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1 Dante in musica (I parte) di Giorgio Ceccarelli Paxton Premessa Sono particolarmente grato all’Associazione culturale Nuove Tendenze del privilegio offertomi nell’ospitare sul suo sito un mio contributo nell’ambito dell’anno celebrativo del 750° anniversario della nascita di Dante Alighieri. Un pensiero a quello che è stato non solo uno dei più grandi poeti della storia dell’umanità, ma il fondatore della lingua italiana, e la cui modernità è ancora straordinariamente attuale, non poteva mancare da parte di una associazione come Nuove Tendenze che, nonostante il suo nome “future-minded”, si è sempre occupata di cultura, di alta cultura – e di tutta la cultura - , a 360 gradi. Quanto segue è la ristrutturazione di una trasmissione dallo stesso titolo che ho curato agli inizi del 2015 per Radio Vaticana. Vi è qui una implementazione del testo originario, che, per gli scopi cui era dedicato – sostanzialmente ascolti musicali, quindi con notevole ristrettezza dei tempi dedicati alla parte divulgativa - risultava molto, anzi direi troppo, sintetico. “DANTE IN MUSICA”, dunque, e non “La musica in Dante”. La distinzione è fondamentale, perché “La musica in Dante”, anche se argomento di per sé fascinoso ed interessante, significherebbe una serie di disquisizioni di carattere filosofico ed estetico sul come la musica era concepita nel Medioevo, nel dolce stilnovo, in Dante, sulle arti del trivio e del quadrivio, sull’armonia delle sfere ecc. ecc. Al contrario, scopo di questo lavoro è quello di presentare e, per quanto possibile, analizzare compositori che abbiano scritto musica da ispirazione dantesca e sull’argomento “Dante”. “Dante in musica”, quindi, non solo per commemorare il 750° anniversario dalla nascita (ricordo le date di nascita e di morte: 1265-1321), ma per esplorare come l’universo dantesco, certamente quello della Commedia, ma anche quello minore della Vita nuova e delle Rime ma anche del Convito, sia stato affrontato nel corso della storia della musica non soltanto da autori quasi coevi al poeta fiorentino, ma, e questo può sembrare strano, soprattutto da compositori moderni e contemporanei. Un esempio per tutti: il compositore russo Boris Tischenko, morto nel 2010, compose un ciclo coreografico di ben cinque sinfonie, tutte ispirate dalle e alle opere di Dante. Ma di questo parleremo in seguito. Per tornare a noi, tenteremo, in un breve excursus, di presentare una sintesi delle composizioni scritte per Dante e/o su testo dantesco, che sia quanto più possibile esaustiva, partendo da un criterio cronologico, basato sulla evoluzione delle opere del Poeta. Le opere di Dante contengono un'erudita testimonianza letteraria sulla musica del suo tempo. Egli stesso si interessò di musica e, secondo Boccaccio "sommamente si dilettò in suoni e canti nella sua giovinezza, e a ciascuno che a quei tempi era ottimo cantore o sonatore fu amico ed ebbe sua usanza; ed assai cose da questo tirato compose le quali di piacevole e maestrevole nota a questi cotali facea rivestire". Dante fu anche allievo di Casella, il musico del secondo canto del Purgatorio a cui fa intonare la canzone "Amor che nella mente mi ragiona" (vv. 106-119), la cui musica però è andata perduta. Ben pochi brani musicali su versi di Dante ci sono pervenuti da parte dei suoi contemporanei e più in generale le composizioni su soggetto dantesco non furono moltissime da parte dei suoi coevi o nei secoli immediatamente successivi, anche perché questi videro un immotivato oblio della sua arte, che solo il Romanticismo provvide a rivalutare. Dai tempi di Dante si ha notizia solo della musica per la ballata "Deh violetta che in ombra d'amore" (la LXIII delle Rime), composta probabilmente da un certo Scochetto. Le cose migliorano leggermente con il fermento culturale e spirituale del Rinascimento e con il fiorire della polifonia vocale. In questo ambiente troviamo Luca Marenzio o Marenzi - nato probabilmente nel 1553 (la data è incerta) e morto a Roma nel 1599 – che fu compositore, cantore e liutista e soprattutto il più acclamato autore di madrigali del suo tempo. Questi occupano gran parte della sua produzione musicale, svolta in circa due decenni di attività nel corso dei quali produsse molti libri di madrigali a più voci tra cui dieci a cinque voci. E’ proprio nel IX Libro di madrigali a cinque voci che troviamo musicato il sonetto Cosi nel mio parlar voglio esser aspro che fu probabilmente scritto da Dante prima dell’esilio, intorno al 1296-98, ed appartiene al gruppo delle “Rime per la donna di pietra”. E’ il numero 103 nella classica edizione Barbi ed il 46 nella più recente edizione Contini. Il poeta descrive l’estrema violenza con la quale prima la donna e poi l’Amore stesso lo hanno aggredito sino a ridurlo in fin di vita; quindi auspica un mutamento della situazione e una ipotetica punizione con la quale l’Amore schianti la crudeltà della donna e le faccia sentire prima la violenza e poi la magnanimità dell’amante. Il tema della crudeltà della donna è un elemento innovativo rispetto alla tradizione stilnovistica che spesso rappresentava Amore come crudele, ma manteneva sempre la donna in una sfera più elevata, addirittura soprannaturale.

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Dante in musica

(I parte)

di Giorgio Ceccarelli Paxton

Premessa

Sono particolarmente grato all’Associazione culturale Nuove Tendenze del privilegio offertomi nell’ospitare sul suo sito un mio contributo nell’ambito dell’anno celebrativo del 750° anniversario della nascita di Dante Alighieri. Un pensiero a quello che è stato non solo uno dei più grandi poeti della storia dell’umanità, ma il fondatore della lingua italiana, e la cui modernità è ancora straordinariamente attuale, non poteva mancare da parte di una associazione come Nuove Tendenze che, nonostante il suo nome “future-minded”, si è sempre occupata di cultura, di alta cultura – e di tutta la cultura - , a 360 gradi.

Quanto segue è la ristrutturazione di una trasmissione dallo stesso titolo che ho curato agli inizi del 2015 per Radio Vaticana. Vi è qui una implementazione del testo originario, che, per gli scopi cui era dedicato – sostanzialmente ascolti musicali, quindi con notevole ristrettezza dei tempi dedicati alla parte divulgativa - risultava molto, anzi direi troppo, sintetico.

“DANTE IN MUSICA”, dunque, e non “La musica in Dante”. La distinzione è fondamentale, perché “La

musica in Dante”, anche se argomento di per sé fascinoso ed interessante, significherebbe una serie di disquisizioni di carattere filosofico ed estetico sul come la musica era concepita nel Medioevo, nel dolce stilnovo, in Dante, sulle arti del trivio e del quadrivio, sull’armonia delle sfere ecc. ecc. Al contrario, scopo di questo lavoro è quello di presentare e, per quanto possibile, analizzare compositori che abbiano scritto musica da ispirazione dantesca e sull’argomento “Dante”. “Dante in musica”, quindi, non solo per commemorare il 750° anniversario dalla nascita (ricordo le date di nascita e di morte: 1265-1321), ma per esplorare come l’universo dantesco, certamente quello della Commedia, ma anche quello minore della Vita nuova e delle Rime ma anche del Convito, sia stato affrontato nel corso della storia della musica non soltanto da autori quasi coevi al poeta fiorentino, ma, e questo può sembrare strano, soprattutto da compositori moderni e contemporanei. Un esempio per tutti: il compositore russo Boris Tischenko, morto nel 2010, compose un ciclo coreografico di ben cinque sinfonie, tutte ispirate dalle e alle opere di Dante. Ma di questo parleremo in seguito.

