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“cucine del territorio”

volumi già pubblicati:

La cucina abruzzese dei trabocchi, di Maria Teresa OlivieriLa cucina ampezzana, di Rachele PadovanLa cucina aretina, di Guido GianniLa cucina bresciana, di Marino MariniLa cucina dei Genovesi, di Paolo LinguaLa cucina della Carnia, di Pietro AdamiLa cucina della Terra di Bari, di Luigi SadaLa cucina della Tuscia, di Italo ArietiLa cucina delle Murge, di Maria Pignatelli FerranteLa cucina del Parco del Delta, di Graziano PozzettoLa cucina del Piemonte collinare e vignaiolo, di Giovanni GoriaLa cucina ferrarese, di M.A. Iori Galluzzi, N. Iori, M. JannottaLa cucina fiorentina, di Aldo SantiniLa cucina istriana, di Mady FastLa cucina livornese, di Aldo SantiniLa cucina maremmana, di Aldo SantiniLa cucina modenese, di Sandro BelleiLa cucina padovana, di Giuseppe MaffioliLa cucina picena, di Beatrice Muzi e Allan EvansLa cucina reggiana, di M. A. Iori Galluzzi, N. IoriLa cucina trapanese e delle isole, di Giacomo Pilati e Alba AllottaLa cucina trevigiana, di Giuseppe MaffioliLa cucina vicentina, di Giovanni Capnist e Anna Capnist DolcettaLe cucine delle Valli d’Aosta, di Salvatore MarcheseLe cucine di Parma, di Marino MariniLe cucine di Romagna, di Graziano PozzettoMangiare triestino, di Mady Fast

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Salvatore Marchese

La cucina di Lunigiana

Presentazione di Luigi Veronelli

Prefazione di Marco Guarnaschelli Gotti

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La cucina di Lunigianadi Salvatore Marchese

Tutti i diritti sono riservati

La prima edizione di questo libro è stata pubblicata nel 1989

Nuova edizione: aprile 2014© 2014 Lit Edizioni s.r.l.Orme è un marchio di Lit Edizioni s.r.l.Sede operativa: Via Isonzo 34, 00198 RomaTel. 06.8412007 – fax 06.85865742(su licenza di Tarka/Fattoria del Mare s.a.s. di Franco Muzzio)www.ormebooks.it

Impaginazione ed editing: Monica Sala

Stampa Grafiche del Liri s.r.l.Via Napoli, 85203036 Isola del Liri (FR)Per conto di Lit edizioni SrlLargo Giacomo Matteotti 1Castel Gandolfo (RM)

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Indice

Presentazione di Luigi Veronelli 1

Prefazione di Marco Guarnaschelli Gotti 3

Ringraziamenti 5

Introduzione 7

A gh’era n’om… 11

La cucina 13

Le castagne 19La lavorazione delle castagne 19Il castagno 20

I cereali 49Il mulino e la molitura 49Il grano e il granoturco 50Il pane e la tradizione 53La lavorazione del grano 60I testi 62

Le carni 115

I pesci 183

Le verdure 217Il diavolo e il contadino 217

I dolci 253Le storie della spongata 254

I liquori 287

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VI la cucina di lunigiana

Qualche menu della tradizione 289

Il folclore, le tradizioni, i musei 293

Glossario 297

Bibliografia essenziale 299

Indice analitico delle ricette 301

Indice alfabetico delle ricette 307

Fonti delle illustrazioni 313

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Presentazione

Certo, debbo ripetermi: odo gli amici vantare i loro viaggi, le espe-rienze solo all’estero e, ogni volta, mi stupisco. Io “batto” da sem-pre le città, i paesi, i borghi di questa nostra Italia e non finisco di meravigliarmi, tante e tali le sorprese e le prove di civiltà che non ha pari e confronti. Non so sino a che punto sia giusto – in una vita breve, incapace più che mai (e sempre di più) di onniscienza – ignorare i nostri luoghi, le nostre tradizioni, il nostro immenso patrimonio per altri, certo più poveri, ed estranei. Benvenuto sia quindi il libro di Salvatore Marchese. Batterò d’ora in poi le terre di Lunigiana col suo prezioso viatico. Conosco Salvatore “ch’era un ragazzino” e già cercava, per le valli della sua terra, e monu-menti di pietra e di cucina; e già disquisiva, con sapienza e mode-stia, sui vini, e consigliava, ai contadini sorpresi, le sconosciute vie d’una pulita tecnica.La sua ricerca “antica” l’hai qui. Ti basterà scorrere alcune pagine per constatare gioioso: in Lunigiana, assai più che altrove, è co-stante – così costante da indurre a meditazione – la corrisponden-za tra “usi” civili e di tavola.Ancora una volta sarà eccitante apprezzare i piatti d’una tradizio-ne che sfrutta, in tutti i dettagli, le risorse dei luoghi e “suppor-tarli” con i vini autoctoni (variano, vigne benedette di anarchici, a ogni angolo di muro); e ancora una volta ci si accorgerà della stessa “marca”, esaltante, data ai cibi e ai vini – tuttavia differen-tissimi – dal fatto che un po’ ovunque, qui, tra le vigne e gli olivi, fioriscono le ginestre e le mammole, le salvie e il timo, la maggio-rana e il basilico.

Luigi Veronelli

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Prefazione

Se la Lunigiana non fosse esistita avremmo dovuto inventarcela, noi cultori di etnogastronomia, assaggiatori storici: che laborato-rio! Pensate un po’: un’area dove ci sono stati insediamenti etru-schi, fenici, dove Roma aveva uno dei suoi più grandi porti com-merciali (Portovenere) e che per di più, viva e vitale, sta a cavallo di tre regioni come la Liguria, la Toscana e l’Emilia Romagna, che vi fanno incontrare i lati poveri dei propri Appennini; un’area dove l’ingegno di tre regioni si è aguzzato per creare una cultura cucinaria che venisse prima di tutto a capo della fame; un’area dove tuttora convivono la civiltà dell’olio d’oliva, ligure e toscana, quella delle castagne, ligure ed emiliana appenninica, quella delle erbe, ligure, quella dei fagioli, toscana, quella della farina gialla, emiliana e toscana. Che volere di più?Tanta ricchezza di spunti non è mai stata facile da dominare: ma questa volta direi proprio che Salvatore Marchese, giornalista e appassionato ricercatore di stanza a Sarzana, ce l’ha fatta, col sem-plice (e moderno) espediente di usare come temi di ricerca ognu-no degli ingredienti fondamentali che poi si intrecciano nei piatti: la castagna, le erbe, la polenta, i fagioli; e anche le condizioni della loro produzione o raccolta nelle epoche, le suddivisioni delle proprietà agrarie e delle colture, le linee di comunicazioni com-merciali…Ma, dirà qualcuno, che si mangia? O più elegantemente, in che modo tanta ricerca teorica si traduce poi in esperienza quotidiana utilizzabile, sia pure culturalmente, ai fornelli? Attraverso il rac-conto molto puntuale di quelle preparazioni, ormai mitiche per l’appassionato, con quei nomi (non minima parte del loro succes-so) che sembrano scappati fuori da novelle del “Dugento”: pani-gacci, testaroli, matuffi, tigelle, ciacci e tante altre di cui andiamo in cerca, nel tempo libero e non, su per la Cisa e in Val di Magra.

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4 la cucina di lunigiana

Quelle per cui una delle più “povere” tra le tradizionali cucine “povere” ci svela le proprie golose ricchezze con giusta parsimonia; e per le quali i “vecchi” che ancora ne possiedono i segreti sono molto giustamente ascoltati come oracoli.

Marco Guarnaschelli Gotti

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Ringraziamenti

Per il contributo alla ricerca, l’autore ringrazia Luciano Bertoc-chi e Mauro Bertocchi (Pontremoli), Lia Giambutti (Villafranca in Lunigiana), Francesca Guastalli (Bagnone), Rolando Paganini (Licciana Nardi), Francesco Ruschi Noceti (Pontremoli).

