Dalla memoria, un impegno continuo Ravenna 18 marzo 2016 ... Broccoli... · prevenzione, in modo...

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1 Dalla memoria, un impegno continuo … Ravenna 18 marzo 2016 3ª Assemblea Provinciale RLS - RLST - RLS di Sito SALA D'ATTORRE via Ponte Marino n°2 Ravenna sul tema: Stress Lavoro Correlato: ruolo ed esperienza dei rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza Stress e microimpresa Parlando di stress, pensando ad una microimpresa (e non solo …) Introduzione Queste pagine vogliono essere un aiuto in particolare per lavoratori e datori di lavoro delle “microimprese”. Quando si parla o si pensa allo stress, oggi si pensano e si dicono molte cose, ma quando si orienta l’attenzione ad una azienda di 2 o 3 persone, di solito il pensiero e le parole di fermano. La conversazione che presento, è un dialogo in cui il flusso di pensiero percorre conoscenze ed esperienze restando nell’orbita di questa micro realtà di lavoro, oggi così diffusa. Un percorso in cui cerco di offrire ciò che in questi anni nel corso dell’attività del Servizio cui appartengo ho incontrato, conosciuto e approfondito. Una traccia di sentiero da percorrere perché alla fine datori di lavoro e lavoratori abbiano a disposizione un linguaggio comune e corretto per leggere e gestire le situazioni di lavoro al fine di trasformare le difficoltà del lavoro che inducono “stress” in opportunità di soluzione e miglioramento personale e aziendale. L’auspicio è che datore di lavoro e lavoratori , che continueranno ad affrontare le difficoltà che si presentano giorno per giorno, abbiano una complessiva arricchita capacità di valutazione, gestione e attuazione di misure di prevenzione, in modo flessibile dinamico, come la realtà della microimpresa richiede. Capitolo 1 C’è chi dice che lo stress non esiste C’è chi dice che lo stress non esiste. Sappiamo tutti che non è vero. È capitato a tutti, e capiterà ancora, di aver vissuto quei momenti in cui abbiamo sentito di essere in pericolo, in qualche modo in pericolo, e di aver avuto la consapevolezza di non avere risorse sufficienti per potercela cavare senza un qualche tipo di danno.

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Dalla memoria, un impegno continuo …

Ravenna 18 marzo 2016

3ª Assemblea Provinciale RLS - RLST - RLS di Sito

SALA D'ATTORRE via Ponte Marino n°2 Ravenna

sul tema:

Stress Lavoro Correlato: ruolo ed esperienza dei rappresentanti dei

lavoratori per la sicurezza

Stress e microimpresa

Parlando di stress, pensando ad una microimpresa (e non solo …)

Introduzione Queste pagine vogliono essere un aiuto in particolare per lavoratori e datori di lavoro delle “microimprese”. Quando si parla o si pensa allo stress, oggi si pensano e si dicono molte cose, ma quando si orienta l’attenzione ad una azienda di 2 o 3 persone, di solito il pensiero e le parole di fermano. La conversazione che presento, è un dialogo in cui il flusso di pensiero percorre conoscenze ed esperienze restando nell’orbita di questa micro realtà di lavoro, oggi così diffusa. Un percorso in cui cerco di offrire ciò che in questi anni nel corso dell’attività del Servizio cui appartengo ho incontrato, conosciuto e approfondito. Una traccia di sentiero da percorrere perché alla fine datori di lavoro e lavoratori abbiano a disposizione un linguaggio comune e corretto per leggere e gestire le situazioni di lavoro al fine di trasformare le difficoltà del lavoro che inducono “stress” in opportunità di soluzione e miglioramento personale e aziendale. L’auspicio è che datore di lavoro e lavoratori, che continueranno ad affrontare le difficoltà che si presentano giorno per giorno, abbiano una complessiva arricchita capacità di valutazione, gestione e attuazione di misure di prevenzione, in modo flessibile dinamico, come la realtà della microimpresa richiede.

Capitolo 1

C’è chi dice che lo stress non esiste C’è chi dice che lo stress non esiste. Sappiamo tutti che non è vero. È capitato a tutti, e capiterà ancora, di aver vissuto quei momenti in cui abbiamo sentito di essere in pericolo, in qualche modo in pericolo, e di aver avuto la consapevolezza di non avere risorse sufficienti per potercela cavare senza un qualche tipo di danno.

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Lo stress non va evitato, va gestito C’è chi dice che lo stress è normale e non si può farne un problema. In effetti non è possibile evitare tutte le situazioni in cui possiamo trovarci in difficoltà e tutta la vita è un continuo sperimentare noi stessi nelle varie situazioni in cui ci troviamo. Spesso il confronto, che sempre facciamo, tra noi e le richieste che ci vengono dall’ambiente in cui viviamo, è un confronto che ci dice che abbiamo bisogno di trovare un aiuto, una collaborazione, una nuova soluzione, una nuova capacità, una nuova conoscenza. E questo è positivo, anche se in quel momento non ci appare così. È positivo perché dopo che abbiamo avuto quella collaborazione, trovato quella soluzione, sperimentato una nuova capacità, siamo più capaci, e se ci troveremo di nuovo in quella situazione o in una situazione simile, non saremo stressati, e forse saremo felici di constatare che ciò che prima ci sembrava un pericolo adesso non lo è più. E così scopriamo anche che possiamo essere capaci di cavarcela. È un circolo virtuoso che ci fa apprendere sempre di più ed essere stressati sempre di meno. Ma anche così, una nuova situazione può sempre apparirci in qualche modo pericolosa. In questo senso lo stress, in effetti, possiamo dire che è normale. Fa parte della vita. È quindi un’illusione il pensiero di poterlo evitare per sempre. Anzi, passare tutta la vita cercando di evitare tutte le situazioni di difficoltà, può essere molto, molto affaticante e veramente stressante. Forse ha ragione chi dice che lo stress non va evitato, ma va gestito.

C’è chi scarica sempre sugli altri la colpa C’è chi scarica sempre sugli altri la colpa, la causa, l’origine del proprio stress. Certamente nel momento in cui viviamo quella sensazione, il più delle volte c’è un fatto esterno (ma a volte anche una nostra immaginazione di un fatto esterno), che sembra, e forse è, la causa della reazione che è in noi. Ma noi abbiamo una nostra storia, l’ambiente ha una sua cultura cioè un modo di pensare e vivere accettato e imposto e a cui difficilmente una persona da sola può sottrarsi, e anche la cultura dell’organizzazione in cui viviamo ha una sua storia. E quel che accade in un momento è probabilmente il risultato di due storie che si intrecciano: la nostra e quella dell’organizzazione.

Si dice che non siamo in grado di cavarcela da soli C’è anche chi dà sempre a noi la colpa del nostro essere stressato. Si dice che non siamo in grado di cavarcela da soli, che abbiamo dei problemi psicologici, che non siamo adatti ad un mondo che non può essere che competitivo, violento, duro e insaziabile. E in questo caso si dice che la soluzione sta nell’aumento delle nostre capacità. Certo questo è auspicabile. Le nostre capacità ce le portiamo sempre con noi e sono una nostra risorsa preziosa. Ma ci sono delle situazioni in cui chiunque potrebbe essere danneggiato per una pressione troppo intensa o troppo prolungata. Così allo stesso modo chiunque può sperimentare il proprio limite, che è ingenuo negare. Ed allora è necessario conoscere, descrivere e valutare le caratteristiche dell’ambiente e dell’organizzazione per capire se ci sono elementi di difficoltà eccessiva o inutile, tali da metterci in pericolo nonostante le capacità che possediamo

Il lavoratore accusa la dirigenza, la dirigenza accusa i lavoratori È sempre forte la tentazione di trovare la radice dello stress nelle persone. Il lavoratore accusa la dirigenza e la dirigenza accusa i lavoratori. E poi l’organizzazione in cui siamo costretti a lavorare la troviamo piena di difetti ed è quasi sempre colpa di altri se ci sono quei difetti. Certamente noi cerchiamo l’organizzazione perché da soli non avremmo ciò che cerchiamo e ci serve per la vita. E anche l’organizzazione cerca noi, o comunque qualcuno che in certi casi siamo proprio noi. Anche l’organizzazione, da sola, non raggiunge i propri scopi. E così noi sappiamo che dovremo accettare un certa quantità di

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obblighi e vincoli per il semplice fatto di vivere in una realtà organizzata (e questo è vero non certo solo per il lavoro) e l’organizzazione deve accettare che qualsiasi persona avrà dei punti deboli, delle incapacità, dei difetti. L’uno limita l’altro. Farsi la guerra accusandosi a vicenda, mettendosi reciprocamente in difficoltà, non fa che peggiorare la vita a entrambi e ottenere risultati meno soddisfacenti per entrambi. Individuare le difficoltà vere, cercando assieme, porterebbe a ridurre progressivamente le sofferenze, se ci sono, e ad avere risultati migliori per l’azienda. Sono due prospettive diverse. E forse sta proprio qui il primo bivio. Fare dello stress una questione personale e avvitarsi in un conflitto sempre più faticoso e pericoloso, o allearsi per individuare le debolezze del sistema e rinvigorire sia le persone che l’organizzazione. Circolo virtuoso il primo, vizioso il secondo. Sempre meno stressati e sempre più in grado di farcela nel primo caso, sempre più incapaci e in pericolo anche per delle sciocchezze nel secondo. Certo possiamo anche fare finta di nulla, ma sembra proprio una posizione sciocca.

