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RICERCHE E STUDI SUI. TERRORISMO E LA VIOLENZA POLITICA Il piano di pubblicazione del programma di ricerche sul terrorismo e la violenza politica promosso dall’istituto Car- lo Cattaneo prevede i seguenti volumi: Ideologie, movimenti, terrorismi, a cura di Raimondo Catanzaro La politica della violenza, a cura di Raimondo Catanzaro Il terrorismo di sinistra, di Donatella della Porta Il vissuto e il perduto, voi. I, a cura di Raimondo Catanza- ro e Luigi Manconi Il vissuto e il perduto, voi. II, a cura di Raimondo Catanza- ro e Luigi Manconi Altri volumi sullo stesso argomento già editi dal Mulino: Terrorismo e violenza politica. Tre casi a confronto: Stati Uniti, Germania e Giappone, a cura di Donatella della Porta e Gianfranco Pasquino Terrorismi in Italia, a cura di Donatella della Porta La prova delle armi, a cura di Gianfranco Pasquino Questi volumi sono dedicati a tutti coloro che hanno sofferto per le violenze terroristiche nel nostro paese.

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RICERCH E E STUDI SUI. TERRORISMO E LA VIOLENZA POLITICA

Il piano di pubblicazione del programma di ricerche sul terrorismo e la violenza politica promosso dall’istituto Car­lo Cattaneo prevede i seguenti volumi:

Ideologie, movimenti, terrorismi, a cura di Raimondo Catanzaro

La politica della violenza, a cura di Raimondo Catanzaro Il terrorismo di sinistra, di Donatella della Porta Il vissuto e il perduto, voi. I, a cura di Raimondo Catanza­

ro e Luigi Manconi Il vissuto e il perduto, voi. II, a cura di Raimondo Catanza­

ro e Luigi Manconi

Altri volumi sullo stesso argomento già editi dal Mulino:

Terrorismo e violenza politica. Tre casi a confronto: Stati Uniti, Germania e Giappone, a cura di Donatella della Porta e Gianfranco Pasquino

Terrorismi in Italia, a cura di Donatella della Porta La prova delle armi, a cura di Gianfranco Pasquino

Questi volumi sono dedicati a tutti coloro che hanno sofferto per le violenze terroristiche nel nostro paese.

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ISTITUTO DI STUDI E RICERCH E «CARLO CATTANEO »

IL TERRORISM O DI SINISTRA

di Donatella della Porta

SO CIETÀ ED ITRICE IL MULINO

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ISBN 88-15-02735-1

Copyright © 1990 by Società editrice il Mulino, Bologna. È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico, non autorizzata.

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PRESEN TA ZIO N E

Giunge a conclusione, con queste pubblicazioni, un lavoro di studio e ricerca iniziato nel giugno 1982, quando la Regione Emilia Romagna, rappresentata dal suo presi­dente, in attuazione di una specifica legge regionale del precedente mese di maggio, e previa deliberazione del con­siglio regionale, stipulava con l’istituto Cattaneo una con­venzione per lo svolgimento di un programma finalizzato alla definizione concettuale e storica della violenza politica e in particolare del terrorismo, e alla comprensione delle sue caratteristiche e radici.

All’origine del programma vi è stato dunque l’impegno civile nei confronti di un fenomeno che aveva così dolo­rosamente e gravemente colpito a più riprese la città di Bologna e la sua popolazione e di fronte al quale la sensibi­lità del consiglio regionale e della giunta presieduta da Lan­franco Turci si tradussero nell’esigenza di fornire una rispo­sta in termini di conoscenza e di comprensione. Tale impe­gno venne ribadito dal consiglio regionale e dalla giunta presieduta da Luciano Guerzoni, che succedettero a quelli che avevano promosso l’iniziativa. È dunque grazie al sostegno della Regione Emilia Romagna che questo pro­gramma si è potuto svolgere dai suoi inizi fino alla pubbli­cazione dei risultati della ricerca.

Nel trarre, alla fine di un lavoro lungo e impegnativo, un bilancio conclusivo, è opportuno distinguere tre direttri­ci principali dell’attività svolta, che corrispondono ai prin­cipali obiettivi assegnati al programma di studi e ricerche.

La prima fase, che si è svolta tra il 1982 e il 1983, è ser­vita a censire e sistematizzare le conoscenze disponibili sia sul piano della descrizione empirica che su quello della defi­nizione concettuale. L ’approfondimento del tema, condotto in stretta collaborazione con i maggiori studiosi italiani e

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stranieri, ha avuto come epicentro due importanti conve­gni, dedicati rispettivamente all’analisi delle caratteristiche specifiche che il terrorismo ha assunto nella situazione ita­liana e al confronto con l’esperienza di altri paesi.

Di questo approfondimento si è dato conto in tre volu­mi pubblicati presso la casa editrice il Mulino: Terrorismo e violenza politica. Tre casi a confronto: Stati Uniti, Germania e Giappone (a cura di Donatella della Porta e Gianfranco Pasquino); Terrorismi in Italia (a cura di Donatella della Porta); La prova delle armi (a cura di Gianfranco Pasquino).

Insieme all’approfondimento storico e teorico si è pro­ceduto ad un inventario degli episodi e dei soggetti coinvol­ti in fatti di terrorismo nel periodo 1968-1982, del quale ha dato conto il volume Cifre crudeli. Bilancio dei terrorismi ita­liani, pubblicato in «Misure/Materiali di ricerca dell’istitu­to Cattaneo», a cura di Donatella della Porta e Maurizio Rossi.

Nello stesso periodo, in connessione con un’indagine sull’atteggiamento verso la pena di morte promossa dal Comune di Bologna e da Amnesty International, l’istituto ha poi approfondito il tema dell’atteggiamento dell’opinio­ne pubblica di fronte al terrorismo («Cattaneo», III, n. 2, giugno 1983: Perché più indulgenza per i terroristi?, di Pier­giorgio Corbetta e Arturo Parisi).

Tale lavoro preliminare ha consentito l’avvio, a partire dal 1984, di una seconda fase, finalizzata alla conduzione di una attività di ricerca originale e sistematica rivolta in due direzioni. La prima indirizzata alla creazione di un archivio documentario finalizzato alla raccolta e all’analisi di materiale informativo sul terrorismo, sia di fonte giudi­ziaria (sentenze definitive e istruttorie, verbali di interroga­torio), sia avente origine negli stessi gruppi terroristici (volantini di rivendicazione, documenti programmatici, «risoluzioni strategiche», documenti delle «aree omogenee» sulla dissociazione). L ’altra direzione di ricerca ha avuto per oggetto un’indagine sulle storie di vita dei terroristi, che ha portato all’effettuazione di 53 interviste in profon dità a protagonisti dell’eversione di destra (23 soggetti) c di sinistra (30 soggetti). Le interviste sono state condotti- secondo un piano che garantisse la copertura più ampia pos

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sibile degli orientamenti e delle posizioni emerse, nell’espe­rienza italiana, lungo l’intero arco del fenomeno terroristi- co.

La terza fase è consistita nel lungo, difficile e complesso lavoro di analisi del materiale documentario e delle intervi­ste, sottoposte dapprima ad uno screening della registrazio­ne su nastro e successivamente trascritte.

Contemporaneamente l’istituto approfondiva la temati­ca dei servizi segreti e dei rapporti tra democrazia e segreto in due convegni di studio con la partecipazione di studiosi italiani e stranieri. Di tale approfondimento si è dato conto in due volumi, Democrazia e segreto. Riflessioni a partire dal caso americano, e Democrazia e segreto in Italia, pubblicati in «Misure/Materiali di ricerca dell’istituto Cattaneo», entrambi a cura di Raimondo Catanzaro.

L ’analisi delle trascrizioni delle interviste in profondità, svoltasi durante il 1987, ha consentito una prima presenta­zione pubblica dei risultati e un confronto con studiosi stranieri sul problema del terrorismo, della violenza politica e dei movimenti collettivi in Italia nel corso del convegno «Il vissuto e il perduto. Percorsi biografici e realtà sociale degli anni di piombo», svoltasi a Bologna il 3-4 giugno 1988, e le cui relazioni, rivedute e in parte riscritte dagli autori, vengono pubblicate nei primi due volumi.

' Un’attività di ricerca, in particolare quando occupa un arco di tempo così esteso e con un’équipe di così ampie proporzioni, non può svolgersi senza supporti da istituzioni e contatti con una molteplicità di persone che mi è impossi­bile ricordare tutte. Non posso tuttavia dimenticare che l’intero programma non si sarebbe potuto svolgere senza il costante e puntuale coordinamento di un comitato scientifi­co presieduto da Luigi Pedrazzi, e del quale hanno fatto parte Augusto Balloni, Luciano Bergonzini, Francesco Ber­ti Arnoaldi, Massimo Brutti, Gian Carlo Caselli, Leopoldo Elia, Vittorio Grevi, Ferdinando Imposimato, Federico Mancini, Nicola Matteucci, Arturo Parisi, Gianfranco Pasquino, Stefano Rodotà, Giovanni Tamburino, Angelo Ventura, Piero Luigi Vigna e Luciano Violante, la cui espe­rienza di magistrati, esperti di diritto, parlamentari e stu­diosi è stata preziosa per indirizzare l’attività di ricerca.

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Tale attività non si sarebbe potuta nemmeno avviare senza la comprensione dell’allora ministro della Giustizia, on. Mino Martinazzoli, e del dott. Nicolò Amato, direttore generale degli Istituti di prevenzione e pena, grazie alla cui collaborazione è stato possibile condurre buona parte delle interviste nelle carceri.

Le interviste sono state condotte dai componenti il gruppo di ricerca, vale a dire Donatella della Porta, Giusep­pe De Lutiis, Maurizio Fiasco, Patrizia Guerra, Luigi Man- coni, Domenico Nigro, Claudio Novaro, Bruno Osella, Lui­sa Passerini, Enrico Pisetta, e per qualche tempo Sara Ben- tivegna, insieme ai quali il mio ringraziamento va a tutti gli intervistati che con grande disponibilità hanno acconsentito a ricostruire insieme a noi pezzi, spesso dolorosi e traumati­ci, della loro vita. Proprio in considerazione di questo aspetto, e per rispettare la richiesta da parte di alcuni di mantenere l’anonimato a garanzia del carattere confiden­ziale delle interviste, i loro nomi non vengono citati per esteso in questi volumi.

La sbobinatura delle interviste e la loro trascrizione è stata effettuata da Claudia Sofritti e da Lucia Trippa; que- st’ultima ha curato anche la raccolta del materiale docu­mentario e la sua archiviazione.

Durante tutto l’arco di svolgimento del programma ho potuto usufruire del costante e attivo sostegno sia del presi­dente dell’istituto Cattaneo, Luigi Pedrazzi, sia della dire­zione, dapprima nella persona di Arturo Parisi e, nell’ulti­mo anno, di Piergiorgio Corbetta, nonché della collabora­zione di Piero Bongiovanni, Giovanni Cocchi e Mirella Marani.

Mi sia consentito infine un ringraziamento del tutto personale ad Arturo Parisi; non tanto per aver proposto all’istituto la mia candidatura alla direzione del programma di ricerca, quanto per aver testimoniato con il consiglio scientifico e l’aiuto nei momenti difficili il valore incstima bile dell’amicizia.

R a i m o n d o C a t a n z a r o

Bologna, gennaio 1990

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IN D ICE

I. Lo studio delle organizzazioni clandestine p. 13

1. Alcune precisazioni sull’utilizzazione del con­cetto di terrorismo 15

2. Gli approcci teorici allo studio della violenza politica 20

3. Le organizzazioni clandestine di sinistra inItalia: le ipotesi della ricerca 29^*s»®S

4. Metodi e fonti della ricerca 41

II. Cicli di protesta e origini del terrorismo 51

1. Movimenti collettivi e violenza politica in Italia 51

2. Ciclo di protesta della fine degli anni sessanta e nascita del terrorismo 62

3. «Movimento del ’77» e terrorismo 74

III. Processi organizzativi e scelta della clande­stinità 91

1. Le organizzazioni clandestine in Italia 912. La fondazione delle prime organizzazioni

clandestine: le Br 973. La fondazione delle organizzazioni clandesti- -•*

ne nella seconda metà degli anni settanta: PI e Fcc 106

4. Un modello per l’emergere delle organizzazio­ni clandestine 122

IV. Il processo di reclutamento: le motivazioniindividuali 133

1. Socializzazione primaria e adesione a gruppiclandestini: una critica 133

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2. Caratteristiche strutturali degli individui e adesione alle organizzazioni clandestine p

3. Socializzazione politica e reclutamento nei gruppi clandestini

V. Mantenimento dell’impegno e incentivi or­ganizzativi1. La partecipazione nelle organizzazioni clande­

stine2. Gli incentivi di identità e l’integrazione dei

militanti3. Gli incentivi ideologici e l’integrazione dei

militanti4. Gli incentivi materiali e l’integrazione dei mi­

litanti

VI. Strategie organizzative e mobilitazione dellerisorse1. Le strategie organizzative: una premessa2. Strutture organizzative e mobilitazione delle

risorse3. Repertori d’azione e mobilitazione delle risor­

se: le tattiche4. Repertori d’azione e mobilitazione delle risor­

se: i bersagli5. Produzione ideologica e mobilitazione delle

risorse

VII. Dinamiche interne ed evoluzione delle orga­nizzazioni clandestine

1. Le trasformazioni nella struttura organizza­tiva

2. Le trasformazioni nei repertori d’azione: le tattiche

3. Le trasformazioni nei repertori d’azione: i bersagli

4. Le trasformazioni nella produzione ideologica

V ili. La crisi del terrorismo in Italia

1. Struttura delle opportunità e sistema delle re­lazioni internazionali

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2. Struttura delle opportunità e intervento dello stato p

3. Struttura delle opportunità e sistema dei par­titi

4. Struttura delle opportunità e movimenti col­lettivi

5. La dissociazione dalla lotta armata e la crisi del terrorismo

IX. Alcune osservazioni conclusive sul caso ita­liano

Fonti e ringraziamenti

Riferimenti bibliografici

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C A PITO LO PRIM O

LO STUDIO D E LLE O RGAN IZZAZIO N I CLA N D ESTIN E

Fra i fenomeni che hanno caratterizzato la storia italia­na degli anni settanta, il terrorismo è certamente quello più drammaticamente presente nella memoria collettiva. Vari interrogativi sono stati posti nel dibattito di quegli anni sul­le cause di una violenza politica di tale intensità e durata. Le condizioni ambientali per il suo emergere sono state in­dividuate ora nelle peculiarità della cultura politica, ora nel­la gravità che alcuni problemi sociali avevano assunto nel corso della lunga crisi economica. Alcune organizzazioni po­litiche sono state accusate di avere offerto strutture o legit­timazione alle formazioni clandestine. La percezione dell’e­stensione raggiunta dal fenomeno ha accresciuto il bisogno di capire le motivazioni che hanno spinto tanti individui, appartenenti ad una generazione socializzata alla politica in un regime democratico ormai consolidato, verso comporta­menti di un tale livello di violenza.

Molte delle domande poste dal dibattito di allora, incal­zato dall’urgenza dei provvedimenti da prendere, sono ri­maste senza risposta. Solo in un periodo più recente, il mu­tare del clima politico, insieme alla disponibilità di fonti di informazione, hanno consentito di affrontare quelle que­stioni con maggiori ambizioni di comprensione scientifica. Questo lavoro si propone di contribuire alla riflessione su quegli anni, attraverso una ricerca empirica sulle organizza­zioni clandestine di sinistra allora attive.

Occorre, innanzitutto, delimitare l’oggetto di questa ri­cerca, in relazione sia al tipo di azioni che al tipo di attori. Non costituiscono oggetto d ’analisi le organizzazioni politi­che clandestine con ideologie differenti, come quelle neofa­sciste. Escluse sono quelle organizzazioni che, pur utilizzan­do forme d ’azione illegali e violente, hanno operato però prevalentemente a livello legale. Al di fuori dei confini del

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nostro studio sono inoltre quei fenomeni di criminalità non politica che una certa pubblicistica ha spesso accostato al terrorismo: la mafia o la camorra, ad esempio. Non vengo­no, infine, incluse quelle forme di criminalità politica che si. avvicinano in vario modo al terrore di stato1, cioè quelle in cui una violenza illecita viene esercitata da apparati statali oppure in cui gruppi inseriti nella coalizione di potere domi­nante cercano di produrre trasformazioni politiche attraver­so strumenti illegali, come è stato documentato nel caso del­la loggia massonica P2. Riferimenti a tutti i fenomeni sopra indicati verranno fatti tuttavia quando le loro storie si in­trecciano con quella delle organizzazioni politiche clandesti­ne di sinistra, o la somiglianza delle loro dinamiche può con­tribuire a spiegarla.

La definizione empirica dell’oggetto della ricerca richie­de, inoltre, che vengano fissati alcuni limiti spaziali e tem­porali. Occorre dunque aggiungere che la nostra attenzione si limita alle organizzazioni clandestine di sinistra che han­no operato in Italia, mentre solo saltuariamente emergeran­no osservazioni comparate sulle attività di gruppi simili ope­ranti in altre democrazie occidentali. Il periodo analizzato è quello degli anni settanta e ottanta: anche se la rilevazione dei dati ha una certa completezza solo fino al 1983, le vicen­de più recenti verranno discusse, seppure utilizzando solo le informazioni pubblicate dai giornali.

L ’ondata di violenza politica che si è manifestata in Ita­lia nel corso degli anni settanta ha avuto caratteristiche tali da suggerire per la sua analisi l’applicazione dei concetti e delle ipotesi elaborate dalle scienze sociali sul terrorismo. Qualitativamente molto eterogenea, la letteratura sull’argo­mento consiste prevalentemente di materiali di riflessione politica o resoconti giornalistici sugli episodi più clamorosi, mentre pochi e parziali sono stati sia le indagini empiriche

1 Una delle prime distinzioni nella costruzione di una tipologia deifenomeni terroristici è quella tra il terrorismo contro le istituzioni e quel­lo, invece, utilizzato dalle istituzioni contro alcuni gruppi della popola­zione. Questo secondo tipo di utilizzazione della violenza è stato definito terrorismo di stato o terrorismo repressivo [Bonanate 1979a, 108-112; Wilkinson 1977, 47-64],

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che i tentativi di interpretazione teorica. L ’integrazione di categorie d ’analisi e risultati di ricerca non è stata ancora ta­le da produrre né teorie generali, né esaurienti spiegazioni di eventi storici. Insufficienti appaiono, infine, le definizio­ni del fenomeno fin qui proposte2.

Nel corso di questo capitolo, la letteratura sociologica e politologica sul terrorismo verrà utilizzata per elaborare una definizione adeguata ai fini della ricerca. La discussione dei principali approcci allo studio della violenza politica costi­tuirà la premessa per la presentazione delle categorie teori­che che hanno guidato la mia indagine empirica. Nella defi­nizione dello schema analitico per lo studio delle formazioni clandestine, gli spunti offerti dalle analisi sulla violenza po­litica verranno integrati con la letteratura relativa ad altri ti­pi di organizzazioni.

1. Alcune precisazioni sull’utilizzazione del concetto di terro­rismo

La categoria terrorismo è stata utilizzata nella descrizio­ne di fenomeni molto diversi. Episodi di terrorismo sono stati riscontrati in un passato molto remoto. Nell’impero ro­mano così come nei principati rinascimentali congiure di pa­lazzo produssero trasformazioni politiche tramite l’uccisio­ne del despota. Nel X IX secolo il terrorismo individuale di­venne una tattica diffusa nei regimi autocratici, mentre in misura maggiore o minore i movimenti anticoloniali hanno spesso fatto uso di attentati e forme d ’azione di guerriglia*.

2 Un giudizio fortemente negativo sullo stato della ricerca sulla vio­lenza politica viene espresso anche in una recente rassegna da uno dei più eminenti studiosi del fenomeno: «Con poche eccezioni, c ’è una preoccu­pante carenza di buona ricerca empirica sul terrorismo» [Gurr 1988, 115]. E ancora: «la maggior parte della letteratura consiste di descrizioni ingenue, commenti speculativi, e prescrizioni su come “ affrontare il ter­rorismo” che non raggiungerebbero i requisiti minimi della ricerca scien­tifica nelle branche più istituzionali dello studio del conflitto» [ibidem, 143],

3 Su questi punti, si vedano, tra gli altri: Gross [1972] e Laqueur[1978],

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Ma il termine terrorismo è stato utilizzato anche con riferi­mento a certe forme di violenza politica degli anni più re­centi. In questo caso, esso è stato definito come un fenome­no peculiare del secondo dopoguerra, la cui stessa esistenza sarebbe impensabile senza la diffusione dei mezzi di comu­nicazione di massa4.

Le più diffuse definizioni del terrorismo sono insuffi­cienti ad individuare le peculiarità del fenomeno.

Presentando il terrorismo come «metodo, o teoria che sta dietro il metodo, attraverso cui un gruppo organizzatoo partito afferma i suoi obiettivi principalmente per mezzo di un uso sistematico della violenza»5, esse giustificano co­sì la confluenza nella stessa categoria d ’analisi di tutti quegli eventi storici in cui una certa quantità di violenza è stata usata come strumento della competizione fra fazioni avver­se. Fenomeni eterogenei — dalle attività delle bande crimi­nali organizzate alle contese dinastiche, dalle guerre tra na­zioni a gran parte delle interazioni politiche nei regimi auto­ritari — vengono così confusi insieme in un medesimo con­cetto, privandolo sia di capacità euristiche che di una mera utilità descrittiva.

Appare in primo luogo necessario formulare una discri­minante teorica tra il genere violenza politica e la sua più sanguinosa specie. Mentre l’azione violenta viene, entro de­terminati limiti, accettata come mezzo normale di rinego­ziazione dei rapporti di forza nel sistema politico, il terrori­smo è stato sempre considerato come una forma d ’azione patologica. E stato, così, proposto di fissare un livello oltre il quale la violenza assume connotati di terrorismo6. Poi­ché in ogni ordinamento politico e sociale una certa quanti­tà e un certo uso della coercizione sono inerenti al normale

4 Sul ruolo dei mezzi di comunicazione di massa nel terrorismo con­temporaneo, si vedano Marletti [1984] e Sandsredlick [1979],

5 Hardman [1937, 375].6 In questa direzione va, ad esempio, il contributo di Paul Wilkin-

son [1977, 30-34], Come strumenti di misurazione dell’entità della vio­lenza, Wilkinson propone di combinare alcuni indicatori della «scala» (numero di persone impegnate nell’azione, ampiezza del luogo delle ope­razioni) con la «intensità» (durata della campagna violenta, numero dei casi di violenza, potenziale bellico utilizzato).

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funzionamento del sistema, occorrerebbe individuare per ciascun contesto storico specifico la soglia di tollerabilità varcata la quale la violenza viene considerata «eccessiva». La determinazione di una soglia di passaggio presenta, tut­tavia, serie difficoltà dal punto di vista operazionale. Arbi­traria sembra la definizione di un tasso quantitativo calcola­to sulla base di percentuale di morti e feriti o entità dei dan­ni. Impraticabile è la soluzione di assumere come terroristi- che tutte le tattiche illegali. In ogni ondata di protesta, in­fatti, vengono inventate nuove forme d ’azione che, nella maggior parte dei casi, non sono legali al momento del loro sorgere e che solo in seguito vengono, prima informalmente e poi formalmente, accettate come legittime. Stimolante ma di non facile applicazione è, inoltre, la differenziazione qua­litativa tra una violenza a fini negoziali e una violenza che rifiuta ogni possibile accordo.

Risultati non migliori vengono dall’utilizzazione di quelle definizioni che, a partire dall’etimologia del termine, presentano come terroristica quella violenza politica che si pone l’obbiettivo — o ha l’effetto — di «terrorizzare». Questa concettualizzazione presenta, in primo luogo, imma­ginabili problemi di operazionalizzazione derivanti dalla difficoltà di misurare gli stati psicologici di alcuni individuio gruppi. Se, per esempio, si ammette che «intimidire» o «spaventare» sono obiettivi normalmente perseguiti nel cor­so dei conflitti politici, ben difficile appare la individuazio­ne di una discriminante tra timore e paura, paura e terrore. Tale definizione sottovaluta, inoltre, alcune rilevanti con­notazioni del fenomeno. Non solo, infatti, il messaggio del­le organizzazioni terroriste è fortemente differenziato ri­spetto ai diversi gruppi della popolazione, ma per di più, nel caso del terrorismo di sinistra, l’obiettivo principale di mol­te azioni è quello di raccogliere consenso, piuttosto che di terrorizzare. Come conseguenza di queste ambiguità defini­torie, la qualifica di terrorismo viene spesso capziosamente attribuita ai comportamenti collettivi anomali rispetto alla prassi politica istituzionalizzata.

Il dibattito scientifico più recente ha messo in rilievo le carenze di queste prime elaborazioni concettuali.

Si può in primo luogo sottolineare l’opportunità di limi­

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tare l’applicazione del concetto di terrorismo ad azioni di violenza rivolte al perseguimento di obiettivi politici. I gruppi clandestini hanno, in generale, perseguito propositi differenti. Attività terroristiche sono state giustificate a partire da ideologie di destra o di sinistra, e sono state uti­lizzate all’interno di progetti di trasformazione sociale o d ’indipendenza nazionale. L ’entità del cambiamento che ci si propone di realizzare attraverso l’uso di strumenti violen­ti può, inoltre, variare molto — dal rovesciamento del regi­me al mutamento della coalizione politica dominante — an­che se l’esperienza storica insegna che la radicalizzazione degli obiettivi prosegue, in genere, di pari passo con la radi­calizzazione delle tattiche d ’azione. Nonostante la varietà delle finalità delle azioni terroristiche, si può tuttavia con­cordare almeno sulla opportunità di limitare l’applicazione del termine terrorismo alla sola utilizzazione della violenza in un conflitto fra attori politici, escludendo così le contese private per guadagni individuali.

Migliori opportunità per stabilire una discriminante tra le diverse forme di violenza vengono offerte dall’introdu­zione della variabile relativa all’attore che opera attraverso la violenza. Considerando in una categoria specifica i casi di utilizzazione del terrore da parte delle istituzioni statali, l’ulteriore requisito perché l’azione possa essere definita co­me terroristica è che essa sia utilizzata da gruppi di dimen­sioni ridotte e clandestini. La dimensione del gruppo serve a differenziare dal terrorismo rivoluzioni o movimenti di guerriglia, che coinvolgono cospicui gruppi della popolazio­ne. La illegalità dell’organizzazione è un requisito necessario per distinguere quelle che, pur utilizzando talvolta le stesse forme d ’azione, hanno tuttavia caratteristiche qualitative differenti. Se, infatti, l’utilizzazione di un repertorio preva­lentemente violento è una peculiarità distintiva delle forma­zioni terroriste, è però anche vero che omicidi possono esse­re commessi da organizzazioni legali senza che esse necessa­riamente trasformino la loro struttura o che si producano ef­fetti rilevanti sul sistema politico. La clandestinità dell’or­ganizzazione è invece un elemento tale, per le conseguenze che genera, da fornire una fondamentale ragione di discri­minazione tra forme di violenza politica qualitativamente

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differenti. Perché un gruppo possa essere definito terroristi- co occorrerà, infine, che esso adotti in misura pressoché esclusiva tattiche violente all’interno del proprio repertorio.

Una definizione operativa del fenomeno in esame può essere proposta attraverso l’utilizzazione congiunta delle variabili fin qui esaminate. Il terrorismo sarà, allora, l ’attivi­tà di quelle organizzazioni clandestine di dimensioni ridotte che, attraverso un uso continuato e quasi esclusivo di forme d ’azione violenta, mirano a raggiungere scopi di tipo prevalen­temente politico.

Nonostante questa definizione operativa faccia della ca­tegoria terrorismo uno strumento analitico più efficace, la sua area di applicazione resta tuttavia talmente ampia da co­stringere chiunque si voglia cimentare nella ricerca in que­sto campo a delimitare rigorosamente il proprio settore d ’indagine. Anche considerando il terrorismo di stato come soggetto d’analisi a sé stante, la categoria del terrorismo co­me sfida alle istituzioni continua a riunire insieme, all’inter­no di confini a dir poco sfumati, fenomeni di grande diversi­tà quali le campagne dei movimenti indipendentisti contro una dominazione considerata come straniera, gli attentati di stampo nichilista contro i sovrani autocratici, i dirottamenti aerei compiuti dal terrorismo internazionale, le stragi indi- scriminate dell’estrema destra. Il confronto tra eventi così eterogenei è probabilmente utile più per evidenziare le dif­ferenze esistenti che per ricercare improbabili somiglianze.

La scelta compiuta in questa ricerca è quella di concen­trare l’attenzione sulle particolari forme che il terrorismo assume in un regime politico democratico.

Nonostante molti studiosi concordino nell’osservare una tendenziale riduzione delle manifestazioni di violenza nel conflitto politico, la specie di violenza che abbiamo fin qui cercato di definire ha assunto negli anni più recenti una particolare virulenza. L ’inquietudine prodotta da questo dato viene accentuata dal fatto che le democrazie occidenta­li sono fino ad oggi risultate tutt’altro che risparmiate dalle manifestazioni di questo tipo di criminalità politica7. Se

7 Si vedano i dati presentati in Gurr [1979].

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l’utilizzazione del terrorismo in quei regimi che rifiutano ogni diritto di espressione al dissenso appare un fatto facil­mente spiegabile, più complessa diviene invece la compren­sione delle cause dell’emergere del fenomeno in quei sistemi politici in cui a tutti i cittadini è formalmente riconosciuto il diritto di esprimere il loro dissenso, di organizzarsi per di­fendere i propri interessi, di partecipare alle decisioni ri­guardanti la collettività.

2. Gli approcci teorici allo studio della violenza politica

Proprio l’emergere del terrorismo nei regimi democrati­ci ha stimolato, negli ultimi decenni, una densa letteratura scientifica. Le ricerche empiriche e le riflessioni teoriche sull’argomento hanno riguardato tre livelli analitici: il siste­ma, il gruppo, l’individuo. Nel primo caso, il principale que­sito degli studi macro-sociologici è stato relativo ai tipi di sistemi politici in cui il terrorismo si è diffuso e il livello del­la spiegazione ha riguardato le condizioni strutturali. Nel secondo, le domande più rilevanti di indagini meso-sociolo- giche hanno riguardato i tipi di gruppi che utilizzano il ter­rorismo, cioè il livello dell’organizzazione. Nel terzo, ci si è interrogati, in una prospettiva micro-sociologica, princi­palmente sugli individui che divengono terroristi e la rispo­sta è stata cercata nelle caratteristiche personali dei mili­tanti.

Le ipotesi individuabili nella letteratura sul tema della violenza politica si differenziano notevolmente rispetto a li­vello di generalizzabilità cercato, ampiezza della base empi­rica di sostegno, esaustività della spiegazione proposta e, naturalmente, tipo di variabili utilizzate. Esse possono esse­re presentate sinteticamente seguendo la suddivisione tra diversi livelli analitici già individuata.

Gli studi che si sono concentrati sulle caratteristiche dei singoli membri di un movimento collettivo possono essere, in genere, ricondotti all 'approccio psicosociologico. Un tema ricorrente nella saggistica sull’azione collettiva riguarda l’in­dividuazione delle motivazioni soggettive di adesione a un movimento.

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Affrontando questo argomento, molti studiosi si sono concentrati sulla ricerca di caratteristiche psicologiche pecu­liari ai militanti dei gruppi di protesta. Più la forma d ’azio­ne collettiva è apparsa deviante rispetto alle norme codifica­te, più l’indagine si è soffermata su presunte psicopatologie individuali. In particolar modo, le teorizzazioni sull’esisten­za di una personalità terrorista hanno assunto un ruolo cen­trale nelle analisi interpretative del terrorismo internaziona­le. I militanti delle organizzazioni clandestine sono stati de­scritti come persone incapaci di raggiungere l’età adulta, malati mentali terrorizzati dal mondo esterno, falliti che si difendono dalle conseguenze demoralizzanti delle sconfitte subite vivendo il rifiuto come scelta e trasformandolo in vo­lontà di potenza\ Attraverso descrizioni caricaturali dei terroristi come individui fanatici e crudeli, o anche soltanto instabili ed utopisti, si è spesso tentato di rendere conto del­la permanenza della violenza in quelle società che si vorreb­bero pacificate e ordinate. E , così, l’istinto aggressivo non incanalato in uno sfogo ritualizzato che, secondo alcune in­terpretazioni, produce la criminalità politica9.

L ’ambizione di elevare le caratteristiche psicologiche a variabili causali del terrorismo toglie credibilità scientifica ad un approccio che potrebbe fornire contributi positivi se si limitasse ad analizzare le motivazioni individuali alla mili­tanza o le psicodinamiche dei piccoli gruppi in condizioni di clandestinità. Le più recenti indagini sui dati caratteriali e biografici concordano nell’affermare che «la caratteristica più rilevante dei terroristi è la loro normalità»10.

Un approccio parzialmente diverso caratterizza, invece, quei contributi di derivazione strutturalista che collegano

8 Questo tipo di interpretazioni possono essere ritrovate, ad esem­pio, in Servier [1979] e Laqueur [1978, 131-144], Per una rassegna critica si veda Wilkinson [1979].

9 In schemi più elaborati, la presenza di personalità con propensione alla violenza viene ritenuta come una delle precondizioni della diffusione del terrorismo, che però agisce solo se combinata con altri fattori quali l’indebolimento dei valori democratici condivisi e l’esistenza di partiti dotati di ideologie favorevoli alla utilizzazione della lotta armata [Gross 1972],

10 Crenshaw [1981, 390].

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l’emergere del terrorismo a squilibri di sistema. Diverse ana­lisi hanno interpretato il nascere del terrorismo negli stati democratici come indicatore di difficoltà nei meccanismi si­stemici di adattamento. La ricerca si è rivolta in questi casi alla determinazione del sottosistema in cui si verificano gli impedimenti alla integrazione. La letteratura teorica sulla violenza politica è ricca di analisi sulle condizioni ambienta­li che possono avere contribuito al suo emergere e alla sua crescita. Variabili economiche, sociali, politiche o culturali sono state citate come cause di comportamenti violenti". Alcuni contributi si sono soffermati sulle condizioni di lun­go periodo, altri sulle particolari congiunture storiche. Le diverse spiegazioni sono state sintetizzate nella tabella 1.

T ab. 1. Alcune interpretazioni sulle origini della violenza

Spiegazioni strutturali Spiegazioni congiunturali

Variabili diseguaglianze fasi intermedie dellaeconomiche di reddito crescita economica

Variabili cleavages rapidasociali sociali modernizzazione

Variabili regimi inefficienza apparatipolitiche autoritari repressivi

Variabili tradizione di mutamenti nelculturali conflitto violento sistema di valori

Spiegazioni «strutturali», frequentemente basate su confronti di dati aggregati riferiti a più nazioni, hanno ana­lizzato ora il livello di sviluppo di una società, ora la presen­za di cleavages etnici o di classe, ora la cultura politica di un paese, ora lo spettro delle diseguaglianze economiche12.

11 Per una rassegna della letteratura sulla violenza politica, si rinvia a Eckstein [1980].

12 Per queste interpretazioni si vedano, rispettivamente, Russet [1964], Barrow [1976]; Bandura [1973]; Sigelman e Simpson [1977]; eI Iuntington [1968].

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Spiegazioni più cicliche, spesso basate sullo studio di singoli casi, hanno invece collegato la violenza politica alle fasi di modernizzazione, alle tappe intermedie dello sviluppo eco­nomico, a periodi di inefficienza dei poteri coercitivi dello stato, a rapide trasformazioni nel sistema di valori'}.

La ricerca sulle disfunzioni che possono produrre il ter­rorismo si è indirizzata, oltre che sui ritardi delle strutture normative, anche sulle caratteristiche del sistema economi­co e, ovviamente, delle istituzioni politiche. Crisi di svilup­po connesse a problemi interni o internazionali, mancanza di coordinamento tra domanda e offerta sul mercato del la­voro, insufficiente programmazione della formazione pro­fessionale, squilibri di status, adeguamento incompleto del­le strutture di socializzazione alle mutate esigenze struttura­li, sono spesso citate come cause di devianza individuale o collettiva.

Oltre che ai processi di razionalizzazione del sistema produttivo, si è anche, più spesso, guardato all’attività del sistema politico di selezione degli inputs e produzione di outputs. Elementi di disturbo, che possono avere agito come determinanti del terrorismo, sono stati individuati ora in un eccessivo potere acquisito da alcuni gruppi di pressione; ora nella mancanza di alternanza al governo; ora in una trasfor­mazione violenta delle regole del gioco da parte degli stessi governanti. Se una certa concordanza è esistita nel conside­rare le variabili politiche come rilevanti per la spiegazione della violenza terrorista, le interpretazioni specifiche si so­no però contraddittoriamente concentrate sulla risposta del­lo stato all’emergere delle organizzazioni clandestine, rite­nuta ora troppo debole, ora eccessivamente repressiva; sulle reazioni delle élites al governo rispetto all’aggregarsi di nuo­ve domande collettive, talvolta analizzate in termini di as­senza di riforme e tal’altra in quelli di un mutamento troppo rapido; sul livello di legittimazione delle istituzioni, stimato da alcuni insufficiente e da altri ritenuto talmente elevato da impedire ogni opposizione; sulle condizioni del sistema

” Per le interpretazioni cicliche, si vedano rispettivamente: Hun­tington [1968]; Feierabend e Feierabend [1966]; Tilly [1969]; e Acquavi­va [1979],

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politico, accusato di ostacolare la costituzione di nuovi atto­ri collettivi o, viceversa, di istituzionalizzare precocemente i movimenti.

Seppure stimolanti nel loro tentativo di individuare al­cune cause generalizzabili dell’emergere della violenza, le ipotesi strutturali non sembrano riuscire a rendere conto del complesso attivarsi del terrorismo, dei meccanismi di dege­nerazione di alcuni attori politici verso la violenza, dell’evo­luzione delle formazioni in clandestinità. Esse condividono, infatti, una impostazione funzionalista, all’interno di un in­teresse prevalentemente sistemico: nella definizione del ter­rorismo come indicatore di difficoltà del sistema gli attori collettivi non trovano alcuno spazio di intervento autono­mo. Essi non sono altro che spie di squilibri sistemici e parti di meccanismi inconsapevoli di riequilibrio14. Questo tipo di approccio ha, dunque, avuto effetti negativi sul procede­re della ricerca scientifica sul fenomeno terroristico. Da un lato, la scarsa specificazione dei modelli interpretativi, la mancata individuazione delle variabili intervenienti tra la crisi strutturale e l’emergere dei gruppi armati, e la difficile operazionalizzazione delle loro variabili hanno scoraggiato ogni tentativo di verifica nell’analisi comparata. Dall’altro lato, postulando che il terrorismo sia un mero sintomo di di­sfunzione, si è rinunciato allo studio delle sue origini speci­fiche, della sua morfologia, delle sue dinamiche di crescita, delle sue interazioni con l’ambiente esterno. Se le organiz­zazioni clandestine non sono che componenti di un mecca­nismo omeostatico di riaggiustamento, non vengono consi­derate, allora, come rilevanti le loro caratteristiche ideologi­che, organizzative, strategiche. Se il terrorismo è, per defi­nizione, il prodotto di blocchi e disfunzioni, non serve, allo­ra, spiegarne la genesi.

Un terzo tipo di spiegazioni della esistenza del terrori­smo si è concentrato sul livello del gruppo, differenziandosi nell’attenzione prestata all’ideologia di alcune organizzazio­ni o alle dinamiche degli interessi collettivi emergenti. Un

14 Come è noto, allo stesso modo vengono analizzati i comporta­menti collettivi nell’approccio struttural-funzionalista [Smelser 19681.

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numero considerevole di analisi ha utilizzato variabili che fanno riferimento all’ ideologia. Il terrorismo nelle società democratiche è stato considerato come reazione di piccoli gruppi organizzati, esterni al sistema politico. In società in cui i canali di accesso alle decisioni formali sono sempre aperti, i processi negoziali si sviluppano lungo linee istitu­zionalizzate e le regole appaiono come legittime, il terrori­smo diviene una scelta obbligata per quelle frange che mira­no al rovesciamento del sistema. Nei sistemi democratici i piccoli gruppi usano il terrorismo come strategia cosciente, coerente con l’obiettivo della distruzione fisica del nemico. In linea con questa analisi, l’emergere del terrorismo è stato ricondotto all’azione di «sette ideologiche», il cui scopo è la soppressione di ogni libertà individuale1’ . Poiché la solu­zione pacifica dei conflitti assicura alle società liberali il consenso della stragrande maggioranza dei cittadini, ogni tentativo di delegittimare il sistema attraverso lo strumento legale della propaganda sarebbe destinato al fallimento. Le azioni terroristiche sarebbero, invece, il solo modo per rag­giungere le mete alle quali la popolazione si oppone. Attra­verso la propaganda che incita alla violenza, i terroristi cer­cano di indebolire le istituzioni democratiche impedendo lo­ro di assolvere alla loro principale funzione: assicurare il consenso sociale attraverso la partecipazione alle scelte col­lettive. Poiché il progetto politico di questi gruppi mira al rovesciamento delle istituzioni legittime, «non c’è spazio per negoziare alcun compromesso tra i loro obiettivi e quelli del resto della popolazione»lfi.

In una diversa prospettiva teorica, le forme violente di protesta sono state collegate alle caratteristiche degli inte­ressi mobilitati. L ’uso dei repertori più innovativi, e spesso più violenti, è stato considerato come una peculiarità dei gruppi sociali emergenti. Per utilizzare la terminologia di Tilly, la violenza politica tende ad addensarsi quando nuovi sfidanti lottano per entrare nel sistema politico e vecchi membri reagiscono, rifiutando di uscirne17. In una variante

15 Questa è, ad esempio, l’interpretazione di Wilkinson [1977].If’ Wilkinson [1979, 107],17 Su questo punto, si veda Tilly [1978 52-55 e 172-188],

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di questa ipotesi, si sottolinea che le caratteristiche delle so­cietà tecnocratiche ostacolano lo sviluppo dell’azione collet­tiva nei sistemi contemporanei18. I gruppi terroristi rap­presenterebbero alcuni interessi che sono antagonisti rispet­to al sistema.

Discuteremo più approfonditamente del ruolo che ideo­logie politiche e interessi collettivi hanno giocato nell’emer- gere del terrorismo in Italia. Ci si può limitare per ora ad osservare che anche questo approccio si è limitato a suggeri­re l’esistenza di poco controllabili relazioni causali tra ma- cro-variabili, senza né controllare empiricamente queste af­fermazioni né individuare le interazioni esistenti tra il livel­lo macro-analitico prescelto e le caratteristiche del fenome­no da studiare. L ’ideologia o l’estrazione di classe di un gruppo è stata ritenuta come spiegazione sufficiente dell’a­dozione di pratiche violente di azione. Questi contributi si sono, perciò, spesso limitati a sottolineare meccanicistiche correlazioni tra ideologia o base sociale di un’organizzazio­ne e strategie adottate.

Obiettivo di questo lavoro è quello di fornire un model­lo capace di integrare i tre livelli analitici — ambiente, orga­nizzazione, individuo — rivolgendo l’attenzione prevalen­temente al funzionamento delle organizzazioni clandestine. Le formazioni terroriste costituiscono, dunque, l’oggetto privilegiato della ricerca, ma le loro caratteristiche sono spiegate tenendo conto sia delle condizioni ambientali che delle motivazioni dei loro membri.

Alcune opzioni sono implicite in questo approccio. Una prima scelta riguarda la considerazione dei gruppi terroristi all’interno della categoria più amplia delle organizzazioni politiche. Le organizzazioni sono state, in genere, definite come dei sistemi formali di norme e obiettivi, coordinanti un insieme di esseri umani che riconoscono la loro legittimi­tà 19. Anche se il grado di formalizzazione normativa o strutturazione gerarchica varia da caso a caso, le formazioni armate possiedono senza dubbio questi requisiti. Ciò vuol

1,1 Questa ipotesi è argomentata in Targ [1979]; e Wellmer [1981].19 Questa è, ad esempio, la definizione di Lange [1977].

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dire che esse condividono con gli altri tipi di organizzazioni alcune strutture e processi, pur presentando certamente del­le peculiarità. Essendo inoltre i loro fini esplicitamente ri­volti a trasformazioni istituzionali, ciò permette di classifi­carle nella categoria più ampia delle organizzazioni politi­che, giustificando in questo modo l’utilizzazione di ipotesi e categorie elaborate in quegli ambiti20. Spetterà poi alla ricerca l’individuazione delle peculiarità dei gruppi terrori­sti in relazione ad altri tipi di organizzazioni con scopi poli­tici.

La seconda opzione è costituita dalla decisione di porre l’organizzazione, piuttosto che l’individuo o l’ambiente, al centro dell’analisi. Questa scelta è analoga a quella rilevabi­le in molti contributi recenti che tendono al recupero e al­l’applicazione delle variabili della sociologia dell’organizza­zione allo studio dei gruppi politici21.

La terza opzione è quella di considerare l’organizzazione come soggetto impegnato in una rete di interazioni. La com­prensione delle strategie d ’azione richiede l’analisi dei di­versi scopi compresenti all’interno dell’organizzazione, del­le motivazioni dei militanti e dei condizionamenti dell’am­biente esterno.

Le diverse problematiche dello studio dell’azione collet­tiva sono sintetizzate nella figura 1.

Lo studio delle ' organizzazioni clandestine dovrebbe, cioè, permettere nel corso di questa ricerca di verificare le ipotesi relative ad una teoria del conflitto, che spieghi le ra­gioni strutturali della presenza del fenomeno terroristico; ad una teoria della mobilitazione, che analizzi il modo in cui le organizzazioni terroristiche riescono a trarre dall’ambien­te le risorse di cui hanno bisogno; ad una teoria della militan-

20 Per un’analisi della letteratura sulle organizzazioni, si rinvia a Perrow [1986] e Scott [1981]. Più in particolare sulle organizzazioni poli­tiche: Bibby e Brinkerhoff [1974]; Child [1973]; Curtis e Zurcher [1973; 1974]; Downtown [1973]; Freeman [1983]; Jenkins [1977]. Sulla struttu­ra delle organizzazioni terroriste, cfr. Zawodny [1978; 1983].

21 Ciò è avvenuto sia nelle ricerche sui movimenti sociali — resource mobilization approach [per una rassegna, Jenkins 1983] — che nelle ricer­che sui partiti politici [Panebianco 1982].

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SocietàTeoria del Teoria del

risorse trasformazioniconflitto mutamento

r -► Organizzazione~ \Teoria della Teoria della

incentivi motivazionimobilitazione

Individuo

militanza

Fig. 1. Approcci all'azione collettiva in relazione a l livello analitico.

za, che affronti il tema delle motivazioni individuali alla partecipazione ad un gruppo clandestino; ad una teoria del mutamento, che individui gli effetti, intenzionali o imprevi­sti, del terrorismo sul sistema.

L ’ambiente potrà, così, essere preso in considerazione come luogo da cui un gruppo trae le risorse per la sua costitu­zione e il suo funzionamento. Pur evitando un approccio de­terminista, appare evidente che la presenza di alcune risorse néH’ambiente è condizione indispensabile per la nascita di un gruppo e, soprattutto, per la sua sopravvivenza in clan­destinità. Ma occorrerà anche guardare alle reazioni prodot­te dalle organizzazioni clandestine nell’ambiente in cui ope­rano, cioè ai cambiamenti che esse producono nei sistemi in cui agiscono.

L ’analisi del terrorismo a partire dal funzionamento del­l’organizzazione armata permette, inoltre, di impostare il problema della partecipazione degli individui a gruppi che adottano le forme più estreme di violenza. La comprensione delle ragioni dell’adesione di militanti politici a pratiche d ’azione illegali deve passare attraverso l’individuazione de­gli incentivi22 che le organizzazioni clandestine distribui­scono e delle motivazioni che esse riescono a stimolare fra i loro aderenti.

22 Una prima analisi che ha utilizzato la categoria di incentivo è quella di J.Q . Wilson [1972],

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3. Le organizzazioni clandestine di sinistra in Italia: le ipotesidella ricerca

Questi problemi vengono affrontati nel corso della ri­cerca, attraverso lo studio di tre processi, differenziabili analiticamente: l’emergere delle organizzazioni clandestine, il loro funzionamento, la loro evoluzione. La prima parte del libro riguarda le origini del terrorismo di sinistra. Nel prossimo capitolo verrà analizzata la struttura delle opportu­nità politiche disponibili per i gruppi terroristici alle loro ori­gini. In quello successivo le scelte strategiche che portano alla fondazione delle organizzazioni clandestine.

Un primo tipo di variabili da prendere in esame per spie­gare la nascita delle organizzazioni clandestine è quello rela­tivo all’ambiente esterno. L ’emergere delle formazioni ar­mate è influenzato dalla disponibilità di simpatie e protezio­ni esistenti all’esterno, così come dai meccanismi repressivi scelti dagli apparati istituzionali. La posizione dei partiti può generare tolleranza verso i gruppi terroristi o contribui­re ad isolarli. Attraverso i mezzi di comunicazione di massa, si può aiutare a diffondere il messaggio dell’insurrezione ar­mata o danneggiare le formazioni clandestine, offrendo un’immagine caricaturale dei loro militanti. Le diverse con­dizioni ambientali aiutano a spiegare non solo le differenze strutturali e ideologiche esistenti tra gruppi emersi in perio­di o ambienti differenti, ma anche i cambiamenti della stes­sa formazione nel tempo.

Considerando le organizzazioni clandestine come orga­nizzazioni politiche, lo studio delle loro origini deve prende­re in considerazione la struttura delle opportunità politiche per loro disponibile. Questo concetto — già utilizzato nello studio dei movimenti collettivi — è stato definito come l’in­sieme di opportunità e vincoli esistenti per l’uso di forme non convenzionali di azione politica2’.

Nelle analisi sui movimenti collettivi, sono state consi­derate come rilevanti per la definizione delle situazioni in cui è più probabile che l’azione collettiva si sviluppi le se-

21 Cfr. Tarrow [1983].

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guenti variabili: la relativa chiusura o apertura dell’accesso formale alla politica, in termini di capacità di risposta a spe­cifiche domande; la stabilità delle adesioni all’interno del si­stema politico, indicata dalle fluttuazioni elettorali; la strut­tura potenziale delle alleanze, come disponibilità e orienta­mento degli attori politici2'1. Non solo le condizioni del si­stema politico in relazione a queste variabili, ma soprattutto la percezione che i diversi attori ne hanno, influenza la loro scelta delle forme di azione collettiva.

Mi sembra però importante aggiungere che, probabil­mente, queste variabili funzionano in modo diverso a secon­da che esse debbano spiegare il nascere di un movimento o le sue possibilità di successo, la cooptazione di alcune orga­nizzazioni o il sorgere di gruppi violenti. Nell’utilizzare questo concetto per l’analisi delle origini del terrorismo si guarderà, in particolare, alla reazione degli apparati dello stato e degli attori politici rispetto al fenomeno. Apparirà che il terrorismo emerge e si rafforza in una situazione di progressiva radicalizzazione di alcune organizzazioni del settore dei movimenti sociali di fronte ad una risposta in­tempestiva e inefficace da parte degli attori istituzionali.

Le organizzazioni del terrorismo italiano emergono in­fatti all’interno di due cicli di protesta2', uno della fine de­gli anni sessanta e l’altro della metà degli anni settanta. Gli effetti del declino del primo ciclo, particolarmente lungo nel caso italiano, si sono sommati cosi all’innescarsi di nuovi conflitti, portando all’adozione di forme d ’azione partico­larmente violente. Lo sviluppo della violenza politica nel nostro paese è stato, in primo luogo, facilitato dalla risposta istituzionale alla protesta. Mentre l’estremismo neo-fascista riceveva protezioni da parte dei servizi segreti, coinvolti an­

24 Ibidem, pp. 140-144.23 Un ciclo di protesta è stato definito come «composto da una serie

di decisioni individuali e di gruppo volte a fare uso di azione collettiva conflittuale, da parte sia di attori di “ movimento” che di attori non di movimento, e dalle risposte alla loro azione, da parte sia delle élites che degli altri attori» [della Porta e Tarrow 1986, 610]. Si ha un ciclo di pro­testa quando gli eventi di protesta si intensificano nel tempo, la protesta si estende a settori sociali e aree geografiche differenti, e vengono utiliz­zate nuove forme d ’azione collettiva [Tarrow 1983].

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che nelle stragi del terrorismo nero, il tipo di utilizzazione delle forze dell’ordine durante le manifestazioni pubbliche contribuiva ad una escalation della violenza che sarebbe du­rata per tutti gli anni settanta. Se tra la fine degli anni ses­santa e l’inizio del decennio successivo, i conflitti all’inter­no della classe dirigente avevano fatto temere una inversio­ne autoritaria, alla metà degli anni settanta l’ipotesi di com­promesso storico proposta dal Pei aveva deluso le speranze di un’alternativa di governo. Negli anni settanta, gli scanda­li politici continuavano a susseguirsi senza che il governo riuscisse a portare a termine le più urgenti riforme. Nel cor­so di tutto il decennio, l’esistenza di alti livelli di instabilità nell’alleanza di governo, unita alle strumentalizzazioni che del pericolo terrorista venivano fatte dalle varie parti, inde­boliva la capacità di risposta delle istituzioni.

Ma ancora una specificazione è necessaria per l’analisi degli effetti della struttura delle opportunità sull’emergere del terrorismo. La struttura delle opportunità è mutevole nel tempo e differenziata per i diversi tipi di organizzazioni compresenti in uno stesso movimento collettivo. Se alcune condizioni ambientali sono necessarie perché si realizzino alcune scelte, è anche vero, tuttavia, che le organizzazioni mantengono una certa autonomia decisionale. C ’è, cioè, la possibilità di una scelta strategica come processo attraverso il quale le diverse esigenze vengono soppesate, con un certo margine di decisione fra mete e metodi alternativi. L ’orga­nizzazione può, in una certa misura, definire il suo «territo­rio di caccia» (domain), decidendo quali prodotti o servizi offrire, con quali fornitori e clienti entrare in contatto. At­traverso l’ ideologia, l’organizzazione seleziona il suo am­biente di riferimento (task environment) e ritaglia la sua po­sizione all’interno di esso26. Nell’analisi della protesta si

26 II grado di autonomia delle scelte decisionali rispetto a condizioni ambientali date è un problema spesso discusso nella sociologia dell’orga­nizzazione. Un approccio a lungo prevalente — la open system theory — ha considerato le organizzazioni come coalizioni di interessi, fortemente influenzate dall’ambiente che le circonda. Esso determinerebbe non solo le loro caratteristiche e i loro fini, ma anche la loro evoluzione, selezio­nando le organizzazioni incapaci di adeguarsi. Questa è anche l’ipotesi avanzata dal population ecology approach, sulle cui principali ipotesi si rin-

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può, infatti, osservare che non solo ogni periodo storico ve­de l’azione contemporanea e necessariamente interagente di diversi movimenti collettivi, ma inoltre più organizzazioni fanno riferimento allo stesso movimento collettivo, e più movimenti collettivi operano nello stesso contesto storico. All’interno dello stesso settore dei movimenti sociali21, più gruppi sociali e organizzazioni politiche si differenziano nel­le ideologie e nelle pratiche adottate. Le diversità sono spes­so enfatizzate dai differenti gruppi al fine di definire un’i­dentità collettiva autonoma all’interno di un’area. Sulle scelte dei leader delle singole organizzazioni di movimento incide, cioè, il bisogno «imprenditoriale» di competere con gli altri gruppi, definendo se stessi attraverso una identità politica che permetta di occupare alcuni spazi in cui vi è mi­nore competizione. In presenza di certe precondizioni am­bientali, alcuni gruppi decidono di sperimentare opzioni strategiche che, attraverso una radicalizzazione dei reperto­ri e dei modelli organizzativi, permettano loro di distinguer­si dalle altre organizzazioni operanti all’ interno dello stesso movimento e reclutare militanti nelle aree più propense alla violenza.

In condizioni di smobilitazione, l’accentuazione dell’uso delle tattiche violente e la compartimentazione delle strut­ture organizzative verranno difese da alcune organizzazioni di movimento sociale e non da altre, addirittura solo da al­cune delle fazioni presenti in una organizzazione, giustifi­cando e promuovendo allo stesso tempo il conflitto all’inter­no della leadership. Come si vedrà, l’emergere di formazioni clandestine è dunque conseguenza di un processo di polariz­zazione e scissione tra fazioni moderate e fazioni radicali, all’ interno del settore dei movimenti sociali e all’ interno di

via a Hannan [1980]; e Hannan e Freeman [1977]. Secondo invece la clo­sed system theory, le decisioni organizzative vengono prodotte nel conflit­to tra i diversi interessi interni, che lasciano spazio, tuttavia, ad una plu­ralità di giochi per ogni coalizione. Si rinvia su questo punto a Panebian­co [1982],

27 II settore dei movimenti sociali è stato definito da Garner e Zald[1981] come la rete di relazioni di conflitto e cooperazione delle organiz­zazioni di movimento in una società in un momento storico dato.

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una stessa organizzazione, in una fase di smobilitazione del­la protesta. I gruppi più poveri di risorse che favoriscono la contrattazione vi suppliscono con quelle simboliche offerte da\Yescalation ideologica. Il processo di radicalizzazione di alcune componenti può essere così visto come differenzia­zione dell’offerta, nell’ambito di una competizione interna al movimento28. Si sosterrà, quindi, che la costruzione di strutture illegali a scopo di difesa aumenta la possibilità che, di fronte a difficoltà di sopravvivenza dell’organizzazione, una sua frazione sperimenti la radicalizzazione delle forme d ’azione come una delle opzioni possibili per superare la cri­si. La scelta della clandestinità da parte delle formazioni ter- roriste può essere considerata come il frutto di una decisio­ne tendente a mettere al riparo il gruppo dalle minacce di distruzione provenienti da forze esterne. L ’emergere del terrorismo di sinistra verrà, così, analizzato come adatta­mento internamente differenziato del settore dei movimen­ti sociali alle diverse tappe dei cicli di protesta in relazione alla struttura delle opportunità presente.

Una seconda parte della ricerca è dedicata al funziona­mento delle formazioni armate. Verranno, quindi, analizza­te sia le motivazioni all’adesione e al mantenimento della partecipazione nelle organizzazioni clandestine che le stra­tegie da esse adottate per il raggiungimento di alcuni obiet­tivi. Le motivazioni individuali all’adesione sono uno dei te­mi centrali dello studio delle organizzazioni clandestine. Le spiegazioni sociologiche della partecipazione ad attività po­litiche violente hanno spesso, come si è detto, guardato alle caratteristiche dell’estrazione sociale o della struttura della personalità dei militanti, considerati in genere come devian- ti. Fino a un paio di decenni fa, l’adesione a qualsiasi forma non istituzionale di comportamento collettivo veniva consi­derata come conseguenza dello sradicamento sociale dei sog­getti. I nostri dati indicano, invece, che la decisione di ade­

28 E così applicabile anche ai gruppi più radicali l’affermazione se­condo la quale: «La competizione fra organizzazioni incluse nello stesso settore prende la forma di una leggera differenziazione del prodotto (of­frire beni marginalmente differenti) e specialmente di differenziazione tattica» [Zald e McCarthy 1980, 6],

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rire alle formazioni armate veniva presa da individui che erano inseriti in dense reti di rapporti amicali, sviluppati al­l’interno di piccoli gruppi politicamente attivi. Questa scel­ta non veniva, inoltre, compiuta individualmente, ma da nuclei di persone legate l’un l’altra da rapporti affettivi di varia natura e da comuni esperienze di militanza. Le carat­teristiche di questa militanza erano tali da accrescere enor­memente il ruolo della politica nella definizione della pro­pria identità e, al contempo, di socializzare gradualmente all’utilizzazione della violenza, così che l’ ingresso nelle or­ganizzazioni della lotta armata avveniva in modo graduale e non era percepito come una grossa frattura rispetto alle forme d ’impegno precedenti.

Il mantenimento dell’impegno nel gruppo clandestino era poi favorito dall’innescarsi di una serie di meccanismi di non-ritorno che riducevano le possibilità di abbandono. La riduzione dei contatti con l’esterno era compensata da una sempre maggiore identificazione con la comunità della lotta armata, mentre l’interiorizzazione dell’ideologia dell’orga­nizzazione riduceva la percezione della realtà esterna. Il for­te investimento iniziale e gli alti costi già pagati rendevano psicologicamente difficile l’abbandono, spingendo invece a rilanciare il proprio impegno. Per chi era latitante, o rischia­va di diventarlo, i bisogni materiali, in termini di denaro, alloggi, documenti falsi, accrescevano la dipendenza dall’or­ganizzazione clandestina.

Questi stessi fenomeni relativi alla partecipazione pos­sono essere osservati anche guardando ai comportamenti delle formazioni armate. Nell’affrontare questo tema, va preliminarmente ricordato che è a lungo prevalsa nella lette­ratura la definizione dell’organizzazione come comunità orientata al perseguimento dei fini esplicitati dall’ideologia del gruppo. Questo tipo di approccio ha, probabilmente, scoraggiato lo studio del funzionamento delle formazioni clandestine. Se si guarda, infatti, alle organizzazioni in rela­zione alla loro capacità di avvicinarsi allo scopo dichiarato, i gruppi terroristi appaiono come organizzazioni anomale, incapaci di azione strumentale. Non a caso, nel gergo politi­co si sono moltiplicate le definizioni dei gruppi terroristi co­me variabili «impazzite» e nel linguaggio dei media ogni

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nuovo crimine è stato stigmatizzato come «follia, omicida» (diversamente che, ad esempio, nel caso dei delitti mafiosio di criminalità comune). In assenza di altre vie per spiegare la logica di funzionamento delle formazioni armate, un’op­zione affascinante, per quanto di complessa verifica empiri­ca, è apparsa la interpretazione del terrorismo come stru­mento di una guerra surrogata tra i servizi segreti di diverse nazioni29. Riflessioni «dietrologiche» sul cui prodest hanno così accompagnato i tentativi di capire la logica di ferimenti ed assassini, sempre meno comprensibile in relazione ai fini proclamati dal gruppo.

La logica del comportamento delle formazioni clandesti­ne può essere, invece, spiegata all’interno di uno schema teorico in cui gli obiettivi reali vengono distinti dai fini di­chiarati. E stato già osservato nell’ambito della teoria delle organizzazioni che le mete ufficiali non costituiscono la principale ragion d ’essere di un gruppo formale, che deve, invece, assolvere contemporaneamente a obiettivi di vario tipo"'. Sono state così individuate delle mete operative, come fini da esso effettivamente ricercati attraverso le scel­te realmente operanti. In questo modo, anche l’agire delle formazioni clandestine potrà essere interpretato come con­seguenza di scelte dotate di una certa, seppur limitata, ra­zionalità, compiute dagli stessi attori in relazione alla valu­tazione delle risorse disponibili e dei diversi obiettivi rag­giungibili

2<J Su questa interpretazione, si veda Bonanate [1978],Secondo questo approccio, le organizzazioni sono, in realtà, col­

lettività i cui partecipanti sono poco influenzati dai fini ufficiali del grup­po, ma condividono, tuttavia, un interesse comune alla sua sopravviven­za e si impegnano per garantirla. Allo scopo organizzativo si sostituisce l’equilibrio tra interessi individuali compresenti. Cfr. Perrow [1961]; e Crozier e Friedberg [1977],

51 Molto dibattuto nella letteratura sulle organizzazioni è il processo attraverso cui le scelte organizzative si compiono. Due approcci alternati­vi su questo punto sono il ratìonal cboice approacb e il garbale can ap- proach [Perrow 1986], Secondo il primo, le decisioni vengono prese nel­l’organizzazione secondo un calcolo razionale dei costi e dei benefici, de­finiti in termini più o meno rigidamente economici. Per i sostenitori del secondo, invece, le scelte procederebbero in modo caotico e privo di pro- grammabilità.

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I diversi compiti — o logiche di comportamento — sono stati variamente distinti*2. Nella classificazione qui propo­sta, le principali logiche di comportamento delle organizza­zioni politiche sono: la logica di reperimento delle risorse, la logica dell’integrazione di queste risorse, la logica dell’al­locazione delle risorse per il raggiungimento di obiettivi esterni. Possiamo definire il primo come agire acquisitivo, cioè agire orientato all’ottenimento di risorse di «capitale» e di «forza lavoro», prevalentemente attraverso l’adesione alla organizzazione di persone che prima erano ad essa ester­ne. A questo tipo di logica si possono far afferire sia le atti­vità rivolte all’ottenimento di beni e servizi direttamente dall’esterno, sia l’attrazione e selezione dei nuovi membri. Il secondo tipo di logica presiede a quello che può essere chiamato agire integrativo, cioè agire orientato al manteni­mento dell’impegno dei membri, attraverso la loro parteci­pazione alle attività dell’organizzazione. Di questa catego­ria fanno parte sia l’offerta di incentivi ai membri, per otte­nere da loro impegno e lealtà, che il loro controllo e coordi­namento; sia la definizione degli obiettivi che l’attuazione delle decisioni e la soluzione dei conflitti interni. Il terzo ti­po di logica corrisponde a quello che può essere chiamato agire trasformativo, cioè agire orientato ad influenzare la realtà esterna per raggiungere i fini auspicati dall’organizza­zione attraverso mutamenti nelle strutture sociali, politiche ed economiche. Possono essere considerate in questa tipolo­gia tutte le azioni orientate al raggiungimento dei fini ester­ni, come le attività di influenza rivolte all’ottenimento di un accesso istituzionalizzato all’autorità o al mercato, o quelle rivolte all’ottenimento di beni pubblici.

Ogni attore politico dovrebbe essere in grado di agire in modo equilibrato verso obiettivi di tutti e tre i tipi. In alcu­ni momenti, tuttavia, un obiettivo può diventare prevalente

,2 Sono state, per esempio, descritte: logiche di membership, di in­fluenza, di implementazione, di formazione delle mete [Schmitter e Streek 1981]; oppure adattive, gratificatone, integrative, di manteni­mento dei modelli; o accettazione, abilità, coordinamento, modelli [Per- row 1961]; o di stabilità, integrazione, volontarismo, raggiungimento delle mete [Anderson 1968].

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rispetto a tutti gli altri; alcuni gruppi possono costituirsi e sopravvivere anche privilegiando quasi esclusivamente un tipo di agire. La classificazione degli obiettivi in relazione alle diverse logiche di comportamento può essere applicata all’analisi delle formazioni clandestine. Come ogni altra or­ganizzazione, l’organizzazione terrorista deve essere, infat­ti, in grado di reperire alcune risorse, di integrarle, di allo­carle per raggiungere alcuni obiettivi. Come si vedrà nel corso della ricerca, i gruppi terroristi si distinguono, però, dagli altri per le particolari caratteristiche che questi tipi di agire assumono. Si può anticipare che l’adozione della clan­destinità pone numerosi vincoli al raggio delle opzioni stra­tegiche possibili, costringendo le organizzazioni terroriste a ridurre sempre più l’ampiezza dell’ambiente su cui interve­nire, concentrandosi prima sul reclutamento, poi sul mante­nimento dell’adesione, e rinviando ad un futuro mai preci­sato la realizzazione degli obiettivi di trasformazione del mondo circostante.

Le organizzazioni dispongono di molteplici strumenti, cioè categorie di mezzi che esse usano per raggiungere i loro obiettivi. Le loro decisioni riguardano principalmente: la struttura organizzativa, cioè il sistema di divisione del lavoro esistente all’interno di una organizzazione; la strategia d ’a­zione, cioè l’insieme dei repertori utilizzati e dei bersagli a cui si indirizza l’attività verso l’esterno; la produzione ideo­logica, cioè il complesso integrato di credenze sulla distribu­zione del potere esistente e su quella auspicabile. Le caratte­ristiche di strutture, repertori e ideologie sono influenzate dalle risorse disponibili nell’ambiente: il «capitale», come ri­sorse materiali disponibili per l’organizzazione; la «forza la­voro» presente, come numero di militanti; le «tecnologie diffuse», come ideologie professate e strategie praticate. Se, normalmente, la struttura organizzativa è principalmente orientata all’acquisizione delle risorse, l’ideologia all’inte­grazione dei militanti e le strategie d ’azione alla trasforma­zione dell’ambiente esterno, tutti e tre gli strumenti dell’or­ganizzazione possono però assolvere ad obiettivi differenti e, spesso, a più obiettivi contemporaneamente. La peculiari­tà dei gruppi clandestini emerge dal modo specifico di com­binarsi di organizzazione, azione e ideologia per assolvere

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agli obiettivi di mobilitare risorse, integrare i membri, tra­sformare la realtà esterna. Un confronto fra le diverse for­mazioni armate nei differenti momenti del loro sviluppo di­mostrerà che esse sono state in grado di adattare, in una cer­ta misura, strutture organizzative, strategie d’azione ed ela­borazioni ideologiche alle condizioni esistenti nell’ambiente in cui intervenivano.

Le conseguenze implicite, anche se non previste, della scelta della clandestinità hanno posto, però, dei limiti alle loro capacità di adattamento alÌ’esterno, determinandone un certo tipo di evoluzione. In generale, il ciclo di vita delle organizzazioni è stato descritto come graduale processo di burocratizzazione, durante il quale esse perdono a poco a poco interesse al raggiungimento di fini espliciti, concen­trandosi invece sull’obiettivo della mera sopravvivenza }\ Per quanto riguarda il ciclo evolutivo delle organizzazioni clandestine, mi è sembrato utile distinguere tra un processo di istituzionalizzazione e un processo di implosione o incap­sulamento. Il primo è caratterizzato da deradicalizzazione dei fini, routinizzazione della partecipazione e accettazione del sistema. Nell’ambito del secondo, invece, i fini si radica- lizzano e la partecipazione diviene totalizzante mentre si ri­ducono i contatti con l’ambiente esterno, sia come poten­ziale riserva per il reclutamento che come sistema da tra­sformare. Si vedrà che l’evoluzione dei gruppi clandestini si avvicina molto a questo secondo modello.

Le formazioni clandestine di sinistra in Italia erano in­fatti, alla fine del loro ciclo di vita, simili a delle sette, con la conservazione in vita dell’organizzazione come fine ulti­mo, ma anche con l’esasperazione della solidarietà interna,

” Le descrizioni del processo di burocratizzazione si sono sofferma­te su diverse specificazioni: l’accresciuto ruolo dell’amministrazione [Weber 1920], l’emergere di una oligarchia [Michels 1966], l’accettazio­ne nel sistema [tra gli altri, Smelser 1968], l’interiorizzazione delle norme [Lowi 1971], la ritualizzazione della partecipazione [Wilson 1973], L ’e­voluzione è stata descritta come passaggio da un «sistema di razionalità»— caratterizzato dall’esistenza di scopi comuni, ideologia manifesta, in­centivi collettivi e dominio sull’ambiente — ad un «sistema di interessi»— caratterizzato da logica di sopravvivenza, ideologia latente, incentivi selettivi, adattamento all’ambiente [Panebianco 1982].

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invece della routinizzazione della partecipazione, e con una radicalizzazione strategica, invece dell’istituzionalizzazione come «normalizzazione»’4. Come è stato osservato nel caso di altri piccoli gruppi, si è avuta una graduale chiusura dei canali di comunicazione con l’esterno, con conseguente per­dita di quei weak ties che ne avevano permesso l’espansione. Così le organizzazioni clandestine si sono trasformate: le scissioni si sono moltiplicate, le tattiche più radicali sono di­venute da mezzo fine, l’ideologia si è radicalizzata come reazione alle disconferme provenienti dall’esterno. Questo processo di incapsulamento ha portato gradualmente alla sconfitta.

Questo tipo di evoluzione può essere spiegato come con­seguenza dell’innescarsi di dinamiche interne” , determinate dalla scelta stessa della clandestinità. L ’evoluzione di una organizzazione è, in generale, influenzata dall’esistenza di tensioni interne fra i diversi obiettivi che essa deve raggiun­gere, tra l’espansione del gruppo e il suo rafforzamento, tra l’efficienza della struttura organizzativa e la sua capacità di recepire gli stimoli esterni. Anche i gruppi terroristi hanno sperimentato alcune tensioni — in una certa misura comuni a quelle di altri tipi di organizzazioni politiche — che li han­no indotti a trasformazioni nelle ideologie, nelle strategie e nella struttura-organizzativa. Esse possono essere analizzate come conseguenze non previste della stessa scelta della clan­destinità fatta da piccoli gruppi in regimi democratici. Ogni

34 In modo simile, anche il processo evolutivo delle sette è stato de­scritto come rinuncia al perseguimento di fini di trasformazione del mon­do circostante e attribuzione di assoluta priorità all’obiettivo del mante­nimento della solidarietà all’interno, fino alla rinuncia ad ogni attività di proselitismo. Cfr. Messinger [1955]; J.Q . Wilson [1972]; Zygmunt [1972]; Zachary [1977]. Sul concetto di weak ties, si veda Granovetter[1978],

55 Categorie quali dinamiche inteme o logiche interne hanno, di re­cente, sottolineato la rilevanza di alcuni processi in genere sottovalutati dagli approcci razionalisti più tradizionali, definiti come «imprevedibili»,o «intrinseci», o «involontari», o «patologici». Si è invece proposto di pre­stare maggiore attenzione a variabili affettive, presenza di vincoli, ridot­ta capacità di apprendimento, diffusione attraverso processi interattivi multipli e spesso circolari.

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(decisione successiva ha prodotto effetti non voluti, riducen­do il raggio di azioni possibili per il futuro. Così ogni tra­sformazione ha stimolato alcuni tentativi di adattamento sia nelle strutture che nei fini, alle cui conseguenze negative i dirigenti delle formazioni clandestine hanno reagito con ul­teriori mutamenti, senza però riuscire ad uscire dalla crisi ed inserendosi invece sempre più in una serie di spirali, in cui ogni giro successivo riduceva le opzioni strategiche di­sponibili.

Si può osservare, per concludere, che l’ipotesi sulla ca­pacità delle organizzazioni di adattarsi all’ambiente non sembra che parzialmente adeguata a spiegare l’evoluzione delle formazioni clandestine. In questo caso, infatti, i vinco­li all’adattamento si sono rivelati insuperabili. Ogni tentati­vo di trasformazione della struttura organizzativa ha inne­scato delle dinamiche interne, non previste né controllabili dall’organizzazione, che ne hanno accelerato la crisi. Se le organizzazioni hanno tentato di adeguarsi ai mutamenti am­bientali, esse hanno però incontrato ostacoli insuperabili. Particolarmente valide nel caso delle organizzazioni politi­che clandestine sono le osservazioni fatte a proposito del­l’influenza dell’ampiezza del gruppo sulla sua evoluzione. La dimensione, spesso non manipolabile, diventa una varia­bile critica al di sotto di una certa soglia, rendendo la lotta per la sopravvivenza sempre attuale, accentuando la necessi­tà di solidarietà e di coesione interna, accrescendo l’ostilità da e verso l’esterno. Come si vedrà nel corso di questa ricer­ca sui gruppi terroristi in Italia, le piccole organizzazioni politiche tendono, nel tempo, ad isolarsi dall’ambiente, ac­quisendo molte caratteristiche delle sette o delle istituzioni totali36.

36 Una definizione di setta, generalmente accettata, è quella di grup­po composto da gente che si taglia fuori dalla società [Coser 1974]. Per quanto riguarda le istituzioni totali, si può fare riferimento alla ben nota definizione di Goffman che le presenta come «luoghi di residenza e lavo­ro dove un ampio numero di individui, tagliati fuori dalla società più am­plia per un apprezzabile periodo di tempo, vivono insieme una vita for­malmente amministrata» [Goffman 1961, 13]. Un’altra categoria che può essere utile per l’analisi dell’evoluzione delle organizzazioni clandestine è quella di società segrete, definite come «associazioni volontarie i cui

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A determinare la definitiva sconfitta della maggior parte dei gruppi armati sono poi intervenuti dei cambiamenti nel­la struttura delle opportunità politiche. In primo luogo, ne­gli anni ottanta, una ritrovata stabilità dovuta al riconosci­mento di nuovi rapporti di potere ha permesso una maggio­re efficacia nella repressione del fenomeno. Inoltre, il dif­fondersi di una cultura non violenta nel settore dei movi­menti sociali ha deluso le speranze delle residue formazioni clandestine di poter trovare delle nuove aree di reclutamento.

4. Metodi e fonti della ricerca

Si è detto in un paragrafo precedente quanto la lettera­tura scientifica sul terrorismo sia povera di ipotesi teoriche per un’analisi del fenomeno. Carenze almeno pari sono ri­scontrabili dal punto di vista dei contributi metodologici. Considerando le formazioni terroriste come tipi di organiz­zazioni politiche, la nostra ricerca ha invece tratto spunto, anche per quanto riguarda le scelte di metodo, dalla lettera­tura su altre forme non istituzionali di partecipazione politi­ca, in particolare sui movimenti di protesta. La ricerca sui movimenti sociali si è andata arricchendo di una notevole molteplicità di tecniche d ’indagine, fortemente eterogenee fra loro sia nel tipo di fonti utilizzate che nelle unità di rife­rimento prescelte. Accanto ad un perfezionamento dei me­todi quantitativi d ’indagine può essere rilevata la recente elaborazione di nuovi metodi qualitativi. Ciascuna scelta metodologica è stata tarata su specifici interrogativi di ricer­ca, relativi ora alle risorse ambientali, ora alle organizzazio­ni del movimento, ora alla partecipazione individuale37.

Tra le tecniche di ricerca disponibili, ne ho privilegiate sostanzialmente due: l’analisi quantitativa di dati statistici e l’analisi qualitativa di materiale biografico. La ricerca si è

membri, in virtù della loro partecipazione, sono in possesso di alcune in­formazioni delle quali i non membri non sono a conoscenza» [Wedgwood 1930, 132],

37 Per una discussione delle metodologie di ricerca utilizzate nello studio dei movimenti collettivi, rinvio a della Porta [1987a].

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avvalsa, dunque, di due tipi di fonti, molto diverse fra loro. Il materiale giudiziario è la fonte scritta da cui sono state tratte le informazioni analizzate attraverso tecniche di ana­lisi quantitative, principalmente la cross tabulatoti. Le sto­rie di vita di individui coinvolti nelle organizzazioni clande­stine hanno costituito la fonte orale per l’analisi qualitativa. Entrambe le fonti hanno presentato problemi specifici di ri­levazione che si sono aggiunti alle difficoltà che, più in ge­nerale, la loro utilizzazione comporta.

Alcune osservazioni possono essere fatte, per iniziare, sull’uso del materiale giudiziario come fonte per la raccolta di dati per l’analisi quantitativa38. Studi quantitativi sull’e­voluzione della protesta sono stati condotti, di recente, at­traverso l’utilizzazione della stampa quotidiana come fonte. Ricerche di ampio respiro ne hanno fatto uso sia per costi­tuire delle «banche-dati» sulle mobilitazioni collettive che per controllare alcune ipotesi sui repertori d ’azione tipici di differenti momenti storici o le ragioni dell’addensarsi cicli­co della protesta39. Rassegne della stampa sono anche ser­vite come fonte per analizzare le caratteristiche delle orga­nizzazioni di movimento sociale, la loro struttura, le loro strategie, la loro ideologia40.