Per la migliore definizione di alcune ricette, ringrazia Fabio Mo-relli (della storica Hostaria di Corneda di Tresana), la famiglia Maietta (La taverna del corsaro di Portovenere) e i proprietari dei ristoranti:Bussé di Pontremoli;La gerla d’oro di Montereggio (Mulazzo);Da Gianni e Dorina (Milano);L’Armanda di Castelnuovo Magra;Al Castello di Castelnuovo Magra;Il giardinetto di Fivizzano;e le signore: Anna Morachioli, Emilia Sergiampietri, Cesarina Morachioli, Francesca Ponzanelli, Marta Morachioli.

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Introduzione

Si è soliti dividere una Lunigiana toscana da una Lunigiana ligure. È un criterio che, sul piano amministrativo, viene a coincidere con una situazione geografica della quale il fiume Magra è il fat-tore discriminante.La Bassa Valle è Liguria, con il territorio dei comuni di Santo Stefano Magra, Sarzana, Bolano, Vezzano Ligure, Arcola, Ame-glia, Castelnuovo Magra e Ortonovo. L’Alta Valle – la Lunigiana Toscana – si identifica con il territorio dei comuni di Aulla, Tre-sana, Podenzana, Villafranca Lunigiana, Mulazzo, Filattiera, Zeri, Bagnone e Pontremoli.L’eccezione è Fosdinovo, comune toscano, che si pone tra Sarzana e Castelnuovo Magra. Più decentrati, Licciana Nardi e Coma-no (sulla strada per il Lagastrello) e Fivizzano (sulla strada per il Cerreto), dai quali, tuttavia, ci si ritrova nell’Emilia altrimenti raggiungibile dalla Cisa. Dopo, per ultima, Casola Lunigiana (in direzione della Garfagnana). Sembra, questo, il percorso ideale per apprezzare compiutamente una vasta regione culturale e geografica caratterizzata dal mondo contadino, dalle vicende storiche, dai traffici commerciali e dal-le civiltà antiche, romane e medioevali, sviluppatesi attraverso le stupefacenti vicende dei menhir, di Luni, della via Francigena (o Francesca), dei Malaspina e dei vescovi di Luni.Dal porto di Luni (la città fu fondata nel 177 a.C.) partivano i preziosi “marmi lunensi” che fecero grande la Roma imperiale di Augusto; e lì arrivavano il garum (salsa di pesce fermentato) e le merci di tutto il Mediterraneo dando il via a una direttrice di traffico che poi avrebbe avuto in Lerici e Portovenere (e La Spezia ancora più tardi) i punti di riferimento.E con la storia di Luni – tanto bella da essere scambiata per Roma, da Barbari ignoranti – inizia anche la storia della gente di Luni-

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giana, che prese a vivere sulle rive del fiume (allora diverse dalle attuali, per posizione) e sulle colline.Prima ancora, tuttavia, quella terra era stata abitata da popolazio-ni misteriose, le quali ci hanno tramandato, intatto e intrigante, l’affascinante segreto dei menhir. E sono le stesse statue di pietra, ritrovate anche in prossimità del mare oltre che nell’Alta Luni-giana, a segnare anticipatamente i confini di una regione che, per quanto interessata a frequenti passaggi di eserciti, mercanti e gen-te di ogni nazionalità, ha saputo difendere con fierezza la propria cultura.Il cibo – i testaroli, le castagne, le torte – è parte integrante e in-sostituibile. Quasi che fosse stato idealmente affidato alla gente di Lunigiana il compito di perpetuarne la testimonianza attraverso i secoli.Cucina povera, nella comune accezione. Si ribadisce, da più parti, la necessità di valorizzare la cucina regionale. Poi, inevitabilmente, si tende a privilegiare quella più “grassa” o, comunque, quella cu-cina che sia, quanto più è possibile, vicina all’immagine corrente dell’opulenza. E quindi del potere.Eppure, in Lunigiana c’è stato spesso il sovrapporsi di condimenti importanti come l’olio d’oliva, i formaggi, il lardo e lo strutto. Contemporaneamente, si è radicata una cucina legata alle risorse naturali e partecipe, sempre, di un modo esemplare di essere al di fuori del tempo e del mito.Quello di una definizione di cucina povera e di cucina ricca è, del resto, un problema radicato nella Storia.

Nella società altomedioevale, in cui l’alimentazione costituisce effettiva-mente un problema, reale spesso, psicologico sempre, la prima valenza lin-guistica del cibo è molto semplice e immediata. Esso esprime e comunica la capacità/possibilità di procurarselo, possederlo, consumarlo. Dunque una valenza di natura economica e sociale. Il potente mangia (può mangiare) di più o meglio, il pauper mangia (può mangiare) di meno e peggio… In questa logica si inserisce l’aneddoto riportato da Liutprando di Cremona nell’Antaposodis, dove narra che il vescovo di Metz, preparandosi nell’888 ad accogliere Guido di Spoleto per incoronarlo re dei Franchi, gli preparò

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grandi onori e cibaria multa; poi, venuto a conoscenza delle sue parche abitudini alimentari, gli preferì Eude, conte di Parigi, esprimendo su Guido uno sprezzante giudizio: “Non è degno di regnare su di noi chi si acconten-ta di un pasto vile da pochi soldi”.1

Lo stesso destino sembra assegnato alla cucina di Lunigiana di cui la donna (pauper) è la vera protagonista nei confronti dell’uomo (il potente); la donna non ha bisogno di ricettari, e si affida alla tradizione orale per dare origine, attraverso mille sfumature, alla cucina del racconto.Nasce, si sviluppa e si radica, allora, una cucina ispirata non dalle ragioni del gusto o dalle necessità coreografiche, ma dal sentimen-to e dall’affetto che la rendono inestinguibile. Giustamente. Per la nostra completa soddisfazione.

Salvatore Marchese

1 Montanari M., 1988, Alimentazione e cultura nel Medio Evo, Laterza, Bari.

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La cucina

Una nitida fotografia della cucina della Lunigiana toscana è con-tenuta nella Guida gastronomica d’Italia pubblicata dal Touring Club nel 1931. In pratica si può considerare un lodevole e atten-dibile inventario dell’epoca, allorché ancora poche, e lievi, erano le contaminazioni provocate dalle mode e dai nuovi ingredienti importati da lontano. Gran parte delle indicazioni di quel tempo sono tuttora di attualità. Questo può essere interpretato come un segno del profondo legame tra la gente lunigianese e la propria cultura. Il che rafforza sensibilmente la valenza della tradizione in un’area dalla particolarissima conformazione geografica.

