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Obiettivo Africa: cooperazione o libero commercio?CRELP FVG Edizioni, aprile 2008.

A cura di: Campagna per la Riforma della Banca Mondiale (CRBM).Autori: Elena Gerebizza e Roberto Sensi.

Editing: Andrea Baranes e Giulio Sensi.

Foto di copertina: 11.11.11 Belgio (in alto a sinistra). Paolo Zuliani (in alto a destra).Roberto Brancolini (in basso, a destra e a sinistra).

Foto interne: Ecologistas en Acción / Seattle-to-Brussels Network (Capitoli 1,2,4).Roberto Brancolini (Capitolo 3). Burghard Ilge (Capitolo 5).

Testi chiusi il 10 aprile 2008.

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5INDICE

INDICE

LISTA DEGLI ACRONIMI pag. 9

PREFAZIONE pag. 11

INTRODUZIONE pag. 13

CAPITOLO 1 - LIBERO COMMERCIO E SVILUPPO: pag. 17LA TRUFFA DEL SECOLO

1. LIBERO COMMERCIO: UNA STORIA DA RISCRIVERE pag. 19

2. LA STESSA RICETTA PER TUTTI, IN OGNI STAGIONE pag. 20

3. IL FALLIMENTO DEI PROGRAMMI DI AGGIUSTAMENTO pag. 22STRUTTURALE

4. PRSP E PRGF: IL LUPO PERDE IL PELO MA NON IL VIZIO pag. 22

4.1 IL PRSP pag. 22

4.2 IL PRGF pag. 23

5. FATE COME VI DIACIAMO, pag. 25MA NON COME ABBIAMO FATTO NOI

6. PROVATECI ANCORA, QUESTA VOLTA FUNZIONERÀ! pag. 26

7. LO SVILUPPO COME APPENDICE pag. 28

8. IL LIBERO COMMERCIO NON FUNZIONA pag. 28

9. OLTRE LE BUGIE SULLA CRESCITA ECONOMICA pag. 30E IL DILEMMA LIBERISTI-PROTEZIONISTI

CAPITOLO 2 - COOPERAZIONE UE-ACP: pag. 33CINQUANT’ANNI DI BUONE INTENZIONI

1. LA STORIA DELLA COOPERAZIONE UE-ACP pag. 35

1.2 LE ORIGINI pag. 35

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6 INDICE

2. LA COOPERAZIONE UE-ACP NEL XXI SECOLO pag. 39

3. IL DIALOGO POLITICO pag. 39

4. COOPERAZIONE E RAPPORTI FINANZIARI pag. 40

4.1 L’ASSISTENZA FINANZIARIA pag. 40

4.2 LA SCOMPARSA DEL DECIMO FONDO EUROPEO PER LO SVILUPPO pag. 42

4.3 PAROLE, PAROLE, PAROLE pag. 43

4.4 IL RICATTO EUROPEO DEGLI AIUTI (SCARSI) pag. 43

5. L’ATTUALE APPROCCIO EUROPEO AI TEMI pag. 44

DELLO SVILUPPO E DELLA COOPERAZIONE

5.1 IL COMMERCIO NELLE POLITICHE DI SVILUPPO: LA VISIONE EUROPEA pag. 44

5.2 IL LIBRO VERDE DELLA COMMISSIONE pag. 45

5.3 IL CONSENSO EUROPEO SULLO SVILUPPO pag. 46

6. RAPPORTI TRA UE E PAESI DEL SUD pag. 48

6.1 LE STRATEGIE REGIONALI pag. 48

6.2 EU-AFRICA STRATEGY pag. 48

6.3 COUNTRY STRATEGY PAPER pag. 51

6.4 LA NUOVA STRATEGIA GLOBALE EUROPEA pag. 52

CAPITOLO 3 - EPA: L’EUROPA VA AL MERCATO pag. 55

1. LA NUOVA FRONTIERA DEGLI ACCORDI pag. 57DI LIBERO SCAMBIO

2. IL COMMERCIO TRA UE E ACP pag. 58

3. GLI ACCORDI DI PARTENARIATO ECONOMICO pag. 62

4. OLTRE LA OMC pag. 63

5. CI SONO ALTERNATIVE? pag. 64

6. (DIS)INTEGRAZIONE REGIONALE pag. 67

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7INDICE

7. IL SETTORE AGRICOLO pag. 74

8. MENO DAZI: E LA SPESA SOCIALE? pag. 80

9. LA DE-INDUSTRIALIZZAZIONE DEI PAESI ACP pag. 81

CAPITOLO 4 - L’EUROPA INVESTE L’AFRICA pag. 83

1. ESCONO DALLA PORTA, MA RIENTRANO DALLA FINESTRA pag. 85

2. LIBERALIZZAZIONE DEGLI INVESTIMENTI pag. 86ANCHE PER I PIÙ POVERI

3. COOPERARE O COMPETERE? pag. 87

4. ALTRI ACCORDI SUGLI INVESTMENTI SONO POSSIBILI pag. 89

5. NON SOLO INVESTIMENTI: LA QUESTIONE DEI SERVIZI pag. 94

6. AL SERVIZI(O) DI CHI? pag. 96

7. IL DESTINO DELL’AFRICA pag. 101

CAPITOLO 5 - AIUTI AL COMMERCIO: pag. 105NUOVE PROMESSE PER I SOLITI OBIETTIVI

1. AID FOR TRADE: LA COOPERAZIONE AL SERVIZIO pag. 107DEL LIBERO COMMERCIO

2. MA DI QUANTI SOLDI STAMO PARLANDO? pag. 111

3. ACP: EPAS IN CAMBIO DI AIUTI? pag. 113

4. I LIMITI E I RISCHI DEL AID FOR TRADE pag. 115

5. QUALITÀ ED EFFICACIA DEGLI AIUTI pag. 116

6. AIUTI PER QUALE COMMERCIO? pag. 118

CONCLUSIONI pag. 121

RINGRAZIAMENTI pag. 125

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8 INDICE

COS’E’ IL WASHINGTON CONSENSUS? pag. 20LA BANCA MONDIALE pag. 21LE ECONOMIE DEL FALLIMENTO pag. 27LIBERO COMMERCIO E POVERTÀ pag. 31IL SISTEMA GENERALIZZATO DELLE PREFERENZE pag. 35LE PRINCIPALI NOVITÀ INTRODOTTE DALLA CONVENZIONE DI LOMÈ pag. 37IL FONDO EUROPEO DI SVILUPPO pag. 40LA BANCA EUROPEA DEGLI INVESTIMENTI pag. 44IL TRATTATO DI LISBONA pag. 46GLI ACCORDI DI COOPERAZIONE UE AFRICA pag. 49LA STRETEGIA DELLA BANCA MONDIALE PER L’AFRICA pag. 50IL RISPETTO DELLE REGOLE DI ORIGINE pag. 60SEI ANNI DI EQUIVOCI pag. 66LE REGIONI ACP PARTE DEL NEGOZIATO pag. 70IL CASO DEL KENYA pag. 72A LISBONA SI PREDICA BENE, MA SI RAZZOLA MALE pag. 73ASCESA E DECLINO DEL POMODORO GHANESE pag. 75ESPORTARE SEMPRE PIÙ MATERIE PRIME AGRICOLE pag. 76NON AIUTA A COMBATTERE LA FAMELIBERALIZZAZIONI E CRISI ECONOMICA IN AFRICA pag. 78I PROTOCOLLI SPECIALI UE-ACP pag. 79I TEMI DI SINGAPORE pag. 85INVESTIMENTI E SVILUPPO: LA RETORICA pag. 86DELLA LIBERALIZZAZIONE RITORNAEFFETTI COLLATERALI DEGLI ACCORDI SUGLI INVESTIMENTI pag. 88INVESTIMENTI DIRETTI NELL’INTERESSE DI CHI? pag. 90IL SETTORE DELL’ORTICOLTURA IN KENYA pag. 92L’IMPORTANZA STRATEGICA DEI SERVIZI pag. 95SERVIZI: CAVALLO DI TROIA DEGLI INVESTIMENTI pag. 96INVESTIMENTI E TURISMO NEI CARAIBI pag. 97BANCA MONDIALE E PRIVATIZZAZIONE DEI SERVIZI DI BASE pag. 98PERCHÉ L’AFRICA CENTRALE NON DEVE LIBERALIZZARE pag. 100I SERVIZI FINANZIARILA CINA ALLA CONQUISTA DEL CONTINENTE NERO pag. 102I PROGRAMMI DI AIUTO AL COMMERCIO pag. 108LE CATEGORIE DELL’AIUTO AL COMMERCIO pag. 110L’AIUTO AL COMMERCIO DELLA UE pag. 113AID FOR TRADE ALLA PROVA DEI FATTI pag. 115LE CONDIZIONALITA’ INDIRETTE DELLA BANCA MONDIALE pag. 118AID FOR LOCAL TRADE: UNA PROPOSTA PER IL GOVERNO ITALIANO pag. 119

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9LISTA DEGLI ACRONIMI

LISTA DEGLI ACRONIMI

ACP - Africa-Caraibi-Pacifico

AfT - Aid for Trade - Aiuti al commercio

APS - Aiuto Pubblico allo Sviluppo

BEI - Banca europea degli investimenti

BM - Banca mondiale

CARICOM - Caribbean Community - Comunità Caraibica

CEMAC - Communaute Economique et Monetaire de l’Afrique Centrale -Comunità economica e monetaria del’Africa Centrale

CPIA - Country Policy and Institutional Assessment -Valutazione politica e istituzionale Paese

CSP - Country Strategy Paper - Documenti di strategia Paese

ECOWAS - Economic Community of Western African StatesComunità economica dell’Africa occidentale

EPAs - Economic Partnership Agreements - Accordi di partenariato economico

ESA - Eastern and Southern Africa - Africa Sud Orientale

FES - Fondo europeo di sviluppo

FMI - Fondo monetario internazionale

GATS - General Agreement on Trade in Services -Accordo generale sul commercio dei servizi

GATT - General Agreement on Tariff and Trade -Accordo generale su tariffe e commercio

HIPC - Heavily Indebted Poor Countries - Paesi fortemente indebitati

IDE - Investimenti Diretti Esteri

LDCs - Last Developed Countries - Paesi meno sviluppati

MDGs - Millennium Development Goals - Obiettivi del millennio

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10 LISTA DEGLI ACRONIMI

MNF - Most Favoured Nation - Nazione più favorita

NAFTA - North American Free Trade Agreement -Accordo di Libero Commercio America del Nord

NT - National Treatment - Trattamento Nazionale

OCSE - Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico

OMC - Organizzazione mondiale del commercio

PACP - Pacific ACP - Paesi ACP del Pacifico

PIL - Prodotto Interno Lordo

PRSP - Poverty Reduction Strategy Paper -Documento di strategia di riduzione della povertà

PRGF - Povery Reduction and Growth Facility -Risorse a sostegno della crescita e della riduzione della povertà

PVS - Paesi in via di sviluppo

RSP - Regional Strategy Paper - Documento di strategia regione

RTA - Regional Trade Agreement - Accordo Commerciale Regionale

SADC - Southern Africa Development Community -Comunità di Sviluppo dell’Africa meridionale

TDCA - Trade, Development and Cooperation Agreement -Accordo di cooperazione commerciale e di sviluppo

UNCTAD - United Nations Committee on Trade and Development -Conferenza delle Nazioni Unite su commercio e sviluppo.

UNDP - United Nations Development Programme -Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo.

UNECA - United Nations Economic Commission For Africa -Commissione Economica delle Nazioni Unite per l’Africa

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11PREFAZIONE

PREFAZIONE

Il Coordinamento Regionale Enti Locali per la Pace ed iDiritti Umani del Friuli Venezia Giulia è un’associazionecostituita il 13 maggio 2002 ed opera per la diffusione el’affermazione della pace e del rispetto dei diritti umani.Il CRELP riunisce 40 Enti Locali del Friuli VeneziaGiulia, tra Comuni e Provincie e Regione FVG, impegna-ti a promuovere la diffusione della cultura di pace, ilrispetto dei diritti umani, l’integrazione culturale, la soli-darietà e la cooperazione allo sviluppo.In particolare, il Coordinamento, tra i tanti obiettivi, si

propone di: operare per una generalizzazione di una cultura di pace mediante l’ap-profondimento e la riflessione sulle tematiche della pace; promuovere le iniziativedi solidarietà rispetto a tutte le situazioni che possano compromettere il processodi pace; operare in collaborazione con le istituzioni scolastiche ed universitarie, leagenzie educative e le associazioni della società civile; assicurare il collegamentocon il Coordinamento Nazionale degli Enti Locali per la Pace e i Diritti Umani efavorire la partecipazione degli Enti Locali del Friuli Venezia Giulia alle conferen-ze nazionali ed internazionali indette sui temi di interesse; coadiuvare l’attivitàdella Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia nell’attuazione del programmaregionale per la Cooperazione allo sviluppo e delle attività di parternariato inter-nazionale.Per favorire la realizzazione dei propri scopi, viene adottata la filosofia della rete,che permette, da un lato una maggiore forza contrattuale ed organizzativa e dal-l’altro una più capillare diffusione delle idee e delle informazioni. Infatti negli ulti-mi anni il CRELP si è inserto nella rete nazionale degli enti e delle associazionipromotori di pace e diritti umani, dando un interessante e significativo contributo,sostenendo ed organizzando progetti di ampia ricaduta sul territorio non soloregionale.Un esempio è questo volume, co-finanziato da molti Enti locali italiani: RegioneFriuli Venezia Giulia, Provincie di Cremona, Gorizia, Milano, Trieste, Venezia,Comune di Rezzato.

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12 PREFAZIONE

Significativa, peraltro, è la genesi dell’opera. L’idea di dare alle stampe un agilevolumetto, capace di spiegare in modo sintetico cosa siano i famigerati EPA ed ilcontesto macroeconomico e politico che ha generato tali patti, è sorta a Nairobi,durante il Social Forum Mondiale del gennaio 2007, dove il consistente gruppo diamministratori di Enti Locali per la Pace italiani si è trovato di fronte alle pressan-ti richieste avanzate da molte delegazioni africane, ma anche espresse nel corso dipacifiche manifestazioni di agricoltori provenienti da diversi paesi africani, affin-ché il Social Forum prendesse una posizione forte contro questi nuovi accordi diparternariato economico che l’Europa sta negoziando con molti governi africani,accordi unanimemente giudicati alla stregua di subdole forme di “neocolonialismoeconomico”. Di fronte a tali richieste, gli amministratori della delegazione italiana si sono tro-vati sconcertati, non avendo compreso fino in fondo il senso e la portata reale ditali EPA e delle politiche sviluppate dall’Europa in perfetta sintonia con la BancaMondiale ed il WTO.Il volume è stato scritto da due giovani esperti, Elena Gerabizza e Roberto Sensi,della Campagna per la Riforma della Banca mondiale (CRBM), informatissimi edappassionati, del tutto consapevoli che si deve fornire alla società civile, e, in pri-mis, agli Enti Locali, strumenti conoscitivi atti a consentire il varo di una forteazione di diplomazia dal basso, affinché, come richiedeva in una coraggiosa lette-ra aperta padre Alex Zanotelli, “l’Europa possa concedere un’alternativa dignitosaa quei governi che non vogliono firmare oggi gli accordi perché sono i loro popolia chiederglielo con forza. Glielo chiediamo anche noi che in Italia ci siamo dati dafare, dal Forum Mondiale Sociale di Nairobi (gennaio 2007) ad oggi, perché sisoprassedesse a questi accordi capestro e non si cedesse alle pressioni del WTO”.

IL PRESIDENTE DEL CRELPSilvano Buttignon

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13INTRODUZIONE

INTRODUZIONE

KIBERA. DARK SIDE OF THE WORDRiflessioni sul Social Forum Mondiale di Nairobi

Kibera, Korogocho. Nomi, suoni, per molti di noi,senza significato. Kibera, Korogocho: non-luoghi incui si la città si inabissa. Lacerazioni purulente dellaciviltà, in cui l’umanità sprofonda in vorticosi buchineri, da cui non escono nemmeno gemiti di dolore.Non-luoghi, aree grigie nella coscienza collettivadell’Occidente. Non-luoghi rimossi, dimenticati,scansati.

Kibera, Korogocho, sono “città in eccesso”, secondo la definizione di FabrizioFloris, giovane sociologo torinese, e rappresentano le evoluzioni della città, lenuove realtà urbane del Terzo Millennio, isole clandestine, informali ed infor-mi: gli slums dell’Africa, le favelas del Sud America; ma anche, in forme diver-se, le banlieu europee.A Nairobi i due terzi della popolazione, oltre due milioni di persone, vivonosul 5% del territorio urbano. Vivono vite stentate in baraccopoli clandestine,costruite in avallamenti di terreno, enormi buchi, forre che terminano in disca-riche.E proprio da Kibera, non-luogo dove la narrazione, la scrittura, l’immagine tro-vano il loro limite, non-luogo che può essere solo vissuto, è iniziato il SocialForum Mondiale 2007.Tra sorrisi e abbracci di bambini che vogliono toccare questa policroma babe-le di stranieri, a ricercare una sorta di conferma fisica, un riconoscimento ester-no del loro esistere, tra l’assenza desolante di vecchi, tra dolori silenziosi, fognea cielo aperto e lamiere ondulate è iniziato il processo di senso di questo “spa-zio aperto”, dove sessantamila persone da tutto il mondo si sono incontrate perintensificare la riflessione, realizzare un dibattito democratico di idee, elabora-re proposte, stabilire un libero interscambio di esperienze ed articolare azioniefficaci da parte di soggetti e movimenti della società civile che si oppongono

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14 INTRODUZIONE

al primato dell’economia, all’unilateralismo politico, alle logiche neoimperiali-ste che improntano i falsi miti del libero commercio.“Un altro mondo è possibile”, era lo slogan programmatico dei sei intensissimigiorni di lavoro, dove, negli oltre milleduecento seminari, si sono disaminatitutti i temi più importanti del futuro dell’umanità: dalla lotta alle povertà, allapace, alla ricerca di una redistribuzione equa delle risorse, all’educazione,all’acqua, bene di tutti (la relativa campagna mondiale vede, nel gruppo ristret-to di coordinamento, una significativa presenza friulana); dalla cancellazionedel debito dei paesi del Terzo mondo, alla tutela dei diritti di tutti gli abitantidel pianeta, alla giustizia sociale, alle nuove strategie di cooperazione - non piùunivoca ma improntata sulla reciprocità, alla tutela della salute di tutti, allaricerca di nuovi equilibri ambientali, alla campagna mondiale per smascherarecosa si nasconde realmente dietro l’ipocrita assioma del libero commercio. Lacampagna è promossa in Italia dal network Tradewatch (TW). La Campagnaper la Riforma della Banca mondiale, tra i promotori di TW, ha stampato uninteressantissimo volumetto in materia: “Tutte le bugie del libero commercio”. Accanto ai macro-temi, sono stati realizzati seminari su argomenti di nicchia,importantissimi soprattutto per comprendere la reale situazione della vita quo-tidiana delle genti del mondo e come le grandi strategie di natura macroeco-nomica possano condizionare pesantemente la vita dei paesi più poveri delmondo. I famigerati EPA, ad esempio, ovvero gli accordi di partenariato eco-nomico (ossia di libero scambio) tra Europa e Africa prevedono, dal 31 dicem-bre 2007, l’annullamento dei dazi doganali: ma in molti paesi africani il 20-25% del Pil è costituito proprio da queste entrate e si comprende il motivo percui oltre duemila contadini africani abbiano partecipando al Forum manife-stando vivacemente per le vie di Nairobi gridando «fermiamo la povertà, fer-miamo gli EPA».Accanto ai lavori del Social Forum, concentrati al Kasarani, ampio complessopolisportivo di Nairobi, ed articolati in quattro sessioni di lavori giornaliere,due mattutine e due pomeridiane, la delegazione italiana, ben coordinata dallaTavola della Pace di Perugia, ha disposto un’ulteriore agenda, realizzando, inserata, importanti work-shop su tematiche di stringente attualità, volte a com-prendere il ruolo della cosiddetta “diplomazia dal basso” nei processi di globa-lizzazione dei diritti, ad attivare un movimento internazionale affinchè la

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15INTRODUZIONE

povertà venga dichiarata illegale, al pari della pena di morte, a dare voceall’Africa, cercando di trovare forme di comunicazione efficaci e veritiere.Di grande impatto gli incontri con i padri Comboniani che operano negli slumsdi Nairobi, testimoni diretti di solidarietà non predicata, ma agita: presenti neiluoghi dove il dolore non ha voce, dove la vita non ha valore, dove l’esisteresembra non trovare una dimensione di significato.Padre Renato “Kizito” Sesana, con i suoi centri di recupero di bambine (lafamosa Casa di Anita, descritta nel suo bellissimo volume “Shikò. Una bambi-na di strada”, posta tra le “verdi colline di Ngong”, narrate da K. Blixen in “Lamia Africa”) e bambini di strada.Padre Alex Zanotelli, già direttore di Nigrizia, che ha vissuto per anni aKorogocho, condividendo con gli ultimi la vita nelle baracche, senza acqua,senza fogne, cercando di ascoltare la voce di Dio anche nei rantoli di chi, sem-pre in silenzio, muore di fame, di AIDS. “Dio dove sei? Datti da fare!” dice Alex Zanotelli in quel “sotterraneo della sto-ria” che è stata l’esperienza di Korogocho, mirabilmente descritta nell’intensovolume “Korogocho. Alla scuola dei poveri”. Ma anche padre Daniele Moschetti, che ha attivato un efficace centro di acco-glienza di bassa soglia e di educazione per bambini e ragazzi di Korogocho, ofratel Gino, laico di Brescia, volontario vero, che da quarant’anni vive e lavora,in collaborazione con i comboniani, negli slums di Nairobi.Ma la vita e la speranza riescono a scorrere anche negli slums. Grazie anche aTarcisio, profugo ugandese, plurilaureato in diversi paesi d’Europa, che è ritor-nato tra i profughi degli slums di Nairobi, attivando, fra mille difficoltà, unascuola. O i ragazzi di Kibera che, grazie a micro-progetti friulani di coopera-zione decentrata, hanno potuto avere un centro sociale - una baracca di lamie-ra, in cui si incontrano, discutono, fanno musica, teatro; attivano processi diautoformazione sulla prevenzione all’AIDS: prendono consapevolezza di séstessi.Fatica fisica, fatica percettiva, fatica morale nella grande marcia di venti chilo-metri negli slums di Nairobi, a conclusione dei lavori del Social Forum, lascian-do sullo sfondo le inquietanti sagome dei grattacieli di cemento e vetro eacciaio che elevano al cielo azzurro dell’Equatore la sconsolante testimonianzadi una modernità inutile.

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16 INTRODUZIONE

Sudore e lacrime di rabbia venivano egualmente bruciati dal sole incalzantedell’equatore. La polvere rossa alzata dal vento asciugava la gola. Il maleodorante tanfo delfango verde soffocava anche tante nostre certezze. Le centinaia di occhi dibambini che volevano essere toccati, accarezzati, considerati, urlando“Auaiu?” - “How are you?”, mentre per un istante smettevano di contendere aipochi cani randagi i miseri resti delle discariche: le centinaia di mani stretteresteranno, per i partecipanti del Social Forum Mondiale di Nairobi, il sugellodi un impegno, di un patto forte per poter essere, al rientro nelle nostre comu-nità, voci, sentinelle, testimoni della realtà di questo mondo che ci appare lon-tano, irreale, totalmente altro; ma soprattutto essere operatori che cercano,nella concretezza della quotidianità, di combattere questi abissi di povertà; diricercarne le radici, le cause; di cercare di creare consapevolezze, attraversoprogetti di educazione sociale nelle nostre comunità, sulle nostre - del mondooccidentale - responsabilità storiche e attuali della miseria; di sviluppare pro-cessi e azioni concrete per dare un futuro possibile a questo mondo. L’Africasiamo noi!

RESPONSABILE PROGETTI CRELPPaolo Zuliani

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1Libero commercio e sviluppo:la truffa del secolo

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19LIBERO COMMERCIO E SVILUPPO: LA TRUFFA DEL SECOLO

1 LIBERO COMMERCIO: UNA STORIA DA RISCRIVERE

La storia del libero commercio è caratterizzata da un costante utilizzo dellaretorica “sviluppista”. Una teoria secondo cui la liberalizzazione progressivadel commercio di beni e servizi conduce a una maggiore crescita economica.Quest’ultima porterebbe a sua volta allo sviluppo dei paesi più poveri, contri-buendo allo sradicamento della povertà, all’innalzamento degli standard di vitae al raggiungimento del benessere da parte di tutta la popolazione del pianeta.Il commercio, da semplice strumento, è diventato un fine in sé, un’affascinan-te prescrizione politica, una panacea per risolvere con un colpo di bacchettamagica tutti i problemi del sottosviluppo.Le ricette per la liberalizzazione commerciale hanno assunto una dimensioneassoluta, la quale trascende dalle specifiche condizioni economiche e socialidei Paesi chiamati ad applicarle. L’esperienza storica ha però evidenziato illimite teorico e pratico di tali prescrizioni. Gli ultimi venti anni sono stati caratterizzati dal paradigma liberista delWashington Consensus che ha forgiato la politica economica e commercialedella maggioranza assoluta dei Paesi, soprattutto di quelli del Sud, stretti nellamorsa del debito e costretti dalla Banca Mondiale e dal Fondo monetario inter-nazionale ad adottare un insieme di misure macroeconomiche di stampo neo-liberista che proprio a tale “consensus” si ispiravano. Oggi sono in tanti, sia nelNord che nel Sud del mondo, i cittadini che ritengono che il pensiero liberistasia in crisi, a causa della sua incapacità nel riuscire a promuovere prosperità ericchezza in maniera diffusa in tutto il pianeta tramite uno sviluppo sostenibi-le per l’ambiente e per le generazioni future. È sempre più evidente in questoinizio del 2008 la crisi dei mercati finanziari che conferma l’insostenibilità diun sistema internazionale fondato sulla speculazione e sull’assenza di control-lo dei movimenti di capitali. Nonostante ciò, il concetto di libero commercio ei presunti benefici a questo associati rimangono tra i più tenaci assiomi dellaglobalizzazione. È giunto il momento di sfatare alcuni miti della storia delsistema commerciale internazionale.

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20 LIBERO COMMERCIO E SVILUPPO: LA TRUFFA DEL SECOLO

COS’È IL WASHINGTON CONSENSUS?

Il consenso intorno alla necessità di imporre pesanti aggiustamenti strutturali alle eco-nomie del Sud del mondo fu definito “di Washington”, città sede della Banca mondiale,del Fondo monetario internazionale e del Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti. Unconsenso politico quindi, ma definito e attuato scientificamente da burocrati di altolivello di queste istituzioni, spesso fuori dal controllo dei parlamenti nazionali e di alcu-ni governi dei Paesi membri.In sostanza, a partire dagli anni ‘80, veniva chiesto tassativamente di liberalizzare il mer-cato dei capitali per permettere l’ingresso di investimenti esteri e di privatizzare gli entipubblici e quindi di ridurre drasticamente le spese sociali e “non produttive” Il tuttoaccoppiato a un significativo re-indirizzamento delle strutture produttive verso leesportazioni, con il fine di liberare risorse per il pagamento del debito estero contrattodai Paesi più poveri.

2 LA STESSA RICETTA PER TUTTI, IN OGNI STAGIONE

Gli esegeti del libero scambio affermano che i Paesi in via di sviluppo possonocrescere economicamente in modo rapido solo liberalizzando a fondo il pro-prio commercio. Nel corso degli anni ‘80, la Banca Mondiale e il FondoMonetario Internazionale furono i principali promotori di questa ricetta neipaesi più poveri attraverso l’imposizione di Programmi di aggiustamento strut-turale (PAS) come soluzioni per far uscire i paesi del Sud dalla crisi del debitogeneratasi negli anni ‘70. Chiusi i rubinetti dei finanziamenti pubblici alla finedegli anni ‘70, ai paesi più poveri veniva chiesto di generare da soli le risorsenecessarie a ripagare il debito estero. La soluzione secondo la Banca stava nel-l’implementazione di riforme strutturali che favorissero la generazione di sur-plus commerciali che avrebbero dato il via alla crescita economica permetten-do di pagare il debito e i suoi interessi (il cosiddetto servizio del debito). Laricetta della Banca Mondiale, contenuta nei “Programmi di aggiustamentostrutturale” implementati negli anni ‘80, prevedeva drastiche misure per lariduzione della spesa pubblica: congelamento dei salari; tagli nella fornituradei servizi di base (salute, educazione, servizi sociali di base); privatizzazionedelle industrie di stato; svalutazione delle monete nazionali e promozione delle

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21LIBERO COMMERCIO E SVILUPPO: LA TRUFFA DEL SECOLO

esportazioni; aumento dei tassi di interesse per combattere l’inflazione; rimo-zione di ogni forma di controllo sui prezzi. Tutte riforme volte ad aprire le economie delle ex-colonie al mercato mondia-le e a trasformare i paesi più poveri in esportatori di prodotti agricoli e mate-rie prime a basso costo, ma anche in importatori di servizi e prodotti industria-lizzati dai mercati europeo e statunitense. Anziché rilanciare lo sviluppo eco-nomico e sociale nei paesi del Sud, tali misure indebolirono ulteriormente leeconomie di questi paesi. A causa della forte ingerenza esterna anche in mate-ria di politica economica interna, finirono con l’ostacolare i nascenti processidemocratici, favorendo gli interessi delle élite al potere. I Programmi di aggiu-stamento strutturale finirono inoltre col minare la capacità dei governi di sop-perire ai bisogni primari della popolazione, instaurando in questi paesi unadipendenza cronica dai finanziamenti esterni e rendendo strutturale la povertà.

LA BANCA MONDIALE

La Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale vennero istituiti durante laConferenza Economica e Monetaria tenutasi dal 1 al 22 luglio 1944 a Bretton Woods, nelNew Hampshire (Stati Uniti). Parteciparono 45 Stati, ma Stati Uniti e Regno Unito ebbe-ro un ruolo primario. Lo Scopo della Conferenza fu in primo luogo quello di crearenuove regole economiche globali che impedissero il verificarsi di una nuova depressio-ne economica. In secondo luogo elaborare una strategia per la ricostruzionedell’Europa una volta concluso il secondo conflitto mondiale. Gli obiettivi iniziali dellaBanca Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo (IBRD - il nucleo originario dellaBanca Mondiale) erano quindi:• assistere la ricostruzione e lo sviluppo dei territori dei paesi membri, facilitando inve-

stimenti di capitali per finalità produttive;• promuovere la crescita equilibrata del commercio internazionale, incoraggiando gli

investimenti internazionali, per contribuire all’aumento della produttività, al miglio-ramento delle condizioni di vita e lavorative, in primo luogo nei paesi che avevanosofferto a causa del conflitto

Nel 1946, primo anno di attività della Banca, l’istituzione aveva 38 membri e concesseprestiti per poco meno di 500 milioni di dollari. Un primo prestito, di 250 milioni di dol-lari, fu concesso alla Francia, seguito negli anni successivi da altri prestiti concessi aPaesi Bassi, Lussemburgo e Danimarca.

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Con il lancio del Piano Marshall da parte degli Stati Uniti, il ruolo dell’IBRD nella ricostru-zione dell’Europa distrutta dalla Seconda Guerra Mondiale passò presto in secondopiano. Già nel 1953, a fronte dei 497 milioni di dollari prestati ai paesi europei dall’IBRD,gli stessi paesi ricevettero circa 41,3 miliardi di dollari tramite il Piano Marshall. Secondodiversi autori, questo avrebbe spinto la Banca, a partire dagli anni ‘50, a cercare nuovepossibilità di concessione di prestiti tra i paesi in via di sviluppo e a modulare il suomandato, sviluppando di conseguenza la propria struttura. Nei decenni a venire i paesidell’Africa, dell’Asia e dell’America latina vennero letteralmente inondati da capitali abasso costo dalla Banca Mondiale e dai paesi donatori, indirizzati in larga parte allacostruzione di grandi infrastrutture. Le deboli economie dei paesi ex coloniali ne rima-sero travolte, con una profonda crisi dei bilanci pubblici, che contribuì alla crisi del debi-to degli anni ‘80 e a un decennio perduto in termini di sviluppo nei paesi più poveri.

