Da La coscienza di Zeno ad Arturo Brachetti (Passando per ... · moderno”, era la norma. Una...
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Anno 1 Numero 8 TeatrocultFOGLIO Campania www.teatrocult.it Marzo 2014
Da La coscienza di Zeno ad Arturo Brachetti (Passando per Arlecchino)
IL TEATRO CHE VUOLE METTERSI IN GIOCO
Antonio Tedesco
eno Cosini non ha mai smesso
di fumare l’ultima sigaretta. La crisi per
lui, prototipo del novecentesco “uomo
moderno”, era la norma. Una componente
fondamentale della sua stessa identità.
Anche guarire autoconvincendosi di essere
“sano”, in senso sociale e identitario, era
un segno forte di quella crisi, di quella
“malattia” che forse, alla fine, era l’unica
cosa che gli consentiva di vivere. Se ne
fosse venuto fuori, se avesse smesso di
analizzarsi, di riflettere, di divagare su se
stesso e sulle esperienze che avevano
segnato la propria vita (dalla famiglia, alle
donne, al vizio del fumo), forse l’avrebbe
persa davvero quella coscienza. Quella
incerta, traballante consapevolezza di sé. E
che pure, naufragando nel mare di un
travolgente modernità, rimaneva l’ultimo
fragile appiglio cui attaccarsi. Senza
quello stato permanente di crisi avrebbe
semplicemente smesso di essere Zeno
Cosini, precipitando in quel vuoto in cui la
sua vertigine esistenziale sembrava
attirarlo.
A parte le infinite letture cui il romanzo di
Italo Svevo può indurre, inclusa la
riduzione teatrale che Tullio Kezich ne
fece nel 1964, e che per la regia di
Maurizio Scaparro è in scena questo mese
al Mercadante, la vicenda di Zeno Cosini
ci sembra una calzante metafora del teatro
contemporaneo. Il quale, in questi ultimi
anni (decenni?), sembra aver fatto della
crisi il suo habitat naturale. Addirittura
una condizione privilegiata grazie alla
quale (non sembri un paradosso) riesce a
guadagnarsi faticosamente il suo spazio di
sopravvivenza. E per crisi, in questo caso,
non intendiamo la “semplice” contingenza
economica, ma qualcosa di più radicato e
profondo. Che ha a che fare con gli stessi
linguaggi espressivi con i quali il teatro si
manifesta, e si confronta con il pubblico
che ancora lo segue. Non è facile in un
mondo che ha fatto della comunicazione
semplificata e veloce il suo carattere
distintivo, proporre e riaffermare l’idea di
complessità. Analizzando i segni e le
implicazioni che tale complessità
comporta. Cercando di dare una scossa
perché gli schemi precostituiti si rompano
e la mente si apra a nuove visioni. La crisi
in cui si dibatte il teatro è tutta in questo
dualismo tra la stasi percettiva e
l’evoluzione di un linguaggio che, per sua
natura, è costretto ad andare oltre per non
morire soffocato in una sterile e stagnante
riproposizione di sé. Le forti contestazioni
che ha suscitato in una parte del pubblico
il recente allestimento del Servitore di due
padroni (anche nelle recenti repliche al
Teatro Bellini, ma non solo qui) che
Antonio Latella ha tratto dal famoso testo
di Goldoni, ne sono una prova evidente.
Ciò che bisogna chiedersi è se siano state
generate da una costruttiva dialettica che
vede il teatro come elemento ancora
capace di dividere e far discutere o non
siano piuttosto il segno di una
insofferenza, di una incapacità di uscire da
quegli schemi mentali di cui sopra per
confrontarsi con un livello più complesso,
appunto, di percezione. E’ il teatro che
guarda il suo pubblico e che ancora una
volta, come Zeno Cosini, fuma la sua
ultima sigaretta, sapendo che in quel gesto
infinito sta la sua unica speranza di
sopravvivenza. Un teatro costretto a
mimetizzarsi dietro la sua incontenibile
versatilità. Un teatro che ha mille facce e
che in un “batter di ciglia” le muta e le
rappresenta con la stessa sconcertante
abilità di Arturo Brachetti che con il suo
scatenato trasformismo sarà questo mese
all’Augusteo per riaffermare, con Latella,
che Arlecchino (il Servitore di due
padroni, appunto) può avere un’infinità di
colori ed esibirsi in molteplici lazzi, ma
che può anche essere uno spazio bianco,
vuoto che con una beffa e una capriola
copre gli abissi del disagio e della
sofferenza, dell’inadeguatezza del ruolo,
di un desiderio malato che può spingersi
fino alla pulsione incestuosa.
E così, ripercorrendo la programmazione
di questo mese, seguiamo in un certo
senso il percorso multiforme di questo
ideale Brachetti, di questo postmoderno
Arlecchino trasformista che si reinventa e
reincarna di sala in sala, di spettacolo in
spettacolo mostrandoci tutte le infinite
possibilità del suo essere intimamente e
profondamente Teatro, toccando le tappe
della sua storia e, allo stesso tempo
riscrivendole. Da Antigone, che
contrappone la sua umanità alla follia
della guerra e del potere, al Piccolo
Bellini, nella rilettura di Ali Smith, con
Anita Caprioli, a Riccardo III, maschera
deforme, e teatrale quanto mai, del
perverso desiderio di onnipotenza
generato da quello stesso potere, nella
versione che a Galleria Toledo ne dà
Laura Angiulli, fino al Cabaret Yddish di
Moni Ovaia, che condensa, in una
impeccabile giravolta, sempre di quel
teatro, la tradizione e la cultura del suo
antichissimo popolo, per giungere, poi,
alla ricerca di una Identità, come titola lo
spettacolo di Marco Baliani, al Nuovo, che
potrebbe anche ingannare se stessa, come
quella di Pinocchio, di Babilonia Teatri,
alla Sala Assoli. Ma non è solo questo,
altri lazzi e capriole e intrattenimenti vari
sono sparsi nei teatri della città, perché
Arlecchino non debba mai deludere il suo
pubblico e possa sempre essere, come il
teatro stesso, Servitore di due, o forse di
infiniti, padroni, e nella sua connaturata
versatilità, sia capace di sedurre e
sorprendere ogni singolo spettatore.
Ciascuno secondo le proprie esigenze, le
proprie capacità, le proprie aspettative.
Ma soprattutto, secondo la propria voglia
di mettersi in gioco.
