Dante Alighieri - La Divina Commedia: Inferno - Commento ed Esegesi ai canti I, III, V, VI, X, XIII

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INTRODUZIONE AL CANTO I Questo primo canto fa da prologo all’Inferno e a tutta la Commedia dando risalto all’antica e Dantesca visione di armonia traducibile in 3+1. Trentatré sono i versi di ogni canto, infatti, più uno finale e trentatré sono i canti di ogni cantica più uno iniziale per un totale di cento canti. Da subito veniamo messi di fronte a forti elementi simbolici in un luogo estraneo al mondo che conosciamo: la selva, la piaggia, il colle sono simboli di male e bene, tenebra e luce, dannazione e felicità, i quali vanno però a confrontarsi con un personaggio vero, reale che esprime in un contesto così irreale sentimenti veri come la paura e la speranza. Assieme a lui un’altra figura, quella della guida, che fu reale in un’altra epoca storica e che ora ha funzione di faro. Questi tre elementi (l’allegorico, il reale e quella via di mezzo rappresentata da Virgilio) saranno sempre presenti all’interno di tutta la Commedia permettendo all’opera di spaziare con una certa facilità dal campo della morale a quello del contesto storico. Due elementi che risaltano subito agli occhi del lettore sono quelli del cammino, inteso come azione atta a raggiungere una meta, una patria per il singolo uomo e la beatitudine per il peccatore; e quello dell’universalità. Dante infatti parla spesso usando il “noi” facendo riferimento al fatto che quel tipo di situazione, quel tipo di viaggio e quel tipo di peripezie dovrebbero essere vissute da ogni uomo per poter giungere alla felicità. Lo schema del canto è abbastanza semplice soprattutto perché essendo il primo deve evidenziare i tratti che dovranno essere tipici di tutta l’opera: c’è un uomo, un peccatore, che si trova perso in una selva; il paesaggio è reale ma metaforico. Ad un’iniziale sensazione di smarrimento ne segue una di speranza quando egli vede la luce provvidenziale rischiarare un alto monte, ma la vetta gli viene proibita da tre bestie che si pongono davanti a lui, incarnazione di tutti i mali. A questo punto giunge, non richiesto, l’aiuto di una figura fortemente amata dal protagonista che gli propone la salvezza passando per i campi della dannazione e della purificazione, l’Inferno e il Purgatorio. C’è l’incontro di due tempi, storico e metastorico, che rende l’opera senza tempo, l’incontro personale ma che ne riflette uno spirituale e il linguaggio è infine quotidiano ma caricato di storia e simbolismi e viene quindi ad assumere spesso un carattere alto, sapienzale ed eterno, riflesso stesso della voce di Dio. Viene introdotto l’elemento del Veltro che scaccerà la Lupa, che altri non è che l’imperatore in Terra. Qui di nuovo abbiamo l’universalità del racconto, la vicenda non è più del singolo, o meglio non solo, ma di tutta l’umanità e solo grazie ad un intervento provvidenziale potrà mutare nella società e nelle umane coscienze, sempre se accetterà di farsi guidare per comprendere i regni del male e seguire le vie della purificazione. CANTO I 1. Giunto a metà del cammino della nostra vita umana. Si presuppone che l’opera sia stata ambientata il venerdì Santo del 1300 quando Dante aveva 35 anni, quindi la metà della vita media di un uomo. Ci vene subito paragonata la vita d un cammino, che presuppone una meta, azione fisica e figurata, dal punto di vista terrestre e celeste (cammino verso la salvezza) che accompagnerà tutta la Commedia. - Nostra: anche se il poema è scritto in prima persona appare subito un altro fattore importante: l’accomunare attraverso i valori descritti tutta l’umanità, nel peccato e nella beatitudine. 2. Mi ritrovai: Dante si ritrova ad essere, prende coscienza di essersi smarrito (anche figurativamente) ed il primo sentimento che ci viene descritto è quello di sgomento e paura. Metaforicamente potremmo dire che la presa di coscienza dello smarrimento identifica anche l’inizio della conversione. - Per una selva oscura: indica l’antica immagine di luogo angusto e simbolo del male, oltre che dare moto all’avventura di Dante. Egli si trova a percorrere (per) questo luogo buio, dove il buio indica errore e male in quanto è in contrapposizione alla luce del bene di Dio. Non è da escludere che questo stato si possa riferire anche ad un periodo di traviamento personale dello scrittore. 3. Che: poiché, giacché. Ma anche: “nella situazione di aver smarrito la via”

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La Divina Commedia di Dante Alighieri Commento ed esegesi ai canti I, III, V, VI, X, XIII

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INTRODUZIONE AL CANTO I

Questo primo canto fa da prologo all’Inferno e a tutta la Commedia dando risalto all’antica e Dantesca visione di

armonia traducibile in 3+1. Trentatré sono i versi di ogni canto, infatti, più uno finale e trentatré sono i canti di ogni

cantica più uno iniziale per un totale di cento canti. Da subito veniamo messi di fronte a forti elementi simbolici in un

luogo estraneo al mondo che conosciamo: la selva, la piaggia, il colle sono simboli di male e bene, tenebra e luce,

dannazione e felicità, i quali vanno però a confrontarsi con un personaggio vero, reale che esprime in un contesto così

irreale sentimenti veri come la paura e la speranza. Assieme a lui un’altra figura, quella della guida, che fu reale in

un’altra epoca storica e che ora ha funzione di faro. Questi tre elementi (l’allegorico, il reale e quella via di mezzo

rappresentata da Virgilio) saranno sempre presenti all’interno di tutta la Commedia permettendo all’opera di spaziare

con una certa facilità dal campo della morale a quello del contesto storico.

Due elementi che risaltano subito agli occhi del lettore sono quelli del cammino, inteso come azione atta a

raggiungere una meta, una patria per il singolo uomo e la beatitudine per il peccatore; e quello dell’universalità. Dante

infatti parla spesso usando il “noi” facendo riferimento al fatto che quel tipo di situazione, quel tipo di viaggio e quel

tipo di peripezie dovrebbero essere vissute da ogni uomo per poter giungere alla felicità.

Lo schema del canto è abbastanza semplice soprattutto perché essendo il primo deve evidenziare i tratti che dovranno

essere tipici di tutta l’opera: c’è un uomo, un peccatore, che si trova perso in una selva; il paesaggio è reale ma

metaforico. Ad un’iniziale sensazione di smarrimento ne segue una di speranza quando egli vede la luce provvidenziale

rischiarare un alto monte, ma la vetta gli viene proibita da tre bestie che si pongono davanti a lui, incarnazione di tutti

i mali. A questo punto giunge, non richiesto, l’aiuto di una figura fortemente amata dal protagonista che gli propone la

salvezza passando per i campi della dannazione e della purificazione, l’Inferno e il Purgatorio. C’è l’incontro di due

tempi, storico e metastorico, che rende l’opera senza tempo, l’incontro personale ma che ne riflette uno spirituale e il

linguaggio è infine quotidiano ma caricato di storia e simbolismi e viene quindi ad assumere spesso un carattere alto,

sapienzale ed eterno, riflesso stesso della voce di Dio.

Viene introdotto l’elemento del Veltro che scaccerà la Lupa, che altri non è che l’imperatore in Terra. Qui di nuovo

abbiamo l’universalità del racconto, la vicenda non è più del singolo, o meglio non solo, ma di tutta l’umanità e solo

grazie ad un intervento provvidenziale potrà mutare nella società e nelle umane coscienze, sempre se accetterà di

farsi guidare per comprendere i regni del male e seguire le vie della purificazione.

CANTO I

1. Giunto a metà del cammino della nostra vita umana. Si presuppone che l’opera sia stata ambientata il venerdì Santo

del 1300 quando Dante aveva 35 anni, quindi la metà della vita media di un uomo. Ci vene subito paragonata la vita d

un cammino, che presuppone una meta, azione fisica e figurata, dal punto di vista terrestre e celeste (cammino verso

la salvezza) che accompagnerà tutta la Commedia.

- Nostra: anche se il poema è scritto in prima persona appare subito un altro fattore importante: l’accomunare

attraverso i valori descritti tutta l’umanità, nel peccato e nella beatitudine.

2. Mi ritrovai: Dante si ritrova ad essere, prende coscienza di essersi smarrito (anche figurativamente) ed il primo

sentimento che ci viene descritto è quello di sgomento e paura. Metaforicamente potremmo dire che la presa di

coscienza dello smarrimento identifica anche l’inizio della conversione.

- Per una selva oscura: indica l’antica immagine di luogo angusto e simbolo del male, oltre che dare moto

all’avventura di Dante. Egli si trova a percorrere (per) questo luogo buio, dove il buio indica errore e male in

quanto è in contrapposizione alla luce del bene di Dio. Non è da escludere che questo stato si possa riferire

anche ad un periodo di traviamento personale dello scrittore.

3. Che: poiché, giacché. Ma anche: “nella situazione di aver smarrito la via”

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- La diritta via: la via della virtù. Più precisamente potremmo dire che una visione evangelica vuole che l’anima

dell’uomo appartenga e nasca da Dio e che quando l’uomo stesso, per via del libero arbitrio, se ne distacca

smarrisce appunto la diritta via e deve “incamminarsi” per ritrovarla.

- Era smarrita: non perduta. Perché la volontà di ritrovarla da la possibilità che questo accada. Questa prima

terzina ci da un’ampia dimostrazione di come tutto il poema si basi su fatti e personaggi storici e reali e allo

stesso tempo voglia fornire elementi di tipo metafisico, propri dell’animo umano.

4. Ahi quanto a dir: viene introdotto il primo commento, tipico riflesso della condizione di errore, che sostanzialmente

significa: “com’è difficile ripetere a parole”.

- Dura: difficile, faticoso. Come si vedrà al verso 6, il solo pensiero fa tremare il poeta.

5. Selva selvaggia: con questa annominatio – cioè il ripetere lo stesso concetto con due parole diverse – il poeta vuole

enfatizzare il senso di terrore che viene generato in lui, ribadendolo anche con i termini “aspra e forte”.

6. Che nel pensier: che al sol pensiero. C’è una coscienza che si risveglia in virtù del luogo in cui si trova l’individuo che

“rinnova” – quindi fa ricordare – quanto tutto ciò sia spaventoso.

7. Tant’è amara: tale condizione (la selva) è così amara che la morte, l’ultima delle cose terribili, lo è poco di più.

L’aggettivo “amara” è sapientemente utilizzato in quanto già dai testi biblici dava l’idea di negatività perché così come

la lingua giudica amaro un cibo quando ne viene a contatto l’intelletto giudica il vizio. Inoltre aumenta di intensità e

valore semantico se consideriamo l’allitterazione che si viene a formare con la parola “morte”.

8. Ma: per quanto, comunque, risulti così difficile parlarne

- Per trattar: per poter parlare anche delle cose belle, giuste, che ho incontrato in questo viaggio. Per indicare,

fondamentalmente, a tutti la via della salvezza.

9. dirò: tratterò anche di, tratterò prima di. Allude alle tre fiere, che incontrerà di li a poco.

11. Pien di sonno: è il sonno mentale o dell’anima, la cupidigia che spinge l’uomo al peccato. È un altro riferimento

fortemente biblico in quanto anche nelle sacre scritture è il sonno ad ottenebrare la mente e spingere l’uomo a

peccare. Allo stesso tempo Dante giustifica la sua presenza nella selva oscura, così come quella di ogni peccatore,

ammettendo che l’errore, il peccato, lo smarrimento oltre che dal libero arbitrio sono causati da fattori esterni e

ingovernabili. Si chiude quindi il cerchio dei significati: Dante è nella selva per motivi ber precisi ma accecato dal sono,

il peccatore smarrisce la via per cause proprie ma senza avere tutte le colpe. Nella terzina seguente avviene il

cambiamento.

12. la verace via: la diritta via, quella della virtù.

13. Ma: introduce un cambiamento, l’inizio della speranza.

- Al piè di un colle: alle pendici di un monte, che dall’lato è rischiarato dai raggi divini. Qui è evidente la

metafora dell’arduo cammino per uscire dalla selva (il peccato) e raggiungere la salvezza. Il colle

probabilmente identifica anche il Purgatorio, al quale dante però ora non può accedere se non passando

prima per le cerchie infernali, infatti il suo cammino verrà ostacolato dalle tre fiere.

14. Valle: è appunto la selva. Indicata stavolta da un luogo basso, posto più in basso dell’altezza del monte.

15. Compunto: punto, colpito, afflitto.

16. Guardai in alto: il gesto è decisivo: l’uomo è smarrito nella selva e finora ha guardato in basso solo le cose

temporali mentre ora alza il capo verso le cose alte ed eterne. E’ in forte contrapposizione con il “mi ritrovai” iniziale.

- Le sue spalle: la sommità.

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17. Vestite già: ancor prima che sorgesse il sole. L’ora è mattutine e quel bagliore indica che le cose potrebbero

volgere al meglio.

- Pianeta: il sole. Secondo l’astronomia tolemaica seguita da Dante infatti il sole era uno di quei pianeti che

giravano attorno alla Terra. Come nell’ampia letteratura biblica al quale il poeta ha fatto riferimento, qui il

sole identifica Dio.

18. Che mena dritto: che conduce tutti gli uomini (“altrui”) per la diritta via.

20. Lago del cor: il cuore è un organo concavo dove circola il sangue e secondo le credenze di alcuni la sede dei

sentimenti umani e degli spiriti vitali.

21 – La notte: oltre ad indicarci che ha passato tutta la notte a vagare in quella selva, questa parola identifica anche il

tempo del traviamento personale, quando cioè il peccatore pecca e si trova nel peccato.

- Pieta: affanno, tormento

22-7 – E come quei che: come colui che, uscito dal mare in tempesta (pelago) e giunto a riva, con il respiro (lena),

ancora assente per lo sforzo si volge indietro. È una similitudine che, come tante, è composta da due terzine e

presenta un primo aspetto figurativo e uno figurato cioè un esempio concreto che indica uno stato d’animo. In questo

caso si fa riferimento al naufrago scampato alla furia delle acque che si volta terrorizzato al mare, allo stesso modo

fece il poeta con la selva.

24 – guata: guarda.

25 – ch’ancor fuggiva: il corpo era fermo, ma lo spirito era ancora in movimento. Simbolisticamente rappresenta il

punto più alto del periodo

26 – lo passo: il “lo” viene utilizzato secondo le regole dell’italiano antico quando “il” dovrebbe seguire una parola che

termina in –r. Anche qui vale la similitudine fra l’acqua pericolosa (perigliosa) e la selva oscura.

27 – Che non lasciò: questo passo è abbastanza controverso ma se dovessimo attenerci all’interpretazione sintattica

del contesto, che comunque regge, potremmo dire che c’è questo “passo”, quindi questo posto che può essere

l’acqua per il naufrago, la selva per il poeta, il peccato per il peccatore, dal quale nessuno riesce a sopravvivere se non

trova un modo per scamparne.

29 – piaggia: è quel terreno in leggera salita fra la pianura e la montagna. C’è poi quel “diserta” che le attribuisce

valore metaforico in quanto “piaggia diserta” identifica appunto quel deserto nel quale l’uomo cammina sforzandosi

di raggiungere il bene.

30 – sì che ‘l piè fermo…: oltre al senso letterale, quello cioè che dice che essendo il piede fermo, quello stabile,

quello posto più in basso e quindi che il nostro personaggio sta intraprendendo un percorso in salita, possiamo notare

l’immagine religiosa dei due piedi i quali vanno uno verso il bene ed uno verso il male. Quello fermo è quello più

attaccato alle cose terrene mentre quello che si muove, che va verso l’alto e verso la redenzione è incerto.

31 – Ed ecco: forma d’attacco molto frequente in Dante che identifica un nuovo avvenimento improvviso. È anche un

buon contrasto con le parole abbastanza blande che descrivevano un’atmosfera abbastanza statica delle terzine

precedenti.

- Erta: la salita del colle alla fine della piaggia.

32 – una lonza: un felino dal pelo macchiato che Dante probabilmente ha visto in gabbia presso il palazzo del Comune

a Firenze, quindi anche noto e conosciuto ai fiorentini. Esso identifica il primo dei tre mali che portano ai peccati

dell’umanità: la lussuria. Letteralmente l’animale impedisce a Dante di proseguire verso la sommità del colle,

allegoricamente, assieme alle altre due fiere, gli impedisce di arrivare alla salvezza dell’anima.

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- Presta: veloce

36 – Più volte vòlto: altra figura retorica, altra annominazio, come al verso .5

37 – Temp’era…: Altra pausa di speranza, di nuovo parole dolci. Il tempo mattutino, il periodo della primavera

identificano tutte e due l’inizio della vita nella letteratura cristiana e lo inducono a sperare. Da qui intrinsecamente

questo sentimento di speranza crescerà sempre di più, fino a concretizzarsi con l’apparizione di Virgilio.

38 – quelle stelle: la costellazione dell’Ariete, nella quale il sole si trovava ad inizio primavera, stagione in cui si

credeva fosse stato creato il mondo.

39-40 – Quando l’amor divino…: quando Dio in tutto il suo amore mise in moto per la prima volta (di prima) tutti i

corpi celesti, tutto l’universo che messo in moto dall’amore di Dio poteva ora risplendere in tutta la sua bellezza (cose

belle).

41-3 – Sì ch’a ben sperar…: visto il favore del momento della giornata avevo motivo di credere che mi sarei salvato.

42 – gaetta: dal provenzale: screziato, macolato.

44 – ma quella speranza non fu tanto forte quanto la paura.

46-48 – Sembrava che il leone mi venisse incontro con la testa alta (simbolo di superbia), al punto che anche l’aria

sembrava tremare, avere paura di quell’atto (figurativo).

49 – E una lupa: il terzo e più grave dei peccati: l’avidità insaziabile dei beni terreni.

51 – E molte genti…: Qui dante riproietta la sua esperienza in un contesto più generale, che riguarda l’intera umanità.

52 – Letteralmente lo appesantì nella intenzioni, impedendogli di continuare la sua salita. Allegoricamente la gravezza

indica una pesantezza d’animo a causa della quale lo spirito dell’uomo al cospetto dell’avarizia viene spinto verso il

basso, la valle oscura del peccato, lontano dalla sommità del monte della redenzione.