3 IL FALLIMENTO DEI PROGRAMMI DI AGGIUSTAMENTO STRUTTURALE

A partire dalla fine degli anni ‘80, centinaia di migliaia di persone nei paesi delSud scesero in strada, esasperate dalle politiche di austerità imposte dallaBanca mondiale e dal Fondo monetario internazionale. Manifestavano controle due istituzioni e vennero il più delle volte represse con la forza dai governiautoritari, principali clienti della Banca. In Venezuela nel 1989 l’esercito scesein strada per mettere fine alle proteste contro i programmi di aggiustamentostrutturale, sparando sui manifestanti. Gli scontri durarono tre giorni e oltre250 persone rimasero uccise. Alla fine degli anni ‘90 il fallimento della ricettaneoliberale proposta da Banca e Fondo nei paesi più poveri era palese e la pres-sione dall’opinione pubblica contro le istituzioni era oramai forte. Anche inEuropa e negli Stati Uniti dove apparvero manifestazioni di decine di migliaiadi persone come, ad esempio, in Germania e a Washington.

4 PRSP E PRGF: IL LUPO PERDE IL PELO MA NON IL VIZIO

4.1 IL PRSPAlla fine degli anni ‘90, le due istituzioni ammisero il fallimento delle riformeeconomiche imposte dall’esterno che i paesi più poveri non sentivano “pro-

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prie”. Nel 1999 i Programmi di aggiustamento strutturale vennero così sosti-tuti da strategie per la riduzione della povertà (Poverty Reduction StrategyPapers, PRSP), ovvero documenti di programmazione nazionali in cui ciascunpaese concordava, assieme alla Banca e consultando le diverse parti interessa-te - inclusa per la prima volta la società civile -, gli interventi e le riforme strut-turali necessarie per raggiungere gli obiettivi nazionali di lotta alla povertà. IPRSP dovevano rappresentare una svolta storica nella logica delle politichedella Banca Mondiale e del FMI nei paesi più poveri, a favore di un maggioreprotagonismo dei paesi beneficiari grazie ai processi partecipativi previsti dalnuovo strumento. In realtà, dopo pochi anni dall’implementazione dei PRSPrisultò evidente che la politica delle due istituzioni era cambiata solo nellaforma, ma il metodo e la ricetta delle liberalizzazioni erano rimaste le stesse.Ancora oggi la Banca Mondiale richiede che i governi beneficiari compianodeterminate “azioni” per poter accedere ai propri prestiti, quindi prima dellaconcessione, e altre da realizzarsi durante l’esecuzione del prestito per poteraccedere a prestiti futuri. All’interno dei PRSP vengono infatti inserite gravosecondizionalità economiche, ovvero richieste di privatizzazioni e liberalizzazio-ni che i paesi si devono impegnare a portare a termine per accedere ai prestitidell’istituzione o alla cancellazione del debito nell’ambito dell’iniziativa HIPC(Highly Indebted Poor Countries) rivolta ai paesi più poveri. A garanzia delrispetto delle regole del libero mercato, anche il FMI offre “consigli” ai paesibeneficiari nella stesura dei PRSP. E, soprattutto, visiona il documento finale,soggetto alla sua approvazione, sigillo del rispetto dell’ortodossia economicaneoliberista difesa dall’istituzione.

4.2 IL PRGFL’azione coordinata di Banca e Fondo per assicurare l’implementazione delleliberalizzazioni diventa una morsa da cui è impossibile sfuggire per i paesipiù poveri. Quelli più indebitati, parte dell’iniziativa HIPC, possono infattiaccedere anche a prestiti concessi direttamente dal Fondo Monetario inter-nazionale attraverso un fondo per la riduzione della povertà e la crescita eco-nomica (Poverty Reduction and Growth Facility, PRGF) per realizzare le rifor-me fiscali e monetarie necessarie a rimettere in sesto le loro economie, ritro-vandosi così al centro di un fuoco incrociato da parte delle due istituzioni.

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PRGF e PRSP contengono infatti il più delle volte le stesse condizionalità, equindi le stesse richieste di liberalizzazione e privatizzazione. La società civi-le internazionale e diversi tra i governi donatori oggi sono molto critici delruolo del FMI nei paesi altamente indebitati. Un esito negativo dello scruti-nio del FMI, generato dalla non implementazione delle misure “suggerite”,può portare a un congelamento della spesa nel paese, impedendo ai governibeneficiari di utilizzare anche gli aiuti pubblici già destinati dagli altri gover-ni donatori o dalle istituzioni finanziarie internazionali. Nel 2007, lo stessoufficio indipendente di valutazione del Fondo monetario ha espresso fortecriticità verso l’operato del Fondo nei paesi più poveri dopo avere analizza-to l’esperienza di 29 paesi dell’Africa Sub-sahariana che hanno intrapresoprogrammi PRGF, oggetto quindi delle condizionalità del FMI tra il 1999 e il2005. Tra le altre cose lo studio evidenziava che circa tre quarti degli aiutipubblici allo sviluppo ricevuti da questi paesi non era stato speso. Al contra-rio, il FMI chiedeva che i soldi venissero usati per pagare il debito estero eaccumulare riserve.

In seguito alle forti denunce della società civile dei paesi del Sud successiveall’implementazione dei PRSP, la stessa Banca Mondiale ha riconosciuto l’inef-ficacia dell’utilizzo delle condizionalità per assicurare il successo dei prestitistrutturali per il raggiungimento degli Obiettivi di sviluppo del Millennio(MDGs), come anche l’impatto negativo delle privatizzazioni, specie se impo-ste dall’esterno, sui paesi più poveri. Banca Mondiale e Fondo MonetarioInternazionale hanno inoltre riconosciuto che le troppe condizionalità, e quin-di le troppe imposizioni, rendono di fatto impossibile la loro applicazione peri governi beneficiari. Così entrambe le istituzioni hanno iniziato dei processidi revisione delle condizionalità, il FMI nel 2002 e la Banca Mondiale nel 2005.Nonostante questo, secondo uno studio realizzato dal coordinamento europeosul debito e lo sviluppo EURODAD nel 2006, ciascun accordo per la conces-sione di un credito della Banca Mondiale ai paesi più poveri e altamente inde-bitati contiene ancora fino a 67 condizionalità economiche che richiedono alpaese beneficiario di privatizzare o liberalizzare settori anche particolarmentesensibili come possono essere quelli dei servizi di base: educazione, salute ogestione delle risorse idriche.

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La forte ingerenza ancora esercitata in maniera sistematica dalle due istituzio-ni sui governi dei paesi più poveri costituisce un grave limite allo sviluppo diprocessi democratici nei paesi stessi, dove i governi, bisognosi di finanziamen-ti per il proprio sviluppo, sono di fatto costretti ad accettare di inserire nei pro-grammi nazionali le prescrizioni della Banca e a sacrificare le proprie prioritàdi sviluppo pur di ottenere i prestiti dell’istituzione. Inoltre, le pressioni dellaBanca per una riduzione delle funzioni pubbliche nei paesi più poveri attraver-so la decentralizzazione e la privatizzazione della gestione dei servizi, unite allegravose politiche fiscali e alla riduzione di dazi e tariffe imposte dal FondoMonetario non permettono a questi paesi di aumentare il gettito e accumularele risorse necessarie a effettuare gli investimenti pubblici necessari.

5 FATE COME VI DICIAMO, MA NON COME ABBIAMO FATTO NOI

Anche storicamente la retorica del libero commercio è stata utilizzata dagli StatiUniti e dai governi europei per promuovere i propri interessi. Le regole, infatti,non impiegano il principio del libero commercio per tutti i prodotti. Ad esem-pio i prodotti agricoli e del tessile e dell’abbigliamento, dove i Paesi del Sudsono più competitivi, sono stati liberalizzati solo verso la fine degli anni ‘90 eancora, nel caso specifico dei prodotti agricoli, vi sono numerose barriere ditipo tariffario e non tariffario che limitato l’afflusso sui mercati dei Paesi ricchi.

I paesi delle ex colonie furono quindi spinti a intraprendere un percorso con-trario a quello delle economie occidentali nella loro industrializzazione. Usa eInghilterra, infatti, hanno protetto il loro mercato, anche con l’intervento dellostato, fintanto che le proprie industrie sono diventate capaci di competere sulmercato internazionale e su quello nazionale rispetto alla concorrenza estera.Più recentemente, i casi dell’India e soprattutto della Cina, confermano questateoria. Le due locomotive della crescita mondiale sin all’inizio degli anni ‘90hanno accuratamente protetto i loro mercati, aspettando che le strutture pro-duttive di merci e servizi, nonché il comparto agricolo, crescessero interna-mente e si stabilizzassero. Solo oggi stanno aprendo con cautela e in manieraselettiva i propri mercati.

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6 PROVATECI ANCORA, QUESTA VOLTA FUNZIONERÀ!

Nel nome del libero commercio, ai Paesi più poveri del pianeta continua adessere negata la possibilità di attuare un percorso di protezione flessibile emodulare, destinandoli ad abbandonare sempre più le proprie produzioni noncompetitive con serie implicazioni per la sicurezza alimentare e lo sviluppoeconomico e sociale. Completamente privi di memoria storica, le istituzionifinanziarie internazionali e i governi europei e degli Stati uniti, i donatori piùimportanti della Banca Mondiale, continuano a sostenere che questa volta conqualche opportuno accorgimento l’apertura dei mercati porterà i benefici pro-messi anche nei paesi più poveri.

L’eliminazione delle barriere ai prodotti in ingresso (sotto forma di dazi o limi-ti tariffari) continuano ad essere viste come premessa essenziale per l’aumentodelle importazioni. Esse condurranno a un generale abbassamento dei prezzi,di cui beneficerebbero i consumatori, ma anche a un aumento dell’efficienza edella competitività dei produttori nazionali, che sarebbero spinti a migliorarele loro produzioni grazie a una sana politica di concorrenza. Ma non è cosìsemplice come vorrebbero farci credere. Sul fronte delle importazioni, un gene-rale abbassamento dei dazi sui prodotti in ingresso implica l’automaticoaumento della quantità di merci importate. L’ingresso di produzioni economi-camente più convenienti può però condurre alla scomparsa di interi compartiproduttivi, mentre applicare dei dazi permette di proteggere i piccoli produtto-ri locali, le nascenti industrie – e l’occupazione – dalla impari concorrenzadiretta delle grandi imprese estere, almeno per quanto riguarda il mercatointerno del Paese. Riguardo alle esportazioni non è per niente scontato cheliberalizzando i mercati esse aumentino per tutti i Paesi. Affinché le esporta-zioni producano effetti positivi sull’economia è necessario un adeguato livellodi competitività delle imprese nazionali, la capacità di superare gli ostacolinella gestione dell’offerta per le esportazioni, adeguati livelli di prezzo dei pro-dotti esportati e di accesso al mercato. La maggior parte dei Paesi poveri, supressione di quelli sviluppati, sono entrati nei mercati globali senza che questecondizioni esistessero. Il risultato è stato drammatico. Ancora oggi queste con-dizioni in molti casi, tranne che nei Paesi emergenti, non sono presenti e molte

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delle realtà più povere del pianeta sono destinate a vivere un’ulteriore de-indu-strializzazione forzata, che le porterà ancora di più a esportare solamente mate-rie prime o semi-lavorati con poco valore aggiunto (con il risultato che la cre-scita economica e sociale rimarrà solo un sogno irrealizzabile).

LE ECONOMIE DEL FALLIMENTO

I risultati delle analisi econometriche commissionate dalla Ong inglese Christian Aid nel2006, dimostrano come, in seguito alla liberalizzazioni commerciali degli anni ‘80 e ‘90,le importazioni siano tendenzialmente cresciute più velocemente delle esportazioninei Paesi del Sud. Tutto ciò ha generato perdite quantificabili in termini di reddito peralcuni dei Paesi più poveri al mondo.Il rapido aumento delle importazioni ha messo fuori mercato i produttori locali inseguito all’arrivo significativo sui mercati nazionali di nuovi prodotti, più economici epiù adatti alla commercializzazione. In molti Paesi, soprattutto dell’Africa sub-Sahariana,i contadini locali si sono ritrovati a produrre meno o vendere a prezzi più bassi, con rela-tiva perdita di una fetta importante del proprio reddito. Per gli altri produttori di merci,l’impatto è stato in alcuni casi la fine del proprio business. In Costa d’Avorio le industriechimiche, tessili, automobilistiche e del calzaturiero collassarono letteralmente in segui-to alla massiccia entrata di prodotti concorrenti stranieri a basso costo, dopo che nel1986 le tariffe furono improvvisamente abbassate del 40%.Lo studio di Christian Aid suggerisce che, in assenza delle liberalizzazioni attuate neglianni ‘80 e ‘90, il PIL di 22 Paesi africani sarebbe aumentato complessivamente di 170miliardi di dollari. Estendendo il modello all’intera Africa sub-Sahariana, si arriva a ben272 miliardi di dollari. Si consideri, a titolo di paragone, che il debito estero di questafetta di pianeta è stimato intorno ai 204 miliardi di dollari. Se tutti i Paesi della regionenon fossero stati forzati ad aprire i propri mercati in cambio degli aiuti, dei prestiti edelle parziali cancellazioni del debito ricevute, avrebbero quindi avuto risorse addizio-nali disponibili per ripagare i propri debiti e soddisfare alcuni dei bisogni primari dellapopolazione, come la vaccinazione dei bambini e la loro istruzione primaria.Alla fine, si può dire che all’Africa Sub-Sahariana due decenni di liberalizzazioni sianocostati circa quanto questa regione ha ricevuto in termini di aiuti allo sviluppo. In altreparole il sostegno economico ha sostanzialmente compensato i Paesi africani per leperdite inflitte dall’attuazione delle condizioni economiche associate all’aiuto stesso.Sembra paradossale ma, dati alla mano, è così.

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7 LO SVILUPPO COME APPENDICE

L’emergere di nuove potenze economiche nel Sud del mondo nell’ultimodecennio ha portato a un cambiamento nella geopolitica e nella mappa econo-mica del pianeta, che necessariamente ha alterato gli equilibri nei negoziaticommerciali internazionali, rendendo inadeguato l’approccio seguito in passa-to dalle potenze del Nord e iniziando a palesare gli impatti negativi delle poli-tiche di liberalizzazioni anche nei paesi ricchi. Ma questo nuovo scontro di potere non ha ancora messo in discussione unaspetto fondamentale attorno alla discussione sul commercio internazionale.E’ necessario, infatti, interrogarci sul tipo di sviluppo al quale dovrebbe con-durre il commercio internazionale. Qui nasce la vera crisi strutturale che viveoggi il libero commercio. I risultati li vediamo nella drammatica realtà dinumerose aree del pianeta, al punto che l’Agenzia delle Nazioni Unite per losviluppo (UNDP) afferma che le attuali regole commerciali multilaterali impe-diranno il raggiungimento degli Obiettivi del Millennio (MDGs), oltre a con-solidare gli squilibri esistenti tra Nord e Sud e i livelli allarmanti di miseria,esclusione sociale e degrado ambientale registrati dai Paesi poveri, che investo-no la maggioranza della popolazione mondiale. Di fronte al fallimento deinegoziati della OMC (Organizzazione mondiale del commercio), consacratiironicamente allo “sviluppo” dei più poveri, emerge con evidenza che una defi-nizione di commercio, non solo liberista a senso unico, ma strettamente eco-nomicista, evoluzionista e universalista e che prescinde dalle variabili socialied ambientali, considerate come esternalità da non conteggiare nel bilanciofinale di una crescita economica, non implica assolutamente maggiore redistri-buzione della ricchezza e benessere per le persone.

8 IL LIBERO COMMERCIO NON FUNZIONA

La teoria del libero commercio ha sempre avuto tra i suoi corollari quello diuna sostenuta crescita economica associata all’attuazione di profonde e perma-nenti liberalizzazioni di numerosi settori. Allo stesso tempo le politiche prote-zioniste sono state ritenute come la causa di recessione e successivi conflitti tra

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stati. Mentre la storia dell’ultimo secolo porta con sé alcune conferme delleimplicazioni negative per l’economia di politiche troppo centrate su unapproccio protezionista, non necessariamente ci fornisce sufficiente evidenzache l’apertura dei mercati nazionali alle forze del mercato globale porti una cre-scita economica di lungo termine.Sulla base dei dati storici disponibili sulla crescita economica e su vari indicato-ri sociali, riguardanti per esempio la salute e l’istruzione, il Center for Economicand Policy Research (CEPR) di Washington ha condotto un’analisi approfonditadella situazione. Il CEPR ha riscontrato che, contrariamente al senso comune eal pensiero dominante nei circoli economici e politici internazionali, la maggio-ranza dei Paesi a basso e medio reddito nel Sud del mondo gli ultimi 25 anni havisto un rallentamento significativo del tasso di crescita e, rispetto al ventennioprecedente, un progresso molto più limitato degli indicatori sociali. Ovviamentegli economisti liberisti ortodossi potrebbero obiettare che alcune delle riformehanno avuto effetti comunque positivi, anche se limitati, e che questi sarannoamplificati in un prossimo futuro. Ma il fatto che questi effetti non si siano anco-ra manifestati in tutta la loro portata a distanza di 25 anni è di per sé ineccepibi-le e merita un’attenta riflessione. Se questi dati tendenziali fossero resi maggior-mente noti al pubblico, ciò avrebbe un impatto sulle discussioni politiche neivari Paesi, con una rilettura più critica delle politiche economiche adottate.Dal momento che a livello mondiale si verifica sempre una qualche crescita delprodotto interno lordo (PIL) e un avanzamento tecnologico, il CEPR ha prefe-rito analizzare non tanto se negli ultimi anni vi sia stato un aumento del red-dito pro-capite, oltre che un progresso sociale in termini assoluti, ma qualefosse il tasso di questa crescita rispetto a quanto successo nei 20 anni prece-denti (1960-1980). Complessivamente il paragone è molto valido, poichémentre gli anni ‘60 sono stati un periodo di eccezionale crescita economica, glianni ‘70 hanno vissuto due crisi petrolifere che hanno portato il pianeta inrecessione e causato un aumento dell’inflazione sia nei Paesi ricchi che in quel-li in via di sviluppo. Non si può dire, quindi, che il ventennio 1960-1980 siastato complessivamente sempre positivo, per cui può rappresentare un validotermine di paragone con il periodo 1980-2005, nel quale si sono affermati ilneoliberismo ed il Washington Consensus.I risultati dello studio sono estremamente significativi per quasi tutti i gruppi

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di Paesi, tranne che per quelli più poveri, dove è stata riscontrata una fortecaduta del PIL pro-capite. Nei Paesi di fascia medio bassa il tasso di crescita èpassato dal 2,4 allo 0,7%, mentre in quelli di fascia media il tasso di crescita siè ridotto dal 2,6 a solo l’1%. Per la fascia medio-alta dal 3,1 all’1,3 % ed infineper la fascia alta dal 2,6 all’1,3%. In nessun caso si è quindi registrato unaumento a livello aggregato. Si verifica una situazione quasi stazionaria sola-mente per la fascia di Paesi più poveri, visto che si passa dall’1,7 all’1,8%.Parimenti, le tendenze degli indicatori sociali, quali il tasso di aumento dell’a-spettativa di vita, di riduzione della mortalità infantile e di aumento delle speseper l’istruzione, sono tutte significativamente negative.

9 OLTRE LE BUGIE SULLA CRESCITA ECONOMICA E IL DILEMMALIBERISTI-PROTEZIONISTI

Nel maggio del 2006, il Programma per lo Sviluppo delle Nazioni Unite(UNDP) ha apertamente consigliato ai Paesi poveri dell’Asia di non seguire lerichieste degli Stati Uniti e di fare esattamente quello che Giappone e Corea delSud fecero negli anni ‘70 e ‘80: proteggere i settori industriali nevralgici contariffe prima di esporli alla competizione straniera. Emblematico l’esempio delsettore automobilistico giapponese e coreano che, una volta progredito coninnovativi meccanismi di produzione e divisione del lavoro, negli anni ‘80cercò nuovi mercati esteri, finendo per mettere a rischio l’industria europea eamericana del settore.Come suggerito dall’UNDP, se l’evidenza dimostra che i Paesi in via di svilup-po che liberalizzano il proprio commercio tendono a soffrire maggiormente unaumento della povertà -mentre allo stesso tempo i Paesi che si isolano total-mente dai mercati globali non riducono lo stesso la povertà-, anche il sensocomune vorrebbe che si perseguissero politiche per la creazione di un mode-rato livello di protezione, al fine di ottenere una performance economica esociale senza dubbio migliore. Eppure questo buon senso non sembra ancoraalbergare nelle stanze di Ginevra della OMC, né nelle capitali del Nord delmondo.

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LIBERO COMMERCIO E POVERTÀ

Il nesso diretto tra commercio e riduzione della povertà è meno evidente rispetto aquello tra commercio e sviluppo. La teoria del libero commercio afferma che attraversoun aumento dell’apertura economica di un Paese (se realizzata in maniera non distorsi-va) i maggiori benefici andranno a fattori di produzione più disponibili nel Paese rispet-to al resto del mondo. I Paesi poveri hanno solitamente scarsi capitali e abbondanza dimanodopera, e ciò significa che gli effetti positivi andranno a ricadere sul reddito deilavoratori e quindi sui poveri. Ma ciò non implica che il commercio sia il miglior stru-mento per la riduzione della povertà. Le conseguenze delle liberalizzazioni possonoessere diverse a seconda che i Paesi possiedano, ad esempio, ricchezze naturali (mine-rarie, agricole, turismo). In quel caso i benefici ricadono principalmente sui soggetti checontrollano gli assets e quindi sulle rendite derivanti dal loro sfruttamento. Anche se siverifica un aumento del reddito da lavoro, ciò non significa che tale effetto si producaanche nella fascia di lavoratori meno specializzati, cioè la più povera. L’aumento del red-dito nazionale è quindi un fattore in grado di contribuire alla riduzione della povertà,ma ciò non avviene assolutamente in modo automatico. Infatti è necessario andarevedere come tale aumento di reddito, e quindi di ricchezza, si distribuisce nella popola-zione. Inoltre, il libero commercio provoca effetti negativi sulla povertà ed è quindi fon-damentale capire come ridurli, aumentando quelli positivi attraverso politiche di redi-stribuzione, come l’incremento della spesa sociale, l’accesso ai servizi di base etc.Da tutto questo emerge come il commercio per funzionare debba essere inserito all’in-terno di una più ampia strategia di sviluppo nazionale, in grado di limitare i costi e mas-simizzare i benefici nella direzione degli obiettivi stabiliti. Ma nella maggioranza dei casigli strumenti per attrarre beni, servizi e capitali sono la riduzione delle tariffe, quindi delgettito fiscale da esse ricavato e il rilassamento dei vincoli di natura economica, socialee ambientale ai capitali stranieri, con costi che ricadono sulla collettività ed in partico-lare sulle fasce di popolazione più povere.

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32 LIBERO COMMERCIO E SVILUPPO: LA TRUFFA DEL SECOLO

PER SAPERNE DI PIÙ

Siti webCampagna per la Riforma della Banca Mondiale (CRBM) www.crbm.orgTradewatch Italia www.tradewatch.itBank Information Center www.bicusa.orgWorld Development Movement www.wdm.org.ukEuropean Network on Debt and Development www.eurodad.org

Libri e documentiEuropean Network on Debt and Development, “Untying the knots - How theWorld Bank is failing to deliver real change on conditionality”, Novembre 2007European Network on Debt and Development, “World Bank and IMF conditio-nality: a development injustice”, giugno 2006World Development Movement, “States of Unrest III: Resistance to IMF andWorld Bank policies in poor countries”, Aprile 2003CRBM/Manitese, “Tutte le bugie del libero commercio. Ecco perché la WTO è con-tro lo sviluppo”, I Libri di Altreconomia, Terre di Mezzo Editore, Ottobre 2006

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2Cooperazione UE-ACP:cinquant’anni di buone intenzioni

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35COOPERAZIONE UE-ACP: CINQUANT’ANNI DI BUONE INTENZIONI

1 LA STORIA DELLA COOPERAZIONE UE - ACP

1.2 LE ORIGINI

Le relazioni di cooperazione tra l’Europa e le regioni dell’Africa dei Caraibi edel Pacifico (ACP) sono antiche quanto la storia della stessa Unione europea.È infatti a partire dal Trattato di Roma (1957), istitutivo della ComunitàEconomica Europea (CEE), che si gettano le basi per una politica di coopera-zione con quei Paesi, in parte ancora dipendenti da alcuni Paesi europei La politica di cooperazione della Ue si è sempre basata sulla relazione strettatra commercio e sviluppo attraverso lo strumento delle preferenze commercia-li, sulla base dell’assunto che la liberalizzazione commerciale e l’integrazionenel mercato mondiale siano fondamentali per favorire il processo di sviluppodi un Paese e quindi parte essenziale anche di qualsiasi politica orientata allariduzione della povertà.

IL SISTEMA GENERALIZZATO DELLE PREFERENZE

L’idea di garantire ai Paesi in via di sviluppo un trattamento tariffario preferenziale neimercati dei Paesi industrializzati fu in origine proposto da Raul Prebisch, primo segreta-rio generale della Conferenza delle Nazioni Unite su Commercio e sviluppo (UNCTADnel suo acronimo inglese) durante la prima conferenza del 1964. Formalmente il GSPs(General system of preferences) fu adottato dal UNCTAD nella conferenza svoltasi a NewDheli nel 1968. Nella risoluzione numero 21 si affermava che “gli obiettivi di un genera-lizzato, non reciproco e non discriminatorio sistema di preferenze in favore dei Paesi in viadi sviluppo, incluso diverse misure in favore dei Paesi meno sviluppati, dovrebbe:– incrementare i loro guadagni derivanti dalle esportazioni;– promuovere la loro industrializzazione;– accelerare il loro tasso di crescita economica.Sotto lo schema di preferenze previsto dal GSP ad alcuni prodotti provenienti dai Paesiin via di sviluppo viene garantito un ingresso a tariffa ridotta o nulla. Ai Paesi menoavanzati è garantito un trattamento speciale preferenziale per un numero maggiore diprodotti e a condizioni di accesso ancora più privilegiate. Attualmente nel mondo sonoin vigore 13 schemi di preferenze generalizzate.Il primo schema di preferenze generalizzato della Ue fu implementato nel 1971. Essovenne poi rinnovato seguendo cicli di dieci anni. L’ultimo in ordine di tempo è stato

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approvato nel 2005 e portò all’adozione di un ulteriore schema di preferenze, definitoGSP Plus, che prevede un trattamento preferenziale migliore per quei Paesi che adotta-no particolari politiche in materia di diritti umani, buon governo e lotta al traffico delladroga. Un ulteriore schema di preferenze è previsto dall’Accordo EBA (Everythings-But-Arms) del 2001 per i Paesi meno sviluppati (Least Developed Countries - LDC) che preve-de l’immediata rimozione dei diritti doganali su tutti i prodotti importati (eccetto armie munizioni) con alcune deroghe temporali per zucchero, riso e banane.

Con la firma del Trattato di Roma, alcuni Paesi africani oggi appartenenti al piùesteso blocco ACP, vennero associati alla CEE in quanto colonie dei suoi Paesimembri. L’Associazione fu progettata come un grande contenitore che preve-deva accordi commerciali ed aiuti allo sviluppo, ma dopo i primi cinque anniil fatto che molti Paesi avessero ottenuto l’indipendenza fece nascere l’esigen-za di un accordo specifico. Per questo motivo nel 1963 a Youndé, la capitaledel Camerun, venne firmato un accordo tra i Paesi ACP (allora 18) e laComunità europea, in cui si sanciva lo stato di sostanziale subordinazione deiPaesi africani ai Paesi europei. L’accordo mirava a tutelare gli interessi econo-mici dei sei Paesi membri della Comunità europea nei confronti delle ex colo-nie.La dimensione commerciale era regolata da un accordo reciproco, cheimpegnava cioè le parti a concedere equivalenti accessi ai propri mercati, conlimitate possibilità di proteggere quelli deboli ACP.

Nel 1975, con la firma della prima Convenzione di Lomé fu dato nuovo vigo-re alle relazioni di cooperazione Ue-ACP, attraverso un partenariato più stret-to, profondo e complesso, articolando la relazione tra due poli principali: lacooperazione economica e commerciale e la cooperazione allo sviluppo.Motore dell’accordo fu la Gran Bretagna, che voleva far rientrare in ambitoCEE le preferenze accordate alle sue ex colonie, in particolare per quantoriguardava lo zucchero e le banane. Tramite un apposito protocollo venne cosìconcessa l’importazione nel mercato comunitario di una quantità prestabilitadi zucchero da alcuni Paesi ACP, ai prezzi garantiti ai produttori europei (paria tra volte quelli di mercato), dando avvio ad una pratica giunta fino ai giorninostri ed oggetto in tempi recenti di problemi legali in sede di Organizzazione

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Mondiale del Commercio. Nei successivi rinnovi della Convenzione di Lomé,ve ne furono cinque fino al 1995 (Lomé IV bis), il numero dei Paesi ACP coin-volti nel partenariato aumentò fino a comprendere nel 1995 71 Stati: 48 afri-cani, 15 dei Carabi e 8 del Pacifico.

LE PRINCIPALI NOVITÀ INTRODOTTE DALLA CONVENZIONE DI LOMÉ

• principio del “partenariato tra uguali” (art.2 della Convenzione) quale base della coo-perazione CEE-ACP;

• non reciprocità degli scambi commerciali CEE-ACP, attraverso un regime di preferen-ze che prevedeva che i prodotti manufatti e agricoli, non direttamente in concorren-za con quelli soggetti alla Politica Agricola Comune (PAC) potessero entrare nel mer-cato comunitario senza dazi doganali né restrizioni quantitative.

• quote di importazione per alcuni prodotti sensibili (ad esempio, carne, rum, zucche-ro, banane, riso) mentre veniva facilitata l’esportazione di materie prime agricole nontrasformate, ma non quelle trasformate in una logica di protezione delle imprese ditrasformazione europee;

• introduzione di un meccanismo per la compensazione dei prezzi delle materie primeagricole soggetti a instabilità (STABEX) e la nascita di una nuova forma di coopera-zione finanziaria che prevedeva il coinvolgimento diretto delle piccole e medieimprese locali a cui nel 1985 si affiancò un meccanismo simile per i prezzi delle mate-rie prime minerarie (SYSMIN), da impiegarsi in casi di riduzione della capacità produt-tiva o di congiuntura economica sfavorevole per la stabilizzazione delle entrate pro-venienti dall’esportazione di minerali;

• approccio settoriale della cooperazione allo sviluppo, suddiviso in interventi specifi-ci nel settore sanitario, dell’educazione, dell’ambiente etc. La copertura finanziaria (diquesta e di tutte le successive convenzioni) era affidata al Fondo europeo di svilup-po (FES) e alle risorse della Banca europea degli investimenti (BEI).

Allo scadere dell’ultima Convenzione di Lomé (IV bis), l’Ue decise di avviareun riesame completo del processo storico di cooperazione con i Paesi ACP. LaCommissione raccolse tutte le sue analisi all’interno di un Libro verde pubbli-cato nel 1996 dal quale vennero tratte le linee guida per la negoziazione di unnuovo accordo di cooperazione, quello di Cotonou, sottoscritto nella capitaledel Benin il 23 giugno del 2000 tra l’Ue e 77 Paesi ACP. L’accordo, di durata

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ventennale, prevedeva il negoziato di accordi di libero scambio denominatiAccordi di Partenariato Economico (Economic Partnership Agreements -EPAs) da completare entro il 31 dicembre 2007.

Fonte: Roberto Meregalli, Aprile 2007.

ANNO

1957

1963

1969

1975

1979

1984

1990

1995

2000

2001

CONVENZIONE

Trattato costitutivo della Comunità Economica Europea (CEE). Gli articoli131 e 136 definiscono l’associazione dei Paesi non europei e dei territorid’oltremare con cui i Paesi fondatori della CEE hanno particolari relazioni.