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Il responsabile regionale dell’Agis nuovo presidente “nel segno della continuità”
Fondazione Campania dei Festival: la Miraglia lascia, arriva Grispello
Vincenzo Perfetti
Cambio al vertice della Fondazione Campania dei Festival, istituita
nel 2007 con l’intento di organizzare e gestire l’allora nascente
Napoli Teatro Festival Italia. L’assessore regionale alla Cultura,
Caterina Miraglia, passa il testimone all’avvocato Luigi Grispello,
già consigliere del Cda della Fondazione, presidente regionale e vice
presidente nazionale dell’Agis (l’Agenzia italiana dello spettacolo).
Questa la sua prima dichiarazione d’intenti subito dopo la nomina:
«È mia intenzione proseguire il lavoro svolto dal 2011 fino ad oggi
dalla professoressa Miraglia con lo stesso impegno e nel solco della
continuità. Il Napoli Teatro Festival Italia, che quest’anno giunge alla
sesta edizione, è ormai una realtà solida e affermata a livello
nazionale e internazionale, una “eccellenza” del nostro territorio che
in quanto tale va curata e sostenuta».
La Miraglia giunse al vertice del cda nel 2010, dopo le dimissioni di
Rachele Furfaro, che aveva guidato la rassegna internazionale fin
dalla sua formazione. Nel 2006 il Ministero per i Beni Culturali
istituì un bando per realizzare un festival di teatro di prestigio
internazionale, che riuscisse a competere con quelli storici di
Avignone e Edimburgo. Parteciparono altre città importanti come
Milano, Venezia, Genova, ma a vincere fu Napoli e nel 2007, ad
agosto, la Regione Campania istituì una Fondazione per gestire la
neonata rassegna.
La presidenza fu assegnata alla Furfaro, che all’epoca ricopriva il
ruolo di consulente alle politiche culturali della Regione guidata da
Antonio Bassolino.
Nel 2011, dopo l’avvento della giunta guidata da Caldoro e svariate
polemiche, la Furfaro fu costretta a presentare le dimissioni.
La Miraglia ha motivato la sua decisione con una “questione di stile”,
perché “nessuno mi ha mandata via e io ho ricoperto questa carica a
titolo sempre gratuito”. Ma la sua scelta è anche frutto di opportunità
politica di evitare che un assessore abbia più incarichi e poltrone.
C’è anche un decreto anti corruzione (DL n. 33/2013 art.13) che
riguarda l’“Incompatibilità tra incarichi di amministratore di ente di diritto
privato in controllo pubblico e cariche di componenti degli organi di indirizzo
politico nelle amministrazioni statali, regionali e locali”). «Sarei andata via
anche prima, - ha aggiunto la Miraglia - ma ho voluto essere certa che la
Fondazione fosse in una condizione di equilibrio finanziario e di serenità».
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Galleria Toledo
Alla corte di
re Riccardo Da martedì 11 a
domenica 23 marzo
torna a Galleria
Toledo “Riccardo III,
regia e drammaturgia
di Laura Angiulli,
con un adattamento
ridotto del testo
originale sfruttando
l’essenzialità del
palcoscenico per
mettere in evidenza i
ruoli fondamentali
del dramma
shakespeariano.
Il punto centrale dello
spettacolo sta proprio
nel sottotitolo “invito a
corte” infatti il
pubblico non sarà mero
spettatore, ma parte
integrante dell’azione
scenica delle
cospirazioni e dei
delitti perpetrati da
Riccardo. L’obiettivo è
coinvolgere gli
spettatori e indurli a
riflettere sulle due
costanti che avvolgono
l’universo del re: il
potere e la morte, che
lo spingono a
commettere pur di
ottenere la corona
d’Inghilterra. (f.g.)
TEATROCULTFOGLIO Campania
Il regista porta al Mercadante “La coscienza di Zeno”, con Pambieri e lo storico adattamento di Kezich
Scaparro: “Nel mondo di Svevo per riflettere sulla dittatura del dio danaro”
Allo Stabile di Napoli
Antonio e Cleopatra rivivono tra
musica e cinema in bianco e nero
Francesco Gaudiosi
Dopo il convincente esordio al Napoli Teatro Festival in
giugno, ritorna al Mercadante “Antonio e Cleopatra”, in
scena da mercoledì 26 marzo a domenica 6 aprile. La regia è
firmata da Luca de Fusco, che per questo progetto segue
un’impostazione già presente nei precedenti “Antigone” e
“Un paio di occhiali”. Il minimalismo, la contemporaneità e
la musica sono i fattori determinanti dello spettacolo, esalato
da una scenografia essenziale che fa uso di effetti
cinematografici. Il buio frequente e il contrasto tra il bianco e
il nero assoluto mettono ancxora più in risalto i due
personaggi principali, entrambi incapaci di conciliare la
smania di potere con l’amore che si dimostrano. Dice De
Fusco: “Antonio e Cleopatra viene associato in genere al
monumentalismo e all’esotico, quasi fosse una sorta di ‘Aida’
della prosa. Noi proponiamo, invece, un allestimento
essenziale, imperniato sul valore della parola, nella nuova
traduzione di Gianni Garrera, e sul rapporto con la musica,
grazie al talento multiforme dell’israeliano Ran Bagno e alla
spiccata attitudine dei miei attori a recitare assieme alla
musica”. La presenza di telecamere che proiettano in
primissimo piano i volti degli interpreti su una tela in bianco
e nero mette a nudo i personaggi e la loro psicologia. Da
sottolineare il valore degli interpreti Luca Lazzareschi, Gaia
Aprea e Paolo Cresta. © RIPRODUZIONE RISERVATA
Alla Sala Assoli del Nuovo
Con Babilonia Teatri
Pinocchio cerca il paese dei
balocchi in palcoscenico
Francesco Gaudiosi
Da giovedì 13 a domenica 16 marzo arriva al Nuovo di
Napoli, in Sala Assoli, il “Pinocchio”, di Babilonia Teatri, di
Valeria Raimondi ed Enrico Castellani; con lo stesso
Castellani, Paolo Facchini, Luigi Ferrarini, Riccardo Sielli e
Luca Scotton.
