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DOMENICA 22 MAGGIO 2011/Numero 327 D omenica La di Repubblica spettacoli L’altra faccia di “Arancia meccanica” ANTHONY BURGESS e CLAUDIA MORGOGLIONE cultura Vittoriano, cent’anni di marmo NELLO AJELLO e PETER GREENAWAY le tendenze Taglia 44, donne felicemente curvy LAURA ASNAGHI e ISABELLA MAOLONI l’incontro Wilbur Smith, “Mi leggono per moda” MAURIZIO BONO l’attualità India vs Usa: “Giù le mani dallo yoga” FEDERICO RAMPINI FOTO © COURTESY WALT DISNEY FAMILY FOUNDATION P ochi, oggi, ci pensano. E pochi ci hanno pensato nel se- colo scorso, quando il suo nome era la firma, ogni vol- ta, di successi planetari: Walt Disney, il papà di Topo- lino e di Biancaneve e i sette nani, era anche un uomo. Non solo un marchio rassicurante, infallibile garanzia di fabbrica d’animali umanizzati ma, lui stesso, un bi- pede di genere umano: figlio, fratello, marito, padre, nonno. Uno di noi. Con le sue passioni, le fragilità, i sogni d’ogni autore, ingi- gantito e risucchiato dal protagonismo delle sue stesse creature, com’è accaduto con Don Chisciotte per Cervantes o Calimero per i fratelli Pagot, personaggi divenuti mito e museo. E ci è voluto pro- prio un museo per ritrovare il Disney uomo, in un viaggio a ritro- so dietro le maschere. (segue nelle pagine successive) MARIO SERENELLINI A ppena misi insieme un gruzzoletto, affittai una sala dove proiettare film per me e per i miei col- laboratori. Ogni giorno ne visionavo due o tre e inducevo gli altri a fare altrettanto, perché impa- rassero a rendere più credibile e irresistibile il gioco dell’animazione dalle smorfie di Charles Laughton, dai duetti di Laurel & Hardy, dai ritmi danzanti di Fred Astaire, dai tempi esatti della comicità di Charlot. Di Charlie Chaplin ho visto tutti i film, sono sempre stato un suo fan. Quando entrai alla United Artists, da lui fondata nel 1919, diventammo subito amici. Ne ero orgoglioso: era il mio mito. Da bambino ne facevo l’imitazione, e a scuola venivo ri- spettato per questo. (segue nelle pagine successive) WALT DISNEY Mio padre Walt Disney “Sono stata la prima bambina al mondo a vedere Biancaneve Ne uscii terrorizzata” Intervista alla figlia del genio dei cartoon Repubblica Nazionale

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DOMENICA 22MAGGIO 2011/Numero 327

DomenicaLa

di Repubblica

spettacoli

L’altra faccia di “Arancia meccanica”ANTHONY BURGESS e CLAUDIA MORGOGLIONE

cultura

Vittoriano, cent’anni di marmoNELLO AJELLO e PETER GREENAWAY

le tendenze

Taglia 44, donne felicemente curvyLAURA ASNAGHI e ISABELLA MAOLONI

l’incontro

Wilbur Smith, “Mi leggono per moda”MAURIZIO BONO

l’attualità

India vs Usa: “Giù le mani dallo yoga”FEDERICO RAMPINI

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Pochi, oggi, ci pensano. E pochi ci hanno pensato nel se-colo scorso, quando il suo nome era la firma, ogni vol-ta, di successi planetari: Walt Disney, il papà di Topo-lino e di Biancaneve e i sette nani, era anche un uomo.Non solo un marchio rassicurante, infallibile garanziadi fabbrica d’animali umanizzati ma, lui stesso, un bi-

pede di genere umano: figlio, fratello, marito, padre, nonno. Unodi noi. Con le sue passioni, le fragilità, i sogni d’ogni autore, ingi-gantito e risucchiato dal protagonismo delle sue stesse creature,com’è accaduto con Don Chisciotte per Cervantes o Calimero peri fratelli Pagot, personaggi divenuti mito e museo. E ci è voluto pro-prio un museo per ritrovare il Disney uomo, in un viaggio a ritro-so dietro le maschere.

(segue nelle pagine successive)

MARIO SERENELLINI

Appena misi insieme un gruzzoletto, affittai unasala dove proiettare film per me e per i miei col-laboratori. Ogni giorno ne visionavo due o tre einducevo gli altri a fare altrettanto, perché impa-rassero a rendere più credibile e irresistibile ilgioco dell’animazione dalle smorfie di Charles

Laughton, dai duetti di Laurel & Hardy, dai ritmi danzanti diFred Astaire, dai tempi esatti della comicità di Charlot.

Di Charlie Chaplin ho visto tutti i film, sono sempre stato unsuo fan. Quando entrai alla United Artists, da lui fondata nel1919, diventammo subito amici. Ne ero orgoglioso: era il miomito. Da bambino ne facevo l’imitazione, e a scuola venivo ri-spettato per questo.

(segue nelle pagine successive)

WALT DISNEY

Mio padreWalt Disney“Sono stata la prima

bambina al mondoa vedere Biancaneve

Ne uscii terrorizzata”Intervista alla figlia

del genio dei cartoon

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sono ritrovata sola — la mamma scomparsa nel1997, mio cugino Roy due anni fa — a perpetuare lamemoria di mio padre», spiega la primogenita diWalt Disney, sette figli (pura coincidenza, pare, conBiancaneve) e, oggi, nipoti a pioggia: nonna a suavolta, non ha mai lavorato nell’immensa factory pa-terna, preferendo occuparsi in California di vigne evino, che esporta anche in Francia.

Entrati nella prima sala, si è subito in famiglia: è lavoce, simpatica, semplice, un po’ didascalica, diWalt Disney ad accogliere l’ospite per accompa-gnarlo nelle altre nove sale, con audio disseminatiovunque, in un percorso di documenti, schizzi d’ar-chivio, maquettes, video interattivi, gadget, scheggedi vita domestica immortalate in candidi filmini del-la domenica. Passo passo scorrono aneddoti, spie-gazioni, ricordi: quella volta in cui davvero la scar-petta di Cenerentola non si trovava più o quell’altra,illustrata da una sequenza fotografica, in cui casa e

42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 22MAGGIO 2011

Ritratto di famiglia

Il segreto di Topolino? Charlie ChaplinWALT DISNEY

(segue dalla copertina)

Una volta ho addirittura vinto un primo premio per comeimitavo Charlot. Da ragazzino, con un compagno di gio-chi, Walter Pfeiffer, avevo messo in piedi una compagnia

teatrale. Si chiamava “The Two Walts”. Ho sempre avuto una vo-glia matta di fare teatro, cantare, recitare, realizzare spettacoli efilm. Con il mio amico mettevo in scena pantomime in costumealla Benton School e partecipavo alle serate del dilettante consketches dal titolo Chaplin e il conte oppure Chaplin e la mucca,improvvisazioni sulle prime comiche di Charlot. Sono stati quel-li i miei primordiali allenamenti allo spettacolo cinematografico.

Chaplin, che nel 1937 sarebbe stato tra gli spettatori in prima fi-la, con Clark Gable e Carole Lombard, al battesimo di Biancanevee i sette nani, da anni mi dava consigli. Da autore navigato, mi met-teva in guardia da certe clausole della United Artists, che poi avreiabbandonato per la Rko. Non faceva che raccomandarmi di ac-quisire subito i diritti di ogni mio film e acconsentire solo alle of-ferte più alte: mai accettarne una bassa. Anche Chaplin si era la-sciato alle spalle le comiche per tentare l’avventura del lungome-traggio, una volta resosi conto che il cortometraggio era poco red-

ditizio, poco più d’un tappabuchi in pellicola: quel che ho poi fat-to io, passando da Topolino e dalle Silly Symphonies a Biancane-ve. Contro ogni attesa, e pretesa, del pubblico.

Quando nel 1933 ho realizzato I tre porcellini, tutti si aspettava-no infatti un altro Topolino. Ma io non ne potevo più. Eravamo inpiena Depressione: il lupo bussava alla porta di tutti. In realtà il car-toon era nato in modo del tutto innocente: non avevamo calcola-to il possibile riferimento alla crisi economica. In ogni caso, da quelmomento, tutti a chiedere altri Tre porcellini. Alla fine mi salvai conuna battuta: «Ne ho abbastanza di occuparmi di maiali». Pensai aquel punto che il pubblico fosse pronto ai cambiamenti: Bianca-neve, un lungometraggio animato. Mi sbagliavo. Il successo fu cla-moroso, e così io e mio fratello Roy ci salvammo dalla rovina. Ma aquel punto tutti, di nuovo, a reclamare una nuova Biancaneve,mentre io, quando il film non era ancora finito, ero già al lavoro sullungometraggio successivo, Pinocchio. Per anni ho odiato Bian-caneve. Tutti se ne aspettavano sempre un’altra, ricordando la pri-ma. Quando due anni dopo uscì Pinocchio la sorpresa fu genera-le: «Ma dove sono i sette nani?».

© Walt Disney Family Museum

MARIO SERENELLINI

I BOZZETTISopra, storyboard di Plane Crazy (1928), ispirato a Lindbergh; a sinistra,

studio a matita per Come diventare cowboy; a destra, studio su Pinocchio;

sotto, Biancaneve ispirata a Gustave Doré; nell’altra pagina, i primi schizzi

di Mickey Mouse (Courtesy Walt Disney Family Foundation / © Disney)

“Quando papàLE IMMAGINIFoto grande, Walt Disney

nel 1930; sopra, sul “Lilly Belle”;

sotto, l’Oscar per Biancanevee i sette nani. In copertina,

Disney legge una favola alle figlie

Sharon e Diane (a destra)

A destra Diane Disney oggi

(segue dalla copertina)

Il Walt Disney Family Museum di San Franci-sco, monumentale album dei ricordi creatocon un investimento di 112 milioni di dollari,è stato da poco inaugurato nell’ex area mili-tare del Presidio. Un affettuoso regalo, a cen-todieci anni dalla nascita, a quarantacinque

dalla morte, al papà: non di Topolino, ma di Diane,la figlia avuta nel 1933 dalla moglie Lillian, inchio-stratrice dei suoi primi cartoon. È lei stessa, Diane Di-sney Miller, sopracciglia ad accento circonflesso co-me il padre, a guidare, cicerone d’eccezione (comefarà, in via virtuale, alla prima presentazione euro-pea, con diapositive e filmati, il 16 giugno, al Biogra-film di Bologna) il visitatore dentro la sua Disneylanddomestica. «Ho sentito il bisogno di farlo quando mi

A quattro anni piangeva con “Biancaneve”,a sette si addormentava con “Pinocchio”,a otto volava con “Dumbo”, a diciassettesognava con “Cenerentola”.Oggi la figliadi Walt Disney inaugura il museo dedicatoa chi disegnò tutto questo anche per lei

la copertina

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l’asilo ai sedici anni, quando abbiamo potuto gui-dare da sole. In macchina si scatenava con le storie:quelle a cui stava lavorando o che stava progettan-do in quel momento. Lo faceva con tutti: credo fos-se uno dei suoi espedienti per testare e sviluppareuna storia. Anche a tavola, le cene erano infarcitedei suoi racconti su tutto quello che lo stava occu-pando: poteva essere un film, il progetto di Disney-land o anche il varo imminente del treno in minia-tura costruito con le sue mani in una sala dello stu-dio».

