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XXI Secolo (2010)
DALLA MEDICINA ALTERNATIVAALLA MEDICINA INTEGRATA
di Francesco Bottaccioli
Dalla medicina alternativa alla medicina integrata
Il primo organismo statale a occuparsi nel mondo occidentale di medicine e terapie
diverse da quelle convenzionali è stato l’Office of alternative medicine, istituito nel
1992 presso gli statunitensi National institutes of health (NIH). Pochi anni dopo
l’Office si trasformò in National center for complementary and alternative
medicine (NCCAM). L’acronimo CAM (Complementary and Alternative Medicine)
divenne sinonimo di quelle che in Europa venivano chiamate medicine non
convenzionali. A partire dai primi anni del 21° sec. si è andata sempre più
diffondendo la definizione di medicina integrata (integrative medicine negli Stati
Uniti, integrated medicine in Gran Bretagna), marcando così l’aspetto
complementare delle medicine non convenzionali.
In questo saggio useremo prevalentemente queste ultime definizioni, anche se,
talvolta, a seconda del contesto, useremo anche la generica dizione medicine non
convenzionali.
Diffusione delle medicine complementari
Dall’ultimo decennio del 20° sec. nei principali Paesi industrializzati, è in atto una
crescente diffusione dell’uso delle medicine complementari. Negli Stati Uniti, tra il
1990 e il 1997, l’uso di tali terapie è passato dal 33,8% al 42,1% della popolazione.
All’inizio del 21° sec. sarebbero addirittura 62 su 100 gli statunitensi che fanno
ricorso alle medicine complementari (P.M. Barnes, E. Powell-Griner, K. McFann,
R.L. Nahin, Complementary and alternative medicine use among adults. United
States, 2002, «Advance data», 2004, 343, pp. 1-19). Livelli molto elevati di
utilizzazione (tra il 30 e il 40% della popolazione) si registrano anche in Australia,
Francia, Germania, Gran Bretagna.
In Italia, un’indagine dell’Istituto nazionale di statistica (ISTAT) sul finire del 20°
sec. registrava un valore del 15,5%, che, a un successivo monitoraggio del 2005 a
opera dello stesso Istituto, risultava sceso a 13,6% (ISTAT 2007). Stando a questi
dati, quindi, il nostro Paese non solo si collocherebbe all’ultimo posto tra le nazioni
occidentali più ricche che utilizzano le medicine complementari, ma presenterebbe
anche un divario sorprendente rispetto ai Paesi affini. In realtà, occorre
considerare che nelle statistiche statunitensi si inserisce tra le CAM anche il ricorso
alla preghiera, per sé e per gli altri. Se si toglie la preghiera, il tasso di utilizzazione
negli Stati Uniti scende al 36% (Institute of medicine of the National academies
2005). Per converso, le indagini ISTAT per l’Italia, a cui ci siamo sopra riferiti,
sono estremamente restrittive, in quanto prendono in esame solo le principali
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medicine complementari: agopuntura, omeopatia, fitoterapia, trattamenti manuali.
D’altra parte, altre indagini, effettuate nello stesso periodo (dati EURISPES 2006),
attestano che l’omeopatia da sola vanta 11 milioni di utilizzatori a fronte di un
numero di italiani inferiore a 8 milioni stimato dall’ISTAT in riferimento alle
medicine non convenzionali nel loro complesso.
Ma, al di là delle statistiche discordanti, è interessante analizzare, sia pur in sintesi,
la distribuzione delle preferenze e le caratteristiche socioculturali degli italiani che
ricorrono alle medicine complementari. Secondo la già citata indagine ISTAT del
2007, l’omeopatia nel nostro Paese è la medicina complementare di gran lunga
preferita (7%), seguita dai trattamenti manuali (6,4%), dalla fitoterapia (3,7%) e
dall’agopuntura (1,8%). Il forte incremento che si è registrato nell’uso delle
medicine complementari in Italia, tra il 1994 e il 2000, è dipeso proprio
dall’omeopatia, che però nel quinquennio successivo non è riuscita a stabilizzare
l’espansione, ma ha addirittura registrato una flessione, che del resto caratterizza
anche le altre discipline.
In Occidente, sono più le donne che gli uomini a fare ricorso alle medicine
complementari. Infatti, in Italia le donne sono 4,7 milioni, pari al 15,8%, a fronte
dei 3,162 milioni di uomini, pari all’11,2%; ma, se si considera la fascia di età tra i
35 e i 44 anni, più del 20% delle donne risulta aver fatto ricorso a rimedi non
convenzionali contro il 14,6% dei coetanei uomini. Quasi il 10% dei bambini e dei
ragazzi fino a 14 anni è curato con terapie complementari, di cui circa l’8% con
l’omeopatia. Molto accentuate le differenze tra i sessi riguardo al ricorso
all’omeopatia, ossia 8,8% di donne contro 5,1% di uomini, mentre sono più
contenute nel caso dell’agopuntura (2,2% contro 1,5%) o dei trattamenti manuali
(7,1% contro 5,7%).
Coloro che utilizzano le medicine complementari sono in prevalenza laureati e
diplomati, dirigenti, imprenditori, liberi professionisti e impiegati. Più modesta la
percentuale di operai e pensionati. Netto il divario tra le regioni centro-
settentrionali e quelle meridionali. Trentino-Alto Adige, Valle d’Aosta, Veneto e
Friuli presentano una percentuale di utenti ben sopra il 20% della popolazione, con
la provincia di Bolzano che è oltre il 34%, in crescita lineare rispetto al passato e in
controtendenza rispetto al resto d’Italia che, come abbiamo ricordato, ha visto una
flessione nei primi anni del 21° secolo. Ma anche Piemonte, Lombardia ed Emilia-
Romagna sono vicine al 20%; seguono, ben distanziate, Toscana (15,5%), Umbria
(14,1%), Marche (13,8%), Lazio (12,2%) e Sardegna (11,6%). Molise, Campania,
Puglia, Basilicata, Calabria e Sicilia invece hanno una percentuale bassissima:
attorno al 5%.
Il grado di soddisfazione degli utilizzatori delle medicine complementari è elevato.
Gli utenti pienamente soddisfatti delle terapie utilizzate vanno dal 61,1%
dell’agopuntura al 70,3% della fitoterapia, al 71,3% dell’omeopatia fino al 77,9% dei
trattamenti manuali. Se si sommano anche quelli parzialmente soddisfatti si hanno
queste percentuali: agopuntura 79,8%, fitoterapia 91,5%, omeopatia 92,5%,
trattamenti manuali 96%. Un’analisi più dettagliata mostra che l’aumentare
dell’età e la diminuzione del livello di istruzione sono correlati con l’aumento del
grado di insoddisfazione. Questo può spiegare la più bassa percentuale di
soddisfazione riferita all’agopuntura, i cui utenti sono mediamente più anziani, con
un più basso grado di istruzione, che ne usufruiscono soprattutto per patologie
dolorose croniche di difficile risoluzione anche con la farmacologia e la chirurgia.
Tre persone su quattro che si sono rivolte alle terapie complementari non l’hanno
fatto in maniera esclusiva, ma le hanno integrate con farmaci di sintesi. Solo il 17%
degli intervistati ha dichiarato di aver usato esclusivamente rimedi omeopatici o
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fitoterapici. Anche in questo caso è interessante notare il divario tra Nord-Sud. Al
Nord è maggiore la tendenza all’integrazione rispetto al Sud. In Veneto o in Emilia-
Romagna solo il 13% degli utilizzatori di medicine complementari lo fa in modo
esclusivo, mentre in Molise è il 36% e in Campania quasi il 24%. Al riguardo si
possono ipotizzare due ragioni fondamentali: una di tipo economico, e cioè
l’aggravio di spesa che comporta il ricorso contemporaneo alle due medicine, come
dimostrato dalla forte perdita nelle regioni meridionali di utilizzatori delle
medicine complementari nel quinquennio 2000-2005, con una fase di crescita
economica vicina allo zero; l’altra ragione è relativa al fatto che, laddove il ricorso
alle medicine complementari è un fenomeno ristretto, preponderanti appaiono le
motivazioni culturali ‘alternative’ rispetto al pragmatismo che caratterizza il
fenomeno di massa che si registra al Nord del Paese.
Tendenza mondiale all’integrazione
L’integrazione in Oriente
L’integrazione tra diversi sistemi medici è un fenomeno in atto da decenni nei due
più grandi Paesi asiatici, Cina e India, dove è regolamentata e attivamente
promossa da ordinamenti e politiche statali. In India, presso il Ministero della
salute e del welfare familiare, ha sede dal 1995 uno speciale dipartimento
denominato AYUSH (Ayurveda, Yoga & naturopathy, Unani, Siddha and
Homoeopathy), acronimo che comprende tutte le discipline mediche
complementari che, insieme alla medicina convenzionale, fanno parte del Servizio
sanitario nazionale: ayurveda (medicina tradizionale indiana), yoga, naturopatia,
unani (antico sistema medico di derivazione greca), siddha (una delle più antiche
terapie del Sud dell’India), omeopatia.
Per quanto riguarda l’omeopatia (Prasad 2007) sono 250.000 i medici omeopati
indiani registrati, mentre sono 11.000 i letti negli ospedali pubblici riservati alle
cure omeopatiche. L’omeopatia è insegnata nelle facoltà di medicina, dove i primi
tre anni di studio sono identici sia per chi diventerà un omeopata sia per chi sarà
un medico di tipo occidentale.
Secondo fonti governative, circa il 10% degli indiani, 100 milioni di persone, si
affida per la propria salute solo alle cure omeopatiche. È evidente quindi che il
ricorso alle cure della tradizione indiana o di quella alternativa europea
(l’omeopatia venne introdotta in India negli anni Trenta del 19° sec. da John
Honigberger, un discepolo diretto del fondatore dell’omeopatia Samuel Friedrich
Christian Hahnemann) risente anche delle ristrettezze di bilancio statale, ma non si
deve pensare che sia un fenomeno residuale legato allo stadio di sviluppo
economico del Paese; l’omeopatia è infatti in crescita notevole tra le classi abbienti.
