Cos’è Una Società

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Valerio Romitelli Etnografia del pensiero ipotesi e ricerche Contributi di Marta Alaimo, Mirco Degli Esposti, Anna Laura Diaco, Anne Duhin, Laura Filippini, Sebastiano Miele, Erika Peruzzi, Franca Tarozzi Dato che questo testo si rivolge anche a neofiti delle ricerche sociali c... http://66.71.178.156/Materiali didattici/Romitelli/IPOTESI[1].htm 1 di 51 04/06/2014 9.09

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Valerio Romitelli

Etnografia del pensieroipotesi e ricerche

Contributi di

Marta Alaimo, Mirco Degli Esposti, Anna Laura Diaco, AnneDuhin, Laura Filippini, Sebastiano Miele, Erika Peruzzi, FrancaTarozzi

Dato che questo testo si rivolge anche a neofiti delle ricerche sociali c... http://66.71.178.156/Materiali didattici/Romitelli/IPOTESI[1].htm

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INDICE Valerio Romitelli, Etnografia del pensiero I. QUATTRO IPOTESIII. TRE DOMANDE: a) b) c)III. LE RISPOSTE PIÙ RICORRENTIIV. RISPOSTE CLASSICHE1. Il classismoa)b)c)2. L’evoluzionismoa)b)c)3. Definire, per conoscere quale sociale?a)b)c)4. L’ideale dei tipi idealia)b)c)5. Il funzionalismo e i suoi paradossia)b)c)6. L’etnografia statunitensea)b)c)V. RISPOSTE RECENTIa)1.Il linguaggio come strumento1.1 anche Stalin sulla linguistica1.2 l’interazionismo simbolico1.3 l’etnometodologia2.Il linguaggio strutturante2.1 l’Edipo2.2 equivocità del tempo3.Il linguaggio come risorsa3.1 linguaggio e pensiero3.2 performance o prescrizione?4.Segni ovunque4.1 la semiotica alla moda4.2 Il ritorno del sistema5.Dalla comunicazione alle comunità5.1 Doni non richiesti5.2 Identità o soggettività?b)1. I Partiti, il linguaggio, la guerra2 Scienze sociali e regimi politici3 Il Sessantotto e le sue conseguenzec)Questioni di metodo: discorsi o parole?VI. LE NOSTRE RISPOSTE1 Il dualismo delle scienze sociali2 Prescrizioni per la ricerca2.1 Ricerche sociologiche sui governanti2.2 Ricerche etnografiche tra i governati

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Ricerche Valerio Romitelli, Più possibilità di vivere. Gli utenti dello sportello Cgil per lavoratori stranieri Marta Alaimo, Valerio Romitelli, Un scuola diversa dalle solite. I ragazzi del Nuovo Obbligo Formativo Mirco Degli Esposti, Una fabbrica da rifare e La qualità del lavoro. Gli operai della Bredamenarinibus e della B.T. Cesab diBologna Anne Duhin, Anche al lavoro pensare, dire quello che si pensa. Gli operai della Bonfiglioli di BolognaAnnesso: Da operaio a operaio di V. R. Laura Filippini, Una benevola forma di egoismo. I volontari della Casa dei Risvegli Marta Alaimo, Franca Tarozzi, Il senso della fabbrica. Gli operai della Marcegaglia di Ravenna Anna Laura Diaco, Sebastiano Miele, Erika Peruzzi, Sarebbe il lavoro del futuro. Un’inchiesta tra i lavoratori della cooperativasociale Cadiai

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I. QUATTRO IPOTESI Le ricerche qui raccolte sono state compiute nell’arco degli ultimi cinque anni. Esse non solo si sono svolte in luoghi, trapopolazioni e con soggetti tra loro diversi, ma sono anche avvenute seguendo impostazioni problematiche nonché metodologiche traloro non del tutto omogenee. Tuttavia, il leit motif c’è ed è stato ben certo fin dal loro inizio, anche se si è venuto chiarendo eprecisando strada facendo. Con la pubblicazione di questa raccolta i loro autori hanno anche deciso che fosse venuto il momento diprovare ad esplicitare quali siano le convinzioni comuni che hanno ispirato le loro inchieste. A me che, bene o male, ho seguito davicino ciascuno di questi lavori è spettato il compito di introdurli per provare a fare il punto sul senso da essi condiviso. A tal scopopropongo delle ipotesi metodologiche che rispondono ad alcune delle più importanti questioni presenti tra le scienze sociali.Dichiarando subito che la loro ispirazione viene dall’antropologia di Sylvain Lazarus e dal Gram (Groupe de Recherche de

l’Anthropologie de la Modernité)[1] da lui diretto,riassumo tali ipotesi in questi quattro enunciati:I- chiunque può pensare;II- per conoscere la realtà sociale occorre pensare il pensiero altrui;III- occorre sempre distinguere due realtà sociali: quella che è governata da un qualche potere e quella che è resa possibile

da chi potere non ha[2];IV- per conoscere quest’ultima realtà la ricerca sociale può evitare ogni linguaggio da specialisti ovvero ogni

metalinguaggio. Questi enunciati saranno in seguito più estesamente spiegati. Ora, un breve commento di ciascuno. I• Dire che “chiunque può pensare” significa escludere che il pensiero sia appannaggio di chi può rivendicare titoli di sapere o dipotere, da esperto o da responsabile autorizzato. “Chiunque” qui vuol dire anche chi “non è nessuno”, chi non ha alcuna qualifica ocompetenza per prendere decisioni riguardo alla propria condizione. Che anche in tale condizione di soggezione si possa semprepensare, che ciò effettivamente avvenga e che ciò costituisca un’abbondantissima fetta della realtà sociale: tutti questi mi paiono datiincontestabili di cui molte ricerche sociali ancora non tengono in debito conto. II• Dire che “per conoscere la realtà sociale occorre pensare il pensiero altrui” significa escludere che la realtà sociale sia sempreda ricercarsi “dietro” ciò che gli altri pensano, come una causa oggettiva o forza naturale che spingerebbe dalle spalle ogni altro eche unicamente “io” ricercatore sociale sarei in grado di vedere. Ogni ricercatore sociale è sempre inevitabilmente un “io”, un

soggetto cartesiano, un soggetto di scienza, come lo chiamava Jacques Lacan[3]. Ma proprio per essere degno di questo nome nonpuò non ammettere, come del resto faceva a suo modo George Mead, riconosciuto padre dell’interazionismo simbolico, che non c’èrealtà sociale che non risulti dal rapporto col pensiero altrui.

III• Questo terzo enunciato significa ammettere che in ogni realtà sociale (come ad esempio una fabbrica[4] o un servizio sociale[5])c’è sempre chi la governa (manager o funzionari, ad esempio) e chi è governato (operai o operatori sociali, ad esempio), masignifica anche che le questioni di governo non esauriscono tutto ciò che si può conoscere di tale realtà. Di più, che quest’ultima è

del tutto diversa per chi non la governa e invece ne fa esperienza senza disporre di alcun potere né sapere come averne[6] (comeappunto operai o operatori sociali). Se per conoscere la realtà sociale da governare occorre conoscere anzitutto le necessità di chiha potere e sapere (politici, manager o funzionari), per conoscere la realtà di chi non ha potere né sapere (che è il compitoprincipale delle nostre ricerche), occorre anzitutto pensare il pensiero di chi (operai o operatori sociali) si rende possibile talerealtà. Tutto ciò implica, per esempio, assumere in modo assai particolare l’obbiettivo sempre più spesso fatto proprio dalle scienzesociali di “fornire consigli per buone prassi di politica sociale”. Come si vedrà, anche in alcune delle nostre inchieste ci si è posto ilproblema di fornire tali “consigli”, ma non mettendosi dal punto di vista della governabilità della situazione in cui l’inchiesta è statacondotta; bensì cercando anzitutto di fare parlare il pensiero di chi è governato e lasciando a chi governa la responsabilità di trarnele proprie conseguenze. Proprio perciò, al posto dei “consigli”, che servono se rivolti a chi ha il potere di applicarli, preferiamo

parlare di “prescrizioni” [7], che valgono per chiunque. IV• É proprio per potere pensare e far parlare il pensiero di altri, senza potere, né sapere, che viene proposto il quarto enunciato.Rinunciare a qualsiasi linguaggio da esperto è infatti condizione necessaria per porsi sullo stesso piano di chiunque. Molte scienzesociali non ammettono questa possibilità. Sostengono che ogni ricercatore sociale degno di questo nome è un esperto, e quindi nonpuò non parlare e pensare secondo un suo linguaggio diverso da quelli che incontra, specie se senza alcuna specifica qualifica.Rispetto a ciò, io non dico che il ricercatore sociale debba rimuovere il suo sapere, dico invece che può evitare di fissare questo suosapere in definizioni, discorsi, modelli che rendono il suo linguaggio un linguaggio tecnico, da esperti, ossia un metalinguaggio: unlinguaggio che traduce, decodifica quello degli altri. Il pregiudizio secondo il quale ciò non sarebbe possibile si fonda sull’idea chetra il linguaggio scientifico e quello comune la differenza sia insormontabile. Il che è certamente e necessariamente vero nellamaggioranza degli ambiti della conoscenza scientifica (soprattutto in tutti quelli matematizzati come ad esempio la fisica, la chimicae finanche la linguistica, l’economia politica o la sociologia fondata sulla statistica), ma può non esserlo nelle ricerche sociali ditipo etnografico riguardanti ciò che chiamiamo il pensiero altrui. Qui sta una delle maggiori singolarità del nostro metodo: che sipossa far scienza, cioè che si possa raggiungere una conoscenza sistematica, infinitamente trasmissibile, ripetibile in altre esperienzedi ricerca, pur mantenendosi in un linguaggio comune. Basilare a questo proposito è tenere conto di un assunto già altrimenti noto, ma

che nel Novecento gli studi sul linguaggio, non ultimi quelli della grammatica generativa di Noam Chomsky[8], hanno quanto maiconfermato: che l’infinita varietà dei linguaggi non esclude una loro omogeneità fondamentale; in altre parole, che il linguaggio perquanto sia complesso e differenziato a seconda dei suoi usi nelle diverse lingue, società ed esperienze possibili (da quelle più

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comuni a quelle artistiche, da quelle scientifiche a quelle politiche, e così via) può sempre essere pensato come un unico linguaggio.

È questa una delle considerazioni essenziali contenute in un saggio di Clifford Geertz di una trentina di anni fa[9]; un saggio, il qualearriva alla conclusione che sia possibile un’etnografia del pensiero: del pensiero ovunque, comunque e da chiunque possa essere

elaborato[10].Questo saggio mantiene l’idea che l’etnografia in quanto scienza debba interpretare e tradurre a suo modo pensiero e linguaggioaltrui. Io mi spingo invece fino a sostenere che l’etnografo possa pensare e parlare come chiunque, restando all’interno dellediversità e delle somiglianze che chiunque ha rispetto a chiunque altro, senza per questo dovere per forza derogare al suo compito difar scienza. Per spiegare come ciò sia possibile non trovo nulla di meglio che anticipare alcuni risultati delle nostre inchieste. Essiconsistono soprattutto nel far brillare di luce propria le parole dei nostri interpellati, ad esempio, operai/e e operatori/trici sociali.Ebbene cosa dicono questi soggetti?Cito giusto una frase degli operai della Marcegaglia, fabbrica metalsiderurgica ravennate in un impetuoso sviluppo incontrotendenza, ma tormentata da continui incidenti, al punto dal provocare un’inchiesta della magistratura che ha finito per farsaltare la direzione aziendale precedente all’attuale. La frase di questi operai che qui porto ad esempio è “la sicurezza siamo noi!”.È, questo, un enunciato che per me merita già di essere presentato come un enunciato di portata scientifica. Per comprenderecompiutamente in che senso basta leggere il rapporto d’inchiesta più sotto riportato. Ma per quel che ora più interessa è sufficienteanticipare alcune delle ampie e complesse implicazioni di tale enunciato. Anzitutto, dicendo “la sicurezza siamo noi” gli operaidella Marcegaglia dicono che l’antidoto fondamentale contro gli incidenti non sta né in una maggior o migliore formazione, né nelpuro e semplice rispetto delle norme di sicurezza, né negli interventi dell’Ispettorato del lavoro e neanche nel timore di inchiestegiudiziarie. Tutti questi aspetti, che pur gli operai ritengono importanti, a loro avviso, non sono decisivi quanto loro stessi: quanto ilfatto di essere loro stessi i primi depositari delle conoscenze che permettono di contenere gli incidenti. Il che, contrariamente aquanto potrebbe apparire ad un primo sguardo superficiale, non è affatto scontato, né privo di inedite conseguenze pratiche eteoriche. In effetti, la situazione quale risulta dalle parole degli operai intervistati appare inviluppata in una sorta di circolo vizioso:tanto più la fabbrica si espande rapidamente e recluta mano d’opera giovane ed inesperta, quanto più quest’ultima è esposta ai rischid’incidente e quindi è indotta a lasciare rapidamente il posto di lavoro: risultato: ininterrotte emorragie tra gli operai delleconoscenze dirette, di “prima mano” è proprio il caso di dire, dei macchinari e dei loro pericoli. Ecco quindi l’importanza e ladifficoltà di far fronte a tali emorragie: l’importanza di assumere la frase “la sicurezza siamo noi” come una prescrizione a cercaredei modi di far accumulare tra gli operai tali conoscenze di “prima mano”. Come organizzare nuovi corsi di formazione o nuovemodalità di affiancamento, come rendere trasmissibili e tramandabili i consigli da operaio ad operaio per far fronte al pericolo diincidenti sul lavoro: questi, alcuni dei fronti della sperimentazione scientifica, etnografica, e non certo privi di effetti pragmatici epolitici, aperti dall’enunciato “la sicurezza siamo noi”. Né si può certo dubitare che tali fronti siano del tutto privi del valore diuniversalità, di applicabilità in altri contesti, che è valore scientifico imprescindibile.

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II. TRE DOMANDE Pensare, parlare, scrivere come chiunque, facendo rientrare l’intento della conoscenza scientifica tra le differenze che chiunque harispetto a chiunque altro: questa è dunque l’ipotesi di fondo che l’etnografia del pensiero qui presentata sottopone a sperimentazione.A decidere dello stile di questo come dei successivi testi è stato dunque il pensiero di coloro ai quali ci rivolgiamo. Li si possonosuddividere in quattro categorie.Gli esperti in scienze sociali che si deve supporre ne sappiano infinitamente più di noi.I responsabili del governo dei luoghi dove, grazie al loro stesso aiuto, abbiamo condotto le nostre inchieste.I soggetti che sono stati da noi interpellati come gente senza potere e senza sapere, per quanto da qualche parte essi ne abbianosicuramente, e che ci hanno in vario modo confermato la nostra ipotesi di potere conoscere la realtà sociale attraverso il loropensiero.Infine, i soggetti che sono supposti saperne meno di noi e quindi volere apprendere da noi: tutti gli interessati, studenti universitaricompresi, a intraprendere ricerche sociali.Ma non si tratta, o non si tratta solo, di quattro settori di un possibile pubblico per il nostro libro (di quelli che risultano per esempiodai sondaggi d’opinione e dalle loro medie). Si tratta piuttosto dei quattro tipi di soggetti al cui centro sta per me il cuore della realtàsociale. Una realtà che, come spiegherò meglio più oltre, sta sempre all’incrocio di tre dimensioni: quella del sapere, acquisito e daacquisire, quella del potere, del potere di governo, e quella di chi non può e non sa, ma che rende possibile il rinnovarsi delsociale stesso. Un incrocio, che, come sempre si deve, per non creare scontri, richiede di essere sgombro da intralci, libero per idiversi attraversamenti, in questo caso, del pensiero. Per cui qui non si propone alcuna dottrina generale, alcun discorso, logica odialettica per la composizione, la sintesi o, peggio, lo scontro di queste diverse dimensioni, ma si tratta di alcune possibilità perfarle confrontare lasciando ad ognuna la propria autonomia di movimento.A tal scopo, la prima questione che mi sono posto è come spiegare quanto si sa o si deve sapere delle scienze sociali per capire inche rapporto rispetto ad esse si pongono le nostre ipotesi. In altri termini, quali sono gli antecedenti, tra sociologi, antropologi edetnografi, che il nostro approccio può rivendicare o respingere; quali le sue prossimità, quali le sue distanze, rispetto ai metodidella ricerca sociale già acquisti; quali i debiti di conoscenza che sono qui da dichiarare, quali i crediti che sono da richiedere pernostro conto.Per esporre tutto ciò in modo stringato e accessibile a qualunque lettore di buona volontà mi sono risolto a passare in rassegna alcunidei più noti approcci delle scienze sociali quasi fossero dei soggetti da intervistare.Li ho dunque affrontati tramite una sorta di miniquestionario: ponendo loro tre domande con le quali chiunque si interessi al sociale,da esperto o da non esperto, prima o poi, non può non confrontarsi. a) cos’è la società?b) a che scopo conoscerla?c) come conoscerla? Con questo dispositivo a tre domande andrò ad interpellare alcuni dei maggiori nomi, discorsi e passaggi che hanno punteggiato lastoria delle scienze sociali. Mia precisa intenzione è contrastare l’opinione, ad un tempo accademica e triviale, che queste disciplinesi sviluppino da loro stesse, come per partenogenesi, come se i loro pulpiti siano sempre fissi in un mondo che gira loro attorno,mentre le diverse generazioni e le diverse “comunità” di “scienziati sociali” vi si alternano. Al contrario, proverò a mostrare chesotto il nome di scienze sociali ne sono successe di tutti i colori, sono circolate le più disparate risposte su cos’è la società, come eperché studiarla. Il che non esime affatto dal cercare di sapere di quali e quanti colori si è trattato. Ma obbliga anche ad ammettere,

proprio per rispetto alla scienza che non è se non sperimentale[11], che il modo migliore di apprezzarli sta nell’usarli per nuovesperimentazioni. Per ciò, tutte le risposte di cui tratterò qui di seguito saranno direttamente commisurate alle nostre ipotesi diricerca. Prima delle risposte, qualche chiarimento sul senso di questi tre interrogativi. La prima domanda (a) riguarda l’oggettività del sociale: ciò che ci si trova innanzi ogni volta che ci si pone una questione sociale.Ma è chiaro che questa domanda ha senso solo se chi se la pone si chiama fuori dal sociale. Si tratta quindi di un punto di vista chesi giustifica in nome di qualcosa che sociale non è: quindi o in nome della natura o in nome di uno spirito più o meno eterno, sia chelo si voglia intendere in senso filosofico che in senso religioso. In effetti, per quasi tutto l’Ottocento la conoscenza del sociale è statacondizionata o da filosofie della storia, come quelle di Comte, Marx o Spencer, o da scoperte delle scienze naturali, come la teoriadell’evoluzione di Darwin. Filosofie e scienze che definivano cosa è la società, a priori, ancora prima di studiarla dall’interno. Lastoria e l’evoluzione sono state così presentate come i sinonimi stessi di tutta realtà conoscibile: in loro nome si sono costruitidiscorsi capaci di organizzare un linguaggio da specialisti, un metalinguaggio il cui senso comprendeva e spiegava tanto la natura,

tanto lo spirito, quanto il sociale. Marx, ad esempio, pur rifiutando di fare il filosofo[12], costruisce un discorso, una dialettica chepermette di trattare di leggi, tanto della storia quanto della natura. Il Novecento però mal tollererà simili metalinguaggi a portatauniversalistica. Ciò soprattutto in ragione delle scienze sociali che proliferano per conto loro, studiando dall’interno una varietàpraticamente infinita di realtà sociali, una diversa dall’altra. La domanda su cosa è la società è quindi divenuta sempre menorilevante (al di fuori della filosofia, che giustamente deve pretendersi eternamente alle prese con questioni ricorrenti in ogni

tempo[13]). Tant’è che oggi nessun serio ricercatore sociale se la sente di dare una sua precisa risposta alla domanda “cos’è lasocietà?”, proprio allo stesso modo in cui nessun serio magistrato può volere rispondere a tono alla domanda “cos’è la giustizia?”.Resta che essa è del tutto pertinente per farsi un’idea di quel che le scienze sociali sono state nelle origini ottocentesche e di comesono cambiate nel corso del Novecento; e ciò soprattutto nel senso di un ridimensionamento della questione dell’oggettività del

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sociale. La seconda domanda (b) riguarda invece essenzialmente il rapporto tra la conoscenza sociale e la politica. Le risposte vengono inparte dall’esterno e in parte dall’interno delle scienze sociali. Queste sono solitamente sempre state interpellate dalle istituzioni afornire consigli sulle “buone prassi”, come si dice oggi, da seguire nelle politiche sociali. Ma anche le stesse scienze sociali sisviluppano tramite loro scelte politiche, ad esempio, sulle priorità delle questioni sociali da studiare. Un aspetto, questo, dellapolitica scientifica delle ricerche sociali, che è divenuto sempre più importante nel corso del Novecento, quanto meno queste stessericerche si sono attenute a definizioni oggettive, a priori, di origine ottocentesca, del sociale.In effetti, oggi trovo del tutto decisivo per la conoscenza sociale che i ricercatori sociali rispondano direttamente e chiaramente degliscopi del loro ricercare. In questa direzione c’è un nodo da sciogliere: quello della soggettività della ricerca sociale.Dall’Ottocento fin verso la fine del Novecento il fatto che tale ricerca non potesse prescindere dalla soggettività è sempre statoconsiderato un limite, una nota di demerito rispetto alle scienze naturali, il cui supposto oggettivismo faceva da modello. Piùrecentemente invece si è assistito ad una sorta di rivalutazione della dimensione soggettiva del ricercatore sociale, che ha attenuato iconfini epistemologici da sempre esistenti tra la sua attività e quelle artistico-letterarie. Di qui, ad esempio, il diffondersi di saggiantropologici o etnografici redatti con stile del tutto personale. Inalterato, o quasi, è rimasto infatti il presupposto che la soggettivitànon possa essere che una qualifica personale attribuibile esclusivamente ad un individuo. Diversamente, è del tutto proficuo pensareche la categoria della soggettività non sia solo sinonimo dell’individualità personale, ma possa applicarsi a dimensioni collettive,quali, appunto, quella dei ricercatori sociali. Chiedersi quale sia la loro soggettività allora significa chiedersi quali siano i modi e lecondizioni intellettuali tramite cui essi scelgono di studiare questo o quel problema sociale piuttosto che altri, come e perché allaloro ricerca diano un obiettivo piuttosto che un altro. In una parola, quali siano le possibilità soggettive da essi aperte nell’ambitodella conoscenza. La terza domanda (c) infine riguarda evidentemente il rapporto tra le risposte che vengono alle due precedenti domande. Il comestudiare la società dipende infatti da cosa si è convinti che sia e dagli scopi che ci si propone nello studiarla. Se la prima domanda èuna domanda sull’oggettività del sociale, la seconda sulla soggettività del ricercatore sociale, quest’ultima è una domanda sulmetodo della ricerca. Fino a che, dall’Ottocento in poi, la risposta alla prima domanda è stata la più importante, le rispostemetodologiche hanno sempre prescritto che la soggettività del ricercatore sociale dovesse ridursi il più possibile a sempliceriflesso, a pura rappresentazione dell’oggetto della sua ricerca. Di qui l’enfasi sul tema dell’obiettività come qualità prima delricercatore sociale: obiettività, che vuol dire una soggettività soggetta, sottomessa ad una oggettività.La maggiore attenzione che la questione della soggettività del ricercatore ha riscosso nella seconda parte del Novecento haapportato parecchie novità metodologiche. Ma non su un punto decisivo. Quello di mantenere sempre che ogni ricerca debba essereanzitutto rispondente, adeguata all’oggettività del sociale. La maggior parte delle risposte metodologiche hanno così a tutt’oggi uncarattere che potremmo chiamare dialettico, in quanto mantengono al loro centro la dialettica tra la soggettività e l’oggettività:l’oggettività del sociale come termine di verifica essenziale della soggettività della ricerca.Una delle maggiori novità metodologiche qui proposte starà invece proprio nell’evitare ogni dialettica e di ripensare le questioni dioggettività sociale come questioni interne a quelle della soggettività della ricerca. Il che per altro implica un’altra novità: una nettadissociazione tra le risposte da dare alla prima domanda e quelle da dare alla seconda. Stante infatti il tradizionale obbligo delricercatore di riflettere la realtà oggettiva ne conseguiva anche l’obbligo di analizzare le soggettività del sociale come riflesso essestesse di condizioni oggettive, mentre qui si proporranno due distinte problematiche, una volta all’analisi dell’oggettività, l’altravolta alla soggettività. Ed è proprio all’interno di quest’ultima che si situano le nostre ricerche. É quindi ad essa che dedicherò lamaggiore attenzione, la quale è anche dovuta alle notevoli difficoltà tutt’oggi esistenti ad ammetterla sia tra esperti sia tra neofitidelle scienze sociali. Tant’è che niente sembra meno plausibile di una conoscenza razionale, positiva che riguardi la soggettivitàsociale in quanto tale, come possibilità effettiva, reale, ma senza riscontri oggettivi. Eppure, come cercherò di mostrare, è propriocosì che il presente di ogni realtà sociale può essere conosciuto, se se ne vuole avere una sua conoscenza effettiva, “in presadiretta”: non a posteriori, non come rappresentazione oggettiva di un presente già dato o, al contrario, a priori, come anticipazione diun qualche futuro più o meno prevedibile, ma nel suo stesso presentarsi, come si dice, “in tempo reale”, o, meglio, incontemporaneità rispetto a chi la studia. III. RISPOSTE RICORRENTI Veniamo ora ad alcune delle risposte più ricorrenti tra le scienze sociali.Ma prima di tutto è opportuna una qualche spiegazione delle ragioni per cui qui l’origine di queste scienze viene fatta a risalire anon prima della seconda metà dell’Ottocento.Molto spesso, quando si tratta della storia delle scienze sociali, le si fa risalire anche a ben prima dell’Ottocento, a Rousseau,

Montesquieu, Vico[14], se non addirittura a Platone. La mia idea qui è invece che le questioni sociali di cui oggi si parla abbianouna qualche parentela diretta solo con quanto è accaduto in Europa dopo il Quarantotto. È questo grande sommovimento di metàOttocento che sancisce infatti quella che è una singolarità anche della realtà sociale del nostro tempo: la polarizzazione della (giàesistente, ma antecedentemente più confusa e segmentata) separazione tra le popolazioni che hanno potere e sapere e quelle chenon li hanno. Spopolamento delle campagne, affollamento delle città, esplosione demografica, industrializzazione, espansionefinanziaria, guerre coloniali, guerre mondiali, alfabetizzazione generalizzata, proliferazione delle università, sviluppi tecnologici,impoverimento di intere zone del pianeta e tanti altri macroscopici fenomeni dell’ultimo secolo e mezzo si può dire che abbiano ache fare con questa separazione. Ne sono dunque venuti infiniti mali, ma anche enormi perfezionamenti del potere e del sapere. Econ essi alcuni indiscutibili vantaggi, come quello raggiunto negli anni Sessanta del Novecento, di riscattare l’umanità dal suo piùpressante problema dal Neolitico in avanti: dovere lavorare per nutrirsi. A partire da quegli anni, in alcuni dei paesi più ricchi, per

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raggiungere questo scopo, infatti, è più che sufficiente l’attività del 3% della popolazione[15]. Ma questo risultato è restato e restaappannaggio solo di un numero esiguo di paesi, mentre nel resto del mondo il problema della fame cresce e si complica quanto maiprima.Da esso risulta evidente che la questione di fondo per le scienze sociali sta sempre nella separazione tra chi può e sa e chi no, qualesi è configurata a partire dalla metà dell’Ottocento. Mio intento non è di offrire un sunto più o meno enciclopedico di queste ultime, come avviene nella maggior parte dei manuali adesse dedicate, ma di chiarire le distanze e le prossimità delle nostre scelte metodologiche da quelle già più affermate nelle scienzesociali. La varietà delle risposte che sono venute da queste ultime alle tre domande poste più sopra è ovviamente infinita. Tuttavia visi può individuare per così dire un minimo comune multiplo. Ovvero un insieme di risposte con cui ci si deve tutt’oggi confrontare senon si vogliono dare delle risposte poco o nulla credibili. Ad esempio, se alla prima domanda rispondiamo che la società èinfluenzata da fattori astrologici, sicuramente non troveremo molti disposti a prenderci sul serio. Che il sociale sia compostoanzitutto da sagittari, pesci, gemelli e gli altri segni zodiacali non è infatti mai stata una risposta utilizzata per la ricerca sociale. Cosìpure che la risposta secondo la quale la società sia composta anzitutto da razze, malgrado sia stato parecchio discussa tra Otto eNovecento, oramai, specie dopo l’uso che ne hanno fatto i nazisti contro gli ebrei, ha perduto ogni credibilità.Insomma, l’obiettività nelle scienze sociali dipende essenzialmente dalla credibilità delle questioni che si pongono e dalle risposteche si danno. Questa credibilità varia nel tempo, ma non può non essere in una qualche continuità con ciò che precedentemente è giàstato creduto come obiettivo. Di qui la nostra esigenza, avanzando nuove ipotesi, di compararle con dei precedenti, senza peròpretendere di esserne né semplice continuazione, né rottura completa. Le risposte alle tre domande più sopra poste possono essere raggruppate secondo diversi generi. Tra di essi distinguo quelli piùtradizionali, classici, la cui origine risale tra Otto e Novecento, e quelli più recenti.Tra i generi più classici, ne individuo cinque che chiamo rispettivamente classista, evoluzionista, definitorio, idealtipico efunzionalistico.Quelli più recenti li riassumo sotto l’unica etichetta che chiamo la svolta linguistica nelle scienze sociali.Vediamo dunque che generi di risposte alle nostre tre domande si possono ricavare da questi diversi orientamenti delle scienzesociali. Sottoponendo loro questa sorta di miniquestionario, chiaramente si semplificheranno all’osso i risultati che potrebberoessere infinitamente più complessi. Ogni opera, ogni saggio, ogni ricerca sociale degni di questo nome meritano un’attenzione tale darivelare un’infinità d’implicazioni ben più ricche di quelle che si possono ricavare ponendo loro delle domande rudimentali.Ponendole, non cerco altro che delle risposte paradigmatiche, utili a delineare uno sfondo di riferimenti a tinte forti, in rapporto alquale risulti più netto possibile il profilo di quelle che saranno le nostre risposte. È un po’ come rovistare alla svelta in uncontenitore di attrezzi vecchi e nuovi senza badare molto alle loro fattezze e per vedere cosa non ci serve e cosa invece si puòutilizzare al momento. IV. RISPOSTE CLASSICHE 1. Il classismo a)Alla prima domanda, “cosa è la società?”, il classismo (di cui Marx, per sua stessa ammissione, non è l’unico, ma uno dei massimiteorici) dà una risposta in nome della storia, della storia con la esse maiuscola, della storia universale. Storia che è intesa comedestino di tutta l’umanità il cui presente è sempre da pensarsi come un passaggio e una lotta tra il passato e il futuro. Nel classismo,infatti, la società è composta da più classi sociali fondate su diversi interessi economici, ma la loro divisione fondamentale è traquelle che sono arroccate sul passato e quelle che dischiudono l’avvenire. E il passato è essenzialmente la millenaria tradizionedello sfruttamento del lavoro altrui, l’avvenire invece è la possibilità di riscatto del lavoro da ogni sfruttamento.I proletari del capitalismo moderno si trovano allora in una situazione paradossale. A differenza degli schiavi e dei servi d’altritempi, godono di libertà di diritto, tra le quali quella di vendere la propria forza lavoro come qualunque altra merce. Ma in fabbrica,dove contano esclusivamente per le loro braccia, si ritrovano ad essere sfruttati come schiavi e servi. Di qui, la necessità della presadi coscienza del loro essere storico: tanto schiacciati dal peso di un passato di sfruttamento che non passa, quanto portatori di unfuturo sociale senza precedenti, quel socialismo e/o comunismo dove non ci dovrebbero essere più sfruttati o sfruttatori.Oggi il classismo è superato, non esiste più, o almeno non esiste più nelle sue forme originarie. Nella sua tradizione, che oggisopravvive anche nelle ricerche sociali oltre che tra qualche partito, sindacato e movimenti no o new global, gli obiettivi delsocialismo e del comunismo sono oramai del tutto declinati. Ad essi si sono sostituiti quelli delle rivendicazioni e delle “conquistedemocratiche” o dell’ “antagonismo sociale”: le prime che sarebbero garantite dai successi elettorali delle sinistre, il secondo dallepiù svariate manifestazioni di disobbedienza civile. Resta però sempre invariata, o quasi, la prospettiva storicista, di un divenirestorico universale, cui non si potrebbero opporre altri se non conservatori, reazionari o quegli individualisti più o meno sovversivio potenti, contrari all’oggettiva necessità del progresso umano. b)La risposta classista alla nostra seconda domanda, “a che scopo studiare la società?”, è evidentemente: per conoscere le condizionistoriche del progresso storico. Ma quale è lo scopo politico di questo scopo cognitivo? Qui possiamo distinguere due o tre tipi diclassismo che si sono manifestati in modo più o meno discontinuo dalla metà dell’Ottocento in poi, a volte contaminandosi, a voltecombattendosi tra loro.Uno governativo, che si incarica di dar consigli sui conflitti sociali e le questioni del lavoro a chi governa centri di potere, quali iministeri, i tribunali, i sindacati o i partiti. Temi privilegiati sono allora o la pianificazione o le riforme, a seconda che il partitomarxista sia al governo o all’opposizione. Si tratta, in ogni caso, di progetti per riadattare le forme del potere ai cambiamenti deltempo che sono supposti sempre andare nel senso del progresso storico.Un altro, accademico, che punta ad applicarsi e confermarsi come scienza più nel ristretto di ambiti universitari, contribuendo alla

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diffusione e alla difesa nelle università di approcci materialisti, democratici e progressisti, incentrati soprattutto sulle questioni dellavoro e dei conflitti sociali.Ma c’è anche una terza specie di classismo, che è in parte riconducibile ai primi due e che in parte se ne distingue. Si tratta della suadimensione più militante, “di base”, che viene applicato da quadri politici, sindacali o di movimenti rivendicativi in rapporto direttoai lavoratori o, più in generale, a gente con poco o nessun potere. La questione cruciale è qui quella della coscienza, del suoelevamento. In effetti, dal momento che si suppone inevitabilmente necessario il progresso storico, l’unico vero ostacolo può starenel fatto che la classe predestinata ad esserne protagonista non ne abbia “ancora” una coscienza adeguata. Di qui, l’obiettivo politicodel militante classista è sempre stato l’educazione della soggettività dei proletari per elevarla fino a farla corrisponderedialetticamente alle necessità oggettive del progresso storico. E le cose non cambiano se, come oggi, al posto dei proletari si pensastia il semplice elettore o la “moltitudine”, “antagonista” e “disobbediente”. Il problema, al fondo, resta più o meno sempre quellodel marxismo ottocentesco, di vincere l’ignoranza con la scienza. Coscienza è proprio questo che vuol dire: con-scienza. Avere unacoscienza democratica o antagonista significa in effetti avere dei comportamenti soggettivi, elettorali o conflittuali, conformi a ciòche una conoscenza scientifica stabilisce come oggettività necessaria. Ed è questo l’obiettivo politico principale di cui ogni militantedella tradizione classista, e oggi post-classista, si è fatto propagandista tra le “masse” supposte con scarsa o nulla coscienza.Fatto sta che a fornire la conoscenza oggettiva del processo storico non possono provvedere che le altre due specie di classismo (odi post-classismo), quello governativo e/o quello accademico, in quanto sono in contatto, l’uno con la realtà del potere datrasformare, l’altro con le possibilità di ottenere conoscenze scientifiche. Al classismo (o post-classismo) militante così non restache la funzione di volgarizzare la politica e/o la teoria cui aderiscono, ossia tradurle in formule didattiche accessibili anche allemasse ritenute più o meno ignoranti e inconsapevoli. Il che a sua volta comporta che l’educazione delle coscienze così ottenuta èsempre poco politica, poco teorica, e invece molto spesso fideistica, tutta dedita a dar una fiducia incondizionata al partito o aisindacati o ai dirigenti dei movimenti. Resta, per altro, che, come ogni buon educatore, anche il militante classista o post-classista, ha sempre saputo che la prima cosa dafare è cercare di partire dalle opinioni dei propri allievi, volenti o nolenti. Così, in questa tradizione si è sempre dovuto fare i contianche con quel che “i proletari”, “gli elettori di sinistra” o “la moltitudine” pensano. Anche se l’obiettivo è stato e resta quello dielevare il grado della loro coscienza, si è dovuto e si deve ipotizzare, magari anche implicitamente, che chiunque tra di essi siadotato di sua capacità a pensare: che chiunque abbia una propria capacità intellettuale. Ora, questo è il punto che qui più interessa eche più avvicina le nostre ricerche al classismo e al post-classismo.Ad essi va in effetti riconosciuto il merito non trascurabile di avere dato e mantenuto un’importanza a sé stante al problema diconoscere la soggettività, il pensiero di una popolazione senza potere né sapere, come i proletari, i semplici elettori o la moltitudine.È da qui che è venuto quel grande patrimonio che tutt’ora rappresentano per le scienze sociali le inchieste tra gli operai di

fabbrica[16].Un patrimonio comunque già condannato all’obsolescenza se non viene ripreso in un senso del tutto diverso da quello dello stessoclassismo, nonché delle diverse varianti post-classiste.Come si è accennato e come si preciserà ulteriormente, punto di demarcazione e di svolta decisiva è la distinzione tra la categoriadi pensiero e la categoria di coscienza con tutte le sue implicazioni dialettiche. c)La dialettica è in effetti la risposta del classismo alla nostra terza domanda: questo è il modo in cui il classismo in tutte le suevarianti studia e conosce la società.Dialettica tra la base economica e la sovrastruttura istituzionale, politica e ideologica; dialettica tra situazione sociale locale edivenire storico globale; dialettica tra le diverse classi su cui si concentrano tutte queste determinazioni, economiche,sovrastrutturali, locali e globali; dialettica tra l’essere sociale delle classi e il grado di coscienza di ogni loro appartenente; in unasola formula, dialettica tra l’oggettivo e il soggettivo: è così che il classismo inquadra la società su cui fa ricerca. E quand’anchesi dedichi ad uno di questi ambiti, suppone sempre che sia in dialettica col divenire della totalità degli altri ambiti. È l’idea stessa distoria universale, di un divenire unico per tutta l’umanità, che obbliga a conoscere per via dialettica, collegando tra loro il maggiornumero di ambiti problematici distinti. Di qui l’ambizione sempre insoddisfatta di arrivare ad una conoscenza completa dellasocietà. E di qui anche la pretesa nefasta, nei paesi socialisti dove il classismo è diventato dottrina di Stato, di escludere ereprimere ogni altro modo di far ricerca sociale. Col risultato di tagliare fuori questi paesi da tutti gli svariati sviluppi novecenteschidelle scienze sociali. 2. L’evoluzionismo a)Al momento di far uscire il primo volume de Il Capitale Marx lo voleva dedicare a Darwin, massimo teorico dell’evoluzionismo:colui cui si doveva la scoperta secondo la quale la specie umana, anziché avere origini misteriose e divine, deriva da una specieevolutivamente meno sviluppata, quella delle scimmie. La sua conclusione più nota, cui era giunto a seguito di vaste ricerchezoologiche e biologiche, è che gli organismi naturali siano destinati a passare da forme più semplici a forme più complesse e che

questo passaggio avvenga tramite una selezione dovuta alla lotta di ciascun organismo per la propria sopravvivenza[17]. In ciò Marxvedeva una teoria del tutto compatibile con la sua classista: la storia delle classi sociali così come l’aveva concepita lui stesso glipareva del tutto accostabile all’evoluzione delle specie degli organismi biologici di cui parlava Darwin. Questi però rifiutò che IlCapitale gli fosse dedicato: la sua idea di specie di organismi biologi non coincideva con quella di classe sociale così come la suaidea di lotta per la sopravvivenza non coincideva con quella di lotta di classe.Ciononostante, tra lo storicismo classista d’impronta marxista e l’evoluzionismo di derivazione darwiniana le contaminazioni sono