,8 Le fonti giudiziarie utilizzate nel corso della ricerca sono compo­ste dagli atti dei procedimenti penali per reati di terrorismo e da alcuni materiali ad essi allegati. Sono stati presi in esame 78 atti giudiziari, rela­tivi a 66 procedimenti istruttori. Più in dettaglio, le relazioni consistono di 51 sentenze istruttorie, 16 requisitorie della Procura della repubblica,11 sentenze di Corte d ’assise. L ’acquisizione delle sentenze istruttorie è risultata particolarmente utile, perché in questo tipo di documenti le in­formazioni sono in genere più dettagliate che negli altri. Il materiale alle­gato a questi procedimenti che sono riuscita a esaminare si compone di 99 interrogatori a membri delle organizzazioni clandestine, e di 42 docu­menti e 83 volantini scritti dai gruppi armati (nella quasi totalità, dalle Br). Le parti più importanti degli interrogatori come dell’altro materiale sono in genere citate nel corpo degli atti giudiziari, ma nei casi in cui ciò è stato possibile, si è preferito acquisirne la versione integrale. Questo materiale è stato integrato con quello proveniente da altre fonti stampa­te, sia biografie e autobiografie, che scritti ideologici di membri delle or­ganizzazioni clandestine.

V) Si vedano le ricerche di Tilly [1978]; e Tarrow [1983; 1989].411 Si vedano, tra l’altro, le ricerche di Gamson [1975]; e Webb e al­

tri [1981],

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In questo studio sul terrorismo in Italia sono stati ripresi molti dei suggerimenti tecnici e delle categorie elaborate da quelle ricerche. Tuttavia, nelle indagini sul terrorismo, i giornali si presentano come fonti «dispendiose» in termini di tempo e poco attendibili. Il numero degli episodi di que­sto tipo è, naturalmente, molto inferiore rispetto a quello degli eventi di protesta: occorrerebbe, dunque, uno sforzo almeno pari in termini di spoglio dei giornali per ottenere un numero di eventi molto ridotto. Sempre dal punto di vi­sta dell’economia della ricerca, occorre inoltre tenere conto del fatto che una buona parte degli episodi di terrorismo ha portata solo locale. Per rilevarli non sarebbe sufficiente l’e­same di un quotidiano nazionale: gli sforzi andrebbero con­siderevolmente moltiplicati per aggiungere almeno i giornali delle aree geografiche più colpite dal fenomeno.

I rischi di distorsione nei dati raccolti dalla stampa quo­tidiana sono, inoltre, particolarmente rilevanti nel caso del terrorismo. I dati forniti dalle autorità alla stampa sono spesso parziali, a causa delle esigenze di riservatezza delle indagini. Essendo poi pochi, normalmente, i testimoni, le informazioni che i giornalisti possono raccogliere da altre fonti sono di solito imprecise. In più, con il ridursi dell’inte­resse per l’episodio terroristico, alcune precisazioni che emergono successivamente non vengono più riportate dalla stampa. Ancora, dato il carattere clandestino della struttura organizzativa delle organizzazioni terroristiche, le informa­zioni ad esse relative non sono normalmente disponibili peri giornalisti. Quando divengono ufficiali, durante lo svolgi­mento dei processi, la caduta di attenzione nell’opinione pubblica può scoraggiare la pubblicazione di descrizioni det­tagliate sul funzionamento di questi gruppi.

Anche il materiale giudiziario è una fonte che presenta numerosi problemi. In parte essi coincidono con quelli già rilevati a proposito delle statistiche di polizia, delle quali è stato osservato che esse «ci dicono più della polizia che dei criminali o dei delinquenti, riflettendo il grado in cui i fun­zionari decidono di agire contro i devianti potenziali nella comunità»41. È probabile che alcune distorsioni siano state

41 Becker [1970, 43].

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presenti anche nelle indagini giudiziarie sul terrorismo, so­prattutto se si considera che molte di esse si sono svolte in un periodo definito di «emergenza». La forte divisione in correnti ideologiche presente nella magistratura italiana rende necessarie ancora ulteriori cautele.

Va, inoltre, aggiunto che l’obiettivo del magistrato è per definizione diverso da quello del sociologo, essendo il primo istituzionalmente interessato all’attribuzione di responsabi­lità personali in un fatto criminoso, e il secondo alla spiega­zione del fenomeno sociale di cui l’evento criminoso è una manifestazione. Le informazioni selezionate per la stesura degli atti giudiziari non coincidono quindi necessariamente con quelle cercate dallo scienziato sociale. La lettura degli atti si presenta, dunque, come una strategia talvolta disper­siva, poiché i dati utili vanno rintracciati all’interno di una grande quantità di notizie non pertinenti all’analisi sociolo­gica. Ciò vuol dire anche che alcune informazioni fonda- mentali per una spiegazione sociologica — come la profes­sione dei militanti, ad esempio — possono essere raccolte in maniera incompleta, comparendo solo, per così dire, saltua­riamente e casualmente nelle fonti giudiziarie.

Pur con tutte le precauzioni che questi limiti impongo­no, le fonti giudiziarie costituiscono tuttavia uno strumento da privilegiare nell’analisi di un fenomeno criminoso, anche di natura politica. In primo luogo, esse riportano infatti ten­denzialmente tutte le informazioni disponibili sull’universo degli eventi terroristici, essendo il magistrato tenuto alla de­scrizione minuziosa e avendo, in più, gli strumenti necessari a raccogliere prove e interrogare i testimoni. Se alcune di­storsioni potrebbero essere state introdotte, a causa del par­ticolare clima di quegli anni, nella interpretazione delle pro­ve e testimonianze ai fini dell’attribuzione delle responsabi­lità penali e del loro dosaggio, non sembra però che tali pro­ve e testimonianze siano state taciute nella stesura dei ver­bali del procedimento penale. In secondo luogo, le fonti giu­diziarie permettono il massimo di economia di sforzi nella raccolta delle informazioni, poiché sono interamente dedi­cate all’oggetto d’indagine. In terzo luogo, data la clandesti­nità delle organizzazioni in esame, esse rappresentano l’uni­ca fonte in cui molti documenti ad esse relativi possono es­

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sere reperiti. A proposito dello specifico caso italiano, va ag­giunto che se le condizioni della così detta «emergenza» pos­sono avere introdotto delle distorsioni, esse hanno però allo stesso tempo spinto ad ampliare gli sforzi investigativi su questa specifica forma di criminalità. Attribuire maggiore importanza ai procedimenti penali sul terrorismo ha signifi­cato anche accrescere le risorse materiali e le energie indivi­duali ad essi dedicate, con indiscutibili benefici sulla quanti­tà di notizie raccolte. Le tensioni ideologiche all’interno della magistratura hanno poi agito — insieme alla rilevanza politica del fenomeno — nel senso di accrescere l’attenzione verso le sue origini e le dinamiche interne, con la conseguen­te presenza di un considerevole numero di informazioni ad esse relative in diversi atti giudiziari.

Se tutto ciò rende l’utilizzazione del materiale giudizia­rio particolarmente promettente, la possibilità di averlo di­sponibile, grazie al progetto documentario dell’istituto Car­lo Cattaneo, ne ha poi determinato la scelta come fonte pri­vilegiata della ricerca. Il riconoscimento della esistenza di alcuni rischi di parzialità e di incompletezza, ha però spinto ad affiancare ad esso un’altra fonte, dotata di caratteristi­che differenti.

La ricerca si è, infatti, avvalsa anche di interviste in pro­fondità con militanti di varie organizzazioni politiche clan­destine, raccolte secondo la tecnica delle storie di vita42. Simili alle interviste in profondità, le storie di vita se ne di­stinguono tuttavia per la peculiarità del loro scopo. Esse mi­rano, infatti, prevalentemente alla ricostruzione biografica, piuttosto che alla testimonianza su avvenimenti storici. Tuttavia la registrazione del racconto non è, come nelle bio­grafie, un fine in sé, ma piuttosto un mezzo per conoscere la società attraverso l’immagine che viene dalla narrazione dell’intervistato.

42 Verranno utilizzate nel corso dei prossimi capitoli le storie di vita relative a 28 individui. Sette di esse sono state raccolte direttamente dal­l’autore, le altre da altri ricercatori, tutte nell’ambito di una ricerca coor­dinata dall’istituto Carlo Cattaneo. Le interviste sono state realizzate in una o più sedute, per una durata media di 4 ore ciascuna. I colloqui sono stati registrati tramite magnetofono e quindi trascritti.

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Anche le storie di vita rappresentano una tecnica di ri­cerca di delicata applicazione. Pur se utilizzata in diverse di­scipline, essa ha suscitato polemiche soprattutto fra gli sto­rici per il suo carattere di fonte orale e non «istituzionale» ed è stata poco diffusa fra i sociologi, probabilmente per la sua scarsa capacità di fornire risultati quantitativi. Alle sto­rie di vita sono state rivolte, in generale, le stesse obiezioni sollevate a proposito della storia orale. Due sono state le principali critiche, definibili come critica dell’inaffidabilità e critica dell’irrilevanza. In primo luogo è stato osservato che gli individui sono i peggiori narratori degli avvenimenti che li hanno visti coinvolti perché, avendo essi un interesse diretto in quelle vicende, tendono a darne un resoconto di­storto. Chi fa affidamento sugli atti provenienti da fonti uf­ficiali ritiene che, inconsapevolmente o con dolo, le testimo­nianze della gente comune siano molto lontane dalla «verità storica». A maggior ragione, poco credito è stato spesso ri­conosciuto alla capacità degli individui di raccontare la pro­pria vita senza, coscientemente o involontariamente, ingan­nare4'.

La seconda critica riguarda la rilevanza degli oggetti analizzabili attraverso le ricostruzioni biografiche. Le storie di vita vengono spesso considerate come strumenti di appli­cazione limitata allo studio dei gruppi marginali della popo­lazione44. Inadeguate all’indagine sulle variabili sistemiche, esse sono state al massimo accettate per la ricerca sui proble­mi, ritenuti residuali, dell’adattamento individuale alle grandi forze del mutamento, della «soggettività» rispetto al­le più importanti strutture «oggettive». In storia come in so­ciologia, le storie di vita sono state accusate di descrittivi­smo e ritenute, al più, degne di prime analisi esplorative. Fra gli storici e i sociologi, infine, non sembra essere venuto

41 Questo tipo di critiche sono state avanzate, per esempio, da Ho­rowitz [1977]; e da Faris [1980],

44 Studi attraverso storie di vita sono stato condotti su temi quali, ad esempio, le prostitute o i ladri di professione [Conwell e Sutherland 1937], i transessuali [Bogdan 1974], i neri americani [Johnson 1941; Fra­zier 1940], le bande giovanili [Shaw 1930; 1931; 1936; Whyte 1943], i poveri dei paesi dipendenti [Lewis 1966],

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meno il sospetto che l’attenzione alle motivazioni indivi­duali possa servire a reintrodurre un approccio psicologista ai fenomeni sociali.

Nessuna di queste due critiche è sembrata però convin­cente, soprattutto in relazione all’uso che delle storie di vita si intendeva fare nel corso della ricerca. Per quanto riguarda la critica dell’inaffidabilità, si può osservare che, in primo luogo, essa non si applica peculiariamente alle fonti orali: come si è appena detto, anche le fonti scritte sono soggette a sistematiche distorsioni45. In secondo luogo, questa criti­ca ha un diverso livello di validità in relazione ai diversi tipi di ricerche che le ricostruzioni biografiche hanno prodotto, a seconda che l’attenzione si sia concentrata sulle informa­zioni che l’individuo intervistato poteva offrire o sui modi di funzionamento della memoria. In quest’ultimo caso, le distorsioni sono state in un certo senso poste al centro del­l’analisi, il cui obiettivo era la individuazione di alcune si­stematicità nel modo di descrivere la realtà46.

Nella versione più radicale del primo modo di utilizza­zione delle interviste personali, invece, agli individui si è chiesto di testimoniare su alcuni avvenimenti di cui essi era­no a conoscenza, conferendo così alla fonte orale pari legit­timità che a quella scritta ed utilizzandola laddove gli archi­vi si rivelavano particolarmente poveri o inaffidabili47.

Nel corso di questa ricerca si è adottata una versione meno estrema di questo approccio, che ha permesso di ri­durre i rischi di distorsione. Le interviste in profondità sono state, infatti, considerate come strumenti particolarmente utili ad illuminare gli avvenimenti di portata pubblica in cui gli intervistati sono stati direttamente coinvolti e, in parti­

45 Gli studiosi di storia orale hanno risposto a queste critiche anche dal punto di vista epistemologico. Su questo punto si rinvia, in particola­re, a Balan e Jelin [1980]; Barkin [1976]; Bertaux [1980]; Buhle [1981]; Passerini [1978; 1981]; Thompson [1978].

46 Questo tipo di strategia di ricerca è stata discussa, per esempio, in Gagnön [1981a; 1981b]; Grele [1975]; Kohli [1981]; Meyer Spacks [1977]; Passerini [1981]; Renza [1977].

47 Per esempio, nella storia politica del continente africano; cfr. Barnett [1972]; Barnett e Njama [1966].

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colare, quegli aspetti rispetto ai quali più diretta è stata la loro personale esperienza. Su temi quali la storia delle orga­nizzazioni legali in cui essi avevano militato e il funziona­mento delle organizzazioni clandestine, gli intervistati sono stati considerati come testimoni privilegiati. Le informazio­ni da loro fornite, controllate attraverso l’utilizzazione di fonti scritte di diversa natura, sono servite alla ricostruzio­ne di alcuni ambienti e situazioni.

Ma la principale utilizzazione delle storie di vita è stata l’osservazione del modo in cui la storia si è trasformata in coscienza individuale, gli avvenimenti pubblici hanno inter­ferito nella vita privata, la percezione del mondo esterno ha prodotto alcuni comportamenti48. Si è così potuto spiegare le scelte di adesione e il mantenimento della militanza nei gruppi armati, partendo dalla conoscenza delle percezioni del mondo esterno diffuse fra i militanti, della loro defini­zione dei vantaggi e degli svantaggi della partecipazione, del loro processo di socializzazione politica, delle dinamiche di strutturazione dell’identità individuale. Collocando l’attivi­tà politica all’interno della globalità della esistenza di ogni individuo, esse hanno consentito di rilevare una serie di di­namiche relative alle motivazioni e agli incentivi che hanno prodotto il passaggio alle organizzazioni illegali e i percorsi al loro interno. Anche la critica di irrilevanza non è sembra­ta, quindi, condivisibile. Ai fini della nostra ricerca, le sto­rie di vita hanno semmai il merito di permettere di affronta­re tematiche di grande importanza, che altri metodi avreb­bero lasciato nell’ombra. Lo studio dell’immaginario, delle mentalità, delle rappresentazioni collettive è stato uno stru­mento indispensabile per la comprensione delle motivazioni che hanno portato molti giovani verso le forme più estreme di violenza.

Senza pretendere, dunque, di trarre dalle interviste agli ex-militanti delle organizzazioni armate informazioni speci­fiche su episodi di terrorismo o responsabilità individuali, le storie di vita sono state invece uno strumento metodolo­

48 Questo tipo di utilizzazione delle storie di vita viene difesa, tra gli altri, in Balan e Jelin [1980]; e Gagnon [1981a; 1981b],

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gico insostituibile per l’analisi della partecipazione indivi­duale, delle sue tappe, delle sue dinamiche. L ’atmosfera di minore tensione nelle carceri e la disponibilità di molti ex­militanti di organizzazioni clandestine a ripercorrere pub­blicamente le tappe della loro esperienza politica illegale, hanno reso praticabile questa strategia di ricerca.

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CA PITO LO SECOND O

CICLI DI PRO TESTA E O RIG IN I D EL TERRORISM O

1. Movimenti collettivi e violenza politica in Italia

Il dibattito sociologico e politologico sul terrorismo in Italia ha spesso collegato le sue origini alle diverse peculiari­tà della società italiana, individuate ora nella sfera culturale, ora in quella economica, ora in quella politica1. Il radica­mento storico di due sub-culture ostili è stato considerato come una peculiarità della formazione dello stato italiano che potrebbe avere favorito le forme più radicali di conflit­to. Secondo questa ipotesi le origini della violenza sono da rintracciare nel «catto-comunismo», cioè nella contempora­nea presenza di due ideologie totalizzanti2. I riferimenti sono, in questo caso, sia alle caratteristiche di «intransigen­za» di queste ideologie che al controllo sociale permesso dal­le strutture che ad esse si ispirano. Entrambe le sub-culture sarebbero caratterizzate da una particolare attenzione ai te­mi della giustizia sociale, che diverrebbe talvolta un senso di giustizia tradita. Il ruolo da esse giocato nell’integrazione nazionale avrebbe dato inoltre un notevole potere a due sub-culture — «bianca» e «rossa» — caratterizzate da una

1 Accanto ai saggi di natura scientifica, che verranno citati nel corso della ricerca, ricordiamo anche che molte inchieste di natura giornalistica sono state pubblicate soprattutto tra la fine degli anni settanta e l’inizio del decennio successivo. Fra esse: Agostini [1980]; Bello [1981]; Bocca [1985]; Bravo [1982]; Cavallini [1978]; Faré e Spirito [1979]; Mazzetti[1979]; Manzini [1979]; Montelli e Revelli [1979]; Pansa [1980]; Papa[1979]; Solé [1979]. Nello stesso periodo, vi sono stati anche numerosi numeri speciali di riviste, dedicate al fenomeno. Tra le altre: «La questio­ne criminale» [1979]; «Rassegna sindacale» [1980]; «Cattaneo» [1982]; «La società» [1983], Il terrorismo italiano ha destato, naturalmente, inte­resse anche tra studiosi di altri paesi. Tra gli altri: Allum [1978]; Drake[1982]; Furlong [1981]; Weinberg [1982].

2 Cfr. Bocca [1978a; 1978b],

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reciproca ostilità. NeH’immediato dopoguerra questa frattu­ra culturale sarebbe stata rinfocolata nel clima della guerra fredda.

In un approccio più congiunturale, il terrorismo è stato definito come prodotto delle disfunzioni dei sistemi di si­gnificato della società tradizionale, provocate dall’intenso sviluppo economico. Secondo gli autori che hanno proposto questa interpretazione, il maggiore prerequisito dell’appari­re del terrorismo sarebbe stato l’emergere di una crisi di va­lori derivante dalla distruzione del sistema di significati del­la società tradizionale’ . Secondo una variante di questo approccio, l’incompleta transizione da una società rurale ad una società industriale avrebbe prodotto un vuoto di valori4 nel quale le inclinazioni terroristiche avrebbero tro­vato un terreno favorevole.

Gli stessi processi esaminati dal punto di vista dei loro effetti nella sfera culturale, sono stati considerati anche da quello della loro influenza sullo sviluppo economico. Anche in questo caso è stato fatto riferimento sia alle caratteristi­che strutturali del sistema economico che ad alcuni fattori congiunturali. Sono stati così citati il dualismo produttivo e territoriale, nel primo caso; la crisi economica conseguente all’aumento del prezzo del petrolio, nel secondo. Per quanto riguarda le caratteristiche del modello italiano di sviluppo, è stato spesso ossfcrvato che la presenza nel Sud del paese di una forte quota di esercito industriale di riserva ha reso possibile, negli anni cinquanta, una crescita economica ba­sata sui bassi salari e trainata dalle esportazioni. Alla debo­lezza strutturale della classe operaia si aggiungeva la sua de­bolezza politica, data la scarsa legittimazione del suo mag­giore rappresentante — il Pei — nel sistema dei partiti. I due fattori di esclusione si sono accentuati l’un l’altro, escludendo ogni ipotesi di patto neo-corporativo. La specifi­ca forma assunta dal capitalismo in Italia è dunque basata

3 Cfr. Acquaviva [1979].4 Secondo l’interpretazione di Ferrarotti [1978], la violenza è deter­

minata dalla crisi di valori che si crea nel momento in cui il mondo rurale non è più lì a offrire protezione e sicurezza, mentre la cultura industriale non è ancora consolidata.

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su un dualismo territoriale e produttivo, incapace di realiz­zare una efficace modernizzazione del sistema. Tale tipo di sviluppo avrebbe penalizzato ampi strati sociali, per i quali la violenza politica avrebbe presentato così delle attrattive come potenziale sostituto di una forza contrattuale basata su fattori strutturali5. Un’ulteriore interpretazione si è sof­fermata piuttosto sulla congiuntura economica dell’inizio degli anni settanta, caratterizzata — come si sa — dalla fine del boom economico del periodo precedente e dall’inizio di una lunga fase recessiva6.

Il limite di questi contributi è stato, in generale, quello di trascurare l’analisi dei processi intervenienti tra le carat­teristiche delle macro-variabili nella sfera culturale o econo­mica e lo sviluppo di un fenomeno politico quale il terrori­smo. Se anch’essi verranno messi a confronto con i risultati della ricerca, nel corso di questo capitolo sulle origini del terrorismo in Italia si concentrerà però l’attenzione mag­giormente sugli approcci che più direttamente prendono in esame la sfera politica.

Una spiegazione diffusa dell’insorgenza e del consolida­mento delle organizzazioni clandestine ha fatto riferimento al «blocco del sistema politico». Nel tentativo più elaborato di collegare il terrorismo al blocco del sistema, quest’ultimo è stato definito come rifiuto del mutamento, come «incapa­cità a svolgere i suoi compiti se non in modo ripetitivo, di rinnovarsi adeguandosi a nuove esigenze e nuovi stimoli, di svilupparsi e di autoregolarsi. La situazione di blocco sareb­be in altri termini quella di un sistema che ha talmente con­solidato le sue basi, la sua organizzazione strutturale, da non consentire alcuna innovazione»7. Emersa in "primo

5 Cfr. Melucci [1978; 1981J.6 Una delle conseguenze della crisi economica citata, in particolare,

come causa dello sviluppo del terrorismo è la crescita della disoccupazio­ne, soprattutto giovanile [per esempio: Cavalli 1977].

7 Bonanate [1978, 577]; cfr. anche Bonanate [1983]. L ’ipotesi del blocco di sistema trova conferme in alcune analisi sullo sviluppo del ter­rorismo in diversi contesti storici. Degenerazioni violente dei movimenti collettivi sono state più frequenti laddove l’assenza di alternanza (Italia e Giappone) o l’esistenza di grandi coalizioni tra il Centro e la Sinistra (Germania occidentale e Italia) hanno frenato i mutamenti politici [della Porta 1983].

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luogo nella pubblicistica politica, la tesi del blocco di siste­ma è stata ripresa con sfumature differenti nel dibattito scientifico. Blocco di sistema è divenuto, in alcuni casi, si­nonimo di mancata elaborazione ed attuazione di piani or­ganici di riforma; in altri casi, sinonimo dell’assenza di al­ternanza nelle coalizioni di governo; o, ancora, conseguenza dell’incorporazione del Pei nell’area di governo e, quindi, dell’assenza di una opposizione capace di funzionare come effettivo canale di mediazione delle domande emergenti8.

La teoria del blocco di sistema presta il fianco a delle cri­tiche rilevanti sia sul piano della congruenza teorica che su quello della verificabilità empirica. In relazione al caso ita­liano, alcune delle più semplici definizioni di blocco come impermeabilità del sistema politico istituzionale non sem­brano avere trovato corroborazione empirica, almeno per quanto riguarda la prima fase del terrorismo in questo pae­se. Dal punto di vista della percezione soggettiva del blocco, è stato inoltre sottolineato come, in un periodo di forte mo­bilitazione sociale e politica, tutti i gruppi dell’estrema sini­stra italiana tendessero ad enfatizzare ottimisticamente la combattività operaia e studentesca, piuttosto che rielabora­re nei termini pessimistici del fallimento dell’azione di mas­sa la carente risposta politica alla protesta9.

Come si argomenterà nel corso di questo capitolo, l’ina­deguatezza delle spiegazioni in termini di «blocco» risiede principalmente nell’incapacità di analizzare le interazioni tra sistema istituzionale «bloccato» e attori collettivi, ad es­so esterni, in «movimento». Altri contributi hanno invece avuto il merito di spostare l’attenzione sulle interazioni tra sistema delle decisioni istituzionali e domande emergenti. Negli anni settanta, le relazioni esistenti tra protesta e ter­rorismo di sinistra erano state uno dei temi principali della polemica politica. Una filiazione del fenomeno terroristico dai movimenti collettivi veniva rivendicata a sinistra, dagli stessi gruppi armati; e, contemporaneamente, denunciata con veemenza dal centro e dalla destra, per screditare tutte

8 Cfr., per la prima accezione, Tranfaglia [1981]; per la seconda, Mancini [1981]; per la terza, Ferrajoli [1979].

9 Cfr. Pasquino [1984],

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le forze d ’opposizione. Solo nel decennio successivo, anche alcuni contributi scientifici hanno suggerito di analizzare l’emergere del terrorismo di sinistra in relazione all’evolu­zione di altre forme di azione collettiva e alle interazioni da esse messe in moto“1. Molte informazioni e testimonianze, discusse in questo e nei prossimi capitoli, dimostreranno quanto questo suggerimento sia stato proficuo per la com­prensione del fenomeno terroristico. Le organizzazioni clandestine sono nate, infatti, da scissioni all’interno delle diverse formazioni politiche del movimento. Nelle loro stra­tegie d ’azione, così come nei loro documenti ideologici, era evidente, soprattutto nelle fasi iniziali, il tentativo di man­tenere una continuità con la tradizione della protesta. Al li­vello individuale, inoltre, la lotta armata è stata, per chi l’ha scelta, un’ultima tappa di un percorso politico iniziato in or­ganizzazioni legali della sinistra.

La relazione tra le forme di protesta di quegli anni e lo sviluppo delle formazioni armate non sembra tuttavia quella di una derivazione necessaria dal tipo di bisogni espressi nella protesta o dai suoi contenuti ideologici. Occorre, inve­ce, guardare alle caratteristiche dei diversi attori che sono intervenuti nel corso della mobilitazione, dalla reazione isti­tuzionale alle interazioni tra le componenti compresenti nel settore dei movimenti sociali. Per comprendere la degenera­zione di una parte della protesta in violenza politica e poi terrorismo occorre allora rispondere ad alcuni interrogativi che, ancora oggi, rimangono aperti. E stato il terrorismo il prodotto collaterale dell’effervescenza dello statu nascenti o l’azione di frange «impazzite» di militanti che hanno cerca­to di opporsi al declino delle capacità di mobilitazione del movimento?" La degenerazione verso la violenza è nata

10 È stato scritto, ad esempio, che «la pratica sistematica della vio­lenza, fino all’esito disperato del terrorismo, è il risultato di un processo di decomposizione dei movimenti a cui è stato impedito di esprimersi sul loro terreno proprio e che sono stati progressivamente spinti a misurarsi con le contraddizioni di una società bloccata» [Melucci 1982, 116].

" Q uest’ultima ipotesi è suggerita, ad esempio, da Wieviorka [1988], che interpreta il terrorismo come sintomo della crisi del movi­mento operaio.

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nelle fasi di più accesa conflittualità o in quelle cicliche di riflusso e gestione delle conquiste ottenute?12 Le organiz­zazioni clandestine sono emerse dall’isolamento in cui si trovavano le componenti più radicali del movimento quan­do una serie di riforme sostanziali aveva già esaudito le do­mande della maggioranza più moderata o dalla crisi di un movimento politico che non era riuscito a sostenere adegua­tamente le proprie rivendicazioni nella contrattazione poli­tica? Sono state la conseguenza di una istituzionalizzazione precoce dei nuovi attori collettivi o della marginalizzazione violenta dell’opposizione da parte di un sistema politico in­capace di integrare domande emergenti?11

Un primo passo per rispondere a queste domande è l’a­nalisi dell’evolversi della struttura delle opportunità nel cor­so dei diversi momenti della protesta e per i diversi attori che vi presero parte. Come si è detto nel capitolo introdutti­vo, l’ipotesi che qui viene avanzata è che l’emergere del ter­rorismo di sinistra vada analizzato come adattamento, inter­namente differenziato, del settore dei movimenti sociali alle diverse tappe dei cicli di protesta in relazione alla struttura delle opportunità presente14.

Nel corso di questo capitolo, le relazioni tra protesta e terrorismo verranno discusse a partire dall’analisi delle con­dizioni ambientali in cui le organizzazioni terroriste hanno trovato lo spazio per emergere e svilupparsi. Sarà necessa­rio, quindi, anticipare alcune informazioni relative alle fasi e ai luoghi della diffusione del fenomeno ed usare l’ormai

12 Quest’ultima è, ad esempio, l’ ipotesi di Pizzorno che parla di mi­litanza in «eccedenza» nelle fasi di riflusso del movimento: «Quello che succede in Italia verso il 1972 e il 1973 è una fermata brusca della conflit­tualità e della militanza di classe [...]; dagli inquadramenti di partito e di sindacato escono di colpo molti individui che si trovano a possedere solo un’esperienza di lotta di classe; la maggior parte restano frustrati, altri hanno processi psicologici di disperazione, altri, respinti dal sindacato e dal partito, continuano la militanza, rifugiandosi nel movimento [...]. E la frenata brusca data alla fase della conflittualità quella che provoca que­sta continuazione di corsa, senza più possibilità di controllo» [in AA.VV. 1978, 7].

'* Cfr., per esempio, Donolo [1978].14 Per un’argomentazione di questa ipotesi si veda anche: della Por­

ta e Tarrow [1986].

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ampia letteratura secondaria sulle caratteristiche dei princi­pali attori politici in quei periodi e sulle specificità delle for­me di protesta in Italia rispetto a fenomeni simili, emersi in altri paesi. Alcune parti delle interviste agli ex-militanti del­le organizzazioni clandestine permetteranno, inoltre, di comprendere in quale modo la realtà esterna era percepita dai militanti delle diverse organizzazioni della protesta. Nel prossimo capitolo le ipotesi sulle precondizioni ambientali per la degenerazione violenta di un ciclo di protesta verran­no controllate attraverso lo studio delle caratteristiche del processo di formazione delle singole organizzazioni clande­stine.

Un primo passo per comprendere l’influenza delle carat­teristiche dell’azione collettiva sull’emergere delle organiz­zazioni clandestine è l’analisi dell’evoluzione temporale de­gli episodi di terrorismo, osservabile alla figura 1. Le due curve sono relative al numero complessivo degli episodi e a quello degli episodi orientati contro persone, o che, in ogni caso, hanno prodotto danni fisici ad esseri umani. In en­trambi i casi sono state considerate le frequenze aggregate per trimestre, corrette attraverso una tecnica di moving ave- rage per bilanciare le oscillazioni stagionali15.

Il terrorismo di sinistra ha cominciato a destare una cer­ta preoccupazione solo nella seconda metà del decennio. Fi­no al 1973 incluso, il numero delle azioni era piuttosto limi­tato, e solo 4 di esse erano state rivolte contro persone. No­nostante una intensificazione degli attentati, l’attività del terrorismo di sinistra era stata, anche nel biennio successi­vo, sporadica. Se erano aumentate le azioni contro persone,

15 Tra le diverse tecniche di moving average disponibili si è scelta quella basata sulla seguente formula:

M(t) = 1/2 X(t - 2) + X(t - 1) + X(t) + X(t + 1) + 1/2 X(t + 2)4

dove M(t) è il valore stagionale corretto del trimestre t, ottenuto som­mando la metà del valore del trimestre due volte precedente (t —2), piùil valore del trimestre precedente ( t - 1), più il valore di t, più il valore del trimestre successivo (t + 2), più la metà del valore del trimestre ancora successivo (t + 2), e dividendo per quattro. Ringrazio Jan Schuur per i consigli sull’utilizzazione di questa tecnica.

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N. A

zion

i

---------- Totale azioni

---------- azioni contro persone

01/70 1/71 1/72 1/73 1/74 1/75 1/76 1/77 1/78 1/79 1/80 1/81 1/82 1/83

Trimestri

Fic. 1. Evoluzione nel tempo delle attività terroristiche per trimestre Fonte-, Elaborazioni dei miei dati, tratti dagli atti giudiziari.

il cui numero era salito a 5 nel 1974 e a 9 nel 1975, l’am­montare complessivo delle azioni si era mantenuto attorno ad una media annuale di 50 episodi, aumentando di un 30% da un anno all’altro.

Il momento di svolta era stato il 1976, quando si era re­gistrata una netta crescita sia nel numero complessivo degli attentati che in quello degli episodi rivolti contro persone.

Evoluzione eventi terroristici

3 8

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Il numero delle azioni contro persone aveva continuato ad aumentare, raggiungendo le 16 unità, mentre era salito ad 87 il numero degli episodi contro cose. La maggiore impen­nata delle due curve si era avuta, tuttavia, solo l’anno suc­cessivo, quando gli attentati contro persone erano più che raddoppiati (34 episodi) ed era quasi raddoppiato anche il numero delle azioni contro le cose (165 episodi). Se nel 1977 si era raggiunta la massima frequenza per quanto ri­guardava le azioni contro le cose, quelle dirette contro le persone erano aumentate, invece, ancora nel 1978, raggiun­gendo il valore massimo di 57. Lo stesso valore si era mante­nuto anche nel 1979, quando invece continuava la flessione del numero degli episodi contro le cose (132).

La parabola discendente nel numero delle azioni terrori­stiche era divenuta invece più netta nel 1980, quando il nu­mero degli episodi contro le persone si era ridotto a 35 e quello degli episodi contro le cose a 95. E ssa era continuata negli anni successivi, ma erano stati soprattutto gli episodi contro le cose a diminuire più rapidamente, a 40 unità nel 1981 e a 25 nel 1982. Erano rimasti invece più elevati i va­lori delle azioni contro persone, mantenendosi a 23 nel 1981 e eguagliando quelli delle azioni contro le cose nel 1982.

Una distribuzione temporale simile può essere riscontra­ta se guardiamo ad un altro indicatore della diffusione del terrorismo: il numero delle organizzazioni terroriste, ripor­tato nella tabella 1.

Il numero di gruppi clandestini, basso fino al 1976, era invece cresciuto rapidamente nel 1977, quando erano pre­senti, oltre a Brigate rosse (Br) e Prima linea (PI), anche Azione rivoluzionaria (Ar), Formazioni armate combattenti (Fac), Formazioni comuniste combattenti (Fcc) e Unità co­muniste combattenti (Ucc) mentre qualche azione era firma­ta dai Nuclei armati proletari (Nap). Ancora numerose sa­ranno le organizzazioni armate l’anno successivo, quando compariranno Guerriglia comunista (Gc), Nuclei armati di contropotere territoriale (Nact), Proletari armati per il co­muniSmo (Pac) e Reparti comunisti d ’attacco (Rea). Molti gruppi saranno ancora presenti nel 1979, con le prime appa­rizioni di Guerriglia rossa (Gr), del Movimento proletario

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Tab. 1. Numero di sigle e di organizzazioni terroristiche per anno

Anni N. sigle N.organizzazioni

1970 1 11971 1 11972 2 21973 2 11974 2 21975 4 21976 12 51977 23 71978 20 81979 20 121980 10 111981 6 51982 5 31983 3 1

Fonte: Elaborazioni dei miei dati, tratti dagli atti giudiziari.

di resistenza offensiva (Mpro), di Per il comuniSmo, del Movimento comunista rivoluzionario e dei gruppi minori «O xa» e «M inervino». Ancora nel 1980, nasceranno la Bri­gata Lo Muscio, la Brigata 28 marzo e il gruppo «Rotaris».

Si può dunque dire che il ciclo del terrorismo in Italia copre oltre un decennio. Se aggiungiamo a queste informa­zioni alcuni dati relativi ai movimenti collettivi, possiamo anche osservare che durante l ’evoluzione del fenomeno ter­roristico si sono susseguite almeno due differenti ondate di protesta Nella figura 2 viene riportata l’evoluzione degli eventi di protesta violenti e quella degli attentati non riven­dicati, che possono essere attribuiti, in generale, ad organiz­zazioni legali.

N ell’andamento di entrambe le curve possono essere in­dividuate due fasi. Una prima fase di lenta ascesa si è avuta tra il 1969 e il 1976, quando è stato fondato il primo e più duraturo gruppo del terrorismo italiano. Il biennio successi­vo ha registrato, quindi, un nuovo e più alto picco, mentre emergevano nuovi gruppi armati.

16 C fr. M elucci [1982],

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N.

Azi

oni

----------Violenze sinistra

Attentati sinistra

F ig. 2. Evoluzione nel tempo delle azioni violente per anno.Fonte: Elaborazione su dati contenuti in Gallerà [1981].

Si può dire che in una prima fase che va dal 1970 al 1975, il terrorismo italiano non ha presentato elementi di peculiarità rispetto a quello emerso in altre democrazie in­dustriali negli stessi anni. Le prime organizzazioni clande­stine sono nate in un momento ancora alto del ciclo di pro­testa, e per almeno tutta la prima metà del decennio hanno rappresentato delle scorie estremiste di un movimento di massa ampio e pacifico. E stato invece nella seconda metà degli anni settanta che il terrorismo è divenuto un soggetto drammaticamente protagonista delle vicende politiche ita-

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liane. Ed è proprio questa seconda fase a fare del terrorismo di sinistra italiano un fenomeno del tutto peculiare per in­tensità e durata rispetto a quello delle altre democrazie in­dustriali17.

Vedremo nel corso dei prossimi paragrafi quali siano sta­te le caratteristiche di queste due ondate di protesta e in quale modo esse abbiano favorito la radicalizzazione violen­ta di alcune frange. Vedremo anche che la struttura delle opportunità politiche si è considerevolmente trasformata durante tutto il periodo, influenzando in modo diverso i va­ri tipi di movimento. N ell’interazione tra evoluzione della protesta e risposte istituzionali si sono create le condizioni per la nascita dei gruppi clandestini.

2. Ciclo di protesta della fine degli anni sessanta e nascita delterrorismo

Nella seconda metà degli anni sessanta era iniziata an­che in Italia una fase di mobilitazione collettiva, in coinci­denza con ondate di protesta sviluppatesi in diversi paesi del mondo occidentale. Simili sotto molti aspetti, i movi­menti sociali di quel periodo sono stati tuttavia influenzati, nella loro strutturazione ed evoluzione, dalle differenze fra i sistemi di opportunità politiche nazionali. Nel caso italia­no, alcune peculiarità riscontrabili nelle caratteristiche degli attori che hanno partecipato alla mobilitazione, nei reperto­ri d ’azione da essi utilizzati, nella cultura politica in cui la protesta si è sviluppata, hanno in vario modo contribuito al­la radicalizzazione di alcune componenti del movimento.

In Italia, così come in Germania, Francia, Stati Uniti e Inghilterra, la protesta della fine degli anni sessanta era nata all’interno delle università su rivendicazioni che andavano dal miglioramento delle condizioni materiali di studio, alla trasformazione dei contenuti dei programmi di insegnamen­to, ai diritti di espressione politica dentro l’istituzione.

17 N aturalm ente, con l ’eccezione dei casi spagnolo e irlandese, dove il terrorism o è però legato alla politicizzazione di un cleavage etnico.

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Molte delle richieste erano orientate alla modernizzazione del sistema universitario, che passava da un modello di uni­versità d 'élite ad un modello di università di massa. G ià una prima particolarità della situazione italiana era, a questo proposito, la grande arretratezza del sistema d ’istruzione, con la conseguente necessità di più radicali cambiamenti. Q uesta arretratezza aveva favorito la diffusione del movi­mento di protesta ai diversi livelli del sistema scolastico, mentre l ’incapacità del governo di realizzare una riforma dell’istruzione pubblica aveva portato ad un continuo riac­cendersi delle mobilitazioni nel mondo della scuola.

Queste condizioni di ritardo rispetto agli altri paesi a ca­pitalismo avanzato, che il centro-sinistra dell’inizio degli anni sessanta non era riuscito a sanare, erano comuni a vari settori, ai quali la protesta si sarebbe estesa ben presto. L ’al­largarsi della mobilitazione ai più diversi strati della popola­zione, in primo luogo alla classe operaia, è stata, infatti, la principale caratteristica del ciclo di protesta in Italia. Un fe­nomeno simile si è avuto solo in Irlanda del Nord, sul tema dei diritti civili per la minoranza cattolica, mentre negli S ta­ti Uniti la protesta si era allargata al di fuori del mondo stu­dentesco solo su specifiche campagne; in Germania il movi­mento aveva coinvolto gruppi di giovani, ma era rimasto isolato dal resto della popolazione; e in Francia, le speranze di una unità fra studenti e operai erano subito svanite, sia per il settarismo del sindacato che per la rapidità con cui il governo era riuscito a concludere un accordo per i lavoratori dell’industria18.

Anche questa peculiarità della situazione italiana era collegata all’arretratezza del sistema delle relazioni indu­striali, conseguenza, a sua volta, della debolezza strutturale del movimento operaio nel secondo dopoguerra. Il migliora­mento delle condizioni del mercato del lavoro dal punto di vista dell’offerta produrrà, a partire dall’autunno del 1969, il più lungo e diffuso periodo di scioperi nelle fabbriche del Nord. Approfondite indagini sociologiche hanno dimostra-

Per un’analisi dei movimenti della fine degli anni sessanta in E u ­ropa e Stati U niti, cfr. Fraser [1988]; Teodori [1976]; Statera [1973].

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to che la particolare intensità della lotta sindacale era deter­minata dall’incontro tra una classe operaia ad alta qualifica­zione e mediamente sindacalizzata e una nuova classe ope­raia, di recente immigrazione dal Sud, dequalificata e priva di tradizioni di organizzazione. Risultato del ciclo degli scioperi furono notevoli aumenti salariali, insieme ad una lenta trasformazione delle forme di rappresentanza degli in­teressi nelle fabbriche. Ma mentre le rivendicazioni econo­miche venivano accolte abbastanza rapidamente, il ricono­scimento politico del ruolo del sindacato tardava invece a venire, producendo la radicalizzazione della mobilitazione nelle fabbriche e il suo prolungarsi nel tempo.

Va aggiunto che la diffusione della protesta non interes­sava solo la classe operaia, ma anche i più diversi strati so­ciali, compresi quelli tradizionalmente più refrattari a ogni forma di organizzazione collettiva: dai colletti bianchi nelle fabbriche ai medici degli ospedali pubblici; dai carcerati ai militari di leva. In tutti questi casi, rivendicazioni che oscil­lavano tra la modernizzazione e l’interesse corporativo veni­vano spesso rilette attraverso la lente di ideologie politiche radicali. Il coinvolgimento di diversi strati sociali aiutava a prolungare nel tempo il ciclo della mobilitazione.

La durata della mobilitazione, così come l ’estensione della protesta a diversi strati sociali contribuivano ad una graduale radicalizzazione delle forme d ’azione, che non si era registrata negli altri paesi. L ’influenza su quest’ultima della lunghezza del ciclo viene confermata da uno studio sull’evoluzione dei repertori durante il ciclo della fine degli anni sessanta19, dove si dimostra che la violenza si era svi­luppata solo in una seconda fase della protesta, prevalente­mente nel corso di azioni condotte da gruppi di piccole di­mensioni. Le prime fasi della protesta erano state, invece, prevalentemente non-violente: la violenza era stata allora episodica, risultato di interventi maldestri della polizia du­rante manifestazioni di massa o di occasionali degenerazioni di nuove forme d ’azione. All’inizio degli anni settanta, mentre nuovi temi venivano portati sulla scena politica, si

19 C fr. della Porta e Tarrow [1986],

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aveva un contemporaneo aumento del numero degli attori sociali e di quello delle organizzazioni politiche. Un tipo di­verso di violenza era cominciato allora ad emergere come conseguenza della competizione tra gruppi politici nello stesso movimento o di movimenti concorrenti. Distinguen­do fra diverse forme di violenza, si è potuto osservare che erano quelle di piccolo gruppo a crescere in peso percentuale durante tutto il periodo. Queste forme di violenza di picco­lo gruppo erano, tuttavia, ancora in quel periodo equilibrate dalla presenza di più ampie azioni di massa. Esse sono au­mentate, invece, più rapidamente, man mano che le azioni di massa si riducevano in entità e divenivano meno spon­tanee.

Se lo studio quantitativo citato ha mostrato l ’esistenza di una radicalizzazione dei repertori, le storie di vita hanno permesso di indagare sul valore simbolico di alcuni episodi di violenza nella socializzazione politica dei futuri militanti dei gruppi clandestini. La diffusione di forme violente du­rante i conflitti di fabbrica è stata, ad esempio, un tema del­la polemica politica della metà degli anni settanta, quando i sindacati sono stati accusati di avere «cavalcato la tigre della rabbia operaia», per esercitare pressioni sul padronato e sul governo. Senza entrare qui nel merito della frequenza di questi episodi di violenza, si può però rilevare, attraverso le biografie, che i «picchetti duri», i sabotaggi, i «processi ai capi», le irruzioni, costituivano spesso occasione di espe­rienze dirette nell’uso della coercizione fisica. Al contempo, enfatizzati dalla stampa del movimento, essi diventavano anche «testim onianza» dell’alta propensione alla violenza della classe operaia. Ciò è bene illustrato nelle citazioni che seguono:

Il picchetto necessariamente era una forma su cui interveniva­mo, una forma anche violenta, [...] venivano decise forme anche violente di picchettaggio, con uno scontro fisico, in relazione appunto al fatto che era il mezzo giusto per acquisire alcune cose20 [corsivi miei, in questa come in tutte le citazioni che seguono, N.d.A.].

20 Storia di vita n. 9, p. 39.

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Un gruppo di capi officina e di caporeparto sfondarono un pic­chetto in maniera piuttosto violenta, uno di questi estrasse anche una pistola, ci fu un’azione di questo genere. Qualche tempo do­po, durante un corteo interno,/« organizzato una sorta di processo popolare ai caporeparto [...] e durante questo corteo interno ne fu­rono presi alcuni, altri sfuggirono [...]. Ci fu questo processo po­polare a questi capi, alcuni dei quali furono assolti e altri furono condannati all’espulsione dalla fabbrica. In realtà non gli fecero niente, li legarono sotto la pioggia a un cancello esterno alla fab­brica21.

Si parlava di un sabotaggio avvenuto sulle linee di convogliamen- to dei motori dalla meccanica alla carrozzeria che, in quei giorni in cui la fabbrica era praticamente bloccata da un gruppo di operai, sarebbe stato addirittura segato, e la linea continuava ad andare, per cui ci sarebbero stati centinaia.di motori rovinati perché fini­vano nel sottopassaggio22.

Ricordo per esempio che quei primi scioperi contro la cassa in­tegrazione furono ad un livello altissimo di violenza, per impedire che la gente andasse a lavorare [...]. A Torino, sull’onda di tutti questi primi Comitati autonomi operai si erano autocostituite squadre di «volante rossa» [...] erano gruppi di operai, tra l’altro molto sindacalizzati, comunque conosciuti, che durante i cortei interni [...] o sfasciavano una sede dei sindacati gialli, o picchiavano capi-reparto particolarmente detestati2i.

Attraverso processi di imitazione, repertori d ’azione ra­dicali si erano diffusi anche ad altri strati sociali. La propa­ganda nelle carceri o fra i soldati di leva aveva rappresentato per molti militanti della nuova sinistra la prima esperienza di azioni organizzate in modo clandestino. Episodi di vio­lenza erano avvenuti nel corso degli scioperi dei lavoratori dei servizi, delle mobilitazioni sul diritto alla casa, delle azioni contro gli spacciatori di droga. Ancora una volta, al di là della loro reale diffusione, essi erano divenuti simboli della legittimazione della violenza politica, oltre a rappre­sentare per chi vi partecipava delle esperienze dirette nell’u­so della forza fisica.

21 Storia di vita n. 29, p. 24.22 Storia di vita n. 22, p. 15.23 Storia di vita n. 29, p. 20.

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Se non c’è il personale in grado di coprire le cose, allora ridu­ciamo i posti letto [...] se tu non li riduci, li riduciamo noi. E infatti avevamo avuto dei processi per queste cose qua, denunce per vio­lenza, oppure per cortei interni, perché magari andavamo da qualche primario, da qualche padrone e gli chiedevamo di rendere conto di alcuni suoi modi di fare [...] oppure occupavamo gli uffici dell’Am­ministrazione

Gli occupanti di case che si organizzano, a San Basilio c’è una famosa occupazione in cui gente del quartiere si mette a sparare dalle finestre col fucile alla polizia25.

Io facevo picchetti alla scuola. Agli spacciatori cercavo di spac­cargli la testa. Era una cosa pratica, era l ’unico mezzo per riuscire ad avere le cose2''.

Un’ulteriore caratteristica della protesta della fine degli anni sessanta in Italia è il livello di politicizzazione delle ri­vendicazioni. Se alcuni degli slogan erano comuni ai movi­menti dei diversi paesi, le caratteristiche ideologiche del set­tore dei movimenti sociali nei diversi contesti nazionali era­no influenzate dalle diversità nella struttura delle opportu­nità politiche e, in particolar modo, nella cultura politica diffusa soprattutto nella sinistra. Così, negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, ad esempio, il movimento si era orientato su campagne attorno a singoli obiettivi. Nei paesi del conti­nente europeo, invece, le diverse rivendicazioni erano state spesso inserite all’interno di uno schema ideologico più astratto, «anti-capitalista» in Italia e Francia, «anti-imperia- lista» in Germania. Il radicalismo della cultura politica della sinistra era poi particolarmente accentuato in Italia. Da un lato la conventio-ad-excludendum, escludendo il Pei da ogni responsabilità di governo, ne aveva rallentato i processi di revisione ideologica. D all’altro, lo stesso radicamento del Pei aveva ampliato, in Italia, lo spettro delle ideologie consi­derate legittime, diversamente, ad esempio, da quanto era avvenuto in Germania dove la divisione del paese aveva de­

24 Storia di vita n. 15, p. 26.2’ Storia di vita n. 12, p. 20.2,1 Storia di vita n. 8, p. 35.

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legittimato le ideologie comuniste. Diversi rispetto ancora alla Germania, sono stati infine gli effetti dell’esperienza del fascismo sulla cultura politica della sinistra italiana, do­ve i miti della guerra partigiana sono stati spesso utilizzati per giustificare la violenza politica.

Ancora dal punto di vista della cultura politica, negli al­tri paesi — e soprattutto negli Stati Uniti e in Germania — l’ondata di protesta era stata legata allo sviluppo di una sub-cultura giovanile, assumendo così forti connotati con­tro-culturali. In Italia, invece, la protesta si era espressa al­l’interno delle due sub-culture «adulte»: quella cattolica e quella comunista. All’interno delle loro organizzazioni gio­vanili erano stati socializzati alla politica i leader del movi­mento, mentre debole era stata la componente «contro-cul­turale». I conflitti generazionali, che pure erano presenti — e, semmai, resi più acuti dalla rapidità dei cambiamenti in­tervenuti nel corso degli anni cinquanta — si riflettevano non ancora tanto nella elaborazione di modelli culturali al­ternativi, ma piuttosto nella radicalizzazione delle ideologie già disponibili.

Queste osservazioni sembrano confermate dall’analisi delle storie di vita dei militanti delle organizzazioni clande­stine che avevano iniziato il loro impegno politico in quegli anni. Con ancora maggiore frequenza nel caso delle donne, l’adesione iniziale al movimento viene descritta come espressione di conflitti generazionali:

Nel ’68 c’era appunto questo senso della libertà abbastanza scanzonata e poco inquadrata, per cui era [...] più che non proprio una scelta ideologica precisa, è stata una scelta di maggior libertà [...] per cui rapporti più liberi tra le persone, una cultura diversa, un mo­do di vivere diverso, di vestirsi diverso27.

Ritrovavo negli altri gli stessi conflitti che erano stati miei, ri­spetto alla famiglia, ritrovavo negli altri quelli che erano i miei pro­blemi rispetto alla chiesa, la gerarchia, l ’autorità. Per cui alcune co­se che io avevo vissuto magari da sola, dentro il collegio, poi le ritrovavo vissute come prese di posizione anche collettiva, come rotture generazionali2* .

21 Storia di vita n. 23, p. 9.28 Storia di vita n. 15, p. 12.

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Praticamente ci sono dei padri che lavorano in fabbrica e dei figli che vanno all’università [...] però coi padri naturalmente non si inten­dono, però i padri cercano di istradarli verso il partito, verso que­ste cose qua29.

M a le caratteristiche generazionali del movimento si erano ben presto indebolite, sia per l’assenza di elaborazioni contro-culturali che per l ’opportunità per i militanti del mo­vimento studentesco di trovare alleanze all’esterno dell’uni­versità. Come ha dichiarato una militante arrivata a PI dopo una lunga esperienza politica iniziata nel movimento degli studenti:

Per me l’incontro con la classe operaia è l’incontro con la clas­se rivoluzionaria e quindi trasloco il terreno dell'identità rivoluzio­naria da quella che fino a quel momento è stata la mia generazione, al fatto che sicuramente la mia generazione aveva questo grosso portato, però la vera classe rivoluzionaria era la classe operaia30.

Se tutte queste specificità negli interessi, nelle forme d ’azione, nelle ideologie presenti nel settore dei movimenti sociali alla fine degli anni sessanta possono avere favorito una radicalizzazione della protesta, altre particolarità del caso italiano vanno cercate nell’alto livello di violenza pre­sente anche nelle reazioni alla protesta, dal tipo di interven­to della polizia per controllare l’ordine pubblico a, più pro­prio del caso italiano, l’utilizzazione deH’estremismo di de­stra. Come è testimoniato nelle storie di vita, queste carat­teristiche della risposta istituzionale ai movimenti collettivi hanno contribuito a produrre giustificazioni per l’utilizza­zione della violenza e moltiplicato le occasioni per speri­mentarne direttamente l’uso.

Pur non essendo in possesso di dati adatti a comparare il livello di violenza utilizzato dalle forze dell’ordine rispet­to a quanto avvenuto in altri paesi, si può però affermare che certamente non vi era in Italia una particolare attenzio­ne alle tecniche di de-escalation del conflitto ’1. Quel che è

29 Storia di vita n. 5, p. 12.30 Storia di vita n. 22 , p. 33.31 E da rilevare che l’ Italia del dopoguerra aveva avuto una tradizio-

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certo è che in molti degli episodi citati nelle nostre intervi­ste l’intervento della polizia appariva, a chi ne era oggettoo spettatore, brutale e ingiustificato. Il ricordo della violen­za nel corso della repressione delle manifestazioni di massa è rimasto vivido anche dopo parecchi anni ed ha contribuito a ridurre le remore all’utilizzazione della forza fisica per quella che sembrava una legittima difesa contro un’ingiusti­zia. Vediamo alcuni esempi:

A Piazza Cavour ci sono stati degli scontri pazzeschi; da Valle Giulia io ne esco con la testa salva per miracolo... un poliziotto mi ha puntato la pistola sulla pancia™.

Le prime manifestazioni in cui ci sono gli scontri di piazza, io non me le ricordo come un fatto di arrivare allo scontro con la po­lizia per imporre un determinato passaggio in un punto, cioè non me le ricordo affatto come un’imposizione da parte del corteo, da parte del movimento. Me le ricordo appunto come una reazione a qualcuno che vuole impedirci di fare, e non se ne afferra il motivo [...] e mi sembra naturale rispondere [...] con gli scontri a distanza che hanno comunque sempre un differenziale terribile, cioè a chi ha le armi, chi ha i lacrimogeni, a chi ha i manganelli uno risponde con i sassi, e questo differenziale diventa anche dal mio punto di vista un motivo di giustificazione, cioè un fatto che mi legittima l'uso di una violenza diversa e antagonistai!.

Mi ricordo che mi sono scottato una mano perché ho ritirato in­dietro uno dei candelotti che loro tiravano, che si bloccavano i tram in corso Magenta’4.

Io ero con questo mio amico qua e [...] cercavamo i nostri compagni di classe nel corteo [...] parte un finimondo di cui ci sia­mo resi conto molto poco perché son partiti i lacrimogeni, botte, urla, gente che scappava da tutte le parti e lì ci siamo presi la no­stra razione di lacrimogeni e siamo fuggiti anche noi [...] seguendo il fumo, le urla, e vedendo questa Milano in una luce che io non ave­vo mai immaginato, il fumo dei candelotti, uno scenario assoluta­

ne piuttosto elevata di morti negli scontri di piazza con la polizia [cfr. Ism an 1977; D ’O rsi 1972].

32 Storia di vita n. 21 , p. 31.53 Storia di vita n. 9, p. 26.54 Storia di vita n. 3, p. 19.

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mente spettrale, manifesti stracciati, cartelli rotti, feriti per le strade

Più che nella brutalità della polizia, la particolarità del caso italiano per quanto riguarda le reazioni alla protesta è rappresentata, tuttavia, dalla presenza di una violenza della destra, che accompagnava un’inversione conservatrice in senso istituzionale espressa dal ritorno della formula gover­nativa del centro-destra e dall’elezione del presidente della Repubblica Leone con i voti del Msi. Le attività dei gruppi neo-fascisti avevano preso tre forme: lo squadrismo delle or­ganizzazioni giovanili della destra; le stragi dei terroristi ne­ri; le trame golpiste. In tutti e tre i casi, la violenza della de­stra, e la convinzione diffusa che essa fosse tollerata e aiuta­ta dal partito di maggioranza, fornivano una potente giusti­ficazione all’uso dei repertori più radicali.

Nelle biografie di chi poi parteciperà alla «lotta armata», molte prime esperienze di utilizzazione della violenza erano avvenute durante scontri con gli «squadristi» delle varie or­ganizzazioni legate al Msi. Citiam o solo due fra le numerose testimonianze su come la violenza degli estremisti di destra fosse percepita come pericolosa e su quanto essa influenzas­se le attività del movimento:

Qui con le lotte ci siamo scontrati con i fascisti: ci hanno brucia­to delle cose, ci hanno fatto attentati, hanno attentato a un munici­pio di un comune qui vicino, Romagnano Sesia; erano presenti, quattro figli di papà, sciagurati, quello che erano, però erano pre­senti e avevano un’attività di tipo provocatorio*'’.

Il discorso della contrapposizione fisica con la controparte politi­ca, quindi con i fascisti, era comunque un momento quasi giornalie­ro, nel senso che, quando si andavano a dare i manifesti di notte, quando si andava a dare volantini in certe zone della città, era co­munque inevitabile l ’attrezzarsi in termini militari [...1 ti portavano al fatto che dovevi comunque attrezzarti. Non voglio sembrare re­torico, però quelli erano gli anni dei manifestanti morti in piazza, erano gli anni degli agguati fascisti con i compagni morti''1.

Storia di vita n. 12, p . l l .u' Storia di vita n. 5, p. 17-18.17 Storia di vita n. 13, p. 29 e 30.

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In questa situazione di quotidiani scontri fisici, si ripro­ducono poi una serie di processi di costruzione di identità collettive e mantenimento della mobilitazione — dal «v itti­mismo» alla «vendetta» — che contribuivano a creare un cli­ma di scontro continuo, come tra bande giovanili rivali.

Proprio l’inizio di una presa di posizione più concreta caratte­rizzata da un moto ideologico poi è proprio il rifiutare la violenza intesa come tale proprio, la violenza dei fascisti che all’epoca, maga­ri con un certo vittimismo, veniva propagandatais.

In quel periodo li si vive [...] aria da linciaggio contro i fascisti «se vedi nero spara a vista», a parole, poi nei fatti se incontravi qualcuno che durante un volantinaggio antifascista ti diceva «vaf­fanculo sporco rosso», va be’ lì gli andavi contro, non è che ci sta­vi a guardare di solito molto. [...] c ’era la caccia all’uomo, la caccia spietata, [...] questa caccia al fascista che d ’altra parte si ripercuo­teva contro di noi perché c ’era una spirale di vendette, non so, in centro, durante una micromanifestazione, se incontravi qualcuno col giubbottino col bavero alzato era finita, se lo pigliavi finiva male ,9.

Si deve ancora tener presente che, nella cultura del mo­vimento, le responsabilità di quelle violenze non venivano attribuite solo ai neo-fascisti, ma anche allo stato che veniva accusato di proteggere gli estremisti di destra per potere poi colpire, con la scusa di combattere gli «opposti estremismi», principalmente la sinistra. Come orientate a questo scopo venivano viste anche le stragi del terrorismo nero: dalla strage di piazza Fontana a Milano nel 1969 a quelle, nel 1974, in piazza della Loggia a Brescia e sul treno Italicus40. Il d if­fuso convincimento di un coinvolgimento delle istituzioni nell’organizzazione dell’attentato — in particolar modo, dei servizi segreti — aveva portato molti a vedere nelle stragi una delle modalità della risposta dello stato alla protesta, diffondendo un’immagine dello stato non come difensore

Storia di vita n. 6, p. 14. w Storia di vita n. 6, p. 29.40 Sul terrorism o di destra in Italia, si vedano, fra gli altri: Minna

[1984]; e Ferraresi [1984],

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della democrazia, ma come «stato delle stragi». Così, se un singolo fattore precipitante potesse essere indicato per la nascita del terrorismo di sinistra, esso dovrebbe essere cer­tamente individuato nella strage di piazza Fontana, ricorda­ta in molte delle storie di vita degli ex-terroristi come mo­mento, dotato di un’alta intensità emotiva, di presa di co­scienza politica o di giustificazione della radicalizzazione del proprio impegno.

L’interesse era nato alcune settimane prima, perché c’è lo sciopero per la bomba di piazza Fontana [...] sì andò tutti in Piazza Duomo, dove c ’era la manifestazione proprio di popolo, e ci fu la messa, e ricordo che andai alla messa, cioè faticosamente entrai in Duomo, dove c’erano queste bare41.

Era giusto lì in Italia, contro chi faceva la strage di stato, mettere in piazza la violenza42.

Di quella che nella cultura politica della sinistra veniva definita come «strategia della tensione» facevano parte, ol­tre alle stragi, i diversi tentativi di colpo di stato emersi in quel periodo. Essi avevano, infatti, contribuito a diffondere l ’impressione che uno sbocco violento del conflitto sociale fosse inevitabile. Al di là della loro reale consistenza, va ri­cordato che in quegli anni l’ipotesi di una involuzione auto­ritaria era resa credibile, sia dalla presenza di regimi autori­tari in tre stati europei, che dal golpe di Pinochet in Cile. È dimostrato dalle nostre interviste quanto diffusa fosse la convinzione che le «classi dirigenti» sarebbero ricorse al col­po di stato, e che fosse quindi necessario prepararsi a «resi­stere». Citiamo, ancora, solo due tra le tante testimonianze:

Mi ricordo che girava già all’epoca, c’era un libro che si diceva clandestino però io non ho mai capito se era clandestino, era In caso di golpe [...] era il classico libro che dovevi mettere in fondo alla libreria, lo mettevi nascosto4''.

41 Storia di vita n. 12, p. 10.42 Storia di vita n. 27 , p. 18.45 Storia di vita n. 6 , p. 19.

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Il contesto e lo stato d ’animo di quel periodo, l ’identità cospi­rativa che abbiamo assunto tipica del tipo di situazione che abbiamo vissuto noi o del tipo di clima [...] la paranoia del golpe, i racconti dei vecchi del Pei o del sindacato ai blocchi della fabbrica, che co­me minimo han dormito fuori. Poi magari era tutto folklore, però c’era, era forte, fortissima, questa tensione cospirativa, questo prepararsi44.

Riassumendo quanto detto fin qui, tre sembrano le pe­culiarità del ciclo di protesta, determinate dai vari fattori che sono stati fin qui enumerati, che possono spiegare la particolare entità della violenza. Una è la densità del settore del movimento sociale, in termini di attori sociali coinvolti nella protesta. U n’altra, con la prima interagente, è la note­vole durata del ciclo di mobilitazione iniziato alla fine degli anni sessanta. C ’è, infine, il tentativo di ridurre i conflitti, che coincidevano con quella che è stata descritta come fase culminante del consolidamento della democrazia italiana, attraverso una strategia repressiva di cui faceva parte anche l’utilizzazione dell’estrema destra. G li effetti di questa stra­tegia di controllo della protesta erano destinati a sopravvi­vere anche dopo la fine del ciclo alto della mobilitazione. Come vedremo nel prossimo capitolo, l’alto livello di violen­za nelle forme d ’azione metteva in moto alcuni processi or­ganizzativi. Mentre alcune componenti del movimento si istituzionalizzavano per gestire le conquiste ottenute, altre componenti, meno dotate delle risorse a questo necessarie, sceglievano invece altre strade.

3. «Movimento del ’77» e terrorismo

Vi sono state, dunque, alcune particolarità nel ciclo di protesta della fine degli anni sessanta che possono avere fa­cilitato la degenerazione di alcuni gruppi nella violenza. Si è detto, tuttavia, che il maggiore sviluppo delle organizza­zioni clandestine ha coinciso con la seconda metà del decen­nio successivo. La fase di terrorismo, che ha reso peculiare

44 Storia di vita n. 18, p. 47.

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il caso italiano, si è sviluppata in coincidenza con la nascita tumultuosa e la rapida degenerazione di nuovi fermenti col­lettivi, definiti dai mezzi d ’informazione come «movimento del ’77». Ambigua nei contenuti e violenta nelle forme d ’a­zione, quella mobilitazione si sarebbe esaurita dopo pochi mesi di esistenza, lasciando dietro di sé alcuni residui: grup­pi semi-clandestini, destinati in parte a scomparire dopo avere siglato un paio di attentati, in parte a strutturarsi maggiormente e a contribuire allo stillicidio di uccisioni e di ferimenti che si susseguiranno tra il 1978 e il 1980.

Quali sono state allora le caratteristiche di questa onda­ta di protesta rispetto a quella precedente? Molto spesso so­no state sottolineate le differenze, sia di forma che di conte­nuto, fra i due periodi di mobilitazione collettiva. E stato scritto, ad esempio, che:

A questo punto (metà del ’72) il Sessantotto, e il movimento che ne è stato l’espressione, hanno praticamente concluso la loro parabola. Tra la loro fine e la nascita del movimento del ’77 c’è un interregno di 4-5 anni che si protrarrà fino al 20 giugno 197645.

L ’esistenza di notevoli differenze fra il «sessantotto» e il «settantasette» non può essere, in effetti, negata. Basta ri­percorrere, brevemente, la cronologia dei principali avveni­menti politici del 197746 per notare che il livello di violen­za nei repertori utilizzati era, in quell’anno, molto maggiore rispetto all’inizio del primo ciclo di mobilitazione. Fattore precipitante della protesta era stato, il 1° febbraio, il feri­mento di uno studente di sinistra da parte di neo-fascisti. L ’ indomani, da un corteo uscito dall’università si era stacca­to un gruppo che aveva assalito la sede del Fronte della gio­ventù, con un seguito di scontri molto violenti con la poli­zia, durante i quali un poliziotto e due studenti erano rima­sti feriti. U n’occupazione dell’ateneo romano era seguita per protestare contro l’arresto dei due studenti di sinistra, accusati di tentato omicidio, e, al contempo, contro un de-

Monicelli [1978, 42],46 Per una cronologia dettagliata, cfr. Bernocchi e altri [1979].

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creto ministeriale che eliminava la possibilità di ripetere mensilmente gli esami. Il 12 febbraio, il comizio dentro l’u­niversità del segretario nazionale della Cgil, Luciano Lama, era stato interrotto da violenti scontri tra il servizio d ’ordi­ne del sindacato e alcuni gruppi di studenti, il cui bilancio era stato di diverse decine di feriti. A pochi giorni di distan­za, altre violente manifestazioni erano seguite alla condanna a nove anni di carcere comminata ad un militante della sini­stra, Fabrizio Panzieri, per concorso morale nell’omicidio di un esponente dell’estrema destra, avvenuto due anni prima. Il 12 marzo una serie di gravissimi episodi — assalti ai nego­zi, uso di armi da fuoco — si erano verificati durante le ma­nifestazioni seguite, in diverse città italiane, all’uccisione di un giovane aderente a Lotta continua, Francesco Lo Russo, in una carica dei carabinieri, avvenuta il giorno precedente a Bologna. Dopo appena due mesi, una giovane militante della sinistra, G iorgiana M asi, era stata uccisa a Roma nel corso di scontri con le forze dell’ordine, intervenute per im­pedire lo svolgimento di alcune celebrazioni per l ’anniversa­rio della vittoria dell’ala laica al referendum sul divorzio. Se nel corso di questi avvenimenti, la polizia era stata accusata di avere sparato ad altezza d ’uomo, armi da fuoco erano sta­te usate anche da parte dei dimostranti e due agenti erano stati uccisi, a Roma e a M ilano47. La fase di mobilitazione si era quindi chiùsa in autunno, dopo le manifestazioni se­guite ad ancora un altro omicidio: quello di un militante del­la sinistra, W alter Rossi, ucciso da estremisti di destra il 30 settembre a Roma.

Per analizzare fratture e continuità fra i due periodi di protesta, si può dunque iniziare chiedendosi le ragioni degli alti livelli di violenza che hanno caratterizzato la seconda metà degli anni settanta. Nel dibattito politico di quell’an­no il radicalismo delle forme d ’azione era stato attribuito al- l ’emergere di una «seconda società», con una progressiva ac­centuazione delle differenze tra gli occupati nei settori «ga­rantiti» e i «non-garantiti». Si era così formato uno strato di giovani marginali rispetto al mercato del lavoro — defini-

47 Si tratta degli assassini degli agenti Passam onti, il 21 aprile a R o­ma, e C ustrà, il 14 maggio a M ilano.

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ti talvolta come piccolo-borghesi proletarizzati, talaltra co­me sottoproletari — con interessi antagonisti rispetto a quelli della «prima società» e un’alta propensione alla de­vianza. Q uesto tipo di interpretazione non mi sembra suf­fragato dall’analisi delle rivendicazioni presenti nella prote­sta, per come esse sono state presentate nelle nostre inter­viste.

Si è già detto, innanzi tutto, che le prime degenerazioni violente si erano avute nel corso della mobilitazione su un decreto ministeriale relativo all’università. È vero che, ri­spetto alla fine degli anni sessanta, le azioni collettive nel mondo della scuola si erano spostate soprattutto sui temi della selezione e dei costi dello studio. Così che, come han­no rilevato alcuni osservatori interni al movimento, nel 1977:

Non è affatto un caso che, rispetto al ’68, sia stata questa vol­ta molto più rilevante la presenza degli studenti tecnico-professio- nali, dei fuori-sede, degli universitari meridionali: ossia dei settori più disagiati della componente studentesca48.

Si deve tuttavia aggiungere che, rispetto alla fine degli anni sessanta, i problemi di modernizzazione del sistema di istruzione, non solo non erano stati risolti, ma si erano anzi aggravati per il continuo aumento del numero degli studen­ti, producendo ondate successive di proteste. Le prime esperienze di socializzazione politica di futuri militanti delle organizzazioni clandestine erano così avvenute a scuola, nel corso di mobilitazioni sui temi tradizionali delle carenze strutturali del servizio:

Le prime manifestazioni di carattere sia antifascista che conte- statario furono rispetto alla gestione degli studi e alle più che cono­sciute carenze strutturali delle scuole in quel periodo: il fatto stesso che per andare a scuola o al seminario non ci fossero servizi — bisognava andare per forza a piedi facendo due o tre chilometri se non di più per chi veniva da fuori; il fatto che fosse, appunto, tutto molto precario, perché non c’erano laboratori, non c’era niente per garantire un minimo di serietà allo studio49.

48 Bernocchi e altri [1979, 17].49 Storia di vita n. 14, p. 27.

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Nelle proteste del «settantasette» convergevano altre te­matiche, esterne sia alla scuola che alla grande fabbrica: dal diritto alla casa alla lotta contro il carovita, dalle infrastrut­ture nei quartieri periferici alla diffusione di droghe pesan­ti, dalla disoccupazione al lavoro nero. G ià presenti nelle mobilitazioni dell’inizio degli anni settanta, questo tipo di rivendicazioni si erano diffuse quando erano peggiorate le condizioni del mercato del lavoro, con pesanti ripercussioni in termini di disoccupazione giovanile, mentre il decentra­mento produttivo aumentava il numero di occupati nel set­tore precario delle piccole imprese. La situazione era aggra­vata dai ritardi politici nel far fronte ai problemi abitativi che l’ondata migratoria degli anni cinquanta e sessanta ave­va creato nelle grandi città del Nord.

Su questo tipo di rivendicazioni, si erano creati diversi gruppi di quartiere, alle cui attività avevano partecipato molti dei futuri terroristi della seconda generazione. Le ri­chieste presentate da questi gruppi alle autorità locali non erano certamente, per quanto emerge dalle nostre intervi­ste, radicali né, tanto meno, non-negoziabili. Secondo i pas­si qui riportati, esse si rivolgevano, in genere, alla creazione di alcune infrastrutture, alla ristrutturazione dei centri sto­rici, al controllo dei prezzi degli affitti delle case e di alcuni servizi.

[Questo gruppo di Settimo Torinese] cerca di occuparsi dei problemi del quartiere: spazi, case, spazi per i giovarti, cose di questo genere50.

Nei quartieri c’era questa lotta contro la ristrutturazione dei quartieri, lo svuotamento dei quartieri del centro storico dai loro abitanti51.

L’attività politica anche questa era molto bella, c’era tutto il periodo delYoccupazione delle case, oppure le autoriduzioni-, tutto il lavoro fatto alla Magliana sulle autoriduzioni degli affitti, per cui con i comitati di quartiere si andava, si discuteva come ridurre l’affitto, il prezzo politico degli affitti™.

50 Storia di vita n. 4 , p. 8.51 Storia di vita n. 23, p. 24.52 Storia di vita n. 23, p. 15.

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Accanto a questi temi, ve ne erano altri più specifica- mente relativi alla condizione giovanile, come la lotta con­tro la diffusione delle droghe pesanti e contro le cattive con­dizioni di lavoro nelle piccole fabbriche, cui si univa spesso la richiesta alle autorità del governo locale di spazi in cui or­ganizzare attività ricreative. Le iniziative di questi circoli sono state, ancora, cosi descritte:

Antifascismo, iniziative di generica propaganda [...] sostegno ad occupazioni di case, quelli che facevano i primi mercatini con i libri usati, presenza, diciamo, dei giovani distribuita nel quartiere5’ .

Il lavoro contro gli spacciatori di droga, contro comunque la droga che uccide, la droga come metodo. Poi allora, in quel perio­do lì, erano i fascisti [...] che spacciavano l’eroina nel quartiere [...]. Il mio impegno più grosso è stato fatto su alcuni problemi fondamentali nel quartiere [...]: le strutture all'interno del quartiere e il lavoro concepito anche come problema di lavoro nero, problema di lavoro precario e via dicendo. [...] Erano queste tre tematiche, dicevo: il lavoro e quindi il lavoro precario e il lavoro nero, il pro­blema delle strutture, e quindi tutto il problema legato allo Iacp, le case non-case, il riscaldamento, se c’era, [...] le canaline perché magari erano rotte [...] tematiche giovanili e poi il [...] problema grosso della droga54.

Intorno alla Falcherà, come in tutte le altre periferie di Torino e non solo, questo mercato dell’indotto, queste piccole fabbricbette che lavorano senza controllo sindacale, senza misure di sicurezza. E noi in questo qua intervenimmo [...]. Un discorso abbastanza ri- vendicazionista che però allora era un discorso abbastanza impor­tante nel quartiere55.

C ’è stato come momento aggregante nel quartiere un discorso sull’occupazione di un vecchio edificio [...]. Si cercava soprattutto di aggregare su questa iniziativa qui il più possibile il discorso che proprio alla gente, ai lavoratori che abitavano qui, intorno all’ipo­tesi di costruire, all’interno di questo edificio, dei servizi sociali56.

51 Storia di vita n. 12, p. 24.54 Storia di vita n. 8, pp. 21-23 (passim).55 Storia di vita n. 8, p. 25.5,1 Storia di vita n. 19, p. 35.

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Accanto alle rivendicazioni più tradizionali, si erano co­minciate a sviluppare anche delle mobilitazioni su tematiche nuove, introdotte per la prima volta nel settore dei movi­menti sociali dal femminismo. Era stata avanzata allora una critica di molti aspetti della cultura politica del «sessantot­to», in particolare della separazione tra «sfera pubblica» e «sfera privata» e della «priorità del conflitto economico» su tutti gli altri. La diffusione di quelli che sono stati definiti come valori post-industriali aveva portato anche l ’emergere di una controcultura giovanile, sviluppatasi in altri paesi in­dustrializzati già nel decennio precedente. Q uesta si era espressa sia in una maggiore attenzione a nuove forme musicali57, che in qualche esperienza di vita in «comune» come espressione di rifiuto del tradizionale sistema di va­lori:

La comune dove stavo [...] il problema era proprio su questa vi­ta in comune, appunto, sul cercare di costruire un modo di vivere organizzato, comune58.

Le novità rispetto agli anni sessanta si esprimevano an­che in forme più politiche: dal primo emergere delle temati­che ecologiste nell’estate del 1977, con il campeggio estivo contro la costruzione della centrale nucleare a M ontalto di Castro, alla critica di molti aspetti della cultura dei gruppi dell’estrema sinistra. Significativo delle innovazioni intro­dotte nello «stile» di militanza è la seguente testimonianza tratta da una intervista:

Il ’77 è stato, da alcuni punti di vista per me personalmente una cosa piacevole [...] perché uno poteva ammettere per la prima volta di dire, fare, pensare delle cose da anni, di cui prima non si par­lava. Io avevo letto una volta in un libro [...] «finalmente col ’77 abbiamo potuto parlare di fantascienza e scoprire che tutti la leg­gevamo. Ho potuto ammettere di andare allo stadio»59.

57 Un esempio a M ilano erano le feste di «R e N udo», con le loro de­cine di migliaia di spettatori. M a il fenomeno è anche testim oniato dalle numerose campagne di «autoriduzione» del prezzo del biglietto degli spettacoli, organizzate in occasione dei concerti rock.

58 Storia di vita n. 23, p. 20.59 Storia di vita n. 25, p. 60.

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Le richieste presentate nel corso della protesta erano dunque varie e, in una certa misura, qualitativamente diver­se rispetto a quelle, prevalentemente orientate sulla scuola e la fabbrica, presenti nel ciclo precedente. Non mi sembra, però, si possa sostenere che queste proteste assumevano for­me violente perché erano espressione di interessi non nego^ ziabili. Al contrario, l’eterogeneo insieme di domande pre­senti nel movimento giovanile avrebbero potuto essere inte­grate attraverso i normali canali di mediazione istituzionale del conflitto. Negli anni ottanta, infatti, alcuni governi lo­cali inizieranno a rispondere alle richieste presentate, sep­pure in modo confuso, nelle effervescenze del 1977. Si può dire, invece, che questo movimento era in parte esterno all’«universo del discorso politico tradizionale»60 — cioè alla tradizionale definizione di ciò che va considerato politi­co, dalle forme della politica alle funzioni cui essa deve as­solvere. Le nuove domande hanno incontrato quindi note­voli difficoltà a trovare dei portavoce in grado di coglierle e di rappresentarle nel sistema politico.

La spiegazione dei livelli di violenza va comunque cerca­ta principalmente nell’assenza di una rottura, dal punto di vista dei repertori e — come si vedrà nel prossimo capitolo— delle organizzazioni, rispetto al precedente ciclo. Se in­novazioni cominciavano ad esservi nella cultura politica, si deve tuttavia sottolineare che esse erano ancora limitate. Prevaleva, invece, una continuità con il periodo precedente, legata anche alla sopravvivenza di reti aggregative formatesi alla fine degli anni sessanta. Il «riflusso» nel privato, che aveva significato l ’abbandono della politica attiva da parte di molti ex-militanti, non aveva portato ad una completa di­sgregazione. Le reti di amicizia si erano infatti mantenute, seppure all’interno di gruppi le cui attività non erano più di­rettamente politiche. Ad un livello più politico, negli avve­nimenti del «settantasette» erano confluite tutta una serie di esperienze organizzative emerse nel corso della prima me­tà degli anni settanta — i circoli del proletariato giovanile,

60 Per la categoria «universo del discorso politico», si veda Janson [1982, 2\.

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i consultori nati dal movimento femminista, le ronde contro gli spacciatori di eroina, i comitati per l’autoriduzione delle tariffe elettriche o del prezzo del biglietto del cinema, le ra­dio libere nate dai collettivi di sinistra — insieme ai vari gruppi della sinistra sindacale o della così detta «autono­mia». Approfondiremo nel prossimo capitolo l’analisi dell’e­voluzione di queste organizzazioni. Si può però anticipare che un certo livello di continuità tra «sessantotto» e «settan- tasette» è stato determinato dalla presenza in quest’ultimo di un nucleo consistente di militanti che si erano formati nel ciclo di protesta precedente, dalle interazioni tra i «reduci» degli anni sessanta e i giovanissimi che si socializzavano alla politica alla metà del decennio successivo. La rilevanza del­l’intreccio tra sopravvivenze del ciclo passato e nuove forme di protesta è confermata dalle testimonianze dell’interno delle organizzazioni clandestine.

