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1 UNIVERSITADEGLI STUDI DI ROMA “LA SAPIENZAFacoltà di Scienze Politiche, Sociologia, Comunicazione CORSO DI GEOGRAFIA DELLO SVILUPPO A.A. 2016-2017 APPUNTI DALLE LEZIONI

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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI ROMA “LA SAPIENZA”

Facoltà di

Scienze Politiche, Sociologia, Comunicazione

CORSO DI GEOGRAFIA DELLO SVILUPPO

A.A. 2016-2017

APPUNTI DALLE LEZIONI

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QUADRO GENERALE DEGLI ARGOMENTI PARTE PRIMA TEORIE DELLO SVILUPPO REGIONALE I CRESCITA, SVILUPPO, SOTTOSVILUPPO II RIFERIMENTI TEORICI DELLO SVILUPPO REGIONALE III DIFFUSIONE DEI PROCESSI DI SVILUPPO E SVILUPPO ENDOGENO SVILUPPO

ENDOGENO IV NUOVO PARADIGMA TECNICO-ECONOMICO V TERZIARIZZAZIONE DELL’ECONOMIA E SVILUPPO REGIONALE VI LE CAUSE DEL SOTTOSVILUPPO VII LA MISURAZIONE DEL GRADO DI SVILUPPO VIII STRUTTURE E ORGANISMI PER LA COOPERAZIONE ALLO SVILUPPO PARTE SECONDA POLITICHE DELL’UNIONE EUROPEA I CENNI SULL’UNIONE EUROPEA II LE FONTI DEL DIRITTO DELL’UNIONE EUROPEA III POLITICHE DELL’UNIONE EUROPEA IV POLITICHE DELL’UNIONE EUROPEA PER IL CICLO DI PROGRAMMAZIONE 2014-

2020 V. UNIONE EUROPEA E POLITICHE DI COOPERAZIONE VERSO I PAESI IN RITARDO DI

SVILUPPO.

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PARTE PRIMA TEORIE DELLO SVILUPPO REGIONALE

Capitolo I Crescita, sviluppo, sottosviluppo Capitolo II Riferimenti teorici dello sviluppo regionale Capitolo III Diffusione dei processi di sviluppo e sviluppo endogeno Capitolo IV Il nuovo paradigma tecnico-economico Capitolo V Terziarizzazione dell’economia e sviluppo regionale Capitolo VI Le cause del sottosviluppo Capitolo VII La misurazione del grado di sviluppo Capitolo VIII Strutture e Organismi per la Cooperazione allo Sviluppo

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CRESCITA, SVILUPPO, SOTTOSVILUPPO

1. CRESCITA E SVILUPPO

Crescita e sviluppo sono termini spesso usati come sinonimi, mentre in realtà rappresentano concetti sostanzialmente diversi tra loro. La crescita di un Paese può essere definita come un aumento complessivo della produzione per unità di fattori produttivi. Lo sviluppo è un termine più generale che riguarda il miglioramento, non solo quantitativo, ma anche qualitativo, del sistema socio-economico, con cambiamenti nella distribuzione settoriale dei fattori produttivi e nella distribuzione del reddito. Se il prodotto interno lordo (PIL) rappresenta un adeguato indicatore della crescita, la distribuzione del reddito misura lo sviluppo, dato che permette di apprezzare la cosiddetta "qualità della vita". Il prodotto interno lordo è il valore totale dei beni e servizi prodotti in un Paese da parte di operatori economici residenti e non residenti nel corso di un anno, destinati al consumo dell'acquirente finale, agli investimenti privati e pubblici, alle esportazioni nette (esportazioni totali meno importazioni totali). Non viene quindi conteggiata la produzione destinata ai consumi intermedi di beni e servizi consumati e trasformati nel processo produttivo per ottenere nuovi beni e servizi. Un incremento della produzione, infatti, non necessariamente incide in modo rilevante sulla distribuzione del benessere economico della popolazione in tutte le sue componenti. La distinzione tra crescita e sviluppo, tuttavia, è meno netta di quanto si possa pensare, soprattutto perché, alle sue origini, la teoria dello sviluppo economico ha considerato, come prioritaria, la crescita del prodotto nazionale lordo, trascurando gli effetti distributivi e ponendo l’ipotesi che i benefici della crescita economica, acquisiti inizialmente solo dalle classi sociali più ricche, si diffondono, in tempi successivi, alle classi più povere. Tra il 1950 e il 1960 il tema delle relazioni tra crescita economica e distribuzione del reddito acquista maggiore importanza.

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Lo sviluppo diviene nozione molto più ampia e complessa, con caratteri dinamici e si caratterizza come un processo che ha luogo nel tempo e nello spazio. Viene definito come un miglioramento qualitativo e quantitativo del benessere economico della popolazione ed implica cambiamenti nella struttura della produzione e della distribuzione settoriale dei fattori produttivi. Se il PIL rappresenta un adeguato indicatore della crescita, la distribuzione del reddito - più ancora che il reddito pro capite - misura lo sviluppo, dato che permette di apprezzare la cosiddetta "qualità della vita". Molti autori tendono ad inglobare, nel concetto di sviluppo economico, quello più generale di sviluppo. Lo sviluppo economico presuppone un modello di crescita e di distribuzione di grandezze economiche, che determina effetti sul sistema complessivo della “qualità della vita” e sul grado di sviluppo sociale, culturale, sanitario, abitativo, politico, dei diritti civili e, quindi, sul grado di sviluppo complessivo di un Paese. Molti economisti dello sviluppo affermano il ruolo e l’importanza di aspetti non economici nel processo di sviluppo economico. Essi introducono, implicitamente, differenziazioni e discontinuità sulla superficie della terra in grado di spiegare, in diversa misura, la non omogeneità dei processi di sviluppo. Non è un caso che, un economista come Hagen affermi che la variabile strategica fondamentale dello sviluppo economico è da ricercarsi nelle modificazioni della personalità culturale della popolazione (Hagen, 1962).

2. SVILUPPO E SOTTOSVILUPPO Un punto che merita attenzione è la differenza sostanziale tra sviluppo e sottosviluppo. La teoria dello sviluppo può essere considerata come quella parte della teoria che riguarda le tendenze di lungo periodo del sistema economico (Hicks, 46). E’ quindi parte della dinamica economica o, meglio, uno dei metodi della dinamica economica. Lo sviluppo è quindi un processo, un mutamento delle condizioni oggettive e soggettive della produzione e dei rapporti tra i diversi livelli delle attività sociali che modificano la forma del modo di produzione e della formazione sociale senza eliminarne i caratteri essenziali.

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I fattori dello sviluppo erano stati già affrontati dai classici (Smith, Ricardo) e in parte anche se marginalmente in Marx. Lo stesso Malthus, come si vedrà in seguito, trattava del problema delle risorse e dei vincoli alla crescita. La teoria dello sviluppo economico di fatto prescinde – almeno fino agli anni quaranta - dalle problematiche del sottosviluppo. L’affermazione di un ramo della teoria economica relativa allo sviluppo economico in un periodo nel quale il problema del sottosviluppo costituiva una delle maggiori preoccupazioni degli economisti, ha contribuito a far pensare che fra le due ci fosse una effettiva connessione. Lo sviluppo è un processo che investe sia i paesi avanzati che quelli con livelli di reddito e qualità della vita arretrati. Il sottosviluppo individua uno stato in cui si trova un Paese ed è sinonimo di povertà. Il sottosviluppo in senso statico definisce lo stato di una economia in confronto ad altre e, in particolare, lo scarto esistente tra esso e un determinato standard assunto come rappresentativo dello stato di sviluppo. Il sottosviluppo in senso dinamico è un processo che si svolge nell’arco di un tempo storico e che determina l’incapacità dell’economia di un paese di riprodursi nelle dimensioni e nelle forme che la caratterizzavano in un dato momento. Viene quindi concettualizzata una crisi e una decadenza di un sistema economico e sociale che hanno come effetto di portarle ad uno stato di sottosviluppo. Il sottosviluppo come processo analizzato nei fattori che lo determinano e nelle modalità che presenta in diverse situazioni, spiega il sottosviluppo come stato. Il non sviluppo è un concetto che definisce una situazione di stagnazione in cui una economia tende a riprodursi nelle stesse forme e dimensioni che l’hanno caratterizzata a lungo nel passato o che si sono determinate in un certo momento. Questa situazione può presentarsi sia per Paesi che in seguito ad un processo di sottosviluppo si trovano nello stato di Paesi sottosviluppati sia per Paesi che non hanno conosciuto la crisi e la decadenza che caratterizzano quel processo. Lo sviluppo si distingue anche da un altro processo definito come transizione, che consiste nel passaggio di una economia e di una società da un modello di produzione e sociale ad un modello diverso.

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Il sottosviluppo non è uno stato originario ma il risultato del processo storico nel corso del quale si è formato un sistema mondiale con aree centrali ed aree periferiche. Lo studio dei paesi sottosviluppati deve partire dai modi in cui nel tempo si è formata la periferia e si sono determinati i rapporti con il centro. Lo studio del sottosviluppo è quindi prima di tutto lo studio del processo di perifericizzazione di una parte del mondo in cui la decolonizzazione è solo un aspetto - anche se rilevante - dei mutamenti che nei decenni del dopoguerra avvengono nei Paesi periferici e nei suoi rapporti con i Paesi sviluppati. Teoria economica di tipo evoluzionistico - prevalente negli anni Cinquanta -: è basata in gran parte sulla convinzione che anche i paesi sottosviluppati, dopo la decolonizzazione, possono seguire gli stessi schemi dei paesi industrializzati arrivando ad un risultato analogo. Successivamente si sono affiancate teorie per le quali il sottosviluppo non è una questione di semplice arretratezza dello stadio di sviluppo, ma di sfruttamento dovuto alla divisione internazionale del lavoro di origine coloniale.

3. IL SOTTOSVILUPPO

La definizione di Paese sottosviluppato è relativa e si riferisce ad una vasta gamma di caratteristiche economiche, demografiche, sociali e politiche che non possono venire attribuite in egual misura a tutti i Paesi. In generale, il sottosviluppo è caratterizzato da bassi indici d’industrializzazione e di reddito pro capite, associati ad indici elevati di mortalità infantile (congiunti a un forte incremento demografico), di dipendenza dalle esportazioni di materie prime, di debito estero, di analfabetismo. La problematica del sottosviluppo era stata affrontata in un articolo di Wilfred Benson dedicato al progresso economico delle aree sottosviluppate, ma l’introduzione del sottosviluppo come un tema di politica economica internazionale è avvenuto nel 1949 quando il presidente americano Harry Truman mise in evidenza l’esistenza di profondi squilibri tra le diverse aree del mondo e la necessità di definire politiche di aiuti ai paesi sottosviluppati (underdeveloped countries) con l’obiettivo di rendere disponibili i benefici del progresso tecnico per il miglioramento dei paesi in stato di sottosviluppo.

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Su questa linea il CEPAL, Commissione Economica per l’America Latina costituita dall’ONU, mise in rilievo negli anni ’50 le profonde asimmetrie che caratterizzavano gli scambi internazionali Il tema del sottosviluppo è stato approfondito a partire dagli anni sessanta da numerosi studiosi tra cui André Gunder Frank, uno dei fondatori della Teoria della Dipendenza e Wallerstein con il World Systems Theory (Teoria del Sistema Mondo). Egli sosteneva che i paesi ricchi e industrializzati hanno in vario modo bloccato i processi di sviluppo dei paesi poveri ad economia prevalentemente agricola, con politiche ed interventi mirati a proteggere la propria posizione privilegiata nel commercio internazionale. Negli anni cinquanta, fu introdotta una ripartizione del sistema mondo che si basava essenzialmente sugli allineamenti politici dei Paesi. Nel 1952 l'economista e demografo francese Alfred Sauvy introduceva la ripartizione del sistema mondo in “Tre Mondi”: A. il Primo Mondo era identificato con le vecchie e nuove potenze coloniali e,

più in generale, con i paesi industrializzati e ad economia di mercato; B. il Secondo Mondo era costituito dai Paesi con economie pianificate

centralmente (di fatto i Paesi appartenenti al blocco comunista); C. il Terzo Mondo raggruppava i paesi ex coloniali e non allineati, in

prevalenza dell'Asia e dell'Africa, accomunati oltre che dalla posizione economica e politica subalterna, dal fatto di non collocarsi in nessuno dei primi due mondi.

Nel corso degli anni, la distinzione fra i Tre Mondi è andata assumendo una connotazione più marcatamente economica, inserendo il terzo Mondo nei Paesi più arretrati e poveri.

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Ripartizione del sistema mondo in “Tre Mondi” In anni più recenti, per differenziare in modo migliore i Paesi posizionati in un’area di sottosviluppo ma con prospettive di miglioramento (i c.d. paesi in via di sviluppo, PVS) dai paesi con livelli di forte povertà e arretratezza e con scarse prospettive di crescita, è stato introdotto il termine Quarto Mondo, anche se la letteratura anglosassone – e in particolare le Nazioni Unite - utilizzano l’espressione least developed countries, riferita a circa cinquanta Paesi rappresentanti circa il 12% della popolazione mondiale e lo 0,6% del PIL mondiale (a titolo di esempio, Liberia, Bangladesh, Congo, Sierra leone, Sudan). I criteri utilizzati dalle nazioni Unite per l’identificazione di questi Paesi sono, oltre al reddito pro capite, anche la qualità della vita degli abitanti e la vulnerabilità della base economica.

Least developed countries

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Per meglio interpretare la varietà di situazioni geografiche che caratterizzano le aree sottosviluppate, sono stati elaborati ulteriori schemi e classificazioni geografiche.

Bjorn Hettne (1990). Un contributo di particolare interesse è stato proposto da Bjorn Hettne (1990). Egli individua in un cluster i Paesi meno svantaggiati e con maggiori possibilità di sviluppo all’interno dei Paesi del Terzo Mondo, che di fatto possono essere associati alla semiperiferia. Questi sono paesi che stanno acquisendo un sempre maggiore rilievo per dimensioni demografiche (Cina e India), per buona dotazione di risorse strategiche (Medio Oriente), per rapida espansione industriale (Sud Est asiatico) e in un altro cluster i paesi caratterizzati da profonda arretratezza, colpiti da forti recessioni e da crisi congiunturali, o paesi che per la loro collocazione geografica creano situazioni di isolamento dai circuiti economici mondiali. Rientrano in questa categoria numerose realtà dell’Africa centrale.

Paesi emergenti od in transizione o di recente industrializzazione

Kenichi Ohmae (1985) Nel 1985 Kenichi Ohmae osservò che l’economia mondiale è di fatto organizzata intorno ad una struttura macroregionale tripolare (la Triade Globale) i cui pilastri sono gli Stati Uniti, l’Unione Europea, il Giappone che insieme dominano l’economia mondiale costituendo quasi i due terzi del PIL mondiale, più di metà delle esportazioni, elevati investimenti diretti esteri. La presenza all’interno della Triade di mercati interconnessi e di regimi politici ed economici simili ha portato a complesse forme di cooperazione e di competizione. Tuttavia, all’inizio del terzo millennio, la Triade sta acquisendo altri paesi come la Cina, l’India, altre realtà del sud est asiatico il cui peso

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economico e la cui integrazione vanno crescendo sempre più nel sistema economico mondiale. Uno degli approcci ricorrenti per l’individuazione dei Paesi con caratteristiche di sottosviluppo è nota come modello centro-periferia. La rappresentazione del sistema mondiale come contrapposizione tra Paesi centrali e periferici risale ai lavori di Meier e Baldwin (1957) i quali individuarono i Paesi del centro come quelli caratterizzati da un ruolo attivo e dominante nel commercio mondiale. Si tratta di Paesi caratterizzati da una economia ricca di tipo industriale in grado di generare elevati flussi commerciali e finanziari. Al contrario i paesi periferici assumono un ruolo passivo o marginale nel commercio mondiale ed hanno la caratteristica principale - oltre ad una economia povera, prevalentemente agricola e dotata di scarsa o nulla tecnologia – di essere dipendenti dalle aree centrali per le importazioni di prodotti trasformati e dai capitali esteri. La contrapposizione tra centro e periferia del sistema – mondo è alla base di numerose catalogazioni del mondo in chiave di partizione geografica.

Rapporto Brandt Una delle più note classificazioni è la rappresentazione contenuta nel Rapporto Brandt (Indipendent Commission on International Development Issues, 1980) in cui la contrapposizione tra Paesi centrali e periferici viene sintetizzata con i termini Nord (tutti i Paesi dell’emisfero settentrionale più Nuova Zelanda e Australia) e Sud del mondo (geograficamente posto sotto la linea immaginaria di Brandt che divide i Paesi sviluppati dai Paesi in via di sviluppo).

Linea di Brandt

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Teoria del sistema-mondo di Wallerstein (1985) La ripartizione del sistema economico mondiale in centro, semiperiferia e periferia si fondò principalmente sulla teoria del sistema-mondo di Wallerstein (1985) in cui considera il mondo come un unico sistema capitalistico all’interno del quale i vari Paesi assumono ruoli diversi in relazione alla divisione internazionale del lavoro, al commercio mondiale, alla tecnologia adottata. Ne deriva un rapporto gerarchico tra Paesi centrali e periferici che non esclude variazione di composizione: alcuni paesi possono migliorare e nel tempo divenire Paesi centrali mentre altri possono decadere e passare ad uno stato di semiperifericità o di periferia.

4. FATTORI STRUTTURALI DEI PVS CHE CAUSANO SQUILIBRI MACROECONOMICI. Sono definiti paesi in via di sviluppo (in un acronimo, PVS) tutti quei paesi che presentano bassi tassi di crescita del Reddito Nazionale e del Reddito pro capite, ristretta base industriale, scarsa accumulazione del capitale, alta percentuale di povertà assoluta, basso tenore di vita – come da indicatori ISU circa sanità, mortalità, fame ed educazione. I fattori principali che portano alcuni Paesi a presentare un marcato sottosviluppo possono essere sintetizzati come segue: – specializzazione internazionale sfavorevole, vulnerabilità e ciclo

economico pronunciato. I PVS meno sviluppati si specializzano spesso nella produzione ed esportazione di beni di consumo ad alta elasticità rispetto al prezzo e bassa elasticità rispetto al reddito pro capite dei paesi importatori. Importano al contrario macchine, beni intermedi e beni di consumo ‘inferiori’ (alimenti) e cioè beni ad alta elasticità rispetto al loro PIL/c e bassa elasticità rispetto al loro prezzo d’importazione. Molti di questi paesi tendono ad avere economie aperte, con ridotto controllo sui prezzi dei beni che importano ed esportano. Le loro ragioni di scambio (terms of trade) sono dunque esogene, data la piccola quota di commercio internazionale che controllano. Sono generalmente dei price takers e per questo la loro domanda aggregata è più soggetta a shocks esogeni che quella di economie con maggiore quota di mercato che influiscono maggiormente sulla formazione dei prezzi dei beni esportati/importati. Inoltre, le esportazioni dei PVS sono molto concentrate sia per tipi di beni esportati che per paesi di destinazione. Questo basso grado di diversificazione espone i paesi a shocks esogeni maggiori di quelli di paesi

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con esportazioni differenziate sia per composizione merceologica che per paesi di destinazione. Inoltre, l’offerta di beni di esportazione coloniali è rigida nel medio termine a causa della lunga gestazione iniziale degli investimenti nelle colture d’esportazione (ad esempio tè, caffè, ecc sono colture arbustive che fruttificano solo dopo vari anni). Questo significa che, di fronte ad una caduta della domanda internazionale di tali beni, l’aggiustamento avviene più sui prezzi che sulle quantità. Il contrario avviene per i prodotti industriali a offerta elastica per i quali una contrazione della domanda internazionale porta ad una maggiore contrazione della offerta.

– forte dipendenza dalle importazioni di beni intermedi e d’investimento. Nei PVS, le importazioni di tali beni (che hanno bassa elasticità rispetto al prezzo e alta elasticità rispetto al reddito) superano spesso il 70-80% delle importazioni totali. Inoltre, il forte contenuto in input importati sulla produzione finale fa sì che le ‘svalutazioni competitive’ generino benefici limitati;

– basso risparmio interno, dipendenza dai capitali stranieri e fughe di capitali. Causa la loro debole capacità di generare risparmio interno, per accelerare la loro crescita molti PVS si indebitano verso l’estero a tassi di interessi variabili. In questo modo divengono debitori netti verso l’estero e sono esposti ovviamente a mutamenti dei tassi d’interesse, delle fluttuazioni del cambio e delle condizioni di rimborso.

– L’indebitamento estero è una questione centrale nella politica macroeconomia di molti PVS, un problema che condiziona la scelta del regime di tasso di cambio e la politica fiscale. Il fatto che i PVS siano importatori netti di capitali limita il ricorso alla svalutazione del tasso di cambio: il debito infatti è espresso in dollari, e ogni qualvolta il cambio cede il valore del debito espresso in moneta nazionale, aumenta proporzionalmente all’ammontare della svalutazione.

– rigidità strutturali, mercato dei beni e pressioni inflazionistiche. Nei PVS l’inflazione è spesso influenzata da conflitti distributivi fra classi sociali (i lavoratori, i rentiers, i capitalisti, i commercianti) che innalzano continuamente il livello dei prezzi dei beni che controllano, modificandone i prezzi relativi e generando così un’inflazione inerziale;

– import-export gap. In molti PVS, la crescita è frenata da un elevato squilibrio del rapporto Export-Import e da fughe di capitali;

– finanza pubblica debole e bilancio dello Stato in disavanzo. La spesa pubblica è ‘rigida’, non può cioè essere facilmente ridotta, specie in virtù

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del suo basso livello. In molti PVS il gettito tributario è al di sotto del livello desiderabile a causa delle difficoltà incontrate nel tassare élites politicamente importanti o accertare i redditi del settore agricolo. Lo strumento tributario è dunque inadeguato e poco flessibile e la possibilità di collocare debito pubblico sul mercato domestico modesta.

– inflazione inerziale: tende cioè ad autoriprodursi spontaneamente anche in assenza di shock inflazionistici specie se si adottano meccanismi di indicizzazione automatica di prezzi e salari. Ma l’inflazione può rimanere elevata anche in assenza di indicizzazione di prezzi e salari. Ciò avviene in paesi caratterizzati da forti aspettative inflazionistiche (spesso non giustificate dai fondamentali macro). In questo caso, gli agenti economici non hanno ‘aspettative razionali’, non riescono cioè a prevedere correttamente il futuro.

I divari tra paesi sviluppati e sottosviluppati non si attenuano ma anzi, in alcuni casi aumentano: ü La differenza di ricchezza tra Nord e Sud del Mondo era nel 1965 di 30:1

mentre oggi è di 70:1; ü Il 20% più ricco dell’umanità possiede l’86% della ricchezza (il 70% nel

1965); ü il 20% più povero dispone dell’1,3% della ricchezza mondiale; ü 1,3 miliardi di persone vivono con meno di 1 $ al giorno e 800 milioni

soffrono la fame; ü negli ultimi 25 anni 200 milioni di persone sono morte a causa della fame,

più del quadruplo rispetto ai morti della Seconda guerra mondiale. All’inizio del terzo millennio, nuovi fattori tendono a ridisegnare la fisionomia geoeconomica e politica del mondo. Si ha un graduale ma costante processo di differenziazione e ridistribuzione delle gerarchie interne ai paesi del Terzo Mondo e processi analoghi si verificano nei paesi ex Unione Sovietica.

Nord del Sud del mondo Tra i paesi caratterizzati da sottosviluppo, si individuano oggi alcuni cluster di paesi che tendono agli standard delle economie più avanzate, configurando un Nord del Sud del mondo: • Un primo cluster riguarda i paesi a rendita petrolifera (Algeria, Arabia

Saudita, Bahrein, Brunei, Emirati Arabi Uniti, Gabon, Iran, Iraq, Indonesia,

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Kuwait, Libia, Oman, Venezuela ecc.). • Un secondo cluster è quello delle Newly Industrialized Economies: le

cosiddette "tigri " dell'Asia orientale (Corea del Sud, Hong Kong, Taiwan e Singapore), caratterizzate da sostenuti ritmi di crescita economica e da una forte presenza sul mercato internazionale. Allo stesso cluster, sia pure con tassi di crescita inferiori, appartengono i cosiddetti "quattro dragoni "(Filippine, Indonesia, Malaysia e Thailandia). Il paese senz'altro a più rapida industrializzazione dell'Asia, se non del mondo, è la Cina, con un tasso costante di crescita a due cifre per oltre un decennio e in procinto, dopo l'annessione di Hong Kong e Macao, di ricoprire un ruolo leader mondiale anche in campo economico.

