De Historia Tormentorum: Qualche osservazione sulle "Osservazioni" di Pietro Verri

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Relazione sulla Storia della Tortura: Qualche osservazione sulle “Osservazioni” di Pietro Verri di Giuliano Serges Sommario: 1. Attenzione della dottrina giuridica alle opere del Verri e del Manzoni, pag. 1; 2. Le circostanze del “Il Caffè” e di Giuseppe II, pag. 6; 3. Le circostanze degli untori malefici nell’età dei comuni, pag. 14; 4. La Storia del processo ai due untori e della Colona Infame, pag. 18; 5. I caratteri tipici della tortura  processuale a partire dal racconto del Verri, pag. 23; 6. Verri tra utilitarismo e compassione, pag. 43; 7. Conclusioni, pag. 46; Bibliografia, pag. 48. 1. Attenzione della dottrina giuridica alle opere del Verri e del Manzoni Dopo aver delineato la Storia della Tortura nelle sue caratteristiche precipue, sembra opportuno soffermarsi sull’analisi di documenti risalenti al periodo in cui la “tortura” ha assunto i suoi tratti più imponenti e peculiari, ossia quello durante il quale il rito inquisitorio, originariamente sorto come rito “straordinario” del processo romano - canonico c.d. “criminale”, divenne il modello ordinario del diritto processuale penale, a partire dalla fine del XIII sec. d.C. (in piena “età del diritto comune”: XII – XV sec. d.C.) 1 . Sembrano particolarmente degne di considerazione due opere: la prima, di Pietro Verri, scritta tra il 1770 e il 1777 e pubblicata postuma nel 1804 2 (Verri nacque a Milano il 12 dicembre 1728 e morì ad Ornago il 28 giugno 1797) dal titolo “ Osservazioni sulla tortura e singolarmente sugli effetti che produsse all'occasione delle unzioni malefiche alle quali si attribuì la pestilenza che devastò Milano l'anno 1630 ” , nella quale vengono riportati documenti attinenti ad un ormai noto processo inquisitorio svoltosi nell'estate del 1630 (noto come “processo delle unzioni pestifere” o “storia della Colonna Infame”), unitamente ad alcune considerazioni, in accordo a delle osservazioni già mosse da Cesare Beccaria nel suo 1  La trasformazione dell’inquisizione da forma straordinaria ed eccezionale a forma ordinaria e prevalente, che risulta  conclusa nella prima metà del XVI secolo dopo un processo protrattosi per alcuni secoli, non comporta  peraltro, specie a livello dottrinale, l'abbandono definitivo dell’accusa, e permette quindi la continuazione di un rapporto assai articolato, che verrà definitivamente modificato solo con la codificazione ”. (Dezza, 1989) 2 In realtà, secondo la ricostruzione effettuata da Giorgio Panizza (Panizza – Costa, 2000), che ad oggi pare essere la più convincente (seppure non l’unica), la redazione vera e propria dell’opera risale al biennio 1776-1777; all’arco di tempo tra il 1770 ed il 1776, invece, risalgono due avantesti: “lo zibaldone di materiali preparatori nel quale l’autore aveva radunato citazioni tratte dai testi giuridici e storici sulla tortura fin dall’epoca dei Pugni, che andranno poi a costituire la seconda parte del saggio, e la copia degli atti del processo del 1630 ricavata dal manoscritto avuto in prestito da Grassini, segretario dell’Ufficio di Sanità, a cui ricorre i maniera consistente la ricostruzione drammatica dei supplizi subiti dagli untori nei paragrafi 3-6. A una prima redazione, che segue la lettura del manoscritto con gli atti del  processo, nei primi mesi del 1776, succede la revisione portata a termine nell’inverno del 1777, che contempla varie aggiunte come le notizie sulle figlie di Mora, recuperate dall’archivio parrocchiale di San Lorenzo ” (Contarini, 2006). Riguardo alla pubblicazione postuma, fu lo stesso Verri a desiderarla, dal momento che, in una celebre lettera del 22 maggio 1776 (vd. infra), scrisse al fratello, dopo avergli raccontato di essere venuto in possesso delle carte del processo della Colonna Infame: “Questa sarebbe l’occasione di trattare un punto di tanto interesse e che al momento è di moda [...]. Ne sono anche invitato; ma, amico, è venuta l’età del giudizio. Per poco fumo di piccola fama io non mi voglio inimicare il Senato; [...] Da un giorno all’altro poss o aver bisogno di questi signori o contro lo zio o contro la madre e non attaccherò briga certamente col pane”; nello scrivere ciò il pensiero del Verri correva, senz’altro, ad un aspro contenzioso che era sorto recentemente con il padre Gabriele e che aveva visto l’Autore vincere, grazie all’appoggio del Senato del quale, tra l’altro, Gabriele Verri era membro. Riguardo all’edizione dell’opera, la prima fu nel 1804, da attribuirsi a Pietro Custodi, in "Economisti classici italiani, parte moderna, vol. XVIII"; tuttavia il Custodi presentò un testo scorretto e, in alcune significative parti, interpolato, sicchè la prima edizione a cui poter fare riferimento rimane quella di Gennaro Barbarisi, che nel 1985 pubblicò l’opera, in appendice alla “Storia della Colonna Infame” di Manzoni, fedelmente al manoscritto originale (con le postille autografe del Verri - e in una successiva edizione anch e del Manzoni – all’opera).

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Relazione sulla Storia della Tortura:Qualche osservazione sulle “Osservazioni” di Pietro Verri

di Giuliano Serges 

Sommario: 1. Attenzione della dottrina giuridica alle opere del Verri e del Manzoni, pag. 1; 2. Le circostanzedel “Il Caffè” e di Giuseppe II, pag. 6; 3. Le circostanze degli untori malefici nell’età dei comuni, pag. 14; 4.La Storia del processo ai due untori e della Colona Infame, pag. 18; 5. I caratteri tipici della tortura

  processuale a partire dal racconto del Verri, pag. 23; 6. Verri tra utilitarismo e compassione, pag. 43; 7.Conclusioni, pag. 46; Bibliografia, pag. 48.

1. Attenzione della dottrina giuridica alle opere del Verri e del Manzoni 

Dopo aver delineato la Storia della Tortura nelle sue caratteristiche precipue, sembraopportuno soffermarsi sull’analisi di documenti risalenti al periodo in cui la “tortura” haassunto i suoi tratti più imponenti e peculiari, ossia quello durante il quale il ritoinquisitorio, originariamente sorto come rito “straordinario” del processo romano - canonicoc.d. “criminale”, divenne il modello ordinario del diritto processuale penale, a partire dallafine del XIII sec. d.C. (in piena “età del diritto comune”: XII – XV sec. d.C.)1.Sembrano particolarmente degne di considerazione due opere: la prima, di Pietro Verri,scritta tra il 1770 e il 1777 e pubblicata postuma nel 18042 (Verri nacque a Milano il 12dicembre 1728 e morì ad Ornago il 28 giugno 1797) dal titolo “Osservazioni sulla tortura esingolarmente sugli effetti che produsse all'occasione delle unzioni malefiche alle quali siattribuì la pestilenza che devastò Milano l'anno 1630” , nella quale vengono riportatidocumenti attinenti ad un ormai noto processo inquisitorio svoltosi nell'estate del 1630 (notocome “processo delle unzioni pestifere” o “storia della Colonna Infame”), unitamente adalcune considerazioni, in accordo a delle osservazioni già mosse da Cesare Beccaria nel suo

1 “  La trasformazione dell’inquisizione da forma straordinaria ed eccezionale a forma ordinaria e prevalente, cherisulta   conclusa nella prima metà del XVI secolo dopo un processo protrattosi per alcuni secoli, non comporta  peraltro, specie a livello dottrinale, l'abbandono definitivo dell’accusa, e permette quindi la continuazione di unrapporto assai articolato, che verrà definitivamente modificato solo con la codificazione”. (Dezza, 1989)2 In realtà, secondo la ricostruzione effettuata da Giorgio Panizza (Panizza – Costa, 2000), che ad oggi pare essere la piùconvincente (seppure non l’unica), la redazione vera e propria dell’opera risale al biennio 1776-1777; all’arco di tempotra il 1770 ed il 1776, invece, risalgono due avantesti: “ lo zibaldone di materiali preparatori nel quale l’autore avevaradunato citazioni tratte dai testi giuridici e storici sulla tortura fin dall’epoca dei Pugni, che andranno poi a costituirela seconda parte del saggio, e la copia degli atti del processo del 1630 ricavata dal manoscritto avuto in prestito da

Grassini, segretario dell’Ufficio di Sanità, a cui ricorre i maniera consistente la ricostruzione drammatica dei supplizisubiti dagli untori nei paragrafi 3-6. A una prima redazione, che segue la lettura del manoscritto con gli atti del processo, nei primi mesi del 1776, succede la revisione portata a termine nell’inverno del 1777, che contempla varieaggiunte come le notizie sulle figlie di Mora, recuperate dall’archivio parrocchiale di San Lorenzo ” (Contarini, 2006).Riguardo alla pubblicazione postuma, fu lo stesso Verri a desiderarla, dal momento che, in una celebre lettera del 22maggio 1776 (vd. infra), scrisse al fratello, dopo avergli raccontato di essere venuto in possesso delle carte del processodella Colonna Infame: “Questa sarebbe l’occasione di trattare un punto di tanto interesse e che al momento è di moda[...]. Ne sono anche invitato; ma, amico, è venuta l’età del giudizio. Per poco fumo di piccola fama io non mi voglioinimicare il Senato; [...] Da un giorno all’altro posso aver bisogno di questi signori o contro lo zio o contro la madre enon attaccherò briga certamente col pane”; nello scrivere ciò il pensiero del Verri correva, senz’altro, ad un asprocontenzioso che era sorto recentemente con il padre Gabriele e che aveva visto l’Autore vincere, grazie all’appoggio delSenato del quale, tra l’altro, Gabriele Verri era membro. Riguardo all’edizione dell’opera, la prima fu nel 1804, daattribuirsi a Pietro Custodi, in "Economisti classici italiani, parte moderna, vol. XVIII"; tuttavia il Custodi presentò un

testo scorretto e, in alcune significative parti, interpolato, sicchè la prima edizione a cui poter fare riferimento rimanequella di Gennaro Barbarisi, che nel 1985 pubblicò l’opera, in appendice alla “Storia della Colonna Infame” diManzoni, fedelmente al manoscritto originale (con le postille autografe del Verri - e in una successiva edizione anchedel Manzoni – all’opera).

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“ Dei delitti e delle pene” (sulle quali ci si soffermerà più avanti), riguardo alla opportunitàdella pratica torturatoria in ambito giudiziario; la seconda del Manzoni, “Storia dellaColonna Infame”, scritta, verosimilmente, in un arco di tempo individuabile tra il 1821 ed il1823 – in quanto originariamente pensata come parte del V capitolo del IV tomo dell’opera“Fermo e Lucia” ( la quale fu poi separatamente pubblicata: una prima volta nel 1823 con iltitolo “Gli Sposi Promessi” ed, infine, nel 1840 con il più noto titolo “I Promessi Sposi”) – e

 poi pubblicata nel 1840, ispirata proprio dai fatti riportati e dalle considerazioni mosse dalVerri nell’opera già citata.Può fare un certo effetto sentir parlare di Alessandro Manzoni e di Pietro Verri in uncontesto didattico-giuridico, essendo i due autori indiscutibilmente legati – per chi scrive – all’esperienza formativa scolastico-letteraria; per quanto riguarda il Verri, poi, va rilevatocome, al giorno d’oggi, questo autore sia, di fatto, del tutto trascurato anche negli studiliceali. Del Manzoni, in modo particolare, ci si ricorda soprattutto per i meriti letterariconseguiti con l’opera “I Promessi Sposi”, non casualmente coeva dell’opera che saràoggetto della nostra analisi, e per i meriti linguistici derivanti dall’aver “assemblato”, per la

 prima volta, una vera e propria “lingua italiana”. Qualche collegamento, prima facie, tra idue ambiti, giuridico e letterario, è tuttavia possibile trovare, non fosse altro che per la quasicontestuale redazione della “Storia della Colonna Infame” e dei “Promessi Sposi”, o per ilnesso inscindibile che c’è tra la vita e le opere del Beccaria, del Verri, del Manzoni (assiemeal loro sfondo “giuridico-penalistico”) di cui in parte si è già accennato.C’è dell’altro. Chi racconta una società, o alcuni aspetti di una società, spesso riesce atrasmetterne meglio il vero significato rispetto a quanto possano fare degli sterili documentiche si limitino a riportare i fatti, senza rilevare umori, opinioni, circostanze; se noidovessimo far capire, ad un ipotetico uomo del futuro, il rapporto tra potere esecutivo e

 potere giudiziario nell’attuale momento storico dello Stato Italiano, non vorremmo, forse,inviare a questo individuo un manuale di diritto pubblico, insieme ad articoli e saggi diinsigni uomini del nostro tempo, piuttosto che una “nuda” copia della Costituzione e deiquattro codici?Manzoni e Verri null’altro erano che illustri letterati del loro tempo (tra l’altro, specialmente

 per quanto riguarda il Verri – che era giurista, assai pratici di cose di diritto); non a caso ilVerri si prodigò, nel saggio che sarà oggetto della nostra analisi, ad illustrare la “Opinioned’alcuni rispettabili scrittori intorno la tortura, ed usi odierni in alcuni Stati”, nonchè araccontare “Come il commissario Piazza si sia accusato reo delle unzioni pestilenziali, ed abbia accusato Gian Giacomo Mora”, riportando, tra l’altro, ampi stralci dall’interrogatorio

 per poi commentarli e contestualizzarli. Non può dirsi neppure che l’autorevolezza delle parole del Verri, come degli altri Autori alui coevi che si sono occupati della materia in esame, risulti sminuita dal fatto che egli nonscrisse del caso degli untori nello stesso tempo nel quale i fatti si verificarono. Ciò inquanto, da un lato, il trascorrere di un secolo sembra essere un periodo di tempo più cheragionevole perchè si possano analizzare con serenità e distacco gli eventi del passato (si

 pensi, ad esempio, a come oggi, parlando degli eventi della Seconda Grande Guerra, ci siconcentri sempre meno sull’analisi minuziosa e tormentata delle vicende interne ai campi diconcentramento, date ormai per assodate – fatte salve alcune allucinanti eccezionirappresentate dalle voci c.d. “negazioniste” – e ci si soffermi sempre più sulle strategie

militari, sulle implicazioni economiche, sui rapporti politico-diplomatici, etc.);

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dall’altro,3Lo stesso Verri, nell’ Introduzione, si lancia in una ferma critica contro “i molti uomini d'ingegno e di cuore, i qualihanno scritto contro la pratica criminale della tortura” prima di lui, poichè non hanno prodotto nulla di

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dal punto di vista storico, sembra essere del tutto irrilevante quell'intervallo di tempotrascorso tra il caso dei due untori e la redazione dell’opera del Verri, in quanto la torturaera una pratica non solo ancora presente al tempo dell'Autore ma anche destinata,addirittura, a sopravvivergli (ed a sopravvivere, drammaticamente e sotto diverse spoglie,fino ai giorni nostri).Inoltre, se l’arrivo del XII sec. aveva segnato, nella storia d’Europa (almeno dal punto divista del diritto), un passaggio piuttosto significativo dall’alto medioevo all’età del dirittocomune classico, “una profonda cesura – l’unica paragonabile per importanza a quella delsecolo XII, contrassegnata dall’avvento della nuova scienza del diritto – si avrà in Europasolo alla fine del Settecento, con le riforme illuministiche e con le prime modernecodificazioni che segnarono il definitivo tramonto del diritto comune”, mentre “latransizione dal medioevo all’età moderna, inavvertita dai contemporanei [...], fu assaimeno netta sul terreno del diritto” (non ugualmente può dirsi per quanto riguarda la

  politica, giacchè nacque lo Stato c.d. “moderno”)  ed, anzi, “le procedure inquisitoriespagnole, dotate di indubbia efficacia antiereticale, indussero il Papa a ristrutturare, nel1542 l’Inquisizione romana con la costituzione del Santo Uffizio”, Congregazione che, daallora, “divenne lo strumento principale per la tutela dell’ortodossia cattolica” (A. PadoaSchioppa, 2008).La generazione del Verri si colloca, dunque, a cavallo tra il “vecchio” ed il “nuovo” evo,svolgendo, come meglio si approfondirà più avanti, una funzione fortemente propulsivaall'interno di un processo di riforma complessiva del sistema.Il caso della “Colonna Infame” rimane comunque un caso esemplare e tutt’altro cheeccezionale, che il Verri riuscì a disvelare e ad analizzare a distanza di oltre un secolo dalsuo verificarsi, costituendo così una importante memoria scritta degli elementi più tipicidella tortura processuale, oltre che delle più autorevoli critiche del tempo sulla materia.Poco importa che quel caso, in fondo, non abbia rivestito alcun carattere di eccezionalità (senon a livello locale)4: ciò che conta è che da quella fattispecie il Verri sia riuscito a trarreargomento per una riflessione di carattere generale sul problema della tortura. Insomma, una

sufficientemente valido, se non un “mormorìo confuso”, a scardinare le convinzioni di coloro i quali “sdegnano erimproverano il genio di novità, la ignoranza della pratica, la vanità di voler fare il bello spirito, onde rifugiandosi allasempre venerata tradizione de' secoli, anche più fortemente si attaccano ed affezionano alla pratica tramandataci daimaggiori” (anche A.C. Jemolo, in Introduzione a “Dei delitti e delle pene”, rileva come “ le leggi crudeli furono sempreripetute dai giuristi che le considerarono come un corpo formato che non doveva più venire toccato, anzi qualcunosuggerì nuovi tormenti da infliggere agl’indiziati od ai rei”); “la verità s'insinua più facilmente quando lo scrittore

 postosi del pari col suo lettore parte dalle idee comuni, e gradatamente e senza scossa lo fa camminare e innalzarsi alei, anzi che dall'alto annunziandola con tuoni e lampi, i quali sbigottiscono per un momento, indi lasciano gli uomini perfettamente nello stato di prima”. Altrettanto significative sono le parole con le quali il Verri inizia l’esposizione verae propria del testo in esame, ossia con una critica al Ripamonti (che aveva raccontato prima di lui della pesta di Milanodel 1630) il quale, seppur “sincero espositore delle cose de' suoi tempi”, viene considerato un “cattivo ragionatore,buon latinista, cronista inesatto”: solo nella consapevolezza di queste peculiarità dell’Autore in questione, secondo ilVerri, si può leggere “la storia della pestilenza accaduta al tempo appunto in cui viveva” il Ripamonti che ne narra (cfr.Ripamonti, 1640).4Lo stesso Verri ammise che la sua opera “verte sopra di un fatto ignoto al resto d’Italia” di cui egli è venuto aconoscenza poichè gli “venne a caso fra le mani il voluminoso processo manoscritto che riguardava quel fatto”, chedunque è divenuto a noi celebre proprio grazie al suo lavoro e, soprattutto, a quello, forse più noto, del Manzoni. Per laverità, prima dell’opera del Verri, la “storia della Colonna Infame” era già comparsa: nel Ripamonti e nel Tadino, chenel XVII sec. raccontarono della peste di Milano del 1630; nel 1763, nelle “Considerazioni sul commercio dello Stato di

 Milano”; nel 1768, nelle “ Memorie storiche sulla economia pubblica dello Stato di Milano”. Non a caso Pietro Verri,nella già citata lettera del 22 maggio 1776, definirà quello della “Colonna Infame” come un “  fatto assai celebre esconosciuto ad un tempo”, potendosi cogliere, tra l’altro, a me pare, in tale espressione, anche un riferimento al caratteredella segretezza del processo inquisitorio.

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vicenda storica marginale divenne lo spunto per un riesame della questione della tortura e per metterne in luce taluni aspetti in un lavoro che ancora oggi è utile allo stesso scopo.Riflessioni e non giudizi, giacchè il princìpio per il quale non si può giudicare la storia era

 ben noto anche a Pietro Verri, tanto che egli si affretta a segnalare, nell’ Introduzione: «iomi asterrò dal declamare, almeno me lo propongo; e se la natura mi farà sentir la sua vocetalvolta, e la riflessione mia non accorrerà sempre a soffocarla, ne spero perdono:

 procurerò di reprimerla il più che potrò, giacchè non cerco di sedurre nè me stesso nè illettore, cerco di camminare placidamente alla verità. [...] Coloro che difendono la praticacriminale, lo fanno credendola necessaria alla sicurezza pubblica [...]5. Io non condanno divizio chi ragiona così»; ciò non toglie, tuttavia, che il Verri sia dichiaratamente contrarioalla pratica della tortura e che, anzi, abbia avuto il grande merito di provare a trattarne senzafare eccessivo riferimento a quei “sublimi principj di legislazione riserbati alla cognizionedi alcuni pochi pensatori profondi”, i quali “ragionando sorpassano la comune capacità”,che avevano fatto sì che le opinioni dei pensatori del passato contrari alla tortura nonfossero concepiti dalle “menti degli uomini” se non come quell’inutile “mormorìo confuso”di cui si è già accennato.L’Autore vuole semplicemente raccontare la verità, in modo tale che, non una sensazione nèun tecnicismo, bensi “la ragione farà conoscere che è cosa ingiusta, pericolosissima ecrudele l’adoperar le torture”; se il lettore arriverà ad una tale conclusione, il Verri afferma:«il premio che otterrò mi sarà ben più caro che la gloria di aver fatto un libro, avrò difesala parte più debole e infelice degli uomini miei fratelli» e, anzi, «sebbene anche ottenga ilmio fine, e che illuminatasi la opinione pubblica venga stabilito un metodo più ragionevolee meno feroce per rintracciare i delitti, allora accaderà del mio libro come dei ponti dilegno che si atterrano, innalzata che sia la fabbrica, e come avvenne al sig. marchese

  Maffei, che distruggendo la scienza cavalleresca e annientandone gli scrittori, annientò  pure il suo libro , che ora nessuno più legge perchè non esiste l’oggetto per cui erascritto6».

