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Pouzzoles antiqueCharles Dubois 1907 PARTE STORICA. Cap. I “Pozzuoli prima dell’epoca romana. I Epoca greca Colonizzazione samiese ( da pag. 1 a pag. 23) Non abbiamo che poche notizie sui più antichi abitanti di Pozzuoli. Non si trovano tracce in questa città di popolazioni pre-elleniche, come a Cuma; non è stata scoperta nessuna tomba dell’epoca greca. Tre o quattro testi letterari sono i nostri soli documenti; se li chiariamo e li completiamo perché sappiamo la prima storia della Campania, potremo raffigurarci le cose pressappoco in questo modo.

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“Pouzzoles antique”Charles Dubois

1907

PARTE STORICA. Cap. I “Pozzuoli prima dell’epoca romana.

I Epoca grecaColonizzazione samiese ( da pag. 1 a

pag. 23)

Non abbiamo che poche notizie sui più antichi abitanti di Pozzuoli. Non si trovano tracce in questa città di popolazioni pre-elleniche, come a Cuma; non è stata scoperta nessuna tomba dell’epoca greca. Tre o quattro testi letterari sono i nostri soli documenti; se li chiariamo e li completiamo perché sappiamo la prima storia della Campania, potremo raffigurarci le cose pressappoco in questo modo.Il promontorio di Pozzuoli fu dapprima compreso nel territorio di Cuma, la cui dominazione si estendeva sul territorio più fertile della pianura campana secondo Dionisio d’Alicarnasso cioè su tutto il sud del territorio di Capua e sui Campi Leporini. Tuttavia non sembra che fosse abitato quando, alla fine del VI secolo giunsero i coloni samiesi. “Pozzuoli è una città del Tirreno fondata dai Sami; essa si chiama così Dicearchia”. Così si esprime Santo Stefano di Bisanzio; e Gerolamo scrisse che durante il primo anno della 63° Olimpiade (528 a.C.) i Sami fondarono Dicearchia. Chi erano questi Sami? Quali circostanze li spinsero nell’Italia meridionale. Noi sappiamo che dei Sami in due riprese lasciarono la loro patria e si recarono in Occidente. Verso il 494 a. C. si stabilirono in Sicilia vi erano stati invitati dagli abitanti di Messina che proposero loro di fondare una colonia a

Kaleacte plaga siciliana sul Tirreno di fronte alle coste italiane. Alcuni di essi si sarebbero spinti fino in Campania e bisognerebbe legare la fondazione di Dicearchia a questa emigrazione, provocata dalle conquiste persiane e dalla caduta di Mileto? La data del 528 non può essere accettata come rigorosamente esatta; tuttavia essa segna uno scarto di venticinque o trenta anni tra l’emigrazione di cui parliamo e un’altra più antica alla quale si riferiscono i frammenti di di San Gerolamo e di Santo Stefano di Bisanzio.I Sami, fondatori di Pozzuoli sarebbero, in questo caso, gli uomini del partito oligarchico che fuggivano dalla tirannia di Policrate tiranno dopo il 530 o 532 e che non volevano sottostare alla nuova autorità, molto verosimilmente quelli di cui Erodoto ci racconta le avventure. Ammettendo con Busalt che il regno di Policrate cominciò nen nel 530 ma nel 532 e tenendo conto che i Sami prima di giungere in Italia si fermarono cinque anni a Cidonia (città di Creta), si arriverebbe alla data del 528. Tuttavia i fuggitivi di Samo seguendo ciò che scrive Erodoto, non lasciarono la loro patria se non nel 526 e, facendo estrazione dei loro cinque anni di soggiorno a Cydonia (creta) attraversarono un certo numero di peripezie che allungarono il loro viaggio. Sarebbe dunque nel 521 o piuttosto e più verosimilmente dopo questa data verso il 520-519 che essi sarebbero sbarcati in Campania. Nel 526 Policrate aveva fatto sequestrare tutti i cittadini sospetti e li aveva spediti con quaranta triremi a Cambise che preparava la conquista dell’Egitto,

pregandolo di non rimandarli a Samo. Era un modo di sbarazzarsi di loro e di riuscire allo stesso tempo gradito al re dei Persiani. Le cose non andarono secondo il suo volere poiché poco dopo sia che non fossero andati in Egitto, sia che poco dopo fossero scappati, gli esuli ritornarono. Vincitori del tiranno in un combattimento navale, sbracarono attraversando il Pelopponeso chiesero aiuto agli Spartani; le spedizioni di questi ultimi non essendo riuscita, i Sami, dopo aver saccheggiato l’isola di Signo ed aver soggiornato qualche tempo a Hydra andarono a Creta dove fondarono le colonie di Cydonia e vi restarono cinque anni. Non avrebbero certamente lasciato il paese se essendo entrati in rivalità con gli Egineri e i Cretesi, non fossero stati completamente sconfitti; dopo la loro sconfitta, le prue delle loro navi furono esposte nel tempio di Atena a Egina.Gli scrittori che ci dicono che i Sami fondarono Pozzuoli, non aggiunsero che erano quelli del partito oligarchico di cui noi raccontiamo le avventure secondo Erodoto; ma la contemporaneità degli avvenimenti rende questa ipotesi plausibile. E’ vero che la maniera con cui Erodoto termina il suo racconto suggerisce dei dubbi; egli ci mostra di Sami ridotti in schiavitù e i loro vascelli distrutti. Ciò farebbe pensare che essi non potettero guadagnare dopo la loro sconfitta, le coste della Campania, nelle condizioni in cui si erano recati a Sparta, dopo il loro infelice combattimento a Samo contro Policrate. Bisogna supporre che la maggioranza di essi riuscì a scappare, e, trovandosi con grande smarrimento in Campania domandò

ospitalità ai Cumani. Le rivoluzioni dei Sami determinarono l’esodo di altri cittadini, esodo sul quale gli scrittori tacciano? E avrebbero essi che avrebbero fondato Dicearchia?. Essendoci il silenzio degli autori ci sembrerebbe preferibile di rapportare le origini di Pozzuoli all’emigrazione di cui Erodoto ci ha trasmesso il ricordo. In ogni modo la fondazione di Pozzuoli sembra essere stata contemporanea ad un movimento di emigrazione che fu la conseguenza della tirannia di Policrate, un certo numero di potenti e di avventurieri del nuovo regime avevano dovuto, volentieri o per forza, andarsene in esilio. Il ricordo fi questo esilio ci è stato conservato nella storia dal filosofo Pitagora che per sfuggire al tiranno si recò dai Crotonesi nell’Italia meridionale. E’ il problema anche di una emigrazione samiana pressappoco contemporanea in un frammento d’Egesandro di Delfi riportato da Ateneo. Questo testo ci dice che dei Sami navigando verso Sibari si fermarono qualche tempo in Siria. Come crede M. Pons bisogna porre il fatto fra il 550 e il 510 a. C.. Chi erano questi Sami? Erano anch’essi degli esiliati che verso la fine del VI secolo cercavano asilo nell’Italia meridionale? E’ possibile. In ogni caso l’insieme dei documenti che noi abbiamo sulla storia dei Sami all’epoca di Policrate ci permette di accordare le nostre credenze ai testi di Stefano di Bisanzio e di San Gerolamo e di stabilire verso l’anno 520 la fondazione di Dicearchia. Se Pozzuoli fu fondata da esuli di Samo il suo nome Dicearchia (in greco nel testo) era appropriato alla situazione di esuli

politici. Dicearchia significa, in effetti, il buon governo, il governo dei giusti, legittimo, in opposizione al governo tirannico (in greco nel testo) della loro patria. Un passaggio di Stefano di Bisanzio confermerebbe motlo la supposizione, secondo la quale i Sami erano quelli che si erano prima stabiliti a Creta, a Cydonia. Questo scrittore parlando della Cydonia a Creta, aggiunge che in Sicilia c’era una seconda città di nome: (in greco nel testo). Da una parte la città di Cydonia non è nata in Sicilia; d’altra parte Stefano di Bisanzio designa come siciliana altre città della Magna Grecia ed anche della Campania; è il caso, per esempio, di Pyxons e di Sinuessa. Ora, come spiegare questa omonimia di una città cretese dove i Sami si stabilirono e lasciarono tracce del loro passaggio? M.Pois si chiede se la (in greco nel testo) menzionata da Stefano di Bisanzio non sarebbe un soprannome dato a qualche città samiana nell’Italia meridionale. Egli esita fra Zancle- Messina e Dicearchia. I Sami che si stabilirono nel 494 a Zancle per quanto si sappia, non passarono per Creta. Si può al contrario affermare che i Sami, fondatori di Pozzuoli, dopo aver dovuto abbandonare Cydonia da essi occupata per molti anni portarono questo nome in Campania nel luogo dove si stabilirono come una seconda Cydonia.

Rapporti di Dicearchia e di Cuma

Strabone descrivendo le coste della Campania, parlando di Pozzuoli dice: έπίνευον κυμαίωυ (“porto di Cuma”) Cuma all’epoca di Strabone era una piccola città decaduta. Pozzuoli, al

contrario, era il grande porto di Italia e di Roma. Bisogna quindi riferire le parole έπίνευον κυμαίωυ ad un’epoca anteriore, l’epoca greca quando Cuma era fiorente, aveva una marina da guerra e commerciava. In primo luogo esse provano che la nuova città dipendeva da Cuma, poiché essa diventa una base navale cumana. Cuma non lasciò che i coloni samiesi si stabilissero nelle sue vicinanze, senza estendere immediatamente su di essi il suo controllo e la sua autorità. Dicearchia fu più o meno ad essa sottoposta. Una mescolanza avvenne fra Cumani e Sami, analoga a quella che avvenne a Napoli. Secondo alcune fonti la parte più antica di Napoli sarebbe stata fondata da Cumani. Secondo altri dai Rodesi. M. Beloch respinge questa ultima tradizione, io credo, al contrario, con M. Pois, che bisogna accettarla. Le due tradizioni che sembrerebbero ugualmente degne di fede, non si escludono l’un l’altra. Elementi cumani e rodesi si mescolarono a Napoli, verosimilmente in seguito ad una lotta fra gli emigranti rodesi e gli abitanti di Cuma, che non volevano che vicino ad essi si fondasse una città indipendente. Fu lo stesso a Dicearchia. I Sami furono assorbiti pressoché interamente dalla popolazione circostante . Essi erano molto poco numerosi. Erodoto lo dice formalmente. Essi persero alcuni nel combattimento ingaggiato contro Policrate. Dopo la loro sconfitta da parte dei Cretesi solo alcuni, coloro che scapparono dalla schiavitù giunsero in Campania fuggitivi, ridotti ad un pugno di uomini. In queste condizioni si capisce che Dicearchia sia divenuta presto una città dove i Cumani ebbero

la preponderanza, il cui destino fu inseparabile da quello di Cuma e che Stradone, senza neppure alludere ad un’emigrazione di Sami abbia creduto di caratterizzarla sufficientemente chiamandola il porto di Cuma. Il contatto tra i Sami ed i Cumani, che erano originari di Calci, fu verosimilmente facilitato dal ricordo di vecchie relazioni di amicizia che esistevano tra Samo e Calci. Questa amicizia che rileva a questo proposito M. Pais, si era manifestata allorché furono prese le città euboiche d’Eritrea e di Calci nella seconda metà del VII secolo. In questa guerra che ebbe luogo per la rivalità commerciale fra le due città e che ebbe un carattere interellenico, i Sami si schierarono a fianco di Calci. L’amicizia dei Sami dei Calcidesi e delle colonie euboiche dell’Italia e della Sicilia, ebbe senza dubbio una qualche azione sulla fusione che si operò fra le genti di Cuma e i fuggiaschi di Samo.I Cumani avevano atteso l’arrivo dei Sami per utilizzare la rada di Pozzuoli? M. Beloch l’ammette.Prima e dopo l’emigrazione samiese, egli scrive, la città dipendeva da Cuma. Si può dire che gli abitanti si siano stabiliti, prima dell’arrivo dei Sami, sulla rocca di Pozzuoli e che la rada abbia già servito alle genti di Cuma. Tuttavia il porto più antico di Cuma fu Miseno, non Pozzuoli. Parlando della potenza di Cuma prima dell’invasione etrusca cioè verso lafine del VI secolo, Dionigi di Alicarnasso scrive che la città “possedeva la parte più fertile della pianura campana e il porto eccellente di Miseno: “molto più conveniente era il porto di Miseno”(in greco nel testo). Niente del resoconto

che questo storico fa dell’attacco di Cuma da parte degli Etruschi, lascia supporre che la rada di Pozzuoli abbia avuto importanza per Cuma. Gli Etruschi occupando tutta la piana dell’Averno, i vascelli cumani non vi sarebbero stati al sicuro, essi non potevano custodire la flotta ( in greco nel testo) se non in un porto separato dagli attacchi del nemico da un riparo naturale, come l’avevano le colline che separano Baia da Miseno, dei vascelli, egli dice, portavano a Roma del grano da Cuma e dal porto di Miseno. Poiché Stradone usa il plurale, si potrebbe pensare che egli designa in generale rade della regione di Miseno, cioè l’insieme del porto di Pozzuoli. Tuttavia, applicato a Miseno, il plurale si giustifica perfettamente, poiché il porto di Miseno è composto da due bacini, quello che ancora oggi è nella rada, e l’altro interno che l’insabbiamento ha isolato e che è divenutop il “mare morto”. Credo che si debbano intendere in modo ben preciso le parole di Dionigi. Che i Cumani abbiano avuto dapprima il loro porto a Miseno è comprensibile. La costa campana, davanti Cuma, è priva di ripari; il porto che loro mancava , i Cumani lo trovarono qualche chilometro più lontano, al fondo della baia meravigliosamente protetta da Miseno, porto naturale molto migliore di quello di Pozzuoli che ha bisogno di lavori appropriati. Inoltre le comunicazioni fra Cuma e Pozzuoli erano rese poco agevoli dalle colline che ad ovest contornano l’Averno e che si prolungano fino a Bacoli, separando interamente la regione cumana da quella di Pozzuoli e di Baia; al

contrario esse erano facili con Miseno, per la via naturale che passa ad est del lago Fusaro e del monte di Procida. Bisogna dunque, pur accettando il suggerimento di Stradone, correggerlo e completarlo da ciò che ci dicono i testi di Denys e le considerazioni geografiche. Miseno fu il primo porto di Cuma e continuò a restare per questa città una stazione navale in concorrenza con Pozzuoli.Pozzuoli, tuttavia, aveva una superiorità su Miseno la cui posizione era decentrata in rapporto alla pianura campana; essa si trovava giusto allo sbocco di Quarto e dei Campi Leporini. E’ così che esso diventa un (“porto”), all’epoca greca, per Cuma; più tardi, all’epoca greco-osca essa potette avere una certa importanza come sbocco marittimo della città sannite dell’interno.La sua posizione aveva dei vantaggi strategici. I Romani l’utilizzarono al tempo delle guerre puniche e i Greci di Cuma lo utilizzarono come uno dei punti di difesa dei loro territori. Ad ovest Ischia e Procida erano una barriera contro i pirati etruschi o volsci, che discendevano fin presso i suoi paraggi. Ma affinché la città non fosse minacciata da avversari che avrebbero potuto sbarcare nel golfo di Pozzuoli bisognava, che questa posizione fosse completata con l’occupazione del promontorio di Miseno e quello di Pozzuoli. Anche perché Napoli restò sotto l’egemonia di Cuma, fu verso sud-est il comparto più avanzato della sua potenza; ma verso la metà del secolo V, divenuta indipendente, essa fu una minaccia. Cuma aveva già dovuto lasciare che i Siracusani stabilissero

una fortezza a Ischia, in ricompensa dell’aiuto ricevuto da essi contro gli Etruschi. In queste sfortunate congiunture, è naturale supporre che Miseno e Dicearchia fossero sempre di più per Cuma dei punti strategici essenziali. Dicearchia era contro Napoli un baluardo insieme terrestre e marittimo; essa svolgeva lo stesso ufficio contro i barbari sanniti che erano discesi dalle lro montagne, avevano occupato Capua e finirono nel 421 per impossessarsi di Cuma.

Periodo Greco-SannitaIl problema numismatico di Fistelia

e di Alliba.

La storia di Dicearchia sotto la dominazione sannita cioè dopo il 421, ci è sconosciuta. Tutto ciò che si può dire è che la città seguì i destini di Cuma; l’osco divenne la lingua degli abitanti, la popolazione osca si mescolò alla popolazione greca preesistente, e la città forse fece parte della lega delle città campane, raggruppate intorno a Capua. Pozzuoli continuò ad essere per i Sanniti la stessa dei Cumani: la difesa più avanzata del loro potere contro Napoli, che restò durante questo periodo il baluardo dell’ellenismo e che estese anche il suo dominio ad ovest occupando Ischia. Il territorio napoletano giungeva nelle immediate vicinanze di Pozzuoli; le frontiere che si costituirono furono mantenute a lungo all’epoca romana. Esse si avanzavano fino alla solfatara ed ai monti Leucogei. Delle monete molte curiose recano in caratteri greci o osci, il nome di una città sconosciuta, Fistelia, hanno fatto

credere ad alcuni numismatici che questa misteriosa Fistelia era Pozzuoli; le monete suddette sarebbero state coniate verso la fine del V secolo e la prima metà del IV. Sotto la dominazione sannita, la città avrebbe preso il nome greco Fistelia che i Romani avrebbero tradotto in Pozzuoli.Ci sono due serie di monete: le une (didracme) recano una testa di donna vista quasi di faccia, i cui capelli fluttuanti sono trattenuti da una bandana sulla fronte. Esse hanno sul rovescio l’iscrizione osca FISTLUS o FISTLUIS e ancora sotto un toro con una testa umana girata a sinistra e ancora più in basso un delfino.Una seconda serie è quella di piccoli oboli in argento recanti una testa di un giovane dai capelli corti; al rovescio la legenda: FISTTLUIS, scritta da destra a sinistra, in caratteri osci, e come simboli un delfino, un chicco d’orzo, una conchiglia di mitilo. Su alcuni esemplari attorno alla testa del giovane si legge l’iscrizione in greco Φιςτελια.Esistono ancora due tipi assai rari: l’uno è quello di una testa di giovane uomo con un elmo attico e tre pennacchietti; sul rovescio: FISTLUIS intorno al segno χ; l’altro è quello della testa di Atena, che guarda a destra e calzante il casco attico, ornato da una corona d’olivo e da una civetta. Sul rovescio la scritta FISLUS con un mezzo toro barbuto, a faccia umana volto a destra.

Teoria di Friedlander e di Mommsen

Comparando queste monete a quelle di Napoli e soprattutto a quelle di Cuma, Mommsen e Fredlander hanno pensato che esse non avevano potuto essere

coniate che in una città marittima della Campania, sotto la diretta influenza di Cuma. Le notizie che essi avevano sulla loro provenienza (dintorni di Napoli e, in generale, la Campania Felice) li rafforzavano in questa opinione. Essi convennero che i simboli si addicevano a città marittime, e richiamavano quelli di Cuma e di Napoli (conchiglia e chicco d’orzo delle monete cumane, delfino delle monete di Cuma e di Napoli). Le monete di una città d’Alliba, trovate molto spesso con quelle di Fistelia, sembravano dare loro ragione; la maggior parte di esse recano una testa di giovane uomo coronata di alloro e sul rovescio l’effige del mostro Scilla, con diversi simboli: pesce, conchiglia di mollusco, cigno. Ora Scilla non è raffigurato in Campania con un analogo spetto se non nelle monete di Cuma. Friedlander confronta inoltre monete di Fistelia recanti il segno con quelle di Alliba recante da un lato una conchiglia di ostrica e dall’altro lato lo stesso segno. Quanto al toro a testa umana ed alla testa di donna delle grandi monete di Fistelia sono del tipo napoletano. Il nome romano Puteoli non sarebbe infine che una traduzione dell’osco: Fistlus. Per Mommsen, le radici di Fistlus è “fist” seguita dalla terminazione diminutiva “l” frequente in Campania. Fistel ( da riportare a “findere”, “fistola”, “festra”, “finestra” ) significa fenditura, cosa spaccata e potrebbe benissimo significare la spaccatura, l’apertura di una fonte. “Puteoli” sarebbe in questo caso un’ eccellente traduzione di Fistlus. Che Puteoli l’unica città antica

della Campania il cui nome è nettamente latino, si sia diversamente chiamata presso i sanniti e non abbia conservato il suo nome greco Dicearchia si capisce da se stessi . La denominazione di città delle sorgenti è motlo appropriata poiché ci sono intorno a Pozzuoli molte sorgenti di acqua calde efredde. Alliba sarebbe così un nome osco, analogo a quello della città sannita di Alife. Lo stesso che nel vecchio latino, l’ “f” è spesso al posto della “b”, si trova nei dialetti osci. Alifa a fianco di “Aλλιβα”. Siccome a Pozzuoli esiste una collina chiamata Monte Olibano, Mommsen e Friedlander hanno accostati i due nomi: - E’ molto verosimile scrive Mommsen, che Fistelia è il nome osco di Dicearchia e che Alliba (=Allifa) era posta sul monte Olibano presso Cuma. Le iscrizioni delle monete un miscuglio di osco e di greco poiché si operava in questa città un miscuglio di nuovi maestri, gli Osci e gli antichi abitanti, i Greci. Questo carattere greco-osco, che comparve a Cuma e a Dicearchia si ritrova nelle altre città della regione, a Nola, a Capua, a Napoli, sebbene fosse meno accentuato in quest’ultima città.

Obiezioni alla teoria precedente.Provenienza delle monete

A questa teoria molto ingegnosa sono state rivolte delle obiezioni da M. Dressel. La principale è rivolta alla provenienza delle monete.I numismatici napoletani avevano nelle loro collezioni, all’inizio del XIX sec degli esemplari di queste monete, conosciute dopo lungo tempo. Sfortunatamente essi danno, con scarsa precisione, come luogo di provenienza

la Campania o anche le vicinanze di Napoli. Ma non specificano più di tanto. Altre notizie sono più esatte. Monete di Fistelia sono state ritrovate in piccolo numero nelle tombe di Capua e , in grande quantità, in due località del Sannio del resto molto lontane tra loro.Nel 1854 nella regione del Molise alla distanza di circa tre miglia da Toro e di tredici miglia da Campobasso nel luogo detto Campo Laurelli, sono state scoperte 150 monete d’argento di Fistelia e 8 di Allibani. Nel 1884 nella necropoli della Conca d’Oro, presso Piedimonte d’Alife, nell’Agro Telesino sono state trovate 44 monete, di cui 23 portano il nome di Fistelia e di cui altre senza iscrizioni potevano ad esse essere attribuite e 12 oboli d’argento di Allibani. Prima di questa scoperta l’Agro Telesino aveva già fornito un certo numero di monete di Fistelia. Mommsen sapeva benissimo che queste monete si trovavano molto spesso nel Sannio; ma- dice- esse sono così comuni (sono state trovate insieme nello stesso deposito 700 monete (oboli) di Fistelia e di Alife) che questo fatto non ha nulla di sorprendente e non prova niente riguardo alla loro origine. D’altronde il Sannio non aveva monete nazionali. Gli scavi di Campo Laurelli provano che le monete della Magna Grecia avevano corso nel Sannio come le monete campane. Il grande numero di pezzi di Fistelia è semplicemente in proporzione con quello che noi sappiamo della produzione di queste diverse officine. Negli altri depositi dell’Italia centrale sono stati spesso trovati pezzi battuti molto lontano. Secondo Mommsen la natura di questi depositi composti di doni offerti a certi

tempi dai pellegrini si spiegherebbe la presenza di monete in luoghi così lontani dai loro paesi di emissione. Le città del Sannio interno non avevano monete nazionali, come fa notare il Mommsen; di conseguenza non si deve pensare che le monete di Fistelia siano state quelle di una città vicino a Toro o a Campobasso; forse non fu la stessa cosa per la città più vicina alla Campania, città poste al confine tra il Sannio e la Campania stessa. E ciò che ha pensato M: Dressel dopo gli scavi del 1884 presso Alife. Secondo Dressel il nome Alliba, Allifa si è conservato in quello della moderna Alife.

Le monete degli Allibani ritrovate nelle tombe della Conca d’Oro, 4 appartengono realmente all’Alife sannita. Questa localizzazione coinvolge quella di Fistelia; poiché in primo luogo le monete di Fistelia sono di molto le più numerose; in secondo luogo esse sono state ritrovate sulle tombe perfettamente identiche alle monete degli allibanti e di abitudine si incontrano altrove ad esse unite. Esse sono contemporanee e doveva esistere fra esse uno stretto legame di natura locale secondo Dressel che pone Fistelia nella valle del Medio Volturno fra Alife e Telese, verso Faicchio.

Se Alife del Sannio ha coniato le monete degli Allibanti, aggiungiamo che non si può fare risalire questa monetazione prima della fine del IV secolo; la città fu presa allora dai Romani, divenne prefettura e civitas senza suffragio: ora la città con il diritto di civitas senza suffragio poterono coniare le monete, ma solo monete di rame. La monetazione d’Alife e di Fistelia comprendendo solo monete d’argento sarebbe certamente

anteriore alla dominazione romana e daterebbe dai tempi dell’indipendenza (IV sec. a.C.)

Comparazione delle teorie di Mommsen e di Dressel

Si può obiettare a M. Dressel che le monete degli Allibanti e di Fistlo differiscono dalle monete coniate dalle città osche nella stessa regione. Mommsen dice che le monete di Fistlus non appartengono ad una città delle vicinanze di Campobasso perché i Sanniti non hanno mai avuto monete particolari, ma avevano adottato quelle dei paesi vicini, particolarmente quelle della Campania.

Ora benché Alife e per cos’ dire la sua vicina Fistelia fossero più prossime alla Campania, non è loro applicabile la stessa osservazione? Inoltre, a dispetto delle 150 monete trovate presso Campobasso, è certo che Fistelia non era posta in questa, regione; quelle trovate nella Conca d’Oro definiscono meglio la localizzazione di Fistelia? Solo l’esistenza di Alife ci può far pensare che sono monete locali. Ma può essere una coincidenza fortuita e che sia un’apparenza. Mentre le città marittime della Campania e della pianura campana hanno coniato delle monete molto prima degli ultimi anni del 4° secolo, quelle della Campania settentrionale e del Sannio le hanno coniate a partire da questa epoca. E’ il caso di Teano che conia monete d’argento e di rame (fine del 4° secolo e prima metà del 3° secolo); di Compulteria, di Telese, di Calatia, che, a titolo di civitas sine suffragio,

coniano delle monete di rame; di Cales e di Sessa che come colonie latine, coniano monete d’argento e di rame (stesse date).

In questa serie gli oboli di Fistlus e degli Allibanti sono isolati. Rimarchiamo che Compulteria, Telese, Calatia hanno solo monete di rame, il cui conio era permesso da Roma alle “civitas” senza suffragio; di queste tre città vicine ad Alife, nessuna moneta di argento ci è pervenuta. Questa indicazione ci invita a pensare che le città della regione di Alife e dei confini della Campania e del Sannio non hanno monetato prima del dominio romano: tutte dipendenti da Roma a qualunque titolo: colonie latine a città senza suffragio. Solo le città libere, poi federate, da Teano nella Campania del nord a da Nocera nella Campania del sud, hanno potuto, ancora indipendenti, coniare monete d’argento; queste monetazioni (fine del 4° secolo) potrebbero essere contemporaneea quelle di Alife, rimasta libera fino al 320-300. Ma subito rileviamo che, oltre le monete d’argento, Teano e Nocera hanno coniato molte monete di rame, che avrebbe potuto essere coniata sia in concomitanza con le monete di argento, sia dopo l’epoca in cui la città divenne civitas sine suffragio. D’altra parte quasi tutte le monete degli Allibanti e di Fistelia sono oboli d’argento. Oboli simili si trovano nelle zecche (officine monetarie) più antiche (Velia, Posidonia, Napoli, Cuma) tale è la serie nella quale rientrano geograficamente e cronologicamente quelli di Alliba e di Fistelia. Per i didrammi bisogna tenere conto del peso dei pezzi. Quelli di Cuma e di Napoli, cioè i più antichi, fino a 7 gr e 60 a Napoli, il peso medio

è da gr 7,50 a gr 7,40; scende raramente sotto i 7,20 grammi. I didrammi di Fistelia pesano fino a g. 7,68; il loro peso medio un po’ più leggero, varia dai g. 7,30 ai g. 7,40. Quelli di Iria hanno un peso medio da g 7,20 a g. 7,30. La stessa osservazione si applica ai pezzi che portano il nome dei Campani, coniati a Napoli verso lo stesso periodo. Al contrario i didrammi delle città dell’interno, che cominciarono solo più tardi a fabbricare monete, come le colonie marine di Sessa e di Cales superano di molto poco il peso di 7 grammi. E’ lo stesso di quello delle città restate indipendenti, Nocera e Teano.Così Alliba e Fistelia hanno ciò in comune con la zecca di Cuma che non hanno fabbricato che monete d’argento.Non usciamo dal centro della Campania al contrario nel Sannio e nelle regioni adiacenti alla Campania settentrionale non v’è alcuna monetazione che possa risalire ad una epoca pari. Esse formano con i pezzi dei Campani e d’Hyria e di Nola un gruppo a parte nettamente separato tanto dal peso delle monete che per il carattere doppio delle iscrizioni.La conclusione è la seguente: che esse sono state coniate sia da città osche fondate a rimpiazzo delle città greche più antiche sia dalle città osche, assai vicine alle città greche e conosciute per il loro filellenismo (come Nola che aveva adottato la lingua e i costumi greci). Vediamo la ripartizione geografica di questa città. Le monete dei Campani portano la leggenda: KAPPANOΣ, KAMPANO sono state attribuite per lungo tempo a Capua dagli Oschi, nella 2° metà del V sec. (Mommsen). Altri

numismatici le attribuiscono più verosimilmente a Napoli.

Napoli in effetti non restò completamente indenne dall’elemento osco; i Sanniti si stabilirono accanto alla città greca; Greci ed Oschi vissero fianco a fianco in due quartieri differenti.

Le monete con le scritte Kαππαυδξ, Kαμπανό sarebbero state coniate a Napoli dai nuovi abitanti. Le iscrizioni Nola-Hyrìa sono doppie; quelle d’Hyria, la vecchia città sono greco osche, quelle di Nola la nuova città sono sempre greche. A dire il vero Nola non era una città della zona greca; ma i suoi abitanti, amici dei Napoletani s’erano ellenizzati al punto da impiegare il greco sulle loro monete. In ciò essi costituivano un’eccezione, rilevata dagli antichi. La città della pianura interna(Capua) e soprattutto della montagna erano di civilizzazione etrusca- sannita. Anziché i Greci residenti nella città marittima furono gli Osci ad invadere la parte greca. Napoli ricevette dei Sanniti le monete e i nomi di certe famiglie napoletane ne sono la prova. Cuma, ci dicono gli storici, fu completamente trasformata a causa della vicinanza degli Osci “Cumanos osca mutavit vicinia”. Il greco cede poco a poco il posto agli Osci. Come non vedere allora nella monetazione degli Allibani e di Fistlus un indice del contatto dei Greci e degli Osci, contatto che non poteva prodursi che in un paese dove, fino ad allora, il greco era stata la lingua predominante? La monetazione campana fu all’inizio puramente greca; è ai Greci che l’improntarono gli Osci stabiliti nelle città elleniche o quelle il cui filellenismo era già rilevato dagli

antichi. Le città di civilizzazione etrusco-sannita non conieranno monete che più tardi. Se si toglie a Capua la coniazione dei kαμπανοί, si constaterà che le città della pianura campana e dei confini con il Sannio, invece di coniare pezzi con scritte greche non ne hanno coniato per niente fino verso la fine del IV sec. a. C. Queste considerazioni mi sembrano tali da dare una certa forza all’identificazione Fistlus-Puteoli. Contro l’argomento portato dalla linguistica non vedo niente di serio da obiettare. Puteoli è una buona traduzione di Fistlus; è come Fistlus un nominativo plurale. Il nome di Monte Olibano è certamente di origine antica; si legge nei documenti dell’Alto Medio Evo e in un testo di Atene relativo al vino d’Oulba che si coltivava preso Cuma. Περί τήζ kαμπανι scής Kνμης. Alliba Alliba, Allifa sarebbe in questo caso una parola importata dagli invasori e data ad una località? Non bisognerebbe sorprendersi di trovare due città con lo stesso nome (Allife) l’una nel Sannio, l’altra in Campania! La difficoltà consiste piuttosto nel situare la città presunta di Allibe. Mommsen crede che sia il nome dato dagli Osci a Cuma; Friedländer si chiede se Alliba non sia esistita sul monte Olibano; ma nessuna rovina, nessun indizio può farlo supporre. Io credo piuttosto che Cuma conserva il suo nome e che le monete con la scritta greca Alliba non portano il nome della città, ma quello della popolazione osca che occupava la regione. Lo stesso i Campani di Napoli hanno il loro nome sulle monete: Cappani, Campani. Gli Allibanti, cioè gli Osci conquistatori che invasero Pozzuoli e Cuma,

coniarono delle monete, con il nome di Fistlus (l’antica Dicearchia) e con il nome del popolo invasore.Secondo Dressel, la somiglianza con le monete di Cuma non proverebbe che abbiamo a che fare con città marittime. Egli osserva che sulle monete osche i tipi si ripetono spesso e non si trovano città che ne riproducono i simboli monetari di una città vicina o lontana. Egli paragona Capua e Atella. Capua e Calatia. Hyria e Frenternum; Velia e Taranto. La rassomiglianza dei tipi non fornirebbe alcuna prova della vicinanza di città. In secondo luogo, i simboli marini non appartengono necessariamente a città marittime; egli cita le monete di Calatia con il tridente di Nettuno, quelle di Larino e di Lucera con il delfino, quello di Teate con Tarante (fondo di Taranto) che cavalca un delfino. C’è in queste osservazioni una gran parte di verità; ma possiamo applicarle al caso particolare di cui ci occupiamo? Bisogna distinguere fra un simbolo frequente e un simbolo unico. Il tridente si incontra un po’ dappertutto: in Etruria, sull’Adriatico, ad Asimino; a Napoli; in Puglia; a Paestum; perché esso figura sulle monete di Calatia? Non lo si può dire. Ciò che importa notare è che esso non caratterizza una città in particolare. Esso è lo stesso delfino che figura sulle monete di città marittime o in comunicazione rapida con il mare e appariva anche nelle città dell’interno (Volterra, Venusta, Brindisi, Taranto, Lucera). Ma ancora una volta, esso è molto esteso. E’ ceto che i didrammi di Fistelia con il toro a testa umana e il delfino derivano dalle monete di Napoli e che sono soprattutto tipi napoletani che sono serviti da modello

in molte cittàdell’interno. Le effigi di donna e di uomo, calzanti un elmo attico sono improntati alle monete napoletane. Sembra più difficile ammettere che la conchiglia sia stata presa a prestito (ispirata) dalle monete napoletane sulle quali essa figura molto raramente. Ciò che bisogna notare è che l’insieme della spiga d’orzo e della conchiglia è particolare a Cuma e caratterizza le monete di Fistelia. Il simbolo di Scilla, che appariva solo sulle monete di Cuma, era sconosciuto in tutta la Campania anche a Napoli. Io credo che le monete degli Allibanti sono state coniate in una fabbrica (zecca) di Cuma. Senza dubbio le monete di Chieti rappresentano Tarate (il fodatore di Taranto) che cavalca un delfino sono ispirate direttamente a quelle di Taranto, posta molto lontano. Ma ciò si spiega con le relazioni marittime; per la stessa ragione, questo simbolo appariva sulle monete di Brindisi e di Bitonto. Come sarebbero pervenuti i simboli di Scilla della spiga d’orzo e della conchiglia riuniti (simboli sconosciuti a Napoli e nella ltre città campane) nella montagna sannita, ad Alife e solo ad Alife?

Conclusione

Ho tentato di stabilire, sulle pagine precedenti, la verosimiglianza della teoria che attribuisce a delle città della Campania marittima le monete di Fistelia e degli Allibanti e che identifica la romana Puteoli con l’osca Fislus. Tuttavia in una questione così complessa, così oscura, non vorrei concludere con un giudizio

affermativo. Nello stato attuale della questione, le prove non sono decisive; penso che la bilancia pende dal lato della teoria di Mommsen e di Friedländer. Speriamo che la scoperta di nuovi documenti permetta di risolvere definitivamente la questione; è così che la comparazione di monete dello stesso conio ha permesso di identificare con Nola la misteriosa città di Hydra.

Cap. II Conquista romana ( da pag 24 a pag.

64)

Seguendo la storia tradizionale, Cuma e le altre città della regione sarebbero entrate in contatto con Roma, verso la metà del IV secolo. Capua si sarebbe sottomessa a Roma nel 339, per ottenere il suo aiuto contro i Sanniti della montagna che devastavano il suo territorio e le città della Campania meridionale non avrebbero tardato a diventare, dopo questo evento, possesso romano. Vicino al Monte Gauro ci sarebbe stato un combattimento anteriore all’anno 334 data in cui Cuma ricevette la civitas senza suffragio. E’ verso questo periodo che Pozzuoli sarebbe passata sotto la dominazione romana, come Capua e Cuma, il diritto di città senza suffragio e qualche anno dopo (318 a.C.), subì la giurisdizione dei “praefecti iure dicendo” (governatori con la facoltà di amministrare la giustizia).

Non sappiamo niente della sua storia fino alle guerre puniche. Dal punto di vista militare essa fu di grande utilità per Roma. Annibale che teneva l’interno del paese non aveva il porto e

i Romani divevano prima di tutto impedirgli di comunicare con il mare. Egli desiderava Napoli e Cuma; ma Napoli era fedele a Cuma ben difesa. Egli si rivolse contro Pozzuoli che nel 215 era stata, in virtù di un decreto del senato, fortificata da Fabio ed era stata occupata da una guarnigione di 6.000 uomini. Il suo piano fallì. Avanzando fino al lago d’Averno, egli invase dapprima i territori di Cuma e di Miseno, poi tornando ad un tratto verso Pozzuoli, l’assediò invano per tre giorni (214 a.C.). La città ben difesa era imprendibile. Egli abbandonò la partita e si diresse verso Napoli.

La Colonia Romana

La deduzione di 300 coloni inviati nel 194 a.C. a Pozuoli, si ricollega ad un esempio di misure prese a quest’epoca per stabilire delle colonie nei migliori porti dell’Italia meridionale (Salerno, Sipanto, Crotone, Literno, Volturno). La magistratura dei prefetti che amministravano la giustizia non fu del resto abolita. Come lo fece osservare Mommsen, non c’è alcun argomento positivo a favore dell’esistenza di autorità municipali munite della giurisdizione anteriormente alla guerra civile:il contratto di costruzione di Pozzuoli nell’anno 105 prova che questa colonia aveva allora dei diumviri ma non che essi possedevano la giurisdizione “inter privatos” (fra privati). Prefetture e colonie romane non avevano subito l’amministrazione delle finanze era di competenza ai censori di Roma. Ma poco a poco l’indipendenza locale si otteneva mediante piccole conquiste successive. In genere l’autonomia

finanziaria, come il diritto di giustizia, non fu assicurato ai comuni cittadini se non do po la guerra civile. Tuttavia i segni precursori d’una trasformazione sono visibili già in un’epoca anteriore. Nel 167 i censori impiegavano per una costruzione desiderata per una città i denari versati per essa; era quella una concessione da parte loro. Mezzo secolo più tardi la colonia di Pozzuoli eveva già dei reali privilegi; l’ordine di costruzione dell’anno 105 ci mostra che i diumviri facevano la funzione di impresari e avevano la distribuzione, l’impresa e la sorveglianza dei lavori pubblici.

La parte veramente reali d’indipendenza amministrativa già acquisita da Pozzuoli è attestata dal medesimo documento.

La facoltà per una città di datare i suoi atti pubblici con i nomi dei suoi magistrati fu più tardi un privilegio universalmente esteso; nel 105 esso doveva essere ancora molto raro e Pozzuoli lo possedeva. Per tutte queste ragioni si può pensare che se la giurisdizione dei prefetti sussisteva ancora come crede Mommsen, essa doveva aver subito già degli attacchi e delle diminu8zioni.

Un altro interesse della “lex parieti faciendo” (legge per le costruzioni), sono le analogie che essa presenta con i documenti greci. Anche se la somiglianza non denota necessariamente un’influenza. M. Wiegaul ritiene a buon diritto che questo documento il solo fra quelli dell’antichità romana che tra prescrizioni assai dettagliate, assai lunghe e precise, deve essere comparato alle iscrizioni anche dello stesso ordine. Pozzuoli era stata

fondata da esuli greci. Dopo la conquista sannita si era formata una popolazione mista che aveva improntato ai Greci le sue abitudini di amministrazione municipale, M. Wiegand crede di ritrovare nella “lex parieti faciendo” un’eco delle tradizioni elleniche della regione. La sua osservazione contiene una parte di verità. In compenso puà significare andare troppo lontano il considerare come “un residuo della vecchia autonomia greca” il fatto che il documento è dotato subito dai nomi dei diumviri, seguito da quelli dei consoli. I diumviri erano assistiti da magistrati anziani che costituivano il consiglio; una decisione non poteva essere presa se non erano presenti almeno venti membri. Noi vediamo che quattro di loro hanno sottoscritto il contratto di cotruzione.

La legge municipale di Silla

Dal 105 al 78, mancano documenti. Apprendiamo che i Puteolani erano allora in rivolta (δταιαZοντας) e che Silla concede la loro legge, νόμς. Secondo Zumpt, la parola δταιαZοντας alluderebbe a una lotta di vecchi coloni e di nuovi stabiliti da Silla; la prova dui una colonizzazione di Silla sarebbe fornita da un passaggio dei discorsi sulla Legge agraria, dove Cicerone a proposito di un progetto di Rullo di inviare coloni nelle città campane e tra le altre a Pozzuoli distinse tre generi di città: dapprima i municipi come Calés e Teanum Sidicinum; in secondo luogo le colonie occupate dai coloni di Silla come da una guarnigione straniera: è il caso di Pompei e verosimilmente le altre città citate come Pompei; è così

quella di Pozzuoli che costituiva d’altronde una varietà a parte, quella delle città libere.

Ora come spiegare la “libertà” che Pozzuoli ha mantenuto al momento in cui scrive Cicerone? La parola LIBERTAS sembra che si addica allo stato di una città che, politicamente indipendente non sarebbe né colonia né municipio. Zumpt che crede che la vecchia comunità greca durò fin0o al regno di Nerone congiuntamente con la colonia romana, non esita a pensare che la “libertas”, di cui Pozzuoli godeva all’epoca di Cicerone, debba intendersi della libertà della comunità greca che, precedentemente oppressa e come ridotta in schiavitù dai coloni di Silla, aveva riscoperto dopo di essi la sua “libertas”, il suo “ius”, la sua “potestas”. I coloni sillani sarebbero stati aggiunti a quelli del 194. Fin dall’inizio il dittatore, confidando nella buona volontà dei vecchi coloni avrebbe accordato agli uni e agli altri uguali diritti; vedendo in seguito la loro cattiva volontà nei suoi riguardi, di cui sono testimoni i suoi contrasti con il diumviro Granio, diedero lor una nuova costituzione Cuόμος! Che concedeva maggiori diritti ai nuovi coloni. In questo modo, secondo Zumpt tenne le due parti della città in suo potere, i vecchi coloni con i nuovi, la vecchia città greca libera con la colonia.

Zumpt ha quindi spiegato un po’ diversamente il passaggio di Cicerone. I due gruppi di coloni, egli dice, erano in lotta come a Pompei per sapere se i veterani di Silla o i vecchi coloni avrebbero la preponderanza nell’elezione dei magistrati e nell’amministrazione della città.

Fintanto che le leggi di Silla sussistettero i veterani predominarono; i vecchi coloni recuperarono in seguito la loro libertà e divennero uguali agli altri. E’ impossibile fornire alcun argomento decisivo in favore di questa teoria.

1° L’appoggio di Zumpt cerca nel passaggio di Cicerone è senza valore. Nessun documento permette di affermare che le città citate con Pompei i coloni di Silla; il fatto di essere confusi con Pompei non è, come crede Zumpt, una prova. Al contrario Atella è chiamata municipio nella corrispondenza di Cicerone. Lo stesso passaggio della legge agraria non ha il significato che Zumpt gli attribuisce; Cicerone non distingue tre categorie di città, ma due: le vecchie colonie (Pozzuoli) e i municipi ( Calès, Teano, Atella, Cuma, Napoli, Pompei, Nocera) che erano tutte municipi o che potevano esserlo, come Pompei, considerate come tali. Pompei, in effetti, figura tra esse è che, antico municipio, avendo ricevuto dopo poco solamente coloni di Silla, poteva essere confusa con gli altri municipi in opposizione alle “veteres colonie” . In ogni caso non c’è, nel passaggio di Cicerone, alcuna allusione ad una colonizzazione di Silla né per Pozzuoli né per alcuna delle altre città nominate.

2° Come, si chiede Zumpt, Silla potè, non essendo più dittatore e vivendo lontano dagli affari pubblici, dare una legga ai Puteolani? Perché egli aveva fondato una colonia a Pozzuoli e che uso un diritto che apparteneva ai fondatori di colonie. Egli cita il caso di Pompei, dove i dissensi degli abitanti del posto e dei coloni furono appianate dall’arbitrato

di Silla nipote del dittatore, fondatore e protettore della colonia, che mise fine alla guerra intestina, regolando i diritti dei due gruppi di abitanti con una nuova legge.

Questa analogia confermerebbe la teoria di Zumpt, se quella poggiasse su altri fatti; ma da sola non basta. Perché ricorrere all’ipotesi di una colonizzazione di Silla che spiega la sua attività legislativa? Il fatto si riallaccia al movimento che portò nell’ultimo secolo della repubblica alla definitiva costituzione di leggi municipali di città italiane. Pozzuoli ricevette la sua legge come Taranto, verso lo stesso period. Speciali commissari erano a questo scopo nominati dal governatore romano; Silla fu uno di essi. Sebbene non fosse più al potere, la sua influenza era considerevole; ritrovarsi a Cuma e avendo senza alcun dubbio un grande prestigio nella regione, era tutto impegnato per redigere la legge municipale di Pozzuoli.

3° Di quale natura erano i dissensi che erano scoppiati e su cosa erano fondati? La cosa più semplice da pensare è che, secondo quello che avveniva generalmente nelle colonie romane, i vecchi abitanti erano stati privati dei loro diritti politici. Poca a poco tuttavia alcuni di essi erano stati ammessi al rango di Coloni (vedremo poi che coloni più o meno discendenti delle famiglie osche facevano parte dal 105, del senato della colonia); è possibile che al momento della guerra civile i locali avevano tentato di ottenere una uguaglianza che non possedevano ancora o non l’avevano completa come essi avrebbero voluto; è anche possibile che essi abbiano tentato

ri recuperare o di mantenere verso la colonia romana la loro indipendenza, pichè può darsi che a Pozzuoli coesistessero un municipio e una colonia. In ogni caso la ripresa da parte degli abitanti di tutti i loro diritti sia come cittadini d’un municipio mi sembra che sia stata ottenuta dalla legge (vόμος) di Silla.

E’ questo che vuol dire Cicerone quando scrive: in sua protestate” e “dicione” : solo ad esse si applicava la parola “libertas”. Dobbiamo qui ammettere una certa relatività nel significato della parola. Che Pozzuoli non avesse al tempo di Cicerone la sua “libertas” che significa che la situazione generale delle città italiane bastava a provarlo: dopo la guerra sociale non c’erano che municipi e colonie. Le città federate avevano tutte rinunciato ai loro privilegi di stati liberi. La libertà a Pozzuoli, dunque, non poteva non consistere nella recente situazione (nunc (ora) dice Cicerone) di una città dove la soppressione o la diminuzione dei diritti di una parte della popolazione era finita a causa dell’altra parte. E’ su questa situazione che Cicerone insiste, per mettere meglio in rilievo ciò che aveva di odioso il progetto di Rullo poiché avrebbe avuto per conseguenza l’inizio a Pozzuoli di nuovi coloni dai quali il resto della popolazione fu più o meno oppressa e privata della sua libertà.

Da Silla all’epoca imperiale

Un testo di Tacito ci fa apprendere che la vecchia città di Pozzuoli (vetus appidum Puteoli) ricevette da Nerone lo “ius” stato giuridico di colonia ora Pozzuoli non era colonia? Non era

secondo la testimonianza di Plinio considerata tale sotto Augusto? Questo autore dichiara che egli designa nella descrizione dell’Italia con la parola colonia tutte le città italiane che figura a questo titolo nel catalogo (descriptio Italiae) disposta da Augusto. Dunque egli dice di Pozzuoli: Puteoli colonia Dicearchia dicti. Si sono sforzati di conciliare diversamente i testi di Plinio e di Tacito. Secondo gli uni Pozzuoli era una comunità doppia dove coesistevano la colonia romana e l’antica comunità greco-osca divenuta municipio dopo la guerra sociale (civile). Questa situazione durò finchè Nerone concedendo a quest’ultima (vetus appidum) fuse in una sola le due colonie la vecchia e la nuova. Questa teoria che è quella di Zumpt, è stata ripresa da Marguardt; Kornemam e Ruggiero. Marguardt cita gli esempi di città che avevano costituito un doppio (comune) municipio: Pompei, Arezzo, Taranto, Valenza in Spagna, Agrigento e Apulium in Dacia.

Gli esempi di Pompei e Agrigento non sono affatto riportati. Si distinguevano in Agrigento due categorie di abitanti, non due municipalità. “Ci sono due specie di abitanti, scrive Ccerone, i vecchi abitanti (nuum veterum) e i coloni che il pretore T. Manlio condusse ad Agrigento da diverse città siciliane, Scipione ha prescritto che il numero di coloni non doveva oltrepassare nel senato quello dei vecchi abitanti. “ Anche a Pompei ci furono, dopo la colonizzazione di Silla due categorie di abitanti i nuovi coloni potenti, in possesso di tutti i diritti ed i vecchi abitanti i cui privilegi erano diminuiti specialmente in ciò che riguardava il

voto. Inoltre qui c’erano due parti opposte, non due comunità distinte; ciò si dedusse nettamente dai discorsi di Cicerone per P. Silla. Il caso di arezzo è dubbio; questa città comprendeva tre tipi di abitanti: i Veteres. I Fidentes (vecchi coloni di Silla) gli Iulienses (coloni di Ottavio). Ma mentre gli uni (Zumpt, Bormann) non credono che ad Arezzo ci fossero più comuni, altri (Mommsen, Marguardt, Ruggiero) credono alla giustapposizione di tre municipalità. In realtà i documenti non ci permettono di pronunciarci in modo affermativo. Tre esempi hanno un reale valore: quelli di Apulum di Valenzia e di Taranto. Sembra certo che ad Apulum (tra il 180 e il 250 d.C.) coesistessero un municipio amministrativo da quadriumviri ed una colonia retta da due diumviri; ogni comune aveva i propri augustali e i propri decurioni. A Valenza sembra, come crede Hübner, che oltre ai vecchi coloni, altri furono stabiliti sotto l’Impero, in un’epoca indeterminata, in modo che essa ebbe due municipalità. Il caso di Taranto al quale quello di Pozzuoli sarebbe interamente analogo, è ancora più curioso. Nel 123 a.C. vi fu fondata una colonia che dimorò, fino alla guerra civile, distinta dalla vecchia città greca federata; è allora che essendo quella divenuta il municipio di cui ci è pervenuta la legge per frammenti, la colonia si fuse con esse.

Sebbene nessun argomento positivo possa essere fornito in favore della coesistenza a Pozzuoli di due comunità, sebbene Tacito non dica niente di ciò, non parlando della fusione di due comuni in uno solo, ma si accontenta di scrivere che la vecchia città di Pozzuoli ricevette il diritto di coloni , queste

analogie sono molto sorprendenti. Le parole: vetus appidum opporrebbero bene l’antica città greca alla colonia più recente. Negli esempi citati più sopra, la aprte più vecchia della popolazione è definita abitualmente con l’aggettivo “vetus”.

E’ senza dubbio strano che la coesistenza di due comunità si sia prolungata fino al regno di Nerone. Questa situazione, chi in Italia è conosciuta solo a Taranto, fu del tutto passeggera, non essendo durata più di 30 anni ed essendo cessata dopo la guerra civile. Tuttavia nonostante le obiezioni che le si possono muovere, la teoria di Zumpt e di Marguardt è la sola che permette di uscire dall’imbarazzo creato dalla contraddizione dei testi di tacito e di Plinio.

Se non si ammette, in effetti, che è l’antica città greca che ricevette da Nerone lo “ius coloniae”, come conciliare questi testi? Non si può se non mettendo in dubbio il valore della testimonianza di Plinio; è ciò che hanno fatto Beloch e Nissen; secondo loro Pozzuoli non era più colonia sotto Augusto, ma essendo allora divenuta municipio, avrebbe potuto ricevere da Nerone lo “ius coloniae”.

Una teoria esposta da Mommsen in un importante articolo riservato alle colonie italiane da Silla a Vespasiano sembra di primo acchito dare loro ragione. Plinio, come ha stabilito Mommsen, si serviva per la descrizione dell’Italia di differenti documenti, più o meno ben combinati insieme; utilizzando com’è noto una descrizione costiera, la cui fonte principale era un’opera geografica di Marrone, arrivò a chiamare colonie delle città che erano designate tali nel periplo e che, tuttavia,

al tempo di Augusto erano municipi; questo sarebbe il caso, secondo Mommsen, di Ostia, Anzio, Aquileia. Sarebbe dunque possibile che fu stando al periplo, non stando alla descrizione d’Italia di Augusto, che Plinio aveva chiamato Pozzuoli colonia. Ciò sarebbe tanto più verosimile che, secondo Mommsen, la “descriptio Italiae” alla condizione municipale o coloniale della città: quando Plinio dice che con il termine di colonia designa tutte le città che Augusto, nella sua descrizione, significherebbe semplicemente che tutte le città da lui chiamate colonie erano nella lista di Augusto, ma non che esse vi figuravano come tali. Se d’altra parte, com lo ha osservato Mommsen, egli non designa di fatto, ad eccezione delle città marittime, che le colonie post è che egli, oltre la cesariana descriptio Italiae e il periplo, si serviva di un terzo documento: di una lista dove le colonie erano enumerate cronologicamente, ma senza esser distinte in colonie romane e latine. Poiché al suo tempo c’erano solo colonie romane egli s’interessava solo ad esse ed perciò in questa lista egli non rilevò che le colonie post cesariane. Egli sapeva in effetti che le più vecchie colonie di cittadini erano quasi tutte colonie marittime, egli poteva, a tal proposito, rimmettersi al periplo varroniano. Come non aveva, pressato com’era, il tempo di ricercare quali erano, nella lista che egli aveva sotto gli occhi, le colonie romane e le colonie latine e poiché sapeva che le colonie post-cesariane erano tutte romane, egli arivò naturalmente a designare solo quelle espressamente come colonie.

Se questa teoria del Mommsen doveva essere accettata risulterebbe per il caso particolare di Pozzuoli che non sarebbe affatto provato che questa città fu colonia ugustea.

Al contrario tutto ci inviterebbe a considerare il testo di Plinio come improntato ad un’opera geografica di Marrone, cioè ad un documento dove verosimilmente era richiamata la prima colonizzazione di Pozzuoli nel 194 a.C. Di primo acchito l’esame critico delle fonti pliniane sembra confermare i pareri di Mommsen. Dal documento di Varrone derivano, senza alcun dubbio, le notizie concernenti Ostia, Taranto, Aquileia. Le analogie da sole ci porterebbero dunque ad ammettere già che per Pozzuoli, vecchia colonia marittima, Plinio ha potuto poggiare le sue conclusioni alla stessa fonte. Ma c’è di più. Deltefsen ha giustamente riportato le parole: Puteoli colonia Dichaerchia dicti ad un testo di Paolo “Dichaerchia vocabatur, quae nunc Puteoli, quod ea civitas quondam giustissime regebatur” la cui fonte è Varrone; come l’ha mostrato Reitzenstein, molti frammenti di Festo e di Paolo, trai quali il nostro, sono improntati ad uno scritto geografico di Varrone. Altri documenti, è vero, potrebbero deporre a favore di una colonizzazione di Pozzuoli sotto Augusto. Ma sono lontani dalla certezza. Nel libro delle colonie si legge: “Puteoli colonia Augusta, Augustus deduxit. Ex uno latere iter populo debetur p.xxx. Ager eius in jugeribus veteranis et tribunis legionariis est assignatus”.

Ciò non dovrebbe essere accettato senza controllo non più di alcuni dati della stessa opera, che generalmente

esatti dal punto di vista agrario, lo sono molto di meno dal punto di vista storico. Se augusto condusse dei coloni a Pozzuoli, quali terre avrebbe dato loro? Sotto il suo regno i territori di Capua e di Napoli limitavano così strettamente il territorio puteolano che sembra impossibile che su questa ristretta superficie pressoché interamente coperta di proprietà e di ville, delle terre potessero essere assegnate a dei soldati.

Consideriamo che il liber coloniarum dice: Augustus deduxit. Di quale Augusto si tratta? Importava poco agli estensori del libro, contemporanei di Alarico che una colonia fosse stata fondata da uno o dall’altro imperatore. La formula Augustus deduxit significa semplicemente che Pozzuoli è colonia imperiale. Non è lo stesso per Teano, chiamata nel libro “colonia deducta a C. Augusto”; la colonia di Teano fu fondata da Claudio, e questa colonizzazione non fu preceduta da nessun’altra ai tempi di augusto. Balbo, la fonte del libro, avendo scritto: “ a Claudio Cesare Augusto l’abbreviatore lasciò da parte la prima parola. Per Pozzuoli ha anche ammesso il nome dell’imperatore, verosimilmente Vespasiano.

Il secondo documento è un’iscrizione di Rusicade: Genio coloniae puteolanae Augustae sacrum. Questa iscrizione non prova che Pozzuoli fu colonia d’Augusto. La presenza delle sole parole “ Colonia Puteolana Augusta” non esclude la possibilità che i titoli Neronensis Claudia o Flavia siano sottintesi. Se non tutte le parole della colonia sono scolpite qui, rileviamo che esse non lo

sono maggiormente nell’iscrizione dei mercanti di Tiro, che data dell’anno 174 d. C. e dove Pozzuoli è semplicemente chiamata scολωνία Σεβαδτή Ποτιόλοις.

La teoria di Mommsen eliminerebbe dunque ogni difficoltà. Ma essa è stata sottomessa ad una critica molto giudiziosa ed attenta da Bormann, Cuntz e Dtelefsen, le cui conclusioni mi sembra debbano essere adottate. E’ impossibile dare alle parole “quas ille in eo prodidit numero” il significato che Mommsen attribuisce loro; non sarebbe latino. “In eo numero” non può voler dire che in earum (coloniarum) numero. Inoltre, un secolo e mezzo prima dei triumviri, le colonie romane avevano cessato di essere, in maggioranza, delle colonie marittime e non se ne fondarono più di colonie latine. In tali condizioni è appna credibile che Plinio, nel timore di confondere colonie romane con colonie latine, non abbia tolto dalla lista cronologica che avrebbe avuto sotto gli occhi colonie posteriori a Cesare. Infatti, come dimostra Cuntz, tutte le cità interne e costiere, designate da Plinio come colonie erano colonie di Augusto, fondate dopo la battaglia di Filippi. Solo esse erano menzionate nella “descriptio Italiae” . Solo le colonie di Augustogodevano di privilegi speciali; per esempio quello di cui parla Svetonio e che consisteva per i decurioni nell’inviare i loro voti a Roma. Questa è la categoria alla quale la città di Pozzuoli, colonia augusta o considerata tale, sarebbe appartenuta.

E’ certo che per le città marittime Plinio si è servito molto del documento varroniano, ma ciò non implica che per esse egli non abbia utilizzato la

“descriptio Italiae”. Egli mise insieme le due fonti. Nella frase: Puteoli colonia Dicaearchia dicti, le due ultime parole potevano essere riferite al “periplo”; le due prime: Puteoli colonia alla “descriptio Italiae” le altre città marittime, che Plinio chiama “coloniae”, furono probabilmente colonie di Augusto, come Anzio e Aquileia. Solo alcune non erano più colonie sotto Augusto, come ad esempio Taranto, Case, Eporedia. Ma il testo di Plinio non permette di supporre che queste città figurassero a titolo di colonie, nella “descriptio Italiae” : è questo che è ricordato senza dubbio, è la loro prima colonizzazione all’epoca repubblicana. Il nome di nessuna di esse non è seguito dalla designazione (mentione) di colonia; Ostia, che non sembra essere stata colonia augusta, apparentemente fece eccezione; ma le parole che seguono immediatamente “colonia” a “romano rege deducta” rendono probabile l’opinione che la fonte di Plinio non è qui la “descriptio Italiae” .

E’ dunque lontano dall’essere evidente come si potrebbe credere conformemente alla teoria del Mommsen che la frase di Plinio su Pozzuoli provenga tutta intera dal documento di Varrone. Resta possibile che Pozzuoli abbia figurato nella descriptio Italiae di Augusto come colonia. Il solo modo per uscirne è (di) ammettere che Pozzuoli abbia cessato di essere colonia tra i regni di Augusto e di Nerone. Questa supposizione non si appoggerebbe ad alcun documento. Pertanto una nuova difficoltà si presenta. Nerone accordò a Pozzuoli lo stato (ius) di colonia nel 63; ora una iscrizione del 56, dove è nominato il

Genio della colonia, sembrerebbe indicare che, poiché si onorava a Pozzuoli in questa data il Genio della Colonia, la città fosse ancora colonia. Ammettiamo che essa poteva essere diventata municipio e che tuttavia vi si continuava a venerare sotto il suo nome di Genius Coloniae il genio locale sotto la cui protezione era stata posta la prima colonia, quella del 194 a.C.. Ciò non sarebbe impossibile. L’esistenza di questa iscrizione, comunque, complica il problema. Così il modo più semplice di risolverlo è di accettare le due testimonianze di tacito e di Plinio, conciliate dall’ipotesi della coesistenza di due comunità fondate insieme da Nerone. In ogni caso, non si ebbero sotto Nerone una effettiva colonizzazione. La “ius coloniae” permise a Pozzuoli (avendo l’imperatore accordato ad essa allo stesso tempo il suo soprannome) di chiamarsi colonia neroniana: “Colonia Neronensis Claudia Augusta Puteoli”.