Non ci sarebbe stato uno sviluppo significativo della lotta armata se non si fosse incrociato con questa emergenza di un soggetto giovane del ’77. Penso che intanto si consumava una fase residuale cioè de­stinata ad un’usura politica, ad un consumarsi nell’estraneità dai momenti concreti di riproducibilità, cioè voglio dire che la cosa sarebbe finita con la caduta definitiva di peso politico del perso­nale che noi rappresentavamo61.

Noi nasciamo dall'incontro fortuito fra noialtri generazione di ar­rabbiatissimi diciassette-diciotto-diciannovenni e i sopravvissuti della generazione politica precedente, che avevano fatto tutti i percorsi politici delle forme della sinistra extra-parlamentare, che erano un’altra generazione che è approdata in termini, se vuoi, più ra­gionati alla lotta armata62.

Questo tipo di continuità impediva che la cultura politi­ca della sinistra subisse quei cambiamenti radicali che si era­no avuti in altri paesi europei, e per i quali, in Italia, si do­vrà attendere fino agli anni ottanta, dopo il superamento del trauma del terrorismo.

L 'escalation violenta del movimento è stata favorita an­

61 Storia di vita n. 28, p. 29.62 Storia di vita n. 12, pp. 48-49.

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che da un altro tipo di continuità. Se la fase delle mobilita­zioni di massa si era, infatti, esaurita prima della metà degli anni settanta, erano però continuate le attività dei piccoli gruppi, diffondendo tra i militanti rimasti l’impressione di un movimento ancora in espansione. Le nostre interviste in­dicano, ad esempio, che i segni del «riflusso», alla metà degli anni settanta, non erano affatto percepiti da molti attivisti:

Fino al '76 direi che il movimento era ancora in ascesa, lo si vede­va da come si riempiva la piazza il sabato, dalle discussioni, dagli incontri politici, dal fatto che su qualsiasi episodio, c’era una gros­sissima mobilitazione, dal fatto che ancora nelle situazioni in cui ci si trovava c’era la percezione di un consenso di fondo [...]. Fino al ’76, c’era questo senso glorioso dell’andare avanti'’*.

C'è un clima di festa in quegli anni di offensiva a li interno delle fabbriche, guadagnarsi gli spazi di fare i pic-nic o mangiare insieme0 rimanere oltre l’orario di lavoro con quelli di un altro turno per festeggiare delle cose. Era un happening... era un sabato «cosa fac­ciamo? occupiamo per un week-end un palazzo della curia, ci faccia­mo un esproprio al supermercato» quindi, non so, qualche spinello, clima un po’ orgiastico; questo è un fatto di fine ’76 forse inizio ’77, caratteristico, non so, ci si ritrova al venerdì sera in un bar del ticinese e invece di dire andiamo a ballare quel giorno decido­no, appunto dal bar, che domani si occuperà una casa, si farà un esproprio in un supermercato'’4.

Il fatto significativo è che io vivevo quell’epoca come quella che mi dimostrava che una serie di cose si potevano fare perché gli spacciatori alla Falcherà non c'erano, perché comunque nelle piazze c 'era tanta gente, un sacco di gente cercava di chiudere veramente col fuoco le sedi dei fascisti, perché durante l’occupazione delle piccole fabbriche sul lavoro nero ci andava un sacco di gente [•••] perché su politiche come può essere il discorso sul carovita nel quartiere c’era tutta una serie di iniziative fatte sugli affitti, sul riscalda­mento, nel territorio poi, in generale venivano fatti i discorsi sui mezzi pubblici [...] oppure il controllo dei prezzi [...1 esistevano1 cosiddetti espropri proletari

Storia di vita n. 23, p. 24 M Storia di vita n. 3, p. 63. ',5 Storia di vita n. 8, p. 31.

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Gli «espropri proletari» — o rapine di massa nei super- mercati — di cui si parla in questi ultimi due brani erano solo una delle forme di azione violenta che si erano svilup­pate alla metà degli anni settanta. Il mantenimento di questi livelli, seppure bassi, di mobilitazione aveva prodotto, in­fatti, una radicalizzazione nei repertori utilizzati. Negli scontri di piazza, ad esempio, l’«armamento» dei militanti era andato dalle pietre alle chiavi inglesi, dalle chiavi inglesi alle bottiglie incendiarie, dalle bottiglie incendiarie alle ar­mi da fuoco. Ciò aveva interagito con una sempre maggiore brutalità anche nell’intervento della polizia e con esiti sem­pre più sanguinosi degli scontri con gli estremisti di de­stra“ . Si era avuta inoltre la radicalizzazione di alcune for­me d ’azione: dall’autoriduzione delle bollette di alcuni ser­vizi alle rapine in massa, di cui si è detto; dalle occupazioni di edifici pubblici alle irruzioni a mano arm ata67. Molti episodi di violenza politica di quegli anni sono vividamente presenti nei racconti degli ex-militanti delle organizzazioni clandestine, che ricordano anche il ruolo giocato dai gruppi organizzati in questo tipo di evoluzione:

Noi eravamo un settore del movimento che faceva delle cose incredibili, cioè andavamo armati in piazza durante un qualunque corteo, durante una qualunque scadenza di movimento noi erava­mo armati con delle pistole e in alcune situazioni anche con armi lunghe [...]. L ’esaltazione che induce questa cosa in noi stessi era una cosa su cui noi non riflettevamo68.

Gli espropri nei supermercati che noi organizziamo con puntiglio assolutamente militare ma che hanno l’apparenza di gesti sponta­

66 II 1975, ad esem pio, era stato ancora un anno con numerose v itti­me nel corso di m anifestazioni di massa. Solo tra il 10 e il 19 aprile, quat­tro persone erano morte nel corso di scontri con la polizia o agguati dei neo-fascisti: C laudio Varalli e G iannino Zibecchi, entram bi m ilitanti del m ovim ento studentesco a M ilano; Tonino Micciché di Le a Torino; R o­dolfo Boschi, iscritto al Pei, a Firenze [cfr. Monicelli 1978, 118). Le già citate violenze del 1977 erano continuate l’anno successivo, culm inando negli assassinii di due giovani missini a Roma e di due giovani militanti della sinistra a Milano.

h7 C fr. Monicelli [1978]; C alvi [1982]; e Stajano [1982],68 Storia di vita n. 28, p. 54.

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nei. E che però hanno facile successo specialmente nei quartieri popolari per cui chiaramente blocchi il supermercato «oggi non si paga» e c’è gente tutta contenta che esce senza pagare69.

Dal punto di vista del controllo dell’ordine pubblico, la risposta istituzionale non era stata tale da interrompere la spirale di radicalizzazione. Mentre l ’utilizzazione della for­za fisica anche fra le diverse frazioni all’interno del movi­mento portava alla crisi della mobilitazione™, la chiusura da parte delle autorità giudiziarie di alcuni circoli giovanili e delle principali radio «di movimento», alla fine del 197771, aveva diffuso fra i militanti la convinzione di una inversione autoritaria, definita allora come «germanizzazio­ne». Successivamente, l’avviarsi di numerose inchieste giu­diziarie — come quella detta «del 7 aprile 1979»72 — avrebbe accentuato fra i pochi ancora attivi la convinzione che non vi fossero più sufficienti spazi legali di espressione politica. Il clima degli anni immediatamente successivi al 1977 viene infatti così descritto nelle nostre interviste:

Ho cominciato a credere meno al fatto che fosse possibile ri­manere aderenti a dei problemi specifici della gente [...]. Già nel ’78, ’79, guardandomi attorno in realtà mi rendevo conto che c’e­ra una situazione di disgregazione, di degenerazione di quelli che era­no anche gli ambiti di vita della provincia, della periferia, e quindiil senso di sfiducia non era più rivolto soltanto rispetto alle forme, agli strumenti di intervento politico, ma anche alla possibilità rea­le di cambiare una cosa per volta, piccole cose piano piano7’.

69 Storia di vita n. 12, p. 26.70 Episodi di violenza all’ interno del m ovimento si erano avuti già

fin dalle prime assem blee, in febbraio e marzo a Roma, così come al con­vegno nazionale del movimento, in aprile a Bologna. Scontri fisici si era­no avuti anche nel grande incontro di settem bre a Bologna, ultimo even­to pubblico del «m ovim ento del ’ 77».

71 Si veda ad esem pio la chiusura del «C anga^eiros» a Torino e del «C ollettivo di Via dei V olsci» a Rom a e di «R ad io città futura», «R adio onda rossa», «R adio Alice».

72 Com e è noto, il 7 aprile 1979, vennero arrestati numerosi d iri­genti di collettivi e riviste dei gruppi «autonom i». D opo parecchi anni, essi verranno scagionati dalla maggior parte delle accuse. Sulle vicende di quel processo, si rinvia a Bocca [1980]; C om itato 7 aprile e collegio di difesa [1979]; Scarpari [1979],

7! Storia di vita n. 14, p. 35.

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Dai gruppi spontanei partono delle schegge, che sono uomini e donne che non hanno trovato nessuna soluzione alle proprie tensioni e ne vanno a cercare altre, non si sentono coinvolgibili in niente, anche perché non esistono più momenti di coinvolgimento reale perché sta finendo tutto, siamo nel 1980, siamo nel ’79-’80, c’è la fine di tutto e l’inizio di qualcos’altro, qualcuno esalta la geo­metrica potenza queste cose qua che in un primo momento posso­no apparire anche legittime reazioni a un sistema di merda7'1.

Non sei più nel movimento «belli, tutti belli; siamo rossi, siamo belli, bandiere rosse a l vento, pigliamoci la piazza», etc., non c’è più questo, c’è il contropotere, c’è il rapporto conflittuale assoluto con tutto e con tutti, c’è un clima settario [...]. E passi a l momento «siamo pochi, ma incazzati»1' .

Se la protesta del «settantasette» aveva avuto, come si è detto, caratteristiche tali da renderla poco compatibile con gli altri attori tradizionali, anche altre contemporanee vicende avrebbero portato al suo isolamento da potenziali alleati. G ià alla fine della prima metà del decennio era cam­biato l ’atteggiamento di alcuni attori istituzionali rispetto alla protesta. Se nel ciclo precedente sia il Pei che i sindacati erano stati dei canali di intermediazione delle domande emergenti, la crisi del petrolio e la politica di austerity aveva­no costretto — a partire dal 1974 — il sindacato in posizio­ne difensiva, producendo delusioni tra i militanti più attivi. La strategia delle riforme, adottata nel tentativo di riguada­gnare l’iniziativa perduta nelle singole fabbriche aveva av­viato, contemporaneamente, un processo di riaccentramen­to nella gestione dell’azione sindacale76. Era stato, inoltre, proprio tra la fine del 1973 e l’ inizio del 1974 che la politica di unità delle sinistre propugnata dal Pei contro i governi di centro-destra, era stata sostituita dalla proposta dell’unità delle forze popolari cattoliche e socialiste.

In seguito, la vittoria laica al referendum sul divorzio e l’avanzata comunista alle elezioni amministrative del 1975, confermata poi alle politiche dell’anno successivo — pro­

74 Storia di vita n. 9 , p. 31.75 Storia di vita n. 9, p. 40.

C fr. Regini [1981, 48-50].

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dotti secondo molti del ciclo di lotte precedente — avevano avuto un effetto paradossalmente disgregante sulle organiz­zazioni superstiti del movimento. Dopo la vittoria elettorale del 1976, l ’azione del Pei era stata condizionata dal deside­rio di mostrarsi forza politica responsabile, capace di assu­mere funzioni di governo a livello nazionale. Apertosi con l ’accordo parlamentare tra De e Pei del luglio del 1977, che aveva portato al «governo delle astensioni» di Andreotti, il periodo era proseguito, infatti, con la fiducia dei comunisti al nuovo governo Andreotti, nel marzo del 1978.

Mentre il Pei aveva rinunciato così ad assumere una fun­zione di referente di interessi collettivi emergenti, senza che per questo la sua politica di inserimento istituzionale riu­scisse ad ottenere i risultati sperati, altri elementi contribui­vano a ridurre i canali istituzionali di mediazione della pro­testa. Con le elezioni del 1976 era svanita la speranza del crollo democristiano e del «sorpasso». I gruppi della Nuova sinistra vivevano nel contempo il fallimento della scelta parlamentare77, esaurendo nel tentativo di divenire forze politiche nazionali le loro capacità di intervento in settori specifici. Quando era scoppiata la nuova ondata di protesta, nessun attore politico istituzionale era stato in grado di me­diare le domande emergenti.

L ’assenza di canali istituzionali di accesso al mercato delle decisioni interagiva, quindi, con una contemporanea scarsa attenzione alla integrazione delle nuove domande. Si è detto che nel corso del ciclo precedente, soprattutto per quanto riguarda le rivendicazioni operaie, la risposta alle domande emergenti era stata più tempestiva in termini di policies78. Se l ’evoluzione positiva del confronto fra siste­

77 Basti ricordare che dei due milioni di voti che la N uova sinistra sperava di raccogliere, ne erano stati ottenuti solo un quarto.

78 N el confronto con altri paesi industrializzati che non hanno spe­rim entato un terrorism o interno, è stato sottolineato che la debolezza storica della borghesia italiana e l ’eccezionale lunghezza del ciclo di pro­testa hanno reso il sistem a politico più permeabile alla protesta. Analisi com parate delle reazioni del sistem a politico italiano e di quello francese ai movimenti collettivi della fine degli anni sessanta, si trovano in G ig lio­bianco e Salvati [1980]; e Tarrow [1984].

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ma politico e attori collettivi era stata subito bloccata dalla crisi economica, alcune delle organizzazioni nate nel corso della protesta erano state però integrate nel processo di ne­goziazione. Durante il secondo ciclo di mobilitazione, il si­stema politico aveva reagito invece in modo negativo sia alle domande specifiche che alle richieste di riconoscimento isti­tuzionale degli interessi emergenti. E stato così osservato che, se nella fase precedente l ’identità del movimento aveva trovato riconoscimento istituzionale, nel secondo ciclo di protesta lo scontro tra forze istituzionali e movimenti emer­genti si era fermato prima della soglia del riconoscimento. Ricacciato in condizioni pre-politiche, il movimento si era auto-distrutto, cedendo al primato della violenza79.

Durante il primo ciclo di protesta, la degenerazione vio­lenta di alcune frange del movimento era avvenuta nella fa­se declinante, contemporaneamente all’istituzionalizzazio­ne di altre organizzazioni attive nella protesta. Nella secon­da ondata di mobilitazione, la radicalizzazione dei repertori è avvenuta invece immediatamente, facilitata dall’assenza di alleanze con attori istituzionali disponibili a fornire cana­li di accesso al sistema, e ha portato ad una rapida dissolu­zione del movimento stesso80.

In questa seconda fase di mobilitazione la radicalizza­zione delle forme d ’azione e delle ideologie è stata infine aiutata da una \ilteriore condizione: la pre-esistenza di grup­pi violenti e clandestini. «Sono le Brigate rosse — ha scritto Pasquino — che creano 1’“ offerta di terrorismo” e ne ga­

79 C fr. M anconi [1983],80 Alcune osservazioni com parate possono conferm are che il terrori­

smo ha trovato migliori condizioni per emergere dove le istituzioni politi­che sono state incapaci di rispondere tem pestivam ente alle dom ande emergenti. Negli Stati U niti, nella Repubblica federale tedesca e in G iap ­pone, ad esem pio, la reazione del sistem a politico ai movimenti di prote­sta degli anni sessanta non sem brano essere state rivolte all’assorbim ento delle dom ande emergenti. N ella R ft la negazione degli spazi d ’azione le­gale [Fetscher 1983], in G iappone la tradizionale assenza di dinam icità nel processo di circolazione delle élites, [Kawahara 1983], negli U sa la ca­pacità di pressione dei gruppi di interesse contrari alle innovazioni [G urr 1983] sono tutti fattori che avrebbero im pedito o ritardato la ricezione delle istanze nuove, portando così ad una radicalizzazione delle forme d ’azione.

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rantiscono il proseguimento, suggeriscono con la loro pre­senza e le loro azioni [...] la plausibilità, le potenzialità, o in qualche modo l ’alternativa esperibile della lotta arma­ta »81. M a accanto ai gruppi clandestini organizzati, nella diffusione della violenza hanno anche avuto ùn ruolo rile­vante alcune organizzazioni, in un primo tempo non clande­stine, nate nel corso della prima metà degli anni settanta. Utilizzando le parole di un osservatore interno alla storia del movimento del «settantasette»:

È stato quindi l’uso strumentale del movimento da parte di una spregiudicata «avanguardia» organizzata e la competizione ac­centuata con lo stato sull’«innalzamento dei livelli di scontro» a rinsecchire e poi a ridurre quasi a zero lo spazio di iniziativa del movimento [...]. A rendere decisivo ogni errore e ogni accentua­zione «militarista» vi è stata l’azione esterna dei gruppi armati e delle Brigate rosse in primo luogo82.

D i questi processi evolutivi all’interno di alcune orga­nizzazioni ci si occuperà nel capitolo successivo.

Concludendo per il momento, tre elementi vanno, dun­que, valutati per spiegare la crescita delle organizzazioni terroriste alla fine degli anni settanta. Il primo è l’emergere tumultuoso di una nuova fase di protesta, dotata di un «sen­so» e una morfologia differenti rispetto a quelli della fine degli anni sessanta, mentre ancora non si erano riassorbite le frange violente residuate dal ciclo di protesta precedente. Il secondo è l ’assenza di canali di accesso al sistema politico per questo specifico tipo di movimento, cioè di organizza­zioni istituzionali disposte a farsi portatrici delle domande emergenti. Il terzo è l’esistenza di organizzazioni già attrez­zate per l’utilizzazione di pratiche violente, cioè la presenza nel sistema politico di una offerta di terrorismo. Come si ve­drà nel prossimo capitolo, è l ’interazione di questi elementi che ha creato le condizioni per il sorgere di nuove organiz­zazioni armate, proprio in un momento in cui il fenomeno sembrava destinato, cosi come era avvenuto in altri paesi, ad un lento declino.

81 C fr. Pasquino [1984, 217],82 Bernocchi e altri [1979, 41],

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CAPITOLO TERZO

P R O C E SSI O R G A N IZ Z A T IV I E SC E L T A D E L L A C L A N D E ST IN IT À

1. Le organizzazioni clandestine in Italia

Si è osservato nel capitolo precedente che la storia del terrorismo di sinistra in Italia è stata collegata a fasi di acuto conflitto sociale e politico. La presenza nella società di inte­ressi emergenti non istituzionalmente incanalati e la d iffu­sione di ideologie e strategie violente nel settore dei movi­menti sociali possono, dunque, essere considerati come fat­tori facilitanti per l ’emergere del terrorismo. Queste pre­condizioni vanno considerate come risorse disponibili per quelle organizzazioni che decidono di entrare in clandestini­tà. Perché ci sia terrorismo è, infatti, necessario che un atto­re collettivo decida di utilizzare queste risorse per fare fron­te alla competizione fra i diversi gruppi mobilitati all’inter­no di uno stesso ciclo di protesta. In questo capitolo si guar­derà dunque alle dinamiche organizzative che hanno porta­to alla fondazione delle formazioni clandestine.

Si può iniziare con l’osservare che il loro numero è stato, in Italia, molto alto. G li eventi terroristici analizzati sono stati rivendicati con 125 sigle differenti, ciascuna di esse re­sponsabile per una media di sette episodi. Si deve tuttavia aggiungere subito che ad ogni sigla non corrisponde una or­ganizzazione. Molti fra i gruppi armati hanno infatti utiliz­zato più di una sigla; in taluni casi per dare l ’impressione di un forte radicamento, in altri, quella della diffusione della lotta arm ata1, o ancora, nel caso dei gruppi minori per

1 Le Br hanno, ad esem pio, m irato a dim ostrare la loro forza orga­nizzativa utilizzando — secondo i nostri dati — 24 sigle: in 16 denom ina­zioni la sigla Br com pariva accom pagnata dalla specificazione regionale della «colonna» (Colonna rom ana, Colonna W alter A lasia etc.) o funzio­nale della «brigata» (Brigata ferrovieri, Brigata universitari). PI ha adot-

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T a b . 1. Numero di anni di attività, numero di azioni compiute e numero di provin­ce di operatività delle principali organizzazioni clandestine di sinistra

Denominazione dell’organizzazioneN.

anniN.

eventiN.

province

Brigate rosse 14 645 40Prima linea 6 258 19Unità comuniste combattenti 5 27 8Nuclei armati proletari 4 32 9Reparti comunisti d ’attacco 4 27 7Formazione comuniste combattenti 3 41 10Comitati organizzati per la liberazione proletaria 2 16 7Movimento comunista rivoluzionario 2 12 3Proletari armati per il comuniSmo 2 11 5Nuclei 2 11 3Guerriglia rossa 2 11 3Formazioni armate comuniste 2 6 3Per il comuniSmo 2 4 3Gruppo «Minervino» 1 6Gruppo «Rotaris» 1 6 1Guerriglia comunista 1 4 1Brigata Lo Muscio 1 3 1Nuclei d ’azione comunista territoriali 1 2Brigata 28 marzo 1 2 1Gruppo «O xa» 1 1Gruppi armati proletariM ovim enti proletari di resistenza offensiva

1 1 11 1 1

Azione rivoluzionaria 1 1 1

Fonte: Elaborazioni dei miei dati, tratti dagli atti giudiziari.

sviare le indagini giudiziarie. Le formazioni armate sono 23 nella nostra rilevazione che, probabilmente, non copre tutto l’universo di quelle esistenti. Il numero resta, quindi, abba­stanza elevato, ma un’analisi più dettagliata evidenzia con­sistenti differenze di strutturazione e minacciosità, fra que­sti stessi gruppi. Durata nel tempo, livello di attività e pre­senza geografica delle organizzazioni sono, infatti, molto di­versi per Br e PI, da un lato, e gli altri gruppi, dall’altro, co­me si può osservare alla tabella 1.

tato 30 sigle; ma il fatto che la denom inazione dell’organizzazione fosse riconoscibile solo in 8 casi suggerisce che l’obiettivo era quello di dim o­strare la diffusione della «lotta arm ata» nel movimento.

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Solo le Br sono presenti in tutto il periodo. Le rivendi­cazioni di PI sono diffuse lungo l ’arco di 6 anni, che diven­gono 8 se si considerano anche gli anni in cui essa si è tra­sformata in Com itati organizzati per la liberazione proleta­ria (Colp). La sigla Ucc compare per 5 anni, ma in tre di essi per solo un episodio. Per 4 anni consecutivi si trova la sigla Rea e N ap, per 3 quella delle Fcc, per 2 Fac, Nuclei, Mcr, Pac, Pie e Gr. Non più di pochi mesi sopravvivono le altre.

Se si escludono i due gruppi maggiori — responsabili di 645 azioni nel caso delle Br e di 258 nel caso di PI — le altre organizzazioni hanno firmato, inoltre, un numero ridotto di attentati. Le Fcc, responsabili del numero più alto di azioni dopo Br e PI, non arrivano a 50 episodi; solo altre tre orga­nizzazioni — Rea, Ucc, N ap — superano i 25. Tra le rima­nenti, più di 10 episodi sono stati rilevati solo per Mcr, N u­clei, Pac, Colp e Gr.

Si può aggiungere, infine, che la maggior parte dei grup­pi ha avuto un raggio d ’azione limitato. U n’eccezione è co­stituita dalle Br, che sono state attive in almeno 16 regioni e hanno siglato episodi in 40 province, mostrando una note­vole capacità di diffusione almeno nelle maggiori città del Nord e del Centro. Anche PI è stata attiva in un numero ele­vato — 19 — di province, ma in modo più consistente solo a Torino, Milano e Firenze. Delle altre organizzazioni, sono state presenti in più di tre province solo Fcc (in 10), Nap (in 9), Pac (in 5), Colp e Rea (in 7), Ucc (in 8).

Si può concludere che le organizzazioni del terrorismo rosso risultate di gran lunga più pericolose sono Br e Pi.

Una certa consistenza hanno avuto anche i Nap, le Fcc, le Ucc e i Rea. La maggior parte degli altri gruppi, seppure talvolta capaci anche di uccidere, hanno avuto però una ca­pacità organizzativa molto limitata che si è espressa in

» un’attività estremamente sporadica.Per spiegare l’emergere di queste organizzazioni occor­

rerebbe ripercorrere la storia della loro fondazione. Parten­do dai dati raccolti dagli atti giudiziari, possiamo innanzi tutto osservare che le organizzazioni clandestine hanno avu­to in genere origine da fratture in gruppi legali, come è evi­denziato nella figura 1.

Possiamo distinguere le organizzazioni clandestine in

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1980

1981

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Fig. 1. Anno di nascita e origini politiche delle organizzazioni clandestine di sinistra.

Legenda:-■ derivazione per scissione da

--------------- confluenza in— — — r = trasformazione in -f- = cessa di esistereAAA = in maiuscolo vengono riportate le sigle delle organizzazioni clandestine aaa = in minuscolo vengono riportate le sigle delle organizzazioni legali «aaa» = tra virgolette vengono riportati i titoli delle riviste

Fonte: Elaborazione delle mie informazioni, tratte dagli atti giudiziari.

due raggruppamenti. Il primo è composto da quelle che han­no origine da fratture all’interno di gruppi legali, il secondo da quelle che hanno origine da fratture all’interno di gruppi illegali. Del primo fanno parte, ad esempio, le Br, nate dal Collettivo politico metropolitano (Cpm); i Nap, originatisi

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da una frattura in Le; le Fac a Roma e a Torino, PI a Milano, Torino e Firenze, e le Ucc a Roma, staccatesi dai Comitati comunisti per il potere operaio; le Fcc e i Pac, formati da nuclei vicini alla rivista «Rosso». Le divisioni all’interno di altre formazioni clandestine hanno creato gli altri gruppi ar­mati che analizzeremo nel corso della ricerca: dalla Fcc si so­no staccati gli Rea nella primavera del 1978 e Guerriglia rossa all’inizio del 1979; dagli Rea, la Brigata Lo Muscio nel 1980; da PI, Per il comuniSmo nel 1979 e i Nuclei nel 1981; da Br e Fac, l’Mcr nel 1979.

In questo capitolo, l ’attenzione si concentrerà sul primo raggruppamento, cercando di trovare delle risposte a do­mande spesso poste nel dibattito scientifico così come nella polemica politica. Quali erano le caratteristiche delle orga­nizzazioni legali dalle quali le formazioni clandestine hanno tratto le loro risorse iniziali? Quali le caratteristiche dei gruppi che, attivi all’interno di un ciclo di protesta, hanno deciso di entrare in clandestinità ? U n’ipotesi che alla fine degli anni settanta era sostenuta sia nel dibattito politico che nelle aule giudiziarie è quella dell’esistenza di una conti­nuità organizzativa tra alcune formazioni legali e i gruppi terroristi, definiti come articolazioni di un unico progetto eversivo2. La ragione e, al contempo, la dimostrazione di questi rapporti organici veniva indicata nell’ideologia con­divisa dai diversi gruppi.

L ’ipotesi che verrà argomentata nel corso di questo capi­tolo è, invece, che la scelta della clandestinità da parte di al­cuni gruppi sia stata legata alla concorrenza esistente all’in­terno di un settore dei movimenti sociali particolarmente «denso» in termini di numero di organizzazioni. Nel corso dell’evoluzione della protesta i diversi gruppi sono entrati in competizione fra loro per la conquista di risorse — militanti e riconoscimento — sempre più scarse. Questo processo ha prodotto fenomeni di specializzazione o differenziazione delle funzioni fra i vari gruppi, che hanno portato a conti­nue fratture e riaggregazioni, rapida nascita e scomparsa

2 Q uesta interpretazione è stata sostenuta nel d ibattito scientifico in Ventura [1980; 1984]; e G alan te [1981]. In sede giudiziaria, invece, in Tribunale di Padova, Requisitoria del PM in PP 139179.

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delle più diverse formazioni, nel tentativo di adattarsi alle mutevoli fasi della mobilitazione.

L ’evoluzione di questi gruppi è stata diversa, a seconda delle specifiche risorse per essi disponibili. Alcune delle or­ganizzazioni pre-esistenti alla protesta, e che erano sembra­te assolvere ad un ruolo piuttosto marginale nelle prime fasi del movimento, sono uscite rafforzate alla fine del primo ci­clo della protesta. Altre organizzazioni, nate nel corso della protesta, hanno attraversato un processo di istituzionalizza­zione, divenendo presenze stabili nel sistema parlamentare. Altre ancora sono scomparse, sciogliendosi o confluendo in gruppi maggiori, oppure sono divenute piccole sette politi­che, prive di una qualsiasi funzione se non quella di integra­zione dei loro militanti. Altre hanno percorso invece la stra­da della lotta armata.

Nel corso di questo capitolo, osserveremo l’evoluzione dei gruppi che hanno scelto la clandestinità a partire dalle loro origini all’interno di organizzazioni legali, attraverso una ricostruzione basata sia sugli atti giudiziari che sulle te­stimonianze di alcuni fra i loro militanti. Come si rileva an­cora dallo schema presentato, si possono distinguere due di­versi gruppi di organizzazioni, a seconda del periodo di fon­dazione. Un gruppo comprende principalmente le Br, fon­date all’inizio del decennio in una fase ancora alta della mo­bilitazione e in un ambiente caratterizzato da un grado piut­tosto basso di accettazione della violenza. Dell’altro gruppo fanno parte le molte organizzazioni emerse nella seconda metà degli anni settanta, in un ambiente caratterizzato in­vece da livelli molto più alti di pratica della violenza. Ana­lizzeremo nel corso dei due prossimi paragrafi le origini del­le tre maggiori organizzazioni clandestine: le Br, nate all’i­nizio degli anni settanta; PI e Fcc, nate invece nella seconda metà del decennio. Ciò permetterà di osservare l’influenza delle diverse condizioni ambientali sul loro processo di fon­dazione.

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2. La fondazione delle prime organizzazioni clandestine: le Br

Le origini delle Br sono legate all’evoluzione di due pic­coli gruppi politici, simili ai tanti proliferati tra il 1967 e il 1968. N ati in genere come momento di coordinamento di lotte specifiche, alcuni di essi si erano poi dotati di strutture più stabili, estendendo in taluni casi la loro influenza in am­bito regionale. Le risorse organizzative iniziali venivano spesso tratte da gruppi politici operanti nell’area cattolica o comunista, dai quali successivamente alcuni nuclei si stacca­vano, facendo riferimento alla sinistra più radicale. Tipica è, da molti punti di vista, la storia dei due gruppi da cui pro­venivano i fondatori delle Br: l’Università negativa di Tren­to e il Collettivo politico operai-studenti di Reggio Emilia.

Le origini trentine di alcuni fra i primi membri della principale organizzazione clandestina sono state variamente descritte in numerosi saggi giornalistici. In uno di essi, ad esempio, si legge: «La storia delle Brigate comincia sui ban­chi dell’università. A Trento dove, nel 1962, viene creato un Istituto Superiore di Scienze Sociali (Isss), presto tra­sformato in libera università»5. Ciò è vero per quel che ri­guarda almeno due dei fondatori dell’organizzazione: Rena­to Curcio e Margherita Cagol. Entram bi avevano infatti partecipato all’esperienza del gruppo Università alternativa, sorto nel 1967 a Trento nel corso della mobilitazione nella locale università, soprattutto in quella che era stata la prima facoltà di sociologia nel paese. Il gruppo era molto simile ai tanti emersi, nello stesso anno, in molte università italiane. Le sue attività andavano dalle mobilitazioni contro un pro­getto ministeriale di trasformazione della facoltà di sociolo­gia in facoltà di scienze politiche, alle più astratte elabora­zioni sull’ «uso capitalistico della scienza» e la «trasmissione dell’ideologia di classe». Neanche le forme di azione utiliz­zate si differenziavano da quelle diffuse in Italia e in Euro­pa in quegli anni — dalle occupazioni degli edifici universi­tari all’organizzazione di corsi alternativi — con in più, a Trento, qualche episodio di contestazione religiosa, espres-

’ Tessandori [1977, 28],

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sione delle tensioni esistenti tra la sub-cultura cattolica radi­cata nella zona e gli studenti, immigrati da tutte le regioni del paese.

Anche a Trento, nel corso di quelle proteste, l’ideologia di alcuni gruppi si era gradualmente radicalizzata, mentre la loro influenza si era estesa ad un’area geografica più ampia. Nel 1968, alcuni membri di Università negativa — tra cui i futuri brigatisti — avevano iniziato a collaborare con la ri­vista «Lavoro politico», bollettino del Centro d ’informazio­ne di Verona, di origine cattolica, al quale si erano uniti altri gruppi simili operanti in Trentino, in Alto Adige e nel Ve­neto. La rivista si era rapidamente trasformata da organo del dissenso cattolico a organo marxista leninista, i cui temi principali erano diventati la rivoluzione cinese e la critica del revisionismo. Nel 1969 il giornale aveva cessato le pub­blicazioni, mentre i membri trentini della redazione aveva­no aderito, per un breve periodo, ad un piccolo gruppo «m aoista», il Partito comunista d ’Italia marxista leninista (linea rossa).

Mentre la mobilitazione nell’ateneo trentino scemava, una parte dei militanti del movimento studentesco aveva aderito a Le, ed un’altra — composta da molti di coloro che avevano partecipato a «Lavoro politico» — si era trasferita a Milano, dove erano iniziate le lotte contrattuali nelle gran­di fabbriche. Sarà a Milano che questi militanti partecipe­ranno alla fondazione di un altro piccolo gruppo della sini­stra radicale: il Collettivo politico metropolitano (Cpm). Ad esso parteciperanno membri di alcuni nuclei politici di fab­briche milanesi — dai Comitati unitari di base della Pirelli ai «gruppi di studio» della Sit Siemens e della Ibm — e del­l’altro gruppo da cui proverranno molti fondatori delle Br, il Collettivo politico operai studenti di Reggio Emilia.

La storia del gruppo reggiano è sotto molti aspetti simile a quella del gruppo trentino, anche se influenzata dalle di­verse condizioni ambientali: dall’assenza di una università all’appartenenza alla sub-cultura rossa. Il Collettivo politico operai studenti era stato formato da giovani, in parte stu­denti ma in maggioranza operai, provenienti dai partiti del­la sinistra, e in particolare dal Pei. I percorsi di avvicina­mento alla politica dei suoi membri erano andati dalla tradi­

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zionale militanza nella Fgci a scuola, alla graduale politici/, zazione delle prime ribellioni giovanili, descritta da uno de­gli intervistati:

La musica, i capelli lunghi [...] Già si parlava un po’ di politica, anche di Liverpool e di Amsterdam [...] Mi ricordo la mia presa di coscienza. C ’era Almirante che voleva parlare. Non è mai riu­scito a Reggio. Ci fu una carica. Li hanno massacrati tutti: Galli- nari, Franceschini. Così mi avvicinai a loro. Mollai il baretto e le vecchie amicizie e frequentai Pei e Fgci4.

Il processo di allontanamento dalle organizzazioni co­muniste era stato graduale ed era avvenuto di riflesso rispet­to a quanto accadeva nelle aree centrali del paese. Critican­do il Pei per la sua incapacità di comprendere i cambiamen­ti, nel 1969 una trentina di militanti erano usciti dalla Fgci. Ecco come viene ricordato quel momento nella stessa inter­vista:

Si spacca perché il Pei non capisce la realtà nuova. Allora dicia­mo «o ci date degli spazi o usciamo». Così, noi usciamo e loro re­stano in quattro. Mettiamo su questo appartamento. E una gran­de uscita in massa, soprattutto giovani; qualcuno da Pei e sindaca­to. In fabbrica c’erano forme di autonomia operaia. Noi abbiamo una cultura operaia. Eravamo quasi tutti operai, facevamo riferi­mento ad autonomia operaia, ai Cub, alla parola d ’ordine «costi­tuire il potere operaio già dentro la fabbrica». C ’erano mille per­sone alle manifestazioni, in alternativa al Pei che cercava di farci passare come una banda di provocatori, mentre invece eravamo conosciuti e operai5.

Nel cuore della sub-cultura rossa, la contestazione gio­vanile aveva, dunque, preso le forme del ribellismo culturale e del radicalismo politico. Entrambe si erano incontrate in quello che era stato chiamato «gruppo dell’appartamento». Da una parte, c ’erano le imitazioni delle controculture gio­vanili diffuse in altri paesi. Secondo la descrizione di uno dei fondatori delle Br che ne aveva fatto parte: «In pochi mesi l’appartamento era divenuto la casa dei giovani più

4 Storia di vita n. 7, p. 3.5 Storia di vita n. 7, p. 4.

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strani e sballati di Reggio: provos, beat, capelloni, senzafa- miglia. Diventammo dei “ provocatori” , gente che stava in­sieme con la “ scusa” della politica per poi trasgredire le re­gole della piccola e tranquilla R eggio»6. Dall’altra parte, la contestazione giovanile si esprimeva nell’enfatizzazione dei miti della Resistenza, particolarmente radicati nella zona e rafforzati dai rapporti personali dei giovani militanti con i vecchi partigiani. Il valore affettivo e simbolico di questi rapporti viene sottolineato nella stessa autobiografia in cui viene ricordato il momento in cui un amico partigiano avrebbe donato le armi che conservava dalla fine della guer­ra: «N on fu solo una consegna d ’armi: mi stava affidando i suoi ideali, la sua giovinezza e la sua forza che non c ’era p iù »7.

In modo simile a quanto era avvenuto a Trento, anche il collettivo reggiano aveva cessato di esistere a pochi mesi dalla sua fondazione: alcuni militanti avevano aderito a Leo al M anifesto, altri avevano deciso di emigrare nelle grandi metropoli del Nord. Come testimonia il passo che segue, questa seconda opzione era motivata dalla ricerca di luoghi dove il conflitto sociale era ancora acuto:

Ci affascinava la metropoli, da provincialotti. Reggio era una realtà talmente secondaria che non valeva la pena di restare. Biso­gnava andare dove c'erano le lotte*.

Così, in tempi diversi, si trasferiranno da Reggio Emilia a Milano molti fra i fondatori delle Br: Franceschini, Ogni- bene, Pelli, Gallinari, Bonisoli, Casaletti, Paroli, Azzolini. Se le origini sociali di questi militanti erano differenti9, es­si avevano in comune la precedente militanza politica e i fit­ti rapporti di amicizia, così descritti in una delle biografie raccolte:

6 Franceschini e altri [1988, 30].7 Ibidem, p. 4.s Storia di vita n. 7, p. 4.9 Per fare solo alcuni esem pi, G iorgio Sem eria proveniva da una fa­

miglia della media borghesia; dalla piccola borghesia, Azzolini e Ognibe- ne; da famiglie operaie o contadine, C asaletti, Franceschini, Gallinari, Paroli, Pelli, Bonisoli.

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È l'amicizia, soprattutto l'amicizia. Iniziata nella Fgei, rafforza­ta nell’esperienza dell’appartamento, perché oltre a fare politica era anche un'esperienza di vita, di rapporti, era una piccola comuni­tà, una piccola famiglia, un rapporto quotidiano, costante10.

A Milano, come si è detto, alcuni militanti del Colletti­vo politico operai studenti si erano già incontrati con i tren­tini. I contatti fra i due gruppi erano anch’essi avvenuti nel modo più comune in un ambiente denso di reti di rapporti politici, ma anche personali. Scrive uno dei fondatori delle Br: «Renato lo avevo conosciuto poco più di un anno prima. Nella sua casa, di viale Sarca, a Milano, mi portò Bruno, un compagno di Reggio che aveva studiato a Trento e abitato in una comune con lu i»11. Come era comune nel clima di quegli anni, i contatti erano stati mantenuti, con spirito «imprenditoriale»: «Continuammo a incontrarci. Almeno una volta al mese qualcuno del gruppo di Renato (era stato costituito il Collettivo politico metropolitano) veniva a Reg­gio e qualcuno di noi andava a M ilano»12.

Ancora una volta, il gruppo non sembrava differenziarsi all’inizio dai tanti emersi in quegli stessi anni. Nei due nu­meri del suo giornale «Sinistra proletaria» si affrontavano tematiche quali il diritto alla casa, i prezzi dei trasporti, la necessità di costruire dei «nuclei operai». Anche il fatto che la «lotta di classe» fosse definita come una «guerra», non rappresentava certo, in quegli anni, una specificità. Vi era­no tuttavia almeno due elementi che avrebbero potuto in se­guito influire sulle scelte strategiche del gruppo: le sue pic­cole dimensioni e il suo ridotto radicamento. Sul Cpm, si legge infatti in un rapporto, datato 1970, dell’allora prefet­to di Milano al ministro degli interni:

Altro gruppo di esclusiva cittadinanza milanese è il «Colletti­vo politico metropolitano». E sorto nel dicembre 1969 per inizia­tiva di alcuni appartenenti a gruppi della sinistra extra- parlamen­tare, con lo scopo di costituire un organismo di militanti attivi di

10 Storia di v ita n. 7, p. 4.11 Franceschini e altri [1988, 19].12 Ibidem, p. 21.

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base, capaci di impegnarsi fuori dei sindacati e dei partiti in un lavoro politicamente omogeneo all’interno di situazioni sociali e nel più generale tessuto metropolitano, esercitando un’azione dia­lettica che pretende di contribuire alla crescita politica delle mas­se, all’autonomia delle specifiche lotte sociali e settoriali e alla lo­ro trasformazione in lotta sociale generalizzata. Il gruppo conta pochisimi aderenti [...] Al dichiarato scopo di promuovere [’«au­tonomia operaia» rispetto alle organizzazioni politico sindacali, il gruppo ha recentemente annunziato la formazione di nuclei deno­minati «Brigate rosse», da inserire nelle fabbriche13.

Si può ritenere che le piccole dimensioni, la presenza li­mitata a Milano, e la provenienza dalla periferia della mag­gior parte dei suoi fondatori, rendesse il Cpm particolar­mente povero di risorse nella concorrenza con altre organiz­zazioni simili all’interno del settore dei movimenti sociali. La specializzazione nelle pratiche più violente poteva quin­di offrire il vantaggio di rendere l’organizzazione più «com­petitiva», almeno nelle aree di militanti più radicali. L ’ado­zione di una struttura clandestina sarebbe avvenuta, tutta­via, in maniera graduale, attraverso una serie di decisioni successive che avrebbero portato all’uscita di molti membri nel corso di varie scissioni. Il primo passo verso la scelta del­la clandestinità veniva compiuto, secondo uno dei dirigenti dell’organizzazione in un incontro tra alcuni militanti del gruppo, avvenuto a Pecorile nell’agosto del 1970: «L a que­stione della lotta armata è posta: c ’è un fosso da saltare e la discussione è delle più accese. Sono le nostre tesi a vince­re e una parte dei compagni, quelli che sostenevano la “ cen­tralità” della violenza di massa, vanno per conto loro, con­fluendo in Lotta continua»14. Solo alcuni dei membri di quella organizzazione decidevano, quindi, di iniziare una pratica di azioni armate, fondando le Br, che nel 1971 si do­teranno del giornale «N uova resistenza».

Le neo-fondate Br entreranno poi in contatto con altri piccoli gruppi, la cui storia era, ancora una volta, simile a quella della Università negativa o del «gruppo dell’apparta­

13 Rapporto del prefetto Libero M azza al ministro degli Interni R e­stivo, d el 22 dicembre 1970; citato in Tessandori [1977, 36-37].

14 Franceschini e altri [1988, 25].

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mento». Alcuni dei primi militanti provenivano, ad escni pio, dal Collettivo operai studenti di Borgomanero, un pic­colo centro vicino Novara. Com posto di giovani operai della Fgci e studenti del gruppo cattolico Gioventù studentesca, il collettivo era nato nel corso di alcune mobilitazioni nella zona. Anche qui, la contestazione giovanile all’interno del Pei si era espressa attraverso una radicalizzazione ideologica che enfatizzava alcuni miti della cultura comunista, in parti­colare quelli collegati alla lotta partigiana15. Anche qui, ri­fluita la fase delle mobilitazioni di massa, alcuni avevano deciso di trasferirsi nelle metropoli industriali per potere continuare la loro attività politica. Come ricorda un militan­te che ha partecipato a quella esperienza:

Il comitato cessa di esistere quando cessano, diciamo, le esi­genze della lotta immediata. Rimangono degli spezzoni organizza­ti di pochissimi militanti [...] e cominciamo a porci il problema della violenza [...] Cessata questa funzione, ti ritrovi in quattro gatti a farti le tue menate nella sede, le chiacchiere, le cose, e co­mincia ad andarti stretto anche il paese a quel punto; perché un pae­se che ha vissuto in modo così intenso certe cose [...] ritornando ad una situazione di normalità diventava una cosa non vivibile, ecco, per uno come noi di 21 anni o 22. Per cui cominciamo a pen­sare di trasferirci a Milano e Torino, nelle grosse fabbriche. E di lì, appunto, il nostro trasferimento16.

Anche qui, i contatti con il Cpm erano avvenuti in ma­niera quasi casuale, attraverso rapporti personali tra mem­bri dei due gruppi:

È di quegli anni poi, ’69-’70, la nascita del Collettivo politico metropolitano a Milano di Curcio e compagnia, e qualcuno del col­lettivo prende contatti con loro, perché studiava a Milano, e riporta tutto il dibattito sulla violenza — la violenza organizzata — che attraversa il Collettivo politico metropolitano in quegli anni lì17.

15 Per esem pio, un intervistato che aveva militato in quel gruppo parla di «figure carism atiche che appunto erano quelle [...] alcuni com an­danti di form azioni partigiane. N oi ci trovavam o anche con M oscatelli in persona» (Storia di vita n. 5, p. 19).

16 Storia di vita n. 5, p. 25.17 Storia di vita n. 5 , p. 24.

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Se non c’era il L. che studiava a Milano in rapporto col Comi­tato, nel giro di un paio d ’anni avrei cambiato idea, avrei fatto altre cose, sicuramentel8.

Ancora una volta la decisione di aderire alle Br veniva presa solo da alcuni fra i militanti del gruppo, legati fra loro da rapporti di intensa amicizia:

Quei pochi dirigenti del collettivo che continuano ancora a ri­trovarsi assieme, si pongono dei problemi. Chi accetta poi dopo la possibilità di aderire alle Br siamo in tre, che poi abbiamo aderi­to tutti e tre; per altri diciamo c’era un’adesione di tipo ideale ma non c’era poi la disponibilità pratica, nel senso che «io non voglio spostarmi dal paese» e fare il brigatista a Borgomanero non signi­fica nulla, bisognava andare a Torino, andare a Milano19.

Si può ancora osservare che occorreranno ancora degli anni perché la scelta della clandestinità e della lotta armata da parte delle Br sia chiaramente definita. All’inizio, infat­ti, le tattiche adottate erano illegali, ma non molto differen­ti da quelle tollerate nell’area del movimento. Per un lungo periodo infatti l’attività brigatista era limitata ad una serie di incendi di automobili compiuti attraverso l ’uso di rudi­mentali bottiglie incendiarie. In teoria, le Br praticavano, nei primi due anni della loro esistenza, la «strategia organiz­zativa della doppia militanza»: clandestinità dell’organizza­zione e pubblica attività dei suoi membri. In realtà, molte delle regole di condotta non venivano applicate: gli stessi di­rigenti vivevano in domicili conosciuti, mentre volantini fir­mati dall’organizzazione erano distribuiti senza alcuna cau­tela all’uscita delle fabbriche. Ancora secondo una testim o­nianza di un ex- brigatista, le due brigate esistenti, una alla Sit Siemens e una alla Pirelli: «erano separate. M a gli uni sapevano degli altri, si conoscevano quasi tutti [...] Un com­pagno portava un altro di cui si fidava, questi partecipava a una, due riunioni poi, magari, non si faceva più vede­re»2". Se formalmente si applicavano le regole del centrali-

'* Storia di vita n. 5, p. 31.19 Storia di vita n. 5, p. 28.20 Franceschini e altri [1988, 67].

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smo burocratico, in realtà, in un’organizzazione composta da una dozzina appena di militanti, i processi decisionali av­venivano in modo del tutto informale21.

Questa strategia era tuttavia destinata a creare già le prime fratture nel gruppo. Ritenendola avventurista per un’organizzazione che non si era ancora «infiltrata nel mo­vimento di massa», alcuni militanti abbandonavano le Br, costituendo il cosiddetto «Superclan», e si trasferivano in Francia. Considerandola invece troppo blanda, un altro nu­cleo di militanti — proveniente dal Gruppo di studio della Sit Siemens e comprendente i futuri dirigenti delle Br, C or­rado Alunni e Mario M oretti — si allontanava dalle Br nel1971, rientrandovi solo quando iniziavano i primi sequestri di persona.

Questa difficile strategia di equilibrio nella semi-legalità era tuttavia destinata ad entrare in crisi nel maggio del1972, in coincidenzza con una serie di arresti e perquisizio­ni a seguito dell’infiltrazione di un agente provocatore. Solo a quel punto molti militanti decidevano di divenire latitanti e le regole della clandestinità cominciavano ad essere appli­cate. Due erano le conseguenze di questo ulteriore passo nel processo di clandestinizzazione. Una era una nuova scissio­ne: non tutti i membri accettavano questa decisione, e molti uscivano dall’organizzazione22. L ’altra era, invece, il mag­giore impegno di coloro che restavano, ormai costretti alla latitanza, alcuni dei quali si trasferivano in altre città per dare una dimensione nazionale alla prima organizzazione ar­mata. Come ricorda ancora uno dei fondatori delle Br, a quel punto: «Ogni nuovo compagno, per diventare un “ re­

21 N el racconto di uno dei fondatori,' le Br si reggevano all’inizio sull’attività di tre persone: «Lasciavam o a Renato il com pito di elaborare la teoria, trovare citazioni e riferim enti storici. Io e lei pensavam o ai d o­cumenti falsi e alle armi, facevam o le inchieste, le azioni» [Franceschini e altri 1988, 18].

22 Significativo è il caso romano. D al 1971 le Br erano in contatto a Rom a con un nucleo di ex-militanti di Po. D opo la scelta della «p iena» clandestinità fatta dalle Br, però, il gruppo rom ano aveva rotto ogni con­tatto afferm ando che la clandestinità non era una soluzione adeguata ai problem i organizzativi (Tribunale di Rom a, Requisitoria del PM in PP 54/80, p. 275).

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golare” , doveva bruciare i documenti davanti agli altri, pubblicamente. Era diventata una consuetudine, una sorta di dichiarazione ufficiale. In quel momento si bruciavano le navi alle proprie spalle, si chiudeva la via della ritirata»23.

3. La fondazione delle organizzazioni clandestine nella secon­da metà degli anni settanta: PI e Fcc

La scelta della clandestinità, compiuta dalle Br, non era stata condivisa dalle altre organizzazioni del movimento, che avevano cercato, invece, strade alternative per superare i problemi creati dal declino della mobilitazione. In questa ricerca, esse oscillavano, con continue scissioni e riaggrega­zioni, tra strategie opposte: centralizzazione o decentra­mento della struttura organizzativa, istituzionalizzazione o radicalizzazione dei repertori. Nel corso di questo processo, piccoli gruppi si erano staccati dalle organizzazioni maggio­ri, talvolta prendendo la strada della clandestinità. Questa dinamica può essere bene osservata nell’evoluzione di alcu­ne formazioni in cui — come si vedrà nel prossimo capitolo— avevano militato molti dei futuri membri di organizza­zioni armate: Lotta continua (Le) e Potere operaio (Po), nel­la prima metà degli anni settanta, «Senza tregua» e «Rosso», negli anni successivi.

Sia Le che Po provenivano da successive scissioni nella rivista «Quaderni rossi», costituita all’inizio degli anni ses­santa da fuoriusciti dai partiti della sinistra storica e che aveva contribuito alla elaborazione del così detto «operai­sm o»24. Rifacendosi all’esperienza dei consigli operai degli anni venti, i teorici dell’operaismo avevano elaborate delle tematiche destinate ad avere risonanza ancora negli anni settanta: rifiuto del lavoro, lotta sui «bisogni autonomi della classe» in contrasto con i «bisogni della produzione», affer­mazione del potere politico del lavoro salariato. I fondatori di Le venivano dalla redazione di «Quaderni rossi toscani»,

23 Franceschi™ e altri [1988, 14].24 Per una docum entazione sull’operaism o e la «autonom ia», si rin­

via, tra gli altri, a Castellano [1980].

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trasformatasi poi in «N uovo impegno», da cui era nato il gruppo Potere operaio pisano nel febbraio 1967. Po era na­to invece dall’esperienza veneta dei Comitati di classe delle grandi fabbriche di Porto Marghera, il cui periodico, an- ch’esso in collegamento con «Quaderni rossi», era «Progres­so veneto». La redazione di quest’ultimo si era divisa in due parti: un gruppo aveva fondato un’altra rivista teorica, «Classe operaia»; un altro si era dedicato all’intervento nelle fabbriche, creando un foglio locale, «Potere operaio — re­dazione veneta di Classe operaia». Nel 1967, mentre «C las­se operaia» cessava le pubblicazioni, l ’altro foglio cambiava il titolo in «Potere operaio — Giornale politico degli operai di Porto Marghera» e, nel luglio 1968, si dava una struttura organizzativa nel Com itato operaio di Porto Marghera. Da qui, nel 1969, veniva fondato il giornale «La classe», che in autunno diventava «Potere operaio».

Le storie dei due gruppi dovevano, in seguito, spesso in­trecciarsi. Militanti provenienti dalle due esperienze si era­no incontrati, nel 1969, alla Fiat di Torino dove, insieme ad altri gruppi operaisti provenienti da «Quaderni rossi» tori­nesi e da Milano, avevano dato vita alle Assemble operai studenti. Ne era derivata la fondazione delle due organizza­zioni — Po e Le — che, insieme ad Avanguardia operaia (Ao) e al M anifesto, hanno costituito i gruppi più importan­ti della Nuova sinistra.

L ’ideologia operaista, comune ad entrambi i gruppi, ve­niva declinata in maniera diversa, rispecchiando le differen­ti esperienze di formazione dei dirigenti. Se a M assa le ipo­tesi teoriche dell’operaismo si erano evolute nell’ambito dell’università, con l’affermazione, nelle «Tesi della Sapien­za», del concetto di studenti come forza lavoro in formazio­ne, la corrente veneta era stata invece influenzata dalle lotte operaie delle grandi fabbriche di Porto Marghera. Così, an­che in seguito, Le sarà più sensibile ai «soggetti» esterni alla fabbrica25; mentre Po privilegerà la battaglia salariale co­

25 Com e dim ostrano le «cam pagne» di Le su temi quali l ’ im m igra­zione («M o’ che il tem po si avvicina»), i quartieri («Prendiam oci la cit­tà»), il carcere («I dannati della terra»). C fr. Tarrow [1989], Sulla storia di Le, si veda anche la ricostruzione di uno dei dirigenti del gruppo in Bobbio [1979].

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me principale espressione del conflitto di classe, affermando la gestione operaia delle lotte sociali.

In entrambi i casi, il processo di strutturazione dell’or­ganizzazione era stato lento e incompleto. Dalla prima con­ferenza di organizzazione di Potere operaio toscano, nel set­tembre 1968, ci vorrà ancora un anno perché i gruppi vicini a Le si organizzino più stabilmente attorno al giornale e altri quattro per la costituzione di una vera e propria organizza­zione nazionale. Per quanto riguarda Po, a quattro anni dal primo convegno nazionale dell’organizzazione, tenutosi a Firenze nel gennaio 1970, i dirigenti saranno costretti a ri­conoscere l’impossibilità di costruire un’organizzazione centralizzata. Per entrambi i gruppi, erano inoltre falliti i progetti di fusione con altre formazioni della Nuova sini­stra, come quello di unificazione con il M anifesto, nel 1971, per quanto riguarda Po; o quello di dare uno sbocco al «car­tello» composto insieme ad Ao e al M anifesto in occasione delle elezioni del 1973, per quanto riguarda Le.

Nel corso di questi lunghi processi di elaborazione di un’identità organizzativa, ostacolati dalla scarsezza di risor­se disponibili e dalla continua oscillazione dei momenti di mobilitazione, si erano riprodotti continuamente conflitti all’interno dei due gruppi. La fratture si erano sviluppate at­torno alle principali opzioni strategiche relative, di volta in volta, alla individuazione della «contraddizione principale» (lotte politiche o lotte sociali), ai principali luoghi d ’inter­vento (la fabbrica o il quartiere), alla funzione dell’organiz­zazione (struttura di movimento o partito istituzionalizza­to), alle forme d ’azione da utilizzare (violenza di massa o violenza d ’avanguardia). Esprimendo anche dinamiche in­terpersonali interne alla leadership, comuni ai piccoli gruppi,i conflitti si erano ideologizzati, con reciproche accuse di «fabbrichismo» o «codismo», «spontaneismo» o «partiti- smo», «movimentismo» o «elettoralismo», «avventurismo» o «terrorismo».

I racconti di coloro che avevano militato in questi grup­pi testimoniano della rilevanza di questi dibattiti sulle op­zioni strategiche per superare la crisi nella vita organizzati­va. In apparenza capziosi, essi producevano, e al contempo giustificavano, continue scissioni. Nel caso di Po, ad esem­

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pio, la nascita di gruppi autonomi nelle grandi fabbriche del Nord aveva creato un dibattito sui livelli di decentramento auspicabili, producendo — come è bene descritto nella cita­zione che segue — una polarizzazione su due opposte op­zioni:

Quando andai a Milano nacquero le assemblee autonome. Mi sembrava necessario che la struttura organizzativa di Potere ope­raio, che era una struttura nazionale in realtà, si conformasse a queste strutture territoriali, cioè che praticamente si moltiplicasse­ro delle strutture territoriali abbastanza autonome e autogestite, di­ciamo dal punto di vista della decisione politica, e che queste poi trovassero motivi e modi di coordinamento sia regionale che na­zionale, su un progetto comune che però fosse fondato su quello che erano le motivazioni locali. [...] A Milano io ero fautrice di questa prospettiva in contraddizione con quelli che invece ritene­vano che Potere operaio dovesse essere una struttura formulata le- ninisticamente e quindi centralizzata, con l’esistenza collaterale di queste strutture di massa all’interno delle quali c’erano dei mili­tanti che avevano semplicemente la funzione di trasmissione tra partito e strutture di massa, in quanto rappresentavano il partito e portavano il progetto del partito dentro la struttura di massa26.

Il dibattito sul decentramento si era anche acutizzato in occasione di un episodio di violenza politica che aveva coin­volto dei militanti di Po. I due figli di un esponente del Msi del quartiere romano di Prima Valle erano morti durante l ’incendio, di origine dolosa, della loro abitazione. L ’incri­minazione e l’arresto di tre membri di Po aveva prodotto un drammatico confronto all’interno dell’organizzazione sulle responsabilità del gruppo, che si era concluso con l ’uscita di una parte della sezione romana.

E , ancora, interessante rilevare, continuando la lettura di quella testimonianza, la profonda differenza di posizioni presenti all’interno della stessa organizzazione: la «autono- mizzazione» di alcuni gruppi più propensi alla organizzazio­ne della violenza, da un lato, e una forte critica rispetto a quella evoluzione, dall’altro.

Molti compagni ritenevano che Potere operaio c’entrava, altri

2h Storia di vita n. 22 , p. 42.

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ritenevano che Potere operaio era innocente, [...] mi sembrava che comunque si stesse determinando un clima per il quale poteva succedere qualunque cosa senza che un militante lo venisse a sape­re. Cioè si erano formati dei gruppi, una stratificazione, una anche spontaneità, all’interno di questa stratificazione, sulla violenza, che non era sicuramente controllata dall’assemblea dei militanti o dalle sue strutture direttive [...] La degenerazione dell’organiz­zazione era tale che aveva permesso che si producesse un’azione del genere senza che ci fosse una decisione in merito. Il che [...] implica che, evidentemente, il dibattito sulla violenza non avveniva secondo dei canali collettivi, ma avveniva per piccoli gruppi sponta­nei, e in modo quindi totalmente degenerato [...] Al convegno roma­no ci fu la scissione fra colpevolisti e innocentisti. I colpevolisti uscirono da Potere operaio, cioè uscirono tutti quelli che riteneva­no che Potere operaio era responsabile di questo fatto, e che quin­di era ormai sulla strada della violenza. Gli innocentisti invece so­stennero che Potere operaio rimaneva un’organizzazione centra­lizzata e di massa27.

Ancora la stessa fluidità ed etèrogeneità di posizioni al­l’interno di Po è confermata dalle due testimonianze che se­guono, relative alla radicalizzazione del confronto sulla struttura organizzativa da adottare, conclusosi con l ’uscita dall’organizzazione, durante un convegno svoltosi a Rosoli­na nel 1973, dei sostenitori dell’autonomia delle strutture di base.

Potere operaio si scioglieva su un’insanabile contraddizione tra quanti pensavano che la situazione delle lotte e dei movimenti fosse affrontabile soltanto facendo un salto, cioè sostanzialmente sciogliendo il gruppo così com’era stato, dicendo «i gruppi extra­parlamentari, per come li abbiamo conosciuti sono stati la forma che è nata dalle lotte dal ’68 in qua. Oggi risultano assolutamente minoritari e sono portati ad un percorso ultraminoritario e nella maggior parte delle ipotesi di adesione poi ai partiti istituzionali».Il salto organizzativo doveva consistere nel riuscire a coniugare in qualche modo la presenza dentro le lotte di massa, lo sviluppo del­l’organizzazione autonoma delle lotte di massa, ma parallelamente coniugare a questo l’elemento di organizzazione di gruppi in grado di operare anche sul livello dell’organizzazione della forza, cioè del­l’organizzazione della violenza, quindi una capacità di rappresen-

27 Storia di vita n. 22, pp. 47-48.

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tare alcuni momenti di guida verso l’attacco allo stato [...] li Pipo tesi di chi intendeva invece [...] privilegiare comunque un discor so [...] sulla necessità di mantenere, di rafforzare la presenza di un progetto nazionale direttamente uscente dai momenti di aggre­gazione proletaria. Ed è qui che è nata sostanzialmente l’ipotesi dell’Autonomia operaia28.

A Rosolina ci sono le due linee a confronto: quella dell’autono­mia e quella della centralizzazione di Potere operaio come partito, perché è quella che tiene organizzativamente la struttura, con Pa­dova, Roma, Firenze. Si nomina una nuova segreteria provvisoria fatta di tre compagni che hanno la funzione di girare, di riorganiz­zare, però esce tutto il gruppo Negri, tutto il gruppo che diventerà Passe portante dell’autonomia. Per un anno ancora si trascina [...]Io — non credendoci completamente, ma per questioni logistiche, perché sto a Roma — sto con quella parte che fa riferimento al discorso sulla centralizzazione, sul partito29.

La storia di Po è stata, dunque, caratterizzata da un co­stante dibattito sull’uso di forme violente d ’azione, sfociato poi nella scelta di una radicalizzazione delle strategie, da parte di alcune fazioni presenti all’interno dell’organizza­zione, e, dall’altra parte, nella elaborazione di una critica di alcune forme di violenza, in altre fazioni. In maniera simile, anche la storia di Le è percorsa da frequenti oscillazioni tra la difesa di uno spontaneismo anche violento e la ricerca di un riconoscimento istituzionale. Nel 1972, il convegno di Rimini aveva attribuito un ruolo rilevante ai servizi d ’ordi­ne, enfatizzando «l’esercizio della violenza rivoluzionaria», sia da parte delle «m asse» che da parte delle «avanguardie». Questa scelta era stata criticata già alla metà del 1973, con una svolta in direzione «elettoralistica». Il cambiamento di strategia aveva prodotto, anche in questo caso, una scissio­ne all’interno dell’organizzazione dalla quale era uscita alla fine di quell’anno, sostenendo la necessità di una maggiore attenzione alle lotte operaie e dell’auto-organizzazione della violenza, la sezione della periferia milanese di Sesto San Giovanni. Ancora su divergenze strategiche, e in particola­

28 Storia di vita n. 28 , p. 16.29 Storia di vita n. 22, p. 48-49.

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re sul dibattito sulla radicalizzazione delle forme d ’azione, l’anno successivo aveva abbandonato l ’organizzazione la co­siddetta «Corrente», composta da alcuni operai e numerosi membri del servizio d ’ordine.

A proposito del servizio d ’ordine va aggiunto che, in questi processi di continue scissioni, avevano giocato un ruolo rilevante le strutture organizzative che dovevano oc­cuparsi del coordinamento di una serie di azioni illegali: dal­la difesa dei cortei contro le aggressioni degli estremisti di destra agli attentati contro cose. Con questi compiti sembra fosse stato creato da militanti di Po, già nel 1971, il gruppo Lavoro illegale, durato solo pochi mesi e sostituito in segui­to da altre strutture semi-autonome dall’organizzazione-ma- dre: il Faro e il Centro-nord. In Le, questo processo era pas­sato invece attraverso il rafforzamento dei servizi d ’ordine, che erano divenuti un luogo privilegiato di militanza, so­prattutto per i membri più giovani. Secondo un intervista­to, ad esempio:

Il servizio d ’ordine per come l’ho vissuto io era un luogo di mi­litanza più intensa di altri [...] era un luogo in cui tutta la gente che faceva politica [...] aveva un rapporto che mi sembrava estrema- mente più onesto con la militanza, perché era gente che si dedicava, con cui vivevi a contatto dal volantinaggio al corteo, alle scadenze sull’antifascismo, ai presidi delle piazze [...]. I servizi d ’ordine non erano altro che le forme politiche con cui si auto- organizzavano i militanti di tutte le sezioni, di tutte le scuole, del­le zone5".

Come si vedrà fra poco, è da questi gruppi, dotati di maggiori abilità nell’uso di repertori violenti e di una strut­tura organizzativa semi-clandestina, che si sono staccati, nella seconda metà degli anni settanta, molte formazioni terroriste. Ma questo processo è stato, ancora una volta, se­gnato da fratture e ricomposizioni, ed è durato parecchi an­ni. Da una parte, alcuni gruppi hanno cercato di mantenereil più a lungo possibile l’ identità dell’organizzazione, cosic­ché le sigle di Po e Le sopravviveranno in nuclei a base loca-

10 Storia di vita n. 18, pp. 24-25.

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le, anche dopo lo scioglimento nei fatti delle due organizza zioni, cioè dopo il 1974, per quanto riguarda la prima, e do­po il 1976, per quanto riguarda la seconda31. D ’altra parte, alcuni dei raggruppamenti, usciti dalle organizzazioni-madri prima del loro scioglimento, si erano costituiti in piccole strutture semi-illegali, con un raggio d ’azione esclusivamen­te locale. Era il caso, ad esempio, di piccolissimi gruppi usci­ti da Po, da cui sarebbero nate le Fac e le Ucc, così descritti in due interviste:

Non è che dopo Rosolina le sezioni si siano improvvisamente chiuse, ma è chiaro che le sezioni via via si perdono, perché i com­pagni escono, esce Ceptocelle, poi si strutturano per conto loro, e vanno ad affrontare un'esperienza organizzativa loro che è un'e­sperienza organizzativa che affronta il dibattito sulla violenza, proba­bilmente in modo più intenso [...] Ciò nonostante continuano i tentativi di incontri, di vedersi, di riaggregarsi, ci sono riunioni nazionali, ma tutto si trascina molto lentamente32.

Così c’è questa rottura di Potere operaio, un netto disfacimen­to da una parte, dall'altra il gruppo diciamo così semi-clandestino, in­somma questa struttura che Potere operaio aveva a Roma che si comincia a isolare, rimane staccato da tutto il resto che va in di- sfacimento e comincia ad avere una vita autonoma completamen­te, fino a diventare poi, nel corso del tempo, la base delle costituen­de strutture che poi saranno le strutture armate [...] Non più di seio sette persone, con grosse capacità logistiche, con grossi arma­menti, c’erano due bauli di armi [...] Non si faceva praticamente nulla, perché poi praticamente non si capiva che cosa si dovesse fare,3.

M a se il dibattito sulla violenza era sempre centrale nel­la formazione dei nuovi nuclei, sorti dalla disgregazione del­

31 Per esem pio, a Torino si era m antenuto in vita un gruppo che: «continuava a chiamarsi Potere operaio in una situazione in cui Potere operaio a livello nazionale non esisteva più, un gruppo ristretto di perso­ne che più che altro per spirito di bandiera continuava a mantenere dei contatti [...] Ogni tanto comunque c ’erano dei momenti in cui avveniva­no riunioni con altri gruppi di com pagni, compagni di Rom a, di Firenze, di M ilano» (Storia di vita n. 28 , pp. 24 e 25).

52 Storia di vita n. 22, p. 50.33 Storia di vita n. 16, pp. 77 e 84-85 (passim).

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le organizzazioni della Nuova sinistra, solo in rari casi esso si era concluso rapidamente con la scelta della clandestinità. Nella maggior parte dei casi, il processo di riaggregazione era invece avvenuto attraverso esperienze, coordinate a li­vello inter-regionale, in cui si esprimeva ancora il tentativo di far convivere l’uso di repertori violenti con una struttura organizzativa legale e «di massa». Alcuni dei nuclei fuori­usciti da Po e Le si erano, così, aggregati attorno a due rivi­ste che proponevano delle rielaborazioni dell’operaismo de­gli anni sessanta per offrire una base teorica ai diversi grup­pi detti «autonom i»54, nati dalla crisi della Nuova sinistra: «Senza tregua» e «Rosso». La storia di queste aggregazioni è stata ricostruita altrove attraverso fonti a stampa e mate­riale giudiziario’5. Nelle nostre biografie, i racconti di co­loro che sono passati attraverso queste esperienze ci aiuta­no, ancora una volta, a cogliere le ripercussioni di questa evoluzione organizzativa sui percorsi di militanza dei singoli individui.

Le vicende di «Senza tregua» e di «Rosso» presentano diverse somiglianze. «Senza tregua» era la rivista di una se­rie di collettivi, i Com itati comunisti per il potere operaio (Ccpo), costituiti, prima di tutto a Milano, da alcuni ex­militanti della sezione di Le di Sesto San Giovanni e da al­cuni degli ex-militanti di Po, rimasti nell’organizzazione an­

34 Com e «autonom ia organizzata» si definivano una serie di com ita­ti e assem blee autonom e, nella maggior usciti, attorno al 1972, dai gruppi della N uova sinistra (per esem pio, dal M anifesto , il C om itato politico dell’ Enel e il Collettivo politico del policlinico a Rom a; da Po, l ’Assem- blea autonom a di Porto M arghera in Veneto; da Le, l’Assem blea autono­ma dell’Alfa Romeo a M ilano). Q uesti collettivi avevano dei momenti di coordinam ento, come assem blee nazionali (per esem pio, a Napoli nell’au­tunno del 1972; a Firenze nel gennaio del 1973; a Bologna, nel marzo dello stesso anno; a Rom a nel gennaio dell’anno successivo). E ssi si erano aggregati attorno a riviste, fondate tra il 1973 e il 1975, quali «C ontroin­form azione» e «Senza padroni» (di Assem blea autonoma dell’A lfa, A s­semblea autonoma della Sit Siem ens e C om itato di Q uarto Oggiaro) a M ilano; «Lavoro zero» (dell’Assem blea autonom a di Porto M arghera) in Veneto; «R ivolta di c lasse» (dei collettivi dell’Enel e del Policlinico) e «I V olsci» (del C ollettivo di via dei Volsci) a Rom a; «Com uniSm o» nel Sud. C fr. Castellano [1980],

35 Si veda, per esem pio, Palom barini [1982],

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che dopo il convegno di Rosolina’6. Attorno alla rivista «Rosso» si erano invece aggregati alcuni dei militanti di Po usciti al convegno di Rosolina, insieme a vari gruppi autonom i37. Le testimonianze su questi processi dim ostra­no tuttavia che, a livello locale, i due gruppi avevano reclu­tato alternativamente nelle due aree. Per esempio, a Torino avevano partecipato a «R osso» ex-militanti della sezione di Le di Settimo Torinese; mentre in Veneto membri di Po usciti alla fine del 1974 insieme ad altri fuoriusciti da Le avevano costituito i Collettivi politici veneti e i vari Gruppi sociali, che si coordineranno poi attorno alla rivista «Per il potere operaio»38.

36 E il gruppo di m ilitanti che, dopo lo scioglimento di Po, avevano m antenuto una comune esperienza organizzativa, pubblicando la rivista «L inea di condotta». Secondo una testim onianza: «Il prim o gruppo che si costituisce come gruppo arm ato, cioè i Com itati com unisti per il potere operaio, com prendono in parte ex-appartenenti a Potere operaio, con tut­ta una loro storia anche clandestina, in parte noi che veniam o da Lotta continua, che in sostanza erano questo gruppo di operai, questo gruppo di fem m iniste, e i com pagni del servizio d ’ordine che costituiscono le pri­me squadre arm ate» (Storia di vita n. 26 , p. 20). Sulla storia dei Ccpo sono stati consultati: Tribunale di M ilano: Sentenza-ordinanza del Gl in PP 312/82; Requisitoria del PM in PP 312/82; Requisitoria del PM in PP 228/81; Tribunale di Padova: Sentenza-ordinanza del Gl in PP 183/79; Re­quisitoria del PM in PP 183/79; Tribunale di Roma: Sentenza-ordinanza del Gl in PP 103/80.

57 Alcune informazioni sulla rivista «R osso» si trovano in Tribunale di Rom a: Requisitoria del PM in PP 229/81; Sentenza-ordinanza del Gl in PP 229/81; Requisitoria del PM in PP 661/83; Sentenza-ordinanza del Gl in PP 154/82; Sentenza-ordinanza del Gl in PP 29A/82.

38 Q uesti gruppi cresceranno inoltre con le successive ondate di scis­sioni dalle organizzazioni-madri. Per esem pio, nel 1976: «T u tto il perio­do precedente al convegno di Rimini si muove una diaspora in Lotta con­tinua anche a Torino, e anzi mi ricordo che il convegno di Rimini fu v is­suto col fatto che c’erano dei compagni che andavano al convegno di R i­mini che erano già di “ Senza tregua” , cioè che comunque erano punto di riferim ento nostro. Q uesta cosa creava una situazione anche lì nuova a cui i com pagni che venivano come me dall’esperienza di Potere operaio non erano molto preparati a vivere, intanto perché si creò subito uno spa­zio politico abbastanza grosso in quel periodo, in particolare a livello stu­dentesco, e l’ ipotesi che noi portavam o avanti nel giro di pochissimi mesi si incominciò a toccare con mano che era un’ipotesi che poteva sfondare (...) Lotta continua si sfasciava (...) noi iniziammo ad avere dei rapporti politici con dei compagni che uscivano da Lotta continua» (Storia di vita n. 4, p. 41).

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Fra i due gruppi vi erano delle leggere differenze ideolo­giche, essendo più legato al tradizionale operaismo «Senza tregua» ed invece «Rosso» più concentrato sull’elaborazione di una nuova teoria dell’«operaio sociale come soggetto ri­voluzionario». Ma vi era anche una rimarchevole somiglian­za, capace di spiegare i futuri comuni percorsi di alcuni frai loro militanti. Entram bi si proponevano, infatti, una stra­tegia che si sarebbe presto rivelata di impossibile realizza­zione: il mantenimento di strutture organizzative legali, in­sieme ad una sempre maggiore enfasi sull’organizzazione della violenza. Q uesta scelta organizzativa viene descritta concordemente in tutte le interviste ad ex-membri di collet­tivi di «Senza tregua», poi passati alla lotta armata:

Il giornale «Senza tregua» è un riferimento di discorsi, tenuto in piedi da alcuni intellettuali, chiamiamoli così, come Scalzone e Del Giudice insomma. [...] Ci sono dei contenuti ancora di indi­cazioni sulle lotte di fabbrica; e noi ci stiamo dentro come colletti­vo della Magneti Marelli. Nel frattempo però c’è una componente che si struttura già e comincia a fare qualcosa di minore [...]. Quindi, c’è una doppia militanza, diciamo così, c’è una militanza di fabbrica con iAutonomia, con noi, con tutti gli altri e un inizio di pratica diretta, di esercizio diretto di cose, non so, incendio di qualche macchina dei capi, ma niente di particolare, ancora assalti alle sedi del Msi, per dire, oppure qualche irruzione nelle sedi de­mocristiane, sono le cose non rivendicate che succedono in quel periodo che si possono riferire a persone, a gente che comincia, insomma, ad avere una doppia militanza’9.

Da quell’estate del 1976 ci ritrovammo in pratica in pochissi­mi compagni [...] Il tipo di lavoro che avevamo in mente era un discorso duplice: da una parte stimolare e organizzare praticamente momenti di organizzazione operaia, proletaria, studentesca, insomma in alcune situazioni concrete, e quindi momenti di organizzazio­ne, costruzione dei comitati operai etc., dall’altra parte attrezzare un altro livello organizzativo di tipo armato sostanzialmente. Que­sto era poi il centro, in sintesi brutale, delle ipotesi di «Senza tregua»41’.

w Storia di vita n. 3, p. 47.411 Storia di vita n. 28, p. 39.

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Che un progetto simile avessero i collettivi riuniti attor­no a «Rosso» è, anche qui concordemente, indicato da alcu­ni dei militanti intervistati. Il tentativo di far convivere le­galità delle strutture e illegalità dei repertori dava luogo ad un modello organizzativo comprendente due «livelli di mili­tanza», così descritto:

L ’organizzazione aveva, per quello che riguardava il livello pubblico, i collettivi operai-studenti, collettivi autonomi. All’in­terno di ogni collettivo si cercava di costruire anche un nucleo, una squadra armata [...] non era necessario che fosse palese a tutti i militanti dei collettivi chi componeva la squadra. Un collettivo poteva essere composto anche di cento persone, di cui quattro di «Rosso», più una squadra e quindi, non doveva essere neanche pa­lese, questo era il livello di base di intervento dell’organizza­zione41.

Questa influorescenza di movimenti del ’77 [...] tutto il lavoro fatto negli anni prima era sostanzialmente la formazione qui a Mi­lano di una cinquantina di quadri con questa doppia abilità, da una parte di intuire se c'è una situazione di lotta esplosiva, e starci dentro, e farla crescere; dall’altra di avere in mente tutti i problemi della lotta clandestina, quindi la capacità di scegliere persone adatte per costitui­re dei nuclei, addestrarle, trasmettergli quel carisma originale del­l’organizzazione. Quando c’è questo movimento del ’77 è proprio il momento in cui questo gruppo è maturo, ha una espansione molto rapida. E infatti nella [...] zona sud di Milano, Porta Roma­na, Porta Ticinese un gruppo di una decina, una dozzina di giova­ni del quartiere — che formano un collettivo autonomo nel ’76 su tematiche molto contro l’emarginazione, contro l’eroina, per l’autoriduzione dei prezzi — nel giro praticamente di sei mesi di­venta una rete di collettivi, di una dozzina di collettivi di 20/30 persone, ognuno dei quali ha all’interno un nucleo di 7/8 che sa usare gli esplosivi, che sa usare le armi, ha il suo deposito42.

