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CORSO MODULARE SPECIALISTICO IN DIRITTO PENALE D’IMPRESA MEDICHINIFORMAZIONE Piazzale Clodio 26 ABC 00195 Roma tel. 0639741182 fax 0639741156 [email protected] www.medichiniclodio.it Indicazioni bibliografiche e giurisprudenziali sul modulo impresa e obblighi di tutela: ambiente, sicurezza sul lavoro e riservatezza dei terzi Diritto penale dell’ambiente profili generali. L’implementazione dei modelli organizzativi. a) Indicazioni bibliografiche. 1. Andronio, Il c.d. “ quarto correttivo” al testo unico ambiente , in AA.VV., Treccani. Il libro dell’anno del diritto 2012, Roma, 2012; 2. Bajno, voce Ambiente (tutela dell’) nel diritto penale, in Dig. disc. pen., I, 2002; 3. Bertolini, voce Ambiente (tutela dell’), IV, in Enc. giur., II; 4. Castronuovo, Principio di precauzione e beni legati alla sicurezza , in www.dirittopenalecontemporaneo.it (materiale inserito il 21. 07. 2011); 5. Dell’Anno, Elementi di diritto penale dell’ambiente, Padova, 2008; 6. Esposito, Danno ambientale e diritti umani, in www.dirittopenalecontemporaneo.it (materiale inserito il 12. 11. 2012); 7. Gatta, Le osservazioni di CONFINDUSTRIA sulla responsabilità degli enti per reati ambientali , in www.dirittopenalecontemporaneo.it (materiale inserito il 29. 04. 2011); 8. Gizzi, Il getto pericoloso di cose, Napoli, 2008; 9. Il rapporto del Garante per l’ILVA di Taranto sull’osservanza dell’AIA riesaminata e sulle relative «criticità», in www.dirittopenalecontemporaneo.it ( materiale inserito il 5. 07. 2013); 10. Pistorelli-Scarcella, Sulle novità di rilievo penalistico introdotte dal decreto legislativo di recepimento della direttiva CE in materia di ambiente (d. lgs. n. 121 del 2011), in www.dirittopenalecontemporaneo.it (materiale inserito il 04.08.2011); 11. Relazione illustrativa dello schema di decreto legislativo invito al Senato sulla responsabilità degli enti per reati ambientali, in www.dirittopenalecontemporaneo.it ( 8. 04. 2011); 12. Ruga Riva, Il decreto legislativo di recepimento delle direttive comunitarie sulla tutela del’ambiente: nuovi reati, nuova responsabilità degli enti da reato ambientale , in www.dirittopenalecontemporaneo.it (materiale inserito l’08.08.2011); 13. Ruga Riva, L’omessa bonifica nella giurisprudenza della Corte di Cassazione: un caso di analogia in malam partem?, in Riv. it. dir. proc. pen., 2012, p. 397 ss..

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Indicazioni bibliografiche e giurisprudenziali sul modulo impresa e obblighi di tutela:

ambiente, sicurezza sul lavoro e riservatezza dei terzi

Diritto penale dell’ambiente profili generali. L’implementazione dei modelli

organizzativi.

a) Indicazioni bibliografiche.

1. Andronio, Il c.d. “ quarto correttivo” al testo unico ambiente, in AA.VV., Treccani. Il libro

dell’anno del diritto 2012, Roma, 2012;

2. Bajno, voce Ambiente (tutela dell’) nel diritto penale, in Dig. disc. pen., I, 2002;

3. Bertolini, voce Ambiente (tutela dell’), IV, in Enc. giur., II;

4. Castronuovo, Principio di precauzione e beni legati alla sicurezza, in

www.dirittopenalecontemporaneo.it (materiale inserito il 21. 07. 2011);

5. Dell’Anno, Elementi di diritto penale dell’ambiente, Padova, 2008;

6. Esposito, Danno ambientale e diritti umani, in www.dirittopenalecontemporaneo.it

(materiale inserito il 12. 11. 2012);

7. Gatta, Le osservazioni di CONFINDUSTRIA sulla responsabilità degli enti per reati ambientali,

in www.dirittopenalecontemporaneo.it (materiale inserito il 29. 04. 2011);

8. Gizzi, Il getto pericoloso di cose, Napoli, 2008;

9. Il rapporto del Garante per l’ILVA di Taranto sull’osservanza dell’AIA riesaminata e sulle

relative «criticità», in www.dirittopenalecontemporaneo.it ( materiale inserito il 5. 07.

2013);

10. Pistorelli-Scarcella, Sulle novità di rilievo penalistico introdotte dal decreto legislativo di

recepimento della direttiva CE in materia di ambiente (d. lgs. n. 121 del 2011), in

www.dirittopenalecontemporaneo.it (materiale inserito il 04.08.2011);

11. Relazione illustrativa dello schema di decreto legislativo invito al Senato sulla responsabilità

degli enti per reati ambientali, in www.dirittopenalecontemporaneo.it ( 8. 04. 2011);

12. Ruga Riva, Il decreto legislativo di recepimento delle direttive comunitarie sulla tutela

del’ambiente: nuovi reati, nuova responsabilità degli enti da reato ambientale, in

www.dirittopenalecontemporaneo.it (materiale inserito l’08.08.2011);

13. Ruga Riva, L’omessa bonifica nella giurisprudenza della Corte di Cassazione: un caso di

analogia in malam partem?, in Riv. it. dir. proc. pen., 2012, p. 397 ss..

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b) Indicazioni giurisprudenziali:

1. Corte Cost., 9 maggio 2013, n. 85, in www.dirittopenalecontemporaneo.it (materiale inserito

il 09.05.2013). Come si legge nel breve commento pubblico sul sito appena citato, con

questa decisione la Consulta, nella controversia inerente il c.d. caso ILVA di Taranto, ha

dichiarato in parte inammissibili ed in parte infondate le numerose questioni poste dal

Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Taranto, che aveva censurato tanto l'art.

1 che l'art. 3 del decreto-legge n. 207 del 2012.

Le ragioni dell'inammissibilità attengono a ritenuti difetti di motivazione circa le ragioni di

contrasto tra le norme censurate ed una parte dei diciassette parametri costituzionali invocati

dal rimettente. Si trattava anzitutto dell'art. 117, primo comma, della Costituzione: secondo

la Corte, il Giudice di Taranto non ha illustrato, oltre l'enunciato formale, i profili di

incompatibilità individuati rispetto all'art. 6 della Convenzione edu, agli artt. 3 e 35 della

Carta di Nizza, all'art. 191 del TFUE, relativamente al principio di precauzione da osservare

in materia ambientale. Inoltre la Corte ha considerato insufficienti le argomentazioni relative

alle pretese violazioni del principio del giudice naturale (art. 25, primo comma, Cost.) e del

principio di personalità della responsabilità penale (art. 27, primo comma, Cost.).

Infondate, invece, tutte le altre questioni.

Per un primo verso, la Corte ha negato il fondamento della tesi di fondo prospettata dal

rimettente, e cioè che il decreto-legge n. 207 abbia eliminato la rilevanza penale delle

condotte di gestione dello stabilimento cui si riferiscono le indagini preliminari tuttora in

corso, o delle condotte attuali e future che si pongano in contrasto con le norme

sanzionatorie vigenti. Certo - osserva la Corte - il riesame dell'Autorizzazione integrata

ambientale rilasciata all'Ilva il 26 ottobre 2012 modifica in fatto i presupposti di

legittimazione dell'ulteriore attività produttiva. Cambierà quindi il parametro di riferimento

per la verifica di compatibilità ambientale della produzione. Il che, nella visione della Corte,

è quanto usualmente avviene quando le sanzioni accedono all'inosservanza delle prescrizioni

contenute in un provvedimento amministrativo, e lo stesso sia variato nei contenuti.

A proposito dell'Autorizzazione accordata all'Ilva, cui si riferisce l'art. 3 del decreto-legge,

la Corte ha negato sia stata oggetto di «legificazione», cioè sia stata trascinata dal rango di

provvedimento amministrativo (come tale impugnabile, e sindacabile anche dal giudice

ordinario) al rango di fonte normativa primaria. Di conseguenza, il provvedimento viene

ricondotto alla disciplina generale delineata nel Codice dell'ambiente e come tale soggetto a

modifica dell'autorità competente ed in ipotesi anche a revoca.

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Per un secondo verso, la Corte ha negato sussista una illegittima compressione del diritto

alla salute ed all'ambiente salubre. In premessa è stata disattesa l'idea, fatta propria dal

rimettente, che esista una gerarchia tra i diritti fondamentali, i quali piuttosto vanno

bilanciati, in sede politica, secondo un criterio di ragionevolezza, e senza che alcuno resti

annichilito per la prevalenza di altri. A parere della Corte, il bilanciamento realizzato con il

decreto «salva Ilva» è ragionevole, trattandosi di assicurare una tutela concomitante del

diritto al lavoro ed all'iniziativa economica e considerando che la nuova Autorizzazione

integrata avrebbe recepito criteri di protezione ambientale assai stringenti, la cui osservanza

è stata favorita da una implementazione del quadro sanzionatorio e degli strumenti di

controllo (compresa la istituzione del Garante).

Infine, la Corte ha escluso la violazione della riserva di giurisdizione, avuto riguardo alla

tesi di fondo del rimettente, secondo cui il decreto-legge sarebbe stato adottato per

vanificare l'efficacia dei provvedimenti cautelari disposti dall'Autorità giudiziaria di

Taranto. In sostanza, si è riconosciuta al legislatore la possibilità di modificare le norme

cautelari, quanto agli effetti ed all'oggetto, anche se vi siano misure cautelari in corso

secondo la previgente normativa. Nel contempo, si è attribuito alla legislazione ed alla

conseguente attività amministrativa il compito di regolare le attività produttive pericolose,

senza che le cautele processuali penali possano far luogo delle relative strategie.

Anche le questioni sollevate dal Tribunale di Taranto in sede di riesame sono state giudicate

infondate. Il Tribunale aveva concentrato le proprie censure sulla modificazione introdotta

nell'art. 3 del decreto-legge in sede di conversione: il Giudice per le indagini preliminari,

subito dopo il provvedimento governativo, aveva rifiutato il dissequestro di merci prodotte

dopo il sequestro degli impianti e prima dell'entrata in vigore del decreto-legge, solo per

effetto del quale l'Ilva doveva considerarsi reimmessa nel possesso degli impianti; il

Parlamento, su richiesta del Governo, aveva allora aggiunto, nella norma censurata, la

specificazione che l'Ilva doveva recuperare la disponibilità dei prodotti in sequestro, anche

se realizzati prima del decreto-legge. Secondo il Tribunale, una “norma-provvedimento”,

adottata invadendo le prerogative della giurisdizione e realizzando un cattivo bilanciamento

tra gli interessi costituzionali concorrenti.

La Corte ha ritenuto che la norma concernente l'Ilva costituisca una specificazione della

norma generale che prevede la restituzione alle imprese della disponibilità di beni aziendali

sequestrati quando viene rilasciata un'Autorizzazione riesaminata, ed interviene la

qualificazione di «stabilimento di interesse strategico nazionale». Dunque una norma

modificatrice della disciplina del sequestro di cose destinate alla produzione di beni di

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grande rilevanza, a carattere generale, e legittimamente destinata ad incidere sul futuro

regime della cautela reale adottata sulle merci in sequestro.

2. Cass. pen., Sez. III, 29 maggio 2013, n. 23091, in www.dirittoambiente.net, secondo la quale

la fattispecie della realizzazione e gestione di una discarica (art. 256, comma 3, D.lgs.

152/2006) si configura come reato che si realizza di norma mediante condotte commissive

(Cass. Sez. U, Sentenza n. 12753 del 05/10/1994, Zaccarelli; sez. 3, sent. n. 31401 del

08/06/2006, Boccabella; sez. 3, sent.n. 2477 del 2008, Marcianò e altri). Pertanto, non

sussiste una automatica responsabilità del proprietario dell'area adibita a discarica di

attivarsi per la rimozione dei rifiuti depositati da terzi, allorché non risulti accertato il

concorso del predetto proprietario con coloro che hanno conferito i rifiuti. Tuttavia, può

talvolta trovare applicazione il disposto dell'art. 40, comma secondo, c.p. ed in tal senso

emergeva nel caso di specie un nesso causale fra l'incremento della discarica e la specifica

condotta antidoverosa attribuita all'imputato, il quale aveva l'obbligo di intervenire per

impedire l’evento in ragione del preciso ordine impartitogli dall'autorità amministrativa, con

conseguente configurabilità del reato ascrittogli.

3. Cass. pen., Sez. III, 16 novembre 2012, n. 44903, in Ambiente & Sicurezza, 2012, 1, p. 104,

secondo la quale “La gestione di uno scarico di acque dopo la scadenza dell'autorizzazione

integra il reato di scarico di acque industriali senza autorizzazione (Cass. Sez. 3, dep.

21/04/2011 - Cc. 16/03/2011 Sentenza n. 16054). Sicché, ai fini della configurazione del

reato di cui al primo comma dell'art. 137 del Decreto Legislativo 3.4.2006 n. 152, non

rileva né il pericolo di inquinamento né l'asserita condotta non inquinante (il cui elemento

costitutivo è il mero scarico di acque reflue industriali mentre la pericolosità delle sostanze

costituisce una aggravante del reato)”.

4. Cass. pen., Sez. III, 2 febbraio 2011, n. 6256, in www.dirittopenalecontemporaneo.it

(materiale inserito in data 14.03.2011). Nel commento di Marinella Bosi si legge che

con la sentenza citata la Corte di Cassazione, Sez. III, torna ad affermare che l’inosservanza

delle prescrizioni dell’autorizzazione necessaria allo svolgimento di attività di gestione di

rifiuti, punita all’art. 256 c. 4 del D. lgs. n. 152/06, integra un reato formale, per la cui

realizzazione non occorre che la condotta sia idonea alla creazione di una “situazione di

concreto pregiudizio per il bene giuridico protetto”.

Nel caso di specie, gli imputati venivano condannati in primo grado per aver eseguito un

trasporto di rifiuti non pericolosi in assenza della dovuta copertura del carico e senza

disporre della copia autentica del provvedimento di iscrizione all’Albo nazionale delle

imprese che effettuano la raccolta e il trasporto di rifiuti non pericolosi prodotti da terzi.

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L’accertamento del giudice di merito aveva quindi ad oggetto due condotte che, seppur unite

nella rilevanza penale sub specie di “inosservanza delle prescrizioni dell’autorizzazione”, si

presentavano distinte sul piano dei fatti, attenendo la prima direttamente al fenomeno

dell’inquinamento, e la seconda, invece, all’osservanza delle regole amministrative. Rispetto

ad entrambe le condotte gli imputati ricorrevano in Cassazione lamentando la mancata

valutazione della loro inidoneità a provocare lesioni ambientali.

Nel rigettare il ricorso, con la sentenza annotata la Cassazione sottolinea la natura di reato di

mera condotta previsto dall’art. 256 c. 4 del D. lgs. n. 152/06, e ricorda la rilevanza del bene

strumentale del controllo amministrativo al fine della tutela ambientale, per escludere la

necessità di un rapporto diretto tra la condotta incriminata e la lesione al bene ambientale

finale.

