Da Le Biciclette Bianche: John Hoppy Hopkins, Joe Boyd e i Pink Floyd.

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133 Capitolo 17 Un’altra storia che attraversò i miei anni all’Elektra fu il mio crescente coinvolgimento con quello che veniva chiamato underground. Nel 1966 era degno di quel nome: solamente pochi outsider sapevano della sua esistenza. Quando venne fuori, nella primavera del 1967, fu considerato come una sottocultura della droga, della politica radicale e della musica, cresciuta intorno all’International Times, la libreria Indica, la rivista Oz, l’UFO, la London Free School, Release, il negozio di abbigliamento Granny Takes a Trip, il concerto 14-Hour Technicolour Dream e l’Arts Lab. Per me, il termine si riferiva principalmente al frutto dell’energia di un uomo: John Hopkins. Incontrai Hoppy la prima volta nel 1964 quando, nei panni di fo- tografo, faceva scatti ai musicisti del Caravan tour per il Melody Maker. Sembrava ancora l’ex scienziato pazzo che era stato: magro come un chiodo, gli occhi scuri intensi, i jeans stracciati e un largo sorriso che abbracciava tutti. Gli diedi qualche biglietto per uno dei nostri spettacoli a Londra e suggellai la nostra amicizia quando lo presentai a un promo- ter di un folk club che gli vendette un bel pezzo di ottimo hashish. In attesa di tornare sul libro paga di George quell’estate, mi sistemai sul divano di Hoppy. Poi seppi della sua laurea in Fisica a Cambridge, del suo passato come tecnico del controllo della sicurezza al laboratorio di energia atomica di Harwell, del suo impegno per il disarmo nucleare (e della conseguente revoca del controllo della sicurezza), della sua scoperta dell’LSD della Sandoz e della sua recente rottura con Gala, la modella più bella e bizzosa di Londra. Hoppy sembrava sempre essere all’interno di un processo di scoperta, vedeva la città come un laboratorio di ricerca

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Un brano tratto dal libro Le biciclette bianche la mia musica e gli anni Sessanta di Joe Boyd (edizioni Odoya) . Boyd e Hopkins furono i fondatori dell'UFO, il mitico club dove suonarono per la prima volta i Pink Floyd.

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Capitolo 17

Un’altra storia che attraversò i miei anni all’Elektra fu il mio crescente coinvolgimento con quello che veniva chiamato underground. Nel 1966 era degno di quel nome: solamente pochi outsider sapevano della sua esistenza. Quando venne fuori, nella primavera del 1967, fu considerato come una sottocultura della droga, della politica radicale e della musica, cresciuta intorno all’International Times, la libreria Indica, la rivista Oz, l’UFO, la London Free School, Release, il negozio di abbigliamento Granny Takes a Trip, il concerto 14-Hour Technicolour Dream e l’Arts Lab. Per me, il termine si riferiva principalmente al frutto dell’energia di un uomo: John Hopkins.

Incontrai Hoppy la prima volta nel 1964 quando, nei panni di fo-tografo, faceva scatti ai musicisti del Caravan tour per il Melody Maker. Sembrava ancora l’ex scienziato pazzo che era stato: magro come un chiodo, gli occhi scuri intensi, i jeans stracciati e un largo sorriso che abbracciava tutti. Gli diedi qualche biglietto per uno dei nostri spettacoli a Londra e suggellai la nostra amicizia quando lo presentai a un promo-ter di un folk club che gli vendette un bel pezzo di ottimo hashish. In attesa di tornare sul libro paga di George quell’estate, mi sistemai sul divano di Hoppy. Poi seppi della sua laurea in Fisica a Cambridge, del suo passato come tecnico del controllo della sicurezza al laboratorio di energia atomica di Harwell, del suo impegno per il disarmo nucleare (e della conseguente revoca del controllo della sicurezza), della sua scoperta dell’LSD della Sandoz e della sua recente rottura con Gala, la modella più bella e bizzosa di Londra. Hoppy sembrava sempre essere all’interno di un processo di scoperta, vedeva la città come un laboratorio di ricerca

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ed emetteva un felice «wow» tutte le volte che incontrava qualcosa che gli piaceva o lo interessava. Mi insegnò a sviluppare una pellicola nella sua camera oscura, mi portò alle colazioni che meglio ostruiscono le arterie e ai ristoranti indiani più economici, mi fece vedere le scorciatoie per evitare i semafori e mi presentò a una compagine di visionari. Nella sua Mini viola mi sballottava da una parte all’altra della città, a consegnare film, convocare incontri di cospirazione, vedere ragazze per appuntamenti pomeridiani, a comprare droga e a fare favori.

