Da La coscienza di Zeno ad Arturo Brachetti (Passando per ... · moderno”, era la norma. Una...

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Anno 1 Numero 8 TeatrocultFOGLIO Campania www.teatrocult.it Marzo 2014 Da La coscienza di Zeno ad Arturo Brachetti (Passando per Arlecchino) IL TEATRO CHE VUOLE METTERSI IN GIOCO Antonio Tedesco eno Cosini non ha mai smesso di fumare l’ultima sigaretta. La crisi per lui, prototipo del novecentesco “uomo moderno”, era la norma. Una componente fondamentale della sua stessa identità. Anche guarire autoconvincendosi di essere “sano”, in senso sociale e identitario, era un segno forte di quella crisi, di quella “malattia” che forse, alla fine, era l’unica cosa che gli consentiva di vivere. Se ne fosse venuto fuori, se avesse smesso di analizzarsi, di riflettere, di divagare su se stesso e sulle esperienze che avevano segnato la propria vita (dalla famiglia, alle donne, al vizio del fumo), forse l’avrebbe persa davvero quella coscienza. Quella incerta, traballante consapevolezza di sé. E che pure, naufragando nel mare di un travolgente modernità, rimaneva l’ultimo fragile appiglio cui attaccarsi. Senza quello stato permanente di crisi avrebbe semplicemente smesso di essere Zeno Cosini, precipitando in quel vuoto in cui la sua vertigine esistenziale sembrava attirarlo. A parte le infinite letture cui il romanzo di Italo Svevo può indurre, inclusa la riduzione teatrale che Tullio Kezich ne fece nel 1964, e che per la regia di Maurizio Scaparro è in scena questo mese al Mercadante, la vicenda di Zeno Cosini ci sembra una calzante metafora del teatro contemporaneo. Il quale, in questi ultimi anni (decenni?), sembra aver fatto della crisi il suo habitat naturale. Addirittura una condizione privilegiata grazie alla quale (non sembri un paradosso) riesce a guadagnarsi faticosamente il suo spazio di sopravvivenza. E per crisi, in questo caso, non intendiamo la “semplice” contingenza economica, ma qualcosa di più radicato e profondo. Che ha a che fare con gli stessi linguaggi espressivi con i quali il teatro si manifesta, e si confronta con il pubblico che ancora lo segue. Non è facile in un mondo che ha fatto della comunicazione semplificata e veloce il suo carattere distintivo, proporre e riaffermare l’idea di complessità. Analizzando i segni e le implicazioni che tale complessità comporta. Cercando di dare una scossa perché gli schemi precostituiti si rompano e la mente si apra a nuove visioni. La crisi in cui si dibatte il teatro è tutta in questo dualismo tra la stasi percettiva e l’evoluzione di un linguaggio che, per sua natura, è costretto ad andare oltre per non morire soffocato in una sterile e stagnante riproposizione di sé. Le forti contestazioni che ha suscitato in una parte del pubblico il recente allestimento del Servitore di due padroni (anche nelle recenti repliche al Teatro Bellini, ma non solo qui) che Antonio Latella ha tratto dal famoso testo di Goldoni, ne sono una prova evidente. Ciò che bisogna chiedersi è se siano state generate da una costruttiva dialettica che vede il teatro come elemento ancora capace di dividere e far discutere o non siano piuttosto il segno di una insofferenza, di una incapacità di uscire da quegli schemi mentali di cui sopra per confrontarsi con un livello più complesso, appunto, di percezione. E’ il teatro che guarda il suo pubblico e che ancora una volta, come Zeno Cosini, fuma la sua ultima sigaretta, sapendo che in quel gesto infinito sta la sua unica speranza di sopravvivenza. Un teatro costretto a mimetizzarsi dietro la sua incontenibile versatilità. Un teatro che ha mille facce e che in un “batter di ciglia” le muta e le rappresenta con la stessa sconcertante abilità di Arturo Brachetti che con il suo scatenato trasformismo sarà questo mese all’Augusteo per riaffermare, con Latella, che Arlecchino (il Servitore di due padroni, appunto) può avere un’infinità di colori ed esibirsi in molteplici lazzi, ma che può anche essere uno spazio bianco, vuoto che con una beffa e una capriola copre gli abissi del disagio e della sofferenza, dell’inadeguatezza del ruolo, di un desiderio malato che può spingersi fino alla pulsione incestuosa. E così, ripercorrendo la programmazione di questo mese, seguiamo in un certo senso il percorso multiforme di questo ideale Brachetti, di questo postmoderno Arlecchino trasformista che si reinventa e reincarna di sala in sala, di spettacolo in spettacolo mostrandoci tutte le infinite possibilità del suo essere intimamente e profondamente Teatro, toccando le tappe della sua storia e, allo stesso tempo riscrivendole. Da Antigone, che contrappone la sua umanità alla follia della guerra e del potere, al Piccolo Bellini, nella rilettura di Ali Smith, con Anita Caprioli, a Riccardo III, maschera deforme, e teatrale quanto mai, del perverso desiderio di onnipotenza generato da quello stesso potere, nella versione che a Galleria Toledo ne dà Laura Angiulli, fino al Cabaret Yddish di Moni Ovaia, che condensa, in una impeccabile giravolta, sempre di quel teatro, la tradizione e la cultura del suo antichissimo popolo, per giungere, poi, alla ricerca di una Identità, come titola lo spettacolo di Marco Baliani, al Nuovo, che potrebbe anche ingannare se stessa, come quella di Pinocchio, di Babilonia Teatri, alla Sala Assoli. Ma non è solo questo, altri lazzi e capriole e intrattenimenti vari sono sparsi nei teatri della città, perché Arlecchino non debba mai deludere il suo pubblico e possa sempre essere, come il teatro stesso, Servitore di due, o forse di infiniti, padroni, e nella sua connaturata versatilità, sia capace di sedurre e sorprendere ogni singolo spettatore. Ciascuno secondo le proprie esigenze, le proprie capacità, le proprie aspettative. Ma soprattutto, secondo la propria voglia di mettersi in gioco. © RIPRODUZIONE RISERVATA Il responsabile regionale dell’Agis nuovo presidente “nel segno della continuità” Fondazione Campania dei Festival: la Miraglia lascia, arriva Grispello Vincenzo Perfetti Cambio al vertice della Fondazione Campania dei Festival, istituita nel 2007 con l’intento di organizzare e gestire l’allora nascente Napoli Teatro Festival Italia. L’assessore regionale alla Cultura, Caterina Miraglia, passa il testimone all’avvocato Luigi Grispello, già consigliere del Cda della Fondazione, presidente regionale e vice presidente nazionale dell’Agis (l’Agenzia italiana dello spettacolo). Questa la sua prima dichiarazione d’intenti subito dopo la nomina: «È mia intenzione proseguire il lavoro svolto dal 2011 fino ad oggi dalla professoressa Miraglia con lo stesso impegno e nel solco della continuità. Il Napoli Teatro Festival Italia, che quest’anno giunge alla sesta edizione, è ormai una realtà solida e affermata a livello nazionale e internazionale, una “eccellenza” del nostro territorio che in quanto tale va curata e sostenuta». La Miraglia giunse al vertice del cda nel 2010, dopo le dimissioni di Rachele Furfaro, che aveva guidato la rassegna internazionale fin dalla sua formazione. Nel 2006 il Ministero per i Beni Culturali istituì un bando per realizzare un festival di teatro di prestigio internazionale, che riuscisse a competere con quelli storici di Avignone e Edimburgo. Parteciparono altre città importanti come Milano, Venezia, Genova, ma a vincere fu Napoli e nel 2007, ad agosto, la Regione Campania istituì una Fondazione per gestire la neonata rassegna. La presidenza fu assegnata alla Furfaro, che all’epoca ricopriva il ruolo di consulente alle politiche culturali della Regione guidata da Antonio Bassolino. Nel 2011, dopo l’avvento della giunta guidata da Caldoro e svariate polemiche, la Furfaro fu costretta a presentare le dimissioni. La Miraglia ha motivato la sua decisione con una “questione di stile”, perché “nessuno mi ha mandata via e io ho ricoperto questa carica a titolo sempre gratuito”. Ma la sua scelta è anche frutto di opportunità politica di evitare che un assessore abbia più incarichi e poltrone. C’è anche un decreto anti corruzione (DL n. 33/2013 art.13) che riguarda l’“Incompatibilità tra incarichi di amministratore di ente di diritto privato in controllo pubblico e cariche di componenti degli organi di indirizzo politico nelle amministrazioni statali, regionali e locali”). «Sarei andata via anche prima, - ha aggiunto la Miraglia - ma ho voluto essere certa che la Fondazione fosse in una condizione di equilibrio finanziario e di serenità». © RIPRODUZIONE RISERVATA Galleria Toledo Alla corte di re Riccardo Da martedì 11 a domenica 23 marzo torna a Galleria Toledo “Riccardo III, regia e drammaturgia di Laura Angiulli, con un adattamento ridotto del testo originale sfruttando l’essenzialità del palcoscenico per mettere in evidenza i ruoli fondamentali del dramma shakespeariano. Il punto centrale dello spettacolo sta proprio nel sottotitolo “invito a corte” infatti il pubblico non sarà mero spettatore, ma parte integrante dell’azione scenica delle cospirazioni e dei delitti perpetrati da Riccardo. L’obiettivo è coinvolgere gli spettatori e indurli a riflettere sulle due costanti che avvolgono l’universo del re: il potere e la morte, che lo spingono a commettere pur di ottenere la corona d’Inghilterra. (f.g.)

