­bile cambiare alla fine della guerra (cfr Pedro Casciaro, Al di là dei sogni più audaci, Milano 1995, p. 88; e Lettera di Isidoro ai rifugiati nella Lega­zione dell’Honduras, 15-XI-1937, in IZL, D-1213, 286).130 Cfr Juan Jiménez Vargas, RHF, T-04152-III, p. 178. In conformità con le istruzioni ricevute dal Padre con lettera del 13 ottobre da Barcellona, Isidoro aveva scritto a Lola Fisac che stavano per andare a prendere Mi­guel e condurlo a Madrid. Cfr Lettera di Isidoro a Maria Dolores Fisac, 19-X-1937 (IZL, D-1213, 274). Juan anticipò i tempi e si portò Miguel, con Pedro e Paco, a Barcellona.131 Cfr Francisco Botella, RHF, T-00159/1, p. 29.132 Cfr Juan Jiménez Vargas, RHF, T-04152-III, p. 181; Francisco Botella, RHF, T-00159/1, p. 30.133 Lettera a Isidoro Zorzano, in EF-3 71030-1.134 II Governo repubblicano si trasferì a Barcellona allo scopo di consoli­dare e accrescere la propria autorità in Catalogna, il che dispiacque mol­tissimo alle autorità della Generalitat, cioè della Regione. Peraltro, la limi­tazione dell’autogoverno catalano, la pretesa di un trattamento preferen­ziale da parte delle autorità centrali e le requisizioni degli alloggi non fu­rono le conseguenze più fastidiose del trasferimento: “Il trasferimento del Governo a Barcellona nel novembre 1937 esacerbò le discordie tra auto­rità centrali e regionali in materia di ordine pubblico (...) Ciò che più pesò in tutti gli strati sociali della Catalogna fu il terrore onnipresente del SIM e dei suoi tribunali speciali, come pure dell’apparato poliziesco controllato dai comunisti” (Burnet Bolloten, op. cit., pp. 913-917 e 861). Il SIM era il servizio di controspionaggio dell’Esercito Popolare ed era controllato da Alexander Orlov, nominato da Stalin capo in Spagna dell’NKVD (poi KGB) sovietico. La sua temibile polizia agì con metodi brutali in tutti i settori della zona repubblicana. Cfr ibidem, pp. 897-912.

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135 Cfr Pedro Casciaro, op. cit., pp. 86 ss.; Juan Jiménez Vargas, RHF, T- 04152-III,p. 183.136 Cfr Juan Jiménez Vargas, RHF, T-04152-III, pp. 161 e 183-187; Fran­cisco Botella, RHF, T-00159/1, p. 32.137 Lettera a Isidoro Zorzano, da Barcellona, in EF-371106-1.138 Cfr Francisco Botella, RHF, T-00159/1, p. 32; Pedro Casciaro, op. cit., pp. 88-90.139 Pedro Casciaro, op. cit., pp. 88-89.140 Cfr Juan Jiménez Vargas, RHF, T-04152-III, pp. 184.141 Francisco Botella, RHF, T-00159/1, p. 31.142 Vi si leggeva: “SALVACONDOTTO. Si autorizza JOSE ESCRIBA AL- BESA a effettuare un viaggio a Lérida e ritorno... entro trenta giorni, per risolvere questioni familiari... Madrid, 5 ottobre 1937”; fu aggiunta que­sta dicitura: “per effettuare un viaggio a Lérida e ritorno, Oliana (Lérida) e ritorno. Barcellona e ritorno. Entro trenta giorni per risolvere questioni familiari e commerciali. Madrid, 25 ottobre 1937” (RHF, D-15125).Cfr pure Juan Jiménez Vargas, RHF, T-04152-III, p. 183, e T-04152-IV, p. 3. Le aggiunte rendevano ancor più ambigua l’interpretazione del testo; ci­tare il paese di Oliana, per il quale sarebbero transitati, giustificava la pre­senza in quella zona se avessero dovuto esibire i documenti; aggiungere poi alle motivazioni del viaggio le ragioni “commerciali” forniva una scusa per esibire anche il documento di Intendente del Consolato del­l’Honduras.143 Cfr Francisco Botella, RHF, T-00159/1, p. 32; Juan Jiménez Vargas, RHF, T-04152-III, p. 172.144 Lettera a Maria Dolores Fisac, da Barcellona, in EF-371119-1.145 Cfr Juan Jiménez Vargas, RHF, T-04152-III, pp. 156 e 158.146 Cfr Rafaela Caballero Alcausa RHF, T-Ò0874.147 Cfr Pedro Casciaro, op. cit., pp. 91-93; Francisco Botella, RHF, T- 00159/1, p. 32.148 Cfr Juan Jiménez Vargas, RHF, T-04152-IV, p. 2.149 II passaggio in Francia attraverso i Pirenei, visto con gli occhi di Tomàs Alvira, è descritto nel cap. VI dell’opera, già citata, di Antonio Vàzquez Galiano.150 Esiste un altro racconto particolareggiato di tali vicende, legato alla te­stimonianza di José Maria Albareda, in Enrique Gutiérrez Rios, op. cit., pp. 118-134.151 Cfr Francisco Botella, RHF, T-00159/1, p. 34; Pedro Casciaro, op. cit., p. 96.152 Cfr ibidem, p. 94.153 Cfr Juan Jiménez Vargas, RHF, T-04152-TV, p. 4.154 Lettera a Maria Dolores Fisac, da Barcellona, in EF-371118-1.

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155 Manoscritto allegato al diario della traversata dei Pirenei, Verso la li­bertà, in RHF, D-15323.156 Cfr Pedro Casciaro, op. cit., pag. 96; Juan Jiménez Vargas, RHF, T- 04152-IV, p. 5.157 Cfr Francisco Botella, RHF, T-00159/1, p. 36; Pedro Casciaro, op. cit., pp. 94-115.158 RHF, D-15323.159 La chiesa di Pallerols, per le sue ridotte dimensioni, poteva sembrare una cappella, ma invece era la chiesa parrocchiale, dedicata a Santo Stefa­no. Il nome della località è Pallerols o Pallarols, a seconda della forma ca­talana o castigliana. Nel documento di consacrazione della Cattedrale di Urgel, nell’anno 839, viene citata questa chiesa. L’edificio esistente nel 1937 era a pianta rettangolare ed era stato costruito verso la fine del XVIII secolo, probabilmente ampliando e tagliando le due navate della primitiva chiesa romanica. La casa canonica era in comunicazione con la sacrestia per mezzo di una scala posta dietro il presbiterio (cfr RHF, D-15369).160 L’impressione di Pedro Casciaro fu di trovarsi in “una specie di forno”; Francisco Botella trovò somiglianza “con il forno della casa di campagna di mio nonno” (cfr Pedro Casciaro, op. cit., p. 97; Francisco Botella, RHF, T-00159/1, p. 35).161 II 24 agosto 1934 era giunto a Pallerols, come rettore, don Joan Porta Perucho, ordinato nel 1931 e nominato viceparroco di Peramola. Nel 1977 egli continuava ad aver cura di Pallerols e di altre località vicine, quasi spopolate. Egli stesso ricordava che nel 1934 viveva nella canonica unita alla chiesa; e che nelle vicinanze c’era una scuola elementare con tanto di maestro e alcune case di contadini. La sua parrocchia era compo­sta da 25 famiglie, che abitavano in masserie piuttosto sparpagliate. Il 25 luglio 1936 era stata ancora celebrata solennemente in parrocchia la festa di S. Giacomo, patrono della Spagna. Ma alcuni giorni dopo erano arriva­ti gruppi di miliziani, che avevano bruciato libri parrocchiali e paramenti sacri. Erano poi tornati un mese dopo per distruggere gli altari, le statue e le pale d’altare (cfr RHF, D-05429 e D-15369).162 Cfr Francisco Botella, RHF, T-00159/1, p. 38.163 Ibidem.164 Pedro Casciaro, op. cit., p. 98. Cfr Àlvaro del Portillo, Sum. 913.165 RHF, T-00159/1, p. 38.166 Cfr Àlvaro del Portillo, Sum. 913. Cfr pure Ernesto Julia Diaz, Sum. 4244.16/ Cfr Francisco Botella, RHF, T-00159/1, p. 39; cfr pure Pedro Casciaro, op. cit., p. 99. Uno dei cinque altari della chiesa era dedicato alla Vergine del Rosario. La devozione per la Vergine a Pallerols aveva antiche origini, documentate dagli atti delle visite pastorali (nella relazione della visita del 1575 si dice che “fou visitat lo aitar de Na. Senora, que es de devotio”, cioè senza rendite; e nella visita del 1717 si menziona una Confraternita

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del Rosario esistente a Pallerols). Cfr Atti delle visite pastorali, Reg. 32, foglio 88, Archivio Episcopale di Urgel.Anche l’immagine e l’altare della Vergine del Rosario erano stati bruciati nel 1936. Don Joan Porta non ricordava esattamente l’immagine, solo che era molto simile a quella della Vergine del Rosario di Puig: una statua li­gnea degli inizi del XVII secolo, di poco meno di un metro di altezza, di legno dorato e con una rosa nella mano destra (cfr RHF, D-05429; D- 15369).Nella visita pastorale del 1758 fu annotato sui registri dell’Archivio Epi­scopale di Urgel (Reg. I l i ) : “Pallerols. Altari: oltre all’altare maggiore, detta chiesa parrocchiale ha un’altra cappella, grande quanto la stessa parrocchiale, con il suo altare dedicato alla Vergine del Rosario, cappella decorosamente fornita di ara, croce, candelieri e altri requisiti richiesti” (ibidem). Ancora nel 1980 gli abitanti di Pallerols ricordavano che l’altare della Vergine del Rosario aveva una pala d’altare in cui l’immagine della Madonna era contornata di rose (cfr Juan Jiménez Vargas, RHF, T-04152-IV, p. 7).168 Ibidem.169Pedro Casciaro, op. cit., p. 99.170 AGP, P03 1978, pp. 254-255; e P03 1982, pp. 27-28. In un’altra occa­sione disse: “Quando, durante la guerra civile spagnola, ero divorato dalla preoccupazione, davanti al dilemma se dovessi passare o meno da una parte all’altra nel mezzo della persecuzione per sfuggire ai comunisti, arrivò un’altra prova esterna: questa rosa di legno. Cose come questa: Dio mi tratta come un povero bambino al quale bisogna dare prove tangibili, ma in modo ordinario” (Meditazione del 14-11-1964). C’è un particolare curio­so: nel copiare a macchina il diario di questi giorni (Verso la libertà, RHF, D-15323), il Fondatore aggiunse un foglio su cui scrisse: “manca il diario”. Effettivamente, nel manoscritto, foglio 17, il cronista di turno (Pedro) chiu­de il racconto della colazione a Vilaró segnando l’ora: “9.15 del 21 novem­bre 1937. - P”. Il diario poi continua. “Lunedì 22 novembre. La mattinata è nuvolosa”. Manca quindi il racconto di quanto accaduto domenica 21 e la notte fra il 21 e il 22. Da qui l’annotazione “manca il diario”.171 Appunti, n. 1440. L’annotazione è collegata alla Caterina precedente, in cui si legge: “Allora, con una mozione interiore contraria alla mia vo­lontà, dissi al Signore: “Se sei contento di me, fa che trovi qualcosa”, e pensai a un fiore o a un ornamento di legno delle pale di altare scomparse. Tornai in chiesa (mi trovavo in sacrestia), guardai negli stessi posti dove avevo già guardato prima... e trovai subito una rosa di legno dorato. Ne fui felicissimo e benedissi Dio che mi aveva dato quella consolazione men­tre ero tutto preoccupato se Gesù fosse o no contento di me” (ibidem, n. 1439, del 22-XII-1937). Il Fondatore raccontò molte volte a mons. Àlvaro del Portillo la storia della terribile prova, se non nei dettagli almeno nella sostanza. Nel dubbio, chiese al Signore, per mezzo della Vergine, una prova tangibile, una rosa, che subito trovò nella chiesa (cfr Àlvaro del Portillo, Sum. 913).

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172 Cfr Diario, 22-XI (RHF, D-15323, f. 18v, p. 16); Juan Jiménez Vargas, RHF, T-04152-IV, p. 8.173 Cfr Diario, 23 novembre (RHF, D-15323, f. 21, p. 17). “La Messa - scrive Tomàs Alvira - era dialogata. Non dimenticherò mai quelle Messe: come tempio il bosco; il celebrante, nel massimo raccoglimento, si muove­va molto lentamente; metteva tutta la sua anima e tutto il suo amore in quello che faceva, soprattutto nel momento della Consacrazione. Centi­naia di uccelli, svegliati dai primi raggi del sole, cantavano senza posa e accrescevano l’incanto delle Messe del Padre nel bosco di Rialp. Conser­vava sempre una particola consacrata, che veniva custodita con gran rac­coglimento da uno di noi” (RHF, T- 04373, p. 7). Don Josep Lozano i Eritjà, rettore di Biscarri, era stato nominato economo di Peramola nel marzo 1936 e, insieme al fratello don Joaquim, viveva nascosto in una ba­racca vicino a Pallerols. Fu assassinato il 24 gennaio 1939 da alcuni solda­ti dell’Esercito repubblicano in ritirata (cfr Jesus Castells Serra, Martirolo­gi de VEsglesia d’Urgell (1936-1939), La Seu d’Urgell 1975, p. 104).174 Schedina manoscritta da don Josemarìa. Cfr Diario, RHF, D-15323, f. 20v, p. 17. D.O.G. sta per Deo omnis gloria, a Dio tutta la gloria.175 Diario: 19 novembre (Verso la libertà), RHF, D-15323, f. 12, p. 13.176 Lettera di Isidoro ai rifugiati nella Legazione dell’Honduras, 24-XI- 1937 (IZL, D-1213, 289). Nei mesi di novembre e dicembre 1937, a Ma­drid rimanevano Isidoro Zorzano (che guidava gli altri, in assenza del Padre), José Maria Gonzàlez Barredo e Àlvaro del Portillo nel Consolato dell’Honduras, Vicente Rodrìguez Casado nella Legazione della Norvegia, Miguel Banón che abitava con sua madre ed Eduardo Alastrué, che se ne stava sempre chiuso in una pensione. Enrique Espinós Raduàn, cugino di Francisco Botella e che attraversava un momento di crisi per la morte di suo padre, prestava servizio militare fuori Valencia; Rafael Calvo Serer, destinato alle Brigate Internazionali, era ricoverato in ospedale per un’ul­cera; e José Maria Hernàndez Gamica faceva il servizio militare a Baza, vicino a Granada.177 Pedro Casciaro, RHF, T-04197, p. 23; Juan Jiménez Vargas, RHF, T- 04152-IV, p. 9.178 Pedro Casciaro, op. cit., p. 109.179 Cfr Diario, 25 novembre, RHF, D-15323, f. 27v, p. 22.180 Cfr Diario, 23 novembre, RHF, D-15323, f. 22v, p. 19.181 Cfr Appunti, n. 1440, del 22-XII-1937; e Diario, 26 novembre, RHF, D-15323, f. 31, p. 25. L’arciprete di Pons era mons. Nicolau Auger Or- todó (1865-1942). Cfr Jesus Castells Serra, op. cit., p. 311.182 Diario, 26 novembre, RHF, D-15323, f. 33v, p. 27.183 La provincia di Lérida è divisa in tre diocesi: Lérida, Urgel e Solsona. Il numero di sacerdoti secolari incardinati nella diocesi di Lérida nel 1936 era di 410; il numero degli uccisi fu di 270, cioè il 66%. Nella diocesi di Urgel (dove stava Pallerols) i sacerdoti incardinati erano 540 e il numero

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delle vittime 109, cioè il 20%. In quella di Solsona, 380 sacerdoti, di cui60 furono assassinati, cioè il 15,5% (cfr Antonio Montero, op. cit. p. 764; Jesus Castell Serra, op. cit., pp. 304-305).184 Cfr Juan Jiménez Vargas, RHF, T-04152-IV, p. 1.185 Juan Jiménez Vargas, RHF, T-04152-IV, pp. 10-11.186 Diario, 27 novembre, RHF, D-15323, f. 33v, p. 27.187 Francisco Botella, RHF, T-00159/1, p. 42. È vero, ma non è tutto: in questo caso, Juan fu strumento provvidenziale per sostenere il Padre.188 Cfr Juan Jiménez Vargas, RHF, T-04152-IV, p. 11.189 Cfr José Boix Oste, RHF, T-01440; Francisco Botella, RHF, T-00159/1, p. 44.190 Cfr Pedro Casciaro, op. cit., p. 104.191 José Boix Oste, RHF, T-01440.192 II diario di Antonio Dalmases Esteva, lo studente catalano, è intitolato: Diario della mia fuga dalla zona rossa, novembre-dicembre 1937; origina­le in RHF, T-08246; cfr Appendice documentale, documento XVIII. Dal­mases, come quasi tutti coloro che facevano parte della spedizione, era provvisto di vettovaglie; non così il gruppo del Padre, che aveva solo una borraccia di vino zuccherato e una bottiglia di cognac, bottiglia che si ruppe sulla Ribalera dopo la Messa, quando il Padre volle offrirne un sorso ai presenti. Il giovane catalano aveva un portavivande pieno di cosce di pollo. Ragazzo intelligente, commentò il Padre, perché aveva scoperto l’incrocio del pollo col millepiedi. Per questa battuta lo chiamavano il “ra­gazzo del millepiedi”.193 Diario, 28 novembre, RHF, D-15323, f. 37v, p. 29.194 Tomàs Alvira, RHF, T-04373, p. 8; Juan Jiménez Vargas, RHF, T- 04152-IV, p. 12; Pedro Casciaro, op. cit., p. 104.195 Cfr Juan Jiménez Vargas, RHF, T-04152-IV, p. 16.196 Diario, 28 novembre, RHF, D-15323, f. 41, p. 31; cfr Tomàs Alvira, RHF, T-04373, p. 8.197 Juan Jiménez Vargas, RHF, T-04152-IV, p. 18.198 Diario, 29 novembre, RHF, D-15323, f. 42, p. 31.199 Cfr Juan Jiménez Vargas, RHF, T-04152-IV, p. 18.200 “Non sono venuto per essere servito, ma per servire” (cfr M t 20, 28).201 “Il Padre conta le volte che cade: sono molte, molte!”, si legge nel ma­noscritto. A questo punto il Padre aggiunse nel Diario: “...accolte sempre con buonumore: ventisei!, ventinove!... Le contiamo”. “Pensando al no­stro lavoro, che presto riprenderemo, superiamo tutto con tranquillità e allegria. Ma è una mazzata tremenda”, si legge subito dopo nel Diario (29 novembre, RHF, D-15323, f. 44v, p. 36). L’arrampicata rimase così im­pressa al Padre che, trovandosi molti anni dopo a La Pililla, una casa alle falde di un monte, disse a Paco Botella: “Paco, da quella famosa scalata

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mi è passata la voglia di andare per m onti” (Paco Botella, RHF, T- 00159/1, p. 46).202 Cfr Juan Jiménez Vargas, RHF, T-04152-IV, p. 20.203 Cfr Pedro Casciaro, op. cit., p. 109. L’originale dice: “Qué Nino tan bonito / tiene San José. / Cada vez que lo miro / me pasa no sé qué” (NdT).204 Cfr Juan Jiménez Vargas, RHF, T-04152-IV, p. 20.205 Diario, 30 novembre, RHF, D-15323, f. 45, p. 37.206 Cfr ibidem; e anche Juan Jiménez Vargas, RHF, T-04152-V, pp. 4 e ss.207 Cfr Pedro Casciaro, op. cit., p. 108; Diario, 30 novembre, RHF, D- 15323, f. 44, p. 36.208 Cfr Diario, ibidem.209 Cfr Juan Jiménez Vargas, RHF, T-04152-IV, p. 17.Alla data del 30 novembre, dove era scritto: “Il Padre oggi non dorme af­fatto”, il Padre stesso, trascrivendo a macchina il Diario Verso la libertà, soppresse “oggi”, per cui la frase risuona ancora più forte, quasi a voler significare che la veglia era ininterrotta. In effetti, anche la notte successi­va la passò vegliando, come riportato nel testo (cfr RHF, D-15323, f. 44v, p. 39).210 Pedro Casciaro se ne era reso conto: “Quando ci fermavamo a riposare nelle stalle o nelle grotte dormiva pochissimo; e io indovinavo che faceva così per mortificarsi e per pregare di più. Tutto ciò mi commuoveva, ma al tempo stesso non riuscivo a capirlo e, per l’affetto che gli portavo, avrei voluto impedirglielo” (op. cit., p. 108).211 Ibidem.212 Diario, RHF, D-15323, f. 47v, p. 40.213 Cfr Diario, RHF, D-15323, f. 50, p. 43; e Juan Jiménez Vargas, RHF, T-04152-IV, pp. 11 e 29.214 Cfr Pedro Casciaro, op. cit, p. 110.215 II digiuno liturgico per poter fare la Comunione iniziava dalla mezza­notte precedente. I fuggitivi avevano preso dello zucchero durante la notte e avevano mangiato di primo mattino accanto al fuoco, per cui fecero co­lazione appena giunti in paese.216 Luis Pujol Tubau, RHF, T-00675, p. 2; Juan Jiménez Vargas, RHF, T- 04152-IV, p. 30. Don Luis Pujol Tubau, economo-arciprete di Andorra la Velia dal 1930, aveva allora 36 anni ed era stato ordinato nel 1925.217 Lettera, in EF-371202-1.218 Diario, RHF, D-15323, f. 51, p. 45.219 Cfr Diario, RHF, D-15323, f. 52, p. 45; il telegramma diceva: “Javier Lauzurica. Vescovo Vitoria. La ricordo nel giorno del suo onomastico. Ar­rivato ieri evaso con otto miei. Partiamo domani San Juan de Luz. José Maria Escrivà” (in EF-371203-02).

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220 Lettera a Isidoro Zorzano, da Andorra, in EF-371203-1.221 Diario, RHF, D-15323, f. 54, p. 47.222 Cfr Juan Jiménez Vargas, RHF, T-04152-III, p. 165.223 Cfr Francisco Botella, RHF, T-00159/1, p. 53.224 Cfr Pedro Casciaro, op. cit., p. 112; Diario, RHF, D-15323, f. 63v, p. 54.225 Diario, RHF, D-15323, f. 64v, p. 55.226 £fr pej ro Casciaro, op. cit., pp. 112-113.227 Diario, RHF, D-15323, f. 65, p. 55.228 Appunti, n. 1463, del 2-1-1938.229 Cfr Diario, RHF, D-15323, f. 59, p. 50.230 Ibidem.231 Questa “ribellione” risaliva agli anni in cui Fernando de los Rios era stato Ministro della Pubblica Istruzione, cioè fra il dicembre 1931 e il lu­glio 1933. Dopo l’inizio della guerra civile, i problemi di mons. Justino Guitart, Vescovo di Seo de Urgel, furono ben più seri: il 23-VII-1936 do­vette abbandonare la Spagna e rifugiarsi in Andorra. Vi rimase fino al 13 agosto, data in cui partì per la Francia, sapendo di essere in pericolo di vita (cfr Jesus Castells Serra, op. cit., pp. 265-267).232 Luis Pujol Tubau, RHF, T-00675, p. 5; cfr Diario, RHF, D-15323, f. 66v, p. 57.233 Appunti, n. 1463.234 Cfr Appunti, nota 1064 (di mons. Àlvaro del Portillo).235 Cfr Diario, RHF, D-15323, f. 69, p. 58.236 Cfr Diario, RHF, D-15323, f. 71, p. 61; Francisco Botella, RHF, T- 00159/1, p. 53.237 Cfr Pedro Casciaro, op. cit., p. 114; Juan Jiménez Vargas, RHF, T- 04152-IV, p. 32.238 Cfr Pedro Casciaro, RHF, T-04197, p. 50; cfr anche Francisco Botella, RHF, T-00159/1, p. 54; Tomàs Alvira, RHF, T-04373, p. 10; Àlvaro del Portillo, Sum. 915.239 Juan Jiménez Vargas, RHF, T-04152-IV, p. 33.

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Capitolo XIL’EPOCA DI BURGOS (1938-1939)

1. Ricominciano le CaterineGli Albàs - il ramo materno del Fondatore -, oltre a un’estesa parentela, avevano il dono di comunicare; in­dubbiamente erano capaci, come carattere ereditario, di un facile e fecondo tratto sociale. A don Josemaria ca­pitò di verificarlo in diverse occasioni della sua movi­mentata esistenza; per esempio, il giorno stesso del suo ingresso nella zona nazionale. Lo si vede dalle annota­zioni che fece in un nuovo quaderno degli Appunti inti­mi, le ben note Caterine che aveva dovuto sospendere e che, guidato dall’istinto storico, decise di ricominciare1:

“Pamplona, 17 dicembre 1937: oggi, prima di comincia­re gli esercizi, ricomincio il diario con le note che ho pre­so fin dall’11 di questo mese, le Caterine”1.Cominciò con i ricordi della sua prima settimana in

zona nazionale.“Giorno 11 dicembre. Emozione, più che giustificata, nel passare il ponte internazionale. Preghiamo fervida­mente nel vedere la bandiera spagnola...(...)Ci chiedono una garanzia per farci entrare in Patria. Te-

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lefono al Vescovo di Vitoria: don Xavier si trova a Ro­ma. Mi dispiace. Alcune signore che stanno ai telefoni si rendono conto della mia piccola contrarietà: sono ami­che della famiglia di mia madre; mi offrono la garanzia e la loro ospitalità. Ringrazio, ma non accetto”3.Don Josemarìa non aveva certo esaurito le proprie ri­

sorse:“Telefono subito dopo al Vescovo di Pamplona: calorosa accoglienza. Quanto è caro questo santo Vescovo! Si mette subito in comunicazione telefonica con il Coman­do Militare di Fuenterrabìa e ci dà la sua garanzia. Mi dà appuntamento a Zumaya per domani e mi dice, con vero affetto, che devo andare a stare con lui nel suo palazzo”4.Il Padre e i suoi trascorsero la notte all’Hotel Penón di

/- Fuenterrabìa. Al mattino celebrò la Messa per tutti loro, prima che si disperdessero: José Maria Albareda fu trat­tenuto dai suoi a San Juan de Luz; Manolo rimase a Fuenterrabìa con alcuni suoi familiari; Tomàs Alvira era in procinto di recarsi a Saragozza. Tutti gli altri, che era­no in età militare, si presentarono alle autorità nella ca­serma Loyola di San Sebastiàn. Don Josemarìa avvolse le sue cose in un giornale, le legò con uno spago, affidòil pacchetto, che era tutto il suo prezioso bagaglio, alle cure del portiere dell’Hotel Penón e si recò all’appunta­mento col Vescovo a Zumaya, una località turistica vici­no a San Sebastiàn. Quando arrivò gli dissero che il pre­lato si trovava a Zarauz, un paesino vicino. Vi si recò, con il suo abito da escursionista e i suoi scarponi da marcia. Trovò mons. Olaechea in casa del marchese di Warros, dove era in corso una grande festa di fratellan­za italo-spagnola: “Il Vescovo mi abbraccia e mi fa fe­sta, in mezzo a tutta quella folla, e mi presenta l’Amba- sciatore dell’Italia. Mi invitano al banchetto”5. Per fortuna incontrò uno di quelli che aveva diretto spiri­tualmente a Madrid: “L’Angelo Custode mi fa compari-242

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re innanzi Juan José Pradera (che non assiste mai a que­sto genere di feste e oggi - evidentemente - vi ha assisti­to)”. Se ne andarono insieme a chiacchierare e a pranza­re in un ristorante.

Passò il pomeriggio in compagnia del Vescovo. Visita­rono lo studio del pittore Zuloaga e, di ritorno a San Se- bastiàn, il prelato strappò a don Josemarìa la promessa che sarebbe andato a riposare alcuni giorni nel palazzo episcopale di Pamplona. A San Sebastiàn le Teresiane gli cercarono una pensione; don Josemarìa celebrò da loro la Messa il giorno successivo.

“Giorno 13 dicembre - si legge negli Appunti - celebro per don Pedro, raccomandandomi a lui; più che per suf­fragio per la sua anima (santa, anche senza il martirio) invoco la sua intercessione.Le Teresiane mi offrono denaro: io chiedo loro generi di pulizia personale per i miei: compreranno quattro petti­ni, quattro forbici e sapone”6.Le Teresiane gli regalarono anche della biancheria e

un paio di scarpe usate, che gli consentirono di abban­donare gli “scarponi-lago” della traversata dei Pirenei. Fu una fortuna, perché con le scarpe era un po’ più pre­sentabile e la settimana si annunciava di intensa attività sociale e apostolica. Sembrava quasi che sulla direttrice Fuenterrabia - Irun - San Sebastiàn si fossero date ap­puntamento le vecchie amicizie di Madrid. Al sacerdote bastarono due visite per ritrovare i parenti di Alej andrò Guzmàn, gli Aguilar de Inestrillas7, i conti di Mirasol8, i Guevara9, le Beraldo de Quirós, le Vallellano10, i Cortà- zar e infine Maria Luisa Guzmàn, la marchesa de los Alamos, con la sorella Maria Machimbarrena11: pro­prio le tre dame che l’avevano accompagnato, ai tempi della monarchia, dal Sottosegretario del Ministero di Grazia e Giustizia, José Martinez de Velasco, per fargli assegnare un posto che gli consentisse di ottenere una

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mansione ecclesiastica stabile a Madrid. Di quel gruppo faceva parte anche Carolina Carvajal, Dama di Palazzo e sorella del conte di Aguilar de Inestrillas. Carolina nel 1931 aveva interceduto presso don Pedro Poveda, Se­gretario del Patriarca delle Indie, il quale aveva offerto a don Josemaria una cappellania onoraria, da lui rifiutata12.

Il mondo si confermava piccolo. Per colmo di sorpre­sa accadde che, mentre si trovava a casa dei Mirasol, una nipote di Luz Casanova gli dichiarò senza mezzi termini di avere vocazione per l’Opera. Don Josemaria prese tempo13.

Ma il Padre non aveva valicato i Pirenei per fare vita di società nelle Province Basche. Approfittando di questi incontri raccolse dati sul recapito di persone conosciute. Con una telefonata a Bilbao localizzò tre residenti di via Ferraz: Arancibia, Carlos Aresti ed Emiliano Amann. A San Sebastiàn incontrò Vicente Urcola e la famiglia di Joaquìn Vega de Seoane, altri due ragazzi di san Raffae­le14. Con questi nomi, e altri che saltarono fuori come le ciliegie, uno dopo l’altro, don Josemaria si mise a rico­struire un indirizzario, utile per il suo apostolato.

Nelle Caterine del 26 dicembre si legge:“Continuo ad avere capogiri, ma faccio in modo che nessuno se ne accorga (...). Ho celebrato la Messa per Victor Pradera15; erano presenti la vedova e il figlio.Ben contento di non ricevere stipendi di Messe: Signore, ora sì che sono povero in canna; vedrai Tu che cosa fare del tuo asinelio”16.È superfluo ricordare che i suoi indumenti lasciavano

molto a desiderare. Si era fatto alcune foto a San Seba­stiàn e, come egli stesso ammetteva, aveva un aspetto poco rassicurante, con il viso emaciato, e insaccato nel largo maglione azzurro dei giorni di Rialp. Ma fino ad allora nessuno gli aveva offerto una tonaca. In tali con^244

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dizioni, ebbe il coraggio di rinunciare a qualsiasi genere di stipendio di Messa, che sarebbe stata la sua unica fonte di mantenimento. Nutriva il desiderio che i sacer­doti dell’Opera fossero distaccati da tutto, anche dalle risorse del loro ministero, come olocausto di povertà; era un pensiero su cui rifletteva da tempo. Un giorno, preoccupato per la mancanza di denaro, meditò le paro­le del Salmo: iacta super Dominum curam tuam et ipse te enutriet17. Disposto ad abbandonarsi nelle mani del Signore, senza fare calcoli, portò la sua risoluzione alle estreme conseguenze; lo scrisse in una Caterina18.

Il 17 dicembre don Josemarìa partì per Pamplona. Nelle Caterine compare di nuovo il suo Angelo Custode: “Alle cinque e mezzo in punto (ora stabilita ieri sera) mi sveglia il mio piccolo orologiaio: la sveglia che mi han­no dato nella pensione non ha suonato”19. La macchina di Pradera, sulla quale viaggiava, dovette fermarsi due volte a causa della neve. Ma il sacerdote restò di buonu­more, visto che, entrando nella regione della Navarra, intonò a bassa voce una scherzosa filastrocca locale:

“La Vergine del Puy di Estella disse a quella del Pilar: tu sarai aragonese, ma io sono navarra... e in gamba!”20.All’ora di pranzo, morto di freddo, arrivò al palazzo

episcopale. Dopo pranzo disse al Vescovo di avere l’in­tenzione di fare in quei giorni un ritiro spirituale. Que­gli, che non voleva che se ne andasse dal palazzo, gli preparò alcuni libri per le meditazioni e le letture e gli regalò una copia del Nuovo Testamento nell’edizione bilingue di don Carmelo Ballester21. Solo una cosa preoccupava il Padre in quel momento, prima del ritiro: che cosa ne era dei suoi figli? Juan e Miguel erano stati destinati a Burgos; ma non sapeva nulla di Pedro Ca­sciaro e di Paco Botella; a metà pomeriggio però essi lo

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avvisarono per telefono di trovarsi entrambi in una ca­serma di Pamplona.

Ottenuto l’indirizzo degli uffici del Vicariato Generale della diocesi di Madrid, che si trovava temporaneamen­te a Navalcarnero, paese della provincia di Madrid in zona nazionale, scrisse al Vicario:

“Pamplona, 17 dicembre 1937Ecc.mo don J. Francisco Moràn - NavalcarneroCarissimo e venerato Signor Vicario,Dopo mille peripezie, superate per evidente protezione di Dio mio Padre, sono riuscito a evadere dalla zona dei rossi (...). Mi ha accolto il calore del mio grande amico il Vescovo di Pamplona e sto nel suo palazzo, dove inco­mincerò domani - tutto solo - i santi esercizi.Se il Sig. Vicario non mi dice altrimenti, intenderò che gli sembra bene che mi dedichi immediatamente, com­piendo la santa Volontà di Dio, a portare avanti secon­do la mia personale vocazione la direzione delle anime che S.E. conosce e che sono sparse su tutto il territorio nazionale. Sono tutti eroici, senza eccezione!Prego il mio Sig. Vicario di far presente al nostro amatis­simo Prelato che, in mezzo a tante tribolazioni, abbiamo pregato ogni giorno per S.E. Rev.ma.Lei sa, Padre, quanto le vuole bene il suo aff.mo, che la saluta e le chiede la sua benedizione,

Josemaria Escrivà”22.Scrisse anche a Josefa Segovia, dell’istituzione Tere-

siana. Era una lettera in cui si mescolavano il dolore e la gioia nel ricordare don Pedro Poveda:

“(...) il cuore non sopporta ulteriore attesa ed ecco que­ste righe... di padre e di fratello.Che gioia, dopo la pena di perderlo - quante lacrime! - sapere che continua a volerci bene dal cielo! Fu pro­prio questo il tema di una delle nostre ultime conversa­zioni”23.

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Il giorno 18 annotò: “D’ora in poi, scritte al momen­to, queste Caterine avranno più vita”. E subito dopo co­piò nel quaderno il “piano degli esercizi”, per applicarsi diligentemente, la sera stessa, al primo punto del pro­gramma: “Purezza d’intenzione e obiettivo di questi esercizi”. Ecco ciò che si proponeva:

“Sarò molto breve in queste note durante gli esercizi. Mi conduce a questo ritiro soltanto il desiderio intensissimo di essere migliore strumento nelle mani del mio Signore per far divenire realtà la sua Opera ed estenderla in tutto il mondo, come Egli vuole. Il fine diretto e concreto è duplice: 1) intimo, di purificazione: rinnovare la mia vi­ta interiore; 2) esterno: vedere le possibilità attuali per l’apostolato dell’Opera, i mezzi e gli ostacoli”24.Esaminandosi interiormente dovette riconoscere, alla

presenza di Dio, che “fra tante e così pesanti miserie” individuava, senza dubbio, “debolezza e piccineria: mai però la fredda volontà di offendere Dio”25.

Durante quel ritiro fece orazione mentale - “orazione da bambino, con slanci da bambino” - e pianse - “pian­gere di dolore: di dolore di Amore” - davanti alla pro­pria mancanza di corrispondenza alla grazia. Man ma­no che leggeva delicatamente nella propria coscienza, si accorgeva di mancanze e di omissioni, ma anche di una realtà infinitamente più alta, la Misericordia divina; e di nuovo gli veniva in abbondanza il dono delle lacrime: “(...) sono solo, sciolto in lacrime: così vicino a Cristo, per tanti anni, e... così peccatore! L’intimità di Gesù con me, suo Sacerdote, mi strappa dei singhiozzi”26.

Se cercava di concentrarsi su un punto della medita­zione, gli sfuggiva, tra i singhiozzi, il filo delle considera­zioni: “L’orazione di Cristo: sono uscito dal tema. Pian­gere, invocare; invocare e piangere: questa è stata la mia meditazione. Signore, pace!”. Davanti all’esempio dei santi gli sgorgavano facilmente le lacrime: “Ho pianto -

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sono un piagnone - leggendo una vita di don Bosco che ho chiesto stamane alla famiglia del Vescovo. Sì, voglio essere santo. Benché questa affermazione, così vaga, così generica, di solito mi sembra una sciocchezza”27.

Non riuscì a trattenersi neppure in confessione, poi­ché vivi sentimenti di dolore d’Amore commuovevano tutto il suo essere: “Mi sono confessato con don Vicente Schiralli e naturalmente ho pianto a dirotto davanti a quel santo signore. Piagnone, piagnone e piagnone. Ma benedette lacrime, dono di Dio, che mi danno una gioia profonda e un godimento quasi inspiegabile”28. A tal punto, scrisse, che “mi preoccupava che la mia tenerez­za traboccasse in Cristo”29, come un bambino. Non si vergognava di comportarsi come un bambino candido e ingenuo, che commette qualche audacia spirituale.

Un giorno, il 22 dicembre per l’esattezza, il Vicario aveva consacrato nella cappella del palazzo i calici de­stinati ai cappellani militari. Don Josemarìa si assicurò che non ci fosse nessuno: “Sono rimasto un momento solo nella cappella e, affinché il Signore lo trovi la prima volta che scenderà in questi vasi sacri, diedi un bacio a ciascun calice e alle patene. Erano venticinque, regalo della diocesi di Pamplona per il fronte”30.

Era nevicato. La temperatura era bassa in quel mese di dicembre a Pamplona. Il freddo penetrava nelle ossa. La meditazione sulla morte non riscaldò i suoi senti­menti, sì invece la meditazione sul giudizio, che gli strappò di nuovo lacrime e fermissimi propositi:

“Molta freddezza: alPinizio ci fu solo il desiderio puerile che ‘Dio mio Padre sia contento quando mi dovrà giudi­care’. Poi un forte scossone: ‘Gesù, dimmi qualcosa’, ri­petuto molte volte, pieno di pena per il gelo interiore. E un’invocazione a mia Madre del Cielo: ‘Mamma’, e agli Angeli Custodi e ai miei figli che stanno nella gioia di Dio... e, allora, lacrime abbondanti e grida... e orazione. Propositi: ‘essere fedele all’orario, nella vita ordinaria’ e,

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se me lo permette il confessore, ‘dormire solo cinque ore, meno la notte dal giovedì al venerdì, in cui non dor­mirò affatto’. Sono propositi concreti e piccoli, ma cre­do che saranno fecondi”31.Per meglio valutare la “piccolezza” dei propositi, è

utile sapere che durante gli esercizi riprese anche le anti­che penitenze: nei pasti, nel sonno e in tutto: “ciò che era abituale prima della rivoluzione”. Pensava che, pa­ragonati a quelli fatti in anni precedenti, questi esercizi non meritassero la qualifica di “forti”. “Esercizi forti - scriveva - non sarei riuscito a farli. Addolciti dalla ca­rità del Vescovo di Pamplona, sì. Dio, mio Padre, dispo­ne sempre le cose in modo materno”32.

Don Marcelino Olaechea cercava di rendergli meno gravoso il ritiro spirituale, mettendosi a parlare con lui al­l’ora dei pasti. Il 20 dicembre giunse il Delegato Apostoli­co, mons. Ildebrando Antoniutti33; quando, all’ora di ce­na, il Vescovo fece sedere don Josemaria alla destra dell’illustre ospite, il sacerdote portava ancora il maglione azzurro e i pantaloni di velluto della traversata dei Pirenei. E evidente che don Josemaria aveva urgente bisogno di una tonaca. Perciò è curioso che fino alla vigilia di Natale non ci sia nelle Caterine alcuna allusione in proposito34.

Tra i punti inerenti al “lavoro immediato” che si era proposto di intraprendere dopo il ritiro, si legge: “Devo preoccuparmi di vedere di frequente i nostri, di mantene­re con loro un rapporto epistolare discreto (per la censu­ra); e se i tempi si allungano, se ritarda la presa di Ma­drid, devo sistemare una casa, un punto di appoggio, in cui possano riunirsi tutti quando sono in licenza”35.

La vigilia di Natale giunse a Pamplona José Maria Al­bareda. Portava buone notizie. A Madrid sapevano già del passaggio nella zona nazionale. Avevano ricevuto le prime cartoline inviate da Andorra al Console e a Isido­ro (“Ignacio”), il quale il giorno stesso aveva scritto a San Juan de Luz:

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!“7 dicembre 1937.Carissimo amico José Maria, affinché questa volta non si lamenti del mio ritardo nello scriverle le rispondo a gi­ro di posta in quella graziosa città dove sta passando le sue vacanze, riposando dalle sue occupazioni di Parigi. Tutti i miei familiari stanno benissimo; il piccolo Chiqui per il momento sta al sud; non tarderà a ritornare. N o­nostante l’inverno così crudo che stiamo attraversando, la nonna e gli zii stanno meravigliosamente. Con mia so­rella Lola ci scriviamo spesso; è probabile che suo cugi­no venga a vivere con noi uno di questi giorni. Come stanno i suoi piccoli?Augurando che trascorra felicemente le sue vacanze e con i saluti di tutta la famiglia, la ricorda e l’abbraccia il suo affezionato amico Ignacio”36.L’idea venuta a don Josemarìa durante il ritiro spiri­

tuale, di istituire cioè un centro provvisorio a Burgos, era già diventata un fermo proposito. La sera di Natale cenarono con il Padre tutti quelli che stavano a Pamplo- na: José Maria Albareda, Pedro e Paco, ai quali si ag­giunse José Luis Fernàndez del Amo, un ragazzo di san Raffaele che stava nella stessa caserma di Pedro e Paco. Si trattennero a lungo a parlare, dopo cena, e il Padre spiegò loro che bisognava aprire un centro a Burgos. Se­duta stante, durante la tertulia, studiarono il progetto dell’oratorio. E perché non fosse tutto fumo che fluttua e svanisce, José Luis s’impegnò a fare il disegno del cali­ce, che Albareda avrebbe poi ordinato a un argentiere di Saragozza. L’idea prendeva corpo. Il 28 dicembre il Pa­dre scriveva in una Caterina: “Ho acquistato una pietra sacra negli uffici del vescovado. Nel pomeriggio, con Fernàndez del Amo, sono andato da un fabbro, che farà i candelieri, la croce, ecc., per l’oratorio che ci sarà a Burgos..., se ci sarà”37.

Si avvicinava la fine dell’anno e don Josemarìa faceva resistenza ad accettare i propositi di mons. Olaechea il quale, quando l’ospite gli disse che se ne sarebbe anda­250

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to, gli aveva risposto scherzando: “Trent’anni deve stare con me; non se ne parla di andarsene”. Alcuni giorni dopo egli insistette di nuovo e il Vescovo disse allora il motivo che gli aveva tenuto nascosto: “Si arrabbia: mi dice che, se me ne vado, devo ritornare presto; e che non vuole che me ne vada di qui senza che mi facciano gli abiti - tonaca e mantellina - che lui mi regala”38.

Gli presero le misure per la veste talare il 29 dicembre.4 gennaio: “Mi portano la veste talare e la mantellina. Mi venne in mente di dire al sarto che non me le facesse molto aderenti: e ci navigo. Mi ha fatto gli abiti in modo che ci possa mettere dentro i quaranta chili che mi mancano”39.Gli mancava anche il cappello. Il Vescovo, con senso

pratico, tolse il fiocco a uno dei suoi e glielo prestò fin­ché non gli fosse arrivato quello già ordinato. Monsi­gnore, ben lungi dalParrendersi, s’impuntò perché il suo ospite rimanesse a palazzo fino al giorno del suo com­pleanno, il 9 gennaio, per il quale voleva preparare un bel festeggiamento. A queste ragioni don Josemarìa ri­spondeva invariabilmente: “Il signor Vescovo è stanco di lavorare; e io sono stanco di riposare”40.

Grazie alla diligenza degli amici che gli davano una ma­no, cresceva il numero degli indirizzi nello schedario del Padre. Le persone si facevano vive per lettera, per tele­gramma, per telefono: quelli che avevano chiesto l’ammis­sione, quelli che erano stati sul punto di entrare nell’Opera poco prima che esplodesse la guerra civile e i molti che erano passati per la residènza di via Ferraz41. Era stata fat­ta una ricerca a vasto raggio. Così, prima della fine del­l’anno, egli si era già messo in comunicazione personal­mente con tutti i suoi figli che erano in zona nazionale. Lo scrisse con molta gioia a Ricardo Fernàndez Vallespìn:

“Carissimo Ricardo, che gioia ricevere finalmente la tua lettera! (...) Quanta fatica per trovarvi! Appena oltre­

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]passata la frontiera è cominciata la ricerca; e... pensa un po’: dall’11 al 31, quando finalmente arriva la tua lette­ra, venti interminabili giorni!Il nonno dice che ringrazia vivamente Dio perché ha già localizzato tutti i nipoti”42.Poter parlare o scrivere ai suoi figli, pur con le pastoie

della censura, gli ridava la vita. La corrispondenza con Isidoro attraverso la Francia funzionò bene, senza gran­di ritardi né seri contrattempi, tenuto conto, natural­mente, delle circostanze belliche. Ciò fu di grande con­solazione per quelli dell’una e dell’altra zona. Su questo punto, riferendosi al sollievo che implicava l’aver noti­zie di tutti, il Padre apriva il proprio cuore a uno dei suoi in zona nazionale:

“(...) Oggi abbiamo scritto ai miei poveri figli di Madrid e alla nonna e ai miei fratelli. Da loro abbiamo già rice­vuto cinque lettere; l’ultima il 26 gennaio. Sono perfetta­mente al corrente delle cose della famiglia. Peccato che voi prima non abbiate trovato alcun mezzo per comuni­care! La cosa più dura, in mezzo a tante cose crudeli, era non sapere nulla di voi in quell’inferno rosso. Ai nostri che non sono potuti fuggire dalla tirannia marxista, ab­biamo già tolto questa pena: credo che, da quando sia­mo liberi, abbiamo scritto loro più di dieci volte”43.Il 7 gennaio don Josemaria partì per Vitoria. Là lo ac­

colse con grande affetto mons. Javier Lauzurica, all’epo­ca Amministratore Apostolico della diocesi. Il Padre gli parlò di un problema di coscienza che gli voleva sotto­porre e già il mattino successivo partì per Burgos.

2. A BurgosA Burgos lo attendevano Juan Jiménez Vargas e José Maria Albareda. Quest’ultimo alloggiava in un modesto252

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alberghetto situato nei sobborghi della città, in una stra­da che prendeva il nome dalla piccola chiesa romanica di Santa Chiara. La pensione era molto familiare. La sa­la da pranzo aveva un solo tavolo, intorno al quale se­devano in santa fratellanza tutti gli ospiti. Del resto, non c’era molto altro da scegliere. Dall’inizio della guer­ra Burgos aveva raddoppiato la popolazione e raggiun­geva i 60.000 abitanti. I pochi alberghi esistenti e tutti gli edifici utilizzabili della città castigliana erano stati occupati da autorità civili e militari. A Burgos stavano infatti il Governo della zona nazionale e alcuni uffici ministeriali. Vi si era pure stabilita la Giunta Centrale per il Culto e il Clero della diocesi di Madrid, anche se il Vicariato Generale stava a Navalcarnero e il Vescovo, Leopoldo Eijo y Garay, risiedeva abitualmente a Vigo44. Inoltre, per la sua posizione strategica e per i suoi colle­gamenti, Burgos era un buon posto per stabilirvi il cen­tro di apostolato progettato dal Fondatore.

Il Padre si diede subito da fare. Dapprima con Juan, che avrebbe lasciato Burgos per entrare in una unità sul fronte di Teruel. Juan era, nella zona nazionale, il figlio in cui egli ravvisava le doti necessarie per renderlo par­tecipe del carico e delle responsabilità di governo del­l’Opera; “Juanito parla a fondo con me delle cose del­l’Opera”, annotò allora il Fondatore negli Appunti45.

Il 9 gennaio, poco dopo essere arrivato a Burgos, don Josemarìa compì 36 anni. Pensando a tutti i suoi figli, scrisse loro una lunga lettera che iniziava così:

“Circolare del 9 gennaio 1938 Nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo e

di Santa Maria + Gesù benedica i miei figli e me li protegga

Il Signore ha protetto anche me dalla morte, che più di una volta sembrava sicura; e mi ha tratto fuori dalla terra d’Egitto, dalla tirannia rossa - nonostante i miei peccati e

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certamente per le vostre preghiere - perché continui a es­sere Capo e Padre dei suoi eletti, in questa Opera di Dio.E mio proposito venirvi a trovare, uno per uno. Cer­cherò di farlo quanto prima.Finché non arriverà il momento, tanto desiderato, con questa Lettera Circolare vi offro luce e incoraggiamento e mezzi, non solo per perseverare nel nostro spirito, ma anche per santificarvi con l’esercizio del discreto, efficace e virile apostolato che svolgiamo, alla maniera dei primi cristiani: benedetto lavoro di selezione e di confidenzal Come frutto maturo e saporito della vostra vita interio­re, con naturalezza, per la gloria del nostro Dio - Deo omnis gloria! -, rinnovate la vostra silenziosa e operati­va missione.Non esiste nulla di impossibile: omnia possum... Dimenticate i nostri dieci anni di consolante esperien­za?... Forza allora! Dio e audacia!”46.

In attesa di parlare personalmente con ognuno, egli ri­cordava loro i fondamenti pratici della vita interiore, delle norme di pietà e dell’apostolato. E aggiunse i con­sigli utili a vincere gli ostacoli che potevano sorgere in tempo di guerra: scrivergli, studiare una lingua, fare un lavoro professionale qualsiasi, passare per Burgos quan­do avessero avuto una licenza... E scontato che si mette­va a loro completa disposizione, come fa un Padre: “Se hai bisogno di me, chiamami. Hai il diritto e il dovere di chiamarmi. E io, il dovere di accorrere, col mezzo di lo­comozione più rapido”.

La lettera terminava con un avviso:“E ora, una questione importante.Tempo addietro, si sentiva la necessità di inserire una petizione “prò Patre” nell’orazione ufficiale dell’Opera. Dal 14 febbraio prossimo - giorno di ringraziamento, come il 2 ottobre - s’incomincerà a recitare nelle nostre Preci, dopo Oremus prò benefactoribus nostris, V Ore­mus prò Patre, che sarà così: “Misericordia Domini ab aeterno et usque in aeternum super eum: custodii enim

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Dominus omnes diligentes se”. “La Misericordia del Si­gnore su di lui, sempre: perché il Signore protegge colo­ro che lo amano”.Sapete bene di essere, come dice S. Paolo, la mia gioia e la mia corona: vi penso sempre... siatemi fedeli!Vi benedice vostro Padre MarianoDa San Michele di Burgos, 9 gennaio 1938 ”47.Il Fondatore aveva bisogno della preghiera e della

mortificazione dei suoi figli. Quando scriveva: “Vi pen­so sem pre... siatem i fedeli!” non scriveva una frase qualsiasi. Durante gli esercizi spirituali a Pamplona le preghiere a favore dei suoi fluivano paternamente dal suo cuore. Il solo pensiero che si fossero perse alcune lettere di quelli del Consolato dell’Honduras - cioè di Àlvaro del Portillo e di José Maria Gonzàlez Barredo - gli toglieva la tranquillità:

“Dio mio, Dio mio: dammi la pace!Molte volte al giorno, molte, mi ricordo di ciascuno. E anche della povera nonna e dei miei fratelli: ma non pre­go mai per mia madre senza pregare per i genitori e i fra­telli di tutti”48.Benché avesse già scritto due volte al Vicario Genera­

le, in quanto Rettore di Santa Isabel giudicò prudente confermare a mons. Leopoldo Eijo y Garay la sottomis­sione alla sua autorità e la propria speciale dedizione al- l’Opera:

“Burgos, 10 gennaio 1938 Mio venerato Signor Vescovo,sono arrivato, evaso da Madrid, e mi sono affrettato a scrivere a don Moràn - che è sempre stato per me come un padre - per mettermi agli ordini di S.E. Rev.ma.Oggi, dopo aver fatto gli esercizi nel Palazzo Episcopale di Pamplona, dove mi ha accolto per alcuni giorni l’ami­cizia di quel santo Prelato, appena avuto l’indirizzo del

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;mio Vescovo - è stato il Vescovo di Vitoria a darmelo - invio queste righe a S.E. allo scopo di reiterare la mia in­condizionata disponibilità e di comunicarle che, seguen­do la mia personale vocazione, proseguo l’apostolato con giovani universitari e docenti.Se S.E. Rev.ma lo desidera, con molto piacere mi met­terò in viaggio per raccontare al mio Vescovo quello che so del magnifico eroismo del suo clero e del coraggio cri­stiano dei nostri giovani, che supera quello dei primi cri­stiani di Roma.(...) Il suo obbedientissimo figlio bacia l’anello pastorale e chiede la benedizione di S.E.Josemarìa Escrivà, Rettore di Santa Isabel.Abito a Burgos: via Santa Chiara, 51 ”49.Sempre il 10 gennaio si recò al palazzo arcivescovile

di Burgos, per chiedere al Vescovo, mons. Manuel de Castro y Alonso, le facoltà per l’esercizio del suo mini­stero. Per strada incontrò un sacerdote che aveva cono­sciuto a Madrid, il quale lo accompagnò gentilmente fi­no al palazzo, dove gli fu presentato un parroco, venuto in visita, che conosceva da vecchia data l’ampia paren­tela ecclesiastica degli Albàs. Parlando con il parroco, don Josemarìa si dimenticò degli avvertimenti, senza dubbio un po’ esagerati, con cui tutti mettevano in guardia dagli umori del Vescovo. Non aveva paura. Per fortuna egli era ben raccomandato da mons. Marcelino Olaechea. Per di più anche mons. Javier Lauzurica si era preso il disturbo di avvisare per telefono il Vescovo di Burgos per annunciare la sua visita. Tuttavia egli per­cepì in quell’ambiente qualcosa di molto strano. Notò una sensazione di abbandono e di freddezza. I corridoi erano deserti e nessuno faceva anticamera.

A questo punto il Vescovo si affacciò nel corridoio, mentre il Padre udì qualcuno annunciare: “C’è qui Escrivà”.

Don Josemarìa passò nel salone delle visite e conse­gnò all’Arcivescovo la lettera del Vescovo di Pamplona:256

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Ritornò poco dopo con un’espressione arcigna. S’im­merse nella lettura della lettera e, benché mons. Olae- chea avesse costellato il testo di frasi disinvolte, il suo collega di Burgos non batté ciglio. Terminata la lettura, guardò don Josemaria da sopra le lenti e gli si rivolse con secca laconicità: “Quest’Opera non la conosco”.

Il sacerdote cercò allora per un paio di minuti di spie­gare quello che già diceva la lettera circa i fini e le atti­vità dell’Opera.

“Qui non ci sono universitari; di clero ne ho fin troppo; non le concedo le facoltà”, fu la risposta, secca e pesante. “Se il Signor Arcivescovo mi permette...”, cominciò don Josemaria.“Sì, permetto”, disse in tono autoritario.“È vero che qui non ci sono universitari, perché tutti i giovani sono al fronte; ma, poiché Burgos è il centro di tutte le attività, ci sono sempre giovani universitari che passano”.“Sono molto ben seguiti, non ho bisogno di lei”, furono le sue parole di commiato50.Così ebbe termine la visita, che don Josemaria de­

scrisse in tono leggero, con un titolo da opera teatrale: “Colloquio di un chierico peccatore con l’Arcivescovo di Burgos”. Il sacerdote uscì molto sereno dalla rappre­sentazione, ma si vide costretto a sottoporre di nuovo il caso ai Vescovi di Pamplona e di Vitoria, per cercare di ottenere le desiderate facoltà per altra via, perché quella dell’Arcivescovo sembrava definitivamente chiusa. Pri­ma della fine del mese, il Vescovo di Vitoria, di passag­gio a Burgos, sistemò le cose. Quando don Josemaria andò di nuovo a far visita all’Arcivescovo, fu tutto più facile. Questa volta il prelato fu tutto miele: “Conviene che lei stia a Burgos: non si muova da Burgos. Vada pu­re negli uffici: le daranno facoltà illimitate”51.

“Aspetti, prendo gli occhiali”.

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Il passo successivo fu quello di trovare un buon con­fessore. L’11 gennaio gli fu presentato un sacerdote pa­ralitico, don Saturnino M artìnez. D on Josemarìa gli chiese se voleva essere il suo confessore. “M i capisce perfettamente”, scrisse quel giorno in una Caterina. E non è difficile capire perché don Saturnino gli era anda­to tanto a genio:

“Nella conversazione mi fece gioire per le lodi che de­dicò agli Angeli; e perché anche lui crede che noi sacer­doti, a motivo del nostro ministero, oltre all’Angelo Cu­stode abbiamo un Arcangelo. Sono uscito dalla sua casa con profonda gioia, raccomandandomi al mio piccolo Orologiaio e all’Arcangelo. E pensai con sicurezza che, se anche non fosse vero che ho con me un Arcangelo, Gesù finirà col mandarmelo, affinché la mia preghiera all’Arcangelo non sia sterile. Fattomi bambino, per stra­da mi chiedevo come l’avrei chiamato. Sembra un po’ ri­dicolo, ma quando si è innamorati di Cristo non c’è ridi­colo che tenga: il mio Arcangelo si chiama Amatore”52.N on accettando stipendi di M esse, don Josemarìa

aveva libertà di intenzioni e le applicava alle necessità dell’Opera e dei suoi. Eccezionalmente, il 17 gennaio la celebrò per la propria persona e le proprie intenzioni:

“Celebro il Santo Sacrificio per me, sacerdote peccatore. Lo noto: quanti atti di Amore e di Fede! E nel ringrazia­mento, peraltro breve e distratto, ho visto che dalla mia Fede e dal mio Amore, dalla mia penitenza, dalla mia orazione e dalla mia attività, dipendono in buona parte la perseveranza dei miei e, in questo momento, persino la loro vita terrena. Benedetta Croce dell’Opera, che portiamo il mio Signore Gesù - Lui! - e io!”53.Per le sue penitenze egli aveva bisogno di un minimo

di indipendenza e di libertà di movimenti. “Desidero avere una camera per me solo - si legge negli A p p u n ti - .

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Altrimenti non mi è possibile fare la vita che Dio mi chiede”. Vita che consisteva nel dormire per terra e so­lamente cinque ore per notte (“meno la notte tra il gio­vedì e il venerdì”, che voleva trascorrere in bianco); nel saltare alcuni pasti; nell’uso delle discipline (esercizio del tutto incompatibile con la tranquillità di una casa con ospiti, poiché sappiamo bene il modo in cui le usava don Josemarìa). “In verità - continua l’annotazione - è molto divertente ciò che ho vissuto a Pamplona e a Bur­gos e che si potrebbe intitolare: ‘alla caccia di qualche disciplina’”54. Ignoriamo i particolari della cosa. Forse il penitente allude alla difficoltà di trovare delle discipli­ne ad hoc, come le voleva lui.

Fra una cosa e l’altra, don Josemarìa andava semi­nando di mortificazioni il proprio cammino. La sera prima, 16 gennaio, aveva fatto il “fermo proposito - si legge negli Appunti - di non visitare per curiosità - mai!- alcun edificio religioso. Povera cattedrale di Bur­gos!”55. Certi avverbi, conoscendo la ferrea volontà del Fondatore, sono terribili: si ricordi il “non guardare mai!” del 193256.

A Burgos avevano bisogno di un appartamento in cui ricevere visite e accogliere coloro che erano di passaggio; meglio ancora se fosse stato possibile sistemarvi un orato­rio. Ma per quanto cercassero non riuscirono a trovare un appartamento Ubero. Di conseguenza, l’eclatante “San Miguel de Burgos”, nome riportato sull’intestazione della Lettera Circolare, non sarebbe mai stato altro che la mi­nuscola stanza di una pensione o di un albergo57.

Don Josemarìa aveva ben tracciati in mente i piani a breve, medio e lungo termine, benché per lui tutto finis­se per essere “lavoro immediato”. La prima cosa era tentare di far destinare a Burgos Juan Jiménez Vargas, Pedro e Paco, i quali, insieme ad Albareda, avrebbero costituito, per così dire, l’organico dell’ufficio centrale che, da una sede fissa, si sarebbe occupato di coordinare il lavoro apostolico, di prendersi cura degli amici che

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passavano per Burgos e di mantenere i rapporti episto­lari. Doveva anche riuscire con urgenza a parlare quan­to prima con ciascuno dei membri dell’Opera. Basta scorrere le Caterine per accorgersi delle sue sofferenze:

“Dio mio, Dio mio! Tutti ugualmente amati, per Te, con Te e in Te: tutti dispersi. Mi hai colpito dove più poteva farmi male: nei figli”58.Era un dolore che comprendeva molte cose: l’impossi­

bilità di condividere da vicino difficoltà e sofferenze al­trui, la mancanza di un focolare di famiglia, l’isolamen­to e la solitudine: “Quanto mi pesa la solitudine! I miei figli, Signore!”; e poi il pensiero inquietante che, in quelle condizioni, era meno sicuro che i suoi figli perse­verassero fedelmente nel cammino59.

Ora che risiedeva a Burgos, con un abisso invalicabile tra una zona e l’altra, il suo affetto ingigantiva la deso­lazione. Se Isidoro scriveva: “La nonna e gli zii prose­guono meravigliosamente; stanno passando molto bene l’inverno”60, il Padre annotava: “Non è possibile, otto mesi fa si mancava di tutto”61. Comunque, nonostante immaginasse scarsità e avversità, non poteva rendersi conto fino in fondo della cruda verità che effettivamente nelle lettere gli veniva nascosta. L’inverno del 1938 a Madrid fu terribile: con un freddo spaventoso e man­canza di cibo e di combustibili: “Ho una tale collezione di geloni - scrisse Isidoro - che faccio fatica a impugna­re una matita”62.

Il Padre era presente a se stesso e teneva conto con matematica precisione della corrispondenza. Il 24 feb­braio raccontava a Juan Jiménez Vargas: “Da Madrid abbiamo ricevuto sette lettere e ne abbiamo inviato loro diciotto”. Ricevere notizie, pur essendogli di grande consolazione, poteva anche diventare un supplizio, per l’attesa impaziente della risposta, sempre con il sospetto di disguidi o con il timore della censura. Su questo pun­260

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to, chiedere al Padre che prendesse le cose con filosofia era chiedere una cosa impossibile. Non faceva parte del­la sua natura. Lo disse chiaramente a Juan in una lettera del 27 marzo:

“Da Madrid - poveri figli! - spero che arrivi qualcosa uno di questi giorni. Ho inviato loro una lettera il 18 via San Juan de Luz, e un’altra il 26 tramite il marchese de Embid. Mi fanno molta pena. Tu mi conosci meglio di chiunque altro e sai bene che sono... eccessivo. Il Signore non ne terrà conto”63.Naturalmente, l’accusa a se stesso di essere “eccessi­

vo” nei sentimenti paterni va presa con cautela.* * *

Durante l’anno e mezzo trascorso nella zona repubbli­cana, continuamente in pericolo di prigione o di morte, il Padre aveva visto da vicino il coraggio, la fedeltà e l’aiuto che aveva significato per tutti la presenza di Juan Jiménez Vargas. Per la sua anzianità nell’Opera e per la sua attitudine alla decisione e al comando, il Padre lo aveva messo a capo della spedizione per la traversata dei Pirenei. Arrivati nell’altra zona, cercò con tutti i mezzi di trattenerlo con sé per ricominciare il lavoro apostolico: Juan avrebbe potuto servire molto bene la nazione in un ospedale, pensava il Fondatore, abbinan­do il servizio patriottico al lavoro per l’Opera. Con que­sta idea in testa, non appena arrivarono a San Seba­stiàn, il Padre interessò Juan José Pradera perché raccomandasse la cosa al generale Cabanellas. Poi te­lefonò al Vescovo di Pamplona perché questi, a sua vol­ta, si interessasse della possibilità di destinare Juan a Burgos presso il dottor Antonio Vallejo Nàgera, medico militare; continuò a insistere, ma il trasferimento di Juan non avveniva. Una Caterina del 27 gennaio esprime la sua ferma decisione: “Deciso a fare il possibile e per­

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sino l’impossibile per portare Juan al mio fianco. È ne­cessario!”64. Dopo tanti sacrifici per passare nella zona nazionale, era giusto che rimanesse solo, con tutti gli al­tri sparpagliati, quando l’unico motivo che l’aveva spin­to a valicare i Pirenei era seminare propositi e ideali apostolici e prendersi cura delle persone dell’Opera?

Da una lettera del 24 febbraio ci rendiamo conto del motivo del suo grande.interesse a tenere al proprio fianco Juan: il Padre, in via riservatissima, gli diceva che, se fos­se stato fedele e si fosse lasciato formare, sarebbe stato “il suo immediato successore negli affari di famiglia”65. In quei momenti alcune circostanze angosciose, che più avanti esporremo, tenevano sotto pressione il Fondatore.

Anche Albareda abitava con il Padre nella pensione Santa Chiara, benché si assentasse spesso da Burgos per ragioni professionali; Pedro e Paco stavano sempre a Pamplona. Entrambi erano stati destinati ai servizi ausi­liari e questo rendeva più facile il loro eventuale trasferi­mento ad altri dipartimenti o uffici militari situati a Burgos. Perciò, quando il Padre seppe che Luis Orgaz era Direttore Generale della Mobilitazione, Istruzione e Recupero dell’Esercito (M.I.R.), decise di tentare il tra­sferimento a Burgos dei due di Pamplona. Il generale Orgaz aveva sentito parlare di quel sacerdote che, nel maggio 1931, durante gli incendi dei conventi a Ma­drid, aveva prelevato il Santissimo dal “Patronato de Enfermos” e lo aveva messo in salvo in una casa priva­ta. Don Josemaria lo aveva incontrato quando l’ufficiale era prigioniero nel Carcere Modello. Ora si presentò nel suo ufficio per informarsi sulle possibili destinazioni di Pedro Casciaro e di Paco Botella66.

Il trasferimento di Paco fu relativamente rapido: il 23 gennaio era già a Burgos. Non fu così per Pedro, che ri­mase in forza al Reggimento Zappatori e Minatori di Pamplona fino al mese di marzo. In caserma Pedro go­

deva della “protezione” del caporale Garmendia, col quale il Padre aveva fatto amicizia nelle sue visite al262

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Reggimento regalandogli alcuni sigari di qualità, di quelli che il Vescovo Olaechea teneva in serbo per gli in­vitati importanti. Il caporale, buon padre di famiglia, si dava arie, fra i soldati semplici, di aver fatto “una verti­ginosa carriera militare, meglio di Napoleone!”, diceva scherzando: alla mia età sono già caporale!

Nella pensione di Pamplona dove abitavano Pedro e Paco, la padrona, signora Micaela Pinillos, già gover­nante di un sacerdote molto anziano, buona cuoca, ave­va scoperto nel Padre “qualcosa di molto speciale”. “Si vede da lontano che è un santo”, affermava67. Come frutto della venerazione che provava per quel sacerdote, gli ospiti suoi amici, cioè Pedro e Paco, ottennero un trattamento privilegiato, con frequenti cene gratis, poi­ché non pagavano altro che la camera.

Oltre alla signora Micaela e al caporale Garmendia, Pedro ebbe un altro “protettore”. A metà gennaio seppe che un fratello di sua madre, Diego Ramirez, giornali­sta, era scappato da Barcellona. Era noto come dirigen­te dell’Azione Cattolica e come carlista di spicco. Egli divenne subito redattore-capo di El Correo Espanol di Bilbao, sotto lo psèudonimo di Jorge Claramunt, per evitare rappresaglie contro la sua famiglia, ancora na­scosta a Barcellona68.

La storia del padre di Pedro era politicamente molto diversa da quella di suo zio. La famiglia dei Casciaro possedeva da antica data molti beni a Murcia e a Carta- gena. Ma il padre di Pedro, professore di Storia e Geo­grafia nel Liceo di Albacete, rimase legato a questa città per il suo crescente interesse in campo archeologico e an­che per l’entusiasmo con cui militò fin dall’inizio nelle fi­le repubblicane. La guerra, civile lo sorprese mentre era vicesindaco e, come dirigente del partito di Azana, presi­dente provinciale del Fronte Popolare, che comprendeva anche elementi rivoluzionari. Fu così che un uomo di idee e sentimenti moderati si trovò coinvolto, come tanti altri e senza poterlo evitare, in eventi luttuosi. E comun­

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que doveroso precisare che salvò la vita a sacerdoti e re­ligiosi, evitò sacrilegi e impedì che fossero rubati e profa­nati immagini, arredi e vasi sacri. Accettò persino di con­servare il Santissimo in casa sua affinché un sacerdote potesse portare clandestinamente il Viatico ai malati69.

Comunque, non tutti i Casciaro e i Ramìrez respira­vano la stessa aria politica. La famiglia di Pedro era va­riegata. C’erano uno zio sindaco socialista radicale, consiglieri comunali repubblicani e altri monarchici, uf­ficiali dell’Esercito che furono fucilati, falangisti che fu­rono incarcerati e alcuni parenti volontari nelle Brigate Internazionali...

In gennaio Pedro si ammalò di un’infezione intestina­le. Avvertì lo zio Jorge Claramunt, che venne a Pamplo- na e poi se lo portò a Bilbao a riposare. Dopo qualche settimana ritornò a Pamplona. Pochi giorni dopo Paco Botella venne a sapere che si era reso vacante un posto nella Segreteria di Orgaz. Immediatamente, il 4 marzo, il Padre chiese quel posto per Pedro. Il 9 marzo Pedro giunse a Burgos70.

3. “Viaggiatore del mio Signore Gesù”I progetti a medio termine che il Fondatore si era prefis­so giungevano fino alla fine della guerra, al momento di rientrare a Madrid. Don Josemarìa, benché a volte non ci vedesse chiaro, era tra gli ottimisti che reputavano imminente la fine della guerra71. Il che lo spingeva a in­traprendere una feconda campagna apostolica allo sco­po di poter contare su un maggior numero di persone e più mezzi materiali per ricominciare un’altra volta a Madrid. “Signore, dacci cinquanta uomini che ti amino sopra tutte le cose!”, chiedeva davanti al tabernacolo. “Ho bisogno di un milioncino - scrisse al Vescovo di Vi­teria - oltre a cinquanta uomini che amino Cristo sopra tutte le cose”72. Ma poiché non gli venivano automati­264

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camente tra le mani né le vocazioni né le pesetas, si pre­parò a lanciarsi a cercarle.

Al progetto di parlare con ciascuno dei suoi figli si unì quello della campagna apostolica. Prevedeva che i suoi viaggi sarebbero stati lunghi e complicati, come scriveva a Ricardo il 31 dicembre 1937: “Mi hanno promesso un salvacondotto molto ampio, affinché possa vedere con facilità tutta la mia famiglia: viaggerò più di un camioni­sta”73. Don Josemaria preparò un programma di viaggio anche in vista di altri obiettivi, per esempio quello di far visita a tutti i Vescovi per far loro conoscere l’Opera.

“In questi giorni - annunciava al Vescovo di Pamplona e all’Amministratore Apostolico di Vitoria - partirò per Palencia, Salamanca e Àvila. Poi andrò a Bilbao... Sono diventato un... viaggiatore del mio Signore Gesù!”74.Il 15 gennaio aveva ricevuto una affettuosa lettera di

don Moràn, il Vicario Generale di Madrid. Questa ri­sposta, tanto attesa, fu la spinta decisiva per salire sui treni e sugli autobus del tempo di guerra, tutti in pessi­me condizioni, e per intraprendere il cammino del viag­giatore di Gesù: “Non si può immaginare - gli scriveva il Vicario - la graditissima sorpresa che mi ha fatto... Grazie a Dio lei si trova tra di noi!... a lavorare nella sua prediletta Opera che, se fu sempre necessaria, tanto piùlo sarà nel dopoguerra”75.

Alcuni giorni prima, quasi per dargli il via, gli arrivò un’elemosina di mille pesetas. Aveva voglia di fare quel viaggio. Vi aveva riposto molte speranze, convinto che il lavoro apostolico ne avrebbe avuto un notevole impul­so. Alla vigilia del viaggio ne elencava con entusiasmo le tappe a Manolo Sainz de los Terreros:

“Dopodomani - viaggiatore del mio Signore Gesù - ini­zio il viaggio: Burgos-Palencia; Palencia-Salamanca; Sa- lamanca-Àvila; Àvila-Salamanca; Salamanca-Palencia;

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Palencia-León; León-Astorga; Astorga-León; León-Bil- bao; e... che ne so; magari devo allungarmi fino a Sivi­glia. Essere povero in canna è l’ideale per percorrere il mondo”76.Era tanta la gioia che, scrivendo a Isidoro, gli anticipò

l’esito del viaggio:“Il nonno se ne va scorrazzando che è un piacere: doma­ni parte per sei o otto capoluoghi. Nonostante tutto, il poveretto sta ingrassando. (...) Queste scorrerie le fa da solo, il nonnino; e dice che ritornerà con molto denaro che gli darà il signor Emanuele, per sistemare la sua casa di Parigi. Magari così fosse!”77.Tale era il tono gioviale e baldanzoso del “viaggiatore

del mio Signore Gesù”. Ma vediamo negli Appunti la sua situazione interiore:

“(...) decido di fare un viaggio piuttosto pesante, ma ne­cessario.Se fosse per me, mi chiuderei in un convento - solo so­letto - fino alla fine della guerra. Grande fame di solitu­dine. Non la mia volontà, bensì quella del Signore: e io devo lavorare e darmi da fare, altro che isolarmi. Ho an­che una gran voglia di andarmene da Burgos”78.L’acuto desiderio di solitudine era fame di saziarsi di

Dio, in solitudine. Si sentiva invece obbligato a correre da un posto all’altro, affaticato e senza requie.

Il 19 gennaio, dopo aver celebrato come al solito alle sei e un quarto presso le Teresiane, prese l’autobus e ar­rivò a Palencia. Chiedendo informazioni, arrivò al palaz­zo episcopale. Quando lo vide, il Vescovo rimase attoni­to. “Sembra un’altra persona!”, disse al suo segretario. Non si vedevano da prima della guerra e parlarono cor­dialmente. Dopo la visita, don Josemarìa prese il treno per Valladolid. Il giorno successivo celebrò presso le Te-266

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resiane una Messa per don Pedro Poveda e cercò invano di localizzare in città la famiglia di Jacinto Valentin Ga- mazo, un membro dell’Opera morto sul fronte di Alto de los Leones79.

Il 21 gennaio, a Salamanca, celebrò la Messa nella ca­sa di formazione delle Teresiane. Là ebbe una lunga con­versazione con Josefa Segovia e, d’accordo con lei, fece un programma di assistenza spirituale alle Teresiane.

Il 22 gennaio lasciò Salamanca. Arrivò ad Àvila in tem­po per celebrare la Messa: “Celebro per don Pedro (come se la riderà dal Cielo! Dirà: questo scemo fa dei suffragi per me!) presso le Teresiane. Grande accoglienza!”80.

Ebbe un cordialissimo e lungo colloquio con il Vesco­vo di Àvila, mons. Santos Moro, al quale spiegò l’Opera (“Capisce perfettamente”, annotò negli Appunti). Nel pomeriggio tornò a Salamanca. Grande fu la sua sorpre­sa il giorno successivo, mentre preparava lo schema del ritiro che si apprestava a predicare alle Teresiane, perché giunse Ricardo, proveniente dal fronte; perciò modificò subito il programma, visto che il permesso di cui quegli disponeva era di soli due giorni. “Tutto il giorno con Ri­cardo, pensando a tutti”, riassunse in una Caterina*1.

A poco a poco e impercettibilmente, man mano che don Josemarìa segnava le tappe di quell’itinerario este­nuante, comincia ad apparire negli Appunti una traccia di sintomi inquietanti, dapprima un accenno di malavo­glia e lieve stanchezza, alla fine qualche nota allarmante:

“25 gennaio. Faccio un ritiro alle Teresiane, con poca voglia ma molta buona volontà”82.“Burgos, 28 gennaio. Vita ordinaria. Sono raffreddato”83. “Vitoria, domenica 30. Gran desiderio di solitudine. Mi sembra di essere una palla che rimbalza, rilanciata da Dio mio Padre, da parete a parete, a volte colpita col piede, a volte accarezzata dalle sue mani...”84. “Bilbao,1 febbraio. Oggi abbiamo ballato molto (...). Sono com­pletamente afono: non riesco a parlare. Ritorno domani

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a Burgos a curarmi. Mi sento debole. Sono un po’ in­grassato e sto peggio di quando sono arrivato. Provo nausea al minimo movimento dell’auto su cui mi trovo. Sto malissimo, ma non lo racconterò a nessuno”85. “Burgos, 2 febbraio. Arrivo in via Santa Chiara 51 e non mi muovo di casa. Gargarismi, compresse, fazzolet­to al collo, ecc. Sono contento di essere stato a Bilbao! Spero che darà frutto”86.“3 febbraio. Mi alzo tardi (...). Non riesco a celebrare la Messa”87.“4 febbraio. Brutta notte. Tosse e pastiglie. Non posso celebrare la Santa Messa neppure oggi”88.Sperava che il male fosse cosa da poco, che gli passas­

se con qualche giorno di riposo. Non fu così. Peggiorò. Mentre era costretto a letto, ricevette una lettera dal Vi­cario di Madrid, don Moràn, che gli dava appuntamen­to per il 10 febbraio a Salamanca. Mal ridotto e com­pletamente afono, annotò il giorno 8: “Sono ancora afono. Domani devo andare a Salamanca (...). Non so se coricarmi”89. La spuntò la sua diligenza, ma dovette spezzare il viaggio e passare la notte a Medina del Cam­po, senza quasi dormire e con molta febbre. Si riprese e riuscì ad arrivare a destinazione. Pranzò a Salamanca con don Francisco Moràn e parlarono dell’Opera a lun­go e a fondo. Don Josemaria raccontò al Vicario la sua vita a Madrid, l’evasione, l’apostolato sui fronti e nelle retrovie, le sue visite ai Vescovi. Gli lesse la Lettera Cir­colare ai suoi. Gli parlò dei suoi esercizi spirituali e del­la sua vita interiore. In questo modo don Francisco era al corrente di tutto ciò che riguardava l’Opera, non solo della sua vita esterna. Ricordarono i tempi della Repub­blica, quando don Josemaria non era ancora incardina­to a Madrid e cercava di farsi capire per ottenere le fa­coltà ministeriali. Parlarono poi dei dieci anni di lavoro dell’Opera e il Vicario rise di gusto quando don Jose­maria gli chiese: “Che cosa mi avrebbe detto, se nel 1928 fossi venuto a dirle: ‘Ho bisogno di fermarmi a268

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Madrid, perché Gesù vuole che faccia un’Opera molto grande’?”90. Il giorno 11 era di ritorno a Burgos, dovelo attendeva “una affettuosissima lettera del Vescovo di Madrid”, nella quale si leggeva:

“Carissimo don José Maria,mi ha fatto molto piacere la sua lettera del 10 gennaio e la ringrazio di cuore. Moràn mi aveva già dato l’immen­sa gioia di farmi sapere che lei si era liberato dalla zona rossa e che Dio nostro Signore ce l’aveva conservato per continuare a fare tanto bene. Mi scusi se non le ho ri­sposto prima; sono stato malato e mi sto riprendendo lentamente, ma sono in grande ritardo, com’è logico, nel disbrigo della posta...”91.Con l’incontro e la lettera don Josemarìa si riprese del

tutto. Dal 15 al 17 febbraio fece un viaggio a Leon. Cammin facendo ebbe colloqui con diverse persone e con il Vescovo di Astorga. Era andato, soprattutto, per vedere don Eliodoro Gii, che conosceva dal 1931; il sa­cerdote aveva frequentato l’Accademia DYA di via Lu- chana e, in seguito, la Residenza di via Ferraz. Ora era parroco a Leon. “Contento del viaggio: ho ottenuto ciò che mi proponevo con Espinosa ed Eliodoro (preferisco non precisare)”, scrisse negli Appunti. A Espinosa de los Monteros parlò della sua possibile vocazione all’Opera e don Eliodoro s’impegnò a tirare al ciclostile le Lettere Circolari che gli avrebbe inviato da Burgos, per distri­buirle poi ai suoi, sui fronti di guerra. Inoltre quel buon sacerdote gli pagò l’albergo, gli regalò alcuni dolci e per giunta gli fece “una buona elemosina”92.

“Mi corico presto perché sono distrutto”93. “Sabato 19 febbraio. Grigio. Molto catarro. Poco da dire”94. Dome­nica 20 partì per Saragozza, passando per Calatayud. “Lunedì 21 febbraio. Al Pilar. È la prima visita che fac­ciamo a Saragozza. Poi, dalle Teresiane. Quindi dal me­

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dico: perché continuo ad avere febbre, mal di gola e mi esce sangue”95.Nuove visite e spostamenti. Venne a sapere che Enri-

que Alonso-M artinez era ricoverato in ospedale ad Alhama de Aragón. Andò a trovarlo e tornò a Saragoz­za. Andò a Pamplona. D i qui a Jaca, per vedere José Ramón Herrero Fontana (prima della guerra il Padre lo chiamava il beniam ino della famiglia). Ritorno a Pam­plona. Poi, a San Sebastiàn. Altre visite. Altre questioni da trattare. Il 2 marzo, mercoledì delle Ceneri, ritornò a Burgos, stanchissimo e febbricitante. Giovedì aveva an­cora febbre; venerdì rimase a letto.

Da quel momento il suo proposito - scrupolosamente seguito - di scrivere Caterine quasi ogni giorno subì un’interruzione.

“10 marzo, giovedì. Non ho scritto Caterine da diversi giorni. Avrei potuto scrivere molto (...).Mi vedo come un poveretto al quale il padrone ha tolto la livrea. Si vedono solo i peccati! Capisco la nudità pro­vata dai progenitori. Ho pianto e sofferto molto. Tutta­via sono molto felice. Non farei a cambio con nessuno. Sono anni che non perdo il gaudium cum pace. Grazie, mio Dio! (...). Non riesco a fare preghiera vocale. Mi fa star male, quasi fisicamente, sentir pregare ad alta voce.La mia orazione mentale e tutta la mia vita interiore so­no solo disordine. Ne ho parlato con il Vescovo di Vito- ria, che mi ha tranquillizzato. Oggi gli scriverò. - O.c.P.a.I.p.M.”96.“Lunedì 21 marzo. Molti giorni senza scrivere Caterine (...)•In questi giorni mi hanno visitato tre medici. I ragazzi vi si sono messi d’impegno (...).Oggi è venuto don Antonio Rodilla. Che buon amico! Gli ho mostrato la mia anima: nudità di virtù, un muc­chio di miserie; quasi non faccio preghiera vocale; credo di non fare neppure quella mentale; disordine. Non sop­

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porto la preghiera vocale: mi fa persino male la testa a sentir pregare ad alta voce. Disordine. Ma so di amare Dio. E so che Egli mi ama. Sono disgraziato, perché so­no peccatore e disordinato e non ho vita interiore. Vor­rei piangere, ma non ci riesco: io che ho pianto tanto! Ma nello stesso tempo sono molto felice: non farei a cambio con nessuno. A don Antonio ho raccontato que­sto e altre cose. Il mio quarto d’ora di ringraziamento, interminabile, passato guardando continuamente l’oro­logio, perché finisca. Che tristezza! E tuttavia amo Gesù sopra tutte le cose. Ho detto poi a don Antonio che mi sembrava di ingannarlo e che è la superbia che mi fa parlare. Mi ha consolato e ha detto che vado bene”97.Le annotazioni successive sono come lacrime sparse

su un mare di amarezza:“15 aprile, Venerdì Santo. È passato il tempo senza che mi fosse possibile scrivere Caterine. (...) Non dico nulla sul mio stato d’animo attuale”.“4 giugno 1938, vigilia di Pentecoste. Quasi due mesi senza scrivere. D’ora in poi cercherò, se possibile, di far­lo ogni giorno. Caterine*.”98.

* si- si-

Fino a che punto si rendeva conto, il Fondatore, di esse­re sottoposto a una durissima prova? Si può affermare, almeno, che la malattia che gli riempiva la bocca di san­gue era un male doloroso e strano. N on si seppe mai con certezza se riguardasse la gola o i polmoni, poiché la m alattia era di eziologia rara e incerta. D on Jose­marìa l’aveva accolta pazientemente, con il timore an­goscioso di non poter continuare a stare accanto ai suoi figli, nel caso si trattasse di tubercolosi contagiosa. Per consiglio medico cominciarono a fargli iniezioni indica­te per le affezioni polmonari, ma il sacerdote pensava che, se davvero fosse stato tisico, il Signore lo avrebbe guarito perché proseguisse a lavorare99. “Fammi il favo­

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re di non parlare della mia malattia, che non esiste più”, scrisse a Ricardo100. Lo specialista non aveva trovato nulla di particolare ai polmoni; ma già allora don Jose­maria si era reso conto che quella singolare malattia rappresentava il preludio della recrudescenza delle sue purificazioni passive.

In effetti, guardando le date, i sintomi della malattia coincidono con le due Caterine del marzo 1938 in cui il sacerdote, a cuore aperto, manifestava il proprio stato interiore. Per quale misteriosa causa compaiono all’im­provviso queste isolate e formidabili Caterine nell’ampio intervallo di date degli Appunti} Era consapevole don Josemaria di trovarsi nel pieno di un processo di purifi­cazione mistica?

C’è però un dato, certamente minuscolo, che diventa un indizio utile a metterci sulla strada giusta: è strano che dopo più di un mese senza annotazioni ci si imbat­ta improvvisamente in una inquietante confessione: “Mi vedo come un poveretto al quale il padrone ha tol­to la livrea”101. Immagine poetica, in pari tempo spon­tanea e meditata, con la quale rompeva il silenzio. Im­magine che forse s’ispira a S. Giovanni della Croce, come si vedrà da quanto segue, e che veniva a proposi­to per indicare d’un colpo solo, secondo lo stile del Fondatore, lo stato della propria anima. Orbene, il mi­stico castigliano ce ne svela il significato nel Canto del- rAnima che di notte va in cerca dell’Amato: “Al buio uscii e sicura / per la segreta scala, travestita”. Travesti­re l’anima, chiarisce il poeta mistico, è occultarsi sotto una veste o un costume che è adatto “a rappresentare di più l’affetto del suo cuore”, per conquistare la vo­lontà dell’Amato. E così “la livrea indossata da lei è di tre colori, bianco, verde e rosso, che significano le tre virtù teologali: fede, speranza e carità”102. Con questo travestimento l’anima esce da se stessa e da tutte le co­se, essendo la sua casa già “addormentata”, per vivere una vita di amore di Dio.272

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La confessione degli Appunti, rafforzata con l’imma­gine della livrea di cui veniva spogliato, descrive un’e­sperienza mistica. L’autore s’introduceva, senza pream­boli, nel proprio vissuto, dando notizia della segreta operazione di turbamento che causa nella sua anima PAmato. Non tanto per farcelo sapere - perché non è questo lo scopo delle note intime del Fondatore - ma forse perché Dio stesso lo spingeva a lasciarcene testi­monianza per il nostro vantaggio spirituale. Si sa bene che sulle sue vicende intime il Fondatore era parco di parole e facile al silenzio.

A questo punto, prima di proseguire, sembra opportu­no volgere lo sguardo indietro, alle innumerevoli prove attraverso le quali don Josemarìa era dovuto passare dal 1931 al 1936, dopo che l’aquila divina - ci dice - lo ave­va afferrato coi suoi artigli, sì lui, nulla più che un pove­ro uccellino, e lo aveva trascinato sempre più in alto per iniziarlo poi, di colpo, al volo sovrano dello spirito103.

Don Josemarìa trascorse molti anni, solcati da tribola­zioni, convinto di essere “uno strumento inetto e sordo”104, indegno come Fondatore e peccatore misera­bile. Oltre a questa convinzione, fonte di acuto dolore, dovette sperimentare per lunghi periodi sofferenze insop­portabili che provocavano in lui un senso di ribellione, a causa di forti tentazioni di “cose basse e vili”105, mentre cercava con ansia la conformità alla Volontà di Dio. Era poi venuta la “prova crudele”106, nella quale dovette di­staccarsi, su richiesta del Signore, da ciò che era l’essenza stessa della sua vita, l’Opus Dei; e poi la povertà della fa­miglia, le umiliazioni e l’aridità spirituale, il dolore per la Chiesa perseguitata e per i sacrilegi che si perpetravano dovunque. Tuttavia, in mezzo a tanto soffrire non gli era mancato il perfetto abbandono nelle mani di Dio; e nep­pure il senso della filiazione divina, che portava marcato a fuoco nell’anima; né l’amore per la Croce, profonda­mente radicato nel suo cuore; né la vita d’infanzia spiri­tuale, fatta costume e metodo della sua vita interiore; né

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un ardente zelo apostolico. Mescolati con pene e con gioie c’erano pure torrenti di grazia, che inondavano la sua anima di contemplazione infusa, e preghiera conti­nua, di giorno e di notte, anche nel sonno107.

Accade che Dio, quando vuole portare avanti un’ani­ma in queste condizioni, già matura e irrobustita nelle afflizioni e nell’aridità, non la immerge subito nella “notte dello spirito” per darle gli ultimi tocchi di purifi­cazione, ma lascia passare del tempo108. Sembra essere questa la regola generale. Nella vita mistica del Fonda­tore, tuttavia, la contemplazione infusa si verificò abba­stanza presto. Chi osserva con attenzione il corso della sua vita vedrà che le durissime purificazioni passive che subì, sempre ravvivate dall’Amore divino, non cessaro­no fino al giorno della morte. In questo aspetto della sua vita interiore, gli anni della guerra civile furono ca­ratterizzati dal fatto di essere stati anni di riparazione, come si è visto. Questo egli aveva chiesto al Signore un mese prima che scoppiasse la guerra e don Josemarìa passò gli anni della guerra civile issato “su una Croce senza spettacolo”109.

Abbiamo finora riscontrato diversi momenti di evi­denti prove interiori. In primo luogo la sequenza delle notti precedenti e successive al 9 maggio 1937 quando, rifugiato nel Consolato dell’Honduras, era salito al pia­no superiore a sfogarsi con padre Recaredo Ventosa. Poi il periodo che si era concluso con il noto episodio della rosa di Rialp, caratterizzato da atroci dubbi, che ebbe sia a Madrid che a Barcellona. Un terzo periodo è que­sto che va dal febbraio all’aprile 1938, quando abitava nella pensione di via Santa Chiara, a Burgos. Ciò che descrivono le Caterine del marzo 1938 si prolungherà poi per lungo tempo. La continuità di questi fenomeni di purificazione mistica non è tuttavia evidente. Le allu­sioni al tema sono molto velate. Per esempio, il Padre scrisse a Juan Jiménez Vargas: “Se ti raccontassi, Juani- to!... Ma non lo farò”110. Tale fu l’atteggiamento che as­274

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sunse di fronte ai suoi figli, per non appesantirli di preoccupazioni; ma cercava anche consiglio spirituale, come avvenne con don Antonio Rodilla, al quale, come abbiamo appena visto, aprì la propria anima111.

Durante questi periodi acuti, Dio gli concedeva una grande grazia, che consisteva nel purificare la sua anima dalle imperfezioni, affinando i suoi affetti per avvicinar­lo maggiormente all’intimità divina. Ma la prima im­pressione che si ricava dalla lettura delle Caterine del Consolato e di via Santa Chiara è di paura e di commo­zione: “Questa notte ho sofferto orribilmente. Credo che poche volte ho sofferto tanto come ora”, confessava il Fondatore112.

Deve essere terribile, per un’anima santa, sentirsi re­spinta, spogliata della livrea delle virtù, cioè dell’amici­zia con Dio, e gettata nelle tenebre, come accadde al personaggio della parabola del Vangelo che non aveva la veste nuziale: “Legatelo mani e piedi e gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti”113.

In questi casi l’anima si vede avvolta dolorosamente dalla luce divina, che la purifica con insopportabili tor­menti. L’intelligenza diviene cieca; la volontà inaridita; la memoria priva di ricordi; gli affetti immersi nell’an­goscia. E nella chiara illuminazione divina l’anima si ri­trova spoglia di virtù, interrata nel cumulo delle proprie miserie e indegna di avvicinarsi a Dio. In questa condi­zione essa si vede quale è in effetti e come prima non riusciva a vedersi: “Si vedono solo i peccati! Capisco la nudità provata dai progenitori”114 - aveva esclamato con dolore sconsolato - “nudità di virtù, un mucchio di miserie”115.

Vedendosi così miserabile, l’anima si sente perduta, a un passo dalla condanna. “Temo per la mia salvez­za”116, si legge nelle Caterine del Consolato; “ho dubbi e angosce terribili quando penso alla mia salvezza. Oh Dio! Oh Madre! Permetterete che mi danni?”117. Tutto è turbamento, dubbi, timori e combattimenti all’interno

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dell’anima: le notti del Consolato, agitate dal timore di non compiere la Volontà di Dio; la notte di Rialp, pas­sata in bianco con l’angoscia del dubbio di essere o me­no in amicizia con Dio.

E il dolore, “dolore di Amore”, gli struggeva l’anima e lo costringeva al pianto e a lunghe ore notturne di ge­miti: gemiti incontenibili, singhiozzi di angoscia e di pianto, molte lacrime, nelle notti del Consolato e di Rialp; e nella pensione di via Santa Chiara, giorni di gran pianto e giorni di pianto desiderato e non trovato.

Durante questo processo mistico, quando il dito di Dio si fa sentire nell’anima, anche se con una carezza, essa rimane paralizzata nelle sue facoltà. I maestri della mistica parlano di una hebetudo mentis118, come se l’in­telligenza diventasse ottusa e spuntata, senza arrivare a penetrare il senso di ciò che succede. Il Fondatore mani­festava questa esperienza con parole espressive: “Non provo nulla: sono intontito”119.

Anche la volontà è in difficoltà e senza forze; smarriti l’affetto e la diligenza, non riesce più a fare atti di devo­zione120. Perciò ogni sforzo per comporre il ragiona­mento o per muovere la volontà riesce difficile e doloro­so: “Non riesco a fare preghiera vocale. Mi fa star male, quasi fisicamente, sentir pregare ad alta voce”121.

D’altro canto, sembra che la memoria sia sviata e svuotata e sia difficile ritrovare i ricordi. Poiché l’anima è assorbita dalla presenza viva delle proprie imperfezio­ni e miserie, non può ripercorrere né trovare consolazio­ne in ciò che ha sperimentato in altre occasioni122. Tut­tavia, non appena si attenua la purificazione, la memoria si riprende. Lo si vede dalle annotazioni fatte dal Fondatore nel Consolato, quando al mattino racco­glieva le esperienze fatte durante la notte. Le ricorda con tale chiarezza e vivacità che il ricordo del passato diventa drammatico presente: “La mia preghiera, espressa con tutte le energie della mia anima: Gesù, se276

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non dovessi essere lo strumento che desideri, quanto prima portami via nella tua grazia”123.

Grazie a questo vivo ricordo sappiamo che, durante il processo di purificazione, il suo amore acquistava to­nalità di innamoramento pieno di appassionata affli­zione, come sperimentava nelle notti del Consolato. A volte esplodeva in appassionate giaculatorie: “O Do­mine! Tu scis quia amo te. - Sancta Maria, Spes, Ma- ter!”124; altre volte erano dolorose proteste di amore fi­ducioso, al di sopra della vita e della morte: “Non temo la morte, nonostante la mia vita peccatrice, perché so­no memore del tuo Amore: il tifo, la tubercolosi o una polmonite... o quattro fucilate, che differenza fa?”125. Il fatto è che, nonostante l’angoscia in cui è immersa l’a­nima che crede di aver perduto Dio, essa sente la sua vicinanza. Perciò nello spirito c’è nello stesso tempo, paradossalmente, la presenza e l’assenza di Dio. Con grande sicurezza il Fondatore affermava di non aver mai perduto, neppure durante queste turbolente espe­rienze mistiche, la pace interiore: “Sono anni che non perdo il gaudium cum pace”126.

Come frutto di quella purificazione, la conoscenza di Dio e del proprio nulla diventa più limpida, rifioriscono gli affetti di amore e riappaiono serenità e gioia: la gioia del Fondatore quando comparve con una rosa in mano, al mattino, a Pallerols; la certezza di sapere che si è rafforzata l’amicizia con Dio: “So di amare Dio. E so che Egli mi ama”127. E, dopo tremende afflizioni, la consapevolezza dell’ineffabile beneficio: “Sono molto felice. Non farei a cambio con nessuno”128.

Dopo le terribili notti di purificazione, il Padre si pre­parava con semplicità al nuovo giorno, cercando che nes­suno gli vedesse in viso i segni del combattimento interio­re. L’azione divina lascia, indubbiamente, tracce singolari in ciascuno dei suoi santi. La storia di ciascuna anima è diversa. Ecco dunque un lineamento spirituale del Fonda­tore, che ne caratterizza l’esistenza: “Capisco che Gesù

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vuole che viva soffrendo, e che lavori. Fa lo stesso. Fiat”129. Cioè la fusione della sua vita contemplativa di amore alla Croce e della sua vita di lavoro, in completa unità. Tale impresa, in quelle mattinate, non era cosa da poco. Dalle aspre vicende notturne don Josemaria usciva spiritualmente gioioso, ma anche distrutto nell’anima e nel corpo. Possiamo immaginare ciò che provava dalla nota del tutto autobiografica di venerdì 21 maggio 1937:

“In carne viva. Ecco come ti trovi. Tutto ti fa soffrire, nelle potenze dell’anima e dei sensi. Tutto ti è tentazio­ne... Povero figlio! Sii umile. Vedrai che presto ti toglie­ranno da questo stato; e il dolore si muterà in gioia; e la tentazione in salda fermezza. Ma, nel frattempo, ravviva la tua fede; riempiti di speranza e fa continui atti d’A­more, anche se pensi che siano solo parole”130.Chi si sarebbe potuto immaginare che quello stesso

venerdì 21 maggio avrebbe scritto a Lola Fisac incorag­giandola a diventare sua nipote, alla stregua di chi, toni­ficato da un buon sonno, al mattino è pieno di vigore mentale; e poi, subito dopo, si sarebbe inquietato con i suoi figli di Madrid a motivo del reclamo ufficiale per i danni alla Residenza di via Ferraz?

Se non parlava ai suoi figli con maggior chiarezza sul­le sue cose personali non era per cautelarsi contro la censura, ma per seguire fedelmente il proposito di na­scondersi e scomparire, in modo particolare per quanto concerneva la sua intimità con Dio131. Tuttavia lasciava loro intendere quanto era necessario perché lo accom­pagnassero nella sua lotta di amore e riparazione, come si può vedere dalla lettera a quelli di Valencia, già ripor­tata a suo tempo:

“Oggi il nonno è triste, avvilito, nonostante l’amabilità e l’affetto dei miei; e nonostante la pazienza eroica di mio nipote Juanito... che riesce a non fare il prepotente. Il fatto è che si ricorda della sua gioventù e la paragona al­

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la vita attuale: e gli viene una gran voglia di comportarsi bene per quelli che si comportano male; di fare il Don Chisciotte, riparando, soffrendo, scontando. Il risultato è che gli si mettono a correre la mente e la volontà (l’A- more), e l’Amore arriva per primo. Ma arriva così inuti­le, del tutto privo di opere!... Il nonno è triste, perché non ce la fa - vecchio, senza forze - se non l’aiutano, con la loro giovinezza, i nipoti della sua anima. Ho fatto il filosofo e, oltretutto, in modo così aggrovigliato che immagino di non essermi spiegato troppo bene”132.L’autore riconosceva di essersi messo a filosofare in

modo aggrovigliato e “di non essermi spiegato troppo bene”. Ma non è vero. Queste righe non sono state scritte alla leggera e rivelano perfettamente i suoi senti­menti. Può forse essere più chiaro il riferimento alla pu­rificazione mistica, o di maggiore profondità teologica? In un paio di righe è posta nientemeno la questione del perché la volontà (l’Amore) anticipa l’intelligenza prima che sia terminata la purificazione dell’anima.

Non sono problemi filosofici suscitati a vanvera, per­ché nel paragrafo successivo il Fondatore interrogava i suoi figli su questioni profonde e serie come la Comunio­ne dei Santi, la distanza tra la gioia interiore e l’allegria “fisiologica”, i dolori e le lacrime degli ultimi giorni, al­ludendo evidentemente al periodo che stava vivendo, nel quale stava subendo le purificazioni passive133.

sf* }[• *5*

Voltiamo pagina e torniamo a osservare gli avveni­menti dall’esterno. Intorno alla metà del febbraio 1938, una sera Paco Botella, tornato dalla caserma, trovò il Padre già a letto. Gli chiese che cosa succedesse e, dopo un lungo silenzio, ebbe questa risposta: “Paco, sono al­cuni giorni che mi sanguina la gola e penso che possa es­sere tubercolosi. Non avvicinarti”134.

Continuarono le febbri. La gola gli bruciava, la bocca279

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gli si riempiva di sangue. Un medico, che egli aveva con­sultato a Saragozza il 21 febbraio, gli aveva diagnostica­to una “faringite cronica”. Però la malattia presentava i sintomi di una tubercolosi in fase avanzata, incurabile. In questo caso, aveva il diritto di vivere vicino ai suoi fi­gli, col pericolo di contagiarli? Con questo amaro pen­siero, il 24 febbraio scrisse a Juan Jiménez Vargas dicen­dogli che, se si fosse lasciato formare, sarebbe stato “il suo immediato successore negli affari di famiglia”. Inol­tre nella lettera gli dava molte notizie e alcuni dettagli della sua malattia:

“Sai che sono diventato tutto pelle e ossa? Mi sono preso un raffreddore, più di un mese fa, e mi è rimasta una fa­ringite cronica. La cosa è un po’ fastidiosa, ma sono con­tento: peraltro, se devo parlare, sarà necessario che Gesù me la guarisca, perché molte volte mi ritrovo compieta- mente afono. Fiat. Sono vecchio: 80 anni di dentro e 36 di fuori: in totale 116 anni... e una faringe rinsecchita che mi fa tossire giorno e notte, ogni due minuti. Fiat”135.La malattia seguiva il suo decorso. Peggiorava. Alcu­

ne mattine si svegliava con la bocca piena di grumi di sangue.

Il 9 marzo arrivò Pedro Casciaro, destinato a Burgos agli ordini del generale Orgaz. Abitava con il Padre e Paco nella pensione di via Santa Chiara. Pedro trovò il malato in uno stato deprecabile, con “una tosse secca e persistente, una forte afonia e sputi di sangue”. Per S. Giuseppe, 19 marzo, ebbero la gioia di stare insieme i tre di Burgos, più Ricardo, Manolo e José Maria Alba­reda. Fu allora che Paco e Ricardo decisero di portare il Padre dal medico in quella stessa settimana, anche se non avevano i soldi per pagare l’onorario.

“Durante la loro permanenza - scrisse il Padre a Juan - per la grande insistenza di tutti dovetti andare dall’oculi­sta, che mi fece una nuova prescrizione (mezza diottria

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in più) e disse che avevo bisogno di acquistare gli oc­chiali per leggere - li ho già - e di mettere delle buone lenti nei due occhiali. Abbiamo comprato subito tutto. Un mucchio di soldi!Poi, da uno specialista della gola: mi visitò con calma e de­dusse che potevo avere qualcosa di polmonare, con questa bocca piena di sangue. Suggerì un altro specialista di ma­lattie polmonari e ci scrisse qualche riga per lui. Ci siamo andati: molta anticamera; alla fine, la visita. Ausculta, tor­na ad auscultare e ancora, per la terza volta, con altri ag­geggi. Poi, radioscopia: dottore, ho delle caverne? E lui: no, è sano, completamente sano; non c’è il più piccolo dubbio; solo che alla base del polmone destro ci sono gli esiti di una forma catarrale. Non dico che mi siano svanite le speranze, perché mentirei. La verità è che mi trascuravo completamente, perché pensavo che se ero tisico il Signore mi avrebbe guarito perché continuassi a lavorare.Sto andando ancora dall’otorinolaringo...eccetera, che, come quello di Saragozza, mi pulisce e disinfetta naso e gola. Insomma: vi ho accontentati e abbiamo speso un altro bel po’ di pesetas”136.Da quel momento tutti fecero fronte comune per

prendersi cura del Padre, con attenzioni, premure e pressioni, per trovare il modo di farlo ingrassare e fare del nonno - come lui diceva, lamentandosene - “un grassone di quelli che si danno alla bella vita”. Si oppo­neva come meglio poteva e come Dio gli faceva capire, perché dal profondo dell’anima il suo spirito di peniten­za protestava fortemente contro la spaziosa strada della bella vita. Povero don Josemaria!

“Tutti si credono in diritto di dire che deve curarsi, nessun digiuno, mangiare bene e dormire meglio e che... Avanti, ché il mondo è grande! E lui sente, dentro di sé, tutto il contrario: il contrasto è formidabile: ti auguro di non dover combattere tu una simile lotta. La gente sof­fre se non lo rivede paffuto, con le pompe e le vanità di un tempo. E finiscono per averla vinta: povera anima,

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avvolta in salsicciotti di rancido grasso!”. Così scriveva a Juan Jiménez Vargas il 23 marzo137.

I suoi figli si erano messi d’accordo per farlo mangiare, perché potesse ingrassare di qualche chilo. E con il loro ec­cessivo zelo e la loro buona volontà non lo lasciavano mai in pace. “Perciò - scrisse alcuni giorni dopo a Ricardo - fammi il favore di non parlare della mia malattia, che non esiste più, anche se continuo ad andare dallo specialista della gola... per non dover litigare ogni lunedì e ogni mar­tedì con questi invadenti figli della mia anima”138.

Sospettando, non senza fondamento, che la malattia del Padre fosse “cosa di Dio”, Pedro immaginava che l’unico modo per guarirlo fosse di chiedere al Signore che la malattia “passasse” a lui stesso. Questo trasferi­mento funzionò almeno una volta. “Accadde che i mi­glioramenti del Padre - riferisce Paco Botella - coincide­vano con il fatto che Pedro si ammalava delle sue cefalee, forse dovute alla cattiva digestione, e gli veniva la febbre. E quando Pedro migliorava, il Padre peggiorava”139.

Secondo Pedro Casciaro, fu la preoccupazione per le elevate febbri del Padre che “fece sì che mi venisse in men­te di chiedere a Dio di togliere la febbre a lui e di darla a me. Forse ho fatto questa richiesta senza credere che il Si­gnore mi potesse ascoltare... e perciò mi sono spaventato molto quando, quel pomeriggio stesso, mi venne un terri­bile febbrone mentre il Padre si sfebbrava. Fu chiamato il medico che mi diagnosticò una febbre tifoide o paratifoide e prescrisse alcune analisi. Il risultato delle analisi fu nega­tivo, ma io continuavo ad avere febbre alta”140.

Questo accadeva il 23 marzo, lo stesso giorno in cui il Padre aveva scritto a Juan la lettera già citata, in cui gli aveva raccontato le sue visite mediche e la bella mancia­ta di pesetas che erano costate e che potevano essere meglio spese. Lo specialista dei polmoni non gli aveva trovato lesioni e neppure traccia di calcificazioni tuber­colari. Lo aveva mandato da uno specialista della gola, che non aveva trovato nulla di speciale e aveva parlato282

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di “terra di nessuno”141: vale a dire che il paziente era colpito da strani sintomi patologici che non potevano essere addebitati a una determinata malattia.

Il Padre nella sua lettera a Juan proseguiva a esporre il suo caso: “Ricardo ha cominciato a farmi iniezioni di balsamici per i polmoni: denaro buttato. Te lo dico con piena convinzione”. E soggiunge: “Il povero Perico oggi si è ammalato; è la terza volta da quando sta a Burgos. La febbre gli sale vertiginosamente. Mi piacerebbe che studiassi tu il caso”142.

In effetti, accanto a lui c’era Pedro con quaranta gradi di una febbre inspiegabile, pieno di timore e di scrupoli, pentito di non aver detto nulla al Padre fino a quel mo­mento. “Imbarazzato e vergognoso, finii per raccontar­gli la richiesta che avevo fatto al Signore. ‘Non fare mai più una cosa simile’, mi disse, ‘e ora stattene tranquil­lo’”143. La febbre scomparve come per incanto, com’era venuta, e per qualche tempo se ne liberò pure il Padre.

A motivo dell’intensa vita di lavoro e di digiuni che egli conduceva, i suoi figli - in special modo Pedro e Pa­co - continuavano ad alternarsi nel compito di vegliare sulla sua persona...

Domenica 27 marzo 1938, don Josemarìa stava scriven­do a Juan Jiménez Vargas, mentre Pedro e Paco stavano cercando di convincerlo a mettersi una canottiera. Non era il caso che il Padre si prendesse una infreddatura o una polmonite. Imperversava il crudo inverno di Burgos e la tonaca estiva che portava era insufficiente per difendersi dal freddo. Insistevano e non lo lasciavano in pace:

“Questi ragazzi mi assillano continuamente con la storia della salute e della malattia. A parte che sono bello grasso- cosa certamente molto fastidiosa -, non mi preoccupa l’argomento; mi preoccupano le anime, anche la mia”144.La canottiera, poi diventata famosa, era un capo di

vestiario unico e solo, di provenienza sconosciuta. La283

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usavano a turno Pedro, Paco e José Maria Albareda: tutti, meno il Padre.

Don Josemaria non riusciva a concentrarsi sulla lette­ra per spiegare a Juan che cosa gli accadeva intorno. Una scena ridicola, con i suoi figli impegnati a fargli in­dossare, quasi a viva forza, la canottiera:

“Ti sto raccontando delle sciocchezze! È vero; ma tutto ciò in cui interveniamo noi poveri esseri umani - perfino la santità - è un tessuto di piccole cose minute che, usate a dovere, possono formare uno stupendo arazzo di eroi­smo o di bassezza, di virtù o di peccati. I poemi eroici - come il Cantar de Mio Cid - raccontano sempre avven­ture straordinarie, ma mescolate a vicende casalinghe dell’eroe. Magari tu badassi sempre molto (...) alle cose piccole. E anch’io, anch’io”145.Anche se le intenzioni dei suoi figli erano lodevoli, è

un fatto che lo importunavano tanto da non lasciarlo nemmeno respirare. Don Josemaria non disponeva di un minimo di indipendenza per organizzare la propria vita. Vigilavano sulle sue mortificazioni e sulle veglie, e se dormiva o meno per terra. Inseguivano con attenzio­ne le tracce dei suoi digiuni, chiedendo che cosa avesse mangiato e quando. Pedro e Paco erano autentici segu­gi. Gli sorvegliavano anche... la sete, osservando se ave­va la parola inceppata per le screpolature della bocca e della gola, o notando la pronuncia pastosa dovuta alla lingua secca. E quando il Padre si rifiutava recisamente di ascoltarli, tornavano alla carica e facevano una sce­neggiata, andando oltre i limiti146.

“Sono insopportabili (sic\) e mi fanno mangiare a tutte le ore, dopo aver fatto una cagnara epica... Diglielo tu che mi lascino in pace”147, scriveva a José Maria Albareda.Il 30 aprile la misura fu colma e il Padre dovette bloc­

care le intromissioni. Non si mise a gridare, non fece dei284

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ragionamenti, semplicemente lasciò loro sul tavolo un foglietto di questo tenore:

“ 1 ) Sono deciso a non consentire che vi intromettiate in cose che sono in relazione con la mia coscienza.2) Non vi darò mai nessun tipo di spiegazione.3) Mangerò dove mi pare e quando mi pare: il dove e il quando me lo indicherà il dovere.4) Se continuate a intromettervi in questa questione mi vedrò nella penosa necessità di andarmene da Burgos.5) Quanto detto vale anche per le ore e il modo di dormire.E BASTA. NON AMMETTO DISCUSSIONE SU QUE­STE FACCENDE”148.Mandò poi a Juan una lettera che non aveva nulla da

invidiare a quel foglietto e nella quale, tra le altre cose, gli diceva:

“Sia chiaro che io - anche se a Burgos non ho un Diret­tore - non devo fare nulla che implichi apertamente un pericolo per la salute; tuttavia non posso perdere di vista che non stiamo giocando a fare una cosa buona... e che, dovendo compiere la Volontà di Dio, occorre che io sia santo, costi quello che costi!..., pur se costasse la salute, cosa che non accadrà.E questa decisione è così profondamente radicata - lo vedo chiarissimo - che nessuna considerazione umana deve essere di ostacolo alla sua realizzazione.Ti parlo con la massima semplicità. Ve ne sono i motivi: perché hai diviso con me più cose di tutti e sicuramente capisci che ho bisogno di colpi d’ascia”149.

4. L’Hotel SabadellPassate le prime settimane di angoscia, in cui aveva pen­sato di aver contratto la tubercolosi e al pericolo di con­tagiare i suoi figli, don Josemarìa adottò nei confronti

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della capricciosa malattia un punto di vista ben diverso. Ben presto si era reso conto che era un mezzo per purifi­carlo attraverso il dolore e l’aridità spirituale, e la rice­vette pertanto come una carezza del Signore150.

Di ritorno a Burgos dalla sua scorreria apostolica (quella di “sondaggio”), si era reso conto di quali fosse­ro le necessità più urgenti e le riassumeva in poche paro­le: “Signore, ci occorrono persone e denaro”151.

E come stava a persone? In quel periodo il Padre ripe­teva che aveva bisogno di “cinquanta uomini che amino Cristo sopra tutte le cose”152. A prima vista non sem­brava difficile ottenere, fra tanti eroici combattenti, fra tanti giovani decisi, un pugno di vocazioni. Tuttavia dal punto di vista geografico, con i suoi figli sparsi su diver­si fronti, alle estremità nord o sud della penisola, gli spostamenti e le visite per portare avanti la direzione spirituale erano lenti e irregolari. Un’alternativa consi­steva nel fatto che essi ottenessero dei permessi militari e passassero alcuni giorni “nella nostra casa di san Mi­chele a Burgos”, come si leggeva nella Lettera Circolare del 9 gennaio. Ma se il Padre sperava che l’ardore reli­gioso e patriottico servisse da trampolino per lanciare la gioventù militarizzata verso un ideale più alto, ne fu de­luso: “Tanta gente giovane, disposta a morire per un ideale, e...? Impossibile!”153.

Nel piccolo mondo militare esisteva una istituzione, gabellata come patriottica, con la quale don Josemarìa fu costretto a confrontarsi: quella delle “madrine di guerra”. Non tutto era oro colato. In più di un’occasio­ne dovette consigliare di interrompere i rapporti con al­cune persone. Quando don Josemarìa chiedeva, come frutto dell’apostolato tra i militari, cinquanta uomini che amassero Cristo “sopra tutte le cose”, nell’insieme di cose da superare c’erano pure le madrine di guerra e non solo di guerra.

“L’Amore ben vale un amore”, assicurava ai suoi154. E come aveva corrisposto lui, il Fondatore, a questo Amo­286

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re? Come aveva regolato la propria vita nei nove anni e mezzo di esistenza dell’Opus Dei? Questa considerazionelo spinse a scrivere, da Saragozza, al Vescovo di Àvila:

“Gesù protegga il mio Signor Vescovo.Padre mio, questo peccatore la saluta e l’assicura di non essersi mai dimenticato di lei, tantomeno ora, davanti al Pilar; e chiede a lei, mio Padre e Vescovo, di aiutarci con le sue orazioni e di benedirci. Stiamo per terminare la prima metà del nostro decimo anno di lavoro silenzioso e nascosto... Il Signore me ne chiederà conto!Mi aiuti Eccellenza, a renderne conto cum gaudio et pace”155.“Mi ha fatto sorridere - gli rispose pochi giorni dopo mons. Santos Moro - che lei parli del ‘conto’ che le chie­derà nostro Signore. No, per voi non sarà Giudice - nel senso austero del termine - ma semplicemente Gesù. Magari potessi io ripromettermi altrettanto, lavorando come lei, non come Capitano, ma almeno sicut bonus miles Christi Jesu...”156.Mentre le due lettere partivano e arrivavano, don Jo­

semaria era nel momento più crudele e oscuro della sua malattia, dominato dal timore della tubercolosi.

Continuavano a cercare un appartamento. “Peccato - scriveva il Padre - che non siamo riusciti a trovare casa: saremmo stati meglio e avremmo speso meno. Nonostan­te tutto, dove stiamo ci troviamo bene”157. Tuttavia sa­rebbe rimasto ancora pochi giorni nella pensione Santa Chiara. Quella stessa settimana, alla fine di marzo, si ve­rificò un certo scompiglio. La padrona era decisa a man­dare via Pedro e Paco per far posto ad altre due persone. Se avessero voluto restare insieme si sarebbero dovuti tra­sferire altrove. Per giunta, quando venne il momento di pagare il conto della pensione, si accorsero che qualcuno aveva avuto la mano pesante, poiché don Josemaria lo definì “un conto degno del cortile di Monipodio”158. Lo

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raccontò anche a Ricardo: “Se tu vedessi i conti del Gran Capitano che si sono permessi di presentarci!”159.

Don Francisco Moràn gli aveva chiesto “una nota con i fini, l’origine, lo sviluppo e lo stato attuale” della sua impresa160. Senza molto entusiasmo, don Josemarìa inviò al Vicario uno scritto su origini, fini, apostolato e sviluppo dell’Opera. Il testo è breve e succinto. Ma don Josemarìa ne fu comunque insoddisfatto. Avrebbe prefe­rito spiegare a voce, perché alcune parti dello scritto ri­schiavano di non essere interpretate nel modo giusto. Comunque, concluse la nota con un inevitabile com­mento che esprimeva bene i suoi sentimenti: “Ben poco si può dire in un foglio come questo! Tuttavia mi sem­bra persino di essere stato indiscreto. E, naturalmente, del tutto incompleto”161.

Intanto il Padre cominciò a pensare seriamente al ri­torno a Madrid, facendo progetti nella prospettiva della fine della guerra:

“Stare a Burgos - scriveva - non è come stare in un no­stro centro. Niente affatto. Finché la guerra non è finita, poiché la famiglia è costituita di gente eccessivamente giovane, non avrò né la tranquillità, né la pace necessa­ria per fare un lavoro profondo. Con questo non voglio dire che non si lavori, perché tra una cosa e l’altra non ci si ferma mai, ma è fuor di dubbio che con gente più avanti negli anni ora faremmo un lavoro stupendo. Ma in fin dei conti, Dio ne sa più di noi”162.Rimettere in moto le cose, dopo una guerra così di­

struttiva e funesta, non sarebbe stato una cosa semplice. Il Padre ci pensava, senza farsi troppe illusioni sulla pace:

“Che voglia ho che finisca questa guerra! Allora ne co­minceremo, ne ricominceremo, un’altra, forse più dura, ma più nostra. E penso che forse dovranno tornare que­gli anni terribili di penuria. Non importa: il Signore,

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grazie anche al nostro impegno, ci tirerà fuori da tutto prima, più e meglio di quanto possiamo sognare”163.Nel frattempo, volente o nolente, sarebbe stato co­

stretto a vivere a Burgos.* * *

Domenica 3 aprile, quando il Padre rientrò a Burgos da Vitoria, la pensione di via Santa Chiara era già stata la­sciata. Ora il loro nuovo domicilio era l’Hotel Sabadell, in via della Mercede 32. Nel dépliant dell’albergo si leg­ge: “Magnificamente situato di fronte al fiume Ar- lanzón. Il più vicino alla Cattedrale e in prossimità della Stazione. - Prezzi speciali per famiglie e lunghe perma­nenze. Riscaldamento centrale. Acqua corrente calda e fredda in tutte le camere. Stanze da bagno”. Un testo evidentemente redatto in tempo di pace.

Don Josemarìa, stabilendosi nel nuovo domicilio, non esagerò negli elogi. Constatò semplicemente: “Non sono contento del nostro nuovo domicilio, perché è caro”164. Pagavano quattro pesetas per ogni letto, cioè sedici pese­tas al giorno solo per la camera che occupavano, dato che nel prezzo non era compreso alcun pasto.

L’albergo era solo di terza classe. Aveva un pianterre­no e tre piani. L’aspetto era gradevole. Dalla facciata principale si poteva intuire la disposizione interna. L’en­trata era protetta da una pensilina di ferro battuto e ve­tro; i tre piani avevano ciascuno tre camere su strada: quella centrale con un balcone e quelle laterali con ve­rande a vetri. La loro stanza, al primo piano, corrispon­deva a una delle verande. Sul fondo aveva uno stanzino, una specie di camera oscura senza ventilazione, dotato di un lavabo e separato dal resto della camera da una tendina di tela. Nello stanzino dormiva il Padre, mentre la camera principale era occupata da tre letti, uno ac­canto all’altro; lo spazio restante bastava per un tavolo, un paio di sedie e un piccolo armadio per gli abiti, più

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che sufficiente per contenere quel poco che avevano. Tutta la decorazione era costituita da due orribili lito­grafie, che presto furono tolte per mettere al loro posto un piccolo crocifisso di legno e un’immagine della Ma­donna, che s’ispirava a un’icona bizantina. Per dare una nota di colore alle pareti nude confezionarono, dopo averne disegnato i modelli, alcuni gagliardetti di feltro colorato che recavano le sigle RIALP e DYA. Allo scopo di seguire l’andamento della guerra e di sapere dove si trovavano gli altri, stesero sulla parete una carta topo­grafica dell’Aragona e della Catalogna, sulla quale trac­ciavano, con bandierine e altri contrassegni, la situazio­ne dei fronti di guerra165.

Il pieghevole dell’albergo citava le stanze da bagno. Si riferiva, naturalmente, a un bagno per ogni piano. La mattina il Padre lo utilizzava per primo e, per guada­gnare tempo, la sera riempiva d’acqua la vasca da ba­gno; nelle mattine d’inverno la trovava completamente gelida, dato che la finestra aveva un vetro rotto. Poi apriva il rubinetto per riempire di nuovo la vasca. “E chiaro - precisa Paco Botella - che non c’erano né doc­cia né acqua calda”166.

Il trasferimento di abiti e biancheria dalla pensione al­l’albergo non presentò difficoltà. I loro averi compren­devano alcuni ricordi della traversata dei Pirenei (il bic­chiere eucaristico, la rosa di Rialp, la fiaschetta del vino), le carte, le lettere, il diario, lo schedario e poco al­tro. L’oggetto più ingombrante era una macchina per scrivere portatile, acquistata di seconda mano per quat­tro soldi in un negozio sotto i portici della Plaza Mayor. La marca era “Corona” e aveva una tastiera molto par­ticolare: per ragioni di tecnica meccanica non si poteva scrivere velocemente. Era lenta, ma sicura. L’avevano acquistata per preparare l’originale di Noticias (Notizie) del marzo 1938, proseguendo l’iniziativa delle estati 1934 e 1935. Questo “foglio familiare”167, che dava no­tizie di amici e residenti di via Ferraz, in aggiunta a con­290

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sigli spirituali, veniva inviato in busta chiusa a ciascuno degli interessati. L’intenzione di don Josemarìa era che apparisse mensilmente, nella seconda metà del mese. Il processo di elaborazione consisteva nell’inviare l’origi­nale, scritto a macchina, a don Eliodoro Gii, a Leon; questi spediva poi a Burgos le copie ciclostilate, pronte per essere distribuite. Quanti ricevevano e leggevano le Noticias sentivano rinascere nell’anima nuovo slancio:

“In questo stesso momento, in caserma, in trincea, sugli spalti, nel forzato riposo dell’ospedale, con la vostra preghiera e la vostra vita limpida, con le vostre contra­rietà e con i vostri successi, quanto potete influire sullo sviluppo della nostra Opera! Cerchiamo di vivere una particolare comunione dei santi; e ciascuno sentirà, al momento della lotta interiore, come pure al momento del combattimento con le armi, la gioia e la forza di non essere solo” (marzo 193 8)168.L’impatto spirituale si notava dalle molte lettere che

giunsero all’Hotel Sabadell, specialmente a partire dal mese di aprile:

“Come rispecchiate bene, nelle vostre lettere - si legge nel foglio di Noticias del luglio 1938 -, la gioia che vi danno queste righe! Equivalgono a ricevere, tutte insie­me, le lettere di molti amici; ricordi di molte ore di lavo­ro e di gioioso stare insieme; desideri e speranze di un nuovo e ancor più laborioso futuro...”169.Lasciare la pensione Santa Chiara per stabilirsi all’al­

bergo implicava “un grande miglioramento”, secondo Pedro e Paco, poiché era la fine di quella vita in comune che riuniva tutti gli ospiti intorno a una tavola, per con­sumare insieme il pasto a ora fissa. Ma, a ben vedere, neppure la vita che conducevano ora in albergo era di completa indipendenza. La tendina che separava la stan­za principale dalla stanzetta in cui dormiva il Padre era

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solamente un simbolo. Durante la giornata, il sacerdote cercava di trovare qualche momento in cui gli altri erano fuori per usare la disciplina, visto che non poteva usare la stanza da bagno, in omaggio alla tranquillità dell’al­bergo e alla pace dei suoi ospiti. Ma, che trovasse o me­no l’occasione opportuna, tirava la tenda e provvedeva con l’energia già nota alla signora Dolores, a Ricardo Fernàndez Vallespìn e ad Àlvaro del Portillo. Anche Pe­dro si innervosiva. Quando volle intervenire perché i col­pi si sentissero di meno, il Padre gli rispose che se erano stati testimoni delle sue debolezze e miserie, che cosa im­portava che lo fossero ora della sua penitenza?170.

Un indiscutibile vantaggio della camera era disporre di una veranda a vetri. Era di due metri scarsi di lun­ghezza per meno di un metro di profondità. C’era giusto il posto per due poltroncine e un tavolino di vimini. A questo stretto spazio fu riservata un’onorevole destina­zione: abbassando le persiane e chiudendo dalla parte della stanza le finestre a vetri e le controfinestre, diven­tava un luogo riservato dove parlare a quattr’occhi. Quando questo accadeva, all’interno della camera piombava il buio; Pedro e Paco si davano la buona not­te e... accendevano la luce elettrica.

La veranda, isolata dai tre letti in batteria, acquista­va un’aria di eleganza e discrezione che faceva dimen­ticare al visitatore la povertà del resto della camera. Essa serviva sia da confessionale che da salottino per ricevere persone. Di là passarono molte persone im­portanti: monsignori, docenti universitari, medici, di­plomatici, sacerdoti amici, industriali, alti funzionari... In breve, tutti quei settori della società che, nei propo­siti del ritiro spirituale fatto a Pamplona, don Jose­marìa includeva nel proposito di fare “proselitismo, soprattutto con docenti universitari”. A questo pro­mettente lavoro apostolico con professionisti si riferi­va quando aveva osservato che “è fuor di dubbio che,292

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con gente più avanti negli anni, ora faremmo un lavo­ro stupendo”171.

Per aiutarlo a fare questo lavoro con intellettuali ave­va al proprio fianco solamente José Maria Albareda, al quale diede un incarico ben preciso: costituire un depo­sito di libri, utili per iniziare la biblioteca del futuro cen­tro che avrebbero aperto a Madrid alla fine della guer­ra. Fu il Padre stesso che lanciò l’idea di una biblioteca circolante: “Perché non incominci a scrivere per chiede­re libri?”, diceva a José Maria Albareda. Tre mesi dopo inviavano una circolare in varie lingue, avallata dalle firme di quindici docenti, chiedendo libri in tutto il mondo. L’indirizzo indicato come recapito era quello del fratello di José Maria, a San Juan de Luz. Arrivaro­no ben pochi libri; e le poche riviste ed estratti arrivaro­no a destinazione rovinati dalle poste172.

ì'r 55- *

Non era facile ottenere i permessi per recarsi per qual­che giorno nelle retrovie dell’esercito; chi ci riusciva e aveva la fortuna di passare qualche ora o un giorno con il Padre era accolto molto bene. Con questi visitatori don Josemaria usciva a passeggiare sul lungofiume del- l’Arlanzón, verso il monastero de Las Huelgas o fino al­la Certosa. Altre volte saliva con loro sulla torre della cattedrale, a osservare dall’alto la copertura delle volte, i pinnacoli e la merlatura di pietra lavorata che si sta­gliava nell’azzurro del cielo. Poi, di ritorno all’Hotel Sa- badell, si chiudeva nella veranda per parlare confiden­zialmente. Se passavano la notte a Burgos, li invitava ad assistere alla sua Messa, che era solito celebrare al mat­tino nella chiesa di S. Cosma173.

Ma, diceva il Padre, “stare a Burgos non è come stare in un nostro centro”. Quando i giovani che erano sotto le armi non potevano andare a trovarlo, si metteva in viaggio per incontrarli. Se qualcuno aveva bisogno del suo aiuto o del suo consiglio, non esitava a cercarlo, per

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quanto lontano si trovasse. Andò fino in Andalusia per cercare di vedere un giovane in difficoltà174.

Il 17 aprile era in viaggio. Il percorso, a causa della guerra, non fu il più diretto. Don Josemarìa, per far di­vertire i suoi figli, promise loro di scrivere. Con molto buonumore raccoglieva le impressioni sull’ambiente e sui pittoreschi personaggi che incontrava. Appena arri­vato a Cordova scrisse:

“Vado in albergo. Come sono salutatori a Cordova! Tutti fanno il saluto militare al sacerdote sconosciuto, o una scappellata alla cordoveseìAll’albergo mi danno la camera numero 9, numero che mi entusiasma (teologia della matematica!). A Leon do­vevano essere ancora meglio informati: mi hanno dato la n. 309; e ho pensato: il 3, Dio mio Padre; lo 0, io pec­catore (mea culpa!); e il 9, i miei ragazzi. Com’è buono Gesù, che per mezzo di cose tanto piccole ci porta a Lui! Mi sono messo a scrivere lettere a questi figli della mia anima. Arriva Miguel: un abbraccio. Pax! In aeternum.Si fa notte e, in confidenza filiale, nobilmente, con estre­ma semplicità, si sfoga sui quasi due anni di separazio­ne. E il Padre - voglio essere sempre per tutti molto Pa­dre - dà consigli e indicazioni pratiche e dà anche - voglio darlo - Amore di Dio e quel nostro affetto che di questo Amore è una scintilla.Miguel non ritorna ad Alcolea, si ferma con me in alber­go. Ceniamo e facciamo una passeggiata. Preci. Benedi­zione”175.Ritorno a Siviglia. Altre visite. Nuove difficoltà. I treni

erano affollati e don Josemarìa non aveva la prenotazio­ne per quello della sera. Gli consigliarono di andare a Utrera, dove avrebbe avuto maggiori possibilità di trova­re un posto. Era tanto a corto di denaro che a Utrera, al­le sei di sera, si affacciò allo sportello della biglietteria ed espose il suo caso all’impiegato, visto che gli unici posti disponibili erano di prima o di seconda classe:294

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“Gli spiego il mio caso. Lui, paziente e cortese, mi dà la tariffa di terza classe, per la quale ho denaro, e quella di seconda, a cui il mio capitale non arriva. Guarda un’al­tra volta la tariffa e abbrevia il percorso: in seconda, po­trei arrivare a Salamanca”.Bisognava attendere che il treno partisse da Cadice e

che telegrafassero a Utrera indicando il numero e la classe dei biglietti disponibili. Don Josemarìa, con la re­motissima speranza di ottenere un biglietto di terza clas­se fino a Burgos, raccomandò vivamente la cosa al suo Angelo Custode, che quel giorno organizzò un’autentica rivoluzione nella biglietteria. Ritornò infatti alla stazio­ne poco dopo le venti:

“L’impiegato mi ha riservato un biglietto di terza classe e mi dice meravigliato - l’avevo raccomandato al mio santo Angelo Custode -: ‘Oggi mi telegrafano che venda diciassette biglietti... e tutti di terza classe!’. Io non mi sono meravigliato”176.Due nottate in treno, inframmezzate da un giorno.

Alle quattro del mattino del 23 aprile don Josemarìa si presentò all’Hotel Sabadell. Dopo aprile vennero le visi­te e i viaggi di maggio, senza pause o riposo intermedio. “Il mese di maggio - raccontò al Vescovo di Àvila - l’ho passato quasi sempre in giro, anche nella prima linea del fronte di Teruel”177. La ragione per cui era andato su un fronte così pericoloso e attivo come quello di Teruel era che da molto tempo non vedeva Juan.

* * *Il Signore continuava a dare coesione, fortezza e matu­rità all’Opera. Il Fondatore, con fine intuizione di quan­to stava accadendo e di quanto sarebbe accaduto in fu­turo, scriveva: “Andremo incontro a difficoltà, ma - sono tanto evidenti i favori di Dio in questi mesi! - le supereremo”178. Ripeteva quanto detto due settimane

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prima: “Abbiamo solo motivi per essere grati al Signo­re. Tuttavia mi opprime pensare a quello che mi sta per venire addosso”179.

Ma quanto maggiore era il divario fra le grazie che ri­ceveva e gli ostacoli che doveva superare, tanto più il Fondatore avanzava e, nella sua marcia verso la santità, trascinava dietro a sé tutta l’Opera. E vero che questo segreto elemento spirituale della sua biografia non ha una prova diretta, ma è confermato dagli eloquenti si­lenzi di quest’epoca. Silenzi che cominciano la prima settimana del mese di marzo 1938, in mezzo a forti te­nebre di abbandono spirituale che facevano sì che si ve­desse nudo e vergognoso, come i nostri progenitori mentre uscivano dal Paradiso. A partire da quella data seguono sugli Appunti settimane e mesi di silenzio. So­lamente ogni tanto il Fondatore ci fa intravedere le luci della sua unione contemplativa, come lampi nell’oscu­rità della notte.

Lunedì 6 giugno annotò negli Appunti uno di questi sereni splendori:

“La mia orazione del mattino, mentre andavo a Las Huelgas: guidato da S. Giuseppe, sono entrato, con la luce dello Spirito Santo, nella piaga della mano destra del mio Signore”180.Tornato a casa, al pomeriggio, ancora dentro la piaga

divina, scriveva a Juan Jiménez Vargas:“Burgos, 6-VI-1938.+ Gesù mi ti conservi per Lui.Carissimo Juanito, questa mattina, sulla strada per Las Huelgas, mentre stavo facendo la mia orazione, ho sco­perto un nuovo orizzonte: la Santissima Piaga della ma­no destra del mio Signore. E ci sono rimasto per tutto il giorno, tra baci e adorazioni. È veramente amabile la santa Umanità del nostro Dio! Chiedigli tu che mi dia il suo vero Amore: così ne saranno ben purificati tutti gli

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altri miei affetti. Non basta dire: cuore in Croce! Perché se una sola ferita di Cristo purifica, risana, acquieta, for­tifica, accende e innamora, che cosa non potranno fare cinque, aperte sul legno, tutte insieme? Cuore in croce! Gesù mio, che cosa potevo volere io di più? Capisco che se continuo a contemplare in questo modo (mi ci ha messo S. Giuseppe, mio Padre e Signore, al quale avevo chiesto che mi ispirasse qualcosa) diventerò innamorato cotto più di quanto lo sia mai stato. Prova tu! (...).Ho un’enorme invidia di coloro che stanno al fronte, nonostante tutto. Mi capita di pensare che, se la mia strada non fosse così ben tracciata, sarebbe magnifico riuscire a superare il P. Doyle. Ma... questo mi verrebbe troppo facile: non mi è mai costata molto la penitenza. Senza dubbio, questa è la ragione per cui sono condotto per un’altra via: l’Amore. Il fatto è che mi si adatta an­cora meglio. Se non fossi tanto asino! Coraggio, figlio: Dominus sit in corde tuo!...Un abbraccio. Dalla Piaga della mano destra ti benedice tuo Padre. Mariano”181.Aveva sperimentato il segreto battito del Cuore di Cri­

sto, non tramite la via del timore e della penitenza, ma attraverso quella dell’Amore e della filiazione divina.

>5* >5*

Isidoro, in una delle lettere inviate ai membri dell’Opera ancora in zona repubblicana, faceva loro questa consi­derazione: “Quando avevamo il nonno con noi non ab­biamo saputo approfittarne. L’ho pensato molte volte: è la dinamo potente che ci nutre di energia”182. La spinta, la forza motrice del Fondatore, proveniva dalla sua energia spirituale.

Le cose che si devono fare si fanno: era uno dei suoi princìpi fondamentali. “Si comincia come si può. Non si tralascia di farle per mancanza di strumenti; almeno le si comincia”183.

Queste considerazioni sulla povertà e sulle esigenze297

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apostoliche spiegano molti paradossi nella vita del Fon­datore. L’arte di combinare nella giusta proporzione i mezzi materiali e quelli soprannaturali è infatti proprio l’arte dei santi. In occasioni analoghe, il resto dei morta­li di solito pecca di presunzione oppure si blocca per mancanza di fede.

A Utrera, prima di prendere il treno di ritorno per Burgos, don Josemarìa si accorse che la veste talare che gli aveva regalato mons. Olaechea, di tela non eccelsa e di confezione scadente (ma l’amico Vescovo non ne era certo responsabile), andava in pezzi: “La mia tonaca, tante volte ricucita da me, ha tutta la fodera che si stac­ca”184, raccontava.

Benché a volte disponesse di denaro per finalità speci­fiche, non aveva mai una peseta perle sue necessità per­sonali. Periodicamente inviava al Vescovo di Àvila ele­mosine per la celebrazione di Messe per i suoi sacerdoti, somme che egli invece non accettava mai per sé, avendo rinunciato a qualsiasi entrata per il suo ministero. Ed era lo stesso prete che cercava affannosamente un milio­ne, che viaggiava sempre in terza classe e non mangiava né beveva per non spendere. Nel foglio mensile di Noti­cias chiedeva ai ragazzi al fronte un’elemosina con cui coprire le spese di viaggio e anche da distribuire a chi era nel bisogno185. Ma il Padre quel denaro non lo toc­cava neppure. Per far fronte alle spese quotidiane attin­geva esclusivamente ai fondi della cassa in cui tenevanoil loro scarso denaro. Si trattava di una cassetta di legno che aveva contenuto formaggio di Burgos. Il suo conte­nuto abituale non avrebbe tentato nessun ladro. Il pro­cedimento di contabilità utilizzato, come spiegò un gior­no al Padre José Maria Albareda, veniva definito scherzosamente “vettoriale”: indicavano i movimenti di cassa con una freccia, rivolta all’indentro o all’infuori, a seconda se veniva registrata un’entrata o un’uscita. Il Padre ci rise sopra: due matematici (Pedro e Paco) e un ricercatore (José Maria Albareda) che tenevano i conti298

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peggio della cuoca della signora Dolores a Barbastro! Da allora i matematici si adattarono alle regole univer­sali: dare e avere186.

In occasioni straordinarie, dimostrando tangibilmente la propria fede, don Josemaria si dimenticava di rispar­miare. Una domenica pomeriggio chiese a chi teneva la cassa quanti soldi c’erano. Gli fu risposto che non sa­rebbero bastati per pagare il conto dell’albergo che l’amministratore l’indomani sarebbe venuto a riscuote­re. Ma bastano i soldi per fare merenda?, insistè il Pa­dre, che voleva sollevare lo spirito dei suoi. E quel gior­no fecero merenda. Il lunedì, dopo la prima colazione, arrivò da Santander un vaglia di qualche migliaio di pe­setas inviato da Manolo Pérez Sànchez, un altro degli assidui frequentatori della Residenza di via Ferraz187.

5. “Una lezione di carità”Don Josemaria non si dimenticava mai i propositi for­mulati durante i ritiri spirituali. Nell’elenco delle deci­sioni prese a Pamplona era scritto, sinteticamente: “4) loro (le donne); 5) fare la tesi di diritto”188.

Sappiamo che tutte le annotazioni relative alla fonda­zione per le donne si trovano negli Appunti intimi', ma solamente in due Caterine si fa menzione, di sfuggita, al suo apostolato con le donne a Burgos, nel 1938. Car­men Munàrriz, la figlia del generale Martin Moreno, e una sorella di Vicente Rodrìguez Casado, con altre ami­che, formavano un piccolo gruppo che il Padre curava spiritualmente: “Ho tenuto il circolo di studio per le ra­gazze. Sono venute in sette”189. Pensando all’oratorio che avrebbero avuto a Madrid, don Josemaria le inco­raggiava a confezionare paramenti e biancheria per l’al­tare, per completare gli oggetti liturgici che aveva ordi­nato a Pamplona.

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“Abbiamo tirato fuori dalla cassa tutti gli oggetti di cul­to che ci hanno fatto a Pamplona - scrisse con entusia­smo Sono davvero magnifici. Queste figlie mie rico­prono di seta l’interno del Tabernacolo”190.Queste ragazze, piene di buoni propositi, non sareb­

bero arrivate a far parte dell’Opera, oppure non vi sa­rebbero rimaste. Non per questo era minore l’affetto spirituale del Padre per le loro anime, né per la altre fi­glie rimaste nella zona rossa: Hermógenes, Antonia, Lo­la... Nonostante il morso imposto dalla censura, si sente vibrare il suo cuore di Padre in queste parole:

“È un fatto - scriveva a Isidoro - che il povero vecchio è inquieto per le nipotine che aveva a Madrid: raccontagli qualcosa di loro, della nonna e delle zie. Se ne ricorda sempre, e con molto affetto”191.Isidoro gli raccontava qualcosa, ma non tutto. Ad

esempio, che “la nonna, gli zii e le altre famiglie stanno sempre molto bene” e che “le piccole sono felici di poter aiutare il nonno quando verrà. Hermógenes continua a fare compagnia alla nonna e, quando tornerà il bel tem­po, ne approfitteranno per passeggiare”. Ma tacque una notizia che sarebbe stata crudelmente dolorosa per il Padre: “Dall’ultimo bombardamento su Castellón, du­rante il quale è stato distrutto l’Ospedale Provinciale, dove si trovava Antonia, non abbiamo più avuto notizie di lei. Pregate per lei”; questo scriveva Isidoro a quelli della sua zona. Peraltro poco dopo Antonia Sierra fu ri­trovata: “Antonia sta ancora a Castellón ed è molto contenta - scriveva al Padre - perché spera di vedere presto il nonno”192.

Quanto alla tesi dottorale, anche qui don Josemarìa non perse tempo. Il giorno memorabile in cui, appena arrivato a Burgos, si era diretto al palazzo arcivescovile per chiedere le facoltà ministeriali, aveva incontrato per300

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strada don Manuel Ayala, segretario del Seminario e, un tempo, dell’Università Pontificia, conosciuto a Madrid diversi anni prima. Don Manuel gli aveva promesso di procurargli materiale per la tesi193. Era ovvio che avreb­be dovuto ricominciare da zero, poiché tutti i documen­ti e gli appunti sull’ordinazione sacerdotale di meticci e figli di meticci nell’America coloniale spagnola erano ri­masti nella Residenza di via Ferraz. Poteva realistica­mente considerarli perduti.

Decise di fare la tesi su un caso curioso nella storia del Diritto canonico194. Il monastero de Las Huelgas Rea- les, a un chilometro dai sobborghi di Burgos, era una fondazione eretta da re Alfonso Vili nel XII secolo. I suoi possedimenti comprendevano chiesa e cappelle, al­loggi, cortili e orti. I suoi corridoi e chiostri avevano ospitato più di cento monache. Vi si erano sposati prin­cipi, vi erano stati incoronati re e sepolti diversi sovrani. A capo di tutto stava la Badessa, priora di dodici mona­steri di monache cistercensi della Castiglia e del Leon, con signoria su una cinquantina di paesi e località, e con giurisdizione autonoma, civile e penale. La Badessa con­feriva benefici, approvava confessori, dava facoltà di predicare, era competente in cause matrimoniali e civili, esigeva tributi, imponeva scomuniche. Godeva insom­ma di insigni privilegi e, nelle visite solenni dei Reali al monastero, era d’obbligo che il sovrano cedesse il posto d’onore alla Badessa, come se fossero di pari dignità. Nel secolo XX questa figura era ormai superata poiché, dopo la soppressione delle giurisdizioni autonome in Spagna, avvenuta nel 1873, la Badessa era passata a di­pendere dall’Arcivescovo di Burgos.

Questa era la vicenda storico-canonica con la quale si sarebbe confrontato don Josemaria. Tra un viaggio e l’al­tro, quando disponeva di qualche ora, entrava nel mona­stero, attraversava l’atrio e passava la mattinata nell’ar­chivio inferiore, dove le incaricate della biblioteca gli passavano volumi in folio, libroni e fascicoli. Cominciava

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a lavorare al mattino presto, non appena Paco e Pedro andavano in ufficio dopo avergli servito la Messa. (Al suo arrivo a Burgos, per alcuni mesi, aveva celebrato la Mes­sa dalle Teresiane o nella chiesa di Santa Chiara, di fianco alla pensione. In seguito celebrò alcune volte dai Carmeli­tani, altre in Cattedrale, e per un lungo periodo nella chiesa dei Santi Cosma e Damiano, su un altare con un quadro raffigurante la Vergine, decorato con abbondanza barocca. Occorre ricordare che in quell’epoca c’erano a Burgos più sacerdoti che altari disponibili)195.

Era stato proprio uno di quei giorni, lunedì 6 giugno, che, dopo la Messa, andando verso Las Huelgas, era en­trato nella Piaga della mano destra del Signore. Quella settimana potè dedicare poco tempo alle ricerche, per­ché martedì alle 15 ricevette un laconico telegramma firmato da Ricardo Fernàndez Vallespm, con tre parole di testo: “Ferito non grave”196. Immediatamente partì in treno per Àvila e giunse a Carabanchel Alto, sul fronte di Madrid. Durante il viaggio, ripensando al sibillino te­sto del telegramma, probabilmente lo assalirono mille pensieri importuni. Del centinaio di giovani che compo­nevano la grande famiglia degli studenti di via Ferraz, ne erano già morti una decina. A Madrid erano morti Eraso, Llanos, Gastaca, Suàrez del Villar. Al fronte era­no morti Pepe Isasa e Jacinto Valentin Gamazo, entram­bi membri dell’Opera, e Jaime Munàrriz, studente di medicina, uno dei primi che erano stati a Porta Coeli. Mentre ardeva per la febbre, Jaime aveva gridato il no­me di don Josemarìa. I nomi dei morti apparivano men­silmente sui fogli di Noticias. “Quanti ne abbiamo in Cielo!”197, diceva don Josemarìa ai suoi.