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state assidue. In generale, si può dire che esse si sono imposte soprattutto quando (come a cavallo tra Otto e Novecento, al tempo deiprimi partiti socialisti, o al tempo dei partiti comunisti e socialisti nel Secondo Dopoguerra) il primo si è associato ad una politicariformista, volta cioè a condizionare il potere di governo in favore delle questioni del lavoro. Mentre le distanze sono state maggioriogni volta che il marxismo ha fatto venire fuori la sua anima rivoluzionaria, insurrezionalista (come al tempo della Rivoluzionebolscevica del 1917 o della Rivoluzione Culturale maoista).In ogni caso, la differenza tra lotta tra le classi sociali e lotta per la sopravvivenza degli organismi delle specie biologiche,semplificando all’estremo, può essere chiarita così: mentre le classi si costituiscono nella lotta, gli organismi la precedono; mentrele prime non esistono che separandosi, dividendosi tra loro, i secondi esistono trasformandosi per reazione difensiva nei confrontidegli altri. Nella seconda metà degli anni Sessanta, in Cina un dibattito simile venne tematizzato dall’opposizione di due detti di

sapore taoista: “l’uno si divide in due” contro “il due si fonde in uno”[18]. Ove quest’ultimo veniva attribuito ai reazionari, mentre ilprimo era rivendicato dai rivoluzionari. Una rivendicazione, questa, quanto mai radicale, che mina la stessa idea di storia universalesu cui il classismo si regge. Non a caso dibattiti simili sono avvenuti nel corso di una rivoluzione che ha mandato all’aria tutto lo

Stato-partito cinese di quel tempo[19].Si può dire che la risposta dell’evoluzionismo alla nostra prima domanda “cosa è la società?” sta nel sostenere che essa funziona esi sviluppa come un organismo vitale, seguendo fasi e leggi simili, e similmente lottando per la propria sopravvivenza.Così la biologia si è conquistata un’egemonia per lungo tempo quasi incontrastata tra i modelli ispiratori delle scienze sociali, le

quali hanno assunto l’evoluzione come sinonimo del divenire della realtà sociale. A prescindere dalla stessa socio-biologia[20] ,molta parte delle scienze sociali anche nel corso del Novecento mutua i suoi modi di pensare e di dire dalla biologia. La stessa

parola cultura, tanto abusata in queste scienze[21], nel suo etimo, che evoca il coltivare, ha un fondamento biologico. Cosìl’altrettanto spesso utilizzata distinzione tra natura e cultura altro non significa che la società è una seconda natura: un modod’essere umano senza soluzione di continuità rispetto al modo d’essere animale. Il che dimostra la misura nella quale le scienzesociali hanno faticato e faticano per trovare un loro modo di pensare e di dire, senza prenderli in prestito da altri ambiti scientifici. Resta che è proprio sotto il segno dell’evoluzionismo che l’antropologia acquista un suo statuto scientifico. L’apertura di questoorizzonte è dovuto anzitutto a due figure maggiori che fanno le loro ricerche più importanti nella seconda parte dell’ Ottocento. Si

tratta anzitutto di Tylor [22]e Morgan[23]. Essi sono tra i primi a trattare le popolazioni “primitive” o “selvagge” non più comeoggetto di curiosità esotiche, ma come custodi di una semplicità originaria capace di far luce anche sui misteri delle società piùevolute e complesse.Il primo, in effetti, che insegnerà ad Oxford tra il 1896 e il 1906, introduce non poche novità che segneranno il destino delle scienzesociali: la ricerca sul campo (in America centrale e sugli Anahuac del Messico), la comparazione su dati statistici (in particolare,tra vari modi “primitivi” di organizzazione famigliare), nonché la teorizzazione della “cultura” come categoria chiave per l’analisidelle “sopravvivenze”, all’interno di una realtà sociale, di stadi evolutivi precedenti in quelli successivi. L’opera Alle origini dellacultura scritta da Tylor nel 1871 viene considerata addirittura la data di inizio dell’antropologia.Morgan, dal canto suo, studiando in quegli stessi anni gli irochesi abitanti negli Usa arriva a teorizzare che tra i segni distintivi deiprimi stadi dello sviluppo umano vi fossero matriarcato, allevamento in comune della prole e gestione comune della tribù. Il che gliha attirato le simpatie di Friedrich Engels e di tutti i marxisti, i quali hanno trovato così argomenti per suffragare la loro idee sul fattoche famiglia, proprietà privata e Stato fossero solo istituzioni passeggere da superare al più presto per riorganizzare la moderna

società industriale in nome di originari e rinnovati principi comunisti[24]. Ma, oltre a ciò, Morgan è da ricordare e da studiaresoprattutto come importante padre fondatore dell’antropologia scientifica. La sua opera infatti rappresentò a suo tempoun’innovazione senza precedenti. La comparazione tra le nomenclature famigliari di centinaia di tribù dell’America settentrionale edell’Asia meridionale, che ne costituisce uno dei suoi maggiori contributi, ha l’obiettivo oggi non più difendibile di dimostrare unapreistorica migrazione tra questi due continenti. Ma si tratta di uno dei primi esempi d’analisi antropologica condotta non su

semplici congetture, ma fondata su dati empirici e verificabili[25]. b)L’evoluzionismo non ha prescritto alcuno scopo politico alla conoscenza del sociale. Se, come si è appena visto, anche il classismone ha talvolta condiviso l’impostazione di fondo, anche i paladini della libertà personale a tutti i costi non hanno stentato a riconoscere nell’individuo il primo organismo sociale e nella concorrenza di mercato la lotta per la sopravvivenza sociale.In effetti, già nella prima parte dell’Ottocento, ancor prima di Darwin, parlare di sociale implicava parlare dell’evoluzionebiologica dell’umanità. Da questo punto di vista l’unica vera discriminante era tra poligenisti e monogenisti: tra chi cioè sostenevache l’umanità avesse origini diverse, e dunque razze diverse, e chi invece, come nella seconda metà del secolo Tylor e Morgan,

sosteneva un’unica origine[26], contrariando così ogni presupposto razzista.

Da varie parti[27] si critica l’antropologia evoluzionista di essere al servizio di quel colonialismo e di quell’imperialismo che traOtto e Novecento si sono spartiti tra le loro rispettive zone di sfruttamento quasi tutti i paesi più poveri ed economicamentesottosviluppati. Nelle sue versioni più semplici questo tipo di critica trascura un fatto decisivo: che tale antropologia è riuscita adare dignità scientifica alla conoscenza di popolazioni senza potere e senza sapere, ovvero senza poteri e conoscenze paragonabili aquelli dei paesi più ricchi e potenti. Anzi, occorre riconoscere che saranno proprio le ricerche volte a rendere comparabile questaevidente incomparabilità uno dei temi cruciali dell’antropologia detta culturale ossia evoluzionista. L’infinità di studi che sono stati

dedicati ad esempio alla comparazione tra scienza moderna e magia[28] o tra le forme statali del potere e le sue forme tribali

(Durkheim[29], Mauss[30], Radcliffe-Brown[31] e Evans-Pritchard [32], tra gli esempi classici più importanti) è stata resapossibile grazie al presupposto essenzialmente evoluzionista secondo cui le società più sviluppate e quelle più arretrate sono solodiversi stadi dello stesso sviluppo.

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Lo scopo principale dell’evoluzionismo nelle scienze sociali si può dire sia stato la promozione di queste stesse scienze accanto allealtre: il fatto che queste tra Otto e Novecento fossero riconosciute e accettate dagli Stati più ricchi e potenti, e che, dunque, tanto lericerche quanto il loro insegnamento fossero ammesse nelle università. L’emulazione della biologia per le scienze sociali ha avutoquindi anche lo scopo di fare loro guadagnare una legittimità pubblica pari a quella già ottenuta da altre scienze, della natura,appunto.É anche per il fatto che questa legittimità è oramai da tempo fuori discussione che l’evoluzionismo oggi risulta antiquato. c)Il metodo di studio privilegiato dai presupposti evoluzionisti è la comparazione. La comparazione tra i diversi stadi dell’evoluzionecui più società o più aspetti della stessa realtà sono assegnabili.Ma questo metodo verso la fine dell’Ottocento mostrava già i suoi limiti. A chiarirlo in modo convincente provvide quell’altrogrande maestro dell’antropologia che è Franz Boas, tedesco d’origine, ma dal 1896 al 1936 figura di spicco della ColumbiaUniversity di New York. Egli, infatti, nello stesso 1896, pubblica un testo proprio col titolo I limiti del metodo comparativo in

antropologia[33]. Ad essere qui contestata è direttamente un’idea che in fondo reggeva anche la teoria di Tylor sulle“sopravvivenze”: l’idea che le culture primitive di popolazioni ancora esistenti potessero essere considerate sullo stesso piano delleculture preistoriche e primordiali. Per Boas è invece della massima importanza distinguere i due diversi piani problematici. Se sulsecondo, quello preistorico e primordiale, possono sempre essere utili le conoscenze indirette, dedotte da materiali archeologici oda resoconti di missionari ed esploratori, sul primo, invece, che riguarda popolazioni viventi, le conoscenze più importanti sonoquelle indotte dall’osservazione sul campo. Di qui, l’importanza dello studio delle lingue usate nella realtà sociale su cui si faricerca, tant’è che Boas ha anche il merito di avere provveduto a compilare le prime grammatiche delle lingue americane in via

d’estinzione[34]. Ma egli è anche tra i primi a prescrivere all’etnologo di provare a mettersi “dal punto di vista del nativo”,escludendo, ad esempio, che lo stesso elemento culturale riscontrato in due diverse popolazioni debba avere per forza lo stesso

significato[35].Anche se arriverà a negare l’utilità della distinzione generale tra culture primitive e civilizzate, egli la mantiene relativamente adogni singolo “tratto culturale”, intendendo conciò delle “unità minime di cultura”, dei “canoni minimi dell’esistenza”, come le modalità della caccia o delle decorazioni artistiche.Tali tratti, infatti, per lui sono da ritenersi effettivamente primitivi se “ miseri di aspetto e contenuto, nonché intellettualmente deboli”[36]. Se è vero che la distinzione tra primitivo e civilizzato è un principio tipicamente evoluzionista, qui risulta chiaramente che la

critica di Boas all’evoluzionismo non è così frontale e completa, come molti sottolineano[37]. In un passo quanto mai chiaro aquesto proposito egli ammette l’esistenza di “leggi generali legate alla crescita culturale”, aggiungendo tuttavia che “qualunquepossano essere, saranno, però in ogni singolo caso, sopraffatte da una massa di fatti casuali probabilmente molto più determinanti,

negli accadimenti reali, di quanto non lo siano le leggi generali”[38].Il caso, dunque, la singolarità del singolo caso, come ciò che decide dell’importanza delle determinazioni generali, obiettivamenterilevabili, in quanto riscontrabili per comparazione con altri casi. È per simili assunti e per la loro messa in pratica nella ricercache Boas viene considerato, e non di rado criticato, caposcuola di quel “relativismo” che avrebbe portato alla disseminazione dellescienze sociali in una molteplicità di “casi di studio” mai riconducibili ad un pensiero unico, e più precisamente a quella visioneunitaria del divenire umano che per tutto l’Ottocento era stata imposta dall’egemonia intellettuale congiunta di evoluzionismo estoricismo classista.Questo punto interessa direttamente le nostre stesse ipotesi.Che nella realtà sociale ci sia del necessario, dell’oggettivo, ma che esso vada analizzato a partire dalla casualità delle sceltesoggettive: questo, lo si è già detto e lo si ridirà, rientra a pieno titolo tra le nostre ipotesi. La loro messa in pratica può dunquesicuramente imparare dal relativismo inaugurato da Boas. Se c’è invece un aspetto in cui questo insegnamento pare datato, staproprio nel suo evoluzionismo residuo, nel fatto di mantenersi spesso sul limite dei problemi e dei metodi evoluzionisti, senzadistaccarsene del tutto. 3. Definire, per conoscere quale sociale? a)

Per Durkheim, padre fondatore della sociologia in Francia, la società è quel che la scienza ne può definire[39].Già in questa disposizione della risposta alla nostra prima domanda su cos’è la società si può cogliere una relativizzazionedell’oggettività della realtà sociale. Essa non risulta più qualcosa che ci sta innanzi come una montagna o qualcos’altro di esistentedel tutto al di fuori del nostro pensiero, ma risulta una realtà sotto condizione di una nostra operazione intellettuale, la quale cifa vedere questa realtà secondo una certa ottica e che ce ne fa parlare secondo un certo discorso. Il discorso della scienza, dellascienza con la esse maiuscola, dice appunto Durkheim. Ma di quale scienza si tratta? La sociologia, ossia la sua sociologia, si vuole diretta applicazione al sociale del modello di scienzadominante nel suo tempo, quel tornante tra Otto e Novecento che anche in Francia è sempre segnato dall’egemonia sul saperedell’evoluzionismo e dunque della biologia. La scienza sociologica in Francia si costituisce come un’estensione e un adattamentospecifico di un modo di pensare e di conoscere mutuato dalla biologia.La specificità del campo della sociologia sta essenzialmente nel fatto di studiare tutto ciò che si impone “come una cosa” agliindividui. Così, con questa semplice demarcazione, sono definiti i confini del sociale, tanto rispetto alla stessa biologia, che ha alcentro della sua problematica la vita osservabile all’interno di forme individuali umane, animali e vegetali, quanto rispetto allapsicologia che studia la mente di cui ogni individuo è dotato.Definire è mettere in cornice, stabilire un dentro e un fuori. Per Durkheim, la sociologia può conoscere solo a condizione di operarepreliminarmente questa selezione tra i fatti che dipendono dall’individuo e i fatti che l’individuo subisce, per dedicarsi

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esclusivamente a questi ultimi. Quindi anche la sociologia può pretendere di essere scienza solo se riesce a mettere a distanza ogni“prenozione” che dipenda dal desiderio dell’individuo di darsi spiegazioni di tutto ciò che lo circonda e dunque anche di quello cheesclusivamente una scienza ad hoc può spiegare.Ma vi è anche una conseguenza maggiore del porre che la società è esclusivamente ciò che la scienza può conoscerne. In direttapolemica contro il modo univoco di pensare e conoscere la società tipico dello storicismo classista Durkheim sosterrà infatti che “la

società non esiste, ma esistono solo delle società”[40]. Sarebbe a dire le società o i fatti sociali che la scienza, nel suo procedere,arriva a conoscere e che quindi non può mai identificare a priori. D’altra parte, che il sociale si imponga a più individuiunitariamente obbliga a riconoscere che esso abbia una sua unità, sia pur relativa e fondata su una “solidarietà” delle sue parti. Diqui la nota distinzione tra la “solidarietà meccanica”, che caratterizzerebbe le società più arcaiche, in cui le componenti (ad esempiocampagne e città) coesistono l’una distinta dall’altra, e quella “organica”, che caratterizzerebbe invece le società moderne,

industriali, dove ogni aspetto finisce per condizionare gli altri[41].Una simile sociologia, il cui insegnamento universitario sarà una conquista personale di Durkheim, avrà un seguito di allievi, a loro

volta capiscuola, quali M. Mauss[42] e M. Halbwachs[43], nonché degli echi di lunga e ampia durata[44], anche fuori della Franciae anche in discipline limitrofe, nel corso di buona parte del Novecento.Essa rappresenta sicuramente uno dei tentativi più oggettivisti di definire il sociale. La dimensione soggettiva è, infatti,completamente abolita, sia dall’oggetto sociale, sia dalla figura stessa del sociologo, al quale è prescritto di abbandonare ogni“prenozione” ottenuta in quanto individuo, fuori dalla sua missione di ricercatore. Come vedremo, pur non optando per questo genere di ricerche oggettivistiche, le nostre non le escludono, a condizione di includerlee rettificarle in un campo problematico più vasto, dove la soggettività ha un suo spazio di tutto rilievo. Che i fatti sociali abbiano unarealtà, delle necessità ben definibili come oggettive e che l’individuo o gli individui vi contino poco o nulla: questi due assunti, inparticolare, saranno qui ripresi, sia pur ai margini delle nostre prospettive. b)Lo scopo primo di questa sociologia definitoria è di contribuire a quello sviluppo dello spirito scientifico, che dall’illuminismo finoal positivismo di Comte (non per nulla uno dei primi a fare della sociologia un concetto) è una tradizione di origini tutte francesi.Come detto, Durkheim è colui che per primo realizza nel suo paese l’obiettivo di fare ammettere una cattedra di sociologianell’università. Tutto il rigore della sua dottrina sicuramente risponde all’esigenza di un riconoscimento pubblico. Questo scopo era

accompagnato e sostenuto da un altro: quello di offrire allo Stato, considerato centro della razionalità sociale[45], un sapereadeguato ai tempi. Religione e socialismo sono i due concorrenti coi quali questa sociologia deve fare i conti. Si ricordi che siamo acavallo tra Otto e Novecento, in un’epoca successiva al II Impero di Napoleone III e alla catastrofe della Comune, in quella IIIRepubblica Francese, dove i cattolici sono maggioritari e il partito socialista è uno dei più importanti della Seconda Internazionale.L’idea di Durkheim è che per far fronte ai nuovi problemi sociali non bastino né gli individui per quanto potenti e illuminati possanoessere, né le Chiese, né i partiti, ma neanche lo Stato stesso, in quanto tale. Per lui la soluzione può venire solo se ogni dimensionesociale produttiva si organizzi al suo interno e nei rapporti con le altre, sotto la supervisione dello Stato. Per questo crede in un

avvenire delle corporazioni e che la sociologia e la corporazione dei sociologi lo possano favorire[46]. Inoltre, egli, di famigliarabbinica, è ateo. Crede che Dio non sia altro che l’immagine della società venuta fuori da individui tanto profani da non cogliere larealtà sociale che si cela nel sacro.. Corporativista, antindividualista, antisocialista, oltre che razionalista ed ateo: tanto è bastato per far passare Durkheim per

autoritario, se non addirittura totalitario[47]. Ma basta leggere il suo appassionato intervento a favore di quelli che, allora per laprima volta, vennero chiamati “gli intellettuali”, riuniti attorno al J’accuse! di Zola e contro il razzismo scatenato dall’ “affaire

Dreyfuss”[48]: vi si può trovare tutto quanto rende insostenibili simili critiche[49].

Del resto, con i suoi studi, come Le forme elementari della vita religiosa [50], ha contribuito a strutturare l’interesse delle scienzesociali per popolazioni senza potere né sapere, in via d’estinzione e ai margini del mondo più ricco e potente.In definitiva, si può dunque dire che la sociologia di Durkheim prescrive la conoscenza di tre cose dalle evidenti implicazionipolitiche:·le oggettive necessità dello Stato, al di là di quel che dicono individui più o meno potenti ed illuminati, i partiti o le chiese;·il sociale soprattutto laddove il potere dello Stato non giunge;·la religione e il socialismo come fatti sociali.Il tutto senza evitare di scendere in campo contro il razzismo nel momento in cui diviene una politica.Nessuno di questi obiettivi è affatto criticabile. Semmai, sono oggi da distinguere più in dettaglio e da disporre in uno spazioproblematico diverso da quello del discorso evoluzionista che li riunisce. c)All’evoluzionismo sono sicuramente improntate tutte le regole che Durkheim ha tenuto a definire per il suo metodo di ricerca. Suostrumento decisivo è la comparazione di ogni fatto sociale rispetto ad altri simili, e metro di paragone è proprio l’ipotesi diun’unica evoluzione comprendente un spettro infinitamente precisabile di diversi stadi di sviluppo, di complessità crescente.L’obiettivo è giungere a definire un “tipo medio” di fatti sociali per ogni gradazione dello spettro evolutivo. Ed è sulla base diquesto tipo medio che si giunge a distinguere tra la “normalità” e la “patologia” sociale, altra distinzione decisiva per le regole delmetodo di Durkheim. Così, di fatti come criminalità e suicidio, che gli individui sono portati a considerare comunque patologici, lasociologia stabilisce l’assoluta normalità, in determinate condizioni di sviluppo, spingendosi addirittura a vedere nel casodell’eccessivo abbassarsi de loro tasso rispetto alla media l’indice di un altro problema sociale da scoprire. Anche se i dati che locomprovano appaiono oggi poco credibili, il suo studio su Il Suicidio ha definitivamente sancito l’uso sistematico delle statisticheda parte della sociologia. Tali metodi sono in effetti una necessaria conseguenza dell’obbligo di definire un fatto socialedifferenziandolo rispetto a ciò che dipende dagli individui o dalla natura.

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Tutt’altre sono le ipotesi metodologiche delle nostre ricerche. Esse evitano il più possibile ogni forma di definizione. Anzichéstabilire cosa è e cosa non è una realtà sociale, per poterla in seguito indagare, le nostre ricerche puntano fin dal loro inizio a entraredentro la stessa dinamica soggettiva della realtà sociale, e proprio per questo l’affrontano evitando di darne alcuna definizionepreliminare . Il che non significa respingere del tutto il metodo di Durkheim, ma accoglierlo e ripensarlo in un campo più vasto dipossibilità metodologiche, non più sottomesso all’egemonia del modello biologico evoluzionista. Oggi, infatti, le scienze sociali sisono sviluppate al punto che non occorre riferirsi ad altre scienze. E ciò che meglio caratterizza la loro singolarità è il loro essersisviluppate in rapporto diretto con le popolazioni su cui sono state condotte una molteplicità infinita di ricerche.Da questo punto di vista, ogni definizione preliminare che ponga il ricercatore in una posizione di esteriorità o peggio di superioritàè poco proficua. Per entrare nel merito dei problemi della gente, quando di gente qualunque, di puro sociale si tratta, è sempreconsigliabile adottare delle ipotesi abbastanza ampie e sfumate da potere in seguito essere rettificate dall’andamento stesso dellaricerca, quando l’effettiva realtà sociale comincia ad essere conosciuta.Diversa questione si pone qualora ad essere interpellata non è gente qualunque, non è il sociale in quanto tale, ma una realtà socialequale risulta a chi ha potere e/o competenze in grado di governarla. Qui, partire dal loro sapere è inevitabile. La ricerca èinnanzitutto ricerca sulle conoscenze che sono utilizzate per governare quella determinata realtà sociale. E il primo obiettivo dovràessere definire il più scientificamente possibile le oggettive necessità di tale governo. La comparazione con altri casi più o menosimili e la messa a distanza delle prenozioni utilizzate dagli individui preposti a governare, insomma tutte le regole di metodoconsigliate da Durkheim si rivelano allora ancora assai preziose. Il tutto, eventualmente, per arrivare alla conclusione o che chigoverna il sociale non ne sa abbastanza o che nelle sue decisioni non utilizza le conoscenze disponibili. Conclusioni cui lo stessoDurkheim a suo tempo era giunto. 4. L’ideale dei tipi ideali a)Weber è il massimo teorico di quella che chiamo sociologia idealtipica. Tra lui e il suo contemporaneo Durkheim sembra svolgersi,sia pur a distanza, ché mai si conobbero, una vera e propria battaglia. Al pari di quelle che svolsero realmente tra Germania eFrancia nel corso della Prima Guerra Mondiale e che videro entrambi i sociologi decisamente schierati a favore del proprio paese

contro l’altro[51]. Ma la battaglia di cui qui parlo è a colpi di categorie del discorso. Di quei discorsi con i quali entrambi feceroprendere il volo alla sociologia tra le alte sfere universitarie dei rispettivi Stati. Ove Durkheim esclude l’individuo e il soggetto daciò che costituisce il fatto sociale da definirsi in nome di una scienza del tutto oggettiva e apparentata con quella biologica, Weber fainvece mosse praticamente opposte: ad interessarlo sono anzitutto le azioni degli individui che si raggruppano e di cui egli punta adinterpretare le intenzioni soggettive in base al senso che essi stessi condividono. Di più: se per il primo da definire è anzitutto iltipo medio dei fatti sociali, per il secondo ogni azione sociale va interpretata a partire da un tipo ideale. L’alternativa sembradavvero secca, eppure è simmetrica: il sociale come fatto compiuto, oggettivo, oppure come azione in corso, soggettiva? Che siimpone necessariamente sugli individui oppure che è reso possibile da gruppi di individui? Che va definito nel suo tipo mediooppure interpretato a partire da un tipo ideale?Talcott Parsons, di cui si dirà in seguito, più o meno mezzo secolo dopo, negli Usa, ha costruito un sistema di risposte per soddisfareentrambi questi due generi di domande. Così è come se si fosse provato a far pace tra i due orientamenti, quello durkheimiano equello weberiano, tra loro incompatibili.Non è questa la via qui perseguita. Sostengo invece che le scienze sociali hanno una duplicità problematica irriducibile a qualsiasidiscorso univoco, a qualsiasi dialettica. E ciò, come già detto, per il semplice fatto che la società ha sempre una doppia realtà, le cuiparti sono contigue, si toccano, stridono tra loro, ma non comunicano o quanto meno non lo fanno normalmente, naturalmente. Chedue padri fondatori delle scienze sociali come Durkheim e Weber siano così l’un contro l’altro armati, pur quasi senza saperlo,questo per me è un sintomo vago, ma significativo di tale duplicità sociale irriducibile. Ma di essa tratterò più oltre, ora vannomenzionate le differenze dei contesti storici nazionali di questi padri fondatori della sociologia. Tra Otto e Novecento, in effetti, la Germania intellettuale segue delle vie quasi eguali e contrarie a quelle francesi. Vi primeggia un

ritorno a Kant, a vario titolo proposto da filosofi quali Dilthey[52] e Windelband[53], il quale¸ in particolare, prescrive di tenereben distinte scienze della natura e scienze dello spirito, altrimenti dette scienze “nomotetiche” e “ideografiche”, queste ultimecomprendenti anche discipline come la storiografia e la sociologia. All’interno di queste ultime primeggia la categoriadell’individualità, in più o meno larvata polemica col materialismo storico. Se l’individuo, torna infatti ad essere considerato il veroprotagonista della società, invece delle classi, nella storia viene rivalutata l’importanza dell’evento unico, rispetto alle granditendenze oggettive. Weber, in origine brillante economista, poi convertitosi alle scienze sociali, condivide queste scelte problematiche. Il sociologo perlui non ha alcun pulpito scientifico che lo pone al di sopra degli altri individui, non può non interpretare come chiunque e come

chiunque non può sottrarsi ai rischi dell’arbitrio che tutti corrono interpretando. La sua sociologia sarà dunque “interpretante ” [54].Essa si guarda bene dal provare a spiegare la società in base a cause del tutto oggettive (come in Durkheim), né completamentedeterminanti (come nel classismo o nell’evoluzionismo), ma non per questo rinuncia a comprendere le cause dell’agire sociale. Alladomanda “cos’è la società?” qui si risponde con un altra domanda su cosa v’è di razionale, di razionalmente interpretabile nellasocietà, considerata di per sé ben poco razionale e ben poco conoscibile. Poichè al servizio dello Stato, e come ogni altrointellettuale di professione, il sociologo non deve farsi condizionare da qualche gruppo sociale particolare o partito politico: deve

puntare a svuotare la propria interpretazione da ogni valore, per renderla la più avalutativa, la più obbiettiva possibile[55]. Per

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questo non deve rinunciare a trovare le cause dell’agire sociale, ma non deve pretendere di trovarne di più di quelle sufficienti acomprendere il senso di questo agire di per sé sempre anche insensato. Dal momento che per Weber la realtà sociale resta sempre inparte insensata, inconoscibile, la sua domanda cruciale è come se ne possa conoscere o meglio riconoscere (qui sta un puntodecisivo, come vedremo) il senso razionale, separandolo dall’irrazionalità.I tipi ideali non sono allora che diverse ipotesi per distinguere questa razionalità e interpretarla a seconda dei concreti casi sociali

da studiare. L’esempio più noto di questa impostazione è L’etica protestante e lo spirito del capitalismo[56] . Tale “etica” cometale “spirito”, infatti, anche se quest’opera non lo dichiara espressamente, sono da intendersi come due tipi ideali. Weber, infatti,esaminando le diverse versioni della religione protestante (luteranesimo, calvinismo, pietismo, metodismo, sette battiste, mennoniti,quaccheri) arriva a selezionarne i caratteri etici che per lui hanno più “affinità elettive” con i caratteri “spirituali” del capitalismo,anch’essi ricavati selezionando tra diversi modi d’intendere il capitalismo e soprattutto in opposizione alla visione tutta materialistadell’economia. L’obiettivo è dimostrare che questa corrispondenza tra due tipi ideali riesce a dare una spiegazione razionale dialcuni aspetti quanto mai complessi della realtà storica e sociale: ad esempio, il fatto che il capitalismo si sia sviluppato di più inpaesi protestanti che in paesi cattolici. La polemica col determinismo economico propugnato dal marxismo in auge in questaGermania inizio secolo è frontale. Contrariamente a questa visione classista secondo cui tutta la storia delle società modernesarebbe da spiegare in base alle necessità del capitalismo e alla sua forza distruttrice di ogni fede, se non nel denaro, Weberpropone tutta un’altra visione sociale e storica, scandita dagli incontri resi possibili da diversi tipi soggettività: il capitalista e ilprotestante più convinti, lungi dal combattersi l’un l’altro, appaiono in sinergia. Gli ideali della razionalità economica e dellareligiosità puritana in questa visione hanno così la meglio sulle semplici necessità materiali, tra cui i socialisti vedevano sorgerel’avvenire del riscatto proletario. La distinzione maggiore tra i diversi “tipi ideali” qui avviene dunque tra la razionalità rispetto allo scopo (ad esempio, quella tuttocalcolo e orientata unicamente a far profitto per il profitto, perseguita dal capitalista) e la razionalità rispetto al valore (adesempio, quella etica orientata da valori eterni e ultraterreni come quelli religiosi). Il tipo ideale di questo ideale di razionalità èdato dalla prima, dalla razionalità rispetto allo scopo. Quella “rispetto al valore” ne è una variabile derivata, come pure quellaulteriore, “nel rispetto della tradizione” ne è una variabile degradata.L’ideale di razionalità per Weber sta dunque in un’azione i cui mezzi sono adeguati ai fini. Il che significa che non ci sianocontraddizioni nella sua logica. La figura empirica che incarna questa logica è chiaramente l’imprenditore capitalista, il suo tipicomodo di fare calcoli e di agire in rapporto a delle previsioni e alle sue realizzazioni. Il comportamento che qui fa da modello èinfatti il soggetto in grado di calcolare preventivamente il profitto che può ricavare dai suoi investimenti e che eventualmente licambia se la previsione non si realizza.Prima conclusione: Weber non ha mai dimenticato i suoi studi da economista, ma anzi li ha sempre rinnovati, ergendo quello che perlui è il tipo ideale della razionalità capitalistica a ideale di tutti gli altri tipi ideali. Ma ad attenersi a questa conclusione siarriverebbe a dedurne che la sociologia idealtipica è una sociologia da capitalisti. E così non si farebbe che confermare le critiche

che sono venute da tutti i suoi commentatori classisti, più o meno ispirati dal marxismo[57]. Trovo invece ci sia anche un’altraconclusione da trarne.Lo faccio trattando il prossimo punto. b)In modo seccamente empiristico, Weber sostiene che ogni disciplina scientifica in generale tende all’evidenza. Viene da chiedersicome in tal modo sia concepibile anche la più clamorosa delle scoperte scientifiche, quale quella copernicana che ha contraddettol’evidenza della piattezza della terra per affermare invece la sua rotondità, in tempi in cui era letteralmente inimmaginabile.L’evidenza non è altro che una delle categorie utilizzate, e non sempre, dalle scienze. Così pure il senso comune, che sull’evidenza sibasa, rientra certo tra i temi che le scienze sociali devono studiare (Geertz, ad esempio, dedica analisi del tutto interessanti al suo

variare in diverse realtà sociali [58]) ma non è l’unico, né tanto meno il decisivo. Lo stesso può dirsi in logica del principio di noncontraddizione cui si rifà Weber per fondare il suo ideale di razionalità sulla non contraddizione tra mezzi e fini. Fin da Platone, chenon per nulla fondava la sua filosofia sul concetto di Idee al plurale, la logica non è mai stata pensata a senso unico come unica e

obbligatoriamente non contraddittoria. Del resto, come ha dimostrato il grande filosofo tedesco Heidegger[59], anche nella formulapiù canonica del principio di non contraddizione, A=A, risalente ad Aristotele, il fatto stesso che il simbolo A debba essere ripetutoevoca una contraddittorietà irriducibile tra il primo e il secondo A. Quel che diceva Durkheim della società, che non esiste, perchéal posto suo esistono solo delle società, può dirsi parimenti della logica, e dunque della razionalità, specie quella che si cerca nellarealtà sociale: che non esiste, perché al posto suo esistono più logiche, ossia più razionalità tra loro essenzialmente diverse.Ma anche da un punto di vista strettamente empirico, basato su ricerche sociali (ad esempio le nostre), è del tutto evidente cheesistono delle azioni sociali per le quali il senso comune non vale, né hanno alcuna razionalità rispetto allo scopo, al valore o allatradizione, senza per questo dovere essere considerate irrazionali. Si tratta, ad esempio, di quel che accade in luoghi dove il lavorodal punto di vista del senso comune è impossibile e i lavoratori per renderlo possibile non hanno altra risorsa che il loro pensiero;pensiero, che ha una sua propria razionalità irriducibile a qualsiasi scopo, valore, tradizione.In definitiva, il primato che Weber assegna all’evidenza di una logica non contraddittoria è giustificato dall’intenzione dello stessoWeber di fare del senso comune la matrice ideale della razionalità in campo sociale. L’intento polemico è chiaramente verso queigruppi sociali le cui intenzioni non rispettano il senso comune. Mentre ad essere favoriti sono i gruppi sociali che lo rispettano, qualiche siano i loro scopi, i valori e le tradizioni. Se dunque l’ideale è quello puramente calcolatore della razionalità capitalista, esso,secondo Weber, può far da ideale anche per altri gruppi sociali, quali quelli di tipo religioso e agrario, nonché la stessa burocraziastatale.Conclusione: non che la sociologia idealtipica sia semplicemente al servizio del capitalismo, essa sostiene piuttosto unarazionalizzazione di tutti i gruppi sociali per accrescere il potere di chi già ne ha.Per spiegare questa conclusione consideriamo la definizione che dà Weber del fondamento del potere: l’obbedienza: ha potere chi

ottiene obbedienza da altri[60]. Anche qui, coerentemente, è questione di rapporti soggettivi tra individui e di non contraddizione:

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obbedire significa non contraddire. Per avere potere, dice Weber, non basta far subire il proprio potere ad un altro che vi soggiacepassivamente, occorre che questi risponda attivamente al comando. Ma perché ciò avvenga occorre che l’obbedienza sia fondatasulla condivisione del senso del comando. Qui di nuovo la questione del senso comune, tra chi comanda e chi obbedisce. Questioneche viene posta in termini di legittimazione: dei diversi tipi di legittimazione (razionale, tradizionale, carismatico) di cui il potere

può godere[61]. Ma l’essenziale resta che il potere sia fondato sul consenso, e ciò fino al punto di riscuotere obbedienza.Ecco, dunque, di che si pone al servizio la sociologia idealtipica: di un potere e di una razionalizzazione sociale così concepiti, chesi misura sul consenso, ma che si impone con comandi che richiedono obbedienza. E ciò evidentemente per escludere realtà socialisenza potere, senza comandi e/o obbedienza, e per ciò stesso ritenuti irrazionali.A parte ogni altra considerazione sull’intensa attività scientifica, politologica e politica di Weber qui importa ricordare la suaconvinzione che uno Stato come quello tedesco del suo tempo non potesse non essere una potenza imperalistica. Convinzione, questa,che lo ha portato anche a sostenere fino in fondo lo scatenamento di quella Prima Guerra Mondiale tramite la quale la Germania hatentato per la prima volta di succedere alla declinante egemonia mondiale inglese. c)Che nel potere la cosa più interessante da analizzare sia come si legittimi, come trovi consenso e obbedienza, questa indicazione dimetodo proposta da Weber ha riscosso un successo straordinario tra le scienze sociali. Tutt’oggi sono infiniti gli studi orientati inquesto senso. Ma si può anche notare come un movimento alternativo tra i più noti abbia scelto di chiamarsi dei “disobbedienti”,formula in cui risuona un eco sia pur invertito del metodo weberiano. Sono possibili però altri modi di porsi rispetto a questometodo. Anche se non è la problematica del potere e del governo ad essere al centro delle nostre ipotesi, esse la contemplano aiconfini dei loro campi di ricerca. È da questa angolatura che propongo qualche considerazione su ciò che trovo più criticabile inWeber, per poi invece sottolineare in che c’è sempre da imparare.Criticabile è, anzitutto, che il suo ideale di razionalità sociale (come razionalità del potere) si voglia unico e senza contraddizioni,come unico e senza contraddizioni si vuole il senso comune su cui si fonda la logica di questa razionalità. Così infatti si condannaall’irrazionalità ogni realtà sociale senza potere e fuori dal senso comune.Criticabile è , in secondo luogo, il fatto di considerare il potere unicamente in base al tipo di legittimità fondata sul consenso di cuipuò godere. Così infatti si fa del potere una questione puramente soggettiva, di comando ed obbedienza, senza considerare le suecondizioni oggettive: ossia le condizioni che rendono possibile qualsiasi potere, come la ricchezza o le posizioni istituzionaliprivilegiate, e che esistono indipendentemente da consenso, comandi e obbedienza. D’altra parte, essere governato significa subireun potere, ma ciò non significa necessariamente obbedire, né l’unica alternativa è disobbedire. Anzi, ciò che è più interessante per lericerche sociali sulle attività esecutive, governate da altri, è proprio analizzare come esse si rendono possibili da loro stesse,applicando a loro modo i comandi ricevuti, sottraendosi ad essi o anche trovando soluzioni impreviste. Tutte eventualità, queste, chesono del tutto ammissibili, una volta ammesso che il potere su una qualsiasi attività non esaurisce la molteplicità di possibilitàconnesse a tale attività. Criticabile è infine il fatto che a considerare solo come un potere si legittima si trascura la cosa che più conta quando si studia ilpotere: il sapere sui cui si basa il suo esercizio. Se si vogliono analizzare le decisioni di chi ha potere sugli altri, infatti, non c’èaltro modo di valutarle se non chiedendosi in base a quali conoscenze delle condizioni oggettive tali decisioni sono prese. Ciò nonviene considerato se ad interessare è solo come un potere riesce a condizionare la soggettività su cui si esercita. Per dirlo piùseccamente: la storia è piena di esempi di governi del tutto legittimati, che godono del massimo di obbedienza e di consensi, e checiononostante prendono decisioni rovinose.D’altra parte, il metodo della sociologia idealtipica di Weber ha ancora da insegnarcialmeno quattro cose, le quali, tra l’altro, vanno in tutt’altra direzione rispetto agli insegnamenti di Durkheim:·che la soggettività conta nel sociale, che anzi ne può essere una dimensione decisiva e che non è dunque da intendersisemplicemente come una figura di assoggettamento a sovrastanti determinazioni storiche e collettive;·che per soggetto sociale non si debba intendere necessariamente o l’individuo o al contrario le classi: diversamente

dall’interpretazione tutta individualistica [62] di Weber trovo che il suo concetto di “gruppo” contempli che la soggettività sociale,a seconda dei diversi casi, a volte possa concentrarsi in un individuo, a volte risulti come effetto di più individui che come taliperdono ogni rilevanza;·che per studiare la soggettività non si deve guardare dietro di essa, nell’intento di scoprire da quali cause oggettive sianecessariamente determinata, ma si deve osservare dentro di essa, dentro le sue stesse intenzioni e ciò che queste intenzioni rendonopossibile;·che il ricercatore sociale, in quanto egli stesso interprete della società come chiunque altro, non ha da supporre alcuna superioritàsui soggetti che la sua ricerca interpella.Quattro cose preziose, queste, perché rischiarano la strada alle ricerche sociali sulla problematica delle possibilità soggettiveirriducibili a qualsiasi necessità oggettiva.Ma quattro cose che, per brillare in tal modo, hanno bisogno di essere scrostate. In effetti, Weber le presenta sempre avvolte da unaganga dialettica che le offusca. La soggettività nel suo discorso è infatti sempre una soggettività assoggettata al senso comune, ilquale è categoria in fin dei conti oggettiva, in quanto risulta dalla media al ribasso di più soggettività. Inoltre, questa media non èneanche, come in Durkheim, il semplice risultato di una comparazione, ma è selezionata alla luce di un tipo ideale, il cui ideale è,come già criticato, il dogma della non contraddizione, dell’identità senza resti. Cosicché in Weber alla fin fine di vera soggettivitàsociale ce ne è solo una, quella della razionalità avente a ideale la non contraddizione. Per aprire invece la problematica della soggettività sociale in tutta la sua infinita vastità, mai riducibile ad una tipologia, tanto menose fondata su un unico ideale, le nostre ricerche considerano ogni soggettività sociale nella sua singolarità contigua con altresoggettività: singolarità e contiguità che possono essere studiate solo se al loro centro si pone non il senso comune, ma il pensiero,in quanto attività intellettuale che rende possibili realtà sociali altrimenti impossibili. Di qui anche il fatto che tra il ricercatoresociale e i soggetti da lui interpellati il punto di incontro non è da vedersi garantito dal fatto che entrambi ricorronoall’interpretazione, all’interpretazione dello stesso senso comune, ma è sempre da cercare e da trovare come faccia a faccia tra due