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Anno 1 Numero 8 TeatrocultFOGLIO Campania www.teatrocult.it Marzo 2014

Da La coscienza di Zeno ad Arturo Brachetti (Passando per Arlecchino)

IL TEATRO CHE VUOLE METTERSI IN GIOCO

Antonio Tedesco

eno Cosini non ha mai smesso

di fumare l’ultima sigaretta. La crisi per

lui, prototipo del novecentesco “uomo

moderno”, era la norma. Una componente

fondamentale della sua stessa identità.

Anche guarire autoconvincendosi di essere

“sano”, in senso sociale e identitario, era

un segno forte di quella crisi, di quella

“malattia” che forse, alla fine, era l’unica

cosa che gli consentiva di vivere. Se ne

fosse venuto fuori, se avesse smesso di

analizzarsi, di riflettere, di divagare su se

stesso e sulle esperienze che avevano

segnato la propria vita (dalla famiglia, alle

donne, al vizio del fumo), forse l’avrebbe

persa davvero quella coscienza. Quella

incerta, traballante consapevolezza di sé. E

che pure, naufragando nel mare di un

travolgente modernità, rimaneva l’ultimo

fragile appiglio cui attaccarsi. Senza

quello stato permanente di crisi avrebbe

semplicemente smesso di essere Zeno

Cosini, precipitando in quel vuoto in cui la

sua vertigine esistenziale sembrava

attirarlo.

A parte le infinite letture cui il romanzo di

Italo Svevo può indurre, inclusa la

riduzione teatrale che Tullio Kezich ne

fece nel 1964, e che per la regia di

Maurizio Scaparro è in scena questo mese

al Mercadante, la vicenda di Zeno Cosini

ci sembra una calzante metafora del teatro

contemporaneo. Il quale, in questi ultimi

anni (decenni?), sembra aver fatto della

crisi il suo habitat naturale. Addirittura

una condizione privilegiata grazie alla

quale (non sembri un paradosso) riesce a

guadagnarsi faticosamente il suo spazio di

sopravvivenza. E per crisi, in questo caso,

non intendiamo la “semplice” contingenza

economica, ma qualcosa di più radicato e

profondo. Che ha a che fare con gli stessi

linguaggi espressivi con i quali il teatro si

manifesta, e si confronta con il pubblico

che ancora lo segue. Non è facile in un

mondo che ha fatto della comunicazione

semplificata e veloce il suo carattere

distintivo, proporre e riaffermare l’idea di

complessità. Analizzando i segni e le

implicazioni che tale complessità

comporta. Cercando di dare una scossa

perché gli schemi precostituiti si rompano

e la mente si apra a nuove visioni. La crisi

in cui si dibatte il teatro è tutta in questo

dualismo tra la stasi percettiva e

l’evoluzione di un linguaggio che, per sua

natura, è costretto ad andare oltre per non

morire soffocato in una sterile e stagnante

riproposizione di sé. Le forti contestazioni

che ha suscitato in una parte del pubblico

il recente allestimento del Servitore di due

padroni (anche nelle recenti repliche al

Teatro Bellini, ma non solo qui) che

Antonio Latella ha tratto dal famoso testo

di Goldoni, ne sono una prova evidente.

Ciò che bisogna chiedersi è se siano state

generate da una costruttiva dialettica che

vede il teatro come elemento ancora

capace di dividere e far discutere o non

siano piuttosto il segno di una

insofferenza, di una incapacità di uscire da

quegli schemi mentali di cui sopra per

confrontarsi con un livello più complesso,

appunto, di percezione. E’ il teatro che

guarda il suo pubblico e che ancora una

volta, come Zeno Cosini, fuma la sua

ultima sigaretta, sapendo che in quel gesto

infinito sta la sua unica speranza di

sopravvivenza. Un teatro costretto a

mimetizzarsi dietro la sua incontenibile

versatilità. Un teatro che ha mille facce e

che in un “batter di ciglia” le muta e le

rappresenta con la stessa sconcertante

abilità di Arturo Brachetti che con il suo

scatenato trasformismo sarà questo mese

all’Augusteo per riaffermare, con Latella,

che Arlecchino (il Servitore di due

padroni, appunto) può avere un’infinità di

colori ed esibirsi in molteplici lazzi, ma

che può anche essere uno spazio bianco,

vuoto che con una beffa e una capriola

copre gli abissi del disagio e della

sofferenza, dell’inadeguatezza del ruolo,

di un desiderio malato che può spingersi

fino alla pulsione incestuosa.

E così, ripercorrendo la programmazione

di questo mese, seguiamo in un certo

senso il percorso multiforme di questo

ideale Brachetti, di questo postmoderno

Arlecchino trasformista che si reinventa e

reincarna di sala in sala, di spettacolo in

spettacolo mostrandoci tutte le infinite

possibilità del suo essere intimamente e

profondamente Teatro, toccando le tappe

della sua storia e, allo stesso tempo

riscrivendole. Da Antigone, che

contrappone la sua umanità alla follia

della guerra e del potere, al Piccolo

Bellini, nella rilettura di Ali Smith, con

Anita Caprioli, a Riccardo III, maschera

deforme, e teatrale quanto mai, del

perverso desiderio di onnipotenza

generato da quello stesso potere, nella

versione che a Galleria Toledo ne dà

Laura Angiulli, fino al Cabaret Yddish di

Moni Ovaia, che condensa, in una

impeccabile giravolta, sempre di quel

teatro, la tradizione e la cultura del suo

antichissimo popolo, per giungere, poi,

alla ricerca di una Identità, come titola lo

spettacolo di Marco Baliani, al Nuovo, che

potrebbe anche ingannare se stessa, come

quella di Pinocchio, di Babilonia Teatri,

alla Sala Assoli. Ma non è solo questo,

altri lazzi e capriole e intrattenimenti vari

sono sparsi nei teatri della città, perché

Arlecchino non debba mai deludere il suo

pubblico e possa sempre essere, come il

teatro stesso, Servitore di due, o forse di

infiniti, padroni, e nella sua connaturata

versatilità, sia capace di sedurre e

sorprendere ogni singolo spettatore.