Youndé I: accordi tra CEE e 18 ex colonie dell’Africa francofona, consistentein facilitazioni commerciali ed aiuti finanziari.

Youndé II: rinnovo della Convenzione di Youndé I, allargata a Kenya,Tanzania e Uganda, con l’introduzione di accordi di preferenza commercialeper i Paesi in via di sviluppo in cambio dell’accesso alle loro materie primedella CEE.

Lomé I: Convenzione con inclusi accordi di preferenza commerciale per moltiprodotti ACP, diritto da parte di ogni Paese di decidere autonomamente leproprie politiche, sistema di cooperazione basato sulla reciproca sicurezzae rispetto della sovranità, sistema di stabilizzazione del reddito provenien-te dall’esportazione di materie prime (STABEX).

Lomé II: viene inserito il SYSMIN, ovvero il sistema di aiuto teso a stabiliz-zare le entrate provenienti dal settore minerario dei Paesi ACP.

Lomé III: spostamento dell’attenzione dallo sviluppo industriale al temadella sicurezza alimentare.

Lomé IV: focus su aggiustamenti strutturali, incoraggiamento della democra-zia, il buon governo, il rispetto dei diritti umani, il miglioramento della con-dizione femminile e l’ambiente. Enfasi sul ruolo del settore privato comerisposta alla crisi del debito e alla fame.

Lomé IV rev.: nuovamente sottolineati l’importanza dei diritti umani, dellademocrazia e del buon governo. Nessun aumento alla dotazione dell’otta-vo FES. Cooperazione decentrata con inclusione della società civile.

Cotonou: rimozione di molte tariffe sui prodotti ACP. Passaggio da un siste-ma di concessioni senza vincolo di reciprocità ai nuovi Accordi diPartenariato Economico (EPAs) tra la Ue e sei gruppi di Paesi ACP.

EBA (Everythings-But-Arms): immediata rimozione dei diritti doganali per iPaesi meno sviluppati su tutti i prodotti importati (eccetto armi e munizio-ni). Deroghe temporali per zucchero, riso e banane.

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2 LA COOPERAZIONE UE-ACP NEL XXI SECOLO

L’obiettivo dichiarato dell’Accordo di Cotonou è la creazione di un nuovo siste-ma di relazioni paritarie aventi come obiettivo la crescita istituzionale, socialeed economica dei Paesi ACP, attraverso il rafforzamento dei processi di integra-zione regionale, in modo da favorire il loro inserimento all’interno del proces-so di globalizzazione economica mondiale. Al centro dell’accordo l’obiettivodella riduzione e dell’eventuale sradicamento della povertà, considerata nonpiù in una dimensione esclusivamente economica (il reddito pro-capite), bensìtenendo a riferimento anche le variabili politiche, sociali, culturali e ambien-tali. L’architettura di cooperazione elaborata nella Convenzione si compone di trepilastri interconnessi: quello politico, quello economico e commerciale e quel-lo finanziario e di cooperazione.

3 IL DIALOGO POLITICO

La dimensione politica sottolinea come principale obiettivo la promozione diun ambiente democratico stabile come prerequisito alla pace e alla sicurezza.Leggendo il testo dell’accordo non può sfuggire l’enfasi sui diritti umani, suiprincipi democratici, lo Stato di diritto e sulla buona gestione degli affari pub-blici. L’articolo 9, relativo agli “Elementi essenziali”, afferma che: “la coopera-zione è orientata verso uno sviluppo durevole incentrato sull’essere umano, che neè il protagonista ed il beneficiario principale; un siffatto sviluppo presuppone ilrispetto e la promozione di tutti i diritti dell’uomo, delle libertà fondamentali, com-preso il rispetto dei diritti sociali fondamentali, la democrazia fondata sullo Statodi diritto e un sistema di governo trasparente e responsabile sono parte integrantedi uno sviluppo durevole”.

Un ruolo importante all’interno di tutti i pilastri è riconosciuto agli “attori nonstatali”. Viene data legittimità anche alla discussione interna agli stessi ACPsulla coerenza delle politiche della Ue. Già la Convenzione di Lomé IV bis

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(1995-2000) riconosceva i diritti umani, lo Stato di diritto e la democraziacome elementi essenziali della partnership e la loro violazione come possibilecausa della sospensione dell’erogazione di aiuti ma l’accordo di Cotonou vaoltre, ponendo enfasi sul “buon governo” e la lotta alla corruzione.

4 COOPERAZIONE E RAPPORTI FINANZIARI

4.1 L’ASSISTENZA FINANZIARIA

Il principio della piena sovranità dei Paesi ACP nella determinazione delle pro-prie strategie di sviluppo (art.2) dovrebbe guidare tutti gli aspetti della coope-razione tra la Ue e gli ACP. Nella pratica ciò implica che la Ue debba sostene-re le strategie di sviluppo nazionale e lavorare prioritariamente con le relativeistituzioni a livello nazionale e regionale, nonché attraverso il sostegno delleloro capacità endogene. La durata dell’accordo di Cotonou è di 20 anni. E’ però previsto che il “proto-collo finanziario”, che indica la quantità di risorse finanziarie che l’Ue prevededi erogare ai Paesi ACP attraverso programmi nazionali e regionali, debba esse-re rinegoziato ogni cinque anni. Queste risorse vengono incanalate all’internodel Fondo europeo di sviluppo (FES). L’entrata in vigore dell’accordo di Cotonou è coincisa con il nono FES per unammontare complessivo di 13,5 miliardi di euro. Nel 2007 è stato negoziato ildecimo FES la cui durata coprirà il quinquennio 2008-2013, guarda caso coin-cidente con l’entrata in vigore degli accordi EPAs.

IL FONDO EUROPEO DI SVILUPPO

Il Fondo Europeo di Sviluppo (FES) è lo strumento principale degli aiuti comunitari allacooperazione allo sviluppo degli Stati ACP nonché dei paesi e territori d’oltremare(PTOM). Gli articoli 131 e 136 del Trattato di Roma del 1957 ne previdero la creazioneper fornire aiuti tecnici e finanziari ai paesi africani ancora colonizzati all’epoca e con iquali alcuni Stati hanno avuto legami storici. Il FES non fa parte del bilancio comunita-rio generale. È finanziato dagli Stati membri, dispone di regole finanziarie proprie ed è

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diretto da un comitato specifico. Gli Stati membri fissano il bilancio del FES in seno alConsiglio mediante accordi che in seguito sono ratificati dal Parlamento nazionale diciascuno Stato membro. La Commissione europea ed altre istituzioni designate nelquadro del partenariato svolgono un ruolo chiave nella gestione quotidiana del Fondo.Ciascun FES è concluso per un periodo di circa cinque anni.

Ma a quanto ammontano in termini reali gli aiuti europei per i Paesi ACP? Esoprattutto, sono adeguati alle esigenze di sviluppo di questi Paesi? Nel corso degli anni, il valore nominale dei fondi stanziati dai paesi membridella Ue è passato da 3,4 miliardi di euro del quarto FES a 15,2 (compresoquanto stanziato dalla BEI) del nono FES. Seppure l’incremento nominalerisulti essere del 348%, in realtà uno sguardo al valore reale di tali stanziamen-ti svela che per lo stesso periodo l’incremento è stato solamente del 16%.Nell’insieme, dal settimo FES (che coincide approssimativamente con la finedella Guerra Fredda) al nono FES il valore reale delle allocazioni di aiuti èsceso del 11,4%.

FES Valore Nominale (milioni di euro) Valore reale* (milioni di euro)

4th 3390 2696

5th 5227 2586

6th 8400 3264

7th 12000 3514

8th 14625 3463

9th 115200 3131

Fonte: European Research Office, Febbraio 2007.

* I livelli reali di aiuti allocati attraverso il FES sono stati calcolati dividendo il totale del-l’allocazione per ogni FES per un indice medio di inflazione che corrisponde ai cinque annidel periodo usando come anno base il 1975. Questo metodo di calcolo si basa su un assun-to ipotetico che il FES venga speso nel periodo relativo alla sua durata. In realtà dal quartoal nono FES la media della durata effettiva è stata di sedici anni necessari a sborsare l’inte-ro ammontare.

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4.2 LA SCOMPARSA DEL DECIMO FONDO EUROPEO PER LO SVILUPPO

A partire dal 2000, l’Ue ha deciso di legare l’entrata in vigore del FES non allafirma dell’accordo di cooperazione, in questo caso Cotonou, ma alla sua entra-ta in vigore, vale a dire alla ratifica del protocollo finanziario da parte di tuttie ventisette gli Stati membri. Ciò ha causato uno slittamento di due anni del-l’attivazione del FES, spostando l’operatività del nono FES al periodo 2002-2008.Con Cotonou, inoltre, l’Ue ha posto una scadenza alla validità dei fondi, pas-sando a un approccio “o li usi o li perdi”. Ossia, se i fondi non vengono utiliz-zati entro la data stabilita, saranno spostati in una riserva generale il cui utiliz-zo è a discrezione della Commissione previa approvazione del Consiglio deiMinistri congiunto ACP-EU. Il collegamento dell’operatività del FES alla ratifica dell’Accordo di Cotonoufarà slittare la sua entrata in vigore almeno al 2010, ovvero per il quinquennio2010-2015. Ciò porta con sè conseguenze non da poco per i paesi ACP.Seguendo la temporalità dei fondi precedenti, infatti, il decimo FES sarebbedovuto valere per il periodo 2005-2010. Di fatto, il cambio delle regole da partedell’Ue ha creato una situazione in cui il decimo FES è andato perduto, essen-doci già il nono FES a copertura del periodo 2000-2010, quindi per dieci e noncinque anni come avvenuto fin dal 1975. In aggiunta a questo, se i tempi di ratifica del decimo FES saranno più lunghidel previsto, c’è il serio rischio che gli strumenti finanziari possano scadereaddirittura nella seguente decade, coprendo così anche il periodo previsto perl’undicesimo fondo. Mentre il dibattito attorno al finanziamento del FES a copertura dei costi diimplementazione degli accordi EPAs per i Paesi ACP si fa sempre più caldo,nessuno sembra rendersi conto che ai paesi ACP è già stata tolta una partesostanziosa del finanziamento. E ciò nonostante l’accordo di revisione diCotonou del 25 giugno 2005 affermi che “per il nuovo periodo [2008-2013],l’Unione europea dovrebbe mantenere il suo impegno di aiuti per i Paesi ACPalmeno allo stesso livello del nono FES [...]. [Per questo motivo] dovrebberoessere considerati, in base alle stime comunitarie, gli effetti della crescita del-l’inflazione all’interno della Ue[...]”.

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4.3 PAROLE, PAROLE, PAROLE

Calcolando che nei paesi ACP vivono circa 838 milioni di abitanti, che si è sti-mato aumenteranno a 914 milioni entro la fine del 2010, e tenendo conto del-l’inflazione media e conseguente perdita del potere di acquisto del decimo FES,gli aiuti previsti si riducono a circa 3,72 euro all’anno per abitane. Davveropoco considerando l’oneroso percorso di riforme che i paesi ACP hanno giàintrapreso per adattare le proprie economie alle richieste europee.

Milioni di euro 2008 2009 2010 2011 2012 2013 Totale

10th FES valore nominale 3.161 3.661 3.661 3.661 3.661 3.661 21.966

10th FES valore reale (2,4% infl.) 3.577 3.499 3.425 3.357 3.295 3.233 20.386

Fonte: Solidarité, novembre 2007.

4.4 IL RICATTO EUROPEO DEGLI AIUTI (SCARSI)Lo stretto legame esistente tra aiuti e accordi di libero commercio nel caso deiPaesi ACP emerge da un recente scambio di messaggi tra la Direzione Generalesviluppo e i Paesi del Pacifico coinvolti nel negoziato EPAs. In una mail invia-ta il 30 di luglio 2007 ai Ministri del commercio della regione e resa pubblicada Oxfam Nuova Zelanda, si afferma che la programmazione regionale deldecimo FES dipenderà dall’esito dei negoziati. Una frase sibillina che nel pro-seguo del messaggio viene chiarita, mettendo nero su bianco che se gli accor-di EPAs non si dovessero concludere entro i limiti stabiliti (31 dicembre 2007),i 95 milioni di euro stanziati per i programmi regionali verranno decurtati del45%. Un taglio del 26%, verrà effettuato se l’accordo non dovesse conteneremisure relative alla liberalizzazione degli investimenti e dei servizi, nonché aregole per la protezione dei diritti di proprietà intellettuale. Il messaggio èchiaro: se volete i soldi dovete firmare gli EPAs. La reazione dei Paesi interessati non si è fatta attendere: con una lettera indi-rizzata al Commissario per lo Sviluppo europeo Louis Michel, i Ministri delcommercio del Pacifico hanno chiesto che l’Ue chiarisse la sua posizione, affer-mando di essere fortemente preoccupati che in un momento così delicato deinegoziati EPAs essa imponesse tali vincoli.

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LA BANCA EUROPEA DEGLI INVESTIMENTI

Fondata nel 1958 nell’ambito del Trattato di Roma, la Banca Europea per gli Investimenti(BEI) è l’istituto finanziario dell’Unione Europea, pensato originariamente per il finanzia-mento alle infrastrutture di collegamento fra le economie nazionali dei paesi membri eper far confluire investimenti verso le aree meno sviluppate. Nel tempo la BEI è diventa-ta la più grande istituzione finanziaria internazionale, con un portfolio annuale di 40miliardi di Euro (circa il doppio di quello della Banca Mondiale), di cui il 13% relativo aprogetti in Paesi Terzi, ossia esterni al territorio dell’Unione Europea.Il ruolo della BEI nei paesi ACP è cresciuto considerevolmente a partire dal 1990. Oltre adinvestire fondi propri, la Banca gioca un ruolo sempre più rilevante nell’amministrazionedel Fondo Europeo per lo Sviluppo (FES). Inoltre gestisce per conto della CommissioneEuropea la Cotonou Investment Facility (IF), uno strumento finanziario varato nel 2003destinato idealmente a promuovere gli investimenti delle piccole e medie imprese neipaesi ACP, ma spesso utilizzato per sostenere grandi corporazioni locali ed europee,direttamente o tramite degli intermediari attraverso i cosiddetti “Global Loan” dei qualinon è dato sapere quali sono i beneficiari finali.Nonostante l’accordo di Cotonou stabilisca per la BEI il vincolo di agire in coerenza congli obiettivi dell’accordo stesso, quali la riduzione e la lotta alla povertà, lo svilupposostenibile e l’integrazione dei paesi ACP nell’economia globale, la Banca di casa Europacontinua ad agire in piena autonomia e con un approccio orientato al cliente piuttostoche alle politiche di sviluppo.L’interesse poco velato della BEI è infatti sostenere la grande industria commerciale inparticolare nel settore estrattivo. Ciò trova conferma soprattutto in Africa, dove il setto-re minerario ad appannaggio delle grandi multinazionali occidentali è lautamenteforaggiato. Inoltre, nel quadro della Eu-Africa partnership, è stato attivato nel 2006 unTrust Fund per le opere infrastrutturali che si traduce in ingenti prestiti soprattutto nelsettore energetico. Di recente approvazione è il prestito all’Uganda per la costruzionedella diga di Budjagali sul Lago Vittoria, un progetto dagli effetti ambientali e socialidevastanti, fortemente contrastato dalle comunità locali che non solo non avranno nes-sun beneficio, ma vedranno ridotte le risorse per il proprio sostentamento, con un con-seguente ulteriore impoverimento.

5 L’ATTUALE APPROCCIO EUROPEO AI TEMI DELLO SVILUPPOE DELLA COOPERAZIONE

5.1 IL COMMERCIO NELLE POLITICHE DI SVILUPPO: LA VISIONE EUROPEA

L’Unione Europea (Commissione europea e i 27 Stati membri) è il più grandedonatore di aiuti allo sviluppo a livello mondiale. Essa è anche il principale

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partner commerciale dei Paesi più poveri. Da questo deriva la relazione stret-ta, e pericolosa, tra politiche commerciali e di sviluppo e la necessità di prin-cipi di riferimento più generali a cui l’UE riferisca il suo operato.Così il Trattato di Maastricht del 1992 portò il principio di “coerenza” dellepolitiche europee, centrale quando si parla di commercio e sviluppo. Da essodiscende infatti che gli impatti di sviluppo degli accordi commerciali della Uedovrebbero essere tenuti in considerazione nella politica commerciale. Nel 1997 il Trattato di Amsterdam introdusse il principio della “consistenza”:la politica di sviluppo della Ue non dovrebbe essere subordinata ad altri obiet-tivi di politica estera, incluso il commercio. Entrambi i principi sono adesso contenuti nel nuovo Trattato europeo firmatoa Lisbona nel 2007 e dovrebbero quindi guidare le politiche europee.Capita tuttavia che la Commissione “confonda” i due principi, preferendo par-lare di “consistenza” degli obiettivi di sviluppo invece che di “coerenza” congli stessi delle proprie politiche commerciali.

5.2 IL LIBRO VERDE DELLA COMMISSIONE

All’interno del Libro verde, la Commissione affermava che “alla vigilia del XXIsecolo è necessaria una profonda riflessione sugli orientamenti futuri delle relazionieuro-ACP. La prossima scadenza dell’attuale Convenzione di Lomé (febbraio 2000) el’obbligo contrattuale di avviare negoziati tra le parti diciotto mesi prima di tale data,nonché la necessità di definire, nell’ambito delle norme più rigorosedell’Organizzazione mondiale del commercio (WTO), un quadro di cooperazionecommerciale pienamente conforme alle nuove norme multilaterali, forniscono un’oc-casione privilegiata per procedere in tale riflessione ed avviare un ampio dibattito sulfuturo delle relazioni UE/ACP”. Inoltre si aggiungeva che “il nuovo panorama mon-diale non soltanto modifica gli interessi oggettivi dell’Unione e dei suoi partner in viadi sviluppo ma, per una protagonista come l’Unione, implica anche maggiori respon-sabilità, che sono innanzi tutto di ordine politico: l’Unione deve sostenere attivamen-te i processi di apertura avviati alla fine della Guerra Fredda nel corso della secon-da metà degli anni ‘80 e in particolare contribuire ad assicurare la vitalità dei pro-cessi di democratizzazione ancora fragili in numerosi Paesi ACP. Tali responsabilitàsono anche di carattere economico: l’Unione deve mitigare gli effetti della globalizza-zione, agevolando il progressivo ingresso dei Paesi poveri nell’economia mondiale”.

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Uno dei limiti principali del Libro verde fu quello di non evidenziare l’assenzadi un nesso sequenziale tra liberalizzazione del commercio e obiettivi di svi-luppo. Due degli obiettivi principali della nuova convenzione saranno propriola lotta alla povertà e lo sviluppo sostenibile, da raggiungere, guarda caso,attraverso la trasformazione delle preferenze commerciali in accordi di liberoscambio sostanzialmente reciproci.

IL TRATTATO DI LISBONA

La politica commerciale europea è regolata dall’articolo 188c del nuovo Trattato diLisbona adottato dal Consiglio europeo nel dicembre del 2007. In esso si afferma che “lapolitica commerciale comune è fondata su principi uniformi, in particolare per quanto con-cerne le modificazioni tariffarie, la conclusione di accordi tariffari e commerciali relativi agliscambi di merci e servizi, e gli aspetti commerciali della proprietà intellettuale, gli investi-menti esteri diretti, l’uniformazione delle misure di liberalizzazione, la politica di esportazio-ne e le misure di protezione commerciale, tra cui quelle da adottarsi nei casi di dumping e disovvenzioni. La politica commerciale comune è condotta nel quadro dei principi e obiettividell’azione esterna dell’Unione. [...]”La politica di sviluppo europea è regolata dall’articolo 188d del Trattato di Lisbona cherecita: “La politica dell’Unione nel settore della cooperazione allo sviluppo è condotta nelquadro dei principi e obiettivi dell’azione esterna dell’Unione. La politica di cooperazioneallo sviluppo dell’Unione e quella degli Stati membri si completano e si rafforzano recipro-camente. L’obiettivo principale della politica dell’Unione in questo settore è la riduzione e, atermine, l’eliminazione della povertà. L’Unione tiene conto degli obiettivi della cooperazio-ne allo sviluppo nell’attuazione delle politiche che possono avere incidenze sui paesi in viadi sviluppo. [...]”

5.3 IL CONSENSO EUROPEO SULLO SVILUPPO

L’adozione del “Consenso europeo” nel 2006 da parte del Consiglio stabilisce,dopo cinquanta anni di cooperazione, il quadro dei principi comuni entro cuil’Unione e i suoi Stati membri realizzeranno le rispettive politiche di sviluppoin uno spirito di complementarietà. Secondo il documento, l’obiettivo princi-pale della riduzione della povertà si fonda sugli obiettivi complementari dellapromozione del buon governo e del rispetto dei diritti umani. Afferma inoltre

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che la lotta alla povertà implica un equilibrio tra le attività dirette allo svilup-po umano, alla protezione delle risorse naturali e alla creazione di crescita eco-nomica e di benessere a favore delle popolazioni povere. Secondo il Consensoeuropeo, i principi comuni che regolano le attività di cooperazione allo svilup-po sono la titolarità, il partenariato, un dialogo politico approfondito, la parte-cipazione della società civile, la parità dei sessi e un impegno continuo per pre-venire la fragilità degli Stati. I paesi in via di sviluppo sono i principali respon-sabili del loro sviluppo, ma l’Ue assume la sua parte di responsabilità neglisforzi congiunti nel quadro del partenariato.L’Ue si è inoltre impegnata ad aumentare il bilancio per gli aiuti e a portarli allo0,7% del reddito nazionale lordo entro il 2015, fissando un obiettivo collettivointermedio dello 0,56% entro il 2010; la metà dell’aumento dell’aiuto vieneprevista per l’Africa.La sezione del documento dedicata ai rapporti con i Paesi ACP pone partico-lare enfasi sulla governance locale, nazionale e regionale, affermando che lo svi-luppo socio economico locale è una leva fondamentale per la crescita econo-mica e un fattore essenziale per garantire lo sviluppo sostenibile, dato il ruolochiave che le autorità locali giocano nell’accesso ai servizi direttamente colle-gati agli Obiettivi di sviluppo del Millennio (sanità, educazione, acqua etc.).Tuttavia gli indicatori del miglioramento della governance elaborati dallaCommissione tengono in secondo piano la dimensione sociale mentre uno deidue indicatori della governance economica è interamente dedicato ad unambiente business-friendly per gli investimenti del settore privato. Anziché pro-muovere il “buon governo” nei Paesi partner, nel caso specifico gli ACP, l’obiet-tivo ultimo della Ue sembra piuttosto essere quella di favorire gli interessi delleproprie imprese, anche attraverso la liberalizzazione del commercio e degliinvestimenti che non a caso sono due dei pilastri fondamentali degli accordi dilibero scambio EPAs. Un esempio emblematico del significato di governanceche l’Ue attribuisce ai Paesi ACP è dato dai cosiddetti governance-profiles,documenti che presentano per ogni singolo Paesi il “profilo” di governance.Questi documenti, che riprendono la nuova generazione di condizionalitàpolitiche imposte dalla Banca Mondiale ai paesi più poveri, esercitando un’in-gerenza sempre più sottile in materia di politica interna dei paesi beneficiari.Secondo la società civile pongono eccessiva enfasi su tematiche che sono di

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interesse europeo piuttosto che ACP. Il profilo elaborato per lo Zambia, adesempio, critica duramente la regolamentazione del lavoro nel Paese, affer-mando che le tutele fornite ai lavorati rappresentano un deterrente per lo svi-luppo del settore privato. Ciò appare abbastanza singolare vista l’insistenza chel’Ue sugli standard dell’Organizzazione internazionale del lavoro all’internodella sua strategia commerciale.

6 RAPPORTI TRA UE E PAESI DEL SUD

6.1 LE STRATEGIE REGIONALI

All’interno delle strategie che la Ue elabora per le sua politica nelle diverseregioni in cui opera vengono identificati anche i legami tra le politiche com-merciali e di cooperazione. Per i Paesi ACP sono state elaborate tre strategie:una per le isole del Pacifico, una per i Paesi dei Caraibi ed infine una per con-tinente Africano.

6.2 EU-AFRICA STRATEGY

A partire dagli anni ‘90 la Ue ha cercato di costruire una politica specifica perl’Africa, che andasse oltre le storiche relazioni ACP. Durante il primo incontroEuropa-Africa (Eu-Africa Summit) svoltosi al Cairo nel 2000 fu lanciata unaprima strategia organica per il dialogo tra l’Ue e l’Africa a cui seguiva un pianodi azione che dava priorità al processo di integrazione regionale (anche com-merciale), all’integrazione africana nell’economia mondiale, ai diritti umani, aiprocessi di pace e di prevenzione dei conflitti, allo sviluppo sostenibile e allalotta alla povertà. L’agenda uscita dall’incontro del Cairo definiva le prioritàsulle quali doveva svilupparsi il dialogo e la partnership tra i due continenti.Tuttavia gli obiettivi tra le parti erano diversi. Se per l’Europa erano centrali itemi della pace e della sicurezza, sul fronte africano l’attenzione si focalizzavasugli aspetti commerciali ed economici della partnership. Nel dicembre 2005, in seguito al vertice dei G8 di Gleneagles, il Consiglioeuropeo adottò la nuova strategia per l’Africa elaborata dalla Commissione “EuStrategy for Africa: Towards a Euro-African pact to accelerate Africa’sDevelopment”, con l’obiettivo di “accelerare lo sviluppo dell’Africa”. Il docu-

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mento, che contiene le priorità europee per il continente nero, afferma che“con l’obiettivo di assicurare che la globalizzazione diventi una forza positiva perlo sviluppo africano, le azioni della Ue dovrebbero stimolare una crescita economi-ca sufficientemente rapida, sostenibile e ampia per contribuire ad una effettivariduzione della povertà”. Per raggiungere tale ambizioso obiettivo l’Ue prevedeil sostegno alla stabilità macroeconomica dei Paesi del continente; la creazionee l’integrazione di mercati regionali (commercio Sud-Sud); l’aumento dell’ac-cesso al proprio mercato (commercio Nord-Sud); e lo sviluppo di un adeguatosettore privato. Inoltre, frutto del clima post-11 settembre, il documento con-tiene due capitoli aggiuntivi rispetto al Cairo: la lotta al terrorismo e l’immi-grazione ai quali fu data una significativa importanza. All’interno della strate-gia viene identificato anche un obiettivo interno per l’Ue di maggiore coordi-namento e complementarietà delle politiche per l’Africa svolte dalle diverseDirezioni Generali della Commissione e tra la stessa e i Paesi membri.

GLI ACCORDI DI COOPERAZIONE UE AFRICA

Gli accordi-quadro di cooperazione tra l’Ue e l’Africa sono tre, ciascuno con un diversolivello di partnership. Il primo è l’accordo di Cotonou. (Cotonou Partnership Agreement)che come abbiamo visto rappresenta l’attuale punto di arrivo delle relazioni di coope-razione politica, economica e di sviluppo tra l’Unione europea e i Paesi dell’Africa Sub-Sahariana, del Pacifico e dei Carabi (ACP). Il secondo è quello rappresentato dal cosid-detto Processo di Barcellona che ha dato avvio alla Eu- Mediterranean Partnership tra Uee i Paesi del Nord Africa confluito attualmente nel European Neighborhood Policy cheregola le relazioni europee con i Paesi più prossimi ai suoi confini, tra cui quello delNordafricani. Infine, l’accordo con il Sud Africa (Trade and Development CooperationAgreement - TDCA) anch’esso, come gli altri, caratterizzato da una struttura triadica com-posta dal commercio, dalla cooperazione allo sviluppo e dal dialogo politico.

Nel giugno del 2007, la Commissione ha adottato un’altra Comunicazione,avanzando la proposta di un nuovo approccio alla strategia UE-Africa. Lacomunicazione rappresentò il punto di partenza europeo per l’adozione di unnuovo modello di partenariato con l’Africa che “superasse il modello tradizio-nale del donatore-assistito e ponesse le basi per una partnership adattata alla

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nuova realtà politica, sociale ed economica di entrambi i continenti e dell’ambien-te globale in cui essi operano”. La nuova strategia è stata adottata nel corso delsecondo summit Europa-Africa svoltosi a Lisbona nel dicembre 2007 duranteil quale sono emersi contrasti soprattutto sul tema della politica commerciale,nell’imminente scadenza degli Accordi di Partenariato Economico Eu-ACPprevisti per il 31 dicembre 2007. Nella nuova strategia i tre pilastri fondamen-tali della cooperazione commerciale sono: lo sviluppo del settore privato,sostenuto anche attraverso gli investimenti esteri; lo sviluppo e il rafforzamen-to delle reti di infrastrutture fisiche e dei relativi servizi; infine l’integrazionecommerciale, sia in una prospettiva di commercio Sud-Sud che di integrazio-ne nel mercato mondiale.

LA STRATEGIA DELLA BANCA MONDIALE PER L’AFRICA

In risposta al vertice dei G8 di Gleneagles del luglio 2005, che ha avuto al centro dellapropria agenda l’Africa e il raggiungimento degli Obiettivi di sviluppo del Millennio, asettembre 2005 anche la Banca Mondiale ha reso pubblico il suo piano di azione:“Meeting the Challenge of Africa’s Development: A World Bank Group Action Plan”. LaBanca, al cui tavolo di direzione siedono anche i governi europei, principali donatoridell’istituzione, mise al centro della strategia per l’Africa il settore privato, proponendoun aumento esponenziale del sostegno al settore e alle grandi infrastrutture, a nettosvantaggio di altri settori fondamentali per lo sviluppo umano e sociale del continente,quali agricoltura, salute, educazione. Proposte centrali della strategia, oggi al centrodelle politiche della Banca Mondiale nel continente e riproposte dal nuovo Presidentedell’istituzione, Robert Zoellick, furono quelle di una maggiore collaborazione tra ilramo della Banca Mondiale che si occupa dei paesi più poveri, l’InternationalDevelopment Association (IDA) e l’IFC, ovvero il ramo dell’istituzione che presta al setto-re privato, come anche una particolare enfasi all’espansione di iniziative commercialiregionali. La vecchia ricetta continua ad essere proposta, nonostante i fallimenti dellepolitiche proposte negli ultimi anni - che hanno costretto anche la Banca ad ammette-re che difficilmente gli Obiettivi di sviluppo del Millennio saranno raggiunti entro il2015 - e nonostante l’istituzione non abbia ancora dimostrato quale sia l’impatto in ter-mini di sviluppo dei propri finanziamenti al settore privato.

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6.3 COUNTRY STRATEGY PAPER

Nella definizione dei programmi e delle strategie a livello di singoli Paesi eregioni un ruolo fondamentale è giocato dai cosiddetti Country and RegionalStrategy Paper (CSP e RSP), ovvero dei documenti nei quali si analizza la situa-zione del Paese e della regione in questione, individuando le priorità di inter-vento che indirizzano la destinazione dei fondi stanziati all’interno del FES. Lestrategie paese dovrebbero rappresentare un elemento avanzato della coopera-zione europea, in quanto pensati come documenti redatti congiuntamente daisingoli Paesi beneficiari e dalla Ue. Attraverso il coinvolgimento di diversi atto-ri, vengono definite le priorità di intervento coerenti ad un disegno comples-sivo di sviluppo nazionale. In realtà, basta immaginare la Commissione Europea con il doppio cappello didonatore e partner commerciale seduta allo stesso tavolo con, ad esempio, ilMalawi, per capire che alla fine spesso sono le priorità europee ad avere lameglio e ad essere inserite nelle strategie paese dei paesi più poveri. A confer-ma di questo, quasi tutte le strategie paese contengono ambigue misure per gliaiuti al commercio volte a favorire attori privati europei più che uno sviluppoumano e sociale sostenibile degli abitanti dei paesi a cui si riferiscono. Nei CSPe RSP troviamo ad esempio misure a sostegno dell’assistenza ai Paesi beneficia-ri per negoziare accordi di libero scambio con la stessa Ue ossia aiuti allo svi-luppo europei destinati a pagare consulenti (spesso europei) che dovrebberoaiutare i paesi più poveri a identificare i “propri” interessi commerciali in vistadel negoziato con l’Ue. Oppure discutibili misure a sostegno dell’ingresso deiPaesi beneficiari nell’Organizzazione Mondiale del Commercio, inspiegabilivista l’assenza di un nesso consequenziale dimostrato tra liberalizzazione com-merciale, sviluppo e riduzione della povertà. Oppure ancora misure a sostegnodella liberalizzazione degli investimenti diretti esteri (IDE), anche qui inassenza di una relazione univoca tra liberalizzazione degli investimenti e svi-luppo. In realtà sembra che gli unici interessi ad essere rappresentati nella redazio-ne di questi documenti siano quelli dei poteri forti. Esempio emblematico èquello di Etienne Davignon, membro del board della Suez, una delle piùgrandi multinazionali europee attiva nella privatizzazione dell’acqua neipaesi del Sud. Nel marzo 2007 svolgeva anche il ruolo di consigliere per il

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Commissario allo sviluppo per le questioni attinenti alla politiche di coope-razione in Africa, in particolare per quanto riguardava il ruolo del settore pri-vato nello sviluppo economico dell’Africa Sub-Sahariana, anche nella gestio-ne delle risorse idriche.