Per tornare a noi, tenteremo, in un breve excursus, di presentare una sintesi delle composizioni scritte per Dante e/o su testo dantesco, che sia quanto più possibile esaustiva, partendo da un criterio cronologico, basato sulla evoluzione delle opere del Poeta.

Le opere di Dante contengono un'erudita testimonianza letteraria sulla musica del suo tempo. Egli stesso si interessò di musica e, secondo Boccaccio "sommamente si dilettò in suoni e canti nella sua giovinezza, e a ciascuno che a quei tempi era ottimo cantore o sonatore fu amico ed ebbe sua usanza; ed assai cose da questo tirato compose le quali di piacevole e maestrevole nota a questi cotali facea rivestire". Dante fu anche allievo di Casella, il musico del secondo canto del Purgatorio a cui fa intonare la canzone "Amor che nella mente mi ragiona" (vv. 106-119), la cui musica però è andata perduta.

Ben pochi brani musicali su versi di Dante ci sono pervenuti da parte dei suoi contemporanei e più in generale le composizioni su soggetto dantesco non furono moltissime da parte dei suoi coevi o nei secoli immediatamente successivi, anche perché questi videro un immotivato oblio della sua arte, che solo il Romanticismo provvide a rivalutare. Dai tempi di Dante si ha notizia solo della musica per la ballata "Deh violetta che in ombra d'amore" (la LXIII delle Rime), composta probabilmente da un certo Scochetto.

Le cose migliorano leggermente con il fermento culturale e spirituale del Rinascimento e con il fiorire della polifonia vocale. In questo ambiente troviamo Luca Marenzio o Marenzi - nato probabilmente nel 1553 (la data è incerta) e morto a Roma nel 1599 – che fu compositore, cantore e liutista e soprattutto il più acclamato autore di madrigali del suo tempo. Questi occupano gran parte della sua produzione musicale, svolta in circa due decenni di attività nel corso dei quali produsse molti libri di madrigali a più voci tra cui dieci a cinque voci. E’ proprio nel IX Libro di madrigali a cinque voci che troviamo musicato il sonetto Cosi nel mio parlar voglio esser aspro che fu probabilmente scritto da Dante prima dell’esilio, intorno al 1296-98, ed appartiene al gruppo delle “Rime per la donna di pietra”. E’ il numero 103 nella classica edizione Barbi ed il 46 nella più recente edizione Contini.

Il poeta descrive l’estrema violenza con la quale prima la donna e poi l’Amore stesso lo hanno aggredito sino a ridurlo in fin di vita; quindi auspica un mutamento della situazione e una ipotetica punizione con la quale l’Amore schianti la crudeltà della donna e le faccia sentire prima la violenza e poi la magnanimità dell’amante.

Il tema della crudeltà della donna è un elemento innovativo rispetto alla tradizione stilnovistica che spesso rappresentava Amore come crudele, ma manteneva sempre la donna in una sfera più elevata, addirittura soprannaturale.

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Così nel mio parlar voglio esser aspro com’è ne li atti questa bella petra, la quale ognora impetra maggior durezza e più natura cruda, e veste sua persona d’un dïaspro tal che per lui, o perch’ella s’arretra, non esce di faretra saetta che già mai la colga ignuda; ed ella ancide, e non val ch’om si chiuda né si dilunghi da’ colpi mortali, che, com’avesser ali, giungono altrui e spezzan ciascun’arme: sì ch’io non so da lei né posso atarme… Marenzio musicò solo le prime due strofe [qui ed in seguito non riporterò le poesie nella loro completezza, ma

solo le strofe effettivamente musicate, per non appesantire il discorso: d’altronde le versioni complete sono ormai facilmente reperibili in internet], cosa che fece anche Vincenzo Galilei (1520-1591), il padre di Galileo, il quale fu un abile suonatore di liuto e di viola oltre che il dotto teorico della Camerata Fiorentina. La poesia era la stessa, ma la resa musicale fu completamente diversa, rispecchiando in ambo i casi la diversa estetica dei due compositori. Luca Marenzio privilegia la musica moderna (ovvero quella a lui contemporanea) nell'espressività del madrigale, con il libero uso di artifici e di un denso intreccio contrappuntistico. Le intenzioni narrative ed emozionali del testo sono ben sottolineate, con contrasti timbrici e dinamici, con accelerazioni e rallentamenti del ritmo, cromatismi, e l'isolamento di singole voci. Invece Vincenzo Galilei sostiene la superiorità della musica antica nei confronti di quella contemporanea, perché evidenzia il valore della parola e del canto, soprattutto attraverso la monodia, la semplicità e l'unità della declamazione, cioè i "virtuosi effetti", ed è rispettosa del ritmo poetico mentre il contrappunto, secondo Galilei, oscura il significato delle parole.

In totale le composizioni di vari autori su questa canzone “pietrosa” di Dante sono cinque: le rimanenti tre sono di autore anonimo. Galilei musicò anche l’episodio del Conte Ugolino ma è purtroppo andato perduto.

Prima di passare alla Vita Nuova, faccio una rapida deviazione verso quel personaggio che è sempre presente in

tutte le opere di Dante, e cioè Beatrice. Tale imponente presenza non poteva non essere notata da diversi autori che ne cantarono l’importanza nel mondo dantesco.

Boris Tischenko, nato a Leningrado nel 1939 e morto nella medesima città (che nel frattempo è diventata San Pietroburgo) nel 2010, fu allievo di Galina Ustvolskaja e di Dmitri Shostakovich, cui fu legato anche da grande amicizia e di cui divenne collaboratore in diverse liaisons musicali e biografiche. Fu un compositore prolifico che, anche se attratto da alcuni modernismi come il serialismo e la tecnica aleatoria, rimase sempre profondamente legato alle tradizioni culturali e musicali della propria terra. Qui ci interessa particolarmente – e ne riparleremo anche in seguito – perché dedicò al poeta fiorentino un ciclo sinfonico intitolato Beatrice formato da ben cinque sinfonie, contrassegnate come opus 123, composte tra il 1997 e il 2005. Esse sono ispirate non solo dalla Divina Commedia, ma anche dalla Vita Nuova, il Convito, le Rime ecc., insomma ci troviamo di fronte ad un attento lettore e studioso del mondo dantesco.

La struttura generale del ciclo prevede la Prima sinfonia come prologo al viaggio di Dante nell’altro mondo. La Seconda e la Terza trattano dell’Inferno, la Quarta del Purgatorio e la Quinta del Paradiso. Molto altro ci sarebbe da dire su queste composizioni, delle quali Tischenko stesso spiega diffusamente la simbologia e i significati, ma ci vorrebbe una nota dedicata esclusivamente a lui, cosa che eventualmente si potrà anche fare in futuro, perché è comunque un compositore che, anche al netto delle sue predilezioni dantesche, meriterebbe maggiore attenzione sia in campo concertistico sia in campo discografico. Ne riparleremo mano a mano nell’ambito della trattazione della Divina Commedia.