È ora una delle attrazioni del museo, il “Lilly Bel-le”, dal nome di sua madre, Lillian: di qui è venutaa suo padre l’idea del treno della miniera a Di-sneyland.

«Ogni volta che lo guardo ho un tuffo al cuore.Avevo quindici anni quando mi sono vista arrivareil treno nel giardino di casa, dove erano stati scava-ti i tunnel e tracciati i binari. Spero davvero di aver-lo sistemato nel modo migliore».

Vi è mai salita, con suo padre o con ospiti eccel-lenti come Salvador Dalì?

«Dalì, mi ricordo, era venuto anni dopo nella no-stra nuova casa: non aveva mancato di fare una ca-valcata a bordo del trenino. Da bambina, era tuttoun viavai di amici e collaboratori, soprattutto d’e-state, nei weekend. Da noi era quasi sempre festa».

Lei è stata la prima bambina ad aver visto i pri-mi lungometraggi di Walt Disney: Biancaneve, Pi-nocchio, Fantasia, Dumbo, Bambi. Quale le è ri-masto più impresso?

«Biancaneve. Non avevo ancora quattro anniquando mio padre lo proiettò apposta per me, po-che settimane prima dell’uscita, nella sala di regi-strazione dell’Hyperion Studio. Quando la reginacominciò a trasformarsi in strega provai una paurafolle: ricordo bene le mie urla di terrore e come ven-ni sollevata di peso e portata fuori nella luce del po-meriggio. Non ricordo chi mi fece uscire né se mi ri-portarono dentro a vedere la fine del film, ma solo ilmomento in cui mi ritrovai fuori».

Ha mai chiesto a suo padre il perché di tanti se-mi-orfani nel suo cinema, da Cenerentola a Lilly eil vagabondo e, a compensazione, tanti zii, zie enonne nelle famiglie di Topolino e Paperino?

«Non ci avevo mai pensato. Mi sembra comun-que che nella tradizione fiabesca, in ogni epoca, siamolto diffuso il tema del senza famiglia, dell’orfa-nello tutto iniziative e avventura, eroico davanti aipericoli. Zii e zie non mi sembrano poi tanto nume-rosi: se mai, le madrine da fiaba».

Chi ha paura del Lupo cattivo? Ha cantato an-che lei da bambina il motivetto dei tre porcellini,divenuto subito un inno nazionale contro la De-pressione?

«Credo proprio di aver canticchiato anch’io que-sta canzoncina... Nel mio piccolo devo aver contri-buito un po’ all’ottimismo di mio padre, che mi haregalato un’infanzia indimenticabile. A volte,quando cenavamo tutti insieme alle sette, si lascia-va andare ai suoi ricordi d’infanzia, a Chicago, aMarceline nel Missouri, a Kansas City. Diceva, di sé,della propria vita: “Ho sempre lavorato sodo, sin daragazzo, ma non sono mai stato infelice”».

uffici furono invasi per settimane da cerbiatti, coni-gli, scoiattoli, perché i disegnatori li riprendesserodal vero, rendendo vero, il più possibile, Bambi.

Più che un museo, signora Diane, è di nuovo lasua casa: gli anni d’infanzia per una seconda volta?

«È la casa dove mio padre continua a vivere. Lo ve-diamo, lo sentiamo. La sua voce è per me uno dei suoiregali più belli. In buona parte sono registrazioni diquando, attorno ai vent’anni, ho scritto la prima bio-grafia, The Story of Walt Disney. Porgendo l’orecchiosi colgono in sottofondo, mentre parla, i miei grido-lini. È bello riascoltarlo mentre racconta la sua vita».

Questo museo da lei concepito e voluto è la suanuova, matura biografia?

«È la storia di un’esistenza raccontata in primapersona. Sprigiona energia, voglia di fare. Mi sono re-sa conto che per tanti Walt Disney non è il nome diuna persona, ma una marca. Come persona è statobersaglio, già in vita, di attacchi aciduli, meschini,

che hanno gettato ombre suisuoi comportamenti sociali efamigliari. La verità è che avevaun’adorazione per noi, soprat-tutto per mia madre: la volevasempre accanto a sé. Queste im-magini e questi home movie delmuseo ne sono la prova».

Qual è il suo più bel ricordo disuo padre?

«Quando ripenso a lui, lo vedo ridere. Aveva unospiccato sense of humor. Io ero così contenta quan-do me ne uscivo con una battuta o uno scherzo cheprovocava una sua grande risata...».

Ha un cartoon del cuore?«Dovrei dire che li preferisco tutti. Ma ho un de-

bole per Toro Fernando, attratto più dal profumo deifiori che dalla furia delle corride, o per quel The BandConcert inghiottito da una tromba d’aria, o per To-

polino e il fagiolo magico, l’ultimo in cui mio padre,ormai troppo occupato, fa la vocetta di Topolino. Po-trei andare avanti per ore. Tutti i suoi film sono belli.La mia infanzia con lui è stata un sogno. Era davverodivertente: è stato un amico per mio marito e un ido-lo per i nostri figli».

Continua a vedere i film del marchio Disney?«Non conosco ancora gli ultimi, ma ho tutti i dvd

della Pixar, che John Lasseter mi fa avere personal-mente. Gli Studios hanno davanti un futuro sicuro.Ancora oggi non c’è un giovane cartoonist che nonaspiri a lavorare per la Disney. Impressionante».

Uno dei più bei ricordi di suo cugino Roy era diquando, bambino, lo zio Walt gli raccontava pri-ma di dormire la favola meravigliosa d’un buratti-no: Pinocchio. Suo padre addormentava con lefiabe anche a lei e sua sorella?

«Era nostra madre a leggerci le favole la sera. Papàci portava in auto a scuola ogni mattina, dall’età del-

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ci riempì casa di Bambi”

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43DOMENICA 22MAGGIO 2011

L’APPUNTAMENTO

Diane Disney Miller sarà premiata il 16 giugno a Bologna, al Biografilm (dal 10 al 20,alla Manifattura delle Arti). Sarà lei a presentareper la prima volta in Europa l’unico museodedicato al Disney più privatoinfo www.biografilm.it

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NEW YORK

veglia alle cinque del mattino, al suono di un tamburo. Doccia ghiacciata. Niente caffèo tè, per evitare le tossine eccitanti. E via col saluto al sole, sotto la guida paterna ma in-flessibile di Jaggi Vasudev, detto il Sadghuru. Ore di esercizi, meditazione, ancora eser-cizi. Un intervallo per il pasto da consumare accovacciati sulla nuda terra: un po’ di ri-so bollito, semolino, lenticchie, mango, si mangia solo con le mani. Via al lavoro di nuo-vo: tre sedute di yoga, due «lezioni di vita» su come «organizzare le energie interiori,proteggersi dalle distrazioni, ricavare il meglio di sé in ogni istante della vita». A lettosfiniti, alle nove di sera, in una cella monacale da dividere con uno sconosciuto. Bran-dine militari, niente telefono né tv.

Ricordo così il mio ultimo soggiorno a Vanaprashta, l’ashram della fondazione Ishanel Tamil Nadu, punta meridionale dell’India. Due settimane d’isolamento dal mon-do, insieme a duecento indiani: un’esperienza spartana e frugale. Serena, senza ec-cessi: non ero finito in una setta di fanatici. Non dovevo dimostrare nulla a nessuno,neanche a me stesso. La sera in quel villaggio di casupole contadine in mezzo alla fo-resta tropicale, con in lontananza qualche barrito di elefante, ci univa la solidarietà del-la fatica, e il sentimento di un lavoro ben fatto.

Ed eccomi a Manhattan, capitale dello Yoga-Business. Trovarsi un maestro non èdifficile: sono delle superstar, gestiscono la propria carriera come Brad Pitt e Lady Ga-ga. Ava Taylor è la più celebre manager dei guru, li lancia sul mercato, cura la loro im-magine, gestisce il loro carnet d’impegni. Yoga Vinyasa o Iyengar, Kundalini o Hatha,il consumatore deve poter scegliere. Livello Beginner, Intermediate, Advanced, qui s’in-filtra perfino lo spirito competitivo tipicamente occidentale. Esiste anche il PowerYo-ga, dall’ironia involontaria: sono corsi dove le posizioni si alternano a gran velocità, neesci stremato e coi muscoli sfiniti come da un triathlon, ma a guardare i volti concen-trati allo spasmo dei tuoi compagni ti chiedi se questo non sia soprattutto “lo yoga delpotere”, cioè destinato ai potenti.

La moda dello yoga in America la portarono a ondate Hermann Hesse, poi i poetiBeat, infine i Beatles, gli hippy, la New Age. Ma in pieno boom dei figli dei fiori, a metàdegli anni Settanta, gli adepti erano “appena” cinque milioni. Ora abbiamo superato isedici. Il fatturato raggiunge i 5,7 miliardi di dollari: non solo maestri e palestre, ma al-meno cinque riviste specializzate in carta patinata piene di pubblicità per corsi-va-canza sull’Himalaya, ritiri nel Vermont con massaggi ayurvedici e dieta vegan, poi levarianti “yoga post-parto”, e naturalmente “tantra-yoga del sesso”. Attorno c’è l’in-

44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 22MAGGIO 2011

S

Yoga*La battagliadel copyright

l’attualità

Antico come i Veda, praticato in spartani ashram,poi importato dai Beatles e dagli hippy e oggiinfine trasformato, tra Hollywood e Manhattan,in un business miliardario. Ma ora l’Indiasfida l’America: “Giù le mani dal saluto al sole”

FEDERICO RAMPINI

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45DOMENICA 22MAGGIO 2011

*VOCABOLARIO

Il termine, sanscrito,

compare già nel Rg Veda,

il più antico dei testi sacri

ariani. Significa unire,

legare, aggiogare

dotto, colossale. Esiste ormai un festival rock-yoga, Wanderlust, dove si alternano ban-de musicali e guru-Vip che dirigono sessioni di esercizi. Esiste l’Armani delle tute, sichiama Lululemon Athletica, ha negozi sparsi in tutti i bei quartieri di Manhattan. Ne-gli ultimi tre mesi il suo fatturato è balzato a 245 milioni, i profitti sono saliti del 92 percento e «abbiamo esaurito le scorte, non riusciamo a star dietro alla domanda». Da Lu-lulemon c’è la coda alle casse eppure paghi dai trecento ai cinquecento dollari per nonsfigurare quando fai il padmasana (posizione del loto) sul tappetino.

