Dal Celodurismo a Yes We Can

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DAL A PASSANDO PER IL VAFFA… E LA ROTTAMAZIONE CELODURISMO YES WE CAN LE PAROLE DELLA POLITICA E L’INTELLIGENZA LINGUISTICA IRENE PIVETTI ALESSIO ROBERTI

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Le parole della politica e l'intelligenza linguistica

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DAL

A

PASSANDO PER IL VAFFA… E LA ROTTAMAZIONE

CELODURISMOYES WE CAN

LE PAROLE DELLA POLITICA E L’INTELLIGENZA LINGUISTICA

IRENE PIVETTIALESSIO ROBERTI

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© 2012 Alessio Roberti Editore

Titolo dell’operaDal Celodurismo a Yes we can passando per il Vaffa... e la Rottamazione

SottotitoloLe parole della politica e l’intelligenza linguistica

Pubblicata da:Alessio Roberti Editore Srl

Via Lombardia, 298 – Urgnano (BG) Italy

Prima edizione: dicembre 2012

Ristampa 7 6 5 4 3 2 1 2019 2018 2017 2016 2015 2014 2013

ISBN978-88-6552-051-2

EditorMattia Bernardini

Anna Albano

Fotografie in copertinaAlessio Roberti: Fabrizio Zambelli per GLAM Entertainment

www.glamentertainment.itIrene Pivetti: Iwan Palombi

Progetto grafi co e impaginazioneAndrea Mattei | www.zeronovecomunicazione.it

StampaLineagrafi ca, Città di Castello (PG)

Proprietà letteraria riservata.

È vietata la riproduzione con qualsiasi mezzo.

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Prefazione di Clemente Mimun 7

Introduzione 11

1. Il linguaggio di Obama 13

2. Il linguaggio di Bossi e della Lega 53

3. Il linguaggio di Berlusconi e Forza Italia 81

4. Il linguaggio di Grillo e dei rottamatori 105

5. Le parole di Bob Kennedy per i tecnici 119

Appendice: “Su quanto sta accadendo 123

la classe politica ha di che rifl ettere”

Conclusione 129

Postfazione di Alessio Vinci 133

Ringraziamenti 139

Bibliografi a 141

Linea diretta con l’Editore 143

INDICE

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A 17 anni e mezzo sono entrato per la prima volta alla Ca-

mera dei deputati. Avevo soggezione perché c’erano gli ono-

revoli, che all’epoca erano considerati quasi irraggiungibili,

alla stregua di fi gure mitologiche, che tutto potevano nel

bene e nel male.

Mi è capitato di vedere negli anni ‘70 personalità che han-

no segnato la nostra storia. Da Luigi Longo circondato dalle

attenzioni di Berlinguer, Bufalini, Natta e tanti altri, ai Moro,

Fanfani, Andreotti, De Mita, Marcora, Piccoli e Forlani. Tra i

socialisti, partito per cui tifavo assieme ai radicali di Marco

Pannella, mi impressionavano Nenni, Mancini e Lombardi.

C’era con loro, qualche volta, uno spilungone, che poi rico-

nobbi in Craxi. Poi c’erano gli eredi del fascismo, che non mi

di CLEMENTE MIMUN

PREFAZIONE

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8 PREFAZIONE

piacevano per niente e altre fi gure simpatiche come il mo-

narchico Alfredo Covelli, che aveva sempre uno schiaffone

per tutti. Allora nelle aule, tranne qualche intemperanza di

Pajetta o dei missini, si usava un eloquio educato e ridon-

dante, citazioni latine e greche facevano chic, la cravatta era

obbligatoria, non un optional. Quel che valeva nei discorsi

parlamentari, naturalmente, non era il linguaggio sanguigno

dei comizi. In tutti prevaleva l’attenzione a quel che si diceva,

non a come si comunicava. Il massimo della modernità era

rappresentato dalle interviste radiofoniche (in cui era spe-

cializzato Lello Bersani), e nell’appuntamento con le tribune

politiche, allora imperdibili.

Seguo la politica per ragioni professionali, ma anche per

interesse personale da allora, e devo dire che, pur avendo

vissuto i diversi profondi cambiamenti del costume politico,

anche documentandomi al meglio, leggendo il libro di quella

che fu la più giovane Presidente della Camera della nostra

storia, e Alessio Roberti, ho visto ricollocare al loro posto le

mille caselle delle trasformazioni di questi anni.

Se era ovvio che, parlando di Bossi, Irene avrebbe mostrato

una conoscenza non comune del personaggio e delle sue

scelte, per avvicinare ed emozionare il popolo padano, meno

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9PREFAZIONE

scontata era la profondità e la completezza, dello studio de-

gli altri fenomeni italiani, ma non solo. La Pivetti e Roberti

spiegano con dovizia di elementi cosa hanno portato i prota-

gonisti della politica alla evoluzione del linguaggio e alla co-

struzione della fabbrica del consenso. Leggendo di Obama si

comprende che siamo lontani ancora anni luce dalla moder-

nità, nonostante l’utilizzo, secondo me piuttosto ruspante,

di facebook o twitter. Anche in questo campo siamo vittime

di un gap, troppa retorica e troppo piagnisteo. È tornato il

tempo dei valori condivisi e anche dell’orgoglio nazionale.

Bisogna guardare avanti, e noi ancora non ci siamo.

Clemente Mimun

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LA POLITICA SI NUTRE DI PAROLE

INTRODUZIONE

Dalla torre d’avorio del politichese all’impatto emotivo

del turpiloquio, dall’uso sapiente della metafora alla for-

za trainante dello slogan perfetto, alcuni politici dimostrano

di conoscere a fondo il potere del linguaggio, manifestando

quella che Alessio Roberti defi nisce “intelligenza linguistica”.

Fortunatamente anche noi cittadini elettori possiamo ac-

quisire questa abilità, diventando noi per primi linguisti-

camente intelligenti e imparando così a distinguere tra i

discorsi dei politici e quelli dei politicanti.

In questo libro cerchiamo di fornire una prospettiva diversa

attraverso cui leggere e ascoltare i messaggi di chi chiede il

nostro voto e, in vista di una nuova competizione elettorale,

acquisire un nuovo strumento di giudizio.

Irene Pivetti e Alessio Roberti

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“Four more years, four more years, four more years…”. Anco-

ra quattro anni.

Così l’urlo scandito dalla platea alla Convention Democra-

tica di Charlotte, North Carolina, del settembre 2012 dove

Barack Obama ha accettato formalmente la candidatura alle

ultime elezioni presidenziali degli Stati Uniti d’America.

E, ancora una volta, ce l’ha fatta. Questa volta con lo slogan

“Forward”. Avanti.

Un messaggio che contiene una pre supposizione linguisti-

ca: abbiamo imboccato la strada giusta, dobbiamo andare

avanti. Oltre alla presupposizione, c’è anche un’ambiguità

positiva: avanti, anche nel senso di progresso e migliora-

mento! (E poco contenuto specifi co, per fare in modo che

chi ascolta carichi lo slogan dei propri signifi cati.)

IL LINGUAGGIO DI OBAMA

CAPITOLO 1

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14 IL LINGUAGGIO DI OBAMA

Linguisticamente assai più debole del leggendario “Yes we

can”, è comunque assertivo e positivo, perciò funziona.

Nel discorso di Charlotte, Obama ha puntato come sempre a

coinvolgere direttamente gli elettori. La sua è una linguistica

di precisione, che mira a rendere protagonista e responsa-

bile del futuro del Paese chi lo ascolta e lo “deve” votare.