Non farne una questione personale Ma, dirà qualcuno, mi parli di persone, organizzazione, di non farne una questione personale. Io lavoro da solo con il mio titolare, come faccio a non farne una questione personale. Beh, è vero. Anche se il nocciolo della questione non cambia, alcune cose sono diverse. Vediamo cosa. Quello che cambia è la “visibilità” dell’organizzazione. Certamente in una azienda sufficientemente grande, diciamo per esempio da 10 lavoratori in poi, la struttura organizzativa si sente di più e anche quello che la legge chiede, può essere fatto in modo meno “personale”. E in questo caso la legge chiede innanzitutto di “valutare” lo stress possibile per le persone al fine di ridurre o eliminare le cause che possono portare a pressioni troppo intense o troppo prolungate. Ma, ti dico, “sembra” così. Di fatto anche nelle aziende più grandi c’è la tendenza ad affrontare il tema in modo solo burocratico, senza entrare veramente nella realtà del lavoro. Sinceramente dobbiamo dire che quel che accade più di frequente è di restare superficiali e generici per non entrare veramente in quel processo lungimirante di continua ristrutturazione che potrebbe portare ad un miglioramento che rende “capaci” di far fronte alle sfide che l’ambiente esterno pone alle aziende. Anche nel grande c’è una polverina che non fa funzionare bene il meccanismo. Noi qui vogliamo parlare con te, te che lavori in una piccola azienda, ma quel che cerchiamo di dire riguarda anche le organizzazioni più grandi.

Una buona gestione dello stress porta al benessere Un’altra cosa, prima di partire.

Una buona gestione dello stress porta sicuramente al benessere, ma la mancanza del nostro benessere personale non necessariamente dipende solo dal lavoro e dalla sua organizzazione. I nostri colleghi e in nostri dirigenti non sono i nostri psicoterapeuti o i nostri amici e familiari. Non possiamo chiedere a loro il benessere per tutta la nostra vita. Anzi, a volte sembra che ci siano persone che potremmo dire “incontentabili” da questo punto di vista o anche colleghi che sono sempre in ansia per ogni contrarietà o conflitto. Una buona gestione aiuta anche loro, ma loro non sono certamente il miglior termometro della situazione. Se lo stress accade dentro le persone, e trova le sue radici sia nell’ambiente che nelle persone, per la soluzione dobbiamo sempre capire e migliorare l’organizzazione formale o informale del lavoro. Questo pensiero potrebbe non essere subito facile da capire e da accettare, ma è la chiave di volta per non sbagliare di nuovo strada fin dall’inizio. Cercheremo di spiegarti bene anche questo pensiero. Per ora ricordalo soltanto.

E ora, cominciamo.

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Capitolo 2

Un’emozione positiva ci informa che tutto va bene In ogni attimo della nostra vita siamo immersi in un ambiente, in questo ambiente abbiamo delle relazioni, ogni relazione è per noi una richiesta. Gli ambienti possono essere semplici o complessi e complicati, possono essere presenti lì vicino a noi o essere distanti o mediati (dal telefono, dal computer), in un intreccio a volte quasi misterioso. Abbiamo poi dentro di noi, in memoria, le rappresentazioni di questi ambienti, così come appiano ora ai nostri occhi, come erano ieri o tempo addietro, come ci immaginiamo o desideriamo che siano in futuro.

E nell’ambiente ci sono persone, oggetti, un certo clima atmosferico, dei compiti che ci aspettano, il risultato dei compiti svolti da altri, segnali e messaggi di vario tipo.

E in noi, in ogni istante, quasi magicamente, sicuramente molto inconsapevolmente, facciamo una sintesi del cumulo di richieste che leggiamo nell’ambiente, le confrontiamo singolarmente e complessivamente con le nostre risorse e le nostre capacità, e in ogni istante valutiamo se noi, proprio noi, in quel momento e in quel ambiente possiamo cavarcela, possiamo preservaci, possiamo raggiungere tutti o almeno i più importanti fra gli obiettivi che la nostra vita richiede o abbiamo scelto per noi.

È una valutazione continua che facciamo, e il risultato ci giunge sotto forma di emozione. Un’emozione positiva ci informa che tutto va bene, un’emozione di allarme ci informa che scopi più o meno importanti sono forse in pericolo.

È qui che può nascere la reazione di stress.

Reazione di stress per affrontare una difficoltà Guardiamola meglio questa reazione di stress. Nasce nel nostro corpo. Nasce quando alcune cellule situate in una piccola zona del nostro cervello si attivano per attivare tutto l’organismo, per prepararlo ad affrontare una difficoltà, un pericolo. È un meccanismo antico, anzi arcaico, che si è sviluppato negli antenati dei nostri antenati e che abbiamo in comune con i nostri coinquilini non umani. Si è sviluppano quando il mondo era pieno di pericoli fisici e la sopravvivenza era il vero obiettivo della vita. Chi aveva questo meccanismo di attivazione e di allerta sufficientemente sensibile, chi si attivava presto, magari anche a sproposito, sopravviveva. Una persona “molto calma” allora, aveva meno possibilità di sopravvivere e avere una discendenza. E così, noi oggi, siamo figli dei figli selezionati in quei tempi là. Ma sta di fatto che non sono più quei tempi là. Certo di fronte ad un pericolo fisico reale ancora oggi questo meccanismo è prezioso: scappare, lottare, superare un ostacolo od una difficoltà fisica non potremmo farlo senza questo meccanismo. Perciò, ringraziamolo. Anche perché di fatto siamo cresciuti sulle sue fondamenta e non possiamo pensare che non sia parte fondamentale di noi. Ma non sono più quei tempi e oggi il più delle volte, si attiva ma non serve, e se non ne teniamo conto ci usuriamo inutilmente fino a guastare la vita nostra e di chi ci vive accanto.

Un’emozione di allarme La reazione di stress è una attivazione che si accompagna ad una emozione di allarme, che possiamo chiamare paura o ansia. La reazione di stress ci può portare poi presto a sperimentare un’emozione di rabbia oltre che di paura o di tristezza.

In realtà l’emozione che ci auguriamo è la gioia e la soddisfazione di aver superato il pericolo. Un poeta che certamente conoscerai, diceva: “Uscir di pena è diletto fra noi”. Era un poeta con fama di pessimista, ma a volte ci sembra che possa aver un po’ ragione. Se il problema si risolve, ovvero se quella cosa che ci preoccupa non dobbiamo più farla; se

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scopriamo che siamo capaci e abbiamo le risorse per fare un bel lavoro; se scopriamo che se poi anche falliamo non ne avremo quelle conseguenze negative che temiamo, ecco che il bilancio delle nostre valutazioni cambia e la reazione di stress d’incanto lascia il posto al sollievo o alla soddisfazione e alla gioia. (Non sarà che qualcuno cerca apposta le difficoltà per poi provare la soddisfazione? Beh! Purché non pretenda di coinvolgere sempre anche noi, però!)

Una relazione tra persona e ambiente … Accettato lo stress come compagno, vediamo come è stato descritto da alcuni importanti psicologi che se ne sono occupati: stress è “una relazione fra persona e ambiente, percepita e valutata dal soggetto come eccedente le sue risorse, e in grado di mettere in pericolo il proprio benessere”. Non è certo l’unica definizione di stress, ma ci pare una definizione utile, da ricordare.

