Cracovia Francesco Galli QUANDO L’OCCHIO AVEVA LA...

9
Francesco Galli QUANDO L’OCCHIO AVEVA LA CODA Alcune fotografie che ho visto prima di avere vent’anni Buonasera, il mio intervento desidera raccontare e mostrare alcuni nodi dove i fili della mia avventura con la fotografia si sono ingarbugliati. Vi mostrerò ciò che ho recuperato dalla mia memoria, quegli incontri che ho avuto con una serie precisa di immagini, libri, fotografi che mi hanno portato a guardare la mia atti- vità professionale e di ricerca di volta in volta con una nuova prospettiva. Ho intitolato questo mio intervento Quando l’occhio aveva la coda perché vorrei tentare di individuare i nessi tra la mia pratica lavorativa e creativa – che ha una sua oggettività nei libri di tecnica, nei workshop, nell’autorevolezza dei grandi maestri, nelle regole da seguire per non sbagliare quando si fa una fotografia – e quel fiume sotterraneo dove scorrono le mie paure, il mio istinto, la mia ombra, insomma, la coda del mio occhio: quella parte di me stesso nascosta, che ha pau- ra o si vergogna di uscire dalla tana, ma che nel torpore del quotidiano esistere è desta, vigile e, quando è necessario, pronta a catturare. A parte l’ultima immagine che vedremo, sono andato alla ricerca di ciò che ho incontrato prima di avere vent’anni. 1. Alla ricerca del teatro perduto Vi prego di credermi, forse è solo un caso, ma inizierò con qualcosa che ha avuto origine in Polonia: si tratta della copertina del libro di un giovane regista italia- no, Eugenio Barba, che nei primi anni Sessanta era venuto qui in Polonia a studiare teatro. In quegli anni ha la fortuna di incontrare Jerzy Grotowski e di collaborare con lui come aiuto regista nel Teatro Laboratorio. Questo libro, Alla ricerca del teatro perduto. Una proposta dell’avanguardia polacca, fu pubblicato nel 1965 come resoconto di quell’esperienza e come primo passo per il più famoso testo Per un teatro povero del 1968. Non so quando precisamente mio padre comprò quel li- bro, ma ricordo ancora molto bene quanto da bambino mi metteva paura la copertina. Questa fotografia, per un terzo al negativo, mi terrificava. Io forse avevo quattro-cinque anni, erano i primi anni Settanta. Ero attratto e allo stesso tempo inorridito dall’immagine; non capivo il perché. Oggi potrei dire che proprio nella natura del negativo si cela la perico- losa seduzione della fotografia: il negativo è ombra, traccia, doppio, qualcosa che riproduce il reale ma nella direzione opposta rispetto alla mia percezione. Per un bambino essere attratto dalla propria paura è irresi- stibile. Per il mio settimo compleanno chiesi ed ottenni da mamma e papà la mia prima macchina fotografia. 2. W. Eugene Smith Tomoku Uenura nel bagno, 1972 Questa fotografia la vidi la prima volta a tredici anni in un libro di Geografia. Gli autori del testo scolastico erano ‘alternativi’ nei contenuti quanto nella scelta Cracovia 25 novembre 2011

Transcript of Cracovia Francesco Galli QUANDO L’OCCHIO AVEVA LA...

Page 1: Cracovia Francesco Galli QUANDO L’OCCHIO AVEVA LA CODAiiccracovia.esteri.it/iicmanager/sedi_resource_iic/... · tentare di individuare i nessi tra la mia pratica lavorativa e creativa

Francesco GalliQUANDO L’OCCHIO AVEVA LA CODAAlcune fotografie che ho visto prima di avere vent’anni

Buonasera, il mio intervento desidera raccontare e mostrare alcuni nodi dove i fili della mia avventura con la fotografia si sono ingarbugliati. Vi mostrerò ciò che ho recuperato dalla mia memoria, quegli incontri che ho avuto con una serie precisa di immagini, libri, fotografi che mi hanno portato a guardare la mia atti-vità professionale e di ricerca di volta in volta con una nuova prospettiva.