5 Riguardo alle finalità cui punti la tortura e, più in generale, il processo inquisitorio, più recentemente è stato scritto cheil modo di concepire una società cui fanno riferimento i sostenitori dei princìpi dell’inquisizione sia di ispirazione“leviatanica”: “noncurante degli individui (e perciò le figure del reo e dell’offeso passano in secondo piano: contasoltanto il fare giustizia), inteso a una perfezione notoriamente irraggiungibile. [...] il processo [...] serve a soddisfareun bisogno metafisico”  piuttosto che a comporre una controversia; inoltre, in un tale modo di concepire la società, èintrinseca e pregnante “la tendenza a costruire astrazione, sulle quali poi gli ispirati pretendono di modellare ilmondo”: in tale tendenza “pulsa il motivo del sovraumano nelle forme più disparate” (Cordero, 1983). Il

  perseguimento della “sicurezza pubblica” cui accennò il Verri sarebbe, dunque, in sè, un paradosso, giacchèconsisterebbe nel perseguimento di una “ perfezione” che pure è “notoriamente irragiungibile”.6Il paragone che il Verri fa tra lo scopo ed il destino ultimo della sua opera e quello di altre opere, architettoniche eletterarie, è piuttosto interessante. Il primo accostamento, forse, può risultare un po' criptico al lettore odierno. La“traduzione”, per così dire, del passaggio, a me pare possa essere così correttamente intesa: «così come, essendo loscopo del mio libro quello di analizzare il rito processuale torturatorio di modo che la società, spontaneamente, si rendaconto della sua ingiustizia, quando la pratica della tortura criminale sarà soppressa il mio libro, che pure sarà servito a“costruire” la nuova realtà, perderà ogni valore e ragion d'essere, allo stesso modo le impalcature dei ponti sicomportano una volta che la fabbricazione del ponte è terminata». Per quanto riguarda la citazione del marchese Maffei,l' Autore fa riferimento ad una opera del Scipione Maffei, “la Scienza chiamata cavalleresca”, risalente al 1710 (anchese la versione storicamente più famosa sarà pubblicata 6 anni dopo da e per Luigi Pavino, che la doterà di comodi indicisommari ed analitici – una versione digitalizzata di questa edizione si può trovare inhttp://books.google.it/books?id=LIcHAAAAQAAJ&dq=maffei+della+scienza+chiamata+cavalleresca), che si

 proponeva di analizzare, polemicamente, il sistema di valutazione delle virtù nobiliari, fino a quel momento consideratealla stregua del lignaggio e della tradizione militare, anziché dei meriti e delle competenze professionali, arrivando poi,nel libro III, capo VI, a delineare “delle Massime, e della condotta, che agl'insegnamenti di questa scienza si  potrebbero sostituire”; si capisce come, al pari dell'opera del Verri sulle torture, una volta che le idee del Maffei

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Questa impostazione rende, l’opera in esame, in qualche modo simile ai documenti programmatici di alcune odierne organizzazioni NPO/ONLUS/ONG per i diritti umani (cfr.soprattutto a “Emergency”, i cui esponenti non mancano, in ogni occasione, di ricordarecome l’obiettivo princìpale della loro organizzazione sia quello dell’ “auto-distruzione”7) ,in quanto ne condivide i due scopi principali: proteggere gli indifesi ed, infine, non avere

 più ragion d'essere (una volta che l'obiettivo per il quale la battaglia è stata condotta viene portato a termine). Senza voler troppo enfatizzare l’importanza (pure imponente) del testo inesame, quest’ultima osservazione viene, piuttosto, svolta per far capire come, mutatismutandis, la lotta per i diritti umani ai tempi del Verri fosse diversamente concepita; puòessere l'occasione per una riflessione più ampia su come cambi la concezione dei diritti dilibertà nel tempo, su come tali diritti si evolvano e si aggiungano nel tempo, semprestoricamente preceduti da lotte più o meno dure, condotte a diversi livelli.In fondo, il paragone che fa il Verri tra la sua opera e quella del marchese Scipione Maffei è

 profondamente indicativo di come, in soli cinquanta anni, si fosse “alzato” il livello dellerichieste in materia di diritti civili e princìpi fondamentali. Verri, infatti, paragona la lottaalla tortura processuale alla proposta di riforma dei meccanismi di assegnazione delle virtùnobiliari a suo tempo formulata dal Maffei (il quale aveva ipotizzato il ricorso ad una sortadi princìpio meritocratico in nuce, senza per questo rinunciare all'idea che la classe sociale“alta” dovesse essere necessariamente quella dirigente e, dunque, dovesse godere di

 privilegi particolari). Non che non vi fossero state, anche prima del VIII sec., voci contro latortura (cfr., ad es., S. Agostino, 426; papa Nicolò I, sec. IX, nel carteggio col Bulgari;Schallerus, 1558; Thomasius, 1705; Montaigne, 1595); si trattava tuttavia o di voci troppolontane nel tempo o tiepide, ovvero contrarie all’abuso, non all’uso, della tortura.E’, oggi, piuttosto triste constatare che, se pur in diverse forme, le stesse lotte si sianoriproposte (e si ripropongano) ciclicamente nel corso della storia (basti pensare alle battagliecontro la “Casta” delle classi dirigenti e, dall'altro lato, alle denunce sulle pratiche condottenella base navale degli Stati Uniti d'America sulla baia di Guantánamo).

ricevettero concreta e stabile attuazione, il testo, sulla “vecchia” scienza cavalleresca, non ebbe più motivo di essereletto.7Vd. recentemente, le dichiarazioni rilasciate da Gino strada su www.wemustact.org/view_articolo.php?id=36&subcat=78&idart=186 . 

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2. Le circostanze del “Il Caffè” e di Giuseppe II 

Il Verri fu, senza dubbio alcuno, un convinto riformatore, non a caso storicamente collocatonella c.d. “età delle riforme” (1750 – 1814).Questo periodo storico, che si fa tradizionalmente iniziare con il 1748, anno della

 pubblicazione dell'opera “Esprit des loix” di Montesquieu (e, più in generale, con l'avventodella legislazione come strumento privilegiato usato per trasformare segnatamente diritto edistituzioni – “sulla base delle critiche e delle proposte nate dalla nuova cultura delgiusnaturalismo e dell'illuminismo”, di cui si dirà – che fu realizzata “solo a partire dallaseconda metà del secolo, e solo in alcuni stati”8), e terminare con il 1815, anno in cui

  Napoleone venne definitivamente sconfitto e la geografia politica europea “Restaurata” aVienna9, rappresenta indubbiamente un periodo di svolta dal punto di vista del diritto. Se èvero che il sistema del diritto comune era sopravvissuto anche al sopraggiungere dello“Stato Moderno”, non può nascondersi che lo stesso sistema entrò in un periodo di intensacrisi dovuto, da un lato, a quello che è stato pregevolmente definito come un “grovigliodelle fonti e delle dottrine accumulate nei secoli” (Padoa Schioppa, 2008), di cui siaccennerà meglio in seguito; dall’altro alla sempre più insistente presenza di nuove idee e dinuove tendenze del pensiero maturate nella precedente età moderna, che volgeva così allasua conclusione. Il fatto che l’età moderna non abbia comportato rilevanti modificazioni sul

 piano del diritto oggettivo, infatti, non esclude affatto che, in quel periodo, vi sia stato – come in effetti è accaduto - un profluire di dottrine filosofiche e giusfilosofiche(segnatamente il giusnaturalismo) le quali, una volta maturate, trionfarono finalmente nelsuccessivo evo.In particolare la dottrina razionalistica, rinnovata dalle teorie sulla monopolizzazione deldiritto e dalla filosofia illuministica10, parve particolarmente accogliente alle nuove esigenzedel potere e della società. In primo luogo perchè, come è stato correttamente osservato11, lacritica al sistema delle istituzioni era già implicita in molte posizioni del giusnaturalismo dalmomento che, sostenendo la superiorità qualitativa del diritto naturale su quello positivo in

 presenza di una antinomia tra régle de droit naturel e régle de droit positif, è inevitabile chefossero scaturite sempre più frequenti proposte di riforma delle discipline più varie attinentiai settori della vita associata (dai rapporti tra Stato e Chiesa alle istituzioni del patriziato, dalsistema dei reati e delle pene alla giustizia civile e criminale, dal regime giuridico dellafamiglia al diritto dell’economia) nascendo, per la prima volta, “la convinzione che lasocietà possa venir trasformata secondo un disegno organico e razionale; che sia compitodello Stato attuare questo disegno; e che strumento per raggiungere lo scopo sia il diritto

nella sua dimensione legislativa” (Padoa Schioppa, 2008). In secondo luogo perchèl’avvento dello Stato Moderno, affermatosi in Europa tra il XV e il XVII secolo, comportòche il diritto naturale e quello positivo non fossero più considerati alla stessa stregua, poichè“soltanto il diritto positivo (il diritto posto e approvato dallo Stato) è considerato il solo

8Padoa Schioppa, op. cit.9Suggestiva, al riguardo, la considerazione di Francesco S. De Sanctis (contenuta in “Antologia critica sugli scrittorid’Italia, 1928, ed. Vallecchi, Firenze) : «  Il 1815 è una data memorabile, come quella del Concilio di Trento. Segna lamanifestazione officiale di una reazione non solo politica, ma filosofica e letteraria, iniziata già negli spiriti, come sene veggono le orme anche né Sepolcri, e consacrata nel 18 brumaio. La reazione fu così rapida e violenta come larivoluzione. Invano Bonaparte tentò di arrestarla, facendo delle concessioni, e cercando nelle idee medie unaconciliazione. Il movimento impresso giunse a tale, che tutti gli attori della rivoluzione furono mescolati in una comune

condanna, giacobini e girondini, Robespierre e Danton, Marat e Napoleone. Il "terrore bianco" successe al "rosso". »10 Cfr., particolarmente, a Hobbes, Montesquieu, Rousseau, Beccaria; per una trattazione efficace vedi, per tutti,Bobbio, 2006.11 Cfr. Padoa Schioppa, op. cit.

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vero diritto” in quanto “esso è l’unico che trova ormai applicazione nei tribunali”12 (Bobbio, 1996): da qui lo scaturire delle concezioni liberali e illuministiche del potere, allequali fanno riferimento non solo le più note teorie sulla rappresentatività del poterelegislativo e sulla divisione tra poteri, ma anche le richieste di codificazione del diritto, di

 più netta separazione tra potere secolare e potere temporale, di introduzione nel sistema del princìpio, così eccellentemente formulato da Cesare Beccaria, per il quale “nullum crimen,nulla poena sine lege”13.Come è stato autorevolmente rilevato14, l’esigenza della codificazione è quasi la traduzionein termini giuridici del motto kantiano dell’illuminismo “sapere aude”, ed è dunqueindiscutibilmente frutto della cultura razionalistica.Il progressivo affermarsi delle nuove idee, portò alla conformazione di un nuovo sistema, asuo modo più semplice ed unitario sul piano della legislazione e dei poteri, che andò asostituire del tutto quello fino ad allora adottato. “ La legge dello Stato divenne da allora inEuropa ciò che non era mai stata nei lunghi secoli di diritto comune, la fonte prima edominante del diritto, lo strumento privilegiato se non addirittura esclusivo delle suetrasformazioni e della sua evoluzione. I sovrani del continente [...] mantennero [...] tutti i

 poteri conquistati nell’età moderna, rafforzando anzi ulteriormente il monopolio legislativo.[...] E   dove giunsero le riforme, venne meno una delle funzioni del potere pubblico

  medievale e moderno: lo Stato cessò di costituire il «braccio secolare» della Chiesa per

  combattere le eresie e le deviazioni di ordine religioso”; il sistema del diritto comunecomune verrà così definitivamente superato, determinando l’entrata del diritto europeo delcontinente “nell’età delle codificazioni, che lo caratterizza ormai da due secoli” (PadoaSchioppa, 2008). Inutile rilevare, in quanto fin troppo evidente, l’importanza delcambiamento appena illustrato per quanto riguarda la materia oggetto del nostro esame,ossia l’uso della tortura come strumento giudiziario lecitamente utilizzabile al fine diottenere prove plenae, in modo particolare confessioni o testimonianze, praticato soprattuttonell’ambito della c.d. “lotta alle eresie”.

  Nel solco dell’Illuminismo si colloca, non solo storicamente, il Verri (che, per motivianagrafici, parteciperà solo alle fasi cronologicamente iniziali del movimento15, avendo

12 L’affermazione citata necessita forse di qualche ulteriore precisazione, giacchè non si possa incorrere nell’errore diconcepirla in contraddizione con la realtà storica che, come si è detto, risultava, al tempo dell’età moderna, ancoraconnotata dalla compresenza di più fonti, di diversissima provenienza e formazione; non a caso il Bobbio parla di“applicazione” e non di “produzione”. L’Autore fa riferimento alla situazione, che si verificò con l’avvento dello Statomoderno, per la quale “il giudice da libero organo della società diventa organo dello Stato, anzi un vero e proprio

 funzionario dello Stato”, sicchè, divenendo “titolare di uno dei poteri statali”, al momento di risolvere le controversie,ancorquando si fosse trovato ad applicare norme di diritto consuetudinario o naturale, da un lato qualifica quelle regolecome riconosciute da parte dello Stato, imponendosi, d’altro lato, di non applicare quelle che, in maniera palese, non potessero ricevere un simile riconoscimento. “Vi è di più: nell’età moderna sopravvissero e vennero applicate, sino alSettecento riformatore, anche le fonti normative tradizionali di origine medievale, di origine non statuale: gli statuticittadini e rurali, gli statuti cittadini, le consuetudini scritte. Ma solo alla condizione di ricevere dal sovrano o dal principe locale il sigillo di un’approvazione espressa che le riconduceva ormai, in linea di princìpio, sotto l’autoritàdello Stato” (Padoa Schioppa, 2008). Il fenomeno storico fu reso possibile soprattutto grazie, da una parte, all’istitutodella avocazione ai tribunali statali (in modo particolare in Francia), che gradualmente erose le altre giurisdizionidiverse da quella statale; dall’altra, in modo ancora più evidente, alla istituzione dei Grandi Tribunali d’Europa, i qualinon solo producevano decisioni inappellabili (se non per “Justice Retenue”), ma anche, in moltissimi esempi,esercitavano, per utilizzare una celebre espressione del Calamandrei , una funzione “quasi legislativa” (Calamandrei,1968; tesi ripresa anche in Marafioti, 2004).13 Per quanto riguarda il processo criminale, piuttosto significativa è la voce “Peine (Droit naturel, civil et politique)”del Jaucourt: «faire souffrir quelque mal à quelqu’un, seulement parce qu’il en a fait lui-même c’est une pure cruautècondamnèe par la raison».14 Bobbio, op. cit.

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esattamente 20 anni al momento della pubblicazione dell’ “Esprit de lois” e decedendo 18anni prima del congresso di Vienna); egli fu, infatti, come già accennato, promotore attivodelle nuove riforme, in particolar modo tramite la diffusione di un giornale noto con il nome“Il Caffè”, del quale una descrizione davvero molto suggestiva, che vale la pena essereriportata in questa sede, viene data da Antonio Padoa Schioppa (op. cit.):« Negli stessi anni in cui gli scritti di Voltaire incidevano, con la loro critica corrosiva, la

  pianta ancora salda del diritto d’antico regime, un piccolo cenacolo di patrizi lombardi,riuniti intorno alla forte personalità di Pietro Verri (1728 – 1797) e del fratello Alessandro(1741-1861), discutevano – sulle pagine di un foglio periodico dal loro creato, “Il Caffè”,che uscì dal 1746 al 1765 – temi di economia, di diritto e di costume pubblico e privato,affrontati in un libero dibattito ispirato alla nuova cultura dei “lumi”. [...] Del gruppo

  faceva parte un giovanissimo laureato in legge presso l’Università di Pavia, il marcheseCesare Beccaria (1738 – 1794), che incoraggiato dai Verri si diede a riflettere sul sistema

 penale del tempo. In pochi mesi ne uscì un libro non ampio, intitolato “Dei delitti e delle pene”, pubblicato anonimo a Livorno nel 1764. [...] Appena due anni più tardi, il grandeVoltaire non solo fece tradurre e pubblicare il testo in francese, ma ne scrisse egli stesso uncommento altamente elogiativo 16».L’orizzonte intellettuale ed ermeneutico cui guardò Pietro Verri, negli anni dello studio delcaso della “Colonna Infame”, era quello composto dal «“Prix de la Justice et del’Humanitè”, dedicato ai nuovi princìpi di legislazione criminale, nel quale Voltaire

 portava a termine l’impresa iniziata nel 1766 con il “Commentaire sur le livre des dèlits et des peines”, vera e propria raccolta di atrocità giudiziarie desunta dagli archivi deitribunali ecclesiastici, che rappresenta con tutta probabilità l’antecedente più significativodelle “Osservazioni”» di Verri (Contarini, 2006); dal “ De tormentis” di Salvatore Venturini(Lucca, 1776) , nel quale vengono riprese, per lo più, le tesi del Beccaria sul processocriminale ed annoverate “  fra le fragili ed infime prove” le “confessioni dei tormenti”17; dal“Essai sur l’usage, l’abuse et les inconvenients de la torture dans la procedure criminnelle”di Seigneux de Correvon (1768), tradotto in italiano da Orazio Arrighi, ove si può leggereche la tortura, invece di correggere “l’imperfezione ed il vizio, ve ne aggiunge uno piùgrande che è di ferire oltraggiosamente l’umanità trattando la creatura ragionevole eintelligente come una macchina che si può forzare con delle nuove molle a produrre glieffetti ed i moti de’ quali si ha bisogno”18; dal “ Dei delitti e delle pene” di Cesare Beccaria(1764)19.

15 Gli anni ’70 del XVIII sec. rappresentano, nella età delle riforme, un periodo del tutto particolare, poichè, come è

stato correttamente osservato, “l’âge d’or della ragione sembra avviata al tramonto, e la filosofia dei lumi genera il suodoppio: accanto alla nostalgia progressiva del Paradiso perduto, cresce la <<grande ombra>> [come viene definitada B. Baczo, 1999] delle speranze consumate e delle illusioni tradite” (S. Contarini, 2006). La disillusione trapela inmodo evidente da una lettera che Alessandro Verri inviò al fratello nel 15 maggio 1776 (alla quale Pietro rispose il 22maggio del 1776, nella già citata lettera – vd. pag. 1 – ove, in primo luogo, l’ Autore rivela di aver “ avuto nelle manil’excerpta del processo della Colonna Infame”, così commentando: “Oh Alessandro, che abominazione!”; in secondoluogo, rivela il motivo per il quale non vuole pubblicare il libello sulla tortura): “ Bramo che sia abolita la tortura, allaquale ho preso un orrore anche più forte del comune, per avere letti i costituti criminali di tale atto inumano; il Senato però difficilmente entrerà in quelle mire, essendo composto d’uomini formati in queste pratiche antiche ed approvateda tanti celebri giureconsulti”; è, tra l’altro, verosimile, a me pare, che Alessandro Verri si riferisca alla consulta stesada Gabriele Verri, adottata nell’aprile dello stesso 1776, per la quale il Senato milanese si rifiutò di estendere alla suagiurisdizione le decisioni prese da Maria Teresa in materia di tortura (vd. infra).16Voltaire, 176617 trad. dal toscano di O. Arrighi, 178018 trad. dal francese di O. Arrighi, 178019 Inoltre, è lo stesso autore che, nel capitolo “Opinione d'alcuni rispettabili scrittori intorno la tortura, ed usi odierni dialcuni stati”, cita una serie di Autori contemporanei e del passato i quali lo hanno ispirato: Cicerone, Sant’Agostino,

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Proprio dal Beccaria, ad avviso di chi scrive, occorre muovere per analizzare la piùconsistente critica alla pratica della tortura processuale, giacchè, tra l’altro, il Verri necondivideva l’impostazione ed aveva attivamente partecipato alla redazione della sua opera(oggi si direbbe che ne fu il ghost-writer ), che tenne, come certamente si noterà, in granconsiderazione nella redazione della “Considerazioni sulla tortura”; il marchese si scagliòin maniera belluina e senza mezzi termini avversamente alla tortura, giungendo anche,talvolta, a locuzioni sul filo di un amaro sarcasmo e definendola con espressioni chelasciano ben intuire per quale motivo il libretto uscì, in prima sede, senza indicazione diautore:« Una crudeltà consacrata dall'uso nella maggior parte delle nazioni è la tortura del reomentre si forma il processo, o per constringerlo a confessare un delitto, o per lecontradizioni nelle quali incorre, o per la scoperta dei complici, o per non so qualemetafisica ed incomprensibile purgazione d'infamia, o finalmente per altri delitti di cui

 potrebbe esser reo, ma dei quali non è accusato. [...]È un voler confondere tutt'i rapportil'esigere che un uomo sia nello stesso tempo accusatore ed accusato20 , che il dolore divengail crociuolo della verità, quasi che il criterio di essa risieda nei muscoli e nelle fibre di unmiserabile21. Questo è il mezzo sicuro di assolvere i robusti scellerati e di condannare i

Quintiliano, Seneca, Valerio Massimo, Jachobus Schaller, Augustin Nicolas, Lorenzo Ramirez de Prado, Guillaume deSegla, Christian Adam Rupert, Johann Jacob Wissemback, Matthäus Wesenbeck, Anton Matthaeus, “Tommasi”(secondo il Romagnoli Verri si riferisce a Pietro Tommasi; secondo il Carnazzi –impostazione più probabile- ilriferimento è a Christian Thomasius), Johann Georg Graeve, il barone Jacob Friedrich von Bielfeld, il barone Charles-Louis de Secondat de La Brède e de Montesquieu. L’argomento della tortura era, tra l’altro, nell’età illuministica, comerilevato proprio da P. Verri nella lettera del 22 maggio ’76, “un punto alla moda”; l’Autore stesso ne aveva già scritto invarie opere, prodotte negli “anni caldi” dell’età delle riforme, come, ad esempio, “Orazione Panegirica sullagiurisprudenza milanese”,1763, e “ Mal di milza”, 1764 (delle quali si accennerà più avanti); “Discorso sull’indole del

 piacere e del dolore”, dove l’Autore si sofferma ad illustrare gli affetti devastanti che la tortura ha sulla psiche umana:una osservazione di sconvolgente attualità, se si pensa alle moderne pratiche torturatorie della deprivazione sensoriale pre-elettroshock (racconta Naomi Klein, nel suo “Shock economy”, che il dottor Ewen Cameron, finanziato dalla CIAfino al 1961 per condurre delle ricerche sul “lavaggio del cervello” tramite deprivazione sensoriale ed elettroshock  [...],in un discorso tenuto in Texas alla base dell’area di Brooks, [...] ammise che la deprivazione sensoriale «produce isintomi primari della schizofrenia»: allucinazioni, forte ansia, perdita di contatto con la realtà”; quasi allo stesso modoVerri, paragonando l’uomo ad una molla, che “stassene immobile sin tanto che non venga compressa”, spiega come“l'uomo privo di sensazioni rimane parimenti immobile; comprimilo, addoloralo, ei si rannicchia in sé stesso e simove”); “ Meditazioni sulla felicità” (1767, in appendice ad una edizione del “ Dei delitti e delle pene” del Beccaria), nelquale l’Autore muove alcuni inviti al legislatore perchè, con il suo operato, porti la società al conseguimento dellafelicità.20Pietro Verri, improvvisandosi, ironicamente, nell’ Orazione Panegirica del 1763 un sostenitore della tortura, nonchèun avversore dell’utilitarismo, al quale lui certamente apparteneva, scrisse: “E qui rispondami l’avversario se perchè la

tortura non è necessaria crede che sia buona logica il dire ch’ella non deve usarsi? [...] Che la persona dell’accusatoredebba essere divisa da quella dell’accusato non lo neghiamo; ma si ricordi l’avversario che sono appunto nelmicrocosmo dell’uomo due persone morali la parte inferiore e la parte superiore [...] onde non vi può essere assurdose nell’uomo medesimo risiedano l’accusatore e l’accusato”.21L’argomentazione è del tutto simile a quella riportata da Verri in “Orazione Panegirica sulla giurisprudenzamilanese” (seppur sempre nella prospettiva di un finto sostenitore dell’inquisizione), dove si legge: “gli uomini veridicihanno l’osso dell’omero meno aderente alla cavità, onde ha campo farsi la verità di farsi strada e rimontare allalingua; ma gli uomini che non sono veridici hanno bisogno che si distragga l’osso dell’omero, onde esli la verità, e  perciò s’è inventata la tortura della corda chiamata a ragione Regina Tormentorum” (riguardo alla “ReginaTormentorum”, il riferimento è ad un celebre indovinello che lo stesso Verri, in “  Mal di Milza”, ricorda, ossia lo“indovinello della tortura della corda”: vd. nota successiva). In tempi recenti è stato acutamente osservato che “ci vuol  poco ad immaginare cosa avverrebbe [e, per quanto ci riguarda, cosa è avvenuto; ndr ] se quale premessa delladecisione pretendessimo niente di meno che la verità: un’ossessione del genere conduce alla tortura”; “di solito l’uomo

arriva a questo punto quando ha negli occhi un fine così grande che la libertà e la dignità di questo o quell’uomo, a paragone di esso, sono cose trascurabili: ammessa come posta la salvezza dell’anima o la felicità futura del genereumano, si giustifica tutto” (Cordero, 1983). Nel caso della tortura medioevale abbiamo già rilevato come il fine fossequello, del tutto illusorio, della “pubblica sicurezza” (vd. nota 5).

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deboli innocenti22. Ecco i fatali inconvenienti di questo preteso criterio di verità, ma criteriodegno di un cannibale, che i Romani, barbari anch'essi per piú d'un titolo, riserbavano aisoli schiavi, vittime di una feroce e troppo lodata virtú. Qual è il fine politico delle pene? Ilterrore degli altri uomini.[...]Un altro ridicolo motivo della tortura è la purgazione dell'infamia, cioè un uomogiudicato infame dalle leggi deve confermare la sua deposizione collo slogamento delle sueossa. Quest'abuso non dovrebbe esser tollerato nel decimottavo secolo.[...]Il terzo motivo è la tortura che si dà ai supposti rei quando nel loro esame cadono incontradizione, quasi che il timore della pena, l'incertezza del giudizio, l'apparato e lamaestà del giudice, l'ignoranza, comune a quasi tutti gli scellerati e agl'innocenti, nondebbano probabilmente far cadere in contradizione e l'innocente che teme e il reo che cercadi coprirsi; quasi che le contradizioni, comuni agli uomini quando sono tranquilli, nondebbano moltiplicarsi nella turbazione dell'animo tutto assorbito nel pensiero di salvarsidall'imminente pericolo.