Se ci pensi ci sono tre elementi importanti che devono essere presenti tutti e tre per avere una reazione di stress. Il primo è un carico di lavoro percepito come eccessivo rispetto alle risorse disponibili, il secondo un insieme di risorse percepite come insufficienti rispetto al cumulo di richieste, il terzo un pericolo per un qualche scopo importante della nostra vita a causa del fatto che con quelle risorse disponibili sentiamo che non possiamo far fronte a ciò che ci è richiesto. Solo se ci sono tutti e tre questi elementi si attiva la reazione di stress. Prova a rivivere una delle ultime occasioni in cui hai avuto questa esperienza e in cui poi tutto si è risolto bene. Oppure, la prossima volta che ti capita, prova a cercare subito la presenza di questi tre aspetti nella situazione che ti ha attivato la reazione. Sicuramente, se si è risolta bene: o è diminuito il carico; o hai trovato le risorse; o hai capito che in realtà le conseguenze non erano un problema.

Rabbia, paura, tristezza Abbiamo accennato alle parole rabbia, paura e tristezza. Non sono emozioni da poco e come ogni emozione sono segnali, messaggi, indicazioni di come ci stanno andando le cose in uno o più aspetti della nostra vita. Conosciamole un po’ meglio.

Proviamo paura quando è minacciato uno scopo importante della nostra vita. In continuazione noi facciamo cose, accettiamo impegni, cerchiamo, coltiviamo. Tutto facciamo avendo di fronte a noi degli obiettivi che spesso sono obiettivi intermedi per obiettivi più importanti e centrali. C’è una gerarchia degli scopi e a qualcuno possiamo anche rinunciare, ma quando la rinuncia comincia a mettere in pericolo cose per noi importanti (pensa agli affetti, alla vita stessa, al lavoro, alla possibilità di avere un infortunio o una malattia, alla stima di colleghi, familiari e conoscenti), ecco che l’allerta cresce e con essa la consapevolezza di dover “fare qualcosa”, e per questo che il nostro organismo si attiva. Se proviamo paura, il danno non si è ancora realizzato, per cui possiamo parlare di paura come di una emozione preventiva. A cose accadute, la paura scompare e lascia il posto ad altro. In realtà se mi concedi un ulteriore pensiero, la paura è automatica e l’abbiamo in comune con tutti gli animali, i quali però non sanno di averla. Noi umani proviamo più spesso la sorella evoluta, tipicamente umana della paura, che si chiama ansia. L’ansia è più insidiosa perché più sfumata, ha un “motivo” meno preciso, può essere evocata da tantissimi aspetti della nostra vita reale o immaginata. E tanto più siamo capaci di vedere e prevedere tanto più possiamo “scorgere” motivi di “ansia”. Se la paura vera è meno variabile da una persona all’altra, il meccanismo dell’ansia è veramente molto personale fino ad estremi per cui abbiamo ansia di provare ansia e per un nonnulla stiamo male. Se è così, conviene chiedere un aiuto specialistico. Non si tratta più di stress dovuto all’ambiente. Non è utile a nessuno fare confusione su questo.

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Quando proviamo rabbia il segnale che ci giunge è che un nostro diritto è stato ingiustamente calpestato. Almeno, secondo noi. Ma questo è il messaggio. In questo caso l’energia che si evoca in noi tende a farci “combattere” per ristabilire una situazione per noi ingiusta. Anche in questo caso vale la pena chiederci se la nostra valutazione è abbastanza obiettiva e corrisponde ad un fatto effettivamente presente nell’ambiente. A volte si ha l’impressione che per qualcuno tutto sia sempre ingiusto e che tutto trami contro. Ed in effetti a volte questo può essere, non ce lo nascondiamo, ma un errore di valutazione può esserci anche qui. Comunque la violenza non è mai una buona strada per risolvere i problemi. Forza ed energia sì, ma non svincolata da tante altre azioni e risorse positive da cercare e attivare, non da soli, possibilmente.

Infine la tristezza, il senso di lutto che proviamo quando il segnale dice che “ormai è andata ed è andata male”. Quel che temevamo è accaduto e non possiamo più farci nulla, e non ci rimane che riscrivere una parte dell’immagine che avevamo di noi. E questo è doloroso. A volte molto.

Emozioni che comunicano Emozioni positive e negative si accompagnano da vicino alla reazione di stress: sono segnali, attivano l’organismo, e anche comunicano agli altri la nostra situazione. E lo comunicano anche molto bene. Facciamo un esempio. Se accanto a noi una persona improvvisamente ha una reazione di paura intensa, lo leggiamo nel suo volto, nel suo atteggiamento, nello stato del suo corpo e nel suo comportamento. Automaticamente anche noi proviamo paura. E questo è anche ragionevole: se lui ha visto un pericolo che io non ho ancora visto, meglio che anch’io mi metta in allerta. È quindi normale essere influenzati dalle emozioni altrui. Se la reazione di paura è adeguata, probabilmente ci salviamo entrambe. Se la paura era immotivata, un sospiro di sollievo e continuiamo la nostra giornata. Ma se ogni mattina o in continuazione, magari in modo imprevedibile, uno o più colleghi hanno reazioni di stress spropositate per varie ragioni, e ci affrontano con emozioni intense di ansia, paura o tristezza, siamo per natura portati a vivere le stesse emozioni a volte con una sensazione di violenza fatta su di noi. E ci sentiamo più o meno destabilizzati, senz’altro meno felici e sicuramente meno efficienti.

Se lo stress del collega fosse motivato e frequente, occorrerebbe chiedersi quale aspetto dell’organizzazione è opportuno migliorare. Ma se prevale un dato di “carattere”, che ovviamente tendenzialmente verrà negato, il collega diventa per noi un fattore di stress. Anche in questo caso l’organizzazione dovrebbe chiedersi se la cultura aziendale è tale da impedire che singoli influenzino negativamente l’ambiente. Un sfida nobile, per organizzazioni sane. Se la sfida non è accettata, l’organizzazione è quantomeno perfettibile.

Ti ripresento ora la definizione di stress, che se ben ricordi era: “una relazione fra persona e ambiente, percepita e valutata dal soggetto come eccedente le sue risorse, e in grado di mettere in pericolo il proprio benessere”.

Più avanti andremo a considerare il carico di lavoro, le risorse e altro ancora. Ma ci sembrava il caso, fin qui, di approfondire un po’ il senso di quelle paroline “percepita e valutata dal soggetto” che tanto “allarme” suscitano in chi dovendo (per legge) occuparsi di stress correlato al lavoro vede la “soggettività” come un pericolo da cui stare lontani. Comprensibilissimo, in effetti. Ma non sarà che volendo occuparci solo di cose oggettive finisce che ci occupiamo di altro e lasciamo indisturbati i problemi a minare persone e organizzazione? Tema delicato, indubbiamente.

Al prossimo capitolo!

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Capitolo 3

Il nocciolo e la polpa dello stress in sei domande Se il meccanismo dello stress non è esclusivo dell’uomo, a maggior ragione non è esclusivo del lavoro. Ed infatti, lo sappiamo, lo stress accompagna tutta la vita.

E proprio perché accompagna tutta la vita, il nostro modo di reagire è il risultato di tutta la nostra esperienza significativa. Prova a pensare quanto è facile per noi dire che il nostro collega o il nostro capo dovrebbe comportarsi diversamente, ma quando a cambiare dovremmo essere noi come siamo pronti a dire che nessuno può chiederci di cambiare. In fondo sappiamo che è difficile per noi cambiare gli atteggiamenti che ci hanno portati fin qua nella vita. E allora sarà semplicemente difficile anche per il collega. Tutti diversi, quindi, almeno apparentemente.

Tutto nella vita è importante, ma una parte importantissima della nostra vita è il lavoro. Ci sono discipline che studiano il lavoro e le organizzazioni proprio per i significati che il lavoro ha per l’uomo: si trasforma nel tempo, pone problemi, offre opportunità, chiede soluzioni, è sempre in evoluzione. Quanta varietà di situazioni si vivono sul lavoro. Non solo per i diversi “mestieri” ma soprattutto o in pari misura per le diverse organizzazioni o situazioni in cui siamo chiamati a svolgere i compiti tipici della nostra professione. Veramente tanta varietà. Ma se sul lavoro ci sono tante persone diverse in tante situazioni diverse, come possiamo orientarci?

Viene la tentazione di rinunciare anche solo a pensare cosa fare. Invece, non è così difficile. Sul lavoro, non sono molti gli elementi da controllare.