Ho intitolato questo mio intervento Quando l’occhio aveva la coda perché vorrei tentare di individuare i nessi tra la mia pratica lavorativa e creativa – che ha una sua oggettività nei libri di tecnica, nei workshop, nell’autorevolezza dei grandi maestri, nelle regole da seguire per non sbagliare quando si fa una fotografia – e quel fiume sotterraneo dove scorrono le mie paure, il mio istinto, la mia ombra, insomma, la coda del mio occhio: quella parte di me stesso nascosta, che ha pau-ra o si vergogna di uscire dalla tana, ma che nel torpore del quotidiano esistere è desta, vigile e, quando è necessario, pronta a catturare.

A parte l’ultima immagine che vedremo, sono andato alla ricerca di ciò che ho incontrato prima di avere vent’anni.

1. Alla ricerca del teatro perduto

Vi prego di credermi, forse è solo un caso, ma inizierò con qualcosa che ha avuto origine in Polonia: si tratta della copertina del libro di un giovane regista italia-

no, Eugenio Barba, che nei primi anni Sessanta era venuto qui in Polonia a studiare teatro. In quegli anni ha la fortuna di incontrare Jerzy Grotowski e di collaborare con lui come aiuto regista nel Teatro Laboratorio. Questo libro, Alla ricerca del teatro perduto. Una proposta dell’avanguardia polacca, fu pubblicato nel 1965 come resoconto di quell’esperienza e come primo passo per il più famoso testo Per un teatro povero del 1968.

Non so quando precisamente mio padre comprò quel li-bro, ma ricordo ancora molto bene quanto da bambino mi metteva paura la copertina. Questa fotografia, per un terzo al negativo, mi terrificava. Io forse avevo quattro-cinque anni, erano i primi anni Settanta. Ero attratto e allo stesso tempo inorridito dall’immagine; non capivo il perché. Oggi potrei dire che proprio nella natura del negativo si cela la perico-losa seduzione della fotografia: il negativo è ombra, traccia, doppio, qualcosa che riproduce il reale ma nella direzione opposta rispetto alla mia percezione.

Per un bambino essere attratto dalla propria paura è irresi-stibile. Per il mio settimo compleanno chiesi ed ottenni da mamma e papà la mia prima macchina fotografia.

2. W. Eugene SmithTomoku Uenura nel bagno, 1972

Questa fotografia la vidi la prima volta a tredici anni in un libro di Geografia. Gli autori del testo scolastico erano ‘alternativi’ nei contenuti quanto nella scelta

Cracovia25 novembre 2011

Page 2: Cracovia Francesco Galli QUANDO L’OCCHIO AVEVA LA CODAiiccracovia.esteri.it/iicmanager/sedi_resource_iic/... · tentare di individuare i nessi tra la mia pratica lavorativa e creativa

dell’apparato iconografico. Par-lando del Giappone e dei rischi della forzata industrializzazione del paese, presentavano questa immagine di William Eugene Smith. Più tardi ebbi la possibi-lità di approfondire lo studio del grande fotografo statunitense, lessi le sue memorie, le sue lettere dove racconta di come stesse pian-gendo mentre riprendeva questa madre che lava sua figlia Tomuko affetta da una malattia degenera-tiva del sistema nervoso causata dall’inquinamento da mercurio nella città di Minamata. Allora, io – ragazzino che voleva salvare il mondo o distruggerlo – scoprii attraverso questa immagine che la macchina fo-tografica può essere una piccola, tenera, tenace voce che racconta le ingiustizie del mondo. Non ha la forza per sconfiggerle ma già il poter raccontarle segna l’inizio di un cambiamento.

Anni dopo rivedendo questa fotografia vi trovai tutta una serie di ‘archetipi’ – l’elemento acqua, il rapporto tra il nero e la luce, il richiamo a La Pietà di Miche-langelo – che mi insegnarono come un’immagine che arriva al cuore trattenga in sé qualcosa di più antico di ciò che semplicemente mostra. è una memoria condivisa, un mondo di segni e forme che non possiede parole per esprimersi in maniera diretta ed univoca ma rimanda ad una sorta di sogno collettivo.

3. Tano D’amicoa. Napoli, 1985b. Bambina del campo di Deisha, 1990

Durante gli anni del liceo mi preparavo a fare il rivoluzionario. Organizzavo assemblee, scioperi nelle scuole, volantinaggi, cortei e manifestazioni con striscioni e bandiere.