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pensieri diversi, l’uno volto a conoscere quella realtà sociale di cui l’altro fa esperienza diretta [63]. 5. Il funzionalismo e i suoi paradossi a) Quello funzionalista è un approccio delle scienze sociali tipicamente anglossassone, che ha trionfato a partire dal primo Novecentotra Oxford e Cambridge, ma che è anche salito in cattedra in ogni continente, diffondendo insegnamenti e schiere di seguaci a Chicago, Sindney, Cape Town, Al Cairo e in numerose altre importanti università. Una folla pressoché infinita di ricerche ericercatori, tant’è che in area anglosassone è quasi impossibile tutt’oggi concepire le scienze sociali in un modo che da vicino o dalontano non si apparenti con la tradizione funzionalista. D’altra parte, poiché, tra le scienze sociali, quelle di lingua inglesedominano quanto mai la scena mondiale, è decisivo mettere bene a fuoco quale è la risposta di questa tradizione alla domanda sucos’è la società. La sua risposta influenza ancora tutte le possibili risposte a questa domanda.Nell’impostazione originaria di Malinowski, che è uno dei padri fondatori del funzionalismo, ci si astiene dal chiedersi cosa è la

società in generale e si prende invece atto che la complessità di quest’ultima è tale da comportare dimensioni “ imponderabili” [64].Ciò ammesso, non resta dunque che procedere per induzione, tramite l’osservazione diretta del ricercatore che deve partecipare ilpiù possibile alla realtà delle popolazioni indagate. “Lasciare che i fatti parlino da soli” e “afferrare il punto di vista

dell’indigeno”[65] diventano così un unico obiettivo.L’esserci, sul campo di ricerca, l’andare e addirittura l’abitare tra la gente che ci vive, cose di cui lo stesso Malinowski è statopioniere e maestro, sono divenuti così dei veri e propri strumenti essenziali per la sperimentazione delle scienze sociali, quasicome il cannocchiale per la fisica galileiana o la provetta nella ricerca chimica.La domanda decisiva qui dunque non riguarda cosa sia la società ma come una società funziona: dove e come si possono individuaredei rapporti tra mezzi e fini che siano decisivi per le popolazioni indagate. Laddove mezzi e fini sono tra loro in un rapportofunzionale, il funzionalismo riconosce un’istituzione: un’istituzione sociale, da intendersi come “sistema organizzato di attività

intenzionali”[66]. Si noti la parola “sistema”, per cui al centro dell’interesse non è posta la funzione in quanto tale, ma i rapportisistematici tra più funzioni. Sono questi quindi al cuore della problematica funzionalista, la quale è dunque alla fin fine unaproblematica istituzionalista del sociale.Ciò significa dal nostro punto di vista che essa ha sempre da insegnare qualcosa quando si tratta di analizzare il sociale dall’otticadelle popolazioni che hanno i mezzi, il potere e il sapere, e dunque anche le istituzioni utili a perseguire i propri fini e dicondizionare così il resto della società. Ma è fuori tema quando si tratta di analizzare delle realtà sociali costituite da popolazioniprive di mezzi, senza il potere e il sapere necessari per decidere istituzionalmente delle proprie funzioni sociali. Il limite maggioredel funzionalismo sta proprio nel fatto di non ammettere i limiti alla propria problematica, di relegare nell’“imponderabile” la realtàsociale che non possa essere studiata in termini funzionali, di rapporto istituito tra fini e mezzi. Tutta l’opera di Malinowski è

segnata da questa unilateralità problematica che pur egli si sforza di aprire a nuovi orizzonti di ricerca. I suoi diari[67], scrittidurante i soggiorni di ricerca tra le popolazioni delle isole Trobriand, e pubblicati postumi, a parte ogni risvolto scandalistico,mostrano in modo del tutto significativo le contraddizioni e i tormenti di questo pioniere tanto della ricerca sul campo, tanto delfunzionalismo. La dimostrazione che popolazioni ritenute selvagge abbiano istituzioni funzionali non è infatti un’operazione cosìevidente come egli cerca di far intendere. Essa ha due obiettivi almeno in parte contraddittori: da un lato, accogliere i costumitrobriandesi ad un livello comparabile a quello civilizzato, ma, dall’altro, mantenere delle categorie d’analisi del tutto estranee aquesti stessi costumi. Insomma, un riconoscimento che è al tempo stesso un disconoscimento dal quale la cosa più evidente che esceè la promozione del funzionalismo a codice di lettura universale, a pensiero unico per conoscere ogni realtà sociale.A tal scopo le funzioni sociali sono considerate delle risposte istituzionalizzate in rapporto a bisogni naturali. Così si teorizza chel’uso dei mezzi per perseguire i fini sociali, anziché dipendere dalle decisioni soggettive delle popolazioni che hanno potere su talimezzi, dipenda direttamente e completamente da necessità oggettive, esterne agli stessi rapporti sociali. Ogni distinzione tra l’“alto” e il “basso” del sociale, tra chi può e sa far funzionare una società e chi non può e non sa, diventa superflua e ognimanifestazione di soggettività sociale viene ricondotta a pura funzione dell’oggettività naturale. Il che significa vedere e pensare lasocietà come una “seconda natura”, per capire la quale basta applicare con qualche rettifica le categorie valide per la prima. Labiologia e l’evoluzionismo, quindi, di nuovo, come verità ultime del sociale.Un altro grande ricercatore e maestro di questa scuola di pensiero, Radcliffe-Brown, arriva in effetti a sostenere con ostinazione lapossibilità di un’ “unica scienza naturale della società”. Essendo uno dei più attivi propagandisti nel mondo dell’antropologiasecondo il verbo funzionalista, accentuandone il carattere naturalistico cercava di mantenere un senso unitario alle svariate ricerche

da lui promosse in Africa, Australia, Stati Uniti e Europa[68]. A tal scopo secondo lui si sarebbe dovuto “arrivare ad unacomparazione sistematica di un numero sufficiente di società di tipo sufficientemente diverso”. È la tesi sostenuta in un ciclo diconferenze tenute a Chicago nel 1937 da questo grande ricercatore che, suo malgrado, venne riconosciuto come padre dello

struttural-funzionalismo [69].Il che non impedisce che in Inghilterra il suo insegnamento abbia uno sviluppo del tutto divergente, grazie all’opera originale di unsuo allievo eterodosso, Evans-Pritchard. Questi, assumendo in modo quanto mai rigoroso l’imperativo dell’induzione basatasull’osservazione diretta e su un preciso vaglio critico degli elementi di ricerca, contesta l’inevitabile approssimazione di ognicomparazione fondata su presupposti naturalistici tra realtà sociali diverse, contribuendo così a orientare il funzionalismo su quelrelativismo delle scienze sociali di cui, come si è visto, Boas fu precursore. b)Il paradosso del funzionalismo, già notato nell’opera di Malinowski, è che, nonostante la sua visione istituzionalista del sociale, haottenuto i suoi maggiori titoli di merito grazie a ricerche di tipo etnografico condotte tra popolazioni sperdute, in via d’estinzione, o,

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come vedremo tra poco, socialmente emarginate. Ma si tratta di un paradosso che è spiegabile se si coglie un inequivocabile trattocomune delle ricerche funzionaliste.

Si tratta della tradizione giuridica anglosassone del diritto consuetudinario[70]. Una tradizione che non ha mai rotto i ponti coiprincipi della famosa Magna Charta dei primi del XIII secolo. In un tempo cioè in cui era possibile che degli individui, quali ipadri fondatori di tale testo, avessero proprietà tali, specie terriere, che, una volta accordatisi tra loro, potevano decidere in tutto eper tutto del loro destino sociale. Da qui viene il mito tipicamente anglosassone di una società di individui “liberi tra pari ”, capacedi autoregolarsi. Autoregolazione, che per l’essenziale si realizza nel non ammettere alcuna sopraffazione, né interna, da parte di unindividuo sugli altri, né esterna, da parte di ogni potere superiore, astratto e impersonale. Va da sé allora che in questa otticaappaiano quanto mai sospetti tutti quei poteri che vengono da istituzioni anonime e completamente collettive come le leggi scritte egli apparati amministrativi. Quelle leggi scritte e quegli apparati amministrativi che invece hanno primeggiato a diverso modo nellealtre due tradizioni giuridiche prevalenti in Europa, quella francese e quella tedesca. Diversamente da queste ultime, dai destiniassai contrastati e controversi, la fedeltà alla Magna Charta, che nella sua patria d’origine si è mantenuta anche in tempi moderni,ha dunque favorito delle continuità con un passato medioevale, altrove impensabili. Ad esempio, un parlamento con una Camera deiLords che rivendica a chiare lettere le sue origini nobiliari o il perpetuarsi di un potere giudiziario formato dalla corporazione digiudici, custodi e arbitri di consuetudini anche non scritte, le quali formano il diritto detto appunto consuetudinario. Il mito di unasocietà ristretta di individui che hanno il potere di autoregolarsi naturalmente ha così trovato ogni sorta di conferme nella storiainglese. Tra di esse, e non da ultima, va ricordato anche il fatto che la patria dell’immenso Impero Britannico nel corso delSettecento è diventata pure la culla del mercato capitalista. Un mercato che, per definizione, deve essere il più libero possibile daogni ingerenza pubblica, legale e statale per potersi autoregolare.Per relativizzare la pretesa di chiara incontestabilità che spesso vanta questa tradizione, basta rimarcarne semplicemente l’origineevidentemente aristocratica. La società di liberi tra pari che si autoregola è infatti un mito medioevale che gli anglosassoni traggonodalla concezione giuridica vigente nella Roma antica. Se in quest’ultimo caso ad essere esclusa dalla società di diritto era lamoltitudine infinita degli schiavi, nel Medioevo, come si apprende sui banchi di scuola, lo erano i servi detti “della gleba”, nonché ipoveri, anch’essi in maggioranza assoluta nella popolazione del tempo. Del resto, quanto all’argomento secondo il quale il liberomercato capitalista darebbe l’opportunità a chiunque di diventare libero tra pari, esso comunque lascia insoluto il problema dellastragrande maggioranza di chi non solo non ce la fa, ma neanche ha il potere di provarci. Dal punto di vista dell’esclusione socialepossono allora apparire sotto una nuova anche quei poteri superiori, astratti e impersonali, quali leggi scritte e apparatiamministrativi, tanto poco graditi alla prospettiva giuridica anglosassone più tradizionale. Senza negare l’infinità di problemi e dimali comportati da tali poteri (che per altro si sono necessariamente imposti anche in tutti i paesi di lingua inglese), quanto meno èchiaro che essi, nel loro rivolgersi a chiunque, di qualunque condizione, hanno allargato la dimensione del sociale per dar spazio erilievo anche alle popolazioni che non hanno alcun potere di deciderne le funzioni.Ma torniamo ai padri fondatori dell’antropologia ed etnologia funzionaliste, quali Malinowski, Radcliffe-Brown e Evans-Pritchard,tutti intellettualmente cresciuti nell’Inghilterra della prima parte del Novecento. La società di individui liberi tra pari che siautoregola naturalmente è certo un leit motif delle loro indagini pionieristiche, rispettivamente tra popolazioni come quelle delleIsole Trobiand, delle Isole Adamane o dell’alto Nilo. E se essi lo trovano è perché non cercavano altro: non cercavano altro, perchétra i loro presupposti c’era la tradizione giuridica anglosassone or ora rievocata. In altre parole, ciò che voglio contestare è il loropresunto empirismo, la loro idea di “lasciare che i fatti parlino da soli”. I fatti non parlano mai se non tramite la voce o gli scritti diqualcuno che, specie se ricercatore sociale, deve rendersi quanto mai responsabile del senso delle sue parole e del suo pensiero. Lapretesa di limitarsi alla semplice induzione e alla percezione della realtà così com’è è sempre una pretesa da “pensiero unico”, cheaspira ad escludere ogni altro, quale appunto il funzionalismo anglosassone che in effetti ha finito per dominare le scienze sociali,come appunto l’Impero Britannico fino ai primi del Novecento aveva dominato il mondo, per venire in seguito rilevato da quello

statunitense[71]. Il che non toglie che ne siano venute delle conoscenze immense su simili popolazioni dai costumi tanto singolari,quanto in via d’estinzione; conoscenze che hanno fatto scuola anche per ogni ricerca successiva sul campo. Ma credo si debba ancheconvenire che per questi padri fondatori dell’antropologia e dell’etnografia funzionaliste il fascino maggiore di popolazioni comequelle trobiandesi, andamane e nuer, sia proprio consistito nel fatto che esse non conoscevano la separazione tutta moderna tra chipuò e sa e chi non può e non sa, tra i ricchi e i poveri. È da qui che viene la vera passione di ricercatori come Malinowski,Radcliffe-Brown e Evans Pritchard nello studiare organizzazioni sociali strutturate in clan familiari, tramite riti, magie e faide.Leggendo questi studi, infatti non è difficile cogliere in essi l’intenzione di dimostrare l’esistenza tutta reale e funzionante di societàsenza leggi scritte, né istituzioni burocratiche, ma anche dove nessuno può ritrovarsi estraniato dalle decisioni riguardanti la gestionedel potere. Molto significativo a questo proposito è il sottotitolo del saggio pubblicato nel 1940 di Evans-Pritchard sulla sua ricerca

sui Nuer: Un’anarchia ordinata[72]. Ciò che interessa di questa popolazione è dunque il fatto che essa sia ordinata, che svolga lesue funzioni, pur senza essere stratificata secondo gerarchie di potere. Così, in fondo, questo allievo di Radcliffe-Brown non facevache portare alle estreme conseguenze quello che era stato un interesse di gioventù del suo stesso maestro: Kropotkin, noto teorico

dell’anarchismo[73].In effetti, l’idea libertaria e anarchica può facilmente coniugarsi con la tradizione liberale anglosassone. Medesimo è il presuppostosecondo cui la vera società non debba rispondere ai bisogni naturali degli individui. Medesimo è il rifiuto della separazionemoderna tra le popolazioni che hanno il potere di decidere per il resto della società e questo stesso resto della società che il poterelo può esclusivamente subire. La paradossalità del funzionalismo sta dunque tutta qui: nel sostenere che le funzioni sociali, quali sono analizzabili tra popolazionisenza leggi , né Stato, nonché prive di profonde divisioni quanto alla gestione del potere, sono determinate da necessità naturali lequali devono valere anche per società modernizzate dove esistono leggi, Stato e profonde divisioni attorno al potere. La pretesa diun’unica scienza sociale funzionalista implica in effetti l’ipotesi quanto mai equivoca (libertaria? liberale? liberista?) secondo cui inogni società le funzioni sociali in fondo si svolgano e si possano conoscere indipendentemente dal potere di governo che su di essesi esercita.

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c)Nell’altro grande paese di lingua inglese, gli Stati Uniti, il funzionalismo ha perfezionato due metodi di ricerche divergenti einteressati più ai fenomeni sociali metropolitani. Uno di questi due metodi, di cui tratto qui di seguito, predilige lo studio del socialedal punto di vista di chi ha il potere e il sapere di condizionarlo e che quindi risponde anche all’esigenza di una prospettivad’insieme, dall’alto, più panoramica, più teorica; l’altra, cui sarà dedicato il paragrafo successivo, studia invece il sociale dal puntodi vista di chi il potere di condizionare il resto della società non ce l’ha, cosicché anche il suo sapere è di dubbia utilità sociale. Dicomune vi è il presupposto che della realtà sociale si debba studiare soprattutto e anzitutto la funzionalità.Il metodo di Talcott Parsons offre la massima sistemazione teorica delle tesi struttural-funzionaliste , nelle più prestigioseuniversità degli Stati Uniti, soprattutto dagli anni Trenta agli anni Settanta, nell’epoca in cui questo paese si afferma come la potenza

egemone mondiale[74]. Il funzionalismo qui non si sperimenta più tra foreste o savane con sperdute capanne di fango e paglia,abitate da gente seminuda, ma si mette alla prova con la potenza e la ricchezza che hanno sede in grattacieli svettanti in mezzo alcaos metropolitano. I problemi di metodo diventano più complicati.La categoria della funzione sociale ad opera di Parsons si precisa all’interno di una sintesi che fa i conti col meglio della tradizionesociologica della vecchia Europa: tanto con la lezione weberiana, quanto con quella durkheimiana. I rapporti tra le funzioni sonostrutturati in modo da dare luogo a fitte e dettagliate gabbie di status e di ruoli che possono essere riconosciute nelle società daanalizzare. Ma, cosa più interessante, anche la categoria dell’azione sociale, pur pensata sempre in termini funzionali, vieneulteriormente raffinata: da valutarne non è più la adeguatezza tra mezzi e fini, ma anche la differenza tra condizioni di partenza e di

arrivo[75]. Se questo scrive Parsons nel 1937, nel 1951 egli precisa ancora di più: per analizzare ogni azione sociale occorre

analizzare la conoscenza di cui l’attore dispone nel compiere la stessa azione[76]. E ciò perché in ogni situazione ci sono semprepiù possibilità di agire e la scelta dell’attore dipende dalla conoscenza che ha dell’ampiezza di tali possibilità.Così viene ottenuto uno schema metodico di indubbio interesse. Esso sicuramente fa scuola per qualsiasi analisi tratti delle sceltecompiute da soggetti che hanno potere di agire nei confronti del resto della società e dunque di condizionarla. Ognuno di questisoggetti (sia uno staff dirigenziale o un’équipe ministeriale, fino ad arrivare ad un comitato sindacale o un’assemblea condominiale),infatti, per esercitare il proprio potere non può non usare un certo sapere, un sapere che riguarda quanto meno le condizioni stesse diesistenza del proprio potere; ed è dunque da questo stesso sapere che occorre partire se la ricerca sociale vuole analizzare come ilpotere viene gestito, quali delle sue molteplici condizioni sono utilizzate come mezzi, quali invece sono tenute in riserbo, e con qualigiustificazioni, per esempio, pertinenti o evasive. Ma si può anche rovesciare il discorso in senso oggettivo: fino al punto disostenere che ogni dato, ogni informazione, ogni nozione presente o passata riguardante il sociale si inscrive sempre in una qualcheazione concernente il potere, quanto meno quello universitario. Cosicché, per analizzare qualunque notizia sul sociale, la ricercadeve analizzare anche la sua funzionalità rispetto alla gestione del potere, per riuscire a distinguere quanto tale notizia ampli orestringa la gamma delle scelte di gestione. Detto più sinteticamente, è del tutto proficuo pensare che tra il potere e il saperedisponibili in una realtà sociale agisce sempre una doppia e reciproca funzionalità, per cui, se si vuole studiare tale realtà, bisognaammettere che non c’è potere che non sia esercitato in funzione di un sapere e che non c’è sapere che non sia presentato in funzionedi un potere. E qui la lezione di Parsons è sempre piena di stimoli.Tale ammissione però non comporta affatto l’obbligo di dire che ogni funzione si debba necessariamente conformare ad un’unicastruttura che garantisce l’integrazione delle diverse funzioni, né tantomeno che al di là di tale struttura non si dia altro che devianza

o disgregazione sociale. Come ha a suo modo eccepito Robert K. Merton[77], critico seguace di Parsons, è più opportuno prendereatto che in ogni società esistono sempre delle vaste realtà che sono semplicemente non-funzionali e non integrate, senza esserenecessariamente disfunzionali o disintegranti. È il caso ad esempio di quelle popolazioni in condizioni di precarietà lavorativa,abitativa e/o assistenziale, per le quali le questioni di funzionalità sociale non si pongono nemmeno; e ciò non solo in quantosubiscono le soluzioni funzionali prese da altri, ma anche perché devono rendere possibili delle condizioni di lavoro e di vita che diper se stesse non funzionano.A riguardo, lo struttural-funzionalismo ha in riserbo una ricetta, tutta stelle e strisce, ottimista e da “nuova frontiera” sempre daoltrepassare: la prescrizione secondo cui ogni realtà sociale prima o poi può e deve arrivare a funzionare, così come ogni individuo

emarginato deve e può avere l’opportunità di riscattarsi[78]. Il che però ha come implicazione meno edificante che, in casocontrario, tali realtà e tali individui non possono non essere considerati e trattati come devianti e disgreganti. I considerevoli tassi

delle popolazioni carcerate in Usa illustrano bene come simile concezione del sociale possa funzionare[79].Da un punto di vista del metodo si tratta allora piuttosto di chiedersi come possano coesistere una realtà sociale più o menofunzionale con realtà sociali non funzionanti. Una domanda questa che richiede anzitutto risposte politiche, contingenti o strategiche,governative o non governative, concertate o conflittuali, comunque mai definibili tramite un metodo o una teoria sociale, meno chemai funzionalisti. Concludo quindi su quella che è in fondo la prescrizione più evidente dello struttural-funzionalismo:

l ’integrazione. Merito che più spesso viene riconosciuto all’opera di Parsons è infatti di avere contribuito [80] a concepire quello è

stato chiamato “il più importante e notevole esperimento dopo le invasioni barbariche”[81]. Sarebbe a dire quell’amalgama dipopolazioni diverse che gli Usa hanno reso possibile, specie nel momento del loro presentarsi al mondo come potenza egemone.

L’integrazione è in effetti oggi parola d’ordine obbligatoria dei governi di tutti i paesi più ricchi nei confronti dell’immigrazione[82].Obbligo, questo, senza dubbio necessario, specie di fronte alle ricorrenti tentazioni puramente discriminatorie, ma sicuramenteinsufficiente e non unico e tanto meno esclusivo. L’integrazione delle nuove popolazioni nelle funzioni sociali esistenti non puòcomunque essere accompagnata dalla condanna come devianti o disgreganti di tutti e di tutto ciò che nell’integrazione non rientra. Seciò avviene, è perché chi ha il potere sulle funzioni sociali le usa ignorando, deliberatamente o meno, le condizioni della vastissimarealtà sociale che non rientra, né rientrerà mai nell’integrazione. Un’ignoranza che nei punti più equivoci dello struttural-funzionalismo può anche trovare i titoli per presentarsi come dotta. Per questo la ripresa e la critica di questo metodo è sempreimportante anche per la sperimentazione delle nostre ipotesi che hanno altri campi d’applicazione.

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6. L’etnografia statunitense a)

Molto più vicina ci è la problematica etnografica[83] dedicata a realtà sociali metropolitane, che ha avuto grande sviluppo semprenegli Usa, a partire dagli anni Dieci e Venti del Novecento, con ricerche condotte presso la “Scuola di Chicago”, come quelle di

Thomas e Znaniecki, che promuovevano a fonte di studio dei problemi migratori la corrispondenza di un contadino polacco[84], o di

Neils Anderson, mescolatosi a lavoratori senza fissa dimora [85]o ancora dei coniugi Lynd sui comportamenti della città media

americana verificati nell’arco dei dieci anni, tra il 1925 e il 1935, che abbracciano la grande crisi del Ventinove[86]. Tutto un ciclo

di grandi ricerche sul campo, questo che arriva fino ai primi anni Quaranta, segnati dalla ricerca di William Foore Whyte [87] traquartieri poveri con popolazioni d’origine italiana. Ma è cogli anni Sessanta che l’etnografia conosce oltre che un nuovo sviluppo,anche dei tentativi di teorizzazione spesso in polemica più o meno esplicita con lo struttural-funzionalismo alla Parsons e Merton.Tra gli autori più citati a riguardo ci sono nomi come Howard S. Becker, Aaron W. Cicourel, Harold Garfinkel, Erving Goffman. Unvastissimo insieme di contributi alle scienze sociali che in Italia ha in Alessandro Dal Lago uno dei suoi più noti sostenitori. Comeegli stesso chiarisce, caratteristica peculiare di questo metodo etnografico sta soprattutto nell’attenzione microsociologica per lepratiche di ogni giorno: la vita quotidiana, opportunamente osservata al di là delle sue apparenze scontate, rivelerebbe un sensopragmatico ben diverso da quello comune. Ad esempio, a diverso titolo, si è dimostrato che le pratiche svolte quotidianamente daitribunali risultano funzionali ben più a necessità di routine istituzionale che al valore della giustizia intesa secondo il senso comune[88]. Netta è dunque l’opposizione nei confronti del metodo di cui Parsons è stato caposcuola e che abbiamo appena considerato. Seil suo struttural-funzionalismo punta infatti ad offrire una teoria sistematica e macrosociologica focalizzata sull’ordine sociale intesocome integrazione di strutture oggettive più o meno costanti e tenute insieme dal senso comune condiviso dai più, del tuttodiversamente l’etnografia osserva la realtà sociale con un’ottica microsociologica, volta a cogliere le percezioni e i comportamentidei soggetti così come agiscono quotidianamente all’interno della “cornice simbolica” che caratterizza ogni situazione concreta.Questa opposizione di metodo può essere intesa con diverse accentuazioni: in modo più o meno conflittuale o invece ridotta asemplice divisione di compiti accademici.Negli Usa degli anni Sessanta e Settanta l’etnografo era per lo più una figura di ricercatore impegnato a rivelare l’assurdità dellasociologia dominante ispirata allo struttural-funzionalismo e a contestare le sue teorie dell’ordine sociale e del senso comune. Così,in Italia, anche assai recentemente, si è ripresa questa accezione dell’etnografia in senso alternativo e conflittuale combinandola conuna rinnovata problematica dell’antagonismo di genere classista. Ne è conseguita la già citata “conricerca”: un termine a suo tempoconiato da Romano Alquati e che ha conosciuto un nuovo successo nell’ispirare delle inchieste condotte all’interno dei movimentidei “no” o “new-global” e più in particolare dei “disobbedienti”.D’altra parte, nelle scienze sociali si è cercato di mantenere il dissidio nei termini del dibattito tra diverse scelte tra lorocompatibili. Si è così ammessa la legittimità della problematica etnografica sotto l’insegna di una qualità da distinguere rispetto allaquantità, che sarebbe l’elemento privilegiato da teorie come quelle struttural-funzionaliste. Micro e macro; soggettivo e oggettivo;qualità e quantità; pragmatico e strutturale; osservazione partecipante, sul campo, e teorie distaccate, sistematiche, fondate su datistatistici: queste alcune delle coppie più usate per riassumere l’alternativa metodologica cruciale di tutte le scienze sociali.Alternativa che non dimostra altro, se non la ricchezza delle scienze sociali, tanto varie, tanto produttive di infiniti modi di pensare econoscere il sociale da non potersi mai ridurre ad una sola. In effetti, si può dire che l’unico principio da tutte condiviso sta proprionel dovere sempre separare, in ogni questione sociale, quello che è un problema sociologico da quelli che sono invece problemiantropologici, etnologici o etnografici. E ciò senza pretendere di risolvere entrambi: senza quella pretesa universalistica,onnicomprensiva, di derivazione filosofica, che rispunta spesso tra gli stessi ricercatori sociali.

Degli esempi in questo senso li si possono trovare nelle maggiori critiche rivolte all’etnologia [89]e che ne denunciano la incapacitàad affrontare le questioni d’insieme di una società e quindi a spiegare le sue trasformazioni progressive o regressive. L’idea cosìdifesa è evidentemente quella secondo cui il sociale soggiace ad un’unica evoluzione storica di cui tutte le scienze sociali nonpossono non tenere conto. Un’idea dunque che sottopone queste ultime all’imperativo di un pensiero unico, di un metodo unico. Asimili conclusioni può del resto portare anche la stessa alternativa tra le già citate coppie di quantità e qualità, macro e micro,oggettivo e soggettivo, se intese in senso dialettico, ossia avente tra loro un ponte discorsivo che permette allo stesso ragionamentodi passare dall’una all’altra.Il problema nuovo e cruciale posto dall’etnografia, che così contribuisce ulteriormente al relativismo delle scienze sociali, è inveceproprio che la molteplicità della realtà sociale è impensabile e inconoscibile come un’unica realtà. Così si afferma una delle piùclamorose e difficili novità impostasi in modo più o meno latente o manifesto a tutto il sapere del secondo Novecento:l’irrimediabile obsolescenza di qualsiasi principio, idea o categoria che sotto qualunque punto di vista pretenda di valere per tutto ilgenere umano o per ogni società.Anche le nostre ricerche etnografiche presuppongono una simile constatazione, ma il loro metodo diverge su più di un punto daquesta etnografia d’ispirazione anglosassone.Se condividiamo la sua critica allo struttural-funzionalismo e al senso comune, nonché il suo interessarsi alle soggettività in modopragmatico e microsociologico, “qualitativo”, tuttavia ci discostiamo da sue categorie fondamentali quali la vita quotidiana el’ordine funzionale che vi sarebbe empiricamente osservabile. b)

L’etnologo d’ispirazione nordamericana ha una precisa prescrizione per chi vuol seguirlo :“scendi in strada e guardati intorno!”[90].Imperativo pragmatico, questo, che andrebbe corredato da una mobilitazione di tutti i sensi (non solo il vedere, ma anche l’

“annusare”! [91]), quanto da un robusto e svariato sapere. Così il ricercatore, col suo sguardo sensorialmente dilatato nonchésapiente, mescolandosi tra la gente, dovrebbe riuscire ad osservarla per quel che essa realmente fa. E, al di qua di tutte le teorie

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sulle opinioni manipolate, sul senso comune, sull’ordine sociale più o meno ben strutturato, si dovrebbe vedere che gli attori sociali,per ottenere gli scopi funzionali alla loro vita quotidiana, sanno organizzarsi in proprio.Non è difficile riconoscere qui all’opera le convinzioni già riscontrate nel funzionalismo anglosassone: quelle di un empirismosempre teso a confermare le possibilità di uno spontaneo autogoverno del sociale. Convinzioni, queste, che hanno delle immediateimplicazioni sulle scelte che orientano la politica della ricerca sociale. La categoria della vita quotidiana ha in effetti una chiaraportata polemica: in suo nome si mette a distanza ogni teoria sociale deduttiva, fatta a tavolino, “dall’alto”, e non tra la gente, vicinoalle sue esperienze più dirette; meno chiaro però è come in nome della vita quotidiana si possa scegliere ciò che vi èintellettualmente rilevante da ciò che è semplicemente banale e futile. Nell’indecisione che così si crea nulla impedisce che adimporsi allo sguardo siano proprio i fatti più banali e futili. In effetti è proprio quanto suggerisce la dialettica proposta da Dal lago:

“ trattare l’ovvio come se fosse strano e ciò che appare strano come ovvio” [92]. Un’alternativa, questa, tra lo “strano” e l’“ovvio”,che porta a fare della percezione la misura del lavoro intellettuale richiesto da ogni ricerca sociale. Conversazioni casalinghe o fattidi costume, come tifoserie calcistiche, diventano casi di studio di grande importanza.Ma, contrariamente alla sua parvenza evidente e intuitiva, l’idea di dovere studiare il sociale nella sua dimensione quotidiana hacome condizione il precoce imporsi negli Stati Uniti di quello che, dopo il film Orson Wells del 1941, è stato stigmatizzato come“quarto potere”. Sarebbe a dire quel potere che surrettiziamente si accompagna agli altri tre legittimamente pubblici (governo,magistratura, parlamento) e che è costituito dai quotidiani. Sarebbe a dire quelle testate della stampa a grande tiratura che, specie nelcorso della Seconda Guerra Mondiale, creano un’opinione pubblica favorevole all’ascesa degli Stati Uniti a potenza mondiale e cheha per protagonisti quei giornalisti che Nietzsche, un secolo prima, chiamava, con una delle sue espressioni violente, ma illuminanti,“schiavi cartacei del giorno”. Insomma, la figura dell’etnologo nordamericano che, anziché passare il suo tempo tra costruzioniteoriche e statistiche, va per strada e si mescola a gente qualunque, magari anche poco raccomandabile, cercando di capire come sela passa giorno per giorno, non può certo non risultare simpatica. Ma se essa si distanzia dalla mentalità universitaria piùtradizionale, lo fa solo perché converge verso un’altra mentalità, sostenuta da un centro di potere, quello della stampa, che nellaseconda metà del Novecento diventa concorrente con quello universitario. Resta che, mentre la ricerca sociale punta sempre adessere scientifica e dunque a confrontarsi col massimo del sapere già acquisito, il giornalismo ha obiettivo non solo di dare delleinformazioni a chi non ne ha, ma anche di farlo dovendo cercare ogni giorno di colpire di più un pubblico sempre sedotto anche daaltri giornali concorrenti. Cosicché, concepire la ricerca sociale come un “reportage” non può comunque non abbassarne il livellointellettuale. c)Quanto si distanzia dunque il metodo delle nostre ipotesi da questo approccio, posto che entrambi si vogliono pertinentiall’etnografia? Certo è che si tratta di andare tra la gente, senza considerarla del tutto manipolata o assoggettata al senso comune, per incontrarlaladdove essa fa esperienze decisive per la sua stessa vita, prendendo sul serio quel che dice e fa. Cose tutte queste su cui, grazie almetodo dell’etnografia americana, sono state fatte infinite ricerche e prodotto un grandissimo patrimonio di conoscenze, comeappena accennato. Se non se ne vogliono seguire i canoni, è dunque tutto da spiegare il perché. Ciò è ancora più importante in quantole nostre ipotesi possono vantare dalla loro solo un modesto insieme di contributi. Tuttavia, come cerco ora di mostrare, c’è più diuna buona ragione per cercare un’alternativa a questo metodo etnografico e per rinnovare altrimenti le ricerche sul terreno.Parto dunque da quella che si può considerare la prescrizione più nota che solitamente viene assunta da questo tipo di ricerche:procedere ad un’ “osservazione partecipante” dei “comportamenti” e delle “percezioni” degli “attori sociali” nella loro “vitaquotidiana”.Prescindo da tutte le argomentazioni filosofiche tra cui simili temi potrebbero far disperdere il discorso per mantenerlo nellinguaggio più semplice e naturale.Chiediamoci quindi quale sia il piano su cui dovrebbe avvenire la “partecipazione” cui allude l’espressione “osservazionepartecipante”. Si tratta in effetti di una domanda decisiva, poiché con questa “partecipazione” il metodo che la rivendica punta asuperare, o quanto meno ad attenuare, quelle differenze rispetto alla gente comune, che di solito sono invece mantenute dairicercatori in scienze sociali. Differenze che possono essere ricondotte essenzialmente a tre: al fatto che il ricercatore è solitamenteesterno ed estraneo alla realtà sociale della gente; al fatto che il ricercatore, essendo un esperto in scienze sociali, è in possesso diun sapere sconosciuto alla gente; al fatto che, infine, avendo finalità scientifiche, il suo problema è conoscere in termini trasmissibilie riproducibili anche altrove, per altri ricercatori, quell’esperienza che invece la gente vive e conosce direttamente.Ora, la partecipazione all’esperienza della gente, secondo questo metodo, è possibile sul piano delle sensazioni, delle percezioni,dei comportamenti o tutt’al più dell’uso di simboli. È essenziale che queste sensazioni, percezioni, comportamenti o uso di simbolisiano rispondenti a necessità per cogliere le quali lo stesso ricercatore non deve fare affidamento sul suo bagaglio di conoscenze. Secosì non fosse, anziché attenuare le differenze con la gente, le accentuerebbe, reintroducendo la sua superiorità di esperto. Decisivaè allora la categoria di “vita quotidiana”. Con essa si allude infatti all’unità di tempo più naturale, il volgere del sole, di cui ognuno,

esperto e non esperto, ha esperienza costante e diretta[93]. Il ricercatore può così partecipare delle sensazioni, delle percezioni,dell’uso dei simboli della gente comune, nella misura in cui si pone e li interpella sul piano delle necessità della vita quotidiana.Ora è proprio qui che c’è il problema. O meglio: è proprio qui che questo metodo rivela il suo aspetto equivoco, di proporre unasoluzione che non solo lascia aperto, ma nasconde un problema cruciale.Il fatto è che ogni ricerca sociale non è mai un fatto spontaneo. I suoi tempi non sono mai quelli del quotidiano. La sua durata, i suoiluoghi, le sue scadenze sono previste secondo un protocollo o un progetto per il quale il ricercatore non può non avere lavoratopreventivamente e a cui deve lavorare anche a ricerca sul campo conclusa. Da questo punto di vista, l’ “osservazione partecipante”risulta una formula troppo semplicista, se non equivoca, in quanto sottace o comunque trascura tutta una serie di operazioni decisiveper la ricerca sociale. Tra di esse, il fatto che il ricercatore, se vuol davvero a capire la gente che interpella, non può limitarsi ausare il suo sapere al ribasso, solo per lasciare spazio, dilatandoli o acuendoli, ai suoi sensi. Tutto al contrario, egli deve attivare ilpiù possibile le sue conoscenze e le sue percezioni in funzione di una precisa attività intellettuale . È infatti solo tramite il

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pensiero, che ogni ricerca sul campo può avventurarsi in quei campi altrimenti sconosciuti e inconoscibili, dai quali solamente vienela sua legittimità scientifica.Uno dei difetti maggiori del metodo etnologico dell’”osservazione partecipante” sta dunque in questa omissione del pensiero,dell’intelligenza attiva da parte del ricercatore come condizione decisiva per la riuscita della ricerca stessa.Ma suo difetto ancora maggiore è che, interpellando i soggetti sociali sul terreno delle loro percezioni e comportamenti nella vitaquotidiana, non li interpella come esseri pensanti.In effetti, secondo lo schema empiristico tipico della tradizione anglosassone, la dimensione intellettuale si giustifica sempre solocome passiva e strumentale, solo in quanto riceve sensazioni e serve a scopi pratici. La possibilità che il pensiero, l’attivitàintellettuale modifichi le sensazioni e gli scopi pratici è un’eventualità vista con sospetto, in quanto esposta al libero arbitrio equindi a rischio d’errore. Ciò perché si continua ritenere che l’unico soggetto pensante possa essere l’individuo, cosicché più pensaa suo modo più rischia di farsi idee personali diverse da quelle degli altri. Quegli altri, quella dimensione collettiva, che quindihanno senso positivo solo se considerati nel modo più “naturale”, il più vicino possibile alle necessità della “vita quotidiana”. Ove,“naturale” deve suonare proprio come il contrario di “intellettuale” e il più vicino possibile alla dimensione sensitiva, animale,dell’umanità.Insomma, tutte le nostre ipotesi sul fatto che chiunque, dunque la gente come soggetto collettivo, pensi e che questo pensiero possaessere fonte decisiva per conoscere la realtà sociale sono decisamente escluse da questo metodo. Ma come ho cercato di mostrarenon gli mancano i difetti che giustificano la ricerca di alternative. Una, ma non la sola, è appunto fare del pensiero il terreno su cuiil ricercatore sociale deve porsi allo stesso livello della gente, per incontrarla.

