Dal romanzo al film: il caso di Aura di C. Fuentes. · Web viewSenza quest’arte noi non saremmo...
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INDICE
Introduzione. 3
1. I rapporti tra mondo letterario e cinematografico. 7
1.1 In primo piano: dalla letteratura al cinema passando per la
fotografia.
7
1.2 Dalla pagina allo schermo. 11
1.3 Come si legge un film? 18
1.4 Analisi dei segni: signifiant et signifié. 20
1.5 La diegesi: nella sua strutturazione spazio-temporale. 22
1.6 Sogno, letteratura, cinema. 29
1.7 Diversità di fruizione. 32
2. Come si analizza un racconto? 36
2.1 Alle origini del racconto. 36
2.2 Elementi per una analisi. 39
2.3 Analisi di un romanzo: Aura, Carlos Fuentes. 44
2.4 Il tempo in Aura. 45
2.5 Lo spazio in Aura. 49
2.6 Gli esistenti. 52
2.7 Relazioni tra gli esistenti. 58
1
2.8 Colori e natura. 61
2.9 L’autore. 68
2.10 Analisi di alcuni passi fondamentali. 72
2.11 Analogie con altre opere di Fuentes. 78
3. Come si analizza un film? 83
3.1 Alle origini del film. 83
3.2 Elementi per una analisi. 85
3.3 Analisi di un film: La strega in amore di Damiano Damiani. 90
3.4 L’horror. 91
3.5 Il cast. 93
3.6 Due diverse analisi. 98
4. Dal romanzo al film: il caso di Aura di C. Fuentes. 107
4.1 Gli ambienti e le musiche. 107
4.2 I personaggi. 110
4.3 La storia e il punto di vista. 113
4.4 Un’intervista a D. Damiani. 115
4.5 Conclusioni. 122
Bibliografia. 128
Ringraziamenti. 138
2
Introduzione.
Fin dalle sue origini, appena si rese conto di essere in grado di raccontare delle
storie, il cinema guardò alla letteratura come ad un serbatoio inesauribile di storie e
personaggi. Questo processo creò dei rapporti tra letteratura e cinema, che possono
essere analizzati attraverso vari approcci. Da un lato, si può prendere in
considerazione lo scambio che è avvenuto a livello dei testi e, cioè, vedere come le
opere letterarie sono state trasposte nel cinema e che tipo di rapporto si sia venuto
ad instaurare tra il testo letterario di partenza e il testo cinematografico d’arrivo,
concentrandosi soprattutto sui singoli testi. Si è soliti parlare di trasposizione
cinematografica, quasi sottintendendo che la letteratura preesista al cinema e che
sia, dunque, quest’ultimo a modellarsi riadattandosi ad una forma espressiva ben più
antica e collaudata. In realtà, il discorso è molto più complesso, dal momento che,
da quando il cinema ha assunto un ruolo di rilievo nel sistema delle arti e dei mezzi
di comunicazione, si sono andate sviluppando generazioni di scrittori che hanno
desunto dal cinema una serie di modelli iconografici e caratteriali, mutando
notevolmente la propria sensibilità narrativa. In questo modo, il legame tra le due arti
è diventato, a tutti gli effetti, un legame di scambio biunivoco.
Dall’altro lato si può avere un approccio strutturalista che si propone di analizzare
in maniera comparata il funzionamento dei due dispositivi - quello cinematografico e
quello letterario - osservandone le modalità e le regole interne, cercando di ricavarne
principi generali di cui i singoli casi non sono che delle occorrenze. Si osserva,
quindi, quanto la differenza di modalità d’espressione influisca sullo e nello sviluppo
3
della vicenda. Ci si sofferma, dunque, su come inevitabilmente cambi il punto di vista
nel passaggio dalla scrittura alla ripresa.
Infine, bisogna tener presente che nel panorama attuale risulta difficile parlare di
cinema e di letteratura senza considerare che entrambi si trovano ormai inseriti in
una sorta di rete intermediale e che il loro rapporto non è più esclusivo, ma allargato
a una serie di mezzi di comunicazione che si è soliti riassumere sotto la dicitura
“nuovi media”. Volendo, quindi, essere più corretti si dovrebbe parlare di relazione
tra forme letterarie e forme audiovisive, includendo anche la televisione, internet e i
videogame.
In questo testo ci siamo proposti di analizzare un romanzo, anomalo per il modo
in cui è stato scritto (seconda persona singolare, con tempi verbali presenti e futuri),
e il film che da esso è stato realizzato. Pochi anni di distanza tra l’uno e l’altro (il
romanzo è del 1962, mentre il film è del 1967), due autori appartenenti a due culture
differenti (Fuentes è messicano, mentre Damiani è italiano), ma soprattutto due
modalità d’espressione molto differenti. Ed è proprio partendo da queste
conoscenze che si può effettuare una analisi di un adattamento cinematografico.
Bisogna considerare tutto e non solo se la trama è stata trasposta fedelmente, anzi,
questo è proprio uno degli ultimi fattori che si deve prendere in considerazione per
vedere la riuscita di un adattamento cinematografico. Ciò che conta è vedere come
l’idea di base racchiusa in un libro si modifichi per trasferirsi dalla carta al mondo
delle immagini. Ad esempio, quando nel 1911 la casa di produzione Cines decise di
realizzare il primo lungometraggio della sua storia, la scelta cadde su Pinocchio1 di
Collodi, ma secondo i produttori, Pinocchio non doveva essere solo un’opera per
1 C. Collodi, Le avventure di Pinocchio: storia di un burattino, Mondatori, Milano 2002.4
l’infanzia, bensì un romanzo d’avventura; quindi, la storia di Collodi venne seguita
solo fino ad un certo punto: il rapporto con la fonte letteraria venne arricchito e
stravolto a proprio piacimento e il risultato furono delle avventure apocrife di
Pinocchio2 che, però, riscossero notevole approvazione da parte del pubblico. Lo
stesso avviene tutt’oggi con le avventure di Superman, Batman, ed altri supereroi
presi in prestito dal mondo della carta stampata.
Fino a poco tempo fa, si era portati ad attribuire un maggiore potere formativo alla
letteratura rispetto al cinema, basandosi sull’idea che essa stimolerebbe la fantasia
del lettore, mentre il cinema lo coinvolgerebbe in una forma di narrazione in cui egli
trova già tutto predefinito. È un approccio che, fortunatamente, pare essere stato
superato. Dal momento in cui lo si pone nel panorama dei media dal flusso
magmatico delle immagini televisive, il cinema finisce per essere inserito nell’insieme
di quelle arti che, come la letteratura, prevedono una struttura testuale compiuta e
che paiono offrire al loro fruitore un qualche spazio critico.
La maggior parte di coloro che si sono occupati della questione cinema/letteratura
ha considerato i due poli del rapporto come delle forme d’arte, degli ambiti
espressivi. In questa prospettiva è naturale vedere sia un libro che un film come il
luogo dove un autore esprime la propria idea, il proprio stile. In questo senso si può
vedere il rapporto che si instaura tra le due arti come un rapporto tra i rispettivi
significati intrinseci nelle loro opere: quindi, si potrà dire che un adattamento è
riuscito solo se al film verrà riconosciuta la medesima dignità artistica e culturale del
libro da cui è stato tratto. Si può partire dal film e risalire al romanzo, per cercare di
capire le intenzioni dell’autore e le sue caratteristiche stilistiche; oppure, all’inverso,
2 G. C. Antamoro, Pinocchio, It. 1911.5
da un testo letterario, si può cercare di comprendere che cosa esso è diventato in un
film, e da qui cercare di capire cosa vogliono trasmettere con queste trasformazioni
coloro che l’hanno realizzato e a chi si rivolgono; senza mai dimenticarsi, comunque,
che il rapporto che intercorre tra cinema e letteratura è un rapporto biunivoco: il
cinema trae dalla letteratura storie, trame, personaggi, tecniche narrative, ma è in
grado di restituirle all’universo di provenienza del tutto nuove, rielaborate. Si può,
quindi, dire che, come alle origini il cinema veniva condizionato dalla letteratura, ora
è quest’ultima ad essere condizionata dal cinema. La letteratura può assumere il
cinema come perno attorno al quale ruotare: può interpretarlo minuziosamente,
metterne in rilievo le caratteristiche profonde, assumerne modelli; può criticarlo,
utilizzarlo strumentalmente come finestra sul mondo e, persino, reinventarlo.
6
I.
I RAPPORTI TRA MONDO LETTERARIO E
CINEMATOGRAFICO.
1.1 IN PRIMO PIANO: dalla letteratura al cinema passando per la
fotografia.
«Precisamente gli artisti, e in particolare modo quelli del teatro, hanno dato
all’uomo occhi e orecchi per vedere e udire con qualche piacere ciò che ognuno è,
vive, vuole; precisamente essi ci hanno insegnato a stimare l’eroe che è nascosto in
ciascuno di tutti i comuni uomini, e il modo in cui ognuno può considerare se stesso
come un eroe, visto di lontano e per così dire semplificato e trasfigurato, l’arte di
“mettersi in scena” davanti a se stesso. Unicamente così noi possiamo passar sopra
ad alcune basse particolarità che sono in noi! Senza quest’arte noi non saremmo
altro che creature messe in prima linea, completamente in dominio di quell’ottica che
fa apparire enormemente grande ciò che è più vicino e comune, e come se ciò fosse
la realtà in sé. […]»3.
Di questo brano colpisce come, pur non parlando esplicitamente della fotografia, il
filosofo sembri imputare la causa della perdita del senso della distanza e del
precipitare nell’immensità delle “cose ingrandite” all’arte fotografica. Emerge, in 3 F. Nietzsche, La gaia scienza, trad. a cura di A. Treves, Monanni, Milano 1927, libro secondo, pp.136-137.
7
particolare, il sentimento doloroso che il filosofo ha della dissacrante frantumazione
dell’immagine umana, a causa del «primo piano, che fa apparire le cose più comuni
smisuratamente grandi, quasi fossero la realtà in sé e il loro sostituirsi alla realtà
stessa»4.
Soprattutto questo brano è sorprendente perché, nel richiamare l’arte più
prossima alla fotografia non evoca la pittura, ma il teatro: fa, quindi, riferimento ad
un’arte in movimento e non ad un’arte statica. La fotografia, infatti, con il suo
alterare le distanze e con il suo frantumare l’essenza delle cose, diviene emblema
della trasfigurazione del reale; un fenomeno che con l’avvento del cinema verrà ad
ampliarsi enormemente5. Infatti, il cinema fornisce all’ingrandimento e alla
frantumazione una visione più viva ed intensa, in quanto il movimento dona alle
immagini l’illusione di vita.
Il movimento - l’utilizzo dell’immagine - che caratterizza l’arte cinematografica
rispetto alla fotografia, impone inoltre una propria percezione dei fatti, risultato che la
letteratura non riesce, invece, a realizzare in quanto offre solamente un’accurata
descrizione di un qualcosa che rimane pur sempre una visione soggettiva del
singolo6.
«Che il cinema potesse diventare prima di ogni altra cosa una macchina atta a
raccontare delle storie, ecco qualcosa che non era stato davvero previsto» 7, osserva
giustamente Christian Metz, inserendo nell’insieme dei “non preveggenti” proprio gli
inventori di quel “cinematografo” - mi riferisco ai Lumière e a Edison - che a tutto
4 L. Termine, Alfabeti del cinema, Vallecchi, Firenze 1994, p. 12.5 Ibi, pp.11-15.6 Ibi, pp. 15-17.7 C. Metz, Semiologia del cinema, Garzanti, Milano 1989, p. 133.
8
pensavano fuorché al fatto che, da lì a poco sarebbe diventato, come fa giustamente
notare L. Albano8, il più diretto erede del grande romanzo dell’Ottocento.
Il racconto cinematografico è obbligato, difatti, a far vedere molte più cose che il
racconto letterario può permettersi di lasciare nell’indeterminato. Il cinema è il mezzo
d’espressione più idoneo a dare forma al mondo moderno, alla nostra esperienza
attuale del mondo: «i film più belli, più importanti sono forse quelli in cui il racconto
scritto non soffoca il film, in cui la sceneggiatura è ingiudicabile»9.
La rappresentazione audiovisiva deve, quindi, organizzare sul piano
dell’espressione elementi che la rappresentazione verbale organizza solo sul piano
del contenuto. Come spiega Ejzenstejn: «Io posso produrre molte rappresentazioni
di una barricata, ma una buona immagine di una barricata sarà quella che
maggiormente mi restituirà sul piano dell’espressione qualcosa di fondamentale del
suo contenuto. E, forse, quella che maggiormente rimarrà impressa nella memoria
collettiva»10. Per citare anche il grande Tolstoj: «Il cinematografo ci ha rivelato il
movimento. E questa è una cosa grande»11.
Il cinema usa la letteratura in modo molto più libero di quanto la letteratura non
faccia con se stessa. Infatti, il cinema non solo ha tratto un numero sostanziale di
film da grandissimi romanzi, ma ha anche creato un incredibile numero di varianti,
tante quante poteva offrirne il plot di partenza, e che vanno dalla continuazione e
variazione sul tema all’attualizzazione, alla satira e alla parodia12.
8 L. Albano, Dalla letteratura al cinema: le impossibili istruzioni per l’uso, in AA.VV., Il racconto tra letteratura e cinema, a cura di L. Albano, Bulzoni, Roma 1997, p.68.9 Ibi, p.82.10Cfr. P.Montani, Letteratura e cinema: due forme dell’esperienza, in AA.VV., Cinema e letteratura: percorsi di confine, a cura di I. Perniola, Marsilio, Venezia 2002, p. 78.11 Cit. in U. Barbaro, Neorealismo e realismo, a cura di G. P. Brunetta, Editori Riuniti, Roma 1976, vol. II, pp. 492-493. 12 In argomento vedi L. Albano, Dalla letteratura al cinema: le impossibili istruzioni per l’uso, op. cit., p.76.
9
Altra differenza tra letteratura e cinema è che «la narrazione di un film si avvale
primariamente dello spazio in cui si muovono gli oggetti che intendono riprodurre la
realtà e la macchina da presa che gli ruota attorno; mentre la narrazione di un libro
si avvale soprattutto del tempo in cui si snoda la scrittura»13.
Per parlare più correttamente del rapporto esistente tra cinema e letteratura, è più
opportuno parlare del rapporto tra cinema e romanzo, dal momento che il termine
letteratura può includere diverse forme d’espressione scritta che il cinema ha solo
marginalmente accolto come, ad esempio, la poesia, l’epistolario e la saggistica14.
I rapporti tra letteratura e cinema sono stati nel corso degli anni al centro di
numerosissime ricerche e riflessioni: si è andati dall’analisi delle differenze tra i segni
- rispettivamente verbali ed audiovisivi - utilizzati dai due ambiti, all’indagine sulle
strutture narrative utilizzate da romanzi e film, o dall’analisi degli adattamenti
cinematografici, allo studio della sceneggiatura come forma letteraria impropria. Per
quanto i temi messi a fuoco siano stati diversi, la gran parte dei contributi si è,
tuttavia, collocata su di un terreno di fondo comune: sia la letteratura che il cinema
sono stati considerati essenzialmente come degli ambiti espressivi e cioè come dei
luoghi in cui si manifesta una capacità di dar forma ad idee, sensazioni e
orientamenti personali. Se si vuole, come luoghi in cui alla sensibilità del singolo è
dato di congiungersi alla volontà e alla necessità di dare un’immagine di sé e del
mondo15.
Sia testi filmici che letterari «hanno tanto una forte funzione escapista quanto una
forte funzione modellizzante: sembrano giocare con il mondo ed insieme ne danno
13 Come sostiene U. Barbaro, Neorealismo e realismo, op. cit., pp. 492-493. 14 Come sottolinea F. Casetti, Cinema, letteratura e circuito dei discorsi sociali, in AA.VV., Cinema e letteratura: percorsi di confine, op. cit., pp. 21-22.15 Ibidem.
10
un ritratto vincolante, il che per molti aspetti è paradossale in quanto nel loro giocare
con la realtà, contribuiscono a creare una nuova realtà virtuale che però deve
rimanere pur sempre vincolata all’idea del suo creatore»16.
E’ indubbio, infine, che i due piani, letterario e cinematografico, vengano ad
intersecarsi e a condizionarsi vicendevolmente: da quando è nato il cinema niente è
più come prima, neanche il testo letterario. Con l’avvento del cinema, infatti, il testo
letterario modifica i suoi modi di descrizione. E questo fa sì che, col passare degli
anni, si instauri tra i due generi un legame che diventa sempre più tenace e
inscindibile: «Il fatto è che, a furia di scindersi da quelle forme espressive che
sembravano più vicine, geneticamente e socialmente, il cinema ha finito molto presto
con il ritrovarsi tra le braccia di qualcosa a cui forse era meno ovvio pensare, il
romanzo»17.
Già Tolstoj, infatti, davanti all’emozione della nuova invenzione vide una rivolta
«contro i vecchi metodi dell’arte letteraria» e prefigurò la necessità di «una nuova
maniera di scrivere»18.
Inoltre da sempre, il cinema si è posto al servizio della letteratura contribuendo
alla sua diffusione di massa.
1.2 DALLA PAGINA ALLO SCHERMO.
«Narrare è una delle capacità fondamentali dell’essere umano in quanto animale
parlante»19.
16 Ibidem.17 Come sostiene P. Ortoleva, La novità del cinema, in AA.VV., Il racconto tra letteratura e cinema, op. cit., p.64.18 Cfr. U. Barbaro, Neorealismo e realismo, op. cit., pp. 492-493.19 C. Segre, Avviamento all’analisi del testo letterario, Einaudi, Torino 1999, p. 265.
11
Secondo Barthés «le récit commende avec l’histoire même de l’humanité, il n’y a
pas, il n’y a jamais eu nulle part aucun peuple sans récit» (il racconto comincia con
la storia dell’umanità. Non esiste, non è mai esistito in alcun luogo un popolo senza
racconti…internazionale, transtorico, transculturale, il racconto è là, come la vita)20.
La capacità di narrare può essere espressa sotto varie forme, che possono
essere orali o scritte, auliche o popolari, mediante l’utilizzo di parole, gesti o
immagini o della loro commistione. Inoltre, si può spaziare dall’epica alla storia, dal
mito alla leggenda, dalla tragedia alla pantomima, dalla pittura al cinema.
A prescindere dalle diverse forme, l’essenza fondamentale del racconto rimane
una sola: la rappresentazione di uno o più soggetti e del percorso di trasformazione
che essi compiono da uno stato ad un altro. E, sia che si tratti di un racconto
cinematografico o di un racconto letterario, si verrà ad instaurare un rapporto
inscindibile tra il suo creatore-autore e il soggetto - da lui creato - nel proprio
processo di trasformazione.
Il rapporto tra l’autore-creatore e la sua opera scaturisce, quindi, dall’esito di una
serie complessa di elementi appartenenti al mondo dell’autore fino a che l’opera non
si sarà totalmente formata e che andranno ad appartenere al nuovo mondo dal
momento in cui esso verrà a costituirsi. Infatti, dopo la creazione, l’opera si stacca
dal suo autore ed entra nel mondo dei suoi fruitori subendo, così, un’ulteriore
trasformazione: ognuno, infatti, rielabora sempre dentro di sé il messaggio che
un’opera gli ha voluto trasmettere, facendolo diventare un qualcosa di proprio21.
Il discorso diventa più complesso quando si decide di prendere un “eroe di carta”
e trasportarlo sullo schermo poiché quel personaggio possiede già una sua struttura
20 R. Barthés, Introduction à l’analyse structurale de récits, in «Communications», 8, 1966, pp. 1-27, p. 1. 21 Vd. G. Nuvoli, Storie ricreate, Utet, Torino 2003, pp. 22-23.
12
autonoma, ben definita, che qualcun altro ha creato e di cui bisogna tener conto.
Quindi, il regista si troverà di fronte ad un personaggio concreto, già pronto, a cui
dover adattare un “contorno”. Dovrà scrivere una storia con gli elementi che trova
nel testo letterario, che sia al tempo stesso uguale e diversa; e dovrà inventarsi uno
stile che tenga conto di quelli dello scrittore e dei suoi personaggi. Queste sono le
condizioni preliminari per una trasposizione in cui il regista sia autore-creatore e non
solo il divulgatore di un’opera letteraria.
Così Pasolini descrive l’interazione tra fruitore e creatore: «Lo spettatore, per
l’autore, non è che un altro autore…Se dunque parliamo di opere d’autore,
dobbiamo di conseguenza parlare del rapporto tra autore e destinatario come di un
drammatico rapporto tra singolo e singolo democraticamente pari»22.
Il film deve proporre e richiedere una partecipazione attiva da parte del fruitore,
secondo una strategia comunicativa che si avvalga, in questo caso, di quelle che
Iser definisce «interruzioni nel testo»23, che spingono il fruitore ad interagire col
testo: ogni volta che egli «colma gli spazi vuoti, la comunicazione comincia. I vuoti
funzionano come una specie di carrello sul quale gira la relazione testo-lettore»24.
In ogni caso, non va dimenticato che, come ricorda Barthés, «l’autore non è colui
che inventa le storie più belle, ma colui che padroneggia meglio il codice che
condivide con gli ascoltatori»25 e cioè chi trova il modo e lo stile migliore per
raccontarle utilizzando il famoso “linguaggio medio” di Pasolini. Quindi, l’autore sarà
in grado di risolvere tutti quei piccoli problemi traspositivi che sorgono a tradurre con
le immagini ciò che le parole descrivono. Ad esempio, in un’esercitazione con i suoi
22 Ibidem.23 W. Iser, L’Atto della Lettura. Una teoria della risposta estetica, Il Mulino, Bologna 1987, p.249.24 Ibidem.25 R. Barthés, L’avventura semiologica, Einaudi, Torino 1991, p. 113.
13
studenti, Ejzenstejn legge un brano da Il Cappotto di Gogol e chiede loro come
renderebbero la frase «pareva in capo al mondo»26. Trovare una risposta a questo
quesito non è affatto facile, ma è fondamentale per la riuscita di una buona
trasposizione dalla carta alle immagini. Infatti, la trasposizione altro non è che
l’equivalente creativo dell’idea che l’autore voleva dare con il suo libro ed è solo
penetrando nel mondo dello scrittore che il regista sarà in grado di compiere una
trasposizione ben riuscita.
Sulla pagina scritta il lettore trova dei segni che provocano delle immagini mentali
che, a loro volta, rappresentano gli oggetti significati da tali segni; nel film, invece,
significante e significato si trovano a coincidere. Ad esempio: in un testo scritto, il
fiore rosa è rappresentato dalla sequenza grafica “rosa”, sullo schermo, invece, è la
rosa stessa che compare inquadrata, a significare se stessa. Anche se bisogna
tener presente che il racconto scritto con delle accurate descrizioni può permettere
al lettore di vedere ciò che in realtà non è assolutamente mostrato, come ad
esempio con una descrizione così dettagliata di una rosa da non aver bisogno di
utilizzare il termine rosa nemmeno una volta27.
Alla fine di tutte queste riflessioni che cosa significa “fare il film di un romanzo?”
Prima di fornire una risposta a questo quesito è opportuno soffermarci a delineare,
seppur in maniera sintetica, i caratteri semiotici del cinema, il che equivale a
inquadrare il film come codice comunicativo, cioè come linguaggio, come paradigma
di significati, indipendentemente dalla sua configurazione all’atto del processo di
comunicazione.
Quello cinematografico è un codice comunicativo complesso, risultante cioè dalla
26 Cfr. G. Nuvoli, Storie ricreate, op. cit., p. 24.27 Ibi, p. 27.
14
combinazione ed interazione di più codici comunicativi, nella fattispecie il codice
iconico, o immaginativo (cui compete tutto ciò che compare sullo schermo), il codice
linguistico (fornito dalle battute pronunciate dagli attori e da qualsiasi scritta a video)
e il codice musicale (la colonna sonora e in misura minore anche gli effetti sonori).
Quindi, una volta definita la complessità del codice cinematografico, risulterà facile
cogliere che sussistono una serie di differenze tra i due sistemi - del cinema e del
romanzo - di cui bisogna tener conto: la simbolicità delle forme linguistiche contro la
verosimiglianza dell’immagine; la rigidità dei formati dei testi audiovisivi contro la
libertà di quelli scritti; la rigidità temporale che caratterizza il consumo del testo
audiovisivo (dove il tempo dell’enunciazione e quello della fruizione coincidono)
contro l’autonomia del tempo di lettura28.
Nel nostro caso si parla di traduzione intersemiotica tra due testi che, nonostante
le loro diversità di stesura e di fruizione, presentano moltissime affinità. Ad esempio:
entrambi mirano a trasmettere, sebbene con modalità differenti, il loro messaggio
nella maniera più chiara possibile al maggior numero di persone; entrambi, quindi,
mirano alla popolarità. Ed è proprio per questa necessità di popolarità che il cinema
da sempre attinge indifferentemente sia dalla produzione letteraria alta che da quella
di consumo: nel primo caso, chiedendo al testo letterario una legittimazione culturale
ed un trasferimento di popolarità; nel secondo caso, confidando nel fatto che la
trasposizione comporti anche il trasferimento del successo presso il grande pubblico.
Ma la popolarità dell’opera letteraria e la sua autorevolezza non sono sempre
sufficienti a garantire la buona riuscita del film che, servendosi di un codice di
28 Cfr. G. Bettetini, La traduzione come problema del dialogo intermediale, in AA.VV,. Incontri di culture, a cura di P. Calefato, G. P. Caprettini, G. Coalizzi, Utet, Torino 2001, p. 43.
15
comunicazione autonomo, diventa un’opera altra che solo in virtù del proprio
linguaggio può pretendere la riuscita e di conseguenza la popolarità29.
Come afferma Ricciotto Canudo: «Si vuol essere popolari ad ogni costo. L’unica
preoccupazione è di conservare il livello dell’emozione artistica abbastanza basso
affinché vi possa partecipare il più gran numero d’uomini possibile. In realtà, quale
che sia l’altezza intellettuale o morale raggiunta, si può sempre abbassarsi per
toccare per terra. Discendere è certamente più facile che salire. Che importa il
prestigio naturale di una nazione? Bisogna toccare il maggior numero di persone: le
leggi del commercio sono basate unicamente sulla quantità, la qualità può benissimo
restare in second’ordine»30.
Finora abbiamo parlato solo della traduzione da romanzo a film, ma esistono
anche casi in cui è possibile la procedura inversa: Twin Peaks 31 e The Blair Witch
Project32,
possono esserne due esempi. In questo caso è stato l’enorme successo avuto dai
film a richiedere la nascita dei due romanzi e non il contrario.
Bisogna ammettere che la procedura che permette di tradurre le immagini in
parole possa essere forse più semplice di quella che traduce le parole in immagini,
perché in questo caso non si tratta di una visione soggettiva di quello che l’autore
voleva dire, ma di una “riscrittura guidata” di ciò che si è visto in tutta la sua
interezza. Ad ogni modo in nessuno dei due casi citati è corretto parlare di una
29 Vd. G. Nuvoli, Storie ricreate, op. cit., p. 48.30 Cfr. L. Albano, Premessa, in AA.VV., Il racconto tra letteratura e cinema, op. cit., p.14.31 D. Lynch, Twin Peaks, Usa 1989 , doveva essere un’opera per il cinema, ma è diventata un serial-tv cui hanno affiancato il famoso Il Diario segreto di Laura Palmer (J. Lynch, Sperling & Kupfer, Milano 1991). 32 D. Myrich, E. Sanchez, The Blair Witch Project, Usa 1999. Si tratta però di un’opera anomala, in quanto prima della sua uscita nelle sale, si è cercato di farla credere una storia vera, dove il film doveva essere il documentario girato dai protagonisti misteriosamente scomparsi. Anche qui il libro - AA.VV.,The Blair Witch Project, Sperling & Kupfer, Milano 2000 - è una sorta di diario di viaggio.