Ciascuno secondo le proprie esigenze, le

proprie capacità, le proprie aspettative.

Ma soprattutto, secondo la propria voglia

di mettersi in gioco.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Il responsabile regionale dell’Agis nuovo presidente “nel segno della continuità”

Fondazione Campania dei Festival: la Miraglia lascia, arriva Grispello

Vincenzo Perfetti

Cambio al vertice della Fondazione Campania dei Festival, istituita

nel 2007 con l’intento di organizzare e gestire l’allora nascente

Napoli Teatro Festival Italia. L’assessore regionale alla Cultura,

Caterina Miraglia, passa il testimone all’avvocato Luigi Grispello,

già consigliere del Cda della Fondazione, presidente regionale e vice

presidente nazionale dell’Agis (l’Agenzia italiana dello spettacolo).

Questa la sua prima dichiarazione d’intenti subito dopo la nomina:

«È mia intenzione proseguire il lavoro svolto dal 2011 fino ad oggi

dalla professoressa Miraglia con lo stesso impegno e nel solco della

continuità. Il Napoli Teatro Festival Italia, che quest’anno giunge alla

sesta edizione, è ormai una realtà solida e affermata a livello

nazionale e internazionale, una “eccellenza” del nostro territorio che

in quanto tale va curata e sostenuta».

La Miraglia giunse al vertice del cda nel 2010, dopo le dimissioni di

Rachele Furfaro, che aveva guidato la rassegna internazionale fin

dalla sua formazione. Nel 2006 il Ministero per i Beni Culturali

istituì un bando per realizzare un festival di teatro di prestigio

internazionale, che riuscisse a competere con quelli storici di

Avignone e Edimburgo. Parteciparono altre città importanti come

Milano, Venezia, Genova, ma a vincere fu Napoli e nel 2007, ad

agosto, la Regione Campania istituì una Fondazione per gestire la

neonata rassegna.

La presidenza fu assegnata alla Furfaro, che all’epoca ricopriva il

ruolo di consulente alle politiche culturali della Regione guidata da

Antonio Bassolino.

Nel 2011, dopo l’avvento della giunta guidata da Caldoro e svariate

polemiche, la Furfaro fu costretta a presentare le dimissioni.

La Miraglia ha motivato la sua decisione con una “questione di stile”,

perché “nessuno mi ha mandata via e io ho ricoperto questa carica a

titolo sempre gratuito”. Ma la sua scelta è anche frutto di opportunità

politica di evitare che un assessore abbia più incarichi e poltrone.

C’è anche un decreto anti corruzione (DL n. 33/2013 art.13) che

riguarda l’“Incompatibilità tra incarichi di amministratore di ente di diritto

privato in controllo pubblico e cariche di componenti degli organi di indirizzo

politico nelle amministrazioni statali, regionali e locali”). «Sarei andata via

anche prima, - ha aggiunto la Miraglia - ma ho voluto essere certa che la

Fondazione fosse in una condizione di equilibrio finanziario e di serenità».

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Galleria Toledo

Alla corte di

re Riccardo Da martedì 11 a

domenica 23 marzo

torna a Galleria

Toledo “Riccardo III,

regia e drammaturgia

di Laura Angiulli,

con un adattamento

ridotto del testo

originale sfruttando

l’essenzialità del

palcoscenico per

mettere in evidenza i

ruoli fondamentali

del dramma

shakespeariano.

Il punto centrale dello

spettacolo sta proprio

nel sottotitolo “invito a

corte” infatti il

pubblico non sarà mero

spettatore, ma parte

integrante dell’azione

scenica delle

cospirazioni e dei

delitti perpetrati da

Riccardo. L’obiettivo è

coinvolgere gli

spettatori e indurli a

riflettere sulle due

costanti che avvolgono

l’universo del re: il

potere e la morte, che

lo spingono a

commettere pur di

ottenere la corona

d’Inghilterra. (f.g.)

TEATROCULTFOGLIO Campania

Il regista porta al Mercadante “La coscienza di Zeno”, con Pambieri e lo storico adattamento di Kezich

Scaparro: “Nel mondo di Svevo per riflettere sulla dittatura del dio danaro”

Allo Stabile di Napoli

Antonio e Cleopatra rivivono tra

musica e cinema in bianco e nero

Francesco Gaudiosi

Dopo il convincente esordio al Napoli Teatro Festival in

giugno, ritorna al Mercadante “Antonio e Cleopatra”, in

scena da mercoledì 26 marzo a domenica 6 aprile. La regia è

firmata da Luca de Fusco, che per questo progetto segue

un’impostazione già presente nei precedenti “Antigone” e

“Un paio di occhiali”. Il minimalismo, la contemporaneità e

la musica sono i fattori determinanti dello spettacolo, esalato

da una scenografia essenziale che fa uso di effetti

cinematografici. Il buio frequente e il contrasto tra il bianco e

il nero assoluto mettono ancxora più in risalto i due

personaggi principali, entrambi incapaci di conciliare la

smania di potere con l’amore che si dimostrano. Dice De

Fusco: “Antonio e Cleopatra viene associato in genere al

monumentalismo e all’esotico, quasi fosse una sorta di ‘Aida’

della prosa. Noi proponiamo, invece, un allestimento

essenziale, imperniato sul valore della parola, nella nuova

traduzione di Gianni Garrera, e sul rapporto con la musica,

grazie al talento multiforme dell’israeliano Ran Bagno e alla

spiccata attitudine dei miei attori a recitare assieme alla

musica”. La presenza di telecamere che proiettano in

primissimo piano i volti degli interpreti su una tela in bianco

e nero mette a nudo i personaggi e la loro psicologia. Da

sottolineare il valore degli interpreti Luca Lazzareschi, Gaia

Aprea e Paolo Cresta. © RIPRODUZIONE RISERVATA

Alla Sala Assoli del Nuovo

Con Babilonia Teatri

Pinocchio cerca il paese dei

balocchi in palcoscenico

Francesco Gaudiosi

Da giovedì 13 a domenica 16 marzo arriva al Nuovo di

Napoli, in Sala Assoli, il “Pinocchio”, di Babilonia Teatri, di

Valeria Raimondi ed Enrico Castellani; con lo stesso

Castellani, Paolo Facchini, Luigi Ferrarini, Riccardo Sielli e

Luca Scotton.

Quello di Babilonia Teatri, che cura anche la regia

dell’allestimento, è un Pinocchio denigrato, escluso, tenuto ai

margini, che ricerca nel teatro e nell’azione catartica del

palcoscenico l’unica àncora di salvezza per rimanere legato

(o re-legato) alla società. Pinocchio rappresenta un’umanità

debole, messa da parte ma, soprattutto, incoerente,

continuamente sospesa tra l’assunzione di colpa e la fuga

dalle proprie responsabilità. Ecco, allora, il burattino che

prova disperatamente a vedersi ed a farsi vedere sulla scena;

e che, soprattutto, avverte la sacralità del luogo teatrale e le

sue possibilità terapeutiche… “un teatro - dice l’autore - dove

la vita irrompe con tutta la sua forza senza essere mediata

dalla finzione; dove ad essere determinanti non sono la

perizia e la tecnica ma la verità di corpi e vite.