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V. Risposte più recenti In filosofia è espressione corrente, ma di rado la si sente usare tra le scienze sociali. Tuttavia, anche queste come quella sono stateinteressate dal grande sommovimento che, specie nella seconda metà del Novecento, ha segnato tutti campi del pensiero e della

conoscenza. Si tratta della “svolta linguistica”[94]. Il fatto, cioè, che il linguaggio si sia imposto come questione prioritaria per ogniforma di razionalità. Detto banalmente, è come se, nel corso del XX secolo, ma soprattutto a Seconda Guerra Mondiale finita, tra ipaesi più ricchi del mondo, nello stesso periodo in cui le differenze sociali e l’analfabetismo al loro interno si riducevano comemai, avesse preso corpo e forza la convinzione che ogni cosa, ogni realtà, ogni evento muti radicalmente a seconda di come se neparla; di più: che pensare e conoscere è anzitutto pensare e conoscere il linguaggio, in quanto elemento primo di ogni pensiero e diogni conoscenza.La particolarità di tale questione per le scienze sociali sta nel fatto che essa impone al ricercatore un ripensamento sul suo stessolinguaggio, non solo su quello che si trova davanti, quello parlato dalla popolazione su cui la ricerca è condotta; ma soprattutto sulrapporto tra il proprio linguaggio da esperto e quello di altri non esperti nel suo stesso sapere. Già negli anni Dieci del NovecentoMalinoswki, ad esempio, notava quanto l’interiorizzazione del linguaggio dei trobriandesi avesse mutato il senso delle sue ricerche.E se uno dei capitoli più importanti del suo Argonauti del Pacifico Occidentale è intitolato il “Kula”, è proprio perché il senso diquesto sistema di scambi è intraducibile con qualsiasi espressione esistente nelle lingue indoeuropee. Il fatto stesso che per trattarneMalinowski decida di nominare questo sistema con l’espressione trobriandese mostra una prima decisa apertura del linguaggio dellescienze sociali nei confronti del linguaggio naturale. Quel che chiamo la svolta linguistica, e che, come detto, si imporrà in tutta lasua ampiezza solo più tardi, non farà che portare alle estreme conseguenze tutte le questioni che i ricercatori sociali avevano giàtoccato sperimentando, al di là dei problemi di traduzione tra lingue diverse, quanto la loro scienza restasse sempre debitrice del piùpuro e semplice linguaggio, quale quello usato da popolazioni senza sapere scientifico. Nel far valere l’importanza universale di tale dimensione ha contribuito una scienza particolarmente sviluppatasi nel Novecento eche è appunto la scienza del linguaggio. Ad aprire questo percorso sta Il corso di linguistica generale, costituito da note prese daallievi durante i corsi tenuti tra il 1906 e il 1911 e pubblicato postumo a Parigi nel 1916, ma divenuto noto anche fuori delle cerchie

dei linguisti solo negli anni Sessanta[95]. In tale testo, il suo autore, Ferdinand de Saussure, propone una grammatica comparativafondata su una teoria dei “fonemi” e dei rapporti tra il suono e la parola, tra il significante e il significato. Così si arriva aformalizzare la matrice del sanscrito fino al punto di potere produrre regole e parole prima del tutto sconosciute, ma con ogni

probabilità utilizzate dalle lingue indoeuropee di tempi oramai del tutto remoti e neanche storicamente situabili[96]. Un’impresa,questa della scienza del linguaggio, fondata essenzialmente su ricerche grammaticali, che ha continuato ad avere svariati e proficuisviluppi nel corso del secolo. Tra di essi, campeggia il progetto universalistico della “grammatica generativa” di Noam Chomsky,nel corso degli anni Sessanta, il quale ha tentato di formalizzare un’unica matrice di tutti linguaggi possibili, nell’ambiziosissimo, ediscutibile, intento di potere così contribuire anche allo studio neuro-biologico delle funzioni cerebrali.Senza entrare nel merito degli infiniti altri e straordinari sviluppi della linguistica novecentesca, c’è un punto che qui interessaparticolarmente. Il fatto che questi sviluppi hanno tratto le loro maggiori risorse non dalla semantica o dalla sintassi, ma dallagrammatica in rapporto con la fonetica. Di più: che le prime e più importanti scoperte non hanno riguardato le regole dei rapportitra parole e i loro significati, bensì la dimensione del “fonema”, ossia laddove la parola è ancora a livello significante, prima didivenire un significato tra i significati. In effetti, nelle ricerche sulle lingue indoeuropee, anche l’innovazione decisiva, costituitadall’individuazione di regole comuni a tali lingue, è stata possibile solo grazie alla fissazione di corrispondenze fonetiche.Intendendosi con ciò quelle che, ad esempio, danno come risultato l’etimo indoeuropeo *pHater, il quale altro non è che il prodotto

dalla comparazione tra il latino pater, il greco πατήρ, il sancrito pitar- e il germanico Vater [97]. Decisivo è capire che “dietro”questo etimo, come qualsiasi altro, non sta nulla, se non la stessa operazione della grammatica comparativa che lo crea. In altritermini, perché un padre viene chiamato “padre”? O un cavallo, “cavallo”? Sono domande destinate a restare comunque senzarisposta. Ciò semplicemente perché il rapporto tra il significante e il significato è di per sé insondabile, puramente casuale o, comedice lo stesso de Saussure, “arbitrario”. Il che comporta che tra fonetica e grammatica non si dà alcuna regola, quale invece si dànelle implicazioni sintattiche e semantiche della grammatica. Il significante, dunque, come pura possibilità di incontro tra il semplicesuono e il suono con funzione di linguaggio. Sarà proprio da qui, da questa categoria del significante, che nell’acme della “svoltalinguistica”, dagli anni Cinquanta agli anni Settanta, Jacques Lacan prenderà le mosse per rinnovare la problematica dell’inconsciodella psicanalisi di Freud.Nelle scienze sociali è invece prevalso un orientamento opposto. Tale orientamento è consistito nell’accogliere la “svoltalinguistica” come se essa ponesse anzitutto il problema di studiare la realtà sociale cercando soprattutto di leggervi regole di tipo

sintattico e semantico[98]. Da questo punto di vista, si può dire che la società appare come un “grande libro”, proprio allo stessomodo in cui si parla del “grande libro della natura”: l’una come l’altra da decodificare secondo le loro stesse regole. Questoprevalere tra le scienze sociali di un’interpretazione in senso sintattico e semantico della svolta linguistica ha una sua spiegazione.Si può infatti dire che in tal modo esse hanno potuto restare anche nella seconda parte del Novecento in continuità col retaggio dellaloro tradizione ottocentesca. Di quella tradizione e evoluzionista e storicista che ha sempre trattato la società come una “secondanatura”, condizionata dalle necessità della prima. Così, la svolta linguistica tra le scienze sociali si è potuta molto spesso ridurre aduna sorta di conversione di ciò che evoluzionismo e storicismo ponevano come leggi (dell’evoluzione e della storia) in regole ditipo sintattico e semantico, la cui origine viene ricondotta all’esistenza di convenzioni sociali. Se nel primo caso le leggi venivanogiustificate in nome dei bisogni naturali della società, nel secondo caso le regole sociali vengono giustificate in nome delleconvenzioni imposte dal senso comune. Insomma, dalle leggi alle regole, dai bisogni alle convenzioni, dalla natura al senso comune:questi tra i maggiori spostamenti tematici nei quali si è ridotto l’impatto della svolta linguistica sulle scienze sociali. Ed è grazie atale riduzione che la realtà sociale ha continuato a venire presentata e studiata come intimamente determinata da vincoli oggettivi.Tuttavia, questa idea oggi diffusa che la realtà sociale, se non risponde a leggi, dell’evoluzione o della storia, è quanto menoregolata da convenzioni, rappresenta un uso estensivo del tutto improprio del concetto grammaticale di regola, che resta il più

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scientificamente fondato e da cui le stesse scienze sociali novecentesche hanno preso più o meno direttamente ispirazione. Per arrivare subito al nocciolo della questione, basti solo una brevissima riflessione sulle funzioni delle grammatiche. Tutte quellepiù comunemente in uso hanno essenzialmente due ragioni d’essere: da un lato, censire le molteplici possibilità di significanti chesono le parole, per stabilirne gli usi prevalenti relativamente a un determinato tempo; usi, per altro sempre assai variabili, vistol’incessante afflusso di neologismi e l’altrettanto incessante deflusso di arcaismi all’interno di ciascuna lingua. Dall’altro, stabiliredelle misure, ovvero delle regole all’interno dei rapporti mediamente utilizzati tra le parole.Dal che si può trarre la conseguenza che qui interessa più direttamente. Che la grammatica, quand’anche sia intesa come scienza, nonpuò stabilire regole cogenti come leggi, ma solo regole come misure per un migliore utilizzo del linguaggio. Regole, il cui rispettoresta sempre nell’ordine del possibile, ma non del necessario. Tant’è che nella società ad un uso sgrammaticato del linguaggio ingenere non segue alcuna punizione, salvo quelle, per altro assai modeste, che sono inflitte laddove, come nella scuola, l’usoscorretto della grammatica è sanzionato. Così, la scelta stessa di una parola piuttosto che un’altra resta sempre del tutto soggettiva,dell’ordine del possibile, ma al tempo stesso decide di come chi l’enuncia diventa soggetto d’enunciazione, ovvero decide dellarealizzazione delle possibilità intrinseche alla potenza significante della parola.Nulla dunque giustifica che la regola in senso linguistico, cioè grammaticale, possa venire assunta come modello di riferimento perindividuare delle regole sociali. Se le scienze sociali devono tenere conto delle scoperte prodotte dalle scienze del linguaggio, non èaffatto obbligatorio trarne l’idea che la realtà sociale sia da leggere come una sintassi, né tanto meno come una semantica vincolata.Più giustificato è invece trarre insegnamenti dalla categoria del significante per cercare come e quale realtà sociale venga resapossibile dall’uso soggettivo di certe parole piuttosto che di altre.Tornando al senso che la svolta linguistica ha avuto per le scienze sociali, si può concludere che esso è stato assunto da esse in duedirezioni. Da un lato, quella dominante che, curandosi anzitutto di regole sintattiche e di conseguenze semantiche, ha assunto illinguaggio come necessità del sociale, come una sua funzione più o meno fondamentale. Dall’altro, quella che, più attenta alleeffettive novità apportate a tale svolta, ha assunto il linguaggio come risorsa, come miniera inesauribile di possibilità significanti esoggettive all’interno del sociale.Quest’ultima è la direzione entro cui si situano le nostre stesse ipotesi. Ritorniamo ora alle nostre tre domande: a) cos’è la società? b) perché e (c) come studiarla? Se, pur nella loro rudimentalesemplicità, esse hanno una loro utilità per testare i paradigmi più classici delle scienze sociali, non è più così in riferimento allasvolta linguistica. Per seguire, sia pur sempre a grandi linee schematiche, come le scienze sociali abbiano affrontato tale svolta dopola metà del Novecento, occorre riformulare le domande. Invece di chiedere loro cos’è la società, perché e come studiarla, è piùappropriato porre loro domande come: che effetti ha il linguaggio sulla società? perché e come studiarli? Dovrebbe essereevidente infatti che, dal momento in cui il linguaggio emerge come questione cruciale anche per il sociale, tutto quello che è statodetto e scritto a suo riguardo, tutto il linguaggio che lo ha riguardato, va rimesso in discussione. La questione diventa quindi comeripensare le scienze del sociale, le loro finalità, i loro modi di ricercare, dopo la svolta linguistica. E l’alternativa di fondo è: oriconfermare l’essenziale di ciò che se ne sapeva anche prima o cercare nuovi modi di sapere. Come si vedrà, la prima soluzione sta essenzialmente nel considerare il linguaggio in modo strumentale. Il che significa ritenereche, per dar spazio alla svolta linguistica, le scienze sociali debbano sì studiare con maggiore attenzione gli effetti propri dellinguaggio, ma che per farlo sia loro sufficiente considerarlo uno strumento rispondente a necessità e fini sociali già noti e studiati.Nel seguito di questo paragrafo a1 sarà quindi illustrato in tre punti (a1.1, a1.2, a1.3 ) come è proprio assumendo una visione strumentale del linguaggio che le impostazioni, già viste nel capitolo precedente, del classismo, del funzionalismo e dellostruttural-funzionalismo , ma anche, almeno in parte, dell’etnometodologia nordamericana, possono continuare a far ricerca più omeno sulle stesse rotte intraprese alle loro origini tra Otto e Novecento.Della seconda soluzione che assume la svolta del linguaggio in senso più innovativo verranno invece mostrati due orientamentimaggiori.Il paragrafo a2 è dedicato al primo, corrispondente a ciò che è noto come lo strutturalismo francese tra gli anni Cinquanta eSettanta del Novecento. A questo proposito saranno menzionate soprattutto le straordinarie e sofisticate ricerche volte ad analizzareil sociale per trovarvi quali profondi e duraturi vincoli gli imponga il linguaggio. Annotazioni particolari saranno dedicate ai duestudi esemplari: sul mito di Edipo da parte di Lévi-Strauss (a2.1) e sulla categoria del Tempo in Edmund Leach (a2.2).Il paragrafo a3 è dedicato invece ad un secondo orientamento nel modo di recepire la svolta linguistica da parte delle scienzesociali. Tale orientamento viene rintracciato trasversalmente a diverse impostazioni metodologiche, dall’ipotesi Sapir-Whorf edall’etnometodologia di Harold Garfinkel e Roy Turner all’antropologia interpretativa di Clifford Geertz e all’antropologia delNome di Sylvain Lazarus. In questo svariato ed eterogeneo campo problematico verrà individuato un tema decisivo anche per lenostre ipotesi. Quello di assumere il linguaggio in quanto tale, il linguaggio naturale come risorsa di infinite possibilità di agire,pensare e conoscere la realtà sociale, cui le stesse scienze sociali possono aprirsi senza dovere sempre restare per forza trinceratenei loro metalinguaggi da esperti (in a3.1). A chiarimento di questo punto si discuterà dell’alternativa tra la categoria d’origineanglosassone di “performance” e quella d’origine francese di “prescrizione” (in a3.2).Il paragrafo a.4 tratterà della semiotica a partire dall’opera di uno dei suoi maggiori epigoni, Roland Barthes. Se ne sottolineerà (ina4.1) il ruolo egemone ottenuto tra le scienze sociali a partire dagli anni Settanta del Novecento e ne verrà criticata la tesi secondocui “tutto è segno”, e quindi “tutto è linguaggio”. Annotazioni particolari saranno quindi (in a4.2 ) dedicate alla categoria disistema, del sociale come sistema, quale la semiotica ha contribuito a rilanciare.Infine, col paragrafo a5 sarà esaminata la tematica tutt’oggi dominante, quella delle identità comunitarie , in cui verràpolemicamente riconosciuto una propensione regressiva.Nella seconda parte (b) di questo stesso capitolo V, si affronterà la questione del perché, a quali condizioni e per quali scopi politicile scienze sociali nel corso del Novecento abbiano prestato tanta attenzione alle questioni del linguaggio. L’importanza dei partiti edei regimi partitici sarà particolarmente messa in evidenza, ma attribuendo anche una rilevanza epocale all’evento Sessantotto neirapporti tra il linguaggio, il sociale e la politica.Il capitolo si concluderà con una terza parte (c) nella quale verranno esaminati i problemi di metodo che si pongono con l’apertura

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delle scienze sociali verso il linguaggio naturale. a1 Il linguaggio come strumentoIn generale si può dire che le scienze sociali hanno reagito alle nuove questioni poste dalla svolta linguistica rettificando ad hocrisposte già date: date cioè quando il linguaggio nelle scienze sociali era semplicemente usato come uno strumento, senza metterlo indiscussione. Così, il modo più semplice di affrontare la svolta linguistica è consistito nello studiare gli effetti del linguaggio sulsociale, senza rimettere in discussione i modi già acquisiti di conoscere il sociale. a1.1 Anche Stalin sulla linguisticaQuanto mai paradigmatico è ciò che avviene a questo proposito, nell’ambito delle scuole di pensiero classiste, fondate cioèsull’idea secondo cui il destino di ogni società è deciso dalla lotta di classe. Lo stesso leader del comunismo mondiale, Stalin, checerto genio scientifico non era, nel 1950, in piena Guerra Fredda si sente di dire la sua a proposito delle nuove questioni dellinguaggio. Così arriva a redigere un testo a diffusione universale, Marxismo e questioni linguistiche, in cui, pur riaffermando iprincipi del materialismo storico e dialettico, si cura di metterli a confronto con le questioni poste dalle ricerche dei linguistisovietici. Le necessità storiche oggettive della lotta di classe e del suo esito comunista si trovano così ad accompagnarsi, senzasovrapporvisi, alle necessità storiche dello sviluppo delle lingue. Il linguaggio dunque come strumento rispondente a necessitàsociali diverse, ma non escludenti quelle della lotta di classe. a1.2 L’interazionismo simbolicoSia pur in tutt’altra temperie e con ben altre conseguenze, anche il funzionalismo e lo struttural-funzionalismo d’area anglosassonepropendono per soluzioni meno diverse di quanto si può credere. Il linguaggio viene infatti da essi considerato per lo più allastregua di altre funzioni sociali: come esse, rispondente alle necessità oggettive e naturali di ciascun individuo. Per studiare glieffetti del linguaggio sulla società anche in quest’ottica non occorre ripensare la stessa società e il modo di farvi ricerca, bastaestendere e precisare le idee disponibili: quelle formulate prima che l’importanza della questione del linguaggio si imponesse. Lo si

trova confermato anche nelle enciclopedie[99]che ad un certo punto, nel corso del secolo passato, tra le scienze sociali ci si èaccorti che a far la differenza tra “natura” e “cultura” è appunto il linguaggio. Ciò vuol dire, da un punto di vista evoluzionista efunzionalista, che la società altro non è che una “seconda natura”, diversa dalla “prima”, quella “naturale”, solo perché “coltivata”:coltivazione di cui il linguaggio è strumento. Insomma l’umanità resterebbe essenzialmente eguale a se stessa, sia in natura che incultura, salvo il fatto che nella seconda userebbe strumenti di cui nella prima non sarebbe dotato. Cosicché ogni spiegazione, tantodella società quanto del linguaggio, sarebbe sempre da cercarsi tra i bisogni e le necessità naturali dell’umano.Il fatto è che tra le scienze sociali d’area anglosassone la questione del linguaggio si impone precocemente, senza riferimenti aricerche propriamente linguistiche, ma sotto l’influenza del pragmatismo filosofico di John Dewey, nonché della psicologiaevoluzionistica e fisiologica di Max W. Wundt. Questi, l’uno nordamericano, l’altro tedesco, sono infatti due riferimenti decisivi per

l’opera, Mente, sé e società, che esce postuma nel 1934[100], raccolta delle lezioni tenute fin dai primi del secolo pressol’università di Chicago da George H. Mead, la cui impostazione della questione del linguaggio farà scuola per ogni versione delfunzionalismo, fino praticamente ai nostri giorni. Nel 1937 Herbert Blumer, trattando di questa impostazione, le attribuì un’etichettache ha avuto grande fortuna: “interazionismo simbolico”. Esso, secondo la versione di questo autore “si fonda in ultima analisi sutre semplici premesse. La prima (…) è quella secondo cui gli esseri umani agiscono nei confronti delle cose (oggetti fisici, altriesseri umani, istituzioni o idee guida come la libertà) sulla base dei significati che tali cose hanno per loro (…). La secondapremessa è che il significato di tali cose è derivato dall’interazione sociale che il singolo ha con i suoi simili o sorge da essa. Laterza premessa è che questi significati sono elaborati e trasformati in un processo interpretativo messo in atto da una persona

nell’affrontare le cose in cui si imbatte”[101]. Per quel che qui interessa, una delle novità maggiori dell’interazionismo simbolicosta nel suo attribuire al linguaggio la capacità di creare la realtà sociale. Il che parrebbe una vera e propria anticipazione dellasvolta linguistica. Ma non è esattamente così. Infatti, in Mead l’affermazione della creatività del linguaggio non si fonda suun’analisi dello stesso linguaggio, né ad esso viene assegnato un rilievo problematico a sé stante. Quel che interessa sono solo i suoieffetti utili a confermare e arricchire una visione del sociale fisio-psicologica e pragmatica. Una visione cioè per la quale ognipossibilità di pensiero e d’azione soggettiva conta solo se oggettivamente necessaria, funzionale a qualche finalità già data econosciuta, quantomeno per il ricercatore. Al centro dell’attenzione non sono gli effetti del linguaggio sul sociale, ma il linguaggiopensato come strumento che rende le interazioni tra individui necessarie allo stesso modo di quelle naturali. Il punto di partenza ditutto il ragionamento è quanto mai biologistico, naturalistico: gli esseri umani sono considerati sullo stesso piano di qualsiasi altroorganismo. L’origine del linguaggio è ricondotta alle reazioni che ha un qualsiasi “organismo”, animale o umano poco conta, neiconfronti di qualsiasi altro. É a questa reazione che viene attribuita la capacità di dar significato ai gesti: così come la fuga di unanimale rispetto ad un altro implica che il primo dà il significato di minaccia al secondo. Il linguaggio non sarebbe allora che uninsieme di significati resi necessari dall’interazione di ogni individuo con degli altri. Un’interazione che nel caso degli individuipensanti può anche essere indiretta , determinata dalle necessità psicologiche, e non solo semplicemente fisiologiche, in relazionecon gli altri. È qui che diviene decisiva la categoria dei simboli. Essi sarebbero i significati del linguaggio utilizzati nell’interazionedi ogni individuo cosciente nei confronti degli altri. La società stessa allora non sarà che la realtà creata dai simboli condivisi, dal“senso comune” che lega necessariamente come un organismo naturale tutti gli individui che lo compongono.

Come giustamente osserva Izzo[102], anche se in un senso del tutto divergente dal mio, possiamo qui riconoscere il tema del “sensocomune”, già fondamentale per Max Weber, del resto quasi contemporaneo di G. H. Mead, ma anche per il successivo Parsons. Ineffetti, questo tema è obbligatorio ogni che volta che, diversamente dalle nostre ipotesi, si parte dalle questioni delle possibilitàsoggettive solo per arrivare a stabilire quali sono le loro necessità oggettive; detto altrimenti, quando il soggettivo non interessache come assoggettamento all’oggettivo. Di questo tipo di dialettica tra soggettivo e oggettivo, già rintracciabile nelle originiottocentesche del classismo, dell’evoluzionismo, come dello stesso funzionalismo, l’ “interazionismo simbolico” offre solo unaversione aggiornata. Una versione, che, come si è appena visto, anticipa, già negli anni Trenta, dei temi che nel giro di un ventenniosaranno propri della svolta linguistica, ma che, proprio perciò, resterà sempre in esteriorità alle questioni più profonde aperte da

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quest’ultima. a1.3 L’etnometodologiaNegli anni Sessanta, non mancano comunque diversi interessanti tentativi di un maggiore approfondimento in questo senso. Uno deipiù importanti è rappresentato dal programma di ricerche microsociologiche proposte da Harold Garfinkel sotto il nome dell’

“etnometodologia” [103]. Pur mantenendosi in fondo fedele alle premesse dell’ interazionismo simbolico e dell’etnologiaanglosassone, egli lo porta alle estreme conseguenze nel sostenere e nel comprovare con ricerche sul campo la capacità dellinguaggio di creare realtà sociale. Egli contesta infatti che tale realtà possa essere ricondotta ai simboli del senso comune, e quindispiegata in base a necessità psicologiche, fisiologiche e macrostrutturali. Tesi centrale è, detta in termini semplificati, che la realtà

delle situazioni sociali organizzate è quella di cui rende conto chi agisce in tale situazione[104]. Ogni situazione è pensata come“ frame”, cioè come cornice simbolica, di cui alcuni simboli hanno capacità “indicali” cioè di essere indici di realtà. L’analisi di taliindici può avvenire solo laddove si realizzano pratiche di organizzazione - come ad esempio le procedure diagnostiche eterapeutiche di ospedali psichiatrici alle quali sono state dedicate pioneristiche ricerche etnometodologiche. L’uso corrente dellinguaggio, dove e come esso è effettivamente utilizzato, diviene così fonte privilegiata della conoscenza sociale. Così pare ci siorienti decisamente verso la ricerca degli effetti del linguaggio sul sociale. Ma non è esattamente così. Garfinkel, restando fedelealla problematica della “vita quotidiana”, è da essa che trae i suoi indici. L’etnometodologia non sfugge infatti al difetto giàriscontrato nell’etnologia in genere e che consiste nel non distinguere tra i casi di studio di indubbio interesse, come appunto quellidegli ospedali psichiatrici, e quelli decisamente frivoli rappresentati dalle più banali conversazioni domestiche. Nel rivelarne iparadossi impliciti, nel portare fino alle estreme conseguenze le loro inavvertite assurdità, Garfinkel e i suoi allievi erano convintidi potere scoprire qualcosa di molto importante: che, una volta rivelata la loro insensatezza, i modi di dire del senso comunerivelano degli indici reali delle situazioni sociali in cui sono utilizzati. Ma una tale convinzione in fondo riposa su un assuntodell’interazionismo simbolico per nulla innovativo: quello secondo cui l’uso dei simboli risponda sempre a delle ben precisenecessità, più che mai oggettive, quelle appunto della vita quotidiana.Resta comunque interessante l’idea di Garfinkel secondo cui la realtà sociale è conoscibile solo tramite indici, indici da trovare eanalizzare nel linguaggio. Per svilupparla al meglio, per trarre le sue conseguenze oltre la svolta linguistica, occorre rinunciare allaconvinzione oramai superata che al fondo della realtà sociale ci sia un serbatoio di necessità naturali alle quali sono facilmentericonducibili gli indici del linguaggio. Una rinuncia questa cui si deve accompagnare la sfida a pensare la realtà sociale come postagioco e arena di diverse possibilità create nel linguaggio e indicate da esso. Come la ricerca può procedere in questo senso lo sivedrà in seguito. a2 Il linguaggio strutturante “Nell’ambito delle scienze sociali, al quale indiscutibilmente appartiene, la linguistica occupa tuttavia un posto eccezionale:

non è una scienza sociale come le altre, ma quella che di gran lunga ha compiuto i maggiori progressi”[105].E ancora: “ quando un evento di tale importanza ha luogo in una scienza dell’uomo i rappresentanti delle discipline limitrofe

non solo possono, ma debbono verificarne subito le conseguenze e la possibile applicazione a fatti d’altro ordine” [106].Queste le idee del padre dell’antropologia strutturale . Si tratta di Claude Lévi-Strauss, che tra i suoi maestri annovera anche Franz

Boas, e che come questi è stato uno straordinario ricercatore sul campo[107]. Essenziale per la sua impostazione problematica è illibro del 1958 da cui sono tratti i passi ora citati, dove sono anche riportati alcuni risultati dei seminari condotti a New York daquesto stesso antropologo assieme a Roman Jakobson, già fondatore nel 1926 del famoso Circolo linguistico di Praga.Qui scienze sociali e scienza del linguaggio si confrontano direttamente. Strutturalismo significa anzitutto questo. E la Francia tra glianni Cinquanta e Settanta ne sarà la patria, sia pur con infiniti e duraturi echi planetari. In psicanalisi, come già accennato, sidovranno a Jacques Lacan ricerche in questo stesso senso, che approderanno a ripensare la problematica dell’inconscio e deimalesseri mentali nel solco aperto da Freud, ma sviluppato ulteriormente nei termini di una inedita “logica del significante”.Per quanto riguarda le ricerche più propriamente dedicate al sociale, va notato come l’orientamento strutturalista vada in direzioneassai diversa da quella dell’interazionismo simbolico. Se quest’ultimo obbliga a pensare il linguaggio come strumento i cui effettisono in un rapporto più o meno diretto con la natura e gli organismi che interagiscono tra loro, tutt’altra è l’impostazione diLévi-Strauss. Ed è importante sottolineare questa distanza di metodo proprio perché grandi antropologi contemporanei come Edmund

Leach[108] e Clifford Geertz[109] la superano senza dar conto di quanto in essa ci sia ancora da imparare.Punto distintivo di un approccio strutturalista come quello di Lévi-Stauss è lo studiare gli effetti sociali del linguaggio, prescindendoda qualsiasi particolare situazione di interazione, per analizzarli al di là del tempo e dello spazio, o meglio in modo tale daabbracciare sequenze temporali e zone geografiche dalle estensioni pressoché incommensurabili. Esemplare, da questo punto divista, come vedremo tra poco, è lo studio di quelle singolari configurazioni narrative del linguaggio che sono i miti , specie quellitanto potenti, come l’Edipo, da attraversare più epoche e più continenti lasciando una loro impronta in infiniti rapporti sociali. Maper fare ciò lo studio del linguaggio deve esaminare anzitutto i significanti e il loro latente concatenarsi prima ancora di diventaresignificati espliciti, fruibili come strumenti di comunicazione. La struttura che lo strutturalismo rivendica allude proprio ai contenutiimpliciti che il linguaggio cela condizionando il sociale sempre di più e altrimenti rispetto a quanto risulta nell’interazione nonchénella comunicazione. La grande novità degli approcci che sono riconducibili allo “strutturalismo” francese è quindi consistita nelfare un passo indietro rispetto al considerare il linguaggio anzitutto per i significati che esso assume in rapporto al sociale. La svoltalinguistica qui acquista il senso più profondo di uno scendere nei recessi significanti del linguaggio per trovare i suoicondizionamenti di lunga durata su vaste molteplicità di realtà sociali. a2.1 L’EdipoQuanto mai esemplare da questo punto di vista è come Lévi-Strauss fa procedere la sua analisi del mito di Edipo. Al centrodell’attenzione non è una qualche sua versione particolare, storicamente situabile, ma le parole, la frasi, i frammenti narrativi che lo

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evocano e che sono rintracciabili nella più ampia gamma delle sue interpretazioni censibili, dall’antichità addirittura fino ai giorninostri. “La nostra proposta -dice chiaramente Lévi-Strauss- è (…) definire ogni mito in base all’insieme di tutte le sue versioni”.Tant’è che, per studiare quello di Edipo, egli tiene conto dei più svariati riferimenti: dalla versione originaria, dovuta alla tragedia

di Sofocle all’interpretazione da cui Freud ha ricavato uno dei concetti centrali della sua teoria dell’inconscio [110]. La strutturadunque come struttura di ciò che nel linguaggio ritorna, si ripete, si dà come concatenarsi ripetitivo di significanti. Così risulta cheall’interno delle complesse e controverse versioni che sono state offerte del racconto del personaggio Edipo è individuabile un va evieni del senso, un’ambiguità fondamentale dei significati. Un’ambiguità che si può riassumere nella domanda :“il medesimo nasce

dal medesimo o da altro?”[111]. Un interrogativo che rivela al fondo la difficoltà di “capire come uno possa nascere da due: come

avviene che non abbiamo un solo genitore, ma una madre più un padre”[112]. La complessa argomentazione con cui Lévi-Straussgiunge a questa conclusione ha due passaggi decisivi. Da un lato, egli ricorda la credenza diffusa nella Grecia del tempo di Sofoclenell’autoctonia dell’uomo, nel fatto cioè che la sua origine venisse da madre Terra. Dall’altro, egli nota che il nome Edipo, comequello di suo padre e di suo nonno, evocano tutti un rapporto irrisolto con la terra, ovvero una difficoltà a reggersi in piedi (Edipo =piede gonfio; Laio, suo padre = sbilenco; Labdaco, suo nonno = zoppo). Dal che si ricava che tutte le peripezie di questi personaggi,tra cui stermini, amori, uccisioni di mostri, enigmi, autoaccecamento, nonché, e non da ultimo, l’incesto, ruotano attorno al dilemmasulle possibilità o meno dei soggetti umani di separarsi, di differenziarsi dalle necessità imposte dal destino naturale. Dettoaltrimenti, Edipo come emblema del fatto che la differenza tra l’umano e il bestiale non è mai decisa una volta per tutte.Dal che sono da trarre almeno quattro considerazioni decisive per le nostre stesse ipotesi di ricerca etnografica.In primo luogo, che occorre riconoscere che nei pressi del suono delle parole, degli enunciati, dei frammenti dei discorsi c’èsempre una riserva significante, delle possibilità a significare, le quali si ripetono, ritornano, indipendentemente dal significato loroattribuito da qualsiasi discorso, narrazione o interazione comunicativa, per quanto siano ben formate, corrette, convincenti,convenzionalmente accettate: insomma, occorre assumere fino in fondo l’idea che le parole spesso contano più dei discorsi, lo sivoglia o no.In secondo luogo, ammettere l’esistenza nel sociale di strutture significanti ripetitive, le quali comunque non si piegano facilmentead ogni loro uso discorsivo, narrativo o comunicativo, non equivale affatto al sostenere che tali strutture facciano ostacolo alledecisioni soggettive, ad un uso singolare del linguaggio; tutto al contrario, la lezione di Lévi-Strauss appena citata dimostra propriol’ambiguità costitutiva di ogni struttura significante, la sua sempre costante apertura polisemica a diverse interpretazioni. Come dire,con una battuta: se tutti abbiamo a che fare con l’ “Edipo”, ognuno ce l’ha a suo modo.In terzo luogo, soppesiamo una differenza cruciale tra l’approccio strutturalista e l’approccio funzionalista alla questione degli effettisociali del linguaggio. Quest’ultimo approccio, come si è accennato, ammette certo che il linguaggio può creare una realtà sociale,ma questa stessa viene concepita come una variante della realtà oggettiva, esistente indipendentemente dal linguaggio stesso. Adesempio l’etnologia all’americana sostiene sì che le pratiche sociali più ordinarie producano la realtà della “vita quotidiana” in cuisvolgono, ma ciò ha senso solo se si suppone che la realtà sociale, indipendentemente da quel che se ne dice, sia oggettivamente larealtà della vita quotidiana. Sono quindi le necessità di questa vita a verificare ciò che il linguaggio realizza; ovvero la suafunzionalità; ovvero il suo essere strumento adeguato a scopi reali. Insomma, è il fine oggettivo (la vita quotidiana) che giustifica ilmezzo soggettivo (il linguaggio). Lo strutturalismo dispone la questione in tutt’altro modo. Esso postula che esiste una potenzialitàdel linguaggio, come ad esempio quella evocata dal mito di Edipo, che persiste, che si ripete, indipendentemente dagli usi che se nefanno. Soggetti e fini qui sono esclusi. Concepire i processi storici e sociali senza soggetto né fine(i) è esattamente una prescrizione

di Althusser[113], il quale deve la sua grandezza proprio all’avere tentato di combinare marxismo e strutturalismo. Si tratta dunquedi un oggettivismo estremo, ma tutto incentrato sul linguaggio. Un linguaggio concepito sì come necessità inaggirabile, ma dal sensocostituzionalmente ambiguo, polisemico, mai univoco, sempre da decidere in ogni situazione concreta.