16
traduzione, ma è più opportuno classificarli come un’ispirarsi all’opera per
aggiungere qualcosa in più.
Si può ricercarne la causa nel fatto che gli autori dei due libri abbiano ritenuto
superfluo riscrivere con le parole ciò che le immagini avevano già raccontato in
maniera più che esauriente.
Forse l’unico vero esempio in cui si può parlare di traduzione da film a romanzo
può essere considerato Billy Elliot33, di cui Melvin Burgess ha scritto il testo
basandosi appunto sulla sceneggiatura e di cui egli stesso ci spiega le ragioni della
sua scelta:
«Davanti alla sceneggiatura di Billy Elliot mi sono chiesto: perché non scrivere un
romanzo? Ecco la risposta: un romanzo è come un occhio interno. Scopre i pensieri
e i sentimenti più intimi dei protagonisti, ci permette di capire perché accadono certe
cose, ci rivela le motivazioni più profonde…»34.
In tutti gli esempi citati di trascrizione da film a pagina scritta si fa riferimento per lo
più ad un tipo di scrittura intimistica che si avvicina a quella del diario, forse perché
l’unico modo che ha la pagina scritta per superare la rappresentazione visiva è
vincerla nel descrivere quelle emozioni e quei pensieri che le immagini non sono in
grado di esplicitare totalmente.
Tornando a quello che è il nostro argomento centrale, e cioè la traduzione dal
romanzo al film, si pone un altro quesito: la fedeltà. Si dirà che una traduzione è
fedele quando le due dimensioni, semantica e pragmatica, sono rispettate e, più
specificatamente, quando il nuovo testo saprà costruire un simulacro del soggetto
enunciatore il più possibile analogo a quello del testo di partenza. Piuttosto che di
33 S. Daldry, Billy Elliot, G.B. 2000.34 M. Burgess, Billy Elliot, Fabbri editore, Milano 2002.
17
fedeltà o di infedeltà, sarebbe più consono parlare del modo in cui il film «lavora» 35 il
romanzo e cioè del tipo di lavoro critico, del tipo di lettura interpretativa che il primo
effettua sul secondo, quindi, della costruzione sul romanzo di un’opera nuova
attraverso il cinema. Il film non deve essere qualcosa di paragonabile al romanzo, o
degno di «lui»36, ma «un nuovo oggetto estetico che sia il risultato del prodotto del
romanzo moltiplicato per il cinema: immagine e parola devono essere in relazione
perché sia autore che regista si rivolgono direttamente al lettore e allo spettatore con
l’intenzione di dire quasi la stessa cosa anche se con l’utilizzo di modalità
differenti»37.
1.3 COME SI LEGGE UN FILM?
La sceneggiatura è il primo passo verso il film. Infatti, un film di solito è il risultato
di almeno un’idea coerente elaborata in forma scritta ancor prima che ne comincino
le riprese38. In prima approssimazione sembrerebbe ovvio affermare che, mentre in
letteratura la scrittura è un punto di arrivo, nel cinema appare come una fase
intermedia; che, mentre in letteratura la scrittura è un fine, nell’audiovisivo è uno
strumento importante, ma gregario; che mentre in letteratura il testo scritto è l’unica
materializzazione tangibile e persistente di un processo creativo, al cinema è invece
una sorta di forma effimera destinata a scomparire dietro e “dentro” l’oggetto film. La
sceneggiatura è insomma «una scrittura che viene sistematicamente negata,
sacrificata, perché nasca un’altra scrittura, quella audiovisiva»39.
35 Vd. G. De Vincenti, “Un falso problema: la “fedeltà”, in AA.VV., Cinema e letteratura: percorsi di confine, op. cit., pp.103-112.36 Ibidem.37 Ibidem.38 D. Ciolfi e D. Sala, Ma come si legge un film?, Demetra, Verona 2000, p. 30.39 L. Ravera, Le regole del gioco, in AA.VV., Il racconto tra letteratura e cinema, op. cit., p.14.
18
Un film si differenzia da altre opere d’arte perché è il risultato di processi di
creazione complessi che coinvolgono immancabilmente, non una persona sola, ma
un’intera equipe. La sceneggiatura, in questo senso, è uno strumento per riunire
attorno ad uno stesso progetto personalità e professionalità diverse. Vediamo quindi
come si costruisce una sceneggiatura:
- idea, può essere un’idea originale o l’adattamento per il cinema di un
romanzo, un racconto o un’opera teatrale;
- soggetto, è la prima fase materiale del lavoro dello sceneggiatore. Qui le
vicende che dovranno prendere corpo nel film sono descritte per sommi capi
senza una caratterizzazione precisa di personaggi, azioni e intreccio;
- trattamento, con esso il soggetto è sottoposto ad un’ulteriore elaborazione,
che ne identifica e sviluppa in chiave drammatica i vari elementi. In esso non
compaiono ancora indicazioni precise sulle modalità con cui il regista
trasformerà le azioni ed i dialoghi descritti sulla pagina in immagini che
saranno aggiunti nella scaletta;
- scaletta, costituisce già una fase di lavorazione del film e si ottiene
suddividendo il trattamento in una serie di scene numerate;
- sceneggiatura, la sceneggiatura vera e propria è il risultato dell’unione tra il
trattamento e la scaletta, ovvero tra una parte letteraria che descrive
puntigliosamente i personaggi, gli ambienti e le azioni da riprendere e la
descrizione tecnica delle diverse scene in cui le azioni devono essere
suddivise.
Per semplificare ulteriormente il lavoro di ripresa è possibile creare quello che si
definisce un decoupage tecnico, ovvero uno schema in cui la scaletta viene
19
ulteriormente suddivisa in inquadrature con indicazioni precise su ogni singolo
movimento della macchina da presa, degli attori sulla scena, degli effetti della luce e
degli effetti sonori. A volte, si ricorre anche ad uno story-board, ovvero ad una
rappresentazione in cui le varie inquadrature e/o scene sono rappresentate
graficamente come in un fumetto.
Una volta messa a punto la sceneggiatura, il film è virtualmente finito: «la
sceneggiatura viene quindi a rappresentare il punto d’incontro, l’anello di
congiunzione, tra le due arti; mentre una descrive giocando retoricamente sulle
parole, l’altra mostra un’immagine, giocando non solo con le parole e con le azioni,
ma soprattutto con il montaggio»40. Anello di congiunzione che però risulta essere
una scrittura condannata a morte, e, per usare la definizione metaforica data da
Lidia Ravera nel suo saggio Le regole del gioco, «è un bruco, la sceneggiatura, il
film è la farfalla, poiché devono spuntare ali colorate e generatrici di fascino, il verme
originario deve dissolversi»41. La sceneggiatura, dunque, è un «oggetto effimero: non
è concepito per durare, ma per cancellarsi, per divenire altro»42: nonostante questo è
assolutamente indispensabile per la realizzazione di un film.
1.4 ANALISI DEI SEGNI: signifiant et signifié.
La semiotica mette al centro del suo progetto lo studio del cinema in quanto forma
di significazione e comunicazione e, sotto questo aspetto, Barthés43 ritiene che esso
sia confrontabile con altri tipi di linguaggi. Barthés analizza, quindi, le immagini come
40 D. Ciolfi e D. Sala, Ma come si legge un film?, op. cit., p. 33.41 L. Ravera, Le regole del gioco, in AA.VV., Il racconto tra letteratura e cinema, op. cit., p.47.42 L’espressione è di J. C. Carriére in AA.VV., Cinema, a cura da G. Canova, Garzanti, Milano 2002, p. 1039-1042.43 R. Barthés, I segni e gli affetti nel film, Vallecchi, Firenze 1995, p.10.
20
segni rifacendosi alla teoria di Saussure nella quale un segno è costituito, per
definizione, dal saldarsi di un signifiant a di un signifié.
E’, però, necessario precisare che utilizzare gli strumenti della linguistica non
significa affatto riconoscere che il cinema sia un linguaggio nel senso proprio del
termine44, anzi, uno dei contributi del pensiero di Saussure consiste proprio nell’aver
esteso i confini della significazione al di là del solo linguaggio articolato, postulando
una scienza generale dei segni - la semiologia - di cui la linguistica è una parte.
Saussure indica come esempio di semantica extralinguistica la pantomima che
costituisce un sistema semiologico relativamente semplice poiché al suo interno il
rapporto che unisce il gesto al suo significato è codificato. Il cinema pone
evidentemente problemi di ordine semantico molto più complessi nella misura in cui
pretende (come tutta l’arte occidentale) che signifiant e signifié siano legati da un
rapporto pienamente analogico e, dal momento che si stabilisce un rapporto di
equivalenza tra due termini, l’analisi semiologica trova il proprio fondamento; è in
questo senso che Barthés parla di “logomorfismo” del cinema, definendo cioè «il
cinema come un logos e non un linguaggio»45.
Quindi, signifiant e signifiè verranno ad assumere dei valori differenti se inseriti in
un sistema complesso come quello audiovisivo:
- Signifiant: i supporti generali del signifiant sono la scenografia, i costumi, le
location, la musica e in qualche modo i gesti. Il momento della loro
apparizione dovrà essere oggetto di uno studio particolare: i segni vengono
ripartiti lungo il film con una densità differente. E’ eterogeneo poiché può
sollecitare due sensi distinti: la vista e l’udito, e a questo proposito va 44 In argomento vd. G. Cohen-Seat, Essai sur les principes d’une philosophie du cinéma, Paris, P.U.F., Nouvelle Edition 1958, ch VII,VIII et IX. 45 R. Barthés. I segni e gli affetti nel film, op. cit., p. 49.
21
sottolineata l’importanza della colonna sonora. E’ polivalente, in quanto un
significato può esprimersi attraverso molti significanti. Ed è combinatorio, dal
momento che può combinare diversi significanti per ottenere un significato;
- Signifié: in generale ha carattere concettuale, è quindi, un’idea che esiste
nella memoria dello spettatore e che il significante attualizza, avendo su di
esso un potere esclusivamente di richiamo e non di definizione. E’ proprio per
questo motivo che in semiologia non si può postulare un rapporto
d’equivalenza tra signifiant e signifié. Non si tratta di un’uguaglianza di tipo
matematico, bensì di un rapporto dinamico, dal momento che la significazione
non è mai immanente al film, ma lo trascende.
Il rapporto tra signifiant e signifié risulta, quindi, essere di tipo analogico, non
arbitrario, motivato, e dal momento che c’è una brevissima distanza tra i due, si
tratterà di una semiologia non solo strettamente analogica, ma anche scarsamente
simbolica. Per fare un esempio, quando si dovrà significare un generale, si
rappresenterà un uomo in uniforme da generale con tutti i dettagli annessi e
connessi.
1.5 LA DIEGESI: nella sua strutturazione spazio-temporale.
Il cinema è diventato un discorso capace di organizzare se stesso come un
racconto. Infatti, passando da un’immagine ad una sequenza di immagini diventa un
linguaggio.
La vera analogia tra cinema e linguaggio, quindi, risiede non al livello delle unità di
base, ma nella loro comune natura sintagmatica. Entrambi, infatti, costruiscono un
discorso attraverso operazioni sintagmatiche e paradigmatiche. Così come il
22
linguaggio seleziona e combina fonemi e morfemi al fine di comporre delle frasi; il
cinema seleziona e combina immagini e suoni al fine di formare dei sintagmi e cioè
delle unità narrative autonome al cui interno i diversi elementi interagiscono per
produrre il senso46.
Si è parlato di senso in quanto la finalità di ogni racconto, verbale o audiovisivo
che sia, è quella di far percepire al suo fruitore il senso racchiuso nel discorso. La
narratività si basa su un’operazione mentale simile ad un sofisma: post hoc ergo
propter hoc. Quel che in logica sarebbe un sofisma è uno dei principi su cui è
fondata la narrazione: il presupposto che un rapporto causa-effetto leghi gli elementi
temporali in una sequenza narrativa47. Quindi, il riconoscere un’opera pari ad una
storia equivale a considerarla in possesso di una sequenzialità temporale basata su
un principio di causa-effetto. Metz analizza, appunto, questa sequenzialità temporale
ricorrendo alla nozione di diegesi, presa a prestito dalla tradizione greca classica del
commento letterario. Nella Poetica Aristotele utilizza il termine diegesi per riferirsi al
modo di rappresentazione che implica il “raccontare” (telling) piuttosto che il
“mostrare” (showing)48. Per Genette diegesi diviene quasi sinonimo di storia, poiché
è volto ad indicare eventi e personaggi collocati all’interno di un racconto, cioè il
significato del contenuto narrativo, i personaggi e le azioni considerati per “se
stessi”, senza riferimento alla mediazione discorsiva49.
Nel cinema la parola diegesi indica la somma tra il racconto stesso e le dimensioni
spazio-temporali della finzione implicate nel e dal racconto (personaggi, ambienti,
eventi ecc.). Ma diegesi è anche la storia così come viene percepita dallo spettatore.
46 Vd. R. Stam, R. Burgoyne, S. Flitterman-Lewis, Cine-semiologia, in Semiologia del cinema e dell’audiovisivo, Bompiani, Milano 1999, p. 54.47 Vd. R. Scholes, Semiotica e interpretazione, Il Mulino, Bologna 1985, pp. 81-87. 48 Aristotele, Poetica, traduzione di D. Lanza, Rizzoli, Milano 2001, p. 123 segg. 49 Cfr. AA.VV., Cine-semiologia, in Semiologia del cinema e dell’audiovisivo, op.cit., p. 55.
23
Quindi, può essere definita come una costruzione immaginaria dove spazio e tempo
funzionali divengono l’universo presupposto in cui si svolge il racconto.
La maggior parte dei film, però, non cerca di adeguare il tempo della diegesi al
discorso filmico. Ad esempio, la diegesi di 2001: Odissea nello spazio50 occupa
millenni, ma il suo discorso è contenuto in un paio d’ore. Inoltre, spesso si incontra
una discrepanza spaziale quando la diegesi della storia non coincide con quella
reale, come ad esempio in Casablanca51 dove il Marocco rappresentato è in realtà
ricostruito negli studi di Hollywood. O ancora, si può assistere ad una discrepanza
spazio-temporale quando in un’inquadratura appare per errore un particolare che
non può appartenere al periodo rappresentato, come ad esempio è successo in
molti film storici con orologi, antenne televisive ecc.52
Comunque, riferirsi alla diegesi di un film piuttosto che non alla sua trama
presenta due vantaggi:
- aiuta a focalizzare l’attenzione sulla natura costruita della storia;
- consente di separare la nozione di storia dalle sue connotazioni più
drammatiche e fantastiche come insieme di fatti emozionanti53.
Ci permette, inoltre, di comprendere le coordinate che definiscono il cinema un
continuum spazio-temporale, cioè si apprende che «non può esistere uno spazio
che non si sviluppi nel tempo, né il tempo può scorrere senza essere incorporato in
50 S. Kubrick, 2001: Odissea nello spazio, G.B. 1968.51 M. Curtiz, Casablanca, USA 1942.52 In argomento vd. AA.VV., Cine-semiologia, in Semiologia del cinema e dell’audiovisivo, op. cit., pp. 55-56.53 Ibidem.
24
uno spazio»54. Coordinate che sono, però, imposte da un mezzo meccanico perché
come sostiene giustamente Susan Sontag «the camera is an absolute dictator» (la
macchina da presa è un dittatore assoluto), dal momento che, come nota
giustamente Bettetini, la cinepresa ci mostra «solo ed esclusivamente ciò che
dobbiamo vedere e lo fa nel preciso istante in cui è necessario che lo faccia»55.
All’interno di ogni storia si trovano due tipi di tempo: il tempo del discorso, detto
anche tempo dell’intreccio (necessario per leggere attentamente il discorso) e il
tempo della storia, che è la durata degli eventi stabilita da una narrativa56. Le
narrative tendono a situarsi nel presente, facendo, quindi, sussistere due “adesso”;
infatti, il tempo occupato dal narratore (“ora vi racconto la storia che segue”) si
svolgerà necessariamente nel presente, così come il tempo della storia, il momento
in cui l’azione inizia ad avere luogo, generalmente nel passato. Se il narratore è
completamente assente solo l’”adesso” della storia emergerà in maniera chiara. Il
tempo della narrazione è, allora, il passato, ad esclusione del presente dei dialoghi
e del monologo esterno ed interno57.
L’elegante analisi di Gérard Genette sulle relazioni temporali fra il tempo della
storia e quello del discorso costituisce la base di partenza per ogni discussione in
proposito. Egli distingue tre categorie di relazioni: quella di ordine; quella di durata e
quella di frequenza.
- Ordine. Il discorso può riordinare gli eventi della storia come più gli aggrada,
purchè la sequenza della storia rimanga percepibile (altrimenti l’intreccio
classico mancherebbe di unità). Distingue, a questo punto, tra sequenze
54K. Cohen, Film & fiction, UMI books on demand, Yale University 1979, p.67.55 G. Bettetini, La traduzione come problema del dialogo intermediale, in AA.VV., Incontri di culture, op. cit., p. 44.56 Vd. C. Metz, Semiologia del cinema, Garzanti, Milano 1982, p.48.57 Cfr. S. Chatman, Storia e discorso, Il Saggiatore, Milano 2003, pp. 62-63.
25
acroniche - in cui storia e discorso hanno lo stesso ordine (1, 2, 3, 4) - e
anacroniche. Una anacronia può essere di due tipi: di retrospezione
(analessi), in cui il discorso rompe il flusso della storia per richiamare eventi
precedenti (2,1,3,4) o di anticipazione (prolessi) in cui il discorso fa un salto in
avanti (4,1,2,3). L’analessi si divide a sua volta in esterna e interna. Le
interne possono a loro volta essere suddivise in quelle che non interferiscono
con la storia interrotta, dette eterodiegetiche, e quelle che, invece, vi
interferiscono, dette omodiegetiche. In quest’ultimo caso si può distinguere tra
completive, che riempiono le lacune passate o future, ed iterative che ripetono
quanto è già stato detto (il racconto torna apertamente sui suoi passi).
- Frequenza. In questa categoria Genette effettua una distinzione tra: 1)
singolativo (una singola rappresentazione discorsiva di un singolo momento
della storia, come in “Ieri mi sono coricato presto”); 2) singolativo-multiplo
(diverse rappresentazioni, ciascuna delle quali corrisponde a un diverso
momento della storia come in “lunedì, martedì, mercoledì ecc. mi sono
coricato presto”); 3) ripetitivo (molte rappresentazioni discorsive dello stesso
momento della storia); 4) iterativo (una singola rappresentazione discorsiva di
molti momenti della storia, come in “tutti i giorni della settimana mi sono
coricato presto”).
- Durata. La durata riguarda la relazione fra il tempo necessario a leggere una
narrativa ed il tempo su cui si estendono gli eventi della storia. Esistono
cinque possibilità: 1) riassunto (il tempo del discorso è più breve del tempo
della storia); 2) ellissi (uguale al caso 1 con la differenza che il tempo del
discorso è zero); 3) scena ( il tempo del discorso e il tempo della storia sono
26
uguali); 4) estensione (il tempo del discorso è più lungo di quello della storia);
5) pausa (uguale al caso 4 con la differenza che il tempo della storia è zero).
Si incontreranno, invece, maggiori difficoltà nell’analizzare lo spazio, poiché i
confini tra lo spazio della storia e quello del discorso non sono così facili da stabilire
come quelli tra il tempo della storia e il tempo del discorso. Mary Ann Doane facilita
questo tipo di analisi affermando che la situazione cinematografica è definita
dall’interazione fra tre categorie di spazi: lo spazio della diegesi (che è già stato
27
preso in considerazione precedentemente all’interno del capitolo), lo spazio dello
schermo e lo spazio acustico del cinema58. Riguardo allo spazio dello schermo si può
considerare che, siccome nella realtà non esistono confini atti a delimitare il campo
visivo, ma un graduale sfuocarsi degli oggetti che ci circondano, la differenza
maggiore tra il vedere un insieme di oggetti nella vita reale o in un film deve essere
attribuita al taglio arbitrario operato dall’inquadratura59.
Per quanto concerne, infine, l’ultima categoria e, cioè quella dello spazio acustico,
occorre fare una distinzione tra i vari tipi di fenomeni acustici che intercorrono
all’interno di un film. A questo proposito è utile la classificazione offerta da David
Bordwell e Kristin Thompson, dove vengono delineati cinque tipi di suono 60: il suono
diegetico semplice, rappresentato come se provenisse da una fonte interna alla
storia e temporalmente simultaneo all’immagine che lo accompagna; il suono
diegetico esterno, quello rappresentato come se provenisse da una fonte materiale
all’interno dello spazio della storia e di cui si presuppone la consapevolezza da parte
dei personaggi; il suono diegetico interno, che sembra provenire dalla mente di un
personaggio interno allo spazio della storia di cui gli spettatori sono consapevoli, ma
del quale gli altri personaggi sono presumibilmente non consapevoli; il suono
diegetico dislocato, che ha origine nello spazio rappresentato nella storia, ma che
evoca un tempo anteriore o posteriore a quello delle immagini alle quali è
sovrapposto; infine, il suono non diegetico, ad esempio musica di atmosfera o la
voce di un narratore esterno allo spazio del racconto.
58 AA.VV., La semiotica del suono nel cinema, in Semiologia del cinema e dell’audiovisivo, op. cit., pp. 82-83.59 Distingue giustamente S. Chatman, Storia e discorso, op. cit., p. 99.60 AA.VV., La semiotica del suono nel cinema in Semiologia del cinema e dell’audiovisivo, op. cit., pp. 83-84.
28
A questa classificazione va però, a parer mio, affiancata quella attuata da Metz a
proposito del linguaggio verbale. Egli individua tre tipi di discorsi 61: un discorso
interamente diegetico, che è quello dei personaggi in quanto voci all’interno della
finzione, un discorso non-diegetico, che è il commento esterno - off - di un parlante
anonimo, e un discorso semi-diegetico, che è il commento in voce over condotto da
uno dei personaggi.
Va considerato, infine, che a differenza di quanto avviene con i racconti scritti,
dove lo spazio del racconto può appartenere all’indeterminato di una costruzione
mentale, nel cinema lo spazio dovrà per forza coincidere con qualcosa di reale e ben
definito. L’occhio meccanico non è in grado di superare, infatti, quello della mente.
Inoltre, all’interno di un testo scritto è possibile una restrizione maggiore del campo
visivo, perché mentre in un testo audiovisivo si è obbligati a far vedere tutto il
contorno dell’azione, è possibile circoscrive il racconto ai minimi termini, come ad
esempio un dialogo che accade in un non-luogo. Cosa che risulta, se non
impossibile, molto difficile all’interno di un film, cui è concesso di lasciare pochissimo
all’inderminato dell’immaginazione.
1.6 SOGNO, LETTERATURA, CINEMA.
Il cinema è stato definito fin dai suoi albori una macchina in grado di produrre
artificialmente i sogni, una vera e propria «fabbrica di sogni»62. Tuttora tale
espressione permane ben radicata nel linguaggio comune e per questo motivo il
cinema viene visto come uno dei più grandi strumenti d’evasione63.
61 Ibidem.62 A. Costa, Immagine di un’immagine, Utet, Torino 1993, p. 62.63 Il cinema e il sogno, documento internet, consultabile sul sito: www.psiconline.com
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Già nel cinema delle origini era presente la consapevolezza che tra dispositivo
cinematografico e sogno ci fossero delle relazioni: se il cinema serviva a riprodurre
la realtà, poteva anche riprodurre i sogni. Si voleva dimostrare che il film è un mezzo
d’espressione molto affine al pensiero onirico. In particolare Lebovici, nel suo
saggio intitolato “Psychanalyse et cinéma” inizia ad analizzare analogie e differenze
tra i due sistemi. Innanzitutto hanno un comune carattere visivo: alla pari del
linguaggio cinematografico, «il sogno è un insieme quasi esclusivamente visuale»64.
In secondo luogo la possibilità di una grande libertà di manovra: «come nel sogno, le
immagini filmiche non sono unite né da legami temporali, né da legami spaziali solidi
e forti»65. Inoltre, «analogamente alle immagini oniriche, le sequenze filmiche
avanzano sulla base di rapporti di contiguità ed immaginazione più che sulla base di
rapporti logici. Infine, entrambi ricorrono alla suggestività, suggerendo ciò che non
esplicitano»66.
Anche tra la letteratura ed il sogno esiste da sempre un legame, che ha assunto
in alcuni periodi storici un’importanza straordinaria. Il periodo che ne registra la
maggiore intensità è l’epoca del romanticismo in cui si cerca di far coincidere la
letteratura con l’idea di “rivelazione”, cioè la si fa coincidere con ciò che Nerval
definisce «l’espansione del sogno nella vita reale»67. Possiamo trovare moltissimi
esempi letterari che scaturiscono da un sogno, ne è un esempio la Divina Commedia
di Dante che inzia appunto con una frase tipica della dimensione onirica: «nel mezzo
del cammin di nostra vita, mi ritrovai per una selva oscura […] » 68. Bisogna
64 S. Lebovici, Psychanalyse et cinéma, in «Revue Int. de Filmologie», 5, 1949, pp. 49-55, p. 50.65 Ibidem.66 F. Casetti, Teorie del cinema 1945-1990, Bompiani, Milano 2002, p. 173.67 Cfr. J.Risset, Sogno, letteratura, cinema, in AA.VV., Cinema e letteratura: percorsi di confine, op. cit., p.85.68 D. Alighieri, Inferno, La Divina Commedia, a cura di U. Bosco e G. Reggio, Le Monnier, Firenze 2002, p. 7.
30
ammettere che il rapporto del cinema col sogno è di gran lunga più immediato di
quello tra sogno e letteratura. Infatti, come sostiene Metz, quando si esce dal
cinema si esce come da un sogno, in quanto: «nelle normali condizioni chiunque ha
potuto osservare il soggetto, sottoposto allo stato filmico, si sente come inghiottito, e
che gli spettatori all’uscita, brutalmente vomitati dal ventre nero della sala nella luce
vivida e aggressiva dell’ingresso, hanno a volte il volto stordito di quelli che si
svegliano. Uscire dal cinema è un po’ come alzarsi; e l’operazione non è sempre
facile.»69. In questo modo Metz ci suggerisce un legame non solo col sonno, ma
addirittura con una seduta psicoanalitica ben riuscita.
Secondo Metz la situazione filmica è una sorta di «piccolo sonno» 70 in quanto, il
punto di partenza, nella visione di un film, è l’abbassamento dello stato vigile,
davanti alle immagini, al fine di ottenere una maggiore impressione di realtà, infatti,
la sala oscura in cui viene proiettato un film può essere paragonata ad una “caduta
nell’inconscio”, che ha come conseguenza il distacco dal mondo esterno, mentre lo
spegnersi delle luci in sala può essere paragonato alla chiusura delle palpebre ed
infine la sequenza di immagini che scorre sullo schermo può rappresentare la
sequenza di immagini che si succede nella mente di un dormiente71. Il cinema, però,
è in grado di far sognare a più persone contemporaneamente lo stesso sogno.
Suscita, quindi, un’adesione empatica, lontana dalla semplice passività e vicina
semmai ad un certo stato di «comunione rilassata»72.
Può, quindi, costituire la medesima via di fuga dalla realtà per più persone, perché
non è una via di fuga prodotta dal singolo e per se stesso, ma è un’evasione
69 C. Metz, Cinema e psicanalisi, Marsilio, Venezia 1997, p. 108.70 Ibi, pp. 119-126 (Riguardo a questo argomento vd. Il paragrafo Film/fantasia).71Il cinema e il sogno, documento internet, consultabile sul sito: www.psiconline.com 72 L’espressione è di S. Lebovici, Psychanalyse et cinéma, op. cit., 53.