Nel novembre del 1965, appena arrivai a occupare il mio posto all’Elektra, Hoppy mi invitò al primo incontro della London Free School. A posteriori i principi fondatori appaiono ingenui in modo imbarazzan-te: avevamo fatto in modo di offrire lezioni gratuite ai poveri e ai poco alfabetizzati di Notting Hill Gate, per la maggior parte immigrati delle Indie occidentali, irlandesi e polacchi. L’area si stava ancora riprendendo dagli slum di Peter Rachman e dagli scontri razziali del 1958. Le strade laterali di Westbourne Park Road, in seguito patria di fumati, gente del mondo della comunicazione e di strani produttori di dischi (più di re-cente colonizzata dagli agenti di cambio), erano piene di consumatori illegali di alcool fuori orario e di tane per fumare, il tipo di luoghi in cui Stephen Ward avrebbe portato Christine Keeler per incontrare Lucky Gordon alcuni anni dopo.

Hoppy e i suoi amici proponevano corsi di fotografia, di francese e di politica. Tappezzò la zona di locandine e ottenne una ragionevole par-tecipazione di sospettosi residenti della zona per l’incontro introduttivo in una chiesa da poco demolita vicino a Harrow Road. John Mitchell, il principale esperto internazionale di relazioni fra dischi volanti e linee rette immaginarie del paesaggio, ci offrì il suo scantinato a Powis Square. Peter Jenner e Andrew King, che sarebbero divenuti presto i manager dei Pink Floyd, stavano aprendo la strada a insegnanti della London Free School come Ron Atkins, per molti anni critico jazz del Guardian, e Barry ‘Miles’ Miles, fondatore della Indica Books, autore di biografie su Ginsberg e su Burroughs e di molti altri libri degli anni Sessanta.

Molte autorità della zona ne uscirono giustamente con le penne arruf-fate: il supporto della London Free School dava una mano alla gente per sfidare il sistema di giustizia criminale ed esigeva i sussidi non pagati. Ma la duratura eredità della London Free School resta il carnevale di Notting

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Hill. Michael de Freitas (poi Michael X), attivista di Trinidad, amico di Hoppy, propose di spostare la celebrazione della cultura di Trinidad, che si teneva al coperto, nelle strade attorno a Portobello Road durante le festività nazionali di agosto. Era piena di colore e sovversiva, mise insieme caraibici e freak – il peggior incubo della polizia. Trentanove anni dopo, più di un milione e mezzo di persone ballò per le strade di Notting Hill in quello stesso weekend d’estate.

Il carnevale del 1966 fu un inizio di buon auspicio, ma non raccolse denaro, e quindi organizzammo una serie di concerti alla All Saints Hall, a Powis Square. Jenner e King scritturarono un gruppo che conoscevano da Cambridge e che cercava visibilità a Londra. I Pink Floyd era partiti come band di blues, ma dopo che gli fu chiesta musica sperimentale per un artista che stava facendo un film – e dopo che Syd Barrett iniziò le sue esplorazioni della psichedelia – la loro musica virò verso direzioni più originali. Dal loro primo concerto gratis alla London Free School fino alla loro partenza per il tour americano nel novembre del 1967, la musica dei Pink Floyd fu la colonna sonora dell’underground. La musica da film non ebbe influenze solamente nella loro musica: a loro piacque così tanto suonare davanti alle luci che si muovevano, che ne fecero la caratteristica dei loro spettacoli. Le immagini che più si ricordano degli eventi della Free School, della festa di presentazione dell’International Times, dell’UFO e del 14-Hour Technicolour Dream all’Alexandra Pa-lace, sono quelle dei quattro del gruppo chinati verso i loro strumenti e concentrati mentre le luci viola e turchese girano su di loro.

Nell’oscurità nebulosa era difficile individuare le personalità, ma se c’era un centro di attenzione, quello fu Syd Barrett, con il suo aspetto sbarazzino, che attraeva le ragazze, le urla della sua slide guitar e il modo disinvolto con cui cantava le sue strane canzoni. Per me anche Roger Waters emergeva. È altissimo e suonava un basso elettrico molto grande, spesso a bocca aperta. Il suo naso sporgente e la grande testa ovale erano a volte le uniche caratteristiche umane percepibili nel buio dello spetta-colo delle luci. Roger stabiliva gli accordi musicali, dando al gruppo una base come meglio non si poteva. Quando Syd e i suoi brani se ne erano andati da tempo, il suono che sconvolse il mondo era fatto delle loro classiche armonie sostenute dal basso di Roger, decorate dall’organo di Rick Wright e dalla batteria elaborata di Nick Mason, con l’ultimo tocco