 La legge che comanda la tortura è una legge che dice: «Uomini, resistete al dolore, e se la 

natura ha creato in voi uno inestinguibile amor proprio, se vi ha dato un inalienabile 

diritto alla vostra difesa, io creo in voi un affetto tutto contrario, cioè un eroico odio di 

voi stessi, e vi comando di accusare voi medesimi, dicendo la verità anche fra gli 

strappamenti dei muscoli e gli slogamenti delle ossa »23.È indubbio che la tortura, a suo tempo assorbita dal processo romano-canonico, rappresentiun lascito del precedente sistema di prove ordalico “che sciaguratamente non fu colpitodalle condanne ecclesiastiche contro le ordalie” (Ascheri, 2007)24; enfaticamente il Verriscrisse (nella Orazione Panegirica del 1763): “Oh gran Senato che non giudica come iSenati, bensì come Dio, Senatus iudicat tamquam Deus, cioè tamquam Deus non dando mai

ragione delle proprie sentenze; poichè, se desse ragione, gliene resterebbe tanto meno per lui, e non è mai soverchia la ragione in un Tribunale di Giustizia; iudicat tamquam Deus ad imitazione dei giudizii di Dio col fuoco, coll’acqua, col duello, e coi dadi, i quali comec’insegnano le storie chiamavansi pure Judicia Dei”. Sempre il Verri, nel delineare “Comesiasi introdotto l'uso di torturare ne' processi criminali”, in un passo molto intenso, se nonil più espressivo, delle “Osservazioni”, scrisse:“Forse la metodica introduzione de' tormenti accaduta dopo il secolo XI trae la sua originedallo stesso principio, che fece instituire i «Giudizj di Dio»; quando cioè si volle interporrecon una spensierata temerità il giudizio dell'eterno motore dell'universo nelle più frivoleumane questioni25; quando col portare un ferro arroventato in mano, ovvero con immergere

22 Praticamente le stesso parole sono usate nell’indovinello della tortura della corda: “ Io sono una regina ed abito fra glisgherri, purgo chi è macchiato e macchio chi non è macchiato, son creduta necessaria per conoscere la verità, e non sicrede a quello, che si dice per opera mia. I robusti trovano in me salute, e i deboli trovano in me la rovina. Le nazionicolte non si sono servite di me, il mio impero è nato nei tempi delle tenebre, il mio dominio non è fondato su le leggi,ma sulle opinioni d'alcuni privati” (Verri, 1764).23 Beccaria, 198124vd. anche Cordero (op. cit.) che rileva come, da un certo punto di vista, “ le ordalie delle tribù germaniche sono menolontane dalla nostra sensibilità di certi istituti del processo inquisitorio”, poichè, mentre “di assurdo, nelle ordalie,c’era la convinzione che servissero a provocare una decisione giusta, ma non escludevano la possibilità, per quantotenue, di una salvezza”, al contrario “l’inquisizione evoca l’idea di un imputato inerme e dissezionato scientificamente”.25 Sarebbe un errore pensare che la pratiche torturatorie, sia la tortura intesa come “tortura-mezzo” quanto come“tortura-fine” (su questa distinzione vd. par. 5.5), siano incompatibili con le scritture cristiane, rivelatesi in più

occasioni decisamente elastiche ad interpretarsi; ad esempio, nel libro dell’Esodo, 7,14 – 12,30, il Signore fa riferire daMosè al Faraone: “il Signore Iddio degli ebrei mi ha mandato da te per ordinarti: lascia andare il mio popolo, perchèmi serva nel deserto; ma fino ad ora tu non mi hai obbedito. Così dice il Signore: Da questo conoscerai che io sono ilSignore: ecco, io, con questa verga che ho in mano, percuoterò le acque del Nilo ed esse si cambieranno in sangue”.

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il braccio nell'acqua bollente, e talvolta coll' attraversare le cataste di legna ardenti, sidecideva o l'innocenza o la colpa dell'accusato. In quella barbarie dei tempi si credette chel'Essere eterno non avrebbe sofferto che l'innocenza restasse oppressa, e che anzi l'avrebbesottratta al dolore e ad ogni danno; quasi che per le piccole nostre questioni dovesse Diosconvolgere le leggi fisiche da lui medesimo create, ad ogni nostra richiesta. Scemata poicol tempo la grossolana ignoranza, sentirono i popoli la irragionevolezza di tali forme digiudizio: e quelle del ferro, dell'acqua bollente e del fuoco ferendo gli sguardi dellamoltitudine, perché fatte con solennità in pubblico e precedute dalle più auguste cerimonie,dovettero cedere e annientarsi a misura che progredì la ragione; laddove esercitandosi letorture nel nascondiglio del carcere senz'altri testimonj che il giudice, gli sgherri el'infelice, non trovarono ostacolo al perpetuarsi, essendo per lo più incallita la naturalecompassione in chi per mestiero presiede a quelle metodiche atrocità, deboli i lamenti diquei che ne hanno sopportato l'orrore, e rari gli uomini, i quali riunendo le cognizioniall'amore dell'umanità, abbiano avuto la costanza di esaminare un sì lugubre oggetto collalettura de' più rozzi e duri scrittori di tal materia, e la forza di resistere al ribrezzo che

 porterebbe a lasciar cadere più volte la penna dalle mani”.Anche Beccaria rilevò: “Questo infame crociuolo della verità è un monumento ancoraesistente dell'antica e selvaggia legislazione, quando erano chiamati giudizi di Dio le provedel fuoco e dell'acqua bollente e l'incerta sorte dell'armi, quasi che gli anelli dell'eternacatena, che è nel seno della prima cagione, dovessero ad ogni momento essere disordinati esconnessi per li frivoli stabilimenti umani. La sola differenza che passa fralla tortura e le

  prove del fuoco e dell'acqua bollente, è che l'esito della prima sembra dipendere dallavolontà del reo, e delle seconde da un fatto puramente fisico ed estrinseco: ma questadifferenza è solo apparente e non reale. È cosí poco libero il dire la verità fra gli spasimi egli strazi, quanto lo era allora l'impedire senza frode gli effetti del fuoco e dell'acquabollente”26.Quella di Beccaria, come è stato rilevato, “non è l’opera di un giurista, bensì quella di unosservatore acuto, di un uomo che aborre il sangue e la violenza, che tutto guarda sottol’angolo visuale del bene collettivo, della difesa della società” (Jemolo, 1981) e che tentò didimostrare le contraddizioni in cui cadevano i sostenitori della tortura (tra l’altro sostenendocon vigore, in questo, il princìpio della “innocenza presunta fino a prova contraria”); così

 possiamo leggere i seguenti ragionamenti:“O il delitto è certo o incerto; se certo, non gli conviene altra pena che la stabilita dalleleggi, ed inutili sono i tormenti, perché inutile è la confessione del reo; se è incerto, e' nondevesi tormentare un innocente, perché tale è secondo le leggi un uomo i di cui delitti nonsono provati.

Senonchè, alla reticenza del Faraone, Iddio reagì con altre nove piaghe, nel testo sempre annunciate dalla frase “Poi ilSignore ordinò di nuovo a Mosè: «Va’ da Faraone e digli: Così dice il Signore: Lascia partire il mio popolo perchè miserva. Se tu ricusi di lasciarlo andare, ecco, io percuoterò tutto il paese con [una invasione di rane; una piaga di zanzare; sciami di tafani; morte del bestiame d’Egitto; ulceri che si trasformeranno in pustole; grandine; cavallette;tenebre tali che si potranno toccare; morte di tutti i primogeniti]”; ebbene, a me pare che qui possa configurarsi, adinterpretazione mirata, come un esempio di tortura-mezzo per estorcere al Faraone il “nulla hosta” all’esodo del popoloebraico. D’altro canto, per ciò che riguarda la tortura-fine, occorre più in generale chiedersi se la Bibbia ammetta l’usodelle “pene”; in questo senso la risposta è senz’altro positiva: basti pensare al notissimo passo del Deuteronomio, 19,21

(“  Il tuo occhio non avrà compassione: vita per vita, occhio per occhio, dente per dente, mano per mano, piede per  piede”) oppure al Codice dell’ Alleanza (Esodo, 21, 12, “chi percuote un uomo da farlo morire, sia messo a morte”)[grassetto mio, ndr ].26Beccaria, op. cit.

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[...]Una strana conseguenza che necessariamente deriva dall'uso della tortura è chel'innocente è posto in peggiore condizione che il reo; perché, se ambidue sieno applicati altormento, il primo ha tutte le combinazioni contrarie, perché o confessa il delitto, ed ècondannato, o è dichiarato innocente, ed ha sofferto una pena indebita; ma il reo ha uncaso favorevole per sé, cioè quando, resistendo alla tortura con fermezza, deve essereassoluto come innocente; ha cambiato una pena maggiore in una minore. Dunquel'innocente non può che perdere e il colpevole può guadagnare”27.Per quanto riguarda il Verri, l’avversione verso il sistema gli era stata infusa direttamentedalla sua personale storia: figlio di un noto giurista e senatore, crebbe nel disgusto per lacasta potente alla quale il padre apparteneva (poichè, egli scrisse, “tutto è in mano aidottori”28) che esercitava in maniera eccessiva il proprio potere discrezionale nel giudicare;altresì, il disgusto per il padre si tradusse in una decisa ostilità alla fortuna dellacodificazione giustinianea (tant’è che si arriva persino a definire Giustiniano “un imbecille

 prìncipe greco”, come è stato rilevato29).Le richieste del “Il Caffè” non rimasero inascoltate, grazie anche alla fama di cui godette(ed ancora gode) il saggio del Beccarìa, che pure non era stato l’unico ad auspicarel’abolizione della tortura giudiziaria (cfr. soprattutto a Joseph von Sonnenfels30, assieme adaltri autorevoli autori di provenienza viennese, negli anni ’60 del XVIII sec.). Già, nel 1738,Carlo III di Borbone ne aveva ristretto l’applicazione e, nel 1749, Federico II di Prussia laaveva abolita del tutto; “ Ma fu la comparsa del libro di Beccaria che diede il segnale dellaguerra generale contro codesta assurda barbarie”31: con un decreto il 2 gennaio 1776Maria Teresa d’Austria32 aboliva nei suoi domini la tortura giudiziaria (collocandosi, tral’altro, quel decreto in un complessivo quanto radicale sistema di riforma del sistema

 processuale). Nell’aprile successivo, tuttavia, il Senato milanese respinse, con una consulta

27Beccaria, op. cit; argomentazioni identiche vennero mosse da Verri nelle “Osservazioni”: Quale è il sentimento chenasce nell'uomo allorquando soffre un dolore? Questo sentimento è il desiderio che il dolore cessi. Più sarà violento lostrazio, tanto più sarà violento il desiderio e l'impazienza di essere al fine. Quale è il mezzo, col quale un uomotorturato può accelerare il termine dello spasimo? Coll'asserirsi reo del delitto su di cui viene ricercato. Ma è egli laverità che il torturato abbia commesso il delitto? Se la verità è nota, inutilmente lo tormentiamo; se la verità è dubbia, forse il torturato è innocente: e il torturato innocente è spinto egualrnente come il reo ad accusare se stesso del delitto. Dunque i tormenti non sono un mezzo per iscoprire la verità, ma bensì un mezzo che spinge l'uomo ad accusarsi reo diun delitto, lo abbia egli, ovvero non lo abbia commesso. Questo ragionamento non ha cosa alcuna che gli manchi per essere una perfetta dimostrazione [...]. Un assassino di strada avvezzo a una vita dura e selvaggia, robusto di corpo eincallito agli orrori resta sospeso alla torura, e con animo deciso sempre rivolge in mente l'estremo supplizio che si procura cedendo al dolore attuale; riflette che la sofferenza di quello spasimo gli procurerà la vita, e che cedendoall'impazienza va ad un patibolo; dotato di vigorosi muscoli, tace e delude la tortura. Un povero cittadino avvezzo a

una vita più molle, che non si è addomesticato agli orrori, per un sospetto viene posto alla tortura; la fibra sensibiletutta si scuote, un fremito violentissimo lo invade al semplice apparecchio: si eviti il male imminente, questo pesainsopportabilmente, e si protragga il male a distanza maggiore; questo è quello che gli suggerisce l'angoscia estremain cui si trova avvolto, e si accusa di un non commesso delitto. Tali sono e debbono essere gli effetti dello spasimosopra i due diversi uomini. Pare con ciò concludentemente dimostrato, che la tortura non è un mezzo per iscoprire laverità, ma è un invito ad accusarsi reo egualmente il reo che l'innocente; onde è un mezzo per confondere la verità, nonmai per iscoprirla”; vd. anche, come già rilevato (vd. note: 21; 22), Verri, 1764 (“ I robusti trovano in me salute, e ideboli trovano in me la rovina”) e lo stesso Beccaria. 28Verri, 176329Cfr. Tarello, 1976 e, più recentemente, Padoa Schioppa, op. cit.30 cfr. J. Von Sonnenfels, 1775, inizialmente proibito, poi adottato come base della riforma penale in Austria; fu tradottoin Italia nel 1776 dall’abate Carlo Amoretti per l’editore Galeazzi. Sonnenfels può considerarsi il maggiorerappresentante dell’ Illuminismo Austriaco.31 Pertile, 190032Arciduchessa regnante d'Austria; regina regnante di Ungheria, Boemia, Croazia e Slavonia; duchessa regnante diParma e Piacenza, imperatrice consorte del Sacro Romano Impero in quanto moglie di Francesco I; nata nel 1717 – morta nel 1780; regnante a partire dal 1740.

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stesa proprio da Gabriele Verri, l’interpellanza circa l’opportunità di estendere il provvedimento alla Lombardia, continuando, talvolta, ad usarla.Ciò che fu iniziato da Maria Teresa fu per larga parte concluso dal successore (e figlio,concepito insieme a Francesco I di Lorena) Giuseppe II33, che impose l’abolizione definitivadella tortura anche in Lombardia ed il quale, tra l’altro, seguì, in un primo momento, allalettera certe proposte di riforma avanzate dal Verri in materia di Ferma generale; Nel 1788adottò un “codice” di procedura penale, capostipite dei moderni codici, nel quale,significativamente, era previsto che il silenzio o la simulazione dell’imputato fossero puniticon dei colpi di bastone, “eufemisticamente definiti «castighi», non torture” (PadoaSchioppa, op. cit.) e dove era dunque confermata l’abolizione della tortura giudiziaria(decisione, tra l’altro ulteriormente ribadita con decreto l’11 settembre 1789).Intanto il fratello di Giuseppe, Pietro Leopoldo34, con legge, nel 1786 promulgò un atto distorica importanza in quanto ridisegnava il sistema penale abrogando definitivamente lagran parte delle vecchie consuetudini di diritto comune e di diritto locale. Ebbene, assiemealla depenalizzazione dei reati di opinione e di religione ed alla rimodulazione del sistemadelle pene, figurano abolite la pena di morte e, ribadendo quanto già prodotto dalla madre,la tortura giudiziaria35.

33 Giuseppe Benedetto Augusto Giovanni Antonio Michele Adamo II d'Asburgo (Vienna, 13 marzo 1741 – Vienna, 20febbraio 1790) fu imperatore del Sacro Romano Impero e Duca di Milano, associato al trono con la madre Maria Teresadal 1765 e da solo dal 1780, alla morte di lei.34 Leopoldo II d'Asburgo-Lorena (Vienna, 5 maggio 1747 – Vienna, 1º marzo 1792) fu Granduca di Toscana (con ilnome di Pietro Leopoldo) dal 1765 al 1790 e imperatore del Sacro Romano Impero e re d'Italia dal 1790 al 1792.35 “ Art. 33: Confermiamo l’abolizione della tortura. Già da più tempo messa in disuso nei tribunali del granducato, noneccettuatone verun caso”.

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3. Le circostanze degli untori malefici nell’età dei comuni 

Prima di addentrarci, finalmente, nel merito del saggio di Verri che è oggetto della nostraanalisi, si ritiene necessario soffermarsi, brevemente, sulle circostanze storiche cuiassistettero i protagonisti della storia della “Colonna Infame”, poichè altrimentirisulterebbero assai difficilmente comprensibili i fatti di quel tempo narrati dapprima daPietro Verri (ed, infine, da Alessandro Manzoni). Lo stesso Autore dedica il primo capitolodel suo saggio ad illustrare la “  Idea della pestilenza che devastò Milano”, nonchè ampie

  parti dell’opera a riportare stralci di interrogatori “acciocchè poi si possa concepire unaidea precisa e originale del modo di pensare, in quel tempo” (Verri, “Osservazioni”).Per quanto riguarda il contesto storico, occorre guardare indietro di cent’anni rispetto allecircostanze, sopra esposte, dell’età delle riforme: nell’età del diritto comune non vi è ancorastato l’avvento dello Stato moderno. Le fonti sono le stesse, ancora più “aggrovigliate” inquanto non vi è stato nemmeno il tentativo accentratore delle monarchie assolute: diritti

  particolari, diritti locali, diritti universali. Ad ogni amministrazione corrisponde unagiurisdizione (poichè, in assenza del princìpio della divisione dei poteri, amministrare vuoldire anche individuare e dettare le regole e farle applicare, non solo eseguirle); legiurisdizioni, stando al testo di Bartolo36, possono grossomodo ripartirsi in tre categorie:

 piene, limitate, assenti (nel senso che in taluni, marginali, casi il potere di amministrazioneera un potere subordinato e, di conseguenza, simil fatta assumeva anche la sua “faccia”giurisdizionale); ad ogni giurisdizione corrispondeva un eguale potere legislativo (che, nelcaso delle giurisdizioni “assenti” poteva essere esercitato solo previa autorizzazione di unsuperiore)37. L’evo in esame si fa iniziare con il XII secolo, che, come è stato rilevato,rappresentò un momento di svolta: riforma della Chiesa e degli ordini monastici, rinascitadelle città, nuova scienza del diritto e nascita delle Università, affermazione di monarchiestrutturalmente solide (nell’Italia meridionale, in Francia ed in Inghilterra).La quasi totale commistione tra Chiesa e Stato, potere secolare e potere temporale, che simanifestava in una superiorità del potere spirituale su quello secolare (dovuta in larga partealle novità volute della c.d. “riforma gregoriana”, avvenuta tra il 1046 ed il 1122), unita alla

  preponderante ignoranza della popolazione (nella quale, come vedremo, tanto il Verriquanto Beccaria individuano la scaturigine prima delle deformazioni del processoinquisitorio), vedeva abitare il mondo di quel tempo da un peculiare sentire comune, cheoggi verrebbe definito “bigotto”, il quale, diversamente, ai tempi, non poteva che essereconsiderato in altro modo se non come giusto e devoto; in ogni caso l’unico possibile a

livello di massa, dal momento che, grazie a strumenti come la ritualità ed il “terrorismo  psicologico”, come verrebbe definito dai contemporanei studiosi della umana psiche,unitamente alla mancanza di alfabetizzazione, di libera circolazione del pensiero, diistruzione ad ogni livello, le alte gerarchie facevano sì che il popolo vivesse nella costante

  paura della “Dies Irae”, nell’odio per gli “eretici” e nella costante preoccupazione della propria redenzione. Ciò che, del medioevo, è rimasto nell’immaginario collettivo, insomma,non è tanto lontano dalla realtà che fu. Lo stesso Verri narra, in “Osservazioni sulla tortura”che “nel 1630 quasi tutta l’Europa era involta in queste tenebre superstiziose”. Non c’è da

36 Cfr. Bartolo, 159037 sul punto vd., per tutti, Padoa Schioppa, 2008

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stupirsi che la lotta alle eresie ed agli altri crimini e “grandi crimini”38, condotta inqualunque modo, sembrasse cosa normale.

  Non di rado, viste le scarse conoscenze mediche e condizioni igieniche, si diffondevanoterribili pestilenze, alle quali il popolo, non potendosela prendere nè con se stesso, nè conl’autorità (perchè voluta da Dio), nè con Dio stesso, cercava sovente un “capro espiatorio”che, in quella certa concezione della società, assumeva inevitabilmente il titolo di eretico odi criminale, se non di “infame”, e come tale processato, andando così incontro alle deliziedi cui si componeva, quasi sempre, il processo inquisitorio romano–barbarico (tra le qualiuna posizione regina aveva, senz’altro, la tortura). Talvolta, ed è il caso della “ColonnaInfame”, si ritenne che la peste fosse dilagata a partire da alcuni uomini di cattiveria cheavrebbero sparso unguenti pestilenziali in ogni dove, allo scopo di infettare il mondo di

  pestilenza. Sia il Verri che il Ripamonti si prodigarono a citare altri casi di celebri pestilenze del passato con cui confrontare quella di Milano del 1630: il primo allo scopo diraccogliere altri episodi simili attribuiti a cause “poco scientifiche” e superstiziose39,volendo dimostrare che “nè disastri pubblici la umana debolezza inclina sempre asospettarne cagioni stravaganti anzi che crederle effetti del corso naturale delle leggi

 fisiche. [...] Simili opinioni quanto sono più stravaganti, tanto più trovano credenza, perchèappunto d’uno stravagante effetto se ne crede stravagante la cagione, e più si gode neltrovarne l’origine della malizia dell’uomo, che si può contenere, anzi che nella implacabile

  fisica, che si sottrae alle umane instituzioni. [...] Fra tali delirj si perdevano i cittadinianche più distinti e gli stessi magistrati” 40; il secondo per metterne in rilievo la dinamiche,

 più catastrofiche, a sua opinione, delle precedenti41.

38 “Eresia, lesa maestà, simonia, falso, tradimento, truffa, veneficio, sortilegio, assassinio, omicidio di principe o di

 persona sacra, privato carcere ed altri dei più gravi” erano i “grandi crimini”, rispetto ai quali neppure a coloro che“ per interpretazione delle norme romane o per ispecial privilegio non potea darsi la tortura, o non la si poteva dare senon con limiti e condizioni” era dato di sfuggire alla tortura; quanto a questi privilegiati, si trattava per lo più di: “ idottori [membri degli organi giudiziari; ndr]; le persone costituite in dignità, come i feudatari, i vescovi e simili; isoldati delle milizie nazionali; i nobili, secondo il costume di certi luoghi; i minori di quattordici anni, pei qualidovrebbe dirsi piuttosto che si sostituiva un’altra maniera di tortura, battendoli colle verghe; i decrepiti, cioè, comeriteneasi comunemente, quelli che avevano più di 70 anni, talvolta anche i sessagenari; le donne incinte e le puerpere,in qualche luogo eziandio le lattanti” (anche se, al riguardo, nel trattato del Tabor, viene eccepito che “anche a unadonna anche che allatti si può benissimo dar la tortura, purché non accada diminuzione di alimenti al bambino: Etiammulieri lactanti torturam aliquando fuisse indictam, cum ea moderatione ne infanti in alimentis aliquid decedat, quamdeclarationem facile admitto [Accetto senza fatica che la tortura sia stata talvolta inflitta anche ad una donna cheallattava il bambino, con quella moderazione che evitasse al bambino venisse a mancare il nutrimento]; ndr). V’ha poiesempio di città i cui cittadini aveano ottenuto privilegio di non poter essere torturati [i cittadini di Palermo erano

esenti dalla tortura, semprechè non fossero infami per altri delitti precedenti; nda]; altre, come Napoli, avevanosoltanto il favore che i loro abitanti non venissero posti alla tortura sopra il solo processo informativo, vale a diresenza essere prima stati ammessi a difendersi” (Pertile, 1900).39 Il Verri riporta il caso della pestilenza di Roma del 423 a.C. (che, come ha precisato Carnazzi – lo rileva Contarini innota 33 a Verri, 2006 – in realtà fa riferimento ad un episodio accaduto nel 330 a.C.), narrata da Livio (“  Ab urbecondita”, Lib. VIII, cap. XII, Dec. I”, il quale, tuttavia, si esprime in forma dubitativa: “ illud pervelim [...] proditum falso esse”...), nella quale la causa del male fu attribuita “a veleni apprestati da una troppo inverosimile congiura dimatrone romane”; inoltre l’Autore (così come anche il Ripamonti) ricorda alcuni episodi accaduti a Milano nel 1630 da  parte di alcune persone che non credevano che la pestilenza fosse stata causata dagli untori: in uno si avventaronocontro un medico poichè pensavano che il bacillo della peste fosse nascosto nella sua barba ed egli la stesse spargendo per suo guadagno personale; in un altro si riteneva che la pestilenza fosse stata causata da una cometa; altri riportavanodi aver visto uno spirito infernale su un cocchio nella Piazza del Duomo.40 Verri, “Osservazioni”41 Cfr. Ripamonti, 1640, nella quale, al Libro V dell’opera, mette a raffronto la pestilenza milanese del 1630,nell’ordine: con “l’antichissima pestilenza d’Atene descritta da Tucidide”; con quella “scoppiata a Fiesole, PratoVolterra ed in altri luoghi di minor conto” nel XIV sec., di cui, tra gli altri, narrò “ Boccaccio, principe elegantissimode’ toscani scrittori”; con quella di Milano del 1576. 