Il sabato successivo, alle quattro del mattino, dopo tre notti insonni, il Padre rientrò a Burgos. Subito scris­se a Juan Jiménez Vargas:

“Ricardo? È un miracolo che la bomba a mano nonl’abbia ucciso. Ha un sacco di ferite su tutto il corpo: un

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vero tatuaggio. Tuttavia, solo tre o quattro sono abba­stanza serie, anche se non gravi (...). Spero che si rimetta presto e che non gli resti nessun altro cattivo ricordo ol­tre allo spavento.Che impressione vedere Madrid così da vicino! Quasi - senza quasi - è come stare a Madrid.Ho passato un brutto momento!”198.Poi informò Isidoro “dell’incidente di caccia” subito

da Ricardo. Certo quelli di Madrid non avrebbero potu­to immaginare di aver avuto il Padre a così poca distan­za. Ma il cuore del Padre sì che aveva risentito doloro­samente della vicinanza. Un ufficiale, compagno di Ricardo, aveva accompagnato il sacerdote all’osservato­rio di Carabanchel da dove, con un binocolo periscopi­co della batteria, aveva potuto spaziare con lo sguardo su Madrid199.

“A questo proposito - proseguiva la lettera per Isidoro -il nonno ha passato un momento doppiamente brutto: per il nipote e perché stava a sei o sette chilometri da suo nipote Àlvaro, al quale gli è proibito far visita. Tuttavia ha osservato, con un magnifico binocolo, la casa e tutti i dintorni e ha provato l’illusione di stare laddove il suo cuore avrebbe voluto. In effetti era a minor distanza da Àlvaro di quando stava in manicomio”200.Il Padre bramava davvero di poter abbracciare tutti

quelli della sua famiglia:“Ma gli affari sono affari e queste separazioni sono ne­cessarie. Quante volte sarei ritornato nel mio Paese, pri­ma di arrivare in Francia, se Jeannot non me l’avesse im­pedito! È stato meglio che venissi qua, perché non ci si può neppure sognare il lavoro che è stato fatto”201.Sui fronti sui quali si trovavano alcuni dei suoi figli -

Teruel o il Nord dell’Aragona - c’erano state aspre bat­303

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taglie. Nel marzo 1938 aveva avuto inizio l’offensiva nazionale per raggiungere il Mediterraneo; in giugno fu conquistata Castellón. Ma poi tutto cambiò: nell’ultima settimana di luglio ebbe inizio una spettacolare offensi­va repubblicana202. Il Padre si sentiva orgoglioso di es­sersi lasciato trascinare dall’affetto fino alla “prima li­nea del fronte di Teruel”, per far visita a Juan203. In quei mesi non venivano rilasciati permessi per assentarsi dal fronte. Perché allora non diventare cappellano militare onorario, come gli aveva proposto tempo addietro il ge­nerale Orgaz, in modo da poter seguire i suoi?204.

Don Josemaria ne intuiva gli inconvenienti, che erano grandi, perché i centri di addestramento militare aveva­no già i propri cappellani. Quanto a tentare di ottenere la nomina di cappellano effettivo, egli stesso esponeva al Vescovo di Pamplona gli svantaggi che avrebbe impli­cato l’essere incorporato a una determinata unità, per­dendo la libertà di spostarsi su altri fronti205.

Il Vescovo di Pamplona suggerì molto opportunamen­te di trattare il caso con le autorità militari. Fu così che si pensò di nominarlo consulente giuridico militare ascritto al Servizio Nazionale degli Affari Ecclesiasti­ci206. Comunque, don Josemaria desiderava avere il be­neplacito di mons. Eijo y Garay, che già era informato di tutto attraverso il Vicario generale della Riorganizza­zione, don Casimiro Mordilo. Per facilitare la decisione del Prelato, il sacerdote gli proponeva alcune considera­zioni, a partire dall’idea che “la mia vocazione è essere sacerdote al cento per cento”207.

Nel frattempo si era verificato un indimenticabile av­venimento, descritto qui di seguito.

* * *La vigilia dell’“incidente di caccia” di Ricardo, don Jo­semaria aveva saputo che mons. Carmelo Ballester si sa­rebbe fermato a Burgos, nel Seminario. Padre Ballester era autore dell’edizione del Nuovo Testamento che gli304

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aveva regalato il Vescovo di Pamplona e il cui testo egli aveva utilizzato durante il ritiro spirituale. Il 15 maggio era stato consacrato Vescovo di Leon. Don Josemarìa non aveva potuto assistere alla cerimonia perché si tro­vava in visita al fronte dell’Aragona, ma gli aveva invia­to in regalo un vassoio d’argento con inciso lo stemma del nuovo prelato; “Il regalo è modesto, ma simpatico. Ed egli se lo merita,... anche se per ora non ci capisce!”, scrisse a José Maria Albareda208.

Mons. Ballester invitò il Padre a passare alcuni giorni con lui nel suo palazzo di Leon. Leon si trovava a metà strada fra Burgos e Santiago di Compostella, per cui, a corto di tempo, don Josemarìa calcolò meticolosamente le date per prendere diversi piccioni con una fava. Sua intenzione era di arrivare al sepolcro dell’Apostolo, “per lucrare il giubileo e pregare per tutti”209. Seguendo la secolare tradizione dei pellegrinaggi medioevali alla tomba di S. Giacomo, i devoti andavano a lucrare le in­dulgenze concesse nell’Anno Santo; ed è sempre tale l’anno in cui il 25 luglio, festa dell’Apostolo patrono della Spagna, cade di domenica. Anno Santo era stato il 1937, ed era stato prolungato fino al 1938 a causa delle difficili circostanze belliche.

La sera del 15 luglio don Josemarìa stava a Leon, “coccolato da questo santo Vescovo”, come scriveva a quelli di Burgos, chiedendo le loro preghiere: “Pregate per me: che questo Giubileo di S. Giacomo mi purifichi e mi metta fuoco nell’anima”210. Raggiunse tutti gli obiettivi del viaggio: parlò dell’Opera con mons. Balle­ster; portò con sé in pellegrinaggio don Eliodoro Gii e stette con loro anche Ricardo, che era giunto a Leon il 16 luglio, festa della Madonna del Carmine e onomasti­co del Vescovo.

Il 18, dopo che il Padre ebbe celebrato la Messa dalle Teresiane, i tre andarono alla stazione. Persero il treno per un soffio. Rimediò al contrattempo don Eliodoro, che contattò un tassista, fedele della sua parrocchia, il

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quale li portò in macchina fino a Veguéllina de Órbigo, a 30 chilometri da Leon, dove raggiunsero il treno per la Galizia. Tutto ciò rimase bene impresso nella memo­ria di don Eliodoro, perché don Josemarìa diede loro - a lui e a Ricardo - una meditazione, nel tragitto fra Leon e Veguellina. Stavano attraversando la fertile pianura di Órbigo, tra campi di erba medica, bietole e luppolo, quando la macchina passò vicino a una noria. Un asi­nelio camminava sul tratturo con gli occhi bendati, estraendo l’acqua, che scorreva abbondante sul terreno arido. Ispirandosi a questa scena, il sacerdote parlò loro del lavoro monotono, perseverante, apparentemente in­fruttuoso, ma imprescindibile per rendere rigogliosi gli ortaggi. Poi, attingendo il senso spirituale della parabo­la dell’asino, fece loro considerare l’importanza di saper ubbidire umilmente: “Percorrere la strada giusta, con gli occhi bendati, illuminati dalla luce interiore della fede, sapendoci strumenti nelle mani di Dio”211.

A Santiago presero alloggio alla pensione La Perla. Il giorno successivo, martedì 19 luglio, il Padre celebrò nella cripta dove si venerano i resti dell’Apostolo. Gli servì la Messa Ricardo. “Quanto si è ricordato della fa­miglia, e della nonna, e di zia Carmen e di zio Santi!”: così scrisse a Isidoro, per consolazione di quelli di Ma­drid e degli altri dell’Opera212.

sj- *

Dopo l’annotazione del 6 giugno, sul mistico rifugio nella Piaga della mano destra del Signore, descritto poi nella lettera a Juan Jiménez Vargas, negli Appunti c’è un insolito vuoto di due mesi, interrotto solamente da una Caterina che comincia con il seguente rilievo: “Martedì 2 agosto. Credo di dover annotare la lezione sulla Ca­rità, che il Signore ci ha dato ieri”213.

Il fatto, raccontato estesamente ma non integralmen­te, è certamente tragico. È uno di quei casi che turbava­no profondamente Pedro Casciaro, a un punto tale da306

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“traumatizzarlo”, come dirà lui stesso. Il Padre era ap­pena rientrato da Santiago, il 20 pomeriggio, quando Pedro lo informò che in sua assenza avevano chiesto di lui dalla Vicepresidenza del Governo e che il giorno suc­cessivo si era recato all’albergo un poliziotto, inviato dal comandante Gallo, della Vicepresidenza, con la ri­chiesta che il Padre si recasse nell’ufficio di questi, nella Casa del Cordón. Don Josemaria vi si presentò il giorno dopo e il signor Primitivo Vicente Gallo, comandante segretario, gli chiese informazioni su Pedro Casciaro e sul padre di lui. “Gli ho parlato esaurientemente di tut­to ciò che concerne il ragazzo - riferiva don Josemaria - dicendogli poi quello che so sulle oneste attività del pa­dre, benché ad Albacete egli sia un dirigente della sini­stra repubblicana...”214.

Al comandante Gallo era arrivata un’accusa molto grave contro Pedro Casciaro. E cioè che suo padre era massone e comunista; responsabile, forse addirittura au­tore materiale, della morte di molte persone di destra ad Albacete. E che il figlio, anch’egli comunista attivo, era passato nella zona nazionale per fare la spia nel Quartier Generale di Orgaz215. Il comandante, che in precedenza aveva parlato con il generale Orgaz e sapeva da questi che il posto di fiducia che Pedro aveva nella Sezione Ci­fra del Quartier Generale, da dove partivano gli ordini segreti, era basato sulla garanzia di don Josemaria, aveva chiamato il sacerdote per informarlo della denuncia.

Sarebbe stato difficile smentire queste gravissime accu­se davanti a un tribunale militare e nel corso di un pro­cesso probabilmente sommario. In effetti, nessun mem­bro dell’Opera era stato ad Albacete al tempo degli avvenimenti oggetto dell’accusa; e poi c’era un apparen­te fondo di verità, dato che in quel momento Casciaro padre aveva ancora una carica politica. La denuncia era stata reiterata già tre volte ed era necessario quanto pri­ma chiarire la situazione. Gli accusatori erano tali signo­ri Bermudez, marito e moglie. Il comandante Gallo con­

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sigliò quindi a don Josemarìa di andare a far visita ai due coniugi, per trovare il modo di chiudere la faccenda216.

I Bermudez provenivano dalla classe media di Albace- te: famiglie di proprietari terrieri, industriali e funziona­ri. Al tempo della proclamazione della Repubblica, Jorge Bermudez, uomo di destra, era impiegato all’intendenza di Finanza di Albacete; mentre Casciaro, professore di scuola, era militante di sinistra. Non avevano alcun rap­porto né esisteva tra loro inimicizia personale di nessun genere. I Bermudez avevano una buona posizione sociale ed economica e abitavano quasi di fronte alla casa dei Casciaro; ma nel 1934, dopo un rovescio economico, es­si avevano dovuto liquidare i loro beni in un’asta pubbli­ca e trasferirsi altrove. Nel 1936 si erano stabiliti a Bur­gos e, all’epoca di cui stiamo parlando, Jorge Bermudez era Amministratore delle Proprietà e dei Tributi Territo­riali dell’intendenza di Finanza, un posto di un certo pre­stigio e influenza sociale. Alcuni giorni prima la moglie, Teresa Gallego, aveva casualmente incontrato e ricono­sciuto Pedro. Per entrambi l’incontro fu una sgradevole sorpresa; non si erano più rivisti dall’asta indetta dai Bermudez prima di partire da Albacete. Pedro ricordava di aver acquistato in quella occasione un lampadario, un’armatura e alcune spade malesi, contrattando il prez­zo con la signora Bermudez217.

II Padre e i suoi avevano deciso di recarsi a due a due, lunedì 1 agosto, a far visita - alla stessa ora, ma separa­tamente - al marito e alla moglie. Perciò alle dieci del mattino il Padre, accompagnato da José Maria Albare­da, si recò nell’ufficio del signor Bermudez, mentre Pe­dro e Miguel Fisac, che quel giorno si trovava a Burgos in permesso, andarono a trovare la moglie. In strada, prima di entrare negli uffici della Finanza, il Padre pregò “il santo Angelo Custode del signore al quale stavamo per fare visita, quello di José Maria e il ‘piccolo Orolo­giaio’, perché il colloquio si svolgesse serenamente”218.

Bermudez li ricevette nel suo ufficio. Subito si mostrò308

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alterato e il sacerdote gli dovette ricordare che erano an­dati “lealmente e cristianamente a parlare di quella fa­stidiosa questione”. In primo luogo, com’era possibile che sua moglie affermasse in modo calunnioso di aver visto Pedro fare propaganda per il Fronte Popolare ad Albacete durante le elezioni del 1936, se Pedro all’epoca si trovava a Madrid nella Residenza di via Ferraz? “Non credo che il Signore gli abbia dato l’ubiquità, per consentirgli di agire contro la sua Causa”, rilevò don Josemarìa. Forse per un istante venne alla mente del funzionario l’immagine fugace di due bambini: di Ra­fael, suo figlio minore, e di Pedro, che ritornavano a ca­sa insieme, nel 1929, dopo qualche escursione con i gio­vani esploratori: “È vero che Pedrito era un bravo bambino..., ma ora è un uomo e potrebbe esser venuto a tradire, d’accordo con suo padre... che è rosso!”.

Il sacerdote ribadì la sua difesa:“Io sono stato con Pedrito quasi ogni giorno da quando è ‘un uomo’ e garantisco per lui; è falso ciò che sua mo­glie afferma, con tutto il rispetto per lei”.Il signor Bermudez non volle lasciarsi convincere. Ri­

badì le sue accuse contro il signor Casciaro; respinse ostinatamente qualsiasi testimonianza favorevole: “Avrebbero dovuto fucilarli, invece di metterli in prigio­ne, quando riprendemmo Albacete!”.

Con molta presenza di Dio, con calma, senza alzare la voce, il sacerdote gli assicurò: “Metterei la mano sul fuoco per Pedro”. “Se la brucerebbe - lo avvertì sarca­stico il funzionario -, magari a fuoco lento”.

Ma come osava dire a lui, un sacerdote che conosceva Pedro perfettamente, che il ragazzo non era un buon cri­stiano, un buono studente e un patriota?

“Se è così ringrazieremo Dio e me ne rallegro”, conces­se in tono canzonatorio il signor Bermudez, che non sem­brava molto allegro e mostrava una dura intolleranza.

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“Ma se fosse per lei, resterebbero in vita tre spagnoli su cento”, protestò il sacerdote.

“È così che bisogna fare - rispose imperturbabile il si­gnor Bermudez -, altrimenti non avremo concluso nulla”.

Il sacerdote contestò l’indegnità di un simile atteggia­mento e gli parlò di tutti i debiti che bisogna saldare nel giorno del giudizio, che sarebbe anche potuto essere vi­cino. E se il Signore gli avesse chiesto conto quel giorno stesso di ciò che voleva fare? Ma neppure così riuscì ad ammorbidire il cuore di quell’uomo, che ripeteva con ostinazione piena di rancore: “La devono pagare sia il padre che il figlio”.

“Questo non è cristiano: lei avrebbe mandato Sant’A- gostino all’inferno”.

“La devono pagare sia il padre che il figlio”, insisteva Bermudez219.

Così si conclude la Caterina: “Il colloquio si svolse nei limiti della correttezza. Ci siamo dati la mano e siamo usciti”.

Il Padre uscì dall’ufficio di Bermudez in un silenzio rattristato, impressionato dal tono duro e tagliente del funzionario. “Scese le scale dell’edificio molto assorto, quasi a occhi chiusi, e disse, pensando ad alta voce: do­mani o dopodomani, il funerale""210. Poi andò dal co­mandante Gallo a raccontargli l’esito del colloquio.

Nel frattempo, Pedro e Miguel stavano parlando con la signora Bermudez nella sua casa in piazza Primo de Rivera. La conversazione fu assai aspra. La signora af­frontò Pedro: lei aveva due figli militari, uno dei quali al fronte; era forse giusto che mentre quegli si giocava la vita, lui se ne stesse così agiatamente nelle retrovie, fa­cendo la spia per i rossi? Miguel intervenne per difende­re Pedro. Si scontrarono accalorandosi; si scambiarono insulti; e lei giurò che non avrebbe tolto una riga dal­l’accusa presentata da suo marito. Pedro, profondamen­te abbattuto, ritornò nel suo ufficio a Los Pisones.310

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“Il colloquio dei ragazzi con la signora - si legge negli Appunti - fu terribile: arrivò a dire al figlio che ‘avrebbe fatto tutto il male possibile a suo padre’”221.Il Padre, in compagnia di Miguel, pranzò assorto, in

silenzio. Poi tornarono in camera. Il sacerdote era sem­pre immerso nei suoi pensieri, con un’idea fissa nella mente. “Nel pomeriggio - scriverà in seguito - mi venne più volte il pensiero che quella famiglia avrebbe avuto una disgrazia. Pensai al figlio, quello che stava al fron­te”. Sulla veranda, seduto in una poltroncina di vimini, con lo sguardo perduto e in orazione, si sentì interior­mente costretto a dire a Miguel: “Domani o dopodoma­ni questa signora avrà un funerale; le si dovranno fare le condoglianze”222.

“A metà pomeriggio - prosegue il racconto - Miguel e io usciamo a fare due passi; come usa a Burgos, c’era un an­nuncio funebre attaccato a un cantone della via; annun­ciava la morte del signore che José Maria e io avevamo vi­sto al mattino. Mi sfuggì: ‘Avevo inteso che riguardasse il figlio’. Miguelito è sbiancato in volto: ‘Nel momento in cui quest’uomo moriva, Lei lo stava dicendo’.Abbiamo recitato per lui il santo Rosario e oggi ho cele­brato la Messa per la sua anima. Non esprimo giudizi. Spero che questo fatto oggettivo e innegabile sia solo, per noi, una lezione di carità. Non mi sono mai visto tanto miserabile come in questo periodo”223.A sera inoltrata, Pedro ritornò dalla caserma Los Pi-

sones. In albergo, facendo in modo che non si impres­sionasse troppo, il Padre gli raccontò della visita fatta al mattino al signor Bermudez, della sua repentina morte avvenuta poco dopo e che lui e Miguel avevano visto l’annuncio funebre vicino alla chiesa della Mercede. Al­l’udire la notizia, Pedro si sentì male: non si reggeva in piedi e andò a sdraiarsi sul letto del Padre, mentre que­sti a bassa voce lo tranquillizzava per la morte del si­

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gnor Bermudez, poiché “era moralmente certo che Dio nostro Signore avesse avuto pietà della sua anima e gli avesse concesso il pentimento finale; e aggiunse che da quando era uscito dal suo ufficio non aveva fatto che pregare, sia per lui che per i suoi figli”224.

Quando si fu rimesso, il Padre gli suggerì di ritornare in caserma per chiedere al capitano Martos, responsabi­le dell’ufficio, tre o quattro giorni di permesso per anda­re a Bilbao da suo zio, dicendogli che si sentiva fisica- mente esaurito. Per strada, passando davanti alla chiesa della Mercede, Pedro potè vedere l’annuncio funebre di Bermudez. Il capitano Martos doveva già essere al cor­rente dei fatti; uomo un tantino superstizioso, non fece difficoltà a concedere il permesso: “Certamente, caro Casciaro: va a riposarti. Lo sai bene che ti ho sempre stimato: non ce l’hai con me, non è vero?”.

“La sera stessa sono partito per Bilbao - avrebbe scritto Casciaro nel 1979 -, dove mi rasserenai alquan­to, anche se l’impressione per quell’evento mi è rimasta per tutta la vita”225.

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Il Padre, da quando erano usciti dall’ufficio di Bermu- dez, era rimasto assorto, concentrato nell’orazione, quasi assente. Ricordiamo che questo gli era accaduto già in altre occasioni: “un sognare da sveglio che a vol­te mi mostra cose future o lontane”226. L’intimità con il Signore, i fenomeni soprannaturali straordinari - illu­minazioni, locuzioni interiori, dono delle lacrime, di- scernimento degli spiriti, aiuti da parte della Santissima Vergine o degli Angeli Custodi - erano eventi normali nella sua vita. Don Josemarìa era così avvezzo agli in­terventi del Signore che si mantenne sereno, senza voler giudicare, ritenendosi un miserabile e limitandosi a considerare quanto era successo soltanto come “una le­zione di carità”227.

Forse, leggendo e meditando con calma la Caterina su312

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quanto accadde l’I agosto, il lettore può restare sorpre­so della serenità di don Josemaria. Non poteva essere al­trimenti, data la sua profonda e ricca esperienza del comportamento di Dio con gli uomini. In contrasto con il sereno atteggiamento del Padre, tutti gli altri sentiro­no, in un modo o nell’altro, un profondo disagio di fronte al caso del signor Bermudez. Invece il Fondatore, anche alle prese con un evento così sorprendente, prose­guiva con naturalezza la sua vita contemplativa in mez­zo al mondo, nel lavoro e nelle occupazioni quotidiane.

Considerato da vicino, il caso in questione - uno tra i molti casi straordinari della sua vita - presenta due aspetti. Da una parte, quello di evento drammatico e fonte di turbamento; dall’altra quello di occasione di salvifica purificazione. È inquietante soffermarsi soltan­to sull’inesorabile compiersi di una terribile predizione. È salutare, invece, sentirsi protetti dal potere onnipoten­te di Dio nostro Padre. Nel primo caso poniamo l’ac­cento sul dono della profezia; nel secondo, sull’amore.

Il tocco infuocato del dito di Dio cauterizza, certamen­te, ma nello stesso tempo risana. Perciò negli interventi divini, spesso dolorosi, il Fondatore vedeva “dolci effu­sioni e carezze” paterne, a volte molto al di là della com­prensione umana, ma sempre salvifiche. Ormai abituato a tali interventi soprannaturali, don Josemaria definì l’e­pisodio di Burgos una “lezione di carità”: Dio veniva in difesa dei suoi. Il Fondatore si astenne, nei suoi Appunti, dal giudicare. Ma, con l’accaduto ancora fresco nella memoria, in una lettera scritta la settimana successiva, l’i l agosto, scrisse la sua consolante esperienza: “Dio la sa lunga e agisce con amore, sempre!”228.

Il 17 agosto, di ritorno da Bilbao, Pedro Casciaro in­contrò per strada uno dei figli del signor Bermudez, sot­totenente di Fanteria. “Nell’accomiatarmi - scrisse al Pa­dre il 18 agosto - gli chiesi se fosse vero ciò che avevo sentito sulla disgrazia; mi disse di sì, che era accaduto in ufficio senza che suo padre neppure se ne rendesse con­

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to, mentre stava parlando con un collega. Pare sia stata un’angina di petto. Gli ho fatto le mie condoglianze”. A giro di posta il Padre, da Vitoria, inviò una lettera ai suoi figli di Burgos (Pedro, Paco e José Maria) con un miste­rioso poscritto e con un semplice commento: “Non mi meraviglia ciò che ha detto il figlio di quel signore, per­ché Dio sa fare le cose bene. Quanto è Padre!”229.

Alle notizie precedenti, Pedro Casciaro aggiunge in un suo libro alcuni scarni ma impressionanti dettagli. Pur essendo questo episodio terribilmente inquietante, il cronista non deve tacerne i particolari. Poche settimane dopo la morte di Bermudez morì suo figlio Rafael, l’a­viatore. Quando Pedro gli comunicò la triste notizia, il Padre commentò addolorato: “In un certo senso, c’era da aspettarselo... Prega per lui; anch’io lo farò”.

“Alcuni giorni dopo - riferisce Casciaro - incontrai la vedova Bermudez nella chiesa dei Gesuiti. Appena mi accorsi della sua presenza, uscii dalla chiesa il più silen­ziosamente possibile, ma lei mi vide; e mi parve che mi guardasse con dolcezza”230.

6. Con la penna in mano...Il 2 agosto 1938, lo stesso giorno in cui aveva scritto la lunga Caterina sullo zelo amorevole di Dio per i suoi, don Josemarìa partì per Vitoria per risolvere alcune questioni inerenti alla tesi di dottorato e al suo incarico di Rettore di Santa Isabel. Il Vescovo, in casa del quale era ospite, gli chiese di predicare due turni di esercizi spirituali: uno al clero diocesano e un altro alla comunità delle suore che prestavano servizio nel palazzo episcopale. Non poteva dire di no e accettò, “contando sul permesso presunto” del suo Vescovo mons. Leopoldo Eijo y Garay.

Don Josemarìa era stato anche invitato dal Vescovo di Àvila a fermarsi con lui alcuni giorni prima degli eserci­zi di Vitoria, e da Àvila scrisse ai suoi figli l’8 agosto,314

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raccontando i particolari del viaggio e lodando le virtù dell’ospite: “Questa mattina ho celebrato dopo che il Vescovo aveva terminato la sua Messa. Vedo sempre al­tri particolari di perfezione nella vita di questo caro Ve­scovo. Voglia il Signore che io sappia imitare questi esempi di semplicità e di naturalezza”231.

Mons. Moro accondiscese con molto piacere a con­servare ad Àvila i libri e tutti gli oggetti messi da parte per il futuro oratorio: tabernacolo, vasi sacri, candelieri, paramenti, ecc. E don Josemarìa, avendo alcuni giorni di tranquillità, di cui rare volte aveva goduto, si dedicò a preparare i giorni di ritiro che stava per dare a Vitoria. Lo diceva per lettera a quelli di Burgos:

“Che buono - davvero un santo - è questo Vescovo! È una scuola di tutte le virtù, con un fondamento di umiltà che le riempie di fortezza. È consolante vedere come ci vuole bene. Qui mi sembra di essere a casa mia: mi man­cate solamente voi, ma sapeste quanta compagnia faccio a ciascuno di voi, durante il giorno e durante la notte! È la mia missione: che siate felici un giorno con Lui; e adesso, sulla terra, che gli diate gloria”232.Una volta presa in mano la penna, dopo aver scritto a

quelli di Burgos, volle fare lo stesso con gli altri: José Ramón, che era malato, e Ricardo, che aveva ricevuto con una settimana di ritardo la notizia della morte di una sorella e di sua nonna, e che di recente aveva pure perso li padre:

“A che scopo parlarti - gli scriveva - della partecipazio­ne al tuo dolore, se tutti i tuoi dolori sono dolori miei? Abbiamo saputo della morte di tuo padre (che riposi in pace) poco dopo che tu fosti ferito. Dovevamo dirtelo in quel momento? Mi sono limitato a offrire tutti i suffragi che ho potuto e a scrivere (due volte) affinché i tuoi fos­sero assistiti economicamente. Altro non si poteva. De­gli altri lutti non sapevo nulla: farò ancora suffragi (...).

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Quanto mi dispiace di non poterti abbracciare! Col desi­derio mi metto al tuo fianco per dire al Signore: Fiat...Il povero Josemarìa vorrebbe dirti, senza piangere, che ora è ancora di più tuo Padre.Ti abbraccio molto forte e ti benedico.

Mariano”233.Neppure poteva dimenticarsi di quelli della zona re­

pubblicana, sapendo che Àlvaro e qualche altro stavano preparando la fuga da Madrid. Il Padre li aveva conti­nuamente nel pensiero e nelle preghiere:

“I miei ragazzi! Dove staranno ora i miei figlioli che sta­vano per passare il fronte? Sono ancora a Madrid? Do- minus sit in itinere eorum!...”234.Stette tre giorni all’Hotel Sabadell e il 17 agosto partì

per Vitoria. Il 20 agosto 1938 si trova nei suoi Appunti una Caterina isolata, scritta durante il ritiro che stava dando nel palazzo episcopale alla comunità di Terziarie Cappuccine. Vi si legge:

“Mi vedo così miserabile che spesso mi affaccio in ora­torio per dire a Gesù: “Non fidarti di me... Io sì che mi fido di te, Gesù... Mi abbandono nelle tue braccia: lì de­pongo tutto quello che ho, le mie miserie”. Se non faces­si così, di fronte alla quantità di cose che si affollano dentro di me, credo che impazzirei. Abbandonarmi in Gesù Cristo, con tutte le mie miserie. E ciò che Egli vuo­le, in ogni istante, fiat! Monstra te esse Matrem.Credo che le suorine stiano facendo molto bene i loro esercizi”235.Il lavoro nel palazzo episcopale, a motivo dei molti

sacerdoti rifugiati che provenivano dalla zona repubbli­cana, era notevole. Le suore però si davano il turno e preparavano le cose in modo da non perdere neppure una della meditazioni che dava loro don Josemarìa:316

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“Con quanta impazienza aspettavamo le sue meditazio­ni - dice una di loro ci riempivano del desiderio di in­namorarci sempre più di Gesù. Non ho mai fatto eserci­zi spirituali come quelli: me ne ricorderò finché vivrò; mi sono serviti per sempre”236. Dopo molti anni non tutte si ricordavano i temi delle sue meditazioni, ma si che erano sempre una chiamata fortissima a cercare la santità: “Non ricordo i temi specifici delle meditazioni, ma non mi sono più dimenticata che devo essere santa, che è l’unica possibilità”, riferisce suor Ascensión. Nelle suore rimase fortemente impressa la fede tangibile di don Josemaria nella presenza reale del Signore. Si com­muovevano vedendo che il sacerdote “si rivolgeva verso il Tabernacolo e parlava con il Signore come se lo stesse vedendo: ‘Gesù, sono pazzo di amore; fa che anche loro diventino pazze d’Amore per te’”237.

Le virtù del sacerdote erano sotto i loro occhi. Suor Elvira, insieme a suor Juana, aveva il compito di riasset­tare la sua camera. Al mattino trovavano il letto disfat­to, ma in tal modo che capivano benissimo che il sacer­dote aveva dormito per terra. Quanto al cibo, suor Elvira ricordava che la sua prima colazione consisteva solamente in un dito di caffelatte e nient’altro.

Vergine Santissima! Le suore si impressionarono nel vedere le ricuciture e i rammendi della sua tonaca. Dice­vano tra loro che don Josemaria era un santo e non vi è dubbio che la sua fosse autentica povertà. Ma, oltre alla povertà, c’entrava anche un deplorevole sopruso impu­tabile a Pedro Casciaro e Paco Botella, complici nel mi­sfatto. Ma prima di raccontare l’accaduto, ecco la com­passionevole testimonianza di suor Maria Loyola: “Viveva nella più assoluta povertà: aveva una sola tona­ca e una volta ce la diede da cucire; era ridotta a bran­delli; cercammo di sistemargliela alla meglio e in fretta, perché egli era rimasto in camera sua in attesa che finis­simo. La biancheria intima era talmente malridotta che non c’era modo di infilare l’ago su un pezzo di tela che

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non fosse consunto, a tal punto che Madre Juana decise di comprargli due ricambi”238.

Quanto a Pedro e a Paco, a Burgos si erano prima im­pegnati nell’impresa di costringere il Padre a comprarsi un cappello nuovo: fu un successo. Era ancora rimasto con il cappello che gli aveva dato il Vescovo di Pamplo­na. L’uso, il sole e la pioggia lo avevano ridotto in uno stato pietoso. Allora, approfittando di un’assenza di don Josemarìa, decisero di tagliarlo a pezzettini con le forbici; poi ne misero un pezzo in ognuna delle buste già preparate per inviare al fronte i fogli di Noticias. Sicura­mente tutti gradirono quelle reliquie del Padre. Ma don Josemarìa non prese parte al loro entusiasmo; li rimpro­verò con decisione, ma fu costretto a comprarsi un altro cappello.

L’operazione “tonaca”, invece, fu un completo insuc­cesso. Quel capo di vestiario aveva pochi mesi, ma era di tessuto scadente ed era logorato dall’uso. Messisi d’accordo, alla prima occasione in cui il Padre, tirata la tenda, si era ritirato nel suo angolino lasciando la tona­ca in camera, Pedro e Paco si affrettarono a lacerarla sulla schiena, cosa molto facile, poiché la tela era con­sunta. Poi se ne andarono in caserma, nella speranza che il Padre si affrettasse ad acquistarne un’altra. Al ri­torno lo trovarono invece che ricuciva lo strappo con grande cura e concentrazione239. Non disse nulla. Era il periodo di maggior calura dell’anno e, vedendolo per strada, molti si chiesero perché don Josemarìa sopra la tonaca portasse la mantellina.

* * *Il 26 agosto ritornò a Burgos per ripartire di nuovo il 28 per Logrono, accompagnato da Pedro, Paco e José Maria Albareda. Il suo affetto di Padre lo portava a pas­sare qualche ora con José Ramón Herrero Fontana, an­cora convalescente di una malattia. Facendo una pas­seggiata per la città, si risvegliarono in lui vecchi ricordi318

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dell’adolescenza, gradevoli alcuni, altri dolorosi: la rovi­na economica della famiglia e la partenza da Barbastro, gli studi liceali, le orme sulla neve dei piedi scalzi di un carmelitano... Tra l’altro, tempo prima, poco dopo l’ar­rivo a Burgos, nel convento dei Carmelitani aveva in­contrato proprio padre José Miguel240.

Il 3 settembre partì per Vitoria e di là per Vergara, do­ve doveva tenere un corso di esercizi spirituali ai sacer­doti dèlia diocesi. Li aveva preparati accuratamente e aveva chiesto a molte persone preghiere e mortificazioni per i partecipanti. Il tema centrale della sua predicazio­ne era Gesù Cristo, Sommo ed Eterno Sacerdote. Su questo ritiro c’è una breve annotazione negli Appunti-.

“Vergara, 7 settembre 1938. Sono contento degli eserci­zi. Ci sono cinquantacinque sacerdoti, che ascoltano con molta attenzione e sembrano molto raccolti.La Santissima Vergine mi aiuta”241.Non tutti erano già sacerdoti. Tra i partecipanti c’era­

no alcuni ordinandi, come Guillermo Maranón, il qua­le, come tutti gli altri, pendeva dalle labbra di don Jose­maria. “U suo amore per Cristo Sacerdote traspariva da tutte le sue parole - racconta -. Si capiva che era uomo di vita interiore molto intensa ed elevata, che cercava di trasmetterci ciò che in lui era già vita, esperienza, strada percorsa. Le sue parole chiare, ordinate, curate, da cui traspariva una fede coerente e profonda, erano dardi in­fuocati”242.

Nella stessa data della citata Caterina del 7 settembre, inviò una lettera ai suoi figli, parlando degli esercizi a Vergara:

“È un gruppo pieno di fervore: mia Madre Santa Maria- è un fatto oggettivo - mi ispira perché io ispiri loro. Quanto è Madre la Madonna! Ditele qualcosa per me al Pilar: baciatelo da parte mia. A volte, nelle povere anime

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tribolate sembra che PAmore alla Vergine sia Punica co­sa forte che rimane in piedi. Quanto è buona!”243.

ss- s i- s :-

La coerenza fra la vita interiore e il comportamento di don Josemarìa, alla quale allude l’ordinando di Vergara, era evidente. Così come le persone, nel modo di agire e persino nella moda e nelle convenzioni sociali, mettono in mostra gusti personali e intime tendenze, anche il Pa­dre dava chiari segni esterni della sua vita interiore, cioè della sua unione con Dio e del suo ardore apostolico. La sua vita contemplativa traspariva nelle parole, nei gesti e negli atteggiamenti e, fondendosi con altre note del suo carattere, manifestava la struttura di una persona­lità solida, tutta di un pezzo.

La parola era il mezzo principale con cui esprimeva lo stato della sua anima. La frase: “Gesù, sono pazzo d’A- more, fa che anche loro diventino pazze d’Amore per Te”, ben poteva essere un “dardo infuocato” che impri­meva nelle suore di Vitoria il desiderio di innamorarsi del Signore. E se la parola non bastava a smuovere le anime, il linguaggio del predicatore era accompagnato dal gesto, dal timbro di voce - inconfondibile, grave, vi­brante, virile - in un’ampia scala di toni, dalla rapidità del pensiero e dall’eloquenza dell’esposizione.

Don Josemarìa, che possedeva per natura il dono del­la parola, acquistò anche maestria nell’arte divina di toccare l’anima del lettore. Con la penna in mano, ave­va grande facilità di stile e perfetto dominio di tutte le sfumature del linguaggio, per riversare fedelmente sulla carta pensieri e affetti. Per necessità apostolica fu co­stretto a coltivare il genere epistolare fin dai primi tem­pi, come abbiamo visto. E sebbene si possa dire che la personalità di don Josemarìa è rispecchiata nelle sue let­tere, non è meno certo che esiste una sottile armonia tra il suo temperamento e i suoi stati d’animo, da una par­te, e lo strumento materiale della scrittura dall’altra. Fi­320

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no a che punto lo strumento, la penna, si prestava a da­re plasticità e tono alla parola scritta del Fondatore?

Sembra che tutto abbia avuto inizio il giorno in cui era scoppiata la rivoluzione, quando lasciò in via Ferraz 16 la sua vecchia stilografica. Ne usò un’altra nel Consola­to. Dal 1938 nella corrispondenza si alternarono diverse penne. Lo sappiamo perché, in una dozzina di lettere di quell’anno, don Josemarìa manifestava il disagio di do­ver maneggiare penne strane, che non si adattavano né alla sua mano né al suo carattere. Cominciò a protestare e a scherzare su di esse: “Ti sto scrivendo - diceva a Paco Botella - con la minuscola penna di José Maria, che mi innervosisce con le sue finezze”. Se l’inchiostro non scor­reva abbondante nei caratteri molto marcati, definiva la penna un “disastro”; se invece lasciava cadere qualche macchia, era una stilografica “incontinente”244.

La sua scrittura è inconfondibile. Perciò sorprende ve­dere alcune lettere con righe disuguali e con caratteri de­boli, come quella che scrisse una volta mentre era in at­tesa di un salvacondotto. Rendendosene conto, chiarì: “Scrivo con una penna rotta, più antipatica dell’atte­sa”245. Per le sue mani passarono peraltro anche buone stilografiche, di cui si liberava generosamente quando si accorgeva che qualcuno dei suoi figli ne era privo. Pochi giorni dopo il ritorno dal pellegrinaggio a Santiago di Compostella, in cui aveva perduto una penna vigorosa, scrisse a quelli di Burgos: “Comincio a scrivervi con una pennicciola leggera leggera (...). Pazienza! Sarei dovuto nascere ai tempi delle penne d’oca, per adattarle alle mie necessità”246.

A Vergara, dove aveva tenuto il corso di esercizi ai sa­cerdoti, si vide costretto a chiedere in prestito una pen­na per scrivere una lettera. Ma, vedendo la propria scrittura, si vergognò a tal punto da doversene scusare: “Guarda un po’ che scrittura insulsa! Mi hanno dato una penna da badessa cistercense e la colpa è sua (della penna, non della badessa)”247. E in una lettera a Juan

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Jiménez Vargas arrivò a declinare ogni responsabilità sulla grafia, accomiatandosi così: “Sto molto bene di sa­lute: te lo faccio sapere, anche se non t ’importa. La scrittura non è mia: è della penna”248.

L’uso che don Josemaria fece occasionalmente della macchina per scrivere è un fatto episodico. Sono pochissi­me le lettere scritte a macchina. La prima è datata a Bur­gos il 7 febbraio 1938, dopo aver acquistato la “Corona” per battere il foglio di Noticias. Si ha l’impressione che l’abbia scritta anche per provare il marchingegno e, in parte, per solleticare la curiosità di Juan Jiménez Vargas:

“Gesù mi ti protegga. Solo due parole, con questo vec­chio macinino che abbiamo comprato oggi stesso.Quando potrai venire, figlio mio?”249.Nel suo lavoro di direzione spirituale, il Padre cercava

la confidenza e la vicinanza; non gli piaceva l’anonima­to dei caratteri a stampa250.

La predilezione per l’inchiostro e la penna è rivelatri­ce, in quanto mostra la concordanza fra i tratti del suo temperamento e la sua scrittura. Egli stesso spiegò a Pa­co Botella questa concordanza: “Lo sai bene che la mia scrittura è fatta di tratti forti”251.

Attraverso le mani di don Josemaria, mani fini, ner­vose ed espressive, si sprigiona l’energia della persona. La dattilografia non lo soddisfece mai252: batteva labo­riosamente sui tasti con due dita, commettendo parecchi errori, che cancellava con la gomma o raspava con una lametta da barba. “Inevitabilmente bucava il foglio”, racconta Pedro Casciaro; e a volte si tagliava con la la­metta. Qualcosa di simile gli capitava “quando usava la matita: gli si rompeva la punta”253.

Una grafia dai tratti forti, se deve essere armonica, ha bisogno di inchiostro, caratteri grandi e penna robusta. Perciò, essendo quella del Padre grossa e robusta, i suoi dicevano che scriveva apposta con caratteri molto gran­322

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di per riempire presto il foglio254. Ma non era così, nep­pure per scherzo. Non riusciva a fare diversamente. Una volta in cui scriveva a Ricardo su molteplici e importan­ti questioni, dopo aver riempito di caratteri minuti tutta una facciata facendo violenza a se stesso per sfruttare bene il foglio, lo rivoltò e continuò a scrivere con carat­teri così minuscoli che alla fine, esausto, sbottò: “Ah, questa scrittura minuscola, sono distrutto dalla fatica!”. E subito dopo, quasi togliendosi un peso, aggiunse, con la sua solita, forte, grande calligrafia:

“Nessuna violenza può durare a lungo. Mariano, torna alla tua scritturaccia! Mi occorre una penna a mia misu­ra, come quella che mi hanno rubato i rossi a Madrid. Qualcosa di questo tipo [e c’è il disegno di un grosso pennino] e non quella che mi tocca usare, tutta delicata, adatta a una dolce monaca cistercense. Se riesci a tro­varmene una grande come la lancia di un guerriero e lar­ga come le mie ambizioni - e sai pure quanto sono profonde - compramela”255.Si definiva uomo dalle ambizioni grandi, ampie e

profonde: impeti apostolici circondati da una cornice di grandezza morale. Perché il Fondatore già vedeva il giorno - scriveva - in cui “la gloria di Dio ci disperderà: Madrid, Berlino, Oxford, Parigi, Roma, Oslo, Tokio, Zurigo, Buenos Aires, Chicago...”256.

Queste smisurate ambizioni, questi sogni di grandez­za in fieri, si accordavano con l’umiltà? Poteva forse fondarsi sulla superbia la visione futura di un’immensa opera apostolica stabilita in cento nazioni? Non sarebbe stato meglio umiliare gli eccessi dell’animo e mortificare i voli della fantasia?

Alcuni mesi prima di dare briglia sciolta a questo pen­siero di espansione universale, facendo un corso di ritiro a Pamplona si vide dall’esterno. E vide quelli che consi­derava peccati di omissione nel governo dell’Opera: la

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scarsa fermezza d’animo in certe occasioni, generata da una falsa carità, e la necessità di esercitare di più la for­tezza. Integrità morale e fermezza d’animo, che sono, anche se molti non lo sanno, parenti prossimi della vera e autentica umiltà. “Umiltà, umiltà, quanto costi!”, scri­veva don Josemarìa. E nella riga successiva aggiungeva di getto: “È falsa umiltà quella che porta a trascurare i diritti della carica. Non è superbia, ma fortezza, far sen­tire il peso dell’autorità, sapendosi imporre, quando lo esige l’adempimento della santa Volontà di Dio”257.

Un altro dei capi sciolti che gli restavano da annodare era il modo di coordinare l’“eccesso” del suo affetto con la severa funzione della sua autorità. Così, per esempio, se qualcuno non voleva perseverare nella vocazione in­trapresa, non sempre il Padre faceva all’interessato una cruda ed esauriente esposizione del caso e delle sue con­seguenze, o per buona educazione, o per carità, o per “la paura di prolungare un brutto momento”. Un gior­no del 1938 in cui uno dei suoi abbandonò la propria vocazione, don Josemarìa si armò di fortezza e stabilì un metodo che da allora in poi avrebbe seguito.

Il metodo, come spiegò per lettera a Juan Jiménez Vargas, era consistito nel parlare in modo esauriente al­l’interessato, senza eufemismi e con la massima since­rità, delle cause e degli inciampi che avevano sviato l’a­nima dal suo cammino:

“Ho esaurito la verità, sistema che penso di seguire sem­pre; prima non lo seguivo per una ragione umana (edu­cazione, delicatezza), e per una soprannaturale (carità)... e per un po’ di timore a prolungare un momento brutto. Ora mi sono persuaso che la vera finezza e la vera carità esigono di arrivare al nocciolo, anche se costa”258.Ma non aveva timore di peccare per eccessiva seve­

rità: poteva forse cambiare il proprio cuore? Il Signore gli aveva dato un cuore che si scioglieva in affetti:324

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“Vitoria, 4 settembre 1938.Gesù vi protegga!Nessuno può capire il cuore: ci credete che fino all’ulti­mo momento sono stato a guardare se sareste arrivati prima che il treno partisse? E ora mi resta il rincresci­mento di essere stato poco generoso con il mio Signore Gesù, perché vi ho detto di non venire a darmi il saluto di commiato - e questo, pur essendo... un male, era una cosa buona - , per poi restare col desiderio di vedervi, chiacchierare alcuni minuti e abbracciarvi.(...) Preoccupato - ma con molta pace - per quelli di Madrid e per ciascuno: non sapeva questo povero prete che l’uccellino pazzo, che tiene chiuso nella gabbia del suo petto, avesse una tale capacità di nutrire affetti del cielo e della terra. Il cuore! Un tempo, verso i diciott’an- ni (non raccontatelo a nessuno) scrivevo dei versi pessi­mi - proprio pessimi - e li firmavo, mettendo nella mia firma tutti gli slanci della mia vita: “Il chierico Cuore”. Non è strano che il dottor Vargas affermi seriamente che dentro lì ho non so quale infiammazione.Con tutto il cuore vi benedice e vi abbraccia vostro Pa­dre - Mariano”259.

7. L’autunno del 1938Il 14 settembre don Josemaria scrisse una delle rarissime Caterine dell’estate 1938:

“Festa dell’Esaltazione della Santa Croce, 14-9-1938. Ho chiesto al Signore con tutto il fervore della mia ani­ma che mi dia la sua grazia per esaltare la Croce Santa nelle mie facoltà e nei miei sensi... Una vita nuova! Un contrassegno: per dare risalto all’autenticità della mia ambasceria... Josemaria in Croce! Vedremo, vedremo.R. Ch. V.”260.Conosciamo le circostanze in cui fu scritta la Caterina,

dato che i giorni di ritiro spirituale del sacerdote erano325

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di solito preceduti da un vivo desiderio di starsene da solo con Dio. E non aveva solo la voglia, ma anche un’assoluta necessità fisica di “riposare in aperta cam­pagna, per otto o dieci giorni, senz’altra compagnia che quella di Manolito” (il Signore), scriveva a Isidoro261. Ma, cosa che pure di solito gli accadeva, non appena si preparava per stare da solo con Lui, cominciava a nota­re, la vigilia del ritiro, uno strano fenomeno: gli si spe­gneva del tutto l’entusiasmo sensibile, come il ferro in­candescente quando viene immerso nell’acqua fredda.

Il pomeriggio del 25 settembre partì da Burgos su un autobus di linea, diretto al monastero benedettino di Si­los, dove avrebbe fatto il ritiro spirituale del 1938. Vi arrivò alle sette di sera; alle otto il sommesso suono di una campanella lo chiamava per la cena. Prima di entra­re in refettorio, l’Abate, secondo l’usanza monastica, ac­colse l’ospite con la cerimonia della lavanda delle mani.

“Alle nove meno un quarto - racconterà poi ai suoi figli- mi ero già ritirato nella mia cella. Alle dieci e un quar­to hanno spento il gas del riscaldamento. In questo mo­mento sono le undici e un quarto. Fra pregare e scrivere questi appunti il tempo è passato. Sento freddo. Farò un po’ di ginnastica, reciterò le mie preghiere di quand’ero bambino e le Preci, farò l’esame, poi le tre avemarie del­la purezza, il miserere, e mi coricherò sul letto.Juanito! Come rideresti, vedendomi fare ginnastica!”262.Aveva cenato poco e dormì ancor meno. Agitato, con

incubi, udì quasi tutti i rintocchi dell’orologio durante la notte. Con il pensiero vigile passò in rassegna, uno per uno, tutti i suoi: quelli che dormivano a Burgos, al fronte o a Madrid:

“Mille volte oggi ho pensato a tutti e a ciascuno dei miei figli; specialmente a quelli che stanno nella zona rossa. Anche alla nonna e ai miei fratelli e ai genitori e ai fra­telli di tutti”263.326

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Tre giorni dopo riassunse in poche righe il suo stato d’a­nimo, ripromettendosi di non fare più altre annotazioni:

“Monastero di S. Domenico di Silos, vigilia della Dedi­cazione di San Michele Arcangelo, 28 settembre 1938. Sono in ritiro da tre giorni... senza fare nulla. Terribil­mente tentato. Mi vedo, non solo incapace di portare avanti l’Opera, ma incapace di salvarmi - povera anima mia! - senza un miracolo della grazia. Sono freddo e - ancor peggio - indifferente: quasi fossi uno spettatore del “mio caso” al quale nulla importa di ciò che vede. Non faccio orazione. Saranno sterili questi giorni? E, tuttavia, mia Madre è mia Madre e Gesù - oso? - è il mio Gesù! E ci sono diverse anime sante, in questo mo­mento, che stanno pregando per questo peccatore. Non capisco! Verrà la malattia che mi purificherà?”264.Il Signore continuava a purificare le sue facoltà e i suoi

sensi con angosce, tentazioni, umiliazioni e aridità, per esaltare in essi la Croce. Bocconi amari della notte oscu­ra dell’anima. E così, senza neppure l’energia per invoca­re il suo Angelo Custode - il piccolo Orologiaio -, la sen­sibilità del Fondatore si era intorpidita e il pensiero vagava lontano, molto lontano da Dio, lontano “persino durante la Messa!”. Nella cella di S. Domenico, trasfor­mata in una cappella, vide con chiarezza che doveva continuare a concentrarsi sulle “infantili piccolezze”, co­me un tempo, anche se poteva avere l’impressione di in­terpretare una “commedia, e perseverare per mesi, e an­che per anni, in queste minuzie eroiche (la sensibilità, tante volte addormentata riguardo al bene, non conta), con la mia volontà forse fredda, ma decisa a compierle per Amore”265.

* il- *

Il 2 ottobre, già tornato a Burgos, passò una brutta giornata. Un giorno pieno di preoccupazioni che, se pu­

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re non gli toglievano la pace, lo rendevano inquieto. L’Opera compiva dieci anni:

“Cattiva giornata fu per me il 2 - scrisse a Isidoro - per­ché sono affogato in un mare di ricordi di persone e di cose amate - sono un sentimentale: ahi, il cuore! - lonta­ne ormai da un anno per le esigenze della nostra attività, che è la vita e l’unico futuro per quelli del mio sangue.Se mi lasciassi portare dal sentimento, m’imbarcherei e mi presenterei sull’altra sponda del mare. Sarebbe pro­prio una bella scenetta!”266.La guerra proseguiva il suo corso. In molte lettere don

Josemaria si lamentava che i giovani non gli scrivevano, che dal fronte non rispondevano alle sue lettere. Ma va tenuto presente che la guerra era entrata nella sua fase più sanguinosa. Alla fine di giugno ci fu una potente of­fensiva repubblicana sul basso corso dell’Ebro, che riuscì a rompere il fronte nazionale; ci fu poi la dura controf­fensiva e quindi una cruenta battaglia di distruzione a opera dell’aviazione e dell’artiglieria. Questa lotta durò fino a novembre e fece ben 125.000 vittime. Fra attacchi e contrattacchi, il battaglione di Juan restò isolato in mez­zo al nemico, ma riuscì a sfuggire all’accerchiamento ab­bandonando tutto il bagaglio. Al ritorno da Silos il Padre dovette inviare a Juan della biancheria di ricambio.

Egli accarezzava ancora l’idea di far visita al fronte ai suoi figli e a molti altri che dirigeva spiritualmente. La let­tera del 7 agosto inviata al Vescovo di Madrid, in cui lo interrogava sulla convenienza di accettare il posto di con­sulente giuridico-militare che gli avrebbe facilitato il lavo­ro pastorale sui fronti di combattimento, non aveva an­cora avuto risposta. Quindi ritenne necessario comunicare al Vicario, don Casimiro Mordilo, che dal Servizio Nazionale Affari Ecclesiastici stavano facendo pressioni per sapere se accettava la nomina267. Non vole­va fare apostolato basandosi solo sul proprio criterio.328

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La lettera a don Casimiro s’incrociò con la risposta del Vescovo di Madrid-Alcalà:

“Ho pensato molto alla sua proposta e, avendola soppe­sata a lungo, vedo che non rispetta la proibizione del can. 141, § 1, che nega ai chierici l’ingresso volontario nell’Esercito; infatti i consulenti giuridico-militari sono pur sempre militari e come tali devono operare in caso di guerra o di turbamento dell’ordine pubblico, il che è tas­sativamente vietato nel citato canone; di conseguenza, la sua assimilazione a consulente giuridico-militare equivar­rebbe a una volontaria incorporazione nell’Esercito (...). Conti sulla mia benedizione e sulla mia preghiera perché Nostro Signore renda fecondo il suo apostolato, molti­plicando per mezzo suo i frutti di santificazione.Di cuore la benedice e si raccomanda alle sue preghiere il suo affezionatissimo+ Vescovo di Madrid-Alcalà. - Navalcarnero, 4-X- 1938”268.A giro di posta, don Josemarìa ringraziò il Vescovo

per la sua paterna sollecitudine:“Amatissimo e venerato Signor Vescovo, Gesù La pro­tegga! Poche parole di ringraziamento per la lettera di S.E. Rev.ma, ricevuta ieri. Mi ha dato molta tranquillità e gioia e, se possibile, mi sento ora ancora più figlio del mio Vescovo di quanto non lo fossi prima. L’ho letta va­rie volte, perché lo spirito soprannaturale e paterno di S.E. si rispecchia in queste righe; e io voglio imparare a questa scuola a migliorare la mia fede e a sperare dal mio Padre del Cielo e dalle benedizioni dell’altro mio Padre, il Vescovo, la stessa fortezza, per questi figli della mia anima e per me, che volevo andare a cercare con mezzi umani, anche se con un fine spirituale”269.

>[- si-

In quei giorni le preoccupazioni del Padre erano d’altro genere. Nel ritiro spirituale a Silos, nel decimo anniver-

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sario dell’Opera, e nei giorni che seguirono, aveva il pensiero a Madrid. “Di Madrid non sappiamo nulla ul­timamente”, scriveva il 5 ottobre a Ricardo. E qualche frase più avanti: “Madrid! Una nuova tentazione: ci cre­di che vorrei ritornare a fare quella vita dura in mezzo alle persone amate che sono rimaste là?”270.

I rifugiati che erano rimasti a Madrid sperando di uscire dalla zona repubblicana per via diplomatica - Àlvaro del Portillo, José Maria Gonzàlez Barredo, Vi- cente Rodriguez Casado ed Eduardo Alastrué - si accor­gevano che più passavano i mesi, meno speranze aveva­no. Il Console pareva aver perduto qualsiasi interesse alla questione271. Un giorno, verso la metà di giugno, Manolo Marin, un cugino di Vicente, uscì dal Consola­to dell’Honduras, con l’intenzione di passare nelle linee nazionali attraverso il fronte. Isidoro abbandonò l’idea dell’evacuazione per via diplomatica o per scambio di prigionieri e diede il permesso ai membri dell’Opera di tentare anch’essi di passare il fronte272.

“Con l’aiuto del signor Emanuele, ho pensato attenta­mente ai tuoi progetti - scriveva Isidoro ad Àlvaro -(...) Mi sembra che tu possa metterli in pratica, e spero che il signor Emanuele e la signora Maria coronino i tuoi desi­deri, che sono anche i nostri”273. Poi annunciò questa decisione al Padre, cioè che intendevano risolvere la fac­cenda “seguendo il percorso di Mr. Richard” (attraver­sando il fronte, come già aveva fatto Ricardo).

E proprio a questo punto che ha inizio una storia che ben potrebbe essere intitolata Una divina commedia di errori e spropositi, in cui il Signore e la Madonna, invo­cati da Isidoro, dovettero stare costantemente all’erta per condurre a buon fine i tentativi dei fuggiaschi. Àlvaro, Eduardo e José Maria si procurarono carte d’identità, naturalmente false, e il 27 giugno Eduardo per primo si presentò all’ufficio di reclutamento. Conviene ricordare che l’esercito repubblicano, dopo la campagna dell’Ara­gona, aveva dovuto ricostituire le proprie unità e aveva330

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mobilitato il 13 aprile i contingenti del 1927 e del 1928 e quello del 1941 (cioè classi superiori e inferiori di quelle già sotto le armi). I tre, per giustificare il ritardo con cui si presentavano, elencarono un bel po’ di malattie: di stomaco, di fegato, difetti della vista e persino attacchi epilettici. Di più difficile soluzione era il problema del­l’età. Eduardo si presentò come una recluta del 1928, di­chiarando sei anni in più di quelli che aveva274.

Isidoro aveva dato loro preventivamente ogni genere di consigli, preparandoli all’interrogatorio di terzo grado che avrebbero subito. Àlvaro aveva come documentazio­ne soltanto una tessera della C.N.T. di suo fratello José. Il2 luglio si presentò all’ufficio reclutamento e, pur avendo 24 anni, dichiarò di averne 18, cioè di appartenere alla le­va 1941, chiamata del biberon. Il comandante dell’arruo­lamento, che non scherzava, diede ordine di schedarlo e di inviarlo a un battaglione disciplinare. Ma cercando il suo nome nel registro, lo scritturale trovò, iscritto nello stesso contingente al quale egli aveva dichiarato di appar­tenere, il nome di un altro suo fratello, Àngel. Questo col­se Àlvaro di sorpresa. Quando gli chiesero la data di na­scita si confuse e disse “11 marzo”, cioè la propria. Ebbe così inizio un animato dialogo, riferito dall’interessato :

- “Ma qui c’è scritto 14 febbraio”, replicò l’addetto.- “Si tratta di mio fratello: lì c’è scritto Àngel e non José, che sono io”, chiarì l’aspirante recluta.- “Ma come fate a essere fratelli?”, gridò quello, sorpreso che due fratelli appartenessero allo stesso anno di leva. Àlvaro, senza scomporsi, affermò lì per lì: “Per la verità siamo gemelli”.L’addetto, senza mettersi a discutere cominciò a redigere

una nuova scheda. Tornò a chiedergli la data di nascita:- “14 febbraio”, dichiarò Àlvaro senza esitazione.- “Ma prima me ne hai detta un’altra!”, disse l’addetto, fissandolo.

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Allora Àlvaro passò decisamente all’attacco, con sicu­rezza:- “Ma non fare lo stupido! Non so che cosa posso aver detto prima; ma una cosa è certa, che se siamo gemelli io sono nato lo stesso giorno di mio fratello!”.“Il tizio rimane sconcertato, ma non mi fa più alcuna difficoltà. Dichiaro problemi di vista e di fegato”275.A partire da quando si presentarono al reclutamento,

cominciò un’incredibile successione di eventi: si sotto­ponevano a visite mediche, decidevano di disertare eclis­sandosi (presto alle loro avventure si unì anche Vicente) e si presentavano in altri uffici di reclutamento per otte­nere di essere inviati in zone del fronte da cui fosse più facile evadere e per riuscire a cambiare la compagnia lo­ro assegnata per restare insieme, almeno i tre che avreb­bero tentato di attraversare le linee, e cioè Àlvaro, Vi­cente ed Eduardo (José Maria Gonzàlez Barredo era stato destinato ai servizi ausiliari di Madrid). A prima vista tutto sembrava andare storto, ma in realtà si era messa di mezzo la Provvidenza, che modificava e faceva andare a buon fine i traccheggi delle tre reclute.

Il giorno di S. Bartolomeo, 24 agosto, su autocarri militari, partirono da Madrid Vicente e Àlvaro. “Du­rante il tragitto - scrive quest’ultimo - la gente fa mille congetture sulla destinazione della spedizione: il Levan­te? L’Estremadura? Guadalajara? Noi non interveniamo nella conversazione; non ce ne importa affatto, perché sappiamo che, dovunque ci portino, sarà certamente il punto migliore per attraversare il fronte. Non per nulla il nostro Generalissimo è il signor Emanuele”276.

Passarono gran parte del mese di settembre facendo addestramento a Fontanar, un paesino vicino a Guada­lajara, dove ebbe luogo un’altra delle “casualità” prov­videnziali che si stavano verificando negli ultimi mesi. Un giorno, verso la fine di settembre, arrivò un nuovo gruppo di soldati per completare il battaglione di Àlva-332

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ro e Vicente. Tra loro c’era Eduardo: nonostante il fron­te si snodasse per centinaia di chilometri, tutti e tre era­no finiti nello stesso luogo.

Arrivò il 2 ottobre 1938 e Àlvaro ottenne il permesso di passare alcune ore a Madrid. Dopo aver fatto una lunga coda alla mensa di una delle caserme del Paseo de Atocha, lui, Isidoro e Santiago mangiarono, seduti per strada, la scarsa razione che gli era stata data: un po’ di acqua con riso, una sardina e un pezzetto di pane. Àlva­ro raccontò loro che entro pochi giorni sarebbero parti­ti dal campo d’istruzione per il fronte. Quale non fu la sua sorpresa udendo il commento che fece Isidoro, con la massima naturalezza: “Sì. Ho già scritto al Padre che intorno alla festa della Madonna del Pilar arriverete a Burgos”277. A metà pomeriggio Àlvaro ritornò a Fonta- nar portando nel portafoglio alcune particole consacra­te che gli aveva dato Isidoro. Infine il giorno 9, di buon mattino, partirono per il fronte, arrivando a destinazio­ne ventiquattro ore dopo. Tra le due linee di fuoco, quella nazionale e quella repubblicana, c’era un’ampia zona montagnosa, terra di nessuno, e un fronte poco at­tivo, percorribile più o meno in otto ore di marcia. Stu­diarono la posizione geografica delle linee e decisero di attraversarle il giorno dopo, 11 ottobre.

Il 10 ottobre il Padre celebrava per loro la Santa Mes­sa a Burgos, con una certa preoccupazione, perché dal 5 settembre non aveva ricevuto lettere dalla zona repub­blicana. Pure preoccupate erano le famiglie di Àlvaro e Vicente, specialmente le madri, che da due mesi spera­vano di vedere arrivare i propri figli. Il Padre le invitava alla calma, le consolava e dava loro del lavoro da fare; nei momenti liberi, le due signore confezionavano tova­glie per l’oratorio di Madrid278.

Don Josemarìa, che aveva già annunciato alla madre di Àlvaro che suo figlio sarebbe giunto alla metà di ot­tobre, fu più preciso con Pedro, Paco e José Maria Alba­reda, rivelando loro la data. Con paterna impazienza,

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chiese loro di ricordarsi nelle preghiere dei loro fratelli sul fronte rosso, per averli presto a Burgos: “Raccoman­date - disse - che arrivino il giorno 12, festa della Ma­donna del Pilar”279. Essi accolsero la notizia con gran tranquillità, abituati com’erano alPottimismo sopranna­turale del Padre.

Il 10 ottobre il Padre scriveva a Ricardo:“Ho il presentimento di prossimi avvenimenti; magari riuscissimo a ricambiare la misericordia del Signore: so­no annientato quando penso a Lui e a me. Quale man­canza di corrispondenza la mia, finora!”280Il giorno 11, non riuscendo a trattenersi, diceva per

lettera a Juan:“Mi aspetto avvenimenti personali da un momento all’al­tro: non resisto più. E mi si prepara una bella festa”281.Arrivò il 12 ottobre. Prendendo commiato al mattino,

per recarsi in ufficio, Pedro e Paco videro nel Padre una nota inconfondibile di gioia; nel caso avessero dimenti­cato il perché, egli ricordò loro: “Vi avviserò quando ar­riveranno”. Nel pomeriggio, al ritorno dalla caserma e non vedendo altri che il Padre nella stanza, ebbero timo­re che si fosse scoraggiato. Invece no, il Padre era tran­quillo, allegro e fiducioso282.

Don Josemaria dovette avere la notizia il giorno succes­sivo dal padre di Vicente, ma per tutto il giorno si mostrò in uno stato d’animo festoso e scherzoso. “State all’erta - diceva scherzando a Pedro e a Paco -. Vi avviserò in ca­serma quando saranno arrivati”. E di quella data è un brevissimo poscritto in una lettera a Juan: “Credo che si sia notato che era la festa della Vergine”283.

Il 14 ottobre, verso sera, finalmente i tre fuggiaschi si presentarono all’Hotel Sabadell. Il Padre telefonò im­mediatamente in caserma, dando l’attesa notizia: “Sono334

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arrivati, venite”. I tre raccontarono le loro avventure degli ultimi giorni. La partenza, al mattino prestissimo e sotto una pioggia torrenziale, verso la montagna. Era l’i l ottobre, giornata che avevano trascorso salendo e scendendo per i monti fino al cadere della notte. Aveva­no dormito in una grotta e, al mattino presto, avevano ripreso la marcia. Avevano visto un paese nella pianura e subito dopo avevano udito il suono delle campane del­la chiesa. Alcuni pastori li avevano informati che il pae­se era Cantalo]as ed era nelle mani dei nazionali. Dentro il paese trovarono alcuni soldati all’erta. Avevano temu­to un attacco dei repubblicani, avendo visto uscire da una pineta loro tre, che erano stati scambiati per l’avan­guardia di una forza di attacco. Avevano assistito alla Messa. Poi, rese le proprie dichiarazioni, avevano cerca­to di localizzare il padre di Vicente, colonnello dell’eser­cito, che li aveva raggiunti la mattina successiva a Jadra- que. Facendosi egli garante per loro, erano stati esentati dal dover rimanere alcuni giorni in un campo di concen­tramento in attesa degli accertamenti ufficiali.

Nel viaggio di ritorno a Burgos, il giorno 14, la madre e la sorella di Vicente, che li avevano raggiunti, non fa­cevano che ripetere: “È incredibile come vi ha protetto la Vergine. Vi vuole per qualcosa di grande”284. Erano le stesse parole che ripeteva la signora Dolores ogni volta che raccontava a suo figlio che nel 1904 era stato offer­to alla Vergine quando era in punto di morte: “Figlio mio, la Vergine ti ha lasciato in questo mondo per fare qualcosa di grande”.

* * *Sembra che don Eliodoro, che a Leon si occupava di ti­rare a ciclostile il foglio di Noticias, avesse avuto alcune difficoltà per quello del mese di ottobre. Perciò il Padre, Pedro e Paco si dedicarono a fare copie dattiloscritte di un riassunto del testo originale. Per questo motivo la notizia del passaggio di Àlvaro e dei suoi compagni ap­

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parve solo nel foglio di novembre: “Sono riusciti ad ar­rivare, dalla zona rossa alle nostre linee, Àlvaro del Por­tillo, Eduardo Alastrué e Vicente Rodriguez Casado. Con la sola protezione dei loro Angeli Custodi, si erano arruolati nell’esercito comunista e, alla prima opportu­nità, hanno passato le linee”285.

Il Padre fece il possibile per non muoversi da Burgos in quelle settimane di ottobre, con la sana intenzione di stare tutto il tempo con i suoi figli. Molte volte al pome­riggio usciva a passeggio con loro sulla riva del fiume Arlanzón, parlando dei progetti apostolici. Solo alla fine del mese don Josemarìa fece una scappata a far visita al- l’Arcivescovo di Valladolid e anche in novembre, salvo due brevi viaggi, non si assentò da Burgos.

La battaglia dell’Ebro, che fu la più importante della guerra, aveva assorbito tutte le forze disponibili dell’una e dell’altra parte. Di fronte alla mobilitazione generale, i permessi per passare alcuni giorni nelle retrovie erano stati sospesi da molto tempo. Il Padre riceveva ben po­che visite di giovani soldati. Al mattino continuava a la­vorare al convento de Las Huelgas sulla sua tesi dotto­rale, o rispondeva alle lettere, o aggiungeva nuovi punti al libro Considerazioni spirituali, pubblicato a Cuenca nel 1934, con la speranza che i giovani al fronte lo po­tessero utilizzare per meditare.

8. In attesa della fine della guerra civileI giorni correvano veloci per il Padre, ma l’atteso evento della fine della guerra tardava. Era inquieto per la situa­zione venutasi a creare negli ultimi mesi, in cui non si era neppure potuto recare al fronte, né aveva potuto ri­cevere visite.

“Si parla molto - scriveva a Ricardo - del fatto che laguerra stia per finire da un momento all’altro; ma se si

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prolunga, sono del parere di mettere su casa, qui o in Congo, ma di farlo! Così come stiamo, si spende un pa­trimonio e non si può fare il lavoro. Penso che il luogo sia un fatto contingente: se non è a Burgos, altrove. È as­surdo aver vissuto per un anno in albergo.Oggi inizio una novena di preghiera e di sacrificio (un po­chino di sacrificio) per ottenere dal Signore luci immedia­te e mezzi: perché deve finire questa provvisorietà che ste­rilizza molti sforzi... e in più costa. Dammi una mano”286.A Burgos arrivavano notizie sul disfattismo che re­

gnava nella zona repubblicana. Ciò non consolava il Pa­dre, che pensava ai patimenti della popolazione di Ma­drid e di tutti quelli della sua famiglia, dopo anni di accerchiamento. E non poteva neppure immaginare la fame crudele che essi stavano patendo in quei momenti; da quando era partito da Madrid per valicare i Pirenei, la situazione era considerevolmente peggiorata. Isidoro e Santiago, come due mendicanti, andavano di caserma in caserma, facendo la coda per la distribuzione del ran­cio. Per fortuna José Maria Gonzàlez Barredo si inge­gnava per ottenere negli uffici militari alcuni buoni per soldati di passaggio a Madrid e così poteva portare a casa qualche panino. Anche Carmen, che faceva una vi­ta assai dura, stava in coda per ore per ottenere una mi­serabile razione di generi alimentari287.

Nel mese di ottobre il Padre era stato in buona compa­gnia, ma in dicembre si trovò da solo con Paco Botella. José Maria Albareda risiedeva ora a Vitoria e Alvaro era andato a Fuentes Blancas, vicino a Burgos, a fare un cor­so per sottotenenti di complemento. Anche Vicente ed Eduardo seguivano corsi analoghi. Quanto a Pedro Ca­sciaro, quando il generale Orgaz era stato nominato Ca­po dell’Esercito del Levante, si era trasferito con il Quar- tier Generale a Calatayud, in provincia di Saragozza.

Non appena l’albergatore si rese conto che in quella camera dell’Hotel Sabadell dormivano solo due signori,

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senza informarsi e senza darne avviso destinò immedia­tamente ad altri due ospiti i letti vuoti. Visto questo, la mattina successiva, 10 dicembre, il Padre scriveva a José Maria Albareda una lettera “breve, ma divertente”:

“Venne Paco, gli raccontai quanto accadeva e s’indi­gnò... Per la verità non c’era motivo, ma anch’io ero piuttosto alterato.La mia rabbia nasceva dal pensiero che, se avessimo in­viato per tempo ad Àvila, quando io lo dissi, la quantità di cose di cui ora non abbiamo bisogno, ora avrei mag­gior libertà di movimento. Perché, dove vado con un si­mile impedimento di libri, roba e - come direbbe Juan - varie porcherioleì Ci siamo coricati prima che arrivasse­ro gli ospiti e ci siamo alzati alle sette: perciò non so neppure che faccia abbiano.Così non si può andare avanti: non si può lavorare, né sbrigare la nostra corrispondenza, né ricevere liberamente una visita, o lasciare le nostre carte in camera...; e non c’è un minuto di quella benedetta solitudine di cui si ha tanto bisogno per tenere sveglia la vita interiore... Oltretutto, ogni giorno vengono ospiti diversi. Impossibile!”288.Vista l’insostenibilità della situazione, una settimana

prima di Natale si trasferirono con tutte le loro cose in una pensione, al terzo piano di via Concepción n. 9, un vecchio appartamento senza alcuna comodità. Dispone­vano di una stanzetta soggiorno, di una camera per il Padre e di una cameretta con un letto per Paco. Pagava­no cinque pesetas al giorno, più venticinque centesimi per il carbone di un braciere, posto all’interno di un ta­volino pieghevole. L’arredamento era orrendo. La cosa peggiore era la mancanza di una stanza da bagno. Al mattino dovevano utilizzare il rubinetto della cucina, dopo essersi accordati per l’orario con la padrona, don­na dai modi bruschi e dal nome singolare: Maria de la Iglesia (Maria della Chiesa), anche se per brevità era chiamata Maria de la I.338

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La vigilia di Natale il Padre si dedicò a mandare gli auguri ai suoi figli:

“Gesù mi ti protegga, Juanito.(...) Oggi scrivo a tutta la famiglia. Poche lettere, perché siamo pochi. Mi angoscia pensare che sia per colpa mia. Vorrei davvero dare sempre buon esempio, con effica­cia! Aiutami a chiedere perdono al Signore per tutti gli esempi cattivi che ho dato finora.Non dimenticarti della nostra gente della zona rossa. Ci credi che mi fanno invidia, per la loro vita da catacom­ba? Non ne sappiamo nulla. Buon Natale!La mia benedizione - Mariano”289.Nella lettera a Ricardo, con grande semplicità, mo­

strava uno squarcio della propria vita interiore:“Ormai sono ottimista, contento, pieno di fiducia. Egli è così buono!In questi giorni aiutami a chiedergli questo: perseveran­za, gioia, pace, spirito di famiglia, fame di anime, unio­ne... per tutti.Caro Ricardo, come andrebbero bene le cose se tu e io - soprattutto io! - gli dessimo tutto quello che ci chiede! Orazione, orazione e orazione: è l'artiglieria miglio­re”290.Sul tavolino pieghevole, riscaldato dal braciere di

Maria de la I., il Padre continuava ad ampliare le Consi­derazioni spirituali, a scrivere lettere o a battere a mac­china annotazioni, fogli di notizie o la relazione mano­scritta di Alvaro: Da Madrid a Burgos, passando per Guadalajara, cui aggiunse un bel prologo:

“Avventure che comprendono solamente cinque mesi, ma che mostrano il carattere e la pienezza di tre vite gio­vani, che riuscirono a uscire dall’inferno della Spagna rossa, per meglio servire dalla parte nazionale i disegni di Dio.339

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Qualche parola da miliziano marxista sfugge nel corso della relazione. La lasceremo per salvaguardarne l’au­tenticità. Che la fede soprannaturale, che saldamente ac­compagnò i protagonisti, contagi il cuore di quanti la leggeranno. E tutti ne saremo avvantaggiati.Burgos, gennaio 1939”291.Quando il Padre rileggeva questo racconto, in cui si toc­

cava con mano l’aiuto soprannaturale ricevuto dai suoi fi­gli, ne restava sbigottito. Faceva orazione. Gli spuntavano lacrime di pentimento: “Ho detto al Signore - scrisse ad Alvaro e a Vicente - che non mi permetta di rovinare con il mio cattivo esempio, peccatore qual sono, ciò che Egli, in modo tanto meraviglioso, ha operato in voi”292.

Si compì un anno esatto dal suo arrivo a Burgos e, in data 9 gennaio 1939, scrisse un’altra Lettera Circolare ai suoi figli, facendo un bilancio dell’azione svolta e dei frutti apostolici.

“Prima però - scriveva - voglio riassumervi in una paro­la il mio pensiero, dopo avere ben considerato le cose al­la presenza del Signore. Questa parola, che deve caratte­rizzare il vostro stato d’animo per riprendere le nostre attività ordinarie di apostolato, è Ottimismo.E vero che la rivoluzione comunista ha distrutto la no­stra casa e ci ha tolto i mezzi materiali che eravamo riu­sciti a mettere insieme con tanta fatica.E pure vero che, in apparenza, la nostra impresa sopran­naturale ha subito la paralisi di questi anni di guerra. E che la guerra è stata la causa della perdita di alcuni vo­stri fratelli...Nonostante tutto ciò, vi dico che, se non ci allontania­mo dal nostro cammino, i mezzi materiali non saranno mai un problema che non possiamo risolvere facilmente, con lo sforzo di ognuno; che questa Opera di Dio si muove, vive, è feconda di attività, come il grano che è stato seminato germina sotto la terra gelata, e che colo­ro che hanno desistito forse erano già perduti prima di questi eventi nazionali”293.340

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Ricordava poi la buona accoglienza riservata all’O­pera dalle autorità ecclesiastiche e i progressi nell’apo­stolato:

“Che cosa ha fatto il Signore, che cosa abbiamo fatto con il suo aiuto, durante l’anno trascorso? È migliorata la disciplina di tutti voi, indubbiamente. Siamo in con­tatto con tutte le persone di S. Raffaele, e tutti rispon­dono meglio di quanto potessimo sperare. Siamo diven­tati amici di persone che dovranno servire, senza fretta, a suo tempo, per la formazione di centri di S. Gabriele.I Vescovi accolgono con affetto il nostro lavoro, che co­minciano a conoscere. E mille piccole cose: richiesta di libri, fogli mensili, paramenti e oggetti per l’Oratorio. E ancora: maggiori possibilità di proselitismo; conoscen­za dell’ambiente di varie città, che faciliterà il lavoro di S. Gabriele; amicizia - profonda con alcuni - con un certo numero di docenti, con i quali prima non aveva­mo contatti”.E passava a illustrare i mezzi: “Mezzi? Vita interiore:

Lui e noi”; e il modo per ottenerli:“Avremo mezzi e non ci saranno ostacoli se ciascuno fa di sé nell’Opera una perfetta, reale, operativa ed efficace donazione a Dio.C’è donazione quando compiamo le Norme; quando pratichiamo una vita di pietà forte, la mortificazione quotidiana, la penitenza; quando cerchiamo di non per­dere l’abito del lavoro professionale, dello studio; quan­do abbiamo fame di conoscere ogni giorno meglio lo spirito del nostro apostolato; quando la discrezione - né misteri, né segreti - accompagna il nostro lavoro... E so­prattutto quando vi sentite continuamente uniti, con una particolare Comunione dei Santi, a tutti coloro che compongono la vostra famiglia soprannaturale”.Infine, chiedeva loro un ricordo pieno di affetto per

quanti erano ancora nella zona repubblicana:341

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“E come commiato vi dirò le parole di S. Paolo ai Filip- pesi, che sembrano scritte per voi e per me: ‘Ringrazio il mio Dio ogni volta che io mi ricordo di voi, pregando sempre con gioia per voi in ogni mia preghiera, a motivo della vostra cooperazione alla diffusione del Vangelo dal primo giorno fino al presente, e sono persuaso che Colui che ha iniziato in voi quest’opera buona la porterà a compimento...’ (1, 3-6)”294.Quali amarezze, quali ostacoli avrebbero potuto trat­

tenerli, se Padre e figli fossero stati bene uniti, “piena­mente per Cristo, con Cristo e in Cristo”? Tuttavia per il Fondatore era un’autentica “necessità” fisica tenere al proprio fianco un paio di suoi figli che lo aiutassero a fare l’Opera. Già prima di trasferirsi nella pensione, quando c’era il rischio che rimanesse a Burgos da solo, sperò che qualcuno di loro vi fosse destinato; e “se Juan e Àlvaro stessero a Valladolid, anch’io ci andrei”, assi­curava295. Conosceva a fondo ciascuno dei suoi figli e cercava in loro appoggio. Quindi non sorprende il fatto che sentisse giunto il momento di sceglierne uno per for­marlo ai compiti di governo. È estremamente commo­vente vedere, nelle lettere di quei primi mesi del 1939, il modo semplice e sicuro con cui la mano di Dio condus­se la volontà del Fondatore a trovare un saldo appoggio filiale296.

Quando Àlvaro stava a Fuentes Blancas e in seguito à Cigales, un paesino presso Valladolid, andava con fre­quenza a Burgos per vedere il Padre. A passeggio sulle rive dell’Arlanzón, o seduti sul lettino della camera, ri­presero le lunghe conversazioni sull’Opera tenute nelle lunghe notti nel Consolato dell’Honduras. Il Padre cer­cava la sua compagnia:

“Burgos, 19 gennaio 1939.Gesù mi ti protegga.Carissimo Àlvaro, non riesco quasi a impugnare la pen-

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na, perché ho le mani gelate. Ma mi sono proposto di scriverti e lo faccio.(...) Non so che cosa dirti per lettera; invece, quando ti vedrò, ti dirò molte cose che ti piaceranno. Ci sono tan­te cose grandi da fare! Non è possibile mettere ostacoli con puerilità improprie di uomini forti e maturi. Ti assi­curo che da te e da me Gesù si aspetta molti e buoni ser­vizi. Glieli presteremo, senza dubbio”297.Cominciò a chiamare Àlvaro Saxum, cioè Roccia298.

Questa “roccia” era qualcosa di più di un soprannome ben trovato. Era una parola di sostanza, il cui significa­to il Padre spiegava, assaporava e riconosceva, come si legge in una lettera di marzo:

“Gesù mi ti protegga, Saxum.E lo sei davvero. Vedo che il Signore ti dà fortezza e ren­de operativa la mia parola: saxuml Ringrazialo e siigli fedele, nonostante... tante cose.(...) Sapessi che grande voglia ho di essere santo e di far­vi santi! Ti abbraccio e ti benedico. Mariano”299.9fr ir

Se la decisione di andarsene da Madrid nel 1937 gli era costata sangue e non poteva evitare che il cuore conti­nuasse a sobbalzargli al ricordo, quali non sarebbero state le sue emozioni, avvicinandosi il momento del ri­torno? L’impazienza lo tormentava. L’immaginazione e il desiderio correvano avanti. E gli sfuggiva persino un sospiro esasperato: “Non ne posso più di Burgos!”300.

“Ora cambia tutto”, ripeteva da tempo, pieno di spe­ranza. Perché Madrid era diventata per lui un’attraente ossessione, la porta d’entrata al futuro promesso: “Ma­drid! Incognita alla quale guardo con ottimismo, perché tutto è mosso da Dio, mio Padre. Fiat”. Pur avendo questa certezza, sospettava che là, nella capitale, avrebbe potuto “trovare un vero disastro, umanamente parlando”301.

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La signora Dolores, come tutti, era ormai stanca della guerra. Così faceva capire Isidoro nella primavera del 1938: la nonna “è un po’ dispiaciuta e nervosa per il ri­tardo della venuta del nonno”302. Che cosa poteva pro­vare ora? Ma don Josemarìa, in quel duro periodo di se­parazione, fu sempre unito ai suoi e li ebbe tutti presenti ogni giorno nella Messa e nelle preghiere. Anzi, preve­dendo l’apertura di una nuova Residenza a Madrid, scriveva a Paco Botella:

“Penso a tutti: a quelli della zona rossa, in modo specia­lissimo. Quando scriverai agli altri - a tutti - di’ loro che chiedano al Signore che ci conservi la nonna; vedo, con una luce chiarissima, che ne abbiamo bisogno”303.Nella stessa data, il 13 febbraio, vigilia dell’anniversa­

rio della fondazione delle donne, faceva giungere da Vi­toria il battito del suo cuore a tutti i suoi figli:

“Per Àlvaro e Vicente. - 13 febbraio 1939 Gesù benedica e mi protegga i miei figli.Figli miei! Oggi, vigilia di uno dei giorni di ringrazia­mento - che forse passerà inavvertito a quasi tutti -, mi ricordo di ciascuno con più intenso pensiero e amore: sento nel mio intimo il desiderio di chiedervi perdono per il cattivo esempio che forse vi ho dato e per le debo­lezze e le miserie di questo nonno, che forse vi hanno scandalizzato. Passerò tutta la notte accanto al Signore, nella cappella del palazzo, e... non pretendete di sapere le pazzie che ci diremo, e ciò che gli dirò silenziosamente di tutti voi.Vicentini: prega per tuo Padre.SaxumU ho fiducia nella fortezza della mia roccia.Vi benedice - Mariano”304.“Le pazzie che ci diremo...”. Mai fu meglio descritta

la sua avidità di innamorato in dialogo con il Signore: a344

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tu per tu, come spiegava a Ricardo in una lettera con la stessa data:

“Gesù mi ti protegga!Ho bisogno di scrivere a tutti voi oggi, vigilia di un gior­no di ringraziamento... Chi se ne ricorderà? Passerò tut­ta la notte accanto al Signore, nella cappella di questo palazzo episcopale, dato che Egli è stato così buono da mettermisi a tiro. Magari potessi colpirlo al Cuore!”305.Proprio in quella data si concludeva anche la campa­

gna in Catalogna. Il presidente della Repubblica, Ma­nuel Azana, e con lui la maggior parte delle autorità ci­vili, aveva da poco abbandonato la Spagna. L’esercito repubblicano della Catalogna aveva passato la frontiera e si trovava internato nei campi francesi per i rifugiati. Cominciavano i contatti ufficiali per la resa.

Prevedendo imminente l’entrata a Madrid, il Padre aveva fatto per tempo i preparativi. Nel palazzo episco­pale di Àvila aveva già depositato casse di libri e un bau­le di oggetti e paramenti liturgici306. Con un anno di an­ticipo aveva ottenuto dalle autorità ecclesiastiche il permesso di entrare a Madrid “immediatamente” dopo la sua liberazione; questione che gli aveva risolto il Vica­rio Generale, don Casimiro Mordilo307. Per quanto con­cerne i salvacondotti militari, gli incontri con Enrique Giménez-Arnau, suo compagno alla Facoltà di Diritto di Saragozza, e con José Lorente, Sottosegretario agli Inter­ni, facilitarono l’ottenimento di salvacondotti per lui e per Paco, Àlvaro e José Maria Albareda. Quelli per Ri­cardo e Juan glieli fornì il generale Martin Moreno308.

Non si dimenticò della fame di quelli di Madrid: ac­quistò una cesta di vimini e la riempì di barattoli di conserve309.

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NOTE AL CAPITOLO XI

1 Iniziò il quaderno (Vili bis) P II dicembre 1937. Lo terminò il 23 gen­naio 1939. A Madrid, finita la guerra, ritrovò il precedente quaderno non terminato (Vili), dove continuò a scrivere Caterine a partire dal 13 aprile 1939. Cfr Appunti, nota 1034.2 Appunti, n. 1396.3 Ibidem, n. 1397.4 Ibidem, n. 1398, dell’ll-XII-1937.5 Ibidem, n. 1400, del 12-XII-1937.6 Ibidem, n. 1403, del 13-XII-1937. L’affetto che legava don Pedro Pove- da, fondatore dell’istituzione teresiana, e don Josemaria non aveva alcun rapporto con le rispettive fondazioni. “Don Pedro non ha influito sull’O- pera di Dio - si legge negli Appunti l’ho incontrato quando già stavo la­vorando da molto tempo. Non è mai stato direttore della mia anima: da anni lo è padre Sànchez. Tuttavia, Dio ci ha uniti in modo tale che mi fu amico, fratello e figlio. Anch’io ero per lui fratello e figlio (...). Abbiamo avuto, l’uno per l’altro, affetto di fratello e di figlio” (cfr Appunti, n. 1510, del 25-1-1938 e nota 1140, scritta da mons. Àlvaro del Portillo).7 II conte Aguilar de Inestrillas, nonché marchese di Miravalles, era Agu- stin Carvajal de Quesada, sposato con Mercedes Guzmàn O’Farrill, sorel­lastra di Alejandrò Guzmàn e cugina di Mercedes Reyna O’Farrill, una delle prime Dame Apostoliche, morta nel gennaio 1929 (cfr voi. I, p. 328).8 II conte di Mirasol era Rafael Gordon y de Aristegui, sposato con Maria Rodriguez-Casanova, sorella della fondatrice delle Dame Apostoliche (cfr voi. I, p. 278).9 La marchesa di Guevara era Maria del Perpetuo Socorro Travesedo, spo­sata con Florentin Rodriguez-Casanova, fratello della fondatrice delle Dame Apostoliche.10 La contessa di Vallellano era Maria de la Concepción Guzmàn O’Far-

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rill, sorellastra di Alej andrò Guzmàn e sposata con Fernando Suàrez de Tangil, marchese di Covarrubias de Leyva.11 Era marchese de los Alamos del Guadalete José Ramon de Goytia y Machimbarrena, che abitava in via Covarrubias 1, a Madrid, accanto al “Patronato de Enfermos”. L’amicizia del Fondatore con questa coppia di sposi data dall’epoca del Patronato.12 Cfr Appunti, n. 192, del 20-IV-1931. Per la visita al Ministero, cfr voi.I, pp. 365-366.13 Cfr Appunti, n. 1410, del 15-XII-1937.14 Cfr ibidem, n. 1406, del 13-XII-1937.15 Victor Pradera era un politico tradizionalista, condannato a morte dal Tribunale Popolare di San Sebastiàn perché monarchico e favorevole al golpe militare. La sentenza fu emessa il 5-IX-1936 ed eseguita il giorno suc­cessivo (cfr Gonzalo Redondo, Historia de la..., Voi. II, op. cit., pp. 44-45).16 Appunti, nn. 1411 e 1412.17 “Getta sul Signore il tuo affanno ed Egli ti darà sostegno” (Sai 54, 23).18 Cfr Appunti, n. 1428, del 20-XII-1937; cfr pure ibidem, nota 1065.19 Ibidem, n. 1414.20 Ibidem, n. 1425, del 19-XII-1937.21 Padre Carmelo Ballester Nieto era allora Provinciale dei Padri Lazzari- sti. Poco dopo fu nominato Vescovo di Leon e poi trasferito a Vitoria. Don Josemarìa ebbe occasione di vederlo per la prima volta quattro giorni dopo, il 23 dicembre 1937, quando giunse a Pamplona. Apprezzò molto il Nuovo Testamento avuto in regalo; dopo averlo letto, scrisse in una Cate­

rina: “Bella l’edizione che mi ha regalato monsignore; gioisco e bacio il libro, ringraziando Dio nostro Signore e il santo Padre Lazzarista” (Ap­punti, n. 1423, del 19-XII-1937).22 Lettera, in EF-371217-1.23 Lettera, da Pamplona, in EF-371217-2.24 Appunti, nn. 1419-1421.25 Ibidem, n. 1426, del 19-XII-1937.26 Ibidem, n. 1423, del 19-XII-1937; cfr anche n. 1422, del 19-XII-1937 e 1444, del 23-XII-1937.27 Ibidem, n. 1437, del 22-XII-1937, e n. 1431, del 20-XII-1937.28 Ibidem, n. 1439, del 22-XII-1937.29 Ibidem, n. 1444, del 23-XII-1937.30 Ibidem, n. 1441. Cfr Cammino, n. 438.31 Appunti, n. 1429, del 20-XII-1937.32 Ibidem, nn. 1433 e 1434, del 21-XII-1937.33 Mons. Antoniutti era arrivato nella zona nazionale della Spagna per una missione informativa negli ultimi giorni del luglio 1937 come Delega-

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to della Santa Sede. Il 7 settembre 1937 era stato nominato da Pio XI In­caricato d’Affari della Santa Sede presso il Governo Nazionale di Sala­manca (Delegato Apostolico). Nel maggio 1938 la rappresentanza fu ele­vata al grado di Nunziatura. Cfr Gonzalo Redondo, Historia de la..., Voi.II, op. cit., pp. 339-341 e 470-472; e Fernando de Meer Lecha-Marzo, Al- gunos aspectos..., op. cit., pp. 120-121.34 Cfr Appunti, n. 1447, del 24-XII-1937.35 Ibidem, n. 1445, del 23-XII-1937.36 Lettera di Isidoro al Fondatore, del 7-XII-1937, in IZL, D-1213, 293.37 Appunti, n. 1454. La preparazione del calice fu così rapida che nei primi giorni di febbraio era già terminato (cfr Lettera a Pedro Casciaro Ramirez e a José Luis Fernàndez del Amo, da Burgos, in EF-380207-1).38 Appunti, n. 1455, del 29-XII-1937 e n. 1449, del 24-XII-1937.39 Ibidem, n. 1465.40 Ibidem, n. 1457, del 30-XII-1937; n. 1466, del 5-1-1938. Quando prese commiato dovette accettare, per le insistenze del Vescovo e per non offen­derlo, la somma di 100 pesetas.41 Nelle lettere di questo periodo sono citati Pepe Isasa Navarro e Jacinto Valentin Gamazo, morti al fronte; e ci sono lettere spedite a José Arroyo Lopez, Miguel Sotomayor, Enrique Alonso-Martinez Saumell, Joaquin Vega de Seoane, ecc.42 Lettera da Pamplona, in EF-371231-3. Disse lo stesso a Isidoro Zorza­no, in una cartolina del 29 dicembre, scritta in inglese con l’aiuto di qual­cuno, perché il Padre non dominava questa lingua: ha già incontrato tutti i suoi figli (“All my children are very well”); pensa di mettere presto casa a Burgos, città nella quale era morta sua nonna Florencia (“In a short time I shall have a proper house, I think in thè town where my grand- mother Florencia was died”); e sogna di mettervi uno splendido oratorio (“In my new house, Sir Emmanuel will have a magnificent room”). Cfr Lettera da Pamplona, in EF-371229-3.43 Lettera a Enrique Alonso-Martmez Saumell, da Burgos, in EF-380204-1.44 II Vescovo di Madrid era riuscito ad allontanarsi dalla capitale all’inizio della rivoluzione. Risiedeva a Vigo. Ben presto diede a un sacerdote di sua fiducia, don Casimiro Mordilo, l’incarico di Vicario Generale della Riorga­nizzazione, affinché costituisse a Burgos, sede del Governo della zona na­zionale, una Giunta Centrale per il Culto e il Clero, con delegazioni in altre province, allo scopo di ristabilire i contatti con i sacerdoti e i fedeli della diocesi di Madrid e di ricuperare fondi e oggetti di culto. Sull’organizzazio­ne della diocesi di Madrid in tempo di guerra e il funzionamento della Giunta a Burgos, cfr José Luis Alfaya Camacho, op. cit., pp. 197- 247.45 Appunti, n. 1474, dell’8-I-1938, e n. 1573, del 4-VI-1938.46 Lettera, in EF-380109-1.47 Ibidem.

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48 Appunti, n. 1467, del 6-1-1938.49 Lettera, in EF-3 80110-1. È facile capire che questa lettera al Vescovo, scritta “allo scopo di reiterare la mia incondizionata offerta e di comuni­carle che, seguendo la mia personale vocazione, proseguo l’apostolato con giovani universitari e docenti”, era un modo di chiedere il via libera per le proprie attività e movimenti, non avendo ancora ricevuto risposta alle let­tere inviate al Vicario Generale il 17-XII-1937 e il 6-1-1938. La risposta di don Francisco Moràn gli arrivò il 15 gennaio.50 Cfr Appunti, nn. 1476 e 1477, del 10-1-1938; cfr pure Lettere a mons. Francisco Xavier Lauzurica e a mons. Marcelino Olaechea, da Burgos, ri­spettivamente in EF-380110-2 e EF-380110-3.51 Cfr Lettere a mons. Francisco Xavier Lauzurica e a mons. Marcelino Olaechea, da Burgos, rispettivamente in EF-380206-1 e EF-380206- 2.52 Appunti, n. 1480, dell’11-1-1938.53 Ibidem, n. 1493. Pochi giorni dopo scriveva a don Francisco Moràn: “Ho fatto il serio proposito - una pazzia? D’accordo, una pazzia - di non accettare mai stipendi per Messe, l’unica entrata economica che ora potrei avere. Così posso spesso celebrare per il mio signor Vescovo e per il mio don Francisco e per questi figli della mia anima... e per me, sacerdote pec­catore” (Lettera da Burgos* in EF-380127-1).54 Appunti, n. 1493, del 17-1-1938. Il 31 dicembre andò dai Cappuccini di Pamplona a ordinare “alcuni rosari e altre cose”; il 12 gennaio andò dai Carmelitani di Burgos “a cercare alcune cose di cui ho bisogno” (cfr ibi­dem,, n. 1458, del 31-XII-1937, e n. 1484, del 13-1-1938).55 Ibidem, n. 1492.56 Ibidem, n. 1702, del 3-X-1932 (cfr voi. I, p. 504).57 Cfr Appunti, n. 1491, del 15-1-1938. Il 4 febbraio scrisse a uno dei suoi: “Com’è difficile trovare casa! Cerchiamo, ma invano. Se tu avessi amici o parenti a Burgos che si potessero interessare di cercarci un appartamento, sarebbe molto utile. Non si riesce neppure con le raccomandazioni. E una disdetta” (Lettera a Enrique Alonso-Martinez Saumell, da Burgos, in EF- 380204-1).58 Appunti, n. 1484, del 13-1-1938.59 Cfr ibidem, n. 1510, del 25-1-1938. In una Caterina del 9 gennaio si legge: “Ricordarmi mille volte di tutti coloro che sono dispersi: perseve­ranza!” (ibidem, n. 1475).60 Lettera di Isidoro al Fondatore, 24-1-1938 (IZL D-1213, 312).61 Lettera a José Arroyo Lopez, da Burgos, in EF-380602-3.62 Lettera di Isidoro ai rifugiati nella Legazione dell’Honduras, 31-XII- 1937 (IZL D-1213, 307).63 Lettera a Juan Jiménez Vargas, da Burgos, in EF-3 80327-3. Cfr Lettera allo stesso destinatario da Saragozza, in EF-380224-1. Con la censura e una guerra di mezzo, non ci si poteva lamentare se una parte delle lettere

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non sopravviveva ai rischi della guerra e del servizio postale. Ben presto arrivarono a un’intesa per quanto concerne la corrispondenza. Da Madrid partivano per Burgos quattro o cinque lettere al mese. “Ho scritto al nonno il giorno 5 - diceva Isidoro a quelli della sua zona - poiché ho l’a­bitudine di scrivergli tutti i giorni che terminano per 5; così sono tre lette­re al mese, che con le vostre sono in totale quattro o cinque; qualcuna gli arriverà” (Lettera di Isidoro ai rifugiati nella Legazione dell’Honduras, 9- V-1938, in IZL D-1213, 352).64 Appunti, n. 1513; cfr ibidem, n. 1406, del 13-XII-1937; n. 1408, del 14-XII-1937; n. 1527, del 5-II-1938, ecc.65 Lettera a Juan Jiménez Vargas, da Burgos, in EF-380224-1.66 Cfr Appunti, n. 1483, del 12-1-1938.67 Cfr Pedro Casciaro, op. cit., p. 121.68 Cfr ibidem, p. 122.69 Cfr ibidem, pp. 12-14 e 65-66.70 Cfr Lettera a Pedro Casciaro, da Burgos, in EF-3 80304-1; Pedro Ca­sciaro, op. cit., p. 122.71 In una lettera a Isidoro disse di avere incontrato la madre di Àlvaro del Portillo, Clementina Diez de Sollano, e, a proposito dei tentativi che si sta­vano facendo affinché Àlvaro uscisse da Madrid per via diplomatica come cittadino del Messico, aggiunse: “Anche se credo che saranno inutili, per­ché arriverò prima io in America e sistemerò la faccenda personalmente” (Lettera da Burgos, in EF-380203-1). In una lettera a don Francisco Moràn, in previsione della presa di Madrid, scrisse: “Mi viene in mente di offrirmi di nuovo al mio caro Padre, il Signor Vicario, per andare nella nostra Madrid a lavorare con i primi che ci entreranno. A questo scopo, sarà necessario tenere pronti i documenti opportuni (...). La prego, caro Signor Vicario, di accettare i miei poveri servizi, offerti con molta buona volontà, e di procurarmi un documento adatto, per non avere difficoltà quando arriverà la sospirata conquista di Madrid” (Lettera da Burgos, in EF-380303-3). Cfr pure Lettere a Enrique Alonso-Martinez Saumell, da Burgos, in EF-380327-1 e EF-380425-2.72 Appunti, n. 1483, del 12-1-1938; Lettera a mons. Francisco Javier Lau- zurica, da Burgos, in EF-380206-1. “Piccolo mio - scriveva a uno dei suoi - di’ al Signore che abbiamo bisogno di... un milioncino... e di cinquanta uomini che lo amino sopra tutte le cose! Peraltro, è un gran bene non avere neanche una pesetaì Ma... bisogna continuare a chiedere. E anche una macchina, per esempio, una piccola Chrysler. Devi sapere che chiedo questo al Signore, mentre ti scrivo, con la fiduciosa speranza che mi riem­piva l’anima quando da piccolo scrivevo ai Re Magi. Vedremo. Vedre­mo!” (Lettera a Enrique Alonso-Martfnez Saumell, da Burgos, in EF- 380204-1).73 Lettera a Ricardo Fernàndez Vallespin, da Pamplona, in EF-371231-3.74 Lettera a mons. Francisco Xavier Lauzurica e a mons. Marcelino Olae-

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chea, da Burgos, in EF-380116-2. Si legge in una Caterina del 17 gennaio: “Penso di intraprendere il primo viaggio di lavoro - un sondaggio - dopo­domani. Arriverò, a Dio piacendo, fino a Bilbao, dove andrò a chiedere elemosine. Sancti Angeli Custodes nostri!...”. (Appunti, n. 1494).75 Lettera di don Francisco Moràn. Cfr Lettera a mons. Francisco Xavier Lauzurica e a mons. Marcelino Olaechea, da Burgos, in EF-380116-2; cfr anche Appunti, n. 1490, del 15-1-1938.76 Lettera a Manuel Sainz de los Terreros, da Burgos, in EF-380117-3.77 Lettera a Isidoro Zorzano Ledesma, da Burgos, in EF-380118-1.78 Appunti, n. 1494, del 17-1-1938.79 Cfr ibidem, nn. 1499-1501, del 19 e 20-1-1938; e Lettera a Jacinto Va­lentin Gamazo (il padre del giovane), da Burgos, in EF-380204-7. In se­guito, nel marzo del 1939, si recò da questa famiglia, a Boecillo, e celebrò una Messa in suffragio del figlio (cfr RHF, D-04691).80 Appunti, n. 1505; cfr ibidem, n. 1503, del 21-1-1938; n. 1506, del 22-1- 1938; n. 1508, del 23-1-1938.Ci sono due lettere di don Josemarìa indirizzate alla signorina Josefa Sego- via Morón, dell’istituzione teresiana, successive all’incontro di Salamanca. In una di esse - da Burgos, il 3 marzo 1938 - scriveva: “Sto correndo dap­pertutto: se trovo figlie di don Pedro, appioppo loro una bella predica... È accaduto tre volte a Bilbao, a Valladolid, ad Àvila, a Leon e Astorga, a San Sebastiàn, a Saragozza... Le sembra bene? Se non mi dà la sua appro­vazione esplicita, divento muto” (in EF-380303-4). Don Josemarìa cerca­va, in tal modo, di confortare le figlie di don Pedro, profondamente addo­lorate per la morte del loro Fondatore. “Posso mai negare qualcosa a Pepa Segovia? Le ho detto che la chiamerò sempre ‘sorella mia’, mia buona so­rella”; così scriveva in una Caterina del 25 gennaio 1938 (cfr Appunti, n. 1510).81 Appunti, n. 1506, del 22-1-1938, e n. 1509, del 24-1-1938.82 Ibidem, n. 1510.83 Ibidem, n. 1514.84 Ibidem, n. 1517.85 Ibidem, n. 1520.86 Ibidem, n. 1521.87 Ibidem, n. 1522.88 Ibidem, n. 1523.89 Ibidem, n. 1530; cfr pure nn. 1531 e 1534, del 9 e 10-11-1938. “Il giorno9 parto un’altra volta per Salamanca. Che poca voglia ho di questa danza! Ben volentieri mi chiuderei in un convento, a pregare e a fare penitenza, finché non finisce la guerra... Ma sarebbe la prima volta in cui farei la mia volontà e naturalmente - o meglio, soprannaturalmente - neppure ora la farò” (cfr Lettera a Juan Jiménez Vargas, da Burgos, in EF-380207-3).90 Sulla conversazione del 10 febbraio 1938 col Vicario Generale di Ma­

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drid esiste una nota del Fondatore che inizia così: “Tutto ciò che posso dire del suo affetto per l’Opera e per me è ancora poco. Don Moràn parlò con vero entusiasmo di tutto ciò che ci riguarda, come se si trattasse di una cosa sua”; fece anche un promemoria dei temi trattati (cfr AGP, RHF, AVF-0020).91 L’originale è in RHF, D-15226/1. La lettera è datata Vigo, 9-II-1938.92 Cfr Appunti, nn. 1540 e 1543, del 15 e 17-11-1938.93 Ibidem, n. 1544, del 18-11-1938.94 Ibidem, n. 1545.95 Ibidem, n. 1547.96 Ibidem, nn. 1566-1567. Le lettere puntate stanno per Omnes cum Petro ad Iesum per Mariam.97 Appunti, nn. 1568-1569. Don Antonio Rodilla Zanón (1897-1984) fu ordinato sacerdote nel 1921. Direttore del collegio San Juan de Ribera a Valencia (1923-1939). Vicario Generale di questa Diocesi (1938-1944) e Rettore del Seminario Maggiore dal 1939 al 1969. Canonico di Valencia e Prelato d’Onore di Sua Santità (1972).98 Appunti, nn. 1572, del 15-IV-1938, e 1573, del 4-VI-1938.99 Cfr Lettera a Juan Jiménez Vargas, da Burgos, in EF-380323-1.100 Lettera a Ricardo Fernàndez Vallespm, da Burgos, in EF-380327-2.101 Appunti, n. 1567, del 10-111-1938.102 S. Giovanni della Croce, Notte oscura, II, 21. Sia questa immagine che il termine usato sono quasi eccezionali negli scritti del Fondatore (cfr For­gia, n. 174). La parola livrea compare soltanto un’altra volta negli Appun­ti intimi, ma in senso proprio (cfr n. 187, del 5-IV-1931).103 Cfr Appunti, n. 244, del 31-V1II-1931. Il testo è riportato nel Voi. I, pp. 393-394; vedi anche Forgia, n. 39.104 Istruzione 19-III-1934, n. 7.105 Cfr Appunti, n. 274, del 9-IX-1931.106 Cfr ibidem, n. 1729, del 24-VI-1933.107 Cfr ibidem, n. 877, del 24-XI-1932.108 “È solito far trascorrere molto tempo e molti anni” (S. Giovanni della Croce, Notte oscura, II, 1).109 Cfr Appunti, n. 1372, del 30-VI-1936.110 Lettera da Burgos, in EF-3 80227-3. Fece un’altra analoga allusione nel 1937 a Francisco Botella Raduàn: “Vuoi che ti dica, Pacorro, ciò che ac­cade al nonno? Te lo dirò, in parte: preoccupazioni molto intime, molto... sue” (Lettera da Madrid, in EF-370530-1). Dunque, neppure a lui disse nulla di ciò che gli stava capitando.111 Cfr Appunti, nn. 1567 e 1569, del 10 e del 21-111-1938.112 Ibidem, nn. 1379-1380, dell’8 e del 9-V-1937.

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113 Mt 22, 13.114 Appunti, n. 1567, del 10-111-1938.115 Ibidem, n. 1569, del 21-IIM938.116 Ibidem, n. 1380, del 9-V-1937.117 Ibidem, n. 1391, del 26-V-1937.118 Cfr A. Tanquerey, Compendio di Teologia Ascetica e Mistica, Roma 1927, n. 1464.119 Appunti, n. 1379, dell’8-V-1937.120 II 10 maggio tornò a scrivere: “Non provo nulla: sono ancora comple­tamente intontito” (ibidem, n. 1381).121 Ibidem, n. 1567, del 10-111-1938.122 Questo spiegherebbe, in parte, i suoi vuoti di memoria. Cfr Appunti, n. 1440, del 22-XII-1937.123 Ibidem, n. 1391, del 26-V-1937.124 Ibidem, n. 1379, dell58-V-l937.125 Ibidem, n. 1391, del 26-V-1937.126 Ibidem, n. 1567, del 10-111-1938.127 Ibidem, n. 1569, del 21-111-1938.128 Ibidem, n. 1567, del 10-111-1938.129 Ibidem, n. 1380, del 9-V-1937. “Il Fondatore dell’Opus Dei non solo accettò con gioia la Croce, nella malattia, nella persecuzione, in ogni gene­re di avversità esterne e nelle purificazioni interiori che Dio gli fece attra­versare, ma inoltre la cercò, con la profonda convinzione che trovare la Croce significa trovare Cristo” (Àlvaro del Portillo, Sacerdotes para..., op. cit., p. 992).130 Appunti, n. 1388. Che la nota sia autobiografica è indicato dalla data, che cade in pieno periodo di purificazione, oltre che dai sintomi, identici a quelli registrati in altre occasioni, a Burgos e nel Monastero di S. Domeni­co di Silos (cfr ibidem, n. 1569, del 21-111-1938, e n. 1589, del 15-IX- 1938). Anche in un’altra situazione analoga affermerà di fare atti d’amore “solo a parole: sto facendo una commedia” (cfr ibidem, n. 1589).131 Cfr Lettera ai suoi figli di Madrid, in EF-370521-2.132 Lettera ai suoi figli di Valencia, in EF-3 70421-1.133 Cfr ibidem.134 Francisco Botella, RHF, T-00159/1, p. 63.135 Lettera da Saragozza, in EF-380224-1. Sulla faringite, cfr Lettera a Juan Jiménez Vargas, da Pamplona, in EF-380227-3; e Appunti, n. 1547, del 21-11-1938.136 Lettera a Juan Jiménez Vargas, da Burgos, in EF-380323-1.

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137 Ibidem; cfr pure Francisco Botella, RHF, T-00159/1, pp. 64-65; Pedro Casciaro, op. cit., pp. 135-136.138 Lettera a Ricardo Fernàndez Vallespin, da Burgos, in EF-3 80327-2.139 RHF, T-00159/1, p. 74.140 Pedro Casciaro, op. cit., p. 135.141 II Fondatore parlò in varie occasioni delle visite presso i diversi specia­listi; cfr AGP, P03 1983, p. 445; Pedro Casciaro, op. cit., pp. 124-125. Uno di questi aveva detto che “la lesione del Padre sta nella terra di nessu­no”.142 Lettera a Juan Jiménez Vargas, da Burgos, in EF-380323-1.143 Pedro Casciaro, op. cit., p. 135.144 Lettera a Juan Jiménez Vargas, da Burgos, in EF-380327-3.145 Ibidem. “La ‘canottiera di Sigfrido’ mi portò a esagerare, nel mio desi­derio di aver cura del Padre. Il Padre non voleva indossare la famosa ca­nottiera (...). Non voleva soprattutto per mortificarsi e perché la potessi­mo usare noi. Un giorno in cui faceva molto freddo e il Padre era ancora senza voce e afflitto dalla tosse, Paco e io, mossi dall’affetto ma senza deli­catezza, lo obbligammo quasi a forza a indossarla. Qualche minuto dopo se l’era già tolta e allora ci rendemmo conto di quanto fosse stato sconve­niente il nostro comportamento. Gli chiedemmo perdono e cercammo altri modi di aver cura della sua salute” (Pedro Casciaro, op. cit., p. 126).146 Cfr ibidem, p. 134; e Francisco Botella, RHF, T-00159/1, p. 74.147 Lettera da Burgos, in EF-3 80429-1.148 RHF, AVF-0095, del 30-IV-1938; e Francisco Botella, RHF, T- 00159/1, p. 75.149 Lettera a Juan Jiménez Vargas, da Burgos, in EF-3 80430-1. I suoi con­fessori a Burgos furono il già citato don Saturnino Martinez e padre Fran­cisco de Borja Lopez Pérez, Missionario del Cuore Immacolato di Maria, allora Delegato del Governo Generale della Congregazione presso il Go­verno Nazionale della Spagna.150 “Continua a vedermi, un paio di volte alla settimana, lo specialista della gola. A te dirò - scrisse a Juan - che o non capisce, oppure la famosa faringite era proprio vera: oggi stesso ho emesso sangue dalla bocca” (Let­tera da Vitoria, in EF-380401-1).151 Appunti, n. 1524, del 4-II-1938.152 Lettera a mons. Francisco Xavier Lauzurica, da Burgos, in EF-380206-1.153 Lettera a Juan Jiménez Vargas, da Burgos, in EF-3 80327-3.154 Lettera a Miguel Sotomayor, da Burgos, in EF-380502-7. “Molti hanno per madrina la propria fidanzata”, si legge nel foglio di Noticias del luglio 1938. “Ma si va da questo ad altri estremi, che possono sviare dalla strada di rettitudine spirituale che ci si è proposti di seguire... Non è vero che mi capite?”. Cfr anche Appunti, n. 1502, del 20-1-1938.

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155 Lettera a mons. Santos Moro, da Saragozza, in EF-380223-5.156 Lettera di mons. Santos Moro al Fondatore, del 27-11-1938, originale in RHF, D-10989.157 Lettera a Juan Jiménez Vargas, da Burgos, in EF-380323-1.158 Lettera a Juan Jiménez Vargas, da Burgos, in EF-380406-2. Monipodio è un personaggio della novella Rinconete y Cortadillo di Cervantes. Nel linguaggio colloquiale, il “cortile (el patio) di Monipodio” indica un as­sembramento di persone che confabulano per fini illeciti.159 Lettera a Ricardo Fernàndez Vallespfn, da Burgos, in EF-380406-1.160 Cfr Lettera a Juan Jiménez Vargas, da Burgos, in EF-380323-1.161 Lettera a don Francisco Moràn, da Burgos, in EF-3 80404-1.162 Lettera a Juan Jiménez Vargas, da Burgos, in EF-3 80406-2.163 Lettera a Ricardo Fernàndez Vallespfn, da Burgos, in EF-380406-1.164 Ibidem.165 Cfr Pedro Casciaro, RHF, T-04197, p. 118.166 Francisco Botella, RHF, T-00159/1, p. 68.167 Poiché fra le truppe circolavano giornali, riviste, opuscoli e fogli d’ogni genere, il Padre, per evitare confusioni, scrisse nel foglio del luglio 1938: “Non vogliamo che questi fogli si possano confondere con altre pubblica­zioni, poiché non sono pubblicità, ma intimità: perciò non si chiamano Notizie né si chiameranno in alcun modo. Neanche le lettere che ricevete da casa vostra hanno un titolo”.168 Cfr RHF, D-03691; Pedro Casciaro, op. cit., pp. 137-139, Francisco Botella, RHF, T-00159/1, p. 71. Don Eliodoro Gii era allora parroco di San Juan de Renueva, a Leon. Aveva conosciuto don Josemaria presso l’i­stituzione teresiana di Madrid nel 1931 e, come già detto precedentemen­te, lo aveva frequentato nella Residenza di via Ferraz.169 Cfr il foglio di Noticias del luglio 1938 (RHF, D-03691).170 Cfr Pedro Casciaro, op. cit., pp. 134-135.171 Lettera a Juan Jiménez Vargas, da Burgos, in EF-380406-2. Sul ritiro spirituale, cfr Appunti, n. 1445, del 23-XII-1937. Negli Appunti dei primi mesi del 1938 è nell’Epistolario figurano alcuni nomi di professori e assi­stenti: Inocencio Jiménez Vicente, docente di Diritto Penale all’Università di Saragozza; Francisco Navarro Borràs, docente di Meccanica Razionale alla Facoltà di Scienze dell’Università Centrale; Mariano Puigdollers y Oli­ver, docente di Filosofia del Diritto a Valencia; Tomàs Alvira Alvira, do­cente di Scienze all’istituto de Cervera di Rio Alhama (provincia di La Rioja); Enrique S liner Ordónez, docente di Pediatria all’Università di Val- ladolid; Federico Garcfa Borruel; un gruppo di medici: Vallejo Nàgera, San Romàn, Vallejo Simon, Enriquez de Salamanca; professionisti di vec­chia conoscenza, come: Enrique Giménez-Arnau, Capo della Segreteria particolare del Ministero degli Interni, e José Lorente Sanz, sottosegretario

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dello stesso Ministero; Pedro Rocamora Valls, avvocato e giornalista; Ra­fael de Borja.172 Cfr Lettera a José Maria Albareda, da Pamplona, in EF-380104-1; Let­tera a Juan Jiménez Vargas, da Burgos, in EF-380323-1. j173 Cfr Pedro Casciaro, op. cit., pp. 128-130; Francisco Botella, RHF, T- ! 00159/1, p. 75.174 Cfr Lettera a Miguel Sotomayor, da Burgos, in EF-380408-7.175 Lettera ai suoi figli di Burgos, da Cordova, in EF-380419-2.176 Ibidem.177 Lettera a mons. Santos Moro, da Burgos, in EF-380607-2.178 Lettera a José Ramon Herrero Fontana, da Burgos, in EF-380408-5.179 Lettera a Juan Jiménez Vargas, da Burgos, in EF-380323-1.180 Appunti, n. 1576. k181 Lettera, in EF-380606-1. La frase “non mi è mai costata molto la peni­tenza” si riferisce alla vita penitente, soprattutto nelle cose piccole, del ge­suita irlandese William Doyle, cappellano militare volontario, morto nel­l’agosto 1917 nella battaglia di Ypres. E lui il protagonista della “tragedia del burro” (Cammino, n. 205). Cfr Alfred O’Rahilly, Fr. William Doyle,S.J., Londra 1925, p. 168.182 Lettera di Isidoro ai rifugiati nella Legazione dell’Honduras, dell’8-IV- 1938, in IZL D-1213, 340.183 Lettera a Juan Jiménez Vargas, da Burgos, in EF-380406-2.184 Lettera ai suoi figli di Burgos, da Cordova, in EF-380419-2. “Ho vinto una bella gara di cucito: credo di aver messo nella tonaca più punti io che il sarto” (Appunti, n. 1574, del 4-VI-1938).185 Quanto agli stipendi di Messe inviati al Vescovo di Àvila, cfr Lettere a mons. Santos Moro, in EF-380320-1, EF-380325-1, EF-380331-2, ecc.Da Burgos, senza data, don Josemarìa scriveva ad Antonio Dalmases:“Gesù ti protegga. Figlio mio, non vorrei smarrire il contatto con te. Le comuni peripezie, dalla tirannia rossa fino alla libertà, sono cose di Dio che ci vuole uniti per tutta la vita. Scrivimi spesso. Ti darò notizie degli altri. Se hai bisogno di denaro, vestiti, ecc., chiedimeli con la stessa fiducia con cui li chiederesti a tuo padre” (in EF-SD3800-1).186 Cfr Pedro Casciaro, op. cit., pp. 130-131.187 Francisco Botella, RHF, T-00159/1, p. 76.188 Cfr Appunti, n. 1445, del 23-XII-1937.189 Ibidem, n. 1575, del 5-VI-1938. In una lettera a Isidoro Zorzano scris­se: “Parlo settimanalmente a un gruppo di ragazze, tra le quali si dà da fare Amparito, la sorella di Vicentm” (EF-380801-1).190 Lettera a José Maria Albareda, da Burgos, in EF-3 80504-1. i191 Lettera a Isidoro Zorzano, da Burgos, in EF-380118-1.

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192 Lettere di Isidoro al Fondatore, 3-III-1938; e ai rifugiati nella Legazione dell’Honduras, 10-IV-1938 e 12-V-1938 (IZL D-1213, 327, 370 e 354). La malata fu poi ricoverata al Sanatorio Nacional di Estivella: cfr Lettera di Isidoro a Enrique Espinós Raduàn, 14-VI-1938 (IZL, D-1213, 372).193 Cfr Appunti, n. 1479, del 10-1-1938.194 Cfr J. Escrivà de Balaguer, La Abadesa de Las Huelgas, Madrid 1944, p. 33.195 Cfr Pedro Casciaro, op. cit., pp. 151-152.196 Cfr Ricardo Fernàndez Vallespm, RHF, T-00162, p. 41; Francisco Bo­tella, RHF, T-00159/1, p. 72.197 Cfr RHF, D-03691; Appunti, n. 1461, del 2-1-1938. In Noticias com­paiono i nomi di Carlos Aresti, Zapico, Juan Antonio Mas y Sànchez, An­tonio Alfonso Ochoa, Jaime Munàrriz, Gii de Santibànez, A. Costilla San- doval, F. Mendieta Larrea, Diego Chico de Guzmàn, Rafael Moreno, Ma­nolo Isasa...198 Lettera da Burgos, in EF-380611-2.199 p0t£ vedere? COn il cannocchiale a periscopio della batteria, la casa di via Ferraz 16, semidistrutta” (Ricardo Fernàndez Vallespm, RHF, T-00162, p. 41).200 Lettera a Isidoro Zorzano, da Burgos, in EF-380612-1.201 Ibidem.202 II 24 luglio ebbe inizio l’offensiva repubblicana che diede luogo alla co­siddetta “battaglia dell’Ebro”, la più dura e una delle più lunghe della guerra civile, combattuta fino al 16 novembre. Nel mese di ottobre tra l’altro sembrò imminente una guerra europea, a causa della crisi dei Sude- ti per la pressione di Hitler sulla Cecoslovacchia. Il 23 dicembre 1938, un mese dopo il contrattacco nazionale sull’Ebro, cominciò l’offensiva gene­rale dei nazionali contro la Catalogna.203 Lettera a mons. Santos Moro, da Burgos, in EF-380607-2.204 Cfr Lettera a mons. Marcelino Olaechea, in EF-3 80607-3.205 Ibidem.206 La lettera di mons. Marcelino Olaechea, del 13-VT-1938, è in RHF, D- 15219.207 Lettera a mons. Leopoldo Eijo y Garay, da Burgos, in EF-380807-1. La risposta del Vescovo tardava ad arrivare; perciò, di fronte alle insistenze del Servizio Nazionale degli Affari Ecclesiastici, il 4 ottobre egli scriveva a don Casimiro Mordilo: “Ti sarei grato se fossi tanto gentile da chiedere al nostro Vescovo il suo parere e di riferirmelo, perché lo possa seguire cieca­mente” (Lettera da Burgos, in EF-3 81004-1).208 Lettera a José Maria Albareda, da Burgos, in EF-3 80429-1; cfr Appunti, n. 1423, del 19-XII-1937; e Lettera a mons. Carmelo Ballester, da Saragoz­za, in EF-380223-1: padre Carmelo gli aveva regalato alcuni dei suoi libri.

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209 Lettera a Juan Jiménez Vargas, da Burgos, in EF-380611-2.210 Lettera ai suoi figli di Burgos, da Leon, in EF-380716-2.211 Cfr Eliodoro Gii Rivera, RHF, T-07987, p. 10, e Sum. 7766.212 Lettera a Isidoro Zorzano, da Burgos, in EF-380801-1. Sul giubileo, cfr Noticias dell’agosto 1938, in RHF, D-03691. Vi si legge che nella Messa aveva fatto da chierichetto un docente universitario: così il Padre indicava affettuosamente Ricardo. Di Ricardo il Padre tornò a parlare in un’altra lettera, inviata al Vescovo di Àvila (EF-380803-1).213 Appunti, n. 1577.214 Ibidem.215 Cfr Pedro Casciaro, op. cit., pp. 141-146.216 Cfr Appunti, n. 1578, del 2-VIII-1938.217 Cfr Pedro Casciaro, op. cit., pp. 141-146.218 Appunti, n. 1579, del 2-VIII-1938.219 Cfr ibidem, nn. 1579 e 1580, del 2-VHI-1938; cfr pure Pedro Cascia­ro, Sum. 6410 e op. cit., pp. 141-146; e Francisco Botella, RHF, T- 00159/1, p. 78.220 Cfr Pedro Casciaro, op. cit., pp. 141-146; Àlvaro del Portillo, Sum. 904; Francisco Botella, RHF, T-00159/1, p. 78. Le testimonianze di José Maria Albareda e di Miguel Fisac sono indirettamente raccolte da coloro che quel giorno parlarono con loro, cioè Pedro Casciaro e Francisco Botel­la. Negli anni quaranta, anche l’Autore della presente opera ha udito il rac­conto di questi fatti direttamente da Miguel Fisac e da Francisco Botella.221 Appunti, n. 1581, del 2-VIII-1938.222 Ibidem, n. 1582, del 2-VIII-1938; Francisco Botella, RHF, T- 00159/1, p. 78.223 Appunti, n. 1582, del 2-VIII-1938. All’epoca, almeno nelle città della Castiglia e del Leon, era d’uso annunciare la morte di una persona addob­bando di nero la porta di casa e lasciando dei fogli da firmare per le con­doglianze; inoltre, prima che apparisse il necrologio sul giornale locale, venivano attaccati annunci funebri sulle vetrine, sui muri o sui portoni. Jorge Bermudez morì poco dopo le undici nel suo ufficio, per un attacco di cuore. Gli annunci dovettero essere stati stampati nel primo pomeriggio e quindi esposti prima delle sedici.Il sig. José Maria Laborda, Intendente di Finanza a Burgos nel 1975, su ri­chiesta di Pedro Casciaro e dell’architetto Juan Lahuerta, il 24 settembre di quell’anno riunì nel suo ufficio alcuni dei funzionari che prestavano ser­vizio al tempo in cui era morto Bermudez (1 agosto 1938), allo scopo di stabilire il corso degli eventi. Nel Registro dei Defunti della parrocchia di S. Lorenzo el Reai di Burgos (Tomo XI) si legge che alla salma del sig. Jorge Bermudez fu data sepoltura ecclesiastica il 2 agosto 1938, e che era morto “di morte naturale il pomeriggio del giorno precedente, nel suo do­micilio”. Sul Registro dello Stato civile (Sez. III, Tomo 14, Foglio 263) si

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legge: “Morì nel suo domicilio ieri (1 agosto) alle dodici e trenta minuti a seguito di un'angina pectoris”.Si è potuto chiarire, nonostante quanto affermato nei registri citati, che il sig. Bermudez morì nel suo ufficio e fu poi trasportato a casa. Prima di morire aveva ricevuto una visita. Finita la visita, qualcuno si accorse che stava male. Accorsero i suoi colleghi, che lo videro portarsi la mano al capo, ansimando. Morì in pochi istanti. Fu disteso su una poltrona e poco dopo gli si formò una macchia rossiccia sulla testa calva. Aveva cinquan­tuno anni.Era sposato con Teresa Gallego e aveva tre figli, due dei quali maschi. Uno morì in un incidente aereo, quando il suo apparecchio urtò alcuni cavi sul fiume Arlanzón, nel centro di Burgos. L’altro morì in un ospedale (cfr Pedro Casciaro, op. cit., pp. 145-146).224 Ibidem; cfr anche Pedro Casciaro, Sum. 6410; Àlvaro del Portillo, Sum. 904.225 Pedro Casciaro, RHF, T-04197, p. 107.116 Appunti, n. 1600, del 17-VII-1939. Poco prima descriveva così alcuni episodi: “A Burgos, prima della presa di Madrid, vidi alcuni particolari di ciò che vi avremmo trovato. E una specie di sogno, ma a occhi aperti. Così ho saputo...” (n. 1598, del VII-1939). In un’altra Caterina scrisse: “Uscendo dal convento di Santa Isabel, mi venne il pensiero, senza alcuna mia partecipazione, che la chiesa sarebbe stata bruciata” (n. 1620, del 24- VIII-1940).Eventi molto diversi dai sogni di incoraggiamento, come quello descritto nella Caterina del 12 dicembre 1935: “Dicevo al Signore, giorni fa, nella santa Messa: “Dimmi qualcosa, Gesù, dimmi qualcosa”. E come risposta rividi con chiarezza un sogno fatto la notte precedente, in cui Gesù era grano, sepolto e marcito - in apparenza - per diventare poi spiga matura e feconda. E compresi che quello e non un altro era il mio cammino. Bella risposta!” (ibidem, n. 1304).227 Ibidem, nn. 1577 e 1582, del 2-VIII-1938. In un’altra Caterina si legge: “Quel caso di carità, o meglio, lezione di carità del Signore a Burgos...” (ibidem, n. 1600, del 17-VII-1939).228 Lettera ai suoi figli di Burgos, da Àvila, in EF-380811-1.229 Lettera di Pedro Casciaro, del 18-VIII-1938, e Lettera ai suoi figli di Burgos, da Àvila, in EF-380819-2.230 Pedro Casciaro, op. cit., p. 146.231 Lettera ai suoi figli di Burgos, da Àvila, in EF-380808-1. Cfr Lettere a mons. Santos Moro, da Vitoria, in EF-380803-1, e a mons. Leopoldo Eijo y Garay, da Burgos, in EF-380807-1. A Vitoria parlò di nuovo, alcuni giorni dopo, con Eloy Montero, docente di Diritto a Madrid: “Mi assicu­ra che la tesi va molto bene (adulatore!) e che a Madrid la esamineranno in quindici giorni” (Lettera ai suoi figli di Burgos, da Vitoria, in EF- 380819-1).232 Lettera ai suoi figli di Burgos, da Àvila, in EF-3 80811-1.

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233 Lettera a Ricardo Fernàndez Vallespm, da Àvila, in EF-380810-1.234 Lettera ai suoi figli di Burgos, da Àvila, in EF-380808-1. Del passaggio alla zona nazionale di Àlvaro del Portillo, Vicente Rodrìguez Casado ed Eduardo Alastrué Castillo, Isidoro, nelle lettere del 25 luglio e del 5 agosto (IZL D-1213, 386 e 388), aveva scritto che preparavano il viaggio per “riu­nirsi al nonno”. La cosa più probabile è che ai primi di agosto le lettere non fossero ancora arrivate a destinazione. Erano sorte difficoltà, dato il cre­scente numero di lettere, per mantenere la corrispondenza con Madrid at­traverso Manuel Albareda: “Per amor di Dio, non possiamo restare privi del canale di S. Juan de Luz, per comunicare con quei poveretti di Madrid”, scrisse il Fondatore ai suoi figli di Burgos, da Vitoria, in EF-380822-1.235 Appunti,, n. 1585, del 20-VIII-1938.236 Ascensión Quiroga Barrena, RHF, T-04388, p. 4. In questa relazione te­stimoniale sono comprese anche quelle delle altre religiose della comunità.237 Ibidem, p. 8. La testimonianza è di suor Juana Quiroga Barrena.238 Ibidem, p. 6; cfr anche Àlvaro del Portillo, Sum. 373.239 Cfr Pedro Casciaro, op. cit., p. 140; Francisco Botella, RHF, T- 00159/1, p. 79. Egli comprò una nuova tonaca solo verso metà febbraio del 1939 (cfr lettera a Pedro Casciaro, da Vitoria, in EF-390213-3).240 “Ho incontrato quel P. José Miguel di Logrono che era stato mio con­fessore quando avevo sedici anni: molto contenti tutti e due” (Appunti, n. 1484, del 13-1-1938); cfr Francisco Botella, RHF, T-00159/1, p. 72.241 Appunti, n. 1586.242 Guillermo Maranón Medrano, RHF, T-05228.243 Lettera ai suoi figli di Saragozza, da Vergara, in EF-380907-3. Da Ver- gara scrisse a mons. Santos Moro: “Credo che sia stata la SS.ma Vergine a dare le meditazioni, perché io...” (EF-380909-1).244 Cfr Lettere a Francisco Botella, da Jaca, in EF-380227-1; a Pedro Ca­sciaro, da Burgos, in EF-3 81218-1; a José Maria Albareda, da Burgos, in EF-390117-1.245 Lettera ai suoi figli di Burgos, da Saragozza, in EF-380511-1. Cfr anche Appunti, nota 1087; EF-381005-1, di cui non è noto il destinatario.246 Lettera ai suoi figli di Burgos, da Àvila, in EF-380808-1.247 Lettera ad Antonio Rodilla Zanón, da Vergara, in EF-380907-2.248 Lettera a Juan Jiménez Vargas, da Burgos, in EF-3 81105-6.249 Lettera a Juan Jiménez Vargas, da Burgos, in EF-3 80207-3. Questa let­tera è erroneamente datata 2 gennaio 1938.250 Tollerava ancor meno le stilografiche dalla scrittura leggera: “Carissi­mo Ricardo - scriveva il 22 giugno - , avendo a disposizione solo penne dal tratto poco vigoroso, incompatibili con il mio temperamento, mi deci­do a scriverti a macchina come male minore, perché neppure mi piace

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scrivere ai miei figli con caratteri di stampa” (Lettera a Ricardo Fernàndez Vallespin, da Burgos, in EF-380622-1)251 Cfr Lettera a Francisco Botella, da Jaca, in EF-380227-1.252 In luglio ebbero una nuova macchina per scrivere, portata dal fratello di José Maria Albareda. Ma il Padre l’utilizzò solo perché aveva di nuovo perduto la penna. Cfr Lettera a Enrique Alonso-Martinez Saumell, da Burgos, in EF-3 80726-1.253 Cfr Pedro Casciaro, op. cit., p. 151.254 Cfr Lettera a José Maria Albareda Herrera, da Burgos, in EF-380429-1.255 Lettera a Ricardo Fernàndez Vallespin, da Burgos, in EF-380327-2. La lettera, senza data, probabilmente è della fine del marzo 1938.256 Lettera a Emiliano Amann, da Burgos, in EF-380407-1.257 Appunti, n. 1436, del 21-XII-1937.258 Lettera a Juan Jiménez Vargas, da Burgos, in EF-3 81013-3; cfr Lettera a Ricardo Fernàndez Vallespin, in EF-3 81013-1. Il Fondatore non manca­va di fortezza in questi casi particolari relativi al governo dell’Opera; tut­tavia, lasciandosi influenzare dalle ragioni esposte, non esauriva del tutto gli argomenti, perché potevano rappresentare per l’interessato una verità troppo amara. Cfr Lettere a Miguel Sotomayor, entrambe da Burgos, in EF-380408-7 ed EF-380502-7.259 Lettera ai suoi figli di Saragozza, da Vitoria, in EF-380904-2.260 Appunti, n. 1587. - Le lettere puntate stanno per Regnare Christum volumus.261 Lettera a Isidoro Zorzano, da Burgos, in EF-380914-2.262 Lettera ai suoi figli di Burgos, da Silos, in EF-380925-1.263 Ibidem.264 Appunti, n. 1588. Cfr Forgia, n. 251.265 Appunti, n. 1589, del 15-IX-1938. Cfr Forgia, n. 446.266 Lettera a Isidoro Zorzano, da Burgos, in EF-381007-3.267 Cfr Lettera a mons. Casimiro Mordilo, da Burgos, in EF- 381004-1.268 RHF, D-15226.269 Lettera a mons. Leopoldo Eijo y Garay, da Burgos, in EF-381007-2.270 Lettera a Ricardo Fernàndez Vallespin, da Burgos, in EF-3 81005-2.271 II 25 maggio Isidoro scrisse al Padre circa il Console: “Gli hanno con­sigliato di lasciar perdere e starsene tranquillo” (Lettera del 25-V-1938, in IZL D-1213, 360; cfr pure Lettera di Isidoro ai rifugiati nella Legazione dell’Honduras, del 15-VI-1938, in IZL D-1213, 373).272 Su quanto riferito subito dopo, cfr José Miguel Pero-Sanz, op. cit., pp. 190-194.273 Lettere di Isidoro ad Àlvaro del Portillo, del 15-VI-1938, e al Fondato­re, del 25-VI-1938, rispettivamente in IZL D-1213, 374 e 379.

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274 Cfr la relazione di Àlvaro del Portillo: Da Madrid a Burgos, passando per Guadalajara, dicembre 1938. Manoscritto originale in RHF, D-15376. Oltre alla mobilitazione del 13 aprile, i repubblicani ne fecero un’altra il28 maggio, chiamando i contingenti del 1926 e del 1925.275 Cfr la relazione Da Madrid a Burgos, passando per Guadalajara, p. 6.276 Ibidem, p. 14.277 Relazione manoscritta di mons. Àlvaro del Portillo, 1944. Originale in IZL, T-94, p. 18. Nella Lettera 381, del 5-X-1938, Isidoro tornava a con­fermare quanto già detto in precedenza al Padre (accusando anche ricevu­ta di una lettera del Padre del 24 settembre, che non è stata ritrovata). Di Àlvaro e degli altri diceva: “Alla metà di questo mese termineranno i lavo­ri agricoli nella fattoria e approfitteranno dell’occasione per passare qual­che tempo con il nonno”. Un giorno, facendo orazione davanti al Croci­fisso, nella sua stanza di lavoro, Isidoro seppe che i tre fuggitivi sarebbero passati nella zona nazionale il 12 ottobre (cfr Àlvaro del Portillo, Sum. 893).Nel processo canonico del Servo di Dio Isidoro Zorzano, il teste n. 2, José Javier Lopez Jacofste, dichiarò che i fuggitivi “gli chiesero il permesso di passare alla zona nazionale; il Servo di Dio, dopo aver pregato davanti al Crocifisso, negò loro due volte il permesso. Alla terza richiesta acconsentì e scrisse una lettera al nostro Padre Fondatore, che stava a Burgos, dicen­dogli che questi tre nostri compagni e fratelli sarebbero stati in sua com­pagnia il giorno della Madonna del Pilar, come difatti accadde” (Copia Publica transumpti Processum Servi Dei Isidori Zorzano Ledesma, Ma­drid 1968, voi. IV, f. 56v-57; cfr pure ibidem, Francisco Botella, f. 852, circa l’origine soprannaturale della rivelazione dell’evento).Il 15 luglio 1943, vigilia della Madonna del Carmine e giorno della morte di Isidoro, José Luis Muzquiz raccontò a Francisco Botella che alcuni giorni prima, mentre José Javier Lopez Jacofste stava con Isidoro, questi, guardando il Crocifisso che aveva José Javier, gli disse che nell’estate del 1938, facendo orazione davanti a quel Crocifisso, aveva saputo che Àlvaro, Vicente ed Eduardo sarebbero passati nella zona nazionale. Il Crocifisso era in possesso di José Javier perché, quando questi aveva chie­sto l’ammissione all’Opera, il Padre aveva detto a Isidoro di darglielo. Cfr Francisco Botella, RHF, T-00159, X, p. 23.278 In una lettera inviata a Isidoro Zorzano, da Burgos, (EF-380801-1), il Padre disse, riferendosi alla madre di Àlvaro del Portillo: “Ieri mi ha scrit­to Clementina, dalle spiagge del Pacifico: è preoccupata per le traversie di suo figlio. Oggi le manderò due righe per tranquillizzarla”. E in un’altra lettera a Isidoro (EF-381007-3), pure da Burgos, scrisse, riferendosi alle due madri: “Parlo spesso con loro dei loro piccoli”.279 “È certo che il Padre, a Burgos, e Isidoro Zorzano, a Madrid, vennero a sapere in modo assolutamente soprannaturale che il 12 ottobre 1938 Àlvaro del Portillo, Vicente Rodrfguez Casado ed Eduardo Alastrué avrebbero attraversato il fronte che separava l’esercito repubblicano dal­

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l’esercito nazionale” (Pedro Casciaro, RHF, T-04197, p. 163; cfr anche ibidem, p. 161. Cfr anche Francisco Botella, RHF, T-00159/1, p. 80).280 Lettera a Ricardo Fernàndez Vallespm, da Burgos, in EF-3 81010-3.281 Lettera a Juan Jiménez Vargas, da Burgos, in EF-3 81011-1.282 Cfr Pedro Casciaro, op. cit., pp. 158-159 e Sum. 6411; Francisco Bo­tella, Sum. 5652.283 Lettera a Juan Jiménez Vargas, da Burgos, in EF-381013-3. “Il giorno della Madonna del Pilar - scrisse al Vescovo di Àvila - nostra Signora ci fece un regalo, donandoci tre dei nostri” (EF-381027-1, da Burgos). Cfr pure Francisco Botella, RHF, T-00159/1, p. 80.284 Cfr la relazione Da Madrid a Burgos, attraverso Guadalajara, p. 45.285 RHF, D-03691 e Lettere a Ricardo Fernàndez Vallespm e a Juan Jimé­nez Vargas, da Burgos, rispettivamente in EF-381010-3 e 381011-l.286 Lettera a Ricardo Fernàndez Vallespm, da Burgos, in EF-381010-3.287 Santiago Escrivà de Balaguer, RHF, T-07921, p. 28.288 Lettera a José Maria Albareda Herrera, da Burgos, in EF-3 81210-1. Juan Jiménez Vargas chiamava porcheriole (orig.: “marranaditas”) gli og­getti di uso personale non strettamente necessari al fronte.289 Lettera a Juan Jiménez Vargas, da Burgos, in EF-3 81224-1.290 Lettera a Ricardo Fernàndez Vallespm, da Burgos, in EF-381223-2.291 RHF, D-15376.292 Lettera a Vicente Rodrìguez Casado e ad Àlvaro del Portillo, da Bur­gos, in EF-390323-8.293 Lettera circolare ai suoi figli, da Burgos, in EF-390109-1.294 Ibidem.295 Cfr Lettere a José Maria Albareda e a mons. Santos Moro, da Burgos, rispettivamente in EF-3 81210-1 ed EF-3 81224-2.296 Dall’affetto del Padre verso i suoi figli erano nati soprannomi e nomi­gnoli. Cfr Lettere a Pedro Casciaro, da Vitoria; a Ricardo Fernàndez Val­lespm e a Juan Jiménez Vargas, da Burgos, rispettivamente in EF-390213- 3, EF-390200-2 ed EF-381013-3.297 Lettera ad Àlvaro del Portillo, da Burgos, in EF-390119-1.298 Quando il Padre dava un soprannome, ne cercava uno che avesse un che di sostanziale. Cfr Lettera ad Àlvaro del Portillo, da Burgos, in EF- 390224-4.299 Lettera ad Àlvaro del Portillo, da Burgos, in EF-390323-5.300 Lettera a Pedro Casciaro, da Burgos, in EF-390111-1.301 Lettere a Pedro Casciaro e ad Amparo Rodrìguez Casado, da Burgos, in EF-390224-3 e EF-390310-4.302 Lettera di Isidoro ai rifugiati nella Legazione dell’Honduras, 29-IV- 1938, in IZL D-1213, 348.

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303 Lettera a Francisco Botella, da Vitoria, in EF-390213-2.304 Lettera ad Àlvaro del Portillo e Vicente Rodriguez Casado, da Vitoria, in EF-390213-4.305 Lettera a Ricardo Fernàndez Vallespin, da Vitoria, in EF-390213-5.306 Da Vitoria scrisse a mons. Santos Moro: “Vorrei chiederle se posso in­viare al suo palazzo alcuni scatoloni e un baule, da ritirare dopo il rientro a Madrid” (EF-390213-8). E in una lettera ad Amparo Rodriguez Casado, da Burgos (EF-390221-1) diede notizia del trasferimento e un elenco di biancheria da altare; cfr pure EF-390321-1, diretta alla stessa persona.307 Cfr Lettere a don Francisco Moràn e a Ricardo Fernàndez Vallespin, da Burgos, in EF-380303-3 e EF-380406-1.308 Cfr Lettere a Ricardo Fernàndez Vallespin e a Juan Jiménez Vargas, da Burgos, in EF-390303-1 e EF-390303-2.309 Cfr Francisco Botella, RHF, T-00159/1, p. 86; Lettera a Pedro Cascia­ro, da Burgos, EF-390224-3.

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Capitolo XIIDAI SOGNI ALLA REALTÀ

1. Il ritorno a MadridMan mano che correvano i giorni, cresceva la fiduciosa impazienza del Fondatore di ritornare a Madrid. Dal febbraio 1939 c’è nelle sue lettere una grande gioia, pur nella consapevolezza che avrebbe trovato la capitale in condizioni per nulla favorevoli alla ripresa del suo lavo­ro. Ma il rientro a Madrid era il segno definitivo della fine della guerra civile e dell’inizio di una nuova epoca per l’Opera.

“Ora cambia tutto”, aveva scritto a Juan. E il pensie­ro, come un ritornello, si ripete da una lettera all’altra. “Ora cambia tutto: e ciò che inizia è per sempre”, ripe­teva con slancio apostolico a Ricardo. “E comincerà, per la nostra famiglia, un’epoca di intensa vibrazione”, aggiunse a Juan1. “Ora cambia tutto” - ancora a Ricar­do - e sarà necessario lavorare con tutta l’anima”2.

Vennero giorni di gioiosa attesa, in cui don Jose­marìa teneva vivo il suo anelito apostolico, presenten­do l’espansione dell’Opera in tempi rapidi. Sognava di essere già dentro la capitale: “Madrid! Incognita alla quale guardo con ottimismo, perché tutto è mosso da Dio, mio Padre”, aveva scritto a Pedro Casciaro3. E an­dava col pensiero a uno dei gravi problemi che gli si sa­

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rebbero presentati e che avrebbe dovuto risolvere. Si trattava della collaborazione che si attendeva dalla ma­dre. Lo si è già visto: “Penso a tutti: a quelli della zona rossa, in modo specialissimo. Quando scriverai agli al­tri - a tutti - di’ loro che chiedano al Signore che ci conservi la nonna; vedo, con una luce chiarissima, che ne abbiamo bisogno”4.

Nel frattempo era giunta notizia della morte di Papa Pio XI. Quando, tre settimane dopo, in una lettera del 3 marzo 1939, annunciò a Juan Jiménez Vargas l’elezione di Pio XII, dal cuore del Padre sfuggì una scintilla di quel fuoco universale latente nell’Opus Dei: “Papam habemus! La prossima volta saremo lì anche noi, tu e io e penso anche altri”5. Dal 1931 sognava un momento del genere: “Sogno - si legge in una Caterina del 1931 -, per quando l’Opera di Dio sarà bene avviata, la fonda­zione a Roma di una Casa che sia il cervello dell’orga­nizzazione”6.

Aveva preso l’impegno di predicare gli esercizi spiri­tuali ai seminaristi della diocesi di Vitoria, poiché gli fa­ceva “gola pensare a questo lavoro con anime quasi-sa- cerdotali”. Dovette perciò spiegare al Vescovo i motivi che consigliavano di differire gli esercizi:

“1) La necessità di stare a Burgos il giorno di S. Giusep­pe, per le ragioni che Lei conosce. Ci sono parecchi che vengono con un permesso straordinario di ventiquattro ore, e non avrebbero il tempo materiale per arrivare a Vergara.2) La possibilità, assai probabile, che venga presa Ma­drid mentre io sto dando gli esercizi.3) Nel caso che fosse presa Madrid e io non vi andassi subito, mancherei al mio stretto dovere di ricuperare Santa Isabel, in quanto Rettore del Patronato (cosa che certe persone non mancherebbero di sottolineare), e a un duplice dovere - uno molto soprannaturale e l’altro di famiglia - verso l’Opera e verso mia madre, che mi at­tendono senza dilazioni”7.366

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Così, pieno di giubilo, valicando con l’immaginazione i confini della terra promessa, inviò ai suoi una Lettera Circolare che iniziava con queste parole:

“Nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo e di Santa Maria. Gesù benedica i miei figli e me li proteg­ga. Sento la mozione di Dio a scrivervi la vigilia della presa vittoriosa di Madrid, È vicino il giorno del ritorno nella nostra casa ed è necessario che pensiamo a ripren­dere le nostre attività di apostolato”8.Fu una lettera davvero circolare: fu passata di mano

in mano, di città in città, finché tutti i destinatari l’ebbe­ro letta, perché non ce n’erano copie. La lettera era lo squillo di tromba con cui il Padre risvegliava lo zelo spi­rituale dei suoi figli. Una volta finita la guerra, avrebbe­ro rilanciato il programma di cui tante volte aveva par­lato loro: porre Cristo al vertice di tutte le attività umane. Doveva essere una mobilitazione universale al grido di Regnare Christum volumus.