La sentenza si pone così sulla scia di alcuni precedenti conformi che negano rilievo

all’“idoneità della condotta a recare concreto pregiudizio al bene finale” (Cass. Pen. Sez.

III, 14.03.2007, n. 15560) e sottolineano il ruolo di controllo “del rispetto della normativa e

dei correlati standards” sotteso alle autorizzazioni previste nel settore ambientale (ad es.,

Cass. Pen. Sez. III, 13.04.1996, n. 3589).

Centrale rispetto alla sentenza in esame è il problema dell’offensività e dell’individuazione

dei beni immediatamente e mediatamente attinti dall’offesa nel settore diritto penale

dell’ambiente.

Consolidata da tempo l’idea della necessità di un’offesa a un bene giuridico meritevole di

tutela per la configurazione di un reato, la Corte Costituzionale ha più volte affrontato il

problema del rispetto del principio di offensività nei reati a tutela anticipata (frequentissimi

in materia ambientale), affermando la legittimità di fattispecie di pericolo astratto, purché la

valutazione legislativa della pericolosità di una classe di comportamenti non sia arbitraria e

irrazionale (c.d. offensività in astratto) ed il giudice eviti di applicare la norma penale a fatti

del tutto privi di potenzialità lesiva (c.d. offensività in concreto).

Nei reati ambientali, tuttavia, è proprio la natura del danno, risultato della somma di

comportamenti ripetuti e seriali, a rendere obbligata la scelta di prescindere dall’idoneità

lesiva del singolo fatto. Nondimeno, senza arrivare a trasformare i reati ambientali di

pericolo astratto in reati di pericolo concreto, da più parti è stata sottolineata la necessità di

un recupero di offensività concreta, ad esempio ammettendo che l'imputato superi la

presunzione del legislatore offrendo prova negativa.

Le valutazioni della difesa volte ad escludere l’offensività rispetto alla concreta condotta

vengono disattese nella sentenza in esame, affermando che il requisito della lesività è legato

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alla “struttura stessa della norma”. Più in generale, in materia di gestione illecita di rifiuti,

la giurisprudenza di legittimità ha escluso di poter applicare in funzione di filtro della

rilevanza penale il principio di offensività, secondo lo schema consolidato in tema di falso

grossolano o di calunnia ictu oculi inverosimile.

Nel caso in esame, il mancato rispetto della prescrizione di coprire i rifiuti durante il

trasporto mantiene un rapporto, seppur lontano, con il bene tutelato, e sembra quindi

rispettare il cuore dell’offensività in astratto. Decisamente più problematica invece l’altra

condotta posta in essere avente ad oggetto la copia autentica dell’iscrizione all’Albo

nazionale, tipizzata con riferimento al bene intermedio del controllo amministrativo e senza

relazione con il bene finale.

Gli illeciti penali in materia di ambiente, infatti, non sempre tipizzano condotte che, per

quanto lontane, rendono comunque intelligibile un rapporto con il bene finale (come la

mancata copertura dei rifiuti durante il trasporto), ma spesso sanzionano il mancato rispetto

di norme amministrative di controllo di natura puramente formale e sono strutturati secondo

diversi modelli di c.d. accessorietà al diritto amministrativo. Sotto questo profilo discutibile

appare dunque la decisione della S.C. di disattendere la tesi difensiva sull’inesistenza di

un’offesa in mancanza di una copia autentica dell’iscrizione regolare all’Albo, ancorché si

tratti di una soluzione conforme agli orientamenti consolidati della Corte.

Si guardi, ad esempio Cass. pen. sez. III, 15.12.2010, n. 3881, in cui addirittura il reato de

quo era stato ravvisato in un’ipotesi in cui l’imputato aveva effettuato il trasporto dei rifiuti

avendo a disposizione solo la copia fotostatica dell’autorizzazione.

5. Cass. pen., 21 giugno 2011, n. 29973, in CED Cass. pen., 2011, Rv. 251019, secondo la

quale il trasporto di rifiuti pericolosi senza il prescritto formulario o con un formulario con

dati incompleti o inesatti non è più sanzionato penalmente né dal nuovo testo dell'art. 258,

comma quarto, del d.lgs 3 aprile 2006 n. 152 (come modificato dall'art. 35 del d.lgs 3

dicembre 2010, n. 205) - che si riferisce alle imprese che trasportano i propri rifiuti e che

prevede la sanzione penale per altro tipo di condotte (in particolare, per chi, nella

predisposizione di certificati di anali di rifiuti, fornisca false indicazioni sulla tipologia del

rifiuto o fa uso del certificato falso) - né dall'art. 260 bis del medesimo d.lgs n. 152

(introdotto dall'art. 36 del d.lgs 205 del 2010), che punisce il trasporto di rifiuti pericolosi

non accompagnato dalla scheda SISTRI.

6. Cass. pen., Sez. III, 14 luglio 2011, n.46189, in www.dirittopenalecontemporaneo.it, con

nota di Bongiorno, La lotta alle ecomafie tra tutela dell’ambiente e ordine pubblico: un

equilibrio precario attraverso l’abuso di concetti elastici..

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La Corte ha affermato che “il delitto di disastro innominato (art. 434 cod. pen.), che è reato

di pericolo a consumazione anticipata, si perfeziona, nel caso di contaminazione di siti a

seguito di sversamento continuo e ripetuto di rifiuti di origine industriale, con la sola

immutatio loci, purché questa si riveli idonea a cagionare un danno ambientale di

eccezionale gravità”.

Per giungere a tale conclusione la Corte si cimenta nell’esame delle due fattispecie di cui al

D.Lgs, n. 22 del 1997, previste dall’art. 53 bis e dall'art. 434 c.p.

Il delitto previsto dalla norma di cui all’art. 53 bis (introdotto dalla L. 23 marzo 2001, n. 93)

prevede la sanzione penale per chi, al fine di conseguire un ingiusto profitto, allestisce una

organizzazione con cui gestire continuativamente, in modo illegale, ingenti quantitativi di

rifiuti. Tale gestione dei rifiuti deve concretizzarsi in una pluralità di operazioni con

allestimento di mezzi ed attività continuative organizzate, ovvero attività di intermediazione

e commercio e tale attività deve essere "abusiva", ossia effettuata o senza le autorizzazioni

necessarie (ovvero autorizzazioni illegittime o scadute) o violando le prescrizioni e/o i limiti

delle autorizzazione stesse (ad esempio la condotta avente per oggetto una tipologia di rifiuti

non rientranti nel titolo abilitativo, anche tutte quelle attività che, per le modalità concrete

con cui sono esplicate, risultano totalmente difformi da quanto autorizzato, sì da non essere

più giuridicamente riconducibili al titolo abilitativo rilasciato dalla competente Autorità

amministrativa).

In tal senso si sottolinea che il delitto in esame sanziona comportamenti non occasionali di

soggetti che, al fine di conseguire un ingiusto profitto, fanno della illecita gestione dei rifiuti

una loro redditizia, anche se non esclusiva attività. Quindi per perfezionare il reato è

necessaria una, seppur rudimentale, organizzazione professionale (mezzi e capitali) che sia

in grado di gestire ingenti quantitativi di rifiuti in modo continuativo, ossia con pluralità di

operazioni condotte in continuità temporale, operazioni che vanno valutate in modo globale:

alla pluralità delle azioni, che è elemento costitutivo del fatto, corrisponde una unica

violazione di legge, e perciò il reato è abituale dal momento che per il suo perfezionamento

è necessaria le realizzazione di più comportamenti della stessa specie.

Per quanto attiene al requisito dell'ingente quantitativo di rifiuti, da sempre la dottrina

prevalente ha ritenuto che fosse il giudice a doverlo valutare in base a criteri oggettivi,

fondati sul mero dato quantitativo; altri invece lo hanno posto in riferimento all'ipotizzabile

danno ambientale conseguente alla potenziale dispersione dei rifiuti nel sistema ed ai costi

del ripristino ambientale. La giurisprudenza ha, sin dall'inizio, sottolineato il fatto che tale

elemento non può essere desunto dalla semplice organizzazione e continuità dell'attività di

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gestione, dovendo sempre essere rapportato al quantitativo di rifiuti illecitamente gestiti. In

particolare è stato precisato che la nozione di ingente quantitativo deve essere riferita al

quantitativo di materiale complessivamente gestito attraverso una pluralità di operazioni

che, se considerate singolarmente, potrebbero essere di entità modesta e che tale requisito

non può essere desunto automaticamente dalla stessa organizzazione e continuità

dell'abusiva gestione di rifiuti; occorre insomma tenere conto della finalità della norma e

dell'interesse dalla stessa tutelato.

Per quanto attiene all'elemento psicologico, la giurisprudenza ha chiarito che ai fini della

sussistenza del dolo specifico richiesto per l'integrazione del delitto di gestione abusiva di

ingenti quantitativi di rifiuti, il profitto perseguito dall'autore della condotta può consistere

anche nella semplice riduzione dei costi aziendali, in quanto l'ingiusto profitto non deve

necessariamente assumere natura di ricavo patrimoniale, potendo consistere o nel risparmio

di costi od anche nel perseguimento di vantaggi di altra natura.

È stato anche approfondito l'atteggiarsi dell'elemento soggettivo di questa fattispecie da

parte del partecipe di un'associazione delinquenziale diretta all'illecito smaltimento di rifiuti,

con ripartizione interna dei compiti, per evidenziare, ad esempio, che anche il dipendente di

una ditta, pur non risultando avere diretto interesse ai profitti in quanto tale, concorre al

conseguimento degli stessi, che rappresentano l'obiettivo delle condotte illecite dell'attività

di illecito smaltimento di rifiuti.

Per quanto attiene al delitto di disastro di cui all'art. 434 c.p. la giurisprudenza di legittimità

ha chiarito che, nell'ipotesi dolosa di cui al primo comma, la soglia per integrare il reato è

anticipata - diversamente dall'ipotesi colposa per la quale è necessario che l'evento si

verifichi - al momento in cui sorge il pericolo per la pubblica incolumità, mentre qualora il

disastro si verifichi risulterà integrata la fattispecie aggravata prevista dal secondo comma

dello stesso art. 434 c.p.

Requisito del reato di disastro di cui all'art. 434 c.p. è "la potenza espansiva del nocumento

unitamente all'attitudine ad esporre a pericolo, collettivamente, un numero indeterminato di

persone, sicché, ai fini della configurabilità del medesimo, è necessario un evento

straordinariamente grave e complesso ma non eccezionalmente immane". È stato altresì

precisato che "è necessario e sufficiente che il nocumento abbia un carattere di prorompente

diffusione che esponga a pericolo, collettivamente, un numero indeterminato di persone che

l'eccezionalità della dimensione dell'evento desti un esteso senso di allarme, sicché non è

richiesto che il fatto abbia direttamente prodotto collettivamente la morte o lesioni alle

persone, potendo pure colpire cose, purché dalla rovina di queste effettivamente insorga un

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pericolo grave per la salute collettiva; in tal senso si identificano danno ambientale e

disastro qualora l'attività di contaminazione di siti destinati ad insediamenti abitativi o

agricoli con sostanze pericolose per la salute umana assuma connotazioni di durata,

ampiezza e intensità tale da risultare in concreto straordinariamente grave e complessa,

mentre non è necessaria la prova di immediati effetti lesivi sull'uomo". Pertanto, il delitto di

disastro innominato di cui all'art. 434 c.p., comma 1, è qualificato come reato di pericolo a

consumazione anticipata che si perfeziona con la condotta di immutatio loci, purché questa

si riveli idonea in concreto a mettere in pericolo l'ambiente; esso si realizza quando il

pericolo concerne un danno ambientale di eccezionale gravità, seppure con effetti non

irreversibili, in quanto il danno provocato potrebbe pur sempre risultare riparabile con opere

di bonifica.

7. Cass. pen., Sez. III, 22 settembre 2011, in www.dirittopenalecontemporaneo.it (materiale

inserito il 4.11.2011).

Nel commento di Stefano Zirulia si rileva che il legale rappresentante della società

affidataria di un impianto di depurazione di acque reflue urbane veniva condannato per la

contravvenzione di “gestione di rifiuti non autorizzata” (art. 256 co. 1, lett. a, T.U.

ambiente), per aver effettuato il deposito incontrollato, e non il regolare smaltimento, di

rifiuti costituiti dai fanghi di depurazione del predetto impianto.

Avverso la condanna in primo grado, l’imputato proponeva ricorso per saltum in

Cassazione, lamentando, tra l’altro, l’inosservanza dell’art. 127 T.U. Ambiente, che

individua la disciplina applicabile ai fanghi di depurazione.

Secondo la tesi avanzata dal ricorrente, mentre nel testo originario l’art. 127 estendeva ai

fanghi di depurazione la disciplina dei rifiuti “ove applicabile”, nell’attuale formulazione –

introdotta dal d. lgs. n. 4 del 2008 – la norma prevede che detta estensione avvenga soltanto

“alla fine del complessivo processo di trattamento effettuato nell’impianto di depurazione”.

La modifica, conseguentemente, avrebbe ridotto l’ambito di applicazione della

contravvenzione ex art. 256 T.U., espungendovi tutte le ipotesi in cui le condotte abusive

abbiano ad oggetto fanghi provenienti da processi di depurazione non ancora ultimati:

proprio tra queste ipotesi, prive di rilevanza penale ai sensi del più favorevole jus

superveniens, rientravano – secondo la tesi difensiva – le condotte contestate al ricorrente.

La Terza Sezione rigettava tuttavia il ricorso, enunciando il principio di diritto al quale

attenersi nell’interpretazione del novellato art. 127 T.U. Ambiente.

Infatti, dopo avere riconosciuto che la modifica del 2008 ha effettivamente spostato al

termine del processo depurativo il momento in cui la disciplina dei rifiuti si applica ai

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fanghi, i giudici di legittimità evidenziano come tale intervento legislativo non possa tuttavia

escludere “l’applicabilità della disciplina sui rifiuti in tutti i casi in cui il trattamento non

venga effettuato o venga effettuato in luogo diverso dall’impianto di depurazione o in modo

incompleto, inappropriato o fittizio”.

Ciò posto, la Cassazione conclude che, nel caso di specie, la contravvenzione di smaltimento

illecito di rifiuti (art. 256 co. 1 lett. a T.U. Ambiente) era stata correttamente applicata, in

quanto “le modalità di detenzione dei fanghi deponevano inequivocabilmente per la loro

condizione di rifiuto, stante la incompatibilità delle modalità di conservazione con

qualsivoglia fase del processo depurativo e con procedure di trattamento tecnicamente

accettabili”.