É proprio qui che lo strutturalismo raggiunge i suoi limiti. Ciò per cui lo strutturalismo è stato criticato, anche per vie interne[114],fino ad esaurirne le capacità propositive, è stato proprio il fatto di non confrontarsi mai con le possibili realizzazioni concrete,soggettive, delle potenzialità del linguaggio. Non è forse solo per caso che la Parigi, già culla dello strutturalismo, lo sia anche statadi un Sessantotto particolarmente intenso, il fatidico e infuocato “Maggio”. In ogni caso, tutto lo scatenamento di energie soggettiveinnescate da questo evento ha come fatto esplodere lo stesso strutturalismo. Dopo di che è venuta la gran fama a livello d’opinione,

ma anche scarse innovazioni a livello di ricerca [115]. L’eredità lasciata però persiste tutt’oggi. E sta nella rottura con ognidialettica tra oggettività e soggettività, nell’avere aperto una prospettiva per la quale non c’è oggettività sociale, prima, dopo ocomunque fuori del linguaggio.Il che vuol dire, tanto per riprendere un esempio già evocato, che oggi la realtà della fame nel mondo non dipende da necessitànaturali, quali le carenze globali di cibo o l’impossibilità materiale di fornire mezzi per sviluppare le economie arretrate, ma da quelche è detto di questo fenomeno: basterebbe infatti che i paesi ricchi proclamassero misure pertinenti perché il problema fosserisolto; e con quali misure potrebbero esserlo è sempre questione da discutere, quali che siano gli interessi difesi. A questoproposito lo strutturalismo insegna a non supporre alcuna evidenza di tali interessi e a fare attenzione a quale linguaggio, a qualiparole sono presentate a loro difesa. E questo nella convinzione che non si possano distinguere i buoni e i cattivi interessi, se non apartire da quel che si dice in loro nome. Se, ad ulteriore esempio, l’interesse che si dice di difendere è quello dell’intera “umanità”,non si può non tenere conto di tutte le critiche che gli strutturalisti hanno rivolto all’equivocità naturalistica di ogni terminologia

“umanistica”[116]. a2.2 L’equivocità del TempoAltra questione cruciale aperta nelle scienze sociali dall’approccio strutturalista riguarda la categoria del tempo. Una delle critiche

più insistenti che è stata rivolta a questo approccio gli ha imputato di negare la storia[117], e con essa il principio stessodell’evoluzione e quindi ogni distinzione tra progresso e regresso. In effetti, la struttura per lo strutturalismo è analizzabile facendo ilpiù possibile astrazione da ogni variazione dei rapporti tra linguaggio e società, e concentrandosi invece su ciò che comunque siripete, che ritorna. Del resto, come si è appena visto, anche a proposito dell’Edipo la domanda che Lévi-Strauss finiva per porsi nonera forse se il Medesimo nasce da sé o da Altro? Ebbene, lo strutturalismo non solo chiude con ogni storicismo, ma addirittura

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rimette radicalmente in discussione la categoria stessa del tempo. E lo fa a suo modo, attraverso l’analisi del mito. Mi riferisco a

due saggi del 1953 di Edmund Leach[118]. Anche qui il punto di partenza è la constatazione di un’ambiguità essenziale: quellaintrinseca alla categoria del tempo. Con essa infatti viene designata la ripetitività dell’alternarsi del giorno e della notte o del tic-tacdel pendolo; ma viene anche designata l’irreversibilità, ovvero il fatto che ad esempio tutti invecchiamo e siamo destinati a morire.La ripetitività risulta quando ogni tic-tac viene comparato agli altri tic-tac che precedono o seguono; l’irreversibilità risulta invecequando, concentrandosi su un singolo tic-tac, ci si rende conto che esso può scandire il tempo solo perché ha un inizio e una fineentrambi irreversibili.Ora, la tesi di Leach è che il mito di Kronos contiene già questa duplice dimensione e che proprio qui sta la ragione, altrimenti pococomprensibile, per la quale questa divinità, fin dagli albori della cultura occidentale, abbia rappresentato il mito del tempo.Il simbolo chiave è la falce con cui questa antica divinità greca appare sempre raffigurata. Il suo movimento oscillante (il quale tral’altro ricorda ai moderni quello del pendolo) evoca esplicitamente il gesto della mietitura che si ripete ogni anno nella stagione delraccolto. Ma evoca anche un taglio quant’altro mai irreversibile e creatore. Quello con cui Kronos castra il padre Urano, il Cielo: ilsangue così sparso cade infatti nel mare fecondandolo e facendo nascere Afrodite, dea della fecondità universale. Solo allorapossono generarsi altre divinità ed in seguito anche gli uomini, fino a quel momento inesistenti. Il fatto è che i genitori di Kronos nonsono i due elementi primordiali, Gè, la terra, e Urano, il Cielo. Tra loro copulavano, ma Urano ricacciava tutti i figli nel ventre diGè, finché essa, oberata di tanti feti, dota l’ultimo della falce con cui dare la terribile lezione al padre e liberare le sorelle e i fratelligià concepiti.Crescendo Kronos, la storia si ripete, per poi subire una nuova repentina interruzione. Egli si accoppia con una sorella, ma divora ifigli, finché la stessa sorella, ingannandolo, gli fa ingoiare una pietra al posto di Zeus, ultimo nato, il quale può così divenire adulto. Nel frattempo, il pesante boccone fa vomitare Kronos, che rigetta così anche gli altri fratelli e sorelle di Zeus; questi allora cogliel’occasione per uccidere il padre.La terza parte del mito, sempre come ce la presenta Leach, costituisce una specie di apoteosi di tutta la vicenda, in cui ripetizione eirreversibilità si combinano, dando luogo ad una inversione generale del movimento. Il tema principale è il contrasto tra le dueepoche, quella dominata da Kronos e quella dominata da Zeus. Nella prima regna l’abbondanza e la felicità: i campi danno i raccoltisenza essere coltivati, ogni sorta di conflitti è assente e tra i mortali, che nascono dalla terra come piante, ci sono solo maschi. Nellaseconda, invece, le cose vanno in un modo che ci è più familiare: le donne esistono, i conflitti pure (le due cose nel mito sonoconnesse), e i campi devono essere coltivati. Ma il punto più interessante qui è la profezia di un ritorno del regno Kronos, nelfrattempo relegato nei Campi Elisi, paese dei morti felici. Con tale ritorno tutto si ripete al contrario: gli uomini, invece diinvecchiare, ringiovaniscono, i morti rinascono dalle loro tombe e le donne (non servendo più!) cominciano ad estinguersi.Tutto il mito quindi contempla, oltre al prologo sulla coppia sterile formata da Cielo e Terra, tre fasi (quella di Kronos, quella diZeus e infine quella del ritorno di Kronos) con due interruzioni, di cui l’ultima porta alla ripetizione della prima fase, ma in sensoinvertito. Il Tempo dunque come divinità dell’interruzione e del ritorno, dell’irreversibile e del ripetitivo.Mito degli antichi greci, questo, ma ancora nostro mito, che ritorna ancora oggi quando si parla del tempo, se è vero che con questaparola ci riferiamo sempre a due dimensioni irriducibili, quella della ripetizione e dell’interruzione irreversibile, senza distinguerle,ed anzi alludendo alla loro coincidenza. Leach si dice convinto che questa confusione viene dalla paura dell’irreversibilità, che è infondo paura della morte. Ed è proprio per lenire questa paura che, a suo avviso, le religioni introducono un terzo termine, oltre aquelli che designano o la ripetizione o l’irreversibilità: nel caso degli antichi greci, come si è visto, il Tempo personificato nellafigura di Kronos. Figura, questa, che rivela tutta la sua oscurante soperchieria. Fa sempre notare Leach: anche in termini sessisti, ilsuo mito ha infatti tratti inequivocabilmente maschilisti.Non più storia, né tempo, né dialettica tra il ripetersi necessario e il possibile irreversibile: questa, in sintesi, la prospettiva quiaperta allo studio degli effetti sociali del linguaggio.Secondo le nostre ipotesi, ciò significa che le necessità sociali non esauriscono il campo di ricerche sulla realtà sociale: che ilripetersi sincronico e diacronico di queste necessità è comunque soggetto a interruzioni. Se esse vanno dunque studiate a partire daciò che se ne dice e se ne può dire, c’è anche un altro dire che va interpellato e può essere rintracciato solo oltre l’interruzione delnecessario: laddove si trovano i soggetti sociali che non possono decidere delle necessità del resto della società. a3 Il linguaggio come risorsa Pensare il linguaggio come una risorsa è diverso dal pensarlo sia come uno strumento, sia come una struttura. Ora considero infattiuna terza possibilità nell’affrontare la svolta linguistica rispetto alle due appena esposte.Quando si parla di una risorsa, si parla in effetti di una materia prima, non per analizzarla anzitutto nella sua struttura interna eneanche in funzione di un suo uso, ma per considerarne le potenzialità, la molteplicità dei suoi usi possibili. Considerare illinguaggio come risorsa significa in effetti considerarne la molteplicità degli usi possibili. Da questo punto di vista, sostenere che ilsociale è costituito anzitutto in termini linguistici significa sostenere che la sua realtà è costituita anzitutto dalle molteplici possibilitàreali che si presentano nel linguaggio. Ed è esattamente questo il terreno di ricerca assunto dalle nostre ipotesi. Qui infatti ci sispinge oltre la svolta linguistica delle scienze sociali, laddove queste si liberano da ogni vincolo naturalistico. Quel vincolo cheancora restava in modo quanto mai coercitivo nell’approccio funzionalistico, strumentale, del linguaggio e che ancora si facevasentire pure nell’approccio strutturalista.Per vedere il tutto in altra ottica, ripensiamo alla tradizionale distinzione d’ispirazione evoluzionistica tra natura e cultura: tra diesse, si dice, sta il linguaggio che, facendo da interfaccia, che, mediando, tra la prima e la seconda, dà forma alla società. Tutto staallora nel modo in cui si concepisce questa supposta mediazione, questo suo essere interfaccia del linguaggio rispetto a natura ecultura.Per il funzionalismo si tratta anzitutto di una mediazione passiva, di un filtro minimo. Si può allora pensare che la natura agisca sullacultura e quindi sulla società tramite il linguaggio. Quest’ultimo non sarebbe insomma che lo strumento grazie al quale la naturafarebbe valere le sue necessità nella società. Il linguaggio, detto altrimenti, non farebbe che tradurre le cause, gli impulsi, i bisogni

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naturali in cause, impulsi, bisogni sociali. La società non sarebbe insomma che una seconda natura, causata, determinata, necessitatacome la prima: la prima natura che resterebbe la vera chiave di lettura della seconda. Un po’ come dire che gli uomini restanosempre al fondo scimmie, anche se parlano e si organizzano soprattutto parlando, cioè usando il linguaggio. L’etologia e lasociobiologia in effetti restano per lo più tutt’oggi ancorate a questa visione naturalistica del sociale che riduce al minimo lo spazioproblematico del linguaggio.Per lo strutturalismo, invece, la mediazione, il filtro che opera il linguaggio tra natura e cultura è attivo e massimale. Che illinguaggio abbia una propria struttura vuol dire proprio che esso ri-presenta la natura a modo tutto suo, con simboli, immagini, mitiche hanno anzitutto cause, necessità, determinazioni, condizionamenti reciproci, tutti loro. In questa ottica, la riscoperta del rapportotra il linguaggio e la natura è quanto mai difficile, dubbia e problematica. Preliminare a tale riscoperta è l’analisi minuziosa, quantomai dettagliata, delle strutture linguistiche. Si ricorderà il più sopra riportato studio di Lévi-Strauss sul mito di Edipo. Le sueconclusioni non portano affatto a scoprire qualche causa naturale. Laddove un funzionalista molto probabilmente non esiterebbe aconcludere che tale mito ha la funzione di vietare l’incesto e dunque di “arricchire il sangue” della specie umana, lo strutturalistafrancese scopriva invece il dubbio sul mistero tutto intellettuale e in fondo linguistico di come “uno possa nascere da due”. Sarebbetroppo comunque non riconoscere il permanere di qualche presupposto naturalistico anche nello strutturalismo, o quanto meno inquello di Lévi-Strauss. E questo permanere è per me riconoscibile soprattutto nel fatto che il linguaggio visto come struttura finisceper essere coercitivo, vincolante, oggettivamente necessitante, infinitamente ripetitivo, esattamente come la natura. In effetti, come a

suo modo ha dimostrato l’ontologia di Alain Badiou[119], per naturale solitamente si intende tutto ciò le cui possibilità devonodimostrarsi necessarie, tutto ciò in cui non c’è novità se non come variazione di una ricorrenza, tutto ciò per cui non c’è soggetto chenon sia interamente condizionato da una oggettività. Da questo punto di vista si può dire che la struttura del linguaggio anche per lostrutturalismo è molto spesso concepita come una seconda natura, con termini e modi tutti suoi, ma che si presenta secondo unalogica naturale.Ora si può forse capire meglio quale portata innovativa possa avere il pensare il linguaggio come risorsa e dunque comemolteplicità di infinite possibilità sociali. Così la distanza col naturale è definitiva, tutto si gioca nel linguaggio, all’interno delle suepossibilità di incidere sul reale. Come si diceva, ad esempio, oggi nel mondo nessuna popolazione muore più di fame per causenaturali, perché manchi il cibo o le capacità di distribuirlo in qualunque luogo, ma ciò può accadere solo perché nessuno che neavrebbe il potere giunge a prendere le “risoluzioni”, a dire le parole adeguate a contrastare simili catastrofi. Il che ovviamente nonesclude che dietro a tali impossibilità vi siano dei vincoli, delle necessità, ma sono sempre delle necessità, dei vincoli che sidecidono a livello del dire. Ad esempio, non c’è certo alcuna necessità naturale nel fatto che i paesi più ricchi del mondo nonconcedano poco più o poco meno dello 0,3 % (gli Usa solo qualcosa di più dello 0,1 %!) del loro Prodotto Interno Lordo in aiuti a

paesi poveri[120]. Quasi tutti sanno che solo aumentando di pochissimo queste cifre il destino di molti paesi poveri potrebbesvoltare al meglio. Tuttavia, se ciò non avviene, è perché nessuno sa come convincere i governi dei paesi ricchi. In essi dunque c’èun ostacolo, una necessità ben reale nell’eludere le questioni degli aiuti. L’economia politica ci può spiegare fino a che punto taleelusione sia giustificata per ragioni di mercato, concorrenziali, e fino a che punto sia invece solo frutto di scelte politiche ispirate apregiudizi o paure ingiustificate. Lo strutturalismo può spiegare da quali miti, discorsi, immagini o simboli vengano simili paure epregiudizi, nonché come si sono riprodotti. Ma è solo assumendo il linguaggio come risorsa che si può pensare di prestareseriamente attenzione ai più direttamente interessati: a quegli stessi poveri che non hanno alcun potere nell’ottenere aiuti, nésicuramente sanno come riuscirci, eppure si rendono possibile un’esistenza che dall’esterno, dal punto di vista delle popolazioni piùricche e potenti, sembra talmente impossibile da non essere neanche degna di alcuna attenzione, se non filantropica. Le loro parole,il loro pensiero, se opportunamente interpellati, possono rivelare invece delle realtà sociali altrimenti sconosciute. E conoscerletramite queste stesse parole e questo stesso pensiero può avere anche un uso, una funzione pragmatica, politica, ad esempio,precisando le richieste di aiuti.In definitiva, studiare il linguaggio come risorsa significa studiare la realtà sociale come un campo sul quale si affrontano, siscontrano ed eventualmente si confrontano diverse possibilità soggettive identificabili a partire da quel che è detto e pensato aproposito di tale realtà. Ad imporsi in modo evidente di solito sono gli enunciati di chi ha il potere di governo e che organizza unconsenso, una circolazione di opinioni favorevoli a questi stessi enunciati. Qui l’analisi deve allora valutare in che misura il saperedisponibile su tale realtà giustifica o meno le scelte dichiarate di chi governa e quindi anche il consenso creato attorno ad esse. Maoccorre ammettere che in ogni realtà sociale esistono anche le altre risorse del linguaggio: quelle costituite da chi non ha potere digoverno, né conoscenze disponibili, e che rende possibile quanto meno una parte di tale realtà. Di solito, le popolazioni che nonhanno parte né nel potere, né nel sapere, sono chiamate popolazioni emarginate, proprio perché non decidono nulla rispetto al restodella società. Ma anche le loro parole e i loro modi di pensare possono essere considerati delle risorse e la loro marginalità trattatacome una zona di frontiera per nuove possibilità di tutto il sociale. Questo è in effetti l’obiettivo primo delle nostre ipotesi e dellenostre ricerche. E per questo ci collochiamo sicuramente nella scia di chi considera che le scienze sociali debbano assumere illinguaggio, non tanto e non solo come uno strumento, non tanto e non solo come una struttura, ma anzitutto come risorsa. a3.1 Linguaggio e pensiero

L’espressione il linguaggio come “risorsa” l’ho trovata in Roy Turner[121], che ha contribuito alla discussione della filosofia diJohn Austin tra le scienze sociali. Ma prima di tutti, nella promozione di questo orientamento, è da citare quella che è stata chiamatal’ipotesi Sapir-Whorf. È di queste due questioni che ora tratterò brevemente per meglio chiarire come le nostre ipotesi si situinorispetto a questi antecedenti, per poi concludere con un richiamo a Clifford Geertz, da cui trae ispirazione l’idea stessa diun’etnografia del pensiero.Anzitutto, l’ipotesi Sapir-Whorf, questione quanto mai controversa nelle scienze sociali le quali le hanno appunto riservato il nomesingolare di “ipotesi”, come se mai fosse dimostrata o dimostrabile fino in fondo. É anche in omaggio a questo singolare e controverso riconoscimento che pure le nostre tengono a chiamarsi ipotesi.

Ma anche l’accoppiamento di due nomi (Sapir e Whorf) è già abbastanza strano e risponde al fatto che il primo[122], accademicoquanto mai riconosciuto al suo tempo – si tratta degli anni Trenta e Quaranta negli Usa -, abbia fatto sue e sviluppate le ipotesi delsecondo, che potremmo dire accademico quasi solo per caso. Whorf infatti arrivò alle scienze sociali dopo avere studiato da

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ingegnere di una compagnia di assicurazione le casistiche degli incendi, nonché per coltivare un amore quanto mai appassionato perle lingue dei nativi messicani e del Nordamerica. Tant’è che egli arriva a riconoscere delle qualità scientifiche, oltre che estetiche ed’efficacia, alle lingue algonchine, “parlate da gente molto semplice, Indiani (d’America) dediti alla caccia e alla pesca” e del tutto

“sconosciute alle lingue e alle mentalità indoeuropee”[123].L’esempio riportato a sostegno di questo apprezzamento riguarda possibilità dei nativi d’Americhe di usare una frase come “il padredisse al figlio di portargli il suo arco”. Una frase, che è impossibile per una lingua indoeuropea, dal momento che in questo “suo”non si capisce se viene indicato “il padre” o “il figlio”, cosicché si è costretti o in tediose ripetizioni o in altrettanto tediosi “giri diparole”. La questione è invece del tutto elegantemente e concisamente risolta nelle lingue ammirate da Whorf, dal momento che essecontemplano l’esistenza di due terze persone pronominali, cosicché nell’esempio citato ci sono due modi diversi di dire “suo” aseconda che si riferisca al padre o al figlio.Dal che se ne deve concludere anche che, in un simile caso, un nativo d’America, potendo risparmiare le parole rispetto ad uno cheparla con una lingua indoeuropea, ragiona meglio e più velocemente di quest’ultimo? Se così fosse, che dei “selvaggi” hannoun’intelligenza più agile ed efficace dei “civilizzati”, non si dovrebbero forse rimettere in discussione tutti gli stessi principidell’evoluzionismo?È per il fatto di non avere mai risolto tali dubbi che l’ipotesi Whorf legittimata da Sapir ha goduto fama di essere “sovversiva e

provocatoria”.[124]

Il contenuto più preciso di tale ipotesi sta in ogni caso nel sostenere che il pensiero dipende dalle categorie elaborate dallinguaggio. Dal che “Siamo (…) indotti a un nuovo principio di relatività, secondo cui differenti osservatori non sono condotti

dagli stessi fatti fisici alla stessa immagine dell’universo, a meno che i loro retroterra linguistici non siano simili” [125]. Percapire il senso di questo nuovo principio di relatività, che si richiama evidentemente a quello già fatto valere da Einstein in fisica, èopportuno precisare rispetto a quale principio assoluto prenda le distanze. Ebbene si tratta proprio della pretesa di qualsiasi

linguaggio di valere in assoluto, a priori, tanto per la natura tutta quanto per la molteplicità dei linguaggi[126]. Contestare questapretesa universalistica tradizionale non significa però escludere che tra i diversi linguaggi e i modi di pensare da essi condizionatici possano essere dei nuovi incontri. Anzi, è proprio a questo che le ricerche di Whorf si sono dedicate. Il limite di relatività cheesse pongono è di non supporre che tutto sia sempre pensabile in unico modo e quindi con unico linguaggio. Tutto il nuovo problemasta dunque nel trovare come, con quali approcci, su quali terreni problematici, far incontrare linguaggi e modi di pensare diversi,tenendo conto del fatto che ci si trova sempre all’interno di un pensiero e di un linguaggio, in rapporto ad altri pensieri e

linguaggi[127].Così intesa, questa ipotesi non è che un’anticipazione quanto mai radicale di quella che ho chiamato la svolta linguistica. In effetti, se

si postula il contrario dell’ipotesi suddetta[128], cioè che è il linguaggio a dipendere dal pensiero, significa che si continua a trattareil linguaggio come uno strumento; che si continua cioè a ridurlo entro i limiti dell’impostazione evoluzionistica, la quale, come si èvisto, considera minimo il filtro che il linguaggio pone tra natura e cultura; per cui è sempre alla prima che andranno ricondotte lenecessità più profonde della seconda e quindi anche di ogni forma di pensiero e di qualsiasi società.Tutt’altre sono invece le conseguenze che si possono trarre dall’ipotesi secondo cui è dal linguaggio che dipende ogni pensiero. Unadi queste conseguenze è, ad esempio, che quando un ricercatore sociale intende studiare una popolazione deve partire dal linguaggiodi questa stessa popolazione, senza anteporre pregiudizi sulle sue capacità a pensare, ma supponendo solo che ogni parlare implicasempre un pensare. Si pone quindi il problema di come sia possibile un incontro scientificamente proficuo tra il ricercatore e lapopolazione da lui interpellata. Whorf da linguista lo cercava anzitutto sul piano della grammatica. Per chi cerca di conoscere larealtà sociale le cose devono quindi andare altrimenti. Se il ricercatore resta fedele all’assunto che il pensiero dipende dallinguaggio, egli deve misurarsi con la difficoltà di fare una ricerca a partire da un altro linguaggio che non è il suo. La soluzione piùadottata allora è quella dell’interpretazione ai fini della traduzione: della traduzione del linguaggio della popolazione studiata inquello del ricercatore che la studia. Questa è comunque la soluzione “anti-anti-relativistica” proposta e praticata dall’antropologia

detta appunto “interpretativa” di Clifford Geertz[129].Ma qui può insorgere un’obiezione. Il linguaggio che viene tradotto si può dire infatti che venga ridotto ad un linguaggio oggetto da

parte del linguaggio in cui viene tradotto e che in logica, quella Tarski[130], ma anche in teoria linguistica, quella di Louis

Hjelmslev[131], viene detto metalinguaggio. Dal che insorgono tutti i legittimi dubbi su quanto di un linguaggio ridotto ad oggetto

possa restare nel metalinguaggio in cui è tradotto. Geertz nel saggio in cui postula possibilità di un’etnografia del pensiero[132]

coglie perfettamente il problema. E ne cerca una soluzione nel pensiero stesso, nonché nelle ricerche novecentesche di un suo nucleofondamentale originario (la psicanalisi inaugurata da Freud e la grammatica generativa di Chomsky sono portati ad esempio). Èdunque da questa facoltà essenziale del pensare che dipenderebbe la possibilità di incontro, di interpretazione e di traduzione tralinguaggi diversi, proprio come avviene quando, anche tra gli individui più diversi, ci si riesce comunque ad intendere. Il paragonechiaramente ironico con cui Geertz pone diverse comunità scientifiche sullo stesso piano di villaggi tribali ha proprio questo senso:di ridimensionare il linguaggio da esperti delle scienze sociali, la loro presunta superiorità metalinguistica banalizzandola eabbassandola allo stesso livello di dialetti e convenzioni tradizionali.Resta che in tal modo si rischia di ritornare a quella tradizionale idea dell’anteriorità del pensiero rispetto al linguaggio che vienesuperata dall’ipotesi Sapir-Whorf, se assunta nelle sue conseguenze più radicali. In effetti, ricondurre, come fa Geertz, la questionedell’incontro tra diversità di linguaggio e di pensiero a questione di traduzione e interpretazione, più che apportare chiarimenti, nonfa che aprire altre questioni, d’ordine filosofico ed ermeneutico, come il libero arbitrio e l’impossibilità dell’individuo d’evitare

l’errore[133]. La domanda dove il ricercatore sociale possa trovare le risorse per pensare un pensiero diverso dal suo e perparlare di un linguaggio diverso dal suo necessita di risposte più operative. E in ciò che dice Whorf, per quanto in modo ellitticoed allusivo, c’è di che trovarne. Si rifletta ad esempio sulla sua sentenza secondo cui “la parola è quanto di meglio l’uomo sappia

fare” [134]. La parola è qui chiaramente intesa come vera potenza del linguaggio. Tutto sta allora nel decidere a quale aspetto dellinguaggio si dà la priorità: se alla potenza significante delle parole o invece alle regole discorsive che esistono tra i significati

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delle parole. Solo in quest’ultimo caso le questioni di interpretazione come traduzione diventano cruciali, perché solo in questo casoper indagare la realtà sociale di una popolazione bisogna anzitutto tradurne il linguaggio nel metalinguaggio di chi fa l’indagine.Nell’altro caso, in cui tutto è affidato alla potenza delle parole e delle loro concatenazioni significanti, non vi è alcuna differenzainsormontabile tra il linguaggio di chi fa l’indagine e quello di chi è interpellato dall’indagine.Qui può valere a chiarimento una categoria proposta dall’”Antropologia del Nome”, di Sylvain Lazarus: quella di “molteplicitàomogenea”. Il linguaggio dunque come molteplicità differenziata, infinitamente differenziata, ma fondamentalmente omogenea:originata e attivata dalla stessa risorsa, quella delle parole, della capacità significante delle parole. Quanto possa essere potentequesta capacità lo si può cogliere pensando all’esempio della poesia: più precisamente, al caso in cui una poesia così intensa chenon perde il proprio contenuto artistico, pur passando tra lingue diverse. Ciò evidentemente può avvenire solo a condizione che iltraduttore sappia intercettare l’ispirazione del poeta, se ne faccia trasportare e si prenda le sue responsabilità nel renderla ancheforzando, eventualmente, i rapporti tra i significati letterali delle parole. E non si tratta di un esempio del tutto a caso. In effetti, aifini della ricerca etnografica come la intendo, per conoscere la realtà sociale racchiusa in ciò che dicono i soggetti incontrati è moltopiù opportuno leggere e pensare i loro enunciati come un testo poetico, ben più che come una narrazione. Da cercare è infatti non lalogica discorsiva, che tiene insieme i significati delle parole, non la coerenza o meno del rapporto tra presupposti e conclusioni, trainizio e fine, ma quanto danno da pensare le parole stesse, le frasi o i frammenti di discorsi, presi in quanto tali, nella loro potenzasignificante. E come nel caso delle poesie, le quali per essere apprezzate fino in fondo devono essere imparate a memoria, lo stessoo quasi è consigliabile fare con i testi raccolti dalle interviste etnografiche: ripeterli e ripensarli, fino a che alcuni di loro possonotornare alla mente senza essere letti. Quando si tenta così di pensare un pensiero allo scopo di incontrare la realtà che sta tra le sue

parole, la traduzione come l’interpretazione risultano per quello che sono: questioni accessorie, pressoché tecniche[135]. a3.2 Performance o prescrizione?Un semplice “sì” e le nozze sono fatte, cambiando la realtà, anche sociale, di lei e di lui, dal momento in cui diventano moglie emarito. Il matrimonio è un classico esempio di performance. Termine che, come insegna Victor Turner, viene dal francese arcaico

“parfournir” e significa concludere, portare a termine[136]. John Austin è famoso per avere eretto atti simili a temi filosofici elogici di prima importanza, contribuendo a suo modo a quella che ho chiamato la svolta linguistica. Le sue categorie chiave sonoappunto gli “enunciati constativi” e gli “enunciati performatici ”. Questi ultimi essendo appunto in grado di fare, di portare a

termine, di realizzare cose (un matrimonio ad esempio), mentre gli altri, i constativi, no. Roy Turner[137], per trattare del linguaggiocome di una risorsa, è proprio a queste idee di Austin che si riferisce. Qui linguaggio e realtà tendono a confondersi, sia puroccasionalmente. In fondo, si sostiene che non sempre il dire è fare, ma talvolta, quando la performance riesce, ovvero è “felice”,secondo un termine caro ad Austin, sì. Ma ciò che decide di questa eventualità non è tanto l’enunciato, quel che si dice, quantorispetto a che lo si dice, rispetto a quale contesto, rispetto a quali convenzioni preesistenti. La realtà, dunque, è sempre anzitutto unarealtà convenzionale a cui, dicendo, si può aggiungere o togliere qualcosa. Il linguaggio come risorsa è così certo esaltata, fino alpunto di attribuirle capacità d’agire realmente, ma le sue possibilità di azione restano comunque quanto mai modeste, sempre entrouna cornice di convenzioni da rispettare, pena l’”infelicità”, degli enunciati, s’intende. Ne consegue che la realtà sociale diventaquella che si può conoscere tramite ogni sorta di conversazione, purché colta all’interno della “vita quotidiana”. Tanto le chiacchieredomestiche più banali (ad esempio, quelle telefoniche) quanto le discussioni più sofferte e problematiche (ad esempio che decidonole attività di un ospedale psichiatrico o di un tribunale) sono messe tutte allo stesso livello di interesse primario da questo tipo diapproccio, che può essere ricondotto all’ “etnometodologia”. Sui pregi e i difetti che questa impostazione ha dal punto di vista dellenostre ipotesi ho già scritto più sopra.Ora mi interessa piuttosto mettere a confronto questa categoria degli enunciati performativi con un'altra, d’altra impostazione e chepur riguarda sempre le possibilità del linguaggio di dar luogo ad effetti reali.

Si tratta degli enunciati prescrittivi così come sono presentati da Sylvain Lazarus[138]. La questione è dunque che differenza faper la ricerca sociale analizzare il linguaggio come performance o analizzarlo invece come prescrizione.Anzitutto, se inteso come performance, il linguaggio porta a termine, conclude, esaurisce una realtà (lo si è visto nell’esempio dellenozze concluse), mentre non è così dal punto di vista della prescrizione. Da questo punto di vista infatti la realtà resta sempredistinta dal linguaggio. Ma ciò non per lasciare aperto lo spazio ad altri tipi di problematiche del reale (riguardanti per esempio ibisogni naturali, gli interessi economici, di classe o la psicologia dei soggetti parlanti), bensì perché la realtà stessa è concepitacome campo in cui coesistono sempre più prescrizioni, di cui nessuna può mai essere completamente realizzata. Così, da questopunto di vista, dal punto di vista prescrittivo, tutto risulta possibile, nell’ordine del possibile, aperto su un ventaglio di possibilitàpiù o meno limitato. Per analizzare questa molteplicità di possibili, la prima distinzione da operare è quella tra le possibilitàprescritte da chi ha potere di governo sulla realtà sociale e invece le possibilità prescritte da chi, pur aderendo a tale realtà, non viha alcun potere di decisione.Ecco allora che anche le realtà sociali che più interessano le ricerche sul linguaggio come prescrizione sono diverse da quelle che loconsiderano come performance. Se in quest’ultimo caso la realtà sociale è anzitutto quella dei frammenti della vita quotidiana, non ècosì nel primo caso. Quando si va alla ricerca, non di performance, ma di prescrizioni, ad interessare sono anzitutto le realtà socialidove risulta più netta e più problematica la distinzione tra chi ha potere e chi no: tra chi, prescrivendo, decide del governo di unamolteplicità indistinta ed eterogenea di altra gente e chi invece può prescrivere solo per sé e solo eventualmente con altri governati

come lui[139].L’esempio più evidente, ma non l’unico, né quello eminente, allora è rappresentato dalla realtà della fabbrica. E ciò perché lapolarizzazione delle prescrizioni è solitamente massimale. Da un lato, infatti, chi ha il potere di governare un’impresa, con le sueprescrizioni non condiziona solo la stessa impresa a tutti i diversi livelli del lavoro, da quelli più intellettuali o tecnici a quelli piùduramente manuali, ma condiziona anche il consumo, e quindi il mercato, anche finanziario, con tutte le sue ricadute sull’economiaglobale. Dall’altro lato, invece, quello del prestatore di mano d’opera, ossia dell’operaio, non si può quasi mai nulla, né si sa comepotere qualcosa, per quanto ci siano sindacalisti che bene o male lo sanno e lo fanno, con prescrizioni che spesso pretendono diessere le uniche varianti rispetto a quelle della direzione. Ma, confidando nel linguaggio come risorsa inesauribile, anche tra glistessi operai, se la ricerca sociale li interpella come esseri parlanti e pensanti, si trovano parole, enunciati e frammenti di discorsi

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che possono essere presentati come ulteriori prescrizioni sulla stessa realtà della fabbrica.Questa dunque da intendersi come luogo di coesistenza di molteplici prescrizioni, all’interno del quale la ricerca deve scegliere suquali di esse concentrarsi. La scelta di parte, della parte della popolazione della quale individuare le prescrizioni, è decisiva. Pertrattare tutte le prescrizioni presenti in una realtà sociale, occorrerebbe infatti identificarsi in un metalinguaggio che supponga diridurre a linguaggio oggetto ogni tipo di prescrizione. Ma poiché secondo le nostre ipotesi nella ricerca si deve evitare ognimetalinguaggio, per conoscere la realtà non resta che provare ad individuare un insieme di prescrizioni tenendolo distinto daglialtri . Nel nostro esempio: quelle della direzione, quelle dei sindacati o quelle degli operai. Ognuna infatti ha una problematicadiversa. Per studiare quelle della direzione, ma anche quelle dei sindacati, sicuramente occorre analizzare quanto esse sianogiustificate o meno rispetto al sapere disponibile sui diversi piani, economico, finanziario, giuridico, di relazioni aziendali e cosìvia. Mentre, per studiare quelle degli operai, occorrerà analizzare il contenuto di quello che dicono una volta interpellatidall’inchiesta. Ma non a partire dalle regole di coerenza del discorso, né per la coscienza che essi dimostrano di avere a propositodi ciò che il ricercatore stesso presume di sapere e neanche per quanto aggiungono o tolgono alle convezioni esistenti nella loro vitaquotidiana. Ciò che interessa è piuttosto la lettera delle loro stesse parole, dei loro frammenti di discorso, la loro risorsasignificante. Nel loro ricorrere o, viceversa, nel loro spezzarsi in un detto singolare, nelle loro associazioni e dissociazioni previsteo impreviste, nei loro silenzi, non meno che nei loro equivoci, questi pezzi sparsi di linguaggio, se combinati e scombinati, se letti eriletti, danno sempre da pensare al ricercatore che voglia davvero conoscere questa realtà. Egli può allora scoprire cosa per glioperai va e cosa non va, cosa è fuori discussione e cosa invece può migliorare: tutte “cose” che molto probabilmente risultano bendiverse da quello che direzione, sindacati e altri tipi di ricerche sociali si immaginano.Ma non sono certo solo le fabbriche le realtà sociali che rispondono al requisito di essere al centro di più prescrizioni tra lorodiverse. Come dimostrano i rapporti d’inchiesta riuniti in questo libro, le nostre ipotesi si possono applicare anche a centri diservizi sociali, scuole o associazioni del volontariato. L’essenziale è che si tratti di realtà sociali ben localizzabili, dei luoghi in cuisono riunite delle molteplicità di soggetti che lavorano sotto il governo di un qualche potere pubblico o privato.In definitiva, si può quindi concludere che secondo le nostre ipotesi per studiare la risorsa del linguaggio in rapporto alla realtàsociale è opportuno studiarne i luoghi dove si presentano più prescrizioni, all’interno delle quali si può distinguere quanto menoquelle provenienti dalla soggettività costituita da chi governa e quelle provenienti dalla soggettività costituita da chi è governato,tenendo presente comunque che ogni soggettività capace di prescrizioni merita un approccio diverso. a4 Segni ovunque a4.1 La semiotica alla modaUna sottolineatura di quanto appena scritto: se escludo la possibilità di far ricerca con gli stessi metodi e approcci su chi ha poterenella società e chi no, è perché ritengo che il linguaggio, e dunque il pensiero, non possano mai abbracciare tutta la realtà e meno chemai quella sociale. Così bisogna ammettere che le scienze sociali non possono mai pretendere di conoscere una qualsiasi realtàsociale nella sua interezza, ma solo per pezzi o frammenti e solo concentrando le loro ricerche su uno di essi, senza volere contenerlitutti all’interno di un'unica problematica. Mantengo dunque uno scarto, una differenza fondamentale tra linguaggio e realtà,intendendo quest’ultimo termine come sinonimo di ciò di cui non c’è nulla da dire, proprio perché è altro rispetto linguaggio stesso.

Un indicibile, un impensabile, un incognito, un indeterminato[140], che, occorre ammetterlo, rappresenta il limite di ogni ricerca.Contemplare questo limite significa prendere una distanza decisiva rispetto alla già considerata teoria della performance, la quale,come si è già visto, porta a confondere il dire col fare, il linguaggio e la realtà. Ma così ci si discosta anche da un’altra grandegalassia del cosmo sociologico e antropologico. Intendo quelle impostazioni problematiche che hanno cominciato a circolare nelcorso degli anni Sessanta del Novecento e che si sono imposte sostenendo slogan come “tutto è segno”, ovvero l’idea secondo cuiogni società si fonda sullo scambio sistematico di segni.