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Il Pertile42 dedica pagine molto intense alla materia, in particolar modo al poterediscrezionale dei giudici, di cui qui sembra d’uopo riportarne un significativo estratto:“Giudici, ora spinti da falso zelo, ora crudeli, mettevano alla tortura anche pei delitti chen’erano eccettuati; ricominciavano da capo a torturare quelli che avevano già sostenutal’intera prova senza che fossero sopravvenuti nuovi indizi; e poi esageravano i tormenti,aggravandoli, ripetendoli e protraendoli oltre il permesso, onde laceravano le carni agliinquisiti, li lasciavano paralizzati e impotenti per sempre di questa o quella parte del corpo,se non facevano perdere loro addirittura le membra od anche la vita. Nel che eccedevanoogni misura principalmente allorquando torturavasi uno già condannato a morte, affined’averne la confessione d’altri delitti o dei complici, nel qual caso dicevano poterlotormentare tanquam cadaver. È bensì vero che e i giureconsulti e le leggi li facevanoresponsabili di tali eccessi, comminando pei medesimi nei casi più gravi niente meno che

 pena di morte, e negli altri pecuniaria. Ma i giudici sapevano facilmente eludere la legge eapparire innocenti. Di più, le leggi stesse, dettate bene spesso per odio di parte,

  permettevano di procedere alla tortura della parte avversaria senza gl’indizi voluti daldelitto, o almeno sul semplice fallacissimo indizio della pubblica voce. E non solamentes’era introdotto il costume di decretar la tortura senza comunicare al reo il processo edargli tempo e modo di difendersi, ma persino senza tampoco interrogarlo, esordendo adirittura il procedimento dai tormenti, e senza lasciargli la possibilità d’appellare contro ildecreto che li infliggeva, come avrebbe avuto diritto di fare. [...]I trattatisti ritenevano che,almeno nei delitti più gravi ed eccettuati, fosse indizio sufficiente per porre taluno altormento l’essere stato nominato quale complice da un tormentato [...]. Ancora, venivanotorturati i danneggiati che accusavano l’autore del danno per convalidare la lorodeposizione [...] nonchè quelli che avessero denunziato un complice fuori della tortura, al

  fine di confermare la loro dichiarazione fra i tormenti, onde purgarla, come dicevano,dall’infamia43. [...] Finalmente, come si disse già sopra, adoperavasi la tortura anche suitestimoni per costringerli a deporre e per risolvere le contradizioni che s’incontrasseronelle loro testimonianze”.Incuranza per l’attendibilità delle accuse, alcune mosse da “pubblica voce” ed altre da“tormentati”, riduzione ai minimi termini del momento probatorio, segretezza del processo(insieme, aggiungiamo noi, all’elemento della scrittura), amplissima discrezionalità del

 potere dei giudici, reiterazione della tortura ed abuso di questa, sono gli stessi elementi tipicidella tortura processuale che, assieme al leitmotiv della pestilenza, si ritrovano nel fattodella “Colonna Infame”, raccontato dal Verri, che per questo assurge, come già rilevato, acaso esemplare; attorno a queste circostanze il Verri mosse le sue riflessioni sul problemadella tortura o, meglio, sul problema di una società che ne legittimi l’uso in sede

  processuale. Riflessioni, tra l’altro, del tutto nuove nel panorama illuministico, ancherispetto alle precedenti che, lo stesso Verri, aveva prodotto sulla materia: la grande novitàdelle “Osservazioni” fu nel voler trattare la materia dal punto di vista della compassione,ritenendo questa un sentire razionale dell’uomo, mettendo sotto agli occhi del lettore leatrocità che venivano compiute dagli inquisitori, senza ricorrere a ragionamenti dottrinali(obiettivo, quest’ultimo, in parte disatteso nella parte conclusiva dell’opera); a me non parescorretto dire che questa, del Verri, fu l’opera meno “illuministica” e più “illuminata”.

42 Pertile, op. cit., al quale si rimanda per una trattazione completa del problema (pp. 430 – 451) nella quale, tra l’altro,

ampio spazio è dedicato al processo degli untori del 1630.43 “Una Pr. sic. 1773, «de questionis tormento», V. 5. 3, dichiarava che a quest’uopo si deve il giorno dopo legare alla fune e mettere in aria a tocca e non tocca, ed ivi leggergli la sua dichiarazione, domandandogli se vuole ratificarla, eintesa la di lui risposta, avuto prima il di lui giuramento, si farà all’istante abbassare”, nda. 

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Riguardo alla “ pestilenza che devastò Milano l’anno 1630”, la fonte principale del Verri ful’opera del Ripamonti44, seppure “filtrata” dall’occhio critico dell’Autore che, comeabbiamo rilevato, riteneva che il " De peste” fosse l’opera di un cronista inesatto – non atorto per la verità: un più recente studio45 dimostra che il numero delle vittime mietute dalla

 pestilenza milanese del 1630, come riportato dal Ripamonti (“giusta la comune congettura,si calcolò morissero 140,000 persone”46   – “due terze parti de’ cittadini”47  , ribadì il Verri – su una popolazione che doveva essere intorno alle 150.000 anime; inoltre i morti nelLazzaretto, secondo Ripamonti, salirono fino a 1700-1800 per giorno), è del tuttosproporzionato ed esagerato rispetto alla realtà che fu (più correttamente i “registri dellaSanità” riportano che i morti furono 86.000 ed i sopravvissuti 64.000).In poche parole, la premessa alla vicenda della “Colonna Infame”, come raccontata dalVerri, è press’a poco questa: il Re Filippo IV (re di Spagna dal 1621 al 1665) invia undispaccio al governatore di Milano appena insediatosi (don Ambrogio Spinola Doria, chegovernò dal 29 agosto 1629 fino al 1630, quando morì); in tale dispaccio, si dava notizia cheerano fuggiti da Madrid quattro “untori pestilenziali”, senza che si sapessse quale direzionequesti avessero preso e, dunque, si invitava a prestare attenzione anche nel Milanese. Lanovità portò disordine nella città, giacchè “rara cosa assai era in que’ tempi la venuta di undispaccio, ed era questo un avvenimento che occupava tutta la Città, poichè non si partivadalla Corte un reale rescritto se non per gravissime cagioni. [...] Si sparse adunquel’opinione e il sospetto generalmente di queste malefiche unzioni”. taluni, inizialmente,credettero che, in realtà, la “vociferata pestilenza” fosse una “artificiosa invenzione de’medici per acquistar lucro”; poichè, tuttavia, la pestilenza, in effetti, si presentò e simoltiplicò giorno per giorno, dopo l’ultimo tentativo di un corteo di preghiera per appellarsialla grazia di San Carlo (il qual corteo, commenta il Verri, non servì null’altro che a portareamplificazione al dilagare del morbo), iniziò la “caccia agli untori”: “il popolo si rivolse ad ogni eccesso di demenza.[...] ogni macchia che apparisse sulle pareti era un corpo deldelitto, ogni uomo che inavedutamente stendesse la mano a toccarle era a furore di popolostrascinato alle carceri, quando non fosse massacrato dalla stessa ferocia volgare48”.Furono incriminati, racconta il Ripamonti e riporta il Verri, dapprima un turista franceseche, esaminando la facciata del Duomo, toccò il marmo; da poi un vecchio ottuagenario che,

 prima di sedersi su di una panca della Chiesa di Sant’Antonio, spolverò quella col mantello.Infine, fu la volta del Commissario della Sanità Guglielmo Piazza e del barbitonsóre GianGiacomo Mora, loro malgrado protagonisti del racconto del Verri.

44 Cfr. Ripamonti, 164045 Cusani, 1841; vd. http://www.classicitaliani.it/ripamonti/Ripamonti_peste_04b.htm46 Ripamonti, op. cit.47 Verri, “Osservazioni”48 Verri, “Osservazioni”

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4. La Storia del processo ai due untori e della Colonna Infame49

 

La c.d. “Storia della Colonna Infame” (o “caso degli untori milanesi del 1630” ) comincia lamattina del 21 giugno 1630, alle ore 8.00 di una piovosa giornata qualunque del periodosopra descritto; Guglielmo Piazza, Commissario della Sanità Milanese, passeggiava,secondo la ricostruzione del Carnazzi, nella “contrada nei pressi della basilica di San

 Lorenzo” 50, più precisamente nella via attualmente intitolata a Gian Giacomo Mora (che aitempi del Verri era la “Vedra de’ Cittadini”), strusciandosi al muro per ripararsi dall’acqua.Due donne che abitavano da quelle parti (Catterina Troccazzani Rosa e Ottavia PersiciBoni), affacciatesi, lo videro così camminare e lo credettero un malefico untore, operandosida subito a rendere partecipe della loro scoperta il vicinato. Il muro in questione fu subitoesaminato dai cittadini della zona, i quali, all’altezza della bottega di un barbiere, di nomeGian Giacomo Mora, vi trovarono, ad un braccio e mezzo da terra, del “grasso giallo”. “Sudi questa vociferazione il giorno seguente si portò il Capitano di Giustizia sul luogo,esaminò le due nominate donne, e quantunque nè esse dicessero di aver osservato che ilmuro sia rimasto sporco dove il Piazza pose le mani, nè i siti nè quali s’era osservato l’untogiallo corrispondessero ai luoghi toccati, nondimeno si decretò la prigionia delCommissario della Sanità Guglielmo Piazza”.Mentre si decretava su di lui, il Commissario Piazza, ignaro di tutto, si trovava, comed’uopo, nel palazzo della Presidenza della Sanità; lì lo prelevarono e lo portarono in

 prigione. Intanto si perquisiva l’abitazione dell’inquisito “e dal processo risulta che non visi trovarono né ampolle né vasi, né unti, né denaro, né cosa alcuna che desse sospettocontro di lui”. Ciònondimeno la “Verità” si era già formata nelle idee dei giudici, ed eraquella che vedeva il Piazza colpevole di malefiche unzioni pestilenziali, sicchè le risposteche il Commissario diede all’interrogatorio51 con gli Inquisitori risultarono, alle orecchie diquesti, come bugie ed inverosimiglianze; “su queste bugie e inverosimiglianze fu posto aitormenti”.In primo luogo il Piazza fu posto alla “Regina Torturorum” (la tortura della corda, comeveniva chiamata – vd. supra), “una lunghissima tortura nella quale si voleva che nominassei Deputati, egli esclamando sempre: «Ah signore ah San Carlo se lo sapessi lo direi» [....],insistendo il giudice a chiedergli «che si risolva ormai di dire la verità»”. Interrottasi latortura, “venne riferito al Senato l’esame fatto e il risultato dei tormenti dati aquell’infelice; decretò il Senato che il Presidente della Sanità e il Capitanto di Giustizia,[...]dovessero nuovamente tormentare il Piazza acri tortura cum ligatura canubis et 

interpollatis vicibus arbitrio, [...] abraso prius dicto Gulielmo et vestibus curiae induto, propinata etiam si ita videbitur praefatis Praesidi et Capitaneo potione ex purgante52”.

49 tutte le citazioni, in questo paragrafo, che non riportano indicazione di fonte, nè in nota nè in testo, vanno attribuite aVerri, “Osservazioni”50 Cfr. Carnazzi a cura di, in P. Verri, 199851 Il giudice pose, secondo il Verri, due domande a Guglielmo Piazza: se conoscesse qualcuno dei “ Deputati dellaParrocchia” (annota il Carnazzi, op. cit. “i gentiluomini nominati presso ogni parrocchia del Tribunale perchèverificassero l’esecuzione delle sue ordinanza”); se fosse venuto a conoscenza che qualcuno aveva maleficamente untole muraglie nel giorno addietro. Si trattava di domande di rito, per verificare preliminarmente la sincerità dell’inquisito.Ad entrambe le domande il Piazza rispose negativamente.52 Tradudzione. “con aspra tortura, con la legatura del canape, interrotta da momenti di pausa, a discrezione, [...]dopo che il detto Guglielmo sia stato rasato, e abbia indossato l’abito del tribunale, e gli sia stata somministrata – se

così sarà sembrato opportuno ai suddetti Presidente e Capitano – una pozione purgativa” (Contarini, 2006). “Ciò perchè in que’ tempi credevasi che o nè capelli e peli ovvero nel vestito e persino negl’intestini trangugiandolo potesseun amuleto o patto col demonio, onde rasandolo, spogliandolo e purgandolo, ne venisse disarmato ” (Verri,“Osservazioni”).

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In secondo luogo, dunque, il Piazza fu sottoposto a nuovi tormenti, nei quali continuava aresistere ed a sostenere di non aver fallato nel raccontare la verità. Finchè, alla fine, “eglirispose «che volete che vi dica?»”; in quel momento le difese del Commissario cedettero:“se gli avessero suggerito una immaginaria accusa, egli si sarebbe accusato; ma non

  poteva avere nemmeno la risorsa di inventare i nomi di persone che non conosceva. [...]  finalmente, dopo una tortura durante la quale si scrissero sei facciate di processo, [...]dopo un lunghissimo e crudelissimo martirio fu ricondotto in carcere”53.Dagli atti del processo risulta che gli Inquisitori promisero, prima di lasciare l’Inquisito nel

  buio delle carceri, che avrebbero lasciato il Piazza impunito se l’indomani avessepalesato delitto e complici; il giorno dopo il Commissario mostrò di voler accettare taleopportunità e gli fu accordata l’impunità a condizione, però, che esponesse “sinceramente” ifatti. “Ecco perciò che al terzo esame egli comparve, e accusandosi senza veruna tortura ominaccia d'avere unto le muraglie, pieno di attenzione per compiacere i suoi giudici,cominciò a dire che l'unguento gli era stato dato dal barbiere che abitava sull'angolo dellaVedra (ove attualmente sta la colonna infame) che questo unguento era giallo, e glienediede da tre once circa. Interrogato se col barbiere egli avesse amicizia, rispose: «È amico,signor sì, buon dì, buon anno, è amico, signor sì»”.“ Dice il Piazza, che allora che gli fece tal proposizione vi erano «tre o quattro persone, maio adesso non ho memoria chi fossero, però m'informerò da uno che era in mia compagniachiamato Matteo che fa il fruttarolo e che vende gambari in Carrobio, quale io manderò adimandare, che lui mi saprà dire chi erano quelli che erano con detto barbiere»”.La “Verità” era, dunque, finalmente emersa; tuttavia gli Inquisitori non eranocompletamente soddisfatti: in modo particolare si domandavano – e gli domandarono – come mai l’Inquisito non avesse confessato durante la prima tortura; la risposta del Piazzafu una ulteriore accusa al barbiere Mora: “rispose di attribuirlo a un'acqua che gli diede dabere il barbiere, la qual'acqua perché poi non operasse nel terzo esame, siccome aveva

 fatto ne' due primi, nessuno lo ricercò”.Fu così che si fece prigioniero il Gian Giacomo Mora il quale, pur essendogli giunta vocedella unzione e della Inquisitio mossa al Commissario della Sanità, si fece trovare, il giornomercoledì 26 giugno (dunque a distanza di cinque giorni dalla presunta unzione e di duedalla confessione di Guglielmo Piazza) nella sua casa (quella al posto del quale, come sivedrà, sorgerà la Colonna Infame) assieme alla mogli ed alle figlie. “ Nella miutissima visita

 fatta alla casa in presenza del Mora [...] nel cortile della sua piccola casetta vi si osservò«un fornello con dentro murata una caldaja di rame, nella quale si è trovato dentrodell'acqua torbida, in fondo della quale si è trovato una materia viscosa, gialla e bianca, laquale gettata al muro, fattane la prova, si attaccava». [...]Interrogato il Mora cosacontenesse quella caldaja, rispose nell'atto della visita: «L'è smoglio», cioè ranno54” olisciva; il Mora aggiunse di non saperne granchè al riguardo, dal momento che del bucato sene occupavano le donne. In effetti la signora Chiara Brivia, coniugata col Gian GiacomoMora, “confessò” di aver preparato lei quel ranno e d’averlo lasciato nella caldara. Tuttavia,questa apparve ai giudici come una inverosimiglianza, in virtù del fatto che non era nè

53 Sul punto il Verri rileva una antinomia tra fonti di cognizione: “ Il Ripamonti riferisce una crudelissima circostanza,ed è, che terminata la tortura del Piazza, i giudici ordinassero di ricondurlo in carcere colle ossa slogate, quale era,

senza rimetterle a luogo, e che l'orrore di continuare nello spasimo abbia allora cavato di bocca l'accusa a se stessodel Piazza; ma nel processo, che ho nelle mani, di ciò non vedo alcun vestigio”.54 Nel “Vocabolario Milanese – Italiano” (Cherubini, 1814), lo smoglio viene definito come “ l’acqua cenerata bollitache si versa di nuovo bollente sui panni” nell’ultima fase del lavaggio

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contraria nè a sostegno della tesi del Piazza. Insomma, “Questo ranno doveva essere ilcorpo del delitto”.Si cominciarono, allora, a cercare fanatiche lavandaie che potessero confermare che con losmoglio si potevano fare unzioni malefiche e che quello posseduto dal Mora non era unnormale smoglio; se ne trovarono a sufficienza (Margarita Arpizzanelli, GiacominaEndrioni): persino dei fisici (Achille Carcano, Giambattista Vertua, Vittore Bescapè)sostenne la tesi. Insomma, “il metodo, col quale si procedette allora, fu questo. Si supposedi certo che l'uomo in carcere [il Piazza, ndr ] fosse reo. Si torturò sintanto che fu forzato adire di essere reo. Si forzò a comporre un romanzo e nominare altri rei [il Mora (ed anchealtri, come vedremo), ndr ]; questi si catturarono, e sulla deposizione del primo si poseroalla tortura [sorte che, dunque, toccò anche al barbiere , ndr ]. Sostenevano l'innocenza loro;ma si leggeva ad essi quanto risultava dal precedente esame dell'accusatore, e si persistevaa tormentarli sin ché convenissero d'accordo”.Il Mora ed il Piazza furono portati a confronto ed il secondo non solum confermò la primaconfessione, sed etiam aggiunse anche i nomi di quelle “tre o quattro persone” di cui la

  prima volta non si era ricordato: Baldassarre Litta e Stefano Buzzi. Poichè, interrogatosingolarmente in seguito al confronto col Piazza, il Mora dichiarò di non conoscere nè ilBuzzi nè il Litta, fu torturato col canape, finchè non confessò di aver dato al Piazza «unvasetto pieno di brutto, cioè di sterco, acciò imbrattasse le muraglie, al commissario. [...]Era sterco umano, smojazzo55 , perché me lo dimandò lui, cioè il commissario per imbrattar le case, e di quella materia che esce dalla bocca dei morti» .Il giorno seguente il Mora fu portato di nuovo davanti ai giudici, per confermare laconfessione; ma egli si rifiutò, sostenendo che tutto ciò che aveva detto non era vero, bensìera stato detto solo a causa dei tormenti. Alla minaccia di una nuova tortura56, tuttavia,cedette e riconfermò la confessione del giorno addietro, arricchendola di nuovi particolari:“quel Piazza adunque «la prima volta che trattassimo insieme mi diede il vaso di quellamateria, e mi disse così: accomodatemi un vaso con questa materia, con la quale ungendo icatenacci e le muraglie si ammalerà della gente assai, e tutti due guadagneremo». [...]Come poi componeva il barbiere questo mortale unguento? Eccolo. «Si pigliava», proseguel'infelice Mora, «di tre cose, tanto per una; cioè un terzo della materia che mi dava ilcommissario, dello sterco umano un altro terzo, e del fondo dello smoglio un altro terzo; emischiavo ogni cosa ben bene, né vi entrava altro ingrediente, né bollitura»”.Con l’ultima confessione, tuttavia, il Mora mise indirettamente in difficoltà il Piazza, poichèquest’ultimo non aveva parlato di “bava degli appestati”: perciò le “ire” degli inquisitoriconversero nuovamente sul Commissario, ragion per cui decisero, assieme, di levarglil’impunità57. Ansioso di ricuperarla, il Piazza cominciò a fare altri nomi, e i “nuovi”accusati, sempre per la salvezza, ne fecero altri, etc. In breve, il processo agli untori sitrasformò in una vera e propria raccolta di anime ad opera degli Inquisitori, i quali agironoin forza di un “romanzo” inverosimile (come lo chiamava il Verri) di cui si erano convinti;

55 Si tratta di una “mistura di escrementi umani e ranno putrido cui si aggiunge, come viene detto dopo, bava di mortiappestati” (nota di Conticini in Verri, 2006)56 Il momento, nell’opera del Verri, viene non a caso segnalato da una frase in latino, “Tunc jussum fuit iterum duci ad locum tormentum”: una frase rituale la quale lasciava intendere che stava per cominciare un nuovo ciclo di torture,

giacchè, come avremo modo di vedere più in là, questa frase compare in continuazione nei verbali degli interrogatorisotto tortura avendo, una tale ossessiva ripetizione, un significato rituale ben preciso.57 In ogni caso, nel trattato del Bossi, si asserisce che pure “se un reo confessa invitato dal giudice con promessa checonfessandosi reo non gli accaderà male, la confessione è valida e la promessa del giudice non tiene”.

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molti morirono durante le torture58 e “si prodigò la tortura a molti innocenti; in somma tutto fu una vera scena di orrore”.La vicenda si concluse così: Gian Giacomo Mora, Guglielmo Piazza, GerolamoMigliavacca, Francesco Manzone, Catterina Rozzana e moltissimi alti, tutti condannati per lo stesso reato di unzione, “condotti su di un carro, tenagliati in piú parti, ebbero, strada

 facendo, tagliata la mano; poi rotte le ossa delle braccia e gambe, s'intralciarono vivi sulleruote e vi si lasciarono agonizzanti per ben sei ore, al termine delle quali furono per finedal carnefice scannati, indi bruciati e le ceneri gettate nel fiume” mentre gridavano alla loroinnocenza, e lo continuarono a fare fin a l’ultimo respiro.La casa del barbiere Mora fu distrutta; al suo posto venne eretta una Colonna a Marchiod’Infamia, la quale recava questa incisione59:

 HIC.UBI.HAEC.AREA.PATENS.EST SURGEBAT.OLIM.TONSTRINA

 JO.JACOBI.MORAE QUI.FACTA.CUM.GULIELMO.PLATEAPUB.SANIT.COMMISSARIOET.CUM.ALIIS.CONJURATIONE 

 DUM.PESTIS.ATROX.SAEVIRET  LAETIFERIS.UNGUENTIS.HUC.ET.ILLUC .ASPERSISPLURES.AD.DIRAM.MORTEM.COMPULI T 

 HOS.IGITUR.AMBOS.HOSTES.PATRIAE.J UDICATOSEXCELSO.IN.PLAUSTROCANDENTI.PRIUS.VELLIICATOS.FORCIPE ET.DEXTERA.MULCTATOS.MANU 

 ROTA.INFRINGI  ROTAQUE.INTEXTOS.POST.HORAS.SEX.J UGULARI COMBURI.DEINDE 

 AC.NE.QUID.TAM.SCELESTORUM.HOMI 

 NUM RELIQUI.SIT PUBLICATIS.BONISCINERES.IN.FLUMEN.PROJICI SENATUS.JUSSIT CUJUS.REI.MEMORIA.AETERNA.UT.SIT 

 HANC.DOMUM.SCELERIS.OFFICINAM SOLO.AEQUARI 

 AC.NUNQUAM.IMPOSTERUM.REFICI 

QUI DOV'È QUESTA PIAZZASORGEVA UN TEMPO LA BARBIERIA

 DI GIAN GIACOMO MORA IL QUALE CON GUGLIELMO PIAZZAPUBBLICO COMMISSARIO DI SANITÀE CON ALTRI FATTA UNA CONGIURA

  MENTRE LA PESTE INFIERIVA PIÙ  ATROCE SPARSI QUA E LÀ MORTIFERI UNGUENTI 

 MOLTI TRASSE A CRUDA MORTE ENTRAMBI ADUNQUE GIUDICATI 

 NEMICI DELLA PATRIASOPRA UN ALTO CARRO

  MARTORIATI PRIMA CON ROVENTE TANAGLIAE TRONCATA LA MANO DESTRASI FRANGESSERO COLLA RUOTAE ALLA RUOTA INTRECCIATI DOPO SEI ORE SCANNATI POSCIA ABBRUCIATI E PERCHÉ D'UOMINI COSÌ SCELLERATI 

 NULLA RESTI CONFISCATI GLI AVERI SI GETTASSERO LE CENERI NEL FIUME 

 IL SENATO MEDESIMO ORDINÒ A MEMORIA PERPETUA DI TALE REATOQUESTA CASA OFFICINA DEL DELITTO

 DI RADERE AL SUOLOE GIAMMAI RIALZARSI IN FUTURO

58 Polemicamente il Verri riportò come il Ripamonti sostenesse che la causa dei morti sotto tortura non fosse la “ ferociade’ giudici”, ossia dal Diavolo che li strangolava durante la tortura (“Constitit flagitii reos in tormentis a Daemone

 fuisse strangulatos”). Il Verri scrisse anche che il Ripamonti era sostenitore dell’operato dei giudici nel 1630 milanese,ma il Manzoni, molto tempo topo, dissentirà: “non mi pare che la sostenga”; questa non è l’unico esempio nel qualeManzoni scrisse contro il Verri: vd. nota 55.59 Nella colonna di destra è riportata una traduzione in italiano.