Quello di Babilonia Teatri, che cura anche la regia
dell’allestimento, è un Pinocchio denigrato, escluso, tenuto ai
margini, che ricerca nel teatro e nell’azione catartica del
palcoscenico l’unica àncora di salvezza per rimanere legato
(o re-legato) alla società. Pinocchio rappresenta un’umanità
debole, messa da parte ma, soprattutto, incoerente,
continuamente sospesa tra l’assunzione di colpa e la fuga
dalle proprie responsabilità. Ecco, allora, il burattino che
prova disperatamente a vedersi ed a farsi vedere sulla scena;
e che, soprattutto, avverte la sacralità del luogo teatrale e le
sue possibilità terapeutiche… “un teatro - dice l’autore - dove
la vita irrompe con tutta la sua forza senza essere mediata
dalla finzione; dove ad essere determinanti non sono la
perizia e la tecnica ma la verità di corpi e vite.
È questo, allora, il paese dei balocchi?”
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Anita Curci
a fragilità dell’uomo
contemporaneo, il potere delle
banche in una Europa sempre più
dominata dal dio danaro, la
scoperta della psicanalisi. Tutto
questo è “La coscienza di Zeno”
che Tullio Kezich traspose per la
scena dal romanzo di Italo Svevo, e
che il regista Maurizio Scaparro
porta al Mercadante dal 18 al 23
marzo, con Giuseppe Pambieri nel
ruolo del protagonista, attore tra i
più versatili della scena italiana.
L’allestimento si avvale dello
storico adattamento dal romanzo
che ne fece Kezich nel 1964,
portato già a teatro da Alberto
lionello nello stesso anno, quindi da
Giulio Bosetti nel 1987 e da
Massimo Dapporto nel 2002. Nella
Trieste cosmopolita di inizi
Novecento, Zeno Cosini, partendo
da una seduta di psicanalisi, evoca i
momenti salienti della sua vita.
“La coscienza di Zeno” fa parte
di una trilogia che lei, Scaparro,
ha dedicato al nostro Novecento.
Ce ne parla?
“Ho voluto dimostrare che l’Italia
del secolo scorso ha una letteratura
molto ricca. Ho scelto tre testi: ‘La
governante’ di Brancati, dove il
lato più sorprendente e attuale è
quello di una Sicilia e di un’Italia
dei nostri padri e dei nonni,
dimenticato e sconosciuto ai più
giovani, ma di cui è facile scoprire
ancora oggi le tracce nella società.
Brancati la mette in luce svelando i
suoi tabù sessuali, il gallismo, i
falsi moralismi, le divisioni etniche,
le censure, le ipocrisie dei poteri
ufficiali. Poi, assieme a Massimo
Ranieri, in ‘Viviani Varietà’ ho
rievocando il viaggio oltreoceano
che Don Raffaele fece nel 1929
assieme alla sua compagnia sul
piroscafo Duilio per una tournée in
Sud America.
Maurizio Scaparro
Su quella nave un altro importante
drammaturgo del Novecento
italiano provò il suo spettacolo a
beneficio degli emigranti che
viaggiavano con lui, carichi di
speranza e di timori verso un
avvenire incerto”.
Ora, ecco la Coscienza di Zeno.
“… Ambientata in una Trieste
cosmopolita, mercantile ma anche
crogiolo culturale della
Mitteleuropa tra la fine della Belle
Époque e la Prima guerra mondiale.
Qui si svolge la vita di Zeno Cosini,
un uomo che è tutto e il contrario di
tutto; vive uno strano rapporto con
le donne, perno della sua esistenza,
e con le banche, che svolgono
un’attività fondamentale in città. È
un essere debole. S’innamora di una
donna bella, finisce per sposarne
una brutta, che non ama. Ha una
vita che lo tormenta.
Lei ha visto gli allestimenti che
del romanzo hanno fatto in
passato? In che cosa il suo se ne
distingue? Ed è rimasto fedele al
testo di Kezich?
“Non ne ho visto nessuno. In questa
messa in scena abbiamo pensato solo a
noi stessi. Resto fedele all’adattamento
di Kezich, certo. Tullio mette in
evidenza quell’Europa delle banche
che, a sentir l’opinione di alcuni, è
proprio l’aspetto distintivo del nostro
spettacolo rispetto ai precedenti.
D’altra parte, Svevo è un precursore,
che smaschera proprio la dittatura del
dio denaro, un problema oggi
particolarmente sentito, che rende
quest’opera ancora più attuale”.
Il Novecento è il secolo
dell’introspezione e della psicanalisi.
Lei crede nella psicanalisi?
Sono legato alla psicologia per motivi
diversi. Intanto, mio fratello è un
importante psicologo. E, poi, chi si
occupa di teatro è quasi obbligato alla
riflessione, al confronto con la
psicologia. Questo vale specialmente
per gli attori, che devono calarsi nei
panni di un personaggio altro da sé. Per
me quindi è una sorta di ‘non è vero ma
ci credo’ ”.
Che cosa Zeno, “malato” nell’anima,
può insegnare a noi contemporanei?
“Zeno è l’incarnazione del mal de
vivre, della debolezza dell’uomo di
oggi. La sua vicenda dovrebbe farci
comprendere che non bisogna finire
succubi di un mondo dove la dittatura
del denaro rischia di soffocare
l’umanità e i sentimenti”.
Perché ha scelto Pambieri per il
ruolo?
“Ho lavorato con lui nel 2011 in
occasione del “Sogno dei mille” tratto
da ‘Les Garibaldiens’ di Dumas,
presentato al Napoli Teatro Festival
Italia. Ci siamo trovati bene. Così,
quando ho avuto modo di fare Svevo,
ho subito pensato a lui. E’ moderno,
ricco di talento, capace di umorismo.
Ed è seguito dal pubblico”.
Progetti?
“Sì, tra Roma e Parigi. Sto preparando
uno spettacolo dove c’entra anche
Napoli e il suo Festival. E riprendo
“Amerika”, un testo importante, dove
quattro giovani europei vanno alla
scoperta dell’America bizzarra
immaginata da Kafka nel suo
romanzo omonimo”.
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Nuovo Teatro Sanità, in un
quartiere difficile per
affermare i diritti dell’arte
Vincenzo Perfetti
Il Nuovo Teatro Sanità, nato da poco più di un
anno si sta affermando nel panorama cittadino
dimostrando la volontà e la tenacia di chi lo ha
voluto. A partire da
Mario Gelardi,
drammaturgo e
regista, suo direttore
artistico.
Gelardi, perché la
scelta di una sala destinata a una vita difficile
in un quartiere difficile?
“Non esistono quartieri non difficili a Napoli. La
città è difficile. Proprio per questo, in un tempo
così complicato, quasi da dopoguerra, c’è
l’esigenza di rispondere con l’arte e la cultura”.