54 – sembra che fra la speranza e la paura, che fin qui si sono alternate, la prima sia definitivamente scomparsa.

L’avarizia è dunque il male che sconfigge ogni uomo, è il vizio più radicato e temibile, e probabilmente il più

imbattibile.

55-60 – Così come quando l’avaro che acquisisce beni piange nel momento in cui deve privarsene, allo stesso modo mi

sentii io (tal) a causa della bestia che non ha mai pace né ne concede agli altri (con riferimento al male avarizia) e mi

spingeva indietro verso la selva (là dove ‘l sol tace) (l’avarizia insomma riconduce l’uomo al peccato).

61-62 – a parte il termine “rovinava” che come al solito identifica sia lo stato fisico di precipitare nella selva che nel

peccato, questi due versi introducono due elementi nuovi: l’uomo-guida che aiuterà il poeta nel suo viaggio e, di

conseguenza, l’inserimento dell’intera opera in un contesto storico ben definito in cui si alterneranno personaggi, fatti

e luoghi realmente esistenti.

63 – in riferimento a Virgilio ed al fatto che avendo taciuto per molti anni sembrava non avere più voce.

Metaforicamente potremmo dire invece che, rappresentando Virgilio la ragione, questa così come il poeta questa era

rimasta muta per moltissimo tempo, inducendo grandi quantità di uomini a commettere errori e peccare.

64 – Gran diserto: stavolta la piaggia rappresenta il mondo e tutti i suoi abitanti.

65 – Miserere: latino, sta a significare “abbi pietà di me”. È la prima parola pronunciata da voce umana all’interno del

poema.

66 – Ombra od omo certo! : anima di un uomo morto o uomo vivo che tu sia.

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67-72 – qui Virgilio si identifica subito e descrive a Dante le sue origini. L’auto descrizione non è inserita a caso; Virgilio

rappresenta lume, ragione e speranza e in virtù di questo suo compito si presenta, non come essere astratto ma come

elemento importante del viaggio di Dante e quindi figurativamente del percorso che ognuno deve fare verso la

salvezza. Ci dice che nacque in Lombardia (che all’epoca della sua vita non era chiamata così) da genitori (parenti)

mantovani, sotto Giulio Cesare. “Ancor che fosse tardi” ci spiega che Giulio Cesare fu assassinato nel 44 a.C. quando

Virgilio aveva solo ventisei anni e che quindi non si poteva definire un uomo del tempo di Giulio Cesare e quindi si

definisce suddito di quell’uomo di grande valore (buono) Augusto. Dante nomina di proposito due imperatori in

queste terzine per dar credito alle sue tendenze politiche filo-monarchiche. La terzina si conclude con quel “nel tempo

de li dei falsi e bugiardi” in cui Virgilio, mestamente, si preclude dall’aver praticato la religione veritiera che, come

spiegherà più avanti, gli sarà d’impedimento per accedere al Paradiso.

73-75 – Dante attribuisce a Virgilio l’epiteto di poeta, e ciò l’artista dal nome che, come dirà lo stesso Dante, più dura

e più onora. Bisogna notare come non sia un santo o un angelo a venire in soccorso al nostro protagonista, ma un

poeta. Questo ci fa capire quanto fosse importante nella vita personale di Dante la scrittura e la letteratura in genere,

ma soprattutto la poesia. Un poeta smarrito in una selve che viene tratto in salvo dal suo poeta preferito.

- Giusto: Enea, figlio di Anchise, che Virgilio chiama il più giusto fra gli uomini

- Superbo Ilion: la rocca della città di Troia

76-78 – qui la parola “noia” è da intendersi come antico; intende un tormento, una pena tipica di chi si trova smarrito

in una selva. Virgilio chiede a Dante come mai non salva il monte “dilettoso”, la via della felicità, inizio e motivo di

tutte (tanta) le gioie.

79 – Or se’ tu quel Virgilio: Dante non risponde neanche alla domanda, sembra aver dimenticato la tristezza della selva

e la paura delle fiere; ogni cosa davanti al poeta che egli amava tanto passava in secondo piano. E’ un momento

fortemente drammatico fatto di intensità umana che prende vita in un posto disumano.

79-80 – Fonte…fiume: l’acqua che scorre era un’immagine molto utilizzata nella letteratura classica per indicare

l’eloquenza.

81 – Vergognosa fronte: il volto (fronte) abbassato in segno di riguardo e reverenza, ma anche d’imbarazzo nell’aver

commesso un errore (egli si trovava in condizioni pietose nella selva del peccato)

82-84 – Dante sembra quasi “pretendere”, o meglio ritenere di esser degno (vagliami) di un aiuto da Virgilio in virtù

dei grandi studi fatti sulla letteratura di quest’ultimo in maniera minuziosa e maniacale (cercar) e della grande stima

maturata nei confronti dell’uomo e scrittore (grande amore). Nel contesto non risparmia complimenti: “onore” perché

l’opera virgiliana ha reso onore all’intera categoria dei poeti, “lume” in quanto con i suoi scritti ha illuminato le menti

dei suoi successori.

85 – Lo mio autore: la massima autorità per me fra tutti i poeti.

86 – Tu se ‘l solo: Dante scarta tutti i contemporanei, facendosi consapevole continuatore letterario dei classici

antichi.

87 – Lo bello stilo: si intende qui lo stile tragico o illustre dell’Eneide. Una dottrina dell’epoca sosteneva che il genere

“illustre” fosse il superiore di un trittico che comprendeva anche “mediocre” e “umile”. Lo stile illustre doveva essere,

di norma, utilizzato per i componimenti tragici e elevati (amore, armi e virtù), ma egli lo estese anche in un altro

genere nel quale era uno dei pochi ad eccellere e cioè quello della canzone. Stesso discorso potrebbe essere fatto se

allarghiamo questa definizione di bello stilo al linguaggio poetico oltre che alla struttura tecnica dell’opera. A maggior

ragione Dante qui ritiene di essere l’unico collegamento diretto fra il presente dell’epoca e l’epoca di Virgilio, l’unico

poeta a poter esprimere le più grandi realtà umane come il suo maestro ebbe fatto secoli prima.

89 – Saggio: maestro di sapienza. Ma soprattutto figura colma di sapienza, che guida alla virtù, come ad indicare che la

sapienza in questo caso sia più un valore etico che intellettuale.

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90 – Le vene e i polsi: ogni luogo in cui batte, circola, sangue. O anche le vene e le arterie, dove quei “polsi” sta per

“luogo in cui si trovano le arterie”.

91 – Tenere altro viaggio: Virgilio consiglia di prendere (tenere) un’altra strada (altro viaggio). Visto che la lupa

impedisce di fare la via breve, almeno finché non verrà qualcuno a scacciarla, Dante deve passare attraverso la

conoscenza del peccato all’Inferno e poi per la purificazione del Purgatorio.

93 – Campar: scampare.

95 – Altrui: nessuno.

- Per la sua via: può essere inteso sia come per la via occupata dalla lupa, sia come la via che colui che è in

cerca di salvezza vuole percorrere.

101 – ‘l veltro: questo termine indicherebbe un cane da caccia ma nella Commedia può essere associato alla figura

dell’imperatore. Un personaggio inviato da Dio che avrebbe dovuto riportare l’ordine cacciando via tutti i mali

dell’umanità.

103 – costui non sarà legato ne ai possedimenti terreni (terra) ne al possesso di denaro (peltro) in quanto essendo

imperatore possiede già tutto e quindi potrà guardare al suo regno con occhio oggettivo e giustezza.

104 – sapienza, amore e virtù sono le tre grazie divine tipiche del Figlio, dello Spirito Santo e di Dio (per virtù si intende

la potenza) e non devono necessariamente appartenere ad un prelato. Secondo quanto descritto da Dante altrove

infatti l’imperatore è ministro dell’azione provvidenziale di Dio nella storia.

105 – per “nazion” si intende nascita, “nascerà da” e quel “feltro e feltro” ha invece molteplici interpretazioni e un

vero significato ancora oggi oscuro, mantenuto tale dal poeta stesso.. Fra le varie ce n’è una molto accreditata, che

vale ancora oggi, che traduceva in “fra cielo e cielo” e quindi come a dire “nascerà dal rivolgimento dei cieli”, come

fosse un nuovo messia.

106 – Umile Italia: questa è sia una citazione all’Eneide di Virgilio, che però per umile intendeva l’Italia del centro-sud,

sia quell’Italia che senza la guida di un imperatore ha ben poco da migliorare.

107-108 - Sono personaggi virgiliani morti per la conquista del Lazio, alcuni da parte troiana altri da parte laziale e

vengono tutti accomunati nella stessa terzina, e quindi nella stessa pietà. Questo voler mettere insieme luce e

oscurità, vincitori e vinti è un tratto tipicamente Virgiliano e Dantesco allo stesso tempo.

109-111 – Il veltro scaccerà (caccerà) la Lupa da ogni parte (villa, intesa anche come città) e la rimetterà nell’inferno,

da dove originariamente (pria) fu messa in libertà. E’ riferito al peccato originale e al momento in cui il Diavolo,

invidioso di Dio e degli uomini, fece peccare Eva e quindi diede la libertà alla lupa/avidità.

112-114 – Finita la profezia il tono si abbassa e siamo di fronte ad un’altra forte metafora: Virgilio chiede a dante di

essere seguito ma è lo stesso Dante che vuole essere guidato da Virgilio. Siamo di fronte al fatto che Dio può salvare

l’uomo ma egli deve essere cosciente e accettare di essere guidato, perché da solo non è in grado di salvarsi.

- Per lo tuo me’: per il suo meglio

- Discerno: giudico

- Per loco eterno: è l’Inferno

115-117 – Dove sentirai le disperate (disperato è l’aggettivo che Dante sempre attribuirà alle anime dell’inferno) grida

e vedrai gli antichi (come a dire che ce ne sono dall’inizio dell’umanità) spiriti avvolti dal dolore tanto che

invocheranno la seconda morte (quella del giudizio universale)

118-120 – E vedrai le anime del Purgatorio che godono del fuoco della purificazione (color che son contenti) perché

sono sicuri (qui la speranza è certezza) di giungere alfine fra i beati.

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121-123 – Alle quali se (da notare che questo “se” lascia la scelta di visitare il Paradiso o meno, mentre Inferno e

Purgatorio sono obbligatori) poi tu vorrai arrivare ci sarà un’altra anima più degna di me (anima fia) alla quale io ti

affiderò (Beatrice). Se poi consideriamo che, come lo stesso Dante descrisse nella Monarchia, per arrivare a Dio

occorrono virtù (Virgilio) e lume divino (Beatrice) la cosa assume molto più senso.

124-126 – “Quello imperador” ovviamente è Dio che regna e impera ovunque, ma ha il suo regno in cielo. Dante farà

spesso combaciare le figure di Dio e imperatore all’interno del canto. Virgilio prosegue giustificando la sua assenza nel

viaggio per il Paradiso (“sua città”, la Città Celeste) in quanto egli fu “ribelle” alla religione Cristiana in quanto, nato

prima di Cristo, non adorò debitamente Dio. La ribellione in questo caso non si manifesta nel fare qualcosa, ma bensì

nel non farlo.

127-129 – Nel verso 127 viene ribadito che come l’imperatore Dio governa ovunque ma ha il suo regno in un luogo

ben preciso e nel 129 si lascia andare ad un’esclamazione che trapela un po’ di amarezza lasciando ben comprendere

quale felice sorte spetti a chi è degno del Paradiso.

130 – Richeggio: chiedo.

131 – Dante risponde a Virgilio riprendendo una parte dell’esclamazione del poeta e dando forte intensità a tutto il

periodo inserendo dunque un elemento che per uno dei due protagoniste è motivo di forti emozioni.

132 – In questa terzina fondamentalmente Dante chiede a Virgilio, in nome del Dio che lui tanto brama, di scamparlo

dalla dannazione eterna (e peggio).

133-135 – Gli chiede quindi di portarlo nei posti di cui precedentemente aveva parlato, affinché egli possa vedere le

porte del Purgatorio (veggia la porta di san Pietro), l’ingresso della salvezza, e le anime che tu mi raffiguri (color cui tu

fai) così dolenti (mesti).

136 – L’ultimo verso, come il primo, indica il movimento, il cammino. Ma bisogna notare come siamo partiti da un

cammino angoscioso e, dopo aver incontrato lume e ragione ci dirigiamo verso quello della speranza, che ci condurrà

alla nostra meta.

NOTE INTEGRATIVE AL CANTO I

1. Il mezzo del cammin: E’ decisamente da rifiutare l’interpretazione che attribuisce al “mezzo” la situazione del sonno,

momento in cui passiamo metà della nostra vita. Prima di tutto perché il poeta affermerà all’interno del canto stesso

di vivere un momento di sonnolenza, in secondo luogo perché già nel secondo verso egli è cosciente della propria

posizione con quel “mi ritrovai”. Infine sono moltissimi i riferimenti temporali ad una precisa ora di un preciso giorno

di un preciso anno che ci portano ad asserire che il poema non sia stato sognato dal protagonista ma realmente

vissuto.

32. Le tre fiere: Anche se le ipotesi sono state molte, la più accreditata – e probabilmente veritiera – è quella che le

associa ai tre mali che impediscono all’uomo di percorrere la via della beatitudine: lussuria per la lonza, superbia per il

leone e avidità per la lupa. Ampio riscontro a questa tesi viene dato dapprima dalle Sacre Scritture in cui questi tre

mali venivano indicati con queste tre bestie ed in secondo luogo da alcuni versi sparsi in tutta l’opera nei quali si fa

evidente riferimento al legame fiera-male. Un altro elemento valutabile fortemente avallato dal Foscolo è quello che

assocerebbe la lonza alla città di Firenze, il leone al Re di Francia e la lupa alla Curia Romana. Probabilmente la prima

intenzione del poeta non era quella di fare questo tipo di similitudine ma non è da escludere che anziché un solo

collegamento fra reale e metaforico ce ne possano essere anche altri, come appunto questo fiera-male-politica. Non

bisogna neanche dimenticare che Dante parla sì in prima persona ma ha voluto dare alla sua opera una forma che

potesse valere per tutti, compresi quindi i cittadini italiani che dovevano sottostare a queste tre figure politiche.

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101. Il veltro: li linguaggio che descrive questa figura è volutamente oscuro, quindi tutto ciò che abbiamo ad oggi per

poterla tradurre sono soltanto i molti studi che hanno visto come oggetto questo cane da caccia. È evidente che, come

lo stesso Dante asserisce, egli venga mandato per volontà divina al fine di scacciare la lupa. E quindi se è vero che la

lupa rappresenta l’avidità (e politicamente la Chiesa) volendo tradurre il veltro in qualcosa di più concreto l’unica

figura che ci viene in mente è quella dell’imperatore, sempre fortemente voluta da Dante (si veda la Monarchia).

L’imperatore che avrebbe dovuto ristabilire l’ordine in terra così come fece il primo – Augusto – ai tempi di Roma e

l’imperatore che secondo molte profezie medievali sarebbe dovuto giungere per volere divino, così come il veltro è

mandato dalla provvidenza nel canto I.

105. Tra feltro e feltro: come prima, cercare di descrivere con precisa accuratezza questo passo è praticamente

impossibile. Partiamo dal presupposto che questa parola venga introdotta per il bene della rima e che letteralmente

significasse “tessuto”. Da qui potremmo dire che feltro e feltro identifichi fra cielo e cielo, come a dire che

l’imperatore sarebbe dovuto venire quando sarebbero cambiate determinate condizioni astronomiche. Oppure che

sarebbe dovuto nascere in abiti umili, un riformatore religioso allora. O ancora che avrebbe visto la luce in un luogo

compreso fra Feltre e Montefeltro che era di dominio di Cangrande della Scala (notare il Can = veltro), figlio di Arrigo

IV, ambedue fortemente voluti da Dante alla guida dell’impero.

INTRODUZIONE AL CANTO III

Il terzo canto ci fa entrare effettivamente nell’Inferno. All’inizio siamo di fronte a questa scritta che è così

infinitamente crudele e vera; siamo di fronte ad un cambiamento di paesaggio e di temi che diventa però anche un

cambiamento stilistico. Mentre i primi due arrivano piano piano al lettore, infatti, in questo non si capisce da subito

che si parlerà solo delle sorti delle anime dei dannati, non c’è speranza qui.

Questo è anche quello che viene definito il più “virgiliano” dei canti. Anche Virgilio infatti nella sua Eneide parla di un

viaggio negli inferi, e con la Commedia, ad oltre un millennio di storia, quei posti e quei fatti tornano improvvisamente

moderni, e rimangono tali fino ad oggi. Ma mentre l’inferno Virgiliano era cupo e melanconico e viene descritto in

maniera molto figurativa e poetica, quello di Dante è tragico, perché nella Commedia si è a conoscenza del fatto che in

quei posti speranza muore, l’uomo si è dovuto misurare in vita ed è stato giudicato dopo la vita e nel momento in cui

varca la soglia degli inferi non avrà, mai, una seconda possibilità di redenzione.

Si riconoscono almeno tre parti: l’entrata e l’angoscia che attanaglia il poeta nel vedere cotanta sofferenza, la scena

finale delle anime in riva all’Acheronte e, nel mezzo l’incontro con gli ignavi. È importante il ruolo che Dante da a

questi, in questo contesto: se è infatti vero che l’Inferno segue in un certo senso le leggi e le figure della religione

cattolica (basti guardare l’accenno alla Trinità che è presente sulla porta degli inferi), è altrettanto vero che i primi che

incontriamo sono quelli che dovevano fare una scelta, qualsiasi scelta, in vita e non l’hanno fatta. C’è quindi questo

fattore religioso molto forte ma, almeno in questo canto, ha molto risalto quel libero arbitrio che ognuno deve avere

ed esercitare in vita per potersi definire, almeno, vivo. Se non lo fa non è degno di beatitudine e non è degno di

dannazione. Non è nulla.