Il mercato dei prodotti omeopatici in India cresce a un ritmo del 25% l’anno e si
calcola che, attorno al 2015, la spesa privata per l’omeopatia nel grande Paese
asiatico si aggirerà attorno ai 60 miliardi di rupie (circa 1,55 miliardi di dollari).
La Cina, dagli anni Ottanta del 20° sec., è promotrice della diffusione mondiale
della medicina tradizionale cinese. All’interno del Paese, la medicina cinese e
quella occidentale sono oggetto di attive politiche di integrazione nel servizio
sanitario nazionale, nella ricerca scientifica e nell’insegnamento universitario. Nel
primo decennio del 21° sec. si è registrato un doppio movimento: da un lato, lo
studio e la ricerca in biomedicina hanno fatto grandi progressi conquistando quote
crescenti di giovani studenti e insidiando quindi la diffusione della medicina
tradizionale; dall’altro lato, la politica degli accordi internazionali, per lo studio e
l’insegnamento della medicina tradizionale cinese in Occidente, ha raggiunto
importanti traguardi con l’istituzione di corsi professionalizzanti in medicina
tradizionale cinese gestiti dalle università statunitensi ed europee, tra cui quelle
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italiane, in collaborazione con le istituzioni formative cinesi.
Per effetto della globalizzazione, si può pertanto prevedere che la spinta alla
medicina integrata proveniente dai grandi Paesi asiatici entrerà sempre più in
collegamento con l’analoga spinta che è in atto nei principali Paesi occidentali.
L’integrazione in Occidente
Nel primo decennio del 21° sec. l’integrazione delle medicine complementari con la
medicina convenzionale ha assunto le caratteristiche di un trend in ascesa che
riguarda l’America Settentrionale e l’Europa.
Negli Stati Uniti una quota crescente di ospedali offre terapie complementari,
mentre sono sempre più numerosi i medici che usano le CAM nella loro pratica. Le
più importanti università del Paese si sono unite nel Consortium of academic
health centers for integrative medicine. Prestigiosi centri di cura, in particolare di
terapia del cancro, hanno istituito al loro interno servizi di medicina integrata, che
spesso sono in diretto contatto con le facoltà mediche per garantire un
insegnamento qualificato.
Dal 1998 è attivo, presso i NIH, il National center for complementary and
alternative medicine (NCCAM), che è passato da un budget annuale iniziale di 2
milioni di dollari a oltre 120 milioni di dollari per l’anno 2009; ma se si calcola
l’insieme degli investimenti di tutti i NIH nel campo delle CAM, si superano i 300
milioni di dollari. Di questa cifra, oltre un terzo è destinato al settore dell’oncologia
(Integrative oncology, 2008). Infine, a dimostrazione del successo delle CAM negli
Stati Uniti, c’è da considerare la crescente copertura assicurativa delle spese
sostenute per le terapie complementari e integrate.
Rilevante è l’esperienza nel campo dell’oncologia integrata. Centri oncologici di
eccellenza, tra i più famosi del mondo, come il Memorial Sloan-Kettering cancer
center di New York e il Dana-Farber cancer institute della Harvard university a
Cambridge (Stati Uniti), hanno attivato, dalla fine degli anni Novanta, servizi di
medicina integrata rivolti ai pazienti ricoverati o in trattamento esterno. In questi
centri terapeutici lavorano insieme medici esperti in medicine complementari
(agopuntura, fitoterapia, omeopatia), psicologi psicoterapeuti, dietisti,
musicoterapeuti, esperti in massaggio orientale (tuina e shiatsu), maestri di
tecniche meditative e di ginnastiche energetiche orientali (qigong, taiji quan).
L’obiettivo è quello di integrare la terapia oncologica standard con trattamenti
complementari rivolti al miglior controllo della sintomatologia, anche di quella
secondaria alle terapie (nausea, vomito, astenia, dolore, danni cutanei ecc.), ma
rivolti anche a innalzare le capacità di superamento della malattia tramite la
considerazione della persona nella sua interezza (Cassileth, Gubili, in Integrative
oncology, 2008).
I centri ospedalieri di oncologia integrata funzionano, al tempo stesso, da centri di
ricerca e di formazione. Le terapie complementari e alternative vengono sottoposte
ad accurata verifica scientifica, tramite l’esame della letteratura, ma anche
mettendo in campo studi clinici controllati. L’obiettivo dichiarato è quello di offrire
il meglio delle terapie complementari proteggendo i pazienti dall’uso di terapie non
validate o rischiose.
Il crescente successo dell’oncologia integrata ha indotto i responsabili dei centri
maggiori a dar vita nel 2004 a una società scientifica, la Society for integrative
oncology (SIO), che nel 2007 ha redatto le linee guida per il corretto uso delle CAM
in oncologia (G.E. Deng, B.R. Cassileth, L. Cohen et al., Integrative oncology
practice guidelines, «Journal of the Society for integrative oncology», 2007, 5, 2,
pp. 65-84). La SIO si sta impegnando in un programma di diffusione
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internazionale: un importante simposio è stato infatti celebrato a Shanghai
nell’aprile del 2008.
In Italia sono circa duecento i centri pubblici che offrono prestazioni di medicina
complementare, di cui una sessantina solo in Toscana che, tra le regioni, è quella
che si è spinta più avanti nell’integrazione delle CAM nel servizio sanitario
regionale. Con il Piano sanitario regionale 2005-2007 la Regione Toscana ha infatti
deciso di integrare nel servizio sanitario agopuntura, omeopatia e fitoterapia, cioè
le terapie complementari che, al momento, il legislatore regionale ha ritenuto
presentino un’evidenza scientifica sufficiente. I cittadini toscani, a partire dal
2006, possono accedere in modo diretto (senza prescrizione del medico di base) ai
servizi di medicina complementare che vengono erogati al pari di altre prestazioni
mediche. Inoltre, l’autorità regionale ha deciso di inserire un rappresentante delle
medicine complementari in ogni Azienda sanitaria e nel Consiglio sanitario
regionale. È stata istituita anche una rete di medicina integrata con tre centri di
riferimento regionale: a Firenze per l’agopuntura e la medicina cinese, a Empoli
per la fitoterapia, a Lucca per l’omeopatia. Nella primavera del 2008 è stato
annunciato il varo del primo ospedale di medicina integrata a Pitigliano (Grosseto),
esperienza pilota su scala europea. Ma, oltre che in Toscana, riferimenti e
programmi di attività relativi alle medicine complementari si trovano nei Piani
sanitari regionali di Valle d’Aosta, Liguria, Lombardia, Piemonte, Emilia-Romagna,
Umbria, Lazio, mentre in quasi tutte le altre regioni sono attivi osservatori,
commissioni o altre strutture istituzionali di riferimento. Rilevante, infine,
l’approvazione di un documento sulle CAM nei corsi di laurea dell’area sanitaria da
parte della conferenza dei presidi delle facoltà di Medicina e dei presidenti dei corsi
di laurea in medicina e chirurgia, tenutasi ad Alghero nel 2004. Dopo questa
conferenza, nell’anno accademico 2005-06, alcune università (Milano, Verona,
Bologna, Firenze, Modena e Reggio nell’Emilia) hanno inserito corsi obbligatori o
elettivi per gli studenti di medicina, mentre altre (Brescia, Chieti, Firenze, Padova,
Roma La Sapienza) hanno offerto corsi di perfezionamento postlaurea; e altre
ancora (Milano, Firenze, Roma La Sapienza e Roma Tor Vergata) master di I e di II
livello (Le medicine non convenzionali in Italia, 2007).
Ostacoli e spinte all’integrazione
Nonostante la tendenza all’integrazione sia ben operante su scala mondiale e
nazionale, non pochi e non piccoli sono gli ostacoli che si oppongono a tale
processo. I principali possono essere classificati come di tipo epistemologico,
scientifico, politico e culturale.
Per quanto riguarda gli ostacoli di tipo epistemologico, il modello biomedico
riduzionista a cui si ispira la medicina convenzionale può costituire un recinto
invalicabile per medicine e approcci terapeutici che si ispirano a modelli di
carattere olistico. Ci si può trovare, in sostanza, nella condizione descritta da
Thomas S. Kuhn a proposito dell’incomunicabilità tra paradigmi (The structure of
scientific revolutions, 1962; trad. it. 1969).
In merito agli ostacoli di tipo scientifico, come vedremo più avanti, pur
verificandosi un trend crescente di studi controllati sull’efficacia e la sicurezza delle
terapie complementari, è ancora complessivamente debole e non omogenea la
ricerca nel campo delle CAM.
Riguardo agli ostacoli di tipo politico e culturale, in Italia in particolare, importanti
opinion leaders della scienza sono stabilmente schierati contro ogni tentativo di
regolamentare per legge la materia e, soprattutto, contro ogni progetto di
finanziamento per ricerca e servizi alla popolazione in ambito CAM. Questa
opposizione alla medicina integrata è anche ciò che spiega, almeno in parte, il fatto
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che il Parlamento italiano, pur sollecitato da numerosi progetti di legge, dalla fine
degli anni Ottanta al 2009 non ha trovato la volontà di legiferare in materia.
Prima di riassumere in breve l’annosa querelle, è utile sottolineare che il
fondamentale ostacolo di tipo epistemologico è venuto virtualmente meno con
l’emergere, dal seno della medicina scientifica, della
psiconeuroendocrinoimmunologia (PNEI), un nuovo modello sistemico di visione
dell’organismo umano in salute e in malattia (cfr. Bottaccioli 20052; Psycho-
neuroimmunology, 20074).
Il mutamento di paradigma scientifico: la PNEI
Viviamo in un’epoca ipertecnologica e iperspecialistica, nella quale forme
spettacolari di intervento sul vivente (biotecnologie) e sull’organismo umano
(trapianti, ingegneria genetica) convivono con un diffuso analfabetismo sugli
aspetti di fondo della regolazione del benessere psicofisico e della salute umana.
Questo analfabetismo moderno riguarda le persone, che sempre più vanno alla
ricerca di un aiuto per affrontare in modo unitario malesseri e problemi fisici e
psichici. Richiesta spesso frustrata dalla biomedicina iperspecialistica e che,
sociologicamente, costituisce una delle principali forze di attrazione verso le
medicine complementari, i cui operatori tendono a fornire risposte che riguardano
la persona nella sua interezza e non semplicemente il disturbo che è all’origine del
consulto (Colombo, Rebughini 2006).