Eccone un recentissimo esempio:

Possiamo aiutare le grandi aziende e le piccole impre-

se a raddoppiare le loro esportazioni e, se scegliamo

questa strada, possiamo creare un milione di posti

di lavoro nel manifatturiero nei prossimi quattro anni.

Potete fare in modo che ciò accada. Potete scegliere

questo futuro.”

Obama ha fatto della comunicazione il punto forte del suo

“essere” politico.

Attraverso il linguaggio lavora incessantemente per costruire

un’identità condivisa ed evoca valori e ideali fondamentali

per il popolo americano.

Il debutto pubblico di Barack Obama è stata la Convention

dei Democratici tenutasi a Boston il 27 luglio 2004. Lo storico

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15IL LINGUAGGIO DI OBAMA

discorso, che analizziamo in questo capitolo, segna di fatto il

suo ingresso nella scena politica nazionale. Quando sale sul

palco è un semisconosciuto senatore per lo stato dell’Illinois;

il giorno successivo i principali giornali degli USA parlano solo

di lui. L’apparente semplicità e immediatezza dei suoi discorsi

nascondono una raffi nata complessità: Obama (e chi scrive

i suoi discorsi) è dotato di una intelligenza linguistica acuta.

Molte e diverse sono le strategie comunicative applicate dal

futuro presidente degli Stati Uniti, già nel corso di quella prima

importantissima occasione pubblica.

UNO SCRITTORE DEI DISCORSI GIOVANISSIMOBarack Obama non è l’autore materiale dei suoi di-scorsi. La loro stesura è affi data a un team attual-mente diretto dal giovane Jon Favreau (classe 1981). I due si incontrano proprio alla Convention dei De-mocratici tenutasi a Boston il 27 luglio 2004, in occasione della quale Obama pronuncia il discorso che pubblichiamo nelle prossime pagine. Al tempo Favreau scriveva i discorsi per la campagna elettorale presidenziale di John Kerry; aveva 23 anni!

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16 IL LINGUAGGIO DI OBAMA

Nell’analisi che segue abbiamo volutamente mantenuto un

livello di dettaglio “medio”, in modo da agevolare la lettura

e creare un equilibrio tra le parole di Obama e i nostri com-

menti. La consultazione della registrazione video del discor-

so, disponibile su YouTube, vi renderà possibile anche soffer-

marvi su tutti quegli aspetti di comunicazione non verbale

diffi cili da rendere mediante una trascrizione.

Discorso di Barack Obama alla Convention dei Democratici

tenutasi a Boston il 27 luglio 2004.

A nome del grande stato dell’Illinois, crocevia di una

nazione, terra di Lincoln, lasciatemi esprimere la mia

più profonda gratitudine per il privilegio di poter par-

lare a questa Convention.

Stasera è un particolare onore per me, perché, di-

ciamocelo, la mia presenza su questo palco è ab-

bastanza improbabile. Mio padre era uno studente

straniero, nato e cresciuto in un piccolo villaggio del

Kenya. È cresciuto portando le capre al pascolo, è

andato a scuola in una baracca col tetto di lamiera.

Suo padre – mio nonno – era un cuoco, faceva il do-

mestico per gli inglesi.

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17IL LINGUAGGIO DI OBAMA

Ma mio nonno aveva grandi sogni per suo fi glio. Attra-

verso il duro lavoro e la perseveranza, mio padre ha

ottenuto una borsa di studio per studiare in un luogo

magico, l’America, che aveva brillato come un faro di

libertà e di opportunità per molti prima di lui.

Durante i suoi studi in questo paese, mio padre incon-

trò mia madre. Lei era nata in una città dall’altra parte

del mondo, in Kansas. Suo padre aveva lavorato sul-

le piattaforme petrolifere e nelle aziende agricole per

buona parte della Grande Depressione. Il giorno dopo

Pearl Harbor mio nonno si arruolò e, agli ordini del

generale Patton, attraversò l’Europa. Nel frattempo,

a casa, mia nonna cresceva la loro fi glia e lavorava in

una catena di montaggio per assemblare bombardieri.

Dopo il confl itto proseguirono gli studi e acquista-

rono una casa grazie alle agevolazioni per i veterani

di guerra. Successivamente si trasferirono a ovest,

spingendosi fi no alle Hawaii, in cerca di opportunità.

E anche loro avevano grandi sogni per la fi glia. Un

sogno comune, nato da due continenti.

I miei genitori non condividevano solo un amore

improbabile, ma anche una fede incrollabile nel-

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18 IL LINGUAGGIO DI OBAMA

le possibilità di questa nazione. Mi hanno dato un

nome africano – Barack, o “beato” – convinti che in

un’America tollerante il nome che porti non costi-

tuisce un ostacolo al successo. Hanno immaginato

– Hanno immaginato per me le migliori scuole del

paese, anche se non erano ricchi, perché in un’Ame-

rica generosa non hai bisogno di essere ricco per

raggiungere il tuo potenziale.

Oggi non sono più tra noi. Eppure so che questa sera

loro mi stanno guardando da lassù con grande or-

goglio.

Loro sono qui – E io sono qui, oggi, grato per l’etero-

geneità delle mie radici, consapevole del fatto che i

sogni dei miei genitori continuano a vivere nelle mie

due preziose fi glie. Sto qui davanti a voi, consape-

vole che la mia storia fa parte di una più grande

storia americana, che ho un debito verso tutti coloro

che sono venuti prima di me, e che, in nessun altro

paese al mondo, la mia storia sarebbe stata anche

soltanto possibile.”

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19IL LINGUAGGIO DI OBAMA

On behalf of the great state of Illinois, crossroads of

a nation, Land of Lincoln, let me express my deepest

gratitude for the privilege of addressing this convention.

Tonight is a particular honor for me because, let’s

face it, my presence on this stage is pretty unlikely.

My father was a foreign student, born and raised in a

small village in Kenya. He grew up herding goats, went to

school in a tin-roof shack. His father — my grandfather —

was a cook, a domestic servant to the British.

But my grandfather had larger dreams for his son.

Through hard work and perseverance my father got a

scholarship to study in a magical place, America, that

shone as a beacon of freedom and opportunity to so

many who had come before.

While studying here, my father met my mother. She

was born in a town on the other side of the world, in

Kansas. Her father worked on oil rigs and farms through

most of the Depression. The day after Pearl Harbor my

grandfather signed up for duty; joined Patton’s army,

marched across Europe. Back home, my grandmother

raised a baby and went to work on a bomber assembly

line. After the war, they studied on the G.I. Bill, bought

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20 IL LINGUAGGIO DI OBAMA

a house through F.H.A., and later moved west all the

way to Hawaii in search of opportunity.

And they, too, had big dreams for their daughter. A

common dream, born of two continents.

My parents shared not only an improbable love, they

shared an abiding faith in the possibilities of this

nation. They would give me an African name, Barack, or

“blessed”, believing that in a tolerant America your name

is no barrier to success. They imagined — They imagined

me going to the best schools in the land, even though

they weren’t rich, because in a generous America you

don’t have to be rich to achieve your potential.

They’re both passed away now. And yet, I know that

on this night they look down on me with great pride.

They stand here — And I stand here today, grateful for

the diversity of my heritage, aware that my parents’

dreams live on in my two precious daughters. I stand

here knowing that my story is part of the larger American

story, that I owe a debt to all of those who came before

me, and that, in no other country on earth, is my story

even possible.”