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ET.ERIGI.COLUMNAM QUAE.VOCETUR.INFAMISPROCUL.HINC.PROCUL.ERGO

 BONI.CIVES NE.VOS.INFELIX.INFAME.SOLUM COMACULET 

 MDCXXX.KAL.AUGUSTI  

ED ERIGERE UNA COLONNACHE SI APPELLI INFAME 

 LUNGI ADUNQUE LUNGI DA QUI  BUONI CITTADINI CHE VOI L'INFELICE INFAME SUOLO

 NON CONTAMINI  IL PRIMO D'AGOSTO MDCXXX. 

“Per tutto il passato secolo”, conclude il Verri, “si risentì in questo infelicissimo stato laenorme scossa di quella pestilenza. Le campagne mancarono di agricoltori; le arti e imestieri si annientarono; e fors'anche al giorno d'oggi abbiamo de' terreni incolti, che

  prima di quell'esterminio fruttavano a coltura. Si avvilì il restante del popolo nelladesolazione in cui giacque; poco rimase delle antiche ricchezze, e non si citerà una casa

  fabbricata per cinquant'anni dopo la pestilenza, che non sia meschina. I nobilis'inselvatichirono60; ciascuno vivendo in una società molto angusta di parenti, si risguardòcome isolato nella sua patria; e non si rípigliarono i costumi sociali, che erano tantosplendidi e giocondi prima di tale sciagura, se non appena al principio del secolo presente.Tanti malori poté cagionare la superstiziosa ignoranza!”

60 Riporto l’obiezione, posta dal Manzoni e riportata dal Barbarisi come aggiunta in postilla autografa alla sua edizione

delle “Osservazioni”: “l’agricoltura era anche prima in pessimo stato: l’emigrzione degli artefici era già avviata: la popolazione avvilita in tutti i sensi: ignoranza, ferocia, oppressione etc. I nobili erano selvatici quanto basta: i costumisociali splendidi e giocondi! Leggete le gride, e vedrete che giocondità ell’era. Questo è uno degli squarci che il Verri

 scriveva prima di pensare”.

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5. I caratteri tipici della tortura processuale a partire dal racconto del Verri 

E’ stato già osservato come la “forza” del racconto della colonna infame sia quello diracchiudere in sè praticamente tutti i caratteri tipici delle vicende di cui sovente sicomponeva la tortura giudiziaria. Dopo l’esposizione, per grandi linee, dei fatti raccontatidal Verri, ci sembra possa essere di qualche utilità una sorta di “trattazione per temi”, al finedi mettere in evidenza, piuttosto schematicamente, quegli elementi tipici cui si accennavasopra.

 5a. L’ignorantia populorum e la Verità Presunta ;

Abbiamo già visto come sia il Verri (vd. la pagina precedente e la nota 3), sia il Beccaria(vd. pagg. 10; 14) considerino scaturigine prima della tortura la ignoranza. Diversamente ilManzoni, che pure ne riconosce l’esistenza (vd. nota 60) e le riconosce una rilevanza nellavicenda, critica fortemente il fatto che le venga attribuita la connotazione di causa profondadella tortura giudiziaria, “anzi, [...] c'è pericolo di formarsi una nozione del fatto, non solodimezzata, ma falsa, prendendo per cagioni di esso l'ignoranza de' tempi e la barbarie dellagiurisprudenza, e riguardandolo quasi come un avvenimento fatale e necessario; chesarebbe cavare un errore dannoso da dove si può avere un utile insegnamento. L'ignoranzain fisica può produrre degl'inconvenienti, ma non delle iniquità; e una cattiva istituzionenon s'applica da sè. Certo, non era un effetto necessario del credere all'efficaciadell'unzioni pestifere, il credere che Guglielmo Piazza e Giangiacomo Mora le avesseromesse in opera; come dell'esser la tortura in vigore non era effetto necessario che fosse

  fatta soffrire a tutti gli accusati, nè che tutti quelli a cui si faceva soffrire, fosserosentenziati colpevoli. Verità che può parere sciocca per troppa evidenza; ma non di rado leverità troppo evidenti, e che dovrebbero esser sottintese, sono in vece dimenticate; e dalnon dimenticar questa dipende il giudicar rettamente quell'atroce giudizio. Noi [...]Nonvogliamo certamente (e sarebbe un tristo assunto) togliere all'ignoranza e alla tortura la

  parte loro in quell'orribile fatto: ne furono, la prima un'occasione deplorabile, l'altra unmezzo crudele e attivo, quantunque non l'unico certamente, nè il principale. Ma crediamoche importi il distinguerne le vere ed efficienti cagioni, che furono atti iniqui, prodotti dache, se non da passioni perverse?61” D’altra parte Pietro Verri non manca occasione di rimarcare, in più punti delle“Osservazioni”, l’elemento della ignoranza; oltre alle parole che sono già state citate in

questo lavoro, possiamo leggere:“ In que' tempi l'ignoranza delle cose fisiche era assai grande. Taluno avrà pensato allora: èegli possibile il formare una materia che toccandosi dia la pestilenza? Se anche sia

  possibile, potrà un uomo portarla seco senza caderne vittima? Quattro uomini collegansi per un tale viaggio, e girano il mondo colla pestilenza nelle ampolle per divulgarla! A qual fine? Per quale utilità? Ma i pochi che avranno così pensato, non avranno avuto ardire di  palesarlo; l'autorità di un dispaccio, l'opinione popolare erano terribili contrasti cheesponevano a troppo grave pericolo l'uomo che avesse annunziata questa verità”;“Tutta la città immersa nella più luttuosa ignoranza si abbandonò ai più assurdi e atrocidelirj, malissimo pensati furono i regolamenti, stranissime le opinioni regnanti, ogni legame

sociale venne miseramente disciolto dal furore della superstiziosa credulità; unadistruttrice anarchia desolò ogni cosa, per modo che le opinioni flagellarono assai più i

61 Manzoni, in “Introduzione” a Manzoni, “Colonna Infame”

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miseri nostri maggiori di quello che lo facesse la fisica in quella luttuosissima epoca; siricorse agli astrologi, agli esorcisti, alla inquisizione, alle torture, tutto diventò preda della

 pestilenza, della superstizione, del fanatismo e della rapina; cosicché 1a proscritta verità innessun luogo poté palesarsi. Cento quaranta mila cittadini Milanesi perirono scannati

 dalla ignoranza”;“Fa ribrezzo il vedere con quanta ignoranza e furore si procedesse e dagli esaminatori edagli esaminati, e quanto offuscato fosse ogni barlume di umanità e di ragione in quelle

 feroci circostanze”;“ Riepilogando tutto lo sgraziato ammasso delle cose sin qui riferite, ogni uomo ragionevoleconoscerà, che fu immenso il disastro che rovinò in quell'epoca infelicissima i nosti

  maggiori, e che quest'ammasso crudele di miserie nacque tutto dall'ignoranza e dallasicurezza ne' loro errori, che formò il carattere de' nostri avi. Somma spensieratezza nellasciare indolentemente entrare nella patria la pestilenza; somma stolidità nel ricusare lacredenza ai fatti, nel ricusare l'esame di un avvenimento cosi interessante; sommasuperstizione nell'esigere dal cielo un miracolo, acciocché non si accrescesse il malecontagioso coll'affollare unitamente il popolo; somma crudeltà e ignoranza nel distruggeregl'innocenti cittadini, lacerarli e tormentarli con infernali dolori per espiare un delittosognato. Insomma la proscritta verità in nessun conto poté manifestarsi; i latrati dellasuperstizione e l'insolente ignoranza la costrinsero a rimanersene celata”.Viene citato da Verri, poi, nel capitolo “Opinione d'alcuni rispettabili scrittori intorno latortura, ed usi odierni di alcuni stati”, a sostegno di questa tesi:“Veggasi S. Agostino dove tratta dell'errore degli umani giudizj quando la verità ènascosta, de errore humanorum judiciorum dum veritas latet, ove chiaramente disapproval'uso della tortura: Dum quaeritur utrum sit innocens cruciatur, et innocens luit pro incertoscelere certissimas poenas, non quia illud commisisse detegitur, sed quia commisissenescitur, ac per hoc ignorantia judicis plerumque est calamitas innocentis” 62 (Verri,“Osservazioni”) .Che in qualche modo l’ignoranza sia l’alfa, l’atto primo intrinseco di una qualunque praticatorturatoria, si evince, d’altro canto, dallo studio della c.d. “tortura contemporanea”, ossia diquelle situazioni nella quali oggi viene applicata ancora la tortura, sia pure con scopi e conmodalità assai diverse. Un saggio importante al riguardo, a mio avviso, è l’opera “Shock Economy” di N. Klein, nella quale viene, tra l’altro, illustrata la suggestiva teoria per laquale l’uso della tortura (con i metodi introdotti, a partire dagli studi di Donald Hebb, daEwen Cameron) nei tempi della Guerra Fredda (e, oggi, nella Baia di Guantánamo e ad Abū Ghurayb) risponderebbe alla stessa ratio che muove oggi le dottrine economiche diderivazione Friedmaniana (cfr. Milton Friedman, premio Nobel per l’economia 1976), ossiala c.d. “Shock and Awe”; scrive la Klein:“Cameron [uno psichiatra della prima metà del XX sec., ndr] aveva abbandonatol’approccio freudiano standard che usava la «terapia della parola» per ricercare le «cause

 profonde» delle malattie mentali dei pazienti. La sua ambizione non era quella di curare o«riparare» i suoi pazienti, ma di ricostruirli da capo, usando un metodo che chiamava«psychic driving».[...] Cameron vedeva la shockterapia come un mezzo per riportare all’infanzia i suoi

 pazienti, per farli regredire completamente. In un articolo del 1962, egli descrive lo stato in

62 «Mentre si esamina se un uomo sia innocente si tormenta, e per un delitto incerto dassi un certissimo spasimo; non  perché si sappia che sia reo il paziente, ma perché non si sa se sia reo, quindi l'ignoranza del giudice ricadenell'esterminio dell'innocente». Trad. di P. Verri 

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cui voleva ridurre i pazienti: « Non c’è solo la perdita dell’immagine spaziotemporale, maanche della sensazione che quell’immagine dovrebbe essere presente. In questa fase il

 paziente può mostrare una varietà di altre manifestazioni, come la perdita di una secondalingua o della consapevolezza del proprio stato civile. In forme più avanzate può essereincapace di camminare senza supporto, di mangiare da solo, e può presentare doppiaincontinenza [...]. Tutti gli aspetti della sua funzione mnemonica sono profondamenteturbati»63.[...] Deluso dal fatto che i pazienti sembravano aggrapparsi a ciò che rimaneva della loro

  personalità, li disorientava ulteriormente con eccitanti, tranquillanti e allucinogeni:clorpromazina, barbiturici, Amobarbital, ossido di diazoto, Desoxyn, Seconal, Nembutal,Veronal, Melicone, Thorazione, Largactil e insulina. Cameron scrisse in un articolo del1956 che questi farmaci servivano a «disinibire [il paziente] così che le sue difese possanoessere ridotte»64. Una volta ottenuto il «decondizionamento completo», e spazzata via la

 personalità preesistente, poteva iniziare la fase di ricondizionamento.[...] A metà degli anni Cinquanta, diversi ricercatori della Cia si interessarono al lavoro diCameron. Era l’inizio dell’isteria della Guerra Fredda, e l’agenzia aveva appena avviatoun programma segreto dedicato alla ricerca sulle «tecniche speciali di interrogatorio». [...]

 Lo scopo di questa ricerca non era usare il controllo della mente come arma offensiva: eraquello di preparare i soldati occidentali per le tecniche di coercizione che avrebbero potutosubire se fossero stati presi prigionieri.

  La Cia, naturalmente, aveva altri interessi. Eppure [...] sarebbe stato impossibile, a cosìbreve distanza dalle rivelazioni sulle torture naziste che avevano sollevato orrore in tutto ilmondo, affermare che l’agenzia era interessata a sviluppare metodi alternativi diinterrogatorio65”.È ben facile rilevare, nel brano appena citato, come l’ignoranza (unitamente all’ingenuitàinstrinseca nella convinzione che le intenzioni della Cia potessero essere solo difensive),consistente, in questo caso, in primo luogo nel sostenere l’erronea convinzione che ladeprivazione sensoriale in azione combinata con l’elettroshock potesse portare ad un c.d.“lavaggio del cervello” e, in secondo luogo nel ritenere che ci fosse una “Verità”, detenutaassolutamente da qualcuno, il cui perseguimento fosse un fine così grande (per usare le giàcitate parole di Cordero) da poter giustificare tutto, abbia portato all’uso di pratichetorturatorie su esseri umani.Sulla base delle considerazioni fin qui svolte sul tema dell’ignoranza, a me pare che si

  possano ragionevolmente individuare due livelli nei quali collocare questa: da un lato l’  Ignorantia populorum, ossia una ignoranza, potremmo dire, “di fattispecie” o “storica”(quella che Verri chiama “ignoranza delle cose fisiche”); dall’altro l’ “ignoranza d’origine”,o “tecnica”, quella per la quale si forma una “Verità Presunta” che pochi eletti detentori diessa devono perseguire in nome della felicità futura del genere umano, dando così esiti afenomeni, come la tortura, che in realtà non sono utili neppure per la loro causa.Insomma, stando al Verri, se gli Inquisitori del ‘600 non si fossero fatti travolgere dallasuperstizione ed avessero ragionato, più in generale, sul significato reale della tortura, nonsolo non sarebbe esistita la tortura, ma anche, se pure questa fosse esistita, non sarebbe stata

 praticata contro improbabili “untori pestilenziali”.

63 Cameron, 196064 Cameron, 196265 N. Klein, 2008

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5b.   La feroce pazzia, la superstizione, il delirio: il fanatismo e le incongruenze nelleconfessioni estorte sotto tortura come unica vera inverosimiglianza;

Strettamente legato al discorso sull’ignoranza, in quanto elemento complementare aquest’ultima, è l’argomento del fanatismo, ossia della “incondizionata ed intolleranteaccettazione di una fede religiosa o politica”66 (nella fattispecie: la credenza delle “unzioni

 pestilenziali”; più in generale: il ritenere alcune persone indiscutibilmente ed infallibilmentein grado di individuare e garantire, sempre e comunque, l’interesse pubblico sostenendo,

 perciò, qualunque atto di tali persone, quand’anche uno di questi atti, a voler ragionare, nonrisulti conforme a realtà od a interesse pubblico). Se, infatti, da un lato è vero che se il

  popolo non avesse ignorato i reali motivi del diffondersi della pestilenza non avrebbeaccusato della sua dilagazione i famigerati untori, dall’altro lato è vero anche che l’esistenzadella sola ignoranza non sarebbe bastata, nè basterebbe in alcun caso, a dare fondamentoalla “Verità presunta”, ossia a considerare come inverosimiglianza tutto ciò che è verosimilee viceversa. Pensiamo, nella fattispecie, ad esempio, alle massaie ed ai fisici che asserironola pericolosità e l’anomalia dello smoglio del Mora: certamente quegli esperti non dissero ilvero eppure ciò non vuol dire che fossero in malafede, bensì che agirono mossi dallaconvinzione che, della pestilenza, ci dovessero essere dei colpevoli e che i colpevolidovessero essere quelli. Nel racconto attento del Verri, l’Autore dimostra premura nelverificare, uno ad uno, gli elementi che andarono, in quel caso, a comporre la c.d. “Verità

 presunta”, individuando le reali inverosimiglianze e distinguendole da quelle che, invece,decisamente non lo erano. La reale verità su quei fatti trapela così, a distanza di un secolo,dalle carte scritte proprio da coloro che quella reale verità scelsero di ignorare, quand’anchesi fossero sforzati di individuarla.Dimostrare l’inscindibilità della tortura giudiziaria dall’elemento del fanatismo è uno degliobiettivi che espressamente si pone il Verri nel redigere le “Osservazioni”:“ Acciocché poi si possa concepire un'idea precisa e originale del modo di pensare in queltempo, credo opportuno di trascrivere un esame, che sta nel corpo di quest'orribile

  processo [...]siccome originalmente vi si vedono la feroce pazzia, la Superstizione, ildelirio, io lo riferirò esattamente”.Pietro Verri, dunque, puntualmente quanto puntigliosamente, “riscrive” la storia dellaColonna Infame ripulendola dalle incrostazione del fanatismo e mostrandola sic et sempliciter per ciò che era stata:“Prescindasi dalla impossibilità del delitto. Niente è più naturale che il passeggiare vicinoal muro allorché piove in una città come la nostra, dove si resta al coperto della pioggia.Un delitto così atroce non si commette di chiaro giorno, nel mentre che i vicini dalle

  finestre possono osservare; niente è più facile che lo sporcare quante muraglie piace col favore della notte”. Inoltre “Se lo sgraziato Guglielmo Piazza avesse commesso un delitto ditanta atrocità, era ben naturale che attento all'effetto che ne poteva nascere e istrutto delrumore di tutto il vicinato del giorno precedente, non meno che della solenne visita che ilgiorno 22 vi fece ai luoghi pubblici sulla strada il capitano di giustizia, si sarebbe dato auna immediata fuga. Gli sgherri lo trovarono alla porta del presidente della sanità, da cuidipendeva”; allo stesso modo, per quanto riguarda il Mora, considerando che “dal primoesame del Mora risulta che eragli stata nota la vociferazione dell'unto fatto nel quartiere il

giorno di venerdì 21 giugno; che parimenti eragli nota la prigionia del commissario Piazza,seguita il giorno 22 che fu sabato: e al mercoledì, giorno 26, si sarebbe lasciato cogliere in

66 voce “Fanatismo”, del “Vocabolario della lingua italiana” di G. Devoto e G. Oli

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sua casa se fosse stato reo? Tutto ciò che avvenne all'atto dell'arresto confermal'innocenza, non meno che la sorpresa di quest'infelice”.Riguardo alla prima confessione del Piazza: “  Interrogato se col barbiere egli avesseamicizia, rispose: «È amico, signor sì, buon dì, buon anno, è amico, signor sì». Quasi che leconfidenze di un misfatto così enorme si facessero a persone appena conoscenti, «amico dibuon dì, buon anno»”. Inoltre: “Chi mai crederà, che in tal guisa alla presenza di quattrotestimonj si formino così atroci congiure! Eppure allora si credette:

  I - Che la peste, che si sapeva venuta dalla Valtellina, fosse opera di veleni fabbricati in Milano; II - Che si possano fabbricar veleni, che dopo essere stati all'aria aperta, al solo contattodiano la morte:

 III - Che se tali veleni si dessero, possa un uomo impunemente maneggiarli; IV - Che si possa nel cuore umano formare il desiderio di uccidere gli uomini così a caso;V - Che un uomo, quando fosse colpevole di tal chimera, resterebbe spensierato dopo lavociferazione di due giorni, e si lascerebbe far prigione;VI - Che il compositore di tal supposto veleno, in vece di sporcarne da sé le muraglie,cercasse superfluamente de' complici;VII - Che per trascegliere un complice di tale abbominazione, gettasse l'occhio sopra unuomo appena conosciuto;VIII - Che questa confidenza si facesse alla presenza di quattro testimonj, e il Piazza neassumesse l'incarico senza conoscerli, e colla vaga speranza di ottenere un regalo

 promessogli da un povero barbiere! Tutte queste otto proposizioni si pongano da una partedella bilancia. Dall'altra parte si ponga un timore vivissimo dello strazio e de' spasmisofferti, che costringe un innocente a mentire, indi la ragione pesi e decida qual delle due

 parti contiene più inverosimiglianza”. Riguardo allo smoglio del Mora: “Chi mai crederebbe che un potentissimo veleno, che altoccarlo conduce alla morte, si tenesse in un aperto cortile, in una caldaja visibile a tutti, inuna casa dove v'erano più uomini, perché i Mora aveva figlj e moglie, come consta anchedal processo? Le tenere fanciulle e la figlia per la quale risulta che aveva fatto un unguento

  per i vermi, potevano elleno essere partecipi del secreto? Potevasi lasciare in libertà diragazzi un veleno che uccide col tatto, riponendolo in una caldaja fissata nel muro delcortile? Dopo che era tanto solenne il processo da sei giorni, era poi egli possibile che il

  fabbricatore e distributore dell'unto conservasse placidamente quel corpo di delitto allavista, riposto nel cortile? Nessuno di tali pensieri venne in capo al giudice”: “Questo rannodoveva essere il corpo del delitto. Si esaminarono alcune lavandaje. Margarita Arpizzanelli

  prima di visitare il ranno propala la sua teoria dicendo al giudice: «Sa V. S. che con ilsmoglio guasto si fanno degli eccellenti veleni che si posson fare?». Si vede   che il 

 fanatismo era al colmo , e che le persone che si esaminavano, a costo d'inventare nuove esconosciute proprietà, volevano sacrificare una vittima, e credevano di servir Dio e la

 patria inventando un delitto” [grassetto mio, ndr ]. La reale verità, invece, era a portata dimano e sotto gli occhi di tutti: “non credo che verun chimico saprebbe fare un velenocoll'acqua del bucato. In una bottega poi di un barbiere, dove si saranno lavati de' linisporchi e dalle piaghe e da' cerotti, qual cosa più naturale che il trovarvi un sedimentoviscido, grasso, giallo dopo varj giorni d'estate?”.

  Non serve, tra l’altro, riportare le osservazioni di Verri sul contenuto delle confessioniestorte sotto tortura, poichè sono talmente tanto in contraddizione tra di loro e con la naturadelle cose che chiunque ne può trarre le debite conclusioni, oggi come ieri; basti pensare al

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fatto che, secondo le confessioni rilasciate conformi alla “Verità presunta”, degli uominiavrebbero disinvoltamente maneggiato una sostanza ritenuta capace di sterminare un

 popolo: “Come raccoglierla senza contrarre la peste? Come riporla nella caldaja, onde lamoglie, i teneri incauti figli si appestassero? Come conservarla dopo le solenni procedure,e lasciarsi un simil corpo di delitto? Come sperar guadagno vendendo l'elettuario:mancavano forse ammalati in quel tempo? Non si può concepire un romanzo più tristo e piùassurdo. Pure tutto si credeva, purché fosse atroce e conforme alle funeste passioni de que' tempi infelici”.

5c. Segretezza e Scrittura

I due caratteri storicamente più rappresentativi e peculiari del processo inquisitorio sonoquello della segretezza e quello della scrittura; entrambi si ritrovano nel lavoro del Verri, inmaniera piuttosto evidente: non solo il Verri è in grado di raccontare un secolo dopo, condovizia di particolari, una vicenda di cronaca locale pubblicando, tra l’altro, estratti intereridi verbali degli interrogatori di alcuni tra gli “untori”, ma anche è sottolineato comeentrambi i due “protagonsiti” della storia, del tutto ignari che su di loro incombesse la

 pesante “spada di Damocle” dell’Inquisizione, si fossero fatti trovare sul posto di lavoro.Dalle “Osservazioni” emerge come la presenza della segretezza e della scrittura non venissemeno neppure in quella fase che potremmo definire “la più oscura” del processo. Per quantoriguarda la segretezza, un passaggio piuttosto significativo, a me pare, è rappresentato dalgià citato passo “dal primo esame del Mora risulta che [...] eragli nota la prigionia delcommissario Piazza”: è sintomatico, a mio avviso, il fatto che il Verri parli solo della

 prigionia e non già delle altre atrocità che furono commesse nei confronti del Commissarioalla Sanità; da qui la deduzione che evidentemente la notizia della prigionia non era dilagataassieme a quella dell’interrogatorio e della confessione sub torturam. Se, viceversa, cosìfosse stato è ragionevole ritenere che il Verri non avrebbe perso l’occasione di rimarcarequesto elemento in quanto avrebbe ancora di più rafforzato le sue argomentazioni, essendoancora più inverosimile che un criminale, venendo a conoscenza non solo della prigionia maanche della tortura (e dunque, di fatto, della confessione) del complice non tenti di fuggirelontano dal luogo di residenza. D’altro canto la divulgazione della notizia della torturadifficilmente si sarebbe potuta separare da quella dell’interrogatorio e della confessione,rischiando così di compromettere il carattere segreto dell’intero processo.La caratteristica della segretezza è certamente quella dal colore più inquietante e, dal puntodi vista di chi scrive, è direttamente collegata ai discorsi, decisamente di più ampia portata,sullo Stato di Diritto e sui diritti umani latu sensu. Da un lato, infatti, la compressione deidiritti collegati alla difesa giudiziaria, effettuata ad opera dello strumento della segretezza,era giustificata, come abbiamo già visto, dal perseguimento di un interesse culturale e

 politico al pubblico benessere, che io definirei con azzardo ma senza timore una “Ragion diStato” (pure tenendo presente il contenuto peculiare di cui riempire la parola “Stato” conriferimento al luogo ed al tempo dei periodi in esame), laddove, come è stato giustamenteosservato, l’idea che “accomuna certamente tutti i possibili significati attribuiti allalocuzione «Stato di diritto», e ne costituisce il tratto essenziale”, è quella della “abolizionedell’arbitrio nell’azione dei poteri pubblici [...] ossia dell’aspirazione al superamento della

tradizionale «Ragion di Stato»” (Alvazzi Del Frate, 2007); in altre parole: da questo puntodi vista la segretezza si erge a simbolo della più ampia concezione generale dei pubblici poteri presente, grossomodo, nell’Europa medievale almeno fino all’Illuminismo.