31
prodotta da altri, cui lo spettatore ha l’obbligo di abbandonarsi totalmente e che,
infine, a differenza del sogno non vuole essere un’illusione di realtà, ma darne
soltanto l’impressione.
Si può, dunque, concludere che tra film e sogno c’è una stretta parentela dal
momento che «il film è un materiale per sognare»73, ma anche perché tra i due esiste
una sorta di continuità: il modo con cui il primo ci è solitamente offerto, il tipo di
esperienza a cui ci invita, le dinamiche che scatena ed in particolare la maniera in
cui «lusinga, nel senso mitologico del termine, il narcisismo»74, ne fanno qualcosa
che coinvolge direttamente la nostra vita psichica75.
1.7 DIVERSITA’ DI FRUIZIONE.
Il libro è, innanzitutto, un oggetto piccolo: si può tenerlo in mano e si può
usufruirne in qualsiasi luogo. Ha un utilizzo strettamente personale, in quanto nel
momento in cui viene letto, risulta fruibile solo ed unicamente da quel lettore: il
rapporto è, dunque, tra due unità. Inoltre, è un oggetto che appartiene al lettore, di
cui quest’ultimo ha potuto scegliere edizione e copertina: è un oggetto che
«aggiunge, al piacere del suo contenuto, anche quello del possesso e del rapporto
fisico»76. Il tempo della sua fruizione è variabile: infatti, non solo è possibile leggerlo
ovunque si voglia, ma anche in un qualsivoglia spazio temporale.
Assai meno duttile è la pellicola cinematografica, che richiede, in primo luogo,
uno spazio più ampio e una superficie liscia e bianca su cui proiettare le immagini.
Essa poi, di norma, non appartiene al suo fruitore e pretende un utilizzo multiplo e in
73 Ibi, p.54..74 Ibidem.75 Vd. F. Casetti, Teorie del cinema 1945-1990, op. cit., pp. 173-174.76 G. Nuvoli, Storie ricreate, op. cit., pp. 29-30.
32
contemporanea, come quello del pubblico della sala cinematografica. E, sempre di
norma, il suo fruitore non può scegliere né dove né quando vedere il film poiché le
sale cinematografiche sono in luoghi fissi e aprono ad orari prestabiliti.
La diversità degli strumenti di trasmissione ha implicazioni che vanno a toccare il
contenuto più di quanto non appaia a prima vista. Innanzi tutto il tempo della lettura
può essere piegato alle esigenze del lettore che può dilatarlo, se vuol centellinare il
testo; contrarlo, se ha fretta di vedere come va a finire; può moltiplicarlo all’infinito,
rileggendolo; ma soprattutto, può decidere di sospenderlo ogni qual volta lo si
desideri. Tutto questo non accade durante la visione di un film. Però non va
dimenticato che poter determinare il tempo della fruizione, spesso vuol dire riuscire a
comprendere meglio l’opera stessa: «la mancata visione di alcune sequenze
potrebbe distorcere o addirittura invalidare l’opera stessa»77. Ed è per questo che
oggi le sale cinematografiche cercano di “sporcare” il meno possibile i film
eliminando addirittura l’interruzione tra il primo ed il secondo tempo.
Un’altra differenza saliente, che si aggiunge come conseguenza dei due tipi di
fruizione, è l’empatia: lacrime e risate, infatti, sono contagiose e solo in una visione
collettiva è possibile che, per contagio, queste amplifichino le emozioni passando da
uno spettatore ad un altro. L’empatia non sussiste, invece, durante la lettura di un
libro poiché i commenti e le critiche possono essere solo posteriori alla sua fruizione.
Ovviamente questo discorso ha valore solo se ci riferiamo alla visione di un film in
una sala cinematografica; ma il film, oggi, grazie all’invenzione del VHS e del DVD
può essere visto con modalità di fruizione molto affini a quelle del libro. La cassetta
e il disco forniscono una visione del film più personale: può essere solitaria, esistono
77 Ibi, pp.30-31.33
comandi di rewind e fast forward, che permettono di rivedere delle parti, o di
velocizzarne la fruizione: proprio come nella lettura, con la cassetta il tempo di
fruizione è totalmente a libera discrezione del suo fruitore. Questo nuovo modo di
vedere il film ha contribuito ad avvicinare il linguaggio dell’immagine a quello della
parola, perché ha dimostrato agli spettatori che la visione del film può essere
dominata esattamente come quella di un libro. Dobbiamo ammettere, però, che la
visione di un film nella sua totale integrità, proiettato nel buio della sala su di un maxi
schermo con un surround molto potente in grado di trasportare lo spettatore quasi
all’interno della pellicola, non potrà mai essere superata da nessun tipo di proiezione
domestica, seppur dotata di mezzi capaci di ricreare una piccola sala
cinematografica: essa rimarrà sempre e comunque un surrogato della proiezione
cinematografica.
Inoltre, non bisogna dimenticarsi di una differenza saliente che intercorre tra le
due differenti tipologie di spettatori: infatti, chi fruisce di film da casa è uno spettatore
potenzialmente distraibile (ad esempio, può ricevere una telefonata), mentre chi va
al cinema, ci va per dedicarsi interamente al film (o almeno dovrebbe essere così).
Si può, quindi, affermare che la magia del cinema non è racchiusa solo nel film, ma
in tutto quel complesso costituito da schermo, sala e spettatore nel quale si
dispiegano processi quali il riconoscimento e la decifrazione di quanto viene
mostrato, l’abbandono al piacere delle storie, l’immedesimazione con i personaggi
della vicenda, la fantasticheria e la rielaborazione personale che ogni spettatore fa.
E’, insomma, racchiusa in ciò che la filmologia definisce «situazione
cinematografica»78.
78 L’espressione è di F. Casetti, Teorie del cinema 1945-1990, op. cit., p.103.34
Infine, bisogna tener presente che ormai il cinema non si identifica più con i film:
«è prodotto della e per la televisione, banda video del telegiornale, integrazione di
piéces teatrali; e ancora, modello di scrittura letteraria, fenomeno di costume,
documento per gli storici, rivelatore di tendenze culturali, oggetto di parodia, materia
di studio; e inoltre reperto museale, collezione di videocassette, bene culturale,
oggetto di passione cinofila»79. Non da oggi, ma oggi lo si avverte con particolare
evidenza.
Il cinema non ha più un luogo tutto suo, se mai lo ha avuto. Le opere che ci ha
regalato sopravvivono come memoria nei libri patinati, come citazioni nelle
pubblicità, come modelli per gli sceneggiati televisivi. Il linguaggio che ha creato
serve a modello per l’impaginazione dei rotocalchi, per l’organizzazione di giochi di
società e videogiochi, per i resoconti di cronaca. E, d’altra parte, il cinema «non ha
più un ambito suo, perché è dappertutto, o perlomeno in ogni luogo che abbia a che
fare con l’estetica e la comunicazione»80, rincorre a sua volta la pubblicità, il
rotocalco, il gioco, la televisione.
79 Ibi, p.339.80 Ibidem.
35
2.
COME SI ANALIZZA UN RACCONTO?
2.1 ALLE ORIGINI DEL RACCONTO.
Marchese, nel suo libro L’officina del racconto, definisce il racconto come «una
galassia di segni in irreversibile, mostruosa espansione, dal giorno lontanissimo, nei
primordi dell’avventura umana, in cui qualcuno (un narratore singolo o collettivo, non
ha importanza) cercò di fermare nelle parole o in altre forme un evento memorabile,
degno di essere sottratto alla crudele utopia del transeunte»81. Fa, quindi, in modo
che non sia soltanto un’operazione di scrittura, ma un qualcosa di più profondo,
appartenente al vasto dominio della comunicazione orale che si travasa nelle culture
dei popoli storicamente modellizzate, in una notevole serie di “generi”, dal mito alla
favola, dalle canzoni di gesta al poema, sino alla novella e al romanzo, ultimamente
deputati a rappresentare, nella competenza comune, la “narratività” per eccellenza.
Lo strutturalismo sostiene, dal canto suo, che sia possibile dividere ogni forma
narrativa in due parti: una storia, il contenuto o il concatenarsi di eventi (azioni,
81 A. Marchese, L’officina del racconto, Mondadori, Milano 2003, p.5.36
avvenimenti), più quelli che possono essere chiamati esistenti (personaggi, elementi
dell’ambiente), e un discorso, vale a dire i mezzi con cui si comunica il contenuto. A
questo proposito propone il seguente schema:
Questo tipo di distinzione era riconosciuta già da Aristotele nella Poetica. Per il
filosofo greco, infatti, l’imitazione delle azioni nel mondo reale, praxis, costituiva un
argomento, logos, da cui venivano selezionate ed eventualmente riordinate le unità
che formano l’intreccio, mythos82. Anche i formalisti russi hanno fatto la stessa
distinzione, utilizzando la coppia di termini - fabula ed intreccio - per denominare le
due componenti principali di una narrativa. Con fabula si intende il materiale
narrativo, la storia come successione di eventi, mentre l’intreccio rappresenta la
composizione stilistica, cioè l’insieme dei procedimenti con cui l’autore ci presenta
motivi e personaggi. I formalisti, quindi, definiscono la fabula come «l’insieme degli
eventi che ci vengono comunicati nel corso dell’opera» ovvero «quello che è
successo», l’intreccio come «il modo in cui il lettore viene a conoscenza di quello
82 Aristotele, Poetica, op. cit., p.117 segg.37
che è successo», vale a dire, fondamentalmente , «l’ordine di apparizione (degli
eventi) nell’opera stessa»83, sia che sia normale (abc), in flashback (acb), in
flashforward (cba) o in media res (bc).
La narrativa è una forma di comunicazione e come tale per esistere necessita di
un emittente e di un ricevente; o detto con maggiore esattezza, dal lato
dell’emittente l’autore vero e proprio, l’autore implicito ed il narratore, dal lato del
ricevente il lettore reale, il lettore implicito e il narratario (soltanto l’autore ed il lettore
impliciti sono immanenti all’opera, mentre l’autore e il lettore reale comunicano
attraverso le loro controparti implicite).
Bisogna tener presente, a questo proposito, l’importante riflessione fatta da
Bettetini riguardo al tempo: qualunque atto comunicativo è alle prese con il tempo,
sia perché spesso il tempo costituisce una parte dell’oggetto della comunicazione,
sia perché ogni comunicazione si svolge nel tempo84. A questo proposito occorre
precisare che il tempo della lettura (del discorso) si intreccia con quello della fabula
(che rispetta la cronologia degli avvenimenti) e con quello dell’intreccio (che rispetta
la successione degli avvenimenti nell’ordine in cui sono stati scritti). Il lettore del
testo letterario si trova, quindi, alle prese con un lavoro di decodifica temporale, dal
momento che in ogni produzione narrativa intercorrono 3 tipi di tempo:
- un t0 che è il tempo oggettivo, semantico, rappresentato nella fabula;
- un t1 che è il tempo della superficie significante o semiotica della scrittura,
rappresentato nell’intreccio;
83 B. Tomasevskij, Teoria Literatury (Poetika), Leningrad, 1928; trad. it. di G. L. Bravo, La costruzione dell’intreccio, in I formalisti russi, Einaudi, Torino 1968, pp.305-350.84 G. Bettetini, Il tempo del senso, Bompiani, Milano 1994.
38
- un t2 che viene costituito da to e t1 e che è il tempo della lettura che non viene
rappresentato, ma vissuto85.
Il tempo del racconto è un tempo concluso, la sua logica temporale è di tipo
statico, perché si riferisce ad una successione preordinata di fatti, con una
conclusione predefinita86. In realtà, è un mondo concluso solo per il suo autore ed è
proprio per questo che Weinrich87 distingue i tempi verbali in due categorie:
- i tempi commentativi (per la lingua italiana: presente, passato prossimo e
futuro);
- i tempi narrativi (per la lingua italiana: imperfetto, passato remoto, trapassato
prossimo e i due condizionali).
Laddove i primi si combinano frequentemente con la prima e la seconda persona,
gli altri frequentemente con la terza (singolare e plurale). Questa suddivisione
richiama quella più nota di Benveniste che associa al discorso i tempi commentativi
e alla storia quelli narrativi, avvicinando in questo modo la nozione di commento a
quella di discorso e quella di racconto a quella di storia. Vengono, così, a crearsi due
mondi: un mondo commentato, luogo del discorso, e un mondo raccontato, luogo
della storia, dove la nozione di mondo indica «la somma di tutto ciò che può divenire
oggetto di un atto comunicativo»88. Va sottolineato, inoltre, che tra i due mondi si
instaura un legame molto forte di complementarietà.
2.2 ELEMENTI PER UNA ANALISI.
85 Ibi, pp.12-13.86 Ibi, pp.100-103.87 V. H. Weinrich, Tempus. Le funzioni dei tempi nel testo, Il Mulino, Bologna 1978, pp.24-27.88 Ibidem.
39
Il romanzo è, per un qualunque lettore, innanzitutto una storia complessa ed
inverosimile, ricca di incontri straordinari, di eroi troppo perfetti e di eroine troppo
belle per essere vere: una “fiction”. Ma per chi lo analizza è qualcosa di molto più
complesso: un conglomerato di fattori e persone che interagiscono tra loro; di
persone, in quanto il romanzo avvicina lettore, narratore e personaggio, cercando di
farli coincidere in una coscienza comune e ponendosi tra il lettore e la realtà che gli
vuole mostrare, interpretandola per lui.
Non è sufficiente la lunghezza della narrazione a definire la novella o il racconto in
rapporto al romanzo, anche se in generale una novella è composta con poco
materiale, è sintetica e perfetta nella sua brevità.
Il romanziere non deve limitarsi a collegare degli episodi, ma deve anche dar vita
a dei personaggi, descrivere la cornice spaziale che li circonda, il tempo in cui si
svolge il racconto, nutrirlo persino di una filosofia, al fine che tutti questi elementi si
fondino nell’azione. Per dar vita ai suoi personaggi, il romanziere può utilizzare le
due modalità di imitazione poetica distinte da Aristotele89:
- diretta, dove gli avvenimenti si svolgono direttamente “davanti” agli occhi del
lettore;
- narrativa, dove gli avvenimenti vengono raccontati da un narratore.
Bisogna tener presente, ad ogni modo, che non può esistere una storia in cui, nel
corso della narrazione non affiorino altre storie (una parentesi di poche righe sul
destino di un personaggio secondario, una digressione esplicativa costituiscono già
un racconto nel racconto). La prima cosa che va analizzata è il duplice rapporto,
implicito o esplicito, che ogni opera stabilisce: da un lato tra l’autore e il lettore
89 Aristotele, Poetica, op. cit., p.117 segg.40
virtuale, dall’altro tra un narratore e un narratario. Lo studio di un’opera narrativa
considerata come atto comunicativo, come una serie di segnali rivolti ad un
narratario ed interpretati in sua vece, in funzione dei suoi rapporti con il narratore,
con i personaggi o altri narratari, in funzione anche delle distanze più o meno ampie
che lo separano dai lettori (reali, virtuali o ideali) può condurre ad una precisa
caratterizzazione del racconto permettendo di mettere in luce gli ingranaggi del suo
funzionamento. Solo una volta stabilito il patto «il narratore può allora raccontare a
modo suo e il pubblico tacere»90, o per meglio dire «sin dall’inizio del gioco, dunque,
intesa esplicita tra tutti: dietro la menzogna della finzione, narratore e ascoltatori
andranno insieme alla scoperta di un verità nascosta»91.
Al rapporto autore-lettore virtuale e narratore-narratario è strettamente connesso il
problema dell’angolo di ripresa, il centro narrazionale, che praticamente è il punto
ottico in cui si pone il narratore per raccontare la sua storia. Già ai tempi di Aristotele
si operava una distinzione:
- il narratore, nella misura in cui conosce tutto, l’interno e l’esterno, l’assente ed
il presente, non esita ad invadere il racconto esprimendo giudizi, riassumendo
una parte della storia, in breve, dicendo tutto quel che bisogna pensare su
ogni cosa. Si può, quindi, affermare che “racconta” una storia;
- il narratore si sforza di non comparire, di far dimenticare che si tratta di un
racconto. Ci “mostra”, dunque, una storia.
Si possono, quindi, distinguere quattro tipi di narratori:
- eterodiegetico, il narratore ci racconta una storia così come deve essere e
rimane esterno ad essa;
90 J. Marcel, Jacques Ferron malgré lui, Editino du Jour, Montreàl 1970, p.50.91 R. Bourneuf, R. Ouellet, L’universo del romanzo, Einaudi, Torino 2000, p.73.
41
- intraeterodiegetico, alterna il suo essere interno o esterno alla storia;
- omodiegetico, è interno alla storia e può essere un testimone o può
raccontare la propria storia (autodiegetico);
- intraomodiegetico, il narratore è interno alla storia poiché è un personaggio.
Il narratore assume, dunque, la funzione fondamentale di esplicare il mondo che
vuol raccontare, poiché, alla fine, come ricorda Jean Louis Curtis, «un personaggio
romanzesco non è altro che la proiezione della volontà del romanziere»92.
Un’altra componente importante che intercorre nell’analisi di un romanzo è lo
spazio, anche se, a volte, il romanziere può far credere che la localizzazione non sia
poi così importante e che la sua storia si possa svolgere in ogni dove. Mentre, a
volte, lo spazio reale o immaginario che sia, può essere associato o addirittura
“incorporato” al personaggio, come lo è all’azione o allo scorrere del tempo.
Sebbene, come sottolineano R. Bourneuf e R. Ouellet93, non sono mancati critici e
storici della letteratura che abbiano rimproverato gli scrittori di aver appesantito le
loro opere con lunghe descrizioni gratuite, che annoiano il lettore. Una descrizione
dello spazio rivela, quindi, il grado di attenzione che il romanziere accorda al mondo
e la qualità di questa attenzione: lo sguardo può fermarsi all’oggetto descritto,
oppure spingersi oltre. Essa esprime il rapporto tra l’uomo, autore o personaggio e il
mondo circostante: egli lo fugge, gliene sostituisce un altro, vi si immerge per
esplorarlo, comprenderlo, cambiarlo e, a volte, per conoscere se stesso.
Riguardo allo scorrere del tempo, bisogna sottolineare, come prima cosa, che il
romanzo è considerato come un’arte che scorre nel tempo, o per meglio dire nei “tre
92 J. L. Curtis, Haute Ecole: essai, Julliard, Paris 1950, pp.178.93 R. Bourneuf, R. Ouellet, L’universo del romanzo, op. cit., pp.94-121.
42
tempi”: quello dell’avventura, quello della scrittura e quello della lettura («gli anni
trasformano i libri. Sarebbe un errore dire che invecchiano; diventano diversi…»94).
Il personaggio del romanzo è indissociabile dall’universo fittizio al quale
appartiene: «è legato ad una costellazione e solo grazie ad essa vive in noi con tutte
le sue dimensioni»95. Egli ha nome e cognome, è iscritto ad un’anagrafe sia pur
fittizia, costituisce ipso facto la spiegazione dei suoi movimenti e contiene la
possibilità di sviluppi ulteriori. Infine, attua l’unificazione delle funzioni che hanno
senso perché attuate da lui e che si diramano da lui 96. Può presentarsi da solo,
(cercando di ottenere una specie di sdoppiamento che gli permetta di uscire da se
stesso e poter giudicare), essere presentato da un narratore eterodiegetico o da
entrambi o da un altro personaggio. Si potrebbe studiare la fenomenologia del
personaggio secondo quattro isotopie solo in astratto distinte, ma interconnesse tra
loro nella realtà narrativa:
- l’essere, le attribuzioni o qualità del personaggio;
- il fare, la sfera pragmatica in cui è coinvolto;
- il vedere, la prospettiva in senso lato;
- il parlare, gli eventi verbali, gli atti linguistici di cui il personaggio è emittente
e/o ricevente.
Infine, l’ultimo fattore da considerarsi per l’analisi di un romanzo è il rapporto con
l’autore-creatore e il contesto storico in cui viene inserito. Il romanziere si definisce
94 J. Green, Prefazione, Les anneés faciles, Librairie générale française (LGF), Paris 1973, pp.2.95 R. Bourneuf, R. Ouellet, L’universo del romanzo, op. cit., p.143.96 Sottolinea C. Segre, Le strutture e il tempo, Einaudi, Torino 1974, pp.45-46.
43
volentieri come un essere posseduto da personaggi che chiedono di essere messi
al mondo e di cimentarsi in una storia: il personaggio diventa un essere
“ingombrante”, che implora di essere “raccontato”.
2.3 ANALISI DI UN ROMANZO: Aura, Carlos Fuentes97.
«Cercasi storiografo giovane. Ordinato. Scrupoloso. Che
conosca il francese. Tremila pesos mensili, pasti e camera
confortevole, assolata, adatta a studio.
Manca solo il tuo nome. Manca solo che le lettere più nere
dell’annuncio dicano: Felipe Montero. Cercasi Felipe Montero.»
Un’inserzione allettante porta Felipe Montero, giovane storiografo disoccupato,
nella casa tetra e solitaria di Consuelo Llorente, una signora anziana e malata. Il suo
incarico è trascrivere e ordinare le memorie del marito defunto, il generale Llorente,
che ha combattuto nella guerra messicana di Massimiliano d’Asburgo. Per portarlo a
termine Felipe alloggia in quella grande casa sempre immersa nell’oscurità e avvolta
nell’odore nauseante di piante rare e dalla quale, una volta entrato, non potrà più
uscire. Nella casa abita anche Aura, la bella e misteriosa nipote di Consuelo. Tra lei
e Felipe nasce subito il desiderio e poi l’amore. Questo sentimento è, però, turbato
dalla presenza della vecchia signora e dallo strano legame che unisce le due donne:
un’assoluta dipendenza reciproca che si riflette anche nell’identicità degli
atteggiamenti, dei movimenti. Aura sembra incatenata ad un destino triste,
ineluttabile a cui Felipe vorrebbe strapparla. Ma da cui lei non vuole, non può
97 C. Fuentes, Aura, Alianza Editorial, Madrid 1994; trad. it. a cura di C. Di Michele, Il Saggiatore, Milano 2003, (d’ora in avanti, però, le traduzioni dallo spagnolo all’italiano sono mie, C. B.).
44
sfuggire, non può allontanarsi da quella casa, dove il tempo sembra riavvolgersi su
se stesso in un ricorrere eterno ed enigmatico di immagini e ricordi.
Magnificamente, lo scrittore, sa creare uno strano gioco di tempo, di attimi, di
immagini e di brividi, che legheranno il lettore alle pagine, perché Consuelo è Aura e
Aura è Consuelo…e il generale Llorente è Felipe e Felipe è il generale Llorente.
Abbiamo scelto di analizzare questo libro, dalla trama apparentemente molto
semplice, perché esso rappresenta un’innovazione nella narrativa. Infatti, usando la
seconda persona singolare e il tempo presente e futuro, riesce a far rispecchiare il
lettore nel protagonista, fino quasi a farli coincidere. Sembra quasi “ordinargli” di
vivere questa storia, di lasciarsi condurre fino al suo epilogo orrorifico.
2.4 IL TEMPO IN AURA.
Il tempo è, senz’altro, uno degli elementi chiave di tutto il romanzo. Aura stessa,
attraverso l’utilizzo di arti magiche, crea un tempo virtuale, non possibile nella realtà,
in cui passato e presente paradossalmente si fondono fino a coincidere. Qui, il
tempo cronologico viene associato all’esterno della casa e alla dimensione
quotidiana (una piccola campanella che richiama i personaggi quando è ora di
mangiare, i tempi reali, dunque, che saranno quelli che porteranno Felipe a
comprendere la “realtà” della casa). All’interno della casa non si riesce a percepire la
minima prospettiva cronologica, tutto è avvolto in un misterioso climax, sospeso tra
l’irreale ed il reale, perché non ci sono veri riferimenti temporali, o se vi sono, si
annullano, come nota lo stesso Felipe a proposito del suo orologio: «no volverás a
mirar tu reloj, ese objeto inservibile que mide falsamente un tiempo acordado a la
vanidad humana, esas manecillas que marcan tediosamente las largas horas
45
inventadas para engañar el verdadero tiempo, el tiempo que corre con la velocidad
insultante, mortal, que ningún reloj puede medir.»98 (non guarderai di nuovo
l’orologio, quell’oggetto inservibile che misura falsamente un tempo concesso alla
vanità umana, quelle lancette che marcano tediosamente le lunghe ore inventate per
ingannare il vero tempo, il tempo che corre con la velocità offensiva, mortale, che
nessun orologio può misurare). Nella casa, presente, passato e futuro si mischiano,
in quanto il passato riaffiora nelle date ed è scandito dalle dettagliate descrizioni che
si trovano nella biografia del generale Llorente. Il tempo all’interno della casa viene,
quindi, a coincidere con quello della memoria, come tentativo dell’anziana Consuelo
di rivivere la propria giovinezza. La sua esistenza, infatti, ruota attorno allo
spasmodico desiderio di riuscire a rimanere giovane e bella, sconfiggendo, quindi,
non solo la morte, ma anche e soprattutto la vecchiaia: il mito dell’eterna giovinezza.
Crede che in questo modo il suo amore con il generale Llorente possa ricrearsi,
fissandosi per sempre in un presente eterno di gioventù felice. Riesce a realizzare
tale illusione ricreando una copia di se stessa giovane nelle sembianze della bella
Aura. In questo modo il microcosmo contenuto dalla casa sprofonda in una nuova
dimensione, che porta persino Felipe a riscoprirsi e a rispecchiarsi nel proprio
passato, come generale Llorente, defunto marito di Consuelo.
Fuori dalla casa c’è il sole, la luce; lo si percepisce chiaramente soprattutto nel
momento in cui Felipe va verso la casa, poiché, grazie alla luce, riesce a cogliere le
sfaccettature e lo scorrere del tempo, disseminate sul suo cammino: passato e
presente sono ben distinti nei cambiamenti subiti da alcune abitazioni che, per
esempio, hanno cambiato il proprio numero civico oppure si sono trasformate in
98 C. Fuentes, Aura, op. cit., p. 58.46
negozi. La stessa casa in «Calle de Donceles» ha modificato il proprio numero
civico a causa del passar degli anni: «815, antes 69»99 (815, prima 69). All’interno
della casa la luce è pressoché assente e, infatti, entrandovi Felipe è spinto a
ricercare una luce che lo guidi; «busca en vano una luz que te guíe»100 (cerchi invano
una luce che ti guidi), ma viene subito ammonito dalla signora Consuelo: «No…, no
es necesario. Le ruego.»101 (No…, non è necessario. La prego). L’unica vera guida
che illumina i suoi passi è il candelabro di Aura, o la propria capacità mnemonica
che conta i passi e misura i propri movimenti brancolanti nel buio, come la prima
volta in cui, entrando, Consuelo lo aveva guidato: «Camine trece pasos hacia el
frente y encontrarà la escalera a su derecha. Suba, por favor. Veintidós escalones.