In particolare, numerosi dati fattuali consentivano di escludere che l’accumulo dei fanghi

costituisse un mero deposito temporaneo (il quale, se realizzato seguendo determinate

modalità, solleva il produttore dalla maggior parte degli obblighi previsti dal regime

autorizzatorio delle attività di gestione dei rifiuti): a parte la considerazione, di per sé

assorbente, secondo cui "l’onere della prova in ordine al verificarsi delle condizioni fissate

per la liceità del deposito temporaneo grava sul produttore dei rifiuti in considerazione

della natura eccezionale e derogatoria del deposito temporaneo rispetto alla disciplina

ordinaria (Sez. III n. 15680, 23 aprile 2010 […])”, nel caso di specie l’applicabilità della

disciplina sanzionatoria era resa evidente dalla “mancanza di documentazione attestante il

lecito smaltimento, [dal]la presenza di un quantitativo rilevante di fanghi in uno dei letti di

essiccamento (definito “colmo”) e [dal]la presenza di vegetazione sui fanghi medesimi”.

8. Cass. pen., Sez. IV, 6 ottobre 2011, n. 42586, in www.dirittopenalecontemporaneo.it

(materiale inserito in data 16. 03. 2012), secondo la quale .

Nel commento di Tommaso Trinchera si sottolinea che con la sentenza in esame la quarta

Sezione penale della Corte di cassazione ha avuto modo di precisare quale sia la struttura e

quale l'oggetto del dolo (eventuale) nelle fattispecie omissive e, in particolare, nei cosiddetti

reati omissivi impropri (o commissivi mediante omissione) proprio con riferimento alla

tutela dell’ambiente. In sintesi, questi sono gli estremi della vicenda della quale era stata

investita la Corte.

Il Pubblico Ministero richiedeva, in via cautelare, l'applicazione di una misura interdittiva

(nella specie: sospensione temporanea da pubblico ufficio) nei confronti di un dirigente e di

un funzionario dell'A.R.P.A. (Agenzia Regionale per la Protezione dell'Ambiente) accusati

di aver realizzato, in forma omissiva, la fattispecie di reato prevista dall'art. 260 del D.lgs. n.

152/2006 (Attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti). Tale norma punisce, con la

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reclusione da uno a sei anni, chiunque «cede, trasporta, esporta, importa, o comunque

gestisce abusivamente ingenti quantitativi di rifiuti».

La contestazione veniva mossa al dirigente e al funzionario della locale A.R.P.A. che - in

ipotesi d'accusa - pur essendo consapevoli dell'esistenza di rifiuti ospedalieri sul sito da

bonificare, non avevano svolto alcun controllo sostanziale sulle operazioni di rimozione e

smaltimento degli stessi e, conseguentemente, non avevano impedito che il rifiuto venisse

gestito come semplice terra, in tal modo consentendo che lo stesso venisse conferito, con

codice errato, in discarica non autorizzata.

Il Tribunale del riesame aveva, in un primo momento, confermato il provvedimento del

G.I.P. con il quale era stata rigettata la richiesta di applicazione della misura cautelare,

ritenendo che il funzionario dell'A.R.P.A., quand’anche fosse stato notiziato dell'esistenza di

rifiuti interrati e avesse omesso il controllo sulle operazioni di rimozione e bonifica,

comunque non avrebbe assunto una posizione di garanzia rilevante ex art. 40 cpv. del codice

penale, perché il D.lgs. n. 152/2006 non prevede a carico di quest'ultimo uno specifico

obbligo di preoccuparsi della tipologia del rifiuto e del suo smaltimento.

L'ordinanza del Tribunale del riesame veniva però annullata, con rinvio, dalla terza Sezione

penale della Corte di cassazione con sentenza n. 3634/2011 resa il 15 dicembre 2010 (e

depositata il 1 febbraio 2011). La Suprema Corte, rilevato che l'A.R.P.A. è un ente di diritto

pubblico preposto all'esercizio delle funzioni e delle attività tecniche per la vigilanza e il

controllo ambientale, affermava infatti che la normativa vigente individua a carico dei

funzionari del predetto organismo una posizione di garanzia idonea a fondare

un'imputazione causale ai sensi dell'art. 40 cpv. del codice penale.

Il Collegio del Tribunale del riesame davanti al quale era stata rinviata la trattazione

confermava, tuttavia, l'originario provvedimento del G.I.P. che aveva respinto la richiesta di

applicazione della misura interdittiva, ritenendo: per un verso, che permanessero gravi

incertezze in ordine alla configurabilità del dolo il quale avrebbe dovuto coprire tutta la

complessa condotta descritta dalla norma incriminatrice; per altro verso che mancassero in

concreto le esigenze cautelari che potessero giustificare l'adozione della richiesta misura

interdittiva.

Avverso quest'ultima decisione il Pubblico Ministero proponeva ricorso per cassazione,

argomentando che le peculiarità del reato omissivo contestato agli imputati avrebbero

dovuto incidere anche sull'apprezzamento dell'elemento soggettivo e, segnatamente, sul

contenuto sia rappresentativo che volitivo del dolo.

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Il Tribunale – ad avviso del Pubblico Ministero - avrebbe pertanto errato nel ritenere che il

dolo richiesto per configurare il reato di illecita gestione di rifiuti (art. 260 del T.U.

Ambiente) in forma omissiva comporti anche la consapevolezza e la volontà da parte del

soggetto agente di realizzare un traffico illecito di rifiuti. Infatti, se all'Accusa venisse

richiesto di provare il dolo dell'evento si annullerebbe la differenza tra reato omissivo e

concorso attivo nel reato (perché se il Pubblico Ministero sospettasse la sussistenza di una

volontà agevolatrice dovrebbe contestare il concorso nel reato e non già l'omesso

impedimento dell'evento ex art. 40 cpv.).

Non solo. Nell’esigere la consapevolezza e la volontà da parte soggetto agente di realizzare

un traffico illecito di rifiuti, il Tribunale avrebbe confuso il dolo dell'evento delittuoso con il

dolo dell'omissione: nella prospettiva del ricorrente il funzionario dell'A.R.P.A. ha l'obbligo

giuridico di controllare e, se deliberatamente non esercita tale funzione di controllo, è

responsabile per ciò solo di ciò che accade per effetto della sua omissione, lecito o illecito

che sia, a prescindere dalla consapevolezza di quanto in concreto avvenuto. In questa

prospettiva, il dolo sussisterebbe ogniqualvolta si accerti la volontà, da parte del soggetto

agente, di omettere un controllo doveroso.

Con la sentenza in esame, la quarta Sezione penale della Corte di cassazione ha rigettato il

ricorso, ritenendo immune da censure e da vizi di carattere logico-giuridico la motivazione

adottata dal Tribunale del riesame e priva di fondamento, invece, la tesi prospettata

dall'accusa.

Non può revocarsi in dubbio - osserva la Corte - che il dolo eventuale, anche in presenza di

fattispecie omissive, richieda pur sempre la rappresentazione anticipata delle conseguenze

della condotta e, quantomeno, l'accettazione che tali conseguenze si realizzino. Peraltro, si

rileva, nessuna giurisprudenza (o dottrina) ha mai sostenuto che nei reati omissivi il

momento rappresentativo e volitivo del dolo eventuale sia circoscritto solo ad alcuni degli

elementi costitutivi del fatto tipico (e, nello specifico, che resti escluso l'evento).

Invero, per quanto si sia da taluno sostenuto, in dottrina, che nei reati omissivi impropri il

momento volitivo del dolo possa essere in qualche modo attenuato, atteggiandosi - rispetto

alla decisione di non agire - nei termini di un'inerzia, di un torpore della volontà

(sintetizzabile nell'espressione: ci penserò in seguito, agirò in seguito), nessuno ha mai

dubitato che l'evento il cui mancato impedimento si rimprovera al soggetto debba essere

rappresentato e voluto dal soggetto medesimo: quanto meno, nel senso che il soggetto

debba decidere di non compiere l'azione doverosa, accettando al tempo stesso l'eventualità

del verificarsi di quell'evento. Tale conclusione è imposta dal dettato normativo di cui al

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primo comma dell'articolo 43 c.p., dal quale si desume inequivocabilmente che il momento

rappresentativo e volitivo del dolo (anche nella forma eventuale) abbraccia tanto la condotta

(azione od omissione), che l'evento (di danno o di pericolo) e il nesso di causalità.

9. Cass. pen., sez. III, ud. 21 ottobre 2010, n. 41015, in www.dirittopenalecontemporaneo.it

(materiale inserito il 7.12.2010). Nel commento a cura di Gian Luigi Gatta

si sottolinea che prima dell’emanazione del t.u. ambientale (d.lgs. n. 152 del 2006), la legge

attribuiva la titolarità dell’azione di risarcimento del danno ambientale, anche se esercitata

in sede penale, allo Stato nonché “agli enti territoriali sui quali incidano i beni oggetto del

fatto lesivo” (così l’art. 18 co. 3 della Legge istitutiva del Ministero dell’ambiente – l. n. 349

del 1986 –, espressamente abrogato dall’art. 318 co. 2 lett. a) del t.u. ambientale). Il t.u.

ambientale prevede invece oggi (art. 311 co. 1) che sia unicamente lo Stato, attraverso il

Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, ad agire, “anche esercitando

l'azione civile in sede penale, per il risarcimento del danno ambientale in forma specifica e,

se necessario, per equivalente patrimoniale”. Le regioni e gli enti territoriali minori,

pertanto, non sono più legittimati ad agire iure proprio per il risarcimento del danno

ambientale.

A fronte di tale mutato quadro normativo, l’annotata pronuncia della Cassazione ha

annullato senza rinvio – limitatamente alle statuizioni civili – una sentenza di condanna per

il reato di deposito non autorizzato di rifiuti speciali non pericolosi provenienti da attività di

costruzione e demolizione, realizzato sul suolo pubblico (art. 256, co. 2 d.lgs. n. 152/2006);

sentenza con la quale era stato in particolare riconosciuto il diritto al risarcimento del danno

alla provincia, di cui era stata ammessa – secondo la S.C. erroneamente – la costituzione di

parte civile.

Confermando il proprio univoco orientamento, la Cassazione ha peraltro precisato che,

operando quale disposizione speciale rispetto all’art. 2043 c.c., l’art. 311 del d.lgs. n. 152

del 2006 riserva allo Stato, in persona del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio

e del mare, la legittimazione ad agire in giudizio per il risarcimento del “danno ambientale

di natura pubblica, in sé considerato come lesione dell’interesse pubblico e generale

all’ambiente”. Ciò non toglie però che “tutti gli altri soggetti, singoli o associati, ivi

compresi gli enti pubblici territoriali e le regioni, possano agire invece, in forza dell’art.

2043 c.c., per ottenere il risarcimento di qualsiasi danno patrimoniale ulteriore e concreto,

che abbiano dato prova di aver subito dalla medesima condotta lesiva dell’ambiente in

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relazione alla lesione di altri diritti patrimoniali, diversi dall’interesse pubblico e generale

alla tutela dell’ambiente come diritto fondamentale e valore a rilevanza costituzionale”.

Nel caso oggetto della sentenza annotata – rileva conclusivamente la S.C. – la provincia

sarebbe stata legittimata a chiedere il risarcimento del danno (e, ancor prima, a costituirsi

parte civile) “se avesse allegato che la condotta dell’imputato le aveva arrecato un danno

patrimoniale diretto e specifico, ulteriore e diverso rispetto a quello, generico di natura

pubblica, della lesione dell’ambiente come bene pubblico e diritto fondamentale e di rilievo

costituzionale”.

10. Trib. Venezia, sez. dist. Dolo, 13.5.2010 (dep. 13.8.2010), Giud. De Curtis (irretroattività

della lex mitior intermedia dichiarata incostituzionale. Rifiuti: giudizio di merito successivo

a Corte cost. n. 28/2010), in www.dirittopenalecontemporaneo.it.

Nella massima a cura di Gian Luigi Gatta si legge come il Tribunale di Venezia abbia

enunciato il seguente, interessante, principio di diritto: “Anche a seguito dell’entrata in

vigore dell’art. 49 della Carta dei diritti fondamentali dell'UE deve ribadirsi (cfr. Corte

cost. n. 394/2006) che la 'lex intermedia' più favorevole al reo, se dichiarata

costituzionalmente illegittima, non può essere applicata retroattivamente ai sensi dell’art. 2,

co. 2 e 4 c.p.” (Nell'affermare tale principio il Tribunale ha escluso la possibile applicazione

retroattiva, ai sensi e per gli effetti dell'art. 2, co. 2 c.p., della più favorevole definizione

legale di "sottoprodotto" di cui all'art. 183, co. 1, lett. n) d.lgs. n. 152/2006, nella versione

antecedente al d.lgs. n. 4/2008, che escludeva che le ceneri di pirite costituissero rifiuti

sottraendole, pertanto, alla relativa disciplina penale. Nel giudizio di legittimità

costituzionale promosso dal medesimo Tribunale, detta definizione legale è stata infatti

dichiarata incostituzionale da Corte cost. n. 28/2010, per contrasto con l'art. 117, co. 1 Cost.

Nonostante l'affermato principio il Tribunale non è tuttavia pervenuto a una sentenza di

condanna, bensì alla declaratoria di estinzione dei reati in materia di rifiuti ascritti agli

imputati, per intervenuta prescrizione).

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La tutela penale della salute e della sicurezza dei lavoratori. La corretta ripartizione

dei compiti e l’attività di vigilanza.

a) Indicazioni bibliografiche.

1. AA.VV., Responsabilità individuale e responsabilità degli enti negli infortuni sul lavoro, a

cura di Compagna, Napoli, 2012;

2. AA.VV., Tavola rotonda sul caso Tyssenkrupp, in Leg. pen., n. 2, 2012, p. 529 ss.;

3. Amarelli, I criteri oggettivi di iscrizione del reato all’ente collettivo ed i reati in materia di

sicurezza sul lavoro, in www.dirittopenalecontemporaneo.it (materiale inserito il

19.04.2013;

4. Attili, L’agente modello “nell’era della complessità”: tramonto, eclissi o trasfigurazione?,

in Riv. it. Dir. Proc. Pen., 2006, p. 1240 ss.;

5. Bartoli, Causalità e colpa nella responsabilità penale per esposizione dei lavoratori

amianto, in Riv. it. dir. proc. pen., 2011, p. 597 ss.;

6. Bellagamba- Cariti, La responsabilità penale per gli infortuni sul lavoro, Torino, 1998;

7. Centonze, La normalità dei disastri tecnologici. Il problema del congedo dal diritto

penale, Milano, 2004;

8. D’Alessandro, La delega di funzioni nell’ambito della tutela della salute e della sicurezza

nei luoghi di lavoro, alla luce del decreto correttivo n. 106/ 2009, in Riv. it. dir. proc. pen.,

2010, p. 1125 ss.;

9. Di Giovine, Sicurezza sul lavoro, malattie professionali e responsabilità degli enti, in Cass.

Pen., 2009, p. 1325 ss.;

10. Fiorella, Il trasferimento di funzioni nel diritto penale d’impresa, Firenze, 1985;

11. Formica, La condanna di un sindaco tra inadempienza formativa del datore di lavoro

pubblico e colpa strutturale del vertice politico, in Riv. it. dir. proc. pen., 2009, p. 974 ss.;

12. M. Mantovani, Il principio di affidamento nella teoria del reato colposo, Milano, 1997;

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13. Marinucci, Innovazioni tecnologiche e scoperte scientifiche: costi e tempi di adeguamento

delle regole di diligenza, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2005, p. 29 ss.;

14. Masullo, Colpa penale e precauzione nel segno della complessità, Napoli, 2012;

15. Padovani, Il nuovo volto del diritto penale del lavoro, in Riv. Trim. dir. Pen. Econ., 1996, p.

116 ss.;

16. Pesci, Violazione del dovere di vigilanza e colpa per organizzazione alla luce

dell’estensione alla sicurezza del lavoro del d. lg. n. 231 del 2001, in Cass. Pen., 2008, p.