Nel 1985 in tutta Italia ci fu un grande ritorno dei movimen-ti studenteschi dopo i feroci e violenti anni Settanta. Scoprii, sfogliando giornali e riviste, che c’era un fotografo che stava raccontando quelle giornate di mobilitazione del 1985 (a) con un occhio vicino al mio cuore.

Tano D’amico, adesso ha 69 anni, può essere considerato il fotografo dei movimenti che dagli anni Settanta ad oggi hanno lottato dentro le scuole, le università, le fabbriche, le periferie. Mi ricordo che, quando vivevo a Roma, spesso saltavo le miei lezioni universitarie: dalla facoltà di Architettura correvo a quella di Lettere dove Tano svolgeva degli incontri sulla fotografia di reportage.

Mi ricordo che una delle prime cose che mi disse è che un fotografo deve ritornare sui propri passi, non può abbandonare le situazioni, le persone, i luoghi dove è andato a ‘cogliere’ le sue immagini. Così ritornando dopo alcuni anni in un campo in Palestina, fotografato nel 1990 (b), Tano D’Amico passò a

a

Page 3: Cracovia Francesco Galli QUANDO L’OCCHIO AVEVA LA CODAiiccracovia.esteri.it/iicmanager/sedi_resource_iic/... · tentare di individuare i nessi tra la mia pratica lavorativa e creativa

trovare la famiglia dove aveva ripreso questa bambina e venne sapere che la ragazza non stava più lì, si era fatta esplodere. Era diventata la prima donna kamikaze palestinese. Ogni fotografia è l’ombra di un’esistenza.

4. I libri

Vicino al mio liceo, nella piccola città dove sono nato e ancora vivo, Viterbo, un libraio ambulante, Valter, vendeva a pochi soldi questa serie di fascicoli sui grandi maestri della fotografia. Attraverso queste pubblicazioni scoprivo nuovi autori, tec-niche, approcci, sguardi differenti. La qualità tipografica non era sempre buona ma di fronte a me si presentavano nuove costellazioni. Quella bancarella fu la mia scuola di fotografia. Comprendevo anche che i libri erano l’unica strada che avevo a disposizione per approfondire e studiare i grandi autori. Dato che vivevo in una piccola città di provincia, mi era difficile vedere mostre importanti e ancora l’editoria del settore non era diventata come quella di adesso.

Previlegiavo il genere del reportage, credendo fosse l’unico ad essere più vicino all’impegno, alla militanza, per il suo aderire alla realtà delle cose e degli eventi. Adesso che mi occupo di paesaggio, ritratto, teatro e architettura, vedo con uno sguardo più distante quella mia vecchia passione.

Presento adesso due autori che mi hanno fatto cambiare questa idea sul reporta-ge. Uso ora in una maniera forse troppo generica il termine reportage compren-dendo tutto quel mondo di fotografie che pongono la loro attenzione alla figura umana, descrivendone allo stesso tempo il contesto dove si trova e le relazioni tra il soggetto e l’ambiente che lo circonda.

b

Page 4: Cracovia Francesco Galli QUANDO L’OCCHIO AVEVA LA CODAiiccracovia.esteri.it/iicmanager/sedi_resource_iic/... · tentare di individuare i nessi tra la mia pratica lavorativa e creativa

5. Mario GiacomelliScanno, 1963

“Sotto la pelle del reale”

La famosissima fotografia di Mario Giacomelli Scanno del 1963 la vidi per la prima volta in uno dei libri comprati dal libraio ambulante di cui parlavo prima, che, tra parentesi, prima faceva il professore di lettere e poi cambiò attivi-tà e vita, mettendosi a vendere libri nelle strade e nelle piazze.

