Da qualche parte in Africa

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18,00 AL BUON CORSIERO DA QUALCHE PARTE IN AFRICA DIABASIS HELDER MACEDO Raccontandosi tra realtà e finzione, mischiando la storia del suo Paese – il Portogallo dell’ultimo impero africano e il suo schiacciante passato coloniale – con quella della propria famiglia, Helder Macedo accompagna il lettore in un viaggio appassionante, al contempo interno e co- smopolita, che, come mai prima nessuno era stato in grado di fare, parte dall’Africa per scoprire le radici della contemporaneità portoghese. In questo primo romanzo “postcoloniale”, il coloniali- smo viene smontato dall’interno, attraverso la genealo- gia di una famiglia, mostrando non tanto quanto il Por- togallo e il suo “impero” declamato si sia disseminato, ma, con un contrappunto tagliente, quanto l’esperienza e il mito dell’Africa abbiano contribuito a segnare pro- fondamente l’identità portoghese. Helder Macedo (1935), nato in Sudafrica, ha vissuto in Mozambico sino ai 12 anni, poi in Portogallo fino al 1959 per gli studi superiori e universitari. In questa epoca, debutta come poeta. Impegnato nella resisten- za al regime salazarista, per motivi di sicurezza ripara a Londra dove completa gli studi in Letteratura e Storia sotto la guida di Charles Boxer e Luís de Sousa Rebelo. Titolare della cattedra Camões, presso il King’s Colle- ge di Londra, dal 1982 all’anno della giubilazione nel 2004, è oggi Emeritus Professor of Portuguese. È sta- to, in Portogallo, Ministro della Cultura (1979). Esor- disce come romanziere nel 1991 con Partes de África, pubblicando in seguito altri quattro romanzi. In lingua italiana ha pubblicato Pedro e Paula, 2003. DA QUALCHE PARTE IN AFRICA HELDER MACEDO DIABASIS «Di malintesi sono fatti gli imperi. Quando i malintesi comin- ciarono a chiarirsi, quando lo sconosciuto smette finalmente di venire riconosciuto per ciò che non è, e la norma della dif- ferenza si integra nella norma che differenzia, allora vuol dire che è già arrivato il tempo della fine degli imperi, quando il post-imperialismo può diventare la conseguenza positiva del fatto che siano esistiti gli imperi.» «So bene che mai nessuno è tornato in vita per aver scritto né per essere stato scritto, ma ci sono ombre che la memo- ria può immaginare tra le mappe dischiuse. Le mappe ormai sono cambiate, sostituiti con altri i nomi dei luoghi o mante- nuti i nomi di luoghi cambiati.» macedo_16mm.indd 1 macedo_16mm.indd 1 3-05-2010 12:14:41 3-05-2010 12:14:41

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Raccontandosi tra realtà e finzione, mischiando la storia del suo Paese – il Portogallo dell'ultimo impero africano e il suo schiacciante passato coloniale – con quella della propria famiglia, Helder Macedo accompagna il lettore in un viaggio appassionante, al contempo interno e cosmopolita, che, come mai prima nessuno era stato in grado di fare, parte dall'Africa per scoprire le radici della contemporaneità portoghese. In questo primo romanzo "postcoloniale", il colonialismo viene smontato dall'interno, attraverso la genealogia di una famiglia, mostrando con un contrappunto tagliente, quanto l'esperienza e il mito dell'Africa abbiano contribuito a segnare profondamente l'identità portoghese.

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€ 18,00

AL BUON CORSIERO

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Raccontandosi tra realtà e fi nzione, mischiando la storia del suo Paese – il Portogallo dell’ultimo impero africano e il suo schiacciante passato coloniale – con quella della propria famiglia, Helder Macedo accompagna il lettore in un viaggio appassionante, al contempo interno e co-smopolita, che, come mai prima nessuno era stato in grado di fare, parte dall’Africa per scoprire le radici della contemporaneità portoghese.In questo primo romanzo “postcoloniale”, il coloniali-smo viene smontato dall’interno, attraverso la genealo-gia di una famiglia, mostrando non tanto quanto il Por-togallo e il suo “impero” declamato si sia disseminato, ma, con un contrappunto tagliente, quanto l’esperienza e il mito dell’Africa abbiano contribuito a segnare pro-fondamente l’identità portoghese.

Helder Macedo (1935), nato in Sudafrica, ha vissuto in Mozambico sino ai 12 anni, poi in Portogallo fi no al 1959 per gli studi superiori e universitari. In questa epoca, debutta come poeta. Impegnato nella resisten-za al regime salazarista, per motivi di sicurezza ripara a Londra dove completa gli studi in Letteratura e Storia sotto la guida di Charles Boxer e Luís de Sousa Rebelo. Titolare della cattedra Camões, presso il King’s Colle-ge di Londra, dal 1982 all’anno della giubilazione nel 2004, è oggi Emeritus Professor of Portuguese. È sta-to, in Portogallo, Ministro della Cultura (1979). Esor-disce come romanziere nel 1991 con Partes de África, pubblicando in seguito altri quattro romanzi. In lingua italiana ha pubblicato Pedro e Paula, 2003.

DA QUALCHE PARTEIN AFRICA

HELDER MACEDO

DIA

BA

SIS

«Di malintesi sono fatti gli imperi. Quando i malintesi comin-ciarono a chiarirsi, quando lo sconosciuto smette finalmente di venire riconosciuto per ciò che non è, e la norma della dif-ferenza si integra nella norma che differenzia, allora vuol dire che è già arrivato il tempo della fine degli imperi, quando il post-imperialismo può diventare la conseguenza positiva del fatto che siano esistiti gli imperi.»

«So bene che mai nessuno è tornato in vita per aver scritto né per essere stato scritto, ma ci sono ombre che la memo-ria può immaginare tra le mappe dischiuse. Le mappe ormai sono cambiate, sostituiti con altri i nomi dei luoghi o mante-nuti i nomi di luoghi cambiati.»

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In copertinaBruno Olivi, Senza titolo, senza data, acrilico su carta (particolare)

Progetto grafico e copertinaStudio Bosio, Savigliano (CN)

ISBN 978 88 8103 694 3

Edizione originale © 1991 Helder Macedo e Editorial Presença Lisboa.