Intanto, se è vero che le situazioni di lavoro sono così diverse, quando siamo stressati lo siamo tutti, nel suo nocciolo, praticamente nella stessa maniera. Questo nocciolo è quello che abbiano incontrato nel capitolo 2, e vale per ogni persona e per ogni ambiente.

Pensando poi alle situazioni di lavoro, attorno a questo nocciolo possiamo immaginare uno strato di polpa, con una sua struttura, che ci aiuta a orientarci e a condurre la nostra attenzione. Scegli un frutto che ti piace, un frutto con il nocciolo: quello che andiamo ora a descrivere possiamo immaginarlo come lo strato della polpa di questo frutto.

Sei obiettivi da raggiungere Qualcuno che da decenni con competenza si occupa di questo tema, ha individuato e proposto 6 (sei) elementi principali da controllare regolarmente per garantire una condizione di lavoro che consenta alle persone di dare il massimo per l’azienda con anche il massimo di soddisfazione possibile. Tecnicamente questi elementi si chiamano componenti o fattori dello stress sul lavoro, ma noi li possiamo chiamare obiettivi da raggiungere. Come detto, sono una specie di strato che sta attorno al nocciolo e che vale per tutte le situazioni di lavoro. Te li proponiamo subito e, mentre li leggi, pensa alla tua specifica situazione di lavoro e vedrai che si formerà facilmente la superficie del frutto, la buccia con tutte le sue caratteristiche, ovvero quella superficie specifica che sta fra te e il tuo lavoro di ogni giorno. Questa superficie la devi descrivere tu con i tuoi colleghi di lavoro e i tuoi dirigenti. Se non lo fate voi, e insieme, difficilmente lo potrà fare in modo adeguato e preciso qualcun altro, anche se a volte si può rendere necessario l’aiuto di un esperto o l’intervento di un esterno.

Ora ti presentiamo il secondo strato, quello che sul lavoro sta attorno al nocciolo e tu comincia a lasciare che si formi il terzo strato.

Per ogni obiettivo pensa se questa è la tua situazione di lavoro: se lo è cerca di conservarla e se non lo è chiediti cosa potreste fare per raggiungerla.

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1. Domanda

L'organizzazione chiede ai lavoratori un carico di lavoro adeguato e raggiungibile rispetto alle ore concordate di lavoro. Le abilità e le capacità delle persone sono adeguate alle richieste del lavoro. I compiti vengono progettati per essere svolti senza andar oltre alle capacità dei lavoratori. Le preoccupazioni dei lavoratori riguardo al loro ambiente di lavoro vengono prese in considerazione.

2. Controllo Dove possibile, i lavoratori hanno controllo sul loro ritmo di lavoro. I lavoratori sono incoraggiati ad utilizzare le loro abilità e il loro spirito d’iniziativa per fare il loro lavoro. Dove possibile, i lavoratori sono incoraggiati a sviluppare nuove abilità per aiutarli ad assumersi lavori nuovi e impegnativi. L'organizzazione incoraggia i lavoratori a sviluppare le loro abilità. I lavoratori hanno voce in capitolo su quando poter fare le pause. I lavoratori sono consultati in merito alla strutturazione del loro lavoro.

3. Supporto L'organizzazione adotta politiche e procedure per sostenere adeguatamente i lavoratori. L’organizzazione è tale da consentire e incoraggiare i dirigenti a supportare il loro staff. L’organizzazione è tale da consentire e incoraggiare i lavoratori a supportare i loro colleghi. I lavoratori sanno quale supporto è disponibile, e come e quando accedere ad esso. I lavoratori sanno come accedere alle risorse richieste per fare il loro lavoro. I lavoratori ricevono un feedback regolare e costruttivo.

4. Relazioni L'organizzazione promuove comportamenti positivi sul lavoro per evitare conflitti ed assicurare equità. I lavoratori condividono le informazioni attinenti al loro lavoro. L'organizzazione ha concordato politiche e procedure per evitare o risolvere comportamenti inaccettabili. L’organizzazione è tale da consentire e incoraggiare i dirigenti ad occuparsi di comportamenti inaccettabili. L’organizzazione è tale da consentire e incoraggiare i lavoratori a riferire comportamenti inaccettabili.

5. Ruolo L'organizzazione assicura che, per quanto possibile, le varie richieste che rivolge ai lavoratori siano compatibili. L'organizzazione fornisce informazioni che consentono ai lavoratori di capire il loro ruolo e le loro responsabilità. L'organizzazione assicura che, per quanto possibile, le varie richieste che rivolge ai lavoratori siano chiare. L’organizzazione è tale da consentire e incoraggiare i lavoratori a sollevare quesiti su qualsiasi incertezza o conflitto che hanno nel loro ruolo e nelle loro responsabilità.

6. Cambiamento L'organizzazione fornisce a lavoratori informazioni tempestive in modo da permettere di capire le ragioni dei cambiamenti proposti.

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L'organizzazione assicura ai lavoratori un’adeguata consultazione sui cambiamenti e fornisce l’opportunità ai lavoratori di influire sulle proposte. I lavoratori sono consapevoli della probabile ripercussione di qualsiasi cambiamento sul loro lavoro. Se necessario, ai lavoratori viene fatta formazione per sostenerli in qualsiasi cambiamento nel loro lavoro. I lavoratori sono consapevoli dei tempi dei cambiamenti. I lavoratori possono usufruire di supporti adeguati durante i cambiamenti.

Sfruttare ogni esperienza di stress Non è difficile vero? Ce n’è già abbastanza senza andare a cercare tanto altro.

Immagino che leggendo ti saranno venute in mente immediatamente e in modo abbastanza chiaro quelle caratteristiche del lavoro che facilitano od ostacolano il raggiungimento di questi 6 obiettivi. Ecco, quello è il materiale su cui confrontarsi, in modo positivo, per trovare soluzioni di miglioramento. Ogni situazione con stress importanti o ripetuti ha probabilmente una insufficiente gestione di uno o più di queste componenti del lavoro.

Se ci si abitua a sfruttare ogni esperienza di stress per cercare quale elemento debole ne sia la causa, non facciamo altro che una continua, quotidiana e proficua “valutazione” dello stress. Valutazione che, ovviamente, si accompagna alla proposta e attuazione di soluzioni.

E nella piccola azienda, come quella in cui probabilmente lavori tu, questo potrebbe diventare un esercizio naturale.

Sento già la prima obiezione, ma è un’obiezione che non cambia la validità di questo che abbiamo appena scoperto.

Ecco l’obiezione: “Nella mia azienda tutto questo non si può fare, altrimenti lo staremmo già facendo”. Intanto non dare nulla per scontato. Forse proprio queste riflessioni potrebbero essere utili per sintonizzare le volontà e cominciare o migliorare. È vero però che, come abbiamo visto, se serve un cambiamento, spesso non è facile ottenerlo.

Come ogni persona ha il suo carattere ogni organizzazione aziendale ha la sua struttura A questo proposito, come ogni persona ha il suo carattere, così ogni organizzazione aziendale ha la sua cultura. Si parla di “cultura d’azienda” e ne propongo una definizione. Cultura d’azienda è stata definita come “Un insieme di assunti di base – inventati, scoperti o sviluppati da un gruppo determinato quando impara ad affrontare i propri problemi di adattamento con il mondo esterno e di integrazione al suo interno – che si è rivelato così funzionale da essere considerato valido e, quindi, da essere indicato a quanti entrano nell’organizzazione come il modo corretto di percepire, pensare e sentire in relazione a quei problemi. (Schein E.H.)”

Detta con parole nostre questo significa che “Quando un gruppo ha un problema, inventa o scopre una soluzione. Se nel gruppo si pensa che quella soluzione abbia funzionato o sia la migliore, da quel giorno in poi quello sarà il modo di risolvere quel problema (o problemi che assomigliano). Quello sarà il modo di sentire, vedere, pensare e agire per quel tipo di problemi. Quello sarà il modo di essere che si insegna agli ultimi arrivati (che si insegna con il comportamento più che con le parole) e sarà il modo con cui si agirà in caso di difficoltà, al di là di tutte le cose insegnate in teoria o in aula. Sono le soluzioni di quel gruppo in quel momento. Non è detto che siano le migliori e che lo saranno sempre, ma sono quelle che il gruppo permette e userà.”