È questo, allora, il paese dei balocchi?”

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Anita Curci

a fragilità dell’uomo

contemporaneo, il potere delle

banche in una Europa sempre più

dominata dal dio danaro, la

scoperta della psicanalisi. Tutto

questo è “La coscienza di Zeno”

che Tullio Kezich traspose per la

scena dal romanzo di Italo Svevo, e

che il regista Maurizio Scaparro

porta al Mercadante dal 18 al 23

marzo, con Giuseppe Pambieri nel

ruolo del protagonista, attore tra i

più versatili della scena italiana.

L’allestimento si avvale dello

storico adattamento dal romanzo

che ne fece Kezich nel 1964,

portato già a teatro da Alberto

lionello nello stesso anno, quindi da

Giulio Bosetti nel 1987 e da

Massimo Dapporto nel 2002. Nella

Trieste cosmopolita di inizi

Novecento, Zeno Cosini, partendo

da una seduta di psicanalisi, evoca i

momenti salienti della sua vita.

“La coscienza di Zeno” fa parte

di una trilogia che lei, Scaparro,

ha dedicato al nostro Novecento.

Ce ne parla?

“Ho voluto dimostrare che l’Italia

del secolo scorso ha una letteratura

molto ricca. Ho scelto tre testi: ‘La

governante’ di Brancati, dove il

lato più sorprendente e attuale è

quello di una Sicilia e di un’Italia

dei nostri padri e dei nonni,

dimenticato e sconosciuto ai più

giovani, ma di cui è facile scoprire

ancora oggi le tracce nella società.

Brancati la mette in luce svelando i

suoi tabù sessuali, il gallismo, i

falsi moralismi, le divisioni etniche,

le censure, le ipocrisie dei poteri

ufficiali. Poi, assieme a Massimo

Ranieri, in ‘Viviani Varietà’ ho

rievocando il viaggio oltreoceano

che Don Raffaele fece nel 1929

assieme alla sua compagnia sul

piroscafo Duilio per una tournée in

Sud America.

Maurizio Scaparro

Su quella nave un altro importante

drammaturgo del Novecento

italiano provò il suo spettacolo a

beneficio degli emigranti che

viaggiavano con lui, carichi di

speranza e di timori verso un

avvenire incerto”.

Ora, ecco la Coscienza di Zeno.

“… Ambientata in una Trieste

cosmopolita, mercantile ma anche

crogiolo culturale della

Mitteleuropa tra la fine della Belle

Époque e la Prima guerra mondiale.

Qui si svolge la vita di Zeno Cosini,

un uomo che è tutto e il contrario di

tutto; vive uno strano rapporto con

le donne, perno della sua esistenza,

e con le banche, che svolgono

un’attività fondamentale in città. È

un essere debole. S’innamora di una

donna bella, finisce per sposarne

una brutta, che non ama. Ha una

vita che lo tormenta.

Lei ha visto gli allestimenti che

del romanzo hanno fatto in

passato? In che cosa il suo se ne

distingue? Ed è rimasto fedele al

testo di Kezich?

“Non ne ho visto nessuno. In questa

messa in scena abbiamo pensato solo a

noi stessi. Resto fedele all’adattamento

di Kezich, certo. Tullio mette in

evidenza quell’Europa delle banche

che, a sentir l’opinione di alcuni, è

proprio l’aspetto distintivo del nostro

spettacolo rispetto ai precedenti.

D’altra parte, Svevo è un precursore,

che smaschera proprio la dittatura del

dio denaro, un problema oggi

particolarmente sentito, che rende

quest’opera ancora più attuale”.

Il Novecento è il secolo

dell’introspezione e della psicanalisi.

Lei crede nella psicanalisi?

Sono legato alla psicologia per motivi

diversi. Intanto, mio fratello è un

importante psicologo. E, poi, chi si

occupa di teatro è quasi obbligato alla

riflessione, al confronto con la

psicologia. Questo vale specialmente

per gli attori, che devono calarsi nei

panni di un personaggio altro da sé. Per

me quindi è una sorta di ‘non è vero ma

ci credo’ ”.

Che cosa Zeno, “malato” nell’anima,

può insegnare a noi contemporanei?

“Zeno è l’incarnazione del mal de

vivre, della debolezza dell’uomo di

oggi. La sua vicenda dovrebbe farci

comprendere che non bisogna finire

succubi di un mondo dove la dittatura

del denaro rischia di soffocare

l’umanità e i sentimenti”.

Perché ha scelto Pambieri per il

ruolo?

“Ho lavorato con lui nel 2011 in

occasione del “Sogno dei mille” tratto

da ‘Les Garibaldiens’ di Dumas,

presentato al Napoli Teatro Festival

Italia. Ci siamo trovati bene. Così,

quando ho avuto modo di fare Svevo,

ho subito pensato a lui. E’ moderno,

ricco di talento, capace di umorismo.

Ed è seguito dal pubblico”.

Progetti?

“Sì, tra Roma e Parigi. Sto preparando

uno spettacolo dove c’entra anche

Napoli e il suo Festival. E riprendo

“Amerika”, un testo importante, dove

quattro giovani europei vanno alla

scoperta dell’America bizzarra

immaginata da Kafka nel suo

romanzo omonimo”.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Nuovo Teatro Sanità, in un

quartiere difficile per

affermare i diritti dell’arte

Vincenzo Perfetti

Il Nuovo Teatro Sanità, nato da poco più di un

anno si sta affermando nel panorama cittadino

dimostrando la volontà e la tenacia di chi lo ha

voluto. A partire da

Mario Gelardi,

drammaturgo e

regista, suo direttore

artistico.

Gelardi, perché la

scelta di una sala destinata a una vita difficile

in un quartiere difficile?

“Non esistono quartieri non difficili a Napoli. La

città è difficile. Proprio per questo, in un tempo

così complicato, quasi da dopoguerra, c’è

l’esigenza di rispondere con l’arte e la cultura”.

Il teatro ha subito un atto di vandalismo

recentemente. Ha ricevuto minacce?

“No. E’ stato un episodio simbolico, che ci ha un

po’ rattristato e che, però, invita a non

nasconderci per quel che accade. Noi non

vogliamo far finta che non viviamo in un

quartiere difficile. Anzi, facciamo teatro in un

territorio in cui la cultura è vista come nemica

quando è una delle poche vie di salvezza”.

Il cartellone: perché queste compagnie?

“Quando ho avuto la proposta di dirigere il teatro

ho deciso di aprirlo a tutto il territorio campano.

La scelta è stata fatta anche alla luce delle cose

che volevo si raccontassero in questo teatro, e

cioè molti temi sociali, molta drammaturgia

contemporanea e soprattutto un occhio attento

alle giovani compagnie campane”.

Come pensa di impostare la prossima?

“Abbiamo due anniversari importanti, i 30 anni

dalla morte di Eduardo e i 40 da quella di

Pasolini. Credo che saranno due cardini del

lavoro che farò. © RIPRODUZIONE RISERVATA

“Luiz torna a casa, in scena a

Il Pozzo e il Pendolo

De Giovanni: “Il calcio e la

passione per il Napoli

riesce a unire padri e figli”

Federica De Cesare

La letteratura diventa teatro a Il Pozzo e il Pendolo.

