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scienze della comunicazione DANIELE SALERNO TERRORISMO, SICUREZZA, POST-CONFLITTO STUDI SEMIOTICI SULLA GUERRA AL TERRORE

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scienze della comunicazione

DANIELESALERNOTERRORISMO,SICUREZZA,POST-CONFLITTOSTUDI SEMIOTICI SULLA GUERRA AL TERRORE

[SCIENZE DELLA COMUNICAZIONE]Collana diretta da Giovanna Cosenza

Terrorismo, sicurezza,post-confl itto

Studi semiotici sulla guerra al terrore

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Daniele Salerno

Terrorismo, sicurezza,post-confl itto

Studi semiotici sulla guerra al terrore[ ]

Sommario

Introduzione. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 9

I discorsi del terrore . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 12

I discorsi della sicurezza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 14

I discorsi del post-confl itto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 16

[1]

New York, 10 settembre 2001: la guida spirituale e la preparazione degli attentatori . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 21

1.1 Una guida spirituale? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 21

1.2 Il testo e la sua traduzione: problemi metodologici . . . . . . . 25

1.3 Il testo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 26

1.4 Struttura del manoscritto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 33

1.4.1 L’ultima notte: preparare l’anima . . . . . . . . . . . . . . 34

1.4.2 Verso l’imbarco: dominare la paura, ricordando Dio . . . . 37

1.4.3 La morte: una battaglia sulla via di Dio . . . . . . . . . . . 40

1.5 Strategie enunciative: tra dimensione individuale e dimensione

collettiva . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 42

1.5.1 L’illusione del destino e il disciplinamento degli atti di violenza:

agire sull’anima (an-nafs) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 43

1.6 La falsifi cazione della tradizione islamica . . . . . . . . . . . . 49

1.7 Funzione narrativa e memoria culturale: la battaglia tra Bene e Male 51

[ 6 ]

Terrorismo, sicurezza, post-confl itto

[2]

Comuni valori, comuni paure: il discorso della sicurezza . . . . . . 55

2.1 Ossessione sicurezza. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 552.2 Come un problema sociale diviene un problema di sicurezza?. . 562.3 Il discorso della sicurezza: una defi nizione. . . . . . . . . . . . 602.4 Immaginare il futuro, governare l’incertezza. . . . . . . . . . . 632.5 Proteggere e mettere al sicuro: una semantica dell’azione . . . . 662.6 Da chi o da cosa ci si protegge? Immaginare il pericolo, prevedere

il rischio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 692.6.1 L’immaginario securitario: forme di razionalità . . . . . . . 712.6.2 Codifi care il pericolo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 77

2.7 Chi protegge? Soggetto, sovranità e destinante sociale. . . . . . 792.7.1 Governo delle passioni: note di psicosemiotica della sicurezza 82

2.8 Chi o che cosa proteggere? La comunità e il contratto sociale . . 852.9 Derive securitarie: una tipologia. . . . . . . . . . . . . . . . . 89

2.9.1 La mancata individuazione del pericolo: retorica dell’invisibilitàe procedure semiotiche d’eccezione . . . . . . . . . . . . . . . 90

2.9.2 Crisi di legittimità: il venir meno del destinante sociale . . . 942.9.3 Che cosa proteggere? La dissoluzione della comunità . . . . 96

2.10 Riepilogo. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 97

[3]

Londra, 7 luglio 2005: difendere la metropoli . . . . . . . . . . . 99

3.1 7/7: il discorso della sicurezza nell’arena sociale. . . . . . . . . 993.2 Corpus, metodologia e obiettivi d’analisi . . . . . . . . . . . . 101

3.2.1 Carattere strategico e immaginativo del discorso della sicurezza: defi nizione del corpus . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 103

3.3 Sorveglianza: forma della comunità, londinesità e patto sociale 1073.3.1 La campagna Trust Your Senses . . . . . . . . . . . . . . . 1083.3.2 Le campagne One London e We are Londoners, We are One 1123.3.3 Trauma e comunità: sanare e difendere . . . . . . . . . . . 1203.3.4 La campagna If you suspect it, report it: la tutela del patto

sociale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 1243.4 Le pratiche della sorveglianza: la rappresentazione del nemico e il

cortocircuito semantico delle campagne MET . . . . . . . . . . . 127

[ 7 ]