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21IL LINGUAGGIO DI OBAMA

Il sogno americano. Prima di questo momento la maggior

parte degli americani non ha mai visto Barack Obama. La

prima cosa che fa il senatore, perciò, è costruire la propria

credibilità. E lo fa volgendo a proprio favore un vissuto che

rende la sua presenza su quel palco “improbabile”. La storia

dei suoi genitori è la quintessenza del sogno americano: una

storia di povertà e immigrazione, ma anche di perseveranza

e di duro lavoro; una storia personale che tuttavia abbrac-

cia più di un secolo di storia americana (con il riferimento,

tutt’altro che casuale, al presidente Lincoln): una storia che

parla di sogni, di opportunità e di libertà.

Ancoraggio. Nella parte iniziale del discorso Obama riesce a

creare una forte connessione – un ancoraggio – tra se stesso

e il sogno americano.

Parole evocative. Senza parlare direttamente di religione, at-

traverso l’uso attento di alcune parole chiave quali “fede in-

crollabile”, “beato”, “tollerante”, Obama introduce anche uno

dei temi chiave per l’elettorato americano. Chi cura la parte

di comunicazione nel suo staff conosce bene il potere delle

parole, così come la loro capacità di evocare immagini e senti-

menti che vanno al di là di ciò che viene esplicitamente detto.

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22 IL LINGUAGGIO DI OBAMA

Uso del tempo. Il futuro presidente si muove fl uidamente tra

passato, presente e futuro. Il passato che evoca è il proprio

e, al tempo stesso, quello di un’intera nazione. Vi sono i non-

ni e i genitori, ma anche tutti coloro che sono venuti prima

di noi. Poi Obama porta l’attenzione al qui e ora, non senza

evocare la continuità temporale che culmina nel futuro, qui

rappresentato dal riferimento alle fi glie.

Questa sera siamo riuniti per affermare la grandezza

della nostra Nazione – e non è per l’altezza dei nostri

grattacieli, o il potere del nostro esercito, o la dimen-

sione della nostra economia.

Il nostro orgoglio si fonda su una premessa molto

semplice, riassunta in una dichiarazione che risale a

più di duecento anni fa:

“Noi riteniamo queste verità di per se stesse evidenti,

che tutti gli uomini sono creati uguali, che essi sono

dotati dal loro Creatore di alcuni diritti inalienabili,

che fra questi diritti vi sono la Vita, la Libertà e la

ricerca della Felicità.”

È questo il vero genio dell’America, una fede – una

fede nei sogni semplici, la persistente fi ducia nei pic-

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23IL LINGUAGGIO DI OBAMA

coli miracoli; poter rimboccare le coperte ai nostri fi gli

la sera sapendo che hanno di che mangiare, di che ve-

stire e che sono al sicuro; poter dire ciò che pensiamo,

scrivere ciò che pensiamo, senza il timore di sentir bus-

sare improvvisamente alla porta; poter avere un’idea e

iniziare un’attività in proprio senza dover pagare una

tangente; poter partecipare al processo politico senza

paura di ritorsioni, e sapere che i nostri voti verranno

contati – almeno nella maggior parte dei casi.”

Tonight, we gather to affi rm the greatness of our Nation

— not because of the height of our skyscrapers, or the

power of our military, or the size of our economy.

Our pride is based on a very simple premise, summed

up in a declaration made over two hundred years ago:

“We hold these truths to be self-evident, that all men

are created equal, that they are endowed by their

Creator with certain inalienable rights, that among

these are Life, Liberty and the pursuit of Happiness.”

That is the true genius of America, a faith — a faith

in simple dreams, an insistence on small miracles;

that we can tuck in our children at night and know

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24 IL LINGUAGGIO DI OBAMA

that they are fed and clothed and safe from harm;

that we can say what we think, write what we think,

without hearing a sudden knock on the door; that we

can have an idea and start our own business without

paying a bribe; that we can participate in the political

process without fear of retribution, and that our votes

will be counted — at least most of the time.”

Il passato come elemento unifi cante. Ancora una volta

troviamo un riferimento al passato come tema trasversale

per l’intero elettorato, che si può riconoscere nei valori della

dichiarazione d’indipendenza: il diritto alla vita, alla libertà e

alla ricerca della felicità. E ancora una volta Obama utilizza

parole chiave intrise di religiosità: “fede” e “miracoli”.

Linguaggio dei sensi. Obama non si limita a menzionare

concetti astratti. Il passaggio successivo del suo discorso è

fondamentale per creare un collegamento diretto tra i valori

menzionati e le esperienze concrete di vita vissuta, in cui

chiunque si possa riconoscere. Per conferire vividezza alla

sua rappresentazione, Obama fa appello ai sensi: crea im-

magini facilmente rappresentabili (rimboccare le coperte ai

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25IL LINGUAGGIO DI OBAMA

propri fi gli, avviare un’attività in proprio), parla di esperienze

auditive (dire ciò che si pensa, sentir bussare alla porta) ed

evoca sensazioni (sentirsi al sicuro, avere paura).

Quest’anno, in queste elezioni siamo chiamati a riaf-

fermare i nostri valori e i nostri impegni, a confron-

tarli con una dura realtà per vedere come ci stiamo

rapportando all’eredità dei nostri padri e alla pro-

messa delle generazioni future.

E amici americani, democratici, repubblicani, indi-

pendenti, vi dico stasera: abbiamo altro lavoro da

fare – altro lavoro da fare per gli operai che ho in-

contrato a Galesburg, Illinois, che stanno perdendo

il posto di lavoro nello stabilimento di Maytag che si

trasferisce in Messico, e ora si trovano a dover com-

petere con i propri fi gli per posti dove pagano sette

dollari l’ora; altro lavoro da fare per il padre che ho in-

contrato che stava perdendo il lavoro e soffocando le

lacrime, mentre si domandava dove avrebbe trovato i

4500 dollari al mese per i farmaci di cui ha bisogno

il fi glio, ora che stava per perdere l’assicurazione sa-

nitaria pagata dall’azienda; altro lavoro da fare per la

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26 IL LINGUAGGIO DI OBAMA

giovane donna di East St. Louis, e altre migliaia come

lei, che ha i voti, la determinazione, la volontà, ma

non il denaro per andare al college.

Ora, non fraintendetemi. Le persone che incontro – nei

piccoli centri e nelle grandi città, nelle trattorie e negli uf-

fi ci – non si aspettano che il governo risolva tutti i loro

problemi. Sanno che devono lavorare duro per andare

avanti, e vogliono farlo. Andate nelle contee intorno a

Chicago, e la gente vi dirà che non vogliono che le loro

tasse siano sprecate da un ente per il welfare o dal Pen-

tagono. Andate – Andate in qualsiasi quartiere povero

della città e la gente vi dirà che il governo da solo non

può insegnare ai nostri fi gli a imparare, sanno che spet-

ta ai genitori insegnare, che i bambini non possono ot-

tenere buoni risultati a meno che non facciamo crescere

le loro aspettative, che non spegniamo la televisione e

sradichiamo il pregiudizio secondo il quale un ragazzino

di colore con un libro in mano si sta comportando da

bianco. Loro sanno queste cose.

La gente non si aspetta – La gente non si aspetta che

il governo risolva tutti i problemi. Ma sente, nel più

profondo di sé, che è suffi ciente un piccolo cambia-

Page 22: Dal Celodurismo a Yes We Can

27IL LINGUAGGIO DI OBAMA

mento nelle priorità per garantire che ogni bambino

in America sia messo nelle condizioni di giocarsi le

proprie carte nella vita, e che le porte delle opportu-

nità rimangano aperte a tutti.