• Il terzo cluster di paesi emergenti è eterogeneo e comprende paesi di grandi dimensioni che dispongono di una forte base agricole o mineraria e un discreto apparato industriale (Argentina, Brasile, India, Messico e Sudafrica), o che sono in una fase di decollo industriale più o meno avanzato (Egitto, Turchia).

La Banca Mondiale ha ripartito i paesi del mondo, comprese alcune dipendenze, in quattro classi di reddito secondo il seguenti parametri: − paesi a reddito basso con reddito pro capite annuo inferiore a 900$; − paesi a reddito medio-basso, compreso tra 900$ e 3.700$; − paesi a reddito medio-alto compreso tra 3.700$ e 11.500$; − paesi con reddito pro capite superiore a 11.500.

Classificazione dei paesi del mondo sulla base del reddito pro capite (World Bank)

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Le prime tre classi corrispondono alla categoria dei paesi in via di sviluppo (PVS). La quarta classe comprende paesi a reddito pro capite molto basso, localizzati prevalentemente nell’Africa sub sahariana che sembra avere le peggiori prospettive future: mancanza di infrastrutture, scarsa qualificazione della forza lavoro, scarsa disponibilità di materie. A partire dal 1990, il United Nations Development Programme (UNDP) ha elaborato un Rapporto sullo Sviluppo Umano nei paesi del mondo. Il concetto di Sviluppo Umano supera il rigido parametro del reddito pro capite e prende in esame alcuni ambiti fondamentali dello sviluppo economico e sociale: − la promozione dei diritti umani e l'appoggio alle istituzioni locali con

particolare riguardo al diritto alla convivenza pacifica, la difesa dell'ambiente e lo sviluppo sostenibile delle risorse territoriali,

− lo sviluppo dei servizi sanitari e sociali con attenzione prioritaria ai problemi più diffusi ed ai gruppi più vulnerabili,

− il miglioramento dell'educazione della popolazione, con particolare attenzione all'educazione di base,

− lo sviluppo economico locale, l'alfabetizzazione e l'educazione allo sviluppo,

− la partecipazione democratica, − l'equità delle opportunità di sviluppo e d'inserimento nella vita sociale. Un metodo usato dalla World Bank per misurare la povertà è basato sul livello di reddito pro capite o di consumo pro capite. Una persona è considerata povera, se il suo consumo o reddito è al di sotto di una soglia minima per soddisfare i suoi bisogni di base che devono essere parametrati al costo della vita e, quindi, al sistema dei prezzi per i singoli beni di consumo. La World Bank traccia una soglia di povertà di 1$ e 2$ al giorno:

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Spezzare il sottosviluppo è fondamentale per mettere in moto un qualsiasi processo evolutivo nei Paesi del Sud, ma il perseguimento di tale obiettivo deve fare i conti anche con un elemento rilevante : − la natura del commercio internazionale che ha un ruolo fondamentale

nell'aggravio del differenziale di sviluppo esistente tra Nord e Sud del mondo.

L'attuale dimensione planetaria degli scambi ha consentito, infatti, un enorme aumento del volume dei commerci e nello stesso tempo accentuato le interdipendenze tra i diversi Paesi. I flussi di merci, che interessano il mercato internazionale, possono essere suddivisi in due principali settori: − le materie prime − i prodotti ottenuti dalla lavorazione industriale. Dal punto di vista della direzione dei flussi, invece, l'analisi si concentra sugli scambi che avvengono tra Nord e Sud e tra Sud e Sud. Lo scambio Sud - Sud è difficile da quantificare con precisione, perché gran parte di esso avviene con il sistema del baratto che non sempre viene registrato. Ciò accade perché molti dei paesi coinvolti in questi tipi di scambio non dispongono di valuta da utilizzare nelle transazioni tradizionali.

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Allo stato attuale comunque l'importanza economica degli scambi Nord - Sud è di gran lunga preponderante. Quindi i Paesi del Terzo Mondo offrono sul mercato materie prime dalla cui vendita traggono l'unica possibilità di ottenere la valuta pregiata necessaria all'acquisto di prodotti finiti indispensabili per la sussistenza della popolazione e per tentare di incrementare lo sviluppo economico. Pertanto, essendo il valore delle materie prime complessivamente inferiore a quello dei prodotti industriali, ne scaturiscono ragioni di scambio negative per i PVS, costretti a vendere quantità sempre maggiori di materie prime per procurarsi un'immutata quantità di manufatti. Il deterioramento dei termini reali di scambio costituisce dunque una perdita di potere d'acquisto dei PVS, a favore dei Paesi sviluppati. I rapporti commerciali internazionali sono quindi regolati da uno scambio ineguale determinato proprio dal diverso grado di sviluppo economico e tecnologico che contraddistingue i due gruppi di Paesi. Questa situazione però, è finita anche bene per alcuni Paesi che hanno avuto un consistente aumento del reddito. Essi sono riusciti ad attirare investimenti delle multinazionali e a creare una rete industriale specializzata nei manufatti a basso valore aggiunto; i vantaggi sono stati rilevanti, a partire dalla loro crescente quota di partecipazione al commercio internazionale. Anche i Paesi produttori di petrolio sono riusciti a conseguire una posizione di rilievo, rispetto ad altri Paesi del Sud del mondo, in virtù del forte afflusso di valuta pregiata ottenuta dalla vendita di petrolio e di gas naturale. Caratteristica della maggior parte dei Paesi a sviluppo intermedio è un forte indebitamento con l'estero che in molti casi ha finanziato alcune fasi del loro sviluppo economico. Creditori sono soprattutto la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale e diversi istituti bancari, pubblici e privati, dei Paesi più industrializzati La restituzione dei finanziamenti ottenuti avviene tramite il pagamento del servizio sul debito, cioè di parte del capitale a cui vengono aggiunti gli interessi passivi.

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Il servizio sul debito è spesso molto oneroso e lo è stato ancora di più in passato, prima che accordi tra i Paesi e gli istituti finanziari portassero ad una riduzione e dilazione nel tempo (la cosiddetta rinegoziazione). I nuovi accordi più favorevoli sono stati concessi in cambio di aggiustamenti strutturali, cioè di interventi statali basati su privatizzazioni, riduzione della spesa pubblica e una più ampia apertura agli scambi con l'estero. Queste iniziative economiche hanno in molti casi comportato gravi costi per la popolazione meno abbiente poiché la riduzione delle spese sociali ha ristretto per molti i margini di sopravvivenza.

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II

RIFERIMENTI TEORICI DELLO SVILUPPO REGIONALE

1. CRESCITA E SVILUPPO REGIONALE Crescita e sviluppo, come già osservato in precedenza, sono termini spesso usati come sinonimi, mentre in realtà rappresentano concetti sostanzialmente diversi tra loro. La crescita di un sistema regionale può essere definita come un aumento complessivo della produzione per unità di fattori produttivi. Lo sviluppo, al contrario, è un termine più generale, che riguarda il miglioramento, non solo quantitativo, ma anche qualitativo, del sistema socio-economico, con cambiamenti nella distribuzione settoriale dei fattori produttivi e nella distribuzione del reddito. Un incremento della produzione, infatti, non necessariamente incide in modo rilevante sulla distribuzione del benessere economico della popolazione in tutte le sue componenti. La crescita di un sistema economico - e quindi anche dell’economia di una regione - è interpretabile, secondo questa linea, come un incremento del reddito e della produzione, distribuito all'interno di tutti i settori produttivi e di tutti i soggetti economici del sistema in esame. Lo sviluppo, si è detto, ha al contrario un significato più ampio. Si può avere crescita economica con uno sviluppo economico modesto, e con forti squilibri nella distribuzione del reddito. La distinzione tra crescita e sviluppo, tuttavia, è meno netta di quanto si possa pensare, soprattutto perché, alle sue origini, la teoria dello sviluppo economico ha considerato, come prioritaria, la crescita del prodotto nazionale lordo, trascurando gli effetti distributivi, e ponendo l’ipotesi che i benefici della crescita economica, acquisiti inizialmente solo dalle classi sociali più ricche, si diffondono, in tempi successivi, alle classi più povere. Nel secondo dopoguerra, tra il 1950 e il 1960, il tema delle relazioni tra crescita economica e distribuzione del reddito acquista maggiore importanza, soprattutto ad opera di Kuznets.

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Lo sviluppo diviene, di conseguenza, nozione molto più ampia e complessa, con caratteri dinamici, e si caratterizza come un processo che ha luogo nel tempo e nello spazio. Viene definito come un miglioramento qualitativo e quantitativo del benessere economico della popolazione, ed implica cambiamenti nella struttura della produzione e della distribuzione settoriale dei fattori produttivi. Lo sviluppo economico presuppone un modello di crescita e di distribuzione di grandezze economiche, che determina effetti sul sistema complessivo della “qualità della vita” e sul grado di sviluppo sociale, culturale, sanitario, abitativo, politico, dei diritti civili e, quindi, sul grado di sviluppo complessivo di una regione. Molti economisti dello sviluppo affermano il ruolo e l’importanza di aspetti non economici nel processo di sviluppo economico. Essi introducono, implicitamente, differenziazioni e discontinuità sulla superficie della terra, in grado di spiegare, in diversa misura, la non omogeneità dei processi di sviluppo.

2. TEORIA DEGLI STADI E SVILUPPO REGIONALE.

Agli inizi degli anni sessanta Gerschenkron definisce la continuità storica come "la stabilità di alcuni elementi in una realtà per altri aspetti in piena trasformazione" con problemi di rapporti tra elementi di stabilità ed elementi di variabilità in un processo storico, o come "permanenza di qualche cosa che, per essenza, è comune all'intera storia dell'uomo" (Gerschenkron, 1962). Negli storici dell'economia, sono presenti due diversi tipi di approcci: − Il primo si basa sul principio che la storia è un insieme di fenomeni

irripetibili e non generalizzabili. La storia ha il compito di analizzare ed interpretare la realtà nelle sue individualità e particolarità, attraverso la sommatoria di singoli eventi.

− Il secondo approccio, al contrario, ricerca leggi generali, in grado di descrivere un ampio numero dei fenomeni che sono ritenuti i più significativi.

La teoria degli stadi rappresenta l'esemplificazione di questa seconda linea, attraverso l’individuazione, almeno per quanto riguarda gli aspetti presi in

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esame da ciascun modello, di leggi generali, valide in ogni tempo e in ogni luogo. L'approccio stadiale è stato ampiamente seguito dagli storici dell'economia: secondo le teorie degli stadi, derivate dalla storia economica, lo sviluppo di un sistema segue una dinamica strutturata in una successione deterministica di sviluppo.

Teoria di Rostow Nel quadro delle teorie sugli stadi di sviluppo, la teoria di Rostow contiene requisiti di estremo interesse sul versante geografico. La capacità di un sistema economico di passare da uno stadio di sviluppo ad un altro è, per Rostow, ascrivibile soprattutto a fattori non economici ma riconducibili, in prima approssimazione, a differenziazioni culturali dello spazio geografico (Rostow, 1960). La variabile strategica di partenza dello sviluppo è, infatti, quella che Hagen chiama la "modificazione della personalità culturale della popolazione", mentre le variabili economiche sono considerate come condizioni ambientali su cui agiscono le modificazioni culturali, spingendo il sistema da uno stadio di stagnazione ad uno di crescita. Hagen affronta il tema delle cause che incidono sull’attivazione di un processo sviluppo, interpretato come una successione di stadi e definito come "una serie di progressi tecnologici ed un aumento del reddito pro capite abbastanza rapidi da trasformare il mercato nel giro di una generazione e, di fatto, ogni dieci anni" (Hagen, 1962). Fattori culturali, modificazioni del comportamento umano (riassumibili sotto forma di "propensioni": propensione a sviluppare la scienza, ad applicarla, propensione alla informazione, ecc.) assumono, per Rostow, un ruolo chiave nella attivazione del processo di sviluppo economico. Il prerequisito - peraltro non sufficientemente approfondito e valorizzato - che spiega l'inizio del processo, non è economico ma geografico. Risiede nelle discontinuità regionali, nella diversa composizione culturale, sociale, ambientale delle regioni che costituiscono il pianeta, deriva dagli effetti che i diversi caratteri morfologici, climatici, ambientali hanno sulle scelte delle popolazioni, delle imprese, dei soggetti economici. Secondo Rostow, la società tradizionale è in equilibrio statico fino a quando non si generano delle perturbazioni che la allontanano da questo "stato di equilibrio". "

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Il processo di sviluppo economico è centrato su intervalli temporali relativamente brevi, di due o tre decadi ciascuno, quando l'economia e la società di cui fa parte si trasformano in modo tale che lo sviluppo economico ne segue più o meno automaticamente. Questa trasformazione decisiva viene chiamata decollo (take-off). Anche Rostow, come Hoover e Fisher, individua cinque stadi di crescita: − lo stadio della società tradizionale, − lo stadio delle condizioni che precedono il decollo, − lo stadio di decollo, lo − stadio che conduce alla maturità, − lo stadio dei consumi di massa. Nel primo stadio, le tecniche produttive sono immutabili, i rendimenti decrescenti, la popolazione è stabile lungo linee malthusiane. Nel secondo stadio (condizioni che precedono il decollo), si registrano cambiamenti di ridotta entità: si modifica l'organizzazione della società, vi è un miglioramento economico - che tuttavia si scontra con le rigidità ancora presenti del sistema, e che consente una ridotta mobilità sociale, geografica e nell’occupazione - i costi dei trasporti si riducono, aumentano le attività commerciali e di scambio, l’agricoltura e l’industria adottano funzioni di produzione migliori. Tutto il processo è caratterizzato da ridotto dinamismo e da lente trasformazioni. Il terzo stadio (del decollo o take-off) rappresenta il punto di rottura dell'equilibrio iniziale: si introducono, nei settori produttivi, innovazioni di più ampia portata, il tasso di crescita degli investimenti aumenta, si incrementa il tasso globale di sviluppo. E’ necessario che si realizzi il rafforzamento del settore manifatturiero con un ampliamento delle categorie merceologiche, si generino alti saggi di crescita, vi sia un sistema politico e sociale che in grado di sfruttare, in modo corretto ed adeguato, il take-off, garantendo un carattere di continuità. Con il quarto stadio, si perviene alla maturità: le industrie presentano una crescita regolare, le innovazioni si diffondono in quasi tutti i settori, il tasso di sviluppo economico supera il tasso di aumento della popolazione, aumenta il reddito pro capite. Dallo stadio della maturità, il sistema economico trasla verso il quinto stadio, denominato dei “consumi di massa”, caratterizzato dalla diffusione dei consumi dei beni durevoli, dall’istruzione a tutte le classi sociali, da un miglioramento complessivo della qualità della vita.

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La teoria di Rostow ha attivato un ampio dibattito, soprattutto per quanto riguarda i caratteri delle precondizioni che precedono il decollo economico ed il decollo stesso. Per Rostow, infatti, lo sviluppo è attivato dalle industrie principali di un paese, nel momento in cui queste riescono a superare gli ostacoli che si oppongono alla loro crescita. In particolare, le imprese nei settori leader svolgono un ruolo trainante, generano una crescita autosostenibile, influiscono sul sistema politico, sociale, istituzionale.

Gerschenkron Sulle orme di Rostow, Gerschenkron ha elaborato una teoria degli stadi secondo cui, nella storia economica, "tutti i modelli hanno in comune una caratteristica fondamentale: almeno per quanto riguarda gli aspetti specifici presi in esame da ciascun modello, la vita economica si è sviluppata in conformità a leggi generali, valide in ogni tempo e in ogni luogo" (Gerschenkron, 1968). Egli osserva che lo schema rostowiano presuppone la rigida consequenzialità e la totalità, sempre e dovunque, dei cinque stadi, attribuendo a tutti i Paesi, una unica traiettoria di sviluppo. Gerschenkron, nella sua teoria, tratta una sola componente dello sviluppo, l'industrializzazione, identificando "tutte quelle varianti, tutte quelle differenze che possono essere definite come tipi di sviluppo"(Gerschenkron, 1968). L’identificazione delle varianti e delle diverse tipologie di sviluppo permettono di effettuare una sorta di classificazione delle traiettorie di sviluppo regionale in modelli unitari, all’interno dei quali ricondurre i diversi casi osservati.

Hoover e Fisher Un approccio stadiale tipico è quello con cui Hoover e Fisher descrivono il processo di sviluppo regionale: il commercio che si genera nelle regioni nelle quali è presente una specializzazione produttiva, è un fattore di attivazione dello sviluppo. Il passaggio da una economia agricola ad una industriale rappresenta, per gli autori, un nodo strategico. Una regione non industrializzata può, tuttavia, essere in grado di assicurare un livello di reddito crescente, con la specializzazione in attività estrattive o nello sfruttamento di risorse petrolifere, anche se si determina una dipendenza da altre regioni.

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3. L'ANDAMENTO CICLICO DELLO SVILUPPO. Lo sviluppo economico di un paese o di una regione non procede in modo continuo, ma attraverso delle discontinuità che possono agire in modo contrario rispetto al trend tendenziale. Queste discontinuità temporali, che derivano dall’introduzione di invenzioni e innovazioni, sono in realtà anche discontinuità spaziali, dovute alla capacità delle singole regioni, reti, città, di generare invenzioni ed innovazioni. Di fatto, le economie dei paesi non si espandono ad un tasso di sviluppo uniforme: se, infatti, mutamenti nella tecnica produttiva e nella quantità di popolazione determinano, nel lungo periodo, un trend positivo di crescita quantitativa e qualitativa, a tale trend si sovrappone, il più delle volte, nel breve periodo, una struttura dinamica che produce fasi alterne di espansione e contrazione. Lo sviluppo di un sistema economico con progresso tecnico si attua, quindi, attraverso una successione alterna di "onde espansive" e di "pause". Le fasi alterne di espansioni e di pause sono legate alla dinamica strutturale del sistema economico, e possono essere considerate, in linea con quanto detto precedentemente, come un effetto del progresso tecnico e dell’introduzione di innovazioni nel processo produttivo. Esse sono, di fatto, costitutive lo sviluppo economico di un paese o di una regione, e rappresentano quel fenomeno che viene chiamato “ciclo economico”. In termini generali, si può definire ciclo economico: "una oscillazione del prodotto lordo, del reddito e della sua distribuzione, dell'occupazione, contrassegnata da una diffusa espansione o contrazione in molti settori del sistema economico”.

Schumpeter Una importante analisi del ciclo è stata effettuata da Schumpeter, come logica derivazione degli approfondimenti sulla natura e comportamenti delle invenzioni e innovazioni nel processo produttivo e, quindi, sui modelli di sviluppo che ne conseguono. Per Schumpeter, riprendendo quanto detto in precedenza, le innovazioni che determinano nuove combinazioni produttive non sono distribuite in modo uniforme nel tempo, ma si concentrano, in genere, in determinati periodi "a gruppi o a sciami" (Schumpeter, 1936). Questo modello di comportamento

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deriva dal fatto che l'apparizione di uno o più imprenditori innovatori attiva la nascita di altri imprenditori, che possono essere, sia innovatori che imitatori. Questi ultimi nascono per la presenza, sul mercato, di innovazioni già collaudate in altre imprese o settori collegati, ed il loro numero è tanto maggiore quanto più elevata è la quantità di coloro che hanno già attuato le innovazioni, e per i quali è stato verificato il successo dell'iniziativa. Parallelamente, l'adozione di una innovazione in uno specifico settore produttivo stimola il processo innovativo anche nei settori ad esso collegati, determinando effetti diffusivi di tipo settoriale. In seguito alla crescente introduzione di innovazioni e, quindi, di prodotti più competitivi - in termini di prezzi e di qualità - la domanda di beni si amplia, dando luogo a quel "clima di fiducia" che è la base per attuare nuovi investimenti ed innovazioni, e che determina, per il paese o la regione, condizioni di boom. Nella fase depressiva del ciclo, si determina una selezione dell'apparato produttivo: le imprese che non riescono ad essere competitive nella fase di contrazione della domanda, escono dal mercato, mentre quelle più efficienti - mediante opportune ristrutturazioni - si adattano e si predispongono per le successive fasi di espansione. Parallelamente, le innovazioni sono assimilate da buona parte del sistema produttivo che si ristruttura secondo le nuove esigenze. Il processo di sviluppo ciclico - in cui la crescita non è solo quantitativa e, comunque, non distribuita in modo uniforme tra tutti i settori, ma anche qualitativa - si identifica con una diversa distribuzione dei redditi e dei consumi, e delle capacità di investimento.

4. IL MODELLO DI DERIVAZIONE NEOCLASSICA E IL MODELLO KEYNESIANO

In molta parte della letteratura economica, si trova una contrapposizione tra i modelli neoclassici di crescita regionale e modelli neo-keynesiani. Il modello neoclassico si basa su un assunto abbastanza semplice:

la crescita regionale è dovuta agli spostamenti interregionali di due fattori di produzione: il capitale e il lavoro.

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Coloro che possiedono un capitale, orientano gli investimenti verso le regioni in cui vi è un maggiore tasso di redditività; i lavoratori, al contrario, tendono a localizzarsi in regioni che offrono un saggio di salario più alto. I differenziali di crescita tra regioni derivano, quindi, non solo dalle differenze regionali nei tassi di espansione dell'offerta locale di capitale e di lavoro (dovuta alla quota dei risparmi ed alla crescita della popolazione), ma anche dagli spostamenti di questi due fattori. In particolare, la forza lavoro si sposta verso le regioni in cui il livello dei salari è più alto, e in cui, quindi, si determina un rapporto tra capitale e lavoro maggiore. Parallelamente, i capitali tendono a spostarsi da queste regioni - in cui il rendimento netto dell'investimento di capitale risulta ridotto - verso quelle aree in cui i salari sono più bassi, ed in cui il rapporto tra capitale e lavoro è minore e, quindi, più vantaggioso. Le conoscenze tecniche - che hanno una elevata mobilità interregionale - non influenzano in modo significativo i tassi di crescita. Nella teoria keynesiana, in un'economia caratterizzata da una debole domanda aggregata con una difficoltà a procedere verso la crescita del reddito nazionale, il governo o, più in generale, il settore pubblico ha la possibilità di incrementare la domanda aggregata attraverso la spesa pubblica per l'acquisto di beni e servizi. Ciò potrà essere finanziato anche tramite politiche di deficit di bilancio; l'indebitamento pubblico, sotto determinate ipotesi, non aumenterà il tasso di interesse al punto da scoraggiare l'investimento privato. In economia inflazione indica un incremento generalizzato e continuativo del livello dei prezzi nel tempo. Vi sono diverse possibili cause dell'inflazione: L'aumento dell'offerta di moneta superiore alla domanda, stimolando la domanda di beni e servizi e gli investimenti, è unanimemente considerata dagli economisti una causa dell'aumento dei prezzi nel lungo periodo. Altre cause sono: ü l'aumento dei prezzi dei beni importati, ü l'aumento del costo dei fattori produttivi e dei beni intermedi, in seguito

all'aumento della domanda o per altre ragioni. Nell'ambito dell'aumento del costo dei fattori produttivi, è significativo il ruolo svolto dall'aumento del costo del lavoro.