“Voglio che vi prepariate - continuava - per l’antica lot­ta, che è milizia e servizio della Chiesa Romana, Santa, Una, Cattolica e Apostolica, recitando con spirito di monaco e di guerriero, poiché questo è lo zelo della no­stra chiamata, il Salmo della Regalità di Cristo. Tutti i martedì ognuno, dopo aver invocato il suo Santo Angelo Custode perché lo affianchi nella preghiera, bacerà il ro­sario, a riprova dell’amore per la Madonna e per signifi­care che è la preghiera la nostra arma più efficace, poi reciterà il Salmo 2, in latino9. Sto parlando di lotta e di guerra e, per la guerra, occorrono soldati”.Di qui il richiamo al proselitismo: “Mai come ora la no­stra gioventù è stata tanto nobilmente scossa. Sarebbe un grande rimorso se non sapessimo cogliere, per au­mentare la nostra famiglia, questi impeti e queste realtà di sacrificio che indubbiamente si notano - in mezzo a tante altre cose che taccio - nei cuori e nelle opere dei vostri compagni di studio e di trincea e dei posti di guar­367

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dia. Seminate, quindi, e vi assicuro, nel nome del Padro­ne della messe, che ci sarà raccolto. Ma seminate gene­rosamente... Così, sul mondo!”10.Per il Padre la Lettera Circolare era indubbiamente

un modo per sfogarsi, per trasmettere ai suoi figli il grande ardore apostolico che portava dentro. Il giorno prima ne informava Albareda:

“Paco ti scriverà i particolari. Ti voglio solo dire che cre­do che partirò presto verso Casa, per esser vicino quan­do la porta si aprirà. Porterò le vettovaglie che abbiamo preparato. Tu dovrai fare in modo di portare lo scheda­rio e la macchina per scrivere.Ho un’altra lettera circolare, ma non so quando circo­lerà: se vieni qui, la leggerai. Perché non vieni domenica prossima? Credo che io partirò lunedì”11.Tra Burgos e Madrid ci fu un andirivieni per trattare i

termini della resa delle forze repubblicane. Don Jose- marìa seguiva da vicino gli avvenimenti. Lunedì 27 mar­zo partì verso Madrid con un autocarro di approvvigio­namento militare, seduto accanto al guidatore. Aveva i documenti in regola: un salvacondotto e un permesso ec­clesiastico. Passò la notte a Cantalejo, un paese della provincia di Segovia a più di cento chilometri dalla capi­tale. Il giorno successivo l’esercito repubblicano si arrese. La mattina del 28 marzo le truppe cominciarono a entra­re in Madrid; tra i soldati c’era don Josemarìa, in veste talare. L’emozione era incontenibile. Dal luglio 1936 era probabilmente il primo sacerdote che si mostrava per la strada in veste talare. Molti correvano a baciargli la ma­no e don Josemarìa tendeva loro un Crocifisso12.

Passò davanti al n. 16 di via Ferraz e potè constatarelo stato deplorevole della Residenza, che non era mai stata inaugurata. Poi si diresse all’appartamento di via Caracas per abbracciare la madre e i fratelli e riprese possesso del baule in cui erano custoditi documenti e368

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carte che costituivano l’archivio dell’Opera13. Ma prima ancora che la sua famiglia naturale, gli premeva riunire i suoi figli. S’incontrò subito con Isidoro Zorzano e José Maria Gonzàlez Barredo, rimasti a Madrid. Poi giunse­ro altri: per primi Ricardo Fernàndez Vallespin e Àlvaro del Portillo, con un permesso militare. Il 29 marzo mat­tina si recarono tutti a fare una ricognizione in via Fer­raz. I danni provocati dai proiettili erano più gravi di quanto si era immaginato il Padre quando, l’anno pri­ma, aveva guardato la casa con il cannocchiale della batteria di Carabanchel. L’appartamento era stato sac­cheggiato. Le pareti erano crivellate dai proiettili. Il pa­vimento sfondato e rotto. Le uniche parti sane dell’edifi­cio erano la facciata e i muri maestri.

Paco Botella, arrivato da Burgos nel pomeriggio, li trovò a Santa Isabel, dove erano andati tutti a sincerarsi delle condizioni del convento. La chiesa era una triste testimonianza del vandalismo incendiario. Il 20 luglio 1936, non appena scoppiata la guerra, i rivoluzionari l’avevano data alle fiamme. Bruciato il pavimento; bru­ciati i banchi e le pale d’altare; distrutte opere d’arte di gran valore14.

i r I r Si-

“Per voi non ci saranno ostacoli insuperabili - conti­nuava la Lettera Circolare - soprattutto se vi sentite sempre uniti con una particolare Comunione dei Santi, a tutti coloro che compongono la vostra famiglia so­prannaturale”15. Pensiero che sosteneva il suo ottimi­smo di fronte all’ingrato compito di ripartire dalle ma­cerie di un edificio. E non è semplice casualità che, quando don Josemaria ritornò in via Ferraz, il 21 aprile, vi trovasse un ricordo consolante della fraternità che vi si era vissuta. Tra le macerie dell’appartamento ritrovò la pergamena, recante un testo evangelico, che vi aveva fatto appendere: Mandatum novum do vobis: ut diliga- tis invicem, sicut dilexi vos, ut et vos diligatis invicem.

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In hoc cognoscent omnes quia discipuli mei estis, si di- lectionem habueritis ad invicem (Gv 13, 34-35 )16.

Il giorno successivo all’entrata delle truppe a Ma­drid, si era già riunito nella capitale un piccolo gruppo di membri dell’Opera; non avendo essi dove alloggiare, don Josemarìa li invitò a dormire nella casa rettorale di Santa Isabel. La sera del 29 marzo la dedicarono a puli­re l’appartamento, che era in uno stato migliore di quello destinato ai cappellani, occupato anni addietro dagli Escrivà e che era stato l’ufficio dei commissari po­litici; l’edificio attiguo, il collegio delle bambine, era servito da caserma del corpo dei genieri. Dovunque re­gnava il disordine: carte sparse, schedari sventrati, ta­voli e sedie'rotti, letti distrutti e armadi abbandonati. Radunarono anche alcuni mobili, benché non fossero in buone condizioni, con l’intenzione di dipingerli o di ripararli in futuro17.

Ben presto la casa fu abitabile. Don Josemarìa parlò con la madre e i fratelli e tutti andarono ad abitare a Santa Isabel. Di fatto, nella casa rettorale, l’unica abita­zione che ebbero a Madrid per alcuni mesi, cominciò la diretta collaborazione di Carmen e della signora Dolo­res nella conduzione dei centri dell’Opera. Lo spazio di cui disponevano era piuttosto ridotto. A una estremità dell’appartamento avevano preparato una camera per la signora Dolores e per Carmen. All’altra estremità si si­stemò don Josemarìa, in una piccola stanza con una branda. Nella camera accanto, che era abbastanza am­pia ed era stata soprannominata “la fattoria”, misero quattro letti18.

Non tardò a giungere a Santa Isabel la Madre Priora delle Agostiniane, accompagnata da una novizia, con l’intenzione di occupare l’appartamento dei cappellani, dato che il resto del convento era in rovina a causa del­l’incendio. Il Padre trovò loro una soluzione più conve­niente affinché potessero fare vita di comunità con il re­sto delle suore, che allora si trovavano fuori Madrid,370

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mentre venivano riparati la chiesa e gli edifici annessi19. Poiché il vicino edificio delle suore dell’Assunzione non aveva subito danni, questa comunità cedette tempora­neamente alle Agostiniane alcune camere del collegio delle bambine. Sistemazione provvisoria che durò fino al mese di agosto, quando don Josemarìa, d’accordo con il Vicario Generale della diocesi di Madrid, don Ca­simiro Mordilo, cedette volontariamente alle suore il suo appartamento. Come stabiliva il contratto stipulato il 5 agosto 1939 tra il Rettore del Patronato di Santa Isabel e la Madre Priora, Suor Vicenta Maria del Sagra­rio, il primo cedeva alla Comunità delle Agostiniane Re­collette “il diritto, che a lui spetta, di abitare nella Casa Rettorale, in via Santa Isabel al n. 48”. Nel contratto di cessione figuravano le clausole necessarie alla salva- guardia dei diritti dei futuri Rettori sull’appartamento a essi destinato20.

Nel frattempo, nella casa rettorale furono sistemati anche i vecchi mobili della casa della Nonna. Non erano molti, ma davano un tocco di eleganza familiare a quel­l’ambiente squallido in cui la signora Dolores e i suoi fi­gli vissero dopo il 9 aprile. La data segna l’inizio di quella che Santiago Escrivà chiama “l’epoca di transi­zione”, cioè del servizio provvisorio che sua madre e sua sorella prestarono nei centri dell’Opera, fino a che le donne dell’Opus Dei non diedero loro il cambio nei la­vori di amministrazione domestica21. Sarebbe più esatto dire che, sia nel caso di Carmen che in quello della si­gnora Dolores, questo impegno apostolico di aiuto durò per tutta la vita. Durante “l’epoca di transizione” la vita della Nonna, minata da tacite sofferenze fisiche e mora­li, si andò consumando dolcemente, in silenzio, senza mai conoscere un momento di riposo. Quanto a Car­men, il suo servizio si protrasse un anno dopo l’altro e consumò il fiore della sua gioventù e il meglio delle sue forze; fu sempre pronta, sempre disponibile, senza mai ostentare il suo sacrificio nascosto.

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La pulizia e la sistemazione della casa rettorale ri­chiesero tempo. Non solo per la grande sporcizia accu­mulata, ma anche perché si dovette notificare alle auto­rità il ritrovamento di un deposito di armi e le orribili profanazioni delle sepolture della cripta, nella quale i cadaveri erano stati mischiati in un’impressionante confusione. Fu anche necessario ripulire il pozzo del­l’orto, nel quale erano state gettate alcune persone as­sassinate durante la guerra22.

* * *

Poi cominciarono per don Josemaria giornate di inten­sissima attività. Aveva scritto ai suoi nella lettera del 9 gennaio 1939 che l’Opera, impresa soprannaturale, ave­va subito una paralisi durante gli anni di guerra. Un ar­resto, grazie a Dio, solo apparente, perché la realtà era ben diversa. Ora erano tutti nelle migliori disposizioni per riprendere o ricuperare le attività ordinarie di apo­stolato23. La parola ricupero era allora molto usata, perché la scarsità di beni obbligava a rimettere in uso quelli già scartati perché vecchi o inservibili. Don Jose­maria impresse a questa parola un nobile significato: quello di ricuperare i tempi di apostolato apparente­mente perduti negli anni precedenti.

Riprese quanto era stato interrotto, cominciando dai suoi Appunti intimi. La prima Caterina dopo la guerra è datata 13 aprile 1939 e raccoglie una locuzione divina:

“Mi sono sorpreso a dire, come anni fa - senza render­mene conto se non dopo - ‘Dei perfecta sunt opera’. Ho avuto l’assoluta certezza, senza ombra di dubbio, che questa è la risposta del mio Dio alla sua creatura pecca­trice, ma amante. Tutto spero da Lui! Che sia benedet­to!”24.Il giorno precedente aveva localizzato il suo confessore

di un tempo ed era immediatamente andato a fargli visi­372

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ta: “Ieri sono stato da Padre Sànchez, in via Velàsquez 28. Quanta gioia ha mostrato! Mi ha abbracciato molte volte e continua - lo si vede - a credere nell’Opera”25.

La notizia successiva che abbiamo di don Josemarìa è in una lettera di Isidoro a Paco Botella. È molto succinta: “Il nonno è occupato 24 ore su 24 a ricevere gente”. Tra l’altro, Isidoro spiegava nella lettera la presenza di un bel po’ di preoccupazioni domestiche, oltre che apostoliche: “Da quando abbiamo terminato i lavori della casa ci de­dichiamo a mettere in ordine le lettere. I fusibili hanno continuato a farci la guerra; ma ora il problema sono i topi. Ti ricordi che ne avevamo distrutto le tane? Non è servito a nulla, le risistemano ogni giorno. Siamo in atte­sa di due gatti per combattere queste bestiacce”26.

Grazie allo schedario, che a Burgos avevano ricostitui­to quasi del tutto, poterono continuare a Madrid il lavo­ro di san Raffaele. Il Padre riceveva persone che voleva­no parlare con lui; dava lezioni di formazione ai membri dell’Opera che arrivavano a Madrid in permesso milita­re; manteneva la cura spirituale delle suore di Santa Isa­bel. E non interrompeva la sua perseverante corrispon­denza, invitando tutti a scrivergli, ad esempio Ricardo:

“Carissimo Ricardo, non sai quanto ti sarò grato se non fai il pigro e ci scriverai con molta frequenza (...). Credo che dovremo benedire la guerra: mi attendo molto, per Dio e per la Spagna! Ho cominciato a lavorare e sono contento. All’inizio, al ritorno a Madrid, pensavo che mi sarebbe costato tornare a inserirmi. Invece no, è come nel 1936, grazie a Dio.Un forte abbraccio e ti benedice - Mariano”27.Don Josemarìa aveva un modo insolito di considerare

la guerra e le numerose cicatrici che il conflitto aveva la­sciato in tutti. Grazie al suo ottimismo soprannaturale non si fermava a osservare i disastri che essa aveva la­sciato, ma considerava che la guerra, con tutte le sue

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evidenti prove di durezza e di crudeltà, era servita a temprare gli animi. Il Fondatore guardava avanti, pieno di speranza, e scriveva a Chiqui:

“Ti assicuro che, se mi compi il piano di vita che ti ho dato, dovrai benedire la guerra, perché avrai più espe­rienza e più fortezza per continuare a lavorare”28.Alla metà di maggio, alcuni Vescovi chiesero a don

Josemarìa di tenere alcuni corsi di esercizi spirituali a sacerdoti e religiose29. Avrebbe iniziato nel mese di giu­gno a Valencia e, come era solito fare, si mise a racco­mandare al Signore questo lavoro con grande anticipo, chiedendo anche ad altri preghiere per la crescita spiri­tuale dei partecipanti, ad esempio a mons. Santos Mo­ro, vescovo di Àvila:

“Carissimo signor Vescovo, Gesù La protegga!Questo peccatore ricorre sempre a S.E. con la mano te­sa. Padre, ho in programma diversi corsi di esercizi, al- . cuni dei quali (a Valencia e a Madrid) per sacerdoti... e ho bisogno delle sue preghiere e della sua benedizione di Padre e di Pastore.Grazie! Lei sa quanto Le vuol bene e Le è grato il suo - Josemarìa”30.Rafael Calvo Serer e don Antonio Rodilla (il quale,

oltre a essere Vicario Generale dell’Arcidiocesi di Valen­cia, era Rettore del “Colegio del Beato Juan de Ribera”) erano riusciti a riunire un gruppo di universitari per un corso di ritiro. L’inizio fu fissato per il 5 giugno. Quel giorno don Josemarìa arrivò a Burjasot, il paese nei pressi di Valencia in cui il Collegio aveva sede. Il sacer­dote era disposto a mettere le mani in pasta, cioè a dedi­carsi interamente al suo compito spirituale, affidando all’Arcangelo Raffaele l’efficacia delle sue parole. In se-, conda istanza, aveva l’intenzione di approfittare anche lui di quei giorni di ritiro: “Approfitto di dover ripulire374

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queste anime per farlo anche con la mia: ne ho proprio bisogno”31, diceva ai suoi figli.

Gli universitari passeggiavano a piccoli gruppi per il giardino del Collegio, aspettando l’arrivo del predicato­re; videro apparire un sacerdote giovane, sorridente, che sembrava affaticato per il lungo viaggio. Mentre si avvi­cinava, don Antonio Rodilla, che aveva accanto alcuni universitari, disse loro, senza tanti giri di parole: “Que­sto signore fa miracoli...”32. Don Josemarìa lo sentì e si avvicinò rapidamente per dirgli, con fare affettuoso, che quella presentazione non gli faceva affatto piacere. Ma il Vicario Generale non parlava per parlare. Sapeva molto bene quello che diceva, poiché don Josemarìa aveva aiutato la sua anima a Burgos33.

Visitando il Collegio prima d’iniziare il ritiro, don Jo­semarìa scoprì in una stanza un cartellone con questa scritta: Ogni viandante segua la sua strada. Ne chiese l’origine; l’edificio era stato requisito durante la guerra dall’esercito repubblicano e quel cartello era stato la­sciato dagli occupanti. Non volle che lo togliessero: “Lasciatelo, mi piace; dal nemico, un buon consiglio”34.

La frase gli servì da spunto per le sue meditazioni. Ne fece diverse applicazioni: sulla vocazione cristiana, sulla fedeltà alla chiamata personale di ciascuno e sul cammi­no che conduce all’ideale prescelto.

Sapendo che poteva trovare il Padre a Valencia men­tre predicava i due corsi di ritiro spirituale, prima agli studenti e poi ai sacerdoti, Àlvaro del Portillo gli te­lefonò prima di chiedere un permesso militare e d’intra­prendere il viaggio per vederlo. Si trovava con il suo battaglione a Olot, vicino ai Pirenei. Non si era immagi­nato quante difficoltà avrebbe avuto nel viaggio. Le truppe repubblicane in ritirata avevano fatto saltare i ponti nella zona di Catalogna e sull’Ebro, le strade era­no distrutte e il servizio ferroviario del tutto irregolare... Àlvaro ci mise tre giorni per arrivare a Burjasot. L’ulti­mo giorno degli esercizi, con grande stupore dei parteci­

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panti, entrò nell’oratorio con la divisa di sottotenente del Genio e si mise a seguire la meditazione in prima fi­la. Ma aveva tanto sonno arretrato dalle nottate prece­denti che dopo pochi minuti dormiva beatamente35. Quel sonno, al cospetto di Dio, valeva come orazione, disse il Padre. L’orazione della stanchezza, centrata sul desiderio di sfruttare quel poco che ormai rimaneva dei giorni di ritiro spirituale.

Ben poco tempo passò il sottotenente a Valencia. Due giorni dopo ritornava a Olot, dove avrebbe trovato una lettera del Padre da Burjasot datata 6 giugno, vale a dire scritta prima che egli partisse da Olot per Valencia. Nel­la lettera veniva esplicitata, con grande chiarezza, la più audace affermazione di paternità spirituale che mai sia uscita dalla penna del Fondatore:

“Saxuml Si aspettano molto da te il tuo Padre del Cielo(Dio) e tuo Padre della terra e del Cielo (io)”36.In pochissime parole viene espressa la filiazione del

cristiano rispetto a Dio nostro Padre; nello stesso tem­po sono affermate la trascendenza soprannaturale della chiamata divina all’Opus Dei e la conseguente pater­nità del Fondatore rispetto ai suoi figli, oltre il tempo e la morte.

Agli esercizi spirituali di Burjasot assistettero quattor­dici giovani. Certamente con buone disposizioni d’ani­mo se il Padre, il giorno successivo al suo arrivo, scrisse con entusiasmo a Madrid:

“Sono molto contento: insistete con il Signore e tutto an­drà bene. Così come la questione della Casa. Ci manche­rebbe altro! Il mio ottimismo cresce ogni momento”37.Chiedeva anche ad altre persone l’aiuto urgente della

preghiera. Il fatto è che don Josemaria aveva finalmente trovato la tanto sospirata miniera di vocazioni per l’O­376

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pus Dei. “Va molto bene! - scriveva al termine degli esercizi di Burjasot -. Ieri il Signore ce ne ha mandato un altro: quattro nuovi, in totale. E ragazzi in gamba. Spero che sapranno perseverare”38.

Non furono gli unici. Terminati gli esercizi, parlò con don Josemarìa un giovane che non aveva potuto parte­ciparvi e che, conosciuta POpera, era deciso a farsi ac­cettare: “Cerca anche di forzare la porta”39, riferì il Fondatore. Un mese più tardi la porta aveva ceduto:

“Gesù mi ti protegga.Che altro ti posso dire, se non “sì, avanti”? Meravigliati e fa’ in modo di essergli grato, vedendo che ti ha scelto per cose tanto grandi. Se perseverate... sono così maturi e succosi i frutti di questa ardente terra valenciana!Ti vuol bene e ti benedice tuo Padre - Mariano”40.José Manuel Casas Torres era, per il momento, l’ulti­

mo di quel grappolo di vocazioni valenziane che era co­minciato a Burjasot con Amadeo de Fuenmayor. Don Josemarìa, sicuro di non aver esaurito il filone, decise di tornare a Valencia quanto prima possibile per realizzare il sogno interrottosi nel 1936 quando, mentre dava ini­zio all’espansione dell’Opus Dei nelle varie province, era scoppiata la guerra.

2. CamminoPoco dopo essersi stabilito a Burgos e aver ripreso con­tatto con i giovani sotto le armi che negli anni passati avevano ricevuto da lui direzione spirituale, don Jose­marìa si accorse che non era facile averne cura con rego­larità. Erano isolati, sparsi su diversi fronti. Gli sposta­menti del sacerdote diventavano difficili. I trasporti erano precari. Gli mancava tempo e, in ogni caso, biso­

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gnava procurarsi i salvacondotti, che comunque non sempre consentivano di arrivare in prima linea.

Non era facile neppure la corrispondenza epistolare. Se don Josemaria si assentava da Burgos, al ritorno tro­vava talvolta sul tavolo una montagna di lettere, anche se in genere accadeva il contrario: le risposte tardavano molto ad arrivare. Tra l’altro, non sempre le staffette militari funzionavano normalmente e spesso, a causa degli spostamenti delle singole unità, il servizio postale si interrompeva.

Quando scriveva ai suoi, il sacerdote era solito ricor­dare loro, immancabilmente, di compiere le norme di pietà e, soprattutto, di non dimenticare il tempo da de­dicare quotidianamente all’orazione mentale. La lettura dei fogli mensili di Noticias aiutava chi li riceveva a rav­vivare abitudini forse dimenticate, offrendogli spunti di meditazione. Ma questo sistema apostolico di far arri­vare fino alla linea di combattimento un soffio di vita interiore, perché il soldato elevasse la mente a Dio an­che in trincea, era precario e insufficiente. Così don Jo- semarìa pensò di rimediare facendo circolare tra i suoi il libro Considerazioni spirituali, pubblicato nel 1934. Il suo progetto iniziale era di ristampare il libro in forma­to ridotto, perché potesse stare nelle tasche dei giubbot­ti e delle giacche dei militari. Ma trovò molte difficoltà e fu costretto a posporre la realizzazione dell’idea41.

Abitava già all’Hotel Sabadell quando cominciò il la­voro di ampliare il numero delle considerazioni compre­se nel volume. Seguì lo stesso metodo usato a Madrid per elaborare le Caterine: quando gli veniva un’idea, uno spunto apostolico o una luce interiore, ne prendeva su­bito nota su un pezzo di carta, in modo sommario, in attesa di poter dare forma estesa a ciò che aveva pensa­to. E a fine pomeriggio, quando Pedro e Paco tornavano dal lavoro ed entravano nella stanza, spesso il Padre li salutava agitando un mucchietto di fogli e di schede. Poi glieli leggeva - erano frasi concise - e le sviluppava in378

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run ampio commento. Il Padre chiamava “gaiticas” que­ste brevi note in cui erano racchiusi la sintesi di un pen­siero o un episodio appena abbozzato. Erano frasi cari­che di senso, e quando in seguito ne sviluppava il significato era come se le facesse risuonare, così come un suono armonioso e prolungato esce dalla sacca ri­gonfia di una zampogna (“gaita”)42.

Un giorno, al ritorno dalla caserma, i due militari tro­varono una sorpresa. Le gaiticas, faticosamente ricopia­te a macchina dal Padre, erano accuratamente distribui­te in mucchietti. I foglietti, ordinati per temi, erano stesi sui tre letti della stanza. Ma dovettero passare ancora diversi mesi prima che il libro fosse pronto per la pub­blicazione. La campagna dell’Ebro, dapprima, e poi la campagna della Catalogna (senza dimenticare la scar­sità di carta in tempo di guerra e la speranza di un’im­minente rientro a Madrid) ne dilazionarono la stampa. Agli inizi del 1939, Pedro Casciaro, che si trovava a Ca- latayud, ricevette una lettera da Burgos in cui il Padre gli diceva: “Mi piacerebbe che ti incaricassi tu della stampa del mio libro: ci sono tipografie adatte laggiù? Mi mancano solo ottanta considerazioni-, è questione di giorni”43. Tutti, perlomeno quelli che passavano da Bur­gos, erano al corrente dei progressi del libro; una setti­mana dopo, questa volta in una lettera a José Maria Al­bareda, il Padre aggiunse questo laconico poscritto: “Ne mancano 27”44.

Una tale precisione sul numero delle considerazioni fa sospettare che l’autore si fosse prefissata una meta, or­mai quasi raggiunta. L’obiettivo - lo si seppe dopo - era di scriverne 999: numero simpatico e significativo, ov­viamente non scelto a caso. Egli aveva ben presente la simbologia spirituale dei numeri, che lo induceva alla “teologia della matematica”45. Il 9 era - a suo dire - un numero che lo entusiasmava. La scelta di 999 punti per Cammino non è pertanto un capriccio matematico, ben­

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sì un modo di manifestare la sua devozione per la San­tissima Trinità.

L’autore si era espresso qualche volta sul titolo del li­bro? In uno dei suoi viaggi, nel febbraio 1939, don Jose- maria si era portato a Vitoria le pagine dattiloscritte del libro, già in bella copia e ben classificate, allo scopo di mostrarle al Vescovo. La lettura entusiasmò mons. Lau- zurica, visto che il giorno successivo don Josemarìa scri­veva a Pedro Casciaro: “A che punto è la copertina del libro? È urgente. Al Vescovo piace: ieri mi consigliava di farne una tiratura abbondante”46.

Data l’urgenza, quella settimana stessa Pedro inviò a Burgos un bozzetto; dopo averlo visto, il Padre gli rispo­se: “Mi piace la copertina del libro; ti darò qualche sug­gerimento quando ne sapremo le dimensioni, perché tu possa disegnare quella definitiva”47. Naturalmente Pe­dro, da buon artista, non era soddisfatto e si mise subito a ideare altri bozzetti. Scrisse a Paco Botella: “Invio un bozzetto per la copertina di Considerazioni. Non mi convince molto. Ne farò ancora qualche altro. Se Ma­riano è d’accordo, mi può inviare il titolo Considerazio­ni scritto da lui, così lo riproduciamo sulla copertina, in nero o in rosso”48. Passati cinque giorni senza avere ri­cevuto risposta, Pedro tornò a insistere: “Aspetto la pa­rola Considerazioni”49. Anche questa richiesta cadde nel vuoto: non ebbe mai risposta. L’autore aveva forse perso interesse per il libro? La sua pubblicazione era forse stata accantonata? E se non era così, come mai don Josemarìa, che rispondeva sempre alle lettere e che per giunta aveva messo fretta, non gli scriveva nulla?

L’autore non aveva affatto abbandonato l’idea di pubblicare quanto prima il libro. Ne è prova una richie­sta urgente rivolta al Vescovo di Vitoria, come se l’opera fosse sul punto di uscire: “Mi faccia il prologo per il mio libro, quanto prima!”. Pochi giorni dopo il Vescovo inviò il prologo, datato “festa di S, Giuseppe, 1939”, per indicare che era un regalo per l’onomastico di don380

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Josemaria. Nel prologo compaiono alcune frasi che, co­me si vedrà, hanno un particolare interesse biografico: “In queste pagine aleggia lo spirito di Dio. Dietro ogni sua massima c’è un santo che vede le tue intenzioni e at­tende le tue decisioni. Le frasi sono spezzate perché sia tu a completarle con il tuo comportamento”50.

Il libro era quindi completo quando sopraggiunse la fine della guerra civile. Il ritorno a Madrid e obblighi più importanti fecero rinviare i tentativi di stamparlo. Ma non è curioso che durante tutto il lungo processo di preparazione non appaia alcuna allusione al titolo? È fuor di dubbio che don Josemaria lo custodisse gelosa­mente in pectore, perché mons. Lauzurica, nel prologo, dovette fare ricorso a faticose e complesse perifrasi: “queste righe penetranti, queste riflessioni concise”, “in queste pagine”, in cui “le frasi sono spezzate” e “dietro ogni sua massima”... Righe, riflessioni, frasi, massime... di quale libro? Tutto sembra reclamare a gran voce il titolo dell’opera. A tal punto che l’autore del prologo non può neppure usare la parola “libro” perché, priva del titolo, distruggerebbe l’intimità che cerca di suscitare nel lettore.

Dopo un lungo silenzio di mesi, senza il minimo indizio del titolo, in una lettera del 18 maggio 1939 leggiamo queste righe scritte dal Fondatore ad Alvaro del Portillo:

“Saxuml Quanto è bianco e lungo - lo vedo - il cammi­no che ti resta da percorrere! Bianco e ricolmo, come un campo maturo. Benedetta fecondità dell’apostolo, più bella di tutte le bellezze della terra! Saxuml”51.La parola cammino, in quella data e in tale contesto,

è una piccola luce che ci porta direttamente al titolo del libro, perché è la prima volta che nei suoi scritti il Fon­datore insiste su questa parola, arricchendola di signifi­cato spirituale. In effetti, il primo giugno, il Padre chiese ad alcuni suoi figli di aiutarlo a preparare l’indice delle

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gaiticas; vi lavorò anche Paco Botella, che passava il fine settimana a Madrid e che il giorno successivo, già a Bur­gos, scrisse a Pedro Casciaro per informarlo della sor­prendente novità: il libro non si sarebbe chiamato Con­siderazioni, bensì Cammino51.

Don Josemarìa, come sappiamo, andò a Valencia il 5 giugno per tenere il corso di ritiro spirituale agli univer­sitari e consegnò l’originale al tipografo. Il giorno 6 an­nunciava a quelli di Madrid: “Il libro è in stampa”53. Il ritrovamento, poco dopo il suo arrivo a Burjasot, del fa­moso cartellone con la frase: Ogni viandante segua la sua strada (“Cada caminante siga su camino”) aveva ri­svegliato il suo anelito apostolico. Era, ben lo sapeva, qualcosa di più di una semplice coincidenza e aveva chiesto che lo lasciassero al suo posto. Se lo sarebbe ri­cordato per sempre. La coincidenza fra il cartellone e il titolo del libro, lungamente pensato ma deciso proprio all’ultimo momento, stimolò le sue doti di esegeta e la sua prodigiosa capacità di interpretazione, per indicare in mille modi diversi ai partecipanti del corso di ritiro il cammino, la strada su cui potevano indirizzare la pro­pria vita54. Peraltro, il libro avrebbe visto la luce soltan­to il 29 settembre 193955.

* * *

Il nucleo di Cammino è costituito dai punti di Conside­razioni spirituali, ai quali l’autore ne aggiunse più di 500, fino ad arrivare a 99956. L’ambito storico di Consi­derazioni è compreso tra gli anni 1928 e 1934, mentre per Cammino si prolunga fino al 1939. Ma i due perio­di sono fusi da un’unica fonte d’ispirazione, perché i pensieri provengono, più che dagli eventi della vita spa­gnola, dalla vita contemplativa dell’autore e dagli eventi quotidiani della sua attività apostolica.

Fonte principale di Considerazioni spirituali, pubbli­cato nel 1934, sono le Caterine, a differenza di Cammi­no, in cui molti punti provengono dalla corrispondenza382

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mantenuta a Burgos con le persone che l’autore dirige­va spiritualmente. Ma in entrambi i casi, sia che si trat­ti di idee estratte dagli Appunti intimi sia che provenga­no dalle lettere, assieme a considerazioni personali vi sono abbondanti riferimenti scritturistici e riflessioni morali57. Ma resta sempre prevalente l’aspetto autobio­grafico; nelle pagine del libro sono rispecchiate le espe­rienze dell’autore.

Davanti agli occhi del lettore - senza seguire alcun or­dine cronologico - sfilano persone e scene legate al gio­vane Fondatore. Così, per esempio, José Maria Somoa- no, cappellano dell’Ospedale del Re, anima di grande finezza e sensibilità:

“Come pianse, ai piedi dell’altare, quel giovane Sacerdo­te santo che meritò il martirio, perché si rammentava di un’anima che si era accostata in peccato mortale a rice­vere Cristo!”58.Oppure Luis Gordon, docile e obbediente, che, do­

vendo pulire il vaso da notte di un malato, cercava di vincere la naturale ripugnanza e “diceva sottovoce: Ge­sù, ch’io faccia buon viso!”59.

E l’ammalata, “carne da caserma” in gioventù e poi Maddalena nell’ora della morte, che don Josemarìa ave­va aiutato a morire santamente, recitando con lei la lita­nia del dolore che brucia e purifica:

“Benedetto sia il dolore. - Amato sia il dolore. - Santifi­cato sia il dolore... Glorificato sia il dolore!”60.Tuttavia, quando il protagonista è lo stesso autore e

l’accaduto si tinge di soprannaturale, questi elementi appaiono opportunamente cancellati o spersonalizzati, come accade, per esempio, per la locuzione che ebbe il Fondatore mentre distribuiva la Comunione alle suore di Santa Isabel:

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“Raccontano di un’anima che, nel dire al Signore nell’o­razione: ‘Gesù ti amo’, sentì questa risposta dal cielo: ‘Le opere sono amore, non i bei ragionamenti’”61.In alcuni casi l’autore spoglia le locuzioni o le illumi­

nazioni divine del loro carattere originario di fenomeni soprannaturali e le diluisce nel testo:

“Fatti forte dinanzi agli ostacoli. - La grazia del Signore non ti mancherà: ‘inter medium, montium pertransibunt aquae!’ - Valicherai le montagne!”62.Molti punti di Cammino sono autentici frammenti

della sua vita, episodi che nel racconto saranno trasferi­ti discretamente in seconda o terza persona, per cancel­lare così ogni traccia autobiografica. Abbiamo già letto l’annotazione del 22 dicembre 1937 con la descrizione dell’accaduto nella cappella del palazzo episcopale di Pamplona:

“Il Vicario Generale ha consacrato calici e patene. Sono rimasto un momento solo nella cappella e, affinché il Signore lo trovi la prima volta che scenderà in questi vasi sacri, diedi un bacio a ciascun calice e alle patene. Erano venticinque, regalo della diocesi di Pamplona per il fronte”63.L’episodio passa in Cammino, ma viene messo in ri­

salto solo l’aspetto della devozione eucaristica:“Pazzo! - Ti ho visto - ti credevi solo nella cappella epi­scopale - deporre un bacio su ogni calice e su ogni pate­na appena consacrati: perché Egli trovasse quel bacio nel ‘discendere’ per la prima volta in quei vasi eucaristici”64.La distanza che intercorre fra Considerazioni e Cam­

mino tuttavia non è solo questione di date o di un mag­gior numero di punti o di pagine, come se si trattasse384

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dell’affluente che sfocia in un altro fiume di maggior portata. La differenza, senza dubbio, è più profonda. h’Avvertenza preliminare di Considerazioni dichiarava che i punti in questione erano stati scritti “senza pretese letterarie o di pubblicazione”65. Essenzialmente erano stati messi insieme vari pensieri suddivisi per temi e ca­pitoli. Nella genesi di Cammino, invece, c’è fin dal pri­mo momento il proposito manifesto di scrivere e di pub­blicare un libro. Dalla prima all’ultima pagina, l’elaborazione di Cammino - nata con l’idea di rimpol­pare Considerazioni - mostra una rigorosa unità di spi­rito e d’intenti.

Man mano che avanzava l’anno 1938, l’autore si rese sempre più conto che il materiale di base - i 438 punti di Considerazioni - lo invitava decisamente a sviluppare alcuni temi. Con ampiezza di vedute, egli aumentò, nel­la genesi di Cammino, il numero delle sezioni creando così un più esteso ventaglio di argomenti. Fu poi riordi­nata la distribuzione di titoli e contenuti. Infine, cercò di dare maggior coesione interna ai capitoli.

Una simile operazione richiedeva una disciplina di la­voro più radicale di quanto potesse apparire a prima vi­sta. Già all’inizio l’autore indica lo scopo che si prefig­ge: “Intendo ridestare i tuoi ricordi per far emergere qualche pensiero che ti colpisca; così migliorerai la tua vita, ti avvierai per cammini d’orazione e d’Amore, e di­verrai finalmente un’anima di criterio”66.

Questo proposito esige un metodo di rinnovamento delPintelligenza e della volontà. Il Vescovo di Vitoria in­dica in che cosa consiste questa spinta quando, con mol­ta perspicacia, fa notare nel prologo che le massime del libro sono in attesa che il lettore prenda la decisione di completarle. Questo metodo di risvegliare le coscienze è riflesso anche nello stile di Cammino. Le sue pagine so­no piene di esclamazioni e di interrogativi, di argomenti persuasivi - con parecchi elementi di buon senso -, di ironie e di esortazioni, di forme imperative e di punti so­

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spensivi. Artifici il cui scopo finale altro non è che muo­vere a un cambiamento interiore e a un miglioramento di vita. Per questa ragione, la lettura di Cammino pro­voca una pacata agitazione. Comincia con il capitolo Carattere, il cui primo punto, senza divagazioni, è un invito a cambiare rotta e a fare nella propria esistenza qualcosa di utile ed elevato:

“Che la tua vita non sia una vita sterile. - Sii utile. - La­scia traccia.- Illumina con la fiamma della tua fede e del tuo amore”67.In Cammino c’è dunque una unità strutturata. In ef­

fetti, tra i nuovi capitoli ve n’è uno, Perseveranza, che è la fibbia che chiude l’opera. Infatti, tranne uno, tutti i punti che lo compongono sono nuovi. Ed è sufficiente esaminare i due ultimi pensieri del libro per rendersi conto della sua ben studiata struttura, che si inerpica a spirale, dalla base fino alla cima. Tutto per raggiungere l’obiettivo di smuovere l’uomo interiore. Ma una volta che il lettore ha raggiunto il vertice della meditazione, occorre assicurarsi della fermezza dei suoi propositi. Ec­co il motivo del capitolo Perseveranza, perché: “Comin­ciare è di tutti; perseverare è dei santi”68.

Per concludere il capitolo, l’autore si servì di una pa­rabola: quella dell’asino legato alla noria. Lo aveva vi­sto nella pianura di Órbigo, nel luglio 1938, un giorno che aveva perso il treno alla stazione di Leon. Da quel­la scena campestre traspariva, oltre alla docilità, il la­voro quotidiano, umile, monotono e oscuro, fatto di piccoli e ripetuti sforzi, ma con splendidi risultati di fertilità e di servizio:

“Benedetta perseveranza dell’asinelio di noria! - Sempre allo stesso passo. Sempre gli stessi giri. Un giorno dopo l’altro, tutti uguali. Senza di ciò, non vi sarebbe maturità

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nei frutti, né freschezza nell’orto, non avrebbe aromi il giardino. Porta questo pensiero alla tua vita interiore”69.A questo punto, non resta che sostenere questa “be­

nedetta perseveranza” con la decisione, presa nella pri­ma riga del libro, di evitare che la nostra “sia una vita sterile”. E dove trovare questo appoggio sicuro se non nell’intimità col Signore?

“Qual è il segreto della perseveranza? L’Amore. - In­namorati, e non lo lascerai”70.L’origine e il processo di elaborazione di ciascuno dei

punti del libro ne rivelano benissimo l’obiettivo: avviare il lettore sui “cammini d’orazione e d’Amore”, median­te l’attenta meditazione delle sue considerazioni. Cam­mino non è, di conseguenza, un trattato sistematico, ma opera di riflessione e di consultazione, alle cui pagine il lettore può fare ricorso senza stabilire un ordine rigoro­so di lettura. Il che non significa che il libro sia disordi­nato. Esaminandolo per bene, ci si accorge che ciascuno dei capitoli di Cammino ha una sua struttura interna ed è predisposto per inserirsi nell’architettura dell’insieme.

Prendiamo come esempio il capitolo La volontà di Dio. Nel libro del 1939 si notano cambiamenti radicali nella presentazione, nel numero e persino nell’ordine dei pensieri. L’autore ha cercato, senza dubbio, di facilitare l’andamento della meditazione, stabilendo un filo con­duttore delle aspirazioni dell’anima. In sintesi, gli ele­menti costitutivi del capitolo La volontà di Dio nella versione definitiva sono: una parte introduttiva; un cor­po centrale di variazioni sui pensieri dell 'ouverture; e in­fine alcune considerazioni pratiche, che sfociano nel se­guente consiglio:

“È questione di pochi secondi. Prima di cominciare387

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qualsiasi attività, pensa: Che cosa vuole Dio da me in questa faccenda? E, con la grazia divina, agisci!”71.Sulle considerazioni che iniziano il capitolo l’autore

fonda tutta la forza delle pagine che seguono. Il primo punto proclama la verità evangelica:

“Ecco la chiave per aprire la porta ed entrare nel Regno dei Cieli: Qui facit voluntatem Patris mei qui in coelis est, ipse intrabit in regnum ccelorum - colui che fa la vo­lontà del Padre mio... questi entrerà!”72.Nel secondo punto, facendo un salto inatteso, mette

improvvisamente il lettore di fronte al modo di ammini­strare la propria libertà. E lo rende direttamente respon­sabile delle ripercussioni della sua condotta nella sua stes­sa esistenza e nella porzione di storia dove Dio lo attende:

“Dal fatto che tu e io ci comportiamo come Dio vuole - non dimenticarlo - dipendono molte cose grandi”73.Notiamo di passaggio che questo testo proviene da

una lettera del Fondatore a un giovane che si dirigeva con lui nel 193874.

La terza considerazione proviene da una Caterina del 1932. In essa ci vengono presentate le deplorevoli con­seguenze che derivano all’anima quando contesta, o ri­fiuta, il disegno tracciato da Dio:

“Noi siamo pietre, blocchi da costruzione, che si muo­vono, che sentono, che hanno una volontà liberissima. Dio stesso è lo scalpellino che ci smussa gli spigoli, ag­giustandoci, modificandoci, secondo il suo desiderio, a colpi di martello e di scalpello.Non cerchiamo di sfuggire, non cerchiamo di schivare la sua Volontà, perché, in ogni caso, non potremo evitare i colpi. - Soffriremo di più e inutilmente e, invece della pietra levigata e pronta per edificare, saremo un muc­

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chio informe di ghiaia che la gente calpesterà con non­curanza”75.Nella Caterina questa considerazione era svolta come

conseguenza di una riflessione su ciò che Dio si attende­va dai primi che avrebbero dovuto edificare l’Opera:

“Se si fosse trattato di mettere in piedi un baraccone da fiera, la cosa sarebbe stata facile e veloce. Quattro pali piantati nel terreno, qualche metro di tela, inchiodare qualche tavola di legno... ed è fatta. Ma l’edificio dell’O­pera di Dio è un palazzo secolare che durerà sino alla Fi­ne, e l’architetto è lo Spirito Santo...Noi siamo le pietre squadrate che Gesù vuole sotterrare nelle fondamenta. Pietre che si muovono, che sentono...”76.In questo modo si pone l’accento su diversi aspetti

dell’esistenza umana: la vita eterna che ci attende nel Regno di Cieli; la nobile partecipazione alle vicende sto­riche; le tristi conseguenze della ribellione agli inviti che Dio fa all’uomo. Così, facendo appello alla fede, alla ra­gione, all’immaginazione e ai sentimenti, si cerca di smuovere la volontà, impegnandola in un cammino di miglioramento.

* * *Nelle pagine di Cammino si affaccia qua e là una evoca­zione emotiva o l’accenno a un episodio, che aiutano a situare il contesto delle riflessioni. A volte, brevi pennel­late servono a evocare sullo sfondo un intero paesaggio:

“Ricordi? Facevamo, tu e io, la nostra orazione, al cader della sera. Si udiva, lì vicino, il rumore dell’acqua. - E, nella quiete della, città castigliana...”77.È il ricordo delle acque rumorose del fiume Arlanzón,

lungo il quale il Padre passeggiava con i suoi o con qual­che militare, giunto a Burgos in permesso.

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Burgos, la città unita alla memoria di Rodrigo de Vi­vai, il Cid, l’eroe nazionale delle chansons de geste, la cui eroica grandezza è cantata insieme alle minute cose domestiche e quotidiane, come si legge in una lettera e poi in Cammino:

“I poemi eroici - come il Cantar de Mio Cid - raccon­tano sempre avventure straordinarie, ma mescolate a particolari casalinghi dell’eroe. Magari tu badassi sem­pre molto - linea retta! - alle cose piccole”78.

Nel suo angoletto all’Hotel Sabadell, separato da una tendina dalla camera di Pedro Casciaro e Paco Botella, il sacerdote si rintanava per fare le sue discipline a sangue. Non aveva altra possibilità; e quando i suoi figli, quella volta in casa, ne udirono il rumore, il Padre giustificò il proprio operato con le parole raccolte in Cammino-.

“Se sono stati testimoni delle tue debolezze e delle tue miserie, che importa che lo siano della tua penitenza?”79.In questa considerazione sulla penitenza, così come

altre volte, sono passate pudicamente sotto silenzio le circostanze del fatto narrato. È evidente che i dettagli personali avrebbero sottolineato con maggior vigore la dottrina, evitando un’astratta generalizzazione. Ma l’autore, lo sappiamo, si ritrae da tutto ciò che può im­plicare un’ostentazione autobiografica.

In Cammino viene rispecchiato anche il fervore pa­triottico di Burgos in quei giorni - bandiere, uniformi, entusiasmo - ricordando però che anche Cristo ha la sua milizia:

“Il fervore patriottico - lodevole - porta molti uomini a fare della loro vita un ‘servizio’, una ‘milizia’. - Non di­menticare che anche Cristo ha ‘milizie’ e gente scelta al suo ‘servizio’”80.

* * *

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Il titolo Cammino, che l’autore maturò tanto a lungo, è un nome simbolico, denso e pregno di significato. In es­so confluiscono la chiamata universale alla santità; il metodo per seguire fedelmente le orme di Cristo, che è Via, Verità e Vita; e un programma di direzione spiri­tuale per raggiungere questa meta. Nel titolo è racchiu­sa anche la ragion d’essere del libro:

“Vuoi che ti dica tutto ciò che penso del ‘tuo cammino’?- Ebbene, guarda: se corrispondi alla chiamata, lavorerai per Cristo quant’altri mai: se diventi uomo d’orazione, saprai corrispondere come prima ti dicevo e cercherai, con sete di sacrificio, i lavori più duri...E sarai felice quaggiù e felicissimo poi, nella Vita”81.Cammino è esigente. Nelle sue pagine c’è posto per le

cose piccole, ma non c’è posto per le cose mediocri. In ultima analisi, è una chiamata alla santità di vita, chiave non solo dell’esistenza personale, ma anche,- indiretta­mente, della storia dell’umanità:

“Un segreto. - Un segreto a gran voce: queste crisi mon­diali sono crisi di santi”82.Il libro non contiene tutto lo spirito dell’Opus Dei,

contiene però l’essenziale del messaggio divino del 2 ot­tobre 1928: la chiamata universale alla santità in mezzo al mondo, il senso della filiazione divina in Cristo come fondamento di quello spirito e la funzione santificante e apostolica del lavoro umano. Cammino ha la virtù di porre la santità, per così dire, a portata di mano:

“La santità ‘grande’ consiste nel compiere i ‘doveri pic­coli’ di ogni istante”83.Lo stile peculiare del libro, il suo vigore ascetico e in­

tellettuale, la sua elevata ispirazione, sono tutti già impli­citi nelle Caterine e nelle lettere. Dunque, in C am m ino

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predomina l’aspetto autobiografico. Non in guisa di me­morie trascorse e sbiadite, come i petali scoloriti di un fiore schiacciato tra le pagine di un libro. Dalle sue con­siderazioni si diffonde il bonus odor Christi che impone la presenza viva dell’autore, il quale, col procedere della lettura - a volte riflessioni, altre volte dialogo - conduce per mano per la via della sua stessa vita interiore.

Don Josemarìa ebbe per tutta la vita l’abitudine di ini­ziare le lettere pregando per il destinatario:

“Gesù mi ti protegga”, scriveva a Pedro Casciaro.“(...) Fa molto piacere scrivere a un figlio e intestare la lettera con il santo nome del Signore: Gesù. Ho letto i tuoi... sfoghi: gaudium cum pacel Tutto si sistemerà come desideri. Sii paziente. Sii allegro. Riposa in Lui e in me. Termino.La mia benedizione e un abbraccio molto forte - Maria­no”84.L’interessato poteva riposare in Dio e in quel santo sa­

cerdote, sicuro, fin dall’intestazione della lettera, che non gli sarebbero mancate la preghiera e la mortifica­zione del Padre, come si legge in Cammino:

“Potenza del tuo nome, Signore! - Incominciai la lettera, come mio solito, ‘Gesù mi ti protegga’.- E mi scrivono: “Il ‘Gesù mi ti protegga’ della sua lette­ra mi è già servito per liberarmi da un bel guaio. Che Egli protegga anche tutti voi””85.Proprio in questo consiste l’efficacia spirituale del li­

bro: tutte le sue pagine sono maturate nella mortifica­zione e unte con l’olio della preghiera. Non appena il lettore decide di collaborare, la lettura opera nel profondo dell’anima. Perché i suoi pensieri sono freschi e vitali, non sono frasi imbalsamate. Molto a proposito scriveva nel prologo il Vescovo di Vitoria: “In queste pagine aleggia lo spirito di Dio. Dietro ogni sua massi­392

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ma c’è un santo che vede le tue intenzioni e attende le tue decisioni”86.

Prima di parlare con una persona, don Josemarìa la raccomandava sempre al suo Angelo Custode. La stessa cosa faceva quando scriveva una lettera. E possiamo es­sere sicuri che fece lo stesso mentre scriveva Cammino, in cui si può leggere questa osservazione autobiografica:

“Non so come imbrattare il foglio parlando di cose che possano essere utili a chi riceverà la lettera. Quando co­mincio, dico al mio Angelo Custode che, se scrivo, è per­ché serva a qualcosa. E, sebbene non dica altro che sciocchezze, nessuno potrà togliermi - né togliere a lui - il tempo che ho impiegato nel chiedere al Signore quel che so che più giova all’anima di colui al quale è diretta la mia lettera”87.Fin dai primi tempi, dal 1931, il Fondatore alimentava

il desiderio di “scrivere libri di fuoco e di farli correre per il mondo come una fiamma viva, che dia luce e calore agli uomini e trasformi tanti poveri cuori in braci ardenti per offrirli a Gesù come rubini della sua corona di Re”88. Con questo spirito fu composto Cammino.

Tra i “libri di fuoco” si annovera anche Santo Rosa­rio, la cui seconda edizione uscì nei primi giorni dell’ot­tobre 1939, poco dopo la pubblicazione di Cammino89.

3. Le circostanze politicheLa spietata e cruenta guerra civile aveva spinto la Spa­gna sull’orlo della rovina, da cui non si riprese che dopo quindici anni e solo per quanto concerne le distruzioni di beni materiali; perché, per quanto si riferisce a perdi­te d’altro genere, non era facile ricostruire la nazione.

Nel foglio mensile di Noticias del marzo 1939 don Jo­semarìa rilevava con queste parole la fine dell’epoca del­

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la transizione e il ritorno alla normalità: “Passiamo dal­lo scardinamento proprio di questi tempi, alla via ben tracciata che ci condurrà alla vittoria definitiva”90. Era un linguaggio ottimista e spirituale, non un linguaggio politico. Chi poteva ignorare che bisognava ricostruire la nazione in mezzo a un’enorme miseria e all’assenza di risorse materiali? Tuttavia il tono della Lettera Circola­re del Fondatore ai suoi figli del 9-1-1939 era frutto di solide convinzioni soprannaturali:

“Ostacoli? Non mi preoccupano gli ostacoli esterni: li vinceremo facilmente. Temo un solo ostacolo, enorme: la vostra mancanza di filiazione e la vostra mancanza di fraternità, se mai si dessero nella nostra famiglia. Tutto il resto (penuria, debiti, povertà, disprezzo, calunnia, menzogna, ingratitudine, ostacoli da parte dei buoni, in­comprensione e perfino persecuzione da parte dell’auto­rità), tutto, non ha importanza, se vi sono un Padre e dei fratelli, pienamente uniti per Cristo, con Cristo e in Cri­sto. Non ci saranno amarezze che ci possano togliere la dolcezza della nostra benedetta Carità”91.Non fu facile rimediare ai guasti della guerra civile. Il

potenziale umano aveva subito una forte decurtazione. Nella memoria di ogni spagnolo erano presenti i morti, caduti o assassinati, che assommavano a circa 300.000 persone. E poi c’erano innumerevoli carcerati ed esiliati. Inoltre, ponti e strade, case e fabbriche, erano distrutti o malridotti. Mancavano veicoli, navi e macchinari d’ogni tipo. Scarseggiavano i beni di uso domestico, i generi di vestiario e i viveri. Riorganizzare tutto ciò che era disor­ganizzato richiedeva tempo, mano d’opera e importa­zioni dall’estero. Per colmo di sventura, le riserve d’oro della Banca di Spagna erano state consumate nel mate­riale bellico o erano state portate all’estero. E, per dare il colpo di grazia, era diminuita moltissimo la produzio­ne agricola: lunghi anni di siccità costrinsero la nazione394

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nella morsa della fame e prolungarono il razionamento dei generi alimentari fino al 195192.

Disgraziatamente, la fine della guerra non spense gli odi inveterati. Si percepì a lungo una nube di rancori e un esacerbato desiderio di rivalsa. Due settimane dopo la fine della guerra, nel radiomessaggio del 16 aprile 1939, Papa Pio XII si rivolgeva ai fedeli e alla Gerarchia spagnola per esprimere le sue “paterne congratulazioni per il dono della pace e della vittoria” e per appellarsi ripetutamente alla generosità e nobiltà dello spirito spa­gnolo, dal quale si attendeva che ristabilisse la vita na­zionale secondo “la fede, la pietà e la civiltà cattoliche. Perciò esortiamo i Governanti e i Pastori della Cattolica Spagna - proseguiva - a illuminare le menti di coloro che sono stati ingannati, mostrando loro con amore le radici del materialismo e del laicismo da cui sono deri­vati i loro errori e le loro disgrazie (...). E non dubitiamo che quanti come figli prodighi cercheranno di ritornare alla casa del Padre saranno accolti con benevolenza e amore. Tocca a Voi, Venerabili Fratelli nell’Episcopato, consigliare gli uni e gli altri affinché nella loro politica di pacificazione tutti seguano i princìpi inculcati dalla Chiesa e proclamati con tanta nobiltà dal Generalissi­mo: di giustizia per il crimine e di benevola generosità per gli erranti”93.

I criteri applicati ai vinti furono ben diversi. A parte la repressione militare in tempo di guerra, nel 1939 co­minciarono a funzionare i tribunali di epurazione politi­ca. Questo apparato repressivo poggiava su diverse leg­gi: la Legge sulle responsabilità politiche, del 9 febbraio1939, con effetti retroattivi dalla rivoluzione dell’otto­bre 1934; la Legge di epurazione dei funzionari, del 10 febbraio 1939; e la Legge del primo marzo 1939, per la repressione della Massoneria e del ComuniSmo94.

Molti cittadini furono incarcerati per diversi anni o condannati «ai lavori forzati. Altri subirono sanzioni economiche, o persero il lavoro e dovettero andare in

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esilio. In tali circostanze, la linea di condotta indicata da don Josemarìa fu sempre quella del perdono: perdonare e dimenticare. E se quando era fuggiasco nella Madrid rivoluzionaria riparava generosamente per tutti, cercan­do di non dividere le persone in buoni e cattivi, ora cor­reggeva i sentimenti di coloro che chiedevano vendetta. In uno dei suoi viaggi, nell’aprile 1938, mentre andava da Utrera a Salamanca, si trovò in treno con un ufficiale dall’animo pieno di rancore. Il sacerdote trascrisse la conversazione avuta con lui:

“Un sottotenente, che ha straordinariamente sofferto nella sua famiglia e nel suo patrimonio per le persecu­zioni dei rossi, preannuncia le sue prossime vendette. Gli dico che ho sofferto come lui, nei miei e nel mio patri­monio, ma che desidero che i rossi vivano e si converta­no. Le parole cristiane si scontrano, nella sua anima no­bile, con i sentimenti di violenza, e si vede che reagisce.Mi concentro per quanto posso e, come è mia abitudine, invoco tutti gli Angeli Custodi”95.Erano molti a odiare duramente il nemico. Una volta

don Josemarìa andò a trovare una persona alla quale i comunisti avevano assassinato diversi parenti in aperta campagna, in un incrocio fra varie strade. Costui voleva innalzare una grande croce proprio in quel luogo, in me­moria dei familiari uccisi. “Non farlo - gli disse il sacer­dote - perché è l’odio che ti ispira: non sarà la Croce di Cristo, ma la croce del diavolo”96. La croce non fu messa e costui seppe perdonare. Ma non tutti perdonavano. La guerra era già finita da mesi quando un giorno a Madrid il sacerdote dovette prendere un taxi. Com’era sua abitu­dine si mise subito a chiacchierare con il conducente, parlandogli di Dio, della santificazione del lavoro, della pacifica convivenza e del dovere di dimenticare le disgra­zie per le quali era passata la Spagna. Il tassista lo ascol­396

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tava in silenzio. Giunti a destinazione, costui si rivolse a don Josemaria, in procinto di scendere:

- “Mi dica, dove stava lei durante la guerra?”.- “A Madrid”, gli rispose il sacerdote.- “Peccato che non l’abbiano ammazzato!”, replicò iltassista.Don Josemaria non disse nulla né fece alcun gesto di

indignazione. Anzi, con grande serenità gli chiese: “Lei ha figli?”. E poiché l’altro fece un cenno di assenso, ag­giunse al prezzo della corsa una buona mancia: “Tenga, compri dei dolci a sua moglie e ai suoi figli”97.

La Spagna uscì dalla contesa fortemente militarizzata, con tutti i poteri concentrati nelle mani del Capo dello Stato, che era anche Capo del Governo, dell’Esercito e del Movimento Nazionale98. In Spagna regnava un esa­gerato nazionalismo, a detrimento delle libertà indivi­duali di pensiero, opinione e associazione. Accanto a questa impostazione, tipica di un regime autoritario, coesistevano le vecchie ideologie partitiche: monarchici, repubblicani, tradizionalisti e democratici. Al regime politico nato dalla guerra civile fu dato il nome, col pas­sare del tempo, di “franchismo”. Regime di non facile definizione, poiché la sua coesione e la sua forza interna si basavano sulla figura del Generale Franco e sul suo esercizio personale e autoritario del potere, che si giovò di un abile avvicendamento di governi. La periodica partecipazione al governo dei rappresentanti delle diver­se tendenze della vita nazionale contribuì a dargli conti­nuità. La sua politica aveva un carattere essenzialmente pragmatico, particolarmente evidente nei primi anni del regime, nei quali Franco dovette affrontare il pericolo della partecipazione spagnola alla seconda guerra mon­diale, che riuscì peraltro a evitare99.

Il fervore dei cattolici - che avevano vissuto quegli an­ni di lotta, dolore e privazioni come un’autentica Cro­

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ciata (usò questa parola la Gerarchia spagnola) - rav­vivò ovunque la fede religiosa e l’entusiasmo popola­re100. Così come la persecuzione religiosa fu segno di­stintivo del regime repubblicano, la protezione della Chiesa fu uno degli aspetti caratteristici della Spagna di Franco. Nei lunghi anni di dittatura franchista ci furono periodi di avvicinamento e di collaborazione oppure di allontanamento e di frizioni tra Chiesa e Stato. Ma sem­pre alPinterno di un clima di cordialità e di maggiore o minore autonomia, a seconda dei periodi. Appena ter­minata la guerra civile, si intraprese la ricostruzione, con l’aiuto dello Stato, di chiese e conventi distrutti ne­gli anni precedenti. Aumentò il lavoro pastorale. Torna­rono a riempirsi i seminari, crebbe il numero dei cattoli­ci praticanti. Ma - fu questo il primo disaccordo fra Chiesa e Stato - non fu possibile fare subito le nomine per le sedi episcopali resesi vacanti durante la guerra per l’assassinio o per la morte dei Vescovi. Restarono vuote in attesa di un accordo del governo col Vaticano.

Uscita dalla guerra, la Spagna era una nazione che si considerava ufficialmente cattolica e cattolici ne erano i governanti. Di conseguenza lo Stato considerava vigente il Concordato del 1851, dal quale la Repubblica, anche senza denunciarlo ufficialmente, si era svincolata. Il Concordato riconosceva il privilegio di cui godevano i re spagnoli di designare i candidati alle sedi episcopali. Il generale Franco, in quanto Capo dello Stato, pretendeva di fare proprio questo privilegio. Di fronte a questo at­teggiamento la Santa Sede si attenne al criterio che il Concordato del 1851 non fosse più vigente, a motivo dei profondi cambiamenti avvenuti nel corso del tempo. In realtà, Papa Pio XII si mostrava avverso a riconoscere il diritto di Patronato e di presentazione dei Vescovi, a mo­tivo di alcuni incidenti e scontri avvenuti tra la Chiesa e le autorità civili. Fu tale il caso della proibizione di diffondere in Spagna alcune lettere pastorali e l’enciclica Mit brennender Sorge contro il nazismo; come pure alcu­398

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ne ingerenze civili negli affari ecclesiastici e il timore che la possibile ratifica di un accordo culturale ispano-ger- manico portasse aH’insediamento in Spagna di una ideo­logia anticristiana. C’erano pure di mezzo questioni di politica interna, come le difficoltà del governo spagnolo nei confronti del nazionalismo dei baschi e dei catalani; e, da parte della Chiesa, le difficoltà e gli impedimenti frapposti in queste regioni ad alcune autorità ecclesiasti­che in disaccordo politico con Franco101.

Ebbero inizio colloqui tra la Spagna e la Santa Sede e, dopo molti tira e molla, si arrivò all’Accordo del 7 giu­gno 1941. Oltre alle disposizioni generali, che inseriva­no nel testo i primi articoli del Concordato del 1851, e all’impegno del Governo spagnolo di non legiferare su materie miste, l’Accordo prevedeva le modalità di pre­sentazione dei candidati alle sedi vacanti: erano previste iniziali consultazioni riservate tra il Governo e il Nun­zio, che dovevano elaborare una lista di sei persone ido­nee alla carica. Fra questi il Papa avrebbe scelto tre can­didati, i cui nomi il Nunzio avrebbe comunicato al Governo; il Capo dello Stato, entro il termine di trenta giórni, ne doveva scegliere ufficialmente uno102.

Per quanto concerneva le nomine ecclesiastiche fatte dalle autorità della Repubblica negli anni precedenti, fu necessario formalizzarle, dato che mancavano del relati­vo conferimento canonico. Così accadde con la nomina di don Josemarìa come Rettore del “Reai Patronato de Santa Isabel”. Era stata firmata dal presidente della Re­pubblica spagnola nel 1934 e riconosciuta de facto dal­l’autorità ecclesiastica (il Vescovo di Madrid-Alcalà e l’Arcivescovo di Saragozza). Ora che la Santa Sede ac­cettava l’esercizio dei diritti di Patronato da parte del nuovo Capo dello Stato spagnolo, mons. Eijo y Garay provvide a formalizzare la carica che, di fatto e con il suo assenso, don Josemarìa aveva esercitato dal 1934. Fu così che il 17 gennaio 1942 il Vescovo sottopose una terna di nomi al Consiglio del Patrimonio Nazionale -

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organismo dal quale dipendeva allora il Patronato di Santa Isabel - perché il Capo dello Stato ne scegliesse uno. Il Vescovo, con la chiara intenzione che l’incarico venisse concesso a chi lo stava già svolgendo, premise alla lista dei candidati questa frase: “Propongo in primo luogo l’esemplare sacerdote che occupa oggi l’incarico, e che a mio giudizio è sommamente raccomandabile perlo stesso”103. In data 3 febbraio 1942 don Josemaria fu nominato Rettore per la seconda volta, in virtù della re­visione degli incarichi effettuata dalle nuove autorità ci­vili; in questo modo veniva ribadita e confermata la sua incardinazione nella diocesi di Madrid104.

i r i r i r

Anni addietro il Fondatore aveva scritto che “l’Opera di Dio non l’ha immaginata un uomo per risolvere la de­plorevole situazione della Chiesa in Spagna dal 1931 ”105. E non era neppure sua missione intervenire nelle tensioni ora esistenti fra il cattolicesimo tradizio­nale spagnolo e le nuove correnti culturali emergenti. Concentrato sul proprio obiettivo, il Fondatore si de­dicò pienamente a un fecondo e silenzioso lavoro sacer­dotale. In primo luogo, come vedremo, al compito di dare vigore spirituale al clero delle diocesi spagnole. E poi a svolgere con abnegazione il proprio ministero, in una difficile epoca politica. Il sacerdote si prendeva cura dei bisognosi, al di sopra di considerazioni umane e di partito, senza distinzione di credo o di posizioni ideolo­giche. Mons. Javier Echevarria ricordava che, poco do­po la morte di una persona che al termine della guerra civile era stata messa da parte e perseguitata, potè legge­re una lettera della vedova che esprimeva a don Jose­maria la propria gratitudine per la vicinanza che aveva manifestato a suo marito. Erano, scriveva costei, “gli anni in cui nessuno - neppure gli amici più intimi - ave­vano osato manifestargli affetto, perché si trovava in carcere con l’accusa di appartenere alla massoneria”106.400

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Il sacerdote aveva preso l’eroica decisione - ed eroico fu portarla fino alle estreme conseguenze - di evitare qualsiasi segno che potesse significare adesione a un de­terminato settore politico. Per esempio, era abitudine ge­nerale, in quel periodo, fare il saluto romano, alla fasci­sta, col braccio alzato e la mano aperta; per la maggior parte delle persone era un contraltare al saluto comuni­sta col pugno chiuso. Don Josemarìa non lo fece mai, perché il gesto aveva un significato politico. Nelle ceri­monie ufficiali, o quando veniva suonato l’inno naziona­le, rimaneva in piedi, in atteggiamento di rispetto107.

Con questo impegnativo sforzo per mantenersi indi- pendente ed estraneo a qualsiasi atteggiamento di parte,il Fondatore non solo manteneva l’Opera incontamina­ta, sottolineandone l’universalità, ma difendeva anche la libertà cristiana di quanti si avvicinavano agli aposto­lati dell’Opus Dei, ciascuno con i propri sentimenti e convinzioni personali in materie politiche, sociali, scien­tifiche o patriottiche. Dimostrazione di questo rispetto per le opinioni altrui è l’episodio riferito da Juan Bauti- sta Torello, membro dell’Opera. Correva l’anno 1941, periodo di calda esaltazione nazionalista fra gli espo­nenti della Falange. Sui muri e sulle facciate delle case di Barcellona venivano tracciate scritte patriottiche: “Se sei spagnolo, parla spagnolo”; “Spagnolo, parla la lin­gua dell’impero!”. In una lunga conversazione che ebbe con don Josemarìa, Juan Bautista gli rivelò di apparte­nere a un’organizzazione di difesa della cultura catala­na, considerata dalla polizia alla stregua di un’attività clandestina e antifranchista, poiché l’uso della lingua catalana era proibito. Il Fondatore gli ricordò la libertà di cui godeva sotto questo aspetto: era un problema suo e nessun membro dell’Opera gli avrebbe fatto domande in merito. “Però, visto che me l’hai detto - aggiunse -, ti voglio dare un consiglio: cerca di non farti arrestare, perché, visto che siamo pochi, non possiamo permetter­ci il lusso che uno di noi finisca in carcere”108. A quel

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tempo i membri dell’Opera a Barcellona non erano più di una mezza dozzina.

Quanto al regime franchista, il Fondatore serbò un atteggiamento di indipendenza. Era grato al regime per la restaurazione della pace, dopo anni di anarchia e di persecuzione religiosa; ma non condivideva l’atteggia­mento di coloro che tentavano di appropriarsi il merito di tanti sacrifici ed eroismi in difesa dei diritti della Chiesa e della persona umana, oppure lo attribuivano a una sola persona, per quanto importante fosse stato il suo ruolo nella guerra civile109.

Per non essere coinvolto suo malgrado nelle vicissitu­dini politiche e non vedere manipolati politicamente gli apostolati dell’Opera, il Fondatore fu estremamente prudente nei rapporti con le autorità civili. Nonostante ciò, alcune persone non gli permettevano di tenere le di­stanze, per cui, non appena potè stabilirsi a Roma, deci­se di tornare in Spagna molto di rado. “Questo è stato - confessava - uno dei motivi che mi hanno obbligato, dal 1946, a non vivere in Spagna, dove da allora sono ritor­nato poche volte e per pochissimi giorni”110.

* * *Prima della fine della guerra civile spagnola, la Germa­nia di Hitler si era impegnata in una politica di rivendi­cazioni e annessioni territoriali che avrebbero portato alla guerra, prima europea e poi mondiale. Gli spagnoli videro con stupore che le forze sovietiche e quelle nazi- ste, che pochi mesi prima si erano combattute sul suolo spagnolo, patteggiavano cinicamente la spartizione del­la Polonia, invasa nel settembre 1939. Venne poi l’occu­pazione di altri Paesi. Nel maggio 1940 le truppe tede­sche entrarono in Belgio e Olanda e si lanciarono sulla Francia, che attraversarono da nord a sud, fino a rag­giungere nel mese di giugno la frontiera spagnola a Hendaya.

Il governo spagnolo adottò inizialmente una politica402

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di neutralità. Nel giugno 1940 modificò la sua posizio­ne iniziale e passò a quella di “non belligeranza” che, con qualche sbandata, mantenne fino al 1943, negli an­ni delle avanzate spettacolari e delle vittorie tedesche. Durante quel periodo dovette negoziare con i suoi anti­chi alleati dell’Asse (colloquio di Franco con Hitler a Hendaya, il 23 ottobre 1940; con Mussolini a Bordighe- ra, il 12 febbraio 1941) e il Paese subì minacce assai se­rie, che ne condizionarono la politica estera. A partire dalla primavera del 1943, il governo spagnolo cambiò nuovamente rotta e assunse una posizione di stretta neutralità, virando sempre più a favore degli Alleati. Comunque, la Spagna riuscì a non entrare in guerra111.

Quasi tutta la Falange, che parteggiava per il totalita­rismo nazista e aveva diversi Ministri al Governo, pre­tendeva fin dal primo momento di favorire la causa tede­sca e di trascinare il Paese a fianco del probabile vincitore. Perciò, durante i primi anni di guerra, Franco dovette fare equilibrismi inverosimili. Dopo l’occupazio­ne della Francia, le pressioni tedesche per attraversare la Spagna, occupare Gibilterra e passare in Africa furono così forti che sembrava molto difficile opporre resisten­za. La stessa cosa sarebbe poi di nuovo accaduta alla fine del 1942, in occasione dello sbarco alleato nel Nord Africa. Il momento era grave e don Josemaria pensava ai suoi figli, quasi tutti in età militare. Li vedeva di nuovo sparpagliati sui vari fronti e di nuovo paralizzato lo svi­luppo dell’Opera. Alcune settimane prima del colloquio di Franco con Hitler, il primo ottobre 1940, rifece ai suoi figli, che si erano riuniti a Madrid la vigilia del dodicesi­mo anniversario della fondazione dell’Opera, la doman­da che aveva già fatto loro prima della guerra civile: “Seio muoio, porterai avanti l’Opera ?”112.

Nel 1936 la guerra civile aveva infranto la speranza di iniziare a Parigi. Ora, nel 1940, la guerra mondiale bloccava i piani di trasferimento all’estero per i giovani dell’Opus Dei che desideravano studiare nelle Univer­

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sità europee. Con spirito aperto e cattolico, considera­vano propria patria come prima cosa la Spagna, ma su­bito dopo il mondo. Questa generosa apertura, le cui ra­dici stavano nello spirito dell’Opera e nell’esempio del Fondatore, si rifletteva nella capacità di comprendere tutti coloro che sostenevano opinioni diverse dalle pro­prie nelle questioni politiche.

Nel frattempo, l’ideologia nazista infettava rapida­mente la gioventù universitaria che, priva di esperienza e ricca di ardore giovanile, cadeva nell’intolleranza. C’e­ra chi non capiva perché i membri dell’Opus Dei si rifiu­tassero di assecondare collettivamente gli ordini e le consegne emanati dai falangisti, che allora controllava­no il potere113.

Quanto alle opinioni di don Josemarìa sul nazismo c’è un episodio eloquente: nel mese di agosto 1941, il Padre si incontrò sul treno Madrid-Avila con la famiglia Dìaz-Ambrona, che non vedeva dai tempi della guerra civile. Don Josemarìa passò davanti allo scompartimen­to occupato dalla famiglia, li riconobbe e indicando la loro bimba esclamò: “Questa bambina l’ho battezzata io”114. Durante il viaggio il Padre parlò a lungo con Do­mingo Dìaz-Ambrona, il quale se ne formò un alto con­cetto. In particolare costui si sorprese nel rilevare l’esat­tezza delle informazioni che il Fondatore dell’Opus Dei possedeva circa la situazione della Chiesa e dei cattolici sotto il regime di Hitler, e ammirò l’amore e l’apprezza­mento per la libertà che il sacerdote mostrava. Egli era appena ritornato da un viaggio in Germania e aveva po­tuto cogliere la paura di alcuni cattolici di manifestare le proprie convinzioni religiose. Questo lo aveva indotto a diffidare del nazismo e a informarsi più dettagliatamen­te su quello che stava accadendo in Germania. A lui, co­me alla maggior parte degli spagnoli, erano state tenute nascoste le caratteristiche negative del sistema e della fi­losofia nazista, mediante una intensa propaganda a fa­vore della Germania, ritenuta l’unica potenza in grado404

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di debellare il comuniSmo115. Don Josemarìa si mostrò perfettamente informato e il suo interlocutore rileva che non era facile trovare in Spagna, a quell’epoca, persone che denunciassero con tanta chiarezza la radice anticri­stiana della filosofia nazista116.

A partire dal 1943 la fortuna dei belligeranti mutò, e con essa la politica spagnola. Gli Alleati passarono al­l’offensiva e gli eserciti dell’Asse cominciarono a ritirarsi. Nella primavera del 1945, mentre stava per essere firma­ta la resa della Germania nazista, l’opinione pubblica in­ternazionale rivolse lo sguardo alla Spagna franchista, memore della presenza di forze italiane e tedesche duran­te la guerra civile e della fluttuante neutralità degli ultimi anni. A ciò si sommavano le forti pressioni che i comuni­sti e gli altri esiliati spagnoli esercitavano su di essa per rifarsi contro il regime dittatoriale di Franco117.

Nel frattempo, l’attività apostolica dell’Opus Dei si estendeva rapidamente in Spagna e il Fondatore stava cominciando a mettere le basi per un’espansione in Ita­lia e in Portogallo. Di fronte alla gravità della situazione e soppesando il ritardo che altri eventi politici o bellici avrebbero potuto causare all’espansione apostolica, il Fondatore si raccolse in preghiera. E nell’orazione vide con chiarezza che, qualunque cosa fosse accaduta, la speranza doveva essere irremovibile perché si fondava sul Signore. Il 18 aprile 1945, poco prima della fine del­la guerra mondiale, stabilì di introdurre nelle Preci del- l’Opera l’invocazione di un Salmo:

- Dominus illuminatio mea et salus mea: quem timeboì- Si consistant adversum me castra, non timebit cor meum; si exsurgat adversum me proelium, in hoc ego sperabo.- Il Signore è la mia luce e la mia salvezza: di chi avrò ti­more?- Anche se si accampa contro di me un esercito, non te-

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merà il mio cuore; anche se si leva contro di me una bat­taglia, anche allora io sono fiducioso118.

4. La Residenza universitaria di via JennerQuando il Fondatore, a Burgos nel 1938, continuava a ripetere di aver bisogno di cinquanta uomini che amas­sero Cristo sopra tutte le cose, il suo pensiero era già a Madrid. La fine della guerra e il nuovo inizio nella capi­tale furono tutt’uno. Nelle lettere di Isidoro, che funge­va da altoparlante delle preoccupazioni del Padre, si percepisce il pressante desiderio di don Josemarìa di av­viare quanto prima una Residenza universitaria che so­stituisse quella di via Ferraz. Ma l’Opera non disponeva ancora dei famosi cinquanta uomini e, oltretutto, i po­chi che la componevano si trovavano lontano da Ma­drid, a eccezione di Isidoro. José Maria Gonzàlez Barre­do, benché fosse stato nominato professore all’istituto San Isidro a Madrid, stava occupandosi di altre cose nel nord della Spagna; José Maria Albareda viaggiava spes­so per motivi professionali; Àlvaro, Vicente ed Eduardo si trovavano a Olot (vicino a Gerona) ancora sotto le armi; Chiqui era a San Sebastiàn; Rafael Calvo Serer a Valencia; e gli altri, pure sotto le armi, erano dislocati in diversi punti della Penisola. Una lettera di Isidoro della fine di aprile dà un’idea dei movimenti di tutti:

“In primo luogo è arrivata una lettera da Chiqui; figura­ti che è apparso nientemeno che a San Sebastiàn. Juan sta passando con noi una settimana di licenza, ma ci la­scia già domani. Barredo si trova a Vitoria con Albareda per cose professionali. Ricardo è ancora ad Alcoy; persi­no Paco se n’è andato. Non è possibile! Il nonno ci ri­corda la necessità di pensare a una casa, per continuare i suoi affari, ma se i suoi familiari sono assenti è chiaro che ci vorrà più tempo. Il nonno come sempre è occupa­

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rtissimo e noi ci dedichiamo a sistemare e classificare le carte di questo periodo119.Alla mancanza di persone che dessero una mano nella

ricerca della casa dove sistemare la Residenza, si aggiun­geva il fatto che non trovavano da nessuna parte il dena­ro necessario. Non che a don Josemaria non importasse nulla dei soldi; anzi, era più di un anno che li mendicava. Dal foglio mensile di Noticias dell’aprile 1938, quando da parte sua aveva già iniziato la campagna economica, gridava a tutti i conoscenti: “Fate il possibile PERCHÉ IL SIGNORE CI DIA I DUE MILIONI DI PESETAS DI CUI ABBIAMO BISOGNO?”120. Isidoro, che era l’unico completamente disponibile per dare una mano al Fonda­tore, il primo maggio prese servizio nelle Ferrovie dell’O- vest, presso la stazione di Delicias, a Madrid. Avendo ot­to ore giornaliere di ufficio, gli restava ben poco tempo per farsi carico di altre cose. Tutto il peso dell’Opera finì per gravare su don Josemaria. Le cose andavano in mo­do tale che il Fondatore si trovava quasi sempre da solo nel momento in cui più avrebbe avuto bisogno di aiuto.

L’agenda del giugno 1939 era molto densa. Nella pri­ma metà del mese doveva dare due corsi di esercizi spiri­tuali a Valencia e, nell’ultima settimana, doveva dirigere a Vergara gli esercizi per i novelli sacerdoti della diocesi di Vitoria. “Insistete con il Signore, e le cose andranno bene- scriveva da Valencia - e andrà avanti anche la questione della Casa”121. Ma stava finendo il mese di giugno e la casa non si profilava all’orizzonte. Don Josemaria comin­ciò a diventare irrequieto e scrisse da Vergara:

“Con la testa sto più a Madrid - e in altri luoghi - che a Vergara. In un certo senso sono un po’ pentito di aver lasciato in sospeso tante cose”122.Intendeva dir loro che col pensiero e con le preghiere

seguiva da vicino il problema della casa e le persone.407

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Presto, fra la sorpresa generale, le difficoltà sembrarono svanire. Il Padre stava dando degli esercizi a professori universitari a Vitoria, quando gli arrivò una lettera di Isidoro, datata primo luglio, che finiva con la tanto so­spirata notizia: “Speriamo che al suo ritorno ci troverà già sistemati nella nuova casa”123. Si trattava di un im­mobile situato in via Jenner, al n. 6, dove erano stati presi in affitto due appartamenti del quarto piano. Vi entrarono subito muratori e imbianchini; furono lamati i pavimenti e fatte le pulizie generali in alcune stanze, per portarci poi i mobili da Santa Isabel. Alla metà di luglio e in pieno trasloco, vedendo che il Padre dava se­gni di esaurimento fisico, i suoi figli lo convinsero a re­carsi a lavorare e a riposare per qualche giorno ad Àvi­la. Non appena giuntovi, scriveva a quelli di Valencia:

“A Madrid sono in pochi per il lavoro del trasloco. Non permettevano che li aiutassi e, poiché mi attendono an­cora sette turni di esercizi (due per sacerdoti, a Madrid e ad Àvila), ho capito che avevo bisogno di riposare un poco. Però... mi rimorde abbastanza la coscienza”124.La compagnia del Vescovo di Àvila, mons. Santos Mo­

ro, e la tranquillità della città castigliana ebbero l’effetto di una pioggia di pace per lo spirito di don Josemarìa.

“Àvila dei Santi, festa di Santa Maria Maddalena, 22 lu­glio 1939”, scrisse in una Caterina. “Sto alcuni giorni con questo santo Vescovo, a riposare. Sono fuggito dalla confusione del cambio di casa. Sembra egoismo. Forselo è, ma non credo. I ragazzi non mi lasciavano lavorare con loro per il trasloco. D’altra parte, sono molto stanco e devo ancora dare sei o sette turni di esercizi. Molto contento, in questo Palazzo Episcopale.Omnes cum Petro ad Iesum per Mariani”115.Mentre gli operai finivano il loro lavoro in uno degli

appartamenti, i nuovi inquilini vivevano tra mobili am­408

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monticchiati. Don Josemarìa avrebbe voluto che mura­tori, imbianchini e anche il padrone di casa compren­dessero di più la sua premura. Per dare la spinta defini­tiva ai lavori, il 10 agosto benedisse la casa. Forse dopo le cose andarono più in fretta, ma non fu questa l’im­pressione del sacerdote: “La casa va avanti piano, per­ché muratori e imbianchini sono lenti. E ancora tutto ammonticchiato. Questo ritarda l’oratorio, gli esercizi e tutto il resto. Dio ne sa più di noi!”126.

Questo particolare stato d’animo di don Josemarìa non era tanto frutto di impazienza, quanto il risultato della dura crisi che la sua anima stava attraversando. La nuova purificazione passiva cominciò con una forte scontentezza verso se stesso. Si sentiva disgustato, in­quieto, irritabile, insoddisfatto. Gli costava enormemen­te riuscire a non perdere il controllo dei nervi:

“12 agosto 1939. Pieno di preoccupazione, perché non vado come devo. Ogni cosa mi infastidisce. E il nemico fa tutto quello che può perché il mio malumore venga alla luce. Sono molto umiliato”.Tenendo conto del suo temperamento, sicuramente

non si trattava di una sofferenza lieve, ma di un autenti­co subbuglio interiore, contro il quale dovette combat­tere con angustia. “Continuo a passare giornate di crisi interiore spaventosa. Non lo auguro a nessuno”, annotò negli Appunti117. E, come nelle precedenti occasioni, ve­dendosi assalito da terribili prove, si lasciava sfuggire suppliche di aiuto:

“Tu scis, Domine, quia amo te! Madre! S. Giuseppe, Padre e Signore, Angelo mio Custode, intercedete per me”128.In agosto arrivarono alla Residenza diverse richieste

di posti per il successivo anno accademico. Per questo motivo si fecero un po’ di conti e fu deciso di prendere

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un altro appartamento al secondo piano, nel quale si potevano sistemare le camere della signora Dolores, di Carmen e di Santiago, la zona di servizio, la sala da pranzo dei residenti e lo studio di don Josemaria. Isido­ro e Pedro andarono ad Albacete a prendere i mobili della famiglia Casciaro (“adatti e signorili” li qualificò Isidoro)129.

Mentre gli altri terminavano di sistemare la Residen­za, don Josemaria andò a Valencia, dove in giugno ave­va lasciato una mezza dozzina di giovani che si sentiva­no chiamati all’Opus Dei. Nel mese di agosto i valenziani presero in affitto un appartamentino, costi­tuito da un paio di camere e un corridoio. Era un semin­terrato in via Samaniego 9. Per le sue ridotte dimensio­ni, si meritò un nome singolare: El Cubil (la Tana). Dal10 al 16 settembre 1939 don Josemaria tenne a Burjasot un secondo corso di esercizi spirituali per gli universita­ri di Valencia130. Da lì vennero altre vocazioni e il Padre11 incoraggiò ad aprire una Residenza per studenti l’an­no successivo. Ma aveva messo una tale foga nel predi­care le meditazioni del corso di ritiro che, non appena l’ebbe terminato, ebbe un brusco cedimento fisico. Il 17 settembre, mentre si accingeva a celebrare la Messa nel­la cappella della Santissima Trinità della cattedrale di Valencia, si sentì male. Lo portarono prima in sacrestia e poi in via Samaniego. El Cubil non era il luogo più adatto, ma il malato insistette per andarci: era casa sua. Nell’appartamento non c’erano letti, solo una brandina militare da campo: quattro tavole montate su piedi di ferro. Non c’erano né coperte né materasso. Don Jose­maria passò alcune ore con la febbre alta, scosso dai brividi, ricoperto con alcune vecchie tende131.

Al suo ritorno a Madrid si occupò di terminare l’ora­torio della Residenza. Come era avvenuto in via Ferraz 50, egli anelava di avere quanto prima il Signore nel ta­bernacolo. Come oratorio aveva scelto il locale più di­gnitoso della casa, al quarto piano, vicino al soggiorno.410

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Le pareti furono ricoperte, da cima a fondo, con juta pieghettata, per ammortizzare i rumori. Un listone di le­gno, che correva lungo le pareti sotto il soffitto, recava incisa una frase degli Atti degli Apostoli: Erant autem perseverantes in doctrina Apostolorum... e alcune paro­le di un inno liturgico: Congregavi nos in unum Christi amor... Le parole erano state intagliate a sgorbia e di­pinte con inchiostro di china rosso dagli studenti che davano una mano a preparare l’oratorio; tra una parola e l’altra erano intercalati alcuni tradizionali simboli cri­stiani: una croce, un cesto di pane, la vite, una colomba.

Vicino all’entrata, sulla parete di destra, fu posta una croce di legno verniciata di nero. Sulla parete di sinistra, accanto a una finestra che dava sulla strada, fu messa una mensola con un’immagine della Madonna. C’era un solo banco, addossato alla parete posteriore.

Anche l’altare, in quel locale sobrio, semplice e acco­gliente, era molto curato. La mensa e il tabernacolo era­no stati commissionati a un falegname che stava nei din­torni di Madrid, alla Fuente del Berrò, allora in aperta campagna. Non era un cattivo artigiano, ma lento e ti­moroso. Era inutile mettergli fretta nel lavoro perché si scoraggiava. Il tabernacolo era di legno, a forma di pic­cola arca, coperto con un conopeo. Il Padre decise di fo­derare l’interno con una tela color oro, poiché aveva un aspetto freddo. La colla usata dal falegname per fissare la tela lasciò un odore così tenace che, su indicazione del sacerdote, ogni tanto vi si doveva mettere un po’ di cotone con qualche goccia di profumo. L’altare era sem­plice e sul lato anteriore veniva applicato un frontale di damasco, del colore liturgico del giorno. Le tovaglie chelo ricoprivano ricadevano ai lati fin quasi a terra. I can­delieri, tre per ogni lato del crocifisso posto al centro dell’altare, erano stati fatti col materiale più a buon mercato esistente: barre di metallo cromato, tagliate e saldate132. Tutta questa descrizione è prolissa, ma non superflua, per quanto si vedrà in seguito.

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A prima vista, nell’oratorio predominavano le croci: il Crocifisso centrale, la croce di legno, quelle sulla base e sulle sezioni dei candelieri, quelle del fregio, più le quat­tordici della Via Crucis.

Passati gli anni, il Fondatore ne parlerà in una delle sue lettere:

“Nell’oratorio - un locale piccolo, nonostante fosse il migliore della casa, e in cui non avevamo panche o altro- avevamo eretto anche la Via Crucis. E io dissi ai miei figli: figli miei, quanto siamo coraggiosi! Abbiamo mes­so molte croci: siete disposti a portarle tutte?”133.

* * *La signora Dolores e i suoi figli - Carmen, Santiago e don Josemarìa - si sistemarono al secondo piano della casa, nell’appartamento di sinistra, dove c’erano pure la sala da pranzo dei residenti, la cucina e la zona dei ser­vizi domestici. Era importante perché, dopo tanti e così fortunosi cambi di abitazione, tutta la famiglia tornava a riunirsi. Certamente così aveva previsto la Provviden­za, ma non poca parte vi ebbe la triste esperienza del servizio domestico che don Josemarìa si era fatta nei primi centri dell’Opera. Aveva tentato di creare un foco­lare domestico nella precedente Residenza di via Ferraz 50: tutti raccolti, con il Padre in testa, intorno al taber­nacolo. Ma, di fronte alle molteplici deficienze domesti­che che ostacolavano un perfetto clima di famiglia, yide l’ineludibile necessità della presenza di donne nella con­duzione della casa.

Ai tempi di via Ferraz, sui problemi domestici ricorre­va alla consulenza della madre e della sorella, ma com­prese che non era il sistema giusto. Fu nel rifugio del Consolato dell’Honduras che, pensando allo sviluppo dell’impresa soprannaturale, non vide altra soluzione per il futuro che ottenere la collaborazione della Nonna. Dalla clandestinità aveva quindi raccomandato ai suoi412

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figli di chiedere a Dio una risposta positiva della signora Dolores. La vita insieme durante le brevi settimane di convivenza nella casa rettorale di Santa Isabel era stata una felice esperienza. La signora Dolores e Carmen si prendevano cura di coloro che venivano a parlare con don Josemaria. Si preoccupavano di sistemare loro la biancheria o di preparare un pasto. Furono poche setti­mane, perché in agosto le suore agostiniane di Santa Isa­bel si sistemarono nella rettoria, secondo gli accordi presi col Rettore, che cedeva loro la sua casa. In modo molto naturale tutti gli Escrivà si trasferirono allora nel­la Residenza di via Jenner.

Aveva capito davvero la signora Dolores dove stava andando? Don Josemaria, con aria noncurante, le re­galò un libro sulla vita di S. Giovanni Bosco, con l’in­tenzione che anch’essa, come aveva fatto la madre del santo, si desse da fare per l’Opera.

Dopo non molto tempo la signora Dolores, avendo compreso il progetto, gli chiese:

- “Vuoi forse che io faccia come la madre di don Bosco?Non intendo affatto farlo”.- “Mamma, ma lo stai già facendo”, le disse il figlio. Elei, che aveva ormai superato la prova, si mise a ridere digusto, dicendo:- “E continuerò a farlo con molto piacere”134.La signora Dolores era mossa dal suo amore di ma­

dre, che la portava a non voler deludere le speranze di don Josemaria, ma anche dall’affetto per un’impresa che sapeva essere di Dio. Aveva accettato il titolo di Nonna e l’esistenza di vari nipoti rafforzava i vincoli di amore umano e soprannaturale. Analogo era il caso di Carmen135. Ma forse le due generose donne non si era­no ancora rese conto del tutto della mole di lavoro che sarebbe piombata loro addosso.

La Residenza non era un appartamento per una fami­413

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glia ed esse vivevano appartate nella zona interna della casa. Don Josemarìa non lo vedevano molto spesso, no­nostante la sua camera desse sullo stesso corridoio della loro. Il fatto è che passava metà del tempo fuori Madrid e quando si trovava nella capitale non gli bastavano le ventiquattro ore del giorno per adempiere i propri dove­ri: era Rettore, era impegnato nella direzione spirituale di parecchi giovani, uomini e donne, professionisti e sa­cerdoti; dava ogni giorno diverse lezioni di formazione; prendeva parte alcune sere alla tertulia con i residenti prima di coricarsi. Allo scopo di non interferire con la vita della Residenza, Carmen e la Nonna erano solite andare a Messa in una chiesa vicina136.

Quando iniziò l’anno 1939-40 gli studenti erano una ventina, alcuni dei quali ex residenti di via Ferraz. L’an­no successivo erano quasi il doppio. La nostra attuale situazione, abituati come siamo alle macchine di uso domestico - aspirapolveri, lavatrici, frigoriferi, cucine elettriche e tutti gli altri elettrodomestici -, rende diffici­le immaginare ciò che volle dire per le due donne assu­mersi un tale peso. All’inizio avevano solo l’aiuto di Eu- sebia, la domestica che si erano portate da Santa Isabel. Poi, Carmen dovette cercare e formare al lavoro il per­sonale femminile che veniva assunto. Solamente la buo­na volontà e la costanza delle due donne spiegano come possano essere uscite vittoriose dall’impresa. Perché dobbiamo ancora citare la più critica delle circostanze: la quantità di bocche giovani che si attendevano ogni giorno tre pasti abbondanti, senza che ci fosse altra ri­sorsa che le tessere del razionamento, in anni in cui tut­ta la nazione era affamata.

Esse non si aspettavano alcun compenso in premio delle loro premure. Nella Residenza le uniche che ri­scuotevano un salario erano le dipendenti. In via Jenner 6 ci furono sempre debiti, come testimonia un residen­te: quando il giovane si presentò a chiedere un posto, gli fu chiesto un anticipo, senza dirgli naturalmente che414

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serviva per acquistare il letto e il materasso sui quali doveva dormire137.

Però si indovinava la presenza di mani femminili nella pulizia e nell’arredo della casa, nella preparazione dei pasti, nella stiratura della biancheria, nella cura con cui venivano trattati gli oggetti destinati al culto e la bian­cheria dell’altare. Tutto ciò creava un clima di ordine e di attenzione, al quale i residenti adeguavano il proprio comportamento: la cortesia, la correttezza nel vestire, il rispetto degli orari e dell’ambiente raccolto di studio...

Quando cominciò l’anno accademico 1939-40, il Pa­dre, per poter dare un impulso personale e diretto alle attività apostoliche, passò parte del suo lavoro ad Àlva­ro del Portillo e a Isidoro Zorzano. Il primo fu nomina­to Segretario Generale dell’Opera, il secondo Ammini­stratore Generale138. La Residenza si riempì ben presto di visitatori. Gli amici portavano gli amici. Verso la metà di ottobre si recò in via Jenner uno studente di In­gegneria: Fernando Valenciano. Don Josemaria gli parlò subito del lavoro di formazione che si faceva nella Resi­denza. “Mi trattò con grande affetto - racconta Fernan­do - e mi disse che quella era casa mia, che ci potevo an­dare quando volevo, che c’era un oratorio. E ci siamo accomiatati. Fu una visita molto breve. Rimasi molto ben impressionato dall’allegria e dal tono soprannatura­le delle sue parole, dalla sua simpatia e dalle sue doti umane”139. La settimana successiva qualcuno gli te­lefonò, per avvisarlo che a fine pomeriggio ci sarebbe stata una lezione di formazione di don Josemaria. Vi as­sistevano otto o nove studenti. L’insegnamento del sa­cerdote aveva un profondo senso spirituale; in modo chiaro, semplice, esigente e permeato di buon umore, incoraggiava i presenti a mettere in pratica ciò che ave­vano ascoltato. Erano argomenti ben precisi: orazione, vita interiore, studio, santa purezza, fraternità... Il po­meriggio del sabato don Josemaria dirigeva una medita­zione in oratorio, impartiva la benedizione col Santissi­

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mo e tutti cantavano la Salve Regina140. Poche settima­ne dopo, il 23 dicembre, Fernando chiese l’ammissione all’Opus Dei.

Un altro giovane, José Luis Muzquiz, stava pensando da tempo di fare la stessa cosa. José Luis aveva incon­trato per la prima volta il Fondatore nel 1935, quando stava per laurearsi in Ingegneria/Aveva assistito ai cir­coli di formazione nella Residenza di via Ferraz e l’ini­zio della guerra lo aveva sorpreso in viaggio di studio in Europa. Nel 1938 rivide a Burgos don Josemarìa; si recò da lui in varie occasioni dal fronte di Guadalajara, dove si trovava la sua unità. Nel 1939 continuò a fare direzione spirituale con il Padre, dapprima in Santa Isa­bel e poi in via Jenner. Infine, durante una giornata di ri­tiro, dopo aver ascoltato una meditazione predicata da don Josemarìa - racconta lo stesso José Luis - “senza che egli me lo chiedesse esplicitamente, gli manifestai la volontà di entrare nell’Opera. Egli mi disse soltanto: ‘Dio ti benedica: è un’ispirazione dello Spirito Santo’. Era il 21 gennaio 1940”141.

La maggior parte delle persone, affermava il Fondato­re, arrivavano a chiedere l’ammissione all’Opera quasi risalendo su un piano inclinato, attraverso le tappe di un processo di crescita nella vita interiore, man mano che ne acquisivano lo spirito. Tale fu il caso, per esem­pio, di Francisco Ponz, ex alunno di José Maria Albare­da all’istituto di Huesca. Nel 1939 questi gli aveva par­lato delle lezioni di formazione della Residenza di via Jenner. Lo studente vi partecipò ogni settimana duranteil primo semestre dell’anno scolastico. Al ritorno a Ma­drid dopo le vacanze natalizie, fu invitato a partecipare a una giornata di ritiro spirituale nella Residenza. Era domenica 21 gennaio 1940. Alle otto di mattina ascoltò per la prima volta una meditazione predicata da don Jo­semarìa. Le sue parole gli lasciarono un ricordo incan­cellabile di quel giorno. Subito dopo don Josemarìa in­dossò i paramenti sacri per celebrare. “Il modo di416

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celebrare la Santa Messa - racconta Ponz -, il tono sin­cero e concentrato con cui recitava le diverse preghiere, senza alcuna affettazione, le sue genuflessioni e gli altri movimenti liturgici mi impressionarono moltissimo: Dio era lì, realmente presente”142.

Lo stesso giorno Paco Botella, su suggerimento del Padre, gli spiego ampiamente l’Opera. Francisco Ponz acquistò Cammino e, per un breve periodo, dedicò mol­to tempo a leggerlo, quasi sempre nelle ore tranquille che precedono il sonno. Arrivò così il 10 febbraio quan­do, incamminatosi verso la Residenza, “mentre il tram faceva il suo percorso - scrive - decisi di non pensarci più e di fidarmi del Signore e del Padre, dandomi per sempre a Dio nell’Opus Dei”143. Il Padre lo ricevette nel suo studio, al secondo piano di via Jenner: una stanza molto piccola, quadrata, di circa tre metri e mezzo per lato, che era anche la sua camera da letto. Sul tavolo, molto semplice, c’era un crocifisso fissato su una base. “Il Padre, in maniera molto paterna e molto sopranna­turale, volle chiarirmi bene alcuni punti (...). Mi fece ve­dere che la chiamata che mi rivolgeva il Signore era di carattere soprannaturale, cosa di Dio e non degli uomi­ni (...). Essere dell’Opera significava impegnarsi a lotta­re tutta la vita per migliorare nelle virtù cristiane, per raggiungere la santità secondo lo spirito che Dio gli ave­va dato (...). Da quel momento mi sono sentito intima­mente e di tutto cuore vincolato per tutta la vita alla mia nuova famiglia, l’Opus Dei”144.

Man mano che altri giovani si accostavano agli apo­stolati dell’Opera, era necessario far loro conoscere e praticare lo spirito dell’Opus Dei. C’era il rischio che, al­la lunga, come aveva detto il Padre a Francisco Ponz il giorno della sua ammissione all’Opera, scomparisse l’en­tusiasmo iniziale e sorgessero tentazioni contro il cammi­no intrapreso145. Quindi, per accelerare la maturazione dei nuovi, il Padre organizzò nel 1940 due settimane di formazione intensa, una durante la Settimana Santa e

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l’altra d’estate. In questi periodi, in cui i residenti passa­vano le vacanze a casa loro, i membri dell’Opera potero­no vivere nell’intimità familiare. Il Padre diede loro le meditazioni; stette con loro nelle tertulias, pomeriggio e sera, dando loro il giusto criterio e infondendo allegro ottimismo. Coloro che da più tempo erano nell’Opera tenevano conversazioni su diversi aspetti della vita nel­l’Opera e sulle sue consuetudini. Era anche l’occasione per leggere le Istruzioni e le Lettere del Fondatore, o il Diario della traversata dei Pirenei e altri scritti146.

La seconda “Settimana di Studio” - in seguito il Fon­datore le avrebbe chiamate “Settimane di Lavoro” o Convivenze - ebbe luogo in agosto. Fu un mese di gran caldo, insopportabile soprattutto per la Nonna, la cui camera dava a ponente e di pomeriggio diventava unr forno. La signora Dolores (e in questo don Josemaria somigliava alla madre) mal sopportava il caldo; ben presto, però, avrebbe lasciato l’appartamento. In quei giorni l’Opera cresceva tanto rapidamente che il Fonda­tore, sempre capace di andare oltre ciò che era umana­mente prevedibile e fattibile, sognava di aumentare i centri. Nel gennaio 1940, pochi mesi dopo l’apertura della Residenza di via Jenner, scriveva ai suoi figli di Va­lencia: “Qui ci orientiamo ad acquistare un palazzo, una casa grande. Ne abbiamo bisogno e l’avremo”147. Cercavano anche un appartamento in cui potessero sta­re coloro che avevano già terminato gli studi e prepara­vano le tesi dottorali, oppure che svolgevano già una professione. In questo modo la Residenza di via Jenner avrebbe potuto ospitare un maggior numero di studenti nell’anno accademico 1940-41.

Alla fine di luglio così scriveva Isidoro sulla ricerca della casa: “Abbiamo trovato l’appartamento adatto e speriamo che si possa trovare presto anche la casa gran­de”148. E in agosto erano già pronti per cominciare i la­vori di adattamento della casa grande, un palazzetto in buone condizioni in via Diego de Leon, all’angolo con418

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via Lagasca. Lì sarebbero andati a vivere, in novembre,il Padre, Àlvaro del Portillo, la Nonna, Carmen e San­tiago, e alcuni altri, una specie di avanguardia dei giova­ni che essi speravano di ricevere nell’Opera negli anni successivi149.

5. Servire la ChiesaAppena terminata la guerra civile, don Josemarìa si trovò dunque immerso nel lavoro con le anime, che gli stava tanto a cuore. Dopo tre anni di persecuzione della Chie­sa, rifiorivano la fede e la generosità del popolo cristiano.I seminari si riempivano di studenti. Le congregazioni re­ligiose avevano vocazioni in abbondanza. E i Vescovi, a cominciare da quelli di Valencia e di Vitoria, chiesero a don Josemarìa di predicare gli esercizi agli ordinandi e al clero diocesano. Poteva mai sottrarsi alle loro richieste? Ben presto lo chiamarono dai quattro punti cardinali del­la Spagna: Navarra, Madrid, Leon, Huesca, Àvila, Léri- da... Dall’estate del 1939 al Natale del 1942 egli predicò almeno venti turni di esercizi spirituali di sette giorni cia­scuno150. Era un periodo decisivo per la risurrezione spi­rituale della Spagna. “La fiducia che avevo nello spirito sacerdotale di don Josemarìa e la certezza del bene che la sua parola avrebbe fatto ai sacerdoti di Àvila - riferisce il Vescovo - mi indussero ad affidare a lui, insieme a un al­tro sacerdote, l’incarico di predicare i corsi di esercizi spi­rituali per il clero che organizzammo dopo la fine della guerra civile. Erano momenti molto importanti per rior­ganizzare le diocesi, stringere il clero intorno al proprio Vescovo e unirlo in autentica fraternità. Occorreva una parola di orientamento e di incoraggiamento per la vita interiore dei miei sacerdoti di Àvila”151.

Fin dalla sua prima giovinezza don Josemarìa sogna­va la figura del sacerdote ideale. Sperava che i nuovi se­minari, che stavano nascendo in Spagna intorno al

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1930, fossero vivai di sacerdoti esemplari152. Dapprima nel Seminario di S. Francesco di Paola a Saragozza e poi a Madrid, egli aveva distribuito a piene mani, a semina­risti e a sacerdoti, la sua straordinaria vita interiore. An­che se - ricorda mons. Pedro Cantero - “quando parla­va ai sacerdoti o li doveva dirigere era solito dire con semplicità e umiltà che gli sembrava di vendere miele al­l’apicoltore; ma lo vendeva, e con gran profitto per chilo ascoltava”153.

Negli anni della guerra la maggior parte dei chierici non aveva potuto fare gli studi nei seminari o, se erano già sacerdoti, non avevano potuto seguire gli esercizi spirituali. Gli uni e gli altri avevano bisogno di guida spirituale, di tempo per riflettere sulla dignità della pro­pria vocazione e del proprio ministero. Dedito a questo lavoro, don Josemarìa non anelava che ad aiutare i Ve­scovi e a infiammare l’anima dei propri confratelli:

“Sto dando uno dei frequenti turni di esercizi per Sacer­doti che la Gerarchia mi affida - scrisse il 1° luglio 1940 -. Che gioia provo nel servire la Chiesa! Vorrei che que­sto fosse sempre il nostro impegno: servire”154.Agli esercizi per il clero si aggiungevano spesso con­

versazioni, meditazioni e ritiri a religiosi e a laici, a pro­fessionisti e a studenti, come ricordava in un paragrafo della stessa lettera:

“Il giorno di S. Pietro ho dato un ritiro agli universitari dell’Azione Cattolica di Valladolid. La domenica prece­dente anche gli universitari della sezione di Madrid han­no avuto il loro ritiro: si è svolto a Chamartìn. E ancor prima, ad Alacuàs, un paesino vicino alla capitale, avevo dato un altro giorno di ritiro agli universitari dell’Azio­ne Cattolica di Valencia”155.Terminati gli esercizi del 1940 per i sacerdoti di Àvila,

don Josemarìa ritornò a Madrid a occuparsi delle perso­420

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ne dell’Opera; alla fine di luglio diresse un altro turno di esercizi per universitari nella Residenza Orti della capitale e partì poi per Leon. Il Vescovo, Carmelo Ballester, uomo previdente, aveva chiesto con tre mesi di anticipo che don Josemarìa si facesse carico di predicare gli esercizi156.

Don Rufino Aldabalde, con un ottimismo evidentemen­te ignaro della fittissima agenda di don Josemarìa, gli scri­veva il 7 giugno 1940 dal Seminario diocesano di Vitoria:

“Lo so che sei molto occupato. Così mi piacciono gli uo­mini di Dio. Senza neppure il tempo per respirare. Che ti pare? Mi dici che hai già occupata ‘quasi’ tutta l’estate. E questa volta non mi sfuggi. Quel ‘quasi’ te lo riempirò io.La prossima estate avremo nel nostro Seminario dioce­sano SEI turni di esercizi per sacerdoti. Ogni turno è per DUECENTO sacerdoti. (...) Scegli il turno che vuoi, ma scegline uno. D’accordo? Il tempo passa presto e vorrei avere la tua conferma quanto prima”157.Non risulta che sia stato in grado di rispondere positi­

vamente.Nella prima settimana di agosto si trovava quindi a

Leon e di là scriveva ai suoi figli di Madrid: “Sono qui con centoventi sacerdoti. Un bell’impegno, ma poiché sono ammirevoli quasi non noto la stanchezza”158. Gli altri però la notavano, tanto che don Guillermo Ma- ranón, un sacerdote di Vitoria che aveva assistito a eser­cizi spirituali dati da don Josemarìa, si permise di fargli un rilievo: “Vedo che Lei ha praticamente risolto il pro­blema del moto perpetuo. Mi sembra molto bello che lavori, dato che c’è tanta necessità di un profondo lavo­ro sacerdotale come quello che Lei svolge; ma deve an­che occuparsi della sua salute, ‘che non è tutto, ma serve per tutto’. Perdoni se mi permetto di darle consigli, ma è l’affetto che Le porto che mi spinge a farlo e so che non se ne avrà a male. Vero che non si arrabbierà?”159.

Ma non sentiva solo una semplice stanchezza; dome­

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nica 4 agosto 1940, dal Palazzo Episcopale di Leon, con al suo attivo la fatica di diversi giorni di esercizi, scrisse: “Non sto bene, anche se non lo dico a nessuno: mi fa male la gola e sento dolori alla schiena; mi sono dovuto coricare vestito per una mezz’ora”160.

Si rendeva ben conto di essere sull’orlo dell’esauri­mento e di dover dedicare più tempo alla formazione dei suoi figli:

“Capisco che devo rifiutare, d’ora in poi, ogni attività estranea all’Opera; a meno che non riceva un ordine for­male della Gerarchia. Sto ricevendo luci sul lavoro da fare nell’Opus Dei, nonostante siano tante le mie mise­rie. Quanto è buono Gesù!”161.Lo stesso giorno scrisse anche ai suoi figli di Madrid,

poche righe che confermano la sua fermissima decisione di dedicare loro più tempo:

“Non so che cosa dirvi: forse in seguito cercherò di evi­tare impegni estranei al nostro lavoro. Anche se questo servizio alla Santa Chiesa, nei suoi Sacerdoti, mi avvin­ce, ho doveri più stretti verso di voi”162.Compaginando eroicamente il servizio ai sacerdoti

diocesani con il servizio alla Chiesa nell’Opera, continuòil suo lavoro, facendo in modo di non diminuire le sue prestazioni di predicatore. Tutto ciò gli procurò un tre­mendo logorio di energie. La stanchezza e i sintomi di una grave malattia erano cose decisamente allarmanti. Sono comunque scarse le tracce delle sue sofferenze, poi­ché non era uomo da lamentarsi. Alla fine del corso di esercizi spirituali a Leon, riassumeva: “Sono... più gras­so!.. e più stanco. Ma molto contento”163. Esattamente un anno dopo, nell’agosto del 1941, appena ultimato un corso di esercizi spirituali per universitari a Valencia e in attesa di partire per Jaca, scrisse qualcosa sui suoi mali: “Domani, controvoglia, come quasi sempre, parto per422

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Jaca (...). Mi hanno fatto molte diavolerie in bocca: mi hanno perfino raschiato un osso. Ho la faccia molto gonfia, ma è necessario andare a Jaca! E ci vado”164.

Le sue condizioni fisiche gli diminuirono le forze, ma non interruppero la sua eroica dedizione ai fratelli nel sacerdozio. Nel corso del 1941 ricuperò il peso che ave­va perduto durante la guerra civile. Il suo aspetto ora, almeno in apparenza, era quello di un uomo sano e ro­busto. Almeno in apparenza, perché soffriva intensa­mente di sete e di stanchezza; gli dovettero togliere le tonsille e periodicamente gli venivano attacchi di reu­matismo poliarticolare.

Leggendo una Caterina scritta a Madrid il 21 giugno1940, ci si può immaginare l’ardore con cui predicava:

“In questo periodo ho dato diversi turni di esercizi a Sa­cerdoti. Mi dicevano: “Lei predica con tutta l’anima e... con tutto il corpo”. Che gioia se fosse vero!”165.Questo è quanto riferiscono i sacerdoti che assistette­

ro alle sue meditazioni e prediche: “L’Amore traspariva da tutte le sue parole - dice Pedro Cantero, Arcivescovo di Saragozza -. La sua eloquenza faceva sì che presen­tasse un’immagine forte e viva del Signore, con parole ricche, calde e vibranti. Aveva un’enorme forza di per­suasione e di coinvolgimento, frutto dell’autenticità del­la sua fede. Sapeva cogliere e trasmettere il senso profondo delle scene del Vangelo, che nelle sue parole acquistavano piena attualità: era una realtà viva davanti alla quale bisognava reagire. Quanti lo ascoltavano si sentivano mossi a fare atti di amore e di contrizione, a formulare propositi concreti di miglioramento della propria vita. Si può dire che la sua parola gli usciva dal cuore e parlava al cuore”166.

Il suo modo di esprimersi, afferma un altro sacerdote, “mi sembrò il più semplice, ardente, convinto e persua­sivo che avessi mai ascoltato fino ad allora. Sentendo

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parlare quell’uomo si vedeva con chiarezza e senza alcu­no sforzo che quanto diceva usciva dal più profondo del suo essere. La sua fede era trasparente. L’amore per Cri­sto gli ardeva nello sguardo. La purezza e santità della sua vita erano evidenti. Diceva quello che viveva. Non era un orologio a ripetizione”167.

Don Josemaria non si limitava a predicare ma cercava di parlare con tutti i partecipanti, per poter dare loro suggerimenti personali, risolverne i problemi e confer­marli nella vocazione. Incoraggiava l’unione tra di loro affinché nessuno patisse il gelo della solitudine, il di­sprezzo o l’indifferenza. Alcuni anni arrivarono a passa­re per le sue mani più di mille sacerdoti e finì con l’ac­quisire una vasta esperienza: “Non conosco nessun sacerdote cattivo - affermava - perché ho bussato al lo­ro cuore a tu per tu e in risposta Iio sempre ricevuto un suono di oro puro, di oro pulito”168.

E se qualcuno non si faceva vivo, non avendo l’abitu­dine di parlare con il predicatore, lo andava a cercare.

“Ricordo che una volta uno non veniva. Andai a cercar­lo in camera sua e gli dissi: fratello mio, che cosa le suc­cede? Non l’ho vista... Ho parlato con tutti, tranne che con lei. Allora mi raccontò di una sua autentica trage­dia, di una calunnia orribile. Gli dissi: ma i nostri con­fratelli che le stanno vicino non le fanno compagnia? E mi rispose: mi faccio compagnia da solo. Mi fece una gran pena quel gelo. Io ero giovane. Gli presi le mani e gliele baciai. Scoppiò a piangere. Credo che, quando andò via, non si sentisse più solo”169.Molti di quei sacerdoti conservavano come un tesoro

le note e le trascrizioni delle sue prediche e dei suoi con­sigli. Le rileggevano e le meditavano spesso, persino nel­la vecchiaia. “Allo scopo di rivivere le grazie e di torna­re a vedere le cose illuminate dalla stessa luce chiara”, afferma uno di loro170.424

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I Vescovi raccoglievano i frutti di questo lavoro sacer­dotale e gliene erano profondamente grati: “Non voglio che passi un solo giorno senza che le ripeta: grazie, mille e mille grazie, per il bene che ha fatto ai nostri buoni sa­cerdoti. Sì, ha fatto loro un gran bene e ne sono felice. Dio sia benedetto!”171. Così scriveva a don Josemarìa il Vescovo di Leon, meno di quarantotto ore dopo la fine degli esercizi spirituali che aveva predicato172.

Mons. Olaechea, Vescovo di Pamplona, sapendo quanto dispiacevano al Fondatore gli elogi rivolti alla sua persona, preferì esternare i suoi sentimenti ad Àlva­ro del Portillo, all’epoca Segretario Generale dell’Opera:

“Pamplona, 22 novembre 1941.Carissimo Àlvaro, il mio amatissimo amico don José Maria, il Padre così buono che Dio vi ha dato, ha predi­cato gli esercizi spirituali a tutti i nuovi parroci di questa benedetta diocesi di Pamplona, che ha un clero vera­mente esemplare. Dico a tutti perché, anche se ci manca l’ultimo turno, speriamo che sia sempre lui a tenerlo.Non ti faccio considerazioni specifiche salvo una sola, più che sufficiente: neppure uno degli esercitanti ha avu­to parole che non fossero di grande apprezzamento e di edificazione per il lavoro da lui svolto. Dio ce lo conser­vi molti anni, molti, a grande gloria della sua Santa Chiesa. Voi abbiate cura di questo tesoro. Un abbraccio. Marcelino”173.I Vescovi gli erano doppiamente grati, perché non ac­

cettava alcuna retribuzione per i suoi servizi, salvo l’al­loggio e il vitto. Don Josemarìa spiegava loro di avere questa abitudine, anche se non sempre riusciva a tacita­re le proteste. In questi casi ricorreva a qualche battutao raccontava con garbo un episodio:

“C’era un predicatore che andava a predicare nei paesi in tutte le grandi feste e infervorava l’uditorio. Era mol­to eloquente e per giunta si faceva dare solo una peseta.

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Ma il Vescovo lo venne a sapere, lo chiamò e gli disse: ‘Senta un po’: la parola di Dio a pesetas, lo Spirito Santo a una pesetaì Non si vergogna?’- ‘Nossignore - rispose il sacerdote - , varrà bene almeno una pesetaì’”174.

6. L’espansione nelle province della Spagna175Nominato Àlvaro del Portillo Segretario Generale del- l’Opus Dei, il Fondatore gli affidò parte del proprio la­voro di corrispondenza epistolare e vari altri incarichi. A poco a poco, il Segretario Generale cominciò a riceve­re i visitatori a nome del Padre, a parlare con i nuovi membri dell’Opera e a dare consigli quando don Jose- marfa era in viaggio. Dopo poche settimane Àlvaro por­tava avanti personalmente il lavoro di formazione e la direzione spirituale di molte persone dell’Opera.

Il Padre potè avere maggiore disponibilità di tempo e così accedere alle richieste dei Vescovi di predicare nelle loro diocesi. Su di lui ricadde, negli anni che vanno dal 1939 al 1944, il pesante lavoro di innalzare il livello spi­rituale di buona parte del clero spagnolo. Per quanto avesse deciso di frenare questo generoso apporto pasto­rale, è un fatto che continuò ad accettare le richieste dei Vescovi. Non solamente a beneficio del clero diocesano, ma anche di diverse Comunità di religiosi e religiose, nonché dei membri dell’Azione Cattolica, alla quale “diede un appoggio deciso, dirigendo moltissimi corsi di ritiro, sempre gratuitamente, e soprattutto in qualità di confessore e direttore spirituale dei laici che diedero il maggior impulso a questa associazione in Spagna”176.

Il suo amore per l’Opera era una componente del suo amore per la Chiesa, indivisibile e saldo. Quando chie­deva a qualcuno dei suoi: “Figlio mio, ami molto l’Ope­ra?”, gli chiariva subito il senso della domanda: “Que­sto amore ti dà la sicurezza di amare Gesù Cristo e la sua Chiesa”177.426

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Nel lavoro con le anime dei suoi confratelli nel sacer­dozio il Fondatore si sentiva molto vicino a Gesù. Senti­va di fare la volontà di Dio, sperimentava in modo tan­gibile la guida dello Spirito Santo. “Vostro Padre toccalo Spirito Santo - diceva ai suoi figli, manifestando que­sti sentimenti -. Come aiuta, come spinge, come preme! Aiutatemi a essere santo”178.

Don Josemaria aveva intravisto in anticipo, anche se non con il rilievo e la ricchezza dell’attualità vissuta, il lavoro apostolico che lo attendeva alla fine della guerra; si legge in una Caterina:

“A Burgos, prima della presa di Madrid, vidi alcuni par­ticolari di ciò che vi avremmo trovato. E una specie di sogno, ma a occhi aperti. Così ho saputo che avrei dato corsi di esercizi a Sacerdoti, come poi è successo”179.Questa informazione per via soprannaturale era

qualcosa di più che una semplice anticipazione degli eventi. Era, in primo luogo, una base per l’ottimismo e le speranze del Fondatore. Era anche una maniera divi­na di confermarlo nel suo abbandono nelle mani del Si­gnore. Solo così si può capire perché il sacerdote, por­tato dallo Spirito Santo, accorresse in tante diocesi lasciando i suoi figli quasi a se stessi. Per la verità non era affatto così. Il Padre si ricordava di loro molte volte al giorno. Era attento alle loro necessità spirituali e manteneva con le loro anime un’unione permanente, in virtù della Comunione dei Santi. Scriveva loro con fre­quenza. Andava ogni tanto a trovare quelli che non abitavano a Madrid. Insomma, il Padre era tranquillo perché sapeva che i membri più giovani erano in buone mani, come si desume dagli incarichi che, da Àvila, da­va ad Àlvaro del Portillo:

“Gesù mi protegga i miei fi li!Ho davanti la tua lettera, Àlvaro, e rispondo punto per

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punto. Correggi la data del compleanno di mons. Santos Moro, che è il 1° giugno. Scriverò al Vescovo di Barcel­lona per la sua festa. I più giovani - il battaglione dei bimbi, dice Ignacio - sono la pupilla dei miei occhi. Quando penso a loro, vedo in modo specialissimo la mano paterna di Dio che ci benedice. Dedica loro tutte le tue attenzioni!”180.Nell’agosto 1940, mentre predicava gli esercizi spiri­

tuali al clero di Leon, ricevette lumi speciali sul lavoro dell’Opera181. Era un chiaro avvertimento del Signore sullo sviluppo dell’Opus Dei. Quindi don Josemarìa cercò di diminuire le sue attività diocesane, ma non sempre era possibile ridurre gli impegni. Questo spiega perché nell’estate del 1941 si ritrovò impegnato quanto l’estate precedente. Quando riusciva a dire di no alle ri­chieste dei Vescovi, era solo per i limiti umani che non gli consentivano di essere contemporaneamente presen­te in due luoghi. A volte non c’era altra alternativa che dare ampie spiegazioni. Il primo ottobre 1941 rispose in questi termini al Vicario della diocesi di Huesca:

“Stimatissimo signore e amico, ho ricevuto oggi la sua lettera e le sono molto grato per la sua proposta. Ma questa estate ho già tenuto undici turni di esercizi e ho ricevuto una paterna indicazione (sono molto grasso e poco in salute) che mi prescrive di non accettare altri in­carichi di predicazione e di riposarmi un po’ dopo gli esercizi che devo dare al clero di questa Diocesi.Non sa quanto mi dispiaccia perdermi il triduo, nel qua­le si tributerà molta gloria a Cristo Re. Mi dispiace, ma so che obbedendo Lo faccio contento”182.Alla fine non gli rimase altra soluzione che rifugiarsi

sotto l’autorità del Vescovo di Madrid, decisione che mise per iscritto per farsi più forza: “Devo evitare ogni lavoro estraneo all’Opera. Per questo, devo chiedere aiuto a mio Padre, il Vescovo di Madrid; così mi farò428

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scudo della sua autorità per rifiutare di tenere turni di esercizi, ecc.”183.

* * *

Quando cominciò a funzionare la Residenza di via Jen­ner, don Josemaria spinsèdrsuoi, che negli altri giorni fa­cevano apostolato con i loro colleghi di studi o di pro­fessione, a fare apostolato fuori Madrid nel fine settimana. Le prime uscite furono sporadiche, ma per Natale era già maturata l’idea di recarsi nelle città uni­versitarie vicine a Madrid e in alcuni capoluoghi di pro­vincia, per conoscere e seguire persone che potessero ri­cevere la chiamata divina all’Opera. A Valencia, con le visite di don Josemaria nel giugno e nel settembre 1939 e gli esercizi spirituali che aveva dato a singoli gruppi di universitari, il lavoro era cominciato ed era in crescita. Il Padre, naturalmente, non si accontentava che i valen- ziani avessero le due stanzette del Cubil. Prova ne sia che, poco dopo che vi si erano sistemati alla meno peg­gio, già proponeva loro una nuova meta: prima che avesse inizio il corso 1940-41 doveva essere in funzione una Residenza per studenti.

Della spinta del Fondatore per portare avanti il suo affare spirituale è prova la premura che metteva a tutti intorno a sé. Misurate e soppesate le risorse umane di cui disponeva, quanto a denaro e persone, l’impresa po­teva sembrare una pazza avventura condannata all’in­successo. Ma erano tali la sicurezza e l’ottimismo che infondeva nei suoi collaboratori che nessuno si soffer­mava a ipotizzare un fallimento. Più che camminare in fretta, si può dire che andavano al galoppo. Nell’estate 1939 il Fondatore aveva dato a quelli di Valencia un consiglio di cui far tesoro: “Tre cose sono di ostacolo e in voi non me le spiegherei: il dubbio, l’incertezza, l’in­costanza”184. Il Fondatore aveva sempre avuto fiducia nei suoi figli, nel loro spirito di orazione, di sacrificio e di lavoro. Ma - ritornava a incitare quelli di Valencia -

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“senza lasciare le cose per dopo, o per domani. Dopo e domani sono due parole fastidiose, sintomo di pessimi­smo e di disfatta, assieme a un’altra, impossibile: le ab­biamo definitivamente cancellate dal nostro vocabola­rio. Oggi e adesso!”185.

L’espansione nelle province fu condotta simultanea­mente al lavoro apostolico di Madrid. All’epoca il fine settimana era molto breve, perché tutto il sabato era la­vorativo, quindi potevano partire dalla capitale solo nel tardo pomeriggio; prendevano gli ultimi treni diretti a Salamanca, Valladolid, Saragozza, Bilbao o Valencia. I treni di quegli anni avevano compiuto da un pezzo l’età della pensione; i vagoni erano vecchi e sgangherati, le locomotive sbuffavano senza forza per la pessima qua­lità del carbone. Perciò non era insolito che trascorres­sero la notte in viaggio.

Occupavano la domenica a visitare e a parlare con gli amici conosciuti in precedenza e i ragazzi che questi, a loro volta, presentavano. Alla fine del pomeriggio della domenica, spesso di notte, ritornavano a Madrid, giun­gendo a casa all’alba di lunedì186.

Il nord della Spagna era ormai diventato piccolo per i viaggiatori del fine settimana, che alcune volte s’incon­travano nelle stazioni di collegamento (Venta de Banos, Valladolid o Medina del Campo) con quelli di un’altra spedizione. A Medina del Campo cambiavano quelli che tornavano da Salamanca; lo racconta Paco Botella, che rammenta le lunghe attese al bar della stazione, verso le tre del mattino. Ordinavano qualcosa da bere per potersi sedere a un tavolo e sfruttare il tempo studiando alla fio­ca luce di una lampadina; non assaggiavano neppure il contenuto del bicchiere che avevano davanti187, per po­ter fare la comunione all’arrivo a Madrid; allora il digiu­no eucaristico cominciava dalla mezzanotte precedente.

Dopo Valencia, don Josemarìa decise di recarsi a Val­ladolid. Giovedì 30 novembre 1939 partì in treno verso le quattro del pomeriggio, accompagnato da Àlvaro del430

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Portillo e da Ricardo Fernàndez Vallespìn; arrivarono a Valladolid a tarda ora. In piena notte, con un freddo in­tenso e una fitta nebbia, presero le valigie e andarono in cerca di un albergo. Alloggiarono all’Hotel Espandi. La mattina successiva il Padre diede la meditazione ai suoi compagni: “Siamo a Valladolid per lavorare per Cristo. Se non troviamo nessuno, non per questo penseremo di aver fallito”188. Evidentemente, aveva la certezza di la­vorare per Dio, non per se stesso.

Portavano con sé un elenco di nomi e indirizzi di stu­denti. La mattina stessa li avvertirono a casa loro, fis­sando un appuntamento in albergo per il pomeriggio. Don Josemarìa parlò con tutti loro, entusiasmandoli con il suo zelo apostolico e facendo loro scoprire gli in­cipienti ideali di santità che già avevano nel cuore. Sta­vano tanto attenti alle parole del sacerdote che nessuno di loro a sera mostrava di volersene andare. Quando si accomiatarono, don Josemarìa promise loro di fare altri viaggi e chiese che la volta successiva gli presentassero qualche loro amico che potesse capire l’apostolato del­l’Opus Dei. Sabato 2 dicembre tornarono a Madrid.

A volte il Padre non stava bene di salute. Era difficile venirlo a sapere, perché non si lamentava. Soffriva di dolori reumatici. Allora, per evitare di viaggiare in treno di notte, senza riscaldamento e senza poter chiudere oc­chio, si procurarono un’automobile di seconda mano. Era una vecchia Citroen la cui logica sistemazione, in tempi normali, sarebbe stata un deposito di rottamazio­ne. Il 26 dicembre 1939, con la macchina appena revi­sionata e dopo aver invocato S. Raffaele e gli Angeli Cu­stodi, il Padre, Àlvaro del Portillo e José Maria Albareda partirono da Madrid alla volta di Saragozza. Dopo pochi chilometri un’avaria li costrinse a ritornare nella capitale. E il Padre, che già prima di partire era febbricitante, fu costretto a mettersi a letto189. Due gior­ni dopo si rimise in viaggio per Saragozza, questa volta in treno, accompagnato da Àlvaro. Stettero un giorno a

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Saragozza e un altro a Barcellona; poi, i primi giorni di gennaio, a Valencia.

Alla fine del mese, il 31 gennaio 1940, il Padre, con Pedro Casciaro e Ricardo Fernàndez Vallespm, quest’ul­timo al volante della vecchia Citroen, partirono da Ma­drid per fare un’altra visita a Valencia. Partirono in ri­tardo e con scarsa fiducia nel veicolo, per cui, prima di lasciare la capitale, comprarono un cavo, nel caso si fos­sero dovuti fare rimorchiare. La macchina si comportò benissimo fino al km 70 della strada principale per Va­lencia, poi si rifiutò di proseguire. Un pezzo si ruppe mentre cercavano di svitarne un altro. Prese fuoco la benzina. “Il Padre - narra Pedro Casciaro -, che stava recitando il breviario dal momento della partenza, ci rianimò dicendo che a qualsiasi costo dovevamo rag­giungere Valencia, perché era chiaro che la nostra pre­senza là sarebbe stata molto fruttuosa, dato che il de­monio stava tentando di impedire che ci andassimo”190.

Dopo due giorni di guasti e peripezie riuscirono ad ar­rivare a Valencia, dove li attendeva un bel gruppo di giovani. Gli ostacoli non scoraggiavano il Padre che, co­me diceva ai suoi figli, “toccava” lo Spirito Santo. Senti­va e palpava l’effetto della grazia e che la sua parola portava le persone a darsi completamente a Dio, rinun­ciando di colpo a progetti accarezzati per anni. Tutte le testimonianze affermano concordi che la santità che tra­spariva dal sacerdote attraeva le anime in modo radica­le. Docile alle mozioni divine, don Josemarìa diventava strumento efficace nelle mani del Signore.

Un giorno, in riva al mare, il Fondatore vide una scena che gli parve l’allegoria delle sue fatiche di apostolato:

“Nel 1940, sulla spiaggia di Valencia, vidi alcuni pesca­tori forti e robusti che trascinavano la rete fin sull’areni­le. Un bambino piccolo si era intrufolato tra di loro e, cercando di imitarli, tirava anche lui le reti. Era di intral­cio, ma vidi che i modi rudi di quegli uomini di mare

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s’intenerivano ed essi non allontanavano il piccolino, la­sciandogli l’illusione di contribuire allo sforzo.Vi ho raccontato molte volte questo episodio, perché mi commuove pensare che Dio Nostro Signore lascia che anche noi mettiamo mano alle sue opere e ci guarda con tenerezza, vedendo il nostro impegno nel collaborare con Lui”191.Era una cosa logica che giovani studenti, alcuni dei

quali prossimi alla laurea, si dedicassero a un’impresa di cui non vedevano nulla di tangibile, eccetto la figura del Fondatore e di coloro che lo accompagnavano? Sovente, da un paio di conversazioni in una camera di albergo o da una passeggiata per la città o per la campagna, na­sceva un cambiamento radicale di vita. Era evidente che il Signore elargiva la sua grazia a piene mani. Consape­vole di questo e del carattere eccezionale dei tempi, il Padre, per formare i primi, a capo dei centri che si apri­vano metteva persone molto giovani, membri dell’Ope­ra da pochissimo tempo, ma che “mostravano una ma­turità di criterio e un senso soprannaturale che allora forse non ci sorprendeva molto - racconta uno di loro - ma che era una cosa veramente prodigiosa”192.

Il risultato dei viaggi fu un aumento delle vocazioni e, di conseguenza, la comparsa di nuovi problemi. “Au­menterà molto la famiglia? - si chiedeva Isidoro nella primavera del 1940 -. Le adesioni in ogni luogo sono formidabili. È necessario, quindi, insistere ancor di più sul problema della casa; è fondamentale per lo sviluppo del lavoro. Che cosa si fa della famiglia se non la si può alloggiare? Non si può creare un clima di famiglia senza una casa”193.

Erano tre mesi che il Fondatore non scriveva una C a­terina, ma lo fece a questo proposito:

“Mercoledì 8 maggio 1940. Sono passati alcuni mesi sen­za che scrivessi Caterine. Non è strano perché conduco

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una vita tanto affaccendata da non aver tempo per nulla. Ma mi dispiace. Novità? Molte. E impossibile annotarle anche solo in parte. Solo questa, esteriore: c’è una casa a Valencia, una a Valladolid, una a Barcellona (questa non ancora avviata perché non si è potuto fare il contratto d’affitto) e presto ce ne sarà una a Saragozza”194.Il mese precedente era già stato ammobiliato un ap­

partamento a Valladolid, al quale fu dato il nome di El Rincón (PAngolo). A Valencia era stata trovata una casa al n. 16 di via Samaniego; fu sistemata durante l’estate e in ottobre funzionava come Residenza per studenti195. Non era stato trovato un appartamento a Saragozza, ma sì a Barcellona, in via Balmes 62, pomposamente de­nominato El Palau (il Palazzo). Ne fu data notizia il 1° luglio al Fondatore il quale, lo stesso giorno, scrisse ai suoi di Barcellona, con parole che, poco tempo dopo, si sarebbero rivelate profetiche:

“Gesù mi protegga i miei figli.Ormai abbiamo casa a Barcellona! Non immaginate la gioia che mi ha dato questa notizia. E stata, senza dub­bio, la benedizione di quel Vescovo: ‘Vi benedico con tutta la mia anima e benedico la casa!’, ha detto mons. Miguel Diaz Gómara l’ultima volta che sono stato da lui; è stata questa benedizione che ha consentito la riu­scita delle vostre fatiche per trovare El Palau. Si è sem­pre sul sicuro quando non ci si discosta - è il nostro spi­rito - dall’autorità ecclesiastica ordinaria. Sento che El Palau, silenziosamente, darà molta gloria a Dio”196.A metà dell’autunno del 1940, cioè poco più di un an­

no e mezzo dopo il rientro a Madrid, il Fondatore so­gnava l’espansione dell’Opera. Aveva centri in tre città e altrettanti a Madrid: la Residenza di via Jenner, un ap­partamento per professionisti in via Martmez Campos e la casa di via Diego de Leon, che sarebbe stata il Centro di Studi per la formazione dei membri più giovani.434

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7. Come “inquadrare” l’Opus DeiNel luglio 1940 era stato infatti affittato un appartamen­to in via Martìnez Campos, non lontano dalla Residenza di via Jenner. Vi andarono ad abitare i più grandi dell’O­pera, ormai un piccolo gruppo di intellettuali. Alcuni ave­vano già terminato gli studi; altri si stavano preparando alla docenza universitaria. In essi don Josemaria aveva ri­posto le sue speranze, per dare inizio alle attività che chiamava “apostolato dell’intelligenza”197. A giudicare dalle sue aspettative e dalla fretta che metteva loro, aveva urgente bisogno di persone dotate e apostoliche nel mon­do universitario. “Le tesi! Ho bisogno di due dozzine di laureati”, ricordava loro spesso il Fondatore198.

Per la fine dell’estate 1940, don Josemaria era già riu­scito ad avviare il desiderato progetto. La sua richiesta circa le tesi, cioè che ci fossero presto laureati con i tito­li per dedicarsi all’insegnamento universitario, non era un’esigenza momentanea; rispondeva a uno dei suoi molteplici progetti, coraggiosamente concepiti e soste­nuti con tenacia. Già nel 1927, poco dopo essersi trasfe­rito a Madrid, quando parlava degli intellettuali nelle chiacchierate nella residenza sacerdotale di via Larra, era convinto dell’immenso apostolato che si poteva fare in questo campo. Davanti ai preti della pensione, l’entu­siasta e giovane sacerdote aveva paragonato l’azione delle grandi intelligenze alle benefiche acque che, all’e­poca del disgelo, scendono dalle montagne e rendono fertili le valli. Senza dubbio, questa idea dell’apostolato dell’intelligenza aveva fatto presa su quanti lo ascolta­vano: Isidoro, dando notizia dell’appartamento di via Martìnez Campos, scriveva: “Ci sono diverse tesi dotto­rali in preparazione e alcuni stanno preparando concor­si a cattedra; anche questi temi devono essere motivi di preoccupazione per tutti, dato che costituiscono uno dei fondamenti dello sviluppo della nostra impresa”199.

Tra gli intellettuali, effettivamente, si trovano le intel­435

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ligenze che reggono tutta la società. Perciò qualunque serio tentativo di ricristianizzare le strutture sociali deve partire da loro, se si vuole veramente arrivare a tutti. Così aveva scritto il Fondatore,, rivolgendosi a coloro che, col passare del tempo, si sarebbero dovuti impe­gnare in questo apostolato: 1

“Servire tutti gli uomini: il campo del nostro apostolato coinvolge tutte le creature, di tutte le razze e di tutte le condizioni sociali. Per questo, per arrivare a tutti, ci ri­volgiamo in primo luogo agli intellettuali, ben sapendo che attraverso di loro passa necessariamente qualsiasi tentativo di penetrazione nella società. Sono gli intellet­tuali che hanno la visione d’insieme, che ispirano ogni movimento di una certa consistenza, che danno forma e organizzazione allo sviluppo culturale, tecnico e artisti­co della società umana”200.Instancabilmente, sia in conversazioni private che

predicando a qualche gruppo di professionisti, don Jo- semaria insegnava a far rendere i talenti che l’uomo ha ricevuto da Dio, a crearsi un onesto prestigio santifican­do il lavoro e santificando gli altri per mezzo del lavoro. Cioè facendo dell’impegno professionale non una scala per salire, ma una piattaforma da cui lodare il Signore di tutto il creato; ognuno operando con libertà quanto agli orientamenti scientifici e assumendosi sempre la re­sponsabilità delle decisioni liberamente prese201. A que­ste idee, udite dalle labbra del Fondatore, si ispirarono diversi professionisti, tra i quali José Maria Albareda, per presentare un progetto di legge dal quale nacque, nel novembre 1939, il Consiglio Superiore della Ricerca Scientifica202.

Tuttavia il Padre non avrebbe potuto esigere dai suoi figli che si facessero in quattro per terminare le tesi dot­torali se prima non avesse dato loro il buon esempio an­che in questo. Consapevole di che cosa significasse que-436

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sto impegno, nell’autunno 1939 terminò il proprio lavo­ro di ricerca a Las Huelgas di Burgos e in altri archivi di Madrid. Compito per nulla trascurabile, per i sacrifici che la scarsità di tempo gli imponeva di fare. Finalmen­te il 18 dicembre si presentò all’esame di dottorato conlo “Studio storico canonico della giurisdizione ecclesia­stica Nullius dioecesis della Badessa di Las Huelgas di Burgos’’’, che meritò il massimo dei voti203.

Per quanto concerne il lavoro di docenza, don Jose- marfa svolse l’incarico di professore in alcuni corsi or-

, ganizzati dal Ministero degli Interni, dai quali l’anno dopo nacque la Scuola Ufficiale di Giornalismo. Il Di­rettore Generale della Stampa e il Vescovo di Madrid praticamente lo costrinsero ad accettare l’incarico di in­segnare Etica generale e Morale professionale204. Non durò a lungo il suo incarico, perché alla fine del 1941 le competenze in materia di stampa passarono alla Vicese­greteria dell’Educazione Popolare e fu approvato un nuovo piano di studi che non includeva la materia di Etica. Quindi don Josemarìa lasciò l’incarico di docente.

* * *

Con i viaggi nelle diverse province, fatti nei fine settima­na, si estendeva a poco a poco una fitta rete apostolica nel centro e nel nord della Spagna. Era evidente che don Josemarìa voleva vedere l’Opera stabilirsi quanto prima in molti altri luoghi della nazione. Non si accontentava di vaghi desideri; tutta la sua attività era orientata a ese­guire un piano pensato nell’orazione, un progetto reali­stico e ambizioso. L’accelerazione impressa al program­ma di espansione territoriale è indicata da un dato oggettivo: all’inizio del 1940, nove mesi dopo che il Fondatore era rientrato a Madrid, l’Opera aveva atti­vità ben radicate a Valencia, Valladolid, Barcellona e Sa­ragozza. A don Josemarìa mancava poco per completa­re le previsioni fatte in tempo di guerra; in una lettera del 27 gennaio 1940 si legge: “Ben presto andremo a Si-

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viglia, Granada e Santiago. Con questo sarà completato alla lettera il piano di lavoro”205. Era già in possesso delle lettere di presentazione per le autorità ecclesiasti­che di queste città. Non sempre le missive erano di tono grave e solenne, come dimostrano le espressioni scher­zose di quella firmata dal Vescovo di Pamplona il 14 gennaio 1940 e diretta all’Arcivescovo di Santiago:

“Il rev. don José Maria Escrivà, latore della presente, è un furbo che la spunta contro il diavolo. Lo seguono molti giovani magnificamente dotati, veri apostoli. Co­nosco lo spirito che li anima e mi edificano, tanto che mi considero uno dei loro”206.

Non è da meno quella indirizzata il 31 gennaio all’Ar­civescovo di Granada dal Vescovo di Vitoria: “Con que­sto mio scritto si presenterà don José Maria Escrivà, sa­cerdote di Cristo e vero apostolo nel pieno senso della parola, e non le dico neppure di prestargli attenzione perché subito si renderà conto di chi è”207.

Questi scritti, nei quali si mescolano serietà e sponta­neità, mostrano in due pennellate il giudizio dei Vescovi sulla personalità del Fondatore. Certamente il sacerdote non si sarà infastidito di essere dipinto come “un furbo che la spunta contro il diavolo”, perché gli bastava ri­leggere le sue Caterine per trovarne una che definiva il proprio agire, per gli obiettivi soprannaturali scevri da ogni rispetto umano, una “santa e apostolica sfacciatag­gine”208. La singolare personalità di don Josemarìa ac­quistava, d’altra parte, una crescente fama di santità man mano che gli elogi dei Vescovi correvano di bocca in bocca. Ma ciò non comportava che, quando egli par­lava loro dell’Opus Dei e dei suoi apostolati, tutti i Ve­scovi ne cogliessero la genuina portata ecclesiale209.

Forse mons. Leopoldo Eijo y Garay, più di chiunque altro, si rendeva conto della incommensurabile novità ecclesiale che implicava la comparsa dell’Opus Dei in pieno XX secolo. Il 2 settembre 1939 il Fondatore ebbe con lui un colloquio di cinque ore. E cinque ore conse­438

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cutive sono tante per informare su una questione speci­fica. In quella conversazione, lunga e intensa, mons. Leopoldo gli disse che, secondo lui, era giunto il mo­mento di dare all’Opus Dei una forma giuridica. Ci si sarebbe potuto aspettare che don Josemaria uscisse dal colloquio facendo salti di gioia. Invece non fu così. Ri­mase abbastanza freddo e il giorno seguente, quasi fosse stata la cosa più naturale del mondo, registrò il fatto in una brevissima Caterina:

“3 settembre 1939. Ieri sono stato a parlare con il Ve­scovo di Madrid per circa cinque ore. Magnifico. Si vede che Dio rende le cose facili. Peccato che io sia un ostaco­lo! Ci dimostra un vero affetto”210;Egli si credeva un ostacolo poiché, nella sua profonda

umiltà, giudicava di non essere all’altezza delle circo­stanze.

Don Josemaria era, come sempre, assorbito nei suoi compiti e dimentico della cosa quando gli arrivò un avvi­so del Vicario Generale (probabilmente un ulteriore sol­lecito da parte del Vescovo), che gli ordinava di prepara­re il necessario per l’approvazione ufficiale dell’Opera. Con spirito di obbedienza, scrisse negli Appunti: “Laus Deo! Lo farò. Tuttavia è come se non sentissi fretta”211.

Certamente, neppure in questa annotazione c’è un grande entusiasmo. Ma davanti a un secondo avviso, confortato dal parere del suo confessore, p. Sànchez, don Josemaria non poteva disinteressarsi della questio­ne. Si mise a preparare la pratica per l’approvazione, rendendosi così conto della ragione della sua svogliatez­za, cioè di quella sorta di disinteresse per quella che rite­neva una mera pratica amministrativa. Don Josemaria consegna le proprie riflessioni agli Appunti'.

“Mi spiegavo la malavoglia a proposito dei regolamenti che devo portare in Vescovado come una ulteriore prova

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esterna della divinità dell’Opera; se fosse una cosa uma­na, mi sarei precipitato in fretta a rifilare le carte - ora che tutto sembra facile - e a ottenere l’approvazione uf­ficiale. Poiché è tutta una cosa di Dio ed Egli vuole che vada avanti per sempre, la fretta è inutile. L’Opera co­minciò nel 1928, il giorno degli Angeli Custodi, e ha un destino eterno. Finché ci saranno uomini in cammino, ci sarà Opera!”212.Don Josemarìa si mise al lavoro e, dopo aver fatto un

indice, riportando il contenuto dei documenti su schede, diede incarico ad alcuni suoi figli - Àlvaro, Juan Jimé­nez Vargas, Ricardo Fernàndez Vallespìn e Chiqui - di metterli in ordine213. Il lavoro andò molto avanti e, alla fine di giugno del 1940, egli mostrò al Giudice ecclesia­stico della diocesi, don José Maria Bueno Monreal, i do­cumenti pronti: Regolamento, Regime, Ordine, Consue­tudini, Spirito e Cerimoniale dell’Opera. Studiando insieme il materiale dovettero entrambi riconoscere che non esisteva una veste giuridica appropriata per quella vivente realtà ecclesiale214. Situazione bloccata e imba­razzante, che il Fondatore descrisse con poche parole: “Siamo alle prese con il grave problema di inquadrare l’Opus Dei nel Diritto Canonico”215.

La difficoltà emersa al momento di delineare e defini­re il profilo giuridico dell’Opus Dei non fu una sorpresa per don Josemarìa, che lo sapeva fin dagli inizi. Poco dopo la nascita dell’Opus Dei, prevedendo che un gior­no sarebbe dovuto essere sottoposto all’esame e all’ap­provazione dell’autorità ecclesiastica, aveva ritenuto ne­cessario “determinare chiaramente i campi d’azione” dei suoi membri216. Quel giovane sacerdote con una missione universale da compiere era testimone dell’im­petuoso soffio dello Spirito Santo, che abbatteva davan­ti a lui le barriere con cui teologi e canonisti avevano de­limitato i diversi campi di apostolato in quasi due millenni di storia ecclesiastica. Perciò don Josemarìa, ar­440

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mato di vigore apostolico, si sentì spinto a scrivere già nel 1930 e quasi scusandosi: “Capisco che il fervore e lo zelo per la gloria di Dio, come un ciclone, ci portano a voler stare, con Lui e per Lui, dappertutto”217.

Dall’inizio della fondazione aveva raccolto docilmen­te le ispirazioni divine negli Appunti, testimonianza viva del soffio dello Spirito. Quando le rileggeva si stupiva per l’ampiezza degli obiettivi, perché dal seme universa­le dell’Opera nascevano infiniti campi d’azione, promet­tenti e senza frontiere. Il Fondatore cercava di inserirli in quadri sinottici, specificando le varietà di apostolati, e riempiva schede:

“Quando ripasso queste schede - scriveva - mi spavento vedendo ciò che fa Dio: io non ho pensato - mai! - a queste Opere che il Signore ispira, così come si stanno definendo. All’inizio si distingueva un’idea, ancora vaga. Poi Egli ha trasformato queste ombre confuse in qualco­sa di netto, definito e realizzabile. E stato Lui! A Lui tut­ta la gloria”218.Con gli anni, quegli schemi complessi, in cui cercava

di inquadrare tutta la varietà della missione apostolica, si erano semplificati. La novità del messaggio dell’Ope­ra e il suo carattere secolare reclamavano un regime giu­ridico peculiare. Tutte le future e imprevedibili realizza­zioni apostoliche sarebbero state incompatibili con la pretesa di dettare in anticipo norme e regolamenti, con il rischio di frenare sulle carte il corso traboccante della vita. Ogni tanto il Fondatore ne parlava negli Appunti. Per esempio:

“In quest’anno 1936 abbiamo cominciato a vivere la vi­ta di povertà con maggior perfezione. Si conferma ciò che tante volte ho detto: è inutile fare regolamenti, per­ché deve essere la vita stessa del nostro apostolato a in­dicarci il cammino al momento opportuno”219.