Questa fotografia di Giacomelli fu un incontro con un artista che affrontava la tecnica fotografica come un animale da domare che non sempre ubbidiva al suo padrone. Le sue stupende imma-gini potrebbero essere viste come una

serie di errori abborriti dai manuali per i bravi fotografi. Le sue immagini sono mosse, sfuocate, c’è troppo nero, troppo contrasto. Tutto quello che non biso-gnerebbe fare. Giacomelli ha fotografato gran parte della sua vita con la stessa camera, quando si rompeva la portava a riparare. Racconta pure che una volta, fotografando in Calabria una vecchia gli fece il malocchio e lui dovette portare la sua fotocamera da una fattucchiera perché non riusciva più a farla aggiustare. Ritornando a questa immagine, io la vedo come un brano di poesia, nelle sue pieghe ci sento Leopardi, Montale, Pasolini. è la trasformazione del reale in poesia. La luce e l’ombra, il bianco e il nero si fanno verso. Tutto è teneramente drammatico.

6. Josef Koudelka

Romania, 1968

Un’altra rivelazione fu per me Josef Koudelka, con i suoi viaggi, i suoi esili, con il suo eterno camminare: è un’ar-tista che il mondo lo misura a passi. Koudelka fu l’unico fotografo della Ma-gnum chiamato a partecipare ai funerali di Henri Cartier-Bresson e mi piace ricordare quella foto scattata dal grande francese al più giovane collega ceco: una figura che cammina, come una scultura di Giacometti.

L’immagine che vi presento, tratta dal lavoro sugli zingari che ha compiuto viaggiando e ricercando varie comunità sparse nei paesi del centro ed est Europa, mi riporta ad un mondo mitico, nel quale gli uomini potevano comunicare con gli animali e non c’erano barriere. Racconti e saghe delle culture indoeuropee hanno sognato un differente rappor-to tra uomo e natura. Mi vengono in mente Le Metamorfosi di Ovidio ma anche frammenti di storie più lontane dalla mia cultura, come quella indiana, o più vicine, come le nostre fiabe europee. Un grande fotografo italiano, Luigi Ghirri, che non ho fatto rientrare in questa scaletta perché, anche se lo incominciai a co-

Page 5: Cracovia Francesco Galli QUANDO L’OCCHIO AVEVA LA CODAiiccracovia.esteri.it/iicmanager/sedi_resource_iic/... · tentare di individuare i nessi tra la mia pratica lavorativa e creativa

noscere con la serie dei “Grandi fotografi”, a vent’anni ancora non lo capivo, era solito dire che la fotografia racconta una verità quando si mostra come enigma. Ghirri, applicando un’espressione di Giordano Bruno: “le immagini sono enig-mi”, pone a confronto due soggettività, due visioni: quella del fotografo e quella dell’osservatore della fotografia. Cioè, crea lo spazio mentale per un’immagine che diventi rappresentazione più che descrizione, appartienga al mondo dei pensieri e dei sogni. Questa fotografia di Koudelka per me è rimasta sempre un enigma mai risolto; non lo risolvevo quando la vedevo a 15 anni e, per fortuna, ancora oggi rimane tale.

7. Ugo Mulas

Lucio Fontana nel suo studio, 1964

La sequenza di Ugo Mulas che riprende Lucio Fontana mentre realizza uno dei suoi “tagli” viaggia su due sentieri differenti: quello che io posso vedere e quello che posso leggere nel testo che Mulas scrisse per accompagnare le immagini. Nel primo io credo a quello che vedo, attraverso il secondo mi rendo conto che è tutta una messa in scena. Lucio Fontana non voleva essere fotografato quando eseguiva i suoi tagli, allora l’artista e il fotografo si accordarono. Nell’ultima immagine la tela era già un’opera, non lo diviene davanti l’indiscreto obiettivo del fotografo come invece sono portato a credere vedendo esclusivamente le fotografie. L’effetto mosso che ha la mano con il taglierino mi porta a credere che l’artista stia realmente compiendo l’opera invece riproduce esclusivamente il gesto ormai incorporato. Facendo questa sostituzione nell’ultimo scatto, Fonta-na ha garantito la protezione della sua sfera creativa e Mulas riesce a rappresen-tare, più che descrivere, un processo di lavoro altrimenti inaccessibile ai suoi e ai nostri occhi. Questa sequenza mi ritorna in mente tutte le volte che trovo un ostacolo, una resistenza da parte del soggetto che vorrei riprendere. Non si tratta di arrivare al compromesso ma di essere in grado di costruire una rappresenta-zione. Scomponendo e ricomponendo gli elementi del reale posso costruire una drammaturgia per una nuova realtà, dove ciò che ho visto – o meglio, ho creduto di vedere – diventi racconto, sogno, teatro anche per altri occhi.

