Dalla Jugoslavia alla Jugosfera

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An essay of history about the war in Jugoslavia and the condition of the country nowadays.

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Cristina Rossi

DALLA JUGOSLAVIA ALLA “JUGOSFERA”

La Repubblica Federativa Popolare di Jugoslavia nacque nel 1945, alla fine della Seconda Guerra

Mondiale; mantenne il nome fino al 1963 quando diventò poi la Repubblica Federale Socialista di

Jugoslavia (fino al 1991/92). Era una federazione di sei repubbliche (Bosnia-Erzegovina, Croazia,

Macedonia, Montenegro, Serbia, Slovenia) e due “province autonome” all’interno della repubblica

di Serbia (Vojvodina e Kosovo). Ogni repubblica o provincia autonoma rappresentava l’area di

maggior concentrazione territoriale di uno dei grandi gruppi nazionali che formavano la Jugoslavia.

Alla fine della Seconda Guerra Mondiale, il maresciallo Tito, capo del governo, iniziò una politica di

alleanza con l’Unione Sovietica, e instaurò un regime dittatoriale di stampo socialista in cui il partito

comunista era l’unico legalmente riconosciuto. Poco a poco, però, iniziò un progressivo

allontanamento da Stalin, che permise al governo di controllare più liberamente l’economia del

proprio paese. Dopo diversi dissidi con Mosca, soprattutto sulla politica estera, la Jugoslavia, nel

1948, uscì dall’orbita di influenza sovietica.

Nel 1950 Tito inaugurò una politica di autogestione dei lavoratori che fu alla base del sistema

produttivo jugoslavo, nonostante ciò, la Jugoslavia rimase un paese a economia pianificata. La

politica interna fu caratterizzata da un forte accentramento del potere volto a stroncare ogni sussulto

nazionalista e ogni riforma a livello locale, anche se, col passare degli anni, in Jugoslavia, vennero

fatti timidi passi verso un’economia più liberale, fino alla Costituzione del 1974 che concesse larghe

autonomie alle repubbliche federate.

La Jugoslavia fu quindi, dal 1945 al 1990, uno Stato multinazionale, basato sul multiculturalismo, in

cui nessun singolo gruppo rappresentava una maggioranza. Questo paese era composto da

repubbliche, in ognuna di esse vi era un gruppo di maggioranza, da cui queste prendevano il nome

(ad esempio i croati in Croazia, i serbi in Serbia, e così via). Ma in tutte queste repubbliche vi erano

anche consistenti minoranze. L’unica eccezione era rappresentata dalla repubblica di Bosnia ed

Erzegovina in cui non vi era un gruppo che formava una maggioranza, erano presenti musulmani,

serbi, croati, iugoslavi e altre etnie. La Slovenia, invece, rappresentava la repubblica più omogenea

con circa il 90% della popolazione composta da sloveni.

Dal 1953 al 1981 diversi fattori contribuirono a sostenere che quasi tutti i territori della Iugoslavia

stessero divenendo sempre più eterogenei. In quasi tutte le repubbliche e le province diminuì la

percentuale di popolazione composta dal gruppo nazionale maggioritario. Con le sole due eccezioni

delle province autonome della Serbia, la Vojvodina e il Kosovo. Tra il 1981 e il 1991 l’eterogeneità

crebbe in Montenegro, Macedonia, Slovenia e Serbia, ma diminuì in Croazia e Bosnia-Erzegovina.

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Vi fu anche un aumento nelle percentuali di matrimoni misti tra membri di differenti gruppi nazionali.

Questo fenomeno di solito è indice di una crescente integrazione fra i gruppi sociali.

Le percentuali più alte di matrimoni misti si trovavano nelle aree dove le popolazioni erano più

intrecciate, ovvero nelle grandi città, nelle province della Vojvodina, in Bosnia-Erzegovina, e in

Croazia dove vi erano ampi gruppi di serbi e croati.