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Proprio quel giorno stesso stava pensando se fosse conveniente o meno chiedere l’approvazione dell’Opera:

“Indubbiamente tutte le apparenze stanno a indicare che, se chiedo al Vescovo la prima approvazione eccle­siastica dell’Opera, me la darà (...). Ma, trattandosi di questione di tanta importanza, bisogna pensarci bene. L’Opera di Dio deve avere una forma nuova, o se ne po­trebbe facilmente distoreere il suo cammino”220.Poi era venuta la guerra civile. La guerra passò e don

Josemaria, lanciato a predicare la grandezza del sacer­dozio al clero diocesano e le esigenze della vocazione cristiana ai laici, si trovò un giorno inaspettatamente sorpreso dall’ordine del Vescovo di Madrid di preparare l’approvazione dell’Opera. Cercava invano una soluzio­ne giuridica. Non la trovava per la semplice ragione che non esisteva. La questione rimase in sospeso, mentre il tempo passava.

8. Il cambio del confessoreLa Residenza di via Jenner cominciò subito a funzionare a pieno regime. Nell’agosto del ’39 era ancora l’unica se­de di cui l’Opus Dei disponeva per il proprio apostolato. Nelle sale di studio o nei salottini, nel vestibolo o nell’o­ratorio, c’erano sempre qualche residente o i giovani stu­denti invitati alle lezioni di formazione. Le porte della Residenza erano aperte a tutti. L’ambiente era gradevole e le persone portavano con piacere i propri amici.

Dopo un po’ di tempo, tuttavia, si notò in alcuni una certa resistenza ad assistere alle lezioni di formazione. Cominciarono a serpeggiare critiche, all’inizio isolate e generiche. Si seppe che in alcuni circoli studenteschi, al­l’Università o nelle Scuole Speciali, correva voce che nel­la Residenza si facevano cose strane; che l’oratorio era442

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decorato con simboli massonici e cabalistici; che ci si comunicava con ostie profumate; che c’erano croci sen­za il Crocifisso...221.

Non era la prima volta che don Josemarìa era bersa­glio di sporadiche mormorazioni222. All’origine di inter­pretazioni tanto assurde doveva esserci una immagina­zione fervida, esaltata e propensa ai voli di fantasia. Non avevano altro fondamento che i simboli liturgici incisi sul fregio dell’oratorio insieme alle parole latine di un in­no, oppure la croce nuda, o la lievissima fragranza che proveniva, come si è visto, dal tabernacolo e che aveva lo scopo di coprire la puzza della colla da falegname. Co­munque, nell’intento di far cessare i pettegolezzi, don Jo­semarìa chiese al Vescovo di Madrid una concessione di indulgenze che desse ragione, per chi non lo capiva, del significato cristiano della grande croce dell’oratorio, ne­ra e solitaria. Con decreto del 28 marzo 1940, mons. Eijo concedeva cinquanta giorni d’indulgenza - come usava allora - ogni volta che “si baci devotamente la Croce di Legno della Residenza per studenti”223.

Ma la cosa non finì qui: vennero all’orecchio del Fon­datore nuove calunnie contro l’Opera e mormorazioni sempre più forti. Non provenivano da studenti, ma da persone mature e responsabili. All’inizio don Josemarìa si rifiutò di dar credito a ciò che alcuni amici o i suoi fi­gli gli raccontavano. Distruggeva i resoconti che gli fa­cevano avere. Si rifiutava di credere che presso persone cattoliche potessero trovare credito simili panzane. Pri­ma della guerra civile, negli anni dell’Accademia DYA e della Residenza di via Ferraz, aveva fatto esperienza del­la calunnia: avevano definito lui pazzo ed eretico e l’O- pera una setta e una massoneria bianca. Sperava perciò che queste nuove, menzogne scomparissero da sole, evi­tando di parlarne e di dar loro troppa importanza. Ma la mormorazione montava. Alcuni studenti si facevano ormai eco di autentiche allucinazioni, inventandosi di tutto. Dicevano che nell’oratorio, mediante un gioco di

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luci, don Josemarìa simulava la levitazione o ipnotizza­va i presenti224.

Esistono poche informazioni scritte di quei primi mesi del 1940. Don Josemarìa le stracciava, oppure le passa­va al Vescovo. Poi, a primavera inoltrata, divenne molto arduo negare l’evidenza. Finì infatti con l’accertare che il gruppetto di studenti che frequentavano la Residenza ma evitavano le lezioni di formazione e diffondevano poi calunnie tra i compagni facevano tutti parte della Congregazione Mariana di Madrid.

La maldicenza, già piuttosto diffusa, non cessava. Il sa­cerdote aveva la sensazione di una specie di rete invisibile e appiccicosa tesa sopra la sua testa. La calunnia lo faceva soffrire molto. Decise di ricorrere al Vescovo in cerca di consolazione, per aprirgli il cuore e metterlo al corrente:

“Madrid, 23-IV-1940.Padre, ho molto desiderio di parlar Le con calma (...). Allego una nota che avevo smarrito mesi fa; anche se si­curamente non dice nulla di nuovo a S.E. Rev.ma, è an­cora di attualità. Il nemico non dorme! (...). Padre, non si dimentichi dei miei - tutti suoi figli! - né del peccatore Josemarìa”225.A causa dei continui viaggi nelle diverse province per

dare gli esercizi spirituali al clero, don Josemarìa non aveva avuto tempo, in quel periodo, di vedere spesso il suo confessore. Lo spiegava in una concisa annotazione:

“22 maggio 1940. - Mi sono confessato oggi con P. Sàn- chez e gli ho parlato con calma. Siamo rimasti d’accordo che, anche se dovesse passare un mese a causa dei miei viaggi, mi confesserò solo con lui”226.Conoscendo la sincerità di don Josemarìa con il suo

confessore, non c’è dubbio che nella tranquilla conver­sazione cui accenna avesse riferito dettagliatamente le menzogne e le calunnie dell’ultimo periodo. A questo444

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punto perdiamo per alcune settimane la pista degli eventi. Don Josemaria, evidentemente, preferiva dimen­ticare e non volle perciò lasciare nessuna traccia scritta delle dicerie, salvo un paio di riferimenti generici227. Pe­raltro le scarse notizie che affiorano qua e là fanno pen­sare che le calunnie diventavano sempre più insidiose e coinvolgevano l’Opera e la sua persona.

“Padre - scriveva al Vescovo di Madrid - , prego molto per Lei e chiedo a Dio nostro Signore che S.E. continui a vedere nell’Opera, che Egli ha caricato sulle mie spalle, una cosa di Dio e una cosa sua”228.Poco dopo, il 23 agosto, andò a Segovia a fare un riti­

ro spirituale nel Convento dei Carmelitani Scalzi, dove erano conservati i resti di S. Giovanni della Croce. Lo ospitarono nella cella n. 36, sulla porta della quale c’era una scritta: Pax. Declinabo super eam quasi fluvium pa- cis {Isaia, 66, 12). Applicò a se stesso l’idea della pace e il giorno successivo annotò:

“Avevo molto bisogno di questo ritiro. È necessario che il peccatore Josemaria diventi santo. Inoltre in quest’ulti­mo periodo non mi sono mancate tribolazioni, benché non ne abbia scritto nulla nelle Caterine, e si fa più nitida la visione soprannaturale per sopportarle di buon animo. Non farò note di questi esercizi”229.Il 28 agosto rientrò a Madrid, dove lo attendevano di­

cerie e calunnie fresche. Non è necessario indagare sulle pene che dovette soffrire in quel periodo. Valga come campione ciò che il 15 settembre 1940 scriveva al Ve­scovo di Murcia:

“Venerato e carissimo Vescovo, pensavo di non dire nul­la della questione che ora le esporrò, fino a quando non avessi avuto il piacere di vedere S. E. a Barcellona; ma

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mi sono consigliato con don Casimiro Mordilo, il quale mi dice che conviene che io La avvisi quanto prima.Ho notizia degna di fede che un Assistente spirituale del­la Gioventù di A.C. maschile di Murcia ha detto testual­mente che il lavoro (quello che sto facendo da dodici an­ni, unito al mio Ordinario e agli Ordinari dei luoghi dove lavoro) rischia la scomunica del Papa; che lui (l’As­sistente) è perfettamente al corrente di ciò che si fa, ma che ai Vescovi noi raccontiamo solo quello che ci con­viene, ecc. Tutto ciò è completamente calunnioso e della sua gravità giudicherà Lei, Eccellenza”230.

Per il resto cercava di non far notare le sue pene. Le serbava per sé, soffrendo in silenzio. “Non cessi di pre­gare per noi - scriveva in quei giorni al Vescovo di Pam­plona -, specialmente per me, che sono sempre con la Croce sulle spalle”231.

E molto probabile, benché non sia che una semplice congettura, che don Josemarìa avesse deciso di affronta­re e risolvere, non appena rientrato a Madrid, le que­stioni che avevano originato le tribolazioni citate nell’u­nica nota scritta nel ritiro di Segovia. Ai primi di settembre andò a parlare con il Vicario Generale, don Casimiro Mordilo, prima di far visita a due o tre perso­naggi coinvolti nelle calunnie e nelle dicerìe. Decise an­che di chiedere consiglio al proprio confessore, riguardo a un certo gesuita232. La sua intenzione era di mettere fi­ne una buona volta alle calunnie e far tacere i dissidi elo scompiglio che il demonio aveva scatenato negli ulti­mi mesi, servendosi di persone forse benintenzionate, ma che agivano sconsideratamente.

Si recò dunque dal suo confessore per parlargli del ge­suita che seguiva la Congregazione Mariana, padre Car- rillo de Albornoz233. Lo informò di avere le prove che questo padre della Compagnia propalava tra i giovani Congregati la falsa notizia che l’Opera era una società segreta, eretica e di stampo massonico. Il confessore gli446

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consigliò di parlarne a quattr’occhi con l’interessato. Don Josemarìa lo ringraziò del consiglio e lo mise im­mediatamente in pratica. Subito si recò da padre Carril- lo. Con aperta franchezza gli espose fatti e parole che gli erano attribuiti e gli spiegò meglio che potè il lavoro che si faceva nella Residenza di via Jenner con gli studenti. Don Josemarìa gli offrì anche la possibilità di una ritira­ta onorevole e gli propose una specie di patto: comuni­carsi reciprocamente qualsiasi critica negativa di cui ve­nissero a conoscenza, sia contro l’Opera che contro le Congregazioni Mariane234.

Ma le mormorazioni non provenivano esclusivamente da religiosi. Dalla sera alla mattina il buon nome del sa­cerdote apparve immischiato in intrighi di carattere po­litico, senza che ce ne fosse alcun motivo. Don Jose­marìa dovette recarsi al Ministero degli Interni per chiarire la propria posizione: “Io non ho nulla a che fa­re, neppure da lontano, con cose che non siano sacerdo­tali: sono sacerdote e solo sacerdote. Mi immischiavano in questioni di carattere politico e professionale. Dio me ne scampi!”, scrisse negli Appunti235.

Andò poi dal Vicario Generale per informarlo delle nuove tribolazioni e, benché non lo dica, per trovare an­che un po’ di consolazione, perché non era insensibile al dolore. La visita avvenne il 15 settembre ed egli scrisse negli Appunti, riconoscente: “Casimiro mi ha fatto co­raggio”236.

Poi andò a Valencia, per avviare la Residenza per stu­denti. Vi stette dal 17 al 23 settembre, quindi ritornò a Madrid. Il giorno successivo, accompagnato da Àlvaro del Portillo, don Josemarìa ebbe ancora un colloquio con p. Sànchez, nella residenza dei gesuiti di via Zorril- la. Consegnò al suo confessore una copia dei documenti che doveva presentare per l’approvazione dell’Opera. Lo fece perché l’ascetica e le norme di pietà cristiana che descrivevano erano in stretto rapporto con la sua vita interiore. Forse lo fece anche come prova di fiducia237.

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Poi raccontò a p. Sànchez le sue ultime tribolazioni. “Qualcuno dubita che lei abbia buoni rapporti con la Curia Episcopale”, disse il suo confessore. Naturalmen­te la falsa notizia non era nuova, ma don Josemaria ri­mase stupito dal tono che l’altro aveva usato.

Nella conversazione fu poi toccato l’argomento della discrezione con cui i membri dell’Opus Dei avevano fat­to apostolato fin dal 1930, nel periodo della “gestazio­ne dell’Opera” e della persecuzione religiosa. Prudenza vissuta anche nella direzione spirituale dei nuovi mem­bri, che - per libera decisione personale - non aprivano la loro anima se non a chi li potesse consigliare con co­gnizione di causa, vale a dire a chi conosceva l’Opera e il suo spirito. Padre Sànchez sapeva perfettamente che questo modo di fare era l’unica cosa ragionevole e pru­dente; egli stesso, d’altra parte, l’aveva sempre sostenu­to. Don Josemaria rimase molto sorpreso sentendogli dire stavolta che le questioni inerenti alla vocazione al- l’Opera dovevano essere trattate, senza alcun impedi­mento, con qualsiasi confessore. Come era possibile che il gesuita sostenesse ora una nuova posizione dopo che per anni aveva consigliato che i membri dell’Opera si di­rigessero solo con sacerdoti che la conoscevano e l’ap­prezzavano?

Con il suo fine intuito di maestro di anime, il Fonda­tore si rese conto delle gravi conseguenze che avrebbe comportato questo mutato atteggiamento; lo lasciò per­plesso il fatto che il suo confessore “aveva cambiato in poche ore un’opinione mantenuta per anni”238.

Le cose avevano preso una piega tale che don Jose­maria andò subito a parlare con il Vescovo di Madrid, che trascorreva un periodo di riposo ad Alhama, in Ara­gona. Il 27 settembre pranzarono insieme e dopo pran­zo, in una lunga conversazione durata fino all’ora della partenza del treno per Saragozza, parlarono dell’Opera:

“ Ieri sono stato ad Alhama de Aragón con il Vescovo di

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rMadrid - si legge in una nota del 28 settembre Abbia­mo in lui un Padre! Come capisce e vive l’Opera di Dio! Gli ho raccontato le ultime tribolazioni. Si è commosso. Vede Dio dietro a ogni cosa, ma vede anche la ristrettez­za di orizzonti di alcune persone. In sintesi mi ha detto che vuol fare il decreto di erezione e approvazione del- l’Opus Dei non appena ritornerà a M adrid”239.

Gli parlò anche delle visite e dei colloqui delle ultime settimane e di p. Carrillo:

“Sulla questione dei Gesuiti è del mio stesso parere: non si deve confondere un religioso con la Compagnia. Il Ve­scovo, come me, ama molto e venera la Compagnia di Gesù”240.

Il successivo incontro del Fondatore con p. Sànchez ebbe luogo due settimane dopo. Anche stavolta vi andò in compagnia di Àlvaro del Portillo. Con schiettezza disse al suo confessore di aver notato, con proprio gran­de dispiacere, un mutamento radicale nel suo atteggia­mento nei confronti dell’Opera. Dopo averci pensato molto, era arrivato alla conclusione che, in coscienza, non poteva continuare la direzione spirituale, non pro­vando più l’antica fiducia che aveva sempre avuto in lui.

P. Sànchez, piuttosto agitato, gli disse allora brusca­mente che la Santa Sede non avrebbe mai approvato l’Opera, citandogli a riprova, seduta stante, qualche ca­none del Codice. Questa inattesa dichiarazione fu un duro colpo per don Josemarìa, il quale, senza perdere la calma, gli rispose che, dato che l’Opera era di Dio, ci avrebbe pensato Lui a condurla in porto241.

Interrotto qui il colloquio, p. Sànchez gli restituì le carte sull’Opera che il Fondatore gli aveva dato nell’in­contro precedente. Lungo la strada del ritorno, una do­manda si riaffacciava insistente alla mente di don Jose­marìa: perché dubitava ora dell’Opus Dei colui che tante volte lo aveva rassicurato sulla sua origine divina?

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Arrivato in via Jenner, la prima cosa che fece fu verifica- re il canone citato da p. Sànchez, di cui Àlvaro aveva preso nota. Si tranquillizzò: non aveva nulla a che vede­re con l’approvazione. Ma quando aprì la busta con i documenti che il confessore gli aveva restituito, trovò un foglio con cinque o sei nomi. Era l’elenco dei ragazzi che erano in rapporto con p. Carrillo e che frequentava­no la Residenza di via Jenner per spiare e informarlo. L’elenco era stato messo per errore da p. Sànchez o, vi­ceversa, si trattava di un gesto amichevole e intenziona­le per giustificarsi?242.

Trascorse, più o meno tranquillo, il mese di ottobre. Don Josemarìa si ricordava del commiato del Vescovo il giorno che avevano pranzato insieme ad Alhama:

“ Badi bene, José Maria, finora il Signore ha voluto che lei avesse come modello il buon ladrone, per poter dire: è giusto che io stia sulla croce! Da questo momento il suo unico modello è Gesù in Croce, e le verranno grandi sofferenze senza che ce ne sia motivo!”243.

Intanto il Signore lo stava preparando alle amarezze future con qualche “zuccherino”, mettendogli sulle lab­bra una dolce locuzione divina:

“ In questi ultimi tempi - il riferimento è al mese di otto­bre 1940 - mi sono sorpreso sovente a recitare: aquae multae non potuerunt exstinguere cbaritatem! Interpre­to in due modi queste parole: il primo, che il gran nume­ro dei miei peccati passati non mi separano dall’Amore del mio Dio; il secondo, che le acque della persecuzione che subiamo non interromperanno il lavoro che l’Opera svolge”244.

Nel corso della tribolazione, nell’anno 1940, il Fon­datore dette prova di eccezionale elevatezza di senti­menti. Dapprima, per la sua riluttanza a credere alla malvagità degli uomini. Poi, quando dovette accettare la450

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realtà dei fatti, perché cercò di fare salve le intenzioni: “Capisco che non è malintenzionato, ma non capisce nulla del nostro spirito e confonde e travisa tutto”, dice­va scusando uno dei mormoratori245. E infine, di fronte all’evidenza inconfutabile, nel cuore del sacerdote ci fu posto solo per il perdono e la decisione di dimenticare:

“Benché non voglia toccare questo punto - scrisse, senza citare l’argomento cui si riferiva - voglio solo dire che si fa fatica a credere nella buona fede di coloro che calun­niano sistematicamente. Li perdono di tutto cuore”246.

A metà novembre stava dando un corso di esercizi nel Seminario Maggiore di Madrid. Un giorno andò a far visita al Sottosegretario agli Interni e sulla porta del Mi­nistero incontrò p. Carrillo de Albornoz247, “il religioso - scrisse - che ha promosso quest’ultima tribolazione così prolungata”. Senza rancore, con naturalezza, senza dover “fare ricorso alla carità né all’educazione”, lo sa­lutò dandogli la mano:

- “Molto lieto di vederla, padre: Dio la benedica!” .

P. Carrillo aveva già rotto il patto con cui si erano im­pegnati a comunicarsi reciprocamente qualunque criti­ca; infatti in quei giorni don Josemaria aveva saputo di essere stato definito da lui “pazzo o delinquente”.

- “ Si ricorda che abbiamo fatto una specie di patto?” , gli rammentò don Josemaria.- “Di questo ho già parlato ieri sera alle nove con il Vica­rio” , rispose frettolosamente p. Carrillo, allontanandosi.

Il giorno dopo il Fondatore, in Seminario, scriveva questa Caterina, che sarebbe stata l’ultima annotazione di tutto l’anno degli Appunti'.

“ Madrid, 15 novembre. - Nel pomeriggio ho sentito una

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gioia interiore enorme per questa tribolazione. E provo un grande amore per la benedetta Compagnia di Gesù, simpatia e persino affetto per il religioso che ha montato tutto questo chiasso. Oltretutto mi rendo conto che que­sto, signore è molto simpatico e, di sicuro, un’ottima per­sona. Dio lo benedica e lo faccia prosperare! Ho raccon­tato questi particolari stamane al mio Padre spirituale José Maria Garcia Lahiguera”248.

* * *

P. Sànchez e don Josemarìa si sarebbero rivisti solo il 22 novembre 1948. La Santa Sede aveva già concesso al- l’Opus Dei il Decretum laudis e l’approvazione pontifi­cia degli Statuti. Il Fondatore fece un viaggio in Spagna e fece visita a tutti i Superiori della Compagnia di Gesù, tranne che a quello di Siviglia, che non lo volle ricevere. A Madrid, col permesso del Provinciale, andò a trovare p. Sànchez, che ne ebbe una grande gioia. Parlarono dei vecchi tempi e finirono inevitabilmente per toccare il punto dolente. Don Josemarìa stese un appunto della conversazione:

“Era contentissimo dei dati che gli ho fornito sull’esten­sione dell’Opera. L’ho un po ’ tentato, dicendogli: ‘Ho sofferto davvero, Padre; e, vedendo la persecuzione a cui mi sottoponevano persone tanto buone, ho pensato per un momento: mi sbaglierò... non sarà cosa di Dio... starò ingannando le anime?’ . Egli protestò subito con calore: ‘No, no; è da Dio, tutto da Dio’”249.

P. Valentin Sànchez Ruiz morì a Madrid il 30 novem­bre 1963. Quando la notizia giunse a Roma, il Fondato­re celebrò la Santa Messa in suffragio della sua anima e scrisse al Consigliere dell’Opus Dei in Spagna. La lettera risente della forte impressione causata dalla notizia ed è intrisa di divina malinconia, perché “questo venerabile religioso non ha avuto nulla che vedere con l’Opera, ma452

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sì con la mia anima, che non può essere separata dall’O- pus Dei”. Ecco le ultime righe della lettera:

“Riposi in pace, perché era buono e apostolico! A lui ri­correvo, specialmente quando il Signore o la sua Santis­sima Madre ne facevano qualcuna delle loro con questo peccatore e io, dopo essermi spaventato, perché non vo­levo questo, percepivo chiaro e forte e senza parole, nel fondo delPanima: ‘ne timeas, sono Io’. Il buon Gesuita, ascoltandomi ogni volta poche ore dopo, mi diceva sor­ridente e paterno: ‘stia tranquillo: questo viene da Dio’. Perdonate. Sono un pover’uomo. Pregate per me, perché sia buono, fedele e allegro. Ho sentito la necessità di rac­contarti tutto questo, perché anche voi preghiate il Signo­re per la sua anima, che penso gli fosse molto cara”250.

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NOTE AL CAPITOLO XII

1 Lettera a Juan Jiménez Vargas, da Vitoria, in EF-390213-7.2 Lettera a Ricardo Fernàndez Vallespin, da Burgos, in EF-390224-5.3 Lettera a Pedro Casciaro Ramirez, da Burgos, in EF-390224-3.4 Lettera a Francisco Botella Raduàn, da Vitoria, in EF-390213-2.5 Lettera a Juan Jiménez Vargas, da Burgos, in EF-390303-2.6 Appunti, n. 220, del 10-VIIM931.7 Lettera a mons. Francisco Xavier Lauzurica, da Burgos, in EF-390310-3.8 Lettera Circolare ai suoi figli, da Burgos, in EF-390324-1.9 Ibidem. Fu questo l’inizio di una nuova consuetudine nell’Opera.10 Ibidem.11 Lettera a José Maria Albareda, da Burgos, in EF-390323-2.12 Su questi particolari, cfr Pilar Angela Hernando Carretero, RHF, T- 05250, p. 2; Ricardo Fernàndez Vallespin, RHF, T-00162, p. 41; Franci­sco Botella, RHF, T-00159/1, p. 87.Justo Marti Gilabert, nel 1935-36 studente della Residenza di via Ferraz, è testimone dell’arrivo di don Josemaria a Madrid con le prime truppe: “Mi misi all’angolo di Plaza de Espana, dove finisce via Bailén e comincia via Ferraz, di fronte al Paseo de San Vicente. Ero in preda all’emozione e quali non furono la mia sorpresa e il mio entusiasmo nel vedere che nel primo autocarro che percorreva arrancando la salita, nella cabinata de­stra dell’autista, c’era nostro, Padre. Io allora non ero dell’Opera, ma come residente di via Ferraz conoscevo il Padre e facevo con lui direzione spiri­tuale fin dall’ottobre o novembre 1935. Poiché l’autocarro rallentò molto sulla salita del Paseo de San Vicente e nella curva che doveva fare per im­mettersi in via Ferraz, fu possibile distinguere benissimo il Padre, soprat­tutto perché era la prima tonaca che si vedeva dal luglio 1936. Vederlo e gridare a gran voce e con la massima euforia ‘Padre!’ fu tutt’uno, non

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potei trattenermi. Il Padre rispose: ‘Justo, figlio mio!5 e subito disse all’au­tista di fermarsi e di farmi un po’ di posto, in modo che ci potessimo stare in tre. Emozionato e sorpreso, io persi il controllo, abbracciandolo e co­prendolo di baci. Dopo un paio di minuti giungemmo davanti alla Resi­denza di via Ferraz 16”. L’autocarro si fermò qualche istante. “Il Padre scese, si affacciò alla porta e vide con i suoi occhi che l’edificio era distrut­to; era in piedi solo la. facciata, centrata da diversi colpi di obice che i na­zionalisti avevano sparato dal Cerro Garabitas e dalla Casa de Campo su quella partie di Madrid che praticamente era stata sul fronte di guerra. Mi sembra che nostro Padre non si trattenne più di un paio di minuti a guar­dare quel mucchio di macerie e tornò subito all’autocarro, dicendo all’au­tista di andare verso una casa di via Caracas, un piano della quale appar­teneva ai 13 Appuri

genitori di José Maria Barredo” (RHF, T-06358, pp. 3-4). n. 1595, del 13-IV-1939.

14 Cfr Catàlogo - IV Centenario de la Reai Eundación del Convento de Santa Isc bel de Madrid, Editorial Patrimonio Nacional, Madrid 1990. L’opera d|’arte di maggior valore tra quelle perdute fu l’immacolata del Ri- bera, al centro della pala dell’altare maggiore (cfr ibidem, pp. 44 e 122). Il quadro era stato donato da Filippo IV e il volto dell’immagine, per cui aveva posato la figlia del Ribera, era stato ridipinto da Claudio Coello. Cfr Antonio Ponz, Viaje por Espana, Madrid 1788, riedito da M. Aguilar, Madrid 1947, p. 426.15 Lettera Circolare ai suoi figli, da Burgos, in EF-390109-1.16 Cfr Àlvaro del Portillo, Sum. 929; Appunti, n. 815, del 23-VIII-1932; Lettera 24-X-1942, n. 30; Ricardo Fernàndez Vallespm, RHF, T-00162, p. 42.17 Don Josemarìa consultò il Direttore Generale degli Affari Ecclesiastici, il quale gli diede il permesso di tenere una parte dei mobili come piccolo compenso per tutto ciò che aveva perduto in via Ferraz 16. Cfr Francisco Botella, RHF, T-00159/1, p. 8 9 .1 lavori di ricostruzione dell’immobile che occupavano durarono fino al 1947.18 Cfr Francisco Botella, RHF, T-00159/1, p. 90.19 Don Josemarìa, in quanto Rettore, si occupò immediatamente di aiutare entrambe le comunità religiose a riorganizzare la vita conventuale, a rico­struire gli edifici danneggiati e a provvedere alle loro necessità materiali, alimentari, ecc. Cfr Cecilia Gómez Jiménez, Sum. 6512; Consolación Ma­riana Casas, RHF, T-05039, p. 2.20 II contratto originale si trova nell’Archivio della Segreteria Generale del- l’Arcivescovado di Madrid, “Patronato de Santa Isabel” . Il contratto porta le firme del Rettore e della Madre Priora, e il Nulla Osta del Vicario Generale. Nella terza clausola era fissato un indennizzo di 250 pesetas mensili da parte della Comunità a favore del Rettore. A termini di con­tratto, don Josemarìa rinunciava a percepire la somma, ma preservava il diritto dei suoi successori di riceverla: “Il sottoscritto attuale Rettore, per sé personalmente e senza che questo serva da precedente e menomi i diritti

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dei suoi successori nella carica, rinuncia graziosamente a beneficio della Comunità a percepire il citato indennizzo per tutto il tempo in cui eserci­terà il suo incarico”.21 Cfr RHF, T-07921, p. 30.22 Cfr Francisco Botella, RHF, T-00159/1, p. 91.23 Cfr Lettera Circolare ai suoi figli, da Burgos, in EF-390109-1.24 Appunti, n. 1595, del 13-IV-1939.25 Ibidem.26 Lettera di Isidoro a Francisco Botella, da Madrid, del 26-IV-1939, in IZL, D-1213, 422.27 Lettera a Ricardo Fernàndez Vallespin, da Madrid, in EF-390427-2.28 Lettera a José Maria Hernàndez Gamica, da Madrid, in EF-390427-3.29 Sull’attività di predicazione del Fondatore dell5Opus Dei in questi anni, si veda una relazione parziale in Appendice documentale, documento XXI.30 Lettera a mons. Santos Moro, da Madrid, in EF-390518-6. Il 2 giugno comunicò al Vicario Generale di Madrid il piano di lavoro per i mesi esti­vi, sottoponendolo all’approvazione del Vescovo (cfr Lettera a mons. Ca­simiro Mordilo, da Madrid, in EF-390602-1).31 Lettera ai suoi figli di Madrid, da Burjasot, in EF-390606-3.32 Cfr Amadeo de Fuenmayor, RHF, T-02769, p. 1. Mons. Antonio Rodil- la aveva conosciuto don Josemaria a Madrid nel 1934; cfr Antonio Rodil- la, Sum. 5576. A don Antonio il Fondatore si riferisce in varie occasioni nelle sue lettere: cfr per es. Lettere a Ricardo Fernàndez Vallespin e a Fer­nando Diaz de Gelo, da Burgos, in EF-380327-2 ed EF-380412-1. In que- st’ultima lettera lo definì un “sacerdote santo e saggio”.33 Nel marzo 1938, mentre il Fondatore era a Burgos, don Antonio gli aveva scritto da Cadice, annunciando una sua prossima visita: “Voglio che mi contagi la sua pazzia. Perciò si prepari a fare molte grosse pazzie” (Lettera del 13-111-1938: cfr RHF, D-15392-2). La definizione di “prete dei miracoli” si diffuse presto tra ecclesiastici, amici e persone da lui diret­te. “Non voleva che lo ritenessero il prete dei miracoli: ‘Io sono un povero prete grasso, che lavora umilmente per fare quello che può’” (José Lopez Ortiz, in Un santo per amico..., op. cit., p. 192).34 Lettera 9-1-1959, n. 35; cfr Alvaro del Portillo, PR, p. 1689; Amadeo de Fuenmayor, RHF, T-02769, p. 1; Francisco Botella, RHF, T-00159/1, p. 93; Carlos Verdu, RHF, T-07805; Roberto Moroder, RHF, D-12799; Francisco Gómez Martinez, RHF, T-12942. Su questo episodio, cfr Alfon­so Méndiz Noguero, (f Cada caminante siga su camino33. Historia y signifi- cado de un lema poètico en la vida del Fundador del Opus Dei, in Anua- rio de Historia de la Iglesia, Pamplona, 9 (2000), pp. 741-769.35 Cfr AGP, POI 1975, p. 789.36 Lettera ad Alvaro del Portillo, da Burjasot, in EF-390606-1; cfr Lettera

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ai suoi figli di Madrid, da Alacuàs, in EF-390613-2. Quest’ultima fissa la partenza di Alvaro per Olot al 13 giugno mattina.37 Lettera ai suoi figli di Madrid, da Burjasot, in EF-390606-3.38 Lettera ai suoi figli di Madrid, da Alacuàs, in EF-390613-2.39 Lettera ad Alvaro del Portillo, Vicente Rodriguez Casado ed Eduardo Alastrué Castillo, da Alacuàs, in EF-390615-1.40 Lettera a José Manuel Casas Torres, da Madrid, in EF-390716-1.41 Benché nelle sue lettere si riferisca a Considerazioni spirituali, pensava anche a un altro libro, come si vedrà. Perciò annunciava al Vescovo di Àvila: “Quando saranno usciti, sarò felicissimo di scrivere il terzo con il mio mons. Santos” (Lettera a mons. Santos Moro, da Burgos, in EF-380400-1). Per la pubblicazione di Considerazioni spirituali, cfr voi. I, cap. Vili. Per una conoscenza completa e particolareggiata della storia e del contenuto di Considerazioni spirituali e di Cammino, cfr il volume Camino, Edición criti- co-histórica preparada por Fedro Rodnguez, Rialp, Madrid 2002.42 Su questo modo di lavorare del Padre, Pedro Casciaro riferisce: “Il Padre chiamava gaiticas le frasi che, scritte inizialmente su un qualsiasi pezzo di carta, trascriveva poi in bella su una piccola scheda. Erano sem­pre frasi molto concise (...). Per predicare usava molto il santo Vangelo, utilizzando, come segnalibro dei brani prescelti, due o tre gaiticas. Basan­dosi su questo materiale teneva meditazioni e conversazioni meravigliose. Penso che le chiamasse gaiticas perché non leggeva le frasi così com’erano, ma le sviluppava, le ‘faceva risuonare3” (RHF, T-04197, p. 144). (Letteralmente, gaitica è il diminutivo di gaita, zampogna - NdT).43 Lettera da Burgos, in EF-390111-1. “Sono felicissimo di occuparmi della stampa del suo libro”, rispondeva Pedro da Calatayud (Lettera del 16-1-1939; cfr RHF, D-15717).44 Lettera da Burgos, in EF-390117-1.45 Lettera ai suoi figli di Burgos, da Cordova, in EF-380419-2; e Appunti, n. 1550, del 22-11-1938.46 Lettera da Vitoria, in EF-390213-3.47 Lettera a Pedro Casciaro, da Vitoria, in EF-390218-1.48 Lettera da Pedro Casciaro a Francisco Botella, del 19-11-1939; cfr RHF, D-15718.49 Lettera da Pedro Casciaro a Francisco Botella, del 24-11-1939.50 Cammino, Prologo.51 Lettera da Madrid, in EF-390518-5. Cfr pure Appunti, n. 1141, del 24-11-1934; n. 1160, del 16-111-1934; n. 1304, del 12-XII-1935; n. 1596, del 13-IV-1939.52 Lettera di Francisco Botella a quelli di Valencia, da Burgos, 2-VI-1939; cfr RHF, D-15393. È possibile che don Josemaria avesse ormai già comuni­cato a Pedro, incaricato di preparare la copertina, che il titolo sarebbe stato

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Cammino. Alla fine però fu Miguel Fisac, e non Pedro, l’autore del disegno della copertina di Cammino (titolo originale in spagnolo: Camino - NdT).53 Lettera ai suoi figli di Madrid, da Burjasot, in EF-390606-3.54 Alla frase del cartellone come tema delle meditazioni fa riferimento Paco Botella, che era a Valencia in quei giorni e potè assistere ad alcune medita­zioni a Burjasot (cfr RHF, T-00159/1, p. 93; cfr pure Carlos Verdù Mo­scardo, RHF, T-07805; e Roberto Moroder Molina, RHF, D-12799). Anche Amadeo de Fuenmayor dice che da quella frase “riuscì a trarre buoni spunti per la predicazione”. Durante quei giorni di ritiro Amadeo pose al Padre una domanda sulla propria vocazione e la risposta che ne ebbe gli diede una grande pace. Quando decise di chiedere l’ammissione al- l’Opus Dei, il Fondatore gli disse queste parole, che egli ricordò per sem­pre: “Il Signore agisce suaviter et fortiter... ricorda le circostanze della tua vita e vedrai che Egli ti ha preparato il cammino” (RHF, T-02769, pp. 1-2).55 Stampato dalle Gràficas Turia in formato 18x26, aveva 336 pagine. Della prima edizione furono stampate 2.500 copie. Il prezzo fu deciso in base al costo dei libri dello stesso tipo. “Credo che per stabilire il prezzo del libro - diceva l’autore a quelli di Valencia - dovete guardare il costo attuale dei libri: né più né meno” (Lettera da Vergara, in EF-390628-1). Il prezzo per la vendita diretta era di 8 pesetas a copia, mentre in libreria il prezzo di vendita al pubblico era di 14 pesetas. Don Josemaria scrisse a Manuel Pérez Sànchez, che stava a Gijón: “Ti sarei grato se vedessi se in qualche libreria di Gijón vogliono vendere il mio libro; in caso affermati­vo, dà loro l’indirizzo perché mi scrivano; a meno che - meglio ancora - voglia essere tu l’intermediario. Cammino si vende a 14 pesetas a copia e ai librai si fa uno sconto del 20-25%; Santo Rosario a 30 pesetas per cento copie, da vendere a 0,50 pesetas a copia” (Lettera da Madrid, in EF- 400122-5).56 Considerazioni era costituito da 438 punti, tutti riportati in Cammino, talvolta con qualche lieve modifica. Sono più di venti i capitoli aggiunti in Cammino, ad esempio Cuore, Esame, Tiepidezza, Santa Messa, Cose pic­cole, Chiamata, Perseveranza. Uno dei capitoli di Considerazioni, Infanzia spirituale, si divide in due: Infanzia spirituale e Vita d'infanzia. Nel 1950, per la sesta edizione, fu cambiato il punto 381, che era praticamente iden­tico al 940.57 Sono molti i punti di Cammino tratti dalla corrispondenza epistolare dell’autore, anche se con diverse modalità. Alcune volte sono ricavati da lettere in cui dava consigli o risolveva i casi che gli venivano prospettati; ad esempio, i nn. dal 160 al 164 e oltre possono essere riscontrati con il testo delle lettere a Miguel Sotomayor, da Burgos, in EF-380408-7 ed EF- 380502-7. Oppure, cogliendo una frase scritta da Alvaro del Portillo, “mi è passato l’entusiasmo”, vi aggiunse un commento: “Tu non devi lavorare per entusiasmo, ma per Amore: con coscienza del dovere, che è abnegazio­ne” (n. 994).Dal testo si vede anche che l’autore, copiando qualche riga di una lettera al­trui, raccoglieva idee che provenivano da lui stesso. È il caso della croce di

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legno, senza Crocifisso, dei primi centri dell’Opera (cfr voi. I, cap. Vili). In Cammino, al n. 277 si legge: “Mi domandi: perché quella Croce di legno? - E trascrivo da una lettera: Sollevando l’occhio dal microscopio (...)’”. La lettera alla quale si fa riferimento fu scritta da Juan Jiménez Vargas il 4-V- 1938 dal fronte di Teruel. Juan raccontava di aver trovato due tavole dipin­te di nero, con una croce. Ciò lo aveva indotto a ricordare i tempi di Ma­drid usando espressioni che hanno ispirato il punto di Cammino.Altre volte ancora, un episodio estratto da una lettera diventa un punto di meditazione. Così accade per una lettera che Ricardo Fernàndez Vallespin scrisse al Padre il 18 dicembre 1938, in cui gli raccontava di essere stato invitato a pranzo dagli ufficiali di Fanteria l’8 dicembre, festa dell’imma­colata, Patrona delPArma: “Nel dopopranzo (il vino era stato abbondan­te) si cantarono canzoni di ogni genere e colore; una mi è rimasta impres­sa: ‘Non mi piacciono i cuori divisi; se le do il mio, glielo do intero’. Quanta resistenza per dare il mio cuore intero!”. Da qui viene il n. 145 di Cammino.58 Cammino, n. 532. Per José Maria Somoano, cfr voi. I, cap. VII.59 Cammino, n. 626. Per Luis Gordon, cfr voi. I, cap. VII.60 Cammino, n. 208. Cfr voi. I, cap. VII.61 Cammino, n. 933.62 Cammino, n. 12. Si tratta della locuzione del 12 dicembre 1931 (cfr Ap­punti, n. 476, del 13-XII-1931). Nel secondo paragrafo dello stesso punto di Cammino, si fa invece riferimento alla situazione in cui si erano trovati a Madrid, durante la guerra civile, senza poter fare apostolato e anche al­l’abbandono di uno dei due appartamenti dell’Accademia DYA di via Fer­raz, nel 1935.63 Appunti, n. 1441.64 Cammino, n. 438.65 Cfr Avvertenza preliminare di Consideraciones espirituales.66 Cammino, parole introduttive dell’Autore.67 Cammino, n. 1.68 Cammino, n. 983.69 Cammino, n. 998. Cfr Eliodoro Gii Rivera, Sum. 7766.Per comprendere come nella mente del Fondatore si associavano le idee, correvano le immagini e i ricordi, nulla di meglio che esaminare questo punto di Cammino, paragonandolo a un punto della Istruzione 9-1-1935, e anche Appunti, nn. 703 e 704, del 22-IV-1932, rispetto a Cammino, n. 756. Il confluire di Appunti in Cammino e viceversa si verifica anche con la citata Istruzione del 1935 (nn. 220-221), dove l’autore ripete che è ne­cessario insegnare ai giovani a non disprezzare le cose piccole: “Guardia­mo come si costruisce un edificio maestoso: un giorno dopo l’altro di la­voro monotono. Piccole cose: un mattone dopo l’altro, poi una pietra squadrata che non conta nulla, nonostante le sue dimensioni, se paragona­ta all’insieme; si comincia e si termina la giornata alla stessa ora e si perse-

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vera. Nessuna cosa grande si raggiunge di colpo: tantomeno la santità. Quante cose potete dir loro sulla santità e sulle cose piccole! Benedetta perseveranza, piena di fecondità, del povero asinelio di noria! Sempre lo stesso percorso, monotono, nascosto e disprezzato, al suo passo umile..., e non sa che sono frutto del suo sudore Paroma dei fiori, la bellezza del frutto maturo, la fresca ombra degli alberi nella calura; tutto il rigoglio dell’orto e tutto l’incanto del giardino”. Si potrebbero citare molti esempi di varianti fatte dal Fondatore nell’uso di una stessa immagine letteraria.70 Cammino, n. 999.71 Cammino, n. 778. Questo consiglio di Cammino, come molti altri, ha carattere autobiografico, nel senso che l’autore ci mostra le consuetudini della sua vita interiore. Infatti, in una Caterina del 27 ottobre 1932, si legge: “Non prendere una decisione senza soffermarti a considerare la questione davanti a Dio” (Appunti, n. 853). La parte centrale del capitolo, con le sue variazioni tematiche sulla Volontà divina nei nostri riguardi, è scaglionata in passaggi ascendenti, dall’accettazione controvoglia fino al­l’abbandono alla Volontà di Dio, che è “il segreto per essere felice sulla terra” (Cammino, n. 766).72 Cammino, n. 754.73 Cammino, n. 755.74 Cfr Lettera a Manuel Sainz de los Terreros, da Burgos, in EF-380117-3.75 Cammino, n. 756.76 Appunti, nn. 703 e 704, del 22-IV-1932.77 Cammino, n. 811.78 Lettera a Juan Jiménez Vargas, da Burgos, in EF-380327-3. Queste pa­role si ritrovano, con lievi variazioni, in Cammino, n. 826.79 Cammino, n. 197; Cfr Pedro Casciaro, op. cit., p. 135.80 Cammino, n. 905.81 Cammino, n. 255. Il Fondatore intendeva condurre ogni anima per la sua strada specifica, come chiarì in un’intervista concessa al giornalista Jacques Guillemé-Brulon, pubblicata il 16-V-1966 su Le Figaro: “La mag­gior parte di questo libro l’ho scritta nel 1934, cercando di sintetizzare la mia esperienza sacerdotale per l’utilità delle anime di cui avevo cura, fos­sero o no dell’Opus Dei. Allora non pensavo davvero che, trent’anni dopo, questo libro avrebbe avuto una diffusione così grande: milioni di copie in tante lingue. Non è un’opera riservata ai membri dell’Opus Dei; è stata scritta per tutti, anche per i non cristiani. Fra le persone che hanno preso spontaneamente l’iniziativa di tradurlo nella loro lingua ci sono or­todossi, protestanti e non cristiani. Cammino va letto con un minimo di spirito soprannaturale, di vita interiore e di impegno apostolico. Non è un codice per l’uomo d’azione. Vuole essere un libro che induce a entrare in rapporto con Dio e ad amarlo, e a servire tutti gli uomini. A essere stru­mento - per riprendere la sua domanda - come l’Apostolo Paolo voleva essere strumento di Cristo. Uno strumento libero e responsabile: chi pre­

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tende di scorgere in queste pagine mire temporali si sbaglia. Non dimenti­chi che è comune agli autori spirituali di tutti i tempi considerare le anime come strumenti nelle mani di Dio” (Colloqui, op. cit., n. 36).82 Cammino, n. 301. Tutto il libro richiama con forza le esigenze della vita cristiana, l’aspirazione alla santità, il confronto radicale con la propria co­scienza. Ne è un esempio il n. 902: “Perché non ti dai a Dio una buona volta..., sul serio..., adesso?”. E una domanda che don Josemarìa rivolse a se stesso, molte volte.83 Cammino, n. 817.84 Lettera a Pedro Casciaro, in EF-390200-1.85 Cammino, n. 312.86 Pedro Casciaro, che aveva sentito il Fondatore far risuonare le gaiticas quando questi commentava a lui e a Paco Botella le schede che preparava, e che aveva assistito alla faticosa trascrizione a macchina per mettere in bella i punti di Cammino, scrive quarantanni dopo: “Nel corso dei miei anni di sacerdozio, innumerevoli persone mi hanno confidato che era stata la lettura di Cammino a far sì che sentissero per la prima volta il Signore che bussava alla loro anima e il loro cuore aprirsi alla fede” (RHF, T- 04197, p. 146).Pochi anni dopo la comparsa di Cammino, mons. Montini - il futuro Papa Paolo VI, all’epoca Sostituto della Segreteria di Stato - in una lettera del 1945 esprimeva le sue personali impressioni: “Non voglio nascondere (...) la soddisfazione che mi ha procurato la sua lettura. Le sue pagine sono una sentita e potente chiamata al cuore generoso della gioventù, alla quale, facendole scoprire elevati ideali, insegnano la via della riflessione e della serietà di criterio che la dispone a vivere con pienezza la vita sopran­naturale. L’opera, giunta alla seconda edizione, non ha bisogno di voti au­gurali; offre già la consolante realtà dei copiosi frutti prodotti nell’am­biente universitario” (Lettera a José Orlandis, del 2-II-1945, in RHF, D- 15086).87 Cammino, n. 976. Cfr pure Pedro Casciaro, op. cit., p. 149.88 Appunti, n. 218, del 7-VIII-1931.89 La prima edizione di Santo Rosario fu pubblicata a Madrid nel 1934 (cfr voi. I, cap. VI, nota 197). La seconda edizione (José Maria Escrivà, Santo Rosario. Gràficas Turia, Valencia) apparve nei primi giorni dell’ot­tobre 1939. Era di 16 pagine in ottavo. Nell’ultima pagina erano annun­ciate altre pubblicazioni dello stesso autore: “Cammino (con prologo del- l’Ecc.mo Vescovo di Vitoria); Devozioni Liturgiche (con prologo del- l’Ecc.mo Vescovo di Tortosa), in corso di stampa”. A quest’ultimo libro, probabilmente, don Josemarìa si riferiva nella già citata lettera del 1938 al Vescovo di Àvila, in cui gli diceva di avere “in corso due libri” (cfr EF- 380400-1). Analogamente a quanto accadde per Cammino, non esiste altro riferimento scritto a questo libro, salvo una menzione da parte di Francisco Botella, il quale afferma che Isidoro Zorzano si occupava di “ordinare il materiale che il Padre gli passava, per un libro che il Padre

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voleva fare sulle devozioni liturgiche. Aveva già cominciato questo lavoro durante la sua permanenza in via Santa Isabel” (RHF, T-00159/1, p. 102).90 RHF, D-03691.91 Lettera Circolare, da Burgos, in EF-390109-1.92 La guerra civile provocò la distruzione del 30% del tonnellaggio marit­timo mercantile, della metà delle locomotive, dell’8% delle abitazioni e di un terzo del patrimonio zootecnico. Nel 1939 la produzione industriale era del 31% inferiore a quella dell’ultimo anno prima della guerra, la pro­duzione agricola era scesa del 21%, la manodopera si era ridotta di mezzo milione di persone e il reddito prò capite era calato di circa il 28%. Anche il dopoguerra fu durissimo: durante i cinque anni successivi alla guerra ci­vile, la denutrizione e le malattie provocarono come minimo 200.000 morti in più di quanto fosse prevedibile in base al tasso di mortalità di prima della guerra. Cfr Ramon Salas Larrazàbal, Pérdidas de la guerra, Barcellona 1977, e Los datos exactos de la guerra civile Madrid 1980; e Stanley G. Payne, El régimen..., op. cit.y pp. 260 e 267.93 Acta Apostolicae Sedis, voi. XXXI (1939), pp. 151-154.94 Gli annuari statistici spagnoli degli anni del dopoguerra danno le se­guenti cifre sulla popolazione carceraria: al momento della resa, in zona nazionale i detenuti erano 100.292; a fine anno 1939 erano 270.719; nel1940, 233.373; nel 1941, 159.392; nel 1942, 124.423; nel 1943, 74.095; nel 1944, 54.072; nel 1945, 43.812; nel 1946, 36.379.Ramon Salas Larrazàbal calcola il numero di esecuzioni “per violenze po­litiche” dal 1939 al 1945 in 28.000 unità. In seguito divennero rare (Cfr Tiempo de silencio, càrcel y m uerte, in Diario 16 , H istoria del franquismo, Madrid 1985, pp. 18-19). Studi successivi hanno riveduto queste cifre, alcune volte aumentandole - fino a un massimo di 35.000 esecuzioni - , benché non ci siano conclusioni definitive degli storici su questo tragico epilogo della guerra civile. Per una valutazione approssima­tiva, cfr Josep Maria Solé i Sabaté, Las represiones, in Stanley G. Payne e Javier Tusell, op. cit.^pp. 598-604. Cfr anche Àngel David Martin Rubio, Las pérdidas humanas (a consecuencia de la guerra civil espanola), in Mi­guel Alonso Baquer, op. c i t pp. 321-365; Gonzalo Redondo, Politica, Cultura y Sociedad en la Espana de Franco (1939-1975), Voi. I, La confi- guración del Estado espanol, nacional y católico (1939-1947), Pamplona 1999, pp. 105-108.95 Lettera ai suoi figli di Burgos, da Cordova, in EF-3 80419-2.9 Cfr Via Crucis, Stazione Vili, 3.97 Cfr Javier Echevarrìa, Sum. 2945.98 II Movimiento Nacional era il partito unico creato dal Generale Franco, che unificò per decreto tutti i partiti che appoggiavano la causa della solle­vazione militare. L’unificazione ebbe luogo nell’aprile del 1937 e provocò malcontento e alcuni violenti incidenti, severamente repressi. Fino al 1943 più che del Movimiento si deve parlare propriamente di F.E.T. y de las J.O.N.S. (rispettivamente Falange Espahola Tradicionalista e Juntas de

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Ofensiva Nacional Sindicalista, cioè Comitati di azione nazional-sindaca- lista), che fu la forza politica protagonista quasi in esclusiva dei primi anni del regime. Cfr Stanley G. Payne, El régimen..., op. cit., pp. 180-191.Il Generale Franco auspicò sempre l’entrata di tutti gli spagnoli nel Movi­mento Nazionale. In sostanza si può dire che non ci riuscì, poiché buona parte della popolazione non condivideva l’idea del regime di “unità nazio­nale” che propugnava Franco. Sul pensiero di Franco al riguardo, cfr i di­scorsi pronunciati il 19-IV-l937, il 3-V-1939 e il 4-V-1939 a Valencia, il 20-V-1939 al popolo di Madrid, il 22-V-1939 a Leon e il 22-VT-1939 a La Coruna, in Palabras del Caudillo, Editora Nacional, Madrid 1943, pp. 16-17, 104-107, 118-122, 127-128 e 153-157.99 La bibliografia sul regime di Franco è già abbondante, ma ancora og­getto di polemica; gli storici più equanimi preferiscono parlare di un di­battito aperto cui naturalmente non si intende contribuire in questa sede, in cui si seguono le opinioni maggiormente condivise. Per una sintesi dei risultati delle ricerche sul periodo, cfr Glicerio Sànchez Recio, Lìneas de investigación y debate h istorio gràfico, in El primer franquismo (1936- 1995), Madrid 1999, pp. 17-40; Ricardo Chueca, El Fascismo en los co- mienzos del régimen de Franco. Un estudio sobre FET-JONS, Madrid 1983; e Gonzalo Redondo, Politica..., op. cit., pp. 27-115.100 I Vescovi spagnoli non usarono il termine Crociata nella Lettera collet­tiva dell’1-VII-1937, nella quale si parlava di lotta per motivi religiosi. Ma i singoli Vescovi per la maggior parte lo fecero; il primo fu quello di Pam­plona, mons. Marcelino Olaechea, che lo citò il 23-V1II-1936 (cfr il capi­tolo Las primeras formulaciones de la Cruzada in Gonzalo Redondo, Hi- storia de la..., op. cit., Voi. II, pp. 69-83; cfr anche la Lettera pastorale Las dos ciudades di mons. Enrique Pia y Deniel, Vescovo di Salamanca, del 30-IX-1936, in Antonio Montero, op. cit., pp. 688-708).101 La questione, per nulla facile, è stata e continuerà a essere oggetto di numerosi studi. Fra gli altri citiamo i seguenti, che rimandano a una bi­bliografia specialistica: Gonzalo Redondo, Historia de la..., op. cit., Voi. II, pp. 69 e ss.; e Politica..., op. cit., pp. 229 e ss.; Antonio Marquina Bar­rio, La diplomacia vaticana y la Espana de Franco, 1936-1945, Madrid 1983; José Andrés-Gallego, $Fascismo o Estado Católico? Ideologia, reli- gión y censura en la Espana de Franco, 1937-1941, Madrid 1999; dello stesso autore e Anton Pazos, La Iglesia en la Espana contemporànea, II, 1936-1999, Madrid 1999, pp. 34-88; Stanley G. Payne, El régimen..., op. cit., pp. 209-220.102 Sui negoziati, cfr Antonio Marquina, op. cit.; e Gonzalo Redondo, Politica..., op. cit., pp. 407-413; Sull’Accordo, cfr Acta Apostolicae Sedis, voi. XXXIII (1941), pp. 480-481.103 Su questo argomento, cfr Archivio della Segreteria Generale dell’Arci- vescovado di Madrid - “Patronato de Santa Isabel”; e Patrimonio Nazio­nale - Patronati Reali: Santa Isabel, Cassa 182/21. Con la legge 7 marzo 1940 fu creato il Patrimonio Nacional, al quale tornarono tutti i beni del­l’antico patrimonio della Corona. La legge stabiliva la composizione del

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Consiglio d’Amministrazione, i cui membri, come pure tutto il personale del Patrimonio Nacional, erano designati dal Capo dello Stato. Comun­que, tutte le nomine ufficiali di funzionari fatte durante la Repubblica do­vevano essere riesaminate in base alla legge 10-11-1939.104 Non appena gli fu notificata la nomina, don Josemarìa ne informò PArcivescovo di Saragozza, dal quale dipendeva prima del 1934. Cfr Let­tera a mons. Rigoberto Doménech y Valls, da Madrid, in EF-420205-1 e RHF, D-15514,2. Ricevette il conferimento canonico dal Vescovo di Ma­drid P II febbraio (cfr Benito Badrinas, Josemarìa Escrivà de Balaguer. Sa­cerdote de la diócesis de Madrid, in Anuario de Historia de la Iglesia, Pamplona, 8 (1999), pp. 605-634).105 Istruzione 19-III-1934, n. 6.106 Javier Echevarrìa, Sum. 2946.107 Cfr Àlvaro del Portillo, Sum. 647.108 Juan Bautista Torello, PR, p. 2437.109 Cfr Àlvaro del Portillo, Sum. 654.110 Ibidem, Sum. 656. Un esempio di prudenza nel suo astenersi dall’atti- vità politica è riscontrabile nell’espletamento dell’incarico di membro del Consiglio Nazionale dell’Educazione, un organismo di carattere accademi­co ed educativo. Quando fu creato nel 1941, era Ministro José Ibànez Martin, che il Fondatore aveva conosciuto a Burgos tre anni prima. Il Mi­nistro desiderava nominare don Josemarìa il quale, per l’insistenza del Ve­scovo di Madrid, accettò la proposta, pensando soprattutto alle possibilità apostoliche che la carica gli avrebbe offerto. La sua nomina fra i cinque Consiglieri in rappresentanza dell’insegnamento privato appare sul Bollet­tino Ufficiale del 3-II-1941. Ma presto si rese conto che il suo ruolo non dava particolari possibilità apostoliche e per questo, oltre che per altre ra­gioni, preferì evitare ogni consuetudine personale con il Ministro (cfr Àlvaro del Portillo, Sum. 384). Il Ministro se ne ebbe a male, ma quando cominciò a diffondersi contro i membri dell’Opus Dei la calunnia che vo­levano occupare tutte le cattedre dell’Università, questi potè così testimo­niare quanto fosse falsa la diceria.111 Cfr Javier Tusell, Franco, Espana y la II guerra mundial. Entre el Eje y la neutralidad, Madrid 1995.112 Cfr Àlvaro del Portillo, Sum. 937. In quei giorni il Fondatore incomin­ciò a pregare con insistenza per la pace, riponendo tutta la sua fiducia in Dio, con le parole del salmista: “Il Signore è mia luce e mia salvezza, di chi avrò paura?” (Salmo 26); cfr pure RHF, D-15428.113 Fino al giugno 1941 ci fu collaborazione tra la Germania nazista e l’U- nione Sovietica, fatto che sconcertava coloro che volevano vedere nel con­flitto europeo un prolungamento della “crociata spagnola contro il comu­niSmo”, come veniva talvolta evocata la guerra civile. Quando i Tedeschi invasero l’Unione Sovietica, si ebbe un’evidente esplosione di favore popo­lare, alimentato da alcuni settori della Falange ma osteggiato dà vari espo­

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nenti dell’Esercito e del Governo. Per i fautori della radicalizzazione fasci­sta del regime, era giunta l’ora di mettere i “tiepidi” alle corde. Si ebbero quindi forti tensioni fra le forze più attive in politica interna: i falangisti radicali tentarono di portare a buon fine una campagna, iniziata alcune settimane prima, intesa a subordinare l’Esercito alle direttrici emanate dai falangisti inseriti negli organismi ufficiali. La questione della creazione, delle modalità di reclutamento e del comando di una Divisione Spagnola di volontari che avrebbe combattuto contro i Sovietici insieme ai Tedeschi divenne argomento centrale del dibattito e fonte di tensione. I meno politi­cizzati furono minacciati di ritorsioni. Cfr Javier Tusell, Franco, Espana..., op. cit., pp. 389-406 e 414-417; Gerald R. Kleinfeld e Lewis A. Tambs, La División Espanola de Hitler. La División Azul en Rusia, Madrid 1983, pp. 17-32.114 Per l’episodio del battesimo cfr cap. X, § 1. Il sacerdote, dopo il batte­simo, rivide la famiglia e la bimba, di nome Guadalupe, solo nella circo­stanza narrata.115 Certamente fra i cattolici spagnoli regnava una completa disinforma­zione sul regime nazista. Va ricordato che, a motivo della congiuntura po­litica e bellica del momento, in Spagna non fu autorizzata la diffusione dell’Enciclica di Pio XI Mit brennender Sorge del 14-111-1937, che fu pub­blicata solamente sui bollettini diocesani di Calahorra e di Vitoria, rispet­tivamente nel febbraio e nel maggio 1938, e dalla rivista Razón y Fé, nel maggio 1938. Sorte analoga toccò alla Lettera pastorale collettiva dell’E- piscopato tedesco, datata Fulda 19-VIII-1938, che fu riportata solo dai bollettini diocesani di Calahorra e di Toledo. Cfr Gonzalo Redondo, Hi- storia de la..., op. cit., Voi. II, pp. 208-210.116 Cfr Alvaro del Portillo, Intervista..., op. cit., p. 31.117 È opportuno precisare che i comunisti spagnoli avevano pessimi rap­porti con gli altri esiliati, specialmente con i socialisti.118 Cfr Sai 27,1.3; cfr anche RHF, D-15428.11? Lettera di Isidoro a Enrique Espinós Raduàn, 26-IV-1939, in IZL, D- 1213, 428.120 RHF, D-03691. Che seguisse da vicino le questioni economiche risulta da una lettera a un amico di Bilbao, in cui parlava di ottenere “un prestito rimborsabile a scadenze stabilite. Sono soffocato dal problema economi­co” (Lettera a Emiliano Amann, da Madrid, in EF-390518-2).121 Lettera ai suoi figli di Madrid, da Burjasot, in EF-390606-3.122 Lettera ai suoi figli di Madrid, in EF-390626-2. Diceva la stessa cosa alla madre e ai fratelli: “La verità è che ho una gran voglia di tornare. So­prattutto perché mi ricordo che lì c’è tanto da fare” (Lettera da Vergara, in EF-390626-1).123 Lettera di Isidoro al Fondatore, l-VII-1939, in IZL, D-1213, 436.124 EF-390720-1.125 Appunti, n. 1602.

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126 Lettera a Eduardo Alastrué, da Alacuàs, in EF-390813-1.127 Appunti, nn. 1603-1604, del 12-VIII-1939.128 Ibidem.129 Su questi temi, cfr Francisco Botella, RHF, T-00159/1, p. 95; e Lettera di Isidoro a Eduardo Alastrué, del 22-IX-1939, in IZL, D-1213, 447.130 Cfr José Orlandis Rovira, Anos de juventud en el Opus Dei, Madrid 1993, pp. 35-48.131 Sulla malattia e sulla permanenza del Fondatore a Valencia, cfr Anto­nio Rodilla, RHF, T-01234; Alvaro del Portillo, Sum. 867. Cfr anche José Orlandis, op. cit., pp. 50-52.132 Sull’oratorio, cfr Francisco Botella, RHF, T-00159/1, pp. 95-96; Fran­cisco Ponz Piedrafita, RHF, T-04151, p. 30. Isidoro raccontò in una lette­ra che Pedro Casciaro aveva disegnato e tagliato “alcune pianete che ri­scuotono ammirazione per colore e forma” (Lettera a José Orlandis, 28- XI-1939, in IZL, D-1213, 451), anche se per la verità a Isidoro la qualità del tessuto, forse per contrasto con la povertà dell’oratorio, sembrò ecces­siva. Altri testimoni fanno semplicemente riferimento al decoro e alla puli­zia dei paramenti. Non occorreva un nuovo permesso del Vescovo per l’o­ratorio, poiché valeva l’erezione canonica già concessa per via Ferraz. Don Josemaria si limitò a chiedere per iscritto la conferma della precedente concessione (cfr RHF, D-15107).133 Lettera 29-XII-1947114-11-1966, n. 45. Questa lettera, come accadde con altre dall’ampio contenuto, restò in archivio e non fu inviata ai mem­bri dell’Opera. La doppia data indica che nel 1966 egli terminò la revisio­ne del testo scritto nel 1947.134 Alvaro del Portillo, Sum. 512.135 Su che cosa significasse la scelta di Carmen e fino a qual punto si fosse dedicata al servizio dell’Opera c’è un episodio narrato da Francisco Botel­la. Un giorno questi e Pedro Casciaro scesero al secondo piano per tenere compagnia alla Nonna: “Mentre ci faceva vedere vecchie foto, disse: ‘Car­men non si è sposata per voi - per Josemaria e per voi - per stare sempre con tutti noi; aveva buoni pretendenti’” (RHF, T-00159/1, p. 99).136 Cfr Santiago Escrivà de Balaguer, RHF, T-07921, p. 21.137 Cfr Miguel Àlvarez Morales, Vicente Mortes, Madrid. 1995, pp. 65-66.138 Cfr Francisco Botella, RHF, T-00159/1, p. 97.139 Fernando Valenciano Polack, Sum. 7070.140 Ibidem.141 José Luis Muzquiz de Miguel, Sum. 5791.142 Francisco Ponz, RHF, T-04151, p. 10.143 Francisco Ponz, Mi encuentro con el Fundador del Opus Dei. Madrid, 1939-1944, Pamplona 2000, p. 38.144 Ibidem, p. 39.

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145 Cfr ibidem.146 Cfr ibidem, pp. 47-50; e Francisco Botella, RHF, T-00159/1, p. 114.147 Lettera a José Orlandis, da Madrid, in EF-400127-1.148 Lettera di Isidoro a Francisco Javier de Ayala, del 22-VII-1940, in IZL, D-1213, 463.149 Cfr Lettera di Isidoro a José Ramón Madurga, del 18-IX-1940, in IZL, D-1213, 467.150 Cfr RHF, D-15013, D-15014 e D-05212.151 In Un santo per amico..., op. cit, pp. 215-216.152 Cfr Appunti, n. 55, del 16-VI-1930, dove, definendoli “vivai di Signori con la tonaca”, don Josemaria esprimeva la speranza che i futuri seminari fossero non solamente scuola di santità, ma anche di eccelse virtù umane.153 Pedro Cantero Cuadrado, in Un santo per amico..., op. cit., p. 82.154 Lettera ad Alvaro del Portillo e ai propri figli di Madrid, da Àvila, in EF-400701-1.155 Ibidem.156 Cfr Lettera di mons. Carmelo Ballester al Fondatore, del 3-V-1940, in RHF, D-15289/1.157 Cfr Lettera di Rufino Aldabalde-Trecu, del 7-VI-1940, in RHF, D- 15715.158 Lettera ai suoi figli di Madrid, da Leon, in EF-400800-1; cfr Appunti, n. 1617, del 4-VIII-1940.159 Lettera di Guillermo Maranón, da Vitoria, 30-V-1940, in RHF, D-15716. 16° j{ppunti? n. 1617.161 Ibidem, n. 1618, del 4-VIII-1940.162 Lettera ai suoi figli di Madrid, da Leon, in EF-400804-1.163 Lettera ai suoi figli di Madrid, da Leon, in EF-400807-1.164 Lettera ad Alvaro del Portillo, da Valencia, in EF-410820-1.165 Appunti, n. 1612.166 Pedro Cantero Cuadrado, in Un santo per amico..., op. cit., p. 71.167 Joaquin Mestre Palacio, RHF, T-00181, p. 15.168 Cfr Alvaro del Portillo, PR, p. 406.169 Ibidem.170 Joaqum Mestre, RHF, T-00181, p. 15; cfr anche Vicente Moreno, Let­tera al Santo Padre, 12-11-76.171 Lettera di mons. Carmelo Ballester al Fondatore, ll-VIII-1940, in RHF, D-15289.172 La lettera di mons. Ballester è datata 11 agosto 1940. Il Fondatore il giorno 8 confessò più di un centinaio di sacerdoti ai quali aveva predicato

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gli esercizi spirituali (cfr Lettera ai suoi figli di Madrid, da Leon, in EF- 400808-1).173 Lettera di mons. Marcelino Olaechea ad Àlvaro del Portillo, del 22-XI-1941, in RHF, D-15224.174 Cfr Àlvaro del Portillo, PR, p. 667. Don Eliodoro Gii sottolinea, aven­dolo conosciuto bene, che “non volle mai ricevere alcun compenso econo­mico per il suo lavoro a favore del clero diocesano” (Eliodoro Gii Rivera, RHF, T-07987, p. 5).175 Una relazione sui viaggi apostolici del Fondatore dell’Opus Dei nella Penisola Iberica, dal 1939 al 1946, in Appendice documentale, documen­to XXII.176 José Lopez Ortiz, in Un santo per amico..., op. cit., p. 195-196. Cfr Al­fredo Lopez Martinez, Sum. 5739. Fra le comunità alle quali predicò ci furono i Gerolamini del Parrai (Segovia), gli Agostiniani dell’Escorial, gli Scolopi del Colegio Calasancio di Madrid, ecc.177 Lettera a José Orlandis, da Madrid, in EF-400127-1.178 Lettera ad Àlvaro del Portillo e a quelli di Madrid, da Àvila, in EF- 400701-2.179 Appunti, n. 1598, del 17-VII-1939.180 EF-400701-2.181 Cfr Appunti, n. 1618, del 4-VIII-1940.182 Lettera a don Amadeo Colom Freixa, da Madrid, in EF-411001-1.183 Appunti, n. 1854, del 9-XI-1941.184 Lettera a José Manuel Casas Torres, da Madrid, in EF-390716-4.185 Lettera ai suoi figli di Valencia, da Madrid, in EF-400127-2.186 Q:r Francisco Ponz, Mi encuentro con..., op. cit., pp. 57-60.187 Cfr Francisco Botella, RHF, T-00159/1, p. 101.188 Cfr Àlvaro del Portillo, Sum. 861.189 Ibidem, Sum. 859.190 Pedro Casciaro, relazione Viaggio a Valencia, 31 gennaio-2 febbraio 1940 (RHF, D-15204). Grazie alle molte sgradevoli esperienze con la Ci­troen, il Padre finì con l’imparare qualcosa sui motori: almeno il nome dei pezzi che si guastavano in viaggio. “Non ci crederete - scrisse un mese dopo ai valenziani - ma la macchina si è riabilitata. Va bene e inoltre, gra­zie ai suoi precedenti capricci, so che ha delle candele, dei manicotti e i cu­scinetti” (EF-400227-1).191 Lettera 29-IX-1957, n. 65.192 Francisco Ponz, RHF, T-04151, p. 27; cfr Àlvaro del Portillo, Sum. 626. Direttore di El Rincón (la casa di Valladolid) fu nominato Javier de Silió, praticamente un ragazzo; direttore di El Palau (a Barcellona) Rafael Termes, entrambi senza alcuna esperienza e da poco tempo nell’Opera.

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193 Lettera di Isidoro a Ignacio de la Concha Martinez, 17-IV-1940 (IZL, D-1213, 455).194 Appunti, n. 1610.195 II Fondatore visitò Valencia in diverse occasioni nel 1940, per avviare l’apostolato e la sistemazione della Residenza. Il 31 luglio El Cubil fu ab­bandonato per la nuova casa, che il Padre benedisse il 20 settembre. Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 626; Francisco Botella, RHF, T-00159/1, p. 97; Amadeo de Fuenmayor, RHF, T-02769, p. 3.196 Lettera da Àvila, EF-400701-1. Miguel de los Santos Diaz Gómara era stato Presidente del Seminario sacerdotale di S. Carlo a Saragozza e Ve­scovo ausiliare del Cardinale Soldevila. Era stato lui a ordinare sacerdoteil Fondatore (cfr voi. I, cap. III).197 Cfr Cammino, n. 978.198 Lettera ad Alvaro del Portillo e ai suoi figli di Madrid, da Àvila, in EF- 400704-1.199 Lettera a José Ramon Madurga, 18-IX-1940, in IZL, D-1213, 467. Sul tema dell’apostolato nel campo dell’insegnamento, il Fondatore aveva scritto ai suoi figli una lettera che iniziava con alcune considerazioni circa i diritti e la missione della Chiesa in questo campo e i relativi doveri dei cristiani: “Voglio oggi parlarvi, figlie e figli carissimi, della pressante ne­cessità che uomini e donne con lo spirito della nostra Opera siano presenti nel campo dell’insegnamento: professione nobilissima e della massima im­portanza per il bene della Chiesa, il cui principale nemico è sempre stato l’ignoranza, e anche per la vita della società civile, perché ‘la giustizia fa onore a una nazione, ma il peccato segna il declino dei popoli’ (Prov 14, 34); perché ‘con la benedizione degli uomini retti si innalza una città, la bocca degli empi la demolisce’ (Prov 11, 11). E urgente, dicevo, formare buoni maestri e professori, con una profonda preparazione, dotati di scienza umana, conoscenze pedagogiche, dottrina cattolica e virtù perso­nali, i quali, per i loro meriti e mediante il loro sforzo professionale, giungano con prestigio in tutti gli ambiti dell’insegnamento” (Lettera 2-X- 1939, nn. 3 e 4).200 Lettera 9-1-1932, n. 87.201 Cfr Pedro Casciaro, op. cit., p. 156.202 II C.S.I.C. fu creato con la legge 24 novembre 1939. Il primo Segretario Generale fu Albareda. Sulle conversazioni svoltesi nel 1938 tra il Fondato­re e Albareda sull’importanza dell’alta ricerca scientifica, cfr Enrique Gu- tiérrez Rios, op. cit., pp. 147-174; Pedro Casciaro, op. cit., pp. 152-153; Alvaro del Portillo, Sum. 590. Cfr pure Appunti, n. 57, del 16-VI-1930.203 Cfr Pratica personale, Archivio della Facoltà di Diritto della Università Complutense di Madrid. Uno dei membri della commissione di laurea era José Lopez Ortiz, Ordinario di Storia del Diritto nell’Università di Ma­drid, il quale testimonia che l’autore “aveva lavorato a fondo e la data della discussione della tesi potè essere fissata per la fine di dicembre. Il

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tema era La Abadesa de Las Huelgas, un lavoro di ricerca giuridica con­dotto con un talento e uno stile veramente straordinari, che colpirono tutti noi che facevamo parte della commissione e che fecero sì che la tesi meritasse i pieni voti” (in Un santo per amico..., op. cit., p. 181). Nell’a­prile 1944 don Josemarìa si recò a Burgos alla ricerca di alcuni dati per ampliare l’argomento e approfondirne lo studio teologico: “Mi ricordo della benedetta carità di V. R. nell’archivio superiore - scrisse alla Badessa - che ha sopportato il fastidio arrecato da questo povero ricercatore. Im­magino che siano rimaste completamente esauste le due simpaticissime monache che abbiamo fatto salire e scendere per rivoltare tutto l’archivio. Dio gliene renda merito!” (Lettera a Madre Esperanza de Mallagaray, S.O.Cist., da Madrid, in EF-440405-1). Alcuni giorni dopo, con il libro già in stampa, egli chiese alla Badessa ulteriori dati (cfr Lettera da Ma­drid, in EF-440419-1).204 In una lettera a Enrique Giménez-Arnau si legge: “Caro Enrique, ho ri­cevuto la nomina a professore della Scuola di Giornalismo. Ti ringrazio e, poiché il Vescovo di Madrid ci tiene in modo particolare che io accetti, lo farò con piacere e spero di fare un buon lavoro per Dio e per la Spagna” (Lettera da Madrid, in EF-401025-1). Alcuni mesi dopo comunicava al Vescovo di Madrid: “Ho iniziato il lavoro nella Scuola di Giornalismo, con la gioia di obbedire. Ho già inviato il programma a S.E., tramite don Casimiro; gli riferirò di persona le mie impressioni” (Lettera da Valencia, in EF-410122-1). Dei Corsi di specializzazione in giornalismo, creati con un Decreto del 24-VIII-1940 (Bollettino Ufficiale del 13-IX-1940), era se­gretario Pedro Gómez Aparicio che, in un articolo pubblicato sulla Hoja del Lunes di Madrid, il 14 luglio 1975, riferì i propri ricordi sulla docenza di don Josemarìa. La Scuola Ufficiale di Giornalismo fu creata l’anno suc­cessivo (17-XI-1941); ne fu direttore Juan Aparicio Lopez e funzionò fino al 1975, quando fu sostituita dalla Facoltà di Scienze dell’informazione.205 Lettera ai suoi figli di Valencia, da Madrid, in EF-400127-2.206 Lettera di mons. Marcelino Olaechea, del 14-1-1940, in RHF, D- 15719.207 Lettera di mons. Javier Lauzurica, del 31-1-1940, in RHF, D-15720.208 Cfr Appunti, n. 178, del 28-111-1931.209 Si veda, per esempio, ciò che annotò il 25-XI-1939 sulla comprensione dell’Opus Dei da parte di qualche Vescovo amico: “La Gerarchia ama l’O- pera, anche se la conosce a metà, perché non la capiscono del tutto” (Ap­punti, n. 1606).210 Ibidem, n. 1605.211 Ibidem, n. 1607. L‘annotazione, del 25-XI-1939, comincia così: “Il mio confessore e il Vicario Generale di Madrid, ordinandomelo, mi dico­no di preparare il necessario per la prima approvazione ufficiale dell’Ope­ra di Dio”.212 Ibidem, n. 1609, del 5-II-1940.

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213 Cfr ibidem, n. 1615, del 21-VI-1940.214 Cfr José Maria Bueno Monreal, in Un santo per amico..., op. cit., p. 36.115 Appunti, n. 1613, del 21-VI-1940. Cfr A. de Fuenmayor, V. Gómez Iglesias, J.L. Illanes, L'itinerario giuridico dell3Opus Dei. Storia e difesa di un carisma, Milano 1991, pp. 103 e ss.216 Appunti, n. 42, del giugno 1930.217 Ibidem.218 Ibidem, n. 65, del 16-VI-1930.219 Ibidem, n. 1307, del 25-1-1936. Quando, nel 1935, arrivò il momento di iniziare il lavoro di S. Gabriele, cioè l’apostolato con persone di ogni stato e condizione - celibi e nubili, sposati, ecc. - , il Fondatore annotò: “Grazie a Dio, cresciamo. Gli abiti ci vengono stretti”, intendendo dire che era l’ora di creare strumenti giuridici: che potessero inglobare questo nuovo apostolato (ibidem, n. 1290, del 14-X-1935).220 Ibidem, n. 1309, del 25-1-1936. In una lettera ai suoi figli il Fondatore ritornò su quest’idea: “Quando il Cielo dirà che è arrivata l’ora, allora apriremo, nell’organizzazione dell’apostolato nella Chiesa, l’alveo entro il quale deve scorrere questo fiume impetuoso che è l’Opera, che nelle circo­stanze attuali non ha ancora un posto adeguato in cui collocarsi: sarà un compito arduo, penoso e duro. Bisognerà superare molti ostacoli, ma il Si­gnore ci aiuterà, perché tutto nella sua Opera è Volontà sua” (Lettera 11-III-1940, n. 46).Questa mancanza di un inquadramento per l’Opus Dei adeguato alla sua natura e alle sue attività apostoliche appartiene allo stesso ordine di cose che ha obbligato il Fondatore allo sforzo per fare spazio alla novità dei concetti nella terminologia tradizionale: mancavano vocaboli per esprime­re i fatti nuovi, oppure il contenuto dei vocaboli esistenti, forgiato dalla storia, era inadeguato alle nuove situazioni. Avrebbe scritto: “Per espri­mermi uso parole che andrebbero sostituite da una nuova terminologia. Se la inventassi ora, non mi capirebbero. A suo tempo dovremo usare questa nuova terminologia” (Lettera 29-XII-1947II14-11-1966, n. 14).221 Le voci erano, per lo più, autentiche idiozie. Per esempio che “quando stavamo inginocchiati, mettevamo le mani dietro la schiena in una specie di strana cerimonia. Per la verità - racconta il Fondatore - ci si inginoc­chiava sul pavimento perché non c’erano banchi e veniva istintivo tenere le mani dietro la schiena” (Lettera 29-XII-1947//14-II-1966, n. 61). Su questo cfr anche la lettera del Vescovo di Madrid, Leopoldo Eijo y Garay, del 21-VI-1941, all’Abate Coadiutore di Montserrat, Dom Aurelio Maria Escarré, O.S.B., RHF, D-03545/3; Alvaro del Portillo, Sum. 414; José Luis Muzquiz, Sum. 5800; Pedro Casciaro, Sum. 6327.222 Cfr Appunti, n. 751, del 15-VI-1932; n. 1240, del 10-111-1935; n. 1267, del 7-V-1935; n. 1290, del 14-X-1935; n. 1292, del 28-X-1935; ecc.223 II testo in RHF, D-15074.

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224 Cfr À lvaro del Portillo, Sum. 414; Pedro Casciaro, Sum. 6327.225 Lettera da Madrid, in EF-400423-1.226 Appunti, n. 1611.227 Cfr Lettera ad Àlvaro del Portillo, da Àvila, in EF-400701-2, e Appun­ti,, n. 1614, del 21-VI-1940.228 Lettera da Leon, in EF-400806-2.229 Appunti,, n. 1619, del 24-VIII-1940.230 Lettera a mons. Miguel de los Santos Diaz Gómara, da Madrid, in EF-400915-1. Mons. Diaz Gómara era stato nominato Vescovo di Carta- gena (Murcia) nel 1935; fu poi Amministratore Apostolico di Barcellona fino al 1942.231 Lettera a mons. Marcelino Olaechea, da Madrid, in EF- 400910-1.232 Cfr Appunti, n. 1622, del 15-XI-1940. Sulla cronologia, cfr RHF, D- 15200 e D-15204.233 Su p. Carrillo e la Congregazione Mariana di Madrid, cfr Carlos Lopez Pego, La Congregación de ‘Los Luises* de Madrid. Apuntes para la histo­ria de una Congregación Mariana Universitaria de Madrid, Madrid 1999.234 Cfr Appunti, n. 1626, del 15-XI-1940.235 Ibidem, n. 1623, del 14-IX-1940.236 Cfr ibidem, n. 1624, del 15-IX-1940.237 Cfr Àlvaro del Portillo, Sum. 329.238 RHF, D-15713. Una certa discrezione da parte dei membri dell’Opus Dei, nato solo da pochi anni, nello svolgimento dell’apostolato era d’ob- bligo nelle circostanze politiche della Spagna fra il 1931 e il 1939. Per evi­tare difficoltà o persecuzioni il Fondatore ebbe cura —e il suo direttore spirituale lo aveva appoggiato - di agire “con santa discrezione” (cfr Ap­punti, n. 486, del 16-XII-1931; n. 734, del 24-V-1932; n. 799, del 5-VIII- 1932; n. 1216, del 10-1-1935).239 RHF, D-15713.240 Ibidem.241 Àlvaro del Portillo, Sum. 330.242 Cfr ibidem. Il Fondatore lo interpretò come un’ultima dimostrazione di affetto da parte del confessore, a giudicare da quanto scrisse: “Àlvaro mi ha accompagnato e ha assistito ai due ultimi colloqui che ho avuto con questo venerabile Padre Gesuita. Nell’ultimo mi feci restituire il Codex, come allora chiamavamo i nostri Statuti. Me lo diede. Glielo avevo lascia­to per quanto in esso vi è di attinente alla mia anima. E P. Sànchez, come ultima dimostrazione di affetto, mise tra le carte un foglietto con i nomi delle persone che si erano date da fare, insieme a Padre C. de A., per pro­palare favole, pettegolezzi e interpretazioni che erano stati il falso fonda­mento, non l’occasione, per la campagna che tuttora perdura” (Lettera 29-XI1-1947H14-11-1966, n. 20).

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243 RHF, D-15713.244 Appunti, n. 1625, del 4-XI-1940. A questi favori si riferiva con l’e­spressione “degli zuccherini” (letteralmente “dedadas de miei” - ditate di miele, NdT) (cfr Lettera 29-XI1-1947II 14-11-19 66, n. 20).245 Appunti, n. 1622, del settembre 1940.246 ibidem, n. 1625, del 4-XI-1940.247 Àngel Carrillo de Albornoz era nato nel 1905; entrò nella Compagnia di Gesù il 15-VII-1925 e fece la professione il 15-VIII-1941. Nel 1940 fu nominato direttore della Confederazione Spagnola delle Congregazioni Mariane; il 5-IV-1948 divenne Direttore del Segretariato Centrale delle Congregazioni Mariane e fu trasferito a Roma, alla Curia Generalizia di

^ Borgo Santo Spirito. Abbandonò la Compagnia nel 1951 (cfr R. Mendizà- bal, Elenchus Scriptorum qui, in restitutam Societatem Iesu cooptati, eam deseruerunt, in Catalogus defunctorum in Renata Societate Iesu ab a. 1814 ad a. 1970, Roma 1972, p. 605).248 Appunti, n. 1626. José Maria Garcia Lahiguera era nato nel 1903 a Fi- tero, nella Navarra; fu ordinato sacerdote nel 1926 a Madrid e morì nel 1989. Dopo la guerra civile fu professore, Superiore e Direttore spirituale del Seminario di Madrid negli anni in cui il Fondatore, fino al 1944, si confessò con lui. Divenne poi Vescovo Ausiliare di Madrid, consacrato nel 1950; fu Vescovo di Huelva dal 1964 al 1969, anno in cui fu nominato Arcivescovo di Valencia. Fu cofondatore di un’opera contemplativa fem­minile, le Oblate di Cristo Sacerdote, che ebbe l’approvazione pontificia nel 1967. Su di lui cfr Salvador Munoz Iglesias, José Maria Garda Lahi­guera - un carisma - una vida, Madrid 1991; Vicente Càrcel Orti, Pasión por el sacerdocio. Biografia del Siervo de Dios José Maria Garda Lahi­guera, Madrid 1997.249 Appunti, n. 1873, del 22-XI-1948.250 Lettera a Florencio Sànchez Bella, da Roma, in EF-631206-2.

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Capitolo XIII“COLUI CHE AMA LA VOLONTÀ DI DIO”

1. La morte della NonnaIl Fondatore, avvezzo a considerare serenamente le av­versità, non si lasciava deviare né ostacolare da nulla nello sviluppo della fondazione. Pensava che Dio e il tempo avrebbero risolto le difficoltà, purché da parte sua si fosse impegnato al massimo. Sapeva attendere; inoltre l’Opera aveva una prospettiva di secoli. Accanto a questo fiducioso abbandono nella Provvidenza, nella sua natura c’era anche una sorta di potente molla dagli effetti fulminei. La sua fretta proveniva dall’impetuoso amore di Dio e dalla pressante responsabilità con cui ogni giorno adempiva la propria missione. E comunque difficile spiegare come elementi tanto diversi potessero armonizzarsi nella sua persona.

Fin dai primi anni, don Josemaria aveva lavorato con sacerdoti e giovani studenti, con operai, artigiani e arti­sti, “continuando a sentire la necessità di cercare anime tra le donne”1. Passò molto tempo prima che giungesse­ro le prime vocazioni femminili. Quando annotò nelle Caterine “questo felice avvenimento” il 14 febbraio 1932, si rese conto che erano trascorsi esattamente due anni da quando il Signore gli aveva chiesto di lavorare

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anche con le donne. Così, rapidamente ma senza fretta, aveva avviato anche questo apostolato.

Don Josemarìa aveva affidato la direzione spirituale delle prime ragazze ad alcuni sacerdoti che lo seguiva­no, nessuno dei quali, tuttavia, arrivò mai a cogliere lo spirito della donazione a Dio in mezzo al mondo. A mo­tivo delle circostanze - tre anni di isolamento durante la guerra civile - nelle anime di queste ragazze era cambia­to l’orientamento della vita interiore. Interrotta la for­mazione che stavano ricevendo dal Fondatore, il vuoto era stato riempito da una spiritualità molto lontana dal carattere secolare dell’Opera. Per la verità il difetto ori­ginale era stato nei sacerdoti incaricati di formarle “a tal punto - egli scrisse - che nel 1939 decisi di fare a me­no di loro”2, per il bene dell’Opera e delle loro stesse anime. Il 28 aprile, per la precisione, comunicò a una di esse, Ramona Sànchez, la sua “ferma intenzione di pre­scindere da tutte le ragazze”, che avrebbero dovuto “se­guire un’altra strada, in una religione o nel matrimo­nio”, e le chiese di dirlo alle altre da parte sua3. Quando ebbero lasciato l’Opera, aiutò alcune di loro, che glielo avevano chiesto, a entrare in qualche congregazione re­ligiosa. Ed egli ricominciò ex novo questo apostolato.

Pertanto, una delle due componenti dell’Opera, quel­la femminile, fu azzerata, con la sola eccezione di Lola Fisac. Si è già visto che Lola aveva chiesto l’ammissione nel maggio 1937, mentre il Fondatore era rifugiato nel Consolato dell’Honduras. Quando era uscito dal suo ri­fugio grazie alla nomina a Intendente del Consolato, don Josemarìa aveva seriamente pensato di fare un viag­gio a Daimiel, il paese della Mancha dove si trovava Lo­la. Avrebbe voluto portare il Santissimo perché si potes­sero comunicare lei e il fratello Miguel, nascosto in casa dei genitori. Ma gli eventi non lo consentirono prima della fine della guerra.

Due anni dopo potè dar seguito al suo desiderio. Il 18 aprile 1939 il Padre partì infatti per Daimiel e dormì in476

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casa Fisac dove, non essendoci altra possibilità, gli fu si­stemato un letto nel salotto, con uno studio per lavorareo ricevere. Quanto alla Messa, tutte le chiese del paese erano chiuse al culto, saccheggiate o profanate. Sola­mente un sacerdote era potuto sfuggire allo sterminio di chierici e religiosi. Questo sacerdote aveva in casa sua i necessari paramenti e un altare portatile. Così don Jose- maria, il giorno successivo al suo arrivo, potè celebrare la Messa per le intenzioni della famiglia Fisac.

Il 20 aprile Lola ebbe una lunga conversazione con il Fondatore e gli raccontò la sua vita; il Padre, seduto allo scrittoio e armato di carta e penna, le scrisse un piano di vita. Prese un foglio e lo intestò con l’invocazione: Sanc- ta Maria, Spes nostra, Ancilla Domini, ora prò nobis, e poi cominciò a indicare il tempo dell’orazione: mezz’ora “al mattino, sempre alla stessa ora”. Poi le scrisse come fare ad avere presenza di Dio e a dedicare ogni giorno della settimana a una devozione. Le prescrisse quindi la lettura spirituale sulla Storia di un’anima di Santa Tere- sina. Aggiunse il Rosario e gli esami di coscienza quoti­diani: quello generale sugli obblighi verso Dio e verso il prossimo; e quello particolare, per vivere meglio la pre­senza di Dio e per terminare in modo coscienzioso il la­voro intrapreso. Completò tutto con l’indicazione di fa­re sempre comunioni spirituali e atti d’amore e di contrizione.

Don Josemaria concluse le istruzioni scritte con una breve raccomandazione: “Vivi la Comunione dei Santi”; e con un consiglio: scrivergli a Madrid ogni otto o dieci giorni4. Nel corso del 1939 Lola si recò a Madrid in di­verse occasioni. La prima, il 22 maggio, passò alcuni giorni presso parenti che abitavano in via Santa Isabel, proprio di fronte al Patronato, e ne approfittò per parla­re di nuovo e confessarsi con don Josemaria; inoltre co­nobbe Carmen e la signora Dolores e cominciò a pren­dere confidenza con loro.

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Non c’era da stupirsi di fronte alle prime difficoltà della ragazza, sola in un paesino sperduto:

“Gesù ti protegga - le scriveva don Josemaria - . Stai tranquilla, stai andando bene.Il Signore edifica sempre sul nulla! Ha bisogno di tutti gli strumenti: gli utensili del falegname e le pinze del chi­rurgo. Che cosa importa? Il bello sta nel lasciarsi usare. Freddezza o fervore: l’importante è che la volontà vo­glia; non ti deve importare del fervore o della freddezza.Ti benedico - Mariano”5.Quando lei ritornò di nuovo a Madrid, nella seconda

metà di settembre, don Josemaria si era già trasferito da Santa Isabel alla Residenza di via Jenner. Lola provò gioia e tranquillità di spirito vedendo una realtà in cre­scita, qualcosa di tangibile, non più solo promesse eva­nescenti.

Quando si recò per la terza volta a Madrid, poco pri­ma del Natale 1939, rimase ad abitare con la signora Dolores nell’appartamento di via Jenner. Giorni indi­menticabili e piacevoli, in mezzo al via vai della casa e al­le faccende domestiche e con la compagnia della Nonna.

I residenti la vigilia di Natale preparavano il presepe al piano superiore e, di tanto in tanto, scendevano per chiedere qualcosa alla Nonna. Ed ella, ricordando i vec­chi tempi, quando il marito faceva il presepe aiutato dai bambini, diceva loro ciò che suo figlio aveva scritto in Cammino: “Non mi sei mai apparso tanto uomo come in questo momento, in cui sembri un bambino”6.

Lola conobbe allora Amparo Rodriguez Casado, un’altra giovane che faceva parte dell’Opera e proveni­va dal gruppo di ragazze che don Josemaria aveva diret­to spiritualmente a Burgos. Un giorno il Fondatore illu­strò a queste sue due figlie il panorama apostolico dell’Opera che aveva in mente. Lo descrisse a grandi li­nee, facendo loro capire che non erano castelli in aria,478

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ma progetti realistici. Lo dipinse con tale vivacità ed en­tusiasmo - dice Lola - “che ci sembrò sorprendente e splendido. Mi spaventò alquanto”7.

Negli Appunti del 1939 ci sono dei notevoli vuoti di uno, due e anche tre mesi fra un’annotazione e la 'suc­cessiva. Queste note solitarie, in spazi così prolungati, incutono rispetto al lettore, poiché sono evidentemente riservate a osservazioni importanti. In una nota della fi­ne del 1939, si legge: “La mia preoccupazione è l’apo­stolato con le donne. Anzi, no, la mia prima preoccupa­zione sono io stesso”8.

L’anno 1940 fu per Lola molto lungo. Quando ri­tornò da Madrid al paese, piena di slanci e desideri, ma anche un po’ preoccupata dal panorama esigente che il sacerdote le aveva fatto intravedere, nella forzata inatti­vità crebbe la sua impazienza per il desiderio di impe­gnarsi nelle iniziative di apostolato. Premura che il Fon­datore sedava scrivendole:

“Gesù ti protegga!Questa impazienza per il lavoro è gradita a Dio purché non ti tolga la pace. Fa’ in modo che ti serva da sprone, per cercare di stare sempre alla presenza del Signore: co­sì contribuirai davvero ad anticipare il momento.Unisciti alle intenzioni del Padre; non dimenticare il va­lore immenso della Comunione dei Santi: non potrai mai dire di essere sola, dato che ti sentirai in compagnia delle tue sorelle e di tutta la famiglia”9.Il Padre non permetteva che il divino entusiasmo di

quell’anima si spegnesse. Perciò, alternando prudente­mente il sollievo con lo stimolo, manteneva viva la fiam­ma della speranza. Tre settimane dopo, nell’anniversa­rio della fondazione della parte femminile, tornò a insistere:

“Non perdermi la pace per nulla. Non bisogna cedere ai nervi”10.479

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Il mese successivo tornò a scriverle:“Stai tranquilla. Allegra e in pace. Questa è la parola d’ordine”11.Oltre a molta pazienza, egli aveva lo sguardo rivolto

al cielo e confidava che il Signore gli togliesse le preoc­cupazioni, come scrisse negli Appunti:

“Mercoledì 8 maggio 1940. Sono passati alcuni mesi in cui non ho scritto Caterine. Non è strano, perché conduco una vita così affaccendata da non aver tempo per nulla.La mia preoccupazione è la parte femminile dell’Ope- ra”12.Ben presto avvenne il desiderato mutamento. Il 10

maggio il Padre scrisse a Lola annunciandole l’arrivo di altre donne: “Amparo ti racconterà che la famiglia è au­mentata. Non ti dico quando, ma spero presto, ci sarà una casetta...”13. E il 21 giugno 1940 annotò con gioia: “La parte femminile - laus Deo! - comincia a funziona­re”14. La crescita comunque era lenta e faticosa, come seil Signore volesse mettere alla prova la fede e la tenacia del Fondatore. La tanto desiderata “casetta” fu inaugu­rata solo in autunno. Era un piccolo appartamento in affitto in via Castellò, che fu sistemato dalle ragazze che lo dovevano frequentare, con i pochi arredi portati dalle loro stesse case. Don Josemarfa si mise subito a dare le­zioni di formazione a quel gruppo di giovani donne. Ma fu per poco. Il 6 dicembre, racconta Lola Fisac, “l’ap­partamento fu lasciato: la giovinezza del Padre e la no­stra suscitavano la curiosità del vicinato”15. Il sacerdote non voleva assolutamente dare adito a questo tipo di maldicenze.

Ma forse Lola ignora altre ragioni che resero conve­niente abbandonare l’appartamento. A detta del Padre, che lo seppe dalla signora Dolores, le ragazze, “nell’ap­480

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partamento, invece di parlare di apostolato, si metteva­no a parlare di fidanzati”16. Almeno alcune di loro.

Ma la cosa peggiore (che certamente Lola ignorava) consisteva nel fatto che pioveva sul bagnato e che il sa­cerdote e l’Opera erano nel bel mezzo di un violento temporale: non si era ancora scaricato del tutto l’acquaz­zone di dicerie e di calunnie che, nell’autunno del 1940, minacciava l’onore del Fondatore; anzi, si annunciava un altro diluvio. Ecco una Caterina che descrive il clima di quel periodo, senza neppure calcare troppo le tinte:

“16 settembre 1940. Ieri mattina sono stato dal Vicario Generale per tenerlo al corrente di queste tribolazioni. Casimiro mi ha incoraggiato dicendomi: ‘Peggiorerà an­cora, e forse ti calunnieranno sulla materia del sesto co- mandamento. Ma non ti preoccupare. Di Sant’Ignazio, tra mille calunnie e con l’avversione di prelati e uomini dotti verso la Compagnia, arrivarono a dire che faceva uscire le donnette da casa loro per scopi immorali. Non mi meraviglierei, per le tue attività sacerdotali, di vederti un bel giorno in prigione. Sarebbe un buon segno’”17.Luogo degli incontri tornò a essere una stanza della

casa di via Diego de Leon 14. In questa palazzina c’era­no lavori in corso. Oltre alla famiglia della signora Do­lores, a don Josemarìa e ad Àlvaro del Portillo, pochi al­tri vivevano nell’edificio, freddo e inospitale nel periodo 1940-41 poiché non veniva acceso il riscaldamento. Di pomeriggio le ragazze si riunivano in una stanza del pia­no terreno, separata dalla zona dove stavano gli uomini, per cucire e confezionare paramenti destinati ai nuovi oratori. Il Padre passava un po’ di tempo con loro, dan­do suggerimenti sul loro lavoro professionale e criterio sullo spirito dell’Opera. In quella stanza, “quattro moc­ciose e un povero prete”, come diceva loro don Jose- marxa, stavano gettando le fondamenta di un cammino

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che, ormai già tracciato, sarebbe poi stato percorso da quelle che sarebbero venute dopo18.

Dal 10 dicembre in poi cominciò a predicare loro una meditazione, formandole anche in vista di una loro fu­tura incorporazione all’Opera. Ma anche con loro av­venne qualcosa di simile a quanto era accaduto con al­cuni studenti prima della guerra: senza dirgli nulla, non si facevano più vedere.

La signora Dolores e Garmen erano spesso presenti alle conversazioni che facevano le ragazze mentre lavo­ravano19. Soprattutto la Nonna, che ascoltava molto e interveniva poco20.

La signora Dolores abitava in una camera del primo piano, che dava sull’angolo fra via Diego de Leon e via Lagasca e aveva un’ampia veranda e un tavolino accan­to al quale trascorreva la sua vita di lavoro, sempre in­tenta a cucire, a lavorare a maglia o a leggere. Non sta­va mai in ozio. Così se la ricordano le prime donne dell’Opera che negli anni trenta avevano frequentato la casa di via Santa Isabel. Così se la ricorda Ramona Sàn- chez, una ragazza che, su consiglio di don Josemaria, nel 1940 entrò tra le Figlie della Carità: “Una gran si­gnora, sempre sorridente e cordiale, che passava intere giornate a cucire la biancheria, molto mal ridotta, dei ragazzi che aiutavano il Padre”21. I ricordi sono relativi alla Residenza di via Jenner; ma la signora Dolores per­severava ancora in quell’umile servizio.

Nell’appartamento di via Jenner talvolta don Jose- marìa invitava a pranzo qualche amico o conoscente. Poi, in via Diego de Leon, con sempre maggior frequen­za cominciarono a venire non pochi vescovi e altri ospi­ti distinti22. In tali occasioni la Nonna faceva da padro­na di casa a tavola e il suo nervosismo di fronte agli elogi dei Vescovi o degli invitati di rango appariva evi­dente dal rossore del viso. Aveva la pelle molto bianca ei capelli tutti d’argento e il suo imbarazzo si notava an­cora di più. “Oggi vengono degli invitati - diceva a Lola482

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Fisac -. L’unica cosa che mi dispiace è che arrossisco co­me se avessi quindici anni”23.

Tra i frequenti viaggi di don Josemarìa fuori Madrid per predicare e le sue molte occupazioni quando stava nella capitale, potevano trascorrere intere settimane senza che la signora Dolores vedesse suo figlio, pur abi­tando sotto il medesimo tetto. La signora sfogava la sua pena con un lieve sospiro: “Oggi non ho ancora visto mio figlio - diceva a Lola -. Ha tanto da fare... Pazien­za, non è venuto”24. A volte era meglio così, perché nel periodo tra l’inverno e la primavera del 1941 don Jose­marìa stava ricevendo colpi molto duri. La Nonna, ve­nuta a sapere di calunnie e difficoltà, soffriva e pregava e salutava il figlio con un compassionevole: “Figlio mio, non hai un solo giorno tranquillo”25. Almeno la Nonna ebbe la gioia, quasi al termine della sua vita, di sapere che l’Opera era stata approvata ufficialmente dal Vesco­vo di Madrid.

Era una donna sana, lavoratrice e resistente. Poche volte era stata costretta a letto. Non aveva altri acciac­chi che quelli reumatici, anche se indubbiamente era stata molto debilitata dalle vicende della guerra26. Usci­va di casa solamente per recarsi a Messa o per fare qual­che acquisto. Eccezionalmente, un giorno di primavera, intorno al 12 aprile, i suoi nipoti la portarono in gita a El Escoriai. Il giorno dopo le vennero forti dolori di te­sta e le fu diagnosticata una leggera affezione bronchia­le. Poi le venne febbre alta, ma era un decorso normale per la malattia. I due medici che la seguivano, Juan Jiménez Vargas e un suo collega, non erano preoccupati per la vita della paziente27.

Don Josemarìa era stato invitato dal Vescovo Ammi­nistratore Apostolico di Lerida, mons. Manuel Moli, a dare un corso di esercizi spirituali ai sacerdoti della dio­cesi28. Si avvicinava la data della sua partenza e volle consultare i medici sulle condizioni della madre; lo tran­quillizzarono, perché l’evoluzione della malattia mo­

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strava un miglioramento. Perciò il 20 aprile si acco­miatò da lei, pregandola di offrire le sue sofferenze per il lavoro che avrebbe svolto. La signora Dolores dal let­to, mentre il figlio usciva dalla stanza, si lasciò sfuggire a mezza voce un’esclamazione: “Benedetto figlio...!”29. Forse presentiva che sarebbe stato il suo ultimo sacrifi­cio.

Benché Àlvaro avesse telefonato al Padre a Saragozza che sua madre continuava a migliorare, don Josemaria aveva anch’egli in cuore un vago presentimento del sa­crificio che veniva chiesto anche a lui. Non appena giunto al Seminario di Lerida, rivolse questa preghiera a Gesù nel tabernacolo: “Signore, abbi cura di mia ma­dre, dato che io mi sto occupando dei tuoi sacerdoti”30. Poi andò in camera sua e, ancora con un triste presenti­mento, scrisse al Vicario Generale di Madrid:

“Sono appena giunto a Lerida e mi rimorde la coscienza per non averti detto che sarei venuto qui per dare un corso di esercizi a Sacerdoti. Non ho avuto material­mente il tempo di vederti. Ho parlato solo con Lahigue- ra. Ho lasciato a Madrid mia madre piuttosto malata. Chiedi al Signore, se questa è la sua Volontà, che non me la porti via ancora: mi sembra che sia Lui che io ne ab­biamo bisogno quaggiù”31.Ventiquattro ore dopo, improvvisamente, la Nonna si

aggravò, mostrando i sintomi di una polmonite. Le fu­rono portati gli ultimi sacramenti e alle prime ore del mattino del 22 aprile entrò in una lenta e serena agonia. Tanto serena che “la mattina prima della sua morte - racconta Santiago Escrivà - sono entrato come al solito nella sua camera per accomiatarmi prima di andare al­l’Università”32.

La Nonna a Madrid stava già agonizzando mentre don Josemaria si accingeva a predicare, nel Seminario di484

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Lerida, una meditazione sul tema della madre del sacer­dote:

“A metà degli esercizi, a mezzogiorno, diedi loro una meditazione sul lavoro soprannaturale, sul servizio ine­guagliabile che compete a una madre accanto a un figlio sacerdote. Terminai e mi trattenni in raccoglimento nella cappella. Quasi subito venne con un’espressione scon­volta il vescovo amministratore apostolico, che parteci­pava agli esercizi, e mi disse: ‘Alvaro la chiama al telefo­no’. ‘Padre, la Nonna è morta’, mi disse Alvaro.Tornai nella cappella, senza una lacrima. Compresi subi­to che il Signore mio Dio aveva fatto la cosa più giusta e mi misi a piangere, come piange un bambino, dicendo ad alta voce - ero solo con Lui - la lunga giaculatoria che tante volte vi ho consigliato: fiat, adimpleatur, lau- detur... iustissima atque amabilissima voluntas Dei su­per omnia. Amen. Amen. Da allora ho sempre pensato che il Signore volle da me questo sacrificio come dimo­strazione esterna del mio affetto per i sacerdoti diocesa­ni e che mia madre continua a intercedere in modo par­ticolare per questo lavoro”33.Il Governatore di Lerida, Juan Antonio Cremades, suo

amico dai tempi di Saragozza, mise a sua disposizione un’automobile. Ma, per una serie di circostanze, arrivò a Madrid solo alle quattro del mattino. Don Josemaria en­trò nell’oratorio della casa di via Diego de Leon, dove venivano vegliati i resti mortali della madre. Dopo un pianto contenuto e sereno davanti alle sue spoglie, chiese ad Alvaro di recitare con lui un Te Deum34.

Uscì dall’oratorio e si fece raccontare gli ultimi momen­ti della madre; si rivolse a bassa voce, con accenti filiali, al Signore: “Dio mio, Dio mio, che cosa hai fatto? Mi stai togliendo tutto, tutto. Pensavo che mia madre potesse aiutare ancora molto le mie figlie; invece te la porti via!”35. Si preparò per celebrare la Messa de corpore inse- pulto. A questa Messa ne seguirono altre, celebrate da sa­

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cerdoti amici. Nel pomeriggio ci fu il funerale. Presiede­vano il corteo funebre, accanto a don Josemarìa, il fratel­lo Santiago e fra’ José Lopez Ortiz. Dolores Escrivà fu se­polta nel cimitero della Almudena36.

Il Fondatore, oltre ad avere la ferma convinzione so­prannaturale che le circostanze della morte collegassero la madre al lavoro con i sacerdoti, le era profondamente grato per l’appoggio al suo lavoro sacerdotale; lo ripetè nelle lettere di quei giorni:

“Ho gradito di cuore le sue affettuose condoglianze iti occasione della morte di mia madre. E stato per me un colpo duro ma, nello stesso tempo, molto consolante; perché mi ha aiutato sempre con affetto nel mio lavoro sacerdotale e avrà ricevuto da Dio Nostro Signore la sua ricompensa”37.Di nuovo nella sua vita si ripeteva la lezione: in tutte

le cose Dio lo metteva di esempio ai suoi figli. Non era potuto essere presente alla morte del padre38 e, ora, nep­pure a quella della madre. Meditando su questi fatti, ne ricavava un chiaro insegnamento: doveva essere di esempio anche nel distacco, poiché in avvenire molti suoi figli, residenti in terre lontane a motivo dell’espan­sione dell’Opera, non sarebbero potuti essere presenti alla morte dei genitori.

Due giorni dopo la sepoltura - racconta José Luis Muzquiz - predicò una meditazione nell’oratorio in cui era stata vegliata la salma. Guardando il tabernacolo, come faceva spesso, e accettando pienamente la volontà di Dio, pregò così:

“Signore, sono contento che tu abbia avuto questa fidu­cia in me perché, benché si cercherà di fare in modo che i miei figli stiano accanto ai loro genitori nel momento della morte, non sempre ciò sarà possibile, per le esigen­ze dell’apostolato. E hai voluto, Signore, che anche in questo io dessi l’esempio”39.

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2. L’approvazione dell’Opera come Pia UnioneGli ultimi mesi di vita della Nonna erano stati piuttosto agitati. Nulla di strano, poiché le sventure - la Croce del Signore - avevano spesso visitato gli Escrivà. In mezzo alle tribolazioni don Josemarìa, da quando era diventa­to capofamiglia, aveva sempre seguito alla lettera il con­siglio del suo defunto padre. Non dimenticò mai che, quando era ancora ragazzo, a Logrono, José Escrivà in­vitava tutti loro a trovare appoggio gli uni negli altri, raccogliendosi in seno alla famiglia e proteggendosi re­ciprocamente. Così avevano affrontato le avversità. La signora Dolores nella sua vita era stata duramente pro­vata; ma pene e dispiaceri erano stati sempre celati nel­l’intimità del focolare domestico, dove tutti si sostene­vano a vicenda.

Tuttavia, nei suoi ultimi giorni, alla madre toccò la sgradevole sorte di vedere che suo figlio veniva pubbli­camente denigrato; da questo la caritatevole osservazio­ne che gli aveva fatto: davvero non riusciva ad avere una sola giornata tranquilla. Gli Escrivà erano tutti tan­to uniti nell’impresa soprannaturale dell’Opera che con­tinuarono a vivere il consiglio del signor José, stretti spi­ritualmente intorno al Fondatore. Due giorni prima che la Nonna morisse, don Josemarìa aveva scritto da Leri- da per dare ad Àlvaro un incarico ben preciso per la si­gnora Dolores:

“Fa’ in modo che la Nonna offra i fastidi della sua ma­lattia per le mie intenzioni, che consistono nel chiedere al Signore che ci abbrevi questi travagli - se è questa la sua Volontà - e che, finché durano, ci dia gioia e senso soprannaturale e molta carità per andare avanti”40.I travagli cui si riferiva erano causati dai tristi eventi

di Barcellona, accaduti nell’inverno 1940-41.487

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Con la fine della guerra civile rifiorirono ovunque la vi­ta di pietà e le manifestazioni religiose. In vari luoghi, furono ripristinate associazioni e confraternite. Nei principali capoluoghi della Spagna ripresero vigore le Congregazioni Mariane, dirette dai gesuiti. A Barcello­na ne era direttore padre Manuel Maria Vergés, un ge­suita focoso, grande oratore sacro dalla voce possente, corpulento, elegante, pieno di zelo per il buon anda­mento della Congregazione41. In città non si svolgevano atti religiosi importanti senza che vi partecipassero uffi­cialmente i membri della congregazione. Uno degli av­venimenti di maggior rilievo era la solenne Novena del­l’immacolata, che terminava l’8 dicembre. Nel 1940 si seppe che quell’anno sarebbe venuto a predicarla p. Carrillo de Albornoz S.J. Si preannunciava un successo memorabile, anche se non insolito, perché nelle scuole, nei conventi e nelle parrocchie di tutta la Spagna la no­vena era celebrata in grande stile, con predicatori di grande prestigio.

La novena si svolse nella chiesa di via Caspe, vicina alla Curia provinciale e a una scuola della Compagnia, dove aveva sede anche la Congregazione. Tra la folla degli studenti che ascoltava il predicatore madrileno c’e­rano Rafael Escolà, che studiava ingegneria industriale, e un suo amico, Juan Bautista Torello, divenuto poi psi­chiatra. Grande fu la loro sorpresa quando, la prima se­ra della novena, udirono da padre Carrillo la citazione testuale di alcune frasi di Cammino. Rafael aveva chie­sto l’ammissione all’Opera due mesi prima e meditava tutti i giorni con l’aiuto del libro; Juan Bautista, pur non appartenendo ancora all’Opera, lo sapeva quasi a me­moria.

A giudicare dalla loro prima reazione, non si resero affatto conto del senso delle parole di padre Carrillo, vi­sto che nei giorni successivi i due amici senza dare trop­488

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po importanza alla cosa si misero a contare le volte che dal pulpito il predicatore citava punti di Cammino. “Oggi sette!.. Oggi otto!”, contava Juan Bautista42, sen­za prestare attenzione a ciò che stava facendo il predica­tore nei confronti del libro: una sorta di operazione chi­rurgica per tirarne fuori ciò che, per il suo contenuto, egli considerava non compatibile con la dottrina cristia­na. Era il primo passo per mettere in guardia i giovani congregati contro ciò che in seguito sarebbe stata defini­ta “la nuova eresia”, che si stava estendendo tra la gio­ventù.

Né Rafael né Juan Bautista si resero conto degli scopi di p. Carrillo. Come potevano immaginare che venisse condannato pubblicamente un libro edito con approva­zione ecclesiastica? L’unica cosa che li sorprese fu che il predicatore tacesse la provenienza delle citazioni e il no­me dell’autore43.

Frattanto il Fondatore, ignaro delle accuse lanciate dal pulpito e senza farsi frenare dalla considerazione del piccolo numero dei seguaci che aveva a Barcellona né dalla scarsa diffusione dello spirito dell’Opera, li spinge­va con audacia all’apostolato. Era sicuro che il Signore non avrebbe fatto mancare l’aiuto ai suoi figli e avrebbe dato loro grazie speciali per essere all’altezza delle circo­stanze. Fu così che, poco dopo l’inaugurazione del Pa­lati, il Centro dell’Opus Dei di Barcellona, in cui manca­vano persino i mobili, li incoraggiava a fare un passo ulteriore e ad aprire una residenza per studenti: “Avre­mo una casa grande a Barcellona per il prossimo anno accademico? Dipende da voi”44.

Poco dopo faceva loro gli auguri per Natale:“Come passate questi giorni natalizi? Chiedo al nostro Gesù che vi dia il forte spirito, pieno di allegria e di gio­ventù, che è proprio della nostra famiglia. Leggo atten­tamente le vostre lettere e, anche se non ci credete, ri­spondo sempre. Chiedetelo a Lui.

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Vi abbraccio, vi benedico. Buon Natale. Vostro Padre -Mariano”45.Poche domeniche dopo, verso la metà del gennaio

1941, p. Vergés pronunciò, a detta di Santiago Balcells, un congregato che vi assistette, “un’omelia che fece epo­ca”. Santiago aveva sentito parlare dell’Opera, ma fino ad allora non se ne era mai interessato. Sapeva però che suo fratello Alfonso leggeva Cammino e frequentava il Palau. Anzi, Alfonso aveva firmato a suo nome il con­tratto d’affitto dell’appartamento poiché, rispettò ai giovani universitari in contatto con l’Opera, egli aveva già terminato gli studi (era medico) ed era l’unico mag­giorenne46.

Di quella famosa omelia Santiago Balcells ricorda la parte sostanziale del contenuto, che fu poi oggetto di molte discussioni fra i congregati:

“Mi sembra di ricordare che p. Vergés iniziò il suo di­scorso dicendo che stavano succedendo cose molto gravi nella Congregazione: tra di noi c’erano dei traditori... Era anche possibile che qualcuno si fosse lasciato con­vincere in buona fede dalla propaganda di un’associazio­ne che, senza alcuna approvazione del Papa, né del Ve­scovo della diocesi (...), pretendeva di offrire una spiritualità nuova... e nuove virtù: ‘la coazione, l’intran­sigenza e la sfacciataggine; da quando sono divenute virtù?’.

‘Si vede che questa nuova spiritualità consente ai suoi membri di mentire, dato che so per certo che alcuni di voi lo sono, ma dinanzi a me lo hanno negato. E poi so­no degli illusi perché se fra di noi, che siamo sacerdoti e religiosi e che oltre alla tonsura portiamo un abito e sia­mo soggetti a un orario e a una certa disciplina, accade ciò che accade... e qualcuno arriva persino a gettare l’a­bito, che cosa potrà accadere a dei giovani, senza alcun segno distintivo, in giacca e cravatta, liberi di muoversi490

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a loro capriccio? È praticamente impossibile che possa­no perseverare’”47.

Se ci collochiamo nell’ambiente di quell’epoca, non è strano che alcuni (padre Carrillo e altri) pensassero che predicare la santificazione in mezzo al mondo poteva essere pericoloso e persino erroneo, e dunque agissero di conseguenza. Si vedrà nel prosieguo che il Fondatore dell’Opus Dei fu sempre assolutamente sicuro che colo­ro i quali, dall’interno della Chiesa, si opponevano al- l’Opera in modo tanto forte, lo facevano convinti di ser­vire la causa del Signore, putantes se obsequium prestare Deo (Gv 16, 2).

Nel riferire qui alcuni fatti che appartengono ormai alla storia del passato, è giusto ricordare che per i fedeli dell’Opus Dei che ne vennero a conoscenza, essi furono motivo di una maggiore adesione alla volontà divina, né alcuno di loro ebbe mai a giudicare male le intenzioni di nessuno, seguendo anche in questo l’esempio di don Jo­semaria. Vengono qui narrati tali eventi anche per mo­strare l’esattezza delle previsioni del Padre: cioè che, con il passare del tempo, altri, senza avere tutti gli elementi necessari per inquadrare al meglio la situazione di que­gli anni, avrebbero utilizzato tali erronee affermazioni in modo irresponsabile e acritico; e che non sarebbero mancati coloro che l’avrebbero fatto con il proposito di attaccare la Chiesa.

Santiago, uno dei pochi fra i presenti che sospettava va­gamente con chi ce l’avesse padre Vergés, tese l’orecchio. Il predicatore lesse l’articolo 28 delle Costituzioni delle Congregazioni Mariane, che proibiva ai congregati “l’en­trata in qualsiasi altra associazione similare o con analo­ghe finalità”. Che si regolassero quindi - li ammonì - per­ché, come direttore e responsabile delle loro anime, pensava di agire di conseguenza. I presenti stavano anco­ra chiedendosi a chi intendeva riferirsi, quando, in modo inatteso, l’oratore concluse il suo intervento dicendo che “sapeva chi erano quelli che frequentavano l’apparta -

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mento di via Balmes 62, piano terra a destra; tutti coloro che fossero andati nell’appartamento, appartenessero o meno all’associazione, fossero semplici simpatizzanti o membri effettivi, sarebbero stati espulsi dalla Congrega­zione e cancellati dal libro della Vergine”48.

Queste parole solenni e minacciose produssero un’im­pressione iridescrivibile. Alla fine, alcuni si avvicinarono a Santiago Balcells chiedendogli notizie del fratello. E Santiago non sapeva ancora che cosa era successo a suo fratello soltanto un’ora prima.

Ecco il racconto dell’interessato: “Una domenica, mentre assistevo alla riunione settimanale della Congre­gazione, fui chiamato dal Direttore, P. Vergés S.J., il quale, senza spiegazioni, mi disse che ero ‘espulso dalla Congregazione’. Completamente sorpreso e ignaro del motivo, domandai: ‘Padre, perché?’; ma egli mi indicò la porta e aggiunse solo: ‘sei espulso dalla Congregazio­ne perché sei un traditore e un Giuda’”49.

All’espulsione di Alfonso Balcells ne seguirono altre. P. Vergés credeva di agire “di conseguenza”, in base alle delazioni delle sentinelle che aveva fatto appostare in un bar di fronte al Palau.

Tutti questi tuoni contro le associazioni giovanili il cui carattere veniva giudicato fallace e che venivano “a mietere la messe altrui”, sottraendo vocazioni religiose col pretesto che ci si poteva santificare vivendo nel mon­do, provenivano da padre Carrillo. Come già era suc­cesso a Madrid, a questi giudizi dottrinali venivano ag­giunte falsità inverosimili, certamente prodotte dalla fantasia scatenata e volatile di qualche giovane e inco­sciente studente. Si diceva che in via Balmes le persone si crocifiggevano sulla croce di legno dell’oratorio o si ritiravano nella solitudine, sulle vette dei monti, per me­ditare. Senza dubbio, ciò alludeva al fatto che durante le gite in montagna i ragazzi dell’Opera e i loro amici reci­tavano il rosario camminando, oppure si fermavano per fare l’orazione50.492

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In una lettera del 14 gennaio 1941, alludendo discreta­mente alle pene che sopportava a motivo delle maldi­cenze contro l’Opera, il Fondatore diceva a un amico: il Signore “sa mettere miele nell’aloe”, nonostante ci fosse “troppa gente buona che non capisce o che non vuol ca­pire”51. Infatti, per poter difendere la verità di fronte al­le accuse ingiuste, il Vescovo di Madrid, mons. Eijo y Garay, decise di non rinviare oltre il decreto di approva­zione dell’Opera, sperando così di sedare la gazzarra che era stata scatenata52.

Perciò don Josemaria e il Giudice ecclesiastico, don José Maria Bueno Monreal, visto che non erano riusciti a inquadrare dovutamente la figura dell’Opus Dei nella legislazione canonica, fecero ricorso a una soluzione di emergenza, quella che appariva meno inadeguata. E da­to che i membri dell’Opera non erano religiosi, ma co­muni fedeli, “l’unica strada giuridica aperta nell’ordina­mento canonico dell’epoca era quella delle associazioni di laici - riferisce il Giudice ecclesiastico -. Fra queste associazioni, era ben chiaro che l’Opus Dei non poteva essere un Terz’Ordine, né una Confraternita o una Fra­ternità di culto; pertanto rimaneva solo la possibilità che fosse costituito come Pia Unione”53.

Il Vescovo, dopo aver esaminato il Regolamento e gli altri testi costituzionali dell’Opus Dei, li rese a don Jose­maria nella seconda settimana di febbraio del 1941, in­sieme a un foglio su cui aveva scritto a matita alcune os­servazioni. Un mese dopo, il Fondatore consegnò il testo definitivo insieme al foglio. Nel rivedere il proprio appunto, il Vescovo, con delicatezza, quasi a dimostrare che egli non partecipava del carisma fondazionale, che era di esclusiva pertinenza di don Josemaria, gli disse: “Se davanti a Dio vede che non conviene seguire i miei suggerimenti, non li segua: solo a lei è stata data l’ispi­razione per l’Opera”54.

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Il giorno successivo, don Josemarìa inviava al Vesco­vado un’istanza in cui chiedeva l’approvazione canonica dell’Opus Dei come Pia Unione, insieme a una lettera datata 20 marzo:

“Padre, invio a S.E. Rev.ma l’istanza, con le Sue corre­zioni. L’ho datata 14 febbraio affinché il decreto possa avere la data della festa di San Giuseppe. Dovrò andare presto a Barcellona e a Valencia. Se potessi andarvi con la gioia dell’approvazione...”55.Il 24 marzo a mezzogiorno suonò il telefono in via

Diego de Leon. Rispose don Josemarìa. Era il Vescovo che gli annunciava di aver emanato il decreto di appro­vazione dell’Opus Dei con la data del 19 marzo. Pieno di gioia, don Josemarìa lo comunicò alla madre, a Car­men e alle altre poche persone che erano in casa; poi andò in oratorio a recitare un Te Deum.

Comunicò subito la notizia a quelli del Palau, con un telegramma sintetico: “Approvato. Mariano”56.

Il 25 marzo il Vicario Generale, don Casimiro Mordi­lo, consegnò a don Josemarìa i decreti di approvazio­ne57 e gli raccontò che, appena firmati i decreti, era giunto casualmente a palazzo il Nunzio, mons. Cico- gnani. Il Vescovo lo aveva subito informato:

- “Signor Nunzio, abbiamo appena approvato l’Opera di don José Maria Escrivà”.

- “Ah... sì, quello che ha scritto un libro di sentenze... Cam mino”, aveva detto mons. Cicognani, quasi cer­casse di ricordare ciò che qualcuno - non si sa con quali intenzioni - gli aveva fatto sapere.

Quando il Nunzio se ne fu andato, il Vescovo chiese al Vicario:

- “Lei non ha avuto l’impressione che il Nunzio fosse prevenuto nei confronti di don José Maria?”.

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- “Escrivà mi aveva detto che volevano portare il suo li­bro a Roma per farlo condannare” - commentò don Casimiro - Lo avranno fatto?”58.

La stessa settimana don Josemarìa partì per dare un corso di esercizi spirituali alle giovani dell’Azione Cat­tolica di Valencia, dal 30 marzo al 5 aprile. La gioia per l’approvazione dell’Opera fu attenuata quando don Jo­semarìa esaminò da vicino il decreto. Il testo originale, che mons. Leopoldo aveva preparato con tanto affetto, in sintonia con don Josemarìa, era stato mutilato. Il so­spetto del Vescovo era giusto e il Nunzio era perfetta­mente al corrente delle dicerie e delle calunnie che circo­lavano contro l’Opus Dei; dunque aveva consigliato al Vescovo di eliminare tutto ciò che potesse apparire sbi­lanciato, in un senso o nell’altro. Temeva di ferire la su­scettibilità di terzi o forse di coinvolgere l’autorità eccle­siastica in degradanti polemiche. Perciò il Vescovo dovette limare il testo, con il risultato di trasformare un documento, che originariamente doveva essere chiaro e nettamente elogiativo di una istituzione dalla quale ci si attendevano grandi beni spirituali per la diocesi e per la Chiesa universale, in un documento giuridico di lode, ma privo del rigore necessario per chiarire una volta per tutte la verità59.

Ma il Signore, amorevolmente, “sa mettere miele nel- l’aloe”. Da quel corso di ritiro di Alacuàs, a Valencia, venne la vocazione all’Opera di due donne. Il Padre in­terpretava questo dono come un altro “zuccherino”, con cui il Signore addolciva i suoi dispiaceri. Quelle due donne - si chiamavano Encarnita Ortega ed Enrica Bo­tella - non seppero mai quanto erano costate al Padre. E neppure che il giorno successivo alla fine degli esercizi spirituali, il 6 aprile, quando andarono in via Samanie- go perché don Josemarìa voleva che si conoscessero fra loro, quella stessa mattina il Signore aveva assicurato al Fondatore che il Nunzio non si sarebbe lasciato influen­

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zare da simpatie o antipatie nei confronti dell’Opera. Ecco il racconto del Padre:

“La Domenica delle Palme del 1941, nella Messa, dopo la Comunione, consideravo l’orizzonte pieno di oscurità, con una forza di tale portata umana che mi si opponeva e a cui non potevo opporre altro che la mia debolezza, sen­za che umanamente avessi altre armi per difendermi. Pie­no d’angoscia, ricordavo al Signore le circostanze del momento. E la locuzione interiore - senza suono di paro­le, come quasi tutte quelle che ho avuto nella mia vita, ma precisa e chiara - fu questa: Perché le cose vadano a posto, devono prima andare fuori posto: entrerete nella Nunziatura più facilmente che nel palazzo episcopale. Questo, allora, sembrava impossibile. Tornato a Madrid, consegnai una nota scritta ad Alvaro che, come me, ne ri­mase sbalordito, ma non dubitò. I fatti di lì a poco con­fermarono l’annuncio divino”60.Di ritorno a Madrid andò a trovare il Vescovo, il qua­

le, soddisfatto di aver dato l’approvazione canonica al- l’Opera, lo proclamava ai quattro venti. E diceva a don Josemarxa: “Con la persecuzione hanno ottenuto l’ap­provazione dell’Opera, dato che né lei né io avevamo fretta”61.

3 .1 fatti di BarcellonaCon l’approvazione concessa all’Opera, il Vescovo spe­rava di far cessare le critiche, oggettivamente calunnio­se, contro il Fondatore. Non fu così. Anzi, ci fu una re­crudescenza degli attacchi. Le cose si complicarono. Accadeva quanto preannunciato nella locuzione divina: perché tutto andasse a posto, bisognava prima che tutto andasse fuori posto. E lo scoppio, violento, avvenne a Barcellona.

Don Josemaria era appena arrivato a Lerida per il già 496

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menzionato corso di esercizi spirituali ai sacerdoti, quando Àlvaro del Portillo gli comunicò che a Barcello­na era scoppiata una nuova e violenta tempesta contro l’Opus Dei. Subito - era il 20 aprile 1941 - egli inviò una lettera con le istruzioni per affrontare la nuova tri­bolazione, chiedendo ad Àlvaro di comunicarle a quelli del Palau:

“Io non scrivo, ma ti prego di farlo tu e di dire loro di restare sereni e di essere grati al Signore, senza lasciarsi sfuggire una sola parola, anzi, neppure un pensiero, contro la carità; siano certi che Gesù farà cose grandi e buone per la sua gloria a Barcellona, se noi sopportiamo tutto questo così come Egli vuole (...).A Barcellona hanno la vita di Sant’Ignazio scritta dal Ri- badeneyra? Se non ce l’hanno, mandagliene una copia. Voglio che tutti abbiate devozione e amore per Sant’I- gnazio e per la sua benedetta Compagnia.Fa’ in modo che la Nonna offra i fastidi della sua malat­tia per le mie intenzioni, che consistono nel chiedere al Signore che ci abbrevi questi travagli - se è questa la sua Volontà - e che, finché durano, ci dia gioia e senso so­prannaturale, e molta carità per andare avanti.Amate molto la Chiesa! Consiglio a tutti di fare, con prudenza e chiedendone il permesso, qualche penitenza straordinaria e, soprattutto, li esorto a ricorrere al taber­nacolo e alla Vergine Santa Maria, con orazione intensa e costante.Gaudium cum pace! Neppure tutto l’oro del mondo po­trebbe mai ripagare il Signore per questa gioia che den­tro di voi e di me - peccatore! - si diffonde dall’anima al volto, nel constatare che siamo ritenuti degni di patire per Cristo”62.È questa la condotta sempre raccomandata ai membri

dell’Opera in circostanze analoghe63.L’opposizione iniziò con una serie di visite in case pri­

vate; alcuni religiosi visitarono le famiglie degli studenti che avevano chiesto l’ammissione all’Opera o che fre­

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quentavano il Palau. A genitori e parenti propinavano ragionamenti che avevano il forte peso della loro auto­rità morale. Di fronte a ciò non era facile difendere l’a­zione di un gruppetto di giovani studenti, senza alcun appoggio pubblico e ufficiale della Chiesa. Ecco la testi­monianza di Rafael Escolà:

“Essi vennero a visitare la mia famiglia e dissero che l’Opera era ‘un’eresia molto pericolosa’, che ci stavano ‘abbindolando a poco a poco’, che il Padre era ‘diaboli­co’, che ci veniva proibita la confessione; per il fatto che facevamo orazione ci definivano ‘illuminati’; che prati­cavamo anche dei ‘riti inventati’. I miei fratelli tentarono di dissuadermi da quello che chiamavano un mio ‘acce­camento’ e per tutti noi quegli anni furono molto penosi finché, a poco a poco, la verità si fece strada”64.La testimonianza è sobria e obiettiva. Un bozzetto

tracciato con le pennellate dei ricordi, purificati dal tempo trascorso. Ma a essa occorre aggiungere le soffe­renze della famiglia durante la guerra civile e la incarce­razione dello stesso Rafael, ancora ragazzo, a opera dei comunisti65. Per completare le sofferenze, ecco la racca­pricciante affermazione che il figlio, già strappato alla morte, ora si era avviato verso la condanna eterna.

José Orlandis, un altro membro dell’Opera, allora di passaggio a Barcellona perché in ospedale vi si trovava suo padre convalescente, in una lettera al Padre del 21 maggio 1941 descrisse dal vivo il comportamento delle persone dell’Opera e l’angoscia seminata in seno alle fa­miglie:

“Compiono ciò che Lei scriveva da Lerida, evitando qualsiasi pensiero contrario alla carità. E quando si rife­riscono ai Padri della Compagnia che più direttamente hanno agito contro l’Opera (li hanno espulsi dalla Con­gregazione, hanno fatto in modo che siano additati in pubblico come massoni o quasi, e che le loro madri e

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fratelli li piangano come eretici in cammino verso la per­dizione) riferendosi ai Padri, dicevo, ne parlano con af­fetto, in tono autentico e sincero e ne scusano le azioni assicurando che essi agiscono mossi da zelo, di certo persuasi di fare la cosa giusta.Che gli stessi loro familiari li considerano eretici non è una esagerazione. Rafa Escolà sta soffrendo enorme­mente. ‘Sai che cosa vuol dire - mi diceva ieri - che a ca­sa mia madre e i miei cinque fratelli mi guardano come un eretico che va alla perdizione? Per tutto il giorno non mi tolgono gli occhi di dosso e studiano i miei più picco­li movimenti: tutto ciò che faccio pare loro sospetto; se mi vedessero triste direbbero: è naturale, sei triste perché ti rendi contò di essere sulla cattiva strada; ma poiché mi vedono pieno di gioia e di pace si preoccupano ancora di più: non c’è più nulla da fare - dicono -, non c’è più speranza che si ravveda, il male ha messo radici dentro di lui e dev’essere già un eretico incallitole mia madre non riesce a parlarmi o a guardarmi senza che le si riem­piano gli occhi di lacrime; soprattutto si è interposta tra noi una gelida barriera...’. La reazione di Rafa davanti al dolore e alla sofferenza è semplicemente ammirevole: ‘Sono felice di poterlo offrire a Dio per l’Opera, e questo fa sì che in mezzo alle prove senta una gioia enorme per­ché il Signore permette che soffra un po’ per Lui’.E questo spirito di Rafa è lo stesso in tutti”66.Ben presto cominciarono a circolare negli ambienti ec­

clesiastici alcuni libelli anonimi pieni di false accuse con­tro la persona del Fondatore e l’Opera67. Al duro colpo che aveva rappresentato per il Padre la perdita della ma­dre, nel momento in cui riteneva che le sue figlie spiritua­li ne avrebbero avuto molto bisogno, si aggiungevano nuove sofferenze. Notizie quotidiane, tutte aggressive, tutte cattive. Erano i giorni in cui si sfogava con Alvaro del Portillo: “Figlio mio, da quale parte ci insulteranno oggi?”, gli diceva all’inizio della giornata68.

Nel Fondatore, ma soprattutto in Dio, riposavano la fortezza dell’Opera e la tranquillità di tutti. Non poteva

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permettersi d’essere pessimista, né di perdere la serenità, né di cedere fisicamente. Doveva dare loro fede e gioia e speranza. Il 2 maggio scriveva a Rafael Termes, il diret­tore del Palau, per confortare i suoi figli di Barcellona:

“+ Gesù benedica i miei figli e me li protegga.Carissimi, dobbiamo rallegrarci perché il Signore ci trat­ta alla maniera divina. Che cosa posso dirvi? Di essere felici, spe gaudentes!; di soffrire pieni di carità, senza che dalle vostre labbra esca neppure una sola parola sgradevole per chicchessia, in tribulatione patientesì; di riempirvi di spirito di orazione, orationi instantesl Figli: già si intravede l’aurora; e quanto sarà abbondan­te il raccolto, nella vostra benedetta Barcellona, nel nuo­vo giorno!Siate fedeli. Vi benedico. Un abbraccio da vostro Padre- Mariano”69.Ciò che l’anima proclamava gioiosamente, il corpo

non lo sopportava. Il Fondatore soffriva molto; interna­mente si consumava. Finì per ammalarsi.

Per ringraziare il Vescovo Amministratore Apostolico di Barcellona delle condoglianze per la morte della si­gnora Dolores dovette fare uno sforzo:

“Mi sono alzato dal letto per scrivere questa lettera. Sof­fro molto! Ma nello stesso tempo non farei a cambio con l’uomo più felice della terra. Sto così da tredici anni e lo spirito è pronto, con la grazia di Dio, ma il fisico a volte cede. Credo che sia giusto dirle che sono enorme­mente grato a nostro Signore il quale, conoscendo la no­stra debolezza (la mia), permette che persone così sante e così amate dal mio cuore ci maltrattino, ma fa anche sì che tutti i Vescovi che ci conoscono ci incoraggino, ci consolino e ci difendano”70.Stette male in salute per tutto quel periodo, anche se

cercò di non farlo vedere. Lo trovò a letto, due settima­500

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ne più tardi, anche una telefonata di mons. Leopoldo, al quale rispose per iscritto non appena potè alzarsi:

“Mio venerato e carissimo Vescovo, mi dicono che S.E. ha chiamato ieri sera per telefono. Ero a letto. Ieri il Si­gnore non mi ha permesso di celebrare e fare la Comu­nione: per tutta la mattina ho avuto vomito e un po’ di febbre. Oggi sto bene: sono proteste dell’animalis hom o , perché l’altro è felicissimo”71.Una notte in cui le preoccupazioni non gli lasciavano

chiudere occhio, sentendosi ferito da tante ingiurie nel suo onore di sacerdote, si alzò dal letto. In via Diego de Leon l’oratorio era nella stanza accanto alla sua. Vi en­trò e, prostratosi davanti al tabernacolo, disse al Signo­re: “Gesù, se tu non hai bisogno del mio onore, perché mai lo debbo desiderare io?”72. Da quel momento in poi avrebbero potuto calpestargli l’onore a piacimento. Fe­ce conto di non averlo più.

Tornò a coricarsi: era tranquillo, perché aveva lascia­to nelle mani di Dio l’opinione che le persone potevano avere di lui. Un dubbio, però, continuava tenacemente a tormentarlo. Se il decreto di approvazione non era stato sufficiente per placare la tormenta, non si sarebbe potu­to lavare pubblicamente l’onore dell’Opera, se il Fonda­tore fosse comparso davanti a un tribunale ecclesiastico che riconoscesse la sua ortodossia? Non potendo conte­nere oltre la propria pena, il 4 maggio 1941 scrisse al Vescovo:

“Non ho più lacrime da piangere: il Signore mi ha chie­sto l’onore e mia madre. Credo di averglieli dati senza esitazioni. Il corpo, a tratti, non ne può più, ma sento continuamente in fondo all’anima la verità delle parole del Vangelo di oggi: et gaudium vestrum nemo tollet a vobis!Signor Vescovo, non sarà giunta l’ora di essere giudicato da un tribunale, per fare piena luce su tutta questa situa­

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zione? Il solo pensiero di potermi discostare, anche solo in un particolare, da ciò che insegna mia Madre la Santa Chiesa Romana, mi riempie di amarezza.S.E. Rev.ma faccia di me ciò che vuole. Il Signore mi dà piena sicurezza sul passato; sicurezza che poggia sul fatto che mai ho fatto o detto nulla coscientemente senza l’ap­provazione del Vescovo di ciascun luogo, specialmente del Vescovo di Madrid o dei suoi Vicari Generali”73.Lo stesso giorno, domenica, appena ebbe finito di

predicare la meditazione ai suoi figli davanti al Santissi­mo, suonò il telefono. Era il Vescovo. Il mattino succes­sivo il Padre prese nota della conversazione telefonica e scrisse, pieno di gioia: “Devo evidenziare che le parole del proprio Vescovo danno molta gioia, perché si nota che dietro c’è Dio; oggi mi sembra di non essere più tur­bato dalla preoccupazione: mi pare persino che mi fac­cia piacere. Laus Deol”74.

4. Una questione di “palpitante attualità”Gli avvenimenti di Barcellona non erano i primi e non furono gli ultimi. Rapidamente gli attacchi contro l’O- pera aumentarono, trovando eco in altre città. Don Jo- semarìa, armato di buona fede, salvava l’intenzione di chi li lanciava. Ma era possibile ignorare le accuse ca­lunniose propalate da p. Carrillo de Albornoz e divulga­te poi da molti altri? Il Fondatore parlò e scrisse ad al­cuni religiosi, con la speranza che cambiassero atteggiamento. Uno di questi fu p. Àngel Basterra S.J., col quale egli aveva avuto rapporti amichevoli all’epoca della Repubblica e che ora a Bilbao contribuiva a diffondere le accuse. Cercando di non provocare nuove polemiche, gli annunciò per lettera l’approvazione ca­nonica dell’Opera, allo scopo di farlo riflettere sul triste502

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spettacolo offerto da alcuni dei suoi fratelli in religione, in una situazione così singolare.

“Dico solo due cose - scrisse che si parla senza sapere come stanno le cose e che dalla mia bocca sono uscite sol­tanto parole, non solo di rispetto, ma di affetto per la be­nedetta e amatissima Compagnia di Gesù. Proprio ora, quando mi fa tanto soffrire il comportamento di alcuni Pa­dri, leggo con attenzione la Storia di Sant’Ignazio del Ri- badeneyra, e crescono, se fosse possibile, l’amore e la vene­razione per la Compagnia e per il suo gloriosissimo Fondatore, vedendo la fortezza con cui Ignazio e i primi sopportarono persecuzioni, calunnie e incomprensioni da parte di religiosi esemplari.Sarà fatta luce. Per quel momento ho già pronto non solo il perdono delle offese, ma anche l’affetto e l’oblio. Inoltre so­no felice di poterle comunicare che l’Opera è stata canoni­camente approvata, lo scorso 19 marzo, festa del mio Pa­dre e Signore S. Giuseppe.Per carità, Padre mio, per amore alla Chiesa, per il triste spettacolo che si dà a tante anime, perché è giusto e per il ricordo dei giorni amari che passarono i primi dell’amatis­sima Compagnia di Gesù. La prego affinché con le sue pre­ghiere, con la sua influenza e con il ricordo delle tante cose buone che Lei disse sul nostro lavoro prima che le giunges­sero all’orecchio le calunnie, faccia quanto è in suo potere per far cessare una triste campagna - che viene condotta ovunque, persino dal pulpito - della quale si avvantaggia solo il nemico delle anime. Le dirò di più: noi abbiamo una gioia interiore così soprannaturale che patiremo volentieri per Gesù e per il servizio della Chiesa - in questo consiste la nostra vocazione - e che mai uscirà da noi neppure una pa­rola di protesta contro questi Padri, che sono strumenti di Dio, il quale vuole trattare la sua Opera alla maniera divi­na, come ha fatto sempre con tutte le nuove fondazioni. Preghi per questo peccatore, che Le vuol bene e Le vorrà sempre bene e le bacia le mani.

Josemarìa”75.

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Purtroppo la confusione aveva già oltrepassato il ri­stretto ambito delle Congregazioni Mariane e si diffon­deva tra i fedeli, e anche nelle chiese e nei conventi76. Molte persone, disorientate, ricorsero in cerca di luce e di consiglio al monastero di Montserrat, non lontano da Barcellona, punto di riferimento della vita religiosa del­la Catalogna. La necessità di fare chiarezza in quella confusione era così evidente che dom Aurelio Maria Escarré, Abate Coadiutore di Montserrat, decise di informarsi autorevolmente presso il Vescovo di Madrid, allo scopo di sapere come regolarsi per orientare tante coscienze turbate da voci contraddittorie. Usando un eufemismo affermava che la questione era di una “at­tualità estremamente palpitante”.

Alcuni giorni prima, il 27 aprile, egli aveva ricevuto la Benedizione abbaziale dal Vescovo di Pamplona e gli aveva chiesto notizie sull’Opus Dei. Il Vescovo, Marceli­no Olaechea, gli suggerì di scrivere a Madrid, dove era incardinato il Fondatore. Ed ecco la sua richiesta a mons. Eijo y Garay:

“Passo ora a chiederle un favore.E di attualità estremamente palpitante la questione “Opus Dei”, fondazione di Don Escrivà, sacerdote di codesta sua Diocesi; poiché molte persone, con differen­ti e opposti fini, ci hanno consultato su questa questione- in modo particolare in confessione - desidereremmo norme chiare e sicure per sapere a che cosa attenerci nel­la misura e nelle circostanze in cui dobbiamo occuparce­ne. E poiché ancora sappiamo, a quanto ci ha comunica­to il Vescovo di Pamplona quando venne da noi, che S.E. tratta questa questione personalmente, essendo nata nella sua Diocesi, mosso dalla necessità oso ricorrere a S.E. per chiedere notizie, nella fiducia che ascolti con be­nevolenza la mia supplica”77.Va aggiunto che, in mezzo a tutta questa confusione,

tre giovani delle Congregazioni Mariane chiesero l’am­504

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missione all’Opus Dei: Laureano Lopez Rodò nel gen­naio 1941, Juan Bautista Torello in marzo e Jorge Brosa in aprile. Laureano diede per iscritto le dimissioni dalla Congregazione, senza aspettare l’espulsione. In seguito p. Vergés fece visita alla sua famiglia78.

Dovette soffrire molto Juan Bautista, che aveva due fratelli gesuiti, una sorella suora e la madre vedova. Mentre studiava all’università, per mantenere la fami­glia lavorava anche come professore di matematica in una scuola della Compagnia di Gesù. Fu espulso dalla Congregazione e perse il posto79.

Quanto ad Alfonso Balcells, a nome del quale era sta­to preso in affitto l’appartamento, fu ritenuto il maggior responsabile delle attività svolte nel Palau. Suo fratello Santiago racconta che p. Vergés non riusciva a credere che, essendo l’affitto dell’appartamento intestato a lui, egli non facesse parte dell’Opera. Ma era proprio così.

I religiosi, pensando di dover porre fine a ciò che con­sideravano un pericolo grave, tirarono in ballo le auto­rità civili e un bel giorno Alfonso fu chiamato a compa­rire davanti al Governatore civile di Barcellona, Antonio Correa Veglison. Questi lo accolse chiedendo­gli quali attività si svolgevano nell’appartamento di via Balmes; sarebbe stato inutile nascondere la verità, gli disse, poiché egli era al corrente di tutto; conosceva be­ne i Padri della Compagnia e sapeva che l’Opera era “una setta illuminista o qualcosa di simile”; e se la si­tuazione non fosse stata chiarita, sarebbero finiti tutti in prigione80.

Le ragioni e le spiegazioni di Alfonso convinsero a metà il Governatore civile. Comunque, continuò a stare all’erta, nel caso che don Josemaria Escrivà comparisse a Barcellona81.

In quel dopoguerra, in cui si mischiavano in modo confuso e pericoloso le credenze religiose con l’esercizio delle libertà civili, Alfonso Balcells si trovò nuovamente a dover soffrire ingiustamente. Nel maggio 1941 il dot­

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tor Torrent, suo collega di Facoltà, gli fece sapere che erano in atto manovre per impedire il suo ingresso come Medico di Guardia nell’Ospedale Clinico, posto per il quale era stato indetto un concorso per titoli ed esami. La ragione? La sua appartenenza a una setta eretica. Senza bisogno di fare altri accertamenti, Alfonso si pre­sentò al Vescovado di Barcellona. Lo ricevette amabil­mente mons. Diaz Gomara, il quale gli consigliò di scri­vere al Vescovo di Madrid, spiegandogli l’accaduto82.

Gli arrivò la risposta del Vescovo del 2-VI-1941, che gli diceva: “Dio Nostro Signore la premierà per tutto; lo sopporti per Lui e per la Sua Opera, con molta carità e sapendo perdonare. Sono in corso azioni per bloccare queste ingiustizie. Scrivo anche al suo Vescovo. Credo che presto la bufera si calmerà”83.

Alfonso avrebbe chiesto l’ammissione all’Opera solo nel gennaio 1943, dopo aver finito gli studi di dottorato in Germania84.

* * *Le cose non miglioravano. Anzi, continuavano a peg­giorare. In una lettera del 2 maggio 1941 don Josemarialo diceva con molta semplicità al suo Vescovo: “Mi fa male al cuore la situazione durissima, che si sta prolun­gando da troppo tempo, dei miei figli della Catalogna. Scrivo queste righe perché non voglio tacere nulla al mio Vescovo e ho bisogno di sfogarmi filialmente con S. E. Rev.ma”85.

