Corso di METODOLOGIA della PROGETTAZIONE · Nel novero delle discipline socio tecniche,...

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[Corso di METODOLOGIA della PROGETTAZIONE] Dipartimento di Progettazione e Arti Applicate A.A. 2015/2016 Titolare della Cattedra: Prof. Arch. Gaetano CATALDO 1 AUSILI DIDATTICI - COMPENDIO DELLE LEZIONI.02 IL DISEGNO È PROGETTO Si riporta qui di seguito la sintesi di un e-book sul disegno e la rappresentazione scritto da Claudio Umberto Comi, docente al Politecnico di Milano nonché titolare dei diritti d’autore della pubblicazione. Premessa Nel novero delle discipline socio tecniche, l’edilizia è intesa per la sua componente effettuale di realizzazione di un manufatto fruibile e, il disegno industriale è inteso come progettazione esecutiva di un prodotto; presuppongono da parte dei molteplici attori del processo progettuale un dominio cosciente di un linguaggio comune. Un linguaggio che per consuetudine, è di tipo iconografico. Tale considerazione deve offrire un primo spunto di riflessione a chiunque intenda affrontare in un’ottica professionale un percorso formativo finalizzato all'esplicazione di tali attività: difficilmente potrà trovare forma compiuta un’idea non adeguatamente documentata ed esplicitata per mezzo di immagini congruenti e agevolmente leggibile ai soggetti terzi che ne cureranno la realizzazione. In altre parole: qualsiasi progetto, dal momento dell’ideazione alla realizzazione, deve sottostare ad un processo di oggettivazione e verifica che nel caso degli ambiti disciplinari qui trattati non può prescindere dalla congruenza della sua rappresentazione grafica. In conseguenza di ciò appare evidente che una parte preponderante del bagaglio di conoscenze indispensabili ad una efficace attività del progettista sia, e si intersechi, con una oggettiva capacità di rappresentare attraverso i differenti modi del linguaggio grafico. In tale ottica nasce l‘idea di questo testo che è giusto precisarlo è prevalentemente concepito quale stimolo alla formazione degli studenti, per evitare che venga negato allo studente la comprensione di un “sapere” che, come ho più volte ripetuto, è in primo luogo dimostrato dal "saper fare". IL DISEGNO E ARCHITETTURA "Disegno" e "Architettura" sono due parole che immediatamente ci portano a pensare a qualcosa di pratico, o più efficacemente a: attività che danno luogo a un “risultato visibile”. Nel caso del disegno l'immagine, descrivendole o evocandole, intende rappresentare entità reali o immaginate; nel caso dell'edilizia il manufatto, conseguendo precisi requisiti tecnico funzionali, dovrebbe quanto meno assolvere lo scopo per il quale è stato realizzato. Elemento comune ad entrambi è il metodo 1 o più precisamente i metodi che nel primo caso regolano i modi con cui si realizza un immagine (metodi di rappresentazione) e nel secondo i modi con i quali si raggiunge il risultato (metodi costruttivi). 1 Il concetto di "metodo", assume in questo testo il significato di procedura per effetto della quale si consegue un risultato, mentre per “modo” si intende la singola componente operativa dei vari passaggi necessari al conseguimento dell'organicità della procedura.

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[Corso di METODOLOGIA della PROGETTAZIONE] Dipartimento di Progettazione e Arti Applicate A.A. 2015/2016

Titolare della Cattedra: Prof. Arch. Gaetano CATALDO

1

AUSILI DIDATTICI - COMPENDIO DELLE LEZIONI.02

IL DISEGNO È PROGETTO

Si riporta qui di seguito la sintesi di un e-book sul disegno e la rappresentazione scritto da Claudio

Umberto Comi, docente al Politecnico di Milano nonché titolare dei diritti d’autore della pubblicazione.

Premessa

Nel novero delle discipline socio tecniche, l’edilizia è intesa per la sua componente effettuale di realizzazione di

un manufatto fruibile e, il disegno industriale è inteso come progettazione esecutiva di un prodotto;

presuppongono da parte dei molteplici attori del processo progettuale un dominio cosciente di un linguaggio

comune. Un linguaggio che per consuetudine, è di tipo iconografico. Tale considerazione deve offrire un primo

spunto di riflessione a chiunque intenda affrontare in un’ottica professionale un percorso formativo finalizzato

all'esplicazione di tali attività: difficilmente potrà trovare forma compiuta un’idea non adeguatamente

documentata ed esplicitata per mezzo di immagini congruenti e agevolmente leggibile ai soggetti terzi che ne

cureranno la realizzazione. In altre parole: qualsiasi progetto, dal momento dell’ideazione alla realizzazione,

deve sottostare ad un processo di oggettivazione e verifica che nel caso degli ambiti disciplinari qui trattati non

può prescindere dalla congruenza della sua rappresentazione grafica.

In conseguenza di ciò appare evidente che una parte preponderante del bagaglio di conoscenze indispensabili ad

una efficace attività del progettista sia, e si intersechi, con una oggettiva capacità di rappresentare attraverso i

differenti modi del linguaggio grafico. In tale ottica nasce l‘idea di questo testo che è giusto precisarlo è

prevalentemente concepito quale stimolo alla formazione degli studenti, per evitare che venga negato allo

studente la comprensione di un “sapere” che, come ho più volte ripetuto, è in primo luogo dimostrato dal "saper

fare".

IL DISEGNO E ARCHITETTURA

"Disegno" e "Architettura" sono due parole che immediatamente ci portano a pensare a qualcosa di pratico, o più

efficacemente a: attività che danno luogo a un “risultato visibile”. Nel caso del disegno l'immagine,

descrivendole o evocandole, intende rappresentare entità reali o immaginate; nel caso dell'edilizia il manufatto,

conseguendo precisi requisiti tecnico – funzionali, dovrebbe quanto meno assolvere lo scopo per il quale è stato

realizzato.

Elemento comune ad entrambi è il metodo1 o più precisamente i metodi che nel primo caso regolano i modi con

cui si realizza un immagine (metodi di rappresentazione) e nel secondo i modi con i quali si raggiunge il risultato

(metodi costruttivi).

1 Il concetto di "metodo", assume in questo testo il significato di procedura per effetto della quale si consegue un risultato, mentre per

“modo” si intende la singola componente operativa dei vari passaggi necessari al conseguimento dell'organicità della procedura.

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Secondo termine comune ad entrambi è il dominio della tecnica2, che nel caso del disegno viene prevalentemente

intesa come "saper fare", mentre per l'edilizia, almeno in questo contesto, maggior importanza assume valore di

"sapere come è fatto", o meglio di "sapere come si fa".

Da questa breve premessa emergono quattro parole chiave che ci condurranno in tutto il lavoro. Esse sono:

Disegno ed Edilizia

Metodo e Tecnica

queste ultime due, anche se con valenze leggermente diverse, interessano entrambe le discipline.

Non è nemmeno pensabile condensare in poche pagine tutto quanto si dovrebbe, o meglio, si potrebbe dire sul

disegno, e questa considerazione varrà in seguito in eguale misura per l'edilizia. Non è altresì possibile affrontare

un tema come questo, senza alcune precisazioni fondamentali su cosa sia il disegno.

Il primo passaggio che ci permette di comprendere il taglio di questo testo e di sperimentare personalmente il

metodo maieutico ad esso sottinteso ci porta a formulare una domanda che forse solo alla fine troverà risposta:

- Cosa è un disegno?

Partendo da una delle risposte più comuni, personalmente sono portato a definire un disegno come "la

rappresentazione di una entità reale o immaginata". Già in questa definizione, si ingenera una seconda

domanda che introduce la necessità di approssimare un significato del termine "rappresentazione".

Per esperienza condivisa la rappresentazione è per propria natura strettamente interrelata al fatto di una

percezione di natura visiva. In altre parole una rappresentazione difficilmente sarà udita, toccata od annusata,

dato che solitamente la rappresentazione “si vede”.

Ora che abbiamo determinato la priorità della componente visiva nella rappresentazione, può tornare utile

identificare le diverse forme di rappresentazione a cui abitualmente l'uomo ricorre. In base a ciò avremmo una

predominanza di rappresentazioni di natura grafica o iconografica, quindi rappresentazioni prevalentemente

percepibili attraverso la visione, cosa che solitamente avviene anche per rappresentazioni del tipo teatrale od in

base ai più aggiornati mezzi di comunicazione, audio - visive o multimediali.

A questo punto, un disegno risulta quindi rappresentazione grafica di una realtà, ferma restando la priorità

percettiva, resta da determinare la congruenza della rappresentazione alla realtà rappresentata.

Dato il tema che riguarda la rappresentazione del manufatto edilizio, quale che ne sia la qualità3 , un disegno

viene realizzato al fine di documentare ed esporre le componenti morfologiche di entità reali o potenzialmente

tali, che nel nostro caso è opportuno ricordarlo sono manufatti edilizi o parti di essi.

Dato che, in linea di principio, possiamo ricondurre il disegno a due grandi ambiti: Il disegno artistico, come

genere di rappresentazione che attraverso l'emulazione della realtà così come viene percepita, mira alla sua

2 Tecnica in italiano significa: l'insieme delle regole pratiche da applicare nell'esercizio di una attività intellettuale o manuale, ed è questo

il senso in cui viene intesa e non , trattandosi di un testo di disegno, nell'accezione che è propria a tale disciplina che identifica con

"tecnica" i differenti modi di utilizzare materiali e strumenti. 3 In questo caso il termine qualità viene inteso come rispondenza ai canoni pragmatici o normativi e sottintende l’effettiva rispondenza

della rappresentazione a quanto si intende rappresentare.

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restituzione, ed il disegno tecnico, come metodo di rappresentazione che fondandosi su astrazioni di natura

geometrica consente la rappresentazione conforme e parametrabile dell'oggetto rappresentato.

Pare evidente che per quanto ci contempla soltanto il secondo metodo ha stretta attinenza con l'edilizia, non fosse

altro che per la sua specificazione terminologica e di metodo (disegno "tecnico") meglio si adatta alla

rappresentazione di un attività che come abbiamo già visto è preminentemente di natura tecnica.

IL DISEGNO TECNICO

Quello che oggi viene correntemente definito disegno tecnico per quanto possa apparire strano non ha una lunga

storia, non fosse altro che per il fatto che il suo assunto fondamentale (la rappresentazione degli oggetti

attraverso le loro proiezione su piani tra loro ortogonali o di Monge) risale nella sua forma compiuta ai primi

anni dell'8004.

Ed almeno sino al 1926 (anno di fondazione dell'Istituto Superiore di Architettura) a livello internazionale non si

avvertirà l'esigenza di unificare e regolamentare i modi della rappresentazione di natura tecnica. Oltretutto, si

deve considerare che la necessità di standardizzazione interessa in un primo tempo esclusivamente il settore della

meccanica e quindi tutte le prime norme (in Italia con l'A.M.I.M.A.,) riguardavano prevalentemente tale

comparto produttivo.

Di contro l'edilizia come attività tecnica fonda le proprie regole e la propria storia con la storia dell'umanità,

sorge quindi legittimo un dubbio, come veniva rappresentato il manufatto edilizio prima dell'800?

Non è certo questa la sede per un attenta disanima dei modi del rappresentare l'architettura nella storia,

certamente anche prima di tale data la costruzione veniva concepita come organizzazione planimetrica degli

spazi, (rappresentazione in pianta) ed attraverso la sua conformazione morfologica (privilegiando in genere il

fronte più significativo); lasciando poi spazio alla sua restituzione percettiva (rappresentazioni prospettiche) ed a

numerosi schizzi o disegni di approfondimento sia in merito alla componente estetica (gli ornamenti, da cui

deriva la cultura del "disegno di ornato" disciplina strettamente connessa alla nascita delle scuole di

architettura), che tecnico-costruttivo (schizzi e disegni destinati all'approfondimento di particolari e della loro

realizzazione ).

Come abbiamo visto, in sostanza il disegno di edilizia sin dall’antichità si prefigge di definire in sede

previsionale (progetto) o a scopo di documentazione (rilievo) le componenti essenziali del manufatto edile, la

loro conformazione ed i rapporti logico-dimensionali che le legano.

Tornando quindi al disegno tecnico, il disegno edile altro non è che una specificazione del disegno tecnico,

occorre comunque precisare che proprio per una forte predominanza della cultura di matrice ingegneristica

almeno sino alla metà del secolo, ben poche norme tecniche interessavano il mondo dell'edilizia. Un mondo

4 Gaspar Monge matematico francese nato a Beaunne nel 1746 e morto a Parigi nel 1818 già professore alla scuola Militare di Mezières e

poi alla Scuola Normale nonché alla Scuola Politecnica di Parigi viene universalmente riconosciuto quale padre della geometria

descrittiva, ovvero di quel metodo da cui discendo le cosiddette proiezioni ortogonali.

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che perpetrando un radicato bagaglio di competenze tecnico-pratiche, anche nella sua componente documentale

(disegno di progetto o di rilievo), si fondava su metodi pratici e tecniche ricorrenti (prassi).

Prima di passare oltre devo spendere almeno ancora due parole sulla “prassi nel disegno”.

Il disegno in fondo è qualcosa di molto simile alla scrittura, impone la conoscenza di un adeguato patrimonio di

segni (nel caso della scrittura l'alfabeto); delle regole per effetto delle quali la combinazioni di tali segni assume

senso compiuto (ovvero l'organizzazione da cui derivano le parole); ed un ulteriore sistema di regole (la

grammatica) per cui le parole abbiano tra loro una relazione compiuta .

Specialmente nel caso del disegno tecnico i segni hanno un preciso significato (codice semantico), la loro

combinazione definisce un sistema semantico (linguaggio), la comunicazione avviene a condizione che tutti i

segni nel rispetto del sistema semantico (all'atto pratico l'intero disegno) rispondano a ben definite regole; ciò

verifica la supposta similitudine con la scrittura.

Un secondo aspetto interessa la componente tecnica del disegno. Il disegno mutua la propria esistenza da due

soli elementi: il “supporto" (in genere bidimensionale e piano) ed uno o al più, alcuni “strumenti”, atti a

tracciare segni grafici.