Ma anche ampi settori di studiosi e di operatori della salute soffrono ormai le
difficoltà del modello biomedico dominante, vivendo la contraddizione tra
l’aumento delle conoscenze scientifiche e la riduzione del campo di indagine e di
intervento terapeutico, sempre più imprigionato in ambiti specialistici. In questo
quadro, la persona che chiede aiuto sparisce come unità biopsichica e viene
sostituita da segmenti sovrapposti e non relazionati su cui si applicano le diverse
competenze e le singole terapie, talvolta con effetti di accumulo e di sinergia
negativa. Non a caso la frustrazione è uno dei sentimenti più diffusi tra gli
operatori: essa deriva, per l’appunto, dal sentirsi meccanici del corpo o della mente
e non promotori della salute. Eppure è sempre più evidente, sulla base di
importanti studi epidemiologici e studi sperimentali mirati, che gran parte dei
malanni che affliggono l’umanità è radicata nelle cattive relazioni che gli esseri
umani instaurano tra loro e con l’ambiente. Le strutture contemporanee
dell’alimentazione, del lavoro e della vita sociale plasmano ambienti urbani, stili di
vita e comportamenti che costituiscono le radici delle principali patologie moderne:
cardiopatie, tumori, malattie autoimmuni e allergiche, disturbi dell’umore e del
comportamento.
Il mutamento di questo stato di cose comporta una molteplicità di altri
cambiamenti, nelle persone, negli operatori e nelle istituzioni, ma richiede anche
un’innovazione nel modello scientifico di riferimento, superando definitivamente
la dicotomia mente-corpo, che porta con sé la separazione tra cura del corpo e cura
della psiche, tra prevenzione primaria, affidata agli stili di vita, e secondaria,
affidata essenzialmente ai farmaci. La PNEI fornisce un quadro di riferimento che
evita le tentazioni di ridurre la psiche a modelli biologici o informatici,
rintracciandone le solide radici nel sistema nervoso centrale, ma, al tempo stesso,
comprendendone e valorizzandone il livello specifico. La psiche, nel modello PNEI,
emerge dal livello biologico, ma è anche capace di retroagire sui circuiti nervosi da
cui sorge, modificandoli. È condizionata dalla rete delle relazioni biologiche interne
all’organismo, derivanti dall’alimentazione, dall’attività fisica, dallo stato dei grandi
sistemi di regolazione fisiologica (network neuroendocrinoimmunitario); al tempo
stesso, retroagisce su tali sistemi, svolgendo un ruolo determinante nell’equilibrio
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salute-malattia.
In un passo celebre, l’antropologo e psichiatra Gregory Bateson afferma:
«All’interno di questa scienza [la medicina] c’è una conoscenza straordinariamente
scarsa [...] del corpo visto come un sistema autocorrettivo organizzato in modo
cibernetico e sistemico. Le sue interdipendenze interne sono pochissimo comprese.
[...] Cannon ha scritto un libro sulla Saggezza del corpo, ma nessuno ha scritto un
libro sulla saggezza della scienza medica, poiché la saggezza è proprio ciò che le fa
difetto. Per saggezza intendo la conoscenza del più vasto sistema interattivo»
(Steps to an ecology of mind, 1972; trad. it. 200421, p. 473).
La ricerca PNEI è esattamente lo studio del «più vasto sistema interattivo»
auspicato dall’epistemologo. Vagliando le reciproche relazioni tra la psiche e i
grandi sistemi biologici (il neuroendocrino e l’immunitario), essa consente di
vedere l’organismo umano come una rete strutturata e interconnessa, in reciproca
relazione con l’ambiente fisico e sociale e di prospettare quindi una modulazione
del network umano da parte di comportamenti (gestione dello stress,
alimentazione, attività fisica), di sostanze naturali, di terapie fisiche. È un modello
olistico scientifico che consente di non respingere le medicine antiche ed
eterodosse, ma di sottoporle a verifica scientifica rispettandone gli statuti
costitutivi.
Con il modello PNEI, la medicina integrata può presentarsi quindi non come
giustapposizione di terapie o come tentativo di sottomissione delle CAM alla
medicina convenzionale, bensì come nuova sintesi medica e culturale, come un
fondamentale passo in avanti non solo nella cura, ma anche nella conoscenza
dell’uomo (Bottaccioli 20052).
La querelle sulle medicine non convenzionali in Italia
Anche se in tutti i Paesi occidentali non manca un vivace dibattito sul ruolo delle
medicine complementari, in Italia, a partire dal 2002, esso ha assunto i toni dello
scontro frontale. Prima di quella data, infatti, tutto ciò che era al di fuori dalla
medicina convenzionale era per definizione alternativo, poiché si confondeva
spesso con i movimenti ecologisti e persino con la New age in generale.
Il 18 maggio 2002, il Consiglio nazionale della Federazione nazionale degli ordini
dei medici chirurghi e degli odontoiatri (FNOMCeO), riunitosi a Terni, ha
approvato un documento nel quale si dettavano agli ordini provinciali le linee
guida sulle medicine e pratiche non convenzionali, che venivano riconosciute come
atto medico e quindi degne di tutela professionale. L’omeopatia e le altre medicine
non convenzionali, di colpo, passavano alla piena rispettabilità. Qualche settimana
dopo, il 15 giugno, un gruppo di noti ricercatori ha presentato alla stampa un
comunicato che conteneva una critica demolitrice dell’insieme delle pratiche di
medicina non convenzionale e una chiara censura delle stesse deliberazioni assunte
dall’organo professionale dei medici italiani. Secondo questo documento le
pratiche di medicina non convenzionale hanno un approccio ideologico alle
malattie, si basano su presupposti arbitrari, non tengono in considerazione i
meccanismi biologici e le conoscenze scientifiche più moderne, non offrono una
spiegazione razionale alla presunta efficacia delle cure e fanno riferimento a
meccanismi del tutto indimostrabili.
Questi argomenti sono stati poi ripresi negli anni successivi con articoli sulla
stampa da parte di singoli firmatari del documento e nuovamente utilizzati, sia pur
in un contesto più aperto al dialogo, in un documento del Comitato nazionale per la
bioetica relativo a quelle che il Comitato stesso ha definito medicine alternative,
sottraendo a tale classificazione l’agopuntura reflessologica, la fitoterapia e la
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medicina manuale, collettivamente definite pratiche terapeutiche empiriche che
appaiono, in determinati casi, benefiche per i pazienti (CNB 2005).
Il documento del Comitato per la bioetica è interessante perché, al di là
dell’asprezza dei toni di condanna delle medicine alternative, giudicate senza
fondamenti epistemologici e scientifici, mette in rilievo tre aspetti fondamentali. In
primo luogo contiene un’ammissione: la «crescente diffusione nel mondo
occidentale del ricorso alle medicine alternative […] dipende anche (e per alcuni
soltanto) dal fatto che molti pazienti trovano soggettivamente beneficio da tali
indicazioni terapeutiche» (CNB 2005, punto 3). Poi un’indicazione metodologica:
analizzare e distinguere le diverse terapie che non vanno considerate tutte allo
stesso modo. Come già ricordato, il Comitato giudica positivamente alcune
importanti terapie come l’agopuntura, la fitoterapia e le medicine manuali. Infine,
il documento sostiene che «ogni medico […] deve ottenere negli anni della sua
formazione una conoscenza adeguata delle ragioni che militano a favore e di quelle
che militano contro le pretese delle medicine alternative» (CNB 2005, punto 19).
Per il Comitato nazionale per la bioetica il ricorso alle cosiddette medicine
alternative non è quindi il frutto di un fenomeno ideologico, di un irrazionalismo
antiscientifico di massa, ma, più laicamente, dipende anche dal fatto che molti
cittadini trovano vantaggi soggettivi in queste terapie. Inoltre, diversamente da
quanto affermato nel documento degli scienziati sopra citato, il Comitato sostiene
che le medicine in questione non sono tutte uguali. Questo è infatti il punto di
maggiore debolezza della posizione dei critici radicali delle medicine
complementari. Non sembra corretto criticare in nome della scienza e poi non
applicare il metodo scientifico nell’esaminare l’oggetto che si critica. Non porsi
quindi l’onere di analizzare le diverse configurazioni che presenta il mondo delle
medicine complementari e alternative, sottraendolo così dalla nebulosa indistinta
in cui lo confina una visione frettolosa.
I critici radicali sostengono che le medicine in questione non hanno un fondamento
scientifico perché muovono da presupposti ideologici: anche in questo giudizio
occorre distinguere ciò che è indiscutibilmente vero da ciò che è opinabile. È vero
che le terapie di cui stiamo parlando sono nate e si sono sviluppate prima della
nascita della medicina convenzionale. In questo senso non possono essere
scientifiche per definizione. È indubbio infatti che la medicina tradizionale cinese
non possa muovere da presupposti scientifici in quanto si è formata a partire dal 5°
sec. a.C., al pari dell’antica medicina greca. Così, l’omeopatia è nata alla fine del
Settecento in pieno vitalismo. La fitoterapia poi iniziò a essere praticata con la
medicina duemila anni prima di Cristo. È evidente quindi che nessuna di queste
medicine partecipa del modello scientifico che si è pienamente affermato in
Occidente nel 20° secolo. Ma basta questo per dire che medicina cinese, omeopatia
e fitoterapia si basano su presupposti ideologici? Se fosse così si dovrebbe
concludere che la storia della scienza medica inizia poco più di cento anni fa e ciò
appare manifestamente inverosimile.
Sembra quindi necessario indagare se, pur partendo da presupposti diversi da
quelli della biomedicina contemporanea, le medicine complementari possano
offrire stimoli di riflessione scientifica e strumenti di azione terapeutica, piuttosto
che chiedersi se esse muovano o meno da presupposti scientifici. In sintesi se siano
indagabili con il metodo scientifico. Il fine è duplice: controllarne il grado di
efficacia terapeutica sulle principali patologie contemporanee e, al tempo stesso,
accrescere il livello di conoscenza dell’organismo umano. Come vedremo in
seguito, questo è possibile, ovvero si può applicare il metodo scientifico nel
controllo di efficacia delle terapie complementari, ma è anche molto fecondo
lasciar contaminare gli ideali scientifici mediante modelli epistemologici antichi ed
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eterodossi.