La presente edizione viene pubblicata in accordo con l’Autore tramite Piergiorgio Nicolazzini Literary Agency

© 2010 Edizioni Diabasisvia Emilia S. Stefano 54 I-42121 Reggio Emilia Italiatelefono 0039.0522.432727 fax 0039.0522.434047

www.diabasis.it

Questo volume è pubblicato con il contributodella Direcção-Geral do Livro e das Bibliotecas

Progetto “Cais” − Estrema Europa-OccidenteCattedra “Eduardo Lourenço” Università di Bologna-Instituto Camões

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D I A B A S I S

Helder Macedo

Da qualche parte in AfricaA cura di

Margarida Calafate Ribeiro e Roberto Vecchi

Traduzione Chiara Magnante e Agnese Soffritti

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IntroduzioneParti, pater, patria: «Da qualche parte in Africa»e il Portogallo dopo l’impero

Quando i malintesi cominciarono a chiarirsi, quandolo sconosciuto smette finalmente di venire ricono-sciuto per ciò che non è, e la norma della differenza siintegra nella norma che differenzia, allora vuol direche è già arrivato il tempo della fine degli imperi,quando il post-imperialismo può diventare la conse-guenza positiva del fatto che siano esistiti gli imperi.

Helder Macedo, Da qualche parte in Africa

Gli studi post-coloniali mostrano che il colonialismo, nellasua vastissima estensione, non è stato un movimento monoli-tico né di direzione unica, visto che sia i paesi che ne furonooggetto, sia le metropoli che lo esercitarono furono larga-mente toccati dal fenomeno. In questo senso, entrambi gli am-biti hanno dovuto ristrutturarsi a partire da quell’evento ca-pitale della storia del XX secolo che è stata la decolonizzazio-ne, il che non significa ovviamente che tanto l’uno come l’altroambito siano post-coloniali nello stesso senso. Il post-colo-nialismo si articola attraverso la dinamica di centri e periferie– con tutte le variazioni associate a tali concetti – in cui si or-dina il mondo post-coloniale e, dunque, attraverso fattori eco-nomici, sociali, politici, culturali e storici che hanno rappre-sentazioni diverse a seconda degli spazi in cui si situano. Neipaesi precedentemente colonizzati, il post-colonialismo nonha solo a che fare con il trasferimento di governo, ma tra i mol-teplici aspetti, con le interpretazioni che possiamo formulareoggi su quanto i movimenti anticolonialistici non sempre ab-biano rappresentato gli interessi del popolo colonizzato. Nel-le antiche metropoli si collega alla ricomposizione di uno spa-zio e di un’immagine nazionale che dovrà integrare le diffe-renze che la storia coloniale ha prodotto, non come margini,ma come parte di una società multiculturale che emerge dalla

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decolonizzazione e dal paese restituito al suo spazio origina-rio – nel caso del Portogallo, la Europa priva delle disperseappendici atlantiche – a partire dal quale si dovrà tracciare unnuovo ordine di rapporti. Il post-colonialismo designa cosìun processo globale caratterizzato da alcuni dati comuni: ibri-dismo, frammentazione e diversità sono alcuni dei termini chela critica impiega per descrivere la comune condizione post-coloniale da cui emerge la molteplicità di storie e di prospet-tive che oggi spiegano e immaginano quello che siamo.

In Portogallo, con la Rivoluzione dei Garofani del 25 apri-le 1974, tramontava il Portogallo colonizzatore, la cui fisio-nomia aveva preso forma alla fine del XIX secolo, condizio-nando globalmente la storia politica portoghese. I grandieventi che hanno segnato la storia portoghese da allora – il re-gicidio, la prima repubblica, la partecipazione portoghese al-la prima guerra mondiale, gli oltre quaranta anni del regimedell’Estado Novo e il suo abbattimento – il 25 aprile 1974, ap-punto – presentano tutti, nelle diverse epoche, uno stretto rin-vio alla presenza portoghese nell’oltremare. Col 25 aprile, tut-tavia, tramontava anche il Portogallo antidemocratico e ditta-toriale e, per questo, nel caso portoghese, il post-colonialismoè intimamente legato al post-salazarismo e al post-caetanismoe, quindi, all’inizio di una convivenza democratica e dell’e-sercizio pieno dei diritti di cittadinanza.

In virtù di queste trasformazioni strutturali in tutti i settoridella società portoghese, la letteratura portoghese degli ultimidecenni ha avviato una riflessione insistente, in modo più o me-no provocatorio, sul tema dell’identità nazionale portoghese,cercando di afferrare meglio il senso di cosa effettivamente ter-minasse con i Garofani: quanto di ciò che finiva portasse in séla possibilità di un nuovo andamento – come lo definisce lascrittrice Olga Gonçalves – e quanto di ciò che terminava si po-tesse fissare in modo diretto o no alle varie immagini che da al-lora si sarebbero proiettate. In questo vastissimo corpus si inse-risce, in una posizione di rilievo, il romanzo di Helder Macedopubblicato nel 1991 che qui presentiamo.

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Al contrario di quanto sarebbe accaduto con i romanzi suc-cessivi – Pedro e Paula (1998, tr. it 2003), Vícios e Virtudes(2000), Sem Nome (2005), Natália (2009) – Da qualche parte inAfrica è stato, alla sua uscita, un libro sottovalutato dalla cri-tica portoghese del tempo, con la notevole eccezione di MariaAlzira Seixo, che lo mette in dialogo con la poesia di HelderMacedo in Viagem de Inverno, oltre a sottolineare l’impor-tanza nell’impiego delle figure di opposizione, coincidenza econtraddizione nella costruzione del testo romanzesco, for-nendoci così indicazioni rilevanti per l’analisi della strutturadella stessa opera, e di Júlio Conrado, che considera il libroun’eccellenza nel panorama letterario portoghese, richia-mando l’attenzione sull’originalità del testo negli aspetti te-matici e formali tra cui la frammentazione e la consacrazionedell’importanza della lingua portoghese nel mondo.

Fu in effetti la critica brasiliana a rendere omaggio a Daqualche parte in Africa, utilizzando alcune prospettive di let-tura suggerite dal romanzo. Tra queste, è opportuno ricorda-re tre linee dominanti: una che approfondisce l’articolazionedel romanzo con il Romanticismo portoghese, in particolareil classico, seminale romanzo Viagens na Minha Terra di Al-meida Garrett, promossa da Teresa Cristina Cerdeira da Sil-va; una seconda che ricerca i vincoli con la parte brasiliana at-traverso quanto si dice e si allude nel romanzo rispetto alla fi-gura tutelare dello scrittore brasiliano Machado de Assis,assecondata da Tânia Franco Carvalhal; infine l’ultima ten-denza che scrutina i riferimenti africani dell’opera, suggeritada Laura Cavalcante Padilha in numerosi saggi (riferendosiper esempio alle metafore cartografiche, presenti sin dal tito-lo originale dell’opera o al dialogo con scrittori africani di lin-gua portoghese come il narratore mozambicano Mia Couto).