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Il costo del lavoro aumenta sotto la spinta della domanda, ma anche in seguito alle rivendicazioni salariali, a meccanismi automatici o semiautomatici di adeguamento di salari e stipendi a precedenti aumenti dei prezzi e al rinnovo dei contratti di lavoro. L'aumento del livello generale dei prezzi determina una perdita di potere d'acquisto della moneta: con la stessa quantità di denaro si può cioè acquistare una minore quantità di beni e servizi. Per stagflazione (combinazione dei termini stagnazione ed inflazione) si intende indicare la situazione nella quale sono contemporaneamente presenti - su un determinato mercato - sia un aumento generale dei prezzi (inflazione) che una mancanza di crescita dell'economia in termini reali (stagnazione economica). La stagflazione è un fenomeno presentatosi per la prima volta alla fine degli anni sessanta, prevalentemente nei paesi occidentali; precedentemente inflazione e stagnazione si erano invece sempre presentate disgiuntamente. Nella visione keynesiana, la disoccupazione è causata da un livello non sufficiente della domanda aggregata, mentre l’inflazione è giustificata solo quando il mercato raggiunge il pieno impiego: a quel punto l’eccesso della domanda aggregata rispetto all’offerta aggregata, non potendo riversarsi sulla quantità reale (già massima e non espandibile), si riversa sui prezzi, incrementandoli e determinando un aumento del prodotto interno lordo nominale, ovvero dei prezzi e non delle quantità. Nella teoria keynesiana una situazione di disoccupazione non è compatibile con prezzi in aumento, ma con prezzi in diminuzione, per effetto della recessione.

5. IL DUALISMO In buona parte delle teorie dello sviluppo, le distinzioni tra individui e classi di individui all'interno delle strutture sociali ed economiche regionali, sono state, il più delle volte, considerate disposte lungo un continuum, senza caratteri di discontinuità. In realtà i vari segmenti della società si organizzano intorno a ruoli, processi e istituzioni differenti, che danno luogo a vari sistemi di incentivi e disincentivi per gli individui. Questi segmenti formano dei complessi omogenei che

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derivano la loro unità, sia dalla compattezza delle loro regole interne e della loro organizzazione, sia dalla stabilità dei loro rapporti con gli altri segmenti della società". Questo modello di segmentazione sociale ed economica è stato definito dualistico: la divisione di un sistema economico in due o più settori, che procedono con livelli di sviluppo fortemente differenziati, è definita “dualismo economico”, mentre una economia che presenta queste caratteristiche è detta “economia duale”. Si possono citare due tipi di approcci: − il primo identifica, all'interno di un sistema economico, due settori

separati e paralleli. Un settore ha caratteristiche moderne, mentre l’altro è di tipo tradizionale. In questo sistema, il settore economico moderno è in espansione, ma non è in grado, o non ha la forza, di agire da volano e di modernizzare l'intera struttura produttiva. Si crea, quindi, una forte frattura tra il settore moderno, composto da imprese di grandi dimensioni, ad alta intensità di capitale e ad alta produttività, che adottano tecnologie avanzate, e il settore tradizionale, in cui sono presenti imprese di piccole dimensione, ad alta intensità di lavoro, ed a tecnologia locale non innovativa. La discontinuità riscontrabile in un’economia duale di questo tipo, deriva in buona misura dalla dicotomia nella struttura produttiva, tra grandi imprese di tipo monopolistico od oligopolistico, ed una frangia, o periferia, di piccole imprese. Parallelamente, la struttura del mercato del lavoro si stratifica in due gruppi, il primo, formato dagli occupati nelle imprese avanzate (in cui sono presenti posizioni di tipo professionale e manageriale da un lato, e di tipo salariale dall’altro), il secondo, costituito dagli occupati nelle imprese marginali e arretrate;

− il secondo approccio è quello marxista, secondo cui l'industrializzazione crea forme di differenziazione sociale radicalmente distinte le une dalle altre, tra loro in conflitto, non collegate, all'interno di un sistema sociale fondamentalmente omogeneo.

I sintomi del dualismo sono stati analizzati e individuati sia in economie sviluppate che in economie sottosviluppate.

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Averitt Nei sistemi produttivi delle economie sviluppate, le grandi imprese monopolistiche od oligopolistiche costituiscono quello che Averitt chiama "settore centrale", mentre la struttura delle piccole imprese, orientate al mercato locale che determina prezzi, livelli di produzione, investimenti, viene definito periferico (Averitt, 1968). − I sistemi centrali, sono formati da imprese di grandi dimensione, che

beneficiano di economie di scala, adottano innovazioni di prodotto, di processo, di organizzazione, di mercato, si posizionano su frontiere tecnologiche, investono quote rilevanti degli utili nella R&S.

− I sistemi periferici, formati da piccole imprese, a mercato locale di ridotte dimensioni, adottano tecniche di produzione mature, e con un livello di profitti e d’investimenti, di gran lunga inferiori a quelli delle imprese centrali.

La classificazione duale di Averitt risulta di notevole interesse per l’approccio geografico allo sviluppo regionale, in quanto permette di studiare le coincidenze localizzative tra imprese centrali ed imprese periferiche, e d’introdurre un dualismo territoriale che distingue gran parte dei sistemi economici in regioni centrali e in regioni periferiche.

Holland Holland introduce il principio di un modello localizzativo che pone, da un lato, le grandi imprese multisettoriali - che adottano innovazioni con frequenza e rapidità - nelle regioni più sviluppate e, dall'altro, le imprese di piccola dimensione, con scarsa propensione all’innovazione e con debole grado di competitività sui mercati, nelle regioni meno sviluppate. Si verrebbe a creare, quindi, una sorta di coincidenza spazio-settoriale tra imprese centrali in aree centrali, e imprese periferiche in regioni periferiche. Tale articolazione presenta, tuttavia, alcuni problemi analitici di non trascurabile importanza, dato che la dimensione di una impresa non è un parametro sufficiente a discriminare la gamma delle differenze qualitative e tecnologiche presenti in una struttura intrasettoriale dualistica. Accanto a grandi imprese con alto tasso tecnologico ed innovativo, si possono trovare imprese di media e piccola dimensione di tipo centrale, che si collocano su frontiere tecnologiche avanzate, localizzate anch'esse in regioni centrali, là dove la disponibilità di informazioni, di manodopera qualificata e di economie di agglomerazione tecnologica garantiscono la maggiore efficienza, competitività e capacità di produzione.

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Per i sistemi produttivi delle economie sottosviluppate è emerso che, nel sistema sia sociale che economico, coesistono spesso, a fianco di attività tradizionali, che utilizzano metodi di produzione propri di società nello stadio pre-industriale, strutture produttive che adottano tecniche avanzate ad elevata produttività. Parallelamente, in un sistema duale sono in genere presenti due livelli salariali, uno decisamente elevato e proprio del settore industriale, l'altro che appartiene a settori non industriali. Il settore moderno, nei sistemi economici caratterizzati da sottosviluppo, in genere, non è integrato con il resto dell'economia della regione, in quanto la produttività è molto più alta, i salari sono anch’essi più elevati, la forte produttività per addetto riflette, almeno in parte, una maggiore intensità di capitale nel processo produttivo.

6. LA CONVERGENZA Un’interpretazione semplificata delle disparità regionali è quella di tipo diacronico, secondo la quale, in tutte le regioni, indipendentemente dalla loro collocazione geografica, culturale, sociale, si registra una stessa consequenzialità delle fasi di sviluppo, che non necessariamente hanno la stessa ampiezza temporale. Alcune regioni iniziano prima la crescita, mentre altre rimangono nello stadio iniziale per periodi molto più lunghi. Tutte le regioni, comunque, partono da una situazione analoga, in cui l'agricoltura di sussistenza è l'attività economica prevalente. In un secondo momento, l'attività agricola è affiancata da una produzione industriale con mercato locale, mentre in una terza fase, al sistema di imprese locali, si affiancano e si sostituiscono imprese rivolte all’esportazione. Infine, con la maturità del sistema produttivo e con i consumi di massa, l’economia si terziarizza. Questo schema “stadiale” associa una gerarchia temporale allo sviluppo dei tre settori produttivi (primario, secondario, terziario), mentre le differenziazioni dello spazio geografico non vengono in alcun modo prese in esame. Anche se le condizioni di partenza sono diverse, e la crescita non procede in modo uniforme, l’evoluzione dei sistemi economici tende, secondo questa visione, comunque ad uno stadio finale che è uguale per tutte le regioni, e, quindi, ad una "convergenza" dei divari.

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7. LA DIVERGENZA NEL PROCESSO DI SVILUPPO REGIONALE, In opposizione al pensiero neoclassico della convergenza regionale, sono state elaborate numerose teorie che si basano sulla differenziazione progressiva, nello spazio e nel tempo, della crescita e dello sviluppo e, quindi, sulla "divergenza regionale”, introducendo fenomeni moltiplicativi e cumulativi che si attivano sia in termini settoriali che spaziali. I principali filoni sono due:

• sviluppo equilibrato; • sviluppo squilibrato.

7.1. Le teorie dello sviluppo equilibrato Nel quadro della divergenza regionale, le teorie dello sviluppo equilibrato partono dal presupposto che, in una regione, per rompere l'inerzia di un sistema economico in stato stazionario e di ristagno, e per spingerlo su una traiettoria di crescita e sviluppo, è necessario che si realizzi una rottura ed una spinta, un big push, che determini uno sviluppo simultaneo di più settori produttivi.

7.2. Le teorie dello sviluppo squilibrato. Myrdal

Myrdal osserva che il commercio tra paesi sottosviluppati e paesi sviluppati non tende all'uguaglianza ma dà luogo ad un allontanamento dall'equilibrio, con un incremento della divergenza tra produttività dei paesi sviluppati e quella dei paesi sottosviluppati (Myrdal, 1957). Secondo il principio di causalità cumulativa, alcune regioni si avvantaggiano a scapito di altre, determinando disuguaglianze sempre maggiori tra aree relativamente ricche ed aree relativamente povere. Uno dei punti di partenza di Myrdal è la critica alla teoria del commercio internazionale, che non sarebbe in grado, a suo giudizio, di spiegare adeguatamente i motivi per cui si generano disuguaglianze economiche tra regioni, e le cause per le quali si registra una tendenza al loro aumento. Il commercio viene considerato da Myrdal come uno dei fattori attraverso il quale le forze di mercato tendono a produrre maggiori disuguaglianze ed a concentrare lo sviluppo solo in alcune regioni.

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La causazione circolare di uno sviluppo cumulativo è il processo secondo il quale un paese sottosviluppato può sperare di "sollevarsi con le proprie forze" solo se è in grado di mettere in atto l'avvio di un processo di sviluppo che si sostiene da sé, e di sostenere il sacrificio nell'attesa di una piena ricompensa di tutti i propri sforzi. Se in una regione s’insedia una nuova impresa, oppure una già esistente introduce importanti innovazioni, si attivano una serie di eventi che hanno effetti diretti, sia sulla crescita che sullo sviluppo regionale: si creano nuovi posti di lavoro, il reddito ed i consumi subiscono una variazione positiva, le imprese locali beneficiano della dinamica con un aumento della produzione e, successivamente, in seguito alla disponibilità di una maggiore capacità d’investimento, si determinano livelli crescenti di produttività. Con l'aumento dei redditi e, quindi, dei consumi, la domanda aggregata assume maggiori dimensioni con risvolti positivi sui profitti d'impresa e, quindi, sugli investimenti, mentre l'espansione complessiva del sistema genera economie esterne che accelerano il processo di concentrazione di altre attività. Queste condizioni ambientali favorevoli attraggono manodopera, capitale ed imprese, favoriscono la nascita di servizi di elevata qualità. Questo complesso di fattori spingono ad una sempre maggiore concentrazione d’attività e di capitali – che, in un’economia in fase di sviluppo, tendono a dare una remunerazione superiore alla media - producendo l'aumento delle ineguaglianze regionali. I processi di progressivo squilibrio tra regioni soggette a crescita (centrali), ed aree soggette a progressivo impoverimento (periferiche), sono spiegati da Myrdal come la combinazione di processi di causazione circolare cumulativa ascendente nelle aree centrali, e discendente - ossia operante in senso inverso - nelle aree periferiche. La concomitanza della cumulatività ascendente e discendente si registra in misura massima nella prima fase, quando operano quelli che Myrdal chiama "effetti di riflusso". Si osservano "effetti di riflusso" quando la manodopera ed i capitali - che sono il mezzo attraverso il quale si svolge il processo cumulativo in senso ascendente o discendente - sono attratti dalle aree periferiche verso quelle centrali, dove l'attività economica è in espansione. Poichè il fenomeno migratorio - almeno nelle prime fasi - ha carattere selettivo, il processo di riflusso riguarda soprattutto la manodopera più qualificata, i capitali di maggiore dimensione, le capacità imprenditoriali più vivaci, dando luogo, nell'area centrale, ad un processo di causazione cumulativa ascendente.

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Nelle aree periferiche, la migrazione della manodopera e dei capitali verso le regioni centrali, influisce negativamente sugli investimenti, la struttura produttiva si indebolisce ulteriormente e perde di competitività, la manodopera si svaluta, i redditi ed i consumi si riducono ulteriormente. Di conseguenza, le aliquote delle imposte locali tendono a diminuire, con effetti sulla qualità ed efficienza del sistema delle infrastrutture e dei servizi. Ciò si ripercuote anche sulle risorse che possono essere destinate alla formazione della manodopera, con effetti negativi sulla specializzazione. In queste aree i fattori negativi si cumulano, dando luogo alla causazione circolare cumulativa discendente. Il processo di riflusso si può attenuare in una fase successiva, quando si delineano effetti di diffusione dalle regioni centrali verso quelle periferiche, sotto forma di domanda da parte delle aree sviluppate di produzioni tipiche delle economie periferiche, come ad esempio i prodotti agricoli o le materie prime. La diffusione può coinvolgere sia aree contigue che confinano con quella in espansione, sia regioni più distanti, dove si registrano condizioni favorevoli alla produzione di materie prime necessarie alle industrie localizzate nelle aree centrali. Se la domanda esogena è sufficientemente elevata, in queste aree periferiche aumenta la domanda di manodopera - e quindi l'occupazione - con conseguente incremento dei redditi e dei consumi. Si determina quindi, se l'impulso all'espansione è sufficientemente forte da annullare gli effetti di riflusso, un’inversione nella direzione del processo cumulativo (da discendente in ascendente).

Perroux Il concetto di polo e di polarizzazione collocano la teoria di Perroux negli studi che pongono come elemento fondativo il processo di differenziazione progressiva nello spazio e nel tempo, della crescita e dello sviluppo. Uno dei punti di partenza della teoria di Perroux riguarda il principio della dominazione che, da un lato, costituisce il fulcro della sua critica alla teoria dell'equilibrio e, dall'altro, permette di definire i caratteri salienti del polo di sviluppo. L'effetto di dominazione consiste in un’influenza irreversibile o parzialmente reversibile, esercitata da un’unità su un'altra.

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Un’unità economica esercita questo effetto in ragione delle sue dimensioni, del suo potere di negoziato, della natura delle sue attività o della appartenzenza ad una zona di attività dominante. Contrariamente alle condizioni espresse dai modelli di concorrenza perfetta, le imprese operano in situazioni diverse e si collocano in due tipologie di spazi differenziati: − lo spazio geografico, costituito dall'ambito territoriale all'interno del quale

un’impresa controlla (domina) l'attività economica; − lo spazio economico, che può essere assimilato al mercato di un prodotto,

ed alle relazioni di dominazione che l'impresa (dominante) esercita su altre imprese, in termini di acquisizione di input produttivi o semilavorati, a determinate condizioni ed a determinati prezzi.

La teoria di Perroux si basa sul principio della differenziazione spaziale dello sviluppo, che si manifesta in poli di crescita con intensità variabile. La nascita e la crescita di poli deriva da un forte aumento, in alcune aree, del numero di unità produttive che possiedono caratteristiche proprie della grande industria moderna (separazione tra loro dei fattori di produzione, elevata specializzazione, adozione di innovazioni), in grado di raggiungere saggi di incremento della produzione che risultano più elevati dei saggi medi di incremento del prodotto industriale e dell'economia nazionale. Per descrivere il meccanismo che genera in alcune regioni un tasso di sviluppo maggiore rispetto ad altre, Perroux introduce i concetti di: − impresa motrice, − imprese mosse. La crescita e lo sviluppo di alcune imprese, localizzate in determinate regioni, provoca un incremento di produzione e, quindi, di acquisti di semilavorati e di servizi da parte di altre aziende che forniscono tali prodotti e che, di conseguenza, aumentano la propria produzione. Questa capacità di attivare e/o incrementare la produzione in altre industrie, connota l'impresa come “impresa motrice”, in grado di incidere direttamente sulla produzione di altre imprese, denominate “imprese mosse”, posizionate a monte o a valle del processo produttivo dell'impresa motrice. L'impresa motrice tende ad utilizzare al massimo i suoi capitali fissi, in modo da posizionarsi - grazie anche alle innovazioni introdotte, ed alle capacità tecniche e manageriali - su punti più bassi della curva dei costi. In tal modo, può attuare - se non si trova in una condizione di monopolio - una riduzione

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dei prezzi dei prodotti che permettono un incremento delle vendite, ed un conseguente aumento di produzione nelle imprese mosse, incremento che sarà proporzionale all'aumento di produzione dell’unità motrice. L'industria chiave può essere definita come quel settore che induce, nel sistema economico regionale o nazionale, un incremento della produzione globale maggiore dell'incremento della propria produzione. Ad esempio, le attività che estraggono materie prime, che producono energia, che operano nel settore dei trasporti hanno, per Perroux, una vocazione ad acquisire il ruolo di industrie chiave. Perroux introduce il principio dell’agglomerazione secondo il quale in un polo industriale complesso in fase di crescita si registra un incremento complessivo delle attività economiche, dovuto ai vantaggi che derivano dalla prossimità geografica delle attività e dagli scambi d’informazione che si instaurano tra i diversi operatori. La concentrazione in un'area ristretta di imprese di vario tipo operanti in più settori, genera effetti moltiplicativi dell'occupazione e del reddito anche in settori collaterali come quello dei servizi. Gli effetti moltiplicativi dovuti alla concentrazione delle attività, si ripercuotono anche a livello spaziale in quanto - specie se l'impresa motrice si posizione nell’industria chiave - non solo si modifica l'economia delle aree circostanti, ma tali effetti si possono espandere e diffondere su tutto lo spazio regionale, rafforzando il ruolo e la dominazione di una regione rispetto ad altre, e determinando, in misura sempre maggiore, processi di differenziazione e di polarizzazione economica. Le disparità regionali derivano, quindi, dalla presenza di un polo di sviluppo, che provoca una serie di squilibri economici e sociali. Il polo, infatti, distribuisce salari e redditi aggiuntivi, attira manodopera, determina concentrazioni di capitali in specifici settori, sollecita la presenza di strutture rivolte alla R&S, facilita l'acquisizione di informazione e l'adozione di innovazioni, senza che ciò procuri, nel breve periodo, vantaggi ad altre regioni la cui crescita e il cui sviluppo possono essere, al contrario, ritardati dai processi di polarizzazione. Gli investimenti che si concentrano in un polo determinano ulteriori investimenti complementari che, se riguardano attività collocate a monte del processo produttivo dell'impresa motrice, generano "effetti ascendenti" mentre, se sono riferiti ad attività a valle dell'investimento motore, determinano "effetti discendenti".

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Un aspetto di rilievo nella teoria è costituito dall’individuazione di tre tipologie di effetti che possono essere generati da una grande unità produttiva: - gli effetti diretti, generati dall’impresa motrice in termini di occupazione,

redditi, partecipazione al prodotto locale; - gli effetti indiretti, che riguardano l'incremento di occupazione e di reddito

derivati dalla maggiore produzione delle imprese situate a monte ed a valle del processo produttivo motore;

- gli effetti indotti, che derivano dai redditi distribuiti dall'unità motrice e dalle imprese mosse sulla economia locale (commercio, servizi, ecc.).

La crescita e lo sviluppo si possono estendere progressivamente ad altre regioni solo se si registrano processi di diffusione interregionale degli effetti del polo. Come si può rilevare, nella teoria di Perroux sono presenti molti dei meccanismi di sviluppo descritti da Myrdal: i processi agglomerativi del polo sono assimilabili, ad esempio, ai fenomeni di causazione circolare e cumulativa che determinano i processi di riflusso, così come successive fasi di sviluppo possono attivare processi di diffusione spaziale e di coinvolgimento di aree periferiche. La “divergenza regionale” che si determina a seguito della crescita di un polo di sviluppo può attenuarsi nel tempo, per il gioco combinato di due fattori: - i processi di diffusione e di propagazione degli effetti da parte del polo,

che investono nuove aree e diversi settori produttivi; - nel polo di sviluppo e nel suo ambiente, si possono determinare periodi di

momentanea flessione produttiva, dovuta al fatto che le risorse, inizialmente disponibili in larga misura, non sono più disponibili nelle stesse dimensioni, le innovazioni hanno una minore diffusione, i profitti della fase iniziale diminuiscono.

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III

SVILUPPO ENDOGENO

1. L’APPROCCIO ENDOGENO ALLO SVILUPPO REGIONALE Il modello dello sviluppo endogeno rompe con la lunga tradizione dei modelli esogeni e introduce, nell’analisi dei fattori che sono alla base dello sviluppo nuovi indicatori che hanno rilevanza nelle strategie, negli investimenti, nelle logiche localizzative delle imprese (rapporti tra imprese, tra sistema produttivo e sistema sociale, culturale, istituzionale, le capacità imprenditoriali, la manodopera qualificata, le istituzioni locali). Questi indicatori sono alla base di modelli di organizzazione della produzione e dell’interazione tra attori economici e sociali: il processo di sviluppo regionale acquisisce un “carattere di processo sociale”. Molti dei fattori critici che incidono sullo sviluppo sono sedimentati storicamente nelle società locali, e non facilmente esportabili in altre aree. Le differenziazioni geografiche acquistano, di conseguenza, un ruolo chiave nell’individuazione, descrizione, quantificazione delle diverse opportunità o dei diversi vincoli che determinano traiettorie differenziate di crescita. L’approccio di tipo "endogeno" si basa sul principio che i più importanti fattori di sviluppo sono in molti casi "localizzati"; riguardano, prevalentemente, la capacità dei sistemi produttivi locali d’elaborare, acquisire, adottare innovazioni, le potenzialità della forza lavoro locale, la cultura imprenditoriale, l'ambiente tecnologico e scientifico, le infrastrutture ed i servizi presenti sul territorio (che determinano per le singole aree la capacità di produrre, con un vantaggio comparato, i beni domandati a livello nazionale e internazionale), la rete delle relazioni funzionali e gerarchiche tra imprese. L’approccio di tipo endogeno introduce una parziale autonomia del sistema economico locale nel processo di trasformazione dato che introduce la centralità dei processi decisionali degli attori locali e la loro capacità di controllare ed internalizzare conoscenze ed informazioni esterne, e considera quasi immobili i più importanti fattori di crescita (infrastrutture, forza lavoro specializzata, strutture settoriali locali, know-how tecnico e organizzativo, economie d’urbanizzazione e di localizzazione, strutture sociali ed istituzionali locali).

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La teoria dello sviluppo endogeno, nelle sue formulazioni originali, ha come campo privilegiato di analisi i distretti industriali ed i sistemi produttivi locali, una tipologia questa che non esaurisce certamente la vasta gamma delle attività e funzioni che generano sviluppo, ed i cui principi devono essere generalizzati. Inoltre, le condizioni genetiche locali dello sviluppo, in alcuni casi, non sono adeguatamente integrate nel quadro macro economico e macro territoriale in cui l’economia delle singole aree si trova inserita, e nelle reti di relazioni funzionali e gerarchiche che l’area stessa ha con l’esterno. Le profonde modificazioni ricordate in precedenza (costo dei fattori, ritmo di crescita e caratteristiche della domanda, innovazione tecnologica, livello della concorrenza internazionale, processi di internazionalizzazione, ecc.) e la declinante importanza delle proprietà che avevano sostenuto gli stadi iniziali di crescita dei sistemi produttivi locali, rendono lo sviluppo endogeno non un modello assoluto, ma un importante contributo teorico a specifici sentieri di crescita. Nello sviluppo endogeno deve essere necessariamente introdotta l’interazione tra variabili endogene ed esogene, tra locale e globale, tra l’internalizzazione di conoscenze e fattori esterni, in una dinamica di circolazione dell’informazione e dell’innovazione. E’ quindi opportuno, all’interno di modelli di sviluppo regionale, combinare fattori esogeni ed endogeni, soprattutto in una fase storica delle economie avanzate in cui internazionalizzazione e globalizzazione delle economie, trasferimento delle tecnologie, dematerializzazione della produzione, organizzazione a rete delle imprese e reticolarità delle informazioni, difficilmente possono essere relegate solo all’interno di un approccio endogeno, ed in cui le città assumono sempre più un ruolo di “centri nodali" e di poli di scambio commerciale, tali da costituire il "motore" dello sviluppo regionale (North, 1955).