8. Charles Harbutt

Bambino cieco, New York, 1960

Mario Giacomelli usava l’espressione “sotto la pelle del reale” e sono famose le sue fotografie di vecchi nell’ospizio con la pelle grinzosa sotto il suo flash o i suoi paesaggi marchigiani di terra lavorata, scabra, ruvida.

Page 6: Cracovia Francesco Galli QUANDO L’OCCHIO AVEVA LA CODAiiccracovia.esteri.it/iicmanager/sedi_resource_iic/... · tentare di individuare i nessi tra la mia pratica lavorativa e creativa

Sotto la pelle di questa fotografia, per me ci sta mio padre che mi ha insegna-to a fotografare mentre lentamente diventava cieco. Adesso non ci vede completamente, scrive e legge grazie ad un computer. Mio padre mi ha educato alla luce. Non so come precisamente, ma mi ha insegnato a guardare parten-do dalla luce, dal suo scomparire, dal suo fondersi e confondersi con l’om-bra. Collego questo anche alla passione che mi ha passato per il teatro: pos-siamo vedere l’attore apparire, entrare in scena e ritornare al buio, un gioco dell’esistenza, la traccia di una illusio-ne. Insomma questa fotografia di Char-

les Harbutt scattata in una scuola di New York per ragazzi ciechi mi riportano al mondo dell’esperienza tattile, della ricerca del calore, come un bambino che appena nato cerca il tepore della pelle della madre quanto il latte.

Il fotografo Charles Harbutt, nei sopralluoghi precedenti lo scatto, aveva notato questo ragazzino che ogni giorno alla stessa ora aspettava il raggio di sole che riscaldava il muro. Per noi è solo un segno chiaro su uno sfondo scuro, per lui era una porta per aprire quella parete; sentiva la materia trasformarsi sotto le sue dita, schiudersi verso un’altra dimensione. Ecco, per me l’arte del fotografo è porre in contatto mondi sensoriali differenti, apparentemente lontani, costruire ponti con lo sguardo, mettere gli occhi sulla punta delle dita.

9. Henri Cartier-BressonBehind the Gare Saint-Lazare, Paris, 1932

L’inquadratura è verticale ma quella che si può considerare l’azione principale si svolge in orizzontale da sinistra verso destra: un uomo salta sopra uno specchio d’acqua. La figura risulta non definita, è mossa, così che suggerisce ancor meglio il movimento; inoltre è scura, non leggibile nei dettagli: è una sagoma. Lo specchio d’acqua comprende i due terzi del campo ripreso, nel restante si trovano, sotto un piatto e chiaro cielo, i profili delle coperture di alcuni edifici retrostanti. Il primo e il secondo ambiente sono separati da una cancellata, attraver-so questa si scorge un’altra figura che osserva l’uomo che sta saltando.

Ci sono altri particolari: nella pozza d’acqua giacciono tavole, blocchi di pietra (forse è un cantiere), tre fasce di metallo che hanno la forma di cerchi e semicerchi, una corta scala in legno servita all’uomo ora sospeso in aria come ultimo appoggio per il salto. La cancellata è per quasi metà occupata da alcuni manifesti, dove è possibile leggere a caratteri cubitali il nome “RAILOWSKY” e riconoscere la silhouette, nera su bianco, di un’agile e ideale danzatrice nel culmine di un salto con spaccata. La cancellata termina in alto con un serrato ritmo binario di punte alte e basse. Nel profilo superiore, tra i tetti si

scorge una torretta che contiene il quadrante di un orologio che sembra segnare le quattro. Entrambi gli uomini portano il cappello.