Il contemporaneo mantenimento di una struttura legale per la propaganda di massa e di una struttura clandestina per le azioni illegali era destinato a rivelarsi ben presto im­praticabile. Le testimonianze raccolte tra i militanti di quel­

41 Storia di vita n. 4, pp. 14-15.42 Storia di vita n. 12, p. 25.

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le esperienze dimostrano che di queste difficoltà essi erano stati costretti a rendersi conto ben presto. Esse avevano prodotto ancora contrapposizioni e scissioni nei vari collet­tivi, con il risultato di creare una autonomizzazione delle strutture adibite alla realizzazione delle azioni illegali dal controllo dei vertici politici dell’organizzazione. Nei collet­tivi romani vicini a «Senza tregua», ad esempio:

Inizia il discorso della non-divisione tra politica e militanza. Allora, se da una parte c’era il discorso sulla violenza e così via, e quindi il concetto che il militare, l’uso della forza fosse una cosa indispensabile per fare politica in quella situazione, dall’altra ini­ziano le prime contraddizioni sull'utilizzo di questa forza, sull’utiliz­zo del militare, quindi come realtà separata ricomponibile soltanto al­l'interno di un vertice dell'organizzazione, del partito come braccio armato delle lotte o come invece realtà che andasse costantemente unita alla politica, e quindi unita alle lotte, e quindi unita all’orga­nizzazione e quindi unita completamente all’attività politica4’ .

In realtà non era possibile risolvere questo problema, non si riesce a fare politica e a coniugare l ’altro elemento, quello clandestino e militare, questi due spezzoni stanno sempre in contraddizione tra di loro. Anche se riunificati in termini organizzativi, è come se vivessero di'vita autonoma, e quindi le contraddizioni diventa­no politiche e molto grosse sul da farsi, sul «che fare?» proprio, se privilegiare l’armamento, se privilegiare la clandestinizzazione nel rapporto politico con l’avversario oppure se privilegiare l’altro aspetto, lo chiamiamo l’altro corno, perché ci sono due corni: da una parte c’era l’organizzazione intesa come clandestina e militare e dall’altra c’era il movimento. Queste due cose si scontravano sempre [...]. Ma si scontravano proprio fisicamente, nelle persone [...] Cioè, nella questione se cominciare a togliere delle persone che facevano attività politica nel sociale per fargli fare delle altre cose, perché un’organizzazione che si comincia a porre questo problema si comincia a porre il problema dell’armamento, del finanziamen­to e così via. E quindi: dove prenderle queste persone? Dall’attività politica sociale, farle diventare dei clandestini, anche se non a tempo pieno ma nella maggior parte del loro tempo, e quindi fargli fare delle rapine, fargli fare dei «disarmamenti», fargli fare dei manifesti clandestini [...] su questi problemi si incomincia a uscire44.

43 Storia di vita n. 27, p. 25.44 Storia di vita n. 27, p. 35. E ancora: «Anche lì, le differenze sa-

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Il risultato di queste contraddizioni sarà il distacco delle strutture illegali dai gruppi legali all’interno dei quali esse si erano costituite. Attraverso dinamiche simili si allontane­rà da «Senza tregua» il gruppo che fonderà PI, tra la fine del1976 e l ’inizio dell’anno successivo; e da «Rosso» il gruppo che darà vita alle Fcc, alla metà del 1977. Come è indicato nei tre brani che seguono, tratti dalle interviste a fondatori dei due gruppi armati, in entrambi i casi saranno i militanti delle strutture «m ilitari» a disconoscere l’autorità dei diri­genti, facendo la scelta che permetteva loro di utilizzare le «abilità» apprese nel corso della loro esperienza nei gruppi legali.

Vuol dire che dei soggetti hanno praticato l’omicidio politico, cioè dei militanti sono passati loro soggettivamente da azioni minori ad una azione omicidiaria, e quindi [...] il discorso del salto assu­me, da parte loro e da parte anche di altri, una delle cose su cui nei prossimi periodi si andrà avanti. E su questa cosa [...] un’area di compagni spacca con «Senza tregua», manda a quel paese Scal­zone e Del Giudice, su un discorso di «no alla delega, no agli intel­lettuali» che non sono conseguenti e quindi il giornale deve essere un giornale più operaio45.

Ho visto pian piano prendere la predominanza a ll’interno dell’or­ganizzazione dall'apparato illegale, quindi da chi aveva i soldi, per­ché poi portato, ridotto all’osso, il problema era quello. Per esem­pio, le varie scissioni subite da «Rosso», dalle Fcc di Corrado Alunni, fino alla fine noi, [...] non erano altro che una specie di rivolte dei pretoriani^.

Schematicamente, il problema politico attorno al quale era maturata la nostra scissione era la scelta di fondo tra l’illegalità di massa e la logica dell’organizzazione combattente, con le conse­guenti necessità di clandestinizzazione e di priorità dell’aspetto

ranno quelle tra quanti sostengono un utilizzo della lotta arm ata legata alle fasi, ai momenti e alle condizioni della lotta di m assa, e chi invece com incia a pensare la lotta arm ata come un fatto politico in sé, come pro­cesso che in parte si autonom izza dalle condizioni sociali concrete da cui sono scaturite, da cui trova ragione im m ediata» (Storia di vita n. 29, p. 27).

45 Storia di vita n. 3, p. 48.46 Storia di vita n. 4, p. 21.

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militare su quello politico. Il problema di Negri, Pancino, Tommei era quello di costruire un supporto organizzativo, una struttura orga­nizzativa di servizio e di sostegno rispetto all’illegalità di massa [...] Il nostro problema, invece, era quello di costruire un assetto organiz­zativo slegato dalle congiunture dell'intervento di massa: si trattava in sostanza di clandestinizzare la struttura organizzativa e di dare la priorità politica all’intervento militare'17.

Ancora due somiglianze appaiono significative nella sto­ria della fondazione dei due gruppi armati. Una è relativa al ruolo giocato da persone che avevano avuto precedenti esperienze nelle Br sia nel diffondere alcune capacità neces­sarie alle attività illegali che nel rappresentare, con la pro­pria stessa presenza, i simboli viventi della possibilità di una scelta «diversa». Al ruolo di un ex-militante delle Br, succes­sivamente passato a «R osso» a Milano, si riferisce una inter­vista. Altre informazioni testimoniano che dinamiche simili si erano prodotte, in relazione alla fondazione di PI, per la presenza a Torino di un’altra militante proveniente dalle Br.

Il vero patrimonio della lotta armata era [...] una quantità di quadri che sapeva dal nulla anche costruire una struttura armata [...] Arriva questa figura di Corrado Alunni, che chiaramente era più teso, molto teso, per motivi anche contingenti e personali, perché era effettivamente clandestino, a diciamo una sottolineatura degli aspetti anche logistici [...] Dal ’74 al ’77 [...] «Rosso» cresce a di­smisura, mese dopo mese moltiplica la sua presenza nella città, ba­si, armi, ha capacità di finanziamento, cioè da queste prime rozze rapine, anche grazie poi molto al contributo di Alunni, che veniva dalle Brigate Rosse e che aveva una sua capacità scientifica di svali­giare le banche sorprendente'1".

U n’altra somiglianza nella dinamica di fondazione dei due gruppi è il fatto che la scelta della clandestinità sia se­guita al coinvolgimento di militanti dei due gruppi in episo­di che avevano improvvisamente innalzato il livello della violenza praticata fino a quel momento. La conseguenza era

47 Interrogatori a M arco Barbone, 4 novem bre 1980; cit. in Palom ­bari™ [1982, 137].

■,x Storia di vita n. 12, pp. 24 e 25.

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stata, in entrambi i casi, il concentrarsi su di essi dell’atten­zione degli investigatori. Nel caso di «Senza tregua», forti conflitti erano emersi a seguito del primo assassinio compiu­to da alcuni membri della struttura «militare» del gruppo, con il successivo avviarsi di inchieste giudiziarie contro di essi49. In maniera simile anche nel caso di «Rosso», il di­battito all’ interno dell’organizzazione sull’opportunità di una maggiore militarizzazione era cresciuto nell’estate del 1977. Nel maggio di quell’anno, infatti, l’assassinio di un agente di polizia durante una manifestazione — in cui erano stati coinvolti dei membri dell’organizzazione — aveva d if­fuso fra i militanti il timore di un accentuarsi della repres­sione contro di essi.

In entrambi i casi, l’esito di questi episodi era stata un’ennesima rottura all’interno dei due gruppi, con l’uscita di coloro che poi avrebbero fondato le due organizazioni clandestine50. Alla fine del 1976, i Ccpo si erano divisi su due strategie per affrontare la crisi prodotta dal ridursi dei militanti e dagli arresti. Mentre una componente aveva cri­ticato le azioni illegali, il gruppo che costituiva la struttura militare dell’organizzazione aveva scelto di accentuare la compartimentazione e l’uso di forme d ’azione illegali, fon­dando PI. Anche nel caso di «Rosso», la reazione alla crisi era stata una frattura nella leadership: mentre una frazione aveva scelto di privilegiare l’azione legale, la «struttura mili­tare» aveva accelerato il «processo di armamento» e la «clan- destinizzazione delle strutture».

La scelta strategica della clandestinità si era avuta dun­que alla fine di un processo graduale e non senza possibilità di inversione. Riflettendo preesistenti fratture nella leader-

4‘' C i si riferisce all’om icidio di un esponente del M si, Pedenovi, a Milano. Secondo le testim onianze questa azione era stata voluta da alcu­ni dei membri della struttura semi-militare per «alzare il livello dello scontro», forzando tutta l’organizzazione verso azioni sempre più vio­lente.

La maggior parte dei militanti rimasti attivi continueranno a mili­tare nelle organizzazioni-m adri, rim aste in vita ancora per pochi mesi (fi­no all’estate 1978, «Senza tregua»; fino all’autunno del 1978, «R osso»). Altre riviste verranno fondate successivam ente, per esem pio «A utono­m ia» a M ilano, «C om bat» in Veneto e, successivam ente, «M etropoli».

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ship e, al contempo, incentivandole, essa era stata lo stru­mento adottato da una frazione per reagire ad una crisi. I gruppi che l’avevano adottata avevano avuto la possibilità di minimizzare alcuni costi, anche se al prezzo di una con­temporanea riduzione di molti benefici. La presenza di alcu­ne pre-condizioni ambientali l’ aveva resa una opzione non certo vincente, ma meramente esperibile.

4. Un modello per l'emergere delle organizzazioni clandestine

Dopo avere ricostruito la storia della fondazione di alcu­ne delle formazioni clandestine operanti in Italia, si può ri­tornare, in questo paragrafo conclusivo, ad una delle do­mande poste all’inizio del capitolo: quali sono le caratteristi­che principali delle organizzazioni politiche che scelgono di andare in clandestinità? U n’ipotesi spesso avanzata è che le organizzazioni più propense a degenerare nel terrorismo sia­no quelle dotate di ideologie più radicali. Alcune interpreta­zioni del terrorismo in Italia hanno puntato l ’attenzione sul­la ideologia di alcuni gruppi legali, in particolare su quei gruppi che si erano ispirati alla dottrina «operaista»51. I ri­sultati della mia ricerca mostrano, in effetti, che molti grup­pi armati hanno tratto le loro risorse iniziali all’interno di organizzazioni politiche dotate di ideologie che giustificava­no l ’uso della violenza come strumento di pressione politica.

Prescindiamo in queste valutazioni dalle organizzazioni clandestine nate dalle fratture operatesi all’interno di grup­pi già illegali, per le quali l ’adesione ad ideologie violente non ha bisogno di essere dimostrata, e delle quali ci occupe­remo nell’analisi delle dinamiche evolutive del terrorismo. Concentriamo, invece, la nostra attenzione sui gruppi legali che abbiamo più spesso citati nel ricostruire la storia della fondazione delle formazioni clandestine: Cpm, Le, Po, col­lettivi organizzati attorno a «Rosso» e «Senza tregua». E certo che tutti questi gruppi sottolineavano spesso la neces­sità della lotta armata, l’inevitabilità dell’insurrezione per

51 Q uesta ipotesi è avanzata in Ventura [1980] e G alante [1981],

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costruire una società socialista. Il giornale dei Cpm scriveva della necessità di convincere «le masse proletarie in lotta del principio che non c ’è potere politico senza potere milita­re»52. Po e Le sono stati accusati di avere esaltato la vio­lenza politica, di avere approvato nei loro giornali le prime azioni delle Br, di avere costruito efficienti strutture se­mi-militari. Molti membri dei comitati di redazione di «Rosso» e «Senza tregua» sono stati perseguiti per reati di insurrezione armata contro i poteri dello stato, in procedi­menti penali nei quali è stata rilevata la propaganda a favore della violenza politica e sociale contenuta nelle due riviste.

L ’ideologia sembra dunque avere giocato un ruolo im­portante nello spingere i militanti di alcune organizzazioni verso il terrorismo. Per almeno tre ragioni, tuttavia, il suo valore esplicativo va delimitato. In primo luogo, il contenu­to generale di queste ideologie — la definizione del nemico, la prefigurazione della società futura — non è stato peculia­re solo alle organizzazioni da cui sono provenuti molti dei fondatori delle organizzazioni terroriste. Viceversa, questi principi ideologici erano ampiamente presenti anche in altri gruppi che pure non hanno dato origine a formazioni terro­riste. In secondo luogo, neanche le teorizzazioni sulle stra­tegie da adottare — più o meno direttamente derivate da quelle ideologie — erano proposte solo da quei gruppi che avevano scelto pratiche terroriste. Se è vero che Cpm e Po propagandavano l’insurrezione e il giornale «Lotta conti­nua» scriveva «tutto e subito», è anche vero, però, che all’i­nizio degli anni settanta queste parole d ’ordine erano adot­tate anche da organizzazioni che avevano rifiutato la costru­zione di strutture semi-militari. In terzo luogo, dalle stesse organizzazioni dalle quali i gruppi terroristi avevano tratto le loro risorse iniziali provenivano anche individui e gruppi che avrebbero in seguito criticato il terrorismo. Non occor­re ricordare che solo pochi dei militanti non solo di Le e Po, ma anche di «Rosso» e «Senza tregua» hanno aderito alla lotta armata.

Piuttosto che come cause determinanti di un comporta­

52 C itato in Silj [1977, 89],

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mento collettivo, le ideologie sembrano dunque avere ope­rato come fattori facilitanti, come risorse o vincoli nella co­stituzione di un attore politico e nella definizione delle sue strategie. Nessuna spiegazione comprensiva delle azioni di una organizzazione può basarsi solo sulle credenze politiche dei suoi militanti. Viceversa, come si vedrà meglio in segui­to, le ideologie sembrano piuttosto funzionare come razio­nalizzazioni ex-post di una già esistente escalation violenta nelle forme d ’azione.

Non è quindi tanto alla ideologia in sé che occorre guar­dare, quanto piuttosto alla cultura politica, come insieme di strategie ma anche di comportamenti concreti. Si è sostenu­to nel capitolo precedente che è stata la degenerazione delle forme d ’azione prodotta dalla lunghezza del ciclo a determi­nare l’emergere di domande non negoziabili e la radicalizza- zione delle ideologie. Le organizzazioni sopravvissute fino alla fine del ciclo senza trovare spazi di istituzionalizzazione hanno sperimentato un graduale processo di «compartimen­tazione» del loro modello organizzativo, che ha portato alla fondazione dei gruppi clandestini. Si è detto, ancora nel ca­pitolo precedente, che durante il ciclo della protesta, gruppi che avevano ritenuto insufficienti i risultati delle forme non-violente di intervento politico, avevano iniziato a usare varie forme di «pratica degli obiettivi», alcune delle quali — come i «blocchi stradali» o gli scioperi «selvaggi» — avevano prodotto la reazione violenta degli organi repressivi dello stato. Alcune componenti del movimento avevano reagito agli interventi delle forze di polizia durante le manifestazio­ni pubbliche con un graduale processo di armamento. La ra- dicalizzazione delle forme d ’azione — influenzata dalla pre­senza di organizzazioni armate — è stato il principale fatto­re della crisi prematura del «movimento del ’77», «liberan­do» un certo numero di militanti inclini, per la loro socializ­zazione politica, all’uso di repertori illegali d ’azione.

La relazione esistente tra la nascita dei gruppi armati elo sviluppo dei repertori violenti può essere osservata guar­dando alle aree geografiche in cui i gruppi terroristi hanno agito. I nostri dati si riferiscono ad eventi avvenuti in 165 comuni, dislocati in 56 province di 18 regioni. La prima impressione è dunque quella di una certa diffusione del fe-

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Tab. 2. Attività terroristica per regioni e aree geografiche, distinta per tipo di azione

Regione %eventi

N.eventi

% eventi contro persone

Piemonte 24,6 276 21,7Val d ’Aosta 0,1 1 —Luguria 8,7 98 26,5Lombardia 32,0 359 18,4Totale Nord-Ovest 65,4 734 20,7Trentino Alto Adige 0,2 2 —

Veneto 3,4 38 15,8Friuli Venezia Giulia 0,3 3 33,3Totale Nord-Est 3,9 43 16,3Emilia-Romagna 2,1 23 8,7Marche 1,1 12 8,3Toscana 7,3 82 7,3Umbria 0,1 1 —Lazio 16,1 180 24,8Totale Centro 26,7 298 27,9Campania 2,6 29 55,2Abruzzo e Molise 0,4 4 50,0Puglia 0,2 2 50,0Calabria 0,4 5 20,0Sicilia 0,4 4 25,0Sardegna _ - 0,2 2 —*Totale Sud 4,2 46 45,7Totale 100 1.121 23,4

Fonte: Elaborazioni dei miei dati, tratti dagli atti giudiziari.

nomeno nel paese, impressione che viene però corretta da una analisi più approfondita. Se guardiamo alla distribuzio­ne regionale del terrorismo — riprodotta nella tabella 2 — si può in primo luogo osservare che gli episodi si sono con­centrati nelle regioni del triangolo industriale e nelle regioni centrali, in particolare nel Lazio. In Piemonte, Lombardia e Liguria sono state condotte il 65% delle azioni, mentre il 16,1% ha avuto come teatro il Lazio. L ’81% dell’attività dei gruppi armati si è quindi svolta in quattro regioni, men-

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tre appena il 4 ,2% ha riguardato il Sud (quasi esclusivamen­te la Cam pania)53.

Si può aggiungere che il fenomeno si è concentrato in un ristretto numero di province e riguarda soprattutto i conte­sti urbani. Il 72 ,2% degli episodi è avvenuto in sole 4 pro­vince: Torino (21,8), Milano (26,5), Roma (15,6) e Genova (8 ,3)54. La concentrazione nei capoluoghi è stata, inoltre, elevatissima in tutti gli anni, con una percentuale complessi­va dell’8 5 ,6 % 55. Si può notare che sono appena 10 i co­muni in cui si sono verificati più di una decina di episodi: Torino, Varese, Genova, Milano, Bergamo, Venezia, Firen­ze, Pisa, Roma, Napoli. Essi coprono il 79 ,3% del totale56. Ancora, il 66 ,1% del totale degli episodi si è con­centrato in quattro comuni: Torino (21% ), Milano (21,7) Roma (15,1) e Genova (8,3), cioè nelle metropoli del trian­golo industriale e nella capitale.

Diversa è stata, inoltre, l’evoluzione nel tempo del feno­meno terroristico nelle diverse aree in cui esso si è sviluppa­to, come ci viene indicato dai dati presentati nella tabella 3.

Si può rilevare un graduale spostamento dalle città del Nord a quelle del Centro e del Sud, che interessa l ’intero periodo. In una prima fase le organizzazioni armate hanno operato prevalentemente nelle regioni settentrionali. Nei primi due anni in esame esse erano presenti solo a Milano e a Roma. Mentre però negli anni immediatamente successi­vi il numero degli episodi si manteneva elevato nel capoluo­go lombardo, il terrorismo cessava invece di esistere nel

53 Una diversa distribuzione hanno gli episodi contro le cose e quelli contro le persone. Q uesti ultimi hanno, in fatti, un peso percentuale m ag­giore nelle regioni in cui gli episodi di violenza non-terroristica sono m e­no presenti, come la Liguria, il Friuli Venezia G iulia e, più in generale,il Sud.

54 In appena 9 delle 56 provincie colpite si concentrano un numero di episodi superiori a 20, per un totale pari all’85 % degli eventi rilevati. Alle quattro provincie già nominate si aggiungono Vercelli, Varese, V e­nezia, Firenze e N apoli.

55 Appena 152 su 1127 sono le azioni condotte in provincia; di que ste, ben 69 sono azioni di «autofinanziam ento», cioè rapine.

56 Solo altri quattro comuni superano la soglia, bassissim a, dei 5 epi­sodi: Brescia, Verona, Bologna e Cinisello Balsam o. Q uesto vuol dire che la media degli episodi avvenuti in ciascuno dei restanti comuni è di 1,3.

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T ab . 3. Distribuzione degli aventi terroristici per anno e percentuale degli attentati contro persone in sette città

Torino Genova Milano Venezia Firenze Roma Napoli

1970 3 11971 — — 8 — — 8 —

1972 19 — 11 — — — —

1973 1 — 4 — — — _1974 13 1 6 3 1 3 71975 19 4 13 3 _ 8 21976 33 10 14 4 2 14 11977 45 21 41 — 20 30 11978 39 14 53 — 26 35 21979 57 15 34 1 8 20 31980 5 24 34 2 1 28 _1981 2 3 15 5 — 11 51982 2 1 6 5 — 9 21983 — — 1 — — 2 —Totale 235 93 243 22 58 169 23% contropersone 21,3 26,9 21,8 18,2 6,9 39,7 52,2

Fonte: Elaborazioni dei miei dati, tratti dagli atti giudiziari.

Centro, fino al 1974. Nel 1972 esso cominciava ad operare a Torino, e nel 1974 a Venezia, Firenze e Genova. Questo ampiamento del raggio d ’azione al Nord era causato dal raf­forzamento organizzativo delle Br, mentre nello stesso pe­riodo si cominciava ad avvertire una debole presenza del fe- ' nomeno al Centro e al Sud, dovuta alla nascita dei Nap.

L ’attività delle formazioni armate diveniva consistente nella capitale solo dal 1977, mantenendosi su una media co­stante di una trentina di episodi nei tre anni successivi. Allo spostamento nelle regioni centrali delle capacità operative dei gruppi armati non corrispondeva, però, alcuna riduzione delle loro capacità offensive nella zona del triangolo indu­striale. Le stesse città che avevano visto la nascita del terro­rismo continuavano ad essere afflitte dalla sua presenza. La stagione del terrorismo durava, infatti, solo due anni a F i­renze, ma fino a tutto il 1979 a Torino e fino al 1980 a M i­lano e Genova, il numero degli episodi di terrorismo si man­teneva, invece, elevatissimo. Il crollo era drastico a Torino a partire del 1980, coincidendo con i numerosi arresti che

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avevano distrutto la colonna brigatista e il gruppo di PI. A Genova un netto calo dell’attività terrorista si registrava a partire dal 1981, quando venivano arrestati quasi tutti i membri della colonna brigatista operante nella città. Lo stesso avveniva a Milano dal 1982. In questi anni le orga­nizzazioni clandestine avevano spostato le loro strutture lo­gistiche in altre aree geografiche: in particolare in Veneto, dove c’era già stato un minimo di attività, in coincidenza con la fondazione di una colonna brigatista, poi «congela­ta», nella prima metà degli anni settanta; a Napoli, dove ad un primo periodo segnato dall’attività dei Nap erano seguiti degli anni di assenza del fenomeno; e, soprattutto, nella ca­pitale, dove il numero di episodi rimaneva ancora alto — in percentuale — alla fine del periodo57.

Si può così concludere che le formazioni clandestine so­no cresciute nelle città che più avevano sperimentato forme violente d ’azione politica. Le Br sono emerse a Milano, pro­prio dove le lotte di lavoratori e studenti erano state più strettamente intrecciate e la loro intensità aveva facilitato il prodursi di episodi di violenza. Proprio a Milano, tra la fine degli anni sessanta e l ’inizio degli anni settanta, alcuni militanti erano stati uccisi nel corso di interventi delle forze dell’ordine o in scontri fisici con avversari politici dell’estre­ma destra. Ancora nella capitale lombarda, era stata com­piuta da gruppi neo-fascisti la prima strage della storia ita­liana del dopoguerra. Sempre qui, altri gruppi armati — PI, Fcc, Rea, G r, Brigata Lo Muscio, Pac, per nominarne solo alcuni — sono stati fondati nella seconda metà degli anni settanta, in un periodo in cui questa città aveva visto il mag­gior numero di eventi violenti: dagli «espropri proletari», iniziati nel 1974, alle «dimostrazioni armate» del 1976 e 19775X.

,/ Si può, anche qui, osservare una diversa distribuzione tra azioni contro le cose e azioni contro le persone. Q ueste ultime hanno assunto, ad esem pio, un peso percentuale molto maggiore nelle città in cui il terro­rismo è arrivato più tardi — per esem pio, Napoli e Rom a — e più ridot­to, invece, dove la stagione terroristica è stata più breve — per esem pio, Firenze.

5* Su questo periodo, si vedano le ricostruzioni giornalistiche di Calvi [1982] e Stajano [1982],

128 \

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I due maggiori gruppi terroristi si sono diffusi, in segui­to, a Torino, cioè nella città nella quale i movimenti operaio e urbano avevano assunto — negli anni sessanta — le loro forme più drammatiche, sfociando nelle occupazioni di case e nelle irruzioni arm ate59. Quindi, a partire dal 1976, un numero crescente di organizzazioni clandestine veniva fon­dato a Roma: Ucc, Fac, la colonna romana delle Br e molti piccoli gruppi armati, dotati di un limitatissimo raggio d ’a­zione. Ciò è avvenuto, ancora una volta, nel contesto di una degenerazione violenta delle forme d ’azione che, più tardi che nelle città industriali, si era diffusa anche nella capitale. Anche lì, la violenza si era sviluppata nel corso degli inter­venti della polizia durante l’occupazione di alcune case sfit­te, e nel corso di scontri fisici con i militanti della destra, durante la complessa evoluzione del «movimento del ’77». Per contrasto i tentativi fatti dalle organizzazioni armate erano falliti in quelle aree in cui i repertori violenti erano meno diffusi.

Una spiegazione della radicalizzazione dei repertori e delle ideologie di alcune organizzazioni può essere trovata nel fatto che la maggior parte dei gruppi, apparsi sin dalla fine degli anni sessanta, traevano le loro risorse dallo stesso processo di mobilitazione. Come scrive Tarrow:

Quando è cresciuto il numero dei nuovi gruppi e il mercato per l’attività di movimento sociale si è rotta, gli organizzatori hanno cercato di superarsi l’un l’altro nella competizione per il so­stegno esterno. Il risultato è stato una crescente intensità del con­flitto all’interno del settore dei movimenti sociali. La sua espres­sione finale sarà la violenza organizzata alla fine del ciclo60.

La competizione fra loro e con le organizzazioni dotate di maggiori risorse istituzionali produceva la scelta di reper­tori sempre più radicali.

M a la diffusione di repertori violenti costituisce una spiegazione solo parziale del processo di formazione delle organizzazioni armate. Occorre aggiungere che esse si sono

59 C fr. Stajano [1982],60 Tarrow [1989].

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costituite attraverso l ’attivazione di reti di conoscenze indi­viduali, rafforzate da comuni appartenenze politiche. Ciò può essere osservato per diverse organizzazioni, riprenden­do le informazioni presentate nei paragrafi precedenti e in­tegrandole con altre provenienti dagli atti giudiziari.

Si è detto che le Br sono state fondate a Milano dai mili­tanti di un piccolo gruppo della sinistra «marxista- lenini­sta», il Collettivo politico metropolitano (Cpm), in cui era­no confluiti un gruppo di militanti del movimento studente­sco di Trento e un gruppo di militanti di un’organizzazione giovanile di Reggio Emilia. La crisi dei Gruppi di azione partigiana (G ap)61 aveva probabilmente offerto loro alcune altre risorse sia umane che materiali. I fondatori della colon­na torinese avevano condiviso la partecipazione in un grup­po semi-legale, che aveva compiuto alcune azioni armate al­la Fiat. La colonna romana veniva costituita, nel 1976, da un gruppo di persone che non solo avevano avuto una prece­dente militanza in Po, ma erano anche legate l ’una all’altra da rapporti di amicizia e parentela. A Genova all’inizio de­gli anni settanta, così come a Napoli alla fine del decennio, i gruppi che avevano fondato la colonna brigatista proveni­vano da altre esperienze di azione politica illegale.

In tutte le città in cui PI è stata presente, i suoi fondato­ri avevano avuto — come si è detto — esperienze simili nei Ccpo, costituiti da una confluenza tra i militanti di Le e quelli di Po. Dalla stessa sezione di Le — quella della perife­ria milanese di Sesto San Giovanni — venivano i membri dei Comitati comunisti, che avevano preceduto i Ccpo. A Torino, i militanti di Pi avevano condiviso una militanza nei Comitati operai e studenteschi, aggregati attorno alla rivista «Senza tregua», e nei Circoli del proletariato giovanile orga­nizzati da Le. I promotori di PI a Firenze avevano militato in precedenza in'due gruppi collegati a quella stessa rivista: il Collettivo architettura e il Collettivo mensa.

61 I G ap sono stati il prim o nucleo «arm ato» attivo in Italia. Com e è noto, essi erano stati fondati da G iangiacom o Feltrinelli e si erano sciol­ti alla morte dell’editore, dopo avere com piuto pochissime azioni (preva­lentemente, la diffusione di «appelli rivoluzionari» attraverso una «radio pirata»). Sulla loro storia, cfr. Bocca [1978b],

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Le Fcc venivano create da alcuni militanti dei collettivi legati all’altra rivista, «Rosso». I fondatori provenivano da quattro piccoli gruppi politici — il Collettivo Romana-Vit- toria, il Collettivo Sempione, il Collettivo autonomo di Lui- no e il Collettivo autonomo di Varese — costituiti da dense reti di rapporti di amicizia e parentela. Per ricordare solo al­cuni altri esempi dalle organizzazioni minori, i Nap erano cresciuti a Napoli nel 1974 dalla «Commissione carceri» di Le. I Pac erano costituiti da militanti provenienti da due piccoli nuclei — il Collettivo autonomo della Barona e il Collettivo autonomo Stadera — organizzati da «Rosso».

In modo simile, un ruolo rilevante avevano avuto le reti di conoscenze individuali nel determinare la fondazione del­le organizzazioni emerse da fratture nei gruppi armati.

Guerriglia rossa è stata fondata da quello che un giudice istruttore ha definito come: «un gruppo di gente che condi­videvano reciproci rapporti di amicizia e un comune passato di militanza nelle F cc»62. Ancora un magistrato ha descrit­to la fondazione della Brigata Lo Muscio, come Fazione di un militante delle Fcc che «usando la sua influenza nel mo­vimento milanese, non ebbe nessuna difficoltà a galvanizza­re un gruppo di giovani»63.

Concludendo, l’adozione di una struttura clandestina da parte di alcune frazioni formatesi all’interno di organizza­zioni legali è corrisposta alla scelta di sperimentare una delle possibili strategie per affrontare le difficoltà derivanti dal declino della mobilitazione. La clandestinità ha infatti ri­dotto i rischi di arresti e rafforzato l ’identità del gruppo, o f­frendo degli incentivi simbolici sostitutivi rispetto alla man­canza di efficacia pratica. E ssa ha, inoltre, permesso di deli­mitare un’area di reclutamento privilegiata /nei settori di movimento più propensi a forme d ’azione violente. Nei no­stri esempi, l’elemento precipitante della definitiva uscita dalla legalità per alcuni di essi è stato un qualche avveni­mento che ha improvvisamente accresciuto l’attenzione re­

62 Tribunale di M ilano, Sentenza-ordinanza del Gl in PP 225/81 + 716 /8 0 , p. 296 .

63 Tribunale di M ilano, Sentenza-ordinanza del Gl in PP n. 226/81.

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pressiva dello stato verso quel particolare gruppo. Di fronte a questa situazione di rischio, i leader si sono divisi su d iffe­renti strategie organizzative. Le componenti più «attrezza­te» all’uso di repertori violenti hanno quindi scelto la clan­destinità.

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IL P R O C E SSO D I R E C L U T A M E N T O : LE M O T IV A Z IO N I IN D IV ID U A LI

CAPITOLO QUARTO

1. Socializzazione primaria e adesione a gruppi clandestini:una critica

L ’analisi della struttura delle opportunità politiche e dei processi di formazione dei gruppi clandestini, condotta nei capitoli precedenti, ha offerto anche degli spunti per capire le motivazioni di coloro che hanno aderito alla lotta armata. Non si è tuttavia, fino ad ora, affrontata una delle questioni poste nel capitolo introduttivo: perché alcuni individui, e non altri, hanno fatto la scelta di entrare in organizzazioni terroriste? Esistono delle caratteristiche comuni alle perso­ne da esse reclutate? In questo capitolo, si proverà a rispon­dere a queste domande, utilizzando sia le informazioni pro­venienti dagli atti giudiziari, che quelle contenute nelle in­terviste. Si è già detto che la letteratura sul tema dell’ade­sione ad organizzazioni terroristiche è stata, in generale, ca­ratterizzata dal pregiudizio di voler spiegare le forme più ra­dicali di protesta attraverso presunte patologie caratteriali dei suoi più attivi fautori. Nel caso particolare delle organiz­zazioni politiche clandestine, la partecipazione individuale è stata variamente attribuita a individui deboli, dotati di scarsa intelligenza, egocentrici, frustrati nel tentativo di co­struirsi una identità positiva1. Queste interpretazioni non sono, tuttavia, mai state controllate empiricamente. Nei po­chi casi in cui sono state condotte ricerche sulla personalità dei terroristi, ciò è avvenuto dopo il loro arresto, cioè dopo che essi erano già passati attraverso almeno due istituzioni totali: l’organizzazione clandestina e il carcere.

1 C i si riferisce in particolare ad analisi di storie di terroristi, conte­nute in Billing [1984]; Ivianski [1983]; Knutson [1981]; Livingstone [1982],

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Nel nostro caso, le storie di vita non sono certo lo stru­mento metodologico più adatto all’analisi delle peculiarità psicologiche. Anche la nostra ricerca, inoltre, si è svolta, ov­viamente, dopo che gli intervistati erano già passati attra­verso le esperienze della lotta armata, prima, e, poi, del car­cere. Può essere tuttavia interessante osservare che un’ana­lisi delle nostre biografie non permette di rilevare alcun se­gno di patologie caratteriali o alcuna esperienza comune nel­la socializzazione primaria. In oltre due terzi delle 28 storie di vita, la famiglia viene descritta come «normale». Solo nel rimanente terzo, sono emersi problemi familiari quali la morte di un genitore nel periodo dell’infanzia o della prima adolescenza (3 casi), forti tensioni (2 casi) o la separazione dei genitori (3 casi). Per quanto riguarda il tipo di educazio­ne, in oltre la metà delle biografie (16 casi) il rapporto con i genitori è definito in termini molto positivi; in un terzo circa (8 casi) come mediamente buono; mentre solo in 4 casi sono emersi atteggiamenti autoritari da parte di almeno uno dei genitori. Un discorso più approfondito, e diversi stru­menti metodologici, meriterebbero infine alcune ipotesi, emerse nel corso di studi sociologici sulle conversioni reli­giose, a proposito dell’esistenza di traumi personali che pre­cederebbero immediatamente l’adesione. A partire dalle in­terviste si può solo rilevare che esse sono state poco presen­ti, sia in termini di crisi familiari2, che in termini di disa­dattamento nella carriera scolastica*.

Ancora relativamente al periodo della socializzazione primaria, non ha trovato neanche conferma — almeno a questo livello — l’ipotesi già illustrata che collega il terrori­smo di sinistra alla interiorizzazione di un rigore morale as­sorbito in un ambiente familiare con forti tradizioni

2 A partire dalle biografie si può solo osservare che l ’esistenza di «traum i» è stata rilevata in soltanto un terzo dei casi. In 5 casi la morte di un genitore, in due la rottura del rapporto di coppia, in altri tre la lati­tanza o l’arresto del proprio compagno. Q uesti ultimi cinque casi riguar­davano le biografie di donne.

' Possiam o osservare che le storie di vita hanno perm esso di rico­struire anche delle carriere scolastiche assolutam ente normali. Con l’ec­cezione di sei casi, le rimanenti 22 persone hanno proseguito gli studi ol­tre la scuola dell’obbligo; di esse sei hanno conseguito una laurea.

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cattoliche4. In oltre la metà delle biografie, infatti, l ’edu­cazione ricevuta in famiglia è stata descritta come decisa­mente laica; solo in 5 casi come molto religiosa; mentre nelle rimanenti storie di vita si trova una adesione superficiale al cattolicesimo. Anche per quanto riguarda l’esperienza per­sonale in rapporto alla religione, le biografie ne confermano la scarsa rilevanza. L ’incontro con organizzazioni cattoli­che, presente solo nella metà dei casi, è prevalentemente strumentale e ha una limitata intensità5. Per quanto ri­guarda, viceversa, le tradizioni politiche, ben 16 fra gli in­tervistati sono cresciuti in famiglie di sinistra e solo quattro in famiglie orientate verso il centro o la destra. Perché que­sti dati siano interpretabili, occorrerebbe tuttavia avere del­le informazioni, finora mai raccolte, sulle tradizioni politi­che presenti nelle famiglie dei tanti attivisti dei movimenti collettivi di quegli anni che non hanno fatto la scelta della lotta armata.

Scartando, dunque, le spiegazioni dell’adesione in ter­mini di turbe psicologiche, si è tentata una diversa direzione di ricerca, partendo dall’assunto, già illustrato, che i gruppi clandestini — almeno quelli di sinistra — sono delle orga­nizzazioni politiche, seppure dotate di caratteristiche pecu­liari. Se si accetta questa prospettiva analitica, le motivazio­ni individuali all’adesione possono essere spiegate applican­do lo stesso insieme di categorie utilizzato per altri tipi di organizzazioni politiche, più specificamente per quei gruppi meno dotati di risorse materiali. Negli studi sulle motivazio­ni individuali all’adesione a movimenti collettivi è stato, ad esempio, suggerito che l’inclinazione alla partecipazione de­riva dalle caratteristiche strutturali di alcuni gruppi di indi­vidui. In un primo tempo, si è ritenuto che essa fosse parti­

4 E l’ ipotesi presentata nel secondo capitolo come quella del «catto­com unism o», sostenuta però con esempi relativi soltanto ad alcuni fra i fondatori delle Br (per esem pio, Bocca [1978b]).

5 In sette casi, vi erano state esperienze, in genere brevi, in scuoleo convitti religiosi, di solito scelte a causa dell’assenza di corrispondenti servizi gestiti da istituzioni non religiose; in sei casi, per ragioni «ricreati­ve», erano stati frequentati oratori o associazioni scautistiche. Solo in due casi, vi era stato un impegno in gruppi politici di ispirazione catto­lica.

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colarmente alta fra le persone marginali e/o alienate, alla ri­cerca di ricompense sostitutive6. E stato però, in tempi più recenti, osservato che gli individui molto bene inseriti nel sistema sociale sono quelli più propensi ad agire colletti­vamente. Uno status sociale più elevato può, infatti, essere considerato come una importante precondizione dell’azione collettiva, in quanto offre sia maggiori competenze specifi­che che più ampie possibilità di successo7. Si è aggiunto, infine, che una maggiore disponibilità di tempo libero e i minori rischi di sanzione sociale incoraggiano la partecipa­zione dei giovani a forme di mobilitazione collettiva.

Tutte queste ipotesi sulle motivazioni individuali alla partecipazione, fondate sulle caratteristiche strutturali dei singoli militanti, sono plausibili. M a nessuna di esse è in grado di spiegare perché un individuo, per quanto margina­le o influente, decida di aderire ad una organizzazione poli­tica piuttosto che ad un altro tipo di associazione volontaria né secondo quali criteri scelga fra diversi gruppi politici. A questo tipo di interrogativo si può cercare di rispondere at­traverso un’analisi delle caratteristiche strutturali dei grup­pi della popolazione cui alcuni particolari tipi di organizza­zione fanno riferimento. Un passo in questa direzione è l’in­dividuazione di quello che è stato definito come potenziale di mobilitazione*. Nel prossimo paragrafo si analizzeranno, dunque, alcuni dati relativi alle principali caratteristiche «strutturali» dei militanti — sesso, età, occupazione, aree di provenienza — al fine di valutarne l’influenza sulla scelta di aderire a gruppi clandestini.

Tali dati permetteranno di tracciare un quadro del tipo di individui potenzialmente mobilitabili. Si osserverà però che questo tipo di criteri è troppo vago per individuare in quali ambienti i gruppi terroristi reclutano e attraverso qua­li canali passa il processo di reclutamento. Occorre dunque

6 II riferim ento più classico è Korhnauser [1959].7 Simili ipotesi sono state proposte nella letteratura sui movimenti

collettivi; per esem pio in W alsh e W arland [1973]; W ood e Hughes[1984],

* Per questo concetto faccio riferim ento a Klanderm ans [1984; 1985].

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una diversa prospettiva d ’indagine che ci ponga in condizio­ne di rispondere a queste domande. A questo proposito, è sembrato proficuo seguire l’approccio che tende a spiegare l’adesione degli individui ad organizzazioni politiche con ri­ferimento alle reti di relazioni alle quali essi appartengono. M olte ricerche hanno infatti dimostrato che la disponibilità a lasciarsi reclutare deriva dalla prossimità strutturale e, in­sieme, dalle interazioni affettive con i membri di un gruppo9. Questa ipotesi verrà discussa nel corso del succes­sivo paragrafo. Si osserverà, tuttavia, che la partecipazione a reti amicali non è sufficiente a determinare la mobilitazio­ne politica, per spiegare la quale bisognerà guardare anche ai graduali processi di formazione di identità politiche «forti».

2. Caratteristiche strutturali degli individui e adesione alle or­ganizzazioni clandestine

I comportamenti politici vengono spesso spiegati attra­verso l ’utilizzazione di variabili di tipo demografico, anche se il loro peso varia molto in relazione a diversi tipi di agire e di organizzazione. Una variabile quale il sesso influenza meno il comportamento elettorale, ma in misura molto rile­vante le forme più dirette di partecipazione politica. E sisto­no anche casi estremi in cui il possesso di alcune caratteristi­che demografiche viene considerato come condizione indi­spensabile per l’adesione. L ’essere donne è , per esempio, un requisito per la partecipazione in talune organizzazioni del movimento femminista; l’appartenenza ad una razza o reli­gione per l ’adesione ad alcuni gruppi a base etnica. Alcuni piccoli gruppi della sinistra radicale hanno cercato di preser­

9 Per citare solo alcune delle ricerche sul ruolo delle reti di am icizia nel reclutam ento in organizzazioni di movimenti collettivi, si vedano: Aveni [1977; 1978]; Bultena e Barb [1975]; Burton [1972]; Cam eron [1974]; G erlach e H ine [1970]; Pinard [1971]; Rochford [1982]; Rogers e Bultena [1975]; Snow, Zurcher e Ekland-O lson [1980]; W ilson e Orum [1976]. Per un’applicazione di queste ipotesi al terrorism o italiano, si rin­via a della Porta [1987b; 1988a; 1988d] e N ovaro [1988].

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vare la loro «purezza» accettando solo quote ridotte di indi­vidui esterni alla «classe operaia». Ma anche quando l’ade­sione è formalmente aperta, molte organizzazioni politiche reclutano selettivamente in alcuni strati della popolazione individuati per età, sesso, status sociale, provenienza regio­nale — ritagliando così il loro potenziale di mobilitazione. Informazioni sui militanti delle organizzazioni clandestine saranno utilizzate in questo paragrafo per individuare alcu­ne delle caratteristiche del potenziale di mobilitazione dei gruppi terroristici.

U n’informazione da cui si può partire è l ’entità della partecipazione delle donne. I nostri dati indicano che il 25% dei membri di organizzazioni clandestine di sinistra era di sesso femminile (281 persone su 1.138). Q uesta pro­porzione si mantiene costante nelle diverse formazioni (il 53% delle donne hanno militato nelle Br, contro un 48% per gli uomini) e tende ad essere leggermente inferiore all’i­nizio (attorno al 18% fino al 1975) e ad aumentare nella se­conda metà degli anni settanta. Resta il problema di come valutare questo livello di adesione. In confronto con quello corrispondente per altre organizzazioni di movimento, esso non si discosta probabilmente di molto dalla media. Rispet­to, invece, alla componente di donne attive in altre forme di violenza politica, il caso delle formazioni clandestine di sinistra in Italia è fra quelli con più alta presenza femminile. Questo dato può essere spiegato da alcune caratteristiche sociali del fenomeno terroristico in Italia, che hanno ridotto alcuni tradizionali vincoli alla militanza politica delle don­ne, innanzi tutto dal fatto che le organizzazioni clandestine hanno agito prevalentemente nelle grandi metropoli. Vi so­no inoltre delle differenze regionali, anche se non partico­larmente rilevanti, che sembrano indicare che la presenza delle donne nelle organizzazioni clandestine è maggiore nel­la aree metropolitane e nel Centro-nord, laddove tendono cioè ad indebolirsi le tradizioni culturali e le condizioni so­ciali che ostacolano l ’attività politica delle donne10.

Un secondo dato anagrafico è stato spesso considerato

10 C fr. della Porta [1988b].

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T ab . 1. Anno di nascita dei membri delle oryinizzazioni clandestine

Anno di nascita N. militanti % % cumulativa

Fino al 1930 8 0,7 0,7Dal 1931 al 1935 3 0,3 1,0Dal 1936 al 1940 24 2,2 3,2Dal 1941 al 1945 57 5,2 8,4Dal 1946 al 1950 176 16,2 24,6Dal 1951 al 1955 395 36,4 61,0Dal 1956 al 1960 375 34,5 95,5Dal 1961 al 1963 48 4,4 100,0Totale 1.086 100,0Valori mancanti 51

Fonte: Elaborazioni dei miei dati, tratti dagli atti giudiziari.

rilevante per la definizione del potenziale di mobilitazione di molte organizzazioni politiche: la generazione. La distri­buzione dei membri delle organizzazioni clandestine per an­no di nascita è riportata alla tabella 1.

Si può rilevare che solo l ’ l% dei 1.137 membri censiti è nato prima del 1936; solo un altro 7,4% nel decennio suc­cessivo. La percentuale comincia ad essere più elevata tra il 1946 e il 1950, con un 16,2%. in questi cinque anni. Si può ritenere che la maggior parte di questi individui si sia socia­lizzata politicamente alla fine degli anni sessanta. Ma si de­ve ancora osservare che questa generazione non costituisce il nucleo più consistente dei reclutati nelle organizzazioni clandestine. Il 75 ,4% dei loro membri è costituito infatti da persone nate dopo il 1950; e il 38 ,9% dopo il 1955. Se qual­che differenza esiste per le Br, in cui la percentuale di mili­tanti nati entro il 1950 è più alta, anche in questa organizza­zione, però, i militanti nati dopo quella data restano il nu­cleo più numeroso. Si può già osservare che solo un numero ridotto di militanti socializzati alla politica alla fine degli an­ni sessanta ha successivamente optato per la lotta armata.Il più rapido e cospicuo incremento nel reclutamento è av­venuto, invece, quando lo sforzo delle organizzazioni clan­destine ha trovato una larga base potenziale in un altro gruppo di militanti, con alta propensione alla violenza poli­

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tica. Troppo giovani per essere stati coinvolti nelle prime fa­si del ciclo di protesta della fine degli anni sessanta, i mili­tanti della «seconda generazione» del terrorismo — come si vedrà nel prossimo paragrafo — erano stati socializzati alla politica in quei gruppi che avevano avuto origine nella crisi della Nuova sinistra.

Per quanto riguarda, inoltre, l’età al momento dell’ade­sione, si può osservare — sempre a partire dai nostri dati quantitativi — che oltre il 90% dei militanti delle organiz­zazioni clandestine ha meno di 33 anni al momento del re­clutamento. La frequenza più alta si ha per i 22 anni. I di­ciottenni sono più numerosi dei trentenni. Anche in questo caso, si può dire che l’età in cui si viene reclutati in organiz­zazioni clandestine non coincide con quella in cui normal­mente si aderisce ad organizzazioni politiche istituzionali. Similarità sono invece riscontrabili se si guarda alle organiz­zazioni dei movimenti sociali, in particolare dei movimenti di protesta giovanile attivi in quegli anni.

Un ulteriore dato anagrafico che può essere utilizzato per delimitare il potenziale di mobilitazione delle organizza­zioni politiche è quello relativo alle regioni di origine o di residenza dei militanti. Anche nel caso delle organizzazioni clandestine di sinistra si può ritenere che le variabili geogra­fiche abbiano avuto un peso rilevante. Alcune informazioni sono state riportate nella figura 1.

Due osservazioni sono rilevanti. La prima riguarda il luogo di residenza. Come risulta prevedibile dai dati sulla distribuzione geografica delle azioni, presentati al capitolo terzo, gli individui maggiormente coinvolti nelle organizza­zioni clandestine sono i residenti delle regioni del Nord- ovest (ben il 61 ,6% ), seguiti da quelli residenti al Centro e quindi, in pari numero, al Nord-est e al Sud. Quasi la totali­tà dei militanti di organizzazioni clandestine risiede, inol­tre, in città capoluogo di provincia. Questi dati conferma­no, dunque, che il terrorismo è stato un fenomeno urbano, che si è sviluppato nelle regioni industriali del paese e nel Centro. Se si guarda ai comuni di residenza, si conferma inoltre il suo carattere metropolitano: il 17,6% dei reclutati nei gruppi armati abitava a Torino, il 27 ,7% a Milano, il 16% a Roma, il 6 ,6% a Napoli.

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N. me

mbri

9 0 0 -

1000-Distribuzione regionale militanti

8 0 0 -

700 H

Nord-ovest Nord-est Centro Sud CapoluogoAree geografiche

I Nascita

EH Residenza

F ig . 1. Distribuzione geografica dei militanti.Fonte: Elaborazioni dei miei dati, tratti dagli atti giudiziari.

M a una seconda osservazione, in qualche modo meno prevedibile, emerge se si confrontano le aree di nascita con quelle di residenza. Si rileva, infatti, che ben 285 individui

, sono nati al Sud, contro i 90 che ancora vi risiedono. Il sal­do è invece positivo nel Nord-ovest, dove sono nati 402 mi­litanti e risiedono, invece, 678. Disaggregando il dato per regione, dei 196 individui residenti in Piemonte, solo 109 vi sono nati; solo 226 dei 375 residenti in Lombardia; solo12 dei 39 residenti in Toscana. Diversa è la situazione nel Lazio (dove sono nati ben 145 dei 183 residenti), in Cam pa­nia (51 su 62) e in Veneto (52 su 64). Ancora un indicatore

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della mobilità geografica dei militanti delle organizzazioni clandestine emerge dal confronto tra numero dei comuni su cui essi si distribuiscono se si guarda alla nascita e numero di comuni se si prende in considerazione la residenza. I co­muni di nascita sono infatti 422; ma meno di un quarto di essi (91) sono quelli di residenza. Se si analizza, infine, la distribuzione tra comuni capoluogo e no, si può rilevare che ben 979 individui del nostro campione risiedono in città ca­poluogo di provincia, ma solo 597 vi sono nati.

Molti dati convergono dunque nell’indicare che le orga­nizzazioni clandestine hanno reclutato in ambienti urbani e, in particolare, nelle grandi città del Nord-ovest e del Cen­tro. Tuttavia, molti dei reclutati avevano alle spalle una esperienza di recente emigrazione e urbanizzazione. Le sto­rie di vita confermano questi dati: esperienze di emigrazio­ne sono state, infatti, riscontrate nella metà delle biografie raccolte. Fenomeni di mobilità geografica sono stati, inol­tre, presenti nella famiglia d ’origine, anche quando non hanno riguardato la biografia del militante. Con sole sei ec­cezioni, l ’esperienza dell’emigrazione è stata ricostruita nel­la storia di almeno uno dei genitori, in 13 casi prevalente­mente come emigrazione dal Sud, in 6 dalla campagna e in 3 da un centro più piccolo. Queste esperienze sono apparse vivide e rilevanti anche nei ricordi di chi non aveva avuto vicende personali di mobilità geografica.

Si può dunque concludere che esperienze di mobilità geografica sono state molto diffuse fra coloro che venivano reclutati nelle organizzazioni clandestine. Un confronto con altri gruppi della popolazione sarebbe necessario per con­trollare la specificità della distribuzione dei militanti dei gruppi clandestini a questo proposito. Se emergesse che le esperienze di emigrazione sono state più frequenti nel no­stro campione, potrebbero acquisire interesse quelle inter­pretazioni che collegano il terrorismo al vuoto di valori deri­vante dalla mancata sostituzione di un coerente sistema di significati della cultura industriale a quella già in crisi della società tradizionale. M a per rendere questa argomentazione credibile occorrerebbe confrontare i militanti di gruppi clandestini non solo con la popolazione italiana nel suo com­plesso, ma soprattutto con quei settori di essa che hanno

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partecipato ai movimenti collettivi degli anni sessanta e set­tanta, senza successivamente aderire alla «lotta armata». In attesa di dati che rendano possibile questo confronto, le in­formazioni che abbiamo fin qui discusso sono comunque ri­levanti per comprendere il clima in cui era avvenuta la socia­lizzazione dei militanti delle organizzazioni clandestine, quello cioè di grandi e rapide trasformazioni economiche e sociali, che rafforzavano il bisogno di appartenenza a, e la rilevanza di, gruppi di pari.

Accanto ai dati a carattere piuttosto «anagrafico», un al­tro tipo di informazioni spesso utilizzate per delimitare il potenziale di mobilitazione di alcune organizzazioni politi­che è la classe sociale. In alcuni tipi di comportamento poli­tico — si pensi alla partecipazione sindacale o al voto per i partiti «di classe» tradizionali — la posizione occupaziona­le è stata anzi spesso considerata come la variabile più rile­vante. Si è già detto che, anche nel dibattito sulle cause del terrorismo, alcuni gruppi sociali sono stati indicati come principali «responsabili» dell’emergere del fenomeno. Nel caso delle organizzazioni clandestine di sinistra in Italia, va­rie e contraddittorie ipotesi sono state avanzate su questo punto.

Queste ipotesi possono essere discusse prendendo in esame i dati quantitativi relativi alla posizione occupaziona­le dei militanti delle organizzazioni clandestine, riportati al­la tabella 2.

Sembrano smentite, in primo luogo, le due ipotesi «estrem e» che vedono il terrorismo come prodotto di «de­viazioni borghesi» o di marginalità sociale. I militanti disoc­cupati o appartenenti al sottoproletariato sono pochissimi, superando appena, complessivamente, il 2% . Lo stesso vale per la borghesia industriale e delle professioni: 5% circa, in­cluso il 2 ,2% degli avvocati, caso certamente particolare. R idotta è anche la percentuale di piccola borghesia autono­ma (con un 2 ,4% per i piccoli commercianti e un 1,8% per gli artigiani). Più frequenti sono invece le occupazioni rela­tive alla nuova piccola borghesia: 30% , con un 4 ,9% per gli insegnanti e un 18,7% di impiegati. M a la percentuale più elevata è quella relativa alle occupazioni manuali dipenden­ti, che raccolgono ben il 42 ,9% dei casi. Si deve dire che,

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Tab. 2. Posizioni professionali dei militanti delle organizzazioni clandestine

Occupazione N.militanti

%militanti

Operaio industria 180 40,0Operaio edile 2 0,4Netturbino 2 . 0,4Collaboratore domestico 1 0,2Marittimo 1 0,2Portiere 2 0,4Addetto pulizie 2 0,4Commesso 3 0,7Totale classe operaia 193 42,9Piccolo commerciante 11 2,4Piccolo artigiano 8 1,8Totale piccola borghesia autonoma 19 4,2Insegnante 22 4,9Impiegato 84 18,7Tecnico 11 2,4Infermiere 14 3,1Personale paramedico 4 0,9Totale nuova piccola borghesia 135 30,0Docente universitario 6 1,3Medico 5 1,1Avvocato 10 2,2Ingegnere 1 0,2Dirigente industriale 1 0,2Totale borghesia delle professioni 23 5,1Sottoproletario 7 1,6Disoccupato 4 0,9Studente scuola media 18 4,0Studente universitario 49 10,9Servizio militare 2 0,4Totale non occupati 80 17,8Totale 450 100,0Valori mancati 690

Fonte: Elaborazioni dei miei dati, tratti dagli atti giudiziari.

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per questa variabile, un alto numero di valori mancanti nella rilevazione quantitativa invita alla prudenza nella interpre­tazione. I dati quantitativi sono stati, tuttavia, significati­vamente confermati dalle informazioni più dettagliate, sep­pure su un numero molto inferiore di casi, provenienti dalle storie di vita. Secondo questa fonte, 11 individui su 28 ave­vano un lavoro manuale e dipendente; 9 lavori non-manuali dipendenti, mentre 8 erano ancora studenti11. Aggiungen­do anche alcune informazioni relative alla provenienza di classe, quasi la metà degli individui dei quali è stata rico­struita la biografia provenivano da famiglie definibili come proletarie (13 casi); un terzo da famiglie della piccola bor­ghesia (9 casi); e solo poco più di un quinto da famiglie delle classi medio-alte (6 casi)12.

Se disaggreghiamo i dati per le diverse organizzazioni si può osservare che la presenza di militanti di provenienza operaia è maggiore in quelle più grandi — Br con il 42% e PI con il 39% — rispetto a quelle di piccole dimensioni (una media del 22% ), dove invece maggiore è la percentuale di studenti. E inoltre, naturalmente, diverso il peso degli ope­rai a seconda della distribuzione geografica, maggiore in Piemonte (56,6% ), Lombardia (46,8% ) e Friuli Venezia Giulia (75% , ma su un numero minore); minore nel Lazio, dove più numerosi sono invece gli impiegati (42% ).

Inoltre, le variabili relative alle posizione sociale indica­no differenze abbastanza notevoli fra donne e uomini. Le donne che hanno partecipato alle formazioni clandestine della sinistra provenivano in misura maggiore dalla piccola borghesia (59% contro un 30% per gli uomini), e invece in misura nettamente minore dalla classe operaia (29% contro il 57% per gli uomini). A conferma di questo dato si può

11 Fra i lavoratori manuali vi erano 10 operai e un infermiere ausi­liario; fra i lavoratori intellettuali, 3 assistenti sociali, 2 impiegati, 2 tec­nici e 2 ricercatori universitari.

12 Più in dettaglio, la professione del capofam iglia era in 7 casi ope­raio, in 2 contadino, in 3 artigiano, in 1 disoccupato, per quanto riguarda il primo gruppo; in 6 casi im piegato e in uno ciascuno agente di polizia, cantoniere e piccolo comm erciante, per quanto riguarda il secondo; in 4 casi libero professionista e in uno ciascuno dirigente d ’im presa e im pren­ditore, per quanto riguarda il terzo.

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inoltre osservare che mentre le attività manuali — in parti­colare quelle operaie nell’industria — erano le più diffuse fra gli uomini (50% contro un 20% per le donne), le donne avevano più frequentemente occupazioni impiegatizie (53% contro il 23% degli uomini) o erano ancora a scuolao all’università (19% contro il 13,5% degli uomini). Con le dovute cautele, dunque, si può avanzare l’ipotesi che anche nel caso delle organizzazioni clandestine di sinistra in Italia si confermi un dato già emerso in altre ricerche sulla parteci­pazione delle donne a forme di azione politica anche violen­ta. Sembra, cioè, che la propensione all’attività collettiva tenda a crescere quando si affievolisce la forza di alcune tra­dizioni culturali — quindi, a livelli d ’istruzione più elevati— e si riducono le costrizioni materiali legate ai ruoli fami­liari — quindi, per le studentesse o le donne di classi medie.

Più in generale, per concludere su questo punto, si può dire che le organizzazioni clandestine hanno reclutato so­prattutto nei gruppi sociali più coinvolti nei movimenti col­lettivi di quegli anni. Anche per quanto riguarda l’estrazio­ne sociale dei militanti, il potenziale di mobilitazione delle organizzazioni clandestine di sinistra non era differente da quello di altre organizzazioni attive nella protesta di quegli anni. Le variabili fin qui esaminate per definire il potenziale di mobilitazione sono dunque risultate utili a descrivere al­cune delle caratteristiche della popolazione in cui i gruppi clandestini hanno reclutato. Esse non hanno però mostrato l’esistenza di peculiarità che possano spiegare perché alcuni hanno scelto la militanza in organizzazioni clandestine e al­tri no. Per far questo occorrerà prendere in esame altre va­riabili, relative alla posizione in alcune reti sociali, piuttosto che alle caratteristiche individuali. Ad esse si guarderà nel prossimo paragrafo.

3. Socializzazione politica e reclutamento nei gruppi clande­stini

L ’ipotesi argomentata qui di seguito è che le motivazio­ni individuali all’adesione ad organizzazioni clandestine va­dano ricercate nei processi di socializzazione politica. Ana­

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lizzeremo in primo luogo i rapporti affettivi esistenti tra i militanti. Come vedremo, l’inserimento in alcuni tipi di re­ticoli sociali si rivelerà una condizione necessaria ma non sufficiente a spiegare l’adesione ad organizzazioni clandesti­ne. Ciò condurrà, quindi, a guardare al reclutamento come processo interattivo e addizionale, implicante profonde tra­sformazioni personali15. Il reclutamento di un individuo in una organizzazione politica clandestina verrà, così, analiz­zato in relazione al processo di costruzione di una identità collettiva14.

Analizzando le informazioni disponibili sulla storia della militanza politica dei terroristi italiani, si può osservare in primo luogo che il reclutamento è avvenuto all’interno di gruppi omogenei, aggregati sulla base di legami multipli. Nella tabella 3 è riportato il numero di rapporti personali che le nuove reclute avevano con i membri dei gruppi clan­destini cui esse hanno aderito.

Qualche cautela è necessaria nell’analizzare queste in­formazioni. E , infatti, molto probabile che vincoli personali esistessero anche quando essi non sono stati rilevati dalla fonte giudiziaria. Rimane comunque dimostrato che in oltre due terzi dei casi (843 su 1.214), la decisione di aderire ad una organizzazione clandestina è stata presa da individui che avevano almeno un amico coinvolto in essa. Inoltre, nel 74% di questi casi, il reclutato aveva più di un amico nel­l ’organizzazione, e nel 42% gli amici erano addirittura più di sette.

Un esame più approfondito dei dati offre importanti de­lucidazioni sulla natura di questi legami, che tendono ad es­sere multipli e forti. La scelta di aderire ad organizzazioni clandestine veniva, infatti, adottata da cliques di persone,

11 Anche qui, qualche suggerim ento utile viene dalla letteratura sul­le sette religiose, in cui al reclutam ento si guarda in termini di conversio­ne, defin ita come un mutamento ne\Yuniverso del discorso, cioè nel «s is te ­ma di significati comuni o sociali che offrono un più am pio schema inter­pretativo al cui interno gli individui vivono e organizzano la loro espe­rienza» [Snow e M achalek 1984, 181]. Sullo stesso tema, Lofland e Stark[1985]; Snow e Phillips [1980].

14 Sul concetto di identità collettiva, si veda 1 izzorno [1977] e Me- lucci [1985].

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T a b . 3. Numero di ledimi personali dentro l'organizzazione terroristica per le nuove reclute

Legami personali N.reclute

% sulle opzioni

% sui casi

Uno 220 26,1 28,6Due 123 14,6 16,0Tre 40 4,7 5,2Quattro 64 7,6 8,3Fra 5 e 7 45 5,5 5,98 e più 351 41,6 45,6Totale opzioni* 843 100,0 109,6Valori mancati 371Casi validi 769

* Alcuni individui hanno militato in più di una organizzazione clandestina, e sono quindi contati in più di una opzione.

Fonte: Elaborazioni dei miei dati, tratti dagli atti giudiziari.

cioè da gruppi di individui connessi l’un l ’altro da un impe­gno congiunto in più di un’attiv ità15. Per esempio, molto frequenti erano i casi di vicini di casa che lavoravano insie­me nello stesso reparto di un grande stabilimento industria­le; o compagni di scuola abituati a trascorrere insieme le va­canze; o fratelli o cugini appartenenti alla stessa associazio­ne volontaria. Il vincolo affettivo era, inoltre, molto forte: in 298 casi del nostro campione di militanti, vi era almeno una persona in rapporto affettivo «forte» — di solito fratel­lo/sorella o marito/moglie (compagno/compagna) — che condivideva l’impegno politico nella stessa organizzazione. Questo dato è ancora più rilevante nel caso delle donne, do­ve la presenza di rapporti affettivi «forti» con altri membri delle formazioni clandestine è stata rilevata nel 53% dei ca­si (148 su 281), a fronte di un molto più basso 16% per gli uomini (141 su 863). Si conferma così l’ipotesi, già emersa nello studio di altri gruppi richiedenti alti livelli di impe­

15 II concetto di cliques è stato definito da Barnes, [1969]. Per una rassegna sulle definizioni e l’uso del concetto di social network, si rinvia a Chiesi [1980] e Mitchell [1969],

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gn o16, che la partecipazione ad organizzazioni clandestine— particolarmente stressante per i rischi che comporta — sia più probabile quando essa non interrompe, ma al contra­rio rafforza pre-esistenti rapporti di solidarietà.

Le informazioni provenienti dalle elaborazioni quantita­tive sono confermate dalle storie di vita. Le motivazioni af­fettive appaiono come le più rilevanti fin dai primi momenti della socializzazione politica. Come si può notare nelle tre citazioni che seguono, esse sono state indicate come le ra­gioni per la scelta di un gruppo legale rispetto ad un altro:

È questa la cosa più significativa, cioè non ho mai fatto una scelta ideologica, l’ideologia mi è sempre venuta dopo, cioè come dire [...] se io avessi conosciuto una persona del Pei [...] che mi piaceva molto di più di questi qua oggi sarei nel Pei17.

Però voglio dire che se all’epoca al posto di questa organizza­zione, cioè di Lotta continua, ci fosse stata ad esempio maggiori­taria, non lo so, la Federazione giovanile del partito comunista, probabilmente immediatamente avrei aderito a questa particolare organizzazione, nel senso che comunque sentivo l ’esigenza di essere protagonista in qualche maniera della realtà che mi circondava18.

C ’era in corso San Maurizio, la sede di Le, i primi tempi ma­gari potevi fare una scappata per vedere se trovavi qualche amico, però non era una militanza, era un punto fisico come poteva esse­re il cavallo di piazza Castello19.

L ’importanza affettiva delle relazioni coltivate nel grup­po politico emerge nell’uso di termini come «amicizia», «fa ­miglia»:

La mia famiglia diventano un po’ i compagni20.

Potere operaio [...] era già di per sé una piccola famiglia21.

16 Per quanto riguarda le società segrete in generale, si veda Erick- son [1981].

17 Storia di vita n. 1, p. 43.18 Storia di vita n. 13, p. 16.19 Storia di vita n. 6, p. 16.20 Storia di vita n. 5, p. 35.21 Storia di vita n. 16, p. 71.

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Era una cosa anche fondata molto sull’amicizia22.

Le biografie testimoniano poi che la forza dei rapporti affettivi aumentava all’interno dei gruppi legali, attraverso la comunanza nella vita quotidiana. Frequenti sono affer­mazioni come:

Evidentemente i rapporti a livello personale si costruivano al­l’interno degli ambiti in cui tu comunque ti muovevi quotidiana­mente, nel senso che con i compagni con cui tu facevi politica, con cui tu discutevi, con cui tu comunque operavi delle scelte, che poi si sarebbero rivelate scelte di vita, avevi, costruivi anche, giorno per giorno, un rapporto affettivo2'’.

In quell’epoca le amicizie coincidono, sono un tutt’uno con la politica, mi è abbastanza difficile distinguere tra amici e compa­gni nel senso che la politica ti segna qualsiasi momento della giorna­ta e quindi gli amici sono gli stessi compagni con cui discuti, con cui fai l’attività di quartiere24.

I miei amici più cari sono quelli con cui faccio attività politica di intervento fuori dalle fabbriche25.

La solidarietà verso il gruppo dei pari determinava, poi, anche i successivi percorsi di militanza. L ’uscita da alcuni gruppi legali, l’ingresso in altri, vengono descritti come scel­te basate non su preferenze ideologiche, ma piuttosto sul­l’impulso affettivo.

II senso del gruppo è sempre stata una cosa molto forte, che poi è stato anche quello che ha determinato scelte personali, ha deter­minato anche i modo concreti di relazionarsi con la società26.

Molte cose non so spiegarle solo con l’analisi politica del mo­mento, solo con la situazione di quella città o di quel territorio, di quale potere politico e quale condizione sociale [...] per quanto

22 Storia di vita n. 2 , p. 16.23 Storia di vita n. 13, pp. 35-36.24 Storia di vita n. 9 , p. 30.25 Storia di vita n. 9 , p.32.26 Storia di vita n. 26, p. 5.

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mi riguarda è di emotività, di passione verso la gente che mi stava accanto27.

Le decisioni politiche sembrano quindi essere state in­fluenzate in maniera determinante da una dinamica peculia­re ai rapporti face-to-face2i, cioè dal desiderio di confor­marsi, evitando disaccordi che avrebbero prodotto disso­nanza cognitiva nei singoli membri del gruppo. L ’armonia con i compagni più stretti viene sottolineata infatti, in tutte le interviste, come uno dei ricordi più positivi del periodo che aveva accompagnato il reclutamento nelle formazioni clandestine. La temporanea assenza di armonia con gli altri membri del gruppo viene indicata, invece, come ragione di dubbi e ripensamenti. Il funzionamento di questi meccani­smi viene illustrato, per esempio, nelle seguenti citazioni.

Però tutto il mio gruppo di vita orecchiava quanto me a Sesto San Giovanni, tutti questi discorsi e quindi magari avevamo mo­menti di riflessione [...] arriviamo e ci addestriamo anche noi29.

Poi, in effetti, non esiste neanche una scelta così a freddo di dire: «faccio il terrorista»; no, perché è stato un passaggio graduale vissuto sempre attraverso un tipo di relazione umana che ho conti­nuato ad avere con Guido, con il mio ambiente, con le persone con cui lavoravo50.

In fondo è il senso della famiglia insomma, che si trasporta sem­pre, e quando tu la devi abbandonare, ci pensi quarantacinque vol­te [...] nel senso che in fondo noi abbiamo contestato cultura e fa­miglia ma abbiamo cercato da un lato, da un punto di vista cultu­rale, comunque, un senso di nuove certezze all'interno del gruppo che in pratica sostituiva quello che contestavi^.

Questo tipo di «lealtà» era ancora più importante nei ca­si in cui c ’era un rapporto affettivo privilegiato. Citando da un’intervista a una militante di Pi:

27 Storia di vita n. 21 , p. 28.28 Sul ruolo delle relazioni am icali nelle decisioni politiche, si veda

Verba [1961] e Coom bs [1979].29 Storia di vita n. 3, p. 49.50 Storia di vita n. 17, p. 31.51 Storia di vita n. 26 , p. 16.

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Nel senso che io e Bruno abbiamo fatto tutte le scelte politi­che che abbiamo fatto le abbiamo fatte sempre insieme dentro il nostro rapporto anche personale52.

La percezione soggettiva dell’importanza del sostegno del gruppo dei pari trova un riscontro oggettivo del succe­dersi di scelte comuni da parte di alcune ristrette comunità di persone. La decisione di entrare in organizzazioni clande­stine è stata dunque, almeno in una certa misura, motivata dal bisogno di ottenere l ’approvazione da parte degli amici più intimi, che avevano fatto o stavano facendo quella scel­ta. La lettura delle interviste consente, inoltre, di individua­re nel particolare processo che presiedeva alla formazione e trasmissione delle informazioni un’ulteriore spiegazione della funzione di questi piccoli gruppi di amici. Infatti, il re­ticolo sociale in cui l ’individuo era inserito costituiva anche la sua fonte privilegiata di conoscenza. Emerge dalle storie di vita la rilevanza di una sorta di cultura orale della quale la rete di piccoli gruppi di individui costituiva il principale canale di comunicazione. Le notizie — in particolare quelle più rilevanti ai fini di successive scelte politiche — veniva­no filtrate e acquisivano rilevanza nelle discussioni con gli amici. Come testimoniano le interviste, le convinzioni ideo­logiche non venivano dalla lettura dei classici del marxismo,o dei manifesti politici dei «cattivi maestri»:

[...] in quegli anni si leggeva poco53.

Anche lì la mia cultura politica non si fonda su testi, su libri, su letture. [Quelle! sono cose che farò dopo, successivamente, cioè dopo avere operato le scelte quando sono già dentro54.

Sono invece i compagni la fonte privilegiata delle infor­mazioni rilevanti per le decisioni politiche:

Questo comunque ti portava tendenzialmente a costruire tut­ta una serie di amicizie, di rapporti personali sempre all’interno

52 Storia di vita n. 26, p. 46." Storia di vita n. 26, p. 7.w Storia di vita n. 18, p. 29.

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di questo ambito, e secondo me già da allora iniziò a crearsi una sorta di inconscia ghettizzazione, anche perché tendevi comunque a ritenere i tuoi compagni come il non plus ultra che potesse co­munque esprimere la società55.

L ’ipotesi che le relazioni interpersonali siano più rile­vanti dei mezzi di comunicazione di massa nel selezionare le notizie che raggiungono un individuo56 trova, quindi, conferma nel caso da noi esaminato, il quale semmai si ca­ratterizza per un grado estremamente elevato di chiusura agli stimoli esterni.

U n’ulteriore funzione assolta da questi piccoli gruppi è stata, infine, quella di ridurre i rischi che l’attività di reclu­tamento comportava sia per i singoli militanti che per l’or­ganizzazione clandestina. Il reclutamento era, infatti, meno rischioso quando c’era un rapporto di reciproca fiducia fra reclutatore e reclutato. Le reti di relazioni affettive offriva­no, così, una sorta di base di lealtà fra le persone. Che le stesse formazioni armate facessero coscientemente uso di questo tipo di rapporti è dimostrato dalle dichiarazioni rila­sciate nel corso di un interrogatorio da un militante di Pi. A suo dire, il reclutamento

avveniva [...] attraverso vincoli completamente personali. In que­sto modo i compagni delle Squadre contattavano le persone che essi conoscevano da lungo tempo, che sarebbero state interessate dall’idea di aderire alle Squadre o, almeno, non sarebbero state scandalizzate dalla proposta e non avrebbero quindi creato pro­blemi per la sicurezza del compagno che aveva realizzato il contatto57.

Quanto rilevanti siano stati i contatti personali nel re­clutamento nelle organizzazioni del terrorismo italiano è, inoltre, confermato dai dati sulle relazioni esistenti tra re­clutatoti e reclutati, riportati nella tabella 4.

,5 Storia di vita n. 13, p. 6.i6 Q uesto fenomeno è stato descritto in Sm ith, Lasswell e Casey

[1946]. Più recentem ente in M cPhail [1971]; M cPhail e M iller [1973],57 In Tribunale di Torino, Requisitoria del P.M. nel PP 321/80, p.

69.

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Tab. 4. Tipo dì relazione tra le reclute terroriste e i loro reclutatoti

Relazione con il reclutatore N. % sulle opzioni

% sui casi

Sconosciuto 42 11,6 12,3Moglie/marito/compagna/compagno 51 14,0 15,0Altro parente 22 6,1 6,4Amico 159 43,8 46,6Collega 34 9,4 10,0Compagno «politico» 55 15,2 16,1Totale opzioni* 363 100,0 106,5Valori mancati 799Casi validi 341

* Alcuni individui hanno militato in più di una organizzazione clandestina, e sono quindi contati in più di una opzione.

Fonte: Elaborazioni dei miei dati, tratti dagli atti giudiziari.

Si può osservare che nell’88% dei casi nei quali la natu­ra del rapporto tra reclutato e reclutatore è conosciuta, il primo non è per il secondo un estraneo; in ben il 44% dei casi è un suo amico; nel 20% un parente. Ciò è ancora più rilevante per quanto riguarda le donne: il reclutamento sem­bra essere avvenuto tramite il compagno/marito in più della metà — 49 su 93 — dei casi in cui qualche informazione sul processo di reclutamento è stata rilevata. L ’esistenza di rap­porti di conoscenza personale è stata, quindi, essenziale a ri­durre i rischi corsi dalle organizzazioni clandestine quando esse sono entrate in contatto con un potenziale aderente.

Se i legami affettivi appaiono come una spiegazione effi­cace delle motivazioni individuali, la loro esistenza non è, tuttavia, sufficiente a predirre chi aderirà e chi no ad una organizzazione politica. M olto spesso, infatti, il coinvolgi­mento in alcuni tipi di reti professionali e familiari può eser­citare un effetto frenante sulla propensione individuale a mobilitarsi collettivamente. Occorre, dunque, specificare quali tipi di relazioni personali hanno più probabilità di in­centivare la partecipazione politica, e in che forme. Le ricer­che sui movimenti collettivi hanno rilevato il ruolo di varia­bili quali affinità ideologica, comuni predisposizioni legate al ruolo assolto nella struttura sociale, o precedenti apparte-

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T a b . 5. Organizzazioni politiche legali alle quali i militanti terroristi avevano appar­tenuto prima di aderire all'organizzazione clandestina

Organizzazioni legali N. % sulle opzioni

% sui casi

PeiSindacati Nuova sinistra

1740

2322,14,9

28,52,86,5

37,7di cui:Lotta continua Potere operaio

7552

9,26,4

12,28,5

Collettivi autonomi 518 63,6 84,2di cui:Comitati comunisti Senza tregua Rosso

563242

6.93.9 5,2

9.25.2 6,8

AltriTotale opzioni*

7814

0,8100,0 1,2

132,4Casi mancanti Casi validi

525615

* Alcuni individui hanno militato in più di una organizzazione clandestina, e sono quindi contati in più di una opzione.

Fonte: Elaborazioni dei miei dati, tratti dagli atti giudiziari.

nenze in associazioni volontarie38 nel determinare la capa­cità di un reticolo sociale di influenzare i comportamenti politici dei suoi membri. I risultati della ricerca indicano la particolare rilevanza di comuni esperienze di militanza poli­tica in gruppi non-clandestini. Una motivazione diffusa al­l ’adesione sembra essere stato il desiderio di mostrare soli­darietà ad una rete di amici, con i quali si condivideva una precedente partecipazione in piccoli gruppi politici legali.

Alcune osservazioni iniziali possono essere fatte a parti­re dai dati quantitativi sulla provenienza politica dei mili­tanti delle organizzazioni clandestine. Nella tabella 5 sono state riportate le informazioni sulle organizzazioni legali cui essi appartenevano prima di aderire alla formazione terro­rista.

38 D i affinità ideologiche hanno parlato W allis e Bruce [1982]; Stark e Bainbridge [1980]. Al ruolo sociale hanno fatto riferim ento Tilly [1978]; Snow e M achalek [1983; 1984]. D i appartenenza ad altre associa­zioni volontarie si è occupato, tra gli altri, Parkin [1968].

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Anche per quanto riguarda questa tabella è utile ricorda­re che i dati si riferiscono soltanto a quei casi nei quali pre­cedenti adesioni sono state rilevate, ma è probabile che esperienze politiche esistessero anche in molti casi in cui es­se non sono state riportate dagli atti giudiziari. A maggior ragione interessante — proprio perché probabilmente sotto­stimata — appare dunque l’elevata frequenza di un prece­dente impegno in gruppi legali. Questo dato indica già che il reclutamento in organizzazioni clandestine coinvolge in­dividui «politici», cioè dotati di personalità orientate attor­no ad una forte identità politica.

Altre considerazioni emergono se si considera la distri­buzione interna delle adesioni a gruppi legali. Prima di tutto la percentuale di individui proveniente dalla sinistra tradi­zionale è molto bassa: solo il 2 ,8% dal Pei, un appena più alto 6 ,5% dai sindacati. Non sembrano confermate, quindi, le ipotesi sul reclutamento come prodotto della disillusione dei militanti comunisti di fronte alla deradicalizzazione ideologica e strategica del partito.