Qualche anno dopo erano scoppiati dei disordini. Tanto che si può pensare (erano tumulti e rivendicazioni popolari) che essi fossero provocati dalla permanenza di ricchi personaggi dell’ordine senatoriale. Una grande città industriale e commerciale, rigurgitante di una plebe di schiavi operai, di affrancati, di marinai, di Orientali di ogni nazionalità, doveva già essere in preda alle difficoltà della questione sociale. Da qui le violenze che a volte minacciavano di metterla a ferro e fuoco. Noi vediamo che sotto Nerone l’aristocrazia e la plebe si appellavano all’arbitrato del senato romano. Si designò C.Cassio per ristabilire l’ordine. Non vi riuscì; gli succedettero SERIBONI,

condannarono a morte alcuni capipopolo e mantennero gli altri grazie al terrore ispirato da una coorte pretoriana che li aveva seguiti.

Colonia Flavia

Sotto Vespasiano Pozzuoli da colonia neronensis divenne “colonia Flavia Augusta”. Durante la lotta fra questo imperatore e Vitellio, essa prese parte per lui mentre Capua si dichiarò sua avversaria. Per ricompensarla egli le donò la parte meridionale del territorio captano. E’ nella stessa circostanza che gli dovette accordare il suo nuovo cognome e installarvi delle colonie, come lo apprendiamo dal Liber Coloniarum: Puteoli colonia Augusta. Augustus deduxit. Prima che il territorio puteolano fosse stato ingrandito a spese di quello captano, la mancanza di spazio non aveva permesso di assegnarvi delle terre ai veterani. E’ perciò che è difficile pensare ad una colonizzazione sotto Augusto; tutto ci porta al contrario a credere che l’Augustus del Liber Coloniarum è Vespasiano, poiché Pozzuoli fu colonia flavia e che per portarvi dei coloni, bisognò appunto estendere il suo territorio, estensione che si può benissimo attribuire alle punizioni e alle ricompense che Vespasiano usò verso Pozzuoli e Capua.

Fine dell’Impero

A partire da questo momento la costituzione municipale non cambierà più. Pozzuoli resterà fino alla fine dell’impero colonia Flavia; essa porta ancora questo titolo nelle iscrizioni ai

tempi dei Severi. Essa non ha più storia. Sembra che gli Antonimi le avessero mostrato molto interesse; ma Comodo è il primo imperatore che abbia, a nostro parere, rivestito un incarico municipale: egli vi fu “duumvir quinquennalis” beninteso in un modo tutto onorifico. Giovanni Lydus ci informa che i Napoletani ed i Puteolani si unirono per far costruire uno dei più bei portici di Costantinopoli, all’epoca della costruzione della nuova capitale. Pozzuoli fino sotto il regno di Teodosio fu una città ricca e popolata, avendo come protettori personaggi considerevoli. Una lettera di Simmaco contiene interessanti riferimenti sulle pubbliche distribuzioni di grano che Pozzuoli riceveva nel IV secolo dal tesoro statale: “Il divino” Costantino accordò ai cittadini di Pozzuoli 150.000 moggi per l’alimentazione della loro città. Questa somma fu dimezzata sotto il regno del divino Costante; poi Costanzo, su richiesta degli abitanti, accrebbe l’annona dei Puteolani di 25.000 moggi. Sotto il governo consolario della Campania del divino Giuliano, Lupus, avuto rispetto per la carestia di Terracina, tolse ai Puteolani 7.000 moggi per attribuirli a Terracina.

Le ultime iscrizioni conosciute datano alla fine del regno di Teodosio. Poi bruscamente è silenzio completo di tutti i documenti letterari o epigrafici. Poche città sembrano così rapidamente e così completamente tramonatate come Pozzuoli. Essa soffrì molto le invasioni barbare. Non essendo fortificata non poteva essere difesa, gli abitanti si rifugiarono nelle città vicine, Napoli e Cuma. I commercianti non si sentivano più sicuri e non vendettero

più; il trafficoi passò a Napoli. Le ville furono abbandonate e il centro si ridusse a quello che era stato in un primo momento e che sarà durante tutto il medio evo: al quartiere limitatao ma fortificato del Castello (Rione terra). Essa dovette essere devastata all’epoca della discesa di Alarico nell’Italia meridionale e non sembra essersi più ripresa. Non sappiamo se il regno di Teodorico fu per essa, come per molte altre città italiane un inizio di rinascita; sembra pertanto che i bagni di Pozzuoli e di Baia siano stati ancora fino a questo momento molto frequentati. Essa non è menzionata neppure una volta nella storia della guerra dei Goti di Procope; essa non giocò nessun ruolo al tempo della spedizione di Belisario in Campania. Venne un momento in cui essa fu quasi interamente sepolta e in cui la maggior parte dei suoi abitanti emigrò a Napoli.

Decurioni – Famiglie principali -

Il comune di Pozzuoli comprendeva l’assemblea del popolo e il senato. Il senato si riuniva sia sotto il tempio di Antonino sia sulla basilica di Augusto, che comprendeva un locale speciale “curia” per le sedute. Nel 105 a.C. venti decurioni almeno dovevano essere presenti affinché una decisione di diumviri fosse valida. Un’iscrizione dell’epoca imperiale ci fa apprendere che 82 decurioni presero parte ad una seduta. I decurioni nominati tutti i cinque anni dai diumviri quinquennali erano i magistrati anziani. Allorché il Senato aveva preso una decisione alcuni di essi a titolo di curatori “curatores”, avevano l’incarico di assicurare l’esecuzione.

A Pozzuoli si conobbero dei “curatores reipubblicae”. Questi funzionari nominati dall’imperatore sorvegliavano le finanze e i lavori pubblici della città. Verso la fine dell’impero, Pozzuoli dipese dai consoli della Campania che esercitavano sulla città il diritto di alta sorveglianza e di cui noi constatiamo l’intervento in materia di lavori pubblici in più riprese. Ecco la lista dei decurioni conosciuti a Pozzuoli:

Aelii, Aemilii, Amullii, Annii, Aquilii, Anfidii, Avianii, Bovii, Caecilii, Caepii, Caesii, Calpurnii, Claudii, Castricii, Clodii, Cossutii, Curtii, Fabii, Falcidii, Fictorii, Flavii, Infidii, Gavii, Granii, Haii, Hordeonii, Iulii, Manlii, Nemonii, Naevii, Appii, Pacci, Papirii, Pullii, Septimii, Stlaccii, Tettei, Valerii, Vignetii, Vestorii, Sittii, Plutii, Lartidii, Apulei, Blossii.

E’ molto difficile distinguere i nomi dei coloni appartenenti alla più antica colonia. Tutto ciò che è possibile fare è di rilevare i nomi delle famiglie importanti conosciute prima dell’epoca di vespasiano e di constatare che esse fecero parte necessariamente della colonizzazione del 194 a.C. E’ questo il caso per la gente Anniae, Avianiae, Calpurniae. Sono le sole che si possono citare con certezza. Quanto a distinguere le famiglie di origine campana dalle famiglie dei coloni romani, non lo si può fare se non per qualche caso che sono certi; per esempio per i Blossii, i Fulpidii e i Bovii.

Si è scoperta da qualche anno a Pozzuoli una tavoletta di bronzo recante da un lato un’iscrizione osca che è una lista di nomi e dall’altra dei segni magici. L’iscrizione termina con

una frase che significa: “I membri e gli amici…” non si conosce l’esatta provenienza, si solo che è stata trovata nelle vicinanze di Pozzuoli,. Questa indicazione è vaga; le vicinanze di Pozzuoli potrebbero ben designare qualche parte del territorio di Cuma. Bisogna dunque astenersi dall’usare questo documento che ci fornisce una lista preziosa di nomi per un’epoca antica ( l’iscrizione data dal II sec. a.C.) . Tuttavia osserviamo che alcuni nomi sono conosciuti a Pozzuoli non a Cuma: Fufidius, Caucius, Batutius. Queste indicazioni sono insufficienti per attribuire l’iscrizione ad una città piuttosto che a un’altra.

Avvocati difensori e Amministratori – Patroni e Curatori

della città

Gn. Asimius Pollio, Octavius Agatha, Herennius, Aradius, Valerius Proculus, Genninius Tuticius Aemilianus, M. Maecius Memmius Furius, Baburius Caecilianus Placidus, Mavortius, O. Flavius Maesius Egnatius Lollianus, Pontius Proseirus Paulinus Iunior, Vasedius Rufinus, Tannanius Chrysantlun, Septimus Rusticus. (Amministratori, Sovrintendenti)I “curatores reipubblicae” conosciuti a Pozzuoli sono:Flavius Luginus, Caesarius Lucillus, O. Hedius Rufus Lollianus Gentianus, Arsenium, Marcellus, M. Bassaeus Axius.TRIBU (Quartieri)Il quartiere della campagna era il quartiere Falera, come lo provano le seguenti iscrizioni: 1° DIIS MANIBUS SACRUM M. LAELIO M. FAC. MAXIMO.

Iscrizione trovata a Pozzuoli ad un lato della via di Cuma (antica via Domiziana), dove c’era la sepoltura di Lelio.2° SEDES SEP. M. LAELII M. FLIUS FAL. MAXIMI3° M. VERRIO M. FAL. FLACCO CELSUS FRATER4° C. IULIUS MUSOGENIS FILIUS MENOPHILYS5° AUFIDIA EYPHROSIN(A) SIBI ET T. AUFIDIO T. FILIUS FAL. TEMPLITANIUn certo numero di testi farebbero supporre che famiglie native di Pozzuoli erano assai spesso abitanti del quartiere urbano PALATINO. In una lunga lista di coorti urbane, principalmente costituiti da nati liberi dalle circoscrizioni urbane, 23 soldati di Ostia e di Pozzuoli forniti da una “tribù”, hanno tutti la “tribù” Palatina. PAG 59

Era, come riconobbe egli stesso in seguito, un errore. Le circoscrizioni urbane sotto l’Impero non erano in un rapporto fisso con la città di origine; esse comprendevano solo dei cittadini che, per cause personali, erano esclusi dalle circoscrizioni agricole locali per sempio i figli dei liberti. Ciò che bisogna notare e che è curioso a Pozzuoli come ad Ostia è la frequenza singolare con la quale si incontrano famiglie (gens) appartenenti alla Palatina. Mommsen si chiede se la “tribù” rustica locale di Pozzuoli, la tribù Falerna e così quella di Ostia, le tribù Vaturia non siano state respinte ai Greci che acquistavano il diritto di cittadinanza romane, nello stesso tempo che il diritto di borghesia di queste città o anche ai loro figli. Certi indizi farebbero pensare che questa sia

una buona spiegazione. Ciò che per il resto sembra evidente è che esisteva una differenza fra le due categorie di abitanti: quelli della tribù locale e quelli che in un’assai notevole preparazione erano iscritto nella tribù Palatina.

Ecco i testi che ci fanno conoscere il quartiere Palatino accanto a quello Falerno. 1° Lista di soldati delle coorti urbane, dove su dodici soldati di Pozzuoli, nove hanno la tribù Palatina; per gli altri tre la tribù manca.2° Iscrizione di N. Nemanius Eutychianus, sacerdote di Giove Damasceno; questo personaggio era nella tribù Palatina. La sua qualità di un sacerdote di un dio Orientale, fece in modo che egli fu ammesso nella curia per scelta, era probabilmente un uomo di origine greco-orientale che aveva acquistato il diritto di cittadino romano e il diritto di borghesia puteolana per questo motivo iscritto nella tribù Palatina.3° Iscrizione di L.Plutius Phoebus iscritto nella tribù Palatina. Può essere anch’egli di origine greca.4° Iscrizione di M. Falcidius Hypatianus. Il fatto che suo padre fosse “e che egli stesso fu ammesso per scelta nella curia, fa credere che era un uomo venuto su dal nulla: forse figlio di un affrancato e iscritto per questo motivo nella tribù Palatina.5° Iscrizione di Moevius Vitulus, decurione. Suo padre Naevius Maschus era Augustale. Egli era senza dubbio ancora un uomo venuto su dal nulla.CORPORAZIONILe corporazioni conosciute a Pozzuoli sono:

1° Società commerciali.2° Il collegio degli augustali.3° Il collegio dei dendrofori, sacerdoti che portavano rami o arbusti nelle feste di Cibale.4° Il collegio dei DECATRENSES. Alcuni hanno voluto vedere nel collegio una corporazione di “gens” famiglie incaricate di celebrare la festa degli auguri decennali. DECATRENSIS sarebbe in questo caso la trascrizione latina della parola greca ςεscαeτηeίς (che si rinnova ogni dieci anni, dcennale).Secondo altri i DECATRENSES sarebbero semplicemente gli abitanti della città dalmata di Decatera. Ma non si comprende molto la presenza a Pozzuoli di abitanti provenienti da quella città che è menzionata solo raramente dagli antichi. Mi sembra preferibile un’ipotesi di Hirschfeld secondo la quale il collegio dei DECATRENSES avrebbe preso il suo nome dal giorno di riunione dei membri che lo componevano; essi si riunivano alle idi che nel caso dell’anno cadevano otto volte nel tredicesimo giorno del mese (decatrensis= ςέscα+τρείς).5° Scabillari. Erano gli artisti di scena che suonavano lo “scabillum” (suola di legno con lamina vibrante di cui essi si servivano per dare il segnale per alzare o calare il sipario).6° Religiosi. Collegio di uomini votati al culto di Cibale.7° Epicureius chorus. Probabilmente associazione di organizzazione di feste.8° Triclinium Elvenianum. Collegio funerario chiamato triclinio perché i banchetti costituivano una parte importante dei funerali.

9° Collegium salutare familiae Valerianae. Collegio funerario.10° Rosens. Questo nome è sinonimo di “rosaries” che si legge su un’iscrizione a Roma. Forse erano dei venditori di rose. Si celebravano le “rosalie” o “dies rosae” in maggio o in giugno.11° Venatores. Cacciatori di bestie feroci nei giochi circensi.12° Reziari. Forse i reziari dell’anfiteatro o forse venditori di reti.13° Parasiti Apollinis (?) Formavano un sodalizio sacro destinato a collaborare (concorrere) ai giochi apollinari a Roma. 14° Socii lictores populares denuntiatores Puteolani. (142 d.C.). Devoti all’imperatore Antonino. Erano degli uscieri (dei messi) dei magistrati. Si chiamava “denuntiator” un agente che affiancava l’amministratore di una delle 14 regioni di Roma. C’erano anche dei messi o notificatori nei municipi. Essi avevano il compito di trasmettere gli ordini degli amministratori ai capi dei quartieri. A volte avevano la funzione di fare degli annunci o dei proclami alla popolazione. E’ curioso che non sono menzionate le corporazioni dei fabbri e dei rigattieri. I tre collegi più comuni in Italia e nelle altre province latine dell’Impero erano quelli dei fabbri, dei rigattieri e dei falegnami. Si è osservato che i colegi dei fabbri numerosi in Occidente, nell’Italia centrale e settentrionale, mancano interamente in Grecia, in Asia Minore, in Egitto e sono assai rari in Africa. I carpentieri e i muratori erano in tutte le città estremamente numerosi; è la ragione forse per cui gli imperatori esitarono a volte a dare loro l’autorizzazione di

formare dei collegi perché sembravano loro pericolosi. I motivi che li spinsero a formulare queste proibizioni furono che l’Oriente e la Grecia province così spesso ribelli, non ebbero collegi di operai. Poiché la popolazione di Pozzuoli era composta in gran parte da Orientali, vi si adottarono le stesse misure dei paesi orientali.

Cap. III Commercio e industria.

Principali fasi della storia commerciale di Pozzuoli

( da pag 64 a pag. 83)

Abbiamo già visto che Dicearchia sembra aver avuto una certa importanza marittima all’epoca greco-osca. Ma Napoli era il grande centro commerciale della Campania e rimase tale per il 4° e il 3° sec. Essa era il baluardo dell’ellenismo in Campania, il tratto di unione fra questa regione, la magna Grecia, la Sicilia e la Grecia propriamente detta; trafficava con l’Egitto e con Cartagine. L’arrivo dei Romani in questa regione non modificò in un primo momento questa situazione; tanto che Roma non fu che una potenza italiana, il commercio con la Grecia e l’Oriente passò per Napoli: i Romani che non estendevano ancora i loro progetti di conquista ai paesi d’oltremare si contentavano di questo intermediario.

La guerra che scoppiò tra Roma e Napoli non danneggiò quest’ultima avendo concluso dopo tre anni di ostilità con la nemica un trattato vantaggioso. Essa conservò la sua indipendenza e non subì alcun declino. La sua marina le restò: nel 264, sei triremi con quelli dei Tarantini, dei Lo

cresi e degli Eleoti trasportarono in Sicilia l’esercito roamno. E’ probabilmente in questa epoca che, in seguito a relazioni commerciali, alcuni Egiziani si stabilirono a Napoli amalgamandosi con alcune vecchie famiglie di origine greca.

Durante questo periodo le fonti sulla storia di Pozzuoli difettano completamente. E’ solo a partire dalle guerre puniche che secondo Tito Livio sarebbe cominciato il suo progresso. La sua importanza per i Romani fu dapprima strategica. Nel 216 non aveva ancora attirato la loro attenzione; per ragioni militari, poi economiche, essi si interessarono al suo sviluppo che fu rapido. Essendosi stabilito a Pozzuoli un ufficio di dogana marittima, la via commerciale si spostò dalla Napoli greca alla Pozzuoli romana. Durante cento anni Pozzuoli si ingrandì senza sosta: essa era ai tempi di Silla il punto di partenza e di arrivo di tutte le merci per la Campania e per l’Italia centrale; la sua zona di importazione si estendeva pure alla capitale che essa (alimentò) approvvigionò fino al regno di Claudio. Le ragioni di questa rapida fortuna rispetto ad Ostia, l’antico emporio di Roma e riguardo a Napoli, l’emporio della Campania; sono di diverso ordine: commerciali e geografiche per quel che concerne Ostia; politiche se consideriamo che la grandezza di Pozzuoli fu accompagnata dal declino di Napoli. All’inizio del II sec. Roma vittoriosa di Annibale, signora d’Italia, nel punto di entrare in relazione con la Grecia e con l’Asia, aveva bisogno di un porto nella regione dove terminava il commercio greco-orientale. Ostia non le bastava più. E’ in Campania dove era stata fondata la

più antica colonia ellenica, Cuma, e dove si trovava la più popolosa e la più fiorente città d’Italia, Capua, che sbarcavano commercianti orientali. Quanto agli Italiani che si recavano in Oriente erano soprattutto Siciliani e Campani. Il primo che conosciamo a Deli è un certo Marius, un meridionale come indica il suo nome (250 a. C.). Una ventina d’anni dopo, un mercante del sud originario di Canosa (Canusium) vi si era stabilito. Un flusso commerciale esisteva e Roma aveva interesse a mantenerlo.

Un’altra ragione influì: un motivo religioso; si tenevano così lontano le religioni, orientali. Ciò serviva a mantenere le vecchia religione romana, già minata da tante infiltrazioni straniere, che i negozi e i templi dei mercanti non fossero alle porte stesse di Roma, sulle rive del Tevere.

Inoltre alla foce del Tevere mancavano condizioni naturali favorevoli al commercio. “Ostia, scrive Stradone, non ha un porto a causa degli interramenti formati dal limo che trasportano il fiume ed i suoi numerosi affluenti; occorre che le navi, (non senza pericolo) venendo dal lago, gettino l’ancora ad una certa distanza dalla costa e restino esposte alla furia del mare”. Dopo l’antichità la riva è molto avanzata; ai primi tempi di Roma fino alla fine dell’Impero la progressione un po’ meno rapida era in media di 1,28 m per anno. Le alluvioni e il banco di sabbia rendevano, verso la fine della Repubblica, la navigazione molto difficile; le navi da guerra superavano facilmente il passaggio avendo una leggera linea di immersione; ma le navi commerciali quando il loro peso oltrepassava circa

le 27 tonnellate di peso non potevano entrare nel fiume e delle barche imbracavano i mercanti in pieno mare.

Il progetto di Cesare di creare ad Ostia dei grandi bacini non fu realizzato. E’ comprensibile che i commercianti orientali abbiano preferito sbarcare in un porto campano riparato e ben sistemato. Così si spiegano la situazione della capitale il cui emporio era a più di 200 chilometri e l’importanza delle vie terrestri, via Appia, e via Latina.

Il porto di Roma doveva essere in Campania; ma perché questo fu Pozzuoli e non Napoli?

Napoli era all’inizio del 2° secolo una grande città rispetto a Pozzuoli, la cui rada non aveva su quella vicina una marcata superiorità.

Le ragioni della dislocazione commerciale sono qui politiche: Roma volle comunicare direttamente con i paesi lontani, che sottometteva e conquistava, mediante un porto in territorio romano non con quello di una città che aveva conservato la sua indipendenza qualunque fossero la sua buona volontà e la sua fedeltà; era una misura prudenziale. L’indipendenza stessa di Napoli fu la causa della sua rovina. Inoltre, i mercanti orientali sbracando a Pozzuoli, pagavano una sola volta i diritti doganali; passando per Napoli dovevano al contrario soddisfare in successione il fisco napoletano e la dogana romana. Era meglio pertanto, nell’interesse del venditore e del consumatore, portare le merci direttamente al porto di Pozzuoli.

Nel 199, data fondamentale nella storia commerciale dell’Italia antica, i censori Scipione l’Africano e P. Elio Petus stabilirono a Capua ed a Pozzuoli

il dazio di entrata ed uscita (delle merci) “portoria venalicium Capuae Puteolisque” a favore del Tesoro dello Stato. Quale fu lo scopo di questa misura e perché fu posta a Capua una dogana complementare a quella di Pozzuoli? Marquardt dichiara di non comprenderne la ragione. “Non si vede, scrive, in cosa consistesse il diritto di dogana a Capua che non era porto di mare.

M. Cognat pensa che il dazio (portorium) di capua fosse un pedaggio; si sa che i Romani non si accontentavano di colpire i mercanti all’entrata o all’uscita di una provincia ma che facevano pagare ancora in certi punti diritti di passaggio che aumentavano molto il costo delle merci. Non sarebbe impossibile che il “portorium” di Capua sia stato un pedaggio del genere. Tuttavia mi sembrerebbe che esso abbia avuto un altro scopo. Tito Livio non fa differenza fra quello e quelli di Pozzuoli e di una città, Castrum Pretorium che era anch’essa un porto di mare, proprio come gli altri dazi esso era percepito sulle derrate che entravano per la prima volta nel territorio campano.

Esso costituiva la dogana di frontiera per il territorio posseduto da Roma e quello di Napoli, città libera.

Le merci che da Pozzuoli erano portate a Capua erano sottoposte ad un pedaggio non ad una 2° tassa di entrata analoga a quella pagata a Pozzuoli; al contrario quelle che provenivano da Napoli per la via di Atella erano fermate al confine tra il territorio di Napoli e Capua. Se la dogana di Capua non fosse esistita i prodotti provenienti da Napoli sarebbero stati esenti da ogni

pagamento. Così utile come quella di Pozzuoli essa la completava e le era ausiliaria allo scopo di evitare il traffico marittimo.

La dogana tassava le merci in entrata e in uscita. La dogana puteolana traeva dalle prime i maggiori benefici. Il mondo che chiedeva poco a Roma e all’Italia, inviava loro quasi tutto. Pozzuoli esportava ferro, pozzolana, mosaici, ceramica ecc. Bisogna tuttavia ritenere esatta l’affermazione di Strabone che scrive a proposito di Alessandria:-Quest’ultimo porto esporta più di quello che importa; chiunque sia stato ad Alessandria e a Dicearchia avrà potuto convincersi nel vedere la differenza del carico dei vascelli dell’andata ed al ritorno, e come quelli con destinazione Dicearchia sono più pesanti (carichi) e queli con destinazione Alessandria più leggeri”. I documenti non ci fanno conoscere l’organizzazione del “portorium” a Pozzuoli; non ci indicano i prodotti tassati. Come sotto l’impero la dogana in Italia colpiva solo le merci di lusso. Se consideriamo che le merci provenivano quasi tutte dall’Oriente, possiamo farci un’idea di alcune sovrattasse percepite sui profumi, le resini d’Arabia, le spezie, e le stuoie ed i cotoni indiani, le pietre preziose, le sete cinesi e persiani, principali oggetti importati da mercanti siriani ed arabi. Per tali la fortuna di Pozzuoli fu indissolubilmente legata ai successi politici di Roma. Questa entra in contatto con con l’Oriente Pozzuoli nasce alla vita commerciale. Roma conquista la Grecia., l’Egitto, la Siria, l’Asia: altrettanti nuovi sbocchi per Pozzuoli. E’ difficile seguire

dettagliatamente questo sviluppo economico. Ma il punto di arrivo è conosciuto; all’inizio del 1° secolo a.C. Roma domina l’Oriente: Pozzuoli è il grande porto d’Italia. Durante le guerre puniche Pozzuoli servì ai Romani come porto militare. Nel 211 a.C. Nero vi imbarcò per la Spagna un’armata di 6000 uomini e di 300 cavalieri. Ma Napoli, che aveva conservati ed il cui porto era fortificato, fu nell’Italia meridionale la base delle principali operazioni marittime di Roma. Nel 191 a.C. Livius, prefetto della flotta romana, si recò da Roma a Napoli per mare si unì alla flotta napoletana e alleata e partì per l’Orienta. E’ a Napoli che nel 180 Fulvius, vincitore dei Liguri Apuani, ne trasportò 7000per farli passare di là nel Sannio..

All’epoca di Silla Napoli aveva ancora la sua flotta, essa restò a lungo il porto militare della Campania. Ma a Pozzuoli venivano viaggiatori e merci. Nel 203 i deputati cartaginesi incaricati di trattare la pace vi sbarcarono e si recarono a Roma via terra. Nel 168 Masgaba, figlio di Massimissa inviò un’ambasciata e sbarcò a Pozzuoli dove venne cercare il questore L. Manlio e da Pozzuoli ripartì per l’Africa. Nel 167 Prusias, re di Bitinia, si recava a Roma con suo figlio Nicomede; il senato lo mandò a prendere a Capua.Può darsi che fosse sbarcato anch’egli a Pozzuoli. Un’ulteriore prova del pronto sviluppo di Pozzuoli, dopo le guerre puniche ci è fornita da un testo di Polibio che la cita fra le città più celebri e più belle d’Italia.

Έπιφανεδτάτας scαί scαλλίδτας.Nel 2° secolo numerose ambascerie furono scambiate fra Roma e l’Egitto.

Contemporaneamente a questi rapporti sempre più stretti, il commercio tra i due Paesi crebbe rapidamente. Una data importante ci è fornita dalla legge Parieti Faciundo (legge del 105 a.C.) che ha come oggetto l’esecuzione di lavori davanti al tempio di Serapide. Sebbene un tempio di Serapide esistesse alla fine del II sec. che il dio fosse conosciuto dopo molto tempo; le analogie ci permettono di affermare che spesso passano lunghi periodi dopo il momento in cui un culto fa da qualche parte la sua prima apparizione fino al momento in cui esso è definitivamente conosciuto. In ogni modo è a Pozzuoli che noi constatiamo la più antica presenza delle divinità egiziane in Italia: è da Pozzuoli che si propagarono dapprima nelle regioni vicine, a Pompei dove un tempio di Iside, abbattuto da un terremoto del 63, esisteva dal II secolo, poi a Roma stessa. Il soprannome di Serapio, dato a Scipione Nasica fanciullo, perché somigliava ad uno schiavo con questo cognome sembra indicare che nella prima metà del II sec, Serapis contava già nella capitale degli adepti fra il popolo e fra gli schiavi. Ma mentre qui il suo culto vegetava era molto stabile ed onorato nell’emporio campano. Dopo le guerre puniche, il Senato e i Lagidi intrattennero relazioni continue; i re d’Egitto di cui alcuni venivano a Roma, come Evergete II che fece due volte il viaggio, poiché si resero ben conto che essi avevano l’amicizia dei Romani favoriva molto il commercio dei loro prodotti. Si costituì allora la via di navigazione Pozzuoli-Alessandria. Sotto il regno di Cleopatra donna di Evergete, il geografo

Eudossio, facendo un viaggio di circumnavigazione nel Mediterraneo si recò direttamente da Alessandria a Dicearchia. I commercianti alessandrini in Campania erano meno numerosi dei lro colleghi italiani ad Alessandria. Il traffico si svolgeva soprattutto nelle mani di questi ultimi. Nel 127 ad Alessandria c’era un’importante colonia romana di armatori e di negozianti. Non meno considerevole era quella di Delo, dove la maggioranza dei negozianti era formata da famiglie del sud le cui basi operative erano le città della Campania e della Sicilia. I commercianti di Delo, che sono nominati nelle iscrizioni italiane o romane, designano raramente la lor patria, la città da cui essi provengono o quella in cui commerciano; molti dovevano essere dei commercianti di Roma; ma l’opposto principale era formato da meridionali. Senza parlare dei Siciliani e degli abitanti della Magna Grecia, molti indizi ci rimandano alla Campania ed alle regioni poste fra la Campania ed il Lazio, lungo la via da Pozzuoli a Roma. I nomi dei mercanti sono a questo riguardo significativi: Minatus Status il cui nome compare tra gli elenchi dei gerofanti del tempio di Apollo Delio si dice egli stesso originario di Cuma. Una ventina d’anni dopo, un Minatus esercita a Delo la professione medica; un altro verso il 160-140 è lì il capo della corporazione dei commercianti. I nomi di molti mercanti di Delo si ritrovano in Campania; sono quelli di Novio, di Vibius, d’Oppius, di Paccius. Un L. Oppius è “magister mercurialum” insieme con Minatus Status., figli

dìOvius, che è pressoché un puteolano essendo un cumano. Mediante delle iscrizioni di Delo si conosce un Pettius Heracleides. E questo nome si ritrova in particolare nelle iscrizioni di Pozzuoli accompagnato dallo stesso prenome di Delo, Munerius. Solo a Pozzuoli in tutta la Campania si ritrova il nome Tutorius che appare anche in una iscirizione di Delo.Questi fatti ci aiutano a comprendere lo sviluppo del commercio puteolano. A Deli come in Egitto il movimento cominciò dalla prima metà del II secolo. La ricchezza commerciale di Pozzuoli fu la conseguenza dei successi politici di Roma; a partire dal 193 Roma è signora di Delo: ora è dal 192 al 180 che si rileva negli inventari di Delo dieci nomi romani, di cui 5 almeno hanno un richiamo campano. Anche se ci mancassero queste preziose indicazioni, anche se ci mancassero pure dei documenti che ci indicano che Pozzuoli divenne il porto di imbarco dei viaggiatori che dall’asia e dall’Africa si recavano a Roma dalla situazione commerciale della città come la conosciamo dalla fine del II all’inizio del I secolo potremmo dedurre che il commercio italiano nella prima metà del II secolo si sviluppò quasi unicamente a suo vantaggio.E’ a Pozzuoli che fecero la lor prima apparizione le divinità semitiche. Alcune di Baal d’Oriente, a dire il vero, non sono menzionate se non da iscrizioni dell’epoca imperiale; ma questi stessi testi sono i più antichi che ce la fanno conoscere nella penisola. Tanto che il III secolo fu quello della grande diffusione dei culti siriani nell’Impero e a Roma, noi siamo, a Pozzuoli rimandati a date anteriori. La

più vecchia iscrizione romana dedicata a Giove d’Eliopoli è dell’anno 186 d.C.; a Pozzuoli questa divinità era adorata dall’anno 116. Il Baal di Sarepta vi era conosciuto sotto Domiziano. Per il dio degli Arabi, dobbiamo rimandare alla metà del I secolo a.C. Il caso di Dusares non è meno caratteristico di quello di Serapis: se nel 39 a.C. gente di Petra possedevano a Pozzuoli una sinagoga è evidente che le altre religioni sannitiche vi erano già rappresentate e che i negozianti di Tiro o di Berte vi avevano i loro banchi da lungo tempo. Forse li avevano dopo la seconda metà del 2° sec. Lucilio chiama Pozzuoli: Dicarchitum populus Delinque minorem. Questo verso è stato scritto verso il 126-126 (la 3° parte delle satire di Lucilio libro 26 e seguenti, è la più antica (anno 131 circa); la prima parte, nella quale figurava la 3° satira con il verso suddetto, è stata composta probabilmente dopo il 126). Esso prova che Pozzuoli era già allora molto sviluppata per paragonarla alla città che era il più grande interporto del mondo i cui moli e i cui depositi, notevolmente sistemati coprivano vaste estensioni. Esso è nella sua stessa brevità una preziosa testimonianza. Essendo Delo agli occhi dei Romani il porto modello, Pozzuoli non sembrava indegno di secondo rango.

Delo che a questa epoca era ancora il grande scalo di Levante, il luogo d’incontro degli Italiani e dei Siriani, si interpose fra l’Italia e l’Oriente. La maggior parte dei commercianti romani vi si fermavano; quanto ai commercianti Siriani, essi vi avevano i loro principali ditte. Questa situazione che impediva il Creditore

del re Tolomeo, sovrintendente della finanza egiziana, fua aun certo momento il re del commercio egiziano e puteolano.

In un passaggio di Verre, Cicerone nomina altri negozianti. Questi minacciati, derubati, rovinati da Verre erano venuti a Roma come testimoni al processo del celebre malversatore. “Io vedo qui tutta la città di Pozzuoli, dice Cicerone, vedo una folla di negozianti, ricchi e onesti, venuti per testimoniare che le loro associazioni, che i loro liberti, spogliati, messi ai ferri da Verre, gli uni sono stati assassinati in prigione, gli altri colpiti con la scure”.

L’oratore nomina le vittime o i testimoni, appartenenti alle più grandi famiglie di Pozzuoli: c’è un Flavius, un Annius, un Granius, Verre ha fatto uccidere affrancati di quest’uiltimo, egli ha rubato le sue merci e presa una nave.

Altri mercanti commerciavano in particolare in Asia: così Cluvius, che faceva il banchiere ed opprimeva le popolazioni per conto di Pompeo, di cui era il prestanome. Cicerone scriveva a questo proposito a Thermus, propretore di Cilicia: “ Clevius di Pozzuoli è uno dei miei migliori amici e il più intimo. Egli ha degli interessi nella vostra provincia ed egli è persuaso che se egli non costituirsi di relazioni dirette tra Pozzuoli e l’asia, durò fino alla guerra di Mitridate. Delo fu allora molto provata per il massacro della colonia romana.: 19 anni dopo (69) fu saccheggiata dai pirati e non si risollevò più. M. Homolle constata che a partire dall’84 gli Orientali vi diventano sempre più rari, che i templi egiziani e siriani sono deserti. La

colonia romana ricostituita fu ancora molto fiorente fino al 69, ma dopo tale data essa si disperse. Il disastro dell’88 e del 69 accelerarono il movimento che s’era già profilato nel secolo precedente: la via commerciale si spostò definitivamente. I negozianti romani si spostarono in massa in Siria e i Siriani in Italia. La caduta di Delo fu seguita dall’apogeo di Pozzuoli; sotto Augusto, Strabone ci dipinge l’una come pressoché deserta e ci descrive l’altra come un considerevole emporio.

Grazie all’opera di Cicerone ci si può fare un’idea della via commerciale di Pozzuoli verso la fine della Repubblica. Vi si leggono i nomi di alcuni ricchi negozianti padroni di molti navigli. C. Rabirius Postunus, il famoso banchiere, era del numero. La sua flotta commercaiel, cataplus puteolanus, era magnifica.

Approfitta della nostra presenza e della mia raccomandazione per completare tutto, è tanto di perduto per lui. Genti di Mylase (Milazzo) e di Alabarde gli dovevano del denaro; Eutiodemo mi aveva detto, quando sono passato per Efeso, che egli avrebbe provveduto a far iniziare a Roma dei commissari milazzesi; ma non se ne è fatto più nulla; perciò vi chiedo di ordinare alle genti di Mylase e d’Alabande di farne partire immediatamente. Inoltre, Filocle d’Alabande si è impegnato con Cluvius con ipoteche. Il termine è scaduto. Abbiate la bontà di farle consegnare agli agenti di Cluvius o di obbligare Filocle a pagare. Gli Eracliati e i Barglilieti sono ugualmente suoi debitori; fate in mod che lo paghino in contanti o in natura. Anche Cannieus ha dei debiti con lui. Io mi inquieto

tanto più di tutto ciò perché si tratta degli interessi del nostro amico Gn. Pompeo e che egli si tormenta molto di più dello stesso Cluvius”.

Un Clivius senza dubbio puteolano aveva ricevuto dei riconoscimenti nella città di Magnesia di Meandro. Si legge in un’iscrizione: “Il consiglio e l’assemblea del popolo hanno insignito Munerius Clivius figlio di Marius di onori soliti e anche di una corona d’oro a causa della sua devozione per Artemide e perché è stato, in diversi modi, il benefattore del popolo”.

Verso la stessa epoca un altro commerciante di Pozzuoli, Vestorius, vi introduceva dall’Egitto alcune industrie. Pozuoli era, dopo Roma, il punto di incontro dei pubblicani e degli speculatori; lì imbastivano i loro loschi affari e vi commerciavano il denaro. Allorché fu necessario prendere delle misure per evitare che il denaro non uscisse dall’Italia e quando la legge Gabinia aveva vietato ai provinciali di ottenere prestiti a Roma Cicerone, allora console, interdisse tutto il commercio nel porto di Pozzuoli, permettendo solo il baratto agli stranieri, per evitare che il flusso di denaro si dirigesse verso la Grecia. Egli inviò con questa missione Vatinius che invece di accontentarsi onestamente di questo compito, si comportò verso i Puteolani come un altro Verre. E’ quello che ci fa sapere Cicerone nell’orazione contro P. Vatinius dove egli rimproverava a costui di aver agito non come un magistrato ma come un doganiere disonesto, taglieggiando i commercianti, frugando come un vero brigante le case, le cantine, le navi, colpendo i commercianti con i più

ingiusti processi, spaventandoli al loro arrivo nel porto o ritardando la loro partenza. Le vessazioni di Vatinius provocarono un tale malcontento che la folla passò contro di lui a vie di fatto e gli abitanti di Pozzuoli si appellarono a Cicerone.

Pozzuoli in quest’epoca dovette essere teatro agitato da ben altri scandali. Le notizie del mondo intero che vi affluivano, esatte o deformate, inquietarono il popolo; tutto quello che accadeva in asia Minore, in Grecia, in Egitto, vi trovava un’eco. Come i contrasti scoppiati fra Tolomeo e gli Alessandrini che inviarono a Roma una delegazione di loro concittadini per confutare le accuse del re. Tolomeo era risoluto a non lasciarli arrivare a Roma. Spedì a Pozzuoli alcuni sicari che tesero loro un agguato; la maggior parte di essi fu sottoposta a supplizio o assassinata.

L’attività e la proprietà del porto si mantennero sotto Augusto ed i primi imperatori. Nessun segno di declino. Stazio dice di Pozzuoli: littora mundi hospita (approdo di tutto il mondo). Diodoro, parlando dei porti italiani, nomina subito Pozzuoli e mette tutti gli altri porti su un livello secondario. Le navi di un ricco negoziante, Calpurnius, percorrevano tutti i mari, andavano in tutte le aprti del mondo. La pace, la ricchezza, l’ordine che regnarono facevano dimenticare ai mercanti i pericoli di guerre civili, dei pirati e quelli peggiori di Verre e di Vatinius. Un giorno che egli navigava nel golfo “i passeggeri ei marinai di una nave alessandrina, che era in rada, vennero a salutarlo vestiti di bianco e coronati di fiori. Bruciarono anche dell’incenso alla sua presenza e lo

colmarono di lodi e di auguri esclamando che era per merito suo che vivevano e potevano navigare, che godevano della libertà e dei loro beni.”

La base consacrata a Pozzuoli in onore di Tiberio è una testimonianza dell’attività commerciale della città agli inizi del I sec. d. C.

I porti che avrebbero più potuto rivaleggiare con Pozzuoli non svolgevano che un commercio poco attivo o limitato. Napoli era decaduta. Le divinità orientali, ad eccezione di Iside e di Mitra, vi mancavano. Le iscrizioni forniscono è vero alcuni nomi orientali (Antioclus di Ladicea, Hermoclès d’Alessandria, Poseidonius di Bente, Catillia Gaurana di Micca); ma non sono che epitaffi o dei semplici saluti indirizzati alla persona amica. Nessuna è consacrata ad una divinità orientale, non menziona società commerciali. C’è un completo contratso tra Pozzuoli in continua trasformazione, piena di vivacità, aperta a tutti gli apporti esoticie Napoli, pacifica, fedele ai suoi dei, Demetra, Hebon, Sebeto, ai suoi usi, alla sua lingua. I commercianti di Napoli sono commercianti arricchiti e ritirati dagli affari come Trimalcione. La città ci appariva nel Satyricon come una città di artisti, di letterati, di epicurei; gli studiosi la frequentavano; vi si visitano gallerie di pittura. Virgilio vi compose le Georgiche nel raccoglimento e Stazio celebra la sua patria luogo tranquillo dove il riposo non è mai turbato. Brindisi che si era ingrandita alla stessa epoca di Pozzuoli e per le stesse ragioni, attirava una parte del commercio greco-orientale. Essa approvvigionava la Calabria, la Puglia, la Lucania. Per la via Appia i

commercianti si recavano a Venosa; al di là tra Venosa e Benevento, l’importazione di Brindisi era concorrenziale a quella di Pozzuoli che, a partire da Benevento, l’importava. Ma è sempre a Brindisi che la maggior parte dei viaggiatori si imbarcava per la Grecia.

La concorrenza d’Ostia e di Pozzuoli è più interessante. Se Pozzuoli era divenuta il principale emporio di Roma, Ostia giocava un ruolo secondario come porto dell’annona e come piazza commerciale. Il suo traffico si estendeva al bacino occidentale del Mediterraneo; forse anche degli orientali la frequentavano. Nel 1° sec. a.C. vi si trovava una famiglia ricca i cui membri occupavano alte magistrature municipali; i Gamala. Se, come ritiene il Mommsen, il loro nome richiama la loro origine ( la città siriana di Gamala) è naturale credere che essi erano stati spinti dai loro affari commerciali. Tuttavia le difficoltà della navigazione erano diventati tali sotto Augusto che Strabone si meravigliava che dei commercianti venissero ancora ad Ostia. Durante il periodo repubblicano e all’inizio dell’Impero nessun indice svela un’attività comparabile a quella di Pozzuoli. L’importanza e il numero di banchieri e degli speculatori di Pozzuoli provano al contrario che quella era la succursale e il vero prolunga,mento di Roma.

Fu così fino al regno di Claudio che costruì presso la Capitale, la cui popolazione continuava a crescere, un porto che potesse assicurare il suo rifornimento. Questo porto che, nelle intenzioni dell’imperatore doveva essere soprattutto un porto annonario, divenne per la forza stessa delle cose

un porto commerciale. Gli Orientali vi affluirono. Pozzuoli fino ad allora punto terminale non fu ben presto che uno scalo. Le imbarcazioni vi attraccavano, lasciavano le merci destinate alla Campania e facevano vela verso Ostia. Da quando il porto di Claudio fu creato, divenne evidente che sarebbe ormai unito a Pozzuoli da relazioni frequenti e strette. E’ a questa situazione che bisogna riferire i progetti giganteschi di Nerone per facilitare la navigazione mediante un canale interno.

“Nerone, racconta Svetonio, cominciò un canale dall’Averno ad Ostia in modo che si potesse andare dall’una all’altra città in battello evitando il mare; questo canale avrebbe avuto una lunghezza di 160 miglia ed una larghezza sufficiente per permettere a due quinqueremi di passare di fronte.” Tacito attribuisce questo progetto agli architetti Severo e Celere. La realizzazione era possibile; i lavori furono anche cominciati in molti tratti. Grandioso ed originale esso avrebbe assicurato fra Roma e Pozzuoli una via di comunicazione meno lunga di quella di terra (la via Domiziana non era ancora rifatta tra Cuma e Sinuessa e per evitare questo percorso bisognava fare un lungo giro per Capua). D’altronde essendo soppresso il tragitto per mare i mercanti avrebbero navigato con ogni tempo rapidamente e in sicurezza; non avrebbero più dovuto doppiare il pericoloso capo Circeo, obbligo che già Cesare aveva pensato di eliminare progettando di unire Roma e Terracina con un canale. Così, senza più dipendere dal mare, Roma sarebbe stata collegata direttamente al grande emporio puteolano alla flotta da guerra

di Miseno, ai depositi dell’annona, agli stabilimenti balneari e alle ville di Baia.

De la Blanchiere scrive atale proposito che essa faceva la fine di Ostia. Questo modo di presentare le cose non è esatto. E’ probabile che l’esecuzione del canale avrebbe fatalmente provocato la rovina di Ostia a vantaggio di Pozzuoli. I porti del Tevere invasi dalle alluvioni, costosi e difficili da raggiungere, sarebbero stati abbandonati; senza fermarsi i navigli avrebbero, attraverso il canale di Nerone, immediatamente guadagnato Roma. Tuttavia, nel primo progetto dell’imperatore e dei suoi architetti, Ostia non erano stati trascurati. Sembra che Nerone completò e migliorò il porto di Claudio, e che egli abbia voluto attribuirsi l’onore dell’opera. Egli aveva forse l’idea di far giungere il mare a Roma. Questo progetto non fu eseguito come l’altro. Essi avrebbero avuto per risultato di fare di Roma , di Ostia e di Pozzuoli i tre centri di un grande organismo tra i quali la via avrebbe circolato per una potente arteria. Niente di tutto questo ebbe luogo; Pozzuoli e Ostia di una loro propria via. Pozzuoli ancora molto frequentata dagli Orientali, fu l’emporio della Campania e dell’Italia centrale. Dopo la creazione del porto traianeo, Ostia acquistò sempre più importanza: l’iscrizione degli abitanti di Tiro di Pozzuoli è la prova di una dislocazione commerciale che basterebbe a testimoniare il fatto che tutti gli dei egiziani e orientali si diffusero ad Ostia a partire dal 1° sec. dell’impero. Altri indici significativi sono: fino ad allora i viaggiatori si recavano via terra da Pozzuoli a Roma;

era il caso di Cicerone che tornava dalla Sicilia, di san Paolo, dei Giudei Agrippa ed Erode, di Tito, quando tornò da Alessandria dopo l’avvento di Vespasiano. Ancora qualche anno e i viaggiatori invece di seguire l’Appia da Pozzuoli a Roma s’imbarcarono per Ostia. I Nabatei a Ostia come a Pozzuoli. Florus, sotto gli Antonimi scriverà di Ostia quello che nei secoli precedenti si scriveva di Pozzuoli, che Ostia era l’emporio del mondo intero.

Questa situazione durò fino alla fine dell’impero. Sotto Onorio e Teodosio, Pozzuoli era ancora una piazza importante; grandi lavori venivano completati sui moli. Ma con le innovazioni la città decadde bruscamente, a Napoli, raccogliendo l’eredità della sua rivale a lungo felice, ridivenne il porto principale della Campania. All’epoca di Belisario, poi sotto Gregorio Magno essa ospitava Siriani ed Ebrei che affluivano a Pozzuoli. Questi ebbero una parte attiva nella difesa della città assediata da Belisario. Le cose si ritrovavano pressappoco nello stato in cui erano nel 3° sec. a.C. La creazione artificiale di Ostia aveva ugualmente cessato di esistere. La ruota era girata.

Il commercio campano si alimentava a Pozzuoli per vie terrestri e marittime. Per mare i porti del golfo di Napoli, Ercolano, Pompei, Sorrento servivano da intermediari. La loro importanza era tutta locale; per la parte che avevano nel commercio generale, essi dipendevano e avevano vita da Pozzuoli. Quello di Pompei sembra essere stato assai grande; i culti egiziani si introdussero in questa città alla stessa epoca di Pozzuoli; vi si trovavano dei Giudei. Pompei era il

porto comune di Nocera, di Nola, d’Acerra, lo sbocco marittimo della valle del Srano e della Campania meridionale; tuitto ciò che questo paese ricco, fertile, coperto da lussuose ville, chiedeva o forniva al traffico commerciale seguiva la via Pompei-Pozzuoli. C’erano tra gli abitanti delle due città delle relazioni non solo di vicinanza, ma anche di interesse. I Vestori sono conosciuti solo a Pozzuoli e a Pompei. Lo stesso è per gli Alfani e Caprai e qualche altra famiglia. Relazioni strette dovute più o meno al traffico fra il grande porto di Pozzuoli e il porto piccolo ma attivo di Pompei. Dopo l’eruzione del Vesuvio, il cabotaggio fu necessariamente molto ridotto; il commercio verso la Campania seguì la via di terra.

Pozzuoli era collegata alla Campania dal nord e dal centro per due vie molto importanti. La via Campana che la metteva in comunicazione con la pianura campana e l’Appennino, passava per Capua, città popolosa e ricca, che da sola assorbiva una buona parte del commercio di Pozzuoli. A Capua, i commercianti prendevano due direzioni; l’una risaliva verso il Lazio per la via Appia o la via latina; le altre si inoltravano al centro verso Telese, Caudio e Benevento. La prosperità di Pozzuoli ha avuto altre cause secondarie ma che devono essere prese in considerazione, la relativa vicinanza di Benevento crocevia commerciale situato allo sbocco del Sannio e al punto di incontro delle principali arterie dell’Italia centrale.

Cap. III II parte Gli orientali a Pozzuoli loro

corporazioni.

La “Statio” degli abitanti di Tiro. ( pag. 83 a pag. 109)

I mercanti stranieri costituivano a Pozzuoli delle corporazioni, raggruppamenti allo stesso tempo religiosi e commerciali.Il più ampio ed il più interessante documento che ci dice di essi è la lettera scritta al senato di Tiro, il 23 luglio del 174 dagli abitanti di Tiro stabilitisi a Pozzuoli, lettera alla quale fa seguito la risposta del Senato che si occupò della richiesta dei suoi compatrioti l’8 dicembre 174. La prima delle due tavole sulla quale era incisa l’iscrizione è la sola che ci è pervenuta; tuttavia i dettagli che essa ci fornisce sono molto numerosi e ci possiamo fare un’idea di ciò che era il commercio degli abitanti di Tiro a Pozzuoli ed avere una visione delle vicissitudini da esso vissuto. Essa è, unitamente con le iscrizioni di Delo e del Pireo, il documento che ci fa meglio penetrare nella storia del commercio antico. Ecco la traduzione: - Lettera scritta alla città di Tiro metropoli consacrata, inviolabile autonoma della Fenicia e delle altre città, e la prima del mare. Ai funzionari, al Consiglio, all’Assemblea del popolo della patria sovrana, i Tirii residenti a Pozzuoli salutano.“Per gli Dei e per la Fortuna dell’imperatore nostro maestro. Come sapete a Pozzuoli c’è un altro emporio rispetto al nostro; ma il nostro per la sua organizzazione e per l a sua grandezza è superiore agli altri. Un tempo i Tirii residenti a Pozzuoli provvedevano al suo mantenimento: essi erano numerosi e ricchi. Ma attualmente non siamo che un piccolo numero e, considerato le spese che dobbiamo fare per i sacrifici e per il

culto delle nostre divinità nazionali, che hanno qui i loro templi, ci vengono a mancare le risorse principali per pagare la locazione dei magazzini (docks) che è di 100.000 denari per anno tanto più che le spese per la festa in cui si sacrificano dei buoi ci è stata imposta. Di conseguenza, vi preghiamo di provvedere al mantenimento dei depositi, che si potrà sostenere solo se vi prendete lìimpegno di pagare 100.000 denari per l’affitto annuale. Quanto all’altra categoria di spese e gli obblighi che abbiamo di riparare i depositi rovinati, le feste sacre del nostro imperatore le abbiamo messe a nostro carico per non imporre alla cittadinanza una spesa eccessiva. Vi ricordiamo pure che non riceviamo alcuna contribuzione né dagli armatori, né dai negozianti, al contrario di coloro che usano i magazzini della città sovrana di Roma. Dopo questa lettura Filocle, figlio di Diodoro ha parlato: i Tirii che hanno qui l’emporio di Roma, egli dice, hanno sempre avuto per costume di fornire a quelli di Pozzuoli i 10.000 denari dalle somme che essi ricevono. Così questi ultimi chiedono che questa abitudine sia conservata; se quelli di Roma non vogliono più fornire la somma, essi stessi devono prestarsi a gravarsi delle spese dei due empori alle stesse condizioni. Si approva: Filocle ha parlato bene. Quello che chiedono i Tirii di Pozzuoli è giusto. Poiché è sempre stato così. E’ nell’interesse della patria fare così. Si conservi la tradizione. La lettera è stata fatta da Laches e da Agatopo, suo figli, Tirii dell’emporio che si trova nella colonia augusta di Pozzuoli. Essi ci mostrano che la nostra patria ha due empori:

l’uno nella città sovrana di Roma, l’altro a Pozzuoli”.Il primo punto da stabilire è il significato della parola “statìion” (in greco nel testo). I Tirii che abitano a Pozzuoli si designano con la parola romana grecizzata “stationari” ; essi sono locatori d’uno stabilimento chiamato “station”.Ci rivolgiamo quindi a voi: la nostra sorte dipende da voi; occupatevi voi della questione. Lettera scritta a Pozzuoli, il sesto giorno prima delle calende d’agosto sotto il consolato di Gallo e di Flacco Corneliano.“Estratto del processo verbale della sentenza del Consiglio il 21 dic. Dell’anno 300 sotto la presidenza di Callicrate, figlio di Pausania, FROEDRO.“E’ stata fatta lettura della lettera inviata da uno di loro, Lachès. In questa lettera essi ci chiedono di provvedere al pagamento di 10.000 denari; essi sosterranno le spese necessarie per i sacrifici e per il culto delle nostre divinità nazionali, che hanno laggiù i loro temp0li, ma che le risorse mancano loro e no riescono quindi a pagare i 10.000 denari per l’affitto dei depositi. Essi affermano che le spese dove ha luogo il sacrificio dei buoi sono state loro imposte. Quanto alle altre spese da fare la riparazione dei magazzini rovinati, in occasione delle feste sacre dell’imperatore, essi se le accollano per non imporre ai cittadini un fardello troppo pesante. Essi ricordano pure che non ricevono alcun contributo né dagli aramatori, né dai negozianti come invece accade a Roma, che è uno

stabilimento commerciale. E’, in altri termini, l’emporio.Secondo altri studiosi la parola “station” (in greco nel testo) sarebbe una tribuna messa a disposizione dei Tirii per assistere alle feste del foro. Erano le stesse tribune a Roma e a Pozzuoli. Quale era la loro destinazione? Non si sa. Forse non erano altro che logge “spectacula” da dove i Tirii residenti a Pozzuoli potevano comodamente assistere agli spettacoli del foro. Gli sfaccendati passavano il loro tempo nelle stazioni; si è saputo in seguito alle lettre di Plinio. In realtà le tribune romane non differivano dalle antiche tribune greche, come dice Varrone. Così ciò che i Romani avevano accordato ai Marsigliesi nella loro città, i Puteolani avevano accordato ai Tirii nella loro città. A noi non sembra così. Il testo di Varrone ci fa apprendere che la “graecostatis” era una tribuna riservata agli ambasciatori, che lì attendevano di essere introdotti nel Senato o assistevano alle pubbliche delibere. Il popolo riunito sulla tribuna aveva davanti il Senato in assemblea nella sala delle riunioni, l’oratore che parlava sui rostri, egli ambasciatori nella grecostasi. Questa non è affatto una tribuna per assistere ad uno spettacolo: come lo afferma Jordan; essa non ha niente in comune con la tribuna degli spettacoli. IL SIGNIFICATO DELLA PAROLA

Nel brano di Giustino non si parla che degli onori speciali accordati ai Marsigliesi consistenti nell’autorizzazione di partecipare come spettatori seduti fra i senatori agli spettacoli teatrali. Non è in realtà fatto

alcun accostamento né fra le Grecostasi (luogo dove si ricevevano gli ambasciatori) e il luogo degli spettacoli di cui parla Giustino né fra le Grecostasi e le “stationes” dei municipi. Sono tre cose molto distinte.I significati della parola “statio” sono vari pur derivando tutti da un’unica origine. Si chiamava “statio” la sede di un’amministrazione (così diceva “statio annonae” ufficio dell’annona), o anche il luogo di riunione d’una corporazione; in questo senso la parola “statio” ha pressappoco il significato di “schola” e designa anche, per estensione, il collegio propriamente detto. Ci si renderà conto consultando gli esempi che dà Weltzing. Tale è pure il significato di nell’iscrizione di Pozzuoli.. C’erano nella capitale stazioni analoghe, collegi di provinciali e di abitanti di municipi residenti a Roma sia per affari, sia per altre ragioni, si raggruppavano in associazioniche avevano propri locali. Tali luoghi sono quelli che Plinio chiama “stationes municiparum” (stazioni dei municipi). Nelle lettere dei Tirii di Pozzuoli si parla della loro sede a Roma. Alcune iscrizioni romane si fanno conoscere quelle della gente di Tiberiade; la sede di una città sconosciuta dell’Asia (regno dìAntonino) aveva un carattere commerciale, poiché essa comprendeva degli empori e dei magazzini. Quella di un’altra città sconosciuta (asiatica ed orientale è menzionata in un’iscrizione di Roma. Gli abitanti della provincia di NORICO avevano a Roma la loro sed. Secondo delle altre iscrizioni in greco la “statio” non era qualcosa di permanente e non era la sede di una

corporazione ma avrebbe designato il luogo occupato dai Tirii durante la festa dell’imperatore. E’ senza dubbio per una certa difficoltà di interpretazione delle iscrizioni che Mommsen ha modificato la sua opinione espressa in un precedente suo scritto dove traduceva (statio) per sede commerciale. La statio era di proprietà della città di Pozzuoli, veniva data in affitto e veniva riparata, decorata ed abbellita annualmente in occasione della festa dedicata all’imperatore. Comunque era in tale occasione che i Tirii la riparavno a loro spese. Il prezzo della locazione conferma la nostra tesi: (250 denari per la valuta greca e 100.000 denari per la valuta romana). Se la “statio” era una tribuna messa a disposizione dei Tirii per qualche cerimonia della festa imperiale l’ultima somma è inverosimile; al contrario 250 denari circa sembra un prezzo ammissibile ma è inverosimile che i Tirii disturbassero il Senato della loro patria per una somma così modesta. Il carattere commerciale della “statio” non è in discussione; i Tirii comprendevano 3 categorie di persone: i locatori della statio che dimoravano in Italia, i naviganti e i commercianti. Ognuno di essi aveva la loro funzione particolare. Le epigrafi di Delo ci indicano questo soggetto. I PASEIDONASTI, mercanti siriani che commerciavano a Delo vi costituivano una categoria comprendente negozianti e marittimi.Gli “stazionari” di Pozzuoli erano in maggioranza dei magazzinieri che ricevevano le merci nei loro “correa” magazzini dove dei dettaglianti le vendevano. Fra di loro ci potevano essere degli industriali, che avendo

fondato a Pozzuoli delle officine, chiedevano la materia prima ai loro compatrioti. Se quindi la “statio” era un collegio cosa era materialmente? Essa poteva comprendere sia una semplice “schola”, cioè una sala di riunione, sia un certo numero di bastimenti e di diverse costruzioni (botteghe, depositi ecc.). Gli Italiani possedevano a Delo un edificio composto da un cortile circondato da un portico, dietro al quale c’erano dei locali verso il portico e altri verso la strada. Gli uni erano negozi gli altri servivano a differenti usi, per esempio per la conservazione dei documenti interessanti per il collegio dei commercianti.Da un passo di Plinio e dal luogo dove sono state ritrovate parecchie iscrizioni si è concluso che alcune “stationes” dei municipi erano a Roma situate presso il foro vicino al tempio della Concordia. Hülsen le rappresenta simili alle “tabernae” del foro di Ostia. Le “tabernae” del foro di Ostia, luoghi dove si riunivano corporazioni di operai e di portulai erano piccoli locali di 4 o 5 m di larghezza, profonde poco più di 5 m; se atli erano le “stationes” il prezzo dell’affitto di 100.000 denari sarebbe inverosimile. E’ il motivo per cui io non adotto l’opinione di DITTERBERGER; secondo il quale la “statio” dei Tirii non era che la loro sede di riunioni; essa non comprendeva un gran numero di magazzini poiché il pagamento di 250 denari sarebbe stato insufficiente e perché le “stationes” delle città doi provincia, che a Roma erano nei pressi del Foro, avrebbero occupato una superficie molto più ampia di quella che in realtà occupavano in questa parte della città. Noi pensiamo che certamente presso il

foro non c’era spazio per grandi magazzini; ma avrebbe potuto esserci una sede dell’associazione dei mercanti e negli altri quartieri ci sarebbero stati i magazzini. Inoltre è possibile che i Tirii avrebbero pianto miseria e avrebbero dipinto la loro situazione come disperata e avrebbero chiesto aiuto alla propria patria per 250 denari? Sarebbe bastata un po’ di economia sulle loro spese per poter pagare la locazione. Quindi se si intende alla greca 250 denari è una somma derisoria che i Tirii avrebbero potuto pagare facilmente; ma dal momento che è un affitto fatto in una città italiana bisogna, come suggerisce il Mommsen, leggere alla romana 100.000 denari (denarium centum millia NUMMUM). Gli affari dei Tirii dovevano essere considerevoli; essi vendevano soprattutto oggetti di lusso pagati molto cari. Se la “statio” non era una semplice “schola”, ma un insieme di depositi, la somma non è esorbitante.Il Mommsen nella sua vecchia interpretazione vedeva nella (statio) un insieme di magazzini, di boutiques e di alloggi. Cantarelli l’ha ingegnosamente comparati ai fondaci che i commercianti di Genova, di Venezia e di Pisa possedevano in Oriente nel medio evo e che i Turchi, i Tedeschi e i Mori avevano a Venezia. I fondaci avevano delle peculiarità simili alle “stationes”.Essi erano vasti depositi destinati a custodire le merci, a facilitarne le vendite e ad alloggiare i commercianti; ogni “nazione” come si diceva nel medio-evo ne occupava uno. Per esempio quello dei Tedeschi a Venezia era di proprietà della Repubblica che lo locava ai mercanti e percepiva una

parte dei redditi. Quest’uso richiama la dei Tirii di Pozzuoli e chiarisce un passaggio dove Svetonio dice che gli “stationarii” stranieri a Roma non potevano affittare a privati: poiché essi avrebbero in tal modo leso i diritti che lo Stato e l’erario avevano nelle “stationes” municipali. Non solo i commercianti di professione che venivano a Venezia per depositare le loro mercanzie, ma i viaggiatori che si recavano in questa città o vi soggiornavano, alloggiavano nei fondaci. Questi erano pure costretti di discendervi al loro arrivo. La vecchia legge ignorava senza dubbio questi obblighi e queste diffidenze che sono nello spirito medievale. In ogni modo, l’accostamento fatto da Cantarelli ci conferma nella traduzione che abbiamo dato della parola “statio” e ci invita a vedere in essa un “fondaco” un insieme di depositi e gli “stazionari” erano coloro che lo affittavano, che lo abitavano e dove ricevevano le merci dei porti e delle navi.La nostra descrizione della storia del commercio fornisce delle nozioni che, sebbene incomplete, sono di grande interesse. Essi ci fanno sapere degli ampi raggruppamenti degli antichi commercianti, ci mostrano i mercanti originari di Tiro e che risiedevano a Roma e a Pozzuoli uniti da interessi e da convenzioni finanziarie. I depositi di Pozzuoli vi apparivano come dipendenti completamente da quelli di Roma dal momento che essi sussistevano grazie alla sovvenzione dei magazzinieri romani. Le condizioni finanziarie dei due sistemi di magazzini erano le seguenti:

a) I magazzinieri puteolani non ricevevano alcuna contribuzione

da parte dei negozianti e degli armatori che frequentavano il porto campano. Solo con i soli utili da essi stessi realizzati pagavano il pigione della loro sede “”

b) Essendo questi utili insufficienti, i mercanti romani inviavano a quelli di Pozzuoli una somma di . denari prelevati dalle tasse che essi stessi percepivano sui depositi (in greco nel testo) e dagli armatori (in greco nel testo).

c) In un’epoca più antica la situazione era differente; i Tirii di Pozzuoli erano autosufficienti poiché essi erano numerosi e ricchi.