Sanno che possiamo fare di meglio. E vogliono que-

sta scelta.

In queste elezioni, noi offriamo questa scelta. Il no-

stro partito ha scelto come nostro leader un uomo

che incarna il meglio che questo paese ha da offrire.

E quell’uomo è John Kerry.”

This year, in this election we are called to reaffi rm our

values and our commitments, to hold them against a

hard reality and see how we’re measuring up to the

legacy of our forbearers and the promise of future

generations.

And fellow Americans, Democrats, Republicans, Inde-

pendents, I say to you tonight: We have more work to do

— more work to do for the workers I met in Galesburg,

Illinois, who are losing their union jobs at the Maytag

plant that’s moving to Mexico, and now are having

to compete with their own children for jobs that pay

Page 23: Dal Celodurismo a Yes We Can

28 IL LINGUAGGIO DI OBAMA

seven bucks an hour; more to do for the father that

I met who was losing his job and choking back the

tears, wondering how he would pay 4500 dollars a

month for the drugs his son needs without the health

benefi ts that he counted on; more to do for the young

woman in East St. Louis, and thousands more like

her, who has the grades, has the drive, has the will,

but doesn’t have the money to go to college.

Now, don’t get me wrong. The people I meet — in small

towns and big cities, in diners and offi ce parks — they

don’t expect government to solve all their problems. They

know they have to work hard to get ahead, and they

want to. Go into the collar counties around Chicago, and

people will tell you they don’t want their tax money

wasted, by a welfare agency or by the Pentagon. Go

in — Go into any inner city neighborhood, and folks

will tell you that government alone can’t teach our

kids to learn; they know that parents have to teach,

that children can’t achieve unless we raise their

expectations and turn off the television sets and

eradicate the slander that says a black youth with a

book is acting white. They know those things.

Page 24: Dal Celodurismo a Yes We Can

29IL LINGUAGGIO DI OBAMA

People don’t expect — People don’t expect government

to solve all their problems. But they sense, deep in

their bones, that with just a slight change in priorities,

we can make sure that every child in America has a

decent shot at life, and that the doors of opportunity

remain open to all.

They know we can do better. And they want that choice.

In this election, we offer that choice. Our Party has

chosen a man to lead us who embodies the best this

country has to offer. And that man is John Kerry.”

Messaggio universale. Obama non parla a una platea di

democratici, ma all’intera nazione. Democratici, repubblicani

e indipendenti fanno tutti parte del “noi” mediante il quale

Obama costruisce l’universalità del suo messaggio.

Esempi concreti. Obama non parla dei problemi di un Pae-

se, ma dei problemi delle persone. Non parla di disoccupa-

zione, ma delle persone che alla Maytag perderanno il lavo-

ro. Non parla di welfare, ma della tragedia di un padre che

non sa come pagare le medicine di cui ha bisogno suo fi glio.

Page 25: Dal Celodurismo a Yes We Can

30 IL LINGUAGGIO DI OBAMA

Obama prosegue con un tema caldo della sua intelligenza

linguistica.

John Kerry crede nell’America. E sa che non è suf-

fi ciente che ci sia ricchezza solo per alcuni di noi –

perché, a fi anco del nostro famoso individualismo,

c’è un altro ingrediente della saga americana, la

convinzione che siamo tutti connessi come un solo

popolo. Se c’è un bambino a sud di Chicago che non

sa leggere, per me è importante, anche se non è mio

fi glio. Se da qualche parte c’è un anziano che non

riesce a pagarsi le medicine, e che deve scegliere tra

quelle e l’affi tto, questo rende la mia vita più povera,

anche se non è mio nonno. Se c’è una famiglia araba

americana che viene rastrellata senza aver diritto a

un avvocato o a un processo, questo minaccia le mie

libertà civili.

È quella convinzione fondamentale… È quella con-

vinzione fondamentale – io sono il custode di mio

fratello, io sono il custode di mio sorella – che fa fun-

zionare questo Paese. È ciò che ci permette di perse-

guire i nostri sogni individuali e di essere comunque

Page 26: Dal Celodurismo a Yes We Can

31IL LINGUAGGIO DI OBAMA

uniti in un’unica famiglia americana.

E pluribus unum: ‘Da molti, uno solo’.”

John Kerry believes in America. And he knows that

it’s not enough for just some of us to prosper — for

alongside our famous individualism, there’s another

ingredient in the American saga, a belief that we’re all

connected as one people. If there is a child on the south

side of Chicago who can’t read, that matters to me, even

if it’s not my child. If there is a senior citizen somewhere

who can’t pay for their prescription drugs, and having to

choose between medicine and the rent, that makes my

life poorer, even if it’s not my grandparent. If there’s an

Arab American family being rounded up without benefi t

of an attorney or due process, that threatens my civil

liberties.

It is that fundamental belief — It is that fundamen-

tal belief: I am my brother’s keeper. I am my sister’s

keeper that makes this country work. It’s what allows

us to pursue our individual dreams and yet still come

together as one American family.

E pluribus unum: ‘Out of many, one’.”

Page 27: Dal Celodurismo a Yes We Can

32 IL LINGUAGGIO DI OBAMA

Unire. Obama mira a unire l’elettorato sotto un’unica ban-

diera e a questo scopo utilizza diverse strategie linguistiche.

In questo caso, in particolare, fa leva sul senso di apparte-

nenza a un’unica nazione. Parla di America e di “saga ame-

ricana”, di individualismo e di connessione. Senza volerci

soffermare sull’evidente richiamo a John Donne (“Nessun

uomo è un’isola / completo in sé stesso; / ogni uomo è un

pezzo del continente, / una parte del tutto.” John Donne, Me-

ditation XVII), che la maggior parte degli americani sapreb-

be cogliere senza bisogno di alcuna spiegazione, ci basterà

notare come Obama elabori il concetto di (cristiana e civile)

fratellanza per trasformarlo in quello di “famiglia”, con tutti i

potenti risvolti affettivi che esso implica.

Adesso, anche mentre stiamo parlando, ci sono co-

loro che si preparano a dividerci – imbonitori, se-

minatori di zizzania che abbracciano la politica del

“tutto va bene”. Ebbene, questa sera io dico loro, non

c’è un’America liberale e un’America conservatrice –

ci sono gli Stati Uniti d’America. Non c’è un’America

nera e un’America bianca e un’America latina e un’A-

merica asiatica – ci sono gli Stati Uniti d’America.

Page 28: Dal Celodurismo a Yes We Can

33IL LINGUAGGIO DI OBAMA

Ai saccenti, ai saccenti piace spezzettare il nostro

paese in stati rossi e stati blu; rosso per gli stati re-

pubblicani, blu per gli stati democratici. Ma ho una

novità anche per loro. Noi adoriamo un “Dio mae-

stoso” negli stati blu, e non ci piace che degli agenti

federali mettano il naso nelle nostre biblioteche negli

stati rossi. Abbiamo allenatori di softball negli stati

blu e sì, abbiamo alcuni amici gay negli stati rossi. Ci

sono patrioti che si sono opposti alla guerra in Iraq

e patrioti che hanno sostenuto la guerra in Iraq. Noi

siamo un solo popolo, giuriamo tutti fedeltà alle stelle

e strisce, e tutti difendiamo gli Stati Uniti d’America.