E’ poi da citare Granville Bantock (1868-1946) sinfonista inglese fortemente influenzato da Richard Wagner, ma anche interessato ad aspetti esotici, in particolare orientaleggianti come dimostrano alcuni titoli delle sue opere, The pearl of Iran, The burden of Babylon, Sapphic poem ecc. alcune delle quali anche basate su ispirazioni letterarie come Prometheus unbound su testo di Shelley, Three Browning songs, e così via.

Il secondo dei sei poemi sinfonici di sua composizione è intitolato Dante and Beatrice ed è del 1901, e fu completamente rielaborato nel 1910. Per esplicita ammissione dell’autore esso è inteso più come uno studio psicologico che mira a evocare stati della mente piuttosto che descrivere dettagliatamente episodi individuali. Le sue varie parti sono “Dante”, “La lotta tra Guelfi e Ghibellini”, “Beatrice”, “La visione dantesca dell’Inferno, Purgatorio, Paradiso”, “L’esilio di Dante”, “Morte di Dante”.

Dopo questa generica introduzione alle vicende dantesche strettamente collegate, come noto, al suo amore per Beatrice, vediamo più da vicino il sorgere di questo amore. Ci fa da guida la Vita Nuova, che è la prima opera di attribuzione certa di Dante Alighieri, assemblata tra il 1293 ed il 1295. Si tratta di un prosimetro nel quale sono inserite

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31 liriche (25 sonetti, 1 ballata, 5 canzoni) e 42 capitoli. Lo stesso Dante ci testimonia che il testo più antico risale al 1283, quando egli aveva diciotto anni, e che il più tardo risale al giugno del 1291, anniversario della morte di Beatrice. Non è questa la sede per una dettagliata analisi letteraria dell’opera, ma si può semplificarne la trama in tre momenti fondamentali della vita dell'autore: una prima fase in cui Beatrice gli concede il saluto, fonte di beatitudine e salvezza, una seconda in cui ciò non gli è più concesso, cosa che arreca in Dante una profonda sofferenza, una terza in cui Beatrice muore e il rapporto non è più tra il poeta e la donna amata, ma tra il poeta e l'anima della donna amata. Molte sono le rappresentazioni musicali di queste vicende e cercherò di citare tutte quelle più significative.

Iniziamo da un autore contemporaneo, il russo Vladimir Martynov , nato nel 1946 a Mosca, che nel 2007 ha dato la première di un’opera della durata di due ore e mezza, interamente desunta dal testo dantesco, intitolata, non a caso, La Vita Nuova. Il compositore sovrappone diversi stili, che non sempre si integrano perfettamente – evocazione di canti russi, musica sacra rinascimentale, romanticismo wagneriano, leitmotiv straussiani, atonalità, minimalismo ecc. Il libretto, di Edward Boyakov, è in latino chiesastico, italiano medievale e russo moderno. La varietà di questi stili, piuttosto che preludere ad un efficace sincretismo, sembra sfilacciare il tessuto narrativo rendendolo vagamente confuso. E’ comunque una valutazione strettamente personale che può naturalmente non essere condivisa.

Nell’VIII capitolo dell’opera Dante racconta di come fosse stato colpito dalla morte di una giovane amica di Beatrice, lamento espresso nel sonetto “Morte villana, di pietà nemica”. Morte villana, di pietà nemica, di dolor madre antica, giudicio incontastabile gravoso, poi che hai data matera al cor doglioso ond’io vado pensoso, di te blasmar la lingua s’affatica. E s’io di grazia ti voi far mendica, convenesi ch’eo dica lo tuo fallar d’onni torto tortoso, non però ch’a la gente sia nascoso, ma per farne cruccioso chi d’amor per innanzi si notrica. Dal secolo hai partita cortesia e ciò ch’è in donna da pregiar vertute: in gaia gioventute distrutta hai l’amorosa leggiadria. Più non voi discovrir qual donna sia che per le propietà sue canosciute. Chi non merta salute non speri mai d’aver sua compagnia.

[Vita Nuova, VIII 8-11]

Troviamo questa poesia musicata curiosamente da un compositore non notissimo. Othmar Schoeck nacque nel 1886 in un villaggio vicino al lago di Lucerna, in Svizzera, e studiò al conservatorio di Zurigo e poi con Max Reger a Lipsia. Nel 1908 tornò a Zurigo dove rimase fino alla morte avvenuta nel 1957, alternando l’attività di compositore con quella di direttore d’orchestra. Il suo repertorio compositivo comprende 3 opere: Venus, Massimilla Doni e Penthesilea, ma il grosso della sua produzione è nella composizione di Lieder nella più pura tradizione tedesca. In cinquant’anni di attività ne compose più di trecento per voce e pianoforte, con uno stile musicale che mostra una marcata tendenza verso tessiture ritmiche e armoniche complesse. Due sono i Lieder compresi nella sua op. 9, la cui particolarità è che sono gli unici Lieder, insieme ad un terzo presente nell’op. 31, su testi di poeti italiani. Il primo è di Michelangelo, il secondo è la messa in musica nella traduzione del letterato tedesco Richard Zoozman (1863-1934) (che dedicò tutta la sua vita alla traduzione di Dante) del suddetto sonetto, con il titolo tedesco Du, des Erbarmers feind, grausamer Tod.

Mario Castelnuovo Tedesco (Firenze 1895 - Los Angeles 1968) è stato tra le intelligenze musicali più vive della sua generazione. Pianista, accompagnatore, critico musicale, ma soprattutto compositore, è probabilmente ancora sottostimato in quanto tale, ma la sua arte è veramente universale, sia per l’eclettismo che lo contraddistinse, sia per la quantità della sua produzione, tutta di alto livello. Di particolare interesse i brani musicali ispirati da vari poeti, italiani e non (si pensi ai dodici volumi nei quali Castelnuovo Tedesco raccolse tutte le Songs contenute nei testi teatrali di

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Shakespeare), e naturalmente, nel nostro caso, quelli ispirati da Dante. Ben quattro sonetti della Vita Nuova furono da lui musicati:

1. Cavalcando l'altr'ier per un cammino IX/9-12 2. Ne li occhi porta la mia donna Amore XXI/2-4 3. Tanto gentile e tanto onesta pare XXVI/5-7 4. Deh peregrini che pensosi andate XL/9-10II Nel primo, secondo le parole di Dante: “dico sì com’io trovai Amore, e quale mi parea”. Cavalcando l'altr'ier per un cammino, pensoso de l'andar che mi sgradia, trovai Amore in mezzo de la via in abito leggier di peregrino. Ne la sembianza mi parea meschino, come avesse perduta segnoria; e sospirando pensoso venia, per non veder la gente, a capo chino. Quando mi vide, mi chiamò per nome, e disse: «Io vegno di lontana parte, ov'era lo tuo cor per mio volere; e rècolo a servir novo piacere». Allora presi di lui sì gran parte, ch'elli disparve, e non m'accorsi come.

(Vita Nuova, IX, 9-21) Un Amor pensoso e malinconico, svagato e distratto, che si avvicina a Dante riconoscendolo e prospettandogli

“novo piacer”. Ma le pene d’amore sono appena iniziate per il poeta. Il tutto è reso da Castelnuovo Tedesco con leggerezza melodica molto piacevole, con echi di stilemi musicali rinascimentali.