Le fertili campagne della parte littoranea della provincia – particolarmente quelle che nel Massese s’estendono lungo la valle del Frigido, ricco di trote – producono grandi quantità di ottime verdure; sono di largo uso locale le radici di scorzonera, chiamate barbe di prete, che si mangiano in minestra, o in insalate o fritte…La cucina vi è prettamente toscana, con qualche influsso ligure in prossi-mità del confine con la provincia della Spezia, né ha dunque caratteristiche proprie, se si toglie una torta, chiamata marocco, fatta di farina gialla impa-stata con erbe…Si discosta sensibilmente da essa la parte montana… Pontremoli, che è il capoluogo dell’alta valle, presenta una caratteristica degna di nota: il greto del fiume e dei suoi affluenti, nelle adiacenze della città, è tutto quadret-tato di orti (orti d�la jèra, orti della ghiaia) che danno eccellenti qualità di verdure e legumi.A Pontremoli, affluiscono dalle circostanti campagne e dalle frazioni ottimi ortaggi fra i quali i fagioli di Zeri e i porri di Bassone; carni assai pregiate forniscono i vitelli di Guinadi, i capretti e gli agnelli della Cervara. La mon-tagna pontremolese, ricca di pascoli, dà buoni latticini come il pecorino di Bassone e della Cisa, secco e piccante, la ricotta di Arzengio, dalla pasta

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fine, grassa e delicata, e il formaggio fresco di Zeri. Vecchia e apprezzata industria locale è la salumiera, di cui sono caratteristici i salami di pasta magra, poco drogati, dalla forma lunga e sottile, le bondiole, le coppe, le soppressate. Nella Magra e nella Gordana, infine, si pescano trote sapori-tissime.Nelle campagne il pane è spesso sostituito dalla carsénta – che ha stretta parentela con la carseinta, comune nell’Emilia –, specie di focaccia di varie qualità, cotta su testi di terra: alcune sono lievitate (alvà) come quelle di fa-rina bianca, o quelle della stessa farina, mescolata con farina di granoturco ovvero con farina di castagne; altre invece sono azime, (lisa) di farina gialla o mescolata, o di sola farina di castagne (patòna); tutte vengon cotte sul testo, accomodate con uno strato di foglie di castagne.Tra i piatti di cucina: i testaroli, o testarö, sfoglie spesse di farina bianca, cotte sui testi, quindi tagliate a losanga; si fanno rinvenire in acqua tiepida e si condiscono con pesto alla genovese e pecorino di Bassone grattugiato; questo piatto sostituisce la minestra. Le torte, composte di due fogli di pasta (gròsta) con ripieni di varia maniera: torta d’erbe, con ripieno d’uo-vo, ricotta, bietole tritate e borrana (tradizionale nella ricorrenza della SS. Annunziata, nel sobborgo omonimo); torta di riso, ove il riso sostituisce le bietole; torta di porri, con ripieno di porri tritati e soffritti in olio (per la vigilia di Natale). L’erbadèla, impasto di porri, finocchi ed erbe con farina gialla. I tortelli (tordèi), simili ai ravioli della Liguria con ripieno di erbe, come per la torta, o di carni, salsicce e droghe (per Carnevale).Tra i dolci: la spongata, torta di sfoglia di farina bianca, ripiena di marmella-ta, mandorle, miele, pignoli, scorze candite ed uva secca; è dolce di Natale. Gli ossi di morto fatti di marzapane con “midollo” di pasta di mandole: dolce della ricorrenza dei Morti. La carsénta dolce, di pasta dolcificata. Il pane di ramerino (ramain), panini dolci all’olio con rosmarino, uva secca, noci, pignoli, anici. I canestrelli, simili al precedente ma senza il rosmarino, l’uva e le noci. Le crescentine (carsentèl), focaccette di pasta dolce, spolverate di zucchero.

Sono senz’altro interessanti i riferimenti ai luoghi di produzione e le sommarie (tuttavia precise) indicazioni sulle ricette. Puntuale, inoltre, la connessione delle varie specialità con le ri-correnze del calendario. Non da meno le notizie sulla provincia

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la cucina 15

della Spezia, un vasto ed eterogeneo territorio articolato tra mare e campagna.Fanno rilevare gli estensori della Guida:

Come nel resto della Liguria, vi predomina la cucina genovese; nella stessa Spezia essa si è mantenuta integra nonostante gli afflussi immigratori da ogni parte della Penisola, che nell’ultimo cinquantennio hanno determina-to il mirabile sviluppo della città marinara.

Al di là dell’enfasi, è reale la constatazione che alla Spezia giunsero in quel “mezzo secolo” migliaia di famiglie richiamate dai posti di lavoro creati dalla costruzione dell’Arsenale militare.“Il golfo possiede alcune varietà di frutti di mare… È in testa a essi la zuppa di datteri…” Durante il Medioevo, pare che i dat-teri fossero già assai apprezzati dai potenti. Si dice che nel 1154 un provvedimento dell’imperatore Federico Barbarossa obbligasse i signori di Vezzano a portargliene periodicamente a Roma uno scudo colmo.Molto più popolari e a buon mercato i muscoli, raccolti nei vivai.

Si mangiano crudi con limone e pepe, come l’ostrica… Eccellenti e delicati sono passati in farina e fritti nell’olio di oliva; se ne fa altresì la zuppa come i datteri; in intingolo col pomodoro e col prezzemolo se ne condiscono gli spaghetti o il riso. Recentemente è sorta alla Spezia una industria dei mitili in scatola, che dà prodotti assai apprezzati.

La struttura non esiste più da anni. Ancora molte, però, sono le famiglie solite conservare i muscoli scottati e aperti in vasetti sott’olio per qualche giorno.Non manca un evidente pizzico di nostalgia per i tartufi di mare, ottimi crudi, all’antipasto.

I pescatori li raccolgono sotto la sabbia lungo le spiaggie del golfo, ma non sono molto comuni. In passato era assai in uso la zuppa o il condimento per pasta asciutta di arselle, oggi resesi più scarse per le distruzioni che hanno subito le rive del golfo.

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Attualmente risulta difficile trovarla nei ristoranti, ma allora costi-tuiva una delle principali specialità ittiche.

La zuppa di pesce – riferisce la Guida – è la prerogativa prelibatissima di Spezia e dei paesi del golfo, specialmente dell’incantevole Portovenere, che per essa e per la zuppa di datteri è sacrata alla fama dei buongustai. È pre-parata con svariate e saporite qualità di pesci di scoglio: la confezione di essa è a base di un soffritto di olio, prezzemolo e aglio, con aggiunta di vino bianco. La zuppa, fragrante e sovranamente appetitosa, si serve con fette di pane.

Macine e tramoggia del mulino di Arlia di Fivizzano.

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la cucina 17

L’ultima considerazione per le ricette di mare viene riservata a un “piatto caratteristico che si usa consumare in occasione di sagre, lo scabeccio, specie di pesce marinato”. Si tratta di muggini fritti e posti sotto l’aceto, bollito e insaporito con salvia e rosmarino. Non è citato il pomodoro, e non è dato sapere se è per banale dimenticanza o perché effettivamente non venisse usato nella pre-parazione delle zuppe. Più avanti, il puntualissimo repertorio del Touring Club annota:

Tra le minestre più usate, ecco il minestrone al pesto; le trenette a stuffo, linguette di pasta condite con ragù di fagioli; la quaresimale, zuppa di ceci e bietole condita con soffritto di prezzemolo, aglio, sedano, cipolla e salsa di pomodoro; i ravioli nelle festose cene di Carnevale; i così detti crosetti, fatti con pasta di lievito e stampati a disegni, lessati e conditi con sugo di carne; i maccheroni di Natale (rigatoni), lessati e conditi col sugo di carne (nel Sarzanese, con trippe); la lattuga ripiena, cotta nel brodo di carne e condita col sugo pure di carne, che è di rito nel pranzo di Pasqua. Tradizionali sono anche i cavoli lessati e conditi con l’olio d’olivo, mangiati la vigilia di Natale insieme alle frittelle di farina bianca impastate con baccalà. Nel contado si usano le frittelle di granturco, mischiate di cipollini tagliuzzati, e pure in uso sono le frittelle e le torte di farina di castagne con pignoli e uva secca.

Si riscontrano momenti di raccordo tra la cucina di Massa Carrara (e del Pontremolese) e della Spezia. Ma a ben vedere, emergono importanti diversità nel descrivere i diversi piatti. È probabile che i “corrispondenti” fossero più o meno interessati o, in ogni caso, di differenti vedute, fatta ovviamente eccezione per le ricette ma-rinare. Sia pure in normali elenchi di cibi, sembra quasi che la Lunigiana toscana offra un aspetto più compatto, forse più tipico e ancestrale, e saldamente legato al territorio.Nell’ambito spezzino, probabilmente più borghese, si ha l’impres-sione di cogliere segnali di altre culture, di altre abitudini alimen-tari (talvolta maggiormente evolute).