Un altro fattore di eterogeneità è riscontrato nelle percentuali di coloro che si identificavano come

“jugoslavi” invece che come croati, serbi, musulmani o altri gruppi. La distribuzione territoriale di

questi jugoslavi etnici non era omogenea e in termini di età, questa identità era scelta principalmente

dai giovani. Questo fenomeno poteva voler dire che si stesse sviluppando un crescente senso di

comunità, e una sempre maggiore autoidentificazione dei cittadini come jugoslavi.

Nel 1980 il maresciallo Tito morì e la situazione economica si deteriorò, alimentando il divario tra le

repubbliche di Slovenia e Croazia, ovvero le più ricche, e il resto del paese. Questi dissidi portarono

a una separazione economica, che diventò poi una spinta verso una volontà indipendentista ispirata

dai dirigenti politici locali.

Nel 1990 si tennero le libere elezioni nelle sei repubbliche, dopo il crollo della Lega dei comunisti,

ed il messaggio vincente in ogni repubblica fu quello dell’allentamento dei legami politici con il

governo jugoslavo e del nazionalismo classico, ovvero la Serbia ai serbi, la Croazia ai croati, la

Slovenia agli sloveni, la Macedonia ai macedoni. Nella Bosnia-Erzegovina presero più voti i partiti

nazionalisti musulmano, serbo e croato, mentre il partito che sosteneva l’uguaglianza di tutti i cittadini

ottenne una misera percentuale di voti. I politici vittoriosi in Serbia, Croazia e Slovenia lavorarono in

modo indipendente, ognuno per le proprie ragioni, per indebolire il governo federale. Così ogni

repubblica, eccetto la Bosnia-Erzegovina, divenne un vero e proprio Stato-nazione basato sulla

sovranità del gruppo nazionale maggioritario.

I diversi movimenti politici nazionalisti erano giustificati dal principio di “autodeterminazione”, nelle

costituzioni delle varie repubbliche il riferimento non era tanto alla popolazione o ai cittadini di

queste, ma alle nazioni (narodi) della Jugoslavia, etnicamente definite. L’aspetto centrale di questi

movimenti politici nazionalisti, nati dopo il 1989, fu l’esplicita fusione di “nazione” etnicamente

definita e “Stato”.1 Ciò implicò diverse conseguenze per le minoranze che si trovarono a vivere in

Stati definiti come gli Stati-nazione delle rispettive maggioranze. Chi non apparteneva alla

maggioranza etno-nazionale non poteva godere di pieni diritti.

Il punto focale di questa distinzione risiedeva nel concetto di sovranità. Dopo le elezioni del 1990, i

politici nazionalisti riscrissero le rispettive costituzioni repubblicane per fondare lo Stato sulla

1 Comunità immaginate e vittime reali: autodeterminazione e pulizia etnica in Iugoslavia, R. M. Hayden, Meltemi,

Roma 2005. (p.154)

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sovranità della nazione etnicamente definita (narod); gli altri potevano essere cittadini ma non

avevano un uguale diritto di partecipare al controllo dello Stato. Vi erano alcune regioni in cui vari

popoli jugoslavi coesistevano ed erano sempre più intrecciati, ma i politici presupponevano che i vari

popoli non potessero vivere insieme, e che dunque il loro comune stato dovesse essere diviso. Le

regioni miste non potevano essere lasciate sopravvivere come tali e le loro popolazioni, che

volontariamente si stavano mescolando, dovevano essere separate militarmente. La disintegrazione

della Jugoslavia nel 1991-92 segnò il fallimento dell’immaginazione di una comunità jugoslava.

Lo sviluppo dei nazionalismi ostili fece decrescere drasticamente la percentuale di jugoslavi in tutto

il paese. La percentuale rimase alta soltanto nelle regioni più miste in Bosnia-Erzegovina e in Croazia.

La diminuzione di chi si identificava come jugoslavo era dovuta principalmente alla consapevolezza

dei crescenti rischi che una simile autodefinizione comportava, nel clima sciovinista (nazionalista)

dominante, la popolazione temeva che ciò potesse costar loro il posto di lavoro e persino la confisca

delle proprietà.