Il teatro ha subito un atto di vandalismo
recentemente. Ha ricevuto minacce?
“No. E’ stato un episodio simbolico, che ci ha un
po’ rattristato e che, però, invita a non
nasconderci per quel che accade. Noi non
vogliamo far finta che non viviamo in un
quartiere difficile. Anzi, facciamo teatro in un
territorio in cui la cultura è vista come nemica
quando è una delle poche vie di salvezza”.
Il cartellone: perché queste compagnie?
“Quando ho avuto la proposta di dirigere il teatro
ho deciso di aprirlo a tutto il territorio campano.
La scelta è stata fatta anche alla luce delle cose
che volevo si raccontassero in questo teatro, e
cioè molti temi sociali, molta drammaturgia
contemporanea e soprattutto un occhio attento
alle giovani compagnie campane”.
Come pensa di impostare la prossima?
“Abbiamo due anniversari importanti, i 30 anni
dalla morte di Eduardo e i 40 da quella di
Pasolini. Credo che saranno due cardini del
lavoro che farò. © RIPRODUZIONE RISERVATA
“Luiz torna a casa, in scena a
Il Pozzo e il Pendolo
De Giovanni: “Il calcio e la
passione per il Napoli
riesce a unire padri e figli”
Federica De Cesare
La letteratura diventa teatro a Il Pozzo e il Pendolo.
Dall'8 al 16 marzo va in scena “Luiz torna a casa”,
la trasposizione dell'omonimo racconto di Maurizio
Di Giovanni, storia d'amore tra padre e figlio che
trova nella condivisione della passione per il calcio
e la squadra del Napoli la sua espressione.
In scena saranno Paolo Cresta e Giacinto Piracci.
La regia è di Annamaria Russo, “nume tutelare”
della sala di Piazza San Domenico Maggiore, che
ha già portato nel suo teatro altri libri dello scrittore
napoletano.
De Giovanni, come nasce il racconto?
“È stato scritto per il libro ‘Napoli Passione
Azzurra’, edito da Franco Di Mauro e pubblicato in
edizione limitata dal Calcio Napoli, in occasione
del suo ottantacinquesimo compleanno. Contiene
articoli di grandi giornalisti che negli anni hanno
seguito il Napoli, come Giuseppe Pacileo, Pietro
Gargano e Antonio Ghirelli, e uno scritto di
narrativa, che è proprio il mio racconto ‘Luiz torna
a casa’ ”.
Qual è il soggetto?
“Appunto, la storia di un ritorno, un ritorno a
Napoli. A casa. Un professore universitario, infatti,
è richiamato dalla sorella perché il padre è in punto
di morte. Il racconto, incentrato proprio sul
rapporto padre-figlio, gira attorno al calcio, terreno
di dialogo comune tra i due”.
Il ricordo e la condivisione di una passione sono
reale espressione di un legame?
“Il ricordo è il filo conduttore dell'intera vicenda.
Questo ragazzo viene chiamato Luiz perché il papà,
gran tifoso, decide di dargli il nome di Vinicio,
glorioso centravanti della squadra. La storia ricalca
la vita di Luiz e del suo rapporto col padre
attraverso la memoria, la condivisione, e le varie
epoche della squadra del Napoli. Molti sono i padri
e i figli uniti dal calcio, territorio comune di
dialogo, cemento ideale non solo tra genitori e figli
ma di tutta quanta la città”.
La memoria, con i suoi ricordi, è il dolce fardello
della nostra esistenza?
“Il passato è il padre del presente, nulla di quello
che ci succede può prescindere dalla memoria”.
Questa storia potrebbe avere uno sfondo diverso
da quello di Napoli?
“Napoli rappresenta un’ottima ambientazione per
un racconto. Come in questo testo così in tutti i
miei romanzi è lei la vera protagonista”.
La trasposizione teatrale rende giustizia al
testo?
“Sono felice dell'attenzione riservatami da Il Pozzo
e il Pendolo. Annamaria Russo fa sempre un ottimo
lavoro sui miei testi. Ha proposto ‘Luiz torna a
casa’ in anteprima l'estate scorsa all'Orto Botanico
con un bel successo. È una donna dotata della
giusta sensibilità per intervenire sulle mie storie e
io gliele affido perché lei sa migliorarle
sensibilmente. Sa renderle tridimensionali,
lasciandomi sempre incantato”.
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TEATROCULTFOGLIO Campania
Il re dei trasformisti all’Augusteo con il suo nuovo show di illusionismo contemporaneo
Brachetti finisce in un deposito bagagli: “Le valigie? Contengono magie”
Pino Cotarelli
orna in Italia il più grande attore-
trasformista del mondo con la sua galleria di oltre
350 personaggi e sarà all’Augusteo dal 14 al 23
marzo. In “Brachetti, che sorpresa!”, Arturo è
l’anima del deposito bagagli di un grande aeroporto
internazionale colmo di valigie, casse e bauli di
tutto il mondo; un luogo misterioso e affascinante,
pieno di oggetti ricchi di storie. Le valigie hanno
molto da raccontare: dei luoghi visitati, delle
persone con cui viaggiano, delle aspirazioni e dei
sogni dei proprietari… Alcune sono state smarrite,
altre cercano di ricongiungersi al loro padrone,
altre ancora sono di passaggio. Tutte, però, hanno
una storia unica che in scena prende vita
magicamente. Stavolta Brachetti non è solo. Suoi
compagni di avventura sono amici strani, eclettici e
un po’ folli come lui: l’allievo Luca Bono, giovane
talento dell’illusionismo internazionale;
Luca&Tino, artisti esilaranti, stralunati e
improbabili, definiti da Le Figaro i “Laurel e Hardy
italiani”; e il mago Francesco Scimemi.
Brachetti, com’è nato questo nuovo spettacolo?
“Innanzitutto dalla voglia di incontrare di nuovo il
pubblico italiano: a parte una breve parentesi lo
scorso anno proprio a Napoli, sono assente dai
teatri italiani dalla fine del 2011. Troppo per me.
Dopo qualche mese all’estero ho bisogno di
immergermi di nuovo nella nostra identità
nazionale. E poi…”.
E poi?
“ ‘Brachetti che sorpresa!’ nasce dall’idea di
portare, anche in Italia, un nuovo modo di fare
magia: lo show è un varietà di illusionismo
contemporaneo, proporrà una magia molto più
dinamica di quella cui siamo abituati. I ritmi sono
velocissimi, i numeri della tradizione sono rivisitati
in chiave contemporanea, si usano nuove
tecnologie, come il mapping, che è un uso
particolare di proiezioni video”.