Il Fondatore stava in ansia per la sorte dei suoi figli. Si sentiva spinto a consolarli paternamente. Peraltro egli correva il rischio di essere arrestato se fosse stato visto a Barcellona. Ma anche a Madrid correva lo stesso peri­colo; c’erano state denunce anonime, fatte all’autorità civile, di cui non si conosce il contenuto. False, natural­mente, ma non per questo meno temibili. Era stato in quei mesi che il Vicario Generale, don Casimiro Morcil-506

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lo, gli aveva detto, senza affatto scherzare: “José Maria, guarda che un giorno o l’altro ti mettono in prigione”86.

Con mons. Leopoldo tracciò un piano per cercare di cambiare la situazione, che peggiorava di giorno in gior­no. Era però necessario che don Josemarìa andasse a Barcellona, per vedere i suoi e parlare con il Vescovo. A metà maggio stava ancora cercando il momento oppor­tuno, visto che il 19 del mese scrisse a don Sebastiàn Ci- rac per avvisarlo: “È possibile che ci vediamo molto presto”87. Don Sebastiàn, da sempre “difensore” del- ì’Opera, era il canonico di Cuenca che nel 1934 aveva fatto stampare Considerazioni spirituali.

Frattanto il Fondatore aveva dato disposizioni ai suoi del Palau di interrompere il lavoro di apostolato e di so­spendere, fino a nuovo ordine, i contatti con gli studenti che il Signore avrebbe potuto chiamare all’Opus Dei88. Ma questa misura prudenziale non produsse risultati vi­sibili. Era necessario invece andare alla fonte di tutto e cioè rivolgersi a padre Carrillo de Albornoz. Don Jose­marìa gli scrisse una lettera, che il Vescovo approvò, so­stituendo due o tre parole in cui il Fondatore eccedeva nell’umiltà. Il tono - chiaro, forte e soprannaturale - lo invitava generosamente a riflettere e a fare la pace. Ecco i brani più importanti del testo:

“Madrid, 20 maggio 1941.R. P. Àngel Carrillo de Albornoz - Madrid.Stimatissimo nel Signore, Le invio queste, righe, piene di cordialità e di sincero affetto, per farle sapere che viene unanimemente attribuita a Lei una campagna di diffama­zione contro il fratello che le scrive e contro il suo povero lavoro sacerdotale, approvato dalla Santa Chiesa.(...) in questa campagna di diffamazione si utilizzano metodi indegni di un cristiano. Finché si è trattato della mia povera persona, che merita davvero ogni genere di ingiurie, ho taciuto (...). Ma mi credo anche in dovere di dirle, davanti a Dio Nostro Signore, che si stanno col­pendo persone che nulla hanno a che vedere con me”.

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Poi invitava il destinatario a meditare sull’”Opera di Dio”:

“Diverse persone mi hanno assicurato che Lei non si ti­rerà indietro finché non vedrà distrutto l’OPUS DEI. A questo proposito, posso solo ripetere le parole degli Atti degli Apostoli: si ex hominibus est consilium hoc aut opus, dissolvetur; si vero ex Deo est, non poteritis dis­solvere illud ne forte et Deo repugnare inveniamini”.Sono le stesse parole, semplici e convincenti, che Ga-

maliele aveva pronunciato nel Sinedrio dopo l’arresto degli Apostoli, colpevoli di predicare nel nome di Gesù risorto: “Lasciateli andare: se infatti questa dottrina o questa attività è di origine umana, verrà distrutta; ma se essa viene da Dio, non riuscirete a sconfiggerli; non vi accada di trovarvi a combattere contro Dio!”.

“P. Carrillo: si farà luce e sono sicuro che diventeremo buoni amici; io non ho per lei che una fraterna simpatia e l’oblio di tutto ciò che possa offuscare questo affetto.Nel frattempo, sappia che mai dalle nostre labbra uscirà una sola parola contro coloro che con tanto accanimen­to ci perseguitano e che, con la grazia di Dio, saremo sempre disposti a soffrire pieni di gioia quanto è neces­sario, per Gesù Cristo e per il servizio della nostra Ma­dre la Santa Chiesa, perché questa è la nostra vocazione. Sempre suo fratello in Cristo e servitore che le bacia la mano

J.M. Escrivà, Presbitero”89.Per rispetto della gerarchia, ma anche per un moto di

nobiltà, scrisse brevemente a padre Daniel Ruiz, Supe­riore della Residenza di via Zorrilla, dove abitava padre Carrillo:

“Con tutto il rispetto mi rivolgo a V.R. con la preghiera di

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leggere la lettera qui allegata e, se le sembra opportuno, difarla arrivare nelle mani del Rev.do P. Carrillo”90.Aveva grandi speranze che tutto si sarebbe risolto.Il giorno successivo, 21 maggio, telefonò alla Nunzia­

tura per comunicare a mons. Cicognani che pensava di andare a Barcellona. “Ci vada sotto falso nome”, lo am­monì il Nunzio, pensando alle misure prese dal Governa­tore civile91. Sarebbe stato di ritorno a Madrid il giorno 23 e chiese alcuni minuti per parlare con il Nunzio. L’ap­puntamento fu fissato per sabato 24, alla Nunziatura.

Poche ore dopo partì in aereo per Barcellona, con un biglietto intestato a don José Maria Balaguer. Per ragio­ni di prudenza fu ospitato da don Sebastiàn Cirac. Andò poi in Vescovado per informare mons. Diaz Gómara e per informarsi a sua volta sulla situazione locale. Invitò poi i suoi figli a casa di don Sebastiàn dove, seduti intor­no al tavolo della sala da pranzo, il Padre diede una di quelle lezioni di formazione che infiammavano le anime per lungo tempo. La situazione non era per nulla alle­gra; ma noi, disse loro, “essendo figli di Dio, dobbiamo essere sempre lieti. Anche se ci rompono la testa? Sì, se dobbiamo andare con la testa rotta, sarà segno che Dio nostro Padre vuole che ce la portiamo in giro spacca­ta”92. Dopo aver parlato con tutti, uno per uno, ritornò a Madrid.

Sabato a mezzogiorno si recò nella Nunziatura. Il Nunzio, gli disse il portiere, era in quel momento con il Provinciale dei gesuiti. Subito venne mons. Cicognani, che lo accompagnò in una sala di attesa. “Non mi sa­rebbe affatto dispiaciuto incontrare il Provinciale - pen­sò don Josemarfa - perché nella mia testa e nel mio cuo­re non c’è nulla contro la benedetta Compagnia di Gesù”93.

Il Nunzio era ansioso di sapere dell’Opera. Don Jose- maria gli rispose compiutamente sulla sua natura e mis­sione specifica: servizio alla Chiesa e santificazione in

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mezzo al mondo. Gli spiegò nei particolari le caratteri­stiche della sua spiritualità e la sottomissione all’Ordi- nario e gli fornì inoltre spontaneamente parecchie noti­zie sulla propria vita, nel caso l’interlocutore non osasse chiederle.

Poi il Fondatore chiese al Nunzio se avesse visto i li­belli anonimi che venivano distribuiti a Barcellona. No, non li aveva visti. Don Josemarìa gliene spiegò il conte­nuto. Mons. Cicognani non conosceva neppure i Rego­lamenti dell’Opera; era chiaro che desiderava conoscerli e don Josemarìa promise di inviarglieli.

“Mi congeda molto amabilmente. Ne ho tratto un’ot­tima impressione”, si legge nella nota sulla visita redatta dal sacerdote94.

Più aveva modo di giudicare dati e fatti, più il Nunzio cominciava a capire la situazione. In una seconda visita che il Fondatore gli fece il 10 giugno, per consegnargli un esemplare del Codex dell’Opus Dei, la conversazione divenne più personale. Don Josemarìa lo mise al corren­te della reazione delle persone dell’Opera di fronte alle calunnie e agli insulti, e del modo di vivere l’umiltà col­lettiva al servizio della Chiesa.

“Questa mattina ho chiesto appuntamento al Nunzio e me l’ha fissato per l’una - scrisse a mons. Leopoldo -. È stato amabilissimo. Ho avuto un’impressione ancora migliore rispetto all’altra volta. Capisce perfettamente il nostro cammino”95.Cominciarono a giungere all’orecchio di mons. Cico­

gnani notizie sempre più abbondanti sulla vicenda. Era un tema presente nei suoi incontri con i Vescovi. Al Nunzio, per nulla amico dei litigi, tutto ciò appariva im­perdonabile, soprattutto essendoci di mezzo dei sacer­doti. Stava cambiando il vento e stava per avvenire quanto il Fondatore aveva udito nella locuzione sulla facilità con cui sarebbe entrato nella Nunziatura. In una510

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lettera a metà del giugno 1941, il Vescovo di Pamplona, che aveva da poco parlato con mons. Cicognani, scrive­va: “Il Nunzio appoggia don Josemarìa”96.

Poco tempo prima, era crollata come un castello di carte la speranza che padre Carrillo de Albornoz potes­se ritrattare. Anzi, la risposta di padre Daniel Ruiz pro­metteva nuove complicazioni:

“Madrid, 23 maggio 1941.Signor don José M. Escrivà, Presbitero.Stimatissimo in Gesù Cristo,di ritorno da Barcellona ricevo la sua lettera del 20 mag­gio, con un’altra allegata per P. Àngel Carrillo de Albor­noz. Poiché lei lascia a me la decisione di trattenere o consegnare la missiva al suo destinatario, mi sembra op­portuno rivolgermi direttamente a lei, esprimendole la mia opinione sulla questione che vi viene trattata. Come Superiore della Residenza e Direttore della Congregazio­ne di S. Luigi, so molto bene ciò che pensa e fa P. Carril­lo de Albornoz, che agisce in perfetto accordo con me. Sono estremamente sorpreso che Ella affermi con tanta naturalezza e convinzione che è stata scatenata una vio­lenta campagna contro la sua Opera, mentre per me è evidente il contrario: cioè che sono state compiute da parte vostra azioni specifiche intese a minare il prestigio e a diffamare la Compagnia di Gesù e, in particolare, le Congregazioni Mariane. Arriviamo a sospettare che, ol­tretutto, si cerchi di diffamarci precisamente facendoci passare per avversari della sua Opera, mentre non lo sia­mo affatto e non c’è alcuna prova che lo siamo.Mi consta essere assolutamente inesatto che P. Carrillo abbia intrapreso simili campagne. Una tale campagna non esiste; esiste invece (e non certo per istigazione di P. Carrillo) la logica reazione di legittima difesa, non con­tro un’opera approvata dalla Chiesa, ma contro i proce­dimenti poco nobili con i quali diversi membri di code­sta istituzione cercano di minare il prestigio delle nostre Congregazioni Mariane e persino della stessa Compa­gnia di Gesù”97.

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Non restava che l’ultima possibilità: ricorrere al Pro­vinciale. Ma prima che don Josemaria si lanciasse in un’impresa simile, il Vescovo gli preparò il terreno in modo opportuno, incontrando il 29 maggio, in Vesco­vado, il Provinciale dei gesuiti, padre Carlo Gomes Martinho. Parlarono con calma e il Vescovo si mostrò sincero ed energico. Comunque, per evitare che le paro­le pronunciate fossero dimenticate, o interpretate cap­ziosamente, come capita spesso con ciò che viene riferi­to ad altri, lo stesso pomeriggio il Vescovo inviò al Provinciale una lunga lettera. Lo scritto era una specie di verbale della conversazione del mattino, che dava a padre Gomes Martinho la possibilità di rivedere gli ar­gomenti o di mostrarlo a terze persone.

Nella lettera il Prelato, in modo sintetico, toccava tut­ti gli argomenti all’origine delle penose complicazioni. Ecco alcune frasi di mons. Leopoldo che risuonavano come colpi di un fabbro sull’incudine:

“Carissimo Padre Provinciale,in conformità ai suoi desideri e proseguendo la nostra graditissima conversazione di stamane, le scrivo queste righe sulla Pia Unione, canonicamente eretta98 con il ti­tolo di ‘Opus Dei’ e fondata dal benemerito sacerdote don José Maria Escrivà.E davvero triste che persone così buone e così donate a Dio combattano, per evidenti intenzioni di zelo e arbi- trantes se obsequium praestare Deo, questa Istituzione che non solo io, che l’ho approvata, ma anche tutti i Ve­scovi che la conoscono hanno in massima stima (...).Posso assicurare a V.R. che l’Opus è veramente Dei, da quando nacque e in tutti i suoi passi e iniziative; que- st’Opera fu concepita soltanto per servire Dio e s’impe­gna soltanto nella santificazione delle anime e in opere di apostolato (...).I membri dell’Opus Dei, per il fatto di esserlo, non sono in pericolo di perdere la propria anima e non hanno nul­la di eretico, né di massonico, né di illuministico; questo

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è infatti quanto viene detto non solo ai presunti membri delPOpera, ma anche a molti che non hanno nulla a che vedere con essa e, ciò che è più doloroso, alle madri de­gli alunni dell’Opus, o a quelle dei suoi membri, e tutto questo nel confessionale, con il risultato di creare situa­zioni davvero tragiche in alcune famiglie.Mi creda, Padre, simili accuse non hanno fondamento; non è vero che sia una associazione segreta: non solo è nata con l’approvazione dell’autorità diocesana, ma da quando nacque, 13 anni fa, non fa un passo importante senza prima chiedere e ottenere approvazione (...). Certamente, non merita di essere attaccata dai buoni. Eppure viene attaccata. Ci sarebbe da stupirsi e rattri­starsi, se il Signore non ci avesse tanto abituati a questo fenomeno; quante altre opere interamente di Dio hanno avuto ugual sorte! (...).Carissimo padre Provinciale, La prego che per amore di Dio e della Chiesa mi aiuti a mettere fine a una tempesta dalla quale trae profitto soltanto il nemico delle nostre anime.Se desidera che le chiarisca qualche punto particolare, tra le tante accuse che vengono mosse, me lo dica e lo farò con sommo piacere; considero un grande servizio alla Chiesa fare qualsiasi cosa a favore dell’Opus Dei.La benedice e si raccomanda alle sue sante preghiere il suo aff.mo in Cristo”99.Con questa preparazione, il 31 maggio don Josemaria

andò a incontrarsi con il Padre Provinciale nel Colegio de Areneros. Per due ore trattarono diversi argomenti, specialmente quelli relativi alle vocazioni all’Opus Dei maturate fra i congregati. Poiché don Josemaria doveva partire poche ore dopo, scrisse una breve nota per il Ve­scovo in merito al colloquio. In essa gli diceva:

“Credo che siamo alla fine, grazie a Dio e al mio Vesco­vo, per me un vero Padre. Che Egli la ricompensi! Ho insistito che chiariscano le cose e mi ha promesso di far­lo”100.

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Animato da questa speranza, scrisse da Pamplona a quelli del Palau:

“Pare che la tribolazione stia per finire. Benediciamo Dio e stiamo sempre pronti a ciò che Egli vuole. In laeti- tiar101.E ad Alvaro del Portillo:“Bisogna chiedere a Nostro Signore, in questo mese del Sacro Cuore, che veramente - se questa è la sua Volontà- giunga ora la fine della persecuzione”102.Da Pamplona, don Josemarìa andò a Valladolid e, po­

chi giorni dopo, a Valencia. I suoi colloqui con i Vescovi di queste città furono altrettante docce fredde. Il 13 giu­gno scrisse a mons. Leopoldo per dirgli che tutti loro erano concordi sul fatto che gli attacchi sarebbero stati rinnovati da qualche altra parte103.

ì ’r * *

Arrivò finalmente in mano all’Abate Coadiutore di Montserrat la tanto attesa risposta sulla questione di “palpitante attualità”. La sua lettera ci aveva messo due settimane per arrivare a Madrid: “Molte grazie per la sua lettera del 9, che ho ricevuto ieri, giorno 23. Non mi spiego tanto ritardo”, scriveva mons. Eijo prima di en­trare in materia. Sembrava davvero che il diavolo ci vo­lesse mettere la coda, perché evidentemente l’inizio delle attività apostoliche dell’Opus Dei a Barcellona gli bru­ciava: “Conosco già il subbuglio che è sorto a Barcellona contro l’Opus Dei. E’ il bene che scatena la cattiveria del nemico. La cosa triste è che persone molto donate a Dio siano lo strumento del male”, continuava il Vescovo.

L’Abate poteva stare tranquillo: l’Opus Dei non era un’impresa insensata patrocinata da eretici, ma godeva dell’approvazione e della benedizione ecclesiastica. Non514

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si trattava dunque di una creatura snaturata, “perché l’Opus, da quando è stato fondato nel 1928, è nelle ma­ni della Chiesa: l’Ordinario diocesano, vale a dire il mio Vicario generale e io, conosciamo e, se necessario, diri­giamo tutti i suoi passi. I suoi primi vagiti e i suoi attua­li gemiti risuonano nelle nostre orecchie... e nel nostro cuore. Perché, mi creda, Rev.mo Padre Abate, POpus è veramente Dei, fin dalla sua prima idea e in tutti i suoi passi e attività. Don Escrivà è un sacerdote modello, scelto da Dio per la santificazione di molte anime (...). In una parola, non ho alcuna riserva da muovere all’O- pus che, ripeto, è veramente Dei. Eppure, oggi sono i buoni che l’attaccano. Ci sarebbe da stupirsi, se il Signo­re non ci avesse abituati a vedere questo stesso fenome­no in altre opere molto sue”104.

La lettura di questa lettera, del 24 maggio 1941, su­scitò nell’Abate un sano interesse di conoscere meglio POpus Dei, che per lui era cosa del tutto nuova. La lette­ra di mons. Leopoldo non era breve, ma non gli bastò. Frenando l’impazienza, lasciò passare alcuni giorni. Il 15 giugno prese di nuovo in mano la penna e mise per iscrit­to una lunga serie di domande ben precise: dove e come è nato POpus Dei? Quali ne sono i fini? Perche alcuni di­cono che è avvolto nel mistero e caratterizzato dal segre­to? Che cosa c’è di vero a proposito della “intenzione iconoclasta” attribuita ai suoi membri? Come vivono co­storo? E l’accusa di odiare gli Ordini religiosi?...

Mons. Leopoldo era disposto a rispondere a tutti gli interrogativi, in modo esteso ed esauriente. Con diver­tente bonomia, così iniziò: “Rev.mo Padre Abate, ieri sera ho ricevuto la stimata sua del 15 e con piacere mi dedico brevemente a rispondere alle sue domande”.

Cominciò con il quesito “Origine dell’Opus Dei” e man mano rispose alle domande, riempiendo varie pagi­ne e terminando con queste righe:

“La cosa ammirevole è lo spirito con cui i membri del-515

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l’Opus sopportano questa grandissima tribolazione; co­nosco le lettere che si scrivono, perché l’Opus Dei non mi nasconde nulla, e mi stupisce e mi edifica la santa gioia con cui soffrono per la loro vocazione, che la tem­pesta contribuisce a consolidare maggiormente nelle lo­ro anime; né un lamento, né una frase ostile contro i re­ligiosi che tanto duramente li perseguitano; la loro maggior consolazione è vedere che tutti noi Vescovi nel­le cui diocesi hanno i loro centri, stiamo dalla loro parte, e li incoraggiamo e li difendiamo. Dio dovrà premiare coloro che arbitrantes se obsequium praestare Deo han­no scatenato questa guerra e l’unica cosa che l’Opus Dei desidera è ottenere i beni in cambio dei quali il Signore ha permesso questa tribolazione. Così sarà.Credo, Rev.mo Padre, di aver risposto a tutti i punti del­la sua interessante e stimata lettera. Se desidera altro da me, me lo dica senza esitazione; e perdoni tanta lungag­gine: cercherò di essere più breve”105.

5. Mons. Eijo y Garay, Vescovo e PastoreMons. Leopoldo Eijo y Garay, Vescovo di Madrid-Al- calà, fu sempre un Prelato dalla mano ferma nel governo della diocesi. Aveva applicato con energia le istruzioni emanate dalla Santa Sede per contenere l’immigrazione di sacerdoti extradiocesani nella capitale spagnola. Ai tempi della Repubblica, di fronte alle intromissioni delle autorità civili, aveva mantenuto un atteggiamento irre­movibile, rifiutandosi di riconoscere le nomine ecclesia­stiche decise dal Governo.

Fin dal suo arrivo a Madrid, il giovane sacerdote che avrebbe fondato l’Opus Dei fu colpito dalla rigorosa di­sciplina della diocesi. Come prete extradiocesano, la condotta di don Josemarìa era stata esemplare. I suoi in­contri con il Vicario, don Francisco Moràn, il puntuale rinnovo delle facoltà ministeriali, ma anzitutto il suo ar­516

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dente zelo apostolico furono noti a mons. Leopoldo fin dall’inizio.

La permanenza a Burgos nel 1938 aveva trasformato rapidamente la reciproca stima in cordiale amicizia. Mons. Eijo y Garay, uomo intelligente e con lunga espe­rienza di governo, scoprì, come era accaduto al Cardi­nale Soldevila, la personalità eccezionale del giovane aragonese: audace e prudente, di grande zelo e finezza d’animo, obbediente e sincero. Quando, nel 1943, il Ve­scovo di Madrid dovrà inviare a Roma il curriculum del Fondatore dell’Opus Dei, lo descriverà con queste paro­le, che traduciamo dal latino: “Note distintive del suo carattere sono l’energia e la capacità di organizzazione e di governo, stare silenzioso e nel nascondimento, mo­strarsi sommamente obbediente alla Gerarchia ecclesia­stica; e segno specialissimo del suo lavoro sacerdotale è promuovere, con le parole e con gli scritti, in pubblico e in privato, l’amore per la Santa Madre Chiesa e il Ro­mano Pontefice”106.

La compenetrazione di volontà fra don Josemarìa e il suo Vescovo raggiunse quel punto di intimità e fiducia che, senza sminuire le logiche distanze gerarchiche, met­teva le loro anime su un piano di confidenza sopranna­turale. Il Fondatore era abituato a non fare un passo nelle sue attività apostoliche senza chiedere il preventivo consenso dell’autorità competente, cui faceva poi ogni tanto un vero e proprio “rendiconto”107. Agiva con na­turalezza, senza nascondere l’affetto, e si metteva senza vacillare, in modo soprannaturale, nelle braccia del suo Vescovo. Il Fondatore, in modo particolare nei momenti difficili, cercava consolazione nell’unico posto in cui po­teva trovarla: nel Pastore posto da Dio a governare il suo gregge. Perché don Josemarfa era e si sentiva a lui sottoposto per vari motivi, uno dei quali era l’essere in­cardinato nella diocesi di Madrid.

“Mio carissimo Vescovo. Gesù la protegga! - scriveva517

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nell’aprile 1941 da Valencia Il mio cuore non sopporta di stare tanto tempo lontano da S.E. Una bella gatta da pelare ha il Vescovo con questo suo figlio!”108.E non sentiva alcun imbarazzo ad aprire il suo cuore e

a manifestare i suoi più reconditi sentimenti. Anzi, si sforzava di farlo:

“Sono tentato di non inviarLe questa lettera. Invece la manderò: è necessario, senza dubbio, che il mio Vescovo conosca - come ho detto un’altra volta - perfino il respi­ro di questo suo povero figlio”109.Dal 1940 avevano entrambi accolto con disagio la

notizia delle calunnie lanciate contro l’Opus Dei. Il sa­cerdote, nell’agosto di quell’anno, aveva fatto ricorso al suo Vescovo, chiedendogli aiuto. Lo chiedeva sommes­samente, ricordando al Prelato la sua responsabilità nei confronti dell’Opus Dei, che per volontà di Dio era nata nella sua diocesi:

“Padre, prego molto per Lei e chiedo a Dio nostro Si­gnore che S.E. continui a considerare l’Opera, che Egli ha caricato sulle mie spalle, una cosa di Dio e una cosa sua”110.I preparativi dei documenti per l’approvazione del­

l’Opera come Pia Unione misero il Vescovo e il sacerdo­te sulla stessa barca e insieme condivisero la difesa del­l’Opus Dei, impegnandosi con zelo per l’onore di Dio.

Cominciate le critiche, la prima cosa che fece il Vesco­vo fu di procurarsi informazioni per quanto possibile di prima mano. Don Josemarìa, con la sua generosa ten­denza a comprendere le ragioni del prossimo e a non dare per scontate le cattive intenzioni, si disfaceva subi­to delle notizie e delle carte che gli pervenivano, rifiu­tandosi di giudicare le intenzioni. Mons. Leopoldo gli impose di conservare le carte e di fargli conoscere il con­518

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tenuto di qualsiasi attacco all’Opera o alla sua persona. Nella primavera del 1941 la situazione era diventata co­sì grave che non si poteva più sottovalutarla. Della quantità di informazioni e della riservatezza della loro natura - vale a dire della loro gravità - testimoniano al­cune lettere di don Josemaria al Vescovo. Per esempio, una del 14 maggio:

“Padre, per tenere S.E. Rev.ma al corrente di ciò che sta succedendo, Le invio la copia di uno scritto che i Padri hanno ampiamente diffuso tra gli ecclesiastici a Barcello­na... Credo che anche Lahiguera ne abbia portato una identica.Ci sono alcune questioni che non mi sembra opportuno trattare per lettera o per telefono. So perfettamente come è malmesso il mio Vescovo in fatto di tempo; ciononostante, oso chiedere che, quando sembrerà opportuno a S.E., mi conceda un quarto d’ora. Dio gliene renda merito!Da Valencia non hanno detto nulla e non è neppure tor­nato quello che ci è andato ieri in aereo. Suppongo che non ci siano novità, altrimenti avrebbero telefonato. Se avrò notizie gliele comunicherò”111.E un’altra lettera del 15 maggio:“Eccellenza, eccomi ancora a disturbarla. Ormai è un fatto quotidiano. Ma è opportuno che S.E. Rev.ma pos­sa sempre dire che di questo suo povero figlio conosce “persino il respiro”. Niente ancora da Valencia. Di Bar­cellona, le invio relazione dell’ultima predica di P. Vergés e alcuni brani di una lettera che ritengo interes­santi”112.In capo a pochi mesi fu tale la quantità di notizie, di­

cerie e relazioni che, per così dire, un così frondoso fo­gliame rischiava di non far vedere il bosco. Questa è una delle ragioni che consigliano di alleggerire il raccon­to e ridurlo alle linee principali, per evitare di impanta­

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narsi, non senza aver ricordato che a tutto l’insieme di questa vicenda il Fondatore aveva dato un nome scher­zoso: “i pettegolezzi cartacei”113.

Il Prelato era uomo dal temperamento forte e, quando abbracciava una causa giusta, non cedeva. Perciò non permise la benché minima diceria contro l’Opus Dei114 né espressioni contro il suo Fondatore, del quale fece questa breve ma intensa lode:

“Don Escrivà è un sacerdote modello, scelto da Dio per la santificazione di molte anime, umile, prudente, abne­gato nel lavoro, estremamente docile al suo Prelato, di intelligenza eletta, con una formazione spirituale e dot­trinale molto solida”115.

Dato che l’approvazione canonica non era bastata a far placare la tempesta che si era scatenata in Catalogna, don Josemaria si appellò all’autorità dell’Ordinario. Mons. Diaz Gómara, giunto da poco nella diocesi di Barcellona come Amministratore Apostolico, cercò di calmare gli animi; si recò addirittura personalmente nel- l’Università di Barcellona - lo ricorda, anni dopo, la sua perpetua - “a parlare con il Rettore e il Preside delle maldicenze che i Luises propalavano nei corridoi contro l’Opus Dei”116. Il 14 settembre Mons. Diaz Gómara scriveva a Sebastiàn Cirac, che si trovava a Madrid:

“Sono molto addolorato per la campagna contro l’O.D., tanto più se hanno osato fare contro Escrivà e Albareda ciò che mi racconti. La verità brillerà e come mi diceva nei giorni scorsi il suo Vescovo [mons. Leo­poldo], il Signore si aspetta molto dall’Opera proprio perché la mette tanto alla prova”117.

Su mons. Eijo y Garay ricadde il compito gravoso di rispondere a lettere, ricevere telefonate e visite, consolare gli afflitti, ammonire i mormoratori e confortare gli offe­520

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si. E tutto ciò era, per così dire, collaterale ai principali obblighi del suo governo, fra i quali c’era la riorganizza­zione di una diocesi paralizzata per tre anni, con mille problemi delicati riguardanti persone e beni ecclesiastici: lavoro più che sufficiente per assorbire le energie del Ve­scovo e dei suoi collaboratori. Alla ricostruzione della diocesi si aggiungevano molti altri doveri, i compiti di rappresentanza, le sessioni di lavoro, riunioni e cerimo­nie. Costretto dalla necessità, mons. Leopoldo finì con l’abituarsi a lavorare di notte. Alla fine della giornata, quando gli altri stavano riposando, affrontava le carte accumulatesi sul suo tavolo. Non era raro che le prime ore del mattino lo trovassero ancora al lavoro118.

La grande capacità di lavoro era un’altra cosa che aveva in comune con il Fondatore, salvo che don Jose- maria rispettava le ore di sonno, anche se le accorciava parecchio. Da quando aveva abbandonato il proprio onore nelle mani del Signore, dormiva a meraviglia. Se gli veniva in testa qualche preoccupazione che gli impe­diva il sonno, diceva: “Signore, lasciami dormire, doma­ni devo lavorare per Te”119.

Su don Josemarìa gravavano l’Opus Dei con i suoi apostolati, un inesauribile lavoro di direzione spirituale e i continui viaggi. Era anche il tempo in cui svolgeva un servizio generoso per il clero di molte diocesi mediante la predicazione degli esercizi, senza riuscire a dire di no alle richieste dei Vescovi. Della primavera del 1941 sono queste righe al Vescovo di Madrid:

“Sono convinto che devo evitare di lavorare al di fuori della mia vocazione particolare, perché l’Opera è suffi­ciente a esaurire le mie povere energie. Ma farò quello che S.E. Rev.ma mi indicherà”120.Il Vescovo non lo dispensava da un lavoro tanto este­

nuante. Oltretutto sapeva che, oltre a fare del bene alle anime, il lavoro e lo zelo del Fondatore erano la risposta

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più eloquente alle false voci che correvano contro PO- pus Dei.

Una notte, mentre don Josemaria riposava, dimentico delle incomprensioni di cui ogni giorno era oggetto, udì suonare il telefono, accanto alla porta della sua camera. Si alzò, prese il ricevitore e ascoltò parole di consolazio­ne che già aveva udito altre volte.

“Era il Vescovo, con la sua voce calda e pastosa: Simon, Simon, mi disse, ecce Satanas expetivit vos ut cribraret sicut triticum: ego autem rogavi prò te ut non deficiat fi- des tua, et tu aliquando conversus confirma... filios tuosl Ecco che Satana vi passerà al vaglio come il grano;io ho pregato per te, perché non ti manchi la fede, e tu... conferma i tuoi figli. E riattaccò.Tornai a dormire - scrisse il Fondatore - più che mai sorridente e sereno, felice perché il Signore ci scuoteva come il grano nel setaccio. E perché c’erano delle perso­ne - molte, non solo il Vescovo - che pregavano per me, affinché potessi confermare i miei figli nella loro voca­zione. In tutto questo periodo non mi sono mai sentito. infelice, come in nessun altro momento della mia vita. Ne ho passate di ogni sorta: accettavo la Volontà di Dio”121.Dopo che l’Opera era stata approvata dal Vescovo, gli

attacchi non furono più soltanto contro don Josemaria. Quanto più il Prelato si impegnava nella difesa dell’O- pus Dei, tanto più le critiche si appuntavano anche con­tro di lui:

“Invio copia di alcune lettere - gli scriveva don Jose­maria - che sono arrivate ieri a Barcellona. Non imma­gina, Padre mio, quanto mi dispiace che tentino di in­zaccherare S.E. Rev.ma con il fango che gettano sull’Opus Dei (...). Mi perdona, Padre, per tutti questi fastidi che, mio malgrado, le procuriamo?Soffro molto! Ma sono anche molto contento e pieno di

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pace. Non farei a cambio con l’uomo più felice della terra. Amo la santa Volontà di Dio!”122.Gli schizzi di fango, insidiosi e frequenti, diventarono

palate. Correva voce, di bocca in bocca o stampata su libelli anonimi, che il Vescovo di Madrid era stato in­gannato, che Roma ne avrebbe smentito l’operato, che stava proteggendo degli eretici... Ma quegli non si la­sciava intimorire ed era deciso a combattere le battaglie del Signore fino a far trionfare la verità123.

Nel giugno 1941 fu firmato l’accordo fra la Santa Sede e il Governo spagnolo in merito alla presentazione di can­didati per le sedi episcopali. Oltre a quelle vacanti a se­guito del martirio di alcuni Vescovi durante la guerra, erano rimaste vuote anche altre sedi124, tra le quali, per la morte del cardinale Gomà nel 1940, quella dell’Arcive- scovo di Toledo. Trattandosi della sede del Primate della Spagna, doveva essere coperta prima di tutte le altre.

Un giorno, intorno alle undici di sera, il Fondatore stava accomiatandosi dal Vescovo quando gli venne in mente che questi sarebbe stato sicuramente nell’elenco dei candidati alla nomina di Primate; visto come anda­vano le cose in quel momento, la cosa più probabile era che tale candidatura saltasse.

“Eccellenza - gli disse - mi lasci solo, mi abbandoni! Al­meno, faccia finta di abbandonarmi, ché poi mi ripren­derà; altrimenti si gioca la mitria di Toledo”.Il Vescovo gli rispose, con un’espressione grave:“’Io non l’abbandono, don Josemarìa, perché qui non mi gioco la mitria di Toledo: mi gioco l’anima!’. Tempo dopo - prosegue il racconto del Fondatore - mi fece ca­pire che, effettivamente, era stato escluso dalla nomina a Primate della Spagna”125.Al di sopra dei nobili affetti umani che legavano il

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Prelato al Fondatore c’era, da parte del sacerdote, un’i­nestinguibile gratitudine soprannaturale. Salendo l’alta­re e nelle sue preghiere aveva sempre presente il suo Ve­scovo.

“Continuo a pregare per S.E. varie volte al giorno - gli diceva in una lettera - e domani, come altre volte, cele­brerò la Santa Messa per la Sua persona e le Sue inten­zioni. Non le sarò mai abbastanza grato, nonostante il mio amore per Lei, per tutto il bene che ho ricevuto da S.E.”126.Era davvero una grande consolazione per don Jose-

maria sapersi sostenuto dalla robusta lealtà del suo Ve­scovo. Se ne rese conto mons. Santos Moro, che gli scrisse: “Ho avuto il piacere di leggere la stupenda lette­ra del Vescovo di Madrid al Padre Abate di Montserrat, in cui fa Papologia dell’Opus Dei. Con tali difensori si attenua parecchio l’asprezza della persecuzione... Dio sia benedetto”127.

Mons. Eijo y Garay fu, senza alcun dubbio, lo stru­mento provvidenziale che il Signore mise a fianco del Fondatore. Con il suo appoggio, il Padre ottenne quello della Gerarchia ecclesiastica. Per mons. Leopoldo pro­teggere l’Opus Dei era un evidente servizio alla Chiesa.

Don Josemarìa gli dimostrò il proprio affetto e quello dei membri dell’Opus Dei, come pure il sostegno delle loro preghiere e mortificazioni, con un regalo nel giorno di S. Leopoldo: un acquerello con la testa di un asinelio: animale mite, resistente, lavoratore, docile e umile ca­valcatura del Signore quando era entrato trionfalmente a Gerusalemme:

“Padre - scriveva il 26-XI-1941 -, l’asinelio ha voluto arrivare fino a S.E. nel giorno di S. Leopoldo. Il mio Ve­scovo lo riceva benignamente, in virtù della buona vo­lontà con cui si reca in codesto Palazzo Episcopale: sarà

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molto docile..., e viene carico di tutto il rispettoso affet­to di questi figli di S.E. Rev.ma”128.Questa candida mostra di semplicità e sincerità (spes­

so dimenticata da coloro che considerano impossibile coniugarla con una eroica e prudente fortezza) era parte essenziale della personalità del Fondatore. Il Vescovo la conosceva per esperienza, come dimostra un episodio, comunque successivo, del 1942. Il 10 marzo andò a far­gli visita un capo della Falange, partito allora ai vertici del potere. A seguito della campagna promossa contro l’Opera, veniva a consultare il Prelato sulla società “se­greta e massonica” fondata da don Josemarìa. E il Ve­scovo, sorpreso, gli disse:

“Credere che don Josemarìa Escrivà sia capace di creare una cosa segreta è assurdo, vuol dire non conoscerlo. E un uomo aperto e franco come un bambino! Don Jose- marfa - per favore, che questo non giunga alle sue orec­chie - è un uomo buono, è un vero santo. E che patriota è! Ma soprattutto è un uomo santo. Siamo abituati a ve­nerare i santi solo sugli altari e non ci ricordiamo che so­no stati uomini e hanno camminato come noi sulla ter­ra. Don Josemarìa Escrivà, non abbia dubbi, è un santo che vedremo canonizzato sugli altari”129.Per mons. Eijo era un grato onore sapersi prescelto

come strumento per dar sostegno al Fondatore. E quan­do pregava era solito rivolgersi al Signore con queste parole:

“Signore, anche se io non valgo molto, quando arriverò davanti a Te per lo meno ti potrò dire: in queste mani è nato l’Opus Dei, con queste mani ho benedetto Jose­marìa”130.Sperava che queste sue “credenziali” sarebbero state

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la più valida e sicura raccomandazione per quando si fosse dovuto presentare al giudizio di Dio.

6. Uno sguardo d’insiemeErano trascorse appena due settimane dal suo incontro con il Provinciale di Toledo e don Josemaria si vide co­stretto, ancora una volta, a prendere in mano la penna. La notizia che doveva comunicare era sgradevole. In po­che ore di permanenza a Valencia aveva saputo, dai suoi figli e da alcuni amici, delle “minacce di p. Segarrà, fat­te in pubblico e in privato, di ripetere lo spettacolo di Barcellona”131. Decise di avvisarne il Superiore, nel caso fosse in suo potere parare il colpo:

“Molto stimato P. Provinciale, non immagina con che gioia ricordi il nostro colloquio ad Areneros. Non dubi­tavo, per il comune amore di Dio e per il desiderio di servire la Chiesa, che ci sarebbe stata cordialità e reci­proca comprensione (...).Alcuni padri della Compagnia hanno fatto leggere ad al­cune persone una lettera di un Padre di Madrid, lo stes­so che causò l’inizio di questa triste campagna. Quanto sarebbe gradito a Nostro Signore, e quale manifestazio­ne di ragionevolezza, di giustizia e di carità, se questo Padre facesse una nobile smentita! Credo che ora nessu­no possa, in coscienza e senza rimorso, affermare che io sia massone, eretico, perverso, pazzo, ecc., ecc. Né soste­nere che l’Opus Dei sia quel cumulo di ingiurie che sono state ripetute a voce e per iscritto”132.Nonostante tutto ciò, a Valencia si ripetè ciò che era

avvenuto a Barcellona. Ecco anche qui le critiche a Cammino133, la denuncia alle autorità civili e le visite al­le famiglie dei membri dell’Opus Dei, per avvertire i ge­nitori che i figli si avviavano di gran carriera verso il precipizio dell’eterna perdizione134.526

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L’inatteso sorgere di queste calunnie anche fuori Bar­cellona aveva indotto don Josemaria a pregare p. Gó- mez Martinho di intercedere presso il Provinciale del- l’Aragona affinché ponesse fine a tale situazione135. A quel punto la dura incomprensione si era così estesa per tutta la Spagna e con tale pericolo di scandalo, che il Fondatore non fu troppo sorpreso di ricevere un giorno una lettera da un convento di Segovia. Gli fece ricordareil primo oratorio di via Ferraz e il pòvero tabernacolo di legno chiesto in prestito alla Superiora delle Suore di Maria Riparatrice, Antonia Muratori Muller, in religio­ne Maria de la Virgen Dolorosa. Il 6 agosto 1941 le ri­spose nei seguenti termini:

“Rev. M. Maria de la Virgen Dolorosa - Segovia Venerata e, in Cristo, stimatissima Madre,L’ho ricordata molte volte con simpatia, sia per l’affetto che ho per codesto santo Istituto di Maria Riparatrice, sia per i favori che devo personalmente a Lei. Dio gliene renda merito!La sua lettera mi ha causato gioia... e pena, vedendo che perfino al suo Convento è giunto il chiasso della opposi­zione dei buoni, della persecuzione che stiamo subendo- da più di un anno e mezzo - a motivo della nostra vo­cazione, del nostro Amore per Gesù Cristo (...).Madre, per amor di Dio, dica alla sua venerabile Comu­nità che continui a pregare per noi, affinché sappiamo . sempre riconoscere, nelle persone e negli avvenimenti, la mano del nostro Padre che è nei Cieli; così sopportere­mo ciò che Egli vuole con gioia e pace, come abbiamo fatto finora. Quale gioia nel compiere sempre la santa Volontà di Dio!”136.Don Josemaria sospettava e temeva che il fuoco ap­

piccato in alcuni luoghi si propagasse, assumendo le proporzioni di un incendio. Il cuore glielo suggeriva apertamente, anche se non poteva immaginare che la questione sarebbe andata a finire davanti alle autorità

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civili137. A un certo punto, purtroppo, vide ampiamente avverati i suoi timori.

Le accuse di setta eretica, di società segreta, di masso­neria bianca, di opposizione al potere costituito e molte altre erano state diffuse nell’ambito civile e accademico per creare scompiglio e per screditare l’Opera. Partico­larmente pericolosa fu l’accusa presentata davanti al Tribunale per la Repressione della Massoneria, che era stato costituito il 10 settembre 1940. Nei primi giorni del luglio 1941 il Tribunale iniziò l’istruttoria, a porte chiuse. Secondo il giudice relatore, Gonzàlez Oliveros, un gruppo di persone, dirette da padre Escrivà, era stato denunciato con l’accusa di formare un ramo massonico collegato a sette giudaiche. Il presidente, generale Sali- quet, si informò del genere di vita che conducevano i membri dell’associazione; gli fu detto, tra altre cose, che essi praticavano la castità. Il generale si meravigliò; ma gli confermarono che si trattava di un fatto comprova­to. Allora il presidente decise di non prendere in consi­derazione la denuncia e di archiviarla, giacché gli resta­va del tutto oscuro il motivo per cui un massone, per raggiungere i propri fini, dovesse praticare la castità. Gli altri membri del tribunale furono d’accordo138. L’accusa finì nel nulla.

Sebbene un procedimento di questo tipo fosse segreto e in caso di assoluzione neppure gli accusati ne venisse­ro informati, in questo caso, eccezionalmente e forse per riparare l’ingiusta accusa, diversi membri del tribunale visitarono la Residenza di via Jenner. Chiesero a don Jo­semarìa di poter vedere l’oratorio dove, secondo la de­nuncia, il sacerdote aveva delle levitazioni e dove c’era un fregio con segni cabalistici. Il Fondatore mostrò loro l’oratorio e, alludendo scherzosamente al proprio peso, commentò: “Sarebbe davvero un miracolo straordinario se mi alzassi dal suolo anche di un solo palmo”139.

Ma accuse di tipo politico continuavano a giungere all’orecchio del Fondatore. Erano gli anni della seconda528

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guerra mondiale e la Falange, almeno nella prima fase del conflitto, aveva un forte ruolo politico e di presenza nel Governo e non si peritava di ostentare la propria in­clinazione totalitaria da partito unico. Qualsiasi altra li­nea politica era considerata antipatriottica e soggetta, pertanto, a essere perseguitata. Ma anche i nemici della Chiesa Cattolica e alcuni avversari del regime franchista accusavano il Fondatore, naturalmente del contrario. Anni dopo don Josemarìa ricordava che in quest’epoca10 avevano accusato di essere massone, ma “anche mo­narchico, antimonarchico, falangista, carlista, anticarli- sta”. In piena guerra mondiale - scrisse il sacerdote - “le stesse persone, o altre da queste manovrate, andava­no nelle ambasciate degli Alleati per dire che io ero filo­tedesco; e in quelle della Germania e dell’Italia per dire che ero filoinglese”140. Queste fandonie, fatte girare da persone del Movimento Nazionale, il partito dominato dalla Falange, costituivano una minaccia latente, che poteva esplodere in qualsiasi momento.

In effetti, le calunnie di carattere politico furono rac­colte in un Rapporto confidenziale sulla organizzazione segreta Opus Dei, elaborato dai servizi di informazione della Falange141. Vi si leggeva:

“(I membri dell’Opus Dei) nella loro concezione di vi­ta sostengono l’internazionalismo, affermando che per11 cattolico non devono esistere frontiere, nazioni né pa­trie142. (...) Questa organizzazione si oppone ai fini dello Stato: 1) per la sua clandestinità; 2) per il suo carattere internazionalista; 3) per l’intromissione che esercita nel­la vita intellettuale e nell’ordine di idee propugnato dal Caudillo; 4) per il suo settarismo, che costringe lo Stato ad apparire ingiusto nella provvista di cattedre, borse di studio, ecc. (...) Alcuni suoi elementi mostrano di aderi­re al Movimento, del quale sperano solo la caduta, fidu­ciosi nella eternità della Dottrina Cattolica, scudo delle loro losche ambizioni”143.

La situazione della Spagna, scrisse più tardi il Fonda­529

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tore, “non era la più propizia, da nessun punto di vista, perché una fondazione giovane e nuova potesse svilup­parsi. Il clima non era favorevole”144; si sarebbe quasi potuto dire che il momento non era quello giusto. Non si trattava solamente di calunnie e ingiurie verbali: il pe­ricolo era molto serio. Un ambasciatore, suo amico e persona bene informata, lo avvertì che alcuni estremisti della Falange avevano deciso di eliminarlo145. Comico e insieme allarmante, dato lo stretto legame ideologico tra alcuni settori falangisti e il nazionalismo tedesco, è quanto si legge in un paragrafo del Rapporto confiden­ziale dove, a proposito della Residenza di via Jenner, è scritto che vi si trovava una mappa della Germania co­perta di maiali e che non si trattava di una mappa degli allevamenti di bestiame, bensì di una rappresentazione del popolo tedesco146.

Il Rapporto sosteneva pure che le persone dell’Opera cercavano di impadronirsi, oltre che del potere politico, anche dell’insegnamento universitario, delle cattedre e dei centri di ricerca scientifica147. Quando alcuni mem­bri dell’Opera si presentarono ai concorsi pubblici in­detti per le cattedre universitarie, a motivo di questi pre­giudizi furono ingiustamente discriminati nelle prove di esame. La falsità che cercavano di accaparrarsi le catte­dre con sistemi tenebrosi si era talmente diffusa che per­sino persone amiche cominciarono a credere a tali ca­lunnie148. Don Josemarìa spiegava a un sacerdote:

“Tu sai bene che l’Opus Dei, assolutamente estraneo a qualsiasi preoccupazione di ambizioni terrene, cerca esclusivamente ‘la perfezione cristiana dei suoi membri mediante la santificazione del lavoro ordinario’. L’Opus Dei è un’opera soprannaturale che si preoccupa sola­mente della vita interiore delle anime. Perciò è impossi­bile che non abbia contrarietà. E il Signore ha permesso che noi subiamo la persecuzione dei buoni, che è la con­trarietà più forte. E ai buoni si sono uniti quelli che non

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lo sono affatto e che odiano la Santa Chiesa e la Spagna cattolica (...).Coloro che appartengono all’Opera sanno che non pos­sono piacere a Dio se non si comportano secondo il de­coro sociale più squisito e la morale cristiana più esigen­te. Perciò non devi credere all’affermazione di alcuni secondo cui essi utilizzerebbero mezzi disonesti per dare la scalata a posti verso cui non hanno invece alcun inte­resse.Dicono che lavoro con gli universitari! È vero. È forse un delitto? Ritengo che sia un importante servizio alla Patria. Il Signore avrebbe potuto anche spingermi a la­vorare con gli analfabeti. Ma offende la verità chi affer­ma che cerco di accaparrarmi le Università. L’Opera non ha lo scopo di formare docenti, ma quello di formare, in tutte le attività sociali, santi che non abbiano altro desi­derio che amare Cristo (e perciò anche la Patria) e fare silenziosamente il bene”149.Tali eventi, talvolta forse ridicoli, ma comunque sem­

pre deprecabili, si accumulavano come la spazzatura. Continuavano ad arrivare all’orecchio di don Josemarìa nuove fandonie. Per lui la cosa più fastidiosa era dover­le raccogliere tutte, per ubbidire agli órdini del suo Ve­scovo. Così accadde nel dicembre 1941, mentre si tro­vava a Valencia per dare gli esercizi spirituali alle universitarie dell’Azione Cattolica nel convento delle Religiose del Servizio Domestico. Doveva essere molto stanco di tutto ciò se iniziò le sue annotazioni con que­ste parole rassegnate: “Devo ancora prendere la penna per ubbidienza, per annotare pettegolezzi e maldicenze. Che tutto sia per Iddio!”150.

Ecco la sintesi dell’appunto in cui riassunse la conver­sazione con una delle partecipanti, Maria Teresa Llopis, studentessa di Chimica. Questa ragazza raccontò a don Josemarìa di essere stata mandata agli esercizi spirituali da terze persone, con l’ingrato compito di spiare il sa­cerdote. Pentita, gli rivelò la sporca trappola che gli era

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stata tesa. Secondo la Llopis, alcuni consiglieri comuna­li di Valencia, spalleggiati dal Commissario di Polizia, stavano mettendo a punto oscuri progetti. E per dare una conferma della veracità di quanto gli stava raccon­tando in gran segreto, gli diede un’informazione su quanto stavano macchinando contro la Residenza di via Samaniego:

“C’è un pozzo nella casa?”, chiese al sacerdote.“Sì, figlia mia: la casa è molto vecchia, e suppongo che ci siano pozzi identici in molte case di Valencia”.“Ebbene, dicono che vi sono stati gettati i simboli mas­sonici. E che ci sono passaggi segreti”.“Io sono tornato a casa - terminava di annotare il Fonda­tore - e sto scrivendo a mezzanotte, tra venerdì e sabato; non posso fare a meno di sorridere davanti alla grossola­nità delle calunnie. Manca loro un altro dato ambientale: in questa casa ci sono sette scale! Bel titolo per un raccon­to poliziesco: la casa dalle sette scale”151.Il tono leggero dello scritto indica che del misterioso

racconto della signorina Llopis gli importava assai po­co. Erano già tante e così monotone le dicerie! Ma in questo caso si sbagliava. In effetti le autorità municipali, con la scusa di un’ispezione sanitaria, cercarono di chiu­dere la Residenza di via Samaniego. Don Josemaria riu­scì rapidamente a far fallire il tentativo, affidando lo studio della questione a un architetto del Comune di Madrid, per dimostrare che si trattava di un arbitrio.

“Bisogna annullare questo sopruso - scrisse al suo ami­co Antonio Rodilla -. Perciò ti chiedo (è per la gloria di Dio) che tu faccia visita al sindaco e, se necessario, al governatore; e metta in chiaro la cosa, ottenendo che ci lascino in pace, senza costringerci a dare neppure una pennellata di pittura perché non ce n’è alcun bisogno. Volevano obbligarci a chiudere la casa o, per lo meno, a interrompere il nostro lavoro con le anime e spillarci dei

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soldi. Non so se sai che hanno già cercato un’altra scusa per darci una multa, che è stata pagata per evitare fasti­di, nonostante non fosse chiaro il motivo. Si vede che non sono ancora soddisfatti”152.Lo spionaggio dei centri dell’Opera e dell’apostolato

che in essi si svolgeva continuò per molti anni. Nel 1943, questa volta a Madrid, nel centro di via Diego de Leon si presentò un agente del Servizio di Informazione della Falange, inviato a cercare informazioni col prete­sto di controllare il sistema di approvvigionamento. Il Fondatore scoprì subito le vere intenzioni dell’intruso elo mise alla porta con gentilezza, non senza aver fatto amicizia con lui153.

Ma perché stancare il lettore, ripetendo fatti e situa­zioni che non aggiungono nulla a quanto già descritto? Altri fatti, pittoreschi e inverosimili, servirebbero per comporre un florilegio di episodi, senza fare maggior lu­ce sulla vita del Fondatore, salvo mostrarne meriti, esperienza e dolore. Infatti la storia delle persecuzioni non ebbe termine negli anni quaranta, nonostante l’im­pegno di don Josemaria per evitare litigi e seguire risolu­tamente le sue sante norme di condotta. Conviene quin­di limitarsi a qualche prudente e breve esempio, senza voler emettere giudizi di merito.

Da una lettera del Fondatore a p. Roberto Cayuela S.J., suo buon amico, del 13-1-1945, con alcuni cenni al­la seconda guerra mondiale:

“Stimatissimo Padre, mi dispiace di doverle scrivere di cose tristi, ma una profonda e fiduciosa amicizia deve condividere cose gradite e sgradite. Ancora una volta, e in diverse città, ricomincia l’attacco di diversi padri della Compagnia contro l’Opus Dei (...).Non è il caso che le riferisca tutte le chiacchiere. In mo­do implicito o esplicito - ‘se ne vadano altrove; perché restano qui?’ - sembra che dicano, capovolgendo il Van­gelo: la messe è poca e gli operai molti. Nella mente di533

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un grande generale - il grande Capitano che Sant’Igna- zio si immaginava - c’è posto per milioni di uomini, im­pegnati in una crescente diversità di funzioni. E nei piani del Re universale, Sacerdote eterno, che in questi giorni salutiamo come dominator Dominus, c’è molto più po­sto di quanto mente umana possa concepire. Oggi si tratta non solo di colonizzare le terre incolte, ma anche di intensificare il vigore produttivo delle terre coltivate: che il terreno fertile lo sia ancor più, che gli operai sap­piano di essere anche loro una messe.Mi immagino quale sorpresa avremmo se leggessimo sul giornale che gli aerei americani bombardano gli eserciti inglesi. Ebbene, ecco una delle cose più tristi che posso­no accadere: i rapporti tra gli eserciti alleati sono miglio­ri di quelli che intercorrono fra coloro che ogni giorno odono nella cena eucaristica le parole ‘amatevi gli uni gli altri’. Se tra coloro che sono uniti a Roma accadono queste cose, potrà forse il Signore darci l’unione dei dis­sidenti? E di queste cose ci sono dozzine di testimonian­ze, che colpiscono per la quantità e infondono profonda tristezza per il contenuto.Lei sa con quale profonda amicizia le è grato per le sue preghiere e rimane sempre suo affezionatissimo servito­re...”154.Ed ecco una lettera del 1950 a p. Carrillo de Albor-

noz, nella quale si percepisce un sincero desiderio di of­frire personalmente il perdono a chi aveva promosso la campagna contro l’Opera:

“Roma, 3 giugno 1950,Rev.mo P. Àngel Carrillo de Albornoz S.J. - Londra.Mio caro Padre Carrillo, ho ricevuto la sua affettuosa lettera del 15 scorso e dispiace anche a me che non si si­stemino le cose in modo che Lei venga a trovarmi.Quando ritornerà a Roma spero che ci vedremo con cal­ma e spesso. Se io non ci fossi, Lei già conosce don Alva­ro del Portillo, col quale so che s’intenderà sempre mol­to bene.

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Con sincero affetto La abbraccia e chiede preghiere per l’Opus Dei e per questo peccatore Suo aff.mo in Domino”155.Del momento in cui il Padre venne a sapere della defe­

zione di p. Carrillo è stata testimone de visu Encarna- ción Ortega, che ha dichiarato: “Ero presente nel mo­mento in cui gli diedero la notizia che p. Carrillo aveva abbandonato la Compagnia di Gesù. Il Padre ne ebbe profonda tristezza. Don Salvador Canals gli ricordò che si trattava di colui che aveva organizzato una tremenda campagna contro l’Opera. Il Padre lo interruppe: ‘È un’anima, figlio mio, è un’anima’. E se ne stette triste per un certo tempo; certamente stava pregando”156.

7. La convinzione dei santiSanta Teresa racconta che per un certo tempo subì forti incomprensioni poiché il suo confessore attribuiva a un intervento diabolico alcuni fatti soprannaturali che le accadevano; la stessa convinzione avevano anche alcune buone persone del luogo in cui si trovava. Teresa soffrì moltissimo, finché passò di là S. Pietro di Alcantara. Quando lo seppe, racconta la Santa, “ebbe per me la più viva compassione, perché l’opposizione dei buoni era, secondo lui, la prova più grande che si possa subi­re”157.

La persecuzione subita dal Fondatore durò a lungo e la sua trama fu abbastanza complessa. Le prime ama­rezze risalivano alla metà degli anni trenta, quando an­notò negli Appunti:

“In questi giorni, per quanto ne so, frati di tre diversi istituti ci hanno osteggiato. Opposizione dei buoni? Co­se del demonio”158.

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È risaputo - e accade più sovente di quanto ci si possa immaginare - che il demonio si avvale dei buoni uffici di qualche cristiano per turbare la retta coscienza del prossimo; se Dio lo permette, naturalmente. L’idea che i buoni a volte siano di inciampo al giusto permea una Caterina del 14 settembre 1940:

“Molta tribolazione. Incomprensioni e calunnie. Insidie dei cattivi e opposizione dei buoni. In gran parte, anche se il motivo soprannaturale lo sa soltanto Dio, l’occasio­ne umana è stata M. Capisco che non lo fa con cattiva intenzione”159.Ma l’episodio della “opposizione dei buoni” non fu

un evento a se stante. L’avevano promossa alcuni reli­giosi, ma a costoro si aggiunse il comportamento di quelli che la diffondevano ai quattro venti. A ragione, perciò, don Josemarìa scriveva:

“Accanto alla opposizione dei buoni, non mancavano - e non mancano - tanti furbi che, con molte mezze verità, non pochi errori e parecchie calunnie premeditate, orga­nizzavano, con impertinenza e completa mancanza di sensibilità umana, lo strepito contro di noi; e tutto veni­va poi propalato per ignoranza o per stupidità, senza malafede, da altre persone”160.Di fronte a tanto strepito, unilateralmente provocato

da altri, il Fondatore impose a se stesso e ai suoi la legge del silenzio. Legge che consisteva nel praticare, di fronte agli attacchi, la politica della bocca chiusa: tacere, tace­re sempre. Non lamentarsi né fare commenti. Sperava che, passando il tempo, sarebbe diminuita la passione degli animi, il polverone si sarebbe posato e tutto sareb­be stato inghiottito dall’oblio. Sperava che “il vaglio del tempo” avrebbe filtrato quei tristi avvenimenti, trasfor­mandoli in semplici ricordi “lontani e sereni, ormai pri­vi di amarezza per tutti”161.536

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Armatosi di pazienza, prima di decidersi a descrivere le tribolazioni passate lasciò trascorrere un certo nume­ro di anni. Nel 1947, con prudenza e senza precipitazio= ne, espose gli eventi in una lettera diretta ai suoi figli e alle sue figlie. Revisionò il testo per tre volte, ammorbi­dendo anche talune espressioni. Ma la concluse solo nel 1966, quasi vent’anni dopo. Questa, come già detto pri­ma, è la ragione per cui la lettera porta una duplice da­ta162.

La lettura dei primi paragrafi di questa lettera sembra promettente e il lettore si prepara a un genuino racconto storico:

“Le acque si sono abbastanza calmate: seguirò le indica­zioni che mi sono venute dall’alto, da persone che hanno autorità nella Chiesa, che mi hanno detto di comunicare alcune delle cose che ho cercato di far passare sotto si­lenzio, anche se non ho potuto evitare' del tutto che i miei figli le sapessero”163.Tuttavia il Fondatore adempì solo parzialmente il suo

proposito. Più che un racconto storico, la lettera è infat­ti un abbozzo di incidenti frammentari ed episodici nar­rati a malincuore, senza rispettare la cronologia e spie­gare il contesto. Inoltre non vi si leggono descrizioni minuziose e neppure i nomi delle persone responsabili della persecuzione, dei quali peraltro l’autore evita ac­curatamente di giudicare le intenzioni. Egli afferma: “Cerco di non caricare le tinte del quadro che vi descri­vo, risparmiandovi tanti eventi inattesi e duri che sem­brano cose del medioevo”164.

Non si tratta dunque di un rapporto minuzioso, con un piano espositivo. Non mancano volontà e impegno da parte dell’autore. Ma è anche evidente il volontario sforzo di non rimestare la questione. Così la narrazione si riduce a un insieme di impressioni sciolte, a “una con­versazione familiare” fatta con scampoli di ricordi e

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senza consultare documenti165. È evidente che il Fonda­tore voleva e non voleva raccontare questo capitolo del­la storia dell’Opera, forse perché una lettera di famiglia non è il miglior genere letterario per fare storia o, più probabilmente, per un motivo d’altro genere. A don Jo­semaria ripugnava parlare di sé, sia pure in terza perso­na. Ma voleva ubbidire a chi, dal Vaticano, gli aveva or­dinato di riferire i fatti ai suoi figli. Questa volontà entrava però in conflitto con il suo proposito di “na­scondermi e scomparire” ed egli faceva resistenza a met­tere a nudo la propria vita interiore, che è inseparabile dalla storia dell’Opera, anche durante la “opposizione dei buoni”.

Non è una congettura azzardata affermare che don Josemaria voleva dire senza dire; fu costretto a ricono­scerlo: “Vi scrivo, figli miei, con difficoltà. Con diffi­coltà perché mi hanno suggerito di dirvi alcune cose del­la mia anima”166.

Per il suo carattere eminentemente spirituale, il rac­conto del Fondatore potrebbe essere intitolato Trattato sulla tribolazione: come trarre profitto dalle contrarietà senza perdere la pace e la gioia. Davvero il lettore può trarne a ogni passo preziose lezioni di alta nobiltà spiri­tuale.

Impossibile mettere ordine nella caotica congerie di fatti e detti, di mormorazioni e falsità, che costituiscono la campagna di calunnie. Riferiamo comunque, a grandi linee e al di là dei singoli episodi, il corso degli avveni­menti. Al principio, intorno al 1940, don Josemaria fu oggetto di critiche e dicerie isolate. Era il periodo in cui alludeva alle proprie “tribolazioni”. Poco dopo, con le prove irrefutabili della campagna montata contro di lui e contro l’Opera, non potè fare a meno di chiamarla “opposizione dei buoni”, avendone individuato i pro­motori. La campagna “organizzata e orchestrata” di­538

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venne poi persecuzione, una “crudele persecuzione”, una persecuzione “perseverante”167.

Al Fondatore costava non poco usare vocaboli così forti. Cercava di non farlo perché gli attacchi proveni­vano da persone appartenenti a una istituzione che amava con tutta l’anima. Un atteggiamento analogo, e per lo stesso motivo, aveva assunto l’Abate di Montser- rat. Ma, come scriveva mons. Leopoldo a quest’ultimo, che cos’era se non autentica persecuzione quell’aggres­sione violenta e sfrenata?

“Ciò che mi sorprende è che Lei dica, conoscendo la du­rezza degli attacchi all’Opus Dei in codesta terra, ‘se si può chiamare persecuzione l’opposizione che le è stata mossa contro’. Mi dica se non è persecuzione, e crudelis­sima, che quest’Opera che Lei conosce e stima, e della quale giustamente si interessa, venga chiamata massone­ria, setta eretica simile a quella di Banolas, antro tene­broso che certamente porta a perdizione le anime; e i suoi membri iconoclasti e ipnotizzati, persecutori della Chiesa e dello stato religioso e altre simili assurdità; e far intervenire contro di loro le autorità civili e persegui­re la chiusura dei suoi centri e la detenzione del suo fon­datore e la condanna di Roma; e, cosa tragica e doloro­sa, seminare zizzania con tutti i mezzi, dal confessionale fino alla visita a domicilio alle famiglie di quanti amano l’Opus Dei. Se tutto questo non è persecuzione, e duris­sima, che cosa altro mai potrà esserlo?”168.La sequenza storica degli eventi seguì un corso rettili­

neo, progressivo e inarrestabile. Dapprima, tribolazioni sparse; poi, attacchi organizzati; infine, persecuzione tu­multuosa, come la corrente di un torrente in piena.

In seguito accadde una cosa impensabile. Forse per scarsa informazione, o perché convinto che i suoi con­fratelli non avrebbero mai utilizzato l’arma della calun­nia, il Direttore della Congregazione di S. Luigi a Ma­drid, con una virata sconcertante, fece causa comune

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con p. Carrillo de Albornoz, come dichiarò egli stesso nella già citata lettera a don Josemaria, nella quale scris­se di sentirsi “in perfetto accordo” con l’altro e accusò il Fondatore di diffamare la Compagnia di Gesù169.

Don Josemaria, dotato di fine sensibilità soprannatu­rale, scoprì subito, oltre i semplici fatti, il significato ul­timo di avvenimenti tanto tristi. Non appena si affaccia­rono all’orizzonte della sua vita i primi segni della difficoltà, si rese conto che si trattava di una cosa di Dio, di una prova inviata dall’alto. Pertanto si dedicò a cogliere “i beni in cambio dei quali il Signore ha per­messo questa tribolazione”170. In questo modo arrivò a vedere le cose in una prospettiva molto diversa rispetto a quella dello spettatore che si limita a osservare ciò che accade. Gli eventi apparivano ai suoi occhi immersi in una luce nuova. Assumevano un significato trascenden­te, superiore per dimensione e importanza. Rispondeva­no a un sapiente ordinamento provvidenziale.

Al di là della comprensione banale della storia di ogni giorno, don Josemaria percepiva nelle cose il modo di operare divino. Ciò che a un osservatore privo di visio­ne soprannaturale poteva sembrare un inspiegabile pa­radosso era per lui tangibile evidenza. Ne è prova la persistenza di una gioiosa serenità nel mezzo delle an­sietà e delle afflizioni causate dalle tribolazioni. Quando un’anima ama veramente Dio, quando abbraccia salda­mente la sua Volontà, supera le pene e i dolori. Coloro che insistevano nel folle tentativo di distruggere l’Opus Dei dimenticavano una cosa molto importante, che il Fondatore ci ricorda:

“Costoro dimenticano che le opere di Dio - e anche que­sta Opera di Dio - le fa Dio. Invece i monumenti umanili fa e li disfa il tempo”171.Don Josemaria desiderava vivamente che questi attac­

chi finissero una volta per tutte. Sapeva che, in fin dei540

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conti, la chiave della storia sta nella Volontà di Dio, e lo scriveva al Vescovo:

“Chiedo molto a nostro Signore che tutto finisca, se questa è la sua Volontà. Aggiungendo questa condizio­ne, nella mia richiesta è implicitamente contenuta la pre­ghiera che sia Volontà di Dio la fine della persecuzione dei buoni che stiamo subendo. In ogni caso, fiat!”172.

* * *

Un giorno don Josemarìa e il Vicario generale della dioce­si, don Casimiro Mordilo, stavano passeggiando nei din­torni di Madrid quando, con l’aria di chi fa un’indiscre­zione, il Vicario chiese al suo amico: “Sai che forse ti hanno accusato di eresia a Roma davanti al Sant’Uffi­zio?”. Don Josemarìa, nell’udirlo, si mostrò colmo di gioia: “Ne sono felice, Casimiro! Perché da Roma, dal Papa, non mi può venire altro che la luce e il bene”173.

Di questa pura gioia spirituale facevano però le spese le sue energie fisiche, perché per passare sopra al cumu­lo delle calunnie che impedivano il cammino dell’Opera verso Roma doveva fare sforzi titanici. In quella campa­gna diffamatoria si stava giocando il futuro prossimo dell’Opus Dei, dato che l’approvazione di Roma era uno sbocco obbligato per ogni istituzione della Chiesa che avesse aspirazioni di portata universale. E all’esauri­mento fisico si aggiunse il peso schiacciante di dieci tur­ni di esercizi spirituali, uno dopo l’altro e ciascuno di una settimana intera. Vi spese l’estate del 1941174. Alle porte dell’autunno, prima di cominciare un nuovo anno di attività, don Josemarìa era talmente affaticato che dovette ritirarsi a riposare per alcuni giorni a La Gran] a, un paese vicino a Segovia. Là, accompagnato da Ricar­do Fernàndez Vallespìn, scriveva e passeggiava.

La mattina di giovedì 25 settembre rimase in albergo, in parte a causa del cielo grigio di nubi minacciose di

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pioggia, ma soprattutto per la fretta di comunicare ad Alvaro del Portillo la notizia che gli bruciava dentro:

“Oggi ho offerto il Santo Sacrificio e tutta la giornata per il Sommo Pontefice, per la sua Persona e per le sue intenzioni. Dopo la Consacrazione ho sentito la mozio­ne interiore (pur essendo certissimo che l'Opera sarà molto amata dal Papa) di fare qualcosa che mi è costato lacrime: e con le lacrime che mi bruciavano gli occhi, guardando Gesù Eucaristico che stava sul corporale, conil cuore gli ho detto davvero: 'Signore, se tu lo vuoi, io accetto l'ingiustizia'. Immagini già quale ingiustizia: la distruzione di tutto il lavoro di Dio.So che gli ho fatto piacere. Come potevo rifiutarmi di compiere quest'atto di unione alla sua Volontà, se Egli me lo chiedeva? Già un'altra volta, nel 1933 o ‘34, e so­lo Lui sa quanto mi è costato, ho fatto la stessa cosa.Figlio mio: che splendida messe ci prepara il Signore, dopo che il nostro Santo Padre ci avrà conosciuto sul se­rio (e non attraverso le calunnie) e saprà che noi siamo davvero suoi fedelissimi, e ci avrà benedetti!”175.Come nel 1933, questa volta nel corso della Messa,

don Josemaria si sentì sospinto interiormente a offrire in olocausto al Signore, assieme alla propria missione fondazionale, tutti gli apostolati dell’Opera. Aveva ap­pena fatto la Consacrazione quando all’improvviso il Si­gnore gli aveva chiesto di accettare, liberamente, la di­struzione dell’Opera, la creatura divina che usciva allora faticosamente da una tremenda campagna di insi­die. Non si trattava di una vaga possibilità di donazio­ne, ma di un’esigenza reale e attuale. In uno slancio eroico di distacco il sacerdote fece il sacrificio, in “atto di unione alla sua Volontà”, di ciò che era per lui molto più prezioso della sua stessa vita.

L’offerta era il coronamento di nove anni di docilità e assoluta sottomissione alla Volontà di Dio. Proprio nel 1932 aveva scritto negli Appunti intimi: “Signore, il tuo542

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asinelio vuol meritare di essere chiamato colui che ama la Volontà di Dio”176. Da allora molte opere di amore e di obbedienza erano fiorite sulla sua Croce. Con questa seconda dimostrazione di amorevole accettazione del Volere divino, il Fondatore aveva ormai meritato tale ti­tolo e il Signore non lo sottopose mai più a una prova tanto dolorosa.

Le sue sofferenze culminavano così nella Croce, che è segno eterno di predilezione divina. Glielo ricordava mons. Carmelo Ballester, Vescovo di Leon, quando, rife­rendosi alla campagna organizzata contro la sua perso­na, gli scriveva: “Il Signore l’ama molto, dato che la conduce per il cammino regale della Croce”177.

Dolore e felicità, paradossalmente, erano per il sacer­dote la stessa cosa. L’unica cosa che gl’importava era di fare la Volontà divina o, per meglio dire, dedicarsi con tutta l’anima alla Volontà di Dio, dato che gli eventi perturbatori di quegli anni non lo separavano minima­mente da essa, come avrebbe scritto in seguito, rifletten­do sulle passate ingiustizie:

“Ci avvicinavano a Lui; ci crocifiggevano con Cristo e ci facevano vedere - lo vedo ora con una chiarezza assolu­ta - che le sofferenze che noi uomini sperimentiamo so­no giuste”178.È evidente tuttavia che l’unione con il Volere divino

giungeva solo dopo una titanica lotta tra “l’uomo vec­chio”, di cui parla S. Paolo, e il bambino rinato dalla grazia. La considerazione della filiazione divina - sapere di essere figlio di Dio - era il balsamo con cui leniva le ferite provocate dalle calunnie, come spiegò per lettera ad Alvaro del Portillo:

“Caro Alvaro, prega molto e fa pregare molto per tuo Pa­dre; sappi che Gesù permette che il nemico mi faccia vede­re l’esorbitante enormità della campagna di incredibili

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menzogne e di calunnie pazzesche e Yanimalìs homo si inalbera, con umana ribellione. Per grazia di Dio respingo sempre queste logiche reazioni che sembrano, e forse so­no, improntate all’onestà e alla giustizia; e faccio posto a un fiat gioioso e filiale (di filiazione divina: sono figlio di Dio!) che mi riempie di pace, di gioia e di oblio”179.La pace e la gioia erano il dolce frutto che la Croce la­

sciava nella sua anima. Ma il senso di ribellione, che pe­sava sul suo animo amareggiandone i sentimenti, era frutto della stanchezza che lo schiacciava e lo consuma­va. Appena potè, si ritirò a esaminare la sua anima. Av­vertì allora, con sorpresa, un evidente cambiamento del suo carattere:

“Questa è la grande novità che ho scoperto. Sono natu­ralmente allegro e ottimista. Tuttavia, tanti anni di lotta e di sofferenze di ogni genere mi hanno modificato il ca­rattere, senza che me ne rendessi conto fino a ora. E fac­cio fatica a sorridere. Ho la gravità degli ottanta anni, che chiedevo al Signore quando ne avevo ventisei, e mol­ta amarezza.Questo è un fatto obiettivo, come è anche obiettivo che dentro di me rarissime volte ho perso il gaudium cum pace, e solo per pochi istanti, nonostante tutte le contra­rietà interiori ed esterne. Soffocato dall’immondizia e dal disonore, mi sentivo felice. Mi dicevo: l’onore l’ho donato già da molti anni a Gesù; se Lui non ne ha biso­gno, perché mai lo voglio io?Ma sto divagando: ho frequenti attacchi di malumore, sono serio, sembro triste. E Dio non vuole questo, né questo è lo spirito dell’Opera; metto impegno perché ci sia allegria nelle nostre case, e c’è. Io devo dare l’esem­pio. Bella mortificazione, a portata di mano, e nascosta!Se il mio Padre Spirituale lo approva, farò l’esame parti­colare sull’allegria... e non è una sciocchezza!Proposito: sorridere, sorridere sempre, per amore di Gesù. Madrid, Gasa dei PP. Lazzaristi, novembre 1941 ”180.

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In dodici mesi scarsi, a cominciare dall’autunno 1940, la “opposizione dei buoni” si era estesa così rapidamente e con un tale arsenale di mezzi e di influenze che la so­pravvivenza dell’Opera appariva un vero miracolo. Di una conversazione con il Vescovo di Madrid, nel gennaio 1941, il Fondatore riporta queste parole sulla campagna diretta da p. Carrillo de Albornoz: “Ha organizzato per­fettamente la calunnia - in perfetta buona fede - in tutta la Spagna e, secondo p. Segarra, la estenderanno fino a Roma”181. Infatti, tra le mille sciocchezze che seguirono, si disse che la questione sarebbe finita a Roma e si fece persino correre la voce, anticipando giudizio e sentenza, che l’Opus Dei era già stato condannato e il suo fondato­re sospeso a divinis182.

La prima informazione sicura che si stava preparando una denuncia ufficiale alla Santa Sede contro l’Opus Dei è del giugno 1941. La notizia fu comunicata da don Se­bastiàn Cirac, che, piuttosto sorpreso, scrisse da Barcel­lona al Vescovo di Madrid, per evitare che don Jose­maria lo sapesse direttamente e ne soffrisse:

“Eccellenza, mi ritengo obbligato a comunicare perso­nalmente a S.E. che il Padre Provinciale dei gesuiti è tor­nato in questi giorni da Roma, dove ha consegnato al Rev.mo Padre Generale della Compagnia alcune conclu­sioni contro l’Opus Dei. Il Padre Generale ne fu talmen­te impressionato da inviarle alle Congregazioni.La notizia viene da fonte autentica ed è stata comunica­ta anche al Vescovo Amministratore Apostolico di Bar­cellona da un amico. Forse per ora è meglio che don Jo­sé Maria non lo sappia. Frattanto, d’accordo con il Vescovo di qui, prepareremo la difesa della verità, della giustizia e della virtù, nonostante il molto lavoro e il po­co tempo che ho.Disponga di me e benedica il suo aff.mo Sebastiàn Ci-

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A giro di posta mons. Leopoldo gli rispose:“Caro don Sebastiàn, uscendo dai santi esercizi mi con­segnano la sua lettera, che non porta né data né timbro postale sulla busta, cosicché non so di quando sia. Mi dà una notizia assai spiacevole. Che tristezza! Ma non dobbiamo spaventarci. Dio N.S. sta sopra a tutto. Se­condo me il buon don José Maria non deve venirne a co­noscenza perché, pur sapendo che reagirebbe da santo, so anche che ne soffrirebbe molto fisicamente. Ora sta dando i santi esercizi.Non credo che laggiù facciano qualcosa prescindendo dai Vescovi o almeno senza interpellarli. Giunto quel momento, Dio N.S. ci assisterà. Ciò non deve impedire che Lei faccia tutto quello che può. Dio N.S., che gliene renderà merito, La illumini.La nostra maggior cura deve essere che nulla di tutto questo arrechi danno alle anime; e sarebbe di grande danno qualsiasi cosa che gettasse il discredito sulla San­ta Compagnia di Gesù. La maggior gloria dell’Opus consisterà nel benedirla sempre. Non dobbiamo confon­dere le cose. E poiché l’Opus è veramente Dei, Egli pren­derà le difese di ciò che è Suo e ci consentirà di difender­lo. Credo davvero che sarebbe meglio che la notizia non si diffondesse.Mi tenga informato. Gliene sarò molto grato”184.La notizia rimase riservata. Nell’estate 1941 don Jo­

semarìa predicò corsi di ritiro a universitari e a sacerdo­ti, senza potersi occupare di altre questioni urgenti185. Il 21 settembre, come si è detto, andò a riposare qualche giorno a La Granj a, accompagnato da Ricardo Fernàn­dez Vallespm. Il giorno 23 andò a far visita a mons. Lu­ciano Pérez Platero, Vescovo di Segovia, che si mise a parlare degli argomenti di cui si sta trattando nel pre­sente capitolo. Il Vescovo disse a don Josemarìa di avere un fratello gesuita a Loyola, dal quale aveva saputo che nelle Case della Compagnia avevano solamente infor­mazioni parziali, per nulla favorevoli all’Opus Dei, per546

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cui difficilmente si sarebbero potuti fare un giudizio obiettivo. Il Vescovo gli domandò:

- “Sa che hanno portato le accuse a Roma? Me l’ha det­to mio fratello”.- “So che sono andati al Santo Uffizio - gli rispose don Josemaria - e non può immaginare il soprassalto di gioia, persino fisico, che ebbi quando lo seppi: il Papa ci conosce già, anche se ci conosce male, attraverso le ca­lunnie!”186.Ben presto tuttavia si rese conto che la denuncia cui si

era riferito il fratello di mons. Pérez Platero era cosa più recente e che si trattava di un’accusa in piena regola. Da quella notizia don Josemaria vide confermati i suoi so­spetti: la massa di calunnie provenienti dalla Spagna sa­rebbe approdata a Roma. La “triste notizia” che mons. Leopoldo e Sebastiàn Cirac cercavano di nascondergli, gli piombò addosso all’improvviso. Nei due giorni suc­cessivi sentì di avere il cuore spezzato187. Provava moti naturali di ribellione che, con la grazia di Dio e un atto gioioso di filiazione divina, riusciva a reprimere, ricupe­rando la pace e la serenità.

Come mons. Leopoldo, don Josemaria fondava la pro­pria speranza su argomenti umani e soprannaturali. E aveva perfettamente ragione, perché la Curia romana fa­ceva in modo, prudentemente, di lasciar placare gli ani­mi e sottoponeva le denunce a un rigoroso turno di atte­sa. Frattanto, alcuni Vescovi spagnoli inviavano a Roma, attraverso il Nunzio, dati e notizie per ristabilire la ve­rità. Ma era evidente che gli accusatori erano in vantag­gio, dato che il Rev.mo Padre Generale della Compagnia di Gesù fece arrivare alla Santa Sede una Relazione sul- l’Opus Dei con numerosi allegati (A-M). Le informazio­ni ricevute dalla Spagna dovettero sembrargli tanto al­larmanti che egli stesso, nella lettera personale di accompagnamento, indicava l’Opus Dei come “molto

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pericolosa per la Chiesa in Ispagna [sic]”, e proseguiva: “Che Sua Eccellenza il Vescovo di Madrid sostiene e pro­muove l’Opera con tutti i mezzi non è da maravigliarsi [sic]. Neppure mi maraviglio [sic] che anche pochi altri Vescovi sono favorevoli al fondatore Don Escrivà. Difat­ti la sua vita sacerdotale è integra e il suo libro Camino [sic] contiene una sana dottrina ascetica esposta in forma attraente; però chi conosce tutta l’opera vede che questo libro è per i “non-iniziati”, quantunque già vi si trovino traccie [sic] di una tendenza segreta di dominare il mon­do con una specie di massoneria cristiana; per esempio, nel numero 911: “Cuando veremos nuestro el mundo?” [sic]... Se poi alcuni dicono che l’Opus Dei non ha nessu­na importanza, questo proviene o dal fatto che l’opera per la sua segretezza meno si manifesta all’esterno, o po­trebbe essere una manovra abile per ingannare l’autorità ecclesiastica. In realtà non vi è dubbio che già adesso esercita un grande influsso e attira anche l’attenzione dell’autorità civile”188.

8. Il bisturi di platinoFin dal primo momento don Josemaria aveva avuto la certezza che le ingiurie contro la sua persona fossero, in certo modo, una prova permessa da Dio per purificarlo. E una delle cose che glielo confermavano era vedere il tipo di strumenti di cui il Signore si serviva per marchia­re la sua anima con il dolore. Il Padre lo affermò e don Àlvaro lo ripetè al Vescovo di Madrid: “Potremmo forse non benedire questa tribolazione e non considerarla co­me venuta da Dio, visto che ce la manda per mezzo di uno strumento tanto Suo quale è la santa e amata Com­pagnia di Gesù?”189.

Colpito da questa considerazione soprannaturale, an­che il Vescovo vedeva la battuta di caccia organizzata da alcuni religiosi come un lusso che Dio si permetteva e548

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che avrebbe poi ricompensato con i suoi favori: “Dio dovrà premiare - scrisse senza seconde intenzioni - co­loro che arbitrantes se obsequium praestare Deo hanno scatenato questa guerra”190.

Era evidente che il Signore si comportava magnifica­mente, con grande splendore, spargendo le carezze della Croce, dimostrando a chiunque, per quanto poco senso soprannaturale potesse avere, che l’Opus Dei era tutto suo e amato. Per questo il Fondatore sopportava le ag­gressioni senza aprire bocca e lo diceva a p. Basterra nella lettera già citata:

“Da noi non uscirà mai neppure una parola di protesta contro questi Padri, che sono strumenti di Dio, il quale vuole trattare la sua Opera alla maniera divina, come ha fatto sempre con tutte le nuove fondazioni”191.Sia il Fondatore che il Vescovo erano convinti che

queste persone stessero prestando un grande servizio al- POpus Dei. (Non per questo cessavano di essere respon­sabili dei propri atti. Dio può trarre il bene dal male). Affermazione che non implica alcuna ironia. Certamen­te essa concorda con il punto di vista storico, perché la persecuzione sembra essere legge di crescita spirituale, salvo rare eccezioni. “Anche la benedetta Compagnia - diceva il Fondatore al Vescovo di Pamplona - venne ac­cusata, agli inizi, di avere segreti e punti oscuri”192. Non era neppure una considerazione disprezzabile dal punto di vista umano, perché i membri dell’Opus Dei avevano il santo orgoglio di vedersi assistiti da Dio, come reclute alle prime armi, e di subire duri assalti pur essendo “co­sì poca cosa”193.

“Che gioia, in mezzo alla tribolazione, - esclamava pie­no di gratitudine don Josemarìa - vedere che, essendo noi tanto miseri, il Signore ci tratta come i grandi solda­ti della sua Chiesa!”194.

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L’Opus Dei, per disposizione della Provvidenza, era sottoposto a una dolorosissima operazione chirurgica, dalla quale tutti i suoi membri sarebbero usciti rinnova­ti nella salute e nella fortezza. Per così cruenta operazio­ne il Signore si serviva di alcuni uomini di Dio, che don Josemarìa amava con sempre maggior affetto, perché erano “per l’Opus Dei una specie di bisturi di platino nelle mani di Dio”195. Questo era il sentimento che inse­gnava ai suoi figli, facendo in modo di coltivare nelle lo­ro anime “devozione e amore per Sant’Ignazio e la sua benedetta Compagnia”196, perché mai attecchisse in lo­ro alcun germe di rancore:

“Sono sicuro che, quando col passare degli anni arriverà nelle vostre mani questo scritto, non avrete altri sentimenti nel cuore - così come noi ora - che di carità e di perdono; e amerete il martello che ci ha colpiti, facendo sì che si mo­dellasse la bellissima statua che è l’Opera”197.Analoghe manifestazioni di affetto per la Compagnia

compaiono nelle parole e negli scritti del Fondatore in molteplici occasioni, prima e dopo la lunga tormenta. E riesce ancor più commovente la sua sincerità quando serbava questo affetto nel segreto del suo cuore, come dimostra una nota manoscritta dell’8 aprile 1941 nella quale confessava a se stesso:

“Mi dispiacciono enormemente questi attacchi, perché amo la Compagnia di Gesù. Oggi stesso ho celebrato la Santa Messa per la Compagnia - l’ho fatto altre volte da quando ci perseguitano - chiedendo al Signore che cessi questa tribolazione, se questa è la sua Volontà”198.Ma se ci prende la curiosità di sapere perché il Fonda­

tore soffriva in modo tanto singolare per la campagna diffamatoria, è necessario avvertire che la sofferenza non si riferiva a ciò che toccava il suo onore, perché da esso aveva preso da tempo le distanze199. Ciò che lo ad­550

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dolorava era il male altrui, il danno che stavano causan­do alla Compagnia i metodi usati da alcune persone che provenivano dal suo seno e gli dispiaceva il pubblico scandalo che ciò comportava. Non mancarono gesuiti che cercarono di impedire, senza riuscirci, le trame dei loro fratelli in religione.

Il Fondatore soffriva per questi attacchi anche perché la calunnia, da qualsiasi parte venga, svilisce sempre chi se ne serve. Inoltre, essa lascia una traccia viscida su quanto tocca. Orma difficile da pulire, perché la gente comune, istintivamente e di solito, pensa che laddove canta una gallina c’è sicuramente un uovo, cioè, fuor di metafora, un fondo di verità. Una volta lanciata la ca­lunnia, non è facile riparare il danno causato200.

Senza curarsi delle conseguenze, furono utilizzati si­stemi e argomenti che con ogni probabilità sarebbero poi stati copiati da altri. E così accadde. Non molto tempo dopo i nemici della Chiesa ripeterono, a una a una, tutte le accuse fatte circolare da quei religiosi. E non solo i nemici. Ci furono anche fedeli e sacerdoti che, seguendo l’esempio ricevuto, si autorilasciarono patenti valide per muoversi a proprio capriccio e rinfo­colare la diffamazione contro l’Opus Dei201.

Mentre infuriava la bufera, il Fondatore con i suoi si atteneva fermamente alle norme seguite fin dalle prime vessazioni:

“Tacere, tacere, lavorare, perdonare, sorridere e prega­re; e soffrire con gioia, perché il cammino di Dio è nella sofferenza, metterci nelle mani del Signore e non dimen­ticarci che Egli non perde battaglie”202.Si comprende perché mons. Leopoldo ammirasse la

mansuetudine evangelica e la “carità e amorosa rasse­gnazione con cui i membri dell’Opus Dei accolgono la persecuzione e baciano le mani che li colpiscono”203. Come accade spesso, da grandi danni Dio sa trarre, pri­

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ma o poi, grandi beni. Le avversità, invece di disfare POpera, contribuirono a unire più strettamente il Padre ai suoi figli. Questa fu la prima conseguenza positiva del fatto che il Fondatore aveva offerto le proprie spalle ai colpi, per proteggere i suoi. Alcuni anni dopo scrisse:

“Osavo dire, con S. Paolo, ai miei figli: vi prego quindi di non perdervi d’animo per le mie tribolazioni per voi; sono gloria vostra; visto che i colpi, almeno in quell’epo­ca, erano rivolti contro di me”204.Il Padre si raffigurava dal vivo le dolorose punture ri­

cevute e ricordava di aver visto da piccolo che le donne anziane della sua terra, presi degli aghi, pungevano i fi­chi primaticci perché maturassero più in fretta e si col­massero di nettare. Analogamente, la persecuzione ave­va anticipato la maggiore età dei suoi figli, li aveva maturati spiritualmente, rendendoli più efficaci, più pa­zienti e più fedeli. Quest’immagine della sua infanzia a Fonz gli servì spesso per leggere in chiave soprannatura­le i patimenti dei figli di Dio in questa vita:

“Nella mia terra - diceva parlando del significato divino del dolore - pungono la prima fioritura di fichi, che si riempiono così di dolcezza e maturano prima. Dio no­stro Signore, per renderci più efficaci, ci ha benedetti con la Croce”205.Per molti anni egli dovette smontare menzogne e chia­

rire in mille modi la verità sull’Opus Dei. Così si anda­rono fissando, in modo incisivo, i lineamenti dell’Ope- ra. A tal punto - scriveva il Fondatore - che “ora essa è scolpita”206. Inoltre, le persecuzioni avevano contribui­to a rendere “ancora più chiaro che POpera non la fan­no gli uomini, ma Dio”207.

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A metà della primavera del 1941 Barcellona era tutta552

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sottosopra. Molte famiglie cattoliche, sicuramente tutti gli ambienti ecclesiastici e pure le autorità civili, erano all’erta: Come la caduta di una pietra nell’acqua sta­gnante di un laghetto, la perturbazione di Barcellona si estese alle diocesi limitrofe, come si può vedere dal se­guente episodio.

Era il mese di maggio avanzato quando il Vescovo di Lerida, mons. Moli Salord, andò a parlare con quello di Gerona. Casualmente, durante il viaggio aveva letto Cammino, che gli era stato regalato dall’autore. Grande dovette essere la sorpresa del Vescovo di Gerona quan­do lo vide entrare tenendo in mano, in bella evidenza e senza alcun ritegno, un libro che davanti a lui qualcuno il giorno prima aveva accusato di eresia. Ecco il raccon­to di mons. Moli Salord a don Josemarìa:

“Ho ricevuto a suo tempo il suo prezioso Cammino, con l’amabile dedica che ha voluto scrivere sul frontespizio. L’ho letto con sommo interesse. O meglio, l’abbiamo let­to insieme don Àngel e io mentre andavamo a Gerona, in una bella giornata di primavera: il Signore mi inviava là, a mia insaputa, per “raddrizzare i torti” fatti a lei, ai suoi libri e alle sue cose. Infatti il Vescovo proprio il giorno prima aveva ricevuto persone che l’avevano messo in guardia contro di Lei e il suo libro. Io potei mostrarglie­lo, completo di censura e approvazione ecclesiastica, e te­stimoniare circa la sua persona, che avevo conosciuto poche settimane prima. Qualcosa di simile ho dovuto fa­re in alcuni circoli ecclesiastici di Barcellona, dove la con­sideravano un personaggio piuttosto sospetto. Che tri­stezza! Ma sono persuaso che tutto questo clima di ostilità finirà decisamente nel ridicolo. Lei stia sempre unito al suo Vescovo e ai Vescovi delle diocesi dove pensa di agire; il resto non è che vano polverone, che non ha nulla di Dio e molto di obiettivi e ideali umani.Ho due turni di esercizi per sacerdoti nei giorni 13-25 ottobre. Sarebbe tanto cortese da venire a darli? L’altra volta ci ha lasciati col miele sulle labbra, come si suol di­

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re, consentendoci solo di assaggiarlo... Quali cose fa a volte il Signore! Mi sono ricordato molto dell’interru­zione come pure, davanti all’altare, dell’anima della per­sona che l’ha causata.Di cuore La benedice il suo aff.mo in Cristo + Ma­nuel, Vescovo A. A.”208.Don Josemaria era sempre stato obbedientissimo alla

Gerarchia. Perciò quando il Vescovo di Lerida gli consi­gliava di non separarsi mai dal suo Vescovo e dai Vesco­vi delle diocesi in cui svolgeva il suo apostolato, inten­deva piuttosto confermarlo e incoraggiarlo su questa strada. La massima “nulla senza il Vescovo” gli dava si­curezza nelle sue imprese e nella possibilità di andare avanti anche in ambienti ostili. L’Opera - scriveva mons. Leopoldo all’Abate di Montserrat - non è diso­rientata:

“Sa molto bene da dove viene e dove va; è giovane ma ha già tredici anni di viva esperienza in un clima di fer­vida meditazione; e soprattutto procede sicura perché è tenuta per mano dai Vescovi, senza altro desiderio che di obbedirli e di servire la Chiesa; il motto, la consegna, l’ordine del giorno di tutti i giorni è: Serviam!”209.

In mezzo allo sballottamento al quale erano sottopo­sti don Josemaria e i suoi figli, il Vescovo di Madrid di­ceva: “La loro maggior consolazione è vedere che tutti noi Vescovi, nelle cui diocesi hanno i loro centri, stiamo con loro e li incoraggiamo e li difendiamo”210. Per com­pensare il rifiuto di alcuni ambienti che la persecuzione portava con sé, era di non poco sollievo comprovare l’affetto dei Vescovi.

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Il 9 gennaio 1939, poche settimane prima della fine del­la guerra civile, il Fondatore aveva indirizzato una lette­ra ai suoi, nella quale parlava loro degli ostacoli che avrebbero incontrato non appena ripreso il lavoro. E554

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aveva specificato: “penuria, debiti, povertà, disprezzo, calunnia, menzogna, ingratitudine, ostacoli da parte dei buoni”211. Questo dettagliato preannunzio degli eventi che li aspettavano, fatto con due anni di anticipo, sem­bra una predizione soprannaturale ma anche un logico presagio. E tutte e due le cose. Era molto ragionevole prevedere che tutto questo accadesse, tenendo conto della natura degli uomini e delle cose212. Ci si potevano aspettare incomprensioni e scontri. Ma va oltre l’umana comprensione il rapido, completo e disgraziato realiz­zarsi di tutti i mali previsti.

Gli avvenimenti confermarono puntualmente il pro­nostico fatto a Burgos nel 1939, ben prima che apparis­sero le nubi all’orizzonte. Si deve tuttavia notare che tutti i punti citati - penuria, debiti, povertà, persecuzio­ne da parte dell’autorità - hanno un significato preciso, chiaro e sostanziale. Tutti, tranne la “opposizione dei buoni”, modo di esprimersi dei santi, che ha un signifi­cato e un valore ascetico peculiari.

Dover subire indicibili patimenti è una storia che si ri­pete nella vita dei santi. Ma il fatto che Dio permetta, a volte, che siano proprio i buoni a servire da strumento di tortura per una prova di amore non è facilmente com­prensibile. Questo è ciò che rende particolare la cosid­detta “opposizione dei buoni”. È pure noto che le vie del Signore sono imprevedibili e che la divina Provvidenza può trarre luce anche dagli errori umani. Tuttavia, la­sciando da parte i disegni occulti e soprannaturali, ci si può interrogare sulle cause che, agli occhi umani, hanno motivato la persecuzione. Come e perché si è verificata? Quale fu la molla che mise in moto antipatie e ostilità?

Valga, come prima risposta, sapere che quel sommo­vimento aveva origine dalla predicazione di don Jose- marìa sulla chiamata universale alla santità. Qui sta la radice di incomprensioni, critiche, sospetti e attacchi al­l’Opera e al suo Fondatore. Prima della guerra civile si mormorava che don Josemarìa avesse fondato una setta

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eretica, il cui proposito era di cercare la santità in mezzo al trambusto mondano. Ora si ripeteva la vecchia sto­ria. Il messaggio era certamente radicale; quel giovane sacerdote cercava di suscitare nei cristiani una risposta adeguata alla vocazione battesimale e questa esigenza portava direttamente alla santificazione, cioè a vivere la pienezza della vita cristiana nel mezzo della strada.

In un certo senso, considerando che l’ambiente stori­co-dottrinale era rimasto languidamente stagnante per secoli, il messaggio dell’Opus Dei costituiva una vera novità, che causava perturbazione. Per alcuni era addi­rittura in conflitto con le consuetudini e gli insegnamen­ti tradizionali. Per giunta molti consideravano il termine vocazione equivalente a quello di consacrazione religio­sa. Non c’è da meravigliarsi dunque che alcuni giudicas­sero i membri dell’Opus Dei in base al genere di vita pe­culiare dello stato religioso e che cercassero di attribuire loro voti, abito, vita conventuale o manifestazioni pecu­liari di povertà. Col risultato che, non rientrando nei lo­ro modelli mentali né la dottrina, né la secolarità dell’O­pus Dei, ne nasceva sorpresa o scandalo. Non mancarono neppure coloro che credevano loro dovere di coscienza combattere lo sviluppo delle attività apo­stoliche di don Josemaria.

Le calunnie che correvano erano dunque di ogni tipo. Alcune erano ridicole sciocchezze, altre accuse molto pericolose, tra cui quella che l’Opus Dei cercava di di­struggere le istituzioni di vita consacrata e sottraeva vo­cazioni ai religiosi. Così tali affermazioni divennero fionde, usate con tale veemenza che non rimasero più pietre da lanciare.

Si imputava all’Opera, tra l’altro, “Podio verso gli or­dini religiosi”, affermazione che, a giudizio del Vescovo di Madrid, era “una delle più gravi calunnie che hanno rivolto contro POpus Dei”213. E un fatto dimostrato che don Josemaria amava di tutto cuore i religiosi, aveva molti amici negli Ordini e nelle Congregazioni214 e con­556

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tinuava a dirigere gli esercizi spirituali in conventi e mo­nasteri215.

Tuttavia, alcuni temevano che “la chiamata universa­le alla santità avrebbe danneggiato i seminari, i novizia­ti religiosi, ecc., facendo diminuire il numero di vocazio­ni per lo stato clericale o religioso”216.

Quando il Fondatore riferì a mons. Leopoldo il collo­quio del 31 maggio 1941 col Provinciale di Toledo, gli scrisse sinteticamente: “Tutto nasce dal loro timore di perdere vocazioni”217.

Quindici giorni dopo, riallacciandosi al tema del loro colloquio, don Josemarìa scrisse al Provinciale: “In fon­do, oggettivamente, non c’è altro che la misera protesta perché l’uno o l’altro è venuto a lavorare con noi”218.

Riferendosi a questa questione, mons. Leopoldo si la­mentava con l’Abate di Montserrat:

“E pensare, Rev.mo Padre, che tutta la tempesta è scop­piata perché due o tre ragazzi che volevano farsi religio­si, dopo averlo conosciuto, hanno preferito l’Opus Dei!È tale e tanto enorme la sproporzione tra la causa e gli effetti che non c’è una spiegazione logica e si deve attri­buire tutto alla Provvidenza del Signore, che per i suoi fini ha deciso così”219.Con spirito magnanimo, il Fondatore capiva che la

salute generale della Chiesa era al di sopra delle neces­sità particolari dell’Opera, per quanto concerne le voca­zioni; lo si desume da una annotazione del 1931, quan­do non aveva che tre persone che lo seguivano, tre vocazioni incerte:

“I soci e le associate non saranno egoisti, nel senso di cercare vocazioni solo per sé e per nessun altro. Al con­trario, incoraggeranno le vocazioni per gli istituti, gli or­dini e le congregazioni religiose e per i Seminari del clero secolare”220.

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Nell’apostolato e nella direzione spirituale don Jose- maria si atteneva alla massima che aveva ampiamente commentato negli esercizi per universitari del giugno 1939: “Ogni viandante segua la sua strada”, cioè la chia­mata di Dio. E benché le persone che aderivano all’Opus Dei non fossero mai sufficienti, perché l’avviamento del­l’apostolato dell’Opera ne esigeva un numero sempre maggiore, non si mise mai a mietere nei campi altrui221. Come direttore di anime fu estremamente rispettoso e procurò vocazioni a innumerevoli istituzioni della Chiesa, senza esclusioni. Questo modo di agire è peculiare della missione dell’Opera ed è profondamente radicato nel suo spirito. Lo si accusava di rubare vocazioni ai religiosi, mentre il suo impegno era di avviare le anime sulla strada che Dio indicava a ciascuna di esse222:

“Ben sapete - insegnava ai suoi figli - che è proprio del nostro spirito vedere con gioia sorgere molte vocazioni per i seminari e per le famiglie religiose. Anzi, ringrazia­mo Dio perché non poche di queste vocazioni sboccia­no come frutto del lavoro di formazione spirituale e dottrinale che svolgiamo tra la gioventù, portando nel nostro mondo il fuoco di Cristo; se lo rendiamo più so­prannaturale e più apostolico, è logico che un maggior numero di anime entrino nelle diverse istituzioni della Chiesa”223.Quando Dio vuole qualcuno al suo servizio, lo chia­

ma per nome - vocazione soprannaturale e personale - generalmente per qualcosa di molto specifico e gli con­cede anche la grazia sufficiente. Dio sa meglio degli uo­mini dove vuole arrivare. E forse questo il motivo per cui don Josemarìa non era arrivato neppure a immagi­nare che fosse la questione delle vocazioni a suscitare un simile trambusto224. Visto il gran polverone dell’incom­prensione, si può pensare che i promotori non si siano resi conto delle gravi implicazioni che comportava sna­558

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turare la vocazione alla santità alla quale sono chiamati tutti i cristiani.

La grandezza della vocazione sta già nella sua origine, perché è la voce di Dio che arriva alla creatura dal profondo dell’eternità. Ma, pur essendo Dio padrone e signore di tutte le anime, Egli lascia che esse rispondano alle sue amorose richieste con piena libertà.

In mezzo a queste dure tribolazioni, la prova affron­tata a La Granja il 25 settembre 1941 segna nell’anima del Fondatore il più alto livello di distacco e di sollecitu­dine per riempire con la Volontà di Dio il vuoto di se stesso. Questo gli dava pieno diritto a definirsi “colui che ama la Volontà di Dio”. La disponibilità di tutto il suo essere è descritta con queste brevi parole dal Vesco­vo di Àvila, mons. Santos Moro, che ebbe con lui fre­quenti rapporti negli anni quaranta: “Era sempre atten­to alla Volontà divina”225. Nel salire verso Dio, don Josemaria aveva lasciato dietro a sé tutti gli impedimen­ti e si trovava sull’ultima rampa:

“Gradini: Rassegnarsi alla Volontà di Dio; Adattarsi alla Volontà di Dio; Volere la Volontà di Dio; Amare la Vo­lontà di Dio”226.

9. Il primo Centro delle donneQuando aveva pregato davanti alla salma della madre, il figlio aveva pensato alla grande perdita che la morte di lei rappresentava per le prime donne che erano entra­te nell’Opus Dei227. Ma Dio ne sa di più: si era preso un’anima santa e in cambio di quel sacrificio concesse al Fondatore l’abbondante fioritura del lavoro apostolico che egli desiderava.

Quando Paco Botella, che abitava nell’appartamento di via Martìnez Campos, aveva saputo della malattia

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della Nonna, si era recato in via Diego de Leon per sa­pere come stava. Aperta con circospezione la porta della camera, vide il letto nella penombra. La malata aveva un aspetto molto deperito e sembrava consumata dalla febbre. La signora Dolores girò il capo verso di lui e, ve­dutolo, gli disse: “Di sicuro è stata Carmen a dirti che sono qui. Ascolta, ti sto per dare una buona notizia: tua sorella Enrica ormai è mia nipote”228.

Per Paco fu una sorpresa veramente gradita. Poche set­timane prima era stato a Valencia su consiglio del Padre, e aveva parlato con sua sorella. Aveva spiegato a Enrica la vita e l’apostolato dell’Opera, ma lei, senza troppo en­tusiasmo, aveva tagliato corto mostrando un completo disinteresse: “Una cosa ammirevole” certamente, ma che non facessero conto su di lei229. Paco volle leggerle un punto di Cammino, quello che inizia così: “È più forte la donna dell’uomo, e più fedele nell’ora del dolore”230. Tutto fu inutile. D’altra parte Enrica, come tutto il resto della famiglia, conosceva bene il libro, perché Paco glielo aveva regalato l’anno prima.

Poco tempo dopo Enrica partecipò con altre ragazze valenziane agli esercizi spirituali per le giovani di Azio­ne Cattolica ad Alacuàs, nella settimana dal 30 marzo al 5 aprile 1941. Gli esercizi si svolsero nel convento delle Operarias Doctrineras, e li diresse don Josemaria.

Forse Enrica pensava che, avendo un fratello nell’O- pera e avendo udito parlare del predicatore, fosse scor­tese mostrarsi ritrosa. Perciò decise di andare a salutare don Josemaria. E quel passo, per sua fortuna, comportò la svolta decisiva della sua vita.

- “Padre, mio fratello mi ha parlato dell’Opera”, disse a titolo di informazione, presentandosi a don Josemaria.- “E io sto pregando per la tua vocazione”, le replicò il sacerdote231.Di ritorno a Madrid, don Josemaria avrebbe voluto co­

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municare a Paco la decisione di Enrica, soprattutto dopo la risposta negativa di qualche settimana prima; ma se ne astenne. Fece passare alcuni giorni e lasciò alla Nonna il compito di far conoscere la lieta notizia al nipote.

Agli esercizi spirituali di Alacuàs partecipò anche un’al­tra giovane. Si chiamava Encarnación Ortega e non sa­peva bene che cosa l’avesse spinta a rinchiudersi per al­cuni giorni in quel luogo. Forse la curiosità di conoscere di persona il predicatore, l’autore di Cammino, libro che aveva fresco nella memoria? Suo fratello, che fre­quentava il Cubil, in via Samaniego a Valencia, la inco­raggiò a sfruttare l’occasione per salutare il Padre. En- carnità però era restia, perché non sapeva che cosa raccontargli.

Il primo giorno degli esercizi le partecipanti, riunite nella cappella, attendevano l’arrivo del sacerdote. Quando giunse, Encarnita fu profondamente impressio­nata dalla persona del Fondatore: “Il suo raccoglimento- racconta - pieno di naturalezza, la sua genuflessione davanti al tabernacolo e il modo di farci assaporare l’o­razione preparatoria della meditazione, incoraggiandoci a essere consapevoli che il Signore stava lì, e ci guardava e ci ascoltava, mi fecero dimenticare subito il mio desi­derio di ascoltare un grande oratore, e capire invece l’importanza di ascoltare Dio e di essere generosa con Lui. Vinsi la pigrizia e, per buona educazione, andai poi a salutare il Padre”232.

Dopo un brevissimo preambolo, don Josemarìa le spiegò, in sintesi, che cos’era l’Opera: la ricerca della santificazione nel lavoro, la vita contemplativa e apo­stolica nel mezzo della strada, la filiazione divina... Al che la giovane si spaventò interiormente. Era consape­vole che ciò che le stava esponendo quel sacerdote era una cosa meravigliosa ma la turbava il fatto che Dio po­tesse chiederle tutto. Perciò tagliò corto e fece il propo­

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sito di non farsi mai più rivedere da quel sacerdote. “Nonostante questa decisione - racconta - quasi non riuscivo a dormire e a mangiare. Capivo che Dio aveva bisogno di donne coraggiose per fare la sua Opera sulla terra e, senza che riuscissi a spiegarmi il perché, lo ave­vo appreso dal Fondatore stesso... Non riuscivo a libe­rarmi da questa idea”233.

Cercò di “prendere le distanze dalla chiamata di Dio”. Se si chiudeva in camera, sentiva la necessità del­l’aria aperta. Allora usciva a passeggiare nel giardino del convento, ma quel pensiero non se ne andava e nulla serviva ad allontanarlo. E nella cappella non riusciva a difendersi dalla parola incisiva del predicatore, che le si conficcava nella mente come una freccia aguzza.

Meditando sulla Passione del Signore, il sacerdote ne trattò come se tutto stesse accadendo in quel momento. Descrisse la scena dell’Orto degli Ulivi: Gesù, che prega oppresso da sentimenti di solitudine e di abbandono, dalla percezione della viltà degli uomini e dell’orrenda malvagità del peccato, angosciato per ciò che gli sta per accadere, fino al punto di sudare sangue.

Le ragazze presenti, trascinate dalla parola del sacer­dote, seguivano le orme del Signore; racconta Encarnita: “E subito dopo ci disse: ‘Ha patito tutto questo per te. E tu, visto che non vuoi fare ciò che Egli ti sta chiedendo, abbi almeno il coraggio di guardare il Tabernacolo e di dirgli: questo che mi stai chiedendo, non lo voglio fare!’. Poi ci spiegò la flagellazione, con tanta forza che ci sen­tivamo testimoni oculari. E la coronazione di spine. E la croce sulle spalle. E tutte le sofferenze della Passione... E ogni tanto tornava a ripetere: ‘Ha patito tutto questo per te. Abbi almeno il coraggio di dirgli che questo che ti sta chiedendo non lo vuoi fare!’. Finita la meditazio­ne, mentre stavo cercando di formulare un proposito, qualcuno mi toccò sulla spalla e mi disse: don Josemarìa ti chiama”234.

Non fu necessario che il sacerdote le chiedesse nulla.562

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Encarnita si fece avanti per dirgli che era disposta a tut­to. Il Padre cominciò allora a prospettarle le difficoltà. La vita che stava per intraprendere sarebbe stata dura; la povertà, grande; la rinuncia ai propri gusti, completa; e doveva essere pronta ad andare, forse, lontano dalla patria; e si doveva santificare nel lavoro, compiendo eroicamente il lavoro quotidiano fin nei più minuti par­ticolari.

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La prima settimana del mese di agosto 1940 don Jose- marìa si trovava a Leon per tenere un corso di esercizi spirituali ai sacerdoti della diocesi. Il suo amico don Eliodoro, parroco di S. Juan de Renueva, conosceva una giovane, Narcisa Gonzàlez Guzmàn, detta Nisa, che si confessava con lui. Era una ragazza giovanile, sportiva, studiava lingue e le piaceva vestire bene. Che potesse comprendere POpera? Chissà... Il parroco le disse che l’autore di Cammino, libro che Nisa leggeva con piace­re, si trovava a Leon. Nisa si mostrò interessata e don Eliodoro fissò l’incontro.

In un giorno di agosto, a metà mattina, la giovane at­traversò il cortile del palazzo episcopale. Salì al primo piano e attese con un certo nervosismo in uno stanzone immenso. Presto venne un sacerdote di statura media e dall’aspetto cordiale. Si diresse verso di lei e all’improv­viso, a bruciapelo, le fece una domanda che la scon­certò:

- “Figlia mia, ami molto nostro Signore?”.- “Sì; ma..., non so”, rispose Nisa, colta alla sprovvi­sta235.Poi il sacerdote entrò nel vivo del problema: con po­

che frasi, chiare ed espressive, le descrisse l’Opera. Men­tre lo udiva parlare di vita interiore e di apostolato, di distacco e di obbedienza, Nisa si chiedeva preoccupata,

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in quel severo salone ecclesiastico, se non avesse passato i limiti della convenienza e non fossero troppo vistose la sua gonna bianca estiva e la sua giacca rosso-ribes. Sen­za pensarci, fece una domanda sul modo di vestire. Il Padre colse al volo il suo dubbio. Non aveva di che preoccuparsi, chiarì non senza humour, purché, natural­mente, non si vestisse da pagliaccio236.

Alla fine, a quanto ella racconta, la sua reazione non fu molto diversa da quella di Enrica o di Encarnita. Ma il Padre non si scoraggiava per i silenzi o per le prime ri­sposte negative. Era “divinamente” cocciuto e continua­va a pregare e a mortificarsi per loro. “La conversazione con il Padre - ricorda Nisa - mi fece una profonda im­pressione; mi sembrava una prospettiva ambiziosa, ma in quel momento non ero disposta a farla mia. Uscendo dal palazzo episcopale pensai: è una meraviglia, potreb­be fare per me, ma non ne sento la forza (...). Ho la cer­tezza che il Padre pregava per me; certo è che mi ha trat­tato nel modo giusto per il mio carattere: non mi ha più detto nulla. Continuavo a leggere Cammino, che arrivai a sapere quasi a memoria. Ogni volta che leggevo un punto, mi sentivo coinvolta e ciò contribuì a far matura­re in me l’Amore di Dio di cui mi aveva parlato il Padre la prima volta e che mi portò a rispondere di sì alla vo­cazione”237.

Nell’aprile 1941 Nisa si recò a Madrid, in via Diego de Leon, e chiese al Padre di essere ammessa nell’Opus Dei.

* * *

A dieci anni dall’inizio del lavoro con le donne, don Jo- semaria stava ancora dandosi da fare con il vigore e l’entusiasmo dei primi tempi. Sapeva che nello sviluppo dell’Opera, che aveva un’origine divina, vigeva una logi­ca molto diversa da quella delle imprese umane. Aveva appreso bene la lezione e l’applicava anche alle prime vocazioni femminili:564

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“La logica di Dio, figlie e figli miei, molte volte non coincide con la triste e povera logica degli uomini. Per­ciò troviamo ostacoli, interni ed esterni, quando voglia­mo amare e compiere la Santissima Volontà del Signore. Anche per questo le prime vocazioni - e di quando in quando ciò accadrà ancora - sono costate sangue, per­ché il discepolo non è da più del Maestro”238.Sotto il continuo e insidioso flagello delle calunnie, il

Fondatore si doveva occupare di mille cose, oltre all’in­cipiente apostolato delle donne. Don Josemarìa trasmise loro lo spirito dell’Opus Dei in pochi mesi, dall’agosto 1941, in cui diede alle sue figlie un corso di ritiro in via Diego de Leon, fino al momento in cui poterono aprire un centro per l’espansione apostolica. Il Fondatore - in­stancabile, ottimista e paterno - cercava di dare loro nuovo entusiasmo, sorreggendole nella speranza. In ot­tobre scriveva loro a Madrid:

“Gesù mi protegga le mie figlie.Tutto ciò che vale, costa. E il Signore vi sta facendo gu­stare, in quest’ultimo periodo, piccole contrarietà. Ma stiamo già arrivando al traguardo”239.Nisa ritornò a Leon, in attesa che si aprisse il Centro.

Da Madrid le altre le scrivevano ogni settimana e qual­che volta anche il Padre:

“Forse sarebbe opportuno - le diceva il Padre nel no­vembre 1941 - che tu venissi prima che la casa sia a po­sto, per aiutare a sistemarla; anche se l’insieme sarà mol­to umile. È bene che tu mi dica se puoi venire, per avvisarti qualora fosse necessario. Prega molto e fa pre­gare: con la preghiera andremo dove dobbiamo andare. Alla Vergine del Cammino raccomanda il tuo e quello di tutti noi. Stattene molto contenta”240.Passavano i mesi senza che apparisse la casa. A don

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Josemaria servivano sia la casa che le persone, poiché le donne nell’Opera erano ancora molto poche.

Finalmente fu trovata una casa, dove poterono stabi­lirsi nei primi giorni del luglio 1942. Era una villetta in via Jorge Manrique n. 19. Aveva due piani, seminterrato e giardino. Le stanze erano senza mobili e le pareti nu­de. Don Josemaria si trovava a Segovia a predicare un turno di esercizi, ma non si era dimenticato di loro241. Quando ritornò da Segovia, il Fondatore si dedicò a in­cidere nell’anima di quelle donne i primi consigli: com­piere fedelmente e con molto amore le norme di pietà e gli obblighi familiari e professionali; visione sopranna­turale in tutte le cose; sincerità a tutto campo.

Insegnò loro che dovevano essere leali con la direttrice della casa, convinte che per loro ella rappresentava Dio; non dovevano mettersi a valutare le sue qualità o le ca­pacità, l’età o il temperamento. Non doveva accadere lo­ro ciò che era successo a quel contadino che si rifiutava di venerare la statua di un santo della chiesa del villag­gio perché l’aveva vista intagliare in un tronco di cilie­gio. “L’ho conosciuto ciliegio!”, diceva per giustificar­si242.

Dovevano essere trasparenti, completamente sincere: “Selvaggiamente sincere, ma non sinceramente selvag­ge”, diceva loro. Va ricordato che la sincerità è una virtù che il Fondatore ha sempre raccomandato. Pochi giorni dopo arrivarono i mobili per l’ufficio della dire­zione: un sofà e due poltrone, un tavolo e una libreria... Il tavolo doveva ancora essere inaugurato, quando vi si rovesciò un calamaio e restò segnato da un indelebile ri­gagnolo d’inchiostro. Non avrebbero voluto dare un di­spiacere al Padre, ma"ritennero giusto raccontarglielo lo stesso.

“Non si nota neppure - commentò don Josemaria, smi­nuendo con simpatia la bruttezza della macchia -. Non m’importa che roviniate i tavoli: li sistemeremo. Quello che m’importa è che siate sempre molto sincere243.566

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Il Padre non si scordava mai di loro. Le teneva presenti nella preghiera, ancor più, se possibile, quando stava lon­tano. Così scriveva loro da Pamplona nell’estate del 1942:

“Gesù benedica le mie figlie e me le protegga.Prego per voi molte volte al giorno. Il Signore guarda con affetto codesta casetta, da cui devono nascere cose tanto grandi per la sua gloria”244.In quel piccolo centro di donne in via Jorge Manrique

c’era in germe nientemeno che la metà dell’Opera. Non quanto al numero, è vero, ma quanto a speranza di frut­ti futuri, come il Fondatore aveva scritto in Cammino:

“Non giudicare dalla piccolezza degli inizi: una volta mi fecero notare che non si distinguono per ordine di gran­dezza i semi che danno erbe annuali da quelli che danno alberi centenari”245.Con la loro fedeltà alla grazia e allo spirito dell’Opera

di Dio, quel pugno di donne si sarebbe moltiplicato fino a diventare albero frondoso per la Chiesa. Ogni tanto il Fondatore, per incoraggiarle, mostrava loro dove sareb­be arrivata l’Opera man mano che si fosse sviluppata se­condo il programma divino di crescita. Questi discorsi del Padre vertevano abitualmente sulla grandezza e l’e­roismo delle cose piccole, dei minuscoli lavori quotidia­ni fatti con molto amore. Sovente il Padre chiedeva ai suoi la perseveranza nel terminare i doveri di ogni gior­no, apparentemente grigi e poco appariscenti. Ma a vol­te metteva le ali all’immaginazione delle sue figlie mo­strando vasti orizzonti e descrivendo loro l’universalità e la varietà degli apostolati dell’Opera.

Un pomeriggio del novembre 1942 giunse in via Jor­ge Manrique e chiamò nella biblioteca della casa le tre che vi abitavano. Encarnita Ortega riferisce l’episodio:

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“Stese sul tavolo un prospetto che illustrava le diverse attività che le donne dell’Opus Dei avrebbero fatto nel mondo. Il solo fatto di ascoltare il Padre, che ce lo spie­gava con vivacità, dava quasi un senso di vertigine: fat­torie per contadine, diverse case di formazione profes­sionale per la donna, residenze per universitarie, attività nel campo della moda, case di assistenza alla maternità in diverse città del mondo, biblioteche circo­lanti che avrebbero fatto giungere libri buoni e formati­vi fin nei paesi più remoti, librerie... (...). Ripiegando lentamente il prospetto, disse: ‘Di fronte a tutto ciò si possono avere due reazioni: una è quella di pensare che si tratta di cose molto belle, ma chimeriche, irrealizza­bili; l’altra è aver fiducia nel Signore che, se ci ha chie­sto tutto questo, ci aiuterà a farlo. Spero che la vostra sia la seconda’”246.

Tali erano i sogni e il futuro. La realtà presente era, invece, molto prosaica. Era fatta di fame e di fatica, im­pastate con la carestia e con la povertà. Un giorno, par­lando alle sue figlie di povertà, scese con loro nella cuci­na del centro per dare uno sguardo a come era sistemata. Dovevano aver cura della propria salute, per­ché ammalarsi per propria colpa sarebbe stato, tra l’al­tro, una seria mancanza di povertà. E don Josemarìa in­segnava loro che, persino per l’alimentazione, dovevano sempre avere la più completa fiducia in Dio nostro Pa­dre247.

Il tipico comportamento del Padre era di scomparire senza farsi notare, non lasciarsi servire e badare sem­pre agli altri, nascondere sofferenze e difficoltà con molto buon umore. Molto tenue è, per esempio, la traccia di lamentele per i suoi dolori fisici. Sembrava che camminasse in punta di piedi nella storia, per non destare sospetti di esser malato e causare fastidi ai suoi figli. Gli indizi, tuttavia, indicano periodici attacchi di una forma reumatica, all’arrivo delle prime piogge o dei primi freddi. In una lettera del 14 ottobre 1941 ai568

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suoi figli di Madrid scrisse da Lerida: “Continuo a prendere i cacbets, perché mi dà ancora qualche fasti­dio la forma reumatica. Che vecchia carcassa! Pregate molto per questo povero obeso. Vi benedico. Maria­no”248.

Nel novembre dell’anno successivo, il 1942, si tro­vava nel monastero del Parrai, a Segovia, a predicare degli esercizi. Gli avevano assegnato una cella attigua al tabernacolo della chiesa; dall’altro lato, a due metri scarsi dal letto, c’era il sepolcro di due monaci gerola- mini. “Mi hanno messo tra la Vita e la morte”, scrive­va ai suoi figli; e quasi per scusarsi di non poter segui­re il regime dietetico prescritto dai medici, aggiunse: “Qui non posso seguire la dieta: mangio solo pane, pa­tate, latte e qualche verdura. Non c’è altra possibilità, vista la vita di penitenza di questi santi monaci”249.

Una minuziosa ricerca di elementi e qualche altra te­stimonianza di quel periodo confermano che il reumati­smo e altri disordini fisiologici di cui soffriva erano più gravi di quanto allora si pensasse. Ma se gli si parlava delle sue malattie era solito rispondere: “Qualcosa si de­ve pur avere”250. Faceva il possibile per nascondere i sintomi dei suoi acciacchi, senza dar loro troppa impor­tanza.

Nell’autunno e nell’inverno del 1942 usciva alla mat­tina presto da via Diego de Leon per andare a celebrare la Messa in via Jorge Manrique. Le sue figlie facevano orazione in oratorio prima della celebrazione e dai loro posti a sedere potevano vedere parte della strada. Via Jorge Manrique era in pendenza: in discesa, se si veniva da via Serrano; in salita se dalla via Castellana. Quando si avvicinava il momento, ogni tanto guardavano da una finestra per vedere se arrivava il Padre, per non far­lo aspettare alla porta.

E don Josemaria appariva, immancabilmente avvolto nel suo mantello, zoppicante a causa del reumatismo. Man mano che si avvicinava alla casa il suo passo si fa­

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ceva normale; in casa e durante la celebrazione della Messa mostrava una perfetta scioltezza di movimenti. Quando usciva e si allontanava, in salita o in discesa, pensando di essere fuori dalla visuale, riprendeva a zoppicare per attenuare il dolore.

La distanza tra via Diego de Leon e via Jorge Manri- que comportava una bella camminata, in un’epoca in cui la zona non era del tutto urbanizzata e til percorso disagevole. Don Josemarìa, non sappiamo con quale frequenza, andava o ritornava a piedi. Si sa che usava anche il tram, perché qualche volta chiedeva alle sue fi­glie una peseta per ritornare a casa251.

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Vn o t e a l CAPITOLO XIII

1 Appunti, n. 1872, 14-VI-1948. Per gli inizi del suo apostolato con le donne, cfr Voi. I, cap. Vili, § 6.2 Appunti, n. 381, dell’8-XI-l931. La frase citata, evidentemente, fu ag­giunta vari anni dopo dal Fondatore stesso, durante una rilettura del testo; cfr Alvaro del Portillo, Sum. 590, 591.3 Appunti, n. 1596; cfr Felisa Alcolea, RHF, T-05827, p. 6; Suor Ramona Sànchez-Elvira, RHF, T-05828; José Lopez Ortiz, Sum. 5289.4 RHF, AVF-0057, del 20-IV-1939; Maria Dolores Fisac Sema, RHF, T- 04956, pp. 1-2.5 Lettera a Maria Dolores Fisac, da Madrid, in EF-390619-1.6 Cammino, n. 557; Maria Dolores Fisac, RHF, T-04956, p. 4.7 Ibidem.8 Appunti, n. 1607, del 25-XI-1939.9 Lettera a Maria Dolores Fisac, da Madrid, in EF-400122-3.10 Lettera a Maria Dolores Fisac, da Madrid, in EF-400214-1.11 Lettera a Maria Dolores Fisac, da Madrid, in EF-400306-1. Una setti­mana dopo don Josemaria potè darle finalmente notizie positive: “Spero che presto il Signore predisporrà le cose in modo che tu possa lavorare come desideri” (Lettera da Madrid, in EF-400314-1).12 Appunti, n. 1610.13 Lettera a Maria Dolores Fisac, da Madrid, in EF-400510-1.14 Appunti, n. 1612.15 Maria Dolores Fisac, RHF, T-04956, p. 6; cfr Alvaro del Portillo, Sum. 597.16 Cfr José Luis Mùzquiz, RHF, T-04678/1, p. 106.17 Appunti, n. 1624. Don Casimiro Mordilo, che don Josemaria conobbe

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nel 1929, è comparso varie volte nel racconto. Mons. Eijo y Garay lavora­va allora alla riorganizzazione della diocesi di Madrid, aiutato da due Vi­cari, don Francisco Moràn e don Casimiro (cfr José Luis Alfaya Camacho, op. cit., pp. 197-247). Nel 1938 don Casimiro fu nominato Vicario Gene­rale e nel 1943 Vescovo Ausiliare di Madrid. Nel 1955 divenne Arcivesco­vo di Saragozza e morì come Arcivescovo di Madrid-Alcalà.18 Maria Dolores Fisac, RHF, T-04956, p. 6.19 Santiago Escrivà de Balaguer, RHF, T-07921, p. 2.20 Ibidem, p. 31.21 Ramona Sànchez-Elvira, RHF, T-05828, p. 5.22 Santiago Escrivà de Balaguer, RHF, T-07921, p. 31.23 Maria Dolores Fisac, RHF, T-04956, p. 4.24 Ibidem, p. 5.25 AGP, POI 1978, p. 1099.26 In una lettera dell’agosto 1940 don Josemarìa, piuttosto stupito, faceva domande sulla salute della madre: “Che cos’è questa storia del sangue che la nonna ha espettorato? Me lo ha detto lei stessa per telefono e non ho capito bene” (Lettera ai suoi figli di Madrid, da Leon, in EF-400806-1). Non vi sono altre notizie in merito a questo fatto.27 “Come sta la nonna?”, chiese don Josemarìa in una lettera del 14 aprile (Lettera da Vitoria, in EF-410414-2). Cfr Francisco Botella, RHF, T- 00159/1, p. 111. Aggiunge Juan Jiménez Vargas: “È importante precisare che il Padre partì da Madrid per dare gli esercizi spirituali ai sacerdoti di Lerida perché i medici - Alfredo Carrato e io - lo rassicurammo che non c’era da temere un’evoluzione grave della malattia di sua madre e che non era in pericolo di vita. Il Padre non ne era del tutto convinto, ma partì ras­sicurato da ciò che gli avevamo detto” (RHF, T-04152-V1II, p. 22).28 Cfr Laureano Castàn Lacoma, in Un santo per amico..., op. cit., pp. 96- 97.29 Cfr Lettera 8-VIII-1956, n. 45.30 Ibidem. Don Josemarìa, nonostante l’opinione dei medici, aveva l’im­pressione che “lo stato di salute di sua madre fosse grave” (Juan Jiménez Vargas, Sum. 6713).31 Lettera a mons. Casimiro Mordilo, da Lerida, in EF-410420-1.32 Santiago Escrivà de Balaguer, RHF, T-07921, p. 32.33 Lettera 8-VIII-1956, n. 45.34 Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 518; e lettera di ringraziamento a Juan Antonio Cremades, da Madrid, in EF-410430-1.35 Maria Dolores Fisac, RHF, T-04956/2, p. 8.36 Cfr Santiago Escrivà de Balaguer, RHF, T-07921, p. 32. Il certificato di morte è conservato nell’Anagrafe di Madrid, Sezione III, Tomo 218, p. 301.

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37 Lettera a José Ibànez Martin, da Madrid, in EF-410430-2. E in un’altra lettera: “Mia madre mi aveva aiutato molto nel mio povero lavoro sacer­dotale; perciò è più dura questa separazione... e più consolante, poiché Dio nostro Signore le avrà dato già la sua ricompensa. Non tralasciare di pregare per lei” (Lettera da Madrid, in EF-410430-3).38 Cfr il paragrafo “La morte di José Escrivà” del cap. Ili del I voi. (pag. 182) della presente opera.39 José Luis Muzquiz, RHF, T-04678/1, p. 21.40 Lettera ai suoi figli di Madrid, in EF-410420-2.41 R Manuel Maria Vergés, S.J. (1886-1956) dal 1923 era Direttore della Congregazione dell’immacolata e di S. Luigi Gonzaga, a Barcellona; trent’anni dopo divenne Superiore della casa delle Congregazioni Maria­ne. Cfr Frederic Udina i Martorell, El Pare Vergés, S.].3 Apóstol de la Jo- ventut. La Congregació de la Immaculada, 1923-1953, Barcellona 1995; e bollettino commemorativo per il centenario della nascita, Barcellona 1986.42 Cfr Rafael Escolà Gii, RHF, T-04837, p. 8; Juan Bautista Torello, Sum. 5195.43 Ibidem.44 Lettera ai suoi figli di Barcellona, da Madrid, in EF-401115-1.45 Lettera ai suoi figli di Barcellona, da Madrid, in EF-401200-2.46 Cfr Alfonso Balcells Gorina, RHF, T-00158, p. 6; Santiago Balcells Go- rina, RHF, T-07025, p. 13. Alfonso aveva conosciuto il Fondatore nel 1938; questi era andato al fronte di Teruel a trovare Juan Jiménez Vargas, che gli presentò Alfonso. Poi, nel settembre 1939, assistette a un corso di ritiro predicato dal Fondatore a Burjasot; chiese l’ammissione all’Opus Dei nel gennaio 1943.47 Santiago Balcells, RHF, T-07025, pp. 8-10. Sulla “santa coazione, la “santa intransigenza” e la “santa sfacciataggine”, cfr Cammino, nn. 44,

-387-391, 396, 398, 399 e le relative note dell’edizione critica-storica pre­parata da Pedro Rodriguez (Camino, Rialp, Madrid 2002).48 Santiago Balcells, RHF, T-07025, pp. 8-10. Cfr Juan Bautista Torello, Sum. 5195.49 Alfonso Balcells, RHF, T-00158, p. 6.50 Cfr Juan Bautista Torello, Sum. 5195; Rafael Escolà, RHF, T-04837, p.9. José Luis Muzquiz testimonia: “Nel Palau di Barcellona c’era una croce di legno in una stanza dove in seguito fu sistemato l’oratorio. Una delle calunnie che giravano allora sosteneva che ci crocifiggevamo sulla croce. Alcuni anni dopo conobbi Bartolomé Roig, il quale mi raccontò che la prima notizia sull’Opera a Barcellona l’aveva avuta da alcuni studenti suoi amici, che gli dissero che in via Balmes alcuni studenti consumavano riti sanguinari su una croce di legno. Quando il Padre lo seppe, ordinò di so­stituire la croce con un’altra molto piccola: ‘Così non potranno dire che ci

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crocifiggiamo - disse scherzando - perché non ci stiamo’” (RHF, T- 04678/1, p. 110).51 Lettera a Emiliano Amann, da Madrid, in EF-410114-1.52 Cfr RHF, D-15713.53 José Maria Bueno Monreal, in Un santo per amico... op. cit., pp. 40-41. La figura giuridica della Pia Unione non chiudeva la strada al futuro svi­luppo giuridico. Inoltre, con la richiesta della semplice approvazione e non dell’erezione canonica, “sarebbero rimasti meglio evidenziati il carat­tere provvisorio della decisione e l’apertura a possibilità future; nel con­tempo, con questo intervento dell’Autorità ecclesiastica si raggiungeva lo scopo pratico di un riconoscimento pubblico, da parte del Vescovo della diocesi, dell’esistenza dell’Opus Dei; di una manifestazione di stima e di appoggio della Gerarchia e di una solenne dichiarazione che nella sua na­tura, nei fini e nelle norme di funzionamento non c’era nulla di contrario alla dottrina della Chiesa” (Amadeo de Fuenmayor e altri, op. cit., pp. 121- 122).54 Nota del 19-111-1941, in RHF, D-15402. Nella stessa occasione, il Ve­scovo consegnò a don Josemarìa una copia dell’istanza presentata a Roma per chiedere l’autorizzazione all’uso di un altare portatile per celebrare la Messa ai giovani durante gli esercizi spirituali, i ritiri mensili o altri incon­tri. Prima di dargli la copia, la firmò e vi scrisse: “Istanza che ho redatto, presentato e raccomandato personalmente a Roma nel maggio 1940. Leo­poldo, Vescovo di Madrid-Alcalà”. E gli disse: “Conservi questo docu­mento nel suo archivio per il caso in cui io muoia, perché è la prova lam­pante che Lei per la sua attività ha sempre agito d’accordo con il suo Ve­scovo” (ibidem e RHF, D-15714-1). Per il testo del “Regolamento” (Re- gulae) presentato con la richiesta di approvazione, cfr Amadeo de Fuen­mayor e altri, op. cit., Appendice documentale, documento 5, pp. 728- 729.55 Lettera a mons. Leopoldo Eijo y Garay, da Madrid, in EF-410320-1.56 II pomeriggio, nel recitare le Preci dell’Opera con i suoi figli, il Padre ri­petè tre volte la formula “Oremus et prò Antistite nostro Leopoldo”; lo stesso giorno diede per lettera la notizia a don Eliodoro Gii. Cfr Àlvaro del Portillo, Sum. 551; José Luis Muzquiz, Sum. 5843; Lettera a Eliodoro Gii, in EF-410324-1. Sul telegramma con la notizia dell’approvazione, cfr Santiago Balcells, RHF, T-07025, p. 18; Laureano Lopez Rodo, RHF, T- 04696, p. 8.57 I decreti erano due, uno di approvazione dell’Opus Dei e l’altro di cu­stodia dei documenti presentati. Eccone i testi: “Vista la precedente istan­za di don José Maria Escrivà de Balaguer e dopo aver attentamente esami­nato il Regolamento, il Regime, VOrdine, le Consuetudini e il Cerimoniale dell 'Opus Dei, fondato dall’autore dell’istanza e sperimentato dall’anno 1928 col nostro beneplacito e con quello del nostro Vicario generale, ab­biamo deciso di approvare e col presente decreto approviamo canonica- mente YOpus Dei come Pia Unione, ai sensi del canone 708 del vigente

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rC.I.C.; e chiediamo a Dio nostro Signore, per intercessione di S. Giuseppe nella festa del quale abbiamo la soddisfazione di approvare canonicamen­te una così importante opera di zelo, che non si perda nessuno dei grandi frutti che da essa ci attendiamo. Per la custodia del Regolamento, ecc., si compirà quanto disponiamo con Decreto speciale.Madrid, 19 marzo 1941 - L+S / Leopoldo, Vescovo di Madrid-Alcalà”Ed ecco il decreto di custodia:“Approvato canonicamente in data odierna l'Opus Dei, Pia Unione fon­data con nostra autorizzazione e beneplacito nell’anno 1928, e tenendo presente la discreta riserva che per maggior gloria di Dio ed efficacia del­l’Opera si deve serbare, disponiamo che i suoi Regolamento, Regime, Or­dine., Consuetudini, Spirito e Cerimoniale si custodiscano nel nostro Ar­chivio Segreto. Madrid, 19 marzo 1941, festa del glorioso S. Giuseppe.L+S / Leopoldo, Vescovo di Madrid-Alcalà”.Questi decreti, che furono custoditi nell’Archivio Segreto del Vescovado di Madrid, come era abituale fare con questo tipo di documenti, sono pub­blicati nel testo originale in Amadeo de Fuenmayor e altri, op. cit., Appen­dice documentale, documenti 6 e 7, pp. 730-731.58 Nota del 25-111-1941, in RHF, D-30002.59 Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 551; Javier Echevarria, Sum. 2151 e 2152.60 RHF, D-13452, n. 12; Lettera 29-XII-1947// 14-11-1966, n. 12. Si con­serva una scheda su cui don Josemaria aveva annotato sinteticamente que­sta locuzione lo stesso 6 aprile 1941: AGP, Sez. L. 1, Leg 16. Cfr anche Alvaro del Portillo, Sum. 551.61 Relazione di una conversazione del Fondatore con mons. Eijo y Garay (8-IV-1941), in RHF, D-30003. L’Opera era stata approvata come Pia Unione, ma non eretta. Il C.I.C. del 1917, canone 686, stabiliva: “Non si riconosce nella Chiesa alcuna associazione che non sia stata eretta o alme­no approvata da una legittima autorità ecclesiastica”. La Pia Unione, a differenza di altre associazioni, come le Confraternite, poteva essere eretta (cioè, costituita formalmente come persona morale) oppure semplicemente approvata, nel quale caso l’atto di giurisdizione dell’autorità ecclesiastica non costituiva l’associazione in persona morale, ma le dava il diritto di esistere e la “capacità di ricevere grazie spirituali, soprattutto indulgenze” (canone 708). Cfr Amadeo de Fuenmayor e altri, op. cit., p. 121.62 Lettera ai suoi figli di Madrid, da Lerida, in EF-410420-2.63 In una lettera del 12 maggio a quelli di Valencia spiegò nei particolari il comportamento da tenere se si fosse presentata loro “la stessa fortunata occasione” capitata a Barcellona:“+ Gesù benedica i miei figli e me li protegga.Carissimi, il Signore ha permesso che persone sante, da me molto amate, ci calunniassero e ingiuriassero. Caso mai arrivasse fino a lì la frustata della persecuzione - sigillo divino, che dà maggiore autenticità alle imprese so­

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prannaturali - vi do queste consegne, così congenite allo spirito dell’Opus Dei: 1) dovete essere sempre ossequienti all’Autorità ecclesiastica, Arciver scovo e Vicario; 2) non parlare mai con nessuno fuori di casa degli eventi, se mai capiterà qualcosa; 3) molta carità, evitando nel modo più assoluto di dire una sola parola contro i persecutori; 4) molta gioia e molta pace; 5) molta orazione, molto studio e molte piccole mortificazioni.Va tutto molto bene. Non pensavo che il Signore ci amasse tanto. Come si sono comportati bene i miei figli di Barcellona! Mi attendo lo stesso, se si presenta la stessa fortunata occasione, dai miei figli di Valencia. Gaudium cum pace! Vi ama, vi invidia! e vi benedice vostro PadreMariano” (Lettera da Madrid, in EF-410512-1).64 Rafael Escolà Gii, RHF T-04837, p. 10.- L’accusa di “illuminati” (in spagnolo iluminados, o alumbrados o ilumi- nistas) fa riferimento a una dottrina pseudomistica fiorita in Europa, ma soprattutto in Spagna, nei sec. XVI e XVII (NdC).65 Cfr Joan Marquès Surinach, Testigos de la fe durante la guerra civil (1936-1939). Sacerdotes y laicos cuentan sus vivencias, Girona 1994. La testimonianza di Rafael Escolà è alle pp. 31-55.66 RHF, D-15286.67 Uno di questi libelli anonimi arrivò nelle mani di don Rufino Aldabal- de, che vi scrisse di suo pugno: “Consegnato da un P. Gesuita al Superiore di S. Filippo Neri a Barcellona il 7 maggio 1941”. Il testo era il seguente:“Opus Dei - Ordini e norme ai suoi affiliati.Abbandonare il Direttore spirituale, nascondendogli sempre di far parte dell’Opus. - Nessun religioso è cattolico. - Non fare esercizi spirituali. - La perfezione l’abbiamo solo noi. - Non dire nulla al confessore (sull’Opus) poiché riteniamo che non ci possa capire. - Il modo di fare delle Congre­gazioni non è adeguato al XX secolo. - Il P. Escrivà, autore del libro Cam­mino, dirige l’istituzione. - Dobbiamo essere pochi e i migliori. - Non ac­cettiamo gli Ordini religiosi, ma solo il Clero secolare. - Questa istituzione funziona da più di un anno. - Il Cardinale Primate Gomà prima di morire disse che l’A.C. doveva espellere tali individui che cercavano adepti al suo interno. - Santa coazione. Santa sfacciataggine. Santa intransigenza. - Dove vedi una croce di legno senza la figura di Cristo devi vedere il posto in cui ti devi crocifiggere”.Cfr Lettera a mons. Eijo y Garay, da Madrid, in EF-410514-1.68 Lettera 29-XII-1947 II 14-11-1966, n. 8.69 Lettera a Rafael Termes, da Madrid, in EF-410502-2.

•70 Lettera a mons. Miguel de los Santos Diaz Gómara, da Madrid, in EF- 410430-5.71 Lettera da Madrid, in EF-410517-2.72 Lettera 29-XII-1947 II 14-11-1966, n. 38.73 Lettera a mons. Leopoldo Eijo y Garay, da Madrid, in EF-410504-1.

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74 Nota del 5-V-1941, in RHF, D-30004, 31-32.75 Lettera da Madrid, in EF-410430-4. Sui precedenti rapporti tra il Fon­datore e p. Àngel Basterra, cfr Appunti, n. 1319, del 28-11-1936; n. 1326, del 25-111-1936; n. 1330, del 18-IV-1936; n. 1519, del 31-1-1938; e n. 1520, dell’1-11-193 8.76 Un semplice episodio può rendere l’idea dell’atmosfera che si era creata negli ambienti ecclesiastici e religiosi. Lo racconta Laureano Lopez Rodo e ha per protagonista un prete, don Pascual Gaiindo, amico di José Maria Albareda, lo stesso che nel 1937 aveva spiegato al Padre come contattare le guide per passare i Pirenei. “Ricordo che una volta don Pascual Gaiin­do, un sacerdote amico del Padre, giunto a Barcellona ci venne a trovare al Palau. Insistette perché andassimo il giorno dopo alla Messa che avreb­be celebrato in una scuola di suore, all’angolo tra via Diagonal e la Ram- bla de Cataluna. Assistemmo alla Messa e ci comunicammo (cosa che al­lora era poco frequente). La Superiora e altre suore presenti ne furono molto edificate e ci invitarono a fare colazione con don Pascual Gaiindo. Durante la colazione, don Pascual disse alla Superiora: ‘Questi sono gli eretici per la conversione dei quali Lei mi ha chiesto di offrire la Messa’. La povera suora fu sul punto di svenire: le avevano fatto credere che era­vamo una legione numerosissima di veri eretici e scoprì che eravamo pochi e normalissimi studenti, che assistevano alla Messa con devozione e facevano la Comunione” (RHF, T-04696, p. 5).77 Lettera dell’Abate Coadiutore di M ontserrat, dom Aurelio Maria Escarré, a mons. Leopoldo Eijo y Garay, del 9-V-1941. Nell’archivio del Monastero di Montserrat è conservata la corrispondenza intercorsa tra l’Abate e il Vescovo, sia gli originali ricevuti che le copie delle lettere in­viate, tranne la lettera dell’Abate del 3-XI-1941, il cui originale si trova in RHF, D-03545-5.78 Su questi fatti cfr: Juan Bautista Torello, Sum. 5196; Laureano Lopez Rodo, RHF, T-04696, p. 7; Santiago Balcells, RHF, T-07025, p. 10.79 Cfr Juan Bautista Torello, Sum. 5195.80 Cfr Alfonso Balcells, RHF, T-00158, p. 8; Laureano Lopez Rodo, RHF, T-046696, p. 4. Il 24 luglio 1941 - racconta José Luis Muzquiz - il Padre, “dopo aver appreso da una telefonata che il Governatore di Barcellona voleva usare le maniere forti contro i nostri, spinto da ciò che gli aveva detto p. Vergés, volle che recitassimo subito un Padrenostro per il gesuita” (cfr RHF, D-15406).81 Lettera 29-XII-1947//14-11-1966,, n. 35; Àlvaro del Portillo, Sum. 419; Juan Bautista Torello, Sum. 5195; Rafael Escolà, RHF, T-04837, pp. 9-11. Sul Governatore di Barcellona così scrisse l’Abate Coadiutore di Montser­rat a mons. Leopoldo Eijo y Garay il 1° settembre 1941: “Invece sono al corrente, essendo informato da varie fonti sicure, di ciò che dice e fa il Governatore. Certamente è un buon cristiano e quindi lo considero bene intenzionato; ma è molto coinvolto nella questione, si è schierato con ec­cessiva leggerezza, e si sbaglia perché dà più credito a p. Vergés che alla

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Gerarchia ecclesiastica. È convintissimo della veridicità di ciò che questo Padre, che è il principale autore della persecuzione a Barcellona, gli ha detto contro l’Opus Dei; per cui non è strano che dia credito a tutta que­sta leggenda di mistero, simulazione e società segreta. Se non fosse mani­polato da p. Vergés, avrebbe mezzi più che sufficienti e validi per infor­marsi e avrebbe adottato Patteggiamento sereno e giusto al quale è tenu­to” (RHF, D-03545-4).Due mesi dopo, rilevando un cambiamento del Governatore nei confronti dell’Opera, scriveva: “Credo che avrà saputo del mutamento di parere del Governatore Civile nei confronti dell’Opus, causato soprattutto dalle due lettere che S.E. si è degnato di indirizzarmi e che io gli feci consegnare per­ché fosse meglio informato. E sia ben chiaro che, se egli ha agito contro l’Opus, lo ha fatto influenzato da p. Vergés S.J.” (Lettera del 3-XI-1941, in RHF, D-0354505).82 Cfr Alfonso Balcells, RHF, T-00158, p. 8.83 Lettera di mons. Leopoldo Eijo y Garay ad Alfonso Balcells, del 2-VI- 1941, in RHF, D-30007.84 Cfr Alfonso Balcells, RHF, T-00158, p. 9.85 Lettera a mons. Leopoldo Eijo y Garay, da Madrid, in EF-410502-1.86 Lettera 29-XII-1947 H 14-11-1966, n. 50.87 Lettera a Sebastiàn Cirac, da Madrid, in EF-410519-1.88 In una lettera a Rafael Termes, direttore del Palau, gli diceva: “Non preoccupatevi per ora di fare proselitismo: lasciate agire Dio; invece, cre­scetemi voi al di dentro, con un amore sempre più forte per la Santa Chie­sa Romana” (Lettera da Madrid, in EF-410506-1).89 Lettera da Madrid, in EF-410520-1.90 Lettera da Madrid, in EF-410520-2.91 Lettera 29-XII-1947 H 14-11-1966, n. 35.92 Laureano Lopez Rodo, RHF, T-04696, p. 6.93 Nota del 24-V-1941, in RHF, D-30006.94 Ibidem.95 Lettera a mons. Leopoldo Eijo y Garay, da Madrid, in EF-410610-1 (questa lettera, assieme a molte altre, in seguito fu restituita al Fondatore dal Vescovo stesso).96 In una lettera ad Alvaro del Portillo, da Pamplona, in EF-410619-2.97 Originale in RHF, D-30005; lettera di p. Daniel Ruiz al Fondatore, 23- V-1941.98 Come è già stato spiegato, l’Opera era stata approvata come Pia Unio­ne, ma non eretta.99 Lettera di mons. Leopoldo Eijo y Garay a p. Carlos Gómez Martinho, S.J., Provinciale di Toledo, 29-V-1941; trascrizione della lettera, consegna­ta al Fondatore dall’autore, in RHF, D-15287.