Degna di nota anche, per la lettura politica che svolgonodell’opera, lo studio di Vilma Arêas e le riflessioni di Cleoni-ce Berardinelli, Teresa Cristina Cerdeira da Silva e Maria Lú-cia Dal Farra le quali, muovendo da prospettive critiche di-stinte, riflettono sulla questione dei generi letterari che Da

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qualche parte in Africa problematizza, suggerendo come pro-cesso di tessitura del testo, di costruzione narrativa e di defi-nizione di stile la “teoria del mosaico”, che l’autore/narratoreespone nelle prime pagine del libro, ma non senza prima ave-re sedotto il lettore in un gioco di lettura su cui propone unpatto referenziale ironicamente camoniano:

Mi spiego: quando si toglie un pezzetto da un mosaico, non si capisce,guardando solo il pezzetto, che questo fa parte di un naso, ed è per questoche può perfettamente entrare a far parte, se serve, di qualunque altra im-magine, anche di un mosaico senza naso. […] Faccio perciò voto solenneche andrò aggiungendo a questo mio mosaico tutti i pezzi necessari pernaso, occhi, denti, orecchie, bocca, solo che non saranno obbligatoria-mente in questo ordine e non sempre apparterranno al riflesso fittizio del-lo stesso volto. E dovrà essere il lettore a trovare gli spazi più adeguati percollocarli, come Camões comanda, a seconda del suo amore.

Scritto in tono simultaneamente ironico e nostalgico e inuno stile “obliquo e dissimulato”, discendente originale diquella “nobile tradizione di dire fischi per fiaschi”, che altronon sono che riflessi diversi della medesima cosa, Da qualcheparte in Africa inizia come un romanzo in cui il narratore, sot-to il segno dell’iniziatore romantico Almeida Garrett del“poeta in anni di prosa”, si identifica con l’autore in congedosabbatico dalla sua Cattedra Camões a Londra.

Dopo un’ironica contemplazione filosofica del paesaggio euna seria discesa alla “galleria di ombre” della casa paterna, do-ve le fotografie evocano gran parte del colonialismo portoghe-se dell’ultimo impero, Helder Macedo decide, alla Garrett, diiniziare il suo “grave viaggio”. Subito è presentata la sua fami-glia letteraria, un vero e proprio canone – Luís de Camões, im-mediatamente in epigrafe, Bernardim Ribeiro e Almeida Gar-rett, oltre a Sá de Miranda, Cesário Verde, Sá-Carneiro, Fer-nando Pessoa, Machado de Assis e tanti altri che sorgonoesplicitamente – forse più complessi da cogliere per un lettoreitaliano meno aduso alle lettere portoghesi – nel corso del libroe nello stesso tessuto testuale – e soprattutto la sua famiglia af-fettiva, la figura del padre e di S. E dopo, nell’approfondirsi del-la narrazione, la madre, il fratello, gli amici del Caffè Gelo, gli

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amici di Londra, i letterati Rui Knopfli e Eugénio Lisboa, Da-vid Mourão-Ferreira, José Cardoso Pires tra gli altri, che in unmodo o nell’altro entreranno a far parte del viaggio di Da qual-che parte in Africa. Va subito detto che il titolo del romanzo nel-la sua traduzione italiana cerca di rendere la generica designa-zione presente nella cartografia antica portoghese dove le va-ste e non del tutto circoscrivibili zone precoloniali venivanoribattezzate “partes de África”. Una determinazione generaliz-zante – una sorta di “hic sunt leones” insomma – di un altroveestraneo, con una vasta irradiazione plurisignificativa del ter-mine in portoghese, la cui ricchezza inafferrabile si è resa conl’espressione Da qualche parte in Africa.

La novità costituita da questo libro si appunta tanto nellarivisitazione dell’impero in una prospettiva effettivamente po-st-coloniale, come nella costruzione stessa del corpo narrati-vo in cui si tessono, con ironia e dolore, i frammenti dei vis-suti, con l’intento di elaborare un mosaico non immediatoche, come dicevamo, è il risultato di uno stimolante gioco conil lettore, a cui il narratore/autore presenta – per contiguità,incastro o incollatura – svariati frammenti, in fondo le “partid’Africa” che hanno colmato per decenni la realtà portoghe-se, sua e di tutti. Prodotti di memoria e immaginazione del-l’autore che sul piano della finzione si combinano tra loro, fa-cendo affluire al testo personaggi reali della sua biografia e fit-tizi, Helder Macedo ci propone, in capitoli autonomi, uncomplesso di situazioni vissute o inventate in Africa e in Por-togallo, da dove tutti noi, in un modo o nell’altro, emergiamo:in esse sfilano quadri della vita coloniale in cui personaggigrotteschi e ossessivi ai confini dell’impero facevano girare illoro piccolo mondo, reale o immaginario, al loro ritmo o ca-priccio, dispotismo e disgrazia, al contempo impegnandosinella costruzione reale dell’impero; episodi fortemente auto-biografici della sua infanzia ed adolescenza in Africa e più tar-di a Lisbona, con gli amici, per i caffè e bar della Lisbona de-gli anni Cinquanta, scrupolosamente vigilati dalla PIDE, lapolizia politica portoghese, l’esilio a Londra, dove gli giun-