Nel capitolo XXI è presente un sonetto in cui Dante opera una estrema sintesi di cosa significhi Amore per lo

Stilnovismo. Gli occhi, i movimenti, il sorriso, il parlare della donna amata rendono “gentile” e quindi bello e buono tutto ciò che ella guarda, tutti coloro a cui ella sorride e parla: è una effusione, un uscire da sé, un donare bellezza, amore e dolcezza da parte della donna al mondo circostante assolutamente spontaneo e naturale. Il sonetto s’intitola “Negli occhi porta la mia donna Amore”.

Negli occhi porta la mia donna Amore, per che si fa gentil ciò ch'ella mira; ov'ella passa, ogn'om vèr lei si gira, e cui saluta fa tremar lo core, sì che, bassando il viso, tutto smore, e d'ogni suo difetto allor sospira: fugge dinanzi a lei superbia ed ira. Aiutatemi, donne, farle onore. Ogne dolcezza, ogne pensero umile nasce nel core a chi parlar la sente, ond'è laudato chi prima la vide. Quel ch'ella par quando un poco sorride, non si pò dicer né tenere a mente, sì è novo miracolo e gentile. Castelnuovo Tedesco musicò anche il celeberrimo “Tanto gentile e tanto onesta pare” dal capitolo XXVI; è

l’elemento centrale della seconda parte dell’opera Tanto gentile e tanto onesta pare la donna mia, quand'ella altrui saluta, ch'ogne lingua deven tremando muta, e li occhi no l'ardiscon di guardare. Ella si va, sentendosi laudare, benignamente d'umiltà vestuta; e par che sia una cosa venuta da cielo in terra a miracol mostrare.

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Mòstrasi sì piacente a chi la mira, che dà per li occhi una dolcezza al core, che 'ntender no la può chi non la prova: e par che de la sua labbia si mova un spirito soave pien d'amore, che va dicendo a l'anima: “Sospira!”

(Vita Nuova, XXVI) Di questo sonetto esiste anche la trascrizione pianistica che Franz Liszt (1811-1886) desunse dallo spartito

con cui Hans von Bulow (1830-1894) aveva musicato questo sonetto. Liszt è compositore troppo noto per soffermarsi sulla sua vita ed opere, ed è altrettanto nota la sua avidità per le trascrizioni. Riporto quindi solo un aneddoto: scritto da Hans von Bulow nel 1865 per soprano e pianoforte e dedicato alla contessa Julia Masetti, questo pezzo fu trascritto dieci anni dopo per pianoforte solista da Liszt. Lo stesso von Bulow, in una lettera a Louise von Welz ammise che la trascrizione di Liszt era più rifinita e completa dello spartito che lui stesso aveva composto.

La seconda parte della Vita Nuova si concludeva con la morte di Beatrice, la quale ormai è divinizzata a tal

punto che l’ultimo capitolo è una prefigurazione della Divina Commedia. Beatrice è una figura angelica e la sua funzione ormai è diventare fondamento di eterna salvezza. Tornando a Castelnuovo Tedesco, egli musicò anche il penultimo sonetto dell’opera. Alcuni pellegrini diretti a Roma passano per Firenze ed essi simboleggiano il pellegrinaggio intrapreso da ogni uomo verso la gloria dei cieli.

Deh! peregrini che pensosi andate, forse di cosa che non v'è presente, venite voi da sì lontana gente, com'a la vista voi ne dimostrate, che non piangete quando voi passate per lo suo mezzo la città dolente, come quelle persone che neente par che 'ntendesser la sua gravitate. Se voi restaste per volerlo audire, certo lo cor de' sospiri mi dice che lagrimando n'uscireste pui. Ell'ha perduta la sua beatrice; e le parole ch'om di lei pò dire hanno vertù di far piangere altrui.

(Vita Nuova, XL)

In questo vagare attraverso questa opera giovanile di Dante, incontriamo anche altri autori che ne musicarono alcuni sonetti. Autori famosi alcuni, altri meno. Tra questi ultimi c’è un compositore che probabilmente non molti conoscono: il trentacinquenne Nicolai Jacobsen, nato nel 1979 e attualmente residente in Texas. Nonostante la giovane età questo compositore ha vinto numerosi premi internazionali e ha avuto commissionati diversi lavori da prestigiosi solisti e complessi di musica classica. Le sue ispirazioni vengono dalla musica elettronica, dal rock progressivo e dalla musica tradizionale asiatica. Tra i suoi lavori cito Graft, Haru-no ime-ji, Sakura, Switter, Song for a winter’s night. Ma quello che qui ci interessa è una serie di quattro sonetti danteschi da lui musicati. La raccolta si intitola semplicemente “Dante’s Songs”, per tenore, corno francese e pianoforte.

Nel capitolo XXVIII della Vita Nuova Dante commenta l’improvvisa morte di Beatrice, commento che si protrae per i capitoli seguenti e che trova la sua acme nel capitolo XXXI nella canzone intitolata “Li occhi dolenti per pietà del core”, nella quale – per usare le parole di Dante “ragionassi di lei per cui tanto dolore si era fatto distruggitore della mia anima”.

Li occhi dolenti per pietà del core hanno di lagrimar sofferta pena, sì che per vinti son remasi omai. Ora, s'i' voglio sfogar lo dolore, che a poco a poco a la morte mi mena, convènemi parlar traendo guai. E perché me ricorda ch'io parlai de la mia donna, mentre che vivia, donne gentili, volontier con vui, non vòi parlare altrui,

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se non a cor gentil che in donna sia; e dicerò di lei piangendo, pui che si n'è gita in ciel subitamente, e ha lasciato Amor meco dolente.

(Vita Nuova, XXXI) Oltre al suddetto Jacobsen musicò anche altri due sonetti dalla Vita Nuova ed uno dalle Rime, una poesia etico-

politica intitolata “Ma tu, foco d’amor”: Se vedi li occhi miei di pianger vaghi per novella pietà che 'l cor mi strugge, per lei ti priego che da te non fugge, Signor, che tu di tal piacere i svaghi; con la tua dritta man, cioè, che paghi chi la giustizia uccide e poi rifugge al gran tiranno, del cui tosco sugge ch'elli ha già sparto e vuol che 'l mondo allaghi; e messo ha di paura tanto gelo nel cor de' tuo' fedei che ciascun tace. Ma tu, foco d'amor, lume del cielo, questa vertù che nuda e fredda giace, levala su vestita del tuo velo, ché sanza lei non è in terra pace.

(Rime, CV)

Sempre con la Vita Nuova nella borsa o nell’iPad, a seconda delle preferenze, viaggiamo metaforicamente nel tempo e nello spazio dal Texas contemporaneo di Jacobsen alla Russia dell’Ottocento con Sergeij Ivanovich Taneyev (1856-1910), che aveva studiato al Conservatorio di Mosca con Nikolaj Rubinstein e con Čaikovskij, coltivando anche molti altri interessi di grande spessore culturale come la storia, la matematica e la filosofia. I suoi viaggi in Occidente gli fecero conoscere Zola e Flaubert e una volta tornato in patria divenne professore al Conservatorio di Mosca, dove ebbe come alunni Skrjabin, Rachmaninov, Gliere, Medtner. Scrisse sia musica pianistica sia cameristica sia sinfonica, per lo più rimanendo ancorato alle tradizioni musicali russe e osteggiando le grandi innovazioni che caratterizzavano in quel momento la vita culturale del suo paese.