Sommario

3.4.1 Un nemico uguale a noi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 1333.5 Da «silenzio, il nemico ti ascolta» a «ascolta, il nemico parla»: una

deriva paranoica? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 1393.5.1 La deriva paranoica dal punto di vista narrativo . . . . . . 146

[4]

Voltare pagina: narrazioni per il post-confl itto . . . . . . . . . . . 149

4.1 Come fi nisce una guerra? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 1504.2 False chiusure: i defi cit performativi tra la “missione compiuta” e

l’uccisione di Bin Laden . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 1524.3 Obama e la primavera araba come narrazioni inaugurali . . . . 1554.4 Una prospettiva diacronica: ristrutturazioni del campo

orientalista . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 1574.5 Obama tra Teheran e Il Cairo: i discorsi del “nuovo inizio” . . . 1614.6 La rivolta iraniana e la nuova alleanza tra Oriente e Occidente 1644.7 Lo smartphone che guida il popolo: un motivo iconografi co per il

post-confl itto. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 1674.8 Narrazioni di rivoluzioni e sopravvivenze di guerre al terrore . . 171

Riferimenti bibliografi ci . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 173

Introduzione

9/11, 11M, 7/7, New York, Madrid, Londra, Istanbul, Tel Aviv, Marra-kech, Casablanca, Sharm el-Sheikh, Mumbai, Baghdad, Kabul, Gerusa-lemme: sono solo alcuni dei luoghi e delle date che segnano gli episodi di una storia lunga ormai più di un decennio e che ci siamo abituati a indicare con l’espressione “guerra al terrore”.

Fu George W. Bush il 20 settembre 2001 di fronte al Congresso ame-ricano a usare quell’espressione – war on terror – per designare la caccia all’organizzazione terroristica colpevole degli attentati dell’11 settembre. Da allora la guerra al terrore è penetrata nella nostra quotidianità e a essa ci siamo lentamente abituati: ha costituito il sottofondo mediatico, ormai quasi impercettibile, delle nostre esistenze; ci ha costretto a ride-fi nire alcune abitudini, a cominciare dal nostro modo di viaggiare; ha acuito sentimenti di solidarietà, estraneità e appartenenza nelle comunità nazionali e religiose; ha scatenato sentimenti di paura, orgoglio e odio; ha spinto i cittadini di tutto il mondo ad accettare misure di sicurezza sempre più restrittive.

La guerra al terrore è divenuta così un sistema discorsivo e metacultu-rale modellizzante, in grado di piegare e ridefi nire vari aspetti della nostra vita sociale e delle nostre culture1.

1 La defi nizione è di Cristina Demaria (2006). In questo senso si vedano anche le rifl es-sioni di Federico Montanari che parla di esperienza bellica come di “fatto sociale totale”, capace di agire sulle «formazioni sociali a ogni livello: collettivo, psicologico, relazionale, percettivo, estetico» (Montanari 2004, p. 37). Trattare la “guerra al terrore” come sistema

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Terrorismo, sicurezza, post-confl itto

I confl itti post-11 settembre hanno in particolare rappresentato una sfi da alle categorie interpretative e ai modelli narrativi che le società contemporanee utilizzavano per dare senso e “ordinare” l’esperienza del confl itto perlomeno dal Seicento in poi, cioè da quando lo Stato-nazione è divenuto l’attore politico egemone. L’esperienza storica della guerra al terrore ha infatti messo in crisi le distinzioni categoriali classiche che, avendo al centro lo Stato-nazione, defi niscono l’opposizione tra spazio politico interno e spazio politico esterno.

Su questa differenza, ad esempio, si fonda la distinzione politica tra “amico” e “nemico” (Schmitt 1922), che ci permette di defi nire ciò che è proprio della comunità e ciò che le è estraneo e avverso. Il nemico della guerra al terrore è al medesimo tempo un nemico interno ed esterno: non si trova solo in Afghanistan o in Iraq ma spesso, come dicono le cam-pagne antiterrorismo che analizzeremo, vive nelle comunità occidentali e di queste fa parte.