Questo approccio non ideologico alle CAM sembra orientare l’atteggiamento della
maggioranza dei medici. In un’indagine condotta dall’ordine dei medici di Parma,
che ha coinvolto i 2/3 del totale degli iscritti (1734 su 2631), il 53% dichiara di
ritenere che le medicine non convenzionali abbiano una qualche efficacia.
Percentuale che sale se si tiene conto solo dei medici di base (medici di medicina
generale) i quali, secondo altre indagini, giudicano in modo differenziato le diverse
terapie complementari fra le quali l’agopuntura, le terapie manuali e la fitoterapia
riscuotono i maggiori consensi. Inoltre, due medici di base su tre, almeno una
volta, hanno inviato un loro paziente a un operatore di terapie complementari.
Infine è interessante rilevare che anche i medici fanno ricorso alle terapie
complementari per la loro salute. Secondo alcune indagini oltre il 24% dei medici
di base e il 34% dei pediatri, in base a una libera scelta, hanno fatto ricorso alle
terapie complementari per le stesse ragioni che motivano i loro pazienti: efficacia
con trascurabili effetti collaterali, rispetto agli scarsi risultati ottenuti con le terapie
convenzionali (Le medicine non convenzionali in Italia, 2007).
Regolamentazione dell’esercizio delle CAM
La regolamentazione dell’esercizio delle medicine complementari è difforme su
scala internazionale. Esemplare il caso dell’agopuntura. Un gruppo di Paesi
(Austria, Italia, Francia, Grecia, Ungheria e Romania) richiede – con leggi o, in loro
assenza, con sentenze della magistratura, come è il caso italiano – la laurea in
medicina per il suo esercizio. Un altro gruppo, non meno significativo (Gran
Bretagna, molti degli Stati statunitensi, Germania, Spagna, Finlandia), non
richiede alcun titolo oppure richiede un diploma ad hoc, rilasciato sotto controllo
statale, ottenibile anche da non laureati in medicina. Ma anche l’esercizio
dell’omeopatia è variamente regolamentato a livello internazionale, con il
paradosso tutto italiano per il quale, in assenza di una legislazione in materia, si
registrano sentenze della magistratura contrastanti sull’esercizio della disciplina,
che per alcuni tribunali è riservato al medico, mentre per altri può essere esteso ad
altre figure.
Per la fitoterapia, anche se cresce la corrente medica che chiede la riserva in via
esclusiva della prescrizione delle piante medicinali (e per alcuni prodotti vegetali
questo è già avvenuto: per es., l’iperico, a dosaggi terapeutici per il trattamento
della depressione, può essere acquistato solo su ricetta medica), c’è da considerare
che in Italia operano migliaia di erboristerie e di farmacie con il reparto
erboristico: la fitoterapia viene quindi in larga misura esercitata da professionisti
non medici.
Il vasto mondo delle terapie manuali, dall’osteopatia alla chiropratica fino allo
shiatsu e al massaggio cinese (tuina), va dalla situazione statunitense, che da un
secolo prevede una laurea magistrale sia per l’osteopatia sia per la chiropratica, alla
situazione francese che richiede il rilascio di un attestato statale per quelle stesse
discipline, fino alla situazione italiana che non regolamenta nessuna di esse. In
particolare, sono migliaia gli operatori di massaggio orientale (shiatsu e tuina) che
esercitano nel nostro Paese e che, in assenza di un titolo di massaggiatore o di
fisioterapista, lo fanno abusivamente, potendo incorrere nel reato relativo previsto
dalla legge.
Anche se il Parlamento europeo, fin dal 1997, ha auspicato una regolamentazione
nel campo delle medicine non convenzionali, l’Europa è in piena anarchia, con
conseguenti pesanti limitazioni dell’eguaglianza dei diritti dei cittadini e degli
operatori nell’ambito dello spazio europeo.
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9 di 24 28/12/2013 17:17
Principali CAM esercitate da medici
Anche se con le contraddizioni rilevate nel paragrafo precedente, in Italia, in
particolare dopo la deliberazione della Federazione nazionale degli ordini dei
medici chirurghi e degli odontoiatri del 2002, precedentemente ricordata, e dopo
alcune leggi regionali, tra cui quella della Regione Toscana del 2007, la tendenza è
quella di considerare atto medico l’esercizio dell’agopuntura, dell’omeopatia e della
fitoterapia e quindi riservato agli abilitati all’esercizio della medicina. Vediamo in
sintesi storia, principi ispiratori ed evidenze di efficacia delle tre maggiori medicine
complementari.
Terapie tradizionali cinesi
La medicina tradizionale cinese è certamente la più organica dottrina medica
antica tuttora operante in gran parte del mondo. Costituisce un’importante risorsa
in Cina dove, negli ultimi cinquant’anni, è stata oggetto di una politica governativa
che ne ha regolamentato l’insegnamento, la diffusione e l’integrazione con la
medicina convenzionale negli ospedali e nelle facoltà di Medicina. Al tempo stesso,
negli ultimi trent’anni, con l’apertura delle relazioni della Repubblica popolare
cinese con l’Occidente, ha avuto una crescente diffusione in tutti i Paesi
industrializzati.
La medicina tradizionale cinese si articola in cinque aree fondamentali: agopuntura
e moxibustione, farmacologia naturale, dietetica, massaggio, esercizi meditativi in
movimento (qigong e taiji quan) anche chiamati ginnastiche mediche.
Alla base dell’antico pensiero medico cinese c’è un’idea comune anche all’antico
pensiero medico greco: la salute è uno stato di equilibrio dell’organismo; la
malattia è il frutto di un disequilibrio, degli umori, per gli antichi greci, delle
energie e delle sostanze vitali, per gli antichi cinesi. Compito del terapeuta è aiutare
la persona malata a ristabilire l’equilibrio: con la dieta, i massaggi, l’attività fisica,
le tecniche per la psiche, le piante, l’uso del calore.
Tutto ciò è comune ai greci e ai cinesi. In più questi ultimi, in base a una peculiare
visione della circolazione delle energie in canali (meridiani) che percorrono
l’organismo umano, stabiliscono una serie di modalità di corretta circolazione delle
energie e delle altre sostanze vitali. Agendo su punti specifici della superficie
corporea, con gli aghi (agopuntura), con il calore (moxibustione), con la pressione
delle dita (tuina), con il movimento e con l’automanipolazione del corpo (qigong e
taiji quan) è possibile ritrovare l’equilibrio e quindi la salute (Maciocia 20052).
Agopuntura. È la metodica terapeutica della medicina tradizionale cinese più nota
e diffusa in Occidente e, negli ultimi due decenni, è cresciuto l’impegno cinese, ma
anche occidentale, nella verifica della sua efficacia clinica e dei suoi possibili
meccanismi di azione. A partire dalla metà degli anni Ottanta del 20° sec. è iniziata
la pubblicazione di studi controllati e di buona qualità in riviste scientifiche
occidentali. Nel 1996, la Food and drug administration ha riclassificato
l’agopuntura da strumento medico sperimentale a regolato. Nel 1997, uno storico
documento del gruppo di lavoro dei NIH, il Consensus development program
(CDP), sull’efficacia clinica dell’agopuntura, segnò l’ingresso dell’antica metodica
terapeutica nel campo delle terapie per le quali era possibile dimostrare
un’efficacia. Negli ultimi anni, si è assistito a un crescente sviluppo della ricerca sia
sui meccanismi di azione dell’agopuntura sia sulla sua efficacia terapeutica.
Studi, ormai decennali, realizzati sugli animali e sull’uomo, nonché il recente
utilizzo delle immagini di risonanza magnetica funzionale, consentono di affermare
che l’agopuntura ha effetti biologici locali e sistemici che vengono mediati per via
nervosa e neuroendocrinoimmunitaria. Il fatto che l’input dell’ago venga trasmesso
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per via nervosa è stato dimostrato da esperimenti sugli animali. L’efficacia
analgesica di uno dei punti più usati, hegu (intestino crasso-4, collocato sul dorso
della mano nel punto più alto del muscolo primo interosseo quando il pollice viene
affiancato all’indice), viene abolita se vengono recise le vie nervose vicine (il nervo
radiale e/o il nervo mediale), ma non se viene reciso il nervo ulnare, che è quello
più lontano.
Risalgono agli inizi degli anni Novanta del 20° sec. le prime prove sperimentali
sugli umani, ai quali, beninteso, non è stato riservato il crudele trattamento di cui
sopra: il nervo non è stato tagliato, bensì addormentato. L’iniezione di un
anestetico locale (procaina) su un punto di agopuntura, per es. pericardio-6, ne
abolisce la provata efficacia contro nausea e vomito (Clinical acupuncture, 2001).
Storicamente, gli studi più antichi e significativi sui meccanismi di azione
dell’agopuntura si riferiscono al dolore e all’attività analgesica da essa esercitata.
L’introduzione della risonanza magnetica funzionale e di altre tecniche di
visualizzazione cerebrale nello studio dei meccanismi di azione dell’agopuntura ha
aperto un terreno del tutto nuovo e di elevata potenza scientifica. Nel 1996 si è
avuta la prima dimostrazione che il segnale dell’ago arriva al cervello. Negli ultimi
anni diversi lavori hanno dimostrato l’attivazione e/o la disattivazione di aree sia
corticali sia sottocorticali. Più recentemente, alcuni lavori hanno accertato che
l’agopunto hegu (intestino crasso-4) attiva diverse aree sottocorticali, come
ipotalamo e giro del cingolo, di grande rilievo nella valutazione cognitivo-
emozionale del dolore. Alcuni studi sono in grado di discriminare in modo netto tra
effetti di agopuntura vera, agopuntura placebo e semplice placebo.
Ma i risultati probabilmente più entusiasmanti vengono da uno studio del
dipartimento di radiologia della University of California, che ha mostrato una
relazione sorprendente tra agopunti, loro indicazioni e aree corticali attivate (Z.H.
Cho, C.S. Na, E.K. Wang et al., Functional magnetic resonance imaging of the
brain, in Clinical acupuncture, 2001, pp. 83-95).