Dall'8 al 16 marzo va in scena “Luiz torna a casa”,

la trasposizione dell'omonimo racconto di Maurizio

Di Giovanni, storia d'amore tra padre e figlio che

trova nella condivisione della passione per il calcio

e la squadra del Napoli la sua espressione.

In scena saranno Paolo Cresta e Giacinto Piracci.

La regia è di Annamaria Russo, “nume tutelare”

della sala di Piazza San Domenico Maggiore, che

ha già portato nel suo teatro altri libri dello scrittore

napoletano.

De Giovanni, come nasce il racconto?

“È stato scritto per il libro ‘Napoli Passione

Azzurra’, edito da Franco Di Mauro e pubblicato in

edizione limitata dal Calcio Napoli, in occasione

del suo ottantacinquesimo compleanno. Contiene

articoli di grandi giornalisti che negli anni hanno

seguito il Napoli, come Giuseppe Pacileo, Pietro

Gargano e Antonio Ghirelli, e uno scritto di

narrativa, che è proprio il mio racconto ‘Luiz torna

a casa’ ”.

Qual è il soggetto?

“Appunto, la storia di un ritorno, un ritorno a

Napoli. A casa. Un professore universitario, infatti,

è richiamato dalla sorella perché il padre è in punto

di morte. Il racconto, incentrato proprio sul

rapporto padre-figlio, gira attorno al calcio, terreno

di dialogo comune tra i due”.

Il ricordo e la condivisione di una passione sono

reale espressione di un legame?

“Il ricordo è il filo conduttore dell'intera vicenda.

Questo ragazzo viene chiamato Luiz perché il papà,

gran tifoso, decide di dargli il nome di Vinicio,

glorioso centravanti della squadra. La storia ricalca

la vita di Luiz e del suo rapporto col padre

attraverso la memoria, la condivisione, e le varie

epoche della squadra del Napoli. Molti sono i padri

e i figli uniti dal calcio, territorio comune di

dialogo, cemento ideale non solo tra genitori e figli

ma di tutta quanta la città”.

La memoria, con i suoi ricordi, è il dolce fardello

della nostra esistenza?

“Il passato è il padre del presente, nulla di quello

che ci succede può prescindere dalla memoria”.

Questa storia potrebbe avere uno sfondo diverso

da quello di Napoli?

“Napoli rappresenta un’ottima ambientazione per

un racconto. Come in questo testo così in tutti i

miei romanzi è lei la vera protagonista”.

La trasposizione teatrale rende giustizia al

testo?

“Sono felice dell'attenzione riservatami da Il Pozzo

e il Pendolo. Annamaria Russo fa sempre un ottimo

lavoro sui miei testi. Ha proposto ‘Luiz torna a

casa’ in anteprima l'estate scorsa all'Orto Botanico

con un bel successo. È una donna dotata della

giusta sensibilità per intervenire sulle mie storie e

io gliele affido perché lei sa migliorarle

sensibilmente. Sa renderle tridimensionali,

lasciandomi sempre incantato”.

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TEATROCULTFOGLIO Campania

Il re dei trasformisti all’Augusteo con il suo nuovo show di illusionismo contemporaneo

Brachetti finisce in un deposito bagagli: “Le valigie? Contengono magie”

Pino Cotarelli

orna in Italia il più grande attore-

trasformista del mondo con la sua galleria di oltre

350 personaggi e sarà all’Augusteo dal 14 al 23

marzo. In “Brachetti, che sorpresa!”, Arturo è

l’anima del deposito bagagli di un grande aeroporto

internazionale colmo di valigie, casse e bauli di

tutto il mondo; un luogo misterioso e affascinante,

pieno di oggetti ricchi di storie. Le valigie hanno

molto da raccontare: dei luoghi visitati, delle

persone con cui viaggiano, delle aspirazioni e dei

sogni dei proprietari… Alcune sono state smarrite,

altre cercano di ricongiungersi al loro padrone,

altre ancora sono di passaggio. Tutte, però, hanno

una storia unica che in scena prende vita

magicamente. Stavolta Brachetti non è solo. Suoi

compagni di avventura sono amici strani, eclettici e

un po’ folli come lui: l’allievo Luca Bono, giovane

talento dell’illusionismo internazionale;

Luca&Tino, artisti esilaranti, stralunati e

improbabili, definiti da Le Figaro i “Laurel e Hardy

italiani”; e il mago Francesco Scimemi.

Brachetti, com’è nato questo nuovo spettacolo?

“Innanzitutto dalla voglia di incontrare di nuovo il

pubblico italiano: a parte una breve parentesi lo

scorso anno proprio a Napoli, sono assente dai

teatri italiani dalla fine del 2011. Troppo per me.

Dopo qualche mese all’estero ho bisogno di

immergermi di nuovo nella nostra identità

nazionale. E poi…”.

E poi?

“ ‘Brachetti che sorpresa!’ nasce dall’idea di

portare, anche in Italia, un nuovo modo di fare

magia: lo show è un varietà di illusionismo

contemporaneo, proporrà una magia molto più

dinamica di quella cui siamo abituati. I ritmi sono

velocissimi, i numeri della tradizione sono rivisitati

in chiave contemporanea, si usano nuove

tecnologie, come il mapping, che è un uso

particolare di proiezioni video”.

Lei ama portare a Napoli i suoi show.

“Voglio davvero molto bene a Napoli, che assieme a

Parigi è la città che di più mi ha adottato. E credo sia

un amore ricambiato. Ci vengo perché è uno dei

pochi posti al mondo che mi sa sorprendere, e ha un

senso dello spettacolo, del gesto teatrale così radicato

e sviluppato che fa dei napoletani il pubblico ideale

per cercare nuovi stimoli e sperimentare progetti. Lo

scorso anno proprio a Napoli portai il prototipo dello

spettacolo che oggi è diventato ‘Brachetti che

sorpresa!’ “.

Come ha scoperto il suo talento di trasformista?

“Da ragazzo ero in seminario e, negato per il calcio

com’ero, trascorrevo il tempo nel teatro della scuola.

Piano piano guadagnai la fiducia del mio professore,

Don Silvio Mantelli, e mi feci consegnare le chiavi

della sala. Don Silvio era un illusionista. Era noto

come il Mago Sales. Mi regalò un libro su Fregoli

svelandomi un mondo: il grande trasformista non

aveva lasciato eredi, la sua arte era tutta da riscoprire

e reinventare”.

E che cosa le disse don Silvio?

“ ‘Non importa avere la vocazione. Importa che tu

scopra qual è la tua’. La mia, lo capii in quel

momento, era stare sul palcoscenico e stupire il

pubblico”.

La sua anima camaleontica le dà serenità nella

vita?

“Sicuramente per fare quello che faccio sul

palcoscenico (e talvolta anche nella vita privata)

bisogna conoscersi bene: in scena non cambio solo

colore dell’abito ma cambio anima, in pochi secondi

e molte volte nella sessa serata”.

Perché non ha mai usato il suo talento nel campo

della moda?

“In realtà non è mai capitato. Però sono lo stilista dei

miei costumi: c’è molto di mio in ogni abito che

indosso; non è solo una questione tecnica, ma proprio

di feeling.

Vado io in sartoria a spiegare che cosa voglio e seguo

ogni parte del lavoro. I miei primi costumi li faceva

la mia mamma e li conservo ancora, assieme agli altri

350 e più, tutti in un grande capannone dove ci sono

anche i pezzi delle scenografie e gli attrezzi dei miei

spettacoli”.

Quali caratteristiche devono avere gli artisti che

lavorano con lei?