Cuéntelos.»102 (Faccia tredici passi avanti e troverà la scala alla sua destra. Venga
su, per piacere. Sono ventidue gradini. Li conti.). Questa, che sembra una
combinazione di una cassaforte dalla quale una volta entrati non è più possibile
uscirne, va considerata come una sorta di iniziazione alle tenebre in cui è avvolta la
casa. Il buio è necessario per impedire al deterioramento causato dal tempo di
mostrarsi. Tutte le stanze, tranne quella di Felipe, sono molto simili, se non
addirittura uguali, e molto buie, descritte nella loro staticità, cristallizzate nel tempo,
come se volessero conservare gelosamente un ricordo passato. La notte è il tempo
della rivelazione, dove Aura si concede perché conscia di poter essere scambiata
per un’immagine onirica e protetta dal buio, che nasconde il suo vero essere. L’unica
stanza illuminata è quella di Felipe, ma solo per permettergli di leggere e riordinare
quei manoscritti che lo condurranno ad accettare una realtà agghiacciante. Così
99 Ibi, p. 10.100 Ibi, p. 11.101 Ibidem.102 Ibidem.
47
come la fioca luce della candela che accompagna i pasti è necessaria affinché egli
scopra le somiglianze tra le due donne.
Nella casa il tempo non scorre in modo lineare. Il ciclo della vita non si conclude
con la morte, bensì si piega su se stesso e ricomincia. Ad esempio, Aura è descritta
inizialmente come una ragazza, poi come «la mujer, no la muchacha de ayer: la
muchacha de ayer […] no podía tener más de veinte años; la mujer de hoy […]
parece de cuarenta: algo se ha endurecido, entre ayer y hoy, […]» 103 (la donna, non
la ragazza di ieri: la ragazza di ieri […] non poteva avere più di vent’anni; la donna di
oggi […] sembra di quaranta: qualcosa si è indurito tra ieri e oggi, […]) e alla fine si
trasforma in una vecchia signora. Questo excursus si ripete ciclicamente ed ha una
durata di tre giorni e mezzo (quasi pari alla durata dello svolgimento del racconto).
Infine, la caratteristica fondamentale di questo romanzo è la narrazione in
seconda persona, coniugando il tempo al futuro. Il futuro indica, come fa
giustamente notare il professor Liano nel suo ipertesto on line sull’argomento 104, una
«previsione, nel senso di un’informazione anticipata, che porta in sé per forza di
cose una certa carica di precarietà anche se in seguito, attraverso un’informazione
supplementare si dovesse scoprire che il messaggio è stato trasmesso come di
diritto»105. Anche se, in questo romanzo il futuro vuole dare anche un senso di
predestinazione, quasi come se fosse possibile guidare le azioni del protagonista,
come se fosse destinato ad entrare in quella casa. E, quindi, il narratore non
potrebbe essere altri che la stessa Consuelo.
103 Ibi, p. 45.104 Documento internet, di D. Liano in collaborazione con gli studenti dell’Università Cattolica, dal titolo Aura, consultabile sul sito: http://cepad. unicatt.it.105 Ibidem.
48
2.5 LO SPAZIO IN AURA.
Il racconto si sviluppa in soli due luoghi: fuori e dentro la casa. Fuori dalla casa
troviamo El Cafetín, un bar sporco ed economico, dove Felipe legge e rilegge
l’annuncio e dove va a far colazione le due mattine prima di entrare nella casa;
l’autobus, pieno di gente, e la frenesia della vita della città. La casa è, invece, un
luogo scuro e silenzioso. Le stanze descritte sono:
- l’atrio, molto scuro, con le pareti umide e un odore pungente, pieno di piante
come il gordolobo e la belladonna, che sono utilizzate in medicina come
analgesici e per stordire i sensi. Rappresenta, dunque, un luogo simbolico:
Felipe lo attraversa solo il giorno in cui entra nella casa, e, come per effetto
delle piante abbandona la realtà ed entra in un mondo di fantasie e sogni, o
forse sarebbe meglio dire di incubi. Infine, vi ritorna il terzo giorno, quando
ormai tutte le sue convinzioni e le sue certezze sono crollate, per ricercarle
proprio qui, nell’unica stanza dove ci sono degli esseri viventi: le piante;
- la stanza della signora Consuelo, è sporca e tetra. Si respira odore di
vecchio dappertutto. Non ci sono finestre. In un angolo vive una comunità di
topi. Viene definita come “il santuario della vedova” perché è piena di oggetti
religiosi, che in questo contesto non sono affatto simboli di fede, ma
accrescono il senso d’ansia e di paura. Il letto, appena sollevato da terra, è
immenso, ricoperto da una trapunta rossa opaca su cui sono sparse briciole e
croste di pane. Sul comodino vi sono strane bottigliette colorate, scatole di
pastiglie, bicchieri, cucchiai. Sul pavimento giacciono dei bicchieri macchiati
da liquidi biancastri;
49
- la stanza di Aura, è anch’essa scura, funerea. Attaccato alla parete, proprio
sopra il letto, c’è un Cristo in legno nero in netto contrasto col bianco della
parete;
- la sala da pranzo, è un luogo strano: i coperti non corrispondono quasi mai al
numero dei commensali, ed è il luogo che permette a Felipe di accorgersi che
le due donne si muovono contemporaneamente e nello stesso modo. Si
mangia quasi sempre rognone. È un luogo antico, reso freddo e tetro da muri
in legno scuro e lunghe tende verdi. C’è una grande quantità di mobili foderati
con seta sbiadita, in contrasto col rosso acceso della stanza di Felipe. Nelle
vetrinette sono esposte statue di porcellana, orologi che suonano, sfere di
cristallo e bottiglie ricoperte di polvere verdastra. Appesi alle parete vi sono
alcuni quadri che ritraggono scene bucoliche e che sfumano anch’essi verso il
verde;
- la cucina, non viene descritta, ma appare chiramente come il luogo dove
maggiormente si percepisce il senso della morte, infatti, è proprio in questa
stanza che Felipe vede Aura squartare un capretto;
- la stanza di Felipe, è l’unica ad essere illuminata dal sole per mezzo di un
abbaino, ad avere carta da parati colorata e ad essere arredata in maniera
non macabra: il letto è in metallo dorato e ricoperto da un copriletto di lana
rossa, c’è una lampada antica, una vecchia scrivania in noce e cuoio verde
con uno scaffale colmo di libri.
- Il giardino, o meglio il quadrato verde che Felipe scorge dalla finestra, che
rappresenta la speranza di un contatto con la luce e la natura di una realtà
ormai distante; non appartiene alla casa.
50
Non esistono serrature. Le porte sono a molla, quindi non esiste un solo luogo
non controllabile dalle due donne, dove Felipe possa essere realmente al sicuro
nella propria intimità.
L’ultimo spazio su cui è opportuno soffermarsi è quello della confusione interiore
di Felipe. Questo spazio immaginario si manifesta attraverso il sogno, inteso come:
«il modo di espressione dell’inconscio. Attraverso esso si acquista coscienza degli
aspetti della propria personalità che, per diverse ragioni, non si desidera conoscere
direttamente da vicino. Rappresentano la coscienza dell’ombra» 106. La prima notte
nella casa Felipe non fa alcun sogno, probabilmente perché non ha ancora ben
compreso la realtà in cui si è ritrovato. La seconda notte sogna una mano
scheletrica di una donna senz’occhi che suona una campanella. Quando si sveglia
trova Aura che lo consola e lo coccola. Secondo la simbologia onirica, le mani
rappresentano il desiderio di contatti umani, lo scheletro indica la paura di veder le
proprie abitudini sconvolte ed, infine, la campana è un presagio di morte. La terza
notte sogna delle bocche spalancate e silenziose e la mano scheletrica di una
vecchia dalle gengive sanguinanti che tira fuori dalla tasca del grembiule macchiato
di sangue dei denti gialli. La vecchia strappa la gonna verde di Aura e la giovane
perde le gambe che precipitano nell’abisso. Secondo la simbologia onirica, la perdita
dei denti significa perdita di una persona cara, mentre il sangue è simbolo di
purificazione, passione, carnalità, istinto. Sembra quasi un presagio del fatto che a
causa della vecchia perderà la sua amata Aura. Questo sogno avviene lo stesso
giorno in cui Felipe ha visto Aura scuoiare il capretto e, quindi, potrebbe essere la
trasposizione di quest’orrenda scena (lo si capisce dal grembiule intriso di sangue),
106 Ibidem.
51
ma potrebbe anche voler simboleggiare Consuelo che strappa la gonna verde
(simbolo di giovinezza) ad Aura per reincarnarsi.
La vicenda è ambientata nel centro di Città del Messico, cuore coloniale della
capitale e memoria storica della nazione, luogo in cui Felipe ritroverà il proprio
passato. Il racconto si apre con la descrizione di un bar sporco e poco raffinato, che
vuole simboleggiare lo stile di vita di un uomo modesto, dall’esistenza monotona e
insulsa, che vive tutti i giorni uno uguale all’altro «vivirás ese día, idéntico a los
demás»107 (virai questa giornata, identica a tutte le altre).
2.6 GLI ESISTENTI.
Il personaggio principale del racconto è Felipe Montero, un giovane storiografo di
27 anni. La sua descrizione fisica viene appena accennata: occhi scuri, capelli neri e
lisci, sopracciglia folte, guance magre e profilo perfetto. Sembra essere l’unico
personaggio reale della casa. È il solo, infatti, ad aver vissuto anche all’esterno, è
l’unico ad aver un passato nel mondo reale, o per lo meno questo è quello che
crediamo all’inizio del libro. Si può identificarlo con le caratteristiche stereotipate
maschili, dal momento che va alla casa della signora Consuelo solo per motivi
strettamente concreti: «tú piensas en el sueldo de cuatro mil pesos»108 (tu pensi solo
allo stipendio di quattromila pesos) e cerca di autoconvincersi che «si el precio de tu
futura libertad creadora es aceptar todas las manías de esta anciana, puedes
pagarlo sin dificultad»109(se il prezzo della tua libertà creativa è accettare tutte le
manie di
107 C. Fuentes, Aura, op. cit., p. 9.108 Ibi, p. 17.109 Ibi, p. 31.
52
questa vecchia signora, puoi pagarlo senza alcuna difficoltà), probabilmente per non
ammettere a se stesso di essere rimasto stregato dalla bellezza di Aura,
dall’ambiente oscuro e misterioso e inebriato dagli aromi delle piante. Entra, in
questo modo, in uno stato ipnotico e diviene un “pupazzo” nelle mani di Consuelo:
«comes mecánicamente, con la muñeca en la mano izquierda y el tenedor en la
otra, sin darte cuenta, al principio, de tu propia actitud hipnótica»110 (mangi
meccanicamente, con la bambola nella mano sinistra e la forchetta nell’altra, senza
renderti conto, all’inizio, della tua stessa attitudine ipnotica).
L’unico altro personaggio maschile presente nella storia è il generale Llorente,
marito della signora Consuelo. Non appare direttamente nel romanzo, perché è già
morto, ma viene fuori dalle memorie che ha scritto prima di morire. Le sue memorie
trattano soprattutto della sua carriera militare - partecipò a molte battaglie all’epoca
di Napoleone III, ma poi dovette andare in esilio a Parigi, dove morì all’età di 82 anni
-, ma contengono anche dei ricordi della sua relazione con Consuelo. Esse sono
fondamentali per la comprensione del testo in quanto ci permettono di capire che
Consuelo, attraverso la stregoneria è riuscita a creare una proiezione della sua
gioventù. Sempre grazie alle memorie del generale Llorente, alla fine del libro,
scopriamo che Felipe è la reincarnazione di Llorente e che, quindi, i due personaggi
sono due sfaccettature dello stesso. Nell’ultimo capitolo, infatti, incontriamo Felipe
che, guardando una fotografia del generale, riceve l’invito del narratore: «tapas con
una mano la barba blanca del general Llorente, lo imaginas con el pelo negro y
siempre te encuentras, borrado, perdido, olvidado, pero tú, tú, tú.»111 (copri con una
110 Ibi, p. 43.111 Ibi, p. 57.
53
mano la barba bianca del generale Llorente, te lo immagini con i capelli neri e
sempre ritrovi te stesso, perduto, dimenticato, però tu, tu, tu.), e riscopre
nell’immagine, così, se stesso.
Consuelo è la vedova del generale Llorente e facendo i calcoli in base alle
memorie del generale dovrebbe avere 109 anni, anche se «Tratas, […] de calcular
su edad. Hay un momento en el cual ya no es posible distinguir el paso de los años;
la señora Consuelo, desde hace tiempo, pasó esa frontera.»112 (cerchi, […] di
calcolarne l’età. Esiste un momento in cui non è più possibile distinguere il
trascorrere degli anni: la signora Consuelo, già da tempo ha oltrepassato quella
frontiera). È molto magra, ricurva su se stessa, perché la sua spina dorsale non è
più in grado di sorreggerla, ha i capelli bianchi ed è sdentata. Già nelle memorie del
marito si conferma come un essere diabolico: «Consuelo, le démon aussi était un
ange, avant»113 (Consuelo, anche il diavolo è stato un angelo prima). In alcune
descrizioni sembra quasi che sia già morta perché le sue dita sono prive di calore e i
suoi occhi immensi, spalancati, sono di un giallo talmente chiaro che il nero della
pupilla sembra romperne la lucentezza. Inoltre, una delle prime volte che Felipe la
incontra, lei è distesa sul letto e sembra mummificata, perché è avvolta nelle
lenzuola e porta una cuffia di seta che le nasconde non solo i capelli, ma anche le
orecchie, il suo vestito bianco è abbottonato fino al collo e tiene le mani incrociate
sul petto.
L’altro personaggio femminile è Aura, che appare e scompare, sempre
improvvisamente come se la ragazza si fosse materializzata nell’oscurità della casa,
112 Ibi, p. 31.113 Ibi, p. 56.
54
così come quando i due giovani sono in intimità si materializza la vecchia. È la
nipote
di Consuelo, ha un’età indefinibile poiché in realtà non esiste, ma rappresenta la
reincarnazione di Consuelo a cui è concesso vivere solo per pochi giorni poiché
invecchia rapidamente. Ha occhi verdi in grado di causare un effetto ipnotico su
Felipe. Veste sempre di verde proprio come faceva Consuelo quando era giovane (il
verde nei Paesi Ispanici è il colore della passione).
Esiste un rapporto speculare tra le due donne: «siempre cuando están juntas
hacen exactamente lo mismo: se abrazan, sonríen, comen, hablan, entran, salen, al
mismo tiempo, como si una imitara a la otra, como si de la voluntad de una
dependiese la existancia de la otra»114 (sempre quando stanno insieme fanno
esattamente le stesse cose: si abbracciano, sorridono, mangiano, parlano, entrano,
escono, allo stesso tempo, come se una imitasse l’altra, come se dalla volontà
dell’una dipendesse l’esistenza dell’altra.). Inizialmente sembra che Aura ne soffra,
che aspetti solo di essere liberata da questo triste destino: «quizá Aura espera que
tú la salves de las cadenas que, por algunas razón oculta, le ha impuesto esta vieja
caprichosa y desequilibrada. Recuerdas a Aura minutos ante, inanimata,
embrutecida por el terror: incapaz de hablar enfrente de la tirana, movendo los
labios en silenzio, como si en silenzio te implorara su libertad, prisionera al grado de
imitar todos los movimientos de la señora Consuelo, como si sólo lo que hiciera la
vieja le fuese permitido a la joven. […] ahora la deseas para liberarla: habrás
encontrado una razón moral para tu deseo […]»115. (forse Aura aspetta che tu la
114 Ibi, p.50.115 Ibi, p. 34.
55
liberi dalle catene che, per una qualche causa occulta, le ha imposto questa vecchia
capricciosa e squilibrata.
Ricordi Aura, pochi minuti prima, inanimata, abbruttita dal terrore, incapace di
parlare
davanti alla tiranna, muovere le labbra in silenzio, come se in silenzio ti implorasse la
sua libertà, succube al punto da imitare i movimenti della signora Consuelo, come se
solo quello che fa la vecchia fosse permesso alla giovane. […] ora la desideri per
liberarla: avrai trovato una giustificazione morale per il tuo desiderio […]). Ma tramite
tutti i passi in cui seguiamo le vicende delle due donne, ci rendiamo conto che Aura
non può esistere se non come “fantasia” manovrata da Consuelo: è solo un
fantoccio. E alla fine Felipe si rende conto che la donna che l’ha stregato non è la
bella Aura, ma la stessa Consuelo e si sottomette al suo volere, accettando un
«Volverá, Felipe, la traeremos juntos. Deja que recupere fuerzas y la haré
regresar…»116 (tornerà, Felipe, la riporteremo qui insieme. Lasciami riprendere forza
e la farò tornare...), e si rassegna al destino a cui era predestinato. Lo si capisce già
dall’inizio quando, sentendo per la prima volta la signora Consuelo pronunciare la
parola «volverá»117 (tornerà), riferito al coniglio, Felipe rimane basito e sente
riecheggiare nella sua mente tale parola come una promessa futura.
Nel romanzo di Fuentes, l’elemento femminile e quello maschile si completano
l’un l’altro. Questi due poli, così differenti eppure così in sintonia tra di loro, formano
un cerchio esistenziale perfetto; lo si nota già nell’epigrafe del romanzo che per
mano di Jules Michelet così recita : «El hombre caza y lucha. La mujer intriga y
sueña; es la madre de la fantasía, de los dioses. Posee la segunda visíon, las alas
116 Ibi, p.61.117 Ibi, p. 15.
56
que le permiten volar hacia el infinito del deseo y de la imaginación…Los dioses son
como los hombres: nacen y mueren sobre el pecho de una mujer…» 118 (l’uomo
caccia e
lotta. La donna fantastica e sogna; è la madre della fantasia e degli dei. Possiede la
seconda visione, le ali che le permettono di volare verso l’infinito del desiderio e
dell’immaginazione…Gli dei sono come gli uomini: nascono e muoiono sul seno di
una donna...). Un polo maschile fatto, quindi, di forza fisica, di istinto primordiale di
caccia e lotta, concretezza, razionalità e di obiettivi. Felipe è un uomo a cui manca
qualche cosa per colmare la propria esistenza e ciò che gli manca è la sua identità, il
suo appartenere ad una terra - il Messico - la cui cultura è stata soffocata dal
colonialismo ispanico. Un ricercatore storico che con l’aiuto di due donne si
avventura in un intricato labirinto esistenziale per scoprire il suo passato e poter dare
così un senso al suo presente. Avrà bisogno di una serie di elementi e strumenti che
l’uomo per sua natura non possiede, come la fantasia, la preveggenza e le ali per
volare verso l’infinito e l’immaginazione: solo una donna possiede tutto ciò. Avrà,
quindi, bisogno di Aura e Consuelo per capire se stesso.
Carlos Fuentes va oltre la simbologia classica del mondo femminile, affidando a
Consuelo l’eredità della cultura messicana. Consuelo rappresenta il passato che dà
senso alla esistenza del giovane ricercatore. Quello di Felipe non è un cammino
semplice e per questo viene in suo aiuto Aura che, come la memoria di un passato
sommerso, fa riaffiorare emozioni e sentimenti che sembravano perduti. Felipe
desidera liberare Aura come simbolo di “memoria liberata”. Si può, quindi, dedurre
118 Ibi, p.7.57
che il rapporto tra i protagonisti è in realtà un rapporto a due, sdoppiato in quattro:
due persone sdoppiate vivono tra passato e presente in una dimensione atemporale
nella quale emozioni ataviche si rinnovano e si mescolano a sensazioni eterne, e
prima fra tutte, l’amore.
2.7 RELAZIONI TRA GLI ESISETENTI:
a) Felipe/Aura
Da subito Felipe rimane talmente abbagliato dalla bellezza degli occhi verdi di
Aura, descritti come «esos ojos de mar que fluyen, se hacen espuma, vuelven a la
calma verde, vuelven a inflamarse como una ola: tú los ves y te repites que no es
cierto, que son unos hermosos ojos verdes idénticos a todos los hermosos ojos
verdes que has conocido o podrás conocer. Sin embargo, no te engañas: esos ojos
fluyen, se transforman, como si te ofrecieran un paisaje que sólo tú puedes adivinar
y desear»119 (quegli occhi di mare che fluiscono, si fanno spuma, tornano alla calma
verde, si increspano di nuovo come un’onda: tu li guardi e ti ripeti che non è
possibile, che sono dei begli occhi verdi identici a tutti i begli occhi verdi che hai visto
o che potrai vedere. Eppure non ti inganni: quegli occhi fluiscono, si trasformano,
come se ti offrissero un paesaggio che tu solo puoi indovinare e desiderare), da non
capire più nient’altro. Ne rimane folgorato, la segue non solo «con la vista, sino con
el oído» (non solo con gli occhi, ma anche con l’udito) segue «el susurro de la falda,
el crujido de una tafeta» (il sussurro della gonna, il fruscio di un taffettà) e rimane
«ansiando, ya, mirar nuevemente esos ojos»120 (ansioso, già, di guardare di nuovo
quegli occhi). È ossessionato dal poter incrociare quello sguardo, ma «ella mantiene,
119 Ibi, p. 17.120 Ibi, pp. 17-18.
58
como siempre, la mirada baja»121 (lei, tiene, come sempre, lo sguardo basso), dal
bisogno di un contatto fisico, a cui lei sfugge e quando, finalmente, riesce a sfiorarle
la mano, è «invadido por un placer que sabías parte de ti, pero que sólo ahora
experimentas pienamente, liberándolo fuera, porque sabes que esta vez encontrará
respuesta…»122 (pervaso da un piacere che non hai mai conosciuto, che sapevi
essere parte di te, ma che solo ora provi appieno, liberandolo, lanciandolo fuori
perché sai che, questa volta, incontrerà una risposta…). Aura segue, quindi, tutte le
regole dell’innamoramento: far credere all’uomo di non essere interessata, fuggire gli
sguardi e il contatto, fino al momento giusto in cui l’uomo è caduto nella trappola e
non può più tornare indietro. A quel punto è lei a ricercarne gli sguardi e a far sì che
il rapporto diventi più intenso. La loro unione avviene in un non luogo sospeso tra
sogno e realtà e il disco farinoso che lei gli dona dopo, può essere visto come
simbolo dell’unione, del voler condividere esperienze e sensazioni, ma anche come
presagio di una relazione malata, irreale che può sgretolare l’anima.
b) Felipe/Consuelo
Felipe è come un burattino nelle mani di Consuelo. Da subito si abitua alle
stranezze della vecchia. Non ha il coraggio di dirle che ama Aura e che la vuole
portare via dalla casa. Probabilmente questo accade perché Consuelo può essere
vista come il narratore di questo romanzo, colui che ordina a Felipe ciò che deve
fare o addirittura che gli impone cosa pensare. Lui si limita ad assecondarla in tutto.
c) Felipe/generale Llorente
Felipe è stato assunto per riordinare le memorie storiche e personali del generale,
quindi, è dapprima incuriosito da questa figura valorosa, poi il suo interesse diviene
121 Ibi, p. 22.122 Ibi, p. 23.
59
quasi morboso, soprattutto per quanto concerne la relazione con Consuelo, ed
infine, si immedesima così tanto da riconoscersi in lui e da riscoprire se stesso in lui.
d) Consuelo/Aura
Le due donne hanno un rapporto speculare, di dipendenza reciproca, anche se
Aura si sottomette al volere di Consuelo, che diviene ancora una volta una
“burattinaia”. Si muovono, ridono, mangiano nello stesso modo, sono una il clone
dell’altra, ma soprattutto hanno bisogno l’una dell’altra per sopravvivere: Aura esiste
solo per il volere della sua creatrice, ma Consuelo senza di lei morirebbe di tristezza,
dal momento che come lei stessa dice «a las viejas sólo nos queda…el placer de la
devoción»123 (a noi vecchie resta solamente…il piacere della devozione), che in
questo caso è una devozione alla magia nera e a un simulacro della gioventù
perduta. Esse sono due donne che hanno una missione: svelare a Felipe la sua vera
identità, assumendo, quindi, pienamente il ruolo imposto dalla società e cioè
accudire un uomo.
e) Consuelo/generale Llorente
Il loro deve essere stato un amore molto grande, ma anche molto infelice.
Avevano molti anni di differenza e, forse, è proprio per questo motivo che lui non la
rimproverava mai e la giustificava sempre in tutto, anche nella follia. Le lasciava
torturare i gatti, le permetteva di fare riti strani, pur di vederla felice; ma la verità è
che si sentiva in colpa per la sua sterilità: «sé por qué lloras a veces, Consuelo. No
te he podido dar hijos, a ti, que irradias la vida…» 124 (so perché alle volte piangi,
Consuelo. Non ho potuto dare figli a te, che irradi la vita). Ma, alla fine, prima di
123 Ibi, p 25.124 Ibi, p. 55.
60
morire, termina le sue memorie, condannandola, paragonandola, quindi, a Lucifero:
«Consuelo, le démon aussi était un ange, avant…»125 (Consuelo, anche il diavolo era
un angelo, prima).
2.8 COLORI E NATURA:
a) Rumori
I rumori possono essere classificati essenzialmente in due categorie: quelli che si
percepiscono all’esterno della casa e quelli interni ad essa. All’esterno troviamo i
rumori tipici di una città caotica, come Città del Messico: l’autobus, le macchine e i
vocii delle gente. All’interno, invece, sentiamo solo rumori anomali, artefatti, propri di
un climax spettrale: lo scricchiolio di mobili e pavimenti di un legno antico, lo squittire
dei topi e del coniglio, il miagolio di poveri gatti torturati, il fruscio delle vesti di Aura
(simbolo di sensualità e richiamo sessuale) ed infine la campanella che richiama gli
abitanti per la cena e che sembra un presagio funesto. Ad essi si può aggiungere la
tonalità della voce di Consuelo che, acuta e cadente, ricorda quella di una strega e il
fruscio della gonna di Aura, che è un forte richiamo sessuale.
b) Colori
Il colore che primeggia in tutto il racconto è il verde, a cui si può attribuire una
valenza positiva dal momento che rappresenta la natura, la vita, la giovinezza, la
speranza, la creazione, la fertilità, i rami verdi che universalmente simbolizzano
l’immortalità; ma può anche assumere una valenza negativa in quanto simbolo della
passione e in questo caso si tratta di una passione morbosa e alienante. Ed è, forse,
125 Ibi, p. 56.61
proprio per questo motivo che le lunghe tende appese nella casa sono di un verde
consunto.
Altri colori che compaiono nel romanzo sono quelli dei nastri che tengono insieme
le memorie del generale Llorente e della chiave che chiude il baule in cui sono
contenute. Questi colori sono:
- il viola: simbolo della sfortuna e spesso legato alla stregoneria (viola è il
nastro con cui è legata la chiave del baule);
- il giallo: colore legato alla virilità, alla gelosia e al coraggio, ma si dice che sia
anche il colore dei morti (con un nastro giallo sono legate le memorie
riguardanti le grandi imprese belliche del generale);
- l’azzurro: colore legato alla sfera femminile. Nella cultura azteca significa
divinità e simboleggia ciò che è al di fuori della coscienza 126. Significa, inoltre,
morte e rinnovamento127. È il colore che lega il blocco di documenti riguardanti
la relazione del generale con Consuelo. In particolare, qui, si racconta di
quando lui l’ha trovata mentre torturava i gatti e non è riuscito a rimproverarla :
«un día la encontró, abierta de piernas, con la crinolina levantada por delante,
martoriando a un gato y no supo llamarle la atención porque le pareció que tu
fasais ça d’une façon si innocent, par pur enfantillage e incluso lo excitó el
hecho, de manera que esa noche la amó, si le das crédito a tu lectura, con
una pasión hiperbólica, parce que tu m’avais dit que torturer les chats était la
manière à toi de rendre notre amour favorable, par un sacrifice
symbolique…»128 (un giorno la trovò, a gambe larghe, con la crinolina
126 Documento internet, di D. Liano in collaborazione con gli studenti dell’Università Cattolica, dal titolo Aura, consultabile sul sito: http://cepad. unicatt.it.127 Morire in acqua per alcune culture significa rinascere a nuova vita, purificati da ogni peccato.128 C. Fuentes, Aura, op. cit., p. 39.