3967 ss.;

17. Pulitanò, voce Igiene e sicurezza del lavoro ( tutela penale), in Dig. disc. pen., Agg. I,

2000, p. 388 ss.;

18. Raffaele, La seconda vita del dolo eventuale tra rischio, tipicità e colpevolezza: riflessioni

a margine del caso Tyssen, in Riv. it. dir. proc. pen., 2010, p. 1077;

19. Scordamaglia, Il diritto penale della sicurezza del lavoro tra principi di prevenzione e di

precauzione, in www.dirittopenalecontemporaneo.it (materiale inserito il 23. 11. 2012);

20. Smuraglia, voce Igiene e sicurezza del lavoro, in Enc. Giur., XV, p. 1 ss. 1989;

21. Valentini, Diritto penale e sicurezza del lavoro. Alcune osservazioni “a bocce ferme”

intorno alle recenti (e sedicenti) riforme, in Riv. Trim. dir. pen. econ., 2010, p. 864 ss.;

22. Vitarelli, Infortuni sul lavoro e responsabilità degli enti: un difficile equilibrio, in Riv. it. dir.

proc. pen., 2009, p. 695 ss..

b) Indicazioni giurisprudenziali:

1. Cass. pen., Sez. III, 16 gennaio 2013, n. 2285, in www.olympus.uniurb.it, secondo la quale,

se l'articolo 18, comma 1, lettera p) del D.Lgs. n. 81/2008 prevede, tra gli obblighi del

"datore di lavoro", quello dell'elaborazione del "documento di cui all'articolo 26, comma

3" (DUVRI), il datore di lavoro in oggetto non può che essere quello testualmente e

specificamente citato dallo stesso articolo 26 comma 3, ovvero il Datore di lavoro

"committente". La condotta di omessa elaborazione del DUVRI (obbligo contemplato

dall'articolo 26, comma 3, e distintamente sanzionato dall'articolo 55, comma 5, lettera d))

è dunque un reato proprio del "Datore di lavoro committente", e non può essere esteso al

“Datore di lavoro appaltatore”, pena la violazione del principio di tassatività della legge

penale.

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2. Cass. pen., sez. IV, sent. 17 ottobre 2012 (dep. 29 gennaio 2013), n. 42519, Pres. Brusco,

Est. Dovere, in www.dirittopenalecontemporaneo.it ( materiale inserito il 19. 03. 2013). Con

questa pronuncia la Cassazione ha affrontato il tema della responsabilità del datore di lavoro

per malattie professionali contratte dai propri dipendenti e, in particolare, il problema

dell'accertamento del nesso causale in caso di patologie multifattoriali.

La S.C. ha annullato la sentenza d'appello con la quale era stato condannato il datore di

lavoro per omicidio colposo in relazione alla morte, per carcinoma polmonare, di un

operaio addetto alla "targhettatura" delle navi presso il porto di Taranto. Al datore di

lavoro veniva rimproverato di non aver adottato le misure antinfortunistiche imposte dalla

legge idonee a ridurre il rischio da esposizione a sostanze tossiche (quali, polveri

contaminate da silice cristallina e idrocarburi).

Il principio di diritto affermato dalla Corte è il seguente: nel caso di patologie multifattoriali

(come il carcinoma) è necessario dimostrare che la malattia non ha avuto un'esclusiva

origine nel diverso fattore astrattamente idoneo, e che l'esposizione al fattore di rischio di

matrice lavorativa è stata una condizione necessaria per l'insorgere o per una significativa

accelerazione della patologia.

Se in generale l'affermazione di una relazione causale tra esposizione ad un fattore di

rischio e l'insorgere di una malattia richiede "un alto o elevato grado di credibilità

razionale", secondo la nota formulazione della sentenza Franzese, «nel caso di malattia

multifattoriale - osserva ulteriormente la Corte - quell'elevato grado non potrà mai dirsi

raggiunto prima di e a prescindere da un'approfondita analisi di un quadro fattuale il più

nutrito possibile di dati relativi all'entità dell'esposizione al rischio professionale, tanto in

rapporto all'entità degli agenti fisici dispersi nell'area che in rapporto al tempo di

esposizione, tenuto altresì conto dell'uso di eventuali dispostivi personali di protezione; dati

che devono poi essere necessariamente correlati alle conoscenze scientifiche disponibili».

3. Cass. pen., Sez. IV, 23 novembre 2012 (dep. 21 dicembre 2012), n. 49821, in

www.dirittopenalecontemporaneo.it (materiale inserito il 13.02.2013).

Nel commento di Marco Lorenzo Minnella si legge che con la sentenza in esame la Corte di

Cassazione torna sulla tematica dell'individuazione dei soggetti responsabili nel caso di

infortunio sul lavoro. La sentenza si segnala perché, partendo dal concetto di rischio,

individua stringenti criteri di delimitazione delle diverse posizioni di garanzia,

individuandone i reciproci confini interni (ai fini della distinzione tra datore, dirigente,

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preposto e responsabile del servizio prevenzione e protezione), ma anche il limite esterno

con riferimento alla delicatissima questione dell'efficienza causale del comportamento

abnorme del lavoratore ex art. 41, 2 comma, cod. pen.

La sentenza in oggetto trae origine da due ricorsi presentati avverso la decisione di secondo

grado con la quale la Corte d'appello di Venezia aveva confermato la condanna in primo

grado per gli imputati, nella loro rispettiva qualità di datore di lavoro (legale rappresentante

della società) e responsabile del servizio di prevenzione e protezione (r.s.p.p.), per il reato di

omicidio colposo con violazione delle norme antinfortunistiche commesso ai danni di una

lavoratrice. La vittima era addetta all'analisi di campioni di materiale vetroso accatastati nel

piazzale dell'azienda. Durante il prelevamento di tali campioni, la lavoratrice veniva travolta

da un collega alla guida di una pala meccanica.

Nei giudizi di merito è stato accertato che l'infortunio era dipeso dalle gravi carenze

organizzative, relative in particolare alla viabilità interna al piazzale dell'azienda. Quell'area

era, infatti, adibita al transito di mezzi meccanici e, contestualmente, era anche il luogo ove

si svolgeva attività di campionatura.

Tali condizioni determinavano un forte rischio di interferenza tra pedoni e mezzi, aggravato

dalla circostanza che le zone di lavoro di rispettiva pertinenza non erano delimitate e

segnalate.

La gravità della situazione, per altro, era ben conosciuta dal vertice aziendale e dal r.s.p.p.

(in capo al quale vengono riconosciute anche ingerenze di fatto nella gestione operativa

della sicurezza dello stabilimento), dal momento che si erano già verificati in passato

incidenti analoghi.

Gli imputati hanno presentato ricorso in Cassazione rilevando sinteticamente che: a)

l'incidente deve essere causalmente ricondotto in modo esclusivo alla manovra imprudente

ed abnorme del palista, come dimostrato dal consulente tecnico di parte; b) il datore di

lavoro aveva delegato la gestione degli incombenti in materia di sicurezza al direttore dello

stabilimento; c) il r.s.p.p. non riveste la posizione di garante, atteso che lo stesso ha solo

funzioni consultive e di ausilio al datore di lavoro.

Nel dare risposta al quesito relativo alla rilevanza eziologica del comportamento anomalo

del lavoratore (nel caso di specie del dipendente alla guida del mezzo meccanico), la corte

richiama i principi di fondo in tema di rilevanza causale della condotta del garante.

I giudici evidenziano anzitutto come, nell'ambito della sicurezza sul lavoro, la figura del

garante non è legata soltanto ai reati omissivi impropri (commissivi mediante omissione) ex

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art. 40, 2° comma, cod. pen., ma rileva in concreto anche in ipotesi di condotte attive (come

nel caso del preposto che consegna al lavoratore uno strumento malfunzionante o del

dirigente che avvia il dipendente in un ambiente insalubre).

Riempire di contenuti la posizione di garanzia incombente sul datore di lavoro è compito

non facile, dal momento che, continuano i giudici, il principio di causalità, accolto nel

codice penale con la formula dell'equivalenza di cause, è caratterizzato dalla "costitutiva,

ontologica indifferenza per il rilievo, per il ruolo qualitativo delle singole condizioni".

Il correttivo all'ampiezza dell'imputazione oggettiva risiede, sul piano normativo, nell'art. 41,

2° comma cod. pen., ed ha trovato nella dottrina diverse elaborazioni teoriche (causalità

adeguata, umana, efficiente ecc.), tutte rispondenti all'esigenza di ancorare il giudizio di

responsabilità penale alla prevedibilità delle conseguenze dell'azione.

È in questa prospettiva che i giudici richiamano il concetto di rischio, rilevando come,

nell'ambito della sicurezza sul lavoro, "tutto il sistema è conformato per governare l'immane

rischio, gli indicibili pericoli, connessi al fatto che l'uomo si fa ingranaggio fragile di un

apparato gravido di pericoli".

Il rischio però, inteso come categoria unitaria, non investe indistintamente tutti i soggetti

coinvolti nella gestione della sicurezza, ma si declina diversamente a seconda delle aree

relative ad un determinato settore di attività. Alle diverse aree di rischio si affiancano i ruoli

diversi che i garanti ricoprono all'interno dell'organizzazione. A ciascuna figura, a ciascun

ruolo, è demandata la gestione di una o più aree di rischio. Proprio questa diversità di aree

consente di separare, delimitare, specificare le diverse responsabilità che entrano in gioco in

caso di infortunio.

Il garante, concludono i giudici, non è altro che "il soggetto che gestisce il rischio". Gestione

del rischio che ovviamente va affrontata e governata attraverso il rispetto di tutte quelle

regole precauzionali dettate dalla prassi e ampiamente recepite dalla normativa di settore.

Proprio attraverso l'individuazione delle diverse aree di rischio, e utilizzando lo strumento

normativo offerto dall'art. 41 capoverso cod. pen., può essere affrontata, su basi più solide,

l'ipotesi di comportamento c.d. abnorme o anomalo del lavoratore.

Sul punto i giudici richiamano alcune pronunce della Suprema Corte, tra cui quelle in tema

di infortunio a seguito di abusiva introduzione notturna del lavoratore nel cantiere (Sez. IV,

25 settembre 2001 Rv. N. 221149) e di abusiva introduzione del lavoratore in proprietà

privata attigua al luogo di lavoro (Sez. IV, 7 maggio 1985 Rv. 171215), e rilevano che, in

realtà, più che di comportamento atipico o abnorme del lavoratore, occorre distinguere tra

rischio lavorativo e rischio extra lavorativo. Solo nel primo caso, infatti, la condotta del

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garante, tenuta in violazione delle norme precauzionali, rileva ai fini della causazione

dell'evento.

Sarebbe opportuno, secondo i giudici, ricercare nel comportamento del lavoratore, non tanto

la sua eccezionalità o abnormità - formule che per quanto ripetutamente utilizzate dalla

giurisprudenza restano comunque piuttosto evanescenti - ma il travalicamento dell'area di

rischio connessa alla lavorazione svolta. Ed allora, conclude sul punto la sentenza, "tale

comportamento è interruttivo [...] non perché "eccezionale" ma perché eccentrico rispetto

al rischio lavorativo che il garante è chiamato a governare".

Alla luce di questi principi la sentenza respinge il primo motivo di ricorso relativo

all'asserita efficienza eziologica della manovra imprudente del lavoratore alla guida della

pala meccanica. Quest'ultimo, invero, stava svolgendo una manovra tipica di quel segmento

lavorativo e l'eventuale distrazione nella condotta, affermano i giudici, "non può essere

considerato come un accidente estraneo al rischio che si trattava di governare, ma afferiva

esattamente ad esso".

L'incidente, pertanto, è riconducibile primariamente al comportamento dei garanti che non

hanno ben governato il rischio loro rimesso, ossia la probabile interferenza tra pedoni e

mezzi meccanici in transito, rischio che è certamente di natura strutturale, sistemica,

afferente alla complessiva organizzazione aziendale.

Individuato nell'area di rischio il confine esterno che delimita la posizione di garanzia nelle

organizzazioni lavorative, i giudici focalizzano l'attenzione sulle specifiche figure

istituzionali che, all'interno dell'impresa, sono chiamate a governare i rischi per la sicurezza

e salute dei lavoratori.

Il sistema prevenzionistico delinea, invero, una pluralità di ruoli, di modelli di garante, a

ciascuno dei quali rimette il compito di gestire una determinata porzione di rischio e di

responsabilità.

Il D.lgs. n. 81/2008, riprendendo definizioni già collaudate nella legislazione dei primi anni

novanta, ma rispondendo anche alle sollecitazioni provenienti dalla giurisprudenza, ha

cercato di descrivere con precisione le diverse figure chiamate a gestire la questione della

sicurezza negli ambienti di lavoro.

Il ruolo centrale, ovviamente, è riconosciuto in capo al datore di lavoro, il quale si pone al

vertice, avendo "la responsabilità dell'organizzazione stessa o dell'unità produttiva in

quanto esercita i poteri decisionali e di spesa" (art. 2, lett. b, D.lgs. 81/2008).

L'attenzione prestata dalla norma al potere di spesa del datore è di fondamentale importanza.

Non a caso, da tempo, la giurisprudenza individua nella facoltà di spesa l'elemento

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imprescindibile per la corretta ricostruzione dell'assetto organizzativo dell'azienda, anche al

di là degli organigrammi ufficiali. Nelle società di capitali, poi, la figura del datore di lavoro

può essere individuata nel consiglio di amministrazione.

Accanto al datore si colloca la figura del dirigente. Si tratta di una posizione di

responsabilità intermedia che si identifica nel soggetto che "in ragione delle competenze

professionali e di poteri gerarchici e funzionali adeguati alla natura dell'incarico

conferitogli, attua le direttive del datore di lavoro organizzando l'attività lavorativa e

vigilando su di essa" (art. 2, lett. d, D.lgs. 81/2008). Al dirigente è rimesso l'onere di

organizzare in modo adeguato e sicuro le strutture e i mezzi messi a disposizione dal datore

di lavoro, a prescindere da eventuali poteri di spesa. In questi termini il dirigente non si

sostituisce al datore di lavoro, ma con questo condivide, secondo le reali incombenze, oneri

e responsabilità in materia di sicurezza del lavoro (art. 18 D.lgs. n. 81/2008).