A differenza dell'edilizia che sin dalla sua origine nella sua specificità "materiale" impone l'utilizzo e quindi la

perizia nell'uso di molteplici e diversificati strumenti, come ho detto, il disegno usa nella generalità dei casi, in

prevalenza un solo strumento (tracciante) che, relazionandosi al supporto, determina l'insieme di segni che

costituiscono il disegno vero e proprio.

In questa apparente semplicità, si insinua l'intrinseca complessità del disegnare che trascendendo l'abilità tecnica

trova naturale compimento e sublimazione nella perfetta rispondenza tra conoscenza teorica delle regole (in

genere riferibili alla prassi o alle teorie geometriche), abilità tecnica nell'uso degli strumenti e metodo, inteso

come struttura logica della procedura da cui l’elaborato grafico si origina.

IL DISEGNO ARCHITETTONICO

Dovendo affrontare un tema quale quello del disegno architettonico, forse può aiutare una definizione:

"rappresentazione destinata alla definizione morfologica e dimensionale di un manufatto o parte costitutiva

dello stesso".

Nei fatti il disegno edile è uno specifico settore del disegno tecnico e tre aspetti fondamentali lo caratterizzano:

- il genere di rappresentazione;

- la scala metrica di rappresentazione;

- l’utilizzo di codici semantici noti (normalizzati o di prassi).

Un quarto aspetto interessa il “fare edilizia”, ovvero le opportunità tecniche e le soluzioni tecnologiche che

consentono la realizzazione del manufatto del quale con il disegno si intende dare rappresentazione; quindi prima

d’ogni altra cosa introdurrò questo argomento.

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Questa illustrazione, di Sergio Toppi, mette in evidenza le potenzialità espressive del segno grafico nel disegno artistico.

Nella seconda immagine tratta da un manuale di disegno tecnico, si evidenzia un differente uso del segno a cui corrisponde

un codice con precisi significati.

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Il fare edilizia, che nella sua forma più elementare e concreta altro non è che edificare, (in altre parole “costruire

un manufatto atto al ricovero di cose e/o persone”) impone al progettista un processo euristico di concezione e

verifica dell’idea di spazio in rapporto ai caratteri ed alla materialità del manufatto.

Questo processo che nel suo insieme si è soliti definire "progetto", trova generalmente manifestazione sotto

forma di elaborati grafici, ed altro non potrebbe essere, perché documentare con parole o in forma scritta una

sequenza di elementi con precise caratteristiche, conformazioni, dimensionamenti e relazioni, oltre che molto

difficile e obiettivamente poco proficuo.

Dovendo quindi considerare la rappresentazione grafica come un efficace metodo di comunicazione, pare

evidente che, difficilmente una rappresentazione seppure suggestiva di realtà sconosciute o immaginarie dia

luogo ad una comunicazione oggettivamente efficace.

Ora, pur concedendo che un’architettura possa essere ricca di “suggestione”, sicuramente il percorso da cui si

origina: solitamente fatto di “polvere e sudore” ben poco concede alla suggestione, in quanto come ogni attività

umana è fatto eminentemente di natura tecnica.

Ancor di più viene da dire che la suggestione che un architettura può offrire, nasce in via prioritaria se non

esclusiva dalla capacità del progettista di prevedere in fase di progetto, e controllare in fase esecutiva, tutti gli

elementi ed i fattori che interagendo tra loro e con lo spazio costituiscono l’insieme edilizio.

Anticipando il tema della conoscenza l’ho strettamente interrelato alla rappresentazione e quindi giunto il

momento di precisare i termini fondativi di tale relazione in specie biunivoca:

conoscere per rappresentare

e di riflesso:

rappresentare per conoscere

Il concetto di conoscenza in edilizia si deve necessariamente estendere al dominio cognitivo più accurato ed

approfondito possibile di tutto quanto entra in gioco nella realizzazione del manufatto.

Dovendo il progettista determinare la forma, ed investendo quindi tempo, competenze ed impegno in tale

“progettualità”, per così dire di natura “estetica”, difficilmente il risultato sarà conseguente quando, in difetto

della conoscenza delle effettive possibilità tecnico-logiche di realizzazione, la forma risulterà inevitabilmente

compromessa dalla materiale impossibilità ad essere realizzata così come era stata concepita.

Uno dei momenti peggiori per un progettista consiste proprio nel pensare, disegnare, convincere il committente

dell’importanza di alcune scelte, che poi lui per primo dovrà sconfessare perché nella realtà dei fatti si

dimostrano impossibili da realizzare.

Ed è quindi giusto precisare che prima di assumere il ruolo di opera d’arte, un architettura deve quantomeno

assurgere alla meno nobile, ma sicuramente più utile, soglia di fruibilità pratica.

Si diceva della conoscenza e la divagazione riporta proprio alla conoscenza da cui discende la rappresentabilità.

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Per “fare edilizia” la massa di informazioni non è poi nemmeno eccessiva, è ciò e in parte dimostrato dal fatto

che ancor oggi si costruisca molto senza ricorrere a tecnici laureati.

In quasi tutti i casi un geoemtra basta ed avanza per le autorizzazioni, poi il capomastro, formato alla scuola

dell’esperienza, fa il resto.

Il problema e, proprio di problema si deve parlare, sta nel fatto che l’architetto conoscendo quanto meno questa

massa di nozioni elementari del costruire, dovrebbe saperle armonizzare e trasfondere con la propria cultura

affinché il manufatto edilizio diventi un’architettura.

Di contro, sempre più spesso, si assiste al caso in cui l’architetto, non conoscendo proprio le basi della più

elementare edificabilità, esprima e manifesti la propria cultura in forme solitamente gradevoli, magari

suggestive, forme che però all’atto pratico si dimostrano improbabili se non come spesso accade, irrealizzabili.

A questo punto spero di aver inquadrato cosa intendo per conoscenza e non essendo questa la sede per

approfondire nel dettaglio tutti gli aspetti tecnico costruttivi inerenti l’edilizia, che maturerete nel corso degli

studi in altre discipline e dovendo necessariamente rapportare la rappresentazione grafica (il disegno) a problemi

reali alcuni aspetti anche della costruzione verranno in seguito affrontati sicuramente in modo sommario, ma

comunque affrontati.

Da queste riflessioni spero emerga con sufficiente chiarezza il senso del primo binomio:

Conoscere per rappresentare

il quale può in sintesi essere emblematicamente espresso da questo esempio:

Di norma ogni edificio ha un tetto. Più propriamente il tetto si identifica quale sistema o “pacchetto”di copertura,

in quanto in un “tetto” coesistono e si integrano più elementi: le orditure primaria e secondaria, l’orditura di

appoggio del manto, il manto stesso e a seconda dei casi differenti strati isolanti ed altri vari elementi a corredo.

Già nei termini vi è una differenza, se il tetto può essere confuso con il “tappo” della casa, un sistema di

copertura già nel nome fa pensare a qualcosa di più complesso; quindi passando al disegno, se un “tetto”

potrebbe (ma non può!) essere idealmente rappresentato da una o due linee; pensando al sistema di copertura e a

tutto quanto lo compone chiaramente due linee non bastano più anche perché tra orditure, manti e strati vari un

sistema di copertura nel migliore dei casi presenta uno spessore di circa 35/40 cm che in scala 1: 100 sono quasi

mezzo centimetro, mentre già “al 50” diventano un centimetro in cui se non indico almeno in modo schematico

gli elementi che lo compongono avrò uno spazio inesorabilmente vuoto che oltre a non dire niente è pure brutto.

Chiaramente non conoscendo come è fatto un sistema di copertura e cosa lo costituisce difficilmente saprò

quanto possa misurare e quindi diventeranno due tre linee tirate a casaccio.

Per passare quindi al secondo binomio:

Rappresentare per conoscere

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Il concetto di rappresentare per conoscere, inquadra, proprio il senso profondo della progettualità, che al

contrario di quanto si potrebbe credere non è mera enunciazione di principio, ma costante ricerca delle

opportunità di conseguire un determinato risultato.

Ogni progettista che voglia considerarsi tale è tenuto in primo luogo a sviluppare un processo critico delle

proprie intuizioni, un processo che solitamente attraverso il disegno si struttura nel rispetto del metodo

scientifico tra enunciazione di un ipotesi (tesi) e verifica (in questo caso grafica) dell'effettiva possibilità di

realizzare quanto ipotizzato (sintesi).

Un esempio classico di questo modo di concepire la rappresentazione grafica sono proprio gli schizzi di progetto,

dove ogni architetto ricerca, confrontando le forme e le idee sulla carta, un giusto equilibrio tra idea di

architettura e sua effettiva conformazione.

Dallo schizzo, in cui ciascuno esprime più che in ogni altra manifestazione grafica la propria natura più profonda

ed in certo senso il proprio grado di dominio del fare architettura, emerge l’idea e già, almeno chi lo elabora

“vede” come sarà, l’articolazione degli spazi, le relazioni formali e cosa fondamentale anche se spesso

impercettibile la possibilità di realizzare in base al personale bagaglio di conoscenze il manufatto stesso così

come concepito.

Per quanto possa essere liberamente redatto uno schizzo altro non è che il canovaccio su cui i progettista intende

sviluppare il proprio progetto e non è un caso che in molti schizzi di progetto ad una rappresentazione magari di

straordinaria sinteticità e schematizzazione dell’architettura si affianchino uno o più disegni dei particolari

formali o costruttivi che andranno a caratterizzare quel determinato edificio o manufatto.

IL DISEGNO COME METODO

Il manufatto architettonico, quale che siano i paradigmi progettuali da cui trae origine e le tecnologie con cui si

intende dare corso alla parte effettuale (costruzione) impone una adeguata congruenza tra forma (morphos) e

fattibilità tecnica (teknè).

In tale rapporto, necessariamente di natura dialogica, ad un idea della forma deve corrispondere un processo

(tecnologia) di trasformazione dei materiali per effetto del quale l’idea prendendo forma, si materializzi.

Al contrario di quanto si potrebbe pensare, ogni elemento (prefabbricato o realizzato in opera) che concorre alla

realizzazione del manufatto in modo manifesto o indotto, interagisce con la configurazione formale dell’insieme

e tale aspetto impone una profonda e cosciente cognizione atta al governo di tali interazioni.

In un certo senso sarei portato a dire che per quanto si possa credere come nel caso di alcuni sistemi di

prefabbricazione, il risultato sia diretta conseguenza della forma del componente , anche in questo caso solo la

corretta comprensione e gestione dello stesso in relazione al sistema edilizio da luogo a quel plus che differenzia

l’edilizia dall’architettura.

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Schizzi di O. M. Ungers per il progetto del grattacielo della Fiera di Francoforte (da Casabella 591 – marzo 1985)

In seguito si affronterà il tema della interdipendenza insita nel processo progettuale; un processo in cui problema,

progetto e prodotto nella loro comune accezione di anteriorità ad una corretta lettura epistemologica negano la

consuetudine di porli in termini consequenziali.

Ora, sia che si condivida la coincidenza di tali fasi generative di un manufatto o che si propenda per una loro

consequenzialità, resta il fatto che etimologicamente e fattualmente il progetto anticipa il manufatto (prodotto) o

così almeno pare.

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Senza addentrarmi in complesse e quanto mai astratte speculazioni su di una generalizzata necessità di

coincidenza tra progetto e prodotto, credo si possa conseguire un ragionevole consenso sul dato di fatto che il

progetto è strettamente funzionale alla realizzazione del prodotto.

Una condizione questa che non può essere assolutamente elusa, nel caso di manufatti, come quelli edili, per i

quali tra ideazione e realizzazione si debba ingenerare un rapporto dialogico e quanto più possibile univoco tra

progettista e maestranze, ovvero chi materialmente realizza l’opera.

Nella mente del progettista, esiste un idea di edificio che esprime ed appaga la sua identità umana e culturale la

quale, per quanto possa essere condizionata dalla volontà e dalle esigenze espresse dal committente, lotta

costantemente con la componente effettuale della costruzione, un atto, la costruzione, nella maggior parte dei

casi unico ed irrevocabile.

Per essere più chiari su questo punto: mentre un progetto può essere costantemente riconsiderato, modificato,

rivisto o addirittura “rifatto”, quando da questo si passa alla realizzazione, sia per ragioni pratiche che

economiche, il progetto si cristallizza per dare vita alla sua realizzazione materiale: la costruzione.

Sempre più spesso, si parla e cosa ancor più drammatica si vive una crisi dell’architettura, come se tale disciplina

in quest’ultimo scorcio di secolo abbia smarrito la consapevolezza del proprio ruolo nello scenario culturale e

sociale, probabilmente questa crisi comune a molte altre discipline di matrice umanistica, si origina in un preciso

momento storico in cui si rompe il sottilissimo filo tra progetto e prodotto.

A mio parere, l’unico requisito irrinunciabile per un architetto è una “curiosità intelligente”, ovvero quella

costante capacità di guardare e leggere dentro le cose e di trarre da tale lettura un numero di informazioni

adeguato a comprendere ed organizzare tale massa di conoscenze.

Una curiosità intelligente che ancor prima che nelle parole, trova riscontro proprio nei grafi che diventano il

linguaggio privilegiato di tale esercizio di lettura ed interpretazione.

IL PROGETTO COME DISEGNO

Parlando di architettura, il progetto, quale che sia il suo grado di affinamento, trova nella generalità dei casi una

manifestazione di natura iconografica. Molteplici ragioni determinano tale stato di cose: Il manufatto

architettonico occupa e campisce lo spazio fisico, un entità immateriale che per abitudine e convenzione si è

soliti rappresentare attraverso entità geometriche.

La geometria nel suo istinto speculativo delle caratteristiche spaziali, sin dalle sue origini usa del disegno per

verifiche immediate e riprove ai postulati teorici, ne consegue quindi una diretta ed ormai consolidata abitudine a

coniugare spazio e segni grafici che lo identificano.