Page 7: Cracovia Francesco Galli QUANDO L’OCCHIO AVEVA LA CODAiiccracovia.esteri.it/iicmanager/sedi_resource_iic/... · tentare di individuare i nessi tra la mia pratica lavorativa e creativa

Gli indizi raccolti offrono questa fotografia come luogo letterario, la realtà oggettiva ripresa si traduce in proposizioni, è possibile “crederle” come fosse una messa in scena. Il potere del doppio, offerto dalla specularità della pozza d’ac-qua, ha delle eco:

nella presenza del secondo uomo, che, attraverso la cancellata sta guardando, e che mi porta subito a pensare che è proprio il suo atto di vedere a produrre il doppio, l’immagine virtuale;

nella silhouette della danzatrice, che oppone la sua ideale e leggera immagine del salto a quella pesante e goffa dell’uomo, così che nasce un accostamento tra il segno grafico proveniente da un mondo ideale e la figura umana che si ritiene appartenga alla realtà.

Tutto è come appeso ad un filo, si regge in un solo punto: il tacco della scarpa dell’uomo in volo. Non si può sfuggire all’irreparabile conclusione che avrà l’azione, la comune esperienza quotidiana non può far altro che prevedere l’ine-vitabile fine. Il grave signore con la bombetta ha la strada segnata e non solo farà svanire il suo riflesso nella pozza ma manderà in pezzi l’intera immagine.

Il ritmo serrato della cancellata, che struttura e contiene l’azione, porta a scandire il tempo in piccole frazioni. Tra l’azione colta nel suo consumarsi e la momentanea sospensione dell’indubbia conclusione si percepisce il tempo che, come il mondo, è ciò che accade. L’elemento primordiale e archetipo dell’acqua diviene in questa immagine sia spazio fisico che sua rappresentazione: crea la vita e contemporaneamente le sue illusioni.

La vera protagonista di questa immagine è la mia percezione. I miei occhi, ingannati ad arte, intavedono tempo e spazio congiunti in quella piccola, fragile porzione di fotografia tra la scarpa dell’uomo e lo specchio d’acqua. L’illusione che tutto questo sia vero mi permette dialogare con quella parte di me disposta a credere che l’inevitabile non sia ancora accaduto e che quella figura sia ancora lì, sospesa sopra l’abisso.

10. AncestorsTagliare ovvero il selvaggio in me

Una volta un professore mi chiese come io, da fotografo, “leggessi” una fotografia. Non credo che il termine “lettura” sia corretto per avvicinarsi alla natura delle immagini foto-grafiche perché quando guardo una fotografia entrano in gioco parti della mia percezione e della mia sensibilità non “alfabetizzate”.

Tempo fa un cugino di mio padre mi ha dato una fotografia di famiglia chiedendomi di fotografarla, ritoccarla e stam-parla per tutti i nostri parenti. Io ho sempre avuto un forte distacco, e forse anche antipatia, per quel genere di foto-grafie di famiglia dove si vedono i propri avi, si scoprono somiglianze e si alimenta la linfa del nostro albero genealo-gico con nuovo nostalgico affetto. Questa immagine, però, mi ha conquistato. Vi è ritratto il padre di mia nonna ancora prima che lei nascesse. Assieme al mio bisnonno sono ritratti i suoi primi due figli maschi. La fotografia è stata scattata nella bottega da calzolai che la famiglia aveva in una citta-dina nello Stato di New York dove erano emigrati nei primi

Page 8: Cracovia Francesco Galli QUANDO L’OCCHIO AVEVA LA CODAiiccracovia.esteri.it/iicmanager/sedi_resource_iic/... · tentare di individuare i nessi tra la mia pratica lavorativa e creativa

anni del 900. Mia nonna è nata nel 1920, dopo il loro rientro in Italia, quindi, l’immagine è anteriore a quella data.

La figura del capo famiglia è intera, posta sulla destra dell’immagine; ha i baffi, il lungo grembiule da lavoro, lo sguardo diretto ma distratto verso l’obiettivo, le mani in tasca. A sinistra dietro il bancone ci sono i due figli. Il loro presentarsi solo con il busto, li colloca subito gerarchicamente su di un altro piano rispetto al padre. In alto, sopra l’antenato, parte dal soffitto offre una grande e pragma-tica scritta “Quick Shoe Repairing”. Grandi rotoli di cuoio sono accostati al bancone e scarpe di tutte le fogge riempiono gli scaffali alle pareti.

Pochi anni dopo il rientro in patria Domenico Pacifici, il mio bisnonno, morì in seguito alle percosse ricevute da una squadraccia di fascisti. Non era schierato politicamente né era manifestamente contro il regime ma si era solo rifiutato di prendere la tessera del partito. La famiglia andò in disgrazia e tutti i figli maschi dovettero ripartire nuovamente per cercare fortuna come emigranti.