La pena, come il premio, corrisponde ha una libera scelta dell’uomo che è solo una parte dell’umana libertà.

CANTO III

1-9 – E’ l’iscrizione posta in all’ingresso dell’Inferno.

- Per me: attraverso di me; è la porta stessa che parla.

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- La città dolente: viene definita così perché è di dolore che vivono tutti i suoi abitanti. Come la città Celeste è

quella del Paradiso, la città dolente è quella dell’Inferno.

- Ne l’etterno dolore: spiega e intensifica il dolente di prima. In questo verso sono racchiusi tutti gli elementi di

queste tre prime terzine: dolore e eternità.

- Perduta gente: dannata, perduta per sempre. È un forte riferimento alla diritta via descritta nel canto I, qui

smarrita.

- Giustizia mosse…: la giustizia mosse Dio a crearmi

- Podestate, Sapienza e Amore: sono le tre figure della Trinità. Come in tutte le opere di Dio, anche all’Inferno

è presente l’amore.

- Dinanzi a me… etterna duro: Prima di me furono create solo cose eterne. Vuol dire che prima della porta

dell’Inferno furono creati solo il Paradiso e gli angeli, alcuni dei quali, poi ribellatisi, furono appunto confinati

all’inferno. Le cose caduche e modificabili, quindi sono state create dopo l’Inferno e la porta dell’Inferno che

da quando è stata realizzata ha avuto la facoltà di durare in eterno, per sempre.

- Lasciate ogne speranza: Altro non è che conferma e concretizzazione di quanto specificato nelle parole

precedenti. La perdita della speranza è infatti il più grande dei mali per ogni uomo e queste parole, dirette a

chi legge annichiliscono e colpiscono. E non danno scampo.

10 – colore oscuro: più che il significato metaforico va attribuitogli uno prettamente grafico. Da intendere

letteralmente che le parole fossero scritte con caratteri neri, il colore dell’inferno, anche perché il senso di gravezza

viene specificato due versi dopo.

12 – Duro: che incute paura e sgomento

13 – accorta: che subito comprende. Virgilio, come spesso capiterà in seguito, sembra avere questo certo feeling di

fratello maggiore nei confronti di fratello minore con Dante e capisce cosa voglia intendere il protagonista anche solo

ascoltando poche parole.

14 – Si convien… sospetto: è necessario lasciare da parte ogni timore (o esitazione).

15 – Per percorrere ed attraversare tutto l’Inferno è necessario che ogni pusillanimità venga messa da parte. Ci vuole

coraggio e fermezza, insomma.

16-18 – Siamo arrivati nel luogo di cui ti parlavo prima, dove vedrai genti straziate dal dolore, che hanno perso –

inteso come “non avranno mai più la possibilità di arrivare a – Dio. Dio è la traduzione che più si avvicina a quel “ben

dell’intelletto” in quanto Dio è la verità, il bene supremo dell’intelletto umano.

19 – La sua mano mi puose: mi prese per mano.

20 – lieto volto: un’espressione facciale che dava conforto a Dante. Spesso le espressioni facciali di Virgilio saranno

spunto di comprensione della situazione circostante.

21 – Segrete – Nascoste all’uomo, sotterranee.

22-24 – La prima cosa che si percepisce entrando all’Inferno, dunque, sono grida, sospiri e lamenti acuti (altri guai). Il

senso è quello dell’udito perché in un posto in cui non ci sono le stelle, la luce che sulla terra da conforto agli uomini,

la vista non è ancora abituata a distinguere bene, e Dante, mosso dalla solenne “pietate” di cui parla al Canto II piange

una prima volta, perché messo al cospetto di tanto dolore. Molti sono i caratteri per fare un raffronto fra Eneide e

Inferno e questo è uno di quelli: mentre nell’Eneide Virgilio si limita a descrivere tanto orrore, pur conservando una

forte umanità, ma non è conscio dell’immagine cristiana della dannazione quella cioè che toglie ogni speranza di poter

vedere la luce ai condannati. Dante, dall’alto della sua conoscenza di questo fattore ancor prima di entrare

nell’Inferno viene quindi spesso mosso da una fortissima compassione.

25-30 – In queste due terzine i pianti della precedenti si precisano in varie forme: lingue, favelle, parole, accenti e voci

in una scala di libertà d’espressione decrescente.

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- Diverse: genti provenienti da ogni parte del mondo, che quindi parlavano lingue diverse.

- Orribili favelle: modi orribili di pronunciare le parole, o più semplicemente orribili pronunce o ancora parole

pronunciate in maniera orribile. Favella insomma vuol dire pronuncia.

- Accenti: esclamazioni, mentre le “voci” sono semplici suoni vocali

- Suon di man: le bani che battevano fra loro o sui corpi degli altri dannati

- Senza tempo tinta: sta ad indicare l’ambiente infernale. Un posto in cui non c’è l’alternarsi del giorno con la

notte, del buio con l’oscurità ma sempre la stessa “tinta” appunto, il nero.

- Turbo: vento.

31 – Orror: il tumulto di tutti quegli orribili suoni sembra spostarsi, metaforicamente, tutt’attorno alla testa di chi li

ode.

33 – Vinta: sopraffatta, abbattuta.

34 – Modo: modo di lamentarsi.

35 – Triste: malvage.

36 – Coloro che vissero in Terra senza meritare presso gli uomini ne infamia ne lode. Sono colore che non hanno

avuto il coraggio di compiere né il bene né il male, non hanno mai esercitato davvero il libero arbitrio e quindi il loro

contrassegno è la viltà. Dante prova il massimo disprezzo per costoro, definiti gli Ignavi, proprio perché in loro manca

quello che, nel bene o nel male, distingue l’uomo tanto da non collocarli neanche in uno dei giorni che si

succederanno da lì a seguire per tutta la cantica.

37 – Cattivo coro: vile schiera. È importante capire questa accomunanza fra cattivo e vile in quanto in molta

letteratura del 2-300 è presente questo nesso. E ciò giustifica anche il fatto che Dante identifichi spesso queste anime

come “cattive”.

39 – per sé fuoro: fecero partito a se. Non si schierarono ne con Lucifero non con Dio.

40-42 – Li rifiutano i cieli perché maculerebbero la loro bellezza, e allo stesso tempo non li vuole l’inferno perché gli

stessi dannati proverebbero qualche gioia ad averli nei loro stessi gironi.

43 – greve: pesante, doloroso.

45 – Sarò breve, in quanto queste persone non meritano neanche molte parole spese.

47 – cieca: priva di luce, così come lo fu in vita.

- Bassa: ignobile

49-51 – sono tre frasi lapidarie, di cui la terza ha riscosso un notevole successo anche al difuori della Commedia.

Spiega che sia gli uomini (il mondo) sia Dio (misericordia e giustizia) li sdegnano. Addirittura il mondo non vuole che

resti nulla della loro fama, appunto perché non c’è mai stata (esser non lassa).

52 – per la legge del contrappasso, chi non ha seguito nessuna bandiera in vita sarà obbligato a rincorrere questa

“’nsegna” per l’eternità senza mai raggiungerla.

54 – il vessillo, appunto, correva veloce e sembrava non curarsi (indegna) di doversi fermare.

55 – tratta: moltitudine di gente.

56 – Dante non si capacita di quanti ignavi siano morti nell’arco dei secoli.

58-61 – Letteralmente qui Dante spiega che fra le varie anime riconobbe Celesti V, il Papa che rinunciò al pontificato

pochi mesi dopo essere diventato ministro di Dio. Ovviamente non c’è nessun elemento nel testo che ci riconduca

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direttamente a lui ma la tesi più accreditata, dalle più antiche a quelle più moderne, sostengono che qui si parli

proprio di Pietro da Morrone.

61-63 – Immediatamente (incontanente) lo riconobbi (Celestino) e subito capii che questa era la cerchia dei codardi

(come descritto prima la parola “cattivo” era sinonimo di codardo).

64-66 – Questi sciagurati che mai non furono vivi – inteso a dire che non avendo mai esercitato il libero arbitrio, quindi

il lume della ragione, non vissero davvero la loro vita terrena – erano nudi e punti (stimolati) da esseri piccoli, vili e

miserabili come loro (ivi), mosconi e vespe.

69 – fastidioso: più schifoso che inopportuno.

70-75 – Cambia lo scenario. Dante volge lo sguardo e vide una moltitudine di gente accalcata sulla riva di un grande

fiume, l’Acheronte. Altra similitudine con l’Eneide: anche lì un grande fiume segnava il confine del regno dei morti.

Dante chiede poi a Virgilio chi siano quelle persone grazie a quale legge o per quale legge (qual costume) queste

sembrano così vogliose di attraversare il fiume (le fa di trapassar parer sì pronte). Il verso 75 indica che è traducibile

in: “Mi spieghi questa cosa, almeno per quello che riesco a capire io in virtù di così poca luce?”.

76 – ti fier conte: ti saranno note, cognite.

78 – trista: come detto nel Canto I questo aggettivo identifica spesso l’aggettivo “doloroso”.

79-81 – In questi versi traspare un atteggiamento che Dante assumerà spesso: l’abbassare la fronte in maniera umile,

intimidita, essendo lui un peccatore che cammina in mezzo ai peccatori, non guida e lume come Virgilio. Temendo che

(temendo no) qualsiasi cosa egli potesse dire risultasse fastidiosa o inopportuna (lo mio dir li fosse grave) si trattenne

dal parlare finché non arrivarono al fiume.

82-84 – A questo punto (l’enfasi viene innalzata con l’attacco “Ed ecco”) viene introdotta la figura di Caronte che,

come nell’Eneide, traghetta le anime nell’aldilà. È questo il primo personaggio della mitologia pagana che incontriamo

nell’Inferno. Dante se ne serve per popolare l’Inferno di figure note, soprattutto agli appassionati dell’Eneide, e dare

alla Commedia quel tocco di mitologico che ne potesse innalzare il registro. Caronte appare come un vecchio che

esordisce gridando (sempre per dare sorpresa e novità al contesto) verso le anime malvage (prave). Questo modo di

presentarsi connota gli aspetti caratteriali di questo personaggio, fermo e autorevole a differenza del suo corrispettivo

Virgiliano che si esprimeva più in maniera blanda e retorica.

85 – Non isperate: riprende il motivo dominante dell’inizio del canto, ripetuto anche dalla parola “etterne”. Si è

passati però dall’indicazione astratta dei primi versi alla realizzazione concreta di questo ottantacinquesimo, così da

chiudere il cerchio.

87 – In caldo e ‘n gelo: il fuoco e il ghiaccio indicano le caratteristiche principali delle dannazioni infernali.

88 – anima viva: duplice significato: viva perché ancora all’interno del corpo vivo e spiritualmente non ancora dannata.

89 – pàrtiti: separati, allontanati.

91 – questo verso allude alla foce del Tevere, dove nell’immaginario dantesco si radunavano le anime dei destinati alla

salvezza.

92 – piaggia: la spiaggia, appunto, della foce del Tevere. Ha una valenza anche profetica questo verso in quanto Dante,

comunque, sarà destinato nel suo viaggio a passare anche da lì.

93 – fa riferimento al vascello dell’angelo che traghetta le anime del purgatorio, effettivamente più leggero e snello,

come verrà descritto a tempo debito. Da notare come già in queste prime parti dell’Inferno dante aveva ben presente

la struttura del Purgatorio; il lettore d’altro canto, qui è invitato a utilizzare la sua fantasia e immaginare ben più

piacevoli ambienti.

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- Convien: è stabilito.

95-96 – vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole: Questo è il volere (vuolsi così) di Dio (colà, nel regno dei Cieli)

che può ottenere tutto ciò che vuole. Capiterà in altre occasioni questa affermazione da parte di Virgilio, sembra quasi

una frase rituale da pronunciare in presenza di alcuni guardiani poco inclini a far proseguire il viaggio di Dante.

97-99 – Da quel momento in poi (quinci) tacquero (fuor quete) le guance piene di peluria bianca (altra descrizione del

volto di Caronte, canuto e barbuto) del nocchiere della palude nerastra (livida), che attorno agli occhi aveva ruote di

fuoco. Le ruote di fuoco sono certo un elemento fantastico che ben si abbina al personaggio ma servono anche a

rendere bene l’idea di come egli fosse caratterialmente; dapprima ci è stato descritto fermo e deciso, ora è anche

decisamente iracondo.

100-102 – In questa terzina viene descritta tutta la miseria delle anime li presenti che sono stanche (lasse) e nude – da

intendere anche come “prive di ogni difesa” -. Esse impallidiscono (cangiar colore) e battono i denti (dibattero) non

appena (ratto che) intendono che (‘nteser) che quelle dure parole e prive di ogni speranza (v. 84-87) sono riferite a

loro.

103-105 – Bestemmiavano Dio e i loro genitori, la specie umana, il luogo, il momento e il seme (inteso come quando

furono concepiti, ma anche come tutta la loro stirpe). Maledire il giorno e l’ora della propria nascita è un’usanza già

presente nella Bibbia, ma qui queste anime maledicono qualsiasi cosa abbia dato loro la vita: da Dio, all’intera specie

umana, ai genitori, alla stirpe, il seme, il luogo e il tempo.

106-111 – Poi si riunirono tutte insieme, piangendo forte, sulla riva malvagia (perché appartiene all’Inferno dove tutto

è male) che aspetta chiunque non teme Dio (chiunque non teme Iddio è dannato, e ogni dannato è aspettato da

quella riva). Il demonio Caronte con occhi di brace (vedi nota finale) fa un cenno e le raccoglie tutte sulla sua barca

picchiando con il remo chiunque si segga (adagia, alle anime non sarà concesso neanche questo).

112- 117 – Qui dante fa un grande tributo a Virgilio. Anche nella sua Eneide il Virgilio da una descrizione abbastanza

malinconica delle anime che salgono sul traghetto di Caronte ma qui dante fa di più: inserendo nella terzina il

paragone con l’Autunno e le foglie egli da dramma alla scena. Le anime sono deboli, inermi e nude e così come le

foglie si staccano ad una ad una dal ramo, allo stesso modo i discendenti di Adamo, i peccatori, salgono ad uno ad uno

sulla barca di Caronte, aspettando un suo cenno e lo fanno come fa un uccello da richiamo (un’altra similitudine, quasi

a continuare quella con le foglie) quando ascolta il verso che lo contraddistingue.

118-126 – Le anime così vengono trasportate lungo il fiume nero (onda bruna) e mentre dall’altra parte scendono, qui

già si è formata una nuova schiera. A questo punto Virgilio risponde finalmente alla domanda che Dante gli aveva

posto ai versi 72-75. Gli dice: “Figlio mio, quelli che muoiono con peccato mortale (nell’Ira di Dio, sono impenitenti

fino all’ultimo) arrivano qui da ogni parte e sono desiderosi (pronti) di passare il fiume spinti dalla giustizia divina,

tanto da far commutare il terrore (tema) in desiderio di assecondare quella giustizia alla quale non si può opporre

resistenza.”. Il dannato insomma conserva ancora l’intelletto e la coscienza che gli permette di realizzare ancora,

anche se morto, il senso di giustizia.

127-130 – Di qui non passa mai anima buona (in grazia di Dio, che non abbia commesso peccato mortale) – prosegue –

però se Caronte si lamenta puoi ben comprendere perché lo faccia. La frase è riferita al fatto che Dante sia uscito dalla

selva oscura con l’aiuto divino, quindi che non debba appartenere al regno degli inferi.

130-136 – Il canto si chiude con un evento inaspettato: C’è un terremoto, un lampo, che fanno perdere i sensi a Dante,

tanto che egli non sarà in grado di raccontarci la sua esperienza di traghettato.

- Lagrimosa: piena di lacrime, piena di dannati che piangono.

- Vento: è il terremoto.

- Balenò: questo “vento” sprigiona una luce fortissima che fa svenire Dante.

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- Sonno: il sonno dell’ultimo verso è molto importante. Serve sia alla rima, per far capire che egli sviene, ma

soprattutto serve a celare il modo in cui il poeta riesce a raggiungere l’altra sponda. È un oscurazione voluta,

come se Dante volesse parlare di una sorta di miracolo, di cui non verremo mai a conoscenza, che ha

permesso ad un vivo di entrare nel regno dei non vivi.

NOTE INTEGRATIVE AL CANTO III

59-60. Colui che fece… il gran rifiuto: Non si può associare a questa figura nessun’altro se non Celestino V, per una

serie di motivi. Prima di tutto perché egli, appunto, lasciò il potere papale pochi mesi dopo essere diventato pontefice,

e per Dante i vili e i pusillanimi sono proprio quelli che rinunciano alle grandi imprese a causa della poca stima nei

confronti di se stessi. Celestino era all’epoca, soprattutto per questo fatto, un personaggio eclatante ed essendo

contemporaneo delle scrittore è sembrato da subito ovvio a tutti che l’inserimento quell’ignavo del terzo canto

dell’Inferno non poteva che essere Pier da Morrone. Dante non poteva ignorarlo. C’è da dire che Celestino fu

canonizzato quasi subito, e che quindi non poteva appartenere all’Inferno. Ma a parte il fatto che questo avvenne

dopo la pubblicazione della cantica, è anche vero che Dante non ha mai dato peso alle decisioni ecclesiastiche in

merito alla collocazione di personaggi celebri. Un ultimo elemento ce lo da Jacopone da Todi che in una sua lauda

parla di Celestino e di un drappo, di un vessillo che egli aveva abbandonato e che sarebbe stata la sua maledizione;

come quello che sarebbe stato costretto a rincorrere per l’eternità nell’immaginario dantesco.

108. Con occhi di bragia: Caronte accenna alle anime di salire sulla nave facendolo loro capire grazie ai suoi occhi

infuocati, con gesti fatti con le braccia.

INTRODUZIONE AL CANTO V

Lasciati alle spalle i pusillanimi e le anime del limbo, Dante entra in quello che è l’Inferno vero e proprio, dove cioè ci

sono le anime che scontano le loro pene per peccati commessi in Terra, divise per gironi a seconda della gravità degli

stessi. Ci troviamo alla sommità dell’Inferno, al secondo cerchio dove sono coloro che peccarono dell’incontinenza dei

sensi: il lussuriosi, che, come dirà il poeta, “la ragion sommettono al talento”. Qui viene punito infatti proprio l’amore

dei sensi, lo sfrenato e indicibile amore che porta alla lussuria e alla morte, se non controllato. Non a caso a capo della

fila dei dannati troviamo Semiramide, regina famosa per la sua sfrenatezza, seguita da altre altrettanto note come

Cleopatra, Didone ed Elena di Troia.