2. PROCESSO DI APPRENDIMENTO

Nel progresso tecnico sono identificabili due componenti, una di natura esogena, relativa all'insieme di contributi esterni non direttamente riconducibili alla dinamica dell'attività produttiva, e una componente endogena che è al contrario un risultato.

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Il progresso tecnico, per Schumpeter, è costituito, a monte, da un insieme di invenzioni e, a valle, da innovazioni radicali che determinano campi di opportunità che consentono all'imprenditore di conseguire profitti inizialmente al di sopra della media. In questo senso, il progresso tecnico è una componente esogena attraverso la costituzione d’opportunità che l'imprenditore coglie attuando investimenti. Una parte rilevante del progresso tecnico è anche spiegata da fattori endogeni: la tecnologia adottata da un’impresa è, infatti, il risultato di scelte e strategie attuate nel corso della sua attività, in particolare di processi innovativi che hanno dato luogo, nel tempo, all'insieme delle capacità e dei mezzi di produzione. La capacità d’introdurre e adottare innovazioni è dovuta a questo patrimonio conoscitivo: la tecnica data, l'insieme dei modi e dei mezzi di produzione, delle competenze acquisite, rendono, in alcuni casi, il processo innovativo come un processo continuo di soluzioni di problemi circoscritti in un ambito tecnico definito, che si esprime anche in forme limitate (innovazioni incrementali), e che determina un processo sostenuto nel tempo. In questo quadro, possono essere definiti due processi d’apprendimento che hanno tante possibilità di realizzarsi quanto maggiore è la specializzazione a cui è pervenuta la tecnica di un’impresa: − il primo è un processo d’apprendimento che riguarda il modo di produrre

un prodotto specifico (learning by doing); − il secondo è un processo d’apprendimento che riguarda le proprietà stesse

dei mezzi di produzione utilizzati e, quindi, i modi di migliorarli (learning by using).

Il learning by doing ed il learnig by using sono processi nettamente distinti: − Il learning by doing, riguarda i miglioramenti interni al processo

produttivo, connessi alla produzione − il learnig by using fa riferimento ai miglioramenti come risultato

dell’utilizzo del prodotto. Non è, quindi, funzione dell'esperienza maturata nella fase di produzione, come il learning by doing, ma del suo impiego da parte dell'utilizzatore finale.

Le caratteristiche principali del processo innovativo caratterizzato da apprendimento sono la continuità e la cumulatività.

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Ogni innovazione genera, infatti, un assetto tecnico ed organizzativo che costituisce la base per successive innovazioni che determinano, nel tempo il modello del "learning by doing", secondo il quale "ogni nuova macchina prodotta ed installata, cambia l'ambiente in cui la produzione si realizza" (Arrow, 1962). Le diverse fonti di apprendimento - la cui importanza relativa cambia a seconda della natura delle competenze di base dell'impresa - riguardano (Pavitt, 1991): - l’apprendimento attraverso la produzione o learning by doing, che acquista

la massima importanza nelle imprese ad alta intensità di produzione d’informazione;

- l’apprendimento che deriva dalla messa in uso dei prodotti o learning by using, rilevante soprattutto per i fornitori di beni capitali e di beni intermedi;

- l’apprendimento acquisito dall’analisi degli errori compiuti (con la modifica delle innovazioni di prodotto che si sono rivelate sbagliate);

- l’apprendimento mediante prove e valutazioni nei laboratori di R&S; - l’apprendimento dalla concorrenza, esaminando le prestazioni dei

concorrenti. L'innovazione tecnologica deriva da numerose tipologie differenziate di apprendimento ed è costituita, non tanto da innovazioni radicali di derivazione schumpeteriana, quanto dai miglioramenti incrementali di minore entità, che determinano il tasso di crescita della produttivà (Rosemberg, 1991). Connessa al processo d’apprendimento è la path-dependence, ossia la sequenza di cambiamenti economici che dipendono dal percorso che l’impresa ha compiuto in precedenza.

3. LA DIFFUSIONE DELLE INNOVAZIONI NEL PROCESSO DI SVILUPPO REGIONALE. Nelle teorie di sviluppo regionale, sia di matrice economica che geografica, il processo di diffusione delle innovazioni costituisce uno dei fattori chiave per l’attivazione della crescita e dello sviluppo. L'esperienza acquisita dalle singole imprese in specifici campi produttivi e tecnologici può diffondersi nell'ambiente circostante, ed essere disponibile per il tessuto produttivo, sia attraverso l'acquisizione di manodopera specializzata e di management, sia attraverso la diffusione interaziendale. La diffusione di un’innovazione può essere analizzata sulla base di due parametri:

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− la diffusione interaziendale, intersettoriale e intrasettoriale, − la diffusione spaziale tra imprese variamente localizzate, appartenenti allo

stesso settore, o che utilizzano analoghe tecnologie.

Diffusione interaziendale, inter e intra settoriale, e diffusione spaziale sono strettamente interconnesse e suscettibili d’interpretazioni congiunte. I modelli di diffusione delle innovazioni - che identificano tempi e modi secondo i quali le imprese riescono ad imitare ed incorporare innovazioni sviluppate da altre imprese - devono tenere conto di due aspetti di particolare rilievo: − le “opportunità tecnologiche”, secondo cui il tasso del cambiamento delle

tecnologie deriva anche da un processo di accumulazione delle conoscenze scientifiche autonome (Mowery e Rosemberg, 1979),

− la "convergenza tecnologica", caratteristica di variazioni significative nelle tecniche di produzione comuni a più filiere tecniche. In questo caso, si possono attivare processi di diffusione che determinano fenomeni di specializzazione produttiva e di disintegrazione verticale dei processi produttivi, con la nascita di nuove imprese e, in alcuni casi, di nuovi settori (Rosemberg, 1976). Con la "convergenza tecnologica", le nuove tecniche produttive attraversano orizzontalmente alcuni settori. La dinamica dei sistemi tecnici si sviluppa, secondo Rosemberg, "attraverso fasci di innovazioni che s’irradiano orizzontalmente nel sistema economico, e che producono cambiamenti sensibili nelle strutture produttive e nello stock di conoscenze tecnologiche di ciascuna filiera".

Facendo riferimento alla diffusione interaziendale, la diffusione di nuovi prodotti e processi comporta periodi di tempo di estensione variabile: alcune imprese adottano un’innovazione subito dopo la sua comparsa sul mercato, mentre altri lo fanno solo in tempi successivi. Inoltre, durante il processo di diffusione, mutano le posizioni competitive delle imprese adottanti e non adottanti. La diffusione dell'innovazione interaziendale (e, come vedremo in seguito, anche spaziale) è, quindi, un processo che avviene nel tempo, con maggiore o minore velocità.

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Possono essere individuate diverse cause per le quali le imprese potenzialmente interessate non adottano tutte contemporaneamente un’innovazione: − le tecnologie hanno, per le imprese, differenziati gradi di appropriabilità,

di esiti tecnici e commerciali, di "opportunità tecnologiche". Inoltre, si registrano fenomeni diversi di cumulatività nei modelli d’innovazione e nello sfruttamento della conoscenza tecnologica;

− le tecnologie si sviluppano lungo traiettorie delineate da proprietà tecniche specifiche, regole di ricerca, imperativi tecnici e competenze cumulative incorporate in ciascun paradigma tecnologico" (Silverberg e altri, 1988);

− la diversità tra imprese - che è una caratteristica fondamentale e permanente degli ambienti industriali interessati da progresso tecnico - dipende in larga misura da una serie di fattori quali la presenza di divari tecnologici che dipendono da diverse capacità tecniche, i differenti gradi di successo conseguiti nell'adozione ed utilizzazione di innovazioni di prodotto e di processo, i diversi costi di produzione interni all’impresa. Queste diversità sono definite da Dosi come "asimmetrie tecnologiche", ossia come differenze inequivocabili tra imprese che possono essere classificate come migliori e peggiori in termini di costi di produzione e di caratteristiche di prodotto.

Di conseguenza, le procedure di ricerca, le combinazioni produttive, i segmenti di mercato su cui le imprese si orientano, possono acquisire caratteri differenziati, definiti "varietà tecnologiche", ossia differenze tecnologiche che "non corrispondono a gerarchie non equivoche (tecnologie e prodotti migliori e peggiori)". Infine, all'interno di un settore produttivo, le singole imprese possono delineare strategie differenziate per diversi motivi (livello e composizione degli investimenti, prezzi, livello della R&S), e prendono il nome di "varietà comportamentali".

4. SISTEMI PRODUTTIVI LOCALI: DISTRETTI INDUSTRIALI Nei modelli di sviluppo endogeno viene esaltata la relazione tra sistema economico ed ambiente, che è alla base dell’esistenza di economie esterne all’impresa, ma interne all’area, e che dipendono dal reticolo di interdipendenze sia a livello produttivo che a livello socio-culturale.

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Entrambi gli approcci riconoscono l’intervento e l’interazione sia di fattori esterni che di fattori locali. Nello sviluppo esogeno sono i fattori esterni che guidano il cambiamento e ne spiegano le caratteristiche fondamentali. Nello sviluppo endogeno il ruolo guida è attribuito a fattori interni, propri dell’ambiente in cui l’impresa opera. I processi di sviluppo locale avvengono quindi lungo percorsi e traiettorie che utilizzano l’addensamento e la socializzazione delle conoscenze attraverso progressivi meccanismi di connessione a monte ed a valle. Il sistema produttivo locale di PMI viene visto come un caso di modello locale di sviluppo endogeno. In questa accezione il concetto di sistema produttivo locale riguarda un modello di organizzazione della produzione in cui il territorio gioca un ruolo attivo, con forti interrelazioni tra sistema produttivo e sistema socio-istituzionale, con forte sedimentazione di conoscenze non trasferibili, con significative economie esterne. Sistema produttivo locale e distretto industriale sono tipologie differenziate: − Il sistema produttivo locale può essere definito come un’agglomerazione

di PMI non necessariamente organizzate in filiera, che solo in alcuni casi può essere dominata da uno o più settori produttivi.

− Con “distretto industriale” si definisce un sistema locale di PMI caratterizzato da un sistema di produzione locale principale e da un sistema produttivo di filiera e da un sistema sociale particolarmente coeso, interrelato, con una coincidenza generalizzata della residenza e del posto di lavoro..

L’area geografica del distretto è caratterizzata da uno o più piccoli centri urbani, con ridotte funzioni terziarie, e da una localizzazione delle residenze meno concentrata rispetto alla tipica città industriale. Il distretto industriale viene definito come una entità socio territoriale circoscritta naturalisticamente e storicamente determinata, di una comunità di persone e di una popolazione di imprese industriali.

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l’importanza dell’insieme dei rapporti di natura complessa legano persone, imprese e territorio e che rappresentano, da un punto di vista sociologico, uno dei presupposti concettuali dai quali prende corpo l’idea di distretto. L’unità di osservazione non è tanto la piccola impresa singola, quanto l’insieme delle relazioni che ne determinano l’attività: è, quindi, un’unità di indagine elementare, assume una valenza meso-economica, presenta una stretta intersezione tra le componenti economiche e sociali. In Marshall il concetto di industria, più flessibile del concetto di settore, è "un insieme di imprese che, disponendo di attrezzature tecniche, di esperienze e conoscenze tecniche comuni, sono in condizioni di produrre l'una gli stessi prodotti dell'altra”. Secondo Marshall, almeno in alcuni settori manifatturieri, "i vantaggi della produzione su larga scala possono in generale essere conseguiti sia raggruppando in uno stesso distretto un gran numero di piccoli produttori, sia costruendo poche grandi imprese". Infatti, "per molti tipi di merci è possibile suddividere il processo di produzione in numerose fasi, ciascuna delle quali può essere eseguita con la massima economia in un piccolo stabilimento. Se esistesse un gran numero di questi piccoli stabilimenti specializzati per l'esecuzione di una particolare fase del processo produttivo, vi sarebbe spazio per redditizi investimenti di capitale nelle organizzazioni industriali sussidiarie rivolte a soddisfare i loro bisogni particolari." (Marshall, 1920). Un sistema di PMI può raggiungere la piena utilizzazione di strumenti di produzione specializzati, se il processo produttivo è scomponibile e le sue componenti sono ripartite tra le imprese del sistema. I distretti industriali sono il più delle volte caratterizzati fortemente in termini settoriali, anche se la monosettorialità non indica necessariamente l’omogeneità produttiva delle imprese all'interno di ogni distretto. L'industria che caratterizza un distretto può comprendere infatti un’ampia gamma di sotto-industrie, con configurazioni che possono essere − di tipo verticale, nel caso in cui sono presenti, in diverse imprese, fasi

diverse dello stesso processo produttivo, − di tipo trasversale, nel caso in cui alcune imprese svolgono attività di

servizio, di trasporto, commerciali. L’efficienza economica del distretto riguarda, per Marshall, le capacità di produzione e competitive del sistema d’imprese, che si realizzano attraverso un

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incremento delle economie di scala interne, dipendenti “dalle risorse delle singole imprese, dalla loro organizzazione e dall’efficienza della loro amministrazione”, ed esterne, “dipendenti dallo sviluppo generale dell'industria”. Le economie esterne “si possono ottenere mediante la concentrazione di numerose piccole imprese di natura simile in località particolari; o come si dice comunemente, mediante la localizzazione dell’industria”. L’elevata efficienza dei distretti deriva per Marshall, in buona misura, dalla presenza di economie esterne di agglomerazione, ossia di quelle economie che si realizzano sui costi di produzione e di transazione, quando l’impresa è localizzata in un’area geografica ristretta in cui sono presenti numerose altre imprese dello stesso tipo, ed è inserita in termini cooperativi nella catena del valore della produzione distrettuale. Alcune di queste economie di agglomerazione sono spiegate dalla presenza delle imprese sussidiarie, altre economie esterne sono connesse alla circolazione dell’informazione e, in particolare, ai contatti “faccia a faccia” per l’acquisizione di conoscenze tecnologiche, commerciali, produttive. Ulteriori economie esterne sono generate dalla presenza di manodopera specializzata e dal processo cumulativo di apprendimento che deriva dal fatto che la collettività umana è localizzata in un territorio di ridotta estensione e ad elevata concentrazione di PMI, e prevalentemente occupata nelle attività distrettuali. L’organizzazione distrettuale ha per Marshall importanti ripercussioni sulle capacità di adozione di innovazioni da parte delle PMI. Sono noti i vantaggi delle grandi imprese nel campo della R&S: la dimensione della produzione e del fatturato permettono, o il ricorso a strutture esterne, o il ricorso parziale all’esterno, complementare ad attività interne, o la completa internalizzazione della ricerca, con un’appropriazione dei profitti dell’innovazione e del vantaggio competitivo che ne deriva. I problemi legati all’innovazione per le piccole imprese - che hanno limitate risorse tecnologiche, organizzative e finanziarie, soprattutto a fronte delle soglie di indivisibilità che molte attività di R&S richiedono – possono essere, almeno in parte, risolti con la localizzazione in un distretto. Le condizioni di carattere ambientale del distretto - che Marshall chiama industrial atmosphere – garantiscono la circolazione delle informazioni e delle

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idee. "Quando il numero di uomini interessati ad una attività è molto grande, si troveranno tra loro molti che, per intelligenza e carattere, sono idonei a concepire nuove idee. Ciascuna di queste sarà analizzata e migliorata da numerosi cervelli, ed ogni nuovo esperimento, accidentale o deliberato, fornirà materiale di riflessione per nuovi suggerimenti non a poche ma a molte persone" (Marshall, 1920). Il sistema di produzione distrettuale, che interagisce come un soggetto unitario nel sistema di mercato, è dato dall’insieme delle relazioni cooperative di soggetti specializzati per fasi, che afferiscono ad uno stesso ciclo di produzione, e che sono uniti da una coincidenza territoriale, storica, culturale, che si esprime nel concetto di industrial atmosphere, definibile come l’insieme degli intangible assets indivisibili appartenenti al sistema di produzione nel suo complesso. L’industrial atmosphere si configura, quindi, come un vantaggio comparato rispetto a sistemi di produzione organizzati in modo diverso, in quanto riduce i costi di relazione tra i soggetti interagenti ed i costi d’informazione, senza innalzare dello stesso grado i costi di coordinamento.

5. Economie di localizzazione e di urbanizzazione I processi d’internazionalizzazione e di globalizzazione dell’economia, le innovazioni organizzative nelle grandi imprese, l’adozione su vasta scala delle innovazioni tecnologiche legate anche alle tecnologie dell’informazione, tendono a ridurre o, comunque, a modificare i punti di forza dei sistemi produttivi locali, ponendo seri interrogativi circa la loro competitività sul mercato nazionale ed internazionale. I tradizionali generatori di economie esterne nel sistema produttivo locale hanno perso in questi ultimi anni efficacia in quanto i cambiamenti radicali nelle tecnologie e nei mercati sono difficilmente acquisibili dalla piccola imprese, mentre si creano barriere economiche che, in genere, riducono l’accesso della piccola impresa alla R&S. Difficoltà si registrano sul versante dell’adozione di innovazioni che richiedono investimenti più elevati di quelli occorrenti per i macchinari tradizionali, per i quali è necessaria una qualificazione della manodopera difficilmente acquisibile localmente. Di conseguenza si riduce il peso del learning by doing che non è più sufficiente per riprodurre competitività e innovazione.

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Inoltre l’adozione d’innovazioni di processo ad alto contenuto tecnologico, a cui devono uniformarsi anche le PMI per adeguare costi e qualità alla concorrenza, con l’introduzione di processi produttivi meccanizzati e automatizzati, capital intensive e labour saving, genera effetti negativi nei sistemi produttivi locali, caratterizzati in genere da un’elevata intensità di lavoro, e riduce parzialmente l’elasticità e la flessibilità, mentre l’automazione flessibile ed i processi produttivi integrati adottati dalla grande impresa possono incidere sul gap di flessibilità che rappresentava uno dei punti di forza delle PMI distrettuali. Anche nel campo dei servizi alle imprese, soprattutto di quelli di assetto e strategici, si registrano fattori di pressione, dato che la sempre maggiore rilevanza di componenti immateriali nella catena del valore e la sempre maggiore specializzazione e professionalità nei servizi ad alto contenuto di informazione che operano nel campo tecnologico, finanziario, del marketing, della pubblicità, determinano la necessità di soglie dimensionali di mercato difficilmente raggiungibili all’interno di un distretto. Parallelamente cresce la necessità di informazione per cui i rapporti faccia a faccia, pur mantenendo una loro funzione importante, non sono più sufficienti a causa dei processi d’internazionalizzazione e di globalizzazione dei mercati e del peso crescente di relazioni interpersonali e interimpresa formalizzate. Rispetto alle economie d’agglomerazione di derivazione marshalliana oggi si possono individuare due tipologie di economie di agglomerazione: − le economie di localizzazione più vicine alla teoria di Marshall, sono

collegate all'associazione spaziale di una o più industrie, e sono connesse ai vantaggi che derivano dai legami che si possono instaurare tra attività economiche correlate settorialmente. I benefici che derivano da un raggruppamento di questo tipo, includono l'economia di specializzazione di una impresa in un particolare processo produttivo, che permette l'impiego di tecniche specializzate, difficile da raggiungere in una unità locale di piccole dimensioni con l'intera sequenza all'interno. Inoltre, queste industrie collegate hanno spesso bisogno dello stesso tipo di manodopera specializzata, il che determina un alto livello di turn over a vantaggio dell'efficienza economica. Le economie di localizzazione permettono, quindi, il rafforzamento delle connessioni di produzione e di mercato, la presenza di vantaggi indiretti che derivano dal particolare livello delle informazioni di natura tecnica e di mercato presenti nell'area, una cultura industriale che

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garantisce una maggiore diffusione dell'informazione e, quindi, dei processi tecnologici e innovativi, con un aumento della competitività.

− Le economie di urbanizzazione si discostano, al contrario, sensibilmente da quelle di agglomerazione marshalliane. Si realizzano prevalentemente nelle città e nelle grandi aree urbane, determinando le condizioni di vantaggio localizzativo che difficilmente vengono ottenute in un distretto od in un sistema produttivo locale, dove il centro od i centri urbani di riferimento sono in genere di piccole dimensioni, e dotati raramente di servizi di elevato livello qualitativo. Le economie di urbanizzazione sono quindi di tipo orizzontale, non connesse a specifici settori produttivi, ma relative a quelle economie che le attività direzionali, gestionali, di controllo delle imprese ricercano con l’accesso a servizi alle imprese di livello superiore, a personale qualificato in competenze intersettoriali come la finanza, il marketing, la R&S, i rapporti commerciali, le transazioni, alle informazioni. Sono economie acquisibili da grandi imprese che hanno le attività direzionali separate dagli impianti produttivi, localizzate nelle città, da imprese di piccole e medie dimensioni operanti in settori ad alta tecnologia, da imprese ad economie esterne, ossia imprese caratterizzate da un brevissimo ciclo di vita del prodotto, o per le quali l’elemento chiave della competizione è la possibilità e la capacità di innovare continuamente mantenendo le tecnologie fluide, da aziende che preferiscono rimanere di piccole dimensioni per privilegiare la localizzazione urbana e per beneficiare delle economie di urbanizzazione, dalle soft company, ossia imprese operanti nel campo della R&S, per le quali la dimensione ridotta e, quindi la possibile localizzazione urbana, è data dalla necessità di mantenere alte le barriere all’entrata, mantenendo la tecnologia fluida per ridurre il rischio di imitazione.

6. LOCALIZZAZIONE IMPLICITA ED ESPLICITA. Nell’individuazione dei fattori che concorrono a determinare un processo di sviluppo endogeno, un indicatore significativo deriva dalla localizzazione delle imprese, che possono essere di natura esplicita od implicita. I processi di localizzazione esplicita riguardano essenzialmente due tipologie di comportamento spaziale: ü la prima riguarda la localizzazione di una impresa come risultato di una

delocalizzazione di una azienda esistente in altra area,

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ü la seconda è riferita alla localizzazione di un impianto di una impresa la cui casa madre resta nell’area di origine.

La localizzazione esplicita deriva dalla valutazione, da parte di un’impresa già esistente, delle proprie convenienze localizzative in relazione a numerosi motivi: processi di ristrutturazione aziendale, innovazioni organizzative, di processo, di prodotto, aumento della produzione, diversificazione, deverticalizzazione, fase del ciclo di vita del prodotto, convenienze basate sulla ricerca di migliori economie esterne, domanda di terreni a costi inferiori, minore costo della manodopera, migliore dotazione di infrastrutture e servizi, presenza di agevolazioni pubbliche di vario tipo, minore conflittualità sindacale. La localizzazione esplicita dipende da fattori che generano una natalità tipicamente esogena nell’area in cui l’impianto si colloca, legata alle caratteristiche attrattive per determinate tipologie settoriali e dimensionali, tecnologiche, e non rientra, quindi, nel processo di nascita di nuove imprese. La localizzazione implicita riguarda, al contrario, la nascita di una nuova azienda e, di conseguenza, è frutto della decisione da parte dell’imprenditore di investire in una determinata industria e in una specifica area geografica. La dimensione e l’intensità della natalità imprenditoriale in un determinato intervallo temporale, deriva da una somma di fattori come l’ambiente economico, sociale, culturale locale dell’area geografica e, quindi, dallo “spazio geografico”, con effetti diretti sul processo di sviluppo endogeno, e da politiche pubbliche di incentivazione e di animazione economica.