Lei ama portare a Napoli i suoi show.
“Voglio davvero molto bene a Napoli, che assieme a
Parigi è la città che di più mi ha adottato. E credo sia
un amore ricambiato. Ci vengo perché è uno dei
pochi posti al mondo che mi sa sorprendere, e ha un
senso dello spettacolo, del gesto teatrale così radicato
e sviluppato che fa dei napoletani il pubblico ideale
per cercare nuovi stimoli e sperimentare progetti. Lo
scorso anno proprio a Napoli portai il prototipo dello
spettacolo che oggi è diventato ‘Brachetti che
sorpresa!’ “.
Come ha scoperto il suo talento di trasformista?
“Da ragazzo ero in seminario e, negato per il calcio
com’ero, trascorrevo il tempo nel teatro della scuola.
Piano piano guadagnai la fiducia del mio professore,
Don Silvio Mantelli, e mi feci consegnare le chiavi
della sala. Don Silvio era un illusionista. Era noto
come il Mago Sales. Mi regalò un libro su Fregoli
svelandomi un mondo: il grande trasformista non
aveva lasciato eredi, la sua arte era tutta da riscoprire
e reinventare”.
E che cosa le disse don Silvio?
“ ‘Non importa avere la vocazione. Importa che tu
scopra qual è la tua’. La mia, lo capii in quel
momento, era stare sul palcoscenico e stupire il
pubblico”.
La sua anima camaleontica le dà serenità nella
vita?
“Sicuramente per fare quello che faccio sul
palcoscenico (e talvolta anche nella vita privata)
bisogna conoscersi bene: in scena non cambio solo
colore dell’abito ma cambio anima, in pochi secondi
e molte volte nella sessa serata”.
Perché non ha mai usato il suo talento nel campo
della moda?
“In realtà non è mai capitato. Però sono lo stilista dei
miei costumi: c’è molto di mio in ogni abito che
indosso; non è solo una questione tecnica, ma proprio
di feeling.
Vado io in sartoria a spiegare che cosa voglio e seguo
ogni parte del lavoro. I miei primi costumi li faceva
la mia mamma e li conservo ancora, assieme agli altri
350 e più, tutti in un grande capannone dove ci sono
anche i pezzi delle scenografie e gli attrezzi dei miei
spettacoli”.
Quali caratteristiche devono avere gli artisti che
lavorano con lei?
“Sicuramente saper parlare al grande pubblico
rivolgendosi a tutti senza tradire la qualità. Penso, per
esempio, a una coppia comica come Luca&Tino, che
si sono formati alla scuola del circo di Mosca e poi
sui palcoscenici di mezzo mondo. Un altro elemento
importante è l’applicazione costante: bisogna
provare, riprovare, con pazienza, senza mollare. Un
illusionista si allena settimane per un effetto di pochi
secondi di cui il pubblico si accorge appena, ma che è
essenziale per la riuscita del numero. Luca Bono, il
mio giovane allievo che è un talento della magia, si
allena ogni giorno per quattro, cinque ore almeno.
Alla base di tutto, dev’esserci, comunque, la
passione”.
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Caterina Pontrandolfo
ialogare con Moni
Ovadia sul suo “Cabaret Yiddish”,
in scena dall’11 al 16 marzo al
Teatro Nuovo di Napoli è una
occasione per approfondire la
conoscenza con un vero artista del
nostro tempo e un fine
intellettuale, che mediante la
diffusione della cultura ebraica
riesce a essere portatore di
intelligenza, di cultura e di pace.
Ovadia, che cos’è “Cabaret
Yiddish”?
“Come il girovago commedianti
del Carro di Tespi, che arriva con i
suoi incanti, le sue storie e
sberleffi e racconta mondi interi,
anche noi con musica, storie,
storielle e canti raccontiamo
un’epopea, quella del popolo
dell’esilio, gli ebrei dell’Europa
centro-orientale. Un popolo in
tutto e per tutto, che non ha
bisogno di confini, fili spinati,
eserciti, polizia, burocrazie; con
una lingua, una interiorità, una
identità.
Questo popolo ha vissuto nelle
terre dell’esilio e ha costituto una
umanità straordinaria che ha avuto
nel pensiero umoristico una
modalità espressiva, un modo di
esistere. E il centro di ‘Cabaret
Yiddish’ è proprio l’umorismo,
che si intreccia con momenti
dolorosi, perché non è mai come il
cabaret televisivo. Il suo scopo non
è fare ridere, ma far riflettere,
sconfiggere la violenza, i
pregiudizi, mostrare la stupidità
del mondo. Questo popolo
dell’esilio aveva come proprio
eroe l’uomo goffo, l’uomo fragile,
instabile, e credeva che la
redenzione si fondasse sulla grazia
dell’instabilità. Un umorismo,
insomma, che si declina con un
Moni
Ovadia:
“Con
l’umorismo
del Cabaret
Yiddish vi
svelo la
stupidità
del mondo”
Alla scoperta di una grande tradizione culturale: quella degli Ebrei dell’Europa
centro-orientale. Al Teatro Nuovo
difficile, piena di lacerazioni, ma
ha potenzialità enormi, e ha dato al
Paese una parte significativa della
sua identità”.
Ha detto che l’Italia tende a
trascurare artisti di talento.
“Se un Paese non valorizza e onora
i propri maestri, il problema non è
loro, ma del Paese. Vendiamo la
canzone napoletana, il
melodramma, l’opera buffa, i
monumenti, il Rinascimento,
Goldoni, la Commedia dell’
Arte… diamo via tutto e che cos’è
l’Italia dopo? Più niente”.
In Francia sta facendo scalpore
il comico Dieudonné che incita
all’antisemitismo.
Non ho visto i suoi spettacoli.
Posso fare solo una
considerazione: credo che
Dieudonné abbia reagito in modo
aggressivo, esagerato, per un
profluvio di retorica che si è fatta
in questi ultimi anni anche sul
Giorno della Memoria. C’è
retorica e falsa coscienza”.