Alla fi ne – Alla fi ne – Alla fi ne, questo è il senso di

queste elezioni. Partecipiamo a una politica di ci-

nismo o partecipiamo a una politica di speranza?

John Kerry ci invita alla speranza. John Edwards ci

invita alla speranza.

Non parlo qui di un cieco ottimismo – l’ignoranza

quasi intenzionale convinta che la disoccupazione

scomparirà, se solo non ci pensiamo, o che la crisi

del sistema sanitario si risolverà da sé, se solo la

ignoriamo. Non è di questo che parlo. Sto parlando

Page 29: Dal Celodurismo a Yes We Can

34 IL LINGUAGGIO DI OBAMA

di qualcosa di più sostanziale. È la speranza degli

schiavi che, seduti attorno al fuoco, cantano canzoni

di libertà; la speranza degli immigrati che partono

per lidi lontani; la speranza di un giovane tenente

della marina che coraggiosamente pattuglia il delta

del Mekong; la speranza del fi glio di un operaio che

osa sfi dare il destino; la speranza di un ragazzo ma-

grolino, con un nome buffo, che crede che l’America

abbia un posto anche per lui.

La speranza - La speranza di fronte alle diffi coltà. La

speranza di fronte alle incertezze. L’audacia della

speranza!”

Now even as we speak, there are those who are

preparing to divide us — the spin masters, the negative

ad peddlers who embrace the politics of “anything

goes”. Well, I say to them tonight, there is not a liberal

America and a conservative America — there is

the United States of America. There is not a Black

America and a White America and Latino America and

Asian America — there’s the United States of America.

Page 30: Dal Celodurismo a Yes We Can

35IL LINGUAGGIO DI OBAMA

The pundits, the pundits like to slice-and-dice our

country into red states and blue states; red states

for Republicans, blue states for Democrats. But I’ve got

news for them, too. We worship an “awesome God” in

the blue states, and we don’t like federal agents poking

around in our libraries in the red states. We coach Little

League in the blue states and yes, we’ve got some

gay friends in the red states. There are patriots who

opposed the war in Iraq and there are patriots who

supported the war in Iraq. We are one people, all of

us pledging allegiance to the stars and stripes, all of

us defending the United States of America.

In the end — In the end — In the end, that’s what this

election is about. Do we participate in a politics of

cynicism or do we participate in a politics of hope?

John Kerry calls on us to hope. John Edwards calls on

us to hope.

I’m not talking about blind optimism here — the al-

most willful ignorance that thinks unemployment will

go away if we just don’t think about it, or the health

care crisis will solve itself if we just ignore it. That’s not

what I’m talking about. I’m talking about something

Page 31: Dal Celodurismo a Yes We Can

36 IL LINGUAGGIO DI OBAMA

more substantial. It’s the hope of slaves sitting around

a fi re singing freedom songs; the hope of immigrants

setting out for distant shores; the hope of a young

naval lieutenant bravely patrolling the Mekong Delta;

the hope of a millworker’s son who dares to defy the

odds; the hope of a skinny kid with a funny name who

believes that America has a place for him, too.

Hope — Hope in the face of diffi culty. Hope in the face

of uncertainty. The audacity of hope!”

Contrapposizione. Obama conosce bene la forza coesiva

generata dall’avere un nemico in comune. Per quanto la

contrapposizione noi-loro non sia al centro del suo discorso

politico, in alcune occasioni egli non manca di toccare an-

che questo tasto. In questo caso, “loro” non sono i repub-

blicani (ai quali, ricorderete, Obama tende fraternamente la

mano), ma dei non meglio specifi cati saccenti, imbonitori e

seminatori di zizzania. Il loro peccato non è quello di avere

una diversa opinione, bensì quello – ben più grave all’inter-

no della cornice di fratellanza creata da Obama – di voler

dividere l’America.

Page 32: Dal Celodurismo a Yes We Can

37IL LINGUAGGIO DI OBAMA

Ancoraggio negativo. Dopo aver costruito questa immagine

negativa fatta di cattive intenzioni e resa mediante scelte les-

sicali adatte a descrivere un avversario vile e meschino, Oba-

ma crea un’associazione tra i non meglio identifi cati “loro” e

un certo modo di fare politica: quello dei suoi avversari.

Vaccino. Dopo aver parlato di speranza, Obama provvede

a vaccinare i suoi ascoltatori contro una possibile lettura

negativa – il “cieco ottimismo” –, in modo da affrontare e

fugare ogni dubbio. In contrapposizione al cieco ottimismo,

Obama parla di schiavi e immigrati, facendo appello alle

radici della stragrande maggioranza degli attuali cittadini

americani. Le altre tre persone che nutrono questa speranza

sono, nell’ordine, il candidato presidente Kerry, il candidato

vicepresidente Edwards e lo stesso Obama.

Densità semantica. Dopo aver tracciato un percorso di unio-

ne e di speranza, Obama sa che il modo migliore per capitaliz-

zare le impressioni positive dell’uditorio è quello di condensa-

re l’intero messaggio in una singola frase a effetto: l’audacia

della speranza. È il principio dello slogan, sommato all’avervi

associato (o, meglio, ancorato) uno stato emozionale positivo.

Page 33: Dal Celodurismo a Yes We Can

38 IL LINGUAGGIO DI OBAMA

Alla fi ne, questo è il dono più grande che Dio ci ha

fatto, è questo il fondamento della nazione. Credere

nelle cose che non si vedono. Credere che ci aspet-

tino giorni migliori.

Io credo che possiamo dare respiro alla nostra clas-

se media e che possiamo dare alle famiglie che lavo-

rano una strada che porta alle opportunità.

Io credo che siamo in grado di offrire posti di lavo-

ro ai disoccupati, case ai senzatetto, e che sapremo

salvare i giovani nelle città di tutta l’America dalla

violenza e dalla disperazione.

Io credo che alle nostre spalle soffi un vento giusto

e che, trovandoci al crocevia della storia, possiamo

fare le scelte giuste, e affrontare le sfi de che abbiamo

di fronte.

America! Questa sera, se anche tu senti la stessa

energia che sento io, se anche tu senti la stessa ur-

genza che sento io, se anche tu senti la stessa pas-

sione che sento io, se anche tu senti la stessa speran-

za che sento io – se facciamo quello che dobbiamo

fare, allora non ho dubbi sul fatto che in tutto il paese,

dalla Florida all’Oregon, da Washington al Maine, nel

Page 34: Dal Celodurismo a Yes We Can

39IL LINGUAGGIO DI OBAMA

mese di novembre la gente si solleverà, e John Kerry

sarà nominato presidente, e John Edwards sarà nomi-

nato vicepresidente, e questo paese rivendicherà la

sua promessa, e da questa lunga oscurità politica

sorgerà un giorno più luminoso.

Molte grazie a tutti. Dio vi benedica. Grazie.”

In the end, that is God’s greatest gift to us, the bedrock

of this nation. A belief in things not seen. A belief that

there are better days ahead.

I believe that we can give our middle class relief and

provide working families with a road to opportunity.

I believe we can provide jobs to the jobless, homes

to the homeless, and reclaim young people in cities

across America from violence and despair.

I believe that we have a righteous wind at our backs

and that as we stand on the crossroads of history, we

can make the right choices, and meet the challenges

that face us.