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gono gli echi angosciosi della guerra coloniale e, un mattino,al telefono, la Rivoluzione del 25 aprile 1974; il transito comeMinistro della Cultura del governo Pintasilgo e le visite ainuovi paesi africani. Ci accorgiamo così che l’immagine pit-torica della “galleria di ombre” che all’inizio ci viene presen-tata come ispiratrice della memoria dell’autore, sarà un po’alla volta illuminata proiettandosi lungo i vari capitoli checompongono il volume, costituendo così il “mosaico di om-bre”, su cui l’autore/narratore è andato costruendo il suoviaggio tra le mappe che “ormai sono cambiate, sostituiti conaltri i nomi dei luoghi o mantenuti i nomi di luoghi cambiati”.Tra questi frammenti si iscrive la storia di “Un dramma gio-coso”, attribuita a Luís Garcia de Medeiros, figura in transi-to nella Lisbona degli anni Cinquanta e che irrompe comepersonaggio nel romanzo. Avendo come base il libretto delDon Giovanni, il dramma trasposto nel contesto del Salazari-smo di “Un dramma giocoso” riflette, in modo più coeso etradizionale, le “ombre” presentate nei capitoli, come se sitrattasse di uno specchio di trasformazione finzionale, cheproietta immagini rifratte e per questo diverse, ma riflessi del-la stessa cosa. Dalla camera oscura sappiamo che l’immaginecaptata è quella rovesciata di ciò che vediamo. Parlando intermini metaforici, risulta che “Un dramma giocoso” si co-stituisce come immagine inversa della “galleria di ombre” oil suo specchio ironico, allo stesso modo in cui la “galleria diombre” può essere vista come lo “specchio serio” del drammasalazarista. Come strategia che si prefigge di riflettere le “om-bre” precedenti, l’incastro di questa storia nel romanzo creadue livelli narrativi: uno che modestamente opera una conte-stualizzazione, composto dal “ mosaico di ombre”, e il con-testo, la storia di “Un dramma giocoso”, che le riflette. Lega-mi tematici e convergenze semantiche uniscono tali piani nar-rativi, ma sono soprattutto queste immagini riflesse – delle“ombre” sulla storia di “Un dramma giocoso” e della storiadi “Un dramma giocoso” sulle “ombre” – che si intrecciano,dando coesione a un’opera apparentemente sconnessa, che

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costituisce così le due “parti” (della struttura narrativa e diquella tematica veicolate) come “specchi distorti” l’una del-l’altra. Sarà “l’apparente mancanza di unità di quest’opera”,“funzionalmente deliberata”, come si domanda l’auto-re/narratore di Da qualche parte in Africa come lettore criticodella novella di Camilo Castelo Branco A Brasileira de Prazinsdove, in un saggio del 1992, il critico chiarisce: “Ritengo cosìsia possibile che, in modo peraltro equivalente a quello chealtrove ho suggerito per il Garrett dei Viagens na Minha Ter-ra, anche in A Brasileira de Prazins la mancanza di unità nar-rativa sia un modo per dare dignità alla sua unità tematica,manifestata in una serie di convergenze semantiche.”

Saremo allora, con Da qualche parte in Africa, dinanzi a unlibro in due, un romanzo in stile secolo XIX, alla Garrett e unaltro improntato alla frammentarietà postmoderna? L’artico-lazione romanzesca dei due assi narrativi suggerisce che sitratti di un’opera strutturalmente doppia, ma che in realtànon si chiude nella propria duplicità. Ci indica innanzituttouna via alternativa costruita dall’immagine terza in cui le duestorie si proiettano, producendo un altro oggetto “come neglispecchi”. Tale edificio romanzesco, laboriosamente delinea-to dall’autore/narratore in una conversazione complice collettore, riflette a sua volta la posizione filosofica di un auto-re/narratore che non si sazia delle opposizioni o dei contrariin cui è architettato il mondo delle mappe reali e immaginarie,in cui sono tracciati i percorsi individuali e collettivi. In que-sto viaggio, la figura tutelare del padre dell’autore/narratore,alto funzionario coloniale nelle diverse terre africane checomponevano all’epoca l’impero portoghese, emerge comeriferimento morale di rettitudine, ma anche di risentita di-scordanza tra il passato e la legge, che il padre rappresentava,e la generazione del narratore che assiste al crepuscolo del-l’impero e che si ribella alla legge1.

Si incontrano lì i binomi padre/patria, colonizzato-re/colonizzato, potere/impotenza in cui si strutturano i mondimessi in discussione durante la narrazione alla ricerca di un

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terzo termine che risolva l’incomunicabilità – tra padre e fi-glio – metafora dell’incomunicabilità tra mondi divisi in bi-nomi che si escludono. Soprattutto tale strategia narrativa rie-sce a configurare la connessione più complessa, propria delcolonialismo portoghese, quella che sempre ne compromettela decifrabilità in termini critici, la stretta compenetrazionetra la dimensione privata e familiare e lo spazio pubblico nelcontesto coloniale. A metà del suo percorso, ora, l’auto-re/narratore si rende conto che nessuno dei due ha convintol’altro delle proprie ragioni: concertata e datata, quella del pa-dre, irriverente e ansiosa quella del figlio2.

In realtà, entrambi si completano nell’immagine riflessadell’altro, immagine alla fine di riconciliazione dei mondi,suggerita via Camões, nella sua proposta di celebrazione epi-ca dell’impero in una visione di armonia del mondo della finedegli imperi, alla quale il padre aveva contribuito a suo tempocome costruttore dell’impero, di cui ora lui, il figlio, è l’eredecome cittadino di una portoghesità dispersa per le parti cheaffettivamente e culturalmente costituiscono lui e noi – Por-togallo, Africa e Brasile, alla presenza tutelare di Machado deAssis. Non c’è nostalgia colonialista, regolamento di conti, de-biti pretesi o liquidati, ma riconciliazione della “parti” nellaironica, ma anche dolorosa certezza, che “il fiore è il doloredella radice”, come diceva il poeta Guerra Junqueiro.

Con il suo narratore fittizio identificato con l’autore e il suodiscorso digressivo, questo testo di “frontiere assenti” in sen-so tematico e formale, sorgeva, nella narrativa portoghese deiprimi anni Novanta come “inclassificabile”, come diceva Al-meida Garrett, non senza qualche vanità, dei suoi Viagens naMinha Terra, che in effetti conservano un posto a parte nelRomanticismo portoghese.