Lei ha detto che il Giorno della
Memoria dovrebbe diventare il
Giorno delle Memorie…
“Il Giorno della Memoria è un
equivoco. E’ stato istituito per
l’Europa che ha covato nel proprio
cuore i carnefici. Parlo del Giorno
delle Memorie perché vanno
ricordati i dolori e gli stermini di
tutte le genti, dal genocidio degli
Armeni all’invasione giapponese
della Manciuria, all’Italia con i due
genocidi commessi in Cirenaica ed
Etiopia, altro che italiani brava
gente! Per non parlare della
Cambogia, al genocidio
dell’America in Vietnam, fino all’
Ex-Jugoslavia, al Ruanda. Ecco: il
Giorno delle Memorie… che, per
giunta, dovrebbe tenere alla larga
quei politici che fanno i carini con
gli ebrei e poi approvano la Bossi-
Fini, trasformando il Mar
Mediterraneo in un cimitero”. (Nella foto: Moni Ovadia)
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livello di pensiero e di spiritualità
vertiginosi”.
Uno spettacolo che ha una lunga
storia…
“Sì, lo facciamo ininterrottamente
da 25 anni, è per tutti e ha sempre
successo, aldilà dei meriti miei e
della mia compagnia. Io sono stato
molto fortunato perché ho
incontrato quel mondo, ormai al
crepuscolo, proprio a Milano, in
una piccola sinagoga. Ne ho visto
gli ultimi bagliori. Ho conosciuto
vecchi straordinari e ho imparato
da loro gesti e con un minimo di
capacità ho messo in scena il loro
mondo, dando vita a uno
spettacolo che ha una magia
misteriosa”.
Quando decise di dedicare la sua
vita alla musica e al teatro?
“Sono laureato in scienze politiche
e ho sempre avuto passione
politica e sociale. A un certo
punto, compresi che il linguaggio
della musica e del teatro potevano
servirmi a comunicare le idee in
modo molto più libero ed efficace,
erano più utili dei saggi che avrei
potuto scrivere. Nessun altro
strumento come il teatro offre così
tanto, proprio per la sua libertà
estrema”.
Forse è l’ultimo luogo di libertà
espressiva del nostro tempo?
“Credo sia davvero un sacrario
dell’essere umano. Attraverso la
finzione, il teatro è forse l’unico
luogo di verità che esista oggi; e
proprio perché c’è la finzione che
impedisce di pretendersi depositari
di verità assolute, come quelle dei
tiranni e dei religiosi, che non sono
verità e possono fra sgorgare fiumi
di sangue”.
Tra i suoi incontri artistici,
quello con Kantor le ha
cambiato la vita.
“Vederlo provare gli spettacoli è
stata una lezione fondamentale.
Senza di lui non so neanche se
avrei cominciato a far teatro”.
Quale visione d’arte le ha
lasciato?
“Intanto, era un genio. E quando si
incrocia un genio è difficile
spiegare cosa ti abbia lasciato.
Forse la grande libertà: il suo
teatro prendeva spunto dalle arti
figurative. Rompeva schemi del
teatro, regole, grammatica,
convenzioni. Nel suo mondo non
ci sono attori. Kantor teorizzava
l’attore-manichino, che ‘indossa’ il
ruolo, non lo interpreta. Questo
significa uscire dagli psicologismi
a favore della libertà inventiva”.
Il suo rapporto con Napoli e il
suo teatro, i suoi artisti?
“Be’, sono cresciuto con i suoi
artisti, visti a cinema e in tv e poi,
certo, anche in teatro. Nessun
italiano può prescindere dalla
tradizione del teatro napoletano,
con la sua capacità di incarnare un
intero popolo. Totò, Peppino De
Filippo… e poi la lezione di
Eduardo, per non parlare del teatro
musicale di Roberto De Simone.
Sono un ammiratore di Enzo
Moscato, che ha saputo essere
fedele a Napoli, ma attraverso
rotture continue. E c’è la musica,
la melodia classica, e Murolo,
Bruni, Gennaro Pasquariello… Ma
sa che il pianista della mia
compagnia è il nipote di Gennaro
Pasquariello? Napoli è una città
Arturo Brachetti
Il drammaturgo alla Sala Assoli del Nuovo. Poi, a giugno, ospite del Napoli Teatro Festival Italia
Moscato: tra i frammenti delle mie opere per scoprire una “Patria Puttana”
Benedetto Casillo al
Cilea con 'Nu mese
'o ffrisco
Dal 20 al 23 marzo Benedetto Casillo porterà
in scena al teatro Cilea di Napoli lo
spettacolo “Nu mese ‘o ffrisco” di Paola
Riccora che rappresenta uno dei punti di
riferimento più fulgidi e prestigiosi del teatro
popolare: un teatro lieve, giocoso, genuino.
“Nu mese ‘o ffrisco” è di sicuro un gioiello
preziosissimo del tesoro della comicità
napoletana.
Fu rappresentato per la prima volta nel 1916
al Teatro Nuovo, e negli anni ‘70
l’indimenticabile Luisa Conte ne fece uno
dei suoi cavalli di battaglia. Ora lo riporta in
scena Benedetto Casillo, appassionato
cultore della tradizione teatrale partenopea.
Lo fa con una rivisitazione assolutamente
rispettosa dello spirito originario del testo
antico. Qualche guizzo di fantasia personale,
battute fulminanti, ritmi un po’ più serrati. La
trama presenta una storia semplice, per ridere
come si rideva una volta: Enrico Carotenuto,
pittoresco commerciante, inventore di una
pomata insetticida di sicuro effetto,
condannato per aver schiaffeggiato una
maschera di un teatro cittadino, dove si è
recato di nascosto con una sua amante, riesce
a farsi sostituire in prigione da un amico
squattrinato, mentre egli se ne va
opportunamente in vacanza con la sua
famiglia. Ma la vicenda si complica. L’amico
ne combina di tutti i colori. La suocera di
Enrico si fidanza col giudice che lo ha
condannato, e poi...tante risate per trascorrere
due ore di buon divertimento.
Mario Migliaccio
Patria Puttana” è la nuova creazione di
Enzo Moscato, autore-attore-regista che in oltre 30
anni di esperienza si è conquistato un posto di
primo piano nella drammaturgia non solo
napoletana, ma italiana. Lo spettacolo è in
programma dal 25 al 30 marzo alla Sala Assoli del
Nuovo. Con lo stesso Moscato saranno in scena
Cristina Donadio e Giuseppe Affinito.
Di che cosa tratta “Patria Puttana”?
“È una drammaturgia che punta più sul
frammentario che sul narrativo; una raccolta di
frammenti di testi miei, scritti nel corso di 34 anni.