62
sollevata davanti, mentre martorizzava un gatto e non seppe rimproverarla,
perché gli parve che tu fasais ça d’une façon si innocent, par pur enfantillage,
anzi il fatto, addirittura, lo eccitò tanto che quella notte la amò, se devi prestar
fede a quello che leggi, di una passione travolgente, parce que tu m’avais dit
que torturer les chats était la manière à toi de rendre notre amour favorable,
par un sacrifice symbolique…)129;
- il rosso: colore della vita, della battaglia, del coraggio e del sangue, come
simbolo esorcizzante della morte. Appare frequentemente all’interno
dell’opera: gli occhi del coniglio, le labbra di Aura, il sangue del crocifisso e
del capretto, le gengive sdentate di Consuelo, le trapunte, il nastro che lega
un blocco di documenti sono rossi. In particolare questo colore racchiude i
documenti che raccontano le ultime avventure del generale e della sua
sterilità che portò Consuelo a creare una copia, più giovane, di se stessa per
cercare di sconfiggere la morte. È il colore delle trapunte dei letti di Felipe e di
Consuelo, le prime sono di un rosso vivo, le seconde sono ormai sbiadite:
Felipe è giovane ha tutta una vita davanti, mentre Consuelo è ormai vecchia e
stanca. Il rosso è in molte culture considerato uno dei colori principali, in
quanto è associato alla vita e alla morte. È un colore femminile con un potere
centripeto di attrazione; è il colore del fuoco, della passione, del cuore, quindi,
legato ai sentimenti;
- il nero dell’oscurità e delle tenebre è spesso associato al male, al disordine e
ai cattivi, nel testo caratterizza l’ambiente in cui si sviluppa la vicenda;
129 Le parti in francese non vengono tradotte né nella versione originale, né nella versione italiana, la traduzione è mia C. B.: «[…] tu lo facevi in un modo così innocente, per puro infantile piacere […] perché tu mi avevi detto che torturare i gatti era il tuo modo di rendere il nostro amore positivo, favorevole, con un sacrificio simbolico…».
63
c) Odori
Un odore di marcio e di chiuso, frammisto a quello del sangue del capretto
squartato da Aura a cui si può aggiungere l’aroma inebriante prodotto dalle piante,
aleggia in tutta la casa.
d) Simboli
L’intero romanzo è ricco di simboli atti a richiamare le arti magiche e il mistero.
Già nel nome della protagonista - Aura - si può cogliere l’essenza del romanzo: aura
è, infatti, una luce che non si può vedere né toccare, ma solo percepire, che solo agli
dei è dato di vederla (Felipe viene considerato tale, dal momento che Aura gli lava i
piedi, come Magdalena fece a Cristo ed egli fece ai suoi discepoli), una
manifestazione irreale, dunque, esattamente come l’Aura raffigurata nel romanzo. Il
tema principale del romanzo è la contrapposizione tra l’elemento maschile e quello
femminile, per questo si ha un forte richiamo al simbolismo lunare. La luna, infatti, da
sempre è simbolo del principio femminile, così come della periodicità e del
rinnovamento: cresce, decresce e scompare, ma la sua morte non è mai definitiva. A
causa di questa eterna periodicità si crede che essa controlli tutti i piani cosmici retti
dalla legge sul divenire ciclico, come l’acqua, la pioggia, la vegetazione e la fertilità.
La luna può divenire un simbolo del tempo, misurabile attraverso le sue fasi
perfettamente regolari.
Nel romanzo sono disseminati simboli religiosi, che però servono solamente a
rendere ancora più netto il contrasto tra il sacro e il profano. Essi sono:
- il tappeto di lana rossa nella stanza di Felipe, che simbolizza il sacrificio di
Cristo. Il rosso è il sangue di Gesù e la lana è una rappresentazione
dell’agnello;
65
- l’azione di Aura di lavare i piedi a Felipe;
- la posizione di Felipe e Aura sdraiati come un Cristo crocifisso;
- Aura che si concede a Felipe: «se abrirá como un altar»130 (si aprirà come un
altare);
- le immagini di santi, martiri e demoni che sorridono;
- il sacrificio del capretto;
- il cerchio: ripetuto nei rituali magici, come forma del disco farinoso che Aura
dà a Felipe (simbolo di un rapporto inesistente, irreale e, appunto, farinoso),
può essere ricollegato alla forma dell’ostia e, quindi, divenire emblema del
sacrificio per la redenzione.
Inoltre, l’idea del “doppio”, della coppia, che vuole essere emblema dell’equilibrio,
ma che inevitabilmente risulta essere una manifestazione del conflitto tra il bene e il
male, aleggia in tutto il romanzo: Consuelo ha il suo doppio in Aura, Felipe in
Llorente e il risultato che ne consegue è un rapporto a quattro.
Infine, dobbiamo ricordare che la casa è come un grande utero, oscuro, umido
che tutela i suoi figli dal mondo esteriore, come la caverna platonica e, in questo
contesto, è significativo il suo essere situata nel vecchio centro: nel senso di essere
al centro dell’universo della storia, ma anche al centro di Città del Messico e al
centro della tradizione, della memoria storica e popolare.
e) Animali
Nel libro troviamo vari animali comuni con valenze simboliche:
- il cane, rappresentato in un batocchio consumato sulla porta della casa al
quale Felipe bussa «en vano con esa manija, esa cabeza de perro en cobre,
130 C. Fuentes, Aura, op. cit., p.47.66
gastada sin relieves: semejante a la cabeza de un feto canino en los museos
de ciencias naturales.»131 (invano con quel batacchio, quella testa di cane,
consunta, informe: somigliante alla testa di un feto canino nei musei di
scienze naturali), può essere letto come una rappresentazione di Anubis o
Cerbero, il famoso cane che aveva la funzione di accompagnare le anime dei
defunti nell’aldilà, oppure può essere considerato come una sorta di
guardiano della casa;
- il coniglio, o meglio la coniglia Saga, che spesso viene confusa con Aura,
perché di entrambe si dice più volte «volverá» (tornerà) e che, come lei,
appare e scompare e si frappone quando Felipe incontra per la prima volta
Consuelo e cerca di darle la mano, ma non tocca un’altra mano «sino la piel
gruesa, afieltrada, las orejas de ese objeto que roe con un silenzio tenaz y te
ofrece sus ojos rojos»132 (ma la pelle grassa, infeltrita, le orecchie di
quell’essere che rosicchia in un silenzio tenace e ti offre i suoi occhi rossi). Il
coniglio è per antonomasia un simbolo di sessualità e di fertilità ed è proprio
per questo che sta sempre vicino a Consuelo, che invece è ormai sterile.
Fuentes, infatti, lo utilizza per enfatizzare l’idea della reincarnazione di
Consuelo in una copia di se stessa più giovane, Aura. È significativo che si
chiami Saga, poiché la parola saga indica continuità;
131 Ibi, p. 10.132 Ibi, p. 12.
67
- I gatti, considerati animali femminili per eccellenza e da lunghe tradizioni
“fedeli compagni” delle streghe, qui vengono sacrificati in nome dell’amore.
Sono simbolo sia di amore, che di odio, infatti, le due donne li odiano e li
maltrattano, mentre i due uomini li amano;
- I topi, che rosicchiano i documenti, sono sintomo di un destino funesto che si
compie e di un deterioramento di ciò che ci circonda interiormente ed
esteriormente;
- Il capretto è da sempre considerato un animale sacrificale.
f) Piante
Le piante citate nel testo di Fuentes sono:
- belladonna: pianta erbacea perenne; i suoi frutti sono bacche nere velenose.
Si usano le sue radici a scopo terapeutico, poiché hanno proprietà
antispasmodiche ed anestetiche;
- dulcamara: cresce in luoghi umidi; le sue foglie emanano un odore
sgradevole. È velenosa, ad eccezione dei rami che vengono utilizzati per fare
dei decotti diuretici e depurativi;
- evònimo: genere di pianta con foglie caduche o persistenti; la corteccia, le
foglie e i frutti hanno forte azione purgativa. La polvere ottenuta dai frutti
disseccati è attiva contro i parassiti e la scabbia;
- giusquiamo: genere di piante erbacee, annuali o perenni. Tutte le specie sono
velenose. Ha proprietà sedative.
68
2.9 L’AUTORE.
Carlos Fuentes è nato a Panama nel 1928. è considerato
uno dei maestri della narrativa messicana e uno dei più
importanti romanzieri sudamericani contemporanei. Ha
vinto il Premio Cervantes, massimo riconoscimento per
un autore di lingua spagnola, e il Premio Príncipe de
Asturias de las Letras. Inoltre, è stato ambasciatore del
Messico in Francia. In tutte le sue opere si percepisce un
bisogno
forte di delineare un’identità nazionale. E in questo contesto Aura può essere visto
come un chiaro esempio dell’importanza data dall’autore al tempo della memoria e
del ricordo. Il protagonista, Felipe, è uno storiografo: i suoi ricordi appartengono alla
nazione, le date rappresentano la sua memoria. Del suo passato si conosce solo il
periodo vissuto in Francia grazie ad una borsa di studio. La sua ricerca di un’identità
popolare messicana ed il suo desiderio di riscrivere la storia, traspaiono nel progetto
di voler scrivere un saggio che racconti chiaramente le vere fasi della colonizzazione
spagnola in America. Ma per far ciò necessita di denaro e va a lavorare da
Consuelo, dove per ironia della sorte, sostituirà la propria debole identità con un
passato che aveva dimenticato, quello del generale Llorente e a cui accetterà di
rimanere legato per sempre facendo una promessa eterna ad Aura. Ed è per questo
che Aura può essere visto come un romanzo a cavallo tra lo storico e il fantastico e
non solo come l’ennesima versione sul tema eterno del vampiro.
Fuentes ritiene che la letteratura, al pari di tutte le altre manifestazioni artistiche,
si opponga alla realtà, trasformandola, e che in questo processo la realtà si riveli e si
69
affermi. Nella sua opera traspare una preoccupata e audace critica sociale. La sua
narrativa è ricca di simbolismi: la realtà descritta si illumina in un simbolo e
attraverso di esso svela la profondità interiore dei suoi personaggi poliedrici. Nel suo
modo di scrivere l’immaginazione letteraria si nutre di immaginazione storica. Non gli
interessa solo la verità che sta all’interno del testo, ma anche quella che sta fuori.
Secondo lui la letteratura propone la possibilità dell’immaginazione verbale come
una realtà non meno reale della narrativa storica e solo in questo modo alla
letteratura è concesso di rinnovarsi costantemente. S’impegna a ricostruire una
memoria folcloristica popolare attingendo dall’archivio delle leggende e dei miti
nazionali, rimanendo però sempre legato alla storia. Il suo paradigma novellistico si
articola con insistenza su di una poetica del Quijote, come spiega in un’intervista
concessa al critico Julio Ortega133: «quizá la aventura más extraordinaria de la
libertad del hombre moderno porque implica la posibilidad de conocer a un mundo
diverso, no de refugiarse en un mundo unificado, homologado como era el mundo
del medioevo, sino de salir a un mundo que no entiende y que no, no se entiende,
de ponernos a prueba frente al mundo, de salir de nostros mismos, de partecipar en
la historia y, sin embargo, de ofrecer siempre un camino fuera de la historia para ver
a la historia, y no servirnos de la historia. Para mí todo esto es novela» (forse
l’avventura più straordinaria della libertà dell’uomo moderno poiché implica la
possibilità di conoscere un mondo diverso, non di rifugiarsi in un mondo unificato e
omologato come era quello medievale, bensì di
entrare in un mondo che non si capisce e che non ci si spiega, di metterci alla prova
di fronte a questo mondo, di uscire da noi stessi, di partecipare alla storia e, senza
133 Documento internet dal titolo, Carmen Perilli: La novela en Carlos Fuentes - n°18 Espéculo, reperibile sul sito: www.ucm.es
70
dubbio, di offrire sempre un percorso esterno alla storia che ci permetta di vederla
dal di fuori e non di servirci della storia. Per me tutto questo è una novella).
Opere:
1954 Los días enmascarados
1958 La región más trasparente
1952 Las buenas conciencias
1962 La muerte de Artemio Cruz
1962 Aura
1964 Cantar de ciegos
1967 Zona sagrada
1967 Cambio de piel
1968 París, la revolución de mayo
1969 Cumpleaños
1969 La nueva novela hispanoamericana
1969 El mundo de José Luis Cuevas
1970 Todos los gatos son pardos (opera teatrale)
1970 El tuerto es rey (opera teatrale)
1970 Casa con dos puertas
1971 Tiempo mexicano
1971 Los reinos originario (teatro hispano-americano)
1972 Cuerpos y ofrendas: antología
1973 Chac Mool y otros cuentos
1974 Obras completas
1975 Terra nostra
71
1976 Cervantes o la crítica de la lectura
1978 La cabeza de la hidra
1978 Discursos
1980 Una familia lejana
1981 Agua quemada: cuarteto narrativo
1982 Orquídeas a la luz de la luna: comedia mexicana
1984 Juan Soriano y su obra
1985 Gringo viejo
1986 Palacio nacional
1986 Por boca de los dioses
1987 Cristóbal Nonato
1989 Constancias y otras novelas para vírgenes
1990 La campaña
1990 Valiente mundo nuevo
1990 Cerimonias de alba
1992 El espejo enterrado
1993 El naranjo o los círculos del tempo
1993 Geografía de la novela
1994 Diana o la cazadora solitaria
1994 El mal del tiempo I: Aura; Cumpleaños; Una familia lejana
1995 El mal del tiempo II: Constancia y otras novelas para vírgenes
1995 La frontera de cristal, una novela en nueve cuentos
1998 Tiempos y espacios
1999 Los años con Laura Díaz
72
2001 Istinto de Inez
2002 En esto creo
2003 La silla del águila
(tradotti in Italiano: L’ombelico della luna; Gli anni con Laura Díaz; Le relazioni
lontane e L’albero delle arance; Tutti i soli del Messico; La geografia del romanzo).
2.10 ANALISI DI ALCUNI PASSI FONDAMENTALI:
Il breve romanzo di Carlos Fuentes - Aura - è stato spunto di molti studi e
recentemente di alcuna polemica in Messico a causa del suo contenuto sacrilego e
profano. Analizziamone, quindi, alcuni passaggi134.
Dal primo capitolo.
«Leggi quell’annuncio: un’offerta del genere non la fanno tutti i giorni. Leggi e
rileggi l’annuncio. Sembra diretto a te, a nessun’altro. Distratto lasci che la cenere
della sigaretta cada dentro la tazza del tè che stavi bevendo in questo baretto
sudicio ed economico. Lo leggerai ancora. Cercasi storiografo giovane. Ordinato.
Scrupoloso. Che conosca il francese. Conoscenza perfetta scritta e parlata. Capace
di svolgere attività di segretariato. Età giovane, conoscenza del francese; preferibile
se ha vissuto in Francia per qualche tempo. Tremila pesos mensili, pasti e camera
confortevole, assolata, adatta a studio. Manca solo il tuo nome. Manca solo che le
lettere più nere dell’annuncio, quelle che risaltano di più, dicano: Felipe Montero, già
titolare di borsa di studio alla Sorbona, storiografo imbottito di dati inutili, abituato a
riesumare carte ingiallite, professore supplente in istituti privati, novecento pesos
134 Per questioni pratiche le parti verranno analizzate direttamente in italiano.73
mensili. Però, se leggessi proprio questo, ti insospettiresti, penseresti ad uno
scherzo. Donceles 815. Presentarsi di persona. Non c’è telefono.
Ritiri la borsa e lasci la mancia. Pensi che un altro storiografo giovane, in
condizioni simili alle tue, avrà già letto questo stesso annuncio, ti avrà preceduto e
soffiato il posto. Cerchi di dimenticartene mentre ti dirigi all’angolo della strada. […]
Vivrai questa giornata, identica a tutte le altre, e lo ricorderai solo il giorno
seguente, quando tornerai a sederti al tavolo del Cafetín, richiederai la colazione e
riaprirai il giornale. Arrivato alla pagina degli annunci, lì staranno, ancora una volta,
quelle parole in neretto: storiografo giovane. Ieri nessuno si è presentato. Leggerai
l’annuncio. Ti soffermerai sull’ultima riga: quattromila pesos»135.
Il libro inizia così: viene ripetuta per ben sette volte una voce del verbo “leggere”
allo scopo di far immedesimare il lettore col protagonista, come se il narratore si
rivolgesse direttamente a lui e gli ordinasse di leggere non solo il libro, ma l’annuncio
che lo porterà ad entrare nella casa. Un annuncio che pare diretto proprio a lui e a
nessun altro. È un metatesto, un testo nel testo, un testo che si legge che
autoreferenzialmente parla di lettura e quasi obbliga il lettore a leggerlo.
Si tratta di un modo insolito per iniziare un libro e presentarci il protagonista e di
introdurci alla storia, poiché in questo modo il lettore è praticamente “catapultato” al
suo interno: non gli si chiede di leggere in maniera distaccata, ma si pretende di
trasformarlo nel protagonista, facendolo immedesimare totalmente in ciò che gli si
racconta.
135 C. Fuentes, Aura, op. cit., pp. 7-9.74
Dal secondo capitolo.
«Guardi l’orologio, dopo aver fumato due sigarette, steso sul letto. In piedi ti metti
la giacca e ti passi il pettine nei capelli. Spingi la porta e cerchi di ricordare il
cammino percorso salendo. Vorresti lasciare la porta aperta, affinché la luce della
lampada ti guidi: impossibile, perché le molle la chiudono. Potresti passare il tempo
facendo oscillare questa porta. Potresti prendere la lampada e scendere con quella.
Ci rinunci, perché ormai sai già che questa casa è sempre immersa nell’oscurità.
Sarai costretto a imparare a riconoscerla al tatto. […] Scendi contando gli scalini:
un’altra abitudine immediata che ti avrà imposto la casa della signora Llorente»136.
Il secondo capitolo è una sorta di consolidamento delle regole della casa: le porte
sono tutte a molla, non hanno chiavi e la casa è interamente avvolta dalle tenebre.
Ci sono degli accorgimenti per muoversi nel buio: contare i passi e imparare a
riconoscere tutto al tatto. Vedere, quindi, con la mente, non più con gli occhi, o
meglio ancora, iniziare ad usare il terzo occhio, che è, appunto quello
dell’immaginazione.
Dal terzo capitolo.
«Leggi quella stessa notte le carte ingiallite, scritte con un inchiostro color senape;
a volte bucate, a causa di qualche granello di cenere di tabacco lasciatovi cadere
sopra distrattamente, macchiate dalle mosche. […] Niente che altri non abbiano già
raccontato. Ti spogli pensando al deforme capriccio della vecchia signora, al valore
ingannevole che attribuisce a queste memorie. Ti metti a letto sorridendo, pensando
ai tuoi quattromila pesos.
136 Ibi, pp. 19-20.75
Rivedi, durante tutto il giorno le carte, mettendo in bella copia i pezzi che pensi di
utilizzare, riscrivendo quelli che ti sembrano deboli, fumando una sigaretta dietro
l’altra e riflettendo sul fatto che devi distribuire bene il tuo lavoro, affinché la pacchia
si prolunghi il più possibile. Se riesci a risparmiare almeno dodicimila pesos, potrai
passare quasi un anno a dedicarti alla tua opera, sempre rimandata, quasi
dimenticata. Il tuo saggio panoramico sulle scoperte e sulle conquiste spagnole in
America. […] Se il prezzo della tua libertà creativa è accettare tutte le manie di
questa vecchia signora, puoi pagarlo senza difficoltà.»137.
Felipe è ancora del tutto ignaro del fatto che non uscirà mai più dalla casa, perché
scoprirà di appartenerle, di essere una componente importante: un tassello della
memoria storica di questo mondo. Questo capitolo vuol essere una
rappresentazione dell’uomo mediocre che c’è in ognuno di noi, che, pur di ottenere
ciò che gli serve, cede ai compromessi. Lui crede siano compromessi minimi, crede
si tratti solo di assecondare i capricci di una vecchia pazza, ma presto si accorgerà
che ciò che gli viene chiesto è di rinunciare a una vita nel mondo per rimanere
rinchiuso in un microcosmo cristallizzatosi nel passato.
Dal quarto capitolo.
«Nel richiudere la cartella, ormai, sai che per questo Aura vive nella casa: per
perpetuare l’illusione di gioventù e di bellezza della povera anziana signora, divenuta
folle. Aura, chiusa come uno specchio, come un’icona in più su quel muro di pietà
religiosa, tutto ricoperto di ex voto, di cuori imbalsamati, di demoni e di santi dipinti.
Accantoni le carte e scendi giù, pensando all’unico luogo in cui potrai trovare Aura
la mattina: il luogo che le avrà assegnato quella vecchia avara.
137 Ibi, pp. 27-31.76
La trovi, si, in cucina, intenta a sgozzare un capretto: il vapore che si alza dal collo
squarciato, l’odore del sangue versato, gli occhi duri e aperti dell’animale ti danno la
nausea: dietro questa visione si perde quella di una Aura malvestita, con i capelli
arruffati, macchiata di sangue, che ti guarda senza riconoscerti, proseguendo nel
suo lavoro di macellaio. […] Corri attraverso il vestibolo, la sala da pranzo, fino alla
cucina, dove Aura sta spellando il capretto lentamente, assorta nel suo lavoro, senza
avvertire la tua presenza né le tue parole, guardandoti come se fossi d’aria.
Sali lentamente, vai nella tua stanza, entri, ti getti contro la porta come se temessi
di essere stato seguito da qualcuno: ansante, sudato, oppresso da un’impotenza
che ti viene dalla spina dorsale gelata, da una certezza che è in te: se qualcosa o
qualcuno entrasse, non potresti opporre resistenza, ti allontaneresti dalla porta, ti
metteresti alla sua mercé. Febbrilmente afferri la poltrona, la collochi contro quella
porta senza serratura, vi spingi contro anche il letto, fino a sbarrarla, e ti ci getti
sopra esausto e abulico, con gli occhi chiusi e le braccia strette intorno al cuscino: il
cuscino che non è tuo: nulla è tuo…
Cadi in quel sopore, precipiti fino al fondo di quel sogno che è la tua unica via di
uscita, la tua unica resistenza alla follia. “È pazza, è pazza” ti ripeti per
addormentarti, rievocando con le parole l’immagine della vecchia signora che nel
vuoto spellava il capretto di aria, con il suo coltello d’aria. “È pazza”.»138.
In questo capitolo Felipe inizia a capire di essere rinchiuso in un luogo che non gli
appartiene, dove niente è suo. Inoltre, inizia a percepire che Aura è solo un riflesso
di un qualcosa che non esiste nella realtà. Aura è mossa da Consuelo. È solo una
138 Ibi, pp. 39-41.77
proiezione di un qualcosa che fu, un’illusione, nient’altro; ma lui non è in grado di
staccarsi da questo riflesso che lo ha totalmente stregato.
Dal quinto capitolo.
«E dopo l’ultimo foglio i ritratti. Il ritratto di quel gentiluomo anziano, in divisa
militare: la vecchia fotografia con scritto in un angolo: Moulin, photographe, 35
Boulevard Haussmann e la data 1894. E la fotografia di Aura: di Aura con i suoi
occhi verdi, capelli neri ricci, raccolti, appoggiata a quella colonna dorica, con il
paesaggio dipinto sullo sfondo: il paesaggio di Lorelei del Reno, il vestito
abbottonato fino al collo, il fazzoletto in mano, il guardinfante, Aura e la data 1876,
scritta con l’inchiostro bianco e dietro, sul cartoncino piegato del dagherrotipo, quella
calligrafia di gallina: Fait pour notre dixième anniversaire de marriage, e la firma con
la stessa calligrafia, Consuelo Llorente. Vedrai, nella terza fotografia, Aura in
compagnia del vecchio, ora in borghese, tutti e due seduti su una panchina, in un
giardino. La foto si è scolorita un po’: Aura non apparirà così giovane come nella
prima foto, però è lei, e lui, è… sei tu.
Fissi gli occhi su quella fotografia, la alzi verso la luce: copri con una mano la
barba bianca del generale Llorente, te lo immagini con i capelli neri e sempre ritrovi
te stesso, perduto, dimenticato, però tu, tu, tu.
La testa ti gira, ossessionato dal ritmo di quel valzer lontano che rievoca
l’immagine, il tatto, l’odore di piante umide e profumate: cadi esausto sul letto, ti
tocchi le guance, gli occhi, il naso, come se temessi che una mano invisibile ti
avesse strappato la maschera che hai portato per ventisette anni: quei lineamenti di
78
gomma e di cartone che per un quarto di secolo hanno coperto la tua vera faccia, il
tuo viso antico, quello che hai avuto prima e che avevi dimenticato.»139.
È interessante notare il modo in cui Felipe apprende la verità sul suo vero essere:
guardando delle vecchie fotografie. È singolare che la verità gli appaia così, in una
cristallizzazione del tempo, un fermo immagine di un ricordo che aveva smarrito nel
labirinto della mente. Dalle foto scaturisce una vera e propria epifania joiciana, basta
una rapida occhiata per far cadere una maschera che si era ben consolidata con il
passar degli anni. A Felipe gira la testa, è stordito, ma poche righe dopo va incontro
al suo destino senza la minima opposizione. Fino alla fine rimane un burattino nelle
mani di Consuelo; è un personaggio che non solo non evolve nel corso della storia,
ma anzi si lascia sopraffare del tutto dagli eventi.
2.11 ANALOGIE CON ALTRE OPERE DI FUENTES.
Recentemente Fuentes ha iniziato a pubblicare raccolte contenenti i suoi romanzi,
raggruppandoli per affinità tematiche, ambientali, o narrative, senza badare alla data
in cui sono stati pubblicati per la prima volta. Nel primo volume della raccolta El mal
del tiempo140, sono contenuti tre romanzi, tra cui Aura. Ed è singolare notare come a
conclusione delle tre opere ci sia un dossier critico, scritto dall’autore al fine di fornire
al lettore non solo una spiegazione dei fattori che possono creare delle affinità tra le
sue opere, ma anche una breve storia di come è nata in lui l’idea del personaggio di
Aura. L’idea gli venne nel rivedere una sua amica dopo sei anni molto diversa da
come la ricordava «la muchacha que yo recordaba de catorce años y que ahora
tenía
139 Ibi, pp. 56-57.140 C. Fuentes, El mal del tiempo, volumen I, Alfaguara, Madrid 1994.
79
veinte sufrió las mismas transformaciones que la luz convocada a través de los
cristales de las ventanas; ese umbral entre la sala y la recámara se convirtió en el
umbral entre todas las edades de la muchacha; la luz que luchó contra las nubes
también luchó contra su carne, la tomó, la dibujó, le otorgó años de sombra, le
esculpió una muerte en la mirada, le arrancó la sonrisa de los labios, le languideció
la caballera con la tristezza flotante de la locura: era otra, fue otra, no la que será,
sino la que, siempre, está siendo.
La luz se adueñó de esa muchacha, la amó antes que yo, y yo sólo fui, esa
tarde, “en el reino del amor huésped extraño” y supe que los ojos del amor pueden
mirarnos también con “muerte hermosa”.
La mañana siguiente empecé a escribir Aura en un café cerca de mi hotel en la
rue de Berri.»141 (la ragazzina di quattordici anni che ricordavo e che ora aveva venti
anni aveva sofferto le stesse trasformazioni della luce filtrata attraverso i vetri delle
finestre; il passaggio tra la sala e il retrocamera si convertì nello scorrere di tutte le
età della ragazza; la luce che lottò contro le nubi lottò anche contro la sua carne, la
prese, la disegnò, le diede anni d’ombra, le scolpì la morte sul viso, le strappò il
sorriso dalle labbra, le indebolì la chioma con la tristezza della pazzia: era un’altra, fu
un’altra, non quella che sarà, bensì quella che è da sempre.