Questi cambiamenti in numero ed in ricchezza dei Tirii si spiegano per la storia commerciale dio Pozzuoli come l’abbiamo precedentemente spiegato: il commercio si era spostato dal golfo di Napoli alle bocche del Tevere. Un tempo ( periodo repubblicano, inizio dell’impero, l’epoca di Cicerone, i regni di Augusto e di Tiberio quando il commercio campano raggiunse il suo apogeo). Pozzuoli era la principale, forse l’unico posto dove i Tirii commerciavano in Italia; vi affluivano e vi facevano affari molto lucrosi. Senza dubbio ci potevano già essere a Roma dei mercati tirii; ma il grande commercio era concentrato a Pozzuoli, punto terminale dei naviganti orientali: solo là i Tirii possedevano vasti depositi, che essi lavavano e riparavano facilmente. Dopo la creazione dei porti del

Tevere il loro interesse fu di risalire ad Ostia e di stabilirsi a Roma. Solo alcuni restarono a Pozzuoli; la “statio” di Roma assorbì a poco a poco quasi tutto il commercio. In queste condizioni quella di Pozzuoli era in pericolo: degli accordi intervennero fra di esse. Pare che quella di Roma abia preso a suo carico quella di Pozzuoli caduta al rango di succursale di dipendenza. E’ a quest’epoca che i Tirii di Roma versavano annualmente a quelli di Pozzuoli la somma di . denari, per l’affitto dei magazzini. I Tirii di Pozzuoli, una volta ricevuta detta somma, si caricavano di tutte le altre incombenze che concernevano:1° Il culto. Gli dei tirii erano adorati in templi appartenenti alla corporazione di commercianti. Il carattere religioso di queste società commerciali riappariva dunque a Pozzuoli come nei secoli precedenti al Pireo e a Delo, come riapparirà nel medio evo, dove si rileva dappertutto che i commercianti di uno stesso paese, organizzati in “nazioni” nei porti dove commerciavano possedevano oltre al loro borgo, la loro associazione e il loro fondaco, chiese che erano consacrate ai loro santi protettori e i cappellani erano mantenuti dalla colonia. 2° La partecipazione alle feste pubbliche. Una festa speciale era quella la cui parte essenziale era costituita dal sacrificio dei buoi e le cui spese erano imposte ai Tirii dalla municipalità. Era una liturgia analoga a quelle che gli Ateniesi imponevano ai commercianti ed agli stranieri residenti al Pireo e ad

Atena in occasione di feste religiose della città, giochi, sacrifici, processioni concorsi. Anche la città di Pozzuoli faceva partecipare i collegi dei negozianti stranieri alle feste ed ai suoi giochi. I Tirii ancora sostenevano queste spese; dunque rimpiangevano il fatto che i loro compatrioti di Roma non inviavano più i 100.000 denari. Non sono conosciuti i motivi per i quali essi non ricevevano più questo sussidio. Essendo Essendo divenuto il porto di Ostia più importante di quello di Pozzuoli, i commercianti romani vollero certamente liberarsi di questo impegno oneroso; gli affari a Pozzuoli ormai languivano. Ricordiamo che lasommadi 100.000 denari con la quale essi mantenevano il porto di Pozzuoli era il prodotto di una tassa che colpiva gli armatori e i negozianti. Avendo questi quasi del tutto disertato il porto di Pozzuoli e portandovi solo una minima quantità di merce, non vollero più sottoporsi ad una tassa per affittare dei magazzini che essi non utilizzavano quasi mai e che continuavano a costare caro pur non assicurando più loro gli stessi servizi di un tempo. Così i Tirii di Roma non fornivano a quelli di Pozzuoli più di una piccola somma, sia perché li volevano spingere a servirsi di servizi più modesti, sia che ritenevano che il complesso portuale puteolano aveva fatto il suo tempo e che era meglio abbandonarlo completamente. I commercianti del porto di Pozzuoli portarono la loro questione al Senato scelto come arbitro. Erano

possibili 3 soluzioni. O la città di Tiro avrebbe pagato l’affitto dei depositi e delle banchine del porto di Pozzuoli. Era una delle soluzioni proposte dai commercianti tirii. Opure si sarebbe conferito ai commercianti di Pozzuoli il mantenimento dei due porti alle condizioni in cui l’avevano i commercianti di Roma. In questo caso avrebbero ricevuto d’ora in avanti i canoni pagati dagli armatori e dagli spedizionieri ed essi avrebbero inviato ai loro confratelli di Roma le somme di cui questi ultimi avrebbero avuto bisogno. Era il completo rovesciamento dello stato esistente. I commercianti di Pozzuoli avrebbero conservato così il loro scalo commerciale e avrebbero cercato di fare di nuovo arrivare a Pozzuoli il commercio che era risalito fino a Roma. Forse era chiedere troppo. Il Senato di Tiro decise di mantenere lo status quo. Al Senato sembrò che era interesse della patria che il porto commerciale di Pozzuoli continuasse ad essistere. Così terminò questa piccola guerra civile.

Gli abitanti di Elisoli.Gli Elipolitani sono conosciuti da una iscrizione che, meno interessante della precedente, completa tuttavia le tavole delle associazioni commerciali di Pozzuoli. L’iscrizione dei Tirii si riferiva ai vivi, questa concerne i morti. Gli Elipolitani costituivano un collegio retto da un insieme di statuti di ammende e di penalità.

Una di queste era l’interdizione di entrare in un bene immobile della comunità. Coloro che avevano violato la legge non potevano più godere della proprietà indivisa del camposanto e non vi potevano essere interessati se da vivi non avevano compiuto i loro doveri. Questo camposanto, chiuso da un muro, comprenderà una cisterna e oltre le tombe un certo numero di edifici, taverne, dimore per i custodi, triclini funerari, aveva un’estensio0ne di 7 iugeri (circa 180 are), che attesta l’importanza della colonia eliopolitana.I mercanti di BesiteAdoravano la divinità vicino alla loro città: il Giove di Elaiopoli; i legami fra le due città spiega questa comunione di culto. La situazione era in questo caso identica a quella della gente di Tiro e di Sarepta, raggruppati nella stessa associazione. Tuttavia i negozianti di Besite e di Elisoli, pura dorando lo stesso dio, costituivano forse due collegi differenti.I GermellesiAltri orientali si raggruppavano ancora attorno al Baal di Elisoli come si legge da un’iscrizione “geremensium” o “Geremellansium” certamente è un nome etnico siriano, forse aramaico al quale bisogna rapportare un cognome che si legge in un’incisione di Pozzuoli: Garmalla. M. lelio Garmalla, nominato in questo testo, era un orientale il cui nome si ispirava al suo paese di origine. Secondo il Renan “ Germellenses sarebbe un nome semitico dal significato di adoratori

di Dio. Quale che sia la spiegazione che si preferisce, si è rimandati verso i paesi semitici. E’ probabile che essi siano da accostare i Germellesi ai Siriani che noi già conosciamo ed ai Nabatei di cui parleremo in seguito.Essi avevano un loro tempio e questo prova che essi costituivano una corporazione. Questo santuario era quello del dio protettore del loro collegio. Può anche essere sinonimo di edificio per riunioni; le due parole erano impiegate per designare i locali delle corporazioni aventi un duplice aspetto insieme profano e religioso.I NabateiErano soprattutto i Nabatei che fornivano all’Italia i prodotti dell’Estremo Oriente. Essi possedevano sulla costa arabica del Mar Rosso il porto di Leukè-Komè, da dove, per la via delle carovane, i mercanti si incamminavano verso Petra e verso Gaza. Un’altra via commerciale che passava per Myas-Hormos, Berenikè ad Alessandria, divenne sotto l’Impero la via principale quella che Roma preferiva, poiché essa la faceva comunicare direttamente con l’Estremo Oriente attraverso l’Egitto evitando così i costosi intermediari dell’Arabia. Tuttavia, i Nabatei che all’epoca di Tolomeo avevano il monopolio commerciale con l’India e con l’Estremo Oriente restarono sempre in concorrenza con gli Egiziani e con i Romani gli importatori di prodotti esotici che essi stessi venivano a vendere in Italia. Verso la fine della repubblica essi possedevano a Pozzuoli un

“mahramta” cioè un santuario. Esso era stato costruito nel 39 a.C. dai Nabatei Bauhobal: sotto il regno di Augusto esso fu costruito a spese di Ali, di Mactai e di Saidu, figlio d’Abat. Secondo Renan esso non era solo un edificio religioso, ma pure un luogo di riunione, un archivio. La parola avrebbe il doppio significato profano e religioso come la parola già vista prima “templum”.L’epoca in cui furono incise le iscrizioni nabatee di Pozzuoli è quella dove il commercio degli Arabi sembra essere stato il più fiorente. Più tardi esso subì la concorrenza egiziana. Ma i Nabatei non abbandonarono Pozzuoli; essi si spinsero fino ad Ostia. Un’iscrizione dell’epoca imperiale menziona a Pozzuoli un arabo Tolomeo (in greco nel testo): questi non si serve più della sua lingua nazionale, ma del greco. Una donna Tolomeide, forse una Nabatea è conosciuta per un’iscrizione latina. Un altro Nabateo puteolano si chiama L. Sanfeio Arabs. Il cognome Molchio è ugualmente semitico.Gli EbreiDa Pozzuoli le genti di razza semitica si estesero in tutta la Campania e nei porti vicini. Ma spesso non sappiamo se li spingeva la schiavitù o il commercio. Per gli Ebrei la schiavitù fu il fattore principale. Il Mommsen scrive: “I Giudei che abitavano l’Occidente non provenivano per la maggior parte dall’emigrazione commerciale; erano dei prigionieri di guerra o figli di prigionieri gente

che per conseguenza non avevano patria. Questa condizione di paria si collega al mercato di schiavi” . Secondo lo stesso autore, i Giudei di Pozzuoli hanno avuto un ruolo secondario a paragone dei Siriani “la comunanza di religione fra i commercianti giudei emigrati e i Giudei proletari emigrati pesava ugualmente su tutti i Giudei.” Queste considerazioni molto penetranti si applicano soprattutto al periodo della dispersione dei Giudei che seguì la guerra di Tito e la distruzione del tempio. A quest’epoca, fra i Giudei di Pozzuoli, molti dovevano essere vecchi schiavi. Dopo la distruzione del Tempio, essi poterono continuare a esercitare il loro culto e fondare i collegi di Anziani presieduti dai più vecchi fra di essi. Si legge il nome di uno di questi (gerusiarca) in un’iscrizione trovata a Marano, vicino Pozzuoli: vi è detto che egli fece costruire il muro di cinta di una tomba e di un cimitero; un cimitero giudeo esisteva senza dubbio in questa località. Un’altra iscrizione menziona un rabbino. Da Pozzuoli i Giudei passarono all’interno della Campania; si conosce a Capua un arconte, cioè un membro del collegio degli anziani di cui era anche il capo: arcosinagogo. Gli stessi Giudei di Pozzuoli e delle vicinanze dovevano essere molto numerosi. Quelli di Napoli, ai tempi di Procope, lo erano ugualmente; ora Napoli, come abbiamo detto, aveva raccolto in parte la popolazione di Pozzuoli, rovinata e abbandonata, e i Giudei che vi

abitavano allora non arano che i discendenti di quelli che anteriormente vivevano soprattutto a Pozzuoli.All’inizio dell’Impero la colonia giudea di Pozzuoli era importante. Quando il falso Alessandro volle farsi passare per il figlio di Erode, cominciò, prima di recarsi a Roma, con il conciliarsi il favore di alcuni dei gruppi giudei più influenti che incontrò per la strada: erano quelli delle Cilcadi, di Creta, di Pozzuoli. Egli intrigò soprattutto a Pozzuoli; egli giunse a tradire tutti i suoi compatrioti, anche quelli che erano legati a Erode da legami di ospitalità e di amicizia. Queste parole provano che fra i Giudei di Pozzuoli ci fossero persone di una situazione elevata. Gli storici parlano di essi come persone ricche e amiche di erode; essi riempirono di regali il traditore Alessandro. La loro condizione sociale non era né umile né vile; c’erano relazioni fra essi e la loro patria e al loro re. Erode aveva favorito lo sviluppo delle risorse naturali e del commercio della Palestina. Gli abitanti di Tiberiade avevano a Roma uno scalo commerciale. Si può a buon diritto pensare che i negozianti giudei, numerosi a Pozzuoli, vi facevano buona figura. Alcuni di essi provenivano forse dalla colonia giudaica di Alessandria, che non era evidentemente estranea al movimento di affari che univa Pozzuoli e il porto egiziano. I nostri documenti epigrafici sui Giudei di Pozzuoli sono i seguenti:

a. HIC REQUISCIT IN PACE BENUS FILIA REBBITIS ABUNDANTIS. Questa iscrizione, conosciuta solamente mediante un manoscritto di Muratori, è seguita da due linee in caratteri orientali, ebraici o punici, che sembrerebbero indecifrabili. Il nome Benus, che è forse per Benis è certamente ebraico.

b. CLAUDIA ASTER HIEROSOLYMITANA CAPTIVA CURAM EGITTI. CLAUDIUS AUG.LIBERTUS….Iscrizione posteriore alla presa di Gerusalemme da parte di Tito. Ti. Claudio, affrancato di Claudio, era egli stesso un giudeo. Egli aveva accolto una prigioniera di nome Esther (in ebraico Aster).

c. TI.CLAUDIUS PHILIPPUS DIAVINET GERUSIARCHES MACERIAM DUXIT. Questo personaggio avente lo stesso prenome e nome di Ti. Claudio Mascolo era senza dubbio uno dei suoi giunto alla posizione più elevata nella comunità ebraica puteolana.

d. DIS MANIBUS P. CAULIO COERANO NEGOTIATORI FERRARIARUM ET VINERARIAE ALIBA LIB. PATRONO MERENTI. Acibas era il nome di un rabbino di Gerusalemme al tempo della guerra giudaica di Barcocheba sotto Adriano. La si legge nelle iscrizioni trovate presso Roma sulla via Appia.

e. Lo stesso nome su un’altra iscrizione: D.M.P. CLAUDISU ALIBA TIBI FECIT.

f. HERODES APHRODISI F. ASCALONIT VIXIT ANNIS XXXIII. Quest’Erode era originario di Ascalona, porto palestinese un pò a nord di Gaza.

Commercianti dell’Asia Minore.I commercianti dell’Asia Minore non erano meno numerosi dei Sanniti. Non sono solo i testi che lo provano, ma anche la rapidità con la quale il culto imperiale si sviluppò a Pozzuoli. La testimonianza più interessante a questo riguardo ci è fornita dalla base che gli Asiatici elevarono in onore di Tiberio. Delle scosse telluriche (17 d.C.) avevano rovinato alcune delle città asiatiche più ricche, più popolate e più dedite al commercio. Temnos, Kymè, Tmalus, Aegae, Marina, Philadelphia, Apolonnia, Sardi, Magnesia, Kybira e Efeso. Tiberio, dopo la catastrofe, fu di una grande liberalità verso di esse, che riconoscenti gli fecero erigere a Roma una statua colossale, la cui effigie fu riprodotta sulle monete coniate con la scrita: civitatibus Asiae restitutis (alle città asiatiche ricostruite) e che era contornata da donne come simboli delle città asiatiche. Questa riconoscenza non bastò alle genti dell’Asia Minore: non contente di avere consacrato a Tiberio un monumento nella capitale, gli dedicarono un altro nella città italiana nella quale vi commerciavano: Pozzuoli. Chi aveva elevato il monumento di Roma? La cittadinanza senza

dubbio. A Pozzuoli sono gli Augustali che fecero la dedicazione. Le relazioni che univano Pozzuoli all’Asia, lo sviluppo avuto in questa città del culto degli imperatori, l’erezione di un monumento a Tiberio da parte degli Augustali, sono fatti che si spiegano gli uni con gli altri.Più tardi il monumento fu distrutto o molto danneggiato e la curia di Pozzuoli lo fece ricostruire.Efeso e Kibyra, che non figuravano fra le statue di Roma, erano rappresentate sulla base di Pozzuoli.

Iscrizione panellenica di KibyraLa seguente iscrizione proviene da Pozzuoli “Alla buona fortuna. Zeus Liberatore la città di Kibyra, colonia dei Lacedemoni, unita ad Atene per la razza amica dei Romani, facente parte della confederazione nazionale della Grecia, essendo fra le città più illustri e più grandi dell’Asia, tanto per la sua origine ellenica quanto per la sua antica amicizia verso i Romani e per gli onori ricevuti dal divino Adriano, ha consacrato al decreto Panellenico, dopo essere stata ammessa tra i Panelleni”.Quest’iscrizione è sfortunatamente incompleta e mutilata, in modo tale che è difficile sapere a chi è stata consacrata l’offerta di Kibyra e in cosa consisteva.Credo che l’iscrizione di Pozzuoli non sia il testo originale, che si trovava sia a Kibyra, sia ad Atene, sede della confederazione ellenica, ma era una copia che i commercianti panelleni avevano posto nella loro sede. Tutti gli avvenimenti tristi o gioiosi delle

loro patrie lontane interessava i negozianti che abitavano l’Italia. Le loro corporazioni erano come tante piccole dipendenze della patria; allo stesso modo essi si raggruppavano in torno ai loro dei, così essi conservavano dei documenti o degli atti che richiamavano loro la città. Questo ci rivela l’iscrizione di Pozzuoli; essendo una cosa importante per Kibyra, i commercianti originari di questa città ne avevano fatto prendere un esemplare e lo custodivano.

Trofeo consacrato alla Grecia.Bisogna anche spiegare la presenza a Pozzuoli di un bassorilievo raffigurante due cariatidi che sostengono un fregio con su scolpite delle parole in greco; fra le cariatidi una donna melanconicamente seduta, abbassa la testa. Si sa che ogni anno in Atene le panellene offrivano un sacrificio a Zeus Liberatore, in ricordo dei Greci morti durante la guerra dei Medi. Questi grandi ricordi della liberazione animavano ancora la nuova Grecia; i trofei alla Ellade simboleggiavano le sue vittorie. Il bassorilievo di Pozzuoli risale all’epoca degli Antonimi. L’originale si trovava forse ad Atene. Adriano aveva creato il pananellismo. Egli era adorato ad Atene, considerato come “il dio vivente, fondatore della nuova Grecia”.

Il grande numero dei commercianti Greci di Pozzuoli spiega la diffusione che il suo culto sembra aver avuto in questa città e la

celebrità dei giochi che vi si erano istituiti in suo onore.

Cap. III Relazioni commerciali di Pozzuoli

con l’Occidente ( pag. 109 a pag. 137)

Abbaiamo meno informazioni sulle relazioni di Pozzuoli con i paesi occidentali; esse erano senza dubbio meno attive. Senza parlare di quelle che l’annona creava con i porti africani Pozzuoli trafficava con Cartagine, la Libia e la Pirenaica. La Spagna del Nord esportava le sue merci nei porti dell’Italia settentrionale e centrale; mentre gli armatori della Spagna meridionale si dividevano fra Ostia e Pozzuoli. Strabone parla con ammirazione della grandiosità e del numero dei navigli che venivano dalla Spagna; sebbene tale commercio fosse, secondo le parole del geografo, un po’ meno di quello praticato tra Pozzuoli e la Libia, esso era ancora considerevole. Strabone ci dice quali erano le merci esportate: soprattutto prodotti naturali, come il vino, l’olio molto richiesto, la pece, lo zafferano, il minio, le lane, i metalli MERCI delle ricchezze della Spagna infine i pesci sotto sale. Quest’ultima industria era molto fiorente; molte città marittime, fra Gadès e , c’erano stabilimenti di salazione, ad esempio, a Besippio ed a Carteria. Un aneddoto raccontato da Elien prova che al suo tempo i commercianti spagnoli esportavano sempre a Pozzuoli pesci salati e vi

erano grandi depositi. Si vede pure dalle iscrizioni sui vasi che i prodotti dell’industria ceramica di Pozzuoli erano esportati in grandi quantità in Spagna e nella Gallia meridionale.

Delle iscrizioni ci fanno intravedere le relazioni commerciali dirette che esistevano tra Pozzuoli e la Gallia attraverso Lione e la valle del Rodano. Un tale Q. Probatus era Augustale sia a Lione che a Pozzuoli, un altro Marius Augustale a Pozzuoli era anche capo della marineria del Rodano e di quella di Lione.

Il servizio dell’annonaIl servizio dell’annona dell’età repubblicana e durante tutto l’Impero, fu organizzato non solo a Ostia, ma anche a Pozzuoli. Era una precauzione utile e indispensabile data la difficoltà di alimentare Roma. Cicerone parla dei granai che c’erano a Pozzuoli. Finchè Ostia non ebbe il porto e che la foce del Tevere era pericolosa per la navigazione, fu necessario aver in Campania grandi riserve di grano proveniente dall’Egitto e dalla Sicilia da dove lo si poteva prelevare secondo i tempi favorevoli per portare e per sbarcare a Ostia i prodotti dell’annona con il minor rischio possibile. Si aveva sempre la risorsa di convogliare fino a Roma il grano via terra.

Dopo la costruzione del porto di Claudio, i granai puteolani continuarono ad essere utilizzati. Roma non aveva sufficienti granai. Molte testimonianze ci fanno rilevare il ruolo avuto da Pozzuoli come porto annonario sotto l’Impero. Seneca ci descrive la gioia degli abitanti allorché in primavera si vedevano apparire a destra di Capri le imbarcazioni che

precedevano la flotta di Alessandria e che ne preannunciava la prossima venuta. I marinai della nave alessandrina che arrivava per prima al promontorio di Minerva ( Punta Campanella) libavano con vini egiziani in onore della dea.

Il procuratore del porto ostiense che a partire da Adriano si chiamerà procuratore dell’annona estendeva a volte la sua autorità ai due porti. Aveva il compito di regolamentare l’attività degli armatori e dei naviganti.

Un altro frammento di un’iscrizione incompleto scoperto a Pozzuoli conferma la fusione delle amministrazioni di Pozzuoli e di Ostia.

Un’altra iscrizione ci fa conoscere l’esistenza di registri annonari e del loro curatore (proximus commentariorum annonae). Questa funzione era conferita a dei giovanissimi, dal momento che un curatore annonario Nicefaro non aveva che 19 anni alla sua morte. Roma era la sede del fisco alessandrino, cassa imperiale dove erano versate le corresponsioni in natura dall’Egitto; queste non consistevano solo in spezie, ma anche ed essenzialmente in cereali che servivano all’approvvigionamento di Roma e che erano trasportate in Italia dalle navi della flotta alessandrina. Il fisco alessandrino aveva dunque uno stretto rapporto con l’annona. Ciò appare particolarmente nell’iscrizione di M. Ulpius Proculus, ritrovata a Pozzuoli. Questo impiegato “tabilarius fisci alexandrini” , risiedeva verosimilmente ed esercitava le sue funzioni nel porto, dove le navi annonarie alessandrine portavano regolarmente il grano dall’Egitto.

Durante la Repubblica la sorveglianza del porto era probabilmente conferita ad un questore. Una volta immagazzinato nei depositi, il grano era inviato a Roma, sia per ostia, sia per la via Appia. Si è supposto che la presenza dei frumentari, scaglionati lungo la via Appia, si spiegherebbe per la necessità di sorvegliare e di trasportare l’annona. Era una delle funzioni dei frumentari, ma non la sola. Più in generale essi sorvegliavano il porto di Pozzuoli, come quello di Ostia; vi facevano la guardia. Queste città popolose dove affluivano marinai, schiavi, viaggiatori di ogni Paese, richiedevano un’occupazione militare. I vigili che Claudio inviò non avevano solo il compito di combattere gli incendi, ma anche quello di mantenervi l’ordine. Erano allo stesso tempo guardie frumentarie. I porti di polizia dislocati da Roma a Pozzuoli sull’Appia garantivano i convogli dell’annona, i commercianti ed i navigatori. Da allora, a apartire cioè dal regno di Claudio, non si dovette più che solo raramente trasportare l’annona via terra; le navi dopo aver toccato Pozzuoli, veleggiavano fino a Ostia. Uno degli uffici più importanti dell’amministrazione della posta imperiale era a Pozzuoli. Certe navi della flotta annonaria di Alessandria quelle chiamate “naves tabellarae” e che precedevano le altre, facevano il servizio postale pubblico e privato. Da Pozzuoli le lettere erano poi portate nelle diverse città dell’interno. Una iscrizione nomina un corriere postale “tabellarius”, dell’amministrazione imperiale. Soldati della flotta di Miseno “alessiarii” furono impiegati anch’essi

come corrieri fra Roma, Ostia e Pozzuoli.

Un sarcofago ritrovato in una tomba della via Latina presso Roma, ci mostra Pozzuoli associata ad Ostia come porto annonario.

La parte centrale di questo sarcofago è occupata dalla scena del matrimonio del defunto e della sua donna; che il defunto fosse stato un funzionario dell’annona ce lo indica il suo costume (quello di un cavaliere) e le figure che lo attorniano. A destra due donne che simboleggiano i paesi produttori: la Sicilia coronata di un diadema recante una cornucopia e in una piega della sua veste frutta e cereali; ella si appoggia su un alto timone davanti al quale c’è un cesto pieno di spighe. Vestita allo stesso modo accanto a lei c’è l’Africa, riconoscibile dalle zanne di elefante che essa ha sulla testa, con delle spighe nella sua destra e un cesto simile a quello della Sicilia. Sul lato sinistro del sarcofago sono rappresentati simmetricamente i porti annonari dell’Italia. All’angolo del sarcofago c’è Ostia; con nella destra un faro e ai suoi piedi una prua di nave. Delle onde sono disegnate fra essa e la figura vicina. Essa è una donna vestita come Ostia; sulla testa porta una corona e nella sinistra un lungo ramo; si gira verso Ostia che la guarda e le mostra una tavoletta che essa tiene nella mano destra alzata. Questa donna rappresenta, a mio avviso, Pozzuoli; le tavole sono i registri dell’annona dove erano scritte le quantità di frumento importato. Se questa identificazione è esatta essa ci proverebbe che durante tutto l’impero Pozzuoli resta poirto annonario.

IndustriaPozzuoli non era solamente fiorente per il suo commercio ma anche per un certo numero di industrie. Industria mineraria. Prodotti naturaliL’estrazione di minerali, come lo zolfo dei monti Leucogei, era una delle principali. Questi colli, benché vicini a Pozzuoli, facevano parte dei territori di Napoli e di Capua fino al primo secolo dell’Impero; la proprietà dello zolfo può darsi che appartenesse a Capua come quella della creta; ma lo zolfo veniva smerciato sul mercato di Pozzuoli. I giacimenti della Solfatara erano conosciuti dagli antichi come quelli dei colli Leucogei; l’intera Solfatara era, a dire di Plinio, piena di “cunicoli” cioè di gallerie scavate per lo sfruttamento ma non se ne sono ritrovate tracce. L’industria dello zolfo a Pozzuoli nell’Italia antica era per importanza uguale a quella che nell’Italia contemporanea ha l’industria dello zolfo in Sicilia. Oggi a Pozzuoli non si estrae più lo zolfo; ma essa è durata fino al secolo scorso.

I monti Leucogei e la Solfatara racchiudono le materie necessarie per la fabbricazione dell’allume. E’ probabile che gli antichi Puteolani abbiano ricavato parte delle loro ricchezze dalle loro colline vulcaniche.

La Solfatara e le colline adiacenti fornivano anche una terra bianca, la creta, impiegata nella preparazione del “fior di farina campana”. Questa materia, un solfato di calce abbondante soprattutto nella Solfatara e nelle colline vicine al lago di Agnano, si trova sia in masse mammellonate, sia in incostrazioni, sia sottoforma di terra

biancastra alla quale allude Plinio. Essa donava alla farina il suo colore bianco e la sua leggerezza; i Campani affermavano che una buona “alica” non poteva essere confezionata senza la terra dei colli Leucogei. La loro era la più rinomata: l’eccellente qualità dei cereali di Capua e la miscela della terra di Pozzuoli facevano il suo pregio.

I giacimenti della Solfatara appartenevano a Pozzuoli, ma quelli situati verso il lago di Agnano erano compresi, dopo Augusto, nel territorio di Capua. Prima appartenevano a Napoli; quando Augusto li donò a Capua, ordinò di pagare ogni anno ai Napoletani, come risarcimento, una somma di 20.000 sesterzi. Poi quando il territorio meridionale di Capua passò a Pozzuoli i Puteolani ebbero il monopolio dello sfruttamento della creta. La terra della Solfatara serviva anche per la fabbricazione dei colori, industria molto fiorente a Pozzuoli. Spogliata, mediante lavaggi, delle scorie vulcaniche essa veniva adoperata per ottenere il colore bianco detto bianchetto di Pozzuoli.

La pozzolana terra vulcanica di cui glia antichi fecero un largo uso nelle costruzioni idrauliche, banchine, moli, ponti, cisterne, acquedotti, era una delle ricchezze di Pozzuoli. Il suo stesso nome è significativo. Essa si trova non solo a Pozzuoli, ma un po’ dappertutto nei Campi Flegrei; Vitruvio dichiara che per costruire un molo occorre far giungere la terra che si trova da Cuma fino al promontorio di Minerva (Punta Campanella). Altri giacimenti della stessa terra esistevano in Italia, per esempio nella campagna romana; ma la pozzolana dei Campi Flegrei era, come lo è ancora oggi, la

più apprezzata. Pozzuoli la spediva dappertutto. Fra i prodotti agricoli come i vini del Gauro erano ritenuti articoli di lusso. Essi erano molto apprezzati e rivaleggiavano con quelli del Massico e la maggior parte degli scrittori vi fanno allusione. I negozianti puteolani esportavano anche altri vini di altri vigneti campani come i vini “Trifoline” (Tritoli), i vini di Caulo presso Capua, di Prebellici presso Napoli e quelli di Cuma.

CeramicaI frammenti di terracotta, vasi, lucerne, oggetti diversi provenienti da Pozzuoli, sono tutti andati dispersi senza profitto per l’archeologia. La città era il centro di un’importante produzione; il grande numero di detriti che sono stati rinvenuti prova che le officine erano molto attive. Le industrie ceramiche erano importanti per i Cumani dopo i tempi più remoti; una delle ragioni per cui esse si stabilirono dapprima a Ischia fu la presenza in quest’isola di giacimenti di argilla, facilmente sfruttabile. Questa terra ischitana fu utilizzata anche dai vasai di Pozzuoli; dove non si trova né la terra che servì per le matrici, né quella che si impiegava per fabbricare vasi rossi; si andava a cercarla nell’isola vicina che la forniva e che l’ha fornita durante i secoli in abbondanza; poiché all’inizio del 19° secolo si commerciava ancora per un importo di 30.000 ducati all’anno e che, fino al 1883, data dalla catastrofe di Casamicciola, l’argilla d’Ischia era esportata su tutte le coste campane da Gaeta fino a Napoli e a Salerno. Le più antiche fabbriche di Cuma, quelle più recenti di Pozzuoli si alimentavano principalmente a queste

fonti. E’ tra le rovine poste a nord-ovest dell’anfiteatro che sono stati trovati frammenti che ci fanno conoscere i vasai di Pozzuoli. Questi frammenti formavano un deposito lungo circa 100m e largo da 1 a 4 metri. C’era lì come una specie di fossato dove erano stati gettati frammenti di ogni sorta, vasi neri in piccolo numero, vasi rossi di fabbricazione locale, vasi d’Arretium, matrici. Sono stati raccolti più di 300 pezzi di matrici e più di 1000 pezzi di vasi decorati con figure ed ornamenti. Grazie a questi frammenti si conosce il nome di un vasaio Numerio Neiro Ilaro, nella cui fabbrica lavoravano gli schiavi Agatameso, Attico, Cocco, Favore, Felice, Ennico, Spellatore, Terzio, Valente e Vitulo. Questi incidevano sui vasi sia il nome del loro maestro, sia il proprio e questi nomi, con i simboli che li acompagnavano, permettevano di riconoscere, come erano stati fabbricati a Pozzuoli e trasportati con il commercio, vasi ritrovati in Spagna e nella Gola Narbonese. Altri vasai si chiamavano Q.P. Sereno, Q. Ennio Soave, S. Valerio Tito.Si sono raccolti anche frammenti il cui stile superiore denoterebbe un’altra origine; essi portano i nomi dei vasai d’Arezzo. Può darsi che essi avessero delle succursali a Pozzouli; può darsi che i vasai puteolani vendessero, oltre i propri prodotti, quelli molto richiesti di Arezzo; essi cercavano anche di imitarli e di fare loro concorrenza ed essi giunsero ad una vera matrice. Fra i vasai aretini si leggono quelli di M. Perennio. di Rasinio, di Gneo Attio.

Le fabbriche di Pozzuoli erano in piena attività sotto il regno di Augusto.

Il periodo fiorente della ceramica d’Arezzo fu il primo sec. a.C..

Dallo studio dello stile e delle decorazioni dei vasi si può concludere che i vasai puteolani sono contemporanei a quelli di Arezzo e datano del segno di Augusto; lo stile è lo stesso; nessuna differenza nelle decorazioni. I vasi di Pozzuoli sono soltanto di una fattura meno fine; gli )ornamenti applicati sorgono dal fondo con meno morbidezza. Alcuni dei migliori motivi ornamentali rappresentati sui vasi di Arezzo mancano sui vasi di Pozzuoli. Ma l’arte dei vasai era in massima parte lo stesso; le loro opere sono nello stile dei vasi di bronzo di Boscoreale e di Hildersheim degli stucchi della Farnesina e dei bassorilievi dell’Ara Pacis le figure e i dettagli ornamentali qualche volta stilizzati; ma che hanno il più delle volte un carattere naturalistico, denotano l’influenza dell’arte alessandrina e dello stile ellenistico.

Dopo l’epoca augustea le fabbriche puteolane come quelle di Arezzo sembrano essere in decadenza.

MosaicoI mosaicisti di Pozzuoli erano molto rinomati perché fecero giungere le loro opere nei paesi lontani e perché li eseguivano loro stessi. Un bellissimo mosaico che ornava un monumento nella città di Silla e che datava al 2° sec. d.C. era stato eseguito da un mosaicista puteolano. Esso è firmato Serius Felix civis Puteolanus fecit. I Serii conosciuti attraverso molte iscrizioni (Pozzuoli, Miseno Literno), appartenevano probabilmente alla stessa famiglia del nostro mosaicista.

Quest’ultimo non solo ha firmato la sua opera, per mostrare che egli aveva studiato ad una buona scuola e che conservava le tradizioni che rendevano famosi gli artisti di Pozzuoli, ma ha fatto seguire il suoi nome da quello di uno degli alunni, un certo Kaletanus. La sua opera è un pezzo eccellente in cui regna un vero sentimento artistico; esso si compone di 4 sezioni raffiguranti scene di caccia in una foresta, con dei cavalieri, dei cani, dei cervi, un sacrificio a Diana, ed un gruppo centrale dove si è creduto di riconoscere Apollo che insegue una ninfa, forse Dafne. Noi abbiamo altri esempi dell’arte musiva a Pozzuoli perché questi artisti si allontanarono dalla città.

I mosaici ritrovati all’inizio del 19° sec. in una tomba e portati nel museo archeologico di Napoli, non vi sono più esposti.

Lavoro di conchiglie (cammei)Si è scoperto recentemente in una tomba di Pozzuoli un disco di conchiglia, molto sottile, trasparente e di eccellente conservazione; esso è fissato ad un sottile manico di metallo, nel quale sono infilati anelli d’ambra rosa. La grande finezza e l’estrema leggerezza dell’oggetto fanno supporre che esso fosse un ventaglio. Nessun oggetto simile è stato ritrovato a Pomepi, né esiste, io credo, al museo di Napoli; la sua rarità lo rende molto curioso. E’ un prodotto di un’arte locale che si è mantenuta ancora oggi: è l’arte del cammeo.

VetroL’industria del vetro è conosciuta a Pozzuoli per un certo numero di campioni che costituiscono una serie

speciale e particolarmente interessante: quella dei vetri incisi. Tre esemplari più curiosi offrono delle vedute di Pozzuoli e del golfo e hanno perciò una grande importanza per lo studio topografico. Sono dei vetri bianchi, trasparenti, incisi con una punta; inizialmente essi erano colorati; è quello che fanno supporre i vetri ritrovati ad Algeri e a Nimes e che portano tracce di colore e di smalto e sono incisi con la stessa tecnica; lo studioso M. Heron vede in questo procedimento la stessa tradizione dei Greci, che prima di dipingere i loro vasellami, tracciavano i contorni principali mediante una punta. Solo lo smalto, avendo minore presa sul vetro che sulla terracotta, è sparito più facilmente. Il vaso che è stato ritrovato presso Roma e che ora è al museo della Propaganda, porta al di sotto della veduta dei monumenti e delle iscrizioni che li designano, una legenda funeraria: Memoriae Felicissima Filiae . Il vaso ritrovato a Populonia porta anche un augurio: Anima felix vivas. Su questi vasi come su quello di Odemira, c’era all’inizio solo la menzione dei monumenti; le altre iscrizioni furono incise successivamente su volere specifico dei committenti, marinai viaggiatori o malati veniti a curarsi alle terme, che poi li recavano come souvenirs. Lo stile prova che questi vasi sono del IV sec. d.C. Esiste anche un certo numero di vasi in vetro inciso che lo stile tardivo invita ad annoverarli alla stessa serie. Sono stati ritrovati in Inghilterra e in Germania; i soggetti si rifanno alla vita familiare o alla mitologia; i miti sono a volte latini a volte greci, a volte sia greci che latini. I procedimenti dell’incisione, la lingua

mista delle iscrizioni, lo stile, tutto porta a credere che essi appartenessero alla civiltà greco-romana dell’Italia meridionale. Pozzuoli che, senza dubbio, non era il solo centro di produzione, era forse il principale; questo spiegherebbe che tre vasi, i più singolari, presentano vedute di questa città e delle località vicine. Essi erano esportati molto lontano, fino0 ai paesi del nord vicino alle frontiere. E’ rimarchevole che quasi tutti siano stati ritrovati in Inghilterra, sia lungo il Reno a Colonia, a Magonza, ad Andernach.

Gli industriali puteolani non limitavano la loro produzione solo alle fabbricazioni dei vetri incisi; ma altri modelli della loro arte non sono conosciuti. Quasi tutti i frammenti sono andati perduti. Tuttavia occorre citare tre vetri blu colorati a forma di disco, con un rilievo delle teste di Gorgone. Pozzuoli, era in Italia il centro della fabbricazione di colori blu; ciò dovette favorire molto l’industria di belle coppe o vetri colorati, di cui nel museo archeologico di Napoli ci sono importanti esemplari. L’industria vetraria s’era sviluppata facilmente poiché ci si procurava nelle vicinanze, sabbie eccellenti, quella del fiume Volturno e quella bianchissima e finissima del litorale fra Cuma e Literno, di cui Plinio vanta la qualità.

Metallurgia. Fer.Litargirio (ossido di Piombo)

Se l’Italia importava soprattutto oggetti da altri paesi, essa esportava certi prodotti per esempio il ferro. Quello dell’isola d’Elba, molto richiesto, era lavorato a Pozzuoli. Diodoro Siculo scrive “Dei negozianti acquistavano il

ferro dell’isola d’Elba e lo trasportavano a Dicearchia e nelle altre piazze di commercio. Altri acquistando questa merce la fanno lavorare dagli artigiani forgiatori a loro servizio e fabbricano così ogni sorta di oggetti. Dei commercianti poi li esportano in ogni parte del mondo.” Questi ultimi erano soprattutto Orientali che, avendo portato a Pozzuoli prodotti dei loro Paesi, riportavano dall’Italia gli oggetti di cui essi avevano bisogno. I primi (cioè coloro che andavano ad acquistare il ferro nell’isola d’Elba e lo rivendevano ai fabbricanti di Pozzuoli) costituivano una classe speciale di persone che si davano a questo traffico e ne guadagnavano tanto da poter vivere. Quanto agli industriali di Pozzuoli, prima di ricavare i manufatti dal ferro lo dovevano fondere. Da Varrone e da Strabone apprendiamo che una grande parte del ferro dell’Elba era trasportato nella vicina città di Populonia sulla costa etrusca dove veniva fuso negli altoforni. Quindi il ferro veniva portato a Pozzuoli sia direttamente dalla miniera (quindi grezzo) sia da Populonia dove era già stato fuso. Un testo epigrafico ci ha trasmesso il nome di un certo P. Caulius Coeramus, che commerciava in ferro e che nello stesso tempo commerciava in vini. Quest’uomo ingegnoso esportava nei paesi mediterranei i vini della Campania e se ne tornava a Pozzuoli con le stive acriche di ferro dell’isola d’Elba e anche dalla Sardegna e dalla Corsica. Il ferro era messo sul mercato puteolano non solo dai privati, ma anche dalle miniere imperiali. Gli imperatori possedevano miniere in Sardegna; quando quasi tutte le miniere passarono

in loro possesso, essi ebbero anche quelle dell’Elba. E’ possibile che bisogna riportare a questa situazione delle miniere imperiali un “actor ferrariarum”.

A queste industrie metallurgiche bisogna aggiungere il litargirio, un protossido di piombo ottenuto riscaldandone il metallo all’aria. Secondo DIOSCORIDE il più apprezzato era il litargirio attico; poi c’era quello spagnolo; egli mette al terzo posto quello di Pozzuoli e della Sicilia. Queste differenze non erano dovute solamente alla colorazione del litargirio, ma al modo come esso era preparato ed ottenuto. Il litargirio attico proveniva direttamente dalle miniere, quello spagnolo dal trattamento del piombo argentifero, quello di Pozzuoli dalla fusione del piombo propriamente detto. Il litargirio trovava a Pozzuoli un’applicazione immediata ; come nella preparazione degli acetati di piombo, i fabbricanti di biacca erano obbligati ad usare il litargirio.

Non c’erano miniere di piombo nella regione puteolana. Questo metallo, come il ferro, veniva importato a Pozzuoli,. Poiché i giacimenti erano numerosi in Sardegna e nell’isola d’Elba, è naturale supporre che i commercianti vi andavano a cercare sia il ferro che il piombo. Giacimenti esistevano pure in Sicilia ed è probabile che il litargirio puteolano era fabbricato soprattutto con il piombo siciliano.

Industria dei coloriLa preparazione dei colori occupava molti industriali e operai. Il blu ceruleo fu importato da Alessandria da un

industriale romano, Vestorio, che avendo studiato il metodo di colorazione della fabbricazione dei blu egiziani, fondò un’officina a Pozzuoli: da allora i blu di Pozzuoli rivaleggiarono con i blu di Alessandria. Vestorio visse negli ultimi tempi della Repubblica mentre Vitruvio visse qualche tempo dopo. Può essere lo stesso da noi conosciuto attraverso la corrispondenza di Cicerone e che egli era amico dell’oratore. La famiglia dei Vestorii che era originaria della Campania durò fino all’epoca imperiale; noi conosciamo un T. Vestorius Zelatus, decurione, una Vestoria Elpis, un T. Vestorius Alexander, un T. Vestorius Pelops. Un quartiere della città che recava il nome dei Vestori, comprendeva senza dubbio le loro fabbriche. Il blu Vestorio era molto richiesto. Vitruvio ci indica il modo speciale con il quale esso era preparato e che gli dava qualità particolari; si schiacciava della sabbia con del patron (soda), assai finemente per ridurre in polvere questo miscuglio, vi si aggiungeva della limatura di rame cipriota e se ne faceva una massa solida. Le sfere così modellate a mano erano messe a seccare e una volta secche messe in vasi di terra all’interno del forno. Per effetto della cottura la sabbia ed il rame si univano e donavano un bel colore blu. Oltre al blu fabbricato come l’indica Vitruvio, Vestorio forniva un “lamentum” molto ricercato e prodotto con del blu lavato e pestato; questa polvere si vendeva più cara del ceruleo propriamente detto. Fabbriche di “ceruleum” esistevano nella parte orientale della città. Si sono in effetti ritrovati numerosi frammenti di ceramica colorati in blu e il suolo

aveva in certi punti un colore completamente blu. Se l’industria del blu era stata introdotta dall’Egitto, quella della porpora era originaria della Siria; ma le industrie puteolane l’avevano perfezionate al punto da superare di molto i loro maestri. Plinio assegna il primo posto alla porpora di Pozzuoli; egli la preferisce a tutte le altre anche a quella di Tiro, dall’Africa e dalla Laconia, che tuttavia passavano come le migliori ed erano anche le più care. Conosciamo il nome di un fabbricante: Gn. Haius Doryphorus, produttore di porpora. Uno dei suoi parenti, Haius Proculus, forse un suo socio, è menzionato in un’iscrizione. Un altro membro della famiglia fu decurione; un altro Gn. Haius Diadumenianus, fu procuratore alla fine del regno di Settimio Severo; è probabilmente lo stesso che consacrò a Pozzuoli un cippo ad uno dei suoi affrancati. Un Haius Tertius è conosciuto a Benevento. Un altro fabbricante di porpora di Pozzuoli è conosciuto da un’iscrizione: un certo L. HENNIPPUS.

Il bianco (biacca) di Pozzuoli aveva anch’esso una certa rinomanza. Non veniva tuttavia che in seconda linea, dopo quelli di rodi e di Macedonia.

Altre industrie. Mestieri diversi.Abbiamo solo rare indicazioni sulle altre industrie di Pozzuoli. Esse sono d’altronde meno interessanti; sono quelle che in genere si trovavano in tutte le città antiche. L’industria dei profumi era tuttavia particolarmente sviluppata a causa dell’importazione diretta dei profumi orientali. Certi fabbricanti erano persone ricche, per

esempio Platius conosciuto a causa della corrispondenza di Cicerone. Si leggono in alcune iscrizioni i nomi di un certo Plautius commerciante di profumi, di H. Faenius, L. Alexander, mercante d’incenso puteolano e di una donna, Licinia Primigenia, ungunetaria. Dopo Pozzuoli, Capua era la seconda città della Campania a produrre profumi. Quanto a Napoli, non se ne conoscono di “unquentarii” all’epoca romana. Al contrario, all’inizio del medio evo, essi costituivano una corporazione molro numerosa sotto il nome di “saponarii”.

C’erano poi i fabbricanti di stoffe che vendevano un indumento particolare, la “paenula” spesso mantello per l’inverno e per la pioggia.

I commercianti “sagorii” che vendevano la saga, indumento indossato dai soldati (mantello militare).

Un commerciante di seta, originario di Antiochia. Dei marmisti: Flaccus Pytheas, Arrius Chrysanthus. Si è ritrovata la dislocazione di un’officina di marmi presso i cantieri Armostrong (rovine di muri in opus lateritium, fra i quali si sono raccolti 40 capitelli, 33 basi di pilastri, i frammenti di un catino di marmo, marmo cipollino, pezzi di porfido ed infine i resti di un’anfora in terracotta riempita di resina).

Artigiani di oggetti in argento (argentarii);

un negoziante di olio (Olearius);un fabbricante di mobili

(suppellectiliarius);un fiorista, fabbricante di corone

(coronarius);un mercante di foraggi

(fenarius);

carpentieri ( (fabri tignarii);ebanisti o tornitori ( fabri

intestinarii).Quanto ai “sacomarii”, essi potevano essere mercanti di polveri di bronzo e di rame. Tuttavia farei osservare che il sacomarius è anche agrimensore. Un fabbricante di otri.Un conciatore di pelli “cariarius”

che fabbricava Anche oggetti di feltro.

Capitolo IVReligione

Pozzuoli fu il luogo di incontro di numerose divinità. Culti locali, greci, romani, orientali vi si sovrapposero, corrispondenti alle varie civiltà che ora ricordaimo.

ICulti greci o indigeni.

Culti primitivi. I culti primitivi hanno lasciato alcune tracce a Pozzuoli e nelle regioni vicine. Sorgenti, fenditure del suolo donde fuoriescono le fumarole, crateri, laghi erano, secondo le antiche popolazioni, la sede delle divinità. La Solfatara, consacrata a Vulcano, lo era probabilmente già a qualche dio molto antico prima ancora dell’arrivo dei Greci. La Giunone Gaura era dorata sul monte Gauro; il suo culto, prima dell’epoca romana, sembra essere appartenuto a Cuma, poi a Capua. Esso appartenne a Pozzuoli quando sotto l’impero il Gauro fece parte del territorio puteolano. L’Averno ed il lucrino avevano delle loro divinità primitive, alle quali succedettero, per esempio, la Venere di Lucrino e Proserpina.

Culti Greci: Apollo. I Greci di Cuma sottomettendo la colonia dei sami vi portarono i loro dei. Si pensa che Stazio in suo scritto commemori la fondazione di Dicearchia avvenuta sotto gli auspici del dio protettore, Apollo.:

“Hinc auspice condita phoebo tecta, Dicarchei portusque et litora mundi hospita”

Comunque il culto di Apollo dovette esistere a Pozzuoli nel periodo greco.

Il tempio del dio è rappresentato sul disegno di Bellori. In epoca romana gli sono dedicate due iscrizioni.

Poseidone. Il culto di Poseidone (Nettuno) risale all’epoca greca. Il disegno di Bellori ed un testo di Cicerone ci fanno conoscere un “porticus Neptuni”, forse vicino ad un tempio di Poseidone.

Demetra- Dioniso.Alle stesse origini si colloca la triade di Demetra, di Korè e di Dioniso; Demetra gioca un ruolo nelle leggende relative alla fondazione di Cuma. I Cumani portarono il loro culto a Dicearchia e a Napoli. Il Beloch erroneamente pone Libero e Libera fra le divinità venute a Pozzuoli con le colonie romane; esse vi preesistevano, poiché in realtà, esse furono portate a Roma da città campane vicine a Pozzuoli, Napoli e Cuma.

Cerere era, come a Roma, la divinità principale. Due iscrizioni menzionano delle sacerdotesse ufficiali (sacerdotes publicae): la colonia di Pozzuoli aveva dunque adottato l’antica dea di Dicearchia divenuta la protettrice della città romanizzata. Più tardi, verso la fine del II sec. d.C. il culto si modificò. Delle iscrizioni

dell’epoca di Settimio Severo ci fanno conoscere un sacerdote di “Liber Pater” dio Libero, una sacerdotessa di Cerere e due altri personaggi investiti di funzioni religiose: T. Flavius Eclectianus e suo figlio. La ripetizione di alcuni nomi sembra indicare che membri della stessa famiglia occupavano abitualmente incarichi sacerdotali nel culto, diversi da quelli della città.

Il titolo della sacerdotessa non è lo stesso: le sacerdotesse ufficiali sono sacerdotes Cereris, STTACCIA è sacerdos Cererum. In un primo momento si penserebbe alle Cereres (Demetre) africane ma in nessuna iscrizione africana esse sono collegate a Dioniso esse hanno un carattere particolare provenendo alla tendenza dei Sanniti a concepire la divinità una ma sotto varie forme. Le Cereri di Pozzuoli non sono, come pensa il Birt, la Cerere greca e la Cerere romana unite. E’ più semplice vedere in esse Demetra e Korè (come Castore e Polluce nei CASTORI); già in Grecia, sebbene non sembrasse che Demetra e sua figlia fossero state riunite sotto il nome della prima messo al plurale, esisteva fra esse una specie d’identità che si riscontra a Pozzuoli. Esse erano adorate da una confraternita di iniziati che celebravano dei misteri che avevano un carattere e delle origini esotiche. A fianco del vecchio culto ufficiale della colonia si era stabilito quello di un Dioniso orientalizzato.

Misteri derivanti da quelli di Eleusi erano forse conosciuti a Napoli, dopo l’epoca in cui questa città ricevette nel suo seno degli elementi attici. Un pezzo di Velleio lascia parimenti supporre che il culto di

Demetra fu sempre, a Cuma, accompagnato da misteri. Ma nei secoli precedenti essi avevano un carattere puramente ellenico. All’epoca di Settimio Severo, furono introdotti nuovi elementi; l’antico dio Greco e greco-romano è trasformato da influenze asiatiche.

Dioniso dio della vegetazione, della forza sotterranea faceva germinare gli alberi, i fiori, i frutti: lo stesso faceva Attis, figlio di Cibale, era la vita ripetitiva. Sua madre l’amava come la terra ama la sua vegetazione. Fra Cerere e Cibale esistevano profonde affinità. Non sarebbe sorprendente che Attis e Dioniso siano stati avvicinati dagli antichi. Infatti dei contatti tra i due culti avvennero presto in Asia Minore.

Qualche testo forniva delle supposizioni in favore dell’identificazione di Attis e di Dioniso. Sembra d’altra parte che Dioniso sia stato assimilato dai Greci con il dio frigio SABARIOS, confuso a sua volta egli stesso con Attis. L’iscrizione di Pozzuoli ci permette di constatare il risultato di questa tendenza molto favorita per il sincretismo religioso dell’epoca dei Severi.

Il Dioniso greco si orientalizzò a Pozzuoli. CESONE introdusse a Roma un novello Dioniso molto diverso dall’antico dio greco o greco-romano. La storica M. Wissova crede a ragione che il tempio di Libero, costruito a Roma da Settimio Severo, era consacrato a un dio di una religione orgiastica e mistica dell’Oriente, che si nascondeva sotto il vecchio culto tradizionale. Si erbbe in Italia, sotto il regno di questo imperatore, una

recrudescenza dei misteri dionisiaci: si moltiplicarono allora come quelle di una spirale; dovunque i titoli dei sacerdoti alludono a culti mistici: gerofanti e “archibucolus” a Roma “parastata” e sacerdoti orgiofanti a Pozzuoli.

Le NinfePozzuoli era una città di acque termali dove da ogni parte si mandavano malati. Le Ninfe, adorate probabilmente dall’epoca greca e anche prima sono conosciute solo per delle iscrizioni latine. Vediamo che esse non ebbero nomi particolari, né che fossero abbinate ad altre divinità, come le Ninfe “Nitrodes” di Ischia che con Apollo guarivano le malattie. In ognio caso una frase di Plinio attesta la loro importanza:-Le sorgenti aumentano il numero di divinità sotto nomi vari e fondano città come Pozzuoli in Campania-. Certamente Pozzuoli ha dovuto la sua nascita e il suo sviluppo a tutte altre ragioni che quelle indicate da Plinio; ma questi intende per Pozzuoli, oltre la stessa città, l’insieme di località limitrofe e che erano un suo prolungamento: Bacoli, Baia, Lucrino. Quanto alle divinità recanti nomi vari, egli non ne cita nessuno. Una delle fonti era forse consacrata a Silvano, un'altra al Sole e alla luna.

Esculapio ed Igea.Esculapio ed Igea erano onorati a Pozzuoli per la stessa ragione delle Ninfe; si sono conosciute per delle iscrizioni, offerte, una statua del dio. Una delle iscrizioni incisa sulle spire di un serpente di bronzo, di grandezza naturale, riporta :-Asclepio et Saluti sacrum ex voto Callistus dedicavit.- Si

legge il nome di questo Callisto, un medico su un’altra dedica ad Esculapio e a Igea, dove è rappresentato un serpente che striscia vicino ad un altare.

Giove FlarrusUn testo epigrafico ci fa sapere che un certo Flavius Antipater e sua moglie hanno offerto una statuetta di esculapio ed una di Igeia a Giove Flazzus. Chi è questo Giove Flazzus? Il suo nome è stato letto diversamente da alcuni Fiazzus da altri Eiazzus (M.Beloch). La lettura esatta è secondo il Mommsen: Flazzus. E’ un dio osco, conosciuto da iscrizi0oni di capua. Una di esse, trovata presso Capua, è incisa su una placca di terracotta che da un lato presenta l’immagine di un porco e dall’altra tre ornamenti floreali sui due lati si legge :- caesillii minati iovilae iovi plagio stant. Minrevini, Corsen, Bǖcheler e Mancini, che hanno interpretato questo testo con notevoli divergenze nei dettagli, sono d’accordo sul nome del dio: iovi plagio. Corsen e Minervini vedono in lui un Iupiter fulgurator, Bǖcheler un Jupiter fulminator. L’appellativo “flagivi” verrebbe dalla stessa radice latina: flagrare, fulgare, fulgur. Senza dubbio fra “plagio” e “lazzo” c’è una differenza di terminazione ma la radice della parola è la stessa. Rileviamo che l’iscrizione incisa sulla faccia posteriore della pietra riproduce il nome del dio con una leggera modifica che l’avvicina a quello dell’iscrizione di capua, cioè Flazio. Le due divinità di Capua e di Pozzuoli sembrano identiche. Jupiter Flagus, Flazius o Flazzus simboleggia il fulgore del sole. Secondo gli antichi

scrittori il dio della luce, che Servio chiama Giove “Lucentius” era una delle più vecchie divinità osche Jupiter Flagius e Jupiter Lucetius, sono sinonimi, sono da rapportare a Jupiter Fulgor di Roma, purificazione della luce celeste.Giove folgorante era adorato a Capua con dee ctonie e generatrici sulle quali i documenti, le iscrizioni o monumenti istoriati, ci informano molto male. Una di esse era una sorta di Cerere- Venere, dea madre il cui culto aveva un carattere a volte naturalista e funerario. Si immolava loro il poroc. Siccome questo animale figura sulla placca in terracotta che reca il nome di Giove “Flagius” e siccome su una placca consacrata a una delle dee, il viso della dea è contornato da raggi, conviene forse considerare le divinità captane come simboli delle forze naturali, terrestri e solari. E’ difficile dirne di più. Una delle dee: “Vesulia” della stessa derivazione di “Vesuna” , dea adorata presso i NARSI e identica a quella di Ferocia dorata a Terracina e sul monte Socrate con dei ai quali si attribuisce generalmente un carattere solare: il Giove “Anxur” e l’Apollo “Soranus”. Ma questi accostamenti sono incerti. Era Ferocia, come si è pensato, una divinitò ctonia? Non si sa. Apollo “Soranus” non era un dio solare e non è dimostrato che Giove Anxur lo fosse. Quale legame li univa a Ferocia? Non si sa se ve ne fosse uno. Infine l’accostamento linguistico Vesulia-Feronia è respinto da qualche storico come dubbio. Bisogna quindi guardarsi dal dedurre analogie linguistiche e religiose molto vaghe e molto oscure.

Un interprete dell’iscrizione puteolana e di quelle osche di Capua, Mancini, ha creduto di ritrovare nel dono offerto a Giove Flagius, cioè statuine di esculapio e di Igea, una prova del suo carattere solare. Questo dono si spiegherebbe con il fatto che gli antichi credevano nell’esistenza di un legame fra il sole ed Esculapio.Microbio ci dice che in effetti si poneva un serpente rampante ai piedi di Esculapio e di Igea perché si accostava la natura di queste due divinità a quela del Sole e della Luna; egli aggiunge che Esculapio era qualche volta considerato egli stesso il dio Apollo da cui era nato. I testi epigrafici uniscono spesso Esculapio ad Apollo, a Diana, al Sole; sembra che esista una diretta corrispondenza, in una iscrizione, fra Esculapio ed Apollo, Diana ed Igea. E’ un rapporto analogo a quello constato a Pozzuoli : si offriva al dio solare Esculapio ed Igea come un attributo ed una emanazione sua; la persona che si è fatta nominare lo ringraziava così della guarigione. Questa interpretazione è accettata, ma con molte riserve. Non sarebbe il caso, in quello che concerne una vecchia divinità italica, di giungere a delle conclusioni della credenza che avevano i Greci fra i legami di parentela che univano Apollo ed esculapio; bisognerebbe invece ammettere che una divinità osca contrasse un carattere ellenico, poiché i legami che univano Esculapio ad Apollo ed al Sole esistevano solo nella concezione dei Greci. Tutto ciò è azzardato e non prova che Giove “Flagius” fosse un dio solare. Il fatto che gli si offrano delle statuine di Esculapio e di Igea si spiega più naturalmente. Questo dio e le dee

che gli erano associate guarivano le malattie, come lo attestano i numerosi ex-voto che erano loro consacrati e dei quali sono stati ritrovati i frammenti (parti diverse del corpo umano, piedi, gambe, ventri ecc..). In queste condizioni l’offerta di una statuetta di Esculapio è del tutto naturale. Diana LucinaUn’iscrizione di Pozzuoli cita Diana Lucina. Lucina è un appellativo di Artemide conosciuta come divinità della nascita e nota in Grecia per dei testi e alcune citazioni. Nel mondo romano la troviamo solo nell’iscrizione di Pozzuoli incisa sugli orli di un vaso dov’è scolpita la scena di Paride e di Elena alla quale Venere consiglia di cedere all’amore. Una donna G. Rufa offre alla dea questa scultura.