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La cultura d’azienda condiziona i singoli e le possibilità che i singoli hanno di agire, ma è anche in continua evoluzione e a questa evoluzione tutti possono di fatto contribuire. Per il tema che ci riguarda vale la pena di chiederci se la cultura della nostra azienda ammettere di poter valutare, gestire e risolvere le situazioni di stress. Ci auguriamo di sì, e, se siamo abbastanza d’accordo fin qua, proviamo di andare ancora oltre.

Capitolo 4

Quello che una persona pensa e fa in una situazione stressante “Quello che una persona effettivamente pensa e fa in una situazione stressante” si chiama coping.

Quello che l’azienda e l’organizzazione deve fare è la valutazione del rischio.

Sono questi i due flussi di azioni che concorrono a gestire lo stress.

Il coping rappresenta il precipitato della storia di ogni individuo (singolare e irripetibile), sviluppatosi sulla base delle specifiche esperienze di vita. Il coping possibile è condizionato anche dalle caratteristiche dell’ambiente.

Vi sono tre tipi di azioni di fronteggiamento (coping) che possiamo adottare:

Possiamo agire sui compiti e cercare di migliorare la situazione (modifica dell’ambiente) per eliminare o modificare le condizioni responsabili del problema.

Possiamo agire su noi stessi (adattamento all’ambiente) soprattutto per ridurre la sofferenza emozionale, mantenere le conseguenze emotive nei limiti tollerabili, controllare percettivamente il significato dell’esperienza in modo da neutralizzare il suo carattere problematico, riformulare i nostri obiettivi.

Possiamo mettere in atto strategie di evitamento (evitare altri contatti con lo stressor o non pensarci). Possiamo illuderci che ciò che si desidera sia vero, possiamo distrarci o negare palesemente il problema, rinunciare affettivamente agli scopi minacciati, affidarci all’oblio nell’alcool e altre sostanze.

La strategia adottata o adottabile dipende dai contesti, dalla modificabilità della situazione, dalle caratteristiche e dalla storia della persona, da differenze culturali: è auspicabile essere in grado di adottare una molteplicità di risposte con flessibilità ed elasticità.

La valutazione e gestione del rischio è una opportunità per tutti La valutazione dei rischi invece è un compito dell’azienda, non potrebbe essere altrimenti, ed un vero obbligo di legge.

Ma al di là dell’obbligo, la valutazione e gestione del rischio è una vera opportunità per tutti.

Se il lavoratore ha bisogno di accedere a risorse per poter svolgere i compiti assegnati (tempo, strumenti, informazioni, collaborazioni, chiarezza), i datori di lavoro e le aziende hanno bisogno dei lavoratori che sono per loro una risorsa indispensabile.

Prova a pensare di dover partire per un viaggio in automobile. Sarebbe assurdo prepararsi cominciando a rendere lisce le gomme, svuotare il serbatoio, appiccicare tanti post-it sui vetri, risparmiare sull’olio del motore, staccare qualche lampadina, vendere metà della cartina stradale, o cose simili. Per un viaggio in automobile, l’automobile è la risorsa. Se la tratti così, io non vengo certo con te. Vado con qualcun’altro.

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Affinché la valutazione del rischio sia efficace Perché una valutazione del rischio sia efficace deve esser voluta dal datore di lavoro o da chi ha potere effettivo in azienda, deve coinvolgere veramente i lavoratori e deve essere orientata alle soluzioni. Anche se si ricorre ad un esterno, la prima fonte di informazioni è chi svolge effettivamente quel lavoro che stiamo valutando. Per un dialogo efficace serve la condivisione del significato delle parole e la chiarezza di modelli di riferimento, per cui occorre una sufficiente formazione specifica sul rischio stress. Sono poi necessari un dialogo ed una comunicazione vera ed efficace.

Vi sono molti strumenti proposti per le aziende sufficientemente grandi (non sempre in realtà usati in modo utile), ma per le aziende molto piccole lo strumento è il dialogo quotidiano.

Abbiamo detto che in ogni istante facciamo una valutazione della situazione, per cui in realtà la valutazione la facciamo, ma si tratta di farla assieme per organizzare al meglio il lavoro. Lo strumento vero di valutazione in una microazienda sono le persone opportunamente informate e correttamente motivate.

Quello che va indagato è quel “terzo strato” tipico di ogni situazione: va descritto, compreso, condiviso e dalla sua comprensione possono nascere proposte di soluzioni da provare e verificare.

Facciamo un esempio Facciamo un esempio. Se in me si attiva una reazione di stress posso accorgermi subito che quasi sicuramente vi è stato uno sbilanciamento o per un aumento delle richieste (ad esempio una nuova richiesta che appare incompatibile con una precedente e di cui non comprendo il significato a cui si aggiunge il costo psicologico di chiedere spiegazioni perché si è sempre maltrattati se si chiedono chiarimenti) o per una diminuzione delle risorse (ad es. il tempo a disposizione che prima era sufficiente ed ora non lo è più) con anche la percezione del possibile danno per me (già vedo che sbaglierò qualcosa, ne riceverò un rimprovero pubblico come è già successo, cercherò di restare al lavoro più tempo ma mia figlia ci resterà male perché avevo promesso di stare un po’ con lei e mio marito, che dice di non capire questi problemi, mi rimprovererà anche lui).

Puoi riconoscere che c’è il nocciolo (una relazione fra persona e ambiente, percepita e valutata dal soggetto come eccedente le sue risorse, e in grado di mettere in pericolo il proprio benessere) ci sono problemi in alcuni dei fattori di stress del “secondo strato” (direi, ad esempio in questo caso, nelle aree della domanda, del supporto e delle relazioni) che in quella specifica situazione si concretizzano in un modo unico (terzo strato) che dipende dalla cultura dell’organizzazione e dalle capacità di coping dei singoli. È qui che si annidano i problemi da scovare e sciogliere, per il vantaggio di tutti.

Eventi sentinella Chi si occupa di valutazione dello stress, suggerisce di esser attenti ad eventi sentinella che potrebbero essere un aumento delle assenze per malattia, un aumento del turnover, un aumento degli infortuni o degli incidenti, un peggioramento della produttività o della performance. Ma tutto questo, per un’azienda di 2 o 3 persone, non ha molto significato per ovvie e varie ragioni.

Sono invece gli episodi quotidiani di difficoltà e pressioni eccessive, con le relative reazioni di stress, gli indicatori più interessanti.

Si dice che ci sono persone che si lamentano in continuazione e persone che pur avendo un carico di lavoro risibile si inalberano per qualsiasi cosa venga loro richiesta.

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Vorrei dire che sono poche, ma non ne sono sicuro. Ecco: quelle persone (come anche quelle troppo ansiose o eccessivamente meticolose) non sono un buon indicatore di problemi reali da risolvere. Per questo è sempre necessario verificare le segnalazioni collocandole in una descrizione oggettiva del lavoro e della sua organizzazione.

Vi sono però anche persone che per caratteristiche personali hanno bisogno di alcune facilitazioni (pensiamo ad una persona con invalidità ad esempio).

In entrambe i casi, occorre mantenere l’attenzione sull’organizzazione senza farsi invischiare (primo caso) o scaricare il problema sul singolo (secondo caso).

È sbagliato valutare lo stress senza coinvolgere le persone Vi sono poi situazioni che potrebbero sembrare molto difficoltose per noi, ma che invece ad un collega, che ormai le ha affrontate e risolte più volte, non suscitano alcuna preoccupazione. Io ne sono stressato, lui no. È perciò sbagliato pensare di valutare lo stress senza tener conto delle persone. Se un collega si sente di non farcela, forse sbaglierà, anche se per me, o per la maggior parte di noi, quel compito è abbastanza facile (forse è un nuovo assunto o sta vivendo un momento di difficoltà).

A volte, pur in presenza di errori ripetuti da più persone, litigi palesi e protratti, comportamenti censurabili di vario tipo, si continua a non voler ammettere che c’è qualche problema.

La percezione del singolo, l’analisi dell’organizzazione, comportamenti che segnalano difficoltà: sono queste i tre elementi di una triangolazione fatta di tre punti di osservazione che ci fanno avvicinare alla migliore efficienza ed efficacia della valutazione. Se attivati in contemporanea e non separatamente consentono di essere sensibili (percezione e comportamenti), oggettivi (organizzazione e comportamenti) efficaci (percezione e organizzazione).

Il tutto, ovviamente, se si vuole: sia da parte dei singoli che da parte dell’azienda.