La luce si impadronì di questa ragazza, la amò prima di me, e io solamente
questo
pomeriggio fui “nel regno dell’amore ospite estraneo” e compresi che gli occhi
dell’amore possono guardarci anche con “la bellezza della morte”.
141 C. Fuentes, Cómo escribí algunos de mis libros, El mal del tiempo, op. cit., p. 278.80
La mattina seguente iniziai a scrivere Aura in un caffè nei pressi del mio hotel in
via Berri).
Prosegue poi, raccontando che qualche anno prima ci aveva già pensato, grazie
ad una esclamazione di Buñuel: «¿Y si cruzar un umbral pudiésemos recuperar de
un golpe la juventud, ser viejos de un lado de la puerta y jóvenes de nuevo apenas
la cruzamos?»142 (e se al varcare una soglia potessimo recuperare di colpo la
gioventù, essere vecchi da un lato della porta e nuovamente giovani al varcarla?),
cui aveva associato film e romanzi che parlano di streghe in grado di esorcizzare il
passare del tempo.
A differenza di quello che accade nei libri di James, Dickens e Pushkin, dove
l’uomo seduce sia le giovani che le donne più mature per poi tradirle, in Aura tutte le
donne, sia giovani che vecchie, uniscono le proprie forze per soggiogare l’uomo.
All’interno di questo dossier critico, Juan Goytisolo143 paragona Aura a
Cumpleaños, sostenendo che, nonostante siano separati da otto anni, essi vadano
interpretati insieme poiché sono complementari e si influenzano a vicenda:
Cumpleaños dà una ragione di essere ad Aura, mentre Aura risulta essere la chiave
di lettura di Cumpleaños. In entrambe le storie Aura e Nuncia ripetono
meccanicamente delle azioni in cucina senza badare a ciò che le circonda come se
fossero degli automi. Entrambe le case sono popolate da animali inquietanti; in
entrambe le storie i personaggi invecchiano vertiginosamente. In Aura abbiamo uno
sdoppiamento del tu, così come in Cumpleaños si ha uno sdoppiamento dell’io. In
entrambe le storie il tempo non scorre seguendo leggi terrene. I due testi
s’intrecciano, si mischiano fino a confondersi: grazie ad Aura apprendiamo come
142 Ibi, p. 279.143 J. Goytisolo, A propósito de Aura y Cumpleaños, El mal del tiempo, op. cit., pp. 288-293.
81
leggere Cumpleaños, in cui tra l’altro troviamo l’immagine speculare ed opposta di
Aura. In conclusione, Goytisolo definisce i romanzi di Fuentes come grandi poemi
metafisici. Tale concetto viene ripreso nella parte conclusiva del dossier critico da
Guy Davenport144: «a la mitad de esta metafísica historia de fantasmas, el lector cae
presa de una deliziosa confusión. ¿Se halla acaso en un mundo imaginario
semejante al de Henry James, en el que los fantasmas son proyecciones
psicológicas de estados internos, o ha sido conducido hasta los límites de la relidad
en los que la razón colinda con el mito y la fantasía, tal como ocurre en los relatos
de Balzac, Dumas padre y Poe, o lo que sucede es más bien que la realidad ha sido
hasta tal punto trastocada en irrealidad - como en la obra de Luis Buñuel, a quien
está dedicado este libro - que los sentidos y la conciencia no pueden menos que
agudizarse?»145 (a metà di questa storia metafisica di fantasmi, il lettore precipita in
un delizioso stato confusionale. Si ritrova in un mondo immaginario simile a quello di
Henry James, in cui i fantasmi sono proiezioni psicologiche dello stato interiore, o è
stato condotto fino ai confini della realtà laddove la ragione confina con il mito e la
fantasia, così come succede nei racconti di Balzac, Dumas padre e Poe, oppure ciò
che accade è più che altro che la realtà sia stata trasferita nell’irreale - come
nell’opera di Luis Buñuel, a cui è dedicato questo libro - che i sentimenti e la
coscienza non possano fare a meno di agonizzare?). Continua descrivendo ciò che
caratterizza le opere di Fuentes: il suo modo di rendere gli opposti complementari e
indispensabili gli uni per gli altri. Carlos Fuentes è, infatti, capace di creare una
perfetta unione di contrari in tutti i suoi libri: il sensualmente bello vs l’orripilante;
144 G. Davenport, La novela: unión de contrarios, El mal del tiempo, op. cit., pp. 294-296.145 Ibi, p. 294.
82
l’innocenza vs il male; il passato vs il presente, il conosciuto vs l’ignoto; la
naturalezza
vs la cultura; rimanendo attaccato ad un realismo molto forte, che viene utilizzato
come mezzo per poter penetrare nella profondità del passato, perché senza di esso
non potremmo mai comprendere il futuro.
83
3.
COME SI ANALIZZA UN FILM?
3.1 ALLE ORIGINI DEL FILM.
Antonio Costa, nel suo libro Saper vedere il cinema146, alla domanda che “cos’è il
cinema?”, risponde che, a seconda della prospettiva in cui ci si pone, si avrà una
risposta differente. Del cinema, infatti, si possono dire molte cose: che è tecnica,
industria, arte, spettacolo, divertimento, cultura. Dipende solo da che punto lo si
guarda.
Diversamente da altre opere d’arte, «i film si compongono di materie impalpabili e
sfuggenti come la luce e l’ombra»147, quindi, come sosteneva Pasolini: «il cinema, si
sa, non esiste. È una mera deduzione. Esistono solo i film, è da essi che si deduce
l’esistenza del cinema»148. Il cinema si compone di film e, quindi, per capirlo, bisogna
analizzare questi ultimi. Esso non parla un unico linguaggio, ma si articola in svariati
linguaggi: un cartone animato, un horror o una commedia utilizzano senz’altro
linguaggi differenti.
La prima età del cinema (1895-1927) è quella in cui i film non avevano ancora
imparato “a parlare”, ma riuscivano comunque ad avere un proprio linguaggio 146 A. Costa, Saper vedere il cinema, Bompiani, Milano 2000, sull’argomento vd. pp. 1-26. 147 D. Ciolfi e D. Sala, Ma come si legge un film?, op. cit., p. 6.148 Ibidem.
84
abbastanza ben articolato. Nel 1927 esce Il cantante di jazz149, il primo film con
sequenze parlate e cantate. Si tratta di una svolta epocale che rivoluziona
totalmente il cinema: la nascita del film narrativo a tutti gli effetti, capace, non solo di
raccontare, mostrando, ma anche di raccontare, senza per forza dover mostrare
(come avveniva già nel teatro). Il suo essere parte da lontano e se si pensa a quel
“cinema” prima del cinema che è stato il mito orale, non ancora fissato dalla
scrittura, si può affermare che il suo scopo sia esattamente quello di narrare, cioè
costruire un senso in grado di stendere “ponti di parole” tra più individui.
Nel 1895 i fratelli Lumière diedero inizio ad un processo che permise agli uomini
di bearsi di storie “false”, a cui però credono con passione. Le storie narrate devono,
per ciò, riferire di dei e dee, di re e regine, solo che, dovendo essere soggetti
imitabili e in cui ci si possa immedesimare, devono “traslocare” dall’Olimpo ad
Hollywood. Essenziale, in questa creazione di modelli e biografie, è il rapporto che,
di narrazione in narrazione, di film in film, si viene a creare tra chi racconta e chi
ascolta. E questo è, forse, il fattore che maggiormente accomuna il mito arcaico al
moderno racconto per immagini: «questa “tradizione” ed “elaborazione” di storie che
attraversano il tempo, mutando e però restando sempre uguali a se stesse (com’è
evidente nel genere cinematografico)»150; con l’unica differenza che il cinema ha fatto
in modo che «gli uomini e le donne, insieme, eppure ognuno per se stesso, hanno
conosciuto, spesso migliorato e in qualche caso peggiorato il mondo guardando e
“guardandosi” nello specchio dello schermo, vera e propria coscienza di massa, e
fors’anche coscienza delle masse. Una coscienza, questa, che oggi appare sempre
più smarrita nell’onnivoro specchio plebeo delle televisioni, nel loro racconto “basso”,
149 A. Crosland, Il cantante di jazz, Usa 1927.150 R. Escobar e L. Paini, Premessa, Riflessi nel grande schermo, Il Sole 24 ore s.p.a., Milano 2000, p. 12.
85
nelle loro storie inverosimili che tuttavia pretendono sempre più di “essere” la nostra
verità
quotidiana»151. Risulta molto difficile non pensare che sia in atto un’altra mutazione,
dove il cinema si sta trasformando nel nostro passato e le televisioni stiano
diventando, o forse lo sono già diventate, il nostro presente, perché purtroppo oggi il
cinema si vede soprattutto in televisione. E, quindi, lo si vede male: immagini nate
per essere viste su di un grande schermo, in una sala buia, sono presentate in un
formato ridotto, tagliate ai bordi, accelerate (25 fotogrammi anziché 24 al secondo),
sporcate da pubblicità e messaggi in sovrimpressione e offerte con grande
abbondanza e dispersione allo sguardo distratto dello spettatore televisivo. D’altro
canto questo significa anche che, oggi, di cinema, se ne può vedere in quantità
maggiore che in passato.
3.2 ELEMENTI PER UNA ANALISI.
Un film è, per un qualunque spettatore, così come lo è un romanzo, innanzitutto
una storia complessa ed inverosimile, ricca di incontri straordinari, di eroi troppo
perfetti e di eroine troppo belle per essere vere: una “fiction”. Ma per chi lo analizza
è qualcosa di molto più complesso: un conglomerato di fattori e persone che
interagiscono tra loro; di persone, in quanto il film avvicina spettatore, narratore e
personaggio, cercando di farli coincidere in una coscienza comune e ponendosi tra
lo spettatore e la realtà che gli vuole mostrare, interpretandola per lui, in maniera
maggiore di quanto è concesso ad un romanzo.
151 Ibi, pp. 12-13.86
Come il romanziere, anche il regista, o meglio, l’equipe di persone che lavora alla
realizzazione di un film, non si può limitare a collegare degli episodi tra loro, ma deve
dar vita a dei personaggi e ad un set credibile, inseriti in un montaggio dal ritmo
adeguato alla storia che si vuole rappresentare.
Precedentemente abbiamo definito la sceneggiatura come il primo passo verso il
film, dal momento che un film, di solito, è il risultato di almeno un’idea coerente
elaborata in forma scritta; e dal momento che: mentre in letteratura la scrittura è un
punto di arrivo, nel cinema appare come una fase intermedia; mentre in letteratura la
scrittura è un fine, nell’audiovisivo è uno strumento importante, ma gregario; mentre
in letteratura il testo scritto è l’unica materializzazione tangibile e persistente di un
processo creativo, al cinema è, invece, una sorta di forma effimera destinata a
scomparire dietro e “dentro” l’oggetto film. Dopo aver scelto la sceneggiatura, il set e
istruito gli attori su quello che devono fare, il regista inquadra la scena e dà il ciak,
comandando che la macchina da presa cominci a riprendere. La porzione di realtà
che rimarrà impressa sulla pellicola, da questo momento fino a che non sarà dato lo
stop, si chiama inquadratura. L’inquadratura costituisce l’unità minima della scrittura
filmica. La natura stessa della macchina da presa fa sì che l’inquadratura sia
costretta a delimitare la realtà ripresa dentro una cornice ideale e, quindi, che non
tutto avvenga al suo interno. Nei film capita di sovente che una luce, un rumore o un
oggetto raggiungano il protagonista da quello spazio virtuale, che viene chiamato
fuoricampo. Il fuoricampo ha il potere di farci ricostruire ciò che presupponiamo
essere intorno all’inquadratura, come ad esempio, in una scena di pioggia ci
immaginiamo che sopra di essa ci sia un cielo con delle nubi e non un enorme
87
innaffiatoio. Senza di questa sorta di “illusione volontaria”, non potremmo credere ad
un film, ma soprattutto non potremmo immedesimarci nei protagonisti.
Nel caso particolare dell’immedesimazione dello spettatore, svolgono un ruolo
importante le inquadrature soggettive, che hanno il potere di “farci vedere con gli
occhi di un personaggio”. Solitamente si alternano ad inquadrature oggettive, che
hanno la funzione di mostrare allo spettatore il personaggio col quale si vuole che si
identifichi.
Le inquadrature possono essere definite anche in base alla distanza, all’altezza
ed all’angolazione della macchina da presa rispetto alla scena. Nel cinema i piani di
ripresa possibili sono infiniti, tuttavia, è possibile classificarli:
- C.L.: campo lungo, è un’inquadratura dell’intera scenografia in cui si svolge
l’azione. Data la notevole distanza a cui è collocata la cinepresa, non è
possibile distinguere i vari personaggi;
- C.M.: campo medio, ritrae un gruppo di personaggi distinguibili e riconoscibili;
- F.I.: figura intera del personaggio;
- P.A.: piano americano, è un’inquadratura in cui il personaggio viene ripreso
dal ginocchio in su;
- P.P.: primo piano, il personaggio può essere ripreso da mezzobusto in su;
- P.P.P.: primissimo piano, inquadratura del solo volto;
- DETT. o PART.: dettaglio o particolare, qualche autore riferisce il primo a
oggetti e il secondo alla figura umana, indica, ad ogni modo, un particolare o
del volto o di un oggetto, come ad esempio, la bocca o la maniglia di una
porta.
88
Questa classificazione prevede che la macchina da presa sia fissa, ma essa può
anche muoversi, dando origine ai seguenti movimenti:
- panoramica, è un movimento in cui la cinepresa viene fatta ruotare sul proprio
asse in senso orizzontale o verticale, ottenendo per l’appunto di abbracciare
un intero panorama;
- carrellata, ne esistono vari tipi, realizzati fissando la macchina da presa ad un
carrello che corre sui binari; può accompagnare il movimento di un
personaggio, divenendo, quindi, laterale (se lo segue di fianco) o a precedere
(se lo precede inquadrandolo frontalmente) o a seguire (se lo riprende di
spalle);
- travelling, con questo termine si intende un movimento di camera complesso,
ottenuto montando la cinepresa su una gru o su una dolly. In questo modo
essa può sia ruotare sul suo asse che muoversi come una carrellata, nonché
alzarsi ed abbassarsi.
Esistono, inoltre, delle apparecchiature speciali come: la steadycam, è una
cinepresa “indossabile”; il louma, è un braccio meccanico snodabile, simile al dolly,
però più agile e leggero ed, infine, la macchina a mano.
Ogni inquadratura ha le caratteristiche di una parola o di una frase e va inserita in
un insieme narrativo e questo avviene in fase montaggio poiché unire delle
inquadrature significa, appunto, dar vita a un progetto espressivo ben preciso,
privilegiando le unità spaziali e temporali che si reputano più significative. Nella
maggior parte dei casi il montaggio è ellittico (comporta una costruzione temporale
che omette tutto ciò che non si vuole mostrare allo spettatore), ma può anche essere
alternato (si mostrano avvenimenti che si svolgono simultaneamente, ma in luoghi
89
differenti, usato per far acquisire allo spettatore una conoscenza dei fatti superiore a
quella detenuta dai personaggi).
In una scenografia ben fatta tutto questo è ben esplicitato, l’unica cosa di cui,
forse, si avverte la mancanza è un’adeguata descrizione dell’universo sonoro del
film. Infatti, le indicazioni sonore sono sempre molto generiche e si riducono alle
battute degli attori, alla colonna sonora ed «effetti speciali sonori sono spesso
confusi con quella che viene genericamente chiamata musica elettronica»152.
Scenografia, architettura e passaggio sono elementi profilmici, cioè dotati di
un’esistenza e di una significatività preesistente alla ripresa cinematografica, «non
solo: si tratta di termini che, nella nostra cultura, designano arti della
rappresentazione anteriori al cinema: la scenografia rinvia al teatro ed è
strutturalmente legata alla pittura; l’architettura, oltre a produrre spazi dotati di una
funzionalità, è sempre “anche” rappresentazione; il paesaggio non costituisce solo
un genere pittorico, né è solo il modo in cui una cultura vede la natura, è
propriamente la forma in cui una società organizza il rapporto tra natura e cultura (un
insediamento umano, da un villaggio di capanne ad una metropoli, modifica il
paesaggio; per estensione chiamiamo paesaggio l’insieme di queste
modificazioni)»153. Ciò nonostante essi non possono costituire lo spazio filmico in sé,
anche se, una volta ripresi, diventano suoi elementi costitutivi, poiché esso è
rappresentato dal loro prodotto.
152 Sottolinea A. Costa, Saper vedere il cinema, Bompiani, Milano 2000, p. 224.153 Ibi, p. 229.
90
3.3 ANALISI DI UN FILM: La strega in amore di Damiano Damiani154.
rasenta la pazzia.
Dietro generosa ricompensa Sergio, un giornalista in
crisi sentimentale, accetta di riordinare le memorie del
marito defunto di un’anziana e misteriosa signora. Si
trasferisce, quindi, nel palazzo dove vive la donna e qui,
tra stanze infinite e vecchi codici polverosi, conosce
l’affascinante Aura, che dice di essere la nipote della
vecchia signora. In realtà, la giovane donna, di cui subito
Sergio si innamora, non è altro che la padrona di casa
stessa che si sdoppia in spoglie giovanili. L’uomo cade in
potere della strega e
Alla fine riesce a liberarsi e a distruggere la casa e la strega, dandogli fuoco. Il film
è tratto dal romanzo Aura del messicano Fuentes, sceneggiato con Ugo Liberatore.
La scelta di tale soggetto, secondo Morandini, indica «l’ambizione di fare un film
macabro-fantastico di qualità, quasi una moderna variazione sulla favola di Circe. Lo
conferma il ricorso a G. M. Volonté, come precedente vittima e schiavo della
misteriosa e vampirica, che lo stesso Sergio uccide. Ma sono ambizioni che si
riducono a velleità»155.
154 D. Damiani, La strega in amore, Italia 1967.155 L. Morandini, L. Morandini, M. Morandini, Il Morandini, Zanichelli, Bologna 2001, p. 1297.
91
3.4 L’HORROR.
Dal punto di vista quantitativo, la produzione di film fantastici e horror in Italia
conosce tra il 1960 e il 1965 un piccolo ma significativo boom: una trentina di titoli,
che non ottengono grande successo commerciale, ma segnano l’inizio di
un’attenzione fino a quel momento inesistente nel cinema e nella cultura degli
italiani. All’origine di questo nuovo filone c’è il successo commerciale di alcune
piccole case di produzione inglesi come la Hammer, che con i suoi horror invade i
mercati di tutto il mondo, e americane come l’American International Pictures.
Nonostante siano programmati solitamente nelle sale popolari e nei giorni feriali e
siano per lo più vietati ai minori di diciotto anni, questo tipo di film riesce a suscitare
un certo interesse: come era già avvenuto per lo storico-mitologico e come avverrà
poi per il cinema di spionaggio e i western, i produttori di film a basso costo non ci
pensano due volte ad aprire una nuova linea di produzione e a far cimentare registi
ed attori italiani in un genere fino a quel momento completamente sconosciuto.
Una caratteristica dell’horror italiano è che le forze del male siano quasi sempre
personificate da una donna, la quale ha una carica sessuale più accentuata nei film
italiani che nei film anglosassoni, ha generalmente un corpo da maggiorata e un
affascinante volto irregolare con incastonati due grandi occhi e spesso viene
contrapposta a un altro personaggio femminile che è la vittima predestinata.
92
È molto frequente il tema del vampiro costruito come un melodramma della storia
di una donna che non vuole invecchiare, che usa la propria bellezza come strumento
di potere, seducendo gli uomini che la circondano, e ricorrendo persino all’omicidio
per mantenere la sua bellezza.
Piace molto la struttura visionaria del racconto, quasi un incubo nel quale lo
spettatore viene chiamato a tuffarsi; colpisce la ricerca visiva, fatta di una nitida
fotografia come di effetti speciali a buon mercato, capaci però di conferire un
particolare fascino alla storia; stupisce che la costruzione delle scene di terrore
giochi più su montaggio e fotografia che su effetti sonori e musicali.
Con il 1962, l’horror italiano si delinea sempre più chiaramente come il genere
cinematografico all’interno del quale trovano visibilità le perversioni sessuali e i primi
corpi femminili senza veli fino a quel momento inediti per il cinema nazionale. Ed è
per questo che nonostante non ottengano un enorme successo rappresentano la
cartina tornasole di certi mutamenti avvenuti all’interno della società italiana.
Anche l’horror a causa dei suoi stereotipi si presterà alla parodia. Tra il 1965 e il
1969 due tendenze principali all’interno di questo genere si vanno consolidando: da
una parte quella che deriva dalla tradizione gotica, che marca in modo netto la
maggior parte delle opere, e dall’altra quella che sposta la collocazione temporale
delle vicende nel futuro, dando origine a una commistione tra horror e fantascienza
che gioca sia sulla paura del soprannaturale che sull’angoscia per ciò che ci attende
nel futuro. Occorre sottolineare, però, che il filone horror-fantascientifico costituisce
solo una parentesi minoritaria all’interno dell’horror italiano e che il gotico si afferma
come tendenza imperante in quel periodo. Spesso il gotico è ambientato, sul finire
dell’800 o al volgere del secolo, in castelli e ville infestate da creature malefiche.
93
Questo permette ai registi di utilizzare tutta l’iconografia normalmente associata a
questo genere sviluppatosi in ambito anglosassone: ne sono un esempio i costumi
sontuosi, i castelli, le ville, le carrozze, i quadri e le statue. I castelli o le ville sono
spesso situati in villaggi apparentemente sperduti e dalla topografia incerta, risultano
come luoghi deputati allo svolgersi di vicende dell’orrore di questo periodo.
3.5 IL CAST.
Titolo: La strega in amore
Produttore: Alfredo Bini per Arco Film
Soggetto: dal romanzo Aura di C. Fuentes
Sceneggiatori: Ugo Liberatore, Damiano Damiani
Direttore
fotografia:
Leonida Barboni
Musica: Luis Enriquez Bacalov
Produzione - anno: Italia - 1967
Regia: Damiano Damiani
Interpreti: Sarah Ferrati (Consuelo Llorente)
Richard Johnson (Sergio Logan)
Gian Maria Volonté (Fabrizio)
Rosanna Schiaffino (Aura)
Margherita Guzzinati (Marta)
Ivan Rassimov (il terzo bibliotecario)
Vittorio Venturosi (Dr. Marco Romani)
94
Ester Carloni (l’antiquaria)
Ivan Scratuglia
Elisabetta Winding
Durata: 110 minuti
Sarah Ferrati:
Nasce a Prato nel 1910. Attrice di teatro singolarissima nel panorama italiano, ha
scardinato e capovolto la convenzione dei generi teatrali: ha dato uno spessore
tragico venato d’assurdo al teatro borghese, e al teatro classico e contemporaneo di
rottura, un realismo dai toni a volte paradossalmente familiari e discorsivi. Ha
interpretato, negli anni sessanta, il suo unico film: La strega in amore, di Damiano
Damiani, tratto dal romanzo Aura di Carlos Fuentes.
Richard Johnson:
Nasce nel 1927 a Upminster (Essex, England). Principalmente è un attore di
teatro, sebbene interpreti anche alcuni ruoli per il cinema e svariati ruoli seriali per
sceneggiati televisivi.
Gian Maria Volonté :
Nasce nel 1933. Attore sia teatrale che televisivo. È però al cinema, nel quale
esordì nel 1960 con Sotto dieci bandiere di Duilio Coletti, che la sua poliedrica
personalità artistica è esplosa in tutta la sua potenza mimetica. Dopo un breve
passaggio negli spaghetti-western e nella commedia, si dedica al cinema
95
drammatico d’impegno sociale e politico. Muore il 6-12-1994 sul set di Lo sguardo di
Ulisse156.
Rosanna Schiaffino:
Nasce a Genova nel 1938. Dopo aver ottenuto un lancio ben organizzato come
“ragazza da copertina” su riviste come Le Ore e Life, si lascia tentare dal cinema
proprio nel periodo in cui il mito della maggiorata sta per diminuire, rinnovandone i
canoni. Dopo alcuni film di modesto valore, ottiene subito una notevole
affermazione, vestendo i panni di una bella napoletana nel film d’esordio di
Francesco Rosi, La sfida157, dove dimostra ottime doti d’attrice ed un’esaltante
fotogenia che le permette di essere annoverata tra le giovani speranze del cinema
italiano. Tocca il vertice della sua carriera con l’episodio Illibatezza (1963) diretto da
Rossellini ed inserito nel film RO.GO.PA. e, soprattutto, con la soave interpretazione
dell’esuberante e bellissima Madonna Lucrezia in La Mandragola158. Continuando
una carriera internazionale che, inevitabilmente, la conduce verso una certa
commercialità e film di serie B, nella seconda metà degli anni Settanta, chiude le
porte al cinema; interpreta da protagonista lo sceneggiato televisivo Don Giovanni in
Sicilia (1977), diretto da Moranti. Dopo il divorzio col produttore Alfredo Bini nel 1980
si ritira da ogni attività artistica.
Damiano Damiani:
Nasce a Pasiano (Udine) il 23 luglio 1922. Dopo aver studiato pittura
all’Accademia di Brera si dedicò al cinema, dal 1946, sia come scenografo e aiuto 156 T. Angelopulos, Lo sguardo di Ulisse, Grecia 1995.157 F. Rosi, La sfida, Italia 1958.158 A. Lattuada, La mandragola, It.-Fr. 1965.
96
regista (Inquietudine, Uomini senza domani ecc.) sia dirigendo numerosi e
apprezzati cortometraggi (1946/1955): La banda d’Affori, Arte e realtà, Omaggio a
una città, Pallacanestro, Il discobolo, Nasce un disegno animato, Formula 2, Eroi del
volante, Montecristo, Le giostre, Bambini soli, Bambini doppiatori. Prima di esordire
nella regia
i lungometraggi (Il rossetto, 1960), fu anche autore di molte sceneggiature, per film
di vario genere, ma non di grande rilievo (Piovuto dal cielo, I misteri di Parigi, La
venere di Cheronea, Erode il grande, I battellieri del Volga, I cosacchi e L’inferno
addosso). La sua produzione, estremamente variegata, dopo gli inizi “zavattiniani”,
alcune trasposizioni di opere letterarie e qualche plateale concessione al puro
spettacolo, si concentrò, a partire dal 1968, verso tematiche civili e sociali di grande
attualità che egli trattò con vigore pur nell’ambito di un cinema estremamente
popolare, schematico, che all’approfondimento privilegiava sovente l’intreccio
romanzesco. Dotato di grande mestiere ed eccellente senso dello spettacolo,
quando non si è lasciato tentare da operazioni puramente commerciali ha firmato
film di prestigio che, a diritto, sono entrati nella storia del cinema italiano migliore. È
anche apparso, come attore, in molti film da lui stesso diretti e ha sostenuto un ruolo
importante ne Il delitto Matteotti (1974).
Filmografia:
1960: Il rossetto.
1961: Il sicario.
1962: L’isola di Arturo.
1963: La rimpatriata.
97
1963: La noia.
1967: La strega in amore.
1967: Quien sabe?
1968: Il giorno della civetta.
1969: Una ragazza piuttosto complicata.
1970: La moglie più bella.
1971: Confessione di un commissario di polizia al Procuratore della Repubblica.
1971: L’istruttoria è chiusa: dimentichi.
1972: Girolimoni, il mostro di Roma.
1974: Il sorriso del grande tentatore.
1975: Perché si uccide un magistrato.