L’architettura quale disciplina finalizzata alla generazione di spazi a vario titolo conformati, usa del metodo

geometrico proprio per effetto di quella costante necessità di relazione tra idea (progetto) e “fattualità”

(manufatto).

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Da ultimo è necessario osservare che proprio il disegno nel suo senso più ampio, caratterizza e qualifica un fatto

architettonico, dato che come ho già avuto modo di dire, la sottile differenza tra edilizia ed architettura consiste

proprio nella messa a sistema di tutti gli elementi che ad essa concorrono e, trattandosi di elementi (entità

fisiche) con precise connotazioni geometrico-spaziali, si impone una preventiva verifica (solitamente grafica) dei

loro rapporti relazionali.

Per comprendere a fondo i modi con cui intendo trattare il tema, è indispensabile che ognuno di voi sappia

rinunciare almeno per un po' a quella apparente sicurezza che ci deriva dalla somma di conoscenze ed esperienze

che caratterizzano il cosiddetto: "sapere".

Ho deliberatamente scelto il termine "sapere" e non "cultura", dato che a mio parere con il primo è possibile

identificare l’insieme di conoscenze sublimate dall'esperienza, mentre la cultura intesa quale memeoria di

molteplici "saperi" in cui non sempre la componente sperimentale assume valenza preponderante, diviene a mio

parere sinonimo di meccanica acquisizione della nozione, In relazione a questa premessa può risultare oltremodo

significativo un breve passo tratto da " Del sentire" di Mario Perniola5:

Ai nostri nonni gli oggetti, le persone, gli avvenimenti si presentavano ancora come qualcosa da sentire, di

cui avevano un esperienza interiore, di cui si rallegravano o si dolevano, a cui partecipavano

sensorialmente, emotivamente, spiritualmente, oppure al contrario che nemmeno avvertivano o che si

rifiutavano di avvertire.

A noi invece gli oggetti, le persone e gli avvenimenti si presentano come qualcosa di già sentito, che viene ad

occuparci con una tonalità sensoriale emotiva, spirituale già determinata. Il discrimine non sta affatto tra la

partecipazione emotiva e l'indifferenza , bensì tra ciò che è da sentire e ciò che ho già sentito.

In tale lavoro, l'autore riprende in parte il tema del "simulacro", un tema, già affrontato in precedenti scritti ove

la manifestazione percettibile di un entità od un fenomeno manifestandosi svuotato della sua vera essenza,

diviene feticcio della realtà, ovvero archetipo.

Il fulcro del lavoro di Mario Perniola consiste proprio nell'approfondimento delle dicotomie estetiche della

cultura contemporanea e ciò mi consente di approssimare il tema specifico di queste mie riflessioni, che è

opportuno ricordarlo interessano la rappresentazione grafica nella sua accezione più elementare: il disegno.

I MEZZI PER IL DISEGNO

Il disegno, quale attività umana finalizzata a seconda dei casi alla rappresentazione documentale od evocativa,

risente nelle differenti epoche storiche di un dualismo dialogico tra "artefice" (l'autore) ed il contesto sociale in

cui trova manifestazione.

In relazione a tale rapporto potrebbe essere interessante ripercorre in chiave critica la storia del disegno per

accorgersi, magari, che gli apparenti casi di omologazione ai cosiddetti “canoni”, più che conseguenza di una

5 MARIO PERNIOLA, Del sentire, Einaudi Torino 1991, p. 4.

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deliberata scelta espressiva dell'artefice è conseguenza dei "saperi" (tecniche e strumenti) sino ad allora

sperimentati e quindi noti agli artefici e, tale atteggiamento esegetico, proprio della cultura materiale, diviene

nella contemporaneità un valido strumento di interpretazione delle radicali trasformazioni intercorse in ambito

iconografico nel recente passato e con l’avvento delle tecnologie informatiche di generazione dell’immagine nel

presente.

A dimostrazione di ciò nell'illustrazione qui sotto vediamo il parco di strumenti per il disegno in uso sino ai

primi del '700. Da ciò appare evidente che il disegnatore per larga parte della storia si sia avvalso di pochissimi

strumenti e con essi in alcuni casi sia giunto a risultati di ottima fattura ed alta intelligibilità.

Solo con la rivoluzione industriale si è determinato un nuovo approccio allo strumento, generando una

partenogenesi di oggetti che altro non sono nella maggior parte dei casi, simulacri dei "traccianti" originari e

tutto ciò probabilmente sino all'era del CAD, ha caratterizzato il disegno del '900; un epoca in cui, per effetto di

un modo di "fare scuola", l'artefice apprendeva in primo luogo "un metodo" grazie al quale, avvalendosi di

pochissimi strumenti, poteva giungere all'apice espressivo.

Come dirò in seguito, tale sapere, proprio perché progressivamente cristallizzato in un modello culturale in cui

pare che la componente riproduttiva obnubili la componente produttiva, rischia alle soglie del nuovo millennio

se non di dissolversi, quantomeno di subire una mutazione irreversibile, sempre che ciò non sia già avvenuto.

Prima di addentrarmi nelle categorie ordinatrici dell'attività grafica intesa quale "disegno" s'impone un ultima

precisazione.

Jean-Jacques Lequeu, Gli strumenti del disegnare

La cultura contemporanea, al pari di molte manifestazioni espressive, ha in un certo qual senso scisso il disegno

in due parti: da un lato la pratica, quale fatto esclusivamente tecnico e quindi azione di natura meccanica fondata

su di un modello, dall'altro il concetto o contenuto che per effetto della sua apparente predominanza si

cristallizza, nella generalità dei casi, in asettiche enunciazioni puramente teoriche.

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In relazione a ciò deve essere detto che tale distinguo ai fini della riproduzione di un sapere può risultare

legittimo solo a condizione che chi vi si accinga e lo opera disponga e domini l'insieme del "saper fare" che

costituiscono il disegno: tecnica e teorie ad esso sottintese, in caso contrario la predominanza di una componente

sull'altra svuoterà la disciplina della sua identità essenziale: il dualismo tra ars e tecknè.

MODELLI DI RIPRODUZIONE "DEL SAPERE"

Allo stato attuale il meccanismo di riproduzione dei "saperi", così come le culture da cui traggono origine,

sembra risentire di una eccessiva frammentazione. Dato che tale frammentazione troppo spesso viene proposta

come approfondimento specialistico della disciplina da cui si origina, si assiste alla scomposizione quell'insieme

di caratteristiche costitutive del sapere originario che ne configurano l'insieme e che lo rendono effettivamente

fruibile.

D'altro canto un approccio frammentario al sapere pervade e conforma anche i meccanismi di comunicazione ad

esso sottintesi e ciò disarticola un pensiero in origine organico intaccandone inoltre anche la congruenza a livello

di linguaggio.

Non a caso, proprio nella cultura dell'immagine che molto ha da condividere con la rappresentazione grafica, si

assiste ad un una specie di babele dei linguaggi, in cui linguaggio fotografico o multimediale, logiche più o meno

corrette delle geometrie descrittive e della pura e semplice attività grafica si fondo e si confondono sino al punto

di originare una specie di invisibile barriera che genera l'incomunicabilità.

Purtroppo si deve inoltre constatare come anche il disegno, la manifestazione compiuta della rappresentazione

grafica, stia vivendo una fase di profonda crisi nella quale si assiste alla scissione delle sue due componenti

fondamentali l'apparato teorico (in genere enunciato e non esplicitato) e la pratica che solo apparentemente pare

essere manifesta e possibilmente emulabile.

Per effetto di ciò ogni persona senziente dovrebbe chiedersi per quale ragione un sapere quale è il disegno, che

fonda la propria ragione d'essere sulla applicazione pratica di assunti teorici, nella maggior parte delle proposte

formative si trovi ad anteporre l'enunciazione della teoria alla sperimentazione pratica.

Un secondo aspetto mette in luce una ulteriore dicotomia: se da un lato la disciplina della rappresentazione

grafica e frutto di prassi a cui consegue la comprensione delle regole, possono oggi nel processo di riproduzione

(formazione) le regole anteporsi la prassi?

Personalmente sono portato a pensare che ciò non sia possibile e proprio per tale ragione ritengo che lo strappo

al filo di cui dicevo in precedenza sia da ricercare nel momento in cui il disegno rinunciando al suo ruolo di

terreno d'incontro cominciò a costituirsi un proprio spazio delimitato da confini.

il disegno quale capacità di “saper fare”

Per giungere ad una delimitazione del campo di approfondimento di queste pagine, che si propongono

esclusivamente come traccia per una più approfondita riflessione critica sul tema affrontato: la rappresentazione

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grafica. Anche in forza del contesto in cui queste parole hanno origine e vengono spese (una Facoltà di

Architettura) e dell'ultima considerazione in relazione alla priorità metodologica che tale attività presenta, pare

opportuno scomporre i termini della questione ed in ragione di ciò avremmo la seguente trilogia:

DISEGNO come cultura

come metodo

come tecnica.

Disegno come "patrimonio culturale"

in questo ambito d'analisi il termine cultura associa i concetti di:

"genere e grado del sapere"

Genere inteso come: classificazione e catalogazione dei differenti saperi

mentre per quanto concerne il

Grado avremo: la quantità e la qualità di informazioni inerenti ogni determinato sapere

Disegno come "metodo"

Assumendo il disegno quale processo “mediativo” che sovrintende alla trasformazione della conoscenza in

documento ne consegue un'intrinseca componente metodologica e poco incide in quale misura tale metodo risulti

indotto o autoctono.

In relazione al metodo, che come già detto può essere considerato l'asse portante del "rappresentare", è

opportuno precisare che chi scrive rifugge l'idea di considerare il metodo come "regola".

Al più, come unanimemente riconosciuto nella comunità scientifica, il metodo anche in questo ambito assume il

ruolo di ordinatore della processualità sperimentale, a condizione che il processo in questione sia configurato in

modo tale che si possa procedere alla ripetizione del percorso sperimentale.

Disegno come "tecnica"

Senza voler ricondurre il disegno ad un processo di stretta natura meccanicistica atto alla genesi di immagini,

pare innegabile assumere quale fondamento di tale disciplina quella componente tecnica, e non teorica come si

potrebbe essere portati a pensare, che la contraddistingue.

Ciò anche in ragione del fatto che la sussistenza di un semplice enunciato metodologico, se in chiave di rilettura

critica potrebbe essere assunto a valore di rappresentazione, difettando della componente fattiva vanifica il ruolo

preminente della rappresentazione stessa che è opportuno ricordare non si materializza nella sfera metafisica

della teoria, trovando ragione e legittimazione esclusivamente nell'intelligibilità diffusa del documento.

Premessa l'enunciazione dei concetti identificati con queste tre categorie, si impone la precisazione dei termini

fondativi dell'attività didattica.

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"L'insegnare", inteso quale modello riproduttivo di un sapere, che in questo specifico caso presenta una forte

connotazione di "saper fare", risente in misura sensibile di contaminazioni di natura culturale.

Avremmo quindi, date le precedenti specificazioni, nel caso dell'insegnare a disegnare la necessità di una

trasmissione contestuale di un sapere mediato da un metodo che diviene tecnica.

DEFINIZIONE DEL TERMINE DISEGNO

Il termine "Disegno", nell’accezione corrente del termine, definisce il contenuto concettuale delle molteplici

attività riconducibili alla rappresentazione di natura grafica ed al tempo stesso la realtà oggettuale dei prodotti

conseguenti a tali attività.

Quale sinonimo di un significato del termine "disegno" la lingua italiana ammette "elaborato grafico", ed in

questa specifica definizione traspare la concezione che vede il disegno frutto materiale di una elaborazione a cui

sovrintende un attività di natura mentale.

Tale generalizzazione, propria della lingua italiana, impone un maggior grado di approfondimento in relazione

alla corretta interpretazione di tale termine che costituisce lo specifico tema trattato in questo lavoro.

Nella sua ambivalenza il termine “disegno” identifica quindi quell’insieme di strumenti, metodi e tecniche che

congiuntamente ad una perizia conseguente all’esperienza, danno luogo ad un documento, in genere

bidimensionale e piano, in cui con differenti mezzi viene rappresentato un fenomeno immaginato o esperito.

Pertanto, in questo breve paragrafo che intende esclusivamente proporsi come spunto di riflessione ed

introduzione al lavoro conseguente, prendendo le mosse da tale enunciato si cercherà di esplorare come nella

cultura italiana il disegno abbia, vivendo di alterne fortune, rivestito un ruolo ambivalente che lo colloca sia tra

le cosiddette “arti maggiori” ed al contempo lo relega a mero mezzo strumentale di altre attività a torto o ragione

ritenute di maggior peso ed importanza.

Pur affermando una valenza centrale dell’attività grafica nel processo di riproduzione culturale e non solo in

esso, dato che il disegno prima che applicazione di metodi, come si tenterà di dimostrare con alcuni esempi è

esso stesso metodo, deve essere precisato che l'attività del disegnare, non contempla una concezione

esclusivamente artistica, il disegno nel corso della storia, ha assunto a seconda dei tempi e delle concezioni

filosofiche e sociali, scopi diversi: dalla attività proiettiva, anche in senso psicologico dei Graffiti di Altamira,

alla evocazione simbolico figurativa di alcune immagini realizzate a fini pubblicitari.

I GENERI DEL DISEGNO

Per raffigurare graficamente é necessario un supporto e uno o più strumenti. Tali fattori incidono sul disegno

stesso e vengono determinati in funzione della destinazione (scopo) del disegno.

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Le destinazioni di un elaborato grafico, per quanto molteplici possono essere ricondotte a tre grandi categorie:

- 1) Studi preparatori o di progetto.

- 2) Disegni esecutivi o di supporto all’esecuzione.

- 3) Disegni integrati nell'opera stessa.

in ogni caso è indispensabile comprendere come il significato intrinseco delle diverse attività considerate quale

disegno riconducono tutte al dualismo:

disegno = metodo per la rappresentazione.

In merito a ciò vale la pena di sottolineare come la lingua inglese attui una distinzione in merito al disegno,

utilizzando il termine "drawing" per identificare il disegno artistico, a differenza del termine "design" che

caratterizza l'attività' grafica di tipo progettuale.