Anche Da qualche parte in Africa sia per la sua struttura, siaper il suo contenuto, sia ancora per la diversa e innovatricemessa in prospettiva della memoria del legame tra Africa ePortogallo introduce uma differenza significativa. Nella di-cotomia di centri e periferie – in cui il sociologo Boaventura

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de Sousa Santos ha iscritto il Portogallo nella condizione in-termedia di semiperiferia – il romanzo non si inquadra. Nonsi tratta, nel senso della critica post-coloniale, di un “the em-pire writes back to the centre” nell’espressione di Salman Ru-sdhie, né di un “Out of Africa”, in quella di Plinio il Vecchioaggiornata alla modernità dal celebre libro di Karen Blixen.Da qualche parte in Africa ci trasmette innanzitutto uno sguar-do eccentrico, che viene dall’Africa ma non si traveste da afri-cano perché è europeo e guarda al Portogallo simultanea-mente dal centro (del potere) e dalla periferia africana in cuisi è formato. In questo modo, il Portogallo è una parte del-l’Africa e l’Africa una parte del Portogallo: questo è il “sensomarittimo di quest’ora”. Ed e in questa mobilità genuina chesi ritrova la portoghesità disseminata che dovrebbe caratte-rizzare la post-colonialità politica e letteraria in cui il Porto-gallo non sarebbe più né centro né frontiera. Questa è la ca-ratteristica che rinveniamo in Da qualche parte in Africa e, nel1991, alla sua uscita, per la prima volta nella narrativa porto-ghese, fissata normalmente nella visualizzazione del centro onelle periferie e quando si mette in viaggio, si disloca da unpunto all’altro, non acquistando il senso omerico del viaggio.Viaggiare sarebbe allora un percorso che un uomo fa, lungo ilquale entra in dialogo con altri uomini, come ha osservatoEduardo Lourenço, che è sempre un modo di mettersi in dia-logo con se stessi. Quando il viaggiatore narra il proprio per-corso registra le voci e i dialoghi che capta e intrattiene congenti e spazi, descrive le sensazioni e le emozioni che avverte,si trasforma nel soggetto della narrativa che egli stesso ha crea-to, finendo con l’appartenere allo spazio che ha attraversato.

È quindi lungo la strada sinuosa, ma anche più stimolante,della ricerca di una terza sponda del fiume di cui parlava loscrittore brasiliano João Guimarães Rosa, che Da qualche par-te in Africa iscrive Africa e Portogallo nella narrativa contem-poranea. Senza rifuggire dal versante malinconico, memoria-listico e autobiografico che impregna la narrativa portoghesecontemporanea sull’Africa, ma trattandolo in un’altra chia-

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ve, manifestandosi come l’erede fedele della miglior tradizio-ne letteraria portoghese senza lasciarsi immobilizzare da essa,ma dialogando anzitutto con essa in termini contemporanei.Da qualche parte in Africa accusa la crescita collettiva del Porto-gallo come nazione post-coloniale, in senso politico e letterario.Con questo libro si segnala nel romanzo portoghese che, comeanticipato qui in epigrafe, “è già arrivato il tempo della fine de-gli imperi” e che tale “post-imperialismo […] può diventare laconseguenza positiva di avere avuto imperi”. Questo è uno tragli aspetti che, per esempio, hanno esercitato una seduzioneprofonda sui lettori brasiliani che hanno letto il romanzo attra-verso il canale dell’eredità portoghese, gli hanno riconosciutoun’anima brasiliana e lo hanno articolato con un versante afri-cano, definendo così il “territorio di caccia” – per usare unaespressione di José Eduardo Agualusa quando si riferisce al con-testo mosaico africano – di Helder Macedo e del post-colonia-lismo letterario, come spazio transnazionale della lingua porto-ghese. Dopo il tempo di un ordine del mondo diviso in binomicosì intensamente sfruttati dal pensiero colonialista e capovol-to al contrario dalla critica anti-colonialista, ci troviamo ora, inPortogallo, a vivere le “conseguenze positive del fatto che sia-no esistiti imperi”, tempo di meticciato culturale comune a va-ri paesi. Esso ricompone e adegua un passato ancora scomodoma che al contempo ci commuove e ci permette di fruire di que-sta magnifica varietà di cui tutti siamo eredi e che si esprime inlingua portoghese. Già lo storico umanista João de Barros, nelXVI secolo, il cronista della fondazione dell’impero, nella in-troduzione alla sua Gramática del 1539 aveva previsto che le ar-mi e i monumenti di pietra eretti nelle colonie sarebbero statioggetti che il tempo avrebbe distrutto, ma che la lingua porto-ghese sarebbe rimasta come testimonianza del viaggio e del-l’incontro, della violenza e della spartizione. Sarebbe stata que-sta la risposta, peraltro sin troppo avvertita, data cinque secoliprima, alla celebre questione di Bachelard su ciò che resta delpassato storico, dato che del passato storico solo resta quelloche ha ragioni per ricominciare.

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Da qualche parte in Africa è un libro fondamentale per si-tuarci, oggi, come costruttori di una nazione post-colonialealla ricerca dei contorni di una forma dello stare tra noi e congli altri, in cui l’ibridismo è la condizione, la frammentazioneuna forma da accettare senza angoscia di totalità e la diversitàuna ricchezza capace di tracciare gli spazi di “frontiere assen-ti”, che si costruiscono a partire dall’eredità e dalla cultura, esulle quali si proiettano le diverse identità di uno spazio tran-snazionale culturalmente definito dalla lingua in cui si scrive.Fuori dalle mitologie egemonizzanti di una lingua che fu im-periale, dentro i tratti iridescenti di mondi oggi più che mai vi-vi, comunità senz’opera e per difetto della lingua portoghese: ilresto positivo del fatto che, da qualche parte in Africa, in untempo fortunatamente ormai altro, siano esistiti gli imperi.

Margarida Calafate Ribeiro e Roberto Vecchi

Note

1. È opportuno segnalare che il padre avrebbe voluto scrivere un librointitolato As Leis e os Homens (Le leggi e gli uomini) ma finisce col non rea-lizzare questo progetto, il che suggerisce ambiguità non solo nella figuradel padre rappresentata e creata dal narratore/autore (il figlio) ma anchedello stesso genitore come persona fiduciosa nelle leggi e nella loro appli-cabilità. Su questo ci dice il narratore di Da qualche parte in Africa: «Miopadre credeva nelle leggi. Le conosceva, le adempieva, imponeva il loroadempimento», per concludere «Ora penso che semplicemente preferì mo-rire da inconfesso, non per ciò che avesse da dire e preferisse tacere, maperché non aveva niente da dire».

2. Si veda la dichiarazione di Helder Macedo nell’intervista rilasciata aEugenio Lisboa nel 1991, ai tempi dell’uscita del romanzo: «Bene, il padreè la Legge, come già dice la Bibbia prima che Freud lo spiegasse. Sì, Daqualche parte in Africa, è tra l’altro tutto quello che suggerisci, è una medi-tazione sulla Legge. E anche, su un registro più personale, un omaggio, unaconversazione tra due adulti che la morte di uno e l’invecchiamento del-l’altro hanno trasformato praticamente in due coetanei: il padre e il figlio.È un’opera di riconciliazione».