6.4 LA NUOVA STRATEGIA GLOBALE EUROPEA

La nuova strategia europea sul commercio internazionale è contenuta in undocumento della Commissione dell’ottobre 2006, intitolato “Global Europe:competiting in the world” che definisce un preciso programma di lavoro per lastipula di accordi regionali con Paesi chiave per gli interessi economici delVecchio Continente. Pochi mesi dopo il lancio della nuova strategia per lo svi-luppo, durante il Consiglio Affari Generali della Ue svoltosi a fine aprile del2007, l’Ue decideva di avviare formalmente negoziati per la stipula di accordidi libero scambio o di associazione con i Paesi del Centro America, dell’AreaAndina, con l’India, con la Corea del Sud ed i Paesi dell’ASEAN. Accordi chepuntano chiaramente a ottenere più di quanto c’è al momento sul tavolo delnegoziato multilaterale - ossia in gergo negoziale, accordi OMC-plus - chemirano ad “assicurare alle imprese europee l’accesso ai mercati e la possibilità dioperare in un ambiente economico stabile”. Da qui l’enfasi posta sulle barrierenon tariffarie, vale a dire su tutte quelle normative di carattere nazionale che,nella regolazione di un determinato settore, stabiliscono i criteri da seguire peril soggetto straniero per poter svolgere un’attività economica. Si vuole andarea colpire, insomma, la sovranità politica ed economica dei Paesi, vincolando-ne la potestà legislativa a criteri di non discriminazione che vadano a esclusi-vo vantaggio delle imprese multinazionali.

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PER SAPERNE DI PIÙ

Siti webEuropean Centre for Development Policy Management (ECDPM)www.ecdpm.orgOverseas Development Institute (ODI) www.odi.org.ukCommissione europea Direzione Generale Sviluppo http://ec.europa.eu/deve-lopmentSeattle to Brussels Network www.s2bnetwork.org

Libri e documentiACP Secretariat e ECDPM, “The Cotonou Agreement. A user’s guide for Non-StateActors”, Novembre 2003ECDPM, “The Cotonou Partnership Agreement: what role in a changing world?”.Policy Management Report 13, Novembre 2007Sanoussi Bilal e Roman Grynberg “Navigating New Waters. A Reader on ACP-EU Trade Relations”, Volume 1, Commonwealth Secretariat, 2007Roberto Meregalli, “Quale Partnership è possibile fra un gatto e un topo?”,L’Africa non è in vendita!, Aprile 2007Seattle to Brussels Network, “The new Global Europe Strategy of Eu: serving cor-poration worldwide and at home”, Novembre 2006

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3EPA: l’Europa va al mercato

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1 LA NUOVA FRONTIERA DEGLI ACCORDI DI LIBERO SCAMBIO

Come abbiamo visto nel capitolo precedente, le relazioni commerciali con iPaesi ACP sono sempre state al centro della politica di sviluppo europea. Gliobiettivi erano molteplici e non dobbiamo sottovalutare la necessità per i Paesieuropei di mantenere canali preferenziali per l’approvvigionamento delle ric-che risorse naturali presenti in maniera particolare in Africa.Ma le preferenze commerciali utilizzate dall’Unione Europea hanno funziona-to? Hanno contribuito allo sviluppo dei Paesi ACP come la teoria economicaprevedeva? Hanno favorito il processo di industrializzazione affrancando leregioni ACP, in particolare quella africana, dall’esportazione di materie prime ascarso o nullo valore aggiunto? L’Unione Europea ha riconosciuto il fallimento del vecchio sistema di preferen-ze nel determinare il “decollo” delle economie ACP. Tuttavia la spiegazione chel’Ue si è data rispetto a tale fallimento è solo in parte condivisibile. Infatti, il pas-saggio dal sistema delle preferenze ad accordi sostanzialmente reciproci mantie-ne invariato il paradigma economico che ha guidato le relazioni con i paesi ACPnegli ultimi trent’anni, ovvero quello del libero commercio quale strumentochiave per lo sviluppo. Questo mentre sia in ambito accademico, che di agenziespecializzate delle Nazioni Unite (UNDP, UNCTAD, UNECA etc.), nonché nellavalutazione delle riforme strutturali attuate negli ultimi vent’anni, emergonostudi e rapporti che evidenziano la non univocità delle relazioni tra libero scam-bio e sviluppo. Al contrario, in tutte le sedi emerge la complessità di tali rela-zioni la multidimensionalità necessaria alla sua analisi e gli impatti negatividelle liberalizzazioni commerciali ai quali è necessario indirizzare l’attenzione.La storia degli EPAs, e più in generale del proliferare di accordi di libero scam-bio regionali e bilaterali a spese di un avanzamento graduale e uniforme dellaliberalizzazione degli scambi a livello multilaterale (vale a dire all’internodell’Organizzazione Mondiale del Commercio) sono il segno di una crisi delmultilateralismo e di una competizione globale sempre più efferata. Il ciclo dinegoziati avviato a Doha, la capitale del Qatar, nel 2001, e definito eufemisti-camente “dello sviluppo”, è in fase di stallo. Veti incrociati tra vecchie poten-ze (Ue, Usa) e Paesi emergenti (Brasile e India), bloccano l’avanzamento diun’agenda negoziale il cui impatto positivo per i Paesi del Sud comunque non

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si verificherà. Ciò a dimostrazione del fatto che, al di là dell’ambito negoziale,multilaterale o regionale/bilaterale, il modello commerciale è lo stesso e i Paesipoveri non risultano essere una priorità.In questo contesto, gli accordi regionali e bilaterali si differenziano dall’agen-da multilaterale sia per una dimensione quantitativa, vale a dire la profonditàdelle aperture commerciali negoziate, sia per un profilo qualitativo, ovvero ilnumero di settori coinvolti e la quasi assente garanzia di flessibilità ai Paesi invia di sviluppo. Da un punto di vista politico, il moltiplicarsi di questi accordipone delle sfide enormi ai Paesi in via di sviluppo, in particolare quelli piùpoveri. Da un lato, già in ambito OMC sono evidenti non solo le asimmetrie dipotere negoziale tra i Paesi poveri e quelli ricchi, ma anche di capacità tecni-che e risorse, elementi necessari per un negoziato in grado di produrre mutuibenefici. Inoltre, e lo vedremo più avanti, la moltiplicazione degli accordiregionali e bilaterali Nord-Sud, determina una polarizzazione delle relazionieconomiche tra queste due aree ostacolando il processo di integrazione econo-mica e di scambio Sud-Sud, che nella letteratura sullo sviluppo, e nell’eviden-za empirica fornita ad esempio dalla storia dell’integrazione europea, sono cen-trali per favorire lo sviluppo economico di quelle regioni.

2 IL COMMERCIO TRA UE E ACP

Ritorniamo alla domanda iniziale, che cosa hanno prodotto le preferenze? Unosguardo alla composizione ed ai volumi degli scambi commerciali tra Ue e ACPci permetterà di capire come abbiano lavorato le preferenze, e quali siano statigli ostacoli principali alla loro efficacia. Innanzitutto, la quota di mercato euro-peo ad appannaggio degli ACP è diminuita negli anni, passando dal 6,7% nel1976 al 3% nel 1998. Gli ACP hanno registrato la stessa perdita di mercatoanche con il resto del mondo (3,4% nel 1976, 1,1% nel 1998). Ciò significa, inparticolare modo per l’Africa, che il continente è passato ad avere un ruolosempre più marginale nel mercato mondiale. Il sistema di preferenze applicatonon ha aiutato i Paesi ACP ad inserirsi nel mercato internazionale. Ma unosguardo alla distribuzione ed alla composizione di queste preferenze potrebbeaiutarci a capirne la motivazione. In primo luogo, dopo trent’anni di coopera-

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zione economica e commerciale, il 55% dei prodotti esportati dagli ACP nel2003 erano prodotti agricoli, di cui la metà proveniva solo da quattro Paesi(Sud Africa, Costa D’Avorio, Kenya e Ghana). La loro composizione risultavaessere: cacao (25%), banane e frutta tropicale (14%), zucchero (9%), caffè e tè(9%), fiori recisi (5%). Di contro l’Ue esporta nei Paesi ACP cereali, prodottilattiero-caseari, mangimi e prodotti alimentari. Inoltre, nove Paesi del blocco ACP generano il 60% delle esportazioni versol’Ue. I tre principali esportatori sono la Nigeria (22%), che esporta principal-mente petrolio, la Costa D’Avorio (9%) ed il Camerun (6%). La diversificazio-ne delle esportazioni ACP è molto bassa: petrolio e diamanti risultano essereil 42,8% del totale in valore delle esportazioni, le quali, nei Paesi meno svilup-pati continuano a calare, registrando nel 2003 un decremento del 17%. Infine,per dare anche i termini delle proporzioni tra i diversi blocchi, quelle dei Paesiafricani (escluso il Sud Africa che non appartiene al blocco ACP) rappresenta-no l’86% del commercio ACP con l’Ue, i Carabi il 13%, mentre il Pacifico l’1%. Di fatto, il sistema di preferenze applicato dall’Unione Europea con i paesi ACPnon ha fatto altro che fissare una struttura di scambio commerciale di stamponeocoloniale, dove a far da padrone sono le materie prime. Le preferenze sonoschemi di accesso al mercato che privilegiano alcuni esportatori rispetto adaltri. Esse possono aumentare la dipendenza dei Paesi beneficiari da un limita-to numero di settori del mercato di sbocco preferenziale. La scelta di questi set-tori è fondamentale ed è quella che determinerà il risultato, o lo favorirà, adistanza di anni. Questo è avvenuto per i Paesi ACP, e quindi viene logico con-cludere che alla base del sistema di preferenze messo in piedi dalla Ue ci siastato l’obiettivo di favorire l’esportazione di materie prime dai Paesi ACPrispetto, ad esempio, a quelle lavorate. In questo senso, il sistema di preferenze applicato ha rappresentato un ostaco-lo agli ACP per concentrare le proprie risorse nelle produzioni a più alto valo-re aggiunto, piuttosto che in quelle dove godevano delle preferenze. Due sonostate le principali cause della bassa resa delle esportazioni ACP. In primo luogo,la presenza sul mercato europeo delle barriere non tariffarie, incluso standardsanitari, regolamenti di certificazione, regole di origine restrittive e quella chesi chiama la tariff esclation, ovvero il meccanismo tariffario per il quale i dazieuropei sulla pasta di cacao, ad esempio, sono circa del 9%, ma salgono al 30%

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sul prodotto lavorato (cioccolata). In secondo luogo, i limiti nella strutturadell’offerta ACP: scarse infrastrutture, limitate capacità produttive, investimen-ti e lavoro specializzato. È evidente che rispetto al primo problema sarebberonecessarie delle correzioni nei meccanismi di accesso al mercato europeo,mentre per il secondo ordine di problemi risulterebbe necessario indirizzare emigliorare la cooperazione tecnica e finanziaria. Non è un caso, ad esempio,che solamente tra il 3% e il 5% del nono Fondo europeo di sviluppo sia statodedicato all’agricoltura dei Paesi ACP. L’Ue ha quindi scelto di accordare preferenze maggiori ai prodotti agricoli pro-venienti dai paesi ACP che non a quelli manifatturieri, pur non investendo inmaniera adeguata nel miglioramento delle produzioni stesse e in generale dellecondizioni di vita nelle aree rurali. Mentre i prodotti agricoli importati dagliACP rappresentano un ottavo del totale delle importazioni europee, quelle dimanufatti occupano una quota marginale.Oltre alla struttura del sistema di preferenze, un’altra questione fondamentaleriguarda il processo di graduale erosione delle stesse. Infatti, la spinta al proces-so di liberalizzazione commerciale a livello multilaterale, nonché il proliferaredi accordi regionali, stanno determinando una progressiva riduzione dei margi-ni delle preferenze, ovvero della differenza del valore delle tariffe applicate aiPaesi che non godono delle preferenze rispetto a quelli che invece ne beneficia-no. Ad esempio la Ue applica una tariffa del 10% all’importazione di arance,mentre tale tariffa è eliminata nel caso dell’accordo di Cotonou. Se la tariffa inoggetto subisce una riduzione, il margine delle preferenze risulta eroso a disca-pito dei Paesi ACP. L’erosione delle preferenze è un processo inevitabile all’inter-no di un contesto di liberalizzazione progressiva di dazi e tariffe e risulta quin-di essere un grosso problema soprattutto per i Paesi più poveri, i quali dipendo-no per le loro esportazioni da meccanismi di accesso preferenziali.

IL RISPETTO DELLE REGOLE DI ORIGINE

Le regole di origine sono le condizioni che un prodotto deve soddisfare affinché possaessere considerato originario del Paese in questione e quindi godere dell’accesso prefe-renziale. Esse rappresentano uno strumento importante all’interno dei meccanismi dipreferenze e vengono adottate proprio con l’obiettivo di evitare che Paesi terzi benefi-

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cino indirettamente delle preferenze accordate ad un altro Paese, senza essere diretta-mente coinvolti nello schema di concessioni.Le regole di origine possono rappresentare un ostacolo alle esportazioni di un Paeseche, magari pur godendo delle preferenze, non è in grado di rispettarne i criteri. Il risul-tato di regole di origine stringenti, come ad esempio quelle previste dai meccanismi pre-ferenziali concessi dalla Ue, è che i Paesi beneficiari si trovano costretti ad esportare uni-camente la materia prima senza possibilità di lavorarla, in quanto essendo il sistema pro-duttivo di questi Paesi poco integrato da un punto di vista verticale, il contenuto nazio-nale di produzione necessario a volte non può essere garantito.Ad esempio, l’accordo Everythings-But-Arms (EBA) di cui godono tutti i Paesi meno svilup-pati (LDCs), prevede che il “criterio di accumulazione”, che permette a determinati inputproduttivi provenienti da altri Paesi di essere considerati originari del Paese che godedelle preferenze, sia applicato solo in dimensione bilaterale, coinvolgendo quindi il singo-lo paese e l’Ue. Al contrario, l’accordo di Cotonou, meno stringente, prevede che il criteriosi applichi a qualsiasi processo che coinvolga tutti i Paesi parte dell’accordo di preferen-ze. Un altro criterio è quello del minimo contenuto di input esterni. Se Cotonou stabilisceche gli input esterni non possano superare il 15% del valore del prodotto stesso, l’accor-do EBA ha abbassato tale cifra al 10%. Ciò ha particolari implicazioni per economie picco-le, costrette ad acquistare componenti o a cercare collaborazioni produttive per realizza-re prodotti finiti per l’esportazione. Infine, un altro esempio, è quello dei prodotti ittici. Sein Cotonou bastava che la nave che vendeva prodotti ittici per il mercato europeo battes-se bandiera di uno dei Paesi parte dell’accordo di preferenza, l’accordo EBA prevede chel’esportatore batta bandiera del singolo Paese che gode dell’accesso preferenziale.

Sarebbe quindi errato considerare il fallimento del sistema di preferenze applica-to storicamente dall’Ue a riprova del fatto che le preferenze commerciali non fun-zionano. Prima di “buttare via il bambino con l’acqua sporca”, sarebbe necessa-rio discutere dei limiti strutturali che hanno caratterizzato, e stanno caratteriz-zando, gli schemi preferenziali in vigore, in particolare quelli europei. E se unloro miglioramento, anziché il superamento attraverso accordi di libero scambiosostanzialmente reciproci, possa rappresentare una delle possibili risposte permeglio orientare le relazioni commerciali tra Paesi ricchi e in via di sviluppo, inparticolare quelli meno sviluppati. Anche perché, se per l’Ue il mercato africanoè marginale come quota di esportazioni complessive, lo stesso discorso non valeper i Paesi ACP che destinato al mercato europeo il 55% delle loro esportazioni.

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3 GLI ACCORDI DI PARTENARIATO ECONOMICO

Come abbiamo visto, uno degli obiettivi principali della Convenzione di Loméera quello di migliorare le performance commerciali dei vari Paesi dei blocchiACP, in modo da promuoverne lo sviluppo e la crescita economica. Pertanto,le preferenze non richiedevano alcuna reciprocità. L’accordo di Cotonou hasancito il passaggio da questo sistema agli Accordi di Partenariato Economico(Economic Partnership Agreements - EPAs) il cui negoziato doveva concludersientro il 31 dicembre del 2007. La definizione degli EPAs si poggia su tre elementi fondamentali. In primoluogo il concetto di partnership che implica diritti e doveri reciproci. In secon-do luogo quello di integrazione regionale: i negoziati EPAs sono stati condotticon sei regioni ACP, e non con i singoli Paesi, che sulla carta dovevano rappre-sentare esperienze di integrazione già in corso. In realtà, la definizione delleregioni e la firma degli accordi sono in contraddizione con questo principio.Infine, la coerenza con le regole della OMC in materia di accordi regionali dilibero scambio. Al cuore degli EPAs troviamo creazione di aree di libero scambio tra l’Ue e idiversi gruppi regionali ACP. La necessità di trasformare, tramite i nuoviaccordi EPAs, le preferenze commerciali a favore dei paesi più poveri e con-cesse fino ad oggi dall’UE, in accordi di libero scambio reciproci, che impe-gnano cioè le parti a equivalenti impegni di liberalizzazione, deriva da quan-to stabilisce l’art. XXIV dell’accordo GATT (General Agreement on Tariffs andTrade) in materia di commercio di beni. Questo articolo, fortemente discusso,e sulla cui interpretazione non univoca l’Ue ha imposto la sua visione neinegoziati EPAs, afferma che per essere compatibili con il principio dellaNazione più Favorita (NPF) gli accordi regionali di libero scambio (RegionalTrade Agreements, RTAs) devono coprire “sostanzialmente” tutto il commercioed entrare in vigore in un “ragionevole” periodo di tempo. Il principio dellaNazione più favorita afferma che un Paese non può concedere un trattamen-to commerciale migliore ad un altro Paese senza estendere tale beneficio atutti gli stati membri. È chiaro che gli accordi regionali, per loro natura, portano alla creazione diaree dove vige un regime commerciale preferenziale che vale solo per i Paesi

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parte dell’accordo. Allora, per non violare il principio della Nazione più favo-rita, questi accordi devono creare per i Paesi interessati nuove opportunitàcommerciali e non semplicemente sottrarle ad altri mercati. Ciò significa anda-re oltre i livelli di liberalizzazione raggiunti in ambito OMC. Ovvero negozia-re accordi OMC-plus.

4 OLTRE LA OMC

L’articolo XXIV del GATT afferma che gli accordi regionali di libero scambiodevono coprire “sostanzialmente” tutto il commercio tra le parti e realizzarsiin un “ragionevole” periodo di tempo, lasciando un ampio margine interpreta-tivo a parole come “sostanzialmente” e “ragionevole”. Nel caso degli EPAs, l’Ueha quantificato, in maniera assolutamente discrezionale, il regime di aperturanella media del 90% - impegnando i Paesi ACP per un 80% e la UE per il 100%,con alcuni settori sensibili sottoposti a periodi di transizione più lunghi - e ilperiodo di implementazione in 10-12 anni. Lo stesso articolo vincola inoltre solo il regime commerciale a cui sono sotto-posti i beni - industriali e agricoli - ma non i servizi e, soprattutto, non riguar-da il settore degli investimenti. Nonostante questo, il negoziato EPAs prevedela liberalizzazione del settore dei servizi; il rafforzamento della protezione deidiritti di proprietà intellettuale; la standardizzazione dei sistemi di certificazio-ne, delle misure sanitarie e fitosanitarie, delle norme sull’ambiente, il lavoro, lasalvaguardia dei consumatori; la definizione di nuove regole sulla concorren-za e sugli appalti pubblici; la liberalizzazione degli investimenti.

Risulta quindi evidente come l’insistenza europea ad inserire temi come gliinvestimenti, la concorrenza e gli appalti pubblici, tre dei famosi quattro temidi Singapore esclusi dall’agenda della OMC proprio su pressione dei Paesi delSud, all’interno degli accordi EPAs, rappresenti una palese forzatura non giu-stificata né da obiettivi di sviluppo, né tanto meno da vincoli normativi dinatura multilaterale. Bensì da brutali interessi di espansione dell’economiaeuropea a danno dell’interesse delle popolazioni dei paesi più poveri del pia-neta.

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L’Ue ha svolto l’intero negoziato fino al 31 dicembre 2007, dichiarando di nonavere alternative: se gli EPAs non entravano in vigore entro quella data, le pre-ferenze diventavano illegali e sanzionabili dal tribunale interno della OMC. Fuproprio durante la Conferenza ministeriale di Doha del 2001 che i Paesi dellaOMC concessero una deroga (waiver) alle regole di non discriminazionerispetto alle preferenze di Cotonou. È utile sottolineare che per ottenere talederoga, gli stessi Paesi ACP dovettero controvoglia accettare il lancio di unciclo di liberalizzazioni commerciali all’interno della OMC.

5 CI SONO ALTERNATIVE?

Una delle questioni fondamentali sollevate dai Paesi ACP nell’ultima fase deinegoziati EPAs è stata quella delle alternative. L’articolo 37.6 dell’accordo diCotonou afferma che nel 2004 la Commissione avrebbe dovuto avviare unarevisione di medio termine dei negoziati e laddove i Paesi ACP non LDCs(quelli cioè che non avrebbero potuto godere di un meccanismo alternativo dipreferenze quale l’accordo EBA) avessero espresso la propria impossibilità a fir-mare un accordo EPAs, la Commissione avrebbe dovuto lavorare all’individua-zione di schemi di regole alternative, compatibili con le norme OMC e tali danon peggiorare le condizioni di accesso al mercato garantite dall’accordoCotonou. Tale revisione di medio termine è avvenuta due anni dopo la data stabilita, el’Ue ha affermato che l’unica alternativa allo schema di Cotonou, in assenza diun accordo EPAs, sarebbe stato il sistema di preferenze GSP (GeneralizedSystem of Preferences), che garantisce livelli di accesso peggiori rispetto aCotonou ai paesi ACP. Il rallentamento dei negoziati, ma anche la contestualerichiesta da parte dei Paesi ACP, e della società civile ACP ed europea, di unaproroga delle scadenze negoziali e di una ricerca di alternative, ha acceso undibattito attorno ai possibili meccanismi di preferenze che rispettassero i vin-coli posti dall’art. 37.6. Nell’affermare che l’unica alternativa agli EPAs per i Paesi in via di svilupponon LDCs è solo il sistema GSP, la Commissione europea non ha violato sola-mente lo spirito di Cotonou, ma pure la sua lettera. L’Overseas Development

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Instiute (ODI) ha calcolato i costi per il Paesi ACP non LDCs di un passaggio,a partire dal 2008, dal sistema di preferenze commerciali di Cotonou a quelloGSP. Tale passaggio determinerebbe una serie conseguenze:

1. Risulterebbe incompatibile con l’Art. 36 (7) dell’accordo di Cotonou, inquanto porterebbe un aumento dei dazi europei sui prodotti ACP, determi-nando un flusso di ricchezza da questi ai Paesi europei. Si tenga presenteche i calcoli dell’ODI sui prodotti soggetti ad un aumento tariffario dimeno del 10%, evidenziano un aumento delle entrate fiscali europee di156 milioni di euro (2,6 volte l’impegno europeo per i Paesi ACP in pro-getti sanitari). Inoltre, in 22 Paesi ACP, un aumento oltre il 10% dei dazicolpirà in media il 26% del volume complessivo delle loro esportazioni lacui conseguenza sarà la cessazione della produzione di tali prodotti per l’e-sportazione.

2. Aggraverebbe il processo di erosione delle preferenze, ponendo i Paesi ACPnon solo di fronte ad un aumento dei dazi sulle proprie esportazioni, maanche alla concorrenza di altri paesi sugli stessi prodotti (materie primeagricole e trasformate).

In realtà le alternative c’erano, ma è stata la volontà politica a mancare. Lasoluzione stava nel sistema di preferenze GSP Plus. La possibilità di prevede-re il passaggio immediato dal sistema di preferenze di Cotonou al GSP Plus,senza alcuno iato tra le due fasi, avrebbe determinato conseguenze minimeper il livello di accesso preferenziale per i Paesi non LDCs sui mercati euro-pei. Essendo considerato dalla Ue come compatibile con le norme OMC, ilsistema GSP Plus, avrebbe garantito il rispetto dell’Art. 37.6 dell’accordo diCotonou. Infatti, a differenza del sistema GSP, il sistema GSP Plus garantisce un accessoesente da dazi e tariffe all’88% dei prodotti che sotto il primo regime tariffarioavrebbero subito un aumento dei dazi di oltre il 20%. Il problema di garantirequesto passaggio derivava dal fatto che fino al 2009 l’Ue non avrebbe riapertola lista di Paesi che attualmente godono del sistema GSP Plus. Il vantaggio del sistema GSP Plus sarebbe stato di coprire quei Paesi che sta-vano pensando di entrare negli EPAs, ma per cui il tempo residuo era trop-

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po limitato per garantire un negoziato dagli esiti positivi. La transizionesotto questo sistema avrebbe garantito la tranquillità necessaria ad un nego-ziato invece condotto in maniera troppo accelerata data la scadenza del 31dicembre 2007. Rispetto ai “requisiti di governance” previsti dal GSP Plus,le analisi condotte sui Paesi dell’ESA, dell’ECOWAS e del Pacifico, eviden-ziavano che i paesi delle tre regioni avevano già ratificato quasi tutte le 27convenzioni internazionali richieste in materia di diritti umani, lavoro,ambiente e buon governo.

SEI ANNI DI EQUIVOCI

I negoziati EPAs sono ufficialmente iniziati il 27 settembre del 2002 per concludersi, soloparzialmente, il 31 dicembre del 2007 e continueranno nel 2008 per i capitoli relativi aiSingapore Issues, ai servizi e a diritti di proprietà intellettuale, tra gli altri. La storia di que-sti primi sei anni di negoziati è emblematica della qualità delle relazioni UE-ACP. Nonsolo i Paesi ACP sono stati costretti a negoziare accordi di libero scambio dai qualiavranno solo da perdere, ma lo stesso processo negoziale ha evidenziato l’arroganzaeuropea nell’imporre il passo e le decisioni, rifiutandosi di considerare possibili alterna-tive su richiesta esplicita dei Paesi ACP e violando alcuni dei principi e delle regole fon-damentali dell’Accordo di Cotonou.Vi sono infatti alcuni equivoci intorno all’origine dei negoziati EPAs.1. i Paesi ACP non hanno mai affermato di voler firmare questa specifica tipologia di

accordi. Essi si accordarono con la Ue per avviare un processo negoziale per trovareuna soluzione ai vincoli imposti dalle norme OMC.

2. Gli ACP non hanno mai accettato il negoziato su temi come gli investimenti, le rego-le sulla concorrenza o sugli appalti pubblici, che tra l’altro, non sono vincolati a nes-sun criterio di reciprocità.

3. Lo stesso principio della reciprocità non è ma stato accettato dai Paesi ACP che nelloro mandato negoziale nel 2002 affermavano che “dati i possibili effetti negativi dellareciprocità sui mercati nazionali e sulla tenuta fiscale, i Paesi ACP non possono accetta-re a priori di fornire reciprocità negli accordi EPAs”.

4. Nonostante l’Ue affermi che i Paesi potranno proteggere i loro settori sensibili, ilmandato negoziale europeo prevede che i Paesi meno sviluppati, esenti da impegnitariffari equivalenti anche in ambito OMC, dovranno accettare il principio della reci-procità o rimanere all’interno di altri schemi commerciali come gli EBA, ma non gliEPAs.

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5. L’UE ha sempre affermato il pieno diritto degli ACP nelle decisioni riguardanti la tem-pistica, le modalità e la sequenza dei loro impegni di liberalizzazione commerciale.Ma gli stessi limiti a questa flessibilità sono stati imposti dai vincoli della OMC.

6. L’UE afferma che gli EPAs hanno l’obiettivo di sostenere i processi di integrazioneregionale. Ma questa integrazione rappresenta il prezzo più alto che i Paesi ACPdovranno pagare accettando l’implementazione di questi accordi.

7. La UE si ostina ad affermare che gli EPAs sono accordi di sviluppo, ma la direzione deinegoziati è stata di esclusiva competenza del commissario europeo al commercioPeter Mandelson.

6 (DIS)INTEGRAZIONE REGIONALE

Solitamente nelle storie non si inizia dalla fine. Ma in questo caso ci sembranecessario per chiarire sin da subito che uno degli obiettivi fondamentali degliEPAs, l’integrazione regionale, è già fallito con l’adozione degli InterimAgreements del dicembre 2007. Infatti negli ultimi mesi del 2007 si sono veri-ficati interessanti sviluppi negoziali che hanno registrato novità importantinella configurazione dei vari accordi regionali in via di definizione. Alla lucedell’imminente scadenza per la conclusione degli accordi EPAs, fissata per il 31dicembre, l’avanzamento delle singole agende negoziali risultava del tutto ina-deguato. Le divergenze tra l’Ue e i Paesi ACP rimanevano profonde, soprattut-to su alcuni capitoli “sensibili”: la dimensione di sviluppo, i servizi e gli inve-stimenti. Come spiegato in precedenza, l’obbligo di trasformare le preferenzein accordi sostanzialmente reciproci riguarda solamente il commercio dei benitra le regioni. Conscia di dover perlomeno raggiungere questo minimo risulta-to entro la data stabilita per la fine dei negoziati, la Ue ha apparentementeabbassato le sue richieste nei confronti dei Paesi ACP, chiedendo loro di chiu-dere entro l’anno un accordo almeno in materia di commercio dei beni, men-tre per gli altri capitoli continuare a negoziare nel 2008. In una comunicazio-ne della Commissione al Consiglio ed al Parlamento europeo, essa ha delinea-to più precisamente i contorni di tale soluzione. L’obiettivo risultava quello difirmare con quei Paesi o regioni che rifiutavano un accordo EPAs completoentro la fine dell’anno, un Interim Market Access Agreement: un approccio a due

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fasi nella cui imminente chiusura della prima, l’Ue ha inserito misure vinco-lanti al completamento della seconda per garantire una configurazione coeren-te con gli obiettivi stabiliti al momento del lancio dei negoziati degli EPAs. Ilproblema è che nessuna regione, esclusa quella dei Carabi, ha congiuntamen-te firmato l’accordo ad interim, ma si è verificato una corsa in ordine sparsoalla firma con singoli Paesi o sub-regioni a seconda degli interessi strategici diquesti Paesi a non perdere le preferenze commerciali. Ma ritorniamo all’inizio della nostra storia. L’accordo di Cotonou stabilisce che“la cooperazione economica e commerciale si fonda sulle iniziative di integrazio-ne regionale degli stati ACP, nel riconoscimento che l’integrazione regionale è unelemento fondamentale dell’integrazione ACP nell’economia mondiale”. L’articolo53 dell’accordo inoltre stabilisce che le fondamenta degli EPAs saranno costi-tuite da accordi regionali esistenti. Il problema dell’integrazione regionaletocca in particolare l’Africa, un continente frammentato in 53 stati, molti deiquali piccoli, poveri e con mercati locali limitati. Basti pensare che 39 Paesihanno una popolazione al di sotto dei 15 milioni di abitanti e di questi 21 aldi sotto dei cinque milioni. Due terzi degli stati hanno un reddito pro-capiteinferiore ai 500 dollari l’anno contro una media mondiale di 5000. Infine afronte di una quota di popolazione mondiale del 12%, l’Africa detiene appenail 2% della produzione globale.