1976: Un genio, due compari, un pollo.
1977: Io ho paura.
1978: Goodbye & amen (L’uomo della C.I.A.).
1979: Un uomo in ginocchio.
1980: L’avvertimento.
1982: Parole e sangue (film TV).
1982: Amytiville possession (in U.S.A.).
1983: La piovra (film TV).
1985: Pizza connection.
1987: L’inchiesta.
1988: Il treno di Lenin (film TV).
1989: Il sole al buio.
1989: Gioco al massacro.
98
1991: L’angelo con la pistola.
3.6 DUE DIVERSE ANALISI DEL FILM :
a) Schedulazione:
Come primo metodo di analisi, utilizziamo queste tabelle riassuntive, molto adatte
ad indicare i momenti salienti di un film159.
159 Dal momento che collaboro da anni alla redazione de “Il grande talk”, applico questo metodo d’analisi al film.99
La strega in amore.
Cristina [email protected]
Regia e attoriRegia:Damiano Damiani; Attori:R. Schiaf f ino (Aura), S. Ferrari (Consuelo Llorente), G. M. Volonté (Fabrizio), R. Johnson (Sergio Logan).
Start (h.m.s) End (h.m.s) Personaggi/o Note CE
0.49.14 0.50.31 Fabrizio, Sergio(In Chiesa) Fabrizio vuole che Sergio lo assolva: "Vivo all'inferno (casa Llorente) e am o il diavolo (Aura)! E' com e se un fantoccio m i s tesse vicino; so che è un parto schifoso. Io am o quel fantoccio."
0.51.00 0.51.43 Fabrizio, SergioFabrizio lo consiglia ad andarsene via a m eno che non voglia essere com plice e responsabile di un delitto (se lo sente che Sergio lo ucciderà!) Sergio non lo prende sul serio.
0.57.59 0.58.25 Aura, SergioLei gli dice che fino a che Fabrizio rim arrà nella casa lei non potrà fare l'am ore con lui e se ne va. Sergio trova sotto il cuscino una pis tola.
1.05.40 1.08.25 Fabrizio, Sergio, AuraFabrizio, sconvolto perché lo hanno licenziato, rincorre Aura. Sergio rincorre Fabrizio, nel tentativo di salvare Aura e per errore uccide Fabrizio. F.: "Mi hai s trappato tutto quanto!" A.: "Am ore!" Fabrizio s i accascia ed esala l'ultim o respiro.
1.08.50 1.10.36 Consuelo, Aura, Sergio
Le due donne lo obbligano ad occultare il cadavere, altrim enti loro diranno che lui ha isediato una coppia, cercando di violentare la donna ed uccidendo l'uom o perché glielo im pediva. Inoltre cercano di convincerlo che lo s tanno facendo per il suo bene, cos ì nessuno potrà m ai s trapparlo da loro.
1.12.58 1.14.46 Sergio Lega il cadavere sui binari ed attende che il treno pass i.
1.17.35 1.17.50 Consuelo, Aura, Sergio
(A tavola) Le due donne m angiano e s i m ovono in m aniera identica.
1.26.45 1.26.53 Sergio, Consuelo La vede dalla finestra che tortura un gatto.
1.28.00 1.33.34 Sergio, Aura, Consuelo
Aura provoca la sua gelos ia, paragonandolo a Fabrizio. Sergio in preda ad una cris i is terica la rinchiude in una s tanza finchè lei non gli dice la verità su se s tessa. Aura ha una cris i, che sembra epilettica, s i nasconde in un arm adio e quando lui la riesce a tirare fuori dall'arm adio lei non è più Aura, m a Consuelo: "Perchè hai voluto ques to? Sarebbe accaduto un giorno o l'altro, m a ti avrei preparato, com e ho fatto con gli altri! Non guardarm i cos ì! Ai tuoi occhi io sono sem pre Aura, quella che hai am ato, abbracciato!" Sergio corre via gridando: "Aura!"
1.34.15 1.35.47 Aura, Sergio(nella serra) A: "Sono tornata. Non hai vis to nulla! Non devi rinchiuderm i. Devo essere libera di andare e venire. Non devi odiarla (Consuelo), pensa che se puoi vederm i, toccarm i, lo devi a lei!". Si abbracciano.
Classificazione eventi : G=giornalistico L=linguistico C=curioso Num.Scheda3-4
EVENTI ID
TITOLO DEL FILMEMITTENTEDATA EMISSIONESTART TIME
E-m ail
SCHEDULAZIONE IL GRANDE TALK SAT 2000
Nom e lettoreTelefono
DATI FILM
DATI LETTORE
101
b) Trascrizione grafica dei momenti salienti:
Per analizzare più nel dettaglio il film è necessaria una breve trascrizione
grafica dei due momenti più importanti - l’incipit e l’epilogo - che sono anche quelli
che maggiormente si discostano dal romanzo di Fuentes. Il primo, perché
incomincia in media res ed introduce lo spettatore alla storia in maniera
totalmente diversa dal libro: non ci troviamo in presenza di un uomo solo e
disoccupato che legge un annuncio di lavoro, ma di un uomo che convive con una
donna e a cui rivela di essere continuamente pedinato da un’anziana signora. Il
secondo, perché a differenza di quanto accade nel romanzo, sfocia in un happy
end.
102
L’INIZIO.
VIDEO AUDIO1 sq: C.M. di una camera da letto. Ci sono un uomo ed una donna, ma vediamo solo l’uomo di spalle che apre la serranda di una finestra e guarda giù.
1 sq: rumori della strada; voce off di Marta: «Sergio, sbrigati!»
2 sq: C.M. di Marta che, girata di tre quarti rispetto alla mdp, si trucca usando un piccolo specchio che tiene in mano.
2 sq: voce di Marta: «Mi devi accompagnare in ufficio!»
3 sq: P.A. di Sergio, sempre di spalle, che guarda fuori dalla finestra. Questa volta si gira verso di noi e si toglie la sigaretta dalle labbra.
3 sq: voce off di Sergio: «Marta!»
4 sq: P.A. di Marta, sempre di tre quarti che si specchia e si pettina.
4 sq: voce di Marta: «Si, caro?» voce di uomo: «E’ ancora là!» voce di donna: «Ma chi?»
5 sq: P.A. di Sergio che si rigira a guardare giù dalla finestra, fumando nervosamente.
5-6 sq: voce di Sergio: «La vecchia signora»
6 sq: zoom che dalla finestra inquadra un’anziana signora seduta su di una panchina sotto casa loro.7 sq: Marta va verso Sergio, prendendo la giacca dall’attaccapanni.
7 sq: voce di Marta: «Chi è?»
8 sq: viene inquadrata di nuovo la vecchia signora.
8 sq: voce di Sergio: «Non ne ho idea, ma da un po’ di tempo, me la trovo regolarmente tra i piedi!» voce di donna: «Sarà un caso!»
9 sq: P.P. di loro due che guardano giù dalla finestra e parlano tra loro, mentre lei si veste.
9 sq: voce di Sergio: «No, no quella mi pedina!»voce di Marta: «E perché pedinarti, scusa?»voce di Sergio: «E che ne so!»voce di Marta: «Su, Sergio, vestiti che è tardi!»
103
LA CONCLUSIONE.
VIDEO AUDIO1 sq: P.P. di Sergio che sorride al sentire la voce di Aura.
1 sq:musica di sottofondo; voce off di Aura: «Tanto.»
2 sq: P.P. di Aura sdraiata su un letto con mano maschile che le cinge le spelle.
2 sq: musica.
3 sq: P.P. di Sergio incupito che sta per entrare nella stanza.
3 sq:musica.
4 sq:P.P. di Aura che, sospirando, si alza in piedi allontanando la mano dell’uomo.
4 sq: voce di Aura: «Io non volevo, è stata colpa sua!»
5 sq: P.P. di Sergio impietrito che si ritrae.
5-6 sq: musica.
6 sq: P.P. dell’altro uomo che si ricompone i capelli.7 sq: P.P. di Sergio che si porta la mano alla bocca in modo angoscioso, come per trattenere la rabbia.
7 sq:voce di Sergio: «Lei è forse qui in seguito ad un annuncio sul giornale, è così?»
8 sq: P.P. del nuovo arrivato. 8 sq: voce del nuovo: «Si certo, sono qui per un impiego.»
9 sq: P.P. di Sergio. 9 sq:voce di Sergio: «Ah!» 10 sq: P.P. di Aura. 10 sq: muta.11 sq: P.P. di Sergio. 11 sq: voce di Sergio: «E tu non ne
sapevi niente, vero?!»12 sq: P.P. di Aura. 12 sq: voce di Aura: «No, te lo giuro.
Non è colpa mia!»13 sq: carrellata su Aura che avanza verso Sergio e lo accarezza con l’intento di tranquillizzarlo e di trattenerlo, ma lui se ne va.
13 sq: voce di Aura: «Il posto è tuo. È tuo. Digli di andarsene.Voce di Sergio (che si gira verso mdp): «No. No. No, sono io che me ne vado. Per forza. Sono un buon a nulla. Qui è tutto in disordine. In confusione. Me ne vado!» Voce di Aura: «Sergio, non andartene!»
14 sq: carrellata su Sergio che, scende le scale, attraversa la sala, si guarda in dietro e si ferma. C.M., appare Aura alle sue spalle.
14 sq: musica. Voce di Aura: «Sergio, io non voglio quell’altro. È lei che lo vuole!»Voce di Sergio: «Ah! Le stesse parole, le stesse che dicevi a Fabrizio.»Voce di Aura: «Si le parole sono le stesse. »
104
15 sq: P.P. di Aura. 15 sq: voce di Aura: «Tutto sembra come prima, ma non è così! Io sono cambiata, non lo vedi?
16 sq: P.P.P. di Sergio. 16 sq: voce di Sergio: «Non voglio morire!»
17 sq: P.P. di loro due: lui si avvicina a lei, le parla e poi si allontana.
17 sq: «Io voglio vivere!»
18 sq: P.P. di Sergio. 18 sq: voce off di Aura: «Anche senza di me?»
19 sq: P.P.P. di Aura. 19 sq: voce di Aura: «Non è vita se io e te non stiamo insieme! Non sei contento di rivedermi?! Dopo tanto tempo. Siamo stati felici noi due. Non credere a Consuelo, io non sono stanca di te. Rimani. Non mi buttare tra le braccia di un altro! Mandalo via!»
20 sq: P.P. di Sergio. 20 sq: voce off di Aura: «Mandalo via, anche se Consuelo non vuole!»
21 sq: P.P. di loro due insieme. Parlano, poi lui si allontana.
21 sq: voce di Aura: «Mandalo via. Noi non dobbiamo fare sempre quello che vuole lei!» Voce di Sergio: «Hai ragione. Non dobbiamo. Mi ami?»Voce di Aura: «Si, te lo giuro!»Voce di Sergio: «Allora, aspetta. Aspetta!»
22 sq: C.M.: Sergio si allontana, Aura, disperata, lo richiama, ma lui se ne va ugualmente, mentre lei lo segue con lo sguardo.
22 sq: voce off di Aura: «Mi lasci?»voce di Sergio: «No, aspetta!»
23 sq: C. M. del nuovo che scende le scale.
23-24 sq: sequenza muta.
24 sq: P.P. di Aura che si volta verso di noi.25 sq: PART. Delle mani di Sergio che staccano un cordone da una tenda.
25 sq: musica.
26 sq: PART. Delle mani di Sergio che legano le mani di Consuelo che dorme in un letto. Dopo averla legata la trascinano giù dal letto.
26 sq: voce di Consuelo: «No, lasciami!»
27 sq: P.A. di Aura in abito bianco, a braccia spalancate e con occhi sbarrati su sfondo nero.
27 sq: musica.
28 sq: P.A. del nuovo che grida. 28 sq: voce del nuovo: «Aura!»29 sq: P. A. del nuovo di spalle che va verso una serranda e la alza.
29 sq: musica.
30 sq: C.L. : Sergio trascina Consuelo, 30 sq: voce di Consuelo: «No!»
105
legata, verso il cancello.31 sq: P.P.P.di Consuelo che grida. 31 sq: voce di Consuelo: «No,
lasciami! Dove mi vuoi portare? Lasciami!»
32 sq: P.A. di Sergio che alza in piedi Consuelo avvicinandosi al cancello
32-33 sq: sequenza muta.
33 sq: F.I. di Consuelo che cerca di liberarsi e di fuggire mentre Sergio la riafferra davanti al cancello.34 sq: P.P. di loro insieme. 34 sq: voce di Consuelo: «No,
lasciami!» 35 sq: PART. Delle mani di Sergio che legano le mani di Consuelo all’inferiata del cancello.
35 sq: da questa sequenza in poi riprende la musica che diventerà sempre più forte ed ossessiva fino alla fine del film.
36 sq: P.P. di Consuelo disperata, legata al cancello.
36 sq: voce di Consuelo: « No! Che fai?»
37 sq: C.M. di Sergio che calcia una latta e raccoglie del filo da terra.
37-45 sq: sequenza muta.
38 sq: P.P. di Sergio che si avvicina con aria sconvolta.39 sq: P.P. di Sergio che lega più forte Consuelo.40 sq: P.P. di Consuelo terrorizzata.41 sq: PART. dei due corpi, Sergio che la lega più stretta. 42 sq: P.P. di loro due, lei è sempre più sconvolta. 43 sq: P.P. di Consuelo terrorizzata.44 sq: P.P.P. di Sergio che dopo averla legata, si allontana dal cancello e corre verso un’auto. 45 sq: P.P. di Consuelo terrorizzata.46 sq: C.M. di Sergio che si avvicina correndo al cancello spingendo una carriola piena di legna.
46 sq: voce off di Consuelo: «Ah!»
47 sq: P.P. di Consuelo impietrita e di Sergio di spalle.
47-51 sq: sequenza muta.
48 sq: P.A. di Sergio che ammassa le cassette.49 sq: DETT. di cassette ammassate.50 sq: P.P. di Consuelo terrorizzata che guarda le cassette.51 sq: PART. del braccio di Sergio che sparge benzina sulle cassette.52 sq: P.P. di Consuelo sempre più terrorizzata.
52 sq: voce di Consuelo: «No!»
106
53 sq: P.A. di Sergio che sparge benzina.
53 sq: voce di Consuelo: «No!»
54 sq: P.P. di Consuelo supplicante. 54 sq: voce di Consuelo: «No!»55 sq: carrellata su Sergio che avanza con la torcia accesa verso Consuelo che implora.
55 sq: voce di Consuelo: «No! Fermati!»
56 sq: P.P. di Sergio che le dà fuoco mentre lei tra le fiamme grida.
56 sq: voce di Consuelo: «No!»
57 sq: C.L. del cancello in fiamme. 57-58 sq: sequenza muta.58 sq: C.L. del cancello in fiamme visto dall’esterno della casa. Vediamo Sergio di spalle che osserva la scena.59 sq: P.P. del nuovo bibliotecario che corre verso le fiamme gridando e poi scompare.
59 sq: voce del nuovo: «Aura!»
60 sq: P.P. di Sergio che guarda l’incendio.
60-61 sq: sequenza muta.
61 sq: P.P. di Consuelo tra le fiamme che si trasforma in Aura mentre la mdp le si avvicina sempre più fino ad inquadrare in dettaglio gli occhi. Appare la parola FINE scritta in bianco tra le fiamme, poco sotto gli occhi di Aura.
Tutte le sequenze si svolgono in interno o esterno giorno, anche se la luce è
sempre un po’ offuscata, col fine di rendere più cupe e drammatiche le scene.
Abbiamo scelto di fare la trascrizione grafica di questi due momenti del film
perché solo esaminando l’incipit e l’epilogo si può veramente penetrare
nell’universo in cui il film intende proiettarci. Il film inizia in media res e questo
significa che non è importante ciò che è avvenuto prima e che importa solo ciò a
cui ci vuole condurre. Già dalle prime inquadrature, infatti, ci mostra chi “condurrà
il gioco”, Consuelo. Sergio mostra a Marta una vecchia signora che, secondo lui
lo pedina, lei non lo prende sul serio, così come faranno poi gli altri personaggi
della storia. L’unico a prenderlo sul serio e a metterlo in guardia su ciò che lo
107
aspetta, se deciderà di lavorare nella casa, è Fabrizio, che, però è già prigioniero
di quel mondo. L’orrore che accompagna tutta la vicenda è un orrore che parte
dal quotidiano e che in esso si sviluppa. Non è un caso che l’omicidio di Fabrizio
venga eseguito da Sergio proprio in biblioteca. La biblioteca è, infatti, per
antonomasia il luogo dove non solo la cultura, ma anche il passato e la memoria
convivono e, nella casa, dove passato, presente e futuro si confondono
ciclicamente, non possono coesistere due “custodi” della memoria, quindi, il
nuovo deve per forza succedere al vecchio in tutti i sensi. Lo stesso avviene nel
finale, quando Sergio capisce che un nuovo bibliotecario si sostituirà a lui e
decide di spezzare la ciclicità degli eventi, uccidendo Consuelo, dandole fuoco.
Una scelta molto forte, che impone un finale opposto a quello del libro. Un finale
perfetto, coincidente con la migliore delle tradizioni sulle streghe, perché solo uno
degli elementi puri è capace di distruggere una strega per sempre.
108
4.
DAL ROMANZO AL FILM: Il caso di Aura di C. Fuentes.
4.1 GLI AMBIENTI E LE MUSICHE.
Il genere cui appartengono sia il film che il romanzo è l’horror fantastico,
anche se è facilmente riconoscibile in essi una struttura grottesca e una
picaresca rovesciata, dal momento che il protagonista compie una serie di azioni
senza mai muoversi dallo spazio in cui è circoscritta la sua esistenza. Il
protagonista è relegato all’interno della casa per quasi tutta la durata della
vicenda. Solo inizialmente lo vediamo immerso nel mondo reale: nel romanzo per
le strade di Città del Messico, mentre nel film per quelle di Roma. Due
ambientazioni differenti, dunque, ma totalmente irrilevanti per la trama: ciò che
conta non è l’esterno, ma l’irrealtà del microcosmo che si ricrea all’interno della
casa. Le due case, in questo senso sono molto simili, anche se nel romanzo
vengono mostrati più ambienti, rispetto al film. Quello che è realmente importante
in un contesto come questo è riuscire a ricreare con l’utilizzo di pochi stereotipi il
climax richiesto dalla storia. Nel linguaggio cinematografico, in generale, l’utilizzo
di carrellate lente (per creare suspence), di illuminazioni laterali, l’adottare punti
di vista eclettici o stravaganti ed, infine, il ricorrere abbastanza sistematicamente
al primissimo piano e al dettaglio, magari enfatizzato da una musica intensa ed
angosciosa, riescono a ricreare perfettamente l’atmosfera dell’orrore.
109
Sono pochi, tuttavia, gli ambienti che realmente vediamo nel film; essi
corrispondono abbastanza a quelli descritti nel libro: l’ampio e oscuro ingresso, le
scale, la tavola da pranzo immensa e le camere con molti veli e tende. La casa è
gotica, cupa e misteriosa, nonostante spesso si tirino le tende per far filtrare la
luce (è più che altro un’esigenza tecnica: la troppa oscurità risulta più pesante da
seguire da parte dello spettatore). All’interno della casa vediamo i seguenti
ambienti:
- la biblioteca. È immensa, con soffitti molto alti e piena di libri, carte e
documenti vari; è il luogo dove sono custodite le memorie - storiche e
personali - del generale; ma soprattutto è il luogo dove si consuma il delitto di
Fabrizio (passaggio obbligato per succedergli come bibliotecario e come
amante di Aura);
- l’atrio e l’ingresso. Diversamente dal romanzo queste due parti della casa non
sono rilevanti;
- le camere da letto. Piena di veli e molto candida e pura, quella di Aura; molto
cupa e scura, quella di Consuelo; quella di Sergio non viene mostrata,
sappiamo solo che è adiacente a quella di Aura;
- la sala da pranzo. È buia, tetra ed ha un lungo tavolo che ci permette di
notare che le due donne compiono i medesimi movimenti;
- il bagno. È bianco e, forse, troppo moderno nello stile per l’ambiente che lo
circonda;
- la serra. Diversamente dal romanzo, dove le piante erano nell’atrio della casa,
qui esiste un luogo apposito per la loro crescita. È, anche il luogo dove Sergio
scopre un povero gatto martoriato ed ucciso;
110
- la cappella. Nel film vediamo anche una piccola cappella, interna alla casa,
dove Fabrizio confessa a Sergio di vivere con il diavolo ed amare un suo
fantoccio: è un tentativo di confondere ancora una volta il sacro con il profano,
un tentativo di far capire che neanche Dio può liberarlo dalle forze del male
che abitano nella casa.
Una delle peculiarità di questo film riguarda l’uso della colonna sonora. La
musica, infatti, è presente sia come elemento extradiegetico che
intradiegetico. Nel primo caso svolge per lo più una funzione di commento ed
è interna all’azione; nel secondo caso appartiene agli eventi narrati. I temi
musicali che accompagnano i personaggi e ne enfatizzano gli stati d’animo
sono extradiegetici, ma avendo tale funzione sembrano fuoriuscire dal loro
intimo. Soprattutto la musica tribale, che diventa sempre più incalzante nei
momenti di maggior pathos, e che ha come fine quello di enfatizzare i riti
tribali e primitivi della stregoneria delle due donne, sembra scaturire dai riti
magici, quindi, dalle due donne, e non da una fonte esterna.
Quella rappresentata dal film è una stregoneria molto semplice che immola
e tortura poveri animali, prepara intrugli da bere per soddisfare il più antico di
tutti i desideri umani: l’elisir di eterna giovinezza. Consuelo è, infatti, una
donna disperata, disposta a tutto per rimanere bella, giovane e capace di
sedurre ancora gli uomini, che devono essere necessariamente dei cloni del
suo unico vero amore scomparso. Alla musica si accompagnano dei balli
molto primitivi, che vengono eseguiti durante i riti di stregoneria. Anche il
trucco e gli abiti delle donne sono un chiaro simbolo della stregoneria tribale.
E, a questo proposito va sottolineato il momento in cui Sergio completa la
111
linea degli occhi di Aura come tentativo di farlo partecipare attivamente ai riti
magici che sono necessari affinché Aura possa manifestarsi nella sua
interezza.
4.2 I PERSONAGGI.
Il primo dato che appare riguardo ai personaggi è che nel film sono molti di più
che nel libro. Questo avviene principalmente per un ovvio motivo: un film con
esclusivamente tre personaggi che appaiono ed uno che viene solamente
evocato (il generale Llorente) risulterebbe, probabilmente, noioso e sarebbe più
difficile da seguire. A tal fine, analizzeremo prima gli “intrusi” per soffermarci in
seguito sui protagonisti che provengono dal mondo della carta stampata.
Il primo di questi intrusi è Marta, la compagna di Sergio, che rimarrà tale fino a
che lui non verrà “stregato” dalla casa e dai suoi abitanti. Marta rappresenta il
passato di Sergio, la sua vita reale; potrebbe diventarne la moglie se solo lui lo
volesse. Sergio si sente soffocato e quando lei gli propone di sposarsi scappa da
una sua ex. Marta non prende sul serio la preoccupazione di Sergio di essere
pedinato da una vecchia signora, non percepisce l’alone di mistero e di magia
che si cela dietro questa donna, perché il personaggio di Marta vuole
rappresentare la razionalità, la maturità e la vita che Sergio avrebbe potuto avere
se non si fosse lasciato conquistare dal fascino della magia nera e delle sue
creazioni.
Il secondo personaggio che vediamo è la pittrice, la ragazza da cui Sergio si
precipita dopo la richiesta di matrimonio da parte di Marta. Dal modo in cui Sergio
le parla si capisce che sono molto in confidenza e che probabilmente c’è stato
112
qualcosa tra di loro e che potrebbe esserci ancora. Rappresenta, dunque,
un’altra possibile alternativa all’entrare nella casa. Ad ogni modo, neanche
questa donna riesce a trattenerlo dall’andare incontro al suo destino, per la verità
è troppo intenta a dipingere per capire ciò che sta succedendo attorno a lei. Pare
del tutto indifferente alle stranezze di Sergio e alla possibilità di rivederlo in
futuro.
Il terzo personaggio è un bambino, a cui Sergio si rivolge per sapere qualcosa
sulla vecchia signora. Ma il bambino non sa dirgli nulla perché lei gli aveva
semplicemente chiesto un’informazione. Non è un caso che la prima persona che
vediamo parlare con la vecchia signora sia un bambino: il bambino, infatti,
simboleggia la purezza, l’innocenza, tutto ciò che manca alla vecchia e che lei
vorrebbe avere.
Il quarto personaggio è l’edicolante, che rappresenta il tramite tra la vecchia e
Sergio. Ha il compito di indurre Sergio a leggere un annuncio di lavoro che non
può essere diretto a nessun altro che a lui. È in un certo qual modo la persona
che gli dà concretamente la spinta per andare incontro al destino che lo attende.
Il quinto personaggio è l’amico medico, a cui Sergio si rivolge quando crede
che la vecchia signora stia male; ma nella casa la scienza e la medicina risultano
essere inutili e, quindi, viene presto liquidato dalla padrona di casa.
Il sesto personaggio è l’antiquaria, un’anziana signora che in maniera un po’
burbera lo mette in guardia dalle bugie di Consuelo: «è molto più anziana di me
[…] non ha nessuna figlia.». Purtroppo i suoi avvertimenti arrivano troppo tardi,
perché ormai Sergio è coinvolto ed ossessionato da Aura e non è più in grado di
credere a niente e a nessuno, se non a ciò che accade all’interno della casa.
113
Sono sei, dunque, i personaggi minori che fungono da anello di congiunzione
tra il mondo reale e quello irreale creatosi all’interno della casa e forse non è un
caso che siano proprio sei, dal momento che nella simbologia esoterica il sei è il
numero del diavolo160. All’interno della casa, oltre ai personaggi principali
troviamo: Fabrizio (il vecchio bibliotecario che verrà sostituito da Sergio) ed il
nuovo bibliotecario che si vorrebbe sostituire a Sergio. I tre uomini rappresentano
insieme la ciclicità degli eventi: Fabrizio, il passato; Sergio, il presente ed il nuovo
bibliotecario rappresenta un potenziale futuro che incombe. Sergio spezza
questa catena, perché si oppone ad un futuro che non gli piace. Quello di Sergio
è, quindi, a differenza del suo corrispettivo nel libro, un personaggio capace di
evolversi, di opporsi agli eventi e di liberarsi dalle forze malefiche che operano
nella casa; da personaggio debole che era all’inizio, diviene un personaggio
talmente forte da sconfiggere il male.
I personaggi principali, se si esclude il generale Llorente che compare solo
mummificato e traspare dalle sue memorie, sono tre161: Sergio, Aura e Consuelo.
Essi potrebbero rappresentare un triangolo amoroso, se non fosse che le due
donne sono in realtà una sola persona. Le due donne rappresentano, infatti, due
momenti diversi della vita: la vecchiaia e la giovinezza. Esse sono esattamente
come le si poteva immaginare dal libro. Aura, bellissima e misteriosa; Consuelo
vecchia e bruttissima. Esattamente come devono essere le streghe, esattamente
come da sempre sono impresse nell’immaginario collettivo di ognuno: da una
parte la strega giovane, con gli occhi ingranditi e ovalizzati dall’eyeliner e la
160 Per la verità il numero del diavolo è il 666, tre volte sei, ma spesso si attribuisce un valore diabolico anche ad un sei da solo.161 Anche al numero tre è spesso attribuito un valore magico.