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IV

NUOVO PARADIGMA TECNICO-ECONOMICO

1. FORDISMO E TAYLORISMO

Con il termine fordismo si usa indicare una peculiare forma di produzione basata principalmente sull'utilizzo della tecnologia della catena di montaggio (assembly-line) al fine di incrementare la produttività. Utilizzata a partire dal 1913 dall'industriale statunitense Henry Ford (1863 - 1947), ispiratosi alle teorie proposte dal connazionale Frederick Taylor (1856 - 1915), la catena di montaggio fu in seguito adottata soprattutto nel settore dell'industria manifatturiera tanto da rivoluzionare notevolmente l'organizzazione della produzione a livello globale e diventare uno dei pilastri fondamentali dell'economia del XX secolo, con notevoli influenze sulla società. Con il termine fordista si usa indicare un regime di produzione ispirato al - o stretta evoluzione del - paradigma adottato da Ford Il fordismo è quindi l'insieme delle teorie sull'organizzazione della produzione industriale elaborate da Henri Ford e da F. Taylor e nasce come risposta ai limiti della tecnologia e dell'economia del capitalismo che ne avevano frenato lo sviluppo date le limitate potenzialità della meccanizzazione del secolo diciannovesimo. L'aspetto principale, la 'filosofia' del metodo fordista, trasformatosi poi in un vero e proprio modello economico, era l'idea della possibilità di una crescita sia della quantità di merce prodotta, sia degli insediamenti produttivi, delle fabbriche, sul territorio. Tipico sarà, infatti, il gigantismo degli impianti. Questa certezza quasi assoluta della crescita progressiva e inarrestabile rappresenterà per quasi un secolo la condizione essenziale del modello fordista. I metodi fordisti possono essere considerati quindi una combinazione di alcuni elementi: ü L'organizzazione produttiva taylorista, ü La meccanizzazione spinta dei processi produttivi (in seguito

all'introduzione della catena di montaggio) ü La standardizzazione dei prodotti finali.

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Il taylorismo, fondato sui principi del "management scientifico" sviluppati da Frederick Winslow Taylor, comporta una profonda razionalizzazione dell'attività produttiva. Questo tipo di approccio si basa sulla netta separazione tra progettazione ed esecuzione dei compiti, ossia sulla separazione tra coloro che organizzano l'attività produttiva (manager, tecnici, ecc.), e coloro che la svolgono (manodopera specializzata, semispecializzata ecc.). I cambiamenti imposti dall'applicazione di questi nuovi schemi organizzativi incontrarono inizialmente la resistenza dei sindacati: alla fine, con un ristretto numero di imprenditori, tra i quali Henry Ford, fu raggiunto un compromesso che prevedeva il riconoscimento ai lavoratori di una parte degli utili derivanti dalla razionalizzazione e dall'intensificazione del lavoro. L'approccio fordista riuscì ad abbinare la produzione in serie o di massa, resa possibile dal progresso tecnico, con il consumo di massa, in quanto iniziò a considerare i lavoratori non soltanto come un fattore di produzione, ma anche come consumatori dei prodotti finali. L'età dell'oro del capitalismo, dal dopoguerra alla metà degli anni settanta, fu infatti caratterizzata dalla piena occupazione, da considerevoli investimenti di capitale, dalla piena utilizzazione della capacità produttiva degli impianti e da elevati livelli di redditività delle imprese. La piena occupazione è una condizione del sistema economico che si manifesta allorquando tutti coloro che in una certa area vogliono lavorare, hanno la possibilità di accedere a un posto di lavoro. Da questa definizione discende che la piena occupazione dipende da tre vincoli: q Non si tiene conto dei disoccupati volontari, ovvero di coloro che non

vogliono lavorare; q Non si tiene conto dei disoccupati temporanei, ovvero coloro che siano in

una fase di "trasferimento occupazionale"; q Ci si riferisce a una precisa area geografica e ad un particolare momento. L'intensificazione del lavoro e l'alienazione dei lavoratori portò a forme di resistenza sporadiche e prive di coordinamento, ma in grado di condizionare un sistema produttivo reso vulnerabile dall'alto grado di automazione e di complessità. L'elevato volume di capitale investito negli impianti rendeva sempre più penalizzanti le fermate degli operai e i cali di produttività, con la conseguenza di deprimere il tasso di profitto.

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La "crisi" del fordismo ha indotto molti osservatori a sostenere che il capitalismo di mercato è passato a un sistema post fordista di produzione e di relazioni sociali. È opinione diffusa che i metodi produttivi basati sulle nuove tecnologie, in particolare sulla microelettronica e l'informatica, abbiano determinato il capovolgimento di molte caratteristiche del fordismo associate all'accresciuto livello di automazione e alla complessità della produzione. Con postfordismo non si definisce un modello economico ma ciò che viene dopo il fordismo. Il termine post fordista dice solo che il fordismo è superato ma non dà indicazioni sul nuovo e questo sostanzialmente per due ragioni: q il nuovo modello è in evoluzione, quindi i contorni sono in fase di

definizione (bisogna peraltro considerare che la transizione è endemica allo sviluppo economico capitalista e ogni modello risulta in perenne revisione),

q è per definizione flessibile, indica un principio: adattarsi, assumendo di volta in volta le forme più efficaci: l’assenza di un modello è parte del modello.

2. IL NUOVO PARADIGMA TECNICO-ECONOMICO Ogni ciclo d’innovazione, sia esso di processo, di prodotto, di organizzazione, deriva dalla nascita e dall’affermazione di un nuovo paradigma tecnologico. Ogni sistema economico si fonda su un sistema tecnologico, costituito da pochi elementi di base, generati da alcuni settori avanzati, in grado di fertilizzare tutti gli altri settori attraverso un processo progressivo di mutamento delle loro tecnologie”. I principali tipi di cambiamento tecnologico riguardano, come noto, le innovazioni radicali, che avvengono in modo “discontinuo”, le innovazioni incrementali, che vengono introdotte in modo quasi continuo, e che riguardano miglioramenti nella gamma di prodotti e nei processi, le innovazioni epocali o rivoluzioni tecnologiche. Una rivoluzione tecnologica è caratterizzata da una drastica riduzione dei costi di molti prodotti e servizi, dalla nascita di una gamma interamente nuova di

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prodotti e di processi, da un elevato miglioramento delle caratteristiche tecniche e qualitative di molti altri prodotti e processi. Una nuova tecnologia modifica radicalmente e strutturalmente il comportamento dell’intero sistema economico, se incide sulle decisioni e sulle modalità di investimento in quasi tutti i settori. Una rivoluzione tecnologica rappresenta, quindi, un importante mutamento paradigmatico che coinvolge buona parte delle decisioni nei settori, ed influenza l’andamento di tutta l’economia.. Un “nuovo paradigma tecnico-economico” può essere definito come un nuovo insieme di principi guida, che diviene il senso comune progettuale in ogni nuova fase dello sviluppo, e che implica l’adozione di nuovi metodi che si differenziano in modo rilevante rispetto al passato. L’Information Technology è un nuovo paradigma tecnico-economico che “interessa la gestione ed il controllo dei sistemi di produzione e di servizi nell’intera economia, basato su un sistema di innovazioni radicali ed interagenti nei settori degli elaboratori elettronici, della progettazione del software, dei sistemi di controllo e dei circuiti integrati e delle telecomunicazioni che hanno drasticamente ridotto il costo dell’immagazzinamento, della manipolazione, della comunicazione e della disseminazione dell’informazione. Con il paradigma tecnico-economico, le “best-practice technology” influenzano tutti i settori (industriale, terziario, quaternario, quinario). Oltre alla nascita di nuovi settori, si genera un processo di diffusione intersettoriale attraverso la disseminazione di tecnologie che permettono l’ingresso di nuove tecnologie in tutti i settori. Il nuovo paradigma tecnico-economico basato sull’Information Technology si basa su una costellazione di settori e comparti produttivi che attraversano orizzontalmente tutta l’economia, la cui fortissima crescita caratterizza le economie dei paesi post industriali alle soglie del terzo millennio. La diffusione intersettoriale dell’innovazione che si viene a generare, mette in relazione i concetti di sistema economico e di sistema tecnologico che, insieme, danno luogo ad un “paradigma tecnico-economico che comprende un modo di produzione e un corrispondente modo di organizzazione sociale della produzione.

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I principali fattori che caratterizzano il paradigma dell’Information Technology sono: − un elevato tasso di cambiamento tecnologico nei settori delle tecnologie

dell’informazione, analogamente ad un’ampia gamma di settori connessi con le loro applicazioni,

− l’integrazione delle fasi di progettazione, lavorazione, rifornimento, commercializzazione, amministrazione all’interno di ogni impresa,

− il miglioramento della qualità dei prodotti, dei processi, dei servizi, − elevata flessibilità produttiva (economie di gamma), − la riduzione delle componenti elettromeccaniche e dei vari stadi di

trasformazione delle componenti, a seguito della ridefinizione di prodotti e processi,

− elevate possibilità di cambiamenti rapidi dei prodotti/processi, − una maggiore integrazione internazionale nel settore dei servizi e dei

mercati che deriva dalla trasmissione più rapida dell’informazione e da migliori flussi di comunicazione

La cross industries fertilization dell’Information Technology introduce anche significativi cambiamenti organizzativi nelle imprese che hanno l’obiettivo di perseguire l’efficienza attraverso il coordinamento delle attività, e l’efficacia attraverso un riposizionamento strategico e competitivo delle aziende che fanno parte del modello organizzativo stesso. I fattori classici di localizzazione influiscono sempre meno sulla geografia delle attività economiche, mentre acquistano sempre più importanza il complesso di decisioni aziendali, in particolare: − le decisioni strategiche, che riguardano le grandi decisioni di politica

aziendale ossia la determinazione degli obiettivi a lungo termine di un’azienda, e l’adozione delle linee di condotta più importanti, congiuntamente con l’allocazione delle risorse necessarie per raggiungere tali obiettivi

− le decisioni operative, prese all’interno del quadro delle decisioni strategiche, con l’obiettivo di “ massimizzare la redditività delle operazioni correnti”

− le decisioni amministrative, relative al coordinamento delle attività aziendali e della comunicazione.

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Lo sviluppo delle telecomunicazioni, la specializzazione e la divisione del lavoro, l'internazionalizzazione dei mercati, il cambiamento tecnologico - che ha generato processi di decentramento delle produzioni legati al ciclo di vita del prodotto – incidono sull'organizzazione e sulle strategie delle imprese e, quindi, sui modelli localizzativi delle attività. La definizione di modelli di sviluppo e la formulazione di politiche regionali non possono prescindere dalle innovazioni organizzative che condizionano, in buona misura, le scelte localizzative delle attività dei settori industriale, terziario, quaternario, quinario. Le strategie aziendali sono concentrate su nuovi obiettivi d'impresa e mirano a consolidare, mantenere, espandere, diversificare, le attività per rispondere all'evoluzione della domanda, alle fluttuazioni economiche, allo sviluppo tecnologico, alla concorrenza . Il sistema dei rapporti tra le imprese costituisce, sempre più, un elemento che condiziona anche il comportamento spaziale: in molti settori produttivi sono presenti processi continui di scomposizione, frammentazione, riaggregazione, ripartizione del lavoro tra imprese, che incidono sulla dimensione, organizzazione, economie interne, e sui modelli localizzativi. Lo stesso decentramento produttivo, in realtà, costituisce un fenomeno molto complesso e articolato, dentro al quale stanno cose non soltanto diverse ma, per molti aspetti, contraddittorie. Si attuano decentramenti che riguardano soprattutto fasi e operazioni labour intensive, determinati dall'opportunità di razionalizzare la produzione, senza effetti strutturali significativi per lo sviluppo della produzione aziendale e di sfruttare le opportunità derivanti dalla specializzazione spinta e dalla divisione del lavoro. Questi decentramenti generano cambiamenti strutturali che si riflettono sulla riorganizzazione produttiva, con la creazione di nuove unità operative separate, secondo una logica di deverticalizzazione interna, con il ricorso ad imprese specializzate, sia per l’approvvigionamento di input intermedi, sia per l’attuazione di specifiche operazioni, seguendo una politica di ristrutturazione verticale per vie esterne.

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3. INTERNAZIONALIZZAZIONE E GLOBALIZZAZIONE Il nuovo paradigma tecnico-economico dell’Information Technology incide profondamente sulla formazione di processi d’internazionalizzazione delle imprese e di globalizzazione dell’economia.

3.1. Internazionalizzazione L’internazionalizzazione delle imprese è determinata dagli spostamenti

internazionali di alcuni fattori della produzione che riguardano i trasferimenti internazionale di capitali, e la rete di connessioni stabilita dalla formazione di imprese multinazionali, attuata mediante strategie aziendali rivolte all’ampliamento del mercato in nuovi Paesi attraverso una molteplicità di forme organizzative descritte in precedenza (creazione di filiali, partecipazioni societarie, concessione di licenze, joint venture, ecc.). Una parte significativa dei movimenti internazionali dei capitali si attua in investimenti esteri diretti, ossia in flussi internazionali di capitali attraverso cui una impresa di un Paese crea od espande la propria attività in un'altra nazione. I vantaggi della internazionalizzazione delle imprese possono essere articolati in − “vantaggi da proprietà” rispetto ai competitori esteri, che derivano dal

controllo proprietario di specifiche risorse aziendali trasferibili all’estero a basso costo (trasferimenti di tecnologie, capacità di imitazione, di adattamento e diffusione delle conoscenza, competenze manageriali e finanziarie, economie di scala);

− vantaggi da internalizzazione, che derivano dall’integrazione di attività diverse all’interno dell’impresa;

− vantaggi localizzativi, dovuti alla disponibilità di materie prime, al costo ed alla qualificazione della manodopera, a specifiche caratteristiche socio-istituzionali.

I sentieri di internazionalizzazione delle imprese mediante investimenti diretti, sono determinati dalle caratteristiche strutturali dei settori produttivi, dalle caratteristiche delle tecnologie, che incidono in modo rilevante sulla struttura organizzativa dei processi produttivi, dalla natura e dalla destinazione delle merci prodotte. Il nuovo paradigma tecnologico ha operato profonde modificazioni dei processi d’internazionalizzazione messi in atto dalle imprese multinazionali nel periodo fordista, caratterizzato da aziende molto integrate e con una

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struttura decisionale accentrata. Accanto ad una gestione meno centralizzata delle società multinazionali, si è sviluppata una nuova organizzazione decentrata di imprese, molto flessibili, il cui centro di direzione e controllo ha la funzione di stimolare la collaborazione e la realizzazione di sinergie. Secondo il modello attuale d’internazionalizzazione e d’integrazione produttiva, le imprese, per restare competitive ed attuare strategie espansive, stringono allenze che consentono di acquisire tecnologie, di entrare in nuovi mercati, di ridurre i costi della R&S, di sfruttare economie di scala. L’internazionalizzazione si è estesa anche a imprese di medie dimensioni che costituiscono reti internazionali attraverso filiazioni, nascita di nuove aziende, acquisizioni, fusioni, joint venture per la produzione e per lo sviluppo tecnologico integrato, adottano innovazioni coordinate nelle strutture produttive, effettuano investimenti diretti per acquisire, controllare, partecipare aziende localizzate al di fuori dei territori nazionali. I vantaggi delle strategie integrate d’internazionalizzazione derivano anche dall’incremento che stanno subendo le potenzialità di fusione delle tecnologie, e dalla diminuzione dei costi di mantenimento delle reti, con spinte sempre maggiori all’internazionalizzazione anche per quelle imprese con uno stadio di sviluppo non avanzato. La decisione da parte di una impresa o di una filiera produttiva, di internazionalizzarsi è frutto di una strategia aziendale che introduce una innovazione organizzativa in una o più fasi della catena del valore per mantenere/acquisire maggiore competitività sui mercati. Non è detto che ad una innovazione di questo tipo siano associate anche innovazioni di processo o di prodotto. Questo quadro fa emergere per grandi linee, due modelli di comportamento differenziati delle PMI nei processi di internazionalizzazione: ü per un certo numero di PMI, posizionate su prodotti maturi, con

tecnologie standardizzate, ridotta propensione all’innovazione di prodotto, di processo, di organizzazione, l’esposizione alla concorrenza è soprattutto legata a fattori di prezzo più che di qualità. Queste aziende si internazionalizzano in molti casi attraverso la delocalizzazione di parti della catena del valore delle produzioni soprattutto in paesi in cui il costo della manodopera è basso e di scarsa qualità, dato che l’esigenza principale è acquisire competitività da prezzo, riducendo i costi di produzione, in particolare del lavoro.

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E’ il caso delle delocalizzazione nei paesi balcanici, in alcuni paesi dell’Europa est meridionale, e in alcuni del bacino del mediterraneo, nonché in paesi emergenti come Cina e India.

ü altre PMI puntano sulla qualità dei prodotti e sull’innovazione. Per restare competitive ed attuare strategie espansive, stringono alleanze per acquisire tecnologie, per entrare in nuovi mercati, per ridurre i costi della R&S, per sfruttare economie di scala. Possiamo dire che queste imprese si internazionalizzano attuando modalità più evolute, non necessariamente legate solo alla delocalizzazione: - si costituiscono in reti internazionali (dalle costellazioni ai network

strategici, alle reti di impresa) attraverso filiazioni, nascita di nuove aziende, acquisizioni, fusioni, partnership, joint venture per la produzione e per lo sviluppo tecnologico integrato;

- adottano innovazioni coordinate nelle filiere produttive; - effettuano investimenti diretti per acquisire, controllare, partecipare

filiali o aziende localizzate al di fuori dei territori nazionali in grado di essere complementari ai propri sistemi di produzione.

E’ questo un modello che prefigura un processo di internazionalizzazione delle PMI multiplo, spesso anche in Paesi ad economia post industriale, con effetti positivi per i territori di origine, a patto che le funzioni aziendali che riguardano la progettazione, il design, la tecnologia, lo sviluppo del know how e delle competenze, la commercializzazione, restino in loco e si sviluppino.

3.2. Globalizzazione La globalizzazione economica è, in parte, un effetto dell’internazionalizzazione spinta delle imprese, e deriva dalla trasformazione dei rapporti tra i sistemi economici e tra le rispettive strutture produttive che tendono, sempre più, ad essere condizionate e/o stimolate dai confronti competitivi a livello mondiale. Le forti interconnessioni e relazioni a livello planetario tra attività finanziarie, produttive, R&S, determinano un processo dinamico di “intensificazione delle relazioni sociali mondiali che legano comunità locali tra loro distanti in modo tale che gli avvenimenti locali prendono forma grazie ad eventi che hanno luogo a molte miglia di distanza e viceversa” (Giddens, 1990).

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L’Information Technology ha influito fortemente sull’aumento dei flussi di commercio internazionale e sugli investimenti diretti all’estero, rendendo le economie dei diversi stati sempre più integrate tra loro, e determinando fenomeni di globalizzazione economica e sociale. Per ridurre i tempi ed i costi della R&S, ma anche i rischi legati all’incertezza del successo dell’innovazione in un mercato sempre più competitivo, alcune imprese attuano collaborazioni tecnologiche per scambiare e\o generare conoscenze tecnico-scientifiche, accettando la condivisione di conoscenze tecnologiche con altre imprese, per migliorare il proprio livello competitivo. In alcuni casi, le innovazioni sono concepite su scala globale da imprese multinazionali che possono attuare diverse strategie(ad esempio, la R&S e le attività ad alta tecnologia sono concentrate nel paese di origine della casa madre e, quindi, distribuite alle filiali in altri paesi, oppure le imprese che fanno parte della multinazionale, attuano una propria attività di R&S). In genere, gli investimenti in R&S sono predominanti nelle imprese di maggiori dimensioni, tanto che i livelli d’intensità tecnologica mostrano una correlazione positiva con la dimensione aziendale, mentre risultano proporzionalmente minori nelle PMI in cui la R&S è prevalentemente di tipo informale ed implicito. I principali motivi che vengono addotti per spiegare la scarsa propensione delle PMI ad attuare significativi investimenti in R&S sono riconducibili − alla relativa maggiore presenza di PMI in settori e lavorazioni tradizionali,

caratterizzati da minori livelli di opportunità tecnologiche, − alle limitate risorse tecnologiche, organizzative e finanziarie di cui queste

imprese possono disporre, soprattutto a fronte delle soglie di indivisibilità che molte attività di ricerca e sviluppo richiedono,

− alla necessità di esternalizzare le attività di R&S e, quindi, ai condizionamenti che derivano dalla dotazione e dal livello tecnologico dell’area geografica in cui sono localizzate,

− alle specifiche strategie di mercato ed alle conseguenti scelte di investimenti e, quindi, di costi e di determinazione dei prezzi, dato che le PMI tendono a sviluppare l’attività di R&S in relazione diretta con la possibilità di innovare aumentando i costi variabili, e in relazione inversa con quella di innovare incrementando i costi fissi.

Le PMI, quindi, tendono ad attuare le attività R&S ricorrendo all’out sourcing, sviluppando le innovazioni in modo implicito, utilizzando risorse tecniche, umane, organizzative, accumulate o acquistate per altre funzioni aziendali, che

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già costituiscono il set dei costi variabili, integrando le attività svolte internamente con servizi esterni all’impresa.

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TERZIARIZZAZIONE DELL’ECONOMIA E SVILUPPO REGIONALE

Premessa Il nuovo paradigma tecnico-economico dell’Information Technology determina, nei Paesi ad economia avanzata, profonde modificazioni nel sistema produttivo e ridefinisce gli schemi organizzativi della produzione, sia di tipo materiale che immateriale. Le innovazioni organizzative, parte integrante delle innovazioni tecnologiche, e la nascita di nuove imprese in nuovi settori, spesso ad alta tecnologie e ad elevato contenuto di informazione, incidono in modo diretto sulle trasformazioni radicali che in questi ultimi decenni stanno subendo le città, sia in termini di ruolo e funzioni, sia per quanto riguarda le relazioni con le rispettive aree di influenza, le caratteristiche e le configurazioni delle reti urbane, i nessi tra distribuzione geografica delle attività produttive ed i modelli di concentrazione della popolazione. Di fatto, la progressiva terziarizzazione delle economie dei paesi di antica industrializzazione si struttura secondo forme e modelli molto differenziati e non univoci: − In primo luogo, perché il complesso delle attività che configura la

cosidetta “terziarizzazione” è molto eterogeneo, ma anche fortemente integrato, concentrato a livello territoriale, e interconnesso con aree e regioni non contigue, misurabile non tanto per lo stock di funzioni presenti, quanto per l’intensità delle relazioni intra e inter sistema.

− In secondo luogo, perché le innovazioni organizzative, che derivano dal nuovo paradigma tecnologico, stanno operando una più marcata specializzazione e divisione spaziale del lavoro, che vede localizzate in misura elevata, nelle grandi aree urbane e nelle grandi città, le attività di direzione, gestione, controllo della produzione, i servizi alle imprese di assetto e strategici, le attività finanziarie di alto livello, i grandi centri transazionali, le attività che producono beni immateriali e quelle legate alla R&S.

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1. I FATTORI DELLA TERZIARIZZAZIONE

Per quanto riguarda il processo di terziarizzazione nelle grandi aree urbane, si può osservare che: Ø l’affermazione del nuovo paradigma tecnico-economico basato

sull’Information Technology, di tipo information intensive e labour saving, incide sull’affermazione di nuove forme di organizzazione aziendale e modifica le strategie localizzative, con una drastica caduta della significatività dei fattori di localizzazione classici, un’elevata mobilità geografica degli impianti, una crescente internazionalizzazione delle imprese, una sempre maggiore globalizzazione delle economie, forti effetti delocalizzativi di attività industriali dalle aree centrali verso regioni periferiche, o del terzo mondo, forte tendenza alla “concentrazione selettiva”, soprattutto nelle grandi aree urbane, delle attività di direzione, gestione, controllo delle aziende che rappresentano i motori dello sviluppo di attività integrate, prevalentemente information intensive.