Ad avvalorare queste ipotesi, nell’Italia di Umberto Eco[141], forse il più famoso cultore di questa materia nel mondo, c’è chi ha

parlato di “svolta semiotica”[142] anziché di “svolta linguistica”. In quest’ottica, la grande novità novecentesca per le scienzesociali starebbe nell’assumere l’importanza non del linguaggio in quanto tale, ma dei segni in genere (inclusivi ad esempio anche delfar segno come gesto manuale), tra cui quelli linguistici non sarebbero che una componente più o meno decisiva. L’obiettivocognitivo così raggiunto sarebbe quello di poter sfruttare le maggiori scoperte in campo linguistico per altri campi scientifici, comequello appunto delle ricerche sociali, ad esso esteriori. Il tutto, per altro, in conformità a quanto auspicato dallo stesso padre dellalinguistica novecentesca. In effetti, lo stesso de Saussure si era augurato che la fondazione a venire di una semiologia avrebbe potutoaccogliere e completare i risultati che le ricerche linguistiche del suo tempo stavano ottenendo.Se i maggiori successi stavano arrivando dal separare, in ogni parola, significante (fonologico) e significato (semantico), per aprirecosì un nuovo spazio alla perlustrazione grammaticale, la speranza era che un giorno si sarebbe giunti a ricomporre significanti esignificati come le due facce di uno stesso segno, cui la parola stessa avrebbe dovuto essere ricondotta.Ma così non è stato. Cosicché fino ad oggi “la semiologia non ha avuto contenuto che non sia stato preso in prestito dalla linguistica”[143]. Studiare la società dal punto di vista dello scambio dei segni equivale dunque non solo a studiare la società come se fosseriducibile ad un linguaggio, ma anche a considerare il linguaggio come se fosse fatto di segni e dunque in un modo in buona parteestraneo ad ogni nuova scoperta linguistica. Così, con una sola mossa, la semiotica si pone al di sopra tanto delle scienze socialiquanto delle scienze del linguaggio. Del resto, è chiaro che l’ipotesi secondo cui tutto è segno, tutto è linguaggio, ha forza solo se intesa in senso polemico: solo comecontestazione dell’evidenza banale, ma ben difficilmente confutabile, secondo la quale non tutto è segno e/o linguaggio. Talecontestazione, almeno ai suoi inizi, negli anni Sessanta, ha avuto l’indiscutibile merito di innalzare il livello di attenzione tenutodalle scienze sociali rispetto alla questione del linguaggio e alle novità delle ricerche linguistiche. Più discutibili sono invece glieffettivi contributi apportati dalla semiologia alla conoscenza della realtà sociale. Quanto mai significativo a questo proposito è ilpercorso delle ricerche di uno dei suoi padri fondatori, Roland Barthes. Se egli nel 1964 dà infatti a questa sua disciplina un

programma scientifico quanto mai ambizioso, quello di “sviluppare un’analisi generale dell’intelligibile umano”[144], che viene

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realizzato negli Elementi di semiologia,[145] dopo tre anni, nel 1967, egli arriva a fare della moda una questione intellettuale di

prima grandezza. Addirittura la teorizza come “sistema”[146]. E ciò in un epoca, quella degli anni Sessanta, in cui, quando la parola“sistema” veniva usata, lo era quasi solo per alludere, oltre che a quelli matematici, a quello capitalista e a quello socialista. Unavera e propria provocazione, dunque, quella di mettere la dimensione dell’“haute couture” sullo stesso piano dei due modelli socio-politico-economici che si dividevano il mondo. Così anche in Francia, una delle patrie più importanti delle scienze sociali, si ha ilfenomeno per cui temi sociali solitamente ritenuti superficiali vengono promossi allo stesso rango intellettuale di quelli ritenuti piùprofondi. Qualcosa di simile a quello che in area anglosassone è accaduto, praticamente negli stessi anni, ergendo la vita quotidianaa dimensione sociale decisiva. Del resto, sono questi i tempi in cui i ceti medi dei paesi più ricchi celebrano il loro trionfo grazie apolitiche di distribuzione del reddito che ne favoriscono la crescita, come mai era avvenuto prima della metà degli anni Quaranta e

come mai più avverrà dopo la metà degli anni Settanta[147]. Oggi che tempi simili sono passati anche la semiotica non ha più quelprimato tra le scienze sociali che aveva a suo tempo conquistato. Resta comunque la sua eredità, fatta dell’enorme massa di ricerchesociali dedicate a fenomeni come la moda. Senza nulla togliere alla loro legittimità, per altro unanimemente riconosciuta, resta dadiscutere come mai siano proprio esse ad essere privilegiate da questa impostazione semiologica la quale si vuole d’orientamentogenerale sia per le scienze sociali sia per le scienze linguistiche.Il punto è che, dal momento in cui si considera che il segno è tutto, il problema principale diventa necessariamente lo scambio tra isegni dal punto di vista il più ampio possibile. Ecco dunque che la linfa di ogni società viene trovata nella “comunicazione di

massa”. Non per nulla, lo stesso Barthes aveva promosso un pionieristico “Centro studi delle comunicazioni di massa”[148]. Sequindi sono le comunicazioni di massa a rivelare quel che più conta della realtà sociale, è chiaro che ad essere privilegiato èqualunque fatto su cui le opinioni, anche quelle più banali, sono attratte e polarizzate. Moda, gossip, cronache, specie se relative apersonaggi ricchi e potenti, qualsiasi scandalo o curiosità, dal momento in cui sono configurabili come decisivi entro un sistema discambio e circolazione dei segni, sono visti anche come socialmente decisivi. Così, il ricercatore sociale diventa il compagno distrada del giornalista per dar un tono più scientifico alle inchieste d’opinione. In effetti, sociologi, antropologi e psicologi da talkshow sono divenuti oggi personaggi quanto mai famigliari. a4.2 Il ritorno del Sistema Ma vi sono anche altri tipi di esperti del sociale più o meno influenzati dalla corrente semiologica oggi declinante. La sua crescenteinfluenza a partire dalla fine degli anni Sessanta è stata infatti tale da attraversare praticamente ogni ambito delle scienze sociali. Trai suoi altri svariati effetti uno mi pare qui degno di nota. Si tratta del rilancio alla grande della categoria di “Sistema”. Vecchiacategoria filosofica, questa, celebrata dalla filosofia hegeliana. A far di tutto un sistema, in questo caso, è lo Spirito Assoluto percui, secondo la nota formula, “ quel che è reale è razionale, quel che è razionale è reale”. Insomma, poiché si suppone che ovunquealeggi uno Spirito Assoluto che costituisce l’unità del Tutto, l’importante per la ragione è sapere riconoscere la sua presenza inmodo sistematico, poiché solo così può avere un’efficacia reale. In tal senso, Hegel finiva per esaltare lo Stato costituzionaletedesco, che al suo tempo faceva i primi passi, come incarnazione dello Spirito Assoluto tale da rendere la società civile un sistemareale e razionale. È da qui che poi Marx, e in seguito tutti i marxisti, prendono le mosse per definire il loro nemico, sempre usandola parola “sistema”: il sistema capitalista, che forse si può dire rappresenti l’uso della parola “sistema” di maggior successo tra lescienze sociali. Invece dello Spirito Assoluto, qui a costituire l’unità del sistema è l’ “equivalente generale”, il denaro, di cui ilcomunismo si supponeva avrebbe saputo fare a meno. Barthes, quando, negli anni Sessanta, tirò fuori l’idea di considerare la modacome un sistema, sapeva certo di riutilizzare in un modo nuovo e un po’ ironico quella stessa parola che i comunisti usavano percriticare la società capitalista. L’unità del sistema semiotico è ovviamente data dal segno in quanto tale, il quale, come lo SpiritoAssoluto per Hegel o il Denaro per Marx, è ovunque, cosicché solo la sua conoscenza sistematica permette di conoscere la realtàsociale. “Sistema” è stato quindi usato quasi come sinonimo di quest’ultima, senza dovere riferirsi all’hegelismo o al marxismo.

Un’opera di passaggio assai significativa è La società dello spettacolo[149] di Guy Debord, che nel 1971 coniuga una ripresa dellavisione hegelo-marxista coi temi emergenti della semiotica, così da riutilizzare tutte le categorie della vecchia critica del capitalismo per denunciarne gli ultimi sviluppi come “spettacolarizzazione” della società. Ma a lato della scia semiologica sonostate possibili anche nuove teorizzazioni della realtà sociale come sistema. Una delle più note, anche in Italia, è quella di Niklas

Luhmann[150], che ha impresso una svolta alla tradizione tedesca hegelo-marxista mantenuta viva dalla scuola di Francoforte e da

notevoli figure del secondo dopoguerra come Herbert Marcuse[151] o Jürgen Habermas[152]. Una svolta, che, per l’essenziale, si èrealizzata tramite un ripensamento della classica categoria di “sistema” in rapporto all’“ambiente”, il tutto con forti richiami allabiologia, la quale si è così ritrovata a svolgere quel ruolo di scienza modello già svolto tra Otto e Novecento, quandol’evoluzionismo dettava legge.Inaggirabile vincolo posto dalla semiologia resta comunque che il centro focale di ogni studio dei sistemi sociali stia in ciò cheviene più spesso definito “sistema delle comunicazioni di massa”. Da esso viene fatto dipendere tanto il consenso di cui necessita lapolitica, a sua volta da intendersi come sistema, come sistema politico, quanto l’opinione pubblica, ossia ciò che più conta di quelche chiunque pensa. Da qui l’esaltazione del potere detenuto da parte del sistema delle comunicazioni di massa nel manipolare ogniforma di consenso e opinione. In effetti, una volta ammesso che tutto è segno, è chiaro che si è indotti a riconoscere una potenzaenorme ai mezzi che legano, che mettono i segni in comunicazione tra loro: i tanto celebrati “mass media”. Cosicché, chi accetta difar suo l’universo semiologico diviene molto facilmente propenso a riconoscere nella realtà sociale una sorta di “quarto potere”all’ennesima potenza, al cui vertice possono comparire figure come quella del “Grande Fratello”, quale se lo immaginava Orwell.Insomma, la semiologia, per quanto critica voglia essere, con l’enfasi che pone sul potere dei media, finisce per accrescerne ilseguito. Facendo un brusco tuffo nell’attualità più prossima, trovo del tutto sostenibile che in una figura come quella di unBerlusconi al governo ci sia anche da vedere una sorta avveramento più o meno involontario di profezie semiotiche sul ruolocrescente dei “media” nel manipolare le masse ignoranti. Dal punto di vista delle nostre ipotesi, le cose stanno del tutto diversamente. Non che sia da negare il potere della comunicazione, danegare è piuttosto che l’unico modo per conoscerlo stia nel pensarlo come sistema autosufficiente o, secondo un termine più

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sofisticato, caro a Luhmann, “autopoietico”. Un’altra possibilità sta nel pensare che tutto il potere della comunicazione risieda piùsemplicemente in una ripetizione di alcune opinioni selezionate, le quali tanto più sono diffuse e amplificate quanto più si

degradano, perdono di senso, come già nel Secondo Dopoguerra notavano Lazarfeld e Merton[153]. Così, si tratta di capire che ognipotere di governo comporta certo una qualche forma di consenso e di capacità di manipolarlo, ma sempre solo entro un più o menolungo lasso di tempo, scaduto il quale, si pone comunque la questione di come rinnovare il consenso. Una questione, questa, che sipone anche per chiunque abbia un grande potere sui mezzi di comunicazione. Sia pur solo per essere mantenuto, questo potererichiede dunque delle decisioni periodiche. Ed è proprio in queste decisioni che sta la cosa più interessante da studiare nellagestione del consenso e dei mezzi di comunicazione. Chiedersi perché una campagna d’opinione piuttosto che un’altra, perché sipropaga questo messaggio pubblico piuttosto che quell’altro, a volte può infatti rivelare svolte altrimenti impercettibili nei giochi dipotere. E per capire il senso di queste eventuali svolte, a nulla serve considerale nella loro funzionalità sistematica, come se nonservissero ad altro che ad oliare sempre lo stesso meccanismo. Da analizzare sono invece anzitutto quali siano le conoscenze chehanno spinto alla decisione chi la ha presa. Solo così infatti tale decisione potrà venire analizzata, distinguendo in che misura essasia stata, al peggio, arbitraria e menzognera, o, al meglio, razionale ed intelligibile ai più, e quindi democratica. Insomma, occorresempre distinguere tra consenso e consenso, tra comunicazione e comunicazione, tra svolta e svolta nella loro gestione. E trattarli inblocco, come sistemi di segni o effetti sistematici della potenza di mass media, non giova certo a tali distinzioni.D’altra parte, l’approccio semiotico, col suo assunto secondo cui tutto è segno, risulta decisamente incompatibile con le ipotesistesse delle nostre inchieste. La prima di queste ipotesi, infatti, lo ricordo ancora una volta, sostiene che chiunque, anche senzasapere e senza potere, può pensare, nonché che questo pensiero può rientrare tra i temi più importanti delle ricerche sociali.Possibilità, queste, che sono invece prive di ogni interesse per chi vede tutto ruotare attorno alle comunicazioni di massa e al poteredi manipolare le opinioni. Le ricerche possibili nei confronti delle popolazioni che non hanno questo potere sono allora solo quelleche le interpellano come campioni dai quali trarre “indici di gradimento” o “di ascolto” o rozze dicotomie tra “favorevoli” e“contrari”. Le loro parole insomma non contano nulla, se non come ripetizione, conferma o diniego di discorsi elaborati da altri, piùpotenti in materia di comunicazione.Ora è chiaro che anche nelle nostre inchieste si tiene conto della ripetizione delle opinioni, del consenso più o meno manipolato,degli effetti della comunicazione di massa, fenomeni tutti sempre ben presenti nelle parole e nel pensiero di chiunque, e dunque, amaggior ragione, di chi ha pochi mezzi propri o non ne ha affatto. Ne teniamo conto, ma con due distinguo. Anzitutto, che il pensierodei nostri intervistati va cercato proprio laddove le loro parole dicono di più o di meno rispetto ai discorsi e alle opinioniconsensuali che circolano tra loro come nel resto della società; il che significa fare attenzione anche ai lapsus, alle forzature, agliequivoci, alle stranezze, alle scorrettezze, che sono riscontrabili in quanto i nostri interpellati dicono anche quando ripetono il giàsentito. L’altro distinguo riguarda il fatto che, anche quando una popolazione pare particolarmente passiva nel ripetere luoghicomuni, ciò non significa che la si debba ritenere completamente manipolata; ad essere rilevante, in un caso simile, è analizzare indettaglio quali siano i luoghi comuni ripetuti, come sono ripetuti, perché proprio quelli anziché altri. Decisiva per orientare su tuttequeste questioni è la categoria di luogo, cui si è già accennato e che considereremo meglio in seguito. Decisivo è infatti che ognipopolazione sia interpellata in riferimento al luogo in cui vive, lavora, apprende, a seconda del caso che interessa la ricerca.La realtà sociale, per le nostre ipotesi di ricerca, non è che la realtà di luoghi, per conoscere i quali non ci fidiamo in fondo chedelle parole di chi vi è governato.Per concludere, alle categorie semiologiche di segno, sistema e comunicazione le nostre ipotesi oppongono parola, luogo epensiero. a5 Dalla comunicazione alle comunità a5.1 Doni non richiesti

La semiologia sul finire del XX secolo ha perso non poco del suo fascino, un tempo quasi irresistibile[154]. Le sue teorizzazioni sisono oggi tanto più ridotte quanto più diffusi e disparati sono stati i suoi successi tra le scienze sociali. L’espansione insomma si èrealizzata in effetti che ora si stanno combinando in nuove configurazioni problematiche. Ma, col nuovo secolo, a diventare egemonetra le scienze sociali, più che una problematica o una metodologia, è piuttosto un tema: il tema comunitario.Sia chiaro, si tratta di un tema vecchio e ben noto. Tra i suoi teorici il più famoso risale all’Ottocento. Si tratta di F. Tönnies con la

sua opera Comunità e Società[155] del 1887, dalla quale, si può dire, non c’è ricercatore sociale che non abbia attinto. Tant’è chemolto spesso società e comunità compaiono come sinonimi, o accomunati in espressioni come “comunità sociale”. Ma è degno dinota che Tönnies stesso facesse dell’opposizione tra questi due termini il centro stesso del suo discorso; un discorso, per altro,pervaso dal rimpianto per un’autentica dimensione comunitaria, resa sempre meno possibile dall’inesorabile e progressivo imporsidella società. L’idea è che la comunità corrisponda alla condizione più originaria e naturale dell’umanità. La famiglia, il legame disangue tra famigliari fanno qui da riferimenti sostanziali. Il modello di riferimento è costituito dal patriarcato e dall’economiadomestica, quali quelli con cui solitamente si caratterizza il Medioevo. Per comunità si intende dunque uno stato in cui vige la piùnaturale unità delle volontà e dei sentimenti di coloro che la compongono. Con l’imporsi della società, invece, i rapporti traindividui si ridurrebbero a rapporti essenzialmente contrattuali, a scapito della naturalezza e dei sentimenti sostituiti da concorrenza,egoismo, individualismo, il tutto dominato dal denaro. Qui il modello di riferimento è la società borghese, più o meno quale Marx,citato da Tönnies, l’aveva presentata.Ora è chiaro che questa è una visione tipica di una certa tradizione tedesca romantica e storicista. Che al suo centro stia ancora unriferimento alle necessità naturali, di cui si lamenta proprio lo svanire nel presente, ciò fa chiaramente intendere che si tratta di undiscorso da fine Ottocento, mezzo secolo prima del culmine della svolta linguistica.

Come ha dimostrato Roberto Esposito[156], la parola stessa comunità contiene già nel suo stesso etimo latino l’idea di un legamepassivo, causato da un dato precedente ed esterno, che chi ne subisce gli effetti non può mutare. “Communitas” significa infatticum-munus, con dono, l’essere accomunati da un dono ricevuto. Ad esempio, nella tradizione biblica, si tratta del dono della grazia;un dono, di cui l’umanità stessa - a seguito della storia della mela, altro dono, questo diabolico, accettato da Eva - non si èdimostrata degna; da qui il peccato originale che ciascuno in vita si porta addosso, avendo come unica scappatoia di arrivare alla

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morte senza avere troppo aggravato la propria condizione di peccatore congenito. Il effetti, il dono che accomuna in comunità è undono che nessuno ha voluto e di cui tutti devono sentirsi debitori insolventi. Questo, dunque, detto in due parole, il senso piùprofondo e quanto mai coercitivo della categoria comunità. Essa suppone la figura di un donatore originario, sempre in credito, comeuna immutabile ipoteca su ogni possibilità soggettiva.Nella tradizione biblica si tratta chiaramente di Dio, l’Ente da cui tutto dipende e che sta prima di ogni cosa, l’Uno. Ma un Uno, datouna volta per tutte e che di tutto dà la misura, è sempre obbligatorio quando si parla di comunità. A differenza di quel che si intendenormalmente per società e che evoca comunque delle diversità di condizione tra chi ne fa parte, comunità significa una popolazioneunita attorno ad una identità. Identità che vuol dire appunto Uno, ovvero il contrario di qualsiasi differenza. L’identità di ognicomunità viene quindi sempre da un atto di fede, da un principio fideistico che esclude ogni sua messa in discussione.Ora, è del tutto incontestabile che dagli ultimi due decenni del secolo scorso fino ad oggi il “comunitario” abbia ripreso quota. Nellarealtà sociale in effetti circolano sempre più rivendicazioni di identità comunitaria. Al posto di un donatore divino, si mette lanatura, così ecco che l’identità rivendicata può essere sessuale, etnica o peggio razziale, oltre che religiosa. I principi attorno cui lecomunità prendono corpo sono in ogni caso sempre naturalistici, mitici o mistici, e si realizzano solo grazie ad atti di fede.Victor Turner di questa grande svolta antropologica intervenuta col declinare del XX secolo parla in questi termini: “Nellecoscienze moderne, cognizione, idea, razionalità erano dominanti. Con la svolta post-moderna, la cognizione non viene

detronizzata, ma si colloca piuttosto sullo stesso piano della volizione e dell’affetto” [157]. Sarebbe dunque su questo “piano”intermedio tra il razionale e l’affettivo che ritornerebbe in auge il comunitario. Resta che alle scienze sociali spetta sempre di farericerche razionali. E se la loro razionalità non è mai una, e deve sempre rinnovarsi, è in ogni caso discutibile che la via migliore sia

quella post-moderna proposta da Turner. In effetti, il suo obiettivo di giungere ad un’ “antropologia liberata”[158] lo porta a cercare

nell’arte, anziché nella scienza, un modello di riferimento. Così è dal teatro che egli [159] trae espliciti orientamenti per trattare lerealtà sociali come “drammi” e “performance”. Ma il fatto è che in tale ottica teatrale del sociale le identità comunitarie finisconoper avere una parte del tutto reale.Un altro modo di assumere, sia pur in modo critico, i temi delle identità comunitarie lo si può trovare in Geertz. Egli infatti introduceil concetto di “politiche di identità”. Queste consisterebbero nelle operazioni di “inclusione” ed “esclusione” con cui in molte partidel mondo si starebbe ridisegnando la vecchia geografia basata su distinzioni nazionali oramai superate. Per spiegare tali politicheegli fa ricorso ad un altro concetto, quello di “lealtà primordiali ”, che sarebbero forme di attaccamento a fatti come sangue, lingua,costume, fede, residenza, famiglia, sembianza fisica e così via. Fatti, questi, che sarebbero percepiti dagli attori sociali come “dotati

di una forza coercitiva ineffabile e schiaccianti in sé e per sé”[160]. Egli tiene, però, a sottolineare che la ricerca sociale non deveassumere queste percezioni come dati del tutto affidabili, ma deve contestualizzarli e relativizzarli nello spazio e nel tempo. Comedire che l’identità derivante dall’attaccamento al proprio “essere” musulmano, cristiano o ebreo, serbo o croato, hutu o tutsi e cosìvia, muta radicalmente col mutare delle circostanze e delle situazioni. Geertz però non spiega fino a che punto. Fino a che punto talevariabilità delle “lealtà primordiali” non sia tale da fare dubitare che abbiano una consistenza propria. Viene in mente la critica, piùsopra citata, che Boas rivolgeva ad ogni determinismo: si ammetta pure l’esistenza di leggi che determinano l’evoluzione ingenerale, ma nello studio di ogni situazione particolare si trovano tante casualità singolari che sono esse a decidere del senso edell’incidenza di queste determinazioni. In altre parole, si ammettano pure “lealtà primordiali”, ma si deve anche ammettere che essenon hanno senso se non quello che è loro dato dalla situazione contingente, singolare. È proprio quanto dice un proverbio araboamato dal grande storico francese Marc Bloch, secondo il quale “ognuno è figlio più del proprio tempo che del proprio padre”. Se èdunque legittimo dubitare che queste cosiddette “lealtà primordiali” abbiano una consistenza propria, non si capisce cosa possanospiegare della politica. E viene allora da chiedersi se non sia piuttosto il caso di ammettere che sono invece le scelte politiche aspiegare quando, quanto e come miti o fedi comunitarie si scatenino. Così, ad esempio, la maggior parte dei conflitti che hannodilaniato la ex Jugoslavia, anziché essere considerati come scontro tra diverse identità etniche o religiose, sono ben piùrazionalmente analizzabili come effetti perversi della decomposizione del socialismo di Tito e dei conflitti tra spezzonidell’esercito, nonché delle manovre della diplomazia internazionale in questa zona geopolitica. Dal che ne esce del tutto discutibilel’etichettare queste politiche che si sviluppano nel decomporsi dei quadri nazionali come “politiche d’identità”. Ciò proprio perchénon sono le cosiddette lealtà primordiali a poterle spiegare.Anziché rovistare col concetto comunque rigido e dogmatico, oltre che fideistico, di “identità”, qui come altrove, le nostre ipotesiconsigliano l’uso della categoria delle prescrizioni. E quindi di fare delle diverse prescrizioni e dei conflitti tra di esse la primachiave di lettura della politica, in generale. Ove, per “prescrizione” - è il caso di insistere - si deve intendere apertura di possibilitàsingolare, da analizzare, se avanzata nell’esercizio di un potere - ad esempio, nel caso citato, militare -, in base al sapere da cui èorientata.Nel caso delle immani catastrofi come quella delle “pulizie etniche” nella ex-Jugoslavia o degli stermini in Ruanda, è chiaro chenelle decisioni politiche che li hanno resi possibili di sapere ce ne era poco o nulla. Ma è solo qui, in quel minimo di razionalità cheogni prescrizione politica contiene, fosse anche nella forma delle più avventate astuzie o del più cinico e criminale calcolod’interessi, che la ricerca sociale può trovare un appiglio per condurre l’analisi sull’unico piano che conta per la scienza, quellorazionale.

Tra i ricercatori sociali sono però rari gli esempi di chi[161] si oppone decisamente all’assunzione delle identità comunitarie comeindici credibili della realtà sociale. Si può forse dire che questo tipo di tematica, delle identità comunitarie, ha preso nelle scienzesociali il posto egemone già detenuto dalla semiologia. Dal prevalere dei problemi della comunicazione al prevalere di quelli dellecomunità, dunque. Ma se questo passaggio è stato possibile, è perché tra queste due tematiche c’è qualcosa di profondamenteomologo. Il fatto di essere, entrambi, due tipi di “pensiero unico”, di metodi e di problematiche a una dimensione. Sia la categoriasemiotica di segno, sia quella comunitaria dell’identità non fanno infatti che rimettere insieme, rimescolare ciò che la ricercascientifica aveva già distinto e separato, aprendo nuovi e diversi orizzonti al pensiero e alla conoscenza. Nel primo caso, il segnointeso semiologicamente, come si è già detto, rappresenta un ritorno a quanto stava prima di quella distinzione tra significante esignificato, distinzione dalla quale hanno preso le mosse tra le più importanti scoperte linguistiche del Novecento. Nel secondo caso,la ripresa attuale dell’arcaica categoria della comunità rappresenta un ritorno a quella unità tra natura, cultura e società (allaTönnies) che la svolta linguistica nelle scienze sociali aveva già da decenni e decenni mandato definitivamente in frantumi.

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a5.2 Identità o soggettività?Insomma, che da qualche decennio nelle scienze sociali ci sia stagnazione, se non riflusso è per me constatazione obbligatoria, ancheriflettendo sul successo semiologico seguito da quello comunitario. È come se fosse in corso una sorta delinguistizzazione delleproblematiche sociali a profitto di una loro rinaturalizzazione. Invece di discutere delle differenze tra chi ha potere e chi no, delleresponsabilità dei primi e delle condizioni al limite dell’impossibile dei secondi, l’opinione dominante, insistendo sui temi comunidella natura, finisce anche per privilegiare le immagini più naturali o tradizionali dei conflitti, i quali oramai sembrano avere persoogni carattere sociale, per apparire invece quasi solo in vesti etniche o religiose. Con l’unica prospettiva di esasperarsi all’estremo.Un simile spirito del tempo mette a rischio l’abc stesso delle scienze sociali, ma anche offre loro un campo di ricerca più che maivasto e tendenzialmente più omogeneo. Se infatti la polarità tra ricchi e poveri aumenta, grazie al rapido sviluppo di grandissimi

paesi già sottosviluppati, come Russia, India e soprattutto Cina, diminuisce invece la polarità tra paesi ricchi e poveri[162]. Laglobalizzazione vuol dire anche questo: un mondo ovunque più socialmente e più similmente diversificato. A ciò si connette latendenza oramai pluridecennale che spinge quasi tutti i governi alla riduzione degli impegni sociali. Le scienze sociali possonotemere dunque di vedere calare l’interesse statale nei loro confronti, ma possono anche risollevarsi riprendendo la svolta linguisticanelle sue conseguenze ultime, quelle che portano a ridurre l’uso di metalinguaggi da specialisti per far proprio il linguaggio che è giàdi chiunque.Il successo in tali scienze dei temi identitari e comunitari significa già una rinuncia ad impostazioni sofisticate, ma solo per darspazio alle opinioni più circolanti.Da questo punto di vista, a poco valgono tutti i tentativi di rendere meno univoco e totalizzante il tema comunitario parlando diidentità multiple . Fatto sta che questa tematica delle identità multiple in molte ricerche sociali ha finito per accompagnare, se nonsoppiantare, quella precedentemente più usuale delle differenze sociali. In termini puramente accademici tutto può risolversiriconoscendo una diversità di ambiti della ricerca. Il tema delle differenze sociali può infatti apparire di competenza più dellasociologia quantitativa, mentre il tema delle identità collettive tirerebbe in ballo aspetti più soggettivi, per i quali sarebbero piùadatte sociologia qualitativa, antropologia e etnografia. Ma al fondo c’è un problema quanto mai delicato che riguarda il modostesso in cui le scienze sociali accettano di aprirsi alle questioni della soggettività. Tali questioni infatti scontano una lungaquarantena tra queste scienze. Si può dire che tutti i loro approcci più importanti, tanto nell’Ottocento, quanto nel Novecento, hannosempre considerato i soggetti sociali solo come accessori di questioni oggettive: la soggettività, cioè, sempre o quasi intesa comepuro assoggettamento a vincoli oggettivi, ai quali poco o nulla aggiunge o toglie. Ma a seguito della svolta linguistica, come si èvisto, tale noncuranza non è più ammissibile. Dal momento che al dire si riconosce la possibilità di produrre effetti sociali del tuttoreali, infatti, la questione di chi parla, di quali sono le condizioni soggettive del suo dire non può più essere elusa. Come pensare econoscere chi parla a partire dal suo stesso parlare e nel rapporto che questo parlare ha con la realtà sociale? Questa èsicuramente una domanda di fondo e di frontiera per le scienze sociali d’oggi. Le risposte che qui tentiamo si fondano sulla già piùvolte menzionata distinzione fondamentale: quella tra chi può e chi non può sulla stessa realtà sociale; tra chi ha mezzi e capacità percondizionare lavoro, vita, esperienze di un’infinità d’altri e chi invece no. È in base a questa distinzione che si può procedere adanalisi differenziate sui diversi rapporti soggettivi tra linguaggio e realtà. In altri termini, così si fa diventare un’ipotesi di ricerca l’assunto di per sé ben intuitivo del diverso peso che le parole hanno nel sociale a seconda del potere che ha chi le pronuncia.Procedendo da questo assunto di partenza, si ha il vantaggio di mantenere la questione della soggettività sociale entro la prospettivaaperta dalla svolta linguistica tra le scienze sociali. In senso del tutto opposto va invece la soluzione delle questioni soggettive intermini di identità. Per quanto all’interno di una stessa soggettività collettiva se ne possano riconoscere di infinitamente molteplici,tra loro differenziate o, se si preferisce, “meticciate”, “ibridate”, secondo la greve terminologia di moda, per quanto si insista suiloro intrecci sessuali, etnici, religiosi, tradizionali o quant’altro, tali identità hanno senso solo se ciascuna di esse si suppone fondatasu degli elementi originari tanto uniti da non potere mai essere distinti al loro interno, dunque senza contraddizioni: insomma, sudelle sostanze naturali o mistiche, che possono certo attirare l’immaginazione e la fede di chiunque, ma non del ricercatore socialeedotto dalla svolta linguistica.

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b Scienze sociali e politica nel Novecento In un libro recentemente uscito ho sostenuto che il Novecento dal punto di vista della storia della politica non sia riducibile alloscontro tra democrazia e totalitarismo, come molti sostengono, e che è invece da considerarsi, specie a partire dal Primo

Dopoguerra, il secolo dei partiti[163]. Sarebbe a dire dei regimi in cui i rapporti tra Stato e società sono stati organizzati, decisi egovernati anzitutto dalla figura dei partiti. Sarebbe dunque il loro formarsi, la loro espansione e, infine, il loro declino ad averesegnato il destino degli Stati e delle società più ricche. E non viceversa.Questa tesi riguarda anche le scienze sociali e la loro svolta linguistica. E ciò in ragione della promessa senza precedenti che ognipartito del Novecento ha fatto: quella di essere la soluzione esplicita, dichiarata, di ogni profonda disparità sociale. b1 I Partiti, il linguaggio, il sociale, la guerraIn effetti, fascisti, nazisti, comunisti, socialisti, liberal-democratici, tutti, tra dirigenti, militanti e simpatizzanti, coi loro immensiseguiti, hanno avuto un tratto di fede comune: quella nel potere di risolvere il perenne dualismo di ogni società. Intendo la divisionetra ricchi e poveri, tra potenti e non potenti, tra governati e governati, tra chi ha i mezzi di decidere dei destini del resto della societàe chi invece ha sempre da inventarsi come rendere possibile il proprio. “Comunismo”, “socialismo”, “impero ariano”, “ pariopportunità per ciascun individuo”: queste le maggiori promesse con cui i partiti, da quello sovietico a quelli socialisti, da quellifascisti e nazisti a quelli statunitensi e inglesi, con tutte le loro numerose imitazioni locali disseminate nel mondo, si sono proposticome organizzazioni capaci di realizzare la riduzione di tutte le diversità sociali. Per comunisti e socialisti, infatti, il “mondodell’avvenire” non avrebbe più avuto né sfruttati né sfruttatori; per i nazisti avrebbero dovuto cadere sotto il dominio degli ariani(tra cui i fascisti speravano di far passare anche un po’ di stirpe italica); per i liberal-democratici, con la loro incrollabile, ed infondo arcaica, fede nella indissolubile potenza dell’individuo, il futuro avrebbe dovuto essere migliore per i più meritevoli.Le realizzazioni sono state comunque enormi. Nei paesi più ricchi si è infatti formato quel “ceto medio” che ha dato agli Stati diquesto secolo uno zoccolo duro e resistente contro ogni possibile divisione sociale interna. In compenso, quando attorno agli anniTrenta si è trattato di contendersi il mondo tutti questi Stati mono o pluri-partitici, non si sono fermati di fronte a nessun orrore.Da un punto di vista propriamente politico, è d’obbligo far precise differenze. Stante che nessun regime può essere consideratopacifista, bisogna sapere distinguere quali sono i diversi di tipi di guerra (di difesa o d’attacco, esterna o interna) che vengonoassunti come modello dalle diverse politiche. Se la guerra “in difesa dello Stato” contro i nemici interni è stato il motivo ispiratoredelle leggi “fascistissime” del 1925 in Italia, per il nazismo lo è stato la guerra d’assalto contro il mondo intero, mentre per ilcomunismo l’ideale cui tendere è sempre stato il riscatto dei proletari e la difesa della “Patria socialista”, in nome dei quali non sisono comunque risparmiate guerre, gulag e deportazioni. D’altra parte, i regimi pluralisti anglosassoni non hanno mai volutorispondere dei “crimini contro l’umanità” da essi perpetrati con la tecnica a basso rischio per chi la usa dei bombardamenti atappeto e delle bombe atomiche.Da un punto di vista antropologico, la Seconda Guerra Mondiale, con tutti i suoi strascichi “freddi”, può essere considerata quasicome una guerra di religione, non più tra nazioni, sia pur con dimensioni imperialistiche, come nella Prima, ma tra i vari modelli dipartiti(o) al comando degli Stati. I(l) partiti(o) Stato(i) del XX secolo, dunque, come vere proprie chiese laiche: non dichiaratamentereligiose, ma rette su fedi univoche o pluraliste che possono essere paragonate alle tradizioni monoteiste o pagane. In effetti, non sifa alcuna fatica a riconoscere nella vita di ognuno di questi partiti, culti, riti e sacramenti vari.Tutto ciò non deve far dimenticare che, sempre tramite la figura dei partiti-Stato, nel Novecento sono avvenute due svolte epocalisenza precedenti. Da un lato, l’assunzione e l’organizzazione sistematica da parte degli Stati di quell’ assistenza al sociale piùemarginato che precedentemente riceveva attenzione praticamente solo dalle chiese. Dall’altro, il fatto che la gestione del potere diStato ha finito per perdere gran parte della sua tradizionale aura mistica ed oscura, per accettare invece sempre più il vincolo diesplicitarsi, di dichiararsi, di configurarsi in una dimensione linguistica, leggibile, trasparente per chiunque se ne interessasse.Programmi, propaganda, campagne per la conquista dei consensi, che sono stati la risorsa prima dei partiti-Stato, sono stati tuttifattori che hanno portato, come mai prima, il potere a legittimarsi anzitutto tramite parole: parole che ognuno può comprendere edeventualmente controbattere. I partiti-Stato, dunque, come indiscutibili portatori di democrazia, intendendo con ciò soprattutto ilmanifestarsi pubblico, il dirsi, da parte di chi ha potere. Qui sta dunque una delle condizioni politiche essenziali che hanno sospinto le scienze sociali ad assumere il linguaggio comequestione decisiva. In quanto scienze per lo più sovvenzionate dallo Stato, non potevano essere estranee alla figura del partito che negestiva o viceversa ne contestava il potere soprattutto tramite parole. È solo grazie alle parole dei partiti, alle loro prescrizioni, chesi sono realizzate politiche capaci di portare i loro paesi a quella grande vittoria sulla natura, qui già ricordata, per cui per nutriretutta una popolazione può bastare solo il lavoro di una sua infima parte. b.2 Scienze sociali e regimi politiciPer seguire lo sviluppo novecentesco delle scienze sociali, nulla è più fuorviante del pensarlo al di sopra o estraneo alla storiapolitica di questo secolo. I tipi di regime in cui si sono trovate ad operare le hanno infatti condizionate in modo decisivo.Laddove i regimi sono stati monopartitici, queste scienze o hanno accettato di svilirsi in apologia di regime o sono statesemplicemente tacitate, represse, perseguitate, esiliate come, o anche più, di altre attività intellettuali. Dal che il panorama d’insiemedi tali scienze, tra gli anni Venti e Trenta, finisce per ridursi ad unica prospettiva, quella di lingua anglosassone, con l’unicaeccezione francese.In particolare, la situazione delle scienze sociali in Italia ha uno sviluppo con suoi tratti singolari. Se tra Otto e Novecento essa

appariva punteggiata da opere di notevole portata (da quelle sociologiche, psicologiche, pedagogiche di Roberto Ardigò [164] a

quelle marxiste di Antonio Labriola[165], a quelle di politologi come Mosca[166], Pareto[167] e Michels[168]), col trionfo dellafilosofia neo-idealista di Croce e Gentile si ha un punto di arresto che il monopartitismo fascista rende irreversibile. Un qualche

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interesse per le ricerche sociali sembra sopravvivere tramite le varie dottrine più o meno corporativistiche del regime o vasteoperazioni di raccolta del consenso intellettuale, quali quelle attivate dallo stesso Gentile con la redazione dell’enciclopedia

Treccani[169]. Ma il regime, monopolizzando una già ridotta ricerca sociale, ne ha scoraggiato ogni possibilità di rinnovamentoproblematico e metodologico.Una condizione di depressione, questa, che non si può dire venga completamente riscattata con la fondazione della

Repubblica[170]. Le scienze sociali del nostro paese, infatti, pur sempre aggiornate su ricerche e dibatti di altri paesi, non hannomai prodotto studi che abbiano lasciato segni indelebili, tranne l’eccezionale Ernesto De Martino, negli studi di etnografia del

folklore[171], e la già citata corrente dell’operaismo con tutti suoi diversi aggiornamenti[172]. Il fatto è che l’Italia dal monopoliodel partito Fascista passa infatti al quasi duopolio della Democrazia Cristiana e del Partito Comunista Italiano, che per molto temposono stati i più sostenuti e foraggiati dalle rispettive superpotenze di riferimento, Stati Uniti e Unione Sovietica. Contrariamente allavisione tutta nazionalpopolare della storia repubblicana del nostro paese, anche parlando dello sviluppo delle scienze sociali, sonoancora quasi tutti da censire gli enormi condizionamenti internazionali subiti da questa penisola, geopoliticamente tanto decisiva pertutto il lunghissimo Secondo Dopoguerra. Una sequenza storica, questa, che in fondo si è conclusa solo attorno all’Ottantanove conla caduta del muro di Berlino.