Per contro, il 38% dei terroristi erano stati coinvolti nella Nuova sinistra, in particolare in Po (8,5% ) e Le (12,2% ). Si è detto nel capitolo precedente che la dissoluzione di Po, co­sì come la successiva crisi di Le hanno avuto effetti rilevanti sulle caratteristiche della sinistra radicale italiana. I dati quantitativi relativi ai percorsi politici mostrano anche che in pochissimi casi vi è un passaggio diretto da queste due or­ganizzazioni a gruppi terroristi. Nella maggior parte dei ca­si, esso è invece preceduto da una fase di militanza in uno dei tanti collettivi «autonomi». Ben l’84% dei terroristi era­no stati attivi in nuclei aggregati attorno alle due riviste «Rosso» e «Senza tregua»; nei circoli del proletariato giova­nile o nei piccoli comitati di quartiere attivi nelle aree popo­lari delle grandi metropoli. Queste indicazioni vengono con­fermate dai dati relativi all’anno dell’ ingresso nelle organiz­zazioni clandestine. Il più grosso contingente è stato infatti reclutato quando le organizzazioni emerse alla fine degli an­ni sessanta erano da lungo tempo in crisi. Solo a partire dal1977 è iniziato il reclutamento massiccio nelle organizzazio­ni clandestine, concentrandosi in quello e negli anni succes­sivi ben il 78% delle adesioni.

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Una delle caratteristiche di questi gruppi erano le loro piccole dimensioni. La categoria «Collettivi autonomi» della nostra tabella raccoglie ben 93 sotto-categorie. In almeno 89 di esse le dimensioni deH’organizzazione sono sufficien­temente piccole da giustificare l ’assunto che frequenti inte­razioni personali intercorressero fra tutti i militanti, trasfor­mandosi spesso in importanti legami affettivi. In 65 di que­sti sotto-gruppi, la frequenza è superiore ad uno, indicando che si è stati in grado di rintracciare almeno due futuri ter­roristi che avevano condiviso una precedente appartenenza nello stesso nucleo politico legale. M olto spesso la decisione di aderire ad organizzazioni clandestine coinvolgeva una re­te anche più estesa di «compagni» in politica: da 47 di questi gruppi sono venuti almeno tre futuri terroristi, da 35 alme­no quattro, da 11 cinque o più. L ’adesione alla lotta armata è stata, in tutti questi casi, una scelta collettiva, cioè fatta non da individui isolati ma da piccoli gruppi di amici.

Le interviste in profondità permettono ancora un ulte­riore passo nella comprensione di questi dati quantitativi. La testimonianza dei militanti rivela la grande importanza che essi assegnavano alla partecipazione allo stesso piccolo gruppo politico legale nella loro vita quotidiana. Si è già det­to che ciò passava attraverso un graduale processo di sele­zione dei rapporti amicali. Anche quando esisteva una rete di amicizie esterna all’ambiente politico, la sua importanza tendeva a diminuire man mano che avanzava il processo di socializzazione politica. In una spirale di reciproche intera­zioni, l’ammontare di tempo speso in attività politiche ac­cresceva la quantità dei contatti con i compagni di fede e la loro qualità, in termini di importanza loro attribuita. Allo stesso tempo, il rafforzamento dei legami di amicizia all’in­terno di quell’ambiente aumentava il valore assegnato al­l’impegno politico, incoraggiando le persone a dedicare sem­pre più tempo a quelle attività. In questo modo, gli altri le­gami tendevano a perdere la loro capacità di influenzare la formazione delle personalità. Come è stato già osservato per altre forme di socializzazione politica ” , anche nei gruppi

w Per esem pio, Keniston [1968].

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clandestini il rafforzamento dell’impegno era legato ad un processo di isolamento dal mondo esterno, che rafforzava la lealtà al nuovo gruppo. I «compagni» di militanza diveniva­no, così, il più influente gruppo di pari.

Il tempo dedicato a queste organizzazioni tendeva inol­tre a crescere rapidamente. I compiti da assolvere per il gruppo venivano moltiplicati, non tanto per le reali necessi­tà organizzative, quanto per rafforzare la lealtà dei membri. Interessi pre-esistenti l’adesione — quali attività sportive, musicali o di volontariato sociale — venivano gradualmente abbandonati. Numerose sono le biografie in cui viene de­scritto questo «attivism o», intenso e totalizzante:

Io in quegli anni milito, tu fai conto io non perdo quasi nessuna di tutte le scadenze di piazza di quegli anni, [...] un solo sciopero significava dieci assemblee, le riunioni, Palazzo Nuovo, le scuole, gli intergruppi, significava volantini, discussioni, corteo40.

Per cui ci siamo dati ad un attivismo pauroso, cioè alla fine non si dormiva più in questa zona qui41.

10 in quegli anni, praticamente dal ’69 al ’73, non ho più studiato42.

Non c’è stato un momento in cui ho fatto una scelta, «adesso»; credo sia stato un percorso di avvicinamento al mio modello di vita, che poi è diventato, in quella fase lì, estremamente esigente nei con­fronti del resto della mia vita, nel senso che da quel momento in poi l’ho fatto a tempo pieno, convogliandoci non solo tutte le energie fisiche [...] però proprio il tipo di attenzione, ripensandoci dopo credo di essermi molto sacrificato in questo senso, nel senso che dal punto di vista della vita sociale l’ho ridotta moltissimo, man mano sempre di più41.

11 processo di adesione nella maggior parte delle storie di vita (20 casi su 28) ha coinciso con l’ingresso nella scuola media superiore. La crescita del coinvolgimento è avvenuta a tappe rapidissime:

40 Storia di vita n. 18, p. 31.41 Storia di vita n. 5, p. 9.42 Storia di vita n. 22, p. 36.45 Storia di vita n. 29, p. 15.

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Poi c’è una cosa, la cosa a cui anch’io stento a dare delle rispo­ste è la grandissima velocificazione in cui precipito perché da questi primi approcci, da questo mio stare a guardarmi attorno in questo ambiente nuovo, al mio attivizzarmi completamente, proprio al mio abbracciare la militanza politica, immediatamente poi nei gruppi di Lotta continua, passano non so se tre, quattro, cinque mesi44.

È anche da osservare che quei momenti — che coincido­no con il periodo della prima indipendenza dalla famiglia — venivano ricordati come estremamente piacevoli, fatti di «feste» e di «giochi».

La mia vita era comunque segnata dall’esperienza politica nel senso che i miei amici erano comunque compagni, che appunto vi­vevano queste cose insieme a me [...] Io devo dire onestamente che il ricordo che ho degli anni del liceo sono di anni in cui mi sono divertito da pazzi45.

Ad esempio, ricordo che il periodo delle vacanze estive era vissuto come [...] noioso perché comunque veniva ad interromper­si quel ciclo continuo che aveva rappresentato durante l ’anno la tua esistenza. Venivano quindi ad interrompersi le riunioni in sede di Lotta continua, le riunioni a scuola, le assemblee studentesche, i cortei, le manifestazioni4'’.

Sai poi per me era il mio ultimo anno di vita, tieni conto cheio sono convinta di questo e quindi ho proprio un 'ansia di vivere tremenda, tremenda, proprio ho la sensazione che tutto quello che avviene, mi deve riguardare47.

Come mostra quest’ultima citazione, l’intensità emotiva verso il gruppo dei pari era rafforzata dal grande entusiasmo che veniva dalla sensazione di partecipare agli avvenimenti importanti della storia. Il risultato era l ’impressione descrit­ta da questo militante:

44 Storia di vita n. 18, p. 16.■•5 Storia di vita n. 28 , p. 11.

Storia di vita n. 13, p. 33.47 Storia di vita n. 22, p. 21.

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L ’attività politica in quell’epoca era [...] 24 ore su 24. [...] E questo non era vissuto affatto in maniera negativa, perché eviden­temente non l’avremmo fatto se fosse stato in questo modo, ma era vissuto come un grande gioco. Era un grande gioco in cui si si sentiva coinvolti, ci si sentiva in grado di dare tutti se stessi, per­ché la politica allora era la concretizzazione dei propri sogni, il fatto ad esempio di sentire di poter contare, di sentire di poter far paura, di potere essere in tanti, essere in tanti ed essere contro48.

Per riassumere ciò che è stato detto fino ad ora, le orga­nizzazioni clandestine in Italia hanno reclutato i loro mili­tanti all’ interno di dense reti di relazioni sociali, dove i lega­mi politici erano rafforzati da solidarietà primarie basate su rapporti di amicizia e/o parentela. Questi gruppi offrivano alle formazioni clandestine basi di lealtà e canali di comuni­cazione. Le motivazioni individuali possono essere in larga misura ricondotte alla solidarietà verso gruppi di individui con i quali si condivideva una medesima identità politica. Ma la comprensione delle motivazioni individuali richiede un’analisi più approfondita del processo di socializzazione politica che ha aiutato la costruzione delle identità collet­tiva.

Le storie di vita così come i verbali degli interrogatori concordano nell’indicare gli effetti sulla socializzazione po­litica del clima descritto nei precedenti capitoli. Esso ha de­terminato non solo l ’alto grado d ’importanza assunta dall’i­dentità politica nella strutturazione delle personalità, ma anche il significato specifico che le attività politiche aveva­no per quegli individui. L ’esperienza diretta in scontri fisici con la polizia o con avversari politici aveva portato, infatti, ad alti livelli di accettazione dei repertori più radicali. L ’e­spressione più alta d ’impegno politico era divenuta così, per molti militanti, non la dialettica verbale, ma l’esercizio della violenza.

Un’ulteriore caratteristica delle persone reclutate in or­ganizzazioni clandestine era, infatti, l ’esistenza di prece­denti esperienze nell’uso della violenza. La maggior parte dei membri delle formazioni armate aveva fatto parte di

4S Storia di vita n. 13, pp. 22 e 23.

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strutture semi-militari di organizzazioni non clandestine, che avevano il compito di «difendere» i cortei e compiere al­cune azioni illegali: del «servizio d ’ordine» di Le o di Po; nelle strutture semi-legali dei gruppi organizzati attorno al giornale «Linea di condotta» o «Rosso». M olti dei terroristi della seconda generazione erano stati incriminati per parte­cipazione ad azioni di violenza durante cortei in luoghi pub­blici, ad «espropri proletari», o ad altri tipi di irruzione a mano armata, particolarmente frequenti durante le proteste della seconda metà degli anni settanta. Altri ancora erano stati perseguiti come membri dei gruppi più radicali del- l’Autonomia operàia, come il Collettivo di via dei Volsci a Roma, per citare un solo caso. I Nap e i Pac avevano reclu­tato individui con esperienze di azioni illegali, anche se per fini non-politici: criminali comuni sensibilizzati alla politica in carcere. Molti dei gruppi clandestini cresciuti a partire dal 1979 erano stati fondati da militanti provenienti da al­tre organizzazioni armate in crisi, ed anche le nuove reclute delle organizzazioni clandestine maggiori alla fine degli anni settanta avevano avuto precedenti esperienze in gruppi semi-clandestini attivi in alcuni quartieri delle grandi me­tropoli.

L ’importanza di precedenti esperienze nell’uso della violenza è spesso sottolineata nelle storie di vita dei militan­ti dei gruppi clandestini. Nelle ricostruzioni biografiche si può osservare come fosse la stessa diffusione della violenza a giustificarne l’uso. Nelle parole di alcuni intervistati:

L ’ulteriore salto qualitativo era questo X interiorizzare, renden­dola legittima per un qualsiasi militante comunista, l ’uso della vio­lenza come come strumento legittimo, come strumento quasi quo­tidiano, quasi come prassi 4\

Parlare dell’wso della forza allora era una cosa quotidiana, nel senso che veniva fatta quotidianamente come pratica50.

Io uscivo la mattina, me ne andavo a fare gli scontri, me ne ritor­navo a casa a mangiare, ritornavo il pomeriggio fino alla sera e così

,w Storia di vita n. 13, p. 28.50 Storia di vita n. 8, p. 35.

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via. È una specie di Londonderry, cioè di battaglie fatte di molo­tov e sassi per conquistarsi cinque metri di terra51.

Una conferma di questa legittimazione diffusa per l’uso della violenza, cresciuta nel corso degli anni settanta, viene dalle interviste dei militanti della «prima generazione» quando si riferiscono ai militanti più giovani:

Tutti quelli che avevamo fatto politica in precedenza avevamo un mare di difficoltà rispetto all’azione militare, al fatto stesso delle armi [...] mentre non avevano assolutamente prevenzioni i ra­gazzi più giovani, che avevano 18-19 anni52.

Per questi militanti della «seconda generazione», le mi­nori remore nell’utilizzazione della violenza erano dovute non solo al diverso clima politico, ma anche al diffondersi, con l’aumento della disoccupazione giovanile e l’arrivo delle droghe pesanti, di una piccola criminalità giovanile. Secon­do ancora una testimonianza tratta dalle storie di vita, nella seconda metà degli anni settanta, nei quartieri popolari del­la periferia urbana delle grandi città, l’illegalità non creava barriere psicologiche. Essa era infatti un’esperienza già pre­sente nella vita di tutti i giorni di molti giovani:

[... perché c’era] anche una grande disgregazione, delle fasce di emarginazione molto alte, quindi proprio non c ’era il problema del­l ’atto di illegalità. Noi avevamo un giro di rapporti interpersonali, di amici, ragazzi che venivano alle elementari con noi, che chi era diventato un ladro, chi rapinava5’.

Il reclutamento nelle organizzazioni terroriste in Italia è, dunque, avvenuto attraverso reti di militanti inseriti in una cultura politica che non condannava il ricorso alla vio­lenza. La loro socializzazione politica si era realizzata, infat­ti, nel corso del lungo ciclo di protesta della fine degli anni sessanta e inizio degli anni settanta, durante il quale una quota rilevante delle attività era dedicata alla formazione

51 Storia di vita n. 27, p. 26.52 Storia di vita n. 5, p. 65.55 Storia di vita n. 4, p. 22.

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delle nuove identità collettive, piuttosto che all’utilizzazio­ne di legami di solidarietà già esistenti ai fini della contrat­tazione. Quando il ciclo di protesta si era esaurito, reti di militanti — abituati più allo scontro fisico che alla media­zione — avevano costituito una base potenziale per i gruppi politici violenti. Queste persone avevano interagito, quindi, con altri militanti la cui socializzazione politica era avvenu­ta nelle fasi più acute di affermazione delle nuove identità collettive. Per essi, l’utilizzazione della violenza politica aveva preceduto, piuttosto che seguito, l ’adesione ad orga­nizzazioni terroriste. La soglia della clandestinità era stata così oltrepassata in modo spesso inconsapevole'e talvolta in­volontario.

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CAPITOLO QUINTO

M A N T E N IM E N T O D E L L ’IM P E G N O E IN C E N T IV I O R G A N IZ Z A T IV I

1. La partecipazione nelle organizzazioni clandestine

Nel capitolo precedente si è cercato di rispondere alla prima domanda che si pone quando si analizzano le motiva­zioni individuali: cosa ha portato alcune persone ad aderire ad organizzazioni clandestine? La domanda logicamente successiva è: perché, resesi conto dei costi di quel tipo di mi­litanza, molte di esse non solo non hanno abbandonato quelle organizzazioni, ma hanno anzi aumentato il loro li­vello di partecipazione? Due tipi di risposta sono stati, in genere, offerti. L ’approccio psicopatologico, di cui si è già detto, ha attribuito alla militanza in forme totalizzanti di azione collettiva una funzione di riequilibrio o compensa­zione per frustrazioni subite. Un secondo filone di studi si è invece concentrato sulle ideologie politiche. La militanza è stata spiegata, in questo caso, come orientata al consegui­mento delle mete descritte nei documenti delle organizza­zioni politiche. Nessuno dei due approcci è sembrato, per le ragioni spesso argomentate nei capitoli precedenti, ade­guato a rispondere alle domande che sono state poste.

Nel caso dei gruppi clandestini, così come in quello di altre formazioni politiche, le motivazioni alla militanza sem­brano essere invece più comprensibili se analizzate all’inter­no di un sistema di scam bio1, in cui gli individui cedono parte delle loro energie e lealtà per ottenere alcune ricom­pense. Come le altre organizzazioni, anche le formazioni clandestine inducono infatti la partecipazione attraverso la distribuzione di incentivi, definibili come ricompense o pri-

1 C fr. I lo m a n s [1961] e BIau [1964], In relazione all’attività in gruppi politici il d ibattito è iniziato con il fam oso saggio di O lson [1968].

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vazioni, date o promesse, per l’adeguamento a norme di comportamento.

Mentre la letteratura degli anni sessanta sull’azione col­lettiva — concentrata sulla partecipazione ad alcuni tipi di partiti e sindacati — considerava soprattutto i benefici ma­teriali, studi più recenti hanno dato una maggiore rilevanza a vantaggi simbolici e alle percezioni individuali. E stato co­sì osservato che la definizione di vantaggi e svantaggi non è in alcun modo «oggettiva»2. La partecipazione ad alcune esperienze porta, invece, gli individui ad attribuire a costi e benefici valenze diverse rispetto a quanto si sarebbe nor­malmente portati a fare. Cosicché, ciò che può essere consi­derato come un costo — nel «senso comune» o nelle defini­zioni scientifiche — viene ritenuto dai partecipanti come un vantaggio. Per esempio, il tempo e le energie individuali spese per l’organizzazione possono essere considerate dai militanti come remunerative in sé, accrescendo il senso di solidarietà con il gruppo. Nel corso di questo capitolo, la struttura degli incentivi distribuiti dalle organizzazioni clandestine verrà analizzata a partire da quelli che i militan­ti hanno descritto, nel corso delle interviste in profondità, come «vantaggi» e «svantaggi» della partecipazione.

In primo luogo, sarà interessante verificare le caratteri­stiche dell’impegno nelle organizzazioni clandestine, cioè il tipo di attività svolte dai loro membri. Si può iniziare con l ’osservare che il livello di partecipazione nei gruppi terrori­sti è variato grandemente. Per comprendere le motivazioni individuali, occorre dunque considerare che per molti la mi­litanza nei gruppi clandestini è stata meno impegnativa — sia dal punto di vista materiale che da quello psicologico — di quanto alcuni stereotipi sui «terroristi di professione» possano fare ritenere.

Diverse informazioni possono essere discusse a questo proposito. Alcuni dei dati quantitativi più interessanti sono riportati nella figura 1.

Si può osservare, innanzitutto, che solo l’ l l % dei mili­tanti (pari a 129 individui) è stato latitante: poco più di

2 C fr. Hirschm an [1981] e Pizzorno [1980].

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N. me

mbri

1200-1Tipo di militanza

1000-

8 0 0 -

6 0 0 -

4 0 0 -

2 0 0 -

Clandestino

■ si□ No

Fig. 1. Livelli di partecipazione dei militanti.Fonte: Elaborazioni dei miei dati, tratti dagli atti giudiziari.

quelli che ho catalogato come «dirigenti nazionali» (76 indi­vidui), sicuramente non tutti i «dirigenti cittadini» (pari a111 individui). L ’immagine del clandestino che lavora a tempo pieno per la sua organizzazione si attaglia, dunque, ad una percentuale estremamente limitata di coloro che so­no stati accusati di partecipazione a banda armata.

Interessanti per valutare le caratteristiche della parteci­pazione alle organizzazioni clandestine sono i dati relativi al tipo di attività svolte per il gruppo. Secondo i dati disponi­bili, ben il 66 ,8% di tutti i militanti su cui questa informa­zione si è potuta raccogliere non ha mai partecipato ad azio­ni contro persone e il 40% non è mai stato coinvolto in alcu-

Azioni armate Azioni contro personeTipo di partecipazione

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na azione armata. Se si guarda ancora ad un’altra variabile, la funzione all’ interno di un’organizzazione clandestina, si può osservare che solo il 6% sono stati membri di «gruppi di fuoco», cioè addetti prevalentemente alle azioni militari, mentre ben il 44% ha avuto mansioni «logistico-ammini- strative». La durata della militanza all’interno del gruppo clandestino è stata, inoltre, di norma breve.

Una prima riflessione, a partire da questi dati, può esse­re dunque relativa alle differenze fra i militanti stessi per quanto riguarda il grado di coinvolgimento e, quindi, anchei costi, sia psicologici che materiali, pagati. I processi di in­tegrazione dei differenti membri vanno analizzati tenendo conto della diversità delle loro storie. Non si deve tuttavia dimenticare che, a tutti i diversi livelli di coinvolgimento, la partecipazione a gruppi armati presenta certamente delle peculiarità rispetto a quella in altre organizzazioni politiche. Essa si differenzia, in primo luogo, per l’alto grado di impe­gno richiesto, in termini sia di tempo che di risorse dedicate al gruppo. Se alcune organizzazioni politiche possono ac­contentarsi di realizzare l’integrazione dei loro membri at­traverso la sola partecipazione alle elezioni, oppure richie­dendo ai loro adepti un processo di identificazione al grup­po relativo solo alla sfera politica, quella clandestina ha bi­sogno invece di un impegno totale da parte dei militanti. Le esigenze della clandestinità impongono che la militanza ter­roristica assuma la priorità assoluta rispetto agli altri ruoli che l’individuo ricopre. L ’organizzazione deve porsi, cioè, come oggetto di identificazione totale.

Si è visto nel capitolo precedente che già la fase di mili­tanza in gruppi politici legali era caratterizzata da alti livelli di impegno. Le biografie mostrano, comunque, che le attivi­tà politiche tendevano ad occupare uno spazio esponenzial­mente maggiore dopo l ’adesione alla lotta armata. L ’ impe­gno profuso per la preparazione delle azioni assorbiva tutte le energie individuali. Ecco, ad esempio, alcune descrizioni della «vita quotidiana» dei militanti di quelle organizza­zioni:

Se è un’azione contro il lavoro nero c’è da individuare il cosid­detto obiettivo del lavoro nero e quindi fare quella che allora si chiamava scheda di informazione sull’obiettivo, conoscere la zona

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dove è situato, eventuali vie di fuga, quindi cioè prima di ogni la­voro c'era sempre tuia preparazione di dieci, quindici giorni. E la giornata cambia in questo senso, che lavori intorno a questa cosa, lavori intorno a questo ottagono con i compagni del nucleo che fanno i rilevamenti sul cosiddetto obiettivo, partecipi alla prepa­razione, come si diceva, logistica dell’operazione, quindi al furto delle auto per l’operazione, alla preparazione degli ordigni, all’ad- de;tramento del nucleo [...1 con le armi che adopererà in azione

nJoì ci alzavamo alle cinque [...] per fare le ricognizioni [...] poi non potevo tornare a casa, dovevo stare in mezzo ad appuntamen­ti, c Dvevo stare comunque a Roma tutta la giornata; poi tornavo a ca a verso sera, dovevamo fare i documenti, battere a macchina, fare un’altra serie di cose, insomma si andava a Ietto verso mezza­notte. In quel momento avevo anche una storia in piedi con quella che stava in casa con me, si stava un po’ a chiacchierare, un po’ a fare altro, cose così, si faceva I’una, alle cinque dovevo stare di nuovo sveglio. Erano dalle tre alle quattro ore a notte di sonno [...] quando quella mattina bussarono il primo pensiero fu «lo sapevo»il secondo fu «meno male, mo’ dormo» 4.

Dedicavo completamente il mio tempo libero all’organizzazio­ne. Io ormai lavoravo otto ore al giorno, finite le otto ore prende­vo la macchina, andavo giù a Torino, magari stavo fino alle tre di notte [...] Infatti sono arrivato persino a pensare nei primi gior­ni di carcere «ab, finalmente mi riposo»\

Come si può notare dalle due ultime citazioni, con paro­le quasi identiche viene ricordata la grande «stanchezza» ac­cumulata in quel periodo. Proprio la quantità di energie che era necessario dedicare quotidianamente all’organizzazione è stata citata ripetutamente — nel corso delle interviste — come un impedimento alla riflessione critica sulle proprie scelte. Frequenti sono riferimenti quali:

L ’impossibilità non solo mia ma credo anche della situazione di poter fermarmi un attimo e dire no1'.

1 Storia di vita n. 4, p. 18.4 Storia di vita n. 1, pp. 75-76.’ Storia di vita n. 17, p. 31.'■ Storia di vita n. 21, p. 43.

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La stanchezza in modo incredibile; io in quel periodo lì ho avuto un incidente ad una gamba, mi son fatto male, sono stato a letto due mesi e mi sembrava di vedere le cose da fermo [...] è proprio che ho avuto questa impressione di fermarmi e di vedere le cose fuori (...) da questo meccanismo che si autoalimenta1.

Insieme alla quantità di tempo dedicata all’organizza­zione, altre caratteristiche vengono normalmente definite come piuttosto peculiari alla militanza terrorista. In primo luogo, la limitazione dei rapporti affettivi o anche della co­municazione con altri esterni al gruppo. La scelta della clan­destinità comporta, infatti, una rarefazione dei rapporti con l’esterno e profondi stravolgimenti della vita quotidiana, anche quando essa non richiede la latitanza. In secondo luo­go, vi è il rischio di essere arrestati e condannati a pene de­tentive lunghe. Infine, collegata all’utilizzazione delle armi contro esseri umani, c ’è la possibilità di uccidere e di essere uccisi.

E , tuttavia, anche nei giudizi a posteriori, né le restri­zioni alla vita privata, né la precarietà dell’esistenza, né il rischio di morire o di uccidere esseri umani sembrano essere stati percepiti come costi particolarmente alti, almeno nelle prime fasi della partecipazione. Alcuni meccanismi, che analizzeremo qui di seguito come incentivi, hanno funzio­nato infatti nel senso di ridurre la percezione degli svantag­gi. Distingueremo, seguendo la letteratura sociologica sul­l’azione collettiva*, incentivi di identità, incentivi norma­

7 Storia di vita n. 29, p. 45.* Varie tipologie di incentivi sono state proposte, in relazione alla

direzione dell’utilità (positiva o negativa); al soggetto fruitore (individuo o collettività); al tipo di bene offerto (strumentale o espressivo; materiale o simbolico; utilitaristico o normativo) [Zald e Jacob 1977]. Incrociando queste variabili, sono state ottenute diverse classificazioni. Q uella più tradizionale distingue gli incentivi in: materiali, di solidarietà specifica, di solidarietà collettiva, propositivi IJ.Q . W ilson 1972], In una recente applicazione della teoria degli incentivi ai partiti politici, quelli di tipo collettivo sono stati classificati in incentivi di identità, di solidarietà o ideologici; quelli selettivi, in incentivi economici, di potere, di status [Pa­nebianco 1982], I partiti sono stati ad esem pio distinti, a seconda del tipo di incentivo distribuito, in partito di quadri (che distribuisce denaro), di patronage (che distribuisce cariche e posti di lavoro), di m assa (che distri-

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tivi e incentivi materiali, assumendo però che la struttura di questi incentivi sia diversa per le organizzazioni clandestine rispetto agli altri tipi di organizzazione.

2. Gli incentivi di identità e l ’integrazione dei militanti

Un tipo di incentivo che permette di compensare i costi della partecipazione in termini di una riduzione dei contatti e degli scambi con l’esterno è quello di identità. Nella co­struzione dell’identità un ruolo importante assumono i rap­porti con gruppi di pari. G ià nel caso di altre organizzazioni di movimento sociale, la possibilità di interazioni affettive dense all’interno del gruppo è stata considerata come uno degli incentivi più rilevanti alla partecipazione '. Le storie di vita indicano che questo incentivo è stato particolarmen­te importante nel mantenere l’adesione ai gruppi armati, dove la riduzione dei contatti con l’esterno a seguito della partecipazione era particolarmente drastica.

Una prima forma che gli incentivi di solidarietà hanno assunto è stata quella dello sviluppo di relazioni affettive at­traverso delle interazioni frequenti ed esclusive. Ciò è avve­nuto soprattutto all’inizio sia dei percorsi individuali di so­cializzazione politica che della storia delle organizzazioni clandestine. Se, infatti, gli statuti imponevano regole rigide di compartimentazione — che spesso vietavano di frequen­tare i compagni dell’organizzazione al di fuori delle riunioni— in molti momenti e situazioni, tuttavia, le regole erano

buiscono ideali) [Gaxie 1977]; o partiti di coalizione (orientati al raggiun­gimento di fini materiali o strumentali) e di militanti (basati su coesione solidaristica) [Lange 1977], Sull’utilizzazione degli incentivi nelle orga­nizzazioni di movimento sociale, si rinvia a Conway e Fiegert [1968]; Ko- walewski [1980]; Oliver [1980].

'' Nel caso delle organizzazioni di movimento sociale, si è parlato, in particolare, della costituzione di forti legami di solidarietà, di micro­culture che fondano una comunità [Reynaud 1982], che permettono agli individui di superare solitudine e isolamento [Blumer 1978]; Zald e Ash 1966; J.Q . Wilson 1972]. Si genera in questo modo il meccanismo di con­versione [Moscovici 1980] e il senso di commitment [Becker 1960; Ilou- gland e Wood 1980; Useem 1972].

I l i

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trasgredite. Al momento della fondazione, ad esempio, i mi­litanti si conoscevano l ’uno con l’altro e la loro solidarietà era rafforzata da frequenti momenti di convivenza. A pro­posito del mancato rispetto delle «norme di sicurezza», uno degli ex-dirigenti di PI testimonia infatti che:

V isto che tutti hanno letto lo statu to dei T u p am aros, anche noi abbiam o fa tto uno statuto, ma per riderci sopra all’inizio. [,..] In e ffe tti, si rischiava m oltissim o; non ci cercavano m olto, questa è la verità [...] Per tan tissim o tem po io sono stato a casa mia. D a clandestin i, m olti di noi hanno continuato a vedere le loro ragaz­ze, i loro am ici [...1 il padre e la m adre, tutte le d o m en ich e "’.

Ciò era poi ancora più evidente nelle città più piccole: una militante di PI sottolinea la «armonia» nel gruppo fio­rentino dove «ci si conosceva da sempre». Nelle strutture «di base» delle organizzazioni più grandi, così come nei gruppi di dimensioni più ridotte, i militanti continuavano a vivere insieme la loro vita quotidiana, senza rispettare le «norme di sicurezza».

Nelle parole dei militanti intervistati, i rapporti con i compagni vengono definiti come dotati di fortissime cariche emotive: «rapporti umani assoluti», «solidarietà anche nelle cose piccole», «rapporti slegati dalla sistemazione». Si parla di una sorta di «generosità» affettiva, cui dedicarsi con en­tusiasmo:

C on un clima familistico di amicizia da bar si erano costitu iti in strutture. L a storia di Prim a linea a Sesto San G iovan n i è una storia di amicizia11.

Queste esperienze emotive si rafforzavano nei contatti frequenti. Vengono spesso ricordate, nelle interviste, espe­rienze comuni durante le vacanze, «grossa componente di convivialità», «incontri», «spinelli», «scampagnate», «alle­gro sodalizio», «feste che seguono gli espropri nei supermer­cati». Con dinamiche simili a quelle già osservate nel capito­lo precedente, ma con ancora maggiore drammaticità a cau­

10 Storia di vita n. 29, p. 37.11 Storia di vita n. 3, p. 50.

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sa delle specificità dei gruppi illegali, i rapporti con i compa­gni aumentavano ancora di intensità, man mano che si ridu­cevano le interazioni con persone esterne alla organizza­zione.

Non riesco a coltivare rapporti fuori dall'organizzazione. C on i com pagni d e ll’organizzazion e ci sono anche rapporti di vita, sono so prattu tto rapporti di amicizia. Il prim o em brione delle B r era form ato da amici, gente che più o meno abitava nello stesso quar­tiere'2.

Proprio l ’importanza crescente di questi rapporti di soli­darietà, il cui valore era accresciuto dalla condivisione di una comune «missione», compensava ampiamente le rinun­ce affrontate sul piano dei rapporti personali.

Io lim itazioni e rinunce sul p iano personale ho com inciato a sentirle da latitan te , cioè da [...] clandestino. Prim a era una serie d i scelte, cioè il fa tto d i tagliare il rapporto con uno e priv ilegiarlo con altri erano scelte che, ti d ico , fra l ’altro, mi gratificavano".

Questi vincoli affettivi spingevano a forme sempre più coinvolgenti di solidarietà quando le conseguenze della co­mune militanza in organizzazioni clandestine si facevano più gravi per i propri amici. La dinamica, descritta qui di se­guito, era quella della «responsabilizzazione» per le sorti dei compagni più cari; dei «sensi di colpa» per i pericoli che essi vivevano e che si combattevano attraverso la ricerca di una «eguale punizione»:

Q u esto tipo di intreccio con i miei amici per cui, alla fine della fiera, o tutti siam o fuori o tu tti siam o dentro , e quando restiam o m età fuori e m età dentro , io non li abbandono i miei amici [...] s i­gn ificava continuare a decidere di bu ttarsi nel pozzo perché, se gli amici erano caduti nel pozzo credendo in una cosa in cui si credeva assiem e, se loro devono stare in fondo e non posso tirarli su , p re­ferisco essere sotto con loro: qu esto è ancora lo sta to d ’anim o per cui, ancora più tardi, nel ’ 79 , nell’80 , nell’81 , nell’82 , tu avrai

12 Storia di vita n. 7, p. 9.

11 Storia di vita n. 4, p. 37.

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gente che [...] continuerà ad essere arrestata facen do esattam en telo ste sso tipo di p e rc o rso 14.

Le svolte nella direzione di un maggiore coinvolgimento nelle attività dei gruppi armati hanno coinciso, ad esempio, con l ’ingresso in latitanza di persone alle quali gli individui erano affettivamente più legati, in un susseguirsi di quelli che vengono definiti, nella intervista che segue, come «gesti sacrificali» da un militante che ricorda:

una profon da m odificazione e stravolgim ento della m ia vita , nel senso che io, dedican dom i praticam ente anim a e corpo a questo tipo di im pegno connesso spiritualmente al mio amico latitante, a questa idea della n ostra v ita stravolta , in realtà succede che p rati­cam ente c ’è una serie di im m agini virtuali che si rincorrono a v i­cenda: la necessità, la legittimità, la giustezza e se vuoi anche la bel­lezza di quel tipo di gesto sacrificale15.

In una partecipazione sempre più coinvolgente alle atti­vità delle formazioni armate si esprimeva poi, in forme sia materiali che simboliche, la solidarietà verso i propri amici in carcere.

(La data im portante è il d icem bre 1977) data d zlYarresto di Stefano. Q uella em otivam ente mi darà una carica che poi inizierà a spingerm i a fare le prim e azioni a ll’interno d e ll’o rgan izza­z io n e 16.

Io credo che se G . non fosse sta to in galera dal ’ 77 , forse io e L . non avrem m o continuato per tan to tem po ancora. N el senso che quando noi andiam o in crisi nel ’ 79, per esem pio, il fa tto che ci fo sse Chicco in galera per noi era un elem ento di gro ssa con ti­nuità, perché era un nostro a m ico 17.

Tuttavia, queste frequenti interazioni fra amici comin­ciavano a divenire, con il passare del tempo, troppo perico­lose per l’organizzazione a causa dei rischi che esse compor­

14 Storia di vita n. 18, pp. 58-59.15 Storia di vita n. 18, p. 55.16 Storia di vita n. 17, p. 15.17 Storia di vita n. 26, p. 68.

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tavano in termini di possibilità di arresti. Una struttura or­ganizzativa più compartimentata imponeva quindi una rare­fazione dei contatti nel gruppo. Come testimonia un mili­tante della prima fase delle Br, la forma organizzativa di quella formazione si era precisata:

N e ll’esta te del ’72 , a segu ito dei prim i arresti, quando ci si ac­corge che una dimensione così diciamo amicale dei rapporti, una di­mensione tutta familiare diciamo nell’impostazione politica e orga­nizzativa non regge. A ppun to nel ’ 72 arrestano 15 persone, e ci trov iam o la m aggior parte la tita n ti18.

L ’incentivo di solidarietà continuava allora a funziona­re, ma in altra forma. Da una solidarietà basata sulla fre­quente interazione con il gruppo dei pari, si era passati ad una solidarietà che spostava sull’organizzazione le cariche affettive prima fissate sui compagni più vicini. L ’identifica­zione avveniva allora con il gruppo più in astratto, e non tanto con la singola organizzazione, quanto con la comunità di chi praticava la lotta armata. L ’indentità veniva così mantenuta attraverso la lealtà alla «comunità combattente» e rafforzata dai riferimenti ai compagni morti nel corso del­la loro militanza in gruppi terroristi. Per esempio:

Q u an do sei avvolto nella sp irale, cioè proprio nella sp irale in cui tu sub isci e tu fa i, è d iffic ile riuscire ad astrarsi e a giud icare dal d i fuori i fa tti o gli even ti, perché in e ffe tti per esem pio ep iso ­di com e la m orte di M atteo e B arb ara hanno un ’ incidenza em oti­va notevole su di te, cioè in e ffe tti si innesca una sp irale d i ven ­detta o di rappresaglia, perché quando sei nel gioco , giochi in­som m a 19.

Un riferimento privilegiato della solidarietà divenivano inoltre i compagni in prigione, con cui «ci si identificava tutti», a prescindere dalla precedente conoscenza personale. Frequenti sono le affermazioni sul desiderio di uscire dalla clandestinità, vissuto come colpa e frenato per «senso di re­sponsabilità» verso chi era stato arrestato. Viceversa, per

18 Storia di vita n. 5, p. 48.19 Storia di vita n. 17, p. 33.

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chi era in carcere vi era il «senso di responsabilità» verso chi, fuori, continuava a rischiare la vita. Citiam o alcuni passi che descrivono in modo molto significativo questo intreccio di reciproci «ricatti affettivi»:

Però si continua a combattere esattamente anche, soprattutto, per i compagni che sono in galera, per esempio. Questo ti dà an­che il senso: i Colp addirittura si fondarono su questa cosa. Fanno scelte di morte, di morte personale, a quel punto, esattamente su questa cosa qua, sulla solidarietà con chi è in galera, perché in realtà è tutta gente che sarebbe stata meglio se andava via, se andava all’estero o si costituiva. E invece continua questa storia alluci­nante che infatti finisce non a caso nell’ottobre dell’82 a Firenze, quando ci ritroviamo tutti e quindi tutti insieme possiamo decide­re che una esperienza è finita. E quindi si chiude insomma. Non abbiamo più dei problemi di ricatti gli uni con gli altri, di solida­rietà, che poi a un certo punto, prima è solidarietà, ma a questo punto diventano anche reciproci ricatti tra che è dentro e chi è fuori20.

Era una situazione in cui eravamo favorevoli ad una dichiara­zione di scioglimento, di fine dell’esperienza, poi ci fu un docu­mento fatto da coloro che erano rimasti fuori che invece era asso­lutamente oltranzista, continuista, non ce la siamo sentiti di sot­trarci moralmente a questa recriminazione loro, e il tutto è avvenuto anni dopo21.

Ricordo dei documenti che serissimo nell’estate dell’80 [...] in cui si riaffermava tutta la nostra solidarietà all’organizzazione, pur non avendo una conoscenza di quello che era il dibattito allo­ra all’interno dell’organizzazione, cioè fu veramente un gesto pura­mente solidale nei confronti dell’esterno22.

La solidarietà verso il piccolo gruppo dei compagni del­l’organizzazione ha influenzato, inoltre, i processi di allon­tanamento dalla lotta armata nelle carceri. Frequenti nelle interviste sono le affermazioni sul fatto che «non ci si disso­cia da soli», «si aspettano gli altri», per non «lacerare i rap­

20 Storia di vita n. 26, p. 69.21 Storia di vita n. 29, p. 48.22 Storia di vita n. 17, p. 35.

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porti interni con gli altri detenuti», per «aspettare un pro­cesso di maturazione collettiva», per «ridurre il peso del ri­conoscimento degli errori». A proposito della sua iniziale posizione di rifiuto di ogni autocritica, dichiara una militan­te di PI:

E ro durissim a perché sostanzialm en te pensavo che invece qu esto elem ento di coesione, di so lidarie tà pur nella residualità orm ai, pur nella sopravviven za, andasse m antenuto saldo [...] Io mi sentivo, appun to, una che doveva salvare a tutti i costi quel col­lettivo, doveva a tutti i costi salvare quelle relazioni [...] Per me erano relazioni che provenivano dal ’72-’73 , cioè voglio d ire , era anche una vita fatta insieme, in tutte le sce lte2*.

La lealtà alla comunità si combinava con un tipo di in­centivo, che si può definire di continuità, nel rallentare i processi di allontanamento dalla lotta armata. Le caratteri­stiche della partecipazione nei gruppi armati producevano, infatti, dei meccanismi psicologici di non-ritorno. Utilizzan­do la terminologia di Hirschm an24, si può dire che il forte investimento iniziale riduceva la propensione a meccanismi di exit. Le organizzazioni clandestine riuscivano a sopravvi­vere attraverso sempre maggiori richieste di investimento personali. Le più alte barriere d ’entrata e i più alti sacrifici facevano crescere il livello delle ricompense attese. Quando queste ricompense non arrivavano, un meccanismo psicolo­gico funzionava nel senso di spingere a «rilanciare» aumen­tando l’investimento, piuttosto che a ritornare indietro, ri­nunciando a tutto. L ’ impegno era, cioè, mantenuto perché l’abbandono avrebbe comportato dei costi psicologici altis­simi, dato il prezzo che era già stato pagato per la partecipa­zione alle azioni armate. Anche su questo, le storie di vita offrono molte testimonianze significative:

Poi è in tervenuta tu tta una serie di sensi di colpa per il fa tto di lasciare qu esto tipo d i a ttiv ità e per i costi che aveva com porta­to da una parte e d a ll’altra, quindi anche d e\V inutilità delle cosefatte2' .

- ' Storia di vita n. 26, pp. i l - ) } (passim).-4 In Ilirschman [1970], '21 Storia di vita n. 19, pp. 2 e 63.

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L ’unica possibilità di riscatto che ho io, da un punto di v ista m orale, sia per la violenza esercitata che per quella su b ita [...] è l'andare fino in fondo2b.

C osì nell’autunno d e ll’ 80 mi trovai con un m andato d i cattura sulle spalle [...] im m erso e sovradeterm in ato in un m eccanism o più grande di me che in parte sentivo ostile ma in parte accettavo , anche com e unica possib ilità di p rosp ettiva , d ato che la p artecipa­zione alla vita dell’organizzazion e e alla sua riproduzione era l ’u ­nica garanzia m ateriale d i sopravviven za in libertà. C ontinuava inoltre ad essere prepon derante, com e convinzione ideologica quella di dovere proseguire sulla strada intrapresa per trovare, o m e­glio ten tare di trovare una ragione a posteriori del mio precedente coinvolgimento nella morte di un uomo21.

Solo il senso di lealtà alla «comunità della lotta armata» permetteva cioè di mantenere un’immagine della realtà in cui i costi già pagati potevano essere occultati, gli omicidi ancora definiti come «giustizia proletaria», la probabile in­carcerazione come una tappa nella lotta per la liberazione. E questo dava anche la possibilità di conservare, da un lato, il rispetto di se stessi e, dall’altro, la certezza dell’impunità per i propri crimini. A questo proposito appare anche signi­ficativo che, nonostante il raggiungimento di una posizione di critica della lotta armata e di forte ripensamento sul pas­sato, sia comune, nelle storie di vita, l’espressione di un giu­dizio finale globalmente positivo sulla propria esperienza. Pure questo consente, infatti, di mantenere il rispetto per se stessi, di non mettere in crisi la propria identità28. C i­tiamo solo alcuni esempi, di una posizione rintracciabile tut­tavia nella maggior parte delle storie di vita raccolte:

26 Storia di vita n. 18, pp. 73-74.27 Storia di vita n. 14, p. 19.28 Anche in un recente saggio sulle motivazioni alla partecipazione

in gruppi clandestini, ego involvement e auto-rispetto vengono considerati come fattori che spiegano la loro persistenza. Tra gli altri fattori, vengo­no individuati — in maniera simile a quanto emerso nella mia ricerca — timori di perdita dell’approvazione del gruppo dei pari; crescente chiusu­ra del gruppo e dipendenza da esso; senso di appartenenza accresciuto da esposizione a rischi comuni. Cfr. Crenshaw [1988].

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Credo che sarebbe molto brutto se arrivati a questo punto uno dovesse semplicemente dire «bo fatto un mucchio di stronzate, non ne ho azzeccata una, guarda che scemo che sono stato, adesso basta volto pagina, non voglio più saperne»29.

Pur tra mille errori e contraddizioni, non rinnego assolutamente nulla di quegli anni-, sono stati e sono patrimionio integrante della mia vita di donna che non è mai riuscita ad accettare le cose come si rappresentavano, ma che ha tentato, pur attraverso degli errori, di contribuire ad una trasformazione. Queste esperienze moltepli­ci sia sul piano politico che sul piano personale mi hanno profon­damente maturata e, spero, arricchita. Anche se rispetto al passa­to c’è stata un’autocritica seria, tutto quel patrimonio ideale che mi aveva portato a questa scelta di campo continua — questo sì— a vivere e a consegnarmi quella forza vitale che mi ha consenti­to di percorrere questi lunghi anni tra difficoltà e sofferenze senza perdere la dignità e la mia identità™.

E il bilancio è comunque, da una parte ci perdi e dall’altra ci guadagni perché maturi, perché cresci perché ti arricchisci di un patrimonio umano, di un patrimonio di conoscenze51.

3. Gli incentivi ideologici e l ’integrazione dei militanti

Un secondo meccanismo che serve a ridurre la percezio­ne che i militanti hanno di alcuni costi è l’ ideologia. Si è spesso parlato, rispetto ad altre organizzazioni politiche, dell’importanza di incentivi ideologici che accrescono la op­portunità di sovrastimare la propria missione; semplificano la complessità del reale, riducendo il numero di informazio­ni che sarebbero necessarie per agire; e forniscono dei sim­boli adeguati a rispondere al proprio bisogno di identità co­me concezione di sé confermata socialmente e di focalizza- zione su un valore superiore52.

29 Storia di vita n. 28, p. 98.50 Storia di vita n. 24, p. 64.!l Storia di vita n. 6, p. 71.i2 Sulle caratteristiche e il funzionamento dell’ideologia nelle orga­

nizzazioni di movimento sociale, si vedano, fra gli altri: Klapp [1964; 1972]; Merelman [1969]; J.Q . Wilson [1972]; Coser [1974]; Boucher

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Si sosterrà nel corso di questo paragrafo che, nel caso delle organizzazioni clandestine di sinistra in Ita lia” , gli incentivi ideologici hanno ridotto alcuni costi della parteci­pazione attraverso: a) la giustificazione della violenza fino all’omicidio politico; b) una semplificazione e mistificazione della realtà; c) l’enfatizzazione del ruolo del «soggetto rivo­luzionario».

Si è già osservato che la possibilità di uccidere altri esse­ri umani viene considerata, da chi non partecipa alle orga­nizzazioni clandestine, come uno dei costi più alti della par­tecipazione ad esse. Una delle funzioni degli incentivi ideo­logici offerti dalle organizzazioni clandestine era proprio quella di convincere della legittimità di uccidere. C iò passa­va, in primo luogo, attraverso la giustificazione dei più alti livelli di violenza come adeguati alle tradizioni del movi­mento operaio e l’attribuzione alla lotta armata di una sorta di funzione positivisticamente evolutiva, in ogni caso ade­guata alla congiuntura storica54. Le biografie mostrano co­me la legittimazione della violenza venisse ricercata attra­verso i riferimenti alla sua teorizzazione ed utilizzazione nel passato. Nelle due citazioni che seguono questo espediente appare interiorizzato dai militanti:

In qu esto sostenuti anche da illustri pezzi d ’appoggio letterario, di storia del movimento operaio dove appare perfettam ente leg itti­m o, consono alla storia del m ovim ento op eraio qu esto aspetto , cioè una vo lta stab ilito che la condizione storica autorizza questo tipo di organizzazion e, le altre sono conseguenze tecniche, da ve­dere con gro sso d is ta c c o ’5.

[1977]; Beteille [1978]; Clegg e Dunkerley [1979]; Mair [1979]; Pane­bianco [1979]; Manning [1980], Più in particolare sulle organizzazioni clandestine, Hoffman [1982; 1986]; Hopple e Steiner [1984]; dalla Chie­sa [1984]; Ferraresi [1984]; Sidanius [1985].

H Come fonte sono stati usati, oltre ai documenti manoscritti delle organizzazioni clandestine citati in appendice, alcuni documenti pubbli­cati dai loro leader: Collettivo prigionieri comunisti delle Br [1980]; Coi e altri [1983]; Pirri Ardizzone e Caminiti [1979].

’4 Un’analisi delle giustificazioni ideologiche per l’uso del terrori­smo, condotta attraverso l’utilizzazione di alcune storie di vita di militan­ti delle organizzazioni clandestine di sinistra in Italia, è contenuta in C a­tanzaro [1988].

35 Storia di vita n. 12, p. 21.

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Il problem a era quello di assum ere delle tecniche di iden tifica­zione, cioè fornire delle immagini nelle quali ci si potesse riconoscere [ ...] era sem plicem ente un m odo di farsi riconoscere, era un m odo per parlare un linguaggio comune che magari separatam ente n essu­no avrebbe parlato. E ra un m odo per identificarsi anche con la sto­ria, la tradizione, con una parte dei movimenti trasformativi di questo secolol<’.

Un secondo meccanismo attraverso il quale gli incentivi ideologici servivano a legittimare la violenza contro le per­sone era una sorta di spersonalizzazione degli individui col­piti, considerati solo in relazione alle loro funzioni nel com­plesso meccanismo del sistema capitalistico. Nei documenti dei gruppi terroristi gli esseri umani erano così presentati come «ingranaggi del sistema», con una disumanizzazione evidente nelle aggettivazioni attraverso le quali si qualifica­vano i «nemici»: «porci», «maiali», «cani da guardia». In un sistema ideologico che assolutizzava la contrapposizione «am ico/nem ico»,7, gli esseri umani feriti o uccisi venivano considerati non come individui in carne ed ossa, ma come simboli. I seguenti lunghi brani, tratti da due biografie, mo­strano quanto profondamente i messaggi ideologici venisse­ro interiorizzati dai militanti. Nel primo, viene infatti de­scritto il meccanismo di rimozione della idea stessa della morte delle persone, attraverso il riferimento alle vittime non come esseri umani ma come «funzioni», «ruotelle di un ingranaggio»:

N oi vivevam o il problem a della m orte all’ interno di una gran ­de ideologia, per cui, non lo so , io mi sono trovata d irettam en te ad am m azzare delle persone, in prim a persona. [ ...] In realtà, il problem a della m orte, per esem pio, v issu to com e m om ento di an ­goscia, mi ha toccato so ltan to nel m om ento in cui per esem pio è sta to [...] il problem a della m orte dei miei com pagni [...] Il p rob le­ma della m orte che si accom pagna a ll’ ideologia è esattam en te qu e­sto. C ioè lì dove tu am m azzi una persona — ecco, io sono una dei due sparatori d iretti d e ll’agente L o R u sso di T orino per esem pio,

Storia di vita n. 29, pp. 35-36.17 La categoria di «amico-nemico» è stata elaborata, come è noto, da

Schmitt [1981]. Questo concetto è stato applicato allo studio del terrori­smo italiano da Manconi [1988].

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l’ho am m azzato, me lo ricordo com e se fosse adesso qu esto m o­m ento, com unque ti giuro che non ho v issuto , per esem pio, questa cosa che per me era il prim o om icidio d iretto che facevo [...] quel­l’om icid io io l’ho v issu to ancora dentro la logica della funzione, perché era un agente di cu stod ia , perché era noto, va beh , com e un co sidd etto tortu ratore com e si d iceva allora, e quindi avevo tutte le giustificazion i d e ll’ ideologia. Per cui per me operare pri­ma — nei term ini anche di non am m azzare d irettam en te la gente, ma operare di testa sapen do ben issim o che c ’erano altri che poi dopo com unque l ’avrebbero [...] per me era com e svolgere una rou­tine di lavoro. E questa è proprio l’aberrazione, la cosa allucinante d e ll’ ideologia, perché tu hai un ’ ideologia per cui tu sei da una p ar­te ci sono gli am ici e d a ll’altra ci sono i nem ici, e i nemici sono una categoria, cioè sono delle funzioni, sono dei simboli, non sono degli uomini. E quindi trattare qu este persone con la sim bologia d e ll’asso luta nem icità fa sì che tu hai un rapporto di assoluta astrazion e con la m orte. Per cui se io probabilm en te fossi andata a fare l’ im piegata al catasto , invece di andare a fare l ’om icida, per me sarebbe stata la ste ssa cosa, per cui una sc ission e allucinante tra questa co sa qui — nel senso che io u scivo la m attina da casa, e per i ruoli che avevo io, andavo a controllare le persone, a p rep a­rare le operazioni ecc. Q u an do non andavo io d irettam en te in pri­ma persona a com piere degli om icidi ev identem ente. Poi me ne tornavo tranquillam ente a casa , mi facevo la mia v ita [ ...] che era quella di una norm ale donna di casa *K.

Questa ideologia, profondamente interiorizzata, per­metteva di presentare la propria partecipazione anche alle azioni più crudeli, come realizzazione di atti di «giustizia». La rimozione del rimorso per gli assassinii commessi era le­gata anche a tutta una serie di pratiche concrete, di cui pure consisteva l’attività terroristica,, che rendevano i crimini anche più brutali delle necessità quasi «burocratiche», ridu­cendo nella coscienza la percezione di una propria respon­sabilità individuale. Ciò emerge in questo secondo brano, in cui vengono minuziosamente descritte le varie fasi che precedono gli attentati contro persone:

A d una esigenza di tipo politico tu fai conisponderc una perso­na. C ioè oggi ho il problem a di attaccare la D em ocrazia cristiana

'* Storia di vita n. 26, pp. 62-63.

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nel quartiere che fa un certo tipo di discorso ma non è che te la vai a prendere con i muri [...] allora vediamo chi è che fa questo discorso e quindi vai, cioè tu cominci praticamente a cercarlo, è co­me se alzassi le antenne ricettive per capire da dove arriva questo messaggio, allora leggi i giornali partecipi in maniera clandestina alle riunioni di queste persone qui, cerchi di vedere e di capire, poi l’hai individuata e quindi è fisicamente individuata, è quello il responsabile, è lui in questo momento, c’è già una logica di pro­cesso in cui non c’è rapporto, in cui tu già da prima hai deciso che quello è il colpevole quindi arrivi e quello che ti differenzia è la pena, cioè che pena do a questa persona colpevole di queste cose? Vai lì e assumi questo senso di giustizia, di giustizia molto carica cioè è quella giustizia che non solo a te ti colpisce perché hai fatto quel giorno quella determinata cosa, ma per tutti i discorsi che ci sono dietro, quindi in realtà non è più neanche quella persona, quella per­sona viene svuotata e gli vengono immesse delle altre colpe, delle re­sponsabilità. Perciò ci arrivi da un percorso di individuazione fisi­ca delle responsabilità di quella persona, però gliele svuoti, gliele togli, diventa un’altra persona, diventa un'altra cosa [...] piccolo in­granaggio di quella macchina mostruosa che ci sta distruggendo tutti [...] In realtà arrivato a quel punto non puoi essere coinvolto total­mente, non ti fai prendere dall’emozione, sei uno che fa della giu­stizia, che afferma dei valori e quindi non ha posto per l’odio [...] sotto sotto dici «son costretto a fare questa cosa»” .

Un secondo modo attraverso cui l’ideologia dei gruppi armati sembra avere funzionato come incentivo all’integra­zione dei militanti è l’ambiguità che permette la m istifica­zione della realtà. E stato osservato che l’ambiguità è un elemento spesso presente nelle organizzazioni politiche, so­prattutto in quelle meno dotate di risorse materiali, perché permette di definire le sconfitte come vittorie, filtrando co­sì le smentite provenienti dall’esterno40. Ciò è vero per le ideologie dei gruppi clandestini italiani, dove essa era legata soprattutto all’astratta riproposizione di dottrine generali prese in prestito dai classici del pensiero di sinistra, alla mancata individuazione delle tappe che devono portare alla rivoluzione, ad immagini «ottim istiche» della realtà. Nei

w Storia di vita n. 27, p. 45.411 Cfr. Gerlach [1970]; Lofland e Stark [1965]; Simmons [1964],

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documenti si parlava, infatti, di «tanto peggio, tanto me­glio», «salto di qualità», «proletariato vincente», «prossima vittoria». E le immagini che i militanti mantenevano erano quelle che parevano confermare la giustezza delle scelte del­l’organizzazione attraverso i suoi presunti successi. Ciò as­sumeva principalmente due forme: l ’affermazione del radi­camento dell’idea della lotta armata in un movimento «di massa» e quella dell’esistenza di risultati positivi e tangibili prodotti dalle pratiche terroriste.

Diffusissimi sono ancora nei ricordi di oggi degli ex-mi­litanti i riferimenti alle simpatie che la lotta armata riscuo­teva anche fra molti che non vi partecipavano direttamente. Ecco alcune citazioni in cui l’area dei simpatizzanti della lotta armata viene ricordata come estremamente ampia, co­me denota l’uso di termini quali «centinaia di persone», «larghissima legittimazione», «livello di massa»:

E ravam o radicati. A vevam o una presenza reale alla F ia t, alla Pirelli. C ’è il rapporto con la classe. A vevi le tue brigate in fa b b rica 41.

Il giorno dopo l ’om icid io d i Pedenovi, anzi il pom eriggio p er­ché lui fu ucciso al m attin o e la m anifestazione fu al pom eriggio , c ’erano centinaia di persone che davano pacche sulle spalle a quelli che loro identificavan o nell’area in cui sarebbe potuta avvenire una cosa del g e n e re 42.

E ra un meccanismo di larghissima legittimazione-, quella sera che è m orto L o R u sso , io ero andato a ll’università a T orin o [...]Il giorno dopo , qu an do alla m anifestazione è arrivata la notizia che era m orto qu esto della D igos, è stata una cosa accolta, alm eno dal punto di v ista em otivo , com e fatto proprio4'.

N el g iro di pochissim i m esi si com inciò a toccare con mano che era un'ipotesi che poteva sfondare [...] attecchire su un livello, diciam o, di massau .

41 Storia di vita n. 7, p. 9.42 Storia di vita n. 29, p. 30.41 Storia di vita n. 29, p. 44.4-1 Storia di vita n. 28, p. 41.

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Le azioni dell’organizzazione erano sempre presentate come vincenti, utili alla lotta. Anche nel ricordo, si sottoli­nea la presenza di risultati immediatamente positivi ottenu­ti tramite azioni armate. Per prendere solo un esempio, ecco ancora un brano da una storia di vita:

Su ll’on da di questa co sa qui com inciò a prendere corpo una discussion e in qu esto gruppo di operai sulla p ossib ilità di fare d e l­le cose contro i capi che più sosten evan o un atteggiam ento an- ti-operaio. E bruciam m o le m acchine d i alcuni d i loro [...] Q u esti prim i tipi di violenza avevano un rapporto d ire tto con le con d iz io­ni m ateriali in cui viveva la gente, cioè voglio dire che un capore­parto a cui veniva bruciata la macchina, diventava più remissivo4\

L ’immagine che si riusciva così a instaurare nei militanti era quella di continue vittorie, dell’organizzazione, del pro­letariato, della rivoluzione. Invece, le sconfitte sia delle or­ganizzazioni clandestiche che dei movimenti collettivi a cui esse facevano riferimento venivano negate o, al massimo, considerate come indicatori della necessità di «attrezzarsi ad una fase diversa». Significativo è il riferimento di uno dei dirigenti di PI al fatto che perfino il progressivo isola­mento da una pur ridotta base di simpatizzanti venisse pre­sentato come una condizione positiva per l’organizzazione:

A vevam o in iziato una d iscussion e che, a pensarci dopo , mi fa ­ceva rabbriv id ire sul fa tto che fo sse venuto m eno quel tipo di in­treccio (con la società civile) e che proprio questa ro ttura andasse a fferm ata e andasse san zionata e tutto quello che si separava da questa dinamica, andasse attaccato perché ormai si rappresentava co­me nemico, anzi com e unico nem ico capace d i consolidare uno sch ieram ento sociale contro d i n o i4'’.

Della sconfitta venivano percepiti alcuni segni immedia­ti, che nei racconti sono «i compagni che cominciano a be­re», « l’eroina che penetra l’ambiente della sinistra rivoluzio­naria», le «defezioni sempre più frequenti». Ma, tuttavia, anche questi sintomi erano rimossi:

45 Storia di vita n. 29, p. 25.

4<> Storia di vita n. 29, p. 43.

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Non si ha la sensazione della tragedia, nonostante che le avv isa­glie c ’erano già sta te [ ...] però sono fa tti che sono mantenuti un po' alla periferia della coscienza, sono v isti com e « in c id en ti» in un certo senso n ecessar i47.

Il meccanismo attraverso cui la mistificazione della real­tà veniva realizzata era la selezione delle fonti di informa­zioni, che diventavano sempre più quelle dell’area ristretta di persone con cui si era in relazione. La clandestinità, ridu­cendo al massimo i contatti con l’esterno, faceva della orga­nizzazione terrorista stessa — o dell’area della «lotta arma­ta» — l’unica erogatrice di notizie48.

C ’era d iciam o un avvitam en to su me ste sso o un avvitamento di gruppo [ ...] io frequ en tavo spessissim o in tantissime occasioni tantissimi ambiti di compagni, compagni, sempre compagni [...] com ­pagni con alcune mie certezze per cui veniva un pochino fuori una logica di gruppo o una logica di com pagni [...] che faceva sì che fo sse sem pre conferm ata questa ce rtezza49.

A vere co stru ito uno scenario im m aginario in cui giocare una confusa idea di liberazione d e ll’uom o. S i era fuori dal m ondo de l­la re a ltà ’0.

Come è descritto nella citazione che segue, queste conti­nue mistificazioni non passavano attraverso le macro rap­presentazioni su grandi trasformazioni sociali da realizzare, ma piuttosto attraverso una serie continua di «piccole bu­gie» sul proprio presunto «radicamento»:

E ra una somma di piccole menzogne, di piccole bugie nel senso che ognuno [...] ten deva, in genere ad accred itare l ’ im m agine di u n ’organizzazione più rad icata nella società, che god eva di più

47 Storia di vita n. 12, p. 27.48 La selezione delle fonti di informazione funziona insieme ad un

altro meccanismo che presiede all’analisi delle informazioni, cioè al così detto meccanismo della coerenza cognitiva, che porta a resistere ad infor­mazioni che possono mettere in discussione la propria immagine della realtà. Cfr. Crenshaw [1988].

49 Storia di vita n. 8, p. 48.50 Storia di vita n. 10, p. 15.

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sim patie , che aveva più fian ch eggiatori, che su scitava più con sen ­so di quanto in realtà fo sse ; m a qu esto non si realizzava attraverso grandi bugie, ma attraverso piccole bugie che uno raccontava a se ste sso [ ...] «m a lo sai [ ...] che la portin aia ha cap ito ben issim o che sono un brigatista , però non dice niente e, anzi, se vede un po li­ziotto fa in m aniera di avvertirm i? L o sai che al bar hanno cap ito chi sono e quando arrivo lì il b arista mi o ffre un bicchierino g ra­tis? L o sai che nella fabbrica , qu an d o hanno gam bizzato il tale, hanno stap pato una bottig lia di sp u m an te?»51.

Un terzo tipo di incentivo ideologico che ha motivato la prosecuzione della militanza è stato, infine, la enfatizzazio­ne del ruolo dei singoli membri di gruppi clandestini. La giustificazione dell’azione non appare legata alla presenta­zione dell’immagine di una società futura da costruire. C o­me si rileva in diverse interviste, ciò che sarebbe successo dopo che si fosse realizzata la rivoluzione non era che vaga­mente definito e riscuoteva scarsa attenzione sia nei docu­menti delle organizzazioni che nei dibattiti all’interno.

Io im m aginavo il m om ento m assim o della guerra civile [...1, im m aginavo una situazione, per fare un paragone, tipo B eirut. E c ­co non riuscivo a immaginare il comuniSmo, non lo riuscivo a im m agin are52.

C iò che noi ci prefiguravam o era qualche co sa di estremamente vago perché al di là della rottura rivoluzionaria non si andava. N on c ’era mai sta to un d iscorso su che co sa noi intendevam o per so cie­tà com unista, società rivoluzionaria. T u tti i nostri d iscorsi erano in n egativo sulla società p resente ; ma non erano mai in positivo su d i una eventuale società fu tu ra 55.

[Il problem a del dopo] era una cosa abbastanza personale dove tu eri favorito dalle tue fantasie [ ...] D iciam o che non erano all’o r­dine del giorno qu esto tipo d i cose perché appunto in genere p ar­lavi delle cose g iorn aliere54.

51 Storia di vita n. 11, p. 38.52 Storia di vita n. 4, p. 37.53 Storia di vita n. 16, pp. 111/15-16.54 Storia di vita n. 2, p. 31.

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L ’ideologia produceva, piuttosto, la definizione del ruo­lo del militante dei gruppi armati come «eroico». Ciò si rea­lizzava in forme simili a quelle già riscontrate in altri piccoli gruppi, in particolare nelle sette, attraverso la diffusione di simboli e messaggi che enfatizzano ideali quali una vita vis­suta al di fuori della norma; l’eroismo individuale; il corag­gio come dovere del credente; il sacrificio come comune sofferenza55. Man mano che le sconfitte esterne diveniva­no sempre più difficili da negare, si accentuava la considera­zione positiva data a valori quali avventura, attivismo, sa­crificio.

In primo luogo, veniva così esaltata l’uscita dal quotidia­no, lo spirito di avventura. In questa biografia, ad esempio, il pericolo connesso alla militanza in una organizzazione ille­gale diventa in sé gratificante perché espressione di una vita «dinamica», in contrapposizione alla vita «piatta e noiosa» dei coetanei.

Il gruppo che si compatta su dei comportamenti che sono di­versi, trova una propria identità in questi comportamenti e si su­blima in questi comportamenti e tutto sommato li esalta, ne fa una ragione di essere [...] Anche il fatto di essere un’organizzazio­ne clandestina diventa una questione gratificante sotto un certo punto di vista perché sei un operativo, perché è una vita abbastanza dinamica, ecco non fai una vita piatta e noiosa56.

In secondo luogo, le storie di vita mostrano tutte quanto impegnativa fosse l’attività nelle organizzazioni clandesti­

55 Nel caso delle sette si è parlato, inoltre, di meccanismi di raffor­zamento dell’impegno quali la rinuncia, come isolamento fisico dal resto del mondo; la comunione, attraverso la quale si diviene parte del gruppo; la mortificazione, nella cerimonia d ’iniziazione e nella punizione pubbli­ca di chi ha sbagliato; la trascendenza come rinuncia alla propria capacità di decidere a vantaggio del gruppo, in cui il potere è esercitato da leader misteriosi e non controllabili [Kanter 1968; 1972]. Fra i saggi che si sono occupati di questi fenomeni, e la cui lettura è risultata utile anche per una interpretazione di alcuni aspetti del funzionamento delle organizzazioni clandestine, si vedano: Aubert [1965]; Baffoy [1978]; G ist [1938]; Ha- zelrigg [1969]; O ’Toole [1977], Simnjel [1950]; B.R. Wilson [1959; 1961],

56 Storia di vita n. 6, p. 46.

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n e. C o m e si è d e t to , l ’ a t t iv ism o n on e r a ta n to le g a to a lle n e ­c e s s it à o r g a n iz z a t iv e , m a e ra p iu t to s to v a lu ta to p o s it iv a - m e n te p er il su o v a lo re s im b o lic o d i c o n tr a p p o s iz io n e a lla r i ­n u n c ia a l l ’ in te r v e n to p o lit ic o d a p a r te d i ch i n o n a v e v a sc e l­to la lo t ta a rm a ta . L ’e s a l ta z io n e d e l l ’ a z io n e in sé si r i f le t t e ­v a , in p r im o lu o g o , n e lla g ra n d e im p o r ta n z a a n c h e s im b o lic a d a ta a lle arm i e a l l ’ a z io n e m ilita re . S o p r a t tu t t o n el c a so d e i m ilita n ti u o m in i57, n e lle in te r v is te si so tto lin e a il fa sc in o ch e le p is to le e s e r c ita v a n o su se s t e s s i e su g li a ltr i:

La cassettina con tutta l’ideologia bella pronta, i documenti: tutte ste cose qua: non è per quello che uno sceglie di fare la lotta armata [...] C ’è un altro tipo di lavoro che tu fai con una certa meccanicità perché l’hanno fatto gli altri con te, poi lo fai tu con gli altri, e credo che sia quello che poi fa entrare le persone e poi ti gratifica a te e cioè dai quest’immagine della latitanza chissà co­me fosse, ti rendi agli occhi degli altri come depositario di grandi segreti, dai un’immagine di potenza [...] Io credo che la cosa che ha fatto entrare questi compagni più in contatto non fu tanto le chiacchiere, ma fu che gli insegnai a usare gli esplosivi [...] Tutta quella atmosfera di curiosità [...] è la curiosità che ti spinge, ti avvi­cini, ti avvicini e ti trovi dentro™.

Le armi hanno un fascino in sé, che poi è un fascino che ti fa anche sentire in qualche modo più — non so come si può dire — più virile, tanto è vero che, come a tutti, anche a me mi capitava [...] di farle vedere alle donne per tentare, appunto, di conquistarle5'1.

C ’è questa immagine dell 'arma che ti da più forza più possibili­tà che comunque la cosa può rompere questa realtà di accerchia­mento, di oppressione e di reazione'’".

Sembrerebbe esserci, in questo caso, una differenza tra gli uomini e le donne, le quali usano spesso toni molto critici nel ricordare il fascino che le armi esercitavano sui loro compagni. E però difficile dire quanto queste differenze esistessero in realtà, e quanto non siano invece enfatiz­zate nel ricordo per confermare un’immagine più consona ad alcune con­vinzioni diffuse sull’esistenza di specificità femminili. Su questo punto, e più in generale sulle caratteristiche della militanza delle donne nelle or­ganizzazioni clandestine in Italia, si veda della Porta [1988b].

,K Storia di vita n. 1, pp. 48-49.Vl Storia di vita n. 16, p. 79.wl Storia di vita n. 27, p. 33.

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L ’ideologia interiorizzata dai militanti spingeva a cerca­re le conferme della positività del proprio ruolo e dei propri personali successi sul piano della riuscita militare delle azio­ni. Come si legge nelle seguenti due citazioni, «gratificazio­ni» e «soddisfazioni» venivano dal «piano militare».

T endi a trovare poi i tuoi m om enti di gratificazione unicamente sul piano militare, qu an d o vai a fare delle c o se 61.

Il fa tto d i vedere qut\V affare incendiato cadere era una specie di soddisfazione1'2.

Un terzo meccanismo, infine, attraverso il quale l’ideo­logia consentiva la giustificazione del proprio ruolo, al di là delle evidenti sconfitte, era il valore assegnato al sacrificio individuale, esaltato peraltro da molta letteratura sui rivolu­zionari di professione. Lo spirito di sacrificio come dovere del rivoluzionario è presente in diversi racconti, e con parti­colare evidenza nelle parole di un ex-dirigente delle Br.

Io am avo il mio lavoro , stu d iavo , mi ritenevo econom icam en­te so d d isfa tto , non avevo nessuna am bizione di guadagn o u lterio­re e mi ritenevo la persona più fortu nata del m ondo, p roprio senza la m inim a fru strazione [ ...] non trovavo a ffatto a ttraen te fare la lotta arm ata, anzi d icevo «m aledizione, peccato che mi tocchi fa r­la proprio a m e» (ma) la ritenevo una scelta coerente, la ritenevo una scelta giusta, [ ...] la ritenevo una scelta p ossib ile e la ritenevo una scelta che chi aveva coscienza di tutta una serie di cose doveva farehi.

Si può anche osservare che l ’enfasi sull’etica del sacrifi­cio è aumentata nella fase finale del terrorismo, quando la consapevolezza degli insuccessi delle organizzazioni clande­stine e dei pericoli, anche materiali quali arresto e morte, per i loro militanti apparivano con un’innegabile evidenza. Il proprio ruolo era quindi percepito, in questi momenti de­scritti nelle storie di vita, come un gesto impulsivo di «ribel­

61 Storia di vita n. 5, p. 57.62 Storia di vita n. 2, p. 28.63 Storia di vita n. 11, p. 28

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lione», per «tenere vivo il momento rivoluzionario», per «resistere alla pacificazione», per «mantenere la presenza».

Gran parte della storia era pura coreografia perché da un lato si diceva: sì, la situazione politica non è quella ideale per la costi­tuzione di formazioni rivoluzionarie eccetera, però d’altro canto [...] ci deve pur essere qualcuno che tiene vivo il movimento rivoluzionarioM.

D iciam o che d all’80 in poi si parla solam ente di resistere [...] non c ’è la rivoluzione intesa in quanto avan zata «A n d iam o avanti [ ...] siam o belli, siam o tan ti», non siamo né belli né tanti, siamo dei poveri disgraziati che si incontrano e d icono «V a beh , vediam o di fare qualche cosa per resistere perlom eno in questo periodo in a t­tesa , cioè naturalm ente lavoran do perché una situazione di m ovi­m ento rivoluzionario si vada a ricreare» [...] Se vogliam o sin te tiz­zare in una parola d ’ordine è resistere a tutti i costi senza farsi rias­sorbire nella pacificazione^.

Assumeva dei caratteri da caso psicologico, per cui più ci inde­bolivamo, più ci autoresponsabiliziamo, più decidiamo che co­munque c’è un problema di mantenimento di presenza del discorso, di continuità di cose66.

4. G li incentivi materiali e l ’integrazione dei militanti

Per quanto riguarda il mantenimento dell’adesione al gruppo clandestino, particolare rilevanza hanno avuto, infi­ne, le restrizioni materiali all’uscita. Non è casuale che, se­condo i nostri dati, il percorso dentro l’organizzazione clan­destina sia proseguito fino ad una rinuncia alle attività cri­minali nella maggior parte dei casi involontaria, cioè legata all’arresto o alla morte. Le ragioni ipotizzabili per questo non-ritorno sono diverse, di tipo sia psicologico che mate­riale. Delle prime, collegate all’alto investimento iniziale, si è già detto. Quelle materiali riguardano soprattutto i rischi di arresto, l ’assenza di altre fonti di risorse economiche, le possibili punizioni da parte dell’organizzazione.

64 Storia di vita n. 6, p. 43.65 Storia di vita n. 6, p. 50.66 Storia di vita n. 29, p. 31.

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Si può innanzitutto osservare che, se la clandestinità rappresentava il vero punto di non-ritorno, era stato il ri­schio di essere arrestati a spingere i più a divenire latitanti. Le storie di vita confermano come le ondate di arresti, in particolare quelle prodotte dalla decisione di ex-militanti di collaborare, erano state spesso la causa principale delle scel­te di divenire clandestini.

Io avevo pensato che non potevo stare a casa tranquillamente ad aspettare che mi venissero a prenderehl.

Per chi, poi, era latitante, l ’assenza di opportunità di exit dall’organizzazione clandestina è anche legata alle ne­cessità di sopravvivenza: denaro, luoghi per nascondersi, documenti falsi. Nonostante la scarsa disponibilità di risor­se materiali, infatti, i gruppi clandestini riuscivano tuttavia a fornire appoggi «logistici» ai loro membri, disponendo di «covi» e di attrezzature per. falsificare i documenti. Essi, inoltre, offrivano una sorta di stipendio ai militanti regolari68 e talvolta anche ai non regolari; pagavano le spe­se processuali; distribuivano sussidi ai detenuti e talvolta, nell’ultimo periodo, aiuti per espatriare clandestinamente. Proprio i bisogni logistici della latitanza spingevano così molti militanti di organizzazioni minori a cercare di essere reclutati in quelle più grandi, e quindi dotate di maggiori ri­sorse. Così, nei ricorsi di molti militanti, la latitanza era traumatizzante ma:

Ti terrorizzi e però non puoi più tornare indietro perché c'è il mandato di cattura™.

Un terzo tipo di rischi materiali sono quelli collegati alle «punizioni» dell’organizzazione. Per molti anni, l’abbando­no delle formazioni clandestine non aveva comportato alcu­na sanzione materiale da parte dell’organizzazione stessa, a

67 Storia di vita n. 15, p. 29.58 Per esempio, in un interrogatorio ad un militante di PI si parla

dell’assegnazione di 250.000 lire mensili ai membri di quella organizza­zione.

69 Storia di vita n. 1, p. 59.

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condizione che i militanti che si allontanavano rispettassero certe regole, come non portare via armi e non fare propa­ganda a favore della «diserzione». Anche questo rischio ave­va cominciato ad essere percepito come effettivo da quando aveva iniziato a funzionare la legislazione premiale, di cui si parlerà nel capitolo ottavo. Si era diffuso, così, un clima di reciproci sospetti, soprattutto dentro le carceri dove era­no avvenuti anche numerosi delitti. Secondo numerose te­stimonianze, ciò aveva disincentivato molti di coloro che cominciavano a nutrire dei dubbi sull’opportunità di conti­nuare con la lotta armata dall’esprimerli, per paura di essere scambiati per traditori e colpiti dalla «vendetta» dell’orga­nizzazione. Come ricordano, ad esempio, un dirigente di PI e uno delle Br:

N oi dentro Prim a linea eravam o quasi tutti straconvinti di d o ­ver fare per esem pio una dich iarazion e pubblica ma eravam o ri­stretti tra il moto impazzito di quelli che rimanevano fuori e che non avevano più nessun rapporto con la realtà [...] e una situazione car­ceraria incredibile in cui dire una sola parola era rischiosissimo. Q u e ­sto è un altro aspetto della qu estion e : c ’è stata una prevalenza di una logica di ann ientam ento nei partiti e nello sta to veram ente al­lucinante, chi non sa che cosa è successo in carcere in quel periodo non si im m agina niente, lira un tritatutto, non c'era uno spiraglio ".

Poi si è creata una situazion e di stallo , determ in ata dal fa tto che io ero deten uto nel carcere di C un eo e quindi finché ero in quella situazion e era d iffic ile poter fare cose m olto d iverse ed era molto rischioso; ho asp etta to per fare il salto dell’uscita da qu esto m ondo... l’occasione di un processo che avevo da so lo a G en o va '

Concludendo questo capitolo, si può quindi osservare che l’adesione alle organizzazioni clandestine si è mantenu­ta per il mettersi in moto di alcuni meccanismi di non­ritorno, che hanno creato degli impedimenti all’abbandono. La persistenza dell’ impegno può essere, in primo luogo,

711 Storia di vita n. 29, p. 41.

-1 Storia di vita n. 11, p. 50.

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spiegata dall’alto grado di identificazione con il gruppo di compagni, prima, e con la comunità della lotta armata, in se­guito. Il mantenimento della lealtà è stato, in parte, spiega­to da un meccanismo psicologico che ha spinto rilanciare l ’impegno su attività su cui si era già investito molto. Un al­to grado di isolamento dal mondo circostante ha poi reso i militanti sempre più dipendenti dalle organizzazioni clande­stine, che divenivano anche l ’unica fonte di informazioni credibili sulla realtà esterna. Ciò ha facilitato l’interiorizza­zione da parte dei militanti dell’ideologia del gruppo, con­tribuendo in questo modo a nascondere la crisi organizzati­va. La giustificazione della violenza è avvenuta attraverso l’elaborazione di una immagine della realtà in cui le vittime erano presentate come piccole ruote di un meccanismo, una piccola élite di «partigiani» come responsabile di ammini­strare la giustizia, e la lotta di classe come una guerra. Il mantenimento della militanza nei gruppi armati è stato, in­fine, determinato dall’innescarsi di alcuni meccanismi mate­riali di non-ritorno. Se il rischio di essere arrestati portava spesso a scegliere di divenire latitanti, era poi questa condi­zione ad aumentare la dipendenza dall’organizzazione, por­tando ad accrescere esponenzialmente il proprio impegno.