Ø I processi di globalizzazione dell’economia, generati in buona misura dall’Information Technology, hanno prodotto vistose trasformazioni anche nella divisione internazionale del lavoro. Le attività delle aziende transnazionali e internazionali sono state riorganizzate e ridistribuite, ricercando economie di portata e di scopo, oltre alle economie di scala. Si passa, in altri termini, dal sistema fordista classico ad un “neofordismo”, nel quale i sistemi flessibili di produzione, distribuzione, commercializzazione, basati su forme di produzione che consentono di passare rapidamente da un livello di produzione ad un altro, e da un tipo di prodotto ad un altro, con diverse possibili combinazioni di legami verticali e orizzontali tra aziende, e con la creazione di reti, gruppi, costellazioni di imprese, modificano la logica della produzione di massa congiunta ai consumi di massa.

Ø Le produzioni information intensive (informatica, microelettronica, telecomunicazioni, software per l’automazione di fabbrica e d’ufficio, produzione di sistemi di automazione rigida e flessibile, servizi alle imprese, ecc.) attraversano orizzontalmente, anche se in modo ineguale, il mercato di tutti i settori dell’economia, siano essi industriali, terziari, quaternari o quinari. Incidono sul livello competitivo delle aziende, determinando capacità di progettazione rapida, mutamenti nei prodotti e nelle tecnologie di processo, integrazione delle fasi di progettazione e

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produzione, riduzione del numero di componenti meccanici in molti prodotti, integrazione in rete dei fornitori di componenti e di imprese di assemblaggio. Forniscono al sistema economico una vasta gamma di occasioni produttive e di mercato, d’innovazioni di processo, di prodotto, di organizzazione, di strumenti in grado di incrementare la produttività e la competitività di tutti i settori, attraverso una integrazione “a sistema” delle diverse unità di produzione e delle diverse funzioni che compongono un ciclo produttivo, dalla concezione del prodotto al mercato. Queste attività sono tipicamente labour saving e floorspace saving, prediligono, quindi, la localizzazione urbana in quanto sono meno soggette alle diseconomie generate dagli elevati costi delle aree, ed ai fenomeni di congestione che sono stati, in parte, alcuni dei fattori di delocalizzazione degli impianti industriali dalle aree centrali: la crisi delle attività industriali nei centri metropolitani sarebbe in parte dovuta, secondo la teoria dei costi di produzione di Keeble, ad un più elevato livello dei costi di produzione – affitti delle aree, congestione nei trasporti, costi della manodopera, minore efficienza della città di grandi dimensioni - rispetto a quello delle imprese localizzate in regioni periferiche (Keeble, 1984).

La delocalizzazione dei grandi impianti industriali e la conseguente perdita di posti di lavoro, non compensata adeguatamente dalla creazione di nuova occupazione nelle attività information intensive, è l’elemento di connessione più diretto con il fenomeno della disurbanizzazione. Le trasformazioni della base economica generate negli ultimi decenni dall’Information technology, hanno determinato un complesso sistema basato prevalentemente sulla produzione di beni immateriali, che si vanno gradatamente sostituendo alla produzione di beni materiali. Non vi è dubbio che uno dei fattori dirompenti del nuovo paradigma dell’Information Technology sia lo sviluppo di aggregati settoriali (terziario avanzato, quaternario e quinario) e la riduzione di quei settori che, per anni, avevano accompagnato la maggior parte degli studi e delle ricerche sullo sviluppo regionale. Con l’articolazione sempre più complessa e più ricca delle attività e funzioni che ricadono nel comparto del terziario, negli anni sessanta numerosi autori

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hanno cercato, con sottoclassificazioni, di strutturare le diverse attività e funzioni del terizario, in un quadro più sistematico e meno eterogeneo. Altri autori classificano le funzioni terziarie in gruppi costituiti: - dai servizi di distribuzione (immagazzinaggio, trasporti, comunicazioni,

servizi commerciali), - dai servizi alle imprese, che comprendono attività di servizio (consulenze

finanziarie, organizzative, legali, di progettazione) fornite ad altre imprese che a loro volta producono beni o servizi,

- dai servizi sociali, che rispondono ai bisogni della collettività (sanità, istruzione,trasporti), dai servizi personali, che raggruppano un insieme di attività che si differenziano dalle precedenti soprattutto per uno spostamento di accento sul carattere individuale dei bisogni (alberghi, pubblici esercizi, servizi di assistenza).

I criteri di classificazione si moltiplicano man mano che appaiono evidenti le insufficenze esplicative dell’aggregato. La costituzione di un aggregato nuovo, nettamente separato dal comparto del terziario, è stata effettuata da: - Gottmann con l’introduzione, negli anni sessanta, della categoria del

quaternario, riferito alle attività direzionali pubbliche e private, alle professioni liberali, al sistema del credito e

- i geografi dell’Università del Minnesota, con la definizione della categoria del quinario, relativa a tutte quelle attività ad elevato contenuto di informazione, come ad esempio l’informatica, le comunicazioni, la telematica.

Il quaternario è costituito dalle funzioni direzionali e gestionali delle imprese, dove sono elaborate le informazioni, sono prese le decisioni di strategiche in termini di allocazione delle risorse, d’investimenti, di disinvestimenti, sono svolte le attività di negoziazione e transazione con le altre imprese e attività che, come fornitori di input (di tipo sia materiale che immateriale), e come utilizzatori di output, entrano nella la catena del valore aziendale. Le attività di negoziazione e di transazione, in quanto richiedono rapporti diretti e interpersonali, incidono in misura elevata sulla concentrazione delle funzioni nelle grandi aree urbane. I contatti interaziendali “faccia a faccia” si realizzano più facilmente in centri dotati di elevata accessibilità, efficienti, forniti di servizi urbani di qualità, con elevate caratteristiche ambientali.

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2. SERVIZI ALLE IMPRESE

Strettamente connesso al quaternario, è il sistema dei servizi alle imprese. I servizi alle imprese rientrano tra quelle funzioni aziendali che l’impresa può, o internalizzare (terziario implicito), o acquistare all’esterno (terziario esplicito), o ancora – ed è il caso più frequente – decidere di utilizzare operando una complementarietà tra funzioni svolte all’interno e l’out sourcing. Si possono identificare due principali categorie: - la prima comprende quelle attività, rivolte alla gestione quotidiana, che

consentono di mantenere, possibilmente migliorandole in termini qualitativi, le condizioni delle aziende. Sono i cosidetti "servizi di mantenimento" o "di routine" (contabilità, amministrazione, ecc.). Questa categoria non contribuisce allo sviluppo del sistema produttivo, e non costituisce un fattore propulsivo dell'economia locale.

- La seconda categoria riguarda i "servizi strategici o avanzati" (marketing, pubblicità, ecc.) che, in quanto portatori di know-how di applicazioni di tecnologie innovative di prodotto, di processo, di gestione, di mercato, contribuiscono all'inserimento delle imprese nei mercati più dinamici, attraverso l'aggiustamento strategico, e contribuiscono ad accelerare il tasso di sviluppo regionale.

L'opportunità per le imprese di incrementare il consumo di servizi d’assetto e strategici è strettamente collegato al nuovo paradigma tecno-economico dell’Information Technology che orienta gli strumenti per una dinamica concorrenziale, da tecniche capital intensive a produzioni information intensive. L'esistenza e la disponibilità, per un’impresa, di maggiori flussi informativi sono la condizione necessaria per perseguire con continuità processi innovativi. L’aumento di produttività e di competitività dell’impresa non è più quindi garantita dallo spostamento da sistemi di produzione labour intensive a capital intensive. L'informazione e la conoscenza divengono le risorse strategiche che possono essere scambiate per numerosi motivi e da diverse tipologie di soggetti, con la trasformazione dell'informazione in bene di scambio. Le difficoltà d’accesso delle imprese ai flussi d’informazione, possono rappresentare barriere alla crescita che possono essere superate solo attraverso innovazioni di tipo organizzativo, e attraverso lo sviluppo di funzioni di pianificazione, organizzazione, finanza, ricerca e sviluppo.

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Il difficile posizionamento sul mercato delle imprese localizzate in regioni periferiche è anche funzione delle caratteristiche e del dinamismo dell'ambiente locale che influisce sulla selezione delle tecnologie più appropriate, e che può essere definito come "l'insieme delle relazioni politiche, sociali, culturali nelle quali le imprese sono inserite". La domanda di servizi è allora funzione della capacità del sistema produttivo di esplicitare - lato imprese - una propensione maggiore all’innovazione (che si manifesta anche con una domanda crescente di funzioni proprie del terziario avanzato), e di attivare - lato servizi – un’offerta adeguata alle rinnovate esigenze delle aziende.

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VI

LE CAUSE DEL SOTTOSVILUPPO

PREMESSA In molti casi si è affermato che il commercio internazionale ha un ruolo forte nell’aumento dei differenziali di sviluppo tra Nord e Sud del mondo. I Paesi del Terzo Mondo offrono sul mercato materie prime dalla cui vendita traggono valuta pregiata necessaria all'acquisto di prodotti finiti. Poichè il valore delle materie prime complessivamente inferiore a quello dei prodotti industriali, ne scaturiscono ragioni di scambio negative per i PVS, costretti a vendere quantità sempre maggiori di materie prime per procurarsi prodotti finiti. Il deterioramento dei termini reali di scambio costituisce dunque una perdita di potere d'acquisto dei PVS, a favore dei Paesi sviluppati. I rapporti commerciali internazionali sono regolati di conseguenza da uno scambio ineguale determinato dal diverso grado di sviluppo economico e tecnologico che contraddistingue i due gruppi di Paesi. Caratteristica della maggior parte dei PVS è il forte indebitamento con l'estero che in molti casi ha finanziato alcune fasi del loro sviluppo economico. Creditori sono soprattutto la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale e diversi istituti bancari, pubblici e privati dei Paesi più industrializzati La restituzione dei finanziamenti ottenuti avviene tramite il pagamento del servizio sul debito, cioè di parte del capitale a cui vengono aggiunti gli interessi passivi. Il servizio sul debito è spesso molto oneroso e lo è stato ancora di più in passato, prima che accordi tra i Paesi e gli istituti finanziari portassero ad una riduzione e dilazione nel tempo (la cosiddetta rinegoziazione). I nuovi accordi più favorevoli sono stati concessi in cambio di aggiustamenti strutturali, ossia di interventi dei governi per ridurre e razionalizzare la spesa pubblica, per limitare sprechi e corruzione, per migliorare i differenziali di reddito tra le classi sociali.

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1. TEORIA DELLA MODERNIZZAZIONE. Tale teoria sostiene che le principali cause del mancato sviluppo dei paesi sottosviluppati siano interne ai paesi stessi e siano rappresentate da inadeguatezze strutturali. Le classi sociali che impediscono il processo di sviluppo sono le oligarchie del passato e la burocrazia statale. E’ implicito l’assunto che l’esperienza storica dell’Occidente rappresenta un modello che i paesi sottosviluppati non devono fare altro che seguire per arrivare alla prosperità. Questo obiettivo va raggiunto attraverso lo sviluppo tecnologico, l’adozione delle pratiche e delle idee occidentali, il commercio estero e gli investimenti esteri.

2. TEORIA DELLA DIPENDENZA Secondo la teoria della dipendenza, le caratteristiche squilibrate delle relazioni tra paesi industralizzati e Terzo Mondo derivano dal colonialismo, quando i paesi del Terzo Mondo erano spinti dai colonizzatori a specializzarsi nella produzione di beni primari destinati all’esportazione per soddisfare le necessità delle potenze coloniali. si è affermata dopo la seconda metà del ‘900 in Sud America seguendo un approccio marxista al sistema mondo per spiegare le disuguaglianze createsi tra paesi sviluppati e sottosviluppati. La tesi centrale della teoria della dipendenza è che sviluppo e sottosviluppo sono fenomeni connessi tra loro, aspetti divergenti di uno stesso processo e che il rapporto tra la parte sottosviluppata del mondo e quella sviluppata è un rapporto di forte dipendenza sulla base del quale l’economia di un paese si sviluppa, si espande o si contrae come riflesso degli andamenti dell’economia di altri paesi che, godendo di uno sviluppo basato su impulsi endogeni, occupano una posizione preminente. Questa forte asimmetria tra regioni sviluppate e sottosviluppate è il risultato del processo storico attraverso il quale si è formato il sistema capitalistico mondiale e si rafforza il divario tra paesi. La teoria della dipendenza crea un parallelismo tra disuguaglianze interne ad un paese e quelle presenti nel sistema internazionale. Distingue tra aree centrali (i paesi ad elevato tasso di sviluppo e alto reddito) e periferiche (i paesi del sud del mondo).

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Questi ultimi con un ruolo di fornitori di materie prime utilizzate dai paesi industrializzati. Lo sviluppo e la ricchezza delle aree centrali dipende, quindi, per la teoria della dipendenza, dallo sfruttamento effettuato dalle aree centrali ai danni delle aree periferiche, analogamente a come nella teoria marxista il potere della classe dominante si basa sullo sfruttamento della classe dei lavoratori. Le forme di dipendenza sono andate mutando nel tempo in relazione al variare delle caratteristiche dei paesi avanzati. In una prima fase, l’economia dei paesi extraeuropei dipendeva dall’esportazione dei prodotti agricoli e minerari. In una fase successiva, alla fine dell’800 e nei primi decenni del ‘900, lo sviluppo in alcuni paesi è stato determinato dagli investimenti e dai prestiti provenienti dai paesi avanzati. Attualmente il carattere principale della dipendenza è dovuto alla tecnologia, dato che politiche di industrializzazione richiedono conoscenze e mezzi della produzione che solo i paesi avanzati detengono. Di conseguenza, i paesi sottosviluppati importano tecnologie dai paesi sviluppati, esportano prodotti primari soggetti alla variazione della domanda dei paesi avanzati, con una tendenza strutturale del sud del mondo al disavanzo della bilancia commerciale e al ricorso di capitale estero nella forma di investimenti o finanziamenti. Questo processo genera una distribuzione sperequata del reddito nelle classi sociali dei paesi in via di sviluppo che riduce la capacità di spesa delle grandi masse e limita il mercato interno, impedendo il formarsi di impulsi endogeni allo sviluppo.

3. TEORIA SUB-CENTRICA. Secondo tale teoria i paesi del Nord del mondo sfruttano a loro esclusivo vantaggio le risorse dei paesi a basso livello di sviluppo. Da cui deriva che la principale causa del sottosviluppo è generata dai paesi industrializzati, secondo uno schema centro-periferia e che i programmi di sviluppo basati sulla tecnologia e sullo sviluppo industriale importato dai modelli dei paesi sviluppati non costituisca la soluzione. Le strategie di sviluppo devono piuttosto partire dal basso, secondo un modello endogeno, devono tenere conto delle tradizioni economiche e sociali e delle necessità delle popolazioni, secondo uno schema bottom up contrapposto a quello top down..

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4. WORLD-SYSTEM-ANALYSIS

L’analisi dei sistemi del mondo o del sistema-mondo (World Systems Theory) rappresa un’estensione/applicazione al di fuori dei confini latino-americani dell’analisi delle relazioni politico-economiche tra blocchi regionali interdipendenti, connessa all’analisi dei cicli di accumulazione del capitale su scala globale. E’ stata sviluppata soprattutto da I. Wallerstein, con i contributi di altri autori. L’analisi del sistema-mondo si rifà alla letteratura neo-marxista sullo sviluppo e alla scuola francese degli Annales (F. Braudel). La teoria del Sistema Mondo fornisce una chiave di lettura di “lunga durata” dello sviluppo economico e interpreta le ragioni dei flussi migratori. Per Wallerstein il Sistema mondo può essere considerato come un insieme di meccanismi che ridistribuiscono le risorse economiche del pianeta a partire da un “centro” verso delle “periferie”. Mentre il “centro” genera ricchezza attraverso l’industrializzazione la “periferia” acquista importanza soltanto come luogo di produzione delle materie prime. In questo meccanismo di distribuzione ineguale il mercato diventa il mezzo con il quale il “centro” sfrutta a suo vantaggio la “periferia”. Il primo sistema mondo sarebbe sorto per Wallerstein nel periodo che va dal 1492 al 1640 (dalla scoperta delle Americhe alla Rivoluzione Inglese). Per la prima volta si sarebbe creato in questa epoca un “sistema sociale con confini, strutture, gruppi, regole di legittimazione e di coerenza in cui sono presenti forze contrastanti che lo tengono insieme, da tensioni e lacerazioni provocate dagli interessi dei vari gruppi che in modo eterno tentano di rimodellarlo a proprio favore. All’interno del Sistema Mondo vi sono dei “ritmi ciclici” di breve termine ossia le fluttuazioni economiche e delle “tendenze di lungo periodo” come la crescita economica generale e il declino economico generalizzato.

5. TEORIE ETICO-UMANISTICHE: AMARTYA SEN Il tema della globalizzazione è da alcuni anni al centro del dibattito della cultura contemporanea. La globalizzazione ha cambiato radicalmente la struttura della società. Amartya Sen, Nobel per l'economia nel 1998, ha introdotto un’impostazione etico-umanistica nello studio dei fenomeni economici.

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Il fattore umano è considerato il centro nevralgico di tutti i sistemi politico-economici mentre un’impostazione rigorosamente di tipo economico non è idonea a spiegare il fenomeno e soprattutto è incapace di affrontare in maniera adeguata uno dei principali nodi problematici posti dal nuovo scenario globale, ossia la questione delle disuguaglianze. La scienza economica è basata per misurare le diseguaglianze sulla variabile reddito. Tutte le politiche redistributive messe in atto hanno in questa prospettiva lo scopo di ridurre gli scarti differenziali reddituali. Sen mostra che una tale impostazione non consegue l'obiettivo. Equality of What? era il significativo titolo di un saggio di Sen apparso negli anni ottanta, in cui per la prima volta l'economista indiano mette in discussione il concetto di uguaglianza, così come esso veniva considerato dagli economisti. L'uguaglianza non può e non deve essere pensata unicamente in relazione ai livelli di reddito in quanto viene trascurato il benessere che deriva anche da altri fattori, ugualmente decisivi, come la libertà politica, l'analfabetismo, l'esclusione sociale. L'analfabetismo, la mancanza di libertà politica, l’esclusione sociale sono delle «illibertà» che vanno prese in considerazione nella valutazione della povertà di un popolo. Un popolo soggetto a pesanti limitazioni delle proprie libertà (libertà di parola, libertà di movimento) non può essere considerato realmente sviluppato. La valutazione del grado di sviluppo non può essere quindi separata da quella della qualità di vita e di libertà di cui effettivamente le persone godono. Lo sviluppo per Sen non può essere identificato semplicemente con l'aumento del reddito pro capite o con il progresso tecnologico. Per Sen libertà e democrazia sono il perno di ogni sistema politico-economico. Secondo Sen, la globalizzazione è il nostro mondo-ambiente, la sfera all'interno della quale ci muoviamo; è un sistema aperto e, come tutti i sistemi aperti, ha la qualità di essere autocorrettivo: alcune istanze etiche presenti nei movimenti no-global possono essere incorporate nel sistema e produrre dei cambiamenti; è una modalità di interazione sociale che può essere liberamente modellata: le sue dinamiche evolutive dipendono dalle nostre decisioni.

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La libertà è l'ideale regolativo che deve essere adottato per correggere gli effetti negativi della globalizzazione (iniqua distribuzione delle ricchezze, esclusione sociale). Si ha lo sviluppo globale solo se si realizza libertà politica e sociale. Allontanandosi anche qui dalle pratiche consuete della teoria economica, Sen pone molta enfasi sui problemi della libertà e del ruolo che essa gioca in connessione con il well-being degli individui. L'approccio di Sen ha convinto molti studiosi a considerare i tradizionali indicatori monetari del benessere (indici di povertà e diseguaglianza basati sul reddito o sulla spesa per consumi) come misure incomplete e parziali della qualità della vita di un individuo. Il merito di Sen è di aver usato nuove categorie capaci di superare i limiti delle analisi economiche tradizionali e di introdurre un nuovo concetto di sviluppo che si differenzia da quello di crescita. Lo sviluppo economico non coincide più con un aumento del reddito ma con un aumento della qualità della vita. Le disuguaglianze (inequality) tra i popoli derivano anche dalla sostanziale eterogeneità degli esseri umani e dal fatto che la misurazione della disuguaglianza dipende dalla variabile focale (felicità, reddito, ricchezza, ecc) attraverso cui si fanno i confronti: la misurazione della disuguaglianza dipende cioè dai parametri assunti per definirla. Per parlare di eguaglianza occorre preventivamente porsi il duplice quesito why equality? (“perché eguaglianza?”) e equality of what? (“eguaglianza di che cosa?”). Interrogarsi sull’uguaglianza significa dunque innanzitutto interrogarsi su quali siano gli aspetti della vita umana che debbono essere resi eguali. Sen osserva come l’economia contemporanea sia concentrata sulla misurazione della “utilità” individuale, guardando a questa ultima come sinonimo di tutto ciò che l’individuo può massimizzare e il primo luogo del suo well being senza però chiedersi come questa utilità sia giudicata. In definitiva, alla sempre più esatta formulazione di modelli economici ha corrisposto, secondo Sen, una grande inesattezza del loro oggetto di analisi. Per superare tutto ciò, Sen propone di non guardare solo all’aspetto well being ossia del benessere, ma di considerare anche l’aspetto advantage ossia le reali opportunità che una persona possiede a confronto con quelle possedute da altri. Questa prospettiva fa emergere dimensioni sostanziali del sottosviluppo come

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quelle legate alla disuguaglianza nell’accesso alle opportunità, alle discriminazioni di sesso, di razza e di classe sociale, agli standard di vita. Più in generale, e quindi al di là dell’aspetto advantage Sen ritiene che il “well being” di una persona debba essere valutato in relazione ad una serie di sue funzionalità (“functionings”), che sono costituite da aspetti relativi all’essere e al fare. Tali funzionalità variano da aspetti elementari, come essere adeguatamente nutrito, essere in buona salute, potere evitare malattie e mortalità prematura, fino a funzionalità ben più complesse come essere felici potere apparire in pubblico senza vergogna, potere prendere parte alla vita della comunità e così via. Si tratta di una lista di aspetti eterogenei, che comprende stati eminentemente soggettivi (come sentirsi felici) insieme ad altri chiaramente oggettivi (avere assunto sufficiente nutrimento); interessi culturalmente universali (essere in buona salute) insieme ad altri che possiedono probabilmente una rilevanza maggiore in certe culture (come il non dovere vergognarsi). Tale eterogeneità è in parte bilanciata dall’esistenza del concetto di capacità (“capability”), che Sen considera come interrelato con il concetto di funzionalità. La capacità è costituita dalla combinazione di funzionalità che un soggetto può realizzare. Capacità in questo senso rappresenta il diritto della persona a scegliere particolari combinazioni di funzionalità come espressione della sua libertà. Libertà di scelta è in definitiva inseparabile dalle funzionalità e conferma l’affermazione di Rawls che l’idea di diritto è superiore a quella di bene. Sen definisce inoltre un indice di povertà (che sarà descritto in seguito) Human Development Index (HDI) che introduce nuovi parametri per valutare la reale ricchezza di un Paese: aspettativa di vita, alfabetizzazione degli adulti, distribuzione del reddito.