Tale distinguo proprio di un pensiero di natura pragmatica ha fatto si che tale disciplina nella cultura

anglosassone abbia storicamente ed ancor oggi presenti differenti modalità di approccio e di riproduzione

culturale, identificando quindi scuole per i diversi indirizzi di apprendimento di tale sapere.

A differenza di questo modello educativo e riproduttivo la cultura italiana, fortemente permeata del ruolo

“aulico” che il disegno ha rivestito in alcuni periodi storici, ha nei fatti svuotato l’attività grafica del proprio

valore intrinseco di metodo sperimentale per la comprensione di fatti o eventi.

Per dovere di informazione anche in Italia in linea di principio esiste un distinguo tra differenti generi di disegno:

disegno tecnico e disegno artistico e tra centri di ricerca e formazione: Accademie di Belle arti e Facoltà

Tavola tratta da: Cenni storico-artistici di

architettura antica e moderna di Gallileo

Barocci , Edizioni G.B. Paravia & C., Torino

1943

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Universitarie ad indirizzo tecnico, purtroppo per l’approccio propositivo che generalmente viene applicato a

questi diversi metodi e in queste diverse scuole, tale distinguo anziché agevolare la comprensione dei rispettivi

fattori costituitivi, tende a confondere ancor più i temi specifici di ognuno di essi e le peculiarità intrinseche degli

stessi.

Per quando riguarda il primo metodo di rappresentazione, questi viene riconosciuto comunemente come disegno

tecnico o geometrico, in quanto essendo fondato su di una astrazione geometrico matematica, consente a chi

conosce le norme su cui si fonda, una interpretazione univoca, della realtà rappresentata.

Tale metodo consente inoltre con la scomposizione planare delle viste e la restituzione su base metrica

dell'oggetto rappresentato.

La possibilità di rappresentare la realtà per mezzo di sezioni, o ribaltamenti permette una scomposizione

dell'oggetto e quindi una vista completa di parti altrimenti non rappresentabili.

Il secondo metodo, comunemente considerato disegno libero, o disegno artistico, sfruttando una organizzazione

implicita dei segni che concorrono a definire gli oggetti rappresentati, restituisce una immagine a livello

percettivo più verosimile alla realtà , entro la quale è lo stesso sistema di segni che comunica la realtà origine

della rappresentazione.

La completa assenza di norme o convenzioni, diviene quindi la soggettività di redazione e lettura di tale

rappresentazione ad assicurare la comunicazione e ciò rende tale processo, uno strumento di rappresentazione

empirico, ma non per questo meno efficace.

GLI STRUMENTI DEL DISEGNO

Al pari di ogni altra tecnica, che nel suo dare luogo ad un prodotto fruibile possa essere assimilata ad un

tecnologia, anche il disegno impone un uso razionale e congruente degli strumenti di cui dispone.

L’immagine tratta da dépliant tecnico

dell’Autobianchi stampato negli anni ’70,

mette in luce una commistione tra disegno

tecnico (l’intero impianto grafico è su base

assonometrica) e le suggestioni grafiche

proprie del disegno artistico.

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Il termine “strumento” in questa sede viene utilizzato per identificare esclusivamente quell’insieme, quanto mai

vasto e variegato di oggetti che per la loro natura si rendano idonei a tracciare un segno in seguito percepibile su

di un supporto.

Di contro, il termine “mezzo” andrà in seguito ad identificare la risultante di un azione sinergica tra strumento,

supporto e tecnica, che quindi viene sino da ora identificata quale metodo per effetto del quale conseguo un

risultato.

Tale premessa terminologica può probabilmente apparire ad alcuni superflua, ciò non è a mio parere

assolutamente vero, dato che nella disciplina della rappresentazione grafica l’apparente identità tra tecnica e

mezzo, quando non si assiste ad un identità tra tecnica e strumento offre spazio a possibili aree indistinte,

scarsamente funzionali in un testo con finalità educative ad una efficace comprensione dei concetti proposti.

Quindi stabilito che per strumento si intende esclusivamente quanto sia atto a tracciare un segno di natura grafica

su di un supporto (di norma bidimensionale e piano) procediamo ad una classificazione degli stessi.

In merito agli strumenti atti a tracciare segni grafici è possibile operare in primo luogo una suddivisione in due

gruppi:

strumenti a tratto costante,

strumenti a tratto incostante.

Nel primo gruppo rientrano esclusivamente quegli strumenti che basando il proprio funzionamento su di un

principio fisico di trasmissione di un fluido (l’inchiostro) consentano, salvo un uso improprio ho un irregolare

flusso del fluido, la realizzazione di una traccia (il segno) con un corpo (spessore ) costante.

Tra questi si è soliti annoverare le cosiddette penne a china (solitamente denominate Rapidograph), il Graphos,

altro tipo di penna a china che permette la sostituzione su di una cannuccia porta inchiostro della punta tracciante

(pennino) ed i tiralinee, ovvero strumenti di un essenzialità logico funzionale straordinarie, i quali per

effetto di una predeterminata regolazione del passo micrometrico da cui si origina il deposito, permettono la

realizzazione di linee con corpo costante.

Il tiralinee proprio per la sua concezione di funzionamento consente inoltre di ottenere con un unico strumento

un vastissimo numero di segni con corpi tra loro differenti.

Nella prassi si assiste ad una predominanza nell’uso dei Rapidograph, mentre Graphos e tiralinee fanno oramai

parte di un recente passato.

Le ragioni di ciò sono in primo luogo nella apparente difficoltà d’uso di questi strumenti che a differenza dei

primi impongono una discreta abilità manuale.

Le moderne tecnologie di produzione hanno consentito recentemente la realizzazione di un quarto tipo di

strumento i cosiddetti Fine-Liner, ovvero pennarelli che per una particolare conformazione della punta

solitamente realizzata in materiale ceramico, dovrebbero assicurare una costanza di tratto.

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Tale ipotesi viene in un certo senso accreditata dal fatto che tali strumenti riportino una determinata dimensione

di tratto ( 0,2- 0,3, 0,5).

Purtroppo non sempre, anzi, quasi mai tali penne risultano all’atto pratico effettivamente strumenti a tratto

costante, sia perché con l’uso si assiste ad una deformazione della punta tracciante, sia perché nella maggior

parte dei casi il deposito dell’inchiostro non avviene basandosi su di un effettivo meccanismo di controllo che

assicuri la costanza del tratto.

Nel secondo gruppo: strumenti a tratto incostante devono quindi essere annoverati tutti gli altri strumenti che

abitualmente vengono utilizzati nella attività grafica.

Partendo dalle comuni matite di grafite, nere o a colori (pastelli colorati) per le quali la traccia (il segno) è

conseguenza del trasferimento sul supporto di parte del materiale tracciante (la mina di grafite appunto),

passando per gli innumerevoli tipi di pennarelli (penne con punta in fibra) sino a giungere alle penne con

pennino, che nelle loro versione moderna diventano stilografiche, abbiamo strumenti in cui l’azione sinergica di

due fattori determinati quali la pressione esercitata e la deformabilità della punta tracciante danno luogo ad una

sostanziale incostanza del segno conseguito.

In seguito approfondirò le specifiche relative alle cosiddette matite da disegno, ma prima credo opportuno

precisare che questa distinzione nasce proprio per aiutare a comprendere chi legge che la scelta dello strumento è

strettamente correlata allo scopo per cui si intende utilizzarlo.

Pare evidente che per conseguire una adeguata elaborazione di una tavola in cui la costanza del corpo nei segni

utilizzati (una carta geografica od un progetto esecutivo ad esempio) sia requisito irrinunciabile, la scelta di

strumenti del primo gruppo sia privilegiata.

Nel caso opposto, ovvero nei casi e posso essere molti, (dallo schizzo di progetto ad una restituzione percettiva

di un determinato oggetto) in cui il segno suggerisca il ricorso ad una diversa intensità, al contrario, sarà

preferibile utilizzare strumenti del secondo gruppo.

Tra tutti questi strumenti, in merito alle matite da disegno che costituiscono lo strumento cardine dell'attività

grafica, si impone una ulteriore approfondimento.

Più di un elemento diversifica la cosiddetta matita.

Per tutti è certamente nota la forma classica della matita esagonale in legno di bosso con all’interno una mina di

grafite, esistono almeno altri due tipi di matite i cosiddetti portamina, ovvero dispositivi meccanici atti ad

accogliere e mantenere la parte propriamente tracciante della matita, la mina appunto.

Un gruppo i cosiddetti portamina tecnici o da disegno, utilizzano mine di diametro pressoché analogo a quello

delle matite in legno, i secondi utilizzano mine di diametro molto più piccolo, le cosiddette, "micromine".

Tra i tre tipi di matite per un attività di disegno a livello professionale, solo i primi due tipi sono efficaci.

Le cosiddette "micromine" anche se apparentemente offrono l’innegabile vantaggio di non dovere essere affilate,

proprio per la loro conformazione e per il fatto che alcune miscele che compongono l’impasto risultano quanto

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mai variabili, solitamente non assicurano una costanza di segno tale da consentire ad elaborazione avvenuta la

lettura delle valenze semantiche associate al segno.

Quindi sia che si tratti di matite di legno e grafite o di mine nel portamine (quest’ultimo è di prassi concepito per

offrire una adeguata impugnatura che offra un accettabile grado di comfort ergonomico), per disegnare “bene” si

deve conoscere il tipo di mina utilizzato.

Le mine in commercio presentano una diversa composizione che ne determina la cosiddetta durezza; tale

caratteristica ordinata su di una scala che partendo dalle mine più tenere (6B e via a decrescere sino alla sola

lettera B -dall'inglese Black) raggiunge il punto medio proprio nelle mine contraddistinte dalla sigla HB, quindi

la resistenza (durezza) della mina comincia a crescere e passando per la serie delle mine contraddistinte dalla

lettera H (da 2H a 6H - come nel caso precedente da Hard) raggiunge il gruppo delle F .

Tale graduazione è funzionale al tipo di segno che intendo ottenere da una mina: più la stessa è per così dire dura

più il segno indipendentemente dalla pressione che esercito presenterà un corpo pressoché costante ed il tratto

sarà di un tono apparentemente più tenue, più la mina è morbida, inversamente il segno tenderà ad incrementare

il proprio corpo ed il tono apparirà più intenso, questo proprio per effetto che una mina morbida deposita una

maggiore quantità di materiale tracciante.

In quest’ultima affermazione si fondano due dei trucchi fondamentali che chi disegna deve conoscere: il primo

per quanto ovvio non sempre viene applicato, la matita per disegnare deve avere una punta, quindi quale che sia

il tipo di matita, è opportuno affilarla spesso; il secondo consiste nell’operare una costante rotazione della matita

tra e dita quando si traccia una linea, dato che ciò consente un consumo omogeneo della punta ed assicura una

maggiore costanza del segno ottenuto.

Al pari degli strumenti che non mi stancherò di ripetere sono tali e non come alcuni sarebbero portati a credere

“tecniche” che come vedremo in seguito sono un'altra cosa, un disegno è un disegno e basta, a china o matita

resta un disegno, proprio perché indipendentemente dallo strumento che utilizzo scelto in primo luogo in ragione

dello scopo del disegno i segni che lo compongono devono per effetto di una loro razionale organizzazione e di

un coerente sistema di significazione, renderne possibile la lettura.

CLASSIFICAZIONE DEL SEGNO

Le diverse ipotesi di classificazione dei segni di seguito prospettate, sono esclusivamente funzionali alla

comprensione di come ad un segno in ragione delle proprie caratteristiche intrinseche possa essere associato un

determinato valore significante.

La definizione lessicale del termine segno riporta: “ Indizio, accenno palese da cui si possono trarre deduzioni,

conoscenze”.

Tale concezione riferibile genericamente ad ogni tipo ed uso del segno, risulta applicata con diversi significati a

seconda del campo di utilizzo.

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Nel campo specifico del disegno la definizione del termine segno riporta: “Qualunque espressione grafica: punto,

linea, curva o figura, convenzionalmente assunta a rappresentare un entità.”

Tale definizione, per alcuni versi restrittiva per la parte riconducibile alla convenzionalità, impone quindi una

precisazione.

La capacità di significazione di un segno è tale a prescindere dalla convenzionalità della sua identificazione, al

più la convenzionalità rafforza o valida la significazione del segno.

Il segno, nel nostro caso deve essere inteso come porzione campita di spazio con due dimensioni percepibili.

Risultano segni, quindi tutte le zone campite di un supporto, indipendentemente dalla loro dimensione o dalla

forza di percettibilità che offrono al recettore.

Inoltre, data la dimensionabilità di un segno e la sua esistenza verificata per emergenza da un pattern omogeneo

quale dovrebbe risultare il supporto, il segno è tale al di là di norme, convenzioni o pre-conoscenze dello stesso;

affermazione questa che trova a mio avviso riscontro in questa seconda considerazione.

Una congruente rappresentazione grafica di una qualsivoglia realtà si consegue solo da un adeguata

organizzazione di segni ed è solo per mezzi di segni che si consegue la rappresentazione grafica di un fenomeno

esperito.

Avremo quindi una duplice possibilità di organizzazione dei segni:

- la prima si fonda dunque su di un sistema organico e codificato e riconosciuto per normazione e consente

un discreto livello di astrazione della rappresentazione dalla realtà che intende rappresentare;

- la seconda evocativa della percezione, trova il proprio principio ordinatore proprio nella realtà che intende

rappresentare.

Soprassedendo sul fatto che con due differenti sistemi semantici potremmo conseguire due rappresentazioni

congruenti ed efficaci di una medesima realtà, vale la pena di approfondire come termine comune della questione

risultino essere i segni e la loro organizzazione.

Dei segni siamo da un lato, nella realtà interpreti e dall’altro quando rappresentiamo: artefici.