Venere di EriceSi legge su due scritte il nome di Venere. Una scritta su mattone riporta: Venerus Heruc. Il fatto è curioso, le scritte sui matton i di solito portano al genitivo il nome del proprietario della fabbrica o del fabbricante di mattoni. Questo non è il caso: Venerus Heruc, designa la Afrodite di Erice. Siccome l’ortografia e la forma del genitivo ci obbligano a datare questo testo dal periodo repubblicano, bisognerebbe dedurne che esisteva già a questa epoca a Pozzuoli un santuario di Venre di Eriche? Il culto di questa dea originario di Sicilia ha dovuto passare naturalmente in Campania a causa delle relazioni commerciali.

ErcoleErcole è conosciuto all’epoca repubblicana, una delle iscrizioni che lo

riguardano è stata ritrovata presso la solfatara. Il suo culto era diffuso in Campania da tempi molto remoti. La leggenda lo faceva passare a Bacoli (Bauli) e gli attribuiva la costruzione della via erculanea.

Bona DeaE’ impossibile sapere se la “Bona Dea” fu portata a Pozzuoli da Roma o se essa vi giunse per altra via. Il suo culto originario di Taranto si propagò direttamente da questa città in Campania? E’ probabile. In ogni caso le iscrizioni di Pozzuoli non permettono di risolvere la questione poiché l’una non è datata e l’altra è del 62 d.C. Si conosce un sacerdote della dea.

IICulti romani

I culti romani erano quelli di “Bona mens” di Giove Attimo Massimo, della Concordia, dell’Onore, di Bellona, della Vittoria Augusta e della Fortuna, spesso conosciuta dai suoi adoratori come Fortuna “Panthea”. Una statua della Fortuna fu ritrovata nel XVI sec., un’altra da qualche anno.Il genio della coloniaI due culti romani sui quali possediamo le maggiori informazioni sono quello del Genio della Colonia e degli imperatori. Il Genio della Colonia, talvolta chiamato “sanctissimus deus”, a volte “deus magnus coloniae Puteolanorum” (grande dio della colonia dei Puteolani) è unito nelle sue dediche a Giove e al Sole. Gli Augustali celebravano giochi in suo onore nello stesso periodo dei giochi celebrati in onore di Giove.

Culto degli imperatoriIl culto degli imperatori che era così ben appropriato alle idee degli Orientali e che fu inventato da ess, ebbe importanza in una città che non era meno greca e orientale che italiana. Augusto in Oriente lasciò sempre le città libere di attribuirgli onori divini: in Occidente solo verso la fine del suo regno egli permise che lo adorassero e inoltre in Italia le iscrizioni che si riferiscono al suo culto sono assai rare. Al di fuori della città che erano colonie da lui fondate o di cui era il patrono, è in Campania, cioè nella regione greco-orientale della Penisola che il suo culto si sviluppò rapidamente (Cuma, Pompei, Pozzuoli). Ostia per le stesse ragioni che a Pozzuoli, è una delle prime città italiane dove è stato adorato Augusto. Il culto imperiale trovò nei due porti un terreno molto favorevole.L’estensione che prese molto presto, a causa del carattere orientale della città, è confermata dalle nazionalità degli Augustali. Noi già abbiamo visto a proposito del monumento dedicato a Tiberio che la maggior parte di essi dovevano essere degli Asiatici: quasi tutti hanno nomi greci e orientali; uno di essi, Q. Aurelio Hermadion, si designa nettamente come straniero, unisce in una dedica il Genio di Pozzuoli a quello della sua Patria.Il tempio di Augusto fu, vivendo questo imperatore, costruito a spese di Lucius Calpurnius, commerciante al quale è indirizzata la dedica dei commercianti di Alessandria, di Asia e di Siria. Questi semp0lici fatti ci mostrano quali furono i primi adoratori della divinità imperiale. Si conosce un Flamine (sacerdote) del divino Augusto.

Dopo Augusto, gli imperatori che sembra siano stati particolarmente onorati sono: Claudio, adorato in vita iscrizione dell’anno 46 dove si parla di “sacerdotium divini nostri imperatori T. Claudius (sacerdozio del nostro divino imperatore Claudio). Nerone associato ad Agrippina che si onoravano con giochi che allo stesso tempo erano celebrati in onore di Giove e del Genio della Colonia; Adriano ed Antonino. Un tempio fu elevato ad Adriano dal suo successore: si istituirono giochi quinquennali; FLAMUNI (sacerdoti) e consociati badavano al suo culto. I giochi (CERTAMEN quinquennale) furono tra i più celebri del mondo antico.Si innalzò un tempio anche ad Antonino che divenne la sede delle riunioni della curia.

Collegio degli AugustaliIl collegio degli Augustali si divideva in centurie (centuria Cornelia e Centuria Petronia, conosciute sotto Augusto e sotto Comodo). A capo degli Augustali c’erano amministratori e quinquennali. I membri che a titolo onorifico ricevevano durante le divisioni delle somme disponibili, erano motlo numerosi. Essi si reclutavano soprattutto fra gli affrancati, commercianti, negozianti, originari della città o ivi residenti; noi sappiamo che fra gli Augustali ci furono un magistrato, un marmista, un fabbricante di colori, un negoziante di stoffe. Secondo la regola abituale essi erano nominati dalla curia; e conformemente ad un costume che ci prova che si poteva essere Augustali in diversi luoghi; degli Augustali di

Pozzuoli erano tali anche a Cuma, a Napoli ed a Venafro.In occasione della loro nomina si imponevano loro dei compiti. Fra essi tre celebranti una di queste liturgie (che venivano regolarmente determinate per decreto dei decurioni) sostennero le spese dei giochi dati in onore di Nerone e di Agrippina. La costruzione e l’abbellimento dei santuari era uno dei loro principali compiti (incarichi); la Vittoria Augusta fu costruita da un Augustale: O. Aurelio Hermadione, Augustale fece costruire a sue spese un monumento pubblico; un altro restaurò o costruì una basilica; l’uno si incaricò d’un certo numero di costruzioni. Aggiungiamo la pavimentazione di strade; per restaurare una strada, Caius Minatius BITLUS spese duemila sesterzi. Mommsen attribuisce a Pozzuoli due iscrizioni relative agli augustali; esse in realtà sono relative a Miseno, dove una di esse è stata ritrovata e riguarda il Genio Misenate. In esse viene nominato un certo L. Laecanius Primitivus, perpetuo curatore degli Augustali. Laecanius non è un nome puteolano; è quello di una famiglia di Cuma. Fino all’inizio dell’impero Miseno dipese da Cuma; non c’è quindi da meravigliarsi se dei nomi cumani vi comparissero.

IIICulti d’Oriente

Culti egiziani. Per quanto riguarda la via di introduzione dei culti egiziani in Italia, c’è da dire che il culto di Serapide (Serapis) fu introdotto passando prima per la Sicilia, tappa necessaria fra Alessandria d’Egitto e la Campania. I commercianti che trafficavano in

Sicilia familiarizzarono con il culto di Iside e di serapide, che vi esisteva dai tempi di ARGATEAPE e di Gerone II, particolarmente a Catania ed a Siracusa. Ciò che è vero della Sicilia lo è anche di Delo. Sono soprattutto gli dei siriani che si propagarono in occidente attraverso Delo ma Iside e Serapide vi avevano anche dei santuari. Durante tutto il III sec., l’Egitto fu preponderante nelle Cicladi e nel II secolo, le relazioni commerciali fra i due Paesi restarono molto attive. I Campani che trovavano Iside e Serapide in Sicilia e in Alessandria li trovavano a Delo. Fra le dediche fatte dagli Italiani di Delo a Serapide, le une datano dall’inizio del 1° sec., le altre risalgono ad un periodo di poco anteriore. Dall’anno 105 a.C. fin dopo il 2° sec., non abbiamo alcun testo relativo al tempio di Serapide. Sappiamo solo, da un’iscrizione risalente al regno di Antonino, che un certo L. POMPEIO Primitius fece riparare le colonne dell’epistilio e abbellì l’ingresso. Il monumento esisteva ancora al 4° sec.Da Pozzuoli proviene una statua del dio, rappresentato conformemente ad un modello diffuso, seduto su un trono, vestito con un lungo “chitone” che gli cade fino ai piedi che calzano dei sandali. Sulla sua testa c’è il MADIO o cestello (calathos); nella mano sinistra alzata tiene lo scettro; la mano destra è abbassata verso un Cerbero a tre teste che è a fianco a lui e il cui corpo è circondato dalle spire di un serpente. Sul vaso di Odemira è rappresentato un altro tipo di dio, quello di Serapide in piedi con la cornucopia ed una patera con la quale fa una libagione su un altare. Questo modello di Serapide

riprodotto soprattutto con le monete e con le statuine, è più raro nelle statue marmoree; una statua di questo tipo era verso la fine dell’Impero, quella principale del tempio, ed è quella riprodotta sul vaso di Odemira.E’ stato ritrovato a Pozzuoli anche un piccolo busto di Serapide. Il dio vestito con un chitone e di un mantello gettato sulla spalla sinistra, ha la testa sormontata dal modius (cestello).Su una lucerna, a forma di navicella, si vede Serapis coronato da raggi con un timone nella destra; Iside è al suo fianco; tutte e due sono in piedi; al disotto c’è un Dioscuro con il suo cavallo. Più in basso un operaio nano, nudo, con le gambe storte, con i capelli acconciati in forma di corna, mette in forno un vasetto che ha terminato; ai suoi piedi ci sono i ferri del mestiere; è Phtah Demiurgo. All’estermità della navicella cìè la testa radiata del Sole. C’è un’assimilazione fra il dio Serapide ed il dio Sole, anche se le due teste (del Sole e di Serapide) figurano separatamente. Notiamo anche l’associazione, già fatta dai Greci, dei Dioscuri a Iside ed a Serapide, come divinità protettrici dei naviganti. Una relazione stretta esiste fra la decorazione di questa lucerna e l’uso che ne fu fatto. Essa doveva essere venduta a dei naviganti; questo augurio, la forma di navicella, il timone che ha Serapide, la presenza di Iside, tutto indica un rapporto con la grande festa di primavera, che precedeva la ripresa della navigazione., dove i devoti di Iside portavano le lucerne in processione. Apuleio parla di una lucerna d’oro (navigium Isidis), che figurava nella processione in onore di Iside e che appunto aveva la forma di

una navicella. “Nelle mani del principale sacerdote, si vedeva una lucerna che risplendeva più delle altre; era una navicella in oro che dalla sua parte più larga emetteva una grande fiamma”. Era il lume sacro, quello dei ministri del culto; ma i fedeli e gli iniziati ne portavano altre che, meno preziose e di diverso materiale, erano simili nella forma ed erano usate allo stesso modo. “Si vedeva pure-scrive Apuleio- una folla di persone dei due sessi muniti di lanterne, di torce, di candele e di altre luminarie”. Terminata la processione il navigante o il commerciante che si imbarcava portava con sé la sua lucerna talismano che lo avrebbe protetto contro il maltempo e le navigazioni pericolose. Una statua di Anubi, conservata la museo di Napoli, proviene da Pozzuoli. Il dio in piedi, la gamba destra un po’ in avanti è vestito con un drappo che gli arriva alle ginocchia, lasciando le gambe scoperte e fermato sulla spalla destra da un fermaglio. Il viso, il cui muso è sbrecciato, era quello di uno sciacallo. Nella sinistra aveva un PEDO (bastone); nella destra doveva avere un sistro. A Pozzuoli non è stata trovata alcuna statua di Iside; nessuna dedica ci è pervenuta. Poiché la dea era certamente adorata a Pozzuoli con Serapide, M. Beloch pensa che una dedica napoletana ad Iside potrebbe essere attribuita a Pozzuoli. Segnaliamo infine il frammento della statuetta di un PENTOFORO (sacerdote), ritrovata presso le rovine di un tempio ora perduto in località detta Pondera.

Culti asiatici – Cibele.

Le divinità orientali si introdussero a Pozzuoli in gran numero e presto. Ce ne sono tre, Cibele, Mitra e Giove di Dolichi, la cui diffusione non è dovuta a cause commerciali.

Il culto di Cibale adottato da Roma dal 3° sec. a.C. ebbe sotto l’impero una nuova importanza. La Campania era uno dei suoi centri principali. Attorno alla dea si raggruppavano a Pozzuoli dei religiosi che possedevano un cimitero nella piana di Quarto e dei dendrofori. E’ conosciuta una cernofora. Tra i monumenti figurati segnaliamo i frammenti di una statua di Cibale ed un frammento di un gruppo di Cibele e di due leoni. C’era a Pozzuoli un tempio della magma mater (grande madre)? Tutto quello che si sa è che il grande santuario della dea era quello di Baia. Poiché Baia dipendeva amministrativamente da Cuma, questo tempio era di proprietà cumana e il senato ne nominava il sacerdote. Può darsi che attorno al tempio baiano di Cibele si radunavano i dendrofori puteolani sia che fossero insieme con quelli di Cuma, si che essi costituissero un collegio speciale. MitraM. Cumaut fa rilevare che il culto di Mitra fu relativamente poco diffuso a Pozzuoli ed in Campania. “Se Pozzuoli e i suoi dintorni, compreso Napoli, hanno fornito pochi monumenti dei misteri di Mitra, è perché questa città cessò nel II sec. di essere il grande porto emporio dove Roma si forniva di derrate del Levante”. Questa osservazione è giusta; tuttavia se Pozzuoli non fu più il porto principale di Roma, restò una piazza commerciale importante. Dunque fu meno per

ragioni commerciali che per ragioni puramente religiose che si sviluppò il culto di Mitra che rispondeva a delle aspirazioni e soddisfaceva dei bisogni dell’anima. Ad ogni modo tre bassorilievi rappresentanti il sacrificio del toro sono stati ritrovati a Napoli, un altro a Capri. Un’iscrizione è originaria di Ischia, una dedica al Sole (Soli Invicto, al Sole non vinto) di Pozzuoli. Sulla via da Pozzuoli a Napoli, nella grotta di Posillipo esisteva un piccolo santuario. M. Hirschfeld ha creduto scoprire a Pozzuolialtre tracce del culto di Mitra a Pozzuoli. Degli Augustali fanno una dedica ad un uomo chiamato “pater” , padre. Non si tratterrebbe del culto di Mitra? Si sa che per indicare il più alto grado nella gerarchia degli iniziati, si usavano le parole Padre-Aquila, Padre-Sparviero, Padre dei Padri o più semplicemente ancora, Padre. Giove “Dolichenus”Quasi tutti i culti orientali sono stati portati a Pozzuoli dai mercanti. Qualcuno tuttavia era portato dai soldati. Questo fu il caso di Giove “Dolicheno”. Ad Ostia c’erano soldati che gli facevano dediche; in Campania suoi adoratori erano dei marinai della flotta di Miseno. Da un’iscrizione sappiamo che 4 di essi che gli offrono oggetti in argento sono uomini originari della Cilicia (regione dell’Asia Minore). I Cilici numerosi nella flotta, riappaiono in più di 12 testi. Il nome di uno dei dedicanti, Giulio Antioco ( Iulius Antiochus) si trova notoriamente in un’altra iscrizione misenate; è dunque verosimile, come lo crede Kan che la dedica dei Cilici, la cui origine è incerta, proviene non da Pozzuoli, ma

da Miseno. E’ anche possibile che il tempio del dio fosse a Miseno e non a Pozzuoli. Un’iscrizione data come proveniente da Pozzuoli, è un alfabeto rassomigliante a quello del Dolicheno di Carnuntum. A destra e a sinistra delle lettere sacre sono grossolanamente rappresentati dei serpenti che si rizzano. Il serpente è raffigurato allo stesso modo su una base di Karaormau (Bulgaria), dedicato a Giove Dolicheno, che talora era associato a Esculapio e ad Igea e che sembra, in certi casi, essere stato considerato come un dio medico. Questa qualità sarebbe espressa dal simbolo del serpente nelle iscrizioni di Karaormaue di Pozzuoli? Non sarebbe sorprendente che un contatto tra Esculapio e il Giove di Doliché fosse avvenuto in questa città e che le due divinità vi fossero state associate. Il Baal di Doliché poteva tanto meglio essere adorato a Pozzuoli e nelle regioni vicine come un dio medico che veniva spesso considerato come una divinità delle acque termali.I Baal sirianiIl Baal di Eliopoli era adorato dai commercianti di Eliopoli e di Besite e dagli enigmatici “ Germellenses”. Le iscrizioni ci hanno trasmesso il nome di due dei suoi sacerdoti, Aurelio Teodoro ed Ermiano; in una data indeterminabile una riparazione fu fatta al suo tempio da M. Ulpio Sabino che ne aveva la custodia. Nella iscrizione dei Germellanesi, oltre al curatore del tempio e ai sacerdoti sono nominati dei “ lucofori”. Cosa significa questa parola? E’ il sinonimo di dadoforo (portatore di torcia?) Certamente no. La parola di composizione greca significa portatore

di statuette sacre durante le cerimonie sacre. Erano statuine di lupo animale che avrebbe avuto un ruolo nel culto di Baal. Giove Damasceno è conosciuto da iscrizioni di cui una è del tempio di Antonino Pio. Uno dei suoi sacerdoti M. Nemanio Eutichiano, cavaliere e decurione esercitava l’edilizia, M. Nemonio Callisto, apparteneva alla stessa famiglia. Il nome della dea Siria era conosciuta sotto la forma poplare Dasyria. Baal di Tiro e di SareptaIl dio dei Tiri era Baal Nuquart a cui è dedicata un’iscrizione trovata a Pozzuoli: il Sole d’Arepta è venuto da Tiro a Pozzuoli e Elim l’ha portato a Pozzuoli sotto Domiziano nel 79 dell’era cristiana.M. Cognat identificava Arepta con la città fenicia d’Arefa. Questa identificazione è sembrata a M. Berger essere confermata da un’iscrizione sannitica trovata a Tharros. Questa città d’Araphat sarebbe, secondo M. Berger, l’Arepta dell’iscrizione greca di Pozzuoli. Essa era nel Libano, presso la sorgente del Giordano; si legge il suo nome in un passaggio di Giuseppe. Ma se l’identificazione di Arepta-Araphat-Arfa sembra a M. Berger debba essere accettata, in compenso l’iscrizione di Tharros gli suggerisce dei dubbi sul nome del dio, tanto che M. Cognat l’ha restituito. In effetti le parole: Baal di Tiro e d’Arfa sono precedute dalla denominazione di Dio Santo, Elim “plurale che si trova applicata ad una divinità uinica, della stessa forma che Elohim in ebraico”. Ora nell’iscrizione di Pozzuoli si legge ‘Hλείμ (Eleim).‘Hλείμ significherebbe sacrificio durante una cerimonia religiosa.Il dio degli Arabi: Dusarès

Il dio degli Arabi era Dusarès. Una dedica in aramaico è rivolta al dio nell’anno 11 d.C. Ecco la traduzione: “Qui ci sono due cammelli offerti a Zaidu a Abdelge, figlio di Thaimu, figlio di Hamin; al dio Dusares che ha ascoltato le loro preghiere. Anno XX del regno d’Haretat, re dei Nabatei, che ha a cuore il suo poplo.”Si hanno pure delle dediche in latino al dio Dusarès: sono due basi recanti, ripetute sui lati, l’iscrizione Dusari sacrum (sacro a Dusaro) ed un frammento inedito che si trova fra le pietre ammassate nei sotterranei dell’anfiteatro. Virgo Celestis de Carthage (Vergine celeste di Cartagine)I documenti che ci fanno conoscere a Pozzuoli la Vergine celeste di Cartagine presentano un interesse tutto particolare; poiché, per la prima volta nel mondo roamano, vi è fatta mensione di un taurobolio (sacrificio di un toro). Essi ci mostrano inoltre che questo sacrificio (legato più specificatamente al culto di Cibele), esisteva anche negli altri culti orientali. Originario della Persia, esso si estese in Siria e nella Lidia: essa fu assimilata alla dea Siria. Così si spiega l’uso del taurobolio nel culto della dea di Cartagine. Più tardi, il sacrificio del toro (taurobolio) sembra sia stato riservato al culto di Cibele, senza dubbio perché quest’ultimo assorbì una pratica che esisteva già prima, anche nel culto della Vergine Celeste. Il nome di un prete, Tiberius Claudius Felix è conosciuto mediante due epigrafi. Altre iscrizionienumerano le offerte fatte dai devoti: oggetti d’oro e d’argento, pietre preziose etc. Le divinità della settimana

A tutte queste divinità esotiche aggiungiamo una il cui carattere straniero colpisce, di meno ad un primo approccio, ma che è anch’essa di origine orientale: voglio parlare degli dei della settimana, conosciuto presto in Campania, a Pompei per una pittura del 50 d.C. circa e per dei graffiti dello stesso periodo, a Pozzuoliper una iscrizione che nomina i pianeti secondo l’ordine dei giorni della settimana. Si constata la presenza di queste divinità, di provenienza asiatica sia a Roma che in Campania (Pompei, Napoli, Pozzuoli). Qui ancora credo che Pozzuoli è servita da intermediaria tra l’Oriente e l’Italia.

Capitolo VOrigni cristiane

La chiesa di Pozzuoli fu, con quella di Roma, la più antica d’Italia. Qui anche le condizioni favorevolissime al commercio determinarono una precoce comparsa del Cristianesimo. Era tanto più naturale che la nuova religione penetrasse nella penisola per la via che già avevano seguito i culti orientali, perché i Giudei erano numerosi a Pozzuoli e che, seguendo un’espressione di Renan, il Cristianesimo trovasse là un primo terreno ebraico a riceverlo. L’origine di questa chiesa è molto oscura. I suoi fondatori sono sconosciuti ed i problemi insolubili che si pongono relativamente all’origine apostolica della chiesa romana si pongono anche per essa. Il poco che si sa del passaggio di Pietro a Pozzuoli e sui discepoli che avrebbe lì trovati si trova negli Atti di Pietro e di Paolo che non meritano alcuna credibilità storica; il passaggio di Pietro a Pozzuoli dipende quindi

dalla realtà della sua venuta in Italia venuta che è lontana dall’essere certa e non è nemmeno probabile. Nel caso che non si volesse rinunciare all’idea della venuta di Pietro, bisognerebbe ammettere che egli non venne che dopo Paolo e che il suo soggiorno fu estremamente breve, pressappoco il tempo di arrivare e di subire il martirio per la persecuzione di Nerone. Può darsi in questo caso che egli abbia potuto sbarcare a Pozzuoli, come la maggior parte dei viaggiatori orientali. Ma la veridicità di questo passaggio non à attestata da alcun documento valido né dalle lettere di Pietro a Paolo, né dalla tradizione relativa al leggendario soggiorno del santo a Napoli ed a Pozzuoli: tradizione di cui noi troviamo l’eco negli Atti di santo Aspreno di Napoli e nell’antico Ufficio di San Celso a Pozzuoli. Due cose solo sono certe: è che San Paolo, venendo per la prima volta in Italia, sbarcò a Pozzuoli nel 61 d.C. e che vi torvò una comunità cristiana, la cui nascita fu, come quella della chiesa di Roma, l’opera di Giudei sconosciuti e poveri. I due membri più vecchi conosciuti della chiesa di Roma sono un certo Aquila, Giudeo mercante di arazzi, originario dell’Asia Minore e sua moglie Priscilla. Dobbiamo raffigurarci i primi cristiani puteolani come questi Giudei di Roma, operai e plebei. La chiesa di Pozzuoli fu, come quella della capitale, una creazione “giudaico-cristiana, collegata direttamente alla chiesa di Gerusalemme”. I rapporti che univano Roma e Pozzuoli e per conseguenza gli Orientali di Roma e quelli di Pozzuoli esistevano necessariamente anche tra le comunità cristiane che si erano formate

nelle due città, la capitale e il suo porto e che erano nate nello stesso tempo e congiuntamente. Paolo fu accolto molto bene nella piccola chiesa di Pozzuoli; grazie al centurione Giulio, che era incaricato della sua sorveglianza e che si era molto legato a lui, egli potè accogliere l’invito dei suoi “fratelli” di Pozzuoli e restò fra loro sette giorni. Poi partì per Roma.L’importanza della comunità giudaica di Pozzuoli, donde era nata la primitiva chiesa, si riflette nelle scritture apocalittiche, il Libro di Enoc, l’Apocalisse e i Versi Sibillini. E’ un punto che Renan ha segnalato a ragione. I giudei che, recandosi in Italia, sbarcavano a Pozzuoli, vedevano per primo un paese pieno di sorgenti sulfuree, caverne da dove sfuggivano vapori ardenti antichi crateri di cui uno la Solfatara che veniva chiamata dagli Italiani il “forum Vulcani” dove la leggenda poneva l’ingresso dell’inferno e la dimora dei giganti. Questa strana regione che ha esercitato sempre molta influenza sull’immaginazione popolare e prodotto nei viaggiatori un’ impressione così forte e aveva colpito molto lo spirito dei Giudei di Pozzuoli e di Roma. I miti dei Titani dei Campi Flegrei erano stati adottati da essi; li troviamo trasformati in un passaggio del libro di Enac. In questo libro sono descritti fenomeni tellurici che si adattano a meraviglia ai Campi Flegrei, alla regione di Cuma di Baia e di Pozzuoli. Si parla della montagna dei metalli in fusione che è in Occidente, della vallata del fuoconella quale un continuo movimento (il cratere della solfatara dove la crosta più spessa e ardente del terreno trema sotto i passi), della voragine degli angeli traditori che

bruciano nelle profondità della terra e delle sorgenti termali di acque minerali che servono ai re ed ai potenti della terra per la loro salute, ma il cui flutto un giorno li torturerà, essi, i voluttuosi di questo mondo che vivono nel lusso e nel benessere della carne. Questa descrizione dei luoghi, queste allusioni alla vita dei ricchi Romani non si possono che rapportare a Pozzuoli ed a Baia. Se è così è che i Giudei erano numerosi in questi luoghi e vi costituivano per conseguenza un terreno favorevole alla diffusione rapida e precoce di una chiesa cristiana.Non possiamo aggiungere altro sui primi cristiani di Pozzuoli; mancano altri documenti. San Paolo restò troppo poco nella città perché la sua azione potesse essere molto efficace. Bisogna rilevare che mai nelle lettere scritte a Roma durante la sua prigionia, Paolo fatto allusione ai cristiani di Pozzuoli, i primi che nel territorio di Pozzuoli( castrum Putheolarum un luogo detto “platea ad S. Celsum). Si tratta verosimilmente di una chiesa. Quando si formarono le tradizioni relative a San Celso? Non si saprebbe dirlo. Rileviamo tuttavia che da una parte San Celso passa per essere stato nominato vescovo di Pozzuoli da San Pietro e che, d’altra parte, le leggende relative al passaggio di Pietro nelle città campane erano nate nel IV sec., epoca in cui probabilmente venne redatta la prima parte degli atti di sant’Aspreno. Le tradizioni relative a San Celso potrebbero aver preso copro verso lo stesso tempo. Questi dati non hanno quindi interesse se non per le leggende nate al passaggio degli Apostoli nell’Italia meridionale; è impossibile dedurre alcuna certezza

storica. Tutto quello che ci è permesso di dire è che un tale Celso fu uno dei primi capi della comunità cristiana di Pozzuoli e che, perciò, il suo nome venne legato alle leggende relative a San Pietro allorché esse si formarono. Conosciamo alcuni nomi di vescovi, ma ci rimandano subito al III e al IV sec. dell’era cristiana. MAXIMUS- Un certo Massimo vescovo di Pozzuoli è citato nella vita greca di San Gennaro con Massenzio vescovo di Cuma e Cosma, vescovo di Napoli. Questo dato parrebbe meritare la nostra attenzione. Cosam è in effetti conosciuto per altri documenti essendo vissuto nella stessa epoca cioè nei primi anni del IV sec. Egli non è altro così come l’ha indicato Capasso che il vescovo Sosimo, nominato nella cronaca dei vescovi della chiesa di Napoli da Jean Diacre, come aver retto questa chiesa sotto Costantino all’epoca del papa Milziade e fino all’undicesimo anno di pontificato di Silvestro. Queste indicazioni unite a quelle fornite da altri documenti, secondo i quali Sosimo fu per 14 anni vescovo di Napoli, ci invitano a datare il suo episcopato dagli anni 310-324 (date proposte da M. Capasso). Ora rileveremo che secondo la vita greca di San Gennaro, Cosma dovette essere vescovo di Napoli nel 305, nello stesso tempo che Massimo era a Pozzuoli. Fra i due documenti esiste dunque una differenza di alcuni anni. Bisogna credere che l’autore della vita di San Gennaro ha antidatato l’episcopato di Massimo e che questi non era ancora vescovo nel 305? Bisogna, invece, modificando le date approssimativamente proposte da M. Capasso fare iniziare l’episcopato di

Cosam prima del 310? Questo è impossibile da determinare. Sembrerebbe in ogni caso che i due vescovi siano stati contemporanei e se non si possono precisare le date, si può almeno porre il loro episcopato nei primi anni del IV secolo. FLORENTIUS- Alla fine dello stesso secolo, una lettera degli imperatori Costantino e Graziano al vicario Aquilino ci fa conoscere il vescovo Fiorenzo (verso il 363), il quale era stato cancellato per fatti gravi e che 15 anni dopo la sua espulsione cercò di riconquistare il suo seggio episcopale e seminò scompiglio nella chiesa di Pozzuoli. THEODORUS – Questo vescovo è conosciuto da una iscrizione latina del 435 d.C. IULIUS – Vescovo di Pozzuoli nel 449 sotto il papa Leone I che lo inviò come delegato apostolico al sinodo d’Efeso. CLAUDIUS – Membro del Concilio che si tenne a Roma nel 365 sotto il papa Ilario. ACUPIO – Vescovo di Pozzuoli partecipòad un concilio che si tenne sotto papa Simmaco nel 499. Nei secoli successivi si conosce il vescovo Gemino, ricordato in una lettera di papa Pelagio e Gaudioso che partecipò al sinodo di Costantinopoli nel 680. Bisogna giungere fino al X secolo per ritrovare nomi di vescovi. E’ possibile che Ignazio vescovo d’Antiochia allorché fu condotto da Smirne a Roma sia sbarcato a Pozzuoli e lì vi abbia predicato. Ci sono pervenuti anche nomi di alcuni martiri. Il primo Artema, i cui Atti sono stati pubblicati da Ugelli secondo un manoscritto degli archivi episcopali di Pozzuoli. Questi atti sono l’opera di un certo Pietro che,

su ordine del vescovo di Pozzuoli Stefano, riscrisse ampliandoli e migliorandoli i vecchi Atti di Santa’Artema. Il testo attuale posteriore all’VIII secolo deve essere forse riportato al X secolo. E’ d’altronde privo d’interesse apprendere soltanto il nome del santo, un giovane studioso e colto e che apparteneva ad una buona famiglia di Pozzuoli e i cui genitori erano già cristiani. Gli Atti, silenziosi sul nome del funzionario che presiedette all’interrogatorio di Artema non rivelano l’anno in cui egli patì il martirio. Il martirologio di Geronimo menziona Artema il settimo giorno delle calende di Febbraio. Gli Atti degni di pochissima fiducia dei fratelli Alfio, Filadelfo e Cirino ci fanno sapere che queste tre persone introdotte al Cristianesimo da un certo Ansimo furono con lo stesso Ansimo, uno dei loro parenti, Erasmo, e altri 14 cristiani furono condotti a Roma. Da lì i tre fratelli furono trasferiti in Sicilia dove subirono il martirio. Quanto ad Ansimo ed alfi altri 14, sarebbero stati portati a Pozzuoli, gettati in prigione, interrogati dal governatore della Campania, Diomede e martirizzati. Questi fatti sarebbero accaduti nel 251 d.C. Il martirologio di san Geronimo indica al XIII giorno delle calende di novembre la celebrazione dei martiri Dasio, Zosimo, Gennaro, Dorotea, Sossio, Gennara. Ma il martirologio è per il 20 e il 21 ottobre di una tale confusione tanto per i nomi dei martiri quanto per i dati geografci, che è impossibile ricavarne niente di certo. C’è palesemente una confusione fra i martiri di Nicomedia e quelli puteolani. Victor de Buck negli Acta Sanctorum,

pensa che occorre distinguere i martiri di Nicomedia, Dasio e Zotico, da quelli di Pozzuoli, Dasio e Zosimo. Ma l’esame dei manoscritti del martirologio di san Geronimo rende estremamente dubbia l’esistenza di questi martiri di Pozzuoli.I più celebri martiri di Pozzuoli sono il vescovo di Benevento, san Gennaro, che è divenuto il patrono di Napoli, Procolo, patrono di Pozzuoli ed i loro compagni. Oltre alle notizie fornite dai martirologi, abbiamo atti molto importanti, ed una vita greca di San Gennaro, detta dal monaco Emanuele. Gli Atti sono gli ACTA PUTEOLANA che sembrano che siano stati rifatti all’epoca di Giovanni Diacreed allora arricchiti del prologo e di ornamenti secondo il gusto del tempo; ma i primi Atti potevano essere contemporanei agli ACTA VATICANA. Questi sono più antichi. Ma gli che meritano più credibilità sono gli Atti Bolognesi; sono senza dubbio i più antichi (inizio del v secolo). Quanto alla Vita greca di san Gennaro pubblicata nel sec. XVIII, in un primo momento fu considerata un testo completamente apocrifo. Bisogna però ricredersi. Questa vita che è stata recentemente pubblicata di nuovo in seguito ad un manoscritto di Montecassino, è in realtà un documento importante. Ecco le notizie relative al martirio di san Gennaro e dei suoi compagni che essa ci permette di stabilire con una credibile verosimiglianza storica.Il fatto ebbe luogo nel mese di aprile del 305.Per quanto concerne l’anno non ci sono dubbi. Gli Atti pongono la persecuzione sotto il quinto consolato di Costanzo e di Massimiano, cioè nel

305 e la chiamano la persecuzione di Diocleziano, si tratta qui di quella che seguì il quarto editto di persecuzione, che fu pubblicato nel marzo 304 e che si estese a tutto il mondo romano. Il mese è più difficile da determinare; fu probabilmente il mese di aprile. La data del 19 settembre che si trova riguardo san Gennaro negli Atti, e nel calendario di Marnio napoletano è verosimilmente non quella del martirio ma della traslazione del copro (“dies natalis” giorno della nascita negli Atti, Natale nel calendario parole che hanno semplicemente il significato di giorno di festa consacrato ad un santo, in occasione della traslazione o della scoperta delle sue reliquie o per altri motivi); ancora, il 23 settembre sembra essere quella della traslazione di san Sossio e un giorno di ottobre (fra il 15 e il 20) la data della traslazione di san Procolo. Noi abbiamo al contrario per porre in aprile il martirio di san Gennaro e dei suoi compagni le seguenti indicazioni: 1° i menologi (calendario martirologio della chiesa greca) greci celebrano san Gennaro in due date diverse il 19 settembre ed il 21 aprile; ma il 21 aprile è dato dai Greci come il giorno del martirio. 2° Eusebio dichiara che la persecuzione cessò in Italia nel maggio del 305. Ciò ci spinge a credere alla tradizione greca riportata su tradizione che non contraddice niente di ciò che è contenuto negli Atti e nei martirologi, poiché le date di settembre e di ottobre si riferiscono ad altri eventi e non alla morte dei martiri. 3° Secondo la Vita greca di san Gennaro il giorno del martirio fu il XIII giorno delle calende di ottobre cioè il 19 settembre; ma questa stessa data,

XIII giorno delle calende di ottobre cadono un po’ oltre la data della traslazione a Napoli. In realtà non c’ò contraddizione poiché gli anni non sono gli stessi (martirio: 305; traslazione, secondo la Vita greca: 315), ma verosimilmente un’errata ripetizione dello stesso giorno. Rileviamo che la Vita greca data, come Eusebio ed i menologi, l’imprigionamento di Sossio e dei compagni alle calende di maggio(esattamente il 17aprile).Il nome del magistrato che condannò san Gennaro differisce nei documenti. Negli Atti Vaticani egli si chiama Timoteo, mentre negli Atti bolognesi egli si chiama Draconzio. I cristiani martiri a Pozzuoli furono:Sossio, diacono della chiesa di Miseno.Gennaro vescovo di Benevento, insieme con un diacono e lettore della sua chiesa: Festo e Desiderio.Infine i Puteolani: Procolo, diacono della chiesa di Pozzuoli e i due laici: Eutichete ed Acuzie. Confrontando i diversi Atti e dando la preferenza per quanto riguarda la maggiore credibilità storica agli Atti bolognesi, ecco in breve la narrazione che possiamo fare dei martiri di Pozzuoli. Sossio diacono di Miseno era stato imprigionato a Pozzuoli per ordine del governatore della Campania. Gennaro, vescovo di Benevento, che allora si trovava a Pozzuoli con il suo diacono Festo e il lettore Desiderio, andò, secondo il costume cristiano, a visitarlo in prigione per consolarlo. Per questo egli fu arrestato con i suoi compagni e condannato ad essere esposto alle bestie feroci con essi e con Sossio all’anfiteatro. Giunto il giorno dello spettacolo, i cristiani sono spinti

nell’arena. I giochi cominciano, ma si attende il governatore che deve assistere al supplizio. Quello trattenuto da un impegno, non viene; poiché è troppo tardi perché il supplizio possa avere luogo, la pena è commutata. Gennaro e i suoi compagni, condannati alla decapitazione, hanno la testa mozzata presso la Solfatara e con loro anche tre cittadini puteolani, Procolo, Acuzie ed Eutichete, essi pure cristiani, che si erano interessati alla loro sorte. I corpi dei martiri furono in un primo momento secondo gli Atti, seppelliti presso la Solfatara. Il corpo di san Gennaro in effetti fu sepolto non lontano da lì in un luogo detto Marcianum dove sorge ora il Convento dei Cappuccini. Le spoglie degli altri martiri furono seppellite con quelle di san Gennaro o in altre sepolture? Ed esse erano vicine o lontane alla Solfatara? Non lo sappiamo. Secondo la Vita greca Proco, Acuzie e Eutichete sarebbero stati deposti “nel giardino presso la porta”, Sossio in un altro luogo più lontano dalla città ed i Beneventani Festo e Desiderio nell’”arenaria” (cimitero) di via Campana. In seguito, nel corso del IV secolo, i corpi dei martiri furono portati via dai loro concittadini- i Beneventani quelli di Festo e di Desiderio; i Misenati quelli di Sossio; i Napoletani presero quello di san Gennaro, ed i Puteolani trasportarono quelli di Procolo, di Acuzie e di Eutichete in un luogo chiamato “praetorium Falcidii” questo pretorio che si trovava in un incrocio era attiguo alla basilica di Santo Stefano. Il trasferimento delle spoglie di Procolo e dei due altri santi puteolaniebbe luogo il XV o il XIV giorno delle calende di novembre

giorno nei quali il martirologio geronimiano commemora a Pozzuoli Eutichete e Procolo (16 novembre). Nel martirologio si legge: IN CIMITERIO PUTEOLIS PROCULI, ecc…Sembra che il cimiterium del martirologio debba essere assimilato con il praetorium Falcidii dove secondo gli Atti Procolo, Acuzie ed Eutichete sarebbero stati seppelliti; ora lla fine dell’antichità e durante i primi secoli del medio evo, si chiamava praetorium una villa, una casa di campagna. Il pretorio di Falcidio era dunque la villa di quest’ultimo; e la villa o più probabilmente il suolo dove essa sorgeva era divenuto all’epoca della traslazione di san Procolo (IV secolo), un cimitero cristiano, che comprendeva la basilica di Santo Stefano. Praetorium e basilica erano situati ad un incrocio (in con trivio). Esiste un luogo dove la via Campana, la via Celle (che va verso Cigliano) e la via che nell’antichità costeggiava Pozzuoli a nord si riunivano e costituivano un “contrivium”. Là precisamente sono stati riconosciuti i resti di una basilica cristiana primitiva la cui entrata era volta verso l’Oriente ed il cui pavimento, sussisteva quasi interamente, sostenuto da una volta di un sotterraneo,; due cappelle laterali, a destra ed a sinistra, sporgevano dai lati esterni. Non lontano da lì le tracce di un’altra basilica sono state ugualmente riconosciute. Un mucchio di rovine molto esteso fa credere che c’era nel medesimo luogo un insieme di edifici importanti. Si è voluto vedere il luogo dove sorgeva il pretorio che fu all’inizio del medio evo trasformato in monastero. E’ possibile. In ogni caso, proprio in questo luogo, fra le rovine di

una delle basiliche, è stata trovata l’iscrizione cristiana di C. Nonius Flavianus che prova inequivocabilmente che là c’erano dall’epoca romana delle sepolture cristiane. Il praetorium Falcidii era, nel VI-VII secolo un monastero. Quando fu fondato questo monastero? Non si sa. Tutto ciò che si può dire è che nell’anno 600 esso era deserto e quasi completamente abbandonato dai monaci a causa dello stato di insicurezza del paese. La lettera di papa Gregorio che ci fornisce queste notizie menziona una chiesa attigua al monastero, forse la vecchia basilica di santo Stefano.Le altre chiese di Pozzuoli che conosciamo sono:la chiesa costruita presso la Solfatara in onore di San Gennaro. Non si sa la data della fondazione (forse IV secolo); l’antico tempio di Augusto, divenuta poi la cattedrale consacrata a san Procolo e menzionata per la prima volta nel X secolo. Quando avvenne la trasformazione del tempio pagano in chiesa cristiana? Fu probabilmente quando al momento delle invasioni, la maggior parte della città divenne inabitabile e i Puteolani si rifugiarono sull’acropoli greca, il “castrum” del medio evo. Abbiamo precedentemente visto che nel 600 il pretorio di Falcidio era abbandonato. E’ difficile credere che in queste condizioni i cristiani vi abbiano lasciato i corpi di Procolo, di Acuzie e di Eutichete; essi dovettero trasportarli nel “castrum” e consacrarvi una chiesa al loro patrono Procolo. E’ verso il V-VI secolo che il tempio di Augusto fu consacrato a san Procolo. Si sa infine che il corpo di san

Giuliano, martirizzato a Nicodemia sotto l’imperatore Massimiano fu trasportato in Italia e deposto a Pozzuoli dove un mausoleo fu eretto in suo onore (dopo il 304).Poche iscrizioni, che sipossono qualificare sicuramente cristiane, provengono da Pozzuoli. La più interessante è la seguente:C. Nonius Flavianus plurimis annis orationibus petitus natus vixit anno uno mensibus XI in cuius honorem basilica haec a parentibus adquisita contectaque est : requiescit in paceCaio Nonio Flaviano nato dopo molti anni di preghiere per averlo, visse un anno e undici mesi. In suo onore i genitori hanno acquistato e coperta con tegole questa cappella: riposa in pace. Questa iscrizione è stata ritrovata fra le rovine dell’antica chiesa su descritta che si è creduto possa essere quella del pretorio di Falcidio. I genitori di Nonio acquistarono dunque una “basilica” per seppellirvi il figlio; bisogna dare a questa parola non il significato di una chiesa, ma di una costruzione funeraria, cappella od oratorio, dove i cristiani, nell’interno e suoi muri laterali delle chiese seppellivano i morti. Citiamo ancora la seguente iscrizione:“Dulcissimae adque amatissimae infanti Megatiae..Valentinus ex tribunis cubiculum depositionis”.Alla dolcissima e amatissima bambina Megazia Valentino tribuno.Si chiamava “cubiculum” la camera funeraria, la tomba più propriamente. Non sappiamo dove sorgessero esattamente i cimiteri cristiani dell’hortus e dell’arenaria citate dalla Vita greca di San Gennaro.

Le altre iscrizioni cristiane non presentano alcuna particolarità degna di essere rilevata.

Documenti topografici antichi. Vasi di vetro incisi e affreschi (da pag. 190

a pag.221)Le indicazioni fornite dallo studio delle rovine sono completate da alcuni documenti antichi di un grande interesse: vasi di vetro incisi ed affreschi che offrono vedute dei principali monumenti della città e della costa vicino a Baia. Comincerò il mio studio dal vaso di Odemira che raffigura delle vedute di Pozzuoli.

Vaso d’OdemiraLa riproduzione pubblicata da Jordan nell’A.Z. è, come lo fa rilevare Beloch, inesatta poiché il molo vi è disegnato a sinistra, gli anfiteatri, il teatro e il portico a destra. Quest’ordine è arbitrario infatti il portico e gli anfiteatri si trovano a sinistra e ad ovest del molo. La serie di monumenti nella realtà come sul vaso di Odemira comincia dall’anfiteatro. Gli Anfiteatri. Si vedono prima di tutto due edifici ellittici l’uno sopra l’altro tra i quali si legge AMPITHEAT(RA). Nell’arena dell’anfiteatro inferiore c’è una specie di cintura o di frusta; nell’altra c’è un ramo di fronde. Questo è il simbolo della vittoria nei combattimenti dei gladiatori; la frusta si riferisce all’esibizione delle bestie feroci. Intorno ai due monumenti sono disegnati i pennoni ai quali si legava (per tenderlo ) il velario. L’anfiteatro superiore posa su un basamento che

non esiste sotto l’anfiteatro inferiore. L’incisore ha così indicato che uno degli anfiteatri aveva i sotterranei e che l’altro ne era sprovvisto. Mi sembrava certo che a Pozzuoli ci fossero due anfiteatri. Jordan pretende che la doppia rappresentazione fa semplicemente allusione a due categorie di spettacoli: i giochi dei gladiatori e i combattimenti delle fiere. Ma allora perché disegnare due monumenti? La frusta e il ramo avrebbero potuto essere essere riuniti in uno solo. Del resto a Pozzuoli c’era un gran numero di edifici belli e così che l’incisore non avendo fra essi che l’imbarazzo della scelta, non fosse obbligato di ricorrere all’artificio di rappresentare due volte lo stesso monumento, per riempire il campo del vaso. Se egli ha disegnato due anfiteatri è perché ce n’erano due e che egli volle sottolineare questa particolarità. Roma ne possedeva tre il Colosseo, l’anfiteatro di Nerone e l’anfiteatro “castrenses” . Non sarebbe sorprendente che Pozzuoli ne avesse due. Le rovine di uno solo sono visibili; si ignora l’ubicazione del secondo e le indicazioni topografiche del vaso di Odemira non sono molto precise affinché noi le possiamo determinare. L’incisore ha posto i due anfiteatri accostati l’uno all’altro; è un motivo per pensare che essi fossero vicini nella realtà? Sembra che nella composizione del vaso una mescolanza di verità e di simmetria. Siccome il decoratore ha certamente fatto una scelta, i monumenti potevano essere separati da altri che egli ha omesso. Jordan crede che essi siano rappresentati con una simmetria tutta schematica, più che nella loro posizione reale. Questa

affermazione è esagerata. Vicinanze un po’ forzate non indicano un’inversione o un’alterazione totale dell’ordine topografico. Consideriamo la direzione del molo: il punto di vista è quello di uno spettatore che, trovandosi sulla costa verso la Punta Caruso, avrebbe, come sul vaso, visto alla destra il molo, il portico e il tempio di Serapide che era nell’emporio, non lontano dalla riva. Similmente avrebbe scorto le terme non quelle le cui rovine sorgono presso il Carcere a ovest e a sinistra dell’anfiteatro, ma quelle che si trovano a est ed a destra di questo monumento (Bagno Ortofonico). Dal punto da cui le osserviamo esse occupano sulla carta e sul vaso il medesimo luogo. La disposizione data dall’incisore è dunque conforme all’ordine topografico; tuttavia la necessità dell’esecuzione l’ hanno spinto ad usare degli artifici. Volle, per esempio, segnalare l’importanza speciale di un edificio? Gli fa occupare l’intero campo del vaso: è il caso del molo e del tempio. Pone il teatro sotto le terme? Senza dubbio volle indicare che le treme erano più lontane del teatro dal punto di osservazione dello spettatore; ma il fatto che il teatro è disegnato all’altezza del molo e del tempio, non farebbe concludere che esso si trovasse presso la riva . L’incisore ha potuto metterlo là per non rompere il susseguirsi degli ornamenti che dividono il campo del vaso. Per la stessa ragione non omettiamo di concludere con Beloch che uno degli anfiteatri fosse sulla città bassa. Pertanto dobbiamo concludere che gli anfiteatri sono o non sono stati schematicamente riavvicinati? Solo degli scavi permetterebbero di chiarire

la domanda. Dietro l’anfiteatro attualmente sterrato si vede al bordo della via nuova della solfatara, l’ellissi di un vasto edificio molto rovinato e quasi interamente sepolto, la cui forma circolare è quella di un anfiteatro alte viti lo ricoprono a est, a sud e a nord. La sua posizione corrisponderebbe assai bene a quella del secondo anfiteatro del vaso di Odemira. Qualcuno che, stando alla punta Caruso, guardasse nella direzione della solfatara, avrebbe, sulla stessa linea, i due monumenti in faccia a lui. Tuttavia considerando da vicino la superficie e la disposizione del terreno ad est, dove passa la via Vigna sulle tracce di una via ntica, si sarebbe piuttosto tentati di credere che il muro diritto di una scena di teatro si stendeva da questo lato, dove la curva di un anfiteatro avrebbe forse sconfinato sulla via. Niente nello stato attuale delle rovine ci impedisce di ammettere che abbiamo a che fare con un teatro. IL TEATRO Io farei tuttavia osservare che, secondo antiche descrizioni, le rovine di un monumento (un teatro) esistevano sulla collina tra l’anfiteatro ed il mercato (Tempio di Serapide); questa posizione si riporterebbe maggiormente a quella che occupa il teatro sul vaso di Odemira. Loffredo non parla affatto di resti di un teatro sussistente ai suoi tempi; ma si legge in Gazzella. Si sa dove si trovava il teatro che era un edificio grande e magnifico; nel giardino di Antonio d’Oria, che oggi appartiene a SERONINA Colonna, si vedeva anticamente una costruzione circolare che aveva la forma di un teatro. Oggi ogni segno è sparito. Una parte delle rovine è stata sepolta dalle scosse; il resto è nascosto. Non ho ritrovato

documenti che mi permettono di localizzare il giardino di d’Oria. Di Iorio, citando Gazzella dice che esso era posto dietro il Tempio di Serapide, non so su che cosa egli si basa per stabilire questa localizzazione. In ogni caso, egli afferma che ha potuto riconoscere in questo punto, mediante un grande cumulo di rovine, tracce di un teatro appoggiato alla collina. Le notizie fornite da Scherillo concordano con le sue. Tra l’anfiteatro ed il Tempio di Serapide esisteva, , un teatro che aveva i portici della cavea appoggiati alla collina; fra questi corridoi e la scena ora passa la via Campana. Noi infine sappiamo da Palatino che dietro il Serapeo un portico circolare che avrebbe compreso tre ordini sovrapposti di arcate si appoggiava alla collina. Palatino ha misurato delle arcate larghe più di 4 metri; la costruzione, egli dice, era un misto di mattoni e di opus reticolatum. Queste notizie ci aiutano a ritrovare approssimativamente il sito di un portico circolare che, secondo , somigliava a quello di una cavea di un teatro. Ecco tutto ciò che possiamo dire di questo monumento seguendo antiche descrizioni troppo brevi e molto insufficienti. Se questi vecchi autori hanno visto giusto conviene osservare che il teatro del vaso di Odemira, essendo accostato al tempio di Serapide e alla riva, ha potuto benissimo occupare una posizione analoga a quella dei portici di cui abbiamo parlato. IL TEMPIO DI SERAPIDE. Si è a lungo identificato il Serapeo con il monumento così chiamato dopo che nella metà del XVIII sec. vi si rinvenne la statua del dio che ora è al museo di

Napoli. Ma essendo questo edificio servito ad altra funzione, la collocazione del tempio è di nuovo da cercare. Non v’è alcuna rovina, si può tuttavia arrivare a un’approssimazione grazie alle notizie fornite dal vaso di Odemira. Si vede davanti al tempio disegnatop su questo vaso un dio rappresentato ritto e di faccia che ha nella sinistra un cormo dell’abbondanza (cornucopia) e nella destra una patera con la quale fa una libagione su un altare. Ai suoi fianchi c’è un oggetto sottile ed alto; la sua testa è cinta da una corona di raggi. Jordan vedeva in questa figura la Fortuna; ma quando la si guarda da vicino si rileva che si tratta di una rappresentazione maschile. La veste è drappeggiata come una veste di uomo e il viso è leggermente barbuto. Beloch crede che sia un imperatore divinizzato (Antonino). A rigore potrebbe essere se non l’imperatore stesso, almeno un suo Genius; la statua di Genius di Augusto al museo vaticano è quella di un uomo con il drappeggio che sorregge una cornucopia con la sinistra e una coppa con la destra. Ma, a dispetto di questa analogia, parecchi dettagli ci impediscono d9i mantenere l’ipotesi di un genio imperiale. Il dio che vediamo è un dio solare: Serapis. La sua corona di raggi lo rivela tale. Suoi altri attributi si trovano nelle monete, dove il suo aspetto è lo stesso che sul vaso di Odemira. Si conserva al British Museum una statuetta di Serapis con nella mano sinistra una patera. La cornucopia era uno dei suoi abituali attributi. L’ultimo simbolo infine, il lungo oggetto che si eleva alla sua sinistra è un timone; era un attributo di Iside Fortuna o come dea marina e più

raramente un attributo di Serapis; su una moneta si vede quest’ultimo che sorregge un timone. Il tempio è certamente quello di Serapide dov’era posto ? Il testo della legge per la quale i magistrati puteolani ordinavano di fare dei lavori nelle immediate vicinanze del Tempio di serapide (Lex parieti facendo) essendo stato verosimilmente esposto in questo stesso luogo, il posto dove si è ritrovata l’iscrizione potrebbe chiarircelo. Esso è malauguratamente incerto. La pietra fu scoperta nel 1537 presso la chiesa di San Stefanino di Pontone che oggi non esiste più. M. Wiegand pensa che il soprannome di Pontone non era applicabile che ad una chiesa vicino al molo chiamato dai Puteolani Ponte di Caligola. Senza ricorrere a questo argomento si può stabilire che il tempio era nella città bassa. Si legge nella legge Parieti Facendo che esso dava su una via al di là della quale vi era uno spazio chiuso consacrato vicino alla riva; la legge prescrive fra le condizioni di costruzione che le ante che saranno poste sui due lati della nuova porta dell’area consacrata e recintata, sul muro che costeggia la strada, saranno volte verso il mare. Come rileva Wiegand è difficile pensare che si sarebbe adoperata questa designazione (ad mare versum= verso il mare) se il amre fosse stato separato dall’area da costruzioni importanti. L’area era dunque situata tra una via sulla quale dava il tempio e la costa. Se per conformarci ai dati del vaso di Odemira limitiamo su una carta lo spazio compreso fra l’anfiteatro e il molo, se ci ricordiamo era forse a nord-est del mercato e che le iscrizioni ci fanno sapere che la costa era vicina al

mercato noi saremo portati a porre il tempio di Serapide nelle vicinanze di quest’ultimo monumento presso il porto. Sarebbe così confermato il principio di Vitruvio che dichiara che il Serapeo deve essere sempre costruito nell’emporio. IL SOLARIUM. A destra degli anfiteatri noi vediamo nel campo superiore un portico che sostiene una piattaforma: solarium. Si chiamavano così le terrazze che ricoprivano i portici e le case e che circondavano qualche volta i giardini come oggi le terrazze italiane. Il solarium di Pozzuoli era senza dubbio una passeggiata pubblica avente come sottostruttura alte, simili a facciate, analoghe a quelle che si costruiscono ancora in Italia e dove si accedeva mediante rampe o scale come a Roma, per esempio, è il prospetto del Pincio. LE TERME E I GIANI. Le treme non sono quelle le cui rovine si trovano presso il Bagno Penale (San Francesco), all’ovest, cioè a sinistra dell’anfiteatro ma quelle che si trovano all’est e a destra di questo monumento (Bagno Ortodonico). Quanto all’iscrizione, essa è stata letta in vari modi: M. Beloch propone: THERME TRAIANI; ma è difficile ammettere che la sigla sia un’abbreviazione delle prime quattro lettre della parola Traianum. La lettura di M0ommsen e di M. Mowat (THERME JANI) è preferibile; non è che egli sbaglia a vedere in queste terme bagni consacrati a Giano; Iani non è un genitivo singolare (da Janus n.d.t.) ma un nominativo plurale che significa passaggio, arcata. Alcune vie che conducevano al foro romano avevano i loro “Jani”. C’erano pure a Pozzuoli

dei passaggi simili, per motivi che noi ignoriamo, attiravano l’attenzione del visitatore, poiché essi sono raffigurati nel vaso di Odemira. L’incisore non ha indicato schematicamente che uno dei 4 lati del tetto; ma l’incisore di un secondo vaso ( il vaso di Piombino), è stato più preciso. Su questo vaso la porta Janus (passaggio), oltre al pignone principale, due altri pignoni laterali che sono tratteggiati (abbozzati). E’ un janus (passaggio) quadrifronte che richiama quello che a Roma serviva di porta d’entrata entro il Velabro e il foro boario e che si componeva di grossi piloni che formavano un quadruplo passaggio a volta. LA BANCHINA E IL MOLO (COSTA: PILE). La banchina (costa) è conosciuta da documenti epigrafici del IV secolo d. C. cioè contemporanei al nostro vaso. Il molo schematicamente disegnato, posa su tre archi, nei quali le onde sono rappresentate da lineette spezzate. All’estermità c’è un arco di trionfo sormontato da quattro ippocampi. Secondo De Rossi questo arco sarebbe quelle che fu (lo sappiamo da una iscrizione) elevato ad Antonino dopo che egli aveva fatto riparare il molo. Più avanti, su una piccola torre brucia una fiamma. E’ il faro. I fari erano ordinariamente sull’isola che chiudeva il passaggio del porto, quando essa era disposto come a Porto e Civirtavecchia. A Pozzuoli dove non c’era l’isola di questo tipo, la torre del faro si trovava all’estermità del molo. Sul molo ci sono infine due alte colonne che reggono le statue di due uomini, che reggono entrambi con la sinistra una lancia. Non sarebbero questi i Dioscuri, che sono molto

spesso uniti sui monumenti raffigurati? Monete di Sagalassos, in Pisidia (regno di Nerva) hanno sul rovescio l’effigie di Castore e Polluce (i Dioscuri) in piedi aventi ciascuno un’asta. Su alcune monete d’Attuda, in Frigia, i Disocuri, ritti l’uno a fianco dell’altro, hanno ugualmente un’asta. Poiché essi proteggevano i naviganti, le loro statue sarebbero state molto bene al loro posto sul molo; uno di essi, quello di destra, è in piedi sulla prua di una nave e pare che la guidi felicemente verso il porto. Credo anche di connetterli alle due stelle che sono incise a fianco della statua di sinistra. Non saprei dire se essi hanno qualcosa nella mano destra; sembra tuttavia che quello di sinistra abbia nella mano un oggetto.

Dubois. Il disegno di BelloriUn terzo documento molto importante è una pittura antica oggi perduta e conosciuta solamente per mezzo di una copia di Bollori. De Rossi pensa che essa rappresentasse il porto di Pozzuoli, M. Hulsen i bordi del Tevere da lato del foro boario e dell’Aventino.Il disegno fu eseguito da P.S. Bartoli per l’Iconografia della vecchia Roma di G.P. Bellori, da “antica pittura”. I primi editori vi vedevano la riva tiberina. Per prima Canina vi riconobbe una veduta di Pozzuoli. La sua opinione fu adottata da De Rossi che aveva all’inizio sposato la vecchia opinione. L’originale sparì pressoché subito. Fra le persone che l’avevano vista si trovava Ottavio Falconieri che la descrisse in una lettere spedita da Roma ed indirizzata a Heinsites (19 agosto 1668).

Esiste una serie di disegni ricavati dalla stessa pittura. La tavola

CCIV dei “Monumenti inediti” di Winckelman rappresenta uno degli edifici che vi figurano: il “Balineum Faustines”. M. Hulsen si è chiesto dove Winckelman avesse preso questo disegno e le sue ricerche l’hanno spinto a pensare, a ragione, che l’incisione di W. Riproduceva un disegno della Biblioteca Albani di Roma. La raccolta di W. Data dal 1767. Ora cinque anni prima i disegni del cardinale erano stati venduti a Giorgio III, re d’Inghilterra; un manoscritto conservato oggi nello studio reale della biblioteca del castello di Windsor, contiene precisamente 11 disegni corrispondenti ai differenti edifici della pittura copiata da Batoli con l’unica eccezione del – Bagno di Faustina (Balneum Faustinaes)-, che restò in Italia e di cui si servì Winckelman. Sono stati pubblicati da M. Hulsen nei “Mittheilungen” dell’Istituto tedesco di Roma.

Essi riproducevano, ad una scala più grande tutti i monumenti del disegno Bollori, salvo l’edificio di sinistra che ha l’aspetto di una costruzione a due piani con , in mezzo, un arco e una nicchia per una statua. Non ci sono differenze importanti tra le due serie. M. Hulsen le ha d’altronde tutte segnalate. La pittura antica originale è stata ritrovata nel 1668 sull’Esquilino; ma non si può determinare il posto esatto, né sapere da quale edificio essa proviene.

Descrizione del disegno di BelloriQuesto paesaggio marino si compone di un molo e sette archi sormontati da colonne ed archi di trionfo l’uno in mezzo l’altro all’estremità. Sul primo si vedono quattro Tritoni (o Nereidi) il cui corpo termina in coda di pesce; una divinità sta dietro di essi e li dirige,

redini in mano. Al di sopra del secondo arco quattro ippocampi sono condotti da un dio (Nettuno). Presso i parapetti a sinistra e a destra, ci sono due statue equestri; sulle prime due colonne due statue di uomini nudi in piedi che alzano il braccio destro; sulle altre due delle statue di donne. All’entrata del molo c’è una barriera; la parte inferiore di una torre o di un grosso pilone fiancheggia il molo a destra. Sulla riva gli edifici sono, da destra a sinistra: un tempietto, interamente al bordo del mare con l’incisione “t(emplum) Apollinis” (tempio di Apollo); poi un portico: “ portex Neptuni” (portico di Nettuno”; sopra un grande cortile quadrangolare, cinto da portici: “for(um) olitor(ium)” ; sopra ancora un edificio costituito da tre lunghi corpi di abitazioni, diritti e paralleli separano dai cortili inferiori: “aquae pensiles”. Tutti questi edifici sono a destra del molo. A sinistra in primo piano: “le forum boarium”, cortile quadrato circondato da portici dove si entra di faccia da una grande porta sul lato da un largo passaggio. Al di sopra un edificio, cortile e portici senza iscrizione. Vengono poi in primo piano: un monumento analogo, e, attiguo, un tempio circondato da portici- un edificio quadrato rassomigliante ai fori;-i bagni di Faustina : “bal(eneum) Faustines; infine una lunghissima facciata a due piani (con una nicchia per una statua?). Al secondo piano si distinguono: un grande monumento, composto da numerosi portici e cortili nei quali ci sono due vasche quadrate; una specie di zoccolo con una nicchia ed una statua; poi ingrovigliate un po’ le une nelle altre una serie di edifici che

presentano sempre lo stesso ??????????.Bisogna rimarcare più specialmente quattro alte coperture designate per le terme d’horrea e delle scalinate al bordo delle quali corre un colonnato (un tempio?). Alcuni personaggi animano la scena. A destra del molo c’è un’isola con alberi e un certo numero di edifici.