Ma fra tante eroine e cavalieri troviamo anche persone concrete, vere, umili, come noi. Una di queste ci si fa incontro

mostrando ancora tutta la sua gentilezza che aveva in vita, è infatti il peccatore ad essere incontrato all’Inferno, non il

peccato. Essa, come molti, ha peccato per passione, la passione che spira forte e con continuità, così come è il vento

che spazza queste anime a destra e a manca, e come in vita non riuscì a separarsi dall’uomo che amava ora nella

dannazione è costretta a stargli a canto per sempre senza poter mai avere un attimo di pace.

L’umanità di Francesca è rimasta quindi, ma il suo spirito è separato per sempre dalla felicità della pace, e Dante in

questo canto vuole parlare proprio di questo. Di come, cioè, nobiltà d’animo o gentilezza possano incontrare il

peccato e a causa del peccato rimanerne offese per l’eternità. È infatti la pietà, l’immensa pietà che nasce nel cuore di

chi viene a conoscenza della storia di Francesca, che regge tutto il canto. E la pietà è quella che si addice ad una coppia

di innamorati che peccarono senza voler nuocere a se stessi o ad altri ma che, travolti da quella che è la più grande

delle passioni, arrivarono a perdere la propria vita. Non c’è insegnamento morale in questo canto, non c’è critica al

peccato o al peccatore; solo un’immensa compassione, talmente grande da indurre il poeta a perdere i sensi.

Un fattore molto importante è quello di condanna – forse l’unico tipo di condanna presente nel canto – che Dante fa

nei confronti del mondo letterario. Quel modo di descrivere l’amore era l’espressione di quello che gli uomini erano

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stati per secoli, ma solo eroi ed eroine avevano potuto farsene protagonisti. Con Francesca l’amore, la passione e la

tragedia si spostano sotto un’altra ottica: quella del comune. Non una donna ricca di fascino ed ingegno, non una

regina o principessa, ma una promessa sposa come tante, e come tante eroine ha peccato d’eccessivo amore ed è

proprio in questo accomunare miti e realtà che Dante abbassa, o meglio adegua, il sentimento della passione a tutte le

umane genti indiscriminatamente. Ed ecco che ha molto più senso, se non unico modo di avere senso, quella umana

“pietade” che attanaglia il nostro protagonista ed ogni lettore.

CANTO V

1-6 – Dante scende dal primo cerchio al secondo, in maniera non brusca. Anche la parentesi di Minosse è, pur nella

sua forza, abbastanza blanda, il vero Canto inizierà solo al verso 25. Questo secondo girone è più piccolo del primo

(che men loco accinghia) e ci dà un’idea della struttura topografica dell’Inferno: un imbuto rovesciato in cui i gironi

vanno in ordine decrescente dall’alto verso il basso e man mano che scendono si fanno più piccoli e sono meno

popolati, ma i peccati sono sempre più gravi (e tanto più dolor) anche in virtù dei lamenti sempre più acuti (guaio,

come nel canto III v. 22) che si ascoltano. Qui incontrano Minosse, re di Creta e figlio di Zeus ed Europa, citato anche

nell’Eneide sempre nel ruolo di giudice ma anche lui, come Caronte, enfatizzato nelle caratteristiche fisiche e

comportamentali in maniera da fare più orrore, per dar credito allo stile dantesco. Egli, viene posto all’inizio

dell’Inferno (ne l’intrata) perché effettivamente gli occupanti del Limbo non peccano quindi non hanno bisogno di

essere giudicati ed ha fattezze di demonio, ringhia, ha la facoltà di esaminare i peccati (giudica) commessi da chi gli si

pone davanti ed ha questa coda che avvolge attorno al suo corpo seconda del girone al quale è destinato il dannato

(manda, inteso come “emette la condanna”).

7-15 – Queste tre terzine sono la spiegazione delle due precedenti (dico). Quando l’anima, che vista la posizione in cui

si trova avrebbe fatto meglio a non nascere (mal nata), è davanti a Minosse, si confessa pienamente (tutta) e il giudice

(conoscitor) di quei peccati vede a quale luogo dell’Inferno essa appartiene (è da essa) e si avvolge la coda attorno al

corpo tante volte quanti sono i gironi che dovrà discendere. Davanti a lui se ne presentano una moltitudine, dicono i

loro peccati (dicono), ascoltano la loro condanna (odono) e sono scaraventate nel girone di appartenenza (e son giù

volte).

16-24 – Minosse lascia il suo importantissimo compito (cotanto offizio) alla vista di un vivo all’Inferno dicendogli: “Oh

tu (vocativo molto utilizzato da qui in avanti) che entri in questo albergo di dolore (doloroso ospizio) stai attento ad

entrare in questo posto e alle persone che incontrerai – compreso chi ti accompagna – (di cui tu ti fide), non farti

ingannare dalla facilità con cui sei entrato!”. È risaputo, infatti, anche da scritti classici che le porte degli Inferi sono di

facile accesso, ma che pretendere di uscirne è praticamente impossibile (non t’inganni l’ampiezza de l’intrare!). Dante

da a Minosse un aspetto solenne, nonostante lo descriva come un demonio orribile, perché rispetta comunque la sua

posizione di giudice (cotanto offizio). Virgilio lo annichilisce subito, liquidandolo con la stessa frase riservata all’altro

demonio, Caronte, anticipandola questa volta con un aggettivo – fatal – che rafforza l’immagine che il viaggio di Dante

sia voluto da Dio.

25-36 – Qui comincia il canto vero e proprio (or comincian). Queste tre terzine parlano tutte dello stesso argomento

ma lo trattano secondo punti di vista differenti: la prima esprime il pianto doloro di questo cerchio, la seconda il

muggito del vento che lo riempie tutto, la terza infine ci presenta espressamente tutta la scena. Qui cominciano i

lamenti dolorosi (dolenti note), in questo posto dove non c’è luce (d’ogne luce muto. Notare, come nel canto primo in

“dove ‘l sol tace” come si voglia dare un senso acustico alla scena) che muggisce (mugghia). Il contrappasso infernale

(bufera infernal) che mai non ha riposo (qui bufera indica quindi sia il contrappasso sia il vento che scuote le anime)

porta gli spiriti con il suo movimento vorticoso (mena li spiriti con la sua rapina); tormentandoli (li molesta) facendoli

girare e sbattere (voltando e percotendo). Quando le anime arrivano davanti al loro destino (ruina, interpretabile

anche come una roccia presente nel luogo) iniziano le urla, piangono tutti insieme (compianto, pianto comune) e si

lamentano, e bestemmiano la potenza di Dio (virtù divina).

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37-51 – Dante capisce subito, con una sola occhiata (intesi) che a quella dannazione erano (enno = sono) destinati

coloro che avevano peccato in lussuria (peccator carnali) che avevano sottomesso la ragione all’istinto (talento). Il

peccato sta proprio in questo: sottoporre la ragione all’istinto equivale a degradare l’uomo stesso, che nell’uso della

ragione ha la sua qualificazione specifica, che lo distingue dal bruto. Abdicare questa facoltà vuol dire quindi andare

verso la rovina. E come le ali conducono gli storni (stornelli) verso l’inverno (nel freddo tempo), così quel vento (fiato)

conduce gli spiriti dannati (li spiriti mali) in ogni direzione, a stormi (a schiera larga e piena, che vale sia per gli uccelli

che per le anime dei dannati). Si noti come siano le ali a portare gli uccelli nell’inverno, non la loro volontà, allo stesso

modo le anime volano senza avere diritto di decidere dove e come. Pur essendo considerati nella letteratura antica

animali lussuriosi, in questo canto essi hanno quasi compito di dare un’immagine più dolce delle anime alle quali sono

paragonate, essendo queste anime effettivamente colpevoli di un male non gravissimo se paragonato agli altri. Viene

poi ribadito il messaggio posto alla porta dell’Inferno (nella speranza li conforta mai), non tanto per una salvezza,

quanto perché questi spiriti non avranno mai la possibilità di riposarsi o di vedere la loro pena alleviata (non che di

posa, ma di minor pena). Successivamente scatta un secondo paragone e stavolta le anime sono accostate alle gru.

Qui il poeta indica quasi una sottocategoria di anime, fra le tante che vede, che vengono fatte volare tutte insieme e in

riga (facendo riga), ecco perché Virgilio da qui a breve sarà in grado di riconoscerle ed indicarle con grande facilità.

Queste anime, così come le gru, emettono un lamento ben distinguibile dagli altri. La parola “lai” non è facilmente

traducibile in quanto deriva dal francese antico ma il suo significato più accettabile è quello di un genere di

composizione che narrava avventure e pene d’amore. Le gru insomma si lamentavano esprimendo questi concetti con

i loro “lai”. Nell’ultima terzina Dante quindi vede arrivare, accompagnate dai soliti lamenti (traendo guai) le anime

portate da questa grande impetosità (briga) e chiede a Virgilio: “Maestro, sapresti indicarmi i nomi (“chi son quelle

genti” non vuol dire “che tipo di dannati sono questi” cosa che egli ha già inteso, ma sta proprio ad indicare una

richiesta di spiegazione sull’identità di quelle anime ben precisa) che il vento nero, demoniaco (aura nera) punisce in

questo modo (si castiga)?”

52-69 – Virgilio indica quindi a Dante i personaggi che dal vento son sbattuti. La prima è la Semiramide di cui si legge

nelle storie (Orosio), regina degli assiri vissuta nel XIV secolo a.C.

- Allotta: allora

- E fu regina di diversi popoli, di gente che parlava lingue diverse (favelle). Alla lussuria si dedicò così

sfrenatamente (sì rotta, come ad indicare una rottura di freno) che rese lecito nella sua legge ciò che piacesse

a ciascuno, per eliminare (tòrre) il biasimo in cui ella stessa incorreva. Era infatti sfrenatamente innamorata di

suo figlio, quindi rese “legale” l’incesto. Governò (tenne la terra) la città, Babilonia, che oggi è tenuta dal

sultano (che l’ Soldan corregge). L’altra è colei che si uccise per amore e mancò alla premessa di fedeltà fatta

alle ceneri dello sposo Sicheo. Si tratta di Didone, eroine dell’Eneide, che, abbandonata da Enea che doveva

continuare il suo viaggio si tolse la vita. Come descritto qualche verso più su anche in questo caso la

condannata si trova in questo posto perché non seppe utilizzare il senso della ragione nella maniera più

giusta, uccidendosi per amore. Poi c’è Cleopatra, regina d’Egitto, amante di Giulio Cesare e poi di Antonio

morta suicida per non cadere nella mani di Ottaviano vincitore; ed Elena, a causa della quale trascorse un

tempo così a lungo luttuoso (per cui tanto reo tempo si volse), e poi Achille che fu ucciso proprio quando fu

costretto a combattere contro l’amore (con amore al fine combattendo) a causa di quello che provava per

Polissena, figlia di Priamo. C’è Paride – figlio di Priamo e rapitore di Elena – e Tristano, eroico cavaliere

medievale che si innamorò della moglie di re Marco, Isotta, e per questo fu ucciso. Virgilio continua a

mostrare a Dante una moltitudine di ombre note, ombre che l’amore fece dipartire da questa nostra vita. A

parte quelle già citate, infatti, si narra che Elena fosse stata uccisa da una donna greca per vendicare suo

marito caduto in battaglia, e Semiramide dallo stesso figlio che lei amava. Il messaggio qui è chiaro: alla

morte, fatalmente, trascina la passione; ed è solo grazie al libero arbitrio di cui ognuno di noi dispone e alla

ragione che l’uomo ha il dovere, per il suo bene, per non andare incontro a morte, di gestire bene le proprie

passioni.

70-72 – Inizia qui la seconda parte del canto. Nella prima Dante ha utilizzato nomi celebri per preparare il lettore a

quella che sarebbe stata la grande tragedia che avrebbe visto da qui a breve.

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- Cavalieri: sia medievali che classici.

- Pietà…smarrito: Dante è colto da pietà. Questa è la parola che accompagnerà tutto il canto da qui alla fine, e

infatti sarà ripetuta anche al verso 140, pietà in senso pieno e totale, mai negativo, di completa tristezza nei

confronti dell’altro. Sin dall’inizio ha un cedimento (e fui quasi smarrito) che si concretizzerà, a causa di

questo sentimento così forte, a fine canto quando sverrà davvero, tanto lo colpirà il racconto di Francesca. È

quindi una sorta di cerchio che si apre ora: il sentimento che lo contraddistingue è la Pietà, talmente forte da

avere ripercussioni anche fisiche ai danni del nostro protagonista, e sarà un sentimento che crescerà sempre

più, fino a togliergli i sensi.

74-87 – I’ cominciai: come al verso 25. Questa parole sembra introdurre il clou della storia. “Poeta” – chiede dante a

Virgilio – “parlerei a quei due che ‘nsieme vanno”. Dante è attirato da Paolo e Francesca in quanto il loro volare uniti è

un fatto eccezionale in questo girone in cui sono tutti messi in riga. L’amore che li ha tenuti uniti in vita è talmente

forte che li unisce anche qui, nel castigo; ma non si tratta di un alleggerimento della pena: in quello stare insieme è

fissata la perpetua e tragica scelta che essi fecero e che li ha portati alla morte. Come in tutto l’inferno dantesco qui il

condannato è fermato nell’atto – fisico o morale – che decise la sua sorte. Essi appaiono “leggeri” al poeta e questo

aggettivo ha dato addito a varie interpretazioni. Alcune sostengono che il vento li spingesse più velocemente per

infligger loro una pena maggiore, ma è più probabile che Dante esalti le grazie del loro abbandonarsi alla furia del

vento, come farà anche dopo paragonandoli a candide Colombe. Virgilio assicura Dante che potrà parlare ai due,

quando saranno più vicini, chiedendo loro di parlare in virtù dell’amor che li “mena” inteso come quell’amore che in

vita travolse le due anime. Appena si avvicinano Dante esordisce: “oh anime angustiate (affannate) venite a parlare

con noi, a meno che Dio non sia contrario (s’altri non niega!)!”. Come due colombe (similitudine di dolcezza e

gentilezza attribuita dapprima che essi parlino, per sollevare di tono l’atmosfera) chiamate dal desiderio (chiara

allusione alla pena dei due) vengono trasportate dal vento con le ali spianate (con l’ali alzate e ferme, la modalità di

volo planare degli uccelli), essi uscirono dalla schiera in cui era anche Didone (qui richiama l’eroina Virgiliana, tant’era

la stima che Dante nutriva nella figura creata dal suo maestro), venendo incontro a Dante e Virgilio attraverso

quell’aria infernale (aere maligno) tanto forte fu l’affettuoso grido. Qui per affettuoso grido si intende quel

“affannate” che Dante rivolge poco prima alle due anime le quali, capendo la pietà che dante nutriva nei loro

confronti, non poterono fare a meno di andare da lui e raccontargli la loro storia.

88 - animal grazioso e benigno: essere vivente cortese e benevolo. Sono le prime parole che Francesca rivolge a

Dante.

89 – perso: oscuro, nereggiante. Il “perso” era anche un colore derivante da “persiano”.

90 – questo verso continua a fare accenni cromatici indicando che gli appartenenti a quella schiera tinsero il mondo di

un colore rosso sangue, perché molti dei quali morirono per omicidio o suicidio.

91 – questo novantunesimo è un verso molto forte. Qui Francesca nella sua immensa delicatezza che non ha perso in

morte sembra quasi innalzare una preghiera a Dio, per quanto questa cosa possa sembrare illogica, ma ha coscienza

del posto in cui si trova e del fatto che Dio non è più suo amico; quindi introduce davanti a tutto un “se”.

92 – Noi lo pregheremmo di darti la pace. Può sembrare un desiderio un po’ frivolo ma se si pensa che la pace è l’unica

cosa che lei non avrà mai, il fatto che la auguri a Dante attribuisce al tutto un valore infinito.

93 – In questo verso si rivela compiutamente il senso preciso e profondo della parola che intona e chiude la storia;

Francesca vorrebbe dare a Dante qualcosa – la più preziosa cosa che l’uomo possa avere – perché egli ha avuto pietà

(non certo perplessità) del suo perverso, crudele male. Egli, che viene dal mondo dei vivi, si è messo cioè sullo stesso

piano di lei, che per un attimo, grazie a quella pietà esce in certo senso dal chiuso cerchio infernale, come vedremo nel

verso 96.

93-96 – Parleremo con voi di ciò che volete fino a quando (mentre che) il vento ci farà riposare (ci tace)

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97-99 – Francesca dice di venire da Ravenna, che nel medioevo si estendeva ancora fino al mare, ed era situata dove il

Po’ trovava riposo con i suoi affluenti (per aver pace co’ seguaci sui, metafora che l’oratrice fa rispetto alla sua sorte,

ora perennemente inquieta). Francesca era figlia di Guido il Vecchio da Polenta, signore di Ravenna, e nel 1275 sposò

Gianciotto Malatesta, signore di Rimini, al fine di sugellare la pace fra le due famiglie. Ma Francesca si innamorò di

Paolo, fratello del marito, che li uccise entrambi. Si presuppone che Dante, contemporaneo ai fatti avvenuti, ne fosse

venuto a conoscenza. Altre versioni dicono che Francesca fu ingannata perché promessa a Paolo ma data in sposo al

suo fratello zoppo, e che Paolo fosse in realtà sposato con una discendente della famiglia Malatesta, casato descritto

da Dante come tirannico.