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La guida prosegue ancora:

Tipica della Spezia è la mesciua (mes-ciua), piatto di ceci, fagioli e grano lessati e conditi con olio d’olivo; il popolo va a mangiarla a Pegazzano per la festa della Madonna dell’Acqua Santa selvatica; in città viene confezionata in talune trattorie. In famiglia si fa la polenta di farina di ceci, volgarmente chiamata panissa, condita con olio d’olivo, consumata talvolta a fette infa-rinate e fritte. Dai fornai si vende la farina di ceci.

Il finale è dolce con gli amaretti, la torta spezzina, i biscotti dea bricia, coi semi di finocchietto, le frittelle di mele leggermente infarinate e spolverate di zucchero. Piuttosto articolate sono le informazioni relative alle altre zone della provincia. Molto interes-sante, per quanto riguarda la valle della Magra, la sontuosa ricetta dell’anatra all’olivo, della quale si è persa purtroppo ogni traccia: “Anatra in casseruola, con intingolo denso ottenuto da carne di manzo, fegato e stomaco dell’anatra triturati con cipolle e olive, e servita con olive intere”.E nei ricordi di una volta sono anche le cotichelle, le cotiche di maiale ripiene di una farcia composta da carne di manzo e di ma-iale tritate, amalgamate con uova e formaggio. I saporiti involtini erano cotti in umido.Da sottolineare quanto detto a proposito di Varese Ligure, nella bellissima Val di Vara:

Notevole commercio di funghi tanto freschi che disseccati. Specialità di Varese sono le sciuette, attività esclusiva delle monache: dolci composti di zucchero e pasta di mandorle, foggiati a forma di fiori, funghi, pesci, frutta, vivacemente colorati.

In Sicilia, tali delizie vengono chiamate marzapani, pasta reale o frutta martorana (dal nome del convento di monache situato nei dintorni di Palermo, dove furono preparate per la prima volta).

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Le castagne

La lavorazione delle castagne

La raccolta delle castagne era praticata dai primi di ottobre fino a San Martino (11 novembre). Donne, uomini e bambini prov-vedevano alla raccolta usando la rusparela, rudimentale rastrello ricavato da un ramo a tre punte per rimuovere le foglie secche, la mazzetta, piccolo martello in legno, e le pinze (molia) per estrar-re le castagne dal riccio. Effettuata la raccolta, le castagne erano trasportate dai castagneti alle case e quindi messe a essiccare per quindici-venti giorni, al calore del fuoco e del fumo del focola-re, sul gradile (grada): una sorta di graticciata formata da travi di castagno e listelle di ontano che costituivano la soffittatura del locale adibito a cucina. Successivamente si battevano le castagne per liberare i frutti dall’involucro esterno e dalla pellicola interna.I sistemi tradizionali di battitura erano tre: 1) le castagne erano raccolte in un sacco che veniva battuto ripetutamente sul ceppo; 2) erano pestate in un mortaio di legno con un pestello; 3) erano ammucchiate sull’aia e percosse a colpi di mazzaranga. Al termi-ne della battitura, le donne provvedevano alla spolveratura delle castagne con il vaglio e alla loro cernita, utilizzando un tronco d’albero tagliato a metà longitudinalmente e scavato all’interno (meisa, crivel); la cernita consisteva nel dividere le castagne mi-gliori, destinate alla molitura, dalle più piccole di scarto, utilizzate come cibo per gli animali. La farina era conservata nella cassa o nel bug, un tronco d’albero svuotato, avendo cura di pressarla e ricoprirla con cenere.Tra i cibi tradizionali a base di farina dolce ricordiamo la pattona, torta cotta nel testo; le frittelle (padleti) accompagnate con ricotta e formaggio; la polenta; le lasagne bastarde, pasta di farina dolce e di grano, cotte in acqua e condite con olio e formaggio.

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20 la cucina di lunigiana

Il castagno

Il castagno, elemento decisamente fondamentale della cultura cucinaria di tutta la Lunigiana fino a pochi anni fa, è stato così nominato (Castanea sativa) per rimarcare la sua provenienza da un’antica città della Tessaglia (Castanum, la chiamavano appunto i latini) che sorgeva in mezzo a curatissimi boschi di castagni.La sua area di diffusione è abbastanza estesa e infatti lo si trova, oltre che in Italia, anche nella Penisola Balcanica e nella ex Iu-goslavia, in Francia, nella Penisola Iberica, in Turchia, nel Sud dell’Inghilterra, in Ungheria, in Romania, nei Carpazi e nel Can-ton Ticino.I castagneti italiani non sono spontanei, ma rappresentano il ri-sultato di un’antica rivoluzione iniziata probabilmente dai romani e intensificatasi, poi, nel Medioevo, durante un’autentica, provvi-denziale opera di trasformazione del paesaggio nella quale, in epo-che diverse, hanno svolto una parte di estrema importanza anche la vite e l’ulivo.

1) pinze, 2) ricostruzione grafica dell’essiccatoio per castagne.

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Con la messa a dimora di queste tre piante, l’uomo ha chiuso un ciclo, apertosi con la semina del grano, riguardante il suo modo di essere: da nomade, infatti, è diventato agricoltore. E con l’a-gricoltura si è sviluppato l’allevamento. In Lunigiana, in alcuni momenti, la farina di castagne è stata veramente “la farina” (man-cando il frumento) e il castagno si è proposto come “l’albero del pane”. Non solo. Il castagno è come il maiale, e viene completa-mente sfruttato.Dalle castagne, la farina. Ma anche il legno per costruire mobili e per scaldarsi, oppure per estrarre il tannino. Ancora: le foglie da mettere sul fondo dei testi, l’humus adatto per i profumatissimi funghi. È per tutto questo che si pensa al castagno come all’em-blema stesso della Lunigiana.

L’Alta Lunigiana, ricoperta per quasi due terzi da selve di castagni e situata a nord di una regione, la Toscana, che fino a sessant’anni fa deteneva, tra quelle italiane, l’assoluto primato in fatto di produzione dei preziosi frutti, potrebbe, già di per se stessa, fornire una immagine nella quale risalta l’im-portanza di questo prodotto e come esso abbia influenzato e condizionato non solo l’economia ma la vita stessa di molte generazioni. Il Faie, nelle sue cronache quattrocentesche, diceva che le castagne rappresentavano “per i due terzi il pan di Lunigiana” e tutti gli Statuti delle Comunità Locali (dal XV al XVIII secolo) dedicarono numerosi capitoli e norme per la tutela e l’utilizzo dei castagneti con il preciso intento di sottolineare il ruolo fon-damentale di questa pianta per l’economia e la sopravvivenza delle popola-zioni. Gli agronomi dei secoli XVII e XVIII ponevano il castagno al primo posto tra le colture arboree della Lunigiana.3

La castagna si intreccia con i diversi aspetti della vita dell’uomo di Lunigiana fino a diventare parte essenziale anche del folclore e della vita religiosa, oltre che dell’economia. A Pulica, nei pressi di Fosdinovo, si favoleggia della grotta delle fate, che escono di not-te, nude, per correre tra i castagni cercando l’amore.

3 Cavalli, G. 1982-1983, La castagna, in “Quaderno di studi lunigianesi”, voll. XII e XIII, Villafranca Lunigiana.

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La grandissima fiera di San Genesio, che richiamava a Filetto gen-te di ogni ceto sociale, si teneva proprio nei castagneti. A Ca-stelnuovo Magra, nel giorno della commemorazione dei defunti, il 2 novembre, i ragazzi indossavano collane di castagne bollite con l’alloro.