L’autenticità del disegno di Bollori è garantita non solo dalla lettera di Falconieri, ma dalle iscrizioni stesse, il cui linguaggio molto speciale non avrebbe potuto essere inventato da un falsario: portex per porticus, il genitivo Faustines, forus per forum, tutte forme che richiamano quelle della “Forma Urbis Romae” . Queste particolarità linguistiche ci invitano a datare nel III secolo dopo Cristo l’originale copiato da Bollori: tale è l’opinione molto plausibile di M. Hulsen. La pittura è in ogni caso, a causa della menzione dei bagni di Faustina posteriore al regno di Antonino Pio.

Ipotesi di De Rossi e di BelochSecondo De Rossi Jordan e Beloch essa offre una veduta del porto di Pozzuoli. La presenza di magazzini è naturale in una città commerciale. Il molo richiama anche nei dettagli (ippocampi sull’arco di trionfo, colonne con statue), quella dei vasi in vetro inciso, che non erano ancora conosciuti all’epoca di Bollori. Cicerone parla di un portico di Nettuno che era al mare poiché si vedeva dalla costa opposto di Baia. L’ordine topografico si adatta a Pozzuoli non a Roma; il mercato(foro) delle verdure è a destra del mercato boario; a Roma sarebbe buono l’ordine contrario. Queste denominazioni non ci devono più sorprendere. De Rossi fa

rilevare che i quartieri e gli edifici della città di provincia prendevano spesso i loro nomi da quelli di Roma: ad Ostia c’era un mercato vinario. Rimini aveva i suoi vicoli Aventino, Cermale e Velabro, Benevento le regioni Esquilina, Jordan aggiunge a questi esempi quelli dei Campidogli provinciali. L’esistenza d’un tempio d’Apollo è spiegabile in una vecchia città greca, vicino Cuma. Quando all’isola che non è collegata alla riva da nessun ponte, non può essere l’isola tiberina. Non ci si aspetterebbe è vero di trovare un’isola nel golfo di Pozzuoli; ma non rappresentava essa schematicamente la costa opposta di Baia? Secondo Beloch, ci sono così grandi analogie fra i vasi in vetro incisi ed il disegno di Bollori, che non si può impedire di concludere che essi rappresentano la stessa città “vista dal porto”, e risalente con l’anfiteatro sulla colline, come Napoli oggi. Di là due file sovrapposte di monumenti. Non abbiamo un’altra fonte di uguale importanza per lo studio della topografia di Pozzuoli.

Ipotesi di M. HulsenM. Hulsen rivendica per Roma il disegno di Bollori, che , secondo lui, ci porta sulle rive del Tevere.

Le somiglianze fra questo disegno ed i vasi di vetro si riducono, dice, quasi a niente. Di tutti i nomi che si leggono sul vaso di Odemira, su quello di Piombino e su quello del museo Borgiano, cioè di tre nomi, nemmeno uno si ritrova sul disegno. Tanto che i vasi di vetro hanno almeno in comune qualche dettaglio degli edifici principali; la pittura copiata da Bellori non solo non riproduce alcuno di questi monumenti ma in aggiunta

tanti altri che è difficile credere che essi siano stati tutti vicini al porto di Pozzuoli. La sola somiglianza che si possa dedurre è quella del molo. Ma i moli dei porti, marittimi o fluviali non erano sempre costruiti per lo più allo stesso modo? Le decorazioni (archi, colonne reggenti statue) non sarebbe particolare del porto di Pozzuoli; bisogna dire altrettanto degli ippocampi che sembravano ai sostenitori della teoria di De Rossi uno degli argomenti decisivi. Questo motivo scultoreo era al suo posto in non importa quale porto. L’ordine topografico è invocato contro Roma da De Rossi. Questa obiezione sembra senza valore a M.Hulsen; esso è, dice, del disegno di Bollori, come del vaso del museo, sul quale la riva del golfo di Pozzuoli è rappresentata non come dovrebbe essere, con Pozzuoli a destra e Baia a sinistra, ma nel senso contrario. Un esempio di un analogo rovesciamento è fornito da un medaglione di Antonino Pio, sul quale si vede l’arrivo del serpente sacro ed Esculapio sull’isola Tiberina: le rive del Tevere vi sono invertite. SE, similmente, si inverte l’ordine dei monumenti sul disegno di Bollori tutto diventa chiaro e si rapporta alla riva subaventina. Il tempio di Apollo era vicino al portico d’Ottavio, fuori dalla parte ?????????Poi ci sono i due mercati di verdure e di buoi. Il portico di Nettuno sarebbe un portico che fu costruito nel 149 a.C. e che ricostruito probabilmente più tardi, avrebbe ricevuto il nome di portico di Nettuno. La presenza del molo si spiega, poiché dei navali esistevano vicino alla porta Trigemina; questi navali sono il navale inferiore, conosciuto per un frammento del piano di Roma e così disegnato in

opposizione ai navali situati a monte, presso il Campo di Marte. Le acque pensili sarebbero un serbatoio d’acqua posto sul Campidoglio. Si legge nel ????????? di Costantino: “aquam cementem, quattuo searas sul eadem “???????? 4 pesci sotto di esse ; ora un’iscrizione ci fa apprendere che la fontana ai 4 pesci era al Velabro, sotto il versante sud del Campidoglio. Sopra c’era l’acqua, da cui il nome, trasformato sui testi del decreto, la ricevuta divenne spiegazione. Hulsen non accetta nessuna, nemmeno la congettura di Jordan, che al posto di correnti propose termale. Quando all’isola a sinistra del porto, egli non spiega la sua presenza. “Non voglio decidere se vi è un’inesattezza nella copia di Batoli e i disegni di Windsor e se la riva trasteverina era indicata nell’originale o se la stessa pittura ha arbitrariamente aggiunto questo dettaglio. In ogni caso, se un’isola simile manca aRoma, essa manca pure a Pozzuoli”. L’obiezione che si potrebbe derivare dall’assenza di località vicine, come il Palatino e il Campidoglio, non è sostenibile, poiché non sappiamo se il disegno è stato trovato intero. Al contrario ad Hulsen sembra che esso è incompleto nella parte superiore. I bagni di Faustina infine non sono più a Pozzuoli che a Roma e le “horrea” (i depositi di cereali) si adattano ugualmente alle due città.

Esame dell’ipotesi di M. HulsenQuesta ipotesi si appoggia su argomenti molto ingegnosi, quasi troppo sottili. E’ il caso per questa idea di leggere a ritroso le iscrizioni del disegno di Bollori. Quanto a l’esistenza di un navale inferiore,

presso il mercato boario di Roma, sulla piazza Bocche della Verità, è molto dubbia.

1° Il vaso del museo BorgianoSul vaso del museo Borgiano i monumenti sarebbero disposti nel senso contrario alla direzione reale. E’ veramente così? Gli edifici da sinistra a destra sono: faros, stagnum Neronis, ostriaria, stagnum, silva, Baiae. La direzione, secondo de Rossi, di cui Hulsen accetta su questo punto la teoria, è quella da Pozzuoli a Baia. Il faro è quello del porto Giulio. I due bacini e i due vivai di ostriche si succedono come nel vaso di Piombino, dove appariva anche il Palatium, sarebbero il lago Lucrino, circondato da belle ville, celebre per i suoi vivai di ostriche e al bordo del quale si sarebbe innalzato il palazzo di Nerone, di cui le indicazioni: Palatium et stagnum Neronis. Quanto alla selva, sarebbe la foresta dei laghi Lucrino ed Averno descritta da Virgilio nell’Eneide. Agrippa la fece distruggere quando costruì il Porto Giulio, ma essa non fu senza dubbio abbattuta interamente e il nome sprovviste. Questa spiegazione è strana e complicata. Perché l’incisore avrebbe fatto sfilare i monumenti e le località in senso contrario a quello reale? Poiché è tutto diversamente sui vasi di Piombino e di Odemira, che provano che gli incisori avevano l’abitudine di rappresentare la riviera vista dal mare? L’interpretazione di de Rossi non si giustificherebbe se non con l’ipotesi che lo spettatore, essendo a terra, avrebbe guardato dalla costa del mare; l’analogia con gli altri vasi ci dissuade dall’accettarla. Così M. Beloch ha pensato giustamente che non era necessario di invertire l’ordine

degli edifici. Niente impedisce di considerare la veduta come presa da sinistra a destra. Il faro sarebbe non quello del porto Giulio, ma quello del porto di Baia; i laghi si sarebbero trovati tra il castello di Baia e la punta del Fortino Vecchio; è il solo posto crede M. Beloch, dove potevano essere sistemati dei bacini artificiali, la riva al di là di Punta del Fortino Vecchio, essendo occupata da numerose rovine. Di fronte sul mare egli pone i vivai di ostriche. Quanto alla selva, essa non è l’antica foresta dell’Averno, che dopo lungo tempo non era che un ricordo, ma un celebre bosco di mirti, nel quale c’erano acque termali e che si trovava sopra Baia sulla collina.

Il principio della teoria di Beloch deve essere accettato; invece le localizzazioni che egli propone sono assai dubbie, e le sue obiezioni all’opinione di De Rossi insufficienti. Se si accetta quella, non c’è da stupirsi, fra il Porto Giulio e Baia, l’indicazione di un’opera che era la principale curiosità di questa parte delle cose: la via Erculanea. Manca pure il Lucrino. E’ vero che De Rossi lo confonde con i due stagni, ma ciò è insostenibile. Gli stagni sono nettamente separati; inoltre, nella lingua usuale, i laghi come il Lucrino e l’Averno si chiamavano laghi. Tutti i testi da Cicerone a Servio, lo provano. Si chiamavano stagni non dei laghi naturali, ma dei bacini artificiali. Alessandro Severo ne fece costruire a Baia; ce n’erano a Roma, noi sappiamo, a Campo di Marte, uno stagno di Agrippa, uno stagno compreso nella casa di Nerone; nel luogo dove più tardi fu costruito il Colosseo, Nerone aveva fatto scavare

uno stagno. Sul nostro vaso dunque gli stagni non sono il lago Lucrino.

Sul vaso di Piombino si vede al di sopra dei vivai il palazzo che, secondo De Rossi sarebbe il palazzo di Nerone a causa della vicinanza dello stagno di Nerone. In ogni caso il palazzo sembra essre stato il palazzo imperiale di Baia. E’ a Baia che Caligola fece fabbricare quando ricevette l’ambasciata giudaica di cui Giuseppe ci descrive la venuta; che Claudio vi risiedette a marzo del 46; che Cesare aveva una villa che passò nel territorio imperiale; che vi morì Adriano; che Nerone possedeva i vivai di pesci della zia Domizia. La presenza dello stagno di Nerone o di vivai neroniani si spiega tutto naturalmente se si identifica il palazzo con la residenza imperiale di Baia. Alessandro Severo infine costruì nel demanio imperiale di Baia un palazzo con un bacino che recava il nome di sua madre Ma umica. Egli fece pure eseguire nelo stesso territorio altre magnifiche opere in onore dei suoi genitori, ad esempio i meravigliosi bacini comunicanti con uil mare. Tutti i testi concordano su questi punti : le costruzioni imperiali erano a Baia. O come gli intendevano per Baia e per il suo territorio non solo la parte della riva occupata dall’attuale rada di Baia, ma quella che si estende fino alle stufe di Tritoli, io credo che la localizzazione dei monumenti del vaso Borgiano non deve essere limitato, come lo è da Beloch, alla Baia moderna. I vivai, sono a mio avviso, i banchi di ostriche di Lucrino. Gli imperatori i privati potevano senza dubbio possedere, in diversi punti della costa, dei viva9i di ostriche. Non è meno vero che i vivai di Lucrino, molto

rinomati durante tutto l’Impero, erano una delle curiosità, del paese, Nel IV secolo Ansone ne parlava ancora. Il ricordo persistette fino al medio evo. Dei documenti relativi ai bagni di Tripergole (situati dov’era ora Monte Nuovo) ci insegnano che essi si trovavano presso il lago “che si chiama vivaio”. Esiste una relazione certa fra le “ostriaria” del nostro vaso e il lago Lucrino.

Il palazzo del vaso di Piombino, raffigurato al di sopra dei parchi di ostriche e fra i due bacini, deve esser così posto nelle vicinanze di Lucrino, dal momento che la riva occidentale del lago giungeva fino ai bagni di Tritoli; potrebbe essere una costruzione imperiale posta in questo luogo, per esempio il palazzo e il bacino di Alessandro Severo. Qualcuno che, stando alla punta della Bambinella, avesse guardato nella direzione delle stufe di Tritoli, avrebbe scorto di fronte a lui il palazzo, occupante il posto della Regia Mofeta e al piede della collina i vivai di ostriche (verso l’estremità occidentale del lago Lucrino).

E’ allora naturale pensare con Beloch che il faro è quello del porto di Baia. Il bacino seguente (stagno di Nerone) poteva trovarsi sulla riva, tra il porto di Baia e Lucrino. La baia attuale di Baia non esisteva nell’antichità; essa era occupata da banchi di sabbia che sono spariti e che si prolungavano fino alla punta Epitaffio; è là che doveva essere situato lo stagno, che esso stesso continuava una palude naturale. Poi vengono tra questo bacino e Lucrino: il palazzo, i parchi ostricari, e un più in là un secondo bacino. Quanto alla selva è sia il bosco di mirti di cui parla Celsus sia un boschetto della proprietà

imperiale. Ma si dirà chi viene a fare a fare l’indicazione di Baia in un posto dove non si attende certo più al di là di Lucrino? A mio avviso Baia non ha il valore di un’indicazione topografica; questa parola deve essere letta a parte e al di fuori delle altre iscrizioni; essa è a destra del vaso ma potrebbe essere a sinistra senza che ci sia niente di cambiato nella serie di monumenti. L’incisore ci avverte semplicemente che ci offre una veduta della costa di Baia: faro, bacini, vivai si trovano a Baia. Sia che si ammettano le localizzazione di Beloch, sia che si preferiscono quelle da una proposta non c’è alcuna ragione di invertire l’ordine degli edifici sul vaso Borgiano. Bisogna cercare altrove analogie in favore dell’ipotesi di una inversione dell’immagine del disegno Bollori.

2° Il medaglione di Antonino PioLo domanderemo al medaglio di Antonino Pio? Nel ponte ad archi sito in questo medaglione a sinistra dell’isola tiberina. M. Hulsen vede il navale inferiore contrariamente all’opinione tradizionale secondo la quale esso sarebbe il ponte Emilio. Questo navale sarebbe stato, secondo lui, nella riva sinistra del Tevere all’altezza del foro Boario; sembrerebbe pertanto, secondo il medaglione che esso si trovasse sulla riva destra; ma afferma Hulsen è una licenza presa dall’artista, dando il medaglione come in uno specchio un’immagine inversa della realtà. Sarei più berve sul medaglione di Antonino che sul vaso Borgiano, il problema che lo concerne mi sembrerebbe risolto da M. Petersen la cui opinione, molto plausibile, è stata adottata da M. Besnier. Petersen ha mostrato che

l’inversione dell’immagine non sarebbe ammissibile se essa si applicasse al medaglione intero, e non è proprio il caso; limitato com’è a una sola metà esso è inverosimile. Prima di Petersen, M. Dressel aveva riconosciuto che nel medaglione non c’era alcuna immagine inversa. Le due analogie invocate da M. Hulsen: vaso Borgiano, medaglione di Antonino sono da rigettare.

3° Il navale inferiore ed il molo del disegno di Bellori

Veniamo al terzo argomento: la presenza del molo sul disegno di Bollori si spiegherebbe con l’esistenza del navale inferiore presso il foro boario.

Rileviamo, dice M. Hulsen, sul bronzo di Antonino le alte arcate che si elevano a sinistra dell’isola del Tevere: essendo interrotta nettamente dalle due coste esse non possno essere le arcate d’un ponte esse sono gli archi di un portico, d’un navale, sotto le cui tettoie si riparavano le navi lungo il fiume. Petersen stabilì al contrario che esse non sono quelle di un navale parallelo all’isola tiberina e al fiume ma di un ponte che attraversava obliquamente il Tevere: il ponte Emilio.

Se questo ponte tagliato netto, s’arresta bruscamente, è perché lo spazio era misurato per l’incisore che si accontentò di un disegno schematico.

Il principale argomento derivato dal medaglione di Antonino, essendo rigettato quelli che Hulsen domanda ad alcuni testi letterari perdono la loro forza. E’ prima un testo di Tito Livio in cui Hulsen identifica il tempio rotondo di Ercole con il mercato boario e ne trae una conclusione sulla posizione del

navale inferiore. Ma il testo è inteso male poiché Tito Livio intende per navali altre cose da quelle che si intende normalmente per questa parola. In ogni caso egli avrebbe dovuto in una nota topografica disegnare il navale inferiore. Un passaggio di Procope si applicherebbe secondo Hulat al foro boario non alla posizione del palazzo Farnese, dove si è d’accordo di porre i navali, poiché in quest’ultimo luogo noi siamo all’estermità del Campo di Marte non più nel centro della città (’ V ’ o ). Bisogna rispondere che le parole in centro città si applicano molto bene ai navali del Campo di Marte. Procope scriveva nel Iv secolo d. C., 300 anni dopo la costruzione delle mura aureliane, che racchiudevano i navali. La scritta significa semplicemente: all’interno delle mure aureliane. M. Hülsen pretende infine che Catone l’Uticense, tornando da Cirpo, sarebbe sbarcato nel navale inferiore; ma il testo di Plutarco che egli invoca non conferma il minimo indizio che la parola , impiegata da questo scrittore sia applicabile ad un navale inferiore del foro boario piuttosto che ai navali del Campo di Marte. La parola “inferiore” che si legge dalla conformazione dell’Urbe non prova affatto che vi fosse un navale a monte ed un altro a valle dell’isola Tiberina. Il navale inferiore e un altro che sarebbe stato “superiore” si potevano trovare tutte e due al Campo di Marte, non essere altro che suddivisioni di un solo e di uno stesso arsenale, del quale la Pianta di Roma indicava le due parti, che non erano “inferiori e superiori” per i navigli che risalivano il Tevere. Non si spiega più la presenza di un molo nel tevere

davanti a dei navali, al foro boario. Nessuna rovina, nessun documento letterario, epigrafico ed archeologico lascia supporre la sua presenza. Non sarebbe stata necessaria. Le imbarcazioni dovevano essere protette sulla riva del mare, protette contro le ondate; ma sul Tevere, l’utilità di un molo di dimensioni così considerevoli che quello del disegno Bollori sarebbe stata nulla. I vascelli che non restavano lungo il fiume, si riparavano nei navali, spazio chiuso, scavati nella terraferma e circondati da solide mura, all’interno di fortificazioni urbane; i navali del Campo di Marte protetti dalle mure aureliane, lo stesso è stato per il navale inferiore, al quale Hülsen attribuisce, all’interno delle fortificazioni di Roma un certo sito al piede dell’Aventino. Perché allora un molo qui in questo luogo dopo i ponti del Tevere, non sarebbe servito che a causare un ingombro? Se il disegno del Bollori è una veduta di Roma non è spiegabile che il quadro abbia rappresentato, con delle proporzioni così colossali e non confacenti che ad un lungo molo marittimo, un molo sul quale non c’è alcun documento, dal momento che egli non ha disegnato alcuno dei numerosi ponti che si trovano davanti al mercato della verdura ed al mercato bovino: ponti Fobricio, Emilio e Sulpicio.

L’esistenza di un molo, soprattutto di un molo ad archi, non sembrerebbe dunque legato necessariamente a dei navali. E’ vero che talora si costruiva sulla riva dei fiumi piccoli moli ma molto differenti da quello del disegno di Bellori. Ne abbiamo un esempio nello stadio dei marmi a circa 160 metri dai ponti Elio

si protende un piccolo molo, dove verosimilmente, si sbarcavano i marmi. E’ una sorta di banchina di sbarco, che oltrepassa la riva di circa 25 metri e largo 14 metri. Basta guardare la figura 21 della topografia di Richter per rendersi conto di cosa fosse un molo fluviale. Niente che somigli, neppure lontanamente al molo del disegno di Bollori.

Il disegno di Bellori rappresenta il porto di Pozzuoli

Non si comprende l’essenza del teatro di Marcello sito fra il fiume e il tempio di Apollo. Ho già segnalato l’assenza dei ponti. Io aggiungerei quella dell’isola Tiberina. Nessun tratto richiama la riva del Tevere. L’ipotesi che il portico dietro sarebbe stato nella parte attigua chiamata portico di Nettuno non si appoggia su niente; a Pozzuoli, al contrario, si conosce l’origine certa di questo portico di Nettuno. La congettura “aqua pendens” per “aqua cernens” non è preferibile a quella di Jordan “aqua “. D’altronde la Nota Costantiniana riporta: aqua; questo singolare può riferirsi all’acqua di un acquedotto o di un bacino. Il disegno di Bollori ha il plurale: acque, impiegato spesso per designare un’acqua medicinale. Piuttosto che non riserva dell’acquedotto, le acque pensili non esse uno stabilimento balneare? Niente sarebbe più naturale in una città come Pozzuoli. Roma è esclusa. Abbiamo certamente a che fare con un paesaggio marittimo. Mettiamo da parte i porti di Anzio, di Civitavecchia, del porto di Terracina, che avevano o dei moli curvi

(Terracina) o due moli semicircolari che si dirigevano l’uno verso l’altro e formavano una rada. Non si conoscono in tutta Italia che due porti aventi un molo semplice ad archi: Ancona e Pozzuoli. Non si può pensare ad Ancona a causa dell’assenza dell’arco di trionfo innalzato da Traiano che l’incisore avrebbe certamente disegnato. D’altra parte la configurazione della riva si adatta al litorale di Pozzuoli, non a quello di Ancona.

Fatte queste eliminazioni, la vecchia teoria di De Rossi e di Jordan prende tutto il suo vigore. Nessuna delle tredici iscrizioni dei vasi vi riapparirebbe, questo è vero, sul disegno. Ma bisogna mettere da parte il vaso di Piombino. Quanto al vaso di Odemira non offre che una scelta degli edifici di Pozzuoli. L’auotre delle incisioni sembra la contrario aver rappresentato nella sua totalità il quartiere della città vicino al mare, il porto. E’ allora evidente che gli anfiteatri, il solarium, le terme, il teatro dovessero mancare. Ma noi ritroviamo il molo, come lo ritiene M. Studnizka, il tempio di Serapide (dietro il gruppo delle quattro Nereidi). Secondo Jordan e De Rossi, i nomi di mercati (delle verdure e dei bovini), erano stati improntati alla capitale. Niente di più giusto. Molti altri nomi dei quartieri e di vie richiamavano quelli di Roma: la reggia Palatina il Palatino, il pendio dei vetrai la via omonima della prima regione di Roma il vico Taurario (dell’incenso) al vico turario dell’ottavo quartiere di Roma. C’era a Pozzuoli, come a Roma, un foro di passaggio ed una porta trionfale. Tutto il paese era ricoperto di monumenti,

privati o pubblici, che portavano gli stessi nomi di quelli di Roma. Gli stessi portici ci forniscono un punto di paragone; si aveva l’abitudine di costruire tutte le nuove colonie. Nel 174 un censore prescrisse di costruirne tre sul foro di una colonia che veniva fondata. Per tutte queste caratteristiche Pozzuoli giustifica a meraviglia il motto di Aulo Gallio a sapere che le colonie passavano per essere le immagini di Roma. Quanto a l’isola così enigmatica essa non è il disegno schematico della costa opposta di Baia. Essa esisteva infatti nella rada di Pozzuoli. Davanti Dicearchia di Tirrenia, scritta Pausania. C’è nel mare una sirgente d’acqua calda. I Puteolani hanno costruito un’isola artificiale affinché essa non restasse inutilizzata e per avere dei bagni caldi. Quest’isola scomparve presto; Pietro da Eboli, nel 13° secolo la ignora. Essa era situata ad ovest del molo ed è quella che noi vediamo sul disegno di Bollori. Essa contiene un certo numero di edifici molto confusamente rappresentati. Ciò che mi pare più degno di rilevare è il lungo portico che la racchiude e il piccolo molo che protegge una rada o potevano ripararsi le barche che trasportavano i bagnanti nell’isola.

L’architettura degli edificiI ragguagli che ci fornisce il disegno di Bollori sull’architettura degli edifici si riducono a poche cose. Senza parlare delle inesattezze possibili da parte del copista, non dimentichiamo che gli artisti romani si permettevano le più grandi libertà nelle rappresentazioni architettoniche: essi non miravano alla fedeltà. Tuttavia noi dobbiamo, dopo Winckelmann ed Hülsen, rilevare certi dettagli interessanti: per esempio il

modo come sono rappresentati gli spazi fra le colonne dei portici chiusi da vetrate. Hülsen pensa che gli “ horrea” (magazzini) non sono magazzini di merci, ma magazzini di tutt’altra specie, dove erano depositati dagli abitanti i loro oggetti di pregio. E’ un dettaglio sul quale è impossibile pronunziarsi. In ogni caso la disposizione degli “horrea” del disegno di Bollori richiama moltissimo quelli dei magazzini di Gobba, quelli di Lolliana e Roma o anche i granai dell’annona di Licia.

IV Pittura antica di GragnanoUniamo a questi diversi documenti una pittura antica che proviene da Gragnano e che non è stata ancora segnalata come raffigurante il porto di Pozzuoli. Essa offre, a mio avviso, una veduta generale di tutto il golfo, con il Porto Giulio, Baia e Misero. A destra in primo piano un molo poggiato su piloni o su archi avanza sul mare. Esso è sormontato da un arco di trionfo sul quale ci sono Tritoni che suonano trombe e alte colonne sormontate da statue; noi conosciamo già questi motivi ornamentali. Dietro il molo, sulla costa che si avanza in forma di promontorio, corrispondente molto esattamente alla configurazione del litorale, si scorge un insieme confuso, ma considerevole, di monumenti: portici, templi, santuari; uno di essi ha una forma circolare che lo fa somigliare ad un anfiteatro e il posto che esso occupa non sarebbe lontano dal luogo reale dell’anfiteatro puteolano. La costa, dopo avere disegnato una rada semicircolare la cui disposizione e la direzione richiamano completamente quelle del porto di Pozzuoli, piega a sinistra, cioè verso

ovest, e orlata da numerosi edifici (colonnati con statue, tempio, cortili quadrati contornati da portici). Nel porto ci sono dei navigli. Non ritarda ad arrivare così ad un molo che si protende lontano nei flutti e al cui ingresso si eleva un arco di trionfo; questo molo occupa il luogo dove sorgeva il Portus Jiulius. Poco appresso la costa rientra a sinistra in primo piano, orlata da un’alta diga che potrebbe essere la via Erculanea; poi, seguendo la direzione ed il tracciato della costa di Baia e di Bacoli, essa termina con un promontorio (capo Misero). Non ho alcun dubbio che questo disegno ci offre una veduta del golfo di Pozzuoli.

Vaso di PiombinoIl vaso di Piombino ci fornisce la prova che gli incisori su vetro riunivano talora in uno stesso vaso edifici lontani gli uni dagli altri, e ravvicinati in u8n modo convenzionale (molo di Pozzuoli, costa di Baia).

Ma se si prende a parte ciascuna rappresentazione si constata che l’ordine topografico non è alterato: si vedono a sinistra lo “stagnum” il “palatium” e le “ostriaria”. Queste denominazioni richiamano tutte Baia: nel vaso del museo Borgiano essi riappaiono nello stesso ordine. E’ dunque impossibile pensare con Beloch che il palatium si trovava a Pozzuoli tra l’Annunziata e le rovine del circo. Questo “palatium” sarebbe stato secondo De Rossi, un palazzo imperiale da cui uno dei quartieri della città, la regio palatina, avrebbe preso il suo nome. Io credo piuttosto che essa era come gli altri quartieri di Pozzuoli,

nominati ad imitazione del Palatino romano. Ammettendo pure che ci fosse stato a Pozzuoli un palazzo imperiale, non potrebbe essere quello del vaso di Piombino, a causa della sua vicinanza delle “ostriaria” e dello “stagnum” che erano a Baia. Il molo appartiene a Pozzuoli. Sui vasi di Odemira e del museo Borgiano, dove c’è continuità topografica, tutti i monumenti sono collegati gli uni agli altri; al contrario del vaso di Piombino, l’incisore ha isolati il molo dal gruppo dei monumenti di sinistra. Così sarei meno dubbioso di De Rossi che scrisse: questo molo ad archi potrebbe essere, così come quello di Pozzuoli, quello del Porto Giulio, che ha un rapporto molto più stretto con gli altri edifici disegnati sui vasi”. Il JANUS l’arco di trionfo con gli ippocampi, l’iscrizione (RIPA) ci rimandano a Pozzuoli.

Due dettagli pure differiscono da quelli del vaso di Odemira; le colonne, che portano non statue, ma grandi uccelli e il molo che non ha il faro e termina a forma di prua.

Capitolo IITopografia generale del territorio e

della città.I

Estensione del territorio di PozzuoliIl territorio di Pozzuoli non

superava i 150 ettari sotto la Repubblica; quello di Capua lo limitava strettamente. Questo stato di cose risaliva al tempo anteriore all’occupazione romana, quando Capua, a causa del grande potere politico, estendeva il suo dominio quasi fino al mare.

L’istituzione dei confini tra Capua, Cuma e Pozzuoli fu senza dubbio definitivamente regolato dai romani dal momento della prima colonizzazione. Per due ragioni Roma lasciò all’”ager” campano una considerevole estensione e ridusse il territorio di Pozzuoli ad una sottile fascia costiera: in primo luogo, la vita dei Puteolani era volta verso l’esterno; la popolazione di Dicearchia era soprattutto, come quella di Cuma, una popolazione di naviganti; i coloni inviati nel 194 rivolsero la loro attività verso il commercio e la marina. Si capisce che in queste condizioni i Romani non abbiano tolto a Capua che era un centro agricolo il territorio fertile che essa possedeva fino a Quarto, al Gauro ed agli Astroni e che formò “l’ager campanus”, dichiarato dominio pubblico. Questa costituzione del territorio campano come demanio pubblico sembra essere stata la seconda ragione per la quale non fu diminuito in favore di Pozzuoli: dal punto di vista finanziario sarebbe stata una perdita per lo stato romano. Invece di ingrandirsi il territorio di Pozzuoli prima di Vespasiano, a spese di quello di Capua, fu quello di Capua ad ingrandirsi se non a spese di Pozzuoli a quelle di Napoli poiché Augusto, togliendo le colline Lucogea a Napoli, le donò a Capua quando si stabilì una colonia.Limiti della Costa di CumaLa denominazione di “Cuamanum” data alla villa di Cicerone, posta sui bordi del Lucrino, dove si è formato il Monte Nuovo prova che il territorio cumano giungeva almeno fin là. Nessun documento ci permette d’altra parte di fissare con certezza i limiti dei

due territori. Tutto ciò che si può capire è una costante espansione negli aultimi anni della Repubblica e sotto l’Impero della città di Pozzuoli verso l’ovest. Poco a poco la costa si coprì di abitazioni fino a Lucrino in modo che l’antico “Cumanum” di Cicerone fu considerato parte del territorio puteolano: l’autore della vita di Adriano scrive che questo imperatore fu seppellito nella villa di Cicerone a Pozzuoli (“in villa Ciceroniana Puteolis”). Questa espansione fu un fatto compiuto nel primo secolo dell’Impero. “Baia dice Giuseppe Flavio, è una città della Campania posta a circa 5 stadi da Dicearchia”. Ora Baia si estendeva fino alle stufe di Tritoli, dove cominciava la riva occidentale di Lucrino come lo apprendiamo da Strabone:- Il lago Lucrino va fino a Baia, separato dal mare da un argine di otto stadi di lunghezza (via herculanea). Le rovine sulla riva e le osservazioni geologiche fanno pensare che l’antico Lucrino andava dalle stufe di Tritoli alla punta Caruso. La riva orientale del Lucrino andava dalla punta Caruso e, risalendo a nord, attraversava quasi nel mezzo l’area occupata ora dal cratere di Montenuovo; è verso questo luogo che era situata la villa Ciceroniana e che i territori di Pozzuoli e di Cuma erano limitrofi; in ogni caso è fin là che sotto l’impero si estendeva la periferia di Pozzuoli.

La distanza da Pozzuoli a Baia non è affatto la stessa in Flavio Giuseppe e in Strabone: secondo Strabone la lunghezza della via Herculanea era di 8 stadi; secondo Giuseppe Flavio la distanza fra le due località era solo di 5 stadi. A nostro

parere ha ragione Strabone i cui dati sono confermati dagli studi archeologici e geologici più recenti.

E’ dunque molto probabile che i territori di Pozzuoli e di Cuma si toccavano ad est e vicino alla costa orientale del lago fin dove la periferia di Pozzuoli si estendeva sotto l’Impero.

Limiti dal lato di Capua e di NapoliIl monte Gauro ai cui piedi si estendeva il territorio puteolano, apparteneva a Capua: la dea Gaura era la dea del “pagus” capuano: si sa inoltre che, dopo la colonizzazione di M. Bruto nell’83, l’ager Campanus era ridiventato, nell’82, proprietà dello Stato romano. Noi dunque rappresenteremo i confini di Capua seguendo i territori di Capua seguendo un tracciato che, inglobando il monte Gauro, giungeva ai confini dei territori di Cuma e di Pozzuoli al nord di Montenuovo e che contornando il pendio meridionale del Gauro e passando a sud di monte Cigliano, si dirigeva verso gli astroni e la Solfatara. Ciò che mi fa credere che Cigliano e gli Astroni facevano parte del territorio di Capua, è che essi sono posti sulla stessa linea dei monti Gauro e Leucogei che ne facevano ugualmente parte. Il prolungamento di queste colline costituiva un limite naturale. I territorio di Napoli, di Capua e di Pozzuoli si toccavano nei monti Leucogei (parte orientale della solfatara) (Plinio). Il cratere della Solfatara, che si apre dal lato di Pozzuoli, gli apparteneva senza dubbio. Si vede, tuttavia, anche qui, che il territorio di Pozzuoli veniva ridotto, poiché quello di Napoli si ampliava quasi fino alla Solfatara. Come è da

supporre doveva pure, dal lato del mare, giungere nelle vicinanze di Pozzuoli forse fino al monte Olibano il cui fianco, cadendo a picco, sulla costa, forma un’interruzione naturale. Il territorio comprende un’estensione costiera di circa 7 chilometri; a nord esso si estende dal Gauro alle colline Leucogee per una lunghezza di 5 chilometri; la larghezza maggiore è di 2 chilometri. È poco; pertanto non c’è da stupirsi se a un certo momento si è ritenuto necessario dare a Pozzuoli un territorio nell’entroterra corrispondente alla sua reale importanza.

Ampliamento del territorio di Pozzuoli sotto l’impero.L’ampliamento del territorio puteolano si può spiegare con il fatto che Vespasiano vi stabilì una colonia. La colonizzazione di Nerone fu del tutto fittizia; e nemmeno soptto Augusto si ebbe una reale colonizzazione; in effetti egli avrebbe dovuto ampliare un territorio già quasi interamente coperto dalla città per donare dei lotti ai nuovi coloni. Non sembra che un tale ampliamento sia stato fatto allora, poiché, sotto Augusto i colli Leucogei appartenevano ancora a Napoli ed a Capua. Comunque da un certo numero di documenti risulta che la parte meridionale dell’ager Campanus sotto l’Impero fu assegnata al territorio puteolano. La modifica operata fu considerevole, non si donarono a Pozzuoli solo le colline che la contornavano e la vicina Piana di Quarto, separata essa stessa dalla pianura campana da un cerchio di alture; si passò questo limite e si arrivò fino ad Aversa.

Presso questa località esisteva un borgo o azienda agricola, il vicus Spurianus, conosciuto per un’iscrizione dalla quale risulta che esso era situato sul territorio di Pozzuoli. Non si può dire quanto oltre la campagna appartenesse a Pozzuoli. Dal lato di Napoli e di Atella il confine seguiva l’antica linea del territorio capuano, che inglobava i monti Leucogei e gli Astroni e si dirigeva verso Aversa. Le iscrizioni di Marano provano che questa località dipendeva da Pozzuoli (pietra funeraria di Nevio Vitulus decurione di Pozzuoli, che suo padre, Augustale nella stessa città, ha fatto incidere; iscrizione di Arrìus Crysanthus ugualmente Augustale a Pozzuoli, che proviene da Pianura). Il ricordo dell’antica grandezza politica di capua, che aveva un tempo esteso il suo potere fino al mare, era dunque cancellato (sbiadito). La regione data a Pozzuoli, una delle più fertili dell’Italia del sud, era essenzialmente agricola; allora, come oggi, essa era coperta di villaggi e di fattorie. Presso Aversa, un dominio, il vicus Spurianus, apparteneva alla famiglia dei Plantii. La città di Aversa non fu fondata che nel 1030; ma il luogo era abitato dall’antichità. Sembra che molte località del medioevo siano succedute a villaggi e a poderi romani; il vicus Iulianus (oggi Giugliano in Campania), il vicus Peponis, il vicus Parete (oggi Parete) dove c’erano antichi granai. Altre località, conosciute dai secoli X e XI e disposte lungo la via Campana, occupano l’insediamento di mansioni (come Calaianum – Qualiano), Luxanum (Lusciano), Ducenta. La mansione “ad Septinum” lungo la via

Campana è ricordata da Leon d’Ostia e nella “Vita di San Gennaro”. La regione dove erano queste località ricevette senza lacun dubbio il più forte contingente dalla colonia di Vespasiano: era una regione piatta ammirevolmente idonea ad essere ripartita in lotti. Geograficamente essa non si ricollega a Pozzuoli: la necessità di punire Capua e di poter assegnare ai suoi legionari le terre spinse Vespasiano a darle a Pozzuoli. Al contrario era per lui opportuno unire a questa ultima città la piana di Quarto e la Pianura Campana, paesi interni confinanti coperti di proprietà di piacere e di cimiteri (le tombe lungo la via Campana si estendono senza interruzione fino a Quarto).Alla quarta pietra miliare della via Campana (ad Quartum) c’era un vicus (borgo); delle rovine si sono conservate. Ai piedi della montagna spaccata esisteva un tempietto antico; dei luoghi, colombari e depositi per grano.Furono modificati i confini verso Cuma sotto l’Impero? Non sembra. È vero che Spartien afferma che Adriano fu interrato nella villa di Cicerone a Pozzuoli “villa Ciceroniana Puteolis” . Ma, come abbiamo visto, la serie ininterrotta di ville e di mansioni di Pozzuoli arrivava più là, sotto l’Impero. Così si poteva, forse in un modo inesatto ma naturale, considerare la villa di Cicerone come ubicata a Pozzuoli. Interpretiamo pure un testo di Ateneo relativo al lato verso Bagnoli. Questo scrittore dice: - vedemmo molti (in greco nel testo ad indicare “una specie di coniglio” ndr) quando ci recammo per mare da Dicearchia a Napoli. In

effetti non lontano dalla costa, verso l’estremità di Dicearchia, c’è un’isola che ha pochi abitanti, ma che ospita un grande numero di questi animali. La sola isola che Ateneo possa qui designare è Nisida e la costa in questione è quella di Bagnoli. Ora il territorio di Napoli doveva comprendere Bagnoli perché dal lato di Pozzuoli si estendeva fino ai colli Leucogei. Fu fatta una variazione sotto l’Impero? Oppure finchè Napoli possedette le terre dell’interno fino ai colli Leucogei, Pozzuoli ebbe il litorale fino a Nisida? Si può credere che Ateneo, proprio come Spartien, non tiene conto dei limiti amministrativi. Infatti egli considerava il litorale fino a Nisida come facente parte di Pozzuoli. Geograficamente parlando, egli aveva ragione.

IITopografia della città

Epoca preromanaAll’epoca greca e sannita e nei primi tempi dell’occupazione romana, Dicearchia era rinchiusa sulla stretta collina del Castello, che offriva un rifugio naturale sicuro. Dal lato del mare la collina si elevava in un ripido pendio che a causa del lavorio del mare e dell’intervento dell’uomo è divenuto ancora più scosceso. Una volta si poteva percorrerla all’asciutto oggi si può farlo solo con una barca.L’accesso ad est era più facile; è da questo lato che essa aveva bisogno di una maggiore protezione, ma di là doveva comunicare con l’esterno. Le due altezze sono ora riunite da un ponte sotto il quale passa la via per Napoli; per motivi di sicurezza gli antichi si accontentavano di un ponte levatoio.

All’inizio del ponte c’era l’unica porta che rimase la sola durante tutto il medio evo. Attualmente le comunicazioni fra il Castello ed il porto sono direttamente assicurate da una scala tortuosa e pittoresca che scendendo verso il centro permette di raggiungere la città bassa provenendo dalla cattedrale, senza essere obbligati a fare il giro per il ponte. Essa passa sotto una porta, Porta Nuova, costruita in epoca moderna e così chiamata in contrapposizione alla unica porta dell’antico Castello. Non si vede più niente delle fortificazioni che protessero la città contro Annibale. I dati che ho raccolto a tale proposito sono pochi. Quando si costruì il tunnel del tram, furono notate delle parti di mura, pietre vulcaniche poligonali disposte in file orizzontali lunghe da m 0,60 a 0,70 e spesse 1 metro. A causa della loro disposizione sul giro della collina del Castello, si suppose che esse avessero fatto parte delle fortificazioni antiche. In realtà esse non risalgono all’epoca greca. Le mura di cinta greche erano fatte di massi cubici più voluminosi (a Cuma, per esempio, le pietre delle mura erano lunghe 2 metri; a Napoli esse variavano fra i 2 e i 3 metri). Le pietre trovate a Pozzuoli, appartengono quindi probabilmente all’epoca romana.Le vie della vecchia città erano disposte più o meno come quelle dell’attuale Rione Castello (Rione Terra), il solo che, dopo 25 secoli è stato abitato senza interruzione. Diritte e parallele, dirette le une da nord a sud le altre da est a ovest, esse si incrociavano ad angolo retto. Come negli antichi quartieri di Napoli, noi abbiamo qui, ma su una scala ridotta,

un esempio interessante dell’allineamento di strade in una città greca. La via principale (via Duomo) segue il tracciato del decumano massimo che andava con un percorso rettilineo dalla parte della città all’estremità del promontorio e passava davanti al tempio di Augusto. Questo tempio era orientato come i cardini che esistono ancora oggi nella via trasversale dell’estremità della città (via Santijanni) e appaiono ancora qua e là in alcuni tronconi di strade.La città romana- la prima colonizzazioneDopo il Castello (Rione Terra), il quartiere più antico di Pozzuoli è certamente quello del porto, perché sembra che Dicearchia abbia giocato un ruolo nela vita marittima dei Cumani e degli Osci. Anche perché Tito Livio conosce l’emporio dal 215, prima della fondazione della prima colonia. Il pianoro che si estende fino alla Solfatara e al monte Cigliano allora non era abitato, ma presentava uno spazio del tutto appropriato per la ripartizione in lotti ed esso senza dubbio ricevette la colonia dal 194 a.C. Gli agrimensori divisero il suolo seguendo lo schema regolare che essi erano soliti disegnare al tempo dell’assegnazione delle terre ai coloni; più tardi questo schema si conservò parzialmente nella rete di strade della città. Il decumano massimo andava in linea retta dal sud al nord e gli altri decumani avevano una direzione parallela. Questa disposizione si osserva nel parallelismo della via Vecchia Solfatara nella parte superiore della via Vigna e della via Celle. Le costruzioni della Repubblica e dell’Impero, durante parecchi secoli,

modificarono in parte il tracciato primitivo, ma l’essenziale sussiste. Così tra via Vigna e via Vecchia Solfatara c’è una distanza di 330 m; 330 m separano ugualmente l’incrocio di Santo Stefano e l’incrocio dell’Annunziata; è il doppio di questa distanza (60 e 700 m) che si ritrova fra la via delle tombe che costeggia la città a nord e la strada antica che comincia davanti la chiesa della Madonna del Carmine. Queste equidistanze lasciano intravedere qualcosa del vecchio ordine, secondo il quale le strade furono tracciate sul territorio della città al tempo della prima colonizzazione. I decumani erano tagliati ad angolo retto dai cardini paralleli, di cui due sussistono: la grande via delle tombe a nord della città e la porzione di via che comincia dalla chiesa del Carmine.Per determinare l’estensione della città, il criterio principale sarebbe quello di seguire le mura di cinta ma esse mancano. Pozzuoli era, come lo fu lungamente Roma, una città aperta, nessuna traccia di mura oltre quelle della città greco-osca, è stata ritrovata. In compenso, la dislocazione delle tombe ci darà delle indicazioni utili. Ad ovest, un po’ oltre le rovine del circo (30-40 m circa) cominciano le tombe della via Domiziana. Esse segnano, lungo questa strada, il limite dell’agglomerato urbano, limite ugualmente confermato dalla Tavola di Pentinger e dell’Itinerario di Antonino che indicano come distanza fra Cuma e Pozzuoli 3 miglia e da Pozzuoli a Napoli 10 miglia: distanza esatta se la si calcola da Pozzuoli ad ovest del Circo.

Dal punto dove la Domiziana si diparte da Cuma, seguendo la moderna strada che costeggia il lago di Licola, fino al circo di Pozzuoli, io calcolo in effetti 4 km e mezzo, cioè quasi 3 miglia. A nord una lunga serie di tombe, cominciando all’incrocio di via Celle e via Campana (incrocio di Santo Stefano) e prolungandosi fino alla Solfatara ed al monastero di San Gennaro, circondava completamente la città e la racchiudeva. Questa via è situata all’estremità del pianoro; immediatamente oltre si elevano le colline che costituiscono il Ciglio, Cigliano e gli Astroni; il rilievo del terreno non si adattava allo sviluppo della città. Possiamo essere certi che là si arrestava l’agglomerato urbano. Da questa grande via di tombe si diramano verso sud altre vie ai cui bordi ci sono altre tombe. Via Celle giungeva con le sue tombe fino all?Annunziata; le tombe di via Vigna arrivavano fino ad un monumento che forse fu un teatro. Dietro questo edificio, sul bordo di via Vigna esiste un colombario; qualche anno fa sul lato nord sono state ritrovate rovine di altri colombari. Anche nella parte alta di via Vecchia Solfatara (che corrisponde ad un antico cammino) sono stati ritrovati dei colombari e presso il Bagno Ortofonico sono stati ritrovati i resti di una tomba di basa epoca.Se oltre le tombe, noi interroghiamo le rovine, constateremo che tutto il piano, tra l’anfiteatro, la via Campana, via Vigna e via Celle era abitato. Egualmente la superficie compresa tra l’incrocio di Santo Stefano, la via Domiziana ed il moderno cimitero era coperta di costruzioni; le rovine che sorgono a nord della Domiziana fino

ametà altezza fra la via e il cimitero, l’attestano. Tenendo conto di questi 3 fattori: posizione delle tombe, rovine di abitazioni, disposizione del suolo, possiamo delimitare la superficie minima di Pozzuoli.La superficie delimitata dalla posizione delle rovine e delle strade sopra descritte riguarda una superficie di circa 140 ettari (1.400.000 mq, ndr). Naturalmente questa cifra è approssimativa, come pure quella della popolazione che possiamo supporre. Per valutare quest’ultima, faremo delle comparazioni con una città camapana, Pompei, che secondo i calcoli di Nissen, misurava 64 ettari ( 640.000 mq, ndr) e al momento dell’eruzione del Vesuvio poteva contare 20.000 (ventimila) abitanti. Ammettendo che un rapporto analogo esistesse a Pozzuoli, fra l’estensione della città e la cifra della popolazione (309 abitanti per ha), doveva avere dai 40.000 ai 42.000 abitanti. Ma bisogna considerare che in una città industriale e commerciale la densità della popolazione era necessariamente più elevata.Pertanto conviene argomentarla.Si è calcolato che la popolazione di Alessandria, di Tiro, era di circa 533 abitanti per ettaro, che quella di Roma era sensibilmente la stessa. Sembra un’esagerazione applicare questa proporzione a Pozzuoli; tranne Roma nessuna città italiana si avvicinava né per il numero, né per la densità della popolazione alle grandi città elleniche d’Oriente. La popolazione di Capua che alla fine della Repubblica e nel primo secolo dell’Impero fu la città più grande e più popolata d’Italia dopo

Roma, avrebbe contato, secondo M. Beloch circa 80.000 abitanti su una superficie di 181 ettari ( 1.810.000 mq, ndr), cioè 441 abitanti per ettaro. Adottando le stesse proporzioni per Pozzuoli otteniamo una popolazione di circa 65.000 abitanti. Un’altra ragione ci autorizza a sostenere le cifre proposte. I limiti tracciati seguendo le rovine e la posizione delle tombe sono dei limiti minimi; ma le ville, le case commerciali e le loro dipendenze, sobborghi potevano prolungare la città in ogni direzione. Come abbiamo visto sopra è probabile che la costa fino al lago Lucrino fosse coperta di costruzioni; ciò aumenta di almeno 25 ettari ( 250.000 mq, ndr) la superficie su determinata (140+25 ettari = 1.650.000 mq, ndr). Non sappiamo fin dove esattamente si estendevano le abitazioni al nord del cimitero moderno in direzione di Monte Barbaro. Sulle pendici delle colline, Gauro, Cigliano, Ciglio, Olibano c’erano delle ville.Un’altra ragione ci deve far considerare Pozzuoli una delle città più popolate d’Italia; da ogni parte interminabili vie di tombe, indica che vi risiedeva una popolazione numerosa. Le tombe di via Campana si succedevano senza interruzione per circa 4 km; quelle della grande via delle tombe a nord, e quelle della via Antiniana; non sappiamo fin dove giungevano quelle della via Domiziana. Aggiungiamo da 1 km a 1 km e mezzo per i rami secondari (via Celle, via Vecchia della Solfatara) e consideriamo che le tombe occupavano una certa lunghezza per ogni lato. Il numero considerevole delle iscrizioni indica infine una consistente popolazione. È vero che delle 1.790

iscrizioni una parte deve essere assegnata ad altre località: Napoli, Cuma, Baia; ma anche quando togliamo la metà, resta ancora un numero più alto delle iscrizioni di Capua ( 781 iscrizioni).Negli ultimi anni della Repubblica e al 1 sec. Del’impero, Pozzuoli, avendo il suo massimo sviluppo, ebbe la popolazione più numerosa. Più tardi con il calare delle attività commerciali, la popolazione diminuì. Un testo di Simmaco fa conoscere la quantità di terra distribuita gratuitamente alla plebe puteolana dal regno di Costantino a quello di Giuliano; ma questi dati non ci permettono di terminare la popolazione della città verso la fine del’impero.

Capitolo III Quartieri e vie Vie che portavano alla cittàLa città era divisa in quartieri che noi conosciamo dalle iscrizioni. Essi erano denominati ad imitazione di quelli di Roma, o avevano i nomi di grandi industriali e commercianti.1° REGIO PORTAE TRIUMPHALIS (QUARTIERE DELLA PORTA TRIONFALE).L’iscrizione trovata nella villa Cardito, che ci fa conoscere questo quartiere, è una dedica a MAVORZIO LOLLIANO. È possibile che la regio portae triumphalis si estendeva da questa parte.2° REGIO CLIVI VITRARII SIVE VICI TURARII. Quartiere del pendio del vetro e del rione dell’incenso (anche a Roma c’era il vico TURARIO).

3° VICUS LARTIDIANUS (RIONE LARTIDIANUS).Parte occidentale della città, occupata ora dalle officine Armstrong. Là è stata trovata questa iscrizione che concerne questo quartiere. La famiglia dei Lartidii conosciuta anche da altri testi epigrafici era importante perciò il quartiere ne prendeva il nome. 4° REGIO VICI VESTORIANI ET CALPURNIANI.I Vestori ed i Calpurni erano commercianti e industriali nel quartiere, che da essi prese il nome c’erano i loro negozi e le loro fabbriche. Presso delle rovine, dette Pondera, c’era un colorificio dove Vestorio produceva il “caeruleum”. 5° REGIO PALATINA.La regio Palatina è stata qualche volta attribuita a Napoli, Mommsen l’attribuisce a ragione a Pozzuoli (i quartieri di Napoli erano designati dai nomi degli abitanti messi al genitivo plurale). Il suo nome, che richiama quello del Palatino a Roma, era più adatto ad una colonia romana che ad una città che aveva antiche tradizioni greche. È incerto il luogo dove sorgeva il foro. L’agora dell’antica Dicerachia era nel Castello. Una scritta di un edile sconosciuto scrive M. Beloch, pensa che il foro sorgesse sull’acropooli piuttosto che nella parte basa della città. L’agora greca era una piazza minuscola, proporzionata alla piccola città che era Dicearchia. Una colonia romana, che era l’emporium dell’Italia, non poteva accontentarsene, ma aveva bisogno di un foro spazioso, bordato di basiliche, di templi. Quanto

all’ipotesi del Di Iorio secondo la quale il foro avrebbe dovuto essere dietro la Chiesa della Madonna del Carmine, nell’antica villa Cardito, si poggia su argomenti insufficienti. Pozzuoli aveva anche il suo Campus (Campo di Marte della colonia), un foro transitorio, un foro delle verdure, un foro boario (mercato dei buoi).Alcune strade antiche ancora permangono. Per una lunghezza di 100 m davanti alla chiesa del Carmine, una via pavimentata con grandi blocchi di lava, è ancora visibile; passando diritta sotto la chiesa giungeva al rione Ortodonico (BAGNO ORTODONICO); dall’altro lato essa si dirigeva verso le terme dette Tempio di Nettuno. La via Anfiteatro che va dal Carmine all’Annunziata assicura le medesime comunicazioni della via romana, senza però seguire esattamente il tracciato; la parte della via vicina all’Annunziata corrisponde ad una via romana. Si può seguire e ridare tutto il suo percorso ad una via che confondendosi esattamente con la moderna via Vigna e avendo conservato dappertutto la sua pavimentazione terminava poco più avanti dell’incrocio con via Vecchia Solfatara. Oltre la villa Cardito, a sud, le tracce di una via che ne era il prolungamento sono state osservate; dietro la caserma dei carabinieri è stata ritrovata per una lunghezza di alcuni metri e a due metri sotto il livello attuale, la pavimentazione ed i marciapiedi, con basi di travertino.

Essa si dirigeva verso la porta del Castello ed era parallela alla moderna via che vi giunge.Una strada parallela alla precedente partiva dalla solfatara e conduceva al Bagno Ortofonico. Esiste ancora la pavimentazione per una lunghezza di 60-80 m, presso la Solfatara essa è molto danneggiata a causa del tempo e per i rimaneggiamenti moderni. Essa corrisponde nella parte superiore alla via Vecchia Solfatara. Alcuni pendi risalgono dal porto alla parte alta. Uno di essi fu pavimentato a spese di un edile dell’epoca repubblicana. Via San Pasquale corrisponde ad un “clivus” la cui pavimentazione in blocchi di lava rimase a lungo; ogni traccia è ora sparita. Essa si può identificare con il “clivus vitrarius”.Per la Domiziana, che univa Cuma a Pozzuoli, la distanza fra le due città era di 3 miglia. Secondo il Desjardius due rami della Domiziana univano Cuma a Pozzuoli: uno, più lungo, pasava per Baia; l’altro guadagnava direttamente Pozzuoli per “compendium” accorciatoia. La via che pasava per Baia e che costeggiava la riva nel lasciare il Lucrino e l’Averno sulla sua sinistra, non è indicata sulla tavola di Pentinger; ma come dice il Desjardius, essa è sottintesa, poiché l’altra via “partendo da Cuma e passando per vinias lascia a destra il lago d’Averno e giunge a Pozzuoli”. Desjardius propone di porre in Vinias nelle vicinanze di Montenuovo e, poiché non è indicata la distanza tra Vinias e

Pozzuoli sarebbe di 4,5 km, in tutto 6 miglia o 9 km fra Cuma e Pozzuoli. Secondo noi, però, 6 miglia, contate a partire da Cuma ci porterebbero molto oltre Pozzuoli; da Cuma alle rovine del circo di Pozzuoli ci sono 5 km. Quindi la distanza fra le due città sarebbe non di 6, ma di 4 miglia. In Vinias doveva essere una località posta nelle immediate vicinanze di Pozzuoli. Montenuovo potrebbe quindi ben segnare il luogo di “in Vinias”. Le vestigi dela Domiziana sono ancora visibili soprattutto a Cum, dove il pavimento è conservato in vari punti e dove si innalza l’Arco Felice sotto il quale passava la via romana. A partire da questo punto essa contornava il lago d’Averno; fino a nord di Montenuovo la via moderna vi corrisponde. È più o meno in questo punto che essa entrava a Pozzuoli; ma mentre la via moderna scende obliquamente verso il mare, la via antica restava sulle alture e passava direttamente a fianco del Circo ; le tombe che erano ai suoi bordi permettono di ricostruire il tracciato. A partire da lì, il percorso moderno ne segue il percorso fino al quadrivio dell’Annunziata. Là cominciava la via per Capua: “via Consularis Puteolis Capuam”. La parte compresa tra l’Annuziata e l’incrocio di santo Stefano è l’attuale via Celle dove si accedeva attraverso una porta. La pavimentazione di via Celle in parte è sparita. Ci sono dei colombari (necropoli) sul lato destro della via. Al quadrivio di Santo Stefano dove c’era una fontana, la via girava a

sinistra seguendo lo stesso percorso dell’acquedotto campano e che un sentiero (antica via Campana) ricongiunge la nuova via Campana oltre le tombe di San Vito. Il lastricato un tempo conservato per circa 250 m, ora appare a tratti. Le tombe che si trovano lungo i bordi della via sono state, dopo tanti anni, sistematicamente distrutte dalla gente. Tuttavia delle rovine sono ancora visibili a San Vito e presso la scala che permette l’accesso all’acquedotto campano, a partire dal suo innesto sulla nuova via Campana, la via romana si confonde con essa; qua e là nei campi vicini alcuni resti di colombari. Si arriva così fino a Vado di Serre dove la montagna spaccata, stretto pasaggio aperto dalla mano dell’uomo nella collina che prima bloccava il passaggio. La via si inoltra; le pareti della montagna, tagliate a picco, sono ricoperte sui due lati da un muro in “opus reticulatum”: si notano ancora i resti della volta di un tunnel. Al di là siamo nella piana di Quarto. Qualche rovina di colombario che subito si incontra nei campi ad un centinaio di metri a destra della via moderna fa supporre che questa si piega a sinistra più della via antica. Quest’ultima si dirigeva direttamente verso capua, passando per delle loclalità che ne delimitavano il percorso e che all’inizio del medioevo erano: Qualiano, Parete, Ducenta ecc. Due strade trasversali univano la via consularis Puteolis Capuam alla via Domiziana: l’una andava da Ducenta a Pantano; l’altra da Capua verso Aversa. Il Pratili afferma che

a circa 6 miglia da Pozzuoli la via Campana si divideva in due rami: quello che giungeva a Pozzuoli seguendo l’itinerario su descritto ed un altro che andava verso l’ovest dal lato di Cuma. Quest’ultima presenterebbe ancora resti della pavimenatazione. Se è come afferma il Petrilli, questa via è quella di cui parla Plinio: essa conduceva da Cuma a Capua. D’altronde un sentiero che dipartendosi dalla Domiziana presso l’Averno, a nord di Montenuovo, porta a Monterusciello e a Torre Santa Chiara, sembra corrispondere ad un antico sentiero, perché si sno trovati lungo esso resti di acciottolato e delle tombe. Un’altra via univa Napoli a Pozzuoli attraverso la grotta di Posillipo (grotta di Pozzuoli). Era più corta della precedente tanto che la distanza era di 10 miglia per la via del Vomero che fu certamente la più antica. Le colline di Posillipo costituirono una barriera insormontabile fino al regno di Augusto. Sotto il regno di Augusto, come scrive Stradone, fu scavto un tunnel che non fu la grotta di Pozzuoli ma quella di Spaiano sotto la quale passava una strada. La grotta di Pozzuoli fu scavata f0orse all’epoca dell’imperatore Claudio. La via che l’attraversava è quella indicata dalla tavola di Pentiger e dal geografo Ravenna. Ma dal momento che fra Pozzuoli ed il tunnel di Posillipo il geografo Ravenna non menziona alcuna località e che sulla tavola di Pentiger il tracciato è omesso, non si può sapere dove essa passasse

esattamente. È probabile che nella piana del lago di Agnano una ramificazione staccandosi dalla via romana descritta precedentemente (via Vecchia Solfatara), raggiungeva la grotta. Si è osservato il tracciato di un’antica via che dalle stufe di San Germano si dirigeva a Bagnoli da questo punto alla grotta, la via poteva proseguire in linea retta come il moderno percorso. Un latro ramo che sarebbe andato direttamente dalla grotta del cane fino alla grotta di Pozzuoli , ci è stata segnalata. Sembra, infine, che una via litoranea corrispondente all’attuale corso fra Pozzuoli e Bagnoli sia esistita anche nell’antichità. Sono spariti tutti i resti. Ma non era così fino a 70 anni fa: verso il 1840 si vedevano alcune tracce, sulle pendici del monte Olibano. Ina strada litorale da Bagnoli al capo Posillipo pasava per la grotta di seiano e prolungava il corso esistente fra Pozzuoli e Bagnoli.

Capitolo III Il Porto.

Situazione e condizioni geografiche.