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CAPITOLO SESTO

ST R A T E G IE O R G A N IZ Z A T IV E E M O B IL IT A Z IO N E D E L L E R ISO R SE

1. Le strategie organizzative: una premessa

Si è parlato nei due precedenti capitoli dei processi che hanno portato alcuni individui ad aderire ai gruppi clande­stini e a mantenere nel tempo la loro militanza. Questi pro­cessi sono stati influenzati anche dalle attività, più o meno consapevoli, delle formazioni armate. A queste attività si guarderà nel corso del presente e del prossimo capitolo, in cui si cercherà di ricostruire i processi decisionali che hanno determinato le scelte strategiche delle organizzazioni clan­destine. Due diverse spiegazioni del comportamento dei gruppi clandestini sono rintracciabili nella saggistica politi­ca e giornalistica. La prima è che le organizzazioni clandesti­ne non sono capaci di tenere conto del proprio ambiente, e quindi di un’azione razionale o meramente «comprensibi­le». L ’altra è che vi siano degli obiettivi «nascosti», legati a giochi complessi nel sistema delle relazioni internazionali. Al problema della «razionalità» dell’azione delle organizza­zioni clandestine è stato, poi, strettamente collegato quello, presentato nel capitolo introduttivo, della loro capacità di trasformarsi per adeguarsi ai cambiamenti nell’ambiente esterno.

In questo capitolo e in quello che segue, si osserverà che il rapporto delle organizzazioni clandestine con il loro am­biente è stato complesso e mutevole. In alcuni momenti esse sono state più capaci di adeguarsi ad esso, e di elaborare strategie che, in qualche modo, miravano a modificarlo. Ma la stessa scelta della clandestinità ha comportato una ridu­zione dei flussi di scambio con l’esterno, nel tentativo di controllare i rischi che da esso provenivano. Si vedrà nel prossimo capitolo che il risultato di questa scelta è stato una sempre maggiore chiusura verso l ’esterno.

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Un secondo punto, già anticipato nel capitolo introdut­tivo, è che per comprendere il funzionamento e l’evoluzione di una organizzazione occorre guardare non solo ai fini da essa proclamati, relativi in genere a trasformazioni dell’am­biente esterno, ma anche agli altri compiti che, per soprav­vivere, deve assolvere: il reperimento delle risorse e la loro integrazione. Si vedrà in questo capitolo che molte delle scelte relative alle strutture organizzative, alle forme d ’azio­ne, alla ideologia dei gruppi armati sono state orientate al fine di reclutare nuovi membri. I gruppi armati hanno, in qualche misura, trasformato sia le loro strutture organizza­tive, che le loro forme d ’azione e la loro ideologia in relazio­ne al tipo e alle dimensioni della potenziale base di mobilita­zione, cioè a quella parte della popolazione che, in termini di interessi e di valori, condivideva le loro mete e tattiche. Come le imprese economiche definiscono i loro futuri clien­ti e orientano il prodotto in modo congruente a questa scel­ta, così anche i gruppi terroristici hanno selezionato il «pub­blico» da influenzare, trovando nel mercato politico le «nic­chie» dove i loro prodotti erano più competitivi. Vedremo tra poco come i loro sforzi per reclutare si siano concentrati su coloro che accettavano l’uso della violenza come mezzo per risolvere i conflitti politici e come gli incentivi utilizzati per il reclutamento siano mutati insieme alle dimensioni e alle caratteristiche della potenziale base di mobilitazione. Vedremo pure come strutture organizzative, repertori d ’a­zione e produzione ideologica delle formazioni clandestine siano stati cambiati e adattati in relazione all’ambiente con­siderato come potenzialmente più promettente per il reclu­tamento. La flessibilità nelle scelte strategiche è stata tutta­via limitata da una serie di vincoli, imposti dalla stessa clan­destinità, che hanno drammaticamente ridotto il raggio del­le strategie possibili.

2. Strutture organizzative e mobilitazione delle risorse

Le formazioni politiche sono, in genere, provviste di strutture organizzative che mostrano gradi differenti di ef­

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ficacia nell’adempiere ai diversi com piti1. Ad esempio, una organizzazione democratica e decentrata, dotata di un’am­ministrazione flessibile e di strutture specializzate aperte al­l ’esterno, è meglio attrezzata a reclutare nuovi membri. Da questo punto di vista, le organizzazioni terroriste presenta­no, invece, delle strutture che le rendono poco adatte ad at­trarre nuovi membri. La clandestinità diminuisce drastica­mente le possibilità di incontrare i potenziali sostenitori. La compartimentazione riduce la probabilità che ogni singolo contatto possa promuovere un massiccio reclutamento. La centralizzazione rallenta le procedure necessarie per la for­malizzazione dell’adesione, richiedendo controlli gerarchici sui nuovi ingressi. Tuttavia, anche i gruppi terroristi italiani hanno tentato di dotarsi di strutture di reclutamento, adat­tandole alle particolari condizioni ambientali nelle quali essi operavano. Organismi aperti ai non-membri sono stati crea­ti quando una base potenziale relativamente ampia ha reso meno pericolose le azioni di reclutamento, mentre quando l ’ambiente era più ostile, il compito di reclutare è stato de­mandato a pochi militanti che agivano attraverso contatti prolungati con singoli individui.

Si possono, infatti, individuare, nei gruppi del terrori­smo italiano, due modelli di reclutamento che si distinguo­no l’uno dall’altro per grado di centralizzazione,, grado di compartimentazione e grado di apertura verso l’ambiente esterno. L ’adozione di uno dei due modelli a preferenza del­l’altro è dipesa dalle condizioni ambientali. In generale, il primo è stato scelto quando un’alta propensione ambientale a considerare la violenza come forma di azione politica inco­raggiava le organizzazioni clandestine a massimizzare le op­portunità di reclutamento, anche al prezzo di un aumento dei rischi di arresti. Il secondo è stato adottato, invece, in presenza di un ambiente più ostile, per minimizzare i rischi di arresti, seppure al prezzo di una minore attenzione all’o­biettivo del reclutamento.

Esaminiamo più in dettaglio questi due modelli. Il pri­mo modello era basato sulla non-clandestinità dei militanti

1 Per un’applicazione della teoria organizzativa alle organizzazioni politiche, si vedano: Anderson [1968]; Child [1972] e Panebianco [1982],

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e sulla presenza di strutture semi-autonome di base. Sebbe­ne la clandestinità organizzativa sia stata un elemento es­senziale del terrorismo, non tutti i militanti terroristi dive­nivano latitanti. La maggior parte delle organizzazioni emerse nel periodo più favorevole alla «lotta arm ata» hanno applicato il principio della «clandestinità nell’azione milita­re, ma non nell’opera di proselitism o»2. Secondo tale prin­cipio, espresso ad esempio nello statuto delle Fcc: «i militan­ti mantenevano la loro identità legale e le loro occupazioni legittime, restando clandestina solo la propria appartenenza al gruppo»3.

Queste organizzazioni si erano dotate di alcune struttu­re particolarmente adatte al reclutamento: cioè organismi aperti ad individui che, pur non facendo parte dell’organiz­zazione, erano tuttavia disponibili per azioni di modesto ri­lievo a livello locale. Questi organismi, relativamente poco strutturati, avevano preso nomi quali Squadre operaie com­battenti o Ronde proletarie di combattimento, in PI; di Squadre armate proletarie, nelle Fcc; di Squadre comuniste dell’esercito proletario, nel caso dei Rea. Anche le Br aveva­no formato i loro Nuclei di movimento operaio di resistenza offensiva a Roma e a Napoli. In queste due città, non ca­sualmente, l ’organizzazione era emersa solo nella seconda metà del decennio, in un ambiente più favorevole alla lotta arm ata4.

Nella maggior parte degli statuti, alle «strutture di base» era assegnato un limitato raggio d ’azione. Esse erano nor­

2 Fcc, Statuto, cicl., 1978.3 In Tribunale di Torino, Requisitoria del PM in PP 321/80. Nello

Statuto di PI, questa scelta era presentata come alternativa ai «due aspetti propri dei primi gruppi armati in Italia: la clandestinità totale e la caratte­rizzazione unicamente militare dell’azione» (citato in Corte di Torino, Sentenza, luglio 1981, p. 94). Il modello organizzativo delle Br veniva lì criticato per la sua pretesa di «trasferire nelle metropoli capitalistiche i modelli sudamericani di guerriglia», esprimendo così una concezione del­l’organizzazione come «macchina militare» e del partito come «esercito».

4 Nuclei del «Movimento proletario di resistenza offensiva» esisten­ti, ad esempio, a Roma, erano coordinati in due «zone territoriali» (Roma-Nord e Roma-Sud) e operavano nei quartieri in cui il gruppo pen­sava di potere più facilmente reclutare: Primavalle, Centocelle, Torre- speccato, Casilino e, principale luogo di intervento della sinistra radicale, Tiburtino.

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malmente organizzate al livello territoriale, in modo da ade­guarsi alla struttura organizzativa del movimento dal quale intendevano trarre nuove reclute. Alcuni militanti dell’or- ganizzazione s ’infiltravano in già esistenti gruppi politici, che essi cercavano di influenzare e dai quali traevano nuovi membri5. Formalmente l ’organizzazione doveva decidere degli obiettivi generali delle campagne, mentre le Squadre potevano solo decidere i bersagli specifici e non avevano ar­mamento proprio6. I loro militanti, tuttavia, spesso non si consideravano vincolati alle decisioni della gerarchia orga­nizzativa. Nei fatti, il grado di autonomia mutava nel tem­po in relazione alle condizioni ambientali e alle scelte strate­giche della leadership.

In pratica, questo modello organizzativo comportava la totale assenza di compartimentazione, testimoniata tra l’al­tro dal fatto che spesso l’appartenenza di alcuni individui ad organizzazioni terroriste era ben conosciuta nell’area in cui essi cercavano di reclutare. Solo la propensione, diffusa in alcuni settori del movimento, ad un alto livello di violenza politica proteggeva i militanti terroristi dagli arresti.

Come si è già visto nel capitolo quarto, la relativa auto­nomia organizzativa delle Squadre ha dato ad alcuni gruppi clandestini la possibilità di reclutare interi nuclei provenien­ti da comuni esperienze politiche legali. M a il modello de­

5 Così, per esempio, per quanto riguarda PI, a Torino si erano costi­tuite la «Squadra San Paolo», composta da alcuni militanti del «Circolo del proletariato giovanile di San Paolo»; la «Squadra Barriera» da alcuni del «Comitato Barriera»; la «Squadra Barabba» da alcuni del «Circolo del proletariato giovanile Barabba»; la «Squadra di Orbassano» da alcuni del «Circolo del proletariato giovanile di Orbassano». Più tardi, erano state fondate la «Ronda Parella» da membri del «Comitato spontaneo di quar­tiere Parella», la «Ronda Falcherà» dal «Comitato per l’occupazione delle case della Falcherà», e così via.

6 Sulle Squadre armate operaie (Sao) era scritto nello Statuto di PI: «non è un espediente contro la repressione ma un tentativo di costruire una rete operaia e proletaria capace di dirigere il combattimento. [...] Al­la rete delle Squadre è affidata la gestione delle piazze, sia la capacità al margine dei cortei di praticare gli obiettivi (dalle sedi alle armerie), sia l’organizzazione della difesa del corteo puntando in generale a non tra­sformare lo scontro in fatto privato tra il nemico e le Sao» (citato in Tri­bunale di Torino, Sentenza della corte 17/81, p. 94).

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centralizzato e debolmente compartimentato doveva mo­strare tutta la sua debolezza nel momento in cui la potenzia­le base di reclutamento dei gruppi clandestini si sarebbe ri­dotta drasticamente. Q uesta struttura, composta di un in­sieme di organismi illegali e semi-legali, comportava infatti una scarsa attenzione alle misure di sicurezza, rendendo i gruppi che l’avevano adottata particolarmente vulnerabili di fronte alla crescente pressione repressiva. Nonostante al­cuni tentativi di mutare la loro struttura7, essi sono stati, in seguito, rapidamente sconfitti.

Il secondo modello organizzativo era più compartimen­tato e centralizzato, risultando così meno efficace sul piano del reclutamento. Non vi era, infatti, alcuna struttura aper­ta ai simpatizzanti esterni: solo coloro che erano in grado di passare attraverso un lungo processo di selezione basata sul «coraggio militare» e la fedeltà all’organizzazione venivano, infine, accettati. Le regole di centralizzazione erano più ri­gidamente applicate e pochissimo spazio era lasciato al dis­senso.

L ’esempio più tipico di questo modello organizzativo è dato dalle Br. L ’organismo al quale erano formalmente de­mandati i compiti di reclutamento era il Fronte operaio, o Fronte massa, la cui funzione era quella di organizzare le at­tività nelle fabbriche o negli altri luoghi in cui vi erano po­tenziali sostenitori. Secondo lo statuto, nella struttura del Fronte, per esempio, i militanti brigatisti alla Fiat dovevano avere la possibilità di incontrare quelli dell’Alfa Romeo e di decidere insieme alcune azioni di propaganda. M a, in prati­ca, il funzionamento dei fronti era subordinato ai principi di compartimentazione e centralizzazione, enfatizzati dalla divisione per «colonne»8, cittadine o regionali. I fronti di­

7 Nati più tardi, gli Rea avevano stabilito, ad esempio, una rigida separazione gerarchica tra l’organizzazione vera e propria — «nucleo del futuro partito comunista combattente» — e le Squadre per l’esercito di liberazione proletario — «livelli di movimento». Guerriglia rossa aveva, dopo i primi arresti, adottato una struttura più centralizzata, allontanan­do i militanti meno «zelanti» e trasformandosi in Brigata 28 marzo.

8 Secondo un documento delle Br, «i fronti sono il vettore della li­nea politica dell’organizzazione, che entrano in rapporto dialettico con i poli di intervento (colonne), dove questi assumono il ruolo di terreno

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pendevano dunque da una gerarchia centralizzata, il cui po­tere non veniva mai messo in discussione, e l’assenza di au­tonomia rendeva difficile l’avvicinamento di potenziali nuo­vi membri 9.

Il compito di attrarre nuove reclute era invece assegnato ai «militanti irregolari». Sin dalla fondazione del gruppo, i membri delle Br erano, infatti, divisi in forze «regolari» e «irregolari». I militanti regolari erano clandestini, impegnati a pieno tempo nell’organizzazione e avevano abbandonato la vita «legale», anche senza essere ricercati dalla polizia. La clandestinità dei militanti irregolari era, invece, limitata al loro impegno nell’organizzazione10. Essi potevano mante­nere le loro attività lavorative e vivere una normale vita fa­miliare, ed erano in grado, in questo modo, di entrare in contatto con eventuali simpatizzanti. Il loro compito era, infatti, quello di «guadagnare all’organizzazione il sostegno popolare, costruire i centri e le articolazioni del potere rivo­luzionario»11. La scarsa attenzione al reclutamento era, tuttavia, dimostrata dal ruolo subordinato assegnato alle forze irregolari. Solo i militanti regolari — che costituivano i «quadri più coscienti e generosi prodotti dalla lotta arma­ta» — potevano essere chiamati a far parte delle «strutture verticali di comando». L ’entrare in clandestinità era consi­derato come tappa necessaria della «carriera» nelle organiz­zazioni terroriste.

Nelle Br, il processo di reclutamento era perciò caratte­rizzato da lunghe tappe, con un intenso indottrinamento ideologico, realizzato da militanti regolari. Con l’eccezione del periodo in cui una più ampia base potenziale aveva faci­litato il reclutamento, la sicurezza dei membri era stata pre­ferita all’opportunità di ottenere nuove adesioni. Il bisogno

di classe in cui la linea generale si media e si articola con la realtà di movi­mento» (Br, Risoluzione della direzione strategica, 1978, p. 57).

l' Per maggiori dettagli sulla struttura organizzativa delle Br, si rin­via a Caselli e della Porta [1984],

10 Questa distinzione è precisata in Br, Alcune questioni per la di­scussione sull'organizzazione, 1972.

11 Ancora in Br, Alcune questioni per la discussione dell’organizzazio­ne, 1972.

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di coesione interna aveva scoraggiato, più o meno consape­volmente, il reclutamento di gruppi già costituiti di indivi­dui provenienti dalla dissoluzione di altre organizzazioni il­legali. Perfino quando le condizioni ambientali erano più fa­vorevoli ai gruppi clandestini, un modello organizzativo co­struito all’inizio degli anni settanta aveva impedito a molti simpatizzanti di entrare in contatto con le Br. M a quandoil ciclo di violenta protesta della seconda metà del decennio si era concluso, la loro struttura compartimentata aveva aiu­tato le Br a sopravvivere alla repressione statale e a reclutare— fra i sopravvissuti alla crisi degli altri gruppi armati — i militanti di cui esse avevano bisogno per sostituire quelli arrestati12. Neanche questo modello si sarebbe rivelato, tuttavia, in grado di garantire sufficienti flussi di recluta­mento. Nel giro di pochi anni anche l’area già ridottissima dei militanti di altri gruppi armati si sarebbe esaurita, men­tre gli arresti avrebbero continuato a decimare le fila briga- tiste.

Si può ancora osservare che i due modelli organizzativi hanno prodotto differenti pattems di reclutamento, defini­bili, secondo la letteratura sui movimenti collettivi, come block model, in un caso, e differential model, nell’a ltro13. Ciò si è riflesso in due diversi tipi di diffusione dell’organiz­zazione, graficamente rappresentabili da un modello di espansione ad albero, con un ridotto numero di «ram i», nel primo caso; e un modello dì espansione a cespuglio, con più dense propaggini, nell’altro. Il primo corrisponde alla figura la e il secondo alla figura lb .

12 All’inizio degli anni ottanta, un magistrato scriverà infatti a que­sto proposito: «per le suesposte caratteristiche strutturali, per le partico­lari cure dell’organizzazione nel difendere la clandestinità dei militanti [...] si accredita alle Br un potenziale eversivo ben maggiore rispetto agli altri gruppi esercitanti la lotta armata. Ciò spiega perché oggi si trovino nell’organizzazione elementi militanti in passato in altre “ bande armate” e riparati sotto la stella a cinque punte dopo lo sfaldamento del gruppo di appartenenza» (Tribunale di Milano, Sentenza-ordinanza del Gl in PP 1094/78 + altri, p. 48).

13 Cfr. J.Q . Wilson [1973],

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a) Modello di espansione ad albero b) Modello di espansione a cespuglio

Fig. 1. Modelli di espansione delle organizzazioni clandestine.

Differenti gradi di predisposizione ambientale spiegano la differenza nei due modelli di diffusione. La rapidità di crescita dell’organizzazione è dipesa dalla misura in cui i suoi membri avevano mantenuto appartenenze esterne al gruppo, in particolare in reticoli sociali fortemente predi­sposti alla violenza politica. Quando l’ambiente esterno era ostile, il reclutamento nei gruppi clandestini era, infatti, particolarmente lento. All’inizio degli anni settanta, ad esempio, gli scarsi contatti personali dei fondatori delle Br dovevano essere intensamente coltivati per un lungo perio­do prima che alcuni di essi sfociassero, infine, nell’adesione all’organizzazione. La creazione di nuove colonne in altre città richiedeva che pochi militanti regolari fossero inviati dall’organizzazione con lo scopo preciso di creare un nuovo insediamento; ed erano spesso destinati al fallimento. I nuo­vi membri erano così reclutati selettivamente sfruttando un ristretto numero di contatti personali in un ambiente politi­co omogeneo. Quando, invece, i militanti di gruppi terrori­sti erano radicati in un denso reticolo in cui appartenenze politiche e relazioni affettive erano strettamente intreccia­te, i processi di reclutamento divenivano molto più efficaci, come mostra la storia dei gruppi cresciuti a partire dal 1977.

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Una folta rete di contatti politici, spesso esistente in diverse città, permetteva una rapida diffusione di alcune organizza­zioni politiche in più regioni. Tipico è qui il caso di PI che comprendeva, già al momento della fondazione, gruppi ope­ranti a Milano, Torino e Firenze.

M a quando il movimento giovanile della fine degli anni settanta era entrato in crisi, il modello di diffusione era nuo­vamente mutato. Le regole della clandestinità e l ’impegno totalizzante richiesto dalle organizzazioni terroriste aveva­no ridotto i contatti con il mondo esterno. I potenziali membri venivano dunque cercati fra coloro che avevano già compiuto la scelta terroristica — cioè fra i militanti di altri gruppi armati — o nella cerchia molto stretta dei parenti dei militanti. Con modalità e tempi differenti, entrambi i mo­delli organizzativi avrebbero dimostrato comunque — come si vedrà nel prossimo capitolo — l’inadeguatezza delle strut­ture clandestine al raggiungimento di obiettivi di recluta­mento.

3. Repertori d ’azione e mobilitazione delle risorse: le tattiche

U n’altra caratteristica della strategia organizzativa che può variare per adeguarsi ai bisogni del reclutamento sono le forme d ’azione. In generale, è stato osservato che esse presentano modalità differenti non solo nelle diverse epo­che storiche, ma anche all’interno dello stesso ciclo di protesta14. G rado di disruptiveness” , stabilità, varietà e flessibilità delle tattiche mutano, infatti, per le organizza­zioni attive nel medesimo periodo, ma con potenziali basi di reclutamento differenti. Se le stesse forme d ’azione assol­vono spesso, nello stesso tempo, a compiti differenti, vi so­no tuttavia alcune tattiche — come i cortei, gli incontri in luoghi pubblici o i volantinaggi — che risultano più adegua­

14 Per un’analisi del modo in cui i repertori d ’azione sono cambiati nelle diverse epoche storiche, si veda Tilly [1978]. La compresenza di re­pertori diversi all’interno dello stesso ciclo di protesta, è stata illustrata, per esempio, in della Porta e Tarrow [1986].

15 Cfr. Tarrow [1983; 1989],

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te al reclutamento. Attraverso questo genere di attività le organizzazioni politiche entrano in contatto con i potenziali nuovi membri. Nelle organizzazioni di movimento colletti­vo, infatti, l’impegno politico inizia molto più spesso con la partecipazione in attività di massa che con un atto formale di adesione ad organizzazioni specifiche. Altre attività. — quali incontri nelle sedi delle organizzazioni o volantinaggi nei luoghi di lavoro — sono quindi utilizzate per convincere i simpatizzanti ad aderire all’organizzazione. Quale specifi­ca tattica venga utilizzata — rispetto al raggio di quelle po­tenzialmente disponibili — dipende poi dal potenziale di mobilitazione esistentelh.

E piuttosto ovvio che nessuna delle tattiche sopra men­zionate potesse essere utilizzata dai gruppi clandestini. Le interazioni personali in luoghi pubblici erano evitate, anche nei rari casi in cui questi gruppi riuscivano a distribuire dei volantini. Per entrare in contatto con i loro potenziali se­guaci le organizzazioni terroriste dovevano perciò orientare al reclutamento altri tipi di tattiche, normalmente poco ade­guate a questo fine. Attraverso le medesime azioni criminali le organizzazioni clandestine miravano infatti, contempora­neamente, ad inviare messaggi concepiti per scopi diversi dal reclutamento. Avveniva così che, per attirare l’attenzio­ne dei media, veniva spesso impiegato un livello di violenza superiore a quello giudicato accettabile anche dalle fasce più radicali del movimento, scoraggiando quindi le adesioni. Sono stati gli stessi repertori utilizzati che hanno, quindi, costretto le organizzazioni terroriste a delimitare la loro po­tenziale base di reclutamento al ristrettissimo numero di in­dividui che accettavano l’uso di forme d ’azione molto vio­lente.

I dati sui bersagli e le tattiche delle azioni terroriste in Italia mostrano, infatti, che a) nella scelta dei loro repertori le organizzazioni clandestine avevano un’idea piuttosto pre­cisa delle caratteristiche della loro potenziale base di reclu-

16 E stato rilevato, ad esempio, che le organizzazioni che cercano di reclutare in ambienti con culture politiche non-violente adottano forme d ’azione che sottolineano il rifiuto dello scontro fisico con l’avversario. Cfr. Morris [1981],

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Tab. 1. Forme d ’azione utilizzate, distribuite per tipi di organizzazioni clandestine

Forme d’azioneBrigate Rosse Altre sinistra Totale

% N. % N. % N.

Attentato 62,3 414 41,6 219 53,1 633Incursione 4,8 32 14,8 78 9,2 110Rapimento 3,0 20 1,3 7 2,3 27Agguato 19,3 128 14,8 78 17,3 206«Scontro» 4,2 28 3,0 16 3,7 44Rapina 6,3 42 24,5 129 14,4 171

Totale 55,8 664 44,2 527 100,0 1.191

N. morti N. morti esclusi

62,7 89 37,3 53 100,0 142

terroristi 68,1 79 31,9 37 100,0 116

Fonte: Elaborazioni dei nostri dati, tratti dagli atti giudiziari.

tamento; ma tuttavia b) le tattiche per loro disponibili por­tavano in ogni caso a ridurre drasticamente gli obiettivi di reclutamento.

Guardiamo, prima di tutto, ai dati relativi alla distribu­zione delle forme d ’azione, sintetizzati nella tabella 1.

Si può intanto osservare che quasi i quattro quinti (914) degli episodi di terrorismo sono stati rivolti contro cose. L ’attentato è stato la forma d ’azione più diffusa, presente nel 53 ,1% degli episodi. Molti degli eventi raccolti sotto la categoria attentati sono incendi di automobili o, più rara­mente, di portoni di edifici, realizzati prevalentemente at­traverso l’uso di bottiglie incendiarie17. Piuttosto frequen­te è stata ancora un’altra forma d ’azione contro le cose: l ’in­cursione in edifici. In molti dei 104 casi — il 9 ,2% degli episodi — in cui questa forma d ’azione è stata utilizzata, le incursioni sono avvenute in edifici deserti — sedi di orga­nizzazioni politiche e sindacali (36 casi) o di imprese (32 ca­si) — in cui venivano tracciate scritte di rivendicazione e/o dai quali venivano asportati dei documenti. Ancora una for-

17 Significativo è che sia stata quasi ignorata la dinamite, probabil­mente sia per i rischi che comporta in caso di imperizia tecnica che per la sua associazione simbolica con le stragi dell’estrema destra.

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ma d ’azione che in sé non prevedeva danni fisici a persone era la rapina, presente nel 14,4% degli episodi rilevati"*.

Le rimanenti forme d ’azione erano tutte rivolte contro esseri umani. Le più utilizzate di esse sono state gli agguati— cioè, quelle azioni premeditate contro persone, che in­fliggono un’invalidità, temporanea o permanente, o anche la morte — in cui rientrano il 17,3% degli episodi che ab­biamo rilevato. Il numero totale delle persone morte duran­te episodi in cui erano coinvolte le organizzazioni clandesti­ne di sinistra è stato, nel periodo in esame, di 142, di cui 26 militanti delle organizzazioni armate. Il numero totale di feriti è stata di 198, di cui 16 terroristi. Oltre due terzi degli assassinii (105 morti) e la quasi totalità dei ferimenti (171) sono stati commessi durante agguati. Molto meno diffuso è stato un altro tipo di azione, anch’esso orientato contro per­sone: il rapimento, presente nel 2 ,4% delle azioni, cioè in 28 episodi. La maggior parte dei sequestri è stata di durata limitata a pochi minuti — come del resto il 98 ,3% delle azioni terroristiche. In due casi tuttavia essi sono durati tra due e sei giorni; in altri due tra 7 e 14, in un caso tra due settimane e un mese, in sei casi più di un mese. Tre casi di sequestri si sono conclusi drammaticamente con l ’assassinio dell’ostaggio.

Resta, infine, da registrare un’ultima forma d ’azione, solo parzialmente definibile come frutto di un’azione inten­zionale. In questa categoria sono riuniti quegli episodi in cui i militanti dei gruppi terroristi hanno reagito con le armi ad un intervento delle forze dell’ordine, avvenuto durante un’altra azione o nel corso di generici controlli di polizia. Sono rilevabili 44 conflitti a fuoco, pari al 3 ,9% degli eventi.

Due osservazioni si possono fare a questo punto. In pri­mo luogo, la maggior parte delle azioni utilizzava tattiche

18 Nei casi in cui il fine era il reperimento di armi, le rapine sono avvenute ai danni di guardie giurate o vigili urbani, derubati delle loro pistole d ’ordinanza. Quando si mirava, invece, al reperimento di denaro, ¡’obiettivo privilegiato erano le banche o le gioiellerie, anche se non man­cavano obiettivi — meno ambiziosi, perché meno protetti — quali le agenzie di viaggio o gli appartamenti privati, talvolta di proprietà di ami­ci di famiglia. Le rapine hanno costituito il principale modo di finanzia­mento delle organizzazioni clandestine.

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che erano presenti anche nei repertori di gruppi legali, come gli attentati alle cose e le incursioni. Esse non erano dunque tali da alienare una potenziale base di reclutamento, che ve­niva cercata appunto fra i militanti dei gruppi già abituati all’utilizzazione di repertori violenti. Allo stesso modo, an­che in alcune azioni contro le persone, si teneva conto in qualche modo del tipo di reazione della base potenziale, evi­tando fino ad un certo punto gli assassinii e preferendo for­me meno cruente.

Una certa attenzione alle reazioni dell’ambiente in cui si cercava di ottenere consensi è anche evidente se guardia­mo alle differenze nelle forme d ’azione scelte dai diversi gruppi, influenzate dalle diverse «basi» potenziali cui face­vano riferimento.

Le Br sono state responsabili delle forme d ’azione più sanguinose. Il numero degli agguati indica che in questa ca­tegoria rientra il 19,3% delle azioni dei brigatisti contro il 14,8% di quelle dello stesso tipo compiute dagli altri grup­pi. I dati sul numero dei morti mostrano una differenza tra Br e altre organizzazioni ancora più accentuata. Le Br sono state responsabili, infatti, del 62 ,7% delle persone uccise in azioni terroristiche; la percentuale sale al 68,1 se non si con­siderano i militanti di gruppi terroristi morti. Questa mag­giore cruenza è stata, indubbiamente, un risultato delle loro maggiori abilità militari; ma anche una conseguenza delle lo­ro scelte di reclutamento. Gli altri gruppi terroristi mirava­no a reclutare, infatti, in un ambiente in cui l ’accettazione della violenza era estremamente diffusa, ma si esprimeva prevalentemente nelle forme così dette di «m assa». Come abbiamo visto questa preferenza aveva influenzato anche la scelta del modello organizzativo di questi gruppi, i quali si erano dotati di organismi di base che lasciavano maggiore autonomia ai nuovi membri. Affinché una simile strategia di reclutamento potesse avere un qualche successo, le orga­nizzazioni clandestine non brigatiste dovevano così limitare l’uso delle forme d ’azione più cruente, che avrebbero indot­to reazioni negative nella potenziale base di mobilitazione.

Nel caso delle Br, invece, la loro visione strategica dei compiti dell’organizzazione le orientava già verso un tipo di struttura organizzativa che impediva le forme più massicce

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di reclutamento e giustificava la tendenza a concentrarsi su azioni più violente. Esse, pur se al prezzo di scoraggiare molte potenziali reclute, offrivano in cambio il beneficio di una maggiore attenzione da parte dei mezzi di comunicazio­ne di massa. Paradossalmente, queste maggiori capacità mi­litari si sarebbero rivelate utili ai fini del reclutamento quando, alla fine del decennio, la loro base potenziale avrebbe coinciso con gli individui già coinvolti in organizza­zioni illegali e, quindi, favorevolmente orientati verso le tattiche d ’azione più cruente.

4. Repertori d ’azione e mobilitazione delle risorse: i bersagli

Come le tattiche, anche i bersagli colpiti dai gruppi ter­roristi hanno riflesso, in qualche misura, la loro preoccupa­zione di tenere conto delle caratteristiche dell’area in cui speravano di reclutare19. Nel corso della ricerca quantitati­va, ho rilevato tre diversi indicatori della finalità delle azio­ni: il tipo di bersaglio, l’attività del bersaglio, l’obiettivo dell’azione. Il tipo di bersaglio si riferisce alla caratteristica rilevante dell’oggetto o della persona colpita che ne ha de­terminato la «selezione» da parte dell’organizzazione clan­destina. La distribuzione fra le diverse categorie viene pre­sentata nella figura 2.

In primo luogo, si può osservare che i bersagli «economi­ci» sono stati più colpiti di quelli direttamente politici. Un maggior numero di episodi (43,7% ) si è concentrato contro le imprese. Meno frequenti sono state, invece, le azioni con­tro i partiti (14,9% ) e vari gruppi di pressione (5,6% ). Per quanto riguarda le azioni contro le istituzioni dello stato, pochi episodi complessivamente hanno riguardato la pubbli­ca amministrazione o gli organi di governo (5 ,6% ), mentre invece numerosissime sono state le azioni contro gli appara­ti (27,4% ).

L ’analisi può essere approfondita se si esamina la com­posizione interna di queste categorie più generali. Le fre­quenze rilevate sono presentate nella tabella 2.

Is Per uno studio più dettagliato su bersagli e tattiche delle organiz­zazioni clandestine, si rinvia a della Porta e Rossi [1984; 1985].

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Distribuzione bersagli

^ Politico

□ Sindacale

Q Apparati repressivi

□ Amministrazione

39 Imprese

Fig. 2. I bersagli delle azioniFonte: Elaborazioni dei miei dati, tratti dagli atti giudiziari.

Si può in generale osservare che, non sorprendentemen­te, il terrorismo ha mirato principalmente ai simboli della «classe dominante». Fra i partiti, è la De quello di gran lun­ga più preso di mira, concentrandosi su di essa il 10,4% del totale delle azioni e il 70% di quelle rivolte contro organiz­zazioni politiche. I partiti di destra sono il secondo più fre-

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Tab. 2. Distribuzione degli eventi terroristici per bersaglio delle azioni

Tipo di bersaglioN.

eventi%

risposte%

casi

Imprese industriali 251 21,9 22,5Imprese commerciali 117 10,2 10,5Imprese finanziarie 82 7,1 7,4Imprese informatica, pubblicitaria, con­sulenza, formazione professionale 13 1,1 1,1Libere professioni 7 0,6 0,6Mass media 31 2,7 2,8

Totale imprese economiche 501 43,7

Organizzazioni estrema sinistra 1 0,1 0,1Pei 2 0,2 0,2Psi 1 0,1 0,1De 119 10,4 10,7Altri Centro 2 0,2 0,2Msi 24 2,1 2,2Estrema destra 15 1,3 1,3Organizzazioni clandestine 7 0,6 0,6Sindacati confederali 8 0,7 0,7Cisnal 14 1,2 1,3Organizzazioni degli imprenditori 32 2,8 2,9Sindacati «gialli» 6 0,5 0,5Sindacati autonomi 1 0,1 0,1Ordini professionali 2 0,2 0,2Sindacati cattolici 1 0,1 0,1Centri sociali 4 0,3 0,4Istituzioni religiose 2 0,2 0,2

Totale gruppi politici e d’interesse 241 21,0

Forze dell’ordine in genere 2 0,2 0,2Carabinieri 94 8,2 8,4Pubblica sicurezza 74 6,5 6,6Vigili urbani 34 3,0 3,0Istituti di vigilanza 18 1,6 1,6Esercito (escluso Carabinieri) 7 0,6 0,6Polizia stradale/ferroviaria e GdF 6 0,5 0,6

Totale forze dell’ordine 235 20,5

Sistema carcerario 51 4,4 4,6Sistema giudiziario 28 2,4 2,5Sistema sanitario 18 1,6 1,6Sistema scolastico 8 0,7 0,7Pubblica amministrazione (altro) 14 1,2 1,3Aziende statali 17 1,5 1,5Organi di governo 4 0,3 0,4Rappresentanze diplomantiche 5 0,4 0,4

Totale organi statali 145 12,6

Criminalità comune 5 0,4 0,4

Cittadini (per errore) 19 1,8 1,8

Totale 1.147 100,0 102,9

* Il totale è superiore al numero dei casi poiché più di un obiettivo può essere presente in ogni evento. Le percentuali sono Calcolate sul totale delle risposte, cioè

degli obiettivi.

Fonte: Elaborazioni dei miei dati, tratti dagli atti giudiziari.

Page 207: D.D. - Terrorismo di Sinistra

quente bersaglio — con il 23% degli episodi criminosi rivol­ti contro i partiti politici — ma la loro frequenza sul totale delle azioni è decisamente più bassa, con un 3 ,4% . Anche nell’ambito delle azioni contro gruppi di pressione, le orga­nizzazioni degli imprenditori sono state quelle più colpite— con il 2 ,8% delle azioni sul totale e il 50% di quelle orientate contro le organizzazioni di categoria — seguite dal sindacato di destra, Cisnal, con P l,2 % degli episodi. Per quanto riguarda, poi, le imprese, quelle industriali sono sta­te di gran lunga il bersaglio più colpito (21,9% sul totale); frequenti sono state pure le azioni contro attività commer­ciali (10,2% ).

L ’indicatore preso in esame ci indica il «settore» colpito, ma non dice nulla sulle professioni più prese di mira. Se, in­fatti, l’obiettivo è stato in alcuni casi direttamente l ’istitu­zione in un suo simbolo «materiale» — una sede, un’insegna— in altri casi essa è stata invece colpita tramite un suo «agente», cioè una persona che vi prestava la sua attività professionale o volontaria. In questo secondo caso, per arri­vare alla comprensione dei messaggi diffusi — volontaria­mente o no — dalle organizzazioni clandestine, è necessario analizzare anche quali gruppi sociali sono stati più coinvolti, quali livelli gerarchici più frequentemente colpiti. Le fre­quenze per questo secondo indicatore, definito come attività del bersaglio, è riportato nella tabella 3.*“ Le professioni connesse alla fabbrica sono le attività più spesso prese di mira. Le azioni hanno riguardato in egual misura (15% ) i livelli più elevati e quelli medio-bassi. Nel caso dei militanti politici, invece, i «professionisti», o diri­genti, sono stati colpiti più spesso dei militanti di base (12% delle azioni nel primo caso, 8% nel secondo). O pposto è, in­vece, il caso delle forze dell’ordine: la grande maggioranza delle azioni (l’87% di quelle contro questa categoria) ha ri­guardato il livello gerarchico più basso, dei semplici agenti (107 casi), e solo più raramente (15 casi) i livelli più elevati.

Si può dire cioè che, almeno al livello dei dati aggregati, si rivela falso uno dei principi della propaganda delle orga­nizzazioni terroriste: che esse «misurassero», cioè, le «pene» sulla base delle responsabilità delle vittime, oppure, che esse colpissero i «principali responsabili». Queste scelte sono di-

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T a b . 3 . Distribuzione eventi terroristici per attività del bersaglio

Imprenditori, dirigenti industrie 93 15,0 15,3Capi reparto 94 15,1 15,5

Guardiani in fabbrica 12 1,9 2,0

Operai 3 0,5 0,5

Altre professioni fabbrica 1 0,2 0,2

Avvocati, notai 2 0,3 0,3Magistrati 20 3,2 3,3

Giornalisti 14 2,3 2,3

Psichiatri, psicologi 2 0,3 0,3

Ostetrici, ginecologi 3 0,5 0,5

Altri medici 15 2,4 2,4

Architetti, ingegneri 3 0,5 0,5

Commercianti 8 1,3 1,3Docenti universitari 3 0,5 0,5

Insegnanti 7 1,1 1,2Infermieri 5 0,8 0,8

Impiegati pubblici 6 1,0 1,0

Impiegati settore privato 15 2,4 2,5

Terroristi di sinistra 1 0,2 0,2

Dirigenti politici 75 12,1 12,4

Diplomatici 1 0,2 0,2Militanti polici di base 51 8,2 8,4

Militanti sindacali 23 3,7 3,8

Funzionari statali 6 1,0 1,0

Passanti 21 3,3 3,3

«Delatori» (o parenti di) 3 0,5 0,5

Giudici popolari 1 0,2 0,2

Terroristi «delatori» 6 1,0 1,0

Agenti, brigadieri, marescialli 107 17,2 17,6

Commissari, questori 10 1,6 1,6

Colonneli, generali 5 0,8 0,8Spacciatori di droga 3 0,5 0,5

Altri criminali comuni 2 0,3 0,3

Totale 621 100,0 102,5

* Il totale è superiore al numero dei casi poiché più di un obiettivo può essere presente in ogni evento. Le percentuali sono calcolate sul totale delle risposte, cioè

degli obiettivi.

Fonte-, Elaborazioni dei miei dati, tratti dagli atti giudiziari.

pese in alcuni casi — per esempio, per quanto riguarda la fabbrica — dalla volontà di rendere più efficace il messag­gio, scegliendo come bersaglio gli «oppressori» più vicini nella scala gerarchica e, quindi, più immediatamente identi­ficabili. Ma in molti casi — quello delle forze dell’ordine è solo il più evidente — la scelta di colpire ai livelli gerarchici più bassi è stata una necessità rispetto alle maggiori difficol-

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tà «militari» che bersagli più protetti avrebbero comportato.I dati fin qui presentati non sono ancora sufficienti a

farci comprendere le principali finalità dei crimini terrori­stici. Per esempio, un’azione contro un’impresa commercia­le o un libero professionista poteva essere orientata alla pro­paganda di un messaggio, o invece a raccogliere solo risorse materiali. E apparso perciò opportuno introdurre un altro indicatore: l 'obiettivo dell’azione, le cui frequenze sono ri­portate nella figura 3.

Un primo gruppo di azioni ha avuto obiettivi generica­mente definibili come propaganda, cioè orientati a diffon­dere messaggi all’esterno, presso un ambiente che si voleva convincere della necessità di utilizzare forme più radicali di azione. Un maggior numero di episodi si è concentrato sulla «propaganda in fabbrica», con il 28% del totale delle azioni e il 45% delle azioni di propaganda. Il 16% del totale delle azioni si è invece orientato ad una propaganda più diretta- mente politica. Ancora, il 16% del totale delle azioni è defi­nibile di «propaganda sociale», cioè ha colpito individui o istituzioni ritenuti responsabili di alcuni problemi sociali. In questa categoria sono confluite le azioni di propaganda su temi economici (lavoro nero, disoccupazione, caro-vita, ca­sa), quelle connesse alla «qualità» della vita (salute, droga) e quelle più in generale contro il «controllo sociale». Eleva­tissimo è stato anche il numero delle azioni con una logica più «militare» contro gli apparati repressivi dello stato, di­stinguibili tra azioni premeditate e azioni di «difesa» in caso di scontri accidentali con la polizia. Esse ammontano al 23% delle attività complessive. Un altro 16% delle azioni è stato ancora rivolto ad attività di «sopravvivenza», qualiil finanziamento. Complessivamente dunque, quasi la metà dei crimini terroristici ha avuto finalità diverse dalla propaganda20.

20 La diversa funzione delle azioni rivolte ad obiettivi differenti è, infine, confermata dalla diversità della forma d ’azione. La forma più san­guinosa — l’agguato — è stata ad esempio utilizzata (36% dei casi rispet­to ad una media del 18%) più spesso contro gli apparati repressivi che nel caso delle azioni di propaganda, dove invece è stato più diffuso l’at­tentato (66% contro una media del 50%).

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Distribuzione obiettivi

ffl Fabbrica

in Sociale

■ Politica

E Militare

□ Finanziamento

Fig. }. L'obiettivo delle azioni.

Fonte: Elaborazioni dei miei dati, tratti dagli atti giudiziari.

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Tab. 4. Gli obiettivi degli eventi terroristici, distribuiti per tipo di organizzazioni

Brigate Rosse Altre sinistra Totale

% N. % N. % N.

Propaganda in fabbri­ca 40,4 262 11,2 67 26,9 329Propaganda sociale 5,7 37 30,7 184 17,7 221Propaganda politica 23,9 155 9,7 58 17,1 213Guerra contro lo stato 17,1 111 17,4 104 17,2 215Difesa militare 5,2 34 4,8 29 5,1 63Autofinanziamento 7,1 46 25,4 152 15,9 198Altro 0,5 3 0,8 5 0,6 8

Totale* 52,0 648 48,0 599 100,0 1.247

* Poiché più di una opzione è possibile per ciascun evento, il totale è maggiore rispetto al numero dei casi. Le percentuali sono state calcolate sul numero di op­zioni.

Fonte: Elaborazioni dei miei dati, tratti dagli atti giudiziari.

Si può, in primo luogo, notare che c ’era una certa corri­spondenza tra ideologia dei movimenti collettivi in cui si voleva reclutare e bersagli che venivano colpiti., Ciò può es­sere osservato anche in una differenziazione nelle strategie dei diversi gruppi.-'La selezione dei bersagli con l’obiettivo di reclutare all’interno di precise aree politiche era persegui­ta da tutti i gruppi clandestini^ Essi cercavano di definire le loro mete in modo da ottenere delle reazioni positive fra i militanti di quei movimenti sociali che consideravano come la loro principale riserva di seguaci. La distribuzione delle attività dei diversi gruppi clandestini a seconda del bersa­glio colpito è presentata nella tabella 4.

I dati indicano forti differenze tra le Br, da un lato, e gli altri gruppi, dall’altro. La principale si riferisce al diverso contenuto delle cosiddette azioni di «propaganda». Una quota consistente dell’attività delle Br era rivolta alle fab­briche: il 40% contro l’ l l % degli altri gruppi terroristi. Anche le azioni contro bersagli politici erano più numerose per le Br (24% contro 10% ). Per contro, gli altri gruppi erano concentrati su quella che è stata definita come «propaganda sociale»: con il 31% contro un bassissimo 6% per le Br.

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Queste differenze testimoniano un comune interesse delle varie organizzazioni terroriste a stabilire e mantenere un riferimento ad una potenziale base di reclutamento, indi­viduata a partire da scelte strategiche che variavano da una organizzazione airaltra^Q uando le Br erano state fondate, all’inizio degli anni settanta, i lavoratori delle grandi fabbri­che erano il principale punto di riferimento per i militanti della sinistra radicale. Nel concentrare le loro attività nelle grandi fabbriche, la principale aspirazione delle Br non era tanto convincere i lavoratori a «fare la rivoluzione», ma — più specificamente — attrarre nuovi membri dai gruppi del­la sinistra più radicale, che di esse avevano fatto il luogo principale d ’ intervento politico. Non è un caso che le prime azioni delle Br siano state realizzate nei grandi complessi in­dustriali nei quali gruppi organizzati si erano costituiti al di fuori dei sindacati e dove più violente forme d ’azione erano state accettate nel repertorio del conflitto21. Inoltre, le vit­time da colpire erano spesso scelte fra i dirigenti intermedi degli stessi reparti o settori degli stabilimenti nei quali sim­patizzanti dei gruppi clandestini lavoravano. Il desiderio dei brigatisti di acquisire nuovi seguaci può spiegare perché essi avevano orientato, all’ inizio, la loro attività prevalentemen­te contro sindacalisti di destra: la violenza contro i «fascisti» era, infatti, la più «legittim ata» nella cultura della sinistra22. Le vittime appartenevano, inoltre, spesso ai ranghi più bassi

:l I primi volantinaggi delle Br erano avvenuti, non casualmente, al­la Pirelli di Milano, dove un certo seguito aveva avuto un gruppo forte­mente critico rispetto al sindacato, il Comitato unitario di base; e alla Sit Siemens, dove dal Gruppo di studio impiegati era nato, su posizioni mol­to radicali, il Gruppo di studio operai-impiegati. Sarà poi in occasione delle scadenze contrattuali dell’ inizio degli anni settanta che alcuni briga­tisti si trasferiranno a Torino per iniziare il loro «intervento» alla Fiat.

22 Su questo punto, si legge in una delle storie di vita raccolte: «Il discorso della vita di un fascista che non vale niente era un patrimonio culturale (...] non è il patrimonio dell’estremismo giovanile, è l’accetta­zione di tutta una cultura di sinistra che ha riempito le piazze milanesi. A Milano ci son stati giuramenti; Milano è tremenda per i funerali rossi, Milano ha avuto sempre un sacco di funerali che sono un giuramento con­tinuo sui morti di vendetta [...] per due anni non c ’è stata una sede del Msi che non sia stata incendiata» (Storia di vita n. 3, pp. 48-49).

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della gerarchia di fabbrica, erano guardiani capireparto, etc., le cui «dirette» responsabilità nella «oppressione» dei lavoratori erano più immediatamente visibili. Elaborati do­cumenti sulle «responsabilità personali» della vittim a veni­vano distribuiti nelle grandi fabbriche, con l ’obiettivo di convincere che essa «m eritava» la punizione23/ Criteri ana­loghi erano stati adottati dalle Br nella loro attività terrori- stica contro bersagli politici, principalmente contro la De.

•^Una differente potenziale base di reclutamento spingeva le organizzazioni emerse nella seconda metà del decennio a orientare in altre direzioni i loro sforzi di reclutamento. La prevalenza della propaganda sociale rifletteva le preferenze dei militanti del «movimento del ’77», in cui i gruppi terro­risti prevedevano di poter reclutare. Come si è detto nel se­condo capitolo, quello era un movimento prevalentemente giovanile, con una base esterna alle grandi fabbriche.. La scelta dei bersagli da parte delle organizzazioni clandestine rispecchiava, così, i temi ai quali i giovani erano in quel mo­mento più sensibili; la difficoltà di trovare alloggio, il cre­scente costo della vita, la disoccupazione e il lavoro nero, la diffusione delle droghe pesanti. Conseguentemente, gli obiettivi colpiti nel corso delle «azioni di propaganda» erano le agenzie immobiliari, i grandi magazzini, le piccole fabbri­che, gli spacciatori di eroina/Inoltre, poiché il potere veniva

2* Il tentativo di mostrare delle «responsabilità individuali» delle persone colpite appare evidente se si analizza la propaganda connessa ai primi quattro sequestri messi in opera dall’organizzazione tra il 1972 eil 1973. La prima delle persone rapite, il dirigente della Sit Siemens Idal- go Macchiarini, era stato accusato di particolare rigidità nella contratta­zione aziendale. Al secondo rapito, il segretario provinciale della sezione metalmeccanici della Cisnal di Torino Bruno Labate, era stata addebitata l’assunzione di squadristi di destra alla Fiat; un intero documento era de­dicato alla elencazione delle «responsabilità antioperaie» del terzo dei se­questrati, il dirigente delI’Alfa Romeo Michele Mincuzzi. L ’ultimo dei sequestrati, infine, il responsabile del personale della Fiat Ettore Amerio, era stato, secondo il volantino di rivendicazione dell’azione, indicato da Labate come responsabile di «schedature» dei militanti del sindacato alla Fiat. Anche negli anni immediatamente successivi, i volantini di rivendi­cazione di azioni contro i dirigenti intermedi di alcune fabbriche sottoli­neeranno responsabilità personali in progetti di ristrutturazione azienda­le o in licenziamenti «punitivi» di attivisti politici.

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percepito, e censurato, dal movimento di protesta come più «sociale» che «politico», i principali bersagli dei terroristi erano anche le «agenzie», e gli «agenti», che più sembravano rappresentare la penetrazione del potere sociale nella sfera privata dell’esistenza individuale:'neuropsichiatri e guardie private, servizi di informatica e agenzie di pubblicità, per fare solo qualche esempio. Ogni qualvolta le azioni si rivol­gevano contro lo stato, le autorità locali erano più colpite dei rappresentanti del potere centrale: i pretori piuttosto che gli alti funzionari del ministero di Grazia e G iustizia; i vigili urbani piuttosto che i gradi più elevati della burocra­zia dell’esercito2,4.

Va sottolineato, infine, che le azioni terroristiche dei gruppi di dimensioni più ridotte presentavano una forte «specializzazione» sia in termini geografici che funzionali. La maggior parte di queste piccole formazioni erano attive, infatti, solo in una città, talvolta solo in un quartiere. Una «specializzazione» si aveva, inoltre, nella selezione dei ber­sagli, che rifletteva le specificità dell’ambiente in cui si cer­cava di reclutare: il sottoproletariato per i Nap; i «prigionie­ri politici» per i Rea e i Nuclei; i militanti delle occupazioni delle case per l’Mcr.

5. Produzione ideologica e mobilitazione delle risorse

Le opzioni strategiche delle organizzazioni politiche si esprimono, infine, nelle caratteristiche della produzione ideologica. La letteratura sul terrorismo ha, in genere, con­siderato l’ideologia come un fattore determinante nella fase formativa dell’organizzazione. Ai fini della nostra analisi, ci interessa, invece, sottolineare il carattere mutevole dei con­tenuti delle ideologie terroriste/C iò potrà essere osservato, nel corso del paragrafo, guardando al ruolo dell’ideologia

24 Si aveva talvolta la compresenza di due tipi di bersagli in PI le cui azioni si rivolgevano in parte alla fabbrica, ma in parte anche ad altri obiettivi: associazione dei medici mutualisti, piccole fabbriche, spaccia­tori di eroina, agenzie immobiliari, vigili urbani.

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come strumento di frame alignment2\ co è come strumento per ampliare la potenziale base di reclutamento integrando nell’organizzazione valori e simboli considerati in modo po­sitivo da alcuni gruppi. La scelta del «quadro di riferimen­to» cui «allinearsi» è collegata a quella dell’ambiente in cui si spera di reclutare^ Le differenze ideologiche fra i gruppi del terrorismo italiano possono essere spiegate in relazione alle caratteristiche specifiche dell’ambiente nel quale ciascu­na di esse cercava di trovare nuovi adepti26. Le Br avevano mantenuto, ad esempio, l’ideologia marxista-leninista, che avevano assunto al momento della loro fondazione. Nei loro documenti la classe operaia era il soggetto rivoluzionario; il sistema capitalistico era il nemico; lo stato era il «cane da guardia» della borghesia e la De il suo partito. G li altri grup­pi terroristici avevano adottato, invece, uno schema ideolo­gico relativamente nuovo, elaborato nel corso degli anni set­tanta: l’oppressione sociale veniva descritta come alienazio­ne individuale più che come sfruttamento economico; il po­tere come controllo sulla vita degli individui negli ambiti più privati, e non limitato al dominio politico; il ruolo di soggetto rivoluzionario era assegnato all’operaio sociale, al quale i giovani urbanizzati potevano essere tutti, grosso mo­do, assimilati.

Come abbiamo già visto, questi due modelli ideologici hanno giustificato differenti strategie d ’azione — orientate contro la «gerarchia di fabbrica» nel primo caso, contro il «controllo sociale», nel secondo — e differenti modelli orga­nizzativi — leninista il primo, più «spontaneista» il secon­do. Vale la pena di sottolineare che la disomogeneità ideolo­gica rifletteva le differenze politico-culturali esistenti tra i movimenti collettivi attivi nei periodi in cui le organizzazio­ni clandestine erano sorte. L ’ideologia marxista-leninista delle Br era utile, come si è detto, a reclutare fra i militanti dei gruppi marxisti-leninisti, che erano quelli più disponibili

25 Questo concetto è illustrato in Snow, Rochford, Worden e Ben- ford [1986].

2h Sulle differenze ideologiche fra le due maggiori organizzazioni terroristiche, si rinvia a Dini e Manconi [1981].

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alla violenza organizzata all’inizio degli anni settanta. Le posizioni ideologiche delle altre organizzazioni tendevano, invece, ad allinearsi con quelle dei gruppi residui del «m ovi­mento del ’77». La loro ideologia voleva, cioè, proporsi co­me uno strumento atto a trovare seguaci nell’ambiente in quel periodo più favorevole alla «lotta armata».

Ciò si esprimeva, per esempio, nelle due versioni attra­verso le quali le Br, da un lato, e gli altri gruppi clandestini, dall’altro, si proponevano di esaltare il proprio ruolo come organizzazione: l’organizzazione armata come «guida della classe», e l’organizzazione armata come «parte del movi­mento di massa». Con differenze determinate dalle diverse condizioni ambientali in cui essi si erano formati, le Br ave­vano adottato la prima, i gruppi del terrorismo «diffuso» la seconda. Così, per esempio, PI affermava che il ruolo del­l ’organizzazione era quello di radicarsi nelle espressioni le­gali del conflitto: «il nostro compito fondamentale è chiude­re la forbice che si è aperta tra organizzazione combattente e combattimento proletario»27. In modo simile, le Fcc defi­nivano il loro scopo principale come costruzione di «una re­te clandestina [...] di pronta mobilità quale espressione della capacità di organizzare un movimento reale»28.

Diversamente, le Br tendevano a giustificare le loro ri­dotte dimensioni attraverso un’immagine che autonomizza- va da ogni verifica esterna il diritto dell’organizzazione ad allocarsi una funzione di «direzione sulla classe». Nella Riso­luzione della direzione strategica del 1975, si affermava già la necessità di costruire il partito combattente, come «partito di quadri combattenti [...] reparto avanzato della classe ope­raia e perciò nello stesso tempo distinto e parte organica di essa». T ochi anni dopo, nei confronti del «movimento del ’77», le Br si sarebbero autoassegnate la funzione di «dire­zione del movimento rivoluzionario», affermando che: «per trasformare il processo di guerra civile strisciante ancora di­sperso e disorganizzato, in un’offensiva generale diretta da un disegno unitario, è necessario sviluppare e unificare il

21 Tribunale di Torino, Sentenza della Corte 17/81.28 Tribunale di Milano, Requisitoria del PM in PP 907/79, p. 23.

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movimento proletario di resistenza costruendo il partito»29.Ma l’utilizzazione dell’ideologia con obiettivi di frame

alignment si può cogliere ancor più che nel momento di for­mazione di queste organizzazioni, nelle successive fasi della loro evoluzione. In ciascuna di esse, i gruppi clandestini hanno spiegato — e cercato di giustificare — i mutamenti nella loro strategia con argomentazioni comprensibili alla lo­ro base di reclutamento. C iò è particolarmente evidente nel caso delle Br, sia perché nel corso della loro lunga storia so­no cambiate più volte le condizioni dell’ambiente circostan­te, sia perché il grande numero di documenti e volantini prodotti permette un confronto più approfondito tra i d i­versi periodi. Trasformazioni rilevanti possono essere osser­vate nelle principali componenti dell’ideologia: la definizio­ne di sé, quella del nemico, l’immagine del conflitto.

A ll’inizio, la scelta della «lotta armata» era giustificata nei termini più comprensibili per la potenziale base di reclu­tamento: il rischio di un colpo di stato fascista. La paura di una evoluzione autoritaria, ampliamente diffusa nella sini­stra italiana, era spesso enfatizzata dalle Br nella loro giusti­ficazione della violenza fisica come difesa necessaria30. E s­se avevano tentato, anzi, una sintesi tra lotta armata contro i fascisti e lotta armata nelle fabbriche, interpretando la possibile svofta politica autoritaria come tentativo dei capi­talisti di recuperare le conquiste ottenute dalla classe ope­raia. Secondo i documenti delle Br, la borghesia, con l ’in­tento di superare le proprie contraddizioni interne, avrebbe scelto di «riorganizzare a destra l ’intero apparato di pote­re», per «recuperare il controllo nelle fabbriche» attraverso «il dispotismo crescente del capitale e la militarizzazione progressiva dello stato e della lotta di classe, l ’intensificazio­ne della repressione come fattore strategico»31.

29 Br, Risoluzione della direzione strategica, 1977, p. 4.30 Spesso citati nei primi documenti sono i tentati colpi di stato di

De Lorenzo nel 1964 e di Borghese nel 1974, le trame golpiste della Rosa dei Venti e dei Mar di Fumagalli, insieme al clima di tensione creato dalle stragi della destra.

31 Br, Brigate Rosse, 1971.

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Quando la repressione statale aveva reso l’intervento d i­retto nelle grandi fabbriche sempre più pericoloso, era cam ­biata anche l’immagine di sé che le Br tentavano di offrire. La maggiore attenzione data ad obiettivi più direttamente politici era spiegata come una conseguenza del crescente in­tervento statale nella sfera economica32. Lo stato era così descritto come espressione diretta di interessi capaci di con­trollare ormai quasi tutto il pianeta, sintetizzati nello «stato imperialista delle multinazionali», spesso citato solo come Sim. Si legge ancora in un documento delle Br:

Lo stato assume in campo economico le funzioni di una grossa banca al servizio dei grandi gruppi imperialistici multinazionali. [...] Diventa espressione diretta dei grandi gruppi imperialistici multinazionali con polo nazionale. Lo stato diventa cioè funzione specifica dello sviluppo delle multinazionali, diventa stato impe­rialista delle multinazionali33.

Il nemico veniva descritto in termini diversi, nei d iffe­renti momenti, a seconda dell’ideologia prevalente in una mutevole potenziale base di reclutamento. Nella seconda metà degli anni settanta, l ’avversario principale non era piùil fascismo, ma la social-democrazia34. A ttaccando il Pei e i

32 La nuova strategia mirante a colpire bersagli più politici era pre­sentata come risposta alle manovre padronali: «Se nelle fabbriche l’auto­nomia operaia è abbastanza forte e organizzata per mantenere uno stato permanente di insubordinazione e conquistarsi un proprio spazio di pote­re via via crescente, fuori dalla fabbrica essa è ancora debole al punto da non essere in grado di opporre una resistenza alle forze della controrivo­luzione. Per questo le forze della controrivoluzione tendono a spostare la contraddizione principale fuori delle fabbriche» (Br, 1974). «All’accer­chiamento strategico delle lotte operaie — continua il documento — si risponde estendendo l’iniziativa rivoluzionaria ai centri vitali dello stato: questa non è una scelta facoltativa, ma una scelta indispensabile per man­tenere l’offensiva anche nelle fabbriche» [citato in Soccorso Rosso 1976, 190],

33 Br, Risoluzione della direzione strategica, 1975, in Soccorso Rosso [1976, 270],

34 Cfr. Br, Risoluzione della direzione strategica, 1979. All’inizio l’at­tacco alla De veniva giustificato attribuendo al partito le principali re­sponsabilità nel «progetto gollista di riforma istituzionale». Nella seconda metà degli anni settanta, quando i governi di «solidarietà nazionale» ren-

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sindacati, le Br miravano ad ottenere la simpatia dei giovani militanti dei gruppi di protesta giovanile della fine degli an­ni settanta, i cui rapporti con la sinistra tradizionale erano stati caratterizzati da un aspro antagonismo. ,

L ’ideologia delle Br era mutata anche in riferimento al­l’identificazione degli alleati sociali del soggetto rivoluzio­nario. Quando, alla fine degli anni settanta, erano emersi gruppi violenti con ideologie non marxiste-leniniste, le Br avevano cominciato a parlare dei lavoratori manuali del set­tore dei servizi, marginali, disoccupati dell’esercito indu­striale di riserva come dei principali alleati della classe ope­raia. La definizione di un «Movimento proletario di resi­stenza offensiva», cui tutta la gioventù urbana apparteneva, è stato lo strumento per rendere l’organizzazione più at­traente per i gruppi più recentemente coinvolti in episodi di violenza politica. G ià nell’aprile del 1977, le Br avevano scritto di una nuova avanguardia che

ha fa tto sua la linea della lo tta arm ata per il com uniSm o [...] Si è creato così un vero e proprio m ovim ento di resisten za arm ata che, seppure d isperso nei mille rivoli dei m ovim enti parziali di lo t­ta, per la sua in ten sità e per la sua m aturità politica ha posto le prem esse per lo sv iluppo della guerra civile e della guerra di p o p o lo 35.

La nuova tesi brigatista del passaggio dalla «propaganda armata» alla «guerra civile dispiegata» era nata proprio dal- l’estendersi di quello che le Br avevano definito come «m o­vimento proletario di resistenza offensivo», cioè della

area dei com portam enti di classe antagonistici su sc itati d a ll ’in a­sprim ento della crisi econom ica e politica [...] l ’ area delle forze, dei gruppi, dei nuclei rivoluzionari che danno un conten uto m ili­tare alle loro in iziative d i lo tta anti-capitalista, an tim perialista, antirevision ista e per il com uniSm o36.

deranno obsoleta l’immagine di una De presidenzialista, l’attacco contro la De verrà giustificato come rifiuto del «compromesso storico».

35 Br, Risoluzione della direzione strategica, 1977, p. 1.36 Br, Risoluzione della direzione strategica. 1978, p. 44.

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I vincoli introdotti dalle formulazioni originali non sono stati quindi tanto rigidi da impedire mutamenti anche con­siderevoli nell’ideologia, quando le condizioni ambientali suggerivano l’opportunità di una revisione. Ma una delle principali contraddizioni per le organizzazioni clandestine è derivata, come si vedrà nel prossimo capitolo, dal fatto che l’ideologia doveva assolvere, contemporaneamente, a d iffe­renti funzioni. La necessità di distribuire incentivi simbolici ai militanti già inseriti nell’organizzazione ha ridotto, con il tempo, la flessibilità dell’ideologia rispetto ai compiti del re­clutamento.

Riassumendo, si è argomentato in questo capitolo che una parte delle scelte strategiche fatte dalle organizzazioni clandestine erano orientate all’obiettivo di raccogliere nuo­ve adesioni. Si sono, così, rivelate differenze fra le organiz­zazioni del terrorismo italiano per quanto riguarda strutture organizzative, repertori d ’azione e produzione ideologica. L ’esistenza di una certa coerenza nelle scelte fatte in queste tre dimensioni permette di parlare di diverse strategie di re­clutamento seguite dalle Br, da un lato, e dagli altri gruppi clandestini, dall’altro. Tali differenze sono state spiegate in relazione alle specifiche aree di reclutamento disponibili per le differenti organizzazioni, date le circostanze storiche al momento della loro fondazione. Esse si erano, cioè, dotate di strutture, repertori e ideologie più adeguati a raccogliere simpatie in alcuni ambienti. M a, come si vedrà nel prossimo capitolo, l ’attenzione posta sull’obiettivo di ampliare il nu­mero dei membri si è ridotta nel tempo. Se le stesse condi­zioni di clandestinità rendevano, infatti, il reclutamento in generale rischioso per queste organizzazioni, il ridursi delle aree di tolleranza per l ’azione politica illegale le induceva ad evitare il più possibile i contatti con l’ambiente circostante concentrando i loro sforzi sul mantenimento della fedeltà dei loro membri.

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CAPITOLO SETTIM O

DIN A M ICH E IN TER N E ED EVOLUZIONE DELLE O R G A N IZZA ZIO N I CLANDESTINE

1. Le trasformazioni nella struttura organizzativa

Anche se molto lungo è stato, in complesso, l’arco tem ­porale della violenza politica in Italia, la storia delle singole formazioni clandestine è stata, in genere, mólto breve. Solo le Br sono sopravvissute — seppure in crisi organizzativa — per oltre un decennio. L’altra organizzazione longeva, Pi, è esistita — pur cambiando nome — per sette anni, anche seil suo ciclo di effettiva «pericolosità» non ha superato i quat­tro anni. La storia dei Nap è racchiusa nel breve arco di tre anni, tra la fondazione nel 1974 e lo scioglimento nel 1976. Pochi degli altri gruppi di cui si è parlato nei capitoli prece­denti hanno superato il primo anno di vita. Solo dal 1976 al 1977 sono sopravvissute le Ucc. Le Fcc, fondate nell’esta­te del 1977, hanno cessato di esistere nel febbraio del 1979. Più longevi sono stati gli Rea, attivi tra il 1979 e l’inizio del1981. L’Mcr, fondato nel 1979, ha compiuto la sua ultima azione nella primavera del 1981. Gr, nata all’inizio del1979, ha cambiato nome già nel maggio dello stesso anno ed è scomparsa nell’estate del 1980. I Nuclei hanno siglato la loro prima azione nel giugno 1981 e l’ultima nel novembre1982. I Pac hanno operato tra il 1978 e il 1979. Le uniche azioni di Per il comuniSmo sono state realizzate tra il dicem­bre 1979 e il gennaio 1980. Sei mesi appena è durata la sto­ria della Brigata Lo Muscio, tra il gennaio e l’ottobre del1980.

In generale, la causa immediata della scomparsa di que­sti gruppi è stata l’arresto o la morte dei militanti. Ben sette membri dei Nap hanno perso la vita in conflitti a fuoco con le forze dell’ordine o in esplosioni accidentali, mentre molti altri venivano arrestati. La crisi delle Fcc è strettamente connessa all’arresto del loro fondatore, Corrado Alunni,

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nell’ottobre del 1978. I Pac hanno cessato di esistere quan­do, a pochi mesi dalla costituzione del gruppo, la maggior parte dei militanti era già in carcere. Allo stesso modo i N u­clei sono scomparsi nel 1983, dopo l’arresto di tu tti i loro membri. Simile è stata la storia della sconfitta di Guerriglia rossa e della Brigata Lo Muscio: tra l’estate e l’autunno1980 le confessioni dei rispettivi dirigenti hanno consegna­to alla giustizia tu tti gli adepti dei due gruppi. E, ancora, l’evoluzione organizzativa delle diverse colonne Br è stata decisamente segnata dagli esiti delle indagini della polizia e della magistratura. Già all’inizio degli anni settanta, l’infil­trazione di «frate mitra» e i controlli incrociati al catasto, avevano portato alla scoperta di diversi covi e all’arresto di numerosi militanti: dei membri del primo Comitato esecuti­vo, soltanto uno era riuscito a sfuggire all’arresto. Alla fine del 1976, era in carcere la maggior parte dei fondatori. Do­po una nuova intensa fase di reclutamento negli anni succes­sivi, a partire dal 1980 le confessioni di vari membri dell’or­ganizzazione hanno portato all’arresto di numerosi dirigen­ti. Anche la crisi di PI è stata, nell’immediato, prodotta da una lunga catena di arresti che hanno colpito l’organizzazio­ne nel 1979 e 1980.

Le organizzazioni clandestine sono scomparse, dunque, per mancanza di militanti, o almeno di militanti in libertà. Ma quali sono state le cause di queste sconfitte? Quali le ra­gioni per le quali esse non sono riuscite a reintegrare con nuove reclute i propri contingenti decimati dagli arresti? Nel corso di questo capitolo e del successivo verranno pro­poste alcune risposte a queste domande. Le trasformazioni delle organizzazioni sono state, in generale, attribuite a mu­tamenti nell’ambiente. Ma, come si è già osservato nel capi­tolo introduttivo, alcuni approcci hanno sottolineato la ca­pacità dei gruppi dirigenti di adattare le proprie strutture e strategie alle trasformazioni esterne, mentre altri hanno en­fatizzato le capacità dell’ambiente di selezionare solo quelle organizzazioni che sono attrezzate per la sopravvivenza. Entrambi questi approcci verranno utilizzati nella nostra analisi, controllandone l ’utilità per lo studio delle organizza­zioni clandestine. Vedremo nel corso di questo capitolo che i loro dirigenti hanno fatto tentativi, in diverse direzioni,

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per adeguare le loro strutture organizzative e le loro strate­gie ad alcuni mutamenti intervenuti nell’ambiente, giungen­do talvolta a rallentare o interrompere dinamiche di crisi già in atto. Ma vedremo anche che la scelta stessa della clande­stinità aveva attivato un certo processo evolutivo, che nes­suna delle organizzazioni terroriste è riuscita a bloccare e che ha condotto alla loro crisi e scomparsa. Per utilizzare le parole di un ex-dirigente delle Br:

E come se ci fosse un percorso autonomo dell'organizzazione che segue delle sue leggi che [•••] diventano leggi dello scontro in quel momento e quindi determinate anche dall’avversario

Nel corso dei capitoli precedenti si è spesso fatto riferi­mento a trasformazioni intervenute sia nella struttura che nell’attività delle formazioni clandestine. Il terrorismo ha, cioè, m utato le sue caratteristiche. Queste trasformazioni verranno, in questo capitolo, analizzate rispetto a struttura organizzativa, strategia d ’azione e produzione ideologica.

Uno dei livelli ai quali la crisi delle formazioni clandesti­ne si è manifestata con più evidenza è quello della struttura organizzativa. Seppure in un processo non sempre lineare, sottoposto spesso a pause e talvolta ad inversioni, l’evolu­zione del modello organizzativo è stata caratterizzata da tendenze — a prima vista contraddittorie — verso, contem­poraneamente, accentramento e frazionismo, «comparti­mentazione» e strutturazione.

L'accentramento è visibile soprattutto nei gruppi con una maggiore partecipazione. Si può osservare che alcuni di essi avevano adottato sin dall’inizio una struttura molto centralizzata. Per esempio, secondo lo statuto delle Br, le decisioni avrebbero dovuto procedere «verticalmente», dal Comitato esecutivo nazionale alle Colonne, regionali o cit­tadine, e, quindi, alle Brigate (di zona o fabbrica). In una ulteriore accentuazione del funzionamento gerarchizzato, si era costituita poi la Direzione strategica, in cui si entrava per cooptazione, e che nominava il Comitato esecutivo, per la «gestione quotidiana» dell’organizzazione. Una minore

1 S toria d i v ita n. 27 , p. 4.

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accentuazione del modello burocratico si aveva in Pi. L’or­ganizzazione era strutturata in Nuclei, ciascuno dei quali avrebbe dovuto eleggere un «comandante», che doveva riu­nirsi con gli altri nella Conferenza d ’organizzazione, per eleggere i Comandi di sede i quali, a loro volta, eleggevano il Comando nazionale e, quindi, l’Esecutivo nazionale2. Modelli simili erano stati adottati da altri gruppi clandesti­ni*. Accanto al «principio della gerarchia verticale», vi era poi quello della «distribuzione funzionale dei compiti». Fronti o Commissioni venivano così costituite per affronta­re problemi organizzativi, normalmente distinti in «soste­gno ai compagni in carcere»; «informazioni sulle forze della repressione»; espletamento di «compiti tecnico-logistici» (targhe false, covi etc.); «attività di propaganda».

La crescente difficoltà ad essere accettati in un ambien­te sociale, seppure ristretto, aveva poi ridotto la rilevanza potenziale delle strutture di massa. Un esempio di ciò è la scomparsa, più o meno graduale, delle diverse Squadre o Ronde, cioè di quelle strutture che avevano goduto, nei mo­menti in cui si pensava fosse possibile aggregare all’organiz­zazione una vasta rete di simpatizzanti, di una certa capaci­tà decisionale autonoma. L’intensificazione delle attività degli apparati repressivi aveva aumentato, inoltre, i rischi connessi all’organizzazione di incontri periodici allargati ai militanti di base. Per ragioni di sicurezza, ad esempio, l’as­semblea generale dei membri di PI — che doveva essere, se­condo lo statuto, l’organo supremo di decisione — non era stata più convocata dopo il primo incontro, allargato ai mili­tanti di base, per la fondazione del gruppo. Per lo stesso or­dine di motivi, il potere si era concentrato con il passare del tempo negli organi più ristretti; passando dalla Direzione

2 2. Cfr. PI, Statuto, artt. 12 e 13.* Più simile alle Br era la stru ttura degli Rea, dotati di una

«direzione-partito» e di un «esercito», in cui si sarebbero dovuti formare i militanti (Tribunale di Milano, Requisitoria del Pm in PP 225/81, p. 319). Più decentrata era invece la stru ttura delle Fcc, suddivise in Squa­dre; della Colonna W alter Alasia, suddivisa in Brigate; dei Nap, suddivisi in piccole cellule. Una stru ttu ra più semplice avevano, infine, le organiz­zazioni di piccole dimensioni, normalmente costituite di un «comando» e uno o due «nuclei».

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strategica al Comitato esecutivo, nel caso delle Br; dall’Ese- cutivo nazionale al Comando nazionale, nel caso di PI. An­cora, le difficoltà che le organizzazioni clandestine attraver­savano periodicamente — di fronte, ad esempio, a successi­ve ondate di arresti — aumentavano il potere di alcuni diri­genti i quali talvolta si staccavano dall’organizzazione-ma- dre per fondare nuovi gruppi, di dimensioni molto ridotte, di cui essi divenivano indiscussi leader carismatici.

Se per alcuni aspetti la diffusione di modelli centralizza­ti era facilitata dall’emergere di tendenze scissioniste, si può anche argomentare che essa era una delle cause della secon­da caratteristica dell’evoluzione organizzativa delle forma­zioni armate: il frazionism o, appunto. La centralizzazione ri­duceva, infatti, le possibilità di dissenso, in un momento in cui i leader della organizzazione entravano in conflitto sulle possibilità di reagire alle sfide create dall’isolamento e dalla repressione. L’accentramento del potere decisionale scon­tentava, inoltre, gli esclusi, che non vedevano retribuiti in termini di maggiore partecipazione alle decisioni gli accre­sciuti rischi della militanza. Una giustificazione ripetuta- mente adottata per spiegare le scissioni era la ricerca di stra­tegie alternative alla «militarizzazione» diffusa nei gruppi armati. Tali argomentazioni servivano certamente da coper­tura ideologica per crescenti conflitti personali, che le dina­miche di piccolo gruppo non potevano non accentuare4. Esse riflettevano però anche un disagio diffuso fra i militan­ti per la percezione di un isolamento dall’esterno, che la propaganda rivolta verso l’interno non riusciva a nascon­dere.

Il frazionismo organizzativo come caratteristica della di­

4 Come si legge ad esempio in un documento scritto da alcuni ex­militanti di organizzazioni clandestine, «in questa lotta di frazioni all’in­terno delle Br si evidenzia come la tendenza populista [...] ad andare ver­so le masse, conquistandone la simpatia con azioni di sostegno alla lotta di classe, e la tendenza militarista ad attaccare le stru tture politiche e mi­litari del potere, in una sorta di guerra privata, non siano che facce di una stessa medaglia impersonate in tempi diversi dalla stessa organizza­zione o frazione, o su cui le diverse organizzazioni o frazioni si contrap­pongono in un gioco continuo di inversione delle parti» [Detenuti del car­cere di Brescia 1982, p. 6].

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namica evolutiva è evidente, ad esempio, nella organizza­zione sopravvissuta più a lungo: le Br. Fino alla fine degli anni settanta l’organizzazione non aveva subito scissioni, se si esclude l’uscita di tre dei suoi dirigenti all’inizio del de­cennio. La fine del decennio vedrà invece una serie di suc­cessive fratture. I conflitti interni erano l’espressione di strategie differenti per affrontare le difficoltà organizzati­ve. Elemento comune ai vari gruppi scissionisti era, infatti, l’accusa ai dirigenti nazionali di «militarismo», definito allo­ra come «distacco dalla logica politica di intervento». Tale critica era stata espressa dai fautori della prima scissione, che aveva avuto luogo nel 1979. In un documento inviato al quotidiano «Lotta continua», alcuni militanti — i nomi più conosciuti erano quelli di Adriana Faranda e Valerio Morucci — avevano accusato i fondatori dell’organizzazio­ne di avere interrotto ogni rapporto con la loro base di rife­rimento e di non riuscire a comprendere le trasformazioni sociali in corso’. La risposta dell’organizzazione alle criti­che era stata verbalmente molto violenta6. Ma, pochi mesi dopo, proprio i principali esponenti della prima generazione delle Br — che stavano scontando la pena nel carcere del- l’Asinara — erano entrati in polemica con i nuovi dirigenti, accusandoli di «deviazioni burocratiche e militariste», «in­capacità di intervenire fra le masse», «cattiva gestione del sequestro Moro» e, inoltre, di escludere i militanti in prigio­ne dal dibattito interno dell’organizzazione. Questa frattu­ra era stata diplomaticamente ricomposta per esigenze ta tti­che. Ma i brigatisti del «nucleo storico» sosterranno, in se­guito, la costituzione di altri gruppi frazionisti come la «Co­lonna W alter Alasia» a M ilano7 o, nel 1981, l’ultima scis­

5 Questa frazione, i cui membri fonderanno in seguito l’Mcr, accu­sava in particolare i dirigenti di non adeguare la stru ttura organizzativa all’emergere di un nuovo soggetto sociale e di rinunciare anzi, con la con­clusione «militare» del rapimento Moro e lo scioglimento del Fronte mas­sa, al proselitismo.