America! Tonight, if you feel the same energy that I do, if

you feel the same urgency that I do, if you feel the same

passion that I do, if you feel the same hopefulness that

Page 35: Dal Celodurismo a Yes We Can

40 IL LINGUAGGIO DI OBAMA

I do — if we do what we must do, then I have no doubt

that all across the country, from Florida to Oregon, from

Washington to Maine, the people will rise up in Novem-

ber, and John Kerry will be sworn in as President, and

John Edwards will be sworn in as Vice President, and

this country will reclaim its promise, and out of this long

political darkness a brighter day will come.

Thank you very much everybody. God bless you. Thank

you.”

Il re dell’anafora. L’anafora è una fi gura retorica che consi-

ste nell’iniziare più frasi successive (o più porzioni della stes-

sa frase) con le stesse parole. Questa reiterazione conferisce

al discorso ritmo e coesione, focalizza l’attenzione e crea un

irresistibile crescendo emozionale.

Si pensi ad esempio al celebre discorso di Martin Luther

King, da molti ricordato proprio per i passaggi che inizia-

no con “I have a dream…(Ho un sogno)”, oppure all’appello

pronunciato da Churchill al parlamento britannico dopo la

disfatta di Dunkerque: “… Noi combatteremo in Francia, noi

combatteremo sui mari e sugli oceani, noi combatteremo

con crescente fi ducia e crescente forza nell’aria…”

Page 36: Dal Celodurismo a Yes We Can

41IL LINGUAGGIO DI OBAMA

Dopo il discorso del 2004, il secondo e ancora più travol-

gente passaggio mediatico di Barack Obama fa il giro del

pianeta nel 2007, quando il senatore si presenta come

candidato alle primarie del proprio partito, che vincerà nel

giugno dell’anno successivo, quando Hillary Clinton ammet-

te la sconfi tta e Obama diventa il candidato per il partito

democratico alla Casa Bianca.

I due slogan della sua campagna elettorale sono “Change

we can believe in” e “Yes We Can” (rispettivamente “Un cam-

biamento in cui possiamo credere” e “Sì, noi possiamo”).

Obama continua a presentarsi come l’uomo nuovo, portato-

re di cambiamento all’interno della società americana.

Il suo paradigma comunicativo continua a ricercare un ele-

mento unifi cante, di appartenenza e comunanza, che en-

trambi i suoi slogan dichiarano apertamente mediante il

“we” (noi).

Il breve estratto che segue, tratto da uno dei discorsi tenuti

durante le primarie del 2007, restituisce intensamente l’in-

telligenza linguistica del politico Obama e del suo “Yes we

can” (Sì, noi possiamo).

Page 37: Dal Celodurismo a Yes We Can

42 IL LINGUAGGIO DI OBAMA

Ma in quella storia improbabile che è l’America,

non c’è mai stato nulla di falso nella speranza. In-

fatti, quando abbiamo affrontato ostacoli impossibili,

quando ci è stato detto che non eravamo pronti, o

che non avremmo dovuto provare, o che non poteva-

mo, generazioni di americani hanno risposto con un

credo semplice che riassume lo spirito di un popolo.

Sì, noi possiamo.

È stato un credo scritto nei documenti su cui si fonda

questo Paese, documenti che dichiararono il destino

di una nazione.

Sì, noi possiamo.

È stato sussurrato dagli schiavi e dagli abolizionisti

che nelle notti più buie hanno illuminato il cammino

verso la libertà.

Sì, noi possiamo.

È stato cantato dagli immigrati che salpavano da lidi

lontani e dai pionieri che si sono spinti a ovest affron-

tando una natura selvaggia e spietata.

Sì, noi possiamo.

È stato il richiamo per i lavoratori che si sono organiz-

zati, per le donne che hanno ottenuto il voto, per un

Page 38: Dal Celodurismo a Yes We Can

43IL LINGUAGGIO DI OBAMA

presidente che ha scelto la luna come nuova frontiera,

e per un re che ci ha portato in cima alla montagna e ci

ha indicato la strada per la Terra Promessa.

Diciamo “Sì, noi possiamo” alla giustizia e all’uguaglian-

za. Diciamo “Sì, noi possiamo” alle opportunità e alla

prosperità. Sì, noi possiamo guarire questa nazione. Sì,

noi possiamo riparare questo mondo. Sì, noi possiamo.”

But in the unlikely story that is America, there has

never been anything false about hope. For when

we have faced down impossible odds; when we’ve

been told that we’re not ready, or that we shouldn’t

try, or that we can’t, generations of Americans have

responded with a simple creed that sums up the

spirit of a people.

Yes we can.

It was a creed written into the founding documents

that declared the destiny of a nation.

Yes we can.

It was whispered by slaves and abolitionists as they

blazed a trail toward freedom through the darkest of

nights.

Page 39: Dal Celodurismo a Yes We Can

44 IL LINGUAGGIO DI OBAMA

Yes we can.

It was sung by immigrants as they struck out from

distant shores and pioneers who pushed westward

against an unforgiving wilderness.

Yes we can.

It was the call of workers who organized; women who

reached for the ballot; a President who chose the moon

as our new frontier; and a King who took us to the

mountaintop and pointed the way to the Promised Land.

Yes we can to justice and equality. Yes we can to op-

portunity and prosperity. Yes we can heal this nation.

Yes we can repair this world. Yes we can.”

Page 40: Dal Celodurismo a Yes We Can

45IL LINGUAGGIO DI OBAMA

PICCOLA DIGRESSIONE NOSTRANAPoco dopo, uno degli uomini politici italiani di punta di allora, presentò come slogan – “Si può fare” – che sembrava ispirarsi proprio allo “Yes We Can” del candi-dato alla presidenza statunitense. Purtroppo per il politico nostrano, probabilmente non ben consigliato, questa “traduzione” snatura comple-tamente il messaggio originario, privandolo di tutta la sua effi cacia. “Sì” è un’affermazione e trasmette determinazione, apertura, possibilità. Sì. “Si”, per contro, è una parti-cella pronominale che in italiano si usa nelle forme impersonali. Non solo manca dell’assertività del sì, ma crea un secondo e più grave problema, legato a ciò che rimane di questo breve slogan. L’intento unifi ca-tore del “noi” nel discorso politico di Obama viene del tutto vanifi cato dalla presenza, in italiano, del “si” im-personale. Un conto è dire “Sì, noi possiamo”. Noi. Voi e io, insieme. È una presa di responsabilità, oltre che una forte esortazione ad agire. Tutt’altra cosa è dire “Si può fare”. La forma impersonale equivale a un passi-vo: può essere fatto. Da chi? Non so, però si può fare.Dal punto di vista della comunicazione effi cace, “Si può fare” è una catastrofe assoluta.

Page 41: Dal Celodurismo a Yes We Can

46 IL LINGUAGGIO DI OBAMA

L’ARMA LETALE DI BARACK OBAMA NELLE ELEZIONI DEL 2012: LA RETORICA ROSA

Vestita di rosa, il suo “brand” fi sico (le braccia scoperte) in

bella evidenza e un accenno di lucidalabbra, Michelle Oba-

ma ha pronunciato il suo intervento alla Convention Demo-

cratica del settembre 2012 dimostrando un’eccellente pre-

parazione in comunicazione verbale (parole), paraverbale

(tono, volume, pause…) e non verbale (postura, gesti…).

Ha utilizzato le variazioni di tono per porre l’accento sulle

parole chiave, ha osservato le pause di rito e non ha mai

mostrato compiacimento per gli applausi. Insomma, brava.

Durante il suo intervento ha richiamato gli assi portanti del-

la cultura americana: il duro lavoro, il merito, i valori della

famiglia.