Il miglior porto di Pozzuoli era quello di Miseno, che fu il più antico emporio dei Cumani. Ma la baia di Pozzuoli era anch’essa ottima. Delle colline la proteggevano dai venti dell’ovest, dell’este e del nord; in particolare l’altura del Castello la protegge ad ovest e un po’ a nord-ovest, in modo tale che i battelli di piccole dimensioni sono e furono al sicuro nel porto naturale formato dalla

curva della costa alla Malva. Tuttavia, quando la città divenne il centro di un traffico importante dei lavori di protezione furono necessari. Oltre la Malva si faceva sentire il mare agitato dai venti di sud-ovest e del sud, poiché si introducono direttamente nel golfo; le onde si sollevano t5alora fino a 2 metri. Inoltre la piccola estensione del golfo non permette ai flutti di smorzare la loro energia. Il pericolo per Pozzuoli viene dunque da sud e fu da quel lato che fu costruito il molo. Il luogo fu così ben scelto che quando si è voluto munire d’un molo il porto di Pozzuoli si seguirono esattamente le tracce elevando il molo sulle rovine di quello antico. La profondità media del,porto va da 5 a 15 m. Nell’antichità essa era minore come lo prova la presenza, a m 1,80 di profondità anelli del molo ai quali si ormeggiavano le navi; questi anelli erano a m 0,25 sulla superficie del mare a causa delle variazioni compiute nel medio-evo e dell’abbassamento del suolo, il fondo era più alto di circa 2 m nell’antichità, ciò conferisce una profondità di m 4,50 al primo pilone del molo anziché m 6,50, di m 8,50 invece di m 10,50 al nono pilone e così di seguito.

Estensione del portoLa superficie del porto era meno estesa di quella attuale; la linea costiera si è leggermente modificata. Vedremo oltre che, dalla Starza alla Malva, il mare ha guadagnato sul litorale un centinaio di metri. Ad est del Castello, presso

le rovine del’antico ospizio dei cappuccini il mare erode a poco a poco la costa. Tuttavia queste modificazioni, confrontate con quelle che hanno completamente cambiato la topografia di altri porti antichi, di Anzio per esempio e di Ostia, sono minime. C’è un’opinione molto diffusa tra gli archeologi napoletani che l’antico porto di Pozzuoli avrebbe occupato il quartiere che si estende tra il Tempio di Serapide, la porta della città ed il Castello, cioè tutta la città bassa, compreso il corso V. Emanuele e il corso Garibaldi. Ma questa opinione è fondata sul ricordo dei fenomeni geologici del medioevo che consisterebbe in un considerevole abbassamento della costa invasa dal mare. Loffredo, il più vecchio storico di Pozzuoli, pensa che nell’antichità come nel medioevo, il mare ricopriva tutta la città bassa; dopo di allora quest’errore è stato quasi sempre ripetuto. I due principali argomenti forniti non hanno alcun valore: l’uno è l’identificazione incerta delle rovine ritrovate presso la porta della città, con le pretese pile del molo; l’altro la restituzione manifestatamene inesatta d’una iscrizione. Senza far intervenire le considerazioni geografiche e geologiche, i resti delle costruzioni antiche bastano a provare che il largo della Malva e una gran parte almeno della città bassa non erano occupati dal mare all’epoca romana; nei giardini di Don Pedro de Toledo (oggi la Malva) fu ritrovata nel 1704 la statua di Mavortius con l’iscrizione del collegio dei

Decatrensi. Tra il corso Garibaldi e la via dello stesso nome, una cisterna ed una fontana antica sono state scoperte, sotto la casa ad angolo di via Garibaldi, si è trovata la fondazione di un colonnato: al posto stesso dove si è creduto di vedere i resti di un pilone del molo passavano delle condutture di acquedotto. In diversi punti della città bassa, rovine di muri romani sono stati osservati sotto delle case durante delle demolizioni o delle ricostruzioni. A Pozzuoli accade come a Napoli. L’opinione di certi autori si accorda con la tradizione popolare nel supporre che all’epoca romana tutta la parte basa di Napoli sarebbe stata coperta dal mare. Il porto sarebbe avanzato fino a San Giovanni Maggiore; le rovine di un faro sarebbero state ritrovate presso la fonte di Mezzocannone, come gli anelli di attracco per le navi. La falsità di certe ipotesi è dimostrata dai resti di costruzioni che in certi posti sono sotto il livello attuale del mare, ciò che prova cha a Napoli, come a Pozzuoli, il molo si era abbassato dopo l’antichità. La tradizione popolare è fondata solo sui fatti geologici del medio evo. Siccome allora il mare aveva invaso la città bassa, si credette che fosse stato sempre così. È così che il popolo a Pozzuoli chiama Pendio di mare l’attuale piazza Vittorio Emanuele fino al mare; ma questa denominazione non ci deve più far credere erroneamente che quella di Sedile di Porto data a Napoli ad una parte della città nelle vicinanze della quale il mare, lungi dall’invaderla, arrivò solo nel medio-evo.

Il molo o “Opus Pilarum”Il molo che proteggeva il porto

contro i venti del sud ne era l’opera principale. Quando ho iniziato i miei studi era visibile ancora solo il 15° pilone, degli altri piloni erano ricoperti da un molo in corso di costruzione. Ma io ho consultato presso gli uffici del Genio Civile di Napoli i piani dell’antico molo, progettati dagli ingegneri prima dell’inizio dei loro lavori. Una veduta del molo com’era nel XVII sec. figura nella raccolta di Paoli (fig. 17). Riporto anche la fotografia d’una tavola che mi ha dato e che offre una veduta della gettata antica verso il 1875 (fig. 18). Questa gettata si componeva di una serie di 15 piloni, di cui due (il 7° ed il 14°) erano del XVII sec. Interamente rovinati e sommersi. La direzione era ovest-est. Tra il 10° e l’11° pilone, il molo descriveva una curva leggera pressoché inavvertibile. La lunghezza totale dell’opera era di 372 m (fig 16,19). I piloni erano rettangolari; il loro spessore attuale varia da 5 m (5° pilone) a 16 m (10° pilone), nel senso dell’asse del molo. Il 10° pilone aveva conservato, fin negli ultimi anni, i resti dei suoi due archi e l’1° conservava l’inizio del’arcata mediante la quale esso era collegato al precedente, si otteneva così fra i due piloni, un intervallo di 10m. Bisogna poi differenziare le distanze per arrivare ad una ricostruzione possibile; occorre supporre che la 13° e la 14° “pila” distavano 18 m circa e che le corde degli archi erano fra esse più lunghe di circa 1 metro. Al contrario, la corda del’arco fra la 13° e la 14° pila non superava m 7,50 ed è la distanza che bisogna ristabilire fra i piloni del 3° e

7°, poiché questi hanno uno spessore di 16 m. Tra i primi tre piloni, le corde degli archi avevano una lunghezza di una decina di metri. Lo spessore dei piloni nel senso perpendicolare dell’asse del molo, variava dai 9 ai 15 metri.Il molo puteolano può essere considerato come il molo di queste gettate discontinue costruite dai Romani con un sistema opposto a quello dei moderni e avente come motivo principale di impedire che il porto, si riempisse di sabbia, mantenendo la circolazione delle correnti attraverso l’apertura degli archi. Invero non c’era questo rischio nel golfo di Pozzuoli; però i Romani in questo modo costruivano un molo più solido. Un molo ininterrotto, in effetti, è più facilmente scosso da una tempesta violenta di un molo discontinuo, che spezza le ondate e sfaldando la risacca efficacemente facendo passare le correnti, assicura una calma sufficiente. I Romani d’altronde avevano avuto grande cura di apporre obliquamente gli archi ai venti dominanti; essendo quelli perpendicolari al’asse del molo, sono di sbieco rispetto al vento del sud. Le ondate non si introducevano direttamente, ma si rifrangevano talvolta contro la muraglia esterna dei piloni e contro le pareti interne degli archi.Nel molo di Anzio, le gettate erano disposte allo stesso modo. Ad Anzio e a Terracina il molo dal lato del mare aperto, era sormontato da un muro; non sappiamo se era lo stesso anche per Pozzuoli. G. De Fazio si chiede pure se davanti a ciascun arco i Romani non abbiano fissato una palizzata a grata

allo scopo di sferzare meglio le onde; è possibile ma non si comprende che nessuna traccia di una simile opera non abbia potuto permanere. Quali che fossero le opere accessorie del molo, il porto era eccelente; Stradone ne vanta la grandezza e la funzionalità: le più grandi navi, scrive, vi erano assolutamente al sicuro. Il molo era unito alla costa da una costruzione in pietre di tufo, che esisteva ancora al’epoca di G. De Fazio: era il pilone del primo arco. Ogni pila portava lateralmente massi di forma parallelepipeda fissati orizzontalmente; questi massi erano lunghi m 1,55 circa; poi per l’abbassamento del molo essi erano a circa m 1,80 sotto il livello del mare. La loro estremità aveva un foro di 0,40 m di diametro, attraverso il quale pasavano le corde per l’attracco delle navi. La muratura era in calcestruzzo, colato direttamente all’interno di grandi cassoni, seguendo il metodo descritto da Vitruvio, il meno costoso, poiché si avevano sul posto la materia prima, la pozzolana indispensabile per questo tipo di costruzione. È uun punto sul quale Strabone insiste a ragione. Quando sono arrivato a Pozzuoli, non era più possibile esaminare le fondazioni della gettata; secondo il De Fazio esse erano costruite fino a fior d’acqua in pozzolana; ma per l’abbassamento del molo, le parti costruite manualmente, che all’inizio erano al di fuori del’acqua, si abbasarono ad una profondità.Esse presentavano tracce di numerose riparazioni. I lavori moderni da qualche anno sono giunti fino ala 13° pila, già parzialmente consumata; grazie a

questa parziale distruzione stessa ho potuto studiare, per una certa lunghezza, la composizione della muratura all’interno del pilone: c’erano sia mattoni sparsi in una masa di calcestruzzo, nella cui composizione entravano piccole pietre di tufo da cm 5 a cm 8, sia solamente un miscuglio di tufo e di malta. I tufelli erano sia in tufo giallo di Posillipo che in tufo grigio. Talvolta spessi strati di calcestruzzo erano separati da sttrati di mattoni. Nel 15° pilone, la faccia inferiore era in tufo, le altre in mattone e in malta. Queste irregolarità in parte erano dovute a interventi di riparazione successivi ma la costruzione era composta più spesso da strati consecutivi e sovrapposti: 1° di malta; 2° di mattoni e di pietre di tufo sparse nella malta.Si osservano l’ho visto anche nel 15° pilone dei fori di circa 20 cm di diametro, che attraversano la muratura alla regolare distanza di 1 m nel senso della lunghezza, della larghezza e del’altezza. Simili fori esistevano nel molo di Anzio. Essi contenevano dele travi che consolidavano congiungendoli e rivestimenti delle muraglie. Era una pratica costante presso i Romani, e formalmente raccomandata da Vitruvio, lasciare all’interno dei muri un’armatura di questo tipo. In certi luoghi le travi erano rimpiazzate da aste di ferro, come i resti ossidati hanno permesso di constatare. Costruzione e restauri del molo.Non conosciamo l’epoca della costruzione del molo; si potrebbe proporre ragionevolmente il 2° sec. a.C.

Il porto doveva essere già molto ordinato quando Lucilio chiamava Pozzuoli: Delos Minor; ma è nel secolo successivo che un autore parla per la prima volta del molo; Appiano scrive che sul molo di Pozzuoli ebbe luogo l’incontro dei triumviri e di S. Pompeo, che sfociò nella pace dell’anno 39. M. Beloch collega un epigramma del’Antologia greca a lavori di restauro e di prolungamento del molo che sarebbero stati completati sotto Augusto. Questo epigramma che è certamente un pezzo di attualità si riferisce, secondo me, non al molo di Pozzuoli, ma alla costruzione del porto Giulio. Ecco il testo. Il mare si rivolge a Pozzuoli e gli chiede:“Dimmi, Dicerachia. Cosa è questo molo immenso costruito tra i flutti”?Le mani dei Ciclopi hanno costruito queste mura.Fino a dove, Terra, limiterai il mio impero?Io ricevo la flotta del poplo signora del mondo. Contempla Roma che è vicina e dimmi se non ho un porto degno di essa. In un altro epigramma sono celebrate le stesse costruzioni marine: “Il Barbaro, nella sua insensata audacia, ha unito le rive del’Ellesponto, ma questi imponenti lavori sono stati tutti distrutti dal tempo.“Dicearchia, essa si che ha fatto terra dove c’era il mare e trasformando il golfo gli ha dato la figura di un continente. Essa ha radicato una muraglia gigantesca, su basamento profondo e ha ricoperto l’onda con le sue mani ciclopiche. La navigazione non è impedita; ma è percorso tutto dai naviganti; l’elemento instabile è reso immobile e pedonabile.”

Il 2° epigramma potrebbe riferirsi al porto puteolano, ma non il primo dove il poeta descrive un porto militare; Io accolgo, egli fa dire a Pozzuoli, la flotta del popolo signore del mondo(per flotta, lo scrittore intende dire la flotta militare). Ora Pozzuoli non fu mai porto militare. Io credo che qui allude al Portus Julius creato da Agrippa. Gli epigrammi, sembra, fanno riferimento a nuove costruzioni; il mare sorpreso e frastornato, soffre per i nuovi limiti apportati al suo impero. Non sarebbe così se si trattasse semplicemente di un restauro del molo puteolano che già esisteva da lungo tempo. I lavori consistettero nello scavare due canali alle due estremità della diga che separava il Lucrino dal mare. Davanti al canale orientale fu costruito un molo che si allungava nel mare e ne esiste ancora qualche resto di pilastro sotto il livello del mare alla Punta Caruso; si restaurò infine l’antica via Erculanea mediante la quale si andava da Bacoli e a Baia lungo la riva all’epoca di Cicerone, il cattivo stato di questa via rendeva il traffico difficile. Tale è l’insieme dei lavori celebrati dagli epigrammi. Il “molo costruito nel mezzo dei flutti” può essere sia il molo del Porto Giulio, sia la via Erculanea. La via aperta ai pedoni passava sopra i canali che facevano comunicare il lago con il mare; è questo il significato delle parole: “La navigazione non è impedita e pur essendo tutto percorso dai marinai, l’elemento instabile ( il mare) resta immobile per i pedoni. Il Porto Giulio non è sul territorio puteolano, ma le case e le ville di Pozzuoli giungevano fino a Lucrino. Così gli si poteva attribuire l’nore dela creazione del Porto Giulio e dire che esso

ospitava la flotta di guerra del popolo romano. Sotto Adriano il porto fu danneggiato da una violenta tempesta e l’imperatore promise ai Puteolani di ripararlo. Egli però morì prima di aver potuto realizzare la sua promessa; l’opera fu compiuta da Antonino nel 139. Fu fissata un’iscrizione al quarto pilastro per ricordare ufficialmente tale evento. La cittadinanza di Pozzuoli a sua volta ne fece incidere un’altra per testimoniare la sua riconoscenza ad Antonino.I Bacini del porto ad est del molo.Strabone parla di bacini artificiali e di diversi moli a Pozzuoli. Il molo che abbiamo descritto riparava la rada principale, dal lato dell’emporio ma c’erano altri bacini ad est, ai piedi del Castello (Rione Terra) fra la punta del promontorio e la chiesa di San Vincenzo.I Bacini del porto.A circa 100 m dalla costa, permane sotto il mare una duplice fila di piloni paralleli ala costa di forma rettangolare di m 6x8 cuiascuno; l’intervallo fra esse e di 4 m. Le due file sono disposte in modo tale che le “ file della gettata esterna sono di fronte agli archi della gettata interna e reciprocamente; i piloni del molo interno hanno la forma di trapezi e misurano mediamente da m 3,50 a 8 m. Benché siano ricoperti di alghe a che siano erosi dal mare e sommersi da 2 m a m 8,50, si può, quando il mare è chiaro e calmo, osservarne la dislocazione, la forma e le dimensioni.All’estremità occidentale di quest’opera, si vedono sotto il mare le rovine di un vecchio muro continuo che si avanza perpendicolarmente dal promontorio e spinge ad angolo retto

verso il molo si descritto; poco prima di incontrarlo, si arresta lasciando un’apertura di circa 40 m apertura che dava accesso nel primo bacino. Più avanti cioè quasi verso la metà del doppio molo, un altro muro, che si stacca dalla costa perpendicolarmente, è interrotto da un’apertura di una ventina di metri attraverso la quale si penetrava in un secondo bacino. Perpendicolarmente a questo ultimo muro se ne diparte un altro parallelo alla costa, nel quale sono state lasciate due aperture una di crca 20m, la’ltra di 30 m. Ad est un bacino quadrato contorna il vecchio ospizio dei Cappuccini. Su delle vecchie incisioni sono raffigurate, al piede del promontorio e più ad est di fronte alla chiesa di Gesù e Maria, rovine sommerse lungo la costa. Quelle che sono dvanti alla chiesa portano il nome di “piscinae”. Il disegnatore ha dato loro la forma di masse quadrangolari. Quelle che si trovano sotto il promontorio non possono essere che le rovine dei bacini che stiamo descrivendo; sembra che esse seguivano la costa per un tratto molto lungo; oltre il bacino che racchiude l’ospizio dei cappuccini, ci potevano essere altri ancora.È Possibile che altre opere marittime si trovassero tra il grande molo e i bacini che seguivano sotto il Castello. Si sono osservati resti di costruzioni roamne, che sono sembrati piloni di un altro molo o la fondazione di una banchina sotto l’antica chiesa della Purificazione a mare. Queste rovine erano da questo lato il solo segno riconoscibile di opere marine; ma bastano a farci pensare che intorno al promontorio i Romani avevano costruito dei moli e dei bacini.

La superficie totale dei porti di Pozzuoli doveva dunque essere considerevole. Essa comprendeva da una parte tutta la rada con l’emporio fino al Tempio di Se rapide quasi fino al molo principale; si avanzava poi fino all’Ospizio dei cappuccini ed oltre.I piloni che proteggevano i bacini erano uniti fra loro mediante archi; quelli che avevano la forma trapezoidale costituivano un’opera di protezione interna, spezzando le onde che avrebbero potuto penetrare sotto gli archi della “gettata” esterne e lasciando circolare liberamente le acque del mare. Questa disposizione di una doppia linea di pile è stata osservata a Misero; ma mentre a Pozzuoli i piloni hanno la forma di trapezio, a Misero essi erano rettangolari all’interno e al’esterno. In un caso e nell’altro il sistema impiegato si spiega per le stesse ragioni; a Misero e in questa parte di Pozzuoli il molo si abbassa bruscamente sotto il livelo del mare e raggiunge grandi profondità e ne risulta una violente risacca. Vicino un promontorio, essendo il mare sempre più agitato bisognava opporre ai flutti una solida barriera. In queste condizioni un molo, che senza essere c0ontinuo svolgesse lo stesso compito di un molo pieno, era necessario; perciò i Romani ricorsero alla disposizione descritta da noi. Nel canale fra le due linee di piloni veniva a finire l’agitazione delle acque e una calma assoluta regnava nei bacini. Oggi non si può camminare a piedi intorno al promontorio di Pozzuoli che il mare erode a poco a poco; non era la stessa cosa in antic. Una banchina doveva girargli intorno. Duecento anni

fa si pasava a piedi ed all’asciutto sotto il Rione Terra.Banchine, Diga o “Ripa”. Tre iscrizioni ci rivelano l’esistenza di banchine e menzionano la costruzione di una diga verso la fine del’Impero; in esse si accenna alla costruzione di moli lungo la “ripa” la “riva” intesa come banchina (come ad es. la Riva degli Schiavoni a Venezia). Quanto ai moli citati in queste iscrizioni essi sono in realtà le fondazioni delle banchine. La “ripa” è rappresentata sui vasi in vetro inciso ad ovest del molo sotto l’aspetto di un colonnato. Questo fa capire che la banchina sorreggeva con le sue colonne la “promenade” la passeggiata e i suoi portici. Prendendo alla lettera il testo delle tre iscrizioni, bisognerebbe ricondurre al IV sec. d.C. l’epoca della 1° costruzione della banchina. Ma come credere che un porto come Pozzuoli non avesse già le sue banchine? In effetti l’opera a cui si riferiscono le iscrizioni è una nuova opera necessaria per l’abbassamento del suolo quando il mare cominciò ad invadere la parte basa di Pozzuoli (IV sec. d.C.). Occorreva quindi rialzare il suolo. Era più di un’opera di ordinario restauro; non ci si accontentò di riparare ciò che esisteva; si alzò una banchina ad un livello superiore. La banchina doveva occupare un certo spazio ad ovest del “macelum” e ad est essa proteggeva il largo della Malva. In alcuni punti della costa sono state osservate rovine appartenenti alle banchine. Alla Starza esistono sommerse rovine di colonnati parallele ala riva per un lungo tratto; esse

marcano la disposizione delle banchine bordate da portici. L’EmporiumL’emporio occupava il suolo che si estendeva fra la costa e la base delle colline. Non c’è alcuna rovina che ci indica la sua topografia; ma i vasi di vetro inciso ed il disegno di Bollori ci vengono in aiuto. Nelle’emporio si trovavano il portico di Nettuno, il foro (mercato) delle verdure il foro boario (mercato dei buoi), il tempio di se rapide, le terme di Faustino, i depositi di grano del disegno di Bollori. Fra le industrie riconosciamo quella dei commercianti di prodotti sotto sale della Spagna meridionale che dava sul mare. Nelle vicinanze del mercato esisteva la mahatma dei Nabatei.

Capitolo IV Acquedotti (pag. 269-285)

L’approvvigionamento idrico era assicurato a Pozzuoli da:1° Un acquedotto che ha inizio presso la montagna spaccata (acquedotto campano);2° un prolungamento dell’acquedotto Serino, che iniziava nella vallata del Sabato, non lontano da Avelino in Irpinia e che alimentava parecchie città campane: Pompei, Napoli, Pozzuoli, Baia, Miseno.

Acquedotto campanoIl canale principale

dell’acquedotto campano porta ancora oggi acqua a Pozzuoli. Presso la via vecchia Campana, tra Croce Campana e San Vito, a circa 100 metri dalla Croce, nel mezzo dei colombari che bordano la via antica, si vede una piccola paote moderna in ferro, che dà accesso ad una lunga scala in opera

reticolata attraverso la quale si discende fino ad un canale dell’acquedotto. La larghezza di questa scala è di cm 65; la volta ad arco spezzato è fatta di grosse pietre di tufo. Degli sfiatatoi, ora pieni di terra, erano praticati nella volta a circa una ventina di metri dell’acquedotto i gradini sono rimpiazzati da un piano lievemente inclinato; i muri non sono più in opus reticolatum, ma in tufo (opus incertum) e la volta è fatta di grosse pietre messe di piatto l’estremità del corridoio è scavata nella pozzolana dura.Proprio sotto il punto dove la scala i8nizia da via Campana, il corridoio sbuca su una piccola piattaforma lunga tre metri e larga 1,50 metri praticata nel tufo e davanti alla quale passa il canale dell’acquedotto. L’acquedotto in questa parte del suo percorso è ad una profondità approssimativa di 50-55 metri , proviene dal nord; esso è costruito sotto l’antica via Campana. Se lo si risale, si incontra a sinistra dopo circa 100 metri una ramificazione del condotto principale che si dirige verso Monte Barbaro; cento metri più lontano una ramificazione dell’acquedotto si dirige a destra verso gli Astroni e verso Cogliano; ancora cento metri e si incontra la sorgente della Bolla le cui acque zampillano dal suolo all’interno del canale. Dopo ottanta metri si giunge ad un incrocio di diversi canali che confluiscono nel condotto principale; uno si dirige verso San Martino, un altro verso Campiglione; quest’ultimo riceve a destra e a sinistra due ramificazioni di cui una sola volta verso Monte Barbaro è antica. Il terzo canale si dirige a Nord verso la Pianura Campana; dal luogo di origine, dove

esso raccoglie l’acqua delle prime sorgenti fino alla scala da noi descritta sopra, non misura più di 450 m. A partire da questa scala l’acquedotto segue esattamente il percorso della Vecchia Campana fino al quadrivio dell’Annunziata. Esso discende da lì in linea diritta nella città bassa presso la ferrovia. Qui un corridoio stretto vi dà accesso. Poi questo condotto praticato alla base della collina segue la linea ferrata fino alla stazione. Esso termina nella piazza di Pozzuoli dove alimenta due fontane pubbliche.Le acque oggi poco abbondanti erano un tempo molto più abbondanti. Ciò è dovuto al fatto che la maggior parte dei condotti laterali sono colmi di terra; è il caso dei due bracci che si dirigevano verso Monte Barbaro e quello che va verso Cigliano. Gli antichi evavano diretto questi diversi condotti verso i crateri spenti del Gauro, degli Astroni e verso la pianura Campana, cioè verso i luoghi più concavi dove l’acqua piovana scendendo dalle pendici delle colline erano assorbite dal terreno permeabile della Pianura. L’acquedotto è stato, come vedremo poi, restaurato a più riprese; alcune sezioni sono interamente moderne. Ma la costruzione antica, più o meno riparata, sussiste nella maggior parte, per esempio, nel tratto campano tra il crocicchio di santo Stefano e la scala di via Campana e in quella che va da questa scala alle seguenti del canale nella Pianura. Esso è composto da pietre di tufo (opus incertum) sui muri laterali; la volta è arrotondata e in opus incertum(ALL’INIZIO DUE CONCHE DELLA PIANURA) a volte e formata da due grosse pietre di tufo che formano un arco spezzato (tratto

compreso tra le scale di via Campana e il crocicchio di santo Stefano). La larghezza del condotto è di m 0,70 l’altezza supera un po’ i 2 m. I muri non hanno in questo punto rivestimento. In altri punti si osserva qua e là uno strato nel quale entrano piccoli pezzi di ghiaia lavica. Un rinvenimento dello stesso genere esiste in due altri acquedotti antichi della Campania, l’acquedotto sannitico tra Serino e Benevento e l’acquedotto della Bolla a Napoli, costruito dai Greci e restaurato all’epoca dei Romani e nel Medio-evp. Il rivestimento dei muri nell’acquedotto della Bolla, contiene in diversi punti dei lapilli.

Nell’acquedotto sannitico, esso è fatto a volte di calce, di sabbia e di mattoni, a volte come quello dell’acquedotto di Pozzuoli, di calce mista a lapilli.

Il tratto compreso tra Santo Stefano e la base delle colline presso la linea ferroviaria non è più di fabbrica ma scavato nella pozzolana. Esso presenta grande negligenza e grossolanità di esecuzione. Il canale contorto e gibboso, descrive curve irregolari; l’altezza varia da m 1,40 a m 2,30 la larghezza da cm 40 a cm 60. L’aspetto grossolano del lavoro porterebbe a credere che questo tratto dell’acquedotto non è l’opera di coloro che hanno costruito le altre parti. E’ esso di un’epoca posteriore?. Come il tratto che si estende lungo la ferrovia è antico (come lo attesta la costruzione) così bisogna ammettere che il tratto precedente scavato nel suolo, esisteva nell’antichità. Solo che essendo in una pendenza più ripida degli altri tratti, il flusso dell’acqua l’ha degradato prima. In origine forse il suo aspetto era molto

più grezzo. Sembra che i costruttori abbiano voluto approfittare dell’esistenza di una fenditura naturale aperta nel tufo dalle acque di scolo dei terreni permeabili superiori; allargando i punti più stretti di essa, essi l’ hanno lasciata tale e quale dove era sufficiente. In ogni modo il taglio dell’acquedotto attraverso il tufo è conforme alla p0ratica degli antichi di evitare, nei lavori pubblici, ogni costruzione inutile e di trarre vantaggio dalla natura dei terreni. Ci si accontentava di costruire in certi luoghi una volta a tutto sesto; il canale è ricoperto da grosse pietre di tufo poste orizzontalmente o inclinate l’una verso l’altra. La sezione dell’acquedotto lungo la ferrovia comprende due suddivisioni. L’una va dal punto dove il canale comincia a seguire òla ferrovia fino alla distanza di circa 60 m dal Serapeo. La costruzione. Analoga a quella su descritta, è antica (muri in opus incertum, volta fatta da due grosse pietre di tufo formanti un arco triangolare). Oltre, nulla è rimasto dell’antica costruzione.

L’estermità dfell’acquedotto fino alla fontana pubblica che esso alimenta nella piazza di Pozzuoli, è stato interamente ricostruito nell’ultimo terzo del XIX sec. Quest’opera moderna ha rimpiazzato non un canale antico, ma verosimilmente un canale del XVII sec, opera del vescovo Leon de Cardenas. Diversi rami conducevano l’acqua nei quartieri della città. All’inizio del XIX sec. fra l erovine chiamate di Pondera se ne è trovato uno che si dirigeva verso ovest dal lato del circo. Essi si staccava dal condotto

principale al quadrivio dell’Annunziata e alimentava in alto sulla collina il quartiere occidentale. Un altro ramo passava a nord dell’anfiteatro e comunicava con questo edificio. Quando si sterrò si credette dapprima che esso proveniva dal serbatoio chiamato Piscina Cardito posto sulla parte est di Pozzuoli. Studi di livello da me fatti eseguire escludono assolutamente questa ipotesi; la pendenza del canale va da ovest ad est ( in tutto il tratto conservato nell’anfiteatro e il punto dove il canale incrocia, passandovi sotto, dei condotti provenienti dalla Piscina Cardito). Esso era dunque collegato all’acquedotto campano in un punto indeterminabile, di lato alla via Celle e all’Annunziata, costeggiava a nord l’Anfiteatro e, descrivendo una curva verso sud, alimentava il quartiere sud-est. E’ questo canale che direttamente e con un braccio secondario alimentava un serbatoio le cui rovine si sono trovate a nord-ovest dell’Anfiteatro. Tra gli studiosi di antichità locali alcuni vedono nell’acquedotto campano una costruzione greco-romana, altri un’opera dei primi tempi del Medio-evo. Quest’ultima ipotesi è inammissibile. Il solo argomento sul quale sia appoggiano è che la sezione scavata nel suolo stesso sarebbe indegna del modo di costruire dei Greci e dei Romani; ma noi abbiamo già spiegato questo argomento. L’acquedotto è di origine antica per tre motivi: 1° Il condotto che alimenta l’Anfiteatro era, come lo

dimostrano le sue direzioni e la sua pendenza, una ramificazione dell’acquedotto campano. Quelo è quindi perlomeno contemporaneo all’anfiteatro. 2° La scalinata della via Campana è in apparenza in reticolato dell’epoca imperiale e vi si leggono sui muri parecchi graffiti in greco e in latino. 3° Infine la costruzione (opus incertum e in pietre di tufo e il reticolato della scalinata) è manifestamente antica.L’attribuzione dell’acquedotto a tale o tal’altro periodo è più difficile. Si può affermare che esso è anteriore al’epoca imperiale. Basta compararlo alle rovine dell’acquedotto relativo alla Piscina Cardito o al canale del monte Olibano, che datano all’Impero e dove la volta è fabbricata con una perfetta regolarità, le mura ricoperte da un bellissimo rivestimento di calce di sabbia e di mattoni. L’aspetto dell’acquedotto campano denota una minore cura ed abilità. Fa difetto il cemento dell’opus sgninum; il canale, anche nelle parti costruite, non è sempre molto regolare; la stessa cosa è della volta, sia dove essa è composta da due grosse pietre di tufo (via Campana) sia là dove essa è fabbricata ed arrotondata (canale a nord dell’Anfiteatro).L’acquedotto del serino che attraversando Pozzuoli alimentava Baia e Misero, non data che all’inizio dell’Impero. Pozzuoli durante tutta l’epoca repubblicana, non poteva dunque essere alimentata che dall’acquedotto campano. La sola parte di questo acquedotto i cui muri in opus

reticolatum lo fanno risalire al modo di costruire durante l’Impero è stato successivamente aggiustata. E’ la scala della via Campana. Dire di più è impossibile. Fu l’acquedotto opera dei primi coloni romani? E’ la sua origine più remota? Solo un paragone con l’acquedotto della Bolla a Napoli che sembrerebbe risalire al’epoca greca, ce lo svelerebbe.Ma le descrizioni che abbiamo dell’acquedotto della Bolla- che avendo servito durante tutta l’antichità e tutto il Medio Evo ed essendo stato molte volte restaurato, presenta costruzioni di diverse epoche- sono troppo vaghe per chiarirci la questione. L’acquedotto campano apporta ancora l’acqua a Pozzuoli. Esso è stato riparato spesso; non avendolo potuto percorrerlo non ho potuto rendermi conto di queste riparazioni. Esso è menzionato nel medio evo nei documenti dell’Archivio Angioino di Napoli, apprendiamo che nel 1343-44 e nel 1345-46 la città di Pozzuoli dovette, in seguito a temporali e a piogge torrenziali riparare il suo acquedotto e delle strade del suo territorio. Non sembra, nel periodo successivo, che sia stato utilizzato fino al 1540, anno in cui il viceré di Napoli Don Pedro di Toledo fece “pulire e riparare l’acquedotto degli antichi” per “ridare acqua agli abitanti assetati” così come detto in una iscrizione che ricorda il fatto ed che è riportata dal Gazzella.Un secolo più tardi il vescovo Leon di Cardenas compì nuovi lavori e lo prolungò fino alla fontana che si

trova sulla pubblica piazza di Pozzuoli.

II Acquedotto del SerinoUn acquedotto portava nelle città

della Campania del sud l’eccellente acqua del fiume Serino.L’ingegnere Lettieri su ordine di Don Pedro di Toledo ne ha ricercato e descritto l’intero percorso dal punto di origine nel XVI sec. Il suo rapporto resta ancora oggi la nostra principale fonte di informazioni su questo acquedotto di cui molte parti dopo 3 secoli sono scomparse. Secondo la descrizione del Lettieri e di qualche altra testimonianza l’acquedotto del Serino avrebbe attraversato Pozzuoli e sarebbe terminato a Misero. Il rapporto del Lettieri molto dettagliato fu la sezione dell’acquedotto che va dalla sorgente fino a Napoli, è molto più breve e anche insifficinete per la parte che va da Napoli a Misero. Secondo Lettieri, l’acquedotto dopo aver attraversato Napoli, superva la collina di Posillipo e si sarebbe poi diviso in due bracci: l’uno si prolungava a sinistra verso Nisida e l’altro si dirigeva verso Bagnoli e versoi Pozzuoli. Questo braccio incontrava davanti Pozzuoli la massa vulcanica del monte Spina e del monte Olibano; esso l’attraversava e di là si dirigeva verso la città “come lo si vede ancora”, dice Lettieri, “sotto la dimora del marchese di Trivicho- Molte sue ramificazioni percorrevano tutto il paesa; esso distribuiva l’acqua a molti serbatoi (cisterne) che si trovavano nella regione e terminava alla fine alla

grande e meravigliosa cisterna Piscina Mirabile, che forniva l’acqua in abbondanza alla flotta di Misero. La testimonianza di Lettieri concorda con quell di Loffredo e di Bertoli, che dicono anche che l’acquedotto del Serino passava per Pozzuoli. “Oggi, scrive Loffredo, si vede una grande parte di questo acquedotto sulla collina di Posillipo, in quella di Agnano e nell’Olibano. Dopo aver inviato parecchie derivazioni nella città, si riduceva di nuovo ad un solo canale e andava così fino a Tripergole, dove se ne vedono oggi dei resti nella proprietà di A. Capomazza, il poeta Batoli, infine, scrive nella sua Termologia: “C’è in questa regione di bagni un momento dell’antichità, cioè l’acquedotto che discende da Antignano e che, prolungandosi verso Pozzuoli, Baia e Misero conduceva in questi luoghi le abbondanti acque del fiume Sabato. Batoli ne segnala lo stato di conservazione particolarmente rilevante “sul lato sinistro della via che conduce al lago di Agnano”.Egli dice pure che il percorso era lo stesso di quello della via Domiziana.L’attuale stato delle rovine non permette di verificare se Lettieri, Loffredo e Batoli sono sempre esatti nei loro dati. Alcuni segnali permettono tuttavia di concludere, come loro, che l’acquedotto di serino non si fermava a Napoli, ma si prolungava verso Bagnoli e Pozzuoli. Il percorso dell’acquedotto a Napoli prova che esso non era di grande utilità per

l’alimentazione della città; esso la circondava a Nord, fornendo l’acqua ad un quartiere della città; il suo scopo era oltre. La collina di Posillipo, presso la grotta di Pozzuoli è attraversato da condotti dell’acquedotto; uno di essi, secondo Lettieri, si sarebbe diretto verso Bagnoli e Pozzuoli; Batoli indica un altro itinerario, poiché, secondo lui, l’acquedotto sarebbe disceso da Antignano verso Agnano e Pozzuoli. Le due supposizioni si completano parlando Lettieri e Batoli di due rami diversi. L’esistenza di rovine di un condotto segnalata da Lettieri e Batoli è confermata da testimonianze successive.Il canale dell’acquedotto scavato nel monte Olibano è ogni giorno più distrutto; dopo molti secoli il monte Olibano serve da cava; si estraggono pietre per la costruzione del molo di Pozzuoli e per la manutenzione del porto di Napoli e quello che resta dell’acquedotto sparisce a mano a mano che si scava la montagna. Io ho ancora visto nella Regia cava un condotto sotterraneo, ostruito da frane per una decina di metri. Esso era ricavato con colpi di piccone nella viva roccia; la sua volta era arrotondata; le pareti erano rivestite da due strati sovrapposti: l’uno di cemento (calce e pozzolana), l’altro di un cemento analogo, mescolato a mattoni impilati. La mina ha ora fatto saltare questo tronco d’acquedotto. Nella Cava Regia, si osservava anche, circa 20 anni fa, un’altra parte di un canale che è poi sparito e

che era scavato allo stesso modo nella roccia vulcanica. Questo condotto misurava 1,85 m d’alteza e 0,80 m di larghezza. Delle aperture erano praticate alla sommità della collina fino all’acquedotto. Di Iorio segnala la presenza degli sfiatatoi di forma quadrata lungo il monte Olibano. Oltre tale monte nessuna rovina ci permette di seguire il percorso dell’acquedotto verso Pozzuoli. Non crede che l’acquedotto del Serino portava l’acqua a Pompei nel 2° sec a.C. e che fu costruito fra le guerre puniche e la guerra civile, a spese delle città campane. Ma solo più tardi venne prolungato verso Napoli e Pozzuoli. Si ammette che andava fino a Misero ad alimentare la Piscina Mirabile. Ora la Piscina Mirabile costruzione in opus reticolatum fece parte senza alcun dubbio dei alvori compiuti da Agrippa nel porto di Misero.

Cisterne (piscine)Un certo numero di cisterne

(CESTELLA) esistono ancora a Pozzuoli. Esse risalgono tutte all’età imperiale.1° Piscina Cardito- Il serbatoio detto a Pozzuoli Piscina Cardito è situato nella parte orientale della città un po’ a nord delle rovine termali dette Bagno Ortofonico. Essa comprendeva due serbatoi. Un condotto si introduceva nel primo sul lato est, mediante un condotto con una chiusura a saracinesca. La sua lunghezza è di 55 m la larghezza di 16 m, la profondità di 15 m circa. La volta è sostenuta da 3 file di pilastri (in tutto 30), distanti

l’uno dall’altro 4,60 m (nel senso della lunghezza della cisterna) e da m 2,55 a m 2,62 nel senso della larghezza. La muratura in mattoni rivestiti da cemento di pozzolana e da opus signinum, molto spesso è pressoché intatto dappertutto. Ampi sfiatatoi circolari nella volta (1 m di diametro) assicuravano il rinnovo dell’aria; ne sono 5 tra i pilastri della fila mediana. Sul fondo del serbatoio sussistono resti di una scalinata. Le acque si riversavano, dal lato sud, in due canali: l’uno che dirige verso ovest e l’altro che va a sud; poi, dopo qualche metro, gira bruscamente a est e una volta alimentava delle terme (Bagno Ortofonico) e il quartiere vicino. All’inizio della volta del serbatoio, sul lato sud, un condotto triangolare di piccole dimensioni (0,30x0,30 m) ricoperto da tre ampie lastre di terracotta, serviva da canale di scarico. Il secondo serbatoio comprendeva 14 compartimenti o vasche con una lieve pendenza e comunicanti mediante delle aperture che costituiscono nel mezzo del serbatoio una sorta di corridoio (largh. 1,20 m). Un canale l’alimentava a nord.L’abituale rivestimento di cemento e di opus sgninum ricopre completamente le parti e il fondo delle vasche; fra i muri e il pavimento ci sono dei bordini a forma di ¼ di cerchio. L’acqua dopo aver percorso le 14 vasche e dopo aver percorso vari condotti si riversava nel serbatoio nel 14° compartimento (il più grande) è sistemata una piccola vasca con

pareti di mezzo metro e forata da 4 buchi circolari: essa serviva da pozzo assorbente. Da questa vasca l’acqua passava per uno stretto canale tubolare. Il condotto che alimenta la grande cisterna la contorna in modo da dirigersi ad ovest. Da esso si stacca un condotto verso sud e passa attraverso una piccola vasca di decantazione larga 2 m, posta ad un livello due metri più in basso nella quale l’acqua cadeva a cascata. Ad una lunghezza di 3,80 m questa vasca è chiusa da un muro semicircolare (alto m 1,50), forato da 3 fori circolari per il passaggio dell’acqua. Un altro condotto costituiva una piccola vasca dove le acque riuscivano a depositare le loro impurità.Tutti i condotti sono costruiti allo stesso modo (opus incertum con rivestimento in opus sgninum e di cemnto di pozzolana). All’altezza di m 0,25 del suolo lungo i muri, due bordi stretti risalenti formano un marciapiede dove si poteva camminare all’asciutto.Paoli e Di Iorio ed altri studiosi hanno creduto che la Piscina Cardito ricevesse le acque dal condotto che attraversava il monte Olibano. Ciò è impossibile, il piano di questo condotto è inferiore a quello della piscina.Niente ci permette di affermare che la Piscina Cardito fosse alimentata dall’acquedotto del Serino piuttosto che dall’acquedotto campano. Forse un ramo dell’acquedotto campano attraversando o girando attorno alla città a nord vi adduceva l’acqua. Se, al contrario, l’acquedotto del Serino l’alimentava, questo non poteva

essere se non mediante un condotto diverso da quello che io ho visto nel monte Olibano.Due canali oltre la Piscina Cardito si dirigono verso ovest. Li si percorre per una lunghezza di una quarantina di metri, dopo che essi sono colmati. Un altro condotto dava origine ad una ramificazione verso due serbatoi posti un po’ a sud del suo percorso(Cento Camerelle- Piscina Lusciano). Andando sempre in linea retta sulla sinistra un po’ oltre l’inizio di via Anfiteatro, le rovine di un acquedotto affioravano dal suolo: per una lunghezza di una quindicina di metri si estende un condotto nel quale si entrava ancora fino a circa 10 anni fa e che dopo è stato ostruito. Esso è il prolungamento esatto dell’acquedotto che viene dalla Piscina Cardito. Oltre ogni traccia del canale spariva. Conoscendo la sua direzione esso doveva passare tra le terme e il tempio di se rapide. Un condotto che alimentava le terme e che figura su un disegno di Paoli, vi era verosimilmente relazionato. 2° Piscina delle Cento Camerelle e Piscina Lusciano.. La prima di queste piscine si trova in un giradino (oggi Villa Avellino una volta proprietà Iaccarino) al di sotto di Piazza del Carmine. Essa è particolarmente ben conservata; ma quando raccoglie l’acqua piovana non vi si può entrare. Lunga 50 m, larga 20 è divisa in numerosi compartimenti e ciascuno occupa uno spazio di circa 3 m2. Il condotto che portava l’acqua si apriva nel muro nord; ad est un canale

comunicava pure con la cisterna. I muri sono in opus reticolatum e rivestiti di opus signinum.A sud nello stesso giardino (oggi Villa Avellino) a circa 50 m di distanza un altro castellum (Piscina Lusciano), lunga 35 m, larga 20 m, divisa in 21 compartimenti comunicanti nel senso della lunghezza mediante aperture centinate (arcuate) assai basse e nel senso della larghezza stessa della volta. Fino alla distanza di 1,60 m dal punto culminante della volta, il rivestimento dei muri comprendeva pilastri di mattoni misti a cemento; a partire da questa altezza esso era rivestito solo da cemento di pozzolana. La muratura è fatta di strati successivi di mattoni e di reticolato. In una casa vicina persistono i resti di un condotto parallelo al lato nord del serbatoio, costruito in reticolato con una volta triangolare (h 1 m e l 0,50 m).3° Altri serbatoi. Ci sono ancora da segnalare altri due serbatoi. L’uno è nella città bassa (via Garibaldi). Tre scomparti sono appena sterrati. E’ una costruzione dell’epoca imperiale. L’altra è posta a nord –est dell’anfiteatro a fianco del luogo dove si trova il grande deposito di vasellame della fabbrica del ceramista Nevio. E’ in opus reticolatum. Restano solo 6 compartimenti tra essi comunicanti per aperture che formano una sorta di corridoio centrale. La lunghezza delle rovine è di 24 m, la larghezza è di 12 m. Sfiatatoi sono praticati nella volta. In uno dei comparti esiste una piccola vasca che funge da pozzo assorbente. Questo

serbatoio era alimentato da un braccio dell’acquedotto campano che passa vicino all’anfiteatro.

Capitolo VPrincipali monumenti e rovine

IIl Macelum (Tempio di Se rapide)Il monumento comunemente chiamato Tempio di Serapide, era il mercato (macellum).Gli scavi. Il tempio di Serapide riamse sepolto fino alla metà del XVIII sec.. Emergeva solo la parte superiore di tre colonne erosa dai litofagi. Non fu fatto nessun scavo metodico prima del 1750. I Borboni intrapresero allora lo sterramento dell’edificio. Furono rinvenute la statua del dio Serapide, un gruppo d’Oreste e di Elettra, frammenti scultori ed architettonici sparsi un po’ dappertutto. Gli scavi furono continuati senza interruzione fino al 1753. Il monumento fu invaso dalle acque del mare nel 1803. Si sterrò negli anni seguenti il portico del Macellum, la cella e le camere del lato meridionale fu trovato un gruppo di Bacco e di un Fauno. Grazie a questi scavi l’archeologo napoletano di Iorio e l’architetto Carestie studiarono l’edificio, l’uno nelle sue “Ricerche sul Tempio di Serapide”, l’altro in un “Mémoire” inedito e in una “Restauration”, che sono conservati a Parigi nella Biblioteca della Scuola di Belle Arti. Queste due opere sono la base necessaria di tutto lo studio sul macellum di Pozzuoli. Essi possono essere utilmente completati dalle descrizioni di alcuni autori della

seconda metà del XVIII sec., che come l’abate Guasco e Paoli videro l’edificio dopo gli scavi del 1750. Nel 1816 si organizzarono delle sale termali nelle sale che si aprono all’esterno, utilizzando le sorgenti di acque termali che zampillavano nelle vicinanze. I muri moderni che sormontano in queste sale la costruzione antica datano da questa epoca. Negli anni seguenti, si scavarono rovine che sarebbero appartenute, secondo Caristie, ad un peribolo che circondava l’edificio; poi non si scavò più e si fecero solo scoperte rare e fortuite come quelle dei canali trovati da Niccolini. Il fenomeno geologico (bradisismo) era sempre più accentuato e l’acqua del mare invase il monumento e poiché l’acqua stagnante produceva esalazioni malsane, si colmò il macellum. Oggi (1907) il suolo è a 1,50 al di sopra del pavimento antico; si è soltanto ricavato dello spazio libero inorno alle 3 grandi colonne e l’acqua ha invaso tale spazio per un’altezza che va da m 1,30 a m 1,50.Il macellum è composto da un certo numero di locali che circondano un cortile interno quadrato; la sua larghezza totale è di 58 m la lunghezza, calcolata a partire dal fondo della cella (luogo dove si trovava la statua del dio Serapide) è di 75 m. All’interno del cortile c’era una piattaforma con un colonnato circolare e, in fondo, in fronte all’ingresso principale una cella di forma semicircolare. L’edificio nel suo stato attuale data dall’Impero; ma, come lo attestano i reperti ritrovati ad un livello

inferiore di un pavimento più antico, esso era successivo ad un monumento di un’epoca anteriore. Sembra, in effetti, che i fenomeni geologici di abbassamento del suolo si manifestassero già nell’antichità e che i Romani furono costretti ad innalzare l’edificio. Le mura principali sono costruite in mattoni quadrati e triangolari con archi di scarico formati da grandi mattoni per alleggerire la costruzione. A giudicare dai frammenti ritrovati le volte erano costruite come le celle degli edifici antichi di baia, con una lava molto leggera simile a pietra pomice. COLONNATO CIRCOLARELa piattaforma centrale ha un diametro di m 18,23. Essa era sopraelevata di m 1,17 al di sopra del suolo, costruita in mattoni ricoperti di lastre di marmo. Vi si accedeva per 4 scalinate di alcuni scalini, due poste di fronte alle porte laterali, la terza di fronte alla cella, l’ultima davanti all’entrata principale. Questa piattaforma sosteneva 16 colonne in marmo africano; davanti ogni colonna vi era una base con su una statua; tra le basi erano situati vasi cilindrici di marmo bianco, decorati con scanalature a spirale, come si può constatare secondo l’incisione del Paoli; qualcuno di questi vasi o alcuni suoi frammenti sono disseminati fra il materiale accumulato fra le rovine del monumento. Le osservazioni fatte da Carestie e il disegno che egli ne dà dello stato attuale del piano circolare (siamo nel 1907) ci fanno conoscere che non c’erano tracce di

un muro al bordo della piattaforma. Molte particolarità architettoniche provano che il colonnato circolare non era ricoperto e che li non ci fu mai alcun tempio monottero. La grande distanza tra le colonne, la loro altezza così come quella della cella dello stilobate non permettono, secondo il Carestie, di affermare, in ragione del diametro del paino circolare, che una volta abbia sormonatato il colonnato, a meno di scartare del tutto le indicazioni date da Vitruvio per le proporzioni del monottero. Infine è stato ritrovato un frammento della cornice che, a giudicare dalla sua forma e dalle sue dimensioni, apparteneva alla trabeazione del colonnato circolare; ora, il suo profilo interno è uguale a quello esterno ed è probabile che se una volta si fosse appoggiata sula cornice, si sarebbe diminuita la sua altezza per meglio collocare la volta. Il frammento ritrovato non permette di supporre che sia stato così. Dobbiamo quindi ritenere che il piano centrale fosse scoperto. All’inizio non c’era colonnato. Secondo il Carestie la costruzione della piattaforma circolare è inferiore a quella del resto dell’edificio, inoltre se si paragona la trabeazione a quello del portico che circonda il cortile si constata che lo stile del’ordine del colonnato e degli ornamenti che lo decorano testimonia poca armonia nei profili e poca cura nel’esecuzione. Saremmo dunque in presenza di un lavoro di un’epoca di decadenza. Grazie ai frammenti ritrovati si può raffiguarare come era nell’antichità questa parte del monumento. Le

colonne erano in breccia africana; il loro diametro era di m 0,68 in alto e di m 0,76 in basso, il fusto era alto m 5,30; l’altezza totale comprese le basi di marmo bianco era di m 7,22. Sculture raffiguranti cavalli marini e delfini, ai quali si mescolano Tritoni e Nereidi, ornano le basi. Delfini posti l’uno di fronte all’altro entrano nella decorazione del cornicione, che comprende anche come motivo decorativo uno geometrico ed uno vegetale stilizzato. Il motivo scultoreo dei mostri marini riappariva sulle rampe di appoggio delle scalinate. Queste sono sculture di delfini che divorano della gente. Animali con coda di pesce, con la testa di cervi, di cani marini, di leoni, di liocorni sono, sotto il delfino raffigurati in bassorilievo. I vasi in marmo bianco scanalato erano 12.Essi non erano parapetti di pozzi perché non sono aperti sul fondo. Tuttavia Carestie su isegno che fa di due di questi vasi, disegna sul fondo una piccola apertura rotonda da 8 a 9 cm; siccome egli è sempre molto esatto, siamo obbligati a credere che alcuni di questi vasi erano bucati per permettere il defluire dell’acqua o di qualche altro liquido con i quali venivano riempiti. La pavimentazione del piano in marmo bianco era simile a quela del’atrio. Esso era inclinato verso il centro, dove molti archeologi, Guasco e l’abate di Saint-Non ed altri videro un rosone, pietre forate ricoprivano un canale di scolo delle acque pluviali. All’epoca di Carestie questa particolarità non era pèù visibile; egli stesso si riporta su

questo punto alle testimonianze anteriori. Al centro della piattaforma c’era uno zoccolo in marmo di forma ottogonale di cui Carestie rileva le tracce. Per delle aperture praticate nello zoccolo le acque scolavano fino alla pietra forata. CORTILE e PORTICOAttorno alla piattaforma centrale si estendeva un cortile quadrato, interamente pavimentato con lastre di marmo e cinto da un portico. Questo composto di colonne di marmo cipollino e di granito grigio (altezza del fusto m 6,11; diametro alla base m 0,80) comprendente su ogni lato 9 colonne, in tutto 36. Un certo numero di frammenti che appartengono al portico sono stati ritrovati; essi forniscono elementi sufficienti per una possibile ricostruzione. Caristie ha disegnato due fusti di colonne spezzate, di diverse basi, di un capitello, di frammenti dell’architrave e del fregio, di un frammento del cornicione. Frammenti dell’atrium sono visibili ancora nel monumento, per esempio pezzi di colonne, di capitelli dell’architrave. Un altro frammento di architrave, appartenuto senza dubbio al macellum, oggi fa parte della piattabanda dela porta principale dela cattedrale di Salerno. Esso rappresenta una specie di candelabro dal cui fondo escono diversi ornamenti nel mezzo dei quali sono disposti simmetricamente dei cani dei quali si vede solo la testa e la metà anteriore dei corpi. I capiteli di stile corinzio, portano su ogni faccia una conchiglia marina

contenente un piccolo delfino. Lo stile generale del cornicione differisce da quello del colonnato circolare e da quello del grande ordine davanti la cella. Secondo la stima del Caristie, il loro è superiore ed è di una epoca migliore. È più puro, più severo e, come esecuzione, più accurato di quello del colonnato circolare; i motivi geometrici vi controbilanciano maggiormente l’impiego dela decorazione vegetale. Questo stesso vi è stilizzato diversamente dal cornicione del grande ordine davanti la cella; l’impiego di grandi volute e di rosoni vegetali che appariva in quest’ultimo, ne è bandito. Queste intuizioni, derivate dallo stile e dall’arte, basterebbero ad indicare che il portico attorno al cortile non appartengano alla stessa epoca né al colonnato circolare, né la trabeazione davanti la cella. Ma altri indici portano anche a credere che il portico intorno al cortile è di un’epoca anteriore alla sistemazione delle quattro grandi colonne davanti la cella e della trabeazione che esse sostenevano. Queste colonne sono state attaccate dai litofagi e di esse tre sono ancora in piedi. Sono di marmo cipollino; il fusto alto m 1,78, ha in basso un diametro di m 1,49. Esse costituiscono il frontespizio della cella; a destra ed a sinistra di esso, gli spazi tra le colonne del portico sono irregolari, come ci si può rendere conto con un colpo d’occhio gettato sul piano. All’inizio essi erano regolari ed il frontespizio non esisteva. Gli intercolonnamenti del portico su uno qualunque dei lati del

cortile sono sette e sono perfettamente regolari, salvo quelli del lato nord, la cui irregolarità proviene dal fatto che un cambiamento fu apportato a questa parte dell’edificio per rendere più maestosa la facciata della cella. Ciò che conferma questa ipotesi del Caristie, è il carattere architetturale del frontespizio della cella, diverso da quello del portico del cortile, avendo quest’ultimo la sua cornice ornata da medaglioni e avendo differenti e più eleganti ornamenti. Inoltre un frammento di cornicione, disegnato da Caristie non è potuto appartenereche alla cornice del portico del cortile; esso era all’angolo di questo portico, sopra due colonne a destra e a sinistra del frontespizio: esso presente, in effetti, un angolo sporgente, mentre il portico attorno alla corte, non avendo alcun avancorpo non presentava che angoli rientranti. Il suo aspetto, infine, denota che il profilo è stato rimesso a squadra posterioremnete all’epoca dell’esecuzione della faccia di questa cornice, dal lato del cortile poiché la faccia offre particolarità che la fanno differire un po’ dalla prima.Per tutte queste ragioni, bisogna ammettere con il Caristie che una modificazione fu apportata sul lato nord della corte, quando si volle collocare il frontespizio della cela. Si diminuirono gli intervalli tra un colonna e l’altra a destra e a sinistra, al portico e si portò a squadra la trabeazione per appoggiarla sul muro di fondo.

Davanti al colonnato del portico era scavato nel pavimento del cortile un cataletto per il deflusso del’acqua piovana e davanti ale colonne erano poste dei piedistalli che sostenevano delle statue e sui quali erano erano incise delle iscrizioni. Tra le colonne c’erano delle barriere di marmo a graticciata, di cui sono stati ritrovati frammenti sul pavimento; e su parecchi frammenti di fusto erano visibili tracce di attacco di queste balaustre.Sulla pavimentazione del cortile, davanti a due scalinate della piattaforma circolare poste sull’asse longitudinale del monumento erano murati due grossi anelli di bronzo.CELLA.Grazie ai frammenti ritrovati (framenti dell’architrave, dei fusti di 3 altre colonne del cornicione, un frammento di capitello), Caristie ha eseguito un disegno tenendo conto dell’altezza della trabeazione in rapporto a quella delle colonne, un restauro a quella delle colonne, un restauro molto interessante di questo insieme di trabeazione e di frontone che la coronava. La soglia della cela era costituita, ai due angoli, da due pilastri, di cui si sono ritrovate le basi sul posto così come il rivestimento in marmo cipollino, e al centro due colonne in mamro cipollino, i cui fusti spezzati sono stati ugualmente ritrovati. Tra i pilastri e le colonne, la pavimentazione in mattoni portava tracce di tramezzi in mamro; non era lo stesso nello spazio tra le colonne della parte mediana che era libero.

La larghezza della cella è sul davanti di circa m 14,43; al fondo essa forma un emiciclo; nei muri sono scavate tre nicchie, due sui lati ed un al centro. Quest’ultima era preceduta da un ascalinata di tre gradini e sormontata da un frontone che posava su due colonne di granito poste da ciascun lato di cui sono stati trovati frammenti di fusto così come le basi di marmo bianco. Il pavimento della cella era più ricco di quello del resto dell’edificio; invece di essere di mamrmo bianco, era in mamro rosso, giallo, verde e violetto, che disegnava una decorazione geometrica di cerchi, quadrati e di rombi. La cella evava una volta ed i muri erano rivestiti di diversi tipi di marmo. Dietro la cella l’acqua arrivava nell’edificio attraverso quattro canali sotterranei. Essi si riunivano nel centro della cella sotto il compartimento centrale del pavimento mattonato; di là l’acqua era condotta nei due grandi locali posti ai due lati del monumento (lato nord).AMBIENTI DEL LATO SETTENTRIONALEA destra e a sinistra dell’emicilo centrale, si trovano due piccoli ambienti, i cui muri erano decorati con marmi. Non è stato trovato niente che ci possa far capire la loro destinazione. Gli ambienti seguenti agli angoli dell’edificio erano, al contrario, conservati molto bene fino ai primi anni del XIX secolo. Erano i più grandi (m 10,50x m 6,50). Tutt’intorno c’era un canale largo m 0,50 e scavato molto

profondamente: questa profondità variava, essendo il canale in pendenza verso certi punti dove esso sboccava nelle fogne. L’acqua era portata nel canale attraverso due condotti in mattoni che sboccavano in ciascuna sala, ai due angoli interni e si riversava in una fogna la cui apertura era posta (sala di destra) in un angolo a destra della porta d’inngresso, e (la sala a sinistra) nell’angolo che costituisce l’angolo esterno dell’edificio. Questa disposizione dei canali ha potuto essere studiata grazie a scavi intrapresi da un vescovo puteolano, C.M. Rosini nel 1818, in presenza di Caristie, che ha riportato con grande precisione i dettagli dei canali e delle fogne. La cloaca colletrice, deviata in parte sul lato ovest del monumento era alta m 0,90, larga m 0,58; un’altra fogna correva lungo il lato orientale. In ogni sala, il canale era ricoperto di sedie di grosse pietre quadrate (16 nella sala di destra e 18 nella sala di sinistra) erano incastrate nel muro; al di sopra di queste pietre e davanti erano applicate delle lastre di marmo recanti ognuna un foro rotondo. Ogni buco (diametro 0,26 m) delle lastre verticali davanti comunicavano attraverso una fenditura con quella delle lastre orizzontali formando dei sedili. C’era posto per 45 di questi sedili davanti ai quali, in ogni sala, erano praticati dei piccoli cataletti di scolo nella lstra di marmo. Nei muri laterali erano scavate, ad una certa altezza tre nicchie (larghezza m 1,30) ; l’una nel mezzo semicircolare, le due altre

quadrate con dei piedistalli come basi per delle statue. La nicchia in mezzo era ornata da due colonnine (diam. m 0,22), insistenti su due mensole scolpite. Fino ad un’altezza di m 0,40 al di sopra dei sedili, la decorazione era costituita da placche di mamro bianco; al di sopra dei rettangoli di mosaico fatto con diversi tipi di marmo. Gli ornamenti architettonici erano essi stessi ricoperti di mosaici, come si può constatarlo su un pezzo di frontone che, in seguito alle misure prese apparteneva al frontone sostenuto dalle colonnine della nicchia centrale.Il muro di fondo era forato da tre finestre larghe quelle laterali m 1,80 e quella centrale m 2,10. Queste erano le nicchie sole ad avere finestre.L’ingresso presentava una disposizione speciale. Esso era protetto da una barriera in marmo ornata di erme, che impedivano di vedere nella sala, poiché la porta di ingresso di questo tramezzo non corrispondeva a quella dela cella.SALE DEL PORTICATOGlia ltri tre lati dell’edificio erano occupati da una serie di piccole camere che si aprivano alternativamente all’esterno ed all’interno del portico. Esse erano diversamente decorate: quelle dell’interno avevano un rivestimento di marmo; al contrario gli ambienti che si aprivano all’esterno non avevano un rivestimento in marmo, ma erano soltanto ornate da stucchi. Si potevano chiudere; Caristie ha ritrovato soglie, resti di stipiti

appartenenti alle porte, tracce di fori dove erano i cardini, occhielli e la traccia di chiavistelli. Si vede da queste indicazioni che le porte erano a due battenti. Non si è trovato niente in queste sale che ci indica con certezza la loro destinazione. Tutto ciò che si sa è che sul pavimento di qualcuna erano praticate piccole aperture che sembravano fatte per lo scolo delle acque. Nelle camere esterne, c’erano degli spessori di piperno lungo il muro laterale. Questi blocchi sono disegnati sulla planimetria dell’abate Guasco, che a torto le indicò come dei primi gradini di scalinate che in realtà non ci sono mai state in questi locali. Invece il Caristie e il Di Iorio hanno visto bene che essi erano semplicemente destinati a servire da supporto per qualche oggetto. Si sono ritrovati resti di scale solo in due ambienti rispettivamente su ciascuno dei lati del monumento. PIANO SUPERIOREQueste scale provano l’esistenza di un piano superiore al quale bisogna riferire frammenti e fusti interi di colonne, di capitelli e di basi che, in ragione delle loro dimensioni non potevano appartenere al portico del pianterreno, né ad alcuno degli altri ordini. Dobbiamo pensare, dunque, che c’era un primo piano con un portico e delle camere. Sono stati ritrovati frammenti di transenne in marmo diverse da quelle del pianterreno; questa barriera si elevava fra le colonne fino alla base era di m 0,50. Il portico del piano superiore si estendeva dappertutto tranne che all’entrata principale

del’edicola (cella) e delle camere angolari del lato nord che occupavano tutta l’altezza dell’edificio. PORTE E PORTICI ESTERNI – CANALI –Si entrava per un largo vestibolo di fronte alla cela e da quattro aperture laterali, due su ogni lato, che potevano essere chiuse da due porte; l’una interna, l’altra esterna: queste porte differivano da quelle delle camere. A sud dei sondaggi hanno permesso a Caristie di determinare la disposizione del muro dell’edificio, dell’angolo destro del vestibolo e di un portico con l’indicazione della posizione di un colonnato e di una scala. Sui fianchi non c’era il portico ma solo una scala e un pianerottolo di m 2,50 di larghezza davanti ai muri. Dietro l’edificio, all’angolo nord-est, è stata ritrovata una porta che aveva conservato il suo architrave e, a fianco, i resti di una costruzione che sembra essere stata un serbatoio. Dietro la cella si elevava una terrazza; nello spazio posto tra questo terrapieno e l’edificio, si sono sterrate parti di una rampa con pavimento a mosaico e sotto il terrapieno, due grandi serbatoi; l’uno a sinistra della cella, tutto rovinato; l’altro a destra, ben conservato, dove si scendeva per una scalinata, e che si trova a m 1,50 al disotto dell’edificio. Si accedeva alla terrazza per delle scale, i cui gradini fiancheggiavano la faccia esterna del’emiciclo della cella.