E come non accennare, ancora, ai detti, ai proverbi, alle leggende intessute sull’eterno conflitto tra il bene e il male (le spine dei riccio sono un dispetto del diavolo, la croce che lo fa dischiudere quando giunge a maturazione è segno della bontà del Signore); ai bambini “trovati” nel tronco cavo del castagno, alle apparizioni miracolose, alla gara dei campanari, nel giorno del Sabato Santo, per propiziare al paese un buon raccolto di castagne, e ancora, al fuoco propiziatorio acceso il 28 agosto nelle selve, attorno al qua-le gli abitanti di Cervara di Pontremoli si riunivano per cantare Kastagna de kí tavèla d�la (“castagna piena sta da questo versante dell’Appennino e buccia senza frutto sta di là”). Sembra, in questo, di notare il perpetuarsi di antichi riti e di antiche consuetudini propiziatorie connesse al culto e alla sacralità delle selve.4

La necessità di trasformare le castagne in farina per l’inverno, fino all’incerto raccolto dell’anno successivo, incide sulla strut-tura edilizia delle povere case. È indispensabile trovare il posto per il gradile (il canniccio) dove far essiccare i frutti. E Sassalbo, in prossimità di Fivizzano, diventa il “paese senza comignoli”. Il fumo annerisce le pareti e copre il sapore dei cibi. Però favorisce la trasformazione delle castagne.E poco importa se anche le povere vesti, sempre le stesse, odorano di fumo.Per raccogliere le castagne, grazie a taciti accordi, cessavano i com-battimenti. Gli emigranti stagionali rientravano dalle regioni vici-ne. Ogni altra attività veniva praticamente sospesa.Il castagneto era considerato fonte di sostentamento e, qualche volta, addirittura di ricchezza. Era, dunque, un bene degno della

4 Ibidem.

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massima considerazione, da tramandarsi di padre in figlio. Oppu-re, un inconfondibile segno di potere.Interessante, per questo, esaminare testamenti, inventari e decreti.

1466, ottobre, 17; Quercia, in casa del testatore5

Giovanni detto Caleffo del fu Tommasino della Quercia dispone nel pro-prio testamento quanto segue:1) di essere sepolto nel cimitero della chiesa dei Santi Fabiano e Sebastia-no di Olivola, cui lascia, per la remissione dei suoi peccati, s. 40 i.,2) lascia come legato al proprio figlio Francesco una casa posta nelle pertinenze di Olivola n. l. d. Ala Guerza: que appellatur la caxa da li bo con-finante: da una parte con gli eredi di Antonio Franzoni, dall’altra con Tono Petrizolo, dall’altra ancora con Bonomi abitante alla Quercia,3) di lasciare come legato al medesimo Francesco un cassamentum conti-guo alla casa dove abita il testatore, confinante: da una parte con Baldas-sino della Quercia, dall’altra con Tono di Petrizolo della Quercia, dall’altro ancora con la casa del testatore.Il medesimo Giovanni lascia al proprio figlio Francesco, come legato le seguenti pezze di terra:4) una pezza di terra prativa posta nelle medesime pertinenze n. l. d. A Va-lenza, confinante: di sopra con Paolino del fu Cristoforo e di Perota abitan-te a Olivola, di sotto con Tono Tribuloxi, da una parte con Tono di Petrizolo,5) una pezza di terra campiva posta nelle medesime pertinenze n. l. d. In lo braxello confinante: di sotto con Matteo Pasquale, di sopra con gli eredi di Michele, dalle parti con il detto Baldassino.Il testatore dispone inoltre:6) di lasciare al detto Francesco tutti i beni mobili e immobili che il me-desimo Francesco ha acquisito dopo che vive con Antonio Vallari, suo suocero e una pezza di terra campiva posta in Olivola n. l. d. In lo braxello confinante: da una parte con Matteo di Pasquale, dall’altra con gli eredi di Michele, e dall’altra ancora con Baldassino,

5 Bonatti, F. 1981-1984, La Lunigiana nel secolo XV nei protocolli del notaio Baldassare Nobili, voll. II e III, Pisa.

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7) di lasciare al medesimo Francesco unum vasse ligni, posto nella casa del testatore.Il detto Giovanni dispone inoltre nel proprio testamento che ai propri figli Battista e Antonio vengano lasciati come legato i seguenti beni mobili e immobili da dividersi in parti eguali:1) una pezza di terra campiva nelle pertinenze di Olivola n. l. d. Ala croxata, confinante: di sopra con il detto Baldassino, di sotto con la pieve di Santa Maria di Monti, da una parte con la via della comunità,2) una pezza di terra prativa posta nelle medesime pertinenze n. l. d. Ala prada, confinante: da una parte con gli eredi Franzoni, dall’altra con la via della comunità, dall’altra ancora con Tono del fu Petrizolo,3) una pezza di terra castagnata posta nelle medesime pertinenze n. l. d. In nave scorsa confinante: da una parte con Mignono di Pallerone, dall’altra con Petrizolo di Costamalla, dall’altra ancora con Pasquale di Sanacco,4) una pezza di terra castagnata posta nelle medesime pertinenze n. l. d. A prugne confinante: da una parte con Angelino del fu Antonio della Quercia, dall’altra con la via della comunità, dall’altra ancora con Tono del fu Petrizolo,5) una casa posta nel borgo di Olivola, confinante: da una parte con gli eredi di Antonio, dall’altra con Pedruci di Olivola, dall’altra ancora con la via della comunità,6) una casa con aia posta nelle medesime pertinenze n. l. d. Alla villa de la Quercia, in cui abita il medesimo testatore, confinante: da una parte con Tono del fu Petrizolo, dall’altra con Bonomi del fu Antonio, dall’altra ancora con la via pubblica,7) una pezza di terra prativa cum edifficis cassine et cassamentis super positis, posta nelle medesime pertinenze di Olivola n. l. d. In lo fredano, con-finante: da una parte con gli eredi di Tono Franzoni, dall’altra con Antonio del fu Petrizolo, dall’altra ancora con la via della comunità,8) una pezza di terra in parte boschiva e in parte vignata posta nelle me-desime pertinenze n. l. d. Ala bonacella, confinante: di sopra con la via della comunità, di sotto con il detto Bonomi, da una parte con il detto testatore,9) tutti i beni mobili del testatore che sono: tutti i panni di lana, tutti i vasi di legno e di metallo, le casse, gli scrigni (scrineos), gli altri utensili e suppel-lettili che sono nella casa del testatore, quindi le capre, le pecore, i buoi, le vacche e l’asino dello stesso testatore, quindi tutte le biade che sono:

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grano, segala, panico e castagne, e infine l’olio e il vino che sarà trovato al tempo della sua morte nella sua casa.Il testatore inoltre ordina che i propri eredi provvedano a far celebra-re un ufficio funebre presso la propria sepoltura nel giorno settimo, nel trigesimo e nella ricorrenza annuale della morte, per questo lascia l. 66 i., affinché gli eredi non trasgrediscano questo comando impegna detta somma in una pezza di terra campiva posta nelle pertinenze di Olivola n. l. d. A Felegara, confinante: da una parte con gli eredi di Antonio Franzoni, dall’altra con la curia dei signori marchesi, e dall’altra ancora con il detto Bonomi, se dalla coltivazione di detta terra sarà ricavato più dell’occorrente per le spese dell’ufficiatura funebre il resto vada ai poveri in elemosina. Se non vi dovessero provvedere gli eredi vi provveda il rettore della chiesa di S. Vittore di Valpiana.Il medesimo testatore lascia inoltre alla propria nuora Elena, moglie del suo figlio Battista, un letto di piume del valore di 13 l. e mezzo i. Lascia infine alle proprie figlie Ysabetta e Costanza la dote di 70 l. i. per ciascuna e oltre a ciò 20 s. i. per ogniuna. Per il rimanente dei propri beni nomina suoi eredi universali in equal parte i propri figli Francesco, Battista e Antonio.T. Lorenzo di Baldassino, Giovanni Francesco di Jacopino, Georgio del fu Tonio Franzoni, Francesco del fu Tonio, Cristoforo del fu Tono, Pietro di Baldassino tutti della Quercia e Cristoforo di Simone Moneta di Olivola.