Nella costruzione retorica del suo scenario, lei e Barack sono

i protagonisti del sogno americano. Provengono da due fa-

miglie modeste ma di solidi principi; hanno conseguito i loro

obiettivi più ambiziosi, ma il successo non li ha cambiati,

così almeno ce la racconta:

Page 42: Dal Celodurismo a Yes We Can

47IL LINGUAGGIO DI OBAMA

... per me Barack è sempre il ragazzo che mi veniva

a prendere con un’automobile così malandata che io

vedevo letteralmente il marciapiede che ci sfi lava a

fi anco attraverso un buco nella portiera.”

… to me, he was still the guy who’d picked me up

for our dates in a car that was so rusted out, I could

actually see the pavement going by through a hole in

the passenger side door.”

La vita che racconta Michelle Obama è fatta di povertà, malat-

tie, sacrifi ci, debiti. Eppure la storia che racconta non è affatto

triste, in quanto Michelle sa porre abilmente l’accento sulle le-

zioni che lei e Barack hanno imparato dalle rispettive famiglie.

Abbiamo imparato cosa fossero la dignità e il deco-

ro – che lavorare sodo conta più di quanto guadagni;

che aiutare gli altri non serve soltanto a farsi una

posizione. Abbiamo imparato cosa fossero l’onestà

e l’integrità – che la verità conta; che non devi pren-

dere scorciatoie o giocare seguendo le tue regole, e

che il successo non conta se non lo conquisti one-

Page 43: Dal Celodurismo a Yes We Can

48 IL LINGUAGGIO DI OBAMA

stamente. Abbiamo imparato cosa fossero la grati-

tudine e l’umiltà – che moltissime persone avevano

contribuito al nostro successo, dagli insegnanti che ci

hanno ispirato ai bidelli che tenevano pulita la scuo-

la. Ci hanno insegnato ad apprezzare il contributo di

tutti e a trattare chiunque con rispetto: questi sono i

valori che Barack e io – come la maggior parte di voi

– stiamo cercando di trasmettere alle nostre fi glie.

Questo è ciò che siamo. E quando mi sono trovata

davanti a voi quattro anni fa, sapevo che per me era

importante che nulla di tutto questo cambiasse, se

Barack fosse diventato presidente. Bene, oggi, dopo

tutte le sfi de e i trionfi e i momenti che hanno messo

alla prova mio marito in modi che mai avrei saputo

immaginare, ho potuto vedere con i miei occhi che

essere presidente non cambia chi sei – lo rivela.”

We learned about dignity and decency – that how

hard you work matters more than how much you

make... that helping others means more than just

getting ahead yourself.

We learned about honesty and integrity – that the

truth matters... that you don’t take shortcuts or play

Page 44: Dal Celodurismo a Yes We Can

49IL LINGUAGGIO DI OBAMA

by your own set of rules... and success doesn’t count

unless you earn it fair and square.

We learned about gratitude and humility – that so

many people had a hand in our success, from the

teachers who inspired us to the janitors who kept our

school clean... and we were taught to value everyo-

ne’s contribution and treat everyone with respect.

Those are the values Barack and I – and so many of

you – are trying to pass on to our own children.

That’s who we are.

And standing before you four years ago, I knew that

I didn’t want any of that to change if Barack became

President.

Well, today, after so many struggles and triumphs

and moments that have tested my husband in ways

I never could have imagined, I have seen fi rsthand

that being president doesn’t change who you are – it

reveals who you are.”

In poche frasi Michelle Obama ci parla dei valori che condi-

vide con suo marito, della loro volontà di trasmettere que-

sti valori alle fi glie e della loro identità familiare (“Questo

è ciò che siamo”).

Page 45: Dal Celodurismo a Yes We Can

50 IL LINGUAGGIO DI OBAMA

Lo dichiara apertamente, Michelle:

Barack conosce il sogno americano perché lo ha vissuto.”

Barack knows the American Dream because he’s

lived it.”

Poi parla dell’importanza della “cena” come momento chia-

ve della giornata che vede la famiglia riunita intorno al ta-

volo. Parla di un uomo che ascolta pazientemente le fi glie,

risponde alle loro domande su questioni di attualità e le

aiuta a escogitare la giusta strategia per gestire le amicizie

a scuola. (Da far impallidire un democristiano consumato!)

Michelle non dimentica certo i punti caldi del programma

elettorale. Della riforma alla previdenza sociale ci dice:

A proposito della salute delle nostre famiglie, Barack

si è rifi utato di dare ascolto a tutti quelli che gli dice-

vano di rimandare la riforma, di lasciare che fosse un

altro presidente a occuparsene. A lui non importava

se fosse o meno la cosa più facile da fare da un pun-

to di vista politico – non è così che è stato cresciuto

– a lui importava che fosse la cosa giusta da fare.

Page 46: Dal Celodurismo a Yes We Can

51IL LINGUAGGIO DI OBAMA

When it comes to the health of our families, Barack

refused to listen to all those folks who told him to leave

health reform for another day, another president.

He didn’t care whether it was the easy thing to do

politically – that’s not how he was raised – he cared

that it was the right thing to do.”

Michelle Obama riserva un’altra parte del suo discorso ai

diritti delle donne, al diritto all’istruzione, al coraggio degli

americani, che nei momenti più diffi cili si sanno rimboccare

le maniche. Un discorso denso e coinvolgente che pone in

risalto i suoi lati migliori. Ancora una volta, complimenti a

Jon Favreau e al suo team (altri due ragazzi più o meno della

sua stessa età: in tre non arrivano a cent’anni!) che hanno

scritto il discorso.

Il culmine dell’effi cacia, che sfocia in un grande coinvolgi-

mento emotivo da parte dell’uditorio, arriva verso la fi ne:

Dico tutto questo, stasera, non solo come First Lady,

e non solo come moglie. Vedete, alla fi ne dei conti il

mio titolo più importante è ancora quello di “mom-in-

chief” [mamma in capo].”

Page 47: Dal Celodurismo a Yes We Can

52 IL LINGUAGGIO DI OBAMA

And I say all of this tonight not just as First Lady... and

not just as a wife. You see, at the end of the day, my

most important title is still “mom-in-chief.”

Romney voleva puntare la sua campagna sulla famiglia.

È arrivato secondo, grazie anche all’intelligenza linguistica di

Michelle e Barack Obama.

Page 48: Dal Celodurismo a Yes We Can

A volte le parole mancano, a volte basta una parola o anche un gesto. L’ho capito nel deserto del Kuwait, quando insieme ai Marines mi stavo preparando per l’invasione dell’Iraq nel 2003. I generali americani erano preoccupati che i loro soldati non riuscissero a comunicare con la popolazione civile e ave-vano quindi organizzato dei corsi di lingua araba per insegnare alle truppe alcune parole chiave, di solito necessarie ad un posto di blocco: “stop”, “avanti”, “scendi”, “apri il cofano” ecc. Durante una di queste lezioni mi avvicinai ad un sergente che mi pareva distratto e distaccato. Gli chiesi perché non fosse interessato alla lezione, e lui mi rispose con un mezzo sorriso accarezzando l’arma che portava a tracolla: “I speak M-16”. Parlo M-16 mi ha risposto, facendo riferimento al fucile mitra-gliatore in dotazione ai Marines.