100-107 – Iniziano queste tre terzine che reggono tutta la storia, e tutte e tre contengono la parola “amor”, ripetuta

tre volte perché è questo amore, argomento principale di tutta la letteratura all’epoca Dantesca, che muoveva le vite

delle persone e che, in casi come questo, le portava alla morte ed addirittura alla dannazione. In versi: Amore, che

repentinamente e senza dar tempo di difesa (ratto) si appicca (apprende, come il fuoco) ad ogni cuore nobile prese

questa persona bella d’aspetto che mi fu tolta in una maniera che ancora adesso mi offende; Amore, che non

risparmia a nessun amato di riamare a sua volta colpì (mi prese) anche me così fortemente (in riferimento al fuoco che

s’appicca ai cuori) a causa della sua bellezza (piacer = bellezza) e che, come vedi ancora non mi abbandona. L’Amore

che ci condusse alla morte (più precisamente “una” morte, perché comune ai due), e la zona che aspetta chi ci uccise

è la Caina (la parte dell’Inferno in cui vengono destinati i traditori dei parenti, è questa una maniera relativa di indicare

chi furono gli uccisori dei due amanti). Quell’ “offende” del verso 102 può essere inteso sia come “il modo in cui fui

uccisa”, oppure come “il modo, e cioè la forza, con sui l’amore lo prese di me ancora mi colpisce”. Questa seconda

ipotesi sembra tuttavia abbastanza contorta in virtù del fatto che prima di tutto in questa terzina Francesca sembra

parlare di se, e non di Paolo, in secondo luogo perché considerando l’andamento del racconto e i fatti effettivamente

accaduti, sembra più logico attribuire a quella parola la prima delle due interpretazioni.

108 – E’ questo ciò che ci disse. “Da lor” sta a significare che, anche se è solo Francesca a parlare, essa lo fa a nome di

entrambi.

109-114 – Si avverte uno stacco, una pausa ed una ripresa. È il momento più alto del canto. Quando Dante capisce

quanto grande possa esser stata la tragedia ed ora la pena che aveva colpito quelle anime ferite (offese) non sa cosa

dire, china il capo in senso di pudore per un lunghissimo momento, e Virgilio va a percuoterlo con dolcezza,

rispettando il suo tormento, chiedendogli a cosa stesse pensando. Dante a quel punto si rivela, lasciando scappare

ogni pensiero che lo attanagliava poco prima: “Oh ahimè” (oh lasso) sono le prima parole che dice, e continua in una

sorta di analisi che in realtà racchiude anche una sua esperienza personale, il suo travaglio umano sul concetto di

amore, dai modi in cui questo nasce a quelli in cui matura e si manifesta, finché non finisce. È un modo di parlare

retorico, generale, e valido per tutti: “quanti dolci pensier, quanto disio” sono il nutrimento stesso dell’amore che,

però, in questa storia porta i due innamorati al “doloroso passo”, al passaggio dalla vita alla morte.

115-126 – Ora Dante, dopo quel momento di compassione, si rivolge direttamente a Francesca dicendole che il dolore

di lei lo rende addolorato e pietoso (tristo e pio) tanto da indurlo a piangere. Le chiede di spiegargli in quale occasione

i due capirono di essere innamorati. In questa prima terzina egli usa (per la terza volta in questo canto) l’aggettivo

“dolce”, stavolta nella sua forma più alta. I dolci sospiri sono quel periodo in cui l’amore c’è ma ancora non si

manifesta ed in questo caso, personificandolo, Dante chiede appunto a Francesca quando ci fu quell’attimo,

quell’occasione che portò al cambiamento fra i dolci sospiri, appunto, e la rivelazione d’amore.

121-126 – Francesca esordisce citando una frase di Boezio, filosofo molto caro a Dante, (nessun maggior dolore…):

non c’è cosa più brutta di parlare dei bei tempi nei momenti di dolore; questo lo sa anche Virgilio.” Virgilio era infatti

anche lui confinato all’inferno, privato di Dio (ecco il senso della parola “miseria”), ma potremmo giustificare questo

tirarlo in causa anche dicendo che egli, avendo scritto l’Eneide molto simile per alcuni tratti all’Inferno dantesco

conosceva bene quei luoghi. “Ma se hai tanta voglia” prosegue “di sapere quale fu la prima origine (la prima radice)

del nostro amore, te lo racconterò come fa colui che parla e piange allo stesso tempo.

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127-139 – Parla ancora Francesca, e racconta come andarono le cose: “Stavamo leggendo un libro in maniera casuale,

innocua, che parlava di Lancillotto e dell’amore che lo attanagliò, ed eravamo soli senza mai poter pensare che

qualcuno ci avesse potuto sorprendere” (altre traduzioni fanno riferimento al fatto che non avrebbero mai potuto

sospettare quello che sarebbe successo di li a poco). Lancillotto, cavaliere della Tavola Rotonda, era innamorato della

regina Ginevra, moglie di Re Artù, e a questo “leggere un libro che parlava di un amore impossibile” potremmo

associare anche quel “prima radice” di cui Dante chiede precedentemente. “Più volte (per più fiate) quella lettura ci

fece incrociare gli sguardi (ci sospinse, quasi come se fosse una cosa forzata dal fato) e impallidire (scolorocci, il segno

dell’amore) ma fu un solo verso quello che ci vinse (quello a cui cedemmo). Quando leggemmo che la tanto

desiderata bocca (disiato riso) venne baciata da un’amante di così nobile valore (cotanto amante, è Ginevra che bacia

Lancillotto, infatti, spinta dal siniscalco Galehault), allora Paolo che da me non fu mai più eternamente diviso (fissa

l’eternità, la tragicità del momento) mi baciò la bocca tutto tremante (stavolta è la bocca, non il disiato riso, per dare

un aspetto più realistico alla storia). Galeotto (nell’antichità il bacio era un pegno da suggellare in presenza di

testimoni, e come Galehault mutò il destino di Lancillotto e Ginevra così fece il libro) fu quel libro e chi lo scrisse, quel

giorno non leggemmo più nulla (in virtù dei fatti che sarebbero accaduti)”.

138-142 E mentre Francesca parlava Paolo piangeva, ed il pianto di Paolo accompagnava le parole di Francesca quasi

come fossero un’unica persona. È un pianto silenzio, e dolente, che colpisce nel profondo l’animo di chi ascolta.

Dante, già mosso da pietà al sol vedere i due innamorati, ascolta la loro storia, se ne fa partecipe, assorbe le loro

sensazioni ed arriva quasi a provare il loro stesso dolore – in quanto uomo vivo – le parole sono dolci ma esprimono

una violenza troppo forte, assumono un’intensità eccezionale tanto da farlo venir meno di “pietade”. E non è solo una

caduta fisica, ma ha un significato di similitudine e allegorica: anche Lancillotto “cadde come corpo morto cade” negli

scritti che descrivevano le sue avventure e allo stesso tempo ogni uomo ed ogni donna che pecca d’amore e come tale

viene punito si può ritrovare nel corpo cadente di Dante, ed in tutta la tragicità del momento.

NOTE INTEGRATIVE AL CANTO V

72. Pietà mi giunse: Va intesa come pietà, o meglio compassione, per la terribile sorte di una persona umana così ricca

di dignità e gentilezza, una persona perduta per sempre per aver abdicato al suo maggiore dono, la ragione, all’istinto

(v.39). Non si pensi che questo sia un canto in cui il Dante teologo condanni il peccato e il Dante uomo lo assolva: Il

Dante teologo, o meglio il Dante cristiano, vede questa pietà proprio sotto l’ottica del cristianesimo; il cristiano infatti

quanto più conosce a fondo l’anima umana tanto più dolorosamente ne piange, perché sa cosa si è perduto. E Dante

stesso si rivede in questo stesso tipo di pietà che avvilisce l’uomo e ne mina la sua grandezza. Francesca è, come fra gli

altri Farinata ed Ulisse, un grande esempio di umanità. Lei non ha cambiato modo di essere anche dopo la dannazione

(che motivo ci sarebbe di nutrirle pietà altrimenti?), è rimasta una persona concreta che ha conservato la propria

dignità, ma che non avendo accettato con il libero arbitrio, dono di Dio, la via della salvezza, indicata da Dio, ha dovuto

pagare in eterno la sua mancanza.

INTRODUZIONE AL CANTO VI

Entriamo nel terzo cerchio, quello dei golosi. Qui inizia la Commedia dal suo punto stilistico. È infatti dopo la grande

solennità alta e tragica del canto V che Dante porta il suo modo di scrivere su un livello più realistico e immediato:

quello del “comico” (ecco perché Commedia). Nell’opera comica grandi eroi e persone comuni coesistono nello stesso

racconto, e cono loro tutte le forme del linguaggio si incontrano, dalla più umile alla più sublime.

Fra le anime in pena, che sono poste sdraiate sotto una grande pioggia e una grande neve e una gran grandine, si

rotolano nel fango nel miscuglio che ne deriva, e vengono sbranate da un cane, se ne alza una senza, appunto, alcuna

notorietà, che riconosce Dante per il suo parlare. È un canto di stampo politico questo, e grande metafora per

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descrivere la condizione di decadenza che all’epoca viveva la città fiorentina. Anche lo schema del canto è nuovo, e si

ripeterà in molti canti: è lo schema ad arco, o parabola. Si inizia in tono minore, poi c’è l’incontro dettato dal

riconoscimento, il dialogo con l’anima perduta con tutto il suo bagaglio emotivo, e una conclusione che si abbassa di

tono ed intensità.

I temi invece sono tre: il primo è come detto quello politico che tratta della corruzione degli animi dei fiorentini. Se

tutta l’opera è mirata alla denuncia del potere dei re e della Chiesa non bisogna sottovalutare l’importanza di questi

sesti canti di ogni cantica dove si parlerà della città (Inferno) dell’Italia (Purgatorio) e dell’Impero universale (Paradiso)

e che ne compongono quindi la nervatura. L’altro tema è quello che ci pone il divario fra le buone prospettive della

vita terrena e le effettive conseguenze che le nostre azioni o le nostre non-azioni avranno sul giudizio che ci attende

dopo la morte. Dante infatti chiede a Ciacco dove si trovino le anime di spicco del secolo precedente al suo, persone

che erano dedite al ben fare civile, cioè al saggio operare politico al di sopra di ogni parte. Come risposta, ottiene che

esse son fra le anime più nere. Il ben fare civile, infatti, non è necessario alla salvezza dell’uomo. Affinché egli sia salvo,

cosa sia “sufficiente” fare qui non è ben detto, ma verrà elargito poco a poco, lentamente, finché il lettore non sarà in

grado di realizzarlo.

Concluso il colloquio con Ciacco emerge il terzo tema, e cioè quello della resurrezione dei corpi, tema molto caro al

poeta che viene esposto già dall’inizio del viaggio e che verrà più ampiamente discusso nei grandi canti del Purgatorio

e Paradiso.

Non bisogna mancare di notare, infine, la presenza nel dannato di una chiara coscienza etica. Ciacco è consapevole,

come Francesca, della sua colpa, e la accetta assieme alla condanna (per la dannosa colpa de la gola / come tu vedi a

la pioggia mi fiacco). E tale coscienza sarà riscontrabile in ognuno dei personaggi incontrati, fino all’ultimo cerchio

dell’abisso, e sarà l’elemento che permetterà al poeta, e al lettore, di comprendere a fondo quale sia, qualora ce ne

sia, il grado di dignità che il dannato aveva in vita e che ora ha portato con se.

CANTO VI

1-6 – Come mi ritornarono i sensi (ma è anche figurato, perché con lo choc precedente la mente si era chiusa a tutti i

sensi) che si chiuse davanti alla pietà (ripropone ancora questo termine fortemente sentito nel canto precedente quasi

come a non volerne smettere di parlare) per il due cognati (qui conferma al lettore la sua storia, che nella realtà fu

taciuta su questo pianeta) che mi riempirono il cuore di dolore (non proprio “tristezza” come si potrebbe pensare) e

mi turbarono (mi confuse).

- Novi tormenti e novi tormentati: siamo in un altro cerchio, qui ci sono differenti pene e peccatori

- Mi veggio intorno: mi vedo intorno. Dante, come nel passaggio dell’Acheronte, non specifica come arriva nel

posto in cui è, ma si ritrova.

- Come… guati: comunque io mi muova, o mi volga intorno (in qualsiasi direzione) o guardi. È circondato da

queste nuove figure, insomma.

7-9 – E’ il girone dei golosi, dove c’è sempre pioggia (e grandine, e neve) maledetta (evento naturale “demonizzato”

come il vento del secondo girone) che non cambia mai d’intensità. E’ una pioggia monotona, per essere ancora più

pesante, anche a livello psicologico.

10-12 – C’è la grandine e l’acqua tinta (nera, scura, come il vento del girone precedente) e la neve che si mescolano

nell’aria e vanno a riversarsi sotto forma di una zozzura questo (il “questo” è inteso come miscuglio) che si riversa al

suolo, rendendolo puzzolente, marcio (pute).

13-15 – Cerbero è un antico mostro dell’Averno classico rappresentato come un cane a tre teste con colli avvolti di

serpenti. Come per Minosse e Caronte Dante sembra “assumerlo” dalla mitologia classica, trasformandolo in un

demonio infernale. A differenza di quello che pensano molti, però, il Cerbero dantesco non ha forma di cane, ma

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umana (si parlerà di occhi, barba, ventre, mani), seppur deforme. Egli è deforme (fiera diversa) ed ha tre teste con le

quali fa dei versi canini e si accanisce (latra) sulla gente che qui è sommersa. “Sommersa” perché i tormentati sono

distesi a terra sotto quel lerciume che cade dal cielo. Si pensa che le tre teste siano anche una metafora per indicare i

tre modi in cui si può peccare di gola: qualità, quantità, continuità.

16-21 – Qui c’è appunto la descrizione del personaggio: gli occhi vogliosi di accanimento e iracondi (vermigli), la barba

una (dei golosi che mangia) e scura (atra), il ventre largo e le unghie lunghe, graffia gli spiriti, li scuoia e li squarta

(iscoia e isquatra). Fa urlare questi dannati (i miseri profani) sotto la pioggia come i cani (metafora ancora in uso oggi,

sta a significare “ad un livello bestiale”) ed essi si voltano ora da un lato ed ora da un altro per proteggersi (verso 20).

22-33 – Finisce il campo descrittivo ed inizia l’azione del canto. “Il gran verme (il verme nella cultura cristiana era il

tormento che roderà in eterno i dannati) allora si mosse ed iniziò a venire verso di noi, mostrandoci le fauci, io non

avevo membra che riuscisse a stare ferma (Dante trema), alchè Virgilio distese le mani (distese le sue spanne), riempì

un pugno di terra e lo gettò in bocca al demonio. Come quel cane che abbaiando brama di mangiare (agogna) e si

calma dopo averlo fatto (verso 29), che non ha altra aspetta altro (intende) e sembra quasi litigare col suo cibo

(pugna), così (cotai), silenziose, si fecero le facce della bestia che con il suo latrato stordisce (‘ntrona) le anime che

preferirebbero esser sorde.”

34-39 – Lasciato Cerbero incomincia il cammino all’interno del terzo cerchio, e Dante e Virgilio camminano fisicamente

sopra le ombre che la pioggia doma – li fa prostrare – (adona) e mettevano le piante dei piedi sopra le loro forme

vuote simili a persone. E’ la prima volta che viene descritta un’anima dell’Inferno, essa ha quindi forma e coscienza e

capacità di soffrire di un corpo umano, ma non la consistenza . queste giacevano tutte distese per terra, tranne una

(fuor d’una) che si mise a sedere, veloce (ratto), appena vide passare i nostri due protagonisti.

40-48 – “Oh tu che sei portato in giro per quest’inferno (dalla conoscenza), riconoscimi se riesci: tu nascesti prima che

io morissi (verso 42)”. Vuol dire che dante aveva conosciuto dal vivo quest’ombra. Dante risponde: “Vista la situazione

in cui ti trovi (“l’angoscia che tu hai” significa proprio “sei irriconoscibile”, ma Dante questo non lo dice) forse fa si che

io non ricordi di te (v. 44), mi pare che non ci conosciamo (v.45).” E dopo porgere quasi le scuse per questa mancanza,

Dante fa la domanda precisa, per rispondere anche alla precedente richiesta dell’anima: “Ma dimmi, chi sei tu (anche

in questo caso in slang fiorentino (O’ chi tu se’), come aveva esordito l’altro) sei stato messo in questo luogo così

doloroso che, anche se ne dovessero esistere di maggiori (s’altra è maggio) nessuna è umiliante (spiacente) a tal

punto?”

49 – tua: Si riferisce a Firenze. Qui entrano in gioco tutti quei fattori di universalità della Commedia. Ciacco parla a

Dante della “sua” città, lo coinvolge quindi direttamente e con lui tutti i fiorentini. Più che nella sfera universale qui

siamo entrati in quella civile della Commedia, fortemente cara all’autore.

50 – invidia: è posta qui come l’origine di tutte le discordie civili, dovute all’avidità di possesso.

– trabocca il sacco: è una similitudine: il sacco ne è talmente pieno (di invidia) che ne trabocca.

51 – vita serena: è come vedono la vita coloro che ora sono dannati.

52 – Ciacco: alcuni pensano che più che un nome questo sia un soprannome (ciacco significava porco) ma è riscontrato

che fosse anche un nome proprio di persona, derivante da Jacques o Jacopo. Considerando però il registro che usa

Dante per nominarlo, affettuoso, è da pensare che Ciacco fosse il vero nome di costui. Secondo alcune cronache egli

era un uomo di corte, frequentava famiglie nobili ed aveva uno smodato piacere per i vizi di gola, ma pare che fosse

anche dotato di una buona eloquenza e di savoir faire. Era insomma un personaggio abbastanza noto di Firenze, che

conosceva bene l’ambiente politico ma dal quale era del tutto estraneo, e forse è proprio per questo motivo che dante

affida a lui uno dei primi giudizi di tutta l’opera sugli avvenimenti e le classi politiche fiorentine.

53 – dannosa: che porta alla rovina eterna.

54 – a la pioggia mi fiacco: sono fiaccato dalla pioggia.

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57 – E più non fè parola: Viene fuori anche il carattere di Ciacco, o meglio del Ciacco dannato: brusco e schivo.

58 – Affanno: angoscia.