Questa è una rapida descrizione della fotografia con qualche accenno a date e storia, ma la cosa che più mi colpisce nell’immagine, oltre alla somiglianza tra il suo protagonista e mio padre, è un taglio, un strappo che la monca a sinistra. L’ingiallita stampa fotografica è incollata su uno spesso cartone, ormai di un co-lore indefinibile, chiazzato, rigato, con tanto di timbro sul retro recitante: “Got your framing and enlarge done 25% less at SIMNOET & CO. 8 FRANELIN ARCADE WATERTOWN N.Y.”, la traccia dell’autore dell’immagine, un mio collega dello scorso secolo in terra americana.

Lo strappo ha coinvolto anche il resistente supporto. Non è stato, quindi, ca-suale ma un atto preciso e volontario. Dalla parte mancante, probabilmente un terzo dell’intero fotogramma, proviene un braccio di qualcuno che stava dietro il bancone accanto ai due figli, la cui mano va a poggiarsi sulla ruota di un macchi-nario tra una serrata fila di scarpe appaiate. Io non so chi sia il misterioso uomo censurato. Posso immaginare che sia stato un socio della bottega, qualcuno che poi non è stato più gradito alla famiglia. Ed è stato ‘ucciso’ attraverso lo strappo.

Ecco, è stato proprio questo segno, questo taglio a svelarmi una parte nasco-sta, un carattere della mia famiglia. Miglior ritratto di famiglia non ci sarebbe potuto essere. Ritrovo in quel gesto - rapido quanto lo scatto di una foto - alcuni atteggiamenti di mia nonna, di mio padre e pensandoci bene anche miei. Mi permette di rivivere situazioni della mia vita, azioni o prese di posizioni nelle quali ho tentato di strappare, chiudere un rapporto con un taglio netto.

Tutto questo per dire che per me la parte più profonda e vera di questa fotogra-fia è questo suo taglio, che sa comunicare con la mia ombra, il mio lato oscuro, non alfabetizzato.

Concludendo, ritengo che le fotografie vivono di segni appartenenti ad una lingua nera, sconosciuta, muta e sotterranea non decifrabile come vorremmo. Vorrei che l’illetterato selvaggio dentro di me possa continuare a guardare e ad avere paura delle immagini.

Francesco Galli

Page 9: Cracovia Francesco Galli QUANDO L’OCCHIO AVEVA LA CODAiiccracovia.esteri.it/iicmanager/sedi_resource_iic/... · tentare di individuare i nessi tra la mia pratica lavorativa e creativa

Questi sono gli appunti per l’incontro-conferenza del 25 novembre 2011, svoltosi nella Galeria Pauza di Cracovia in occasione della chiusura della mostra per il Padiglione Italia nel Mondo della 54 ° Biennale di Venezia. La tradu-zione simultanea dall’italiano al polacco è stata di Katarzyna Wozniak. L’incontro è stato organizzato dall’Istituto Italiano di Cultura di Cracovia e da Warsztaty Sztuki Fotografii. La mostra, allestita dal 4 giugno - 27 novembre 2011 presso l’Istituto Italiano di Cultura di Cracovia, è stata a cura della Direttrice Clara Celati.

Elenco delle immagini presentate:

1. Copertina de Alla ricerca del teatro perduto, Eugenio Barba, Marsilio, Venezia, 1965;

2. W. Eugene Smith, Tomoku Uenura nel bagno, 1972;

3. Tano D’amico,

a. Napoli, 1985

b. Bambina del campo di Deisha, 1990;

4. Alcune copertine della serie “I grandi fotografi”, Fabbri Editori;

5. Mario Giacomelli, Scanno, 1963;

6. Josef Koudelka, Romania, 1968;

7. Ugo Mulas, Lucio Fontana nel suo studio, 1964;

8. Charles Harbutt, Bambino cieco, New York, 1960;

9. Henri Cartier-Bresson, Behind the Gare Saint-Lazare, Paris, 1932;

10. Ancestors, by SIMNOET & CO. Watertown NY, primi del XX.