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Nota editorialeIl progetto di traduzione e edizione del romanzo di Helder Macedo, Daqualche parte in Africa, nasce in seno alle azioni e ai programmi della catte-dra Eduardo Lourenço, istituita dalla Università di Bologna e dall’Institu-to Camões di Lisbona presso la Facoltà di Lingue e Letterature Stranieredell’Università degli Studi di Bologna.La traduzione del romanzo è stata realizzata da Chiara Magnante e AgneseSoffritti che hanno curato anche le annotazioni relative al testo, così da ren-derlo fruibile, secondo il criterio economico utilizzato da tempo dal gruppoprogetto Cais, anche a lettori non strettamente specializzati in cultura porto-ghese. La traduzione si è avvalsa della collaborazione di Roberto Mulinacci edi Vincenzo Russo e soprattutto ha potuto contare sulla generosa e sapienterevisione del testo italiano dell’autore dell’opera, Helder Macedo.L’apparato del volume, costituito da un’introduzione, “Parti, pater, patria:Da qualche parte in Africa e il Portogallo dopo l’impero”, da una postfazionebio-bibliografica, “Il Portogallo che avrebbe potuto essere e che non è: Hel-der Macedo, l’autore e l’opera” così come la bibliografia primaria e seconda-ria finale, sono stati curati da Margarida Calafate Ribeiro e da Roberto Vecchi.

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Ha il tempo l’ordine suo già ben chiaro.Il mondo no.

Luís de Camões

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Capitolo ottavoI cassetti del governatore

Bissau era una piccola cittadina nostalgica e ansiosa che tra-sudava il panteismo spugnoso di una lenta dissoluzione. L’u-midità dei corpi li prolungava in quella dell’aria, gli uccelli ca-devano sui terrazzi, ansimando, coi becchi aperti, vicino ai ca-ni che il calore stendeva, come tappeti, ventre sulle pietre ezampe ai lati, che aprivano di tanto in tanto un occhio velato diinsetti, desistendo subito, tra brontolii rari e annoiati. Solo gliinsetti proliferavano, molli, grassi, prosperando sul marciume.Ma quando il cielo tumefatto si increspava, tutto si fermava,contratto, oscuramente in attesa finché gli elementi non si com-binavano nell’esplosione improvvisa dei tornado: il fuoco pro-pulsore del primo lampo, il vento che fischiava lamine di piog-gia e che gettava lastre di zinco contro l’esplosione assordantedei tuoni, la pioggia ingrossata dalla sabbia che saliva di nuovoin rimbalzi grigi dalla terra fumante. Sarà che avevo quindicianni ma, terminata la tempesta, gli occhi delle donne sembra-vano più brillanti, le voci degli uomini più calme.

Parlavano molto dei tempi passati e dei tempi futuri, in altriluoghi, e del presente dicevano molte volte: «Chi beve le ac-que del Pijiguiti non esce di qui». Le stesse persone si incon-travano tutti i giorni, in circoli gerarchizzati, e negli intervallitra un incontro e l’altro le signore si telefonavano, trascinandole conversazioni della sera prima. Nascevano amori non a lun-go clandestini nella penombra delle stanze intorpidite e anchela corruzione ufficiale non arrivava ad essere eccessiva, permancanza di appetenza o di opportunità. La colonia era unapiantagione della Companhia União Fabril i cui guadagni a di-stanza dipendevano dalla stagnazione locale: arachidi e dendê15

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raccolti là dove la natura li produceva, trasportati in Portogal-lo su navi dai nomi di convenzionale tenerezza familiare come«Ana Mafalda» e «Alfredo da Silva», trasformati in olio e insapone nelle fabbriche di Barreiro e in parte riesportati comesapone e olio in Guinea, come gli ipotetici pantaloni dellaCompagnia di Boror della Zambesia. Il resto veniva da Dakare da Conacry, il latte in cartoni svizzeri e le verdure in scatolet-te francesi, oltre alle sedative casse di whisky di Bathurst.

Era la classe media capoverdiana che di fatto esercitava l’e-gemonia colonizzatrice nominalmente portoghese, come piùtardi avrebbe esercitato l’egemonia nelle lotte anticoloniali-ste in nome della popolazione locale, una dozzina di tribùsparse su di un piccolo territorio poco più grande di una cir-coscrizione dell’Angola o del Mozambico, e politicamente di-viso tra islamici collaborazionisti e animisti renitenti. Passaticinque secoli, l’evangelizzazione cristiana era stata confinataalle chiese sgretolate di quando Bolama era capitale e a unanuova chiesa costruita in fretta e furia a Bissau, dall’aspettoinconcluso, che doveva essere inaugurata durante una visitaministeriale che non giunse mai a compimento. Così cometutto il resto pareva non giungere mai a compimento. Finchénon si capì che era questo il modo in cui le cose si stavanocompiendo, dal lato oscuro della Storia.

Il governatore dell’epoca era un cercamoglie di professione,con ambizioni mediocri, di lui si diceva che possedesse solo duecassetti nella scrivania: una per le questioni senza soluzione el’altra per le questioni che il tempo avrebbe risolto da sé. Era lacalma che precedeva i tornado, il vaso ancora inviolato di Pan-dora, la casa di Ercole coi catenacci alla porta. Ma la reputa-zione che aveva il governatore era ingiusta, agganci coniugali aparte, era un uomo degno di stima, a parte per il fatto che, al-meno una volta, fu lui che aprì il cassetto dei disastri e fu miopadre che dovette chiuderlo. E chiuso rimase, finché giunse ungovernatore che non sapeva niente di cassetti e avvenne il mas-sacro di Pijiguiti, questo all’epoca in cui mio padre si trovavagià a São Tomé, dove era stato inviato come messaggero di pa-

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ce in seguito ad un altro massacro che c’era stato là, nel villag-gio di Batepá. E in Guinea i cassetti non si chiusero più tra lespedizione militari, il napalm, i corpi mutilati dalle mine in unaguerra senza quartiere e senza senso tra coloro che lottavanoper conservare una colonia irrilevante, e coloro che lottaronoper trasformarla in un paese irrealizzabile. Ma fu proprio inGuinea che i portoghesi persero la guerra di tutte le colonie.

Era sul molo di Pijiguiti che andavo a passeggiare, sul finiredel pomeriggio, per mano con la mia prima ragazza, una splen-dida creatura color del rame con la quale non sapevo cosa farese non passeggiare con lei, lasciando che l’umidità incollasse lenostre mani, respirando a fondo il profumo di lavanda che ve-niva dai suoi vestiti larghi, arabescati, e si mischiava con il ri-stagno putridamente dolciastro delle maree. Ma c’era anche labella e sacrificale Raquel, per la quale molte volte rimasi ad as-sistere alle interminabili serate degli adulti.