Al di là della regione caraibica e di quella del Pacifico, ciò che ha destato mag-giore dibattito è stata la configurazione regionale scelta per l’Africa al momen-to di negoziare gli accordi EPAs. Infatti nel continente esistono 14 comunitàregionali delle quali alcune già attive ed altre in fase di costruzione. LaSouthern African Development Community (SADC), la Economic Community ofWest African States (ECOWAS) e la Communaute Economique et Monetaire del’Afrique Centrale (CEMAC) che, assieme all’Unione Monetaria dell’AfricaOccidentale (UEMOA), sono le esperienze di integrazione che ad oggi hannodato i migliori risultati, anche se molta strada nel panorama continentale deveessere ancora percorsa. Ciò lo si deduce anche dall’ammontare dei flussi dicommercio intra-africano, che registra una crescita molto lenta.

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Molte di queste aree hanno definito modalità e tempi di riduzione dei dazi trai paesi aderenti che poi non hanno rispettato, come nel caso dell’ECOWAS odella COMESA (Common Market of Easter and Southern Africa). Solo la SACU(Southern African Customs Union) ha raggiunto l’obiettivo di cancellazione deidazi interni alla regione. La scelta delle regioni africane per i negoziati EPAs ha determinato una seriedi problematiche alle quali successivamente non è stata data soluzione adegua-ta. In primo luogo, la sovrapposizione, vale a dire l’appartenenza di alcuniPaesi a più configurazioni regionali. L’esempio dell’Africa occidentale è emble-matico. La Ue ha avviato il negoziato EPA con la ECOWAS, composto da 15Paesi. Ad essi però si è aggiunta anche la Mauritiana, che annullò la sua parte-cipazione all’ECOWAS nel 1999 per entrare nell’Unione Araba del Maghreb.All’interno del ECOWAS, otto di questi Paesi (Togo, Senegal, Niger, Mali,Guinea Bissau, Costa D’Avorio, Burkina Faso e Benin) partecipano ancheall’UEMOA. All’interno del gruppo esistono quindi tre livelli di integrazione incorso che dovrebbero a loro volta integrarsi tra di loro nonché, ed è il proble-ma maggiore, con la Ue. Una prima domanda è quale sistema tariffario si debbaadottare e sorge spontanea se pensiamo ad Paese come il Kenya che partecipaa più organizzazioni regionali ed è parte sia dell’EAC che della COMESA,regioni con tariffe esterne differenti. Sarebbe tecnicamente impossibile per ilKenya applicare due differenti tariffe doganali esterne.

Anno 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 Media

Commercio (in % al PIL)

Commercio Intra-africano 8.0 8.5 8.8 8.3 8.3 8.3 8.8 8.4

Commercio multilaterale 49.3 49.5 49.7 45.6 51.2 50.9 58.0 50.6

Totale commercio 57.2 58.0 58.5 53.9 59.4 59.2 66.8 59.0

Incr del commercio dal 1994 (%)

Commercio Intra-africano – 0.6 0.8 0.3 0.3 0.4 0.8 0.5

Commercio multilaterale – 0.2 0.4 -3.6 1.9 1.6 8.7 1.5

Totale commercio – 0.8 1.2 -3.3 2.2 2.0 9.6 2.1

Fonte: Economic Commission For Africa, 2004

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LE REGIONI ACP PARTE DEL NEGOZIATO

I negoziati EPAs sono condotti con sei regioni ACP secondo la configurazione seguen-te:ECOWAS (Economic Community of Western African States): Benin, Burkina Faso, CapoVerde, Costa D’avorio, Gambia, Ghana, Guinea, Guinea-Bissau, Liberia, Mali, Mauritania,Niger, Nigeria, Senegal, Sierra Leone, Togo.CEMAC (Communaute Economique et Monetaire de l’Afrique Centrale): Cameroon,Repubblica Centro Africana, Repubblica del Congo, Gabon, Guinea Equatoriale, Chad,Sao Tomé e Principe.SADC (Southern Africa Development Community): Angola, Botswana, Lesotho,Mozambico, Namibia, Sud Africa, Swaziland, Tanzania.ESA (Eastern and Southern Africa): Burundi, Comore, Repubblica Democratica delCongo, Gibuti, Eritrea, Etiopia, Kenya, Malawi, Mauritius, Madagascar, Ruanda, Seychelles,Sudan, Uganda, Zambia e Zimbabwe.CARICOM (Caribbean Community): Antigua and Barbuda, Bahamas, Barbados, Belize,Dominica, Grenada, Guyana, Haiti, Jamaica, Montserrat, Saint Lucia, St. Kitts e Nevis,St.,Vincent e Grenadines, Suriname, Trinidad e Tobago .I Paesi della regione hanno cominciato a cooperare all’interno di un programma defini-to Pacific Regional Economic Integration Programme (PACREIP) proprio per condurre inmodo coordinato i negoziati EPAs che richiedono l’integrazione economica di queipaesi (PACP). Essi sono: Cook Islands, la Federazione degli Stati della Micronesia, Fiji,Kiribati, Nauru, Niue, Palau, Papua Nuova Guinea, Repubblica delle Isole Marshall,Samoa, Isole Solomon, Tonga, Tuvalu and Vanuatu.Al momento della firma dell’Interim Agreement alla fine del 2007, come abbiamo visto,si è assistito ad una disintegrazione dei gruppi negoziali scelti dalla UE, e ad una corsain ordine sparso per sottoscrivere gli accordi. Nell’area del Pacifico solo la Papua NuovaGuinea e le isole Fiji hanno firmato accordo. Nell’area ESA, solo una sub-regione, laComunità dell’Africa orientale ha deciso per l’Interim agreement. Gli altri Paesi hannoadottato un accordo quadro comune ma con modalità di accesso al mercato differenti.Nella regione della SADC, l’accordo è stato firmato solo dal Botswana, Lesotho,Swaziland, Mozambico e Namibia. Nella regione dell’Africa Centrale, tra i Paesi in via disviluppo, solo il Cameron ha concluso l’accordo. Infine, nell’Africa occidentale, un Paesechiave come la Nigeria si è detta non interessata alla firma degli EPAs.Insomma, nessuna regione ha firmato, escluso i Carabi che hanno optato per un accor-do EPA completo, vale a dire che contiene anche misure relative ai Singapore Issue, aiservizi e ai diritti di proprietà intellettuale.

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Oltre al problema della sovrapposizione, è utile chiedersi se gli accordi EPAsaumenteranno il commercio intra-africano. Da una simulazione dellaCommissione Economica per l’Africa delle Nazioni Unite (UNECA) emergecome gli EPAs determineranno sì un aumento dei flussi commerciali, ma prin-cipalmente da e verso l’UE, a discapito del commercio intra-africano.

Stima quote di commercio intra-africano cancellate dagli EPAs (in valore)

Scenario di liberalizzazione completa tra l’UE e l’Africa Sub-Sahariana -787.000.000 $

Applicazione del principio di reciprocità -559.000.000 $

Principio di reciprocità con asimmetria al 20% -532.000.000 $

Principio di reciprocità con asimmetria al 40% -415.000.000 $

Fonte: Economic Commission For Africa, 2004

Come si può notare dai dati riportati in tabella con riferimento allo scenarioconfigurato negli EPAs, vale a dire l’asimmetria del 20%, dove l’Ue concede unaccesso completo tranne che per lo zucchero, il riso e la carne dove sono pre-visti periodi di transizione, l’impatto degli accordi sarà notevole. Scendendo alivello regionale, sono sempre le stime dell’UNECA ad affermare che, nel casodella regione COMESA, il costo della riduzione del commercio regionaleammonterà a 242 milioni di dollari, ovvero un declino del 5,8%, mentre l’Uepotrebbe guadagnare quote di mercato per circa 1,152 miliardi di dollari.Nell’ECOWAS invece il costo della diminuzione del commercio internoammonterà a circa 365 milioni di dollari. Il Ghana sarà il Paese che subiràmaggiori perdite nel suo commercio regionale (circa 23 milioni di dollari). InBurkina Faso, le esportazioni europee potrebbero aumentare del 8% (circa 40milioni di dollari) mentre le esportazioni del Paese nell’Africa occidentalediminuirebbero del 6% (circa 2 milioni di dollari). Con un’asimmetria del 20%il commercio regionale ACP diminuirà di circa il 22%. L’UNECA conclude ilsuo studio affermando che “la produzione industriale nell’Africa Sub-Saharianapotrebbe diminuire in modo significativo”. Anche a fronte di un livello di asim-metria maggiore, “i due principi della reciprocità e di un approfondimento dell’in-

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tegrazione regionale lavorano probabilmente in direzioni opposte”. Insomma, laCommissione delle Nazioni Unite per l’Africa afferma che gli EPAs e l’integra-zione regionale sono una contraddizione, in quanto o si sceglie la reciprocità(con i diversi livelli di asimmetria possibili) o l’integrazione.

IL CASO DEL KENYA

Il Kenya perderà quote di mercato regionale a causa degli accordi EPAs a vantaggiodella UE. Infatti il Paese commercia attivamente nella Comunità dell’Africa orientale(EAC) con la Tanzania e l’Uganda così come con i Paesi della COMESA. Rafforzare il com-mercio regionale è un obiettivo chiave per lo sviluppo del Paese che ha già una base dicommercio regionale, in particolare nei prodotti dell’industria leggera, incluso piccoliequipaggiamenti elettronici, pezzi di ricambio per auto, prodotti petroliferi, plastiche egomma, prodotti farmaceutici, cibo, bevande e metalli. Il mercato regionale è molto piùimportante per il Kenya rispetto al mercato europeo, infatti nel 2003 il 67% dei suoi pro-dotti manifatturieri è finito nel mercato dei Paesi della COMESA, rispetto al 9% sul quel-lo europeo. Una stima di un centro di ricerche governativo, il KIPPRA, sostiene che ilPaese perderà il 15% del suo commercio regionale con l’entrata in vigore degli accordiEPAs e conclude affermando che “l’UE guadagnerà significativamente dall’espansione delcommercio nell’area EAC/COMESA [...]”, controllando il Kenya una quota consistente delcommercio manifatturiero nell’area,“[gli EPAs] colpiranno il commercio del Paese in pro-dotti a valore aggiunto, aumentando la dipendenza da esportazioni di prodotti primari,restringendo la gamma di prodotti che attualmente il Kenya commercia e la diversitàrispetto ai propri partner commerciali”.

Dall’analisi dell’impatto che avranno gli EPAs sul processo di integrazioneregionale africana emerge con chiarezza come l’agenda europea promuova ladefinitiva ipoteca del progetto Pan-Africano di integrazione continentale,considerato dai Paesi africani una componente chiave delle proprie politichedi sviluppo. Tale risultato è ancora più assurdo se teniamo in considerazionela storia dello stesso processo di integrazione europea. Essa ha beneficiato perdecenni di protezioni ed ha sempre utilizzato un approccio flessibile e setto-riale alle liberalizzazioni. Prima della creazione della Comunità europea,importanti Paesi del vecchio continente, su base nazionale, hanno utilizzato,

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tra il diciannovesimo ed il ventesimo secolo, le tariffe ed altre misure prote-zioniste nei momenti critici del loro sviluppo industriale. Dopo la secondaguerra mondiale, fino alla recessione dei primi anni ‘70, la politica commer-ciale europea (escluso il settore agricolo) è avanzata nella direzione della libe-ralizzazione. Tuttavia gli anni ‘70 ed i primi anni ‘80 furono di crescente pro-tezionismo, in direzione contraria agli aggiustamenti strutturali che venivanoimposti ai Paesi africani, largamente implementato attraverso l’adozione dibarriere non tariffarie, come le quote o gli “accordi volontari di esportazione”realizzati tra gli stessi Paesi sviluppati. Attualmente la Ue mantiene picchi edesclation tariffarie in aree sensibili, così come una vasta gamma di barriere nontariffarie. Di contro, la Ue chiede all’Africa una liberalizzazione progressiva edirreversibile in tempi rapidi se confrontati con la stessa storia europea (12anni e 20 o 25 solo per determinati prodotti sensibili). Privare i Paesi in fasedi sviluppo di uno strumento fondamentale come le tariffe per proteggere leproprie industrie nascenti significa ridurre lo spazio politico di questi paesi equindi negare la possibilità di elaborare e implementare autonome politichedi sviluppo.

A LISBONA SI PREDICA BENE, MA SI RAZZOLA MALE

La dichiarazione finale del secondo summit Eu-Africa svoltosi a Lisbona l’8 e 9 dicem-bre del 2007 afferma che “[verrà sviluppata] una partnership tra eguali, basato su un effet-tivo coinvolgimento delle nostre società con l’obiettivo di raggiungere risultati significativinei nostri principiali obiettivi: il raggiungimento degli obiettivi del millennio, il rafforzamen-to degli investimenti, la crescita e la prosperità attraverso l’integrazione regionale e più fortilegami economici...”.Inoltre, nel paragrafo 43 del EU-Africa Joint Strategy si afferma che “in linea con il Trattatodi Abuja, che ha istituito la AEC (African Economic Community) il commercio e l’integrazio-ne sono considerati come componenti essenziali di un più ampio processo di integrazioneregionale e di sviluppo che dovrebbero essere pienamente promossi dalla presente partner-ship. Le Comunità economiche regionali svolgeranno un ruolo essenziale come attori nellacostruzione dell’integrazione continentale. Per fare ciò, l’Africa e l’UE dovranno lavorarecongiuntamente per rendere le regole ed i regimi commerciali più coerenti e armonizzati”.

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7 IL SETTORE AGRICOLO

I negoziati EPAs vedono confrontarsi due modelli di agricoltura radicalmentedifferenti. Da un lato quella europea che ha una percentuale di occupati dimeno del 5%, ma riceve 60 miliardi di euro di sussidi all’anno; dall’altro quel-la dei Paesi ACP, priva o quasi di sussidi e con un numero di occupati che oscil-la dal 3,6% delle Bahamas al 93,2% del Burkina Faso. L’importanza delle espor-tazioni agricole, tuttavia, varia di regione in regione fino a rappresentare il67,6% delle esportazioni dell’Africa occidentale e il 53,2% di quella orientale.Nell’Africa Sub-Sahariana, il 70% dei lavoratori è impiegato nel settore agrico-lo ed il 95% delle terre coltivate è gestito da imprese di tipo familiare. Si colti-vano prodotti destinati al commercio di prossimità, ovvero ai mercati locali. Leesportazioni agricole rappresentano comunque la quota principale del totale diesportazioni ACP verso il mercato europeo (circa1/4).Il mercato di prodotti alimentari e agricoli dell’Africa Sub-Sahariana sta assu-mendo un’importanza crescente per gli esportatori del vecchio continente. Sequelle agricole sono circa il 6% del totale delle esportazioni europee, 14,9% deltotale delle agricole europee (escludendo naturalmente il Sud Africa che rice-ve da solo il 42% del totale di esportazioni dall’Ue) è diretto verso l’Africa Sub-Sahariana. Per il continente africano, il 9,8% delle importazioni di prodottiagricoli arriva dall’Europa. La percentuale varia se misurata per regioni: così inAfrica occidentale, le esportazioni di prodotti alimentari e agricoli europei rap-presentano il 20% dei prodotti agricoli in entrata nella regione. L’Europa sta inoltre esportando sempre più prodotti alimentari trasformativerso i paesi ACP, inclusi i paesi più poveri, bloccando i processi di sviluppodel settore verso la produzione di semilavorati, e quindi verso la generazionedi maggiore valore aggiunto a livello locale. Se nel 1995 le esportazioni euro-pee di prodotti alimentari trasformati rappresentava il 21% del totale delleesportazioni di prodotti alimentari e agricoli, nel 2004 la percentuale era sali-ta al 40%. In questo modo le esportazioni europee bloccano una delle chiavidella trasformazione economica dell’Africa, impedendo ai produttori locali dirisalire la catena del valore della produzione agricola, realizzare maggior valo-re aggiunto locale sui propri prodotti agricoli e quindi aumentare l’impiego eil reddito rurale. Se negli anni passati le esportazioni europee verso gli LDCs

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erano soprattutto cereali, prodotti lattiero-caseari e animali, negli ultimi diecianni sono aumentate le esportazioni di prodotti agricoli trasformati, con unincremento del 147% dal 1995 al 2000. In un contesto dove il settore agricologenera tra il 30% ed il 60% del PIL, impiega tra il 40% ed il 90% della forzalavoro e rappresenta tra il 25% ed il 95% del reddito da esportazione, il dum-ping europeo genera conseguenze estremamente pesanti.

ASCESA E DECLINO DEL POMODORO GHANESE

Negli anni ‘60 e ‘70 il Ghana aveva basato il proprio sviluppo agricolo sulla produzione dipomodori, investendo in infrastrutture per l’irrigazione e per la lavorazione industriale delprodotto. Nella regione orientale del Paese, la più adatta alla produzione di questo tipo diortaggio, il 90% della popolazione era impiegata nella sua coltivazione e lavorazione. Leintese stabilite con i coltivatori garantivano, attraverso un sistema di accordi sulle quan-tità, la collocazione sul mercato dell’intera produzione. A quell’epoca, attraverso l’eroga-zione di sussidi, il governo del Ghana intervenne molte volte nel settore agricolo.A partire dagli anni ‘80, e per tutti i ‘90, le politiche di aggiustamento strutturale impostedalla Banca Mondiale e dal Fondo Monetario Internazionale obbligarono il governo loca-le a privatizzare le industrie di trasformazione di pomodoro e a diminuire i dazi (cioè letasse applicate ai prodotti in ingresso) sulla loro importazione. L’aumento dei prodotti inentrata che ne è conseguito ha avuto effetti devastanti sul mercato ghaniano e sullecomunità locali rendendo non competitive le loro produzioni e permettendo che gliintermediari privati riprendessero il controllo del mercato di pomodoro. In seguito alleriforme imposte dalla Banca Mondiale, la quantità di pomodoro lavorato importato inGhana è passata da 3.600 tonnellate, per un equivalente di 5,3 milioni di dollari nel 1991,a 24.700 tonnellate, per un equivalente di 17,5 milioni di dollari, nel 2002. La parte delleone sul lato dell’esportazione l’ha svolta ovviamente l’Unione Europea.Ma perché il pomodoro europeo è più economico di quello del Ghana? La spiegazionesta in una semplice parola: sussidi. L’Unione Europea garantisce ai propri produttori dipomodori un prezzo minimo e sussidia le industrie di trasformazione e di esportazione.L’ammontare di tali sussidi è di circa 300 milioni di euro l’anno. Ciò rappresenta unaconcorrenza sleale nei confronti dei produttori del Ghana, che non ricevono i sussidi dalproprio governo e che negli ultimi dieci anni hanno visto aumentare il prezzo degliinput di produzione. L’industria di pomodoro del Ghana non è competitiva a livellointernazionale, principalmente a causa dei sussidi, ma rappresenta, comunque, un set-tore fondamentale per lo sviluppo economico di lungo periodo del paese. Il governoinvestiva molto nell’industria del pomodoro per il suo ruolo multifunzionale nell’econo-

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mia del paese, ponendo le fondamenta per la futura industrializzazione, lo sviluppodelle infrastrutture rurali, l’aumento della sicurezza alimentare e il miglioramento dellecondizioni di vita nelle aree rurali.I costi delle perdite causate dalle esportazioni europee non vanno calcolati solamentein relazione alle possibilità derivanti dalla disponibilità di prodotti più economici, maanche considerando gli interessi di sviluppo di lungo periodo del paese.

È quindi lecito chiedersi se gli EPAs riusciranno a portare effettivi benefici adun’agricoltura continentale africana che, come abbiamo visto, è principalmentedi sussistenza ed orientata ai mercati locali. Ciò che i cittadini ACP guadagne-ranno in termini di abbassamento dei prezzi dei prodotti agricoli grazie alle libe-ralizzazioni, lo perderanno in quanto produttori, perché difficilmente l’agricol-tura locale potrà competere con i prodotti provenienti dalla UE. Saranno i con-tadini africani a pagare il prezzo più alto della concorrenza europea. Gli EPAscauseranno cambiamenti notevoli nell’ambiente commerciale dei produttoriagricoli e delle filiere di trasformazione delle materie prime agricole, senza chela liberalizzazione del mercato europeo riesca a generare benefici significativi.

ESPORTARE SEMPRE PIÙ MATERIE PRIME AGRICOLE NON AIUTAA COMBATTERE LA FAME

Molti Paesi africani sono grandi esportatori di materie prime agricole: caffé, tè, zucche-ro e cotone. Per sette Paesi, questi prodotti rappresentano un quarto del valore totaledelle loro esportazioni sul mercato europeo. Ma produrre ed esportare materie primeagricole non è un buon affare, in quanto lascia i produttori in balia delle oscillazioni delprezzo sul mercato, mentre eventuali aumenti dei prezzi lasciano i guadagni nelle manidelle grandi imprese della trasformazione e distribuzione, non dei produttori.La costante discesa dei prezzi delle materie prime agricole negli anni passati costrinse iPaesi esportatori a produrre di più per mantenere lo stesso livello di reddito, sacrificandoaltre coltivazioni e quindi mettendo a rischio la sicurezza alimentare delle comunità loca-li. Così in Uganda la coltivazione di caffé è passata da 250mila ettari nella stagione1992/93 a 300 mila ettari nella stagione1999/2000. Ma il prezzo del caffé è crollato nellaseconda metà degli anni ‘90, cosicché il valore delle sue esportazioni è passato da 432milioni di dollari nel 1994 a 165 milioni nel 1999 nonostante l’aumento della produzione.

Fonte: Roberto Meregalli, 2007.

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Come abbiamo visto, l’accesso preferenziale garantito ai paesi meno sviluppa-ti dal sistema EBA in realtà non porta a grandi benefici a causa degli ostacoligenerati da regole di origine, limiti di offerta, barriere non tariffarie, che impe-discono effettivamente l’esportazione. Anche per gli altri paesi del blocco ACP, il problema principale non è rappre-sentato dalle tariffe, ma dalle barriere non tariffarie. Inoltre, la Commissionepreme per ridurre i dazi doganali dei Paesi ACP applicati ai prodotti agricoli edai loro derivati, senza smettere di difendere con dazi e sussidi i propri prodot-ti sensibili. I sussidi all’export, che l’Ue ha promesso di eliminare entro il 2013,sempre che la OMC concluda il ciclo negoziale, sono un problema enorme peri piccoli contadini africani. Essi infatti da un lato abbassano il prezzo del pro-dotto sul mercato internazionale, riducendo il reddito dei Paesi poveri dall’e-sportazione di questi prodotti, dall’altro, come nel caso del pomodoro inGhana, provocano una concorrenza sleale (dumping) sui mercati locali, dove ilprezzo basso del prodotto europeo è possibile grazie alle sovvenzioni e il pic-colo agricoltore non è in grado di competere: quindi è costretto ad uscire dalmercato. Proprio i sussidi alla produzione di pomodori hanno permesso agli esportato-ri europei di coprire l’80% della domanda dei Paesi dell’Africa occidentale disalsa di pomodoro concentrato venduto a prezzi inferiori rispetto a quelli degliagricoltori locali. La stessa cosa vale per i prodotti lattiero-caseari e la carne.Un altro esempio interessante è quello dei cereali, prodotto per il quale il pro-cesso di riforma agricola comunitaria si è già completato. L’esportazione di fari-ne europee nei Paesi ACP è cresciuta in valore del 83% dal 1996 al 2002.Mentre quella dei preparati a base di cereali del 163%, tanto che i Paesi ACPsono divenuti un importante mercato per l’Ue (20,6% per l’esportazione di fari-ne e 9,5% per i preparati a base di cereali). Stiamo parlando di prodotti a limi-tato valore aggiunto, cioè ottenibili senza sofisticate trasformazioni, che perciòpotrebbero essere realizzati direttamente dai Paesi ACP, generando una rendi-ta importante per le comunità locali.

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LIBERALIZZAZIONI E CRISI ECONOMICA IN AFRICA

Tra gli anni ‘80 e ‘90, sempre più Paesi in via di sviluppo vennero spinti ad aprire i proprimercati alla competizione internazionale, abbandonando i meccanismi di sostegno e diprotezione, sia doganali che sociali, a favore delle privatizzazioni di settori sempre piùampi. A chi non accettava i Piani di aggiustamento strutturale venivano negati i creditiinternazionali di Fondo Monetario e Banca Mondiale. In Africa i danni di queste libera-lizzazioni non governate sono stati ingenti: in Costa d’Avorio nel 1986, dopo la riduzio-ne del 40% delle tasse sui prodotti importati, il settore tessile, chimico, dell’abbiglia-mento e automobilistico collassarono; in Senegal, dopo una riduzione delle tasse doga-nali dal 165% al 90%, un terzo dei posti di lavoro andarono perduti fra il 1985 e il 1990;nel Ghana 50 mila posti di lavoro nel settore manifatturiero sparirono fra il 1987 e il1993 dopo la liberalizzazione delle importazioni di beni di consumo. Anche in Kenya isettori del tessile, dello zucchero, del cemento, dell’imbottigliamento, del vetro e dellapelletteria hanno sofferto la competizione dei prodotti stranieri. Fra il 1993 e il 1997 lacrescita industriale nel Paese è scesa del 2,6%, tra il 1991 ed il 2000 il paese ha moltipli-cato per due le sue esportazioni agricole e per quattro le importazioni alimentari, ed ècresciuta la fame nelle aree rurali. Produrre a basso costo per esportare e importare ciòche si consuma mentre contadini e operai perdono il lavoro, sono alcuni dei paradossidell’economia Africana.

Fonte: Europafrica, 2006

L’eliminazione delle tariffe che proteggono i prodotti agricoli prevista dai nego-ziati EPAs - ad esclusione di un 20% di prodotti sensibili che potranno nonsubire diminuzioni tariffarie - non farà altro che peggiorare ulteriormente lacondizione degli agricoltori locali, esponendoli alla concorrenza delle derrateeuropee, finanziate ogni anno con una somma che è pari a 15 volte il Fondoeuropeo di sviluppo. Le tariffe oggi applicate dai paesi africani sono molto piùbasse del livello massimo consentito, proprio a causa delle riforme strutturaligià imposte in questi paesi da Banca Mondiale e FMI. Tuttavia questo marginedi manovra rappresenta uno strumento fondamentale di flessibilità per la poli-tica di sviluppo dei paesi ACP, che non dovrebbe essere eliminato. E’ l’esperien-za dei paesi “sviluppati” a dimostrare quanto l’utilizzo delle tariffe possa esse-re importante in particolari momenti di crisi e di svolta del processo di svilup-po interno di un Paese.

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L’importazione incontrollata di prodotti agricoli in Kenya ha dato il via a unaprogressiva disincentivazione della produzione locale per prodotti come mais,carne, riso, zucchero, prodotti lattiero caseari e cotone. Latte in polvere e zuc-chero raffinato costituiscono buona parte delle importazioni europee in Kenya,entrambi prodotti fortemente sussidiati dalla politica agricola comunitaria.L’importazione di zucchero raffinato e sussidiato dalla UE ha impedito alKenya di sviluppare una propria industria di trasformazione. La reciproca libe-ralizzazione imposta dagli EPAs esporrà i produttori locali ad una ancora piùforte concorrenza dei prodotti europei.Il Kenya ha recentemente adottato una politica di protezione di questi settoriattraverso l’uso di tariffe. Queste misure sono viste come un utile strumento tem-poraneo per una ristrutturazione interna del settore e il miglioramento dellacompetitività. Sotto gli EPAs, anche se al Paese sarà permesso di proteggeredeterminati prodotti sensibili, ciò non sarà possibile per tutti i settori che neces-siterebbero di sviluppo e protezione. Per questo il Kenya dovrà scegliere se pro-teggere i propri produttori di zucchero o di prodotti lattiero-caseari. Oppure lapropria industria tessile o il settore dell’abbigliamento. In questo modo il dirittodel Kenya a scegliere il proprio percorso di sviluppo è palesemente violato dallariduzione degli strumenti di politica economica a disposizione per farlo.

I PROTOCOLLI SPECIALI UE-ACP

Il commercio dei prodotti più sensibili tra Ue e ACP - ovvero zucchero, banane e carnebovina - è regolato da tre protocolli speciali che ne tutelano il mercato. Il quarto protocol-lo, relativo al rum, fu abolito nel 1997. Le preferenze accordate permettono ai Paesi bene-ficiari di avere quote garantite di esportazione in Europa. Ma su 77 paesi ACP interessatiai negoziati EPA, solo 28 hanno accesso ai tre protocolli in vigore. Di questi, sette (Belize,Costa D’Avorio,Giamaica, Suriname, Kenya, Swaiziland e Zimbabwe) hanno accesso solo adue protocolli, mentre il Madagascar è l’unico a usufruire di tutti e tre. L’esportazionegarantita da questi accordi nel periodo 2000-2004 è stata pari al 15,8% delle esportazio-ni totali ACP nella Ue. Di questa quota, il 57,4% era zucchero, il 35,7% banane ed il 6,9%carne bovina. Da una prospettiva di sviluppo, le preferenze risultano positive se contribui-scono a rafforzare un determinato settore produttivo aumentando le sue capacità rispet-to ad altri mercati. Per i Paesi ACP, però, come abbiamo visto, questo non è accaduto.

Fonte: Roberto Meregalli, 2007.

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8 MENO DAZI: E LA SPESA SOCIALE?

Molti dei paesi africani sono privi di un efficace sistema di prelievo fiscale e deri-vano una quota consistente delle entrate pubbliche dall’imposizione di dazi suiprodotti in ingresso. Un abbassamento delle tariffe dei Paesi ACP porterà a unaconsistente riduzione delle entrate fiscali, con serie implicazioni rispetto allacapacità di paesi tra i più poveri di fare fronte ai bisogni di base dei cittadini ACP.Secondo una stima della Commissione Economica delle Nazioni Unite perl’Africa (UNECA), negli ultimi dieci anni le rendite derivanti dalle tasse sul com-mercio hanno costituito 30,5% delle entrate statali nei Paesi dell’Africa Sub-Sahariana, contro lo 0,8% di media alla voce dazi tra i paesi OCSE(Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico). I costi più alti diquesta riduzione saranno sostenuti dalle economie più importanti delle regioniafricane, i cui volumi commerciali con l’Ue sono più consistenti. La Nigeria adesempio potrebbe perdere circa 427 milioni di dollari all’anno, il Ghana 193milioni, il Camerun 149 milioni, il Kenya 107 milioni e l’Angola 103 milioni.Anche in quei Paesi in cui la perdita assoluta potrebbe apparire non rilevante,come ad esempio lo Zambia, in realtà quei 15,8 milioni di dollari di perditeannuali stimati per il Paese rappresentano la spesa annuale nella cura di 8,8milioni di malati di HIV/AIDS, che vivono con meno di due dollari al giorno.Il rischio per molti Paesi ACP è proprio quello di perdere risorse indispensabi-li per finanziare la spesa sociale. Come soluzione al problema, l’Unione euro-pea ha proposto una riforma fiscale per l’introduzione della tassazione indiret-ta (l’imposta sul valore aggiunto - IVA). In realtà, seppure considerata menodistorsiva dei dazi, dal punto di vista commerciale, è certamente negativa perla popolazione a basso reddito in quanto, ha affermato la stessa UNECA, la tas-sazione del consumo può essere più regressiva della tassazione del reddito,problema questo di centrale importanza per i Paesi più poveri. Inoltre, l’espe-rienza dimostra che la ristrutturazione del sistema di imposizione fiscale è unprocesso lento e complesso. Ad esempio, la Ue ha finanziato tale riforma nelloSwaziland con l’obiettivo di diversificare l’imposizione fiscale e ridurre la fortedipendenza dagli ingressi doganali derivanti dal commercio nella regione dellaSACU. Nei primi quattro anni di implementazione della riforma, la dipenden-za dalle entrate doganali provenienti dai Paesi SACU è aumentata e il proces-

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so di riforma fiscale si è prolungato due anni oltre quanto programmato. Inoltre, recenti studi empirici dimostrano che i paesi a basso reddito difficil-mente riescono a compensare le perdite di gettito fiscale derivanti dall’abbas-samento delle tariffe. Lo stesso Fondo monetario internazionale ha affermatoche tale recupero si ferma al 30% della perdita subita e non c’è nessuna eviden-za che l’imposta sul valore aggiunto di per sé permetta un più facile recuperodella perdita causata dall’abbassamento delle tariffe. Quindi, anche se si trovas-sero le risorse per finanziare la riforma dei sistemi di tassazione nei Paesi ACP,che il Commonwealth Secretariat stima in 3 miliardi di euro, il risultato di taliriforme non sarebbe scontato.