6. BASIC NEEDS Con questa espressione si afferma che i “bisogni di base” di tutti dovrebbero essere soddisfatti prima che i bisogni meno essenziali di pochi siano presi in considerazione. In questa nuova e per certi versi rivoluzionaria prospettiva, obiettivo dello

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sviluppo dovrebbe essere riuscire ad offrire a tutti gli esseri umani l’opportunità di una vita piena (full life). In questo senso non è importante l’aumento della ricchezza e neppure la riduzione delle disuguaglianze quanto piuttosto interventi tesi a sradicare malattie, abbattere tassi di mortalità infantile, l’istruzione delle donne. Gli esponenti della teoria dei Basic Needs, nata in seno alla World Bank negli anni '70, indicavano, come primo presupposto dello sviluppo la soddisfazione dei bisogni essenziali di tutti. Una nazione non dovrebbe quindi limitarsi a promuovere la crescita economica, sulla base della convinzione che questa porterà benefici a tutta la popolazione, ma distribuire in modo equo le sue risorse in modo che la crescita sia indirizzata al benessere collettivo. Il PIL non fornisce informazioni sulla distribuzione delle risorse e sul fatto che qualcuno sia privato di cibo, acqua, alloggio, vestiario, sanità e istruzione. Di conseguenza i dati sulla crescita economica (PIL) devono essere integrati con quelli sulla distribuzione del reddito e sulla povertà. L'UNDP (United Nations Development Programme) prese le distanze dall'approccio dei basic needs, respinto soprattutto dai paesi meno avanzati, formulando il concetto di sviluppo umano e introducendo un nuovo indice di misurazione dello sviluppo dei paesi, l'ISU (Indice di Sviluppo Umano). Lo sviluppo umano è il processo che permette alle persone di ampliare la propria gamma di scelte. Il reddito è una di queste scelte ma non rappresenta la somma totale delle esperienze umane. La salute, l'istruzione, l'ambiente salubre, la libertà d'azione e di espressione sono fattori altrettanto importanti. Lo sviluppo umano quindi rappresenta una nuova accezione dello sviluppo ed ha ridefinito le priorità d’intervento dalla crescita del PIL al miglioramento sia della qualità della vita, sia delle condizioni di sostenibilità sociale ed ecologica. Lo sviluppo, cioè, non viene perseguito sulla sola crescita economica ma anche sulla distribuzione del reddito, vale a dire la partecipazione delle classi sociali al processo di crescita.

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VII

LA MISURAZIONE DEL GRADO DI SVILUPPO

Premessa Con la pubblicazione del World Development Report (2000) la Banca Mondiale ha impostato una strategia di lotta alla povertà basata su una concezione ampia del problema che include la crescita delle opportunità e il coinvolgimento politico dei poveri, accanto alle azioni economiche condotte su scala globale. Dei 6 miliardi di abitanti del pianeta, 2,8 miliardi hanno meno di 2,5 euro al giorno per sopravvivere, e 1,2 miliardi meno 2,5 euro al giorno. Ma la povertà non è solo mancanza di risorse economiche. Amartya Sen considera la povertà nel suo contesto sociale come impossibilità a svolgere alcune fondamentali attività dell’uomo: «la povertà deve essere intesa come la privazione delle capabilities fondamentali dell’uomo» (Sen 1999). L’idea di fondo del suo human poverty approach al concetto di povertà è che essa dovrebbe includere sia ciò che potremmo o non potremmo fare (capabilities), sia ciò che ci è effettivamente concesso di fare (functions). Quest’idea ha svolto un ruolo fondamentale nell’allargamento della lotta alla povertà che, non più legata alla sola dimensione del reddito, include il diritto ad una vita lunga, creativa, tutelata da malattie e violenze - e il diritto ad un buon tenore di vita, alla dignità, all’autostima e al rispetto altrui. Le valutazioni della povertà basate sul reddito o sui consumi familiari non sono esenti da problemi: le informazioni raccolte su scala familiare richiedono cautela nell’essere convertite in indici di benessere validi per i singoli individui, e non rivelano le disuguaglianze all’interno della famiglia (cfr ad esempio, il sistema relativo dei prezzi). Alcune valutazioni della povertà basate su indicatori sociali quali: ü l’aspettativa di vita alla nascita, ü il tasso di mortalità infantile, ü l’accesso alla scolarizzazione possono mascherare disparità regionali e l’incidenza delle malattie trasmissibili,

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spesso più alta tra i poveri, a fronte di un accesso all’assistenza sanitaria certamente più difficile.

1. PRODOTTO INTERNO LORDO Uno degli indicatori più utilizzati per misurare il grado di sviluppo di un paese è il prodotto interno lordo (PIL). Il Prodotto Interno Lordo (PIL) è il valore complessivo dei beni e servizi prodotti all'interno di un Paese in un certo intervallo di tempo (indipendentemente dalla nazionalità di chi li produce) destinati ad usi finali (consumi finali, investimenti, esportazioni nette); non viene quindi conteggiata la produzione destinata ai consumi intermedi, che rappresentano il valore dei beni e servizi consumati e trasformati nel processo produttivo per ottenere nuovi beni e servizi. Gli indicatori standard sono rappresentati dal Prodotto Nazionale Lordo (PNL), dal Prodotto Interno Lordo (PIL) e dal reddito disponibile nazionale (Yn). Il PNL designa il valore totale, in moneta, dei beni e servizi finali prodotti da un paese in un determinato anno. E’ la somma di tutti i consumi finali, gli investimenti lordi, gli acquisti pubblici di beni e servizi e le esportazioni nette. Il reddito disponibile nazionale è un dato di flusso ed è composto dalla somma di consumo più risparmio. Il reddito designa quindi il totale delle entrate monetarie di una persona durante un anno. Il reddito include i salari e le entrate da lavoro, il reddito da proprietà comprendente le rendite, gli interessi e i dividenti, i trasferimenti o pagamenti ricevuti dalla PA (pensioni, CIG, ecc.). La ricchezza è un dato di stock, è costituita dal valore monetario netto del patrimonio in una determinata data. Tutte le voci che hanno un valore sono dette attività mentre quelle costituite da debiti sono dette passività. La differenza tra il totale delle attività e delle passività è detto patrimonio netto o ricchezza. La Banca Mondiale valuta lo stato economico di un Paese esclusivamente in base al reddito pro capite, in particolare: – reddito basso ovvero meno di 825 $; – reddito medio basso compreso tra 826 e 3255 $; – reddito medio alto compreso tra 3256 e 10065 $; – reddito alto oltre 10066 $, Bassi livelli di reddito spesso corrispondono a bassi livelli di sviluppo

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L’utilizzazione del PIL per la valutazione dei divari di sviluppo non tiene conto della distribuzione del reddito e della qualità della vita e non permette valutazioni sul potenziale dinamico economico di lungo periodo.

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2. INDICE DI SVILUPPO UMANO Dal 1990 i concetti di capabilities e di opportunities introdotti da Sen insieme a quello di basic needs divengono gli strumenti di una nuova pubblicazione annuale dell'Agenzia delle Nazioni Unite per lo Sviluppo (UNDP), lo Human Development Report. Si tratta di ricollocare la persona al centro del concetto di sviluppo, evitando qualsiasi approccio che consideri gli esseri umani come essenzialmente creature economiche. Pertanto, mentre si riconosce che la crescita economica è necessaria per realizzare gli obiettivi umani essenziali, l'Agenzia ritiene che è fondamentale studiare come tale crescita si traduce, o non si traduce, in sviluppo umano, cioè in un concetto che ingloba una vita lunga e sana, istruzione, libertà politiche, sicurezza personale, rispetto dei diritti umani, e più complessivamente l’utilizzazione e l’espansione delle capabilities umane. L'Indice di sviluppo umano (HDI-Human development index) è un indicatore di sviluppo macroeconomico realizzato dall'economista pakistano Mahbub ul Haq (Human Development in South Asia 2006: Poverty in South Asia: Challenges and Responses, 1990). Sono numerosi gli aspetti innovativi introdotti dall’HDI rispetto ad una valutazione dello sviluppo effettuata con il PIL: – si supera l’interpretazione dello sviluppo come crescita economica e si

introduce un paradigma che tiene conto dell'ambiente in cui le popolazioni vivono;

– si fonda su quattro pilastri: eguaglianza (lo sviluppo umano è un ampliamento delle opportunità); sostenibilità (il processo di sviluppo deve essere capace di garantire la riproduzione del capitale fisico, umano e ambientale utilizzato); partecipazione (i processi economici, sociali e culturali attivati per promuovere lo sviluppo devono osservare la partecipazione dei beneficiari stessi); produttività (all'interno del processo economico di sviluppo ognuno deve avere la possibilità di partecipare alla di produzione dei redditi e di incrementare la propria produttività).

Lo sviluppo umano è stato spesso associato ad altri approcci allo sviluppo quali:

– La crescita economica che è uno dei mezzi e non il fine dello sviluppo.

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– Le teorie sulla formazione del capitale umano e sullo sviluppo delle risorse umane che considerano gli esseri umani come strumenti per aumentare il reddito e la ricchezza piuttosto che come fine ultimo

– L'approccio del benessere che considera gli esseri umani piu’ come beneficiari che come protagonisti del processo di sviluppo;

– L'approccio delle necessità di base che si preoccupa soprattutto sull’insieme di beni e servizi che le popolazioni piu’ povere necessitano (il cibo, l’alloggio i vestiti, la sanita’ e l’acqua). L’accento e’ quindi posto sulla fornitura di questi beni e servizi piuttosto che sulle loro implicazioni per lo sviluppo umano.

Per l’UNDP la crescita determina un effettivo sviluppo umano solo nella misura in cui essa è accompagnata da un’azione pubblica rivolta a contenerne gli aspetti negativi ed a re-indirizzare i benefici prodotti. In questo senso sforzi vigorosi devono essere fatti per evitare una growth "jobless, ruthless, voiceless, rootless and futureless". − Una "jobless growth" è una crescita in cui lo sviluppo economico

complessivo non espande le opportunità di occupazione. − Una "ruthless growth" è una crescita in cui i benefici vanno soprattutto a

beneficio dei ricchi, aumentando la povertà delle masse. − Una "voiceless growth" è una crescita che non è accompagnata da una

espansione delle forme democratiche e della distribuzione del potere; è, in altre parole, una crescita che potremmo fare rientrare nel modello dello "sviluppo dall'alto", ossia lo sviluppo imposto con forme autoritarie.

− Una "rootless growth" è a sua volta una crescita che va a scapito della identità culturale della società.

Lo sviluppo umano è, secondo la definizione dell’UNDP, un processo di ampliamento delle possibilità umane che consenta agli individui di godere di una vita lunga e sana, essere istruiti e avere accesso alle risorse necessarie a un livello di vita dignitoso, nonché di godere di opportunità politiche economiche e sociali che li facciano sentire a pieno titolo membri della loro comunità di appartenenza. Gli obiettivi generali dello sviluppo umano sono: ü promuovere la crescita economica sostenibile, migliorando in

particolare la situazione economica delle persone in difficoltà;

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ü migliorare la salute della popolazione, con attenzione prioritaria ai problemi più diffusi e ai gruppi più vulnerabili;

ü migliorare l’istruzione, con priorità all’alfabetizzazione, all’educazione di base e all’educazione allo sviluppo;

ü promuovere i diritti umani, con priorità alle persone in maggiore difficoltà e al diritto alla partecipazione democratica;

ü migliorare la vivibilità dell’ambiente, salvaguardare le risorse ambientali e ridurre l’inquinamento.

L’indice di sviluppo umano tiene conto dei seguenti fattori: ü il reddito, rappresentato dal prodotto interno lordo (Pil) individuale,

dopo una trasformazione che tiene conto sia del potere di acquisto della valuta, sia del fatto che l’aumento del reddito non determina un aumento del benessere in modo lineare (l’aumento di benessere è molto maggiore quando il Pil passa da 1000 a 2000 dollari che quando passa da 15.000 a 16.000).

ü Il livello della sanità, rappresentato dalla speranza di vita alla nascita. ü Il livello d’istruzione, rappresentato dall’indice di alfabetizzazione

degli adulti (moltiplicato per due) e dal numero effettivo di anni di studio.

3. ALTRI INDICI DI SVILUPPO 3.1. Indice del grado di povertà (HPI)

L'HPI è stato elaborato dall'ONU per misurare il grado di povertà di una nazione. Il Rapporto sullo sviluppo umano del 1997 ha introdotto per la prima volta un indice di povertà umano (HPI) che valuta se gli individui all'interno della società dispongano o meno delle opportunità necessarie per condurre una vita lunga e sana e per godere di un tenore di vita decente. Lo sviluppo, in termini di qualità, viene quindi giudicato per la prima volta a partire dall'ottica dei poveri, nel senso che i parametri utilizzati sono quelli dell'esclusione. Piuttosto che povertà in termini di reddito, l’HPI usa indicatori delle dimensioni più di base della esclusione: una vita breve, la mancanza di istruzione di base e la mancanza di accesso alle risorse pubbliche e private.

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3.2. ISEW (Index of Sustainable Economic Welfare), L'ISEW calcola lo sviluppo di una nazione in termini economici, come il PIL, ma comprende, oltre agli elementi positivi che lo fanno aumentare, elementi negativi che gli vengono sottratti. Hanno segno positivo: − la spesa privata per consumi e investimenti, − la spesa pubblica "buona" (quella per la sanità, per le infrastrutture, per

l'istruzione e per l'ambiente) − il lavoro domestico. Hanno segno negativo: − i danni ambientali, − l'esaurimento di risorse non rinnovabili, − la perdita di zone umide e di terreni agricoli, − le spese per la sicurezza, − i costi connessi a urbanizzazione, pendolarismo e incidenti stradali, − il grado di iniquità nella distribuzione dei redditi.

3.3. l'Ecological Footprint L’Ecological Footprint è un indice basato sulla sostenibilità ambientale, che calcola l'area biologicamente produttiva di mare e di terra necessaria per rigenerare le risorse consumate da una popolazione umana e per assorbire i rifiuti corrispondenti.

3.4. Indicatore del progresso reale Il principale indicatore proposto come alternativa al PIL, è il Genuine Progress Indicator (GPI), indicatore del progresso reale". Il GPI ha come obiettivo la misurazione dell'aumento della qualità della vita (che a volte è in contrasto con la crescita economica, che viene misurata dal PIL), Distingue con pesi differenti tra spese positive (perché aumentano il benessere, come quelle per beni e servizi) e negative (come i costi di criminalità, inquinamento, incidenti stradali).

3.5. Index of Sustainable Economic Welfare Un altro indicatore alternativo al PIL è l'ISEW. In tale indicatore rientrano non solo il valore complessivo dei beni e dei servizi finali prodotti in un paese, ma anche i costi sociali e i danni ambientali a medio e lungo termine.

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Il calcolo dello sviluppo di un paese non si basa quindi più soltanto sulla mera crescita economica ma anche su fattori sociali ed ambientali che considerano la soglia dello Sviluppo Sostenibile.

3.6. Subjective well-being Un altro indicatore è il “subjective well-being” (SWB) che tende a misurare la percezione che gli individui hanno della propria vita e del grado di soddisfazione che provano per essa. Questo indicatore ha il vantaggio d’essere stato rilevato da diversi decenni e in molti paesi del mondo. Studi empirici evidenziano che il SWB stenta a crescere nel tempo in diversi paesi, come il Giappone, o diminuisce, come negli USA, nonostante che il reddito pro-capite abbia avuto una evidente tendenza a crescere. Ciò costituisce per gli economisti un paradosso, chiamato “paradosso della felicità” in quanto il reddito viene considerato in economia come un buon indicatore di benessere.

3.7. Il Gender-Related Development Index (GDI) e il Gender Empowerment Measure (GEM) Il rapporto del 1995 si e' concentrato sui problemi relativi alla discriminazione fra i sessi. In quella occasione fu proposto: − il "gender-related development index" - indice di sviluppo per genere - (GDI)

(relativo alle discriminazioni fra i sessi) misura i risultati raggiunti nelle stesse dimensioni e variabili dell’HDI, ma tiene conto delle diseguaglianze esistenti tra uomo e donna nei risultati ottenuti.

− il "gender empowerment measure" - indice di partecipazione delle donne - (GEM) indica se le donne sono messe in condizione di partecipare attivamente alla vita economica e politica. E’ centrato sulla partecipazione e misura le diseguaglianze in settori chiave della partecipazione alla vita economica e politica e al processo decisionale. Si differenzia dal GDI che è un indicatore delle diseguaglianze

4. CRITERI DI CLASSIFICAZIONE DEI PVS Secondo l'l'Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico od OCSE sono definiti paesi in via di sviluppo tutti quei paesi compresi nella parte I della lista stilata dalla stessa organizzazione. Si tratta di paesi con livelli di sviluppo molto bassi, suddivisi in 5 categorie, in

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base al livello medio di reddito pro capite: A. Paesi in via di sviluppo, ulteriormente divisi in

ü paesi meno sviluppati (meno di un dollaro al giorno), Least Developed Countries (LDCs)

ü altri paesi a basso livello di reddito (inferiore a 745 $ all'anno nel 2001), Other Low-Income Countries (Other LICs)

ü paesi a basso-medio reddito (tra 746 $ e 2975 $ all'anno), Lower Middle-Income Countries (LMICs)

ü paesi ad un livello di reddito pro capite annuo medio-alto (tra 2976 $ e 9205 $ all'anno), Upper Middle-Income Countries (UMICs)

ü paesi ad alto livello di reddito (più di 9206 $ all'anno nel 2001), High-Income Countries HICs). A ciò vanno aggiunti:

B. Paesi in transizione che fanno parte di una classifica più ampia e

comprendono: ü Nazioni dell'Europa Centrale e dell'Est, e nuovi stati indipendenti

della precedente Unione Sovietica (CEECs/NIS) (Central and Eastern European Countries and New Independent States of the former Soviet Union)

ü Nazioni e Territori più avanzati tra le nazioni in via di sviluppo, (More Advanced Developing Countries and Territories)

C. Least Developed Country. eTale classifica elaborata dall’ECOSOC,

articola I Paesi secondo: ü reddito nazionale molto basso (<US $900) ü un indice composito basato su indicatori di salute, nutrizione ed istruzione ü alta vulnerabilità economica (un indice composito basato su indicatori di

instabilità dei prodotti agricoli e della esportazione, inadeguata diversificazione e grandezza economica)

La Banca Mondiale ha effettuato una classificazione in base all'eleggibilità al prestito: possono accedere ai prestiti da parte della Agenzia Internazionale per lo Sviluppo tutti i Paesi con reddito inferiore a 1065 $, mentre possono usufruire dei finanziamenti di Banca Mondiale solo i Paesi finanziariamente affidabili. La Banca Mondiale divide i paesi in paesi molto indebitati (SIN), moderatamente indebitati (MIN), lievemente indebitati (LIN) e non classificati per l'indebitamento (NIN).

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Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale hanno elaborato nel 1996 un altro progetto di classificazione dei Paesi con alti livelli di povertà e di peso dell’indebitamento estero, nominati HIPC (Heavily Indebted Poor Countries). Il programma HIPC, servirebbe alla riduzione del debito nei paesi in cui questo ha un peso eccessivo.

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VIII

STRUTTURE E ORGANISMI PER LA COOPERAZIONE ALLO SVILUPPO

Premessa La conferenza di Bretton Woods, che si tenne dal 1° al 22 luglio 1944, stabilì regole per le relazioni commerciali e finanziarie tra i principali paesi industrializzati del mondo. Gli accordi di Bretton Woods sono il primo esempio della creazione di un ordine monetario concordato per governare i rapporti monetari fra stati nazionali indipendenti. Gli accordi erano un sistema di regole e procedure per regolare la politica monetaria internazionale. Le caratteristiche principali di Bretton Woods sono due; ü obbligo per ogni paese di adottare una politica monetaria tesa a

stabilizzare il tasso di cambio ad un valore fisso rispetto al dollaro, che veniva così eletto a valuta principale, consentendo solo delle lievi oscillazioni delle altre valute;

ü equilibrare gli squilibri causati dai pagamenti internazionali, assegnato al Fondo Monetario Internazionale (o FMI).

Con l’Accordo furono istituiti: ü il Fondo Monetario Internazionale ü la Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo (Banca mondiale

o World Bank). Queste istituzioni sono diventate operative nel 1946. Nel 1947 fu firmato il GATT (General Agreement on Tariffs and Trade - Accordo Generale sulle Tariffe ed il Commercio) che si affiancava all'FMI ed alla Banca mondiale con il compito di liberalizzare il commercio internazionale.

1. OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) L'OCSE è stata istituita con la Convenzione sull'Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico nel 1960, sostituendo l'OECE, creata nel 1948 per amministrare il cosiddetto "Piano Marshall" per la ricostruzione postbellica dell'economia europea.

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Ne fanno parte 30 Paesi (Australia, Austria, Belgio, Canada, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Giappone, Gran Bretagna, Grecia, Irlanda, Islanda, Italia, Lussemburgo, Messico, Norvegia, Nuova Zelanda, Paesi Bassi, Polonia, Portogallo, Repubblica Ceca, Repubblica di Corea, Repubblica Slovacca, Spagna, Stati Uniti, Svezia, Svizzera, Turchia, Ungheria). L'OCSE mantiene stretti contatti con oltre 70 Paesi non membri, economie in via di sviluppo e in transizione (che possono partecipare come osservatori ai lavori dei Comitati o a determinati programmi dell'Organizzazione) e con le altre Organizzazioni Internazionali. L'OCSE, con sede a Parigi, è composta da un Segretariato strutturato in Direzioni Generali che corrispondono alle attività di oltre 200 tra Comitati, sotto-Comitati, Gruppi di lavoro e Gruppi di esperti.

Obiettivi Gli obiettivi dell'OCSE tendono alla realizzazione di più alti livelli di crescita economica alla luce del concetto di sviluppo sostenibile, di occupazione, di tenore di vita, favorendo gli investimenti e la competitività e mantenendo la stabilità finanziaria. Sono altresì orientati contribuire allo sviluppo dei Paesi non membri. Il "bilancio complessivo" dell'OCSE è finanziato dai 30 Paesi membri dell'Organizzazione. I contributi nazionali al budget annuale sono calcolati con una formula basata sulle dimensioni dell'economia di ciascun membro.

Il Centro per lo Sviluppo Il Centro per lo Sviluppo è stato istituito nel 1962. Il Centro si caratterizza principalmente per essere un foro di incontro e di confronto tra la maggior parte dei Paesi membri dell’OCSE ed alcuni paesi terzi, espressioni di economie tanto emergenti quanto ancora in via di sviluppo. Ne fanno infatti parte 28 Paesi (tra i quali l’Italia) di cui alcuni non membri dell’OCSE ma con un importante ruolo nell’ambito dell’economia globale (ad esempio, Brasile, India, Cile, Sud Africa, Tailandia). Al tempo stesso il Centro rappresenta un centro di analisi e studio nei settori dello sviluppo e della globalizzazione, con la finalità di contribuire alla ricerca di soluzioni per stimolare la crescita e migliorare le condizioni di vita nei Paesi in via di sviluppo e nelle economie emergenti.

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2. BANCA MONDIALE

La Banca Banca Mondiale è un organismo internazionale dell'Organizzazione delle Nazioni Unite, istituito il 27 dicembre 1945, unitamente al Fondo Monetario Internazionale, a seguito dell'entrata in vigore degli accordi della conferenza di Bretton Woods. Obiettivo originario era quello di finanziare la ricostruzione e lo sviluppo nei paesi coinvolti nella seconda guerra mondiale. Successivamente le sue funzioni sono state estese al finanziamento dei paesi in via di sviluppo tra gli stati membri, solitamente in cambio dell'adozione di politiche liberiste.

Mission In base all'atto istitutivo, la Banca Mondiale, favorisce la ricostruzione e lo sviluppo dei territori dei paesi membri facilitando l'investimento di capitale a scopi produttivi; promuove l'investimento privato estero, fornendo garanzie o partecipando a prestiti; integra l'investimento privato, erogando, a condizioni più favorevoli di quelle di mercato, risorse finanziarie da destinare a scopi produttivi. Il funzionamento operativo della banca è assicurato dai versamenti delle quote a carico dei paesi membri.

Attività Attualmente le attività della Banca Mondiale sono focalizzate sul finanziamento dei Paesi in via di sviluppo in campi quali l'educazione, l'agricoltura e l'industria. La Banca chiede in contropartita ai paesi beneficiari l'attuazione di misure politiche tese, oltre che alla limitazione della corruzione ed al consolidamento della democrazia, alla crescita economica in termini di PIL ed all'apertura di canali commerciali stabili con l'estero. La World Bank valuta lo stato economico di un Paese esclusivamente in base al reddito pro capite (4 fasce globali: reddito basso meno di 825 $ ; medio basso tra 826 e 3255 $; reddito medio alto tra 3256 e 10065 $; reddito alto oltre 10066 $), calcolando che bassi livelli di reddito spesso corrispondono a bassi livelli di sviluppo anche se non si tiene in conto il grado di povertà e distribuzione del reddito e non permette valutazioni sul potenziale dinamico economico di lungo periodo.