114
crocchia di capelli, dall’altra la strega vecchia raggrinzita che si agghinda come
se fosse ancora giovane. Il personaggio di Sergio è molto simile a quello del
romanzo, anche se lo si potrebbe definire un po’ più “completo”, nel senso che, a
differenza di quanto avviene nel romanzo, nel film viene mostrato un piccolo
background del personaggio; in realtà, tale background non è indispensabile per
la storia, ma è d’aiuto allo spettatore per riuscire a penetrare maggiormente nella
storia. Sergio, inoltre, risulta essere capace ad opporsi agli avvenimenti, a
differenza di Felipe che si abbandona passivamente in essi, soccombendo.
4.3 LA STORIA E IL PUNTO DI VISTA.
Un libro, come un film, è composto da una storia, uno stile, un linguaggio, ma
anche da una serie di initenzioni e finalità che attengono ad una cultura nel suo
complesso o al rapporto che ciascun autore cerca di instaurare col suo pubblico.
Entrambi rappresentano, in pratica, il modo con cui un autore porge al mondo dei
significati. Nel primo capitolo veniva sottolineato che, piuttosto che di fedeltà o di
infedeltà, sarebbe più consono parlare del modo in cui il film «lavora» 162 il romanzo e
cioè del tipo di lavoro critico, del tipo di lettura interpretativa che il primo effettua sul
secondo, quindi, della costruzione sul romanzo di un’opera nuova attraverso il
cinema. Il film non deve essere qualcosa di paragonabile al romanzo, o degno di
«lui»163, ma «un nuovo oggetto estetico che sia il risultato del prodotto del romanzo
moltiplicato per il cinema: immagine e parola devono essere in relazione perché sia
autore che regista si rivolgono direttamente al lettore e allo spettatore con 162 Vd. G. De Vincenti, Un falso problema: la “fedeltà”, in AA.VV., Cinema e letteratura: percorsi di confine, op. cit., pp.103-112.163 Ibidem.
115
l’intenzione di dire quasi la stessa cosa anche se con l’utilizzo di modalità
differenti»164. In questo paragrafo parleremo, appunto, del modo in cui il film “ha
lavorato” il romanzo. Innanzitutto, bisogna dire che Aura è un’opera molto
particolare, dal momento che si colloca in un punto intermedio tra la novella e il
romanzo (può essere sia un romanzo breve che una lunga novella) e che, quindi, la
sua natura risulta essere ibrida (viene definita in questo modo dallo stesso Fuentes
nel dossier critico contenuto nella sua raccolta di racconti, El mal del tiempo165). Aura,
è, inoltre, un ibrido per il modo in cui è stato scritto, dal momento che ci troviamo in
presenza di un narratore onnisciente ed intradiegetico che ordina al personaggio
principale cosa fare per tutta la durata della storia, cercando di fare immedesimare
totalmente il lettore nel protagonista. Risulta, quindi, difficile trasportarlo al cinema,
perché questo potere che anima la storia è impossibile da ricreare nel mondo delle
immagini. L’unica cosa che è possibile adattare per il cinema è la trama, anche se
non nella sua totale interezza. Il numero dei personaggi contenuti nel libro è
insufficiente ad una storia raccontata per immagini: è necessario aggiungere delle
parti minori per rendere un po’ più scorrevole il film. Un libro può essere composto
anche da un monologo interiore di un unico personaggio, ma un film del genere
risulterebbe noiosissimo; già aggiungendo dei personaggi si attua una variante alla
storia di partenza. Inoltre, anche i personaggi che vengono trasferiti dal mondo della
carta stampata a quello delle immagini subiscono delle mutazioni, ad esempio Felipe
non cambia solo il nome in Sergio, ma subisce anche un cambiamento caratteriale
ed emotivo166. Le eventuali somiglianze o differenze che un film ed un libro possono 164 Ibidem.165 C. Fuentes, El mal del tiempo, op. cit..166 Algirdas Julien Greimas individua a questo proposito tre categorie che possono essere utili a collocare i fili conduttori che tengono legato un libro e un film: «isotopie tematiche», «isotopie figurative», e, come nel nostro caso, «isotopie patetiche». Greimas A. J., Del senso 2. Narrativa, modalità, passioni, Bompiani, Milano 1985, pp. 17 segg.
116
avere sotto il profilo psicologico e passionale dei personaggi influiscono
pesantemente sulla ricezione emotiva da parte
dello spettatore, il quale, come è noto, tende a rapportarsi al film (ma anche al libro)
proiettandosi nella diegesi ed identificandosi con le figure in essa applicate. Ma non
solo: tali varianti influiscono anche nello svolgimento della vicenda. Infatti, un
personaggio più forte in grado di opporsi al proprio destino, quale risulta essere
Sergio, è in grado di cambiare il finale della storia. Possiamo, dunque, affermare che
un film come La strega in amore attinge l’idea di base contenuta nel romanzo Aura e
ne dà una sua interpretazione. Lo stesso regista afferma167 di essere stato
affascinato dall’idea di un uomo che immagina di avere tra le braccia una donna
giovane e bellissima quando in realtà sta abbracciando una donna vecchia e
repellente. Questo è ciò che si proponeva di trasportare sullo schermo e questo è
quello che ha trasportato. Nulla di più. Si è ispirato ad un romanzo e ha realizzato un
film, che risulta essere simile e dissimile al tempo stesso al romanzo.
4.4 UN’INTERVISTA A D. DAMIANI168.
Conosceva altre opere di Fuentes, o semplicemente per una casualità
della vita, ha letto Aura ed ha deciso di farne un film?
Ho letto qualcosa di Fuentes, tra cui questo romanzo, poi l’ho messo nel
“ricordo” ed in seguito ho deciso di farne un film.
167 Nell’intervista che segue nel paragrafo 4.4.168 Intervista rilasciatami da Damiano Damiani nella sua abitazione, il 31-01-2004, Roma.
117
Aura è un romanzo molto particolare per il modo in cui è stato scritto, in
seconda persona singolare: la sua scelta è dipesa anche da questo?
Certo che questo modo di scrittura mi ha colpito. È un film che parte dal
principio di una dimensione fantastica dell’esistenza. Qual è, infatti, la storia del
film? O almeno quella che ho realizzato io nel film: uno si innamora di una
ragazza e quella ragazza non esiste. Esiste solo una donna che in alcuni
momenti, agli occhi di quell’uomo, diviene una ragazza bellissima. Questo è un
film dove c’è un’unica base fondamentale: l’illusione della visione fantastica in
chiave pazzesca. In chiave letteraria quest’immagine è molto più facile da
realizzarsi perché, mancando la dimensione visiva, risulta facile il passaggio dalla
donna reale a quella solo immaginata. Nel film si vedono per forza di cose due
creature diverse.
Anche nel libro vengono, però, descritte due creature diverse: Consuelo
e Aura, e ci sono momenti in cui Sergio le vede tutte e due, non le pare?
Sì, i film a volte consentono di mettere in scena la fantasia. Il protagonista
pensa che in quell’ambiente Aura esista; io posso dire, invece, che la Schiaffino è
un fantasma mentre la Ferrati esiste davvero. Questa è la storia, che, in realtà,
altro non è che la storia di un’ubriacatura, di una malattia, di un abbaglio. E in un
certo senso questo è anche il suo fascino, perché se togliessimo alla storia
questa componente di sogno la storia non esisterebbe più. Perché la storia
consiste proprio in questo. E allora io cosa ho cercato di fare? Di inserire questa
storia in un ambiente fantastico. In un appartamento che avesse qualcosa di
misterioso. Dal sapore medioevale che permetta di costruire uno sfondo di
irrealtà e fantasia. La storia non avrebbe funzionato in un ambiente diverso, 118
quale ad esempio, una stazione o un bar dove altre persone andavano e
venivano. Era necessario che Sergio fosse solo per poter iniziare a sognare che
in quell’ambiente, in quella scenografia fantastica, sarebbe stato tanto bello avere
accanto una donna meravigliosa come Rosanna Schiaffino. Il film non pretende
di andare oltre, di avere altri significati e suggestioni; vuole essere
semplicemente questo e nient’altro. È questo che attrae lo spettatore, perché
quando si guarda il film ci si domanda come andrà a finire. Ci si domanda se il
protagonista finirà per uccidere la donna e non vedere più, così, la ragazza che
continuerà, però, a sognare senza più poterla avere tra le sue braccia perché sa
di aver rotto l’illusione. Nel libro, invece, si abbandona all’illusione rimanendo
nella casa con la strega ed è in questo senso che il film finisce meglio del libro.
Cosa l’ha spinta a cambiare il finale?
Nel libro Sergio rimane con la strega e ogni volta che l’abbraccia si immagina
di abbracciare un’altra donna. Questa, intendiamoci è un’idea affascinante che mi
ha intrigato sul come realizzarla perché nel cinema si vede la carne, le persone
vere, e qui, all’inizio si vede una donna di età, poi una giovane, poi di nuovo una
vecchia e il punto culminante si ha quando si vedono tutte e due insieme. Tutti
vedendo questo film pensano che quando lui vede Aura, lei esista davvero, ma
quando la ragazza viene messa vicino alla donna anziana il pubblico capisce che
questa è un’illusione. È una distorsione del cervello di un uomo che certamente è
disperato. Un uomo solo che ha bisogno di pensare di poter abbracciare
qualcosa che si possa amare.
119
Sì, però Sergio è soprattutto un personaggio che fugge da una relazione
concreta, quale quella che potrebbe avere con Marta quando lei gli chiede
di sposarla. È quindi un personaggio che preferisce rincorrere delle
chimere piuttosto che vivere la vita reale?
Ovviamente, e questa è la base da cui partire per valutare se ho fatto un film
che abbia fascino. Ad esempio, lei cosa ne pensa. Le è piaciuto il mio film?
Sì, anche se si discosta molto dal romanzo. Ad esempio, lei aggiunge
dei personaggi e questo è ovvio perché un film con solo tre attori
risulterebbe pesante. Quindi aggiunge i due bibliotecari, che rappresentano
il passato e un potenziale futuro di una catena che Sergio spezza. Però ho
un dubbio sul personaggio dell’antiquaria: perché Consuelo per compiere
le sue magie vende mobili antichi all’antiquaria? Perché sono necessari i
soldi per gli incantesimi? È anche in questo che si vede che è il dio denaro
a comandare su tutto?
È uno dei tanti fattori che ho voluto inserire per far sì che Sergio pensi di
essere nella realtà. È un film sulla pazzia. È un film di atmosfera, per questo mi
pare che sia azzeccata la scenografia rotonda della biblioteca che ho fatto
costruire, proprio per dire: adesso sono qui e vedo quella giovane, poi girando
dall’altra parte vedo la vecchia. Ecco, ho voluto dare un senso all’ambientazione
come parte della sua illusione. Questa scenografia fatta in questo modo presume
che chi l’ha costruita sia pazzo. Nella realtà non esiste l’idea del luogo rotondo in
una casa abitata, non esiste una libreria che gira in tondo.
120
Dove è ambientato?
A Roma, vicino a Piazza Navona. La casa non esiste più. Era stata realizzata
in studio, non a Cinecittà. In quella parte di Roma dove c’erano i teatri di posa.
Un suo giudizio critico sul film?
Beh, un film così potrebbe pure essere un film comico. Se uno dice: «Porca
miseria, perché sto abbracciando questa donna che a me fa schifo e che oltre
tutto ha un profumo che mi repelle?». Si poteva fare anche un film dove lui fa
l’amore con questa donna anziana. Lei può mandarlo via o lui può mandarla via,
però, accidenti, lei si presenta a me così bella che ci sto. È un film su un matto,
su una demenza, però ha il suo fascino perché chi ti dice che fare un film sulla
pazzia soggettiva, immaginando ciò che vede un uomo pazzo non possa essere
un bel film. Allora questa suggestione, questo suggerimento è, diciamo, di grande
impatto perché in una donna bruttissima Sergio riesce a vedere una donna
bellissima. Vede, ad esempio, in alcuni casi si può dire che se io sto in un brutto
e sporco posto posso lo stesso immaginare che sia pieno di fiori. Anche questo
può essere usato per suggerire la follia di quel soggetto. L’idea è che c’era una
donna che aveva una età ormai inaccettabile ed invece lui pensava potesse
esserci anche una giovane. È lì il bello insomma.
Ci parli della scena in cui Aura chiede a Sergio di spogliarla con la
bocca, che tra l’altro credo fosse un po’ spinta per il 1967. E’ molto da
illusione, da sogno e il fatto che venga spezzata da un altro personaggio è
pari ad un brusco risveglio.
121
Ma secondo lei ha anche un fascino erotico?
Sì, per il periodo indubbiamente perché suggerisce molto, più che
mostrare. Le ha creato dei problemi con la censura?
Forse adesso la scena sarebbe diversa. Vedremmo lui che fa l’amore con la
giovane e poi si ritrova tra le braccia la vecchia. Si sarebbe potuta fare anche
così e forse ci ho anche pensato, ma allora c’era anche il problema che si poteva
non andare sullo schermo.
Questo film è andato anche in TV, si può dire che sia stato pensato
anche per la TV?
Assolutamente no, sono contento del fatto che sia andato e continui ad
andare in televisione perché vuol dire che è un film che ancora piace, che non
annoia e che ti fa rimanere lì incuriosito in attesa del finale.
La Schiaffino è stata scelta perché bella e brava o perché la moglie del
produttore?
Un po’ per entrambi i motivi. Mi piaceva come attrice ed era nelle mani di un
bravissimo produttore che poi non si sa bene perché è sparito dalle scene. Allora
si pensava che Bini avrebbe fatto strada.
Ci parli della serra, dell’importanza di quest’ambiente dove Sergio ha
delle rivelazioni. Forse è stata creata per dare maggiore importanza al
luogo dove crescono le piante inebrianti?
Quando io leggo un libro ne do una mia interpretazione. Anche ne Il giorno
della civetta, Sciascia non può dire di aver ritrovato tutto il suo libro. Moravia,
invece, ha capito subito che il cinema è un linguaggio e la letteratura un altro. 122
Infatti, Moravia non voleva parlare di critica dei film tratti dai suoi libri ed era solito
dire «Non giudico perché è un altro linguaggio». Ma forse bisogna dare qualche
spiegazione di tipo meccanico. Scrivendo un libro si possono fare cinque pagine
di descrizione dei pensieri di un personaggio. Al cinema questo non si può fare.
Bisogna far vedere le azioni. Al cinema un personaggio che pensa non ci dice
nulla perché non si vedono i pensieri. Sono due linguaggi che non si sposano
insieme se non per linee generali.
Nella casa c’è una cappella dove Fabrizio mette in guardia Sergio e gli
confessa di vivere con il diavolo e di amarne un fantoccio. Perché tutto
questo avviene proprio in una cappella? Vuole essere un simbolo della
salvezza divina?
Mah, io credo che ci sia sempre un motivo per andare in un luogo che non ha
nessun significato pratico, ma solo di fantasia. Perché quando uno entra in
chiesa sia che sia un laico, un ateo o un bestemmiatore, comunque, questa
entrata ha sempre un significato. Perché vedi lì il più grande uomo esistito nella
storia: Gesù di Nazareth. Poi vi può entrare anche un uomo che vuole maledirlo
perché ha avuto una vita di sole sofferenze. Quindi, si può dire che una chiesa
può attirare a sé per il suo significato religioso.
4.5 CONCLUSIONI.
123
La nostra analisi si era proposta di esaminare le relazioni che intercorrono tra
letteratura e cinema, tra libro e film, ma soprattutto si era proposta di cogliere i
fattori dai quali è possibile capire se un film tratto da un romanzo può essere
definito un buon adattamento o meno. Per far questo siamo partiti analizzando
quali differenze intercorrono tra cinema e le altre arti: come la letteratura, il
cinema è un motore di narrazione, come la fotografia, utilizza le immagini quali
suoi mezzi di espressione, come il teatro, mette in scena una rappresentazione;
ma più del romanzo, più del teatro e della fotografia, il cinema è in grado di
donare al suo fruitore una concreta rappresentazione del reale, scatenando nello
spettatore un processo percettivo e di partecipazione.
Inizialmente era il cinema ad attingere dalla letteratura. Con gli anni questo
rapporto si è evoluto fino a divenire un rapporto biunivoco ed è per questo che il
cinema appare oggi come un mezzo che conserva forti legami con il testo
narrativo scritto e con la testualità in genere. Ciò è dovuto non solo ad aspetti
strutturali del cinema, ma anche alle modalità attraverso le quali si è storicamente
inserito nelle arti. Esso ha raccolto l’eredità della tradizione narrativa
ottocentesca, dopo aver dato un notevole contributo a dissolverla, e, comunque,
è vissuto in osmosi con le manifestazioni narrative di questo secolo, sia nelle
espressioni popolari, sia in quelle più colte. È riuscito a sviluppare, sin dalle
origini, una propria autonomia che gli ha permesso di produrre una sua mitologia
con radici profonde nell’immaginario collettivo della modernità e con stretti legami
con altri media (primo fra tutti, la carta stampata: basti pensare allo stretto
legame che si è instaurato tra best seller e block buster). Si fa un utilizzo così
ampio del cinema per raccontare delle storie che anche i film non-narrativi (come
124
i cortometraggi a carattere documentaristico, didattico ecc.) si trovano obbligati a
seguire gli stessi meccanismi semiologici dei lungometraggi narrativi.
La narratività influisce così tanto che il regista, al pari dello scrittore, è portato
a pensare ad un fruitore potenziale per cui comporre la sua opera. Entrambi,
anche se in maniera differente, mirano, infatti, a mostrare la loro idea ad un
pubblico, ad essere fruiti dal maggior numero di persone possibili. È lo spettatore
che attribuisce all’immagine i caratteri della realtà, che cuce le diverse
inquadrature in un unico contesto; è a lui che il film si deve rivolgere così come il
libro fa da sempre con il lettore.
La diversità dei due mezzi fa sì che cambino vari fattori d’espressione, come
per esempio il punto di vista della narrazione: il passaggio dalla prima alla terza
persona modifica inevitabilmente la struttura della vicenda. L’aggiunta delle
immagini limita la fantasia dello spettatore, imponendogli una visione dei fatti,
immediata, che riduce inevitabilmente lunghe descrizioni a poche sequenze.
Andando più nel particolare con la nostra analisi ci siamo resi conto di come
un romanzo possa venire stravolto nel processo di traduzione dalla pagina allo
schermo. E qui ci addentriamo finalmente nel cuore di uno dei momenti chiave in
cui si articola il rapporto tra cinema e letteratura. Crediamo che sia ormai chiaro
che non è necessario parlare di fedeltà assoluta, poiché, ammesso che sia
possibile perseguirla, essa partorirebbe un mostro, che non avrebbe con il testo
originario un legame oggettivamente più saldo di quello che un qualsiasi film
tratto da un romanzo può avere; risulterebbe sempre e comunque
un’interpretazione. Ci sono almeno tre grandi tipologie di traduzione di un testo
letterario. La prima si ispira a un romanzo lasciando però che il film segua la
125
propria strada. La seconda traspone cinematograficamente un testo cogliendone
solo alcuni momenti chiave. La terza, infine, si propone l’obiettivo della fedeltà
assoluta che però si può definire tale solo nel caso di un romanzo nato in
contemporanea con il film, (come per esempio Teorema169), e che anche in
questo caso sono presenti delle differenze tra le due opere.
Se da un lato la conoscenza dell’opera di partenza non è condizione
necessaria per la comprensione e l’apprezzamento di quella d’arrivo, è anche
vero, però, che questa conoscenza può essere il presupposto per un
apprezzamento di un livello superiore. Si può partire dal film e risalire verso il
romanzo, vedere come è raccontata, nel libro, la storia nel suo complesso e le
sue componenti, per giungere a capire le intenzioni e le caratteristiche stilistiche
dell’autore; oppure, all’inverso, dato un determinato testo letterario, si può
cercare di comprendere che cosa esso sia diventato in un film, che cosa ci
dicono queste trasformazioni di coloro che hanno realizzato il film e di coloro a
cui si vuole rivolgere.
Infine, abbiamo applicato il tutto ad un caso particolare: un film tratto da un
romanzo. In quanto «immagine di un’immagine, il film letterario è un film a
rischio. Rischio di confronto con l’opera da cui è tratto»170. Il nostro è un libro
“difficile” per il suo modo di essere stato scritto: un libro scritto interamente alla
seconda persona singolare utilizzando i soli tempi verbali presenti e futuri dove,
quindi, il narratore diviene in un certo qual modo personaggio ed ordina ad un
altro personaggio fittizio (con cui facilmente il lettore tende ad identificarsi) il da
farsi. Ovviamente, nel passaggio dalla pagina allo schermo questo punto di vista
169 P. P. Pasolini, Teorema, It. 1968. 170 A. Costa, Immagine di un’immagine, op. cit., p. 13.
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è andato del tutto perduto, dal momento che solo realizzando un film totalmente
in soggettiva si sarebbe potuto mantenerlo.
Il film può parlare, come il romanzo, di ciò che un personaggio sa; ma può
anche, grazie al carattere ottico dell’immagine, mostrarci ciò che egli vede,
facendoci vedere letteralmente attraverso i suoi occhi. Al di là dell’effetto
artificioso e disturbante che un tale tipo di pellicola produce nello spettatore,
questo sarebbe stato l’unico modo possibile di mantenere in vita un personaggio
quasi del tutto invisibile e “comandato a bacchetta”. Però ci sarebbero stati dei
problemi, si pensi per esempio al film Una donna nel lago171 dove il protagonista
non si vede mai se non quando si specchia. Questo fa riflettere sul fatto che la
cosiddetta soggettiva porta in sé una contraddizione di fondo che la rende
praticamente improponibile, se non per brevi tratti: uno spettatore per assumere
la visione di un personaggio necessita di vederlo. Sembra assurdo, ma per
entrare nello sguardo, bisogna oggettivamente conoscere chi guarda. Non si può
ridurre chi guarda a puro sguardo. Neanche in un videogioco la ripresa in
soggettiva funziona del tutto; pensiamo per esempio ad un videogame di
automobili: ci sono dei giocatori che non sono in grado di guidare una macchina
senza vederla interamente, cosa alquanto strana, dal momento che nella vita
reale avviene esattamente l’opposto. Forse, è proprio in questo senso che, come
sostiene Costa, «l’immagine soggettiva è riflessiva senza essere speculare: essa
non si riflette, ma riflette l’origine e lo spettatore; ed è a questa particolarissima
riflessione che essa deve gli echi deittici che spesso suscita»172. In Una donna
nel lago, è proprio questo che non funziona, non si vede abbastanza il
171 R. Montgomery , Una donna nel lago, Usa 1946.172 A. Costa, Immagine di un’immagine, op. cit., p. 155.
127
protagonista di cui si dovrebbe assumere la visione: noi lo vediamo solo quando
anche lui si guarda. Non funziona per esempio il bacio: noi vediamo una donna
ad occhi chiusi che attende un bacio mentre la macchina da presa zoomma su di
lei oscurandola. Non va dimenticato però che la soggettiva permette di creare un
maggior effetto di suspense ed è molto usata ad esempio nell’horror o nei
thriller, laddove la musica diviene maggiormente enfatica.
Ad ogni modo, tornando al nostro caso, e cioè stabilire se La strega in amore
possa essere definito un prodotto degno di Aura, bisogna fare ancora alcune
piccole considerazioni. Aura è una novella breve, essenziale, unica nel suo
genere, capace di affascinare anche solo per il suo modo di essere scritta; La
strega in amore è uno di quei film che riescono a tener vivo l’interesse nello
spettatore fino al finale. È uno di quei connubi che inducono colui che ha letto il
libro e visto il film a preferire, tra i due, il primo di cui ha fruito: chi legge prima il
libro pensa che il film se ne discosti troppo e viceversa.
Damiano Damiani, nel trasporre Aura sullo schermo, compie un’operazione
che già da subito si propone di apportare delle modifiche. Cambia, infatti, il titolo
da Aura a La strega in amore, facendo una scelta ben precisa: enfatizzare più il
ruolo che questa donna investe che la sua figura; aggiunge dei personaggi che
inevitabilmente creano delle modifiche nella trama; ma, soprattutto cambia il
protagonista: non si limita a cambiargli il nome da Felipe a Sergio, ma gli
modifica pure il carattere. Sergio è molto più furbo e più forte, è capace di porre
fine a delle fantasticherie assurde che gli impediscono di vivere una vita normale,
non soccombe per accidia, ma si ribella e ne esce vincente. È Damiano Damiani
stesso a spiegarci di essere rimasto affascinato dall’idea del libro e di aver voluto
128
realizzare un film che partendo dalla trama di base, si evolvesse sino ad arrivare
ad un finale diametralmente opposto a quello del romanzo. E, forse, l’elemento
più sorprendente del film è proprio questo che, non potendo ricreare la magia di
scrittura del libro, va oltre, inventa qualcosa che, pur modificando la trama, riesce
a ricreare quell’alone di “particolarità” che c’era nel libro, quel mondo onirico ed
assurdo che si forma attorno al protagonista e che lui solo può scegliere se
abitare o abbandonare. In questo senso si può dire che libro e film rappresentino
due esiti possibili alla storia: accettare di vivere in un incubo per inettitudine
oppure liberarsene. Due sfaccettature di uno stesso oggetto, due modi diversi di
vedere il mondo, esattamente come la letteratura e il cinema, ma ugualmente
affascinanti.
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www.literaturas.com
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Ringraziamenti.
Ed eccoci finalmente arrivati al momento più goliardico di tutta la tesi: i tanto
sospirati ringraziamenti. In primo luogo vorrei ringraziare i miei genitori, senza i
quali non sarei mai potuta arrivare fino a qui. Non solo perché mi hanno messa al
mondo, ma anche per i numerosi aiuti che mi hanno dato in questi 27 anni di vita,
facendomi diventare quella che sono. Grazie. Vi voglio bene. Poi vorrei
ringraziare tutti coloro che mi hanno aiutato nella realizzazione della tesi: il
Professor Petrosino e la Dottoressa Banfi, per avermi aiutato nella realizzazione
della tesi; Radouan, per l’aiuto nella realizzazione dei grafici; la Fede, per avermi
prestato il registratore ed Elisa, per avermi ospitato a Roma, rendendo possibile
l’intervista a Damiano Damiani; Damiano Damiani, per la sua disponibilità; Lucia
Luconi, per avermi dato il numero di telefono di Damiano Damiani; Rocco
Moccagatta ed il Professor Simonelli, per alcuni consigli; Marco, per avermi
aiutato a fare milioni di fotocopie; la Fra, per avermi dato delle dritte fondamentali
ed avermi sopportato in questi mesi (grazie di esistere!); Desy, per essersi resa
sempre disponibile come compagna di pause e di sfoghi (grazie di esistere!);
Alino, per avermi aiutata a mettere a posto il computer; Joshua (il mio gatto), per
avermi aiutato a smaltire lo stress, sopportandomi; Claudio, per essermi stato
vicino nei momenti di sconforto, e, di nuovo, un grazie va ai miei genitori che
sanno il francese e mi hanno aiutato a tradurre tutto ciò che era reperibile solo in
questa lingua a me sconosciuta.
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Ringrazio, inoltre, tutti i miei amici e colleghi del Grande talk, per avermi
incoraggiata, ascoltata e sopportata sempre.
Un grazie speciale va a tutte le persone che mi vogliono bene, che mi sono
state vicine e che so che non mi abbandoneranno mai.
E per rimanere in tema con la tesi e per scusarmi con le persone che avrò
sicuramente scordato di citare, dico: «Leggi e rileggi queste pagine di
ringraziamenti. Sembrano dirette a te, a nessun’altro. Manca solo il tuo nome.
Manca solo che le lettere più nere dei ringraziamenti, quelle che risaltano di più,
dicano il tuo nome…»
Cristina.
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