Quando metto in scena questi recital - mi piace
chiamarli così - faccio un’operazione di collage,
scegliendo qua e là brani dei miei lavori con la
sola logica dell’assonanza e del ritmo, non
badando cioè alle storie che raccontano. Mi capita,
così, di accostare brani che non si assomigliano
per niente, perché amo proprio quest’estetica della
contrapposizione o, come la definisce qualcuno,
estetica dell’ossimoricità”.
Perché questo titolo?
“Anch’esso è un ossimoro in realtà, dal momento
che perché metto insieme due termini opposti:
patria e puttana. Ovviamente, bisogna considerare
quanto sia materna e non matrigna la patria
all’interno di storie che parlano di prostitute,
assieme ai travestiti le figure principali della mia
drammaturgia. Queste storie-non storie, questi
frammenti che verranno fuori, parleranno di donne
perdute, appunto come la nostra patria”.
Avrete altre date dopo il Nuovo?
“Purtroppo il teatro attraverso un periodo pessimo.
Per il futuro non si sa nulla di preciso. Posso solo
augurarmi di riuscire a conquistare altre repliche”.
Altri progetti?
“Io sono sempre in fermento creativo, anche se le
Enzo Moscato
CARTELLONI DI MARZO A NAPOLI AUGUSTEO
14 - 23 marzo
Il nuovo show di Arturo Brachetti: “Brachetti, che sorpresa!”
BELLINI
4 - 9 marzo
“Educazione siberiana”di Nicolai Lilin e Giuseppe Miale di Mauro
14 - 23 marzo
“Slava’s Snonw Show”, l’arte del clown secondo Slava
PICCOLO BELLINI
6 - 9 marzo
“Favola in musica per cornacchie, cani selvatici, maledizioni, tiranni, sepolcri &
fanciulle in fiore - La storia di Antigone”,
rilettura di Ali Smith dalla tragedia di Sofocle raccontata da Anita Caprioli e cantata
da Didie Caria. regia Roberto Tarasco
14 - 23 marzo
Danza Flux presenta “Horse boy in apnea” con Fabrizio Varriale,
regia e coreografia Chiara Alborino, Fabrizio Varriale
16 - 23 marzo e 27 - 30 marzo
“Diego - Non sarò mai un uomo comune”, progetto e regia di Aniello Mallardo con
Maddalena Stornaiuolo
BRACCO
13 -16 marzo
Giacomo Rizzo in “Un figlio per lo sceicco”, di G. Rizzo, che firma anche la regia
20 - 23 marzo
Da “Made in Sud” Nello Iorio in “Tutti trocati”
27 - 30 marzo
“Stasera non escort”, di e con Margherita Antonelli, Alessandra Faiella, Rita Pelusio
e Claudia Penoni
CILEA
6 - 9 marzo
I Ditelo Voi in “Gomorroide”
20 - 23 marzo
Benedetto Casillo in “Nu mese ‘o ffrisco” da Paola Riccora. Regia di Benedetto
Casillo
27 - 30 marzo
Peppe Iodice in “Peppy Hour Party Show”, di Iodice e Marangio, che firmano anche
la regia
DIANA
5 marzo
Michele Caputo in “Komikamente” con 12 comici. Ospite Paolo Migone
13 - 16 marzo
Carlo Buccirosso in “La vita è una cosa … meravigliosa!”, di Carlo Buccirosso,
26 marzo - 6 aprile
Massimo Ghini ed Elena Santarelli in “Quando la moglie è in vacanza”, di George
Axelrod, regia di Alessandro D’Alatri
GALLERIA TOLEDO
11 -23 marzo
Laura Angiulli firma drammaturgia e regia del “Riccardo III” di Shakespeare
28 - 30 marzo
“Pedro e il capitano” di Mario Benedetti, regia e costumi Lia Chiappara, con Santi
Cicardo e Matteo Contino
TEATRO IL PRIMO
7 - 23 marzo
Rosario Ferro in “La scampagnata“ dei tre disperati, di Antonio Petito
IL POZZO E IL PENDOLO
8 - 16 marzo
“Luiz torna a casa”, di Maurizio de Giovanni, con Paolo Cresta e Giacinto Piracci
22 - 30 marzo
“Montedidio” di Erri De Luca, con Nico Ciliberti e Rocco Zacagnini
MERCADANTE
26 febbraio - 9 marzo
Eros Pagni, Tullio Solenghi in “I ragazzi irresistibili” di Neil Simon, regia di Marco
Sciaccaluga
18 - 23 marzo
Maurizio Scaparro presenta “La coscienza di Zeno”, di Tullio Kezich, dal romanzo
di Italo Svevo, con Giuseppe Pambieri
26 - 6 aprile
“Antonio e Cleopatra” di Shakespeare, adattamento e regia di Luca De Fusco, con
Gaia Aprea, Luca Lazzareschi e Paolo Cresta
MERCADANTE (RIDOTTO)
11 -16 marzo
Per l’ “Armonia perduta”, il progetto dedicato a Raffaele La Capria, Paolo Coletta
dirige “Fiori giapponesi”
TEATRO NUOVO
11 -16 marzo
Moni Ovadia in “Cabaret Yiddish”
27 - 30 marzo
“Identità”, uno spettacolo di Marco Baliani, con Maria Maglietta
NUOVO SALA ASSOLI 13 - 16 marzo
“Pinocchio”, testo e regia di Babilonia Teatri
25 - 30 marzo
“Patria Puttana”, reading scenico da “Rondò”, “Luparella” e “ ‘A musica ‘e Toledo”
di Enzo Moscato, con Enzo Moscato, Cristina Donadio, Giuseppe Affinito
NUOVO TEATRO SANITÀ
14 - 16 marzo
“Louise Bourgeois - Falli, ragni e ghigliottine”, ritratto della scultrice Con
Margherita Di Rauso. Scritto e diretto da Luca De Bei
20 marzo
“Di carne”, uno spettacolo di Alessandro Gallo, con Miriam Capuano, regia Maria
Cristina Sarò, dal romanzo “Scimmie” di Alessandro Gallo
22 marzo
“Di sangue”, uno spettacolo di Maria Cristina Sarò, con Miriam Capuano e
Alessandro Gallo, dal romanzo “L’osso di Dio” di Cristina Zagaria
28 - 30 marzo
“Quell’ultima parata”, scritto e diretto da Fabrizio Bancale, con U. Lione e C.