60 – Ma dimmi: è un attacco che si ripeterà più volte e servirà sempre ad avere la sola funzione di introdurre la

domanda che più preme.

- A che verranno: a quale sorte andranno in contro.

61 – partita: divisa.

61 – s’alcun v’è giusto: se c’è qualcuno al disopra di tutto quell’odio e di tutta quell’invidia

- Cagione: causa prima, origine di tanta discordia.

64 – tencione: lotta, gara fra due parti (intesa come “ancora non combattuta fisicamente”).

65 – la parte selvaggia: la parte venuta dal contado, cioè dei Cerchi. I Cerchi erano colo che appunto venivano dalle

zone circostanti di Firenze, il loro partito (Parte Bianca) raccoglieva le famiglie di mercanti e industriali e si

opponevano ai Neri, riuniti intorno ai Donati che avevano dalla loro nobili di origine per lo più agraria.

66 - I Bianchi esiliarono (caccerà) i Neri con molto danno, offesa (offensione).

67 – convien: è necessario, dovrà accadere.

68 – in fra tre soli: entro tre anni. Se si considera che Ciacco pronunciò la profezia durante il viaggio di Dante (1300) e

che all’atto pratico la Commedia fu scritta a partire dal 1307, la profezia ha effettivamente luogo visto che i Neri grazie

all’ausilio di Carlo di Valois riuscirono, nel 1302 a esiliare a loro volta i Bianchi.

69 – Il verso 69 fa riferimento ad una forza di cui non si fa il nome (tal) ma che riconduce a Bonifacio VIII il quale pur

mostrandosi imparziale (che testé piaggia) come scritto su mandò Carlo di Valois a favorire i Neri.

70 – Il verso sottolinea la superbia dei vincitori.

71 – gravi pesi: le imposte riservate agli sconfitti.

72 – Fondamentalmente qui si fa riferimento al fatto che nonostante i Neri tentassero di rientrare in città, con o senza

violenza, questa cosa non toccherà minimante il più forte, chi ha il potere. Alla lettera: per quanto essa se ne lamenti

(pianga) o se ne indigni (aonti).

73 – Alla seconda domanda Ciacco risponde che sono due i giusti rimasti a Firenze, ma nessuno li ascolta (e non vi

sono intesi): nonostante lo stile sia del tutto scuro e pocamente allusivo, alcuni hanno stabilito che si trattasse di

Dante e Cavalcanti. Un’altra interpretazione vorrebbe che invece si riferisca alle due forme di diritto, quello naturale e

quello legale, che non vengono osservate (intesi).

74-75 – I tre peccati più gravi (superbia, avarizia, invidia) sono quelli che stanno ardendo i cuori dei fiorentini (le faville

sono le scintille che danno origine al fuoco). Qui finisce la profezia di Ciacco. Bisogna notare come egli non parli mai

direttamente di qualche personaggio o di qualche famiglia ma di come il suo stile sia totalmente profetico

conservando uno stile alto, seppur lapidario.

76 – lagrimabil suono: degno di lacrime, tristissimo.

77-78 – “Voglio che tu mi dia altre informazioni”. Dante fa un’altra domanda, chiede dove può trovare le persone a lui

care, o meglio che in vita condividevano i suoi stessi valori.

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79-80 – Farinata degli Uberti, il grande capo Ghibellino e Tegghiano Aldobrandi della famiglia degli Adimari dei Guelfi.

Non a caso sono nominati insieme. Iacopo Rusticci era invece di famiglia popolare, guelfo, tra i cittadini più noti e

stimati del suo tempo e amico in vita del Tegghiano (si troveranno entrambi fra i sodomiti). Arrigo è stato avvicinato a

vari personaggi storici, ma non trovandosi più in là nel poema nessuno può dire con certezza chi fosse davvero.

L’ultimo è Mosca del Lamberti, di potente famiglia ghibellina, consiglio l’uccisione del Buondelmonti, si troverà fra i

seminatori di discordie.

82 – ch’io li conosca: che sappia del loro destino, che sappia dove sono ora.

84 – addolcia, attosca: fanno riferimento rispettivamente alla beatitudine del Paradiso (addolcia, dia loro la sua

dolcezza) e alla dannazione dell’Inferno (attosca, amareggia / da loro il suo veleno).

85 – anime più nere: eretici, sodomiti e seminatori di discordie, sono all’interno delle mura di Dite dove troviamo le

anime di coloro che peccarono per violenza (più nere)

86 – li grava al fondo: le loro colpe hanno avuto un peso tale da farli scendere nella più profonda parte dell’Inferno.

87-90 – Ciacco risponde in maniera frettolosa a dante (una sola terzina) e cambia subito argomento con quel “ma”,

pregandolo di farsì che egli venga ricordato dai vivi (v.88). Il ricordo fra i vivi è l’unica cosa che tiene un’anima dannata

ancora in vita. Alla fine della terzina, con la solita laconicità, Ciacco avverte Dante che non gli darà altre notizie e non

risponderà ad altre domande.

91 – Lo sguardo umani (diritti occhi) diventa sguardo bestiale (biechi, storti / obliqui)

92-93 – Qui avviene forse il momento più tragico del canto. Ciacco ha tramutato il suo sguardo ora è solo un’anima

che torna ad essere sbranata, per l’eternità, da Caronte ma prima di tornare definitivamente alla fanghiglia che ricopre

le anime dei golosi guarda, per un ultimo, interminabile, istante il suo concittadino prima di tornare alla cecità

materiale e morale di chi è sommerso dal fango infernale.

94-99 – Virgilio esordisce: Ciacco non si risveglierà (di qua) prima della tromba angelica che annuncerà il giudizio,

quando arriverà la potenza (podesta), all’Inferno, nemica (nimica) di Cristo nel giorno del giudizio universale. Ognuno

rivedrà la sua triste (intesa come “senza speranza”) tomba, risorgerà (il verso 98b spiega il dogma della resurrezione

Cristiana dicendo che ogni dannato riprenderà la sua forma umana) e udirà la sentenza (quel) finale ed eternamente

riecheggiante (rimbomba) di Dio.

100 – trapassammo: passammo attraverso il cerchio dove c’era quello sporco miscuglio di fango e anime (sozza

misura).

102-108 – mentre passano i due parlano (toccando un poco) della vita futura, al punto che Dante chiede a Virgilio se le

anime tormentate che stanno osservando in questo viaggio saranno, dopo il Giudizio, afflitte da una punizione ancora

maggiore, se questa sarà alleviata o se rimarrà tale (cresceran, fier minori, sì contenti). A questa domanda fortemente

teologica Virgilio risponde con un appunto: dice a Dante di prendere come spunto di riflessione la “tua scienza” e cioè

quella dottrina aristotelica che sostiene che l’essere umano è tanto più capace di provare emozioni quanto più è vicino

alla perfezione. Se si considera che le anime sono esseri perfetti, queste saranno quindi maggiormente dannate, o

beate, dopo la resurrezione.

109-111 – Sorge comunque un problema: quello di definire i dannati come perfetti in quanto la perfezione assoluta si

raggiunge solo in grazia di Dio. Allora per quanto (tutto) questi dannati non saranno mai veramente perfetti (versi 109-

110) essi tuttavia aspettano (e sperano) che succeda qualcosa dopo il giudizio (di là) anziché prima (più che di qua).

112 – aggirammo…: girammo lungo la circonferenza del cerchio infernale

113 – può sembrare un verso banale, ma dare un attimo di umanità (dimenticanza dovuta al gran parlare) al contesto

lo rende più veritiero.

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114 – digrada: scende, in questo caso “scendere di un grado / di un livello”, al cerchio successivo.

115 – Pluto: non Plutone. Dio greco delle ricchezze, è detto qui gran nemico perché la cupidigia dei beni terreni è uno

di quei mali che Dante in molteplici occasioni intenderà come uno dei peggiori. È notevole il gioco letterario di dare

una piccola anticipazione di ciò che succederà al canto successivo con lo scopo di destare interesse nel lettore e

creando continuità all’interno del racconto.

INTRODUZIONE AL CANTO X

Il canto decimo non è sono uno dei più grandi dell’Inferno, ma è anche uno dei più intensi e, probabilmente, belli. In

esso non vi è un momento morto, l’intensità sale e scende col giusto piglio dal primo al centotrentasiesimo verso.

Tanta intensità da parte dello scrittore sta nelle due figure che egli incontra, che si ergono dalle tombe infuocate

destinate agli eretici, quel Farinata e quel Cavalcante che furono grande avversario politico e padre del “primo amico”

Giudo i quali influenzarono in maniera netta la prima parte della vita di Dante.

La potenza drammatica è creata si dai ricordi del poeta ma anche dal distacco che i due Dannati hanno fatto in vita

rispetto alla scelta di credere in Dio e da tutto il loro dolore, qui espresso in dolore per i propri cari, che ora devono

sopportare. E Dante è abile nell’accomunarsi a loro in cotanta disperazione – non dimentichiamo che egli è cosciente

del fatto che al suo grande amico Guido è destinata la stessa sorte – e allo stesso tempo distaccarsene. A differenza

loro lui non ha coscientemente rifiutato la dimensione immortale, cioè ultraterrena, dell’uomo.

Come il sesto si potrebbe definire canto politico, questo potrebbe essere il canto della Magnanimità. Magnanimità

intesa da Dante come grandezza fisica e morale, quella del Farinata e quella dell’amico Guido, così distanti eppure così

uguali. Grande, impassibile e statuario è il Farinata al momento della conversazione, della battaglia, del concilio di

Empoli e allo stesso modo Guido si leva sugli altri per altezza d’ingegno. L’uno esprime il gesto fisico, l’altro morale,

entrambi nel confrontarsi con la realtà oltreumana, entrambi eretici, entrambi – seppur grandi – maledetti.

Non è la grandezza che salverà gli uomini infatti; Farinata pare comunque avvolto da un alone di tristezza: si tormenta

per la strage di Montaperti, per la fine dei suoi ghibellini destinati all’esilio, per l’amaro dono di poter conoscere il

futuro sino al giorno del giudizio, ma non il presente, ed in questo contesto di tristezza si inserisce facilmente anche la

vicenda di Cavalcante. Egli è tutto e solo dolore, non vede il figlio, lo sospetta morto e chiede di lui già piangendo, alle

prime parole di Dante – che quella morte gli fanno credere certa - accora un grido che a secoli di distanza fa ancora

tremare ogni lettore, e ricade nella sua tomba. Cosa privò quindi costoro, cosa priverà Guido della beatitudine? La

superbia. La superbia che ben s’accompagna alla grandezza, e la amplifica, la nutre, tanto da indurre l’uomo a

prendere a dispetto Dio stesso, rinnegandolo. È proprio per questo motivo che Guido non è con Dante: egli non

poteva essere nel viaggio assieme a dante perché egli non poté percorrere, perché non volle, la via della salvezza.

Ma qui si parla di eresia, e quindi se vogliamo dare un vero senso a questo canto, che ci propone così tanti contenuti,

e legare questi tre aspetti dell’uomo – eresia, grandezza, disdegno – lo possiamo fare con una sola parola: infelicità. È

la naturale conclusione a cui porta questo stato, più che altro intellettuale, e ne abbiamo grande esempio nel modo in

cui i due dannati reagiscono alle tragiche notizie della scomparsa dei propri cari: chi gettandosi nella disperazione, chi

rimanendo immobile. È il dolore senza speranza, il dolore di chi fu grande e vinto dalla superbia, quindi eretico,

disdegnoso di compiere il viaggio che lo avrebbe portato alla salvezza, infine maledetto.

CANTO X

1-9 – Ora sen va: l’attacco è tranquillo, a significare che qualcosa di turbolento è già successo e che qualcosa di nuovo

sta per accadere

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- Secreto calle…: sentiero appartato, nascosto (perché chiuso tra le mura e le tombe), stretto, tant’è vero che i

due devono procedere in fila (verso 3).

- Tra l’muro…martiri: tra le mura della città e le tombe infuocate.

- O virtù somma: più che una lode generica vuol significare che in quel luogo, popolato da eretici, egli

rappresenta la suprema virtù della ragione.

- Empi giri: cerchi dell’inferno pieni di ogni empietà.

- Mi volvi: mi avvolgi, cioè mi conduci per un cammino circolare.

- Gente: forse per pudore, Dante usa un nome generico, ma fa riferimento ad una persona specifica.

10-18 – I coperchi verranno chiusi (serrati) tutti nel giorno del giudizio universale, quando le anime rivestiranno i loro

corpi e li porteranno nelle tombe dell’inferno, Iosafàt è la valle presso Gerusalemme dove secondo la Scrittura avverrà

il giudizio universale. Le tombe aperte aspettano dunque il ritorno dei corpi dei dannati. Il vero cimitero di Epicuro

(grande eretico greco e capostipite della negazione dell’immortalità dell’anima) e dei suoi seguaci è questo posto, che

ritengono che l’anima muoia col corpo (v.15). Nell’ultima terzina infine Virgilio rassicura dante dicendogli che la sua

domanda avrà ben presto una risposta (satisfatto sarà tosto) e che potrà soddisfare quel desiderio di conoscenza che

non ha espresso ma che il Maestro ha ben inteso.

19 – riposto: nascosto, celato

20 – mio cuor: il desiderio del cuore

21 – se…poco: se non per evitare di infastidirti, cioè non per nasconderti qualcosa.

22 – O Tosco: Toscano. Esordisce Farinata che si rivolge a Dante utilizzando per lui un aggettivo molto caro, quello

della provenienza geografica.

- Città del foco: Inferno.

23 – Tu che sei vivo fra noi dannati e ti aggiri parlando in maniera così cortese e onorevole (onesto).

24 – piacciati: gli chiede – cortesemente – di rimanere lì. È l’esempio di quanto questo personaggio, pur nella

dannazione, rimanga pieno di dignità, fierezza, amor di patria, tristezza e nobiltà d’animo.

25-26 – La tua loquela: Il tuo modo di parlare (loquela) dimostra chiaramente che provieni da quella nobile patria.

27 – “Alla quale io probabilmente fui troppo nocivo”. Questa grande frase fa intendere ciò di cui si parlerà di qui a

breve e soprattutto rende chiaro che sia l’interlocutore, sia chi ascolta, sono a conoscenza di cosa si tratti. Quel forse,

poi, ne accresce l’intensità in maniera esponenziale.

31-33 – Allo scostarsi di Dante Virgilio lo rimprovera. Gli dice “che fai?”, come a dire “perché fuggi?”, “Voltati (volgiti),

li c’è il Farinata che si è alzato (dritto), e puoi vederlo dalla cintola in su.”. Questa descrizione non a caso traspira

dignità e fierezza, superbia e alterigia. Dante aveva un grande rispetto e stima per la figura di costui. Farinata era il

nome attribuito a Manente degli Uberti e fu il personaggio di maggiore spicco della parte ghibellina di Firenze. Il suo

nome è legato soprattutto alla battaglia di Montepatri nella quale i ghibellini sconfissero i guelfi di Firenze. Egli salvò

Firenze dalla distruzione nel concilio di Empoli a seguito della vittoria ma rientrato in città compì terribili vendette. Fu

processato e condannato per eresia svariati anni dopo la sua morte.

34 – viso: sguardo.

35-39 – Si era messo diritto in una posizione che traspariva si fierezza, ma anche superbia, come se avesse disprezzo

(dispitto) dell’Inferno. Questo tipo di disprezzo, nella cultura Dantesca, è proprio dei personaggi grandi d’animo e di

intelletto. Nella terzina successiva Virgilio spinge Dante nella tomba di Farinata con le sua anime capaci di dare animo

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coraggio (animose man), questo gesto viene accompagnato da un suggerimento: “Usa bene le parole”, come a dire

“Abbi coscienza della grandezza della persona con cui stai parlando, e non essere sconveniente”.

41-42– quasi sdegnoso: come il “dispitto” del verso 36. È così il carattere del Farinata, un misto fra fierezza e superbia.

È da notare comunque come prima egli si sia rivolto al suo conterraneo quasi a mo’ di preghiera, per avvicinarlo, ora,

al cospetto di un suo inferiore o rivale assume quest’atteggiamento che pare ostile, e del suo interloquitore non vuol

sapere il nome, me la parte (li maggior tui, gli antenati e cioè “A quale famiglia e quindi a quale parte appartenesti?”).

43 – Dante si sente inferiore, almeno caratterialmente, rispetto al Farinata. L’obbedire viene istintivo.

45 – Il levare le ciglia può essere inteso sia come “nello sforzo di ricordare” sia come segno di disprezzo.

46 – Fieramente non significa “orgogliosamente” ma “in maniera fiera”, simbolo di rispetto per gli avversari.

48 – due fiate li dispersi: li esiliai due volte.

49-51 – Inizia una sorta di dibattito in cui Dante, pur nella sua consapevole inferiorità, non si risparmia di rispondere,

per amor dei suoi antenati e della sua fede politica. Quello desideroso di rispondere è scomparso ed ha fatto posto a

quello che orgogliosamente difende le sue parti, come se tale conversazione avvenisse fra due vivi, sulla Terra. Dante

dice che i “suoi” nonostante fossero stati cacciati due volte tornarono per due volte a Firenze (l’una e l’altra fiata) da

qualsiasi posto essi ebbero trovato ricovero e, ironicamente, fa notare al Farinata che i Ghibellini non avevano

imparato delle quell’arte, l’arte del ritorno, in quanto una volta cacciati non furono mai in grado di riprendersi la città.

52 – surse…: si alzò rendendosi ancora più visibile all’apertura della tomba (vista scoperchiata).

53-54 – L’ombra di cui si parla qui pare che fosse quella di Cavalcante dei Cavalcanti, padre del poeta Guido, ritenuto a

Firenze colpevole dell’eresia epicurea. C’è una forte metafora che accomuna le due ombre: quella di Cavalcante è

vicina a quella di Farinata (lungo questa) ma si alza fino al mento (sulle ginocchia, non completamente), segno

inconfutabile della sua inferiorità. Inferiore di forza, certo, ma anche di superbia, sono questi due anche l’aspetto

sociale di Firenze dove, all’epoca, la forza prevaleva sulla cultura.