Così nei documenti uffi ciali dei governi e nei testi delle campagne anti-terrorismo si possono leggere frasi come questa: «gli attentatori erano cittadini britannici cresciuti in questo Paese e che hanno portato in patria il rischio degli attentati suicidi». Dove si colloca allora il nemico? È tra noi, assomiglia a noi e non è da noi distinguibile: è interno (è un con-cittadino), va all’esterno e ritorna nello spazio nazionale (porta in patria). È potenzialmente dappertutto e non distinguibile dalla persona comune, al punto da essere defi nito da alcuni scienziati politici un “nemico-fan-tasma” (Galli 2007).

Lo sforzo classifi catorio risulta fallimentare anche da un punto di vista dello spazio geopolitico: se le guerre si distinguevano tra convenzionali, quando combattute tra Stati sovrani nemici, e civili, quando combattute all’interno di uno Stato tra soggetti appartenenti alla stessa comunità na-zionale, che tipo di guerra è invece quella in cui il nemico può essere un concittadino (come nel caso degli attentatori suicidi britannici) e il Paese che si bombarda è retto uffi cialmente da un governo alleato?

Infi ne la guerra al terrore, sfi dando la nostra capacità di dare senso all’esperienza del confl itto attraverso forme narrative e quadri cognitivi storicamente e culturalmente assestati, ha anche vanifi cato i nostri tenta-

discorsivo vuol dire interrogarsi sul senso che questa espressione e l’esperienza storica che designa hanno assunto e assumono. Quando useremo questa espressione, essa va quindi sempre intesa come racchiusa tra virgolette: quel che faremo è infatti interrogarci sul suo problematico signifi cato.

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Introduzione

tivi di immaginare “come andrà a fi nire”. Il “disordine categoriale” che ha caratterizzato la guerra al terrore si è infatti trasformato nell’impossibilità di comprendere quali obiettivi ci si prefi ggeva di raggiungere attraverso l’a-zione bellica. Abbiamo così cominciato a parlare di “guerra permanente”, non riuscendo neanche a immaginarne i modi per decretarne una fi ne.

Ciò che faremo nelle pagine successive è analizzare il confl itto come un macro-testo che «traduce e interpreta altri testi di una data cultura» (Demaria 2006, p. 55) e che costringe a ridefi nire l’idea, per esempio, di comunità, nazione, identità, guerra o nemico. Faremo ciò seguendo un ideale percorso cronologico.

In primo luogo analizzeremo un documento specifi co: la guida spiri-tuale degli attentatori dell’11 settembre, un testo ritrovato in due copie nella valigia del leader del gruppo terroristico e nella macchina di uno degli attentatori.

Passeremo poi a un’analisi dei discorsi della sicurezza, cercando di farne emergere la struttura narrativa, i percorsi valoriali e ideologici e le potenziali derive a cui essi si prestano perseguendo l’obiettivo di “difen-dere la società”.

Sposteremo poi il nostro sguardo su Londra e gli attentati del 7 luglio 2005. In particolare vedremo come la capitale britannica ha reagito agli attacchi terroristici attraverso le varie campagne istituzionali, pensate sia come strumento per rafforzare il “noi” comunitario, sia per trasformare i cittadini in soggetti attivi di sorveglianza nella lotta al terrorismo.

Concluderemo il percorso problematizzando il tema della “fi ne”: come la guerra al terrore sta “andando a fi nire”? Come l’uccisione di Bin Laden, il ritiro delle truppe dall’Iraq e l’annunciato ritiro di quelle dall’Afghani-stan hanno avviato il confl itto a una sua, seppur confusa, conclusione? E quale ruolo hanno giocato l’elezione di Barack Obama e le rivolte esplose tra 2009 e 2011 in alcuni Paesi a maggioranza musulmana?

Con queste tre analisi specifi che cercheremo di defi nire la relazione tra forme testuali ed esperienza bellica e vedremo come i vari attori in gioco – i terroristi, le istituzioni, l’opinione pubblica – hanno cercato di dare un senso al confl itto. Cercheremo così di far emergere quali visioni del confl itto e quali valori i “discorsi del terrore”, i “discorsi della sicurezza” e i “discorsi del post-confl itto” hanno messo in gioco2.