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Dall’altro lato, soffermandosi ad analizzare il rapporto che intercorre tra segretezza e dirittiumani latu sensu, è possibile evincere in quale modo la lotta per la sola abolizione dellatortura (tralasciando, dunque, il fatto che essa fosse solo un “condimento” del “piatto” piùgrande rappresentato dal movimento illuminista) rappresentasse, di fatto, la lotta per ben piùd’un princìpio; si tratta, in diversi termini, di dare un contenuto a locuzioni come “diritto algiusto processo” o “diritto di difesa”, al quale fanno capo “istituti processuali, facoltà,diritti” da far discendere non solo dal semplice diritto alla difesa “ma anche dallacombinazione del diritto di difesa con il princìpio di uguaglianza”, un diritto di recenteforgia (nella sua ultima formulazione) che dunque, più o meno indirettamente, entrava

  precocemente in gioco già nel XVII sec.: possono oggi essere ricondotti sul piano del“diritto di difesa” il “ princìpio del contraddittorio come garanzia minima ed indefettibile diogni processo giurisdizionale”, il “  princìpio del doppio grado di giurisdizione”, il“  princìpio del giudice naturale precostituito per legge”, il “  princìpio del giusto processo”(che, a sua volta, consiste in una “serie di garanzie”, come quelle riconducibili al “ruolodella legge, la quale deve garantire che la persona accusata di un reato sia informata nel 

 più breve tempo possibile [...] circa la natura ed i motivi dell’accusa, la facoltà concessaall’accusato di interrogare o di far interrogare la persona che renda dichiarazioni a suocarico, [...] la garanzia che la colpevolezza non possa essere provata sulla base didichiarazioni di chi, per libera scelta, si è sempre volutamente sottratto all’interrogatorio da parte dell’imputato o del suo difensore”), “il princìpio di terzietà ed imparzialità delgiudice”, “l’obbligo di motivazione dei provvedimenti giurisdizionali”, il princìpiodell’  habeas corpus, etc.67; non serve certo soffermarsi sul punto per comprendere comequesti “princìpi (anche) contro la tortura” siano direttamente collegati pure al solo caratteredella segretezza, la quale va considerata, dunque, come scaturigine concorrente di queifondamenti. Si tratta di princìpi che trovarono terreno fertile per germogliare o per compiersi anche nella battaglia contro la solo tortura, compiuta dai più o meno consapevoliilluministi; princìpi che oggi appartengono indiscutibilmente al patrimonio giuridicoculturale occidentale e i quali ricevono il più diffuso riconoscimento: da ultimo, quelloavvenuto da parte delle Nazioni Unite del “right to be free from torture” come uno dei “ four common non-derogable rights”68.Per quanto riguarda il carattere della scrittura, a me non sembra necessario soffermarsirispetto alla sua presenza nell’opera del Verri nei riguardi della tortura: basti ricordare chenel testo vennero riportati, così come rinvenuti dall’Autore nella carte processuali, ampistralci dei processi verbali attinenti ai momenti delle pratiche torturatorie, talvoltainframezzati da brevi interventi dell’Autore attraverso i quali quest’ultimo esprimeva il suodisgusto per alcuni particolari dettagli. Più importante, piuttosto, sembra essere l’analisi diciò che emerge dalla lettura dei documenti riportati dal Verri, ossia gli elementi sulla

 procedura e, più in generale, il carattere della Ritualità di cui ci accingiamo a parlare.

5d. La Procedura: terrizione verbale e terrizione reale; interfasi e ritualità. 

Il momento della tortura, al pari di tutti gli altri momenti del processo inquisitorio, venivascadenzato dalle regole secondo schemi piuttosto precisi, pur nell’ampio spazio riservato

67 Tutte le citazioni del capoverso fin qui riportate sono da attribuirsi a Serges, 2008, al quale si rimanda per una

trattazione completa dei princìpi in tema di giurisdizione (con riferimento particolare al sistema italiano attuale); igrassetti sono miei.68 Vd., al riguardo, la “international norms and standards relating to disability” resource   pubblicata dalle NazioniUnite in http://www.un.org/esa/socdev/enable/comp001.htm .

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all’arbitrio dei giudici ed in considerazione della inesistenza, al tempo, dei codici di  procedura penale, oltreché tenendo conto della tanto peculiare quanto caotica situazioneconcernente l’ambito delle fonti del diritto nei periodi in esame. In via generale “la torturaera un mezzo estremo a cui si dava di piglio in mancanza d’ogni altro per eruire la verità”e, perchè i giudici vi potessero adire, erano necessari (almeno) i seguenti tre presupposti:

1.  L’accertamento, da parte degli inquisitori, che non vi fossero “altre vie di scoprire laverità prima di ricorrere ai tormenti”;

2.  “che si trattasse d’uno dei crimini designati a ciò dalla legge”;69 3.  “che l’imputato fosse uomo di male fama, ch’esistessero contro di lui chiari ed 

urgenti indizi”.“  Ma come, anche per tacere delle eccezioni introdotte dalle leggi [...], molti degl’indiziammessi erano fallaci; come spesso si tenevano bastare anche le semplici presunzioni;come si eccettuavano da queste regole i reati, e non eran pochi, nei quali il giudice poteva

 procedere e punire ad arbitrio; e come finalmente decidere del numero e peso degli indizi le più volte era rimesso interamente al giudice, così bene spesso la tortura veniva applicataarbitrariamente: contro le quali si adoperarono, ma con picciol frutto, gli scrittori e leleggi”70.

 Nel testo del Verri si ritrovano, ad uno ad uno, gli elementi fin qui descritti. Con riferimentoai “tre presupposti”, ad esempio, è da notare come sia il Piazza, sia il Mora furonointerrogati una prima volta senza i tormenti, entrambi per crimini gravissimi (certamenterientranti nella categoria del “populi turbator”); contro di loro pendevano indubbiamentetanto chiari quanto urgenti indizi (chiari perchè le loro deposizioni confliggevano

  palesemente con la “Verità Presunta” e le testimonianze raccolte, urgenti perchè, nelfrattempo, la peste continuava a dilagare ed i due “untori” avrebbero potuto agire altrove,contribuendo ad una più rapida e perdurante espansione del morbo). Riguardo alla “malafama”, nel caso della Colonna Infame a me pare più coerente parlare di “famainsufficiente”: nel libro si legge che un tal Gian Stefano Baruello (accusato di unzione da untestimone volontario, un certo Giacinto Maganza –  figlio di Frate Rocco della Chiesa diSan Giovanni in Conca della quale resta qualche vestigia nell’attuale piazza Missori – descritto dal Verri, con un notevole supporto di prove a carico di tal giudizio, come unforsennato, pazzo, fanatico, superstizioso e delirante, peggiore di un “ pazzo legato”, capacedi racconti “strani e bestiali”) il quale, dopo aver confessato la “verità” sotto promessa diimpunità, fu condannato alla tortura ed alla morte, accusò il cavalier Giovanni GaetanoPadilla, figlio del governatore del Castello di Milano e terza autorità spagnola dello Stato, diessere il mandante di tutta l’operazione di “unzione pestifera”, attivata per vendicarsi di uncerto insulto subito “in Porta Ticinese”, relegando dunque il Mora, il Piazza e gli altri untori

69 Sul punto il Pertile (op. cit.) dedicò una nota (la num. 31 pag. 432) nella quale venivano citate significative fonti lequali prevedevano i casi in cui il tormento giudiziario potesse essere attivato: “Stat. Bonon. 1250 II. 38.  Nullus amodo

 ponatur ad tondolum seu tirellum, vel aliud tormentum, nisi esset famosus latro, seu falsarius, derobator strate, vel 

 accusatus de homicidio etc. et contra ipsum erunt violente presumptones. – Stat. Di Sassari 1316 I. 154: Homicidia,  furta et robaria. – Stat. Flor. III 111. Nullus possit poni ad tormenta, nisi pro robariis stratarum, mulierum velsanctimonialium, pro litteris ad inimicos transmissis vel homicidiis, et in hiis casibus debeant precedere indicia. – V.anche Stat. Brixiae 1313 II. 19; Stat. Macerat. 1942 III. 116. Nello Stat. Di S. Geminiano 1314 I. 1 fu aggiunto:quemquam de Sancto Feminiano ad vollunculam, vel aliquod martirium non ponat (potestas), nisi pro homicidio, velnisi foret public. Latro, et nisi pro offensione persone unde sanguinis exiret, et pro furto et muliere violata ve pro falsamoneta, vel pro falsitate et tradimento, incendio et vatatione poderium, vel aliarum possessionum. Pecori, p. 663 – Stat.

  Ant. Romae cit. Nullus torqeatur, nisi publicus latro  , fractor pacis, patarenus, incendiarius, violator mulierum, sodomita , - et status romani populi turbator et proditor”.70 Tutte le citazioni del paragrafo fin qui riportate sono da attribuirsi a Pertile (op. cit.) al quale si rimanda per unatrattazione completa dell’argomento.

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(alla lista dei quali aggiunse qualche nome) a semplici sicari. Riguardo al “cavaliere Padilla[...] merita di essere trascritta la risposta ch'ei fece in processo quando fu costituito reo diqueste unzioni. Così egli dice: «Io mi maraviglio molto che il senato sia venuto arisoluzione così grande, vedendosi e trovandosi che questa è una mera impostura e falsità

 fatta non solo a me, ma alla giustizia istessa». Ed aveva ben ragione di dirlo, perché dallanarrativa istessa del reato appariva la grossolana impostura. «Come», proseguì essocavaliere, «un uomo di mia qualità, che ho speso la vita in servizio di S. M., in difesa diquesto stato, nato da uomini che hanno fatto lo stesso, avevo io da fare, né pensare cosa chea loro e a me portasse tanta nota di infamia? E torno a dire che questo è falso, ed è la piùgrande impostura che ad uomo sia mai stata fatta.» Questa risposta, detta nel calore di unsentimento, è forse il solo tratto nobile che si legga in tutto l'infelice volume che hoesaminato. Il delitto non parla certamente un tal linguaggio, e il cavalier Padilla erasicuramente assai al dissopra del livello de' suoi giudici e del suo tempo” (Verri,“Osservazioni”). Nonostante ciò la versione del Baruello fu presa per buona ed in moltifurono inquisiti per essere stati sicari del Padilla salvo poi, quest’ultimo e lui solo, scamparealla condanna per il lignaggio (ossia per l’assenza di “mala fama”) – tant’è che il Manzoni,nella “Colonna Infame”, acutamente osserva: “  Il Padilla fu assolto, non si sa quando per l'appunto, ma sicuramente più d'un anno dopo, poichè l'ultime sue difese furono presentatenel maggio del 1632. E, certo, l'assolverlo non fu grazia, ma i giudici s'avvidero che, conquesto, dichiaravano essi medesimi ingiuste tutte le loro condanne? Giacchè non credereiche ce ne siano state altre, dopo quell'assoluzione. Riconoscendo che il Padilla non aveva

 punto dato danari per pagar le sognate unzioni, si rammentaron degli uomini che avevancondannati per aver ricevuto danari da lui, per questo motivo? Si rammentarono d'aver detto al Mora che una tal cagione ha più del verisimile… che non è per hauer occasione di

 vendere, lui Constituto il suo elettuario, et il Commissario d'hauer modo di più lauorare?Si rammentarono che, nell'esame seguente, persistendo lui a negarla, gli avevan detto che sitroua pure essere la verità? Che avendola negata ancora, nel confronto col Piazza, gliavevan data la tortura, perchè la confessasse, e un'altra tortura, perchè la confessioneestorta dalla prima diventasse valida? Che, d'allora in poi, tutto il processo era camminatosu quella supposizione? Ch'era stata espressa, sottintesa in tutte le loro interrogazioni,confermata in tutte le risposte, come la cagione finalmente scoperta e riconosciuta, come lavera, l'unica cagion del delitto del Piazza, del Mora, e poi degli altri condannati? Che lagrida pubblicata, pochi giorni dopo il supplizio di que' due primi, dal gran cancelliere, col

 parer del senato, li diceva «arriuati a stato tale d'empietà, di tradir par danari la propria

Patria?» E vedendo finalmente svanir quella cagione (giacchè nel processo non s'era mai  fatto menzione d'altri danari che di quelli del Padilla), pensaron che del delitto nonrimanevano altri argomenti che confessioni, ottenute nella maniera che loro sapevano, eritrattate tra i sacramenti e la morte? confessioni, prima in contradizion tra loro, e ormaiscoperte in contradizion col fatto? Assolvendo insomma, come innocente, il capo,conobbero che avevan condannati, come complici degl'innocenti?Tutt'altro, almeno per quel che comparve in pubblico: il monumento e la sentenza rimasero;i padri di famiglia che la sentenza aveva condannati, rimasero infami, i figli che aveva resicosì atrocemente orfani, rimasero legalmente spogliati”.Il rito dei tormenti constava, essenzialmente, di due parti: la c.d. “ terrizione verbale” e la

c.d. “terrizione reale”. La prima consisteva di queste fasi:

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-  Primo invito alla confessione71;-  Ulteriore ammonizione del giudice alla confessione sotto minaccia della tortura;-  Conduzione dell’inquisito nella sala della tortura, ove, una volta accesi i lumi, venivafatto spogliare, gli si mostravano gli strumenti di tormento e gli si applicavano (masenza attivarli); dunque gli veniva chiesto per un’ultima volta di confessare in fase diterrizione verbale.

Se, nonostante questo, l’inquisito resisteva, si passava alla c.d. “terrizione reale”, la quale pure procedeva per gradi, sia nel senso che venivano via via applicati tormenti sempre piùdolorosi (sui quali si dirà nel paragrafo successivo), sia nel senso che i giudici

 pronunciavano formule studiate, anche nella sequenza, per costituire una cl‹max emotiva chevedeva la sua lásij solo nel momento della confessione, lasciando dunque indirettamenteall’inconsapevole tormentato la determinazione dello spannung; costituiva, quest’ultimo, ilcarattere della ritualità che, dunque, era strettamente legato con quello della procedura (e sulquale ci si soffermerà subito innanzi). Tutti questi momenti, sia per quanto riguarda la fase

della terrizione verbale, sia per quanto riguarda la fase della terrizione reale, sonoriscontrabili nel racconto del Verri.Vi sono, poi, alcune “interfasi”, ossia momenti di tipo reale collocati nella fase di terrizioneverbale e viceversa; si trattava di interfasi autonome previste dalla procedura ovvero lasciateal libero arbitrio del giudice. L’esempio “classico” di interfase è quello della c.d. “tortura

  preliminare”, della quale si ha anche qualche esempio recente giacchè fu usatissima daiservizi segreti americani e russi durante la Guerra Fredda (ed ancora oggi, a Guantanamo, èstato sostenuto che se ne faccia uso72): il supposto criminale (o la supposta spia) venivatorturato, prima di qualsivoglia interrogatorio, di modo che potesse avere una dimostrazionedi ciò che lo aspettava qualora non avesse confessato ovvero di modo che fossero indebolite

da subito le sue difese fisiche o psicologiche cosicchè, al momento dell’interrogatorio,fievole e disorientato, non avrebbe opposto resistenza alcuna. Nel racconto del Verri, comein parte abbiamo visto, emergono principalmente quattro interfasi: la promessa di impunità(che venne fatta anche al Baruello), la conferma della confessione estorta sotto tortura, latortura per falsa testimonianza (che, a mio parere, non può essere collocata nè nell’insiemedella tortura-mezzo – di cui si dirà – in quanto è finalizzata ad ottenere una nuovadeposizione conforme alla “Verità presunta”, nè nella parte di terrizione reale, giacchèavviene quando questa è già terminata) e l’interruzione del tormento per volontà dichiaratadell’Inquisito di confessare.Oltreciò la testimonianza del Verri pose l’accento particolarmente sull’aspetto della

terrizione reale, dal momento che l’Autore scelse di pubblicare ampi stralci dei processiverbali che la riguardavano (qui sotto verrà pubblicato in parte il passo riguardantel’interrogatorio di Carlo Vedano, maestro di scherma il quale, secondo la ricostruzione fattaallora dagli Inquisitori, sarebbe stato il “mezzano per indurre Gian Stefano Baruello a faredi queste unzioni”) . In particolare chi scrive invita il lettore a soffermare marcatamente lasua attenzione sull’elemento della ritualità73, ossia su come certe frasi venissero ripetute in

71 “ In qualche luogo, prima di venire alla terrizione reale, si metteva semplicemente l’imputato a contatto col carnefice.Osenbrüggen, Studien, p. 428” (Persile, op. cit.)72 cfr. Klein, op. cit.73 Anche istintivamente si può ben comprendere come, in una tipologia di processo denominato “romano – canonico”,l’elemento della ritualità rivestisse una   positio princeps, dacchè (ancora oggi) tale posizione riveste sia nell’ambito processuale (soprattuto penale) sia in quello religioso. Basti pensare a come diverso sarebbe il senso, da un lato, dellamessa settimanale senza la pronuncia delle formule e dei gesti di rito, senza le vetrate tutt’attorno, senza le vesti

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maniera identica quasi a litania, su come l’italiano venga alternato il latino, su come iltormento aumenti in maniera direttamente proporzionale non solo allo scorrere del tempoma anche alle formule pronunziate dagli Inquisitori, su come queste ultime fosserotipicamente legate alle risposte dell’Inquisito:“Soffoco violentemente la natura, e superato il ribrezzo che producono tante atrocità, io trascriverò

 per intiero l'esame fatto al povero maestro di scherma Carlo Vedano. La scena è crudelissima, lamia mano la strascrive a stento; ma se il raccapriccio che io ne provo gioverà a risparmiare ancheuna sola vittima, se una sola tortura di meno si darà in grazia dell'orrore che pongo sotto gli occhi,sarà ben impiegato il doloroso sentimento che provo, e la speranza di ottenerlo mi ricompensa.Ecco l'esame.1630 die 18 septembris etc.

Eductus e carceribus Carolus Vedanus 74 .  Int.: «Che dica se si è risolto a dir meglio la verità di quello ha sin qui fatto circa le cose che èstato interrogato, e che gli sono state mantenute in faccia da Giõ Stefano Baruello».

 Resp.: «Illustrissimo signore, non so niente».

Ei dicto: «Che dica la causa perché interrogato se aveva mangiato in casa di Gerolamo cuoco, che fa l'osteria là a S. Sisto di compagnia del Baruello, non contento di dire una volta di no, rispose:"Signor no, signor no, signor no"».

 Resp.: «Perché non è la verità».Ei dicto: «Che per negare una cosa basta dire una volta di no, e che quel replicare signor no,signor no, signor no, mostra il calore con che lo nega, e che per maggior causa lo neghi che perché non sia vero».

 Resp.: «Perché non vi sono stato75».Ei dicto: «Che occasione aveva di scaldarsi cosi?».

 Resp.: «Perché non vi sono stato, illustrissimo signore».Ei denuo76  dicto: «Perché interrogato, se aveva mai mangiato col detto Baruello all'osteria sopra

la piazza del castello, rispose: "Signor no, mai, mai, mai"»  Resp.: «Ma, signore, vi ho mangiato una volta, ma non solo, ma in compagnia di Francescobarbiere figliuolo d'Alfonso, e quando ho risposto: "Signor no, mai, mai, mai' mi sono intesod'avervi mangiato col Baruello solamente».[...] Ei dicto: «Perché questa mattina, interrogato se si è risoluto a dire la verità meglio di quel che fece

  jeri sera, ha prorotto in queste parole: "Perché io ne sono innocente di quella cosa che miimputano", le quali parole, oltreché sono fuori di proposito, non essendo mai stato interrogatosopra imputazione che gli sia stata data, mostrano ancora che esso sappia d'essere imputato diqualche cosa; e pure interrogato che imputazione sia questa, ha detto di non saperlo: onde se glidice, che oltreché si vuol sapere da lui perché ha detto quella risposta fuori di proposito, si vuol

anche sapere che imputazione è quella, che gli vien data». Resp.: «Io ho detto così perché non ho fallato».

d’occasione; dall’altro, del processo penale senza il giuramento ad alta voce, senza le toghe, senza quella peculiaredisposizione delle anime all’interno dell’aula: tutti seduti in abiti formali intorno allo stesso tavolo.74 Trad. “18 settembre 1630, ecc., Tratto dalle carceri Carlo Vedano” 75 Nota autografa del Verri: “Poteva anche dire: «perchè sono vivace»; il mestiero d’un maestro di spada non è di unnaturale flemmatico. Nell’esame un constituto non può aver tranquillità molta”.76 Si noti come talvolta la stessa domanda veniva ripetuta una seconda volta, segnalando tale evento, nel verbale, con la parola latina “denuo”, che per l’appunto significa “nuovamente, ancora, per la seconda volta”. E’ verosimile che laripetizione fosse accompagnata da un tono di voce più alto e minacciosso ed incorporasse, implicitamente, lasegnalazione che la dichiarazione appena rilasciata dall’Inquisito non era conforme a “Verità Presunta”, sicchè andava

ripetuta in maniera opposta (non a caso “denuo” significa anche “e di nuovo”, nel senso di indicare una azione oppostaalla precedente). Non di rado l’Inquisito, una volta compreso tale meccanismo, vi si adattava, cambiandorepentinamente la sua confessione di modo che, fermo restando quel poco che poteva sapere (per dicerìa) riguardo alla“Verità Presunta”, quella potesse essere accettata dagli Inquisitori.

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Ei dicto denuo: «Perché, interrogato se quando passò sopra la piazza del castello col detto Baruello videro alcuno, ha risposto prima di no, poi ha soggiunto: "Ma, signore, vi erano dellagente, che andavano innanzi e indietro"; e dettogli perché dunque aveva detto "signor no", harisposto: "Io m'era inteso se aveva veduto dei nostri compagni": soggiungendo: "No, signore, siano

  per la Vergine santissima, che non ho fallato"; le quali parole ultime, come sono state fuori di

 proposito, non essendo egli finora stato interrogato di alcun delitto specificatamente, così mettonoin necessità il giudice di voler sapere perché le ha dette, e però s'interroga ora perché dica, perché ha detto quelle parole fuori di proposito con tanta esagerazione».

 Resp.: «Perché non ho fallato».Ei dicto: «Che sopra tutte le cose che è stato interrogato adesso si vuole più opportuna risposta,altrimenti si verrà ai tormenti per averla».

 Resp.: «Torno a dire che non ho fallato, ed ho tanta fede nella Vergine santissima che mi ajuterà, perché non ho fallato, non ho fallato77 »Tunc jussum fuit 78 duci ad locum Eculei, et ibi torturae sujici, adhibita etiam ligatura canubis ad effectum ut opportune respondeat interrogationibus sibi factis, ut supra, et non aliter etc., et semper sine praejudicio confessi et convicti ac aliorum jurium etc.; prout fuit ductus, et ei reiterato

 juramento veritatis dicendae, prout juravit etc. fuit 79: Int.: «A risolversi a rispondere a proposito alle interrogazioni già fattegli, come sopra, altrimenti si farà legare e tormentare80». Resp.: «Perché non ho fallato, illustrissimo signore».Tunc semper sine praejudicio81; ut supra, ad effectum tantum, ut supra, et eo prius vestibus Curiaeinduto jussum fuit ligari, prout fuit per brachium sinistrum ad funem applicatus, et cum etiam ei

 fuisset aptata ligatura canubis ad brachium dexferum fuit denuo82: Int.: «A risolversi di rispondere a proposito alle interrogazioni dategli, come sopra, che altrimentisi farà stringere».