Della loro organizzazione, quale che sia il metodo di rappresentazione adottato siamo artefici, con la sostanziale

differenza che nel primo caso accettando una norma dovrò, pena l’incomprensione rispettarne i canoni e le

regole; nella seconda determinando in prima persona le regole, dovrò definirle in modo congruente ad una

successiva rilettura.

Per estrema chiarezza si deve inoltre precisare che la scelta di un modo anziché l’altro non può essere

determinata da un fatto di incompetenza di quanto si considera comunemente norma, dato che una interferenza

tra i due metodi ingenera una elevato soglia di incomprensione, naturale conseguenza di una

oggettiva disorganizzazione.

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Per comprendere ciò, basta pensare ad un disegno ispirato da concetti proiettivi a cui si intenda sovrapporre

integrandola una rappresentazione del tipo percettivo la ridondanza semantica che ciò ingenererebbe

impedirebbe nei fatti la lettura di entrambe le rappresentazioni.

Della rappresentazione e delle sue forme si dovrà necessariamente trattare in altra sede, torniamo quindi al tema

della classificazione dei segni.

L’ipotesi di classificare i segni trova ragione proprio nel fatto che solo una profonda conoscenza delle

caratteristiche costitutive del segno grafico può dare luogo ad un processo di organizzazione degli stessi,

funzionale alla significazione.

Una prima caratteristica comune ad ogni tipo di segno è quanto in questa sede viene definito: “corpo del segno”.

Il termine corpo, preso a prestito dal linguaggio tipografico, identifica la porzione di spazio campita con un unico

passaggio dello strumento tracciante.

In altri termini “il corpo”, corrisponde allo spessore del segno anche se l’uso del termine spessore risulta

improprio dato che nella generalità dei casi un segno grafico non ha una terza dimensione (lo spessore appunto,

percettibile.

Seconda caratteristica è la “costanza del segno”.

La caratteristica di costanza del segno è risultante di diversi fattori, quali: costanza dello strumento tracciante,

omogeneità della superficie del supporto, costanza della pressione e della velocità con cui il segno viene

tracciato.

La componente di costanza del segno è di sommaria importanza per procedere ad un oggettivazione del segno,

condizione questa indispensabile per porre a sistema i differenti segni concorrenti alla rappresentazione.

Di riflesso l’eventuale incostanza del segno diviene anch’essa caratteristica significante del segno, ciò a

condizione che la reciprocità tra i segni posti a sistema ne preveda una valenza significante.

A tale proposito, proprio nel sistema di organizzazione dei segni a cui si riferisce la norma UNI 3968 (disegno

tecnico) assistiamo al fatto che una linea con andamento irregolare venga adottata per significare limiti di viste e

sezioni non coincidenti con assi di simmetria.

Terzo fattore è: “l’orientamento del segno”.

Per comprendere tale aspetto, che interessa prevalentemente sistemi semantici tracciati senza l’ausilio di

strumenti quali righe od altre guide al tracciante (a mano libera insomma), può essere funzionale una

considerazione ed una esperienza.

Più o meno tutti, abitualmente siamo soliti scrivere e quindi anche tracciare linee orientate da sinistra a destra e

dall’alto in basso.

Pertanto se ci prefiggessimo di disegnare su di un foglio un rettangolo probabilmente inizieremmo tracciando il

cateto superiore quindi il cateto laterale destro per poi riprendere tracciando appunto da sinistra destra il cateto

inferiore e quindi dall’alto in basso il cateto laterale sinistro.

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L’esperienza che ci consente di sperimentare quanto risulti essere l’effettiva risultante di quanto in questa sede

viene inteso come orientamento del segno, è proprio quella di tracciare numerose figure; rettangolo, quadrati e

quant’altro si creda, operando un tracciamento costantemente orientato, sia in senso orario quanto antiorario.

Ciò oltre che una valida esercitazione per abituare la mano a tracciare linee senza l’ausilio di righe, ci consente

di verificare come nel caso di linee tracciate in senso inverso all’abitudine, queste presentino un maggior grado

di incostanza rispetto a quelle tracciate nel senso abituale e come dirò in seguito ciò può all’interno di un

determinato sistema semantico assumere una particolare valenza significatoria.

In merito al suo orientamento, il segno, quale porzione campita di un supporto, è ideale risultante di un vettore

orientato nello spazio, tale orientamento inoltre può essere costante od incostante ed è solitamente un elemento

determinate nella rilettura dei segni.

Da ultimo vale la pena di osservare come in alcuni casi la percezione del senso di orientamento del segno,

consente la comprensione del processo con cui è avvenuta la lettura della realtà fenomenica da parte di chi ha

operato la rappresentazione.

Altro elemento concorrente alla determinazione di un segno risulta essere la sua enfatizzazione”.

Tale componente trova riscontro prevalentemente nella rappresentazione di natura evocativa ( disegno a mano od

artistico).

Comunque in qualsiasi caso un segno può risentire di enfatizzazioni, ovvero variazioni di corpo, orientamento o

regolarità della traccia.

Una duplice ragione da luogo a ciò:

nei sistemi di rappresentazione normati un intensificazione del segno, come ad esempio l’ispessimento dei segni

di sezione qualora cambi la direzione del piano della stessa, indicano proprio un anomalia in un segno altrimenti

coerente.

Nei sistemi di natura evocativa, solitamente la maggiore intensità di un segno indica una maggiore

interpretazione emotiva se siamo nell’ambito della rappresentazione di una realtà percettiva o la corrispondenza

ad una maggiore importanza di quel particolare segno o segmento di segno se la rappresentazione interessa una

realtà immaginaria.

In ogni caso l’enfatizzazione di un segno o di un gruppo di essi, fa sì che gli stessi si pongano in maggiore

evidenza rispetto ad altri che comunque concorrono alla definizione dell’immagine.

Ultimo parametro di riferimento alle caratteristiche del segno è la “complessità espressiva del segno” la quale sia

che si ingeneri in maniera spontanea o venga conseguita sulla base di un preciso intendimento, identifica in

sostanza la somma e l’interazione dei precedenti parametri di classificazione.

La complessità espressiva di un segno viene esclusivamente considerata in quanto nella pratica è oggettivamente

difficile percepire all’interno di una rappresentazione segni con valenza pura, ovvero segni classificabili per un

solo parametro tra quelli sopraindicati.

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Anzi in un qualsivoglia tipo di rappresentazione sia normalizzata che di natura percettiva, proprio l’insieme di

più fattori caratterizzano un segno e ne assicurano la capacità di significazione.

Introdurre quindi il concetto di complessità espressiva di un segno è strettamente funzionale in sede di un analisi

epistemologica della rappresentazione ad una corretta interpretazione dei vari fattori che concorrono alla

definizione del segno ed alle sue relazioni con il sistema semantico in cui si colloca.

Operata questa prima classificazione, che ricordo è per molti versi arbitraria e strettamente funzionale ad una

riflessione sul valore di significazione che può essere associato ad un sistema di segni, è possibile affrontare le

differenti opportunità di utilizzo di tali caratteristiche del segno grafico.

Gli schemi grafici presentano le caratteristiche sopra menzionate. Tale classificazione è prevalentemente funzionale ad una

maggiore comprensione delle potenzialità espressive del segno in ragione delle finalità didattiche che questo lavoro si

prefigge.

LO SPESSORE DEL TRATTO QUALE CODICE SEMANTICO

Per comprendere appieno il senso di questo capitolo, si impone un riferimento alla prassi del disegno, in quanto

in tutti i sistemi di rappresentazione esistono convenzioni non scritte che assicurano la comprensione agli addetti

ai lavori.

Alcune di tali regole sono assunte a norma tecnica e per alcune di esse in seguito si opererà un approfondimento

specifico.

Il primo di questi tre sistemi a dire il vero ha un’applicazione molto più ampia, dato che fondandosi su di una

norma di unificazione nata in ambito meccanico, ha interessato dapprima questo specifico contesto disciplinare

per poi trovare risconto quale regola fondante del disegno tecnico in genere.

La norma UNI 3968 che concorda con la Norma ISO 128-82 definisce i tipi e le grossezze (in questa sede

definito: il corpo) di linee da utilizzare per l’esecuzione dei disegni in ogni campo della tecnica.

Sulle stesse, le linee, opera una denominazione, ne definisce interspazi ed ordine di priorità nel caso di

sovrapposizione delle stesse e cosa fondamentale ne sancisce il campo di applicazione affinché si giunga ad uso

significativo concordemente riconosciuto delle stesse.

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In primo luogo appare subito evidente che le linee utilizzate presentano solo due differenti corpi (grossezze) tra

loro proporzionali.

Il gruppo delle linee sottili o fini, e il gruppo delle linee grosse: la dimensione delle stesse viene solitamente

determinata in base alla scala di rappresentazione utilizzata, mentre la proporzione, più per prassi che per norma

risente di alcune diversità a seconda dell’ambito di applicazione.

Ad esempio nel disegno meccanico, si è soliti utilizzare quale corpo delle linee grosse un tratto di 0,6 mm e per

le fini un corpo pari a 0,2 mm.

Nel disegno di architettura invece, vuoi per le scale utilizzate (solitamente minori rispetto al disegno meccanico),

vuoi per il minor grado di dettaglio che generalmente caratterizza tale tipo di rappresentazione il rapporto

proporzionale tra i due tipi di grossezza, solitamente si fonda in scala 1:100 su di un rapporto proporzionale

doppio (0,1/0,2), per passare a scale maggiori 1/50 ad esempio all’uso di penne con tratti di 0,2/0,4 mm.

La scelta di operare con una sola coppia di tratti, tra loro costantemente proporzionali, come vedremo in seguito

è patrimonio comune di molteplici sistemi normalizzati di rappresentazione, e tale scelta presenta innegabili

vantaggi sia pratici che logici, dato che l’uso di un maggior numero di corpi potrebbe in sede di lettura

dell’elaborato ingenerare fallacie interpretative.

Al più, e proprio nel disegno di architettura, si assiste all’uso di una terna di grossezze del segno, solitamente ed

in ogni scala ( 0,1/0,2 e 0,4 mm.) anche se deve essere detto che il tratto più fine (0,1) viene di prassi utilizzato

preventivamente per costruire l’impianto generale del disegno e quindi in una successiva fase la sua valenza

significativa risulta nulla dato che i tratti di maggior corpo (0,2 e 0,4) ad esso sovrapposti ne annullano nella

quasi totalità dei casi la valenza significativa, quando addirittura la riproduzione del disegno non ne annulla

addirittura la percettibilità.

La seconda discriminante del segno, in questo caso vale per entrambe le grossezze, consiste nella continuità.

Avremo quindi linee continue e linee a tratti ( comunemente chiamate tratteggiate) tali differenze ovviamente

comportano un preciso significato che può essere generalmente ricondotto alla posizione rispetto al sistema

dell’elemento che tale linea identifica. La continuità di norma indica che l’elemento si pone in vista rispetto al

sistema, la discontinuità (il tratteggio) che l’elemento che tale linea rappresenta nella realtà non apparirebbe

visibile.

Ulteriore distinguo si in merito ai tratteggi che dovendo comunque risultare regolari, qualora siano continui

(tratto- spazio- tratto) comunicano proprio l’esistenza di uno spigolo od un contorno non in vista, mentre nel

caso prospettino una successione del tipo: tratto spazio punto spazio tratto, indicano elementi ausiliari alla

comprensione del disegno quali assi di simmetria, piani di sezione e generatrici ( linee e cerchi primitivi).

Nella tavola a seguire che riporta questo sistema semantico vengono indicati tipo di linee, la loro denominazione

e l’ambito di utilizzo, conoscere ed utilizzare correttamente tale codice assicura una comprensione pressoché

universale di quanto intendiamo rappresentare.

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Il secondo esempio prospettato interessa quanto in Italia, almeno sino ad oggi viene inteso quale codice

semantico nella rappresentazione catastale del territorio.

Anche in questo caso la discriminante principale si fonda su di un corpo della linea che nella scala assunta quale

base alla cartografia catastale ( la mappa) pari ad un rapporto di 1:2000 prevede l’uso di linee con grossezze di

0,2/0,4 mm. anche se per particolari segni quali i limiti di mappa, i differenti confini si utilizzi anche uno

spessore di tratto ancora maggiore ( 0,8 mm.)

Chi di voi abbia avuto modo di vedere o ancor meglio realizzare l’elaborazione grafica di un “tipo mappale”,

saprà che nella rappresentazione ad uso catastale l’uso di tali linee è strettamente canonizzato dato che la linea

fine (0,2) delimita le proprietà (particelle) e gli elementi tra essi quali strade, canali, ecc. tra di loro interposti,

mentre la linea di maggior corpo (0,4 mm) contorna gli edifici, i quali di prassi prevedono una campitura con

tratteggio equidistante ( 1 mm circa).

Dato che come vedremo in seguito la rappresentazione catastale ha una importanza fondamentale nella

conoscenza del territorio in genere, (almeno sino a qualche anno fa ed in alcuni casi ancora oggi la cartografia

catastale è stata base cartografica di adeguato dettaglio ) e che ancor oggi attraverso di essa è possibile con

opportune regole di natura geometrica leggere la storia e lo sviluppo dei luoghi, conoscerne a fondo il patrimonio

semantico offre un valido supporto alla rappresentazione del territorio.

Non deve essere inoltre sottovalutato l’aspetto per il quale tale rappresentazione è stata concepita, utilizzata per

anni ed ancor oggi viene realizzata utilizzando in prevalenza metodi manuali di disegno, quindi sia per la logica

che ad essa sottintende, sia per l’estrema semplicità redazionale si presta ad una efficace restituzione

planimetrica del fatto territoriale.

Senza addentrarmi nei diversi segni che la costituiscono che possono essere approfonditi proprio nella tavola che

correda questa parte di testo, resta da dire che la cartografia catastale prevede inoltre un uso del colore con

valenza significante.

Primo tra tutti il colore rosso, che esclusivamente utilizzato per tratti di grossezza 0,2 mm. per le cosiddette linee

di appoggio, ovvero le linee che riportano le misurazioni da cui si determina il poligono che costituisce le

particelle, si passa alle campiture di colore giallo, per le strade ed azzurre per i corsi d’acqua che abbiano

larghezza atta alla rappresentazione.