Nel Tamil Nadu costa meno l’iscrizione a due settimane di corsi, vitto e alloggioinclusi. Qui a Manhattan insieme col prof ti scegli anche il dj perché lo yoga ci vie-ne offerto con l’optional delle colonne sonore. Ci sono maestri che preferisconoBob Marley, Nina Simone, altri che sullo sfondo vogliono solo melodie orientali,ma il trend più recente sono le composizioni originali di Derek Beres, che ha crea-to una casa discografica ad hoc e il catalogo di cd The Yoga Sessions. Ammetto chela musica non è solo un contorno: fra tutti i miei maestri al Ymca dell’Upper Westho un debole per Tom, forse anche per via dei Beatles (Here Comes the Sun) che loaccompagnano sullo sfondo.

E finalmente gli indiani sono insorti. Contro questi stravolgimenti e la commer-cializzazione sfrenata, è partita la campagna Take Back Yoga («riprendiamoci loyoga»). L’ha lanciata la Hindu American Foundation diretta da Aseem Shukla, as-sociazione culturale che riunisce molti immigrati indiani. Qui sono spesso una éli-te: informatici, medici, professionisti, imprenditori. Non per questo si lascianoamericanizzare senza resistere. Per il dottor Shukla non c’è nulla di male se lo yo-ga piace tanto agli americani, «purché non dimentichino che fa parte di una civiltà,di una cultura antica, ed è anche segnato dalla religione induista». Quello che ad-dolora gli indiani di qui è che, mentre lo yoga sale alle stelle, l’induismo è ancorapercepito come «la religione delle caste, delle vacche sacre e del curry». In un in-tervento sul Washington Post, il dottor Shukla ha lamentato il «furto di proprietàintellettuale» di tanti centri yoga che saccheggiano i testi sacri dell’induismo, perpoi «sfruttare questa religione perseguendo bassi fini di profitto».

La campagna “Riprendiamoci lo yoga” ha un’eco con quel che sta accadendo aNew Delhi. Anche il governo indiano ha deciso di correre ai ripari di fronte alla “pri-vatizzazione” di una dottrina così nobile e antica. A far scattare l’allarme è stata lascoperta che un numero crescente di posizioni yoga vengono brevettate da gran-di guru che hanno un seguito di massa in Occidente. Uno di questi è BikramChoudhury, forse il più celebre maestro emigrato in California. Vive a Los Angeles,tra i suoi allievi ha tante star del cinema di Hollywood, è diventato da solo una ve-ra e propria industria. Quatto quatto, dal 2007 ha cominciato a depositare brevet-ti per ventisei posizioni che adesso si devono chiamare Bikram Yoga. Chi le usa neicorsi, nei libri o nei dvd, deve pagargli le royalties. Di fronte a questo e altri esempidi saccheggio commerciale dello yoga, il governo indiano ha mobilitato il suo Con-siglio per la ricerca scientifica, ha fatto catalogare da sedici testi antichi milletre-cento posizioni, ne ha videografate duecento e le ha protette con un copyright in-ternazionale per impedire che finiscano in mani private.

La comunità indiana è attraversata da profonde divisioni, e non solo per il tradi-mento di personaggi come Bikram Choudhury. Un altro indiano famoso negli Sta-ti Uniti, il filosofo aiurvedico Deepak Chopra, ha preso le distanze dai suoi conna-zionali, denunciando quello che secondo lui è un atteggiamento tipico da «nazio-nalismo indù». Secondo Chopra lo yoga è certamente un’espressione della civiltàindiana, ma non per forza della religione induista. Alcune pratiche originarie diquesta disciplina risalgono alla civiltà vedica del terzo millennio prima di Cristo,antecedente l’induismo. Chopra, uno dei profeti della New Age, considera l’indui-smo come una religione «tribale e autoreferenziale» e vuole salvare lo yoga dal-l’abbraccio soffocante dei credenti.

Una parte dell’America denuncia il problema opposto. Per i cristiani fondamenta-listi, come Albert Mohler del Southern Baptist Theological Seminary, il successo diquesta disciplina pagana è un pericolo per le anime dei suoi connazionali. Giù le ma-ni dallo yoga, sì, ma per tutt’altra ragione. Il sito All About Spiritualityammonisce i cri-stiani con questo avvertimento: «Lo yoga non è spiritualmente sicuro, perché c’inse-gna a focalizzarci su noi stessi, anziché sul vero e unico Dio». È una crociata bigotta (econ scarse chance di successo) eppure è difficile negare che contenga un fondo di ve-rità. Dagli anni Sessanta in poi, le generazioni occidentali che hanno abbracciato conentusiasmo crescente lo yoga sono le stesse che hanno messo l’Io al centro dell’uni-verso. E quando all’alba ci troviamo assieme sui nostri tappetini per preparare il sa-luto al sole, con le mani giunte sul petto, le gambe incrociate e gli occhi chiusi, il can-to «Om» che si leva in coro è per molti di noi il primo rituale della fede in noi stessi.

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Quando fu inaugurato, il 4 giugno del 1911, doveva essere il monumentoalla “gloria di Re Vittorio Emanuele II”. Negli anni divenne per i romani “la macchina da scrivere” e per i diversi governi, la casa del Milite ignoto,

il palcoscenico del regime, l’orgoglio della Repubblica.Ecco come un edificio nato con il concorsopiù rocambolesco di tutti i tempi è diventato improbabile simbolo del nostro carattere nazionale

CULTURA*

Un secolodi

46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 22MAGGIO 2011

innocuo mastodonte. Ma la sua storia è già lunga. È del settembre1878 la legge che ne ordina l’esecuzione. Un’altra legge indirà, nel1880, un concorso mondiale. L’edificio, si legge nel bando, riunirà«tutte quelle bellezze che il grande soggetto deve ispirare» e «del ReVittorio Emanuele dirà le gesta in una sintesi gloriosa». Il letterato earchitetto Camillo Boito già vi scorge l’«affermazione marmorea ebronzea» dell’Unità. La spesa non deve eccedere i nove milioni dilire, ma alla fine li supererà con larghezza. I concorrenti sono oltretrecento. Numerosi. Fantasiosi.

S’intitola I mattoidi al primo concorso pel monumento a VittorioEmanuele IIun volumetto firmato nel 1884 da Carlo Dossi. Parteci-pano «maestri di grammatica e di matematica, dottori di medicinae di legge, militari, un impiegato telegrafico, un ragioniere, nonchéaltri che dichiarano di non aver maneggiato né scalpello né seste».Chi disegna piramidi, chi torri, cupole, minareti. Assai più di recen-te, 1998, il libro di Bruno Tobia L’altare della Patria racconterà lo«spudorato saccheggio», che molti candidati vagheggiarono, «dicelebri monumenti antichi», e cioè «moli adriane, piramidi, tombedi Cecilia Metella, colonne traiane, archi di Tito e di Costantino». Un

Roma, 4 giugno 1911. Da quasi tre mesi è scaduto il cin-quantenario dell’Unità, e il nuovo Stato vive una so-lenne celebrazione. «Il Popolo della Capitale», scriveil Corriere della sera, «leva il suo clamore d’entusia-smo intorno al monumento di Vittorio Emanuele II»,che «ferma nel bronzo della gloria il Re, cavalcante

lungo il libero paese». E qui un sia pur alato cenno contabile: «Sia-no bene spesi i molti milioni. Il vasto monumento duri nei secoli».Severo il controcanto dell’Avanti!. Allo spettacolo delle «redingotese dei cilindri fiammanti» indossati da nobili e alti burocrati, l’orga-no socialista oppone l’arrivo, in piazza Venezia, per la solenne inau-gurazione, della «scuola dell’Agro Romano, composta di contadinie contadine. Questi dimenticati martiri della gleba» esprimono«tutti i dolori del passato e le promesse dell’avvenire».

Dal nome del Re, quel monumento si chiamerà «Il Vittoriano». Acontemplarlo, quella mattina d’un secolo fa — con i suoi 17.500 mi-la metri quadrati, 81 metri d’altezza per 120 di larghezza, il tutto pro-gettato dall’architetto Giuseppe Sacconi, e al centro la statua eque-stre del Sovrano, scolpita da Enrico Chiaradia — può apparire un

caso limite di progettazione venne toccato dal signor GiovanniCanfora di Barletta con il monumento intitolato Manus Domini, ilquale mostrava appunto una gigantesca mano: «Il pollice sta a si-gnificare Pio IX, l’indice Carlo Alberto, il medio Vittorio Emanuele,l’anulare Umberto I e il mignolo Vittorio Emanuele, principe di Na-poli», il piccolo, futuro Re sciaboletta. In un suo trattato, La patriadi marmo, Marcello Venturoli ha inoltre rivelato alcune denomi-nazioni attribuite ad opere in marmo o in bronzo che effigiavano ilRe e la sua dinastia: i «Sabaudioni», gli «Emanuelioni».

A giudicare da simili racconti, con il Vittoriano quale ora lo ve-diamo c’è andata perfino bene, anche se tutti ricordano le defini-zioni che se ne sono date nel tempo, dalla «dentiera» alla «macchi-na per scrivere», fino a quella, più drastica e scurrile, che formulòGiovanni Papini: «il pisciatoio di lusso». E come dimenticare la sen-tenza di demolizione — mai eseguita, ed è stata in fondo una fortu-na — che decretò a suo danno l’urbanista Bruno Zevi?