 Resp.: «Non ho fallato, sono cristiano, faccia V. S. illustrissima quello che vuole».Tunc semper sine praejudicio, ut supra, jussum fuit stringi, et cum stringeretur, fuit denuo83:

 Int.: «Di risolversi a rispondere a proposito alle interrogazioni dategli». Resp.: «Ah Vergine santissima, acclamando, non so niente».[...]Tunc jussum fuit fortuis stringi, et dum stringeretur, fuit pariter 84:

77 Nota autografa del Verri: “ Il suo modo di esprimersi era come si vede di ripetere le sue frasi come qui «non ho fallatonon ho fallato» e sopra «Signor no Signor no» ec.”78 “Tunc jussum fuit”: questa formula, come risulterà evidente scorrendo il testo (e come già accennato nella nota n.56), veniva premessa ogni volta che si “scalava un gradino” nella “scala” dei tormenti. In questo caso aveva il duplicecompito di segnalare, nel verbale, il passaggio all’ultima fase della parte della “terrizione verbale”.79 Trad. “ Allora fu comandato di condurlo al luogo del cavalletto ed ivi sottoporlo a tortura, usando anche la legatura

con la canape affinché rispondesse in modo opportuno alle interrogazioni fattegli, come sopra e non altrimenti, ecc. esempre senza pregiudizio del diritto del reo confesso e convinto degli altri diritti, ecc.; fu pertanto ivi condotto e,ripetutogli il giuramento di dire la verità, egli giurò ecc. e fu quindi”80 Anche la domanda dell’Inquisitore assumeva una forma tipica; si noti come, nelle fasi di terrizione reale (od in altrefasi strettamente collegate a questa) alla fine della formula, il giudice premettesse quale sarebbe stato il tormentoapplicato subito dopo.81 Talvolta il “Tunc jussum fuit ” era inframezzato (o, più raramente, sostituito) dall’espressione “semper sine praejudicio” (o, in altri casi, “ad omnem bonum finem”), la quale oggi ha un effetto ai limiti del sarcasmo ma, al tempoin esame, era sede di un forte significato formale: era il “lasciapassare” dell’Inquisitore, l’autocertificazione che non siagiva in tormento per pregiudizio ma perchè lo si riteneva utile per il bene comune, attestando così quell’azione comedel tutto legale.82 Trad. “ Allora, sempre senza pregiudizio, come sopra, agli effetti di quanto sopra, e dopo avergli fatto indossare abititalari, si comandò che fosse legato, quindi venne sospeso ad una fune per il braccio sinistro, dopo che anche al braccio

destro fu adattata una legatura di canape. E di nuovo:...”. 83 Trad. “  Allora sempre senza pregiudizio, come sopra, fu ordinato che si stringesse e, quando fu stretto, funuovamente”; si passava così al primo scalino della terrizione reale.84 Trad. “Fu ordinato allora di stringere più forte, e mentre lo si stringeva, gli fu chiesto ancora...” 

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 Int.: «A risolversi a dir la verità a proposito». Resp. acclamando: «Ah, signore illustrissimo, non so niente:».[...]Tunc postergatis manibus et ligatus, fuit in Eculeo elevatus85 , deinde86 .

 Int.:«A risolversi a rispondere opportunamente alle interrogazioni già dategli».

 Resp. acclamando : «Ah, illustrissimo signore, non so niente». Int. ad opportune respondendam, ut supra. Resp.: «Non so niente, non so niente. Che martirj sono questi che si danno ad un cristiano! Non soniente»Et iterum institus, ut supra.

 Resp.: «Non ho fallato».Tunc ad omnem bonum finem87  jussum fuit deponi et abradi, prout fuit depositus; et dumabraderetur fuit iterum88:[...]

 Int.: «A risolversi ormai a rispondere a proposito». Resp. acclamando : «Lasciatemi giù, che dico la verità».

Et dicto: «Che cominci a dirla, che poi si farà lasciar giù». Resp. acclamando : «Lasciatemi giù che la dico».Qua promissione attenta fuit in plano depositus89 , deinde90:[...]

 Int.: «A dire la verità che ha promesso di dire».  Resp.: «Illustrissimo signore, non so che dire, non so che dire; non si troverà mai che CarloVedano abbia fatta veruna infamità»

  Institus: «A dire la verità che ha promesso di dire, che altrimenti si farà di nuovo legare etormentare, senza remissione alcuna».

 Resp.: «Se io non ho fatto niente...».[...]Tunc jussum fuit stringi91 , et dum stringeretur acclamavit: «Aspettate che la voglio dire la verità».[...]Ei dicto: «Che si vuole che dica la verità».

 Resp.: «Ah, signore, se sapessi che cosa dire la direi».Et etiam institus ad dicendam veritatem, ut supra

 Resp. acclamando: «Ah signore, signore, non so niente».Et jussum fuit fortius stringi, et dum stringeretur, fuit denuo:

 Institus: «A risolversi a dire la verità promessa, e di rispondere a proposito». Resp. acclamando: «Non so niente, signore, signore, non so niente».

85 Qui la formula “Tunc jussum fuit ” subiva una leggera variazione per segnalare che si stava cambiando il metodo ditortura (passando così, di fatto, ad una ulteriore fase, nella quale il tormento sarebbe stato più doloroso del primo).86 Trad. “ Allora, postegli le mani dietro il dorso, fu sollevato sul cavalletto”. 87 Vd. nota n. 81.88 Trad. “Allora, ad ogni buon fine, fu ordinato che fosse messo a terra e che gli fosse rasato il capo; fu quindi depostoe, mentre lo si radeva, fu di nuovo...”. Si legge, in una nota autografa del Verri: “ pareva strano che resistesse a taltormento e si credeva che avesse un talismano ne’ capelli, perciò si tosò”; in realtà, a mio avviso, ciò che Verri riporta ènull’altro che le auto-giustificazioni che si davano i giudici per rendere lecita quell’azione:  la rasatura del capo, dellaquale si tratterà meglio nel paragrafo successivo, non solo era (ed è) una tortura a tutti gli effetti ma anche acquisiva (edacquisisce) un fortissimo significato simbolico.89 Questa formula segnala una interruzione della terrizione reale per una “interfase” obbligata (scrive il Pertile, op. cit.,che il tormento “interrompevasi immantinente se l’inquisito dichiarava di voler confessare”) nella quale all’Inquisito,

non più torturato, verrà chiesto non più di dire la verità, bensì di adempiere ad una promessa fatta (ossia quella di dire laverità).90 Trad. “Ottenuta la promessa, fu deposto a terra indi...”. 91 La formula “Tunc jussum fuit ” decreta la fine dell’interfase e la ripresa della terrizione reale.

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Et cum per satis temporis spatium stetisset in tormentis, multunque pati videretur, nec aliud ab eosperari posset, jussum fuit dissolvi et reconsignari, prout ita factum est 92” (Verri, “Osservazioni”).

5e. Le torture: tortura   strictu sensu e tortura latu sensu; tortura-mezzo e tortura-fine;

tortura fisica e tortura psicologica; deprivazione sensoriale e shock. 

“Varie e molte erano le specie di tormenti praticate nei diversi paesi, le une più dolorosedelle altre. V’era la morsa di ferro  cioè due lamine con prominenze, tra le quali con unavite si chiudevano i pollici; gli stivaletti o lo stivale spagnuolo  , ed era un simile congegnocon cui si stringeva la parte inferiore delle gambe; l’allacciatura   , che, giunte insieme lemani dell’inquisito, faceasi coll’attorcigliargli una funicella ben serrata intorno ai polsi od anche alle avambraccia; l’eculeo o cavalletto   , specie di scala od altro strumento elevatonel mezzo, e quindi d’ogni parte a piano inclinato, sul quale si distingueva l’inquisito,legandone in alto le braccia, per istirargli le membra con una corda avvinta a piedi e ches’avvolgeva su per un rullo. Simile a questo era il supplizio della colla o corda [conosciutoanche come “tratti di corda”, ndr ] , di tutti il più comune, e consisteva nel legare all’infelicele mani dietro la schiena nel legare all’infelice le mani dietro la schiena con una fune che

  passava per una carrucola infissa nel soffitto, e dall’altro capo era raccomandata ad uncilindro, intorno a cui annaspandola, si sospendeva in aria il torturato, che si lasciavacader giù precipitosamente, dandogli in questa maniera quelli che si dicevano tratti, scosseo saccate, le quali si potevano ripetere per ben tre volte, in un solo esperimento, a distanzadi dieci o quindici minuti93. Per rendere il tormento ancora più grave si attaccavano ai

  piedi dell’imputato pesanti ferri, ciò che ritenevasi il massimo dei supplizi, ovvero gli sigittavano giù pel dorso secchie d’acqua fredda94 [questa variante era chiamata anche “delloSquassamento”, ndr]. Si contava ancora la stanghella ; la veglia  , che consisteva nel tenere

 per quaranta or l’inquisito sopra uno scanno o in piedi con due persone al fianco, le qualinon lo lasciassero mai chiudere gli occhi al sonno; il conficcare stecchi appuntiti sotto leunghie; la scottatura versando zolfo o pece o lardo bollente sul corpo dell’Inquisito, oppuretenendogli la fiamma di parecchie candele o un bacino di brace sotto i piedi, sotto le ascelleo altrove; le quali scottature si adoperavano anche semplicemente per aggravare iltormento della corda o del cavalletto. Oltre i suddetti ed altri generi di supplizi ammessidalle diverse leggi, v’erano quelli arbitrari che inventava il capriccio dei giudici e deicarnefici95” (Pertile, op. cit.).

,

 92 Trad. “E, poiché era stato alla tortura per un tempo sufficiente ed era evidente che soffriva molto e che d'altra partenon vi era altro da sperare da lui, fu comandato di scioglierlo e di ricondurlo in prigione; ciò che fu fatto”. Scriveva ilPertile, op. cit.: “ In fatto il tormento si dava dal carnefice e dai suoi aiutanti, ma v’assisteva di necessità il giudice,spesso con altri ufficiali, e talora anche cogli avvocati od altri; i quali dovevano vegliare che non si eccedessero lemisure fissate dalle leggi o dalla sentenza, sospendere la tortura quando sembrasse necessario e fare scrivere lerisposte che dava l’inquisito durante il tormento”. 93 Riferimento autografo del Persile: “Melchiori, « Miscellan. Di materie criminali, trattato dei tormenti», e Grecchi cit.,I. 149 ss.”.94 Nota autografa del Persile: “Tutti questi tormenti sono ammessi e descritti, colle immagini degli strumenti e della loroapplicazione, nella Teresiana ert. 38 e relative appendici. V. inoltre Farinaccio, q. 38, n. 60 ss. – Bonifazi cit. dice chela corda è pena più grave della amputazione d’ambe le mani, e che viene equiparata alla morte”.95 Alcuni, veramente terribili, erano mutuati direttamente da quelli usati peculiarmente per la caccia alle streghe (alle quali, possiamodire, era riservato un trattamento “speciale” ed assai più cruento); tra questi ricordiamo l’Annodamento: si attorcigliavano

strettamente i capelli dell’Inquisito ad un bastone. I carnefici ruotavano l'attrezzo in modo veloce, provocando un enorme dolore e inalcuni casi arrivando a togliere lo scalpo e lasciando il cranio scoperto. Questa tortura fu usata in Germania anche contro gli zingari(1740-1750) e in Russia nel corso della Rivoluzione Bolscevica nel 1917-1918; la Cremagliera: era un modo semplice e popolare per estorcere confessioni. La vittima veniva legata su una tavola, caviglie e polsi. Rulli erano passati sopra la tavola (e in modo precisosul corpo) fino a slogare tutte le articolazioni; la Culla di Giuda (o Triangolo) l'accusato veniva spogliato e issato su un palo alla cui

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estremità era fissato un grosso oggetto piramidale di ferro. Alla fine all’Inquisito venivano fissati dei pesi alle mani e ai piedi; laFanciulla di Ferro o Vergine di Norimberga: era una specie di contenitore di metallo con sembianze umane (di fanciulla appunto) con

 porte pieghevoli. Nella parte interna delle porte, erano inserite delle lame metalliche. I prigionieri venivano chiusi dentro in modo cheil loro corpo fosse esposto a queste punte in tutta la sua lunghezza, ma senza ledere in modo mortale gli organi vitali. Poichè ci siaccorse che, in realtà, questa tortura provocava la morte per agonia cadde in desuetudine come tormento e divenne ben presto vera e

 propria pena; la Garrota: palo con un anello in ferro collegato alla vittima, seduta o in piedi, alla quale veniva fissato e poi stretto per mezzo di viti o di una fune. Spesso si rompevano le ossa della colonna vertebrale; la Mastectomia: consisteva nella lacerazione delcorpo per mezzo di tenaglie, a volte arroventate. Spesso le parti del corpo colpite erano parti simboliche (storico il caso di AnnaPappenheimer la quale si vide “strappare” i seni, che furono fatti ingurgitare ai figli) rendendo così la tortura fisica assieme anche

 psicologica; la Tortura della Pera: si usava un terribile strumento che veniva impiegato per via orale, rettale o vaginale. Una voltainseritolo nel pertugio scelto, l’arenese si “apriva” con un giro di vite (da un minimo a un massimo dei suoi segmenti); la SediaInquisitoria: era una sedia provvista di punte e aculei alla quale il condannato era legato mediante strette fasciature. Il fondo potevaessere arroventato per produrre gravi ustioni; la Tortura dell’ Acqua: veniva inflitta frequentemente a personaggi compromettenti, dalmomento che i suoi risultati non erano visibili esteriormente. Veniva fatta ingurgitare all'accusato una quantità spropositata d'acqua,finché il suo ventre non raggiungeva dimensioni abnormi, quindi veniva messo a testa in giù perchè la massa d'acqua pesasse suldiaframma e sui polmoni. Oltre al fortissimo dolore, ciò provocava gravi strappi e lesioni agli organi interni; la Tortura dell’Animale: un insetto, per lo più un tafano, a volte anche una o più api, veniva messo nell'ombelico dell'imputato, chiuso da un

 bicchiere di vetro. Alternativamente si poteva inserire la testa del malcapitato in un sacco pieno di bestie inferocite; la Tortura delTopo: un topo vivo veniva inserito nella vagina o nell'ano con la testa rivolta verso gli organi interni della vittima e spesso, l'apertura

veniva cucita. La bestiola, cercando affannosamente una via d'uscita, graffiava e rodeva le carni e gli organi dei suppliziati. Fonti:http://blog.libero.it/villaggio/3381424.html;http://gianruggeromanzoni.wordpress.com/2008/02/;http://misteriemisteri.splinder.com/tag/tortura+nel+medioevo. Nelle immagini (dall’alto verso il basso, da sinistra verso destra): vari arnesi di tortura, la sedia inquisitoria,la Vergine di Norimberga, un Mastectomia, la Tortura dell’Acqua (2 immagini), la Tortura della corda (due immagini), Cremaglierae relativa tortura, Triangolo e relativa tortura (2 immagini).

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Per quanto riguarda il processo ai due untori, almeno nella selezione di verbali e nelracconto del Verri, risultano essere state usate solo le tre torture più comuni: quella dellacorda in prima fase e quella del cavalletto in seconda fase per quanto riguarda le torture più

 propriamente fisiche96, quella della rasatura in terza fase per quanto riguarda le torture più propriamente psicologiche – tant’è che lo stesso Verri osservava, nell’opera in esame, che“non può mettersi in dubbio che nell’epoca delle supposte unzioni pestilenziali la torturanon sia stata veramente atrocissima. Ma si potrebbe anche dire chi i tempi sono mutati eche fu allora un eccesso cagionato dalla estremità de’ mali pubblici da non servire diesempio97 . Io però credo che al giorno d’oggi la pratica criminale sia diretta da queimedesimi libri che si consultavano nel 1630, e appoggiavato su questi parmi facile cosaconoscere che veramente la tortura è un infernale supplizio”.Proprio sulla distinzione tra tortura fisica e tortura psicologica, ad avviso di chi scrive, ènecessario soffermarsi, premettendo dapprima un’altra distinzione, che potremmo direquella tra tortura-mezzo (od interrogatoria, o strictu sensu) e tortura-fine (od esemplare,riconducibile ad una definizione di tortura latu sensu), la quale distinzione null’altro è chequella, di assai più immediata comprensione ed assai netta, tra interrogatorio e pena. É statovisto come la vicenda della Colonna Infame si concluse, venga perdonata la ripetizione, conla scena dei condannati “condotti su di un carro, tenagliati in piú parti”, i quali “ebbero,strada facendo, tagliata la mano; poi rotte le ossa delle braccia e gambe, s'intralciaronovivi sulle ruote e vi si lasciarono agonizzanti per ben sei ore, al termine delle quali furono

 per fine dal carnefice scannati, indi bruciati e le ceneri gettate nel fiume” (Verri, op. cit.).  Non vi è dubbio che, dando alla parola tortura il significato lato e generico di “gravesofferenza fisica o morale, tormento”, “  fastidio, molestia” inferta ad un individuo “anchesemplicemente per vendetta, malvagità, ferocia”98, l’epilogo della vicenda della ColonnaInfame sia quello di una serie di tormenti imposti ai condannati. Allo stesso modo,scrivendo della sorte del Baruello, il Verri sottolineò, in una parentesi, come la pena, la c.d.“sentenza di morte”, per quanto riguarda gli untori pestiferi, non consistette nella sempliceuccisione, bensì ognuno di essi fu sottoposto a “le tenaglie, il taglio della mano, la rotturadelle ossa e l'esposizione vivo sulla ruota per sei ore” per poi “essere finalmente scannato”.Tuttavia il Verri precisò: “col nome di tortura non intendo una pena data ad un reo per sentenza, ma bensì la pretesa ricerca della verità co’ tormenti”99; occorre, dunque, dare allatortura un significato ben più stretto e circoscritto, ossia quello di “ tormento fisico o moralecui viene sottoposto un individuo, allo scopo di estorcergli confessioni o dichiarazioni utiliall’accertamento di fatti non altrimenti accertabili”100: su questo significato di tortura ilVerri muove le sue osservazioni, relegando la tortura-fine nel solo ambito delle pene.

96  Osserva correttamente Alfredo Martini, nell’articolo “  Arti e mestieri nella Roma di ieri”: “Più comunemente siinfliggevano [...] tratti di corda o il cavalletto” i quali “erano, in quei tempi un trattamento umano”. Alla tortura dellacorda ed a quella del cavalletto Giuseppe Gioacchino Belli dedicò dei sonetti, quali il Sonetto n. 1733 – “ Lo spazzettodella corda ar corso” (Roma 12 novembre 1835): “Prima la corda al corso era un supprizzio / che un galantuomo chel’avessi presa / manco era bbono ppiù a sservì la cchiesa, / manco a ffà er ladro e a gguadaggnà sur vizzio ”; il Sonetton. 253 – “ La corda ar corzo”, (Roma 21 novembre 1831): “che for de quer tantino de brusciore / un galantuomo, senzastacce a letto, / pò annà per fatto suo come un signore”;il Sonetto n. 844 – sulla tortura del cavalletto – (Piazza NavonaRoma 1 febbraio 1833): “Ccquà s’arza er cavalletto che dispensa / sur culo a chi le vò trenta nerbate”. 97 Al contrario, per gli studiosi di oggi, il fatto che il processo agli untori pestiferi non fu un evento straordinario edeccezionale riveste quella storia del carattere della esemplarità in quanto è certamente più efficace ed utile analizzare uncaso come tanti altri che non uno il quale, essendo del tutto unico ed irripetuto, non consentirebbe di cogliere i caratteri

tipici del rito torturatorio medievale in genere.98 Fonte: Devoto-Oli, op. cit.99 Verri, “Osservazioni”100 Fonte: Devoto-Oli, op. cit.

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Riguardo alla distinzione tra tormenti fisici e tormenti morali (o psicologici) vi è dasottolineare, come vedremo, che i due elementi non sempre fossero (e siano) del tuttoseparati; allo stesso modo la distinzione tra tortura-mezzo e tortura-fine non sempre era (edè) così netta. Mi riferisco, per quanto riguarda questa seconda affermazione, all’eventualitàche il tormento porti a dei danni permanenti (sia sul piano fisico che su quello psichico) che,dunque, da un lato non consentano di inquadrare la tortura come un semplice mezzo per ottenere una confessione (una delle argomentazioni degli illuministi – segnatamente degliutilitaristi, come abbiamo visto, si basava proprio su questo punto: perchè segnare a vita una

 persona prima di sapere se questa è innocente o meno? O, se già si sa che quella persona ècolpevole, per quale motivo era necessario torturarla? In questo secondo caso è evidente chenon di tortura si trattava bensì di pena), dall’altro la portino ad assomigliare, per alcuniaspetti, al marchio d’infamia (del quale si dirà tra poco) in quanto hanno in comunel’irreversibilità e la pubblicità degli effetti.Più specificatamente sulla distinzione tra tormenti fisici e tormenti psicologici, infine, vi èda dire che i due campi si incontrano in due particolarissimi tipi di tortura: la deprivazionesensoriale e lo shock. L’uso di queste due forme di tormento si è notevolmente incrementatodal momento in cui è stato possibile intraprendere uno studio scientifico sulla tortura (edunque marcatamente degli anni della c.d. “Guerra Fredda”) poichè se ne è megliocompreso il devastante potenziale101. Per quanto riguarda la deprivazione sensoriale, adesempio, nel 1951 Donald Hebb (lo psicologo da cui mosse i suoi studi Ewen Cameron)“convinse 63 studenti della McGill a farsi isolare in una stanza con un benda sugli occhi,cuffie che trasmettevano rumore bianco102 e tubi di cartone che coprivano le braccia e lemani per interferire col senso del tatto. Per giorni gli studenti galleggiavano in un mare dinulla, occhi, orecchie e mani incapaci di aiutarli a orientarsi, vivendo nelle loro sempre piùvivide immaginazioni. [...] In un rapporto confidenziale sulle scoperte di Hebb, il Defence

  Research Board affermava che la deprivazione sensoriale causava evidentementeun’estrema confusione, oltre ad allucinazioni tra gli studenti sottoposti al test; e che «unsignificativo temporaneo abbassamento dell’efficienza intellettiva si è verificato durante eimmediatamente dopo il periodo di deprivazione percettiva»”. [...] Il rapporto di Hebbsottolinea che quattro soggetti «affermarono spontaneamente che entrare in quelle stanzeera una forma di tortura»103”. Nel 1997 la Cia rese noto un manuale segreto di 128 paginescritto nel 1963, dal titolo “Kubark”104, di metodi per “interrogare fonti reticenti”, sul qualesi può leggere “la deprivazione di stimoli induce regressione sottraendo alla mente delsoggetto ogni contatto con il mondo esterno e dunque forzandola su se stessa. Allo stesso

101 Osserva acutamente Naomi Klein (op. cit.) che quella che fa un oculato e scientifico uso della deprivazionesensoriale e dello shock “rappresenta una nuova era della tortura moderna, raffinata e metodica: ben lontana dallatortura imprecisa e cruenta che aveva rappresentato lo standard sin dai tempi dell’Inquisizione spagnola”102 L’uso comune, che anche la Klein fa, dell’espressione “rumore bianco” è in realtà errato. Con l’espressione “rumore bianco” si intende un rumore non elaborato, ossia un rumore strictu sensu, un “  fenomeno sonoro di carattere causale privo di periodicità” (fonte: voce “rumore” dell’“Enciclopedia della Musica” DeAgostini); In Teoria Generale dellaMusica si è poi cristallizzato meglio il significato di “rumore bianco”, distinguendolo da altri tipi di rumore sulla basedelle frequenze (il “rumore bianco”, per dirsi tale, dovrebbe avere ampiezza costante su tutto lo spettro di frequenze,ragion per cui rimane un concetto del tutto teorico, probabilmente – al riguardo si discute – non esistente neppure innatura, certamente non sintetizzabile o campionabile – almeno stando alle conoscenze odierne – poichè una sequenzacasuale non può essere generata da una macchina deterministica). Poichè si ritiene che il “rumore bianco” sia qualcosadi simile ad un fruscio, comunemente per “rumore bianco” si intende un suono che riesca ad avere uno spettro simile a

quello del rumore bianco. Un esempio (per la verità abbastanza impreciso) si può trovare all’indirizzohttp://www.youtube.com/watch?v=aIZMkZjpQkU&feature=related .103 N. Klein, op. cit.104 Con tutta probabilità un criptomino, come rilevato il 9 febbraio 1997 da Tim Weiner sul New York Times.