Raquel parlava poco, sorrideva ancora meno, a volte era ame che sorrideva, e sembrava sempre più triste quando sorri-deva. Io cercavo di servirla come potevo, portarle un bicchiered’acqua prima dei camerieri, passarle le arachidi, aprirle la por-ta dell’auto prima del marito. Era di una magrezza che tutticonsideravano eccessiva ma che si articolava in una perfetta ediafana armonia resa ancor più inverosimile dal mondo di car-nalità tropicale in cui era capitata. Aveva gli occhi color dei fras-sini, di un grigio a volte rabbuiato, quasi verde. Era ebrea, erastata affidata come sposa-bambina al primo che l’avesse porta-ta via dalla Germania alla vigilia della deportazione dei genito-ri e dei fratelli a Belsen. Toccò al dott. Proença, vent’anni piùvecchio di lei e borsista dell’Istituto d’Alta Cultura a Monaco.Il quale era persona di buon cuore, aveva più coraggio di quelche sembrava, rimase con la carriera stroncata per il coraggioche mostrò, finì nei servizi forestali della Guinea. Non avevanofigli, si diceva che lei non potesse o non volesse. «Frigida», erail verdetto della moglie del governatore, «frigida e sterile, eun’ebrea ingrata che si dà delle arie, ve lo dico io».

Poco tempo prima di lasciare Lourenço Marques, quando

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una sera i miei genitori mi lasciarono andare al cinema con lo-ro, ricordo il documentario prima del film che mostrava l’a-pertura dei campi di concentramento tedeschi, quando gli al-leati vi arrivarono. Mi ci volle del tempo per capire che quel-le ombre che si muovevano, quei corpi senza corpo al di làdella loro magrezza, erano persone. Quando anche mia ma-dre capì, mi girò il viso verso di lei, voleva che uscissimo, maormai era tardi. Lo sgomento che allora provai faceva partedel fascino che sentivo per l’incorporea Raquel, del mio vo-lerla servire nell’angustia di trasmigrazioni innominabili.

Ero preso da quest’inquieta incomprensione degli abissiquando scoppiò a Bissau il grande scandalo, subito tanto piùpiccante quanto totalmente imprevisto: un uomo non benidentificato era stato visto uscire all’imbrunire dal retro dellacasa di Raquel in un’occasione in cui il dott. Proença si trova-va nelle piantagioni dell’interno. Si fecero appostamenti, sicercò di corrompere i domestici, la moglie del governatoreminacciò l’autista di spedirlo alle isole Bijagós se non avessescoperto di chi si trattava; il disonore finì per ricadere su diun ufficiale subalterno della capitaneria di porto, che dipin-geva acquerelli nelle ore libere. L’ufficiale negò, in uniforme,dando la sua parola d’onore al governatore, era un cavaliere.Ma Raquel non confessò né negò.

Il dott. Proença allora non aveva più il coraggio che la gio-ventù e l’inesperienza gli avevano dato a Monaco, e se amavala moglie, se davvero qualche volta aveva mai amato la donnain cui si era trasformata la bambina che aveva salvato, l’ama-va di un amore tanto rassegnato quanto la vita lo aveva resonei confronti di se stesso. Ma voleva nonostante ciò capire,voleva poter perdonare, se solo lei lo avesse aiutato a perdo-nare. Alcune signore più gentili a cui lui, svuotato di ogni ini-ziativa, era andato a chiedere consiglio, lo aiutarono a trova-re le ovvie ragioni necessarie in ciò che chiamarono l’«infanziadifficile» di Raquel e «ciò che era accaduto ai genitori e ai fra-telli». Alcune andarono addirittura oltre: differenze d’età,astuzie maschili, innocenza abusata. Ma perfino mia madre,

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sempre così pronta alla compassione, concordava sul fattoche, perché ci fosse perdono, doveva prima esserci riconosci-mento di colpa e almeno un minimo di pentimento. Solo cheRaquel non confessava, non negava, e non riceveva ospiti.

Io non mi consideravo “un ospite”, io ero un alleato in-condizionato, ma non volle ricevere nemmeno me. Non de-sistetti, dissi al domestico che sapevo molto bene che la si-gnora era in casa, e che non me ne sarei andato. Mi sedetti sul-la scala del terrazzo, poi mi sedetti sul muretto lungo la stradaperché lei mi vedesse dalla finestra se mai fosse andata a con-trollare se ero ancora là, ad arrostirmi al calore di metà po-meriggio, che era quando avevo deciso di andarmene, peravere la certezza di non incontrarmi con il marito. Aspettaiun’ora, forse più, improvvisamente il cielo si oscurò, era untornado. Rimasi lì, mentre il mondo intorno a me esplodeva intutte le direzioni, ero stoicamente inzuppato quando Raquelordinò di farmi entrare. Sorrise il suo sorriso, forse un po’ me-no triste che intenerito, forse addirittura un po’ ironico: «Ah,che ne faremo di te?…». Andò a prendere una tunica del ma-rito, dei pantaloni, tutto enorme, avrei trovato un asciugama-no pulito in bagno, potevo lasciare là le scarpe ad asciugarementre il domestico asciugava i miei vestiti. E no, lettore chegià hai dimenticato i tuoi quindici anni, non successe nulla diquel che stai immaginando: mi offrì un calice di porto, chenon mi venisse un raffreddore − nei climi caldi sono i peggio-ri − parlammo dei tornado, dei miei studi, dei miei piani perquando sarei tornato a Lisbona alla fine del mese. E fu tutto,quasi tutto. Ero diventato improvvisamente molto timido,riuscivo a malapena a rispondere alle domande che lei mi po-neva, casualmente, gentilmente, avevo perso tutta la determi-nazione con cui ero andato là per dirle… Ma per dirle cosa?Che le credevo? Ma questo sarebbe stato un modo di giudi-carla, di presumere un’innocenza, che è un modo di presu-mere la possibilità di una colpa, che è la stessa cosa che pre-sumere che ci sarebbero potute essere una colpa o un’inno-cenza da giudicare. Il domestico venne a dire che i miei vestiti

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erano già asciutti, che li aveva già stirati e che aveva asciugatole scarpe alla bell’e meglio. Era l’invito a cambiarmi di nuovo,ad andarmene. Mi alzai, rassegnato. Ma improvvisamente,sorpreso di me stesso chiesi, farfugliando: «Il viaggio… Ilviaggio dalla Germania fu molto duro?». Non era una que-stione di cui si parlava con Raquel, lo stesso marito lo men-zionava solo quando lei non era presente, mi sentii tremareper la sfrontatezza. Lei esitò, mi guardò per un momento coni suoi occhi di cenere verdeggiante, distolse lo sguardo, ri-spose poco dopo: «Il viaggio? No, il viaggio no, non fu diffi-cile.» E quando pensai che avesse già detto tutto: «Sai, nonc’è modo di capire se le ragazze sono ebree, come i ragazzi…»Non capii, non avevo la minima idea di ciò che voleva dire.Risposi con un «ah…» certamente molto stupido, perché leirise. Nessun sorriso triste, rise per davvero, come non l’avevomai vista fare: «Che cosa ne faremo di te?... Senti, grazie. Oravai. Vai a rimetterti i tuoi vestiti, che sono già asciutti. Vai.»