Quello che condurrà alla finale scelta del progettista — che saràil conte Giuseppe Sacconi, meno che trentenne, di distinta famigliamarchigiana, nipote d’un cardinale e non ancora laureato in archi-

NELLO AJELLO

VITTORIO EMANUELE II A CAVALLOOttenuta dalla fusione

di 50 tonnellate di bronzo

la statua è lunga 10 metri, alta 12

GRUPPI DI SCULTURESono sei: quattro in marmo

botticino e due in bronzo

dorato. Rappresentano

i valori civili degli italiani

LE FONTANE DEI MARIA destra il Tirreno

con la lupa di Roma

e la sirena Partenope,

a sinistra l’Adriatico

col Leone di S. MarcoL’Italia unita nel marmo

LE ISCRIZIONIA commento

delle due quadrighe,

sui propilei Patriaeunitati (All’unità

della patria)

e Civium libertati(Alla libertà

dei cittadini)

LE CITTÀ ITALIANEFanno da piedistallo

alla statua equestre

gli altorilievi

di 14 città italiane:

capitali o repubbliche

marinare

Vittoriano

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 47DOMENICA 22MAGGIO 2011

Io, vandalo per amorenel ventre dell’architetto

PETER GREENAWAY

Adiciassetteanni trascorsi sette settimane a Roma, senza sol-di, e così me ne andai a piedi un po’ ovunque; ricordo pocodei dipinti che vidi allora, ma ricordo molto bene l’architet-

tura, e ancora meglio come tutto quanto si amalgamasse così bene— il susseguirsi di strade e piazze, gradini e scalinate, paesaggi, ster-ri e dislivelli, muri e paratie, archi, pilastri, colonne, panorami, vi-coli ciechi, ripidi terrapieni, spioncini e cantoni improvvisi, marmibianchi accecanti, luoghi tranquilli e isolati, fontane, dirupi e ca-nali e fossati, alture e interni confinanti con gli esterni in ogni com-binazione possibile. Puoi anche fare a meno del cinema, puoi tra-scorre un’intera vita senza darti pensiero di alcun quadro, puoi per-fino non ascoltare musica — quantunque così facendo tu impove-risca la tua vita — ma in nessun caso puoi sottrarti all’architettura.

A Roma chiamano in tanti modi quel complesso architettonicodedicato a Vittorio Emanuele in Piazza Venezia: l’Olivetti, la Tortanuziale, il Vittoriano. Molto diffamato, per me è un forte richiamoal foro imperiale romano, esuberante, esibizionista, appassiona-to. Così doveva apparire un tempo il Foro: trionfale, bianchissimo,splendente, annunciatore con grande brio del cattivo gusto roma-no. Dobbiamo rimettere l’architetto Sacconi al posto che gli spet-ta nell’architettura.

Divenni un ammiratore particolare di quel complesso archi-tettonico quando fece da scenario clou del mio film Il ventre del-l’architetto. Ora vorrei tornare a commemorarlo come ultimo ele-fante bianco architettonico, architettura priva di funzione, ar-chitettura intesa come mero entusiasmo scultoreo del paesaggiocreato dall’uomo. Voglio trattarlo come una quinta architettoni-ca. Illuminarlo con luce che cambi di continuo, tirarne fuori tut-to lo splendore e l’ampollosità. Intendo illuminarlo e usare la mu-sica. E proiettare sulle sue superfici bianche immagini consone.

Sui suoi spazi sfavillanti, le sue scalinate e lesue statue, i suoi angolini e tutti i suoi reces-si. Raccontare a partire dall’edificio con laluce e la musica, diverse per ogni giorno del-la settimana, per i festivi e le ricorrenze. Vor-rei farne la decorazione architettonica diuna performance notturna. I romani sonomolto ambigui verso questo edificio. Ma aprescindere da ciò che ognuno può pensar-ne, è come un palcoscenico la cui rappre-sentazione è Roma. E come ogni buon tea-tro lirico è di per sé commedia e opera. Mol-to da indagare, molto da non afferrare. Di-verso ogni giorno.

E confesso un atto vandalico. Parti del Vit-toriano erano aperte al pubblico quando gi-rammo Il ventre dell’architetto, a metà degli

anni Ottanta. Scrissi il mio nome su uno dei pianerottoli più in al-to. L’edificio è rimasto essenzialmente chiuso al pubblico per ven-ticinque anni; adesso è riaperto e ho cercato il mio nome. Malgra-do i restauri, è ancora lì. Avevo firmato per fare mio quell’edificio.Il fatto che la mia firma sia tuttora lì significa che è ancora mio.

Traduzione di Anna Bissanti

tettura — è il secondo concorso, reso pubblico il 18 dicembre 1882,e concluso nell’84. Esso prevede che il monumento sorga sull’altu-ra settentrionale del Campidoglio in asse con via del Corso. Lo com-porranno tre parti: la statua del Re, una spianata a ventisette metrid’altezza connessa a piazza Venezia da ampie scale, e un fondo edi-ficato a lato del tempio dell’Ara Coeli. La scelta del Campidoglio ori-ginò dure polemiche. Una larga fascia d’opinione, capeggiata dalparlamentare Ruggero Bonghi, propendeva per piazza Termini:meno impegnativa sul piano della retorica — massimo pericolo, so-steneva Bonghi, era confondere «glorie nuove con glorie antiche»— urbanisticamente meno offensiva e tale da risparmiare ingentispese per la demolizione delle molte vestigia classiche esistenti in-torno al Colle. Alla fine venne confermato il Campidoglio, anche perl’insistenza del presidente del Consiglio, Agostino Depretis.

Per vent’anni — dal 1885 al 1905, data della sua morte prematu-ra — Sacconi lavorò al progetto tra gravi difficoltà tecniche, soprat-tutto connesse alla ricerca sotterranea di quello strato di tufo desti-nato a sostenere le immani fondazioni della struttura, tutta in mar-mo “botticino”. A lui, deputato fra il 1884 e il 1902, fu inflitta una cru-

dele amarezza: veder uscire vincitore, dal concorso indetto per lastatua equestre del Sovrano, lo scultore Enrico Chiaradia, nativo diCaneva (Pordenone) in luogo dell’artista che egli preferiva, NicolaCantalamessa-Papotti, marchigiano come lui. «Il cavallo del Chia-radia non salirà mai in Campidoglio», ecco la fallace profezia cheSacconi pronunciò. Le dimensioni del destriero di Chiaradia, al-tezza dodici metri, possono contenere nel proprio ventre trenta-cinque persone. Un gruppo di operai venne fotografato mentre vifaceva merenda. Il Cantalamessa, autore del bozzetto scartato, vie-ne ricordato per una quartina che scrisse a disonore del bronzoscolpito da Chiaradia: «Il Re a cavallo era il gran soggetto / ma il ca-po d’opra fu aspettato invano. / Nacque solo un cavallo da carretto /per il gran monumento sacconiano». Il quale monumento sarebbepoi diventato, una volta trasferite a Roma nel 1921 le spoglie del Mi-lite ignoto della Grande Guerra, il luogo di rito per ogni cerimoniapatriottica, sia in epoca di monarchia o di fascismo che, più tardi, diRepubblica. Un futuro che, quel 4 giugno di cent’anni fa, i romaniaccorsi in piazza Venezia con il vestito della festa non prevedevano.

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LE VITTORIE ALATEIn origine dorate:

sono quattro, poste

sulla sommità

delle quattro

colonne trionfali

IL PORTICATOLungo 72 metri

con 16 colonne

di 15 metri

sormontate

da 16 statue:

una per ogni

regione nell’ Ottocento

LE DUE QUADRIGHEPoste sulla sommità

del monumento,

a 81 metri di altezza,

simboleggiano

l’Unità e la Libertà

IL MILITE IGNOTOAl centro della scalinata

c’è la tomba del Milite

ignoto su cui veglia

la grande statua

della dea Roma

I MOSAICINelle otto lunette

dei propilei i mosaici

con le allegorie

di lavoro, pace, unità,

legge, sapienza,

forza, valore e fede

L’INAUGURAZIONELa cerimonia

del 4 giugno 1911

in un’illustrazione

di Le Monde illustré

IL MUSEOIl Vittoriano è la sede

del Museo

del Risorgimento:

quadri, diari, disegni

manoscritti, stampe

LE BANDIEREAll’interno c’è anche

il Sacrario delle

bandiere con tutti

gli stendardi militari

e i cimeli di guerra

I SIMBOLI VEGETALII più ricorrenti sono:

palma (vittoria),

quercia (forza),

alloro (pace),

mirto (sacrificio),

ulivo (pace

e concordia)

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© RIPRODUZIONE RISERVATA

Repubblica Nazionale

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“Le avventure di un uomo i cui principali interessi sono lo stupro,l’ultraviolenza e Beethoven”. Con questa locandina usciva quarant’annifa il capolavoro di Kubrick. Il mondo ne rimase sconvolto, il Regno Unitolo vietò per decenni. Eppure la prima versione del film era ancorapiù dura. Mentre esce in versione Blu-ray, ecco le pagine che convinseroil regista a dire ad Anthony Burgess: così è troppo, riscrivilo

SPETTACOLI

48 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 22MAGGIO 2011

cio ed escono dall’inquadratura, li sentiamo parlaredella loro giornata di lavoro. [...]

Mentre i lavoratori si allontanano dall’inquadra-tura, la musica di fondo senza alcuna perdita di rit-mo è soverchiata dalla pop music. La macchina dapresa bruscamente si dirige con una panoramicaverso un gruppetto di tre adolescenti, tre delinquen-ti vestiti in modo molto ricercato con pantaloni attil-lati, spalle imbottite, cravatte frivole, protezioniscrotali dal disegno raffinato. Camminano lungo lastrada, e uno di loro ha la radio a transistor accesa adalto volume. Si chiama Georgie, è debole ma intelli-gente. Gli altri due sono Pete e Dim. Dim è violento,quasi infermo di mente, forse, considerate le sue ri-sate sguaiate. Pete è smorto e pare prender vita soloquando entra in azione. La canzone pop fa così:

RADIO A TRANSISTOR: «Soltanto un giorno sì euno no…».

E I TRE: «Oh, Alex… Piccolo Alex… Vieni giù, fra-tellone, che ha inizio la notte… Alex…». [...]

Alex è steso sul letto. Sente pronunciare il proprionome, anche se debolmente, come lo sentirebbe uncane, e si alza dal letto. La macchina da presa inqua-dra rapidamente nella sua direzione, ma prima diriuscire a raggiungerlo, l’inquadratura si dissolve, c’èuno stacco e inquadra un interno.

INTERNO: LA CAMERA DI ALEX

[...]. Ci sono molti dischi sistemati in ordine, e, men-tre la macchina da presa esplora la stanza, leggiamoalcuni titoli — la Nona sinfonia di Beethoven, la39esimae la Jupiterdi Mozart, compositori di cui nonabbiamo mai sentito parlare — Anton Schweigsel-ber, Pitt Redvers, Jeremiah Portslob. Sulla parete c’èun ritratto di Beethoven, che affianca in modo stra-no le bandiere e le insegne e le fotografie di gruppo divari istituti di correzione.