Nella figura le immagini di risonanza magnetica funzionale mostrano gli effetti
dell’ago inserito in due punti tradizionalmente indicati per il trattamento dei
disturbi della visione. Le cortecce visive occipitali si attivano sia a seguito di uno
stimolo visivo sia con l’inserimento dell’ago nei suddetti punti. Fenomeno che non
si verifica pungendo un punto sbagliato, collocato vicino a SP1 (milza-1).
Di grandissimo interesse è il fatto che questi punti, anatomicamente molto lontani
dagli occhi, hanno come indicazione di trattamento proprio queste funzioni
sensoriali. Infatti, vescica-67 viene indicato per disturbi della regione cefalica e
degli organi di senso e in particolare per dolori agli occhi; colecisti-37 viene punto
per prurito e dolore agli occhi, cataratta, cecità notturna, atrofia ottica. Tuttavia,
nonostante queste accattivanti suggestioni, occorre segnalare che sulla specificità
degli agopunti non si hanno evidenze conclusive.
Da quanto esposto si può ragionevolmente concludere che l’ago inserito al posto
giusto induce meccanismi neuroimmunoendocrini locali coinvolgendo il cervello.
Sappiamo infatti che le fibre nervose sensoriali, stimolate dall’ago, rilasciano
neuropeptidi capaci di regolare la risposta immunitaria in senso pro- o
antinfiammatorio e quindi, per questa via, influenzano l’equilibrio fisiopatologico
(Song, Halbreich, Han et al. 2009). Ma anche l’ipotalamo, come abbiamo visto,
può essere direttamente influenzato dallo stimolo procurato dall’inserzione
dell’ago. Del resto è noto che esiste una via di trasporto del dolore (nocicettiva)
diretta, la cosiddetta via spinoipotalamica, che collega la periferia all’area
ipotalamica, la quale funziona da centro integrato di risposte multiple
(neuroendocrine, neurovegetative), complessivamente di governo dell’ambiente
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11 di 24 28/12/2013 17:17
interno.
In conclusione, possiamo affermare che è possibile indagare con gli strumenti
scientifici più moderni questa antica tecnica terapeutica e fornire risposte plausibili
alla domanda sui meccanismi biologici indotti dall’agopuntura. In effetti, gli studi
sull’efficacia terapeutica dell’agopuntura sono in continua crescita. La tabella 1 non
è certamente esaustiva e subirà delle modificazioni nel tempo, in particolare a
carico della seconda colonna, quella che mostra le patologie dove gli studi
controllati non permettono di trarre delle conclusioni certe. È comunque evidente
che l’agopuntura ha un’efficacia clinica dimostrata per alcune importanti patologie
e condizioni mediche che spesso risultano scarsamente trattabili, o che presentano
significativi effetti collaterali, con la farmacologia e con le altre terapie correnti.
Non si tratta quindi né di placebo né di magia, ma di terapia. E come tutte le
terapie non è una panacea, ma presenta indicazioni e limiti. Rilevante è che tutti gli
studi mostrano in modo univoco che l’agopuntura, in mani esperte, è sicura e priva
di effetti collaterali significativi (The desktop guide to complementary and
alternative medicine, 20062), che hanno un’incidenza davvero rara e non
paragonabile a quella che si verifica in corso di terapia farmacologia.
Qigong e taiji quan. Secondo il più antico testo di medicina cinese, il Canone
interno dell’imperatore giallo (Huangdi neijing), del 1° sec. a.C., per mantenere la
salute occorre seguire la via (dao) e saper nutrire la vita. La nutrizione della vita si
fa soprattutto con le pratiche interne: meditazione e ginnastiche energetiche, ossia
taiji e qigong.
L’espressione qigong fa riferimento alla capacità di condurre e far circolare
l’energia interna (qi). Tale capacità è alla base dell’antica medicina cinese. Il saggio
e il buon medico, come abbiamo ricordato, devono saper nutrire la vita tramite le
pratiche interne, le tecniche di concentrazione e di meditazione che consentono la
visualizzazione del qi e il suo trasporto lungo i meridiani energetici, la cui rete
pervade nel suo complesso l’organismo.
Vi è un’ampia diffusione di queste pratiche in Occidente e, con essa, sono iniziati
studi controllati. Al momento abbiamo buone evidenze sull’efficacia della pratica
del qigong nel controllo dell’ipertensione. L’aspetto più difficile, tuttavia, riguarda
il cosiddetto qigong esterno e cioè la capacità che avrebbero alcuni maestri di
proiettare l’energia al di fuori del proprio corpo: un fenomeno difficile da accettare
in un’ottica scientifica classica; resta però il fatto che scienziati cinesi e occidentali
hanno prodotto lavori che dimostrano modificazioni indotte dal qigong in colture
batteriche e cellulari. Juliann G. Kiang, professore di farmacologia a Bethesda
(Maryland), ha ripetutamente descritto un incremento del calcio nel citoplasma
come indice di reattività della cellula all’emissione del qi (J.G. Kiang, J.A. Ives,
W.B. Jonas, External bioenergy-induced increases in intracellular free calcium
concentrations are mediated by Na+/Ca2+ exchanger and L-type calcium
channel, «Molecular and cellular biochemistry», 2005, 271, 1-2, pp. 51-59). Dalla
Cina è giunto un lavoro che mostra la capacità del qigong esterno di indurre
l’arresto della proliferazione e l’apoptosi di cellule di cancro prostatico in vitro (X.
Yan, H. Shen, H. Jiang et al., External qi of Yan Xin qigong induces G2/M arrest
and apoptosis of androgen-independent prostate cancer cells by inhibiting Akt
and NF-kB pathways, «Molecular and cellular biochemistry», 2008, 310, 1-2, pp.
227-34). Ci sono poi lavori che hanno verificato l’efficacia clinica del qigong
esterno su patologie dolorose, documentandone la superiorità rispetto alla terapia
standard. Una metanalisi solo degli studi più rigorosi ha concluso che l’evidenza
del qigong esterno è incoraggiante (M.S. Lee, M.H. Pittler, E. Ernst, External
qigong for pain conditions: a systematic review of randomized clinical trials,
«Journal of pain», 2007, 8,11, pp. 827-31).
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Per quanto riguarda il taiji quan, non si sa esattamente quando e da chi fu
inventato. La leggenda racconta che, attorno al 1200 d.C., Chang San Feng, monaco
del monte Wudang, nella provincia cinese dello Hubei, osservando un
combattimento tra un serpente e una gru, concluse che il rettile aveva la meglio
perché era più sciolto e più concentrato dell’avversario. Per questo motivo Chang
che praticava il kung fu, un’arte marziale di potenza fisica decise di cambiare e
seguire la strada della flessibilità e della concentrazione, dell’armonia interiore.
Lo spirito autentico del taiji è proprio l’unione tra il corpo e la mente: i movimenti
dolci del corpo vengono guidati dalla concentrazione sull’energia interiore (qi).
Culturalmente, infatti, il taiji ha le proprie radici nella filosofia taoista, che mette in
primo piano la ricerca dell’equilibrio interno. Nel 19° sec. ebbe una notevole
diffusione nella versione elaborata da Yang Lu Chan, che conquistò le classi elevate
della Cina. La versione Yang, però, accentuò molto l’aspetto fisico e plastico del
taiji a scapito del suo aspetto meditativo. Si dice che Yang avesse fatto questa
operazione per ragioni ideologiche: non voleva comunicare ai ‘barbari stranieri’,
che provenivano dalla Manciuria e dominavano la Cina, la disciplina mentale che
costituiva l’essenza vera del taiji quan, e che per alcuni studiosi mira a raggiungere
l’unità suprema attraverso il movimento.
Anche il taiji è sottoposto a un’intensa verifica scientifica riguardo a efficacia e
sicurezza. In merito alla sicurezza, reviews sistematiche hanno concluso che tale
disciplina può essere tranquillamente praticata anche da persone affette da artrite
reumatoide poiché fornisce un significativo beneficio per i movimenti delle gambe
e dell’anca. Studi clinici controllati hanno documentato un’efficacia del taiji in
numerose condizioni: deficit immunitari, insufficienza cardiaca cronica,
osteoporosi in menopausa, qualità del sonno, qualità della vita e autostima in
donne operate di cancro al seno (The desktop guide to complementary and
alternative medicine, 20062). Neurologi e riabilitatori, nel caso di persone colpite
da ictus, hanno paragonato un normale trattamento di fisioterapia a un corso di
taiji, registrando in quest’ultimo caso un netto miglioramento nel recupero delle
funzioni generali e nelle relazioni sociali. Infine, studi controllati su anziani hanno
indicato un chiaro aumento nella qualità e quantità del sonno (con un guadagno
medio di 50 minuti di sonno a notte) e un significativo incremento della flessibilità
e dell’equilibrio, documentato da una riduzione delle cadute.
Omeopatia
L’inventore dell’omeopatia è il medico S.F.Ch. Hahnemann (1755-1843). Tutta la
sua vita fu segnata dallo scontro aspro con la medicina convenzionale e, a distanza
di tanti anni, l’omeopatia viene ancora avversata dalla medicina scientifica.
Eppure, in Europa e in Italia, a differenza degli Stati Uniti, l’omeopatia è la
medicina alternativa per eccellenza, anche se gran parte dei medici omeopati,
passata la fase della contrapposizione dogmatica, si orienta ormai verso un modello
di medicina integrata.
La medicina omeopatica, secondo Hahnemann, è fondata sul principio del simile in
base al quale la terapia risolutiva consiste nella somministrazione di un rimedio
che, sperimentato nel sano, dà sintomi simili a quelli riscontrati nella malattia.