Alla base della catena gerarchica si colloca infine il preposto, cioè quella figura dotata di

una reale supremazia su altri lavoratori, al quale la legge attribuisce l'obbligo di vigilare

sulla corretta osservanza delle misure di sicurezza predisposte dai vertici aziendali e di

riferire ad essi sulle carenze delle misure di prevenzione riscontrate nei luoghi di lavoro

(artt. 2, lett. e) e 19 D.lgs. 81/2008).

Individuati i modelli astratti delle diverse posizioni di garanzia, la sentenza sottolinea anche

la scarsa utilità di un approccio rigorosamente formalistico. Le responsabilità di ciascun

soggetto, infatti, non possono "essere sempre definite e separate con una rigida linea di

confine", ma occorre guardare alla specifica realtà aziendale, al settore di attività, alla

conformazione giuridica prescelta e alle sue dimensioni.

Bisogna pertanto affrontare il problema dell'individuazione delle responsabilità anche in

un'ottica sostanzialistica. Preoccupazione, questa, fatta propria anche dall'art. 299 del D.lgs.

n. 81/2008 a tenore del quale "le posizioni di garanzia relative ai soggetti di cui all'articolo

2, comma 1, lettere b), d) ed e), gravano altresì su colui il quale, pur sprovvisto di regolare

investitura, eserciti in concreto i poteri giuridici riferiti a ciascuno dei soggetti ivi definiti".

Proprio alla luce di questa ricognizione i giudici indicano le coordinate da seguire per

l'individuazione del soggetto responsabile, evidenziando che "occorre partire dalla

identificazione del rischio che si è concretizzato, del settore, in orizzontale, e del livello, in

verticale, in cui si colloca il soggetto che era deputato al governo del rischio stesso, in

relazione al ruolo che rivestiva".

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Accanto all'investitura originaria del soggetto responsabile, dovuta direttamente alla legge

sulla base del ruolo ricoperto nell'organizzazione, bisogna dar conto anche dell'investitura

c.d. derivata.

È questo il tema della delega di funzioni. Anche in questo caso la legislazione ha tradotto in

norma il lungo cammino fatto dalla giurisprudenza per individuare i presupposti di

legittimità, validità ed efficacia della delega. L'art. 16 del D.lgs. n. 81/2008 richiede che

quest'ultima sia certa (provata per iscritto) e specifica. E' necessario che con essa siano

conferiti tutti i poteri organizzativi, di gestione, controllo e spesa richiesti dalla natura delle

funzioni delegate e che la stessa sia rivolta ad un soggetto con professionalità, qualifiche ed

esperienza adeguati al compito.

Soprattutto prima dell'entrata in vigore del D.lgs. n. 81/2008, molto si è discusso sugli effetti

della delega e sulla sua capacità di svicolare da qualsiasi profilo di responsabilità il garante

originario.

In realtà la natura e gli effetti dell'istituto non vanno fraintesi.

Dal punto di vista giuridico, infatti, un conto è il trasferimento della titolarità delle funzioni

da cui discende l'obbligo di garanzia, altra cosa è invece la delega dell'esercizio di tali

funzioni. In altri termini il garante, ricoprendo una determinata qualifica, è investito

direttamente dalla legge di determinati poteri e obblighi di garanzia. L'autonomia privata

non può eludere tali obblighi se non rimettendo la titolarità della stessa qualifica.

Con la delega di funzioni, invece, il soggetto delegante trasferisce al delegato

l'adempimento - non la titolarità - di alcuni di questi obblighi ed i relativi poteri. Nelle

organizzazioni più complesse, nelle quali il datore di lavoro difficilmente riuscirebbe a

gestire in prima persona gli innumerevoli compiti assegnati dalla legge (spesso tecnicamente

molto complessi), invero, la delega diventa uno strumento indispensabile, spesso l'unico

modo per gestire e organizzare l'azienda.

Alla luce della reale portata e dell'effettivo significato che deve essere attribuito alla delega,

si spiega agevolmente la norma di cui all'art. 16, 3° comma, D.lgs. n. 81/2008, a tenore della

quale "La delega di funzioni non esclude l'obbligo di vigilanza in capo al datore di lavoro in

ordine al corretto espletamento da parte del delegato delle funzioni trasferite". Il datore di

lavoro può certamente utilizzare la delega per organizzare e gestire la realtà aziendale, ma si

tratta di un compito di carattere dinamico - non statico - di continuo adeguamento della

struttura e degli assetti organizzativi e che implica, pertanto, una costante vigilanza

sull'operato dei delegati.

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Evidenziati in questi termini i principi che regolano la ripartizione del rischio all'interno

dell'azienda, la Corte ne fa applicazione respingendo il ricorso del datore di lavoro in merito

all'asserita sussistenza di una delega di funzioni in capo al direttore dello stabilimento. A

quest'ultimo, infatti, come emerso dalle risultanze processuali, non era stato delegato alcun

compito in materia di sicurezza e comunque non godeva di alcun autonomo potere di spesa.

Pertanto tutte le decisioni finali in tema di organizzazione aziendale restavano di esclusiva

pertinenza del datore di lavoro.

Il caso affrontato dalla sentenza in commento ha visto condannato anche il r.s.p.p., il quale è

stato ritenuto responsabile per l'infortunio non solo nella sua veste di responsabile, ma anche

in quanto datore di lavoro di fatto, con poteri di ingerenza e di spesa nella gestione operativa

della sicurezza.

Nel valutare il ricorso presentato da questo soggetto, i giudici svolgono alcune interessanti

riflessioni di principio su tale figura.

Il servizio di prevenzione e protezione è quell'insieme di persone, sistemi e mezzi esterni o

interni all'azienda finalizzati all'attività di prevenzione e protezione dai rischi professionali

per i lavoratori (art. 2, lett. l, D.lgs. 81/2008). Il responsabile di tale servizio, a cui è rimesso

il coordinamento dello stesso, è pertanto tenuto a collaborare con il datore di lavoro

individuando e segnalando tutti i rischi connessi all'attività e proponendo le soluzioni

adeguate al loro superamento.

In giurisprudenza non è pacifico il riconoscimento di un'autonoma posizione di garanzia in

capo a questo soggetto.

Secondo l'indirizzo contrario, invero, i componenti del s.p.p. essendo dei semplici ausiliari

del datore di lavoro, non possono essere chiamati a rispondere direttamente del loro operato,

difettando di un effettivo potere decisionale. Essi sono soltanto consulenti e i risultati dei

loro studi e delle loro elaborazioni, come in qualsiasi altro settore dell'amministrazione

dell'azienda (ad esempio, in campo fiscale, tributario, giuslavoristico), vengono fatti propri

dal vertice che li ha scelti e che della loro opera si avvale per meglio ottemperare agli

obblighi di cui è esclusivo destinatario. Non a caso il D.lgs. n. 81/2008 non prevede, in capo

a questi soggetti, autonome sanzioni penali.

La sentenza in commento ritiene, invece, che anche in capo ai componenti del s.p.p. possa

sussistere una specifica posizione di garanzia, rilevato che anche questi soggetti sono

destinatari di specifici obblighi giuridici (art. 33 D.lgs. n. 81/2008). Tali obblighi integrano e

fanno pienamente parte della complessa procedura valutativa e decisionale, che culmina

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nelle scelte operative assunte dal datore in materia di sicurezza. Il contributo di questi

soggetti, pertanto, può certamente rappresentare un antecedente causale dell'evento dannoso.

Nel riconoscere la rilevanza penale della condotta del r.s.p.p. i giudici richiamano anche la

figura del lavoro di équipe, passaggio questo che merita di essere evidenziato.

Come noto, infatti, la responsabilità dell'equipe è tipica di tutti quei contesti in cui l'esercizio

di un'attività rischiosa - ma lecita - ricade su diversi soggetti. I contributi dei singoli si

legano tra di loro per il raggiungimento di uno scopo comune. Per arginare i rischi connessi

a tale attività, pertanto, non basta il rispetto delle norme cautelari relative al singolo

frammento di attività, ma è necessario che tutti i soggetti coinvolti operino diligentemente.

I principi per mezzo dei quali valutare la responsabilità dei singoli componenti dell'equipe

sono pertanto quello dell'autoresponsabilità (che impone a ciascun membro di tenere un

comportamento diligente) e dell'affidamento (che consente, in presenza di determinate

condizioni, di confidare sul corretto comportamento altrui).

L'operato del r.s.p.p. in effetti può trovare un corretto inquadramento proprio nel lavoro

d'équipe. Se questo soggetto non adempie diligentemente i propri obblighi, invero, l'intera

organizzazione ne risente, non riuscendo più ad arginare i rischi connessi all'attività. In

questi termini sul r.s.p.p. ricade una specifica posizione di garanzia.

Se sul piano astratto la Corte non dubita sulla funzione di garante svolta anche dal r.s.p.p.,

sul piano concreto i giudici annullano per vizio di motivazione la pronuncia di condanna

impugnata. Quest'ultima, infatti, non indica con chiarezza quali siano state le violazioni,

sotto forma di mancata segnalazione dei rischi o mancato stimolo per la loro rimozione, in

capo al r.s.p.p..

4. Cass. pen., Sez. IV, 18 gennaio 2012 (dep. 30 gennaio 2012), n. 3563, in

www.dirittopenalecontemporaneo.it (materiale inserito il 24. 04. 2012).

Nel commento di Tommaso Trinchera si legge che con la sentenza citata la Corte di

cassazione, pronunciandosi in un caso di infortunio intervenuto nel corso di lavori dati in

appalto, ha ribadito che, ai fini dell'attribuzione delle responsabilità penali e, in particolare,

ai fini dell'individuazione di profili di colpa nella condotta del committente, non si può

prescindere da un approfondito e specifico esame della situazione fattuale onde verificare

quale sia stata l'effettiva incidenza della condotta del committente stesso nell'eziologia

dell'evento.

La fattispecie concreta ha ad oggetto un infortunio mortale di cui è rimasto vittima un

lavoratore, precipitato dall'alto della copertura di un fabbricato, nel corso di un contratto di

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prestazione d'opera per lavori edili da eseguirsi nell'immobile di proprietà degli imputati-

committenti.

La Corte d'appello ha ritenuto che l'incidente fosse riconducibile all'omesso adempimento

degli obblighi di prevenzione in materia di sicurezza gravanti sugli imputati in qualità di

committenti, ravvisando profili di colpa concernenti la mancata verifica delle capacità

tecnico professionali del prestatore d'opera, l'omessa informazione dello stesso sui rischi

connessi alla precarietà della copertura e la mancata predisposizione di idonei parapetti atti

ad impedire la caduta dall'alto.

Prendendo le mosse dal dato normativo (l'art. 7 del d.lgs. 626/1994, oggi sostanzialmente

trasfuso nell'art. 26 del d.lgs. 81/2008), la Suprema Corte afferma che, con riferimento a

lavori svolti in esecuzione di un contratto d'appalto o di prestazione d'opera, il dovere di

sicurezza è certamente riferibile oltre che al datore di lavoro - di regola l'appaltatore,

destinatario diretto delle disposizioni antinfortunistiche - anche al committente, con

conseguente possibilità, in caso di infortunio, di intrecci di responsabilità coinvolgenti anche

il committente medesimo. Tuttavia, tale principio non può essere applicato automaticamente

perché non può esigersi dal committente un controllo pressante, continuo e capillare

sull'organizzazione e sull'andamento dei lavori, essendo invece necessaria un'attenta

disamina delle circostanze fattuali del caso concreto (d'altra parte, un indiscriminato e

generalizzato coinvolgimento della figura del committente si risolverebbe in

un'inammissibile forma di responsabilità oggettiva).

Secondo una consolidata giurisprudenza di legittimità, che trova espressione in plurime

decisioni della Suprema Corte occorre infatti all'uopo attentamente considerare:

1) la specificità dei lavori da eseguire, essendo diverso il caso in cui il committente dia in

appalto lavori relativi ad un complesso aziendale di cui sia titolare, da quello dei lavori di

ristrutturazione edilizia di un proprio immobile;

2) i criteri seguiti per la scelta dell'appaltatore o del prestatore d'opera, dovendo il

committente accertare che la persona alla quale si rivolge sia non soltanto munita dei titoli di

idoneità prescritti dalla legge, ma anche di adeguata capacità tecnica e professionale,

proporzionata sia al tipo astratto di attività commissionata sia alle concrete modalità di

espletamento della stessa.

3) l'eventuale ingerenza del committente stesso nell'esecuzione dei lavori dati in appalto

(cfr., ex multis, Cass. Sez. IV, 17 settembre 2008, n. 38824, Raso e altri, CED 241063, ove

si afferma che il contratto d'appalto determina il trasferimento dal committente

all'appaltatore della responsabilità nell'esecuzione dei lavori, salvo che lo stesso

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committente assuma una partecipazione attiva nella conduzione e realizzazione dell'opera,

nel qual caso anch'egli rimane destinatario degli obblighi assunti dall'appaltatore);

4) infine, la percepibilità agevole ed immediata da parte del committente medesimo di

eventuali situazioni di pericolo (tale principio è stato compiutamente enunciato da Cass. Sez.

IV, 14 luglio 2006, n. 30857, Sodi, CED 234828: nel caso di omissione da parte

dell'appaltatore delle misure di sicurezza prescritte, quando tale omissione sia

immediatamente percepibile - consistendo essa nella palese violazione delle norme

antinfortunistiche - il committente, che è in grado di accorgersi senza particolari indagini

dell'inadeguatezza delle misure di sicurezza, risponde anch'egli delle conseguenze

dell'infortunio eventualmente determinatosi).

Nel caso concreto - rileva la Suprema Corte - è mancato da parte del Giudice territoriale un

approfondito e specifico esame sulle circostanze fattuali rilevanti ai fini della individuazione

dei profili di colpa nella condotta del committente: in particolare, nulla è stato detto in

ordine alle capacità tecniche ed organizzative della ditta del prestatore d'opera; nè si è

indagato se vi sia stata (ed eventualmente in quali termini) ingerenza da parte del

committente nell'esecuzione dei lavori.

5. Cass. pen., Sez. IV, 6 novembre 2012, n. 47274, in www.dirittopenalecontemporaneo.it

(materiale inserito il 19. 12. 2012). Nel commento di Stefano Zirulia si legge che la Corte di

Cassazione che, in materia di sicurezza sul lavoro, ha escluso la responsabilità del garante

per difetto dell'elemento soggettivo, valorizzando l'incolpevole affidamento da egli riposto

sulla rispondenza ai parametri di legge dei macchinari acquistati presso ditte terze. La

vicenda riguardava un incidente cagionato dal malfunzionamento di un macchinario

utilizzato nel ciclo produttivo aziendale, macchinario la cui fabbricazione era stata

commissionata ad un'apposita azienda specializzata. In particolare, a seguito della caduta di

un pesante cilindro metallico dal macchinario in questione, un operaio riportava lesioni

personali guaribili in più di sessanta giorni. In relazione a tale infortunio, l'amministratore

unico della società veniva condannato dal Tribunale di Milano per lesioni colpose (art. 590

c.p.). La Corte d'Appello del capoluogo lombardo non solo confermava le statuizioni in

ordine alla responsabilità dell'imputato, ma revocava altresì il beneficio della sospensione

condizionale della pena (pari a 309 euro di multa). I giudici di legittimità - dopo aver

respinto il motivo di ricorso teso a negare la permanenza della posizione di garanzia in capo

all'imputato, osservando sul punto come l'aver attribuito al delegato il mero compito di

"coadiuvare" il datore di lavoro implicasse il mantenimento, da parte di quest'ultimo,

dell'originaria posizione di garanzia - hanno annullato con rinvio la condanna, accogliendo

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le ulteriori doglianze formulate dai difensori, imperniate sui rapporti tra regole cautelari,

principio di affidamento e colpa generica.