Alex è di bell’aspetto, brillante, malvagio, ma in-

spiegabilmente simpatico: fa presa su qualcosa chesi trova negli oscuri recessi delle nostre menti, i no-stri Io frustati. Ha finito di vestirsi e adesso tira fuorile sue armi dall’armadio. L’armadio contiene alcunecose raccapriccianti — sostanze chimiche, siringheipodermiche, un paio di ossa, il teschio di un bambi-no. Preleva la sua catena, fissa la macchina da presaascoltando in evidente estasi la musica, poi eseguealcune mosse da esperto con la catena. Possiamosentire le grida e i lamenti che egli concepisce con lafantasia.

LA VISIONE DI ALEX

È una sequenza molto rapida e confusa, ma mostraparecchie persone straziate, sanguinanti, che cerca-no di sottrarsi ai colpi della catena di Alex.

ALEX

Ha un rasoio luccicante in mano. Va dietro alla mu-sica e infligge eleganti rasoiate a nemici immaginari.

LA VISIONE DI ALEX

Una faccia di gomma si disintegra in un ammasso di

Caso forse unico nella storia del cinema,non è affatto necessario mostrare il ti-tolo. Su uno sfondo vuoto, indistintoma luminoso, un’arancia rotola arri-vando in primo piano da un puntocentrale evanescente. Non appena si

arresta, si apre da sola e rivela il meccanismo a oro-logeria interno. Immediatamente parte una basemusicale semplice, una sorta di ticchettio. Questocostituisce la premessa per la stridente musica ma-tematica che simboleggia la società tecnologica, ve-ra nemica della storia. Quando appaiono i credit, ve-diamo un aspetto di questa società.

CENTRO: UNA STRADA. SERA.

Vediamo, ravvicinata in primo piano, un’insegna dimetallo sulla quale si legge STATE INSTITUTE OFSOCIOTECHNOLOGICAL RESEARCH. La macchi-na da presa si allontana a poco a poco, per inquadra-re i dipendenti dell’istituto che lasciano l’edificio,avendo terminato il lavoro. Si allontanano in grup-petti, ciascuno dei quali scortato da un uomo arma-to in uniforme. A mano a mano che lasciano l’edifi-

“Vieni giù Alexche inizia la notte”

«Leavventure di un uomo i cui principali in-teressi sono lo stupro, l’ultraviolenza eBeethoven». Già in questa frase, scritta suimanifesti pubblicitari del lontano 1971,sono racchiusi lo scandalo, l’inquietudi-ne, l’attrazione e il disagio che Arancia

meccanica di Stanley Kubrick continua a provocare. Ancoraadesso, a quarant’anni dal debutto nelle sale. Un film oggetto diun culto quasi feticista: giovani di varie generazioni, appassiona-ti di cinema di qualsiasi età, autori di ogni latitudine, pronti a in-chinarsi al suo fascino perverso. A dispetto del destino amaro chel’ha colpito, proprio nel Paese in cui fu realizzato: in Gran Breta-gna è stato al bando per quasi tre decenni, e riammesso nel cir-cuito distributivo solo dopo la morte del regista, nel 1999. Un lun-ghissimo black-out, a dispetto della potenza visiva che sprigiona.

Il divieto non ha impedito, naturalmente, che tra i sudditi diSua Maestà Clockwork Orange— questo il titolo originale — cir-colasse comunque, in maniera clandestina: «Nelle videoteche di

Londra negli anni Ottanta trovavi dei cartelli seminascosti in cuisi annunciava la vendita in cassette importate da Parigi», ha rac-contato, con una punta di nostalgia, il Sam Mendes di AmericanBeauty e Revolutionary Road. In Italia invece la pellicola fu as-solta in tribunale dall’accusa di oscenità, nel 1973; e quanto allatv, è stata trasmessa per la prima volta da una rete generalista nel2007, visto il divieto ai minori di diciotto anni. Ma adesso, per ifan di casa nostra, torna la possibilità di una visione domesticadi alto livello: la Warner Bros home video pubblica l’opera per laprima volta in Blu-ray, in una ricca edizione a doppio disco checomprende un libretto con foto di backstage rare e contenutispeciali in parte inediti. Con personaggi come Steven Spielbergo William Friedkin che raccontano il perché da questo capola-voro non si possa «fuggire». Perché guardarlo a occhi aperti — unpo’ come quelli del protagonista Malcolm McDowell, nella cele-berrima scena della visione oculare forzata — sia necessario, perassaporarne la forza eversiva.

Un’energia che pervade già lo script, tratto dall’omonimo ro-

Nel racconto più follel’essenza della paura

CLAUDIA MORGOGLIONE

ANTHONY BURGESS

AranciaMeccanica

IL COFANETTO

Con Arancia meccanica –Anniversary edition, distribuito

in Italia dalla Warner Bros

a partire da domani, il capolavoro

di Stanley Kubrick viene proposto

per la prima volta in alta definizione

Blu-ray. Nel cofanetto, tra gli extra

del disco 1: Malcolm DcDowell

ripensa la pellicola; Considerazioni

sull’altraviolenza; i documentari

Still Tickin’ e Great BolshyYarblockos!Nel disco 2: Stanley Kubrick:a Life in pictures con la voce

narrante di Tom Cruise

e Lucky Malcolm!dedicato ancora a McDowell

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 49DOMENICA 22MAGGIO 2011

carni, denti e schizzi di sangue che vanno a finire sul-la lente della macchina da presa.

ALEX

Resta in piedi trionfante, si inchina, mentre si spen-gono le note conclusive della musica. Poi sente dellevoci arrivare da sotto.

ESTERNI: LA STRADA

Dall’alto vediamo i tre che lo chiamano: «Alex…Alex… Alex».

INTERNI: SOGGIORNO

Siamo nello squallido e piccolo soggiorno del padree della madre di Alex. È un locale evidentementemolto meno lussuoso della camera di Alex. Il padree la madre, stanchi, preoccupati, più giovani di quelche sembrano, stanno mangiando cibo sintetico.Vediamo le confezioni sul tavolo — PESCE DI SOIA,MISCELA DI AGAR-AGAR, TÈ DI ARACHIDI. Alza-no gli occhi con apprensione non appena si apre laporta della stanza di Alex e ne spunta fuori Alex, fre-sco e risplendente ed elegante e di bell’aspetto.

ALEX:«Benebenebenebenebenebene. Come stanno il

mio pi e la mia emme in questa bella nottatina in-vernale?».

MADRE: «È sparito il mal di testa, allora?».ALEX: «Sìsìsìsìsì. Svanito come un sogno non ap-

pena finita la scuola. Ma al mattino ci vado, ah sì.Devo recarmi alla vecchia scuolina. I bei ragazzettisorridenti come me hanno bisogno di impararetante tante stupide cosucce». [...]

PADRE: «Quel tipo della libertà vigilata era qui in-torno».

ALEX: «Sir Bucodiculo Deltoide, ESKW. Sì?».MADRE: «Non dovresti usare queste parole, fi-

gliolo». ALEX: «Le mie parolanski sono mie invenzionen.

Ok?». Nel tono della sua voce c’è un senso di minaccia,

e la madre lo avverte. PADRE: «Ha chiamato e non ha ricevuto risposta,

ma ha detto che c’era musica a volume molto alto». ALEX: «Davvero atroce per il vecchio maldicrapa,

vero?».

PADRE: «Ha detto che col fatto che salti la scuolae quello che fai di sera, qualsiasi cosa sia…».

ALEX: «La prossima volta finirò in un buco con lesbarre e con i vecchi vestiti a righe. Lo so lo so. Nonci sarà una prossima volta. Oh, un piccolo gruzzo-lonski!».

Svuota le tasche di un buon numero di bancono-te e di monete. Le banconote non sono americane.Il ritratto del presidente che vi compare sopra nonè di nessuno che conosciamo.

MADRE: «Dove li hai presi? Mi piacerebbe pro-prio saperlo!».

ALEX: «Un piccoloski onesto lavoroski. Nient’al-tro. Bene, meglio che vada a prenderne un altropo’».

Si accinge ad andar via, dando una sistematina alsuo trofeo davanti a un piccolo specchio appeso almuro.

PADRE: «Sii prudente, figliolo. Dio solo sa chenon riesco a impedirti di fare quello che fai, e nean-che tua madre. È un mondo terribile quello chehanno creato, è quello…».

ALEX: «Hanno? E che genere di persone sareb-

bero». PADRE: «È il sogno che ho fatto quando final-

mente sono riuscito ad addormentarmi, l’altra se-ra. Non mi sto lamentando, figliolo, ma la tua mu-sica era terribilmente forte…».

ALEX: «Trombe diaboliche, tromboni satanici.Non suonano certo piano. Che sogno fantasioskihai fatto?».

PADRE: «È stato lucidissimo. Si erano scagliaticontro di te e sanguinavi e i tuoi occhi…».

ALEX: «I miei vecchi occhiaski. Beh?». PADRE: «…è stato terribile e poi mi sono sveglia-

to e la tua musica era ancora accesa e non ho più po-tuto riprendere sonno. Non mi sto lamentando. Tidico solo di essere prudente».

ALEX: «Nessuno toccherà il tuo piiiccolo Alex, ah,stanne certo. “Non farai venire il batticuore nel pet-to del tuo paparino…”. Ci vediamo a colazione».

Traduzione di Anna Bissanti © Estate of Anthony Burgess

c/o International Burgess Foundation(Ha collaborato Gabriele Pantucci)

© RIPRODUZIONE RISERVATA

© RIPRODUZIONE RISERVATA

manzo di Anthony Burgess. La prima sceneggiatura, realizzatadallo scrittore e ancora più cruda di quella finale firmata dal re-gista (ne pubblichiamo un estratto in queste pagine, ndr), è sal-tata fuori solo poco più di una settimana fa: fornirà agli studiosiulteriori spunti sul mondo di Arancia. Ma, anche nella versionemeno estrema sbarcata nelle sale, il film rappresenta una sfidaimpossibile. Trasporre in immagini — efficaci, mai viste prima— le avventure futuribili, grottesche e sgradevolissime dellagang giovanile dei Drughi: ragazzi che si muovono come folliballerini in un universo lisergico di sregolatezza e «ultraviolen-za», con le altre persone viste come oggetti inanimati con cui di-vertirsi. Una scommessa vinta, per Kubrick. Un esempio su tut-ti: aver trasformato l’irruzione nell’abitazione di una coppia,con lo stupro di lei e il pestaggio di lui, in un momento cinema-tograficamente unico. Grazie a un escamotage in apparenzastonato, straniante: far cantare a McDowell Singin’ in the Raindurante l’intera, agghiacciante sequenza.