Il fatto è che entrambi i due partiti egemoni[173] (nell’occupazione del potere la Dc, e nel campo del sapere il Pci) hanno da sempreavuto una loro dottrina del sociale, cristiana la prima, marxista la seconda. Due dottrine, che per tradizione non hanno mai avutocome luogo privilegiato di insegnamento, d’organizzazione e di sperimentazione quello pubblico dell’università, ma quelli, comesezioni o parrocchie, più decisamente controllati dal partito o dalla Chiesa. Così non si può certo dire che nel gestire i rapporti trasocietà e Stato questi due maggiori partiti abbiano particolarmente stimolato le scienze sociali a darsi delle politiche di ricercaindipendenti, orientate da pure e semplici esigenze della conoscenza. E si deve invece dire che tali scienze in Italia non hanno maigoduto, né tutt’oggi godono di un grande prestigio o di notevoli mezzi.Per chiedersene il perché, oltre che tra le appena accennate caratteristiche dei maggiori partiti, occorrerebbe probabilmente cercareanche tra le altre svariate ragioni che hanno contribuito a far sì che la Prima Repubblica di questo paese abbia sempre dimostratopoco entusiasmo per la conoscenza scientifica del sociale. Si dovrebbe allora analizzare quanto e come altre figure abbiano tenutoil posto e svolto le funzioni che altrimenti avrebbero dovuto spettare a ricercatori sociali. Particolare attenzione andrebbe allatradizionale opera caritatevole del clero cattolico, al quale lo Stato ha affiancato un esercito di tutori dell’ordine pubblico che (trapoliziotti, carabinieri, finanzieri e guardie municipali), rispetto al totale della popolazione del nostro paese, è tra i più folti delmondo e forse anche tra i meglio informati in materia sociale. Senza dimenticare per altro la presenza sociale dei sindacati, i qualianch’essi, almeno dagli anni Settanta del Novecento, hanno costituito un’istituzione particolarmente diffusa e incisiva nel nostropaese. Ma non si dovrebbe neanche trascurare la tradizionale funzione sociale svolta dalla famiglia, che per lungo tempo ha

assorbito e risolto a suo modo problemi economici cruciali come la disoccupazione giovanile, specie nel Meridione[174]. In primopiano dovrebbe comunque risultare l’abituale propensione governativa a delegare alle figure fin qui menzionate gli interventi sociali,trascurando per altro dimensioni e luoghi che per le loro caratteristiche decisamente anonime e collettive, come la grande industria

(oggi oramai quasi scomparsa[175]), richiedono strategie politiche e sociali di vasta prospettiva.Insomma, se in Italia le informazioni sul sociale sono più o meno sempre venute da una considerevole massa di addetti, qualimilitanti di partito, preti, tutori dell’ordine pubblico, sindacalisti, famigliari, e se, d’altra parte, i governi non hanno mai avutoestrema necessità di ulteriori informazioni, si può ben capire perché in questo paese gli investimenti intellettuali, oltre che finanziari,nei confronti di ricercatori sociali non siano mai stati troppo generosi. Ma così si può capire anche perché le conoscenze rigorose,scientifiche, del sociale non vi abbiano mai abbondato, con tutte le conseguenze, anche politiche, del caso. b3 Il Sessantotto e le sue conseguenzeFatto sta che col XXI secolo si è voltato pagina rispetto alla storia politica del XX secolo.Tutti i partiti-Stato su scala planetaria non solo non godono più del prestigio e della vitalità di un tempo, ma si può dire che sianoentrati addirittura in una fase di decomposizione. I funerali dei loro decessi sono stati celebrati in vario modo: nei paesi comunisti,dove il Partito era unico, il regime stesso è clamorosamente crollato; in Italia, a spazzare via i partiti che occupavano lo Stato haprovveduto l’inchiesta del 1992 nota come “mani-pulite”; negli Usa, la cosa è avvenuta col pateracchio delle penultime elezioni che,discreditando il sistema elettorale, hanno discreditato anche il bipartitismo che ne è sempre stato emanazione, per cui ora la lobbydella guerra non ha rivali nel trovare consensi; in Inghilterra, poi, si sa che Blair è socialista come la Teatcher; in Francia, infine,Chirac, che ha potuto godere di una maggioranza schiacciante come mai, si può dire sia leader di tutti i partiti e di nessuno inparticolare. La lista potrebbe continuare, ovviamente con le dovute eccezioni (quella cinese in testa), che non fanno tuttavia checonfermare la regola generale: quella del disfacimento avanzato di ogni organizzazione dei regimi di Partito, quale ha dominatobuona parte del XX secolo. Così, oggi, nel XXI secolo, non è più questo il tipo di organizzazione che unisce e/o a divide tutti quelliche siedono in governi o in parlamenti né meno che mai quelli che sono i loro seguiti più o meno clientelari. Non ci sono più né“basi”, né “vertici”, né rapporti sistematici tra i due. Culti, riti, sacramenti, simboli, bandiere appaiono sempre più solo comeanticaglie o rimasugli del passato. Il nome stesso “partito” è quasi del tutto desueto e sempre meno gradito.Un momento inizialmente scatenante di questo declino lo si può rintracciare nel fatidico Sessantotto. Evento sul quale leinterpretazioni si sprecano e che qui non saranno commentate, per venire subito al punto. Tra i tanti nodi che vi vengono al pettine, cen’è uno che qui interessa in particolare. Si tratta della presa del potere della parola da parte di chiunque in qualunque luogosociale, di lavoro, di insegnamento. È da ciò, da questa esplosione del linguaggio, che i fondamenti dei regimi partitici sono statiminati. L’intensità, la durata e i modi di questa esplosione sono stati diversi a seconda dei paesi in cui avvenuta. Ma la suacontemporaneità praticamente universale è indubbia. E al cuore c’è la radicale contestazione di ogni competenza a parlare, di ogniqualifica e privilegio nel poter dire invece di e sugli altri. Per spiegarne le cause profonde si può ricordare una cospicua serie dicondizioni storiche singolari che avevano cominciato a riunirsi in molti paesi ricchi e meno ricchi dal Secondo Dopoguerra: piùscuola, più università, più mobilità sociale, più servizi sociali, ma anche, come si è visto, più importanza al linguaggio in quanto tale

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nelle ricerche sociali. Il tutto però sempre politicamente organizzato da regimi partitici che garantivano la gerarchia e la fitta rete deipoteri di chi, nelle istituzioni e nell’economia, dai livelli più alti a quelli più bassi, ma anche all’interno della famiglia, continuava adecidere del destino altrui. È dunque stato contro questa gerarchia e questa rete che il Sessantotto è insorto, interpellando,incoraggiando ognuno a dire la sua o ad urlare o protestare se non gliela si lasciava dire. Il potere della parola è diventato dunquealla portata di tutti, ovunque. E questa conquista è restata e resta tutt’oggi. Contro ogni teoria del riflusso che sarebbe seguito aquesta stagione e che l’avrebbe del tutto estinta, va assolutamente difesa l’idea che da allora non si è mai più tornati indietro, chel’essenziale è rimasto. Anche chi non ha potere, né sa come ottenerne nel luogo dove lavora o apprende, il potere della parola celo ha e lo esercita. È questo che le nostre stesse inchieste verificano nella maggioranza dei casi. La paura di parlare, la reticenza adire, il desiderio di tacere o sorvolare non li si trovano quasi mai. La gente non solo pensa, parla anche, e liberamente. E ciò vienedal Sessantotto. Il prima e il dopo questo anno simbolico formano uno spartiacque epocale, ancora da ripensare e conoscere nellesue conseguenze. Il che non vuol dire che ne siano seguite solo “meravigliose sorti e progressive”. Anzi. Il potere della parola, allaparola, appena conquistato, ha cominciato la sua corruzione. Non che si sia perduto, dunque, ma più precisamente è statocontaminato dagli altri poteri più tradizionali, quelli delle ricchezze private e dei potentati pubblici. Tutti questi, preso atto dellanovità dei tempi, vi si sono adattati. Hanno allora cominciato come mai prima a lasciare parlare, a lasciare dire ad ognuno quelloche gli pareva, puntando sempre più ad esercitarsi, tacendo, in silenzio, con mosse e decisioni meno esplicite, quasi mai dichiarate.Si esauriva così il tempo dei grandi programmi di partito, delle eclatanti dichiarazioni dei politici, delle accattivanti promesse dibenessere per tutti, delle leggi che scandivano con clamore la vita pubblica. Finiva questo tempo che era iniziato proprio coi partitinovecenteschi e iniziava il tempo delle “emergenze”. Dei decreti e delle leggi d’eccezione. Decreti e leggi speciali, d’emergenza ed’eccezione che vogliono proprio dire che chi le fa valere è in uno stato di necessità tale da non potere perdere tempo a dichiarare, aspiegare bene, a dare forma compiuta, universale, di legge, a quello che sta facendo. L’Italia, con le leggi speciali in materia diterrorismo, seguite all’assassinio di Moro, nel 1978 - nelle quali si concentrava e si rilanciava la lunga tradizione dei normative

“non normali”, iniziata già con l’Unità, attorno al 1862, “contro i briganti”[176], e, poi, nel Secondo Dopoguerra, contro mafia e piùgenerale contro la criminalità organizzata - ha dato in questo senso un contributo universalmente riconosciuto da molti governi epersonaggi pubblici. E se questa propensione a non dire bene cosa si sta facendo ha preso piede tra le istituzioni statali, nel privatonon si è voluto essere da meno. Tutte le grandi tendenze sociali ed economiche che caratterizzano passaggio dal XX al XXI secolo,dalla globalizzazione al ridursi della sovranità degli Stati e dei loro impegni nel sociale, dalla flessibilizzazione e precarizzazionedel lavoro alla rimessa in discussione dei modi tradizionali di far scuola, sono quindi accompagnate da una grande libertàlinguaggio, ovunque e per chiunque, ma che comprende anche la libertà di dire poco o nulla di ciò che si sta facendo da parte di chiha il potere di condizionare la vita di altri. Che da qualche anno la parola sia passata alle armi, alle armi dei terroristi e dei governiche non trovano modo migliore di contrastarli se non facendo guerra, questo è un fenomeno derivato anche dalle sorti del linguaggio.Il fatto che tutti parlano di più di chi ha il potere condiziona anche la diffusione dell’opinione che tacita ogni discussione, mettendoavanti i problemi di “sicurezza” contro la criminalità di qualunque genere. Di qui l’importanza del fatto che le scienze sociali assumano il linguaggio come questione decisiva proprio per dar voce e ascoltoalle parole di chi solitamente non conta, se non come esecutore e governato. c Questioni di metodo: discorsi o parole? Conoscere le lingue dei “nativi” per parlare con loro, come loro, per porsi dal loro punto di vista è sempre stato un obbligoinderogabile per tutti i maestri dell’antropologia e dell’etnografia. Tale obbligo però diventa cruciale solo per le ricerche socialiche portino alle estreme conseguenze la svolta linguistica. Una delle maggiori questioni di metodo che si pone in questa prospettivariguarda la rimessa in discussione della pretesa delle scienze sociali di avere un proprio linguaggio da esperti, un metalinguaggiocapace di includere e trattare il resto dei linguaggi come oggetti.Ora, questa pretesa è quasi scontata dal momento che le scienze sociali si vogliono scienze. In effetti, da Galileo in poi praticamentenon c’è scienza sperimentale che abbia rinunciato al linguaggio corrente per assumere invece dei metalinguaggi matematizzati. Il chenon vuol dire un semplice ricorso tecnico ai calcoli matematici, ma l’assunzione delle matematiche come modelli di pensiero econoscenza. Così, per scienze come la fisica o la chimica tutto ciò che chiunque può dire sulla natura può essere accolto o respinto aseconda che sia o meno traducibile nelle loro formule. Formule che a loro volta non sono traducibili in linguaggio comune, se non aprezzo di volgarizzazioni molto impoverenti, se non fuorvianti. Ciò perché i linguaggi scientifici come quelli della chimica o della

fisica hanno come destinazione di venire esposti ad esperimenti “da laboratorio”[177], del tutto estranei al resto delle possibiliesperienze.Ora, le somiglianze con le scienze sociali non mancano. Ad esempio, ognuna delle loro ricerche può certo venire considerata comeun esperimento scientifico, “da laboratorio”. Ciò che viene messo alla prova non è infatti una realtà sociale pura e semplice, ma unsuo frammento campionato, selezionato e isolato grazie a delle conoscenze del sociale che sono non da tutti, bensì di competenzasolo di esperti.Al di là di queste somiglianze esteriori con le altre scienze, occorre chiedersi anche da dove, da quali fonti, le scienze socialicercano di trarre le loro proprie nuove conoscenze sulla realtà. Il punto è, come più volte sottolineato, che, se si prende sul serio lasvolta linguistica, è chiaro che questa fonte non è altro che il linguaggio stesso, il linguaggio in quanto tale, quello parlato dachiunque, esperti e non esperti. Una delle possibilità più proprie delle scienze sociali rispetto alle altre scienze risulta allora quelladi non fare del metalinguaggio un proprio obbligo assoluto. Assumere fino in fondo il fatto che la realtà sociale si dà anzitutto esoprattutto attraverso il linguaggio significa che esso è da assumere in quanto tale, senza distinzioni a priori, senza gerarchieprestabilite tra linguaggi, lingue, gerghi o dialetti. Il fatto bruto, la dimensione puramente empirica, non diviene allora altro se nonquello che viene detto nel luogo che il ricercatore ha scelto come proprio campo di indagine. Le nostre inchieste hanno tutte al lorocuore un insieme di interviste (su un unico questionario, ma del tutto aperto) rivolte ad un campione di popolazione incontrata sulsuo luogo di lavoro, di apprendimento o di utenza di un servizio. E nostro obiettivo principale è conoscere il loro pensieroattraverso le loro stesse enunciazioni, senza supporre a priori che tra queste enunciazioni ci debba essere alcun legame.Questa questione del legame o meno tra gli enunciati è decisiva.

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Nella maggioranza delle scienze sociali si opta per presupporre tale legame. Senza di esso pare proprio impossibile qualsiasiconoscenza del linguaggio. Per la conoscenza linguistica del linguaggio, tale legame sta essenzialmente nella regola grammaticale. Ilrispetto o meno di questa regola nel parlare è una delle questioni cruciali di ogni scienza del linguaggio. Così tutte le scienze socialiche vanno al seguito delle scienze del linguaggio possono affrontare la realtà sociale solo se sono armate di una qualche regola ditipo o di derivazione grammaticale.Esiste anche tutto un campo di dottrine interdisciplinari che hanno tra i propri obiettivi proprio quello di amplificare il senso delleregole grammaticali in una logica polifunzionale, direttamente assumibile, né più, né meno, da ogni campo dello scibile, e quindi amaggior ragione dalle scienze sociali. Tra di esse, ad esempio, gode ancora di buon credito un’opera come quella di van Dijck, chepropone non solo una semantica formale, ma anche una pragmatica del discorso, universalmente applicabili tanto in “psicologiacognitiva”, quanto in “antropologia e sociologia”, nonché in “filosofia e poetica”. Il tutto in nome di una teoria capace di ricostruiregli enunciati del linguaggio naturale come “sequenze di frasi”, in cui ogni frase viene considerata “in relazione” a quelle delle altrefrasi della stessa sequenza. Detta sequenza, concepita come relazione, costituirebbe allora il “contesto verbale” da analizzare come

“discorso”, dalla cui coerenza o meno dipenderebbero le sue conseguenze pragmatiche[178].Al di là della portata logica e linguistica di questa teoria, le sue implicazioni per la conoscenza della realtà sociale possonoriassumersi in una prescrizione con una sua chiara evidenza: quella di dovere analizzare tale realtà a partire dalla coerenza o menodei discorsi che la riguardano. Il che è quasi ovvio. Va da sé che la coerenza o meno dei discorsi interessa le scienze sociali, oltread avere diretti effetti sulla stessa realtà sociale. Nessun sapere che si rispetti infatti può essere pensato e presentato senza unminimo di coerenza, così come nessuno con responsabilità di governo nella società dovrebbe sentirsi esonerato dalla responsabilitàdi far discorsi con un minimo di coerenza. Ogni esercizio del sapere e del potere ha sempre le sue necessità e, per parlarne senzatroppe omissioni, occorre evitare il più possibile di contraddirsi. Qui, dunque, sotto questo duplice aspetto, il rapporto tralinguaggio e realtà sociale non può non essere analizzato senza considerare come e se il linguaggio si tenga insieme, abbia o menocoerenza.Il punto è però che questo non è il solo aspetto del rapporto tra linguaggio e realtà sociale, né quello che più interessa le nostrericerche. Ad essere interpellati da esse non sono esperti o governanti, ma gente che non può nulla, né sa come ottenere potere, dalmomento che fa un lavoro duro, cioè oggettivamente al limite del possibile. Nelle interviste a tali soggetti, la coerenza o meno deiloro discorsi ha poca o nulla importanza. La loro realtà sociale non la cerchiamo prendendo come regola, come misura, il legame omeno tra le frasi che vengono come risposte. La cerchiamo direttamente tra le parole, tra le frasi, supponendo che questo “tra” nondesigni nulla, se non una semplice possibilità significante, e dunque senza alcun intrinseco significato. Realtà sociale è dunque ciòverso cui parole e frasi degli intervistati tendono senza mai raggiungerla; il che non toglie, ma anzi precisa che le frasi e paroledegli intervistati sono l’unica fonte per la conoscenza della realtà sociale, in quanto luogo di una molteplicità di prescrizionidiverse e a volte in conflitto tra loro. Insomma, nel dire degli intervistati il ricercatore non deve trovare alcuna necessità, ma solodelle possibilità di prescrizione sulla realtà sociale: possibilità, che sta allo stesso ricercatore presentare a suo modo, con tutte leresponsabilità del caso.Il dubbio accademico che in tal modo non vi sia alcuna garanzia di obiettività della ricerca è in fondo un dubbio antisperimentale,legittimista: che valuta la ricerca stessa a partire dalla sua legittimità rispetto a canoni accademici realistici, oggettivistici, i quali,per quanto godano ancora di una qualche credibilità istituzionale, da un punto di vista sperimentale, sono praticamente scaduti,desueti. In realtà, ciò che ha sempre deciso dell’obiettività di una ricerca non è altro che la sua comparabilità col sapere esistentedelle scienze sociali, nonché la sua efficacia nell’offrire delle conoscenze utili alle decisioni politiche. Da questo punto di vista, farricerca su parole e frasi assunte in modo slegato e frammentario non è meno giustificato del cercarvi una qualche coerenza o leggerletramite un qualche codice di lettura fissato a priori. Non è altro che questione di scelta. A negare la possibilità di questa sceltapossono essere solo metodologie a una dimensione e con una propensione egemonica, cioè meno che mai legittime nel nostro tempo.Resta che le nostre ipotesi di fare ricerca sul rapporto tra linguaggio e realtà sociale solamente localizzandolo, senza supporvi alcunlegame, sono eccentriche rispetto a quasi tutte le maggiori tradizioni delle scienze sociali. Tutte le categorie centrali di questetradizioni come “lotta tra le classi”, “evoluzione”, “definizione ”, “tipo ideale ”, “funzione”, “struttura”, “sistema”, “vitaquotidiana”, “performance”, “discorso”, non sono infatti che dei sinonimi della realtà sociale che garantiscono a priori un legame traquest’ultima e il linguaggio. Studiare il sociale ha significato quasi sempre applicare nei più svariati modi queste categorie. Secondoun marxista, essere obiettivo significava riconoscere in ogni società le divisioni e le lotte delle classi; secondo un evoluzionista,riconoscervi e compararvi i diversi gradi di sviluppo; secondo un durkheimiano, distinguervi, per poi studiarlo, cosa fossedefinibile come fatto sociale; secondo un weberiano, costruire un tipo ideale di agire sociale, per poi valutarne l’approssimazionealla realtà; secondo un funzionalista, riconoscervi la funzionalità e così via. Sono stati questi sinonimi dell’essenza della realtàsociale a costituire l’abc dei metalinguaggi delle scienze sociali: dei linguaggi da esperti, dei gerghi tecnici che hanno trattato illinguaggio naturale, corrente, come un insieme di linguaggi oggetto. Ma è del tutto degno di nota che le certezze su cui si fondavanoquesti metalinguaggi erano comunque esogene, derivate da campi del sapere estranei alle stesse ricerche sociali. “Lotta di classe” ècategoria derivata essenzialmente dalla militanza intellettuale e politica dei marxisti; “evoluzione”, “funzione” e “sistema” dallabiologia; “definizione” dalla filosofia positivista e “tipo ideale” dalla filosofia neokantiana; “struttura”, “discorso” dalla linguistica;“performance”, oltre che dalla filosofia del linguaggio, dal teatro.Essere obiettivi, pur chiamandosi fuori da queste tradizioni, non significa altro che ottenere dei risultati comparabili a quelli ottenutida ricerche condotte in nome di queste categorie. E se i linguaggi da essi organizzati si sono presentati come linguaggi da esperti,non è detto che non si possa fare altrimenti. È quanto prescrive la svolta linguistica assunta nelle sue ultime conseguenze. Ed èquanto le nostre ricerche tentano.

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VI. LE NOSTRE RISPOSTE Prima di passare alle nostre risposte, faccio il punto, con l’aggiunta qualche commento ulteriore, di quanto finora sostenuto. 1 Il dualismo delle scienze socialiLa svolta linguistica quale avviene nelle scienze sociali nel corso del Novecento significa che non è più possibile pensare che nellarealtà sociale vi siano decisivi condizionamenti naturali, ma che tutto o quasi dipende da quel che è detto a proposito del

sociale[179]: anzitutto da quel che è detto da chi vi ha potere di condizionare la vita altrui. Ora, il fatto è che in questo secolo chi haavuto tale potere è stato organizzato soprattutto da partiti che si sono presentati essenzialmente nella forma scritta, dichiarata,discutibile, dei programmi, dei discorsi, delle parole d’ordine. Un linguaggio, questo, di cui i partiti sono vissuti, che è statocaratterizzato dalla promessa secondo la quale prima o poi non sarebbe più esistito un sociale emarginato e che presto o tardi tutto ilsociale sarebbe stato integrato attorno allo stesso modello di umanità: comunista, fascista, ariano o liberal-democratico, per nonparlare di tutte le altre possibili variazioni e sfumature intermedie.A partire dall’esplosione del Sessantotto e dal disseminarsi illimitato del potere della parola, i partiti, con tutti i loro programmi eleggi per ridurre la polarità tra governanti e governati, tra ricchi e poveri, tra chi ha potere e chi no, hanno esaurito il loro ciclod’esistenza. Tale polarità oggi, dunque, torna fuori più che mai. Dei modi per nasconderla non mancano. Ad esempio, quello diritirare in ballo delle differenze naturali o religiose, come quelle evocate dalle identità comunitarie. Ma la natura di fronte allasocietà è oramai solo ambiente, sfondo di una scena che è decisa altrimenti: anzitutto da quel che si dice che sia possibile fare. Ed èquanto mai significativo che, quando l’opinione mediatica tratta d’ambiente, lo faccia soprattutto in nome di una sua “difesa”: comese si trattasse di fare il meno possibile, di lasciarlo al suo stato naturale, come se tutti, indipendentemente dai propri status e ruoli,avessero pari responsabilità. Mentre è chiaro che lo stato dell’ambiente naturale non è altro che il risultato delle politiche di chi hail potere su industrie, trasporti, gestione dei rifiuti, ricerche scientifiche e altre attività del genere, su cui la stragrande maggioranzadella popolazione non ha alcun minimo potere. La prescrizione della “difesa dell’ambiente” rischia dunque di fare da paravento alleresponsabilità di chi gestisce quelle che invece sono (come quella già citata, sulla fame, raggiunta, sia pur relativamente da pochipaesi, nel Secondo Dopoguerra) delle conquiste sulle necessità naturali: conquiste da allargare ed estendere per rimodellareulteriormente anche ciò che della natura trasformata in ambiente si è rivelato un residuo incompatibile con la vita sociale. Ma il fattostesso che ovunque si parli di natura solo come di un’armonia originaria che tutti indistintamente hanno l’obbligo morale dirispettare, il fatto che quasi mai sia messo in discussione il potere di chi la trasforma costantemente, tutto ciò mostra chiaramentesolo una cosa che qui interessa. Che non tutte le parole hanno lo stesso peso, che non si tratta solo di segni che si scambiano, checomunicano tra loro. E ciò perché le parole di chi condiziona le sorti del sociale sono parole con un’efficacia diversa da quelle dichi fa tanto se riesce a rendersi possibile una propria realtà sociale.Alle scienze sociali sta dunque decidere dove indirizzare le proprie ricerche. Le nostre sono indirizzate in quest’ultimo senso, versoquei soggetti che sono senza potere dove lavorano o apprendono, ma hanno la capacità e la volontà di dire cosa pensano e comefanno a rendere possibile il sociale oltre ciò che già gli esperti conoscono. Ma non è l’unica direzione. C’è infatti quanto maibisogno di scienze sociali capaci anche di offrire proprie prescrizioni nei confronti di quelle politiche di chi, nel pubblico come nelprivato, ha potere e competenze di governo. L’essenziale è che nei due casi, sia in quello delle ricerche tra i governati, sia in quellodelle ricerche tra i governanti non si pretenda di integrare anche l’altra casistica svuotandola di contenuti propri. Nel triangolo tragovernati, governanti e scienze sociali nessuno deve pretendere di dettare legge, di trovare la soluzione che accontenti tutti. Irapporti reali non possono che essere bilaterali e il “terzo”, come insegna la logica più tradizionale, non può che essere escluso.Solo così si può rispettare la società nelle sue divisioni per avvicinarle senza farle scontrare.L’immagine delle scienze sociali che ne risulta può apparire un po’ schizofrenica, intimamente e irrimediabilmente divisa tra lericerche al servizio di chi governa e le ricerche al sevizio dei governati. Ma questa divisione di fatto esiste già fin dalle loro originidi metà Ottocento. Fin da quando, cioè, a ricercatori come Tylor venne in mente di studiare dei “selvaggi”, quali gli Anahuac delMessico, e non certo allo scopo di asservirli o gestirli, ma per dar loro la dignità di rappresentare una grande questione perl’antropologia nascente. Se dunque simili ricerche su popolazioni senza potere sono da sempre state un punto di forza delle scienzesociali, esse si sono sempre accompagnate a ricerche del tutto funzionali alle esigenze dei governi più potenti. Questa doppiaattitudine a guardare la realtà “dall’alto” o “dal basso” , da sempre esistente, nei fatti, tra sociologi, antropologi ed etnografi, èapparsa più che mai composta nel Novecento, grazie anche alle diverse promesse partitiche convergenti nel far sperare in un mondoin cui le differenze di condizione tra esseri umani si sarebbero in un modo o in un altro ridotte, se non addirittura estinte. L’attualevenire meno di tali promesse richiederebbe però che questo dualismo delle scienze sociali, questo loro oscillare, di fatto, trapopolazioni di governanti e popolazioni di governati, fosse finalmente riconosciuto anche di diritto. Il che per loro noncomporterebbe alcuna scissione metodologica o istituzionale, ma solo delle più chiare assunzioni di responsabilità quanto allapolitica scientifica perseguita, se più in favore dei governanti o più in favore dei governati. 2 Prescrizioni per la ricerca Le nostre risposte verranno esposte in forma di prescrizioni. Prescrizioni di come può prendere l’avvio e orientarsi una ricercaispirata dalle nostre ipotesi.Supponiamo di essere qualcuno che ne sa qualcosa di scienze sociali (ovvero che ha già letto le parti precedenti di questo testo e hapreso visione di qualche libro segnalato in bibliografia) e che ha intenzione di fare una ricerca.Anzitutto, si cerca di avere qualche informazione su quel che si dice nel presente a proposito del sociale. A tal scopo l’operazionepiù semplice consiste nello sfogliare qualche giornale. In questi mezzi della comunicazione di massa si trova ovviamente unamiriade di opinioni circolanti sui fatti più diversi.

2.1 Ricerche sociologiche sui governanti[180]

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Tra queste opinioni circolanti, solitamente campeggiano quelle di coloro che hanno capacità e competenze di governo sulla vitadegli altri. Poco importa che siano imprenditori, sindacalisti, politici o funzionari, poco importa che siano o meno favorevolmentecommentati dai giornalisti, ancora meno se le loro parole godano di un consenso unanime, l’essenziale è soffermarsi su quello chedicono a proposito di quello che stanno facendo: su ciò che dichiarano a proposito di quello stanno rendendo possibile. Solitamentequeste dichiarazioni contengono delle giustificazioni del proprio operato. Chi ha potere per lo più non si sottrae del tutto allaresponsabilità di dare qualche spiegazione del perché sta facendo quello che sta facendo. E gli argomenti per tale spiegazione nonpossono non contenere un minimo di razionalità: cioè, di coerenza logica rispetto ad un insieme di conoscenze riguardanti lecondizioni in cui si agisce. Insomma, i discorsi di chi ha potere tendono sempre o quasi a evocare le cognizioni di causa chegiustificano le loro scelte. Ora è proprio questo, queste cognizioni di causa, la prima cosa che è opportuno studiare se ad interessareè l’analisi di una decisione che ha conseguenze prescrittive sul resto della società. La prima domanda che ci si può porre riguarda il metodo, la scuola di pensiero, con cui tali conoscenze sono state ottenute. E,poiché normalmente si tratta di conoscenze fondamentalmente economiche, giuridiche o militari, si tratterà di capire da qualeindirizzo all’interno di queste dottrine venga tratto il sapere necessario a decidere. Qual è insomma la formazione degli esperti, deiconsiglieri di chi spiega pubblicamente perché è stata presa una decisione di governo piuttosto che un’altra. In tal modo si potràcapire se con tale decisione non si fa che applicare dogmaticamente un sapere già acquisito oppure se ne rappresenta una varianteinnovativa più o meno giustificata. Ad esempio, una critica molto spesso rivolta al Fondo Monetario Internazionale è stata quella diseguire dogmaticamente un approccio economico neoliberista e monetarista. Invece, in Italia, ad un Ministro come Tremonti è stataimputata una finanza “creativa”, ironizzando sul fatto che le cifre addotte non giustificavano le decisioni prese in loro nome. Una seconda domanda che ci si può porre riguarda la coerenza tra le conseguenze sociali prevedibili della decisione presa e la suagiustificazione. Per esempio, se l’obiettivo di estirpare dal sociale ogni forma di terrorismo giustifichi, da un punto di vista militare,

la decisione di una guerra infinita ai cosiddetti “Stati canaglia”. Personalmente, altrove[181], ho provato a dimostrare che, anchealla luce della tradizionalissima e sempre rispettata dottrina bellica del generale prussiano del primo Ottocento, Carl vonClausewitz, tale giustificazione è introvabile. La domanda più impegnativa consiste nel chiedersi se, alla luce delle conoscenze disponibili intorno alle condizioni di unadecisione a rilevanza sociale, non fosse opportuno pensare un’altra decisione. Ogni problema sociale infatti ha sempre piùsoluzioni possibili. Possibilità, che aumentano tanto più e meglio è conosciuto il problema. E dato che nessun problema ha solo unasoluzione, ogni decisione di politica sociale è tanto più contestabile quanto più si giustifica come l’unica possibile. Talegiustificazione infatti non fa semplicemente che nascondere quali siano i settori di popolazione che sono più premiati e quelli chesono più penalizzati. Ogni soluzione di un problema sociale, in quanto attuata comunque col concorso di finanze pubbliche, implicainfatti una inevitabile redistribuzione del reddito, di cui sarebbe sempre opportuna una discussione pubblica, cui le scienze socialidovrebbero contribuire. La semplice deduzione della soluzione politica, tratta per via puramente logica dalla conoscenza delproblema, come si trattasse di un’operazione naturale e a costo zero, è solo falsità, che le scienze sociali dovrebbero sempredenunciare. Così pure dovrebbero denunciare l’uso sempre più frequente e sistematico tra i governanti di categorie giuridiche come“stato d’emergenza”, “leggi speciali” e “d’eccezione”. Tale uso, che è finito nell’evidente perversione di rendere normale

l’eccezionale, non punta infatti che a tacitare sul nascere ogni discussione sull’opportunità di altre decisioni[182]. Ma c’è anche tutt’un altro insieme di questioni che possono suscitare l’interesse di ricerca. Specie in Italia si tratta di quelle che sipossono chiamare indecisioni o le decisioni del tutto implicite da parte di chi ha il potere: le famose disfunzioni o inefficienze delloStato, i conflitti di interessi. Ad esempio, l’incapacità ad avere procedure omogenee e credibili nell’accoglimento dei lavoratoristranieri, la delega spesso tacita alla famiglia o alla chiesa per risolvere questioni sociali che riguardano tutti i cittadini, con o senzafamiglia, credenti o non credenti, o, d’altra parte, il fatto che il lavoro continui ad essere per metà, o quasi, “nero”, cioè non censito,fuori di ogni conto e norma. Qui le domande da porsi riguardano tutte le decisioni che sono prese al posto di quelle che, alla lucedelle conoscenze economiche e giuridiche, parrebbero importanti.D’altra parte, in qualsiasi problematica sociale del nostro paese occorre sempre tenere conto di un dato caratteristico dellasituazione giuridica. L’inflazione legislativa, il fatto che esistono troppe leggi, il fatto che, ad esempio, quando se ne fa una non siabrogano le precedenti su analoga materia, insomma l’esistenza su ogni questione di garbugli normativi che finiscono per lasciaremolto spazio discrezionale all’autorità del caso: magistrati, tutori dell’ordine pubblico, clero, funzionari o grandi e piccolimanager con prestigio e qualifiche pubbliche o semipubbliche. Di qui l’interesse a studiare come, caso per caso, sulla base di qualiconoscenze tali governanti prendono le loro decisioni. L’importante per mantenere la ricerca a livello scientifico è concentrarel’attenzione sulle conoscenze e sulla coerenza o meno delle decisioni che vengono prese. Diversamente, se l’attenzione è dedicatasoprattutto a stabilire gli intrecci personali più o meno occulti che stanno dietro le decisioni, oppure a sollevare scandali per la lorosegretezza, in tali casi si scivola inevitabilmente nella cronaca. Non si deve mai dimenticare che ogni Stato, per definizione,rivendica di avere dei segreti, e che questi coprono l’essenziale di quella dimensione decisiva degli affari pubblici costituita dallatutela dell’ordine interno e dalle questioni militari. Insomma, la supposta trasparenza delle istituzioni pubbliche e democraticheriguarda solo una parte di queste ultime. Le conoscenze delle ricerche sociali su chi ha potere possono contribuire ad estenderequesta trasparenza, ma solo puntualmente e relativamente. Da notare bene è che ovunque l’opinione circoli, ovunque l’informazione arrivi, c’è sempre un potere che decide o al quale si puòcomunque imputare lo stato del problema sociale che si incontra. Il ricercatore sociale non deve cioè cedere alla tentazione dicredere a qualcosa come l’autogoverno della società. Credenza, questa, favorita dall’uso di categorie quali quella della “societàcivile” o della “cultura” intesa come stadio evolutivo contiguo a quello naturale e quindi condivisa da tutti e da nessuno in

particolare. Ad esempio, tipico, da questo punto di vista, è un certo tradizionale e sempre diffuso[183] modo di concepire il

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“sottosviluppo” del meridione italiano, attribuendone la causa o meglio la colpa ai difetti che caratterizzerebbero “società civile” o“cultura” da Roma in giù. Ma anche a proposito di fenomeni come le “tifoserie” calcistiche, la grande, la piccola criminalità o altrifenomeni di rilevanza sociale generale, il focus della ricerca deve sempre puntare a individuare le sedi pubbliche o private,manifeste od occulte, dove si concentra il potere di prendere decisioni sul destino di tali fenomeni. E anche qui l’analisi deveconcentrarsi sulle conoscenze in base alle quali tali decisioni sono prese e quindi sulla coerenza o meno di queste ultime rispetto aquanto viene dichiarato per giustificarle. In ogni caso, da evitare è credere che il risultato ideale della ricerca dovrebbe consistere in pure e semplici descrizioni oggettive,obiettive, di quel che la realtà sociale è. Dal momento in cui la svolta linguistica impone di ammettere che la realtà sociale è quelloche il linguaggio ne presenta, anche il ricercatore sociale non può non sentirsi corresponsabile della sua presentazione. Così le suericerche non possono non avere una portata pragmatica, effettuale, quanto meno nello spingere in un senso piuttosto che in un altro lacircolazione delle opinioni. Come si è visto, tutto questo genere di ricerche sui governanti richiede comunque delle precise competenze e conoscenze inmaterie da esperti: giuridiche, statistiche, economiche, urbanistiche, criminologiche, militari, e così via. Senza padroneggiarealmeno uno di questi tipi di sapere, tali ricerche su come si esercita il governo del sociale non sono possibili. Se questi si possonochiamare studi sociologici, quelli cui si dedica il nostro gruppo sono altri, che rientrano piuttosto tra gli studi che si chiamanoantropologici, etnologici o ancora più precisamente, nel nostro caso, etnografici. 2.2 Ricerche etnografiche tra i governatiPer spiegare come orientarli, ritorniamo allo sfoglio dei giornali.Più spesso tra le righe, possiamo notare il riferimento a gente che è semplicemente governata, che non ha alcun potere di deciderei destini del resto del sociale, e che stenta a rendere possibile il proprio. Si tratta di popolazioni che fanno lavori duri,obiettivamente al limite del possibile, o che sono senza lavoro e che si arrangiano come possono a sopravvivere. Un sociale che,volendo, si può chiamare marginale, ma intendendo così che si tratta di una realtà alla frontiera del possibile, che rende possibileciò che per il resto della società non lo è. I margini che occupa questo genere di popolazione sono più o meno grandi a secondadella ricchezza e dello sviluppo economico del paese in cui si trova, ma sono comunque molto più vasti di quanto la circolazionedelle opinioni solitamente ammetta. E ciò, non perché queste sono manipolate dai mass media e da chi li comanda, ma perché questarealtà sociale, senza potere, non ha nulla da comunicare, né da far notizia. Così, a livello d’opinione, essa compare solo tramite idiscorsi di chi ne trae anche solo un minimo di potere, come i sindacati. Il recente disfacimento dei partiti, soprattutto di quelli chetiravano avanti il movimento operaio, ha sicuramente fatto recedere, come mai prima, poveri, operai, lavoratori precari o senzalavoro a semplici cifre statistiche. Ma, d’altra parte, oggi nessuno può pensare seriamente che queste siano delle popolazioni in piùo meno rapida ascesa sociale o estinzione. Si allargano allargando sempre più i margini del sociale rispetto ai suoi centridecisionali.Dunque, l’etnografo che oggi voglia studiare queste popolazioni dette marginali si trova in una posizione assai nuova e singolare. Daun lato, la sua scelta di ricerca può assomigliare a quella di quei primi etnografi che, contro l’opinione pubblica del proprio tempo esfidando ogni sorta di rischi, si avventuravano tra capanne sperdute nelle foreste per ergere a grande questione scientifica il pensierodi semplici “selvaggi”; dall’altro, anziché a remoti e sparuti villaggi, si trova di fronte a immense popolazioni ovunque in crescita,come in crescita sono povertà, lavoro precario e mancanza di assistenza.Punto di partenza è che tra queste popolazioni di governati comunque si parla e quindi si pensa. E lo si fa non diversamente dacome lo può fare ogni ricercatore, non troppo scolastico, non troppo chiuso nella sua presunzione di essere uno scienziato o nellasmania di rispettare riti e corpi accademici. Primo passo da fare è quindi scommettere che tra le parole e il pensiero di chi dallaricerca è interpellato e le parole e il pensiero di chi la ricerca la fa ci possa essere incontro. Un incontro come tutti quelli chechiunque può fare, ma con qualcosa di un po’ speciale. Quel qualcosa che chi fa la ricerca deve riuscire a metterci, col suo sapere: ilfatto che l’incontro non si riduca a semplice scambio di opinioni, a ulteriore mulinello nella circolazione delle comunicazioni. Ineffetti, ammettere che un soggetto senza potere possa avere un suo pensiero non deve fare credere che tutto quel che esso dice siafrutto di pensiero. Occorre invece ammettere che esso, come chiunque, possa parlare, anche semplicemente ripetendo quel che hasentito dire in giro. Anzi, è chiaro che questo secondo caso è sicuramente il più probabile, mentre è più difficile il precedente,quello in cui si dà del pensiero in modo singolare. La scommessa è che solo in quest’ultimo, nella sua singolarità, si trovino le traccedi quel che è la realtà sociale per chi è governato. Presentarle come risultato scientifico, nonché come prescrizione per le politichesociali è dunque tra i nostri obiettivi ultimi.Ma la realtà sociale di chi non può deciderne nulla, in generale, è identificabile solo se viene localizzata. Come il “villaggio” è unadelle categorie dell’etnografia del “pensiero selvaggio”, così la nostra etnografia del pensiero ha come prescrizione obbligatoria lalocalizzazione della realtà sociale. Fabbriche, centri di assistenza, scuole sono tra i luoghi principali delle nostre inchieste. Cosa siao non sia un luogo è a volte problematico. Che un quartiere lo sia è tutto da valutare. Così come invece un solo reparto di unafabbrica può esserlo. L’essenziale è capire se e fino a che punto il luogo è luogo che dà da pensare a chi ne fa esperienza diretta.