Quest’ultima è una perturbazione della dinamica della forza vitale, ossia il
principio dinamico che consente la vita. I sintomi che registra il medico sono
l’espressione di questa alterazione. Al medico è concessa solo questa forma di
conoscenza, non essendo accessibile quella della forza vitale che anima
l’organismo. Il medico deve pertanto registrare la totalità dei sintomi del paziente e
trovare un rimedio che, sperimentato nel sano, produca una malattia artificiale
quanto più simile possibile a quella registrata nel malato. L’altra peculiarità della
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terapia omeopatica è rappresentata dall’uso di medicine preparate con una
procedura che prevede un’estensiva triturazione dei prodotti di partenza (piante,
minerali, prodotti animali) seguita da diluizioni in acqua e alcol e ‘succussioni’
(agitazioni del prodotto). Questa procedura viene ripetuta in serie eseguendo
successive diluizioni e ‘succussioni’. In origine tale metodo era utilizzato per
ridurre la tossicità di sostanze spesso particolarmente pericolose, come il veleno di
serpente, ma in seguito Hahnemann notò che, procedendo nelle diluizioni e
‘succussioni’, aumentava la capacità di cura del medicinale. Per questo parlò di
potenze crescenti e definì la procedura dinamizzazione. Per questo, ancora oggi,
per trattare un disordine di tipo sistemico che coinvolge la forza vitale nel suo più
puro aspetto energetico, il medico omeopata usa medicinali a elevata potenza e cioè
molto diluiti e dinamizzati. L’azione del rimedio omeopatico non è quindi diretta
verso la malattia o le sue cause, bensì è di tipo indiretto, essendo rivolta a
sollecitare una reazione riequilibrante della forza vitale. È per questo che si dice
che in omeopatia non interessa la malattia bensì il malato, inteso come individuo
dotato di un ‘principio vitale’ che, se opportunamente sollecitato, è in grado di
eliminare il disordine e riconquistare la salute. Detto in linguaggio scientifico
moderno, la medicina omeopatica sarebbe quindi in grado di sollecitare i
meccanismi di riequilibrio dinamico dell’organismo, meccanismi che sappiamo
essere molto articolati e diffusi sia a livello cellulare sia a livello di grandi sistemi.
Sorgono a questo punto alcuni problemi: può un farmaco molto diluito avere
questo effetto? E, ancora, perché un rimedio che nel sano produce malattia, nel
malato produce guarigione? La scienza farmacologica tradizionale nega che dosi
molto basse di una sostanza abbiano effetti significativi. Così, una sostanza viene
classificata in base a determinati effetti, che di regola sono sempre quelli,
indipendentemente dallo stato del soggetto che la riceve. In realtà, è tutto molto
più complicato e più vicino ai paradossi omeopatici di quello che si possa pensare.
Nel 1888, quarantacinque anni dopo la morte di Hahnemann, Hugo Schulz
(1853-1932), uno studioso tedesco interessato a comprendere i meccanismi
dell’omeopatia, lavorando sui lieviti dimostrò che la dose del farmaco poteva avere
effetti opposti: stimolanti nel caso di basse dosi, inibenti nel caso di alte dosi.
Questo effetto, che nei testi di farmacologia si chiama anche effetto a U rovesciata
o effetto bifasico, nel 1943 venne incorporato in un nuovo concetto chiamato
ormesi da due fitopatologi, Chester M. Southam e John Ehrlich, che riscontrarono
la validità della legge di Schulz (meglio nota come legge di Arndt e Schulz)
studiando la risposta di dosi variabili a estratti di cedro rosso sulle infezioni
fungine.
Negli ultimi anni, la tossicologia e la farmacologia stanno riaccostandosi al
concetto di ormesi, all’idea cioè che anche dosi molto basse possano avere effetti
significativi. Concetto che viene ulteriormente allargato dagli studi sul sistema
immunitario secondo i quali è centrale non solo la dose, ma anche la via di ingresso
(mucosa, cute o sangue). Per es., è noto che se si vuole indurre una risposta di
riequilibrio immunitario (tolleranza), servono basse dosi e la via da utilizzare è la
mucosa, come la sublinguale.
Anche il problema della diversità degli effetti di una sostanza, a seconda dello stato
in cui si trova chi la riceve, può essere spiegato in base a osservazioni scientifiche
effettuate negli ultimi cento anni. È noto, infatti, che la medesima sostanza, per es.
un eccitante come l’adrenalina, se somministrata in uno stato di forte attivazione
del sistema simpatico produce un debolissimo e breve incremento della pressione
arteriosa e della frequenza cardiaca, seguito da una potente e prolungata
depressione di ambedue le funzioni. Il contrario di quello che accade se la stessa
sostanza viene somministrata in uno stato di vagotonia e cioè di iperattivazione del
parasimpatico. Del resto, è noto sul piano clinico che in corso di tachicardia
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parossistica (incremento eccezionalmente elevato della frequenza dei battiti del
cuore spesso accompagnata da altre alterazioni del ritmo cardiaco) l’adrenalina,
che dovrebbe aumentare la frequenza cardiaca, in realtà la rallenta. Molto noto
anche il cosiddetto effetto rebound e cioè la comparsa di un effetto opposto a
quello desiderato. Questo accade soprattutto in corso di trattamenti cronici. Per
es., i clinici sanno che i broncodilatatori, che sembrerebbero essere i farmaci di
elezione per l’asma, non possono essere usati a lungo perché provocano costrizione
bronchiale. Lo stesso fenomeno riguarda i cardiotonici. Qualcuno ha chiamato
queste e altre innumerevoli osservazioni ‘farmacologia paradossale’ (Bellavite
2004).
I principi alla base della medicina omeopatica, ossia il simile, le basse dosi,
appaiono quindi scientificamente plausibili, ma ciò non toglie che anche
l’omeopatia abbia bisogno di ripensare il proprio rapporto con la scienza moderna.
Infatti, non è possibile evitare l’ostacolo delle altissime diluizioni che oltre la soglia
del numero di Avogadro non presentano più traccia delle sostanze di partenza. È da
tempo che alcuni fisici e biochimici cercano di dimostrare che in realtà è il solvente
(acqua o alcol), modificato dalle ripetute diluizioni e dinamizzazioni, a fungere da
medicina. A tutt’oggi non si ha una dimostrazione accettata di questa ipotesi (la
cosiddetta memoria dell’acqua). Inoltre, resta il fatto che, anche in ambito clinico,
le basse e medie diluizioni (che contengono molecole delle sostanze di partenza)
sono le più usate e sono più numerosi gli studi clinici positivi con queste dosi
rispetto a quelli che impiegano alte diluizioni.
Valutando complessivamente la letteratura disponibile, anche per l’omeopatia vale
il discorso fatto per l’agopuntura. Non è una panacea, non è placebo, è terapia con i
suoi limiti, che vanno ancora scoperti e chiariti in misura probabilmente superiore
all’agopuntura. Anche perché sotto la denominazione di omeopatia si celano
pratiche molto diverse tra loro: l’omeopatia unicista (un solo rimedio per volta e
per lo più a diluizioni alte e altissime); l’omeopatia complessista (più rimedi
insieme a diluizioni variabili); l’omotossicologia (con un approccio di maggiore
contaminazione con la medicina scientifica), l’omeopatia e la fitoterapia insieme
(diffuse in prodotti di largo consumo). Rilevante è il fatto che in linea generale si
tratta di una terapia a bassissimo rischio di effetti collaterali significativi e tali da
dover interrompere il trattamento. La tabella 2 mostra come l’omeopatia presenti
delle evidenze positive in alcune patologie significative, in altre risultati
promettenti e in altre ancora risultati negativi.
Fitoterapia
L’uso delle piante in medicina è antichissimo e, prima del recente avvento della
farmacologia chimica, la fitoterapia è stata la principale forma di terapia in tutto il
mondo. Ancora oggi, l’industria farmaceutica utilizza numerose sostanze vegetali
come fonte di molecole per la sintesi di farmaci. La vendita al pubblico di piante
medicinali o di prodotti che le contengono è un mercato ben sviluppato anche nei
Paesi dotati di un moderno sistema sanitario nazionale.
Negli ultimi anni è cresciuta la rivendicazione da parte di un settore della medicina
di riservare ai medici la prescrizione delle piante medicinali. Il fatto che le piante
possano avere effetti pertinenti sulla fisiopatologia umana e animale in genere è
ovvio e non è contestabile nemmeno dai critici radicali delle medicine
complementari. La critica che questi ultimi avanzano riguarda invece la minore
efficacia della pianta rispetto al principio attivo contenuto in un farmaco chimico, il
quale, dicono, può anche essere costituito da un principio attivo di derivazione
vegetale, ma in una forma nettamente più pura ed efficace di quella presente nella
pianta. In effetti un prodotto vegetale contiene più molecole, diverse tra loro,
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15 di 24 28/12/2013 17:17
quindi, quando si assume un fitoterapico, si assume una miscela naturale di
componenti, il cosiddetto fitocomplesso. Sta qui la peculiarità del trattamento con
le piante medicinali che lo differenzia dal trattamento farmacologico: per es. il
tentativo di estrarre un principio attivo efficace dall’iperico, una pianta con
proprietà antidepressive, è stato un fallimento. È l’insieme del fitocomplesso che
funziona contro la depressione e non un singolo principio attivo.
La ricerca nel campo della fitoterapia risente molto del fatto che, non potendo
brevettare il fitocomplesso ma solo l’eventuale principio attivo, le aziende
farmaceutiche non hanno interesse alla pianta in sé. Anzi, quando un
fitocomplesso è efficace quanto un farmaco e ha minori effetti collaterali, può
essere un pericoloso concorrente. Di qui l’atteggiamento ambivalente dell’industria
farmaceutica verso le piante medicinali, viste, volta a volta, come scrigno naturale
di inestimabile valore commerciale o come potenziale minaccia. In effetti, le piante
possono essere ancora oggi un fondamentale strumento terapeutico, come
dimostra la tabella 3, che elenca solo alcune delle piante più diffuse in fitoterapia.
Riguardo alla sicurezza della fitoterapia, l’Istituto superiore di sanità ha attivato un
sistema di sorveglianza per la raccolta e valutazione delle segnalazioni delle
reazioni avverse dovute a erbe medicinali, prodotti erboristici e integratori. Il
sistema, basato su una scheda di segnalazione (http://www.epicentro.iss.it/focus
/erbe/pdf/scheda_fito.pdf; 22 apr. 2010), è del tutto simile a quello operante per la
farmacovigilanza.
Altre CAM esercitate da medici
La medicina ayurvedica è la più importante medicina tradizionale indiana e ancora
oggi, come accennato in precedenza, costituisce un’importante risorsa per la salute
del grande Paese asiatico.