La pronuncia prende le mosse dal consolidato orientamento secondo cui «la titolarità di una

posizione di garanzia non comporta, in presenza del verificarsi dell'evento, un automatico

addebito di responsabilità colposa a carico del garante, imponendo il principio di

colpevolezza la verifica in concreto sia della sussistenza della violazione da parte del

garante di una regola cautelare (generica o specifica), sia della prevedibilità ed evitabilità

dell'evento dannoso che la regola cautelare violata mirava a prevenire (cosiddetta

concretizzazione del rischio), sia della sussistenza del nesso causale tra la condotta

ascrivibile al garante e l'evento dannoso».

Proprio calando questi principi nella fattispecie in esame la Quarta Sezione mette a nudo il

vizio motivazionale della condanna: la sentenza impugnata, infatti, non ha offerto alcuna

argomentazione a sostegno dell'affermazione secondo cui l'evento lesivo - ossia l'infortunio

scaturito dal malfunzionamento della macchina appaltata - sarebbe stato in concreto

prevedibile da parte dell'imputato.

Al contrario, argomenta la Cassazione, detta prevedibilità ben poteva essere esclusa nel caso

de quo, sulla scorta di una corretta applicazione delle regole in materia di principio di

affidamento.

L'azienda gestita dall'imputato, infatti, era «priva delle competenze produttive e progettuali»

in ordine al macchinario dal quale l'incidente era scaturito; per tale ragione ne aveva

appaltata la fornitura ad un'impresa specializzata, la quale lo aveva realizzato garantendone

la conformità ai requisiti imposti dalla legge. In siffatta situazione, «quell'affidamento

riposto dall'utilizzatore del macchinario [...] sul rispetto delle prescrizioni antinfortunistiche

da parte del costruttore [assume] una valenza particolarmente incisiva ai fini

dell'apprezzamento della sussistenza dell'elemento psicologico del reato».

Beninteso - chiarisce la Cassazione - «la commissione a terzi della costruzione del

macchinario non esime da responsabilità il datore di lavoro committente», il quale, «nel

caso che uno o più dispositivi di sicurezza di una macchina si rivelino in concreto

insufficienti», «è tenuto a sopperire con accorgimenti di sicurezza che rendano il

funzionamento del macchinario assolutamente sicuro per gli operai che vi lavorano». E

tuttavia - precisa il collegio - «occorre pur sempre che l'imprenditore possa rendersi

tempestivamente conto dell' insufficienza di quei dispositivi di sicurezza». In altre parole: il

principio di affidamento cessa di operare allorché si tratti di affidamento mal riposto, vale a

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dire colpevole al metro del modello di datore di lavoro garante della sicurezza dei propri

dipendenti.

Nel caso di specie - evidenzia la Cassazione - non si è affatto verificata tale evenienza. A

tale conclusione i giudici pervengono non già valorizzando la presenza di marchi di

conformità CE sul macchinario, «poichè il datore di lavoro è comunque tenuto ad accertare

la corrispondenza ai requisiti di legge dei macchinari utilizzati»; bensì osservando che

l'affidamento riposto dall'imputato nell'operato dell'azienda risultava «corroborato dalla

sperimentata pluriennale utilizzazione del macchinario», senza che mai si fosse verificato

alcun incidente. Alla luce di tali circostanze, conclude la sentenza, «non può nemmeno

escludersi la possibilità che, nonostante l'ampia serietà commerciale e la peculiare

specializzazione della ditta costruttrice - circostanze, queste ultime, che paiono idonee ad

escludere anche eventuali profili di culpa in eligendo, benchè il tema non sia specificamente

affrontato dalla sentenza - il macchinario presentasse un vizio occulto (cioè quello che

all'atto della accettazione da parte del committente non era ancora sorto o non era ancora

percepibile), manifestatosi solo successivamente, a seguito dell'usura del macchinario».

In conclusione gli ermellini fissano il seguente principio di diritto: «l'obbligo del datore di

lavoro di controllare che gli strumenti della lavorazione siano adeguati alle norme

antinfortunistiche provvedendo, se necessario, ad applicare i dispositivi di sicurezza

mancanti o ad integrare quelli già esistenti se questi si presentano In maniera evidente

insufficienti, non comporta la verifica della corrispondenza del detti strumenti alle garanzie

fomite dalla casa costruttrice, potendo l'imprenditore fare affidamento, purché non

colpevole, nei requisiti di resistenza e di idoneità indicati dalla casa costruttrice».

6. Cass. pen., Sez. IV, 7 aprile 2011, n. 22334, in Cass. pen., 2012, p. 1715, secondo la quale Il

direttore di una struttura alberghiera, in considerazione del ruolo dirigenziale ricoperto, è

titolare della posizione di garanzia avente ad oggetto l'adozione delle iniziative necessarie ai

fini dell'attuazione delle misure di sicurezza appropriate alla prevenzione di infortuni sul

lavoro, ed è tenuto ad assicurarsi che esse siano costantemente applicate.

7. Cass. pen, Sez. IV, 19 dicembre 2011, n. 46837, in Ambiente & Sicurezza, 2012, 10, p. 107,

secondo la quale “il preposto, come il datore di lavoro e il dirigente, è indubbiamente

destinatario diretto (iure proprio) delle norme anti infortunistiche, prescindendo da

un'eventuale delega di funzioni conferita dal datore di lavoro. Che si tratti di una

responsabilità diretta lo si ricava, del resto, dal disposto dell'art. 56 del D.Lgs. 9 aprile

2008 n. 81 ove sono stabilite le sanzioni per l'inosservanza della normativa precauzionale

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di cui è direttamente onerato il preposto, distinte queste da quelle previste per il datore di

lavoro dall'art. 55 dello stesso testo”.

8. Cass. pen., sez. IV, 18 marzo 2010, n. 16134, in www.dirittopenalecontemporaneo.it

(materiale inserito il 2.11.2010).

Nel commento a cura di Marta Pelazza si legge che con la pronuncia in esame la Suprema

Corte affronta il problema della configurabilità di una posizione di garanzia in capo al

responsabile del servizio di prevenzione e protezione.

La normativa di riferimento, rispetto alla pronuncia in esame, è ancora quella prevista dal

d.lgs. 626/1994, trattandosi di fatti avvenuti prima dell'entrata in vigore del T.U. in materia

di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro (d.lgs. 81/2008).

Il fatto è così riassumibile: un lavoratore, “addetto alla foratura mediante impiego di una

lancia termica ad ossigeno del bocchello di travaso del forno rotativo” in uno stabilimento

industriale, viene colpito, durante tale operazione, da schizzi di metallo fuso incandescente,

procurandosi così gravi lesioni. Nel giudizio di primo grado il responsabile del servizio di

prevenzione e protezione (c.d. R.S.P.P.: artt. 8 ss. d.lgs. 626/1994) viene ritenuto

responsabile per non aver individuato il rischio – prevedibile in questo genere di operazioni

– di contatto con schizzi di metallo fuso, e per non aver conseguentemente provveduto a

dotare i lavoratori addetti di dispositivi di protezione adeguati; viene dunque condannato per

aver colposamente contribuito a cagionare, con condotte omissive in violazione delle norme

per la prevenzione degli infortuni sul lavoro, lesioni personali gravi ad un lavoratore (artt. 40

e 589 commi 1, 2 e 3 c.p.).

Nel ricorso per cassazione si denuncia l'errore nell'individuazione di una posizione di

garanzia in capo al responsabile del servizio prevenzione e protezione, che si nega

sottolineando come questi sia “investito solo di un potere consultivo, mentre nessuna

sanzione è prevista a suo carico per il caso di inosservanza delle norme poste a tutela della

salute e della sicurezza”.

La Cassazione rigetta il ricorso, dichiarandolo infondato. La motivazione fa leva sulla

“centralità della prevenzione e della informazione nel sistema di tutela della integrità fisica e

della personalità morale dei lavoratori”, evidente nel d.lgs. 626/1994 (artt. 8 e 9) e

confermata dal d.lgs. 81/2008 (artt. 8, 9, 15 e ss., 28 e ss.): l'omissione di condotte doverose

da parte del responsabile o addetto al servizio di prevenzione e protezione – secondo la

sentenza annotata – dà luogo ad una “violazione dell'intero sistema antinfortunistico”, e ciò

“senza che abbia alcuna rilevanza il mancato apprestamento di una specifica sanzione penale

per la violazione di sistema”. In quest'ottica, ove tale omissione colposa sia individuata

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come “incidente sulla mancata adozione di adeguati presidi personali, di adeguata

informazione e in definitiva come causa concorrente nella determinazione dell'evento reato”,

per la S.C. è sicuramente configurabile nei confronti del R.S.P.P. un concorso nel reato,

aggravato altresì dalla violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro.

9. Cass. pen., Sez. IV, 17 settembre 2010, n. 43786, in Cass. pen., 2011, p. 1713.

L'affermazione del rapporto di causalità tra le violazioni delle norme antinfortunistiche

ascrivibili ai datori di lavoro e l'evento-morte (dovuta a mesotelioma pleurico) di un

lavoratore reiteratamente esposto, nel corso della sua esperienza lavorativa (esplicata in

ambito ferroviario), all'amianto, sostanza oggettivamente nociva, è condizionata

all'accertamento: (a) se presso la comunità scientifica sia sufficientemente radicata, su solide

e obiettive basi, una legge scientifica in ordine all'effetto acceleratore della protrazione

dell'esposizione dopo l'iniziazione del processo carcinogenetico; (b) in caso affermativo, se

si sia in presenza di una legge universale o solo probabilistica in senso statistico; (c) nel caso

in cui la generalizzazione esplicativa sia solo probabilistica, se l'effetto acceleratore si sia

determinato nel caso concreto, alla luce di definite e significative acquisizioni fattuali; (d)

infine, per ciò che attiene alle condotte anteriori all'iniziazione e che hanno avuto durata

inferiore all'arco di tempo compreso tra inizio dell'attività dannosa e l'iniziazione della

stessa, se, alla luce del sapere scientifico, possa essere dimostrata una sicura relazione

condizionalistica rapportata all'innesco del processo carcinogenetico.

In tema di delitti colposi contro la persona per violazione della normativa antinfortunistica

(nella specie, omicidio colposo, conseguente all'insorgere di un mesotelioma pleurico, in

danno di un lavoratore reiteratamente esposto, nel corso della sua esperienza lavorativa -

esplicata in ambito ferroviario - all'amianto, sostanza oggettivamente nociva), si è in

presenza di un comportamento soggettivamente rimproverabile a titolo di colpa quando

l'attuazione delle cautele possibili all'epoca dei fatti avrebbe significativamente abbattuto le

probabilità di contrarre la malattia. (La Corte ha evidenziato che la pericolosità

dell'esposizione all'amianto per il rischio di mesotelioma risale - con riferimento al settore

ferroviario - almeno agli anni sessanta, e che nella specie gli imputati avrebbero potuto

acquisire tali conoscenze sia direttamente, sia tramite i soggetti eventualmente delegati in

materia di igiene e sicurezza).

10. Cass. pen., Sez. IV, 21 maggio 2009, n. 28197, in Guida dir., 2009, n. 35, p. 47. In tema di

prevenzione degli infortuni sul lavoro, ciascun datore di lavoro, sia il committente che

l'appaltatore, è esclusivo responsabile della tutela dei propri dipendenti dai rischi che

coinvolgano unicamente questi ultimi, poiché la cooperazione tra committente ed

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appaltatore è imposta soltanto per eliminare i rischi comuni ai lavoratori dipendenti di

entrambe le parti.

11. Cass. pen., Sez. IV, 19 ottobre 2006, n. 41944, in CED Cass. 2006, n. 235539. In tema di

tutela della sicurezza dei lavoratori, qualora la ricerca e lo sviluppo delle conoscenze portino

alla individuazione di tecnologie più idonee a garantire la sicurezza, non è possibile

pretendere che l'imprenditore proceda ad un'immediata sostituzione delle tecniche

precedentemente adottate con quelle più recenti e innovative, dovendosi pur sempre

procedere ad una complessiva valutazione sui tempi, modalità e costi dell'innovazione,

purchè, ovviamente, i sistemi già adottati siano comunque idonei a garantire un livello

elevato di sicurezza.

Allorquando l'imprenditore disponga di più sistemi di prevenzione di eventi dannosi, è

tenuto ad adottare (salvo il caso di impossibilità) quello più idoneo a garantire un maggior

livello di sicurezza: trattasi, in vero, di principio cui non è possibile derogare soprattutto nei

casi in cui i beni da tutelare siano costituiti dalla vita e dalla integrità fisica delle persone

(una valutazione comparativa tra costi e benefici sarebbe ammissibile solo nel caso in cui i

beni da tutelare fossero esclusivamente di natura materiale). (Nella specie, relativa a disastro

ferroviario colposo, la Corte ha apprezzato come l'impresa ferroviaria non si fosse attenuta a

quest'ultimo principio, avendo utilizzato materiale rotabile inidoneo, malgrado la linea fosse

attrezzata e il materiale disponibile: in particolare, era risultato che nella composizione di un

treno era stato sostituito un locomotore privo del sistema di ripetizione dei segnali di bordo a

quello previsto nella composizione teorica, pur disponibile, che era invece dotato di tale

sistema di sicurezza).

12. Cass. pen., Sez. IV, 22 giugno 2005, n. 38840, in Guida dir., 2005, n. 1, p. 88. Nelle

amministrazioni pubbliche, sono gli organi di direzione politica che, ai sensi dell'articolo 30

del D.Lgs. 19 marzo 1996 n. 242, devono procedere (e dovevano farlo, comunque, entro

sessanta giorni dalla data di entrata in vigore di detto decreto) alla individuazione dei

soggetti cui attribuire la qualità di "datore di lavoro" ai sensi e per gli effetti dell'articolo 2,

comma primo, lettera b), del D.Lgs 19 settembre 1994 n. 626 (nelle persone del dirigente al

quale spettano i poteri di gestione, ovvero del funzionario non avente qualifica dirigenziale,

nei solo casi in cui quest'ultimo sia preposto ad un ufficio avente autonomia gestionale). La

mancata indicazione non può che avere la conseguenza che è l'organo di direzione politica a

conservare la qualità di datore di lavoro, e ciò anche ai fini dell'eventuale responsabilità per

la violazione della normativa antinfortunistica (da queste premesse, è stata confermata la

sentenza di condanna per un infortunio sul lavoro subito da un operaio del comune

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pronunciata a carico del sindaco, sul rilievo che questi doveva considerarsi "datore di

lavoro", in difetto di un'esplicita designazione del dirigente o del funzionario cui tale qualità

dovesse attribuirsi).