“Sicuramente saper parlare al grande pubblico

rivolgendosi a tutti senza tradire la qualità. Penso, per

esempio, a una coppia comica come Luca&Tino, che

si sono formati alla scuola del circo di Mosca e poi

sui palcoscenici di mezzo mondo. Un altro elemento

importante è l’applicazione costante: bisogna

provare, riprovare, con pazienza, senza mollare. Un

illusionista si allena settimane per un effetto di pochi

secondi di cui il pubblico si accorge appena, ma che è

essenziale per la riuscita del numero. Luca Bono, il

mio giovane allievo che è un talento della magia, si

allena ogni giorno per quattro, cinque ore almeno.

Alla base di tutto, dev’esserci, comunque, la

passione”.

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Caterina Pontrandolfo

ialogare con Moni

Ovadia sul suo “Cabaret Yiddish”,

in scena dall’11 al 16 marzo al

Teatro Nuovo di Napoli è una

occasione per approfondire la

conoscenza con un vero artista del

nostro tempo e un fine

intellettuale, che mediante la

diffusione della cultura ebraica

riesce a essere portatore di

intelligenza, di cultura e di pace.

Ovadia, che cos’è “Cabaret

Yiddish”?

“Come il girovago commedianti

del Carro di Tespi, che arriva con i

suoi incanti, le sue storie e

sberleffi e racconta mondi interi,

anche noi con musica, storie,

storielle e canti raccontiamo

un’epopea, quella del popolo

dell’esilio, gli ebrei dell’Europa

centro-orientale. Un popolo in

tutto e per tutto, che non ha

bisogno di confini, fili spinati,

eserciti, polizia, burocrazie; con

una lingua, una interiorità, una

identità.

Questo popolo ha vissuto nelle

terre dell’esilio e ha costituto una

umanità straordinaria che ha avuto

nel pensiero umoristico una

modalità espressiva, un modo di

esistere. E il centro di ‘Cabaret

Yiddish’ è proprio l’umorismo,

che si intreccia con momenti

dolorosi, perché non è mai come il

cabaret televisivo. Il suo scopo non

è fare ridere, ma far riflettere,

sconfiggere la violenza, i

pregiudizi, mostrare la stupidità

del mondo. Questo popolo

dell’esilio aveva come proprio

eroe l’uomo goffo, l’uomo fragile,

instabile, e credeva che la

redenzione si fondasse sulla grazia

dell’instabilità. Un umorismo,

insomma, che si declina con un

Moni

Ovadia:

“Con

l’umorismo

del Cabaret

Yiddish vi

svelo la

stupidità

del mondo”

Alla scoperta di una grande tradizione culturale: quella degli Ebrei dell’Europa

centro-orientale. Al Teatro Nuovo

difficile, piena di lacerazioni, ma

ha potenzialità enormi, e ha dato al

Paese una parte significativa della

sua identità”.

Ha detto che l’Italia tende a

trascurare artisti di talento.

“Se un Paese non valorizza e onora

i propri maestri, il problema non è

loro, ma del Paese. Vendiamo la

canzone napoletana, il

melodramma, l’opera buffa, i

monumenti, il Rinascimento,

Goldoni, la Commedia dell’

Arte… diamo via tutto e che cos’è

l’Italia dopo? Più niente”.

In Francia sta facendo scalpore

il comico Dieudonné che incita

all’antisemitismo.

Non ho visto i suoi spettacoli.

Posso fare solo una

considerazione: credo che

Dieudonné abbia reagito in modo

aggressivo, esagerato, per un

profluvio di retorica che si è fatta

in questi ultimi anni anche sul

Giorno della Memoria. C’è

retorica e falsa coscienza”.

Lei ha detto che il Giorno della

Memoria dovrebbe diventare il

Giorno delle Memorie…

“Il Giorno della Memoria è un

equivoco. E’ stato istituito per

l’Europa che ha covato nel proprio

cuore i carnefici. Parlo del Giorno

delle Memorie perché vanno

ricordati i dolori e gli stermini di

tutte le genti, dal genocidio degli

Armeni all’invasione giapponese

della Manciuria, all’Italia con i due

genocidi commessi in Cirenaica ed

Etiopia, altro che italiani brava

gente! Per non parlare della

Cambogia, al genocidio

dell’America in Vietnam, fino all’

Ex-Jugoslavia, al Ruanda. Ecco: il

Giorno delle Memorie… che, per

giunta, dovrebbe tenere alla larga

quei politici che fanno i carini con

gli ebrei e poi approvano la Bossi-

Fini, trasformando il Mar

Mediterraneo in un cimitero”. (Nella foto: Moni Ovadia)

© RIPRODUZIONE RISERVATA

livello di pensiero e di spiritualità

vertiginosi”.

Uno spettacolo che ha una lunga

storia…

“Sì, lo facciamo ininterrottamente

da 25 anni, è per tutti e ha sempre

successo, aldilà dei meriti miei e

della mia compagnia. Io sono stato

molto fortunato perché ho

incontrato quel mondo, ormai al

crepuscolo, proprio a Milano, in

una piccola sinagoga. Ne ho visto

gli ultimi bagliori. Ho conosciuto

vecchi straordinari e ho imparato

da loro gesti e con un minimo di

capacità ho messo in scena il loro

mondo, dando vita a uno

spettacolo che ha una magia

misteriosa”.

Quando decise di dedicare la sua

vita alla musica e al teatro?

“Sono laureato in scienze politiche

e ho sempre avuto passione

politica e sociale. A un certo

punto, compresi che il linguaggio

della musica e del teatro potevano

servirmi a comunicare le idee in

modo molto più libero ed efficace,

erano più utili dei saggi che avrei

potuto scrivere. Nessun altro

strumento come il teatro offre così

tanto, proprio per la sua libertà

estrema”.

Forse è l’ultimo luogo di libertà

espressiva del nostro tempo?

“Credo sia davvero un sacrario

dell’essere umano. Attraverso la

finzione, il teatro è forse l’unico

luogo di verità che esista oggi; e

proprio perché c’è la finzione che

impedisce di pretendersi depositari

di verità assolute, come quelle dei

tiranni e dei religiosi, che non sono

verità e possono fra sgorgare fiumi

di sangue”.

Tra i suoi incontri artistici,

quello con Kantor le ha

cambiato la vita.

“Vederlo provare gli spettacoli è

stata una lezione fondamentale.

Senza di lui non so neanche se

avrei cominciato a far teatro”.

Quale visione d’arte le ha

lasciato?

“Intanto, era un genio. E quando si

incrocia un genio è difficile

spiegare cosa ti abbia lasciato.

Forse la grande libertà: il suo

teatro prendeva spunto dalle arti

figurative. Rompeva schemi del

teatro, regole, grammatica,

convenzioni. Nel suo mondo non

ci sono attori. Kantor teorizzava

l’attore-manichino, che ‘indossa’ il

ruolo, non lo interpreta. Questo

significa uscire dagli psicologismi

a favore della libertà inventiva”.

Il suo rapporto con Napoli e il

suo teatro, i suoi artisti?

“Be’, sono cresciuto con i suoi

artisti, visti a cinema e in tv e poi,

certo, anche in teatro. Nessun

italiano può prescindere dalla

tradizione del teatro napoletano,

con la sua capacità di incarnare un

intero popolo. Totò, Peppino De

Filippo… e poi la lezione di

Eduardo, per non parlare del teatro

musicale di Roberto De Simone.