Già che ci siamo, aggiungiamo alcune altre osservazioni utili.

Un carico di lavoro anche superiore alle nostre capacità non è di per se un problema La prima. Un carico di lavoro anche superiore alle nostre attuali capacità, non è di per se un problema. In presenza di un supporto adeguato da parte di colleghi e superiori e di una buona autonomia e possibilità di mettere a frutto le nostre capacità, un problema nuovo è una sfida che si può vincere e ci porta ad essere sempre più capaci e sempre meno stressati. Se invece il compito superiore alle nostre attuali capacità si accompagna ad un ambiente ostile e punitivo o semplicemente indisponibile e non abbiamo alcuna possibilità di sviluppare le nostre abilità e quasi sicuramente saremo comunque poco o nulla apprezzati, ebbene in questo caso non solo saremo stressati ma l’azienda avrà a disposizione persone sempre meno motivate e capaci.

D’altra parte anche l’assenza di richieste sarebbe un segno di grave difficoltà e pericolo per la nostra presenza sul lavoro.

Quando sentiamo di non essere adeguati La seconda. Quando noi sentiamo di non essere adeguati all’ambiente, potremmo avere una percezione sbagliata. Ad esempio potremmo aver sopravvalutato l’entità di ciò che ci viene chiesto o la gravità delle conseguenze in caso di fallimento. Chiedere chiarimenti, in modo assertivo, può rendere la nostra percezione più adeguata e far scomparire la nostra sensazione di stress, con aumento della nostra efficacia.

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Bilancio tra sforzo profuso e ricompense ricevute La terza. A volte facciamo un bilancio e paragoniamo lo sforzo che noi abbiamo profuso sul lavoro e le ricompense che ne abbiamo ricevuto. Le ricompense non sono solo economiche, ovviamente, ma possono essere, ad esempio, riconoscimenti del lavoro svolto, un rafforzamento della nostra stima nell’organizzazione. Lo sforzo può essere effettivamente stato richiesto dall’organizzazione, ma non è raro che siamo noi stessi che decidiamo di voler raggiungere certi livelli di prestazione, anche se non richiesti. Questo “nostro” sforzo non viene certo ostacolato e poco alla volta ci convinciamo di meritare una ricompensa anche per il fatto di esserci impegnati volontariamente. Può essere la premessa di forti delusioni nel caso lo sforzo non venga, secondo noi, adeguatamente ricompensato.

Siamo molto vulnerabili alla perdita di risorse La quarta. Noi siamo molto vulnerabili alla perdita di risorse e siamo stressati quando le nostre risorse sono minacciate o perdute. E se possiamo, cerchiamo di aumentare le nostre risorse perché sappiamo che ci sono necessarie per affrontare le difficoltà della vita (e del lavoro). E una perdita di risorse ci rende più vulnerabili per una ulteriore perdita potendo innescare una spirale negativa.

Al di là della percezione che ciascuno di noi ha, vi sono risorse che “oggettivamente” sono necessarie e socialmente riconosciute. Qualcuno ha provato a fare un elenco, ma gli elenchi sono sempre solo indicativi e il contributo di chi vive una situazione di lavoro è sicuramente utile quanto o più di un elenco per individuare le risorse necessarie. Comunque, possiamo credo concordare che un reddito, la casa, il cibo, l’abbigliamento sono risorse necessarie. Così come i legami affettivi e famigliari e un po’ di tempo libero. Ma anche un'occupazione stabile, gli strumenti e l’aiuto necessari per il lavoro, la comprensione dal datore di lavoro e il sostegno da collaboratori, l’avanzamento nelle capacita e nell’esperienza, sentire che si sta lavorando per qualcosa di significativo per se e per altri. A livello più personale, sentire di avere controllo sulla propria vita, sperimentare capacità di organizzazione, di comunicazione, di resistenza, una sensazione positiva di se stessi con ottimismo e un briciolo di umorismo aperto alla speranza anche nelle difficoltà. Sicuramente queste sono risorse da incrementare in ogni caso.

Non è sufficiente auspicare di essere molto “attivati” La quinta. Non è sufficiente auspicare di essere molto “attivati”, convinti che più si è attivati più si rende. Essere “attivati” ed essere contemporaneamente in una condizione che ci consente di lavorare bene, è sicuramente una condizione auspicabile che ci porta uno stato mentale positivo, soddisfacente e durevole, caratterizzato da vigore, dedizione e assorbimento sul lavoro. Quando siamo in questo stato, che qualcuno chiama “engaged”, percepiamo di avere energia e abilità nel gestire la domanda e abbiamo un valido rapporto con gli impegni di lavoro. Ci adattano facilmente ai cambiamenti ambientali e riusciamo a passare con più agilità da un’attività all’altra.

Ma se siamo “attivati” e contemporaneamente troviamo solo difficoltà nel lavoro e mancanza di risorse, saremo sempre più stressati e prima o poi, se le cose non cambiamo, la demotivazione, il distacco e la perdita di professionalità saranno il triste e inutile risultato.

Si chiamano “ancore di carriera” La sesta. Si chiamano “ancore di carriera”. Sono quelle conoscenze che abbiamo sviluppato su di noi come lavoratori, rispetto alle nostre motivazioni e ai nostri bisogni,

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competenze e valori. Quelle conoscenze che ci guidano o ci vincolano (àncora, appunto) quando dobbiamo prendere decisioni relativamente alla nostra carriera di lavoro.

Potremmo avere un’àncora “tecnica” perché vorremmo soprattutto esercitare i nostri talenti e crescere le nostre abilità in una disciplina specifica, felici di essere sfidati e di accrescere la nostra competenza tecnica, e forse dirigere altri ma solo sotto il profilo tecnico.

Potremmo avere un’àncora “manageriale” se vediamo importante soprattutto l'integrazione dello sforzo degli altri e la responsabilità per il risultato complessivo, capaci di analisi ma anche competenti su aspetti interpersonali ed emotivi necessari per gestire il potere e le responsabilità, ed ambiziosi di posizioni dirigenziali elevate.

Se prevale il desiderio di creare qualcosa di nuovo ed è forte il bisogno di costruire correndo rischi ma avendo un ruolo di rilievo in tutto ciò che viene raggiunto, evitando di lavorare per altri, a meno che ciò non permetta di costituire una propria organizzazione e secondo le proprie modalità, abbiamo l’àncora dell’“imprenditorialità”

L’àncora è “autonomia” se l'aspetto predominante è il liberarsi dalle regole e costrizioni organizzative e vogliamo decidere noi quando lavorare, su cosa e quanto duramente e siamo disposti a rifiutare promozioni o altre opportunità di carriera, pur di mantenere la nostra autonomia.

“Sicurezza”. Chi ha questa àncora mostra un'attenzione prevalente per la sicurezza economica o quella geografica. L'aspetto predominante è quello di stabilizzare la carriera e di sentire di averlo fatto. Fedeli e coinvolti con un datore di lavoro.

“Stile di vita”. L'aspetto predominante è quello di creare un insieme integrato di tutti i settori della propria vita privata e lavorativa, evitando che confliggano. Non si vuole che solo la famiglia o solo la carriera dominino la propria vita: devono bilanciarsi. L'identità è più legata a come si vive la propria vita totale e al proprio sviluppo complessivo.

“Pura sfida”. L'aspetto predominante è risolvere problemi che sembrano irrisolvibili e vincere su possibili competitori. II processo di vincere è centrale nella definizione di sé. Novità, varietà e sfida sono fini di per sé.

“Servizio”. L'aspetto predominante è il raggiungimento di un qualche valore, ad esempio aiutare gli altri. Continuerà a lavorare per i fini dei propri valori, anche se questo richiedesse di cambiare occupazione o organizzazione. Non accettare alcun lavoro in un'organizzazione ostile o contrapposta ai propri valori.

“Occupabilità”. Persone principalmente motivate dall’apprendimento continuo e dallo sviluppo di abilità trasferibili in diversi contesti, che permettano di rimanere spendibili sul mercato del lavoro e aumentino le future opportunità di carriera.

“Internazionalizzazione”. Persone principalmente motivate dal lavorare in contesti internazionali, entrando in contatto con paesi non conosciuti e culture diverse.

Dipende dal contesto e dalle opportunità reali di lavoro, ovviamente, ma una o più di queste àncore ci orientano nelle scelte, quando dobbiamo o vogliamo farle. Se ci sarà compatibilità tra le caratteristiche del lavoro e le nostre caratteristiche conosciute, avremo benessere, efficienza ed efficacia sul lavoro. Diversamente ci sarà insoddisfazione, inefficienza ed instabilità della nostra occupazione.