A m 9,75 del fianco laterale occidentale, sono state scoperte le rovine di un piccolo locale (4,8x9,60m) e le tracce di stanze analoghe vicine, parallele al monumento principale. Caristie crede che esse facevano parte di un pericolo che circondava interamente l’edificio. Dall’altro fianco, in effetti, ad oriente sono state ritrovate delle rovine, soprattutto quelle di un lungo muro, che, secondo lui, avrebbero corrisposto alle rovine della parte occidentale e che avrebbero fatto parte di uno stesso pericolo, così egli suppone e l’hanno supposto anche il di Iorio ed altri studiosi contemporanei. I muri di questo supposto pericolo sono in reticolato. Oltre alle fogne nelle quali si riversavano le acque delle camere del’angolo sul lato nord, esistevano altri canali. In diversi punti, negli spessori dei muri si è constatata la presenza di condotte di mattoni, attraverso le quali le acque del primo piano discendevano nei condotti dei quali e’ stato riportato alla luce sotto il pavimento dell’ambiente posto immeditamente a destra della cella. Questo condotto si ricongiungeva ad un canale costruito sotto il cataletto del cortile interno. E’ necessario ristabilire per ipotesi un certo numero di canali specifici, come quelli nei quali si riversano le acque al centro della piattaforma circolare, o come quelli che comunicavano con le aperture forate nel molo di certe camere. Sono stati scoperti i resti di sei condotti sotterranei dal Piccolini, allorche’, facendo degli studi geologici

sull’abbassamento della costa, scavo’ una lunga trincea lungo il lato meridionale sotto il portico del cortile interno; malauguratamente egli non ha indicato nel suom piano la dislocazione dei condotti.I muri dell’edificio erano etsriormente ricoperti di stucchi. Sono stati ritrovati dei frammenti della copertura del tetto: antefisse, piastre con i cataletti per lo scolo dell’acqua piovana.DESTINAZIONE DELL’EDIFICIOSecondo un’opinione diffusa nel XVIII secolo, il macellum era stato un tempio di Se rapide. La scoperta di una statua di questa divinita’ in una delle stanze d’angolo aveva dato origine a questa ipotesi. Che il macellum comprendesse un santuario e’ certo: esso era la cella in fondo al monumento. Ma tutto il resto dell’edificio serviva ad un uso che bisogna ora ricercare. O il monumento era un mercato (e noi lo crediamo) o era uno stabilimento termale. Riassumiamo dapprima quest’ultima ipotesi, quella di Caristie e del di Iorio.Il serbatoio dietro la cella contiene un’acqua minerale, che gli antichi avevano utilizzato. Resti di altre cisterne sono stati ritrovati dietro il monumento. Dovunque in questo luogo zampillano dal suolo acque termali che sono state utilizzate nel medio evo e che vengono ancora utilizzate. Percio’ il di Iorio e il Caristie hanno creduto che l’edificio sia stato uno stabilimento termale.Secondo il Caristie, quindi, la cella sarebbe stata il santuario del dio protettore delle terme, sia Se rapide,

sia Esculapio, di cui fu trovata nel macellum una statua oggi scomparsa. Caristie crede anche che il tempio avrebbe potuto essere posto sotto la protezione comune delle due divinita’. Lo zoccolo posto in mezzo al piano circolare sarebbe stato un altare per i sacrifici; si sarebbero legate le vittime agli anelli fissati nel pavimento; nei vasi scanalati si sarebbero raccolti la loro carne e il loro sangue. Quanto ai diversi ambienti, gli uni (celle poste a destra e sinistra dell’edicola) sarebbero serviti per il culto; gli altri sarebbero stati sale da bagno. Gli ambienti posti agli angoli dove sono i sedili di marmo dovrebbero in questo caso essere considerate come sale per la sauna. Caristie suppone che i 4 canali d’acquedotto che si trovavavano dietro la cella portavano in questi locali le acque calde dei serbatoi: il vapore si sarebbe diffuso attraverso i fori dei sedili, sui quali erano seduti i malati. Caristie, avendo vapore di Ischia, ha creduto di riconoscere delle analogie con le antiche abitudini. E’ cosi’ che ad Ischia sono seduti i malati sui sedili dove sono praticate delle sottili aperture per l’esalazione del vapore; il malato applica la sua testa, la sua schiena, i suoi piedi ad altre aperture dello stesso tipo praticate nel suolo o nel muro. L’acqua dopo aver emesso vapore nelle camere serviva ancora: i due canali, si allungavano lungo i fianchi dell’edificio e la riversavano nelle altre stanze. Le lastre di piperno sarebbero stati dei sostegni per le

vasche da bagno. Di conseguenza Caristie ha ricostruito tutto un sistema di canali che avrebbero condotto l’acqua nelle sale del portico dell’edificio. Cio’ che rende questa ipotesi molto plausibile e’ la vicinanza delle acque termali e l’esistenza di condotti che sono sembrati a Caristie che abbiano messe le cisterne in comunicazione con il monumento. Notiamo tuttavia che il sistema di canalizzazione ristabilito dal Caristie nelle camere del portico dell’edificio non si fonda su alcuna solida indicazione. Di Iorio pure dichiara che non e’ stato trovato nessun canale recante acqua nelle camere. La disposizione dell’edificio non e’, sotto malcun rapporto, quella che siamo soliti riscontrare, in Italia o altrove, negli stabilimenti termali. Ne’ le rovine di terme scoperte in Francia, ne’ quelle di Baia, ne’ quelle d’Algeria permettono di supporre che gli antichi abbiano costruito seguendo la pianta del Macellum puteolano delle terme. L’origine antica dei serbatoi non e’ dubbia, ma non e’ stata riscontrata alcuna traccia di comunicazione tra esse ed il Macellum. La pianta del Macellum parrebbe piuttosto essere quella di un mercato. Essa e’ simile a quella dei mercati di Roma, di Pompei di Timgad (Africa) e di Perge’, Krenna Sagalassos (Asia Minore). La ripartizione delle botteghe intorno ad un cortile quadrato orlato di portici, e’ dappertutto la stessa. La divisione delle botteghe in due categorie, le une interne, le altre esterne, si ritrova a Pompei. A che servivano le lastre di travertino che

erano all’interno? E’ impossibile congetturarlo, ma esse potevano sostenere tutt’altro oggetto che una vasca da bagno. Attraverso le aperture praticate nel suolo scolava l’acqua con la quale si puliva il piano di travertino. Quanto alla piattaforma circolare al centro della corte, essa richiama la rotonda del mercato pompeiano che era circondata da colonne e ricoperta da un tetto, secondo la ricostruzione di Nissen e di Man. Un simile tholos appariva su un medaglione di Nerone rappresentante un macellum; simili rovine sono state ritrovate nei mercati di citta’ dell’Asia Minore. Il tholos era in genere sormontato da una cupola, ma la regola non era assoluta. Il bacino che era al centro del mercato di Timgad era scoperto e non era circondato da un colonnato; quello circolare di Pozzuoli non portava piu’ alcun tetto e in un primo momento non esisteva. Abbiamo visto che al centro del tholos sono state rilevate tracce di un rosone per lo scolo delle acque cosi’ come quelle di un solco ottogonale. Caristie e di Iorio hanno supposto che li’ c’era un altare. Io non trovo in alcuno degli autori precednti la notizia che un simile altare sia stato ritrovato. Quanto ai 12 vasi scanalati che, secondo di Iorio, ricevevano l’acqua lustrale e le parti delle vittime immolate sull’altare, sono particolari al mercato di Pozzuoli. E’ impossibile determinare il loro uso come e’ impossibile capire l’uso degli anelli che erano murati nel cortile. Rileviamo solo che degli anelli

dello stesso genere esistevano nel monumento di Eumachia a Pompei che fu un mercato. In tutti i mercati c’era, come a Pozzuoli, davanti alle colonne dei portici, delle basi sormontate da statue. A Krenna queste basi erano poste fra le colonne; a Timgad stature erano disposte qua e la’ nel mercato; erano quelle di personaggi che avevano costruito o abbellito il mercato. A Pozzuoli si erano poste davanti a due grandi colonne della cella statue dell’imperatore Alessandro Severo e della moglie Barbia Orbiana. L’emiciclo del fondo, con le sue tre grandi nicchie e il suo portico sormontato da un frontone, aveva una destinazione religiosa. Esso e’ di fronte all’entrata, come il santuario del mercato di Pompei, che era sopraelevato di qualche gradino e che era consacrato al culto della famiglia imperiale. Un santuario simile c’era raffigurato sul medaglione di Nerone; vi si vede la statua di una divinita’. Noi ignoriamo quali fossero le tre divinita’ protettrici del mercato di Pozzuoli. E’ possibile, ma non certo, che la statua di Se rapide sia appartenuta a questo monumento. Una delle divinita’ era semplicemente un genio, come quello del mercato di Ercolano o quello del mercato di Bracara in Spagna. Quanto alle sale per la sauna, non sono delle latrine? Dopo quelle scoperte alle terme di Pompei, Michaelis rilevo’ la identica disposizione del canale che corre lungo i muri e pensa che le sale di Pozzuoli agli angoli del

monumento fossero dei gabinetti. Anche i gabinetti di Timgad hanno grandi analogie(‘). Infine a Pozzuoli e a Pompei, le porte erano disposte allo stesso modo cosi’ che non si puo’ vedere dall’esterno.

(‘) (cataletti attorno ai muri, disposizione dei sedili appoggiati su lastre di pietra, delfini di marmo in funzione di appoggio).

IIL’Anfiteatro (da pag. 317 a pag. 340)

L’Anfiteatro, il monumento meglio conservato di Pozzuoli, offre un interesse particolare a causa dei suoi sotterranei che sono intatti ed il cui studio completa felicemente quello che si può fare dei sotterranei dell’anfiteatro di Capua e del Colosseo. Alcuni scavi non ebbero luogo che nell’ultimo secolo. Nel XVIII secolo, come ci si può rendere conto da una incisione di raccolta di P.Paoli, l’arena era ancora completamente coperta di terra e levi passavano. Ma già si poteva percorrere in parte l’ambulacro circolare che figura sulle incisioni di Paoli. I primi scavi, cominciati nel 1841 sotto la direzione dell’architetto Bonucci, furono continuati negli anni successivi; si liberarono quasi tutto il sotterraneo e una parte dei portici; ma non venne alla luce nessun oggetto importante, nessuna opera d’arte interessante. Gli scavi, interrotti in seguito per lungo tempo, furono ripresi nel 1880. L’edificio è oggi quasi interamente scavato ad eccezione di una parte del

sotterraneo e per una metà del portico esterno sul lato sud. Ma è probabile che lo scavo di queste parti non ci rivelerebbe niente di nuovo; l’essenziale è fatto, e si può, allo stato attuale, studiare perfettamente bene l’anfiteatro. La lunghezza totale del monumento è di 149 m la larghezza è di 116 m. La sua superficie è dunque minore dell’anfiteatro di Capua che misura 167 m di lunghezza e 137 m di larghezza.

I Il sotterraneoIl sotterraneo è costituito da due corridoi che si incrociano ad angolo retto nel mezzo dell’edificio: quello dell’asse maggiore lungo 9 m e largo m 4,75, quello dell’asse trasversale lungo 55 m e largo 4 m. La profondità comprendendo in essa il muro che serve di volta al sotterraneo e che lo separa dall’arena è di m 6,70 calcolata al punto di intersezione dei due assi; essa è un po’ minore sul giro dell’ellisse, poiché l’arena si inclina in leggera pendenza verso la periferia (6,25 m). Due grandi rampe (larghe m 3,75) alle due estremità dell’edificio, danno l’accesso al corridoio longitudinale. Esse formano un piano inclinato molto ripido, si abbassano di m 8,40 su una lunghezza di 22 m. Partendo dal primo portico esterno esse terminano in basso in una sorta di piccolo vestibolo avente su ogni lato un’abside semicircolare. Questo vestibolo, avanti il corridoi centrale poteva essere chiuso da una porta; alla distanza di tre metri dal punto dove termina la rampa si vedono nei muri laterali due scanalature (larghe

14 cm) che servivano ad alzare e ad abbassare a volontà una barriera in legno che chiudeva l’entrata del corridoio sotterraneo. Questa disposizione dell’entrata nel sotterraneo differisce da quella dell’anfiteatro di Capua ed è più scomoda. A Capua, i sotterranei comunicano con l’esterno con quattro larghe ramificazioni che, passando sotto le due grandi porte e sotto le due porte laterali dell’edificio, sboccano fuori dell’anfiteatro; a Pozzuoli al contrario il sotterraneo comunica, non con l’esterno ma solo con il primo portico; è per questo che la pendenza del piano inclinato, essendo molto corto, è così ripida, questo rendeva meno agevole l’introduzione di oggetti necessari alle rappresentazioni, gabbie, macchine ecc. Quando i giochi erano iniziati, per facilitare il via vai degli spettatori e per permettere loro di passare comodamente, a questo punto, dal portico esterno all’ambulacro interno, si coprivano con tavole il vuoto lasciato dalla rampa al posto dove essa si apre; nel largo dente (cm 20), formato dalle grosse pietre di basalto che servivano da bordo, era facile, in effetti, adattare un tavolato provvisorio. Le rampe servivano principalmente per l’introduzione di bestie , di gabbie, di macchine, di oggetti di ogni tipo un po’ voluminosi impiegati durante le rappresentazioni. Per il personale c’erano altri ingressi. Nel muro sud del sotterraneo e al piano inferiore si apre una scalinata molto stretta (larghezza cm 45), che, dopo aver

descritto molte volte e passata per due pianerottoli, sbocca all’altezza del primo piano del sotterraneo in un piccolo corridoio largo 2 metri e parallelo all’ellissi del monumento se si gira a sinistra in questo corridoio, alla fine di 5 metri si attinge il fondo e si incontra allora sulla sua destra una seconda scalinata della quale restano alcuni gradini, ma che non è completamente sterrata. Essendo stabilita la sua direzione e la sua inclinazione essa doveva in alto sboccare nel grande vestibolo del lato sud. Se al posto di girare a sinistra nel piccolo corridoio noi giriamo a destra, non tardiamo a rincontrare alla fine di tre metri e sulla nostra sinistra un grande corridoio (lunghezza 23 metri, larghezza m 2,40 altezza circa 3 m) che interseca il precedente ad angolo retto e che è esattamente posto sotto la grande entrata dell’anfiteatro del lato sud. Nel muro di fondo era posta una stretta apertura, al di là della quale il terreno non è ancora scavato. E’ probabile che c’era anche là una scalinata che essendo stabilita la sua posizione, terminava fuori del monumento. I sotterranei comunicavano direttamente sia con l’arena sia con il corridoio posto sotto il podio. A destra e a sinistra dell’entrata ovest dell’arena presso il muro del podio due scale (lunghezza 3 m larghezza 1 m) che portavano subito al piano superiore del sotterraneo nel piccolo portico delle gabbie, poi dopo aver descritto una svolta, discendono fino al livello inferiore. Ad est, oltre alle

due scale con le loro aperture simmetriche a destra e a sinistra della porta d’ingresso sull’arena, ne esistono altre due che si aprono sull’altro fianco del muro del podio nel suolo del piccolo corridoio che contorna interamente l’arena. Questi due tipi di scalinate si ricongiungono al piano superiore del sotterraneo per terminare insieme sul fondo. Un’ulteriore categoria di scale è costituita da quelle che si trovano a destra e a sinistra delle due grandi entrate a ovest e a est. Quando si entra nel monumento dalla porta ovest, dopo aver superato l’ambulacro interno, si scorge sulla destra e sulla sinistra, una stretta porta (larghezza m 1,31; altezza m 1,50) con una soglia di tre scalini che conducono ognuna a un piccolo pianerottolo dal quale parte una scala che discende direttamente fino al fondo del sotterraneo nel verso del grande asse; a est esistono due scale simmetriche (lunghezza m 14; larghezza m 1,10). L’arena ricopre interamente il sotterraneo, ad eccezione sopra del grande corridoio centrale (lunghezza dell’apertura sull’arena: 45 metri) la cui apertura poteva essere chiusa da un tavolato. Al momento degli scavi si sono ritrovate tutte marce delle tavole in legno di castagno adagiate sui denti che formano il bordo. Si ponevano queste tavole al momento dei combattimenti dei gladiatori o degli animali. Si toglievano quando si facevano degli spettacoli o si impiegava la macchina o l’insieme di macchine che permettevano di issare diverse scene che simulavano

palazzi, montagne, come si può congetturare secondo le descrizioni di antichi autori.Il corridoio centrale (media via, come la chiama Marziale) è comune ai sotterranei di tutti gli anfiteatri (anfiteatro di Capua, Colosseo). Nelle altri parti del sotterraneo la disposizione variava. Il sotterraneo dell’anfiteatro di Capua si divide in dieci corridoi, di cui nove vanno in linea retta, parallelamente all’asse maggiore dell’edificio e di cui uno, quello del circuito è ellittico. A Pozzuoli non ci sono altri corridoi paralleli a quello centrale, ma un insieme di compartimenti, al cui forma e le cui dimensioni differiscono e che, comunicando gli uni con gli altri, si corrispondono simmetricamente nelle due metà del monumento, come ci si può rendere conto dalla pianta. La volta di ogni compartimento è bucata da un’apertura rettangolare che dà sull’arena. Queste aperture di varie dimensioni (1 mx1.30), (1.90 m x 1.25; m 2.7x m2), hanno a livello dell’arena dei bordi in basalto; esse si chiudevano mediante una botola. Si vedono ancora sui bordi gli incavi dove erano fissate le cerniere che servivano ad alzare o ad abbassare gli assiti. Attraverso queste aperture, come per il corridoio centrale, si potevano sollevare i macchinari; nei combattimenti degli animali di là uscivano le bestie feroci. Un corridoio circolare (largo m 2.5) contorna tutto il sotterraneo. Il muro interno di questo corridoio posa su due pilastri larghi un po’ più di un metro separati da arcate larghe 2

metri e alte m 2.30. All’altezza di m 2.45 dal suolo è incastrata nel muro al di sotto di ogni pilastro una grossa pietra di basalto, larga m 0.34, alta m 0.26 e sporgente dal muro di una lunghezza di m 0.28. Proprio di fronte sono fissate sul muro opposto delle pietre simili. In tutto esse sono 96 e distanti le une dalle altre 3 m. Nella volta alla distanza di 4 m dal suolo sono praticate delle aperture in tutto 46, larghe m 1.15, lunghe m 1.8 distanti fra esse 2 m e 3.50 m dal muro del podio sull’arena. Esse hanno conservato quasi tutte sull’arena i loro bordi di basalto con il sito delle cerniere e il dente interno per accogliere il coperchio di legno mobile.

Dall’altro lato si aprono sul corridoio dei compartimenti che racchiudevano le gabbie delle bestie. Sono al piano inferiore quaranta piccoli locali (profondità 4 m; larghezza progressiva da 2.15 m a m 2.30; altezza m 2.3), praticati sotto un secondo piano che si compone di uno stretto corridoio che prende luce da arcate al di sotto del grande corridoio ellittico descritto prima. Questo corridoio a volta (alto m 1.90 largo 1 m) contorna interamente l’anfiteatro, attraversando nel mezzo un certo numero di piccoli compartimenti profondi m 2.93, larghi m 2.10. Nei diversi compartimenti dei piani inferiore e superiore del sotterraneo, si alloggiavano le gabbie degli animali. Che le bestie feroci fossero custodite là pronte ad essere esibite sotto gli occhi degli spettatori è ciò che prova la presenza al di sotto del

corridoio circolare delle aperture praticate nel suolo dell’arena e corrispondenti con regolarità ai compartimenti che conservavano le gabbie; è attraverso queste aperture che in effetti le bestie erano trasportate sull’arena. Ecco verosimilmente come si procedeva. Le grosse pietre di basalto fissate nei muri sostenevano un tavolato mobile. Si gettava dall’una all’altra una trave, su ognuno dei lati del corridoio e le tavole sostenevano dei tavolati che arrivavano esattamente a livello del piccolo corridoio e degli scompartimenti del piano superiore. Nella parte superiore del muro del grande corridoio circolare sono scavate delle lunghe fenditure che hanno solo qualche centimetro di larghezza e di profondità e disposte due per due simmetricamente ad una lieve distanza dalle aperture dell’arena e sotto queste aperture. Questi fori forse servivano a mantenere, per mezzo di ganci, l’assito mobile alzato contro il muro. Mediante delle macchine si issavano su questo tavolato delle gabbie mobili che si spostavano davanti agli scompartimenti dove erano racchiuse le bestie e si facevano passare quelle; poi, mediante macchinari predisposti a questo scopo si alzavano le gabbie fino all’apertura dell’arena dalla quale si facevano rovesciare le botole. Le gabbie del livello superiore una volta libere, si poteva alzare il tavolato e issare le gabbie fino all’apertura dell’arena? E’ una domanda alla quale è azzardato rispondere; non si può fare se non

difficilmente un’idea del meccanismo dell’anfiteatro. Esiste nell’arena alla distanza di m 2.50 dal muro del podio tutta una serie di piccole aperture quadrate (0.25x0.25 m) le quali attraversando interamente la volta dell’arena, in modo di aprirsi al di sotto su ognuno dei lati delle arcate attraverso le quali il piccolo ambulacro del piano superiore del sotterraneo prende luce sul grande ambulacro circolare. Questi fori corrispondenti ai precedenti e posti sulla stessa linea perpendicolare sono gli stessi praticati fra il piano superiore e il piano inferiore del sotterraneo e si aprono lateralmente nella volta degli scompartimenti della parte bassa. In questi fori erano fissati solidamente dei pali dall’arena fino al suolo inferiore del sotterraneo (fig. 39 lett. H). Gli stessi pali si innalzavano ad una certa altezza sopra il livello dell’arena in modo da servire di appoggio ad una trave (F) basculante, all’estremità della quale poteva essere attaccata una corda destinata a sollevare le gabbie (E) fin sull’arena. A questi stessi pali era pure fissata una palizzata o una barriera circolare che formava tutt’intorno all’arena come una grande gabbia e mettendo al riparo non solo gli spettatori, ma anche gli schiavi preposti alla manovra delle gabbie e delle botole. Fra questa barriera ed il muro del podio c’era una zona di m 2,50 dove il personale poteva circolare. Quando si fecero i primi scavi, le tracce di un solco che limitava questo spazio erano ancora visibili e facevano

l’intero giro dell’arena parallelamente al muro del podio. Se i pali servivano sull’arena ad adattare una barriera, nel sotterraneo essi mantenevano ferme le gabbie degli animali al livello superiore del sotterraneo non erano che due sul davanti di ogni locale; negli scompartimenti del fondo ce n’erano altri due posti più indietro. A 1,5 m dal muro di fondo si vedono ancora al livello della volta sui muri laterali dei locali i fori costruiti in mattoni nei quali questa armatura delle gabbie era immersa. La manovra delle gabbie, come ci siamo sforzati di descriverla, avveniva sotto gli occhi spettatori. Dai testi degli autori apprendiamo, d’altra parte, che le bestie a volte sbucavano dai sotterranei degli anfiteatri come se uscissero naturalmente dal loro nascondiglio. In questo caso il meccanismo doveva restare invisibile, ma non abbiamo elementi che ci permettono di immaginare come la cosa avvenisse.

Probabilmente si davano pure nell’anfiteatro di Pozzuoli delle rappresentazioni nautiche: gare di barche, esercizi di navigazione, combattimenti sull’acqua ecc…L’edificio comunicando con l’acquedotto campano, poteva facilmente essere inondato. Questo acquedotto, già descritto in un precedente capitolo, passa sul lato nord dell’anfiteatro alla distanza di 23 metri dall’ambulacro esterno e ad una profondità di 4 metri; un canale lo congiungeva al sotterraneo. Il muro dell’acquedotto

è interrotto da un’apertura che si apriva o che si chiudeva a volontà mediante una saracinesca e che dà accesso in una piccola vasca rotonda (diam. m 2,10) dove sbocca il canale di comunicazione, canale prima molto stretto (m 1,05) che si allarga (m 2,50) dopo un percorso di 22 metri, al punto dove è praticato nella volta uno sfiatatoio (2,50 m x 1 m) poi prosegue per una quindicina di metri con una pendenza molto dolce. A partire da lì la pendenza si accentua e alla distanza di m 4,50 dal sotterraneo il canale si allarga ancora (m 4). Grazie alla dolcezza della pendenza (3 m in totale) l’acqua arrivava lentamente nel sotterraneo. Il livello dell’acqua nell’acquedotto era allo stesso livello del suolo del piccolo corridoio del piano superiore del sotterraneo. L’acqua non poteva dunque superare questo limite. Allora si presenta una difficoltà: come potevano aver luogo le rappresentazioni se l’acqua stessa non arrivava sull’arena? La risposta è fornita dalla struttura stessa del sotterraneo. Solo originariamente l’anfiteatro di Pozzuoli poté servire per le rappresentazioni nautiche. L’arena e la maggior parte dei sotterranei non erano ancora stati costruiti. Al posto dell’arena si approfondiva un grande bacino inondato dalle acque dell’acquedotto. Ciò si rileva con evidenza da alcuni particolarità della costruzione.

L’anfiteatro non fu costruito prima del regno di Vespasiano; la muratura (un misto di opera reticolata e di opera laterizia) è

dunque della seconda metà del primo secolo dopo Cristo. Se il sotterraneo datasse della stessa epoca, la muratura dovrebbe avere lo stesso aspetto. Non è così. Più di “opus reticolatum”; niente del mattone di minore qualità, su un massiccio di pietrisco. Questo lavoro sembra un aggiunta successiva. Solo il muro periferico del sotterraneo e i locali di volta appartengono alla primitiva costruzione dell’edificio che allora non aveva l’arena. Il muro del podio discendeva fino a 3 m sotto il suolo del sotterraneo; in questo punto correva, sul giro di questo muro una piccola piattaforma larga m 1,13 sotto la quale il muro discendeva di nuovo, ma con un distacco di m 1,07 in modo che la piattaforma posava sui piccoli locali delle parti inferiori che non avevano che una profondità e una larghezza di m 2,20. Ciò prova che non era così certamente, è che nei muri laterali di questi compartimenti, precisamente alla distanza di m 2,20 dal fondo appariva (lungo tutto il giro del monumento) una linea di sutura, egualmente visibile sulla volta; i compartimenti hanno oggi una profondità di 4 m, ma la linea di sutura prova che, alla distanza di m 2,20 dal muro di fondo, la volta e i muri laterali sono un’aggiunta posteriore. Allo stesso modo la piattaforma larga 1,13 m è divenuta dopo l’aggiunta della volta e dei pilastri, il piccolo ambulacro del piano superiore. Nell’anfiteatro così costruito si potevano dare rappresentazioni navali. C’era una profondità dell’acqua di 3 m,

l’acqua arrivava al livello della piattaforma circolare ciò non vuol dire che l’anfiteatro all’inizio servì solo per le naumachie. Grazie ad un sistema di impalcatura si poteva installare un’arena mobile in legno per i combattimenti dei gladiatori e per l’esibizione delle bestie feroci. D’altronde sembra che Pozzuoli possedesse un secondo anfiteatro dove questo genere di spettacolo poteva altresì aver luogo.

Più tardi, per ragioni che noi ignoriamo, senza dubbio perché le naumachie passarono di moda o si potevano dare più facilmente nei laghi naturali della regione(Averno, Lucrino…) si costruirono i sotterranei ancora esistenti. E’ allora che si ingrandirono i locali del piano inferiore prolungando i muri laterali con una muratura analoga alla muratura più antica (opus reticolatum e isodomus). Ma per il resto (arcate, corridoio superiore, grande corridoio circolare, corridoi centrali ecc.) si impiegò unicamente la costruzione in mattoni, ricoprente un pietrisco interno.

Esiste sotto l’anfiteatro tutto un sistema di canali e di cloache. Ma è difficile studiarli in dettaglio perché questi canali non sono ben scavati o perché non possono essere percorsi a causa delle acque piovane che vi ristagnano. Il suolo del sotterraneo è leggermente inclinato verso un pozzo che si apre nel grande corridoio longitudinale a 20 m di distanza dal punto centrale dell’edificio, nella parte ovest; questo pozzo (diametro m 0,60) che ha dei bordi in basalto, conduce ad una cloaca che si dirige a sud. Sotto

il corridoio del podio, esiste anche una fogna che segue l’ellissi del monumento. Essa è raffiguarata sulla sezione dell’asse minore (larghezza m 0,80; altezza m 1,70) Altre cloache esistono, non visibili e difficilmente esplorabili, esistono in altre parti dell’edificio.

Quando si svolgevano le naumachie, si chiudeva l’apertura del pozzo sita sul corridoio centrale; è attraverso questo pozzo che si svuotava poi il sotterraneo e si facevano defluire le acque luride. Dopo la totale costruzione dei sotterranei la comunicazione stabilita fra l’acquedotto campano e l’anfiteatro restò ancora di una grande utilità per la pulizia del sotterraneo dove giungeva molto facilmente l’acqua e per l’ispezione dell’acquedotto nel quale si poteva entrare comodamente in questo punto.

Parti superiori dell’edificioLa lunghezza dell’arena (asse maggiore) è di m 74,78. La sua larghezza (asse minore) è poco più lunga di 42 metri. Si penetra direttamente, provenendo dal di fuori, dalla parte che si aprono sull’asse maggiore (larghezza m 4,90) e attraverso altre quattro porte (larghezza m 2,25) praticate nel muro del podio (ma per ogni quarto del monumento) e che si trovano allo sbocco dei corridoi che in linea retta conducevano all’esterno dell’edificio sull’arena. Ad ovest la soglia della porta principale era composta da due scalini di marmo che ancora esistono per i quali si discendeva nell’arena; ad est si entrava in piano. La soglia delle

porte secondarie era ricavata sui lati da due canaletti nei quali l’acqua dell’arena defluiva nel piccolo ambulacro posto sotto il podio, il cui pavimento è ad un livello un po’ inferiore e di là nelle bocche di pozzi che si aprono in punti differenti di questo ambulacro e che comunicano con una cloaca. Nel muro del podio erano praticate alcune finestre che avevano la luce sull’arena (si affacciavano sull’arena9 e così pure delle porte che si trovavano due a due fra le entrate principali e quelle secondarie dell’arena. Il fondo dell’arena è assai irregolare. I bordi in pietra delle botole costituiscono un’altra delle accidentalità che dovevano disturbare i combattenti. Così è probabile che il pavimento era interamente ricoperto di tavole o cosparso da uno spesso strato di sabbia.

Il muro del podio spesso un metro si eleva ad un’altezza di 2 metri al di sopra dell’arena. Esso era rivestito di lastre di marmo bianco di cui molte sono ancora in sito ed è costruito in opus lateritium. Esso poggia su una fila di grosse pietre di taglio (spessore m 0,40) che ne costituiscono il sottobasamento e per le quali è separato dal muro che si prolunga direttamente nel sotterraneo. Il muro del podio doveva essre sormontato da una balaustra davanti i rpimi gradini. Il piccolo corridoi, sotto il podio, largo 2 m e alto ugualmente 2 m, contorna tutta l’arena. I muri sono ricoperti da uno spesso strato di stucco; il suolo è forato da bocche di pozzo (m 0,80x0,80 e m

0,55x0,70) che ricoprivano tavole e nelle quali sboccavano dei canaletti di cui uno è ancora visibile (nella parte a nord-ovest). Questo corridoio è interrotto a sud, nel posto dove attraversa l’asse minore da una piccola costruzione in forma di emiciclo (larghezza m 5 profondità con la nicchia del fondo m 8,50) che sembra aver avuto una cappella a destra con un pezzo di pavimento in mosaico ( quadretti bianchi e neri molto fine) sussiste in parte. Nell’emiciclo della cappella si vedono sui muri delle tracce di parti di stucchi. Là era probabilmente il santuario del dio protettore dell’anfiteatro. Chi era egli lo ignoriamo. Tutto ciò che si può dire è che nell’ultimo scavo del 1882 è stato ritrovato nell’edificio un piccolo frontone scolpito raffigurante Giove con la folgore e l’aquila. Questo frontone sarebbe appartenuto all’abside del santuario e avrebbe sormontato due colonnine tra le quali fu posta la statua del dio (Giove?). Si entra nella cappella attraverso un’entrata che dà sull’arena e da una entrata laterale comunicante con il corridoio. Dapprima la cappella non esisteva e il corridoio era continuo. Si vede nettamente alla muratura che essa è un’aggiunta posteriore. Di fronte a questa cappella, dall’altro lato del monumento, il corridoio sotto il podio dà l’accesso ad un grande ambulacro che lo taglia ad angolo retto e che è posto tra il canale di scarico dell’acquedotto campano che si trova sopra ed il grande vestibolo di ingresso che è sopra (cf. fig. 40). Questo corridoio lungo 40

m, largo successivamente 4 m e 2,60 m e alto 3 metri si estende al di là della periferia dell’anfiteatro su una lunghezza di 6 metri. Esso è areato da due sfiatatoi praticati nella volta (larghezza 0,80 m) alla distanza di 12 m l’uno dell’altro e che prendono luce l’uno sul portico esterno, l’altro sul grande vestibolo d’ingresso del lato nord. Non resta che molto poco dell’ambulacro esterno. La parte meglio conservata si trova a nord-ovest. Cinque pilastri ci sono ancora (m 1,60xm 1,30). Distano l’uno dall’altro 4 m e sono interamente costruiti in mattoni. L’altezza del portico era di 8 m, la larghezza di m 2,60. I 4 vestiboli principali comprendevano 3 passaggi paralleli separati da arcate e da pilastri. Il passaggio mediano, nel vestibolo ovest ( grande asse) conduceva all’arena; i passaggi laterali erano più elevati; da ogni lato dell’apertura della rampa che discende nei sotterranei e al di sotto della quale era il apssaggio centarle, c’erano alcuni scalini che arrivavano al loro livello. Nei vestiboli nord e sud (asse minore) il passaggio centrale conduceva ad una delle scalinate che salivano direttamente alla 12° recinzione (fig 46). I pilastri erano costituiti nella loro parte inferiore da grosse pietre di travertino (da 4 a 6 strati) nella loro parte superiore da mattoni. Il corridoio interno è attualmente scavato su quasi tutta l’ellissi del monumento, salvo sul lato sud; è largo m 3,50 e la sua è la stessa di quella del portico esterno; a livello della volta piccola sui muri una cornice formata da sei file di

tegole piane. Su tutta l’estensione dell’ambulacro esistono nel suolo parallelamente ai muri delle scanalature per il deflusso dell’acqua.

Il portico esterno e l’ambulacro comunicano là dove non esistevano le scale o cisterne, mediante diversi passaggi, tre per lato (larg. Da m 4,40 a m 3,80). Uno di essi (lato sud) porta ancora alla volta tracce di un rivestimento di stucco molto ricco (cassettoni, medaglioni ecc..) ma oggi la decorazione è sparita.

Tra il portico esterno e l’ambulacro sono simmetricamente disposte sui quattro lati del monumento 8 grandi cisterne comprendenti ciascuna molti locali (cf. fig. 33). La prima, che si incontra a sinistra dell’entrata ad ovest ne comprende quattro. E’ lunga m 8,50. Il suo livello inferiore è lo stesso di quello del piano superiore del sotterraneo. Due dei locali sono situati su una scala, e due altri si elevano fino all’altezza del primo piano dell’edificio. Nell’angolo del muro ovest e nord della cisterna un canale di scolo indica il limite che l’acqua non poteva oltrepassare (questo canale è al livello dell’altezza della porta centrale che separa i compartimenti). Allorché si sale la scalinata qui partendo da portico esterno, si trova a sinistra di questa cisterna, degno di nota, sul pianerottolo una finestra che dà sul serbatoio e che doveva essere chiusa da tavole o da una barriera. La cisterna nell’altro quarto dell’edificio ha solo due locali.

Sulle altre cisterne non c’è niente di particolare da notare.

Ad alcuni centimetri sopra il suolo del portico si vedono, là dove ci sono diverse cisterne, dei fori brevi praticati nel muro che separa le cisterne del corridoio. In questi fori erano stati adattati dei rubinetti attraverso i quali defluiva l’acqua delle cisterne.

La prima recinzione iniziava immediatamente sopra il muro dell’arena. Ci si arrivava dal porticato attraverso chine in dolce pendenza e dai due lati delle entrate principali ovest ed est da 4 scalinatelle. C’erano in tutto 12 vomitori (m 1,50xm2,10) che danno accesso a questa prima recinzione che comprendeva 8 file di gradini. Entro i romitori 14 scalinate piccole salivano fino alla 12° recinzione.

In due entrate la prima recinzione comunicava direttamente con il piccolo corridoio posto sotto il podio e con l’arena. Sull’asse minore, lato nord, una porta (larga 1,50 m) con una entrata con 3 scalini permette di passare nel corridoio posto sotto il podio; alla sua sinistra si vede una scala che occupa la metà della larghezza del corridoio; esso conduceva alla prima recinzione alzandosi lateralmente al muro dell’arena. Al lato sud esisteva un’altra scala simmetrica a questa; i gradini non ci sono più, ma se ne distinguono le tracce sui muri; esso pure portava alla recinzione. Si arrivava alla fila inferiore dei gradini della 12° recinzione mediante scale ( larg. M 2,20) che portavano all’ambulacro inferiore. Queste scale e i vomitori

corrispondenti (larg. m 1,20) sono 14. La 2° recinzione comprendeva 16 file di gradini e 14 scalinate piccole corrispondenti alle uscite e praticate nei gradini. Essa si elevava fino all’altezza del 1° piano dell’edificio. Tre sorti di gradini portavano alla 3° recinzione. Le une portavano al portico esterno, e le altre a quello interno. Le prime comprendevano esse stesse due categorie. Ci sono quelle che arrivavano in line aretta fino alle uscite. E sono in tutto 8. Sono quelle che passano sopra le cisterne. Le altre passano per un pianerottolo intermedio. La meglio conservata si trova immediatamente a destra dell’entrata principale del lato nord. Questa scala si eleva fino ad un piano (a metà altezza dal pavimento al primo piano), gira a sinistra e termina nel portico del primo piano dell’edificio in questo portico si apre allora sulla sinistra un corridoio che mena ad un’uscita. Queste scale sono in tutto 12, tre per mezzo lato. Le scale del terzo genere partono dal portico interno e arrivano direttamente al portico del 1° piano. Uno di essi, il solo che si è conservato con i suoi scalini e quello che si incontra immediatamente a sinistra nell’ambulacro quando si entra nell’edificio per la porta principale ovest. Queste scale erano in tutto 8.

I passaggi che portano dal portico al 1° piano alla cavea e le uscite che corrispondono ad essi erano 18. Ogni uscita ha 3 scalini.

La 3° recinzione comprendeva 15 file di gradini e di scale praticate tra i gradini e corrispondenti alle

uscite. In molte entrate si può vedere che dei gradini erano ricoperti da mosaici. Altre portano al contrario tracce di un rivestimento di marmo. Non esiste più niente della porzione del monumento superiore alla terza recinzione. Restano solamente ad est e per la lunghezza di qualche metro un piccolo muro alto 1,35 m che gira attorno a dei gradini i più alti della 3° recinzione. In questo muro erano praticati dei passaggi che dalla terza recinzione davano accesso al portico dell’ultimo piano. Questo portico comprendeva dal lato della cavea tutto un colonnato i cui frammenti di colonne, molto numerosi, sono stati ritrovati e giacciono ora nei sotterranei., colonne corinzie come l’attestano i capitelli conservati. La ricostruzione di questo colonnato è stata fatta tenendo conto della larghezza di queste colonne e dell’altezza che doveva corrispondere (diam. dei punti: in basso m 0,70, in alto m 0,50. Altezza delle colonne: larg. dei capitelli corinzi: in basso m 0,70, in alto 1 m).

I tiranti del velarium che si tendevano sopra l’edificio durante le rappresentazioni passavano nei fori perpendicolari, misuranti m 0,18 di diametro e praticati nel muro del podio. Si distingue ancora molto bene la posizione di tutti questi fori che erano 24 e che erano posti tre per tre a distanze un po’ diseguali nell’intervallo dalla parte che si aprono sull’arena.

Abbiamo già detto che l’anfiteatro offre strutture di due epoche: il sotterraneo tutto in

mattoni (epoca degli Antonimi?) e le altre parti dell’edificio che offrono l’aspetto delle costruzioni del primo secolo dell’Impero. Delle incisioni ci permettono di precisare di più. Frammenti di un’incisione che era posta sopra dell’entrata principale possono essere così lette “Colonia Flavia Augusta Puteolana pecunia sua facit”.

Si potrebbe dunque supporre come date di costruzione dell’anfiteatro la fine del primo secolo e, per il sotterraneo, il 2° secolo. I frammenti di un’iscrizione pure essa appartenente all’anfiteatro e trovate nelle sue vicinanze, recitano: “Colonia flavia Augusta pecunia sua”.

Un anfiteatro più vecchio esisteva a Pozzuoli, poiché si diedero giochi sotto il regno di Nerone. E’ sul rimpiazzo di quello che l’anfiteatro attuale sarebbe stato costruito? O al contrario ci furono due anfiteatri per tutta la durata dell’Impero?

Abbiamo già esaminato questa questione in un capitolo precedente. Nelle immediate vicinanze dell’anfiteatro a sinistra della via Anfiteatro a circa 30 passi di distanza della casa del custode, sono state trovate parecchie iscrizioni onorifiche che ricordano dei personaggi che si erano particolarmente distinti per le loro disponibilità come editori e curatori dei giochi: “curatores muneris gladiatorii” sono quelle di C. Iulius, Apollonius, decurione, di C. Arelius Domitianus Gaurus e dell’attore Pylade: “L. Aurelius liberto di Augusto, Pylades”. Si è concluso

che là c’era un ingresso o c’era l’abitudine di porre le statue dei benefattori della cità, in particolare degli editori dei giochi.

IIIMonumenti e rovineLe terme (pag. 340)

Le rovine di parecchi stabilimenti termali esistono ancora a Pozzuoli; ma non possiamo, basandoci su di esse, renderci conto dell’aspetto degli edifici.Le une sono al nord-est del mercato, sulla colline. Esse sono comunemente designate nelle antiche guide sotto il nome di “Tempio di Nettuno”. Nel loro stato attuale esse si compongono di due grandi muri paralleli, lunghi 70 metri, separati da un intervallo di m 16,50 e offrono tracce di finestre, di nicchie e inizi di volte che ricoprivano le sale comprese fra queste mura. Oggi la decorazione e’ scomparsa del tutto: non si vede che la grande opera della costruzione: reticolato e mattoni; ma sull’incisione di Paoli sono raffigurate tracce di stucchi che ornavano le sale. Qua e la’ nello spessore dei muri esistono ancora delle condutture di acqua perpendicolari. Si sono ritrovate anche resti di calidarium resti di un condotto di acquedotto, e delle fialette per profumi.Si e’ trovata una ststuta di Venere Anadiomene. Tutt’intorno, nei campi vicini, sono affiorate rovine che facevano certamente parte di queste terme. Si e’ trovato il resto di un quarto calidarium, sala lunga m 9,40, larga m 14,50 con i focolari ed i muri incavati. Mommsen attribuisce a Pozzuoli un’iscrizione do si cita un Settimio Rusticus, console della Campania,

chiamato a “restauratore delle terme”. E’ possibile che questa iscrizione appartenga ad un’altra citta’ campana, poiche’ il nome della citta’ di cui Settimio era il governatore non e’ nominata. Fra le rovine sono state ritrovate all’inizio del XIX sec. parecchi resti di sale che potevano appartenere a delle terme. Condotti per vapori praticati nei muri di una di queste sale denotavano che lì c’era un “calidarium”; si sono scoperti sotto il suolo i focolari. Di là si entrava in tre ambienti fra loro comunicanti, seguendo l’ordinaria disposizione dei bagni antichi (tepidarium, calidarium, frigidarium); si è concluso che questo quartiere di Pozzuoli aveva delle terme. Queste rovine sono in mattoni e in reticolato. Dietro il calidarium si trovano due vasche e, in posti diversi, alcuni resti di condutture e due cisterne.I resti di un terzo stabilimento termale si trovano all’estremità opposta della città un po’ a sud dela Piscina Cardito; essi sono considerevoli, ma quasi del tutto distrutti. Un grande spazio rettangolare (oggi un agrumeto) circondato da muri antichi in reticolato, marca l’esistenza di un cortile intorno al quale c’era un portico da cui si entrava in sale termali, come accade nelle terme antiche di Pompei. Questo cortile interno misurava circa m 40x45. a destra e a sud esistono, sotterrate sotto dei giardini (proprietà Maglione), molte sale che un tempo si vedevano. In seguito alle descrizioni che mi sono state fatte, erano dei “calidaria” o dei “sudatoria” con i loro focolai e i loro camini nello spessore dei muri. Mi hanno anche riferito di lucernai nelle volte, conformemente alle

illuminazioni dele sale termali antiche. Dal suolo si sono recuperate delle lastre di marmo e dei frammenti di colonne. Che lì ci fossero delle terme è ciò che dimostrano le rovine di una scala che conduce ad una sorgente d’acqua calda ed il fatto che, dopo il medio evo, questo posto portava ancora il nome di Bagno Ortodonico. Queste terme dunque avrebbero compreso bagni normali o bagni termali. Ad alcuni metri ad est del grande crtile quadrato ci sono tre piccole sale con la volta la cui lunghezza totale è di 10 m, e la larghezza è di m 2,20; esse sono in mattoni ed in reticolato e portano ad un vestibolo dove si apre una scala. Questa con un’erta pendenza va verso nord, poi gira ad angolo retto ad est; ad una profondità di circa 40 m, corrispondente pressappoco al livelo del mare, si raggiunge una sorgente d’acqua bollente. Da dove viene quest’acqua? Dove và? Non si sa. Ciò che non si spiega per niente è la maniera in cui i Romani hanno potuto scoprire il luogo. Gli schiavi andavano ad attingerla e la sollevavano per l’uso dei bagni. È stata utilizzata anche nel medio evo. Al XIII secolo è segnalata da Pietro da Eboli.C’erano a Pozzuoli altre terme d’acqua minerale. Oltrepassato il monte Olibano (venendo da Bagnoli) si trovano sulla costa alcune sorgenti, utilizzate dal 13° secolo e probabilmente dell’epoca romana. Una di esse (la sorgente di Santa Anastasia) zampillava tra le case antiche. L’acqua delle terme “Subveni Homini”, molto rinomata era conosciuta forse anche dagli antichi. Le sorgenti che si trovano dietro il macelum erano utilizzate dai Romani,

che avevano anche captato un’acqua che sgorgava in pieno mare, attorno alla quale avevano costruito un’isola artificiale. Al’epoca di Pietro da Eboli, questa sorgente sottomarina non era più conosciuta. Erano in realtà i bagni del Cantarello (balneum Puteolani maris).Villano scrive però “Il bagno del Cantarello è il primo che si incontra fra Pozzuoli e Tripergole; esso si trova sulla riva là dove ci sono le colonne”. Le colonne di cui parla Vilani sono in realtà le tre grandi colonne del Tempio di Serapide che sono ancora in piedi e che al tempo di Villani, erano le sole parti evidenti dell’edificio. È quindi là che bisogna localizzare le terme del Cantarello. Se Pietro da Eboli ce le descrive come essere “inter aquas pelagi” è perché la riva era invasa dal mare a causa del bradisismo di cui il litorale è ancora affetto.L’acqua del cantarello era perciò una delle sorgenti che c’erano dietro il macelum. Ma di esse che è ben conservata è ancora riempita di acqua minerale.

2°Templi

Non è conservato alcun tempio. Non sussiste che qualche particolare architettonico del tempio di Augusto e le fondamenta di un tempietto vicino all’anfiteatro.Il tempio di Augusto si elevava nel più vecchio quartiere, nella cittadella. Le iscrizioni che nominano l’architetto L. Cocceius e L. Calpurnio alle cui spesa fu costruito, ci sono tutte e due pervenute. Oggi la cattedrale S. Procolo occupa il posto del tempio, di cui oggi si vede un muro scoperto grosse pietre di travertino.sei colonne

scanalate, addossate a questo muro, sono visibili nela loro parte superiore, così come i capitelli corinzi ed un frammento del’architrave.Il campanile è costruito con pezzi di marmo che apparteenevano all’edificio antico. Una parte esterna del muro dela chiesa è costruito con grosse pietre di travertino. Nel medio evo, il tempio, trasformato in chiesa e consacrato a San Procolo, divenne la cattedrale di Pozzuoli. Non si sa quando fu dedicato al culto cristiano; essa è menzionata per la prima volta in un documento dell’11° secolo. Sembra che si siano fatti dei lavori nel 16° e nel 17° secolo che la danneggiarono di più e che provocarono la sparizione di quasi tutta la costruzione antica. Dopo un incendio e un terremoto, un restauro fu intrapreso dal vescovo Castaldi. Ma è sotto l’episcopato di Leon de Cardenas che si iniziò ad ingrandire ed a modernizzare la chiesa e ciò che rimaneva del tempio romano fu distrutto o nascosto dale nuove aggiunte. Tra l’anfiteatro e le terme di Nettuno sussistono le basi di un tempietto (28 m lungo, largo 14 m alto circa 3 m) in opus latericium. Non si distinguono che i resti di tre mezze colonne addossate al muro e poste a m 2,60 le une dalle altre. Ce ne sono quattro sul muro del lato occidentale, cinque sul lato nord. Esse sono in mattoni, come il resto del’edificio ed erano un tempo ricoperte di marmo e di stucco.

3° Circo

Il circo è chiamato comunemente “Villa di Cicerone” nelle antiche guide. Il primo che si è accorto che esso era un circo è stato di Iorio; ciò che resta

della costruzione non lascia dubbi a tale proposito.A sinistra della via Domiziana, proprio in corrispondenza del cimitero di Pozzuoli, sussiste la parte più appariscente della struttura. È un corridoio con volta conservato per una lunghezza di m 3,20. Prendeva luce all’esterno mediante finestre, aperture centinate, larghe ognuna m 2,90 e separate da grossi pilastri larghi m 2,15 e profondi m 1,90.Finestre e pilastri formavano un portico che correva lungo il monumento: portico del piano superiore, come lo provano l’interramento considerevole del’edificio e la presenza, sulla faccia etserna dei pilastri, di grosse pietre di travertino, forate da fori quadrati; queste pietre fissavano i pennoni ai quali si attaccava il velarium. Tredici sono conservate più o meno intatte. Il corridoio, dal lato del’arena, era forato con aperture: ne restano due che portano tracce di stucchi. Erano i “vomitoria” che davano accesso ai gradini. Il piano inclinato che questi formavano al di spora del corridoio è motlo visibile ad est. Esso era ancora di più all’epoca del de Paoli, come ci si può rendere conto dell’incisione qui riprodotta (fig. 49 pag. 348). Ad ovest le rovine diventano senza forma. Tuttavia si vede ancora una parte del corridoio. (una quindicina di metri circa) e si seguono in linea retta tracce di mura che affiorano a livello del suolo nei campi, su una grande estensione. Si distinguono molto bene i resti di una lunga muraglia del circo, fino ad un posto dove la collina, interrompendosi lascia scoperta la curva che l’edificio descriveva alla sua estremità.

Il Caristie basandosi su queste rovine ha disegnato una piantina del monumento che è apparso sulla guida di Pozzuoli del di Iorio. La lunghezza totale del’edificio è di 375 m, la sua larghezza è di 45 m.Esso era costruito in mattoni ed in opus reticulatum. Nelo spazio che esso occupava sono stati ritrovati molti blocchi di marmo, grosse pietre di travertino, un frammento di pavimento in mosaico con bei disegni, che è stato distrutto.

4° Tombe

In genere le pitture, gli stucchi, i mosaici delle tombe sono molto degradati o sono stati asportati. Tuttavia grazie ad incisioni e ad antiche descrizioni l’aspetto che presentavano alcune tombe al momento del loro scavo.Possiamo pertanto riunire dei ragguagli.TOMBE DECORATE CON MOSAICILa tomba isolata che è stata ritrovata ad est del Bagno Ortofonico era assai riccamente ornata. I muri erano ricoperti di bei marmi; la volta in mosaico rappresentava un vascello sul quale un uomo si teneva ritto, nel’atto di conficcare una lancia nel corpo di un altro uomo, che egli afferrava per i capelli; quest’ultimo in ginocchio tentava di schivare il colpo; una donna ala sua destra, accorreva in suo soccorso. Il pavimento era in mosaico elegantemente eseguit; due uomini nudi erano seduti, uno con una corona di foglie in mano, l’altro con la mano destra appoggiata sulla maschera di una fontana; a destra una donna nuda sembrava uscire dal bagno. In queste

tombe furono trovati quattro sarcofagi di cui uno è all museo di Napoli, rappresenta Prometeo, circondato da dei, davanti al cadavere di un uomo. Sono state trovate altre tombe decorate di mosaici. In un colombario di via Campana che si è ritenuto, al momento della scoperta, che appartenesse al’epoca degli Antonimi, la nicchia principale era coperta di mosaici raffiguranti dei soggetti campestri, con ornamenti ispirati al mondo vegetale: ghirlande di fiori e piante sulle quali volano degli ucceli. Conchiglie, arabeschi, disegni ornamentali decoravano le due estremità della nicchia, il cui aspetto ricordava quello delle fontane di mosaico della casa di Pompei. Il frontespizio era sostenuto da due colonnine, incrostate di mosaici che descrivevano delle spirali. Davanti questa edicola funebre c’era un altare con dei mosaici: una figura, quella di un genio alato, era ancora visibile. L’iscrizione che indicava il nome dela famiglia alla quale apparteneva questo piccolo colombario, ma riccamente decorato, era sparita. Una tomba nei pressi della Solfatara era anch’essa decorata con mosaici. Uno dei soggetti rappresentava una Nereide pronta ad entrare in mare mentre gettava lontano un mantello rosso sul quale era avvolta. Ella si teneva sule ginocchia di un Tritone che, appoggiato contro un ippocampo, aveva nella sinistra le redini dell’animale fantastico, mentre nell’altra mano portava una sorta di calathos ornato di fiori. Mnella stessa tomba c’era una corona murale in mosaico, formato di torri e di bastioni. Questi mosaici erano motlo bene eseguiti.

TOMBE DECORATE CON STUCCHILa decorazione in stucco era la più comune. I colombari di Pozzuoli offrono degli esempi interessanti. Una tomba di via Campana i cui stucchi erano ben conservati alla fine del 18° sec. figura nella raccolta di Paoli (fig. 50 a pag. 351). Questa tomba racchiude molte file di loculi e su ciascun lato un’edicola o grande nicchia cineraria, coperta di stucchi divisi in due compartimenti; nel compartimento in alto si vede nell’incisione di Paoli, una donna nuda, stesa a terra davanti ad un treppiede; in quello in basso un cavallo alato; un uomo, seduto di fronte, gli accarezza la criniera con la mano. Da ciascun lato di una stretta finestra, al di sopra dell’edicola, s’invola un amorino alato che ha nella sinistra un ramo frondoso e nela destra una coppa. I loculi sono separati da pilastri di stucco, sormontati da capitelli corinzi e ornati di vasi da dove escono fiori ornamentali o geni alati in mezzo a fronde stilizzate. Festoni di fiori e di frutta, delfini, grandi uccelli con ali spiegate decorano i muri tra un loculo e l’altro. La decorazione di uno dei ,muri laterali era piuttosto simile. L’edicola centrale comprende due zone: in quella in alto un uomo nudo, coricato sul ventre, tiene enlla destra un bastone appoggiato sulla sua spalla; in quella in basso un genio alato e in procinto di correre. Anche le pareti erano ornate con pilastri, delfini, uccelli. La decorazione della volta era molto ricca. Bande ornamentali separavno numerosi riquadri dove si vedevano Centauri lanciarsi la clava sulle spalle, un personaggio nudo con un bastone a

spalla al quale sembra siano appesi degli abiiti, una donna nuda seduta, che trattiene all’estremità di un filo un uccello o una farfalla e due donne nude accovacciate l’una di fronte all’altra e che posano a terra delle corone. Il resto della decorazione comprendeva delfini, ippocampi, chimere, colombe, trofei, anfore, uomini nudi in diversi atteggiamenti, con un bastone sulla spalla o in mano o ben distesi ed in procinto di bere da una coppa. Un po’ più avanti, al nord, sempre sul bordo di via Campana, a San Vito c’è un grande colombario a due piani; all’epoca di Paoli gli stucchi erano ancora ben conservati al piano inferiore. Questo piano comprendeva quattro grandi edicole e quattro emicicli. Gli stucchi di uno di questi emicicli (alla volta) rappresentavano il combattimento di Ercole contro l’idra di Lerna; l’eroe brandiva la sua clava e colpiva l’animale che lo attaccava con le sue teste minacciose. Sotto questo riquadro si vedeva un giovane che si avvicinava ad una ragazza e nel riquadro accanto egli la sollevava con le braccia; sulla volta di questa seconda abside degli Amori lanciavano delle frecce. Una tomba posto lungo la via che costeggiava Pozzuoli a nord, ha fornito stucchi interessanti. Essa interamente decorata di stucchi e la sua cornice in rilievo era in rosso e in blu. In una edicola a forma di tempio era raffigurato un Amore alato che sembrava volare dal’alto in basso verso un uomo in piedi; su ciascuno dei lati dell’edicola una donna nuda seduta su una sedia dal largo schienale. In un’altra edicola una donna era seduta su un tavolo a fianco di due teschi; aveva un volume nela destra; davanti al

tavolo un’altra donna in piedi mostrava con un dito uno dei crani ed aveva anche lei un libro; sul lato c’erano due Amorini vestiti di clamide: uno di essi suonava la lira. In una terza edicola c’era una scena analoga alla precedente: una donna con un tomo nella mano sinistra, mostrava due teschi che giacevano a terra; un’altra, appoggiata contro una piccola stele sembrava leggere un volume aperto davanti. Sui lati c’erano due amorini, dei quali uno aveva una coppa nella destra, e nella sinistra aveva un tamburino. Sulle volte circolari delle tre edicole erano rappresentatate svariate figure: danzatori, uccelli, Amorini cavalcanti ippocampi o seduti sulla schiena di animali feroci, tigri e pantere. Nella nicchia principale di una tomba vicina, un bassorilievo in stucco rappresentava una donna nuda distesa vicino ad un albero, su un terreno roccioso. Si è voluto vedere in essa Rea Silvia addormentata presso un fico. Delle donne dai vestiti fluttuanti portanti coppe riempite di frutti, occupavano i lati del’edicola il cui frontone triangolare era sormontato da delfini. Nella grande nicchia di un terzo sepolcro di fronte al precedente, si vedeva un Eros cavalcante un mostro marino. Su un secondo stucco, Ercole imberbe, appoggiato sulla sua clava, osservava la biscia che nutriva Telefo; su un terzo stucco, un mostro marino sorgeva dall’Oceano per divorare Andromeda nuda, legata ad una roccia, donde si allontanava un uomo semivestito con addosso un clamide. Sulle pareti laterali del’edicola, erano raffigurati due mostri marini, un grifone ed una pantera. Minervini segnala un colombario di via Campana

le cui pareti interne erano tutte decorate di Tritoni che suonavano trombe. Un sepolcro presso Croce Campana era ornato di eleganti bassorilievi di stucco: Geni alati, baccanti, Ninfe.Sono stati ritrovati nelle tombe di Pozzuoli un certo numero di stucchi e di mosaici, ma alcun affresco è a noi pervenuto. Tuttavia ho potuto constatare in un colombario di via Campana, non lontano da san Vito, numerose tracce di pittura blu e rossa, ma non si distingue niente nettamente.