Sono un ammiratore di Enzo

Moscato, che ha saputo essere

fedele a Napoli, ma attraverso

rotture continue. E c’è la musica,

la melodia classica, e Murolo,

Bruni, Gennaro Pasquariello… Ma

sa che il pianista della mia

compagnia è il nipote di Gennaro

Pasquariello? Napoli è una città

Arturo Brachetti

Il drammaturgo alla Sala Assoli del Nuovo. Poi, a giugno, ospite del Napoli Teatro Festival Italia

Moscato: tra i frammenti delle mie opere per scoprire una “Patria Puttana”

Benedetto Casillo al

Cilea con 'Nu mese

'o ffrisco

Dal 20 al 23 marzo Benedetto Casillo porterà

in scena al teatro Cilea di Napoli lo

spettacolo “Nu mese ‘o ffrisco” di Paola

Riccora che rappresenta uno dei punti di

riferimento più fulgidi e prestigiosi del teatro

popolare: un teatro lieve, giocoso, genuino.

“Nu mese ‘o ffrisco” è di sicuro un gioiello

preziosissimo del tesoro della comicità

napoletana.

Fu rappresentato per la prima volta nel 1916

al Teatro Nuovo, e negli anni ‘70

l’indimenticabile Luisa Conte ne fece uno

dei suoi cavalli di battaglia. Ora lo riporta in

scena Benedetto Casillo, appassionato

cultore della tradizione teatrale partenopea.

Lo fa con una rivisitazione assolutamente

rispettosa dello spirito originario del testo

antico. Qualche guizzo di fantasia personale,

battute fulminanti, ritmi un po’ più serrati. La

trama presenta una storia semplice, per ridere

come si rideva una volta: Enrico Carotenuto,

pittoresco commerciante, inventore di una

pomata insetticida di sicuro effetto,

condannato per aver schiaffeggiato una

maschera di un teatro cittadino, dove si è

recato di nascosto con una sua amante, riesce

a farsi sostituire in prigione da un amico

squattrinato, mentre egli se ne va

opportunamente in vacanza con la sua

famiglia. Ma la vicenda si complica. L’amico

ne combina di tutti i colori. La suocera di

Enrico si fidanza col giudice che lo ha

condannato, e poi...tante risate per trascorrere

due ore di buon divertimento.

Mario Migliaccio

Patria Puttana” è la nuova creazione di

Enzo Moscato, autore-attore-regista che in oltre 30

anni di esperienza si è conquistato un posto di

primo piano nella drammaturgia non solo

napoletana, ma italiana. Lo spettacolo è in

programma dal 25 al 30 marzo alla Sala Assoli del

Nuovo. Con lo stesso Moscato saranno in scena

Cristina Donadio e Giuseppe Affinito.

Di che cosa tratta “Patria Puttana”?

“È una drammaturgia che punta più sul

frammentario che sul narrativo; una raccolta di

frammenti di testi miei, scritti nel corso di 34 anni.

Quando metto in scena questi recital - mi piace

chiamarli così - faccio un’operazione di collage,

scegliendo qua e là brani dei miei lavori con la

sola logica dell’assonanza e del ritmo, non

badando cioè alle storie che raccontano. Mi capita,

così, di accostare brani che non si assomigliano

per niente, perché amo proprio quest’estetica della

contrapposizione o, come la definisce qualcuno,

estetica dell’ossimoricità”.

Perché questo titolo?

“Anch’esso è un ossimoro in realtà, dal momento

che perché metto insieme due termini opposti:

patria e puttana. Ovviamente, bisogna considerare

quanto sia materna e non matrigna la patria

all’interno di storie che parlano di prostitute,

assieme ai travestiti le figure principali della mia

drammaturgia. Queste storie-non storie, questi

frammenti che verranno fuori, parleranno di donne

perdute, appunto come la nostra patria”.

Avrete altre date dopo il Nuovo?

“Purtroppo il teatro attraverso un periodo pessimo.

Per il futuro non si sa nulla di preciso. Posso solo

augurarmi di riuscire a conquistare altre repliche”.

Altri progetti?

“Io sono sempre in fermento creativo, anche se le

Enzo Moscato

CARTELLONI DI MARZO A NAPOLI AUGUSTEO

14 - 23 marzo

Il nuovo show di Arturo Brachetti: “Brachetti, che sorpresa!”

BELLINI

4 - 9 marzo

“Educazione siberiana”di Nicolai Lilin e Giuseppe Miale di Mauro

14 - 23 marzo

“Slava’s Snonw Show”, l’arte del clown secondo Slava

PICCOLO BELLINI

6 - 9 marzo

“Favola in musica per cornacchie, cani selvatici, maledizioni, tiranni, sepolcri &

fanciulle in fiore - La storia di Antigone”,

rilettura di Ali Smith dalla tragedia di Sofocle raccontata da Anita Caprioli e cantata

da Didie Caria. regia Roberto Tarasco

14 - 23 marzo

Danza Flux presenta “Horse boy in apnea” con Fabrizio Varriale,

regia e coreografia Chiara Alborino, Fabrizio Varriale

16 - 23 marzo e 27 - 30 marzo

“Diego - Non sarò mai un uomo comune”, progetto e regia di Aniello Mallardo con

Maddalena Stornaiuolo

BRACCO

13 -16 marzo

Giacomo Rizzo in “Un figlio per lo sceicco”, di G. Rizzo, che firma anche la regia

20 - 23 marzo

Da “Made in Sud” Nello Iorio in “Tutti trocati”

27 - 30 marzo

“Stasera non escort”, di e con Margherita Antonelli, Alessandra Faiella, Rita Pelusio

e Claudia Penoni

CILEA

6 - 9 marzo

I Ditelo Voi in “Gomorroide”

20 - 23 marzo

Benedetto Casillo in “Nu mese ‘o ffrisco” da Paola Riccora. Regia di Benedetto

Casillo

27 - 30 marzo

Peppe Iodice in “Peppy Hour Party Show”, di Iodice e Marangio, che firmano anche

la regia

DIANA

5 marzo

Michele Caputo in “Komikamente” con 12 comici. Ospite Paolo Migone

13 - 16 marzo

Carlo Buccirosso in “La vita è una cosa … meravigliosa!”, di Carlo Buccirosso,

26 marzo - 6 aprile

Massimo Ghini ed Elena Santarelli in “Quando la moglie è in vacanza”, di George

Axelrod, regia di Alessandro D’Alatri

GALLERIA TOLEDO

11 -23 marzo

Laura Angiulli firma drammaturgia e regia del “Riccardo III” di Shakespeare

28 - 30 marzo

“Pedro e il capitano” di Mario Benedetti, regia e costumi Lia Chiappara, con Santi

Cicardo e Matteo Contino

TEATRO IL PRIMO

7 - 23 marzo

Rosario Ferro in “La scampagnata“ dei tre disperati, di Antonio Petito

IL POZZO E IL PENDOLO

8 - 16 marzo

“Luiz torna a casa”, di Maurizio de Giovanni, con Paolo Cresta e Giacinto Piracci

22 - 30 marzo

“Montedidio” di Erri De Luca, con Nico Ciliberti e Rocco Zacagnini

MERCADANTE

26 febbraio - 9 marzo

Eros Pagni, Tullio Solenghi in “I ragazzi irresistibili” di Neil Simon, regia di Marco

Sciaccaluga

18 - 23 marzo

Maurizio Scaparro presenta “La coscienza di Zeno”, di Tullio Kezich, dal romanzo

di Italo Svevo, con Giuseppe Pambieri

26 - 6 aprile

“Antonio e Cleopatra” di Shakespeare, adattamento e regia di Luca De Fusco, con

Gaia Aprea, Luca Lazzareschi e Paolo Cresta

MERCADANTE (RIDOTTO)