«Stanley accettò la sfida — racconta Pollack, in uno dei due do-

cufilm dell’edizione Blu-ray — per poter esplorare il nostroprofondo, il nocciolo di tutto ciò che è primario. Tutto ciò che innoi è incivile». «E ci riuscì grazie al suo spirito camaleontico», ag-giunge Spielberg. Mary Harron, la regista di American Psycho, co-glie la perversione dell’operazione: «Rende lo spettatore compli-ce delle aggressioni. È come se ti facesse avere un rapporto intimocon una persona orrenda». Mentre William Friedkin — che inquegli stessi anni diresse un altro cult, L’esorcista— sottolinea unaspetto cruciale: «Il vero nocciolo della violenza grafica di Aran-cianon è nel sangue, ma nel fatto che ti arriva all’improvviso in ca-sa. L’idea che casa tua non è sicura è ben più inquietante di unasparatoria. È la più ancestrale delle paure». Troppo, per il pubbli-co? Il dubbio paralizzò perfino Kubrick: in un primo momento ri-fiutò di girare un film tratto dal libro, sostenendo che «nessuno an-drebbe a vedere una cosa del genere, né la capirebbe». Qualcheanno dopo, però, cambiò idea: un camaleonte come lui non po-teva certo rifiutare la più impossibile delle scommesse.

ORIGINAL SCRIPTA destra le pagine

originali della prima

sceneggiatura

di Arancia meccanicascritta da Anthony

Burgess e rifiutata

da Kubrick;

nella foto grande,

l’immagine

simbolo del film:

lo sguardo allucinato

di Malcolm McDowell

Repubblica Nazionale

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le tendenzeMorbide

Sono finiti i tempi in cui si sacrificavano in abiti a saccoo si affidavano a sarte di fiducia perché tagliate fuoridal mercato della moda. Le donne plus size si sono presela rivincita e sono arrivate sulle copertine delle rivistee sulle passerelle.Ora sbarcano anche a Miss Italia,ricordandoci come erano belle la Loren e la Lollo

50 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 22MAGGIO 2011

Taglia44vista inglese Love chiede a Beth Ditto, ra-

gazza “in carne” leader dei Gossip, di posa-re nuda in copertina. Poi è la volta della ri-vista americana V magazine che alle mo-delle curvy dedica un numero, e di ElleFrance che nell’aprile scorso ha pubblica-to un servizio di ben ventidue pagine con laburrosa Tara Lynn. Una tendenza che inrealtà in Italia qualcuno aveva già anticipa-to: la prima agenzia milanese di fotomo-delle taglia over 46, dal nome emblematicodi “Ciao Magre!”, è nata nel 1998.

Ma la vera novità è che quest’anno per laprima volta a Miss Italia, grazie allo storicomarchio Elena Mirò, possono parteciparedonne taglia 44. Le ragazze che si sono pre-sentate alle selezioni sono state ben 260,segno che qualcosa nella percezione col-lettiva del canone estetico sta cambiando.Sarà come rivivere i fasti del concorsoquando in passerella sfilavano Sophia Lo-ren o Gina Lollobrigida.

Alla categoria del fuori misura apparten-gono le maggiorate, anche per loro trovareun abito è un’impresa tutt’altro che sem-plice. Mentre è più facile sbizzarrirsi con labiancheria intima: complice il ritorno dellamoda anni Cinquanta, infatti, tutti i mar-chi, da Victoria Secret a Playtext, hanno unalinea che occhieggia al mondo delle pin up.

Consapevoli del loro sex appeal le don-ne morbide pretendono attenzione. Han-no gusti ben precisi, nuovi modelli di rife-rimento e soprattutto sono una nuova fet-ta di mercato tutta da esplorare. Così devo-no aver pensato i pochi stilisti che ultima-mente si sono dedicati a loro. A nomi clas-sici, Marina Rinaldi, Elena Mirò, Per Te byKrizia, se ne sono aggiunti di nuovi: NaraCamicie, Cocoba e H&M.

Certo è facile vestire una 38, altra storiacimentarsi con qualcosa di più corposo. Lasfida è lanciata, sta al mondo della modaraccoglierla.

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Joan Holloway fa la segretaria nellapiù famosa agenzia pubblicitariadel mondo: quella della serie cultMad Men, fenomeno televisivo de-gli ultimi anni giunto alla quartastagione. Joan, che nella vita si

chiama Christina Hendricks, è una rossaesplosiva che si muove ondeggiando fra lescrivanie, scatenando sogni proibiti neipersonaggi maschili e invidie feroci in quel-li femminili. È anche grazie a lei, questa Jes-sica Rabbit in carne e ossa, se finalmente ledonne con le curve sono tornate alla ribal-ta. Dopo quasi cinquant’anni di anonima-to le donne “più”, quelle oltre la taglia 44,sembrano essersi risvegliate. Stanche dinascondersi in abiti “sacco” hanno voglia dilibertà, colore, stile, glamour.

Dimenticate dunque il luogo comune:donne grissino uguale classe. Oggi anchechi ha forme prosperose pretende di ve-stirsi seguendo la moda. E se qualche annofa le maggiori alleate delle donne forti era-no le sartine di fiducia, nell’era di Internetl’opportunità di scelta si è allargata in mo-do esponenziale, permettendo a molte diconfrontarsi sui blog, scambiarsi indirizzie consigli e di acquistare in un mercato,quello estero, più attento ai loro desideri.

Da qualche stagione anche i giornali dimoda si sono accorti di loro. Nel 2009 la ri-

Né grasse né magrefelicemente curvy

ISABELLA MAOLONI

AGGRESSIVAAbito in jersey

di viscosa,

con una lunga

fila di bottoni

sul davanti,

cintura e dettagli

black&white

dalla grande

vestibilità

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Marina Rinaldi

IL COSTUMELook da diva

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LA CAMICIARossa, maniche

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la camicia

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Beth Ditto (cantante)

Tara Lynn (modella)

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Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 51DOMENICA 22MAGGIO 2011

“Il segreto del successo è semplicebasta guardare la realtà”

Mauro Davico di Elena Mirò

LAURA ASNAGHI

L’orgoglio di essere curvy. È il motto del mar-chio Elena Mirò che da ventisei anni si battecon successo per vestire le donne che hanno

dalla 44 in su. Con circa 150 milioni di fatturato inventicinque Paesi, il marchio di Alba è tra le griffe topdelle donne con le curve generose. A Mauro Davico,lo stratega della comunicazione della MiroglioBrand, abbiamo chiesto come l’azienda ha intuito,in largo anticipo, l’importanza di creare un guarda-roba per donne vere.

Qual è stata la molla iniziale che vi ha spinto inquesta direzione?

«Chi fa moda deve avere sempre un occhio at-tento al mercato. La realtà non è fatta solo di don-ne magrissime, perennemente a dieta per stare inabiti che arrivano al massimo alla 42. Le statisticheparlano chiaro. Nell’universo femminile, oltre iltrentacinque per cento indossa taglie che vannodalla 44 in su».

Dunque, un numero molto rilevante.«Sì, ma stranamente in passato queste donne ve-

nivano ignorate dalla moda. Quindi la nostra forzaè stata quella di prendere atto di questa realtà conlargo anticipo rispondendo alle esigenze di merca-to e su questa base dare il via a una produzione in-dustriale».

Che differenza c’è tra ieri e oggi sul fronte delledonne che indossano, come si diceva un tempo, il“conformato”, termine ormai messo al bando?

«La differenza è abissale. Un tempo gli abiti servi-

vano per “coprirsi”. Verso il finire degli anni Novan-ta ha preso il via il cambiamento. Anche le tagliemorbide hanno cominciato a seguire i trend di mo-da, ad avere abiti belli e colorati, con tessuti specia-li. Quindi lo stile è entrato a pieno diritto anche inquesto settore e l’ha reso, con il passare del tempo,glamour, desiderabile».

Poi dal 2000 sono iniziate le campagne pubblici-tarie che sdoganavano definitivamente le taglieover e le sfilate che hanno portato in passerella lemodelle “grandi forme”.

«Le nostre campagne sono state studiate per da-re un messaggio forte ed autentico, una filosofia le-gata ai valori del marchio e lasciare il segno. Da “Ciaomagre” in avanti, passando per “Curve à porter”,siamo arrivati oggi con “Curve d’Italia”, in occasio-ne dei 150 anni dell’Unità. Oggi inoltre stiamo en-trando nel concorso di Miss Italia che, quest’anno,apre le porte alle curvy».

E dunque si torna alla Miss Italia degli anniCinquanta, quando dominavano le curve medi-terranee.

«Sì, quelli erano gli anni di Gina Lollobrigida e diSophia Loren. Donne bellissime ma non magre, conseni e fianchi generosi. Oggi si torna a esaltare, oltrela taglia 42, anche quelle delle donne più prospero-se orgogliose del loro corpo. Statisticamente la 44 ètra le più vendute in Italia. E allora perché non pren-derne atto?».

© RIPRODUZIONE RISERVATA

ICONAChristina

Hendricks

è una delle icone

curvy che vestono

gli abiti

del giapponese

Tadashi Shoji:

la sua ultima

collezione

si ispira

ai giardini

dell’Estremo

Oriente

LE COPERTINEDa sinistra in senso orario:

la copertina di Love, dedicata a Beth

Ditto, cantante dei Gossip. Il servizio

con le modelle curvy, uscito

sulla rivista americana V magazine;

Vogue Uk e la copertina del numero

di aprile di Elle France con Tara Lynn

RIVOLUZIONARIACrystal Renn

è la modella

simbolo

della rivoluzione

curvy: vicina

al concept

di donna vera

è la protagonista

della collezione

Pre-Fall 2011

di Zac Posen

pensata

per donne reali

DINAMICAPer il lavoro

o il tempo libero

l’abito comodo

di colore fucsia,

in linea

con la tendenza

della primavera,

di Per Te By Krizia

Pensato

per donne

dinamiche

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stagioni

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abiti,

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e scollati,

che indossano

le più magre

Repubblica Nazionale

Page 12: cultura Vittoriano, cent’anni di marmo DOMENICA MAGGIO ...