I territori dove l’intreccio fra popolazioni era stato più completo, ossia la Bosnia-Erzegovina, le parti

della Croazia confinanti con essa e la Vojvodina, furono i principali teatri di guerra. La causa

principale della guerra consisteva nel fatto che i nazionalismi rivendicavano quegli stessi territori

“misti” e intendevano combattere per ottenerli.

Le libere elezioni jugoslave del 1990 non sostituirono il socialismo di Stato con la democrazia. La

transizione fu da un regime che promuoveva gli interessi di quella parte della popolazione definita

come “classe lavoratrice” a un regime che promuoveva gli interessi di quella parte di popolazione

definita come maggioranza etnonazionale. Hayden sostiene che “la transizione fu dal socialismo di

Stato allo sciovinismo (sentimento nazionalistico esaltato e fanatico) di Stato e il nemico di classe del

socialismo fu sostituito dal nemico nazionale, identificato da ciascun sciovinismo locale.”2 I primi

nemici nazionali erano i membri della principale minoranza di ciascun Stato. Questa transizione

appare evidente nelle formulazioni dell’identità e delle finalità dello Stato, contenute nelle diverse

costituzioni repubblicane. Ne è un esempio la Costituzione della Croazia (1990) che nel suo

preambolo recita:

Premesso (…) l’inalienabile e inestinguibile diritto all’autodeterminazione e alla

sovranità di Stato della nazione croata, si instaura la Repubblica di Croazia come Stato

nazionale della nazione croata e come Stato dei membri delle altre nazioni e minoranze

che sono suoi cittadini.

2 Comunità immaginate e vittime reali: autodeterminazione e pulizia etnica in Iugoslavia, R. M. Hayden, Meltemi,

Roma 2005. (p.160)

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In questo preambolo, come in tutti quelli delle altre costituzioni, la parola nazione (narod) assume

una connotazione etnica. Essa esclude quindi tutti quegli individui di cui non sia specificata

l’appartenenza etnica. La nascita di ogni repubblica è considerata una manifestazione del diritto di

autodeterminazione, cioè del diritto di formare un proprio Stato, del gruppo etnico di maggioranza,

che prende il nome di nazione. Questa realtà nasce dal fallimento di un tentativo di definire lo Stato

in modo da riconoscere la sovranità di tutti i gruppi presenti, senza privilegiarne nessuno.

I nazionalisti cominciarono in ciascuna repubblica a praticare sistemi di nazionalismo costituzionale,

nel senso di sistemi costituzionali e giuridici volti ad assicurare il dominio del gruppo etnonazionale

di maggioranza.

In Bosnia-Erzegovina non era stata emanata nessuna nuova costituzione e così, dopo il crollo dell’ex

Jugoslavia, i leader serbi e croati proclamarono l’indipendenza delle loro regioni all’interno della

Bosnia. Queste regioni assunsero poi una forma istituzionale simile a quella di un vero e proprio

Stato, legate rispettivamente alla Serbia e alla Croazia, e si resero indipendenti dal governo della

Bosnia-Erzegovina. Seguì poi una guerra, e un’azione di pulizia etnica, che portò alla separazione

della Bosnia-Erzegovina in due regioni destinate a divenire presto etnicamente “pure”. Questa

suddivisione fu una conseguenza del crollo dell’ex Jugoslavia perché l’autodeterminazione delle

nazioni faceva sì che i serbi e i croati presenti in Bosnia-Erzegovina venissero attirati verso l’unione

con la propria etnia. Questa pratica dell’autodeterminazione condusse alla guerra civile che provocò

la distruzione della Bosnia-Erzegovina. La costituzione della Federazione di Bosnia ed Erzegovina

del 1994 si fondava su un’idea di nazionalismo costituzionale che escludeva i serbi dai popoli sovrani

della Bosnia-Erzegovina, riservando ai bosniaci musulmani e ai croati il diritto di spartirsi i ruoli

esecutivi.