6 In un documento del luglio del 1979 dal carcere dell’Asinara, an­che i brigatisti lì detenuti avevano ribadito, con toni particolarm ente ac­cesi, la «centralità operaia» e la «necessità del partito», condannando lo «spontaneismo armato».

7 II grave rischio costituito per le Br dall’emergere di gruppi scissio-

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sione del Fronte carceri, che darà poi vita al Partito della guerriglia del proletariato metropolitano. Anche in questi casi, la principale critica rivolta ai dirigenti dell’organizza­zione sarà quella di avere perso ogni contatto con i movi­menti collettivi.

Costellata da fratture interne è anche la storia di PI, en­trata in crisi già a partire dal 1979, e che ha visto le successi­ve scissioni di due gruppi di militanti — Per il comunismo, nel 1979, e Nuclei, nel 1981, di cui si è già de tto8 — e la trasformazione dell’organizzazione-madre in Comunisti or­ganizzati per la liberazione proletaria, o Colp. Nel 1981 sa­rà ancora una scissione — di militanti confluiti nelle Br in questo caso — a sancire il declino definitivo del gruppo.

Il frazionismo non ha caratterizzato solo l’evoluzione dei gruppi numericamente più consistenti, ma si è esteso an­che alle stesse organizzazioni che da precedenti fratture avevano avuto origine. A partire dal 1981, le tensioni si era­no acuite nella Colonna W alter Alasia, con l’allontanamen­to di alcuni suoi dirigenti che avevano proposto la fusione con un’altra frazione delle Br. Frequenti rotture interne so­no emerse, anche, nella storia, pur breve, delle Fcc: dalla confluenza in PI dei militanti emiliani, all’abbandono di al-

nisti era stato sicuramente percepito dai loro dirigenti che, dopo l’espul­sione della colonna ribelle, avevano dedicato all’episodio un intero docu­mento, significativamente intitolato «Battere l’opportunismo liquidàzio- nista e la ideologia della sconfitta». La frattura all’interno dell’organizza­zione veniva interpretata come conseguenza delle «difficoltà a gestire il passaggio dalla propaganda armata alla guerra civile». Il frazionismo era definito come «reazione infantile di chi, di fronte alle difficoltà tattiche della rivoluzione, non ragiona più [...] In questo modo la lotta politica si riduce allo scontro di potere banalmente personalizzato» (Br, Risolu­zione della direzione strategica, 1980, p. 12).

8 I fuoriusciti di Per il comunismo avevano criticato PI per «le sue forzature arbitrarie e soggettive», il «volontarismo operativo», la «confu­sione teorica», la «politica miserabile [...] di costruzione del sistema logi­stico» (citato in Tribunale di Torino, Sentenza-ordinanza del Gl in PP 321/80, p. 396). Il gruppo, al quale si erano uniti dei fuoriusciti di Ucc e Fcc, si proponeva di «prepararsi alla lotta di lungo periodo», attraverso una «riqualificazione dei quadri ai nuovi compiti», l’organizzazione del­l’esilio dei latitanti e l’articolazione di una proposta di «resa negoziata».I Nuclei invece, composti da ex-militanti di PI i da criminali comuni, so­pravviveranno dedicandosi soprattutto alle rapina.

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tri che daranno vita ai Rea, all’adesione alle Br e a G r di al­tri ancora. A loro volta, anche i Rea si erano divisi al loro interno, all’inizio del 1980: si era allontanata la rete torine­se, altri erano entrati nelle Br, altri ancora avevano parteci­pato alla fondazione di Gr.

Il frazionismo può essere stato inoltre facilitato da una terza tendenza, piuttosto tipica dell’evoluzione delle forma­zioni armate: la «compartimentazione», cioè la riduzione dei contatti fra le diverse strutture organizzative. Già pre­sente all’origine dei gruppi clandestini, essa si era fatta più rigida man mano che la repressione degli apparati istituzio­nali si era accentuata ed erano diminuite le aree di sostegno sociale. La «compartimentazione» corrispondeva alla neces­sità di isolarsi, che assumeva nei gruppi clandestini italiani due principali forme. In primo luogo, per ridurre i rischi di infiltrazioni dall’esterno, si era rinunciato a poco a poco alle strutture aperte ai simpatizzanti. Come si è detto nel capi­tolo precedente, inoltre, erano divenute più vincolanti alcu­ne regole che, pur in genere presenti negli statuti di fonda­zione, erano state però disattese all’inizio. Erano state, così, vietate le interazioni fra militanti di strutture diverse, veni­vano evitati gli incontri che non fossero strettamente indi­spensabili alla vita dell’organizzazione, e ridotta la circola­zione delle informazioni. Questo processo entrava in con­traddizione con la tendenza alla centralizzazione, portando in alcuni casi ad una autonomia nei fatti di talune strutture rispetto al controllo dei dirigenti nazionali. Per esempio, poco prima del suo scioglimento, PI si era strutturata in poli territoriali con un notevole decentramento delle competen­ze politiche e militari. Ancora, i fondatori dei Nuclei aveva­no giustificato la costituzione del gruppo con la «necessità di superare il fallimento delle organizzazioni combattenti attraverso la costituzione di nuclei autosufficienti di pratica guerrigliera», «poli per la ripresa di una pratica comunista d ’attacco attraverso la critica del passato»9.

M entre i diversi organismi si «compartimentavano», au­mentando le barriere all’ingresso e riducendo le possibilità

9 In Tribunale di Torino, Requisitoria del PM in PP 231/82.

234

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di interscambio ai confini, si assisteva contemporaneamente ad un peculiare processo di strutturazione. Per offrire un’im­pressione di forza organizzativa nonostante i continui arre­sti di militanti, alcuni gruppi clandestini accrescevano il nu­mero delle strutture specializzate in particolarissime sot- to-funzioni,^ cui nomi si allungavano man mano che si ridu­ceva il numero dei loro membri. Ciò è avvenuto, solo per fare due esempi, nel Partito della guerriglia del proletariato metropolitano, che si si era dotato di numerosi «fronti» di cui spesso facevano parte solo uno o due militanti; o nella Colonna W alter Alasia, che moltiplicava il numero delle «brigate» man mano che si riduceva drasticamente il nume­ro degli adepti.

2. Le trasformazioni nei repertori d ’azione: le tattiche

Nel corso dell’evoluzione delle organizzazioni clandesti­ne anche le strategie d ’azione si sono notevolmente trasfor­mate. M entre le trasformazioni nella struttura organizzati­va contribuivano al loro isolamento, le forme d ’azione dive­nivano più violente e gli obiettivi meno legati alla propagan­da. Se guardiamo prima ai repertori, la loro evoluzione può essere osservata a partire da alcuni dati relativi alla percen­tuale di azioni contro le persone sul totale delle azioni, al numero di morti e feriti nei diversi anni insieme al numero medio di morti sul totale delle azioni; alla distribuzione del­le forme d ’azione. La distribuzione percentuale delle azioni contro le persone sul numero totale degli attentati terrori­stici è riportata alla tabella 1.

Si può iniziare con l’osservare che alti valori indicano una maggiore «specificità terroristica» delle organizzazioni clandestine, valori più bassi una maggiore attenzione alla propaganda. La percentuale di attentati con danni alle per­sone è stata molto bassa nei primi tre anni di esistenza del fenomeno; è aumentata poi abbastanza gradualmente fino al 1977; ha compiuto due drammatici balzi, di quasi 8 punti percentuali nel 1978, e di altri 6 l’anno successivo. Un nuo­vo drastico incremento è avvenuto nel 1981 ed è stato con­fermato nel 1982. Il numero delle azioni contro le persone

235

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T ab. 1 . Percentuale degli attentati con danni alle persone rispetto al totale degli atten­tati terroristici, secondo l'appartenenza politica dei gruppi coinvolti, dal 1970 a lm i

Br PI % Totale* N. Totale

19701971 — — — —

1972 2,6 — 2,6 11973 21,4 — 21,4 31974 5,7 — 10,9 51975 11,3 ___ 14,9 111976 10,3 — 15,5 161977 21,3 7,8 16,2 321978 27,3 17,0 23,8 571979 40,6 30,6 31,3 561980 34,7 10,5 27,5 361981 45,2 — 45,2 231982 64,7 — 48,8 241983 — — — 1% Totale 24,5 17,2 22,8N. Totale 162 45 264

* Il totale si riferisce a tutte le organizzazioni clandestine di sinistra e non solo a Br e PI.

Fonte: Elaborazioni dei miei dati, tratti dagli atti giudiziari.

è stato dunque contenuto all’inizio, è aumentato gradual­mente in seguito ed ha avuto i suoi picchi quando il terrori­smo era già in crisi. Questi dati sono confermati da altri in­dicatori relativi al numero di morti e feriti e al rapporto tra numero di morti e numero di azioni, riportati alla tabella 2.

Tre fasi sono chiaramente rintracciabili. Fino al 1973 compreso, il terrorismo di sinistra non aveva né ferito né ucciso. Tra il 1974 e il 1976 il numero dei morti era salito tragicamente (5 nel 1974; 7 nel 1975; 10 nel 1976), ma era ancora limitato rispetto alle drammatiche cifre degli anni successivi. La terza fase è iniziata nel 1977, ma questo è un anno particolare: si è avuto infatti un salto considerevole nel numero dei feriti, che è più che triplicato, ma il numero dei morti è stato inferiore rispetto all’anno precedente. A partire dal 1978 il numero dei morti è aumentato drammati­camente: in quell’anno di sette volte se non si considerano fra le vittime i terroristi rimasti uccisi, con ancora 23 morti

2 ) 6

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Tab. 2. Numero di feriti e di morti e rapporto tra numero di morti e numero di azioni per anno

N. feriti N. feriti escluso

terroristi

N. morti N. morti escluso

terroristi

Rapportomorti/azioni

19701971 — — — — —

1972 — — 1 — 0,031973 — — — — —

1974 3 1 5 3 0,111975 8 7 7 3 0,091976 9 9 10 8 0,101977 30 28 6 4 0,031978 42 41 29 28 0,121979 45 45 23 20 0,131980 19 19 29 20 0,231981 15 15 14 14 0,241982 18 13 17 15 0,411983 1 1 1 1 0,33Totale 190 179 142 116 0,13

Fonte: Elaborazioni dei miei dati, tratti dagli atti giudiziari.

nel 1979, 29 nel 1980, 14 nel 1981 e 17 nel 1982. Il rappor­to tra numero dei morti e totale delle azioni è incessante­mente cresciuto a partire dal 1978, fino a quadruplicare ri­spetto alla media nel 1982. Anche il numero dei feriti si manterrà alto nel corso di quegli anni, pur scendendo dai 30 del 1977, 42 del 1978 e 45 del 1979, ai rispettivamente 19, 15 e 18 dei tre anni successivi.

Nel contesto italiano, questi dati ci sembrano indicare due cose. In primo luogo confermano l’esistenza di una pri­ma fase del terrorismo — tra il 1970 e il 1976 — caratteriz­zato da una bassa propensione all’azione contro le persone, seguita dall’utilizzazione di tattiche sempre più sanguinose. In secondo luogo, colpisce la rapidità nell’incremento del numero dei morti e feriti nel 1978, soprattutto se compara­ta con la gradualità con cui le azioni contro le persone sono cresciute di numero all’inizio.

Un ulteriore indicatore dell’accresciuta cruenza delle azioni terroriste è la tattica utilizzata. L’andamento nel tempo di questa variabile è illustrata nella tabella 3, nella

237

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T ab . 3. Evoluzione delle tattiche mate dalle organizzazioni clandestine dal 1970 al 198ì

Atten­tato

Rapine Incur­sione

Con­flitto

a fuoco

Seque­stro

Agguato N.Totale*

1970 100,0 41971 82,4 17,6 — — — — 171972 79,5 12,8 5,1 — 2,6 — 391973 50,0 14,1 14,1 — 21,4 — 141974 63,0 4,3 17,4 4,3 6,5 4,3 461975 67,6 9,5 6,8 4,5 4,1 8,1 741976 70,0 5,8 7,8 5,8 1,0 9,7 1031977 57,9 8,6 16,2 1,5 1,0 14,7 1971978 56,3 10,0 9,2 0,8 0,4 23,3 2401979 43,0 17,3 9,5 3,9 1,7 24,6 1791980 44,3 26,0 3,1 3,8 2,3 20,6 1311981 22,2 28,6 4,8 7,9 12,7 23,8 631982 8,2 42,9 2,0 22,4 — 24,5 491983 — 33,3 — — — 66,6 3% Totale 52,5 14,8 9,0 3,8 0,6 17,5N. Totale 609 171 104 44 28 203 1.159

* Il totale è superiore al numero dei casi poiché più di una forma d’azione può essere presente in ogni evento. Le percentuali sono calcolate sul totale delle rispo­ste, cioè delle forme d’azione.

Fonte-, Elaborazioni dei miei dati, tratti dagli atti giudiziari.

quale le diverse forme d ’azione sono presentate in ordine crescente di livello di cruenza.

I due items rispetto ai quali più evidente e significativa è l’esistenza di una tendenza temporale sono il primo e l’ul­timo: attentati e agguati. Gli attentati sono azioni contro le cose: in Italia prevalentemente incendi di auto attraverso l’uso di bottiglie m olotov, azioni che non richiedevano, quindi, che un grado limitatissimo di «efficienza organizza­tiva». Come si può osservare, il peso degli attentati è per­centualmente decresciuto. Con poche eccezioni — non si­gnificative perché legate ad anni con un ridotto numero di azioni — la percentuale degli attentati è di molto superiore al 50% fino al 1976, mentre decresce in seguito dal 58% circa del 1977 a valori oscillanti attorno al 44% nel 1979 e nel 1980, cadendo fino al 22% del 1981 e ad appena l’8% l’anno successivo.

2)8

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Un andamento opposto hanno assunto invece gli aggua­ti, comprendenti sia i ferimenti che gli assassinii premedita­ti. Inesistenti fino al 1973, la loro percentuale è aumentata gradualmente a partire dall’anno successivo, mantenendosi su valori oscillanti tra il 21 e il 25% nel corso di tu tto il quinquennio tra il 1978 e il 1982, e raggiungendo il 67% nel 1983. Proprio in questi anni, disaggregando ferimenti ed assassinii, è stata osservata la loro opposta evoluzione, con i primi in lenta discesa e i secondi in drammatico aum ento10.

Ancora indicazioni nella stessa direzione vengono dal­l’analisi dell’andamento dei «conflitti a fuoco» con le forze dell’ordine. Avvenuti nel corso di tentativi di arresto o du­rante azioni rivolte contro altri obiettivi, i conflitti a fuoco non erano dunque strategie premeditate. Il loro andamento nel tempo individua, significativamente, due cicli. Il primo va dal 1970 al 1976. Nel quadriennio iniziale non vi erano stati conflitti a fuoco con la polizia. La loro percentuale è invece aumentata costantemente nei due anni successivi, fi­no a raggiungere il 6% nel 1976. Dal 1977 era iniziato il se­condo ciclo: ridiscesi fino all’ 1 % in quell’anno, gli scontri con le forze dell’ordine erano divenuti in seguito più fre­quenti, fino a raggiungere ben il 22% nel 1982. Anche la diffusione dei conflitti a fuoco è, dunque, aumentata nelle fasi di difficoltà per le organizzazioni clandestine.

Ancora una volta, quindi, i dati sulle tattiche conferma­no le informazioni fornite dagli altri indicatori nella direzio­ne di un progressivo imbarbarimento delle forme d ’azione utilizzate dalle formazioni clandestine. Dall’iniziale prefe­renza accordata agli attentati contro le cose, si passa ad un uso sempre più frequente delle azioni rivolte a colpire fisica- mente gli esseri umani, fino al prevalere della forma d ’azio­ne più crudele, l’assassinio.

I dati fin qui presentati testimoniano, in effetti, dell’e­voluzione complessiva del fenomeno e non delle trasforma­zioni nel tempo dei repertori delle singole organizzazioni. Il progressivo imbarbarimento delle forme d ’azione può essere

10 Cfr. della Porta e Rossi [1984; 1985].

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però dimostrato anche per quanto riguarda la storia dei sin­goli gruppi. Prendendo come esempio solo i due maggiori, ancora la tabella 1 mostra che la percentuale degli attentati contro le persone aveva raggiunto per le Br il 10% circa tra il 1972 e il 1976, raddoppiando quindi nel 1977, triplicando quasi nel 1978 e quadruplicando nel 1979, fino al 65% nel1982.

Ripercorrendo la storia delle Br, si osserva dunque una escalation inizialmente lenta, con una brusca accelerazione solo a partire dal 1978. Nei primi due anni la violenza delle Br si era rivolta esclusivamente contro le cose11. Nella pri­mavera del 1972 si era avuta la prima azione contro persone (rapimento Amerio, durato pochi minuti), seguita nel bien­nio successivo da alcune irruzioni e tre altri sequestri, via via più impegnativi. Nel giugno del 1974, c’era stato, inve­ce, il primo omicidio: di due militanti del Msi, nel corso di una irruzione in una sede di quel partito. L’azione era stata però presentata dai brigatisti come «incidente sul lavoro», pur affermando il volantino di rivendicazione che «le forze rivoluzionarie sono da Brescia in poi legittimate a risponde­re alla barbarie fascista con la giustizia armata del proleta­riato»12. Era iniziato tuttavia con quest’azione un diverso uso delle armi. Se nel triennio precedente pistole e fucili erano stati utilizzati solo come strumenti di intimidazione, a partire dal 1974 esse sono servite, invece, per ferire e ucci­dere. Nel 1975 c’è stato il primo ferimento premeditato, cui è seguito l’anno successivo il primo omicidio volontario, compiuto in un momento di particolare debolezza organiz­zativa allo scopo di «rilanciare» la propria immagine. Nel1977 le Br sono riemerse molto più cruente. Gli anni a par­tire dal 1978 hanno visto un uso sempre più frequente di fe­

11 Vi erano stati una serie di atten tati ad automobili e strum enti di produzione, mentre in un volantino si era respinta con sdegno l’accusa di avere d istru tto prodotti finiti. Su questo, cfr. Caselli e della Porta [1984]. Non si ha l’intenzione, in questo capitolo, di richiamare tu tte le principali azioni criminose compiute dai gruppi clandestini; su questo si rinvia a della Porta [1989].

12 C itato in Soccorso Rosso [1976, 253], Ci si riferisce, chiaramen­te, alla strage di piazza della Loggia, compiuta dai terroristi di destra po­chi giorni prima.

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rimenti e omicidi come forme d ’intimidazione. Infatti, mentre nel 1977 il numero dei ferimenti è balzato da 4 a 19, nell’anno successivo il numero delle persone uccise si è quintuplicato, raggiungendo le 16 unità. Dal 1978 in poi si è concentrato oltre l’80% degli assassinii.

A partire da quell’anno, una grande rilevanza è stata, inoltre, attribuita alla esibizione delle capacità militari del­l’organizzazione. L’esempio più drammatico è il rapimento del presidente della De, Aldo Moro, avvenuto il 16 marzo 1978 e conclusosi il 9 maggio, con l’uccisione della vittima. Per rapire l’uomo politico, sono stati infatti trucidati i cin­que uomini della scorta, in un’azione della quale i commenti immediati hanno sottolineato la «perfezione tecnica». La volontà di mostrare alte capacità militari era presente anche in altre azioni successive delle Br, quali altri sequestri di uo­mini politici e magistrati, assalti contro l’esercito e, in parti­colare, l’irruzione nella sede del comitato romano della De, in piazza Nicosia, nel maggio 1979, durante il quale due agenti sono stati uccisi e un altro ferito.

La stessa evoluzione nelle forme d ’azione è rilevabile anche per le altre organizzazioni. Si può osservare nella ta­bella 1 che, nel caso di PI, la cui storia è più breve, la per­centuale delle azioni contro le persone ha avuto un incre­mento dall’8% del primo anno di attività dell’organizzazio­ne al 31% del 1979, che è l’anno in cui gli attentati sono stati più numerosi. Una nuova flessione è avvenuta nel1980, in un momento in cui l’organizzazione era stata ormai distrutta dagli arresti. Fondata nel 1977, PI ha compiuto nel1978 i suoi primi tre omicidi; raddoppiati nell’anno succes­sivo, quando è aumentato considerevolmente anche il nu­mero dei ferimenti (con un totale annuo di 23). Anche qui, vi è stata una crescente enfasi sulle abilità militari, il cui più brutale esempio è stata l’irruzione nell’istituto di ammini­strazione aziendale Vailetta, nel dicembre 1979 a Torino, conclusosi con il ferimento di 10 delle 190 persone presenti, dopo un sommario «processo proletario».

La degenerazione nella violenza delle forme d ’azione è un percorso generalizzabile, anche se con qualche eccezio­ne, alle altre organizzazioni clandestine di sinistra operanti in Italia. Per fare ancora un altro esempio, anche i Nap, che

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avevano iniziato nel 1974 le loro attività criminose con at­tentati alle cose ed irruzioni, giungeranno ad un anno di di­stanza dalla loro fondazione al primo ferimento e nel succes­sivo ed ultimo anno della loro esistenza al primo omicidio. Così fra i gruppi nati alla fine degli anni settanta, molti sa­ranno responsabili di azioni particolarmente violente (Nu­clei, Pac), anche se altri rinunzieranno alle forme più san­guinose limitandosi ad organizzare espatri clandestini (Per il comuniSmo), ed evitando anche azioni contro cose, se d i­fese da uomini armati (Mcr).

Le cause di questo tipo di evoluzione possono essere, al­meno in parte, individuate se si guarda ai mutamenti inter­venuti nell’ambiente circostante e alle loro ripercussioni in termini di reclutamento ed integrazione dei militanti. Una escalation nei repertori è stata legata al bisogno, per i gruppi clandestini, di precisare la propria immagine rispetto a quel­la di altre organizzazioni di movimento, attraverso l’uso di ben distinte forme d ’azione. Significativa, a questo proposi­to è la testimonianza di uno dei fondatori delle Br sulle ra­gioni che li avevano spinti a compiere le prime azioni contro persone. Si legge nella sua autobiografia:

Non potevamo continuare soltanto a bruciare auto. C’era or­mai troppa distanza tra i nostri grandi discorsi di lotta armata e le azioni che riuscivamo ad organizzare. C’era addirittura chi identificava i brigatisti come «quelli che mandano a fuoco le mac­chine» e la nostra immagine rischiava di diventare quella di inno­cui ragazzini bombaroli. Noi invece volevamo essere guerriglieri, combattere una guerra vera. Fu per questo che cominciammo a pensare ad un altro tipo di azione, clamorosa, che desse di noi l’immagine di una organizzazione efficiente, in grado di colpire chiunque e dovunque. Progettammo un sequestro di persona»1*.

Sempre a proposito del reclutamento, si è detto che c’è stata nel corso del decennio una trasformazione nel tipo di potenziale base di mobilitazione. Man mano che essa si era identificata con le aree di persone già convertite alla lotta armata, la scelta dei repertori è sempre più dipesa anche dal

11 Franceschini e altri [1988, 57].

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bisogno di attrarre i membri di altri gruppi semi-illegali o il­legali, già particolarmente sensibili alle esibizioni di «doti militari». Viceversa, per i membri dei gruppi armati minori, l’utilizzazione di forme d ’azione sempre più cruente è stata spesso una strategia volta a propiziarsi l’ingresso in una or­ganizzazione maggiore, dimostrando la propria efficienza come è mostrato nelle storie di Brigata XXVIII marzo e Rea.

All’interno di questo tipo di strategia possono essere comprese alcune delle vicende connesse al rapimento, e al successivo assassinio, di Aldo Moro. Nei molti saggi scritti sull’argom ento14, sono state date differenti interpretazioni sulle finalità a cui questo crimine avrebbe dovuto assolvere nella strategia dei brigatisti. La più diffusa è quella secondo cui l’obiettivo delle Br era impedire che si attuasse, a ttra­verso l’ingresso del Pei nel governo, quel «compromesso sto­rico», di cui Moro era visto come il principale artefice. Sem­bra che queste spiegazioni sovrastimino, però, i fini dichia­rati, non prendendo invece in considerazione l’esistenza di altri fini non-palesi che le Br si proponevano anche di realiz­zare attraverso quella azione. Per esempio, la decisione di uccidere l’ostaggio al termine della lunga prigionia non è una scelta spiegabile dall’obiettivo di ostacolare l’accesso al potere al Pei. Le polemiche, emerse durante il sequestro, tra il presidente della De e il suo partito rendevano, infatti, estremamente improbabile che esso potesse riassumere, se avesse riottenuto la libertà, il suo ruolo di mediatore dell’in­gresso dei comunisti al governo. La «lucidità» delle Br nel perseguire un piano di destabilizzazione delle istituzioni può essere inoltre messa in dubbio se si pensa alla mancata pubblicizzazione, da parte del gruppo, delle rivelazioni fatte dallo statista durante il sequestro. Ad esempio, alcune delle dichiarazioni contenute nei verbali del cosiddetto «memo­riale» — sulle responsabilità del Sid nella strage di piazza Fontana o sui concreti pericoli di inquinamento dei nuovi servizi segreti15 — avrebbero creato contraddizioni all’in­

14 Fra l’ampia letteratura sul «caso Moro», si rinvia a Bocca [1978a]; Moss [1981]; Katz [1982]; Flamigni [1988].

15 Per quanto riguarda il contenuto del «memoriale», si rinvia alla

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terno delle forze di maggioranza, se fossero state rese pub­bliche dalle Br. A questo proposito, è anche difficile credere che questo non sia avvenuto perché, come hanno scritto le Br: «Non ci sono segreti che riguardano la De, non ci sono clamorose dichiarazioni da fare»16. E, soprattutto, la dram­matica conclusione del sequestro appare più comprensibile se si tiene conto della evoluzione dell’organizzazione clan­destina e dell’ambiente ad essa circostante. Una decisione che non mostrasse segni di «cedimento» poteva essere infat­ti, soprattutto dopo qualche tempo, utile ai fini del recluta­mento nell’area dei gruppi del terrorismo «diffuso» in crisi, ai cui militanti, infatti, le Br si presentavano così come la forza militarmente più efficiente.

L’evoluzione nel comportamento delle organizzazioni clandestine può essere, inoltre, spiegata dal bisogno di raf­forzare quella solidarietà tra i membri, prodotta dall’affron- tare pericoli comuni. All’inizio, ciò era avvenuto attraverso azioni caratterizzate da un basso livello di violenza — quali le esercitazioni «all’arma bianca» (spiegazioni sul funziona­mento di alcune armi) o all’uso dell’espÌosivo e delle armi da fuoco, gli attentati compiuti dalle Squadre, i volantinaggi nelle fabbriche o le rapine — che costituivano spesso il «battesimo del fuoco» di nuovi membri. In seguito, la fun­zione di rafforzare questo tipo di solidarietà è stata assolta dalla progressiva accentuazione della sanguinosità delle azioni, che ha ridotto al contempo le possibilità di exit per i terroristi che vi prendevano parte. Ciò significa che molte azioni erano divenute, ad un certo punto, sempre più ritua­li: nel loro ripetersi eguale, ferimenti ed assassinii servivano a nascondere agli stessi militanti l’incipiente crisi organizza­tiva, attraverso una presunta dimostrazione di efficienza militare.

dettagliata ricostruzione delle numerose circostanze non ancora chiarite relativamente al com portam ento degli organi istituzionali nei giorni del sequestro contenuta in Flamigni [1988, 171 ss.].

16 Br, Comunicato n. 6, c itato in Flamigni [1988, 165].

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Parallelamente all’imbarbarimento delle tattiche d ’azio­ne si è avuta una trasformazione dei bersagli contro i quali i crimini si rivolgevano, con una graduale rinuncia alle azio­ni propagandistiche e una sempre maggiore frequenza di quelle rivolte a «difendere l’organizzazione» rispetto alla re­pressione statale. Questa evoluzione si può riscontrare se si guarda ai mutamenti nel tempo dei bersagli dell’azione e dei loro obiettivi. Sono cambiate, innanzitutto, le caratteristi­che degli oggetti e delle persone colpite o, più esattamente, quelle caratteristiche sulla cui base venivano scelti i bersa­gli, la cui evoluzione nel tempo viene presentata alla tabella 4.

Le informazioni più significative si ricavano confron­tando le frequenze relative alle «attività imprenditoriali» e quelle relative agli «apparati repressivi». Nel caso delle a tti­vità imprenditoriali si osserva un trend discendente. Con poche eccezioni, la percentuale delle azioni contro attività imprenditoriali si è mantenuta superiore alla metà fino al

3. Le trasformazioni nei repertori d'azione: i bersagli

T ab . 4. Evoluzione dei bersagli colpiti, tra il 1970 e il 1983

Organiz. Organiz. politica sindacale

Organogovern.

Apparati Attività repress, imprend.

Altro N.Totale*

1970 25,0 75,0 41971 58,8 5,9 5,9 5,9 23,5 — 171972 23,1 28,2 2,6 10,3 35,9 — 391973 — 23,1 — — 76,9 — 131974 10,9 8,7 — 19,6 54,3 6,5 461975 15,3 12,5 1,4 15,3 54,2 1,4 721976 4,9 12,6 2,9 27,2 51,5 1,0 1031977 27,7 4,1 5,1 15,4 45,1 2,6 2381978 15,1 2,5 7,1 41,6 31,1 2,5 1791979 9,5 2,2 7,3 34,1 43,0 3,9 1251980 7,2 2,4 12,0 20,8 54,4 3,2 601981 13,3 3,3 8,3 30,0 43,3 1,7 491982 8,2 — — 49,0 36,7 6,1 31983 33,3 — — 33,3 33,3 — —% Totale 14,9 5,6 5,8 27,3 43,7 2,7N. Totale 170 64 66 312 500 31 1.143

* Il totale è superiore al numero dei casi poiché più di un bersaglio può essere presente in ogni evento. Le percentuali sono calcolate sul totale delle risposte, cioè dei bersagli.

Fonte: Elaborazioni dei miei dati, tratti dagli atti giudiziari.

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1976, con punte del 70% nei primi anni. A partire dal1977, la presenza percentuale di questo tipo di azioni si è, invece, ridotta, scendendo — seppure non costantemente— dal 45% di quell’anno fino al 37% del 1982.

Un andamento tendenzialmente inverso ha la curva de­gli attentati contro gli apparati repressivi dello stato, in spe­cial modo magistratura e forze dell’ordine. In questo caso, infatti, il trend è ascendente. I valori sono rimasti bassi, al di sotto del 20% , fino al 1977 incluso, con l’unica eccezione del 1976 che è un anno di grosse difficoltà organizzative per le Br. Essi sono aumentati, invece, a partire dal 1978, oscil­lando tra il 30 e il 40% , fino a raggiungere il 49% nel 1982. Negli anni successivi al 1977 si è, infatti, concentrato il 74% delle azioni contro gli apparati repressivi dello stato.

Il sempre maggiore coinvolgimento dei gruppi terroristi nei conflitti a fuoco con carabinieri e forze di polizia va con­siderato come un segno inequivocabile del forzato allonta­namento dal loro progetto politico iniziale. Le indicazioni su questa variabile potrebbero essere lette differentemente: un valore alto potrebbe indicare un accentuarsi della forza, ma anche l’innescarsi di una escalation della violenza che ha come causa l’isolamento dell’organizzazione. Le testimo­nianze raccolte nel corso delle interviste fanno, però, pro­pendere decisamente per la seconda ipotesi. Dichiara, ad esempio, un ex-militante di PI a proposito del progressivo ridursi della rete dei simpatizzanti esterni, disponibili a of­frire aiuto logistico:

Quando questo tipo di personaggi, che tengono in vita, nono­stante le apparenze, l’organizzazione, cominciano a sganciarsi, lo intuisci, anche se lo rimuovi ideologicamente, intuisci che la gente fa macchina indietro, e praticamente comincia a sclerotizzarsi tutto l ’apparato per cui ti ritrovi con un numero vasto di clandestini e non sai dove tenerli, devi cominciare a moltiplicare le azioni di f i ­nanziamento e moltiplicando quelle cominci a moltiplicare gli inci­denti, i morti, i feriti, gli arrestatin .

Un’ulteriore misura di ripiegamento delle formazioni clandestine su obiettivi di mera sopravvivenza è data dalla

17 Storia di v ita n. 12, p. 38.

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N. A

zion

i

160-1 Evoluzione obiettivi

PropagandaAntirepressibne«Difesa»

F ig . 1. Evoluzione nel tempo degli obiettivi delle azioni terroristiche.Fonte: Elaborazioni dei miei dati, tratti dagli atti giudiziari.

crescita delle azioni di ritorsione, cioè della percentuale de­gli attentati che si rivolgono contro coloro che erano consi­derati come «traditori»: testimoni che denunciano terrori­sti, terroristi che abbandonano le loro organizzazioni. Gli episodi di questo genere sono stati in tu tto 18: 1 nel 1975,4 nel 1979 e nel 1980, e ben 13 nell’ultimo biennio del pe­riodo in esame.

Questi risultati vengono confermati dai dati relativi agli obiettivi dell’azione. Nella figura 1 è osservabile l’evoluzio­ne nel tempo degli attentati con obiettivi di propaganda, di scontro con gli apparati dello stato, di difesa militare.

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T a b . 5. Evoluzione dell'obiettivo dell'azione per Br e PI, dal 1970 al 198)

Brigate rosse Prima lineapropa­ganda

guerrastato

difesaarmata

finan-ziam.

propa­ganda

guerrastato

difesaarmata

finan-ziam.

1970-76 72,2 11,0 4,1 8,2 80,0 10,0 10,01977 91,3 5,4 2,2 1,1 63,5 20,6 1,6 14,31978 59,2 35,7 1,0 4,1 66,3 14,1 4,3 15,21979 73,8 18,5 3,1 4,6 52,1 23,9 7,0 15,41980 70,1 23,9 1,5 2,9 15,8 10,5 5,3 18,31981 59,5 19,0 14,3 7,1 _ _ 100,01982-83 5,4 21,6 32,4 35,1 — — — —% Totale 70,0 17,2 5,3 7,1 58,0 17,9 4,3 19,5N. Totale* 453 111 34 46 149 46 11 50

* Il totale è superiore al numero dei casi poiché più di un obiettivo può essere presente in ogni evento. Le percentuali sono calcolate sul totale delle risposte, cioè degli obiettivi.

Fonte-, Elaborazioni dei miei dati, tratti dagli atti giudiziari.

Anche in questo caso, con perfino maggiore evidenza, le azioni di propaganda si sono ridotte costantemente, dal 70% circa degli anni fino al 1977, al 60% del 1978, ancora al 41% del 1980 e al 4,4% del 1982. Sono aumentate vice­versa quelle azioni che indicano il concentrarsi delle orga­nizzazioni clandestine in una sorta di «guerra» con gli appa­rati repressivi dello stato: dal 10% circa dei primi anni (con l’unica eccezione del 1976), a percentuali oscillanti attorno al 20% successivamente. Le due curve si incrociano così neU’ultimo anno, quando le azioni di propaganda si riduco­no drasticamente, mentre cresce la presenza percentuale delle azioni contro le forze dell’ordine. Le azioni di «difesa militare» sono anch’esse aumentate in tutto il periodo, da valori quasi mai superiori al 5% fino al 1980 al 16% del1981 e al 28% del 1982. Si può aggiungere che è cresciuta, infine, la percentuale delle azioni di finanziamento.

Lo stesso tipo di tendenza si riscontra se guardiamo ai dati disaggregati per le due organizzazioni maggiori, ripor­tati nella tabella 5.

Per quanto riguarda le Br, i valori più alti negli attentati contro le forze dell’ordine si rilevano a partire dal 1978, raggiungendo il massimo nel 1981-1982. Gli stessi dati

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mantengono invece valori estremamente bassi nei restanti periodi, quando le azioni di propaganda hanno coperto i tre quarti dell’attività complessiva. Dal 1979, la percentuale delle azioni di propaganda ha teso, al contrario, a ridursi, fino al 59,5 del 1981 e al 5,4 del biennio 1982-1983. Sono, invece, aumentate le azioni contro lo stato, che si sono asse­state attorno al 20% dal 1979 in poi, e quelle definite di «difesa armata» che, dopo avere oscillato tra 1’ 1 e il 5% han­no raggiunto il 14% nel 1981 e il 32% nel biennio successi­vo. Anche la trasformazione del tipo di bersaglio serviva in parte ad una funzione di integrazione interna. A questo sco­po erano orientate, ad esempio, le frequenti azioni intimida­torie sul tema delle carceri18 e, soprattutto nell’ultima fase, quelle contro coloro che l’organizzazione considerava come «traditori»19. Significativo è, infine, l’andamento delle azioni di «autofinanziamento», che coprono addirittura il 35% dell’attività nell’ultimo biennio.

Simile è l’evoluzione dei bersagli per PI: le azioni di pro­paganda sono scese dall’80% del 1976 (quando la sigla era stata utilizzata per la prima volta, anche se l’organizzazione non era stata ancora fondata) al 65% circa dei due anni se­guenti, fino al 15,8% del 1980. Parallelamente sono aumen­tate, invece, le azioni rivolte a garantire la sopravvivenza dell’organizzazione: la «difesa armata», che dall’1,6% come primo valore positivo nel 1977 cresce fino al 7% del 1979;

18 Solo per fare un esempio, si pensi alla «campagna contro i peni­tenziari speciali» durante la quale, nel solo 1980, furono assassinati il vi­cepresidente del Consiglio superiore della magistratura, V ittorio Bache- let; l’ex-capo della segreteria degli Istitu ti di pena, Girolamo Minervini;il generale Galvaligi, addetto alla vigilanza delle carceri di massima sicu­rezza; e fu rapito il d irettore generale degli Istitu ti di prevenzione e di pena, G iovanni D ’Urso.

19 II primo episodio di «ritorsione» è stato l’omicidio di un sindaca­lista ed operaio genovese, G uido Rossa, che aveva deposto contro un b ri­gatista. Seguirà una spietata campagna contro i militanti sospettati di avere «tradito»: due militanti di gruppi clandestini (Soldati e Di Rocco) verranno uccisi e tre feriti (Liburno, Gargiulo e Massa), in carcere o nelle aule giudiziarie, tra il 1981 e il 1982. Utilizzando il sistema mafioso delle vendette incrociate, le Br rapiranno e uccideranno, al termine di un bru­tale «processo proletario», Roberto Peci, fratello di uno dei primi brigati­sti che avevano collaborato con la magistratura.

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e le azioni di «auto-finanziamento», gradualmente passate dal 10% del 1976 al 18,3% del 1980, rappresentando poi la totalità delle azioni nel 1981. Ancora, l’evoluzione di PI nei Colp testimonia la trasformazione dell’organizzazione, nel momento in cui la crisi prodotta dagli arresti e dalla per­dita di numerose basi imponeva di concentrare i propri sfor­zi sugli obiettivi della raccolta di risorse materiali e della li­berazione dei compagni20.

Lo stesso tipo di trasformazione dei bersagli è comune ad altri gruppi. Per esempio, tu tta l’attività dei Nap nell’ul­timo anno di vita dell’organizzazione si era rivolta contro gli apparati repressivi dello stato. Significativa è anche l’a­nalisi dei bersagli delle azioni compiute dalle formazioni clandestine emerse alla fine degli anni settanta: solo sull’o­biettivo dell’autofinanziamento erano concentrate le attivi­tà di Per il comuniSmo, Brigata Lo Muscio e Mcr; solo sul sistema penitenziario quelle dei Nuclei, e prevalentemente su questo anche quelle di Pac e Rea.

4. Le trasformazioni nella produzione ideologica

Anche la produzione ideologica dei gruppi clandestini ha subito dei mutamenti rilevanti nel corso della loro storia. Pure nel caso dell’ideologia sono individuabili delle linee di tendenza comuni, seppure difficilmente quantificabili. Si può, innanzitutto, osservare che l’ideologia ha rispecchiato le trasformazioni in atto negli altri due strumenti organizza­tivi. In primo luogo, è mutata l’immagine di sé che i gruppi armati volevano diffondere: da «braccio armato del movi­

20 La stessa denominazione dei Colp, scrive un magistrato, serve a sottolineare «la propria accresciuta attenzione criminale verso il «carcera­rio», a partire dall’inizio dell’81 in poi, da quando cioè la gran parte dei “ capi” storici era venuta a trovarsi detenuta a causa delle grandi inchie­ste dell’80. [...] si tra ttò dell’evolversi storico dello stesso progetto che andava modellandosi sulla base delle necessità imposte dal momento (e quindi abbandono momentaneo delle pratiche omicidiarie d irette, inten­sificarsi delle azioni di autofinanziamento e di quelle volte a favorire l’e­vasione di compagni detenuti etc.)» (Tribunale di Milano, Requisitoria del PM in PP 231/82, pp. 41-47 passim).

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mento» o «movimento armato» era divenuta «esercito», da Ronda/Squadra/Brigata era divenuta Partito. Ancora avanti nel tempo, era venuta meno anche l’interpretazione offerta dell’azione armata come stimolo all’avviarsi di un processo rivoluzionario guidato dalla classe operaia. L’organizzazio­ne si era «autonomizzata dalle dinamiche sociali» — per usare il linguaggio brigatista — ed il suo compito era dive­nuto la testimonianza di un rifiuto che sopravviveva alla pa­cificazione delle classi. I gruppi armati tendevano, così, a ri­nunciare a legittimarsi come «guida» o «erede» o «esempio», iniziando ad affermare puramente e semplicemente la loro esistenza come unica via di una liberazione che doveva esse­re esistenziale prima'che politica o economica. Un esempio di questo processo può essere trovato nei documenti del Partito guerriglia del proletariato metropolitano. Hanno scritto a questo proposito alcuni ex-militanti di organizza­zioni clandestine:

Non ci si limita, come nei vecchi documenti, ad analizzare la realtà in modo più o meno mistificato, traendone linee di tenden­za in cui inserire la propria azione: le nuove teorizzazioni non pro­pongono un’analisi, ma piuttosto una nuova visione e modo di vi­vere della realtà a partire dalla condizione esistenziale della guer­riglia metropolitana. Non si parla più, come prima, della guerra civile da promuovere attraverso azioni di guerriglia, si parla della «guerra» come dimensione fino ad ora trascurata della realtà, uni­ca espressione compiuta di coscienza e lotta politica del proleta­riato all’attuale livello di sviluppo del capitale, espressione di nuo­va «assoluta inimicizia tra le classi». La guerriglia sarebbe l’unica forma di rottura di un controllo sociale che è prima di tutto con­trollo delle coscienze, unica espressione di coscienza e lotta di classe a cui si contrappone lo stato di sonnambulismo e follia in cui verserebbe il proletariato non combattente (chiamato proleta­riato «schizo-metropolitano»). La guerra civile non è necessario raggiungerla, ma soltanto vederla in atto nella realtà quotidiana [...] da questa guerra come visione allucinata della realtà sociale, si passa poi alle azioni di guerriglia che trovano in sé la propria giustificazione come semplice attuazione di una potenzialità so­ciale presupposta21.

21 C fr. D etenuti del carcere di Brescia [1982, 8].

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Insieme all’immagine della propria identità era cambiata quella dell’avversario e del campo del conflitto. La visione del nemico era divenuta in qualche modo più immanente: il potere non era più rappresentato dalla pur astratta «classe dei capitalisti», ma pervadeva tu tta la società, giustificando la mancanza di potenziali alleati o di referenti per la propria azione. Fuori dall’organizzazione vi era solo il male; chi non era nell’organizzazione era parte del male. Non vi era più distinzione tra colpe soggettive e responsabilità oggettive, predisposizioni strutturali e falsa coscienza. Nei volantini di rivendicazione delle azioni non si cercava più, come all’ini­zio, di spiegare il «grado» di pena in relazione alle «colpe» della vittima. Per fare solo un esempio, nella rivendicazione di un agguato in cui esse avevano ferito il fratello della per­sona che avrebbero voluto colpire, le Br avevano proclama­to cinicamente che: «un gemello vale l’altro».

Del nemico, descritto con aggettivi sempre più ingiurio­si — maiali, porci — facevano parte alla stessa stregua i cor­pi di polizia e gli «sgherri» comunisti, gli uomini politici fino all’estrema sinistra e gli «scissionisti» dei gruppi armati. Di nessuno si cercava più la redenzione, a nessuno si rivolgeva­no più appelli perché aderisse alla «lotta armata», tu tti era­no meritevoli della «pena di morte», profusamente commi­nata nei comunicati delle formazioni clandestine.

Era cambiato conseguentemente il modo di legittimare le strategie adottate. Nel caso delle Br, ad esempio, le tra­sformazioni nelle tattiche utilizzate erano prima giustificate come passaggio dalla «pace armata» alla «guerra civile di­spiegata». Si legge nella «Risoluzione della direzione strate­gica» del 1978:

Disarticolare le forze del nemico significa portare un attacco il cui obiettivo principale è ancora quello di propagandare la lotta armata e le sue necessità, ma in esso già comincia ad operare an­che il principio tattico proprio della fase successiva: la distruzione della forza del nemico [...] La disarticolazione della forza del ne­mico è quindi l’ultimo periodo della fase della propaganda armata e introduce progressivamente quella della guerra civile rivoluzio­naria22.

22 Br, Risoluzione della direzione strategica, 1978, pp. 41 e 42.

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Ancora oltre nel tempo, era venuta meno anche la giu­stificazione della escalation di violenza a partire dalla con­giuntura storica, più o meno rivoluzionaria; erano venute meno le lunghe disquisizioni sul fine che giustifica i mezzi, le elaborazioni dei paradossi che avevano portato i leader delle Br a descrivere l’omicidio di Aldo Moro come «atto etico» o altri assassinii come espressione di «giustizia prole­taria». La violenza era divenuta più esplicitamente fine in sé, espressione compiuta di opposizione al potere. Allonta­nandosi da Machiavelli e da Lenin e avvicinandosi a Sorel e a Fanon, i documenti non tentavano più di legittimare al­cuni crimini come necessità rivoluzionaria, ma esaltavano tu tte le espressioni di «guerra» come strumenti di libera­zione.

Una trasformazione era avvenuta anche nella struttura del linguaggio. I documenti utilizzavano sempre meno ter­mini e principi improntati dal marxismo-leninismo o da al­tre ideologie diffuse nei movimenti collettivi, che erano ser­viti in passato a spiegare l’attività delle organizzazioni in termini comprensibili all’esterno. Con il procedere del tem ­po, invece, si era selezionato un vocabolario composto di ca­tegorie e termini coniati dai dirigenti del gruppo e che ave­vano un senso solo per i suoi membri. Documenti e proclami erano divenuti così sempre più oscuri non solo per l’opinio­ne pubblica, ma anche per la cerchia molto più ristretta dei militanti dei movimenti collettivi. Se si prende come esem­pio la produzione teorica delle Br, essa era, alle loro origini, fortemente segnata dallo sforzo di mantenere, come «pre­messe logiche» dell’intervento, le interpretazioni della si­tuazione politica più diffuse nell’ambiente sociale che vole­vano influenzare. Le scelte erano, come si è detto, spiegate facendo riferimento alla dottrina marxista più ortodossa. In seguito, invece, si sarebbe drasticamente ridotta la capacità di motivare la loro azione con riferimenti «coerenti» alla realtà. La terminologia utilizzata sarebbe divenuta sempre più criptica, fino ad essere incomprensibile dall’esterno. I documenti più recenti riproporranno una visione allucinata del mondo circostante.

Si è avuta, infine, una trasformazione «quantitativa» della produzione ideologica, di cui un esempio è il costante

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aumento nel numero delle pagine delle annuali risoluzioni della direzione strategica delle Br. Le scissioni erano moti­vate attraverso lunghe disquisizioni teoriche. La competi­zione fra gli stessi gruppi clandestini accentuava la vis pole­mica. I dirigenti arrestati organizzavano «scuole-quadri» in carcere e diffondevano i risultati dei loro «gruppi di studio», talvolta utilizzando normali case editrici. Costretti alla lati­tanza, i militanti in clandestinità accrescevano le «strutture d ’informazione», passando una parte rilevante del loro tem­po a scrivere documenti a circolazione interna o volantini di rivendicazione.

Si è osservato nel corso di questo capitolo che le organiz­zazioni terroriste italiane si sono progressivamente allonta­nate dall’attività di propaganda sociale, concentrandosi in una «guerra privata» con gli apparati dello stato. Le cause di questo tipo di evoluzione possono essere rintracciate nel mettersi in moto di una serie di dinamiche non previste. Stretti tra gli arresti e il progressivo ridursi di eventuali sim­patie iniziali, i gruppi clandestini hanno abbandonato gra­dualmente i propri obiettivi di reclutamento, invischiandosi sempre più nelle azioni a difesa della propria coesione in­terna.

Che queste dinamiche siano collegate alla scelta della clandestinità sembra confermato dall’evoluzione di organiz­zazioni terroriste operanti in altri paesi. Si può infatti osser­vare che i processi di trasformazione riscontrati nelle forma­zioni armate italiane sono comuni anche ad altri gruppi ope­ranti, nello stesso periodo storico, in altre democrazie indu­striali. Le conseguenze autodistruttive del conflitto interno, accentuate dalle sconfitte politiche e militari, hanno assunto aspetti particolarmente drammatici nel caso giapponese2*. La storia dei W eather Underground e delle Black Panthers è percorsa da episodi di guerre interne e sanguinose scissio­ni, infiltrazioni e uccisioni di militanti in conflitti a fuoco con la polizia24. L’imbarbarimento delle forme d ’azione è

2* Tra la fine del 1971 e l’inizio del 1972, quattordici membri del- l’Esercito rosso erano stati uccisi dai loro stessi compagni, nel corso di scontri armati fra opposte frazioni ideologiche dello stesso gruppo. Cfr. Kawahara [1983].

24 Cfr. G urr [1983].

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particolarmente rapido nel caso della Raf, dove dai primi a t­tentati a scopi propagandistici si è passati ad una serie di azioni di rappresaglia contro magistratura e polizia o a rapi­menti tendenti ad ottenere la liberazione dei militanti incarcerati25. Elementi di somiglianza si possono riscontra­re anche nell’evoluzione delle strategie e del modello orga­nizzativo dell’Eta in Spagna, dell’ira in Irlanda, dei M onto­neros in Argentina, dei gruppi clandestini del Quebec in Canada e dell’Olp, nonostante la struttura delle opportuni­tà politiche disponibile per quelle organizzazioni fosse di gran lunga più favorevole che negli altri casi26.

Si può tuttavia anche osservare che alcuni mutamenti nella struttura delle risorse esterne e scelte strategiche diffe­renti da parte dei dirigenti possono introdurre rallentamenti nell’evoluzione o deviazioni dal modello. Alcuni gruppi pos­sono, ad esempio, sperimentare fasi di nuova espansione quando la struttura delle risorse esterne subisce dei muta­menti ad essi favorevoli. Lo scioglimento di alcuni corpi speciali antiterrorismo e il contemporaneo rafforzarsi delle tendenze più violente nel movimento di protesta possono favorire temporanee inversioni di tendenza. L’evoluzione può anche non raggiungere il risultato finale, quando i lea­der decidono di sciogliere le loro organizzazioni27. Per comprendere, dunque, i processi attraverso i quali questo ti­po di evoluzione ha condotto, in Italia, alla crisi dei gruppi clandestini è necessario estendere l’analisi ad altri due livel­li. Da un lato, occorre tenere conto del modo in cui queste trasformazioni sono state percepite dai militanti. Dall’altro,

Cfr. Fetscher [1979; 1983]. Si vedano, inoltre, alcune ricostru­zioni fatte da ex-militanti di organizzazioni clandestine in Germania: Baumann [1976]; Klein [1980] e Mahler [1980],

26 Q ueste informazioni sono contenute rispettivam ente in della Por­ta e M attina [1985; 1986], per E tà; Alexander e O ’Day [1984] e Beach [1977], per l'ira ; Gillespie [1982], per i M ontoneros; Ámos [1980], per1 Olp; e M orf [1970], per il gruppo clandestino separatista del Quebec.

27 Per esempio, i militanti delle Black Panthers e dei W eather U n­derground hanno deciso ad un certo punto di uscire dalla clandestinità e lo stesso hanno fatto i militanti di E tà (politico-militar) in Spagna. An­che in Italia, organizzazioni come Per il comunismo o il M ovimento co­munista rivoluzionario possono essere interpretate come tappe di «ab­bandono» della stru ttura terrorista.

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le caratteristiche dell’evoluzione sono anche legate alle rea­zioni provenienti dall’ambiente esterno, che possono accele­rare o ritardare la crisi. A questi problemi si guarderà nel prossimo capitolo.

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LA CRISI DEL TERRO RISM O IN ITALIA

CAPITOLO OTTAVO

1. Struttura delle opportunità e sistema delle relazioni intem a­zionali

Sull’evoluzione dei gruppi terroristi, così come sul loro emergere, hanno influito alcune condizioni relative all’am­biente esterno, in particolare a quella che è stata definita co­me struttura delle opportunità politiche. Si è analizzato l’ef­fetto di alcune caratteristiche del sistema politico sulle ori­gini delle organizzazioni clandestine. Se nella maggior parte dei capitoli precedenti l’analisi del funzionamento dei grup­pi armati è stata condotta in una prospettiva sincronica, cioè senza occuparsi dei mutamenti intervenuti nel corso del decennio, la comprensione della crisi del terrorismo non può prescindere da un’analisi diacronica, che tenga conto delle trasformazioni dell’ambiente nel tempo. Se, come si è det­to, la scelta della clandestinità è un modo per isolarsi dall’e­sterno, essa non garantisce ovviamente una totale imper­meabilità. Naturalmente, nel caso delle formazioni armate alcuni aspetti della struttura delle opportunità politiche hanno una maggiore rilevanza che per altri tipi di organizza­zioni politiche. Nell’analisi dell’evoluzione e della crisi del terrorismo lo studio della reazione dello stato, per esempio, deve concentrarsi più sull’azione degli apparati repressivi che su quella di altri settori dell’amministrazione pubblica. Allo stesso modo, le trasformazioni del sistema delle relazio­ni internazionali si trovano in questo caso riflesse meglio nell’intervento dei servizi segreti che nelle dichiarazioni dei governi nazionali.

Nel corso di questo capitolo verrà discussa l’influenza sull’evoluzione e la crisi del terrorismo dei mutamenti inter­venuti nel comportamento di attori politici, sia internazio­nali che nazionali, sia istituzionali che non istituzionali. In

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tu tti questi casi l’attenzione verrà rivolta alle trasformazio­ne autonomamente in atto in quel periodo, ma anche ai mu­tamenti direttamente prodotti dal terrorismo e che, su di es­so, hanno avuto effetti di feedback tali da accelerarne la crisi.

Si può iniziare con l’osservare che il terrorismo è stato considerato, nelle società contemporanee, come uno stru­mento alternativo alla guerra, utilizzato dagli stati-nazione in una situazione internazionale in cui la minaccia dell’eca­tombe nucleare rende impossibile ogni rinegoziazione dei rapporti di forza che passi attraverso il conflitto bellico. Se la guerra era dunque, prima dell’era nucleare, la «continua­zione della politica con altri mezzi», il terrorismo sarebbe divenuto la «continuazione della guerra» con altri mezzi in un sistema di relazioni internazionali retto dall’«equilibrio del terrore»1. Le fortune dei gruppi terroristi sono in ef­fetti spesso collegate all’appoggio di alcuni governi che, per prossimità ideologica o contingente coincidenza di interessi, decidono di fornire loro risorse di diverso tipo. Natural­mente, nella stragrande maggioranza dei casi, gli aiuti ven­gono offerti in maniera coperta, tramite l’azione dei servizi segreti, per evitare le reazioni di condanna che un appoggio aperto al terrorismo susciterebbe da parte degli altri attori del sistema delle relazioni internazionali. La fine di queste convergenze temporanee o l’indebolimento di governi ideo­logicamente vicini possono generare problemi anche gravi per i gruppi clandestini. Ad esempio, una delle cause di crisi del terrorismo di destra in Italia, nella seconda metà degli anni settanta, è stato il crollo dei regimi autoritari in G re­cia, Portogallo e Spagna, che ha comportato la perdita della protezione garantita in passato da quelle nazioni2. Ancora, le attuali difficoltà organizzative dell’Eta sono derivate in parte dalla fine della politica di tolleranza francese che ave­va reso le regioni confinanti con i Paesi Baschi un rifugio si­curo per i terroristi ricercati e un luogo di organizzazione degli attentati in territorio spagnolo.

1 Cfr. Bonanate [1979a],2 Cfr. Minna [1984],

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Se in teoria un mutamento nella situazione internazio­nale può essere ipotizzato come causa del successo o della crisi di un gruppo clandestino, i suoi effetti sembrano essere però determinanti solo quando le risorse di cui i terroristi hanno bisogno non siano reperibili anche altrove. Ciò può accadere, ad esempio, se il gruppo clandestino non ha una base sociale o connivenze importanti all’interno — oppure, le ha appena perse, come nel caso del terrorismo di destra in Italia alla metà degli anni settanta — oppure quando nes­sun altro può offrire quel particolare tipo di risorse — come le zone franche al confine nord-occidentale spagnolo nel ca­so basco.

Molte, e contraddittorie, ipotesi sono state avanzate nel corso di questi anni sugli interessi che possono avere spinto alcune nazioni straniere ad intervenire negli affari interni del nostro paese, attraverso l’utilizzazione dei gruppi terro­risti già esistenti. Israele è stata, ad esempio, accusata di mi­rare a «destabilizzare» l’Italia in modo da presentarsi come unico alleato affidabile per gli Stati Uniti nel Mediterraneo. Questi ultimi sono stati sospettati di ricorrere a strategie deprecabili per mettere in difficoltà il più forte partito co­munista dei paesi della Nato. Ai paesi del Patto di Varsavia è stata, in generale, imputata la disponibilità ad utilizzare qualsiasi strumento per indebolire un paese del blocco av­verso. L’Olp è stato spesso ritenuto uno dei finanziatori del terrorismo internazionale, a partire dall’affermazione di un suo oggettivo interesse a mettere in crisi quell’«equilibrio del terrore» che prevede la scomparsa del popolo palesti­nese.

Nel caso del terrorismo di sinistra in Italia, non sembra, tuttavia, che le diverse potenziali connivenze si siano con­cretizzate in aiuti decisivi. Un esame delle informazioni uf­ficiali fin qui rese disponibili, ha permesso di concludere che: «sia il terrorismo nero che quello rosso nascono per ra­gioni politiche che sono italiane, non frutto di complotti diabolici ma di aggregazioni successive, di garanzie di impu­nità assicurate nei fatti, di squilibri nel nostro sistema poli­tico e istituzionale»5. Sembra infatti che le interazioni, pu­

5 Cfr. Violante [1984, 97-98].

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re talvolta emerse, tra servizi segreti stranieri e gruppi clan­destini di sinistra siano state sporadiche e solo raramente abbiano condotto a scambi effettivi di «favori». Se fonti giudiziarie parlano di contatti tra le Br e i servizi segreti israeliani, l’appoggio da questi ultimi fornito non sembra es­sere andato al di là di un’informazione su un brigatista che aveva collaborato con la polizia. I servizi segreti americani sono comparsi nelle vicende giudiziarie del terrorismo di si­nistra un’unica volta, in relazione alla pianta topografica di un campo di addestramento per guerriglieri in Libano, for­nita ad alcuni leader delle Br da un presunto agente della Cia, entrato in contatto con loro in carcere. Se è stato ritro­vato un Field M anual dei servizi segreti americani in cui si davano indicazioni su come essi dovevano agire al fine di «destabilizzare per stabilizzare»4, non ci sono prove che questa strategia sia stata applicata all’Italia. Ancora, nessun indizio è stato mai trovato di un reale coinvolgimento del Kgb sovietico o di altri servizi segreti di paesi socialisti nelle attività del terrorismo in Italia5. L’unico attore internazio­nale da cui è certo che le organizzazioni clandestine di sini­stra hanno ottenuto rifornimenti di armi è il gruppo palesti­nese Fplp, ma anche in questo caso non sembra si possa par­lare di un rapporto organico e prolungato nel tempo.

Allo stato attuale delle conoscenze si può dunque soste­nere che, nella storia del terrorismo italiano, i flussi di risor­se provenienti dai servizi segreti stranieri sono stati scarsa­mente determinanti. Se le formazioni del terrorismo italia­no sono entrate in crisi alla fine degli anni settanta, ciò non può dunque essere fatto risalire al venir meno di appoggi in­ternazionali. Ciò vale a maggior ragione per le organizzazio­ni minori, dato che la pur modesta disponibilità dei servizi se­greti si era concentrata piuttosto verso le più «affidabili» Br.

4 Ciò sarebbe dovuto avvenire attraverso l’uso di provocazioni, in­filtrazioni, formazione di organizzazioni clandestine, assassinii di poli­ziotti e di uomini di stato [cfr. Flamigni 1988, 181].

5 A meno di non considerare un indizio del coinvolgimento dei ser­vizi segreti sovietici il fatto che il modello di organizzazione dei gruppi terroristi italiani assomigliasse ad un progetto elaborato da un rivoluzio­nario russo nel secolo scorso, come fa Sterling [1981].

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Esistono invece una serie di indizi di una maggiore di­pendenza da servizi segreti stranieri per i gruppuscoli terro­risti sopravvissuti fino agli anni più recenti. Se le Br aveva­no, ad esempio, rifiutato ogni rapporto con l’Urss — defini­to come potenza social-imperialista — la frazione brigatista Fronte delle carceri si esprimerà negli anni ottanta in modo favorevole ad una «ricerca di contatti». In altri verbali di in­terrogatori si parla di una richiesta rivolta dai servizi segreti bulgari alle Br di poter rivolgere alcune domande al generale della Nato Dozier, da esse tenuto in ostaggio. Questo stesso rapimento ed il successivo assassinio de! diplomatico ameri­cano Leamon H unt — responsabile della forza militare mul­tinazionale nel Sinai — sono stati interpretati come contro- partite ad aiuti di provenienza palestinese6. L’assassinio, nel 1986, dell’ex-sindaco di Firenze, Landò Conti, è stato rivendicato come azione contro la politica filo-israeliana del ministro della Difesa allora in carica.

In passato, alcune offerte di collaborazione da parte di servizi segreti erano state scartate dai dirigenti delle orga­nizzazioni eversive — almeno stando ad alcune testimo­nianze — per il timore di essere manipolati da alleati troppo potenti. Di fronte alle crescenti difficoltà a trovare autono­mamente le risorse necessarie alla loro sopravvivenza, le or­ganizzazioni terroriste sopravvissute negli anni ottanta sono state invece costrette a cercare aiuti anche presso partner considerati un tempo pericolosi. La debolezza organizzativa può avere, quindi, spinto ad accettare il rischio di farsi stru­mento di politiche altrui, come era già avvenuto nel caso del terrorismo tedesco coinvolto dalla sua dipendenza dai pale­stinesi in azioni anti-israeliane prima e anti-semite in seguito7. Così le sopravvissute organizzazioni terroriste sembrano essere piccolissimi gruppi sempre più dipendenti da logiche esterne, costrette a scambi con attori internazio­nali in cui esse appaiono come la parte più ricattabile.

6 Le informazioni riportate sono tra tte da atti giudiziari e relazioni ministeriali, tu tte citate in Violante [1984, 106-116].

7 Sul coinvolgimento delle organizzazioni clandestine di sinistra te ­desche in azioni antisemite, si veda ad esempio Klein [1980].

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2. Struttura delle opportunità e intervento dello stato

Data la scarsa rilevanza dei fattori internazionali, è alle condizioni interne al nostro paese che occorre guardare per comprendere le determinanti ambientali dell’evoluzione e della crisi del terrorismo italiano, e in primo luogo all’inter­vento delle istituzioni statali. Lo stato ed i suoi organi ed apparati svolgono, in generale, una funzione rilevante sul­l’evoluzione delle organizzazioni politiche. Il potere legisla­tivo può sancire alcuni loro speciali diritti o imporre vincoli al loro sviluppo; il potere esecutivo può legittimare la loro esistenza rendendole soggetti di scambi politici o può esclu­derle dal mercato delle decisioni collettive; il potere giudi­ziario può accogliere alcune istanze da esse presentate o in­debolirle attraverso condanne penali. Una peculiarità dei rapporti tra stato e organizzazioni clandestine è che, ponen­dosi esse per definizione al di fuori delle regole del gioco de­mocratico, lo stato diviene, in quanto garante di queste re­gole, il loro principale nemico, il rapporto tra i gruppi terro­risti e lo stato dovrebbe dunque presentarsi come un conflit­to a somma zero in cui i primi tentano di abbattere le istitu­zioni democratiche, mentre il secondo agisce, tramite i suoi apparati, per difenderle.

Ci si può, dunque, aspettare che il ciclo dell’attenzione dello stato nei confronti dei gruppi terroristi sia caratteriz­zato da un limitato interesse degli apparati istituzionali nel­le loro prime fasi di esistenza, quando la loro stessa debolez­za organizzativa li rende poco visibili. Il loro successivo raf­forzamento dovrebbe però produrre una concentrazione su di essi della pressione repressiva dello stato. La riorganizza­zione degli apparati statali per la lotta al terrorismo dovreb­be produrre quindi una serie di sconfitte — arresto di mili­tanti, scoperta di covi — fino alla dissoluzione dei gruppi clandestini. Questo processo può essere più o meno lungo a seconda della forza relativa dei contendenti, dell’efficien­za degli apparati dello stato, del livello di sostegno diffuso ai gruppi armati. Ma — a meno di non immaginare come possibile l’innescarsi di un processo rivoluzionario — le ri­sorse disponibili per lo stato sono in genere di gran lunga maggiori e quindi tali da garantirgli la vittoria finale. Come

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si vedrà nel corso di questo paragrafo, però, il caso italiano mette in discussione la linearità di questo tipo di evolu­zione.

Durante la prima metà degli anni settanta l’azione dello stato contro il terrorismo sembra passare dalla disattenzione ad un interesse crescente e, con quest’ultimo, all’affinamen­to delle misure repressive. L’azione delle Br ha avuto fino al 1974 una portata ridotta e per molti versi poco distingui­bile rispetto a quella dei piccoli gruppi della sinistra radica­le, operanti ai margini del vasto movimento di massa che si era sviluppato in quel periodo. Proprio al contenimento di questo movimento di massa era orientato l’intervento degli apparati repressivi dello stato, mentre non vi era stata alcu­na reazione specifica contro il terrorismo. L’addestramento dei corpi di polizia era finalizzato all’intérvento rispetto ai cortei, piuttosto che al controllo della violenza di piccoli gruppi. Anche la legislazione sull’ordine pubblico era indi­rizzata, in questo periodo, contro le forme pubbliche di pro­testa, attraverso una serie di provvedimenti che esprimeva­no una inversione di tendenza rispetto all’ampliamento dei d iritti individuali sancito da una serie di leggi rese operanti tra il 1968 e il 19728. Così, fino al 1974 la reazione delle istituzioni statali contro le Br è stata pressoché nulla, se si escludono gli arresti seguiti all’infiltrazione di un agent pro- vocateur. Esse sono potute crescere poiché, data la loro de­bolezza iniziale, non attiravano l’attenzione della magistra- turac

È stato, invece, nel 1974, che la loro accresciuta perico­losità è divenuta manifesta con il rapimento del giudice Sos­

8 Le principali leggi relative all’ordine pubblico sono state, in que­sto periodo, i «provvedimenti urgenti sulla giustizia penale» (d.l. 99) del­l’aprile 1974, le «norme contro la criminalità» (1. n. 479) dell’ottobre del­lo stesso anno e le «disposizioni a tutela dell’ordine pubblico», meglio no­te come «legge Reale», dell’anno successivo. Q ueste leggi portavano ad un allungamento dei termini di carcerazione preventiva, all’estensione del raggio di applicazione del processo per direttissim a, alla riduzione della discrezionalità del magistrato nella concessione della libertà provvi­soria, all’ampiamento dei poteri di perquisizione della polizia. La «legge Reale» estendeva inoltre l’operatività del fermo indiziario, suscitando d i­verse critiche da parte della sinistra anche istituzionale.

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si, tenuto prigioniero per 35 giorni. Questa azione aveva rappresentato un successo per l’organizzazione clandestina, che era riuscita a farsi conoscere a livello nazionale. Ma la dimostrazione di «efficienza» da parte delle Br avrà anche effetti non previsti. Esse si erano mostrate, infatti, come potenzialmente pericolose per lo stato, che aveva dunque cominciato a concentrare su di esse la sua attenzione. A par­tire da questo anno venivano create delle strutture speciali: l’ispettorato generale per l’azione contro il terrorismo e il Nucleo speciale di polizia giudiziaria, quest’ultimo organiz­zato a Torino dai carabinieri e affidato al generale Carlo Al­berto dalla Chiesa. L’azione degli apparati istituzionali ave­va ottenuto numerosi successi, culminanti dopo appena due anni nella scomparsa dei Nap e nello scompaginamento delle Br, delle quali appena una decina di militanti regolari rima­nevano in libertà alla fine del 1976. Nessuna altra organiz­zazione clandestina di rilievo era attiva in quel periodo.

Diversi fattori hanno contribuito, come si è detto nel se­condo capitolo, ad una recrudescenza del fenomeno terrori­stico ad appena pochi mesi di distanza da quella che sembra­va la sua definitiva sconfitta. In questo secondo ciclo, l’in­tervento statale ha seguito un’evoluzione differente e «ati­pica». Ad una notevole attenzione istituzionale alla perico­losità del fenomeno non hanno corrisposto, fino alla fine del decennio, che rari successi. Sebbene non esistano dati uffi­ciali sull’evoluzione degli arresti per il reato di «banda arma­ta», i nostri dati quantitativi sui militanti ci offrono qualche indicazione su questo punto. Nella tabella 1 è riportata la distribuzione del numero di arresti per anno.

Si può osservare che appena il 14% dei militanti è stato arrestato prima del 1979; meno del doppio degli arrestati in quel solo anno (7,6%). E stato tuttavia soprattutto a partire dal 1980 che magistratura e polizia hanno cominciato ad avere i loro maggiori risultati, compiendo il 42% degli arre­sti in quell’anno e il 37,2% in quelli successivi.

Le difficoltà incontrate nelle pratiche anti-terroriste nella seconda metà del decennio e fino a tu tto il 1979 sono state attribuite a cause differenti. Una spiegazione, adottata anche da portavoce governativi, ha sottolineato Yinefficien­za degli apparati repressivi, divenuta via via più evidente di

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T ab . 1. Distribuzione del numero di arresti per anno

Anno di arresto N. arrestati % sulle risposte*

% sui casi*

1972 2 0,2 0,31973 2 0,2 0,31974 17 2,1 2,21975 16 2,9 2,01976 18 2,2 2,31977 23 2,8 2,91978 32 3,9 4,11979 63 7,6 8,01980 345 41,8 43,91981 53 6,4 6,71982 224 27,1 28,51983 29 3,5 3,7

Totale 824 100,7 104,9

* I «casi» si riferiscono agli individui. Le «risposte» si riferiscono invece al nu­mero di arresti. Un individuo può essere stato arrestato più di una volta.

Fonte: Elaborazioni dei miei dati, tratti dagli atti giudiziari.

fronte all’accresciuta pericolosità dei gruppi arm ati9. Il li­vello di preparazione era, secondo pareri diffusi, general­mente basso. Da un lato, c ’era infatti una debolezza stru ttu­rale della Pubblica sicurezza: nel 1978, solo 11.000 dei 69.000 effettivi erano assegnati alla lotta contro la crimina­lità; 15.000 posti in organico erano ancora scoperti; la metà degli agenti in servizio aveva raggiunto appena la licenza elementare; mancavano le strutture per l’addestramento. Solo nell’aprile del 1982 sarà varato il nuovo ordinamento del corpo, che porrà le basi per un intervento più efficiente. La carenza di risorse non era, inoltre, solo un problema del­la polizia: gli stanziamenti previsti dai «provvedimenti per il potenziamento e l’ammodernamento tecnologico dei ser­vizi per l’ordine e la sicurezza», approvati nel 1977, verran­no resi effettivamente operanti solo dopo due anni; alla stessa data il programma di edilizia carceraria era realizzato

9 Secondo le dichiarazioni dell’allora Capo della polizia, Giuseppe Parlato, al momento del sequestro Moro lo stato era «senza occhi né orec­chie» [citato in Rodotà 1984, 77].

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solo al 10%. I servizi di computerizzazione disponibili per la magistratura erano pressoché inesistenti. Ancora, l’inef­ficienza era aggravata da croniche carenze di coordinamen­to, sia fra i diversi corpi che all’interno di essi.

Dall’altra parte, vi è stata anche una debolezza specifica nella lotta al terrorismo. Le due già citate strutture specia­lizzate in questo compito erano state inspiegabilmente sciol­te nel 1976. Una parte delle loro funzioni era successiva­mente assunta dall’Ufficio centrale per le investigazioni e le operazioni speciali — Ucigos — che aveva fra i suoi compiti la «trattazione degli affari relativi all’espletamento delle funzioni di polizia di sicurezza dello Stato e per la lotta al terrorismo e alla sovversione». Ma al momento della sua creazione, nel 1978, buona parte delle conoscenze acquisite due anni prima erano già andate disperse. Lo stesso può dir­si per il nuovo Nucleo speciale, affidato nello stesso anno al generale dalla Chiesa10.

Anche i servizi di sicurezza avevano attraversato una fa­se particolarmente turbolenta. Il Sid era sotto accusa dal 1974 per comprovate deviazioni dai suoi compiti istituzio­nali, che hanno poi portato al suo scioglimento. L’istituzio­ne dei nuovi servizi — il Sismi (Servizio informazioni sicu­rezza militare) e il Sisde (Servizio informazione sicurezza democratica) — era avvenuta solo nel 1977. Delle deviazio­ni presenti anche nei servizi segreti rinnovati, si parlerà in seguito.

Allo stesso modo, l’intervento della magistratura è stato rallentato dalle carenze comuni al sistema giudiziario italia­no, ma anche dalla specifica assenza di organi ufficiali di coordinamento che potessero favorire i flussi di informazio­ni tra i magistrati impegnati in procedimenti connessi a rea­ti di terrorismo. L’azione dei terroristi imputati per impedi­re lo svolgimento dei processi a loro carico, attraverso l’inti­midazione dei giurati e la lettura dei proclami durante le udienze, ha ancora rallentato l’attività giudiziaria, aumen­tando il numero delle scarcerazioni per decorrenza termini.

111 Le informazioni qui riportate sono riprese da Rodotà [1984, 77-91]. Esse provengono prevalentem ente da atti parlamentari.

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Anche l’intervento legislativo11 è stato all’inizio poco efficace. Solo a partire dal marzo 1978 — dopo il rapimento dell’onorevole Aldo Moro — venivano introdotte delle mi­sure espressamente orientate contro il terrorismo. Esse ten­devano, in generale, ad aumentare i poteri degli organi di polizia e delPautorità giudiziaria. Una serie di provvedi­menti accresceva la possibilità di effettuare perquisizioni ed intercettazioni telefoniche, attribuiva agli organi di polizia il potere di assumere informazioni sommarie sugli indiziati attraverso interrogatori svolti senza la presenza del difensore12, e, soprattutto, introduceva una sorta di fermo preventivo, applicabile dalla polizia contro coloro che non avevano commesso reati ma erano sospettati di poterne com m ettere” . All’inizio del 1980, si erano introdotte nel codice penale le figure della «associazione con finalità di ter­rorismo ed eversione dell’ordine democratico» e dell’«atten- tato per finalità terroristiche o di eversione»14. In questi casi, la legge prevedeva aumenti della pena che raggiungeva­no la metà di quella comminata, la non applicabilità delle a t­tenuanti generiche e delle norme relative alla concessione della libertà provvisoria, il prolungamento di un terzo dei termini massimi della carcerazione preventiva.

Secondo molti giudizi15, la riduzione delle garanzie in­

11 Alcune leggi sono state varate tra il 1976 e il 1978 su tematiche specifiche collegate al terrorismo, quali la repressione dei delitti contro la navigazione aerea, la sospensione del decorso dei tempi di carcerazione preventiva qualora il dibattim ento fosse sospeso per l’impossibilità di for­mare la giuria, il coordinamento della sicurezza esterna ai carceri. Su que­sti provvedimenti, e sugli altri citati in questo paragrafo, maggiori infor­mazioni si possono trovare in Grevi [1984].

12 Si veda il d.l. n. 59 del 1978.11 Cioè, come recita la legge, di coloro «nei cui confronti, per il loro

atteggiamento ed in relazione alle circostanze di tempo e di luogo, si im­ponga la verifica di comportamenti ed atti che, pur non integrando gli estremi del delitto tentato, possano essere tuttavia rivolti alla commissio­ne dei delitti indicati nell’art. 165-ter c.p.p. o previsti dagli artt. 305 e 416 c.p.» (l.n. 15 del 6 febbraio 1980). Tra l’altro, si introduceva l’obbli­go per tu tti i cittadini di fornire alla polizia, entro 48 ore, le generalità dei loro ospiti o inquilini.

14 Ci si riferisce alla già menzionata legge n. 15 del 1980. Gli artico­li introdotti nel codice penale sono, rispettivam ente, il 270bis e il 280.

15 Cfr. M agistratura democratica [1980],

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dividuali di indiziati ed imputati, che queste leggi introdu­cevano, non era stata neanche compensata da una maggiore efficacia nello svolgimento delle indagini. Anche il potere di deterrenza dell’aumento delle pene detentive per i reati di terrorismo è stato dubbio. La crisi delle organizzazioni clan­destine è stata invece accelerata da quanto stabilito in alcu­ni altri articoli, contenuti nella stessa legge del 1980. Con questi articoli venivano, infatti, introdotte alcune «misure premiali» per i membri delle organizzazioni terroriste che avessero deciso di collaborare con le autorità inquirenti. Ta­li misure variavano dalla non-punibilità alla riduzione della pena fino alla metà con non applicazione delle aggravanti. Lo stesso orientamento è stato, in seguito, confermato ed ampliato da una nuova legge16, che stabiliva anche che gli sconti di pena andassero graduati in relazione alla misura della collaborazione e all’entità del contributo fornito. La pena era, ad esempio, ridotta di un terzo nel caso di una pie­na confessione dei reati, della metà qualora fossero fornite prove decisivo all’individuazione di correi, con ulteriore ri­duzione di un terzo in caso di collaborazioni in grado di rag­giungere risultati eccezionali17. Numerosi sono stati i membri dei gruppi armati che hanno usufruito delle possibi­lità offerte da questi provvedimenti legislativi, rompendo il patto di fedeltà all’organizzazione. E stato; almeno in appa­renza, soprattutto grazie a queste confessioni che gli appa­rati dello stato sono riusciti ad ottenere le prime consistenti vittorie nella loro battaglia contro il terrorismo.

Secondo alcune interpretazioni, data l’inefficienza dei corpi repressivi, è stato solo grazie a leggi speciali, dette di «emergenza», che le organizzazioni clandestine sono state sconfitte. Ma accanto a quella dell’inefficienza, vi è poi una

16 È la legge n. 304 del maggio 1982.17 La così detta «legislazione premiale» sostituiva l’ergastolo con

una reclusione per un numero di anni mutevole a secondo dell’entità della dissociazione, e aumentava la possibilità di concedere la sospensione con­dizionale della pena, la libertà provvisoria e la libertà condizionale dopo avere scontato la metà della pena. Essa era operativa per i reati commessi entro il 31 gennaio 1981. La decisione di collaborare con le autorità in­quirenti doveva essere presa entro 120 giorni dalla pubblicazione della legge, termine prolungato, alla scadenza, di altri 120 giorni.

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seconda ipotesi sui ritardi della reazione istituzionale alla seconda ondata di attentati terroristici. Le carenze stru ttu­rali sarebbero state «pilotate» per allentare la pressione re­pressiva sulle formazioni terroriste, a vantaggio di alcuni gruppi di potere interessati alla loro sopravvivenza. In altri termini, sarebbe stata l’esistenza di gravi deviazioni nel fun­zionamento dei servizi segreti italiani18, molto più che le carenze strutturali degli apparati repressivi, a favorire la re­crudescenza del terrorismo.