Probabilmente sarà difficile trovare oggi, mappe catastali, campite, perché alla campitura si è progressivamente

sostituta la notazione toponomastica e perché le mappe, oggetto di costanti aggiornamenti, vengono oggi per

comodità riprodotte in elevato numero di copie con sistemi eliografici, e quindi nessuno procede alla successiva

campitura delle stesse.

Un’ultima nota in merito alla cartografia catastale, deve essere fatta proprio, sulla loro redazione ed

aggiornamento.

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Da qualche anno a questa parte, numerosi uffici tecnici erariali, che è bene precisare operano la conservazione

del catasto per competenza territoriale su base provinciale, hanno provveduto alla vettorializzazione

(trasferimento in un sistema elettronico di elaborazione grafica, con sistemi C.A.D., in altre parole) al

trasferimento della cartografia su supporto digitale ( dati alfanumerici) ed anche in questo caso, se si escludono

colori e campiture, il sistema di significazione corrisponde a quello in uso per la redazione delle mappe con

metodi manuali.

Terzo ed ultimo esempio che per maggiori approfondimenti imporrà l’acquisto del documento ufficiale edito

dall’Ente Nazionale di Unificazione, interessa la Norma UNI 7310 unica norma redatta e pubblicata in materia di

cartografia urbana multipiano che come riporta il titolo intendeva ed il condizionale è d’obbligo perché risulta

essere una norma scarsamente conosciuta e per molti versi poco applicata, sancire una regola per la

rappresentazione convenzionale di aggregati urbani storici prevalentemente caratterizzati da edilizia multi piano.

Anche in questo caso fonda la rappresentazione su di una copia di linee con grossezze tra loro proporzionali: nel

caso di rappresentazioni in scala 1:250 rispettivamente linee pari a 0,6 e 1,2 mm.

A tale proposito, la norma stessa riferisce il parametro alla minore scala di rappresentazione prescritta, dato che

considerando la successiva possibilità di riduzione fotomeccanica dei tipi elaborati, si avrà in sede di riduzione

un proporzionale decremento del corpo dei segni utilizzati.

Per effetto di ciò avremmo in base a tale proporzionalità, nel caso di disegni in scala 1:2000, spessori di tratto

pari rispettivamente a circa 0,1 e 0,2 mm.

Detta norma anche se non lo specifica chiaramente fonda la propria notazione significativa su di una base di

natura planimetrica di tipo proiettivo (un comune rilievo in pianta in sostanza, ovvero qualcosa di molto simile

alla rappresentazione catastale), introducendo l’accezione che tale sistema semantico consente la segnatura

stereometrica (planivolumetrica) di un duplice sistema proiettivo: verso l’alto per quanto concerne pavimenti,

scale e pianerottoli, e verso il basso per volte, cupole, cornicioni interni ed esterni.

Il primo gruppo di segnature, evidentemente riferibili alla distribuzione interna dei volumi edilizi, troverà

collocazione, ove ne ricorra il caso proprio all’interno del poligono che circoscrive l’edificio in questione,

mentre la restante significazione semantica interessando aspetti costitutivi della componente esteriore

dell’edificio si andrà ad apporre proprio sul perimetro che delimita lo stesso.

Proprio per tale ragione, la norma in questione, pur essendo concepita per un attività di rilievo del patrimonio

edilizio esistente, si presta per sua stessa ammissione “al rilievo congetturale di edilizia non più esistente”,

estendendo la propria applicazione ad ipotesi progettuali “di ampliamenti o ristrutturazione di rioni storici”.

Prima di addentrarci nel tema successivo che affronterà il tema delle scale metriche solitamente utilizzate nella

rappresentazione in genere e nella rappresentazione del territorio nello specifico, sembra opportuno introdurre

un’ultima riflessione sulla necessità di elaborare, quindi sperimentare per giungere ad una successiva verifica

della validità applicativa almeno a livello individuale di un sistema grafico di significazione del fatto territoriale.

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Da ultimo e per quanto poco possa valere, ho personalmente elaborato e lo propongo ad esclusivo scopo

esemplificativo, un codice semantico, applicabile sia nel caso di rappresentazione planimetrica quanto proiettiva

di contesti territoriali. Tale codice, risente di numerose limitazioni e mutua parecchi parametri da codici esistenti,

pertanto ribadisco che lo stesso si offre al lettore solo come esempio e non vuole in alcuna misura essere assunto

a modello o ancor peggio ad esempio da utilizzare pedissequamente.

Cardini del sistema semantico sono 4 differenti corpi (grossezze) di tratto e due colori.

Come già detto il corpo minore (0,1 mm.) può in sede di riproduzione comportare la sua scomparsa, pertanto

viene solitamente utilizzato per annotare elementi quali il tracciato base e le cosiddette sezioni altimetriche (in

pianta anche le curve) che ragionevolmente almeno per il primo caso possono divenire in sede di redazione

conclusiva della tavola ininfluenti.

La seconda discriminate verte proprio sul colore con cui vengono tracciati i tratti. Per effetto di un principio

tonale valido quale che risulti essere il metodo di riproduzione, l’esistente viene tracciato con tratti di nero pieno,

mentre quanto si presume o si riscontra possa essere preesistito, viene redatto utilizzando a seconda dei casi

inchiostri, rossi o grigi (l’inchiostro rosso in eliografia risulta grigio, mentre se la riproduzione prevista è di

natura fotomeccanica come le xerografie, e preferibile l’uso di inchiostro grigio).

Ulteriore ed ultima discriminate, anche in ragione del fatto che tale sistema intende preferibilmente trovare

utilizzo nella rappresentazione di fatti urbani, l’uso di linee continue ( segni a corpo costante) è strettamente

riconducibile al costruito, mentre quanto vada di corredo ad esso come: mappe catastali e quindi “piani

particellari”, eventuali segni di sezione planimetrica od altimetrica, assi stradali che di norma nel fatto urbano

risultano coincidenti con i fronti di quanto edificato o altrimenti con limiti di particelle e lotti, oltre a quote

metriche ed i diversi confini a vario titolo riscontrati utilizzano differenti segni a tratti.

Tale sistema può trovare applicazione almeno in alcune sue parti anche nel rilievo dal vero, e nell’elaborazione

digitale di tavole di lavoro o finali anche se per segni tracciati senza ausili, come nel caso del rilievo, la

regolarità di tratto può pregiudicare una successiva rilettura e quindi impone estrema attenzione nell’uso del

segno.

IL TEMA DELLA PROGETTUALITÀ: PROBLEMA, PROGETTO E PRODOTTO

Questa breve digressione in apparenza totalmente fuori luogo è, probabilmente, molto più vicina al tema trattato

in questo lavoro che alcuni dei contributi tecnici che ad esso concorrono.

Considerando l'esperienza pare lecito ipotizzare una conseguenzialità tra il:

PROBLEMA

il quale da luogo al PROGETTO

che origina il PRODOTTO

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La tavola propone uno schema esemplificativo di una codifica semantica atta sia alla restituzione grafica con sistemi

infografici di brani urbani e porzioni territoriali, che in fase di rilievo sul campo. I differenti toni del segno definiscono e

classificano l’evoluzione diacronica di quanto rilevato.

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Come si vede abbiamo quale termine comune il prefisso PRO che esprime il senso di anteriorità. Se si accetta il

concetto di anteriore, avremmo una legittimazione del termine "conseguente" e quindi di un criterio di

temporalità.

Accettando quindi una progressione temporale, stante la radice comune a questi tre termini (il suffisso "pro" in

italiano esprime anteriorità) deve quantomeno sorgere un dubbio sulla consecuzione temporale dei tre termini; si

dovrà quindi operare una diversa lettura per mezzo di una diversa metodologia critica.

Proverò quindi a relazionare i termini all'esperienza che mi consente di considerare come il

PROBLEMA

di norma emerge, o è dato, in conseguenza di ciò opererò un

PROGETTO

Atto a soddisfare il problema da cui possa originarsi un

PRODOTTO

che sublimi (risolva) il problema.

Come si vede sono riuscito a definire una relazione apparentemente logica tra i tre termini, posso quindi operare

una definizione del primo termine ovvero cercherò di definire il "problema".

In termini etimologici il problema significa: "mettere innanzi", "proporre". Il termine proporre può trarre in

inganno in quanto nei fatti risulta sinonimo indiretto di anteriore, quindi omologo ai termini per i quali si è

cercato di convalidare il processo consequenziale.

Qualora si rinunci alla definizione del termine "problema" in chiave etimologica, avvalendosi di una definizione

in senso lato posso affermare che il problema implica una "necessità di risposta". Dato che la necessità equivale

a ciò di cui non si può fare a meno, e, la risposta equivale a "promettere" o "assicurare in conseguenza di..."

anche se apparentemente sembri una situazione anomala si torna nel campo dell'anticipazione, ciò stante il fatto

che "promettere" al pari di " proporre" implica un concetto anticipatorio.

Di certo il problema , comunque lo si consideri anticipa qualcosa, resta da vedere cosa anticipi.

Ora, dato che anticipare equivale a " prendere prima", e prendere equivale ad un concetto di possesso potremmo

giungere alla conclusione che un problema è "anticipo del possesso", ciò contraddice la condizione di bisogno

intrinseca al problema.

Considerando il fatto che il possesso risulta equivalente di avere, che per propria natura presuppone un possesso

conseguente al prendere, risulta negata la premessa per effetto della quale il problema esprime un esigenza, dato

che etimologicamente l'esigenza identifica il far uscire fuori, ovvero qualcosa di analogo al progetto.

A questo punto si prospetta un’oggettiva identità tra problema inteso come esigenza ovvero "fatto emergente" e

progetto che per propria natura radicandosi nel verbo "gettare " ( ancora una volta uscire fuori) in ragione del

prefisso pro anticipa l'uscita di qualcosa.

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Qualora volessimo in questo caso considerare il suffisso “pro, nel senso di, in favore", il senso finale del termine

progetto prospetterebbe al condizione di agevolare l'emergenza di qualcosa.

In base a ciò viene verificata una sostanziale identità, probabilmente non solo linguistica tra Problema e

Progetto, peraltro tale identità è inoltre verificata nella pratica in quanto non vie soluzione al problema se non

per mezzo di un progetto e lo stesso progetto nel suo materializzarsi è foriero di numerosi problemi.

Accantonando per il momento la questione del progetto, che in questo lavoro si sarebbe portati a pensare acquisti

una valenza centrale, cerchiamo di porre a sistema il terzo termine preso in considerazione: il prodotto.

Ancora una volta il prodotto associa almeno in chiave etimologica il tema del portare avanti, stante il fatto che

letteralmente produrre si radica nell'anteriorità di condurre.

Senza addentrarsi in ulteriori speculazioni sul tema del prodotto, si può ipotizzare che quindi il prodotto al pari

del problema e del progetto anticipa la manifestazione di un evento.

Stante questa apparente identità tra i termini e probabilmente tra i concetti ad essi associati viene così negata la

logica consequenziale posta a premessa di questa speculazione.

Prima di addentraci "nell’analisi", o meglio nell'approfondimento del tema del progetto, che come vedremo è

strettamente interrelato al tema del disegno inteso come rappresentazione di un fenomeno esperito, (ogni

disegno, in sostanza si configura come progetto che risolvendo numerosi problemi da luogo ad un prodotto e si

badi bene, ciò avviene tutto in un unica soluzione e non come si sarebbe portati a pensare per fasi) si impone una

ulteriore definizione terminologica sulla parola "analisi".

L'ANALISI

Oggi come oggi , la parola "analisi" tende ad identificare qualsivoglia attività umana che preveda un attività

almeno in via presuntiva di natura speculativa.

Per tutto quanto attenga alla sfera della vita umana si conducono analisi: se devo investire farò una analisi, se

devo costruire farò una analisi, se devo comunicare farò un analisi, se non voglio morire giovane , meglio fare

delle analisi.

Tutto si può dire meno che il mondo contemporaneo non presenti rilevanti caratteristiche analitiche. Peccato che

questo processo inflattivo del termine lo abbia svuotato del senso intrinseco ad esso associato, dato che una seria

analisi presuppone , metodo, adeguate conoscenze in materia e spiccato senso critico, cose queste che raramente

si associano a quelle estemporanee speculazione che vengono per comodità identificate come analisi. A volte

sono portato a pensare che prima o poi il termine analisi sostituirà il termine "cosa" che notoriamente riesce ad

evocare ed identificare contemporaneamente il tutto ed il niente.

IL PROGETTO

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Per affrontare in termini critici il tema del "progetto" credo sia necessario rinunciare a riferimenti contestuali

specifici. Tale scelta sicuramente arbitraria e discutibile si impone affinché si configuri un approccio

epistemologico scevro da condizionamenti paradigmatici.

Ulteriore limite di tale posizione è l'impossibilità di parametrare il percorso critico ad un ambito contestuale,

aspetto questo sicuramente funzionale ad una migliore analisi speculativa, in questo caso il termine analisi risulta

legittimo.

Opinione condivisa anche se non del tutto veritiera è che il progetto si ponga quale termine intermedio nella

soluzione di un problema. Di certo il termine progetto almeno nella sua accezione corrente identifica nella quasi

totalità dei contesti in cui trova applicazione la parte manifesta di quell'insieme di attività di natura intellettiva e

sperimentale che ricadono nel complesso processo di soluzione utilitaristica di un problema.

Probabilmente tale identificazione deve essere ascritta alla fase storica preindustriale in cui il fare o meglio il

saper fare dell'artigiano, deve essere trasferito in un processo meccanicistico di produzione in cui altri soggetti

per lo più carenti di una cultura specifica, devono fare ciò che in precedenza è stato determinato.

Se accettiamo, almeno in questa fase preliminare l'idea di progetto come un insieme di passaggi tra loro

interrelati che ci consentono di conseguire un fine, appare evidente che nei fatti il progetto si configuri quale

mezzo.