Il trattato di pace di Dayton-Parigi, del 1995, che produsse come primo effetto quello di far cessare

per il momento la guerra in Bosnia, si rifece a un’idea di nazionalismo costituzionale molto simile a

quello della Costituzione federale del 1994, a cui a musulmani e croati vennero riconosciuti più diritti

rispetto agli altri gruppi etnici.

Nelle repubbliche dell’ex Jugoslavia, costituite dopo le elezioni del 1990, i cittadini di uno Stato

possedevano dei diritti da cui erano esclusi invece coloro che cittadini non erano. Una volta raggiunta

l’indipendenza, i governi dei singoli Stati iniziarono a indicare norme che stabilivano chi avesse il

diritto di vivere lì e chi no, chi poteva lavorare e chi no, a chi veniva concesso il diritto di voto e a chi

no, chi poteva contare su una copertura sanitaria e godere di altri benefici e chi no, e infine a chi si

permetteva di possedere beni immobiliari e a chi no. In sostanza, senza cittadinanza non si accedeva

ai diritti fondamentali che permettevano di condurre tranquillamente la propria esistenza.

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Le nuove leggi erano state scritte in modo da privilegiare i membri appartenenti alla maggioranza,

provocando così una discriminazione dei residenti che non appartenevano al gruppo etnico di

maggioranza. In sostanza, i nuovi regimi di cittadinanza avevano da un lato esteso la cittadinanza ai

membri non residenti della maggioranza etnonazionale, attraverso procedure di naturalizzazione,

dall’altro l’avevano negata a molti residenti che non appartenevano al gruppo giusto. Hayden osserva

che “questo processo che trasforma coloro che da sempre hanno vissuto in Iugoslavia da cittadini a

stranieri nelle loro stesse terre, può essere definito un processo di denaturalizzazione.”3

Con la fine della Jugoslavia, si pose la questione pratica di ottenere la cittadinanza in uno dei nuovi

Stati per molti suoi ex cittadini. Le leggi che regolavano il diritto di cittadinanza stabilivano i requisiti

per l’acquisizione di uno status di appartenenza a una comunità. Un esempio contenuto nella legge

che regola la cittadinanza croata del 1991, nell’articolo 8, stabiliva che si potesse dedurre dalla

condotta del cittadino che egli aderisse alle leggi e alle consuetudini della Repubblica croata e che

accettasse la cultura croata; ma non era chiaro come qualcuno potesse comportarsi in modo da

mostrare di averla accettata. Tali limitazioni rappresentavano un espediente per estendere la

cittadinanza solo ai croati etnici. Le proteste dei serbi erano quindi fondate, perché le possibilità di

discriminazione esistevano.

Anche le leggi slovene sulla naturalizzazione ponevano delle restrizioni che avvantaggiavano gli

sloveni etnici. Le nuove leggi che regolavano il diritto di cittadinanza fornivano, quindi, gli strumenti

legislativi per escludere su base etnica alcuni individui dalla cittadinanza, costruendo le premesse per

la pulizia etnica amministrativa.

La logica dell’”autodeterminazione nazionale” in Jugoslavia aveva legittimato l’uniformazione della

popolazione. La guerra seguì questa logica di costruzione dello Stato-nazione tramite l’eliminazione

delle minoranze. Un regime maggioritario in uno Stato con una maggioranza schiacciante poteva

ottenere amministrativamente dei risultati, affiancati anche da altri metodi se la maggioranza non

aveva sufficiente potere di governo, in particolare attraverso l’invasione militare e la conseguente

espulsione della popolazione indesiderata.

I serbi all’inizio si impossessarono della maggior parte del territorio della Bosnia-Erzegovina e

commisero il più alto numero di violazione dei diritti umani. Nel 1993 le azioni militari croate dirette

a fondare una Herceg-Bosna (entità autonoma dei croati in Bosnia-Erzegovina) etnicamente pura,

cercarono di ottenere lo stesso risultato anche nella Bosnia centrale e a Mostar. Gli “scambi di

popolazione” furono eseguiti sempre con questo proposito.