Ragone
SANNAZARO
14 - 16 marzo
Vittorio Marsiglia in “Il club dei Marsigliesi”
22 - 23 marzo
Ciro Ceruti e Ciro Villano in “Piccoli segreti di famiglia”, di Ceruti e Villano
START (San Biagio theater and perfoming Art)
15 -16 marzo
Maniaci d’amore presenta “Il nostro amore schifo”, di e con Francesco d’Amore e
Luciana Maniaci, regia Roberto Tarasco
27 marzo
Maniaci d’amore presenta “Morsi a vuoto #studio”, di e con Francesco d’Amore e
Luciana Maniaci
TEATRO TOTO’
6 - 16 marzo
Gloriana in “Siamo appena tornati da Napoli”. Regia di pino Moris
20 -30 marzo
Gino Rivieccio in “Ti presento mio fratello”
TEATRO TROISI
7 -9 marzo
Paolo Ferrari e Valeria Valeri in S “Lettere d’amore” (Love letters) di A.R. Gurney
SALA ICHOS
7 - 9 marzo
ILINX Teatro
“I.P. identità precarie”
progetto e regia Nicolas Ceruti
di Amanda Spernicelli
14 - 16 marzo
“FRATTAGLIE E RIMMASUGLI”
Regia: Teatri delle Sguelfe
21 -23 marzo
“mare dentro” di e con Gianni Tudino
condizioni economiche non sono delle migliori.
Ora sto lavorando a una pièce che sarà presente nel
cartellone del Napoli Teatro Festival Italia, a
giugno”.
Se Enzo Moscato potesse fare qualcosa per
risollevare l’attuale situazione del teatro, cosa
farebbe?
“Nel mio piccolo, cerco di tenere alta la qualità di
ciò che scrivo e rappresento. Indubbiamente, la crisi
generale della società e dell’economia investe
anche la drammaturgia. Ecco prché tutti noi ci
ritroviamo a vedere spettacoli imbarazzanti e
improponibili che nulla hanno a che fare con il
teatro. Non sono un uomo di potere, ma se fossi
ministro, darei grande attenzione alla cultura e al
teatro, perché sono convinto che il suo tasso di
qualità è anche quello della nazione che lo
esprime”. © RIPRODUZIONE RISERVATA
Al Piccolo Bellini il progetto del giovane
Aniello Mallardo
Vizi e virtù del mito Maradona, per
raccontare quelli di Napoli e del calcio
Andrea Fiorillo
Dal 20 al 23 marzo e dal 27 al 30 marzo 2014 Vodisca Teatro e Libera
Scena Ensemble presenteranno al Piccolo Bellini “Diego – Non sarò mai
un uomo comune” con Maddalena Stornaiuolo e Luigi Credendino, per la
regia del giovane Aniello Mallardo, artefice anche del progetto
drammaturgico. L’autore, che si è formato presso il teatro Elicantropo di
Napoli, diretto da Carlo Cerciello, racconta, attraverso una storia
d’amore, la Napoli degli anni ’80, uscita da un infausto terremoto e
vittima tutti i giorni di se stessa e dei problemi che la dilaniano.
Attraverso il teatro si cerca di raccontare una storia, un’era, segnata da un
uomo, Diego Armando Maradona, che diventa l’illusione, l’alternativa, il
riscatto.
Una Napoli raccontata attraverso un mito, un sogno chiamato
Maradona, che si fa riscatto in una città afflitta. Mallardo, come si
racconta questa necessità attraverso il teatro?
“L’ispirazione per questo lavoro mi è venuta attraverso la lettura di due
testi: ‘Infiniti anni ’80’ di Giovanni Ciofalo in cui si racconta che gran
parte di ciò che la società italiana è diventata oggi lo si deve a ciò che è
stato seminato proprio in quegli anni, e ‘Re-play’. Il calcio da arma di
distrazione di massa a strumento di lotta contro il potere, di Luigi
Pasquariello, che concentra la sua analisi su quando il calcio stesso ha
smesso di essere considerato un gioco, per diventare strumento di
manovra e ricatto, sottolineando il cruciale passaggio dalla
‘politicizzazione del calcio alla ‘calcistizzazione’ della politica, che ha
reso questo sport un mezzo di propaganda. Il calcio quindi diventa
innanzitutto il riscatto incarnato da Maradona, che veniva dal basso ed era
simbolo di una città in difficoltà. Dall’altro lato, però, è anche un
anestetizzante, un modo per coprire i problemi non risolti, per non
affrontarli, con il rischio di non vederli neanche più, quando però sono lì,
ci restano, e magari crescono.”
Maradona, un uomo tradito dalla città stessa, che lo lascia
sprofondare nei vicoli, senza fermarlo, così come successe a
Masaniello nel 1647.
“Maradona rispetto a Masaniello non è stato, non è e non sarà mai tradito
dal popolo, ovvero dai tifosi, poiché il sistema politico non è riuscito a
scalfire la sua immagine, come invece avvenne al Capopopolo, che
improvvisamente si vide abbandonato dai suoi stessi compagni e dagli
strati popolari per i quali si batteva. Diego diventa e resta negli anni un
tatuaggio sulla pelle dei napoletani, un simbolo che perde la natura
d’uomo. Ma gli uomini considerati infallibili, costretti a fare sempre
qualcosa di straordinario, alla fine si perdono perché in fondo non
reggono, sono comunque persone comuni.”
Oggi non c’è più un Maradona a “salvarci”, ma ancora siamo alla
ricerca di qualcosa che ci aiuti a superare il quotidiano?
“A Napoli sarebbe necessario far capire che il calcio spesso diventa una
distrazione capace di assuefarci al resto. Il teatro deve appunto farci
destare da questa apatia, e provare a far aprire gli occhi a quanti non
hanno strumenti per poter portare avanti questa ricerca da soli. Non c’è
nessuna condanna in questo progetto; il calcio è disciplina, possibilità
sociale, ma non deve creare cecità… Bisogna responsabilizzarsi; va bene
lasciarsi incantare, chi dallo sport, chi dall’arte, ma poi bisogna avere una
chiara visione critica della propria esistenza e di quella degli altri.”
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Direttrice Anita Curci
Caporedattore Antonio Tedesco Vice caporedattore
Maddalena Porcelli Hanno collaborato
Pino Cotarelli, Federica De Cesare, Andrea Fiorillo Francesco Gaudiosi, Mario Migliaccio, Vincenzo Perfetti
Caterina Pontrandolfo Stampa
Arti Grafiche P. Galluccio Vico S. Geronimo alle Monache, 37 Napoli
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