Intendere il progetto come mezzo, agevola un ritorno perlomeno temporaneo allo specifico oggetto di questo

lavoro ovvero al disegno anche in ragione del fatto che buona parte dei progetti trovano materiale configurazione

in un elaborato grafico, ed altro non potrebbe essere dato che per la realizzazione di un intervento che comporti

la trasformazione per mezzo di tecnologie della materia, un sistema di rappresentazione iconografica risulta di

gran lunga più conveniente che una oltremodo elaborata esposizione testuale.

Questo dualismo tra progetto ed elaborato grafico, rivisto alla luce delle pregresse considerazioni sulla

sostanziale identità tra i termini problema progetto e prodotto, ci introduce al tema del disegno inteso quale

progetto.

Concepire, ancor prima di elaborare un disegno è attività di natura progettuale e come tale implica numerosi

problemi affinché si giunga alla realizzazione di un prodotto consono ed adeguato.

L'idea di interpretare il disegno quale prodotto conseguente ad un progetto porta con se una seconda

considerazione in questa sede fondamentale.

Rispetto ad una atteggiamento spesso rinunciatario nei confronti dell'attività grafica che trova giustificazione

nell'errata convinzione che il saper disegnare sia frutto di una capacità innata, è lecito opporre che trattandosi di

attività concettuale, ciascuno in base alle proprie capacità e cosa forse più importante alla propria determinazione

può tranquillamente disegnare.

Una terza ed ultima considerazione intende sgombrare il campo da ogni ulteriore equivoco: un buon disegno,

difficilmente coinciderà con quanto identificato con un bel disegno.

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Due parole su questa affermazione non guastano: stante la labilità e la soggettività del concetto di bello che

indipendentemente dalla rispondenza a canoni estetici o al gusto individuale e/o corrente risente di suggestioni di

natura contingente, un buon disegno diviene tale nella misura in cui soddisfi adeguatamente le esigenze per cui è

concepito ed eseguito, quindi al pari di un oggetto o di un qualsivoglia manufatto, trova legittimazione proprio

nel fine utilitaristico a cui risponde.

Intendere il disegno come progetto, comporta quindi una costante attività di controllo intellettuale (ars) al

processo di significazione che operativamente andrò ad attuare, e quindi la componente pratica ovvero quello

che in precedenza abbiamo definito il saper fare (tekné) assume un importanza relativa e per più di una ragione

secondaria.

Certamente non è possibile conseguire la materializzazione di un disegno se tale attività resta nello stadio

ideativo del progetto, probabilmente una disabitudine all'uso degli strumenti grafici ed un inesperienza

nell'applicazione dei metodi e delle tecniche comporteranno una maggiore fatica e forse numerose riedizioni

dell'elaborato, ma sicuramente l'opposto, ovvero una buona familiarità con il disegno non potranno sopperire lo

sforzo di pianificazione ideativa che deve essere necessariamente operato per conseguire un buon disegno.

Comprendere questa serie di assunti, deve rassicurare gli inesperti e forse cosa più importante deve far riflettere

coloro che ritengono di saper fare un discreto uso del mezzo della rappresentazione grafica.

LA DIDATTICA DEL DISEGNO

Per giungere ad una delimitazione del campo di approfondimento di questo lavoro, che si propone

esclusivamente quale traccia per una più approfondita disanima critica del tema affrontato: la rappresentazione

grafica; anche in forza del contesto in cui queste parole hanno origine e vengono spese e dell'ultima

considerazione in relazione alla priorità metodologica che tale attività presenta, pare opportuno scomporre i

termini della questione ed in ragione di ciò avremmo:

DISEGNO come cultura

metodo

tecnica

mentre la

DIDATTICA quale maieutica

esperienza

induzione

Disegno come "cultura": in questo ambito d'analisi il termine cultura associa i concetti di:

"genere e grado del sapere"

genere inteso come: classificazione e

catalogazione

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dei differenti saperi

mentre per quanto concerne il

grado avremo: la quantità e la qualità

di informazioni inerenti

ogni determinato sapere

DISEGNO COME "METODO”

Assumendo il disegno quale processo di mediazione che sovrintende alla trasformazione della conoscenza in

documento, ne consegue un'intrinseca componente metodologica e poco incide in quale misura tale metodo

risulti indotto o autoctono.

In relazione al metodo, che come già detto può essere considerato l'asse portante del "rappresentare", è

opportuno precisare che chi scrive rifugge l'idea di considerare il metodo come "regola".

Al più, come unanimemente riconosciuto nella comunità scientifica, il metodo anche in questo ambito assume il

ruolo di ordinatore della processualità sperimentale a condizione che il processo in questione sia configurato in

modo tale che si possa procedere alla ripetizione del percorso sperimentale.

DISEGNO COME "TECNICA"

Senza voler ricondurre il disegno ad un processo di stretta natura meccanicistica atto alla genesi di immagini,

pare innegabile assumere quale fondativa di tale disciplina quella componente tecnica, e non teorica come si

potrebbe essere portati a pensare, che la contraddistingue.

Questo disegno di Aldo rossi per il progetto

della caffettiera “Conica” mette in luce uno

dei paradigmi delle relazioni che legano

progetto e rappresentazione: “il disegno

quale mezzo di previsione e controllo delle

qualità formali del progetto”.

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Ciò anche in ragione del fatto che la sussistenza di un semplice enunciato metodologico se in chiave di rilettura

critica potrebbe essere assunto a valore di rappresentazione, difettando della componente fattiva vanifica il ruolo

preminente della rappresentazione stessa che è opportuno ricordare non si materializza nella sfera metafisica

della teoria, trovando ragione e legittimazione esclusivamente nell'intelligibilità del documento.

Premessa l'enunciazione dei concetti identificati con queste tre categorie, si impone la precisazione dei termini

fondativi dell'attività didattica.

"L'insegnare", inteso quale modello riproduttivo di un sapere, che in questo specifico caso presenta una forte

interazione con il "saper fare", risente in misura sensibile di contaminazioni di natura culturale.

Avremmo quindi, date le precedenti specificazioni, nel caso dell'insegnare a disegnare la necessità di una

trasmissione sinergica di un sapere mediato da un metodo che diviene tecnica.

Come il disegno la didattica pur essendo nei fatti un unicum da luogo a mio parere a tre categorie generali:

DIDATTICA COME "MAIEUTICA"

Il processo maieutico è intrinseco all'attività didattica, in quanto consente la socializzazione fondamentale tra

discente e disciplina. Tale processo assicura inoltre un proficuo grado di oggettivazione da parte del discente

dell'informazione dato che assicura il consolidamento di un sapere nell'esperienza che nei fatti è l'interfaccia

sensibile della cultura.

DIDATTICA COME "ESPERIENZA"

Difficilmente la didattica ammette attori in cui l'esperienza, intesa come sperimentazione diretta, difetti.

Per lo studente l'esperienza indotta o maieutica che sia, diviene strumento per la comprensione dei concetti

trasmessi ed in ragione di ciò del sapere ad essi sottintesi.

Per il docente l'esperienza nella disciplina e di riflesso nella didattica di quella specifica disciplina è requisito

irrinunciabile , dato che solo attraverso la propria

esperienza egli trova il grado e la misura adeguata per frammentare e trasmettere un sapere che solo a tali

condizioni può essere veicolato ad altri.

DIDATTICA COME "INDUZIONE"

La componente induttiva del processo educativo, sebbene risulti tra le più praticate è senza dubbio e per molti

versi la più debole, dato che fondandosi il modello culturale contemporaneo su schemi di natura propositiva,

genera nel migliore dei casi un accettazione per bisogno.

Di contro non deve essere assolutamente sottovaluta la componente induttiva intrinseca ad un processo educativo

di natura maieutica, anche perché in tale caso veicolando messaggi obbligati in uno scenario di partecipazione il

docente assicura al messaggio una forza pervasiva di notevole entità (ovviamente a condizione del valore

intrinseco del messaggio).

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A questo punto ai più può sorgere spontanea una domanda sulla legittimazione di chi sostiene tali assunti e ciò si

impone una breve digressione sulla "legittimazione.

Il concetto di legittimo ed in conseguenza di ciò la legittimazione (intesa come diritto ad argomentare di un

determinato argomento) che vi consegue, nella cultura contemporanea al pari della legge nelle praterie che

caratterizzavano il sogno della frontiera nel "West" è quanto mai labile; comunque essendo in Italia,

notoriamente "culla del diritto", (prematuramente scomparso per effetto di una morte in culla appunto), la

legittimazione di una qualsivoglia argomentazione, di prassi consegue al consenso che la stessa raccoglie e per

tale ragione solo a condizione che il pensiero sia reso di dominio pubblico è possibile verificarne il grado di

consenso.

Legittimare una attività didattica in genere è già un problema, stabilire e quindi legittimare cosa sia educare al

disegno diviene ancor più problematico, data la progressiva disabitudine a tale disciplina, figuriamoci poi chi

ragionevolmente si senta in grado di legittimare uno studio sperimentale sulla didattica della rappresentazione

grafica, che per propria natura deve necessariamente rifuggire all'idea di scuola.

Probabilmente solo i risultati che allo steso conseguono potranno convalidarne la bontà del metodo ed in

conseguenza di ciò legittimare i pensieri da cui si originano, in ogni caso un altro e per molti versi "diverso

approccio all’educazione al disegno, non produce più danni di quanto sino ad oggi ha portato tale disciplina in

una specie di catatonia.

TECNICHE DELLA RAPPRESENTAZIONE

IL DISEGNO NELLA STORIA

Il primo accenno storico al disegno lo si incontra in una definizione di Plinio il Vecchio, nell'opera di Parrasio,

ove riferendosi alla linea, Plinio scrive "raggiunse la perfezione nelle linee di contorno dei corpi; le quali

costituiscono il maggior pregio per una pittura." tale perfezione è riferita alla capacita della linea di contornare

la figura lasciando immaginare altri piani.

Nel medioevo il disegno passa per importanza in secondo piano rispetto ai valori cromatici dell'opera d’arte, tale

atteggiamento si rileva dalla "Schedula diversarum artium" redatta dal monaco Teofilo.

Cenino Cennini nel suo "Libro dell'arte" scritto a Padova nel ‘300, ripropone il disegno come fondamento e

principio dell'arte, questo atteggiamento è visto in funzione della necessità che l'artista maturi un proprio modo

espressivo, e avrà un seguito nei secoli successivi, sino al con la nascita della Scuola Veneta dove, a differenza

che in quella Toscana, la componente cromatica sarà rivalutata.

Cennini scrive: ".. in funzione dell'abilità di trovare cose non vedute, lasciandovi sotto ombra di naturali, e

fermarle con la mano dando a dimostrare quello che non è , sia.

Il primo testo del rinascimento che affronta il problema del disegno è il trattato De Pictura di L. B. Alberti, tale

trattato ispirato ad una concezione naturalistica della rappresentazione, affronta con razionalismo scientifico la

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stessa intesa come sezione trasversale della piramide visiva nella quale il pittore incanala prospetticamente gli

aspetti della realtà esterna.

Per quanto riguarda il segno, l’Alberti ritiene, che le linee di contorno siano "sottilissime …….. quasi tali, che

fuggano esser vedute ."

Con il Rinascimento, a causa della mutata concezione filosofica, che pone l'uomo al centro e misura di tutte le

cose, anche la rappresentazione, conseguentemente muta i propri parametri.

La prospettiva al di là della controversa disputa sulla effettiva paternità, impone una conoscenza approfondita

dell'utilizzo del disegno, e delle regole della rappresentazione. L'Alberti, riprende il tema nel suo "De Re

Aedificatoria", trattato del 1452 di progettazione architettonica.

Per l'Alberti il disegno è uno strumento per assegnare agli edifici e le parti che li compongono una posizione

appropriata ed una esatta proporzione, questa concezione pone il disegno come mezzo di trasferimento della

forma mentis , a prescindere dai materiali e dalla esecuzione.

La concezione dell'Alberti per quanto riguarda il disegno in pittura, viene ripresa da Piero della Francesca nel

suo "De Prospectiva Pingendi ". Antonio Averlino detto il Filarete, nel "Trattato di Architettura" del 1451,

mutuando la concezione albertiana del valore del disegno nella creazione dell'opera d'arte, applica tale

atteggiamento alla città, quindi all'intervento diretto sul paesaggio urbano.

Filarete nei libri XXII - XXIV riferendosi al disegno, fondato su principi di ottica e prospettiva, conferisce allo

stesso la funzione di principio ordinatore, in quanto il disegno ha le stese prerogative del numero e dell'ordine.

Tale atteggiamento, letto anche alla luce dell'uso per la pianificazione urbana, conferisce al disegno un nuovo

ruolo nella sua applicazione alle arti.

Sforzinda progetto utopico di città fortificata é esempio di tale concezione. Sempre nel rinascimento Francesco

di Giorgio Martini, nella redazione dei suoi "Trattati di Architettura civile e militare" presuppone il disegno

ad ogni azione intellettuale, o più precisamente ad "operativa scientia", introducendo la costante verifica tra

"significato "e " segno ".

Tale atteggiamento, espressione di un nuovo concepire il disegno come strumento esplorativo e documentale

della realtà, è cardine della trattazione di questo elaborato.

Leonardo con Il " Trattato della Pittura " nella Firenze quattrocentesca chiude il ciclo dei testi di ispirazione

albertiana, nella sua opera Leonardo riprende tre spunti, la concezione della pittura fondata su basi fisico-

matematico, il realismo di impostazione per il quale il processo mentale muove dal visibile, il paragone delle

arti. Per quanto riguarda l'atteggiamento di Leonardo, in relazione al disegno, egli pone questa componente in

subordine alla prospettiva concepita come modello matematico, che é base subordinata alla pittura che

concepisce come scienza.

Per quanto concerne la concezione leonardesca della prospettiva, si assiste ad una fusione tra prospettiva lineare

ed aerea, tale atteggiamento è conseguenza della predominanza dei valori cromatici dell'opera d'arte.