3 Comunità immaginate e vittime reali: autodeterminazione e pulizia etnica in Iugoslavia, R. M. Hayden, Meltemi,

Roma 2005. (p.166)

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Alla fine del 1994 la guerra aveva prodotto il quasi completo trasferimento delle popolazioni non

croate al di fuori di Sarajevo (capitale della Bosnia-Erzegovina).

Durante la primavera e l’estate del 1995 si accelerò questo processo di espulsione della popolazione.

A maggio la parte serba della Slovenia occidentale fu attaccata dai croati, quasi tutti i serbi furono

espulsi. A luglio l’esercito serbo conquistò due delle “aree di sicurezza” musulmane nella Bosnia

orientale ed espulse o uccise tutti i residenti. Ad agosto i croati attaccarono la Krajina ed espulsero

duecentomila serbi dalla Croazia. Questo evento è stato il più pesante atto di pulizia etnica nel corso

delle guerre balcaniche. Tra il 1991 e il 1995 l’85% dei serbi che abitavano in Croazia furono obbligati

a lasciare la loro terra.

In Croazia, l’estate del 1995 è stata segnata dalle più grandi ondate di pulizia etnica compiute dai

diversi eserciti. A settembre i musulmani aiutati dall’esercito croato attaccarono la Bosnia

occidentale, che costrinse decine di migliaia di serbi a lasciare i settori centro-occidentali della

Bosnia, che prima della guerra era popolata quasi totalmente da serbi.

Malgrado la comunità internazionale avesse più volte sottolineato il fatto che non avrebbe accettato

una spartizione della Bosnia su basi etniche, il trattato di pace di Dayton-Parigi invece fece proprio

questo, riconoscendo che la Bosnia era composta da due “entità”: la “federazione” croata-musulmana

e la “Repubblica Srpska” (serba), ognuna fondata su una propria costituzione. Dal momento che

queste costituzioni definivano i loro rispettivi Stati in termini etnici, questo accordo legittimava a

livello internazionale la suddivisione della Bosnia su base etnica.

Dopo la proclamazione dell’indipendenza di Slovenia, Croazia, Bosnia ed Erzegovina e Macedonia,

lo Stato jugoslavo era limitato ai soli territori della Serbia e del Montenegro che decisero di rimanere

uniti, dando vita nel 1992 alla Repubblica Federale di Jugoslavia.

Nel 1996 le tensioni nella provincia serba del Kosovo tra la maggioranza di etnia albanese e la

minoranza serba si inasprirono. Fino al 1999 fu combattuto un conflitto tra l’organizzazione

indipendentista paramilitare albanese UCK e la polizia appoggiata da forze paramilitari serbe, che si

concluse, dopo quasi tre mesi di bombardamenti da parte della NATO sulla Jugoslavia, con l’Accordo

di Kumanovo, che sancì il ritiro dell’esercito federale dalla provincia, il mantenimento della sovranità

jugoslava e l’amministrazione dell’ONU.

Nel settembre 2003 la Repubblica Federale di Jugoslavia cambiò denominazione in Unione Statale

di Serbia e Montenegro, la federazione rimase in vigore fino al 2006 quando venne sciolta dando vita

ai due stati indipendenti di Serbia e Montenegro.

Nel 2008 il Kosovo dichiarò unilateralmente la propria indipendenza e la costituzione in repubblica,

decisione non accettata dalla Serbia e condivisa solo da una parte delle nazioni del mondo.

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Il conflitto nella Ex-Jugoslavia ha portato 250.000 morti, massicci spostamenti interni di persone, e

l’esodo di un milione di rifugiati.

L’accordo di Dayton-Parigi, che metteva fine alla guerra civile jugoslava, richiedeva un maggiore

sforzo di sostegno internazionale per la ricostruzione dopo la guerra, e poneva problemi per il

processo di ricostruzione avviato dalla Banca Mondiale e da altre agenzie che avevano intenzione di

creare le condizioni economiche e sociali ottimali per una pace sostenibile.