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tempo, la fornitura calcolata di stimoli durante l’interrogatorio tende a far sì che ilsoggetto regredito veda in chi lo interroga una figura paterna”. L’utilità dello shock (di cuila forma più nota è, oggi, quella del c.d. “elettroshock”), invece, è, secondo gli studi diCameron, quella di “annichilire la memoria”, la qual cosa non è affatto di poco conto se si

 pensa che, per lo stesso Cameron, le due forze che consentono ad un uomo di mantenere unaimmagine del tempo e dello spazio sono, da un lato, il continuo input sensoriale (che vieneannichilito con la deprivazione sensoriale), dall’altro, proprio la memoria. Per quantoriguarda gli Inquisitori, pur non essendo le loro conoscenze così avanzate e raffinate, èindubbio che avessero compreso alla perfezione, almeno in parte, il potenziale delladeprivazione sensoriale e dello shock, come, a me pare, risulta molto evidente nell’incipit  del passo delle “Osservazioni” del Verri in cui si descrive il secondo interrogatorio delPiazza: “abraso prius dicto Gulielmo et vestibus curiae induto, propinata etiam, si itavidebitur praefatis praesidi ct capitaneo, potione expurgante105”. L’impossibilità di usaregli arti per impedire la rasatura portava ad una sensazione di impotenza e rappresentava unasorta di rozza deprivazione sensoriale; la purga rappresentava uno shock: altrimenti gliInquisitori non avrebbero avuto alcun motivo di agire nella descritta maniera, dal momentoche quei tipi di tortura si procurano, sì, per interazione fisica ma i danni che provocano sonototalmente psicologici.

5f. Marchio d’Infamia

L’ultimo elemento da considerare è quello del marchio d’infamia, da cui prende il nomel’intera vicenda. Occorre soffermarsi sul significato delle parole: il termine “màrchio” ècertamente qui inteso nel suo significato figurato di “impronta infamante destinata arimanere impressa per tutta la vita”, laddove quell’impronta poteva assumere a sua volta ilsignificato di marchio strictu sensu, ossia di “segno indelebile di riconoscimento [...] che, in

 passato, veniva impresso sulla pelle di chi si fosse macchiato di delitti infamanti”106, oppureforme diverse, più o meno eclatanti, come quella araldica107 , come un simbolo da esibirenella vita pubblica (come ad esempio avvenne per gli ebrei durante la seconda guerramondiale), come una colonna eretta al posto della abitazione del criminale infame (è il casodella celebre Colonna Infame), etc.; per quanto riguarda il termine “infàmia”, questo sta adindicare “quanto è sentito come atrocemente indegno della dignità umana sul pianoidividuale o sociale”, sicchè l’espressione “segnare, bollare con il marchio d’infàmia”assume il significato di “additare al pubblico disprezzo”108, anche semplicemente per segnalare una diversità (ritenuta) scandalosa. Per questo motivo il marchio d’infamia è unelemento ed un momento distinto e non del tutto assimilabile nè a quello della pena per sentenza nè a quello degli effetti indelebili lasciati dalla tortura.Il processo inquisitorio (o, in via generale, un qualunque tipo di processo) era nient’altro cheun modo considerato, in un certo senso, autorevole per accertarsi dell’infamia, fermo

105 Trad. “dopo aver provveduto a rasare il capo al sunnominato Guglielmo, a vestirlo con abiti curiali e, se sembravaopportuno al presidente e al capitano predetti, a somministrargli una pozione purgativa”.106 Fonti: Devoto – Oli, op. cit.107 Il marchio d’infamia araldico era particolarmente evidente negli stemmi raffiguranti animali: la famiglia il cuicomponente si era macchiato di crimine infamante legato a violenze sessuali od adulterio vedevasi mutato il colore

degli organi sessuali degli animali araldici; la coda tra le gambe era simbolo di codardia; l’animale rivolto a sinistra(laddove gli animali araldici sono sovente rivolti verso destra) era pure segno di codardia o, comunque, di carenza divalore; l’animale privo di coda, che suscitava ilarità, era invece legato a crimini di diffamazione.108 Fonti: Devoto - Oli

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restando che il marchio d’infamia non era una conseguenza in senso stretto del processo(anche se nel medioevo ne divenne, di fatto, elemento caratteristico) e, come nella storia èsuccesso, poteva anche viaggiare separato da quello (quale processo stabilì, nei primi annidel secolo XX, che gli ebrei erano da considerarsi “infàmi”).Riguardo ai rapporti che intercorrono tra marchio d’infàmia e tortura sono da considerarsi, a

  parere di chi scrive, tutti rientranti nel solo ambito limitato (o fin troppo generico) dellatortura intesa latu sensu, alla quale il marchio d’infamia dovrebbe certamente appartenere. Ilmarchio è, piuttosto, l’esempio più lampante di “vendetta sociale”, tant’è che, tra glielementi caratteristici del processo criminale medievale ed esclusa la tortura, è stato quelloche ha avuto più fortuna nella storia, anche perchè è stato possibile, con interpretazioni – ame pare – forzate, renderlo compatibile con scritture sacre diffusamente riconosciute (è ilcaso, ad esempio, della legge c.d. “del taglione” contenuta – anche – nella Bibbia, nellafamosa formula “occhio per occhio, dente per dente”: allo stesso modo al diffamatore devevenire “diffamato” l’araldo, etc.). Non a caso, tra la reintroduzioni dei meccanismiinquisitori che furono fatti nel Code Pénal del 1810, il marchio d’infamia fu quella forse piùevidente.Oltracciò che si è fin qui detto, tuttavia, riteniamo che, in questa sede, non sia d’uopoindugiare oltre su questo tema, giacchè non solo il Verri non vi si soffermò affatto ma anchenon sembrano esserci collegamenti rilevanti tra tortura strictu sensu e marchio d’infamia.

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6. Verri tra utilitarismo e compassione

I conoscitori delle opere di Pietro Verri e, più in generale, della filosofia degli aderenti a “ IlCaffè” ben sanno che non è sufficiente limitarsi a parlare di “Illuminismo”. Certo non èquesta la seda idonea per un approfondimento su tutte le correnti, sub-correnti, prese di

 posizione interne nelle culture e nelle dottrine del XVIII sec.; tuttavia non può tacersi, comevedremo, la decisa appartenenza del Verri (oltre che del Beccaria, etc.) alla corrente c.d.“utilitaristica”: sia perchè quella traspare anche nelle “Osservazioni”, sia perchè il punto divista dell’opera in esame assume tratti assai peculiari sul tema che è necessario sottolineare(abbiamo già potuto osservare che il Verri si propose, con quest’opera, di affrontarel’argomento della tortura senza ricorrere ai “supremi principj di legislazione” – obiettivoche, a me pare, solo in parte, riuscì a perseguire).Possiamo dividere le correnti di pensiero Illuministiche in ambito giuridico, grossomodo, intre grandi filoni (talvolta conosciuti, non a torto, come “le tre ideologie109 penali”):

-  Utilitarismo: “implica che la sanzione penale”, od una qualunque altra azionecompiuta dai giudici all’interno della procedura criminale, “non debba avere né contenuti né scopi morali”: “devono essere puniti solo quegli atti che è utile, inragione della pace pubblica e della finanza statale, siano puniti110”;

-  Umanitarismo: a sua volta diviso in diverse sub-correnti (Manzoni apparteneva alc.d. “umanitarismo cattolico”), è fondato su una profonda convinzione dell’ugualedignità di tutti gli esseri umani; in ambito penale si traduce nell’implicazione chenessuna azione inflitta dai giudici debba essere più grave di quanto non siastrettamente necessario, non perchè lo prescrive il princìpio di utilità ma perchèlederebbe in misura ingiustificata la dignità di un altro essere umano;

-  Proporzionalismo: “  Il proporzionalismo, postula che la pena”, od una qualunquealtra azione compiuta dai giudici all’interno della procedura criminale, “ debba starein un rapporto fisso e determinato con il reato. Il carattere di proporzionalità delle

  pene rispetto alla gravità dei reati si configura in un modello astratto, dove per mezzo del calcolo, in conformità ad alcuni criteri quali: la fissazione dei minimi edei massimi per ogni tipo di reato e una gerarchia di beni e interessi prescelti dallegislatore come meritevoli di protezione”111.

Più specificamente riguardo all’Utilitarismo, che più degli altri ci preme di approfondire, varicordato che “la dottrina ha le sue origini nel pensiero greco: stando alle testimonianzesembra già compiutamente articolata in Protagora e, con inclinazioni più nettamenteedonistiche, nei cirenaici e negli epicurei [...]; ma è con J. Bentham, alla fine del sec. XVIII,che assunse l’aspetto di scuola o di definita corrente di pensiero, alla quale J.S. Millapplicò il termine di utilitarismo. [...] Bentham definì l’utilità come ciò che producevantaggio, piacere, bene o felicità, intendendo questi termini come sinonimi. [...] Qui si

109 Sulla differenza tra “teoria” ed “ideologia” (e tra “giudizi di fatto” e “giudizi di valore”) si rimanda a Bobbio, “ Il  positivismo giuridico”, il quale sottolinea come i due termini non vadano assolutamente confusi: “la teoria èl’espressione dell’atteggiamento puramente conoscitivo che l’uomo assume di fronte a una certa realtà, ed è quindicostituita da u ncomplesso di giudizi di fatto che hanno il solo scopo di informare gli altri su tale realtà; l’ideologiainvece è espressione dell’atteggiamento valutativo che l’uomo assume di fronte a una realtà, e consiste in un complessodi giudizi di valore relativi ad essa, giudizi che si fondano sul sistema di valori accolto da colui che li formula, e chehanno lo scopo di influire su tale realtà”.110 La citazione è da Procaccini, 2006, il quale, in nota, rimanda a G. Tarello, Storia della cultura giuridica moderna, IlMulino, Bologna, 1976, pp. 386-389.111 La citazione è da Procaccini, 2006, il quale, in nota, rimanda a L.Ferrajoli,, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Laterza, Bari, 1989, p. 389 - 395

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radica il princìpio sociale dell’utilitarismo, in quanto non c’è vero utile per l’individuo seesso non favorisce il maggiore bene possibile per tutti [...]. Fu Mill a mostrare ilmeccanismo psichico associativo attraverso il quale ciò che è originariamente oggetto diegoistici sentimenti di utilità si trasforma, alla fine, in percezione di valori e moventidisinteressati: egli ricostruì dunque la genesi naturale della simpatia e della benevolenzasociali, che Bentham aveva assunto come semplici istinti originali. [...] La scuolautilitaristica (che ebbe il proprio organo nella «Westminster Review») esercitò bastainfluenza in sede politica, ispirando riforme sociali di impronta liberale [...]. Essa suscità

  peraltro oppsizioni da parte dei romanticisti Coleridge e Th. Carlyle, del kantiano W. Hamilton e, in nome della morale cattolica, di A. Manzoni112”.Che l’impostazione del Verri sia di tipo utilitaristico risulta evidente non solo dalleargomentazioni che abbiamo già esaminato all’inizio di questo lavoro, ma anche dallostesso impianto dell’opera nella quale, due capitoli dopo il racconto della storia dellaColonna Infame, furono inseriti tre capitoli dal titolo “Se la tortura sia un mezzo per conoscere la verità”, “Se le leggi e la pratica criminale risguardino la tortura come unmezzo per avere la verità” e “Se la tortura sia un mezzo lecito per iscoprire la verità”: se,come risultò dall’analisi del Verri, la tortura non era utile per scoprire la verità, non vi eraragione perchè questa fosse praticata. In questo, a me pare, Verri tradì in parte il propositodi argomentare evitando i “sublimi principj di legislazione”.Tuttavia nelle argomentazioni delle “Osservazioni” viene inserito anche un punto di vistadel tutto originale: quello della “compassione”. Il capitolo immediatamente successivo alracconto della vicenda si intitolava “Se la tortura sia un tormento atroce” il quale sembra

 preludiare ad un tipo di argomentazione estranea all’ottica utilitaristica. In realtà ciò non èdel tutto vero; scriveva il Verri: “  I fautori della tortura cercano calmare il ribrezzo, che

  ogni cuore sensibile prova colla sola immaginazione del tormento113. Poco è il male,

dicono essi, che ne soffre il torturato; si tratta di un dolore passaggero, per cui non accademai l'opera di medico o cerusico; sono esagerati i dolori che si suppongono. Tale è il primoargomento, col quale si cerca di soffocare il raccapriccio, che alla umanità sveglia la ideadella tortura”. Si noti, dunque, come il momento della compassione sia collaterale (ed, anzi,venga prima) a quello della utilità: i fautori della tortura riconoscono che dal punto di vistadella compassione la tortura “non passa l’esame” perchè provoca raccapriccio, tuttaviasostengono che sia un male passeggero e necessario in quanto la tortura è un mezzo utile per scoprire la verità; dimostrando il Verri che la tortura non è un mezzo utile per scoprire laverità, riporta il problema al precedente livello della “compassione”. Più avanti, infatti, silegge: “Se la inquisizione della verità fra i tormenti è per se medesima feroce, se ellanaturalmente funesta la immaginazione di un uomo sensibile, se ogni cuore non pervertitospontaneamente inclinerebbe a proscriverla e detestarla; nondimeno un illuminatocittadino preme e soffoca questo isolato raccapriccio e contrapponendo ai mali, dai qualiviene afflitto un uomo sospetto reo, il bene che ne risulta dalla scoperta della verità neidelitti, trova bilanciato a larga mano il male di uno colla tranquillità di mille. Questodebb'essere il sentimento di ciascuno, che, nel distribuire i sensi di umanità, non faccial'ingiusto riparto di darla tutta per compassionare i cittadini sospetti, e niente per il

112 Estratto dalla voce “Utilitarismo” a cura di Ferraris, Marconi, Vattimo, 1993; lo scontro tra umanitarismo edutilitarismo fu il campo di battaglia del secondo grande contrasto tra l’impostazione verriana e quella manzoniana nel

commentare la vicenda delle unzioni (dopo quello sul ruolo dell’ignoranza): “a differenza di chi lo aveva precedutonell’analisi degli atti del processo, l’autore dei Promessi Sposi riteneva che la tragedia degli untori andasse ricondottainteramente sul piano della coscienza” (Contarini, “ Introduzione”).113 Grassetto mio, per evidenziare la definizione di “compassione” data dal Verri in questo passo; ndr  

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maggior numero de' cittadini innocenti. Questa è la seconda ragione, alla quale si cerca diappoggiare la tortura da chi ne sostiene al giorno d'oggi l'usanza come benefica ed opportuna, anzi necessaria alla salvezza dello stato.

 Ma i sostenitori della tortura con questo ragionamento peccano con una falsa supposizione.Suppongono che i tormenti sieno un mezzo da sapere la verità: il che è appunto lo statodella questione. Converrebbe loro il dimostrare che questo sia un mezzo di avere la verità,e dopo ciò il ragionamento sarebbe appoggiato; ma come lo proveranno? Io credo per locontrario facile il provare le seguenti proposizioni: Prima, che i tormenti non sono unmezzo di scoprire la verità. Seconda, che la legge e la pratica stessa criminale nonconsiderano i tormenti come un mezzo di scoprire la verità. Terza, che quand'anche poi untal metodo fosse conducente alla scoperta della verità, sarebbe intrinsecamente ingiusto”(Verri , “Osservazioni”).Si invita il lettore a soffermarsi su due espressioni della citazione sopra riportata: la prima è“illuminato cittadino”, espressione che, nell’età dei Lumi, assume un rilievo bencomprensibile; la seconda è “intrinsecamente ingiusto”, finale dell’ultimo capoverso.Osserva acutamente S. Contarini, in “ Introduzione”, proprio soffermandosi sull’espressionein esame, che “spetta al discorso empirico e pragmatico di Pietro [...] la scoperta forse piùrivoluzionaria del dibattito per una giustizia illuminata [...]. Il conflitto tra utilitarismo e

  filantropia [...] in Verri dà spazio a una concezione più ampia del diritto che finisce per cancellare l’idea stessa di un utilità che non accolga al suo interno la giustizia”. Il giudizioche Verri diede della tortura non fu in ogni caso un giudizio morale: da buon illuministal’essere più o meno giusto derivava dalla conformità ai criteri della ragione. La compassioneveniva “intesa come riconoscimento del legame fisico, immediato e imprescindibile, cheunisce l’uomo all’uomo. [...] rappresenta nel secolo dei Lumi la voce stessa della natur chereclama una giustizia umana fondata sulla prevenzione e non sulla vendetta, sulla«dolcezza delle pene» e sul rifiuto della pena di morte” (Contarini, “ Introduzione”). E se èvero che lo stesso Verri, nel “  Discorso sulla Felicità” scriveva che “indipendentementedalla ragione, sembra quasi per istinto che l’uomo alla vista d’un altro uomo che siaaddolorato patisca, e da questo patire come per simpatia ne deriva la voce compassione”, èaltrettanto vero che subito dopo si affrettava a dare un contenuto a quel “sembra quasi”,scrivendo: “ I bambini fanno ridendo delle azioni crudeli e sono insensibili talvolta ai malialtrui, perchè non hanno idea di quello che soffre l’oggetto che hanno presente, ma l’uomocomune ancora soffre nel vedere soffrire un suo simile, e a meno che non si sia con replicatiatti costantemente incallito alla vista dei mali, [...] pochi uomini reggeranno a starsene per la prima volta col giudice criminale che fai dai sgherri slogare le ossa a un infelice collatortura”. La compassione, dunque, non veniva considerata affatto un sentimento istintivo,dal momento che l’uomo non vi nasceva ma la acquisiva (con la ragione) e, in taluni casi,come quello dei giudici criminali, la poteva perdere (perdendo, assieme, la ragione).

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7. Conclusioni

Esaminato, in questo mio modestissimo lavoro, il contesto storico e culturale in cui si svolsela redazione dell’opera del Verri che ho tentato di analizzare e quello di cui la stessa operanarra, ho desiderio di trarre alcune brevissime conclusioni al riguardo di quanto ho scritto.Molto ci sarebbe ancora da esaminare, qualcosa è stato detto, talvolta con spunti, spero, utilied originali, talvolta ricorrendo ad ampie citazione di studiosi che, per esperienza ecompetenza, ho ritenuto più idonei del sottoscritto ad illustrare certe circostanze.Quando ho cominciato a studiare per questa breve relazione non avevo intenzione discrivere una relazione fine a se stessa, nel senso che ho cercato, dove possibile, di portarel’attenzione del lettore su contingenze più recenti ed attuali, poichè ho sempre creduto chel’analisi di documenti e circostanze storiche non si esaurisse in un mero eserciziointellettualistico dello studioso, ma fosse il presupposto per l’esame di tutto ciò che è statodopo, fino ai giorni nostri e dopo di questi (celebre l’affermazione del Savigny per la quale“il diritto è nient’altro che la storia del diritto”).Di recente è uscito, sul quotidiano “la Repubblica” (26.IX.2009) questo breve articolo diMichele Serra:“ La detenzione della giovane reporter Roxana Saberi nel carcere di Teheran con l´accusadi "spionaggio" è il classico autogol di un regime troppo sicuro di sé. Sull´onda dellavicenda di Roxana emerge la truce verità: i detenuti politici, in Iran, sono decine dimigliaia, quasi tutti ragazzi, studenti, adolescenti che non vogliono vivere sotto la cappa del

 fanatismo religioso. I giornali intervistano rifugiati politici e esuli, emergono torture fisichee psicologiche da giunta cilena o argentina, emerge la ferocia classica delle dittatureaggravata, se possibile, dallo scontro frontale tra l´arcaismo ottuso della teocrazia e gliistinti tipici della modernità: vestirsi come si vuole, pensare quello che si preferisce, viverecome ciascuno ritiene giusto. Sorprende (non favorevolmente) pensare che il mondodemocratico, negli ultimi anni, ha speso la totalità delle sue pressioni politiche su Teheran

  per la questione del nucleare, quasi omettendo di battersi contro l´oppressione delle persone fisiche, la persecuzione metodica di molte migliaia di giovani persiani. Il nucleareè certamente un problema delicatissimo, ma appartiene al campo della lotta di potere tragli Stati. La tortura, il carcere, la censura, mietono vittime adesso, stroncano vite adesso.Speriamo che il nome di Roxana Saberi rimanga nei titoli di giornale almeno quantol´uranio arricchito” .Al di là delle singole ed intime convinzioni personali, chi avrà letto attentamente le paginedi questa relazione avrà, ad esempio, elementi per comprendere cosa si intende con “torture

 fisiche e psicologiche” o, più semplicemente, quale complesso mondo c’è, oggi, dietro lasola parola “tortura”; se questa possa considerarsi utile o meno; se sia una azione daconsiderarsi razionale.La cultura con cui immancabilmente ci si viene a scontrare (rectius, incontrare) quando siviene ad interagire con le “Osservazioni” del Verri, costituisce, a mio avviso, un impiantoancora valido per affrontare i temi di più ardente attualità; si pensi solo a come il sistema siaentrato in crisi davanti al problema dalla c.d. “castrazione chimica” in ambito penale, dalmomento che l’obiezione, di provenienza marcatamente utilitaristica, per la quale quellasarebbe stata una forma repressiva ed esemplare di tortura-fine del tutto inutile a fronte della

carcerazione del soggetto criminale è stata messa in crisi da alcune autorevoli voci, provenienti dal mondo della scienza, per la quale la stessa è da considerarsi come forma di

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 prevenzione che, anzi, favorirebbe il reinserimento in società del soggetto eliminandone i pericolosi istinti di natura ormonale.Di tortura, infine, se n’è parlato largamente in questo periodo dal momento che la nuova

  presidenza di Obama ha deciso di rendere pubblici i documenti relativi a Guantanamo,confermando di fatto le informazioni che la più volte citata Naomi Klein avevafaticosamente messo assieme in questi anni.

 Non potendo, tuttavia, affrontare in questa sede problemi di così enorme portata, ho decisodi concludere questo lavoro, dedicato alle “Osservazioni sulla tortura” di Pietro Verri, noncon parole mie, bensì con le parole che l’Autore stesso usò, nell’opera inesame, nell’ultimo

 brevissimo capitolo chiamato, per l’appunto, “Conclusione”. Il lettore avveduto, pure allaluce di quanto è stato scritto in questa relazione, saprà trarre conclusioni debite che vadanoanche al di là dello stretto significato delle parole che il Verri scrisse più di duecentotrentaanni or sono:“Io ben so che le opinioni consacrate dalla pratica de' tribunali, e tramandateci collaveneranda autorità de' magistrati, sono le più difficili e spinose a togliersi, né possolusingarmi che ai nostri sia per riformarsi di slancio tutto l'ammasso delle opinioni chereggono la giurisprudenza criminale. Credono tutti quei che vi hanno parte, che siaindispensabile alla sicurezza pubblica di mantenere la pratica vigente: la loro opinione,vera o falsa che sia, non pregiudica alla purità del fine che li move. Però conviene che glisostenitori della tortura riflettano, che i processi contro le streghe e i maghi eranoegualmente come la tortura appoggiati all'autorità d'infiniti autori, che hanno stampatosulla scienza diabolica; che la tradizione de' più venerati uomini e tribunali insegnava dicondannare al fuoco le streghe e i maghi, i quali ora si consegnano ai pazzarelli, dacché èstato dimostrato che non si danno né maghi né streghe. Tutto quello che si può dire in

  favore della tortura, si poteva cinquant'anni sono dire della magia. Mi pare impossibile,che l'usanza di tormentare privatamente nel carcere per avere la verità possa reggere per lungo tempo ancora, dopoché si dimostra che molti e molti innocenti si sono condannati alsupplizio per la tortura: che ella è uno strazio crudelissimo, e adoperato talora nella piùatroce maniera: che dipende dal capriccio del giudice solo e senza testimonj l'inferocirecome vuole: che questo non è un mezzo per avere la verità, né per tale lo considerano leleggi, né i dottori medesimi: che è intrinsecamente ingiusta: che le nazioni conosciutedell'antichità non la praticarono: che i più venerabili scrittori sempre la detestarono: che siè introdotta illegalmente ne' secoli della passata barbarie: e che finalmente oggigiornovarie nazioni l'hanno abolita e la vanno abolendo senza inconveniente alcuno” (Verri,“Osservazioni”).

Giuliano SergesRoma, 27 aprile 2009

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