di ALESSIO VINCI

POSTFAZIONE

Page 49: Dal Celodurismo a Yes We Can

134 POSTFAZIONE

Mi sono bastate quelle poche parole per capire che l’esercito e i Marines non erano assolutamente pronti all’invasione. E non mi riferisco ai piani di battaglia o alla presa di Baghdad che poi avvenne poche settimane dopo. Ma a quello che sarebbe successo dopo, all’incapacità dell’amministrazione americana in Iraq di capire come gestire un popolo dopo decenni di dittatura, l’incapacità di prevedere una rivolta po-polare sfociata poi in anni di guerriglia. Certo non sarebbe bastato insegnare ai soldati l’arabo, ma era chiaro sin dall’inizio che l’atteggiamento era quello di spara prima e poi chiedi il chi va là. In guerra spesso ti manca la parola. Per quello che vedi, per quello che vorresti raccontare e non puoi dire. Ci sono regole ferree anche se non scritte. Durante i bombardamenti della NATO in Serbia nel 1999 ho ricevuto decine di telefonate da “colleghi e amici” negli Stati Uniti che mi chiedevano di non entrare nei dettagli di come centinaia e forse migliaia di civili rimanevano uccisi dalle “bombe intelligenti”, che colpivano sì l’obiettivo strategico ma se lì vicino c’erano delle famiglie, dei bambini, o se passava per caso un pullman carico di operai la parola per descrivere la loro morte era stata ben presto coniata dalle autorità militari: “collateral damage”, danni collaterali. Nessuno ha mai pensato che le 3.000 vittime (tutti civili) dell’attacco alle Torri Gemelle l’11 settembre 2001 fossero

Page 50: Dal Celodurismo a Yes We Can

135POSTFAZIONE

un danno collaterale. Eppure nelle prime ore i media “nemici dell’occidente” che si opponevano a quello che descrivevano come l’egemonia mondiale del “grande satana” raccontava-no che per la prima volta dopo Pearl Harbor gli americani avrebbero fi nalmente capito cosa signifi casse sentirsi “sotto attacco”, cosa si provasse a perdere amici, parenti e cari in una guerra non dichiarata. Le Torri Gemelle un obiettivo “le-gittimo” dicevano. Chi ci lavorava dentro e ci abitava vicino erano “danni collaterali”. Parole che pesavano come macigni all’indomani di quell’attacco che scosse il mondo, cambiò la storia, e con il quale ancora oggi si fanno i conti. Le parole “Ground Zero” o “11 settembre” e “Torri gemelle” sono diventate immediatamente sinonimo di tragedia, di guerra portata in casa, di terrorismo inteso come “siete tutti obiettivi legittimi, nessuno è salvo”. Non a caso quando poi Al Qaeda colpì successivamente Madrid (l’11 marzo 2004) e Londra (il 7 luglio 2005) la stazione di Atocha divenne il “ground zero spagnolo” e l’attacco alla metropolitana di Londra “l’11 settembre inglese”. Dopo gli attacchi di New York, Madrid e Londra si sono fatti vivi con me alcuni nazionalisti serbi con i quali mi ero confrontato tra il 1999 e il 2000, dopo che le bombe NATO erano riusci-te a cacciare le milizie serbe dal Kosovo. Mi dissero che “gli americani, gli spagnoli e gli inglesi (tutti paesi NATO) avevano

Page 51: Dal Celodurismo a Yes We Can

136 POSTFAZIONE

ricevuto la “giusta punizione”. Parole che pesavano come ma-cigni. Ma con il loro linguaggio diretto e con parole semplici esprimevano un concetto assurdo: i bombardamenti NATO e gli attacchi dell’11 settembre sono stati entrambi parte della stessa “strategia del terrore mondiale”, del tentativo del più forte di imporre la propria volontà sul più debole. La macchina folle della propaganda serba messa in piedi da Slobodan Milosevic (ormai in cella e poi deceduto prima della fi ne del suo processo all’Aia) era sopravvissuta al suo leader. Il suo potere oratorio era riuscito a convincere i serbi che “nessuno li avrebbe mai più cacciati” dalla loro terra. Milosevic fu bravissimo dopo i bombardamenti NATO a rac-cogliere consensi in patria con parole chiave come “reagire, ricostruire, e resistere”. Resistere all’opposizione in casa che faticava a raccogliere consensi, reagire all’aggressione della comunità internazionale “ricostruendo” il Paese. Ci hanno creduto in molti fi no al suo arresto. Quando il giudice della Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia gli chiese cosa ri-spondeva all’accusa di crimini contro l’umanità, Milosevic rispose “this is your problem”. Il problema è suo disse. “I consider this tribunal false tribunal, the accusations false accusations”, considero questo tribunale un tribunale falso, le accuse false accuse. Milosevic sapeva usare le parole e sapeva che non sarebbe mai stato condannato. Non perché

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137POSTFAZIONE

innocente, ma perché sia lui che il giudice morirono (di cau-se naturali) prima di arrivare ad una sentenza. Slobodan Milosevic non fu il primo leader a scommettere sul-la parola “ricostruzione” per salvare il proprio destino politico. Fu così anche per Michail Gorbaciov la cui perestrojka però non era propaganda, ma il tentativo (riuscito) di cambiare un modello politico-economico-sociale che ormai aveva perso il passo nei confronti dell’occidente ed in particolare degli USA. Non tutti ricordano però che “perestrojka” (che signifi ca appunto ricostruzione) fu la terza parola chiave della fi ne dell’URSS. La prima infatti era stata “uskorenije” che signi-fi ca “accelerazione”. Gorbaciov aveva capito che per poter competere con gli Stati Uniti bisognava appunto accelerare il progresso tecnico-scentifi co del Paese. Reagan aveva già iniziato la sua guerra stellare (lo scudo militare che avrebbe difeso gli USA da un attacco missilistico dell’URSS). Gorba-ciov si rese subito conto che l’URSS non avrebbe mai tenuto il passo, e che una gara agli armamenti avrebbe messo in ginocchio il suo paese già economicamente provato. Fu in quel momento che il tentativo di “accelerare il progres-so scientifi co” (leggi militare) lasciò spazio alla più conve-niente “glasnost”, cioè trasparenza, la seconda parola chiave legata alla fi ne dell’URSS.

Page 53: Dal Celodurismo a Yes We Can

138 POSTFAZIONE

In realtà la parola viene dal russo “golos” che signifi ca “voce”. A Gorbaciov interessava “dare voce” ad un popolo che fi no a quel momento non solo non l’aveva, ma viveva sulla propria pelle il fallimento del sistema comunista. Fu proprio la “voce del popolo” a scardinare un sistema basato sul silenzio inteso come repressione e segreto di stato. L’immagine di Boris Eltsin sul carro armato dopo il tentato colpo di stato nel 1991 divenne il simbolo della “piazza che prendeva la parola” e Eltsin ne era il portavoce. Non uno che “veniva” dalla piazza, ma uno che la “capiva”. L’errore che fece Gorbaciov fu proprio di non avere il linguaggio adatto per la piazza. Per Eltsin fu un gioco da ragazzi prendere il sopravvento. Da quel momento tutto cambiò. Eltsin rimase al potere fi no al 2000, ma già alle elezioni del 1996 dava segni di cedi-mento. Pochi sanno o ricordano che fu un gruppo di esperti della comunicazione (americani ma non solo) che riuscirono a fargli vincere quelle ultime elezioni contro il potente candi-dato comunista Gennady Zhuganov, che raccoglieva consen-si raccontando la storia più vecchia dell’anti-politica: chi sta al potere è un corrotto, un bugiardo e un incapace.

Alessio Vinci