Il ruolo della Banca Mondiale nel processo di ricostruzione e di ripresa economica nei paesi della Ex-

Jugoslavia è stato molto importante, il successo dei suoi interventi è stato riconosciuto dalle autorità,

da diverse organizzazioni no-profit e da altri beneficiari. Gli interventi della Banca Mondiale

comprendevano benefici che includevano il coinvolgimento di investitori esteri, progetti nel settore

sociale per la ricostruzione del capitale umano e sociale, e un contributo per l’implementazione delle

attività locali.

La Banca Mondiale ha avuto un ruolo chiave nel coordinamento dei lavori e nel coinvolgimento di

risorse esterne per la ripresa economica: le strade e i ponti principali furono ricostruiti per permettere

al traffico di riprendere; un numero considerevole di scuole e ospedali furono ricostruiti, l’energia

elettrica fu ripristinata, la produzione e il commercio cominciarono ad essere in ripresa,

l’importazione e la domanda per i beni e i servizi locali subirono una rapida ripresa, specialmente

nella Federazione. Inoltre le piccole e medie imprese risposero positivamente alle opportunità create

dall’impegno alla ricostruzione.

Il progetto della Banca Mondiale prevedeva anche un miglioramento nel campo dell’istruzione e

l’implementazione di posti d’impiego. Insieme all’agenzia UNHCR, la Banca Mondiale si è occupata

anche di iniziative locali e progetti per il ritorno dei rifugiati sul territorio e nella realtà sociale.4 Il

lavoro che ha svolto la Banca Mondiale nell’unire i progetti di ricostruzione e di ripresa economica

nel periodo del dopo guerra in questi territori è stato molto apprezzato sia dal governo sia dalla

comunità internazionale.

Il tempo è passato e un nuovo decennio ha visto svilupparsi nuovi avvenimenti al di sopra degli orrori

degli anni ’90. L'Economist ha definito i paesi dell’ex Jugoslavia come "Jugosfera" economica.

Parlando di Jugosfera, si fa riferimento a quell'area unita (di cui fanno parte Bosnia Erzegovina,

Croazia, Macedonia, Montenegro, Serbia e Slovenia) da una storia e da una cultura comuni, i cui fili

sono stati spezzati dalle guerre degli anni '90 ma nonostante tutto, non in maniera irreversibile. Parlare

di "nascita della Jugosfera" ha una forte connotazione semantica di tipo politico, significa interrogarsi

sul futuro dell'area, cercare di capire quale sia la direzione da intraprendere nel processo di

costruzione di un nuovo sistema di rapporti. Tim Judah, esperto e storico del magazine londinese, che

4 Bosnia et Herzegovina, Post-Conflict Reconstruction, A. Kreimer, World Bank 2000. (p.79)

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ha voluto portare alla luce il silenzioso e graduale processo di reintegrazione che sembra essersi da

qualche tempo avviato, sostiene che "la gente già vive in una Jugosfera: bevono latte croato, guardano

programmi tv bosniaci e mangiano spuntini di un'azienda serba controllata da una compagnia

slovena".5

L’area post-jugoslava tenta, quindi, di recuperare radici comuni. Si è sentito parlare anche di

“jugonostalgia”, ovvero il rimpianto di un passato poco elaborato, spesso confrontato solo con le

macerie fisiche e morali lasciate dalle guerre, il rimpianto di un vivere comune, del potersi muovere

e viaggiare all’estero, di un moderato benessere, e infine della quotidianità; ma ciò che i popoli di

quelle terre rivendicano è piuttosto il desiderio (o necessità) di “jugosfera”, cioè di recupero

delle relazioni tra le comunità, i popoli e i Paesi che facevano un tempo parte di un unico stato

federale: un patrimonio culturale comune profondamente radicato, dalla lingua alla cultura, alla

gastronomia, sino alla musica.

Si riconosce la necessità di una nuova cooperazione, cercando di eliminare gli ostacoli ideologici che

ancora pregiudicano la ristrutturazione delle storiche connessioni economiche nell'area. I problemi

riguardano le differenti capacità e possibilità di penetrazione economica, soprattutto per quanto

riguarda l’economia slovena e croata, paesi da sempre in competizione.