Si dà il caso, tuttavia, che, siccome Raquel continuava a nondare modo al marito di perdonarla, la sua ostinazione si tra-sformò per tutta la società di Bissau nella prova della colpa, ag-gravata da ostinazione. Cosicché il dott. Proença non ebbe altrascelta se non compiere il rituale prestabilito per tali circostanzenelle colonie. E se il lettore riconosce qualcosa di familiare inquesto rituale, è perché ha già conosciuto lo psicotico dei sogniomicidi (dell’episodio accaduto tra Bilene e Magude).

Il giovedì partiva l’aereo per Lisbona e tutti andavano al-l’aeroporto. Il dott. Proença portò là la moglie, la lasciò, tornòa casa da solo, con gli occhi rossi, desolato. Nonostante la sa-la d’attesa fosse piena, si era creato un cerchio intorno a Ra-quel, che se ne stava in piedi, calma, improbabile, trascen-dentemente estranea all’inquisizione circostante, con la vali-gia a fianco, un’aliena in attesa della chiamata di imbarco. Ioero andato all’aeroporto ma non per Raquel, pare che nessu-no fosse stato avvisato, è probabile che il marito avesse deci-so all’ultimo momento che era in quel pomeriggio che avreb-be fatto valere il suo onore. Io ero andato, come tutti, solo per-

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ché era ciò che si faceva normalmente di giovedì, ed ero con imiei amici e la mia ragazza color del rame. Non avevamo maiparlato di Raquel, né dello scandalo di Raquel, né della fugadalla Germania, né della mia visita a Raquel il pomeriggio del-l’ultimo tornado, erano mondi differenti, non avrebbe avutosenso. Ma la mia ragazza sapeva più di quel che poteva sapere,certamente molto più di quel che io credevo che lei avrebbe po-tuto sapere, perché mi incoraggiò ad andare, spingendomi mol-to dolcemente, quando cominciai ad allontanarmi dal gruppoe ad avvicinarmi a Raquel: «Posso… Posso portarle la valigia?»Credetti di avvertire in lei un attimo di panico. Ma poi, moltoseria: «No, non è pesante… Grazie. Ora vai.» Era un’eco di ciòche mi aveva detto a casa sua, salutandomi, il pomeriggio deltornado. E non c’era altro che potesse dirmi.

Fu allora che la mia ragazza suggerì che quella notte nes-suno andasse a dormire. Cantammo serenate di porta in por-ta, ballammo per le strade fino all’alba, i nostri corpi comin-ciarono finalmente a scoprirsi e a trovare il loro modo di de-siderarsi. E dopo, andammo tutti a vedere il sorgere del sole,rosso e improvviso, sul molo di Pijiguiti.

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IntroduzioneParti, pater, patria: «Da qualche parte in Africa»e il Portogallo dopo l’impero, Margarida CalafateRibeiro e Roberto Vecchi

Capitolo primoIn cui l’autore si dissocia da se stesso e disdice ilproposito del suo libro

Capitolo secondoDal cappello alle emicranie e degli aiuti al destino

Capitolo terzoL’autorità, il cinema e le conseguenze del carattere

Capitolo quartoI malefici dell’arte e la consolazione della filosofia

Capitolo quintoUn bestiario recuperato nella teoria del mosaico

Capitolo sestoIl signor Rola Pereira: il ricordo di un ricordo di Mário de Sá-Carneiro

Capitolo settimoMetafora e metonimia, liberali e miguelisti

Capitolo ottavoI cassetti del governatore

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Capitolo nonoUn capitolo che è meglio che sia breve

Capitolo decimo«L’incidente di Constança.» Dal rapporto del capo deiservizi dell’amministrazione civile della colonia di Guinea. Anno 195...

Capitolo undicesimoIl mondo al contrario e il contrario del contrario

Capitolo dodicesimoIn difesa del dilettantismo e dell’amore che uccide

Capitolo tredicesimoUn capitolo di transizione

Capitolo quattordicesimoLuís Garcia de Medeiros. «Un dramma giocoso. Secondo atto»

Scena primaScena secondaScena terzaPrimo intervento del non-autoreScena quartaScena quinta – Taglio e scena corrispondente nell’operaScena sestaScena settimaScena ottavaSecondo intervento del non-autoreScena nonaScena decima – Taglio e riassunto del passaggio tagliatoScena undicesimaScena dodicesima – Altro taglio e riassunto con un breveintervento del non-autoreScena tredicesimaScena quattordicesimaScena quindicesimaScena sedicesimaScena diciassettesima

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Page 28: Da qualche parte in Africa

Capitolo quindicesimoLa fine del dramma giocoso e la letteralità dell’immaginazione

Capitolo sedicesimoLa retorica dell’impossibilità e la deriva della speranza

Capitolo diciassettesimoRiconoscere lo sconosciuto

Capitolo diciottesimoIn cui l’autore si congeda da se stesso e riafferma il non proposito del suo libro

PostfazioneIl Portogallo che avrebbe potuto essere e che non è:Helder Macedo, l’autore e l’opera, Margarida CalafateRibeiro e Roberto Vecchi

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Page 30: Da qualche parte in Africa

Romanzo postcoloniale e postromanzo

tra padre e figlio in contenziosoil Portogallo confusamente

alla ricerca di un futuroe l’Africa che resta

nello spegnersi di un imperometafora del mondo

e della vitaquesto libro di echi

viene stampatonel carattere Simoncini Garamond

dalla tipografia SAGI

di Reggio Emilianel maggio dell’annoduemila

dieci

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