2 La ricerca si inscrive in questo senso all’interno della “semiotica della cultura”: cer-cheremo di rilevare così «corrispondenze tra forme testuali e percorsi valoriali» (Lorusso

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Terrorismo, sicurezza, post-confl itto

I discorsi del terrore

Studiare i “discorsi del terrore” ci pone ovviamente davanti al problema di defi nire il termine “terrorismo”, un compito non facile e che ha scate-nato e continua a scatenare molte controversie sia in ambito accademico che nelle istituzioni internazionali.

La defi nizione forse attualmente meno contestata nell’ambito delle scienze umane è quella che si concentra sugli effetti “comunicativi” di un atto di violenza terroristica:

Il terrorismo è un metodo di azione violenta ripetuta che provoca ansia, impiegata da gruppi o individui (semi-)clandestini o attori sta-tuali, per ragioni idiosincratiche, criminali o politiche, in cui – a dif-ferenza dell’assassinio – gli obiettivi diretti della violenza non sono i principali obiettivi dell’azione. Le immediate vittime umane della violenza sono in genere scelte a caso (obiettivi di opportunità) o selezionate (obiettivi simbolici o rappresentativi) all’interno della popolazione oggetto dell’attacco, e vengono impiegate come generatrici di messaggi. Le dinamiche comu-nicative, basate sulla violenza e sulla minaccia, tra terrorista (orga-nizzazione), vittime (in stato di pericolo) e obiettivo principale sono dirette a manipolare quest’ultimo (pubblico) trasformandolo in un bersaglio di terrore, di richieste o di attenzione. (Schmid e Jongman 1988, p. 28)

La defi nizione è forse tautologica – è terroristico l’atto che provoca ter-rore – ma ha il pregio di mettere in evidenza la dimensione comunicativa della violenza: l’atto terroristico da questo punto di vista è un’azione ma-nipolativa che un’organizzazione o un singolo, ricorrendo alla violenza su un terzo soggetto-vittima, esercitano su una collettività (società civile, opinione pubblica, istituzioni politiche). Tale manipolazione si può poi confi gurare come una minaccia (per esempio “se continui a fare l’azione X, continueremo a seminare terrore”), un ricatto (“se compi l’azione X, libereremo degli ostaggi”) o una provocazione (“continuerò a compiere azioni terroristiche, prova a fermarmi”)3.

2010, p. 9) e formuleremo in alcuni casi delle ipotesi generali sulle logiche che informano a più livelli i domini discorsivi presi in analisi.

3 Si usa qui il termine manipolazione nel senso che a questo termine si dà nell’ambito degli studi semiotici (Greimas e Courtès 1979, s.v.).

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Introduzione

È divenuto in questo senso ormai un luogo comune dire che l’enor-mità del crimine consumatosi l’11 settembre non sta solo nell’uccisione di quasi tremila persone e nel ferimento di molte migliaia, ma anche nella capacità dei terroristi di moltiplicarne all’infi nito l’impatto emotivo at-traverso delle accorte strategie comunicative e di manipolazione. L’imma-gine di Bin Laden davanti a un televisore nel bunker di Abbottabad, che guarda e riguarda probabilmente se stesso, documenta bene la consape-volezza che l’organizzazione terroristica e i suoi leader avevano e tuttora hanno della dimensione comunicativa degli atti terroristici. In quell’im-magine vediamo il lavoro di retroscena che Bin Laden e l’organizzazione terroristica hanno compiuto in questi dieci anni, per esempio attraverso la videomessaggistica (in realtà in passato già utilizzata per esempio dalle BR italiane [Uva 2008]), piegando i mass media ai loro scopi.

Il terrorismo di al-Qaeda si è caratterizzato tuttavia per un’altra pe-culiarità: l’atto terroristico come messaggio non si rivolgeva solo a una comunità nazionale, ma diveniva nei fatti un messaggio globale rica-dendo sugli “spettatori” di tutto il mondo. Ci rivolgiamo in questo senso all’analisi che Greblo ha fatto del fenomeno al-Qaeda nel quadro più complessivo dei fenomeni terroristici: si tratta di «una cellula criminale estranea al concetto di Stato, che punta a minare i suoi valori fondanti, tra cui il senso di sicurezza di cui quest’ultimo si alimenta» (Greblo 2005, p. 850).