Inventario dei beni e dei mobili e immobili di un mercante pontremolese del 16076

Una tinna senza vino di tenuta di some 12Una botticella di some 5 senza vinoUna botte di some 10 piena di vino negroUna botte di some 10 in circa con una soma di vino dentroUna botte di some 6 piena di vino biancoUna botte di 8 some piena di vinoUn botticino voto di tenuta di some 4Una botte di some 6 con una soma di venetta dentro

6 In “Almanacco Pontremolese”, 1986.

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Certi sfondi de’ cima tali e qualiUna bagnolla da vinoUn imbottadoreDieci pezzi di tavole di castagnoUna credenza con la sua serraturaUna tavola da mangiare suso, dui altri pezzi di tavoleLenzuoli numero quatro di tella grossa di due telle per ciaschedunoQuatro borazeti intieri et uno da per seTovagliole numero treUn macrimèCamise numero due da huomoUna barilottaUn soglioUn cocio di peselleUn tavolino da scrivereUn banco da sedereUn letto con duoi lenzuoliUna strapuntaUn pagliarizzoUna coperta trapuntataUna cassaUna cassa grandeUna secchia di castagne verde sotto il lettoUn quadreto depintoUna lucerna d’ottonePezzi ventinove de libri coli a quali di duove sortiSedeci pezzi di dove da fare una bennaDuoi orci dal’aglio un voto, et nel altro vi puole essere dentro da pinte

15 d’oglioDieci lire de lannaUna cassa tale e qualeUna tavola dove si mangia, con due bancheUna tovaglia con duoi tovaglioliUn tondo grande di stagnoUn sallarinoUna gratta cassio

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Duoi sedacijUna padella dal’ove’Un ramasioUn paiollo grandeUna mastraUn livaro da fare il paneUna cazzarolla rottaUn letto con la sua lettera, lenzuoli, coperta col pagliarizzoUn paro di calzoni di mezza lanaUna camisa nova da huomo senza manicheUna cassa piena d’ornamenti di donna come sarebbe due schuffie, colari,

camise, fazoletti, et altri ornamenti da figliUna altra cassa piena di guarnelli, mezzalane, camise, cinti, gotelleti, et altre

cose spettanti alle donneUn letto con la sua lettera, pagliarizzo, duoi lenzuoli tali et qualiUna cassa per certe cosette dell’Agnese per suo uso di vestireUn’altra cassa vuota…[Seguono proprietà immobiliari]

Inventario dei beni mobili, terre, boschi e affitti spettanti anticamente agli arcipreti di Varese Ligure7

Il 23 settembre 1591 l’arciprete Giovanni Antonio Costa fece fare dal notaio Angelo Maria Ferrari il seguente inventario dei beni mobili, terreni, boschi e affitti anticamente spettanti agli arcipreti di Varese:1) Giovanni Antonio Ferrari teneva una terra vignata posta in Varese, loca-lità Alla pieve, per la quale pagava agli arcipreti sei soldi all’anno;2) Lazzaro Moresco: una terra in Cavizzano, località La cuca, per quattro lire annue alla chiesa di San Cristoforo di Cavizzano, località Costa lonosso-la, per tre lire e mezza alla medesima chiesa;3) Giovanni Clauso fu Tomaso di Varese: un bosco di castagni e una terra seminativa in località Squarella e pagava “alla chiesa di Varese cioè alli si-gnori Arcipreti tre quarte di castagne secche e più soldi trenta di Genova”;

7 Tomaini, P. 1978. Varese Ligure, insigne borgo e antica pieve, Città di Castello.

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4) Giovanni Angelo Calcagnini fu Agostino di Varese: un bosco castagnati-vo in località Connio di Santo Cristoforo per trenta soldi all’anno “alla pieve di Varese”;5) Andrea Cesena fu Cipriano: un vigneto in territorio di Varese, località Contignana, per quattro soldi all’anno;6) Angelo Delucchi fu Lorenzo: un bosco in Varese, località Ceresola, per un quartino di castagne; altro bosco in località Alle noci per un mezarolo di castagne all’anno;7) Angelo Castellini: un bosco di castagni detto il boschetto posto nelle Spia-ze in territorio di Varese, comprato da suo padre “con obbligo di pagare ogni anno alla Chiesa di Varese diece copelli di castagne”;8) Antoniola, moglie di Giovanni Gerolamo, comprò un bosco di castagni in località Campezzi con obbligo di “pagare al signor Arciprete ogni anno 18 copelli di castagne secche” e tre soldi;9) Lucrezia, moglie del magnifico Lazzaro Caranza e figlia di Franco Clapa-rio, teneva un bosco in località Le moggie sopra le corte per 18 copelli di castagne secche all’anno;10) Gerolamo Ratti fu Michele: 1) un bosco castagnativo in località La castagna lonara; 2) un bosco in località Canesese; 3) un bosco in località Dalla chiesa; 4) un pezzo di terra seminativa in località Dalla pera; 5) un pezzo di terra castagnativa e lavorativa in località La chiesetta; 6) una terra castagnativa e canapativa in località La chiosa; 7) un pezzo di terra incolta in località In cima al bosco; complessivamente per cinque quarte di casta-gne secche all’anno;11) Ungoletti Giovanni fu Rolando: casa posta nel borgo di dentro per sei soldi all’anno;12) Leonardini Giovanni fu Antonio: un bosco di castagni in località Val crosa per una quarta di castagne “alla chiesa di Cesena annessa a l’arcipre-tura di Varese”;13) Beretta Battista fu Guglielmo: una terra castagnativa e boschiva in località Il conio per nove soldi e otto denari ogni anno in perpetuo alla chiesa di Cavizzano;14) Beretta Giacomino fu Battistino: una terra castagnativa e boschiva in località Il conio e posta nel territorio di Cavisano per quattro soldi e dieci denari ogni anno alla chiesa di San Cristoforo;

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15) Clauso Domenico di Gerolamo: una terra castagnativa in località Alla trappa per un mezarolo di castagne all’anno;16) Zeri Susanna di Vincenzo: un bosco in località Alli tochetti per cinquan-tasei soldi all’anno;17) Meneghina, moglie di Zirotto Zeri: un bosco in località Alli tochetti per trentacinque soldi all’anno;18) Roleri Domenico fu Giovanni: un bosco in località Il casenaro per venticinque soldi all’anno;19) Farogia Vincenzo: alcuni boschi per otto lire e due denari all’anno a favore della chiesa di San Cristoforo di Cavizzano;20) Moreco Giovanni Battista con testamento del 15 aprile 1599 lasciò un legato di tre scudi d’oro all’anno in perpetuo alla chiesa di Cavizzano;21) Musso Giuliano fu Giacomino: terre della chiesa di Cavizzano in loca-lità Il noveggia per quaranta soldi all’anno e in località Il roagallo per otto soldi;22) Calvagnini Angelo fu Giovanni: terra castagnativa della chiesa di San Cristoforo in Cavizzano in località La borsa per dieci soldi all’anno;23) Barone Gerolamo fu Raffelino: una piccola terra lavorativa in località Le piaze della chiesa di San Cristoforo in Cavizzano e sette pezzi di terra castagnativa in Comuneglia, località Campagina, per undici quarte di casta-gne secche;24) Francesca, moglie del fu Giovanni Costa: due boschi in territorio di Varese, località Al casinaro per cinquanta soldi all’anno; un bosco di castagni e una terra seminativa in località La coletta della chiesa di Cavizzano; un pezzo di castagni in località Acque buone, in località La gugana, Alle piazze loco detto Conniello per una quarta di castagne secche all’anno.