A noi interessa in questa sede perché il suo numero d’opera 26 contiene la messa in musica di dieci poesie di poeti occidentali tra cui Maeterlinck, Baudelaire, Rodenback. Le libere traduzioni furono desunte dalla raccolta “Gli Immortali” di Ellis, pseudonimo di Lev Koblinsky (1889–1947). La seconda di queste poesie è appunto una canzone di Dante tratta dal capitolo XXXII della Vita Nuova, il cui incipit è “Venite a intender li sospiri miei”. Questo brano, un Andante, fu composto nel 1908 originariamente per soprano e pianoforte e fu poi arrangiato dall’autore per voce, violino, violoncello e piano. La melodia, molto dolce e adatta al testo, si richiama alla grande tradizione liederistica russa di Glinka, Čaikovskij e Dargomitskij.

Venite a 'ntender li sospiri miei, oi cor gentili, chè pietà 'l disia: li quai disconsolati vanno via, e s'e' non fosser, di dolor morrei; però che gli occhi mi sarebber rei, molte fiate più ch'io non vorria, lasso! di pianger sì la donna mia, che sfogasser lo cor, piangendo lei. Voi udirete lor chiamar sovente la mia donna gentil, che si n'è gita al secol degno de la sua vertute; e dispregiar talora questa vita in persona de l'anima dolente abbandonata de la sua salute.

(Vita Nuova, XXXII)

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Per rimanere in Russia e sempre con questa opera cito il sonetto “Tanto gentile e tanto onesta pare” di cui ho parlato sopra, nella versione che ne diede Anton Rubinstein (1829-1894) con il titolo tedesco “Mit meinem Mädchen” come nr. 5 nella raccolta di Lieder op. 83.

Il sonetto ci rimane anche nella versione (1928) del pressoché sconosciuto compositore belga Norbert Rousseau (1907-1975), evidentemente innamorato della letteratura italiana da comporre non solo una Ouverture per la commedia di Goldoni 'Il Servo Di Due Padroni', Tre madrigali, Tre sonetti di Michelangelo, ma anche specificamente di Dante, di cui musicò un Oratorio con il Primo, Secondo, e Terzo canto dell’Inferno (1944) e la Incoronazione di Maria (1969).

Volendo qui concludere l’analisi di quest’opera, per passare oltre ricordo un poco valutato e poco eseguito compositore italiano, Ermanno Wolf-Ferrari (1876-1948). Il suo amore per Dante lo spinse a scrivere nel 1901 addirittura una Cantica per soprano, baritono, coro e orchestra op. 9 intitolata appunto La vita nuova, straordinaria per l’intensità melodica e la sicura cantabilità.

Prima di passare ai vari episodi della Divina Commedia, è necessario accennare a una serie di composizioni che, pur non riferendosi specificamente ad un episodio della stessa, trattano in generale dell’universo dantesco.

Se il sonetto Tanto gentile e tanto onesta pare trascritto da Liszt su musica di von Bulow, di cui ho trattato precedentemente non è più che un’esercitazione gradevole da annoverarsi fra i tanti trastulli musicali di cui questo compositore si dilettava, ben altro spessore hanno la Dante-Sonata: Après une lecture de Dante e la Dante-Symphonie in due movimenti. La Sonata, precedente alla sinfonia, essendo stata abbozzata nel 1837, rivela un rapporto evolutivo rispetto alla forma classica della sonata. Già il sottotitolo apposto da Liszt stesso: "Fantasia quasi sonata" è un indicatore della sostanza poetica del brano, immerso in pieno romanticismo musicale. Negli anni ’30 dell’Ottocento Liszt lesse attentamente, in compagnia di Marie d’Agoult, la Divina Commedia. Il primo titolo dato all’opera fu Paralipomènes a la Divina Commedia. Fantaisie Symphonique. Essa fu poi completata nel 1849 ed inserita come settimo ed ultimo pezzo negli Années de Pelerinage – Deuxième année: Italie. Per la sua lunghezza e la sua importanza è da considerarsi un brano autonomo, un vero e proprio poema sinfonico per pianoforte che adotta liberamente la forma-sonata in funzione esplicativa del contrasto dialettico tra i tormenti dell’Inferno e l’amore di Francesca da Rimini.

Passeranno quasi vent’anni e Liszt ritornerà a Dante, non più accompagnato dalla contessa d’Agoult (si separarono nel 1844, dopo dieci anni di appassionata convivenza) ma dalla principessa Carolyne von Sayn Wittgenstein, donna dotata di fascino straordinario non tanto per la sua bellezza fisica, ma soprattutto per la sua grande cultura letteraria a filosofica. A lei – “che ha perfezionato la sua fede con l’amore, arricchita la sua speranza attraverso il dolore, costruita la sua felicità con il sacrificio; a lei che è la mia vita, il firmamento del suo pensiero, la preghiera vivente, il cielo della mia anima” – Liszt dedicò i suoi poemi sinfonici. Se è vero che la principessa fu l’ispiratrice di molte delle composizioni di Liszt, l’esondazione di sentimenti che traspare dalla precedente citazione è simile alla primitiva dedica della Eine Symphonie zu Dantes Divina Commedia (abbozzata nel 1847 e conclusa con due finali nel 1855/56). Dedica a Wagner: “Come Virgilio guidò Dante, così tu m’hai guidato attraverso le misteriose regioni di mondi sonori ebbri di vita. Dal profondo del cuore t’invoca: Tu sei lo mio maestro e lo mio autore; e ti dedica quest’opera, pegno di un amore perennemente fedele, il tuo F. Liszt”.

In un primo momento Liszt voleva dividere la sua composizione in tre parti: Inferno, Purgatorio e Paradiso. Fu proprio Wagner a dissuaderlo su quest’ultima parte. Nessun essere umano, gli fece capire, può esprimere in musica la gioia e l’estasi del Paradiso. Così Liszt si orientò su due tempi, Inferno e Purgatorio. Dalla prima cantica attinse al canto III ( Per me si va…) e al V (Paolo e Francesca); dal Purgatorio al I canto (Dolce color d’oriental zaffiro…). Il brano finisce con il Coro lirico del Magnificat anima mea, Dominum (dal Vangelo di Luca, I, 46/55), in cui il contrasto tra le pene eterne (Inferno) e temporali (Purgatorio) si purificano nella solennità della preghiera alla Vergine.

Charles Wuorinen, compositore americano nato nel 1938, compose tra il 1993 e il 1996, una serie di tre

balletti, intitolata The Dante Trilogy, ognuno dei quali dedicato a ciascuna delle tre cantiche. Il primo, ispirato all’Inferno, è intitolato “La missione di Virgilio”, il secondo, ispirato al Purgatorio, si chiama “La grande processione”, il terzo, ispirato al Paradiso, si intitola “Il fiume della luce”. Ognuno di questi episodi si declina in una serie di sotto-episodi che seguono lo sviluppo dell’azione dantesca. “La grande processione” si riferisce specificamente al canto XXIX del Purgatorio, un canto tra i più simbolici. Il canto è dedicato pressoché per intero alla descrizione della processione simbolica che rappresenta la vicenda storica della Chiesa, costituendo una pausa didascalica che, con intenso fervore mistico, prepara l'arrivo di Beatrice nel canto successivo. La protagonista iniziale è ancora Matelda, che però ha qui l'unica funzione di accompagnare Dante alla visione delle figure, mentre Virgilio osserva la scena con lo stesso stupore del discepolo senza poter spiegare nulla, segno evidente del fatto che il suo ufficio di guida si è ormai definitivamente concluso (il maestro ha pronunciato le sue ultime parole nel poema alla fine del ventisettesimo canto del Purgatorio, e non parlerà più fino alla sua scomparsa nel trentesimo).