Decidere su questo punto è importante perché è proprio a proposito di questi luoghi che interpelliamo il pensiero dei soggetti che nefanno esperienza diretta.Importante è anche conoscere tutto quel che si può sapere a priori di questi luoghi. Qual è la loro storia, come si situano rispetto alcomplesso industriale, educativo, formativo o assistenziale in cui sono inseriti, quel che ne dicono le cronache, i dirigenti o leopinioni circolanti intorno ad essi. Ma tutte queste conoscenze da esperti, da raccogliere prima dell’incontro con gli intervistati, nondevono costituire gli argomenti cruciali dell’incontro stesso. Ciò accade, ad esempio, se interpelliamo i nostri soggetti cercando dicapire il grado della loro coscienza rispetto alle conoscenze che noi già abbiamo. La distinzione tra coscienza e pensiero è quidecisiva. Ciò cui puntiamo è stimolare un pensiero, non verificare delle coscienze. E per stimolare il pensiero occorre supporre che

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esso ci possa dire qualcosa del tutto diverso da quel che si può sapere altrimenti, per quanto scientifico possa essere. Per conoscerela realtà sociale di cui parla un pensiero occorre pensarlo, e per pensarlo occorre dargli spazio, lasciare che si dispieghi in un suospazio intellettuale. È solo trovando uno spazio intellettuale proprio degli intervistati, ciò di cui discutono, su cui si confrontano, dicui parlano, che si può pensare e conoscere il loro pensiero dall’interno . A tal scopo, tutte le conoscenze che ci si può fare delluogo dell’incontro cogli intervistati, prima dell’incontro stesso, devono servire solo come preliminari.Tra i preliminari ci sono anche i contatti coi responsabili del governo del luogo, le direzioni. Decisivo è infatti che le interviste sisvolgano sul luogo e durante l’orario di lavoro. Per questo è decisiva anche la collaborazione con le direzioni, alle quali si puòassicurare che dai risultati della ricerca si potranno ricavare prescrizioni utili ad avvicinare il governo del luogo a quanto pensano igovernati. Per campionare il gruppo di soggetti con cui svolgere le interviste, a parte altri dettagli più tecnici, il principiosolitamente seguito sta nel non cercare di costruire una media o un tipo ideale di interlocutore, il che supporrebbe una precisaconoscenza preliminare di tutta la popolazione interpellata, quanto di evitare ogni eccesso di caratteristiche particolari (ad esempio,di sesso, provenienza, età o mansioni). Poiché l’essenziale sta nella riuscita degli incontri, la formulazione del questionario o dellaguida per le interviste che avvengono durante tali incontri, è quanto mai delicata. Essa deve tenere presente questi limiti, machiaramente varia completamente da luogo a luogo. Il tipo di domande di cui è composto il questionario è comunque il più aperto, ilpiù generico possibile, proprio per lasciare la massima libertà di riflessione all’intervistato, al quale per altro va garantito il piùassoluto anonimato. Non va risparmiato alcuno sforzo perché metodo e intenti della ricerca siano il più possibile chiari per tuttiquelli che sono da essa interpellati. Gli incontri sono interviste faccia a faccia tra uno o più intervistatori e un intervistato. Ilquestionario è lo stesso per tutte le interviste, ma su ogni risposta l’intervistatore è legittimato a ogni sorta di rilancio per ottenererisposte più precise. Il magnetofono è sconsigliato, per il clima da chiacchiera che permette, ma anche perché, registrando tutto,registra anche gli enunciati che l’intervistato non desidera. E contrariare un intervistato non giova all’intervista così come laintendiamo. Viene preferita l’immediata trascrizione su supporto cartaceo delle risposte, anche a costo di qualche malaugurataperdita di enunciati. Si vuole infatti che l’intervistato si senta del tutto responsabilizzato sulle le risposte che dà, parola, per parola.In alcune ricerche simili alle nostre, una volta raccolte le risposte, l’inchiesta può ritenersi prossima alla conclusione. Nel nostrocaso, l’analisi del contenuto è la parte più complessa. L’importante è che il ricercatore impari a pensare e conoscere il luogo dove laricerca è avvenuta tramite gli enunciati stessi che vi ha raccolto. Iterazioni o singolarità, silenzi o malintesi, reticenze o logorree:ogni carattere riscontrato in una o in tutte le interviste può acquistare un aspetto diverso a seconda dell'inchiesta. L'importante è noncercare conferme o critiche dell’opinione che circola dentro e fuori del luogo, ma cercare ciò che viene pensato in quel luogo e inquel luogo solamente. Problemi e soluzioni incontrati per rendere possibile un lavoro, un’esperienza che dall’esterno del luogo èpoco o nulla immaginabile: queste le prime cose da conoscere e che spesso risultano ignote anche a chi governa quello stesso luogo,nonché agli esperti che provano a conoscerlo seguendo modelli o definizioni universali.Quanto al rapporto finale, esso deve essere pertinente ad almeno una questione già discussa dalle scienze sociali, della qualel’inchiesta stessa possa presentarsi come una sperimentazione. Il tutto comunque in un linguaggio accessibile anche a non esperti, inquanto tra i suoi destinatari vi sono anche gli stessi intervistati, oltre agli esperti del tema trattato dall’inchiesta e a chi esercita ilgoverno del luogo. Far confrontare queste tre soggettività, senza confonderle o esasperarne i conflitti, va infatti sempre presentatocome uno dei primi obiettivi pragmatici perseguiti dalla nostra etnografia.

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Indice dei Nomi Agamben G.Alquati R.Althusser L.Anderson N.Ardigò R.Arendt H.Arrighi G.Austin J.Badiou A.Barnard A.Barthes R.Becker H.S.Bloch M.Blumer H.Boas F.Bonin L.Chomsky N.Cicourel A.W.Commager H.S.Comte A.Craveri P.Crespi F.Croce B.D’Attorre A.Dal Lago A.Darwin C.De Biasi R.De Martino E.de Saussure F.Dewey J.Dilthey W.Durkheim É.Eco U.Engels F.Esposito R.Evans-Pritchard E.E.Fabbri P.Fioravanti M.Fontana A.Foucault M.Frazer J.G.Freud S.Galilei G.Galli G.Gallino L.Garfinkel H.Geertz C.Gentile G.Giglioli P.P.Ginzborg P.Giraud P.N.Gobo G.Goffman E.Guiducci R.Habermas J.Hardt M.Harris M.Hegel G.W.F.Heidegger M.Heisemberg W.Hjelmslev L.Husserl E.Izzo A.Jakobson R.Krugman P.

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Labriola A.Lacan J.Lanaro S.Lazarfeld P.F.Lazarus S.Leach E.Leonardi f.Leoprdi G.Lévi-Strauss C.Lévy-Bruhl L.Livolsi M.Luhmann N.Lukacs G.Lynd M.H.Lynd R.S.Machiavelli N.Malinowski B.Mangoni L.Marazzi A.Marcuse H.Martucci R.Marx K.Mauss M.Mead G.Mereu I.Merton R.G.Michel N.Michels R.Milner J.C.Mioni A.Mommsen W.Montesquieu C.L.Morgan L.H.Morrison S.E.Mosca G.Negri A.Pancino C.Pareto W.Parsons T.Pasquino p.Piccardo C.Pizzorno A.PlatonePutnam R.D.Radcliffe-Brown A.R.Regalia I.Regini M.Remotti F.Reyneri E.Rorty R.Rousseau J.J.Sapir E.Schutz A.Silver B.Silver M.Simmel G.SofocleStalin J.Tarski A.Thomas W.I.Tönnies F.Toscano M.Turi G.Turner R.Turner V.Tylor E.B.Valdevit G.Van Dijk T.A.

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Webb B.Webb S.J.Weber M.Wells O.Whorf B.L.Whyte W.F.Wilson O.Windelband W.Wittgenstein L.Wundt W.Zincone G.Znaniecki F.Zola É.

[1] Chi voglia saperne di più può provare a leggere il certo non facile Anthropologie du nom, Paris, 1996 di questo autore e la raccolta di saggi dalui curata per il n. 3 di Éthnographie française, Paris, 2001. Se qui di seguito non si troveranno richiami espliciti a riguardo è perché di impliciti vene sono tanti che la loro esposizione avrebbe tremendamente appesantito il testo. Ma anche perché, se c’è una cosa che ho imparato da questascuola, è che ogni ricercatore deve cercare una propria via.[2] Riferimento decisivo da questo punto di vista è tutta l’opera di Michel Foucault, ma in un senso diametralmente opposto a quello prevalente(ad esempio anche in Hardt, Negri, Impero, Milano 2002; Moltitudine, Milano, 2004) che privilegia la tematica della “bio-politica”. Che questionibiologiche, politiche e anche quindi storiche e sociali possano essere trattate allo stesso modo, con un unico approccio, è infatti un presuppostotipico da pensiero unico, a una dimensione, per quanto si presenti “moltitudinario”. A proposito di Foucault, rimando al mio Potere senza corpo ecorpi senza potere: ricordando Foucault in Aa. Vv. (a cura di C.Pancino) Corpi, Padova, 2000. [3] Qui non tratterò di alcuna problematica che abbia al centro la psiche, ma ogni riferimento ad esso sarà sempre ispirato a questo grande maestrodi psicanalisi e a quanto ne ho appreso dai suoi allievi, quali Alain Badiou, L’essere e l’evento, Meditazione 37, Genova, 1995, Jean ClaudeMilner, Périple structural, Paris, 2002 o Marc Silver, L’etica della psicanalisi, Milano, 2003. [4] Si vedano le inchieste sugli operai della Bonfiglioli, della Manarini, della Cesab e della Marcegaglia qui riportate.[5] Si veda l’inchiesta sugli operatori della Cadiai qui riportata.[6] Questo detto “senza potere, né sapere” che ritornerà più volte nelle prossime pagine, si riferisce a popolazioni che non hanno i titoli istituzionalio economici, ma neanche le competenze e le conoscenze, per decidere del destino altrui, Ciò non toglie che ciascun individuo di questepopolazioni possa avere un suo potere, ad esempio come capofamiglia, o un suo sapere su qualsiasi questione, tranne su quella di decidere per edi altri.Questa ipotesi può contrariare l’opinione più diffusa della democrazia Secondo tale opinione infatti tra governati e governanti i regimi democraticifrappongono dei dispositivi di rappresentanza grazie ai quali i primi partecipano delle scelte dei secondi. Il rito fondamentale attorno cui gravita lapartecipazione democratica è come noto l’elezione. La sua efficacia ha in ogni caso non pochi limiti: di regola non riguarda tutte le situazioni dove c’è una direzione ovvero un governo; avviene sempre solo in determinate scadenze; la sua ragione d’essere principale, che consiste nellapossibilità di revoca degli eletti dimostratiti non meritevoli del mandato ottenuto, ben di rado si impone appropriatamente; tra le possibilità di sceltache offre non rientra quella cruciale delle candidature, ma solo dei candidati; e così via. Per quanto valore si dia alla partecipazione democratica, isuoi limiti restano dunque tali da lasciare sempre aperto il divario sociale tra chi decide della sorte degli altri e chi no.[7] Si veda S. Lazarus, Anthropologie… cit. e L’Ethnologie…cit.[8] Per farsi un’idea si veda di questo autore la voce Linguaggio dell’Enciclopedia Einaudi, Torino, 1979[9] C. Geertz, Il modo in cui oggi pensiamo: verso un etnografia del pensiero moderno in Antropologia interpretativa, Bologna, 1988[10] Da qui viene l’idea di ipotizzare un’“etnografia del pensiero”

i [11] A rigore, esiste anche un altro genere di scienza, che in un paese come l’Italia ha avuto sviluppi del tutto rilevanti. Si tratta della “ScientiaTeologica” medioevale, che si è modernizzata soprattutto in occasione della Controriforma tridentina e specie tramite l’elaborazione del pensierogiuridico dell’Inquisizione. Lo scontro tra questo modo di pensare la scienza e quello sperimentale ha il suo momento più famoso, e maiabbastanza ricordato, nel processo e nella condanna di Galileo Galiei, il cui nome è sinonimo appunto del metodo e della ricerca sperimentale.Come tra gli altri ha magistralmente dimostrato Italo Mereu in Storia dell’intolleranza in Europa, Milano, 1988, la Scienza dell’Inquisizione hainfluenzato tutta la storia del diritto penale europeo. Non è esagerato riconoscere che questa influenza si sia estesa anche tra le scienze sociali e piùin generale in tutte quelle chiamate storiche ed umanistiche. Primo sintomo ne è la tendenza, tutt’oggi riscontrabile nei saggi che le riguardano, aripetere le cose, le ricerche, le teorie già conosciute, anziché di proporne esplicitamente di nuove; ovvero a presentare qualsiasi novità comeconseguenza necessaria di tradizioni già acquisite e autorevoli. Questa visione legittimista e tradizionalista del sapere è giustificata in conformità alpensiero teologico che ritiene peccaminosa anche l’ambizione di scoprire qualcosa che non ricada sotto il Mistero Primo del Sommo Ente e quindisi discosti da quello che hanno da sempre detto i suoi Ministri in terra. Ma questa visione timorata, al di fuori della cerchia dei suoi fedeli, puòfare solo danni allo sviluppo delle conoscenze. L’obbligo stesso accademicamente inevitabile di dovere riportare il proprio pensiero comeconseguenza del pensiero d’altri, non fa che torto ad entrambi. Un torto che è tanto più grande quanto più la rassegna dei propri antecedentipretende di avvicinarsi all’ideale richiesto della completezza. Come se si ignorasse che l’enciclopedia di ogni sapere è infinita, quanto le possibilitàdel pensare, le quali, quando si tratta di conoscere dell’ignoto, vanno, non vincolate, ma liberate. La Chiesa qualche tempo fa ha riscattato Galileodai torti inflittigli, l’Università, specie quella italiana che si è modernizzata sotto l’Inquisizione, non è mai stata così esplicita, meno che mai nelcampo delle scienze sociali..[12] Sull’antifilosofia di Marx mi permetto di rimandare al mio Sulle origini e la fine della rivoluzione, Bologna, 1996[13] In proposito, quanto mai chiaro è A. Badiou, Il manifesto per la filosofia, Milano, 1991[14] Così ad esempio A. Izzo, Storia del pensiero sociologico, Bologna, 1991. D’altro canto. F. Crespi in Le vie della sociologia, Bologna, 1994nota pp. 16/17: “Se prendiamo (..) il termine socio-logia nel suo senso letterale più generico, come Logos riguardante il sociale, ossia comediscorso sul sociale, (…), che sviluppa una conoscenza logica ovvero razionale del sociale, allora potremmo dire che la sociologia, anche se

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in forme molto diverse tra loro, è sempre esistita. Ma se consideriamo invece (…), il termine sociologia nel significato specifico che gli èstato attribuito nell’Ottocento, allora tale termine indica la precisa volontà di sviluppare una conoscenza scientifica dei fenomeni sociali”.Questa volontà viene qui dunque distinta nettamente dal modo tradizionale, logico e discorsivo di intendere la razionalità. Questione cruciale èdecidere qual’è il rapporto tra i due: di sviluppo, di essenziale continuità, di differenziazione dialettica oppure di rottura, di discontinuità, diseparazione. Come si vedrà, è quest’ultimo il modo in cui si pongono le nostre ipotesi.[15] P.-N. Giraud, L’inégalité du monde, Paris, 1996[16] Nella sterminata bibliografia su questo argomento, tra i riferimenti imprescindibili ricordo, per le origini, F. Engels, La situazione della classeoperaia in Inghilterra (1845), Roma, 1972; i coniugi Webb, Storia delle Unioni operaie in Inghilterra (1894), Torino, 1913, e per l’Italia, intempi più recenti, oltre alle inchieste dei Quaderni Rossi dei primi anni Sessanta, Pizzorno, Reyneri, Regini, Regalia, Lotte operaie e sindacato: ilciclo 1968/72 in Italia, Bologna, 1978, nonché R. Alquati, Per fare conricerca, Torino, 1993, il n.2 della rivista Posse, Roma, 2001 [17] C. Darwin, L’origine delle specie (1859), Torino, 1967 e L’origine dell’uomo e la selezione sessuale (1871), Roma, 1990[18] Cfr. anche A. Badiou, Le Siècle, Paris, 2004[19] A questo proposito si può vedere, oltre al mio Sulle origini e la fine… (cit.), A. Badiou, La Révolution Culturelle: la dernière révolution?,Paris, 2002[20] E. O. Wilson, Lineamenti di sociobiologia, Bologna, 1983[21] Gustoso, da questo punto di vista, è l’aneddoto narrato da C. Geertz (in Antroplogia e filosofia, Bologna, 2001, p.23) sulle 171 definizionidi cultura che suoi colleghi di Harvard negli anni Cinquanta erano laboriosamente arrivati a censire.[22] E. B. Tylor, Alle origini della cultura (1871), Roma, 1985/89[23] L. H. Morgan, La società antica. Le linee del progresso umano dallo stato selvaggio alla civiltà (1877), Milano, 1977 [24] F. Engels, L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato (1884), Roma, 1963[25] cfr. : E. Leach, “Anthropos” dell’Enciclopedia Einaudi, Torino, 1977.[26] Vedi A. Barnard, “Precursori della tradizione antropologica” in Storia del pensiero antropologico, Bologna, 2000.[27] Ad esempio, M. Harris, L’evoluzione del pensiero antropologico: una storia della teoria della cultura (1968), Bologna, 1971[28] Oltre al già citato Tylor, non può non essere menzionata la monumentale e celeberrima opera di J. G. Frazer, Il ramo d’oro. Studio sullamagia e la religione (1922), Torino, 2003[29]É. Durkheim, Le forme elementari della vita religiosa. Il sistema totemico in Australia (1912), Milano, 1963; Id., Le origini dei poterimagici (1901), Torino, 1965[30] M. Mauss, Teoria generale della magia e altri saggi (1923), Torino, 1965[31]A. R. Radcliffe-Brown, Struttura e funzione nella società primitiva (1952), Milano, 1968[32] E. E. Evans-Pritchard, Stregoneria, oracoli e magia fra gli Azande (1937), Milano, 1976; id., I Nuer, un’anarchia ordinata(1940), Milano,1976[33] F. Boas, Antropologia culturale. Testi e documenti (a cura di L. Bonin e A. Marazzi), Milano, 1970[34] Id., Introduzione alle lingue indiane d’America (1911), Torino, 1979[35] Id., Antropologia e vita moderna (1928), Perugia, 2002[36] Id.,L’uomo primitivo (1938), Bari, 1997[37] ad esempio, A. Barnard, Storia del pensiero antropologico, Bologna, 2000, p.78[38] F. Boas, Antropologia e vita moderna (cit.) , p.127[39] tutto quel che segue, salvo indicazioni diverse, è un commento di É. Durkheim, Le regole del metodo sociologico (1895), Milano, 1996[40] Id., La concezione materialistica della storia (1897) in La scienza sociale e l’azione, Milano, 1972, p.98[41] Id.,La divisione del lavoro sociale (1983), Milano, 1971[42] M. Mauss, Teoria generale della magia..., cit.[43] M. Halbawchs, La memoria collettiva (1950), Milano, 1987[44] e ciò anche grazie alla rivista L’année sociologique, cui lo stesso Dukheim darà i maggiori contributi durante i quindici anni in cui uscirà, tra il1898 e il 1913[45]É. Durkheim, Définition de l’État in Leçons de sociologie (1890/12), Paris, 1997[46] É. Durkheim, Montesquieu et Rousseau, precurseurs de la sociologie (1892), Paris, 1953[47] ad esempio R. Guiducci, L’interpretazione del suicidio da Durkheim ad oggi in É. Durkheim, Il suicidio (1897), Milano, 1994[48] Una delle analisi più famose di questo “affaire” è in H. Arendt, Le origini del totalitarismo (1951), Milano 1967[49] L’individualismo e gli intellettuali (1898) in É. Durkheim, La scienza sociale e l’azione, Milano, 1996[50] del 1912, ed. it. a Milano, 1963[51] cfr. M. Toscano, Trittico sulla guerra, Roma Bari, 1995; W. Mommsen, Max Weber e la politica tedesca 1890/1920, Bologna, 1993[52] W. Dilthey, Critica della ragione storica (1905/10), Torino, 1954[53]W. Windelband, Preludi (1884), Milano, 1947[54] Salvo diverse indicazioni, d’ora in poi commento soprattutto M. Weber, Economia e società (1922), Milano, 1974. In ogni caso, al di là diogni sua parvenza intuitiva, va ricordato che questa, come altre teorie dell’interpretazione, deriva dalla tradizione ermeneutica. E ricordato va

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anche che il problema originario di questa tradizione è come sia possibile che un mortale possa comprendere il senso immortale di un testo sacro.Di qui tutte le questioni dei limiti dell’interpretazione, del rischio del libero arbitrio, dell’errore soggettivo, di fronte alla saggezza infinita ed eternadel divino. Che le scienze sociali abbiano assunto tali questioni indica solo la loro difficoltà a costruire un proprio campo problematico distinto daquello delle tradizioni religiose. [55] M. Weber, Il lavoro intellettuale come professione (1919),Torino, 1967[56]Id., L’etica protestante e lo spirito del capitalismo (1904/05), Firenze, 1965[57] G. Lukàcs, La distruzione della ragione (1954), Torino, 1959; H. Marcuse, Industrializzazione e capitalismo (1965) in Aa.Vv., Max Webere la sociologia, oggi, Milano, 1967[58] C. Geertz, Il senso comune come sistema culturale in Antropologia interpretante (1983), Bologna, 1988[59] M. Heidegger, Identità e differenza (1957) in “Teoresi” , 1966, pp. 3-22; 1967; pp. 215-235[60]M. Weber, Economia e società (cit.), p.51[61] In direzione molto diversa da quella qui seguita si veda A. D’Attorre, Le basi teoriche della sociologia del potere in “Filosofia politica” ,2/2000, Bologna[62] come F. Leonardi, Di che parla il sociologo? Problemi di epistemologia delle scienze sociali, Milano , 1986. Sull’argomento si veda ancheA. Izzo, Storia del pensiero sociologico, Bologna, 1991, p.421.[63] Su tutto ciò vedi, più sotto, Va3 Il linguaggio come risorsa[64]B. Malinowski, Gli argonauti del Pacifico Occidentale (1922), Torino, 2004, p.27[65] ibi, p.29 e p.33[66] B. Malinowski, Teoria scientifica della cultura (1944), Milano, 1981, p.59[67]B. Malinowski,Giornale di un antropologo (1967), Roma, 1992, in proposito si veda C. Geertz, “Dal punto di vista dei nativi”: sullanatura della comprensione antropologica, in Antropologia interpretativa, 1988.[68] A. Barnard, Storia del pensiero antropologico, cit., p.92.[69] A. R. Radcliffe-Brown, Struttura e funzione della società primitiva (1952), Milano, 1968; Id., Il metodo dell’antropologia sociale (1958),Roma, 1973[70] cfr. a riguardo M. Fioravanti, Appunti di storia delle costituzioni europee, Torino, 1990[71] cfr. G.Arrighi,B.Silver, Caos e governo del mondo, Milano, 2003[72] E. E. Evans-Pritchard, I Nuer. Un’anarchia ordinata, cit.[73] A. Barnard, cit., p.96[74] G, Valdevit, I volti della potenza. Gli Stati Uniti e la politica internazionale del Novecento, Roma, 2004[75]T. Parsons, La struttura dell’azione sociale (1937), Bologna, 1962, p.66[76]Id., Il sistema sociale (1951), Milano, 1965, p.41[77]R. K. Merton. Teoria e struttura sociale (1949), Bologna, 1992[78] La categoria chiave di questo tipo di problematica è quella di “empowerment”. Cfr. C. Piccardo, Empowerment.Strategie di sviluppo organizzativo centrato sulle persone, Milano, 1995[79] cfr. P.N. Giraud, Qu’avons nous appris de cinq décennies de développement? In www.cerna.ensmp.fr[80] cfr. la raccolta di saggi di Parsons, Comunità societaria e pluralismo, Milano, 1994.[81] Morrison, Commager, Storia degli Stati Uniti (1950), Firenze, 1961, pp.238-9[82] Si vedano ad esempio il Primo e Secondo rapporto sull’integrazione degli immigrati in Italia (a cura di G. Zincone), Bologna, 2000/01.[83] Per trattazioni sistematiche di questa impostazione problematica in lingua italiana si vedano: Dal Lago, De Biasi, Un certo sguardo.Introduzione all’etnografia sociale, Roma/Bari, 2002; G. Gobo, Descrivere il mondo. Teoria e pratica del metodo etnografico in sociologia,Roma, 2001[84] Thomas e Znaniecki, Il contadino polacco in Europa e in America (1920), Milano, 1968[85] Anderson N., Il vagabondo (1923), Roma, 1994[86] Lynd R.S, Lynd M.H., Middeltown (1929), Milano, 1970; Ritorno a Middel town (1937), Milano, 1974[87] Whyte W. F., Little Italy. Uno slum italo-americano (1945), Bari, 1968[88] Dal Lago, Introduzione a Un certo sguardo…, cit , p.XXIV[89] A. Izzo, Storia del pensiero sociologico, cit., pp. 393-97[90]È un motto della scuola di Chicago ripreso da Dal Lago, De Biasi, Introduzione a Un certo sguardo…, cit.[91] secondo quanto diceva un autore come Georg Simmel, che, come altri sociologi tedeschi tra Otto e Novecento, pensava che le scienze dellospirito dovessero provare a “rivivere” l’esperienza dei soggetti da loro indagati. L’attuale etnografia d’ispirazione anglosassone riprende in effettianche questi temi accanto a quelli fenomenologici e oltre a quelli più prettamente empiristi.[92] Dal Lago, De Biasi, , Introduzione a Un certo sguardo…, cit[93] Su questo tema in campo filosofico sono imprescindibili W. Dilthey, Critica della ragione storica (1905/10), Torino, 1954 e E. Husserl, Perla fenomenologia della coscienza interna del tempo (1893/1917). Milano, 1981, mentre più in prossimità con le questioni proprie delle ricerchesociali A. Schutz, La fenomenologia del mondo sociale (1932), Bologna, 1974 e E. Goffman, La vita quotidiana come rappresentazione (1959),Bologna, 1988[94] Tra la fine degli anni Quaranta e lungo tutti gli anni Sessanta vedono la luce svariate opere filosofiche che fanno epoca e che hanno tutte al

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centro il tema del linguaggio: da Martin Heidegger (a partire dal 1947 con La lettera sull’umaninismo, Torino, 1975), a Ludwig Wittgenstein(Ricerche Logiche (1953), Torino, 1995), da John Austin (Come fare cose con le parole (1962), Genova, 1987) a Richard Rorty (La svoltalinguistica (1967), Milano, 1992 . Su tutto ciò mio riferimento decisivo qui, come altrove, resta Alain Badiou, di cui cfr. Logique, hilosophie,“tournant langagier” in Court traité d’ontologie transitoriore, Paris,1998. [95] J.C. Milner, Périplile.., cit. p- 16[96]Per tutte le questioni della scienza del linguaggio cfr. Jean Claude Milner, Introduction à la science du language, Paris,1995.[97] J.C. Milner, Introduction à la science du language, cit., p.102[98] Si veda, ad esempio, E. Leach, La comunicazione non verbale (1972), Torino 1974 e, in particolare, il modo in cui applica alle scienzesociali la distinzione tra “competenze” e “esecuzione” proposta da Chomsky per lo studio sintattico delle lingue parlate in Saggi linguistici, I-II(1965), Torino, 1970 [99] vedi la voce Anthropos (di E.Leach) in Enciclopedia Einaudi, Torino, 1977[100] G. H. Mead, Mente, sé e società (1934), Firenze, 1966[101] H. Blumer, Symbolic ineractionnism (1969) , cit. in A. Izzo, Storia del pensiero.., cit. p.381[102] ivi, p. 259[103] A. Garfinkel, Cos’è l’etnometodologia? (1967) in Aa.Vv., (a cura di) Giglioli, Dal Lago, Etnometodologia, Bologna, 1987[104] Ibi, p. 55[105] ibi, p.45[106] ibi, p. 47[107] Non si può non ricordare le sua opera imprescindibile C. Lévi-Stauss, Tristi tropici (1955), Milano, 1960[108] E. Leach, Comunicazione non verbale (cit.) e Id., Nuove vie dell’antropologia (1961), Milano, 1973[109] Vedi ad es. C. Geertz, Antropologia e filosofia (2000), Bologna, 2001, pp. 85-105[110] C. Lévi-Strauss, Antropologia strutturale, cit., p. 243[111] Ibi, p. 242[112] Ibi, p. 243[113] L. Althusser, Umanesimo e stalinismo (1972), Bari, 1972. Sulla figura di Luis Althusser, cfr. Aa. Vv. (a cura di S. Lazarus), Politique etphilosophie dans l’oeuvre de Luis Althusser, Paris, 1993[114] Da questo punto di vista è del tutto interessante notare come non pochi allievi di strutturalisti quali Althusser, Lacan e Lévi-Strauss, si sianoritrovati protagonisti del Sessanttotto francese. Si veda N. Michel, Ô jeunesse! Ô vieillesse! Le mai mao, Paris, 2002.[115] J.C. Milner, Le Périple, cit., p.217[116] Stutturalisti maggiori come Althusser, Foucault e Lacan fecero dell’ “Umanismo” uno dei loro più costanti bersagli polemici. Cfr. A.Badiou, L’etica. Saggio sulla coscienza del Male (1993), Parma, 1994 [117] tra gli altri cfr. Alfred Schmidt, La negazione della storia. Strutturalismo e marxismo in Althusser e Lévi-Strauss (1969), Padova, 1972.[118] Due saggi sulla rappresentazione simbolica del tempo (1953) in Nuove vie dell’antropologia, Milano, 1973[119] Si veda il capitolo “La Natura non esiste” in L’essere e l’evento, cit., di questo autore[120]P. Krugman, La deriva americana, Roma-Bari, 2004, p.301[121] cfr. il testo del 1970 “Parole, enunciati e attività” in Aa.Vv.(a cura di Dal Lago e Giglioli), Etnometodologia, cit.[122] E. Sapir, Il linguaggio. Introduzione alla linguistica (1921), Torino 1969[123] B. L. Whorf, Linguaggio, pensiero e realtà nella raccolta di testi con lo stesso titolo (1956), Torino, 1970, p.225[124] ibi, vedi l’introduzione di A. Mioni, Presenza e attualità di Whorf nella linguistica in B. L. Whorf, Linguaggio, pensiero, realtà, cit.[125] Id., Scienza e linguistica, p. 169[126] In Whorf non è estranea la prospettiva di una nuova visione cosmologica integrale. Nella già citata conferenza e che avviene presso lasocietà di teosofia per cui simpatizza egli parla di un nuovo avanzamento che lo “spirito scientifico come totalità” è chiamato a fare, ma subitoaggiunge che esso comporta “un completo allontanamento dalle tradizioni”. E a tal scopo uno dei passi più importanti che la scienzaoccidentale deve compiere per lui sta nel “riesame del retroterra linguistico del suo pensiero”, ibi, p. 206[127] Che il confronto tra diversità sia una via obbligata è ribadito spesso da Whorf in affermazioni come la seguente. Le “strutture (del pensiero)sono complesse sistemazioni non percepite del suo proprio linguaggio , che vengono prontamente in luce rilevabili con un confronto con altrelingue”, ibi, p. 211 [128] Si veda il paragone dell’impostazione di Whorf con quella del contemporaneo Lévy-Bruhl proposta da A. Barnard, Storia del pensieroantropologico, cit.[129] Non per nulla uno dei suoi testi maggiori si intitola proprio Antropologia interpretativa (cit.)[130] cfr. Aa. Vv. (a cura di A. Negri) Novecento filosofico e scientifico, vol. II, Milano, 1991[131]L. Hjelmslev, Essais linguistiques, Copenhagen, 1959[132] Il modo in cui oggi pensiamo: verso un’etnografia del pensiero moderno in Antropologia interpretativa, cit.[133] vedi nota 54 al paragrafo IV4a[134] Linguaggio, pensiero e realtà (1956), Torino, 1977, p.208.[135] Considerazioni non troppo distanti sia pur condotte in termini propriamente filosofici le si possono trovare in A. Badiou, Philosophie etpoésie in Conditions, Paris 1992

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[136] V. Turner, Antropologia della performance (1986), Bologna, 1993[137] R. Turner, Parole, enunciati e attività in Aa.Vv. (a cura di Dal Lago e Giglioli), Etnometodologia… cit.[138] In Anthropologie du nom, cit.[139] In Antropologia della performance (1986), Milano, 1993, Victor Turner opera una distinzione tra “processi di regolarizzazione” e “processidi aggiustamento situazionale” (pp. 155-56), la quale, sia pur alla lontana, può essere accostabile alla nostra distinzione tra le prescrizioni chehanno il potere di condizionare il resto della società e quelle che invece non fanno che rendere possibile l’esistenza sociale di popolazioni senzapotere. Inoltre, questo stesso autore insiste sul fatto che il contesto sociale post-moderno risulta sempre più condizionato dal “fattoreindeterminatezza” e dunque irriducibile ad ogni processo di regolarizzazione e aggiustamento situazionale, secondo il suo lessico. Il che può ancheapparire un autorevole antecedente dell’idea qui esposta che la realtà sociale è irriducibile ad ogni prescrizione o insieme di prescrizioni, proprioperché ne costituisce l’arena e la posta in gioco. Resta comunque almeno un punto in cui le divergenze tra le nostre ipotesi e quelle di Turnerrisultano chiare. È quando sostiene l’esigenza post-moderna di una “coscienza muliprospettica” (p. 156). A parte l’uso discutibile della categoria di“post-moderno” , ciò che trovo non condivisibile è proprio la possibilità di pensare e di conoscere la realtà sociale da una prospettiva che,volendosi pluralista, non si dà limiti. Nostra idea è infatti che ogni ricercatore, trovandosi sempre dentro una realtà sociale, non può che studiarele prescrizioni di una popolazione rispetto alle altre presenti in quella stessa realtà. E ciò tenendo conto del fatto che la prima distinzione daoperare è sempre tra le popolazioni che hanno potere sul resto della società e quelle non lo hanno. [140] Anche se un po’ troppo citato e anche malamente evocato, perché il suo riferimento non dia adito a confusioni, il famoso “principio diindeterminatezza” del Nobel della fisica W. Heisenberg (Lo sfondo filosofico della fisica moderna (1958), Palermo, 1999) non può mancare diessere annoverato tra le fonti ispiratrici delle nostre ipotesi. [141] U. Eco, Trattato di semiotica generale, Milano, 1975[142] Paolo Fabbri, La svolta semiotica, Roma/Bari, 1998[143] J.C. Milner, Introduction à la science du language, cit., p.144[144] cit. in J.C. Milner, Le périple…, cit., p.124[145] R. Barthes, Elementi di Semiologia (1964), Torino, 1966[146] J.C. Milner, Le périple..., cit., p. 125[147] P.-N. Giraud, L’inégalité.., cit.[148] J.C. Milner, Le périple…, cit. p. 124.[149] G. Debord, La società dello spettacolo (1971), Bolsena (Vt), 2002[150] N. Luhmann, Sistemi sociali. Fondamenti di una teoria generale (1984), Bologna, 1990[151] H. Marcuse, Eros e civiltà (1955), Torino 1964; Id., Ragione e rivoluzione (1941), Bologna, 1966; Id., L’uomo a una dimensione (1964),Torino, 1967[152] J. Habermas, Agire comunicativo e logica delle scienze sociali (1967), Bologna 1980; Id., Prassi politica e teoria critica della società(1963), Bologna 1971[153] Lazarfeld e Merton, Mezzi di comunicazioni di massa, gusti popolari e azione sociale organizzata in Aa.Vv. (a cura di M. Livolsi),Comunicazioni e cultura di massa, Milano, 1969[154] È sintomatico che Eco, nel 1984 (Semiotica e filosofia del linguaggio, Milano, 1984) tratti, sia pur non senza ironia, della “morte delsegno”[155] F. Tönnies, Comunità e società (1887). Milano, 1963[156] R.Esposito, Communitas, Torino, 1998[157] V. Turner, Antropologia della performance, cit., p.157[158] ibi, p. 145[159] seguendo un orientamento cui E. Goffman ha dato uno dei maggiori contributi, specie con La vita quotidiana come rappresentazione(1959), Bologna, 1971[160] C. Geertz, Mondo globale, mondi locali. Cultura e politica alla fine del ventesimo secolo, Bologna, 1999, p.86[161] Merito va dunque a F. Remotti, Contro l’identità, Roma/Bari, 2001[162] È una delle tesi centrali di P.-N. Giraud, L’inégalité du monde, cit.[163] Storie di politica e di potere, Napoli, 2004[164] R. Ardigò, Sociologia, Padova, 1886; id., La scienza dell’educazione (1893), Milano 1972[165] A. Labriola, Del materialismo storico (1896), Roma, 1974[166] G. Mosca, Teoria dei governi e governo parlamentare (1884), Milano, 1968[167] W. Pareto, Trattato di sociologia generale (1916), Milano, 1964[168] R. Michels, La sociologia del partito politico nella democrazia moderna (1911), Bologna, 1966[169] cfr. L. Mangoni, L’interventismo della cultura. Intellettuali e riviste del fascismo, Roma/Bari, 1979; G. Turi, Il fascismo e il consensodegli intellettuali, Bologna, 1980 [170] Nella vasta bibliografia storiografica sull’argomento cfr. P. Ginzborg, Storia d’Italia dal dopoguerra ad oggi, Torino 1989; S. Lanaro,Storia dell’Italia repubblicana, Venezia, 1992; P. Craveri, La Repubblica dal 1958 al 1992, Milano, 1996[171]E. De Martino, Il mondo magico (1948), Torino 1973; id., Sud e magia (1959),Milano, 1987; id., Magia e civiltà (1962), Milano 1976[172] cfr.1c[173] cfr. G. Galli, I partiti politici italiani 1943-1991, Milano, 1991

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[174] E. Reyneri, Occupati e disoccupati in Italia, Bologna, 1997[175] L. Gallino, La scomparsa dell’Italia industriale, Torino, 2003[176] R. Martucci, Emergenza e tutela dell’ordine pubblico nell’Italia liberale, Bologna,1980[177] traduco con “laboratorio” ciò che J.C. Milner chiama “il dispositivo dell’osservatorio”, per ispirarmi alle sue considerazioni su scienze escienze umane e sociali in L’introduction..., cit.[178] T. A. van Dijk, Testo e contesto, Bologna, 1980 [179] Un terremoto devastante come quello di fine 2004 nel sud est asiatico dimostra quanto, contrariamente all’immagine d’armonia perfetta erassicurante che ne offre l’attuale opinione ecologista più scadente, la natura possa sempre essere anche crudelissima “matrigna”, secondo la notaespressione di Leopardi, il poeta. Giustamente subito ci si chiede come si potrebbero difendere da simili eventi le società di quei territori costieri, lequali ora sono non solo con popolazioni tragicamente falcidiate, ma addirittura strutturalmente disarticolate. Già Machiavelli alla fine de Ilprincipe, prendendo ad esempio le alluvioni, sosteneva che quel che accade agli uomini è attribuibile per metà alla “fortuna”, su cui niente si può,e per metà alla “virtù”, che dipende tutta dagli uomini. Il che comporta di non accontentarsi di piangere la sfortuna dell’alluvione, ma nel pensareanche a quanto si poteva fare e non si è fatto per prevenire e contenere gli effetti di tale evento naturale. Ragionamento, questo, in cui si puònotare già una chiara critica contro ogni ricorso a necessità naturali per spiegare questioni sociali che invece dipendono anzitutto dalle “virtù” omeno di chi vi ha potere. [180] È opportuno segnalare che molte delle indicazioni di metodo che seguono sono indirettamente ispirate a P.N. Giraud, L’inégalité dumonde.., cit , ma anche a M. Foucault, soprattutto ai suoi testi raccolti da Fontana e Pasquino in Microfisica del potere: interventi politici,Torino, 1977[181] Storie di politica e di potere, Napoli, 2004[182] Cfr. G. Agamben, Lo stato d’eccezione. Homo sacer, Torino, 2003 sia pur in una direzione problematica diversa da qui[183] R. D. Putnam, La tradizione civica nelle regioni italiane, Milano, 1996

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