Le castagne, come il sale, erano utilizzate al posto della moneta. Le famiglie più ricche provvedevano a ingaggiare le raccoglitrici – spesso assunte anche nel Parmense – le quali venivano ricom-pensate con una secchia di castagne fresche (poco più di 20 kg per ogni giorno lavorativo) oltre che fornite del vitto e dell’alloggio gratuiti. Oppure, le lavoranti ricevevano un unico compenso finale di un quintale di farina dolce.

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A sera, le castagne raccolte durante la giornata di lavoro venivano trasporta-te a casa per essere messe nei gradili a essiccare o per essere vendute, fresche, a commercianti del luogo o di passaggio. In alcune località della Lunigiana (Montereggio di Mulazzo), tutto il raccolto di castagne dell’annata veniva accumulato, giorno dopo giorno, nei casoni, modeste costruzioni in pietra a secco ubicate nei castagneti meno praticabili. I casoni, oltre a svolgere la funzione di depositi e di essiccatoi, fungevano anche da temporanea abita-zione e da luogo di riparo durante il periodo della raccolta.Se non erano subito portate al mulino, le castagne secche dovevano essere conservate nei sacchi, negli scrigni e nei cassoni sistemati in ambienti mol-to asciutti per evitare che l’umidità potesse renderle dorke (molli), per cui sarebbe stata poi difficile la molitura.Per preservarli dall’umidità i sacchi venivano ricoperti con le bucce secche delle castagne (rusk) che fungevano da isolante e da assorbente. D’altro canto, le castagne ormai pronte per la macinazione non potevano più essere rimesse sul graticcio, poiché sarebbero diventate nere e avrebbero “preso il fumo”.La molitura vera e propria avveniva in tre fasi distinte: rottura, triturazione e polverizzazione. I mugnai erano molto attenti a non macinare castagne molli perché queste avrebbero potuto acintare (impastare) la macina e il ceppo.La pietra più adatta per la costruzione delle macine per la molitura delle castagne secche era la pietra azzurra. Gli scalpellini (famosi i Malatesta di Treschietto) sceglievano il banco di pietra adatta generalmente lungo il gre-to del torrente Bagnone, e costruivano le mole direttamente in loco.Il periodo di molitura durava da novembre ad aprile e in ognuno degli oltre cento mulini ad acqua, che abbiamo avuto modo di censire in Val di Magra (i quali erano quasi tutti in funzione fino a qualche decennio fa), si macinavano in media circa 600 q di castagne secche con una produzione di farina di circa 50 kg per ogni ora.Era consuetudine macinare a luna vecchia altrimenti la farina avrebbe fatto le farfalle (cioè le camole)8.

8 Cavalli, G., cit.

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La farina era conservata in speciali mobili (kassòn o mastre), rico-perta con fogli spruzzati di vino bianco o cenere, cenci o foglie di noce. Era pressata con cura e, quando se ne doveva prelevare il fabbisogno quotidiano, era indispensabile rompere la crosta su-perficiale con un chiodo o una lama, ma con grande attenzione (per non sciupare la crosta). Si staccava a blocchi di varia dimen-sione, e quindi doveva essere setacciata con un attrezzo appeso alle pareti di ogni cucina.La farina di castagne serviva, spesso, da pane e da contorno, da minestra e da pietanza. Solo raramente, come si vede anche dalle ricette, era associata alla più preziosa farina di frumento, adatta alle cotture più accurate.Lo stato di necessità ha dunque favorito un alto numero di mani-polazioni della farina di castagne. Sotto questo aspetto, la Luni-giana teme ben pochi confronti.

A Filattiera (secondo una tradizione locale) il primo piatto della stagione era costituito proprio da castagne lessate con la buccia per evitare la nascita del grano “morto”. Le castagne fresche erano anche arrostite sulla fiamma del focolare nella padella forata (mondine rostì, fusìna) e consumate con vinello leggero, la vineta, ricavato dalla torchiatura delle vinacce alle quali è stata aggiunta un po’ d’acqua.Le castagne essiccate (gussast) rientravano nella preparazione di minestre destinate al pasto serale. Le castagne, precedentemente ammollate, erano cotte a lungo nel paiolo con l’aggiunta di fagioli o patate e di una man-ciata di grano farro, un pezzo di lardo o di cotenna di maiale come con-dimento. Con la farina di castagne (farina dolce), unita in parti uguali a farina di grano e lavorata a impasto sulla spianatoia con acqua tiepida, si preparavano sfoglie, poi tagliate a riquadri o a liste sottili, lessate e condite con olio e minestre destinate al pasto serale. Le castagne, precedentemente ammollate, erano cotte a lungo nel paiolo con l’aggiunta di fagioli o patate, formaggio pecorino o ricotta. Questo piatto, particolarmente gustoso per il connubio dei sapori contrastanti, il dolce della pasta e il piccante del formaggio (lasagne bastarde, lasagne méschie, taiadlòti, gnòchi, armeléte), era destinato al pranzo o al pasto serale e diffuso in tutta l’area della Lunigiana settentrionale, così come la polenta a base di farina dolce. La polenta dura

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era condita con olio e formaggio pecorino o ricotta, quella tenera era unita a latte freddo prima del consumo (frascadè, frizzi, bríndoli). Con una pa-stella molto liquida, ottenuta amalgamando in una scodella farina dolce e acqua, si preparavano le frittelle cotte in padella con olio bollente o strutto (padléti, fritèi) e gustate calde con formaggio tenero e ricotta. Il solito impa-sto poteva essere cotto anche nel testo di ghisa (a forma di disco con lungo manico laterale), arroventato sulla fiamma, o nei testi piccoli di terracotta, con bordo basso e rialzato, precedentemente riscaldati. L’impasto era posto nei testini avvolto tra foglie di castagno per evitarne le bruciature; si otte-nevano delle focaccine (cian) consumate sia a colazione con il latte che nei pasti giornalieri con formaggi. Sempre da un impasto molle di farina di castagne, acqua e sale, versato su foglie di castagno stese sul tagliere e fatto scivolare nel testo di ghisa (formato da una teglia e coperchio a calotta un tempo di terracotta) riscaldato sul fuoco del camino, si otteneva una torta (pattòna) consumata con salsiccia fritta, sanguinaccio o formaggi grassi. Al-cune varianti prevedevano l’aggiunta all’impasto di noci, nocciole triturate e uva passa (barbòtla, castagnaccio) o di un composto di ricotta, uova e formaggio (mòglo). Le focacce (mesciade), infine, che sostituivano il pane nei pasti quotidiani, erano preparate con impasti di media consistenza, né troppo sodi né troppo teneri, formati da farina di castagne e farina di grano o segale in parti uguali, mischiate con acqua tiepida e lievito, e cotti, dopo la lievitazione, nel testo di ghisa9.

Le diverse ricette prevedono sempre l’accostamento alla farina di castagne di ricotte e formaggi o di derivati della lavorazione del maiale, a parte poche eccezioni di tipo più evoluto che richiedo-no altri ingredienti. Il fatto è spiegabile, oltre che con lo stato di indigenza, con la possibilità effettiva di riuscire a trascorrere molti giorni sui monti senza dover scendere nei centri urbani.Questo rappresentava anche un momento di indipendenza econo-mica, in quanto non era necessario spendere soldi per mangiare.

9 Cavalli, G., cit.

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Le principali qualità di castagne diffuse in Lunigiana

Barchese MattoneBatacchiona ModerascaBianchetta ModiàBodrasca MonchinaBonasola MorettaBrattina PastineseBresciana PiangionaBrescianina PlosellaBottaciola PontelaCalaman PrimaticciaCarpanese PulitellaCornolecchia PunticosaCurtina RastellinaFosetta RigolaGarbela RossellaGentile RossolaGragnanella RusticanaMarrone SelvanaMarzolina SelvaticaMazzangara Tarsanesa

La saggezza popolare si è arricchita di proverbi e modi di dire legati al ciclo delle castagne. Qui si citano alcune località della Lu-nigiana toscana, ma gli stessi modi di dire o proverbi sono diffusi nella Val di Vara, in provincia della Spezia.