55-60 L’ombra si guarda intorno come se volesse sapere (talento avesse) se con Dante ci fosse qualcun altro. Vuole

vedere se assieme al nostro protagonista c’è anche sui figlio Guido, e dopo che il suo dubbio si spense (v. 57) disse

piangendo: Se ti è stato concesso di venir fin qui grazie alla tua alta cultura e ingegno, dov’è mio figlio? Perché non è

con te?” Questi due versi racchiudono tre grandissimi messaggi. Il primo, è quello di un morto che non vede un suo

caro al fianco dell’amico di pari valore artistico, essendo però lui morto può solo fermarsi a quest’aspetto, non

considera che Guido, eretico anche lui, non poteva per legge divina compiere il viaggio verso la salvezza. Il secondo

tratto degno di nota sta nell’ennesimo accomunamento fra l’Eneide di Virgilio (Andromaca chiede ad Enea come mai

non ci sia Ettore) e la Commedia di Dante, e il terzo, e forse più grande è quello che riguarda la vicenda personale del

poeta. È indubbio infatti che Dante riconoscesse la grandezza del suo amico, e nell’immaginare questo dialogo con suo

padre è come se parlasse con Guido stesso (sicuramente un messaggio indiretto c’era) ma Guido non può essere con

Dante in quel posto, in quel viaggio, perché non potè percorrere la stessa via di salvezza.

61 – Non vengo in virtù delle mie qualità umane. E’ una spiegazione abbastanza lapidaria ma spiega bene a Cavalcante

come mai Guido, fra i maggiori esponenti dell’élite eretica del tempo, non potesse essere li. Cavalcanti Guido fu

considerato uno dei maggiori esponenti dello stil novo del 200, secondo solo a Guido Guinizzelli in ordine di tempo e a

Dante stesso per grandezza. Fu uno dei maggiori esponenti della medio-alta borghesia atea del tempo, in quanto non

credeva nell’immortalità dell’anima. Dante era più giovane di lui, ed ebbe modo di conoscerlo e stimarlo, tanto da

citarlo nella Vita Nova come “primo amico”. Cavalcanti fu molto attivo anche in politica, era tra i capi dei guelfi bianchi

e fu confinato nel 1300. Dall’esilio tornò ammalato e nell’agosto dello stesso anno morì. Aveva sposato la figlia di

Farinata quando le due famiglie, inizialmente di opposte fazioni, si avvicinarono per interesse e nella scenicità di

questo canto Farinata apprende qui della morte del proprio genero.

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63 – Forse cui Guido vostro…: Il verso è chiaramente riferito a Beatrice (cui). Si intende che Guido non volle percorrere

il percorso di salvezza assieme alla persona che avrebbe accompagnato anche Dante.

65 – già letto: nessun altro, sembra voler dire Dante, poteva essergli considerato a pari per ingegno se non Guido.

Dante capisce dalla “pena” che traspare dal dannato che si tratta del padre di Guido.

66 – così piena: completa ed esauriente.

67-68 – A questo punto Cavalcanti padre si alza quando realizza che suo figlio è morto:

- Come?: sembra che Cavalcante non abbia ben sentito, o speri di non aver ben sentito.

- 67-68: I tre interrogativi in due soli versi sono un fatto univo in tutta la Commedia, e danno la giusta

drammaticità all’angoscia di Cavalcante.

69 – Traduzione: mi stai dicendo che il sole non colpisce più i suoi occhi (dolce lume)? Quest’ultima domanda ha un

forte valore simbolico: lo strazio è talmente forte che sembra varcare le porte dell’Inferno. L’anima, pur nella sua

infinita pena, muore per la seconda volta.

70 – Alcuna dimora: Dante indugia a rispondere, perché non comprende come l’altro possa ignorare che Guido è

ancora vivo, dato che i Dannati conoscono e predicono l’avvenire. Qui bisogna dare una spiegazione. La Commedia è

stata scritta a partire dal 1307, quindi quell’ “ebbe” che sconforta Cavalcante, a detta di molti uscì spontaneamente

dalla penna di Dante. Ai fini della storia della Commedia, però, ci troviamo nella primavera del 1300, quindi Guido è

ancora vivo, anche se per pochi mesi. Probabilmente il poeta ha voluto mantenere questo fraintendimento per dare

un senso alla tragica e tristissima spiegazione di Farinata ai versi 100-108.

73-76 – Ma: si torna a parlare di e con Farinata stabilendo subito una contrapposizione: il primo è caduto supino al

grave colpo subìto, l’altro, che ha subito uguale dolore, resta in piedi e non si sposta né muta aspetto. “Magnanimo”

spiega il tutto: è inteso come “d’animo forte e incrollabile”, in vita ed in morte.

- A cui posta: per assecondarne il desiderio. Fa riferimento al verso 24, in cui farinata gli chiede “piacciati

restare in questo loco”.

- Non mutò aspetto… piegò costa: Le triplice negazione evidenzia e rafforza la forza d’animo e rigidità del

personaggio. Non si girò quindi verso l’altro col capo (mosse collo) ne con il corpo (piegò sua costa)

- Sé continuando: continuò il discorso precedente.

77-78 – S’èlli…: ritorna al discorso del verso 52, in cui si parlava di esuli e dell’arte di tornare, e dice che se

effettivamente i “suoi” hanno imparato male l’arte di tornare questo è un dolore che lo attanaglia più della

maledizione stessa che sta scontando (questo letto). Appare qui molto chiaramente come la vera pena infernale non

sia il tormento fisico ma la colpa stessa che rode l’animo, cioè l’atteggiamento che quest’animo ha assunto in vita, che

del resto le pene simboleggiano. In questo caso, l’attaccamento esclusivo ai valori terreni: la grandezza del figlio per

Cavalcante, la fortuna della parte per Farinata.

79-81 – Qui Farinata fa una specie di profezia: dice a Dante che non si accenderà cinquanta volte la faccia della luna

piena (cinquanta lune piene – cinquanta mesi) che anche egli saprà quanto sia difficile tornare da esuli. Qui la luna

viene trasfigurata a persona, la dea Prosperina regina degli Inferi che governa il mondo infernale (la donna che quivi

regge). La risposta di Farinata qui non ha un piglio di ritorsione alcuna, ma è amara, triste, quasi a voler accomunare il

destino dei due.

82-84 – E se tu mai…: Farinata non ha cambiato espressione, ne si è mosso, ma qualcosa è cambiato in lui alla vista

dello strazio di Cavalcante. Egli ora cambia tono, e si rivolge a Dante con un “se” (tu riuscirai a tornare sulla Terra )

augurativo,

- Quel popolo: il popolo fiorentino.

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- Empio: senza pietà. Gli Uberti era infatti stati esclusi da tutti gli editti di condono e tutto il popolo provava un

forte risentimento nei loro confronti.

- Ciascuna legge: gli Uberti furono appunto esclusi da ogni condono.

85-87 – La risposta di dante fa riferimento alla strage di Montaperti che colorò di sangue il fiume Arbia. Uno così

grande strazio e scempio (di vite umane) fa si che nelle Chiese dei viventi (nostro tempio, all’epoca le chiese venivano

utilizzate anche per riunioni e comizi pubblici) venissero addirittura intonate preghiere contro gli Uberti, e quindi leggi

contrarie a questa famiglia (tal orazion)

88-93 – S’incrina qui l’immobilità di Farinata che ora si scuote con un sospiro (v.88), riscattando la sua figura umana e

dice: “Io non fui il solo ad assalire Firenze, ma fui il solo a difenderla”, con riferimento al concilio di Empoli

(identificabile al v.92 alla parola “là”).

- Sofferto: tollerato, concesso, nei limiti del possibile.

- Torre via: togliere di mezzo

- A viso aperto: anche qui, assieme a “fu’ io solo” ritorna prepotente la forza e la grandezza di quest’uomo.

94-99 – se riposi…: se (anche questo augurativo) mai i vostri discendenti (semenza) possano riposare in patria,

augurandoti che i tuoi discendenti possano tornare a Firenze.

- Solvetemi…sentenza: risolvetemi questo dubbio che mi avvolge, attanaglia (‘nviluppa) la mia mente (mia

sentenza).

- El par…: Dante spiega qui perché ha esitato Davanti a Cavalcante: appare chiaro (el par) che i dannati

prevedano il futuro (vedi Ciacco, vedi la predizione del Farinata), e tuttavia ignorano il presente (v.99). E la

cosa gli sembra incomprensibile.

100-108 – Noi veggiam…: noi vediamo come colui che ha cattiva vista, cioè il presbite che vede bene solo le cose

lontane (come quei c’ha mala luce), anche se in questo caso si intende “lontane nel tempo”.

- Cotanto: limitativo, di tanto (quanto ora ho detto).

- Ne splende…duce: risplende ai nostri occhi, ci conduce alla sua luce; perché ogni conoscenza viene da Dio.

- 103-104: quando gli eventi si avvicinano o sono presenti, le nostre capacità, il nostro intelletto diventa inutile

(è vano nostro intelletto).

- S’altri non ci apporta…umano: e se qualcun altro – i demoni o i nuovi arrivati all’inferno – non ci porta notizie

di ciò che succede (s’altri non ci apporta), noi non possiamo sapere nulla.

- Tutta morta: finita per sempre. La conoscenza è per l’uomo come la vita.

- 107-108: da momento in cui sarà chiuso il futuro: alla fine dei tempi. Essi riescono a vedere fino alla fine dei

tempi insomma.

109 – Compunto: Dante usa questo termine per identificare l’animo ferito da qualche doloroso sentimento.

110 – a quel caduto: a colui che è caduto nel suo sepolcro, Cavalcante.

111 – Che suo figlio è ancora vivo, tale era infatti Giudo nell’aprile del 1200.

113-114 – Chiede a Farinata di dire a Cavalcante che se prima non aveva risposto alla sua domanda era stato perché

era tutto assorto nel pensiero di fare la domanda che avrebbe fatto successivamente a Farinata, poi risolta (soluto).

115 – E già: E’ già il momento di riprendere il cammino. Ogni sosta, per quanto drammaticamente forte, ha un suo

preciso limite di tempo.

115 – avaccio: in fretta.

117 – chi con lui istava: Dante vorrebbe sapere velocemente quali sono gli altri nomi noti di quel girone.

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118 – più di mille: sta ad identificare un grande numero indeterminato.

119 – Federico: Federico II di Svevia, figlio di Enrico VI e di Costanza d’Altavilla, morto nel 1250 la cui figura dominava

tutto il secolo XIII. Era noto per la sua grande impresa politica di riunificazione dell’Impero, raccolse attorno a se tutte

le forze Ghibelline d’Italia, e fu anche letterato con una corte che, in Sicilia, fu uno dei centri nevralgici culturali del

secolo. Dante lo ammirò per la sua umana grandezza ma non può fare a meno di inserirlo in quel girone per via della

sua convinta “fede” eretica dichiarata alla Chiesa per ragioni politiche.

120 – ‘l Cardinale: Ottaviano degli Ubaldini, arcivescovo e poi cardinale di Bologna. È descritto come uno dei più feroci

ghibellini. Pare che avesse forti influenze a Roma e che riuscisse ad aizzare a suo piacimento i suoi simili.

- De li altri mi taccio: vengono citate solo le figure più note, col solo scopo di dare l’esempio.

122-123 – ripensando…: Dante con la mente torna alla profezia di Farinata, quelle parole che gli presagivano un

destino avverso (v. 123).

125 – smarrito: fuori di te, come uno che perde il dominio di se stesso. È un aggettivo molto sentito da Dante.

127 – “Che la tua mente ricordi quello che hai udito”. “contra te” fa riferimento al “parlar nemico” del v. 123.

129 – attendi qui: non “aspetta qui” ma “ascolta bene ciò che ho da dirti”. Il gesto di alzare il dito infatti è proprio

quello di ammonire solennemente.

130 – dolce raggio: lo sguardo luminoso di Beatrice, la luce divina. Virgilio vuole far capire essenzialmente a Dante che

il fine della sua vita è diverso.

131 – tutto vede: a differenza dei dannati che vedono solo una limitata realtà.

132 – da lei saprai: in realtà sarà Cacciaguida nel Purgatorio, non Beatrice, a predire il futuro di Dante ma il senso della

parole di Virgilio resta comunque valido: è solo davanti alla sguardo di Beatrice, cioè dove si vede la realtà in Dio nella

sua completezza, che la rivelazione potrà esser fatta.

- Di tua vita in viaggio: il corso, la storia della tua vita, nel suo significato provvidenziale. Questo rimandare la

profezia (arriverà anche al canto XV) indica come nell’Inferno non possa esser possibile fare una profezia sulla

vita di Dante in quanto dovrebbe esser fatto in maniera dolorosa, visto il contesto. Questa vicenda invece

deve avere un valore positivo, provvidenziale, e deve essere reso noto alla presenza di Dio, vista anche l’alta

missione che è stata affidata al poeta e le conseguenze che questa porterà nella sua stessa vita. Virgilio

esorta Dante ad aspettare per questo motivo, per rendere la venuta a conoscenza della profezia anche più

sopportabile.

134 – girimmo…lo mezzo: lasciate le mura di Dite, lungo le quali avevano finora camminato, Dante e Virgilio si dirigono

verso il centro del cerchio (lo mezzo).

135 – una valle: un avvallamento, è la balza che costituisce il settimo cerchio.

136 – lezzo: la cui puzza si sentiva fino a lassù; è il preannuncio del nuovo cerchio, dove sono puniti i violenti.

INTRODUZIONE AL CANTO XIII

Lasciato il fiume di sangue Dante e Virgilio entrano in un grande bosco che occupa tutto il girone dei violenti contro se

stessi. Il bosco sarà ambientazione e protagonista stesso del canto perché rappresenterà e sarà composto dai suicidi.

Essi vengono tramutati in arbusti, piante sinistre piene di rami annodati, com’è l’animo del suicida poco prima della

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fine. Anche qui, come capita spesso, Dante prende ad esempio un innocente, - o meglio un giusto – ma soprattutto

l’esponente estremo della categoria, per dare meglio l’esempio, inoltrare il messaggio. Pier delle Vigne fu alla corte di

Federico II e suo grande consigliere intimo; gli altri cortigiani, si dice, accecati dall’invidia che nutrivano nei suoi

confronti lo misero in cattiva luce agli occhi del re e Piero, uomo di grande nobiltà d’animo e fedeltà, per non

sopportare tale umiliazione si suicidò. Come Francesca, come Farinata, egli mantiene vivo, se così si può dire, il suo

carattere anche all’Inferno e Dante sembra quasi tributargli questo canto utilizzando il suo stesso modo di scrivere

pieno di allitterazioni, antitesi, ripetizioni lessicali.

Anche qui Dante non condanna l’uomo, ma il peccatore: l’estrema ingiustizia contro se stessi, il suicidio, viene visto

come un affronto al supremo amore di Dio ed il contrappasso che ne consegue è tragico: l’uomo viene tramutato in

albero perché non volle più con il suo corpo la sua anima e anche nel momento del giudizio universale non potrà – a

differenza degli altri dannati – rivestirlo, ma solo caricarlo di peso, trascinarlo fino agli inferi e appenderlo ad uno dei

suoi rami.

Appaiono anche due scialacquatori in questo canto. Mentre i suicidi avevano arrecato ingiustizia a se stessi

fisicamente, gli scialacquatori lo avevano fatto nei confronti delle proprie cose, e quindi seppur con motivazioni

differenti sono affidati allo stesso girone dei suicidi, denudati e inseguiti ed infine squartati da cagne feroci, limpidi

esempi della loro avidità.

Un ultimo personaggio, un ignoto fiorentino che dice di essersi impiccato in casa sua è infine il mezzo per mandare

l’ennesimo messaggio alla città di Firenze: l’invidia delle corti, o quella fra cittadini, sono due aspetti dell’accanimento

degli uomini gli uni contro gli altri e quindi contro se stessi. Accanirsi contro se stessi vuol dire quindi togliersi la vita a

livello morale, privarsi in maniera insensata dei propri beni a livello materiale e gettare una città nel disordine e nel

caos a livello civile. Creare fratture con la propria anima o coi propri simili è la stessa cosa, ed essere uomini di grande

valore o città di inestimabile beltà poco importa se la frattura porta alla violenza e la violenza alla privazione della

propria anima, dei propri beni, della propria identità. Questo è il concetto, questa è la frattura, perno centrale e

significato stesso di tutto il canto.

CANTO XIII

1-9 – Questi primi due versi stabiliscono la continuità col canto precedente e allo stesso tempo ci indicano la premura

con cui Dante e Virgilio riprendono il cammino.

- Peru un bosco: è un nuovo paesaggio, l’ambiente del canto dei suicidi. Come la selva al canto primo questo è

un bosco di morte e come la selva del canto primo non vi sono vivi qua.

- Da neun sentiero: quindi non toccato da uomini, selvaggio. Allegoricamente sta ad indicare che la

disperazione del suicida non trova alcuna via di scampo.

- Fosco: oscuro, tetro.

La seconda terzina è costruita per antitesi, riportando le parti belle dei boschi vivi a confronto di quelle oscure di

questo posto, per ampliarne il senso drammatico.

- Schietti: lisci e diritti

- ‘nvolti: aggrovigliati

- Stecchi con tòsco: punte spinose avvelenate. I rami foschi, involti e intossicati sono la chiara metafora dei

pensieri che attanagliano il suicida prima dell’estremo gesto.

- Non han… còlti: Nemmeno le selvatiche fiere della Maremma che rifuggono (‘n odio hanno) i luoghi coltivati

dall’uomo (còlti) vivono in posti come questo.

- Cecina e Corneto: il fiume Cecina e Corneto sono i due confini della Maremma.

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10-12 – le brutte Arpie: in un posto simile ben si convengono tali orribili uccelli. Le Arpie sono animali mitologici con

volto femminino e corpo di uccello rapace. “Brutte” qui sta per zozze, viste le abitudini degli uccelli di imbrattare con

escrementi, secondo la mitologia, le tavole dei Troiani che sostavano nelle isole Strofadi. Come nel canto dell’Eneide in

cui una di queste augurò mala sorte ad Enea così, in questo canti, il lettore è consapevole del fatto che leggerà

qualcosa di brutto.