5° Edifici diversi di cui restano ancora

delle rovineLe rovine di edifici diversi (magazzini, case, portici) non hanno forma o non sono stati ancora sterrati.Al nord del cimitero resta un lungo muro di circa 50 m nei pressi di via Campana e ad essa parallelo. Da esso e per tutta la sua lunghezza si dipartono ogni tre metri resti di muri che delimitano numerosi ambienti. La disposizione di queste rovine mi porta a credere che erano dei granai.A sud del cimitero esistono un certo numero di rovine quasi del tutto sterrate. Sono sette locali con volta comunicanti e che forse un tempo erano un’abitazione. Sul fondo del’ultimo ambiente, a destra, una scala, di cui c’è ancora qualche scalino, conduceva ad un piano superiore, ora scomparso. Costruzione in apparato reticolare. Un po’ oltre queste rovine più vicino al cimitero, i resti di cinque o sei ambienti si succedono in linea retta. Lungo la Domiziana, sul lato nord, al di sotto delle rovine precedenti fino al quadrivio del’Annunziata sono visibili resti di numerose costruzioni

(resti di pietre squadrate, tracce di una grande sala rotonda, analoga a quella dele terme di Baia e del lago d’Averno. A fianco di questa sala una scala in mattoni e larga m 0,85 s’infossa nel suolo molto profondamente. Se ne discendono ancora una trentina di scalini). Dall’altro lato dela Domiziana (lato sud) tutta la collina dopo le rovine del Circo fino a via Celle non è che un seguito ininterrotto di costruzioni. Proprio di fronte al cantiere Armstrong una grande rovina in laterizio si trova sulle pendici e la sommità della collina affiorano dovunque muri antichi. In certi punti il caso ha fatto scoprire certi ambienti decorati appartenuti ad abitazioni private. A 8 m al di sopra dela fra Pozzuoli e Baia, presso l’Armstrong, è stata ritrovata una grande camera con il pavimento di marmo, la cornice di stucco alla moda pompeiana con delle colonnine, dei festoni dei disegni geometrici. In questa stesa camera era dipinta una donna in piedi, che indossa una tunica verde; con la destra ella sosteneva il suo vestito, nella sinistra levata portava un cesto pieno di frutti e di fiori. Di fronte seduto un giovanotto con una lancia nella destrae una cappa nella sinistra. Sul muro opposto sotto la cornice c’erano riquadri rettangolari dipinti alternativamente in rosso ed in bianco, vi erano scolpiti grifoni, cavallucci marini, pesci e figure umane. Più giù c’era un piccolo paesaggio. Sulla collina sopra l’Armstrong sono stati scoperti due altri locali decorati con stucchi. Il fondo era bianco; cinque riquadri limitati da ghirlande di fiori e di frutti. Nel rettangolo centrale c’erano un albero e diverse figure umane. Nei due

rettangoli vicini si vedevano una coppia di uccelli che beccavano dele ciliegie sun vicino tavolo. In una nicchia rettangolare c’era un affresco che riproduceva un paesaggio marino (m 1,32 x m 0,83): a sinistra un tempio rotondo con un tetto sostenuto da 6 colonne con, in mezzo al tempio la statua della divinità coperta da una lunga veste con una lancia nela mano destra. Fra le colonne ci sono ghirlande sospese, a ciascuna delle quali è attaccato uno scudo con una spada. All’esterno un uomo ritto con in testa un oggetto rotondo che egli sostiene con una mano mentre con l’altra afferra una lancia. Un giardino è affrescato tra il tempio e le figure. A destra del tempio si avanza nel mare una gettata sotto la quale si aprono due archi; qua e là alcune barche sulle quali ci sono delle prsone in diversi atteggiamenti. Questo affresco è ora al Museo Archeologico di Napoli.I due ambienti dove erano questi affreschi comprendevano i bagni di una villa o di una casa particolare. La prima camera larga m 1,30 racchiudeva a destra condutture in mattoni. La seconda camera (m 4,65 x m 3,65) presentava sul lato destro una grande nicchia pressoché circolare. Il pavimento era composto di lastre di marmo bainco contornato da bande di profido rosso e appoggiava su piastrini di mattoni (suspensurae). In basso correva un plinto di marmo bainco. Nelle immediate vicinanze del quadrivio dell’Annunziata si vede una rovina che, nelle vecchie guide, è chiamata Pondera. Il Paoli ne dà la pianta. Su una lunghezza di 52 m si succedono otto camere rettangolari (m 8,06x m 7,55) tutte chiuse sul fondo da

un muro parallelo alla Domiziana e aperte verso il mare. Esse comunicavano mediante larghe aperture larghe m 5,20 con altre della stessa larghezza ma lunghe almeno m 9,10. la disposizione di queste rovine richiama l’abituale disposizione degli “correa”, erano probabilmente dei magazzini. La muratura è in “opus reticulatum”. Dall’altro lato della Domiziana dietro i Pondera grandi rovine ancora visibili fino a 50 anni fa offrivano la disposizione di un vasto quadrilatero che occupava in parte lo spazio compreso tra la Domiziana, la via Celle e la via Campana si distingueva particolarmente bene lungo la via Campana un muro di cinta in reticolato. Poiché un’iscrizione citava Tiro ed il dio di Tiro, si pensa che lì sorgesse il mercato degli abitanti di Tiro. Ciò sarebbe molto possibile perché bisogna rilevare che più o meno nello stesso luogo è stata ritrovata l’iscrizione relativa al Sole di Sarepta.Nel quartiere centrale ad ovest delle terme e a nord di san Francesco si trovano le rovine di una casa ben conservata, ma non scavata. Si può entrare in qualche camera con volta e ricoperta di stucchi dipinti; ma si può osservare solo la parte alta dei muri, poiché la parte basa non è stata ancora sterrata. Queste pitture ritraggono pesci, maschere, ghirlande di frutti e di fiori e disegni ornamentali. Uno degli stucchi ritrae il ratto di europa fatto dal toro. Un po’ più a nord delle terme vi è un grande edificio quadrato all’esterno e circolare all’interno, chiamato Tempio di Diana. Il diametro interno dell’edificio è di m 14,90; i muri esterni erano lunghi circa 19 metri. Nell’interno è stata ritrovata qualche

statua di dea, forse Diana con alla sua destra un leone ed alla sinistra una pantera. Forse erano i leoni di Cibale, perché nello stesso monumento si sarebbe trovata anche una statua di questa divinità. Da lì furono pure estratti frammenti di colonne e di capiteli, iscrizioni all’imperatore Traiano ed una statua che, a giudicare dal corno dell’abbondanza e dallo scettro che essa teneva, sembrò che fosse quella della Fortuna. Tutto il piano compreso fra l’anfiteatro e la via delle tombe a nord di Pozzuoli è punteggiato da numerose rovine che affiorano dal suolo ma di esse non è possibile fare una descrizione se pur vaga. A sud del’Anfiteatro c’erano delle rovine ora scomparse, ma che, secondo la descrizione che mi hanno fatto, potevano essere magazzini. L’insieme formava un grande parallelogramma. I due lati meglio conservati erano quello orientale e quello occidentale; il muro ad ovest era fiancheggiato da 13 grandi locali in linea retta. Il muro ad est distante dal precedente una quarantina di metri, aveva solo tre ambienti. C’era un vasto cortile interno, tutt’intorno c’erano magazzini e negozi. Molto vicino ala piscina Lusciano è stata trovata la schola degli Scabillari. Sono i resti di una stanza triangolare con il pavimento in mosaico, con la soglia di marmo con la base di quattro colonne davanti alle quali c’erano dei piedistalli con le dediche ad Antonino, Faustina e Marco Aurelio.

APPENDICE ILe ville di Pozzuoli e dei dintorni

Le persone che venivano a cercare lungo il golfo di Pozzuoli i divertimenti

e l’animazione della vita mondana abitavano non proprio a Pozzuoli, ma a baia, bacoli e lungo le rive del lago Lucrino e del lago d’Averno. Là v’erano le terme e le ville, dove i ricchi proprietari, finanzieri, politici, aristocratici soggiornavano in alcuni periodi dell’anno e invitavano un grande numero di amici, che costituivano una piccola corte rinnovata incessantemente intorno al padrone di casa. Lì c’erano anche le proprietà imperiali. Ma c’era un secondo gruppo di ville situato nella campagna e sulle colline a nord di Pozzuoli, lungo la via Campana, sulle pendici del gauro e di Cigliano. È probabile che sui fianchi del monte Barbaro, di Campiglione e della Corsara, in una parola su tutte le colline intorno a Pozzuoli, c’era un certo numero di proprietà (villae rusticae). Il genero di Simmaco ne possedeva una sul Gauro.Il nome di “villae rusticae” era nel medioevo legato ad una terra posta su una delle colline del territorio puteolano. Ci sono i resti di una villa a via Campana. Ad 1 km al sud dal punto in cui questa via si congiunge con la provinciale per Soccavo si sono scoperte le rovine di una casetta circondata per tre lati da un giardino. Sono stati riconosciuti due cellai e numerose camere con resti di mosaici in pietra bianca e rosa. Questa casa era modesta e dimostra che i ricchi venivano a cercare riposo in campagna nei dintorni di Pozzuoli. La vita che si conduceva nele vile, opulente o modeste, della pianura campana doveva essere molto diversa da quella che si viveva a Baia, che era il centro

della vita mondana; essa era molto più modesta e molto più ritirata.I personaggi che avevano ville nei dintorni di Pozzuoli sono : Antonio (a Miseno), Cesare (a Baia), Cicerone (sulle rive del Lucrino), Ortensio (a Bacoli), Licini Crasso (a Baia), Lucullo (a Miseno), Pisone (a Baia), Pompeo (a Bacoli), C. Lelio, l’amico di Scipione l’Africano (a Pozzuoli), Simmaco (a Baia e a Pozzuoli), Catullo, l’amico di Cicerone ( Lucrino); Sila (Baia).Anche l’amico del poeta Stazio, Pollio Felice, originario di Pozzuoli, aveva dele proprietà e delle vile a Pozzuoli. Due luoghi erano particolarmente richiesti: la sommità delle coline o l’immediata vicinanza al mare e lì che Plinio il Giovane indica come la “mode di Baia”. Le ville di Lucullo, di Cesare, di Pompeo erano sulle colline, da dove si godeva la vista magnifica del golfo e delle isole di Procida e Ischia e vi si respirava un’aria più sana. È la ragione per la quale le vile più antiche sono quelle costruite in collina “in summis jugibus montium”. Ma la costruzione di ville venne estesa alla costa dove c’erano vivai e sorgenti d’acqua termale. Una delle prime ville costruite vicino al mare fu quella di Licinio Crasso; là c’era anche quella do Ortensio, quella di Pisone, l’amico del’imperatore Nerone. A volte, come ci ricorda il poeta Orazio, le ville avevano le fondamenta a mare. Virgilio nel’Eneide allude anche egli a vile costruite con fondazioni nel mare. Le vile baiane erano ragguardevoli per le magnifiche sale da bagno. I bagni erano per i ricchi Romani una parte molto importante del’abitazione e i più ricchi avevano delle sorgenti termali nele loro ville. Il lusso di stagni e di

vivai era ugualmente molto grande; si spendevano somme molto elevate per avere pesci rari. Erano celebri le piscine di Ortensio, di Cesare, di Atonia (moglie di Druso), della zia di nerone, Domizia. Fu Sergio Orata l’inventore della mitilicoltura, che instalò dei vivai che comunicavano direttamente con il mare, dove l’acqua si rinnovava continuamente. Ogni specie di pesce era allevata nei compartimenti specifici; dei ripari mettevano al sicuro i vivai dal mare agitato. Era essenziale il rinnovo del’acqua; Ortensio criticava i vivai di Lucullo perché l’acqua vi ristagnava. Ma Lucullo stesso aveva fatto scavare a Napoli una grotta nella collina in riva al mare ed in questo vivaio naturale durante il forte caldo estivo, i pesci nuotavano in un’acqua sempre fresca. Nela sua villa di Baia dei canali sotterranei mettevano in comunicazione i vivai con il mare, così che il movimento del flusso e del riflusso si faceva sentire. La bocca del canale in mare era protetta da una diga in modo che quando il mare era agitato non poteva penetrare nei vivai.I bacini artificiali, piscine o stagni, avevano un altro scopo; ci si portava sul loro bordo e se erano abbastanza spaziosi vi si navigava. Si andava molto in barca nel golfo.Vi si vedeva fluttuare le galere imperiali di piacere, quele dei ricchi senatori ed altri innumerevoli imbarcazioni sulle quali andavano a zonzo i bagnanti. A volte si svolgevano delle regate. Ma il Lucrino e l’Averno avevano acque più tranquille e più sicure per divertirsi. Seneca ha descritto i piaceri e i divertimenti dele notti d’estate.

Un altro lusso era quello dei giardini, dei portici, dele passeggiate pubbliche o private. A Baia c’era il tetrastilo, portico a quattro file di colonne, il bosco di mirti dove c’erano delle terme. Sul lago Lucrino c’erano il portico ed il parco del’antica vila di Cicerone; c’erano le ninfee o fontane monumentali attorno ale quali si estendevano giardini; ce n’era una a Pozzuoli presso il mare al’estremità occidentale della città. A Baia c’era un portico trionfale che apparteneva ad una villa imperiale e che era ornato con statue colossali una dele quali, raffigurante un Di oscuro, è stata ritrovata. Era lungo 46 m ed era stato costruito ad imitazione del portico di trionfo a Roma.

VILLA DI CICERONECicerone possedeva due ville: l’una a Pozzuoli, che era un’abitazione di rappresentanza, la’ltra sulla riva del Lucrino era la sua abitazione. È questa che egli nela sua corrispondenza chiama “Cumanum”; sebbene essa fosse più vicina a Pozzuoli che a Cuma, rientrava nel territorio cumano, ma non era al limite di Pozzuoli alora i territori di Pozzuoli e di Cuma erano confinanti ed il confine era presso il Lucrino là dove sorge ora Montenuovo e qui bisogna supporre la villa Cicerone. Plinio scrive: “E’ da ricordare la vila che dal lago d’Averno si protende verso Pozzuoli lungo il litorale, celebre per il portico e i giardini, che Cicerone chiamava ACCADEMIA secondo l’esempio di Atene”. Da parte sua Cicerone ci dice che la sua villa era posta presso il lago Lucrino (villam ad Lucrinum). Su un frammento degli accademici si legge: - Ora risiedo a

Lucrino e vedo i pesciolini guizzanti-. Gli indizi forniti da Plinio e da Cicerone ci invitano a porre il Cumanum tra l’Averno e Pozzuoli, sulle rive del Lucrino, ad est o a nord-est di questo, là dove nel Medioevo sorgeva il villaggio di Tripergole, distrutto più tardi dall’eruzione di Monte Nuovo.è in questo luogo, che sotto l’Impero era nelle immediate vicinanze di Pozzuoli, come dice Filostrato che il Beloch e dopo di lui lo Shmidt hanno localizzato (con molta verosimiglianza) la villa di Cicerone. Cicerone l’acquistò nel 56. egli scrive in aprile a suo fratelo Quinto che voleva andare a vedere la vila che voleva comprare. Fino ad allora egli in Campania possedeva solo la vila di Pomepi. Il banchiere puteolano Vestorio, gli prestò forse dei soldi in questa occasione; e il 14 aprile scriveva ad Attico di accordarsi con Vestorio. La villa fu costruita dall’architetto Ciro che diede prova in questo lavoro di uno spirito molto innovativo ciò che piacque molto al nuovo padrone. I lavori iniziarono subito e Cicerone li seguì personalmente. Invitò suo fratello Quinto e l’amico Mario ad assistervi. Il completamento durò un po’ di tempo. Nel 55 la biblioteca non era stata ancora installata poiché in quest’anno Cicerone utilizzava ancora quella del suo amico Fausto a Pozzuoli; ma (l’ambulatio) la passeggiata ed i bagni erano già completati. La proprietà era vasta; comprendeva un giardino (hortus) che certamente bisogna identificare con il boschetto (nemus) celebre al’epoca di Plinio e con il portico era il principale ornamento della villa. Esso arrivava fino al lago Lucrino. La villa era completata da

“dependances” frutteti, orti; in ogni caso vi era occupato un personale numeroso. Cicerone parla di fattori e di amministratori del suo “Cumanum”.Venne spesso nella sua villa di Lucrino, ma solo per brevi soggiorni. Vi si recava di preferenza in aprile o in maggio, i mesi migliori in Campania, durante i quali si preferiva fare i bagni a Baia. I soggiorni più lunghi li faceva a Tusculum.A Lucrino riceveva molta gente. Quando era presente li invitava, quando era assente metteva la sua villa a disposizione dei suoi amici. In varie riprese egli fece questa cortesia alla moglie ed alla figlia di Attico; mentre egli era a Tusculum esse passavano la primavera del 45 nella villa di Lucrino. Nel 44 a maggio si recò al Puteolanum e mise il Cumanum a disposizione della figlia di Attico, Pilia. Era in relazione con tutti i grandi di Roma che avevano ville nelle vicinanze, come pure con gli uomini di affari e di ricchi commercianti di Pozzuoli. Era necessario che un oratore, un uomo di stato avesse una proprietà in questa seconda Roma del Golfo di Napoli. Poteva, ogni anno prendendo un po’ di riposo, stringere relazioni, occuparsi di politica, rendere servizi ai banchieri di Pozzuoli che glieli ricambiavano. Tale fu la principale ragione per cui comprò il Cumanum. Vi trovava il proprio interesse. Nello stesso tempo egli soddisfaceva la sua vanità di uomo nuovo arrivato in alto. Egli era amico dei politici, Cesare, di Pompeo; aveva rapporti continui con il suo vicino ed amico Marrone; si occupavano entrambi di letteratura. Nella sua vila di Lucrino scrisse una parte delle Accademiche; nel 54 compose la sua

opera sulla Repubblica. Nel 49, quando scoppiò la guerra civile, vi venne ad attendere gli avvenimenti, seguire di giorno in giorno la politica, prendere consiglio dai suoi amici, riceveva amici di Cesare. Nel 45 vi ricevette lo stesso Cesare vittorioso che pasava in Campania. Relazioni mondane e politiche occupavano tutto il suo tempo. Era un continuo viavai. Nel 44 restò 10 giorni a Lucrino, poi di là passò alla casa di Pozzuoli, andò a Pomepi, visitò Lucullo. Bisogna leggere la corrispondenza del 44 per rendersi conto della vita singolarmente agitata che era quella di Cicerone in villeggiatura. Andava dai suoi vicini e poi li riceveva senza sosta. Ortensio che abitava a Baia, Bruto che aveva una villa a Nisida, Lucceio che ne aveva una a Pozzuoli, Gneo Lucullo, Fausto Sylla, il figlio del dittatore. Riceveva anche amici di Roma: Irzio, Pansa, Balbo, Lentulo. A dire il vero qualche volta avrebbe desiderato un po’ più di tranquillità. Egli scrive ad Attico: “ Andrei nella mia villa di Pompei e di là mi rimbarcherei verso le mie case di Pozzuoli e di Cuma. Luoghi desiderabili, ma che sfuggirei per un po’ a causa dela moltitudine di gente che vengono ad importunarmi. Nella circostanza gli importuni erano Irzio e Pansa. Oltre queste relazioni letterarie, politiche e mondane, Cicerone aveva sinceri amici fra i commercianti di Pozzuoli. Uomo nuovo, avendo fatto rapidamente fortuna avendo esercitato le sue funzioni pubbliche in Sicilia ed in Asia, aveva frequenti rapporti di affari con essi. Aveva degli obblighi verso di essi e rendeva loro dei servigi. Nel 51 aiutò il banchiere Pluvio a farsi pagare per le

ville di Cilicia dai suoi debitori. Avianio, un negoziante di Pozzuoli, era ugualmente suo amico; un altro mercante, Vestorio, gli prestò molte volte del denaro. Cicerone lo vedeva spesso, cenava con lui, gli confidava la difesa dei suoi interessi a Pozzuoli, prendeva consiglio da lui quando lo faceva costruire. A causa dei brevi soggiorni che Cicerone faceva nella villa e delle diverse occupazioni che vi aveva, non gli restava che poco tempo per godere i piaceri della villeggiatura, la dolcezza del clima, le bellezze della natura. Tuttavia egli sapeva apprezzare gli aspetti della campagna e del mare. Amava contemplare l’azzurro del mare, e passeggiare lungo le coste punteggiate da magnifiche ville. A volte si recava in collina per ammirare il panorama dall’alto. Si sedeva sulla riva del Lucrino e si divertiva a vedere i salti dei pesci sopra l’acqua del lago. La villa di Lucrino era la casa di campagna; ma dal 45 egli possedeva a Pozzuoli un altro immobile da lui chiamato nella sua corrispondenza Puteolanum.Un po’ dopo la sua morte si scoprirono nel Cumanum delle sorgenti di acqua termale che divennero celebri e sule quali uno dei suoi affrancati Tullio Laurea, compose dei distici che erano incisi accanto ala sorgente. Sotto l’impero la villa di Cicerone era aperta al pubblico e costituiva una paseggiata al’estremità occidentale di Pozzuoli. Il filosofo Apollonio vi andava a conversare con i suoi discepoli. L’imperatore Adriano vi fu seppellito.

VILLA DI SIMMACOLa corrispondenza di Cicerone ci ha permesso di studiare la vita che

conduceva uno scrittore, un politico verso la fine della Repubblica, sui bordi del golfo di Pozzuoli. Quella di Simmaco ci trasporta bruscamente al IV sec. d.C.. L’agitazione politica era cessata. Simmaco viene a Baia e a Pozzuoli per gioire della natura, della tranquillità, per villeggiare. Mentre Cicerone, come abbiamo visto, conduceva una vita agitata e febbrile, Simmaco viveva in maniera calma e piacevole. Il golfo di Pozzuoli è ancora frequentato, i bagni vi attirano ogni anno molta gente. Ma il movimento non è paragonabile a quello della fine della Repubblica o nel primo secolo del’impero, allorché Claudio, Caligola e Nerone portavano con loro nela regione la folla dei loro servitori e cortigiani. Ciò che resta del dominio imperiale è di scarsa importanza; il resto del paese appartiene ad un piccolo numero di grandi proprietari aristocratici. Uno dei più ricchi era Simmaco. Egli possedeva ville nel’Italia intera; anche a Pozzuoli e nele vicinanze non ne aveva meno di quattro o cinque. Senza parlare di quella di Napoli, ne aveva una a Cuma, una a Bacoli, una terza a Baia, un’altra sui bordi del Lucrino, una infine a Pozzuoli. La villa di Bacoli era quella del nonno Orfito, che era stato due volte prefetto dell’Urbe di cui egli aveva sposato la seconda figlia Rusticinia. Il matrimonio era stato celebrato nel 375 e là Simmaco trascorse i primi anni della sua unione. Egli scriveva a suo padre che la vila di Bacoli gli piaceva enormemente. Simmaco ebbe da suo padre la villa di Lucrino e di Baia; egli andava nell’una e nell’altra alternativamente, secondo la stagione; di Baia gli piaceva la

calma, la vita ritirata che si poteva svolgere; allorché giungeva l’estate egli preferiva recarsi ai suoi domini del Sannio. Egli dà degli epiteti alle sue ville “Lucrina tacita”, “Bauli Magnum Silentes” indicano il tipo di piacere che egli veniva a cercare. Quando poi questa solitudine gli pesava, si recava nela sua villa a Pozzuoli dove trovava anche un’aria molto salubre. La villa baiana era, come quella puteolana, posta ala sommità di una collina, ma i parchi e i terreni che appartenevano alla villa, discendevano fino al mare. Simmaco amava soprattutto Pozzuoli che egli definiva “il posto più bello del mondo” e descriveva le bellezze puteolane con delle brevi poesie. Niente di più bello, egli aggiungeva, della Campania in autunno. Il clima del golfo di Pozzuoli con le sue rare piogge, il suo caldo sole è moderato e delizioso. Gustando tutta la bellezza e il fascino di questi luoghi felici, Simmaco riceveva i suoi amici o visitava la figlia il genero nella loro proprietà del monte Gauro.

VILLE E PROPRIETA’ IMPERIALIGli imperatori soggiornavano volentieri in Campania, in particolare sulla costa del golfo di Pozzuoli. Là vi possedevano un demanio importante e sempre più ampliato. Al tempo di Augusto, il demanio imperiale comprendeva la villa di Cesare che si trovava sulle colline di Baia e probabilmente anche quelle di Pomepo e Antonio. Non sappiamo se Augusto soggiornasse spesso a Baia. Svetonio ci dice che oltre a Lanuvio, Preneste e Tibur, Augusto amava soggiornare presso il mare e sulle isole campane. Egli possedeva una villa Posillipo e

l’isola di Capri era sua proprietà particolare. Dove andava di preferenza? Non lo sappiamo. In ogni caso membri dela sua famiglia risedettero a Baia, per esempio sua figlia Giulia. Tiberio preferiva a tutti i soggiorni quello di Capri, ma abitava anche l’antica villa di Luculo, posta fra Baia e Misero e divenuta proprietà imperiale; è là che egli morì. Claudio risiedeva a Baia nel 46; è una villa imperiale chiamata “Praetorium Baiae”. Giuseppe scrive a proposito di caligola: “Egli aveva a Baia magnifici palazzi imperiali, poiché ogni imperatore cercava di superare il suo predecessore”. Il demanio imperiale si accrebbe molto sotto Nerone; la zia dell’imperatore, Domizia, aveva a Baia una villa con magnifici vivai; Nerone la fece assassinare per impossessarsene. Fece scavare un grande bacino (stagnum) al quale il suo nome restò legato durante tutta l’antichità ed intraprese lavori numerosi e grandiosi. Egli progettava di unire Roma a Pozzuoli con un canale interno, voleva pure riunire in una sola grande piscina coperta e orlata di portici tutte le acque termali che sgorgavano nella regione da Misero all’Averno.L’antica villa dell’oratore Ortensio a Bacoli, era venuta in possesso di atonia, moglie di druso. La madre di Nerone, Agrippina, l’ereditò sia da sua nonna, sia da Claudio, figlio di Atonia. Essa ingrandì il dominio imperiale di cui faceva parte al tempo dei Flavi, come ci dice Marziale. Sappiamo che Adriano soggiornava a Baia quando vi morì. Al 3° sec. Alessandro Severo fece eseguire nel demanio imperiale

grandi lavori: palazzi, vivai, canali comunicanti con il mare. Questi beni imperiali richiedevano un grande numero di amministratori, di intendenti, di schiavi. Architetti erano addetti alle vile ed alle loro dipendenze. Ne conosciamo uno Augustorum un vecchio soldato delle coorti pretoriane. Gli imperatori, per essi e per il personale dipendente, avevano dei medici specialisti chiamati archiatri. Schiavi che si occupavano dei beni dell’Impero sono nominati in varie iscrizioni; una dedica è fatta ad una certa Giulia Gratis da un gruppo di schiavi alle sue dipendenze. A fianco dei contadini, c’erano i giardinieri, come Lucio, giardiniere di Augusto, un rilegatore, schiavo di Tiberio, un portiere di palazzo, battellieri imperiali. Un collegio di schiavi imperiali era la “famiglia villae Lucullianae”. Sembra che a ogni villa importante fosse legato un collegio di schiavi che da essa traeva il suo nome. All’epoca di Tiberio, la villa di Lucullo aveva ancora conservato il suo nome. Due delle antiche ville di Baia, quella di Pompeo e quella di Ortensio facevano parte dei possedimenti imperiali. Quella di Ortensio era divenuta proprietà di Agrippina; Tacito la chiama la “villa di Bacoli” dove esisteva un “collegium Baulonarum”, collegio dei funzionari imperiali della via di bacoli. Esso era presieduto da un procuratore, cioè un amministratore nominato direttamente dall’imperatore; esso possedeva dei colombari e le sepolture, quando c’era disponibilità, venivano vendute agli stranieri.

LA VILLA DI TRIMALCIONE NEL ROMANZO DI PETRONIO. CUMA, NAPOLI O POZZUOLI?Ci resta da esaminare un’ultima questione riguardante le ville. Dov’era la villa di Trimalcione? Dove si svolge il Satyricon di Petronio?Petronio non ha designato espressamente in quale villa della Campania abitasse il suo eroe Trimalcione. Si è pensato che questa villa fosse sia a Pozzuoli, sia a Cuma, sia a Napoli. Lunghi articoli sono stati scritti al riguardo da Mommsen, Friedländer, haley, E. Cocchia. Riassumerei qui brevemente le differenti ipotesi fatte.1° L’ipotesi del Mommsen in favore di Cuma deve essere abbandonata perché Trimalcione parla sempre di Cuma come di una città straniera.2° Beloch, Friedländer ed Haley hanno pensato che la villa del Satyricon fosse a Pozzuoli. I dati topografici che ci fornisce l’episodio di Trimalcione si applicherebbero, secondo loro, a Pozzuoli: la città è ripartita in regioni, divisioni che noi conosciamo dai documenti epigrafici. Altri dettagli ci rimandano a Pozzuol: i numerosi portici, i giochi del circo, la basilica, la via dei sepolcri che conduce a Capua. La denominazione di “Greca urbs” si addice ad una città dove c’erano numerosi orientali che parlavano greco. Giovenale parlando di Roma usa le stesse espressioni: “ greca urbs” a maggior ragione Petronio poteva applicarle a Pozzuoli. Friedländer stabilisce infine una corrispondenza fra la corte dei vigili installata a Pozzuoli e ad Ostia da Claudio e le guardie notturne che accorrevano nella villa di Trimalcione. Questi argomenti hanno

scarso valore. Per quanto riguarda quelli derivati dalla topografia, come riconoscere Pozzuoli da qualche elemento segnalato da Beloch? Perché riferire sa Pozzuoli i portici, il circo, la basilica, tutti elementi che si possono ritrivare in qualsiasi altra grande città? La via delle tombe che conduceva a Capua può ben essere la via che da Napoli portava a Capua; e non quella da Pozzuoli a Capua. Quanto ai vigili perché sarebbero quelli che Claudio inviò a Pozzuoli? Tutte le città antiche avevano le loro guardie notturne. L’argomento accampato della “greca urbs” è più interessante, ma non più probante. La lettura del Satyricon prova indubbiamente che la città di Trimalcione è greca, perché la popolazione è greca e parla il greco. Le avventure del personaggio avvengono sempre in città greche (Marsiglia, Crotone) ciò che certamente corrispondeva ad un disegno ben definito dell’autore; i nomi di tutti i personaggi sono greci; il loro linguaggio, tutto impregnato di ellenismo prova che il greco era l’idioma locale. Abbiamo a che fare con una popolazione bilingue, che parla il greco dorico della Campania. In mezzo a tutti questi greci, Trimalcione è il Latino, il Romano. Petronio ha saputo stabilire più nei dettagli un contrasto molto artistico tra Trimalcione e la gente che lo circonda. Tutto questo sarebbe esatto se Pozzuoli fosse la città del Satyricon? No. Dopo lungo tempo Pozzuoli era diventata una città osca e latina: osca allo stesso tempo che Cuma e per le stesse ragioni, latina dopo la colonizzazione romana. A partire dalle guerre puniche si parlò latino a Pozzuoli; gli usi, la lingua, le

leggi, di Roma vi si improntarono in questo periodo. Quasi tutte le iscrizioni sono latine. In realtà alcune sono in greco: quelle degli Orientali ed io non nego che a Pozzuoli si parlasse greco più che nella maggior parte delle città italiane. I mercanti di Siria, Egitto e Asia Minore, i loro impiegati, i loro schiavi, tutti parlavano il greco; ma costituivano la popolazione straniera. Ma si consideravano ospiti di un paese latino ed essi stessi impiegavano frequentemente la lingua latina. Scrivevano in greco ai loro conterranei, ma le iscrizioni poste all’ingresso dei loro cimiteri erano in latino; i mercanti di Beryte redassero in latino una dedica a Nerva; altri siriani scrissero in latino un’iscrizione votiva al loro dio. Tutto ciò prova che ci troviamo in un paese fortemente romanizzato. Un’ultima osservazione. Petronio ha studiato con molta cura la lingua dei suoi personaggi. L’ha resa con arte e con fedeltà. Ed il greco dei personaggi del Satyricon è un greco locale, il greco dorico che predominava in Campania. Infine nel Satyricon non troviamo alcuna caratteristica che possa applicarsi ad una città commerciale ed industriale. 3° Se tutto ciò ci allontana da Pozzuoli, tutto ci avvicina a Napoli. È ciò che il Cocchia ha giudiziosamente messo in rilievo. Pozzuoli era quotato centro commerciale, Napoli era il centro letterario ed artistico della Campania. Vi erano molti studiosi, grammatici, filosofi. Ora di cosa si occupava la società dipinta da Petronio? Di questioni,letterarie, di poesia, della decadenza dell’arte oratoria. Encolpio, Agamennone discutono su Tucidite, Sofocle, Demostene, Pindaro. La loro

cultura tutta ellenica, si oppone ai gusti letterari di Trimalcione, il Romano, che preferisce trattare soggetti latini, per esempio, quello delle differenze che esistono tra Publilio e Cicerone. Agli argomenti trattati da Agamennone accorre una folla di studiosi. Tutto ciò si applica a meraviglia non a Pozzuoli, ma a Napoli, centro fiorente di studi, come sappiamo dalla testimonianza di antichi scrittori. L’espressione “greca urbs” acquista così un significato singolare se consideriamo che quasi tutte le iscrizioni di Napoli sono greche, che il greco perdurò e fu la lingua ufficiale sotto il tardo impero, che gli usi e le abitudini elleniche durarono durante tutta l’antichità. Strabone scrive che tutte le colonie greche erano romanizzate ad eccezione di Taranto, di Reggio e di Napoli. Ed è notevole che Tacito, proprio come Petronio, chiama la Napoli dei tempi di Nerone una città greca. C’era in questa città un carattere che, agli occhi degli antichi, la distingueva dalle altre città campane. Quanto più sono vaghe le allusioni topografiche allorché si riferiscono a Pozzuoli, tanto più sono precise quando si tratta di Napoli. Il Cocchia le ha tutte rilevate e spiegate. Nel Satyricon viene nominata una “cripta” che deve essere certamente la grotta di Pozzuoli ed una pinacoteca molto ricca, situata vicino al mare in un luogo solitario, al centro dei portici; ora una galleria di pittori che si trovava a Napoli fuori dalle mura, nel sobborgo che guarda il Tirreno, è ricordato da Flavio Filostrato, contemporaneo di Settimio Severo, che ricavò il soggetto di una delle sue opere proprio dai pittori di questo museo. M. Cocchia, infine, ha ingegnosamente confrontato

la festa dei Nudipedalia (festa religiosa, durante la quale le dame risalivano un pendio della città per chiedere la pioggia a Giove) con una cerimonia religiosa che sopravvisse a Napoli fino al 16° secolo (il clero, quando desiderava bel tempo, si recava da San Giovanniello agli Ottocalli, per ottenere la grazia del cielo). Il nome di Pichiuovi, dato anticamente all’angolo nord-est dell’antico Campo di Marte, deriverebbe, secondo Cocchia, da Jupiter Pluvius (Giove Pluvio). Un’ultima categoria di argomenti può essere derivata dagli usi popolari e dai proverbi napoletani che si trovano già nel Satyricon. Il Cocchia ha notato queste divertenti e sorprendenti analogie, che rafforzano ancora di più la convinzione che Petronio ha voluto scrivere un romanzo di costumi realistici.

APPENDICE IILe acque minerali e le terme. Da

Pozzuoli a Baia.È nel 178 a.C. che le acque termali sono segnalate per la prima volta: il console Gneo Pompeo si recò allora alle AQUAE CUMANAE per curarsi. A quest’epoca bisognava raccogliere l’acqua alla sorgente stessa. Ma senza dubbio furono presto costruite delle terme dove le acque giungevano con dei canali. Gli ultimi 50 anni della Repubblica furono per le terme come per le vile, un periodo di grande sviluppo. I “sudatoria” che scavati nelle montagne facevano passare vapori sulfurei, erano terminati al tempo di Augusto. All’inizio dell’Impero, il golfo di Pozzuoli era il principale centro balneare d’Italia: e lo fu per molti secoli. A chi appartenevano le

sorgenti? Alcune sgorgavano in proprietà particolari: villa di L.Crasso, villa di Cicerone. I proprietari traevano partito da questa ricchezza naturale sfruttando le loro acque o affittando lo sfruttamento? È probabile. Le sorgenti talvolta prendevano il nome dei personaggi che le possedevano o le sfruttavano. Le Acque Posidoniane traevano il loro nome da un affrancato di Claudio. Altre sorgenti potevano appartenere ale vile, altre facevano parte del demanio imperiale e costituire una delle entrate principali dell’erario imperiale. Le ville dei Pisoni, di Crasso, di Cicerone erano divenute imperiali: su quasi tutto il territorio di Baia e di Bacoli sono state ritrovate le rovine di bagni più importanti appartenenti agli imperatori. Nerone tentò pure di acquisire al demanio imperiale lo sfruttamento ed il monopolio di tutte le acque calde della regione. Alcune sorgenti sgorgavano nel mare, altre a livelo del suolo, altre nel cuore della collina. I Romani non arretrarono davanti ad alcun lavoro per utilizzarle, in qualsiasi luogo esse si trovassero e quali che fossero le difficoltà opposte dalla natura. Alcuni loro lavori stupiscono. Ci si chiede come abbiano scoperto delle sorgenti nella montagna, per esempio quelle del Bagno Ortofonico a Pozzuoli. Non una sola sorgente termale sottomarina sfuggì ai Romani. Plinio che le menziona in varie riprese, cita in particolare quella della villa. Ce n’è una a Tritoli, davanti al “sudatorium”; scavando un po’ nella sabbia la si trova facilmente. De Sariis parla di una sorgente che zampillava sulla spiaggia tra l’Ospizio dei Cappuccini e le terme di “Subveni Homini” ad est di

Pozzuoli. Vicino all’antica Tripergole una sorgente d’acqua calda sgorgava nel mare. Per quanto riguarda le sabbie riscaldate da sorgenti sottomarine, i Romani ne conoscevano l’uso. Celsus raccomanda le “arenae calidae” per certe malattie. L’acqua delle sorgenti termali era portata nelle terme per mezzo di condotte; era il caso di un certo numero di bagni di Baia. A volte ci si serviva di tubi di piombo; ma questo metallo veniva subito degradato da sostanze minerali e dalla temperatura. “C’è a Pozzuoli, dice Pausania, un’acqua così bollente che dopo pochi anni ha completamente corroso le condutture di piombo attraverso le quali scorreva”. Qualche volta si utilizzava l’acqua nel luogo stesso dove sgorgava e la si raccoglieva in un bacino. Quando la fonte o la falda d’acqua era posta ad una certa profondità sotto il suolo, si scavava e si organizzavano sale sotterranee nelle quali si trovava una vasca. Accadeva pure che la profondità rendeva difficile raggiungere la sorgente come al Bagno Ortofonico di Pozzuoli, dove le sale termali erano costruite alla sommità della colina, mentre la falda si trovava nel cuore di questa collina ad un livello molto inferiore (circa 40 metri di profondità). Si era costruita per attingerla una lunga scalinata sotterranea. Schiavi incaricati di questo lavoro, andavano ad attingere l’acqua e la portavano ai malati. Altri bagni di Baia avevano lunghe rampe scavate nel suolo e grandi scale che portavano alle acque calde. Oltre alle acque i Romani raccoglievano i vapori che uscivano dalle fenditure del suolo. I bagni di Pozzuoli comprendevano un certo

numero di sudatoria, dove si prendevano bagni di vapori naturali. Queste correnti di fluidi gassosi sono state chiamate in Italia fumarole; là dove esse fuoriuscivano si costruivano delle sale e i malati venivano a respirarle. Celso parla delle terme di Baia in un bosco di mirti e le fumarole venivano imbrigliate e utilizzate in sale termali (sudatoria). Le persone nel sudatorium si sedevano in una specie di nicchia ed erano avvolte dai vapori per sudare. Le più interessanti rovine di sudatoria sono quelle di Tritoli, dette Stufe di Nerone. Esse sembrano corrispondere ad un sudatorium descritto da Vitruvio. Nel territorio baiano, dice questo autore, numerose sorgenti ribollono sotto le colline e nelle viscere dela terra; i loro vapori circolano nelle vene del suolo. Per sapere che c’è del fuoco sotto le coline non bisogna che considerare le grotte scavate per servire da stufe (loca sudationibus excavata); un vapore caldo continuamente provocato dal fuoco di cui la terra è permeata, si concentra in questi luoghi e produce ammirevoli benefici a coloro che li frequentano per sudare. Un altro autore, il Brulloff, descrive le sale termali di Baia nelle quali si trovavano le vasche ed i letti per riposare. Vasche e letti erano in muratura ricoperta di stucco. Le terme continuarono a funzionare nei secoli successivi senza interruzione e quando bisognava ripararle si seguiva la disposizione di quello che già esisteva. Inoltre il sistema di vasche separate o di camere divise in cabine era abituale; lo si è constatato nei bagni termali romani d’Arles. Questi si componevano di due ambienti al centro dei quali c’erano

delle piscine; tutt’intorno delle cabine che si aprivano internamente nella sala racchiudevano vasche e sedie per docce. Tutte queste terme erano riccamente decorate. Oggi, marmi, stucchi, mosaici sono spariti; ma i disegni di Brulloff ci hanno conservato dettagli dell’ornamento delle sale termali di Baia; si vede, su un’incisione di Paoli, i cassettoni (di soffitto) di stucchi di una sala da bagno di Tritoli. Ala fine del’impero, S. Apollinare celebra i bagni di Pozzuoli. Cassiodoro ne parla con entusiasmo. Papa Gregorio parla nel VI secolo del sudatorio di Agnano dove il vescovo di Capua, Germano, sarebbe venuto per curarsi. Nel sec. X, Jean Diacre, negli Atti della traslazione di Sossio, scrive che i bagni di Pozzuoli erano molto frequentati dai malati. Nel XIII sec. un medico poeta della Scuola salernitana, Pietro d’Eboli, compose un poema in latino (De Balneis terrae laboris) dove descrise le virtù di tutte le sorgenti di Pozzuoli e di Baia. Altri medici della Scuola salernitana avevano scritto riguardo ale acque termali di Pozzuoli, per esempio il medico Giovanni. Nel medioevo c’era accanto ad ogni sorgente un’iscrizione che elencava le malattie che essa guariva. La leggenda attribuiva a Virgilio queste iscrizioni. Erano sia iscrizioni antiche, sia più recenti ma ispirate ad altre più antiche. Pietro d’Eboli nel suo poema enumera 32 sorgenti termali che erano quasi tutte già conosciute dagli antichi Romani.Dopo Pietro d’Eboli le acque di Pozzuoli continuarono ad essere usate. La conoscenza dei nomi e dei luoghi delle sorgenti si trasmise di generazione in generazione, nei poemi

o nelle prose dei bagni di Pozzuoli fino ai tempi moderni. Aiutandosi con questi poemi, con queste tradizioni e procedendo a ricerche topografiche e a qualche scavo, il medico spagnolo Bartoli compose nel XVII sec. un’opera preziosa sui bagni di Pozzuoli; egli vi indicò le sorgenti ed i luoghi dove esse si trovavano e le rovine delle terme. È in seguito a queste ricerche che Bartoli poté redigere delle iscrizioni che indicavano la situazione ed i nomi di tutte le sorgenti fra Napoli e Miseno. Alcuni manoscritti di imitatori di Pietro d’Eboli sono illustrati con miniature dove i disegni raffigurano bagnanti che con un gesto designano la parte malata del corpo per la quale è utile l’acqua minerale di cui essi fanno uso. Queste miniature non erano una mera invenzione dei disegnatori medievali; esse erano grossolanamente ispirate alle antiche figure scolpite che decoravano certe sale romane dei bagni di Tritoli, come fanno credere documenti del medioevo.

Descrizione topografica delle terme.Delle rovine degli antichi bagni tra

Pozzuoli e Miseno I

Da Bagnoli a PozzuoliLungo tutto il litorale dopo il capo di Posillipo fino a Pozzuoli, ai piedi del monte Spina, Dolce ed Olibano, sgorgano o sgorgavano delle sorgenti di acque termali.All’uscita della grotta di Pozzuoli, i documenti medioevali, segnalano un bagno chiamato “BALNEUM FORIS CRYPTAE”, che si trovava sul bordo della via e non lontano dal mare di fronte a Nisida. Il Batoli ha ritrovato in

questo porto delle rovine antiche, i resti di un calidarium ed una sorgente minerale d’acqua fredda. A Bagnoli stesso ci sono parecchie sorgenti, la località non si compone che quasi completamente di sorgenti termali; sembra che fosse lo stesso ai tempi dei Romani. Le ricerche del Batoli portano a credere che già gli antichi utilizzassero le sorgenti di Bagnoli e che avessero costruito delle terme che durarono fino al tempo di Pietro da Eboli. Alcuni scavi da lui eseguiti hanno portato alla luce resti di sale che contenevano vasche per l’acqua minerale. Le rovine di un immenso edificio non ancora scavato, esistono al bordo del lago di Agnano non lontano dalla grotta del cane. Da ogni parte in questo luogo si sprigionano dal suolo fumarole che gli antichi non avevano certamente mancato di utilizzare. C’era certamente in quel sito un “sudatorium”. Sotto il regno di Teodorico, nel 497 d.C. , San Germano, vescovo di Capua, venne a curarsi alle terme di Agnano. Secondo una leggenda, riportata da Gegorio Magno, il diacono Pascasio soffrì le pene del purgatorio nel sudatorium di Agnano. Nelle colline Leucogee, degli Astroni e della Solfatara zampillavano sorgenti utilizzate ancora nel medioevo. Plinio ne cita una detta “fons Araxi”.

IIDa Pozzuoli a Miseno

Da Pozzuoli fino a Tripergole, i nostri documenti non ci fanno conoscere l’esistenza di alcuna sorgente; nessuna è stata trovata. Ma c’erano molte sorgenti a Tripergole, villaggio che fu distrutto dall’eruzione di Montenuovo.

È probabile che una di esse si trovasse sulla villa di Cicerone. Certamente i Romani avevano costruito delle terme in questo luogo. “Là – leggiamo in Loffredo – si trovava la maggior parte dei bagni di Pozzuoli; vi si vedeva un “truglio” antico che non era grande come quelli di Baia, ma ben costruito e di una bella architettura”. Quello che Loffredo chiama “truglio”, con un nome che è conservato nel paese, è una grande rotonda. La rovina più importante delle terme romane del lago d’Averno è quella che è comunemente chiamata TEMPIO DI APOLLO; essa è situata sulla riva orientale del lago e copre uno spazio molto ampio. La parte meglio conservata è una grande rotonda che misura 15 metri di diametro e somiglia a quella del tempio di Mercurio e del tempio di Diana a Baia. La volta è quasi completamente crollata. La muratura è in opus incertum di tufo con un rivestimento di mattoni. La forma del monumento all’esterno era poligonale e circolare all’interno; aveva all’interno scavate nei muri quattro nicchie semicircolari ed una rettangolare di faccia all’entrata; nella parte superiore c’erano otto finestre, di cui due esistono ancora. La porta d’ingresso doveva essere dalla parte del lago. Questa rotonda era come le altre esistenti nella regione, un Ninfeo. Come le rotonde di Baia essa riprodusse uno dei tipi più diffusi di ninfei. A Roma, presso la porta Maggiore, esiste un monumento analogo, poligonale, a volta in forma di tholos, contenente nelle mura dieci grosse nicchie; a lungo si prese questo monumento per un tempio della Minerva Medica, ma dopo che i resti di

tale monumento sono stati ritrovati altrove, si pensa che essa fosse un ninfeo. Sull’Esquilino, presso la via della Porta Maggiore esisteva un altro ninfeo, ora sparito; aveva anch’esso una forma poligonale. Dietro questa rotonda, sul lato nord si vede uno stretto corridoio, largo m 1,95, lungo circa 25 m, la cui altezza raggiunge il bordo inferiore delle finestre dele rotonde; è costruito in apparato reticolato, con volta forata da 4 aperture circolari a distanze uguali. A sinistra della rotonda, strutture poste in basso costituiscono attualmente una specie di muro lungo 20 m; c’è poi un ambiente circolare (m 7,80 di diametro), costruito in mattoni con il rivestimento in stucco e ad una volta con un’apertura circolare. Questo locale apparteneva certamente a dei bagni; esso somiglia ai “frigidaria” delle terme pompeiane. Oltre si succedono per una ventina di metri tratti di muri formanti l’orlo di un terrapieno. A destra della rotonda, si distingue, fra le numerose rovine qualche sala quadrata o rettangolare. Queste rovine sono, almeno in parte, quelle di terme. Oggi non ci sono più quest’ultime; ma ala fine del XVIII sec. si utilizzava una sua sorgente ancora visibile nei primi anni del 19° sec. essa era chiamata “Acqua di Capone”. In una delle sale a destra della grande rotonda erano sistemate alcune vasche, indicate dalla planimetria del Paoli; ma esse non erano antiche, come egli sembra credere. Le condutture soltanto erano antiche. Questa sorgente è stata identificata da Bartoli con un’acqua chiamata “Balneum de Ferris” nei poemi medioevali.

Sulla riva meridionale dell’Averno si apre un tunnel, chiamato comunemente grotta della Sibilla. Esso fece parte probabilmente dei lavori intrapresi da Agrippa per la creazione del Portus Julius e collegava direttamente la costa di Baia con il lago d’Averno. A metà percorso la galleria, una porticina quadrata porta ad una lunga rampa scavata nella roccia; questa rampa conduceva a qualche cameretta praticata nel cuore della collina, in parte invasa dalle infiltrazioni. Ci sarebbe stata là una fonte d’acqua minerale. Non sembra, comunque, che fosse sede di bagni. Un altro gruppo di sorgenti era quello di Tritoli. I poemi del medioevo e l’iscrizione di P. D’Aragon non menzionano meno di quattro o cinque in questo luogo. Oggi lo spazio fra il Maricello e la collina è occupato in diversi punti da falde d’acqua minerale tiepida; ce né un’altra dietro la cappella di Pietro e Paolo. L’insieme di stabilimenti termali costruiti sulla costa o sul pendio della colina era considerevole. Non restano ora che i camminamenti praticati nella montagna (stufe di Nerone) ed una sala coperta da una volta, scavata nella roccia, al piede della collina ad ovest delle stufe, dietro la cappella di San Pietro e Paolo. Tutte le altre costruzioni sono sparite, mentre esistevano ancora in parte fino al 17° secolo. Nella raccolta di incisioni edite da G. Rossi, la collina di Tritoli appariva interamente ricoperta da imponenti rovine.La prima sorgente che si incontrava andando dall’Averno verso le stufe si chiamava nel medioevo il “Balneum o Lavacrum Silvianae”. Essa si trovava in una sala scavata direttamente nella

collina ad una cinquantina di passi dal sudatorium. Pietro da Eboli parla di una seconda sorgente (acqua di San Giorgio) alla quale conduceva una rampa sotterranea scavata nella montagna. Due altre sorgenti sono ugualmente segnalate presso il mare, in mezzo a rovine antiche.Il Paoli dà la pianta di due sale con volta scavate nella collina, al piede del sudatorium. Le vasche ed i letti che esse racchiudevano erano palesemente un’aggiunta moderna, ma la volta di una dele sale era ancora al’epoca del Paoli, decorata da grandi cassoni di stucco. Dietro la cappella di San Pietro e Paolo ci sono ancora oggi i resti di una sala con volta scavata nella roccia, analoga a quela che descrive Paoli. Gli autori medioevali parlano di asle termali ugualmente scavate nella collina; una di esse era ornata da statue che riproducevano bagnanti che con un gesto indicavano le proprietà benefiche delle varie sorgenti termali. I corridoi del sudatorium comunemente chiamato stufe di Nerone si aprono a mezza costa nella collina, da essi salgono i vapori, nelle sale usate dagli ammalati. Oggi si vede ancora all’ingresso di questa galleria, tre o quattro sale scavate nella roccia, con dei letti di riposo ricavati anch’essi dalla roccia. Sotto questo sudatorium ne esisteva un altro, accanto al mare; l’entrata è ormai ridotta a delle rovine in laterizio ed in reticolato; esso si compone ugualmente di lunghe gallerie sotterranee dove circolano vapori. Queste gallerie, ora ostruite da frane, potevano ancora essere percorse alla fine del 18° secolo. C’erano e ancora ci sono lungo la costa fra Tritoli e Baia, delle acque minerali. I documenti medioevali e gli scritti di

Pietro d’Aragona ne segnalano due nelle rovine di antichi edifici, il “Balneum solis et Lunae” e il “Balneum Culmae”. Se si costeggia la riva in barca, fra le stufe di Tritoli e la punta dell’Epitaffio, si constata l’esistenza di una sorgente d’acqua calda al fondo di una galleria scavata nella roccia nei pressi del promontorio della punta dell’Epitaffio. A Baia ci sono importanti rovine di terme. La prima che si incontra, venendo da Tritoli, è quella comunemente chiamata “Tempio di Diana”. È un monumento ottogonale all’esterno e circolare all’interno, la volta dela grande sala interna è mezza crollata. La muratura è composta da opus isodomo di pietre di tufo e di mattoni, i cui strati si alternano (una fila di pietre di tufo, poi due di mattoni). Il diametro interno è di m 29,50; l’edificio è in gran parte colmato fino a circa m 1,40 del bordo inferiore delle finestre. Cinque di queste finestre esistono ancora; esse si allargavano dall’interno all’esterno ed erano alte più di 8 metri. La sesta è completamente distrutta. Tra le finestre ed al loro livello sono scavate nei muri delle nicchie larghe m 2,08; esse hanno sul loro bordo inferiore delle mensole che servivano senza dubbio a sostenere due colonnine, una da ogni lato della nicchia. Una nicchia più larga delle altre (larga m 4,90) si trovava proprio in faccia alla porta d’ingresso. Nella parte inferiore dell’edificio erano ricavate nei muri, sotto quattro finestre quattro grandi absidi. La parte del monumento dove era la porta d’ingresso è completamente distrutta. La disposizione di questo edificio è molto simile a quella del Tempio di

Apollo, sul lago d’Averno, che avrebbe potuto essere un ninfeo. Tutt’intorno ci sono delle sottostrutture che non è possibile descrivere a causa del loro pessimo stato.Poco più lontano si trovano delle terme meglio conservate. Esse si compongono di una rotonda di m 20, 80 di diametro, riempita fin molto in alto, ma diverso dagli edifici fin qui descritti; essa non ha finestre essendo illuminata solo da una larga apertura circolare, praticata al centro della volta e da quattro abbaini quadrati egualmente praticati nella volta; sotto gli abbaini nei muri ci sono quattro nicchie. Credo che bisogna vedere una grande piscina. Diversi ambienti, dei quali uno ha la volta forata da un’apertura quadrata, comunicavano direttamente con questa sala circolare; essa era completamente rivestita di marmo fino all’inizio della volta che è contornata da una cornice di stucco. A fianco e ad ovest di questa rotonda ci sono due sale rettangolari; la prima misura 19 m di lunghezza e 9,30 m di larghezza e termina in fondo con una nicchia semicircolare. Dopo un’analoga sala, una più piccola, ci sono i resti di una sala poligonale, somigliante ad un piccolo frigidario, del tipo di quelli di Pompei (nei muri sono praticate nicchie quadrate e semicircolari). Queste rovine sono in mattoni ed in opus reticulatum; tutt’intorno, nei terreni vicini, si vedono numerose sottostrutture che indubbiamente appartenevano allo stesso edificio. C’erano delle acque termali nelle vicinanze della rovina chiamate Tempio di Venere, che è incontestabilmente un ninfeo. Esso è quello che somiglia di più al ninfeo di

Roma (antico tempio della Minerva Medica). L’edificio di forma interamente circolare all’interno, ha un diametro di m 26,30; si entrava per una grande porta posta sul lato ovest e da due absidi esterne che fiancheggiavano questa porta a destra ed a sinistra e che comunicavano esse stesse con due absidi inferiori del monumento. Sotto le absidi c’erano finestre ricavate in alto sui muri; c’era pure una finestra al di sopra della porta d’ingresso e altre due lungo l’asse trasversale. È difficile rendersi conto della forma esterna dell’edificio nella parte inferiore perché fino ad una certa altezza esso è colmato di terra. Dalle incisioni antiche si nota che su un basamento si elevava un monumento ottogonale; ad ogni angolo c’era un pilastro poggiante sul basamento e giungeva fino alla cornice che correva tutt’intorno all’edificio all’inizio della volta. Su tutta la lunghezza del bordo esterno di ogni finestra c’era una mensola che sosteneva delle colonnine. La volta è interamente crollata, ma si vede bene da dove essa iniziava. La muratura è in opus lateritium; i muri interni erano ricoperti di marmo fino al livello delle finestre; più in alto essi erano ricoperti di stucco. Proprio sulla stessa linea del Tempio di Venere e dietro di esso alla base della collina, ci sono rovine quasi completamente distrutte. Una loro parte è invasa da acqua tiepida che i paesani chiamano acqua di Ragno; è probabile che lì c’era nell’antichità uno stabilimento termale.

APPENDICE IIII fenomeni geologici della costa di

Pozzuoli.

I fenomeni geologici della costa di Pozzuoli sono oggetto di numerosi studi. Dal punto di vista archeologico sono necessarie solo alcune indicazioni al fine di rendersi conto meglio dell’antica topografia del porto, della gettata, delle modifiche fatte dagli antichi in certi monumenti o dei lavori da essi eseguiti in diversi punti del litorale (segue una lunga bibliografia sulla questione).L’ipotesi, generalmente ammessa, quella dei cambiamenti del livello, è stata eccellentemente esposta da Roth e recentemente ripresa da M. Günther, in molti studi. Le tre grandi colonne del tempio di Serapide sono fino all’altezza di 5 metri e ½ circa al di sopra del suolo, erose da molluschi, di cui si vedono ancora le conchiglie nei fori da essi prodotti nel marmo. Si è potuto spiegare la cosa ricorrendo all’ipotesi che le colonne prime di essere impiegate nella costruzione del Tempio di Serapide, sarebbero state sott’acqua e quindi sarebbero state erose dai molluschi. Ma siccome i fori fatti da essi mancano assolutamente nella parte inferiore delle colonne, e che sono situati tutti allo stesso livello, questa spiegazione non può essere accettata; sarebbe d’altra parte sorprendente che si fosse impiegato nella costruzione di un monumento come il Tempio di Serapide colonne così danneggiate. Infine una crosta come quella dell’acqua del mare in genere lascia sugli oggetti ritirandosi, è visibile non solo sulle tre colonne di marmo cipollino, ma anche sulle colonne di granito. I fori fatti dai molluschi esistono pure sugli altri frammenti di colonne.

Altre ipotesi sono a favore di oscillazioni del suolo: il più antico pavimento di mosaico del macellum è situato a circa 5 piedi al di sotto del pavimento di marmo attuale; nel tufo della costa fra Pozzuoli ed il lago Lucrino, si vede fino ad un’altezza di 20 metri al di sopra del livello del mare delle conchiglie di molluschi analoghi a quelli che vivono presentemente nel golfo di Napoli. Allorché si scavò per trovare le fondazioni dell’ospizio di Pozzuoli nel 1832 si scoprì a 7,80 m sotto il livello della strada in un letto di sabbia grossa una grande quantità di conchiglie simili. Le coline di tufo della Starza, sotto il circo, mostrano mescolate insieme conchiglie come quelle di cui stiamo parlando e pezzi di mattoni romani e di mosaici. Ciò prova che in epoca storica si ebbe un abbassamento del suolo. Analoghe osservazioni sono state fatte e provano l’accaduto sul litorale di Ischia, di Gaeta ed in diversi punti delle coste italiane in questa regione. Da tutto ciò Roth conclude che si ebbero abbassamenti e innalzamenti successivi del suolo nel passato. Il più basso livello marino, 6 m sotto quello attuale, è provato dal molo romano e dall’isoletta del Lazzaretto fra Nisida e Posillipo (200 a. C.). il più antico pavimento del macellum attesta un livello inferiore di 4-5 m rispetto al livello attuale (100 a.C.). Più tardi quando si pose il nuovo pavimento di marmo del macellum ricostruito (1° sec. d. C.) il piano marino era inferiore di due o tre metri sul livello attuale. In epoca cristiana, verso la fine del 4° sec. d.C., il livello del mare non era, secondo Roth, inferiore che di m 0,40 al livello attuale. Nel medioevo esso fu

al contrario più alto, e si innalzò fino a 5-8 metri. Poi cominciò un nuovo periodo di rialzamento del suolo, dopo l’anno 700 circa fino alla fine del 18° sec. epoca verso la quale esso cominciò ad abbassarsi di nuovo. Tali sono in sintesi le vedute di Roth. Quelle di Günther sono analoghe. Nella sua memoria The submerged greek and roman foreshore near Neaples, Günther espone il risultato delle sue ricerche su un grande numero di edifici, di rovine, di vie tra Napoli e Miseno, e ricostituisce l’antico litorale, oggi sommerso, di Nisida e della riviera di Chiaia. Nelle sue Earth mouvements in the bay of Naples, Günther, studiando I movimenti del suolo al’epoca post-romana descrive la sommersione dei porti di Pozzuoli, di Miseno, del’Averno, di Cuma. Le sue conclusioni generali sono che un abbassamento molto significativo ebbe luogo all’epoca romana; è nel medioevo che l’abbassamento fu più rilevante le prove sono abbondantemente fornite dai monumenti dei secoli 13°-15°. Il più recente sollevamento del suolo si verificò verso l’inizio del 16° sec. In un fenomeno che precedette l’eruzione di Montenuovo nel 1538. Poi un lento abbassamento si verificò nei secoli successivi e si verifica ancora oggi. Di Iorio (Tempio di Serapide, pag. 53-55) cita documenti antichi della fine del 15° sec. e dell’inizio del 16° sec.; essi attestano che il mare aveva nel medioevo invaso la città basa ed una parte delle colline. Aggiungerei che all’epoca romana altri particolari oltre queli segnalati da Roth provano un abbassamento del suolo: in particolare la costruzione nel IV sec. di una diga

destinata a proteggere il porto di Pozzuoli contro i flutti che l’invadevano e il rifacimento che si dovette fare in più riprese della via Erculanea per lo stesso motivo. Ricordiamo infine che all’epoca romana la costa avanzava nel mare di più rispetto alla costa attuale: (da 75 a 100 m secondo Deecke. Confrontare le rovine di colonnati e di banchine sommerse ala Starza. Confrontare pag. 267).