13. Cass. pen., Sez. IV, 9 luglio 2010, n. 42465, in Guida dir., 2011, n. 4, p. 87. È titolare di una

posizione di garanzia nei confronti del lavoratore il proprietario (committente) che affida

lavori edili in economia ad un lavoratore autonomo di non verificata professionalità, ed in

assenza di qualsiasi apprestamento di presidi anticaduta, pur a fronte di lavorazioni in quota

superiore a metri due. (La Corte ha precisato che l'unitaria tutela del diritto alla salute,

indivisibilmente operata dagli artt. 32 Cost., 2087 cod. civ. e 1, comma primo, legge n. 833

del 1978, impone l'utilizzazione dei parametri di sicurezza espressamente stabiliti per i

lavoratori subordinati nell'impresa, anche per ogni altro tipo di lavoro).

14. Trib. Ferrara, 30 aprile 2012 (dep. 04.09.2012), Giud. Mattelin, in

www.dirittopenalecontemporaneo.it (materiale inserito il 16. 09. 2012). I membri del C.d.A.

privi di deleghe esecutive e/o di specifiche competenze in materia di igiene e sicurezza sul

lavoro, non possono essere considerati penalmente responsabili delle lesioni occorse ai

lavoratori e causate - in ipotesi d'accusa - dall'esposizione ad esalazioni di cloruro di vinile

monomero (CVM). Nel caso di specie, il giudice ha assolto tutti i membri sprovvisti di

deleghe esecutive e/o di specifiche competenze in materia di igiene ambientale e sicurezza

sul lavoro del Consiglio di Amministrazione di una società chimica multinazionale

dall'accusa di aver cagionato le lesioni colpose occorse a due ex lavoratori omettendo di

adottare tutte le cautele necessarie a proteggerli dall'esposizione a CVM, non avendo per

l'appunto il p.m. dimostrato, in capo a ciascun consigliere, l'esistenza di poteri operativi

finalizzati alla determinazione e concreta realizzazione di scelte operative aziendali.

In tema di lesioni colpose derivanti da esposizioni a sostanze tossiche, nell'accertamento del

nesso causale tra l'esposizione ad una sostanza ed una determinata malattia, non può farsi

ricorso al c.d. "principio di precauzione". Infatti, il "principio di precauzione", "doveroso e

meritevole in contesto di generalizzata tutela della salute dell'uomo", appare "avulso" e

"pericoloso se inserito in contesto dal quale far derivare una pronuncia di penale

responsabilità; se da esso di volesse trarre una "legge di copertura" giuridicamente

rilevante sotto il profilo causale".

In concreto, il Tribunale ha ritenuto errate le conclusioni alla quale era pervenuta la Pubblica

Accusa invocando le risultanze epidemiologiche compendiate nella Monografia del 2007

dell'Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro - IARC -in ordine alla sussistenza di

una relazione causale tra esposizione a CVM ed epatocarcinoma, in quanto l'attività della

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IARC "appare caratterizzata da scopi essenzialmente precauzionali; ai fini che qui rilevano,

una sostanza può essere indicata come pericolosa anche in assenza di evidenze che, dal

punto di vista della scienza propriamente intesa, consentano di affermare un mero dubbio

circa la sua efficacia concreta a cagionare effetti lesivi alla salute umana. Il tutto in

conformità al c.d. 'principio di precauzione', secondo il quale appare più opportuno vietare

l'uso di una determinata sostanza forse pericolosa piuttosto che consentirne l'utilizzo in

assenza di opportune cautele in attesa che l'incertezza venga rimossa all'esito degli

accertamenti effettuati dalla comunità scientifica").

15. Trib. Pisa, 13 aprile 2011, in www.dirittopenalecontemporaneo.it (materiale inserito il

7.07.2011). Nella massima a cura di Stefano Zirulia si legge:

Il medico competente risponde della contravvenzione di omessa collaborazione nella

valutazione dei rischi aziendali (art. 58, comma 1, lett. c) del Testo Unico in materia di

tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro) allorché il documento di valutazione

di tali rischi – alla cui stesura egli è obbligato a collaborare, ai sensi dell’art. 25, comma 1,

lett. a) del T.U. – presenti incongruenze e lacune rispetto al protocollo sanitario adottato dal

medico medesimo, in particolare con riguardo all’organizzazione del primo soccorso e delle

emergenze, e alla gestione della quotidiana esposizione a fattori di rischio. Sotto il profilo

probatorio, tali incongruenze e lacune possono essere dimostrate anche attraverso il

confronto tra il documento di valutazione dei rischi aziendali, come formulato prima delle

ispezioni da parte dell’ASL, e la sua successiva versione elaborata in maniera conforme alla

normativa vigente.

16. Trib. Milano, G.I.P.. 1 marzo 2002, in Guida dir, 2002, n. 37, p. 56, in tema di “fumo

passivo”, secondo la quale rispondono di omicidio colposo, oltre che dei danni morali e

patrimoniali prodotti, il dirigente e il preposto che non abbiano evitato il decesso del

dipendente malato di asma causato, sia pure solo in parte, dal fumo emesso dalle sigarette

dei colleghi.

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Diritto penale dell’informatica e tutela della privacy.

a) Indicazioni bibliografiche.

1. Aterno, Le investigazioni informatiche e l'acquisizione della prova digitale, in

Giurisprudenza di merito, 2013, n. 4, p. 955 ss.;

2. Aterno, Le fattispecie di danneggiamento informatico, in Luparia (a cura di), Sistema penale

e criminalità informatica, Milano, 2009;

3. Aterno, In tema di abusiva diffusione di immagini attraverso internet, in Cassazione penale,

2007, n. 7/8, p. 2974 ss.;

4. Aterno, Deregulation della Cassazione in materia di privacy ?, in Cassazione penale, 2005,

n. 11;

5. Bisacci, voce Tutela penale dei dati personali, in Dig. Disc. pen., Agg. III, 2005, p. 1741 ss.;

6. De Ponti- Pecorella, Impiego dell’elaboratore sul luogo di lavoro e tutela penale della

privacy. Sulle condizioni di liceità del controllo della posta elettronica e della navigazione in

internet del lavoratore dipendente, in www.dirittopenalecontemporaneo.it ( materiale inserito

il 5. 05. 2011);

7. Flor, Phishing, identity theft e identity abuse. Le prospettive applicative del diritto penale

vigente, in Riv. it. dir. proc. pen., 2007, p. 899 ss.;

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8. Flor, Lotta alla criminalità informatica e tutela di tradizionali e nuovi diritti fondamentali

nell'era di Internet, in www.dirittopenalecontemporaneo.it ( materiale inserito il 20.

09.2012);

9. Foti, Accesso abusivo a sistema informatico o telematico. Un pericoloso reato di pericolo, in

Riv. it. dir. proc. pen., 2010, p. 456;

10. Ingrassia, Il ruolo dell’ISP nel ciberspazio: cittadino, controllore o tutore dell’ordine, in

www.dirittopenalecontemporaneo.it ( materiale inserito l’08. 11. 2012);

11. Pica, voce Reati informatici e telematici, in Dig. disc. pen., Agg. I, 2000, p. 521 ss.;

12. Rodotà, Tecnologie e diritti, Bologna, 1995;

13. Ziccardi, voce Furto d’identità, in Dig. disc. pen., Agg. VI, 2011, p. 253 ss..

b) Indicazioni giurisprudenziali:

1. Cass. pen., Sez. VI, 21 febbraio 2013, n. 9726, in www.altalex.com, secondo la quale “la

condotta di utilizzazione di notizie di ufficio che devono rimanere segrete integra il solo

reato previsto dall'art. 326, comma terzo, cod. pen. e non anche quello di trattamento illecito

di dati personali previsto dall'art. 167 D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, in quanto quest'ultimo

ha ad oggetto il più generale trattamento di dati personali in violazione delle prescrizioni del

citato D.Lgs. ed è fattispecie residuale rispetto ad illeciti più gravi per effetto della clausola

di riserva contenuta nella disposizione che lo contempla”.

2. Cass. pen., Sez. V, 5 marzo 2012, n. 8555, in Riv. pen, 2013, 3, pg. 347, secondo la quale “Il

reato di danneggiamento di dati informatici previsto dall'art. 635 bis cod. pen. deve

ritenersi integrato anche quando la manomissione ed alterazione dello stato di un computer

sono rimediabili soltanto attraverso un intervento recuperatorio postumo comunque non

reintegrativo dell'originaria configurazione dell'ambiente di lavoro. (Fattispecie in cui la

Corte ha ritenuto la sussistenza del reato in un caso in cui era stato cancellato, mediante

l'apposito comando e dunque senza determinare la definitiva rimozione dei dati, un

rilevante numero di file, poi recuperati grazie all'intervento di un tecnico informatico

specializzato)”.

3. Cass. civ., Sez. I, 24 aprile 2012, n. 14346, in Guida dir., 2012, n. 38, p. 38, secondo la

quale, in materia di protezione dei dati personali, non costituisce violazione dell'art. 134 del

d.lgs. 30 giugno 2006, n. 196 l'installazione di un impianto di videosorveglianza sul

fabbricato di un unico proprietario, occupato in parte da una terza persona (nella specie, la

nuora assegnataria di porzione dell'immobile, in quanto madre affidataria dei figli minori),

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con telecamere collocate sul cancello e sul portone d'ingresso, non potendosi assimilare la

figura dell'unico proprietario di fabbricato comprendente più unità abitative, concesse in

locazione o in comodato, al condominio, in considerazione del tenore letterale dell'art. 5,

comma 3, del d.lgs. cit. (quanto ai limiti al trattamento dei dati personali, ove destinati ad

una comunicazione sistematica o diffusa) e non essendo consentito il ricorso all'analogia in

materie in cui si dispongono restrizioni o sanzioni.

4. Cass. pen., Sez. III, 24 maggio 2012, n. 23798, in Guida dir., 2013, Dossier 6, p. 94, secondo

la quale “integra il reato di trattamento illecito di dati personali (art. 167 del D.Lgs. 30

giugno 2003, n. 196) l'indebito utilizzo di un "data-base" contenente l'elenco di utenti iscritti

ad una "newsletter" ai quali venivano inviati messaggi pubblicitari non autorizzati

provenienti da altro operatore (cosiddetto "spamming"), che traeva profitto dalla percezione

di introiti commerciali e pubblicitari, con corrispondente nocumento per l'immagine del

titolare della banca dati abusivamente consultata e per gli stessi utenti, costretti a cancellare

i messaggi di posta indesiderata, a predisporre accorgimenti per impedire ulteriori invii e a

tutelare la "privacy" dalla circolazione non autorizzata delle informazioni personali”.

5. Cass. pen., SS.UU., 7 Ottobre 2011, n. 4694, in CED Cass. pen., 2012, Rv. 251270, secondo

la quale “La fattispecie di accesso abusivo ad un sistema informatico protetto commesso dal

pubblico ufficiale o dall'incaricato di pubblico ufficio con abuso dei poteri o con violazione

dei doveri inerenti alla funzione o al servizio costituisce una circostanza aggravante del

delitto previsto dall'art. 615 ter, comma primo, cod. pen. e non un'ipotesi autonoma di

reato. Integra il delitto previsto dall'art. 615 ter cod. pen. colui che, pur essendo abilitato,

acceda o si mantenga in un sistema informatico o telematico protetto violando le condizioni

ed i limiti risultanti dal complesso delle prescrizioni impartite dal titolare del sistema per

delimitarne oggettivamente l'accesso, rimanendo invece irrilevanti, ai fini della sussistenza

del reato, gli scopi e le finalità che abbiano soggettivamente motivato l'ingresso nel

sistema”.

6. App. Milano, ud. 21 dicembre 2012, Pres. Malacarne, Est. Milanesi, in

www.dirittopenalecontemporaneo.it (materiale inserito il

4.03. 2013).

Come si legge nel commento di Alex Ingrassia con la sentenza citata la Corte di Appello di

Milano ha assolto i manager di Google per il reato di illecito trattamento di dati (art. 167

D.Lgs. 196/2003), in riforma della decisione di primo grado, sul punto ampiamente criticata

dalla dottrina, confermando, inoltre, l'insussistenza del delitto di diffamazione, realizzato da

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un utente di Google Video e contestato agli imputati in forma omissiva, mancando in capo al

provider una posizione di garanzia e poteri impedivi.

Il processo scaturiva dalla pubblicazione di un filmato sull'host Google Video che ritrae un

ragazzo disabile, umiliato da alcuni compagni all'interno di un edificio scolastico; nella

ripresa si sentono anche frasi ingiuriose nei confronti dell'associazione Vivi Down.

L'accusa era costruita in termini di omesso impedimento del reato altrui: il provider avrebbe

una posizione di garanzia di protezione sui dati eventualmente trattati dai propri uploader,

ricavabile dalle norme del codice della privacy che prescrivono l'informativa agli utenti sul

trattamento dei dati (art. 13), l'autorizzazione scritta dell'interessato e quella preventiva del

Garante per il trattamento di dati sensibili (art. 26) e, infine, l'adozione di speciali garanzie

per il trattamento dei dati sensibili (art. 17).

La decisione di prime cure aveva escluso che i manager del provider fossero gravati da una

posizione di garanzia, sostanzialmente con tre argomenti: (i) l'impossibilità di ricostruire

dalle norme individuate dall'accusa un generale obbligo di impedimento di reati commessi

dagli utenti; (ii) l'inesigibilità di un controllo preventivo di Google Video, impossibile da un

punto di vista tecnico; (iii) l'impercorribilità di un'attività di filtraggio preventivo ad opera

del provider, che verrebbe trasformato in un censore e renderebbe impossibile il

funzionamento della rete. Su tali basi il Tribunale aveva dunque assolto i manager

dall'imputazione di diffamazione perpetrata ai danni dell'associazione Vivi down.

Discorso diverso per l'illecito trattamento dei dati. Il Tribunale, pur non riconoscendo un

obbligo di verifica del provider sul contenuto dei video e, nello specifico, l'onere di

controllare che gli uploader abbiano ottenuto il consenso al trattamento dei dati personali

dagli eventuali interessati - onere di fatto inassolvibile, a fronte di migliaia di video caricati

ogni giorno, e comunque non imposto da alcuna norma -, aveva tuttavia ritenuto che

gravasse su Google «un obbligo di corretta informazione agli utenti dei conseguenti obblighi

agli stessi imposti dalla legge, del necessario rispetto degli stessi, dei rischi che si corrono

non ottemperandoli»; obbligo derivante, secondo il Tribunale, dall'art. 13 del D.Lgs.