9 LA DE-INDUSTRIALIZZAZIONE DEI PAESI ACP

Le analisi della UNECA confermano che la strada migliore per rafforzare le indu-strie locali sarebbe quella di incrementare gli scambi intra-africani, mentre unaccordo di reciprocità con l’Ue relegherebbe molti paesi al ruolo di semplici for-nitori di caffè, tè, cacao ed altre materie prime a scarso o nullo valore aggiunto. Ilproblema però è che la concorrenza dei prodotti industriali europei impedirebbequalsiasi sviluppo industriale. La de-industrializzazione appare pertanto il risulta-to scontato di eventuali EPA basati sul concetto di reciprocità. Come emerso dalleriforme intraprese nei paesi meno sviluppati, l’unico settore che potrà sopravvive-re sarà quello agro-alimentare poiché non sarà toccato da mutamenti tariffari.La storia dimostra chiaramente che tutti i paesi che sono cresciuti economica-mente, Stati Uniti ed Unione Europea in testa, hanno utilizzato dazi e barrierenon tariffarie per proteggere e far crescere le loro imprese, aprendo il mercatosolo dopo aver raggiunto la capacità di competere con i concorrenti esteri.Negli anni ‘80 e ‘90, le indicazioni del Fondo Monetario e della BancaMondiale ai paesi più poveri sono state diametralmente opposte. È esemplare, fra i paesi ACP, il caso del Malawi. Nel corso degli anni ‘90, le isti-tuzioni finanziarie internazionali imposero al paese di rimuovere le barriere nontariffarie e di tagliare i dazi portandoli da una media del 30,7% al 13,1% (nel2001). L’impatto di questi cambiamenti è stato pesantemente negativo: la pro-duzione industriale in dieci anni è scesa da una media annua di 404,2 milioni

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di dollari (1989-91) a 221,7 milioni; anche le esportazioni si sono dimezzate,da 6 a 3 milioni di dollari (2001). Molte fabbriche hanno chiuso ed il già debo-le settore industriale ha imboccato la strada opposta allo sviluppo. Nel 2003 lastessa Banca mondiale ha ammesso che dopo le riforme strutturali in Malawitutti gli indicatori sociali si sono deteriorati, la mortalità infantile è aumentata,l’analfabetismo, la malnutrizione e la povertà sono rimaste elevate. La liberalizzazione che gli EPA prospettano per il settore industriale, aggrave-rebbe ulteriormente la situazione degli 82.913 dipendenti del settore industria-le in Malawi e dei loro colleghi in tutti gli altri paesi dell’area Sub-Sahariana.De-industrializzazione significa infatti perdita di posti di lavoro ma anche con-gelamento di un processo di sviluppo economico e sociale che potrebbe aiuta-re questi paesi a uscire dalla morsa della povertà.

PER SAPERNE DI PIÙ

Siti webManitese www.manitese.itBeati i costruttori di Pace www.beati.orgEuropAfrica www.europafrica.infoECDPM e ECORYS www.acp-eu-trade.orgSeatini www.seatini.orgOxfam www.oxfam.orgAction Aid www.actionaid.org.ukTransnational Institute www.tni.orgRete dei contadni dell’Africa Occidentale (ROPPA) www.roppa.infoSouth Centre www.southcentre.org

Libri e documentiCRBM, Beati, Fair, Manitese, Cimi, Libero Mondo e Rete di Lilliput, “L’Africanon è in vendita! EPAs: la trappola europea”, aprile 2007EuropAfrica, “Gli Accordi di Partenariato Economico: occasione di sviluppo orovina dei piccoli coltivatori?”, Maggio 2006Dot Keet, “Economic Partnership Agreements (EPAs). Responsive to the EUOffensive against ACP development regiono, TNI, Maggio 2007

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4L’Europa investe l’Africa

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85L’EUROPA INVESTE L’AFRICA

1 ESCONO DALLA PORTA, MA RIENTRANO DALLA FINESTRA

Il tema degli investimenti è stato da subito inserito tra i capitoli in discussionenel negoziato EPAs. Nonostante la centralità del settore primario e dell’agricoltu-ra, e in misura minore della produzione industriale, per i paesi ACP l’Unioneeuropea ha promosso con intransigenza un approccio olistico al negoziato, man-tenendo centrale anche la liberalizzazione del mercato dei servizi e degli investi-menti, dove evidente è lo scarso interesse, se non l’opposizione, a negoziare que-sti temi da parte dei paesi più poveri. Il nesso investimenti-servizi riveste impor-tante rilevanza economica, e non di cooperazione, per l’Ue e i suoi paesi membri.

I TEMI DI SINGAPORE

I Singapore Issues furono discussi per la prima volta durante la conferenza ministerialedell’Organizzazione Mondiale del Commercio di Singapore del 1996. Obiettivo del con-fronto era di trovare il modo di aumentare l’accesso al mercato per le imprese multina-zionali straniere (in special modo giapponesi, europee e statunitensi) negli altri paesimembri, soprattutto in quelli in via di sviluppo. I quattro temi di Singapore furono inse-riti nell’Agenda di Doha per lo Sviluppo durante il vertice ministeriale del 2001. Più nellospecifico, i quattro temi consistevano in:1. Liberalizzazione del settore degli investimenti. La questione si concentra fondamen-

talmente nell’idea di creare norme in virtù delle quali i diritti degli investitori sianoprotetti nei confronti di qualsiasi interferenza del paese ospite.

2. Regole sulla concorrenza. Fanno riferimento essenzialmente all’obiettivo di crearenorme che in modo effettivo esigano dai governi l’obbligo di stabilire e garantire lalibera concorrenza, senza discriminazioni, tra le imprese straniere e quelle nazionali,incluse le imprese e i monopoli statali.

3. Facilitazioni al commercio. Si riferisce alla creazione di nuove norme che esigano daigoverni la semplificazione e la riduzione dei costi delle transazioni e delle procedu-re doganali di frontiera.

4. Trasparenza negli appalti pubblici. Essa obbligherebbe i governi a permettere anchealle imprese straniere di partecipare, in maniera non discriminata, alle gare peraggiudicarsi i contratti di fornitura nel settore pubblico.I quattro temi di Singapore contribuirono al fallimento della conferenza ministerialedi Cancun del 2003, registrando profonde divergenze tra i suoi principali sostenito-ri, gli Stati Uniti e, in particolare, l’Unione Europea, e chi invece come i principali Paesiin via di sviluppo vi si opponevano (compresi gli ACP). Durante il General Council diGinevra del luglio 2004, tre dei quattro temi furono definitivamente tolti dai nego-ziati (solo le facilitazioni al commercio continuano a far parte dell’Agenda).

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2 LIBERALIZZAZIONE DEGLI INVESTIMENTI ANCHE PER I PIÙ POVERI

L’accordo di Cotonou non include gli investimenti nel capitolo di cooperazio-ne commerciale, e quindi negli EPAs, ma in quello della cooperazione finan-ziaria, e quindi con fini di sviluppo, ponendo l’accento non tanto sulla libera-lizzazione per attrarre più investimenti, quanto sulle condizioni endogenecome il capacity building, l’assistenza alle imprese e agli enti locali, il sostegnoai processi regionali, le infrastrutture e le capacità produttive. La natura di uneventuale accordo non è definita in Cotonou: non ci sono infatti riferimentialla necessità di un patto vincolante di natura commerciale, né a garantire lalibertà degli investitori dall’intervento statale. Nell’Accordo di Cotonou, leparti concordano genericamente “nell’assumere misure ed azioni che aiutino acreare e a mantenere un ambiente prevedibile e sicuro per gli investimenti” e “adavviare un negoziato su un accordo atto a tali obiettivi”.

L’enfasi posta sulla necessità per il continente africano di attrarre più investimen-ti sta già generando in molti donatori uno spostamento dalla concessione di aiutiallo sviluppo alla promozione di investimenti privati, strategia per aumentarel’afflusso di capitali nei Paesi più poveri. Nelle parole del capo negoziatore euro-peo degli EPAs, Karl Falkenberg, “lo sviluppo non può avvenire senza investimen-ti, [ed essi] porteranno nuovi posti di lavoro” che favoriranno la crescita economi-ca. Niente di nuovo sotto il sole. La Ue continua ad affermare che gli investimen-ti portano nuove tecnologie, impieghi più specializzati, reddito e crescita econo-mica, nominando le multinazionali europee a nuovi “salvatori” dell’Africa.

INVESTIMENTI E SVILUPPO:LA RETORICA DELLA LIBERALIZZAZIONE RITORNA

Investimenti e commercio giocano un ruolo centrale nel processo di globalizzazione neo-liberista e sono accomunati da una retorica collegata proprio al tema della liberalizzazio-ne. Come per il commercio, anche la liberalizzazione degli investimenti è considerata unfine in sé, un mezzo chiave nel favorire il processo di sviluppo. Ma essa, ossia la rimozionedi ogni sorta di ostacolo al loro dispiegamento, potrebbe non essere la via più efficace per

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87L’EUROPA INVESTE L’AFRICA

fare si che gli investimenti assolvano al meglio alla loro funzione di motore di sviluppo.Secondo l’UNCTAD, nel decennio 1970-1980, la media annuale dei flussi di investimentoin Africa è raddoppiata, arrivando a 2,2 miliardi di dollari (1980) per passare successiva-mente ai 6,2 degli anni ‘90 ed ai 13,8 del periodo 2000-2003. Un incremento assoluto, cheperò fa emergere con chiarezza il ruolo marginale che l’Africa svolge nell’economia mon-diale. Se guardiamo alla percentuale di IDE (Investimenti Diretti Esteri) in relazione altotale mondiale, l’Africa è passata dal 6% degli anni ‘70 al circa 2-3% attuale. Tra i Paesi invia di sviluppo, l’Africa è passata dal 28% del 1976 all’attuale 9%.L’Africa non è mai stata in grado di captare maggiori flussi di investimento, il cui volumetotale è cresciuto enormemente durante gli anni ‘80 e ‘90. Se nel 1982 i flussi di IDE globalierano di 59 miliardi di dollari, nel 2000 hanno toccato la punta di 1.491 miliardi, registran-do un incremento annuo del 23,1% nel periodo 1986-1990 e del 40,2% in quello 1996-2000. Inoltre, la distribuzione degli IDE nel continente africano è ineguale. Nel 2001 la mag-gior parte dei flussi di investimenti erano diretti in Sud Africa, Marocco, Nigeria, Angola eAlgeria. Ancora, nel 2003, Marocco, Angola, Guinea Equatoriale, Nigeria e Sudan ricevevanola metà del flusso annuale complessivo di investimenti diretti esteri nel continente. Seandiamo ad analizzare i settori nei quali questi investimenti si dirigono, si nota che quelloprimario ha raccolto nel periodo 1996-2000 più del 50% degli investimenti; segue il terzia-rio con il 24% e il secondario con il 21%. I principali investitori nella regione nel periodo1996-2000 sono stati gli Stati Uniti, la Francia, il Regno Unito e la Germania. In quello stessoperiodo gli Usa detenevano una quota complessiva del 37%,avendo superato Regno Unitoe Francia, che figuravano come principali investitori nel periodo 1991-1995.Attualmente, il 40% degli IDE in Africa è diretto al settore estrattivo (gas, petrolio e mine-rali). Nel 2004 il continente riceveva 15 miliardi di dollari di investimenti, che rappresen-tavano il 15% del totale mondiale diretto al settore estrattivo. Dell’ammontare comples-sivo degli investimenti, il 48% è diretto in Sud Africa, il 7% in Ghana, il 6% in Mauritaniaed il 4% nella Repubblica del Congo ed in Costa D’Avorio.

3 COOPERARE O COMPETERE?

La logica originale di Cotonou, con il suo obiettivo di riduzione della povertà,vorrebbe al centro del negoziato sugli investimenti l’aspetto della cooperazio-ne finanziaria e dell’assistenza tecnica anche tramite gli aiuti allo sviluppo, enon l’affermazione di norme volte a garantire la libertà degli investitori priva-ti europei. L’ostinazione Ue si scontra con la ripetuta opposizione dei Paesi

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ACP a negoziare gli investimenti negli EPAs. I Paesi africani, ad esempio,hanno già affermato che la complessità della materia è di gran lunga superiorealle loro capacità negoziali. Nell’aprile del 2006, tale sollecito è giunto univo-camente dalla Conferenza dei Ministri del commercio dell’Unione Africana.Ma l’Ue è contraria a considerare proposte alternative all’ambito degli EPAsstessi per negoziare gli investimenti. Con l’Africa occidentale, ad esempio, l’Uesi è opposta alla creazione di un gruppo di lavoro specifico sugli investimentie sul sostegno ai settori produttivi di quei Paesi. Il gruppo dei Paesi dei Carabiha avanzato una proposta di mediazione che poneva l’accento sulle flessibilitànegli obiettivi europei in aree strategiche per lo sviluppo di quei Paesi. Inoltre,si sottolineava la a necessità di dare priorità agli investitori regionali e nazio-nali piuttosto che a quelli europei e di prevedere infine misure di salvaguardiaper prevenire squilibri nella loro bilancia commerciale dovuti al rimpatrio deiprofitti e dei capitali degli investitori stranieri. Molti di questi temi rimangonoesclusi ad oggi dal merito dei negoziati EPAs.

EFFETTI COLLATERALI DEGLI ACCORDI SUGLI INVESTIMENTI

L’accordo NAFTA (North American Free Trade Agreement), firmato tra Stati Uniti, Messicoe Canada nel 1994, è stato il primo accordo commerciale regionale a conferire alleimprese il diritto di chiedere compensazioni ai governi, in caso di perdita di profitti deri-vata da nuove leggi o regolamenti ritenuti restrittivi, firmati dopo l’adesione all’accor-do. Nel 1997 l’Americana Metaclad, vistasi ritirare la concessione per un deposito dimaterie tossiche, citò in giudizio il Messico (o meglio un suo Stato) ottenendo un rim-borso di 15,6 milioni di dollari. L’anno successivo la Ethyl Corporation (sempre america-na) vinse una causa contro il governo canadese, costretto a ritirare una legge che met-teva al bando un additivo per idrocarburi considerato cancerogeno, e a compensare itemporanei mancati profitti con 13 milioni di dollari. Nel 2000 il Canada ha dovutopagare altri 50 milioni di dollari alla statunitense SD Myers per aver bloccato le sueesportazioni di un prodotto chimico considerato tossico e pericoloso.

Sono diversi gli argomenti con i quali l’Ue giustifica la presenza del tema degliinvestimenti negli accordi EPAs. In particolare nel processo negoziale l’Ue insi-ste sul fatto che sono i Paesi ACP a voler negoziare il tema degli investimenti.I negoziatori europei però omettono di specificare cosa viene incluso nel pac-

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chetto negoziale sugli investimenti. Oltre alla definizione delle regole di libe-ralizzazione, c’è tutta la dimensione di assistenza finanziaria, le misure per pro-muovere i flussi di investimento ed il sostegno ai processi di integrazioneregionale. Nel Joint Draft Report sulla prima fase dei negoziati EPAs a livello ditutte le regioni ACP, infatti, si registrava un consenso unanime delle parti nelsostenere l’importanza degli investimenti e la necessità di sostenere lo svilup-po delle infrastrutture e delle istituzioni nei Paesi ACP. Le divergenze inveceriguardavano la portata e la copertura di tali regole da negoziare e l’importan-za dei diversi aspetti di cooperazione nell’ambito degli investimenti presentinegli accordi di sviluppo. La pressione europea nel forzare la conclusione di un accordo sugli investi-menti in ambito EPAs va contro gli impegni assunti dalla stessa Ue al verticeG8 di Gleneagles del 2005, dove gli otto Paesi più industrializzati al mondoriconobbero il diritto alla sovranità delle politiche di sviluppo dei paesi piùpoveri. Ovvero il diritto a definire e implementare, in maniera indipendente,politiche economiche in linea con le strategie di sviluppo nazionali. Una svol-ta a parole, ma non nei fatti.

4 ALTRI ACCORDI SUGLI INVESTIMENTI SONO POSSIBILI

I Paesi africani hanno già adottato in passato politiche per attrarre gli investi-menti esteri. Ma anziché essere coerenti con un progetto di sviluppo naziona-le, esse hanno mirato a deregolamentare il settore nella speranza di offrireincentivi agli investitori stranieri. Tali incentivi hanno portato, ad esempio, alla creazione delle ExportProcessing Zone (EPZ) – zone di produzione per l’esportazione – che garanti-scono l’esenzione fiscale totale o parziale per le imprese straniere, la libertà dirimpatriare i propri utili e di non rispettare le norme in materia di ambiente ediritti dei lavoratori. Oltre alla perdita di sovranità, di rendite fiscali e agliimpatti ambientali e sociali a volte severi, il risultato in termini di aumento deiflussi di volume di investimento è stato magro. Come già visto, nel 2004,l’Africa riceveva solo il 3% degli investimenti a livello mondiale, concentrati inpochi Paesi e quasi esclusivamente nello sfruttamento delle risorse naturali di

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cui il continente e ricco. Alcuni esempi sono il taglio delle foreste equatoria-li, l’estrazione mineraria e di combustibili fossili per l’esportazione, che com-portano gravi conseguenze ambientali e sociali per le comunità locali e per lasostenibilità economica e ambientale del continente.

INVESTIMENTI DIRETTI NELL’INTERESSE DI CHI?

Se da un lato è vero che le infrastrutture servono allo sviluppo economico e sociale deipaesi più poveri, dall’altro l’esperienza degli ultimi decenni ha dimostrato che numero-si interventi infrastrutturali realizzati soprattutto nel continente africano, ad opera diimprese straniere, dagli anni ‘70 ad oggi hanno portato benefici minimi se non inesi-stenti alle comunità locali ed alle economie di molti paesi africani. Non si contano piùnel continente gli “elefanti bianchi” della cooperazione europea, grandi opere costruiteper il lustro di governi corrotti e collusi con le grandi imprese europee e con i governiche hanno contribuito al finanziamento di colossali fallimenti della cooperazione, cau-sando il più delle volte la crescita esponenziale del debito pubblico dei governi africa-ni. Tra di essi, diverse grandi dighe segnano il record negativo in termini di rapportocosto-beneficio. Come le dighe Inga I e II sul fiume Congo, costruite con finanziamentidella Banca Mondiale e della Banca Africana per lo sviluppo, ma anche con la parteci-pazione diretta di diversi governi europei - tra cui quello italiano - che hanno contribui-to in larga parte all’indebitamento del paese, ma non hanno mai funzionato a più del20% della capacità, destinando la poca energia generata al settore estrattivo attivonello Zambia e non un kilowatt alla popolazione locale, che per il 90% non ha accessoa fonti di energia. La Banca Mondiale è tra i più grandi finanziatori al mondo di grandidighe, stanziando circa il 40% del suo budget complessivo al finanziamento di infra-strutture. Dagli anni ‘50 ad oggi la Banca mondiale ha investito circa 60 miliardi di dol-lari per la costruzione di oltre 600 dighe in 93 paesi del mondo, inclusi alcuni dei pro-getti più grandi, costosi e controversi al mondo, con impatti ambientali e sociali il piùdelle volte devastanti e contornati da scandali di corruzione (come nel caso del LesothoHighland Project, in cui è rimasta coinvolta anche l’italiana Impregilo).La Banca è anche tra i più grandi investitori in progetti nel settore estrattivo, chedovrebbero contribuire allo sviluppo del settore energetico e industriale nei paesi afri-cani ma che in realtà - pensiamo alle estrazioni petrolifere nel Delta del Niger in Nigeria- hanno impatti ambientali e sociali estremamente negativi e contribuiscono al surri-scaldamento del pianeta. La Banca Mondiale investe tra i 2 e i 3 miliardi di dollari all’an-no in progetti energetici che emettono gas serra nell’ambiente, alimentando l’effetto

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serra e il cambiamento climatico e danneggiando in particolar modo le popolazioni piùpovere del pianeta, come dimostrato dal recente Rapporto Stern e dal rapporto dellaCommissione internazionale sul cambiamento climatico (IPCC) delle Nazioni Unite del2007. Quasi la metà dei progetti estrattivi finanziati dalla Banca dal 1992 ad oggi, e oltrel’80% dei soli progetti per l’estrazione del petrolio, sono stati rivolti all’esportazione deicombustibili estratti sul mercato globale, principalmente verso i mercati europei e sta-tunitense, e non a soddisfare il fabbisogno energetico di base delle popolazioni del Sud.Secondo un’analisi del Bank Information Center di Washington, realizzata sugli ultimidati forniti dall’International Finance Corporation, il ramo della Banca Mondiale che pre-sta al settore privato, tra il 2005 e il 2006 gli investimenti nel settore estrattivo sonoaumentati del 95%, e solamente quelli rivolti al settore petrolifero sono aumentati del75%. Solo nel 2007, l’IFC ha investito 645 milioni di dollari in progetti per l’estrazione dipetrolio e gas, con un incremento del 40% rispetto al 2006. Dal 2000 ad oggi l’industriadel petrolio e del gas - tra cui si contano diverse multinazionali europee, come Shell,Total, British Petroleum, e ENI - ha beneficiato di oltre 61 miliardi di dollari in finanzia-menti pubblici internazionali.

Questi investimenti non sempre hanno creato nuovi posti di lavoro. Per esem-pio, le imprese minerarie straniere in Ghana tendono ad impiegare personalespecializzato straniero piuttosto che locale. Gli investitori esteri in Sud Africafanno largo ricorso a contratti di lavoro flessibili con l’obiettivo di abbattere icosti di produzione. Dove nuovi impieghi vengono creati, ad esempio nel tes-sile, i lavoratori sono spesso sfruttati, sotto-pagati ed i loro diritti non rispet-tati. Infatti, le grandi industrie hanno la tendenza a muoversi rapidamentefuori e dentro il Paese, lasciando molte persone improvvisamente disoccupatee senza dare loro il corrispettivo spettante per gli ultimi mesi di lavoro. Allostesso tempo i piccoli produttori in vari settori, come abbiamo visto, vengonomessi fuori dal mercato locale perché non in grado di competere con i prodot-ti e le imprese straniere; ad esempio in Sud Africa e nell’Africa orientale gliinvestimenti nel settore del fresco hanno emarginato moltissimi piccoli pro-duttori di latte.

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IL SETTORE DELL’ORTICOLTURA IN KENYA

Il settore dell’orticoltura in Kenya è spesso citato ad esempio degli effetti positivi che gliinvestimenti diretti hanno avuto in Africa. Il successo commerciale di questo settore èindiscutibile: nel 2005 esso contribuiva per il 23% alle esportazioni keniote (616 milionidi dollari) e generava complessivamente il 17% del Pil. Molto meno esaltante è invece ilcontributo del settore in termini di riduzione della povertà.La capacità delle istituzioni locali nel garantire un quadro di regole sugli IDE è determi-nante affinché essi producano effetti positivi sullo sviluppo complessivo del Paese. IlKenya National Enviroment Management Act stabilisce che tutti gli investimenti e le pro-duzioni devono essere sottoposti ad un’analisi di impatto e che le imprese devonorispettare precisi standard ambientali e minimizzare gli impatti negativi delle loro atti-vità. Tuttavia queste regole non sono efficacemente applicate: l’impiego di sostanzechimiche nella produzione orticolturale su larga scala hanno inquinato acque e terreni,con gravi conseguenze ambientali e sulla gestione delle risorse idriche. Gli effetti posi-tivi sull’impiego degli investimenti in Kenya sono contrastanti. Nonostante siano oltre 2milioni i kenioti direttamente o indirettamente impiegati nel settore della produzionefloreale, le condizioni di lavoro sono tra le peggiori: bassi salari, discriminazioni di gene-re, insicurezza sul lavoro. Il 30% degli impiegati sono stagionali o temporanei. La mediadei salari è spesse volte insufficiente a coprire la spesa per il paniere base di una fami-glia: acqua, cibo, affitto, trasporti, educazione e cure mediche. Lo straordinario è obbli-gatorio e pagato poco.I produttori su piccola scala, la maggioranza in Kenya, non hanno beneficiato delle pre-senza di imprese più competitive. Anzi, la concentrazione nel settore della distribuzio-ne ha messo in ginocchio i piccoli produttori che hanno registrato un calo dei marginidi profitto e subito un aumento della pressione per reggere i ritmi del modello di distri-buzione “just-in-time”.Non si è verificato nemmeno un trasferimento della tecnologia, in parte anche a causadel problema della ridotta capacità produttiva dei piccoli agricoltori. Le grandi impreseche dominano il settore, operano in modo verticalmente integrato sulla catena di pro-duzione. Ciò naturalmente impedisce ai piccoli produttori di conseguire una regolaritànella fornitura e quindi nella produzione, con conseguenze negative sullo sviluppo dinuove capacità produttive.Infine, le grandi imprese tendono ad impiegare lavoratori stranieri nei profili più specia-listici, impedendo la creazione di impieghi specializzati (e meglio retribuiti) per la popo-lazione locale.

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Per la Commissione europea, “garantire un ambiente stabile per gli investi-menti esteri” significa tutelare esclusivamente i diritti degli investitori stranie-ri e quindi gli interessi europei. Come per la liberalizzazione del settore spin-ta dalla Banca Mondiale, la logica sottesa a questo atteggiamento ha poco a chevedere con gli Obiettivi di sviluppo del Millennio di cui le istituzioni finanzia-rie internazionali, l’Unione Europea e gli altri donatori si riempiono la bocca. Se l’obiettivo degli EPAs fosse realmente lo sviluppo dei Paesi ACP, il negozia-to dovrebbe andare nella direzione della creazione di relazioni economichecooperative e non competitive. Ciò significa, anche nel settore degli investi-menti, garantire le flessibilità, e quindi lo spazio politico ai singoli Paesi perregolare la propria politica sugli investimenti all’interno di un progetto gene-rale di sviluppo.Le ricerche in materia rivelano come gli investimenti tendano a seguire la cre-scita economica e non gli accordi per la loro liberalizzazione. Piuttosto chepremere per accordi rule-based, ovvero basati su regole vincolanti di liberaliz-zazione, l’Ue farebbe meglio a sostenere i Paesi ACP nello sviluppo di fattorichiave per una politica degli investimenti, come buone istituzioni, infrastrut-ture, risorse umane specializzate e servizi efficienti (soprattutto finanziari e ditrasporto). In questo modo si migliorerebbe l’afflusso di investimenti durevo-li, come anche gli impatti sullo sviluppo locale, in coerenza con gli obiettividell’accordo di Cotonou. I Paesi ACP potrebbero trarre maggiori benefici da unaumento degli investimenti come risultato di una buona strategia di crescita edi sviluppo economico e sociale.

L’Ue dovrebbe smettere di spingere l’inserimento degli investimenti nei nego-ziati EPAs essenzialmente per due motivi. I Paesi ACP non li vogliono, anchea causa delle limitate capacità negoziali. Gli impatti negativi di queste misuresugli obiettivi di sviluppo e riduzione della povertà dell’accordo di Cotonourisulterebbero determinanti. A dispetto dei fiumi di parole spesi dai negoziato-ri europei per sostenere che gli accordi EPAs servono a sostenere lo sviluppodei Paesi ACP - e questi ultimi sono “liberi” di accettare l’inserimento di misu-re per la liberalizzazione degli investimenti - le proposte negoziali dell’Ue con-tengono il capitolo sugli investimenti. Di fronte all’incoerenza tra impegni politici presi e l’atteggiamento negoziale

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della Commissione, la società civile ACP e europea richiede maggiore traspa-renza nei negoziati, per garantire che la questione degli investimenti vengadiscussa tenendo in dovuta considerazione la complessità della tematica. Perquesto non dovrebbero esserci forzature. Un accordo per la liberalizzazionenon aiuta lo sviluppo dei Paesi africani e ACP in generale. Dati i potenzialicosti derivanti da un accordo sugli investimenti rule-based e la mancanza diadeguate analisi degli impatti associati alle diverse proposte negoziali, ogninegoziato in merito dovrebbe essere guidato dalle necessità espresse dai PaesiACP e non sulla base di un accordo capestro imposto dall’Ue. E ciò sarà pos-sibile solo se lo strumento della cooperazione prevarrà su quello della compe-tizione e della conseguente pressione a liberalizzare.

5 NON SOLO INVESTIMENTI: LA QUESTIONE DEI SERVIZI

L’Ue sostiene che il capitolo dei servizi rappresenti un elemento essenziale asostegno dello sviluppo dei Paesi ACP. In primo luogo perché il miglioramen-to dei servizi, affidato alla presunta maggiore efficienza del settore privato,straniero naturalmente, giocherebbe un ruolo fondamentale nello sviluppoeconomico e sociale dell’Africa. Migliori servizi sanitari, idrici, di telecomuni-cazione e a prezzi più accessibili, banche più efficienti, nuovi sistemi di assicu-razione, miglioramento dei trasporti, migliore qualità dei servizi di distribuzio-ne ed una più sviluppata industria della musica e del turismo sono tutti visticome essenziali per contribuire allo sviluppo economico, sociale e culturaledel continente. Inoltre, il settore dei servizi ha un impatto in termini di occu-pazione e reddito molto superiore rispetto a quello agricolo e manifatturiero. Tra gli altri argomenti utilizzati dalla Ue per spingere i Paesi ACP alla libera-lizzazione dei servizi, vi è il credo che questa migliorerebbe l’efficienza econo-mica dei Paesi interessati. Ad esempio, un miglior sistema di telecomunicazio-ni, telefonia ed internet, renderebbe più facile commerciare e le transazionibancarie più veloci e meno farraginose. E avrebbe un impatto positivo sull’e-conomia dei Paesi in via di sviluppo e quindi sulle loro esportazioni.

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L’IMPORTANZA STRATEGICA DEI SERVIZI

Secondo i dati della OMC, il commercio dei servizi a livello mondiale è quadruplicato intermini assoluti nel ventennio 1980-2000, passando da una percentuale sul totale dibeni e servizi del 16% (1980) al 20% (2002). Per i Paesi sviluppati è il settore che rappre-senta la quota principale del prodotto interno lordo.Dal lato europeo, i servizi sono di gran lunga il settore più importante. Costituiscono,infatti, i due terzi del prodotto interno lordo, impiegando una porzione equivalente diforza lavoro. Sul mercato mondiale, l’Ue è il più grande esportatore di servizi con unaquota del 26% sull’ammontare globale. Infine, i servizi rappresentano il 40% della suabilancia commerciale.

Il settore dei servizi è certamente importante per lo sviluppo di un Paese,come ricordato anche dalla stessa Agenzia per lo sviluppo delle NazioniUnite (UNDP). Il problema ancora una volta è l’approccio competitivo e noncooperativo tenuto dall’Unione Europea, che anche nel settore dei servizipropone la negoziazione di accordi di libero scambio sulla falsa riga di quel-li negoziati in ambito multilaterale. L’esperienza storica della liberalizzazio-ne dei servizi in Africa mostra che questa non garantisce l’arrivo di investi-menti esteri nei settori in cui i Paesi poveri avrebbero più bisogno e, quandoarrivano, le imprese straniere focalizzano la loro attenzione solo sulle regio-ni e sui clienti più ricchi operando secondo logiche di profitto, con il risul-tato di accrescere le disuguaglianza. Infatti, contrariamente a quanto vienepromosso dall’Ue ma anche dalle istituzioni finanziarie internazionali, leimprese firmano accordi con i governi per avere diritti esclusivi, come èavvenuto in Camerun con un’impresa statunitense, la AES, che ha siglato uncontratto ventennale per la produzione, trasmissione e distribuzione dell’e-nergia elettrica. Tali accordi creano le premesse per una gestione monopoli-stica del settore, e non favoriscono un clima di sana competizione e miglio-ramento delle prestazioni anche da parte delle altre imprese nazionali attivenel settore.