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100 Lettera a mons. Leopoldo Eijo y Garay, da Madrid, in EF-410531-2.101 Lettera a Rafael Termes, da Pamplona, in EF-410601-2.102 Lettera ai suoi figli di Madrid, da Pamplona, in EF-410601-3.103 Lettera da Madrid, in EF-410613-1. Il Vescovo di Pamplona “si aspet­ta che accada ancora qualcosa” (ibidem); quello di Valencia gli disse: “Se qui ci sarà qualche scintilla conti su di me. Vedrà che, in un modo o nel­l’altro, ricominceranno” (ibidem); e quello di Valladolid “mi disse che, nonostante tutto... estote parati” (Lettera a mons. Leopoldo Eijo y Garay, da Madrid, in EF-410610-1).104 Lettera di mons. Eijo y Garay all’Abate Coadiutore di Montserrat, dom Aurelio Maria Escarré, O.S.B., del 24-V-1941. Testo completo in Ap­pendice documentale, documento XIX.105 Lettera di mons. Leopoldo Eijo y Garay all’Abate Coadiutore di Mont­serrat, del 21-VI-1941 (RHF, D-03545-3). Testo completo in Appendice documentale, documento XX. La corrispondenza tra il Vescovo e l’Abate continuò. Ci sono per esempio una lunga lettera di mons. Eijo dell’1-IX- 1941 e una dell’Abate al Vescovo del 3-XI-1941 (RHF, D-03545/4 e 5).106 Allegato alla documentazione consegnata dalla Curia di Madrid per il Nibil obstat della S.C. dei Religiosi all’erezione della Società Sacerdotale della Santa Croce (1943); il testo originale della nota, datata 28-VIII- 1943, è riportato, con le correzioni del Vescovo, in Amadeo de Fuen- mayor e altri, op. cit., Appendice documentale, documento 11, pp. 740- 742.107 Cfr Lettera a mons. Leopoldo Eijo y Garay, da Leon, in EF-400806-2.108 Lettera a mons. Leopoldo Eijo y Garay, da Valencia, in EF-410405-1.109 Lettera a mons. Leopoldo Eijo y Garay, da Madrid, in EF-410530-1. Dell’amicizia tra il Fondatore e il suo Vescovo scrive il Cardinale Bueno Monreal: “Fu un’amicizia che nacque già agli inizi del lavoro di Josemarìa a Madrid. Josemarìa lo trattava con fiducia, in modo molto filiale e il Vesco­vo aveva per lui un grande affetto” (Un santo per amico..., op. cit., p. 26).110 Lettera a mons. Leopoldo Eijo y Garay, da Leon, in EF-400806-2.111 Lettera a mons. Leopoldo Eijo y Garay, da Madrid, in EF-410514-1. Don José Maria Garcfa Lahiguera era allora direttore spirituale del Semi­nario Maggiore di Madrid.112 Lettera a mons. Leopoldo Eijo y Garay, da Madrid, in EF-410515-1.113 Lettera a mons. Leopoldo Eijo y Garay, da Madrid, in EF-410409-1; Lettera a mons. Casimiro Mordilo, da Lerida, in EF-410420.114 Ecco un episodio riferito da mons. José Maria Garcia Lahiguera: “Il Patriarca di Madrid-Alcalà, Leopoldo Eijo y Garay, conosceva nei dettagli il lavoro apostolico di don Josemarìa, dato che il Padre non aveva mai fatto un passo nel suo lavoro fondazionale senza la conoscenza e l’accor­do del suo Vescovo e del Vicario Generale. Un giorno, appena finita la ce­rimonia delle ordinazioni nella cappella del Seminario di Madrid, mentre

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tutti noi presenti, insieme ai seminaristi e ai neo ordinati, attendevamo in silenzio che si togliesse i paramenti sacri, mons. Leopoldo, ad alta voce perché tutti lo udissimo, disse queste o analoghe parole: ‘Signor Rettore, l’Opus Dei è un’opera approvata e benedetta dalla Gerarchia e non tollero che si parli contro l’Opus Dei’. Il Patriarca approfittò in questo modo di quella solenne occasione alla quale presenziavano tante persone per rende­re una testimonianza pubblica e personale del carattere soprannaturale dell’Opus Dei, tagliando corto con le dicerie e mormorazioni che poteva­no essere propalate anche in Seminario. D’altra parte l’allora Rettore, don Rafael Garcia Tunón, apprezzava e ammirava le virtù di don Josemarìa elo aveva invitato a dirigere gli esercizi del Seminario Maggiore. È evidente che la situazione doveva essere seria per indurre il Patriarca a fare pubbli­camente e in un’occasione tanto solenne una simile dichiarazione” (in Un santo per amico... op. cit., p. 137).115 Lettera di mons. Leopoldo Eijo y Garay a p. Carlos Gómez Martinho S.J., Provinciale di Toledo, del 29-V-1941 (RHF, D-15287). Un ritratto si­mile, con parole quasi identiche, si trova nella lettera del Vescovo all’Aba- te Coadiutore di Montserrat del 24-V-1941 (RHF, D-03545-2; cfr Appen­dice documentale, documento XIX).116 Lettera di Mercedes Serrano Langarita al Fondatore, Saragozza 27- XII-73, in AGP, Sez. 1.2, leg. 382. Con il nome di Luises erano chiamati in molti luoghi della Spagna, ma non a Barcellona, i membri delle Congre­gazioni Mariane.117 Lettera di mons. Miguel de los Santos Diaz Gómara a don Sebastiàn Cirac del 14-IX-1941, in AGP, Sez. E .l.l.118 II Vescovo, lavoratore coscienzioso a cui non piaceva lasciare cose in sospeso, scriveva lunghe lettere che lo costringevano a veglie prolungate. Nella lettera all’Abate di Montserrat dell’1-IX-1941 chiudeva con queste parole di commiato: “Mi scusi se mi sono dilungato troppo; questa notte sì che, nonostante i miei propositi estivi, ho vegliato per poterle scrivere; sono quasi le tre del mattino; ben lo merita l’Opus Dei e ben lo merita V.R.” (RHF, D-03545-4).119 Lettera 29-XII-1947 I I14-11-1966, n. 37.120 Lettera a mons. Leopoldo Eijo y Garay, da Valencia, in EF-410405-1.121 Lettera 29-XII-1947 II 14-11-1966, n. 37.122 Lettera a mons. Leopoldo Eijo y Garay, da Madrid, in EF-410429-1.123 In un dattiloscritto anonimo consegnato nel 1941 da padri Gesuiti al- l’Arcivescovo di Santiago di Compostella, Tomàs Muniz de Pablo, si leg­geva:“Opus Dei. Si dice che sia sostenuto da Mons. Eijo, Vescovo di Madrid- Alcalà.- Si dice che il suo Direttore, il sacerdote don José Maria Escrivà, sia so­speso.- Si vocifera che Roma stia per intervenire, ma per proibirlo.

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- Suo grande nemico è la Compagnia di Gesù.- Dicono di non temere neppure le proibizioni pontificie, perché se venis­sero emanate significherebbe che il Papa è stato male informato” (RHF, D-15006). Per garantire l’autenticità dello scritto, l’Arcivescovo lo fece ar­rivare al Fondatore con il proprio sigillo sulla busta.124 Già durante la guerra civile, nella cosiddetta zona nazionale erano state effettuate alcune nomine episcopali: nel settembre 1937, il Cardinale Pedro Segura Sàenz era divenuto Arcivescovo di Siviglia; mons. Javier Lauzurica Torralba Amministratore Apostolico di Vitoria; nel gennaio 1938, mons. Manuel Arce Ochotorena Vescovo di Oviedo; nel febbraio, mons. Antonio Garcia Garcfa Arcivescovo di Valladolid e mons. Carmelo Ballester Nieto Vescovo di Leon (cfr Gonzalo Redondo, Historia de la..., Voi. II, op. cit., pp. 335-339 e 411-413).*25 Lettera 29-XII-1947 II 14-11-1966, n. 50; cfr Lettera 14-IX-1951, n.14. Il 31-X-1941 fu nominato Arcivescovo di Toledo e Primate di Spagna il Vescovo di Salamanca, mons. Enrique Pia y Deniel. Nel 1940 aveva creato la Pontificia Università Ecclesiastica di Salamanca. Nel 1946 diven­ne cardinale; morì nel 1968.126 Lettera a mons. Leopoldo Eijo y Garay, da Pamplona, in EF-410625-1.127 Lettera di mons. Santos Moro Briz, Vescovo di Àvila, al Fondatore; cfr Lettera alla M. R. Maria de la Virgen Dolorosa Muratori S.M.R., da Ma­drid, in EF-410806-1.128 Lettera a mons. Leopoldo Eijo y Garay, da Madrid, in EF-411126-1.129 II Responsabile Nazionale del Sindacato degli Studenti Universitari, Carlos Rodrìguez de Valcàrcel, era accompagnato dal professor Eduardo Alastrué, che prese nota delle parole del vescovo (cfr Eduardo Alastrué, RHF, T-04695, p. 22).130 Parole udite e riferite da Lourdes Bandeira Vàzquez: RHF, T-04885, p. 2. La famiglia Bandeira era molto amica del Vescovo di Madrid, che tal­volta fu loro ospite. In una foto con dedica inviata al Fondatore, il Vesco- vo, con nobile orgoglio, fece scrivere: “Al Rev.mo don José Maria Escrivà, prescelto da Dio nostro Signore per creare il Suo Opus, provvidenziale apostolato con cui ha fecondato il seno della Sua Chiesa, cui ho avuto la benedetta sorte di dare la prima approvazione canonica, per la quale mi attendo speciale gloria in Cielo, con la mia più paterna e affettuosa bene­dizione.Leopoldo, Patriarca delle Indie Occidentali, Vescovo di Madrid-Alcalà” (AGP, POI 1979, 621).131 Lettera al Rev. P. Carlos Gómez Martinho S.J., da Madrid; copia in EF-410614-2.132 Ibidem.133 P. Segarra a Valencia criticò in pubblico Cammino, sostenendo per giunta che l’autore aveva copiato il libro dal tedesco; Paco Botella andò a parlargli, in quanto era stato testimone della redazione di Cammino, ma

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p. Segarra non cambiò idea e arrivò anche a dire a Paco che si sarebbe dannato (Francisco Botella, RHF, T-00159/1, pp. 108-109).134 Fiorendo Sànchez Bella testimonia, per quanto riguarda lui stesso e il fratello Ismael, che alcuni religiosi si presentarono in casa dei genitori e “dissero loro tali falsità, forse pensando di agire in buona fede, che i no­stri genitori ci minacciarono di cacciarci di casa se fossimo tornati a fre­quentare qualche centro dell’Opus Dei” {Sum. 7492). Amadeo de Fuen­mayor racconta che una volta che sua madre era andata a Barcellona a trovare una figlia “le aveva fatto visita un Gesuita a lei sconosciuto, per avvertirla che suo figlio si trovava ‘in pericolo di dannarsi’. Le disse anche che poteva e doveva dissuadermi dalla strada che avevo intrapreso nell’O- pus Dei, senza tenere conto del fatto - che io probabilmente le avrei fatto presente - che ero maggiorenne. E la mise in guardia contro don Antonio Rodilla, Vicario generale della diocesi, dicendole che ‘era dei nostri’. Così la mia povera madre era completamente al buio, poiché non poteva nep­pure ricorrere all’Arci vescovo di Valencia, mons. Melo y Alcalde, di età molto avanzata. Le chiesi quale ragione il religioso avesse addotto a soste­gno del suo cupo presagio nei miei confronti. Mi disse: ‘che voi dell’Opus Dei siete stati ipnotizzati, perché vi fanno credere che si può essere santi in mezzo al mondo’. Questa era la causa del mio orribile errore, la grande eresia che, se non avessi abbandonato l’Opus Dei, avrebbe trascinato la mia anima nel precipizio” (RHF, T-02769, p. 4).Le visite alle famiglie dei membri dell’Opera si estesero ad altre città spa­gnole. Javier de Ayala testimonia che "“alcuni padri della Compagnia, a Saragozza, turbarono gravemente la mia famiglia, accusando il Servo di Dio di aver fondato una setta, una specie di massoneria, con persone non diverse dagli antichi illuminati, finiti tutti all’inferno” (Sum. 7586).135 Nella già citata lettera del 14 giugno 1941 egli si riferì esplicitamente alla “persecuzione tanto tenace”.136 Lettera da Madrid, in EF-410806-1. Su Madre Muratori, cfr Appunti, n. 1258, del 26-111-1935. Il paragrafo omesso nel testo è la sintesi del co­dice di condotta del Fondatore davanti alla “opposizione dei buoni”: “1) In nessun posto abbiamo mai fatto nulla senza l’esplicita approvazione del Vescovo del luogo. 2) L’Opera è canonicamente approvata. 3) Dicono il falso coloro che parlano di misteri o di segreti, che non sono mai esistiti nelle nostre imprese di apostolato, né esisteranno; non ne abbiamo biso­gno. 4) Sopportiamo tutte le ingiurie che ci fanno, nelle mille versioni che si sono inventati, con santa gioia e in silenzio: mentre ci calunniano, noi lavoriamo. 5) Perdoniamo di tutto cuore coloro che propalano queste cose per denigrarci; e siamo convinti che agiscano in buona fede”.137 Che ne avesse il sospetto lo dimostra quanto scrisse al Vescovo di Ma­drid: “Penso che sarebbe opportuno mettere al corrente della faccenda le autorità civili, prima che indirettamente, con questa campagna sotterra­nea, esse siano indotte a credere anche solo per un momento alle imbecil­lità di cui ci accusano. Come gongolerebbe il nemico delle anime se ci ve-

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nissero molestie anche da quella parte!” (Lettera da Madrid, in EF- 410525-1).138 Su tutto questo esiste una relazione del magistrato Luis Lopez Ortfz, all’epoca Segretario Generale del Tribunale per la Repressione della Mas­soneria (cfr RHF, T-04214). Altre testimonianze: José Lopez Ortfz, Sum. 5271; Àlvaro del Portillo, Sum. 425; Silvestre Sancho, O.P., Sum. 5399.139 La delegazione era composta dai magistrati Juan José Pradera Ortega, Gonzàlez Oliveros e Luis Lopez Ortfz. Cfr Àlvaro del Portillo, PR, pp. 564-565 e anche Juan Jiménez Vargas, Sum. 6710.140 Lettera 29-XII-19-471714-11-1966, n. 36.141 II Rapporto è pubblicato in José Luis Rodriguez Jiménez, Historia de la Falange espanola de las Jons, Alianza, Madrid 2000, pp. 420-423. Di tale Rapporto, datato Madrid 16-1-1942, si conserva nell’archivio della Prelatura una copia in quattro fogli dattiloscritti. Al Fondatore il docu­mento fu mostrato da un amico, mons. José Lopez Ortfz, che testimonia: “Mi giunse un documento della Falange - il partito unico di Franco - in cui lo si calunniava in maniera atroce. Mi sembrò doveroso portargli l’ori­ginale, che mi aveva lasciato un mio amico; gli attacchi erano così violenti che, mentre Josemaria leggeva con calma quelle pagine davanti a me, non potei evitare che mi spuntassero le lacrime. Quando Josemaria terminò la lettura, vedendo la mia pena, scoppiò a ridere e mi disse, con eroica umiltà: ‘Non preoccuparti, Pepe, perché tutto quello che dicono qui, gra­zie a Dio, è falso: ma se mi conoscessero meglio, avrebbero potuto affer­mare in verità cose ben peggiori, perché io non sono altro che un povero peccatore che ama alla pazzia Gesù Cristo’. E invece di fare a pezzi quella congerie di insulti, mi restituì le carte, perché il mio amico le potesse ri­mettere al loro posto al Ministero della Falange. ‘Tieni - disse - e dalle al tuo amico perché le rimetta al loro posto, per evitare che perseguitino lui’” (Un santo per amico... s op. cit., pp. 207-208).142 Cfr Joaquìn Alonso, Sum.. 4659. All’esacerbato nazionalismo della Fa­lange suonava scandaloso il punto 525 di Cammino: “Essere ‘cattolico’ è amare la Patria senza lasciarsi superare da nessuno in questo amore. E, allo stesso tempo, è fare proprie le nobili aspirazioni d’ogni Paese. Quante glorie della Francia sono glorie mie! Egualmente, molti motivi d’orgoglio dei tedeschi, degli italiani, degli inglesi..., degli americani, degli asiatici e degli africani, sono, anch’essi, mio vanto. Cattolico! Cuore grande, spirito aperto”.143 Per molti mesi, nel periodo dell’apogeo della Falange, la falsa convin­zione che l’Opera fosse una società segreta nemica del partito creò situa­zioni di gravissimo pericolo per il Fondatore e per i membri dell’Opera. Lo testimonia, tra molti altri documenti, una lettera del febbraio 1943 di don Josemaria al Vescovo di Madrid: “+ Padre, ci hanno mandato un’i­spezione della Finanza (è tutto in regola) e ho saputo attraverso una confi­denza degna di fede che cercano di incastrare Alastrué con la mostruosa calunnia di ‘appartenere a una società segreta, nemica della Falange e in

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connivenza con 1’Ambasciata inglese5; e l’autore della confidenza aggiun­geva che ‘aspettano di identificare gli amici di Alastrué per fare una bella retata’.Mi perdoni, Eccellenza: ho molte cose consolanti da raccontar Le, invece di queste calunnie. Le bacia l’anello pastorale il peccatore Josemarìa” (Lettera da Madrid, in EF-430217-1).144 Lettera 29-XII-1947//14-II-1966, n. 39.145 Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 417.146 Cfr Rapporto Confidenziale della Falange, 16-1-1942.147 “Queste falsità - testimonia mons. Lopez Ortfz - furono fatte circolare da alcuni professori universitari di ideologia liberale, i quali (penso che non sia un giudizio temerario) non vedevano di buon occhio la presenza nelle aule universitarie di cattolici praticanti. Misero così in giro la voce che un gruppo di professori e altre personalità vicine alla vita universitaria (tra cui comprendevano il Ministro dell’Educazione Ibànez Martin e José Maria Albareda, Segretario Generale del Consiglio Superiore della Ricerca Scientifica, di nuova creazione) volessero consegnare l’Università all’Opus Dei. Ossessionati da queste idee, arrivarono a fare cose ridicole: per la ve­rità lo era tutta la faccenda e se qualcuno ci credette davvero, fu solo per il clima nazionalista del Paese in quei momenti, e le gelosie di alcune per­sone e gruppi che propalavano tali menzogne” {Un santo per amico..., op. cit., p. 194).148 Su questo punto il Cardinale Bueno Monreal riferisce: “Dopo le in­comprensioni vennero anche evidenti calunnie, basate su sentimenti di ge­losia o sospetti di occultismo e di eresia, che durarono un certo tempo. Senza entrare in dettagli, che ho dimenticato, accennerò solo all’accusa se­condo cui l’Opus Dei cercava di accaparrarsi le cattedre universitarie per conquistare il dominio ideologico del Paese. Simile enormità poteva essere accettata solo da chi avesse preventivamente data per valida l’accusa di se­gretezza o di massoneria... e che avesse inoltre una fervida immaginazio­ne. Eppure circolò con insistenza per alcuni anni. In questa faccenda non entrarono solamente £i buoni’; anche chi non lo era affatto faceva loro eco, cercando di togliere a cittadini cattolici, di buona formazione e con titoli altrettanto validi di quelli degli altri, il diritto di esercitare la propria professione come avrebbero voluto e potuto” (Un santo per amico... op. cit., pp. 27-28).Nel libro di José Orlandis, Anos de juventud..., op. cit., nel capitolo inti­tolato La leggenda delle cattedre, si legge: “Le denunce (...) affermavano che il Ministro dell’Educazione, Ibànez Martin, e il Segretario del Consi­glio Superiore della Ricerca Scientifica, Albareda, avrebbero ‘consegnato’ l’Università all’Opus Dei. Va notato che nel 1941, quando questa falsità era molto diffusa e si vociferava che l’Opera dominava l’Università spa­gnola, soltanto un membro dell’Opus Dei (Albareda) era professore uni­versitario. La realtà dei dati statistici indica che in seguito, nel quinquen­nio 1940-45, in cui il totale dei nuovi professori entrati nell’Università fu

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di centosettantanove, soltanto undici membri dell’Opera vinsero cattedre universitarie” (p. 182).149 Lettera a don Fermm Yzurdiaga Lorca, da Madrid; copia in EF- 420108-1. Il destinatario era membro del Consiglio Nazionale della Fa­lange.150 Nota del 19-XII-1941, RHF, D-30001. Gli esercizi spirituali si svolsero dal 14 al 20 dicembre.151 Ibidem.152 Lettera a don Antonio Rodilla Zanón, da Madrid, in EF-420214-1.153 Relazione di José Manuel Casas Torres sulla visita alla Residenza di via Diego de Leon di un agente del Servizio d’informazione della Falange, Madrid, 6 febbraio 1943. Originale in RHF, D-15415.154 Lettera a padre Roberto Maria Cayuela Santesteban S.J., da Madrid; copia in EF-450113-1.155 Lettera a padre Àngel Carrillo de Albornoz S.J., da Roma; copia in EF- 500603-2. Ecco la lettera del 15-V-50 alla quale si riferiva il Fondatore:“ SECRETARIATUS CENTRALIS CONGREGATIONUM MARIANA- RUMRoma, 15 maggio 1950.Reverendo e caro Monsignore,nonostante tutta la mia buona volontà, sono già con un piede nella staffa, senza aver avuto un momento libero per venire a trovarla. La mia salute in questi giorni non è stata affatto buona e dovevo sistemare le cose per­ché questo Segretariato possa funzionare durante la mia assenza.Spero che al mio ritorno potremo realizzare il nostro proposito; frattanto spedisca pure liberamente al mio indirizzo in Inghilterra: Manresa House, Roehampton, London, S.W. 15.In unione di preghiere, Suo in Domino. Àngel Carrillo de Albornoz S.J.” (RHF, D-30013).R Carrillo all’epoca era in cattive condizioni di salute. Don Josemaria, mosso dall’ardente amore per tutti i fratelli nel sacerdozio, in special modo per quanti avevano danneggiato l’Opera, cercava di aiutarlo.156 Encarnación Ortega Pardo, RHF, T-05074, p. 19.157 Santa Teresa d’Avila, Vita, c. 20, 6.158 Appunti, n. 1346, del 31-V-1936.159 Appunti, n. 1622. Si ignora chi sia M.160 Lettera 29-XII-1947//14-II-1966, n. 47. “Si cerca di provocare una guerra, piccola o grande che sia” (Lettera a mons. Leopoldo Eijo y Garay, da Madrid, in EF-410525-1).161 Lettera 29-XII-1947II 14-11-19 66, n. 18. Tuttavia il Fondatore pensava che la “opposizione dei buoni” avrebbe avuto ripercussioni nel futuro.

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Così avvenne. Per esempio, nel 1951 scriveva: “In quei primi e duri mo­menti, che non è facile descrivere perché indussero molte anime a mettersi contro l’Opus Dei e contro di me, io dicevo ai vostri fratelli che mi stava­no accanto: figli miei, il male non è tanto la campagna che è ora in corso; la cosa peggiore sarà che in seguito ripeteranno le stesse cose i fanatici e i nemici della Chiesa, dando forza alle proprie calunnie con la testimonian­za di questi sant’uomini. Ed è accaduto proprio così. Tutte le falsità sul- l’Opera che vengono propalate ora, non sono nuove: sono tutte vecchie e sono le stesse inventate allora, tanti anni fa” (Lettera 14-IX-1951, n. 12). Quasi mezzo secolo dopo, nel 1983 (è uno dei tanti casi), nella Repubbli­ca Federale Tedesca fu lanciata una violenta campagna di disinformazione sull’Opus Dei da parte di una potente rete radio-televisiva, la Westdeut- scher Rundfunk (WDR). In vari programmi essa attaccò l’Opus Dei defi­nendolo una pericolosa setta religiosa. Furono inviati stampati anonimi alle famiglie i cui figli erano vicini agli apostolati dell’Opus Dei, mettendo in guardia i genitori. L’Opera fu pure accusata di essere una società segre­ta di grande pericolosità sociale poiché alcuni dei suoi membri sarebbero stati implicati in movimenti sovversivi e addirittura nel traffico di armi. Per ristabilire la verità e smentire tali falsità, su consiglio del Cardinale Hòffner, l’Opus Dei in Germania ricorse ai tribunali. Furono fatti diversi processi, tutti terminati con sentenze favorevoli all’Opus Dei (cfr sentenza del Tribunale Regionale di Monaco del 10-VII-1985 - AZ 9 0 1368/85-e del Tribunale Regionale Supremo di Monaco del 17-IX-1986 - AZ 21 U6128/85). La WDR dovette ritrattare pubblicamente le accuse e nelle sentenze fu proibita la distribuzione o la vendita dei libri che contenevano calunnie e falsità. Su tutta la vicenda, cfr Flans Thomas, Òffentlicbe Infor­mation und Persónlichkeitsrecht, Die Neue Ordnung, 4/1987).162 Cfr Lettera 29-XII-1947H14-11-1966, nn. 3 e 18. Oltre a far passare il tempo, decise, come pure è già stato detto, di conservare questa lettera nell’Archivio Generale della Prelatura e di non inviarla ai Centri dell’Ope­ra.163 Ibidem, n. 2.164 Ibidem, n. 4.165 Ibidem, n. 13.166 Ibidem, n. 11.167 Tra le altre fonti, cfr Lettera ai suoi figli di Madrid, da Pamplona, in EF-410601-3; Lettera a p. Carlos Gómez Martinho S.T., da Madrid, in EF-410614-2.168 Lettera di mons. Leopoldo Eijo y Garay all’Abate Coadiutore di Mont- serrat, dom Aurelio Maria Escarré O.S.B., dell’1-IX-1941, in RHF, D- 03545/4. In una lettera successiva (RHF, D-03545/5), l’Abate scrisse al Vescovo: “Se le dicevo nella mia ultima che non osavo chiamare persecu­zione l’opposizione che l’Opera incontra ovunque, ciò era dovuto al fatto che, provenendo essa da persone di Chiesa, sento vera ripugnanza a darle questo nome, anche se in fondo la mia valutazione non differisce da quella

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di S.E. E la persecuzione contro l’Opus e contro i suoi simpatizzanti conti­nua tuttora”. A Banolas, in provincia di Gerona, furono all’inizio molto osteggiate le Operaie Parrocchiali, fondate da Magdalena Aulina.169 Lettera di p. Daniel Ruiz S.J. al Fondatore del 23-V-1941. L’originale è in RHF, D-30005. Il Vescovo di Madrid, nella lettera del 24-V-41 all’Aba­te Escarré, commenta lo scritto di p. Ruiz: “Ieri ho letto una lettera in cuiil Superiore di una Residenza dei gesuiti dice che affermare che la Compa­gnia perseguita l’Opus Dei e ne cerca la distruzione equivale a diffamarla. Ella, che sa cosa succede costì, può giudicare”. Cfr Appendice documenta­le, documento XIX. Benché assurdo, il ragionamento del gesuita fu ripre­so. Nel colloquio che il Fondatore ebbe con p. Gómez Martinho il 31-V- 1941, a Madrid, il Provinciale di Toledo lo dovette ripetere, perché don Josemarìa annotò: “Hanno subito persecuzione perché - dice lui - i mi­gliori li abbandonano” (Nota del 31-V-1941 in RHF).170 Lettera di mons. Leopoldo Eijo y Garay all’Abate Coadiutore di Mont- serrat, del 21-VI-1941 (RHF, D-03545/3). Testo completo in Appendice documentale, documento XX.171 Lettera 29-XII-1947I/14-II-1966, n. 4.172 Lettera a mons. Leopoldo Eijo y Garay, da Madrid, in EF-410525-1.173 Relazione del Fondatore del 9-VI-1948, in RHF, D-15011. Cfr anche Silvestre Sancho Morales, in Un santo per amico..., op. cit., pp. 342-343; RHF, AVF-0027.174 Cfr RHF, D-15013 e D-15014.175 Lettera ad Àlvaro del Portillo, da San Ildefonso de La Granja, in EF- 410925-1. Vi soggiornò dal 21 al 27 settembre presso l’Hotel Europeo; cfr RHF, D-15410.176 Appunti, n. 711, del 28-IV-1932.177 Lettera al Fondatore di mons. Carmelo Ballester, Vescovo di Leon, da Leon, 27-X-1941; in RHF, D-15289.178 Lettera 29-XII-1947//14-II-1966, n. 10.179 Lettera ad Àlvaro del Portillo, da San Ildefonso de La Granja, in EF- 410925-1.180 Appunti, nn. 1855 e 1856.181 Relazione di una conversazione con mons. Eijo y Garay, 29-1-1941. In RHF, D-30010.182 Cfr Rapporto confidenziale sulla organizzazione segreta Opus Dei, già citato; e lo scritto anonimo consegnato all’Arcivescovo di Santiago di Compostella, già citato (RHF, D-15006).183 Nella parte superiore del foglio c’è un’annotazione manoscritta: “Arri­vato il 13-VI. Risposto il 15-VT”. L’originale della lettera fu consegnato da mons. Eijo y Garay al Fondatore, alcuni anni dopo.Don Sebastiàn Cirac, amico di don Josemarìa e già citato più volte, al tempo della campagna contro l’Opera era docente di Letteratura Greca

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nell’Università di Barcellona. In quei giorni, in cui per le persone dell’Ope- ra neppure la posta era affidabile, il Fondatore scrisse ad Alvaro: “Con­verrà, finché sarà passato il ciclone, scrivere ai nostri per mezzo di Cirac” (Lettera ai suoi figli di Madrid, da Lerida, in EF-410420-2).Con “la notizia viene da fonte autentica” l’autore si riferiva a qualche amico ecclesiastico o a qualche persona vicina al Superiore della Provincia Aragonese, p. Mondria, anch’egli implicato nelle accuse (cfr Lettera a p. Carlos Gómez Martinho S.J., da Madrid, in EF-410614-2).184 La lettera fu scritta a Madrid il 15-VI-1941. In RHF, D-30011, se ne conserva una copia consegnata dal Vescovo poco prima di morire (nel 1963). Nella parte superiore del foglio il Fondatore scrisse: “Consegnato da don Leopoldo”.185 Cfr Appendice documentale, documento XXL186 Relazione di una conversazione di don Josemarìa con mons. Luciano Pérez Platero, Vescovo di Segovia, il 23-IX-1941 (originale autografo in RHF, D-30012). Il suo accenno al “soprassalto di gioia, persino fisico” e la denuncia “al Santo Uffizio” è evidentemente riferito al fatto di alcuni mesi prima, quando aveva avuto questa notizia da don Casimiro M ordi­lo, come già raccontato. Don Josemarìa lo ricordava con queste parole: “(...) accusato a Roma, forse davanti al Santo Uffizio, mi riempii di gioia, facevo salti di gioia per la strada” (RHF, D-15011).187 Lettera ad Alvaro del Portillo, da San Ildefonso de La Granja, in EF- 410925-1.188 RHF, D-30009. L’originale è in italiano. E una copia incompleta della lettera del Preposito Generale della Compagnia di Gesù alla Santa Sede. La copia porta la data del 3 luglio 1942. Se si tratta del testo inviato alla Santa Sede cui allude don Sebastiàn Cirac, dev’essere di diversi mesi prima, forse un anno. Probabilmente andò a finire tra le mille carte che il Fondatore dell’Opus Dei conservava, dopo averle ricevute da qualche ec­clesiastico.L’espressione citata del n. 911 di Cammino, nella traduzione italiana suona così: “...quando vedremo il mondo tutto nostro?” (NdC).189 Cfr Lettera di mons. Eijo y Garay all’Abate Coadiutore di Montserrat, dom Aurelio Maria Escarré O.S.B., dell’1-IX-1941, in RHF, D-03545/4.190 Cfr Lettera di mons. Eijo y Garay all’Abate Coadiutore di Montserrat, dom Aurelio Maria Escarré O.S.B., del 21-VI-1941, in RHF, D-03545/3. Cfr Appendice documentale, documento XX. Il Signore descrisse ai suoi discepoli le persecuzioni che avrebbero subito: “Vi scacceranno dalle sina­goghe; anzi verrà l’ora in cui chiunque vi ucciderà crederà di rendere culto a Dio” (Gv 16, 2).191 Lettera a p. Àngel Basterra S.J., da Madrid, in EF-410430-4.192 Lettera a mons. Marcelino Olaechea, da Madrid, in EF-410808-2.193 Lettera ai suoi figli di Madrid, da Lerida, in EF-410420-2. “Solamente le difficoltà, che sono come una guerra ingiustamente subita, possono

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temprare a puntino questo povero metallo umano: virtus in infimitiate perficitur” (Lettera 29-XII-1947II14-11-1966, n. 48).194 Lettera a mons. Marcelino Olaechea, da Madrid, in EF-410808-2.195 Lettera a mons. Angelo dell’Acqua, da Roma, in EF-650914-1. La si­militudine del bisturi risale agli inizi della persecuzione, nel 1941. Era una delle metafore usate dal Fondatore a scopo pedagogico. Don José Luis Muzquiz testimonia che, il giorno della sua ordinazione sacerdotale, fu in­vitato a pranzo in via Diego de Leon il Vescovo di Madrid, il quale a un certo punto disse che “in qualche momento aveva temuto che reagissimo con violenza o con poca carità contro i Gesuiti che ci attaccavano; ma soggiunse che si era tranquillizzato quando don Àlvaro gli aveva detto: ‘Quando un buon chirurgo vuol fare una buona operazione sceglie uno strumento adatto; e il Signore ha voluto scegliere uno strumento di platino per queste persecuzioni’. Allora don Àlvaro gli spiegò che questa frase l’a­veva udita dal Padre e il Vescovo commentò: ‘Meglio ancora... un buon fi­glio...’” (RHF, T-04678/1, pp. 35-36). Cfr pure Lettera 14-1X-1951, n.15.196 Cfr Lettera ai suoi figli di Madrid, da Lerida, in EF-410420-2. Nel 1941 don Josemarìa leggeva con una certa assiduità la vita di Sant’Ignazio e la storia della Compagnia di Gesù: “Stavo leggendo la ‘Vita di Sant’I- gnazio’ del P. Ribadeneyra, che mi dà consolazione ed edificazione e mi fa amare ancor di più il Santo e la sua benedetta Compagnia. Ma poi penso: Ignazio era un gran santo, e tu sei un pover’uomo” (Lettera a mons. Eijo y Garay, da Valencia, in EF-410405- 1). A mons. Marcelino Olaechea scris­se: “Eccellenza, leggevo stamane la Storia della Compagnia, di P. Astram e mi consolavo con una frase di una lettera del cistercense Fra’ Luis de Estrada che si doleva delle persecuzioni levatesi contro la nascente Com­pagnia di Gesù” (Lettera da Madrid, in EF- 410808-2).197 Lettera 29-Xll-1947,Il14-11-1966, n. 58.198 Relazione del Fondatore di un colloquio con mons. Eijo y Garay a Ma­drid, l’8-IV-1941; originale in RHF, D-30003. Le parole citate sembrano un’aggiunta o un commento a ciò che disse il Vescovo.199 Lettera 29-Xll-1947H14-11-1966, n. 38.200 Lo prevedeva il Fondatore, guardando al futuro: “Il peggio è che, pro­babilmente, queste deformazioni e questo modo falso di ritenere cattive le cose più sante rimarranno radicati, incrostati, nello spirito di molta gente e forse di una generazione intera. E potranno essere la causa di una terri­bile ostinazione a non riconoscere la verità” (Lettera 29-XII-1947II14-11- 1966, n. 67). Infatti, in molte occasioni, le calunnie propalate da ecclesia­stici avrebbero fornito ai laicisti, avversari della Chiesa, una sorta di arse­nale. Per esempio, mezzo secolo dopo i fatti qui narrati, alcuni esponenti di gruppi politici dai princìpi ideologici non cattolici presentarono al Par­lamento italiano interpellanze sul preteso “segreto” dell’Opus Dei. Il Go­verno, fatte le indagini del caso e consultata la Santa Sede, escluse con fer­mezza tale accusa contro la Prelatura. Sulla documentata ed esauriente ri­

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sposta data dal Ministro degli Interni italiano, cfr Camera dei Deputati. Atti Farlamentari. Resoconto Stenografico n. 561, del 24-XI-l986.201 Due anni dopo il passaggio da Barcellona di p. Carrillo, si ripeterono le visite ai genitori dei membri dell’Opera. Questa volta a recarsi dai geni­tori di Rafael Termes, il direttore del Palau, non furono gli stessi perso­naggi dell’anno prima, bensì un Assistente di Azione Cattolica. Per questo motivo il Fondatore scrisse a mons. Enrique Pia y Deniel, Arcivescovo di Toledo, e al Vescovo Ausiliare don Eduardo Martinez. Ecco il testo della lettera a quest’ultimo: “Oggi La disturbo per dirle che un certo Cunill, sa­cerdote di Barcellona, si è permesso di turbare i genitori di Rafael e di Jaime, raccontando loro una sfilza di stupide calunnie contro l’Opus Dei. In casa dei Termes ci sono state delle scenate, anche se pare che sia già tor­nata la calma. Quanto bene farebbe a questa famiglia una lettera rassere­nante di Sua Eccellenza! Non tralasci, La prego, di mandare loro due righe. Oggi stesso scrivo anche all’Arcivescovo, poiché questo sacerdote catalano è assistente di A.C. e ci calunnia anche in quell’ambiente” (Lette­ra da Madrid, in EF-421205-1).202 Lettera 29-XII-l 947//14-11-1966, n. 77.203 Lettera di mons Leopoldo Eijo y Garay all’Abate Coadiutore di Mont- serrat, dom Aurelio Maria Escarré O.S.B., dell’l-IX-41, in RHF, D- 03545/4.204 Lettera 29-X1I-19471114-11-1966, n. 44. Cfr E f 3, 13. -205 Lettera 6-V-1945, n. 45.206 Lettera 24-XII-l 951, n. 234.207 Lettera 29-XII-1947!114-11-1966, n. 2.208 Lettera di mons. Manuel Moli Salord, Vescovo Coadiutore di Tortosa e Amministratore Apostolico di Lerida, al Fondatore, del 25-VII-1941. La “interruzione” cui fa riferimento fu dovuta al fatto che don Josemarìa il22 aprile, per la morte della madre, fu costretto a interrompere gli esercizi che stava predicando al clero di Lerida.209 Lettera di mons. Leopoldo Eijo y Garay all’Abate Coadiutore di Mont- serrat, dom Aurelio Maria Escarré O.S.B., dell’l-IX-41, in RHF, D- 03545/4.210 Lettera di mons Leopoldo Eijo y Garay all’Abate Coadiutore di Mont- serrat, dom Aurelio M aria Escarré O.S.B., del 21-VI-41 (RHF, D- 03545/3). Cfr Appendice documentale, documento XX.211 Lettera Circolare, da Burgos, in EF-390109-1. Cfr capitolo XI, § 8.212 Sulla “opposizione dei buoni” il Fondatore scrisse che “il Signore la permette” e consiste nel fatto che i buoni “con retta intenzione concepi­scono e propalano falsità” (Istruzione 9-1-1935, n. 283). Come si vede, non era certo impreparato.213 Lettera di mons Leopoldo Eijo y Garay all’Abate Coadiutore di Mont-

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rserrat, dom Aurelio M aria Escarré O.S.B., del 21-VI-41 (RHF, D- 03545/3). Cfr Appendice documentale, documento XX.214 II Fondatore aveva stretto amicizia con molti religiosi, alcuni già men­zionati: i padri Ballester e Moreno, della Congregazione della Missione; i padri Morata e Lopez Ortfz, entrambi Agostiniani; dom Aurelio Maria Escarré e dom Justo Pérez de Urbel, Benedettini; p. Silvestre Sancho Mo- rales, Domenicano e Rettore dell’Università di S. Tommaso a Manila, ecc. Come è noto, inoltre, per vari anni ebbe come direttore spirituale p. Va­lentin Sànchez S.J.215 Cfr Appendice documentale, documento XXL216 Laureano Castàn Lacoma, in Un santo per amico..., op. cit., p. 94. Egli aggiunge che i fatti hanno dimostrato il contrario: dove lavorano i membri dell5Opus Dei “il clima spirituale si riscalda e, di conseguenza, na­scono vocazioni per tutti”.217 Lettera a mons. Leopoldo Eijo y Garay, da Madrid, in EF-410531-2. È bene ricordare quanto già scritto nel cap. VI del presente lavoro: il Fonda­tore cercò invano una parola che esprimesse la chiamata alla santità dei comuni fedeli, laici e sacerdoti, uomini e donne, celibi o sposati, e non fa­cesse supporre che la radicale dedizione al servizio di Dio comportasse un cambiamento nella situazione sociale, familiare o professionale. Nel lin­guaggio comune la parola “vocazione” indicava normalmente la chiamata allo stato religioso.218 Lettera al rev. p. Carlos Gómez Martinho S.J., da Madrid, in EF- 410614-2. Don Josemaria comprese chiaramente dal colloquio con il Pro­vinciale che questi temeva soprattutto di perdere vocazioni per la Compa­gnia. Uno studente del collegio dei gesuiti di Tudela riferisce che tutto era predisposto perché finisse là i suoi studi; ma all’ultimo momento ricevette una lettera che lo invitava a cambiare i programmi e a entrare nel novizia­to di Loyola: “Ho impiegato molti anni per rendermi conto della motiva­zione segreta di quella fretta. L’Opus Dei cominciava in quegli anni in Spagna a essere conosciuto e ad attrarre il meglio della gioventù. Alcuni di quei giovani avevano prima pensato di farsi gesuiti e ai gesuiti dispiaceva perdere vocazioni di valore. Ciò era accaduto anche nella stessa scuola di Tudela e aveva allarmato i Padri. Nel mio caso temevano che se fossi ri­masto ancora un anno nella scuola avrei senza dubbio conosciuto l’Opus Dei e me ne sarei potuto sentire attratto. Essi non volevano perdermi e agirono rapidamente. Mi fu scritto di raggiungere il noviziato senza ritar­di perché fossi in salvo tra le sue pareti prima che sentissi parlare dell’O- pus Dei. Naturalmente non mi dissero nulla di tutto ciò, né io allora pote­vo sospettarlo. Ho obbedito e sono andato. Lo riferisco qui per la prima volta per iscritto e, credo, con la maggior obiettività possibile” (Carlos Gonzàlez Vallés S.J., Las 7 palabras de Carlos G. Vallés, Madrid 1995).219 Lettera di mons. Leopoldo Eijo y Garay all’Abate Coadiutore di Mont­serrat, dom Aurelio M aria Escarré O.S.B., del 21-VI-41 (RHF, D- 03545/3). Cfr Appendice documentale, documento XX.

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220 Appunti, n. 52, del 16-VI-1930. “Il suo amore per la Chiesa di Dio era così grande che stimava e lodava tutte le istituzioni sorte per portare più anime a Dio”, testimonia mons. José Maria Garcia Lahiguera, in Un santo per amico...., op. cit., p. 139.P. Silvestre Sancho O.P. riferisce: “Si rallegrava molto e benediceva Dio per il lavoro apostolico di tutti. Diceva sempre: quante più persone ci sono che servono Dio, tanto meglio” (PM, f 104v).221 “Nelle sue attività apostoliche - testimonia Joaquin Mestre - non solo non cercò mai di invadere il terreno altrui o di lavorare in campi più o meno ben coltivati da altri operai o pastori della vigna del Signore, ma ne rifuggì volutamente e decisamente, cercando di andare dove scarseggiava­no o mancavano del tutto le cure pastorali che egli forse avrebbe potuto prestare” (RHF, T-00181, p. 30). “Ricordo molto bene - testimonia Javier Ayala - che negli anni 1940-41 a Saragozza, quando erano necessarie vo­cazioni per l’Opera, don Josemaria orientò verso il Seminario due giovani studenti universitari nostri amici. Gli davamo molta gioia quando lo informavamo (...) che, come conseguenza del lavoro apostolico, erano nate varie vocazioni sacerdotali e religiose” (PM, f. 1477).222 Cfr Lettera 29-XII-1947II14-11-1966, n. 43. Vicente Mortes riferisce che José Gramunt de Moragas, suo compagno di stanza nella Residenza di via Jenner, entrò nella Compagnia di Gesù e che dalla Residenza della Moncloa andò in seminario Enrique Saracho (cfr Sum. 7224). Vi sono altre dichiarazioni dello stesso tenore: cfr Pedro Casciaro, Sum. 6353; Fio­rendo Sànchez Bella, Sum. 7507; Bianca Fontàn Suanzes, Sum. 6954. Sono numerosi i religiosi che riconoscono di dovere al Fondatore la pro­pria vocazione. Mons. Alvaro del Portillo ne cita alcuni: p. José Maria Aguilar Collados O.S.H., Cappellano del Monastero di San Bartolomé de Inca (Maiorca), il quale a sua volta ricorda che anche due suoi amici furo­no incoraggiati dal Fondatore ad abbracciare lo stato religioso; il monaco camaldolese dom Pio Maria Calvo Botas; p. Hugo Maria (Miguel) de Quesada Lucas, che nel 1942 entrò nella Certosa di Miraflores; p. Barto­lomé Rotger Castano, Priore della Certosa di Montealegre di Badalona (Barcellona), ecc. Cfr Sum. 298, 299, 443, ecc.223 Lettera 11-111-1940, n. 39. Scrisse anche: “Alcuni si arrabbiavano senza motivo perché, di solito, le vocazioni che ci inviava il Signore prove­nivano da ambienti in cui essi generalmente non ne avevano trovate. Nes­suno veniva da noi con la vocazione da frate o da sacerdote. Queste voca­zioni non ci servono: la nostra vocazione è ben diversa da quella dei reli­giosi. Alcuni erano stati seguiti da loro, ma non avevano sentito il deside­rio di imitarli. Non c’è miglior prova che non avessero la loro stessa voca­zione, dato che - conoscendola - se ne andavano per un altro cammino. Neppure questo li dovrebbe stupire: non ci sono campi recintati, non ci sono campi esclusivamente propri - è un modo di pensare tipico di chi ha la mentalità da partito unico - perché molte volte alius est qui seminat, et alius est qui metit - uno semina e un altro miete - e il Signore ha detto: et

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qui seminat, simul gaudeat, et qui metti, gioiscano insieme il seminatore eil mietitore” (Lettera 14-IX-19S1, n. 39).224 Testimonianza di eccezionale interesse, per comprendere bene quanto stiamo esaminando sulla vocazione, è quella di mons. Pedro Cantero, che fin dal 1931 era intimo amico di don Josemarìa, del quale dice: “Il Padre era un uomo di vedute straordinariamente ampie e niente affatto esclusivi- ste. Rispettava sempre la libertà di ciascuno di scegliere la propria strada e seguire la propria vocazione. Per meglio dire, non solo la rispettava, ma lodava sinceramente tutto ciò che venisse promosso al servizio di Gesù Cristo e della sua Chiesa. Stando al proprio posto, collaborava con tutto ciò che era buono, secondo le sue possibilità. Non potrò mai dimenticare che fu lui il motore della mia decisione e che l’appoggiò sempre con calo­re. Sapeva che le anime sono proprietà di Dio solo e che Dio chiama dove vuole e come vuole: era lui che aveva smosso la mia anima, come ho scrit­to e detto tante volte, ma non ritenne mai di avere dei diritti su di me, preoccupandosi soltanto di aiutarmi a realizzare la mia vocazione” (Un santo per amico..., op. cit., p. 64). Mons. Cantero fu Vescovo di Barba- stro (1952-54), di Huelva (1954-64), e poi Arcivescovo di Saragozza (1964-77).225 In Un santo per amico...., op. cit., p. 214.226 Cammino, n. 774. “Fino a tal punto è così - annotava il 10-X-1932 - che a volte ho creduto che la caratteristica della mia vita sia amare la Vo­lontà di Dio” (Appunti, n. 1698).227 Maria Dolores Fisac, RHF, T-04956/1, p. 8.228 Francisco Botella, RHF, T-00159/1, p. 111.229 Cfr Enrica Botella, RHF, T-04894, p. 4.230 Cammino, n. 982.231 Enrica Botella, RHF, T-04894, p. 5.232 Encarnación Ortega, RHF, T-05074, p. 74.233 Ibidem, p. 75.234 Ibidem, p. 76.235 Narcisa Gonzàlez Guzmàn, RHF, T-04989, p. 1.236 Cfr ibidem, p. 3.237 Ibidem, p. 4.238 Lettera 29-XII-1947II14-11-1966, n. 128.239 Lettera alle sue figlie di Madrid, da Lerida, in EF-411021-1.240 Lettera a Narcisa Gonzàlez Guzmàn, da Madrid, in EF-411105-1.241 Cfr Encarnación Ortega, RHF, T-05074, p. 57.242 Cfr ibidem, p. 5.243 Ibidem, p. 48.244 Lettera alle sue figlie di Madrid, da Pamplona, in EF-420916-2.

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245 Cammino, n. 820.246 Encarnación Ortega, RHF, T-05074, p. 2.247 Cfr Narcisa Gonzàlez Guzmàn, RHF, T-04989, p. 27.248 EF-411014-1. In una lettera del 20 ottobre scrisse da Lerida a un amico: “Desideravo venire a trovarla prima di partire. È stato impossibile perché la vigilia della mia partenza da Madrid stavo ancora a letto con quella benedetta forma reumatica” (Lettera a Vicente Rodrìguez, in EF- 411020-1). L’11 ottobre si era alzato per mettersi in viaggio per Saragozza e Lerida, evidentemente senza stare ancora bene di salute (cfr Lettera ai suoi figli di Madrid, da Saragozza, in EF-411012-1). Degli anni intorno al 1940, don Josemarìa ricordava i pediluvi che gli preparava la Nonna, con molto sale grosso nell’acqua (nota di mons. Javier Echevarrìa).249 Lettera ad Àlvaro del Portillo e ai suoi figli di Madrid, da Segovia, in EF-421104-2.250 Narcisa Gonzàlez Guzmàn, RHF, T-04989, p. 36.251 Cfr Encarnación Ortega, RHF, T-05074, p. 60.

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Capitolo XIVLO SVILUPPO DELL’OPERA

1 .1 tre fratelliLa “tappa di transizione” cui si è fatto riferimento, nel­la quale la signora Dolores e Carmen accettarono di buon grado di prendere le redini dell’amministrazione domestica dei centri dell’Opera, non si interruppe con la morte della Nonna. Ma la scomparsa della madre del Fondatore imponeva tacitamente un cambio dei rappor­ti dei tre fratelli, Josemaria, Carmen e Santiago, fra di loro e rispetto all’Opera. Pur facendo tutti parte della stessa famiglia, le loro passate esperienze e i loro stati d’animo erano decisamente differenti; è indubbio infatti che ogni persona porta con sé un bagaglio intrasferibile, per quanto minimo, di ambizioni e di speranze. Ciascu­no dei tre aveva un modo di essere del tutto peculiare, anche se avevano in comune alcuni aspetti del carattere sia per motivi ereditari che per l’educazione ricevuta. Ma sarebbe interessante sapere con certezza da chi ave­vano ereditato lo stesso forte temperamento, che a volte affiorava in modo focoso per spegnersi poi rapidamente senza lasciare traccia di risentimento.

Se si ripercorre l’esistenza di ognuno di loro si consta­ta che le loro non furono vite parallele, nonostante ap­partenessero allo stesso focolare domestico. In effetti

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l’infanzia di Santiago ebbe ben poco in comune con quella dei fratelli. Tre settimane dopo la sua nascita, la madre compiva quarantadue anni. Egli non conobbe mai il focolare promettente e felice dei primi tempi di Barbastro. Quando venne al mondo la casa degli Escrivà era presieduta dalla Croce. Era un ambiente feli­ce ma provato da molti eventi dolorosi. A genitori e figli accadde come alle anime sante che Dio va svuotando a poco a poco di loro stesse per colmarle del suo Spirito; così infatti il Signore, in maniera progressiva, avvicinò allo spirito dell’Opera la famiglia del signor José. La lunga peregrinazione di città in città e di rinuncia in ri­nuncia era costata innumerevoli sacrifici che tutti serba­vano in modo discreto tra i più intimi ricordi.

Molti anni dopo, nel momento di rendere testimo­nianza, ormai defunti i due fratelli, Santiago riferisce qualcosa che segnò in modo indelebile la sua esistenza e che forse non aveva osato mai dire loro:

“La nostra casa non fu mai una casa normale nel senso stretto della parola. Per me una casa è normale quando i figli possono ricevere gli amici, invitarli a pranzare o a fare merenda, ecc. Io non sempre ho potuto farlo. Quando studiavo all’Università e qualcuno mi invitava,' io non potevo mai ricambiare l’invito. A mia sorella Carmen capitava lo stesso”1.Quando morì José Escrivà, la Provvidenza sistemò le

cose in modo che il fratello maggiore, così come aveva promesso davanti al feretro del padre, ne facesse le veci.Il luttuoso Natale del 1924 era stato duro per tutta la famiglia e indimenticabile per Santiago, ancora bambi­no. L’unica cosa straordinaria che si poterono permette­re a tavola fu un pezzo di marzapane comprato da Car­men; ma era andato a male e fu gettato. Per la festa dei Re Magi il piccolo ebbe un’altra delusione. Pur nel lut-596

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to, il bambino si aspettava in regalo un giocattolo; inve­ce ricevette un colpo inatteso:

“Mi ricordo ancora benissimo - afferma a mezzo secolo di distanza - la delusione che ebbi con i doni dei Re Ma­gi. Trovai una scatola ed ero felice immaginando che fosse un’automobilina; ma vi trovai dentro un paio di scarpe”2.Poi ci fu un momento di transizione nella vita familia­

re. Nell’aprile 1927 don Josemarìa andò a Madrid per terminare gli studi universitari e ottenere il dottorato. La signora Dolores a Fonz aspettava notizie del figlio per raggiungerlo a Madrid con tutta la famiglia. Conta­vano i giorni con impazienza e al piccolo Santiago sem­bravano un’eternità, a tal punto che l’aspettativa ne ac­cendeva la fantasia durante la notte:

“Mi aspettavo che Josemarìa ci venisse a trovare, ma non fu così. La voglia che venisse me lo faceva sognare che arrivava in groppa a un cavallo bianco. Comunque non si dimenticava di me: tutte le settimane mi spediva per posta un giornalino per bambini”3.Dal novembre 1927 la famiglia si stabilì nella capitale

e don Josemarìa non si separò più dai suoi; ma ben pre­sto, inaspettatamente, il sacerdote si trovò a capo di un’altra nuova famiglia. Sia la madre che Carmen si prendevano cura affettuosa di Santiago: “Anche Jose­marìa si dedicava molto a me - afferma questi -. Mi portava a passeggio quando aveva un momento libero, soprattutto la domenica. A volte mi accompagnava a far merenda al Sotanillo, un bar dove si riuniva con i ra­gazzi con i quali faceva apostolato. Io non mi interessa­vo molto del lavoro che faceva, ma stavo con lui. Poi Jo­semarìa non mi potè più dedicare tanto tempo perché doveva stare con i primi dell’Opera. Fu come se ritor-

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nassi a essere orfano, dato che Josemarìa e Carmen svolgevano per me la funzione di genitori”4.

La sensazione di essere rimasto orfano di padre per la seconda volta non era frutto di una sensibilità capriccio­sa, poiché davvero il cuore paterno di suo fratello Jose- maria ospitava una famiglia nuova. Con fine istinto in­fantile e un’ombra di gelosia Santiago definiva i nuovi arrivati “i ragazzi di Josemarìa”. E i suoi timori ebbero in parte riscontro, poiché i frequentatori dell’apparta­mento di via Martìnez Campos erano sempre più nume­rosi e la dispensa della signora Dolores pagava le conse­guenze dell’appetito degli invitati.

Molto diversa era la vita di Carmen, tra l’altro perché aveva vent’anni di più del fratellino e poteva ben svolge­re nei suoi confronti - come dice Santiago stesso - il ruolo di madre. La casa, la cura del piccolo Santiago e la vedovanza della madre riempivano il cuore generoso di Carmen. D’altra parte non le mancava, nel suo mon­do di sentimenti femminili, una fantasiosa vena roman­tica, nonostante avesse la testa ben piantata sulle spalle; sognava di viaggiare e amava molto la lettura5. Scartate volontariamente le occasioni di sposarsi, Carmen prese su di sé la cura dell’Opera, senza dimenticare i membri della propria famiglia.

Alla morte della madre, la figlia aveva passato i qua­rantanni. La ragazza bruna e carina che Carmen era sta­ta nella sua prima gioventù era diventata una donna ma­tura, con una notevole esperienza, frutto anche degli anni di guerra, salda nelle sue convinzioni, tenace nei suoi propositi e con un cuore grande, come i suoi fratelli.

La signora Dolores aveva dato un contributo decisivo per superare la “tappa della transizione”. Si comprende dunque che il figlio ebbe doppiamente a soffrire per la sua morte. Chi avrebbe assunto il ruolo che la Nonna aveva svolto in modo tanto efficace? Chi l’avrebbe so­stituita presso le donne che si avvicinavano agli aposto­lati dell’Opera? Era solo il Fondatore a creare il clima598

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familiare in cui le donne che si sentivano chiamate al- l’Opera ricevevano la formazione. Ogni iniziativa parti­va dal Padre, ma egli contava anche sul silenzioso esem­pio della Nonna, nella cui casa di Barbastro era stato educato da bambino. Alla scomparsa della madre, la sua prima reazione fu spontanea e addolorata:

“Dio mio, Dio mio, che cosa hai fatto? Mi stai togliendo tutto, tutto”6.L’idea che la Nonna cooperasse nell’amministrazione

materiale dei centri, sostenendo in questo modo il lavo­ro apostolico, era una decisione presa da tempo. Perché fosse possibile i membri dell’Opus Dei avevano offerto molte preghiere e sacrifici. Ma don Josemaria non tardò a rendersi conto che anche in questo caso il Signore ne sapeva di più e offriva la soluzione. La signora Dolores aveva ottenuto il suo premio e Carmen passava a occu­pare il posto lasciato vacante dalla madre.

Vedendo le cose dall’alto - nella vita del Fondatore non è possibile scrutare l’orizzonte da un’altra angola­tura - gli avvenimenti, talvolta inspiegabili secondo il giudizio degli uomini, acquistano il loro vero significato come manifestazioni della Provvidenza. Ce lo fa com­prendere bene ciò che avrebbe detto don Josemaria nel 1948, sette anni dopo che, morta la madre, Carmen ne aveva assunto il ruolo.

Alla vigilia di un viaggio a Roma, a metà maggio del 1948, don Josemaria s’incontrò col Nunzio, il quale gli disse di aver letto non senza sorpresa su L’Osservatore Romano che Carmen era stata ricevuta in udienza dal Santo Padre:

- “Non sapevo che lei avesse una sorella - gli disse.- Ora comprende, Eccellenza, con quale discrezione han­no lavorato con me mia madre (che riposi in pace) e mia sorella (...): senza di loro non sarebbe stato possibile da­

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re all’Opera il tono delicato di focolare cristiano, di fa­miglia”.E aggiunse:“E il Signore ci ha concesso la grazia straordinaria di evi­

tare che la calunnia investisse anche questo aspetto, negli anni duri che Lei ben conosce: adesso infatti Carmen ha più di quarant’anni, ma ne aveva poco più di venti quan­do lei e la mamma cominciarono ad aiutarmi...”7.Grazie anche alla presenza signorile e rispettabile di

Carmen e della madre, il Fondatore potè fare un intenso e copioso apostolato con le donne. Tra l’autunno del 1940 e quello del 1942 seguì dal confessionale molte madri di famiglia e persone che venivano da altre pro­vince, in attesa che si aprisse il primo centro per le don­ne.

Negli anni della “opposizione dei buoni” Carmen, forte e decisa, si dedicò anima e corpo al servizio dell’O- pera. Preso il posto della madre, ella cominciò a svolge­re le funzioni di padrona di casa e di amministratrice del centro di via Diego de Leon con profondo senso di re­sponsabilità. Non si concedeva tregua. Lavorava inces­santemente evitando però di esaurirsi, di perdere la te­sta, di farsi prendere dall’ansia e di farsi bloccare da ogni minimo contrattempo. Le sue mansioni erano nu­merose: dalla ricerca e addestramento del personale femminile fino all’insegnamento della dottrina cristiana alle collaboratrici familiari.

Carmen sapeva cucinare molto bene, che si trattasse di una frittura o di uno stufato, di una minestra o di un dolce. Ma era un’epoca in cui alle buone cuoche veniva meno ogni entusiasmo per la scarsità di provviste, il si­stema delle tessere annonarie e persino l’infima qualità del carbone, vera disperazione delle casalinghe. La cuci­na era nel seminterrato e Carmen, che abitava al primo600

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piano, saliva e scendeva innumerevoli volte al giorno la ripida e stretta scala interna. Le pulizie e il servizio di la­vanderia erano pure molto impegnativi in una casa che, ben presto, ebbe più di quaranta residenti. E per impedi­re qualsiasi momento di distensione c’erano gli straordi­nari, i pranzi per gli invitati, la vigilanza sulle forniture, le riparazioni, l’annotarsi le esperienze, buone o cattive che fossero, e la formazione di una delle prime donne dell’Opera che Carmen ebbe al proprio fianco, Nisa8.

Tutte queste cose, riassumibili sotto la denominazione di lavori domestici, erano obbligatorie. Poi c’erano altre circostanze in cui pure suppliva l’assenza della Nonna, come durante il lavoro di cucito e di rammendo, dove aveva sempre qualcosa da insegnare o da raccontare per rendere lieta la conversazione.

C’erano infine i lavori che erano stati riservati alla Nonna, come il bucato della biancheria del Padre. Un testimone racconta che in via Diego de Leon, “intorno agli anni 1941-42, qualche volta zia Carmen si arrab­biava con il Padre quando vedeva le sue camicie mac­chiate di sangue a motivo delle dure penitenze che face­va per portare avanti la parte femminile dell’Opera, che allora stava per ricominciare con nuovo slancio”9.

Carmen, che veniva chiamata “zia Carmen”, si conqui­stò subito l’affetto delle persone dell’Opera, uomini e donne, facendo in tutto le veci della Nonna. Nell’Opera cominciò l’abitudine familiare di portarle un piccolo re­galo al ritorno da un viaggio: caramelle o qualche altra ghiottoneria. Prima era la Nonna che serbava qualche ca­ramella in un cassetto di un mobile in camera sua e quan­do venivano a trovarla i suoi nipoti aveva sempre qualco­sa da regalare, non senza essersi fatta prima pregare10.

Zia Carmen rafforzò questa tradizione familiare a spese del suo borsellino. Lo richiedeva il cuore, benché non fosse usa a troppe manifestazioni di affetto. Il che era normale anche nei rapporti fra i tre fratelli, legati fra loro da un affetto profondo ma restio a manifestazioni

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esteriori. Non era facile agli estranei indovinare fino a che punto giungesse l’affetto, perché don Josemaria non fece mai ai suoi fratelli alcun favore a spese dell’Opera e neppure dedicò loro una sola ora del tempo riservato al­la formazione dei suoi figli spirituali. Lo zelo di don Jo­semaria per l’Opera fece innervosire in più di un’occa­sione sua sorella, la quale però, asciugata l’ultima lacrima, ricuperava la serenità e si rimetteva al lavoro. A Carmen accadeva come alla Nonna, che si lamentava di non riuscire per giorni a vedere il proprio figlio, no­nostante abitassero nella stessa casa11.

Tuttavia pochi si rendevano conto davvero degli estremi a cui arrivava la riconoscenza di don Josemaria per i suoi familiari. La sua gratitudine era molto di più che una graziosa combinazione di carità e di giustizia. Ogni favore ricevuto, per quanto piccolo fosse, risve­gliava nella sua anima la coscienza di un debito che era disposto a pagare con gioia. La gratitudine di don Jose­maria andava oltre la giusta retribuzione. Si considerava sempre in debito ed era solito ripagare i benefattori con l’orazione, la mortificazione e le intenzioni per cui cele­brava la Messa12.

A chi doveva di più che alla propria famiglia di origi­ne? Amore e gratitudine si davano la mano nell’osser­vanza del quarto comandamento della legge di Dio, che egli chiamava “il dolcissimo precetto del Decalogo”13.

Della sua permanenza a Burgos nel 1938 serbava un ricordo relativo a un viaggio al fronte di guerra: passan­do un giorno col treno vicino al muro di cinta del cam­posanto di Logrono, il suo cuore aveva avuto un sob­balzo, poiché vi era sepolto suo padre14. Per il Fondatore, per ragioni che andavano oltre il semplice amore filiale, i resti mortali del babbo erano autentiche reliquie ed egli fece il proposito di “riscattarli” in futu­ro: riscattarli dalla dimenticanza e dalla lontananza, ri­scattarli per tutti i membri dell’Opus Dei che, per dise­gno divino, avevano contratto un debito spirituale verso602

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quell’uomo giusto e cristiano, benché fosse morto prima della fondazione.

Più di una volta la Nonna aveva manifestato il deside­rio di riposare accanto al marito in attesa della risurre­zione finale. Perciò, nel primo anniversario della morte della signora Dolores, don José Maria Millàn, ex com­pagno di seminario a Logrono, avvisò il Fondatore che erano già state concluse le pratiche che questi gli aveva affidato per l’esumazione della salma di suo padre. Il 27 aprile 1942 egli partì in auto con Ricardo Fernàndez Vallespìn per trasferire da Logrono i resti di José Escrivà. Ottenuti tutti i permessi e provvisti di un’urna con l’interno di zinco, il Padre e Ricardo giunsero al ci­mitero la mattina di mercoledì 29 aprile. Videro la pie­tra tombale già spostata e i becchini intenti a scavare. Presto comparve la bara e si accorsero che il peso della terra aveva fatto cedere la superficie della cassa, che ap­pariva sconnessa. Senza difficoltà raccolsero le ossa e le misero nella cassetta di zinco, che fu saldata. Fecero su­bito ritorno a Madrid15.

La prima persona che don Josemarìa incontrò entran­do nella casa di via Diego de Leon fu Nisa. Il Padre in­dossava il suo mantello corto di panno nero che ricopri­va anche l’urna e le disse sottovoce, con soddisfazione: “Ho qui i resti di mio padre”, con l’espressione di chi ha compiuto un sacrosanto dovere16.

Li depose nell’oratorio, su un tavolino coperto da un panno nero. Vi rimasero fino al giorno successivo, tran­ne che per alcune ore, quando portò l’urna in camera sua e, per non posarla a terra, la mise sul letto17. Il 30 aprile la cassetta con i resti del Nonno fu sepolta nel ci­mitero della Almudena, a Madrid, ai piedi della bara della Nonna, nel senso della larghezza della fossa18.

Molti anni dopo, finiti i lavori di ristrutturazione del­la casa di via Diego de Leon, sede del Consiglio Regio­nale dell’Opus Dei in Spagna, don Josemarìa potè com­pletare il suo pietoso compito. Il 31 marzo 1969 i resti

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dei due genitori furono deposti nella cripta della casa19. Così vennero a riposare nel posto che spettava loro, in famiglia. Il Fondatore non intendeva fare un atto discri­minatorio a vantaggio dei suoi consanguinei. Erano sta­ti i suoi figli più grandi a chiedergli di fare così, in segno di giusta gratitudine verso tutti i benefattori dell’Opera, rappresentati da coloro che per primi l’avevano aiutata. Tra i benefattori don Josemaria annoverava tutti i geni­tori e i fratelli dei fedeli dell’Opus Dei.

“Oggi - disse il Fondatore nel 1973 - , quando andrò nella cripta dove riposano i resti dei miei genitori, non pregherò solo per loro. La mia preghiera di ringrazia­mento e di suffragio per le loro anime si estenderà ai ge­nitori e ai fratelli di tutti coloro che fanno parte dell’O­pus Dei; e naturalmente pregherò per tutte le anime del Purgatorio, comprese quelle di quanti - certamente con retta intenzione - non capirono o crearono difficoltà al mio lavoro o al lavoro dell’Opus Dei”20.

* * *I primi e principali creditori sulla terra della gratitudine dell’Opus Dei erano, senza alcun dubbio, gli Escrivà. Di fronte a Dio, la vita del Fondatore era piena di debiti spirituali e materiali verso i suoi genitori e fratelli. E nel momento critico e decisivo dell’inizio dei centri dell’O­pera e della necessità di organizzarvi il servizio domesti­co, gli obblighi contratti verso la madre e la sorella au­mentarono ancora. Nessuno lo sapeva meglio del Fondatore. Carmen stava collaborando a porre le fon­damenta dell’”apostolato degli apostolati” e imparava da suo fratello a fare apostolato con le collaboratrici domestiche.

Un giorno, nel 1944, uno degli studenti che abitavano in via Diego de Leon si pose una domanda che era già venuta in testa a molti altri. Più che curiosità era stupo-604

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re: perché Carmen e Santiago non facevano parte dell’O­pus Dei? Il giovane rivolse la domanda al Padre, che avrebbe potuto benissimo rispondergli, ma preferì che fossero gli interessati a risolvergli il quesito: “Questa è una faccenda loro; se vuoi, chiediglielo”, gli rispose21. La risposta era semplice: la vocazione personale di Carmen e di Santiago non era di diventare membri dell’Opus Dei, ma di collaborare così come stavano facendo.

2. “L’apostolato degli apostolati”Alle due del pomeriggio del 13 ottobre 1941 don Jose­marìa, invitato da mons. Moli Salord, giungeva al Semi­nario di Lerida per dare un corso di ritiro spirituale ai sacerdoti della diocesi. Poco dopo il suo arrivo fu preso da una inspiegabile malinconia al pensiero di essersi la­sciato dietro, a Madrid, l’affetto che lo legava ai suoi fi­gli. Perciò prese la penna per raccontare loro le dimo­strazioni di affetto del Vescovo e l’amabilità dei superiori del Seminario:

“Dio lo ripaghi!Nonostante tutto, la permanenza mi sembrerà molto lunga, perché ho la testa piena delle cose che dobbiamo mettere in moto lì”22.Dietro alla nostalgia e al racconto delle gentilezze al­

trui c’era forse il ricordo non esplicitato degli esercizi cominciati in quel seminario nell’aprile dello stesso an­no e interrotti dopo la telefonata con cui Àlvaro del Portillo gli dava la notizia della morte della madre.

Il 1 '6 ottobre tornò a scrivere:“Gesù mi protegga i miei figli.Non vi aspettavate che ieri vi telefonassi, vero? Come sempre, c’è voluta mezza mattinata per trovare libero il

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telefono. Quando metteranno l’altro? Se lo mettono, da­temi il numero e farò più in fretta. Partecipa agli esercizi l’arciprete di Fraga, il paese dei fichi. Vedete se non con­viene ordinarne un bel po’. Ancora non sanno il prezzo. L’anno scorso li vendevano a 2 pesetas al chilo; ma que­st’anno dice che vogliono venderli a 5. Vedete se convie­ne e datemi subito una risposta. Se li si ordina, dobbiamo specificare quanti ne vogliamo. La vendita è libera”23.Fece poi un elenco di cose e di incarichi che gli veniva­

no in mente e cui era urgente provvedere: il personale di servizio della Residenza di via Jenner, le case da sistema­re, l’acquisto dei mobili...

“Questa lettera - concluse - sembra scritta da Lazza­ro in collaborazione con Marta. Povera Maria!”24, frase che va intesa in senso scherzoso e non alla lettera, per­ché don Josemarìa aveva il cuore e i sensi concentrati sul corso che predicava e l’insieme delle preoccupazioni che gli attraversavano la mente, pur prosaiche come l’o­perazione dei fichi secchi, era ispirato dalla gloria di Dio e dall’affetto paterno per i suoi figli25. Sappiamo bene che nella sua mente coabitavano progetti di tutti i tipi, materiali e spirituali, sotto un’unica intenzione sopran­naturale. In queste condizioni, aveva senso distinguere tra vita attiva e contemplativa, tra meditazione e attività pratica, tra orazione e lavoro? Marta e Maria non erano antitetiche né separate, ma andavano a braccetto come due buone sorelle, perché il loro amore e quello di Laz­zaro toccavano il cuore di Cristo.

Detto questo, possiamo affermare che la frase conclu­siva è però molto seria, perché fa riferimento al nocciolo del messaggio che l’Opus Dei porta nel mondo: il valore santificante del lavoro fatto alla presenza di Dio e con intenzione retta. Lo ha spiegato altrove il Fondatore:

“Nel suo aspetto spirituale o ascetico la formazione che ci dà l’Opera tende a creare nelle nostre anime una di­sposizione abituale, quasi un istinto, che ci conduce, in

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tutto ciò che facciamo, ad avere sempre - a non perdere mai - un obiettivo soprannaturale. Non viviamo una doppia vita, ma una unità di vita, semplice e forte, nella quale si fondono e si compenetrano tutte le nostre azioni. Quando rispondiamo generosamente a questo spirito acquistiamo una seconda natura: senza rendercene con­to, stiamo tutto il giorno uniti al Signore e ci sentiamo spinti a mettere Dio in tutte le cose, che senza di lui ci appaiono insipide. Arriva un momento in cui ci è impos­sibile distinguere dove finisce l’orazione e dove comincia il lavoro, perché anche il nostro lavoro è orazione, con­templazione, vera vita mistica di unione con Dio, senza stranezze: divinizzarsi”26.Appena tornato a Madrid, don Josemarìa portò a ter­

mine la sistemazione di un appartamento di via Villa- nueva, che era stato preso in affitto nel mese di settem­bre e dove andarono ad abitare Àlvaro e Isidoro Zorzano. Dopo molte ricerche, trovarono un altro pic­colo appartamento, in cui andarono ad abitare alcuni che stavano per ottenere il dottorato o che esercitavano già una professione. Quest’ultimo centro era in via Nunez de Balboa, n. 11627. “Sistemare” un apparta­mento voleva dire risolvere anche il problema del servi­zio, cioè il compito di curare l’amministrazione dome­stica del centro; il Fondatore lo definiva “apostolato degli apostolati”, per la sua grande ripercussione sull’ef­ficacia delle attività apostoliche dell’Opera.

Nel 1942 e negli anni successivi le donne dell’Opera nel primo centro di via Jorge Manrique erano pochissi­me. Lo sviluppo diseguale dell’apostolato con gli uomi­ni e di quello con le donne era tanto evidente che nel corso del ritiro che don Josemarìa fece da solo nel no­vembre 1941 decise, animato da una segreta speranza, di dedicare buona parte della sua attività sacerdotale al lavoro dell’Opera con le donne, poiché “ho il presenti­mento - scrisse - che debba fare ben presto un bel balzo in avanti, quanto al numero e alla formazione”28. Per

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alcuni anni dovette inevitabilmente fare i conti con la differenza numerica tra le due componenti dell’Opera. Ma don Josemaria, armato di fede, invece di mettere un freno all’aumento dei centri per gli uomini - via Diego de Leon, via Jenner, via Villanueva, via Nunez de Bai- boa, il Cubil - fece in modo, per quanto possibile, che le sue figlie svolgessero, stando in via Jorge Manrique, il grande lavoro che competeva loro in tutti i centri del­l’Opera come apostolato specifico.

Il Fondatore sapeva perfettamente che cosa intendeva con “apostolato degli apostolati”: anzitutto un servizio reso a tutta l’Opera; gli svariati apostolati delle sue fi­glie si sarebbero sviluppati in seguito. Non erano neces­sarie speciali doti per rendersi conto che lo squilibrio tra il numero degli uomini e quello delle donne invitava a una cauta prudenza. La decisione di don Josemaria di non interrompere l’espansione dell’Opera, di non ral­lentarne lo sviluppo, fu un atto di piena fiducia in Dio.

Il Padre cercava di chiarire alle sue figlie che erano appena all’inizio. Chiedeva loro fede e audacia: “Mi ba­sta una mezza dozzina di donne come voi, che mi siano fedeli, e riempiremo il mondo della luce di Dio, di un fuoco divino. Abbiate fede in Dio e un po’ anche in que­sto povero peccatore”, le supplicava29. Era l’inizio del lavoro e proprio per questo le prime dovevano essere di­sposte a tutto. In seguito, con lo sviluppo degli aposto­lati, sarebbe stato sufficiente che solo una piccola per­centuale delle donne dell’Opera si occupasse professionalmente dei lavori domestici. “Le mie figlie - diceva loro il Padre - saranno docenti universitarie, ar­chitetti, giornaliste, medici”. Ma per il momento tutte si sarebbero dovute occupare anche dell’amministrazione dei centri dell’Opera di Madrid.

Nel corso degli anni accadèmici 1941-42 e 1942-43, don Josemaria, con l’aiuto della sorella Carmen, iniziò la battaglia della formazione delle nuove amministratri- ci dei centri e delle residenze dell’Opera a Madrid, in608

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tutto ciò che si riferiva ai lavori domestici. Purtroppo le necessità erano pressanti e il maggiore ostacolo era la mancanza di tempo. Perciò dovettero imparare cammin facendo.

Zia Carmen si mise al lavoro con Lola, Nisa, Encarni- ta e qualche altra. Carmen, vigile e pronta a dare consi­gli a tutte, ma senza mettersi in campi che non le com­petevano, insegnava e trascinava con l’esempio30. E il Padre, con l’autorità che gli spettava, incoraggiava ed esortava le sue figlie per formarle un po’ alla volta, con molta pazienza e senza rinunciare a correggerle. Don Josemaria aveva eccellenti capacità pedagogiche e sape­va unire la teoria alla pratica, cosicché ogni lezione era un insegnamento indimenticabile. Le lezioni vertevano sui compiti e sulle attività più diversi e comuni. Il Padre, sempre attento, insegnava loro a eseguire con la mag­gior perfezione possibile e per amor di Dio qualsiasi la­voro, per quanto insignificante potesse sembrare. Vole­va che le sue figlie imparassero a essere fedeli nel piccolo, nei lavori normali di ogni giorno, perché questo è il cammino per santificare tutta l’esistenza.

Per esempio, si prendeva il disturbo di insegnar loro - così come insegnava agli uomini - a chiudere una porta con cura, cioè a chiuderla senza fare rumore e con amo­re di Dio. Davanti alla persona interessata e alla porta aperta, ne impugnava la maniglia, la faceva girare dol­cemente e, senza violenza, accostava il battente della porta fino a chiuderla, senza dare colpi; poi rilasciava dolcemente la maniglia perché si incastrasse al suo po­sto, evitando di farla scattare. E lo stesso faceva per aprirla31.

Il Padre era solito accompagnare le lezioni pratiche con qualche parola gentile, con un sorriso, e certamente con una preghiera silenziosa. Si può essere sicuri che questi ingredienti pedagogici erano il risultato della buona educazione appresa nel focolare domestico di Barbastro. Don Josemaria ricordò sempre con gratitudi­

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ne le lezioni che aveva appreso dai genitori. Se chiedeva­no al bambino, per esempio, di portare un oggetto ed egli si mostrava distratto nel prenderlo, o lo faceva di malavoglia, o lo consegnava in fretta per tornare subito a giocare, il padre o la madre gli insegnavano le buone maniere: “Guarda come si danno i guanti al re - gli di­cevano con un sorriso, con deferenza, con calma e at­tenzione”32.

Così impararono molti piccoli particolari. Encarnita fa un ampio e tuttavia ancora incompleto elenco di le­zioni pratiche:

“Abbiamo imparato il tono che devono avere le nostre case: pulite, sistemate con buongusto e curate nei parti­colari, evitando la taccagneria ma anche il lusso e aven­do cura delle cose per farle durare. Ci insegnò chiara­mente che per l’oratorio non vi è cura che sia eccessiva. Abbiamo imparato che i quadri devono essere appesi nel modo giusto, che i mobili non devono urtare le pareti, che le porte vanno chiuse in modo corretto; a disporre i fiori, apparecchiare una tavola o decorare una vetrina, con gusto ed eleganza. Ci spiegava che quando entrava­mo in una stanza dovevamo essere in grado di renderci subito conto di ciò che era fuori posto o rotto. Tutto ciò doveva valere a maggior ragione per l’oratorio: la siste­mazione dei candelieri e della tovaglia, che doveva avere la stessa lunghezza ai due lati dell’altare, la persiana, che doveva restare chiusa quando era accesa la luce elettri­ca... Insisteva anche sul fatto che fossero accese solo le luci necessarie in ogni situazione. Ci insegnò a mettere sull’altare i fiori, collocandoli direttamente tra i cande­lieri e fuori dalla tovaglia e non in un recipiente d’acqua: così si sarebbero consumati soltanto per il Signore, sen­za che nulla ne prolungasse la vita”33.Era sorprendente la capacità di don Josemaria di for­

mulare i princìpi teorico-pratici sui quali si doveva fon­dare il lavoro. Erano tutte regole d’oro, in cui si.com-610

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pendiava qualche aspetto specifico dello spirito dell’O­pera applicato all’amministrazione dei centri. Erano re­gole condensate in espressioni facili da ricordare e tal­volta pittoresche, perché si imprimessero ancora di più nella memoria. Se scarseggiavano i prodotti alimentari e le sue figlie e i suoi figli si rassegnavano alle restrizioni, il Padre pretendeva un atteggiamento fiducioso, perché Dio avrebbe vegliato sui suoi figli: “Se noi non lo delu­diamo - diceva - Egli non ci deluderà”34. Ma non aveva la presunzione che le cose piovessero dal cielo come la manna nel deserto: “Bisogna impiegare tutti i mezzi umani, come se quelli soprannaturali non esistessero; e poi avere una fede incrollabile che tutto dipende solo da Dio”35.

Alle donne che dovevano dirigere le addette al servi­zio domestico consigliava, per farle funzionare a dovere, di “precederle nei servizi sgradevoli”36. Quanto al modo di vivere la povertà, faceva loro vedere dove e come ri­sparmiare: maneggiare con cura gli oggetti fragili, ripa­rare quanto prima quelli rotti, prolungare la vita degli strumenti di lavoro con un utilizzo appropriato. Insom- ma, comportarsi con dignità, senza grettezza ma con spirito di sacrificio, abituandosi all’idea di essere “ma­dri di famiglia numerosa e povera”, consapevoli che “la ricchezza dell’Opus Dei è saper vivere poveri”37.

Al Padre piaceva vederle serene e ottimiste, operose, ordinate ed efficaci. E diede loro un rimedio infallibile per evitare interruzioni o alti e bassi nel rendimento:

“Fa piacere vedervi muovere - diceva alle sue figlie con orgoglio -: la vostra vita interiore va bene, lavorate sem­pre, fate apostolato. Ma poi all’improvviso c’è una spe­cie di frenata e riducete l’andatura. Non va bene! La vo­stra vita deve avere un ritmo uniforme, come il tic-tac di un orologio. Per riuscirci, il segreto è caricarlo con la molla dell’amore di Dio”38.

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Le pregava anche di svolgere i lavori domestici con eleganza e discrezione, perché “una buona Amministra­zione non si vede e non si sente”39.

È ovvio che non era semplice mettere in pratica un si­mile stile di vita. Tuttavia lo impararono presto, sia per l’esempio del Padre, sia anche grazie ai contrattempi e agli errori commessi: dal punto di vista di alcune di loro si trattava di “disastri”, ma il Padre, prendendole dal la­to positivo, preferiva definirle “esperienze”40. Di piccoli “disastri” ne accaddero, come succede dovunque, ma per non ripeterli altre volte esse scrissero delle schede di esperienze.

Non mancarono neppure i disastri più grandi, ma quello di maggiori proporzioni consentì loro di fare l’e­sperienza più importante. Trascorreva tranquillo l’anno accademico 1942-43 nella Residenza di via Jenner, quan­do il figlio del padrone di casa decise di sposarsi. In sé naturalmente questo fatto non riguardava la vita degli studenti, senonché il proprietario dell’immobile, appro­fittando del felice evento, presentò richiesta giudiziaria di sfratto, affermando di aver bisogno degli appartamen­ti che la Residenza occupava in affitto poiché la nuova famiglia doveva andare ad abitarvi.

Il colloquio con l’avvocato del padrone di casa fece capire che se si fosse arrivati in tribunale la sentenza sa­rebbe stata sfavorevole. Pertanto don Josemarìa decise di agire rapidamente, prima che la situazione peggioras­se. Una mattina presto, accompagnato da Amadeo de Fuenmayor, andò a trovare il padrone di casa. La con­versazione, pur cortese, non dava il risultato sperato, poiché il padrone si appellava alla legge e non era dispo­sto a fare concessioni, nonostante gli fossero stati fatti presenti i gravi inconvenienti cui sarebbero andati in­contro cinquanta studenti in pieno anno accademico...

All’improvviso don Josemarìa mutò tattica e, cam­biando tono, disse:612

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- “Sono un sacerdote di Cristo! E non posso accettare che in pieno anno accademico debbano abbandonare la Residenza cinquanta studenti, la cui anima mi è stata af­fidata!”41.“Da quel momento - riferisce Fuenmayor - il tono del colloquio cambiò completamente e, quasi si stesse rias­sumendo un lungo negoziato ormai giunto a soddisfa­cente soluzione, il Padre aggiunse con grande autorità e semplicità: “Perciò domani si incontreranno il suo av­vocato e il mio e redigeranno un documento con le se­guenti clausole...”. E specificò una dopo l’altra le clau­sole, che il giorno successivo io comunicai ai due avvocati”42.A garanzia delle condizioni concordate fu consegnato

un assegno e la Residenza continuò a funzionare fino al­la conclusione estiva delle lezioni. Peraltro, don Jose- maria vide nel trasloco obbligato l’occasione di amplia­re la capacità della Residenza. Inoltre avrebbe provveduto a porvi la prima Amministrazione completa e indipendente, una specie di esperimento-pilota43.

Assieme a zia Carmen, il Padre accompagnò coloro che dovevano occuparsi di organizzare il lavoro domesti­co nella futura Residenza a far visita alla tomba dei Nonni, nel cimitero della Almudena. Davanti ai resti del­la signora Dolores pregarono per il successo della nuova impresa, prosecuzione di quella di via Jenner, al servizio della quale la Nonna si era generosamente dedicata44.

In via della Moncloa, a due passi dalla Città Universi­taria, furono trovate due villette, non contigue, ma sui due lati della strada, una di fronte all’altra. I lavori du­rarono tutta l’estate. La riparazione dei danni causati dalla guerra e l’adattamento degli edifici alla loro nuova destinazione si prolungarono per diversi mesi. Quando, in ottobre, accolse circa novanta studenti, la Residenza non aveva neppure cominciato il necessario rodaggio e subito iniziarono i contrattempi.

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Dell’amministrazione si occupavano Encarnita, Nisa e Amparo Rodriguez Casado, piuttosto cagionevole di salute; le aiutava e consigliava Carmen, anche se spora­dicamente e da lontano, poiché si occupava del centro di via Diego de Leon. Il viavai di muratori, imbianchini e idraulici non contribuiva certo all’ordine del servizio né a tenere pulita la casa. La separazione tra le due vil­lette situate ai due lati della strada creava nuovi proble­mi e difficoltà. Il magazzino dei viveri, per esempio, sta­va dall’altra parte della strada e distante dalla cucina. Anche le camere da letto erano divise tra le due villette.

Il Padre aveva detto mesi prima che la Residenza della Moncloa sarebbe stata “la vetrina dell’Opera”: sarebbe stata osservata da quanti non vedevano di buon occhio l’Opus Dei, nella speranza di trovarvi manchevolezze e difetti. Ma non per questo avrebbero dovuto perdere la calma, né prestare troppa attenzione ai curiosi e ai ma­lintenzionati, ma piuttosto si sarebbero sforzate di fare le cose nel miglior modo possibile, alla presenza di Dio45. In prossimità del Natale tuttavia l’amministrazione della Residenza, secondo l’onesta ammissione delle responsa­bili, era sì una vetrina, ma di disastri. I rattoppi dei mu­ratori e le aggiustature degli idraulici, fatti in fretta e con i materiali scadenti del dopoguerra, reclamavano conti­nuamente la presenza in casa degli operai. Gli impianti erano difettosi, le difficoltà di approvvigionamento sem­pre maggiori e il numero di residenti molto elevato.

Le difficoltà andarono man mano minando l’ottimi­smo, le energie e la pace interiore delle amministratrici. Alla fine del primo trimestre avevano ormai dimenticato il consiglio che la vita deve avere un ritmo uniforme, co­me il tic-tac di un orologio. Inoltre, nell’ansia di dedica­re più ore al lavoro, le rubavano al sonno46.

Da un po’ di tempo non vedevano il Padre. Terminato il trimestre, le giornate precedenti al Natale furono mol­to affannose e il lavoro si era accumulato. Gli studenti stavano per andare in vacanza e reclamavano la bian-614

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f* cheria pulita prima del giorno normale di consegna. Al­cune donne del servizio domestico se ne andarono a passare i giorni di festa con le proprie famiglie. A tutto ciò si aggiunsero i preparativi tipici del Natale.

Il 23 dicembre arrivò il Padre. Si recò a trovarle per far loro in anticipo gli auguri per le festività e consegna­re un regalo da parte di zia Carmen. Chiamò Nisa ed Encarnita, che andarono subito in sala da pranzo. Mo­strò loro il regalo, un vassoio di legno laccato, con un disegno di uccelli dal brillante piumaggio. Don Jose­marìa si sedette su una sedia e si mise a parlare un po’ con le sue figlie. Non avevano nulla di speciale da rac­contargli, se non il disagio che stavano provando. Con fiducia e spontaneità entrambe si sfogarono47.

Il Padre, paziente e sereno, le ascoltava attentamente. Ogni tanto le interrompeva, facendo loro coraggio e rassicurandole che la situazione non sarebbe durata a lungo.

- “Inoltre, a motivo del tanto lavoro - spiegò una di loro - non abbiamo tempo di fare orazione: la facciamo lavorando e, praticamente, senza renderci conto che stiamo parlando con Dio...”.

- “Il fatto è che Lei si immagina un sacco di cose - in­tervenne timidamente l’altra - e ci chiede cose impossi­bili”48.

Improvvisamente quel sacerdote, sempre tanto forte di fronte alle contrarietà, si nascose il viso tra le mani e scoppiò in pianto. Nisa ed Encarnita tacquero e lo guar­darono addolorate. Dopo un po’ il Padre si rasserenò, alzò il viso e, strappato un pezzo della carta che avvol­geva il regalo che aveva portato, prese la penna e co­minciò a scrivere:

“1) senza servizio2) con gli operai3) senza ingressi4) senza tovaglie

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k .

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5) senza dispensa6) senza personale7) senza esperienza8) senza divisione del lavoro”.A questo punto tracciò una riga per isolare le diffi­

coltà e cominciò a enumerare i rimedi:“1) con molto amor di Dio2) con la massima fiducia in Dio e nel Padre3) non pensare ai disastri fino al ritiro di domani 23 dicembre 1943 ”49.Poi, con molta serenità e il sorriso sul volto, consegnò

loro il pezzo di carta, disse che avrebbe predicato lui il ritiro e raccomandò loro di festeggiare la notte di Nata­le con una bella cena. Concluse facendo loro gli auguri.

Il 24 dicembre il Padre, come promesso, dettò loro il ritiro spirituale, traboccante di fede e di ottimismo, si­curo che non sarebbe mai stata dimenticata la lezione di quella esperienza, ormai superata, in cui la speranza ri­posta nell’apostolato delle amministrazioni era stata sul punto di andare perduta.

“Ho pianto, figlia mia - disse in seguito il Padre a En- carnita - , perché non facevate orazione. E per una figlia di Dio nell’Opus Dei il lavoro più importante, davanti al quale tutto diventa secondario, è proprio l’orazione”50.

3. Il miracolo più grandeL’avventura divina di servizio nell’Opera che è la cura della amministrazione dei Centri, aveva corso un peri­colo, con l’incidente della Moncloa del Natale del 1943. Il fragile strumento umano non era ancora abbastanza temprato, ma da quella esperienza sarebbero scaturiti il616

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vigore e la futura fecondità dell’apostolato degli aposto­lati. Come aveva promesso il Padre, nella Residenza fu presto posto rimedio alla deplorevole situazione mate­riale del servizio. Nel gennaio 1944 i lavori terminarono e i muratori scomparvero. Nello stesso periodo fu la­sciato l’appartamento di via Nunez de Balboa e ciò per­mise di concentrare l’attenzione sugli altri centri.

Il Padre seguiva attentamente i progressi dell’ammini­strazione domestica. A volte suggeriva alle sue figlie di non esagerare e di evitare entusiasmi pericolosi, perché, come dice il proverbio popolare, “il meglio è nemico del bene”51. Altre volte, invece, doveva scuoterle perché non dormissero sugli allori. Considerava di particolare importanza tutto ciò che si riferiva alla cucina, perché il suo eventuale cattivo funzionamento si sarebbe riper­cosso negativamente sull’apostolato e sull’economia di tutta la Residenza52.

Lo sforzo per ottenere un livello accettabile nel servizio delle Amministrazioni durò anni, anche perché mancava­no sia i mezzi adeguati, sia la necessaria esperienza. Il più delle volte le persone assunte per il servizio mancavano di preparazione e ignoravano perfino i rudimenti dei lavori domestici. Per trasformarle in una squadra efficiente ci vo­levano capacità e professionalità e, soprattutto, bisognava ottenere che nutrissero elevate motivazioni professionali. L’apostolato degli apostolati in poche parole risentiva di una carenza: c’era bisogno di donne completamente dedi­te, con professionalità, allo specifico impegno di ammini­strare i centri dell’Opus Dei.

Passarono circa quattro anni prima che alcune di quelle ragazze facessero del lavoro domestico lo stru­mento professionale della propria santificazione e del­l’apostolato nell’Opus Dei.

Questa epoca felice cominciò con i “disastri”. Poco dopo l’inizio dell’anno accademico, con circa un centi­naio di studenti residenti, un gruppo di collaboratrici domestiche provenienti dalle province basche si licen­

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ziarono e se ne andarono. Don Josemarìa andò subito a trovare la Madre Generale del Servizio Domestico53. La Superiora non c’era ed egli espose il caso a Madre Car­men Barrasa, ed essa promise di inviare quanto prima un aiuto54.

Per fortuna la religiosa aveva appena saputo che in quei giorni era libera Dora del Hoyo, a servizio in casa dei duchi di Nàjera. Era davvero una ragazza ecceziona­le e Madre Barrasa voleva proprio fare un favore a don Josemarìa. Parlò con Dora e insistette tanto che, pur non arrivando a convincerla, ottenne almeno che andas­se per un breve periodo alla Residenza della Moncloa.

Con un paio di valigie e vestita con eleganza, Dora si presentò alla Moncloa, sorprendendo un po’ Encarnita. Le disse che veniva da parte di Madre Barrasa e fece una sintesi del suo curriculum professionale. Aveva 29 anni, era nata a Riano, in provincia di Leon, e aveva lavorato in diverse case private e ora stava presso i duchi di Nàje­ra. Dora però non raccontò che era venuta solo per compiacere Madre Barrasa e neppure che pensava di tornare presto a casa dei Nàjera55. Durante l’estate, al­l’epoca del raccolto, mentre la famiglia presso la quale serviva andava in vacanza, chiedeva permesso per recar­si al paese a dare una mano alla sua famiglia nei lavori agricoli56.

Non appena Dora vide la zona dell’amministrazione si rese conto senza bisogno di spiegazioni dell’abbon­dante lavoro e della scarsità di manodopera. Alla nuova arrivata fece molta pena vedere quelle donne giovani al­le prese con collaboratrici inesperte e con una gran mole di lavoro. Lo stipendio era appena sufficiente, le camere del personale di servizio, come usava allora, comuni e in tutto si andava a centinaia: biancheria da lavare, pasti da preparare e da servire. Chi glielo faceva fare?

La dovette trattenere la silenziosa lezione di quelle amministratrici impegnate con gioia e signorilità nel la­voro, che certo non si erano messe al servizio di studen­618

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ti sconosciuti per uno strano capriccio. Dora fu tratte­nuta dalla propria compassione e dal suo gran cuore.

Quando si cambiò d’abito ebbe la prima prova del fuoco. Abituata alle uniformi da cameriera di case ric­che e aristocratiche, pulite, ben stirate e con i merletti, le sembrò strano doversi insaccare in un camice che non le stava affatto bene.

“Ho deciso, oggi mi fermo e aiuto il più possibile, ma domani me ne vado”, pensava Dora57. La domenica successiva andò a trovare Madre Barrasa per dirle che lasciava quel lavoro. La buona religiosa, che sospettava quali fossero le intenzioni di Dora, riuscì sempre a evi­tarla; così slittava da una settimana all’altra la possibi­lità di avvisarla.

Il puntiglio professionale le faceva procrastinare la decisione di andarsene definitivamente dalla Residenza. In effetti Dora era un regalo del Signore, come riferisce Encarnita, sbalordita dalle sue competenze e virtù do­mestiche: “Dora aveva un cuore d’oro e lavorava divi­namente: padroneggiava il ferro da stiro, sapeva smac­chiare e cucire, puliva con straordinaria perfezione, serviva a tavola senza il minimo errore, se ne intendeva di cucina. Inoltre il suo comportamento era rispettoso e spontaneo e sapeva insegnare alle altre ragazze con au­torità ma anche con grande delicatezza. Aveva un carat­tere forte, ma lottava per dominarsi. La prima settima­na che decidemmo di occuparci della biancheria, Dora propose di inamidare la pettorina di tutte le camicie bianche, seguendo l’ultima moda. Pur senza il tavolo da stiro organizzò il lavoro approfittando dei momenti li­beri al pomeriggio e alla sera, sui tavoli della sala da pranzo e della cucina. Lo insegnò alle altre ragazze, che non erano capaci, e l’idea ebbe un successo strepitoso fra i residenti. Si era tanto affezionata alla casa che deci­se di non andar via finché non fosse terminato l’anno accademico”58.

Non appena il servizio fu organizzato e l’amministra­619

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zione della Residenza prese a funzionare senza problemi il Padre, che faceva loro visita ogni settimana, incorag­giò le sue figlie a preparare spiritualmente ancora più a fondo le collaboratrici del servizio domestico, per vede­re se il Signore, nella sua bontà, voleva concedere ad al­cune di loro la possibilità di proseguire il lavoro profes­sionale come fedeli dell’Opera. “Da quel momento - racconta Encarnita - offrimmo per la vocazione di Dora molte ore della nostra preghiera e del nostro lavoro; da tempo nostro Padre stava pregando per lei”59.

Nel 1945, quando a Bilbao fu aperta la Residenza Abando, Dora del Hoyo e Concha Andrés vi si recarono volontariamente. Il 18 marzo 1946 entrambe chiesero per lettera al Padre di entrare nell’Opus Dei. Fu loro concesso il giorno successivo, fèsta di S. Giuseppe e, a quanto disse il Padre, “quelle due lettere erano state il miglior regalo di tutti i suoi onomastici”60.

Quando Dora e Concha Andrés passarono per Ma­drid prima di andare a Los Rosales61, Concha non potè fare a meno di raccontare con sincerità al Padre il pro­prio disagio. Ricevevano lezioni di latino, ma il latino era al di sopra delle sue possibilità, non riusciva proprio a impararlo. Il Padre, con un sorriso, la tranquillizzò: “Figlia mia, non preoccuparti, se non ti riesce, non im­pararlo”62.

Nell’estate del 1946 le prime numerarie ausiliarie63 si riunirono a Los Rosales: Dora, Concha, Antonia Penue- la, Rosalia Lopez e Julia Bustillo64.

Finalmente il Padre vedeva svilupparsi compiutamen­te l’altra componente dell’Opera, le donne. Quante fati­che e sofferenze! Era un autentico miracolo: “Il più grande miracolo che il Signore ha fatto nella sua Opera, e ne ha fatti non pochi”65.

Per tutta la vita egli guardò quest’ultima manifesta­zione della propria paternità spirituale con la sorpresa di chi assiste al sorgere di una fonte di acqua pura. Per620

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esempio quando leggeva le lettere di qualcuna di queste sue figlie, dalla scrittura incerta e con le righe storte:

“Mi hanno commosso - scriveva alle sue figlie nel 1946. (E si sarebbe sempre emozionato, in seguito, per le lettere di suoi figli contadini o operai) -. Non siate in­vidiose se dico che ho una particolare predilezione per loro. Anzi, voglio, chiedo a Dio, che voi sentiate la stes­sa affettuosa predilezione per queste vostre sorelle pic­cole; e che questo spirito diventi tradizione e realtà, per sempre, nella nostra Opera”66.

Il sogno del 14 febbraio 1930 era ormai una realtà so­lida e consistente67.

4. La Società Sacerdotale della Santa CroceNella primavera del 1940, proprio mentre si scatenava­no le già note incomprensioni, il Fondatore aveva la te­sta piena di progetti, tanto approfonditi nella sua medi­tazione da essere ormai maturi. In quel momento erano in funzione a Madrid la Residenza di via Jenner e l’ap­partamento di via Martìnez Campos; a Valencia il Cu­bil; a Valladolid il Rincón; e a Barcellona si stava siste­mando un appartamento. Questa espansione apostolica era un fatto compiuto a soli dodici mesi dalla conclusio­ne della guerra civile, con il misero organico di una doz­zina di uomini e senza altri mezzi, in assenza di denaro, che un santo zelo apostolico. Tutto ciò al prezzo di una vita faticosa e spossante, viaggiando senza sosta per le diocesi del centro e del nord della Spagna per predicare esercizi spirituali al clero, su richiesta dei Vescovi.

Nel pieno dell’attività, e nonostante i frutti ottenuti, il Fondatore provava una crescente inquietudine di fronte al panorama che gli si apriva dinanzi. Aveva aperto troppi fronti, aveva oltrepassato i propri limiti. Non era prudente continuare ad avanzare, poiché l’Opera si sa­rebbe potuta scomporre. Vide chiaramente il pericolo e

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in una nota del maggio 1940, dopo aver fatto riferimen­to alle numerose novità apostoliche, quasi per togliersi un peso, scrisse:

“La mia grande preoccupazione è la parte femminile dell’Opera. Poi il “centro di studi” per i nostri e i futuri Sacerdoti. In te, Domine, speravi!”6S.Di nuovo, in una lettera del luglio 1940 ai suoi figli di

Madrid, scrivendo nella riga successiva alla firma, senza dare altre spiegazioni e come se si fosse dimenticato di qualcosa, insisteva: “Due temi fondamentali: le donne e i Sacerdoti”69.

Impiegò sei anni - lo si è visto - per risolvere il pro­blema fondamentale dell’inserimento delle donne nella struttura viva dell’Opera. Altrimenti non sarebbe potu­to andare avanti, perché la presenza delle donne, come pure quella dei sacerdoti, era essenziale per la vita e lo sviluppo dell’Opéra. Sono stati narrati gli sforzi e le an­sie di don Josemaria negli anni trenta per formare un primo gruppo di donne, poi dissoltosi. Qualcosa di si­mile accadde con il gruppo di sacerdoti di cui si era cir­condato negli stessi anni. In entrambi i casi la ragione era la stessa: non avevano assimilato lo spirito dell’O­pus Dei. Ma il fatto meraviglioso - sia per quanto con­cerne le donne che per i sacerdoti - è che la fondazione ritornò alle origini, come un fiume che cerca di nuovo la sua autentica primitiva sorgente. Come se Dio, dopo aver messo alla prova il suo servo, presentasse al Fonda­tore una pagina in bella copia con la versione definitiva.

Don Josemaria quindi ritornò sui propri passi con la certezza di imboccare la strada giusta per ricominciare: i sacerdoti incardinati all’Opus Dei dovevano provenire dall’interno dell’Opera, dalle sue stesse file. Non che prima si fosse sbagliato, ma il Signore ha le sue vie, im­perscrutabili agli uomini. Così come arrivavano nuovi622

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membri dell’Opera nelle feste degli Apostoli o la vigilia, per mantenere vivo l’ottimismo del giovane fondatore,

“nei primi anni del lavoro ho accettato la collaborazione di alcuni sacerdoti, che mostravano il desiderio di legar­si in una certa misura all’Opus Dei. Ben presto il Signore mi fece vedere con molta chiarezza che - pur essendo buoni e anche ottimi - non erano chiamati a compiere la missione che prima ho indicato. Perciò in un vecchio do­cumento decisi che finché non avessi detto il contrario si sarebbero dovuti limitare all’amministrazione dei sacra­menti e alle funzioni ecclesiastiche”70.In una nota della fine del 1930 - quando lo seguivano

solo due o tre laici e don Norberto, vice-cappellano del “Patronato de Enfermos” - don Josemarìa, consideran­do il modo di vivere dei sacerdoti dell’Opera, faceva una precisazione fondamentale e tassativa per il futuro: “I sacerdoti devono provenire dai soci laici”71. Il Fonda­tore non tornò a insistere su questo punto ma nel 1935, di fronte alla difficoltà di capire e alla mancanza di unità di alcuni sacerdoti del gruppo che lo seguiva, deci­se di fare a meno del loro aiuto.

Esaminando la propria situazione, don Josemarìa si accorgeva che non gli bastavano né il tempo né le forze. Il lavoro pastorale gli divorava le settimane e i mesi. Si rese conto anche di un altro ostacolo, se tale poteva es­sere considerato. Aumentavano le richieste di dirigere esercizi spirituali per sacerdoti e seminaristi ed egli desi­derava porvi un freno. Ma il cuore lo tradiva; lavorare e soffrire per i suoi fratelli nel sacerdozio era una delle “passioni dominanti” della sua vita72, pur sapendo che la passione dominante per eccellenza erano i suoi figli e che anch’essi avevano bisogno di cure spirituali. Ma do­ve trovare il tempo per tutto?

In una lettera al suo Vescovo nell’aprile 1940, cioè nel623

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periodo in cui don Josemaria rifletteva sulle direttrici da seguire per lo sviluppo dell’Opera, scrisse:

“Mi chiedono esercizi per il clero di Valencia, Àvila, Leon e Pamplona. Se potessi direi di no. C’è bisogno di me in casal”73.Quest’ultima frase è una supplica in piena regola e in­

dica la speranza di' essere autorizzato a ridurre la sua at­tività nelle diverse diocesi per occuparsi di più degli apostolati dell’Opera. Di lì a poco scoppiò la torbida campagna diffamatoria, la “opposizione dei buoni”, e mons. Leopoldo ritenne più prudente che il Fondatore continuasse ad accettare gli inviti dei Vescovi.

Al momento, dunque, l’unico mezzo a sua disposizione per sobbarcarsi questo sovrappiù di lavoro era di appog­giarsi sui più grandi dell’Opera, affinché collaborasseto nelle attività di formazione apostolica e di direzione spi­rituale74. Fu proprio in quei mesi del 1940 che il Fonda­tore riunì un giorno i suoi figli più grandi e annunciò lo­ro che da quel momento in poi egli non avrebbe più tenuto agli studenti i circoli di formazione: se ne sarebbe­ro dovuti far carico loro75. Pure nel 1940 si tennero le due già ricordate “Settimane di studio” per i membri del- l’Opera, una in marzo e l’altra in agosto, approfittando delle vacanze dei residenti di via Jenner durante la Setti­mana Santa e durante l’estate. Il Padre predicava ogni giorno la meditazione, li istruiva sull’apostolato e spiega­va loro lo spirito dell’Opera. Ma anche Alvaro del Portil­lo, Isidoro Zorzano, Ricardo Fernàndez Vallespin, Juan Jiménez Vargas, Pedro Casciaro e Paco Botella tennero conversazioni su diversi aspetti dello spirito dell’Opera76. Ma per quanti accorgimenti adottasse don Josemaria, fa­cendo collaborare i più anziani nella formazione dei più giovani, restava da risolvere il problema di fondo: inseri­re sacerdoti nell’Opera.

Intanto, non sapendo più dove trovare il tempo, chié-624

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se a mons. Leopoldo di poter rinunciare all’incarico di Rettore di Santa Isabel. La risposta fu negativa. Insistet­te e ottenne un altro diniego. Per anni don Josemarìa dovette ingaggiare una caparbia contesa per “sconfigge­re l’affettuosa opposizione dell’Ecc.mo e Rev.mo Vesco­vo di Madrid-Alcalà”77.

Indubbiamente i suoi figli potevano prestare un note­vole aiuto nelle attività apostoliche e nella direzione del­le anime, poiché si trattava di un apostolato laicale, ma “è pure evidente che per svolgerlo con pienezza sono ne­cessari i sacerdoti. Senza sacerdoti, rimarrebbe incom­pleto il lavoro iniziato dai soci laici dell’Opus Dei, che per forza di cose si devono fermare quando arrivano a ciò che sono solito chiamare il muro sacramentale, al­l’amministrazione dei sacramenti, riservata ai presbite-j-j ” 78

La situazione è ben illustrata da una simpatica battu­ta del Padre: i suoi figli erano costretti a confessarsi con “Padre Trovato”, cioè col primo che trovavano79. Nel sacramento della Penitenza si perdonano i peccati e si impartisce anche la direzione spirituale; per questo mo­tivo, pur godendo essi di completa libertà nella scelta del confessore, il Padre raccomandava vivamente ai membri dell’Opera di rivolgersi a sacerdoti che ne cono­scessero bene lo spirito80.

Questa necessità dell’Opera non era momentanea, ma essenziale. Tutta l’Opera desiderava sacerdoti nati nel suo seno e li chiedeva gridando silenziosamente, come la terra in tempo di siccità anela l’acqua dal cielo. Poter contare su alcuni sacerdoti nell’Opus Dei era essenziale per la sua struttura interna e per il suo sviluppo: avreb­bero dato più coesione agli apostolati dell’Opera e ne avrebbero rafforzato l’unità interna. Senza di loro, i lai­ci non potevano svolgere con pienezza l’apostolato che Dio chiedeva. Riassumendo le cause e i motivi per cui l’Opera aveva bisogno di sacerdoti, il Fondatore scrisse:

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“I sacerdoti sono necessari anche per la cura spirituale dei membri dell’Opera: per amministrare i sacramenti, per collaborare con i Direttori laici nella direzione delle anime, per dare una profonda istruzione teologica agli altri membri dell’Opus Dei e - punto fondamentale nella stessa costituzione dell’Opera - per svolgere alcuni inca­richi di governo”81.La prima testimonianza scritta dell’ardente desiderio

di sacerdoti che il Fondatore portava dentro l’anima è forse l’annotazione del 1° luglio 194Q, scritta “sulle mu­ra di Àvila” perché, quando passava per la città, mons. Santos Moro lo ospitava nel palazzo episcopale, conti­guo alle mura, e a don Josemarìa piaceva intestare le let­tere “da Àvila, sulle sue mura”82.

Per la prima volta dunque il Fondatore espresse una preghiera, quasi un improvviso sospiro di speranza, che rimase nascosto tra le pagine degli Appunti:

“Àvila dei Santi, dalle sue mura, 1 luglio 1940. Mi trovo ancora una volta in questo palazzo episcopale. Oggi ini­zio un turno di esercizi per sacerdoti. Magari ne traessi­mo molto frutto, io per primo! (...) Dio mio: incendia il cuore di Àlvaro perché sia un sacerdote santo!”83.Troviamo un’analoga aspirazione in un altro antico

appunto del novembre 1930 in cui, sognando i fedeli dell’Opera dai quali dovevano provenire i sacerdoti, scrisse: “Saranno meravigliosi uomini di Dio, lo so be­ne!”84.

Dall’incertezza delle prime speranze all’attesa, tangi­bile e certa, dell’ordinazione sacerdotale dei suoi tre figli che si stavano preparando intercorrono nientemeno che dieci anni di orazione e di mortificazione. E ancora quattro anni dovevano passare prima dell’ordinazione, nel 194485. Anni e anni di preghiere e di un lavoro para­gonabile, sul piano spirituale, alle fatiche di Ercole. Era626

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dunque più che giusto che il sacerdote rivendicasse la paternità che era frutto della sua orazione:

“Ho pregato tanto per tanti anni, con fiducia e speran­za, per i vostri fratelli che sarebbero stati ordinati e per quelli che in seguito ne avrebbero seguito la strada, da poter affermare che tutti i sacerdoti dell’Opus Dei sono figli della mia orazione”86.Una tale tensione dell’anima deve essere attribuita

esclusivamente allo zelo interiore del Fondatore e non al fatto che i suoi figli dovessero superare qualche impedi­mento. La storia delle prime chiamate al sacerdozio si caratterizza per la sua semplicità. In effetti il Fondatore ripeteva spesso che il sacerdozio non è una sorta di “co­ronamento” della vocazione all’Opera. Piuttosto, si può dire che, per la loro completa disponibilità ai compiti apostolici e per la formazione ricevuta, tutti i numerari sono in grado di ricevere l’ordinazione sacerdotale, se il Signore lo chiede loro e se il Padre li invita a servire in questo modo la Chiesa e l’Opera. Il primo al quale don Josemarìa rivolse questo invito fu Àlvaro del Portillo, insistendo sulla sua libertà di decisione e, al tempo stes­so, coltivando nella sua anima il desiderio di servire:

“Se sei d’accordo - gli diceva - , se lo desideri e non hai obiezioni, farò in modo che tu sia ordinato sacerdote, con piena libertà; e ti chiamo al sacerdozio non perché tu sia migliore, ma per servire gli altri”87.Gli altri due che si sarebbero preparati insieme ad

Àlvaro del Portillo erano José Maria (Chiqui) Hernàn- dez de Gamica e José Luis Muzquiz. Chiqui era inge­gnere minerario e gli altri due ingegneri civili88.

Il Padre vegliava su di loro poiché, fra le decisioni che prese nel novembre del 1941, vi è la seguente:

“Pregare, soffrire e lavorare senza posa fino a che diven-

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gano realtà nell’Opera i Sacerdoti che Gesù vuole che vi siano. Parlare di questo punto con il Vescovo di Madrid, mio Padre”89.La questione da trattare col Vescovo era quella degli

studi ecclesiastici, che di solito si fanno nei seminari dio­cesani e nelle università pontificie. Data l’età dei candi­dati e il fatto che lavoravano, fu deciso che avrebbero seguito le lezioni impartite da docenti che si recavano in via Diego de Leon; dirigeva i loro studi don José Maria Bueno Monreal, che dal 1927 era professore di Diritto Canonico e di Teologia Morale nel Seminario di Ma­drid90.

Nella primavera del 1942 i candidati, secondo il Di­rettore degli studi, erano già in grado di dare esami. Per­tanto don Josemaria annunciò a mons. Leopoldo che erano pronti per gli esami delle materie del biennio filo­sofico e che “forse sarebbe opportuno che essi chiedes­sero direttamente a S.E. di essere ammessi agli esami e che S.E. nominasse una commissione esaminatrice indi- pendente dal Seminario; i verbali farebbero fede degli studi fatti e degli esami superati”91.

I tre studenti ottennero un brillante risultato: meritis- simus in tutte le materie; don Josemaria si affrettò a co­municarlo al Vescovo92. Quei suoi tre figli avrebbero ri­cevuto la miglior formazione possibile, poiché era desiderio del Fondatore che fossero di esempio per le migliaia di sacerdoti che sarebbero venuti dopo di loro. Ecco i motivi che ne dava:

“Fin da quando ho preparato i primi sacerdoti dell’Ope­ra ho esagerato - se si può dire così - la loro formazione filosofica e teologica, per molte ragioni: la seconda, per fare una cosa gradita a Dio; la terza, perché c’erano mol­ti occhi pieni di affetto rivolti a noi e non potevamo delu­dere queste persone; la quarta, perché c’era gente che non ci amava e cercava un’occasione per attaccare; poi, perché nella vita professionale ho sempre preteso dai

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miei figli la formazione migliore e la formazione religiosa non poteva essere da meno. E la prima ragione - dato che, pensavo, io posso morire da un momento all’altro - è che devo rendere conto a Dio di quello che ho fatto e desidero ardentemente salvarmi l’anima”93.Nei capitoli precedenti è stata messa più di una volta

in rilievo la finezza di sentimenti di don Josemaria. Eb­bene, la sua condotta rivelava un grado esimio di gene­rosità: non si limitava a dare quello che chiunque altro avrebbe considerato giusto e sufficiente. Non gli basta­va adempiere, aggiungeva sempre qualcosa in sovrap­più. E non si limitava a servire ma lo faceva in modo elegante e con il sorriso sulle labbra, senza pretendere gratitudine. Don Josemaria insegnava ai suoi figli a farelo stesso: nel loro lavoro non dovevano limitarsi a una esecuzione passabile e sufficiente; dovevano fare tutto, anche le cose più piccole, con perfezione umana, con ampiezza di buona volontà e di amore. L’aggiunta di un sorriso, per esempio, avrebbe trasformato la mortifica­zione, o qualsiasi azione insignificante, in “ascetismo sorridente”94, quale è l’ascetismo evangelico95. Per que­sto motivo, nel preparare i primi sacerdoti, cercò di dare loro non solo una buona formazione, ma la migliore formazione possibile.

Questo modo di andare per il mondo, riservando a sé con un sorriso le asprezze della vita per rendere grade­vole l’esistenza del prossimo, ci rivela l’eleganza sopran­naturale del Fondatore. Un sovrappiù di orazione e di mortificazione in tutte le sue azioni era il modo di instil­lare nei suoi figli, con soavità e con la forza dell’esem­pio, lo spirito che dovevano avere. Fu questa generosità nella donazione che egli codificò nei primi documenti dell’Opus Dei, denominandola “ascetismo sorridente”:

“I membri svolgono la loro vita di apostolato lieti e gioiosi, dediti all’orazione e alla mortificazione. E affin­629

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ché il loro ascetismo sia davvero un ascetismo sorriden­te, devono coltivare in modo particolare la santa allegria che proviene dalla generosità di una totale dedizione al servizio della Chiesa”96.Con l’approvazione del Vescovo aveva riunito un cor­

po docente costituito dai più prestigiosi sacerdoti e reli­giosi di Madrid: due professori dell’Angelicum di Roma, due del Seminario di Madrid, un docente dell’Università Centrale di Madrid e altri ancora97.

Don Josemarìa voleva - riferisce Bueno Monreal - che studiassero le materie “con lo stesso rigore e impe­gno profuso negli studi civili - ognuno di loro aveva due lauree - e così seguirono uno per uno i corsi di studio delle discipline ecclesiastiche”98. Tutto ciò rispecchia il suo amore per la Chiesa e la sua premura per l’Opera. Un amore efficace di servizio; un amore ampio, che ab­bracciava tutti i suoi figli, senza eccezione. Una prepara­zione così accurata in futuro avrebbero dovuto infatti riceverla tutti, senza distinzione fra laici e sacerdoti, da­to che nell’Opera non esistono diverse classi di membri e i sacerdoti non formano un corpo a parte99.

Tra gli appunti sciolti che si conservano del Fondato­re ci sono due pensieri che hanno molta attinenza con questo argomento. In uno si legge:

“La formazione sacerdotale... questa sì che deve essere Opus Dei!”E nell’altro:“Il sacerdozio lo si riceve nel momento dell’ordinazione, ma la formazione sacerdotale... ”100.La formazione è una faccenda di tutta una vita. Per­

ché la vita è progresso e chi si attarda ben presto resta indietro e finisce per giacere al bordo della strada101. La formazione che il Fondatore voleva dare ai suoi figli do­630

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veva corrispondere alla condizione secolare dei fedeli dell’Opus Dei; perciò doveva essere compatibile con l’attività professionale che svolgevano nella società civi­le102. I tre candidati ricevettero direttamente dal Padre, che ebbe cura di formarli nelle virtù sacerdotali, la pre­parazione pastorale per gli Ordini Sacri. Per quanto concerne gli studi, seguirono le materie di Sacra Teolo­gia non in seminario, ma nel Centro di Studi Ecclesiasti­ci della Società Sacerdotale della Santa Croce, costituito formalmente nel dicembre 1943, con sede in via Diego de Leon103.

Visto oggigiorno, il processo di sviluppo istituzionale dell’Opera, il suo itinerario giuridico, assomiglia a un lungo tracciato, con molte curve e tornanti104. Cammi­no che il Fondatore dovette percorrere in base a quanto Dio gli faceva capire: alcuni tratti alla luce dell’ispira­zione divina, mentre in altri si perdeva nell’oscurità di una svolta. Ma andava avanti, sempre avanti con fede. Questo, per quanto vale il paragone, è ciò che succedeva nell’epoca di cui ci si sta occupando105.

Verso la metà del 1930, quando il Fondatore rifletteva sulla futura struttura giuridica dell’Opera e pensava, molto in anticipo, alla soluzione che avrebbe consentito di avere sacerdoti, lasciò la questione nelle mani della Provvidenza: “Dio farà luce al momento opportuno”106. Al momento opportuno, quando Dio avesse voluto, il carisma fondazionale, che fin dal primo momento com­prendeva anche i sacerdoti, sarebbe diventato operante. Il problema non gli si ripresentò fino al 1940 quando, con molta serenità e con molta fede, portò avanti la sua idea di ordinare tre membri dell’Opus Dei. Aveva biso­gno di molta fede perché si era messo in un vicolo cieco. Pretendeva, nientemeno, che i futuri sacerdoti si dedicas­sero esclusivamente al servizio dell’Opera, cioè alle sue specifiche attività apostoliche. Ma la speranza di poterne

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disporre interamente in un prossimo futuro, una volta ordinati, si scontrava con la normativa ecclesiastica. Il Codice di Diritto Canonico stabiliva infatti che per la li­ceità di ogni ordinazione e del successivo esercizio del ministero sacerdotale era imprescindibile un titolo di or­dinazione. La questione del titolo concerneva anche le modalità per provvedere al mantenimento e al decoro che compete alla dignità di ogni chierico 107.

I possibili titoli di ordinazione erano svariati. Ma in sintesi le possibilità concrete erano due: l’ascrizione a una istituzione religiosa (Ordine, Congregazione, ecc.) o il radicamento in una diocesi (incardinazione), con un rapporto di dipendenza, in grado maggiore o minore, dall’Ordinario del luogo. Dato il carattere secolare volu­to da Dio per l’Opus Dei, egli rifiutò la prima, compieta- mente inadeguata alla natura dell’Opera108. Quanto poi ai titoli del clero secolare, che conducevano all’incardi- nazione in una diocesi, nessuno di essi era una buona so­luzione. Le attività apostoliche dell’Opus Dei oltrepassa­vano già i limiti di una diocesi; i suoi sacerdoti avrebbero avuto bisogno di libertà d’azione e di movimento. D’al­tra parte, se dipendevano dall’Ordinario del luogo - il Vescovo di ciascuna diocesi - non potevano essere piena­mente disponibili per le necessità dell’Opera109.

Se don Josemarìa avesse voluto perdersi d’animo gli sa­rebbe bastato ripercorrere mentalmente le proprie espe­rienze personali: l’enorme difficoltà che dovette affronta­re per lavorare a Madrid mentre era ancora incardinato a Saragozza; i continui rinnovi di facoltà e permessi, l’insta­bile e rischiosa condizione di extradiocesano nella capita­le spagnola; cose che lo avevano fatto sentire, in quel pe­riodo della sua vita, “una gallina in un pollaio altrui”110.

Da uomo prudente, che non si fida solo del proprio parere, don Josemarìa chiese l’opinione di esperti cano­nisti. In qualche momento di ottimismo credeva di aver già trovato la risposta ma, esaminandola poi da vicino, la doveva scartare111. Su questo problema ebbe frequen­632

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ti colloqui col Vescovo di Madrid; furono lunghe e in­tense conversazioni, ma alla fine si ritrovavano a mani vuote112.

Dovette desistere dal continuare a cercare soluzioni sul titolo, perché il Codex offriva solo quelle già viste e scartate. Ma per il Fondatore desistere non significava abbandonare né considerare irraggiungibile una solu­zione, bensì dedicarsi con lena a lavorare e a pregare. Intanto, come se il problema fosse già risolto, fece pro­seguire gli studi ecclesiastici ai suoi tre futuri sacerdoti, con il loro splendido organico di professori:

“ Passava il tempo. Pregavamo. Coloro che sarebbero stati i primi sacerdoti dell’Opera studiavano con grande profondità mettendoci tutto l’impegno. E un gior­no...” 113.

La mattina del 14 febbraio 1943 don Josemaria uscì di buon mattino per celebrare la Messa alle sue figlie nell’oratorio della casa di via Jorge Manrique. Esse la seguirono con devozione e raccoglimento, unendosi al Padre, raccolto in Dio durante il Santo Sacrificio.

Subito dopo aver celebrato la Messa, egli estrasse di tasca l’agenda e scrisse sul foglio di domenica 14 feb­braio, festa di S. Valentino:

“ In casa delle ragazze, nella Santa Messa: Societas Sa- cerdotalis Sanctae Crucis” ; e fece poi un piccolo dise­gno, un cerchio che racchiudeva una croce114.

Dopo il ringraziamento, il Padre scese al piano di sot­to, chiese un foglio e si chiuse in un salottino, mentre le sue figlie lo aspettavano in anticamera.

“Pochi minuti dopo - riferisce Encarnita - riapparve in anticamera visibilmente emozionato. ‘Guardate, ci disse indicandoci un foglio sul quale aveva disegnato una circonferenza con al centro una croce di proporzio­

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ni speciali, questo sarà il sigillo dell’Opera. Il sigillo, non lo stemma - precisò -. L’Opus Dei non ha stemmi. Significa la Croce nel mondo e messa all’interno al mon­do’”115.

Il giorno successivo il Padre andò a El Escoriai, nei pressi di Madrid, dove Àlvaro del Portillo, José Maria Hernàndez Gamica e José Luis Muzquiz stavano prepa­rando alcuni esami di Teologia. Non senza grande ver­gogna da parte sua, si vide costretto a comunicare ad Àlvaro la grazia ricevuta dal Signore il giorno preceden­te durante la Messa: la soluzione canonica per i sacerdo­ti dell’Opera, il nome della società da costituire e persi­no il sigillo116. Bisognava preparare rapidamente i documenti necessari e Àlvaro sarebbe dovuto andare a Roma allo scopo di ottenere l’approvazione della So­cietà Sacerdotale della Santa Croce che il Signore aveva mostrato al Fondatore nelle sue linee generali il 14 feb­braio, che era già un giorno di ringraziamento, in quan­to anniversario di un altro evento memorabile, avvenuto il 14 febbraio 1930, giorno in cui il Signore gli aveva fat­to capire che doveva estendere alle donne l’apostolato dell’Opus Dei.

5. Morte di Isidoro. Il nihil obstat della Santa SedeIl 14 febbraio 1943, mentre celebrava la Messa, il Fon­datore aveva ricevuto un raggio di luce. Fino a quel mo­mento si era dibattuto nell’incertezza, ma ora il Signorelo spingeva a creare una società sacerdotale nella quale inserire i laici che si preparavano a ricevere l’ordinazio­ne; in questo modo essi, senza cessare di far parte del­l’Opus Dei, potevano esservi incardinati ad titulum So- cietatis. Insieme a questa soluzione gli “venne” - per usare la sua espressione117 - l’immagine visiva della cro­ce all’interno del mondo; una croce che toccava con le sue braccia i confini della terra, annunciando e presie­634

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dendo il disegno redentore dell’umanità118; simbolo inoltre del sacerdozio comune di tutti i fedeli; da quelli dell’Opus Dei sarebbero venuti i sacerdoti, ministri sacri di Cristo. Proprio a questo simbolismo si ispira il sigillo dell’Opera: un cerchio in cui è inserita una croce; e gli venne pure il nome completo della nuova realtà: Società Sacerdotale della Santa Croce.

Don Josemarìa interpretò così il nome: “Gesù voleva coronare l’edificio con la sua Santissima Croce”119. Non per esaltare le sofferenze ma per proclamare la vittoria sul dolore e sulla morte. Poco prima, nell’ottobre 1942, aveva scritto con assoluta convinzione che “le contra­rietà, sopportate per amore di Dio, portano sempre fe­condità”120. Nel gesto gratuito del Signore nell’oratorio di via Jorge Manrique, che gli offriva la soluzione per i sacerdoti, don Josemarìa vide il compimento di ciò che aveva presagito come frutto delle difficoltà che erano iniziate a Barcellona nel 1941.

Gli attacchi contro l’Opera proseguirono. Sembrava che le avversità e le umiliazioni non dovessero avere fine e che dalla croce del Signore si staccassero continua- mente schegge di dolore che don Josemarìa accoglieva con gioia. Le incomprensioni non lo spaventavano, per­ché le vedeva nella loro dimensione soprannaturale, co­me una necessità dell’anima e della nostra esistenza ter­rena. “Ci devono essere - diceva - perché per me un giorno senza croce è come un giorno senza Dio”121.

Le sofferenze morali - difficoltà e calunnie - servirono a forgiare il carattere, a esercitare la pazienza e a purifi­care le intenzioni dei membri dell’Opus Dei. Consentiro­no anche di ampliare il lavoro apostolico. A esse biso­gnava sommare le sofferenze fisiche perché, come negli anni trenta in cui don Josemarìa mendicava il dolore ne­gli ospedali di Madrid per pagare con quella moneta il consolidamento e lo sviluppo dell’Opus Dei, anche ora non gli mancavano i malati122. Li considerava “il tesoro dell’Opera” e il loro dolore una “carezza” divina. Ora

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che il Signore aveva coronato l’Opera con la Croce, il t Fondatore diceva, con logica soprannaturale: “Poiché

siamo della Santa Croce, non ci mancano mai le cro­ci”123. Le malattie, la povertà, le ingiustizie, il dolore so­no l’ombra redentrice che la Santa Croce proietta sull’u­manità dolente, per purificarla e redimerla. Chi non medita questa verità non potrà neppure oltrepassare la soglia del mistero di Cristo Crocifisso, che è il mistero della Croce. Neppure Josemaria da bambino lo aveva ca­pito finché, rivestito dei sentimenti di Cristo, penetrò nella comprensione della nostra filiazione divina.

Sarebbe dunque potuta mancare all’Opera, in quel momento storico, l’orazione dei malati che è il dolore? Dapprima toccò a Chiqui, poi a Isidoro.

Chiqui si ammalò nel luglio 1940. Le privazioni della guerra, la prigionia a Madrid e il duro regime peniten­ziario a Valencia influirono probabilmente sulla sua ma­lattia. Il mese successivo fu di grande preoccupazione. Il Padre seguiva il corso della sua malattia anche quando doveva andare fuori Madrid. “Abbiate cura di Chiqui”, raccomandava per lettera all’inizio di agosto124. E due giorni dopo: “Spero che la malattia di Chiqui sia cosa da poco. Sta meglio?”125. Ma invece era una cosa seria: po­chi giorni dopo finì tra la vita e la morte. “Non so se sai già - comunicava Isidoro a un altro membro dell’Opera due settimane dopo - che Chiqui ha superato molto bene l’operazione: gli hanno tolto un rene; era più grave di quanto in principio avevano ritenuto i medici, ma sta già molto bene, anche se è ancora ricoverato”126.

Ma non stava bene neppure Alvaro, dato che il 23 agosto il Padre gli scrisse:

“ Come sta Chiqui? Alvaro, ti sei fatto vedere da un me­dico? Per favore!” 127.

E quattro giorni dopo:636

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Tutto questo accadeva nel periodo in cui don Jose­maria preparava l’approvazione diocesana dell’Opera come Pia Unione. Pertanto, ogni progresso nel cammino giuridico era un autentico calvario, per i sacrifici che gli costava. E non sono parole di troppo, visto che si rivol­geva con un’espressione analoga al Vescovo di Pamplo­na nell’autunno 1940129.

Chiqui si rimise presto ma nel 1941 cominciò a sentir­si male Isidoro130. La sua vita era silenziosa, laboriosa e feconda. Nel 1940 Isidoro occupava una piccola stanza attigua all’oratorio della Residenza di via Jenner. Non si può proprio dire che fosse la sua camera, perché il loca­le serviva anche per vari altri usi. Il suo lavoro negli uffi­ci delle ferrovie gli occupava tutta la giornata; poi, come amministratore generale dell’Opera, teneva la contabi­lità della Residenza e di altri centri. Cambiò casa, pas­sando da via Jenner a via Diego de Leon e poi al centro di via Villanueva, ma non interruppe il lavoro. Per due anni fu preda di una stanchezza intensa, di una debolez­za estrema e di forti dolori, che i medici pensavano fos­sero di natura reumatica: non riuscivano a interpretare i sintomi, mentre il male progrediva implacabile.

Nella seconda metà del 1942 il progresso della malat­tia era allarmante e la preoccupazione del Padre cresce­va. Spesso la domanda “come sta Isidoro?” riassumeva nelle sue lettere la sua paterna apprensione131.

Poco prima del Natale 1942 Isidoro, già molto mala­to, prese parte a un corso di ritiro spirituale diretto dal Padre in via Diego de Leon. Forse pensando a lui, un giorno, mentre predicava in oratorio la meditazione sul­la morte, il Fondatore disse:

“ A te, figlio mio, non capiterà ciò che purtroppo accade anche a persone cristiane, che cercano di nascondere ai malati la loro gravità fino al momento in cui essi, ormai

“Come va Chiqui? Il medico ha visto Àlvaro?”128.

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quasi privi di conoscenza, non possono ricevere i Sacra­menti con piena lucidità. Da te, figlio mio, verrà un tuo fratello e con grande delicatezza, ma anche con grande chiarezza, ti dirà: Senti, i medici dicono che umanamen­te non c’è possibilità di guarigione. M a noi preghiamo molto, nel caso in cui il Signore voglia fare un miracolo.E ricorreremo anche a tutti i mezzi di cui la scienza me­dica dispone. E allora, figlio mio, la tua reazione sarà: Laetatus sum in bis quae dieta sunt mibi. Andremo nella Casa del Signore!” 132.

Iniziò il 1943. Ogni minimo movimento procurava al­l’ammalato una angosciosa sensazione di soffocamento.I dolori gli impedivano di dormire. Al mattino, sfinito, cadeva in una specie di sopore. Non aveva riposato ma, facendo uno sforzo eroico, si alzava puntualmente all’o­ra abituale. Ma con l’aggravarsi del male fu costretto a restare a letto. Solo allora, con l’acutizzarsi dei sintomi, fu possibile fare la diagnosi133.

Fu portato in una clinica. Ma il male era inguaribile e i medici dimisero il paziente. Passò la primavera nella casa di cura S. Fernando, consapevole della gravità del proprio stato. Il Padre gli faceva visite molto frequenti e aveva stabilito che gli altri facessero dei turni per fargli sempre compagnia. Chi stava con lui badava a cambiar­gli le lenzuola, a cambiarlo di posizione, ad aiutarlo a cibarsi, poiché per il malato era un tormento deglutire qualunque cibo, anche liquido, sia per il dolore sia per l’inappetenza. E lo aiutavano soprattutto a compiere le norme di pietà. L’incarico che aveva dato loro il Padre era di trattarlo “come si tratta una reliquia”134.

Il suo confessore era padre Lopez Ortiz; la Comunio­ne, che riceveva ogni giorno, gliela dava di solito don Josemarìa. Luis Palos, condiscepolo del Fondatore all’u­niversità di Saragozza e fratello del Direttore della casa di cura S. Fernando, vide varie volte il sacerdote passare per il corridoio con il Santissimo. Lo impressionò il rac-638

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coglimento con cui portava il Signore. “Sembrava che lo vedesse fisicamente. E non scambiava parola con nessu­no finché non si era tolto i paramenti”135.

>1- >!*

Il 14 febbraio 1943 la prima reazione del Fondatore era stata di comunicare la notizia ad Alvaro del Portillo. Àlvaro non era solo il Segretario Generale dell’Opus Dei ma era anche, per il Padre, l’imprescindibile colla­boratore e il braccio destro nell’impresa apostolica136. Nel 1938, nel periodo di Burgos, aveva constatato quanto Àlvaro fosse unito al Signore137. Aveva avuto la certezza che fosse lui la roccia su cui appoggiarsi e per questo lo aveva chiamato saxum13S. Dio glielo aveva messo davanti agli occhi. A lui comunicava molti degli eventi soprannaturali che gli accadevano, come la locu­zione dell’aprile 1941 a Valencia, o la terribile prova di La Granja, nel settembre di quell’anno. Se si doveva as- sentare da Madrid, lasciava nelle sue mani la direzione dell’Opera. Gli affidava problemi delicati e questioni di coscienza. Potè dunque scrivere a mons. Leopoldo, da Pamplona:

“ Sapendo che Àlvaro del Portillo tiene S.E. Rev.ma al corrente di tutte le nostre cose, ho cercato di contenere il mio desiderio di scriverLe” 139.

Il 15 febbraio don Josemaria tornò da El Escoriai a Madrid con Àlvaro, dopo avergli esposto la soluzione del problema del titolo di ordinazione dei sacerdoti del­l’Opera; senza cambiare la propria condizione secolare, gli ordinandi provenienti dall’Opus Dei avrebbero potu­to esercitare il proprio ministero al servizio della Società Sacerdotale della Santa Croce, inseparabilmente unita all’Opus Dei.

Gli era venuta per ispirazione divina la soluzione, ma il lavoro era appena cominciato. Bisognava ora inserire

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questa trovata divina nella vita giuridica ecclesiastica. Il problema stava nel rivestire un’idea ancora nuda. Anzi­tutto era obbligato ad attenersi alle possibilità che offri­va il Codice di Diritto Canonico: scegliere, cioè, una fi­gura giuridica all’interno del rigido e limitato repertorio del Codex, affinché l’Opus Dei venisse inquadrato nella normativa vigente. Pertanto tornò a ripassare i canoni e a incontrarsi con i suoi abituali consiglieri: il Nunzio, il Vescovo di Madrid, mons. Calieri della Nunziatura, don José Maria Bueno, professore del Seminario, il suo confessore Garcìa Lahiguera e mons. Lauzurica. Mentre era ospite di quest’ultimo redasse una nota, che iniziava con queste parole:

“Vitoria, 28 febbraio 1943. È un peccato che non abbia preso nota degli avvenimenti di quest’ultimo periodo re­lativi alla ricerca della formula che inquadri definitiva­mente l’Opera nel Codice Canonico” 140.

Il Vescovo di Madrid aveva almeno una nozione chia­ra: l’Opera era un’impresa eminentemente secolare e il suo Fondatore sentiva “una grande ripugnanza” a equi­pararla a un istituto religioso, poiché questo equivaleva a distorcerne la natura141.

L’origine della cautela e della precauzione con cui si muoveva il Fondatore stava nel timore che, in questa difficile operazione giuridica, gli sfuggisse qualcosa che poteva dar luogo a una deformazione, anche piccola, della natura dell’Opera. Di conseguenza, selezionando le diverse figure giuridiche adottabili per la Società Sa­cerdotale della Santa Croce, giunse alla conclusione che fosse inevitabile inquadrarla come una società di vita comune senza voti, la cui natura era così specificata dal Codex: “non è religione propriamente detta né i suoi so­ci si designano in senso proprio con il nome di religio­si”142. Queste società consentivano un’ampia varietà di640

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regime e, per concessione della Santa Sede, la stabile ascrizione di sacerdoti.

In definitiva, la soluzione sarebbe consistita - scrisse il Fondatore - “nel trasformare un piccolo nucleo della nostra Opera, formato dai sacerdoti e da alcuni laici in preparazione prossima al sacerdozio, in una società di vita comune senza voti, la Società Sacerdotale della San­ta Croce”143. Se lo avesse ottenuto avrebbe risolto un duplice problema: salvaguardare la natura secolare del- l’Opera e ascrivere i nuovi sacerdoti ad titulum Societa- tis, garantendone così la piena dedicazione ministeriale all’Opus Dei.

In questo modo si risolveva in modo soddisfacente Pincardinazione; il prezzo da pagare era quello di dover accettare, in mancanza di meglio, una figura giuridica che non rispecchiava in modo chiaro il volto autentico della secolarità dell’Opus Dei144. Il Fondatore era consa­pevole delle lacune di questa formula e del fatto che la soluzione veniva forzata dalle circostanze e dalla legisla­zione vigente. Così stando le cose, infatti, che fine faceva la Pia Unione composta da laici, uomini e donne, che co­stituivano la maggior parte dell’Opus Dei? Per riconfer­mare che i sacerdoti della Società Sacerdotale della Santa Croce non formavano un corpo separato, bensì avevano unità di vocazione e di vita con il resto dei membri del­l’Opus Dei, stabilì che essi dovevano provenire necessa­riamente dalle file dei laici e che, una volta ordinati, avrebbero continuato a prestare un servizio esclusivo ai propri fratelli. Mentre la gran parte dei laici, uomini e donne, avrebbero continuato a essere cristiani comuni nell’Opus Dei, “un’opera propria, unita e inseparabile dalla Società Sacerdotale della Santa Croce”145.

A Roma abitavano già da sei mesi due membri dell’O­pera, José Orlandis e Salvador Canals, recatisi in Italia per ragioni di studio. Avevano stretto amicizia con pa­

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recchi docenti e pure, come aveva raccomandato il Pa­dre, con eminenti personalità ecclesiastiche, cui avevano fatto conoscere l’Opus Dei146. All’inizio del maggio 1943 il Fondatore aveva elaborato e dato le basi giuridi­che al problema rappresentato dai sacerdoti e dalla loro incardinazione. Due settimane prima di inviare in Italia Alvaro del Portillo, il Padre scriveva loro:

“Gesù benedica i miei figli di Roma e me li protegga. Carissimi, sta per venire vostro fratello Àlvaro, che vi racconterà con calma ogni cosa. Non immaginate quan­to vi invidio: ho nel cuore un grande desiderio di fare la mia romena, per vedere Pietro. Ogni volta che mi soffer­mo a pensare sento crescere, per grazia di Dio e in una misura che non credevo possibile, l’amore per il Papa. Siatemi molto romani. Non dimenticate che, nella fisio­nomia della nostra famiglia, la caratteristica principale, Varia di famiglia, si ritrova nell’affètto e nell’adesione - servizio! - alla Santa Chiesa, al Santo Padre e ai Vescovi, la Gerarchia Ordinaria in comunione con la Santa Sede. Per questo, vita interiore: orazione, sacrificio, gioia, la­voro. E soprattutto un amore filiale per nostra Madre Santa Maria”147.D’accordo con il Vescovo di Madrid, dopo aver pre­

parato i documenti necessari, fu fissata la data della partenza. Il Padre e Pedro Casciaro accompagnarono Àlvaro a Barcellona, da cui il 25 maggio questi proseguì il viaggio per Roma. L’aeroplano della Ala Littoria ca­pitò in mezzo a un combattimento tra aerei inglesi e na­vi da guerra italiane nelle acque del Tirreno. Per fortuna ne uscì indenne e riuscì ad atterrare a Roma.

Àlvaro era latore di una lettera di presentazione del Vescovo di Madrid e il 4 giugno fu ricevuto in udienza particolare da Sua Santità Pio XII, che fu affettuosissi­mo nei confronti dell’Opera148.

Durante il mese di giugno, accompagnato da José Or- landis, Àlvaro fece visita al cardinale La Puma, Prefetto642

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della Sacra Congregazione dei Religiosi, da cui dipende­vano, sebbene non fossero istituti religiosi, le società di vita comune senza voti. Incontrò anche il cardinale Ma­glione, Segretario di Stato di Pio XII, e mons. Ottaviani, assessore del Sant’Uffizio, e altre personalità di maggio­re o minor rilievo149.

In quegli incontri potè verificare che il progetto trova­va buona accoglienza tra eminenti canonisti e il favore della Sacra Congregazione dei Religiosi, l’autorità com­petente per lo studio della soluzione proposta. Questo stesso fatto stava però a dimostrare che non poteva che essere una sistemazione del tutto provvisoria. Frattanto la situazione internazionale e le comunicazioni in Euro­pa si facevano sempre più difficili. Si prevedeva che gli Alleati, dopo aver vinto nel nord dell’Africa, sarebbero sbarcati in Italia, interrompendo o rendendo difficili le comunicazioni con la Santa Sede. In vista di ciò e col de­siderio di ottenere una rapida risposta da Roma, il Fon­datore mise in moto la pratica ufficiale, senza aspettare il ritorno di Alvaro. Perciò il 13 giugno chiese l’erezione diocesana della Società Sacerdotale della Santa Croce, allegando alla richiesta una descrizione generale della Società150.

Don Josemaria aveva calcolato perfettamente ogni cosa per non perdere neppure un’ora nelle pratiche. Alvaro del Portillo rientrò da Roma il 21 giugno e riferì al Padre le ultime novità. Il 22 giugno 1943 il Vescovo di Madrid fece richiesta al cardinale La Puma, Prefetto della Sacra Congregazione dei Religiosi, del nihil obstat per l’erezione della Società.

Isidoro era ormai prossimo alla fine, a pochi passi dalla morte. Paziente e pieno di speranza, offriva i suoi dolori in un’agonia lunga e serena. Il Padre gli ammini­strò l’Unzione degli Infermi. Il corpo sofferente di Isido­ro era ormai un cumulo di dolori.

Nel mese di luglio si attendeva con impazienza la ri­sposta da Roma:

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“Tutto il lavoro dei futuri sacerdoti dipende da questa soluzione - ricordava il Fondatore ai suoi figli Prego e faccio pregare e offrire, per questa vicenda, quanto pos­so. C ’è molto lavoro, sempre di più. Il lavoro dei nostri primi sacerdoti sarà magnifico. Servono presto!” 151.

Isidoro non fece in tempo a sapere della concessione del nihil obstat. Morì il 15 luglio, a metà pomeriggio. Nonostante la cura e l’affetto con cui gli avevano fatto compagnia giorno e notte i membri dell’Opera, morì in solitudine, nell’unico momento in cui nella stanza non c’era nessuno. Il Padre lo seppe nel centro di via Jorge Manrique, dove stava dando una meditazione alle sue figlie. Il giorno successivo, fu data sepoltura a Isidoro nella tomba in cui giacevano i resti dei Nonni: tutti e tre uniti da una causa comune. Sulla pietra tombale furono incise le parole della liturgia, Vita mutatur, non tollitur, per ricordare che la morte non significa perdere la vita, ma cambiarla152.

Il Padre aveva già inviato un telegramma a tutti i cen­tri dell’Opera: “Isidoro è morto santamente ieri pome­riggio. Offrite suffragi. Mariano”153.

Quello stesso giorno, il 16 luglio, padre Arcadio Lar- raona, Consultore della Congregazione dei Religiosi e buon canonista, inviò al Prefetto un parere positivo, pieno di espressioni elogiative, sull’erezione dell’Opus Dei come Società di diritto diocesano154. La procedura seguì i canali prescritti e l’i l ottobre 1943 la Sacra Congregazione dei Religiosi concesse il nihil obstat per la erezione diocesana della Società Sacerdotale della Santa Croce155.

La notizia fu comunicata per telegramma il 18 otto­bre al Vescovo di Madrid, che si trovava a Vigo. Egli in­viò a sua volta un telegramma di congratulazioni a don Josemaria, che il 20 ottobre gli rispose:

“ Ho ricevuto il suo telegramma; ci benedica di nuovo e

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benedica in special modo questo suo figlio peccatore, che prega sempre per S.E. e bacia il suo anello pastorale” 156.

Con gioia il Fondatore suonò le campane a distesa, facendo conoscere la notizia con la parola e con gli scritti. Il nihil obstat, per quanto inadeguato, significava il riconoscimento del lavoro apostolico e il consolida­mento giuridico della struttura di governo dell’Opera e metteva le basi per un futuro regime interdiocesano e di diritto pontificio. Lo spiegò in una lettera:

“È appena giunto da Roma il nihil obstat per tutta l’O- pera, compresi i sacerdoti, concesso dalle Sacre Congre­gazioni del Santo Uffizio e dei Religiosi. Con la imposi- tio manuum della Santa Sede partecipiamo ancor più pienamente all’apostolato della Santa M adre Chiesa. Roma locuta est...! Mi aiuti, caro Padre Abate, a ringra­ziare il Signore e preghi i monaci che anche loro si uni­scano a me in questo rendimento di grazie” 157.