11 -16 marzo

Per l’ “Armonia perduta”, il progetto dedicato a Raffaele La Capria, Paolo Coletta

dirige “Fiori giapponesi”

TEATRO NUOVO

11 -16 marzo

Moni Ovadia in “Cabaret Yiddish”

27 - 30 marzo

“Identità”, uno spettacolo di Marco Baliani, con Maria Maglietta

NUOVO SALA ASSOLI 13 - 16 marzo

“Pinocchio”, testo e regia di Babilonia Teatri

25 - 30 marzo

“Patria Puttana”, reading scenico da “Rondò”, “Luparella” e “ ‘A musica ‘e Toledo”

di Enzo Moscato, con Enzo Moscato, Cristina Donadio, Giuseppe Affinito

NUOVO TEATRO SANITÀ

14 - 16 marzo

“Louise Bourgeois - Falli, ragni e ghigliottine”, ritratto della scultrice Con

Margherita Di Rauso. Scritto e diretto da Luca De Bei

20 marzo

“Di carne”, uno spettacolo di Alessandro Gallo, con Miriam Capuano, regia Maria

Cristina Sarò, dal romanzo “Scimmie” di Alessandro Gallo

22 marzo

“Di sangue”, uno spettacolo di Maria Cristina Sarò, con Miriam Capuano e

Alessandro Gallo, dal romanzo “L’osso di Dio” di Cristina Zagaria

28 - 30 marzo

“Quell’ultima parata”, scritto e diretto da Fabrizio Bancale, con U. Lione e C.

Ragone

SANNAZARO

14 - 16 marzo

Vittorio Marsiglia in “Il club dei Marsigliesi”

22 - 23 marzo

Ciro Ceruti e Ciro Villano in “Piccoli segreti di famiglia”, di Ceruti e Villano

START (San Biagio theater and perfoming Art)

15 -16 marzo

Maniaci d’amore presenta “Il nostro amore schifo”, di e con Francesco d’Amore e

Luciana Maniaci, regia Roberto Tarasco

27 marzo

Maniaci d’amore presenta “Morsi a vuoto #studio”, di e con Francesco d’Amore e

Luciana Maniaci

TEATRO TOTO’

6 - 16 marzo

Gloriana in “Siamo appena tornati da Napoli”. Regia di pino Moris

20 -30 marzo

Gino Rivieccio in “Ti presento mio fratello”

TEATRO TROISI

7 -9 marzo

Paolo Ferrari e Valeria Valeri in S “Lettere d’amore” (Love letters) di A.R. Gurney

SALA ICHOS

7 - 9 marzo

ILINX Teatro

“I.P. identità precarie”

progetto e regia Nicolas Ceruti

di Amanda Spernicelli

14 - 16 marzo

“FRATTAGLIE E RIMMASUGLI”

Regia: Teatri delle Sguelfe

21 -23 marzo

“mare dentro” di e con Gianni Tudino

condizioni economiche non sono delle migliori.

Ora sto lavorando a una pièce che sarà presente nel

cartellone del Napoli Teatro Festival Italia, a

giugno”.

Se Enzo Moscato potesse fare qualcosa per

risollevare l’attuale situazione del teatro, cosa

farebbe?

“Nel mio piccolo, cerco di tenere alta la qualità di

ciò che scrivo e rappresento. Indubbiamente, la crisi

generale della società e dell’economia investe

anche la drammaturgia. Ecco prché tutti noi ci

ritroviamo a vedere spettacoli imbarazzanti e

improponibili che nulla hanno a che fare con il

teatro. Non sono un uomo di potere, ma se fossi

ministro, darei grande attenzione alla cultura e al

teatro, perché sono convinto che il suo tasso di

qualità è anche quello della nazione che lo

esprime”. © RIPRODUZIONE RISERVATA

Al Piccolo Bellini il progetto del giovane

Aniello Mallardo

Vizi e virtù del mito Maradona, per

raccontare quelli di Napoli e del calcio

Andrea Fiorillo

Dal 20 al 23 marzo e dal 27 al 30 marzo 2014 Vodisca Teatro e Libera

Scena Ensemble presenteranno al Piccolo Bellini “Diego – Non sarò mai

un uomo comune” con Maddalena Stornaiuolo e Luigi Credendino, per la

regia del giovane Aniello Mallardo, artefice anche del progetto

drammaturgico. L’autore, che si è formato presso il teatro Elicantropo di

Napoli, diretto da Carlo Cerciello, racconta, attraverso una storia

d’amore, la Napoli degli anni ’80, uscita da un infausto terremoto e

vittima tutti i giorni di se stessa e dei problemi che la dilaniano.

Attraverso il teatro si cerca di raccontare una storia, un’era, segnata da un

uomo, Diego Armando Maradona, che diventa l’illusione, l’alternativa, il

riscatto.

Una Napoli raccontata attraverso un mito, un sogno chiamato

Maradona, che si fa riscatto in una città afflitta. Mallardo, come si

racconta questa necessità attraverso il teatro?

“L’ispirazione per questo lavoro mi è venuta attraverso la lettura di due

testi: ‘Infiniti anni ’80’ di Giovanni Ciofalo in cui si racconta che gran

parte di ciò che la società italiana è diventata oggi lo si deve a ciò che è

stato seminato proprio in quegli anni, e ‘Re-play’. Il calcio da arma di

distrazione di massa a strumento di lotta contro il potere, di Luigi

Pasquariello, che concentra la sua analisi su quando il calcio stesso ha

smesso di essere considerato un gioco, per diventare strumento di

manovra e ricatto, sottolineando il cruciale passaggio dalla

‘politicizzazione del calcio alla ‘calcistizzazione’ della politica, che ha

reso questo sport un mezzo di propaganda. Il calcio quindi diventa

innanzitutto il riscatto incarnato da Maradona, che veniva dal basso ed era

simbolo di una città in difficoltà. Dall’altro lato, però, è anche un

anestetizzante, un modo per coprire i problemi non risolti, per non

affrontarli, con il rischio di non vederli neanche più, quando però sono lì,

ci restano, e magari crescono.”

Maradona, un uomo tradito dalla città stessa, che lo lascia

sprofondare nei vicoli, senza fermarlo, così come successe a

Masaniello nel 1647.

“Maradona rispetto a Masaniello non è stato, non è e non sarà mai tradito

dal popolo, ovvero dai tifosi, poiché il sistema politico non è riuscito a

scalfire la sua immagine, come invece avvenne al Capopopolo, che

improvvisamente si vide abbandonato dai suoi stessi compagni e dagli

strati popolari per i quali si batteva. Diego diventa e resta negli anni un

tatuaggio sulla pelle dei napoletani, un simbolo che perde la natura

d’uomo. Ma gli uomini considerati infallibili, costretti a fare sempre

qualcosa di straordinario, alla fine si perdono perché in fondo non

reggono, sono comunque persone comuni.”

Oggi non c’è più un Maradona a “salvarci”, ma ancora siamo alla

ricerca di qualcosa che ci aiuti a superare il quotidiano?

“A Napoli sarebbe necessario far capire che il calcio spesso diventa una

distrazione capace di assuefarci al resto. Il teatro deve appunto farci

destare da questa apatia, e provare a far aprire gli occhi a quanti non

hanno strumenti per poter portare avanti questa ricerca da soli. Non c’è

nessuna condanna in questo progetto; il calcio è disciplina, possibilità

sociale, ma non deve creare cecità… Bisogna responsabilizzarsi; va bene

lasciarsi incantare, chi dallo sport, chi dall’arte, ma poi bisogna avere una

chiara visione critica della propria esistenza e di quella degli altri.”

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