La Dante Trilogy comprende anche un’ultima parte dedicata al Paradiso, intitolata “The River of Light”. Il compositore lo descrive come “riflesso degli aspetti della cosmologia dantesca… e naturalmente caratterizzato dalla mia risposta alle straordinarie bellezze del poema e a quello che vogliono significare e trasmettere.” Il pezzo non si riferisce specificamente a versi precisi e identificabili, ma è un unico movimento pieno di grazia e spiritualità.

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Dante iniziò l’Inferno, la prima delle tre cantiche di cui è composta la Divina Commedia, nel 1304, due anni dopo l’inizio del suo esilio da Firenze. Motivi di tempo e di spazio consigliano di sorvolare l’analisi congiunta della vita del poeta insieme allo sviluppo della Commedia unitamente ai brani musicali ad essa ispirati. Dobbiamo focalizzarci su questi ultimi con necessari ma sintetici rimandi al poema. John Herbert Foulds (1880 –1939) è stato un compositore inglese appartenente al cosiddetto gruppo della “Rinascita musicale Britannica”. Autodidatta, compositore di musica classica di stampo leggero e di accompagnamenti per opere teatrali, si fece notare anche per lavori più ambiziosi come un World Requiem e, dopo un lungo soggiorno in India, per lavori che si richiamavano alle tradizioni musicali di quel paese come Three Mantras.

Visions of Dante op. 7 per coro e orchestra è un lavoro in tre parti composto tra il 1905 e il 1908, basato sulla Divina Commedia che Foulds conobbe nella traduzione di Longfellow. L’intera opera dura circa due ore ed è divisa in tre parti: Inferno, Purgatorio e Paradiso. La musica del Preludio si articola in tre scene: il Largo iniziale descrive “la foresta oscura” in cui Dante si è smarrito, subito dopo vi sono le “terribili apparizioni” (cioè le tre fiere) per arrivare poi all’ “arrivo di Virgilio, la Guida”. La musica è di stampo wagneriano sia come mondo sonoro, sia come orchestrazione e per l’uso dei Leitmotiv. Lo spartito nella sua interezza ebbe l’approvazione e il riconoscimento da parte di Elgar e Bantock, ma non fu mai eseguito né dal vivo né registrato in disco. Solo il Preludio di cui sopra è stato recentemente inciso su CD, e presto dovremmo avere la registrazione dell’intera opera.

Un altro prologo sinfonico alla Divina Commedia fu composto nel 1891 dal compositore tedesco Felix

Woyrsch (1860 - 1944). Musicista di secondo piano, egli si ispirò soprattutto a Brahms, Bach, Palestrina, Orlando di Lasso e Heinrich Schütz, e in genere a tutta la tradizione sinfonica tedesca. Ultimamente la sua musica inizia a interessare gli studiosi, che stanno cercando di rivalutare la sua figura. Fu comunque compositore prolifico che scrisse sette sinfonie, alcuni lavori orchestrali, tre opere, un centinaio di Lieder e un concerto per violino. Tra i lavori orchestrali spiccano quelli legati ad opere letterarie o pittoriche quali le “3 Böcklin-Fantasien” op. 53, L’Ouverture per l’Amleto di Shakespeare op. 56, Ode an den Tod op. 57 su testo di Hölderlin, e, quella che qui ci interessa maggiormente, il Prologo sinfonico alla Divina Commedia di Dante op. 40.

Enrique Costanzo Granados y Campiña (1867-1916), famoso compositore e pianista spagnolo di scuola impressionista è noto soprattutto come l’autore delle celebri Goyescas, ispirate ai dipinti di Goya, ma durante gli anni 1895-1910 lavorò a molti poemi orchestrali su larga scala, molti dei quali rimasero però incompiuti. Tra i più importanti che riuscì a terminare c’è il Dante, composto nel biennio 1907-8, la cui scrittura armonica e melodica è imparentata alla lontana con Wagner.

La prima parte, Dante e Virgilio, evoca l’epico viaggio che Dante intraprende con il poeta mantovano. Dopo una sobria apertura di corni e fiati, che richiama le pagine iniziali del Pelléas et Mélisande di Debussy, i violini si lanciano in un’affermazione appassionata e la musica cresce in intensità, con la preminenza del corno inglese. Gli ottoni e i violini risuonano minacciosi quando il viaggio si addentra nelle profondità dell’Inferno, rievocandone l’atmosfera. Lentamente la musica ritorna all’inizio, i violoncelli e i contrabbassi in calando – come in attesa – danno inizio al secondo episodio, l’incontro con Paolo e Francesca.

La Fantasia sinfonica e Fuga op. 57 di Max Reger (1873-1916) sottotitolata “Inferno” è esplicitamente

ispirata, secondo l’autore medesimo, all’Inferno di Dante: “è probabilmente la più difficile delle mie opere per organo tra quelle che finora ho composto”. In effetti l’enorme densità e la complessità di elementi orchestrali riproposti sull’organo segnano un punto di arrivo nella prassi compositiva di questo autore, almeno per quanto riguarda lo strumento cui dedicò tutta la vita e la maggior parte delle sue composizioni.

Alle porte dell’Inferno incontriamo, per soffermarci brevemente con lui, quel Boris Tischenko che avevo

citato in precedenza. La sua fu una vera e propria immersione nel poema dantesco. Ho già citato il ciclo sinfonico Beatrice op. 123 composto di cinque sinfonie, tutte intitolate “Dante”, ma ognuna delle quali ha una ulteriore citazione dantesca che guida alla sua comprensione. La Prima Sinfonia sottotitolata “Tra i vivi” è del 1997 ed è un Prologo al viaggio di Dante nel “mondo altro”. E’ un unico movimento di ventotto minuti e presenta Dante e Beatrice, entrambi bambini, con le descrizioni della morte di Beatrice ed il successivo esilio del poeta. Le due diverse tematiche sono rappresentate da stili musicali diversi. L’inizio tranquillo, luminoso, quasi arabescato muta in una musica insistente e aspra (di chiara derivazione shostakovichiana) che sfocia in una linea ondulata del violino, chiaramente malinconica, cui segue un Agitato percussivo e pieno di fermento.

La Seconda Sinfonia, composta nel 2000 è sottotitolata “Abbandonate ogni speranza voi che entrate” con chiaro riferimento alla scritta che troneggia sulla porta di ingresso dell’Inferno. Dura quaranta minuti ed è divisa in due parti: la prima parte, in forma sonata, è una cupa descrizione della “foresta oscura”, ma presto si ode lo stridore dei primi tre cerchi infernali con una scrittura musicale descrittiva, pittorica quasi filmica, con gli ottoni e i legni in evidenza. La seconda parte è anch’essa descrittiva con gli archi che riprendono i lamenti e le grida degli sfortunati dannati del quarto cerchio.

Tornando un attimo indietro in questo cammino musical-dantesco ci troviamo al III canto dell’Inferno e

precisamente alle terzine 22-27: “ Quivi sospiri, pianti e alti guai”, che introducono gli ignavi.