52 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 22MAGGIO 2011

InsidiosiIn India e Malesia, duemila anni prima di Cristo veniva già usatocome moneta di scambio. Ippocrate lo prescriveva per curarei disturbi mestruali, ma veniva consigliato anche per “scacciarele ventosità”. Oggi, grazie alla sua duttilità, stuzzica l’interomenù delle nostre tavole, dall’antipasto al dessert

i sapori

La reginadelle spezie, signora delle bacche. Del resto, questo èil suo nome di battesimo originario: bacca, in sanscrito, ovve-ro il frutto del piper nigrum, arbusto rampicante, originario diIndia e Malesia, dove duemila anni prima di Cristo veniva giàcommercializzato e usato come moneta di scambio. Una sor-ta di oro nero ante litteram, tanto prezioso da figurare tra i do-

ni da portare nell’aldilà, secondo il cerimoniale funerario degli Egizi, e me-ritare intere pagine celebrative nella Historia naturalisdi Plinio il Vecchio.Molto prima di diventare l’ingrediente principe dell’impepata di cozze, peril pepe è stato tracciato un destino fitoterapico. Dopo l’arrivo in Europa inscia alle campagne militari di Alessandro Magno, infatti, il padre di tutti i

medici, Ippocrate, lo prescriveva, sotto forma di pappetta conmiele e aceto, per curare i disturbi mestruali.

Un’attitudine medico-culinaria capace di attraversare i se-coli, dal ricettario di Apicio alla bibbia alimentare del colto ga-stronomo Platina, che a metà del ’400 lo definiva una speziacalda e secca, «capace di scacciare le ventosità dell’intestino».Ancora oggi, nei manuali di erboristeria, il pepe è iscritto nel-l’elenco delle piante benemerite per la sua azione stimolantee antisettica, a cui si aggiunge la capacità di scatenare la pro-duzione di endorfine, gli ormoni del benessere psichico.

Tra virtù terapeutiche e pregi aromatici, il pepe è arrivato fi-no a noi grazie alle carovane di spezie dei commercianti arabi,in transito perenne tra Oriente e Mediterraneo. Il passaggio deltestimone avvenne in coincidenza con la caduta dell’imperobizantino, quando le repubbliche marinare divennero padro-ne dei commerci via mare. A loro, e ai portoghesi di Vasco deGama, con le navi spinte sulla nuova rotta del Capo di BuonaSperanza, si deve il poderoso incremento nelle importazioni

di pepe, ulteriormente allargate a fine ’600 grazie all’affacciarsi sulla scenamondiale delle marinerie inglesi e olandesi. Complice l’abbassamento deiprezzi, la bacca regina si trasformò in ingrediente quasi popolare e irruppesulle tavole del mondo con la sua piccantezza malandrina.

Certo, c’è piccante e piccante. Quello prodotto dalla piperina, l’alcaloi-de responsabile del caratteristico gusto del pepe, è cento volte meno fortedella sensazione causata dalla sorella maggiore capsaicina, che fa impaz-zire i recettori del palato appena si addenta un peperoncino. Più che la po-tenza, poté l’aroma, se è vero che la duttilità gastronomica del pepe — nel-le sue diverse lavorazioni, falsi pepi compresi — gli permette di attraversa-re felicemente l’intera tavolozza del menù, dagli antipasti ai dessert. E se untempo il suo impiego era appannaggio esclusivo di ricette per stomaci ro-busti — stracotti ardenti come il peposo, il panpepato dalla dolcezza in-gannatrice — chef e artigiani alimentari di nuova generazione usano la soa-ve piccantezza del pepe per profumare la tartare di scampi o accendere unapralina di cioccolato bianco. In caso di overdose, astenersi dall’acqua e ma-sticare tenacemente un pezzo di pane. Le papille gustative, grate, si spe-gneranno in un attimo.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

LA

RIC

ETTA Dopo l’esperienza

romana, lo chef

abruzzese Fabio

Baldassare

è appena approdato

all’ “Unico”,

ristorante con vista

mozzafiato in cima

al nuovo grattacielo

WJC di Milano

NeroLe bacche raccolte

a maturazione

quasi completata

si asciugano al sole

fino a diventare nere

BiancoI grani di piper nigrum,

macerati in acqua una

settimana, si sbucciano,

svelando colore bianco

e piccantezza trattenuta

VerdeLe bacche, raccolte

immature, vengono

immerse in salamoia,

per mantenere intatto

il sapore aromatico

SichuanDalla Zanthoxylumfagara arrivano

le bacche al profumo

di limone di cui si usano

i gusci senza semi amari

RosaDetto anche falso pepe,

si raccoglie dai rami

dello SchinusterebinthifoliusHa gusto fine e delicato

PearàLa pepataveronese

si ottiene

per lunga

cottura

di pane

e formaggio

grattugiati

Con olio, burro,

brodo e pepe

FilettoNella ricetta,

cult Anni ’70,

bacche verdi

frantumate

e premute

sulla carne

spadellata

nel burro

Panna, brandy

e grani interi

PepePiccante

ma non troppo

Ingredienti per 4 persone

400 gr. vermicelli di pasta artigianale200 gr. cozze100 gr. tofu50 gr. pepe nero100 gr. alghe kombu50 gr. olio40 gr. pecorino

•••••••Marinare il tofu con le alghe e il pepe frantumato. Scaldare

a fuoco basso l’olio con una piccola manciata di bacche

frantumate, aggiungere un mestolo di acqua di cottura

e ridurre un poco. Far scaltrire le cozze con un filo d’olio

Cuocere i vermicelli al dente. Spadellare la pasta nel fondo

di pepe, aggiungere le cozze. Sporzionare nei piatti,

aggiungendo il pecorino e il tofu a tocchetti

Vermicelli con cozze,“cacio di mare” e pepe nero

LICIA GRANELLO

TaralliPasta di pane

e pepe

con strutto

e mandorle

(i napoletani

n’zogna e pepe)o vino bianco

e olio (scaldatellipugliesi)

PastaIl cacio&peperomano vuole

la rifinitura

in padella

con pecorino,

acqua

di cottura, olio

e pepe nero

macinato

al momento

ImpepataPane casareccio

tostato

per la scarpetta

nel sugo

delle cozze,

scaltrite

in padella

con olio

extravergine,

aglio e pepe

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 53DOMENICA 22MAGGIO 2011

DOVE DORMIREAGRITURISMO MADONNA DELL’ASSUNTA

Strada per Corato, km15. Tel. 080-3140006

Camera doppia da 70 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIAREARTUSI (con camere)

Via Luca De Samuele Cagnazzi 29. Tel. 080-3144003

Chiuso domenica sera e lunedì, menù da 35 euro

DOVE COMPRARELA PANETTA

Via De Giosa 6. Tel. 080-3163075

Altamura (Ba)DOVE DORMIREHOTEL SAN LUCA

Vicolo Volto San Luca 8. Tel. 045-591333

Camera doppia da 105 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIAREAL BERSAGLIERE

Via dietro Pallone 1. Tel. 045-8004824

Chiuso domenica, menù da 25 euro

DOVE COMPRARECAROLINA ANTICHI SAPORI

Via Pellicciai 20. Tel. 045-591100

VeronaDOVE DORMIREHOTEL ROMANO

Largo Corrado Ricci 32. Tel. 06-6795851

Camera doppia da 120 euro

DOVE MANGIAREOSTERIA LA QUERCIA 23

Piazza della Quercia 23. Tel. 06-68300932

Sempre aperto, menù da 30 euro

DOVE COMPRAREI COLONIALI

Via Appia Nuova 277. Tel. 06-7029620

Roma

Quella spezia ha carattere, parola di Piperita PattySTEFANO BARTEZZAGHI

Nel modo di dire «capelli sale e pepe» (cioè brizzolati) al pepe tocca la parte che resiste al gri-gio. Persino nella mesta circostanza dell’invecchiamento, quindi, il pepe conserva il suo ca-rattere vivace, dispettoso, renitente; persino come colore. Ha quello stesso carattere come

sapore e come odore, che già da solo ispira rossori e starnuti. Insidia il tatto: una volta si mettevapepe sotto le unghie ai ragazzini per togliere loro il malvezzo di mangiarsele. In forma di suono, igranelli identici si scontrano alla macina così come alla pronuncia le due identiche sillabe. En-trambi i processi liberano una forza innocua eppure temibile, benefica ma solo a dosi moderate.

Il pepe ha infatti qualcosa di legittimo e qualcosa di vagamente malandrino, ambiguità che per-tiene già al nome categoriale: «droga». Ma il pepe non è psicotropo: muove il corpo, secondo ildettato del modo di dire, più dinamico che volgare, «mettere il pepe al culo» (talvolta agglomera-to in un ancor più allegro «pippaculo»), per intendere «mettere fretta» o «ansia». Il pepe vero a chilo addenta muove innanzitutto i lineamenti del volto, li storce, li strabuzza. Da pimento delle pie-tanze, da meritorio conservatore di insaccati e formaggi, da ingrediente cardine dell’abbina-mento romanesco di cacio e pepe, l’invincibile inezia si fa nemico. La sua eccitazione si fa ustio-ne. La sua allegria ci strozza.

Meglio allora accertarsi in anticipo di averlo polverizzato, con lo strumento variamente deno-minato macinapepe, pepaiola, spargipepe, pepiera, persino sputapepe (mentre le antiche dro-

gherie adibivano alla bisogna un garzone: il rompipepe). Domato con l’arte umana della frantu-mazione, dosato con la saggezza dei temperanti, il pepe potrà uscire da sé medesimo. Darà il no-me ad altri alimenti, di natura tutt’affatto diversa, per proiezione del suo piccare: il peperone(francese poivre, pepe / poivron, peperone; inglese pepper, pepe / bell pepper, peperone), anchenella variante del peperoncino; il dolce ferrarese panpepato; la menta piperita di Piperita Patty(nei Peanuts originali: Peppermint Patty).

La lentigginosa amica di Charlie Brown ci conduce infine al pepe psicologico, spezia caratte-riale. È un peperino, si dice di alcuni caratteri bizzosi. Una capricciosità, si direbbe, di attribuzio-ne femminile, un poco da Scarlett O’Hara: lo stereotipo si fonda sull’analogia che il pepe eccita,sorprende, indispettisce, piace ma che una mano ferma prima o poi saprà domarlo definitiva-mente. Si dice infatti «una ragazza tutto pepe» e i vocabolari conservano addirittura il toscanismo«spepa» per «ragazzina vispa e linguacciuta». Così dice il Tommaseo-Bellini, ed esemplifica: «Hasoli sett’anni; ma è una spepa che non se n’ha idea». Per ora, può.