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SERVIZI: IL CAVALLO DI TROIA DEGLI INVESTIMENTI

L’accordo GATS (General Agreement on Trade in Services) è il primo accordo multilatera-le legalmente vincolante che copre la liberalizzazione del commercio dei servizi. A dif-ferenza del commercio dei beni, nei servizi vi sono quattro modalità di fornitura deglistessi. Una di queste è la presenza commerciale nel Paese ospite, il cavallo di Troia cheha permesso di inserire, per il solo, ma importantissimo, settore dei servizi, una norma-tiva estesa e vincolante anche in materia di investimenti all’interno della OMC. Infatti, lapresenza commerciale non è altro che un investimento diretto nel Paese per forniredirettamente il servizio.

6 AL SERVIZI(O) DI CHI?

Lo sviluppo dei servizi era l’obiettivo principale della Convenzione di Lomé,con un focus sull’accesso e la disponibilità di questi nel mercato domestico,allora principalmente in mano pubblica. Il commercio dei servizi promossooggi dall’Ue implica, al contrario, il coinvolgimento del settore privato, doveprevale una logica di profitto e non di bene pubblico, operando in un contestodove il servizio è offerto sulla base di uno scambio di tipo commerciale.Attualmente il settore dei servizi nei Paesi ACP, a parte alcune eccezioni setto-riali, è fortemente sottosviluppato, anche a causa di una discutibile implemen-tazione della Convenzione di Lomé e del conseguente fallimento nel consegui-re gli obiettivi di sviluppo stabiliti per il settore dalla cooperazione Ue-ACP. Se poi guardiamo con attenzione alle cifre del mercato dei servizi, notiamo cheè assolutamente marginale in termini di esportazioni per i Paesi ACP, occupan-do appena l’1,5% del mercato internazionale ed interessando pochi settori e unnumero limitato di Paesi. Al contrario, i paesi ACP avrebbero bisogno di svi-luppare i servizi a livello nazionale e regionale, per fare fronte ai bisogni dellepopolazioni (pensiamo ai servizi di base come fornitura e gestione delle risor-se idriche, sanità e educazione) e preparare un contesto favorevole allo svilup-po economico e sociale.Dal lato ACP è difficile riscontrare un interesse nell’esportazione di servizi suimercati europei, e quindi un interesse commerciale offensivo. Questo conferma

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l’approccio contraddittorio e ipocrita promosso dall’Unione europea al riguardonel negoziato EPAs. Ad oggi, oltre il 50% delle esportazioni di servizi dai paesiACP è infatti controllato da otto realtà: Repubblica Dominicana, Bahamas,Barbados, Giamaica, Kenya, Mauritius, Nigeria e Zimbabwe. Secondo i datidell’OCSE, dei 21 miliardi di dollari in valore di servizi esportati dai Paesi ACPnel 2000, i tre quarti erano diretti al mercato europeo e rappresentavano il 15%del totale delle importazioni Ue nel settore. Con l’eccezione della regioneECOWAS, i trasporti ed i viaggi sono il settore di esportazione di servizi princi-pale per i Paesi ACP, rappresentando ad esempio il 45% del totale delle espor-tazioni della regione CEMAC e il 69% di quella SADC. Anche il settore del turi-smo riveste un’importanza fondamentale, soprattutto nell’area caraibica.

INVESTIMENTI E TURISMO NEI CARAIBI

La maggior parte dei Paesi caraibici, in mancanza di adeguati tassi di risparmio naziona-li, vede nella ricerca di investimenti esteri una strategia chiave per attirare i capitali neces-sari al proprio sviluppo. Nelle Barbados il principale settore beneficiario di investimentiesteri è quello turistico, che riceve il 77% dei capitali stranieri. Considerando tutta laregione, il settore impiega il 16% dei lavoratori.Tenendo a riferimento il notevole impatto che l’industria turistica ha in questa regione,possiamo analizzare la qualità degli investimenti stranieri nei Caraibi, con un’attenzionesulle ricadute generali. Per favorire l’ingresso di investitori stranieri, i governi dei paesi deiCaraibi hanno predisposto regimi fiscali minimi, con aliquote molto basse, che incentiva-no l’investimento ma garantiscono benefici ridotti per le economie nazionali. I legamicon l’industria locale sono minimi se non inesistenti: la maggior parte dei beni e dei ser-vizi viene infatti importata (basti pensare alle soluzioni di viaggio all-inclusive o alle cro-ciere verso queste destinazioni). Sempre per garantire un ambiente favorevole agli inve-stimenti, i governi caraibici hanno messo in piedi normative ambientali molto blande,che il più delle volte risultano insufficienti nel garantire la tutela dell’ambiente e degliecosistemi particolarmente fragili di questa regione, come anche delle popolazioni loca-li che da essi dipendono per la sopravvivenza.Inoltre, le condizioni di lavoro degli impiegati nel settore sono inique, gran parte dei lavo-ratori delle isole hanno basse qualifiche e salari inadeguati, gli alti livelli occupazionalisono principalmente riservati agli stranieri.L’ulteriore liberalizzazione di investimenti e servizi richiesta dall’Ue anche per la regionedei Caraibi nel negoziato EPAs comporterebbe costi sociali e ambientali troppo alti ebenefici quasi nulli per l’economia locale.

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Nel 2006, i governi africani hanno sostenuto la necessità di “un’attenta gestionedei processi di liberalizzazione del settore dei servizi coerente con la definizione diuno stringente quadro regolamentare”, affermando, inoltre, la “volontà di nonassumere impegni che si spingano più avanti di quelli presi in ambito OMC”. Alloraperché inserire i servizi in un accordo di libero scambio con i paesi ACP?I servizi nell’Africa Sub-Sahariana sono generalmente pubblici e offerti su picco-la scala per un mercato al massimo nazionale. Durante gli ultimi venti anni moltiservizi, inclusi quelli di base come la distribuzione dell’acqua, furono ceduti aimprese straniere attraverso i programmi di privatizzazione e liberalizzazionedegli investimenti. L’assunzione alla base di questa scelta, realizzata sotto l’auspi-cio della Banca mondiale e del Fondo Monetario Internazionale, era che, di fron-te a capacità pubbliche insufficienti a migliorare i servizi nei Paesi poveri, l’unicarisposta era favorire l’intervento delle imprese straniere, con i loro capitali e cono-scenze, e la promozione di partnerships pubblico privato. In realtà uno studio delcentro di ricerche inglese PSIRU (Public Services International Research Unit) sugliinvestimenti privati nel settore dei servizi idrici dimostra che nell’Africa Sub-Sahariana e Sud Est asiatico esclusa la Cina, gli investimenti del settore privatonella gestione delle risorse idriche dal 1997 ad oggi hanno portato a solamente600.000 nuove connessioni, garantendo l’accesso all’acqua a circa 3 milioni dipersone. Nelle stesse regioni, è stato calcolato che per raggiungere gli Obiettivi disviluppo del Millennio serve garantire l’accesso all’acqua potabile e a misure sani-tarie adeguate a circa 1 miliardo di persone tra il 2006 e il 2015. A conti fatti,sarebbero 270.000 persone al giorno. Ma negli ultimi 9 anni, il tanto decantatosettore privato è riuscito a connettere non più di 900 persone al giorno.

BANCA MONDIALE E PRIVATIZZAZIONE DEI SERVIZI DI BASE

Negli anni ‘60 e’70 la gestione dell’acqua era considerata un “monopolio naturale”, fuoridai meccanismi di mercato basati sulla competizione e da mantenere sotto controllopubblico. In questi anni, la visione della Banca Mondiale era che la fornitura pubblicadei servizi, se accompagnata da stabilità finanziaria e sostegno agli investimenti priva-ti, avrebbe funzionato come motore di sviluppo economico. Negli anni ‘80, con l’affer-marsi del consenso di Washington e del fondamentalismo del libero mercato, la pro-spettiva della Banca cambiò radicalmente a favore di privatizzazioni e liberalizzazioni -

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anche del settore dei servizi di base - nei paesi in via di sviluppo. A partire dagli anni ‘80,Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale iniziarono una campagna di pres-sione coordinata per la decentralizzazione, il ridimensionamento e la privatizzazionedelle funzioni pubbliche dei governi nei paesi del Sud.Con il manifestarsi della crisi idrica mondiale, i governi dei G8 assegnarono alla BancaMondiale il compito di trovare le risorse necessarie a finanziare gli interventi infrastruttu-rali necessari nei paesi più poveri per fare fronte all’emergenza acqua. La Banca Mondialeè infatti il maggiore finanziatore di progetti per la gestione delle risorse idriche e dei ser-vizi sanitari di base a livello mondiale. Nel febbraio 2002, il lancio della strategia per lo svi-luppo del settore privato diede il via alla promozione di partnership pubblico-privato nellagestione dei servizi nei paesi più poveri. Sistemi pubblici di gestione dell’acqua, anche seefficienti e dal bilancio positivo,vennero privatizzati anche nei paesi africani,mentre attra-verso l’uso di condizionalità economiche, la Banca e il Fondo misero in piedi meccanismi- come il frazionamento della fornitura dei servizi - che consentirono alle multinazionalistraniere di fare profitti più alti e ridurre il rischio dei propri investimenti nel settore. IlFondo Monetario in particolare, attraverso la promozione della commercializzazione deiservizi, inclusi quelli idrici, favorì la privatizzazione dell’acqua nei paesi più poveri, conimpatti devastanti in termini di corruzione, aumento delle tariffe e riduzione dell’accessoad acqua potabile di buona qualità.Tra il 2002 e il 2005, la Banca aumentò i finanziamen-ti a progetti infrastrutturali a partecipazione privata di un miliardo di dollari all’anno. Nel2005, la Banca investì oltre 7 miliardi di dollari nel finanziamento di progetti infrastruttu-rali a partecipazione privata in settori di frontiera, quali appunto acqua, educazione esanità. Secondo uno studio del 2005 della Ong inglese World Development Movement, su50 programmi per la riduzione della povertà (PRSP), circa due terzi includevano condizio-nalità per la privatizzazione dell’acqua o per un maggiore coinvolgimento del settore pri-vato nella fornitura dei servizi idrici. Inoltre, nessuno dei documenti prevedeva una qual-che revisione degli impatti delle politiche di privatizzazione, e nemmeno l’obiettivo dimantenere una gestione pubblica dei servizi idrici e sanitari di base.

L’Europa è il principale esportatore mondiale di servizi. Le grandi imprese delvecchio continente necessitano di nuovi mercati per aumentare i loro profitti.L’esperienza delle privatizzazioni africane ha mostrato come le imprese stranie-re lavorino seguendo esclusivamente l’obiettivo del profitto economico chemal si concilia, ad esempio, con il compito di garantire l’universalità dell’acces-so al servizio. Il risultato è che le multinazionali si focalizzano solamente sullefasce ricche della popolazione, con la conseguenza di precludere a quelle pove-re l’accesso a servizi in certi casi fondamentali, come la fornitura d’acqua o l’ac-

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cesso al credito. Inoltre un impatto devastante è quello causato dall’ingressonei mercati locali delle catene di supermercati della grande distribuzione. Laloro presenza spinge fuori dai mercati i piccoli produttori, costringendoli adentrare nella produzione per le grandi imprese di trasformazione dove il loropotere contrattuale è praticamente nullo. Perciò affidandosi alle imprese stra-niere i Paesi africani non sono in grado di sviluppare competenze nel settore apiù alto valore aggiunto dell’intera economia globale, ossia i servizi. E le scel-te di oggi saranno difficilmente rivedibili domani.

Formalmente, non c’era alcun obbligo per i Paesi ACP a negoziare i servizinegli EPAs. Tuttavia alcune regioni hanno iniziato a farlo, pressate dallaCommissione europea o interessate solamente a determinati sotto-settori esoprattutto alla possibilità di esportare lavoro non specializzato che possaaumentare il flusso di rimesse dei migranti, che già oggi rappresentano unimportante flusso di capitali verso i Paesi poveri. Così la regione dei Caraibi hafirmato nel 2007 un accordo anche a copertura degli investimenti. Il fatto però di aver accettato di inserire un capitolo sui servizi all’interno degliaccordi EPAs, sottopone i Paesi ACP ai vincoli derivanti dall’Art.V del GATS(General Agreement on Trade in Services) in materia di accordi regionali. Comeper l’Art.XXIV del GATT analizzato in precedenza in relazione al commerciodei beni, così l’articolo V dell’accordo GATS, al paragrafo 1, stabilisce i criterisecondo i quali gli accordi regionali in materia di servizi devono essere com-patibili con il sistema OMC, prevedendo alcune flessibilità mutuate dall’accor-do in materia nella OMC.

PERCHÉ L’AFRICA CENTRALE NON DEVE LIBERALIZZAREI SERVIZI FINANZIARI

Nel caso ad esempio della regione CEMAC, la questione centrale è se questi paesi abbia-no la capacità di gestire gli effetti della liberalizzazione attraverso la regolazione, o se laliberalizzazione dei mercati con la Ue in assenza di questa capacità condurrà a risultatipositivi o meno. Inoltre, valutando le proposte negoziali per la regione in merito ai ser-vizi avanzate dall’Europa, è evidente che l’obiettivo dell’accordo EPA è quello di elimi-nare tutte le barriere di regolazione del commercio che limitano l’accesso ai servizi

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nella regione. Al momento, l’accesso al settore dei servizi finanziari nella regioneCEMAC è già libero da restrizioni in relazione al Trattamento Nazionale. Tuttavia, purmancando di queste misure, la regione ha altri strumenti di regolazione a disposizionecome la valutazione di impatto e della convenienza dell’apertura o l’armonizzazionedei servizi finanziari e bancari. Ci devono essere dei motivi per i quali i Paesi della regio-ne hanno scelto queste misure piuttosto che imporre a monte la restrizione al principiodel Trattamento Nazionale. Ad esempio, l’obiettivo potrebbe essere quello di mantene-re misure di garanzia dell’interesse pubblico senza limitare l’accesso al proprio merca-to o discriminare le imprese straniere da quelle nazionali che magari non sono in gradodi fornire il servizio in maniera adeguata. Le proposte della Ue in materia di regolazio-ne del settore sono esplicitate in un paragrafo specifico della bozza di accordo avanza-ta alla regione, prevedendo anche paragrafi speciali per alcuni settori come quellofinanziario, dei computer e delle telecomunicazioni.Dalla lettura di queste proposte negoziali, è evidente l’obiettivo di smantellamento ditutte quelle normative che regolano il settore dei servizi all’interno dei Paesi della CEMAC.Ma perché questi ultimi dovrebbero abbandonare le loro legislazioni adottando misuredi deregolamentazione come richiesto dalla Ue? L’accordo GATS non afferma questo, edanzi concede ai Paesi membri le flessibilità necessarie in materia di domestic regulation.Per quanto riguarda i servizi finanziari, ad esempio, l’analisi di impatto di sostenibilitàrealizzato dalla Price Water House Coopers per conto della Ue nella regione CEMAC affer-ma che i risultati della liberalizzazione potrebbero essere asimmetrici. Lo studio spiegache le compagnie di assicurazione Centro africane offrono prezzi più vantaggiosi nellacopertura assicurativa dei trasporti rispetto a quelle europee. Però tale vantaggio nonsi realizza in termini di opportunità di mercato per le imprese CEMAC sul fronte euro-peo, dati gli ostacoli in materia di regolazione del mercato europeo nello specifico set-tore. Allora a cosa serve liberalizzare il settore se comunque sul mercato CEMAC leimprese nazionali risultano più competitive?

7 IL DESTINO DELL’AFRICA

Come abbiamo visto, proprio la crescente difficoltà europea a chiudere con lesei regioni ACP un accordo complessivo ha spinto i negoziatori del vecchiocontinente ad una proposta di compromesso (dal lato europeo, non ACP) diaccordi ad interim a copertura dei vincoli posti dall’Art. XXIV dell’accordoGATT nella OMC. I motivi di questa difficoltà sono stati diversi, ma un fortepeso ha avuto l’opposizione ACP in materia di servizi e investimenti (e gli altri

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Temi di Singapore), oltre che di diritti di proprietà intellettuale. Alla fine sola-mente la regione Caraibica ha firmato un accordo in materia di servizi e inve-stimenti, affermando che è meglio un accordo regionale piuttosto che il proli-ferare di accordi bilaterali. Ma il caso dei Caraibi è particolare, trattandosi diPaesi con un settore del turismo fortemente sviluppato e dipendente dal mer-cato europeo. Nessun altro Paese o sub-regione ha accettato che queste duetematiche finissero nell’accordo EPA. In linea generale potremmo affermareche si tratta di un successo negoziale dei Paesi ACP che sono riusciti a frenarela corsa europea su due settori così sensibili per il loro sviluppo. Il problema èche la partita su servizi e investimenti non è affatto chiusa. Negli stessi InterimMarket Access Agreements sono state inserite clausole che vincolano i Paesi asuccessivi negoziati su questi due ed altri capitoli di interesse esclusivo dellaUe. Per la Commissione si tratta semplicemente di un approccio a due fasi, alcui completamento della prima deve seguire un negoziato per il conseguimen-to di un accordo full EPAs, ovvero comprensivo di tutti gli altri capitoli nego-ziali rimasti pendenti. Quale sarà l’esito del prosieguo dei negoziati nel 2008 èdifficile dirlo. Un punto però è chiaro, l’approccio europeo rappresenta unaminaccia per gli sforzi di alcune regioni africane nel consolidare un mercatoregionale dei servizi e degli investimenti. Ancora di più vista la richiesta Ue diapplicare il vincolo della Nazione Più Favorita (secondo il quale le impreseeuropee devono godere dello stesso trattamento di quelle nazionali e regiona-li) per una vasta gamma di settori all’interno dei servizi.

LA CINA ALLA CONQUISTA DEL CONTINENTE NERO

Nell’arco di pochi anni la Cina è diventata uno dei più importanti partner africani nellacooperazione economica e commerciale. Il valore dei volumi commerciali scambiati trail continente nero e il gigante asiatico sono passati dagli 11 miliardi di dollari del 2000a 56 del 2006. Lo stock di investimenti esteri cinesi in Africa nel 2005 ha raggiunto gli1,6 miliardi di dollari con le imprese di Pechino, presenti in ben 48 Stati del continente.I volumi maggiori di investimenti sono diretti, però, in pochi Paesi: Sudan, Algeria eZambia. È importante sottolineare che l’Africa riceve il 3% dell’ammontare complessivodegli IDE cinesi. Il settore di interesse maggiore è naturalmente quello estrattivo.L’onnivora economia cinese ha bisogno di enormi volumi di materie prime per sostene-

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re l’attuale processo di sviluppo. Un vettore fondamentale per aumentare la presenzacinese in Africa è rappresentato anche dagli aiuti. La Cina, ad esempio, prevede diaumentare del 33% il proprio fondo di aiuti denominato African Human ResourcesDevelopment Found. Infine, la Cina ha avviato una rapida cancellazione dei debiti deiPaesi africani come dimostrato nell’ultimo vertice di Pechino dell’autunno 2006. Comeha sottolineato il professor Alessandro Volpi in un recente articolo comparso sulla rivi-sta Mani Tese, il segreto della rapida penetrazione economica cinese nel continente èaddebitabile a diversi fattori. In primo luogo la disponibilità delle imprese cinesi a paga-re l’energia e le materie prime a prezzi più alti. In secondo luogo, si tratta di impreseinvestitrici, in gran parte pubbliche,“che non mirano alla privatizzazione dei settori neiquali intendono operare ma, a differenza delle multinazionali, mostrano di prediligereforme di cooperazione e di joint venture con le imprese nazionali dei Paesi africani”. LaCina, in terzo luogo, nei suoi accordi bilaterali non pretende l’imposizione di reciprocitàdelle aperture commerciali come invece sta facendo l’Unione europea. Infine,“il regimedi Pechino non ha un passato coloniale da farsi perdonare, non manifesta troppe atten-zioni né eccessive cautele nei confronti delle violazioni dei diritti umani praticate damolteplici Stati africani la cui democraticità non costituisce in alcun modo una pregiu-diziale rispetto alle trattative commerciali”.

PER SAPERNE DI PIÙ

Siti webCenter for research on Multinational Corporation (SOMO) www.somo.nlThird World Network www.twnside.org.sgFriends of the Earth www.foeeurope.orgUnited Conference on Trade and Development (UNCTAD) www.unctad.org

Libri e documentiCRBM, “Non investiamoli! La liberalizzazione degli investimenti nei Paesi piùpoveri e le responsabilità europee”, Dicembre 2007Stichele V.M., “The risks and dangers of liberalization of services in Africa underEpa”, SOMO Briefing Paper, Settembre 2006Stichele V.M., “EPA negotiation do not promote the right investment policies inAfrica”, SOMO Briefing Paper, Settembre 2006UNCTAD, “Ecnomic Development in Africa. Rethinking the role of foreign directinvestment”, Settembre 2005

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5Aiuti al commercio: nuovepromesse per i soliti obiettivi

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107AIUTI AL COMMERCIO: NUOVE PROMESSE PER I SOLITI OBIETTIVI

1 AID FOR TRADE: LA COOPERAZIONE AL SERVIZIODEL LIBERO COMMERCIO

La “retorica sviluppista” che si è costruita attorno ai negoziati commercialiregionali e multilaterali si è arricchita negli ultimi anni di una nuova compo-nente: quella degli aiuti. Se prima l’enfasi era posta su politiche, apertura deimercati e miglioramento dei fondamentali economici, adesso gli stessi esegetidel modello di globalizzazione neoliberista riconoscono che tale automatismodei benefici può non prodursi a causa di una serie di limiti strutturali (limita-te capacità produttive, mancanza di infrastrutture, debole settore privato etc.)dei Paesi poveri e di costi di breve periodo che l’apertura dei mercati porta consé (perdita di gettito fiscale derivante dall’abbassamento di dazi e tariffe, usci-ta dal mercato di alcune categorie di produttori, aumento dei prezzi di deter-minate tipologie di beni di consumo, costi di implementazione degli accordietc.). L’assistenza finanziaria in queste due macro dimensioni dovrebbe aiutarei Paesi poveri a beneficiare finalmente dei processi di liberalizzazione commer-ciale. Ad Hong Kong, durante l’ultima conferenza ministeriale dell’Organizzazionemondiale del commercio del dicembre del 2005, le vecchie potenze della tria-de, Usa, Ue e Giappone, sostenute dallo stesso direttore generale della OMC,Pascal Lamy, hanno tirato fuori dal cappello un nuovo strumento per ribadirela volontà di giungere alla conclusione di un ciclo di negoziati commerciali asostegno dello “sviluppo” dei Paesi poveri. Si tratta degli aiuti al commercio(Aid for Trade), ovvero nuovi (ipotetici) soldi per l’adozione di vecchie regoledi apertura dei mercati. In verità, oramai da diversi anni, i grandi donatoriassieme alle istituzioni finanziarie internazionali (Banca Mondiale e FondoMonetario Internazionale) e alle banche regionali di sviluppo portano avantiprogrammi di assistenza al commercio. Lo fanno in diversi settori, da quellatecnica per condurre i negoziati, al sostegno allo sviluppo del settore privato,dalle infrastrutture ai costi derivanti dall’implementazione di politiche di aper-tura commerciale. La novità consiste nel legare questi aiuti ai processi negoziali per la liberaliz-zazione del commercio (sia a livello di OMC che di singole regioni) e nel ten-

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tativo di sistematizzare le varie categorie di assistenza al commercio, in quan-to ogni Paese definisce in modo diverso cos’è e cosa non è aiuto al commercio,favorendo l’adozione di linee guida che ne garantiscano una maggiore efficaciae una contabilizzazione più chiara.

I PROGRAMMI DI AIUTO AL COMMERCIO

A partire dall’Uruguay Round, che ha sancito la nascita della OMC, i Paesi ricchi hannoaccresciuto il loro consenso attorno alla necessità di garantire assistenza tecnica di tipocommerciale per aiutare i Paesi in via di sviluppo nell’implementazione degli accordi ea fronteggiare i costi associati. Una specifica misura riguardante i problemi per i Paesiimportatori netti di cibo fu inserita tra gli accordi dello stesso Uruguay Round. Altremisure di assistenza tecnica sono state stabilite con l’obiettivo di aiutare e sostenere losviluppo delle capacità commerciali dei Paesi in via di sviluppo e di quelli meno svilup-pati. Il piano più organico risulta essere l’Integrated Framework for Trade - RelatedTechinical Assitance to LDCs (IF) realizzato nel 1997 i cui obiettivi principali sono quelli diintegrare il commercio all’interno delle strategie di sviluppo della Banca Mondiale,come le strategie nazionali per la lotta alla povertà (PRSPs), e coordinare i relativi aiutial commercio. Un’altra iniziativa è quella del Joint Integrated Techinical AssistanceProgramme (JITAP), che ha l’obiettivo di aiutare i Paesi africani a partecipare ai negozia-ti OMC. Infine, il Trade Integration Mechanism (TIM) del Fondo monetario internaziona-le, che dovrebbe facilitare l’accesso dei Paesi ai fondi dell’organizzazione per fronteg-giare i problemi conseguenti alle liberalizzazioni. Si tratta di programmi che non hannoraggiunto i loro obiettivi a causa della mancanza di risorse, di personale e di processimolto lenti per accedere ai fondi previsti.

La logica degli aiuti al commercio è quella di indirizzarsi verso i costi di aggiu-stamento che i Paesi poveri sostengono al momento dell’implementazionedegli accordi e verso limiti della propria capacità di offerta. Per quanto riguar-da gli EPAs, una ricerca del Commonwealth Secretariat stima che i costi com-plessivi che i Paesi ACP sosterranno per le riforme necessarie ad affrontare gliimpatti degli EPAs saranno di circa 9,2 miliardi di euro nei primi dieci anni. Diquesti, il 60% sarebbero i costi relativi ai primi cinque anni di implementazio-ne. Lo studio individua quattro principali aree dove dovrebbero essere indiriz-zati gli aiuti. In primo luogo, la riforma fiscale, necessaria per affrontare il calo

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di risorse derivante dall’abbassamento delle tariffe. In secondo luogo, proprioper usufruire delle ipotetiche nuove opportunità commerciali, gli aiuti dovreb-bero andare a sostenere il commercio ed il processo di diversificazione per iprodotti da esportazione. In terzo luogo, ci sarebbero i costi di ristrutturazio-ne del proprio settore produttivo, inclusa la ricollocazione dei lavoratori daisettori esclusi dalla concorrenza straniera e quelli sostenuti dalla liberalizzazio-ne dei mercati con il blocco dei Paesi partner. Infine, i programmi a sostegnodell’aumento della produttività e dello sviluppo di nuove capacità professiona-li. Nella logica liberista, la liberalizzazione introdotta dagli EPAs avrà due impat-ti principali sulle economie ACP. Da un lato provocherà la contrazione dellaproduzione in quei settori sopraffatti dalla concorrenza prodotta dalle nuoveimportazioni, dall’altro nuove opportunità di espansione in quei settori poten-zialmente competitivi. I limiti delle proprie capacità di offerta (ad esempioscarse infrastrutture, servizi, capitali, economie di scala) potrebbero vanificaregli effetti potenzialmente positivi delle nuove opportunità di esportazione.Insomma, in questa logica, indirizzando meglio gli aiuti, essi potrebbero dav-vero favorire lo sviluppo attraverso le politiche di liberalizzazione commercia-le.Ad Hong Kong i Paesi cosiddetti sviluppati si sono accordati per un pacchettodi aiuti proprio per far fronte a queste problematiche ed assistere i Paesi pove-ri nelle riforme della propria politica commerciale. In quella sede l’Ue promi-se di portare l’ammontare complessivo di aiuti al commercio a 2 miliardi dieuro entro il 2010, ripartiti equamente tra Commissione e Paesi membri (1miliardo di dollari ciascuno). Gli Stati Uniti invece si impegnarono per stan-ziare almeno 2,7 miliardi di dollari ogni anno in aiuti al commercio a partiredal 2010, mentre il Giappone promise di investire dieci miliardi in tre anni. L’Unione europea, vale a dire la Commissione ed i singoli Paesi membri, risul-ta essere il principale donatore a livello globale anche nel settore degli aiuti alcommercio. Tra il 2001 ed il 2004, infatti, la Ue ha speso una media di 840milioni all’anno in programmi di assistenza al commercio, mentre i singoliPaesi membri si sono fermati a 300 milioni (nel 2006 lo stanziamento è statorispettivamente di 960 e 370 milioni di euro). Appare evidente come l’impe-gno maggiore gravi sui Paesi membri che dovranno aumentare considerevol-

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mente la percentuale di aiuti destinati all’assistenza al commercio per rispetta-re gli impegni presi.Durante Consiglio Affari Generali e Relazioni Esterne (GAERC) svoltosi il 16-17 ottobre del 2006, i Paesi Membri hanno confermato la loro volontà di rag-giungere entro il 2010 i due miliardi di dollari promessi, cercando di indivi-duare le categorie a cui indirizzare l’Aid for trade stabilite all’interno di una spe-cifica strategia approvata un anno dopo (Joint Aid for Trade Strategy). Nelleconclusioni del Consiglio Affari Generali salta agli occhi l’assenza di previsio-ne di copertura dei famosi costi di aggiustamento, limitandosi a ribadire chel’incremento degli aiuti al commercio europei coprirà solo le prime due dellecinque categorie stabilite dalla Aid for Trade Task Force della OMC nel luglio2006. Vale a dire, la Trade policy and regulations e la Trade development. Comeè possibile notare dalla specifica delle singole categorie, si tratta di due tipolo-gie di aiuti al commercio che rispondo maggiormente agli interessi del Paesedonatore, piuttosto che del beneficiario, in quanto hanno a che fare diretta-mente con l’adozione di politiche di liberalizzazione commerciale, necessariesoprattutto in un quadro di proliferazione degli accordi regionali di liberoscambio.

LE CATEGORIE DELL’AIUTO AL COMMERCIO

A seguito degli impegni assunti alla conferenza di Hong Kong, all’interno della OMC èstata istituita una Task Force con il compito di elaborare una strategia specifica al fine difornire delle linee guida per il raggiungimento degli obiettivi generali stabiliti. Le racco-mandazioni della Task Force non fanno riferimento all’ammontare di risorse necessarie,da dove questi soldi dovrebbero arrivare e come dovrebbero essere spesi. Esse, inoltre,non prevedono alcun obbligo per i Paesi donatori, lasciando loro completa discreziona-lità sulla scelta delle modalità e dei soggetti. Le conclusioni della Task Force semplice-mente fanno riferimento alle buone pratiche della distribuzione delle risorse. Risultaimportante quindi andare a vedere le decisioni dei singoli Paesi membri per capirel’ammontare, lo scopo e i meccanismi di spesa di questi aiuti promessi. Le raccomanda-zioni furono presentate durante il General Council del luglio 2006. A partire dai risultatidel lavoro della Task Force, la OMC e OCSE hanno avviato un lavoro di consultazione trai Paesi donatori, i beneficiari e le diverse organizzazioni regionali e multilaterali - inclu-

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sa la Banca Mondiale - i cui risultati sono stati resi pubblici in un rapporto dal titolo Aidfor Trade at a Glance 2007, all’interno del quale viene fornita una disamina qualitativa equantitativa delle politiche di aiuto al commercio per il periodo 2002-2005. Per ritorna-re alle raccomandazioni della Task Force, essa individua sei categorie di politiche Aid forTrade:1. Trade and Policy Regulation: categoria che prevede il sostegno alla formazione dei

negoziatori, l’aiuto ai governi nell’implementazione degli accordi e delle riformenecessarie per andare incontro alle nuove regole e ai nuovi standard.