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Luzzasco Luzzaschi, organista e compositore (nato a Ferrara nel 1545 circa e ivi morto nel 1607), allievo di Cipriano de Rore e maestro di Gerolamo Frescobaldi, compose, fra l'altro, diversi libri di madrigali, notevoli per la loro tendenza a un cromatismo accentuatamente espressivo. Nel Secondo Libro dei Madrigali a cinque voci (Venezia 1576) compare un brano ispirato proprio ai suddetti versi del terzo canto dell'Inferno dantesco, in cui compare Celestino V, il papa del “gran rifiuto”.

Passato il Limbo ci troviamo nel secondo cerchio dell’Inferno dove sono puniti gli incontinenti lussuriosi. Il canto V dell’Inferno è il canto di Paolo e Francesca da Rimini e in questo episodio vi è forse la migliore

descrizione dell’Amore di tutta la letteratura mondiale, probabilmente superiore in quanto a possanza artistica e mirabile sintesi alle vicende più o meno analoghe di Giulietta e Romeo e di Tristano e Isotta. Con queste premesse non stupisce che sia l’episodio di tutta la Commedia che ha appassionato ed ispirato più di altri episodi i musicisti di tutte le epoche. Moltissimi sono i brani che lo descrivono, superati numericamente solo dalle vicende shakespeariane di Giulietta e Romeo. Non si può fare a meno di riproporre la più bella descrizione dell’amore di tutta la letteratura mondiale, della vera essenza dell’Amore.

Amor, ch'al cor gentil ratto s'apprende prese costui de la bella persona che mi fu tolta; e 'l modo ancor m'offende. Amor, ch'a nullo amato amar perdona, mi prese del costui piacer sì forte, che, come vedi, ancor non m'abbandona. Amor condusse noi ad una morte: Caina attende chi a vita ci spense». Queste parole da lor ci fuor porte. La reiterazione della parola “Amor” all’inizio di ogni strofa dà la sensazione dell’incalzare appassionato di

questo sentimento che “s’apprende”, si aggrappa, attecchisce solo ad un “cor gentil” e non ad un cuore vile, volgare, privo di sentimento. Quest’ultimo non può provare l’Amore. Esso è riservato solo ai cuori “gentili”. Non solo. “A nullo amato amar perdona” è tra le più belle definizioni dell’amore mai concepita. Chi è amato non può fare a meno di amare. L’Amore non “perdona” coloro che sono amati: essi devono ri-amare: questa è l’essenza dell’Amore. Il quale, quindi, non solo è “riservato” ai cuori gentili, ma costoro non sono nella condizione di non riamare coloro che li ama. Chi ama, è riamato. Chi è amato è destinato a provare una corresponsione amorosa verso chi lo ama.

Inizio la rassegna delle composizioni dedicate a questo episodio con il poema sinfonico Francesca da Rimini

op. 77 in mi minore di Antonio Bazzini (1818-1897), insigne e famoso violinista del suo tempo ma anche interessante compositore. Nel 1843 Robert Schumann, uno che di musicisti se ne intendeva, scrisse di lui: “Se Bazzini avesse a perdere la mano sinistra e dovesse di conseguenza rinunciare al violino, egli potrebbe e saprebbe rendersi grande con la destra: scrivendo, egli sarebbe certamente annoverato fra i migliori compositori italiani”. Questa Francesca da Rimini, composto in una prima versione nel 1879 redatto poi nella versione definitiva nel 1885, è un tipico poema sinfonico che apre la strada al poema sinfonico in Italia, che troverà poi i suoi fasti in Ottorino Respighi e in altri compositori.

Arthur William Foote (1853 – 1937) fu un compositore americano membro della scuola di Boston o "Boston

Six." Insigne organista, musicologo, insegnante, come compositore si ispirò a Brahms e in genere alla tradizione romantica europea. Rimangono di lui alcune importanti opere cameristiche, anche se in questa sede ci interessa per la sua composizione Prologo Sinfonico Francesca da Rimini op. 24 del 1890. La composizione è in forma-sonata, tipica per una Ouverture da concerto. Nonostante alcuni richiami precisi al testo poetico l’opera non deve essere confusa con un poema sinfonico. Non è una pittura o descrizione degli avvenimenti, ma in realtà la musica vuole trasportare su un piano più metafisico, dipingendo il contrasto esistente tra la forza dell’amore e la forza coercitiva della società e della religione, una incompatibilità che causa la rovina di Francesca. E’ lo stesso compositore a spiegare che proprio alla fine del brano la musica richiama i versi danteschi “Nessun maggior dolore/che ricordarsi del tempo felice/nella miseria” (Inferno, V, 121-123) che egli aveva posto come esergo allo spartito.

E’ qui interessante ricordare un brevissimo Lied (dal numero di catalogo H 114) intitolato Nessun maggior

piacere (sempre ispirato da Inferno V, 121-123) di Hector Berlioz (1803-1869). Berlioz rovescia i concetti espressi da Dante e dice: Nessun maggior piacere che ricordarsi d’un tempo infelice nella fortuna!

Diversa atmosfera si respira con il compositore svizzero Pierre Maurice (1868-1936) che, studiando in

Francia con Massenet e Fauré, non potè fare a meno di assimilare le caratteristiche tipiche del sinfonismo francese, che poi riversò nelle numerosissime opere di sua composizione intrise di colorismo impressionistico alla Ibert e alla Rabaud. Il poema sinfonico Francesca da Rimini da Dante op. 6 di Maurice, composto nel 1899, è volutamente

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descrittivo del canto V della Commedia e richiama le atmosfere romantiche dei compositori russi fine secolo, essendo stato composto in definitiva solo 25 anni dopo l’omonimo poema di Čaikovskij.

Visto che ho citato il compositore russo, tipico esponente del romanticismo di questa nazione, e che siamo in

tema di poemi sinfonici, è il momento di analizzare la Francesca da Rimini – Fantasia sinfonica op. 32 di Piotr Ilich Čaikovskij (1840-1893). Scritta in tre settimane nell’ottobre del 1876, dopo aver letto in treno verso Parigi l’episodio dantesco, Čaikovskij canta l’amore nell’episodio centrale, l’Andante cantabile, che è anche il punto culminante dell’intero poema. L’ispirazione del compositore delinea il turbine di tutti i dolori che si aggira nel ciclone infernale, ma anche l’elegia d’amore marcata di rimpianto e di rassegnazione. La musica racconta con umana pietà il destino tragico e l’eterno dolore delle anime vinte dalla passione e destinate ad una fatale ed eterna dannazione.

Čaikovskij fu appassionato da episodi analoghi, basti citare i suoi poemi sinfonici Romeo e Giulietta, Hamlet, ecc. e anche la sua Sesta Sinfonia, la Patetica che denota la stessa profonda passionalità. Ma passiamo oltre.

Paul August von Klenau (1883-1946) compositore e direttore d’orchestra di origine danese, allievo di Max Bruch, scrisse opere teatrali di derivazione wagneriana, balletti, lavori sinfonici, vocali e da camera, che trovarono maggior fortuna in Austria e Germania che nella madrepatria. La Quarta Sinfonia cosiddetta Sinfonia Dante (del 1924), è basata sulla sua Fantasia-Inferno, un insieme di lavori che vedono il loro punto di partenza nella visione dantesca dell’Inferno nella Divina Commedia. Essa comprende tre sezioni: “Discesa all'Inferno”, “Paolo e Francesca”, “Ugolino”. La sezione “Paolo e Francesca” costituiva originariamente il movimento lento della Sinfonia. Con stilemi musicali aspri e rigidi descrive la discesa di Dante all’Inferno seguita dai lamenti degli spiriti che sono sferzati dalla tempesta. La lunga sezione centrale narra dell’intensa storia d’amore dei due amanti. Il poema sinfonico finisce con l’evocazione del dolore di Dante sul crudele fato dei protagonisti della vicenda.