Secondo Greblo in questo modo il terrorismo si de-territorializza, cioè supera la divisione spaziale che informa la logica statuale e, come dice-vamo, fa collassare la distinzione tra spazio interno e quello esterno:

il terrorismo globale è più simile alla moderna pirateria, perché agisce in un contesto de-territorializzato e de-spazializzato che non conosce né fronti né frontiere, e perché mira a colpire, materialmente e simbo-licamente, il principio di sovranità, che è, pur con tutte le sue attuali debolezze, ancora alla base sia dello Stato e del suo ordine interno, sia dell’ordine internazionale fondato sugli Stati. (ibidem)

Sono due i punti emersi in queste defi nizioni: l’aspetto legato agli ef-fetti pragmatico-passionali dell’attentato terroristico e relativo alla sua dimensione comunicativa e la visione del “campo di battaglia” propria del terrorismo qaedista.

La cosiddetta “guida spirituale”, che analizzerò nel primo capitolo, è in questo senso un testo esemplare rispetto al discorso del terrorismo.

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Terrorismo, sicurezza, post-confl itto

Come vedremo, essa pianifi ca l’atto terroristico attraverso la mediazione dei testi sacri e una manipolazione ideologica della memoria collettiva della comunità islamica, ridefi nendo così lo spazio del confl itto e l’iden-tità del nemico in termini religiosi.

I discorsi della sicurezza

L’ambito del discorso della sicurezza – il nostro secondo campo di esplo-razione – è stato particolarmente investito dal “disordine categoriale” di cui parlavamo in precedenza. In questi anni si è assistito in alcuni Paesi a un parziale dispiegamento all’interno dello spazio dello Stato di quelli strumenti di difesa che erano di solito impiegati nel confl itto con il nemico esterno (un altro Stato sovrano). Si è inoltre chiesto sempre di più alle popolazioni civili di esercitare un’azione attiva di sorveglianza, introducendo delle forme di militarizzazione dello spazio pubblico.

In accordo col “paradigma immunitario” proposto da Roberto Espo-sito (1998; 2002; 2004), in questi processi socio-politici vediamo agire una doppia dimensione: quella comunitaria e quella immunitaria. La di-mensione comunitaria comprende tutte le dinamiche sociali, politiche e semiotiche che ci permettono di riconoscerci come parte di un soggetto identitario collettivo. In questo senso nell’alveo della guerra al terrore hanno trovato molta fortuna e si sono ulteriormente radicalizzati i di-scorsi dell’identità, dell’appartenenza e della lealtà alle proprie radici.

La dimensione immunitaria attiene invece alla creazione delle diffe-renze tra il “noi” e il “loro”, tra il “proprio” e l’“estraneo”, tra ciò che deve stare all’esterno dello spazio comunitario e ciò che invece ne può far parte. L’immunizzazione costituisce così la forza uguale e contraria al processo di formazione e mantenimento della comunità: essa è infatti il meccanismo attraverso cui la comunità si “chiude” dall’interno, trac-ciando i confi ni con ciò che rimane fuori di essa «in una forma che risulta insieme costitutiva e destituiva» (Esposito 2002, p. 12).

L’aspetto comunitario e quello immunitario rappresentano quindi due prospettive per guardare a uno stesso fenomeno: la costruzione dell’«asse semiotico intorno al quale si costituisce ogni istituzione sociale» (Espo-sito 2002, p. 179) e che stabilizza e defi nisce il confi ne tra noi e gli altri.

Come vedremo, la priorità delle istituzioni della capitale britannica subito dopo gli attentati del 2005 non fu quella di defi nire il nemico ma di rafforzare il senso comunitario collettivo: le campagne We Are Lon-doners, We Are One, One London e gli annunci radio nelle campagne

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Introduzione

antiterrorismo non si concentravano sulla descrizione pratica del nemico né cercavano di costruire l’idea di azione sospetta. Si trattava piuttosto di rafforzare e ribadire le ragioni del vivere collettivo di sette milioni di persone all’interno della città di Londra; di rappresentare ed esaltare gli ideali di tolleranza alla differenza, di solidarietà e buona convivenza caratteristici – dal punto di vista dell’istituzione – della “londinesità”, ribadendo così il patto sociale che fonderebbe la vita nella metropoli.