L’ipotesi della deviazione degli apparati repressivi dello stato merita attenzione per almeno due elementi. In primo luogo, ci sono da considerare, oltre all’inopportuno sciogli­mento di alcuni corpi speciali, anche i numerosi torbidi epi­sodi verificatisi durante i giorni del sequestro dell’onorevole Aldo Moro. Fra gli interrogativi ancora aperti, ai quali né le indagini della magistratura né quelle della commissione parlamentare sono riusciti a rispondere, vi sono una serie di «sparizioni»: di alcune delle borse, con documenti riservati, che Moro portava con sé; dei «verbali» e delle registrazioni del «processo» all’ostaggio; di alcune bobine con le intercet­tazioni telefoniche fatte durante il sequestro; di un rullino scattato da un foto-amatore nel momento del rapimento; degli atti di alcune riunioni del comitato tecnico operativo del Viminale. Accanto ai misteri collegati a tu tta questa do­cumentazione scomparsa, vi sono quelli sulle ragioni per cui le autorità investigative hanno rinunciato a perquisire, sem­pre durante il sequestro, alcune delle probabili «prigioni» brigatiste — quali i covi di Via Montalcini e di via Gradoli e della tipografia dei terroristi — sulle quali c’erano già sta­te segnalazioni agli inquirenti l9.

Un ulteriore elemento che dà credito all’ipotesi su de­viazioni degli apparati repressivi dai loro fini istituzionali è rappresentato dalla appartenenza alla loggia massonica P2 di membri dei vertici di numerosi organi dello stato: dai ser-

,l! Sulla storia dei servizi segreti in Italia, cfr. De Lutiis [1984].,v Anche misteriosa è sempre rimasta la vicenda del «falso» comuni­

cato n. 7, che il 18 aprile aveva annunciato l’avvenuta «esecuzione dell’o­staggio». Su tu tti questi punti, l’analisi più recente è quella in Flamigni [1988],

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vizi segreti riformati, alla guardia di finanza, ai carabinieri. Basti ricordare che nel comitato tecnico-operativo operante durante il sequestro Moro vi erano almeno cinque membri della P2: il capo di stato maggiore della difesa, ammiraglio Torrisi; il capo del Sismi, generale Santovito; il capo del Si- sde, generale Grassini; il generale Giudice, comandante del­la guardia di finanza e il generale Lo Prete, capo di stato maggiore della guardia di finanza20. Se allo stato dei fatti una protezione del terrorismo rosso da parte dei servizi se­greti non è certamente documentabile, tuttavia i molti indi­zi menzionati portano a condividere il parere che sia «evi­dente la necessità di rivolgere l’attenzione ai servizi di sicu­rezza partendo dalla realistica considerazione che si tratta di apparati i quali, almeno in alcuni uomini e settori, hanno offerto coperture al terrorismo, quando non sono stati addi­rittura implicati direttamente in attività di tipo terrori­stico»21.

L’effetto dell’intervento statale sull’evoluzione delle or­ganizzazioni clandestine sembra dunque, per un lungo pe­riodo, essere stato rilevante ma in senso opposto rispetto a quello normalmente considerato: nello spiegare la possibili­tà di sopravvivere dei gruppi armati, piuttosto che nel de­terminare la loro scomparsa. Lunghi anni sono passati prima che gli apparati dello stato abbiano cominciato a reprimere con efficacia il terrorismo e, quando ciò è avvenuto, è stato a prezzo di leggi di emergenza che hanno comportato la ri­nuncia, seppure temporanea, ad alcuni principi del diritto.

20 Q ueste informazioni sono riportate in Flamigni [1988, 18 e 19]. Secondo la stessa fonte, ancora fra le persone in qualche modo collegate al «caso Moro» erano nella P2: il commissario Esposito, della centrale operative della questura di Roma; il comandante del nucleo investigativo dei carabinieri di Roma, tenente colonnello Cornacchia; il prefetto D ’A­mato, nella direzione della polizia stradale, ferroviaria e di frontiera; il dirigente della Criminalpol triveneta, Angelo Parisi; il prefetto Peloso dell’organismo di coordinamento tra Sismi e Sisde, il Cesis; l’agente del Sismi Pietro Musumeci; il segretario generale del ministero degli Esteri, Francesco Maria M alfatti; il direttore del G r2, Gustavo Selva; l’ammini­stratore delegato della finanziaria della Sip, Michele Principe; nonché quattro dei consiglieri del M inistro degli interni Cossiga [Ibidem 1988].

21 Rodotà [1984, 83],

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3. Struttura delle opportunità e sistema dei partiti

Le tesi sulle deviazioni dei servizi segreti fanno esplicito riferimento a gruppi di potere che, all’interno degli apparati dello stato, hanno avuto interesse a rendere inefficace, al­meno in alcuni momenti, la reazione istituzionale contro le formazioni clandestine. L’ipotesi di un esplicito coinvolgi­mento di alcuni partiti — o di frazioni al loro interno — nel rallentamento dell’azione delle forze dell’ordine22 è però, allo stato attuale delle conoscenze, sostenuta solo da ragio­namenti deduttivi di scarso valore probativo. Nel corso dei successivi paragrafi riprenderemo invece in esame alcune variabili, relative al sistema delle opportunità politiche, che avevamo già analizzato a proposito dell’emergere delle orga­nizzazioni clandestine. Possiamo iniziare queste riflessioni dalle condizioni del sistema dei partiti, analizzando in che modo esse possono avere influenzato l’azione repressiva del­lo stato.

In generale, una prima condizione che può influire sulla organizzazione della reazione istituzionale al terrorismo è il livello di coesione della coalizione di governo. Se tale livello è basso, la divisione fra i partiti della maggioranza può inci­dere negativamente sull’azione antiterroristica. Il tema del­la «lotta all’eversione» può divenire oggetto del contendere fra le diverse componenti governative, e ragione di maggio­re disaccordo. Non solo i partiti di governo possono dissen­tire sulla strategia da adottare, ma i partner della maggio­ranza possono essere tentati di sfruttare a loro vantaggio l’e­sistenza di gruppi anti-sistema. In entrambi i casi il risultato è un ritardo nell’elaborazione di politiche anti-terroristiche efficaci.

Allo stesso modo, la tendenza ad utilizzare l’azione delle frange radicali a fini elettorali può essere maggiore nei pe­riodi di mutamento nei rapporti di forza fra maggioranza e minoranza. Quando l’opposizione si rafforza, ad esempio, la presenza minacciosa di un terrorismo ad essa ideologica­mente vicino può essere usata dai partiti di governo per inti­

22 C fr., per esempio, Galli [1986].

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midire l’elettorato, spostandolo su posizioni politiche più conservatrici. Raramente, la presenza di organizzazioni vio­lente, ideologicamente prossime, può essere usata dall’op­posizione per rafforzare la sua capacità di contrattare, pre­sentandosi come unica forza politica in grado di tenere sotto controllo i gruppi più estremisti, che potrebbero altrimenti mettere in pericolo il regime democratico. Anche in questo caso, le formazioni terroriste troverebbero nel sistema dei partiti degli alleati oggettivi, temporaneamente incapaci di concordare una strategia efficace di difesa delle istituzioni democratiche o addirittura interessati alla sopravvivenza delle formazioni politiche più radicali. Questi interessi pos­sono condurre a deviazioni degli apparati repressivi, ma si possono anche tradurre in comportamenti meno illeciti: un maggiore o minore spazio dedicato al problema da parte dei mezzi d ’informazione politicamente controllati, il ritardo nell’emanazione di alcuni decreti o nell’approvazione di al­cune leggi, un debole sostegno del potere politico all’azione degli apparati dello stato.

Ma i regimi democratici sono — tranne situazioni di lo­ro forte delegittimazione interna e internazionale — dotati di «regole del gioco» che permettono di superare queste fasi di instabilità. Le coalizioni di governo possono mutare e i rapporti di forza con l’opposizione essere rinegoziati senza che si creino crisi di regime. Introdotti gli aggiustamenti ne­cessari a rispecchiare — almeno temporaneamente — i mu­tamenti intervenuti nel potere relativo di gruppi sociali e or­ganizzazioni politiche, i rapporti nel sistema dei partiti si ri­stabilizzano. La presenza del terrorismo rischia allora di in­crinare l’immagine delle istituzioni, di cui viene confermata la legittimità. I rappresentanti del regime democratico de­vono dimostrare di sapere sconfiggere la sfida alla democra­zia rappresentata dai gruppi armati. La nuova coalizione al governo — ma anche l’opposizione — si concentra allora nella lotta ai gruppi clandestini, dalla quale sia il governo che l’opposizione sperano di trarre legittimazione presso l’opinione pubblica. Una maggiore stabilità della formula governativa e il comportamento «responsabile» dell’opposi­zione permettono quindi di elaborare e attuare delle strate­gie repressive che, massimizzando l’efficacia dell’intervento

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dello stato, portano alla sconfitta delle formazioni armate.Per quanto riguarda l’Italia, gli anni settanta hanno rap­

presentato sicuramente un momento di rinegoziazione dei rapporti di forza fra i partiti — sia all’interno della coalizio­ne di governo che al suo esterno — che non poteva non es­sere caratterizzato da instabilità. Non sono m antati, infatti, sintomi della divisione nella maggioranza. Gli anni sessanta si erano chiusi con la crisi della formula del centro-sinistra, che aveva assicurato una certa stabilità testimoniata dai tre successivi governi con Aldo Moro alla presidenza del Consi­glio. Gli anni settanta si aprivano con un monocolore demo- cristiano, guidato da Mariano Rumor. In tu tto il decennio si susseguivano ben 13 gabinetti, contro i 10 del decennio precedente, che pure aveva visto un inizio piuttosto turbo­lento. Le coalizioni di governo erano, inoltre, in questo pe­riodo le più varie, all’interno di una maggioranza centrista: dal centro-destra del II ministero Andreotti nel 1972, al centro-sinistra «monco» con appoggio esterno del Pei del V ministero Andreotti nel 1978, passando attraverso una serie di altre formule che vedevano di volta in volta la partecipa­zione, l’astensione o l’opposizione dell’uno o dell’altro dei partiti laici minori o dei socialisti. Ancora a dimostrare la rissosità diffusa fra i partiti anche della maggioranza, basti ricordare che gli anni settanta sono un decennio di chiusure anticipate delle legislature. Le prime elezioni anticipate del­la storia della Repubblica sono state nel maggio del 1972, e prima della normale scadenza si sono chiuse anche le suc­cessive due legislature, con elezioni anticipate nel giugno del 1976 e nel giugno del 1979.

Esistono anche indicatori di un mutamento nei rapporti di forza tra governo e opposizione. Uno di essi è dato dai risultati delle elezioni legislative avvenute durante il decen­nio in esame. Nel 1972, il centro otteneva complessivamen­te poco più del 50% dei suffragi, mentre la sinistra si ferma­va sul 40% e si rafforzava la destra. Nel 1976, invece, il Pei confermava la notevole ascesa registrata nelle amministrati­ve dell’anno precedente, raggiungendo il 34,4% dei suffra­gi. La sinistra complessivamente saliva, così, al 46,7% , mentre il centro scendeva al 44,6% . Il complessivo muta­mento dei rapporti di forza è stato confermato nelle elezioni

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del 1979, che hanno visto un risultato stazionario e inferio­re al 50% per i partiti di centro e una sinistra anch’essa sta­bile con il 46% delle preferenze degli elettori. I mutamenti emersi negli anni settanta sono stati confermati nelle prime elezioni legislative del decennio successivo. Nel 1983, infat­ti, il peso delle diverse coalizioni non è cambiato di molto, nonostante un notevole insuccesso della De, scesa dal 38 al 33% dei voti e una lieve flessione del Pei, assestatosi sul 30% . Il mutamento nei rapporti di forza all’interno del si­stema dei partiti è stato, inoltre, confermato al livello loca­le: nel corso del decennio maggioranze di sinistra si sono realizzate — come si sa — in buona parte dei centri urbani e in tutte le grandi metropoli, estendendosi ben oltre le re­gioni tradizionalmente di sub-cultura rossa.

Ancora, indicatori applicabili sia alla instabilità della coalizione di governo che ad una trasformazione nella forza relativa dei diversi partiti possono essere individuati negli schieramenti e nei risultati del referendum di iniziativa po­polare sulla legge che aveva introdotto il divorzio. Al referen­dum i partiti centristi si erano presentati infatti divisi: la De da una parte, con il Msi; i partiti laici dall’altro, insieme alle sinistre. I risultati delle consultazioni avevano dato ragione a questi ultimi, indebolendo la posizione del partito di mag­gioranza relativa e rafforzando invece quella del principale partito dell’altra coalizione, il Pei.

Senza giungere a conclusioni definitive sugli effettivi comportamenti dei partiti nell’azione contro il terrorismo, si può però affermare che il periodo di minore efficacia dello stato nella battaglia contro di esso ha coinciso con la fase di maggiore instabilità de l sistema dei partiti in tu tta la storia della Repubblica. Si può, inoltre, aggiungere che, nel caso italiano, instabilità nel sistema dei partiti e sviluppo del ter­rorismo sono stati intrecciati, nel senso che la presenza di quest’ultimo è servita talvolta da oggetto su cui le differen­ze si esprimevano, ma ha forse anche accentuato le rivalità fra i partiti. Per fare solo un esempio, si può ricordare l’ac­cesa polemica tra le componenti partitiche di quelli che sono stati definiti come «fronte della fermezza» e «fronte della trattativa», durante i giorni del rapimento dell’onorevole Aldo Moro. Con toni molto aspri, i socialisti sostenevano al­

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lora l’opportunità che lo stato trattasse con le Br per salvare la vita dell’ostaggio. Al polo opposto la De, con poche ecce­zioni, e il Pei affermavano che le istituzioni non dovevano scendere a patti con i nemici della democrazia. Non desta sorpresa che in una situazione di estrema tensione — come quella rappresentata dal rapimento del presidente del parti­to di maggioranza — si siano accentuate le divergenze sulle strategie più efficaci da adottare contro un pericolo incom­bente. Ma il diverso atteggiamento di partiti ed istituzioni in relazione ad altri sequestri con dinamiche simili — come quello del politico democristiano Cirillo o del giudice D ’Ur- si — rende anche credibile l’ipotesi che le posizioni dei par­titi durante il rapimento Moro siano state determinate dalla ricerca di vantaggi «privati», piuttosto che di efficaci strate­gie di lotta al terrorismo. Per esempio, molti commentatori politici hanno letto nelle posizioni «umanitarie» del Psi un tentativo di differenziarsi dai due partiti maggiori, raffor­zando la propria autonomia. Per il Pei, invece, lo schierarsi apertamente nel «fronte del rifiuto» rappresentava ancora un passo su quella strada di legittimazione intrapresa con la proposta del «compromesso storico» e percorsa, paradossal­mente proprio in coincidenza con lo sviluppo del terrorismo di sinistra, attraverso un continuo sostegno alla maggioran­za sulle leggi sull’ordine pubblico.

Con l’inizio degli anni ottanta, il sistema dei partiti ha ritrovato un nuovo equilibrio, che teneva conto del muta­mento nei rapporti di forza intervenuti nel decennio prece­dente: una De ridimensionata, un Pei legittimato, un Psi più autonomo e con un aumentato potere di coalizione. La nuova situazione si è rispecchiata in una ritrovata stabilità governativa, con governi a presidenza laica, repubblicana con Spadolini tra il 1981 e il 1982 e socialista con Craxi a partire dal 1983. La temporanea rinuncia dei democristiani alla presidenza del Consiglio ha sancito il declino dell’ege­monia democristiana, che aveva caratterizzato i rapporti fra partiti negli anni cinquanta e sessanta. Pur non essendosi realizzata l’alternanza, inoltre, una serie di segnali — in particolare sotto la presidenza della Repubblica di Pertini— hanno fatto parlare di lento venir meno di quella conven- tio ad excludendum, resa operativa contro il Pei, su cui si era

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strutturato tu tto il sistema dei partiti nel secondo dopoguer­ra. Così se il Pei è ritornato all’opposizione negli anni o ttan­ta, esso vi è tornato però rafforzato da un sostegno elettora­le più ampio e dal riconoscimento delle prove di lealtà al re­gime democratico offerte nel periodo dell’emergenza. Se l’instabilità nella coalizione dominante e la rinegoziazione dei rapporti di forza fra maggioranza e opposizione aveva rallentato la risposta dello stato al terrorismo, a partire dagli anni ottanta, la ritrovata stabilità governativa favorirà inve­ce una più coerente azione repressiva.

4. Struttura delle opportunità e m ovim enti collettivi

L’instabilità politica degli anni settanta non può, però, essere analizzata in maniera adeguata se si guarda solo al si­stema dei partiti. I mutamenti nelle preferenze dell’eletto­rato rispecchiano altri fenomeni politici, sui quali si è già soffermata in precedenza l’attenzione. Le ragioni dell’inef­ficienza dello stato nel colpire il terrorismo, e dell’incapaci­tà dei gruppi clandestini a sopravvivere nonostante la re­pressione, risiedono anche nell’evoluzione dei movimenti collettivi che hanno occupato, insieme ai partiti, la sfera dell’azione politica negli anni settanta e ottanta.

Gli insuccessi iniziali degli apparati istituzionali sono stati infatti giustificati con le dimensioni — anomale rispet­to a quanto era avvenuto all’inizio del decennio, sia in Italia che in altre democrazie occidentali — assunte dai gruppi clandestini di sinistra nella seconda metà degli anni settan­ta 25. Molti dati sull’allarmante diffusione delle forme di azione violenta nel corso del 1977 possono testimoniare del­le peculiari dimensioni assunte dal fenomeno nel nostro pae­se. Come si è già osservato, la radicalizzazione del movi-

2) Secondo gli atti della commissione parlamentare d ’inchiesta sul­l’assassinio Moro, l’allora ministro degli Interni Cossiga aveva dichiarato che «le forze di polizia potevano fronteggiare episodi sporadici di terrori­smo, ma lo stato nel suo complesso non era preparato ad affrontare feno­meni terroristici tipo caso M oro da un punto di vista ordinamentale e o r­ganizzativo» [in Rodotà 1984, 77].

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mento giovanile ha favorito, in quegli anni, lo sviluppo delle organizzazioni clandestine di sinistra.

Ciò che si vuole sottolineare in questo paragrafo è, inve­ce, che la presenza del terrorismo si è ripercossa poi sia sui movimenti collettivi specifici dalla cui crisi esso è emerso, che sulle possibilità di azioni di protesta più in generale. Gli effetti ipotizzabili, in generale, sono di due tipi. L’eccesso di tensione repressiva che il terrorismo giustifica si scarica anche sulle altre organizzazioni del movimento, distruggen­dole. Il terrorismo coincide, dunque, con le ultime fasi della protesta, ma al contempo ne accelera la smobilitazione. An­che la definitiva crisi delle organizzazioni radicali, ma legali, del movimento ha però, a medio termine, un riflesso negati­vo sul terrorismo stesso, nonostante all’inizio permetta on­date di reclutamento. Scomparsi quei gruppi che favorivano il processo di socializzazione alla violenza politica, le forma­zioni clandestine si trovano prive di reticoli sociali disponi­bili al reclutamento.

Un secondo effetto di più lungo periodo del terrorismo sulle forme di azione collettiva è il diffondersi di repertori non-violenti, determinato dall’esperienza delle conseguenze negative della radicalizzazione del conflitto sull’azione col­lettiva. A partire dalla critica della violenza, altre trasforma­zioni vengono introdotte nella cultura politica. I movimenti collettivi si «vaccinano», così, contro la tentazione di ricor­rere a repertori d ’azione violenta. Anche in questo caso, i canali di reclutamento per i gruppi terroristi tendono a chiu­dersi e l’isolamento accelera la crisi.

Entrambe queste dinamiche si sono innescate nella si­tuazione italiana alla fine degli anni settanta. Nel 1977, gli accentuati caratteri di violenza sono stati una delle cause di crisi del movimento giovanile. Gli scontri fisici fra frazioni contrapposte durante la «Assemblea contro la repressione», tenutasi a Bologna nell’estate del 1977, avevano accelerato, già nell’autunno di quell’anno, le tappe del disimpegno indi­viduale di molti militanti dalla politica. I divieti di manife­stazione di massa nelle grandi città — accrescendo i rischi della partecipazione a cortei e manifestazioni pubbliche — scoraggiavano negli stessi anni un coinvolgimento attivo della base di riferimento. Pur essendo da tempo passati da

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qualche incerta neutralità iniziale alla critica più decisa del terrorismo, anche i partiti della Nuova sinistra pagavano sia in termini di voti che, soprattutto, di militanti la reazione di disgusto per la politica provocata dai crimini del terrori­smo. Molti degli stessi gruppi della «autonomia» si erano sciolti dopo che la crescita del terrorismo aveva fatto au­mentare l’attenzione della magistratura nei loro confronti e le loro sedi erano state chiuse dalla polizia.

Un altro fenomeno inoltre non va sottovalutato, per i suoi effetti sull’evoluzione del terrorismo. L’emergere dei gruppi clandestini ha corrisposto infatti, non solo in Italia, alla crisi di alcuni punti cardine della cultura politica allora dominante fra i movimenti collettivi e le loro organizzazio­ni. Secondo alcune interpretazioni, la giustificazione diffu­sa per l’uso di repertori violenti era venuta in Italia, negli anni settanta, dalla prevalenza nel settore dei movimenti collettivi di un particolare tipo di cultura politica. Le sue principali caratteristiche sono state descritte come la supre­mazia dei modelli provenienti dalla Terza internazionale, le elaborazioni volontaristiche dell’«operaismo», l’estremismo verbale dei gruppi cresciuti in competizione con il «revisio­nismo» del Pei. Componenti ideologiche quali il mito della rivoluzione imminente, la definizione della democrazia co­me una maschera che nasconde lo sfruttamento, il disprezzo per la vita umana, la sovranità della ideologia sulla teoria, il sacrificio dell’individuo al bene comune, sono state consi­derate come precondizioni per l’emergere del terrorismo24.Il dibattito sul terrorismo ha accelerato la critica a questo tipo di cultura, attraverso l’approfondimento di alcune te­matiche, forse già in luce nei movimenti di protesta della fi­ne degli anni sessanta: i mali del centralismo burocratico, gli errori della teoria leninista dello stato, le conseguenze nega­tive della giustificazione dei mezzi attraverso i fini, la riva- lutazione dei bisogni dell’individuo, infine la critica dell’in­tera dottrina marxista. Proprio sul rifiuto della vecchia con­cezione della politica sono sorti — anche in Italia, seppure con qualche ritardo — dei movimenti collettivi di tipo nuo­

24 Si veda su questo punto dalla Chiesa [1981; 1984],

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vo. Le caratteristiche di queste nuove forme di azione col­lettiva sono spesso state descritte: modello organizzativo decentrato, forme d ’azione prevalentemente simbolica, ag­gregazioni «a termine» su singole issues, alternanza fra fasi di «immersione» e fase di impegno politico, ideologie pragmatiche25.

Questi nuovi elementi della cultura politica d ’opposizio­ne hanno ridotto la propensione alla violenza politica, che non solo non viene legittimata ideologicamente, ma trova anche scarsa possibilità di attecchire in gruppi caratterizzati da militanza non totalizzante, scarsa strutturazione organiz­zativa, repertori di azione prevalentemente non-violenti. Non è, probabilmente, un caso che i tentativi di entrambe le residue frazioni delle Br di infiltrarsi nel movimento della pace non hanno avuto alcun esito per esse positivo.

In Italia, l’esperienza del terrorismo degli anni settanta ha inoltre prodotto, per reazione, una particolare attenzio­ne ad evitare l’uso di forme d ’azione che possono innescare pericolose spirali di violenza. L’atteggiamento delle orga­nizzazioni del movimento durante la protesta studentesca dell’autunno del 1985, volto ad evitare ogni possibilità di scontro fisico con le forze dell’ordine, testimonia dell’effet­to di vaccinazione che il terrorismo ha prodotto. Anche in questo caso, l’infiltrazione dei residui gruppi clandestini è stata evitata. La durata nel tempo di questo vaccino dipen­derà ancora una volta dalla risposta che le istituzioni daran­no alle domande emergenti, ma esso ha sicuramente contri­buito, all’inizio degli anni ottanta, all’isolamento dei gruppi clandestini e alla loro crisi.

5. La dissociazione dalla lotta armata e la crisi de l terrorismo

Si è osservato nel corso di questo capitolo che il declino del terrorismo e delle sue organizzazioni è stato prima ral­lentato e poi facilitato, in Italia, dal mutare della struttura

Dell’ormai amplia letteratura sui «nuovi» movimenti collettivi, ci limitiamo a ricordare Touraine [1978]; Melucci [1982; 1984]; O ffe [1987],

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delle opportunità politiche disponibile per i gruppi armati di sinistra. La legislazione speciale ha aiutato, attraverso le ri­velazioni dei «pentiti», le indagini della magistratura. I pro­fondi mutamenti nella cultura politica diffusa fra i movi­menti collettivi hanno favorito l’isolamento del terrorismo. Le cause della crisi del terrorismo non sono, tuttavia, piena­mente comprensibili se non si analizzano contemporanea­mente le trasformazioni che le organizzazioni hanno subito— già descritte nel capitolo precedente^ — e il modo in cui esse sono state percepite dai militanti. E stato, infatti, l’in­treccio tra mutamenti nell’ambiente esterno e dinamiche in­terne a produrre la crisi del vincolo ideologico che aveva fi­no ad allora costituito un fondamento della fiducia fra gli adepti, portandoli al rifiuto della collaborazione con lo stato.

Fra la fine degli anni settanta e l’inizio del decennio suc­cessivo la percezione della sconfitta, insieme alla prospetti­va di sconti di pena, aveva spinto alcuni terroristi a collabo­rare con la magistratura. I primi pentimenti avevano pro­dotto effetti dirompenti, riducendo i margini di reciproca fiducia e spingendo così un numero sempre maggiore di in­dividui a risolvere il «dilemma del prigioniero» verso la ri­cerca di una riduzione della pena, ottenibile accusando colo­ro che — probabilmente — avevano già accusato o lo avreb­bero fra poco fatto. Ma i vincoli di solidarietà avevano cer­tamente rallentato il processo di distacco dall’organizzazio­ne, soprattutto fino a che l’unica opzione possibile era quel­la fra il «pentimento» — e la denuncia dei compagni — o l’irriducibile fedeltà all’organizzazione. Questo emerge, ad esempio, da questa intervista ad un militante della prima ora delle Br:

Metterti in mano allo stato significa poi due cose: o starci in termini del poveraccio solo e isolato che si fa una vita da cani sem­pre perché è isolato poi dagli altri detenuti, è isolato — e le guar­die si rifanno di quello che hanno subito prima, perché non hai avuto un passato molto piacevole — e l’altra invece è che tu deci­di di mandare la gente in galera, di collaborare, di «pentirti» fra virgolette, e allora poi magari trovi una collocazione dove puoi vi­vere e dove sei protetto [...] Per cui per quante rotture ci fossero, da una parte c ’è la solidarietà e l'amicizia che ti lega, e la necessità

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di fare sempre fronte comune per vivere in galera, dall’altra questa impossibilità di una fuoriuscita politica dall’organizzazione2''.

E, tuttavia, lentamente, la percezione dell’incrinarsi del vincolo di solidarietà, dovuta al diffondersi, seppure limita­to, del «pentimento» si è sommata con la crescente consape­volezza della crisi delle organizzazioni clandestine, accen­tuata dall’impossibilità di reclutare nei nuovi movimenti collettivi e di resistere agli arresti. Come è testimoniato dal­le storie di vita dei militanti delle organizzazioni clandesti­ne qui analizzate, se le dinamiche di cui si è parlato nel capi­tolo quinto tendevano a legare gli individui alle formazioni terroriste, esse non avevano del tutto soppresso la loro capa­cità di discernimento. Lentamente si trasformava così l’im­magine della organizazione stessa, mentre la logica della clandestinità e gli arresti rendevano sempre più impersonali i rapporti con gli altri membri:

Questa organizzazione qui che si sbrana per non dare soluzione ai problemi, che non riesce a uscire fuori da questo impasse [...] Tutti, praticamente tutte le persone che conoscevo stavano in galera, cioè quelli con cui avevo iniziato non c’erano più, non c’era più nessun legame, non c’era più niente, erano finite tutte in carcere [...] in quel momento ero arrivato alla lucidità della comprensione di quello che era stato, cioè del fatto che realmente non avevamo niente da prospettare, niente da proporre27.

Inoltre, la sempre maggiore brutalità delle azioni aveva finito per disgustare gli stessi militanti. Soprattutto alcuni episodi di ritorsione — come l’omicidio in carcere di un gio­vanissimo militante, Soldati, sospettato di avere «tradito»;o l’uccisione a freddo di due guardie private, nel corso di una rapina, al solo scopo di «pubblicizzare» la presunta col­laborazione di una brigatista appena arrestata — vengono frequentemente citati nelle storie di vita come momento iniziale di percorsi di ripensamento auto-critico sulla lotta

26 Storia di vita n. 5, p. 120. Riferimenti simili si trovano anche nelle testimonianze citate in Novelli e Tranfaglia [1988].

27 Storia di vita n. 27, p. 56.

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armata. Questo, insieme allo sviluppo di conflitti intestini e alle lunghe catene di arresti, aveva spinto molti membri dei gruppi clandestini a dubitare delle loro scelte, a non ri­conoscersi più in quel tipo di evoluzione.

Capisci che queste non erano più le tue Br, però questa è una delusione e ammettere una delusione è sempre duro, se tu a una cosa dedichi la tua vita [...] Una decisione individuale duris­sima28.

L’inizio della consapevolezza del fallimento del proprio progetto portava con sé una trasformazione del significato di una serie di comportamenti, precedentemente accettati. Cambiava, infatti, nella percezione soggettiva, il senso degli agguati contro le persone:

Questo fatto è diventato più grave nel momento in cui è di­ventato inutile, e quindi è diventato un inutile spargimento di san­gue, mentre prima era inserito in un contesto che era giustificabile29.

Nel momento in cui il programma rivoluzionario perde credi­bilità, i morti restano morti am m azzati30.

Successivamente all’arresto, la prospettiva della lunga carcerazione, discussa con i compagni, era resa molto più drammatica dalla percezione del fallimento del proprio pro­getto, della fine dell’illusione che la liberazione potesse ve­nire dall’esterno:

Non si può pensare che una persona che, nella prospettiva della costruzione della società comunista, era disposta a subire anche lun­ghe carcerazioni o anche la morte, nel momento in cui si rende con­to che si è avviato un processo inverso irreversibile, cioè che la sconfitta politica è ormai sancita dai fatti, possa con altrettanta disinvoltura pagare un prezzo così alto [...] L’abbandono di vec­chie categorie ideologiche e di comportamento è conseguente [...] diventa un bisogno fondamentale quello di poter ricominciare a

Storia di v ita n .7 , pp. 10-11.2'’ S toria di v ita n. 19, pp. 3 e 74.

S toria di v ita n. 24, p. 60.

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I processi di rottura del patto associativo sono quindi d i­venuti definitivi quando, negli anni successivi, anche molti di quei militanti che avevano scelto di non collaborare alle indagini hanno iniziato una revisione critica del loro passato e, in vario modo, dichiarato fallita l’esperienza della lotta armata. Essi sono stati aiutati da una serie di interventi po­litici e amministrativi che hanno cominciato a riconoscere l’importanza che la pubblica ammissione dei propri errori da parte degli ex-terroristi poteva avere per la società: dal­l’istituzione di »aree omogenee» per i detenuti per reati di terrorismo all’estensione di alcuni sconti di pena a tu tti co­loro che avessero abbandonato le organizzazioni clandesti­n e 32. In successive riprese, in varie modalità, e con poche eccezioni53, i militanti dei gruppi clandestini della sinistra in prigione hanno affermato pubblicamente che la «fase del­la lotta armata» in Italia è finita.

credere, a sperare, a lavorare per qualcosa di nuovo e di diverso51.

!1 Storia di vita n. 24, pp. 59-60.,2 Ci si riferisce, in particolare, al disegno di legge su «Nuove pro­

poste per la difesa dell’ordinam ento costituzionale attraverso la dissocia­zione», approvato in via definitiva dal senato il 3 giugno 1986, che preve­de sconti di pena per coloro che avessero abbandonato il terrorismo, pur senza collaborare attivam ente con la magistratura. Cfr. De Lutiis [1988].

55 Al gennaio 1983, secondo i dati forniti dal ministero di G razia e Giustizia, avevano usufruito della cosiddetta «legge sui pentiti», appro­vata nel marzo del 1982, 389 persone, di cui 78 erano definiti come colla­boratori (cioè, «grandi pentiti»), 134 come pentiti e 177 come dissociati [cfr. De Lutiis 1988]. Q ueste cifre sono però cresciute enorm emente da quella data. Esse sono rese ancora più significative dal pubblico ricono­scimento della fine della lotta arm ata anche da parte dei principali d iri­genti delle Br, fra i quali Curcio, Franceschini, M oretti e Balzarani.

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CAPITOLO NONO

ALCUNE OSSERVAZIONI CONCLUSIVE SUL CASO ITALIANO

Nella spiegazione dell’emergere e dell’evoluzione del terrorismo di sinistra in Italia sono stati combinati tre livelli di analisi, che possono essere definiti come «macro», «me- so» e «micro». Il terrorismo è stato definito come l’attività di quelle piccole organizzazioni clandestine che si propongo­no di raggiungere dei fini politici attraverso un uso continuo e quasi esclusivo di forme di violenza. I gruppi clandestini sono stati quindi considerati come: a) organizzazioni-, b) p o li­tiche. Seguendo la letteratura scientifica sulle organizzazio­ni politiche ho scelto il gruppo come livello centrale d ’anali­si, ma ho anche considerato le sue interazioni — sia come inputs che come ou tpu ts — con l’ambiente e con gli indivi­dui. L’assunto è stato che, per comprendere il fenomeno in esame, fosse necessario guardare non solo alle precondizioni ambientali, ma anche alle percezioni individuali del sistema delle occasioni esterne; non solo alle propensioni individua­li, ma anche alle condizioni storiche per l’emergere di quelle propensioni. Si è guardato, inoltre, alle organizzazioni ter- roriste come gruppi strutturati, composti da diversi interes­si, influenzati dall’ambiente da cui traggono le loro risorse, ma anche capaci di scelte strategiche nel tentativo di rag­giungere alcuni fini organizzativi. In queste osservazioni fi­nali, alcune conclusioni già emerse nel corso dei precedenti capitoli verranno riprese in relazione ai principali problemi con cui si è confrontata la letteratura internazionale sul fe­nomeno.

L’analisi del terrorismo non può naturalmente prescin­dere dallo studio dell’ambiente esterno. Due tipi di doman­de sono state poste in relazione ad esso. Un primo tipo ri­guarda l’influenza dell’ambiente sulla presenza del terrori­smo: qual è il livello di sviluppo economico dei paesi in cui esso è più diffuso? da quale tipo di conflitti emerge? in quali

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tipi di sistemi politici è più frequente? quale tipo di prote­zioni vengono offerte a particolari gruppi terroristici? quali sono gli effetti della trattazione dei media sull’opinione pubblica? Un secondo gruppo di questioni ha invece riguar­dato l’ambiente come variabile dipendente: sono le organiz­zazioni clandestine capaci di raggiungere i fini che dicono di perseguire? quali sono le conseguenze indirettamente provocate dal terrorismo, in termini di riforme o di politi­che coercitive?

Fino ad oggi, si è tentato di rispondere a queste questio­ni attraverso macro-comparazioni a livello mondiale, realiz­zate attraverso elaborazioni quantitative. Nella maggior parte di questi studi, una qualche proprietà del terrorismo— come numero e intensità degli incidenti — è stata assun­ta come variabile dipendente, mentre le variabili causali hanno incluso il tipo di sistema politico, il livello di sviluppo economico, il livello di discriminazione per gruppi della po­polazione, il grado di oppressione politica. Non si può però dire che questo approccio sia stato fruttuoso. Mancando an­che dati quantitativi affidabili su cui basare la comparazio­ne, i risultati non sono andati al di là di affermazioni molto generiche su genesi e conseguenze del terrorismo.

E un’opinione abbastanza diffusa che analisi stori­co-comparate, che integrino tecniche quantitative con inda­gini qualitative in profondità, possano offrire risposte più soddisfacenti, seppure meno generalizzabili, alle domande poste in relazione all’ambiente. Suggerimenti per l’analisi comparata possono venire da alcune categorie elaborate perlo studio del caso italiano. In primo luogo, si è partiti dal­l’osservazione che il concetto di ambiente è troppo poco de­finito. Dalla sociologia delle organizzazioni è stato quindi ripreso il concetto di task environm ent, usato per definire la parte dell’ambiente che è rilevante per un’organizzazione. Quale parte dell’ambiente è rilevante per una organizzazio­ne clandestina? A questo punto è necessario aggiungere un’altra osservazione: le organizzazioni clandestine di sini­stra sono parte, alle loro origini, di ciò che è stato definito come settore dei m o v im en ti sociali. Così è soprattutto in que­sta parte dell’ambiente che esse individuano il loro p o ten zia ­le d i m ob ilita zio n e , cioè la loro area di reclutamento. Le ca-

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ratteristiche del settore dei movimenti sociali — cultura po­litica, repertori, tradizioni organizzative — si ripercuotono, quindi, sulle scelte strategiche dei gruppi terroristi. L’emer­gere e l’evoluzione delle organizzazioni clandestine sono quindi determinate dalla struttura delle opportunità po litich e, esistente per le differenti organizzazioni del movimento so­ciale, cioè da presenza di potenziali alleati, apertura del si­stema politico, grado di omogeneità nell 'é lite al potere. A proposito delle origini del terrorismo nel caso italiano, esse sono state, nel corso di questo studio, collegate alle intera­zioni tra i diversi attori presenti nel corso di due ondate di protesta, la prima tra la fine degli anni sessanta e l’inizio del decennio sucessivo; la seconda attorno al 1977.

Per quanto riguarda la prima delle due ondate si è parla­to, come peculiarità del caso italiano, dell’esistenza di un «ciclo di protesta». Il movimento degli studenti è stato, in­fatti, parte di una più vasta mobilitazione in cui molti attori sociali erano coinvolti. Le grandi trasformazioni nella cultu­ra e nella società prodotte dalla rapida urbanizzazione e in­dustrializzazione degli anni cinquanta e sessanta hanno por­tato la necessità di riaggiustamenti a differenti livelli del si­stema. Alcuni attori politici avevano scelto di rispondere al­le pressioni per le riforme in termini prevalentemente re­pressivi. I molti indizi di una protezione istituzionale dei gruppi radicali di destra, fino alla copertura delle stragi compiute da quei gruppi, hanno notevolmente ridotto la le­gittimazione dello stato in molti settori del movimento. Il ciclo di protesta è durato, così, molto più a lungo che in altri paesi occidentali. Nel corso della sua evoluzione, la pratica di scontri frequenti con la polizia e i militanti delle organiz­zazioni dell’estrema destra ha, poi, portato ad una escalation delle forme d ’azione verso una sempre maggiore violenza. La lunghezza del ciclo e il numero di attori in esso coinvolti hanno facilitato, inoltre, il proliferare delle organizzazioni politiche. In una sorta di competizione per il sostegno all’in- terno dell’area dei simpatizzanti del movimento di protesta le organizzazioni meno dotate di un certo tipo di risorse — risorse materiali e/o accesso alle strutture di negoziazione— hanno trovato un surrogato nella radicalizzazione delle ideologie e dei repertori. Ciò ha permesso loro, infatti, di

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definire una «riserva» privilegiata per il reclutamento nelle aree più radicalizzate del movimento di protesta, e di man­tenere l’impegno dei loro membri attraverso l’uso di incen­tivi simbolici. L 'escalation nell’uso della violenza politica ha quindi portato alla creazione di una vasta base potenziale per le organizzazioni più radicali.

Quando ancora sopravvivevano alcune delle aggregazio­ni politiche formatesi nel corso di quel ciclo di protesta, una nuova ondata di protesta è esplosa in Italia, prodotto della combinazione di una nascente controcultura giovanile con un peggioramento del mercato del lavoro, soprattutto intel­lettuale. La persistenza di comportamenti violenti nel siste­ma politico ha portato a una radicalizzazione rapida del mo­vimento e alla sua altrettanto rapida emarginazione e crisi, estendendo così enormemente l’area delle potenziali reclute per le organizzazioni clandestine. Le deviazioni dei servizi segreti dai loro compiti istituzionali sembrano avere offerto alle organizzazioni clandestine insperate protezioni, mentre l’alto grado di conflittualità fra i partiti dell’area di governo si è ripercosso nella difficoltà a trovare strategie anti-terro- ristiche adeguate. Lunghi anni sono quindi passati prima che le profonde trasformazioni nella cultura dei movimenti collettivi, unite a misure repressive più mirate ed efficaci, accelerassero la crisi delle organizzazioni clandestine.

Quanto detto fin qui può essere graficamente sintetizza­to nel modello che appare nella figura 1.

Si può dunque dire che il processo di fondazione delle organizzazioni clandestine di sinistra ha richiesto la presen­za di alcune condizioni ambientali, definibili come interessi, ideologie e repertori.

a) Interessi c o lle ttiv i m o b ilita ti e non efficacem ente m e­d ia ti. Le organizzazioni politiche clandestine hanno procla­mato di rappresentare interessi collettivi presenti nella so­cietà. Se, così come altre organizzazioni politiche, hanno fatto appello a specifici gruppi sociali, esse non sono state tuttavia prodotte da interessi diversi da quelli che, presenti nel movimento collettivo, agivano attraverso forme d ’azio­ne meno radicali. La scelta dei repertori non sembra essere stata collegata alla natura dell’interesse coinvolto, ma piut­tosto il prodotto dell’interazione fra attori politici. La pre-

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Interessinon-mediati

/ \Repertorii non-violenti

Repertoriviolenti

\ Gruppi politici

' propensi a forme d’azione violente

Ideologieradicali

Gruppi che utilizzano violenza saltuariamente

Gruppi che utilizzano violenza regolarmente

Non-creazione di strutture illegali

Creazione di strutture illegali

Scelte strategiche differenti da clandestinità

Sceltestrategichediclandestinità

Terrorismo

Fig. 1. Un modello dell'emergere delle organizzazioni clandestine.

senza di interessi mobilitati, ma non ancora istituzional­mente mediati, può avere incoraggiato alcune organizzazio­ni ad accrescere la loro influenza nel mercato politico a ttra­verso una radicalizzazione delle forme d ’azione adottate.

b) Ideologie p o litich e fa vo re vo li a lla vio len za . Le forma­zioni politiche poi entrate in clandestinità erano dotate di

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ideologie che giustificavano l’uso della violenza fisica come strumento di pressione politica. L’adozione della lotta ar­mata non è stata tuttavia un risultato inevitabile dell’ideolo­gia. Il diffondersi di culture violente è stato, piuttosto, una risorsa necessaria per lo sviluppo di gruppi armati. L’ideolo­gia di alcune organizzazioni ha permesso loro di scegliere pratiche terroriste, rimuovendo i vincoli contro l’uso di strategie illegali. Essa ha facilitato, inoltre, la giustificazio­ne ex p o st dell’adozione di tattiche illegali e di una formula organizzativa «militarizzata».

c) R epertori d 'azion e illegali diffusi n e l se ttore d e l m o v i­m ento sociale. Le organizzazioni clandestine si sono stacca­te, inoltre, da gruppi che avevano fatto uso di forme d ’azio­ne estremamente violente anche prima della teorizzazione della lotta armata. La pratica della violenza non era inerente né al tipo di interessi difesi da questi gruppi, né alla loro ideologia. Essa si è sviluppata invece gradualmente nel cor­so dell’interazione di diversi attori in conflitto.

Date queste precondizioni ambientali, si sono costituiti dei gruppi politici con forti predisposizioni alla violenza.

d) G ru ppi p o lit ic i d o ta ti d i strutture sem i-m ilitari. Le or­ganizzazioni clandestine sono state fondate da individui, le­gati l’un l’altro da una comune militanza in già esistenti or­ganizzazioni del movimento. Queste organizzazioni non sembravano avere delle caratteristiche peculiari dal punto di vista degli interessi difesi, delle ideologie avocate o delle forme d ’azione praticate. Si può dire tuttavia che i gruppi armati sono nati dalla scissione dalla organizzazione-madre delle strutture semi-militari. Nella lotta interna alla leader­ship di questi gruppi, le componenti che hanno scelto la lot­ta armata sono state dunque quelle che disponevano di mag­giori capacità specifiche da spendere nella costituzione dei gruppi clandestini.

e) Scelta strategica della clandestin ità. La scelta della clandestinità da parte di alcune componenti di organizzazio­ni legali può essere, infine, interpretata come la sperimenta­zione di una fra le diverse strategie possibili per affrontare le difficoltà derivanti dal declino della mobilitazione. Di fronte alla repressione statale, la clandestinità ha offerto il vantaggio di minimizzare alcuni costi — il rischio di arresti

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— anche se al prezzo di una minimizzazione dei benefici di­sponibili nel breve periodo. La radicalizzazione dei reperto­ri, dell’ideologia e della formula organizzativa è stata uno strumento per rafforzare l’identità del gruppo. L’attivismo violento ha fornito un surrogato simbolico alla mancanza di efficacia pratica. La scelta della clandestinità ha dunque permesso di delimitare il proprio spazio sul mercato politi­co, rispondendo a delle domande presenti nel movimento sociale, e percepibili come in espansione nella fase di crisi della mobilitazione. La scelta della clandestinità ha però an­che provocato un rapido isolamento dei gruppi armati ri­spetto al loro ambiente di riferimento. Anche se con tempo­ranee inversioni di tendenza nei momenti di più acuto con­flitto sociale, la storia delle organizzazioni clandestine appa­re sempre più influenzata dalle politiche antiterroriste che dalla dinamica della protesta. Lungi dall’avvicinarsi ai loro fini dichiarati, i gruppi armati hanno invece favorito l’ado­zione di leggi di emergenza, indebolendo il settore dei movi­menti sociali.

Un secondo tipo di domande poste nella letteratura sul terrorismo riguardano le organizzazioni clandestine, in rela­zione a tre caratteristiche. Alcune questioni riguardano le strutture organizzative: esistono modelli organizzativi pecu­liari ai gruppi terroristici? in che misura essi sono flessibili rispetto alle caratteristiche ambientali? quali sono i mecca­nismi di formazione e mantenimento della leadership? come viene esercitato il controllo sulla base? Altre domande ri­guardano le ideologie: esistono temi dominanti nelle ideolo­gie delle organizzazioni terroriste? vi sono, a questo livello, differenze rilevanti rispetto alle organizzazioni che non fan­no uso tattiche terroristiche? vi sono ideologie che portano in sé i germi dell’evoluzione terroristica? in che misura esse appartengono alla cultura politica in cui emergono? Un ter­zo insieme di questioni è indirizzato alle strategie d ’azione utilizzate dai terroristi: come vengono prese le decisioni ri­spetto a tattiche e strategie da adottare? quali sono i bersa­gli più spesso colpiti? quali sono le forme d ’azione che pos­sono essere considerate come terroristiche? In tu tti questi casi, gli interrogativi riguardano le determinanti delle scelte strategiche così come il grado di trasformazione nel tempo.

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Anche su questi aspetti abbondano nella letteratura gli studi macro-quantitativi, prevalentemente di due tipi: la raccolta e codificazione di informazioni su tu tti i gruppi che hanno usato violenza politica; oppure la codifica di informa­zioni dagli studi in profondità su organizzazioni clandesti­ne. I risultati non sono però, fino ad oggi, andati molto al di là di affermazioni generiche e spesso più che prevedibili. Risultati migliori sono venuti dagli studi storico-comparati di pochi casi in profondità. L’integrazione dei loro risultati è stata però resa difficile dalla mancanza di un comune sche­ma di ricerca. Anche su questi temi, quindi, buoni risultati potrebbero venire dall’applicazione all’analisi comparata di categorie e ipotesi elaborate nel corso della ricerca sul caso italiano.

Nella ricerca sul caso italiano si è partiti dall’ipotesi che le strategie adottate dalle organizzazioni clandestine possa­no essere comprese se vengono distinti i fini ideologici dei gruppi dai differenti compiti organizzativi che essi devono assolvere per essere in grado di sopravvivere. Questi diffe­renti compiti sono stati distinti in: mobilitazione delle risor­se, integrazione delle risorse, allocazione delle risorse per fi­ni esterni. Le organizzazioni devono adattare a questi scopi diversi — e talvolta conflittuali — le loro principali caratte­ristiche: strutture organizzative, strategie d ’azione e ideolo­gie. Un’analisi di tu tti i differenti aspetti di una strategia organizzativa è sembrata necessaria per comprendere sia la logica delle attività terroriste, che il modo in cui esse intera­giscono con l’ambiente esterno. Due generalizzazioni sono state proposte. Una è che le organizzazioni clandestine se­guano dei ragionamenti logici nel loro decision-m aking, cioè che esse, così come le altre organizzazioni politiche, abbia­no una certa capacità di scelta strategica. La seconda è che tuttavia, nel loro caso più che in altri, la scelta iniziale del modello organizzativo resti im printed, producendo conse­guenze non preved ib ili e situazioni di non ritorno, e facendo sì che la sopravvivenza tenda ad assorbire tu tte le risorse del gruppo con sempre meno attenzione agli altri due obiettivi.

■ Queste osservazioni sono emerse, in particolare, nel cor­so della spiegazione dell’evoluzione dei gruppi clandestini. La necessità di mantenere condizioni di clandestinità ha, in­

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fatti, spinto questi gruppi a rinunciare agli strumenti di pro­paganda che i regimi democratici garantiscono agli attori politici. La loro illegalità ha cominciato a tenerli fisicamente lontano dai luoghi del conflitto sociale, facendo perdere lo­ro ogni capacità di elaborare strategie propagandistiche effi­caci e di diffondere messaggi di rivolta. L’isolamento si è ac­centuato quando la logica stessa delle loro azioni li ha co­stretti a scontrarsi con l’apparato repressivo dello stato. Il bisogno di sottrarsi alla repressione li ha allontanati ulte­riormente dai luoghi dell’azione collettiva. La necessità di trovare risorse finanziarie li ha coinvolti in atti di banditi­smo comune, esponendoli a scontri armati con la polizia e pericolosi contatti con la malavita, e screditandone ulterior­mente l’immagine. Stretti dalla pressione delle forze dell’or­dine, i rapporti con l’esterno si sono a poco a poco ridotti ad una incalzante richiesta di aiuto logistico. L’urgenza di ottenere risorse per la sopravvivenza di un numero sempre maggiore di militanti in latitanza ha indotto una pericolosa dipendenza da altri attori ai margini della legalità, dalla cri­minalità organizzata o dai servizi segreti. Per nascondere le smentite alle dottrine della lotta armata provenienti dalla ri­duzione degli spazi di alleanze i gruppi clandestini hanno elaborato ideologie criptiche, ad alto potere simbolico per i convertiti, ma di nessun valore propagandistico, perché in­comprensibili ai non iniziati.

Nell’impossibilità di utilizzare forme manifeste di pro­selitismo, le organizzazioni armate sono state, inoltre, co­strette ad affidarsi ai mezzi di comunicazione di massa per diffondere i propri messaggi. Questi ultimi seguivano però logiche autonome di selezione delle notizie, per adeguarsi alle quali i gruppi terroristi hanno adottato repertori sempre più violenti. Ma le forme d ’azione sono divenute tanto cruente da far crescere la riprovazione anche negli ambienti più propensi all’utilizzazione della violenza. La funzione di ferimenti ed assassinii — che avrebbero voluto mostrare l’efficenza dell’organizzazione — è rimasta dunque quella di mantenere l’integrazione dei propri militanti e, in misura minore, di reclutare membri negli altri gruppi armati.

L’accrescersi della competizione fra gruppi terroristi ha, inoltre, incentivato la pressione ad adottare forme d ’azione

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più violenta. Questa escalation ha spinto le autorità inqui­renti a concentrare l’attenzione sulle organizzazioni consi­derate più pericolose. Ancora, la centralizzazione e la stru t­turazione del modello organizzativo avevano il compito di proteggere i militanti e di coinvolgerli sempre più nel grup­po. Ma la loro conseguenza è stata un ulteriore isolamento e, con esso, la perdita di canali di informazione e contatto per l’organizzazione. Anche il frazionismo e la «comparti­mentazione» erano strategie utili per rafforzare l’impegno, riducendo le dimensioni del gruppo e aumentando così la percentuale di rapporti face-to-face, ma essi hanno accentua­to anche le lotte personali, fomentando ulteriori scissioni. Man mano che la sopravvivenza dei gruppi armati è dipesa sempre più dall’esito degli scontri diretti con le forze del­l’ordine, le loro sorti sono state segnate. La disparità delle forze in campo ha portato, infatti, inevitabilmente alla loro distruzione.

Un terzo livello verso il quale è stata orientata l’analisi è quello delle motivazioni individuali. Le domande poste so­no relative a due differenti processi. Il primo è l’adesione ad organizzazioni clandestine: quali sono le ragioni per le quali gli individui aderiscono ad una organizzazione clande­stina? qual è l’importanza relativa dei convincimenti ideolo­gici, della scelta razionale, degli appelli alla solidarietà di gruppo? quali sono i processi di reclutamento nei gruppi clandestini? Una secondo gruppo di domande riguarda le motivazioni a restare dentro l’organizzazione: come vengo­no superate le inibizioni contro Faccettare di correre note­voli rischi e l’usare forme estreme di violenza? quali sono gli effetti dei fallimenti ripetuti e delle minaccie di sanzioni sulla continuazione della partecipazione? in quali circostan­ze c’è un allontanamento?

Come si è già ripetutamente osservato, la questione del­la partecipazione individuale in gruppi clandestini era stata affrontata, in passato, facendo ricorso ad ipotesi su psico- patologie individuali, all’individuazione di particolari con­dizioni di discriminazione, o ad immagini di «burattini» e di «burattinai». Alcuni studi recenti hanno invitato a supe­rare i pregiudizi diffusi secondo cui tu tti i terroristi sono in­stabili mentalmente, vittime di discriminazioni o agenti di

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cospirazioni internazionali. È stato quindi suggerito di guardare, nei differenti casi, al peso relativo di disposizioni di tipo reattivo, a particolari forme di privazione; di tipo normativo, in funzione di cultura, credenza e peer reinforce- m ent\ o di tipo utilitaristico, cioè basate su un calcolo di co­sti e benefici.

Riassumendo i risultati emersi nel corso della ricerca, possiamo dire che il coinvolgimento individuale in gruppi clandestini è collegabile alle caratteristiche delle reti sociali in cui i futuri militanti erano inseriti più che a caratteristi­che di età, classe sociale o personalità. E apparso, innanzi­tutto , che il reclutamento non è avvenuto fra individui iso­lati, ma ha coinvolto invece reti di persone già precedente- mente in contatto fra loro. La decisione di aderire alla lotta armata è stata dunque, in qualche misura, una scelta collet­tiva in quanto non era compiuta dall’individuo singolarmen­te ma insieme ad una rete di persone con cui egli era in con­tatto. Le solidarietà costituite nel corso dei processi di for­mazione di queste identità collettive si sono poi mantenute, determinando la comunanza dei successivi percorsi politici degli individui coinvolti in queste reti affettive.

Si è aggiunto che la principale caratteristica di queste re­ti era la loro omogeneità politica; esse erano, cioè, composte da persone che condividevano la militanza in piccoli gruppi— Collettivi, Circoli — della sinistra più radicale. U n’ulte­riore peculiarità dei membri delle organizzazioni clandesti­ne è stata quindi individuata nel tipo di identità collettiva che essi si erano costruiti nel corso di un processo graduale.I militanti delle organizzazioni clandestine erano, infatti, dotati di una forte identità politica, nel senso che l’impegno politico era gradualmente divenuto, già prima del loro in­gresso in quei gruppi, lo scopo totalizzante al quale veniva dedicata la maggior parte del proprio tempo. L’attività poli­tica aveva assunto, così, un ruolo rilevantissimo nella stru t­turazione della personalità. Il peculiare processo di socializ­zazione politica da essi attraversato, aveva inoltre radicato in loro una cultura politica favorevole alla violenza, costitui­ta non solo da ideologie radicali, ma anche — e principal­mente — da esperienze personali nell’uso della violenza.

Sulle dinamiche di adesione, la ricerca sul caso italiano

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ha rilevato che la scelta di partecipare ad una organizzazio­ne clandestina è stata graduale e collettiva. Una volta che essa era stata fatta, alcuni incentivi hanno portato al mante­nimento dell’impegno: in cen tivi d ’iden tità , nella forma di so­lidarietà e lealtà: in cen tivi ideologici, in termini di giustifica­zioni della violenza politica e enfasi sul ruolo eroico degli in­dividui: incentivi m ateriali, come supporto logistico e minac­ce di punizioni fisiche. Il peso e le caratteristiche di que­sti diversi incentivi sono variati nelle differenti fasi dell’e­voluzione del fenomeno.

È infine emerso che alcune peculiarità nella struttura degli incentivi distribuiti dalle organizzazioni clandestine hanno permesso loro di mantenere la lealtà dei loro membri, anche quando le sconfitte erano più evidenti. Una prima specificità riguarda l’altissimo grado di identificazione con l’organizzazione. Attraverso un processo graduale di coin­volgimento materiale ed emotivo, l’identificazione ha teso a spostarsi dal gruppo dei «compagni», o dal «movimento», alla formazione clandestina nella quale si militava, e, poi, al­la comunità di coloro che praticavano la «lotta armata». Il mantenimento della lealtà è stato, in parte, determinato da un meccanismo psicologico che ha spinto ad aumentare i propri livelli di partecipazione. Rispetto a scelte su cui si era investito molto e con costi sempre crescenti, rilanciare le proprie aspettative era preferibile rispetto ad abbandonare e, quindi, ammettere la propria sconfitta.

Un secondo meccanismo, peculiare alle formazioni clan­destine, è collegato al progressivo isolamento dalla realtà esterna, che ha reso i militanti sempre meno sensibili al falli­mento del loro progetto. Riducendosi le possibilità di comu­nicazione con chi proponeva una diversa immagine del mon­do, le formazioni terroriste sono divenute sempre più l’uni­ca fonte di definizione del giusto e dell’ingiusto, del vero e del falso.

Una terza peculiarità del mantenimento della militanza nei gruppi armati è, infine, l’innescarsi di un meccanismo di non-ritorno legato ad alcune condizioni materiali. La viola­zione della legge, in forme sempre più gravi, accentuava non solo i rischi effettivi di arresti, ma anche la percezione di una detenzione carceraria come probabile. E stato nella

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maggior parte dei casi per sfuggire ad essa che molti militan­ti, prima marginali rispetto all’organizzazione, sono divenu­ti latitanti. L’ingresso in clandestinità, rendendoli material­mente dipendenti dall’organizzazione, ha rappresentato per loro una crescita esponenziale nella partecipazione. Questi diversi meccanismi hanno interagito tra loro, con un duplice effetto. L’impegno nell’organizzazione clandestina è gra­dualmente aumentato, in termini di coinvolgimento sia ma­teriale che psicologico. Si sono, al contempo, generate una serie di barriere, anche qui sia pratiche che emotive, che hanno reso sempre più difficile l’abbandono.

Queste dinamiche hanno ritardato i processi di abban­dono delle organizzazioni clandestine, ma non sono riuscite a bloccarli. Dopo lunghi percorsi di riflessione, individuale e collettiva, quasi tu tti i militanti delle organizzazioni clan­destine hanno cominciato a criticare la «lotta armata». Q ue­sti processi sono stati facilitati da quei provvedimenti che hanno permesso agli ex-militanti di mantenere un’identità collettiva e i reciproci vincoli di solidarietà, ma all’esterno delle organizzazioni terroriste. La loro dissociazione per­mette oggi di considerare effettivamente concluso quel ciclo di violenza terroristica, nonostante la sopravvivenza di gruppuscoli clandestini ancora sporadicamente attivi.

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FONTI E RINGRAZIAMENTI

A. M a t e r i a l e g i u d i z i a r i o

Legenda: PP = Procedimento PenaleSO Gl = Sentenza-Ordinanza del Giudice Istruttore R PM = Requisitoria del Pubblico Ministero SC = Sentenza della Corte

Brigata Lo Muscio:Tribunale di Milano: SO Gl R PM in PP 226/81.

Brigate rosse:a) Tribunale di Milano-, SC, 22 marzo 1975; SO Gl in PP 1094/78F + altri; SO Gl in PP 1094/80F; SO Gl e R PM in PP n. 490/81F; SO Gl in PP 187/83 + 473/83 + 1204/83; SO Gl in PP 624/83F + 509/83F;b) Tribunale di Torino-, SO Gl e R PM in PP 594/74; SO Gl in PP 1774/77 + altri e 483/77 + altri; SC, 23 giugno 1978; SC, di­cembre 1979; SO Gl in PP 6587/79-I-altri; SO Gl e SC in PP 918/80;c) Tribunale di Venezia-, SO Gl in PP 274/80; SO Gl in PP 298/81;d) Tribunale di Genova: SO Gl in PP 759/80; SO Gl in PP mag­gio 1981; SO Gl in PP luglio 1981; SC 12/81; SO Gl in PP 759/81; SO Gl in PP Febbraio 1982; SC 1/83; SC 14/84;e) Tribunale di Rom a: SO Gl in PP 1482/78; SO Gl in PP 607/79; SO Gl in PP 54/80; SO Gl in PP 995/81; SO Gl in PP 1679/82A + 3910/82A.

Nuclei armati proletari:Tribunale di Rom a: SO Gl in PP 765/77A; SO Gl in PP 1416/78A; SO Gl in PP 3194/81A.

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Formazioni armate combattenti:Tribunale di Rom a: SO Gl in PP 1680/82A + 1682/82A.

Formazioni comuniste combattenti e Reparti comunisti d’attacco:Tribunale di Milano: SO Gl in PP 988/78; R PM in PP 988/78; R PM in PP 603/79; SC 59/79; R PM in PP 225/81; SO Gl in PP 716/80 + 225/81; SO Gl in PP 43/82; R PM in PP 43/82 + 396/82; SO Gl in PP 354/83; SO Gl in PP 354/83.

Gruppi armati proletari:Tribunale di Milano-, R PM, marzo 1975.

Guerriglia rossa:Tribunale di Milano: R PM in PP 225/81; SO Gl in PP 716/80 + 225/81.

Movimento comunista rivoluzionario:Tribunale di Rom a: SO Gl in PP 1482/78; SO Gl in PP 54/80; SO Gl in PP 995/81.

Proletari armati per il comuniSmo:

Tribunale di Milano: SO Gl in PP 171/79; R PM in PP 171/79; R PM in PP 2748/79.

Per il c o m u n iS m o e Nuclei:Tribunale di Torino: R PM in 231/82.

Prima linea:a) Tribunale di Milano-. SC, giugno 1980; SO Gl in PP 177/80; SO Gl in PP 921/80; SO Gl in PP 228/81; R PM in PP 921/80 + 228/81; R PM in PP 231/82; SO Gl in PP 231/82;b) Tribunale di Torino: SO Gl in PP 1774/77; SO Gl in PP 321/80; R PM in PP 321/80; SC 19 aprile, 1980; SC 7 luglio 1981; SC 12 dicembre 1982;c) Tribunale di Bergamo: SO Gl in PP 177/80;d) Tribunale di Firenze: SO Gl in PP 309/79;e) Tribunale di Rom a: SO Gl in PP 3382/80; SO Gl in PP 664/82A; SO Gl in PP 120/83; SO Gl in PP 120/83;

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Unità comuniste combattenti:Tribunale di Rom a: SO Gl in PP 2030/79; SO Gl in PP 2700/80; SO Gl in PP 3177/80.

Altri gruppi clandestini:Tribunale di Roma, SO Gl in PP 607/79.

«Senza tregua»:a) Tribunale di M ilano: R PM in PP 228/81; SO Gl in PP 312/82; R PM in PP 312/82;b) Tribunale di Padova-. R PM in PP 183/79; SO Gl in PP 183/79;c) Tribunale di Rom a: SO Gl in PP 103/80.

«Rosso»:a) Tribunale di Milano-. R PM in PP 229/81; SO Gl in PP 229/81; SO Gl in PP 154/82; R PM in PP 661/83;b) Tribunale di Varese: SO Gl in PP 29A/82.

Interrogatori (v. elenco in Istituto Carlo Cattaneo, programma di ricerca sulla violenza politica, Elenco della documentazione acqui­sita a l 31 maggio 1983, Bologna, cicl.)

B . D o c u m e n t i p r o d o t t i d a l l e o r g a n iz z a z io n i t e r r o r is t e

Brigate rosse:1970 Classe contro classe, guerra di classe1971 Brigate Rosse, settembre

Organizziamo un grande processo popolare1972 Alcune questioni per la discussione sull'organizzazione1973 La crisi è lo strumento usato dalla reazione per battere la classe

operaia. Nessun compromesso con il fascismo Fiat. I licenzia­menti non resteranno impuniti, dicembre

1974 Contro il neogollismo portare l ’attacco a l cuore dello stato. Trasformare la crisi di regime in lotta armata per il comuni­Smo, aprile

1975 Risoluzione della direzione strategica, aprile1977 Portare l ’attacco allo stato delle multinazionali, aprile

Portare l ’attacco allo stato imperialista delle multinazionali.

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Disarticolare le strutture della controguerriglia attiva, giugno Attaccare, colpire, liquidare e disperdere la Democrazia Cri­stiana, asse portante della ristrutturazione dello stato e della controrivoluzione imperialista, novembre Diario di lotta: Tribunali speciali di Bologna, Torino, Milano, settembre

1978 Risoluzione della direzione strategica, febbraioPortare l'attacco a l cuore dello stato imperialista delle multi­nazionali. Costruire il potere proletario armato nel partito combattente, ottobreDiario di lotta delle fabbriche genovesi Ansaldo, Italsider, ot­tobreIndividuare e colpire gli uomini, i covi e gli esperti della con- findustria, asse portante della ristrutturazione imperialista nel settore economico. Individuare e colpire la struttura e gli uomi­ni del comando delle multinazionali. Individuare e smaschera­re il ruolo controrivoluzionario dei berlingueriani, ottobre

1979 Campagna di primavera. Cattura, processo e esecuzione del presidente della D C A ldo Moro, marzo.Comitato di lotta dell’Asinara D al campo dell’Asinara, lu­glio

1980 Lotta armata per il comunismo. Giornale delle Br. n. 1 Lotta armata per il comunismo. Giornale delle Br. n.2 Lotta armata per il comunismo. Giornale delle Br. n. 3 Alfa Romeo. Sabotare il progetto della Borghesia di Stato. Co­struire in fabbrica il potere del proletariato armato, gennaio Contro la ristrutturazione imperialista costruire nuclei di resi­stenza clandestini in ogni posto di lavoro, in ogni quartiere, maggioRisoluzione della direzione strategica, ottobre Battere l ’opportunismo liquidazionista e l ’ideologia della scon­fitta. Rifiutare il frazionismo antipartito. Fare chiarezza sulla linea delle Brigate rosse. Unire i comunisti nel partito combat­tente, dicembre

1981 Campagna D ’Urso. Organizzare la liberazione dei proletari pri­gionieri. Smantellare il circuito della differenziazione. Costrui­re o rafforzare gli organismi di massa del proletariato prigionie­ro, gennaioWalter Alasia. Brigate ospedaliere Fabrizio Pelli Attacchia­mo la DC principale responsabile della ristrutturazione nell'o­spedale. Individuiamo ed attacchiamo le gerarchie baronali re­sponsabili dei peggiori crimini e della sperimentazione sulla pelle dei malati, febbraio.

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Brigata ospedalieri. Colonna XXVIII marzo Riprendere l ’offensiva dentro gli ospedali. Lavorare tutti, lavorare meno. Per il diritto proletario alla salute, marzo Nel cuore della produzione, nella fabbrica si scatena la crisi ca­pitalistica. Dal cuore della produzione si sviluppa la lotta ar­mata per il comuniSmo e si costituiscono gli strumenti del pote­re proletario: i l partito comunista combattente e gli organi di massa rivoluzionari, aprileColonna di Napoli Sfondare la barriera del Sud, aprile Fronte delle carceri, Colonna di Napoli 13 tesi sulla sostanza dell'agire di partito in questa congiuntu­ra, giugnoWalter Alasia Attaccare il disegno controrivoluzionario del capitalismo multinazionale nel suo cuore: la fabbrica Colonna di Napoli. Fronte delle carceri La tendenza alla guerra nell'attuale congiuntura, luglioWalter Alasia A tutto il movimento rivoluzionario. A tu tti i militanti delle Br. Contributo della colonna Walter Alasia «Luca» alla elaborazione della linea politica, luglio Campagna nella fabbriche, agosto Sull’organizzazione. Risoluzione della direzione strategica Per il comuniSmoPer la costruzione del partito armato combattente. Risoluzionedella direzione strategica, dicembreLotta armata per il comuniSmoRisoluzione della direzione strategica, dicembre

Prima linea:1977 Statuto1980 Le basi teoriche della teoria della resa, giugno

Formazioni comuniste combattenti:1978 StatutoBrigata XXVIII Marzo:1980 L ’operaio dovrebbe sempre saper che il giornale borghese..., di­

cembreVolantini (v. elenco in Istituto Carlo Cattaneo, programma di ri­cerca sulla violenza politica, Elenco della documentazione acquisita al 31 maggio 1985, Bologna, cicl.)

Tutto il materiale utilizzato come fonte della ricerca è reperi­bile presso l’istituto Carlo Cattaneo di Bologna.

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C . S t o r i e d i v it a

Storia di vita n. 1, di un ex-militante di PI in Campania; raccolta da Giuseppe de Lutiis, Istituto Carlo Cattaneo, Bologna, 1987, cicl.

Storia di vita n. 2, di un ex-militante di PI a Napoli; raccolta da Giuseppe de Lutiis, Istituto Carlo Cattaneo, Bologna, 1987, cicl.

Storia di vita n. 3, di un ex-militante di un gruppo armato vicino a «Senza tregua» a Milano; raccolta da Luigi Manconi, Istituto Carlo Cattaneo, Bologna, 1987, cicl.

Storia di vita n. 4, di un ex-militante delle Fcc a Torino; raccolta da Giuseppe De Lutiis, Istituto Carlo Cattaneo, Bologna, 1987, cicl.

Storia di vita n. 5, di un ex-militante delle Br a Milano; raccolta da Luisa Passerini, Istituto Carlo Cattaneo, Bologna, 1987, cicl.

Storia di vita n. 6, di un ex-militante dei Nuclei comunisti rivolu­zionari a Torino; raccolta da Domenico Nigro, Istituto Carlo Cat­taneo, Bologna, 1987, cicl.

Storia di vita n. 7, di un ex-militante reggiano delle Br; raccolta da Donatella della Porta, Istituto Carlo Cattaneo, Bologna, 1987, cicl.

Storia di vita n. 8, di un ex-militante delle strutture di base di PI a Torino; raccolta da Domenico Nigro, Istituto Carlo Cattaneo, Bologna, 1987, cicl.

Storia di vita n. 9, di un ex-militante dell’Mcr a Roma; raccolta da Luigi Manconi, Istituto Carlo Cattaneo, Bologna, 1987, cicl.

Storia di vita n. 10, di una ex-militante delle strutture di base di PI a Torino; raccolta da Donatella della Porta, Istituto Carlo Cat­taneo, Bologna, 1987, cicl.

Storia di vita n. 11, di un ex-militante delle Br in Liguria; raccolta da Giuseppe de Lutiis, Istituto Carlo Cattaneo, Bologna, 1987, cicl.

Storia di vita n. 12, di un ex-militante di PI a Milano; raccolta da Donatella della Porta, Istituto Carlo Cattaneo, Bologna, 1987, cicl.

306

Page 297: D.D. - Terrorismo di Sinistra

Storia di vita n. 13, di un ex-militante di PI a Torino; raccolta da Domenico Nigro, Istituto Carlo Cattaneo, Bologna, 1987, cicl.

Storia di vita n. 14, di un ex-militante di PI a Torino; raccolta da Claudio Novaro, Istituto Carlo Cattaneo, Bologna, 1987, cicl.

Storia di vita n. 15, di una ex-militante di PI a Milano; raccolta da Donatella della Porta, Istituto Carlo Cattaneo, Bologna, 1987, cicl.

Storia di vita n. 16, di un ex-militante delle Ucc a Roma; raccolta da Luigi Manconi, Istituto Carlo Cattaneo, Bologna, 1987, cicl.

Storia di vita n. 17, di un ex-militante di PI a Torino; raccolta da Claudio Novaro, Istituto Carlo Cattaneo, Bologna, 1987, cicl.

Storia di vita n. 18, di un ex-militante di PI a Torino; raccolta da Claudio Novaro, Istituto Carlo Cattaneo, Bologna, 1987, cicl.

Storia di vita n. 19, di un ex-militante delle Br a Roma; raccolta da Giuseppe De Lutiis, Istituto Carlo Cattaneo, Bologna, 1987, cicl.

Storia di vita n. 20, di una non-militante di organizzazioni clande­stina; raccolta da Domenico Nigro, Istituto Carlo Cattaneo, Bolo­gna, 1987, cicl.

Storia di vita n. 21, di una ex-militante di PI a Firenze; raccolta da Donatella della Porta, Istituto Carlo Cattaneo, Bologna, 1987, cicl.

Storia di vita n. 22, di una ex-militante di un gruppo clandestino vicino a «Linea di condotta»; raccolta da Luigi Manconi, Istituto Carlo Cattaneo, Bologna, 1987, cicl.

Storia di vita n. 23, di una ex-militante di PI a Roma; raccolta da Donatella della Porta, Istituto Carlo Cattaneo, Bologna, 1987, cicl.

Storia di vita n. 24, di una ex-simpatizzante delle Br a Roma; rac­colta da Giuseppe De Lutiis, Istituto Carlo Cattaneo, Bologna, 1987, cicl.

Storia di vita n. 25, di un ex-militante dei Nuclei comunisti terri­toriali a Torino; raccolta da Domenico Nigro, Istituto Carlo Cat­taneo, Bologna, 1987, cicl.

Storia di vita n. 26, di una ex-militante di PI a Torino; raccolta

307

Page 298: D.D. - Terrorismo di Sinistra

da Patrizia Guerra, Istituto Carlo Cattaneo, Bologna, 1987, cicl.

Storia di vita n. 27, di un ex-militante delle Br a Roma; raccolta da Giuseppe de Lutiis, Istituto Carlo Cattaneo, Bologna, 1987, cicl.

Storia di vita n. 28, di un ex-militante di PI a Torino; raccolta da Domenico Nigro, Istituto Carlo Cattaneo, Bologna, 1987, cicl.

Storia di vita n. 29, di un ex-militante di PI a Torino; raccolta da Donatella della Porta, Istituto Carlo Cattaneo, Bologna, 1987, cicl.

Alcuni degli intervistati avevano autorizzato a rivelare il loro nome e cognome; altri preferivano restare anonimi. E stata una scelta mia quella di mantenere riservata 1 identità di coloro che hanno partecipato alla ricerca.

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R in g r a z ia m e n t i

Nel corso del mio lavoro ho accumulato numerosi debiti di ri- conoscenza verso persone e istituzioni. Il libro costituisce la ver­sione riveduta della mia tesi di dottorato di ricerca, presentata presso il Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’istituto Universitario Europeo di Firenze.

Determinante per il reperimento della documentazione giudi­ziaria, su cui buona parte del mio studio si basa, è stata la sensibi­lità di molti magistrati, da anni impegnati nella lotta contro il ter­rorismo. Vorrei ringraziare, in particolare, Gian Carlo Caselli, Rosario Minna, Armando Spataro e Pier Luigi Vigna, i cui consi­gli mi sono stati indispensabili per rintracciare molti dei docu­menti giudiziari che hanno costituito la più importante fonte scritta della mia ricerca. L’altra fonte principale del mio lavoro — le storie di vita — non sarebbe stata disponibile senza la volontà di alcuni ex-militanti di organizzazioni clandestine di collaborare alla ricostruzione storica delle vicende di quegli anni. A tutti loro sono grata per la fiducia che mi hanno dimostrato durante i nostri colloqui. I direttori e vice-direttori delle Case circondariali di Sol- licciano, Brescia e Roma mi hanno messo in condizione di realiz­zare le interviste. Nell’analisi dei miei dati quantitativi ho più vol­te usufruito delle consulenze del Centro di calcolo dell’istituto Universitario Europeo. Dell’interpretazione delle storie di vita ho spesso discusso con i miei colleghi, impegnati nel programma del­l’istituto Cattaneo, e con il suo coordinatore, Raimondo Catanza­ro. Devo ringraziare, in particolare, Giuseppe De Lutiis, Patrizia Guerra, Luigi Manconi, Domenico Nigro, Claudio Novaro e Lui­sa Passerini per avermi permesso di utilizzare il materiale biogra­fico da essi raccolto. L’interesse per Io studio dei movimenti col­lettivi è nato mentre ero borsista del Consiglio Nazionale delle Ri­cerche presso il Centre d’Etude des Mouvements Sociaux, diretto da Alain Touraine all’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Socia- les di Parigi. Una Visiting Scholarship presso il Western Societies Program di Cornell University mi ha consentito di elaborare lo schema teorico dellla ricerca.

Molto lungo sarebbe l’elenco dei sociologi, politologi e storici con cui ho avuto la possibilità di discutere del mio lavoro. Risulta­ti parziali della ricerca sono stati presentati al XII World Con- gress dell’International Politicai Science Association (Rio de Ja­neiro, luglio 1982); all’«International Workshop for thè Analysis of New Social Movement» dell’European Group of Organizatio- nal Studies (Bonn, agosto 1984); al XIII World Congress dell’In- ternational Politicai Science Association (Parigi, luglio 1985); alla

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Joint Sessions dell’European Consortium for Politicai Research (Gotheborg, aprile 1985); all’ «International Workshop on Tran- sformation of Structure into Action» (Amsterdam, giugno 1986); all’«International Workshop on Internai Dynamics» (Firenze, set­tembre 1986); alla Joint Sessions dell’European Consortium for Politicai Research (Amsterdam, aprile 1987); al convegno su «Il vissuto e il perduto. Percorsi biografici e realtà sociale degli anni di piombo» (Bologna, giugno 1988); alla «Conference on thè Ita- lian Politicai System» (Wilson Center for Scholars, Washington, gennaio 1988); alla conferenza internazionale su «State Response to Terrorism» (Leiden, marzo 1989); alla Joint Sessions dell’Euro- pean Consortium for Politicai Research (Parigi, aprile 1989); alla conferenza internazionale «Terrorism in Context» (Middletown, Conn., giugno 1989); e nel corso di seminari presso le università di Bologna, Firenze, Padova, Milano, Harvard, Cornell, We- sleyan, e Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales di Parigi. Sono grata a tutti i colleghi che hanno preso parte a questi incon­tri per i loro suggerimenti. Liborio Mattina, Alberto Melucci, Alessandro Pizzorno e Philippe Schmitter hanno avuto la pazien­za di leggere precedenti versioni di questo lavoro, che dei loro consigli ha ampliamente beneficiato. Devo a Gianfranco Pasqui­no non solo lo stimolo iniziale ad intraprendere una ricerca sul terrorismo di sinistra, ma anche il costante incoraggiamento nelle diverse tappe necessarie alla sua realizzazione. A Sidney Tarrow devo innumerevoli preziosi consigli e, soprattutto, lo stimolo a co­niugare il rigore metodologico nella ricerca empirica con la rifles­sione teorica nella interpretazione dei risultati. La responsabilità di errori ed omissioni resta solamente mia.

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