13-15 – Nella descrizione di tali mostri il viso umano è messo in mezzo a molti elementi dispregiativi, quasi a voler

farne perdere qualsiasi rilievo. A differenza dei delicati uccelli dei boschi terrestri, queste si esprimono in lamenti che

si addicono al posto in cui si trovano, su quegli alberi innaturali (strani).

16-21 – Virgilio si sente di dare un suggerimento a Dante: prima che tu entri sappi che siamo nel secondo girone

(cerchio dei violenti) e vi starai fintantoché (sarai mentre) non vedrai una landa di sabbia battuta da una pioggia di

fuoco (orribil sabbione)” che formerà il terzo cerchio. “Ora affidati agli occhi (riguarda ben), perché vedrai cose alle

quali non crederesti se te le dicessi (torrien fede al mio sermone)”.

22 – d’ogne parte trarre guai: si sentivano lamenti provenienti da ovunque.

24 – m’arrestai: il fermarsi di Dante è anche il fermarsi dei suoi pensieri, egli non sa più come procedere e,

contrariamente al suo solito, si interroga e non parla.

25 – Cred’io…: la figura retorica del ripetersi del verbo è una delle tante che caratterizzano il canto, secondo lo stile

proprio del personaggio che ne è al centro, ma tutte con una propria funzione: qui si esprime l’ondeggiare incerto del

pensiero che si tramanda tra i sue poeti, quasi un mutuo chiedere e rispondere.

26 – bronchi: grossi sterpi.

27 – per noi: può essere inteso sia come “da noi” sia come “per paura di noi”.

28 – Però: perciò. Il verso 25 ci fa intendere che Virgilio abbia un dubbio su Dante, quindi gli spiega subito cosa

succede.

29 – Fraschetta: il diminutivo ha un compito preciso: Virgilio suggerisce a Dante un modo per fugare i suoi dubbi e il

suo terrore, ma gli fa fare il danno minore (e la cosa già gli pesa, come vedremo al v. 51).

30 – si faran tutti monchi: a parte la bella similitudine col contesto, questo verso vuol dire che i pensieri di Dante si

sarebbero troncati, non sarebbero andati avanti, perché di fronte ad una meta, una risposta, diversa, in questo caso

da ciò che immagina il poeta.

31 – porsi…avante: avanza poco, timoroso. Il gesto sembra presentire la realtà.

32 – ramicel: come suggerito da Virgilio, anzi forse ancora più piccolo.

- Gran pruno: l’aggettivo “gran” non è riferito solo al pruno ma anche all’uomo che lo abita.

33 – Un episodio analogo a quello che accade qui succede nell’Eneide e come abbiamo visto in precedenza mentre la

descrizione di Virgilio dell’accaduto è abbastanza lineare, quella di Dante è più drammatica. L’episodio, in entrambi i

casi, si conclude con un grido, elemento che accomuna i due poeti – seppur nei diversi stili – per quanto riguarda la

grande compassione per l’infelice condizione umana.

- Schiante: da “schiantare”. Anche se cozza un po’ a livello lessicale, è comunque il verbo più alto della terzina

e quindi è stato posto alla fine.

34 – dato che: dopo che.

35 – screpi: strappi, è un verbo che indicava nell’italiano antico proprio il gesto di strappare parti dalle piante.

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36-39 – La grande parola umana “pietade” irrompe anche qui a dare estremo valore al personaggio (come in

Francesca). Piero dice a Dante di essere stato un uomo, poi trasformato in albero (“uomini” è messo all’inizio del

verso, “sterpi” alla fine, come ad allontanare le due posizioni di vita e morte), e gli dice che la sua mano sarebbe

dovuta essere (dovrebb’esser) più compassionevole (pia) anche se tale trattamento avesse voluto riservarlo al

peggiore degli animali, il serpente.

40-45 – Come da un tizzo (stizzo, ramo usato per il fuoco) ancora verde che viene arso e che dall’altra parte emette

gocce di linfa (geme) e produce suono acuto, uno strido (cigola) per l’evaporazione che ne esce, così dal ramo

spezzato (scheggia rotta) uscivano parole e sangue, alché io lasciai cadere la cima del ramo, e stetti come l’uomo che

ha paura. Questo “stetti” è il secondo arresto di Dante nel canto e, insieme al concetto di “rottura” lo identifica tutto.

46 – Virgilio parla tranquillamente, abbassa i toni, come colui che non è sorpreso di quello che è successo.

47 – lesa: offesa, materialmente in quanto mutilata ed emotivamente.

48 – pur: soltanto. Ciò che ha visto soltanto in un mio libro.

49 – in te: contro di te.

50-51 – “Ma la cosa era talmente poco credibile (perché Dante non l’ha sperimentata direttamente) che mi ha spinto

a indurlo a un’azione (ovra, opera) che a me stesso rincresce (pesa).

52 – Ma: il tipico ma dantesco che cambia discorso. Introduce la domanda centrale (chi tu fosti) e rende nota l’identità

fin’ora anonima del tronco.

52-54 – “Cosicchè invece di pagarti per il danno subito (‘n vece d’alcun ammenda) egli possa riportare viva (rinfreschi)

la tua memoria una volta tornato nel mondo dei vivi (lassù), dove a lui è lecito (lece) tornare.

55 – Si dolce…: si vede subito la raffinata gentilezza di Piero, con il linguaggio solenne e letterato proprio del dettatore

che egli fu in vita.. Con “dolce dir” egli vuole evidenziare anche il linguaggio di Virgilio, che esprime rispetto, la scusa e

quasi il possibile compenso.

56-57 – Piero si sente quasi costretto a parlare da una così piacevole richiesta e spera che i due non si dispiacciano (voi

non gravi) se nel suo parlare capiti di indugiare troppo (inveschi).

58 – ambo le chiavi: una per aprire, l’altra per chiudere.

60 – sì soavi: così soavi.

61 – “Allontanai dalla sua confidenza quasi qualsiasi altro uomo”.

62 – Fede: perno centrale del discorso di Piero, la fede nel suo signore.

63 – li sonni e’ polsi: le notti insonne passate nell’ansia e infine la vita.

64 – La meretrice…: L’invidia non distoglie mai la vista dai palazzi di Cesare, cioè del potere imperiale.

65 – putti: venali. L’invidia è spesso rappresentata come una donna sempre rapacemente presente dove c’è il potere

66 – morte comune: in quanto succede in tutte le corti.

67-68 – infiammò…Augusto: anche qui si parla di fuoco, ed il verbo di “infiammare” viene ripetuto tre volte, perché

come le fiamme aumenta d’intensità, diventa sempre più grande ed arriva fino all’imperatore.

69 – tornarono…lutti: si convertirono in tristi sventure.

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70 – disdegnoso gusto: piacere rabbioso e sprezzante, sprezzante nei confronti di chi ci sta intorno, sprezzante della

vita stessa.

71 – credendo…sdegno: credendo che con la morte si fosse tolto di dosso il disprezzo di tutti. Il “credendo” rende ben

qui l’idea di quanto illusoria potesse essere quella supposizione.

72 - mi rese ingiusto, coll’uccidermi, contro me stesso, che ero innocente. Queste parole, per quanto forti, hanno

comunque valenza solo nella concezione cristiana dell’uomo dove ogni giustizia è riferita a Dio.

73 – nove: di pochi anni, Piero era morto nel 1249. Egli giura sulle sua radici come gli uomini giurano sulla propria

testa.

75 – d’onor si degno: che fu veramente degno di cotanta fedeltà. Così facendo Piero toglie ogni colpa a Federico.

76-78 – “E se nel mondo terreno qualcuno, come dite (se), dovrà tornare (riede), rianimi (conforti) la mia fama (la

memoria mia) che è ora prostrata (giace) a causa del colpo infertole dall’invidia.

79-81 - Virgilio aspetta un po’ (un poco attese) come a voler dare tempo all’anima di Piero di parlare, ma in realtà la

sua pausa è una pausa di rispettoso silenzio. Dice allora a Dante di cogliere l’attimo (non perder l’ora) e di chiedere ciò

che gli interessasse.

82-84 – Dante però è troppo turbato (tanta pietà m’accora) e chiede a Virgilio di fare lui stesso la domanda che il

Maestro sa che egli vuole porre (quel che credi ch’a me satisfaccia).

85-90 – Visto che (se) Dante (l’om) farà ciò che tu chiedi (rianimare la tua memoria) allo stesso modo tu ora acconsenti

(ti piaccia) di dirci ancora come l’anima si lega a questi trochi (nocchi), e dicci, se puoi, se capita mai che qualcuna

riesca a liberarsene (v. 90).

91-92 – soffiò…voce: sospirò. In realtà sembra più che altro il suono che farebbe un troco nel caso in cui si dovesse

sforzare di parlare, soffio che poi si tramuta in voce.

94 – feroce: efferata, crudele contro se stessa.

95 – disvelta: violentemente strappata. Si noti che “disvellere” identifichi anche il gesto di strappare una pianta dal

suolo con le radici.

96 – foce: volta, porta, luogo d’ingresso.

97-99 – parte scelta… balestra: non gli è assegnato un posto preciso, ma arriva là dove fortuna la scaglia (come fa la

balestra col sasso). In questi Due versi Dante vuole far ben presente che a differenza degli altri cerchi, come ad

esempio nel Flageronte dove le anime dei violenti sono disposte a seconda del tipo di violenza, qui le anime non

hanno girone o categoria ma sono tutte accomunate dallo stesso peccato e dalla stessa pena. Allo stesso tempo

identifica l’anima – che prima era preziosa – come qualcosa di spregevole, da scagliare e che germoglia casualmente

come l’erba cattiva (il “gran di spela” è una sorta di pianta graminacea che attecchisce molto facilmente).

100 – Vermena: una volta germogliata cresce come vermena: uno stelo sottile come sono tutte le piante alla loro

origine.

- E in pianta: successivamente diventa pianta. È anche un modo per descrivere l’ “anima feroce” ed il suo

disvellersi dal corpo: prima seme, poi arbusto sottile, infine pianta selvatica (silvestra).

101-102 – le Arpie recano quindi dolore a questa piante coi loro artigli e a questo dolore creano un varco, uno spazio

(fenestra) per espandersi tutt’intorno (si fa riferimento ai lamenti ascoltati al verso 22).

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103-105 – “Come le altre anime anche noi ci riuniremo ai nostri corpi esanimi (spoglie), ma non sarà mai che qualcuna

di noi li rivesta, perché non è giusto, non è dato all’uomo tornare ad avere ciò di cui lui stesso si priva”. Qui è il vero

senso del contrappasso: l’uomo suicida si è privato dell’anima, ha sprezzato il corpo e mai più lo riavrà.

106-108 – le trascineremo…molesta: con penoso sforzo le anime trascineranno i loro corpi fino all’inferno, i quali

saranno appesi ai tronchi stessi per l’eternità. La similitudine è fatta dal primo suicida della storia cristiana, Giuda.

109-111 – Dante e Virgilio restano protesi (attesi) in ascolto, come se le ultime parole di Piero richiedessero una

conclusione, quando vengono sorpresi da un rumore. Quando Piero si chiude nel suo silenzio (come accadde già con

Ciacco e Farinata) un nuovo ed improvviso evento accade: arrivano gli scialacquatori, distruggitori delle proprie cose,

che seppur con pena diversa dividono con i suicidi il girone dei violenti contro se stessi. La loro è una violenza furiosa

contro i propri beni, fino alla completa distruzione.

112-114 – “Come il cacciatore che sente arrivare al luogo dov’è appostato (a la sua posta) il cinghiale (porco) e dietro

la turba dei cani (la caccia) e il rumore delle piante che si muovono (e le frasche stornire). Gli scialacquatori avranno

come pena quella di essere inseguiti da feroci cani da caccia.

116 – nudi: nudi come tutte le anime dell’Inferno. Qui l’aggettivo è ripetuto per dare più senso al fatto che fossero

ricoperti di graffi.

117 – rosta: ramo, ostacolo. In questo caso potremmo dire che i due fuggitivi spezzavano qualsiasi ostacolo gli si

ponesse davanti, che erano effettivamente rami.

118 – quel dinanzi: secondo gli antichi si tratta di Lano (Arcolano) di Ricolfo Maconi, giovane senese ricchissimo che

dilapidò tutte le sue sostanze. Nell’agguato della Pieve di Toppo, fatto dagli aretini ai sennesi nel 1278 egli cercò

deliberatamente la morte gettandosi fra i nemici per non dover sostenere la povertà in cui si era ridotto. La morte da

lui vissuta è ripetuta in questo momento della Commedia, come si sa che all’anima rimane ben vivo l’ultimo ricordo di

vita.

- Accorri…: Lano invoca un’improbabile morte che lo liberi da questo tormento atroce

119 – e l’altro: Iacopo da Santo Andrea, fu al seguito di Federico secondo e fu assassinato. Anche di lui si narravano

molte vicende di estrema prodigalità.

120-121 – C’è anche un pizzico d’ironia quando Iacopo, indietro rispetto a Lano, gli fa presente che le sua gambe non

furono così abili alla corsa (accorte) – in quanto aveva la possibilità di fuggire – durante le battaglia (giostre) di Toppo.

122 – li fallia la lena: gli veniva meno il fiato

123 – fece un groppo: fece un solo nodo, gettandovisi dentro. Il fuggitivo e l’arbusto diventeranno così una cosa sola.

125 – bramose: come la lupa del canto primo. L’avidità spasmodica è infatti propria dell’indigenza; è risaputo che gli

scialacquatori siano anche persone avide, che abbiano sempre l’estremo desiderio di accrescere i propri beni.

- Correnti: in corsa

126 – uscisser di catena: appena liberati dalla catena.

127 – quel che s’appiattò: quello che si nascose.

128 – dilacerarono brano a brano: lo smembrarono pezzo dopo pezzo. Com’essi tutto sperperarono, è qui che viene

sperperato il loro copro.

131 – menommi: senza di parola, Virgilio conduce Dante là dove è importante andare

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- Al cespuglio che piangea: spariti dalla scena i due scialacquatori, prende improvvisa voce il cespuglio umano,

finora solo parte della selva.

132 – Attraverso (per) le ferite (rotture) provocategli da Iacopo senza alcun vantaggio (in vano).

133 – O Iacopo: come per l’altro scialacquatore il nome è rivelato da un terzo, quasi tale colpa fosse vergognosa e

desiderosa di fuggire a nascondersi, come essi fanno.

134 – schermo: riparo.

137 – punte: solo le estremità dei suoi rami, ora troncate, che appaiono come tante punte acute e piangenti.

138 – sermo: discorso.

141 – disgiunte: è l’ultima parola della lunga serie che in questo canto indica la rottura. Queste membra disgiunte

esprimono, sia per i suicidi che per gli scialacquatori, lo spreco che si fece in vita delle loro cose care.

142 – tristo cesto: infelice cespuglio. Nella richiesta del suicida appare l’innato desiderio di conservare le proprie

membra.

143-144 – fui cittadino di quella città che (divenuta cristiana) cambiò il suo primo protettore (padrone) – da Marte a

San Giovanni Battista – cioè Firenze. L’identità di quest’uomo rimarrà ignota, egli resta solo un fiorentino, quasi

simbolo di quella città di morte.

144-145 – ond’ei per questo…trista: essendo stata precedentemente governata da Marte, Firenze sarà per sempre

costretta ad assecondare la sua arte: quella della guerra. Con gli altri e fra i suoi cittadini.

146-150: e se non fosse…indarno: e se non fosse che presso il ponte sull’Arno (sul passo d’Arno) rimane ancora

qualche immagine visibile (vista) di quel dio, quei cittadini che la rifondarono sulle ceneri rimaste dopo il passaggio

leggendario di Attila l’avrebbero ricostruita inutilmente (perché Marte l’avrebbe distrutta ancora). Questi tre versi

sembrano fondamentalmente asserire che Firenze è stata una città nata sulla violenza e che sarebbe continuata a

vivere di violenza.

151 – Questo tronco, quest’anima, probabilmente vissuta nell’era pagana dice che “fece una forca (ghibetto) a se

stesso della sua propria casa”. Nonostante le speculazioni sull’identità di questo personaggio Dante lo lascia

nell’anonimato, intendendo il disprezzo per il gran numero di suicidi che ci furono in quel periodo.

NOTE INTEGRATIVE AL CANTO XIII

10. Le brutte Arpie: A detta di molti esse rappresentano il simbolo della rapina che l’uomo ha fatto a se stesso della

vita. Come sempre in Dante esse non corrispondono mai ad una sola metafora, ma abbracciano molti aspetti

dell’umana condizione, così le Arpie rappresentano la violenza del suicida contro di sé, e insieme il disperato tormento

che non potrà mai lasciarlo e la loro “bruttura” allude all’orrore di quella colpa, come il disumano bosco velenoso.

58. Io son colui…: Pier delle Vigne, nacque da famiglia umile, studiò legge a Bologna, entrò nel 1220 come notaio e

scrittore alla corte di Federico II, dove divenne in breve l’uomo più autorevole, per la fiducia incondizionata

dell’imperatore. Ebbe in mano l’amministrazione della giustizia e tutta la corrispondenza di Federico II finché nel 1247

vene nominato protonotaro e logoteca del regno, due cariche che in pratica gli davano ogni potere. Fu anche uomo di

lettere e poeta di retorica e insieme a Federico stesso dominava tutta quella che era definita la “scuola siciliana”.

Dopo le sconfitte subite da Federico nel 1248 il cancelliere cadde in disgrazia e arrestato a Cremona come traditore fu

condotto nel terribile carcere di San Miniato del Tedesco presso Pisa, dove fu accecato. Disperato si uccise, pare,

sfracellandosi la testa contro un muro. Non si hanno notizie accertate delle motivazioni che lo condussero in disgrazia

né sul fatto che egli fosse davvero innocente, ma gli antichi sono propensi a credere alla sua innocenza. Così come per

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Francesca e Ugolino, il suo caso fece grande clamore all’epoca, tanto da indurre il poeta a trasporlo nella Commedia

ma determinando per sempre – oltrepassando ogni cronaca – il senso della sua figura.