Nel defi nire il “noi”, il discorso della sicurezza deve tuttavia cercare di defi nire l’“altro”, il nemico, e di fornire anche delle procedure semiotica-mente effi caci per riconoscerlo: che faccia ha? Da dove viene? Quale tipo di comportamento lo caratterizza? A queste domande, come vedremo, le campagne antiterrorismo non hanno saputo rispondere. Il nemico che opera all’interno dello spazio nazionale è infatti «di diffi cile individua-zione pratica: è il nemico che si mimetizza, che assume le nostre fattezze» (Galli 2007, p. 40).

Se i sistemi di protezione si fondano su una rappresentazione del pe-ricolo funzionale al suo riconoscimento e al suo controllo anticipato, il mimetismo del nemico – e la sua conseguente invisibilità e diffi cile ri-conoscibilità – ha fatto saltare le normali procedure semiotiche che ci permettono di “farci un’idea” chiara e intersoggettivamente defi nita della minaccia. Questa impossibilità di stabilizzare il “segno del sospetto” in una forma riconoscibile, narrabile e “visualizzabile” fonda una delle ar-gomentazioni che hanno informato il discorso pubblico e l’agire politico negli ultimi dieci anni: l’eccezionalità.

In altri termini di fronte a un pericolo eccezionale e non riconoscibile da chiare evidenze esterne, si deve contrapporre una macchina securitaria che si sottrae alle normali procedure semiotiche di controllo e riconosci-mento del nemico.

Questa logica si è dispiegata su più livelli del discorso pubblico. Per esempio in molti Stati le forze di polizia hanno avuto l’autorizzazione di intervenire nella limitazione delle libertà individuali anche in mancanza di “segni sospetti” (come vedremo è il caso di alcune leggi britanniche); e sulla base di questa logica si è sostenuta l’idea di “guerra preventiva”: la guerra come strumento per evitare una guerra.

Ci troviamo in questi casi di fronte a una deriva delle pratiche di im-munizzazione, così come descritte da Esposito: si cerca di anticipare e controllare una minaccia ritenuta reale, ma che è tuttavia invisibile e quindi non individuabile. E che, come sappiamo, si è in alcuni casi rive-lata essere inesistente.

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Terrorismo, sicurezza, post-confl itto

I discorsi del post-confl itto

Giungiamo dunque al terzo termine del presente lavoro: i discorsi del post-confl itto. L’eliminazione del capo di al-Qaeda, il ritiro delle truppe dall’Iraq e il graduale ritiro delle truppe dall’Afghanistan sembrano aver avviato una nuova fase: quella della chiusura di una stagione ormai lunga più di dieci anni.

Eppure anche in questo caso facciamo fatica a trovare forme comuni-cative e semiotiche effi caci che permettano di condensare adeguatamente, ratifi care e “moralizzare” l’evento bellico: possiamo dire chi ha vinto e chi ha perso dopo l’uccisione di Bin Laden, Saddam Hussein e dopo l’am-mainabandiera a Baghdad? E perché nonostante l’uccisione dei nemici numeri uno il confl itto in Afghanistan non si è ancora chiuso?

In una rifl essione sui concetti di guerra e pace, Umberto Eco (2006) ha usato per i confl itti successivi alla Guerra Fredda il termine “Neoguerre”: i confl itti che abbiamo vissuto negli ultimi vent’anni si caratterizzano per una cronica incertezza sull’identità del nemico e hanno completamente sparigliato il “gioco dei fronti” che vedevano “due popoli in armi” l’uno contro l’altro.

Oggi, come dicevamo prima, si può bombardare una nazione retta da un governo alleato, si può ascoltare – attraverso i media – la voce del nemico a casa propria e i governi di Paesi democratici possono mandare i propri militari in guerra pur non avendo affatto il sostegno di cittadini ed elettori (come è successo per molti Paesi nel caso iracheno).