196/2003 oltre che dal "buon senso". I manager di Google erano stati conseguentemente

condannati ex art. 167 del D.Lgs. 196/2003 per non aver avvisato gli uploader che il

trattamento di dati altrui richiede il consenso: una violazione inerente l'informativa e non il

consenso, riconducibile - nell'ottica del Tribunale - al perimetro dell'art. 13 piuttosto che

all'art. 23 del codice della privacy.

Avverso tale decisione propongono gravame sia la pubblica accusa che le difese degli

imputati.

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La richiesta di riforma del P.M. ripercorre le ragioni poste a fondamento dell'esercizio

dell'azione, sostenendo il dovere e la possibilità in concreto per i manager di Google di

impedire gli illeciti degli uploader attraverso il ricorso a filtri già disponibili all'epoca dei

fatti. Le ragioni dell'accusa sono supportate da una memoria del P.G. in cui si prospetta la

possibilità di configurare una posizione di garanzia del provider derivante dall'esercizio di

un'attività pericolosa. Inoltre, secondo l'accusa, poiché Google Video non agisce da mero

intermediario, ma sceglie quali informazioni trasmettere e secondo quali modalità, agendo

dunque come c.d. host attivo, non sarebbero applicabili al provider le limitazioni di

responsabilità previste dal D.Lgs. 70/2003, che escludono generali obblighi di sorveglianza

e di ricerca di attività illecite realizzate dagli utenti in capo ai gestori dei servizi telematici.

Le difese degli imputati con gli atti d'appello e con successive memorie contestano

preliminarmente la giurisdizione e la competenza del Tribunale di Milano, essendo i server

della società collocati negli Stati Uniti, nonché il difetto di correlazione tra l'imputazione e

la decisione in relazione all'illecito trattamento di dati, stante la difforme ricostruzione

fattuale e giuridica prospettata dal decidente rispetto a quella contenuta nel capo

d'imputazione.

Nel merito, le difese rilevano l'impossibilità di sussumere le condotte contestate nel capo

d'imputazione nell'alveo dell'art. 167 D.Lgs. 196/2003, mancando sia l'elemento oggettivo

sia quello soggettivo del reato. Segnatamente, quanto all'elemento oggettivo, rilevano che:

(i) l'interpretazione del Tribunale si risolve in una doppia analogia in malam partem, giacché

l'art. 167 D.Lgs. 196/2003 non richiama, tra le disposizioni di cui costituisce il presidio

penale, l'art. 13 e in quanto, a tutto voler concedere, tale norma non richiede l'informativa

che - secondo il decidente - Google avrebbe dovuto prestare; (ii) e che a mente della

normativa interna e comunitaria, il titolare-responsabile del trattamento è colui che decide

unitamente all'interessato le modalità e le finalità del trattamento stesso, Google Video è

responsabile esclusivamente dei dati degli uploader e solo questi ultimi dei dati contenuti

nei filmati caricati: tra tali relazioni non sussiste alcuna "proprietà transitiva" per cui Google

non assume alcuna responsabilità in relazione ai soggetti ripresi e ai loro dati personali

eventualmente trattati. In punto di elemento soggettivo tre sono le critiche mosse dagli

appellanti alla decisione del Tribunale: (i) non vi è prova alcuna che i manager imputati

conoscessero il filmato e, a fortiori, sapessero che in esso fossero trattati dati sensibili senza

consenso; (ii) il dolo specifico di profitto richiesto dall'art. 167 D.Lgs. 196/2003 è

incompatibile con il dolo eventuale ("voluta disattenzione") e con la generica finalità

lucrativa di Google Video descritti dal decidente; (iii) non essendoci alcun link pubblicitario

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collegato ai video, al momento di consumazione dell'illecito e in relazione allo specifico

servizio di condivisione, il dolo specifico di profitto resterebbe privo di fondamento fattuale.

La Corte d'Appello supera rapidamente le questioni di giurisdizione e competenza rilevando

che almeno una parte dei fatti di reato - le conseguenze dannose e il trattamento dei dati - si

sarebbe realizzata in Italia e, in particolare, a Milano, sede di Google Italy: ciò è bastevole a

fondare la giurisdizione e a radicare la competenza.

Entrando nel merito, quanto alla diffamazione nei confronti dell'Associazione Vivi Down, il

Giudice d'Appello richiama per relationem le motivazioni del Tribunale in punto di radicale

assenza di posizione di garanzia in capo al provider e di carenza di poteri impeditivi. La

Corte si premura poi di aggiungere due precisazioni, anche in risposta alle doglianze della

pubblica accusa. Segnatamente, il decidente esclude, in linea con la giurisprudenza costante

di merito e di legittimità, che si possa fondare in capo al provider una posizione di garanzia

in base agli artt. 57 e 57 bis c.p., in materia di stampa: una tale soluzione è preclusa dal

principio di tassatività. D'altro canto, anche a voler ammettere - come prospettato dal P.G. -

quale fonte dell'obbligo di impedire reati altrui in capo al provider il carattere pericoloso

dell'attività compiuta da Google Video, permarrebbe la carenza di poteri impeditivi in capo

all'host provider per cui «si finirebbe per richiedere un comportamento inesigibile e di

conseguenza non perseguibile penalmente ai sensi dell'art. 40 cpv. c.p.».

Più complesso e innovativo l'apparato argomentativo con cui la Corte d'Appello perviene

alla riforma della sentenza, in relazione all'imputazione di trattamento illecito di dati, e

all'affermazione dell'insussistenza del fatto.

Il decidente prende l'abbrivio dalla qualificazione di Google Video come host attivo, cioè

come provider che non si limita a memorizzare le informazioni degli utenti ma svolge un

attività «non neutra rispetto all'organizzazione ed alla gestione dei contenuti degli utenti,

caratterizzata anche dalla possibilità di un finanziamento economico attraverso l'inserimento

di inserzioni». Secondo la Corte d'Appello, però, da tale qualifica non si può in alcun modo

far discendere - come vorrebbe la pubblica accusa - un obbligo di predisporre un controllo

preventivo in capo al provider, impossibile sia sotto il profilo quantitativo, per la mole di

materiale caricata in rete, che qualitativo, non esistendo un filtro che verifichi

semanticamente i dati sensibili eventualmente trattati nelle riprese e la corrispondente

presenza di un consenso per tali dati. Peraltro, continua la Corte, non sarebbe nemmeno

possibile contestare in forma omissiva al provider il trattamento illecito di dati, trattandosi di

reato di mera condotta, incompatibile con la clausola di equivalenza di cui all'art. 40 cpv

c.p., che opera esclusivamente in relazione ai reati d'evento.

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La Corte sottolinea poi la mutazione genetica del fatto tipico compiuta dal giudice di primo

grado per addivenire alla condanna degli imputati: «la norma di cui all'art. 167 (...) richiede

esplicitamente che l'autore del reato abbia agito non rispettando le disposizioni [ivi] indicate.

E nessuna di queste disposizioni impone all'internet provider di rendere edotto l'utente circa

l'esistenza ed i contenuti della legge della privacy». Ad ogni buon conto, prosegue la Corte,

«l'eventuale violazione dell'art. 13, ovvero l'omessa o inidonea informativa all'interessato,

testualmente non è sanzionata dall'art. 167, bensì dall'art. 161 Legge Privacy», norma

quest'ultima che prevede solamente una sanzione amministrativa per la sua violazione.

Esclusa l'ipotesi omissiva propugnata dall'accusa e la ricostruzione giuridica prospettata dal

Tribunale, la Corte d'Appello verifica se permangano spazi per una dichiarazione di

responsabilità per illecito trattamento dei dati, ricostruendo i rapporti tra le limitazioni di

responsabilità previste dal D.Lgs. 70/2003 per i provider e la disciplina sul trattamento dei

dati di cui al D.Lgs. 196/2003. Il punto di partenza è la distinzione tra il rapporto che si

instaura tra l'host attivo e l'uploader e tra quest'ultimo e coloro i cui dati sono trattati nelle

riprese. Rileva la Corte: «la responsabilità per il trattamento dei dati è legata al mancato

adempimento di specifiche condizioni che rendono lecito l'uso di tali dati, ma tali condizioni

non possono che essere messe in capo al titolare, al "controller" dei dati medesimi. In effetti

trattare un video, acquisirlo, memorizzarlo, cancellarlo, non può significare di per sé

trattamento di dati sensibili. Esistono due distinte modalità di trattare dei dati che non

possono essere, a parere di questa Corte, considerati in modo unitario». Ma se così è, allora,

prosegue il giudice del gravame, «trattare un video non può significare trattare il singolo

dato contenuto, conferendo ad esso finalità autonome con quelle perseguite da chi quel

video realizzava. Sarà il titolare del trattamento ad avere l'obbligo di acquisire il consenso al

trattamento dei dati personali». In conclusione, secondo il decidente, Google (rectius i suoi

manager) non è in alcun modo titolare dei dati contenuti nei video che memorizza e mette a

disposizione degli utenti.

Il rapporto tra i soggetti ripresi e il provider è, dunque, disciplinato dalla normativa sul

commercio elettronico che «costituisce unitamente alla normativa sulla privacy un quadro

giuridico coerente e completo, e che non può essere letta in modo alternativo ma integrato».

L'host provider non ha alcun obbligo di vigilare sul materiale che si limita a trasmettere e

memorizzare né alcun onere di ricercare fatti o circostanze sintomatici di attività illecite (art.

17 D.Lgs. 70/2003), ma ha il dovere di rimuovere il materiale illecito su richiesta

dell'autorità o qualora abbia diretta conoscenza dell'illiceità dei contenuti memorizzati (art.

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16 D.Lgs. 70/2003): tale quadro normativo esclude, ulteriormente, la possibilità di

configurare una posizione di garanzia in capo ai providers.

Dimostrata la carenza dell'elemento oggettivo del reato nella condotta contestata, il Giudice

d'Appello continua il suo percorso argomentativo mostrando come nel caso di specie non

sussista nemmeno l'elemento soggettivo dell'illecito. Secondo la Corte non vi è, infatti,

alcuna prova che gli imputati fossero a conoscenza del filmato e del suo contenuto. Inoltre,

non convince il Giudice del gravame la ricostruzione fattuale del dolo specifico di profitto,

richiesto dall'art. 167 D.Lgs. 196/2003, che il Tribunale vorrebbe «costituito dalla palese

vocazione economica dell'azienda Google [giacché] l'attività dell'azienda nei suoi molteplici

servizi non può che essere considerata lecita e non può essere assunta a prova del dolo». Al

di là del carattere imprenditoriale di Google, elemento irrilevante per l'accertamento del dolo

specifico di profitto, non vi è altra prova a supporto della tesi accusatoria, «mancando

qualsiasi riscontro di un vantaggio direttamente conseguito dagli imputati, in conseguenza

della condotta tenuta, tanto più nell'ambito di un servizio gratuito quale era Google Video e

in assenza di link pubblicitari associati allo specifico video, oggetto del procedimento».

Infine, la Corte d'Appello censura la decisione del Tribunale ove ha ritenuto vi fosse

«compatibilità tra la forma del dolo eventuale - individuata in capo agli imputati nella

sostanza per aver serbato una "voluta disattenzione" nelle politiche societarie relative al

trattamento della privacy, al fine dell'ottenimento di buoni risultati di mercato - ed il dolo

specifico richiesto dalla norma». Il Giudice del gravame, uniformandosi alla costante

giurisprudenza di legittimità, ritiene che la finalità dell'azione (dolo specifico) non possa

strutturalmente essere sostenuta da una rappresentazione e da una volizione solo indiretta

(dolo eventuale).

La sentenza annotata – secondo il suo commentatore- costituisce un importante tassello nella

ricostruzione della disciplina giuridica del ciberspazio e nell'individuazione del ruolo che è

ivi affidato al provide. Nella vicenda Google Video si gioca, infatti, molto del futuro della

rete: non sarebbe possibile l'accesso a milioni di pagine se l'host provider dovesse

verificarne il contenuto prima di permetterne l'accesso agli utenti del web.

Per la Corte, ma il giudizio è pienamente condivisibile ad avviso del redattore del presente

commento, il governo di internet e le decisioni su quali contenuti debbano accedere alla rete

e quali debbano restarne fuori non possono essere lasciati ai provider: «demandare ad un

internet provider un dovere/potere di verifica preventiva, appare una scelta da valutare con

particolare attenzione in quanto non scevra da rischi, poiché potrebbe finire per collidere

contro forme di libera manifestazione del pensiero».

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In definitiva, la Corte d'Appello rettifica la decisione di primo grado nelle sue linee, per così

dire, di politica-criminale: anche qualora la rete fosse la «"sconfinata prateria di internet"

dove tutto è permesso e niente può essere vietato», l'host provider non può esserne lo

sceriffo;

7. Tribunale di Milano, GIP Manzi, ord. 17 aprile 2013, in www.dirittopenalecontemporaneo.it

(materiale inserito il 16. 97. 2013)

L'accesso abusivo alla pagina del profilo personale di SKYPE del coniuge, effettuato contro

la volontà dell'interessato, integra il delitto di accesso abusivo a un sistema informatico di

cui all'art. 615 ter c.p., qualunque sia stato il metodo per carpire la password e anche

nell'ipotesi in cui l'agente si sia limitato a utilizzare abusivamente la password memorizzata

automaticamente dal coniuge sul computer, mentre la successiva presa di cognizione e

produzione nel giudizio di separazione personale dei messaggi ivi registrati scambiati via

chat con altri utenti integra il delitto di violazione e sottrazione di corrispondenza di cui

all'art. 616 c.p., primo e secondo comma, non sussistendo nella specie alcuna "giusta causa"

della rivelazione della corrispondenza medesima.

8. Tribunale di Milano, Uff. GIP, decr. 1 agosto 2012, Giud. D'Arcangelo, in

www.dirittopenalecontemporaneo.it (materiale inserito il 25. 09. 2012). La condotta di chi

dal sito di un noto esponente politico invita i lettori a inviare ciascuno una mail all'indirizzo

di posta elettronica dell'avvocato di altro esponente politico avversario, cagionandogli così -

per effetto del simultaneo invio di migliaia di mail - il temporaneo blocco della casella di

posta, integra sul piano oggettivo gli estremi del delitto di danneggiamento informatico ai

sensi dell'art. 635 bis c.p. o, alternativamente, del delitto di cui all'art. 97 del Codice delle

comunicazioni informatiche, che rinvia quoad poenam allo stesso art. 635 c.p. Tale condotta

non può ritenersi scriminata dall'esercizio del diritto di critica politica ai sensi dell'art. 21

Cost, in quanto tale diritto non copre condotte che si risolvano, come nella specie, in una

violenza sulle cose, integrata dal danneggiamento dei sistemi informatici del destinatario

anche solo nella forma dell'interruzione del servizio. (Nella fattispecie, il GIP ha tuttavia

accolto l'istanza di archiviazione formulata dal p.m. in ragione dell'impossibilità di

dimostrare in giudizio, oltre ogni ragionevole dubbio, che la condotta contestata -

oggettivamente illecita - fosse altresì rimproverabile a titolo di dolo ai soggetti sottoposti a

indagine).