I segnali incoraggianti non mancano, nell'area si sta sempre più ristrutturando un mercato comune,

dall’abbattimento delle barriere doganali nel 2002 i grandi oligarchi hanno avviato commerci e

imprese trans-regionali. La lotta alle mafie è stata condotta attraverso la collaborazione tra le forze di

polizia dei vari stati. Il Consiglio per la cooperazione regionale porta avanti un lavoro di formazione

per funzionari, dirigenti e poliziotti di tutti gli stati. E infine, molte infrastrutture, come la rete elettrica

e i binari ferroviari, superano i confini.6 Per i “Balcani occidentali" - altro epiteto utilizzato per la

regione - questa potrebbe essere la strada che porta verso un processo di integrazione, partendo da

quella economica. La crisi del 2009 avrebbe potuto rappresentare un'occasione per recuperare una

dimensione regionale utile a rilanciare gli investimenti, ormai in netto calo. Ciò avrebbe permesso di

valorizzare i punti di forza tradizionali del mercato regionale, come la facilità di comunicazione e di

riconoscibilità dei marchi.7 Processi che pian piano si stanno sviluppando nell’area.

E' il versante politico della Jugosfera che implica le maggiori contraddizioni. Ai vertici si sono

riscontrati segnali molto importanti, sembra infatti prevalere sempre più una disponibilità al dialogo

ed alla collaborazione. Tuttavia esistono ancora grossi ostacoli, come le difficoltà nei rapporti tra

5 “Entering the Yugosphere”, The Economist, 20th August 2009. www.economist.com/node/14258861.

6 “La Jugoslavia non esiste più, ma ora c’è la Jugosfera”, www.internazionale.it/la-jugoslavia-non-esiste-piu-ma-ora-ce-

la-jugosfera/.

7 “L’anno della Jugosfera”, www.balcanicaucaso.org/aree/Balcani/L-anno-della-Jugosfera-55855.

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Zagabria e Lubiana, risolte dopo estenuanti trattative, i problemi nei rapporti tra Serbia e Montenegro,

ma soprattutto l'ancora delicata situazione in Bosnia Erzegovina e Kosovo.

Nonostante le difficoltà, trascendendo l'aspetto più strettamente economico della discussione, e

considerando piuttosto gli aspetti socioculturali, bisogna riconoscere i progressi fatti per ridare

legittimità al patrimonio culturale comune dei popoli di questi territori.

E’ importante che i paesi della Jugosfera continuino su questa linea di collaborazione e cooperazione

tra stati, che riconoscano l’importanza della stabilità politica, così da poter puntare a rafforzare la

dimensione regionale allo scopo di avere la possibilità di acquisire un ruolo più concreto anche

all’interno del mercato comune europeo.

Il contesto locale è quindi di primaria importanza per la risoluzione dei problemi dell'area, e solo

attraverso la collaborazione nella realtà regionale i paesi della Jugosfera potranno avere un ruolo più

rilevante anche all’interno delle dinamiche europee.

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BIBLIOGRAFIA

S. Bianchini, La questione jugoslava, Giunti, Firenze 1999.

R. Hayden, Comunità immaginate e vittime reali: autodeterminazione e pulizia etnica in

Iugoslavia, Maltemi, Roma 2005.

Kreimer, Bosnia et Herzegovina, Post-Conflict Reconstruction, World Bank 2000.

SITOGRAFIA

www.economist.com/node/14258861

www.internazionale.it/la-jugoslavia-non-esiste-piu-ma-ora-ce-la-jugosfera/

www.balcanicaucaso.org/aree/Balcani/L-anno-della-Jugosfera-55855

www.eastjournal.net/i-balcani-tra-voglia-di-jugosfera-e-tensioni-irrisolte-mentre-leuropa-sta-a-

guardare/24451

www.viaggiareibalcani.it/libri/845/jugosfera-e-jugonostalgia.html