In Italia, pur essendo antichissimi i contatti tra Roma e l’India, soltanto negli anni
Ottanta del 20° sec., sotto la spinta del maestro Maharishi Mahesh (1918-2008,
fondatore negli Stati Uniti della Maharishi international university, centro
didattico e di ricerca attivissimo su scala mondiale), iniziarono la diffusione di tale
medicina e la formazione dei primi operatori sanitari. Nei primi anni del 21° sec. è
stata fondata una società scientifica (Società italiana di medicina ayurvedica, con
sede a Milano) che ha lo scopo di promuovere sia la diffusione sia la conoscenza
dell’antica medicina indiana.
Al pari della medicina tradizionale cinese, l’ayurveda ha un approccio olistico alla
salute e alla malattia e usa, in campo preventivo e curativo, la combinazione di
alimentazione, tecniche meditative e fitoterapia. Il campo delle tecniche meditative
è notevolmente sviluppato in quanto si basa sul cosiddetto yoga integrale, che è
composto da tre grandi branche: la respirazione (kriya), le posizioni (hatha) e la
meditazione (dhyana). In Occidente ha avuto una grande diffusione soprattutto lo
yoga delle posizioni, al punto da essere identificato con lo yoga tout-court, ma, in
realtà, le versioni occidentali, da palestra, sono spesso forme riduttive e soprattutto
mutilate dell’hatha yoga che è parte inscindibile dello yoga integrale.
La Maharishi international university ha prodotto, nel corso degli anni, più di 800
studi che hanno indagato gli effetti di una particolare tecnica meditativa elaborata
da Maharishi per l’Occidente, nota con il nome di meditazione trascendentale,
sulla neurofisiologia e sulla salute. Di minor numero e peso invece i lavori sulla
miscela di piante in uso nella medicina ayurvedica, anche per le difficoltà legate
alla metodologia diagnostica e prescrittiva.
La medicina antroposofica nacque invece nel secolo scorso in Europa, frutto della
riflessione filosofica e scientifica di Rudolf Steiner (1861-1925), filosofo austriaco
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fondatore dell’antroposofia e della Libera università di scienza dello spirito, di cui
la medicina antroposofica è una sezione, inaugurata dallo stesso Steiner nel 1924 in
collaborazione con il medico Ita Wegman. Il movimento steineriano si è diffuso per
tutto il Novecento dando vita a una pluralità di iniziative e di istituzioni mediche,
farmaceutiche, assistenziali, pedagogiche, educative, diffuse in tutta Europa e
complessivamente in circa settanta Paesi nel mondo. In Italia è attiva la Società
italiana di medicina antroposofica che cura la formazione postlaurea dei medici,
alcune centinaia, presenti nella gran parte delle regioni. La formazione degli
operatori sanitari non medici (in particolare i cosiddetti arteterapeuti) a
orientamento antroposofico non avviene invece in Italia, ma viene svolta in altri
Paesi europei, ed è coordinata dalla Libera università della scienza dello spirito, che
ha sede in Svizzera.
L’approccio antroposofico mette in primo piano le relazioni dell’individuo con il
suo ambiente sociale e fisico, per questo la pedagogia steineriana dà grande rilievo
alla corretta socializzazione del bambino in un contesto naturale. Non a caso
Steiner e il suo movimento sono stati i primi a occuparsi della qualità
dell’alimentazione. Possiamo dire che l’agricoltura biologica ha nell’intellettuale
austriaco il suo padre nobile. In effetti, verso la fine del 20° sec. fece molto
scalpore, tra gli allergologi, la pubblicazione di uno studio, condotto secondo le
buone regole dell’epidemiologia, che paragonò l’incidenza delle allergie in Svezia su
bambini della stessa città e della stessa età che frequentavano scuole steineriane o
scuole pubbliche. I bambini delle scuole steineriane assumevano meno antibiotici,
mangiavano più verdure dei loro coetanei delle scuole pubbliche e su di loro si
registrava una minore incidenza delle malattie allergiche.
Altri studi, condotti su adulti con malattie acute delle vie respiratorie, hanno
paragonato le terapie antroposofiche con quelle standard identificando un trend a
favore delle prime, nel senso di un minore consumo di antibiotici, minori reazioni
indesiderate e maggiore soddisfazione delle persone trattate (G. Buccheri,
Medicina antroposofica, in Le medicine non convenzionali in Italia, 2007, pp.
271-90).
I rimedi che usa il medico antroposofo sono sia di tipo fitoterapico sia di tipo
omeopatico, ma dato il rilievo assegnato alla componente spirituale dell’individuo e
al suo armonico equilibrio interiore risultano avere grande importanza anche la
musicoterapia e il massaggio ritmico.
La ricerca in questo campo è comunque complessivamente minore rispetto a quella
relativa alla medicina cinese e all’omeopatia.
Principali CAM esercitate da operatori non medici
Tecniche di gestione dello stress
Numerose sono le tecniche antistress e meditative, differenti a seconda della
tradizione. Tutte comunque puntano al medesimo obiettivo: realizzare uno stato di
rilassamento e di benessere psichico profondo, presupposto di una vita cosciente e
felice.
L’interesse della scienza verso le pratiche meditative è documentato innanzi tutto
dal fatto che le più significative tecniche di rilassamento occidentali vennero
elaborate, nei primi decenni del 20° sec., tenendo presente anche l’esperienza
dell’Oriente. In particolare, lo psichiatra tedesco Johannes Heinrich Schultz
(1884-1970), combinando la riflessione sull’ipnosi e quella sul raja yoga (disciplina
meditativa di controllo del corpo e della mente) elaborò il più famoso metodo di
rilassamento occidentale: il training autogeno. La prima osservazione scientifica
sugli effetti della meditazione sull’organismo umano fu però di Thérèse Brosse,
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cardiologa francese, che in India, nel 1935, descrivendo lo stato di uno yogi in
meditazione, affermò che il suo cuore sembrava essersi fermato. In seguito, a
partire dalla seconda metà del 20° sec., fu introdotto l’utilizzo di strumenti
moderni di indagine scientifica, come l’elettrocardiogramma (ECG) e
l’elettroencefalogramma (EEG), per decifrare i cambiamenti fisici che si
realizzavano durante l’esecuzione di esercizi di meditazione. Le conclusioni di
queste indagini scientifiche furono che, a livello cardiorespiratorio, vi era una forte
riduzione del ritmo (frequenza) del respiro e di quello cardiaco, nonché del
consumo di ossigeno. Inoltre, a livello cerebrale, si registrava uno stato di
rilassamento diverso dal sonno, con un aumento dell’ampiezza e della frequenza
delle onde alfa. Queste onde cerebrali compaiono normalmente quando si
chiudono gli occhi, mentre nei meditanti compaiono anche a occhi semiaperti.
Negli anni Ottanta e Novanta gli studi sono diventati più sistematici e articolati:
per es., si sono studiati meditanti a vari livelli di preparazione e con diversi anni di
esperienza, mentre ai tradizionali strumenti di registrazione dell’attività elettrica
del cuore e del cervello si sono associate analisi del sangue per indagare i livelli dei
più importanti ormoni e neurotrasmettitori. Nel primo decennio del 21° sec. lo
strumento principale di indagine risulta costituito dalle neuroimmagini ottenute
con la risonanza magnetica funzionale e con la tomografia a emissione di positroni.
In sintesi, gli effetti fisiologici della meditazione sul cervello possono essere così
riassunti: a) un rilassamento profondo che non ottunde l’attenzione, anzi la
potenzia; b) un maggiore controllo dei circuiti neuroendocrini e segnatamente
dell’asse dello stress; c) una maggiore coerenza cerebrale, una migliore
comunicazione tra gli emisferi, una maggiore capacità di adattamento (Carosella,
Bottaccioli 2003).
Sono molte centinaia gli studi sull’efficacia delle diverse tecniche antistress e
meditative in numerose condizioni di malattia. Anche se alcuni autori (The desktop
guide to complementary and alternative medicine, 20062) segnalano la debolezza
metodologica di parte di questi studi, prendendo in esame solo quelli più seri e
recenti si può concludere che l’uso delle tecniche di rilassamento, in grado di
consentire il controllo della reazione di stress, ha effetti documentati sulla
riduzione della pressione arteriosa e sulla normalizzazione dei parametri endocrini
e immunitari. Tale uso offre vantaggi significativi alle persone in trattamento per
gravi patologie come cancro, malattie autoimmuni, malattie cardiovascolari, ansia
e depressione. Attualmente, l’efficacia delle tecniche meditative e la loro positiva
accettazione da parte dei pazienti hanno indotto molti psicoterapeuti a introdurle
in combinazione con la normale psicoterapia (Segal, Williams, Teasdale 2002).
Terapie manuali
In questo campo si distinguono: osteopatia, chiropratica, shiatsu e tuina. Le prime
due sono discipline occidentali sorte alla fine del 19° sec., le altre sono di
derivazione orientale, anche se solo il tuina si può considerare una disciplina
antica: infatti, lo shiatsu che si conosce e pratica in Occidente è stato elaborato
negli anni Sessanta e Settanta del 20° secolo.
L’osteopatia è stata fondata nel 1874 dal medico statunitense Andrew Taylor Still
(1828-1917) e si basa su un principio fondamentale: la vita è movimento, il
movimento è vita. Il compito principale dell’osteopata nel visitare un paziente è
dunque quello di rintracciare i blocchi, le limitazioni e le restrizioni del movimento,
interpretati come costrizioni al libero manifestarsi della vita e quindi della salute.
Gli strumenti terapeutici dell’osteopata sono di tipo manuale e puntano a
ripristinare il grado di libertà di movimento perduto a causa della patologia che,
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per lo più, è di tipo doloroso, ma non esclusivamente tale. Possono rivolgersi
all’osteopata persone che accusano anche altri disturbi legati a posture errate o
conseguenti a stress cronico. L’osteopata infatti vede le relazioni biunivoche tra
apparato muscolo-scheletrico e organizzazione dei tessuti, degli organi e delle
funzioni. Una postura scorretta o un’alterazione strutturale dell’assetto muscolo-
scheletrico possono indurre, tramite il sistema nervoso, alterazioni nella fisiologia
degli organi e queste, a loro volta, possono lasciare il segno nell’organizzazione
dell’apparato muscolo-scheletrico. La riorganizzazione manuale dell’assetto
scheletrico e muscolare diventa pertanto una modalità fondamentale di riequilibrio
dell’intero organismo e di ripristino della salute.