In una lettera a don Baldomero Jiménez Duque rias­sumeva in poche parole: “In questo modo è risolto il problema dei nostri sacerdoti”158.

L’erezione canonica della Società Sacerdotale della Santa Croce fu sancita con il decreto Quindecim abbine annos, cui mons. Eijo y Garay appose la data dell’8 di­cembre 1943. Il testo è pieno di lodi e affetto per l’Ope- ra, quasi per porre rimedio alla formale aridità del de­creto di approvazione dell’Opus Dei come Pia Unione del 1941. Abbiamo già visto che esso era stato privato di lodi e florilegi linguistici su consiglio del Nunzio, per non urtare alcune suscettibilità ecclesiastiche159.

“ Questa pia Istituzione - si leggeva nel decreto - fu assi­stita fin dal principio dal favore divino, che si manifestò soprattutto sia nel numero e nella qualità dei giovani - di grande integrità e intelligenza - che a essa venivano, sia per i frutti abbondanti che in ogni luogo ha raccolto,

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sia anche per il segno delle contrarietà, che è sempre sta­to il sigillo manifesto delle opere di Dio”160.Non sfugga quest’ultimo evidente riferimento alla

“opposizione dei buoni”.Don Josemarìa procedette con decisione e rapidità.

Due giorni dopo la data del decreto di erezione comuni­cava al Vescovo, come già si è detto, che era stato costi­tuito il Centro di Studi Ecclesiastici della Società161. Pu­re in data 10 dicembre 1943 veniva inoltrata la proposta di assegnazione delle cariche della Società Sa­cerdotale della Santa Croce162.

Don Josemarìa era attivo e rapido; lo dimostra il par­ticolare che la proposta del 10 dicembre era redatta su carta intestata della “Società Sacerdotale della Santa Croce”, che egli la firmò come “Presidente” e che ac­canto alla firma fu apposto il timbro Societas + Sacerdo- talis + Sanctae + Crucis + Praeses163.

Il Vescovo di Madrid rispose il 12 dicembre confer­mando ufficialmente al Presidente della Società le cari­che proposte164.

Quella stessa settimana don Josemarìa andò a trovare il Vescovo. Si misero a parlare nella biblioteca e si fecero le 11 di sera. All’improvviso il Prelato gli suggerì di rin­novare la sua incorporazione all’Opus Dei. Allora,

“mi sono inginocchiato - ricordò il sacerdote - e, a me­moria e interrompendomi per l’emozione, ho recitato la formula che abbiamo nel nostro Cerimoniale per la fe­deltà165, in cui non si parla né di voti, né di promesse, né di simili altre cose. A lui sembrò naturale e anche a me; ma era la prima volta che quel venerabile Prelato, in età già avanzata, accettava l’incorporazione di una persona che aveva costituito un nucleo di fedeli per promuovere la santità e l’apostolato, senza che ci fossero di mezzo né voti né promesse di alcun genere”166.

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6 .1 primi sacerdotiPur con la logica soddisfazione prodotta dal nihil ob- stat, don Josemaria si mantenne molto prudente, senza sopravvalutare le cose. Il suo sviluppato istinto sopran­naturale di Fondatore e quindici anni di esperienza gli facevano capire che il passo provvidenziale appena compiuto era solido, ma non era detto che fosse anche destinato a durare. Questo pensiero era radicato nella sua mente prima, durante e dopo il nihil obstat. Infatti non appena Àlvaro era partito per Roma, don Jose­maria si era messo a scrivere una lettera a tutti i suoi fi­gli e l’aveva terminata il 31 maggio 1943, quando Àlva­ro stava ancora preparando il programma delle cose da fare e delle visite romane. Nella lettera, descrivendo lo­ro le caratteristiche dello spirito che dovevano vivere, mise un inciso eloquente circa la transitorietà delle pro­cedure in corso e di quelle future:

“ Ci capiscono e ci vogliono bene gli Ordinari delle dio­cesi nelle quali lavoriamo; e la Chiesa, che è nostra M a­dre, qualunque sia la forma giuridica che col tempo l’O­pera assumerà, rispetterà il modo di essere dei suoi figli, perché sa che solo in quel modo riusciremo a servirla e a piacere a Dio” 167.

Ancora più eloquente è un altro inciso, introdotto nella lettera del 14 febbraio 1944. La Società Sacerdota­le della Santa Croce era stata eretta soltanto da due me­si, quando il Fondatore scrisse ai suoi figli:

“La soluzione - necessariamente transitoria, ma valida per un certo tempo e che sarà superata quando ci sarà un diverso iter giuridico che lo consenta - consiste (...)” 168.

Sappiamo già quello che la soluzione comportava. Qui interessa ribadire che il Fondatore la considerava alla lunga inaccettabile e che, a breve, era disposto a

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mutare posizione se gli si fosse presentata la possibilità di farlo; senza lanciarsi follemente nel vuoto, ma con la prudenza necessaria per salvaguardare la natura dell’O­pera169. La Società Sacerdotale della Santa Croce fu da­ta a don Josemarìa come soluzione fondazionale, senza sforzo da parte sua, ma come un autentico regalo. Inve­ce, inquadrare l’Opus Dei nel Codex come società di vi­ta comune senza voti fu un laborioso procedimento umano. Don Josemarìa peraltro non si scoraggiò, distin­guendo nel processo storico della fondazione ciò che era di origine soprannaturale, e perciò intoccabile, da ciò che era transitorio, consentendogli di accondiscendere, ma senza cedere nelle cose sostanziali. Che le cose stes­sero in questo modo lo dimostra non solamente la storia successiva, ma anche la certezza da lui espressa nel 1940, dunque prima dell’idea della Pia Unione, che sa­rebbe stato necessario elaborare un quadro giuridico appropriato per l’apostolato dell’Opera e che sarebbe stato un “compito arduo, penoso e duro”170.

Il suo atteggiamento denota un’illimitata fiducia in Dio e una enorme capacità di previsione di ciò che poi sarebbe accaduto col tempo. All’inizio della fondazione egli sognava in anticipo ciò che sarebbe stata l’Opera in futuro: uno splendido campo apostolico, una mobilita­zione generale dei cristiani al servizio, ciascuno dal pro­prio posto, della missione apostolica della Chiesa, innal­zando Cristo al vertice di tutte le attività umane. Questa prospettiva derivava in modo spontaneo dal messaggio e dalle ispirazioni ricevute nella sua missione fondazio­nale. Ma non appena si mise a studiare un inserimento giuridico permanente nella società civile e soprattutto in quella ecclesiastica, quel sacerdote, capace di guardare il cielo e sognare meraviglie e al quale il Signore andava indicando le pietre miliari della fondazione, si vide ob­bligato a misurare e calibrare ogni suo passo. Le cose, in effetti, non dipendevano esclusivamente dalla sua vo­lontà, ma per ciò che dipendeva da lui metteva in cam­648

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po tutte le risorse disponibili. Ne era buona prova l’ec­cellente formazione che stava dando ai tre membri del­l’Opera candidati al sacerdozio. Nulla risparmiò di quanto poteva fare. Sul piano umano voleva che fossero un pozzo di scienza ecclesiastica, su quello soprannatu­rale un modello di virtù sacerdotali.

Ma nonostante il suo ottimismo e la sua generosità - conviene ripeterlo - era finito nel vicolo cieco dell’incar- dinazione, senza sapere quando e come sarebbe riuscito a uscirne. Fu così che la fondazione della Società Sacer­dotale della Santa Croce lo colse di sorpresa durante la Messa del 14 febbraio 1943, ripetendo in qualche modo la sorpresa della Messa del 14 febbraio 1930, quando il Signore gli aveva fatto capire che anche le donne avreb­bero fatto parte dell’Opera. Ma in virtù di quali elemen­ti don Josemaria aveva la sicurezza che Dio gli avrebbe fatto visita con le sue ispirazioni al momento opportu­no? Prima di dare una facile risposta conviene non di­menticare che quel sacerdote non se ne stava comoda­mente seduto aspettando che gli venissero aperte le porte o che qualcuno gli indicasse la via. Al contrario, andava avanti e si impegnava, confidando con serenità e con fede che presto o tardi gli sarebbe arrivata la rispo­sta dall’alto, come accadde anche in questo caso.

Tutto ciò significa insomma che il Fondatore non marciava a rimorchio delle ispirazioni ricevute dal Cielo ma cercava, con sforzo personale, di precederle. Se il Si­gnore interveniva era perché egli aveva corrisposto alla grazia, mettendo da parte sua iniziativa e sacrificio.

Questo spendersi generosamente nel servizio alla Chiesa (in cui ritroviamo il “nascondersi e scomparire”) don Josemaria lo definiva con una espressione umoristi­ca, “dare lepre per gatto”; il contrario di “dare gatto per lepre”, cioè spacciare come prodotto di valore qual­cosa che è di bassa qualità171.

Qualcosa di simile accadde con l’Opus Dei dopo l’e­rezione canonica della Società Sacerdotale della Santa

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Croce; cessò di essere una Pia Unione per diventare “una semplice associazione laicale di carattere devoto”, mentre per la verità tutti i fedeli dell’Opera vivevano ri­gorosamente la stessa vocazione contemplativa, identi­che norme di pietà e le stesse consuetudini dei loro fra­telli della Società Sacerdotale. La situazione in cui restava l’Opus Dei venne riassunta dal Fondatore in una lettera al nuovo Vescovo di Barcellona, mons. Gregorio Modrego:

“ Benché queste non siano cose da potersi trattare per lettera, nella speranza di avere la gioia di vedere presto S.E. - qui o a Barcellona - e di parlare con calma, è be­ne che Le anticipi che l’ultimo decreto, quello dell’ere­zione canonica, prima di esser reso pubblico portava già in tutte le sue parti il visto di approvazione di Roma: l’OPUS DEI ha cessato di essere una Pia Unione per di­ventare un’Opera Pia propria della Società Sacerdotale, con i suoi due rami, maschile e femminile, perfettamen­te separati e definiti e con Statuti che saranno differenti da quelli della Società Sacerdotale della Santa Croce.Di tutto questo si parla diffusamente nelle Costituzioni della Società Sacerdotale, che hanno ricevuto Yappositio mattutini della Santa Sede.E bene anche che dica a S.E. che alla Sacra Congregazione dei Religiosi è stato chiesto solamente ciò che ci è stato concesso: poterci costituire in Società di vita comune sen­za voti, naturalmente per ora di Diritto Diocesano. Per tutte le agevolazioni che ci hanno concesso e che Le co­municherò a voce, devo dire a Sua Eccellenza che a Roma ci hanno trattati con generosità. Digitus Dei est hic.Da quanto ho detto si vede chiaro che bisogna distin­guere la Società Sacerdotale dall’Opus Dei. La prima, finché sarà di diritto diocesano, sarà soggetta alla giuri­sdizione dei Rev.mi Ordinari nelle cui diocesi abbia una casa. L’Opus Dei, cessando di essere Pia Unione, viene trasformata in una semplice associazione laicale di ca­rattere devoto, come le Conferenze di S. Vincenzo, che sono soggette all’Ordinario nelle cose di fede e di costu­

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mi, come gli altri fedeli cristiani: pertanto può solamente ricevere lodi, benedizioni e indulgenze e non ha bisogno di approvazione.Per ora credo di averLa aggiornata sulla situazione ca­nonica dell’Opera; quando La potrò vedere personal­mente avrò molto piacere nel darle altri particolari” 172.

La Società Sacerdotale della Santa Croce era l’ago per poter penetrare nel contesto ecclesiastico e civile. Un ago divino, che portava inseparabilmente infilato il filo dell’Opus Dei. Dio non fa nessuna mossa inutile. La so­luzione canonica era evidentemente transitoria ma la fondazione della Società Sacerdotale della Santa Croce sarebbe durata, attraverso i cambiamenti successivi, fi­no al momento in cui tutto l’Opus Dei avrebbe acquisi­to la sua struttura definitiva di Prelatura personale173.

* * *Lo studio delle discipline filosofiche e teologiche da par­te dei tre ordinandi fu rigoroso e costante. Per i primi esami presentarono una richiesta al Vescovo di Madrid, nella quale ognuno di loro,

“ ritenendosi chiamato al sacerdozio e desiderando se­guire gli studi ecclesiastici, prega S.E. di voler dare le op­portune disposizioni per essere ammesso all’esame di Lettere e Filosofia e per poter essere poi ammesso agli studi della Sacra Teologia” 174.

Sostennero gli esami di Filosofia davanti a una Com­missione del Seminario Conciliare di Madrid; quelli di Teologia nel Centro di Studi Ecclesiastici, costituito do­po l’erezione canonica della Società Sacerdotale della Santa Croce. Man mano che i tre candidati superavano gli esami e si avvicinavano alla fine degli studi, nel Pa­dre cresceva una indicibile emozione, che non riusciva a dominare. Finalmente il Vescovo suggerì la data del 25 giugno 1944 per l’ordinazione. Lo disse ad Àlvaro del

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Portillo perché lo comunicasse a don Josemaria, che il 25 aprile rispondeva:

“Padre, Àlvaro mi ha riferito il Suo orientamento circa la data di ordinazione di questi primi. Ho parlato con i do­centi: possono fare ai primi di giugno gli esami delle mate­rie teologiche che mancano; vi arriveranno ben preparati. Pertanto sono molto lieto di accondiscendere filialmente al desiderio del mio Vescovo che siano ordinati in quella data. Sarebbe opportuno, per i documenti, gli abiti, le ri­spettive famiglie, ecc., stabilire fin da ora i giorni delle cerimonie. Mi rimetto come sempre a ciò che deciderà S.E. e, non mi è possibile nasconderlo, provo una emo­zione immensa per il prossimo sacerdozio di questi figli della mia anima e una gratitudine senza limiti verso il Si­gnore e verso mio Padre, Mons. Leopoldo. Egli La ricol­mi della sua grazia!” 175.

Prima di fissare la data del conferimento degli Ordini minori e maggiori, fu necessario chiedere alla Santa Se­de la dispensa dagli interstizi (i normali intervalli di tempo previsti fra le varie cerimonie). Venerdì 12 mag­gio il Vescovo telefonò a don Josemaria e gli disse: “Gli ordinandi comincino domani a fare otto giorni di eserci­zi, perché sabato 20 conferirò loro la Prima Tonsura e, dopo breve intervallo, gli altri Ordini fino al Sacerdo­zio”176. Il 13 maggio don Josemaria cominciò a predica­re ai tre gli esercizi preliminari agli Ordini Sacri, a El Escoriai177.

Per quanto si riferisce alla formazione pratica, il Pa­dre si riservò le discipline di Liturgia e di Pastorale, cui diede loro lezioni nel corso di diversi mesi. Don Jose­maria era rigoroso quanto ai gesti, alle orazioni e al de­coro liturgico e insegnava ai suoi figli a seguire fedel­mente ogni minima indicazione delle rubriche. In modo particolare quelle della Santa Messa, che tanto aiutano ad avvicinarsi al Signore178. Nella Pastorale il Padre ri­viveva la propria esperienza ministeriale, ampia e mul­652

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tiforme, acquisita in seminari e università, in parrocchie rurali e urbane, in istituzioni benefiche e apostoliche, con religiosi e sacerdoti, nei conventi e per strada, con gente di ogni età e professione, praticanti e non prati­canti, e la trasmetteva loro con consigli brevi e chiari179.

Come aveva promesso il Vescovo, il 20 maggio ebbe luogo la cerimonia della tonsura; in seguito ricevettero gli Ordini minori. Il suddiaconato fu conferito dal Ve­scovo di Pamplona domenica 28 maggio, nell’oratorio di via Diego de Leon; il 3 giugno furono ordinati diaco­ni da don Casimiro Mordilo, Vescovo Ausiliare della diocesi di Madrid180.

Il 12 giugno sostennero gli ultimi esami e il giorno 15 don Josemarìa potè certificare al Vescovo la conclusione degli studi previ all’ordinazione sacerdotale181. Il loro personale curriculum teologico contiene una ininterrot­ta serie di Meritissimus; ma quella serie di splendidi voti è interrotta a un certo punto da un semplice Benemeri- tus nel Canto Liturgico. Nessuno dei tre candidati riuscì a fare di più. Ma non era un disonore, solo una dote che Dio non aveva concesso...182.

Nei giorni precedenti all’ordinazione presbiterale arri­varono al Padre le risposte a una richiesta che aveva ri­volto poco prima praticamente a tutti i Vescovi spagno­li. Annunciando loro la data dell’ordinazione, aveva chiesto per i futuri presbiteri le facoltà ministeriali nelle rispettive diocesi. Tutti risposero accedendo con piacere alla richiesta del Padre, che si sentiva circondato dall’af­fetto della Gerarchia183.

Il pomeriggio di sabato 24 giugno il Padre si recò al ci­mitero della Almudena. Gli venne naturale tornare ai ri­cordi degli anni trenta: tutte le volte che era arrivato in quella zona con la pioggia e nel fango, o per strade pol­verose e riarse, per fare catechesi, visitare malati o per la sepoltura di persone care. Ora andava davanti alla tom­ba dei Nonni e di Isidoro in pellegrinaggio di ringrazia­mento e per chiedere la santità per i nuovi sacerdoti.

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Anche grazie a loro, la prima ordinazione di sacerdo­ti, già presenti nella visione generale dell’Opus Dei avu­ta il giorno della fondazione, era ormai una realtà immi­nente. E la speranza di vedere nell’Opera santi sacerdotilo portava a sognare. Le preghiere che anni prima aveva trascritto nelle prime palpitanti pagine dei suoi Appunti erano state ascoltate:

“ Il sacerdote dell’Opera! Quante ore abbiamo passato parlando di lui!! È lui il nerbo dell’Opera di Dio. Santo! Dovrà esagerare in virtù, se mai fosse possibile esagera­re... Perché i membri laici si guarderanno in lui come in uno specchio e solo se il sacerdote punta molto in alto, gli altri potranno mantenere la media” 184.

Il giorno tanto anelato si avvicinava. Quando si ingi­nocchiò per pregare davanti alla tomba dei Nonni e di Isidoro le emozioni gli si agitavano nel petto. Aveva la certezza di vivere un momento storico; pianse allora di gratitudine, pensando al sacrificio dei suoi morti185.

Domenica 25 giugno 1944 fu un giorno di grande fe­sta. Gli ordinandi presero commiato dal Padre in via Diego de Leon e andarono in auto al Palazzo Episcopa­le, nella cappella del quale avrebbe avuto luogo la ceri­monia. Come era prevedibile, il pubblico era troppo nu­meroso per le dimensioni della cappella e una gran quantità di persone dovette restarne fuori. Alle dieci in punto il Vescovo diede inizio al rito. Non appena ter­minò e i nuovi sacerdoti si furono tolti i paramenti in sacrestia, i presenti poterono avvicinarsi per baciare le mani appena consacrate. Furono in molti che oltre a ba­ciarle le bagnarono di lacrime. Fra i presenti c’erano persone della Nunziatura e del Vescovado, chierici di Madrid e delle province, parenti, amici e conoscenti, persone dell’Opera e un gran numero di rappresentanti di Ordini e Congregazioni: Gerolamini, Domenicani, Scolopi, Agostiniani, Marianisti, Lazzaristi...186.654

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Durante la cerimonia di ordinazione il Fondatore ce­lebrò la Messa nell’oratorio di via Diego de Leon; gliela servì José Maria Albareda.

Il Vescovo andò a pranzare in via Diego de Leon con i nuovi sacerdoti e qualche invitato. Nel pomeriggio, il Padre gli presentò i membri dell’Opera, alcuni venuti per l’occasione da altre città, come Bilbao o Barcellona.Il salone azzurro del piano terra si riempì ben presto di gente giovane. La riunione familiare durò un certo tem­po, perché il Padre descrisse con soddisfazione i meriti e le qualità di ciascuno dei suoi figli; anche il Vescovo quel giorno era di ottimo umore, nonostante la giornata fosse stata molto faticosa. Suonava continuamente il te­lefono o si presentava qualcuno in visita per fare gli au­guri o per congratularsi con don Josemaria. Approfit­tando di un momento in cui il Padre si dovette assentare, il Vescovo, vedendo quel numeroso gruppo di giovani, volle esprimere i propri sentimenti.

Parlò loro della grande gioia che aveva provato nel- l’ordinare la prima leva di sacerdoti. Ricordò le persecu­zioni patite dall’Opera negli ultimi anni e permesse dal Signore per ricavarne un bene maggiore, e confessò che provava una grande gioia e tranquillità sapendo che, nonostante tutto quello che avevano patito, essi non serbavano alcun risentimento, né era venuto meno in lo­ro l’affetto per quanti erano stati strumenti di quella campagna. “Quante lacrime sono costate a tante madri le calunnie con cui vi si tacciava di essere eretici e mas­soni!”, disse187.

Parlò poi del Padre, della missione specifica che egli aveva ricevuto da Dio per dirigere l’Opera e per formar­li. Era lui il depositario delle grazie necessarie per con­durli a raggiungere il fine: “Abbiate molta cura del Pa­dre, che ne ha bisogno e di cui noi abbiamo molto bisogno”.

Proseguì parlando del peso ingente che gravava sulle655

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spalle del Padre e della sua salute, incrinata dalle preoc­cupazioni e logorata da lavoro e sofferenze:

“Una prova di quanto sia stanco - scherzò, cambiando tono - è che questa mattina non ha osato venire all’ordi­nazione per timore di non poter contenere la sua emozio­ne e che noi lo vedessimo piangere come un vecchio non­no; e poiché a stare solo in casa aveva paura, ha chiamato José Maria Albareda perché gli tenesse compagnia...Ma forse - proseguì il Vescovo prendendo un tono serio- si è trattato di un gesto di grande sacrificio: poiché mi darebbe una grande gioia esserci, allora resto qui”188.Concluse con parole di grande affetto e diede loro la

sua benedizione. Tutti accompagnarono fuori il Vescovo e questi, prima di salire in macchina, volle farsi fotogra­fare mentre abbracciava il Fondatore.

A metà pomeriggio in oratorio il Padre diresse loro una meditazione, commentando alcune frasi di S. Paolo che aveva segnato dieci anni prima. Insistette sulla ne­cessità dell’orazione e del sacrificio, fondamento della vita interiore, e sull’umiltà individuale e collettiva; molti compresero da queste parole il sacrificio umile e nasco­sto del Fondatore, che aveva rinunciato a presenziare al­la cerimonia dell’ordinazione.

“Quando i più giovani fra i presenti avranno i capelli bianchi, oppure sfoggeranno una splendida calvizie, che già brilla su qualcuno di loro e io, per legge naturale, sarò scomparso già da molto tempo, qualcuno vi chie­derà: che cosa vi disse il Padre il giorno dell’ordinazione dei tre primi sacerdoti? Allora voi risponderete: ‘Ci dis­se: siate uomini di orazione, uomini di orazione e uomi­ni di orazione’”189.Poi parlò loro di perseveranza e di Croce. Annunciò

che presto alcuni dell’Opera sarebbero partiti per terre lontane. E infine diede notizia dell’arrivo di un cablo­656

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gramma dalla Città del Vaticano, in cui si leggeva che il Santo Padre aveva concesso che i tre nuovi sacerdoti im­partissero a tutti i presenti alla loro prima Messa la bene­dizione papale con indulgenza plenaria. Ci fu poi la bene­dizione solenne col Santissimo e fu cantato il Te Deum.

Continuarono le telefonate, le visite e la festa familia­re. Quando don Josemarìa si ritirò, alla fine della gior­nata, era spossato per il susseguirsi di tante emozioni.

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NOTE AL CAPITOLO XIV

1 Santiago Escrivà de Balaguer, RHF, T-07921, p. 35. Questi ricordi di San­tiago circa la sorella si riferiscono a quando egli frequentava l’università. Carmen ebbe alcune ottime amiche e anche diversi pretendenti, fra cui Luis Otal, barone di Valdeolivos. Carmen rinunciò a farsi una famiglia per aiu­tare Josemarìa nel suo apostolato.2 Ibidem, p. 5. La tradizione dei regali ai bambini nella festa dei Re Magi era molto radicata nella famiglia degli Escrivà. Eccone il ricordo di don Jo­semarìa in una lettera inviata a un conoscente nel 1938: “Ti scrivo con la stessa fiduciosa speranza che mi riempiva l’anima quando da bambino scrivevo ai Re Magi” (Lettera a Enrique Alonso-Martinez Saumell, da Bur­gos, in EF-380204-1).3 Santiago Escrivà de Balaguer, RHF, T-07921, p. 7.4 Ibidem, p. 9.5 Cfr ibidem, p. 4.6 Maria Dolores Fisac Serna, RHF, T-04956, p. 12.7 RHF, AVF-0036. La nota fu scritta il 23-V-1948. Don Josemarìa era par­tito in aereo da Madrid per Roma il 20 maggio.8 Sul comportamento di Carmen, cfr Àlvaro del Portillo, Sum. 512, 514; Narcisa Gonzàlez Guzmàn, RHF, T-04989, p. 28; Francisco Ponz Piedrafi- ta, Mi encuentro con..., op. cit., pp. 94-96.9 José Luis Muzquiz, RHF, T-04678/1, p. 125; cfr anche Santiago Escrivà de Balaguer, RHF, T-07921, p. 9; Encarnación Ortega Pardo, RHF, T- 05074, p. 56.10 Cfr Francisco Ponz, RHF, T-04151, p. 42.11 Cfr Narcisa Gonzàlez Guzmàn, RHF, T-04989, p. 42; cfr pure Juan Udaondo, Sum. 5030.12 Tra i benefattori comprendeva anche i calunniatori, “perché ci aiutano a

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purificarci. Bisogna amarli e pregare per loro” (Juan Hervàs Benet, in Un santo per amico..., op. cit., p. 175).13 Cfr Àlvaro del Portillo, Sum. 505. Va ricordato che la gratitudine per i suoi familiari era proporzionale agli impegni che in qualche misura impo­neva loro. La vocazione di Carmen e della signora Dolores fu di collabora­re allo sviluppo delPOpus Dei. Questo è lo spirito che affiora in alcune let­tere di don Josemarìa: “Carissima madre e carissimi Carmen e Santiago, Gesù vi protegga! Vi ricordo molto e chiedo al Signore che vi dia gioia per continuare ad aiutarci nel nostro lavoro. Spero che lo sforzo che Dio e io vi chiederemo sarà meno intenso fra qualche mese. Frattanto fatelo per Lui” (Lettera da Leon, in EF-400731-1).14 Cfr Lettera ai suoi figli di Burgos da Saragozza, in EF-380509-1.15 Sul viaggio a Logrono e l’esumazione dei resti di José Escrivà, cfr RHF, D-05851. Cfr pure Itinerario e cronologia dei viaggi, RHF, D-15200, D- 15013 e D-15014.16 Cfr Narcisa Gonzàlez Guzmàn, RHF, T-0498^, pp. 57-58.17 Cfr Maria Dolores Fisac, RHF, T-04956, p. 16.18 Cfr RHF, D-05851.19 Nella nota scritta in occasione dell’esumazione effettuata nel cimitero della Almudena si legge: “José Escrivà Corzàn - Sepoltura: [seguono i dati di riferimento]. Inumato il 30 aprile 1942. Traslato il 31-3-1969 nella Cripta della Residenza della Santa Croce” (RHF, D-05851). Gli atti origi­nali dell’inumazione furono deposti nelle sepolture della cripta. Fotocopie dell’originale: RHF, D-07778-II-1 e 2.20 Javier Echevarria, PR, p. 1578.21 Cfr Juan Udaondo, Sum. 5031.22 Lettera ai suoi figli di Madrid, da Lerida, in EF-411013-1.23 Lettera ai suoi figli di Madrid, da Lerida, in EF-411016-1.24 Ibidem.25 L’operazione dei fichi secchi non ebbe seguito; invece furono acquistati fichi all’ingrosso, per rifornire le dispense di vari centri (cfr Francisco Bo­tella, RHF, T-00159, c. IX, p. 17).26 Lettera 6-V-1945, n. 25.27 Cfr Francisco Ponz, RHF, T-04151, pp. 74-75. La prima Messa nell’ora­torio di via Nunez de Balboa fu celebrata il 27 gennaio 1942 da don José Maria Garcia Lahiguera, all’epoca confessore del Fondatore.28 Appunti, n. 1854, 8, del 9-XI-1941. Fece il ritiro nella casa dei Padri Lazzaristi di via Fernàndez de la Hoz, a Madrid. Era una casa dell’obbe­dienza francese della Congregazione della Missione, distante poco più di cento metri da quella di via Garcia de Paredes.29 Narcisa Gonzàlez Guzmàn, RHF, T-04989, p. 11.30 “Lavoravo vicino a lei - racconta Nisa - ma non mi fece mai alcuna os­

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servazione, poiché era molto delicata; mi bastava guardarla per imparare e migliorare” (RHF, T-04989, p. 28).31 Cfr ibidem.32 Àlvaro del Portillo, Sum. 31.33 Encarnación Ortega, RHF, T-05074, p. 82.34 Narcisa Gonzàlez Guzmàn, RHF, T-04989, p. 27.35 Encarnación Ortega, RHF, T-05074, p. 3.36 Narcisa Gonzàlez Guzmàn, RHF, T-04989, p. 27.37 Encarnación Ortega, RHF, T-05074, pp. 61-62.38 Ibidem, p. 12.39 Lettera 29- VII-1965, n. 20.40 Narcisa Gonzàlez Guzmàn, RHF, T-04989, p. 15.41 Amadeo de Fuenmayor, RHF, T-02769, p. 6; cfr Àlvaro del Portillo, Sum. 608; José Luis Muzquiz (RHF, T-04678/1, p. 102) ricorda le proteste rivolte al padrone dagli altri inquilini della casa per il chiasso che facevano gli studenti scendendo per le scale verso la sala da pranzo.42 Amadeo de Fuenmayor, RHF, T-02769, p. 6.43 Cfr Encarnación Ortega, RHF, T-05074, p. 91.44 Cfr RHF, D-15417; Narcisa Gonzàlez Guzmàn, RHF, T-04989, p. 30.45 Cfr ibidem, p. 15.46 Cfr Encarnación Ortega, RHF, T-05074, p. 93.47 Cfr ibidem, pp. 93 e 94; Narcisa Gonzàlez Guzmàn, RHF, T-04989, p. 53.48 Encarnación Ortega, RHF, T-05074, p. 94; e RHF D-15147.49 Encarnación Ortega, RHF, T-05074, p. 95.50 Ibidem.51 Cfr Narcisa Gonzàlez Guzmàn, RHF, T-04989, p. 48. L’appartamento di via Nunez de Balboa fu sostituito da un altro centro in via Espanoleto 24. L’istanza per ottenere l’oratorio semipubblico con tabernacolo è del 26 gennaio 1943 e la benedizione dell’oratorio del 15 marzo (cfr RHF, D- 15148).52 Cfr Narcisa Gonzàlez Guzmàn, RHF, T-04989, p. 48.53 Questa Congregazione, che ha prestato e presta alla Chiesa un grande servizio, formava e si prendeva cura delle donne (che all’epoca venivano chiamate “donne di servizio” o “domestiche”) che lavoravano nelle fami­glie. Era una professione praticata da numerose ragazze, molte delle quali lasciavano poi la famiglia dove erano state a servizio per formarne una propria, spesso anche grazie all’aiuto affettuoso delle stesse famiglie in cui avevano lavorato.54 Cfr José Luis Muzquiz, RHF, T-04678/1, p. 109; Encarnación Ortega, RHF, T-05074, p. 96.

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55 Cfr Dora del Hoyo Alonso, Sum. 7038; Encarnación Ortega, RHF, T- 05074, p. 96.56 Cfr Encarnación Ortega, RHF, T-05074, p. 100.57 Ibidem, p. 97.58 Ibidem, p. 98.59 Ibidem. Nel contesto sociale dell’epoca - lo era stato anche in casa di don Josemaria - le persone di servizio facevano parte della famiglia, perfet­tamente integrate in essa. Non era affatto strano dunque che genitori e figli provassero una profonda gratitudine verso le persone che avevano lavora­to in casa loro, perché erano parte della storia della propria vita. Le fami­glie dove si ricorreva con nobili intenzioni a prestazioni così necessarie e dignitose, hanno contribuito logicamente sia al progresso di questa profes­sione, di grandissima importanza e utilità per la società, sia al migliora­mento del suo status sociale, sia all’evolversi dei nomi con cui sono chia­mati questi lavoratori o lavoratrici. Inoltre, in molti Paesi sono state create dalle istituzioni pubbliche scuole professionali al fine di fornire preparazio­ne, titoli e diritti a quanti si dedicano a queste mansioni.60 Ibidem, p. 99. Don Josemaria non dimenticò mai il favore ricevuto dalle Figlie di Maria Immacolata per il Servizio Domestico, che avevano manda­to varie persone a lavorare nella Residenza. E quando a Roma ci fu la bea­tificazione della loro Fondatrice, Vicenta Maria Lopez y Vicuna, assistè al­la cerimonia e il pomeriggio stesso si recò nella Casa Generalizia della Congregazione con una scatola di dolci, per congratularsi con loro (cfr Àlvaro del Portillo, PR, p. 587).61 Per il Centro Los Rosales, cfr cap. XV, § 2.62 Dora del Hoyo, RHF, T-15722, p. 1.63 Sulla diversità di membri nell’Opus Dei all’interno dell’unica vocazione e sulle numerarie ausiliarie, cfr P. Rodriguez, F. Ocàriz e J.L. Illanes, UO- pus Dei nella Chiesa, Milano 1995, pp. 191 e ss.64 Cfr Rosalia Lopez Martinez, RHF, T-07918, p. 1; Dora del Hoyo, PM, f. 1119 v.65 Lettera a José Maria Hernàndez Gamica, da Roma, in EF-461206-1; an­che in altre occasioni tornò su questo punto (cfr EF-470214-1).66 Lettera alle sue figlie dell’Assessorato Centrale, da Roma, in EF- 461213-1.67 “Il 16 luglio 1949 - riferisce Encarnación Ortega - fecero la fedeltà (l’in­corporazione definitiva all’Opera) le sue prime figlie numerarie ausiliarie, Dora del Hoyo, Concha Andrés e Antonia Penuela. Nostro Padre si fermò poi con noi tutte: fu un momento particolarmente intenso. A un certo pun­to, quasi stesse pensando ad alta voce, disse in tono confidenziale: “Vi guardo e non ci credo... Volgo lo sguardo indietro, al 14 febbraio 1930, quando iniziai la Santa Messa senza sapere niente... e la conclusi sapendo tutto...”. Non si sentiva volare una mosca e tutte pendevamo dalle labbra di nostro Padre” (RHF, T-05074, p. 122).

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68 Appunti, n. 1610, delP8-V-1940.69 Lettera da Àvila, in EF-400704-1.70 Lettera 14-11-1944, n. 9. Nella stessa lettera, senza entrare in dettagli, il Fondatore scrisse, a proposito di questi sacerdoti: “Tuttavia, poiché non riuscivano a capire ciò che il Signore ci chiedeva, specialmente nell’aposto­lato specifico con le donne (due o tre di loro furono la mia corona di spine perché disorientavano e seminavano confusione), ben presto dovetti fare a meno del loro aiuto. Da allora ho chiamato saltuariamente altri sacerdoti, che non avevano alcun legame con l’Opera, per confessare le persone del­l’Opera e per la celebrazione delle cerimonie liturgiche, in attesa di ottene­re la soluzione adeguata per questa importante necessità” (ibidem). Il do­cumento cui fa cenno il Fondatore è l’istruzione 9-1-1935, n. 59, dove si leggono praticamente le stesse parole citate nel testo.71 Appunti, n. 138, del 26-XII-1930. C’è un’allusione indiretta ai futuri sa­cerdoti provenienti dai laici dell’Opera, anche in Appunti, n. 101, dell’XI- 1930 e n. 867, del 9-XI-1932.72 In una lettera da Pamplona a mons. Eijo y Garay, gli diceva: “Credo che non finirò il mio lavoro qui prima del 5 luglio. Il raccolto è buono. Fa pia­cere vedere con quanto impegno fanno gli esercizi questi santi preti della Navarra. Se il Signore non mi avesse indicato in modo tassativo un’altra strada, sarei disposto a non fare altro che lavorare e soffrire e pregare per i miei fratelli Sacerdoti Secolari..., che sono l’altra mia passione dominante” (EF-410625-1).73 Lettera da Madrid, in EF-400423-1. Cfr anche Appunti, n. 1618, del 4- VIII-1940.74 Cfr José Luis Muzquiz, RHF, T-04678/1, p. 120.75 Cfr ibidem, p. 118.76 Le due Settimane di Studio si svolsero rispettivamente dal 17 al 24 mar­zo e dal 10 al 18 agosto (cfr cap. XII, § 4). Cfr Àlvaro del Portillo, PR, p. 932; Francisco Ponz, Mi encuentro con..., op. cit., pp. 47-50; Francisco Botella Raduàn, RHF, T-00159/1, p. 104.77 Più volte mise l’incarico a disposizione del Vescovo, con l’intenzione di dedicare più tempo all’Opera. Nel dicembre 1945 insisteva ancora: “Caris­sima Eccellenza, in varie occasioni ho manifestato a S.E. il mio desiderio di rinunciare all’incarico di Rettore del Reale Patronato di Santa Isabel. Oggi, con rispettosa insistenza, Le rinnovo la rinuncia a partire dal prossimo gennaio e La prego vivamente di accettarla: potrà essere utile a qualche al­tro sacerdote questo incarico, economicamente modesto ma tradizional­mente prestigioso” (Lettera da Madrid, in EF-451204-1). Due settimane dopo, ottenuto finalmente e a fatica il permesso di mons. Leopoldo, pre­sentò la rinuncia all’incarico di Rettore, mediante istanza rivolta al Presi­dente del Consiglio di Amministrazione dei Beni del Patrimonio Naziona­le: “Ho l’onore di manifestare alla S.V. che, dopo aver vinto la affettuosa opposizione dell’Ecc.mo e Rev.mo Vescovo di Madrid-Alcalà e col suo be­neplacito, per motivi di salute e per i miei molti impegni sacerdotali pre­

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sento la rinuncia all’incarico di Rettore del Reale Patronato di Santa Isabel a partire dal primo gennaio del prossimo anno 1946. Dio conservi V.S. per lunghi anni. Madrid, 19 dicembre 1945 - Il Rettore”(Archivio del Patrimonio Nazionale, Patronati Reali, Patronato di Santa Isabel, Fascicolo personale, 182/21). Con lettera ufficiale del 17-IV-1946,il Consigliere Delegato del Patrimonio Nazionale gli comunicava l’accetta­zione della rinuncia e “si dispiacque vivamente, a nome del citato Patrona­to e suo personale, di non poter disporre della valida collaborazione e degli ottimi servizi che S.E. aveva prestato finora” (ibidem).78 Lettera 14-11-1944, n. 9.79 Cfr Francisco Ponz, RHF, T-04151, p. 47.80 Don Josemarìa nella prima metà degli anni quaranta illustrò a sacerdoti e religiosi suoi conoscenti lo spirito e le consuetudini dell’Opera, affinché potessero prendersi debitamente cura dei suoi figli nel confessionale. C’e­rano, per esempio, don José Lopez Ortiz a Madrid, don Ramon Roquer Vilarrasa e don Sebastiàn Cirac a Barcellona, don Eiadio Espana Navarro e don Antonio Rodilla a Valencia; don Eliodoro Gii a Leon; don Daniel Llorente Federico e il Penitenziere della Cattedrale a Valladolid, ecc. Cfr Maria Dolores Fisac, RHF, T-04956, p. 3; José Luis Muzquiz, RHF, T- 04678/1, p. 25; Francisco Ponz, Mi encuentro con..., op. cit., pp. 58-59; Lettera a don José Maria Bulart Ferràndiz, da Valencia, in EF-411220-1, ecc.81 Lettera 14-11-1944, n, 9 .1 sacerdoti non dovevano soltanto assistere un gruppo di laici in alcune attività: sacerdoti e laici - in cooperazione organi­ca - erano ugualmente essenziali, come lo sono nella Chiesa; in effetti l’O­pera fu vista fin da principio dal Fondatore come una porzione del Popolo di Dio, come una “piccola parte della Chiesa”.82 Questa volta don Josemarìa, giunto ad Àvila, prima fu ospite di mons. Santos Moro e poi si recò nel Seminario, dove tenne un corso di esercizi spi­rituali. Perciò nella lettera del 4 luglio 1940 ad Alvaro del Portillo e agli al­tri scriveva: “Questa volta non posso intestare la lettera, con una punta di orgoglio (?), ‘sulle mura’, perché vi scrivo dal Seminario” (EF-400704-1).83 Appunti, n. 1616.84 Appunti, n. 101.85 In una Caterina del 9 novembre 1932 scrisse che i membri dell’Opus Dei devono impegnarsi molto a “vivere” la Sacra Liturgia della Chiesa, e “ognuno di loro deve pregare e mortificarsi per i nuovi sacerdoti special- mente nelle tempora e quando i nostri ricevono il sacramento dell’Ordine” (Appunti, n. 867).86 Lettera 8-V1II-1956, n. 5.87 Àlvaro del Portillo, PR, p. 958.88 Con grande semplicità José Luis Muzquiz racconta: “Ricordo l’affetto che profuse il Padre quando, nella sua camera della Residenza di via Jenner 6, mi chiese se volevo essere sacerdote. “Figlio mio, mi chiese, ti piacerebbe

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essere sacerdote?”. ‘Sì, Padre, moltissimo’, gli risposi. ‘Allora mettiti d’ac­cordo con Alvaro per gli studi’” (RHF, T-04678/1, p. 32). Nel 1945, in una lettera ai suoi figli, il Fondatore scrisse: “Pregate anche perché in Casa nes­suno si senta mai costretto a diventare sacerdote e nello stesso tempo per­ché ci sia sempre chi ascolta il fischio del Pastore che lo chiama: una divina costrizione, dolce e affettuosa” (Lettera 2-11-1945, n. 22).89 Appunti, n. 1854, del 9-XI-1941.90 Don José Maria Bueno Monreal conobbe don Josemaria nel 1927 o ‘28, alla Facoltà di Legge. Si è già detto della sua partecipazione al lavoro pre­paratorio per l’approvazione dell’Opera nel 1941. Alla fine del 1945 fu eletto Vescovo di Jaca, e successivamente di Vitoria. Nel 1954 fu nominato Arcivescovo coadiutore di Siviglia e quattro anni dopo fu creato Cardinale. Morì nel 1987.91 Lettera da Madrid, in EF-420517-1.92 Cfr Lettera da Madrid, in EF-420607-1.93 Lettera 8-VIII-1956, n. 13. Cfr anche José Luis Musquiz, RHF, T- 04678/1, p. 24.94 José Luis Musquiz, RHF, T-04678/1, p. 136; Cammino, nn. 657-661.95 Cfr M t 6, 16-18.96 De Spiritu Operis Dei, n. 16. Questo documento è tra quelli consegnati nel 1941 al Vescovo di Madrid per l’approvazione diocesana (cfr Amadeo de Fuenmayor e altri, op. cit., pp. 119 e ss.).97 “Fra loro c’erano due domenicani, professori àt\YAngelicum di Roma, trattenuti in Spagna dalla guerra mondiale: P. Muniz, che ci insegnò Teolo­gia Dogmatica, e P. Severino Àlvarez, professore di Diritto Canonico. P. Celada O.P., che lavorò per molto tempo all’istituto Biblico di Gerusalem­me, fu nostro professore di Sacra Scrittura. Di questi professori alcuni fu­rono promossi all’episcopato e uno, don José Maria Bueno (che ci insegnò Teologia Morale), divenne Cardinale. Fra’ José Lopez Ortfz, poi Ordinario militare, ci insegnò Storia della Chiesa. Don Màximo Yurramendi (futuro Vescovo di Ciudad Rodrigo), don Joaqum Blàzquez (direttore di un Istitu­to di Teologia in Spagna) e P. Permuy C.M.F. completavano l’ottimo colle­gio docente. Facemmo gli studi con grande intensità” (Alvaro del Portillo, PR, p. 958). Cfr pure José Maria Bueno Monreal, in Un santo per amico..., op. cit., p. 22; José Maria Garcia Lahiguera, ibidem, p. 141; Lettera a mons. Leopoldo Eijo y Garay, da Madrid, in EF-420517-1; Lettera ai suoi figli di Roma, da Madrid, in EF-440301-1.98 In Un santo per amico...., op. cit., p. 22.99 Mons. Lopez Ortiz, docente dell’Università di Madrid e lui pure profes­sore dei tre ordinandi, attesta: “Il Padre mi parlava con grande entusiasmo e con immensa speranza dei suoi tre figli che stavano per essere ordinati. Come di tutte le cose che mi raccontava, mi parlava di questo argomento con una fede e una sicurezza assolute. Mi diceva che tutti i membri dell’O­pera, per svolgere un apostolato efficace mediante il proprio lavoro, dove­

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vano avere una preparazione analoga a quella dei sacerdoti, anche se per la stragrande maggioranza non si sarebbero ordinati, perché non è questa la loro vocazione. Avendo tutti loro una tale formazione, egli o i suoi succes­sori avrebbero chiamato al sacerdozio quelli con cui avrebbe ritenuto op­portuno farlo, rispettando la libertà di ciascuno di accogliere o meno la chiamata. Il fatto che quei tre cominciassero allora a studiare Teologia non era quindi una cosa straordinaria, perché col tempo sarebbe stata una cosa normale nell’Opera, dove tutti devono possedere la necessaria formazione dottrinale religiosa. Subito dopo altri avrebbero cominciato a studiare, e poi altri ancora, senza interruzione, come in effetti è stato. Tutto questo per lui apparteneva all’essenza apostolica dell’Opera e pertanto veniva cer­tamente da Dio” (in Un santo per amico..., op. cit., pp. 199-200).100 RHF, AVF-0079, del febbraio 1944.101 “La vostra formazione non è mai conclusa: per tutta la vita, con una meravigliosa umiltà, sentirete il bisogno di perfezionare la vostra prepara­zione umana, spirituale, dottrinale-religiosa, apostolica e professionale” (.Lettera 6-V-194S, n. 19).102 Questa è una delle ragioni per cui “il regime di internato non è adatto ai membri dell’Opera, che devono vivere proprio nel mondo, fin dall’inizio della loro vocazione, tutte le virtù sacerdotali” (ibidem, n. 20).103 La costituzione del Centro di Studi Ecclesiastici della Società Sacerdota­le della Santa Croce, con sede nell’edificio di via Diego de Leon, che già da tempo funzionava come Centro di studi, fu comunicata al Vescovo di Ma­drid il 10 dicembre 1943 (cfr RHF, D-15140).104 Sullo sviluppo istituzionale dell’Opus Dei, cfr Amadeo de Fuenmayor e altri, op. cit., passim.105 II Fondatore usò un’immagine molto simile: “Il nostro iter iuridicum sembra tortuoso agli occhi degli uomini. Ma col passar del tempo si vedrà che è un continuo avanzare, sotto lo sguardo di Dio” (Lettera 29-XII- 19471114-11-1966, n. 163).106 Cfr Appunti, n. 60, del 16-VI-1930.107 Cfr C.I.C. 1917, can. 974 e 979.108 Cfr Lettera 6-V-194S, n. 11.109 Scorrendo l’elenco dei titoli di ordinazione previsti dal Codex iuris ca­nonici, il Fondatore spiegava: “Nessuno dei titoli previsti per i sacerdoti secolari era adeguato al nostro caso. Non serviva il titolo beneficii perché esige, prima di ricevere gli Ordini sacri, l’assegnazione di un incarico prov­visto di un beneficio; e neppure le altre possibilità suppletive previste dal Diritto. Non erano adatti i titoli servitii dioecesis e missionis, in quanto esi­gono che l’ordinando prometta di dedicarsi al ministero in una determina­ta diocesi o in un territorio di missione; non era adeguato il titolo patrimo- nii o pensionis, che richiede di possedere personalmente un capitale sufficiente a mantenersi per tutta la vita. E non erano neppure accettabili i

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titoli paupertatis e mensae communis, che riguardano esclusivamente i reli­giosi” (Lettera 14-11-1944, n. 16).110 Cfr Àlvaro del Portillo, PR, p. 346.111 Nel giugno 1941 consultò mons. Marcelino Olaechea, a Pamplona. Credette, erroneamente, di aver trovato una soluzione. “Ho parlato con calma con questo Vescovo del problema dei nostri sacerdoti e abbiamo vi­sto chiara la soluzione pratica e rapida e canonica, grazie a Dio” (Lettera ai suoi figli di Madrid, da Pamplona, in EF-410603-2).112 “Mi vennero in mente diverse soluzioni, tutte sbagliate. La migliore me la suggerì il Vescovo: creare delle cappellanie, affinché i sacerdoti rimanes­sero in qualche modo ascritti all’Opus Dei.. Ma questo comportava una spesa enorme, che non potevamo affrontare; e non risolveva nulla” (Lette­ra 29-XII-l947H14-11-1966, n. 159; cfr C.I.C. 1917, can. 128). Consultò anche senza risultato don José Maria Bueno Monreal (cfr Àlvaro del Por­tillo, Sum. 540).113 Lettera 29-Xll-19471114-11-1966, n. 159.114 Si conserva il foglio dell’agenda con l’annotazione e il disegno: RHF, D- 15077. Nel fare il disegno per il sigillo dell’Opera il Fondatore pensò, evi­dentemente, a una superficie piana, a un cerchio che porta inscritta una croce. Nell’originale, tuttavia, ci sono sei o sette linee: alcune incerte, altre spezzate; alcune sono corte, altre tracciate come per dare l’impressione di un fondo sferico. Si potrebbe pensare che un’inspiegabile e violenta emo­zione abbia provocato un inconsueto tremore nella mano che reggeva la penna. Ma questa ipotesi è da scartare, poiché la croce e la grafia della no­ta appaiono invece sicure, normali, proporzionate. Tutto sembra indicare che egli nel primo disegno intendesse rappresentare una croce all’interno di un mappamondo.115 Encarnación Ortega, RHF, T-05074, p. 45; cfr anche Narcisa Gonzàlez Guzmàn, RHF, T-04989, p. 7. Alcuni anni dopo il Fondatore narrò quanto era accaduto quel giorno: “Il 14 febbraio 1943 stavo celebrando in casa delle mie figlie, in via Jorge Manrique; dopo la Comunione venne la solu­zione che cercavo!: Società Sacerdotale della Santa Croce. Gesù voleva co­ronare l’edificio con la sua Croce santissima. Ricordo bene che feci un di­segno del sigillo - persino questo è venuto! - e lo consegnai ad Àlvaro” (Lettera 29-Xll-1947II14-11-1966, n. 159).116 Àlvaro del Portillo, Sum. 540 e 541.117 Lettera 29-Xll-1947II14-11-1966, n. 159.118 II giorno della Trasfigurazione, 7 agosto 1931 (cfr cap. VI, § 5), il Si­gnore gli aveva fatto vedere che avrebbe “attratto a sé tutte le cose” quan­do fosse stata innalzata “la Croce con la dottrina di Cristo sul pinnacolo di tutte le attività umane...” (Appunti, n. 217). Nella idea analoga della Cro­ce dentro il mondo se ne esprime la fecondità redentrice.119 Lettera 29-Xll-1947II14-11-1966, n. 159.120 Lettera 24-X-1942, n. 66. “Così - proseguiva - realizziamo meglio il si­

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gnificato soprannaturale della nostra dedizione, perché sperimentiamo, nella carne e nell’anima, l’oblazione che abbiamo fatto al Signore delle no­stre vite e che sale fino a Lui in odorem suavitatis”.121 Encarnación Ortega, RHF, T-05074, p. 27.122 Don Josemaria illustrava la filosofia del dolore con alcuni princìpi di buonsenso: “Se si può alleviare il dolore fisico, lo si fa. Ci sono fin troppe sofferenze nella vita! Quando non lo si può togliere, lo si offre. Ai malati si dà tutto ciò di cui hanno bisogno; a noi può mancare il necessario, ai ma­lati mai” (Àlvaro del Portillo, PR, p. 968).123 Lettera a P. Maximiliano Canal, O.P., da Madrid, in EF-440216-1.124 Lettera ai suoi figli di Madrid, da Leon, in EF-400806-1.125 Lettera ai suoi figli di Madrid, da Leon, in EF-400808-1.126 Lettera di Isidoro a José Orlandis Rovira, del 27-VIII-1940, in IZL, D- 1213, 466.127 Lettera ai suoi figli di Madrid, da Segovia, in EF-400823-1.128 Lettera ai suoi figli di Madrid, da Segovia, in EF-400827-1.129 Scopo della visita a mons. Marcelino Olaechea era di studiare i docu­menti per chiedere l’approvazione dell’Opera: “ ...per mostrare a S.E. Rev.ma le carte delle quali Le ho parlato e ascoltare i consigli che il mio Pa- dre-Vescovo vorrà caritatevolmente darmi. Verrò quando S.E. me lo dirà, se lo ritiene opportuno. Non tralasci di pregare per noi e specialmente per me, che ho sempre la Croce sulle spalle” (Lettera da Madrid, in EF- 400910-1).130 Sulla malattia e morte di Isidoro Zorzano, cfr Miguel Pero-Sanz, op. cit., da p. 251 alla fine.131 Lettera ai suoi figli di Madrid, da Segovia, in EF-420712-1; Lettera ad Àlvaro del Portillo e ai suoi figli di Madrid, da Segovia, in EF-421104-2.132 José Luis Muzquiz, RHF, T-04678/1, p. 39.133 In base alle radiografie e alle analisi, i medici confermarono trattarsi di un linfogranuloma maligno, il morbo di Hodgkin. Il malato aveva una in­fiammazione cronica ai gangli linfatici, che comportava brividi, febbre al­ta, sfinimento, inappetenza, deperimento, anemia molto pronunciata e di­spnea sempre più intensa. Le masse dei linfogangli avevano compresso i bronchi, riducendo a un quarto la capacità respiratoria, il che spiega le ter­ribili sensazioni di soffocamento e di stanchezza (cfr Posizioni e articoli per la causa di beatificazione e canonizzazione del Servo di Dio Isidoro Zorza­no Ledesma, delVOpus Dei, Madrid 1948).134 Javier de Ayala Delgado, Sum. 7580; cfr anche Francisco Ponz, Mi en- cuentro con..., op. cit., p. 139; Eduardo Alastrué Castillo, Sum. 5537.135 Luis Palos Yranzo, Sum. 5568.136 Cfr José Luis Muzquiz RHF, T-04678/1, p. 75.137 Cfr Francisco Botella, RHF, T-00159, IX, p. 25.

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138 Cfr, per esempio, Lettere ad Àlvaro del Portillo, da Burgos, in EF- 390224-4 e EF-390323-5; da Madrid, in EF-390518-5, e da Burjasot, in EF-390606-1.139 Lettera, in EF-410625-1.140 Scritto autografo, redatto a Vitoria, in EF-430228-1.141 Cfr ibidem.142 C.I.C. 1917, can. 673. Cfr Amadeo de Fuenmayor e altri, op. cit., p. 151.143 Lettera 14-11-1944, n. 12.144 Le Società di vita comune senza voti apparvero nel XVII secolo con fi­nalità apostoliche: la cura dei poveri o dei malati o dei sacerdoti, ecc.; ben­ché i loro soci non emettessero voti pubblici, la vita comune che facevano era simile a quella dei religiosi. Perciò, di fronte al rischio che la Società potesse essere confusa con un Ordine o una Congregazione religiosa, il Fondatore aggiunse chiarimenti ai testi normativi (Lineamenta, n. 1; Costi­tuzioni, n. 1) che ne evidenziassero meglio la secolarità. La comunità di vi­ta deve dunque essere interpretata in un senso ampio, poiché “si riferisce solamente allo spirito e al Diritto proprio e non alla materialità di vivere sotto lo stesso tetto” (Lettera 14-11-1944, n. 12).145 Con l’orientamento giuridico dato alla questione, la realtà pastorale dell’Opus Dei (“gli altri membri laici, che formano un’opera propria, unita e inseparabile dalla Società Sacerdotale della Santa Croce”) resta scolpita nel suo profilo e nella sua consistenza; e i membri dell’Opus Dei continua­no a essere comuni fedeli e, sotto questo aspetto, conservano la “autenti­cità” dell’Opus Dei. Cfr Lettera 14-11-1944, n. 12. Benché di fatto la So­cietà sia composta da “un piccolo nucleo” di sacerdoti e laici dell’Opera, giuridicamente l’Opus Dei appare assorbito dalla Società Sacerdotale della Santa Croce. Per esempio, nel Decreto del Vescovo di Madrid in cui sono approvate le Costituzioni della Società Sacerdotale della Santa Croce (25-1- 1944), si dice: “Con dette Costituzioni vengono regolamentati opportuna­mente natura, fini, attività, pratiche ascetiche, regime della Società e del suo strumento specifico di apostolato, denominato Opus Dei” (cfr Ama­deo de Fuenmayor e altri, op. cit., Appendice documentale, documento 18, p. 749).146 Cfr José Orlandis Rovira, Memorias de Roma en guerra (1942-1945), Madrid 1992, pp. 41 e ss.147 Lettera ai suoi figli di Roma, da Madrid, in EF-430510-1.148 Cfr Àlvaro del Portillo, Sum. 552. Cfr anche José Orlandis Rovira, Me­morias..., op. cit., pp. 65-69.Pochi giorni prima, il 21 maggio, Francisco Botella, che pure aveva tra­scorso alcuni mesi in Italia, aveva ottenuto un’udienza privata con Pio XII, che gli aveva chiesto del Padre, dell’Opera e della “opposizione dei buoni” (cfr RHF, T-00159, X, p. 16). Dell’udienza del 4 giugno José Orlandis rife­risce alcuni particolari. Usciti di casa con Àlvaro del Portillo, non trovaro­no un taxi e dovettero prendere un tram per non arrivare tardi in Vaticano.

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Àlvaro indossava la fiammante uniforme spagnola da Ingegnere civile e sul tram udirono un signore che diceva: “Incredibile, così giovane ed è già am­miraglio”. Giunti al Portone di Bronzo, la Guardia Svizzera, vedendo la vi­stosa e sconosciuta uniforme, si schierò per rendere gli onori militari. Àlva­ro passò tranquillamente in rivista il plotone e salì poi nella sala delle udienze (cfr Memorias..., op. cit., pp. 67-68).149 Tra gli altri, Àlvaro fece visita a mons. Montini, Sostituto alla Segreteria di Stato, a mons. Ruffini, ai cardinali Pizzardo, Prefetto dei Seminari e delle Università, Tedeschini e Vidal y Barraquer, ai padri Larraona e Montoto, claretiani, a p. Albareda, benedettino e direttore della Biblioteca Vaticana, ad alcuni padri domenicani come Suàrez, Canal, ecc. (cfr ibidem, p. 68).150 Cfr Lettera a mons. Leopoldo Eijo y Garay, da Madrid, in EF-430613- 1; Amadeo de Fuenmayor e altri, op. cit., Appendice documentale, docu­mento 9, pp. 733-738. Sulla procedura giuridica per l’ottenimento di que­sta erezione diocesana, cfr ibidem, pp. 141 e seguenti.151 Lettera ai suoi figli di Roma, da Madrid, in EF-430725-1.152 Cfr Maria Dolores Fisac, RHF, T-04956, p. 16; Eduardo Alastrué, Sum. 5546.153 Telegramma ad Antonio Huerta Ferrer, da Madrid, in EF-430716-1. Il processo di beatificazione di Isidoro Zorzano, la cui fama di santità era molto estesa, ebbe inizio a Madrid P II ottobre 1948. Cfr José Luis Muz- quiz, Sum. 5797.154 Cfr AGP, Sezione Giuridica III/15015.155 Cfr A. de Fuenmayor e altri, op. cit., Appendice documentale, docu­mento 13, p. 744. Era necessario ottenere previamente il nihil obstat della Sacra Congregazione del Sant’Uffizio, i cui estremi furono comunicati alla Congregazione dei Religiosi il 29-IX-1943 (cfr ibidem, Appendice docu­mentale, documento 12, p. 743).Àlvaro del Portillo racconta che P II ottobre 1943, evidentemente prima che giungesse a Madrid la notizia della concessione del nihil obstat, egli eb­be a dire al Fondatore: “Padre, sarà contento perché domani è la festa del­la Vergine del Pilar”. E il Padre gli rispose: “Sono sempre contento, spe­cialmente quando c’è una festa della Madonna; ma, festa per festa, preferisco quella di oggi, perché è la Maternità” (PR, p. 712).156 Lettera da Madrid, in EF-431020-1.157 Lettera all’Abate Coadiutore di Montserrat, Dom Aurelio Maria Escarré, O.S.B., da Madrid, in EF-431029-1. Don Josemaria era di ottimo umore, a giudicare dal poscritto: “Non è ancora arrivata la benzina che El­la mi ha annunciato: le assicuro che sarà accolta con allegria... e che l’alle­gria aumenterà col liquido tonificante”. La benzina erano alcune bottiglie di liquore - Aromas de Montserrat - che padre Escarré aveva annunciato di aver spedito. In seguito gli scriverà di nuovo: “Sono arrivate le bottiglie di Aromas, cui sono stati resi gli onori dovuti, per la gioia degli assaggiato- ri” (Lettera da Siviglia, in EF-431217-1).

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158 Lettera da Madrid, in EF-431203-2.159 Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 553.160 Decreto di erezione canonica della Società Sacerdotale della Santa Cro­ce, 8-XII-1943, in Amadeo de Fuenmayor e altri, op. cit., Appendice docu­mentale, documento 14, pp. 745-746.161 Cfr RHF, D-15140.162 Don Josemarìa precisava che, secondo i lineamento, Constitutionum, le nomine per le principali cariche della Società erano di competenza del Pre­sidente, udito il Consiglio; ma poiché l’organismo non esisteva ancora, le sottoponeva al primo e naturale Superiore, che era il Vescovo. Le nomine proposte erano le seguenti: “Segretario Generale, Alvaro del Portillo y Diez de Sollano; Vicesegretario dell’opera di S. Michele, José Luis Muzquiz de Miguel; Vicesegretario dell’opera di S. Gabriele, José Maria Hernàndez de Gamica; Vicesegretario dell’opera di S. Raffaele, Pedro Casciaro Ramirez; Amministratore Generale, Ricardo Fernàndez Vallespin” (cfr RHF, D- 15138).163 Ibidem.164 Cfr RHF, D-15139.165 Per questa formula, cfr A. de Fuenmayor e altri, op. cit., Appendice do­cumentale, documento 16, p. 748.166 Lettera 29-XII-1947//14-II-1966, n. 87. Nel nihil obstat per l’erezione diocesana, la Sacra Congregazione dei Religiosi specificava che il Presidente doveva emettere la sua Fedeltà perpetua davanti al Vescovo e che a questi venivano concessi poteri di sanazione e dispensa quanto ai difetti di incor­porazione (cfr A. de Fuenmayor e altri, op. cit., Appendice documentale, documento 13, p. 744). Nella comunicazione del Vescovo di Madrid alla Sacra Congregazione dei Religiosi concernente l’awenuta erezione della So­cietà Sacerdotale della Santa Croce (19-XII-1943), è scritto: “Moderator nuper erectae Societatis Sacerdotalis Sanctae Crucis coram me perpetuam emisit fidelitatem” (ibidem, Appendice documentale, documento 17, p. 748).167 Lettera 31-V-1943, n. 53.168 Lettera 14-11-1944, n. 12.169 “Non ho simpatia - scrisse - per coloro che fanno salti nel vuoto, per­ché penso che si possa andare avanti salvaguardando l’essenziale, che è in­tangibile, pur facendo un passo alla volta. Così procede la Chiesa, gover­nata dallo Spirito Santo, per edificare su terreno solido e sicuro” (ibidem, n. 11).170 Sono parole della Lettera 11-111-1940, n. 46: “Quando il Cielo riterrà che sia arrivata l’ora, ci consentirà di tracciare - nell’organizzazione dell’a­postolato nella Chiesa - l’alveo nel quale deve scorrere il fiume in piena dell’Opera, che nelle circostanze attuali non ha ancora una sistemazione adeguata: sarà un compito arduo, penoso e duro. Bisognerà superare molti

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ostacoli, ma il Signore ci aiuterà, perché tutto nella sua Opera è Volontà sua”.171 Cfr Sabina Alandes Caldés, RHF, T-04855, p. 4.172 Lettera da Madrid, in EF-440531-1.173 Gli aspetti fastidiosi e inadeguati della soluzione furono sottolineati nel­la citata lettera del 14 febbraio 1944. E questo chiarimento è da conside­rarsi provvidenziale, poiché altrimenti si potrebbe avere l’impressione che i passi successivi dell 'iter iuridicum siano stati fatti per puro capriccio. Fra gli altri difetti, il Fondatore indica i seguenti: “Questa soluzione non è adatta a noi perché la cosa principale - l’Opus Dei - vi appare secondaria” (ibidem, n. 12). “L’Opus Dei - che costituisce la nostra vera Opera - viene a essere una parte della Società Sacerdotale della Santa Croce, mentre la realtà è che la Società Sacerdotale della Santa Croce è una piccola parte dell’Opera” (ibidem, n. 17).174 Cfr AGP, Sezione Pratiche, D-660.175 Lettera da Madrid, in EF-440425-1.176 Citazione in una lettera all’Abate Coadiutore di Montserrat, Dom Au­relio Maria Escarré, O.S.B., da E1 Escoriai, in EF-440515-1.177 Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 762. Essi conclusero gli esercizi spirituali prescritti dal Codex per le diverse fasi dell’ordinazione prima del 15 giu­gno, data in cui don Josemaria, come Presidente della Società Sacerdotale della Santa Croce, certificò che ognuno di loro “ha svolto i Santi Esercizi per il tempo richiesto dal Codice Canonico per la ricezione degli Ordini Sa­cri, nel Monastero di E1 Escoriai, nella casa dei Padri Lazzaristi (via Fernàndez de la Hoz, 21) e in una delle nostre case”. Cfr anche AGP, Se­zione Pratiche, D-660.178 Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 762. Quando andava a E1 Escoriai per di­rigere un corso di ritiro, il Padre alloggiava nel Monastero e occupava la stanza che aveva utilizzato Sant’Antonio Maria Claret; era solito dar loro le lezioni di pratica liturgica nella cappella utilizzata dal santo (cfr pure Jo­sé Luis Muzquiz, RHF, T-04678/1, p. 43).179 Per esempio, che il sacerdote non deve sentirsi proprietario delle anime, ma semplice strumento dello Spirito Santo, che è Colui che davvero le diri­ge. Cfr ibidem, p. 119.180 Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 762; e AGP, Sezione Pratiche, D-660.181 Cfr AGP, Sezione Pratiche, D-660, Tessera Studiorum. Mons. Garcia Lahiguera afferma che “nonostante l’abbondante lavoro che avevano, essi ottennero risultati straordinari; i professori erano meravigliati dei loro progressi ma in me ciò non destava meraviglia, considerando il livello in­tellettuale degli studi civili che avevano fatto e la loro dedizione allo stu­dio, sostenuta dallo zelo instancabile del Padre” (Un santo per amico..., op. cit., pp. 141-142). “I tre avevano già una preparazione umanistica e scientifica di ottima qualità e si dedicarono intensamente alle discipline ec­clesiastiche” (José Maria Bueno Monreal, in ibidem, p. 22).

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182 II professore di canto era don Enrique Masso, che dava lezioni di canto gregoriano sia in via Diego de Leon che nel centro di via Jorge Manrique. Cfr Francisco Ponz, RHF, T-04151, p. 46; Maria Dolores Fisac, RHF, T- 04956, p. 17.183 Cfr Àlvaro del Portillo, Sum. 763; e AGP, Sezione Pratiche, D-660.184 Appunti, n. 123, del 9-XII-1930.185 Relazione di Teodoro Ruiz Jusué (26-VI-1944), in AGP, Sezione Prati­che, D-660. Il Padre raccontò questi particolari nella meditazione del po­meriggio del 25 giugno; cfr Francisco Ponz, RHF, T-04151, p. 79. L’ordi­nazione di sacerdoti provenienti dall’Opus Dei era stata per quindici anni oggetto della sua fiduciosa e tenace preghiera.186 Cfr Relazione di Teodoro Ruiz Jusué (20/V-28/VH'1944, p. 20), in AGP, Sezione Pratiche, D-660.187 Ibidem, p. 2. Fu in questa occasione che, come già ricordato altrove (cap. XIII, nota 195), il Vescovo raccontò ai presenti un episodio edifican­te circa la “opposizione dei buoni”, il rispetto per i calunniatori e la delica­ta unità fra il Fondatore e Àlvaro del Portillo (cfr Manuel Botas Cuervo, RHF, T-08253, p. 26).188 Relazione di Adolfo Rodriguez Vidal (25-VI-1944), in AGP, Sezione Pratiche, D-660.189 Ibidem.

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Capitolo XVNUOVO SLANCIO APOSTOLICO

(1944-1946)

1. Dopo le ordinazioni sacerdotaliLa mattina successiva alla prima ordinazione di sacerdo­ti dell’Opera don Josemarìa andò a trovare don Àlvaro del Portillo, che abitava nel centro di via Villanueva. Vo­leva confessarsi e ricevere da lui l’assoluzione. Gli chiese se avesse già ascoltato qualche confessione e, alla rispo­sta negativa, gli disse: “Allora ascolta la mia, voglio fare con te una confessione generale”1. Non avendo mai am­ministrato il sacramento, nel momento di dare l’assolu­zione al penitente don Àlvaro era così emozionato che il Padre - fu egli stesso a raccontarlo varie volte, in seguito- fu costretto a ricordargli la formula. Da quel momento e fino alla morte del Fondatore, don Àlvaro fu il suo confessore2. Ed erano tali l’umiltà e la trasparenza inte­riore di don Josemarìa che egli gli apriva la propria ani­ma anche al di fuori della confessione3.

Nella settimana successiva al 25 giugno furono cele­brate le prime Messe solenni dei novelli sacerdoti. Mar­tedì 27 Chiqui celebrò nella chiesa di Santa Isabel. Gli fecero da padrini p. Lopez Ortìz e don José Maria Bue- no Monreal. La cerimonia ebbe luogo alle nove, in una chiesa piena zeppa di gente, fra cui tutto il personale della “Electra de Madrid”, l’azienda elettrica dove il no­

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vello sacerdote aveva lavorato: consiglieri di ammini­strazione, ingegneri, capi intermedi, impiegati, operai; c’erano anche i professori e colleghi della Scuola di In­gegneria Mineraria4.

Don Àlvaro celebrò la Messa mercoledì 28 nella cap­pella del Colegio del Filar dei PP. Marianisti. Fu assisti­to da p. Aguilar O.P. e dal direttore della scuola. Alla fi­ne impartì la Benedizione papale, fu cantato il Te Deum e al baciamano ci fu una sfilata interminabile di perso­ne: parenti, amici e conoscenti, fra cui molti ingegneri e professori della Scuola di Ingegneria civile5. Giovedì 29 giugno don José Luis celebrò la sua prima Messa nella chiesa del Monastero dell’incarnazione. Anche qui si affollarono amici e colleghi di università del celebrante, oltre a un buon numero di dipendenti della RENFE, la società nazionale delle ferrovie, dove aveva lavorato. Il Padre aveva deciso di non assistere neppure alle prime Messe. Non voleva cedere all’emozione e voleva privar­si di quella gioia offrendone il sacrificio al Signore. Umanamente parlando, gli eventi potevano sembrare una specie di vittoria per lui ed egli, nella sua umiltà, stabilì da allora la regola di non comparire in queste ce­rimonie. I suoi figli, e con loro molti altri, sapevano il motivo della sua assenza. Ma quel giovedì don Jose­maria volle fare un’eccezione per fare contento il nuovo sacerdote; chiamò Ricardo Fernàndez Vallespin e gli disse: “Andiamo alla prima Messa di José Luis”6. Segui­rono la Messa confusi tra la folla7.

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Alcuni mesi prima, nel febbraio del 1944, durante un ri­tiro spirituale, don Josemaria rifletteva forse sui futuri sacerdoti: “Vedo chiarissimo che, in modo particolare nell’Opera, essere sacerdote vuol dire stare di continuo sulla Croce!”8. Anni prima ne aveva definito il ruolo in due parole: “Il sacerdote: santificarsi e santificare”9.674

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Ideale elevato, che sottolineò con questo semplice ragio­namento:

“Il sacerdote tiepido: ecco il grande nemico dell’Opera.Perciò è indispensabile che noi sacerdoti siamo santi”10.Il sacerdote santifica nell’esercizio del suo ministero:

“Il tuo lavoro, sacerdote, non è solo quello di salvare le anime, ma di santificarle”11. Per fare questo deve dedi­carsi interamente al suo lavoro ministeriale, senza mez­ze misure, senza dare spazio alla tiepidezza, all’ozio o allo scoramento. Funzione del sacerdote è riempire di luce il mondo predicando Cristo. Il Popolo di Dio infat­ti, per usare l’immagine evangelica, riflette la splendida santità dei suoi sacerdoti e Dio non voglia che cadano nelle tenebre. In un’altra scheda del Fondatore si legge, riguardo al sacerdote:

“Tu sei il sole (lux mundi) e il tuo popolo la luna, che ri­flette la luce che riceve da te”12.Il Fondatore riempiva il suo schedario di numerose

note siffatte. Le usava per predicare ai sacerdoti e, dalle idee lì raccolte, si vede chiaramente qual è l’obiettivo proposto dal predicatore: santità, santità, santità. Tale era il messaggio che Dio gli chiedeva di ricordare al mondo: la chiamata alla santità di tutti i cristiani. Don Josemarìa non poteva concepire la figura del sacerdote tiepido in cui il suo cuore nobile e innamorato si era tal­volta imbattuto. Com’è possibile, si chiedeva, che un sa­cerdote si adatti a una vita mediocre?

Ma la mancanza di logica in un tale comportamento non lo sorprendeva più di tanto. E una deplorevole pos­sibilità della condizione umana, di cui aveva già avuto esperienza quando aveva scritto in Cammino:

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“Paradosso: è più accessibile essere santo che sapiente, ma è più facile essere sapiente che santo”13.Troviamo una riflessione analoga negli Appunti, ben­

ché non si tratti qui di un pensiero, ma del commento di un episodio del quale è protagonista un furbacchione in carne e ossa:

“Voglio annotare un fatto che può far vergognare anche persone molto avanti nella virtù, perché dimostra che gli uomini, per qualche miserabile soldo, sono capaci di fa­re più sacrifici che non per servire Dio. Avevo visto dueo tre volte sui tram un bambino muto e zoppo che chie­deva l’elemosina esibendo un cartello scritto da lui stes­so. Faceva veramente compassione e i tranvieri non gli facevano pagare il biglietto, cosa di cui ringraziava con gesti espressivi...”14.Tempo dopo una delle signore che collaboravano alle

opere di misericordia del “Patronato de Enfermos”, Luz Martìnez15, parlò a don Josemaria di alcuni bambini or­fani e gli chiese di fare qualcosa per loro. Due settimane dopo, nel Patronato, egli conobbe il maggiore di questi orfani; anzi, lo riconobbe:

“Era il piccolo muto... e con una lingua bella sciolta! Con una disinvolta parlantina, il birbone ci raccontò le sue imprese: facendo il muto (lo aveva imparato imitan­do una vicina che lo era per davvero) raccoglieva anche cinque pesetas al giorno. Sulla fronte reca il segno di una bella ferita che gli hanno fatto nel tentativo di farlo par­lare - così diceva - ma neppure al pronto soccorso ha detto una parola o un ahi\ di dolore, ma solo gemiti da muto. Un’altra volta gli hanno schiacciato un dito con un martello: ce lo ha mostrato. Altre volte, asseriva, gli avevano confitto spilli nelle parti più carnose del cor­po... Non sono mai riusciti a farlo gridare. Che forza di volontà! E noi ce l’abbiamo così per servire Dio?”16.

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Alcuni “dicono di servire e non servono affatto”, ri­peteva spesso don Josemaria17. Per fortuna poteva esse­re orgoglioso dei suoi figli sacerdoti. Qualcuno, prima dell’ordinazione, aveva commentato: “Adesso li fa ordi­nare e poi li ammazzerà di lavoro”18. La battuta fu ripe­tuta e nacque la leggenda che, in effetti, li “ammazzava” di lavoro. E c’era qualche fondamento, perché il Padre, non appena essi furono ordinati ed egli li ritenne in gra­do di predicare e di esercitare il ministero, li inviò a fare viaggi apostolici in vari luoghi. Nel mese di agosto - racconta don José Luis Muzquiz - lui e don José Maria Hernàndez Gamica avevano già cominciato a predicare il primo corso di ritiro, che durava una settimana e comprendeva più di venti meditazioni, alle quali potero­no prepararsi con calma grazie alla generosità del Padre che, pieno di comprensione, mise a loro disposizione il suo schedario per le meditazioni19. La liberalità di met­tere a disposizione dei giovani sacerdoti le proprie sche­de e note personali è del tutto inconsueta per qualsiasi maestro sulla faccia della terra20. Da quello schedario prelevarono ciò di cui avevano bisogno, a loro discre­zione. Finirono per prendere tante schede che don Jose­maria fu costretto a ricominciare un altro schedario completamente nuovo21.

In aggiunta a quelle già note, fu bersagliato da nuove critiche. Corse voce che egli fosse un tiranno, perché, come abbiamo già detto, uccideva di fatica i suoi figli. Una cosa era certa: il Padre era deciso a farli diventare santi, esigendo loro un impegno ragionevole, ma eroico. Voleva che acquisissero molta esperienza pastorale, obiettivo che fu realizzato in pieno. L’affetto del Padre per i suoi primi figli sacerdoti si manifestava nello spin­gerli a esercitare con passione il loro ministero. Don Alvaro del Portillo ricorda perfettamente che, nel suo primo anno di sacerdozio, il Fondatore gli aveva fatto predicare più di tredici turni di esercizi spirituali, di ven- tidue meditazioni ciascuno, e altrettante giornate di riti­

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ro, e impartire innumerevoli lezioni; cui bisogna aggiun­gere conversazioni, confessioni, direzione spirituale e le incombenze del governo dell’Opera22.

Ancora più esigente, eroicamente esigente, don Jose- maria lo era con se stesso. Ancora una volta si può con­statare che egli praticava lo spirito che predicava. Da quando aveva cominciato a dirigere corsi di esercizi spi­rituali dopo la guerra civile, ne aveva predicato almeno uno al mese, salvo rare eccezioni. Uno dei mesi “in bianco” fu il novembre 1943, ma per comprenderne il motivo basta leggere ciò che scrisse all’Abate di Mont- serrat, in una lettera del 17 dicembre:

“(...) Se non ho risposto prima a V.R. è perché io sono dovuto stare per alcuni giorni alle prese con medicazioni varie, in seguito a una piccola operazione, e il mio unico fratello è stato per qualche tempo in lotta tra la vita e la morte per un’ulcera duodenale. Grazie a Dio va meglio, anche se ha perso molto sangue, tanto che gli hanno do­vuto fare due trasfusioni”23.Nei primi mesi del 1944 don Josemarìa dovette dimi­

nuire la sua febbrile attività nelle diverse diocesi spa­gnole. In gennaio subì un’altra operazione, questa volta alle tonsille24. Ma né la fatica né le malattie gli paraliz­zarono le energie. Era sorprendente la prontezza con cui si riprendeva, come se la voglia di riprendere il ministe­ro interrotto lo aiutasse a ricuperare più celermente la salute. Gli esercizi spirituali che predicò alla comunità degli Agostiniani dell’Escorial, dal 3 all’11 ottobre 1944, misero a dura prova la sua resistenza fisica. A un certo punto gli si gonfiò moltissimo il collo e gli si formò un antrace che cominciò a suppurare attraverso varie lesioni. Per proteggere la zona infiammata dall’at­trito con il colletto della veste talare usava un fazzoletto bianco, che risaltava nell’oscurità della cappella. Don Josemarìa non voleva attirare l’attenzione e, deciso a678

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continuare a predicare fino all’ultimo giorno, per un po’ evitò di ricorrere al frate infermiere; i presenti non si re­sero conto per nulla della gravità del suo stato e dei vio­lenti attacchi febbrili che patì. Con una breve lettera chiese a Madrid dei fazzoletti neri:

“Inviatemi un paio di fazzoletti neri, per il collo. Fate anche lavare quello che vi mando ora e quello che ho mandato ieri nella borsa. E urgente. Di’ a Ricardo che quando viene si porti la macchina fotografica. Sono le quattro passate e non è ancora venuto l’infermiere. Per la verità posso farne a meno. Mi arrangerò”25.Due settimane dopo, il Provinciale, padre Carlos Vi-

cuna, che aveva raccolto i commenti dei partecipanti, scrisse ad Alvaro del Portillo:

“Le riporto qualche impressione sugli esercizi spirituali dati dal P. José Maria Escrivà ai religiosi agostiniani del Reale Monastero dell’Escorial in questo mese di ottobre. Tutti concordano nel dire che è andato oltre ogni aspet­tativa e ha soddisfatto pienamente i desideri dei Superio­ri; ora attendiamo che Dio conceda frutti abbondanti. Tutti, senza eccezione (Padri, teologi, filosofi, fratelli e aspiranti), pendevano dalle sue labbra, quasi tratteneva­no il respiro per ascoltarlo; le sue meditazioni di 30-35 minuti sembravano a tutti brevissime, conquistati com’e­rano dal torrente del suo fervore, entusiasmo, sincerità e slanci del cuore. ‘Gli viene dal di dentro; parla così per­ché ha vita e fuoco interiore; è un santo, un apostolo; se gli sopravviveranno, molti di noi lo vedranno sugli alta­ri’... questi sono alcuni dei commenti che ho udito.E notevole e non frequente l’unanimità degli elogi, so­prattutto se espressa da un uditorio fatto in prevalenza di intellettuali e specialisti. Non è stata proferita una so­la parola non favorevole. E vero che era arrivato già pre­ceduto dall’aureola di santo, ma non è meno vero che, lungi dallo smentirla, l’ha confermata. Sono queste le impressioni raccolte nella Comunità”26.679

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I partecipanti, tuttavia, non lo avevano visto trasci­narsi fino alla sua camera per riprendersi un po’, tra una meditazione e l’altra. E quando arrivava l’ora di uscire di nuovo a predicare, con una febbre intorno ai quaranta gradi, don Josemarìa faceva uno sforzo sovru­mano. Predicava con ardore, lottando con tutte le forze per non arrendersi alla febbre27.

Da qualche tempo si stavano manifestando vari sinto­mi di malattia: affaticamento e spossatezza, foruncolosi, sete, tendenza all’obesità. Si sottopose a esami clinici e gli fu diagnosticato un forte diabete.

E possibile che il suo eroico comportamento pastorale contribuisse a dare ali alla leggenda secondo cui “am­mazzava” i suoi sacerdoti. Don Josemarìa sapeva bene che, con l’ordinazione, il sacerdote entra al servizio dei suoi fratelli. Così scriveva a tutti i suoi figli pochi mesi dopo la prima ordinazione:

“Tutti voi, figli miei, dovete servirvi gli uni gli altri come richiede la fraternità ben vissuta; ma i sacerdoti non de­vono perméttere che i laici, loro fratelli, prestino loro servizi non necessari. Noi sacerdoti nell’Opera siamo schiavi degli altri e, seguendo l’esempio del Signore che non è venuto a farsi servire, ma a servire, non veni mini­stravi, sed ministvave, dobbiamo saper deporre il cuore a terra perché gli altri possano camminare sul morbido. Perciò, consentire che i membri laici vi prestino servizi superflui, va contro l’essenza dello spirito dell’Opus Dei. Abbiamo bisogno di sacerdoti con il nostro spirito: ben preparati, allegri, operosi ed efficaci; con uno spirito sportivo nei confronti della vita; capaci di sacrificarsi di buon grado per i propri fratelli, senza sentirsi vittime; ben sapendo che tutti, nell’Opera, vogliono loro bene con tutta l’anima. Figli miei, pregate molto perché i sa­cerdoti siano molto allegri e molto santi, perché non pensino a se stessi e perché tengano presente solo la glo­ria di Dio e il bene degli altri.E necessario che i nostri sacerdoti nutrano nell’anima

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runa decisione fondamentale: spendersi completamente al servizio dei loro fratelli, convinti che il ministero al quale sono stati chiamati, nell’Opus Dei, è un grande onore, ma soprattutto un grave onere; sarà però facile da portare se cercano di stare molto uniti al Signore, perché il suo giogo è sempre soave e il suo peso leggero: iugum meum suave est, et onus meum leve.Tutti gli anni scrivo sulla prima pagina del calendario li­turgico le parole in laetitia, nulla dies sine Crucel, per ri­cordarmi di portare con garbo il peso del Signore, sem­pre con buonumore - anche se tante volte controvoglia- e sempre con gioia”28.I novelli sacerdoti si prestavano docilmente a essere

modellati dalle mani del Fondatore, che se li portava da una parte all’altra. Lo facevano molto di buon grado, sempre disposti a mettere in pratica con gioia i consigli brevi, incisivi e definitivi che dava loro il Padre:

“In primo luogo siate sacerdoti. Poi, sacerdoti. E, sem­pre e in tutto, soltanto sacerdoti.- Parlate solo di Dio.- Se un penitente vi chiama, interrompete qualsiasi cosa e prendetevi cura di lui”29.

2. Los Rosales e la Residenza di via ZurbarànI tre sacerdoti, che provenivano dalle file dei laici del- l’Opus Dei, acquistarono ben presto una sorta di aria di famiglia. Mantenevano le caratteristiche personali, ma acquisivano una fisionomia radicata nello spirito del- l’Opera e nutrita dal rapporto costante con il Fondato­re. Il primo ad accorgersi di tale somiglianza fu il Vesco­vo di Madrid. Man mano che passavano i mesi, nel Padre aumentava la soddisfazione per il loro rendimen­to. Si vedeva benissimo che erano frutto del suo lavoro.

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Si riconosceva in loro con gioia, sapendo che aspirava­no all’ideale di sacerdozio verso il quale li conduceva. Si sottoponevano senza lamentarsi a una vita di sacrificio e di abbondante attività apostolica. Prendevano esem­pio dal Padre e anche loro si “ammazzavano di lavoro”.

L’attività apostolica del Padre spesso era rispecchiata nella corrispondenza epistolare; perciò appare piuttosto strano che le lettere dell’autunno 1945 siano meno di una dozzina. Forse alcune sono andate perdute, ma il fatto è che non c’è traccia scritta dei suoi spostamenti attraverso la penisola iberica prima del 19 gennaio 1946. Vi sono due lettere con questa data. Una è per le sue figlie di Bilbao: “Ricevo le vostre lettere e faccio in modo che le vostre sorelle vi scrivano spesso, perché io ora non lo posso fare”30. Segue un altro intervallo che registra solo due lettere, entrambe da Granada. Una, di­retta alle sue figlie dell’amministrazione della Residenza Abando, di Bilbao, nella quale scrisse di essere appena rientrato da Siviglia e di avere l’intenzione di recarsi presto a Bilbao a trovarle31. L’altra è per le sue figlie del Centro di Los Rosales, vicino a Madrid, in cui diceva di aver voglia di stare con loro, “ma bisogna avere pazien­za, perché il Padre in questi giorni va in giro come un povero zingaro”32.

Perché il Padre non poteva scrivere? A che scopo tan­to viaggiare di città in città? Che cosa lo induceva a pe­regrinare “come un povero zingaro”? Una lettera di don Àlvaro a José Orlandis, scritta il 3 febbraio da Bilbao, getta luce sugli intendimenti del Fondatore: “L’altro ieri sono arrivato qui con il Padre, che ha proseguito il viag­gio per le Asturie e la Galizia”. Poi lo avvisava dell’arri­vo di un telegramma, con cui Salvador Canals comuni­cava di essere felicemente arrivato a Roma, e proseguiva: “Credo che tu e io potremo partire alla fine di questo mese o all’inizio del successivo”33. Salvador Canals e José Orlandis, lo si è ricordato nel capitolo precedente, avevano soggiornato per tre anni a Roma,682

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dal novembre 1942 al novembre 1945, e avevano aiuta­to don Àlvaro nel 1943 per ottenere il nihil obstat della Santa Sede per l’erezione canonica a Madrid della So­cietà Sacerdotale della Santa Croce.

Dal modo di esprimersi di don Àlvaro si capisce che Jo­sé Orlandis attendeva la notizia e che il loro imminente viaggio a Roma era il risultato di un programma svilup­pato dal Fondatore. Infatti una settimana dopo, il 9 feb­braio, don Àlvaro scrisse a Roma a Salvador Canals, an­nunciandogli il suo prossimo arrivo: “Io verrò subito. Le lettere sono a buon punto, ne abbiamo diverse e le altre ce le spediranno (...). Verrò entro una quindicina di gior­ni. Avrò con me le lettere di Siviglia, Granada, Murcia, Valencia, Barcellona, Vitoria, Santiago di Compostella, Valladolid, Madrid, e forse Saragozza e Coimbra, oltre a Pamplona, Avila, Palencia e Salamanca”34. Che cosa sia­no queste lettere viene chiarito dal messaggio che don Àlvaro inviò il giorno dopo a José Orlandis, che si trova­va a Saragozza: “Ti alleghiamo alcune righe per l’Arcive­scovo. Gli chiediamo le lettere commendatizie, che tutti i Vescovi ai quali sono state chieste hanno già dato”35-

È evidente che il Fondatore, instancabile, stava per­correndo tutta la Spagna allo scopo di ottenere lettere commendatizie dai Vescovi spagnoli. Ma qual era il pro­getto, portato avanti con tanta premura e avallato da una impressionante raccolta di lettere commendatizie? Un documento redatto d’accordo con il Vescovo di Ma­drid spiega il progetto e le procedure. Ecco la traduzio­ne del testo latino:

“Beatissimo Padre, il sacerdote Josemaria Escrivà de Ba­laguer y Albàs, Presidente Generale della Società Sacer­dotale della Santa Croce, umilmente prostrato ai piedi della Santità Vostra, supplica vivamente dalla Sua bene­volenza che si degni di concedere il Decretum Laudis e l’approvazione delle Costituzioni della Società”36.

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Segue, in una mezza dozzina di righe, il resoconto del- l'iter fondazionale e giuridico dell’Opus Dei: fondazione nel 1928; approvazione come Pia Unione nel 1941; ere­zione canonica della Società nella diocesi di Madrid nel 1943. Così prosegue il documento:

“Grazie all’aiuto divino, la Società Sacerdotale della San­ta Croce è cresciuta a tal punto che, sia per il numero e l’elevata qualità dei suoi soci che per la natura e lo svi­luppo delle loro attività - che svolgono con frutto non solamente in un buon numero di diocesi, ma anche in di­verse nazioni d’Europa e d’America -, detta Società ri­chiede una approvazione che le dia maggiore stabilità e portata di quelle consentite dal solo diritto diocesano”37.L’ultimo paragrafo sottolineava la “opportunità ed ef­

ficacia” dell’apostolato che svolgeva la Società Sacerdo­tale della Santa Croce, sufficientemente dimostrate da diciotto anni di attività. Il documento è datato Madrid, 25 gennaio 194638. In definitiva la concessione del De­cretimi Laudis, cioè di una sanzione pontificia, non si­gnificava altro che l’approvazione da parte della Santa Sede, che avrebbe consentito all’Opus Dei di dotarsi di un regime pontificio, adeguato all’espansione apostolica nelle diocesi di diverse nazioni.

Le lettere commendatizie, che furono allegate alla pe­tizione, erano scritti di raccomandazione e testimonian­za dell’espansione apostolica dell’Opus Dei nella mag­gior parte delle diocesi spagnole e di alcune nazioni europee e americane. Dimostravano anche che i Vescovi approvavano il desiderio del Fondatore di ottenere un regime di carattere universale, conveniente alla natura del suo apostolato.

* * *Don Alvaro e José Orlandis s’imbarcarono a Barcello­

na sulla nave /./. Sister diretta a Genova, dove giunsero684

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il pomeriggio del 16 febbraio39. Li aspettava Salvador Canals. Poco dopo essere arrivato a Roma don Alvaro scrisse al Padre informandolo della situazione e del la­voro svolto per far approvare l’Opera come istituzione di diritto pontificio. Intanto don Josemarìa proseguiva in Spagna i suoi incessanti e faticosi viaggi. Le comuni­cazioni tra la Spagna e l’Italia non si erano ancora nor­malizzate, né per quanto riguarda il servizio postale né per il trasporto di persone e merci. Tuttavia, il giorno di S. Giuseppe il Padre ricevette telegrammi e auguri non solo dall’Italia ma anche dall’America del Nord e del Sud, dalla Svizzera, dal Portogallo.

Il 24 marzo 1946, già a sera inoltrata, dal suo scrit­toio in via Diego de Leon scrisse ai suoi figli di Roma per tenerli aggiornati sulle novità. Don Josemarìa stava in quel momento dirigendo un corso di ritiro per univer­sitarie nel centro di via Zurbaràn, a Madrid:

“Grazie a Dio, si lavora: tengo due circoli di studio (S. Raffaele), ognuno con una media di diciotto parteci­panti; ne inizierà un altro in questi giorni, per cui saran­no tre alla settimana. (Vi scrivo la notte del 24 marzo). Inoltre sto dando il secondo turno di esercizi e ne è già programmato un altro”40.Quanto ai preti novelli, quasi a confermare le sue im­

pressioni, scrisse:“I pretini lavorano molto bene e c’è parecchio lavoro per tutti. Vi racconteranno loro stessi. Ora, oggi, José Luis si trova a Siviglia e Chiqui fa tutto il resto; sembra quasi impossibile ma tuttavia si riesce a tener dietro al corso di Los Rosales e al lavoro di Madrid”41.In questa lettera, scritta in gran fretta, le notizie si

susseguono. Molte sono importanti, come le risposte dei Vescovi spagnoli alle richieste di lettere commendatizie; oppure l’ammissione all’Opera delle prime numerarie

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ausiliarie; e ancor più quelle sul Papa e la sua conoscen­za dell’Opus Dei:

“Mi scrive l’Abate Escarré - raccontava il Fondatore - e mi dà notizie davvero consolanti del suo colloquio con il Santo Padre. Laus Deol”42.Quella notte non terminò la lettera e la proseguì il

giorno successivo: “Riprendo il 25 marzo, di notte”. Ma scrisse solo una decina di righe e ricominciò a scri­vere il 26; anche quel giorno non era accaduto nulla di importante ed egli si rimise a scrivere tre giorni dopo:

“29 marzo. Sono stato a Zamora a trovare il Vescovo; an­che lui ci fa una lettera commendatizia. Ci siamo andati ieri mattina e siamo ritornati oggi all’una di notte (...). Chiqui è a Bilbao e José Luis, già ritornato da Siviglia, an­drà domani a La Coruna. Rimango ancora solo, anche se per poco tempo. Quanto bisogno c’è di altri sacerdoti!Non so che cosa vi sembrerà di questa lettera, scritta a pezzetti e piena di divagazioni, come mi accadeva ai '"tempi di Burgos. Questa situazione mi sembra quasi la stessa di allora, non so perché: anzi, lo so il perché”43.Ma la lettera non finisce affatto con la citazione della vi­

sita al Vescovo di Zamora e il ricordo dei tempi di Burgos. C’è infatti un salto spettacolare di trenta giorni, dopo i quali riparte spezzettata e schematica, quasi un diario:

“Continuo il 29 aprile. Devo mettermi in viaggio e, tra una cosa e l’altra, non ho potuto rispondere alla lettera di Àlvaro”.“30 aprile. Sono appena arrivato da Valladolid dove questa mattina ho lasciato Nostro Signore nel Taberna­colo. E meraviglioso, ne abbiamo un altro!”44.Egli contava il numero dei Centri dell’Opera dal nu­

mero dei tabernacoli.686

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Don Josemarìa aveva perfettamente ragione a definire la lettera “a pezzetti e piena di divagazioni”, perché l’a­veva iniziata il 24 marzo e mostra un iter accidentato; ma ci aiuta comunque a seguire i passi del Fondatore.

Lasciando da parte la genesi e lo sviluppo di questa let­tera, torna in mente, ancora una volta, il suo “nasconder­mi e scomparire”, che fu un tratto essenziale del carattere di don Josemarìa. All’offesa, alla calunnia o alla ingiusta opposizione rispondeva col silenzio ed era assai abile nel­l’arte di sviare i tentativi di chi cercava di mettere a nudo la sua anima e di analizzare la sua persona. Più di una volta, ormai alla fine della vita, ricordando alla presenza dei suoi figli eventi dei quaranta e passa anni della sua vi­ta di Fondatore, sembrò voler entrare nella propria inti­mità e cominciare a rivelarla. Ma non era mai così:

“Di parecchie cose non saprete nulla, perché ho fatto in modo che non ne rimanesse traccia; ma ne conoscerete a sufficienza per restare molto colpiti e per ringraziare molto Dio (...).Desiderare di conoscere questi eventi è una cosa buona, ma dovete capire che, finché vivrò, non devono diventa­re pubblici, perché appartengono alla intimità della mia anima”45.I silenzi di don Josemarìa! Tra le righe della lettera del

24 marzo 1946, colma di notizie e avvenimenti, s’indovi­na l’impeto del carisma fondazionale. Agiva sempre sot­to l’impulso dello Spirito Santo. Il Fondatore se ne ren­deva conto dallo zelo apostolico che scuoteva fino al midollo tutto il suo essere. Era quasi un avviso dall’alto, già sperimentato in precedenza a Burgos, che preludeva a “un’epoca di intensa vibrazione”, nella quale sarebbe stato necessario “lavorare con tutta l’anima”46. E aveva anche il presentimento che si sarebbero di nuovo scate­nate le purificazioni passive, pur senza sapere con certez­za ciò che gli sarebbe accaduto nella primavera del 1946.

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*

Uno dei Centri dei quali il Padre si occupava spiritual­mente con i suoi primi figli sacerdoti era Los Rosales, di cui conviene raccontare la storia. Nel complessivo svi­luppo del lavoro di apostolato egli sentiva la mancanza di qualcosa: sognava infatti di poter disporre di una ca­sa per ritiri spirituali gestita dalle sue figlie. In quel pe­riodo, se voleva dare un corso di ritiro alle donne che partecipavano agli apostolati dell’Opera, lo doveva fare nel centro di via Jorge Manrique; se si trattava di uomi­ni, nel centro di via Diego de Leon o nella residenza di via Jenner (o, successivamente, in quella della Mon- cloa). A volte don Josemaria era costretto a predicare due corsi di ritiro contemporaneamente. Per esempio, fra il 16 e il 21 dicembre 1942 predicò due diversi corsi di ritiro per universitari, uno in via Diego de Leon e l’al­tro nella Residenza di via Jenner47. Ciascuno dei due gruppi era composto da una ventina di persone, numero che impediva di farne uno solo per ragioni di spazio.

Don Josemaria passava buona parte della giornata andando da via Diego de Leon a via Jenner e viceversa; per quanto rapido potesse essere, ogni volta impiegava un quarto d’ora abbondante. Ogni giorno in ciascun oratorio dava tre meditazioni più una lezione dottrinale e doveva anche trovare il tempo per parlare con tutti i partecipanti. Arrivava sempre puntuale in oratorio, an­che se con l’affanno di chi si era dovuto affrettare per strada. In ginocchio davanti al tabernacolo pronunciava chiaramente e lentamente, con fede viva, l’orazione pre­paratoria della meditazione. Si sedeva, apriva il Vangelo e cominciava l’orazione, sempre con voce forte. Il terzo giorno era rauco e il quarto era afono ma, pur costretto a parlare a mezza voce, il suo vigore non diminuiva48.

Egli si spendeva allo stesso modo per una sola anima che per una folla di persone. Lo prova ciò che capitò a Marichu Arellano. Suo fratello Jesus era dell’Opera e688

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abitava in via Diego de Leon. La famiglia Arellano abi­tava a Corella, nella Navarra, e Jesus aveva raccoman­dato a sua sorella di parlare con don Josemarìa quando fosse passata da Madrid. Un giorno dell’aprile 1944 la ragazza si presentò in via Diego de Leon per vedere suo fratello e sfruttare l’occasione per salutare il Padre. Era una semplice visita di cortesia, poiché non aveva alcun argomento particolare da trattare con il sacerdote. Ecco le sue impressioni:

“Mi colpirono la sua naturalezza e la sua allegria. Il Pa­dre non perse tempo e cominciò a chiamarmi per nome.Si interessò del mio viaggio e mi chiese quali progetti avessi. Gli dissi che, approfittando del viaggio, pensavo di stare alcuni giorni a Madrid per conoscere la città, fa­re alcuni acquisti (perché pensavo di sposarmi presto) e fare degli esercizi spirituali”49.Il sacerdote chiese a Marichu se gli permetteva di pre­

gare Dio perché la chiamasse all’Opera. La ragazza, un po’ sconcertata, rifletté per alcuni istanti. Che fare? La faccenda della vocazione era tutta per aria, ma... se glie­la otteneva davvero dal Signore... E disse di sì, che pote­va pregare per questo. Egli la avvisò che si accingeva a predicare un corso di ritiro nel Centro di via Jorge Man- rique.

Quando Marichu vi giunse, si meravigliò che vi parte­cipassero solo poche ragazze, tre o quattro. Ed ella era l’unica non dell’Opera:

“Vi assisteva solo Marichu Arellano. Per cinque giorni il Padre diede tutte le meditazioni, le conversazioni e la Benedizione col Santissimo con la sua proverbiale pun­tualità, che lo portava a iniziare e finire ogni riunione nel momento previsto dall’orario”50.

* * *

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Un giorno del novembre 1944 il Padre chiamò Nisa e Mary Tere Echeverria per far loro vedere Los Rosales. Aveva da poco individuato la casa e pensava potesse servire per svolgervi i corsi di ritiro. Era nel paese di Vil- laviciosa de Odón, località piccola e tranquilla a poco meno di mezz’ora di macchina da Madrid. Il Padre vi­sitò la casa, ampia, gradevole e indipendente, con tanto di giardino e di orticello, e scelse il locale migliore per farci l’oratorio. Il pomeriggio stesso andò a trovare don Julio, il parroco del paese, e gli presentò Nisa, Mary Te­re e le due persone che si sarebbero occupate del servi­zio. Presero possesso dell’immobile quel giorno stesso51.

Ci fu poi, come sempre, la spinta del Padre che voleva avere tutto subito pronto e in perfetto funzionamento. Egli stesso si occupò dell’oratorio, per il quale furono utilizzati oggetti provenienti da via Jenner, che erano sta-

„ ti immagazzinati quando c’era stato il trasloco nella resi­denza della Moncloa. Da via Jenner provenivano la juta, la tela con cui avevano rivestito le pareti e il fregio ligneo che la fissava lungo il bordo superiore, sotto il soffitto, e portava inciso un testo degli Atti degli Apostoli51.

Subito ebbero inizio i lavori di ristrutturazione del­l’immobile, allo scopo di utilizzarlo per i corsi di ritiro. Con un’istanza del 29 ottobre 1944 don Josemaria chie­deva al Vescovo che “si degni di conferire il debito per­messo per fondare questa Casa di Esercizi a Villaviciosa de Odón”53. Un mese dopo, terminato l’oratorio, pre­sentò un’altra istanza, chiedendo alla medesima auto­rità ecclesiastica che “si degni di concederci un Oratorio semipubblico con Tabernacolo nella proprietà Los Ro­sales a Villaviciosa de Odón, mentre vengono terminati i preparativi della Casa di Esercizi e viene costruita la cappella definitiva”54.

In seguito il Padre pensò che Los Rosales potesse an­che essere un centro di formazione per le donne dell’O­pera. Ne sentiva la necessità poiché il centro di via Jorge Manrique era insufficiente per i progetti apostolici che il690

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Fondatore aveva in mente nel 194555. Per don Jose- maria non si trattava di semplici possibilità, ma di idee prossime a diventare realtà. Il pomeriggio in cui aveva­no preso possesso di Los Rosales le incoraggiò dicendo: “Ora siete solo due, ma ben presto sarete duecento, duemila”56.

Il primo inverno che quelle donne trascorsero a Los Rosales fu lungo. Ogni tanto, a turno, andavano altrove a riposare e cambiare aria. Marichu Arellano racconta che nell’aprile 1945 il Padre, vedendo la loro piccola ta­vola da pranzo, disse che era opportuno che ne mettes­sero un’altra, molto più grande e che entro l’anno il ta­volo sarebbe diventato insufficiente57.

Le donne che chiedevano l’ammissione nell’Opera erano poche e distanziate l’una dall’altra. Nel luglio 1945 cominciò a Los Rosales un corso di formazione. Il Padre predicava loro la meditazione del mattino e cele­brava la Messa. Poi impartiva lezioni o conversazioni su punti fondamentali dello spirito dell’Opera. Lo aiutava­no i primi sacerdoti, uno dei quali accompagnava sem­pre il Padre.

“Ci ripeteva - ricorda Carmen Gutiérrez Rfos - che do­vevamo essere molto fedeli; se non lo fossimo state sa­remmo state di ostacolo nell’Opera; e un giorno ci disse che se fossimo state veramente fedeli, presto ci saremmo estese a ventaglio nel mondo intero. In primo luogo per tutte le province della Spagna e poi negli Stati Uniti, in Messico, in Inghilterra e nel mondo intero.Quando il Padre diceva queste parole avevamo solo tre Centri, la zona della Moncloa da cui ci occupavamo del servizio, il Centro in via Jorge Manrique e Los Rosales.Il Padre sognava ad alta voce e ci invitava a sognare: ‘Sognate e la realtà supererà ogni vostra aspettativa’”58.Egli sapeva comunque collegare questi grandi desideri

di espansione apostolica alle cose minute della vita quo­tidiana: “Un pomeriggio del 1945 il Padre mi spiegava

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che aveva davanti a Dio la grande responsabilità della nostra formazione, di trasmetterci integro lo spirito del­l’Opera che Dio gli aveva affidato. Pochi giorni dopo venne e chiese della Direttrice. Mi attendeva nel vestibo­lo di Los Rosales. Con molta pazienza mi chiese: “Figlia mia, perché questo stipetto si apre con due anelli, invece di avere un grazioso chiavistello o una serratura?” Gli risposi: ‘Non so, Padre’. Il Padre mi spiegò che una Di­rettrice deve conoscere tutto quello che c’è in una casa eil perché di ogni chiodo. Quindi mi disse di chiamare il fabbro del paese perché mettesse una serratura allo sti­petto. ‘Poi alla chiave mettete un cordoncino con un fiocco, perché venga una cosa ben fatta: e tutto per amor di Dio’”59.

La casa di Los Rosales funzionò ben presto come Centro di studi e di formazione per le donne dell’Opera. Nell’estate 1945, per i corsi di formazione degli uomini, si cominciò a utilizzare la proprietà di Molinoviejo, una modesta casa di campagna immersa in una folta pineta, tra le pendici di una montagna e il paesino di Ortigosa del Monte, in provincia di Segovia. Col tempo sarebbe diventata un centro per ritiri e altre attività, ma prima aveva bisogno di essere ristrutturata.

* * *L’elenco dei Centri esistenti a Madrid era presto fatto. Per l’apostolato con gli uomini c’erano due apparta­menti, uno in via Villanueva e l’altro in via Espanoleto, più la Residenza universitaria Moncloa e il Centro di studi di via Diego de Leon. Le donne avevano Los Ro­sales, il Centro costituito dalla Amministrazione della Residenza Moncloa e da essa del tutto indipendente, e il Centro di via Jorge Manrique. Per dare maggiore impul­so all’apostolato con le universitarie sembrò opportuno lasciare quest’ultimo e trasferirsi in una zona più centra­le di Madrid. Don Josemaria diede incarico alle sue fi­glie di pregare, chiedendo al Signore che la nuova resi-692

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rdenza che cercavano fosse pronta per l’inizio del nuovo anno accademico. In ottobre trovarono una casa in via Zurbaràn. Furono subito iniziati i lavori di ristruttura­zione dell’immobile, il trasloco dei mobili da via Jorge Manrique e la sistemazione dell’oratorio60. Man mano che gli operai ultimavano e liberavano una zona della casa, subito veniva ammobiliata, decorata e occupata.

Fu fissata la data dell’8 dicembre 1945 per celebrare la prima Messa e per lasciare il Signore nel tabernacolo. La fede del Fondatore, profonda e vigile, richiedeva una grande delicatezza verso il Santissimo Sacramento; se ne ebbe la riprova nel pomeriggio stesso, durante l’Esposi- zione Eucaristica nell’oratorio della nuova Residenza. Lo racconta Lola Fisac: “Il Padre ci chiese di invitare le nostre amiche e le nostre famiglie; recitammo il Rosario e poi il Padre ci diede la Benedizione solenne con il San­tissimo. L’oratorio era strapieno. Cominciammo a ri­spondere alle preghiere in modo poco armonioso e mol­to distratto. Il Padre si interruppe e ricominciò. Ma non ce ne eravamo rese conto e continuammo a rispondere non all’unisono e disordinatamente. Allora il Padre si alzò, si voltò e spiegò che quel modo di pregare non an­dava bene né per la terra né per il Cielo e che così non si poteva lodare Dio, né conversare con Lui. Si inginoc­chiò e ricominciò la visita al Santissimo”61.

Da quel momento don Josemarìa si dedicò corpo e anima, con grande abnegazione, agli apostolati che si svolgevano nella residenza di via Zurbaràn, per la quale aveva chiesto e ottenuto un oratorio semipubblico62. Si era occupato personalmente della sistemazione dell’ora­torio, nonostante la scarsità di risorse e di denaro. La casa era stata messa sotto la protezione particolare della Santissima Vergine. In un luogo di passaggio obbligato, sulla parete del primo pianerottolo delle scale, tra due vetrate, aveva fatto collocare un quadro della Madon­na, in modo che salendo e scendendo fosse facile leggere e ripetere le frasi che vi erano scritte accanto: “Ave, Ma-

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ria, Figlia di Dio Padre; ave, Maria, Madre di Dio Fi­glio; ave, Maria, Sposa di Dio Spirito Santo. Più di Te, soltanto Dio”63.

Nel locale della Direzione, l’unico accanto all’ingres­so e dove venivano ricevute le visite, c’era un’Annuncia- zione che rappresentava la Madonna in ginocchio, con le mani giunte in preghiera; era l’ex pala d’altare dell’o­ratorio di via Jorge Manrique, davanti alla quale il Pa­dre aveva celebrato la Messa il 14 febbraio 194364. La pala dell’oratorio di via Zurbaràn era un quadro del­l’immacolata, copia di un’opera di Claudio Coello.

Cominciarono a cercare studentesse che volessero abitare nella Residenza e, quando iniziarono i corsi al- l’Università, si misero in contatto con altre ragazze per cominciare le lezioni di formazione. All’inizio di feb­braio 1946 don Josemarìa diede il primo circolo di stu­dio in via Zurbaràn65. Fatta l’orazione introduttiva, si sedeva dietro il lato corto di un lungo tavolo con un co- pritavolo rosa, intonato al divano e alle tende del salo­ne. Le studentesse si sedevano intorno al tavolo, sul quale poggiava un leggio di legno dorato, a forma di conchiglia, con un esemplare del Vangelo. Don Jose­marìa ne leggeva alcuni versetti, facendo loro un com­mento breve e denso. Passava poi a parlare di qualche tema di vita interiore o di una virtù in particolare. Subi­to dopo leggeva l’esame di coscienza e le incoraggiava a trarne qualche proposito, anche uno solo. Prima di ac­comiatarsi le invitava a portare amiche, con cui accre­scere il gruppo. E quando, la settimana successiva, co­minciava il circolo, don Josemarìa riassumeva o faceva riassumere il tema della settimana precedente: “Così le vostre amiche - diceva - sanno di che cosa abbiamo parlato e partono dal vostro stesso livello”66.

A forza di lavoro e di preghiera aumentarono così le donne che entravano nell’Opus Dei. Non fu facile. Do­po che venivano ammesse all’Opera, il Padre continua­va la loro direzione spirituale nel confessionale, con694

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grande zelo sacerdotale. Aumentavano anche le lezioni di formazione nel salone rosa e le meditazioni nell’ora­torio67.

* *L’incontro con il Padre era quasi sempre fonte di aspi­

razioni nuove nelle anime, cui mostrava orizzonti inso­spettati. Eccone un esempio: “Nel maggio 1946 - rac­conta Carmen Canals - feci alcuni giorni di ritiro spirituale nella Residenza universitaria di via Zurbaràn 26, diretti dal Fondatore dell’Opus Dei, che non cono­scevo”68. Carmen fu impressionata dalla forza delle sue parole, dal suo amore per la Santa Vergine e dal modo di preparare le partecipanti alla confessione. Parlò due volte con il Padre. La prima volta per pochi istanti: don Josemarìa le chiese se seguiva le meditazioni, se faceva orazione e se andava spesso a Messa. La seconda volta si avvicinò al sacerdote per chiedergli di essere ammessa nell’Opera: “Gli dissi che volevo essere dell’Opus Dei. Il Padre mi disse di no”69.

Carmen continuò a frequentare la Residenza per un certo tempo, ma poi smise di andarci. Quattro anni do­po fece un corso di ritiro a Molinoviejo. “Mi commosse- scrive - tornare ad ascoltare idee che avevo serbato nell’anima quasi senza rendermene conto: erano le stes­se cose che avevo sentito dire dal Padre”70. Lì rinnovò la sua decisione di far parte dell’Opera, cosa che accadde il12 marzo 1950. Poco tempo dopo, a Los Rosales, rivide il Padre, venuto per dare una conversazione a tutte loro, riunite nella sala da pranzo grande, sulla virtù della sin­cerità e sull’amore per la Chiesa e per il Papa.

Al termine dell’incontro, Carmen si avvicinò al Padre per salutarlo e per dirgli di sentirsi un po’ preoccupata per la risposta che anni prima il Padre stesso le aveva dato davanti al suo desiderio di far parte dell’Opera. Don Josemarìa la tranquillizzò e le disse che era stata l’intensa preghiera dei due fratelli di lei (entrambi del­

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l’Opus Dei) e la sua propria, a “strappare” dal Signore la chiamata che ella aveva già sentito tempo addietro, dopo avere incontrato il Padre per la prima volta71.

Quale strano dono possedeva il Padre per discernere chi poteva essere dell’Opera e chi no? Ecco il caso delle sorelle Gutiérrez Rìos. Una di esse, Lolita, stava facendo alcuni giorni di ritiro spirituale nel centro di via Jorge Manrique. Sua sorella Carmen andò a prenderla alla fine del ritiro: vide la casa, notò il clima di cordialità che vi regnava e si sentì avvinta da una sensazione indefinibile. Pochi giorni dopo, il 6 aprile 1945, ottenne un colloquio con il Padre. Non fu necessario protrarre la conversazio­ne: Carmen era decisa. Ecco la sua testimonianza:

“Molti anni dopo mia sorella, che era andata prima di me in quella casa per dare una mano e che vi aveva conosciuto il Padre, ha commentato molte volte in fami­glia e con le proprie amicizie una cosa che è sempre sta­ta evidente, cioè il rispetto del Padre per la libertà di ognuno. All’epoca il Padre le aveva detto: “Lolita, que­ste ti vogliono ‘pescare’, ma tu non lasciarti pescare”. E Lolita afferma che effettivamente ama e ha sempre ama­to l’Opera, il Padre e tutte le persone dell’Opera che ha conosciuto, ma che non ha mai sentito il minimo sinto­mo di vocazione, anche se allora aveva collaborato al lavoro apostolico dell’Opus Dei con affetto ed entusia­smo”72. Invece, fin dal primo momento in cui il Padre conobbe Carmen, le disse che aveva tutte le condizioni per intraprendere il cammino nell’Opus Dei.

Era abituale che il Fondatore desse a qualcuno un consiglio opportuno, anche senza conoscere previamen­te lui o la sua situazione. E leggeva nel cuore dei suoi fi­gli. Encarnita ne riferisce con semplicità un esempio, ac­caduto nel 1943, in un momento in cui le costava particojarmente il lavoro presso l’amministrazione della Moncloa. “Il Padre venne in visita con un Vescovo ed entrò in cucina, dove stavo lavorando. Cercai di essere molto cordiale e sorridente, ma rimasi stupefatta quan­696

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do il Padre mi disse a bassa voce, passandomi vicino: “Che cosa ti succede?”, e mi rivolse uno sguardo inco­raggiante. Quelle parole furono sufficienti a infondermi un rinnovato desiderio di fedeltà”73

3. Spirito sacerdotale e mentalità laicaleLe sue figlie erano giovani e alcune di loro inesperte nel­le molteplici arti e tecniche dell’amministrazione dei Centri. Don Josemarìa sapeva che avrebbero imparato elo ripeteva, infondendo loro sicurezza. Il Padre vicever­sa era un veterano della navigazione: aveva fatto espe­rienza degli scompigli e delle disavventure della gestione di una Residenza stando sulla plancia di comando di via Ferraz. Perciò trasmetteva alle sue figlie tutte le sue co­noscenze e non si alterava se capitavano gli errori abi­tuali in qualsiasi famiglia.

Uomini e donne dell’Opus Dei commettevano i loro errori ma, su consiglio di don Josemarìa, facevano delle schede di esperienza, che ripassavano periodicamente per non tornare a commetterli. Dopo alcuni anni le don­ne dell’Opera si muovevano con scioltezza. Il Padre continuava a guidarle, a illustrare loro nuovi progetti e a indicare loro nuove rotte. Los Rosales, per esempio, era una casa con molti problemi economici. Per alcuni periodi serviva loro per riposare e d’estate vi tenevano i corsi di formazione, come avvenne nel 1945. Don Jose­marìa trovò una soluzione, visti i tempi difficili di care­stia e razionamento: forse la si poteva sfruttare come te­nuta agricola. I clienti fissi sarebbero state le Residenze della Moncloa, di via Zurbaràn e di via Diego de Leon.

Un’altra idea, anch’essa del Padre, fu di creare un la­boratorio di confezione di paramenti sacri. A differenza della fattoria, questa iniziativa aveva dei precedenti. Ri­saliva ai tempi in cui Carmen, la Nonna e alcune ragaz­ze che si dirigevano con don Josemarìa avevano lavora­

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to per preparare il necessario per l’oratorio di via Fer­raz74. Anche a Burgos un gruppo di ragazze, sotto la di­rezione del Padre, aveva lavorato per fare amitti, purifi- catoi, camici e corporali destinati al primo oratorio che sarebbe stato approntato a Madrid dopo la fine della guerra75. Infine, c’erano state le tertulias in via Diego de Leon con la Nonna, con Carmen e con le prime dell’O­pera che cucivano e preparavano la biancheria per l’al­tare76. Il laboratorio di cucito fu sistemato nella sala da pranzo verde, al primo piano di Los Rosales77.

Don Josemarìa era sicuro di poter riporre molta fidu­cia nella perizia delle sue figlie e chiese loro di fare un completo di pianete per un altare portatile che per ogni evenienza avrebbe preso con sé in viaggio. Riuscirono a finirle alla vigilia di S. Giuseppe e a inviargliele a Ma­drid la mattina successiva. Al Padre piacquero sia le pia­nete che gli altri paramenti. Nel pomeriggio si recò a Villaviciosa de Odón per congratularsi con le sue figlie. Era stato quello un giorno di grande festa e di gioia per il Fondatore, perché aveva ricevuto le lettere delle due prime numerarie ausiliarie. Oltre a fare i complimenti per il lavoro, diede un’occhiata alla casa perché pensava di far venire quanto prima a Los Rosales le numerarie ausiliarie, per dare inizio alla loro formazione78.

Don Josemarìa dedicò le settimane successive a forma­re il gruppo di suoi figli che costituivano la seconda on­data sacerdotale; infatti, non appena furono ordinati i primi tre nel 1944, il Fondatore aveva invitato altri sei laici dell’Opera a prepararsi al sacerdozio e a completare gli studi che già stavano facendo in modo molto ap­profondito. Il corpo docente era in buona parte lo stesso che aveva seguito i primi79. Dei sei, i meno giovani erano Pedro Casciaro e Francisco Botella80. Tutti avevano un titolo universitario, alcuni avevano già la docenza.

Il 7 maggio 1946 ricevettero la tonsura e nei giorni successivi gli Ordini minori da mons. Leopoldo, nel pa­lazzo episcopale81.698

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Domenica 2 giugno fu il giorno scelto da mons. Casi­miro Mordilo, Vescovo Ausiliare di Madrid, per confe­rire loro il suddiaconato. In quel periodo mons. Casimi­ro stava facendo la visita pastorale nei paesi della Sierra de Guadarrama. Egli era nato nel paesino di Chozas de la Sierra (oggi Soto del Reai) e volle celebrarvi la ceri­monia, che per quella gente sarebbe stato un evento straordinario. Da parte sua il Comune organizzò un omaggio al Vescovo. Dai balconi pendevano trapunte di vivaci colori e scialli di seta colorati. Il sindaco scoprì una lapide di marmo nella Plaza May or, quindi tutti si diressero in processione verso la chiesa: il Vescovo era preceduto dai sei ordinandi rivestiti del camice, seguiva­no i paesani vestiti a festa e i bambini con palme e rami verdi. Terminata la cerimonia ci fu la processione di ri­torno con i suddiaconi rivestiti dei paramenti sacri82. Due settimane dopo, il 15 luglio 1946, essi furono ordi­nati diaconi da mons. José Lopez Ortfz, nell’oratorio di via Diego de Leon83.

A Villaviciosa de Odón il giovedì successivo, 20 giu­gno, sarebbe stata celebrata la festa del Corpus Domini e il Padre, spinto dall’amore all’Eucaristia, chiese a Pe­dro Casciaro di fare urgentemente dei bozzetti per i drappi con cui addobbare la facciata di Los Rosales. Poi vi andò per chiedere alle sue figlie di realizzarli, confe­zionando tre arazzi da mettere sui balconi della facciata principale che dava sulla piazza del paese, dove sarebbe passata la processione. Acquistarono la tela e il materia­le necessario e la mattina successiva il Padre era di nuo­vo a Los Rosales per aiutarle a ritagliare nel feltro le let­tere e le figure. In tre giorni riuscirono a cucire gli arazzi; erano tutti e tre simili, ma quello centrale era più grande e, lungo tutto il bordo, vi si leggeva la scritta To­ta pulchra es, Maria84.

Don Josemaria potè vederli finiti il 19 giugno, pro­prio il giorno in cui, di pomeriggio, partì in macchina

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per Saragozza, diretto a Roma, dove già si trovava don Alvaro del Portillo85.

Il paese di Villaviciosa de Odón fu gradevolmente im­pressionato dai festoni che le donne di Los Rosales ave­vano messo sui balconi per onorare il Signore86.

I sei suddiaconi furono ordinati sacerdoti tre mesi do­po, il 29 settembre 1946.

Nel periodo compreso tra la tonsura e il presbiterato, i sacerdoti della prima leva dell’Opus Dei, vestiti con la tonaca, dovettero abituarsi alla compostezza clericale imposta dal nuovo modo di vestire. In capo a una setti­mana si erano perfettamente abituati alla veste talare. Ma le persone che li conoscevano e li incontravano, a tutta prima, restavano sconcertate. Alla meraviglia face­va seguito un cauto riconoscimento e poi una scintilla di emozione oppure una domanda stupita. Le reazioni era­no comunque diverse e imprevedibili.

Un giorno don Àlvaro del Portillo si trovò con Lopez Franco, suo ex professore alla Scuola di Ingegneria Civile. Àlvaro era ancora in abiti civili e gli annunciò la sua pros­sima ordinazione. “Augu...”, ma il professore s’interrup­pe poiché gli erano spuntati due grossi lagrimoni; poi ri­prese: “Mi scusi, ma mi sono emozionato. Auguri!”87.

Gli operai della Electra, l’azienda in cui aveva lavora­to Chiqui, quando seppero che stava per essere ordinato sacerdote, si commossero all’idea che rinunciasse a una vita a parer loro comoda e piena di allettanti promesse: “L’ingegner José Maria si fa sacerdote? Ma perché, visto che si era già sistemato?”88.

Pur vedendoli spesso e cominciando ad abituarsi alla loro nuova condizione, tuttavia il Padre provava talvol­ta una sorta di rimpianto per la loro precedente condi­zione laicale. Prima e dopo l’ordinazione provava senti­menti contrastanti, di gioia e insieme di tristezza. E spesso ripetè ad alta voce ciò che lasciò anche scritto per700

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far riflettere adeguatamente quanti sarebbero Tenuti in seguito:

“Non vi voglio nascondere che la prima ordinazione di vostri fratelli ha provocato in me nello stesso tempo mol­ta gioia e molta tristezza. Amo a tal punto la condizione laicale della nostra Opera che ho provato dolore nel chie­dere loro di ordinarsi. D’altra parte la necessità del sacer­dozio era tanto chiara che dovevo esser grato a Dio no­stro Signore che questi miei figli salissero all’altare”89.I nuovi sacerdoti avrebbero reso con il loro ministero un

incalcolabile servizio ai fedeli dell’Opus Dei. Ma il consi­derare che l’ordinazione significava per loro la perdita del­la condizione laicale lo rattristava: rinunciare di colpo a tre laici così ben inseriti nella vita civile era, per il Padre, un autentico sacrificio, uno scontro agrodolce fra opposti sentimenti. Ma si rendeva anche perfettamente conto che i due sentimenti contrapposti corrispondevano a idee tra lo­ro compatibili e a realtà essenziali della vocazione all’O- pus Dei, dato che nella chiamata divina si fondevano ar­monicamente lo spirito sacerdotale e il carattere laicale, il contenuto santificante del lavoro e la sua forza apostolica.

Passati diversi mesi, nei quali i primi tre sacerdoti ave­vano ampiamente esercitato il ministero e compiuto un intenso lavoro pastorale, don Josemarìa espose, nella lettera del 2 febbraio 1945, le caratteristiche irrinuncia­bili di una stessa vocazione:

“Ora che sono già stati ordinati alcuni sacerdoti nella no­stra Opera, voglio che voi tutti figli miei, sacerdoti e laici, ternate bene a mente e nel cuore una cosa che non può es­sere affatto considerata solamente esterna, ma che è invece il cardine e il fondamento della nostra vocazione divina.Noi tutti, sia i sacerdoti che i laici, dobbiamo avere anima veramente sacerdotale e mentalità pienamente laicale, per poter comprendere ed esercitare nella nostra vita la li­bertà della quale godiamo nell’ambito della Chiesa e nelle

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cose temporali, considerandoci nel medesimo tempo citta­dini della città di Dio e della città degli uomini”90.In virtù di quale evento viene coniata nell’anima una

moneta rispettivamente segnata, sulle due facce, dal ca­rattere sacerdotale e da quello laicale? Ebbene, in virtù della misteriosa operazione soprannaturale operata nel­l’anima dal sacramento del Battesimo, ogni cristiano di­viene partecipe del sacerdozio di Cristo. Quanto alla mentalità laicale, per il fatto di vivere in mezzo al mon­do, immerso nelle questioni temporali, l’esistenza del cristiano comune viene abitualmente configurata dalle attività secolari. Anche i laici - scrive il Fondatore - hanno il loro peculiare ministero:

“Lo stato laicale presenta anch’esso un aspetto che gli è proprio e che viene a essere, all’interno del Corpo Misti­co di Cristo, il ministero peculiare dei laici: assumere le proprie responsabilità personali sul piano professionale e sociale, per impregnare di spirito cristiano tutte le realtà terrene, affinché in tutte le cose Dio sia glorificato per mezzo di Gesù Cristo”91.In che cosa consiste allora “l’anima veramente sacer­

dotale” ? I laici, come partecipano attivamente al sacer­dozio di Cristo e come rendono “operativo nella pro­pria anima il sacerdozio reale che i fedeli ricevono con i sacramenti del Battesimo e della Confermazione”?92.

“Figlie e figli carissimi, vi ho sempre insegnato - spiega il Fondatore - che radice e centro della vostra vita spiritua­le è il Santo Sacrificio dell’Altare, in cui Cristo Sacerdote rinnova il suo Sacrificio del Calvario, in adorazione, onore, lode e ringraziamento alla Trinità Beatissima.In questo modo, molto uniti a Gesù nell’Eucaristia, rag­giungeremo una continua presenza di Dio in mezzo alle occupazioni ordinarie proprie della situazione di ciascu­no nel suo pellegrinaggio terreno, cercando il Signore

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sempre e in tutte le cose. Avendo nella nostra anima gli stessi sentimenti di Cristo sulla Croce, faremo in modo che la nostra vita intera sia una riparazione incessante, un’assidua petizione e un ininterrotto sacrificio per tutta l’umanità, perché il Signore vi darà un istinto sopranna­turale per purificare tutte le azioni, elevarle all’ordine della grazia e trasformarle in strumenti di apostolato. Solo così saremo anime contemplative in mezzo al mon­do come richiede la nostra vocazione e arriveremo a es­sere anime veramente sacerdotali, facendo in modo che ogni nostra azione sia una continua lode a Dio”93.Su questa dottrina insisterà per tutta la vita e sarà

questo il tema delle sue ultime esortazioni prima di la­sciare questa terra. Il 25 giugno 1975 infatti il Fondato­re, celebrando la Santa Messa, fece un memento parti­colare “per tutti i sacerdoti dell’Opera e per i numerari che sarebbero stati ordinati entro pochi giorni e chiese al Signore che tutte le sue figlie e i suoi figli laici avesse­ro sempre anima sacerdotale: desiderio di corredime­re”94. Lo stesso giorno, anniversario dell’ordinazione dei tre primi sacerdoti, il Padre tornò a ricordare le in­tenzioni della sua Messa: “Aveva pregato per tutti, so­prattutto perché l’anima sacerdotale divenisse realtà in ciascuna delle sue figlie”95.

4. Esercizi di vita e di morteDurante i suoi ritiri annuali, don Josemaria era solito prendere nota delle ispirazioni ricevute da Dio e dei suoi propositi, allo scopo di poter più facilmente parlare al confessore della propria coscienza. Alcuni anni tuttavia non fece annotazioni durante gli esercizi, oppure le fece estremamente sintetiche. Le relazioni in questione, che iniziano con il ritiro del 1932 nel convento di S. Giovan­ni della Croce a Segovia, sono raccolte in appendice ne­

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gli Appunti intimi. Le ultime annotazioni degli Appunti sono relative al ritiro spirituale del febbraio 1944, nella casa dei Padri Lazzaristi di via Fernàndez de la Hoz, a Madrid. Da quel momento don Josemaria non ebbe più bisogno di scrivere nulla, poiché il suo confessore era di­venuto don Àlvaro del Portillo, che stava sempre con lui.

Tra il 1943 e il 1944, sembrerebbe che la dolorosa “opposizione dei buoni”, potesse avere perso intensità, dato che negli scritti dell’epoca non sono registrati inci­denti. Ben diversi tuttavia erano i fatti. Un attento esa­me della relazione degli esercizi spirituali di don Jose­maria del febbraio 1944 ci mostra il seguente proposito:

“Calma! Calma, per vedere le cose, le persone e gli avve­nimenti con occhi di eternità. Il muro che ci vieta il pas­saggio e che, umanamente parlando, appare insormon­tabile, che cosa insignificante diventa, se alziamo davvero gli occhi al cielo!”96.Il Fondatore, per i motivi che vedremo fra poco, senti­

va l’urgente necessità di ricuperare la serenità e di farsi coraggio. Fin dal primo mattino, infatti, ricordi spiace­voli assalivano tumultuosamente la sua immaginazione, distraendolo nella recita del breviario, anche se poi sva­nivano nelle nebbie del passato:

“Consideravo questa mattina, distraendomi mentre reci­tavo l’ora nona, le solite lotte delle sette contro la Chie­sa. Ringraziavo Dio nostro Signore per la consolazione di una benedizione, piena di affetto per l’Opera, che il Papa affidò a P. Canal O.P., perché ce la trasmettesse. E si affollavano nella mia anima sentimenti amari, ma che non mi tolgono la pace, per il ricordo di un libello ca­lunnioso, steso evidentemente da qualche apprendista di Giuda, da certi massonizzanti e forse da qualche chieri­co, che mostrano un odio tremendo contro l’Opera e contro questo peccatore”97.

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La memoria andava a briglia sciolta e i ricordi dolo­rosi si affollavano uno dopo l’altro:

“A questo si aggiungeva nel subcosciente il pensiero delle cattiverie che ancor oggi sta facendo a Barcellona un certo religioso”98.Si trattava di un vecchio sacerdote che senza alcun mo­

tivo,“si dà da fare a suo piacimento contro l’Opera e special- mente contro di me”99.I suoi pensieri ne furono così sconvolti da trascinarlo

sul bordo dell’angoscia. Ma quando don Josemarìa pose di nuovo lo sguardo sul breviario, trovò la pace e, con essa, il Signore:

“Quanto ho detto e la conoscenza della situazione del mondo e in particolare della Spagna e dei maneggi degli spagnoli che odiano la Chiesa, mi angosciavano. Tornai alla recita del breviario e il primo versetto che lessi era quello del Salmo 58: Et tu, Domine, deridebis eos: ad nihilum deduces omnes gentes. Fui inondato da una gioia e da una pace che non sono umane. Continuai a pregare. Poco dopo ricevetti improvvisamente un’illumi­nazione interiore, chiara, evidente, piena di certezza e senza parole: ‘Ma non sai, povera creatura, che sono Io?’ e subito il ricordo nitido di quel versetto e la con­vinzione che il Signore, con le parole del Salmo, ratifica­va il non praevalebunt: non potranno nulla contro la Chiesa e non potranno nulla contro l’Opera, che è stru­mento di Dio per servire la Chiesa”100.Si rinnovava dunque la turbolenza di un’atmosfera

ostile in cui fiorivano nuove critiche contro don Jose­marìa; l’oggetto ne fu la sua fama di predicatore di eser­cizi spirituali nelle diocesi spagnole, estesa in tutto il Paese. Le sue doti oratorie erano davvero eccezionali e il

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suo prestigio sembrava escludere qualsiasi tipo di censu­ra. Era un oratore sacro straordinario, che trasmetteva all’uditorio la sua profonda vibrazione interiore. La for­za, la semplicità e le espressioni appropriate destavano l’ammirazione di quanti lo ascoltavano, fossero eccle­siastici o laici. Di Carlos Bousono, un giovane poeta che ebbe occasione di conoscerlo nella Residenza della Moncloa, si raccontava che quando assisteva alle sue meditazioni in oratorio non riusciva a stare calmo, si agitava ed esclamava: “È un genio, un vero genio!”101. Ma don Josemarìa sapeva bene che l’efficacia della sua predicazione non dipendeva dalle sue parole, ma risie­deva nella grazia divina e nell’orazione e nella mortifi­cazione che praticava per coloro che lo ascoltavano.

Su che cosa dunque potevano attaccarlo? Comincia­rono ad accusarlo di una cosa davvero singolare: di pre­dicare “esercizi di vita” invece dei tradizionali “esercizi di morte”102.

A quel tempo era tradizione che alcuni nelle principa­li meditazioni degli esercizi accentuassero la considera­zione dei novissimi. I temi centrali della predicazione conducevano direttamente agli ultimi eventi, morte, giu­dizio, inferno e gloria, sui quali si concentrava la medi­tazione dei partecipanti.

Ma pur essendo risaputo che la morte può cogliere appena dietro l’angolo, non per questo le persone han­no piacere di sentirsela ricordare con troppa frequenzao con eccessiva violenza.

E il dubbio che può venire su quale possa essere la reazione delle persone più diverse in una situazione di questo tipo ci può essere chiarito da un episodio singo­lare, qui raccontato a mo’ di parentesi. Tra le molte no­tizie contenute nella già citata lettera del marzo 1946, quella “scritta a pezzetti” e con molte divagazioni, ap­paiono alcune parole quasi messe lì a caso nell’ampia descrizione degli avvenimenti: “Mi hanno dato l’incari­706

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co di dare gli esercizi al capo di Jesus103, durante la Set­timana di Passione. Vedremo come andrà”104.

Il “mi hanno dato l’incarico” è una allusione discreta all’autorità di mons. Eijo, che preparò gli esercizi spiri­tuali che don Josemaria diede nel palazzo del Pardo a Francisco Franco e a sua moglie, dal 7 al 12 aprilé 1946105. Durante quegli esercizi accadde un episodio completamente scollegato dagli avvenimenti e circostan­ze dell’epoca. Nel 1946 la Spagna viveva una pace mol­to fragile, minacciata da pressioni esterne. Davanti al ri­schio di nuovi conflitti, la nazione si mise sulla difensiva, schierandosi al fianco dei poteri costituiti; buona parte degli ambienti che contavano era pure pro­diga di lodi ed elogi verso il Capo dello Stato. Ebbene, durante gli esercizi il sacerdote un giorno gli chiese a bruciapelo:

“Eccellenza, non ha mai pensato che può morire inqualsiasi momento?”.Alcuni giorni dopo don Josemaria, chiacchierando

con il Vescovo, gli raccontò la conversazione con Fran­co; mons. Leopoldo lo interruppe, esclamando: ”Lei non diventerà mai nessuno!”106.

Riprendendo il filo del discorso, la reazione più abi­tuale alla riflessione sui novissimi è un inevitabile con­traccolpo, provocato dal disagio di rendersi conto della fugacità della vita e di quanto breve sia il piacere; parec­chi predicatori si servivano di questo argomento per pro­vocare uno scossone nelle persone e predisporle poi do­cilmente alla conversione, nella convinzione che quanto più fosse cresciuto il terrore della morte e dell’inferno, tanto più facile sarebbe stato ottenere il pentimento.

Coloro che accusavano don Josemaria di deviazioni­smo sul tema dei novissimi perché evitava toni truculen­ti e impressionanti, non erano lontani dal vero. Dalle note che alcuni dei suoi ascoltatori nei corsi di ritiro

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presero e conservarono per tutta la vita ci si accorge che egli toccava il tema in modo chiaro e sobrio, con note­vole libertà di spirito e sempre con toni positivi, pur nel rispetto degli schemi tradizionali.

Don Àngel Suquìa, che sarebbe poi diventato Cardina­le Arcivescovo di Madrid, assistette agli esercizi dati da don Josemarìa nel 1942 nel seminario diocesano di Vito­ria e descrive in pochi tratti la propria impressione. Il pre­dicatore “è un uomo soprannaturale in tutto”; sua carat­teristica è essere “uomo di fede”; indica poi alcuni dei temi sviluppati, tra i quali evidenzia l’obbedienza ai supe­riori, “punto centrale dei suoi esercizi”, impregnati “del­l’amore di Cristo che traspariva da tutte le sue frasi”107.

Nel clima soprannaturale creato dalle parole e dai sentimenti espressi, don Josemarìa immetteva un’aria di novità; lo osserva un giovane professore universitario che lo sentì predicare:

“Per me fu una vera scoperta; benché già da un certo tempo mi facessi dirigere spiritualmente dal Padre, mi fe­ce grande impressione vedere che, accanto ai temi classici e fondamentali della meditazione cristiana, venivano in­trodotte, tra le risorse della vita soprannaturale, le virtù umane, cioè la gioia, l’amicizia, la generosità e soprattut­to il lavoro, come parte della vocazione cristiana”108.Don Josemarìa trattava il tema dei novissimi con se­

rietà, senza voler spaventare o intimorire, con misurata prudenza e lasciava nella memoria di chi lo ascoltava il ricordo di un sereno equilibrio. Le sue parole, quando discorreva della morte o del giudizio di Dio, erano sem­pre ricolme della speranza nella vita eterna109.

Gli “esercizi di morte”, con l’obbligata esposizione delle realtà più crude, si basavano in buona parte sul fatto ineluttabile che l’esistenza dell’uomo è come quella della foglia secca e morta che si stacca dall’albero della708

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vita. Don Josemaria non tralasciò mai di insistere su questa verità. In Cammino scrisse:

“Hai visto, in una sera triste d’autunno, cadere le foglie morte? Così cadono ogni giorno le anime nell’eternità: un giorno, la foglia caduta sarai tu”110.Negli esercizi don Josemaria aiutava l’ascoltatore a

porsi di fronte al giudizio di Dio dopo averlo privato di comode sicurezze e mostrava chiaramente l’inferno che attende i peccatori non pentiti. Non sorvolava su queste verità; non era intenzionato a smorzarne le tinte o miti­garne le conseguenze:

“Le anime mondane hanno molta propensione a ricor­dare la Misericordia del Signore. - E così si incoraggia­no a continuare nei loro spropositi.È vero che Dio Nostro Signore è infinitamente miseri­cordioso, ma è anche infinitamente giusto: e c’è un giu­dizio, ed Egli è il Giudice”111.“Esiste l’inferno. - Ecco un’affermazione che ti può sem­brare lapalissiana. - Te la ripeto: esiste l’inferno”112.Ciò che rendeva differenti gli “esercizi di vita” da

quelli che alcuni chiamavano “esercizi di morte” non era tanto la scarna presentazione della realtà dei novissimi, bensì il modo di impostarli. Per don Josemaria dovevano essere di incoraggiamento a crescere nell’amicizia con Dio; il loro fondamento e l’obiettivo non erano la paura, ma l’amore filiale che ci conduce da nostro Padre-Dio113.

Quando lo si accusava di dare “esercizi di vita”, sco­standosi dai metodi tradizionali, don Josemaria si esa­minava ed esclamava: “E su che cosa posso predicare io se non sulla vita eterna alla quale siamo chiamati?”114.

Cercava di presentare la morte senza spaventare, con obiettività, come un passaggio obbligato per andare da Dio, che aspetta i suoi sull’altra riva dell’esistenza. Stracciava così il terrificante sudario con cui viene raffi­

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gurata la morte, per mostrarne invece il vero aspetto e il senso profondo:

“Non avere paura della morte. - Accettala, fin da ora, ge­nerosamente..., quando Dio vorrà..., come Dio vorrà..., dove Dio vorrà. - Non dubitare: essa verrà nel tempo, nel luogo e nel modo più opportuni..., inviata da tuo Padre- Dio. - Sia benvenuta nostra sorella morte!”115.Il buon cristiano, quando vede giungere la sua ultima

ora, si deve rivestire di speranza, di pace e di gioia. Un testimone racconta che nel 1942 il Padre, durante un corso di ritiro rivolto a giovani dell’Opera, fece riferi­mento alla morte recente di Antonio Moreno, uno dei primi membri dell’Opus Dei di Valladolid. Tutti rimase­ro molto colpiti quando, rivolgendosi al Signore nel ta­bernacolo, don Josemaria gli disse con fiducia: “Siamo qua, scegli quelli che ti vuoi prendere”116.

Dopo la morte viene il giudizio. Il predicatore infon­deva allora nell’ascoltatore, ormai pentito, quel raggio di luce con cui il Vescovo di Avila, nel 1938, aveva con­solato don Josemaria in momenti di tribolazione, quan­do lo faceva soffrire il pensiero del conto che il Signore gli avrebbe chiesto:

“No, per voi non sarà Giudice - nel senso severo del ter­mine - ma semplicemente Gesù”117.Che cos’altro è la morte se non un transito nella Vita,

dove il Giudice ci attende a braccia aperte, se abbiamo perseverato nella sua amicizia?

> !' >1*

Fin qui ciò che è possibile conoscere sul predicatore in base alle centinaia di testimonianze di coloro che fre­quentarono i suoi corsi di ritiro. Ma solo dalle sue an­notazioni personali riusciamo a sapere qualcosa della710

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sua intimità ascetica; per esempio, i propositi che fece nel ritiro del febbraio 1944:

“Finora ho sempre pensato alla morte senza timore. Mi dicevo: morire? Che comodità! D’ora in poi, magari una volta al giorno, mi figurerò di essere in punto di morte per vedere sotto questa luce gli avvenimenti della gior­nata. Ho una buona esperienza della pace che produce questa considerazione”118.In quei giorni del 1944 gli si affollavano nella memo­

ria gli ostacoli insuperabili degli inizi e rivedeva la soli­tudine e la fatica di quando cercava di aprire una strada all’Opus Dei appena fondato. Poi, passati gli anni da fondatore solitario, quando era già riuscito a riunire un pugno di seguaci, Dio lo aveva messo alla prova. Egli, che è Signore della vita e della morte, se ne era portato via alcuni. Si era consolato con il pensiero di avere già intercessori in Cielo119, benché si fosse sentito spinto a prendere la penna e a mettere per iscritto qualche triste riflessione:

“In occasione della morte di José Maria e di Luis mi as­salì - per viltà - il desiderio di morire. Perché non devo morire io? E vedevo la morte, nonostante il peso dei miei peccati, come una soluzione. Non è più così: ormai sai bene, Dio mio, che l’accetto quando e come Tu vuoi”120.Aveva familiarità con la morte, in cui vedeva “una buo­

na amica” che ci aiuta a percorrere il nostro cammino121. E dalla sua meditazione sulla morte durante il ritiro spiri­tuale del 1935 viene questa cruda considerazione:

“= Morte = Non la temo. È una mia amica. Cercherò di servirmene spesso, affacciandomi alla mia sepoltura; e vedrò, toccherò e sentirò la puzza del mio cadavere pu­trefatto, morto da otto giorni. Voglio farlo, soprattutto, quando la passione della carne mi turba”122.

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Questa decisione fu confermata da un proposito fatto nel 1944. Tutte le sere, fino all’ultima che passò sulla terra - racconta mons. Àlvaro del Portillo - diceva: “Si­gnore, accetto la morte quando vorrai, come vorrai, do­ve vorrai”. E poi si addormentava sereno”123.