La guerra al terrore, nell’analisi di Eco, è una Neoguerra che racchiude in sé almeno due guerre calde, che Eco chiama Paleoguerre, quella ira-chena e quella afghana. Esiste la possibilità di creare le condizioni per chiudere in qualche modo la guerra al terrore?

Da un punto di vista mediatico, sempre secondo l’analisi di Eco, la risoluzione delle Paleoguerre potrebbe essere favorita da una loro uscita dal clamore mediatico. I mezzi di comunicazione alimentano infatti una memoria che infi amma il confl itto invece di favorirne una chiusura (Poz-zato 2006, p. 205). Eco propone così di sostituire alla ribalta mediatica, l’azione di un’agenzia Negoziatrice che opererebbe lontana dagli occhi dell’opinione pubblica mondiale e in maniera quasi invisibile (Eco 2006, p. 30). Insomma queste guerre per essere risolte dovrebbero essere di-menticate dall’opinione pubblica mondiale. E risolvendo le Paleoguerre si alleggerirebbe al contempo il peso della Neoguerra globale.

Questa strategia pare oggi essere seguita dall’Amministrazione Obama nel contesto del confl itto afghano. Il governo statunitense ha infatti con-

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Introduzione

cesso ai talebani di aprire una sede di rappresentanza in Qatar: si cerca così di avviare una fase classica di trattativa politica, lontana dallo sce-nario di guerra e dai clamori mediatici, che dovrebbe permettere agli statunitensi di lasciare l’Afghanistan senza perdere la faccia.

Tuttavia ci pare che due altri e diversi fenomeni si siano in qualche modo presentati come un tentativo di superamento della guerra al ter-rore e di apertura di una fase post-confl ittuale. Mi riferisco all’elezione di Barack Obama e alle rivolte che sono scoppiate prima in Iran, nel 2009, e poi in Nord Africa e Medio-Oriente.

Questi eventi sono stati rappresentati come degli inaspettati “nuovi inizi” e si sono proposti quasi come una rottura epistemica capace di farci “voltare pagina”. Essi hanno infatti contribuito a rinegoziare nel discorso pubblico la posizione di quei soggetti collettivi che – con delle cattive semplifi cazioni – siamo stati abituati a indicare con il nome di “Occidente” e “Islam”: abbiamo visto un presidente degli Stati Uniti ri-volgersi direttamente al popolo iraniano e dialogare con l’Islam nella sua sede accademica più importante; abbiamo visto rivoltosi iraniani ed egi-ziani dialogare con l’Occidente e utilizzare gli strumenti tecnologici delle aziende occidentali per rovesciare i propri regimi autocratici e dittatoriali.

Così come sono stati narrati e rappresentati, la presidenza Obama e le rivolte cercano di sovrapporsi ai racconti e alle immagini degli ultimi dieci anni di confl itto e di sottrarre alla guerra al terrore quello statuto meta-culturale modellizzante di cui dicevamo all’inizio.

Questo è nei fatti uno dei modi attraverso cui si genera una forma di “oblio costruttivo”, che sembra avvicinarsi, nelle conseguenze, a quello proposto da Eco: un nuovo evento catalizza l’attenzione e spinge il prece-dente verso un cono d’ombra mediatico.

La dinamica sopra descritta – una rottura epistemica determinata da un evento imprevisto che “archivia” il passato e apre delle nuove possi-bilità per il futuro – ricorda in parte un fenomeno che avviene in campo scientifi co:

Il concetto di paradigma scientifi co di Kuhn è un’idea sul dimenticare. Kuhn vede lo sviluppo della scienza come un dimenticare, in cui ogni avanzamento nell’evoluzione scientifi ca ne alleggerisce la memoria, dove ogni crollo di un paradigma diviene sempre un atto di dimenti-canza di grande importanza per l’economia dello sforzo scientifi co. Il paradigma che è stato superato è quello che può essere dimenticato. (Connerton 2008, p. 66)

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Terrorismo, sicurezza, post-confl itto

Crediamo che questa ipotesi sul funzionamento dei meccanismi di me-moria e oblio possa essere estesa anche al campo politico e mediatico, nel momento in cui il verifi carsi di un evento inatteso ci permette di “voltare pagina”: questo è il caso delle “rivoluzioni” o dell’inizio di quelle che vengono percepite e rappresentate come “nuove stagioni politiche”.