Macinato, il pepe perde prestissimo le sue virtù. In granelli, è il controcanto del «cum grano sa-lis». Del potenziale eversivo della loro alleanza testimonia quel verso, argutissimo, della poetes-sa Alessandra Berardi che diceva: «Al di là del pepe e del sale».

itinerari

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54 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 22MAGGIO 2011

Trentatré romanzi, centoventi milionidi copie vendute nel mondo. Per i suoifan è un compagno d’avventure,per gli editori una gallina dalle uova

d’oro, per tanti criticiuno al limite del politicallyincorrect. Lui dall’altodei suoi successi confessa:“Fai fatica a spiegartiperché all’improvviso tuttivogliano leggere proprio

quel libro. È come la moda: la tuavecchia giacca non ti piace più, deviavere quella che va in quel momento”

‘‘

‘‘l’incontroBestseller

Ci sono scrittoriche tengonobuono il 60 per centodelle pagineche scrivono,io arrivo al 90Rileggendomisorridoe mi dico: evvai

l’oggetto a tutti i librai d’Italia, che ci fe-cero in contemporanea duemila vetri-ne: fu il botto. Così sonoro da rilanciareSmith anche all’estero, facendo pentireun editore americano del giudizio af-frettato dato qualche anno prima: «Unoche si chiama Smith non sembra pro-prio che abbia il nome giusto per diven-tare bestseller...».

«Tutto vero — ride Wilbur Smith — ein effetti quando un successo è così cla-moroso fai fatica a spiegarti perché al-l’improvviso tutti vogliano leggere pro-prio quel libro. Prenda Stieg Larsson:quando l’ho finito mi sono detto: tuttoqui? Si innesca un effetto contagioso co-me nella moda, all’improvviso la giaccache porti da anni non va più bene, devi atutti i costi avere quella del momento».Un altro paio di maniche, comunque, èfar riuscire il gioco più e più volte:«Quando sei già famoso in effetti è un po’più facile, ma propriamente “facile”non lo è mai». Se va, certo, è divertente:«Tra un libro e l’altro, da tanti anni miposso permettere una buona vita, viag-gio, caccio in Africa, faccio il turista peril mondo seguendo la mia curiosità e ilfilo delle ricerche per il romanzo suc-cessivo. Però il viaggio migliore comin-cia quando ti dai una data d’inizio perscrivere e da allora ogni giorno ti alzi dibuon mattino, ti fai la barba e ti siedi altavolino. Ci vuole disciplina, ma soprat-tutto ci vogliono buoni personaggi e lospunto giusto. Quando c’è tutto, poi, èun po’ come essere al cinema, stai sedu-to e davanti ai tuoi occhi la trama si svi-luppa da sé».

Wilbur Smith non è il tipo di scrittoreche si vanta di tormenti e battaglie con leparole: «Si dice che sono veloce, ma piùche altro è questione di economia. Ci so-no scrittori che tengono buono il ses-santa per cento delle pagine che scrivo-no, io arrivo anche al novanta. E rileg-gendomi a prima stesura finita, di solitosorrido e mi dico evvai...». Per meritarsii complimenti da solo, di sicuro non ri-sparmia sulle idee, le svolte narrative, icolpi di scena, le astuzie da story tellerconsumato. Nel nuovo La legge del de-serto schizza già nelle prime pagine dueprotagonisti vigorosi, il rude ex soldatoHector Cross, capo della sicurezza di uncomplesso petrolifero, e il suo azionistadi riferimento, Hazel Bannock: bella,bionda oro, amministratore delegato,ex campionessa di tennis, vedova mi-liardaria di un anziano magnate, intelli-gente e dura quanto lui e oltretutto pro-gressista ma capace di battere Cross altiro al bersaglio con la pistola e nella cor-sa campestre tra le dune. La critica cheha sempre preso un po’ in giro WilburSmith per i suoi “maschi alfa” al centrodelle trame non ha potuto non ricono-

scere la novità di una vera “femmina al-fa”. I fan smithiani (ce n’è anche uno cheda anni tempesta il web proponendoloper il Nobel) si interrogano sui blog aproposito dell’effetto sullo sviluppo deipersonaggi femminili della nuova com-pagna di Wilbur, vedovo dal 1999 dellaterza moglie Danielle (ventotto anni dimatrimonio felice, sei anni di penosamalattia) e sposato dal 2000 con Mokhi-niso Rakhimova (per tutti gli amici Ni-so): trentanove anni più giovane, di ori-gine tagika, laureata in legge a Mosca,l’ha incontrata in una libreria di Londramentre comprava il romanzo di un altrobestsellerista — «Come potevo resisterea darle un consiglio?». Lui confermal’importanza di Niso nella sua vita («È lacosa migliore che mi è capitata») ma evi-ta di alimentare interpretazioni ridutti-ve: «Dopotutto Hazel non è esattamen-te la prima donna forte dei miei roman-zi. La mia prima “femmina alfa” in realtà

è stata la Centaine de Thiry di Spiaggiainfuocata, quindici anni fa. In generalecomunque è vero che nel corso degli an-ni le donne sono diventate sempre piùimportanti. Capaci di fare qualunquecosa come gli uomini e a volte meglio.Nei miei libri proprio come nella realtà».

L’ideologia di Smith resta comun-que oggetto di un po’ di diffidenza cri-tica. Una ragione è antica, il suo primolibro in Sudafrica fu messo al bando dalgoverno come succedeva a moltissimiin pieno apartheid, ma lo fu per il moti-vo sbagliato: «linguaggio troppo espli-cito». Del resto Smith, a chiederglieloanche adesso, si considera «uno scrit-tore britannico, britannico coloniale, imiei venivano dall’Inghilterra. È unaquestione di radici», peraltro esploratein lungo e in largo nelle sue saghe conprotagonisti anglo-africani dal ’600 al’900, e incastonate di cacce nel bush,esperienze virili di frontiera, pugilatodi strada e uomini veri in mezzo al ma-re. Non rinnega niente, naturalmente,però precisa: «Non bisogna fare l’erro-re di scambiare quello che penso io conquello che dicono i miei personaggi».Che anche in Spiaggia infuocata ne di-cono di tutti i colori. Cross, in uno scon-tro verbale con Hazel: «Non mi piac-ciono gli stronzi, che siano bianco latteo color cioccolato. E invece stravedoper i ragazzi in gamba, che siano bian-co latte o bravi negretti». Hazel in com-penso «ha votato per Clinton e Gore», èun’obamiana convinta, difende i dirit-ti umani, perfino quelli dei cattivi sog-getti. I due si riavvicinano capendo lereciproche ragioni quando pirati-ter-roristi islamici ferocissimi rapiscono (emolto peggio) la figlia di lei, e Cross sibatterà come un leone per riprender-sela. Poi si avvicinano ben di più finchéHazel gli fa una proposta di lavoro daantologia del politically incorrect: «Vi-cepresidente esecutivo alla BannockOil». Lui: «A stretto contatto con l’am-ministratore delegato?» Lei: «Diretta-mente sotto di lei di giorno, e diretta-mente sopra di lei di notte». Si può ar-rossire o dirsi evvai.... Cross non batteciglio, accetta con entusiasmo l’orariolungo e si fa onore in tutte le mansioni.

Smith lo trova naturale: «Sono sem-pre gli sviluppi dei rapporti tra i perso-naggi a portare avanti un romanzo. Lo-ro due sono molto decisi perché sonodei leader, ma per tutti quanti i com-portamenti si aggiornano col tempo».Come anche le tecnologie: «Le trovocomode nella vita quotidiana, ma so-prattutto nei romanzi. Velocizzanotutto: con uno scambio di email, unatelefonata o una microspia satellitarepuoi creare una contemporaneità diazioni ai due capi del mondo. In un ro-

manzo ottocentesco invece bisogne-rebbe aspettare dei giorni che arrivi laposta a cavallo». Di tecnologia navale,militare, petrolifera e aeronautica fagrande sfoggio il gran finale del roman-zo: «Una logica proiezione delle ultimericerche ingegneristiche, mi tengoinformato e sono anche un lettore difantascienza (tranne quella catastrofi-ca e disperata), oltre che di storia e bio-grafie. E sa perché mio padre mi hachiamato Wilbur? Oltre che per bilan-ciare con un nome inconsueto il co-gnome, lo ha fatto in onore di uno deifratelli Wright, i transvolatori. Lui ave-va il volo nel sangue, e lo ha trasmessoanche a me».

Ancora a proposito di tecnologie, Lalegge del deserto è uscito insieme in ver-sione cartacea ed e-book: «Anche questomi sembra logico, pur restando molto af-fezionato all’idea del libro di carta. Se c’èun pubblico di venti e trentenni che sipuò conquistare così, mi sembra un’op-portunità per qualunque scrittore se-rio». Però c’è di più: l’e-book di La leggedel deserto è enhanced, fornisce mappedei territori del Somaliland, dettagli del-le armi in azione, schemi di navi, crona-che di pirateria moderna. «No, guardi,quella roba mi va bene, ma non è farinadel mio sacco. Io faccio il mio piatto, ecredo che mi riesca saporito come la car-ne al barbecue. Se poi uno vuole aggiun-gerci il ketchup o il gelato, sono fattisuoi». Per apprezzare appieno la battutabisogna sapere che Wilbur Smith si con-sidera il miglior cuoco di barbecue delSudafrica. Quindi del mondo.

MAURIZIO BONO

Perle decine di milioni di per-sone che in quarantasetteanni hanno comprato unsuo libro (centoventi milio-ni di copie, venti milioni inItalia, trentatré i titoli, i con-

ti tornano), Wilbur Smith è un vecchiocompagno di avventure tra Africa, anti-co Egitto e tempeste del mare e del cuo-re. Per il mondo dell’editoria è una leg-genda e una gallina dalle uova d’oro chetra tutti i record ne ha uno ghiottissimo:neppure un romanzo fuori catalogo,trentadue soldati sempre schierati sugliscaffali e l’ultimo, La legge del deserto,sul bancone e in classifica dal 24 feb-braio in Italia, da fine marzo in Inghil-terra (dove è tuttora al primo posto), inIndia, Australia e da qualche giorno inArgentina, Canada e Stati Uniti.

Di persona, invece, Mister Bestsellerè un omone asciutto che dimostraquindici anni in meno dei settantottocompiuti a gennaio e ricorda volentiericome proprio in Italia un po’ più ditrent’anni fa fece il salto decisivo. Il librosi chiamava Come il maree il caso da al-lora è argomento fisso delle scuole dimarketing librario: dopo due titoli an-dati così così da Garzanti e Mondadori,Mario Spagnol, appena arrivato allaLonganesi, comprò il terzo con un anti-cipo di due milioni di vecchie lire e neinvestì circa altrettanti in duemilaesemplari di un gadget che allora anda-va di moda, una scatola di plexiglasscon dentro una resina blu a riprodurre,oscillando, un’onda marina. Regalò

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Wilbur Smith

Repubblica Nazionale