La castagna la gá la coa, chi la cogia l’è la sòa, chi la meta nel gradil la ritrova al més d’avril.[La castagna ha la coda, chi la raccoglie è la sua, chi la mette nel gradile (a essiccare) la ritrova il mese di aprile (trasformata in farina).](Irola di Villafranca L.)

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La garbèla a la padèla | la modía a la grá (gradile) | la carpanésa a la burghésa (castagne lessate) | la russèla a la padèla | la bianchéta a la baléta (castagne lessate) | la barsanina a la farina.(area pontremolese)

Castagna tsiga polenta grossa.[Castagna piccola polenta grossa.](Casola)

Molto indicativa, sul mondo rappresentato dalla cultura della ca-stagna, soprattutto per quanto concerne l’aspetto economico, è pure questa filastrocca di Ortonovo:

“Nè, cla dona, ’t per acqua?”“No, agò la man ’n pasta”.“Mandè la vostra figiola”.“A là la gonela nova!”“Fegla cavare”.“Adò da maritare”.“E chi g’dè?”“’n d’montagna”.“E come ’l s’chiame?”“Sciaccia guscion e magna castagna”.“E cos’fè d’nozza?”“Un topo arrostì e una cipola cott”10.

“Signora, va per acqua? | Non posso, ho le mani impastate. | Mandateci, allora, la vostra figliola. | No, ha la veste nuova. | Fategliela togliere. | Ci mancherebbe, deve sposarsi. | E chi è il fidanzato? | Uno di montagna. | Qual è il suo nome? | Schiaccia guscion (castagne secche) e mangia castagne. | E cosa gli preparerete per il pranzo di nozze? | Un topo arrostito e una cipolla cotta”.

10 In Marchi, F. 1985. Aspetti di una società minore: Ortonovo, Edizioni Centro culturale apuano,

Massa.

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Polenta di castagne

ingredienti• 600 g di farina di castagne passata al setaccio• Circa 2 l d’acqua • Sale• Ricotta

Portare a ebollizione l’acqua salata in una pentola capace. Ab-bassare la fiamma e cominciare a versare la farina (a pioggia, per evitare la formazione di grumi) mescolando molto bene con un cucchiaio di legno. Questa polenta dovrà cuocere mediamente per circa ¾ d’ora. Tagliarla a fette e servirla (calda) con ricotta. È gra-devole anche il giorno dopo, appena abbrustolita.

Gnochi mes’ci d’castagne

Si prendono sei etti di farina bianca e quattro etti di farina di ca-stagne. Si mescolano le farine prima all’asciutto, poi si impastano con acqua tiepida lavorando bene fino a ottenere un amalgama compatto. Si tira la sfoglia non troppo sottile e la si taglia a rettan-goli di 6 cm per 3. Si infarinano per impedire che si attacchino e si fanno lessare in acqua bollente salata, guardando di immergere le lasagne una per volta. Si lasciano cuocere per circa 15 minuti a fuoco piuttosto lento. Si scolano col mestolo minuziosamente e si servono in bislunga, dove saranno stese a strati e condite con olio di frantoio e formaggio pecorino di media stagionatura, per dare contrasto al sapore dolciastro.

Tra gnocchi e lasagne, nella Lunigiana toscana, non ci sono, dun-que, differenze.

Armelette

ingredienti• 350 g di farina di castagne • Acqua tiepida• 200 g di farina di frumento • Sale

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Impastare le farine con l’acqua e il sale. Tirare la sfoglia nel modo consueto e ritagliare delle normali lasagnette di 7-8 cm di lato. Mettere le armelette a bollire (pochissimo) in abbondante acqua salata. Scolarle bene e servire con parmigiano grattugiato e un filo d’olio d’oliva con del pesto classico. Oppure: tagliare sottili fettine (col tagliatartufi) di un formaggio pecorino non troppo stagiona-to e cospargerle sulle armelette nei piatti individuali.

Tagliatelle di castagne

ingredienti• 350 g di farina di castagne • Un po’ d’acqua tiepida• 200 g di farina di frumento • Sale• 2 uova

Impastare le farine con l’acqua, le uova e il sale fino a ottenere una consistenza adatta per tirare la sfoglia come di consueto. Ritagliare alla macchina le tagliatelle (di misura media). Cuocerle al dente (pochissimi minuti) in abbondante acqua bollente salata. Scolarle subito e servirle in un piatto da portata condite o con ricotta e parmigiano o con un pesto tradizionale. Se si usa la ricotta, stem-perarla con un cucchiaio di acqua di cottura per renderla cremosa.

Con la stessa ricetta, in Val di Vara si fanno le trufie, dette anche taiette.

Padleti di castagne

ingredienti• 300 g di farina di castagne • Sale• ½ l d’acqua • Strutto per friggere

Impastare la farina con l’acqua – in una zuppiera – fino a ottenere una pastella abbastanza fluida. Aggiustare di sale. In una padella scaldare lo strutto, nel quale si fanno friggere cucchiaiate di pastel-la (poche alla volta). I padleti vanno conditi con ricotta freschissi-

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ma. In mancanza dello strutto, è possibile usare olio extravergine di oliva.

Patuna pontremolese

ingredienti• 400 g di farina di castagne • Sale• ½ l d’acqua

Impastare la farina con l’acqua e il sale. La pasta, di media consi-stenza, si stende (strato di circa 2,5 cm) sul fondo di un classico testo. Coprire con il testo superiore e cuocere (circa 30 minuti) sotto la cenere. Il risultato è una sorta di pane grezzo da mangiare con ricotta, formaggi freschi e salsiccia.

La pattona è conosciuta in tutto il comprensorio lunigianese (dal mare alla Cisa) e il suo uso era comune, fino all’immediato dopo-guerra. È ancora di grande attualità in numerose famiglie di Vinca (sulle Apuane) e dell’Alta Lunigiana.

Patona da l’oc

Sulla superficie della patona, nel testo, venivano messe delle fo-glioline di menta, che davano un particolare profumo al pane. L’accorgimento era tipico di Montereggio. Ma un censimento delle pattone diventerebbe una cosa improponibile essendo, le varianti, praticamente infinite. Una, per esempio, è la mesciada.

Si “mescolano”, appunto, farina di castagne (2/3) e farina di fru-mento (1/3) e si impastano con acqua e sale (e con un po’ di lievito). La cottura del pane avviene nei testi o, in mancanza, nel forno, in una normale teglia.

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Barbotta di farina di castagne

ingredienti• 400 g di farina di castagne • Sale• ½ l d’acqua • Salsiccia fresca o lardo

Sul fondo di una teglia da forno si mettono delle foglie di ca-stagno. Poi, si versa un impasto non troppo fluido di farina di castagne, acqua e sale. Si mette in forno caldo e si lascia cuocere fino a quando la crosta superficiale non comincerà a screpolarsi. Si toglie dal forno e si serve caldissima, con salsiccia fresca o fettine sottilissime di lardo.

Mesc’iada

ingredienti• 8 parti di farina di castagne • Acqua tiepida• 2 parti di farina di segale • Sale

L’impasto delle farine, abbastanza morbido, si stende su foglie di castagno e si fa cuocere nei testi di ghisa per circa 40 minuti.

Patunsèi

ingredienti• 400 g di farina di castagne • ½ l d’acqua

L’impasto di farina di castagne, acqua e sale si fa cuocere nei pic-coli testi di terracotta (quelli per le focaccette e per i panigacci di Podenzana) per circa 20 minuti.

Patona della Corsica

ingredienti• 600 g di farina di castagne • Un po’ d’olio d’oliva• Acqua • Sale

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