2. Trade Development: si tratta di politiche a sostegno dei servizi per il settore privato,la promozione finanziaria e degli investimenti, le analisi di mercato e l’e-commerce.

3. Trade-related infrastructure: fa riferimento ai progetti infrastrutturali: strade, autostra-de, porti, aeroporti etc.

4. Building productive capacity: vale a dire il miglioramento delle capacità produttivedei Paesi in materia di beni e servizi.

5. Trade-related adjustment: prevede l’assistenza finanziaria per i costi di aggiustamen-to causati dalle riforme commerciali, inclusa la perdita di gettito fiscale, l’erosionedelle preferenze, problemi alla bilancia dei pagamenti.

6. Other Trade-related needs: si tratta di politiche a copertura di altri costi o a sostegnodi programmi necessari per far fronte alla liberalizzazione commerciale.

2 MA DI QUANTI SOLDI STIAMO PARLANDO?

Il rapporto OMC/OCSE del novembre 2007 sostiene che tra il 2002 ed il 2005gli aiuti al commercio, sia a livello bilaterale che multilaterale, sono aumentatiin termini reali del 22%, passando da 17,8 miliardi di dollari nel 2002 a 21,7miliardi nel 2005. Ciò rappresenta un tasso di crescita annuo del 6,8%. E’ peròutile andare a vedere l’incremento delle singole categorie per comprendere se gliaiuti rispondano alle necessità dei Paesi poveri o piuttosto dei Paesi donatori.Nonostante questo incremento, la spesa nel settore a sostegno delle capacitàproduttive, una categoria individuata come prioritaria dagli stessi Paesi del Sud,è passata dai 16 miliardi del 1988 ai 9 miliardi del periodo 2002-2005.L’aumento verificatosi nel periodo preso in esame dal rapporto, tuttavia, non èstato sufficiente ad invertire il trend negativo degli aiuti al commercio in rela-zione al totale degli aiuti pubblici allo sviluppo (APS). Nello stesso periodol’APS è passato da 51 miliardi di dollari l’anno a 67,5 e la percentuale di aiuti al

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commercio è scesa dal 35% al 32%. I motivi addotti per spiegare questo decli-no sono molteplici. Ad esempio, la tendenza registrata negli anni ‘90 a diminui-re il sostegno al settore pubblico per l’erogazione dei servizi e la concomitanteespansione delle partnership pubblico-privato, incentivate come abbiamo vistodalla Banca Mondiale e da diversi donatori bilaterali e multilaterali. Questo svi-luppo ha probabilmente contribuito a convincere i Paesi donatori che la dimi-nuzione di aiuti sarebbe stata compensata dai capitali privati, previsione che poinon si è avverata. Inoltre, con l’enfasi posta, grazie anche agli Obiettivi di svi-luppo del Millennio, sugli obiettivi di riduzione della povertà, le politiche diaiuto si sono spostate verso altri settori, in particolare quello sociale. Nel perio-do di analisi del rapporto, emerge come la parte del leone negli aiuti al commer-cio la facciano le infrastrutture con un totale di 11,2 miliardi di dollari, cuisegue il miglioramento delle capacità produttive con 8,9 miliardi e 600 milioniinvece sono andati all’assistenza tecnica e al capacity building.

Paese Impegni Aid for Trade Percentuale Aid for Percentuale di prestiti(milioni di dollari) Trade sul totale sul Totale Aid for

Trade Paese

Giappone 4764 22,8 82,0%

Stati Uniti 3423 16,4 –

IDA (International 3099 14,8 91,8%Development Association)

Germania 2403 11,5 12,8%

CE 1140 5,4 48,1%

AsDF (ASEAN Social 724 3,5 96,8%Development Fund)

Regno Unito 711 3,4 –

Francia 660 3,2 60,5%

AfDF (Africa 574 2,7 96,2%Development Fund)

Olanda 512 2,4 –

Italia 225 43,3 –

Fonte: OMC/OCSE, 2007. Periodo 2002-2005

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3 ACP: EPAS IN CAMBIO DI AIUTI?

Il tema degli aiuti al commercio è centrale all’interno dei negoziati sugliAccordi di Partenariato Economico. Trattandosi di accordi di libero scambio,essi comporteranno dei costi per i Paesi ACP a cui dovranno far fronte. Talicosti non possono essere evitati semplicemente facendo ricorso a tempi diimplementazione più lunghi, ma necessitano di risorse fruibili capaci di garan-tire a questi ultimi lo sviluppo delle proprie capacità produttive, la creazionedi infrastrutture necessarie a migliorare il commercio regionale e internaziona-le, il passaggio ad un sistema di tassazione più articolato, differenziato e menodipendente dai dazi. La Ue ha più volte ribadito che i soldi per questi program-mi saranno veicolati dal Fondo Europeo per lo sviluppo (FES), il canale dovepassa l’aiuto europeo per i Paesi ACP, nonostante che questi ultimi avessero piùvolte sostenuto la necessità di includere all’interno degli accordi EPAs la pre-visione di tali aiuti. Ciò sarebbe dovuto avvenire attraverso l’istituzione di unEpa Financing Facility, allo scopo di rendere certa e prevedibile la loro eroga-zione in linea con i tempi di implementazione degli accordi e non con quellidi definizione del FES che avviene ogni cinque anni e con le problematicitàevidenziate.

L’AIUTO AL COMMERCIO DELLA UE

La categoria degli aiuti al commercio non è stata introdotta dalla OMC ad Hong Kong,in quanto tutti i principali donatori sostengono da tempo tali tipologie di politiche. LaUe ad esempio ha quattro categorie definite di Trade-related Assistance (anziché di Aidfor Trade).1. Trade policiy and regulation: si tratta di politiche a sostegno dell’integrazione dei Paesi

poveri all’interno del sistema commerciale multilaterale. Questa categoria includeassistenza tecnica, formazione, rafforzamento delle istituzioni pubbliche, sostegnoall’implementazione degli accordi sia a livello OMC che regionali e bilaterali.

2. Trade and development: si tratta di una categoria che comprende una vasta gammadi politiche e programmi tra cui il sostegno per il superamento dei limiti strutturaliche impediscono di cogliere le opportunità della liberalizzazione e il rafforzamentodel settore privato.

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3. Adjustment process: comprende tutte quelle politiche di sostegno indiretto al com-mercio come i programmi di riforma del sistema fiscale, quelli per migliorare l’am-biente economico etc.

4. Long term supply side issue: si tratta di interventi per lo sviluppo delle infrastrutture,del sistema educativo e sanitario, ovvero tutti quei settori che nel lungo periodohanno un impatto sulla povertà e la competitività del Paese beneficiario.

Nel 2006, l’Ue ha destinato circa 960 milioni di euro in programmi di assisten-za al commercio. Di questi, il 40% è andato ai Paesi ACP. Nella strategia adot-tata nel settembre 2007, la Ue afferma di voler destinare ai Paesi ACP il 50%dell’incremento previsto. Se confrontiamo queste percentuali con gli impegniassunti dalla Ue e dai Paesi membri ad Hong Kong, possiamo stimare che l’o-biettivo europeo di aiuti al commercio per i Paesi ACP nel 2010 sarà unaumento di 940 milioni di euro (di cui 844 all’Africa Sub-Sahariana, mante-nendo ferme le proporzioni di aiuto ricevuto dalle diverse regioni sempre nel2006). Assumendo che l’incremento dai 960 milioni di euro del 2006 ai 2miliardi del 2010 avvenga in modo lineare, ciò significa un aumento annuo di265 milioni di euro. Calcolato sul periodo del decimo FES (2008-2013), ilvalore nominale degli aiuti al commercio sarà di circa 11.205 milioni di euro,ovvero 1.868 milioni per anno, mentre il valore reale (al tasso di inflazione del2,4%) sarà di 10.365 milioni, vale a dire 1.728 milioni di euro per anno. Ciòsignifica una perdita di potere di acquisto di 840 milioni di euro, ossia il 7,5%del valore complessivo di Aid for Trade nel periodo del decimo FES.Utilizzando lo stesso criterio per l’analisi del decimo FES in generale (vedicapitolo 2), gli aiuti al commercio pro-capite per la popolazione ACP sarannodi 1,89 euro per anno, rispetto ad un reddito medio annuo di circa 477 euro.La cifra appare del tutto inconsistente rispetto ai costi che gli ACP sosterran-no nell’adozione degli accordi EPAs, come la perdita media di gettito fiscale sti-mata attorno al 15-20%, il calo dei livelli di produzione in tutti i settori (agri-coltura, industria, servizi), contrazione del PIL, aumento della disoccupazionee della povertà. Inoltre, per fare un esempio, le spese che i Paesi ACP dovran-no sostenere per l’adeguamento alle nuove normative sanitarie e fito-sanitarieintrodotte dagli accordi si attestano attorno al 2-10% del valore delle esporta-

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zioni relative. A fronte di una spesa prevista a livello ACP di 180 milioni dieuro, il decimo FES ne prevede solamente 24 milioni.

4 I LIMITI E I RISCHI DEL AID FOR TRADE

L’ammontare dell’incremento di aiuti al commercio è del tutto inconsistente separagonato ai costi derivanti dagli accordi di libero scambio. Non si tratta innessun caso di impegni vincolanti. La stessa UE nella sua strategia dell’otto-bre 2007 non fa alcun riferimento a meccanismi di garanzia dell’effettivo rea-lizzarsi dell’incremento previsto. L’analisi delle promesse e degli effettivi impe-gni dei grandi donatori dimostra come non vi sarà alcun incremento effettivodegli aiuti al commercio, il cui aumento andrà a discapito di altre voci di spesa. Ma oltre alle criticità sul lato qualitativo, vi sono numerosi limiti e rischi chefanno riferimento alla natura stessa degli aiuti al commercio e agli obiettivieffettivi dei Paesi donatori. Un evidente rischio è che rappresentino semplice-mente una moneta di scambio per l’imposizione di accordi commerciali cape-stro. Non è un caso infatti che il tema sia emerso nella OMC in piena crisi diconsenso rispetto alla direzione assunta dal Doha Round ed ai calcoli deglieffettivi benefici e dei rischi per i Paesi poveri. Non solo, gli stessi aiuti al com-mercio negli EPAs, come abbiamo visto nel caso dei Paesi del Pacifico (vediCapitolo 2), sono vincolati al livello di impegni assunti in sede negoziale. Ègiusto quindi domandarsi se questi aiuti alla fin fine non lavorino nell’interes-se dei Paesi donatori, piuttosto che di quelli beneficiari.

AID FOR TRADE ALLA PROVA DEI FATTI

Gli esempi di Aid for Trade messi in campo in Botswana, Lesotho, Namibia e Swaziland(BLNS) non sono di consolazione. Quando il Sudafrica ha firmato un accordo di liberoscambio con l’Unione Europea - il Trade and Development Cooperation Agreement(TDCA) - siccome questi Paesi erano membri della stessa regione di libera dogana (laSACU), si sono subito dovuti confrontare con un aumento delle importazionidall’Europa e con un crollo delle entrate pubbliche causato dalla riduzione di dazi e

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tariffe. L’Europa, a questo punto, ha disegnato un complesso pacchetto di aiuti, e in par-ticolare di aiuti al commercio, ma a condizione che tutti i Paesi della SACU accettasserol’accordo di libero scambio che l’UE aveva in corso con il Sudafrica. La Namibia, tra glialtri, ha vibratamente protestato e rifiutato la proposta. L’Europa, dunque, ha ritiratoproposta e aiuti, e i quattro paesi BLNS sono rimasti da soli a dover fare i conti con lecompetitive e aggressive importazioni europee. E questo a fronte, ad esempio, di unaperdita di entrate pubbliche che costituivano circa il 60% del bilancio dello Swaziland.Insomma: sarebbero serviti aiuti al commercio in quell’area, per riequilibrare l’emergen-za liberalizzazione? Forse si, ma il confronto tra impari porta sempre a esiti incerti.L’Europa, infatti, ha offerto successivamente un sostegno alla crescita commercialedello Swaziland, accettando un aggiustamento fiscale, ma secondo il calcolo fatto dalSegretariato del Commonwealth, questa riparazione non riporterà, in 10 anni, che unsesto di quanto perso dal Paese.

5 QUALITÀ ED EFFICACIA DEGLI AIUTI

Un altro problema fondamentale è la qualità e l’efficacia di questi aiuti. Nel2005, i Paesi donatori adottarono la Dichiarazione di Parigi sull’efficacia degliaiuti (Paris Declaration on Aid Effectiveness), nella quale si delineavano i prin-cipi guida a cui dovrebbero conformarsi i Paesi donatori, che poi furono ancheadottati nelle stesse conclusioni della Task Force del luglio 2006. Gli aiuti al commercio presentano numerose criticità rispetto a tali principi. Inprimo luogo, la prevedibilità. È stato calcolato che i tempi di erogazione per ilBotswana, Lesotho e Swaziland dei fondi previsti dal nono FES si è attestanotra i 9 e i 17,5 anni, mentre ne occorrono dai 7 ai 14 per la firma dei contrattie l’implementazione delle specifiche attività di progetto. Inoltre si afferma chele politiche di aiuto debbano avere una dimensione di lungo periodo. Nel casoACP, il fatto che essi passino attraverso un fondo negoziato ogni cinque anni,ma legati ad accordi commerciali i cui tempi di implementazione sono di granlunga superiori, pone il dubbio sulla garanzia degli impegni che tali aiutisaranno confermati sull’intero arco di tempo previsto per l’applicazione degliaccordi. Ancora, due principi cardine dell’efficacia degli aiuti sono l’ownershipe la capacity. Rispetto a questi, le politiche di aiuto al commercio europee pre-sentano degli evidenti limiti. Con il termine ownership si fa riferimento all’ef-

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fettiva capacità dei Paesi beneficiari di partecipare al processo di definizione edi implementazione delle politiche di aiuto. Il Fondo europeo di sviluppo nonè implementato attraverso un’effettiva partnership con i Paesi beneficiari. Idonatori influenzano pesantemente l’allocazione finale dei fondi e tendono adindirizzare le risorse in programmi di breve periodo, in grado di conseguirerisultati visibili e spendibili con l’opinione pubblica. Nelle politiche di assi-stenza al commercio la partecipazione della società civile, nonostante sia pre-vista e considerata un valore aggiunto, è molto limitata in termini di efficacia.Con il termine capacity, invece, ci si riferisce all’effettiva capacità dei Paesibeneficiari di identificare le proprie priorità e partecipare quindi in modo effet-tivo ai processi di decisione dei programmi di assistenza. Da questo punto divita emerge come le priorità in ambito commerciale siano definite principal-mente dai donatori e come la scarsa formazione all’interno delle strutture digoverno dei Paesi beneficiari limiti anche la loro capacità di adeguata imple-mentazione e monitoraggio dei programmi stessi. La Dichiarazione di Parigistabilisce anche che i programmi di aiuto debbano essere coerenti ed in lineacon gli obiettivi di sviluppo definiti dai Paesi beneficiari. Tale coerenza è diffi-cile che si verifichi. Da un lato per la natura controversa delle politiche di aiutoal commercio, che mirano a sostenere i processi di liberalizzazione i quali,come abbiamo visto, lavorano in direzione opposta agli obiettivi di sviluppodei Paesi poveri. Dall’altro lato in quanto gli stessi donatori sono contempora-neamente attori dei negoziati con propri interessi offensivi, sia commercialiche di investimento, ed è quindi palese il “conflitto di interessi” connaturato aquesto tipo di aiuti. Infine, si fa riferimento alla questione delle condizionalità,ovvero dei vincoli cui sono sottoposti gli aiuti. Infatti sia i doni che i prestitidelle organizzazioni multilaterali come Banca mondiale e Fondo monetario,sono stati oggetto di dure condizioni per poterne usufruire. L’esempio è quel-lo dei Piani di aggiustamento strutturali che si accompagnavano ad ogni nuovoprestito e che prevedevano riforme politiche orientate anche alla liberalizzazio-ne commerciale. Nonostante la stessa Banca mondiale ponga meno enfasi sullecondizionalità economiche in seguito alle forti critiche degli ultimi anni sul-l’efficacia delle stesse, specialmente in ambito commerciale, i Paesi beneficiarisubiscono ancora forti pressioni per adottare una serie di riforme attraverso iprogrammi di assistenza tecnica.

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LE CONDIZIONALITÀ INDIRETTE DELLA BANCA MONDIALE

Uno dei meccanismi più importanti attraverso cui la Banca mondiale riesce a imporrecondizionalità economiche in modo indiretto è rappresentato dai suoi Country Policyand Institutional Assessment - CPIA). Si tratta di rapporti elaborati dagli economisti dellaBanca per giudicare l’ambiente politico ed istituzionale (quindi anche economico) deiPaesi beneficiari dei diversi programmi di assistenza. In essi vengono forniti i criteri diaccesso dei Paesi più poveri ai prestiti IDA (International Development Association), ilramo della Banca che presta ai paesi più poveri. Sulla base di questi criteri, l’istituzionestabilisce se il paese in questione potrà o meno usufruire di ulteriori prestiti. Da essisono tratte anche le priorità per i Country Assistance Strategy elaborati sempre dallaBanca mondiale che possono risultare molto differenti dai Poverty Reduction StretegyPaper scritti dai Paesi beneficiari. Molti dei criteri di valutazione presenti nei CPIAs sonodi carattere commerciale e di investimento. Essi sono strettamente legati al giudizio dirating del Paese beneficiario e più sono alti gli ostacoli di natura tariffaria o non tariffa-ria, ad esempio, nel settore del commercio, più è bassa la valutazione e quindi la proba-bilità di ottenere prestiti. Non si tratta quindi di condizionalità in senso stretto legate aiprestiti, ma l’effetto è lo stesso ed è chiaro che il Paese beneficiario che mira ad ottene-re gli aiuti cercherà di avere un “tasso di rating alto” nelle valutazione della Banca mon-diale e quindi a seguire le indicazioni a liberalizzare dell’istituzione.

6 AIUTI PER QUALE COMMERCIO?

Le problematiche conseguenti alle liberalizzazioni accelerate dei Paesi del Sudsono molte, complesse e sicuramente non bastano gli aiuti previsti a risolver-li. Facendo riferimento all’Africa, stiamo parlando di economie principalmen-te agricole, su piccola scala, orientate ai mercati locali e regionali, non certo aquello internazionale. Lo sviluppo di infrastrutture e l’aumento delle capacitàproduttive è necessario, ma essi devono essere funzionali alla crescita di unmercato interno e regionale, l’obiettivo primo dei piccoli produttori africani. Ilproblema, quindi, non è tanto “più aiuti al commercio”, quanto “aiuti perquale tipo di commercio?”. Altrimenti anche un flusso consistente di risorse sirisolverà in un investimento che porterà profitto ai Paesi donatori e costi per isupposti beneficiari. Di fronte al cronico deficit di risorse dei Paesi donatori,

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c’è il rischio che gli aiuti al commercio drenino risorse da altre voci degli aiuti,piuttosto che risultare complementari e aggiuntivi come dovrebbero essere.Infine, non bisogna rischiare che il paravento degli aiuti mascheri il vero pro-blema: l’iniquità dell’attuale sistema commerciale internazionale.

AID FOR LOCAL TRADE: UNA PROPOSTA PER IL GOVERNO ITALIANO

Alcune organizzazioni della società civile (Campagna per la riforma della BancaMondiale, Crocevia e Fair) hanno avanzato al governo italiano una serie di raccomanda-zioni che dovrebbero seguire le politiche di aiuti al commercio del Paese. Esse afferma-no che gli aiuti dovranno:

– Essere addizionali e non sottratti ad altri programmi di assistenza, ad esempio nel set-tore dell’educazione e della sanità.

– Rispondere alle priorità del Paese beneficiario decise in sede locale con la partecipa-zione di tutti i soggetti coinvolti nei processi socio-economici.

– Collegarsi ad una più ampia politica di pianificazione nazionale e all’obiettivo di ridu-zione della povertà.

– Non essere soggetti a condizionalità macroeconomiche né “legati” all’acquisto dibeni o all’appalto di progetti alle imprese originarie del Paese donatore.

– Non essere “merce di scambio” per l’imposizione di accordi di libero scambio a livellomultilaterale, regionale e bilaterale.

– Essere prevedibili, adeguati in termini di volumi e soggetti a meccanismi di monito-raggio per verificarne l’efficacia.

– Promuovere meccanismi alternativi ai processi di liberalizzazione commerciale, attra-verso il sostegno all’economia locale, a politiche di gestione dell’offerta, sviluppo dimercati locali e regionali e modelli di sviluppo economico sostenibili dal punto divista sociale e ambientale ed orientati prioritariamente al soddisfacimento dei biso-gni interni.

– Contribuire a ridurre il divario interno tra ricchezza e povertà.

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PER SAPERNE DI PIÙ

Siti webFair www.faircoop.itInstitute for Agriculture and Trade Policy (IATP) www.iatp.orgChristian Aid www.christianaid.orgWorld Trade Organization www.wto.orgOrganizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE)www.oecd.orgSbilanciamoci www.sbilanciamoci.org

Libri e documentiChristian Aid, “The opportunities and Risks of Aid for Trade”, Christian AidBriefing, Settembre 2007IATP, “Can aid fix trade? Assessing the WTO’s Aid for Trade Agenda”, Settembre2006WTO/OCSE, “Aid for Trade at a Glance 2007”, 2007Sbilanciamoci, “Libro Bianco 2007 sulle politiche publiche di cooperazione allosviluppo in Italia”, giugno 2007

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121CONCLUSIONI

CONCLUSIONI

Alla fine della nostra analisi del ruolo che un grande attore di sviluppo comel’Ue svolge in Africa, in sostanziale continuità con le politiche della Bancamondiale e del Fondo monetario internazionale, crediamo sia utile trarre alcu-ne conclusioni. Gli Accordi di Partenariato Economico rappresentano infattiun esempio paradigmatico dell’accelerazione neoliberista impressa alla politi-ca di sviluppo europea. Nonostante le dichiarazioni e i principi di coerenza piùvolte espressi ed elaborati in sede comunitaria, lo sviluppo dei Paesi poveririsulta essere una variabile dipendente degli interessi economici del vecchiocontinente.

La firma degli attuali accordi EPAs non rappresenta, come vorrebbe far crede-re la Commissione, alcun storico “passo in avanti” nella costituzione di unreale “partenariato tra uguali” tra i due continenti. Gli EPAs purtroppo porta-no con sé il retaggio neo-coloniale del passato, ovvero la retorica dello svilup-po attraverso il commercio e gli aiuti, divenendo la cartina di tornasole diun’accresciuta aggressività negoziale europea nei confronti di un’area del pia-neta come l’Africa povera e con mercati ristretti, ma ricca di risorse su cui tuttele grandi potenze economiche, inclusa l’Europa, vogliono mettere le mani.

Il proliferare di accordi commerciali regionali rappresenta una svolta preoccu-pante a livello internazionale, una forzatura verso liberalizzazioni sempre piùprofonde in materia commerciale. Gli accordi EPAs si inseriscono all’interno diun processo di cambiamento del quadro economico mondiale determinato inparticolare dalla crisi del sistema multilaterale che governa il libero commer-cio, ovvero dei negoziati all’interno della OMC. Sono ormai due anni che l’a-genda del Doha Round è ferma sulla contrapposizione di interessi tra vecchie,Unione europea e Stati Uniti, e nuove, Brasile e India, potenze economiche. Adesse va aggiunto il colosso cinese le cui dinamiche di sviluppo economico e diespansione commerciale sfidano frontalmente la tenuta del sistema di gover-nance economica mondiale. Il vecchio sistema di dominio esclusivo della tria-

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de Giappone-Usa-Ue, che ha governato il sistema commerciale mondiale deldopo Guerra Fredda, favorendo la nascita della OMC, viene oggi messo indiscussione dall’affermarsi di economie emergenti con interessi commercialialtrettanto offensivi, che hanno spinto Europa e Stati Uniti a cercare di ottene-re bilateralmente ciò che non riescono più ad ottenere sul tavolo multilateraledella OMC. La corsa agli RTA (Regional Trade Agreement) da parte europea èil segno evidente del timore provocato da un’accresciuta concorrenza a livellomondiale e dal conseguente rischio di perdere quote di mercato e opportunitàdi approvvigionamento di materie prime.

L’Africa è divenuta così terreno di scontro di interessi tra vecchie e nuovepotenze, tutte parimenti interessate ad assicurarsi rapporti commerciali esclu-sivi con i diversi paesi del continente, soprattutto con quelli più ricchi di risor-se naturali. Petrolio, legname, minerali, biodiversità, ma anche enormi riserved’acqua e di potenziale energetico di cui tutti hanno sete, senza alcuna consi-derazione per le ricadute economiche, sociali e ambientali degli investimentiindirizzati in questi settori per una regione in cui vive la maggioranza dei piùpoveri del pianeta. L’entrata di nuovi grandi donatori come la Cina, offre aigoverni africani un potere negoziale maggiore,senza distinguersi nel metodo,ovvero nella logica predatoria con cui operano tanto le nuove quanto le vec-chie potenze in Africa.

Gli Interim Market Access Agreement conclusi tra l’UE e diversi paesi ACPhanno rappresentato un compromesso rispetto alle aspettative che il Consiglioeuropeo aveva affidato attraverso un mandato negoziale specifico ai tecnocra-ti della Ue. Un compromesso che nulla toglie alla profonda preoccupazione pergli impatti che tali accordi avranno non solo oggi ma soprattutto in futuro sugliACP, cancellando ogni prospettiva di uno sviluppo autonomo di questi Paesi.Infatti, oltre agli impatti di breve periodo che abbiamo analizzato nello speci-fico, l’apertura dei mercati porta con sé una notevole riduzione dello spaziopolitico, ovvero della possibilità di intervento dei governi a sostegno della pro-pria economia in fasi di particolare crisi o di delicati passaggi nel proprio pro-cesso di sviluppo. Un esempio di ciò, sotto gli occhi di tutti in questi mesi, èrappresentato dal forte rialzo del prezzo delle materie prime agricole. Un feno-

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123CONCLUSIONI

meno globale che colpisce moltissimi Paesi africani, molti dei quali importato-ri netti di materie prime agricole e di prodotti alimentari. Questi, in seguitoall’implementazione di politiche di aggiustamento strutturale e dell’adozionedelle regole della OMC, hanno smantellato ogni strumento di natura tariffariae non tariffaria che permetteva loro di garantire la stabilità dei mercati internie proteggerli dagli shock dei mercati internazionali. L’impossibilità di utilizza-re sussidi, di intervenire sui prezzi, di proteggere con tariffe il mercato interno,assieme alla maggiore dipendenza dal mercato internazionale determinata daiprocessi di liberalizzazione, sono un chiaro esempio di perdita di sovranitàpolitica le cui conseguenze ricadono completamente sulle popolazioni povere.

Non è questo a nostro avviso il modo in cui il commercio e gli investimentipossono sostenere lo sviluppo. Che il libero commercio di per sé non porti svi-luppo è ormai ampiamente dimostrato dai risultati di venti anni di politiche diaggiustamento strutturale e dieci anni di vita della OMC. Il commercio, comegli investimenti, sono due variabili importanti del processo di sviluppo, manon ne determinano automaticamente alcun esito positivo. Anzi, se non ven-gono ben tarati sui contesti specifici di ogni Paese, e vincolati ad obiettivi eco-nomici, sociali e ambientali, possono diventare un freno al processo di svilup-po. E questo è ciò che si verificherà nei Paesi ACP. Alcune élite economiche,spesso sostenute dai capitali stranieri, di quei Paesi potranno beneficiare di unmaggiore accesso al mercato europeo, ma moltissimi altri, la maggioranza, per-deranno proprio a causa dell’aumento delle importazioni dall’Europa. In ognicaso il modello di sviluppo attraverso le esportazioni non porterà ad alcunrisultato in termini di sviluppo umano e sostenibile e di riduzione dellapovertà.

La battaglia che la società civile europea, ma soprattutto ACP, ha portato avan-ti in questi anni sugli EPAs ha permesso di parlare di commercio e sviluppo dauna prospettiva che vuole essere alternativa e che supera la tradizionale dico-tomia, utile solo ai detrattori di un pensiero critico, tra liberismo e protezioni-smo. Il nodo centrale per noi è lo sviluppo. Esiste un commercio che può lavo-rare a sostegno di esso e questo commercio è in primo luogo quello che dà l’op-portunità di costruire mercati locali che nel caso specifico dell’agricoltura sono

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di vitale importanza per milioni e milioni di piccoli produttori. Per far questoè necessaria più cooperazione e meno competizione. E per cooperazione nonintendiamo solamente maggiori e migliori aiuti allo sviluppo, ma anche unadecisa volontà politica in questo senso, che si trasla nell’istituzione di un siste-ma di regole internazionale veramente al servizio dello sviluppo dei Paesi piùpoveri.

Questo è mancato finora nella partita degli EPAs. Pur avendo registrato in sedeeuropea una certa sensibilità portata avanti da alcuni ministri dello sviluppo,che affermavano la necessità di rispettare gli obiettivi di sviluppo degli EPA, allafine ha vinto la realpolitik di una Commissione, e nello specifico delCommissario al commercio Peter Mandelson, che qualcosa a casa in termini dirisultati politici del proprio mandato doveva necessariamente portare. In realtàle questioni ancora aperte sono molte. La società civile e i nuovi attori della coo-perazione possono giocare un ruolo fondamentale nel fare in modo che i prin-cipi di giustizia economica e sociale ritornino al centro dei negoziati, mettendofine alla corsa alle risorse del continente africano. A ognuno di noi la scelta:diventare protagonisti o rimanere passivi spettatori di questo saccheggio.

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125RINGRAZIAMENTI

SI RINGRAZIANO:

Roberto Antonaz, Assessore all’Istruzione, Cultura, Sport e Pace della RegioneFriuli Venezia Giulia. Il Servizio Politiche della Pace, Solidarietà,Associazionismo della Regione Friuli Venezia Giulia. Silvano Buttignon,Presidente del Coordinamento Regionale Enti Locali per la Pace ed i Diritti Umanidel Friuli Venezia Giulia (CRELP FVG). Irma Domenica Dioli, Assessora allaPace e alla Cooperazione internazionale e Partecipazione della Provincia diMilano. Claudio Donneschi, Assessore alla Comunicazione, Partecipazione,Coordinamento delle Associazioni e del Volontariato, Cooperazione e Scambi inter-nazionali del Comune di Rezzato. Mariella Foresti, Vice-sindaco e Assessora allaCultura Pubblica Istruzione, Formazione e Pari Opportunità del Comune diRezzato. Il Settore Politiche Sociali del Comune di Rezzato. Marko Marincic,Assessore agli Affari internazionali e alla Pace della Provincia di Gorizia. Ufficioper la Pace della Provincia di Gorizia. Anna Rozza, Assessora alle Politichesociali, alla Pace, alla Cooperazione internazionale della Provincia di Cremona.Rita Zanutel, Assessora alla Pace e alla Cooperazione internazionale dellaProvincia di Venezia. Il Settore Sport e Politiche Sociali della Provincia diVenezia. Il Consiglio Provinciale della Provincia di Trieste. Roberto Meregalli(Beati i Costruttori di Pace). Monica Di Sisto, Alberto Zoratti, Fair. AndreaBaranes, Antonio Tricarico, Caterina Amicucci, Luca Manes, Campagna perla Riforma della Banca Mondiale. Tom Kucharz, Ecologistas en Acción. BurghardIlge, BothEnds. Charly Poppe, Friends of the Earth Europe. Pol Vandevoort,11.11.11 - Belgio. Antonio Onorati (Crocevia). Nora Mc Keon (EuropAfrica).Giulio Sensi. Roberto Brancolini.

Con la collaborazione di:Carla Bottazzi, Valentina Bressan, Chiara Collini, Alessia De Colle, BeatriceGrosso, Angela Mozzo, Massimo Placchi, Massimiliano Reggi, Anna Rotondo,Giorgio Scomparin, Gloria Vidali, Paolo Zuliani.

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