Negli Stati Uniti, la professione è strettamente regolamentata e prevede una laurea
magistrale con il conferimento del titolo di doctor of osteopathy. In Europa,
invece, esiste solo il diploma. In Italia è stato costituito un registro degli osteopati a
garanzia della formazione degli operatori.
Studi clinici controllati (The desktop guide to complementary and alternative
medicine, 20062) dimostrano che l’osteopatia è utile in corso di lombalgia acuta e
subacuta, con effetti migliori rispetto a quelli del trattamento standard. Un’analisi
inglese sul rapporto costi/benefici ha dimostrato che l’osteopatia per il dolore
subacuto della spina dorsale è un trattamento economicamente vantaggioso. Non è
dimostrato invece che sia utile per i dolori mestruali (dismenorrea) o per altre
condizioni di carattere internistico.
La chiropratica è stata fondata nel 1895 dal canadese Daniel David Palmer
(1845-1913). Attualmente è presente in 70 Paesi nel mondo, con 90.000 dottori in
chiropratica di cui 65.000 solo negli Stati Uniti, dove è prevista una formazione
universitaria con successive specializzazioni postlaurea. In America Settentrionale,
il dottore in chiropratica svolge un’attività di prima assistenza formulando una
diagnosi anche con l’ausilio di mezzi radiologici o di altri esami e strumenti di
imaging. La professione non prevede però l’uso di farmaci o di chirurgia.
La filosofia di fondo risulta del tutto simile a quella che ispira l’osteopatia e quindi
si lavora sulle relazioni tra assetto del sistema muscolo-scheletrico e organi, con
speciale riguardo al sistema nervoso. Una particolare attenzione viene riservata alla
cosiddetta correzione articolare e cioè all’aggiustamento, tramite manipolazioni,
delle articolazioni, che sono ritenute causa di numerose patologie, non solo riferite
all’apparato muscolo-scheletrico. Resta il fatto che, secondo alcune indagini
condotte sia negli Stati Uniti sia in Europa, il 95% delle persone che ricorrono al
chiropratico lo fa per disturbi dolorosi dell’apparato muscolo-scheletrico; l’altro 5%
invece per disturbi vari: dalle mestruazioni dolorose al mal di testa all’asma, fino a
problemi dell’apparato digerente.
In Italia è attiva l’Associazione italiana chiropratici che opera in difesa di una
professione non riconosciuta, anche se il tariffario nazionale prevede l’erogazione
di prestazioni di mobilizzazione e manipolazione della colonna vertebrale, ossia la
tipica attività del chiropratico. Studi clinici controllati (The desktop guide to
complementary and alternative medicine, 20062) indicano un trend positivo per il
trattamento della lombalgia, ma i dati sono meno significativi di quelli che
provengono dagli studi sull’osteopatia. Ancora meno convincenti sono gli studi
relativi alle patologie non muscolo-scheletriche. Gli effetti indesiderati sono rari,
ma lievi problemi transitori sono abbastanza comuni dopo sedute di chiropratica.
Lo shiatsu è una tecnica manuale caratterizzata da un elevato livello di eclettismo
anche se, tradizionalmente, due sono le scuole fondamentali in Occidente,
entrambe di derivazione giapponese: Namikoshi e Masunaga. Il modello
Namikoshi è stato elaborato in Giappone, negli anni Cinquanta e Sessanta del 20°
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sec., da Tokujiro Namikoshi (1905-2000). È un approccio che, pur partendo dalla
medicina tradizionale giapponese (e dal suo substrato cinese), ha tentato un
esplicito collegamento con la fisiopatologia e la fisioterapia occidentali. La tecnica
prevede la pressione manuale di punti specifici del corpo, secondo particolari se-
quenze, con l’obiettivo di riportare alla normalità il tono muscolare, all’origine
della tensione che l’operatore identifica nel corpo del paziente. I punti da trattare
sono indicati in una mappa che ricorda quella dell’agopuntura, anche se non è
assolutamente sovrapponibile, visto che presenta anche dei punti identificati da
Namikoshi e dal successivo lavoro del figlio Toru.
L’operatore shiatsu di orientamento Namikoshi lavora in collegamento con il
medico curante, nel senso che tratta una persona in seguito a diagnosi medica e
tenendo presente le patologie come vengono codificate dalla medicina scientifica.
Spesso gli operatori shiatsu che seguono questo indirizzo sono anche fisioterapisti
o massaggiatori diplomati.
L’indirizzo Masunaga, elaborato dalla psicologo giapponese Shizuto Masunaga
(1925-1981), riprende invece la medicina tradizionale cinese enfatizzando il ruolo
dei meridiani energetici, anche se propone un nuovo modello di circolazione
energetica, e, soprattutto, trascura le tecniche di pressione sui punti a favore di
tecniche di pressione perpendicolare a due mani con andamento bipolare.
L’eclettismo di Masunaga ha avuto una larghissima diffusione in Occidente, ma,
come già accennato, nello shiatsu non esiste uno stile predominante codificato.
Secondo stime del 2004, realizzate per conto di associazioni del settore, il numero
degli operatori shiatsu nel nostro Paese sarebbe davvero notevole: 50.000, mentre
il volume degli utenti varierebbe dai 7 ai 10 milioni (Le medicine non convenzionali
in Italia, 2007); se questa fosse la dimensione del fenomeno, ancora più colpevole
è lo stato di non regolamentazione della professione, che ha comunque le sue
associazioni professionali. Studi clinici controllati sullo shiatsu non esistono, anche
se è documentata l’azione positiva del massaggio sulla lombalgia.
Il tuina è il massaggio della medicina tradizionale cinese. Antico quanto
l’agopuntura si basa sui medesimi principi. L’operatore di tuina infatti deve
conoscere adeguatamente la fisiologia, la diagnostica e la terapeutica cinese. Invece
che gli aghi usa le mani, attingendo a un raffinato bagaglio di tecniche
manipolative per riequilibrare energia e sostanze vitali. I pochi studi controllati
sono in grande maggioranza realizzati in Cina e pubblicati in lingua cinese, il che
rende impossibile, al momento, un’adeguata valutazione dell’efficacia di questa
tecnica terapeutica che, in base ai principi a cui si ispira e alla tradizione, trova
indicazioni per una vasta gamma di disturbi e patologie, non solo relativi
all’apparato muscolo-scheletrico.
Il termine naturopatia fece per la prima volta la sua comparsa negli Stati Uniti alla
fine del 19° sec., quando il medico newyorkese John Scheel lo utilizzò per
descrivere il suo metodo di cura. Il significato del termine è controverso: per
alcuni, infatti, vuol dire empatia con la natura, per altri via naturale o cura
naturale; al di là dell’etimo incerto, il significato che ha assunto comunque in tutto
il mondo occidentale, nel corso dell’ultimo secolo, è quello di medicina naturale,
una cura senza farmaci, basata su stili di vita, alimentazione, metodi e sostanze
naturali.
La prima compiuta espressione della naturopatia va fatta risalire al tedesco
Benedict Lust (1872-1945) che, trasferitosi negli Stati Uniti, iniziò un percorso di
studio ampio ed eclettico, laureandosi in osteopatia e poi in chiropratica e in
omeopatia, ma coltivando anche un forte interesse per l’Oriente e per le tecniche
yoga. Un eclettismo basato su una visione olistica dell’organismo umano, che
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ispirava una pratica terapeutica centrata, come scrive lo stesso Lust,
sull’estirpazione delle cattive abitudini e l’acquisizione di abitudini salutari e di
nuovi principi di vita, nella convinzione che non esista altra forza di guarigione
della natura stessa (Textbook of natural medicine, 19992).
La naturopatia conquistò una posizione riconosciuta all’interno della medicina
americana, mantenuto fino agli anni Cinquanta; l’avvento della farmacologia
(penicillina e cortisone) le fece poi perdere terreno, ma negli anni Settanta rifiorì
con la fondazione di istituti di formazione universitaria di notevole prestigio come
la Bastyr university a Seattle. Attualmente negli Stati Uniti la naturopatia è
esercitata da laureati nella specifica materia. In Europa, la situazione più
anticamente strutturata è quella tedesca, dove dal 1939 è riconosciuta una figura di
naturopata che si chiama Heilpraktiker. Analogo riconoscimento in Svizzera
(compreso il Cantone italiano). In alcuni Paesi (Inghilterra, Danimarca, Belgio,
Paesi Bassi) vi è assoluta tolleranza verso la professione, in altri (Italia), invece,
anche per l’ostilità dei medici, predomina un atteggiamento di chiusura.
Non esiste una letteratura scientifica significativa che consenta di valutare il
metodo naturopatico anche perché, come abbiamo visto, non esiste un metodo, ma
un approccio di medicina naturale che nella tradizione americana è strettamente
legato alla scienza (Textbook of natural medicine 19992), mentre nella tradizione
tedesca è molto più legato alla medicina popolare.
Prospettive
Il fenomeno della diffusione di pratiche mediche e terapeutiche sorte fuori dal
paradigma delle biomedicina pare destinato a trovare una sua collocazione
significativa nell’ambito dei servizi sanitari e, più in generale, dell’offerta di salute
nella gran parte dei Paesi, compresi quelli industrialmente avanzati. La spinta alla
medicina integrata appare forte, coinvolgendo settori rilevanti di cittadini e di
operatori sanitari. La comunità scientifica e le istituzioni politiche, nei prossimi
decenni, saranno chiamate a governare un cambiamento nella gestione della salute
che coinvolge il modello e la pratica medica, la formazione degli operatori e
l’organizzazione dei servizi (Integrative medicine, 20072). Questa sfida all’attuale
assetto della biomedicina potrebbe dar luogo a un generale avanzamento nella
comprensione del funzionamento dell’organismo umano in salute e malattia, con
positive conseguenze sulla salute e sulla longevità umana.
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Si veda inoltre:
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http://www.governo.it/bioetica/testi/Medicine%20Alternative.pdf (22 apr. 2010).
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