Contratto psicologico La settima. Negli ambienti di lavoro si formano delle credenze e delle convinzioni circa gli obblighi reciproci che intercorrono tra lavoratori, le organizzazione, i datori di lavoro. Queste convinzioni sono frutto di esplicite promesse, di aspettative maturate da

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esperienze passate, da ciò che si impara osservando e imitando. Se questa sorta di “contratto psicologico” è un “buon contratto”, vi saranno legami significativi tra persone, la convinzione di poter avere un ruolo, di poter contare, di poter investire nell’organizzazione. Nel contratto ci sono obblighi reciproci che, per fare alcuni esempi, possono essere: i benefici economici, le varie gratificazioni e riconoscimenti, le informazioni e le opportunità di formazione e crescita, la sicurezza del e sul lavoro, le risorse e il tempo necessari, un trattamento equo, il rispetto degli orari, svolgere un lavoro valido, l’onestà nelle relazioni, il rispetto dell’organizzazione e delle cose, una buona presentazione di sé, ecc. ecc. Molti aspetti sono protetti da norme e leggi, ma altri sono meno formalizzabili, e l’esperienza sembra andare nella direzione di un sempre maggior ruolo delle relazioni dirette, soprattutto poi nelle microimprese. Ecco che si parla di “contratto psicologico” che diventa sempre più decisivo non solo per una buona qualità della vita sul luogo di lavoro ma anche per la prevenzione di disagi che possono arrivare a disappunto, rabbia, risentimento, percezione di tradimento. La percezione di una rottura del contratto si ha quando si ritiene che le promesse sono state rinnegate o quando si percepisce una incongruenza tra le credenze reciproche, e questo succede quando le promesse sono troppo implicite o ambigue, le comunicazioni sono troppo inadeguate soprattutto all’inizio del rapporto di lavoro, quando gli schemi di riferimento sono troppo distanti e non abbastanza confrontati. Il tema diventa poi più o meno importante in base all’importanza attribuita alla promessa e al livello di attenzione che si ha per questi aspetti, livello di attenzione che dipende anche dal livello di incertezza delle situazioni e dei contratti, e dai costi “costi” richiesti per lo svolgimento del lavoro.

Cambiamento Se siete arrivati fin qua, avrete incontrato molti stimoli che dovrebbero avervi portati a essere in grado di comprendere meglio il tema e acquisire termini e modelli di pensiero utili a leggere la vostra situazione. Ma anche potreste avere avuto il desiderio di cominciare a stimolare qualche cambiamento.

E avrete pensato che non tutti gli ambienti sono così disponibili a farsi cambiare in meglio.

Chissà perché.

Capitolo 5

La finalità della valutazione del rischio La finalità della valutazione è la soluzione e una soluzione è un cambiamento migliorativo.

Il cambiamento deve essere un cambiamento partecipato (direzione e lavoratori) attuato mediante un processo di valutazione sia quantitativo che qualitativo, nella consapevolezza che non ci sono soluzioni predefinite e che queste vanno individuate, pianificate, realizzate e valutate di volta in volta all’interno delle aziende.

Di solito i cambiamenti nei contesti di lavoro trovano la loro motivazione nelle esigenze della produzione e del mercato. Più raramente un progetto di cambiamento è motivato dal desiderio di maggior sicurezza, salute o benessere nel lavoro.

Di solito, quando il cambiamento riguarda la “produzione”, l’esigenza del cambiamento è della direzione, la resistenza viene attribuita ai lavoratori. Quando si tratta di stress accade in genere il contrario: quando si pone il tema dello stress, nelle aziende ci sono spesso forti resistenze difensive che compromettono tutto il processo.

Va detto che il malessere di vivere a volte si ripercuote sul lavoro e il lavoro non può essere (come nulla può essere) esente da, o soluzione definiva per, questo malessere.

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Chi organizza il lavoro dovrebbe però interrogarsi (avendo la capacità di farlo) sul fatto che le situazioni organizzate siano effettivamente funzionali alle persone realmente presenti in azienda, anche difendendosi dai modelli troppo “standardizzati”.

L’origine del disagio L’origine del disagio all’interno di un’organizzazione di lavoro a volte appare provocato da “una o poche persone”, a volte da “molte persone o quasi tutta l’organizzazione”.

Può presentarsi il caso in cui il “padrone” da solo o con pochi collaboratori (a volte familiari) impronta climi lavorativi difficili e di malessere, con una fortissima resistenza ad ammettere l’esistenza di problemi (negazione) e malessere per tutti i lavoratori che subiscono con senso di impotenza. Oppure il caso in cui il malessere origina da una persona collocata in posizione subordinata ma di potere (formale o informale) con l’avvallo complice della direzione e una corte di compiacenti, e divisione dei lavoratori tra cortigiani ed esclusi. Può esserci il caso in cui il disagio nasce da un lavoratore che non ha particolari ruoli ma presenta un atteggiamento che induce malessere nei colleghi, anche in presenza di una buona disposizione aziendale.

Può esserci, al polo opposto, una cultura generale o prevalente improntata a violenza, conflittualità, negligenza, creando in questo caso disagi diffusi.

Chi può diventare promotore del cambiamento? In generale comunque pare che desiderio diffuso sia quello di mantenere lo status quo, sia a livello personale che organizzativo. E allora, chi può diventare promotore di un cambiamento?

Un cambiamento può nascere dall’esterno? Un cambiamento può essere imposto o può solo essere promosso o facilitato? A volte dietro l’esigenza espressa di cambiamento sembra nascondersene un’altra che potremmo esprimere così: “cambia senza cambiarci”. Là dove il disagio è più forte, più forti appaiono le difese e di conseguenza improbabile un’iniziativa interna e poco efficace un’iniziativa esterna. E poi, là dove l’azienda nonostante i segnali continua a negare i problemi, si tratta di dare inizio al processo e questo, in pratica, è il punto più delicato e controverso, che investe le situazioni più difficili (e più “bisognose”). E nelle piccole aziende, di due o tre persone, rischia di diventare un problema personale più che di lavoro. Ecco allora che il rischio di una separazione tra il piano formale e sostanziale, la pratica di valutare il rischio più per rispondere a un obbligo di legge che per far fronte a esigenze reali, porta non solo discredito alle attività di valutazione ma si accompagna ad un senso di frustrazione che accentua le difficoltà.

Perché il cambiamento è così difficile Perché il cambiamento è così difficile anche quando sembra a tutti necessario?

Le persone hanno la spiccata tendenza ad attaccarsi a modelli disfunzionali, per quanto illogici possano apparire agli altri. La resistenza interna a cambiare è legata all’ansia associata all’incertezza nell’impegnarsi in qualcosa di nuovo, e al timore di una ferita narcisistica legata al dover ammettere che il presente stato di cose non va bene. Spesso questi modelli disfunzionali vengono attivati dei comportamenti di evitamento che si ripetono e si consolidano nonostante la sofferenza che vi è connessa.

Data la sofferenza insita nel fatto di andare avanti in modo disfunzionale, deve esserci una certa quantità di piacere: si può resistere al cambiamento anche a causa del “vantaggio

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secondario”, ossia a causa dei benefici psicologici che derivano dal fatto di manipolare l’ambiente esterno, continuando a comportarsi nello stesso modo.

Verso la costruzione del nuovo Il cambiamento, personale o organizzativo, è un processo faticoso e non privo di sofferenza. Si tratta di disattivare difese consolidate, spostando l’energia dalla difesa di un vecchio sé verso la costruzione di un nuovo sé possibile, ma solo intuito. Questo è un processo che provoca la sofferenza di un lutto e che si fa strada a fatica non senza fasi di regressione e possibili fallimenti.

La percezione di un disagio dapprima legato ad episodi isolati, poi sempre più frequenti e strutturati, è l’inizio del processo in quanto fa balenare l’idea che forse qualcosa non va. La decisione del cambiamento avviene però solo quando queste percezioni negative si fanno più strutturate e un ennesimo evento fa “traboccare il vaso” nel senso che provoca una intuizione improvvisa per cui la persona si trova ad avere una nuova comprensione di Sé. Dopo la decisone inizia il processo di ristrutturazione, anch’esso non è privo di incertezze e fatiche. Si tratta pertanto di un processo non facile e che non può essere conseguito con superficialità.