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La cosiddetta Scuola Toscana sino al manierismo continuerà nel privilegiare il disegno come base dell'opera,

mentre la Scuola Veneta anteporrà fattori luminosi e cromatici: si apre, così, nel '500 un significativo divario

sulla priorità del disegno nell'opera d'arte.

Il '500 segna la fine dell'epoca dei trattati, Vasari nelle "Vite" apre il filone delle biografie degli artisti, quindi le

specifiche concezioni divengono riferite ad ogni protagonista della scena artistica.

Un ulteriore utilizzo della attività grafica e la creazione di un tramite tra progetto e realizzazione, tale

atteggiamento è storicamente provato, nella stesura di disegni preparatori per oggetti delle arti comunemente

considerate minori, o nella realizzazione di opere scultoree.

Da ultimo è utile considerare come il disegno nella storia abbia assunto ed ancora oggi assuma il valore di

documentazione di eventi, o realtà esperibili, a tale scopo si considerino gli exempla, o il disegno documentario

di anatomia che sino ad una vasta diffusione del mezzo fotografico, ha supportato gli studi di anatomia medica e

pittorica.

Come già si diceva, il disegno viene storicamente comunque considerato come attività dell'umano intelletto, il

Vasari, riprendendo un concetto che fu dell'Alberti, identifica il disegno con le cosiddette “arti maggiori”, ovvero

pittura, scultura, architettura, che vengono definite "arti del disegno".

Questa concezione eleva il disegno a tecnica ideale, frutto di attività' intellettuale da cui dipende la prassi delle

tecniche operative.

STRUMENTI PRIMA DELLA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE

Come la scelta dei supporti, quella degli strumenti dei quali il disegnatore si vale per visualizzare l’immagine

grafica è in relazione a precise intenzionalità formali e stilistiche, nella cui attuazione gioca un ruolo di primo

piano anche il rapporto tra il fondo del disegno e la tecnica con la quale è realizzato. Non a caso, nonostante le

varianti individuali, a elaborati grafici tipologicamente diversi, quali lo studio puntuale di particolari, lo schizzo,

l’abbozzo o la definizione ultima di una composizione, corrispondono, entro certi limiti, procedimenti tecnici

ricorrenti.

Taluni strumenti, infatti, come lo stile a punta d’argento o di piombo, la penna, il pennello, se usato per tracciare

i contorni, la pietra d’Italia e la mina di piombo sono più adatti a produrre effetti lineari; mentre altri, come il

carboncino, la sanguigna, il gesso, la sinopia e il pastello sono più atti a produrre effetti pittorici La distinzione,

comunque, non può essere radicale in quanto il risultato formale dipenderà, in ogni caso, dall’uso che il

disegnatore farà, volta per volta, dell’uno o dell’altro strumento o di più strumenti insieme, per cui sarebbe

assurdo, come si è già rilevato, pretendere di andare oltre un’esemplificazione sommaria dei tempi e

delle aree culturali in cui si diffusero le varie tecniche.

Anche la penna è da annoverare tra gli strumenti disegnativi più antichi. Già in uso nei primi secoli dell’era

volgare, per il suo segno duttile e puntuale al tempo stesso divenne, fin dall’alto Medioevo, il mezzo basilare per

l’illustrazione dei codici. La sua facilità d’impiego, unita alla possibilità di ottenere effetti variati con l’uso di

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inchiostri diversi, di china o di noce di galla, rispettivamente nero e marrone, o di altri colori usati più raramente

e di solito su carte preparate, ne ha assicurato la fortuna sino ai giorni nostri, anche se nell’Ottocento venne

largamente sostituita, senza peraltro cadere mai in disuso, dalla matita.

Con gli inchiostri puri o diluiti in acqua (acquerelli) fu comune sin dal Medioevo anche l’uso del pennello, sia

per tracciare le linee di contorno, sia per ombreggiare o ravvivare con tocchi coloristici disegni a tratto, eseguiti

con stili metallici, a penna o a matita. Più raramente, e solo al fine di ottenere particolari effetti pittorici, furono

usati colori a olio o a tempera.

Per le ombreggiature, quando il disegno non era chiaroscurato, si ricorreva comunemente al bistro o alla seppia,

diluiti in acqua in varie concentrazioni, secondo la tonalità da ottenere.

Per le lumeggiature, invece, al sistema semplicissimo di non tracciare segni o di cancellare quelli già tracciati

sulle parti da lasciare in luce, oppure all’uso di biacca di piombo e di gesso bianco.

È quasi superfluo sottolineare che l’impiego del chiaroscuro, connesso a effetti plastici, ebbe maggiore fortuna

nella cultura artistica toscana, condizionata sino allo scorcio del Cinquecento dalla produzione di Michelangelo,

che in quella veneta, aperta sin dallo scorcio del Quattrocento alla suggestione delle prospettive aeree di

Giovanni Bellini: ce ne dà conferma, nel secolo successivo, la concezione pittorica dei disegni di Tiziano, del

Tintoretto e del Veronese.

Per il suo segno largo e vigoroso la pietra d’Italia (la “pria nera” del Cennini) fu invece usata a partire dal tardo

Quattrocento sia da artisti dell’ambito culturale toscano, come Antonio Pollaiolo e Domenico Ghirlandaio, sia da

artisti della scuola veneta; nel Rinascimento maturo se ne valsero ampiamente anche il Signorelli, Michelangelo

e Raffaello.

Nel Seicento agli strumenti citati si aggiunse la mina di piombo o grafite inglese, la cui friabilità, se da un lato ne

limitò l’uso, a volte unito a quello della matita nera, dall’altro consentì di ottenere effetti diversi, da un sottile

segno di definizione dell’immagine sullo sfondo a una traccia ricca di sfumature, atta viceversa a immergerla nel

suo ambito spaziale.

Effetti di maggior fusione del tracciato grafico e del fondo a esso sottostante si ottengono con l’uso di strumenti

più malleabili come il carboncino e la sinopia, la sanguigna e il gesso, particolarmente adatti, poiché consentono

una fattura rapida e suscettibile di pentimenti, allo schizzo e all’abbozzo.

Già nel Trecento - la fonte, al solito, è il Cennini - i pittori si valevano del carboncino per schizzi didattici e per

gli abbozzi su muro, che venivano successivamente ripresi e precisati con la sinopia; ne il suo uso conobbe in

seguito sensibili battute d’arresto, anzi, per la sua estrema duttilità, se ne valsero largamente i pittori veneti.

La sinopia, o terra rossa di Sinope, fu invece usata esclusivamente sul primo strato grezzo di calcina, lasciato

scabro perché vi potesse aderire il secondo intonaco, sul quale si stendevano i colori. Impiegata per definire la

traccia compositiva dei mosaici, oltre che degli affreschi, la sinopia, a partire dalla metà del Quattrocento,

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perdette gradualmente la sua importanza per l’affermarsi dell’uso dello spolvero, e successivamente del cartone,

sul quale il disegno veniva generalmente riportato a matita.

Affine, per effetto visivo, alla sinopia è la sanguigna o matita rossa, usata dalla metà del Quattrocento, da sola o

con la matita nera, generalmente su carta bianca. Il suo impiego, particolarmente esteso nell’ambito

rinascimentale toscano numerosi gli esempi nella produzione grafica di Michelangelo e della cerchia

michelangiolesca e leonardesca - ebbe largo seguito, per gli effetti pittorici che consentiva, in età barocca

Strumento dapprima accessorio e in seguito autonomo fu il pastello, usato nei secoli XV e XVI per rifinire con il

colore ritratti schizzati a punta d’argento o a sanguigna. Nel Settecento però, particolarmente in ambito veneto,

questa tecnica intermedia tra disegno e pittura fu largamente adottata senza l’ausilio di altri strumenti. Nel settore

particolare della ritrattistica la rapidità di esecuzione, richiesta dal fatto che i ritocchi ne accentuano gli effetti

lucidi, si traduceva per il disegnatore nella possibilità di fissare con pochi tratti le sfumature psicologiche di un

volto. Di preferenza fu adoperata su fondi ruvidi, come apposite carte vetrate o tele a grana fine - esemplare di

quest’uso la vasta produzione pittorica di Rosalba Carriera proprio per evitare l’effetto della lucentezza, al quale

però si poteva ovviare sfumando i tratti con le dita sino a ottenere la fusione dei toni.

GLI STRUMENTI

Come la scelta dei supporti, quella degli strumenti dei quali il disegnatore si vale per visualizzare l’immagine

grafica è in relazione a precise intenzionalità formali e stilistiche, nella cui attuazione gioca un ruolo di primo

piano anche il rapporto tra il fondo del disegno e la tecnica con la quale è realizzato.

Non a caso, nonostante le varianti individuali, rimanda a elaborati grafici diversi per genere, quali: lo schizzo,

l’abbozzo o lo studio puntuale di particolari, corrispondono, entro certi limiti, procedimenti tecnici ricorrenti.

Taluni strumenti, infatti, come lo stile a punta d’argento o di piombo, la penna, il pennello, se usato per tracciare

i contorni, la pietra d’Italia e la mina di piombo sono più adatti a produrre effetti lineari.

Mentre altri, come il carboncino, la sanguigna, il gesso, la sinopia e il pastello e la matita nera sono più atti a

produrre effetti pittorici.

La distinzione tra strumento e utilizzo, non può, comunque, essere radicale in quanto il risultato formale

dipenderà, in ogni caso, dall’uso che il disegnatore farà, volta per volta, dell’uno o dell’altro strumento o di più

strumenti insieme, per cui sarebbe assurdo, pretendere di andare oltre un’esemplificazione sommaria dei tempi e

delle aree culturali in cui si diffusero le varie tecniche.

Anche la penna è da annoverare tra gli strumenti più antichi. Già in uso nei primi secoli dell’era volgare, per il

suo segno duttile e puntuale al tempo stesso divenne, fin dall’alto Medioevo, il mezzo basilare per l’illustrazione

dei codici.

La facilità d’impiego della penna, unita alla possibilità di ottenere effetti variati con l’uso di inchiostri diversi:

inchiostro di china o inchiostro di noce di galla, rispettivamente nero e marrone, o di altri colori usati più

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raramente e di solito su carte preparate, ne ha assicurato la fortuna sino ai giorni nostri, anche se nell’Ottocento

venne largamente sostituita, senza peraltro cadere mai in disuso, dalla matita.

Con gli inchiostri puri o diluiti in acqua (acquerelli) fu comune sin dal Medioevo anche l’uso del pennello, sia

per tracciare le linee di contorno, sia per ombreggiare o ravvivare con tocchi coloristici disegni a tratto, eseguiti

con

stili metallici, a penna o a matita. Più raramente, e solo al fine di ottenere particolari effetti pittorici, furono usati

colori a olio o a tempera.

Per le ombreggiature, quando il disegno non era chiaroscurato, si ricorreva comunemente al bistro o alla seppia,

diluiti in acqua in varie concentrazioni, secondo la tonalità da ottenere.

Per le lumeggiature, invece, si ricorre al sistema semplicissimo di non tracciare segni o di cancellare quelli già

tracciati sulle parti da lasciare in luce, oppure all’uso di biacca di piombo e di gesso bianco.

Effetti di maggior fusione del tracciato grafico e del fondo a esso sottostante si ottengono con l’uso di strumenti

più malleabili come il carboncino e la sinopia, la sanguigna e il gesso, particolarmente adatti, poiché

consentono una fattura rapida e suscettibile di pentimenti, allo schizzo e all’abbozzo.

È quasi superfluo sottolineare che l’impiego del chiaroscuro, connesso a effetti plastici, ebbe maggiore fortuna

nella cultura artistica toscana, condizionata sino allo scorcio del Cinquecento dalla produzione di Michelangelo,

che in quella veneta, aperta sin dallo scorcio del Quattrocento alla suggestione delle prospettive aeree di

Giovanni Bellini: ce ne dà conferma, nel secolo successivo, la concezione pittorica dei disegni di Tiziano, del

Tintoretto e del Veronese.

Si riportano qui di seguito alcuni esempi di tecniche grafiche di rappresentazione utilizzate da alcuni Maestri dei

secoli passati.

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LO SCHIZZO (A. Canal, detto il Canaletto) L’ABBOZZO (Michelangelo Buonarroti)

STUDIO DEI PARTICOLARI (A. Galli Bibbiena) STILO A PUNTA D’ARGENTO (G. Romano)

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LA PENNA (Rembrandt van Rijn) MINA A PIOMBO (S. Botticelli)

IL PENNELLO (Luca Cambiaso) CARBONCINO (Tiziano Vecellio)

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SANGUIGNA (Il Figino) GESSO (G.B. Piazzetta) MATITA NERA (A. Del Sarto)

PENNA SU PERGAMENA (P. Uccello) INCHIOSTRO DI CHINA (Il Guercino) OMBREGGIATURA (P.

Veronese)

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ACQUARELLO (Liggozzi) LUMEGGIATURE (Raffaello)

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CONCLUSIONI

In quest’ambito non si può non citare Storia di un disegnatore di Eugène Viollet-le-Duc (1878) che ha

come sottotitolo “come si impara a disegnare”: “Chi ha preso l’abitudine di disegnare senza fatica,

senza essere obbligato a fare nessuno sforzo, come quando si è presa l’abitudine a usare l’ortografia,

disegna tutto ciò che guarda con una certa attenzione, in altre parole mentre guarda compie la stessa

operazione che si impegnerebbe a fare se volesse riprodurre l’oggetto sul foglio;… non si tratta di

arte, di composizione o della creazione di opere… ma di contrarre un’abitudine, di stabilire fra l’occhio,

il cervello e la mano una relazione intima…”.

Quest’opera è caratterizzata da un metodo e una completezza esemplari e attuali. Viollet-Le-Duc

voleva che il disegno fosse insegnato con la stessa quotidiana perseveranza dell’ortografia senza

nessuna pretesa artistica o pseudo-creativa.

La sintesi è proprio nel celebre motto di Viollet-Le-Duc, tratto da Leonardo e ispirato da Plinio e

spesso pronunciato anche da Carlo Scarpa, insuperato disegnatore e progettista:

nullo die sine linea

G.C.