* *Il tono di sana vitalità che caratterizzava don Jose-

maria come direttore di esercizi spirituali era frutto di una sua impostazione originale. Permetteva che fluisse­ro liberamente gli atti di fede e di speranza e il fuoco dell’amore di Dio che sentiva dentro di sé. Pensieri ras­serenanti, che ponevano l’ascoltatore in un contesto po­sitivo, ben lontano dalla disperazione:

“Non brilla nella tua anima il desiderio che tuo Padre- Dio abbia a rallegrarsi quando dovrà giudicarti?”124.Il suo sereno ottimismo di fronte alla vita e alla mor­

te, la sua speranza nell’aldilà, provenivano dalla conti­nua pratica della perfetta contrizione: derivavano dal suo “dolore di Amore”. Concetto che compare sovente nelle pagine degli Appunti, indizio inequivocabile della rotta che seguiva nella vita interiore:

“Non dimenticare - aveva scritto in Cammino - che il Dolore è la pietra di paragone dell’Amore”125.Dall’Amore autentico nasce la compunzione che si

manifesta nell’aborrire il peccato:“Dolore d’Amore. - Perché Egli è buono. - Perché è tuo Amico, che ha dato per te la sua Vita. - Perché quanto hai di buono è suo. - Perché l’hai offeso tanto... Perché ti ha perdonato... Lui!... a te! Piangi, figlio mio, di dolo­re d’Amore”126.Come qualsiasi mortale, don Josemarìa sperimentava

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il peso della natura caduta, si sentiva soggetto al peso del peccato che, per quanto lieve sia, innalza un ostaco­lo tra il Signore e l’anima innamorata. Quale veemente impazienza di liberazione avrà provato il Fondatore quando scrisse le parole che già abbiamo commentato:

“Signore, desidero veramente, una volta per tutte, abor­rire smisuratamente tutto ciò che abbia sentore di om­bra di peccato, anche veniale. Vorrei la stessa compun­zione che hanno avuto coloro che più hanno saputo esserti graditi”127.Da molto tempo stava chiedendo, per intercessione

della Madonna, il bene preziosissimo di una perfetta contrizione:

“È giusto, dolce Signora, che Tu mi faccia un regalo, una prova di affetto: compunzione, dolore per i miei peccati, dolore d’Amore... Ascoltami, Signora, Vita, Speranza mia: conducimi per mano - tennisti manum dexteram. meaml... - e se ancora c’è qualcosa in me che dispiaccia a mio Padre-Dio, fa che lo veda e insieme lo strapperemo”128.Questo chiedeva nel 1932, facendo il suo ritiro nel

convento dei Carmelitani Scalzi di Segovia. Due anni dopo continuava a implorare con insistenza dalla Ma­donna il dolore d’Amore; a un certo momento, mentre faceva orazione, provò un vivo trasporto:

“Madre mia, Signora mia: ho baciato in terra e - dopo aver gridato il nostro serviam! - mi sono segnato nel no­me del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo e ti ho reci­tato il Memorare... Mi sono distratto: sono ritornato a stare in preghiera e so che mi hai udito. Cara Madre! Anche adesso ti invoco, mentre sto scrivendo. Tu sai be­ne di che cosa ho bisogno. Prima di tutto, dolore d’A­more: con le lacrime?... Anche senza lacrime ma che mi

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dolga davvero, perché dobbiamo ripulire per bene l’ani­ma dell’asinelio di Gesù. Ut iumentum!...'"119.

5. Viaggi in Andalusia e in PortogalloPoco dopo l’ordinazione dei primi tre sacerdoti, don Jo­semaria diede loro le istruzioni cui attenersi nei viaggi di apostolato, per esempio nei centri dell’Opera di altre città. Tali avvertimenti erano un sintetico sommario dei mezzi e dei fini soprannaturali che non bisognava mai perdere di vista, insieme a consigli pratici130. Seguendo le istruzioni, essi cercavano di salutare quanto prima il Vescovo della diocesi e di parlare con i sacerdoti cono­sciuti della città che visitavano.

Da quanto finora narrato si è potuto costatare che gran parte della fatica apostolica del Fondatore era ri­volta ai giovani universitari. Nulla di strano dunque se le città nelle quali si recavano erano nella maggior parte dei casi capoluoghi di provincia con università e con se­de episcopale. Possiamo così individuare alcune delle caratteristiche apostoliche dell’iniziale espansione del­l’Opus Dei. Da una parte l’idea del servizio alle diocesi, dall’altra l’inizio dell’apostolato principalmente con le persone dotate di buona formazione culturale.

Fin dal 1928 lo zelo apostolico di don Josemaria lo aveva spinto a occuparsi di tutte le anime che gli stavano intorno, benché piuttosto assortite: c’erano artigiani, ope­rai e professionisti. Ma preferì dedicarsi soprattutto ai giovani studenti universitari, orientando fin da principio le sue fatiche verso “l’apostolato dell’intelligenza”131. Ol­tre al fatto che si trattava di giovani assai promettenti, es­si erano interiormente più docili e con meno pregiudizi, oltre che molto generosi. Scrisse infatti in Cammino: “La giovinezza dà tutto quello che può: dà se stessa, senza mi­sura”132. Tutto questo era ancor più importante visto che714

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si trattava di predicare un messaggio che si scontrava con abitudini e idee consolidate da secoli.

Le due caratteristiche citate - servizio e obbedienza alla Gerarchia ecclesiastica e apostolato con persone av­viate alle libere professioni— appaiono entrambe nei primi documenti giuridici inerenti all’Opus Dei, dove è precisato che uno dei fini specifici dell’istituzione è il suo efficace influsso sugli intellettuali, elementi sui quali si regge tutta la società133, e vengono menzionati anche il servizio da prestare alla Chiesa e la filiale obbedienza dovuta ai Vescovi.

Il lavoro apostolico in città sedi di università o di Scuole Tecniche di Ingegneria crebbe a vista d’occhio. Non era ancora passato un anno dall’ordinazione dei primi tre sacerdoti che già era evidente la solidità delle fondamenta e il rapido sviluppo dell’attività nel centro e nel nord della Spagna. Non altrettanto nel sud, dove non erano ancora stati aperti Centri dell’Opera134. Don Jose- maria decise allora di fare un viaggio in Andalusia per parlare approfonditamente dell’Opus Dei ai Vescovi. Si proponeva di allargare il campo delle attività apostoliche aprendo due residenze universitarie, una a Siviglia e l’al­tra a Granada, e sperava di irrobustire il nascente apo­stolato che alcuni fedeli dell’Opera già svolgevano in al­cune altre città del sud135.

Decisero di partire da Madrid il martedì della Setti­mana Santa del 1945. Avrebbero accompagnato il Padre don José Luis Muzquiz, che da sacerdote aveva già fatto in precedenza viaggi al sud, Ricardo Fernàndez Valle- spìn, architetto, e Jesus Alberto Cagigal, che dovevano dare subito un parere tecnico sulla possibilità di adatta­re a residenze universitarie alcuni edifici che avrebbero visitato. Avrebbero viaggiato in automobile136. L’auti­sta, un eccellente meccanico, era un uomo pacifico e po­sato, che si chiamava Miguel Chorniqué e da due anni guidava l’auto che usavano il Padre e i più grandi del­l’Opera. Quel servizio era imprescindibile a causa delle

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difficoltà e degli inconvenienti dei trasporti pubblici, sia su strada che su rotaia. Avevano deciso di acquistare un’auto pensando alle numerose visite e agli spostamen­ti urgenti e inevitabili imposti dallo sviluppo dell’Opera. Quando Miguel era stato assunto possedevano una macchina a gasogeno; all’epoca la benzina era razionata e le automobili a gasogeno, almeno mentre era in corso la seconda guerra mondiale, venivano azionate da una caldaia posta sul retro della vettura, nella quale si bru­ciava carbone di legna per ottenere gas carburante. Nel giro di alcuni mesi il Padre e il suo autista avevano cor­so insieme rischi inverosimili sulle disastrate strade spa­gnole. Erano stati tali e tanti gli incidenti dai quali era­no usciti illesi che - testimonia Miguel Chorniqué - “ne ricavai la convinzione che andando col Padre in macchi­na non accadeva, né poteva accadere, nulla”137.

Il 27 marzo 1945, partirono al mattino con un sole splendente per la strada dell’Estremadura. Miguel era al volante della Studebaker. Il Padre e José Luis comincia­rono a cantare non appena lasciata Madrid. Avvistaro­no la Sierra de Gredos, con le sue cime innevate. A Trujillo - palazzi e case dei conquistadores, di pietra au­stera e nobile - si fermarono a mangiare. Fecero sosta anche a Mérida: il Padre voleva che gli architetti si sgranchissero le gambe e vedessero le rovine romane e il museo archeologico della città. Ripartiti, attraversarono le terre rosse di Barros: vigneti, oliveti e campi coltivati.

Arrivarono a Siviglia all’imbrunire. In mezzo a una gran folla di persone giunte per le famose processioni, l’auto attraversò il ponte di Triana. Si diressero a Casa Seras, dove li attendevano alcuni fedeli dell’Opus Dei. A motivo della grande quantità di gente accorsa per la Set­timana Santa trovarono stanze libere, con parecchie dif­ficoltà, solo all’Hotel Oromana di Alcalà de Guadaira, un paese vicino a Siviglia. Ma prima di recarvicisi si uni­rono alla folla che, di notte, aspettava di veder passare una delle processioni. Spesso, in seguito, contemplando716

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un’immagine della Madonna, il Fondatore avrebbe ri­cordato quanto accadde in quella notte sivigliana del Martedì Santo.

Veniva portato in processione, a spalla, un paso, pre­ceduto da una duplice fila di penitenti incappucciati. L’immagine della Vergine era sotto un baldacchino so­stenuto da aste d’argento; ai suoi piedi, uno strato di fiori e ceri a centinaia, che provocavano lampi di fulgo­re sui gioielli che portava indosso. Il Padre osservava tutto in silenzio.

“Stavo lì a guardarla e mi misi a fare orazione... Ero as­sente a me stesso. Guardando quell’immagine della Ma­donna così bella, ormai non ero più consapevole di esse­re a Siviglia in mezzo a una strada. Qualcuno mi toccò un braccio. Mi volsi e vidi un popolano, che mi disse: ‘Ehi, signor prete! Questa non vale niente, la nostra è più bella assai!’Lì per lì mi sembrò quasi una bestemmia. Poi pensai: ha ragione, anch’io, quando mostro dei ritratti di mia ma­dre, anche se mi piacciono tutti, dico: questo, questo è il migliore”138.Il giorno successivo, mercoledì, visitarono alcune ca­

se; al Padre piacque molto una in via Canalejas, chiama­ta Monteflorido. Era centrale, in eccellenti condizioni di abitabilità, allegra e vivace, di mattoni chiari, piastrelle e marmo bianco; finestre e balconi avevano inferriate e c’era un bel patio a giardino.

Nel pomeriggio il Padre e don José Luis andarono a trovare il Cardinale Segura, noto anche per la meritata fama di uomo secco e austero; fu comunque affettuoso e paterno. Giovedì continuarono a visitare persone. Ricar­do Fernàndez Vallespìn rientrò a Madrid; gli altri parti­rono di pomeriggio alla volta di Jerez. Prima però il Pa­dre diede una lezione di formazione a un gruppo di sivigliani; fu molto vibrante nel breve commento del

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Vangelo del giorno, ameno nella conversazione e incisivo ed esigente nel proporre i punti di esame di coscienza.

Presero la via del sud. Quel giorno nelle strade dei pae­si che attraversavano era frequente incontrare qualche rumorosa processione popolare. Non trovando camere libere negli alberghi di Jerez, proseguirono fino a Puerto de Santa Maria, dove pensavano di aver trovato final­mente un posto tranquillo per riposare. Così fu effettiva­mente fino alle due del mattino, quando dalla strada salì un rumore fortissimo di tamburi e di cornette.

Il Venerdì Santo, a Cadice, il Padre fece diverse visite, cominciando dal Vescovo. Poi partirono per Algeciras; all’altezza delle colline di Tarifa si distingueva chiara­mente la linea della costa africana, dall’altra parte dello stretto. Senza badare alla bellezza del panorama, il pen­siero del Padre volò al continente africano ed esclamò ad alta voce: “E mai possibile che lo stretto sia una bar­riera per il Cristianesimo? Quanto c’è da fare!”139.

Algeciras, Estepona, Marbella, Malaga. All’arrivo a Malaga la macchina ebbe un guasto. Il Padre incontrò il Vescovo e don Manrique, il suo segretario. Fece poi visi­ta a un vecchio amico, don José Suàrez Faura, con il quale ricordò gli anni difficili di Madrid, quando dipen­devano entrambi dalla giurisdizione palatina, estinta ai tempi della Repubblica. Ritornato di pomeriggio nella cattedrale, don Josemaria conversò con un sacerdote suo conoscente e subito altri si strinsero intorno a loro, tanto che furono letteralmente circondati da un coro di cano­nici, curiosi di vedere e sentire il sacerdote forestiero. Il Padre in seguito commentò che lo avevano osservato con attenzione, quasi guardassero una “bestia rara”140.

L’avaria della Studebaker non era grave. Pernottarono ad Antequera. Il primo aprile, domenica di Pasqua, cele­brò la Messa dai Trinitari di Antequera. A mezzogiorno erano a Cordova e, secondo consuetudine, iniziarono il programma di visite. Nel pomeriggio, quando ebbero fi­nito, si recarono alle famose Ermitas de Córdoba, un718

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antichissimo cenobio situato sulle alture nei pressi della città. Al vecchio eremita che mostrò loro il luogo il Pa­dre diede un’elemosina ed egli ricambiò con un opusco­lo contenente alcune poesie dedicate all’eremo. Una di­ceva: “Molto in alto sta la cima! / La Croce è molto alta! / Per arrivare in Cielo / quanto poco manca!”141.

Al Padre sembrava una bella cosa quella vita eremiti­ca e la ammirava, ricordando però con chiarezza la ne­cessità per ciascuno di cercare la santità lì dove il Signo­re chiama. E diceva: “La si può vivere allo stesso modo nella Gran Via di Madrid. Il Cielo è alla stessa distanza sia quando si sta in piazza Cibeles sia sul pittoresco monte di Cordova”142.

Salirono su un grande masso sul fianco del monte e il Padre diede a don José Luis e a Jesus Alberto la medita­zione. Quando tornarono in albergo il Padre appariva sfinito. Per il trambusto della giornata o per una crisi diabetica? E difficile saperlo, perché non si lamentava e se glielo avessero chiesto è molto probabile che la rispo­sta sarebbe stata la solita: “Il Padre sta bene fino a dieci minuti prima di morire. Chi deve sapere come sta lo sa già”143.

Lunedì mattina, concluse le visite in programma, par­tirono per Jaén. Ulivi e ulivi, a perdita d’occhio. Al pa­lazzo episcopale lo informarono che il Vescovo era in viaggio. Presero la strada per Granada e pernottarono in un albergo della Alhambra.

Martedì 3 aprile il Padre celebrò la Messa nella par­rocchia vicina all’albergo. Oltre alla visita al Vescovo, mons. Agustìn Parrado, dedicarono la giornata a vedere immobili che, opportunamente adattati, potessero servi­re come residenza per studenti. Ne videro vari ma, scri­verà don José Luis nel diario del viaggio, “al Padre il Carmelo delle Meraviglie piace più di ogni altro. La via di accesso è scomoda ma una volta arrivati fa veramen­te onore al suo nome”144. Don José Luis e Jesus Alberto tracciarono rapidamente una piantina con la distribu­

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zione interna e le misure dell’immobile, che era abba­stanza modesto e in cattivo stato. Si poteva invece defi­nire meravigliosa la vista sulla città e sulla pianura del fiume Genil, che si godeva dall’alto di una torretta.

Come a Siviglia, a Malaga e a Cordova il Padre do­vette fare molte visite. A quarantatré anni, don Jose­marìa era stato testimone di tanti episodi e aveva cono­sciuto tanta gente da poter applicare a se stesso ciò che un tempo pensava degli Albàs e dei Blanc, cioè che la fa­miglia di sua madre “aveva conoscenze perfino in Sibe­ria”145. Per dimostrare che nel suo caso non era una esa­gerazione basta il lungo elenco di ecclesiastici e non ecclesiastici che ebbe modo di incontrare in tutta l’An- dalusia, in paesi e città dove non aveva mai messo pie­de, salvo che nel rischioso viaggio da Burgos a Cordova dell’aprile 1938, fatto per vedere una persona che aveva bisogno delle sue cure. Ora, in questa sua prima visita a Granada, si presentò alPimprovviso in casa dei marche­si de las Torres de Oràn, facendo loro una gradita sor­presa. Inevitabilmente emersero i ricordi del periodo trail 1936 e il 1937 che avevano trascorso insieme, rifugia­ti nella Casa di Cura del dottor Suils146.

Il giorno 4 il Padre celebrò nella Cattedrale di Al- merìa. Non fu possibile incontrare il Vescovo e il viag­gio proseguì per Murcia. Il Vescovo di Murcia era mala­to e non riuscirono a vederlo. Passarono per Orihuela. Il Vescovo di Orihuela era andato ad Alicante. Riuscirono infine a localizzare mons. José Garcìa Goldàraz, Vesco­vo di Orihuela, nel convento dei francescani di Alicante.

Il 5 aprile ritornarono a Madrid passando per Elda, Almansa, Albacete e Quintanar de la Orden. Il Padre, come aveva fatto per tutto il viaggio, insegnava ai suoi compagni la devozione al Santissimo Sacramento: di quando in quando faceva una sosta per visitare una chiesa oppure indicava da lontano le torri campanarie, per incoraggiarli a fare un atto di amor di Dio.720

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* *

Tornati a Madrid il Padre non perse tempo e, dopo aver ottenuto i permessi necessari, furono iniziati i lavori di adattamento degli immobili da destinare a residenze universitarie: a Granada il Carmelo delle Meraviglie, il cui nome sarebbe stato poi cambiato in quello di Resi­denza Albayzin, e a Siviglia l’immobile di via Canalejas. Nell’agosto del 1945 presero possesso del Albayzin147. Cominciarono ad arrivare i residenti, ma i lavori di ri­strutturazione andavano a rilento. L’impianto elettrico, l’impianto idrico, gli scarichi e altri servizi davano pro­blemi148. E c’erano anche difficoltà di carattere finanzia­rio che, come si vedrà, si acuivano sempre di più.

Era il 1945 e il Fondatore era appena tornato dal suo terzo viaggio in Portogallo; essendo prossimo l’inizio dell’anno accademico, don Josemarìa inviò un’istanza al?Arcivescovo di Granada, mons. Agustin Parrado, da­tata 3 ottobre. Nel primo paragrafo dichiarava che uno degli apostolati dell’Opus Dei era “lavorare alla forma­zione religiosa e professionale degli intellettuali” e che intendeva aprire una residenza per studenti a Granada (Albayzin), “dalla quale spera di ottenere grandi frutti”.

Allegava una copia del Regolamento della Residenza e, in base al canone 1265, chiedeva all’Arcivescovo:

“La benedizione e l’approvazione di S.E. per il lavoro di apostolato nella Residenza per studenti.La concessione dell’Oratorio semipubblico con Taberna­colo per detta Residenza”149.Con lettera del 22 ottobre don Josemarìa accusava ri­

cevuta del documento richiesto e invitava l’Arcivescovo a celebrare la prima Messa nell’oratorio della Residenza:

“Carissimo Sig. Arcivescovo, poche righe per ringraziare S.E. per la sua bontà. Ho ricevuto il documento di con­cessione dell’Oratorio con Tabernacolo - un altro Ta-721

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bernacolo! manca solo che voglia essere proprio S.E. a lasciare nostro Signore in quella casetta dell’Albayztn. Lo verrà a chiedere a S.E. Don José Luis de Muzquiz, fra pochi giorni”150.I lavori per l’oratorio si protrassero oltre il previsto.

Trascorsero così quattro settimane prima che don José Luis Muzquiz chiedesse all’Arcivescovo che, essendo pronto l’oratorio, si degnasse di dare le opportune di­sposizioni per procedere all’erezione canonica151.

II 23 novembre 1945 arrivò la risposta ufficiale: “Viste l’istanza e l’informazione pervenute, con la presente eri­giamo canonicamente l’Oratorio semipubblico richiesto, nel quale si può conservare il SS.mo Sacramento”152.

La diligenza con cui il Fondatore si atteneva alle pre­scrizioni dei canoni e ai decreti dell’autorità diocesana dimostra il suo rispetto per la normativa giuridica. La prassi seguita per l’oratorio della Residenza Albayztn è la stessa adottata per tutti gli altri oratori. Ma non fini­rono lì le richieste alla Curia arcivescovile, perché il 30 novembre don Josemaria rivolgeva due nuove petizioni. Nella prima, rispettosamente

“ESPONE essere lodevole abitudine dell’OPUS DEI fare mensilmente una veglia di amore e di riparazione a Gesù Sacramentato, e pertanto SUPPLICA S.E. che si degni di concedere l’opportuno permesso affinché, in tutti gli oratori delle case che l’Opera ha in codesta arcidiocesi di Granada, si possa esporre il Santissimo Sacramento nella notte tra il giovedì e il primo venerdì di ogni me­se”153.Nella seconda istanza,“ESPONE essere lodevole abitudine degli Oratori delle case in cui i soci dell’OPUS DEI svolgono il loro lavoro apostolico, per amore del Signore morto sulla Croce, ba­ciare la Croce di legno che viene sempre collocata in det­

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ti oratori. E, al fine di accrescere il nostro amore e la no­stra riverenza al Segno della nostra Redenzione, SUPPLICA che S.E. si degni di concedere indulgenza ogni volta che devotamente si baci la Croce di Legno de­gli Oratori delle case in cui i soci dell’OPUS DEI svolgo­no il loro lavoro apostolico, in questa arcidiocesi, e si re­citi qualche giaculatoria”154.A Siviglia le cose andarono in maniera più spiccia.

Lunedì 10 dicembre 1945 furono fatti gli ultimi prepa­rativi per ricevere il Palare che arrivò in macchina prima di pranzo, accompagnato da don José Luis Muzquiz. Nel pomeriggio dettò la meditazione a un gruppo di membri dell’Opus Dei, che uscirono dall’oratorio con il fermo proposito di migliorare e di essere molto santi; ta­le era la forza della grazia di Dio che operava attraverso la parola di don Josemaria.

Martedì 11, dopo la meditazione del mattino, il Padre celebrò la prima Messa nell’oratorio della Residenza Guadaira. Prima di distribuire la Comunione rivolse al­cune parole ai presenti, invitandoli a chiedere al Signo­re, come i discepoli di Emmaus, “che sia la nostra luce e che rimanga con noi”155.

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Nel 1945 don Josemaria si recò tre^yolte in Portogallo. La prima in febbraio, in occasione di una visita al Ve­scovo di Tuy, il suo buòn amico Fra’ José Lopez Ortfz. Suor Lucia, la veggente di Fatima, si trovava allora in un convento di Tuy. Il Vescovo preparò l’incontro della religiosa con don Josemaria. Il colloquio fu provviden­ziale poiché suor Lucia pregò insistentemente il Fonda­tore di andare in Portogallo. Il viaggio era nei suoi pro­getti di apostolato, ma non in quel momento anche perché, tra l’altro, non aveva neppure il passaporto. Ma ciò non fu un ostacolo perché, con una telefonata a Li­

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sbona, suor Lucia ottenne un visto di entrata in Porto­gallo per il Padre e per i suoi accompagnatori156.

Su richiesta di suor Lucia il viaggio che il Padre e don Àlvaro avevano intrapreso il 29 gennaio da Madrid, con brevi permanenze ad Avila, Salamanca, Valladolid, Palencia, Leon, Astorga e Orense, ebbe così un inatteso prolungamento in terra portoghese. Oltre a don Àlvaro, accompagnarono il Padre il Vescovo di Tuy e il suo se­gretario, don Eliodoro Gii157. Alla guida c’era Miguel Chorniqué.

Il 5 febbraio giunsero a Oporto e salutarono il Vesco­vo, mons. Agostinho de Jesus Souza. Il giorno successi­vo furono invitati a pranzo da mons. José Alves Correia da Silva, Vescovo di Leiria. Visitarono poi il Santuario di Nostra Signora di Fatima, oramai quasi terminato. Ad Aljustrel il Padre conobbe diverse famiglie che ave­vano preso parte agli storici eventi; si fece fare anche una foto assieme alla madre di Giacinta, una delle veg­genti. A Fatima il Fondatore affidò alla Madonna il fu­turo lavoro apostolico in Portogallo e datò il prologo al­la quarta edizione di Santo Rosario, 6 febbraio 1945.

Il giorno 7, a Lisbona, ebbe un colloquio con il Cardi­nale Cerejeira, che fu molto affettuoso, ma che - a detta del Vescovo di Tuy - “non comprese molto la novità dell’Opera”158. Don Josemarìa si accordò con lui per parlare con più calma dell’Opus Dei in una prossima occasione.

A Coimbra, li ricevette mons. Antonio Antunes, no­nostante fosse malato. Mons. Lopez Ortiz riferisce che il Vescovo di Coimbra “fu molto aperto e affettuoso e si manifestò ben disposto ad aiutare. Il Padre decise che si cominciasse là il lavoro”159.

Da Coimbra cominciarono il viaggio di ritorno: Oporto, Tuy, Santiago di Compostella, Covadonga, Burgos, Valladolid160. Il 14 febbraio erano di ritorno a Madrid. Alla metà di giugno il Fondatore fece in Porto­gallo un secondo viaggio di una settimana, accompa­724

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gnato da don Àlvaro, e poi un terzo, pure con don Àlva­ro, nella seconda metà di settembre161.

Nel 1946 alcuni fedeli dell’Opus Dei abitavano già sta­bilmente a Coimbra; quando trovarono un alloggio ap­propriato, il Fondatore chiese al Vescovo, mons. Antonio Antunes, il permesso di avere l’oratorio con tabernacolo.

“Esprimo viva gratitudine per le due lettere di S.E. Rev.ma - scrisse in maggio al Vescovo di Coimbra - e per le notizie che in esse mi dà dei laureati spagnoli che si trovano a Coimbra. Successivamente avrà avuto l’o­nore di salutare S.E. il Professore dell’Università di San­tiago Dott. Lopez Rodò. S.E. sarà già venuta a cono­scenza che, grazie a Dio, a Coimbra è stata presa in affitto una casa. Per questa ragione Le sarei molto grato se volesse fornirci il modello del documento necessario per richiedere a S.E. Rev.ma il permesso per un oratorio semipubblico con Tabernacolo”162.* * *

Il 1945 fu un anno di lavoro abbondante per Miguel Chorniqué. Il Padre lo trascorse viaggiando da una città all’altra. Il risultato fu una copiosa semina apostolica163. Durante un viaggio nel nord della Spagna, da San Seba­stiàn avvisò i suoi figli di Bilbao che il giorno successivo,9 ottobre, sarebbe stato da loro, che da tempo lo aspet­tavano con impazienza. Durante l’estate avevano lavora­to alla sistemazione della Residenza Abando e stavano ormai ultimando i lavori. Quando fu annunciato l’immi­nente arrivo di don Josemaria, i suoi figli erano soddi­sfatti di aver eseguito fino in fondo gli incarichi ricevuti e di avere sistemato tutto.

Il Padre giunse accompagnato da don Àlvaro del Por­tillo e da Pedro Casciaro. Scese dalla macchina, entrò in casa e, non appena “oltrepassata la soglia - riferisce un testimone -, si guardò attorno e, rivolto a Pedro, gli dis­se: “Tira fuori l’agenda e prendi nota, per favore”. In

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pochi secondi il Padre individuò quindici o venti parti­colari che bisognava rifinire”164.

Poiché c’erano ancora lavori in corso decise di celebra­re la prima Messa nell’oratorio, ma di non lasciare il Si­gnore nel tabernacolo. La Messa fu celebrata l’i l otto­bre165, ma disdetta volle che proprio durante la Messa una squadra di idraulici facesse un gran fracasso. Le fi­nestre dell’oratorio davano sul cortile interno della casa, le cui quattro pareti facevano da cassa di risonanza per ogni tipo di rumore. Al momento di distribuire la Comu­nione il Padre rivolse ai presenti alcune brevi parole. Il rumore che stavano facendo gli operai - disse - non po­teva essere per loro causa di distrazioni, perché doveva­no santificarsi in mezzo al lavoro e a ogni genere di atti­vità: “In mezzo alla multiforme agitazione del mondo in cui stavamo e da cui l’Opera non ci toglieva, dovevamo essere contemplativi, consapevoli della presenza di Dio nella nostra anima così come in quel momento lo erava­mo della Presenza Reale di Cristo nel Sacramento”166.

All’inaugurazione della Residenza Abando fecero se­guito quelle di Guadaira e di Albayzin; e dopo non molto tempo erano già in funzione una serie di centri e di resi­denze in tutti i capoluoghi universitari167. In alcuni luoghi era un modo per iniziare il lavoro, in altri per ampliare il campo apostolico. Fra i centri che non erano residenze universitarie si possono ricordare il Palau e un apparta­mento in via Muntaner168 a Barcellona, Rua Nueva a Santiago di Compostella, il Rincón a Valladolid, e il cen­tro di via del Correo nella città vecchia di Bilbao.

Testimonianza dei progetti apostolici di don Jose- marìa sono le richieste inviate alle autorità ecclesiastiche durante i primi mesi del 1946. Il 31 gennaio presentò un’istanza all’Arcivescovo di Saragozza in cui esponeva il proprio desiderio di sviluppare nel capoluogo arago­nese il lavoro apostolico, “come sta facendo nelle altre città universitarie della Spagna, lavorando secondo i propri fini specifici nella formazione di intellettuali”.726

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Chiedeva pertanto che venisse concessa l’opportuna li­cenza per aprire una residenza per studenti169.

Nella stessa data inviò altre richieste, in termini analo­ghi, ai Vescovi di Oviedo 170 e Murcia171. Due giorni do­po fece la richiesta al Vescovo di Coimbra172; il 14 feb­braio chiese licenza per cominciare una Residenza a Santiago di Compostella173. Infine, in data 4 aprile 1946, chiese che venisse concesso un oratorio semipubblico per il Rincón di Valladolid, in via Montero Calvo, n. 24, “finché è in costruzione l’edificio della Residenza per stu­denti”174. Tutti questi progetti divennero operativi in mo­menti diversi. La Residenza Monterols di Barcellona, per esempio, cominciò a funzionare nel Natale del 1948175.

L’espansione apostolica a Barcellona era passata per di­verse tappe. Erano trascorsi due anni dai famosi eventi del 1941, quando il Padre fece un viaggio a Barcellona e a Saragozza - dal 25 al 28 maggio 1943 - per lasciare per la prima volta il Signore nel tabernacolo del Palau176. Quel giorno i suoi figli ascoltarono con particolare emo­zione la meditazione che predicò nell’oratorio, subito pri­ma della Messa. Le parole di don Josemarìa esprimevano un grande ottimismo soprannaturale: “A questo primo Tabernacolo presto ne seguiranno altri a Barcellona”177.Il Signore, con la sua grazia, forse proprio a motivo delle grandi sofferenze da loro patite, avrebbe moltiplicato a Barcellona i frutti dell’apostolato. Era giunta l’ora di ri­tornare a fare apostolato apertamente e con audacia. Era ormai definitivamente chiusa la triste epoca in cui, per non gettare benzina sul fuoco, aveva loro consigliato, nel 1941, di mettere un freno al proselitismo. All’inizio del­l’autunno c’era già, oltre al vecchio Palau, un apparta­mento al n. 444 di via Muntaner178. Il successivo svilup­po a Barcellona fu raggiunto con l’inaugurazione della Residenza per studenti Monterols, nell’anno 1948-49.

All’espansione apostolica raggiunta dall’Opera in Spa­gna tra il 1944 e il 1946 bisogna aggiungere quella al di fuori delle sue frontiere, anche se le circostanze storiche,

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sia prima che dopo la pace del 1945, non furono molto favorevoli. In quegli anni, per ragioni professionali, José Maria Albareda, Francisco Botella, José Maria Gonzàlez Barredo, José Orlandis, Juan Jiménez Vargas, Rafael Calvo Serer, ecc. avevano visitato diversi Paesi d’Europa e d’America. Il Fondatore era consapevole che era giunta l’ora dell’espansione in tutto il mondo.

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NOTE AL CAPITOLO XV

1 Àlvaro del Portillo, Sum. 330; cfr anche Javier Echevarria, Sum. 3211.2 Cfr ibidem. Quando, nell’ottobre 1940, don Josemarìa scelse come con­fessore mons. José Maria Garda Lahiguera, gli manifestò l’intenzione di confessarsi con un suo figlio non appena uno di loro fosse divenuto sacer­dote. “Cosa che io approvai pienamente e anzi gli consigliai”, afferma mons. Garda Lahiguera (Sum. 5474). In caso di assenza di don Àlvaro da Madrid il Fondatore si confessava con don José Maria Hernàndez Gami­ca (cfr José Luis Muzquiz, PM. f. 355v).3 Cfr Àlvaro del Portillo, Sum. 331.4 Cfr AGP, Sezione Pratiche, D-660.5 Cfr ibidem.6 José Luis Muzquiz, RHF, T-04678/1, p. 44.7 Mons. Javier Ayala, a proposito dell’umiltà del Fondatore, conferma che si comportava sempre in questo modo: “Ricordo che nel 1948, quando Ignacio Echeverria e io siamo stati ordinati, benché la cerimonia avesse luogo in famiglia, nell’oratorio del centro di via Diego de Leon e alla pre­senza di poche persone dell’Opera, il Padre non vi assistette neppure allo­ra. Salutò mons. Casimiro Mordilo, che ci avrebbe conferito gli Ordini, e gli disse con grande naturalezza che ‘come sempre’ non sarebbe stato pre­sente. A Ignazio e a me disse che durante la cerimonia avrebbe celebrato la Santa Messa nel piccolo oratorio dell’Amministrazione, pregando il Si­gnore per noi” (RHF, T-15712, p. 55).8 Appunti, n. 1861, dell’11-II-1944.9 RHF, AVF-0079; cfr Appunti, n. 1854, del 9-XI-1941.10 RHF, AVF-0079, del febbraio 1944.11 Ibidem.12 Ibidem.

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13 Cammino, n. 282.14 Appunti, n. 201, del maggio 1931.15 Donna Luz Martmez era zia di don José Luis Muzquiz.16 Appunti, n. 201, del maggio 1931.17 Lettera 15-X-1948, n. 30.18 Rafael Escolà Gii, RHF, T-04837, p. 15; cfr anche Àlvaro del Portillo, Sum. 763.19 Cfr José Luis Muzquiz, RHF, T-04678/1, p. 80.20 Lo afferma mons. Àlvaro del Portillo, che usufruì anch’egli dello sche­dario (Sum. 763).21 Cfr ibidem.22 Cfr ibidem.23 Lettera all’Abate Coadiutore di M ontserrat, Dom Aurelio Maria Escarré, O.S.B., da Siviglia, in EF-431217-1. Alcuni mesi prima era stato sull’orlo dello sfinimento: “Sono veramente esaurito e ho bisogno di ripo­sare qualche giorno non appena avrò terminato un corso di esercizi che sto dando ora”, scrisse a don Antonio Rodilla (Lettera da Madrid, in EF- 430911-1).24 Fu operato il 3 gennaio 1944 (cfr Lettera all’Abate di Montserrat, Dom Aurelio Maria Escarré O.S.B., da Madrid, in EF-440102-1). Degli impegni di quelle settimane e degli interventi chirurgici egli fece uno scarno reso­conto nella lettera a un amico: “In seguito mi si sono talmente complicate le cose - la malattia, molto grave, di mio fratello piccolo, le mie due ope­razioni al naso e alla gola; vari viaggi fuori Madrid non appena il medico me lo consentì - . . . ” (Lettera a José Royo Lopez, da Madrid, in EF- 440206-1).25 Lettera ad Àlvaro del Portillo e agli altri figli di Madrid, da El Escoriai, in EF-441008-1.26 Lettera datata 26-X-1944, in RHF, D-03275.27 Cfr Manuel Botas Cuervo, RHF, T-08253, p. 10.28 Lettera 2-II-1945, nn. 20 e 21.29 RHF, AVF-0079, del febbraio 1944.30 Lettera da Madrid, in EF-460119-1.31 Cfr Lettera da Granada, in EF-460124-1.32 Lettera da Granada, in EF-460124-2.33 Lettera di Àlvaro del Portillo a José Orlandis, da Bilbao, 3-II-1946.34 Lettera di Àlvaro del Portillo a Salvador Canals, da San Sebastiàn, 9-II- 1946.35 Lettera di Àlvaro del Portillo a José Orlandis, da Pamplona, 10-11-1946.36 La petizione è sotto forma di lettera indirizzata a S.S. Papa Pio XII, in EF-460125-1.

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37 Ibidem.38 Ibidem.39 Sul viaggio, cfr José Orlandis, Primeros tiempos del Opus Dei en Roma, Madrid 1995, pp. 35 e ss.40 Lettera da Madrid, in EF-460324-2. Tra parentesi si legge: “(Vi scrivo la notte del 24 ottobre)”, ma alla fine della lettera si corresse, con un’ag­giunta in calce: “Che testa! marzo. Scusate”.41 Ibidem.42 Ibidem.43 Ibidem.44 Ibidem.45 Appunti presi in un incontro del 14-VI-1972; cfr APG, POI 1982, pp. 1366-1367.46 Lettere a Juan Jiménez Vargas, da Vitoria, e a Ricardo Fernàndez Valle- spin, da Burgos, rispettivamente in EF-390213-7 ed EF-390224-5.47 In via Diego de Leon dal 16 al 20; in via Jenner dal 17 al 21 (cfr RHF, D-15013 e D-15014).48 L’Autore è testimone oculare dei fatti raccontati. Per rendersi conto della fatica che il Padre dovette fare, al suo impegno per i due corsi di riti­ro occorre aggiungere il lavoro abituale (visite, lettere, la preparazione delle meditazioni, la Santa Messa, la recita dell’Ufficio divino, ecc.).49 Maria Rosario Arellano Catalàn, RHF, T-04875, p. 19.50 Narcisa Gonzàlez Guzmàn, RHF, T-04989, p. 38.51 Cfr Maria Teresa Echeverrìa Recabeitia, RHF, T-04945, p. 7.52 Cfr Narcisa Gonzàlez Guzmàn, RHF, T-04989, p. 33 e cap. XIII, par. 6.53 RHF, D-15150.54 RHF, D-15152. L’istanza è datata “Madrid, 30 novembre 1944, festa diS. Andrea”.55 Cfr Maria Teresa Echeverrìa, RHF, T-04945, p. 5; Maria Dolores Fisac, RHF, T-04956, p. 16.56 Maria Teresa Echeverrìa, RHF, T-04945, p. 7.57 Cfr Maria Rosario Arellano, RHF, T-04875, p. 4.58 Carmen Gutiérrez Rios, RHF, T-04999, p. 11.59 Maria Teresa Echeverrìa, RHF, T-04945.60 Cfr Narcisa Gonzàlez Guzmàn, RHF, T-04989, p. 23; Francisco Botella, RHF, T-00159, X, p. 4.61 Maria Dolores Fisac, RHF, T-04956, p. 17.62 Cfr RHF, D-15165.63 Cfr Enrica Botella, RHF, T-04894, p. 14.

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64 Cfr Francisco Botella, RHF, T-00159, XII, p. 4; Narcisa Gonzàlez Guzmàn, RHF, T-04989, p. 23.65 Cfr Enrica Botella, RHF, T-04894, p. 21.66 Carmen Canals, RHF, T-04912, p. 2.67 Cfr Enrica Botella, RHF, T-04894, pp. 21 e ss.68 Carmen Canals, RHF, T-04912, p. 1.69 Ibidem.70 Ibidem, p. 2.71 Ibidem, p. 3.72 Carmen Gutiérrez Rios, RHF, T-04999, p. 9.73 Encarnación Ortega, RHF, T-05074, p. 22.74 Cfr Meditazione 19-111-75, in AGP, P09, p. 223; e Ramona Sànchez El­vira, RHF, T-05828, p. 5.75 Cfr Lettera a Amparo Rodriguez Casado, da Burgos, in EF-390221-1 e EF-390321-1.76 Maria Dolores Fisac, RHF, T-04956, p. 6.77 Sabina Alandes Caldés, RHF, T-04855, p. 20.78 Cfr Enrica Botella, RHF, T-04894, p. 21; Lettera ai suoi figli di Roma, da Madrid, in EF-460324-2.79 Tra i docenti c’erano p. Silvestre Sancho Morales, O.P., p. Fernando Ro- drìguez-Permuy, C.M.F., don José Maria Bueno Monreal, p. Benito Celada Abad, O.P., Fra’ Justo Pérez de Urbel, O.S.B., p. Severino Àlvarez Menén- dez, O.P., ecc. Cfr anche Lettera a p. Silvestre Sancho Morales, da Madrid, in EF-440828-1 e Lettera a p. Nicolàs Garcia, C.M.F., da Madrid, in EF- 450908-1; cfr pure Francisco Botella, RHF, T-00159, XII, p. 21.80 Sui verbali d’esame, cfr AGP, Sezione Pratiche, D-660.81 L’8 maggio 1946 furono ordinati dal Vescovo ostiari e lettori, alla pre­senza del Padre. Il 9 maggio esorcisti e accoliti, sempre nel palazzo episco­pale di Madrid.82 Cfr AGP, Sezione Pratiche, D-660.83 Cfr Diario del Centro di Lagasca (AGP, Sez. N. 3 leg. 150-13) e Franci­sco Botella, RHF, T-00159, XII, p. 28.84 Cfr RHF, D-15423; anche Enrica Botella, RHF, T-04894, p. 21; Diari dei centri di via Espanoleto e di via Villanueva (AGP, Sez. N. 3 legs. 123- 11; 123-14 e 235-21).85 Su questo viaggio cfr José Orlandis, Mis recuerdos..., op. cit., pp. 113 e ss.86 Cfr ibidem e Maria Teresa Echeverria, RHF, T-04945, p. 5.87 AGP, Sezione Pratiche, D-660.88 Ibidem. L’idea della rinuncia a una vita facile per servire la Chiesa, qui espressa con goffa spontaneità, la si ritrova nelle frasi che don Josemaria

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scrisse in occasione dell’ordinazione del 1944: “Sono pochi tuttavia a ren­dersi conto di questo nuovo fenomeno pastorale che si verifica nell’Opera di Dio: uomini giovani, che esercitano una libera professione e che potreb­bero fare della propria vita ciò che meglio credono, vanno invece senza alcun guadagno a servire tutte le anime, soprattutto quelle dei loro fratelli, e a lavorare duramente, perché le ore del giorno non basteranno per il loro lavoro spirituale” (Lettera 2-II-1945, n. 3).89 Ibidem, n. 13. “Man mano che si avvicinava l’ordinazione presbiterale - riferisce Francisco Ponz - il Padre era sempre più emozionato. Evidentemen­te era un passo molto importante nella storia dell’Opera” (RHF, T-04151, p. 81). Questi sentimenti del Padre furono espressi soltanto per la prima leva di sacerdoti. “Ora - diceva alcuni anni dopo - mi rallegro molto ogni volta che vengono ordinati i miei figli. C’è fame, c’è sete, c’è assoluta neces­sità di sacerdoti” (José Ramon Madurga, RHF, T-05848, p. 69).90 Lettera 2-II-194S, n. 1.91 Ibidem, n. 7.92 Ibidem, n. 10.93 Ibidem, n. 11.94 Lettera di mons. Àlvaro del Portillo ai membri dell’Opera, Roma, 29- VI-1975.95 Ibidem. Il mattino del giorno successivo, 26 giugno, il Padre, in procin­to di partire da Roma, si recò a Castelgandolfo, per accomiatarsi dalle sue figlie. Stette con loro una ventina di minuti, ricordando l’anniversario del giorno precedente e chiedendo loro di pregare il Signore per i cinquanta- quattro sacerdoti dell’Opera che sarebbero stati ordinati pochi giorni dopo. E aggiunse: “Voi avete anima sacerdotale, ve lo dico ogni volta che vengo qui. Anche i vostri fratelli laici hanno anima sacerdotale. Potete e dovete aiutare con quest’anima sacerdotale; e con la grazia del Signore e con il sacerdozio ministeriale che abbiamo noi sacerdoti dell’Opera, fare­mo un lavoro efficace” (AGP, P02 1975, p. 601; queste espressioni furono registrate su nastro). Poco dopo si sentì male e dovette rientrare a Roma nella sede centrale, dove a mezzogiorno morì.96 Appunti, n. 1857, del 9-II-1944.97 Appunti, n. 1858, del 9/10-II-1944.98 Appunti, n. 1859, del 9/10-II-1944.99 Ibidem.100 Appunti, n. 1860, del 9/10-II-1944.101 José Ramon Madurga, RHF, T-05848, p. 69. Un altro testimone ricor­da che il giovane poeta stava talmente attento che quasi “scivolava giù dalla panca” (José Luis Muzquiz, RHF, T-04678/1, p. 60). In quegli anni don Josemaria, prima di predicare o di dare una lezione, era solito recita­re, leggendole sulla sua agenda tascabile, le parole con cui il profeta Gere­mia si scusava davanti al Signore della propria incapacità di annunciare il

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messaggio divino: “A, a, a, Domine Deus! ecce nescio loqui, quia puer ego suml” (Ger 1,6) (cfr José Ramón Madurga, RHF, T-05848, p. 59).102 Cfr Àlvaro del Portillo, Sum. 1247, e Javier Echevarrìa, Sum. 2741.103 L’espressione indica il generalissimo Francisco Franco, capo di Jesus Fontan Lobé, ufficiale di Marina.104 Cfr Lettera ai suoi figli di Roma, da Madrid, in EF-460324-2.105 José Maria Bulart Ferràndiz, allora cappellano di Palazzo, riferisce che Franco faceva gli esercizi spirituali tutti gli anni e che gli venivano predi­cati dal Vescovo di Madrid (cfr Gonzalo Redondo, Historia..., op. cit., Voi. II, p. 130). Don Josemarìa e Bulart si conoscevano da anni (cfr Lette­ra a José Maria Bulart Ferràndiz, da Valencia, in EF-411220-1).106 Lettera da Roma, in EF-640614-1. Questo inciso, pur aneddotico, esprime bene il distacco di don Josemarìa da ogni parzialità politica e da ogni rispetto umano.107 Àngel Suquia Goicoechea, RHF, D-05226; cfr pure José Fernàndez, RHF, D-15407.108 Vfctor Garcfa Hoz, T-01138, p. 14.109 La predicazione del Fondatore - ricorda mons. Àlvaro del Portillo - “era permeata di speranza cristiana” (Sum. 1247). Ascoltandolo — riferi­sce Federico Suàrez Verdeguer - ciascuno “toccava con mano la propria miseria ma nello stesso tempo, cosa davvero sorprendente, si ritrovava pieno di speranza e di coraggio per affrontare qualsiasi cosa per il servizio di Dio” (RHF, T-05253, p. 9).110 Cammino, n. 736.111 Cammino, n. 747.112 Cammino, n. 749.113 Don Josemarìa guardava sempre “con ottimismo alla vita e alla morte di un cristiano che sa di essere figlio di Dio”; quando assisteva un mori­bondo - riferisce mons. Javier Echevarrìa - lo preparava alla morte par­landogli con sicurezza di “Dio che ti aspetta, che ti ama, che si donerà perché tu non lo perda mai più” (Sum. 2741).114 Ibidem. Nella testimonianza di Federico Suàrez sono raccolti gli ap­punti relativi a due corsi di ritiro fatti con don Josemarìa: il primo a Sa- maniego (Valencia) dal 13 al 20 agosto 1941; il secondo in via Diego de Leon dal 4 al 10 settembre 1942. Del primo aveva preso nota di tutte le meditazioni, che ricostruiva non appena uscito dall’oratorio (cfr RHF, T- 05253,pp. 10-13, 15-18).115 Cammino, n. 739.116 José Luis Muzquiz, RHF, T-04678/1, p. 39.117 Lettera di mons. Santos Moro al Fondatore, da Avila, 27-11-1938 (RHF, D -l0989); cfr Cammino, n. 168.118 Appunti, n. 1857, del 9-II-1944.

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119 Cfr RHF, AVF-0098, del febbraio 1944.120 Appunti, n. 871, del 21-XI-1932. Per José Maria (Somoano) e Luis (Gordon), cfr Voi. I, cap. VII, § 2 e 3.121 Prima della guerra, a Madrid, per ricordarsi della morte, teneva in ca­mera sua un teschio, che chiamava donna Pelata. Ecco una annotazione degli Appunti del 24 novembre 1932: “Se sei apostolo, la morte - donna Pelata - sarà per te una buona amica che ti facilita il cammino” (n. 875; cfr ibidem, n. 1710, del 22-VI-1933).122 Appunti, n. 1824, del 18-IX-1935.123 Appunti, nota 659 di Àlvaro del Portillo; cfr pure Appunti, n. 871, del 21-XI-1932, e Francisco Ponz, RHF, T-04151, p. 51. Di una meditazione data da don Josemarìa il 17 aprile 1948 è la seguente considerazione: “Per condurre una vita veramente sacerdotale è conveniente pensare con fre­quenza alla morte” (frase annotata da Federico Suàrez Verdeguer, RHF, T- 05253, p. 29).124 Cammino, n. 746.125 Cammino, n. 439.126 Appunti, n. 1108, del 7-1-1934; cfr Cammino, n. 436.127 Appunti, n. 23, del IV-1930.128 Ibidem, n. 1647, del 7-X-1932.129 Ibidem, n. 1741, del 16-VII-1934.130 In un’agenda del 1944 don José Luis Muzquiz trovò le seguenti anno­tazioni suggerite dal Padre:“Fine dei viaggi: migliorare la formazione degli altri. Informare. Dirigere e dare slancio agli apostolati.Mezzi: Orazione; meditare nell’orazione il fine del viaggio, le caratteristi­che delle persone, i problemi, le informazioni da dare.Mortificazione: curare l’ordine e il buon uso del tempo.Vita interiore: avere presenza di Dio, essere allegri e uniti.Curare la carità, la correzione fraterna, l’obbedienza (l’efficacia consiste nel seguire le indicazioni, non il proprio parere). Norme: non ridursi alla sera tardi. Povertà: senso pratico”.Seguivano poi altre indicazioni più specifiche:“Prima del viaggio: pensare agli avvertimenti da dare; rivedere le cose scritte dopo l’ultimo viaggio e se erano stati dati particolari incarichi. Quale forte spinta bisogna dare durante il viaggio. Avvisare per tempo; pensare se e chi potrebbe accompagnarci; chiedere la benedizione per il viaggio; non dimenticare di portarsi gli indirizzi delle persone”.Durante il viaggio bisognava parlare con il Direttore, con gli altri dell’O­pera, con le persone che avevano cominciato a frequentare il centro. E bi­sognava “far visita al Prelato, ai sacerdoti conosciuti, agli amici, ecc.”.

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“Dopo il viaggio: riferire sul proprio rendimento spirituale, sui problemi e le difficoltà incontrati, fare una relazione scritta, inviare note, non dimen­ticare gli incarichi, rendicontare le spese, ecc.” (RHF, T-04678/1, pp. 6-7).131 Cfr Cammino, n. 978.132 Cammino, n. 30.133 Cfr Amadeo de Fuenmayor e altri, op. cit., Appendice documentale, documento 9, p. 733.134 Dall’ottobre 1943 alcuni membri dell’Opera vivevano a Siviglia presso Casa Seras, una Residenza della Scuola di Studi Ispano-Americani che di­pendeva dal Consiglio Superiore delle Ricerche Scientifiche. Il primo cen­tro a Siviglia fu la Residenza Guadaira, in via Canalejas.135 Cfr José Luis Muzquiz, RHF, T-04678/1, p .^6.136 Di questo viaggio ci sono una relazione di José Luis Muzquiz (RHF, D- 15204-26) e una di Jesus Alberto Cagigal (RHF, D-15204-27).137 Miguel Chorniqué Roncero, RHF, T-06433, p. 5. La macchina era una Champion Studebaker, targata Bilbao, BI-13865. “Il Padre - riferisce Mi­guel Chorniqué (ibidem, p. 7) - era infaticabile. Non mi spiego come riu­scissimo a seguire il suo ritmo. Le distanze che coprivamo negli sposta­menti erano assolutamente inverosimili. Don Àlvaro, che teneva le medie di velocità e i percorsi, calcolò che i tragitti quotidiani più corti erano in­torno a 900 chilometri e i più lunghi intorno a 1200. Se ciò oggi può non sembrare eccessivo, a quell’epoca, con le difficoltà di ogni genere che si presentavano, era una cosa incredibile. Un giorno leggemmo sul giornale che in occasione di una campagna elettorale - forse intorno al 1950, quando Churchill si presentò di nuovo dopo aver perso nel 1945 - il fa­moso politico inglese aveva percorso 16.000 o 17.000 chilometri in aereo. Non so se io o don Àlvaro abbiamo commentato che erano gli stessi chilo­metri che noi avevamo fatto nello stesso periodo di tempo, ma in automo­bile. Questo paragone divertì molto il Padre. I viaggi terminavano spesso a sera tardi e cominciavano al mattino presto. Raramente il Padre dormi­va in macchina”.138 AGP, P04 1972, p. 422.139 RHF, D-15204-26.140 Cfr ibidem e José Luis Muzquiz, RHF, T-04678/1, p. 75. In via Diego de Leon il Padre riceveva molte visite, per diversi motivi. A volte cercava di evitare quelle di coloro che volevano conoscere il Fondatore mossi da insana curiosità: “Vengono solo per vedere la bestia rara”, diceva (cfr Francisco Ponz, Mi encuentro con..., op. cit., pp. 102-104).141 Antonio Fernàndez Grilo, Las Ermitas de Córdoba.142 RHF, D-15204-27.143 Ignacio Echeverria Recabeitia, RHF, T-05855, p. 13.144 RHF, D-15204-26.145 Appunti, n. 1476, del 10-1-1938.

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146 Cfr Carmen Penalver Gómez de las Cortinas, RHF, T-05090, p. 3, e cap. IX, par. 3. Il Fondatore era solito fare gli auguri di Natale ai marchesi de las Torres de Oràn (cfr p. es. Lettera da Madrid, in EF-441225-7).147 Cfr RHF, D-00074-19 (Diario della Residenza Albayzm); Lettera a mons. Manuel Hurtado y Garda, da Madrid, in EF-450821-1; circa l’Am- ministrazione della residenza, cfr Lettere alle sue figlie di Bilbao e di Los Rosales, da Granada, in EF-460124-1 ed EF-460124-2.148 Cfr RHF, D00074-19.149 Lettera a mons. Agustin Parrado Garcia, da Madrid, in EF-451003-2; per i documenti allegati cfr RHF, D-15434 e D-15166.150 Lettera a mons. Agustin Parrado Garcfa, da Madrid, in EF-451022-1.151 L’istanza è datata Granada, 20 novembre 1945. Cfr Diario della Resi­denza Albayzm, AGP, Sez. N. 3 leg. 074-19 e RHF, D-15434.152 Ibidem e Registro ufficiale della Curia: Reg. lib. 1 B, n. 807 e 1037.153 RHF, D-15160.154 RHF, D-15161. Fu concessa l’indulgenza di 200 giorni: cfr Reg. lib. 1 b ,n . 1081.155 Cfr Diario della Residenza Guadaira: AGP, Sez. N. 3 leg. 137-27.156 Venticinque anni dopo il Fondatore ricordava i particolari del suo primo colloquio con suor Lucia: “La trattai in modo sbrigativo, perché sa­pevo che era una santa; e lei non solo non se la prese, ma ritornò per dirmi che l’Opus Dei doveva andare in Portogallo. Le risposi che non ave­vamo il passaporto, ma lei rispose: ci penso subito io. Telefonò a Lisbona e ci procurò un documénto per passare la frontiera. Non abbiamo parlato affatto delle apparizioni della Madonna, non l’ho mai fatto. È una donna di una umiltà meravigliosa. Tutte le volte che la vedo le ricordo che lei ha una parte di responsabilità nell’inizio dell’Opera in Portogallo” (Appunti presi in una tertulia del 27-111-1970, cfr AGP, POI 1981, p. 1362). Sul col­loquio fra don Josemaria e suor Lucia mons. José Lopez Ortfz racconta: “Tra altre cose, le disse pressappoco questo: Suor Lucia, con tutto il parla­re che fanno di lei e di me, vediamo di non finire all’inferno...!”. Il Padre mi raccontò che suor Lucia rimase pensierosa e gli disse con grande sem­plicità: ‘È vero: ha ragione’. Josemaria fu molto contento di toccare con mano la sua umiltà” (in Un santo per amico..., op. cit., p. 203). Cfr anche Àlvaro del Portillo, Sum. 875; Alberto Cosme do Amarai, Sum. 6791.157 Cfr Eliodoro Gii Ri vera, Sum. 7748.158 José Lopez Ortfz, in Un santo per amico..., op. cit, p. 204.159 Ibidem.160 Cfr Àlvaro del Portillo, Sum. 857.161 Cfr Àlvaro del Portillo, Sum. 627; Lettere a p. Nicolas Garcfa, C.M.F., in EF-450908-1; a S. Em. Manuel Gongalves Cerejeira, in EF-450913-1; al rev. Urbano Duarte, in EF-451105-1, tutte da Madrid.162 Lettera da Madrid, in EF-460521-1. La richiesta al Vescovo del per­

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messo il Fondatore la fece da Madrid, il 2 febbraio 1946 (cfr RHF, D- 15174).163 Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 627.164 José Ramon Madurga, RHF, T-05848, p. 70.165 Cfr RHF, D-15433. Il Santissimo fu lasciato nel tabernacolo solo due mesi dopo. Il Padre attese trepidante che il Signore fosse presente in quella casa, come si vede dalla corrispondenza intercorsa con i suoi figli di Bil­bao. Nella lettera che scrisse alle sue figlie nel mese di novembre si nota la sua impazienza: “Avete già il Tabernacolo? FateGli molta compagnia” (Lettera da Madrid, in EF-451117-1). E ai suoi figli domandava: “Quan­do avrete il Signore nel Tabernacolo? Anch’io lo desidero vivamente” (Lettera da Madrid, in EF-451128-1).166 Federico Suàrez, RHt, T-05253, p. 25.167 Cfr Javier Echevarrìa, Sum. 2208.168 L’appartamento era soprannominato La Clinica perché vi abitavano diversi medici.169 La licenza fu concessa dall’Arcivescovo l’8 febbraio 1946 (cfr RHF, D- 15167). Il 24-X-1946 venne richiesto dal Fondatore un oratorio semipub­blico con tabernacolo per la casa di via Baltasar Graciàn, n. 3, che gli fu concesso P8-XI-1946 (cfr RHF, D-15168); l’attuale Residenza Miraflores fu ultimata solo alcuni anni dopo.170 Cfr RHF, D-15171.171 Cfr RHF, D-15172. Lo sviluppo del lavoro apostolico nelle Università di Murcia e di Oviedo è posteriore rispetto agli altri capoluoghi universi­tari spagnoli. \172 Cfr RHF, D-15174.173 La concessione porta la data del 27 febbraio 1946; cfr RHF, D-15173.Si tratta della futura Residenza Estila. Già alla fine dell’estate 1944 il Fon­datore aveva dato disposizioni per edificare ex novo un immobile per una residenza.174 Cfr RHF, D-15170. Prima di costruire un edificio da destinare a resi­denza, furono aperti altri centri per ampliare il lavoro apostolico con gli studenti.175 La Residenza Monterols fu inaugurata proprio con il cenone natalizio; cfr Diario di Monterols: AGP, Sez. N. 3 leg. 172-14.176 Cfr Lettera ai suoi figli di Barcellona, da Madrid, in EF-430508-1. Il25 maggio il Fondatore andò in aereo da Madrid a Barcellona, il 27 andò a Saragozza e di là a Madrid; cfr RHF, D-15200.177 Francisco Ponz, Mi encuentro con..., op. cit., p. 135.178 Francisco Botella, RHF, T-00159, XI, p. 1.

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Appendice documentale

Indice dei documentiXVI. Diario con note manoscritte del Fondatore dell’Opus

Dei dal 20 al 25 luglio 1936.XVII. Diario di Juan Jiménez Vargas (6-15 ottobre 1936).XVIII. Diario di Antonio de Dalmases Esteva (novembre-di- cembre 1937).XIX. Lettera del Vescovo di Madrid, mons. Leopoldo Eijo

y Garay, del 24-V-1941, all’Abate Coadiutore di Montserrat, Dom Aurelio Maria Escarré.

XX. Lettera del Vescovo di Madrid mons. Leopoldo Eijo y Garay, del 21-VI-1941, all’Abate Coadiutore di Montserrat, Dom Aurelio Maria Escarré.

XXI. Relazione parziale dell’attività di predicazione del Fondatore dell’Opus Dei tra il 1938 e il 1946.XXII. Viaggi apostolici del Fondatore dell’Opus Dei nella Penisola iberica (1939-1946).

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DOCUMENTO XVI Diario con note manoscritte del Fondatore dell’Opus Dei dal 20 al 25 luglio 1936(cfr cap. IX, § 1; originale in AGP, RHF, D-15223)*Lunedì, 20 - Preoccupazione per tutti, specialmente per Ri­cardo1. Preghiamo la Santissima Vergine e gli Angeli Custodi. Intorno all’una faccio il segno della Croce ed esco per pri­mo2. Arrivo a casa di mia madre3. - Parlo al telefono con Juan4. Notizie dalla radio. Tutti sono arrivati a casa. Pessima nottata, molto caldo. Tre parti del Rosario. Non ho il brevia­rio. Miliziani sul terrazzo.Martedì 21: senza Messa. - Ipotizziamo di andare a vivere in via Ferraz. - Juan per telefono dice di no. - Sia di mattina che di pomeriggio viene Juan: vuole che io esca di casa (sarto)5. - Per tranquillizzare i suoi genitori e per chiedere di Carlos6. - Alle 14 chiamo Juan per telefono e mi dice che cosa accade. - Telefono alle pompe funebri: Santa Isabel è stata data alle fiamme. - Trovo un Eucologio Romano7, e potrò recitare l’ufficio dei defunti. - Tre parti del Rosario. Novena alla Vergine del Pilar. - E venuto Juan. - Notizie della radio. - Radio Siviglia. Mercoledì, 22: Senza celebrare; preoccupazione per i miei. Telefono a Juan, ma non c’è (alle 8). - Ci sembra di sentire il telefono, lo richiamo e non c’è. - Non viene il lattaio. - Non bere acqua, per tutti, specialmente per i nostri8. - Prego per i defunti. - Viene Juan: gli dico che mandi una cartolina a Ricardo e un’altra a Rafa9, che vada a casa di Ri­cardo e che facciano uscire Carlos dall’ospedale. - Carmen esce a fare acquisti: scarseggiano le vettovaglie... - Quelli del piano di sotto riferiscono che alla radio hanno detto che il governo ha fat­to bombardare Valladolid, che è stata tutta distrutta. - Dicono che stanno imprigionando i sacerdoti. - Mamma: nasconderle le cose (niente radio, eccetto Radio Siviglia); intrattenerla (ho gioca­to a carte, a tressette: l’ho offerto a Dio). - Dice Santiago: quelli di sotto, alla peggio, si mangeranno il cognome10. - Decido di non fare telefonate; Rosario; Novena alla Vergine del Pilar. - Mia madre dice: per la festa di S. Giacomo...11. - Non crediamo a una sola parola della radio. - Guardiamo attraverso le finestre del cortile: “ormai il cortile è spoglio”; “quello è il portinaio” - Dice Carmen (ne vede due): ora ci sono due portinai?12. - Illumi­740

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niamo con candele il quadro dell’Amore Misericordioso. - Udia­mo alcuni ordini: “Non rispondete ai colpi13; serbateli per un’al­tra occasione: ogni sparo, sul bersaglio! Non attaccate da Men- dizàbal”14. - Non posso lavorare con le mie carte perché non ho la chiave15. - Giovedì, 23. Comunioni spirituali. Tre ‘mis’ al Pi- lar16. Senza Messa! - Mi dice Santiago che bisogna bruciare il Si­glo17 perché la mamma non lo legga. - Fa un caldo tremendo, ep­pure ieri credevo di essermi abituato. - Cercherò di trovarmi un Breviario. - Non ho detto a Juan di andare al 1618 e di portarme­lo, perché il ragazzo mostrava una evidente ripugnanza ad andar­ci, benché ci passi davanti, perché non conviene. - Viene Juan (8.30): non si è potuto comunicare perché le chiese sono bruciateo sotto sequestro. - Va a casa di Isidoro per andare alla Residen­za a prendere la mia carta d’identità, ecc. Pensa di andare alle Po­ste per vedere se ci sono lettere. - Pensa che non sia possibile por­tare il breviario. - Scopro un messale: dirò Messa secca. Carmen va a fare la spesa: i conventi, sotto sequestro. - Al mattino vengo­no José Maria Albareda e Isidoro con Juan: mi portano il por­tafogli e le chiavi e una cartolina di Ricardo. - Nel pomeriggio, alle 16, dopo la partenza di un camion pieno di uomini con fuci­li, si odono grida di U.H.P...19 - Hanno preso il fratello di Mano­lo Sainz de los Terreros - Buone notizie di Carlos - Viene Hermó­genes20 alle 16.30; racconta alcuni particolari: sono stati presi don Ramón21 e Sales: C: de C.22. - Il pessimismo abbatte. - Mi arrabbio con mio fratello perché dà le notizie di El Siglo alla mamma (bombardamento di Huesca). - Nel cortile interno nes­suno fa sentire la radio. - Non siamo riusciti a prendere Radio Si­viglia. - Venerdì, 24: senza Messa! Alle 7 del mattino è venuto il lattaio. - È venuto Juan, che si è fermato a lungo. 50 pesetas per l’Ordine dei Medici. - Parliamo di tutti, specialmente di Ricardo, e lui gli scrive una cartolina a Valencia. - Viene la domestica. - Caldo orribile. - Orazione: Signore, Santissima Vergine, Angeli Custodi, S. Giacomo. - Tre vicini. - Ieri e oggi non abbiamo sen­tito la radio. - Un camion pieno di ragazzini di 12 o 13 anni. - 5 della sera: sul tetto della caserma del Conte-Duca hanno messo un lenzuolo con la croce rossa... Temono gli aeroplani? - Preoc­cupato perché Juan non è venuto, dato che aveva detto che sareb­be venuto. Ho telefonato a casa sua due o tre volte: lo avrebbero avvertito (carbone) - Di sera (ore 22) è salita la monaca del piano di sotto23 a portare buone notizie. - Notizie: Parigi, Italia, Prieto.741

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- Sabato> 25: S. Giacomo salvi la Spagna! Viene Juan e si porta via le chiavi per cercare la carta d’identità di Barredo - Carmen esce a fare la spesa: si esauriscono le scorte dei commercianti. Si usano buoni24. - La gente (illi)25 è scoraggiata. - Croce rossa al Buen Suceso26.NOTE DEL DOCUMENTO XVI* L’originale è scritto con molte abbreviazioni. Il testo qui riprodotto è la traduzione della trascrizione completa che l’edizione in spagnolo pone su­bito dopo l’originale (NdC).1 Ricardo Fernàndez Vallespm, sorpreso a Valencia dall’inizio della guerra. Vi si era recato per aprirvi una Residenza per studenti, analoga alla Resi­denza DYA di via Ferraz, a Madrid.2 Usciva dalla Residenza DYA, proprio di fronte alla caserma de la Mon­tana, dove infuriavano i combattimenti.3 In via Rey Francisco, 3, a tre isolati di distanza.4 Juan Jiménez Vargas.5 Al Fondatore dell’Opus Dei occorrevano abiti borghesi.6 Sembra che si riferisca a Carlos Fernàndez Vallespm, fratello di Ricardo.7 Libro di devozioni che contiene gli uffici della domenica e delle principali feste dell’anno.8 Voleva offrire un sacrificio per tutti, specialmente per le persone dell’Opera.9 Rafael Calvo Serer.10 La famiglia del piano di sotto si chiamava Paniagua, cioè pane e acqua.11 Intendeva che per il 25 luglio sarebbe finito tutto e sarebbe ritornata la pace.12 Questa trascrizione è incerta.13 Le fucilate dei franchi tiratori.14 Erano ordini per le guardie e i miliziani che pattugliavano le strade. Mendizàbal è il nome di una via nelle vicinanze.15 La chiave del baule che conteneva le carte dell’Opera era rimasta in via Ferraz.16 Potrebbe significare “tre misteri” oppure “tre Messe”, che si figurava di recitare (o celebrare) nella Basilica del Pilar.17 II quotidiano El Siglo Futuro.18 Di via Ferraz.19 La Union de Hermanos Proletarios, Unione dei Fratelli Proletari, un’or­ganizzazione del Fronte Popolare.20 Hermógenes Garcfa, una delle donne che all’epoca facevano parte del­l’Opera. Durante la guerra operò da collegamento fra il Padre e le altre.21 Probabilmente si riferisce a Ramón del Portillo, padre di Alvaro.22 Nome e iniziali oscuri.23 Della famiglia Paniagua.24 Si incominciava a usare buoni al posto del denaro.25 Gli altri.26 La chiesa del Buen Suceso, che si trovava all’angolo tra via de la Prince- sa e via Quintana, a due isolati dalla casa degli Escrivà.

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DOCUMENTO XVII Diario di Juan Jiménez Vargas (6-15 ottobre 1936)(cfr cap. IX, § 3; originale in AGP, RHF, D-15347)(scritto a mano, su due fogli intestati Diario Clinico. Quando Juan fu arrestato il giorno 15 a casa sua in via S. Bernardo, i fogli stavano sullo scrittoio).6 ottobre 1936

Sono andato da Barredo alle 9.30. Ieri sera gli aveva te­lefonato Alej andrò per vederci oggi alle 9. Parlava in modo che poteva comprometterlo.Quando suonammo a casa sua venne fuori la sorella tutta in lacrime, facendoci segno di andarcene perché era in corso una perquisizione.Ci siamo trovati con Vicente. Sembra che casa sua non sia sicura. Avrebbe parlato con il dirimpettaio, che è il console

greco, e si sarebbe informato sulla casa di cura psichiatrica che hanno nella colonia.Si era fatto tardi e quando siamo arrivati a casa del segre­tario dell’Ambasciata di Cuba, questi se n’era già andato.Nel pomeriggio sono tornato a casa di Vicente. La faccen­da del console di Grecia non va avanti. Alle 17 è venuta una ragazza che abita lì vicino e conosce quelli della casa di cura. Sono andato con lei e mi ha presentato al direttore. Non han­no difficoltà, ma solo se si dà il nome alla Direzione di Pub­blica Sicurezza come si fa per tutti i malati.A tarda ora viene Joaqum a casa mia. Tutto sistemato. E andato questa mattina con Infante alla Casa di cura di Suils. Il Padre vi può andare senza che si debba dare il nome alla Direzione di Pubblica Sicurezza.7 ottobre 1936Alle 10 sono venuti a casa mia il Padre e Joaqum. Subito dopo Chiqui, che si è confessato con il Padre. La domestica di Joaqum gli diceva questa mattina: buon giorno, Padre.

[Joaqum] ha telefonato al Parque per far venire qui la mac­china e ci ha avvertiti di avvisare la portinaia che avrebbe chiesto del dottor Herrero Fontana. Abbiamo nascosto a ca~743

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sa mia il documento di riconoscimento. Suils gli firmerà il certificato, sicuramente con un nome falso.Il Padre racconta che ogni capo della biancheria che porta è di una persona diversa.Mi telefona Vicente chiedendo del dottor Vargas e dando­mi del lei, come avevamo convenuto. Se non ci mettiamo a ri­dere, forse può ingannare qualcuno.8 ottobre 1936Isidoro è andato a trovare Àlvaro. Sta molto bene. Nessu­no l’ha visto entrare a casa sua all’infuori del portinaio, che è molto cambiato. Nelle prime ore del pomeriggio sono andato con Barredo a casa del segretario dell’ambasciata di Cuba: non c’era o non voleva riceverci.Ho visto Selesio: erano andati a cercare quelli di Villavicio- sa ma, visto che la casa è protetta dall’ambasciata, se ne sono andati senza perquisire.Poco dopo che ero uscito di casa mia è venuto Joaqum. E andato tutto molto liscio e il Padre sta bene.9 ottobre 1936Ho portato il diario a casa di Vicente perché lo facciamo un po’ per uno; io lo scrivo e lui aggiunge quello che manca: punti, accenti, virgole, l’acca dove ci vuole, ecc. Mi sono fer­mato a lungo; non avremo fatto granché di utile ma, quanto a ridere, abbiamo riso un sacco.10 ottobre 1936Ho portato a Isidoro una copia dei Vangeli, perché nella “ispezione” che ha fatto sua madre si è salvata dalle fiamme solo la Guida dei peccatori perché rilegata in pelle rossa.Ieri sono stato a casa di Àlvaro. Non si può fare nulla con l’ambasciata del Messico. Hanno assassinato uno che faceva da intermediario con l’ambasciata per queste cose.Barredo rivedrà sua cugina. Crede di non poter ottenere nulla riguardo a S. Luigi dei Francesi. Se avesse saputo qual­cosa lo avrebbe già detto, perché sono due giorni che gliene ha parlato.Eravamo un po’ preoccupati per la casa di cura. Ci sembra che non abbiano affatto vergogna quando si tratta di farsi744

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pagare e questo non è una buona garanzia sulla sicurezza di quel posto. Lo sapevo già e mi è sembrata una ragione per tentare, perché si sarebbero prestati pur di farsi pagare.11 ottobre 1936Sono andato con Barredo a casa di Isidoro a portargli un libro di ginnastica. Siamo andati tutti e tre a fare un giro dal­le parti di S. Luigi dei Francesi. Sembra disabitato. A quanto pare quello che hanno detto a Barredo si riferisce all’ospeda­le e non al collegio.Continuiamo a non sapere nulla di Sellés e ci preoccupa non poterlo aiutare, perché, in questa epidemia di vile egoi­smo di cui soffre Madrid, lui e le Leyva sono casi eccezionali di generosità.12 ottobre 1936Ho telefonato a Chiqui e mi hanno detto che non può usci­re di casa perché è molto raffreddato. Non ho osato andare a trovarlo per timore del suo portinaio.Sono stato tutta la mattina a casa di Vicente.Dopo mangiato sono andato a casa di Barredo. Per strada ho visto Sellés. A casa sua non sono andati a perquisire.Isidoro e io accompagniamo per un po’ Barredo, che anda­va a lezione d’inglese, e siamo stati un momento a Rosales.13 ottobre 1936Mentre stavo per uscire di casa mi telefona il medico di guardia della clinica. Il Padre sta bene. Possiamo andare a trovarlo se vogliamo.Barredo, Isidoro e io abbiamo trascorso la mattina nel par­co, facendo finta di studiare inglese.La madre di Herrero (lui non era in casa) dice che è una sciocchezza andare a trovare il Padre. Lo sa bene che è preoc­cupato non sapendo nulla di noi, ma non si può far altro. Ha ragione, benché penso quanto starà pregando il Padre, com­pletamente isolato. Anche a noi piacerebbe vederlo, ma non vogliamo creare complicazioni per sciocco sentimentalismo. Perciò questo pomeriggio sono andato a casa di Suils. Gli ho detto che il Padre non deve preoccuparsi di nessuno di noi, come se non fossimo a Madrid. Né telefono né altro. Unica­

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mente se ci fosse pericolo per lui, mi avvertano a casa mia. Mi racconta che ha simulato una afonia isterica. Ora dice già qualcosa, ma molto poco, per non destare sospetti.14 ottobre 1936Al mattino siamo andati a casa di Barredo. Lui è andato a trovare Sellés. Isidoro e io siamo stati in strada a non far nul­la fino all’ora di pranzo. Dopo mangiato sono andato a casa di Isidoro. Elordi è venuto a casa mia quando io non c’ero.15 ottobre 1936Nelle prime ore del pomeriggio sono andato a casa di Bar- redo. Sarebbe opportuno parlare con Elordi e cercare di otte­nere per il Padre un salvacondotto come nazionalista basco. Questo nel caso in cui non debba uscire dalla Casa di cura, perché ieri sera la polizia ha setacciato Madrid chiedendo i documenti nelle case e ha arrestato molta gente. Non basta la carta d’identità: esigono documenti di affidabilità del Fronte Popolare.(...) Sellés sta studiando il modo perché il Padre possa cele­brare la Messa a casa sua. Questo me lo ha detto Barredo quando se n’era andato Valdés, perché se lo sente si spaventa e ci butta addosso una caraffa di acqua fredda.È meravigliosa l’imprudenza di Sellés. In casa sua no, ma nella clinica credo che sarà possibile. Evidentemente, senza che nessuno lo possa neppure immaginare. In casa di Joaquìn ne avrebbero dispiacere. Sua madre mi diceva ieri che si ri­corda sempre di me perché mi sto giocando la vita (!!!) a fu­ria di camminare per strada. Le risposi che devo avere sette vite come i gatti e che ancora me ne restano perché, fra tutti i medici (?) e le batoste che ho subito per 23 anni, non sono riusciti a togliermene che quattro o cinque.

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DOCUMENTO XVffl Diario di Antonio de Dalmases Esteva (novembre-dicembre 1937)(cfr cap. X, § 8. Se ne riproduce qui un estratto; originale in AGP, RHF, T-08246)Dal Prologo (scritto a Barcellona nel 1960)Tra i fuggiaschi c’era un sacerdote accompagnato da sette amici. Un sacerdote che celebrò la Messa durante la traversa­ta, Messa che è rimasta nei miei ricordi perché diversa da tut­te le altre cui abbia assistito. Un sacerdote che i suoi compa­gni veneravano e dal quale emanava una forza magnetica. Un sacerdote col quale in quei giorni non ho quasi parlato - non si parlava durante la marcia - ma che, senza che sapessimo il perché, era al centro dell’attenzione di tutti. Ci separammo in Andorra, ma lo rividi otto giorni dopo a San Sebastiàn men­tre stavo pregando nella chiesa del Buon Pastore: arrivò da dietro, mi mise la mano sulla spalla e mi disse che non ci sa­remmo più separati. Da quel giorno e per tutta la guerra fu il mio direttore spirituale attraverso lo scambio di lettere. Si oc­cupò di me, mi incoraggiò a studiare le lingue mentre gli altri soldati perdevano deprecabilmente il tempo e fu per me come un padre per tutto quel periodo. Finita vittoriosamente la guerra, inspiegabilmente persi il contatto con lui e non ne ho più saputo nulla. Un giorno, vent’anni dopo, poco dopo aver perso mio cognato, mio padre e mia madre e trovandomi in una grande crisi spirituale, un altro fatto fortuito, che questa volta riguardava mia moglie, per così dire sollevò il velo da questa vicenda della mia vita passata, facendomi scoprire in essa un disegno divino. Ritrovai di nuovo e per sempre non solo quel sacerdote che per me era come un padre, ma anche tutta la gigantesca e meravigliosa Opera, il cui nucleo iniziale era il piccolo gruppo di persone che lo accompagnava in quei giorni pieni di peripezie, la cui storia scrissi nel mio diario. Quel sacerdote era don Josemarìa Escrivà.Dal DiarioCi aggreghiamojalla^-spedizione. Si ode un fischio attutito, in risposta se ne ode un altro e dove sembrava che non ci fos­

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se nessuno appaiono diversi uomini, una ventina. Sono tutti più o meno equipaggiati come noi: grandi tascapani, coperte, sciarpe, impermeabili, c’è di tutto; ci si muove in silenzio e nell’oscurità e si forma una fila senza che nessuno apra boc­ca. In testa c’è una guida, poi noi e dietro gli altri. Non riesco a evitare di voltarmi spesso per osservare lo spettacolo. Non si ode altro rumore che i bastoni che colpiscono il suolo. Die­tro a me ci sono uomini e uomini, che alla luce della luna sembrano fantasmi. Camminano molto carichi, curvi sotto il peso che portano sulle spalle. Stiamo salendo per la monta­gna e poiché andiamo a zig-zag per la forte pendenza, sotto di noi intravediamo una fila che si muove come una scolo­pendra stanca. È evidente che sono in marcia già da molte ore (dalle diciotto del giorno precedente, mi dicono poi) poi­ché appaiono affaticati e spesso dobbiamo fermarci a riposa­re. Sembra che qualcuno della fila non riesca a camminare al passo della guida e quindi spesso ci si ferma.Non dimenticherò mai quella notte, finché avrò vita. Cam­miniamo finché non fa capolino il sole indiscreto, cioè quan­do arriviamo al posto dove riposeremo oggi. Prima di arri­varci il percorso è pessimo, non c’è sentiero; una pietra, staccandosi, imprigiona il piede di quello che sta davanti a me. Facciamo molta fatica a liberarlo perché la pietra che lo sostiene è la stessa che gli imprigiona il piede. Dopo molta fa­tica lo liberiamo e lo curiamo alla meglio. Fortunatamente non si è fatto niente e può proseguire. Ci si passa la voce per mettere in guardia gli altri da quel passaggio pericoloso.Ci ripariamo sotto un’enorme roccia di una trentina di me­tri di altezza, dal cui punto più alto cade una cascata che ci passa davanti e cade molto più in basso, dove c’è un torren­tello. Il suolo è pieno di grosse pietre, che lo rendono più pe­ricoloso e selvaggio. Ci troviamo su una terrazza larga cin­que metri e sospesa una trentina di metri sopra il torrente; in mezzo c’è un pendio impraticabile coperto di vegetazione; so­pra di noi, la roccia, quasi in verticale, e il cielo.Qui ha luogo l’evento più emozionante del viaggio: la Santa Messa. Su una roccia, inginocchiato e quasi prostrato al suolo, un sacerdote che fa parte del gruppo celebra la Messa. Non la dice come gli altri sacerdoti delle chiese (...). Le sue parole chiare e colme di sentimento toccano l’anima. Non ho mai748

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ascoltato una Messa come quella di oggi, non so se per le cir­costanze o perché il celebrante è un santo. La Santa Comunio­ne è commovente; poiché non ci possiamo quasi muovere ha difficoltà a distribuirla, anche se siamo tutti raggruppati intor­no all’altare. Siamo tutti in disordine, con la barba di diversi giorni, spettinati, stanchi. Uno ha il pantalone rotto e si vede tutta la gamba. Le mani sono sanguinanti per i graffi, gli occhi brillano di lacrime trattenute, ma Dio sta tra di noi, in Ostie ri­tagliate con le forbici; presiede la nostra unione e ci conduce alla libertà. A Lui offriamo i nostri sacrifici per la Spagna, per i nostri genitori, per i nostri fratelli, per le nostre famiglie e per gli amici che rimangono da questa parte, per i nostri compagni che soffrono nelle prigioni, perché possiamo ritornare alle no­stre case... Torniamo in noi, mentre la Messa finisce.Cambiamento brusco. Abbiamo fame. Mangiamo e ci met­tiamo a dormire. Non ci riesco. Si formano dei gruppi, per parlare e conoscerci. Alcuni dei presenti sono già andati con altre spedizioni, arrivando vicino alla frontiera, ma sono do­vuti tornare indietro, inseguiti dalle fucilate delle guardie. Ci sono otto castigliani che dicono di venire da Madrid: tra essiil Padre che tanto mi ha impressionato e che sembra essere il loro capo; un valenziano, quattro o cinque di Barcellona, di­versi della provincia di Lerida e noi tre. Si crea un clima di cordialità. Nel tentativo di aprire una bottiglia di cognac, questa si rompe tra il generale disappunto. Ora è rimasta so­lo quella che porto io. Riempio la bottiglietta che porto at­taccata alla cintura e il resto lo distribuisco agli altri. Quelli di Madrid mi danno del pane, mentre aspettiamo che ci por­tino la nostra razione (abbiamo lasciato il pacchetto nella ca­sa) e così passiamo il tempo parlando, mangiando e riparan­do le nostre attrezzature, finché arriva la guida. È un ragazzo giovane e deciso (...), che ci ordina di stare pronti per le quat­tro del pomeriggio.Prima di metterci in marcia recitiamo il Rosario, come mailo avevamo recitato, neppure durante i giorni peggiori della persecuzione di Barcellona.* * *

I miei nuovi amici di Madrid dal loro equipaggiamento pren­dono le cose più necessarie, abbandonando il resto che non749

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possono portare. Camicie, calze, borse, scarpe... resta tutto lì. Ne approfittano alcuni di noi che se la sentono di caricar­seli. Il Padre incoraggia tutti. La sua presenza ispira fiducia a tutti: ci sembra che sia stato mandato da Dio. Emana da lui una forza magnetica, che mi ha impressionato moltissimo.sj* if* ij-

Ci inginocchiamo con il Padre e ringraziamo Dio. È lui che esprime la gioia di tutti.

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DOCUMENTO XIX Lettera del Vescovo di Madrid, mons. Leopoldo Eijo y Garay, del 24-V-1941, all’Abate Coadiutore di Montserrat, Dom Aurelio Maria Escarré(Cfr cap. XIII, § 4; AGP, RHF, D-3545/2).Carissimo in Cristo, molte grazie per la sua lettera del 9, che ho ricevuto ieri, giorno 23. Non mi spiego tanto ritardo.In ispirito sono stato con Lei in quella Santa Casa tanto amata; gli impegni quotidiani non mi hanno consentito di ve­nirci di persona.Conosco già il subbuglio che è sorto a Barcellona contro l’Opus Dei. E il bene che scatena la cattiveria del nemico. La cosa triste è che persone molto donate a Dio siano lo strumen­to del male, certamente putantes se obsequium praestare Deo. Sono al corrente di tutto, perché l’Opus, da quando è stato fondato nel 1928, è nelle mani della Chiesa: l’Ordinario dio­cesano, vale a dire il mio Vicario generale e io, conosciamo e, se necessario, dirigiamo tutti i suoi passi. I suoi primi vagiti e i suoi attuali gemiti risuonano nelle nostre orecchie... e nel no­stro cuore. Perché, mi creda, Rev.mo Padre Abate, l’Opus è veramente Dei, fin dalla sua prima idea e in tutti i suoi passi e attività. Don Escrivà è un sacerdote modello, scelto da Dio per la santificazione di molte anime, umile, prudente, abnega­to nel lavoro, estremamente docile al suo Prelato, di intelli­genza eletta, con una formazione spirituale e dottrinale molto solida; di ardente zelo, apostolo della formazione cristiana della gioventù studiosa e senza altra mira né altro anelito che di preparare, per il bene della Patria e per il servizio e la difesa della Chiesa, una moltitudine di professionisti intellettuali che, pur in mezzo al mondo, non solo conducano una vita di santità, ma lavorino con anima di apostoli.E nella stessa forma del suo spirito ha fuso il suo Opus. Lo so non perché mi sia stato riferito, bensì per esperienza per­sonale. Gli uomini dell’Opus Dei (sottolineo la parola uomini perché tra loro anche i ragazzi sono già uomini per il loro raccoglimento e la serietà di vita) sono su una strada sicura, non solo per salvare le proprie anime, ma anche per fare mol­to bene ad altre innumerevoli anime.

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La associazione segreta, come dicono i suoi denigratori, è nata con la benedizione dell’autorità diocesana e non muove alcun passo importante senza chiederne l’approvazione.La discreta riservatezza (mai segreto sociale) che don Escrivà inculca ai membri altro non è che un antidoto controil rischio di mettersi in mostra, la difesa di una umiltà che egli vuole che sia collettiva, di tutto YOpus, non solo individuale dei suoi membri; ed è anche strumento di maggiore efficacia nell’apostolato del buon esempio e nei servizi che occasione data possono prestare alla Chiesa.Coltivano molto intensamente la mente e il cuore median­te lo studio della religione e le pratiche di pietà; ci sono di­versi sacerdoti che vi cooperano, anche se all’inizio c’era so­lo don Escrivà.In una parola, non ho alcuna riserva da muovere all’Opus che, ripeto, è veramente Dei. Eppure, oggi sono i buoni che l’attaccano. Ci sarebbe da stupirsi, se il Signore non ci aves­se abituati a vedere questo stesso fenomeno in altre opere molto sue.

L'Opus Dei non merita che lodi; ma noi che lo amiamo non vogliamo che lo si lodi né che ci si faccia suoi banditori; non è per la massa, ma per gente scelta, e non vi entra il primo che capita: coloro che Dio chiama al suo Opus devono essere ben preparati; debbono lavorare silenziosamente, con umiltà, con gioia interiore, con entusiasmo apostolico che non si esaurisce proprio perché non viene ostentato. Questo è lo spirito del- YOpus Dei: dotare tutte le professioni intellettuali di gruppi scelti che, senza bandiere al vento né etichette vistose, vivano santamente e influiscano positivamente sugli altri.Conosco tutte le accuse che gli si rovesciano addosso e so che sono false; alcune persone, che non sono dell 'Opus Dei, perché ritenute tali sono perseguitate anche nei loro interessi; so che si gettano gravi allarmi fra i genitori degli studenti, che viene reclamata l’azione delle pubbliche autorità e che si ricorre a tutti i mezzi, a mille arti diverse; da tutto ciò il Si­gnore non trarrà altro che bene per YOpus Dei; tuttavia di­spiace il discredito che ricade su persone buone che persegui­tano una cosa buona.Ieri ho letto una lettera in cui il Superiore di una Residenza dei gesuiti dice che affermare che la Compagnia perseguita752

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l’Opus Dei e ne cerca la distruzione equivale a diffamarla. El­la, che sa cosa succede costì, può giudicare.Non scendo in particolari perché V.R. non me ne chiede. Se desidera che le chiarisca qualche punto in particolare melo dica, e con sommo piacere le spiegherò tutto: considero un favore di Dio N.S. poter essere utile al suo Opus.Alle sue preghiere si raccomanda il suo aff.mo in Cristo e nella nostra Madonna Moreneta.+ Il Vescovo di Madrid-Alcalà Madrid, 24-V-1941.

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DOCUMENTO XX Lettera del Vescovo di Madrid, mons. Leopoldo Eijo y Garay, del 21-VI-1941, all’Abate Coadiutore di Montserrat, Dom Aurelio Maria Escarré(cfr cap. XIII, § 4; AGP, RHF, D-3545/3).Rev.mo Padre Abate, ieri sera ho ricevuto la stimata sua del 15 e con piacere mi dedico brevemente a rispondere alle sue domande.Origine dell’Opus Dei. Diversi anni fa venne alla Univer­sità Centrale, per laurearsi, don José Maria Escrivà; ebbi su di lui ottime informazioni e la sua condotta era esemplare. Nel 1928 si presentò al mio Vicario Generale, don Francisco Moràn, e gli disse che, di fronte alla necessità che osservava di coltivare spiritualmente gli studenti universitari, sentiva una forte spinta a dedicarsi a questo apostolato; se il Vescovo l’a­vesse approvato e benedetto vi avrebbe visto la volontà di Dio. Considerati i suoi progetti, i mezzi di cui pensava di po­ter disporre, la promettente esistenza di un buon gruppo di studenti che già ricevevano come benefica rugiada la sua dire­zione spirituale e la necessità così evidente di questo apostola­to, non solo abbiamo approvato, ma abbiamo anche applau­dito e benedetto il santo impegno. Così ebbe inizio l’Opera. Egli non muoveva un solo passo di un certo rilievo senza con­sultarsi con il Vicario Generale Moràn e per questo motivo anch’io ero a conoscenza dell’Opera e ne ringraziavo Dio.

Finalità. All’inizio era quella che ho detto; per il futuro, il suo inevitabile sviluppo; i primi frutti furono di straordinario successo; gli studenti chiamavano don José il Padre ed egli li infervorava e li modellava, in tale pericolosa età, infondendo in loro una pietà profonda, uno spirito di fedele compimento del dovere e soprattutto di amore per la Santa Madre Chiesa e di devozione per la sua Gerarchia. I pigri e gli svogliati, i tiepidi e i discoli, i cattivi studenti o i cattivi cristiani non vi trovavano posto. Quando il gruppo fu numeroso, fu aperta una residenza per studenti, governata dal Padre con l’aiuto di alcuni tra i più svelti e ferventi. L’opera cresceva, ancora più in intensità che in estensione; alcuni più formati, convinti754

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dell’utilità per la gloria di Dio di un apostolato siffatto, volle­ro vincolarsi al Padre per aiutarlo; coloro che, terminati gli studi, iniziavano a esercitare una professione si mantenevano con lui in costante comunicazione; gli dovevano il meglio, ciò che più stimavano: la santità di vita e il desiderio di fare del bene alle anime, ciascuno dal proprio posto. Il Padre li consi­gliava, li incoraggiava e li seguiva, dirigendone la vita, com­pletamente dedito a loro. Sorse l’idea di aprire residenze e ac­cademie da altre parti per estendere ad altri studenti quel fruttifero lavoro; furono stabilite in varie città sedi di Univer­sità (Barcellona, Valencia, ecc.), sotto la direzione del Padre e governate da coloro che hanno voluto dedicarsi a un aposto­lato così bello. Il Vescovo di ogni città, senza il permesso e la benedizione del quale non si faceva mai nulla (come all’inizio a Madrid), era informato e lo applaudiva e lo benediceva.Con il passare degli anni l’Opera produsse il proprio frutto naturale: coloro che da essa erano stati formati si sparsero per tutta la Spagna, abbondanti nel numero, solidi nella for­mazione, infiammati dal desiderio di servire Dio e col supre­mo desiderio di essere utili alla Santa Chiesa. Per conservare questo spirito avevano bisogno di organizzazione, di un vin­colo di famiglia, di comunicare e sostenersi e incoraggiarsi reciprocamente; di tenere riunioni di preghiera e di studio laddove il loro numero era aumentato. Questa organizzazio­ne e famiglia è l'Opus Dei. Il suo scopo è che ciascuno si san­tifichi nella propria professione in mezzo al mondo. Lavora­re, lavorare sempre: questo è il significato della parola Opus. Dio aveva messo l’uomo nel paradiso terrestre ut operaretur; l’ideale del Padre e dei suoi figli è di servire Dio lavorando santamente nella propria professione, con gli occhi sempre ri­volti alla difesa e al servizio della Santa Chiesa, con sottomis­sione fedele e abnegata alla sua Gerarchia, cioè al Papa e al proprio Vescovo.Orbene, il Fondatore (lo so perché lo ha sempre detto) non ha mai pensato di fondare un Istituto religioso; si propone che vivano il più santamente possibile come laici; si ritiene fe­lice quando dall 'Opus Dei alcuni passano negli Ordini reli­giosi (e ne sono già passati diversi, anche tra i redivivi Gero- lamini del Parrai); ma ha sempre voluto, e io l’ho approvato poiché ne condivido il parere, che l’organizzazione che con la755

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grazia del Signore è nata nelle sue mani sia sempre di laici e per i laici. Anzi, non vuole che sia un’associazione che come tale vada oltre i fini che si era proposto: formare studenti nel­le sue residenze, dirigerli e sostenerli e far sì che essi si appli­chino a svariate opere buone di apostolato, senza che siano attività dell’Op /s Dei, bensì da esso siano separate, anche sei suoi figli ne sono anima e vita.Una delle virtù che con maggiore interesse il fondatore sti­mola in coloro che dirige è la santa umiltà, non solo persona­le, ma anche collettiva; vuole che l'Opus Dei non cerchi di apparire né di darsi importanza; li esorta sempre a lavorare in silenzio, a passare inosservati, a sacrificarsi silenziosamen­te, a evitare il pericolo della vanagloria, ad avere anima di apostolo ma senza ostentare l’aureola di apostolo; e insegna che il loro apostolato del buon esempio sarà più efficace se non agiscono ostentatamente come membri di una pia asso­ciazione; non vuole che parlino di lui, né dell’ Opus, ma che tutti servano Dio a proprio vantaggio; dice che per servire la Santa Chiesa, piuttosto che mettersi in mostra, è preferibile che si facciano in quattro per servirla e si sono organizzati in questo modo.

Il segreto e il mistero. Questo spirito, così come si è tradot­to in altre norme che prevedono che YOpus non abbia beni propri né una rivista, né si faccia réclame, prevede anche di non parlare troppo dell’ Opus, né di farne le lodi, né di van­tarsi di farne parte; nel fare in modo che le sue residenze stu­dentesche non appaiano come appartenenti a un’entità reli­giosa; che non ci si vanti dei tanti o pochi suoi membri presenti in questa o quella entità statale, ecc.Ecco qui, Rev.mo Padre, la caratteristica che il nemico delle anime ha colto per accusare YOpus Dei di essere una società segreta, massonica; alcuni lo definiscono massoneria bianca, altri lo ritengono di provenienza infernale e già dannato.A questo si riduce il suo segreto e il suo mistero; segreto e mistero che mai è stato tale per l’autorità diocesana, la quale (so che lo hanno fatto vari Prelati e naturalmente lo so bene da parte mia) ha approvato e raccomandato questo compor­tamento, incoraggiando il fondatore.E affinché Lei possa, Rev.mo Padre, rispondere con sicu­756

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rezza a quanti calunniano l’Opera sostenendo che con la mi­naccia di sanzioni gravissime viene proibito ai suoi membri di parlarne ai propri direttori spirituali (fino a questo punto si è arrivati), le copio qui letteralmente dai suoi Statuti le uni­che parole che toccano questo punto. Dopo aver raccoman­dato di non parlare del loro apostolato a chi non ne sia già a conoscenza, perché la cosa più probabile è che ne ricevano consigli sbagliati, vi si dice: “Non si deve interpretare questo punto come un limite alla PIENA SINCERITÀ con cui si de­ve aprire Vanima a un direttore spirituale; ma si tenga co­munque presente che non è facile che il direttore spirituale possa consigliare bene nei confronti dell’Opera se non la co­nosce a fondo”.

Orientamento iconoclasta! Sarebbe una cosa ridicola se non fossero state versate tante lacrime di madri che credono che i loro figli siano ormai dannati senza scampo, proprio quando cominciavano a osservare con gioia l’edificante vita di pietà che in essi era nata e si consolidava.Tutti loro usano come noi immagini, crocifissi, medaglie; hanno per obbligo di tenere nella loro stanza un’immagine della Santissima Vergine e di guardarla con amore quando entrano o escono; non esiste affatto questo orientamento iconoclasta.Ma alcune spie, inviate apposta per vedere che cosa accade­va, sono rimaste sorprese da una grande croce di legno priva dell’immagine di Nostro Signore; una croce che ricorda a cia­scun membro dell’ Opus che la croce lo attende e dunque non arretri e non rifiuti di farsi crocifiggere per amore di Colui che per noi è salito sulla croce; coloro che hanno notato questa croce-invito devono pure avere visto e riferito, e coloro che lo propalano devono aver propalato, che ai piedi della croce e’è un cartiglio dove si legge che il Vescovo concede 50 giorni di indulgenza a chi con amore e devozione bacia quella santa croce e le rivolge le frasi che Sant’Andrea rivolse alla sua.La loro pietà è molto profonda, molto solida e molto sana, interamente ortodossa e in nulla, se non nell’intensità con cui viene coltivata, si distingue da quella di tutti i fedeli cristiani.Sono state inventate tante assurdità, per esempio che si co­municano con ostie profumate! Ripeto che vi sarebbe da ri­derci, se tutto ciò non facesse piangere tante anime buone.

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L’odio verso gli ordini religiosi. È una delle più gravi calun­nie che hanno rivolto contro l’Opus Dei; le garantisco, Rev.mo Padre, che è una pura calunnia. Come potrebbero amare la Santa Chiesa senza amare anche lo stato religioso? Lo amano, lo venerano, lo proclamano mezzo di salvezza per coloro che vi sono stati chiamati da Dio; ma non sentono que­sta vocazione, bensì quella di santificarsi in mezzo al mondo ed esercitarvi il loro apostolato. Questo sentono e questo di­cono, senza che ciò implichi il benché minimo disprezzo per lo stato religioso; egli stesso insegna loro che devono vivere nel mondo con tanta santità come se fossero religiosi. Ed essi so­no convinti che, essendo stati chiamati a questo genere di apo­stolato, daranno più gloria a Dio seguendolo che se si facesse­ro religiosi, trascurando la propria vocazione.Ed è naturale che, tracciando i loro progetti di zelo e cer­cando di metterli in pratica, pregustino la gloria che sperano di dare a Dio per mezzo dell ’Opus Dei. Se coloro che li han­no uditi parlare di ciò ritengono che comporti un giudizio ne­gativo verso gli Istituti religiosi, si sbagliano di grosso.Rapporti con il caso di Battolasi Non so quando nacque l’opera di Banolas; un Padre gesuita di Barcellona mi dice che fu intorno al 1932; se è così l’Opus Dei è nato prima, nel 1928. Comunque, è fuor di dubbio che le due cose non han­no nulla a che vedere fra di loro: sono completamente diver­se. L’Opus Dei è vissuto sempre, da quando è nato, sotto l’obbedienza dell’autorità diocesana; don Escrivà non diede inizio alla sua Opera se non quando ne ebbe il progetto ap­provato e benedetto; consulta sempre il mio Vicario Generale o me e si attiene ai nostri consigli. Che cosa può avere a che vedere con il caso di Banolas, la cui nota caratteristica è la ri­bellione all’autorità ecclesiastica?L’approvazione dell’Opus Dei fu fatta a voce e ad experi-

mentum dalla fondazione fino al giorno di S. Giuseppe di que­st’anno in cui, terminata la redazione degli statuti, ho dato il decreto di approvazione in scriptis. Ho ritenuto che fosse giunto il momento di farlo perché l’esperienza era sufficiente, a mio giudizio, per redigere statuti sperimentati e non frutto di idealismi non verificati. Ma, lo ripeto, da quando è nato ha la mia approvazione, senza la quale don Escrivà non si sareb­758

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be impegnato in questo apostolato e sotto il mio controllo e la mia autorità è cresciuto e si è sviluppato.E pensare, Rev.mo Padre, che tutta la tempesta è scoppiata perché due o tre ragazzi che volevano farsi religiosi, dopo averlo conosciuto hanno preferito l’Opus Dei! È tale e tanto enorme la sproporzione tra la causa e gli effetti che non c’è una spiegazione logica e si deve attribuire tutto alla Provvi­denza del Signore, che per i suoi fini ha deciso così.La cosa ammirevole è lo spirito con cui i membri dell’O- pus sopportano questa grandissima tribolazione; conosco le lettere che si scrivono, perché YOpus Dei non mi nasconde nulla, e mi stupisce e mi edifica la santa gioia con cui soffro­no per la loro vocazione, che la tempesta contribuisce a con­solidare maggiormente nelle loro anime; né un lamento, né una frase ostile contro i religiosi che tanto duramente li per­seguitano; la loro maggior consolazione è vedere che tutti noi Vescovi nelle cui diocesi hanno i loro centri stiamo dalla loro parte, li incoraggiamo e li difendiamo. Dio dovrà premiare coloro che arbitrantes se obsequium praestare Deo hanno scatenato questa guerra e l’unica cosa che YOpus Dei deside­ra è ottenere i beni in cambio dei quali il Signore ha permesso questa tribolazione. Così sarà.Credo, Rev.mo Padre, di aver risposto a tutti i punti della sua interessante e stimata lettera. Se desidera altro da me, melo dica senza esitazione; e perdoni tanta lungaggine: cercherò di essere più breve.Raccomandandomi alle sue sante preghiere mi ripeto suo aff.mo in Cristo + Il Vescovo di Madrid-Alcalà Madrid, 21-VI-1941. P.S. Qui allegato le invio il testo illustrativo della Residenza di Madrid.

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DOCUMENTO XXI Relazione parziale dell’attività di predicazione del Fondatore dell’Opus Dei tra il 1938 e il 1946

(cfr cap. XII, § 5)Dal 1938 al 1946, il Fondatore dell’Opus Dei, chiamato dai Vescovi di tutta la Spagna, predicò un gran numero di eserci­zi spirituali a sacerdoti e seminaristi, a comunità religiose maschili e femminili, a gruppi di Azione Cattolica, a profes­sori universitari, ecc. A questi esercizi bisogna aggiungere l’incessante predicazione rivolta a tutti coloro che si avvicina­vano agli apostolati dell’Opus Dei.

Questa relazione è comunque parziale, ricostruita in base alle seguenti fonti: in primo luogo i Bollettini Ufficiali delle diocesi e i registri delle case che ospitavano gli esercizi. In se­condo luogo sono stati utilizzati numerosi documenti conser­vati nell’Archivio della Prelatura, come l'Itinerario e la Cro­nologia del Fondatore dell’Opus Dei (RHF, D-15014 e D-15015), le annotazioni autografe sui calendari liturgici che usava (RHF, D-05212 e D-15015), l'Epistolario del Fondato­re, le lettere di membri dell’Opus Dei e di altre persone, i dia­ri dei primi Centri dell’Opera, appunti, testimonianze e rela­zioni scritte da alcuni di coloro che assistettero agli esercizi, conti di alberghi, biglietti di treni e di autobus utilizzati dal Fondatore dell’Opera, l’archivio fotografico, ecc.Agosto 193818-25, Vitoria - Esercizi [spirituali predicati] alle religiose del palazzo episcopale.Settembre 19384-10, Vergara (Guipuzcoa) - Esercizi a sacerdoti della diocesi di Vitoria, presso il Seminario.Giugno 19395-11, Burjasot (Valencia) - Esercizi a studenti universitari.11-17, Alacuàs (Valencia) - Esercizi a sacerdoti della diocesi, presso le Operaie dottrinali.15, Alacuàs (Valencia) - Predicazione alle Operaie dottrinali. 760

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24-1, Vergara (Guipuzcoa) - Esercizi agli ordinandi della dio­cesi di Vitoria.Luglio 19392-8, Vitoria - Esercizi a professori universitari.5, Vitoria - Predicazione alle monache di Sant’Anna.20, Avila - Meditazione nel monastero di Santa Teresa.23, Avila - Meditazione nel monastero di Santa Teresa.Settembre 193910-16, Burjasot (Valencia) - Esercizi a studenti universitari.14, Burjasot (Valencia) - Ritiro alla Gioventù Femminile di Azione Cattolica.15, Burjasot (Valencia) - Predicazione alle monache.Gennaio 194011, Madrid - Ritiro a sacerdoti della diocesi, nella parrocchia della Santa Croce.Febbraio 19404-10, Madrid - Esercizi a sacerdoti della diocesi, nel Conven­to dei Lazzaristi in via Garcia de Paredes.Marzo 19407, Madrid - Ritiro a sacerdoti della diocesi, nella parrocchia della Santa Croce.Aprile 19407, Alacuàs (Valencia) - Ritiro a universitari, presso le Operaie dottrinali.9-13, Madrid - Esercizi a sacerdoti della diocesi nel Conven­to dei Lazzaristi.Maggio 19405, Madrid - Ritiro a universitari di Azione Cattolica, nella chiesa delle Comendadoras de Santiago.11, Saragozza - Ritiro alle Dirigenti della Gioventù Femmini­le di Azione Cattolica.26, Alacuàs (Valencia) - Ritiro a universitari, presso le Ope­raie dottrinali.Giugno 19402-8, Madrid - Esercizi a sacerdoti della diocesi, nel Convento dei Lazzaristi.23, Madrid - Ritiro a universitari di Azione Cattolica, a Cha- martm.

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29, Valladolid - Ritiro a universitari di Azione Cattolica, nel Collegio della Madonna di Lourdes.Luglio 19401-7, Avila - Esercizi a sacerdoti della diocesi, nel Seminario. 21-26, Madrid - Esercizi a universitari di Azione Cattolica, nella Residenza Orti, in via Narvàez.Agosto 19401-9, Leon - Esercizi a sacerdoti della diocesi, nel Seminario. Settembre 1940 ^1-7, Madrid - Esercizi a studentesse universitarie, nel conven­to delle Riparatrici.Ottobre 194027-1 novembre, Saragozza - Esercizi alle Dirigenti della Gio­ventù Femminile di Azione Cattolica.Novembre 19402-9, Valencia - Esercizi nel Seminario Maggiore.7, Valencia - Predicazione alle suore del Seminario.13-20, Madrid - Esercizi nel Seminario Maggiore.Dicembre 194019, Madrid - Omelia nella cerimonia di vestizione di una suora del Colegio de Santa Isabel.Gennaio 194112, Madrid - Ritiro a universitari di Azione Cattolica, nel Collegio del Pilar.19, Valencia - Ritiro nel Seminario Maggiore.20-25, Alacuàs (Valencia) - Meditazioni a sacerdoti di tutta la Spagna, durante la Settimana degli Assistenti di Azione Cattolica, nella Casa de la Purisima.26, Valencia - Ritiro a universitari nella Residenza di via Sa­maniego.Marzo 194129, Valencia - Ritiro ai seminaristi del Collegio del Patriarca. 30-5 aprile, Alacuàs (Valencia) - Esercizi alla Gioventù Fem­minile di Azione Cattolica, presso le Operaie dottrinali. Aprile 194121-..., Lerida - Esercizi al clero della diocesi (interrotti il 22, per la morte della madre).762

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Giugno 19411-7, Burlada (Navarra) - Esercizi a sacerdoti della diocesi.15-21, Burlada (Navarra) - Esercizi a sacerdoti della diocesi.22-28, Burlada (Navarra) - Esercizi a sacerdoti della diocesi.29-5 luglio, Burlada (Navarra) - Esercizi a sacerdoti della diocesi.Luglio 19419-15, Madrid - Esercizi a universitari, nella Residenza Diego de Leon.18-24, Madrid - Esercizi a universitari, nella Residenza Diego de Leon.25-31, Madrid - Esercizi a universitari, nella Residenza Diego de Leon.Agosto 19415-12, Madrid - Esercizi a universitari, nella Residenza Diego de Leon.13-20, Valencia - Esercizi a universitari nella Residenza Samaniego.23, Jaca (Huesca) - Conferenza a universitari di Saragozza, durante i corsi estivi dell’Università.Settembre 19412-8, Madrid - Esercizi a universitari, nella Residenza di via Diego de Leon.Ottobre 194113-18, Lerida - Esercizi a sacerdoti della diocesi, nel Seminario.16, Lerida - Predicazione ai giovani di Azione Cattolica. 20-25, Lerida - Esercizi a sacerdoti della diocesi, nel Seminario.23, Lerida - Predicazione ai giovani diretti da don Àngel Mor­ta. - Predicazione alle Hermanas Darderas del Seminario.25, Lerida - Meditazione e conferenza agli ordinandi, nel Se­minario.Dicembre 194114-20, Valencia - Esercizi alle universitarie di Azione Cattoli­ca, nel convento delle Religiose del Servizio Domestico.Febbraio 19421, Madrid - Predicazione nel Colegio de Santa Isabel (nel 50° anniversario di vita religiosa della Madre Nieves).

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Marzo 194225-29, Madrid - Esercizi ai professori dell’istituto Ramiro de Maeztu.28-1 aprile, Madrid - Esercizi a universitari nella Residenza di via Jenner.Maggio 19428, Avila - Predicazione agli ordinandi nel Seminario. Altra predicazione a tutti i seminaristi.Giugno 194230-7 luglio, Segovia - Esercizi al clero della diocesi.Luglio 19428-15, Segovia - Esercizi al clero della diocesi.9, Segovia - Ritiro al clero della città.Agosto 19426-13, Madrid - Esercizi a studentesse universitarie, nella Re­sidenza di via Jorge Manrique.Settembre 19424-10, Madrid - Esercizi a universitari nella Residenza di via Diego de Leon.Ottobre 19424-10, Carabanchel (Madrid) - Esercizi al clero della diocesi di Madrid, nel convento delle religiose della Crociata Pontificia, nella Casa di Esercizi di Carabanchel.8, Carabanchel (Madrid) - Predicazione alle religiose della Crociata Pontificia.Novembre 19422-8, Segovia - Esercizi ai monaci Gerolamini del monastero di Nostra Signora del Parrai.Dicembre 194216-20, Madrid - Esercizi a universitari, nella Residenza di via Diego de Leon.17-21, Madrid - Esercizi a universitari, nella Residenza di via Jenner.Febbraio 194314, Madrid - Ritiro a studentesse universitarie, nella Residen­za di via Jorge Manrique.764

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Marzo 194327-2 aprile, Madrid - Esercizi alle universitarie di Azione Cattolica, presso le Schiave del Sacro Cuore, in via Martmez Campos.28-3 aprile, Madrid - Esercizi alle giovani della parrocchia del Buen Suceso.Aprile 194313-17, Madrid - Esercizi agli uomini della parrocchia del Buen Suceso.Luglio 194325, Madrid - Ritiro alla gioventù di Azione Cattolica, nella parrocchia del Salvatore.Agosto 194320-26, Madrid - Esercizi ai religiosi Scolopi del Collegio di S. Giuseppe Calasanzio.Settembre 19434-10, Madrid - Esercizi a universitarie nella Residenza di via Jorge Manrique.Dicembre 194312, Madrid - Ritiro a universitari nella Residenza Moncloa. 27-29, Madrid - Direzione spirituale delle Giornate di Apo­stolato Universitario per professori universitari di Azione Cattolica.Marzo 19444-7, Madrid - Esercizi a universitari nella Residenza Mon­cloa.12-17, Madrid - Esercizi a studentesse universitarie nella Re­sidenza di via Jorge Manrique.Aprile 19443-8, Madrid - Esercizi a studentesse universitarie nella Resi­denza di via Jorge Manrique.Maggio 194413-20, E1 Escoriai (Madrid) - Esercizi previ alla Tonsura per tre membri dell’Opus Dei candidati al sacerdozio.Giugno 194415-20, Madrid - Esercizi a studentesse universitarie nella Re­sidenza di via Jorge Manrique.

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Ottobre 19443-11, E1 Escoriai (Madrid) - Esercizi agli Agostiniani del mo­nastero di S. Lorenzo dell 'Escoriai.Febbraio 194518-24, Madrid - Esercizi ai giovani di Azione Cattolica, pres­so le Schiave del Sacro Cuore.Marzo 19452-6, Salamanca - Esercizi a universitari di Azione Cattolica.3, Salamanca - Conferenza in Seminario.5, Salamanca - Predicazione nella Residenza Universitaria.5, Salamanca - Conferenza ai Propagandisti.5, Salamanca - Conferenza ai giovani di Azione Cattolica.6, Salamanca - Predicazione ai Giuseppini Operai Diocesani.12-18, Madrid - Esercizi a professori, nell’Oratorio Caballe- ro de Grada.Aprile 194522, Madrid - Ritiro a universitari nella Residenza Moncloa Aprile 19467-12, Madrid - Esercizi al Capo dello Stato, nel Palazzo del Pardo.Settembre 194621-27, Molinoviejo (Segovia) - Esercizi a sei diaconi, membri dell’Opus Dei, prima dell’ordinazione sacerdotale.

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DOCUMENTO XXII Viaggi apostolici del Fondatore dell’Opus Dei

nella Penisola iberica (1939-1946)(cfr soprattutto cap. XII, § 6- e cap. XV, §§ 1 e 5)1939

1. Daimiel: 19-20 aprile2. Valladolid-Burgos: 31 maggio3. Valencia: 5-17 giugno4. Vergara, Vitoria e Saragozza: dal 22 giugno al 12 luglio5. Avila: 19-25 giugno6. Valencia: 5-20 settembre7. Valladolid: dal 30 novembre al 2 dicembre8. Salamanca: 8-10 dicembre9. Saragozza, Barcellona e Valencia: dal 28 dicembre 1939

al 5 gennaio 1940.194010. Valladolid: 27-28 gennaio11. Valencia: dal 31 gennaio al 2 febbraio12. Avila, Salamanca, Valladolid, Burgos, Vitoria, San Seba­stiàn, Vitoria, Saragozza, Vitoria, Bilbao, Valladolid: dal15 febbraio al 4 marzo13. Saragozza: 15-17 marzo14. Saragozza, Barcellona, Valencia: dal 29 marzo al 7 aprile15. Valladolid: 23-27 aprile16. Valladolid: 1-2 maggio17. Saragozza, Barcellona: 10-15 maggio18. Valencia: 25-26 maggio19. Valladolid: 8-9 giugno20. Valladolid, Avila: dal 27 giugno all’8 luglio21. Barcellona: 27-29 luglio22. Leon: dal 31 luglio al 10 agosto23. Valencia: 17-23 settembre24. Saragozza: 26-28 settembre25. Valladolid, Vitoria, Pamplona: 11-18 ottobre26. Saragozza, Valencia: dal 26 ottobre al 10 novembre27. Valladolid: 20-24 novembre28. Valencia: dal 26 novembre al 3 dicembre

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194129. Valencia: 18-27 gennaio30. Valladolid, Bilbao, Vitoria: 9-13 marzo31. Valencia: dal 26 marzo al 7 aprile32. Vitoria, Pamplona, Valladolid: 13-16 aprile33. Saragozza, Lerida: 19-22 aprile34. Barcellona: 21-23 maggio35. Valladolid, Avila: 25-27 maggio36. Pamplona, Vitoria, Valladolid: 1-9 giugno37. Valencia: 11-13 giugno38. Pamplona, Valladolid: dal 15 giugno all’8 luglio39. Valencia, Saragozza, Jaca, Pamplona, Vitoria, San Seba­stiàn: 13-31 agosto40. Saragozza, Lerida, Saragozza: 12-27 ottobre41. Valencia: 13-23 dicembre

194242. Vitoria: 17-20 febbraio43. Valencia: 6-9 marzo44. Valladolid, Leon, Valladolid: 1-7 aprile45. Avila, Valladolid: 6-12 maggio46. Valladolid: 21-22 maggio47. Segovia: 1-7 luglio48. Segovia: 9-15 luglio49. Barcellona: 22-24 luglio50. Vitoria, Bilbao, Pamplona, Saragozza: 27-31 luglio51. Vitoria, Pamplona, San Sebastiàn: 10-24 settembre52. Segovia: 2-8 novembre194353. Valladolid, Burgos: 22-24 marzo54. Barcellona: 10-13 aprile55. Valladolid, Salamanca: 19-20 maggio56. Barcellona, Saragozza: 25-28 maggio57. Valladolid: 8 giugno58. Burgos, Vitoria: 2-3 luglio59. Valladolid: 26 settembre60. Barcellona: dal 28 settembre al 1° ottobre61. Siviglia: 14-18 dicembre194462. Valencia: 22-25 marzo768

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63. Salamanca: 25-27 aprile64. Valladolid: 9-12 settembre65. El Escoriai: 3-11 ottobre194566. Valladolid: 9-12 gennaio67. Portogallo: 3-9 febbraio68. Santiago di Compostella, Valladolid: 10-14 febbraio69. Salamanca: 1-7 marzo70. Siviglia, Jerez, Cadice, Malaga, Cordova, Jaén, Granada, Almeria, Murcia, Alicante: dal 27 marzo al 5 aprile71. Valladolid: 24 aprile72. Valladolid: dal 30 aprile al 3 maggio73. Saragozza, Barcellona, Valencia: 14-19 maggio74. Portogallo: 12-20 giugno75. Valladolid: 23-24 giugno76. Siviglia: 25-28 giugno77. Portogallo: 16-27 settembre78. Santiago, Oviedo, Bilbao, San Sebastiàn, Pamplona: dal 28 settembre al 1° ottobre79. San Sebastiàn, Bilbao: 7-14 ottobre80. Valladolid: 29-31 ottobre81. Cordova, Siviglia: 9-12 dicembre194682. Valladolid: 4-5 gennaio83. Siviglia, Granada, Murcia, Valencia, Barcellona: 22-28

gennaio84. Valladolid: 5-6 aprile85. Valladolid: 29-30 aprile86. Saragozza, Barcellona: dal 28 maggio al 1° giugno.

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Indice dei nomi

Avvertenza per l’edizione italiana: in Spagna abitualmente le persone sono desi­gnate con il cognome del padre e in successione quello della madre; pertanto ognuno ha sempre doppio e in alcuni casi triplo cognome. Per non appesantire il testo italiano nel presente volume quasi sempre il cognome completo è stato ri­portato solo la prima volta (es.: Dolores Fisac Sema, in seguito Dolores Fisac), tranne nei casi in cui il primo cognome è molto comune (es.: Garcia, Jiménez, Gonzàlez) e pertanto non è sufficiente a identificare la persona; in questi casi è stato sempre mantenuto il doppio cognome (es.: Juan Jiménez Vargas, Ricardo Fernàndez Vallespm).Nel presente INDICE DEI NOMI tutti i cognomi sono invece riportati per intero.

Aguilar Collados, José Maria: 592 Aguilar Otermin, José Manuel:

674Alastrué Castillo, Eduardo: 65,

127, 237, 330, 332, 336, 337,360, 362, 406, 581, 583

Albareda Herrera, José Maria: 22,62, 136, 137, 138, 139, 141,146, 157, 160, 163, 166, 168, 179, 181,183,187, 204, 219, 223, 228, 242, 249, 250, 252, 262, 280, 284, 293, 298, 305,, 308, 318, 334, 337, 345, 358,361, 368, 379, 406, 416, 431, 436, 469, 577, 584, 655, 728, 741

Albareda Herrera, Manuel: 360 Albàs Blanc, Dolores: 15, 20, 23,

24, 41, 53, 55, 111, 119, 135,140, 142, 144,151,156, 158, 335,370, 410, 412,413, 418, 477, 480, 481, 482, 487, 560, 595, 597, 598, 603, 613, 659.

Aldabalde-Trecu y Urbieta, Rufino: 421, 576

Alfonso Ochoa, Antonio: 357 Alonso-Martinez Saumell, Enrique:

270,348 Àlvarez del Vayo, Julio: 61, 690 Àlvarez Menéndez, Severino: 664,

732Alves Correia da Silva, José: 724 Alvira Alvira, Tomàs: 101, 137,

138, 146, 157, 163, 171, 176, 178,181,190, 200, 212, 227, 228,242,355

Amann Amann, Emiliano: 244 Andrés Lamberti, Concha: 620,

661Antonio, la guida sui Pirenei, vedi

Girerà, Josep Antoniutti, Ildebrando: 249, 347 Antunes, Antonio: 724, 725 Aparicio Lopez, Juan: 470 Arancibia, Carlos: 244 Arce Ochotorena, Manuel: 581 Arellano Catalàn, Jesus: 688 Arellano Catalàn, Maria Rosario

(Maricini): 688, 691 Aresti y Ortiz, Carlos: 244, 357

771

Page 766: De Prada - Il Fondatore Dell'Opus Dei - Vol II

Arroyo Lopez, José: 348 Ayala Delgado, Francisco Javier:

582, 592, 729 Ayala Lopez, Manuel: 301 Azana Diaz, Manuel: 10, 345 Azlor-Aragón, Javier: 124 Bach, Antonio (Tonillo): 182, 190 Bach, Francisco (Paco): 184, 185 Balcells Gorina, Alfonso: 490, 492,

505, 573 Balcells Gorina, Santiago: 490,

491, 505 Ballester Nieto, Carmelo: 245,

304, 347, 357, 421, 543, 581, 591

Bandeira Vàzquez, Lourdes: 581 Banón Penalba, Miguel: 112, 237 Barrasa, Carmen: 618 Basterra, Àngel: 502, 549 Bermudez Rothenflué, Jorge: 308,

358Blàzquez Fernàndez, Joaqum: 664 Boix Oste, José: 199 Borja, Rafael de: 356 Botella Raduàn, Enrica: 495, 560 Botella Raduàn, Francisco (Paco):

86, 89, 94, 125, 126, 129, 162,165, 174, 176, 179,181, 187, 197, 199, 203, 229, 237, 238, 245, 250, 259, 262, 264, 279, 282, 287, 290, 291, 298, 317,318, 321, 322, 334, 336, 337, 338, 344, 345, 352, 358, 362, 369,373,378,380,382,417, 430, 461, 466, 559, 581, 624, 668, 698, 728

Bousono, Carlos: 706 Brosa Palau, Jorge: 505 Bueno Monreal, José Maria: 440,

493, 579, 584, 628, 630, 640, 664, 673, 732

Bulart Ferràndiz, José Maria: 734 Bustillo Hurtado de Saracho, Julia:

620Caballero Alcausa, Rafaela,

vedova Cornet: 168, 170, 175,177, 180,196

Cagigal Gutiérrez, Jesus Alberto: 715, 719

Calieri, Giovanni: 640 Calvo Botas, Pio Maria: 592 Calvo Serer, Rafael: 15, 76, 94,

133, 237, 374, 406, 728, 740 Calvo Sotelo, José: 11 Canal Gómez, Maximiliano: 669 Canals Navarrete, Carmen: 695 Canals Navarrete, Salvador: 535,

641, 682, 685 Cantero Cuadrado, Pedro: 420,

423, 593 Carrato Ibànez, Alfredo: 572 Carrillo de Albornoz, Àngel: 446,

449, 450, 451, 473, 488, 491,492, 502, 507, 511, 534, 535, 540, 545, 585, 590

Carvajal de Quesada y Fernàndez de Cordoba, Agustin, conte di Aguilar de Inestrillas e marchese di Miravalles: 244, 346

Carvajal de Quesada y Fernàndez de Cordoba, Carolina: 244

Casares Quiroga, Santiago: 11 Casas Torres, José Manuel: 377 Casciaro Boracino, Julio: 79 Casciaro Rarmrez, Pedro (Perico):

23, 76, 83, 94, 101,120,159, 162, 165, 167, 169, 174,176, 179,181, 187,189,192,195, 197, 204, 215, 218, 229, 239, 245, 250, 259, 262, 264, 280, 282, 283, 287, 291, 298, 306,307, 311, 313, 317, 318, 322, 334, 336, 337, 358, 365, 378, 379, 382, 392, 410, 432, 457, 461, 466, 624, 642, 670, 698, 699, 725

Castillo, José: 11 Castro y Alonso, Manuel de: 256 Cayuela Santesteban, Roberto

Maria: 533 Celada Abad, Benito: 664, 732 Chico de Guzmàn, Diego: 357 Chicot Chicot, Maria del Sagrario

(Vicenta): 371

772

Page 767: De Prada - Il Fondatore Dell'Opus Dei - Vol II

jr

Chorniqué Roncero, Miguel: 715,716, 725, 736

Cicognani, Gaetano: 494, 509,511

Cirac Estopanàn, Sebastiàn: 507, 509, 520, 545, 547, 587, 588, 663

Cirera, Josep (detto Antonio): 198, 200, 201, 202, 204, 205, 209,211

Claramunt, Jorge, vedi Ramtrez Pastor, Diego

Conde-Luque y Garay, Juan José, conte di Leyva: 22

Conte di Leyva, vedi Conde-Luque y Garay, ]uan José, conte di Leyva

Correa Veglison, Antonio: 505 Costilla Sandoval, A.: 357 Cremades Royo, Juan Antonio:

485Cunill Puig, Ramon: 590 Dalmases Esteva, Antonio de: 238,

356, 747 Dell’Acqua, Angelo: 589 Della Torre Morasso, Italo: 39, 40,

44, 46Diaz-Ambrona Moreno, Domingo:

137, 404 Diaz y Gómara, Miguel de los

Santos: 434, 469, 472, 506,509, 520

Diaz Lopez Pelegrin, Pilar, marchesa di Embid: 211

Diez de Sollano Portillo, Clementina: 350, 362

Doménech y Valls, Rigoberto: 464 Doyle, William: 297, 356 Echevarria Rodriguez, Javier: 146,

400Echeverria Recabeitia, Ignacio: 729 Echeverria Recabeitia, Maria

Teresa: 690 Eijo y Garay, Leopoldo: 109, 253,

255, 304, 314, 399, 438, 443, 493, 495, 504, 507, 510, 512, 514, 515, 516, 518, 520, 524,

525, 547, 554, 557, 572, 574,x577, 579, 624, 639, 645, 652,662, 698, 707, 751, 754

Elordi, Carlos: 116 Enriquez de Salamanca, Fernando:

355Eraso Goni, Luis: 302 Escarré Jané, Aurelio Maria: 504,

591, 669, 730, 751, 754 Escolà Gii, Rafael: 488, 498 Escrivà de Balaguer Corzàn, José:

34,113,487, 596, 603 Escrivà de Balaguer y Albàs,

Carmen: 23, 24, 42, 53, 101, 137, 144, 156, 158, 165, 221,228, 306, 337, 370, 410, 412, 413,414,419, 466, 477,482, 560, 595, 596, 598, 599, 600, 604, 608, 613, 614, 615, 658, 659, 697, 740, 742

Escrivà de Balaguer y Albàs,Santiago: 23, 41, 43, 44, 45, 50,55, 61, 65, 72, 111, 141, 142, 143,158, 228, 231, 306, 333, 337,371, 410,412, 419, 484, 486, 595, 597, 598, 605, 740, 741

Escrivà, Dolores, vedi Albàs Blanc, Dolores

Espana Navarro, Eiadio: 663 Espinós Raduàn, Enrique: 237 Espinosa de los Monteros

Bermejillo, José Maria: 269 Esteban Romero, Juan José: 154 Esteban y Royo, Juan José: 124 Fernàndez de Prada y Vasco,

Manuel Maria, marchese de las Torres de Oràn: 43, 720

Fernàndez del Amo, José Luis: 250 Fernàndez Vallespin, Ricardo: 14,

15, 58,118, 120, 136,140,230, 251, 265, 267, 272, 280, 282, 283, 288, 302, 304, 305, 315, 323, 330, 339, 345, 365, 369, 373, 406, 431, 432, 440, 459, 541, 546, 603, 624, 670, 674, 679, 715, 717, 740, 741

773

Page 768: De Prada - Il Fondatore Dell'Opus Dei - Vol II

Fernàndez-Osorio Tafall, Bibiano: 229

Fisac Sema, Maria Dolores (Lola): 97,101, 103, 129, 130, 146, 176, 180, 183, 233,250, 278, 300, 476, 478, 479, 480, 482, 609, 693

Fisac Sema, Miguel: 97, 146, 176, 181, 187, 199, 203, 229, 233,308, 358, 458, 476

Franco, Francisco: 121, 397, 398, 403, 462, 463, 707

Fuenmayor Champin, Amadeo de: 377, 458, 582, 612

Galbe Loshuertos, Pascual: 171,212

Gaiindo Romeo, Pascual: 160,166, 170, 577

Gallego Lopez, Teresa: 308, 359 Garda, Hermógenes: 96, 147, 224,

300, 741 Garda Borruel, Federico: 355 Garda Garda, Antonio: 581 Garda Goldàraz, José: 720 Garda Lahiguera, José Maria:

452, 473, 579, 640, 659, 729 Garda de Paredes, Pablo: 127 Garda Tunón, Rafael: 580 Gastaca, José Maria: 302 Gayé Monzón, Francisco: 171,

176Gii de Santibànez: 357 Gii Rivera, Eliodoro: 269, 291,

305, 335, 355, 468, 563, 574, 663, 724

Giménez-Arnau Gran, Enrique: 345, 355, 470

Gomà y Tomàs, Isidro: 121, 523 Gómez Aparicio, Pedro: 470 Gómez Martinho, Carlos: 512,

527, 587, 588 Gongalves Cerejeira, Manuel: 724 Gonzàjez Barredo, José Maria: 12,

27 ,28 ,3 0 ,3 1 ,3 2 , 33,36, 41, 44, 48, 50, 65,118, 134, 237, 255, 330, 332, 337, 369, 406,728

Gonzàlez Guzmàn, Narcisa (Nisa): 563, 564, 565, 601, 603, 609, 614, 615, 659, 690

Gonzàlez Oliveros, Wenceslao: 528 Gonzàlez Valdés, Àlvaro: 28, 29,

41,131,226 Gordon y de Aristegui, Rafael,

conte di Mirasol: 243, 346 Gordon Picardo, Luis: 383, 711 Goytia y Machimbarrena, José

Ramón, marchese de los Àlamos del Guadalete: 347

Gramunt de Moragas, José: 592 Guillemé-Brulon, Jacques: 460 Guitart Valardebó, Justino: 240 Gutiérrez R io s , Carmen: 691, 696 Gutiérrez Rios, Dolores (Lolita):

696Guzmàn Elizaga, Alej andrò : 14 8 Guzmàn O’Farrill, Maria de la

Concepción, contessa di Vallellano: 346

Guzmàn O’Farrill, Maria Luisa: 243

Guzmàn O’Farrill, Mercedes, contessa di Aguilar de Inestrillas e marchesa di Miravalles: 346

Hernàndez Gamica, José Maria (Chiqui): 36, 40, 47, 49, 50, 58, 76, 94,98, 104, 113,133, 140, 220, 237, 250, 374, 406, 440, 627, 634, 636, 670, 677, 700,729

Herrera, Pilar, vedova Albareda:166, 170, 179

Herrero Fontana, Joaqum: 32, 33, 37, 113

Herrero Fontana, José Ramón: 169,270, 315, 318

Herrero y Velàzquez, Mercedes, contessa di Leyva: 27

Hitler, Adolf: 357, 402, 403, 404 Hòffner, Joseph: 586 Hoyo Alonso, Dora del: 618, 620,

661Hoyos de Castro, Àngel: 146 Ibànez Martin, José: 464, 584

774

Page 769: De Prada - Il Fondatore Dell'Opus Dei - Vol II

Irujo, Manuel: 135, 221 Irus Lahoz, José: 38 Isasa Navarro, José (Pepe): 92,

141, 302, 348 Isasa Navarro, Manuel: 357 Jiménez Delgado, Rafael: 173 Jiménez Duque, Baldomero: 645 Jiménez Vargas, Juan: 13, 14, 15,

16, 22, 24, 25, 27, 29, 32, 33, 35, 40, 43, 47, 48, 51, 57, 61, 64, 74, 94 ,101,111,117,118,134, 141, 143, 146, 147, 157, 160, 161, 166, 168,169, 174, 176, 178,181,183, 187, 189, 196, 202, 204, 207, 213, 219, 245, 252, 259, 260, 261, 274, 280, 282, 283, 295, 296, 302, 304, 306, 322, 324, 328, 334, 345, 365, 440, 459, 483, 572, 573, 624, 728, 740, 743

Jiménez Vicente, Inocencio: 355 José Miguel de la Virgen del

Carmen: 319, 360 La Puma, Vincenzo: 642, 643 Lahuerta Vargas, Juan: 358 Larranàga Arrizabalaga, Bàrbara

(Maria Loyola): 317 Larraona Saralegui, Arcadio: 644,

669Lauzurica Torralba, Javier: 239,

252, 350, 380, 381, 581, 640 Llanos Pastor, Manuel: 302 Llopis Gonzàlez, Maria Teresa:

531, 532 Llorente Federico, Daniel: 663 Lopez Franco, Antonio: 700 Lopez Jacofste, José Javier: 362 Lopez Martmez, Rosalia: 620 Lopez Ortiz, José: 469, 486, 583,

584, 591, 638, 663, 664, 673, 699, 723, 724, 737

Lopez Ortiz, Luis: 583 Lopez Pérez, Francisco de Borja:

354Lopez Rodo, Laureano: 505, 577,

725Lorente Sanz, José: 345, 355

Lozano Eritjà, Josep: 191, 193, 194, 196, 237

Machimbarrena, Maria: 243 ^ Maglione, Luigi: 643 Mallagaray, Madre Esperanza de:

470Maranón Medrano, Guillermo:

319, 421 Marchesi de las Torres de Oràn:

43, 44 Maria de la Iglesia: 338 Marti Gilabert, Justo: 454 Martin Moreno, Francisco: 299,

345Martina, la cameriera della

famiglia Sainz de los Terreros: 22, 25

Martmez Barrio, Diego: 11 Martmez de Tejada, Luz: 676, 730 Martmez de Velasco, José: 243 Martmez Gonzàlez, Eduardo: 590 Martmez Martmez, Saturnino:

258, 354 Martos Lalanne, Luis: 312 Mas y Sànchez, Juan Antonio: 357 Masso Ribor, Enrique: 672 Matheu Salazar, Pedro Jaime: 52,

61, 64, 104, 210 Melo y Alcalde, Prudencio: 582 Mendieta Larrea, Fernando: 357 Messia y Eraso de Aranda, Maria

Francisca, contessa di Humanes:124

Millàn Morga, José Maria: 603 Mindàn Manero, Manuel: 227 Modrego Casaus, Gregorio: 650 Mola Vidal, Emilio: 11, 115 Moli Salord, Manuel: 483, 553,

605Mollevi Roca, Mateo: 166, 173,

174, 177, 178, 180, 194, 195, 196

Mondrìa Sifre, Alfredo: 588 Montero Gutiérrez, Eloy: 359 Montini, Giovanni Battista: 461,

669 Montoto: 669

775

Page 770: De Prada - Il Fondatore Dell'Opus Dei - Vol II

Monzón, Pilar, vedova Gayé: 171 Moràn Ramos, Juan Francisco:

246, 255, 265, 268, 288, 349, 350, 352, 516, 572, 754

Morata, Nemesio: 110, 591 Mordilo Gonzàlez, Casimiro: 304,

328, 345, 348, 357, 371, 446, 447, 470, 481, 494, 506, 541, 571, 588, 653, 699, 729

Moreno Arrevola, Manuel Manrique: 718

Moreno Magny, Antonio: 710 Moreno, Rafael: 357, 591 Moro Briz, Santos: 267, 287, 315,

364, 374, 408, 457, 524, 559, 626

Mortes Alfonso, Vicente: 592 Munàrriz Escondrillas, Carmen:

299Munàrriz Escondrillas, Jaime: 302,

357Muniz de Pablo, Tomàs: 580 Muratori Muller, Antonia, Maria

de la Virgen Dolorosa: 527 Mussolini, Benito: 403 Muzquiz de Miguel, José Luis:

362, 416, 486, 627, 634, 660, 663, 670, 674, 677,- 715, 716,717, 719, 722, 723

Navarro Borràs, Francisco: 355 Negrin Lopez, Juan: 135, 140, 222 Nunez Morgado, Aurelio: 61 Olaechea Loizaga, Marcelino: 242,

249, 250, 256, 263, 298, 425, 463, 504, 666, 667

Oliveros, Gonzàlez: 583 Orgaz Yoldi, Luis: 262, 304, 307,

337Orlandis Rovira, José: 498, 641,

642, 668, 682, 683, 684, 728 Ortega Pardo, Encarnación

(Encarnita): 495, 535, 561, 567, 609, 610, 614, 615, 616, 618,619, 620, 633, 661, 696

Ottaviani, Alfredo: 643 Palos Yranzo, Luis: 638 Paniagua y de Porras, Enrique: 142

Parrado Garda, Agustin: 719, 721 Penalver Gómez de las Cortinas,

Carmen, marchesa de las Torres de Oràn: 52, 55

Penuelas Martm-Benito, Antonia:620, 661

Pérez de Urbel, Justo: 591, 732 Pérez Platero, Luciano: 546, 588 Pérez Sànchez, Manuel: 299, 458 Pinillos, Micaela: 263 Pio XI: 59, 366, 465 Pio XII: 366, 395, 642, 668 Pizzardo, Giuseppe: 669 Pia y Deniel, Enrique: 581, 590 Polanco Fernàndez, Maria Luisa:

37 ,38 ,44 Ponz Piedrafita, Francisco: 416,

733Porta Perucho, Joan: 194, 235,

236Portillo Diez de Sollano, Àlvaro

del: 17, 29, 30, 32, 40, 65, 84, 98, 137, 138, 140, 153, 237, 255,316, 330, 332, 336, 337, 342, 343, 345, 360, 362, 369, 375, 381, 406, 415, 419, 425, 426, 427, 430, 431, 440, 447, 449, 481, 484, 485, 487, 496, 497, 499, 514, 534, 542, 543, 548, 605, 607, 624, 627, 634, 636, 639, 642, 643, 647, 651, 668, 669, 670, 673, 674, 677, 679, 682, 683, 684, 700, 704, 712, 724, 725, 729, 736

Portillo Diez de Sollano, Àngel del: 331

Portillo Diez de Sollano, Carlos del: 70, 137

Portillo Diez de Sollano, José del:30, 331

Portillo Diez de Sollano, Ramon del: 30, 137, 161, 230

Portillo Diez de Sollano, Teresa del: 70, 137

Pou de Foxà, José: 170 Poveda Castroverde, Pedro: 31,

113, 244, 246, 267, 346

776

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Pradera Larrumbe, Victor: 244 Pradera Ortega, Juan José: 243,

261, 583 Puigdollers y Oliver, Mariano: 355 Pujol Tubau, Lluis: 210, 212, 214,

239Queipo de Llano Sierra, Gonzalo:

16Quesada Lucas, Hugo Maria

(Miguel) de: 592 Quiroga Barrena, Ascensión: 149,

317Quiroga Barrena, Juana: 317 Ramirez Pastor, Diego: 263, 264 Reyna O’Farrill, Mercedes: 346 Rivas Garcfa-Calderón, Pedro

Maria: 24, 112 Rocamora Valls, Pedro: 356 Rodilla Zanón, Antonio: 270, 275,

352, 374, 375, 456, 532, 582,663, 730

Rodriguez Casado, Amparo: 356, 364, 478, 614

Rodriguez Casado, Vicente: 36,40, 75, 136, 237, 299, 330,332, 336, 337, 360, 362, 406

Rodriguez de Valcàrcel, Carlos:581

Rodriguez Garcia, Norberto: 143, 144, 623

Rodriguez-Candela Manzaneque José Luis: 118

Rodriguez-Casanova y Garcia San Miguel, Florentin, marchese di Guevara: 346

Rodriguez-Casanova y Garcia San Miguel, Maria, contessa di Mirasol: 346

Rodriguez-Permuy, Fernando: 732 Roig, Bartolomé: 573 Roquer Vilarrasa, Ramón: 663 Rotger Castano, Bartolomé: 592 Ruffini, Ernesto: 669 Ruiz, Daniel: 508, 511, 587 Sainz de los Terreros Ranero, Juan

Manuel: 25, 26 Sainz de los Terreros Villacampa,

Manuel (Manolo): 22, 24, 25,40, 57, 64, 80, 90,111,133,141, 146, 163, 181, 190,213,229, 242, 265, 280

Sala, Pere: 184, 185, 191, 193,194

Saliquet Zumeta, Andrés: 528 Sànchez Bella, Florencio: 582^ Sànchez Ruiz, Valentin: 346, 373,

439, 444, 447, 449, 452, 472, 591

Sànchez-Elvira, Ramona: 476, 482 Sancho Morales, Silvestre: 591,

592,732 Saracho Alfaro, Enrique: 592 Segarra Roca, Juan Antonio: 526,

545,581 Segovia Morón, Josefa: 246, 267,

351Segura Sàenz, Pedro: 581 Selesio, autista: 29 Sellés Marti, Eugenio: 32, 36, 125,

162, 163, 231 Sierra Bermejo, Luis: 124 Sierra, Antonia: 148, 300 Silió Gómez-Carcedo, Javier: 468 Soldevila Romero, Juan: 469, 517 Somoano Berdasco, José Maria:

383,711 Sotomayor Muro, Miguel: 348 Souza, Agostinho de Jesus: 724 Stuart Fitz-James Falco, Hernando,

duca di Penaranda de Duero: 42 Stuart Fitz-James Falco, Jacobo,

duca d’Alba: 42 Suàrez de Tàngil y de Angulo,

Fernando, marchese di Covarrubias de Leyva: 347

Suàrez del Villar: 302 Suàrez Faura, José: 718 Suàrez Verdeguer, Federico: 669,

734Suelves, Concha, vedova

Montagut: 177 Suils Otto, Àngel: 113 Suils Pérez, Àngel: 33, 35, 37, 38,

Page 772: De Prada - Il Fondatore Dell'Opus Dei - Vol II

41, 43, 45, 48, 52, 61, 103,113, 145, 154

Suner Ordónez, Enrique: 355 Suor Lucia: 723, 737 Suquia Goicoechea, Àngel: 708 Tedeschini, Federico: 669 Termes Carreró, Rafael : 468, 500,

578, 590 Torello Barenys, Juan Bautista:

401, 488, 505 Travesedo y Garcia Sancho, Maria

del Perpetuo Socorro, marchesa di Guevara: 346

Turrientes Montero, Joaquin: 35,42, 43

Urcola, Vicente: 244 Valdés Ruiz, Manuel: 118 Valenciano Polack, Fernando: 415 Valentin Gamazo, Jacinto: 267,

302, 348 Vallejo Nàgera, Antonio: 261, 355 Vallejo Simon, José Maria: 355 Vea-Murguia Bru, Lino: 31, 113,

224Vega de Seoane, Joaquin: 244, 348 Velasco Cruz, Matilde: 147 Ventosa Garcia, Recaredo: 87, 274 Vergara Larrechea, Elvira: 317 Vergés Furnells, Manuel Maria:

488, 490, 492, 505, 519, 573, 577, 578

Vicente Gallo, Primitivo: 307, 310 Vicuna Murguiondo, Carlos: 679 Vidal y Barraquer, Francisco: 669 Villanueva Gómez, Miguel: 225 Villanueva Labayen, Maria Teresa:

225Yurramendi Alcain, Màximo: 664 Zapico: 357Zorzano Ledesma, Isidoro: 12, 15,

22, 23, 36, 40, 41, 44, 46, 47, 48, 57, 61, 69, 71, 75, 77, 79, 83, 90, 94, 96, 100, 102, 103, 117, 119, 126, 133, 140, 146,147, 157, 158, 161,164, 168, 169, 177, 180,211,225, 231, 232, 237, 249, 266, 300, 306,

326, 330,333, 337, 362, 369, 373, 406, 410, 415, 418, 435, 461, 466, 607, 624, 636, 637,643, 644, 669

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203452608090

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Indice

CAPITOLO IX - GUERRA E RIVOLUZIONE: PRIGIONIERI NELLA CITTÀ 1 .1 frutti dell’odio2. Un fuggitivo in cerca di rifugio3. Nella clinica del dottor Suils4. Nel Consolato dell’Honduras5. “La storia della buona pipa”6. “I giorni peggiori di questo periodo”7. “Gli affari del nonno”CAPITOLO X - VERSO LA LIBERTA1. Le attività di un... Intendente2. “Quel pazzo che hanno assassinato”3. “Il signor Emanuele ne sa più di noi”4. La partenza da Madrid5. Bloccati a Barcellona6. La rosa di Rialp7. La “capanna di S. Raffaele”8. Il passaggio dei Pirenei9. In AndorraCAPITOLO XI - L’EPOCA DI BURGOS (1938-1939)1. Ricominciano le Caterine2. A Burgos3. “Viaggiatore del mio Signore Gesù”4. L’Hotel Sabadell5. “Una lezione di carità”6. Con la penna in mano...

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325 7. L’autunno del 1938336 8. In attesa della fine della guerra civile

CAPITOLO XII - DAI SOGNI ALLA REALTÀ365 1. Il ritorno a Madrid377 2. Cammino393 3. Le circostanze politiche406 4. La Residenza universitaria di via Jenner419 5. Servire la Chiesa426 6. L’espansione nelle province della Spagna435 7. Come “inquadrare” l’Opus Dei442 8. Il cambio del confessore

CAPITOLO XIII - “COLUI CHE AMA LA VOLONTÀ DI DIO”475 1. La morte della Nonna487 2. L’approvazione dell’Opera come Pia Unione496 3.1 fatti di Barcellona502 4. Una questione di “palpitante attualità”516 5. Mons. Eijo y Garay, Vescovo e Pastore.526 6. Uno sguardo d’insieme535 7. La convinzione dei santi548 8. Il bisturi di platino559 9. Il primo Centro delle donne

CAPITOLO XIV - LO SVILUPPO DELL’OPERA595 1 .1 tre fratelli605 2. “L’apostolato degli apostolati”616 3. Il miracolo più grande621 4. La Società Sacerdotale della Santa Croce634 5. Morte di Isidoro. Il nihil obstat della Santa Sede647 6 .1 primi sacerdoti

CAPITOLO XV - NUOVO SLANCIO APOSTOLICO (1944-1946)

673 1. Dopo le ordinazioni sacerdotali681 2. Los Rosales e la Residenza di via Zurbaràn697 3. Spirito sacerdotale e mentalità laicale703 4. Esercizi di vita e di morte713 5. Viaggi in Andalusia e in Portogallo

APPENDICE DOCUMENTALE739 Indice dei documenti740 XVI. Diario con note manoscritte del Fondatore

dell’Opus Dei dal 20 al 25 luglio 1936 743 XVII. Diario di Juan Jiménez Vargas (6-15 ottobre 1936)

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747 XVIII. Diario di Antonio de Dalmases Esteva (novembre-dicembre 1937)

XIX. Lettera del Vescovo di Madrid, mons. Leopoldo Eijo y Garay, del 24-V-1941, all’Abate Coadiutoredi Montserrat, Dom Aurelio Maria Escarré

XX. Lettera del Vescovo di Madrid, mons. Leopoldo Eijo y Garay, del 21-VI-1941, all’Abate Coadiutoredi Montserrat, Dom Aurelio Maria Escarré

XXI. Relazione parziale dell’attività di predicazione del Fondatore dell’Opus Dei tra il 1938 e il 1946

XXII. Viaggi apostolici del Fondatore dell’Opus Dei nella Penisola iberica (1939-1946).

INDICE DEI NOMI

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