Il cambiamento organizzativo ha fasi simili a quello del cambiamento personale.

Solo quando la direzione è veramente orientata al cambiamento, e dopo aver superato le difese e le resistenze al cambiamento, può iniziare una proficua ricerca di soluzioni ai problemi. E quando finalmente si comincia con l’intenzione positiva, occorre considerare che una situazione di disagio non può essere analizzata con schemi precostituiti o risolta con soluzioni standard che rischiano di riprodurre se stesse più che capire e modificare la situazione reale.

Occorre evitare di porsi la domanda del “perché” la realtà problematica da affrontare si sia formata: è sulla persistenza di un problema che si può intervenire e non sulla sua precedente formazione. Chiedersi “come funziona” orienta l’indagine in direzione della ricerca del cambiamento nel presente, mentre domandarsi “perché” conduce a ricercare le spiegazioni in un passato che non può comunque essere cambiato.

Non è possibile conoscere sempre a priori quale sia la strada giusta Non è possibile conoscere a priori quale sia la strada giusta per raggiungere un obiettivo se non cominciamo a percorrerla, e di conseguenza possiamo arrivare a conoscere come una situazione problematica persiste e si alimenta solo intervenendo per cercare di risolverla.

Quando si presenta un problema si ha tendenza a far ricorso all’esperienza sotto forma di riproposizione di interventi risolutivi che in passato hanno funzionato per problemi analoghi. Di fronte all’insuccesso di tali strategie, poi, piuttosto che ricorrere a modalità di soluzioni alternative, si ha la tendenza ad applicare con maggior vigore la strategia iniziale, nell’illusione che fare “più di prima” la renderà efficace. Questi tentativi di reiterare una stessa soluzione che non funziona, finiscono per dar vita a un complesso processo di retroazioni in cui sono proprio gli sforzi in direzione del cambiamento a mantenere la situazione problematica immutata. Da questo punto di vista si può affermare che le “tentate soluzioni” diventano il problema. La rottura dell’equilibrio “patologico” di un sistema si ottiene pertanto intervenendo sulle soluzioni disfunzionali adottate per risolvere il problema”. Inoltre, fornire subito la soluzione che sembra ovvia, perché sperimentata in tanti altri casi simili, aumenta nelle persone la resistenza al cambiamento. Infatti non è così semplice far accettare che esiste una soluzione facile ed efficace a coloro che per tanto tempo hanno cercato di trovarla senza successo.

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In una piccola azienda Dovrebbe essere condivisibile a questo punto che in una piccola azienda, di 3 – 5 addetti, la gestione dello stress lavoro correlato partendo dalla valutazione del rischio con gli strumenti messi a punto pensando alle aziende più grandi e strutturate, rischia di essere uno sforzo poco utile.

Lo stress lavoro correlato esiste come in tutte le altre situazioni di lavoro ma alcune dimensioni diventano quasi inconsistenti e altre acquisiscono un peso determinante. In particolare diventa quasi evanescente la struttura organizzativa formale e diventano determinanti le abitudini, le prassi e le personalità dei singoli lavoratori e datori di lavoro.

È perciò forse vero che gli elementi di personalità risultano determinanti ma non possono e non devono essere assolutamente il centro delle azioni di valutazione e intervento anche se i rapporti sono molto personalizzati e tendenzialmente bloccati con resistenze al cambiamento più forti là dove i comportamenti sono più disfunzionali.

Le misure di prevenzione vanno cercate giorno per giorno In una piccola azienda l’intervento del datore di lavoro sulle persone è per un verso quotidiano ma nella prospettiva della prevenzione gli elementi di novità difficilmente nascono dall’interno dell’azienda in risposta ad un adempimento di valutazione più o meno semplificata.

Di fatto ciascuna persona effettua di continuo una valutazione della condizione di lavoro, lavoro che conosce (o ritiene di conoscere) molto bene e in conseguenza di questa valutazione pensa, sente e agisce e le misure di prevenzione sono in buona parte da trovare giorno per giorno.

Ecco allora che assume importanza centrale la consapevolezza, conseguenza di una formazione, sia dei lavoratori che del datore di lavoro. E semmai una formazione che consenta di “uscire dall’azienda”, per acquisire (e apportare) elementi di novità e di ristrutturazione delle persone e dei rapporti. Una formazione che favorisca la nascita e la crescita di conoscenze e cultura per il potenziamento delle capacità di datore di lavoro e lavoratori.

Capitolo 6

L’organizzazione si è ammalata Diceva Francesco Novara che le organizzazioni sane hanno la loro origine, quindi la loro ragione di esistere, in una finalità esterna: un’organizzazione esiste per produrre beni e servizi utili. L’obiettivo principale dell’organizzazione diventa il riferimento di tutte le componenti dell’organizzazione e ognuna di queste componenti percepisce se stessa e i rapporti con le altre in funzione della ragion d’essere comune. Se l’obiettivo comune si sfoca, ciascuna componente dell’organizzazione tende a percepire se stessa come il proprio fine e le altre in funzione di se stessa: è l’alienazione del mezzo che diventa fine. In tal caso, non esiste un sistema coerente di finalità e valori e un insieme di convinzioni ed impegni condivisi. L’organizzazione si è ammalata.

I livelli di “costrittività” sono funzionali o semplicemente gratuiti? I luoghi di lavoro oggi sono sempre più simili ad un sistema complesso in equilibrio instabile. Se in un sistema complesso in equilibrio instabile aumenta la tensione, si arriva ad una condizione in cui anche un piccolo evento può provocare grandi cambiamenti con conseguenze non prevedibili soprattutto a lungo termine.

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In qualsiasi organizzazione risulta naturale la presenza sia di elementi di rinuncia individuale (in termini di spontaneità e soggettività) sia di elementi di utilità collettiva. La ricerca della soddisfazione del proprio interesse fa incontrare il lavoratore con il datore di lavoro. Quest’ultimo accetta di accogliere il lavoratore nell’organizzazione all’interno di una visione imprenditoriale, mentre il lavoratore, cosciente di accettarne la costrittività, ricerca l’organizzazione per raggiungere i propri obiettivi. Il lavoratore sacrifica la propria “libertà” per un tornaconto personale fino a quando il proprio benessere non sia messo a rischio dall’organizzazione stessa. I livelli di costrittività mutano da contesto a contesto e per rimanere validi devono essere giustificabili. L’errore di molte organizzazioni è quello di stabilire il patto ad un livello di disuguaglianza, tale da inibire la motivazione. Per eliminare ogni germe di stress potenziale le aziende devono domandarsi se i livelli di costrittività sono davvero funzionali o semplicemente gratuiti e, soprattutto, capire in quale modo possano essere modificati al fine di ottenere quell’equilibrio, base primaria per il raggiungimento di un benessere aziendale capace di riflettersi nella produttività. Anche i dirigenti, interessati principalmente alle performance non possono non considerare con maggiore serietà il contratto tra le parti ed il problema dello stress lavoro correlato se vogliono orientarsi verso lavoratori ben motivati, che rimangano tali.

Il percorso che abbiamo appena concluso Il percorso che abbiamo appena concluso nasce come risultato di incontri e confronti con singoli lavoratori, gruppi, parti sociali, aziende, consulenti e colleghi di varie professionalità, in contesti di ascolto, assistenza, formazione e vigilanza, svolti fin dagli anni precedenti l’obbligo di valutazione imposto per legge.

La percezione della complessità del tema e la tentazione di prendere scorciatoie improduttive ha sollecitato questa sintesi. Una sintesi volutamente essenziale e distillata ma che vuole soprattutto, a fronte delle esperienze viste e vissute, rimarcare la necessità di una responsabilizzazione delle persone, delle organizzazioni, delle persone nelle organizzazioni, senza indulgere troppo su strumenti che, nella piccola azienda, sembrano più uno schermo e un alibi piuttosto che una facilitazione.

L’intento è quello di fare sufficiente chiarezza per cominciare a muoversi senza sbagliare direzione e fornire un bagaglio leggero di pensieri indispensabili per cominciare ad essere efficaci. Non ricette precostituite (non esistono) non alibi (non servono) non troppe parole che possono distrarre. Mappa essenziale per muoversi e aprire alla curiosità di ulteriori approfondimenti.

Ravenna, 18 marzo 2016

Marco Broccoli

SPSAL - AUSL della Romagna

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Annotazioni

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