Boris Blacher (1903-1975), importante compositore tedesco, inviso ai nazisti per il modernismo delle sue

composizioni, fu musicista versatile che si ispirò a Stravinskij, Milhaud, Bartók, Berg, alla dodecafonia e successivamente anche alla musica elettronica.

Qui ci interessa soprattutto per il duetto soprano e violino intitolato Francesca da Rimini del 1954. E’ un tipo speciale di duetto. Il soprano ed il violino si incontrano l’un l’altro su una superficie sdrucciolevole di metriche variabili nel cui mondo il compositore usava vivere intensamente in quegli anni. Nelle prime settanta battute si ode solo il violino, poi esso accompagna la voce, qualche volta brevemente, qualche volta con elementi musicali drammaturgici estesi. Sotto un “AH!” infinito del soprano, il violino comincia nuovamente la sua attività e trova la sua via in un colloquio avventuroso con la cantante.

Altri compositori più o meno grandi, più o meno famosi, dedicarono la loro arte compositiva a questo episodio. Inizio una serie di mere citazioni con Ludovico Balbi (?-1604) che mise in musica i versi 4-12 del quinto

canto dell’Inferno (Stavvi Minos e orrendamente ringhia) nei suoi Capricci a sei voci del 1586. Francesco Morlacchi (1784-1841) iniziò la composizione di un’opera, Francesca da Rimini, su libretto di

Felice Romani, rimasta incompiuta. Di lui ricordo anche l’importante cantata Lamento del Conte Ugolino (basato sul canto XXXIII dell’Inferno), in due versioni una per soprano e quartetto d’archi e un’altra per baritono e pianoforte (1832).

Anche Gaetano Donizetti (1797-1848) scrisse una analoga cantata per baritono basso e pianoforte intitolata Il

Conte Ugolino (1828), dedicata a Luigi Lablache quale tangibile segno di gratitudine per la splendida interpretazione del celebre basso nella sua opera “L’esule di Roma”. Ma la scrittura vocale non riesce a competere con la forza dei versi del canto XXXIII dell’Inferno dantesco. Rossini così commentò in una occasione: “ Ho udito che a Donizetti è venuta la melanconia di mettere in musica un canto di Dante. Mi pare questo troppo orgoglio: in un’impresa simile credo che non riuscirebbe il Padre Eterno, ammesso che egli fosse maestro di musica”. In ogni caso per Donizetti la scelta di tale soggetto in questa particolare fase della sua carriera è indicativa dell’intenzione di mettere in musica vicende tragiche o addirittura raccapriccianti. Il compositore scrisse anche una tragedia lirica in due parti, Pia de’ Tolomei, ispirata all’omologo personaggio del canto V del Purgatorio.

Tornando a Francesca da Rimini, il librettista Felice Romani fu tra i più famosi e prolifici del suo secolo per

quanto riguarda la stesura di libretti d’opera. Ne scrisse molti anche per Saverio Mercadante (1795-1870) operista molto prolifico che compose nel 1831 un melodramma in due atti intitolato appunto Francesca da Rimini.

Ancora qualche citazione di composizioni sullo stesso personaggio – Francesca da Rimini: l’opera di Sergej

Rachmaninov (1873-1943), la tragedia in quattro atti di Riccardo Zandonai (1883-1944) e la Grand Fantasia su Françoise de Rimini di Ambroise Thomas (1811-1896).

Ed ancora: un Lied di Gaetano Donizetti ispirato al verso 80 del V Canto intitolato O anime affannate; l’intero Canto V musicato per soprano e pianoforte da Vincenzo Battista (1823-1873); la Ouverture Francesca da Rimini composta da Hermann Goetz (1840-1876); il compositore e contrabbassista italiano Antonio Scontrino (1850-1922) compose nel 1901 gli Intermezzi per la musica di scena della Francesca da Rimini di D’Annunzio; Luigi

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Mancinelli (1848-1921) scrisse un Paolo e Francesca, dramma lirico in un atto; il compositore ungherese Emil Abranyi (1882-1970) compose addirittura un’opera in tre atti, Paolo és Francesca.

E così via. Vi sono indubbiamente altre composizioni ispirate a questo evento dell’Inferno dantesco, ma non ho la pretesa di essere esaustivo per cui lasciamo gli sfortunati Paolo e Francesca al loro triste destino e continuando il viaggio nell’Inferno dantesco arriviamo al canto VII, dove troviamo nel quinto cerchio gli iracondi e gli accidiosi, immersi nella palude del fiume Stige.

E io, che di mirare stava inteso, vidi genti fangose in quel pantano, ignude tutte, con sembiante offeso. Queste si percotean non pur con mano, ma con la testa e col petto e coi piedi, troncandosi co’ denti a brano a brano. ………………. Fitti nel limo, dicon: "Tristi fummo ne l’aere dolce che dal sol s’allegra, portando dentro accidioso fummo: or ci attristiam ne la belletta negra".

Poul Ruders è un compositore danese nato nel 1949 a Ringsted che sta avendo un buon successo sia in patria

sia all’estero, con le opere Tycho, The Handmaid’s Tale, Kafka’s Trial, oltre ad aver scritto quattro sinfonie e un paio di concerti per pianoforte.

La sua Sonata per pianoforte nr. 1 (o Dante Sonata) fu composta nel 1970 ed è costituita da due movimenti: Maestoso e Grave molto. E’ una sonata programmatica essendo ispirata e basata proprio sul VII Canto dell’Inferno, il cerchio degli Iracondi, cui Ruders fa un preciso riferimento ai suddetti versi 109/115 e 121/124.

Il materiale sonoro è tradizionale, con tonalità libere, accordi ripetuti che si alternano con passaggi virtuosistici. Le battute dal primo movimento Maestoso richiamano onomatopeicamente le percosse che gli iracondi si infliggono l’un l’altro.

Intorno al 1904 Giacomo Puccini (1858-1924) iniziò la pianificazione di una serie di opere in un atto, avendo

in mente di riprendere ciascuna delle tre cantiche di Dante, tuttavia alla fine basò solo il Gianni Schicchi sul poema di Dante. Gianni Schicchi de’ Cavalcanti fu un personaggio storico che Dante pose nella decima e ultima bolgia (falsari) dell’ottavo cerchio (fraudolenti) (XXX canto dell’Inferno).

Dopo l’episodio possente e straziante del Conte Ugolino, di cui ho dato brevemente conto più sopra, ci si avvia

verso la conclusione della cantica. “E quindi uscimmo a riveder le stelle” è l’ultimo verso del trentaquattresimo canto dell’Inferno. Finalmente

Dante e Virgilio sono fuori dalle mefitiche arie infernali (dal “mar crudele”, “ dall’aura morta” per usare le parole del poeta) e si apprestano a conoscere il “secondo regno”, cioè il Purgatorio, descritto nella seconda cantica scritta tra il 1309 e il 1313.

(continua)

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