Così la fi ne della guerra al terrore più che determinata da una sua “auto-chiusura” all’interno delle forme del confl itto, potrebbe essere in-terrotta dal verifi carsi di un nuovo evento che si presenta come impreve-dibile ed “esplosivo”, nel senso che a questo termine dà il semiologo Jurij Lotman: lo «scoppio di uno spazio di senso ancora non dispiegatosi» e che pone il futuro «su una via completamente nuova, imprevedibile e più complessa» (1993, p. 26).

Questo ci pare sia avvenuto, o stia avvenendo, per i cambiamenti politici consumatisi tra 2008 e 2011 – l’elezione di Barack Obama e le rivolte nei Paesi a maggioranza musulmana – che sembrano essersi proposti, con alterni e ancora incerti risultati, come eventi epocali in grado di archiviare le retoriche dello scontro di civiltà e di consegnare la guerra al terrore alla storia.

Ringraziamenti

Il presente lavoro è frutto dei tre anni di ricerca all’interno della Scuola di dottorato in Semiotica dell’Università di Bologna e dei successivi anni di post-dottorato presso la Scuola Superiore di Studi Umanistici e il Diparti-mento di Discipline della Comunicazione della stessa università, durante i quali ho avuto l’opportunità di avere tre guide indispensabili: Patrizia Violi, Cristina Demaria e Anna Maria Lorusso. E di condividere un importante periodo della mia vita con sette colleghi e compagni: Elena Codeluppi, Tom-maso Granelli, Francesco Mazzucchelli, Agata Meneghelli, Paolo Odoardi, Damiano Razzoli e Marco Seghini.

Devo inoltre ringraziare la School of Advanced Study della University of London – in particolare nelle persone di Naomi Segal, Gill Rye e An-gela Fattibene – per avermi permesso di passare un importante periodo di ricerca a Londra tra 2007 e 2008.

A Giovanna Cosenza, Costantino Marmo, Stefania Bonfi glioli e Piero Polidoro devo la pazienza per la lettura e l’attenta revisione del presente lavoro (di cui ovviamente mi assumo le responsabilità per le eventuali mancanze e inesattezze).

Ad Andrea Tramontana, Luisa Lugli, Eva Lorenzoni, Chiara Gius, Va-lentina Bazzarin, Giulia Baroni, Cristina Girardi e Letizia Cirillo devo le

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Introduzione

giornate passate nell’uffi cio docenti a contratto del Dipartimento di Di-scipline della Comunicazione dell’Università di Bologna e le rigeneranti pause di decompressione.

E il mio ultimo ringraziamento va ai miei genitori, ai miei fratelli, Ada, Giovanna, Emilia e a Fernando. Cui devo il “resto”.

€ 13,50

DANIELE SALERNODaniele Salerno svolge attività di ricerca presso il Dipartimento di Filosofia e Comu-nicazione dell’Università di Bologna, dove ha conseguito il Dottorato in Semiotica. Ha inoltre trascorso periodi di ricerca all’estero presso la University of London e lo University College of London. Si occupa di memoria e trauma in una prospettiva di semiotica della cultura, con particolare attenzione all’analisi della memoria pubblica di episodi di violenza politica e criminale.

TERRORISMO, SICUREZZA, POST-CONFLITTO“Può dirmi qual è la differenza tra un terrorista e una persona comune?”. È questa la domanda che una donna rivolge a un poliziotto in un annuncio radio della campagna antiterrorismo della polizia di Londra.In questi anni di cosiddetta “guerra al terrore”, opinione pubblica, forze di sicurezza e politici si sono ritrovati spesso a porsi le stesse domande: chi è il nemico e che faccia ha? Contro chi stiamo combattendo? Chi sono i terroristi e come agiscono?Il testo analizza la “guida spirituale” degli attentatori dell’11 settembre, le campagne antiterrorismo messe a punto dalla municipalità e dalla polizia di Londra dopo gli attacchi del 7 luglio 2005, e i modi in cui – con la caduta di Baghdad, l’uccisione di Bin Laden e con la cosiddetta Primavera araba – abbiamo cercato di immaginare, per questo “conflitto”, una fine.

scienze della comunicazione