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La Banca Mondiale ha adottato tutta una serie di politiche in favore della salvaguardia dell'ambiente ed in ambito sociale, mirando ad assicurarsi che i progetti finanziati non aggravassero le sorti delle popolazioni dei paesi aiutati.

Modelli operativi La Banca Mondiale accorda prestiti a lungo termine, garanzie ed assistenza tecnica per aiutare i Paesi in via di sviluppo ad implementare politiche di riduzione della povertà. I finanziamenti sono utilizzati in diversi settori, dalla riforma della sanità, all'educazione, ai progetti ambientali ed infrastrutturali (che comprendono la costruzione di dighe, strade e parchi naturali). Oltre ai finanziamenti veri e propri la Banca Mondiale fornisce assistenza e consigli ai Paesi in via di sviluppo su tutti gli aspetti dello sviluppo economico. Dal 1996 la Banca si è focalizzata sulla lotta alla corruzione nei paesi beneficiari, anche se ciò è stato visto come un allontanamento da quanto previsto dell'Accordo Istitutivo della Banca che sottolinea il mandato "non politico" della Banca.

Struttura organizzativa La Banca Mondiale è parte delle Nazioni Unite. La struttura direzionale della Banca differisce da quella dell'ONU: ciascuna delle istituzioni facenti parte del gruppo ha come "azionisti" i governi dei paesi membri dell'istituzione stessa, come sottoscrittori delle quote di capitale, i cui voti sono proporzionali alle quote azionarie possedute. La partecipazione come paese membro assicura un certo numero di diritti di voto uguali per tutti i paesi ma ulteriori diritti di voto vengono attribuiti in dipendenza dei contributi finanziari del paese membro all'organizzazione partecipata. Come risultato di tale suddivisione la Banca Mondiale ed il FMI sono controllati, principalmente dai paesi occidentali, e non dai paesi dove tali istituzioni operano, esclusivamente paesi in via di sviluppo.

Modalità di finanziamento Statutariamente la Banca Mondiale eroga prestiti sia a governi che ad enti ed imprese pubbliche. Obiettivo è il finanziamento di progetti. Prima di accordare un prestito, consulenti ed esperti della Banca valutano se il potenziale beneficiario sia in grado di soddisfare le condizioni prescritte.

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Queste sono, per la maggior parte, intese ad assicurare che i prestiti vengano impiegati proficuamente e che possano essere rimborsati. La Banca pone come condizione che il beneficiario, per quel particolare progetto, non possa ottenere un finanziamento presso nessun'altra fonte sul mercato. Inoltre, esige che il progetto sia tecnicamente realizzabile ed economicamente remunerativo. Una volta erogato il prestito, la Banca richiede al mutuatario e ai propri osservatori resoconti periodici sull'utilizzo del prestito e sull'andamento del progetto. I fondi necessari all'emissione dei prestiti provengono principalmente da emissioni obbligazionarie che la Banca effettua sui mercati internazionali dei capitali (normalmente per un importo annuo totale tra i 12 ed i 15 miliardi di dollari). Tali emissioni obbligazionarie hanno un rating "AAA" (il più alto accordato dalle agenzie di rating) dal momento che sono garantite dalle quote di capitale e dalle garanzie dirette dei paesi membri e ciò permette alla banca di effettuare le proprie "operazioni di raccolta" a tassi concorrenziali e dunque di accordare prestiti a tassi mediamente inferiori a quelli di mercato (pur con l'aggiunta di uno spread dell'1% a copertura delle spese amministrative sostenute dalla Banca), soprattutto se confrontati con quelli che i paesi beneficiari otterrebbero sul mercato internazionale dei capitali in base ai propri rating (sostanzialmente più bassi che non la tripla A riservata ai paesi ed alle istituzioni finanziarie più solide).

Agenzie della Banca Mondiale Alla Banca Mondiale sono affiliate quattro agenzie: – La società finanziaria internazionale (international finance corporation -

IFC). La IFC investe in imprese private nei Paesi in via di sviluppo, concedendo finanziamenti, mobilitando capitali e fornendo servizi di assistenza tecnica e consulenza finanziaria. L’IFC è il maggiore organismo finanziario multilaterale dedicato alla promozione del settore privato nei Paesi in via di Sviluppo. Essa costituisce, infatti, la maggiore fonte di finanziamento per progetti del settore privato nelle economie in via di sviluppo. L’IFC opera in tre grandi campi di attività: § Project finance § Mobilitazione di risorse

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§ Consulenza e assistenza tecnica – L'agenzia internazionale per lo sviluppo (international development

association - IDA). L’intervento dell’IDA è incentrato sui Paesi più poveri, ai quali essa fornisce prestiti senza interessi ed altri servizi. Le risorse dell’IDA provengono, per la maggior parte, dai contributi dei governi dei Paesi membri più ricchi.

– L'agenzia di garanzia degli investimenti multilaterali (multilateral investment guarantee agency - MIGA), fondata nel 1988. MIGA ha il compito di incoraggiare gli investimenti stranieri nei Paesi in via di sviluppo fornendo garanzie ad investitori privati stranieri contro perdite causate da rischi non commerciali. MIGA, inoltre, fornisce assistenza tecnica ai governi per incrementare la loro capacità di attrarre gli investimenti diretti esteri. A differenza delle compagnie di assicurazione private, Miga stabilisce l'ammontare dei premi sulla base dei progetti di investimento e non delle categorie di rischio del Paese (aumentando quindi la convenienza delle assicurazioni nei paesi ad alto rischio); ha una sfera d'azione allargata a ben 149 stati membri, escluse le economie industrializzate.

– il Centro Internazionale per la risoluzione delle controversie sugli investimenti (International Centre for Settlement of Investment Disputes - ICSID), fondato nel 1966.

3. FONDO MONETARIO INTERNAZIONALE Il Fondo Monetario Internazionale (International Monetary Fund) è insieme al Gruppo della Banca Mondiale, una delle organizzazioni internazionali costituite nella conferenza di Bretton Woods. Gli scopi del FMI sono: − promuovere la cooperazione monetaria internazionale; − facilitare l'espansione del commercio internazionale; − promuovere la stabilità e l'ordine dei rapporti di cambio, evitando

svalutazioni competitive; − dare fiducia agli Stati membri rendendo disponibili, con adeguate

garanzie, le risorse del Fondo per affrontare difficoltà della bilancia dei pagamenti;

− in relazione con i fini di cui sopra, abbreviare la durata e ridurre la misura degli squilibri delle bilance dei pagamenti degli Stati membri.

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In particolare l'F.M.I. dovrebbe regolare la convivenza economica e favorire lo sviluppo del sud del mondo (per sud si intendono i P.V.S.: paesi in via di sviluppo) Gli organi principali del FMI sono: − il Consiglio dei Governatori (Board of Governors) a composizione

plenaria, − il Consiglio Esecutivo (Executive Board), composto dai 24 Direttori

Esecutivi (Executive Directors) − il Direttore Operativo (Managing Director). Il FMI dispone di un capitale messo a disposizione dai suoi membri e il voto all'interno dei suoi organi è ponderato a seconda della quota detenuta. ll FMI si occupa per lo più di concedere prestiti agli Stati membri in caso di squilibrio della bilancia dei pagamenti. l FMI si occupa anche della ristrutturazione del debito estero dei paesi del cosiddetto Terzo Mondo. La ristrutturazione del debito è una procedura che prevede un accordo con il quale le condizioni originarie di un prestito (tassi, scadenze, divisa, periodo di garanzia) vengono modificate per alleggerire l'onere del debitore. Il FMI impone di solito a questi paesi dei piani di aggiustamento strutturale come condizioni per ottenere prestiti o condizioni più favorevoli per il rimborso del debito che costituiscono l'aspetto più controverso della sua attività. Questi piani sono infatti modellati su una visione neoliberista dell'economia e sulla convinzione che il libero mercato sia la soluzione migliore per lo sviluppo economico di questi paesi. Tra i punti principali essi di solito comprendono la svalutazione della moneta nazionale, la riduzione del deficit di bilancio da conseguire con forti tagli alle spese pubbliche e aumento delle imposte (e quindi privatizzazioni massicce), l'eliminazione di qualsiasi forma di controllo dei prezzi

4. BANCA EUROPEA PER GLI INVESTIMENTI (BEI) La BEI è un’istituzione finanziaria dell’Unione Europea con sede a Lussemburgo, i cui azionisti sono gli stati membri dell’UE.

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La BEI è un’istituzione finanziaria senza scopo di lucro, la cui attività consiste nel concedere prestiti alle migliori condizioni possibili per finanziare progetti produttivi, pubblici e privati, utilizzando le risorse raccolte sui mercati dei capitali. Gli interventi della Banca sono volti al raggiungimento dei seguenti obiettivi: − lo sviluppo economico delle regioni meno favorite; − il miglioramento della competitività delle imprese; − il sostegno alle piccole e medie imprese − la realizzazione delle reti transeuropee di trasporto, di telecomunicazioni e

di trasferimenti di energia; − la protezione dell’ambiente e il miglioramento delle condizioni di vita; − la riduzione della dipendenza energetica − l’utilizzo razionale delle risorse naturali. I finanziamenti concessi dalla BEI sono di due tipi: − Prestiti individuali. Gli operatori possono rivolgersi direttamente alla BEI

solo per progetti di grandi dimensioni (oltre i 25 milioni di ecu), attraverso prestiti individuali.

− Prestiti globali. I piccoli e medi investimenti che non possono essere finanziati attraverso la concessione di un “prestito individuale” possono beneficiare di un prestito concesso nel quadro dei “prestiti globali”. Questi consistono in linee di credito autorizzate dalla BEI a circa 130 banche operanti a livello nazionale o regionale che li rimettono a disposizione sotto forma di prestiti di dimensione più modesta. Tali finanziamenti sono indirizzati in genere a imprese con meno di 500 dipendenti, dando tuttavia priorità alle imprese con meno di 100 dipendenti. Il supporto delle attività delle PMI rientra tra gli obiettivi della BEI. Gli stanziamenti su prestiti globali sono consentiti alle condizioni dell’intermediario, il quale si assume l’istruzione delle domande di prestito e la gestione dei crediti. La BEI effettua un controllo regolare delle assegnazioni di stanziamenti effettuate dagli intermediari attraverso i suoi prestiti globali.

Condizioni comuni ad entrambe le tipologie di prestiti sono le seguenti: − i prestiti della BEI coprono, in genere, un massimo del 50%del costo del

progetto; − la BEI concede prestiti a medio-lungo termine (4-18 anni o oltre) con un

rinvio di rimborso del capitale in funzione delle caratteristiche del progetto;

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− i tassi d’interesse rispecchiano rigidamente il costo dei fondi presi a prestito dalla BEI sui mercati finanziari, tenuto conto della sua qualità di mutuatario a tripla A e non avente fini di lucro.

Essi possono essere a scelta fissi, rivedibili o variabili. La B.E.I. opera soprattutto all'interno della Comunità, ma sulla base dell'art.18 dello Statuto, che prevede la possibilità di concedere finanziamenti al di fuori dei Paesi UE, essa svolge la sua attività anche in base ad accordi di cooperazione internazionale, finanziando progetti in altri paesi come i paesi ACP, PECO, EFTA, PTOM, o in generale paesi firmatari di accordi di cooperazione o di associazione con la Comunità. Il termine ACP è l'acronimo di Africa, Caraibi e Pacifico, i luoghi di origine dei 77 paesi che fanno parte della Convenzione di Cotonou con l'Unione Europea che ha come obiettivo lo sviluppo di questi paesi. I paesi ACP sono oggi 79: L'ultimo paese in ordine di tempo a presentare domanda di adesione al partenariato è stato Timor Est, dopo aver acquisito l'indipendenza il 20 maggio 2002. I PECO sono i paesi dell’Europa centro orientale caratterizzati dal difficile passaggio verso l’economia di mercato – Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Slovenia e Ungheria – e due sono le isole mediterranee Malta e Cipro che sono entrati nell’Unione europea. l'EFTA è attualmente costituita da quattro stati: Islanda, Liechtenstein, Norvegia e Svizzera; nessuno di questi fa parte dell'UE. I Paesi e Territori d'oltremare (PTOM) sono dipendenze e territori d'oltremare degli stati membri dell'Unione europea I paesi e territori d'oltremare che ne fanno parte sono:

§ dipendenti dalla Francia: l'isola Clipperton, Mayotte, Nuova Caledonia, Polinesia francese, Saint-Pierre e Miquelon, Terre Australi e Antartiche Francesi e Wallis e Futuna;

§ dipendenti dalla Danimarca: le Isole Fær Øer e la Groenlandia; § dipendenti dal Regno Unito: Anguilla, Bermuda, le isole Cayman, la

Georgia del Sud e isole Sandwich meridionali, le isole Malvine, Monserrat, le isole Pitcairn, Sant'Elena, il Territorio Antartico Britannico, il territorio britannico dell'oceano indiano, le isole Turques-et-Caïques e le Isole Vergini britanniche;

§ dipendenti dai Paesi Bassi: Aruba e le Antille olandesi, essendo quest'ultimi in corso di dissoluzione dal luglio 2007, la federazione

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autonoma sarà divisa nel 2008 in due territori autonomi (Curaçao e Sint-Maarten), e tre comuni a statuto particolare integrati ai Paesi Bassi (Bonaire, Sheba e Santo Eustachio).

I paesi e territori d'oltremare non devono essere confusi con le regioni ultraperiferiche (RUP) che hanno un altro statuto di regioni d'oltremare dei paesi dell'Unione europea. I paesi e territori d'oltremare, il cui statuto è stato creato fin dal Trattato di Roma nel 1957, non fanno parte dell'Unione europea e non sono membri dello spazio Schengen benché dipendano da un paese facente parte. I loro abitanti possiedono in generale la nazionalità dello Stato da cui il territorio dipende, ad eccezione dei territori britannici i cui cittadini hanno una nazionalità specifica, British overseas Territories citizenship (BOTC). Il diritto derivato comunitario non si applica direttamente ai paesi e territori d'oltremare ma possono beneficiare di fondi europei di sviluppo della Banca Centrale Europea. Benché la legislazione europea non si applichi, i loro cittadini nazionali dispongono della cittadinanza europea, e partecipano alle elezioni dei rappresentanti del loro paese al Parlamento europeo.

5. BANCA EUROPEA PER LA RICOSTRUZIONE E LO SVILUPPO (BERS) La Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo (BERS) è un organismo finanziario internazionale che opera nei paesi dell'Europa centrale ed orientale e dell'Asia centrale e che viene, generalmente, ricompreso tra le banche multilaterali di sviluppo regionale, categoria nella quale, oltre alla Banca Asiatica di Sviluppo, alla Banca Interamericana di Sviluppo ed alla Banca Africana di Sviluppo, sono annoverate anche la Banca Europea degli Investimenti e la stessa Banca Mondiale. Rispetto a queste istituzioni, la BERS presenta delle caratteristiche peculiari che rappresentano l'evoluzione di questa tipologia di organismi internazionali. La Banca ha il compito di aiutare i paesi beneficiari nella messa in opera delle riforme economiche e strutturali, comprese quelle miranti allo smantellamento dei monopoli, alla decentralizzazione ed alla privatizzazione, riforme tali da aiutare le loro economie a divenire pienamente integrate nell'economia internazionale.

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la BERS è statutariamente autorizzata ad operare in proprio per l'attività di investimento azionario diretto e le altre attività di merchant banking o venture capital. Il merchant banking è una attività che consiste nella realizzazione di investimenti in aziende sotto forma di capitale attraverso l'assunzione, la gestione e lo smobilizzo di partecipazioni, prevalentemente minoranza in aziende non quotate in Borsa. Attività di merchant banking sono: • venture capital • capitale per lo sviluppo (expansion financing) • replacement capital • cluster venture • fondi chiusi • valutazioni (del valore d'azienda) Il venture capital è l'apporto di capitale di rischio da parte di un investitore per finanziare l'avvio o la crescita di un'attività in settori ad elevato potenziale di sviluppo. Spesso lo stesso nome è dato ai fondi creati appositamente, mentre i soggetti che effettuano queste operazioni sono detti venture capitalist. Nella maggioranza dei casi, fondi necessari sono erogati da limited partnership o holding in aziende che per natura della attività e stadio di sviluppo non risultano finanziabili dai tradizionali intermediari finanziari (come ad esempio le banche). Il venture capital è una categoria del settore del private equity, che raggruppa tutte le categorie di investimenti in società non quotate su un mercato regolamentato. L'investimento di venture capital si caratterizza per i seguenti elementi: • fase di sviluppo: investe in idee imprenditoriali particolarmente promettenti

(seed financing) e società in start up nelle prime fasi di vita (venture financing) fin dalle fasi pre revenue, ovvero senza che siano ancora stati approntati i prodotti/servizi da vendere e quindi nella fase di investimento in prodotto

• ambiti tecnologici: investimenti in aree ad alto contenuto di innovazione • rischio: le società in cui i fondi di venture capital investono sono caratterizzate

dalla contemporanea presenza di un elevato rischio operativo, ovvero non à ancora chiaro se la società avrà un mercato per i propri prodotti, e rischio finanziario, per cui l'investitore non sa se avrà modo di recuperare il capitale investito.

In particolare, i finanziamenti messi a disposizione dalla BERS attraverso gli intermediari finanziari sono di due tipi: a) Finanziamenti in forma di partecipazione al capitale di rischio. Essi sono

accessibili tramite fondi di investimento, specifici per Paese oppure regionali (che riguardano più Paesi), nei quali la BERS partecipa.

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b) Finanziamenti in forma di prestiti. In questo caso l’intervento della BERS può configurarsi in diversi modi: − Prestiti concessi da banche nelle quali la BERS ha delle

partecipazioni. In questo caso le banche commerciali e d’investimento decidono in maniera autonoma riguardo ai finanziamenti e agli investimenti, purché questi siano coerenti con la politica d’investimento della BERS.

− Prestiti interbancari : in questo caso la BERS concede fondi a lungo termine a banche locali. Questi fondi sono, a loro volta, usati dalle banche locali per finanziare progetti. Le decisioni riguardo ai progetti da finanziare sono prese in maniera autonoma dalle banche, purchè rispondano a determinati requisiti che riflettano la politica della BERS.

− Prestiti con il supporto del governo : si tratta di prestiti concessi dalla BERS con il supporto del governo alle PMI del settore privato. Tali prestiti, che vengono convogliati alle imprese attraverso banche commerciali o d’investimento, sono simili ai prestiti interbancari sopra descritti.

− Meccanismi di co-finanziamento con banche commerciali o d’investimento locali: in questo caso la BERS co-finanzia progetti insieme a banche locali. I progetti sono di dimensione inferiore a quelli finanziati direttamente dalla BERS. La preparazione e la valutazione del progetto sono delegati alla banca, l’approvazione finale alla BERS.

6. AFRICAN DEVELOPMENT BANK (AfDB)

La AfDB è una banca di sviluppo regionale multilaterale che opera dal 1966 al fine di promuovere lo sviluppo economico ed il progresso sociale dei suoi Paesi Membri (RMCs – Regional Member Countries) in Africa. La missione della Banca consiste nell’aiutare i Paesi Membri a spezzare il circolo vizioso della povertà nel quale sono intrappolati. Le principali funzioni svolte dalla Banca consistono in: − Concedere prestiti ed effettuare investimenti in forma di partecipazione al

capitale di rischio per contribuire all’avanzamento economico e sociale dei RMCs;

− Fornire assistenza tecnica per la preparazione e l’esecuzione di progetti e programmi di sviluppo;

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− Promuovere l’investimento di capitale pubblico e privato a fini di sviluppo;

− Fornire assistenza nel coordinamento delle politiche e dei piani di sviluppo dei RMCs.

La AfDB concede crediti a condizioni vicine a quelle del mercato a Paesi con reddito medio. Di norma questi fondi fluiscono nel settore privato o servono all'attuazione di grossi progetti di infrastruttura, come l'edificazione di aeroporti.

7. ASIAN DEVELOPMENT BANK (ASDB) La Banca di Sviluppo Asiatica è un’istituzione finanziaria di sviluppo multilaterale fondata nel 1966 per promuovere il progresso sociale ed economico delle regioni dell’Asia e del Pacifico. La Banca riserva un’attenzione particolare ai bisogni dei Paesi più piccoli o meno sviluppati e dà la priorità ai progetti e ai programmi regionali, subregionali e nazionali. Le principali funzioni della ADB consistono in: − concedere prestiti ed effettuare investimenti in forma di partecipazione

al capitale di rischio per favorire lo sviluppo economico e sociale dei suoi Paesi Membri in via di Sviluppo (DMCs – Developing Member Countries);

− fornire assistenza tecnica per la preparazione e l’esecuzione di progetti e programmi di sviluppo;

− promuovere ed agevolare l’investimento di capitale pubblico e privato a fini di sviluppo;

− rispondere alle richieste di assistenza nel coordinamento delle politiche e dei piani di sviluppo dei suoi DMCs.

8. INTER-AMERICAN DEVELOPMENT BANK (IDB) La IDB è un’istituzione finanziaria fondata nel 1959 per contribuire ad accelerare lo sviluppo economico e sociale in America Latina e nel Carribe. L’attività della Banca copre l’intero spettro dello sviluppo economico e sociale. La Banca include tra le sue priorità: la riduzione della povertà, l’equità sociale, la modernizzazione, l’integrazione e l’attenzione all’ambiente. In tempi recenti, la IDB ha cominciato a lavorare in maniera più diretta con il settore privato.

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9. COOPERAZIONE ALLO SVILUPPO IN ITALIA. 9.1. Ministero degli Affari Esteri (MAE)

Al Ministero degli Affari Esteri sono attribuite le funzioni e i compiti spettanti allo Stato in materia di: − rapporti politici, economici, sociali e culturali con l'estero; − rappresentanza, coordinamento e tutela degli interessi italiani in sede

internazionale; − analisi, definizione e attuazione dell'azione italiana in materia di politica

internazionale; − rapporti con gli altri Stati e con le organizzazioni internazionali; − stipulazione e revisione dei trattati e delle convenzioni internazionali e di

coordinamento delle relative attività di gestione; − studio e risoluzione delle questioni di diritto internazionale, nonché di

contenzioso internazionale; − rappresentanza della posizione italiana in ordine all'attuazione delle

disposizioni relative alla politica estera e di sicurezza comune previste dal Trattato dell'Unione europea e di rapporti attinenti alle relazioni politiche ed economiche esterne dell'Unione europea;

− cooperazione allo sviluppo; − emigrazione e tutela delle collettività italiane e dei lavoratori all'estero; − cura delle attività di integrazione europea in relazione alle istanze ed ai

processi negoziali riguardanti i trattati dell'Unione europea, della Comunità europea, della CECA, dell'EURATOM

Nell'esercizio delle sue attribuzioni, il Ministero degli affari esteri assicura la coerenza delle attività internazionali ed europee delle singole amministrazioni con gli obiettivi di politica internazionale; L'Amministrazione degli affari esteri è costituita dagli uffici centrali del Ministero degli Affari Esteri, dalle rappresentanze diplomatiche, dagli uffici consolari e dagli istituti italiani di cultura; da essa dipendono gli istituti scolastici ed educativi all'estero. L’organizzazione delle attività di Cooperazione allo Sviluppo, componente essenziale della politica internazionale dell'Italia, fa parte dei compiti del Ministero degli Affari Esteri (Mae). All’interno del Ministero le attività di cooperazione allo sviluppo sono demandate alla Direzione Generale per la Cooperazione allo Sviluppo.

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La Direzione Generale per la Cooperazione allo Sviluppo (DGCS) si occupa di: − attuare le linee di cooperazione e le politiche di settore nei diversi Paesi, − stabilire rapporti con le Organizzazioni Internazionali, con l’Unione

Europea e con le Organizzazioni non governative. Svolge attività di gestione dei fondi da destinare agli aiuti allo sviluppo e agli interventi umanitari di emergenza. La DGCS porta avanti anche progetti di formazione in collaborazione con le Università in Italia e all’estero, finanziando corsi e borse di studio. Un settore specifico è dedicato a studi e proposte, che negli ultimi anni hanno riguardato in particolare le donne, i minori e i diversamente abili. La Direzione Generale per la Cooperazione allo Sviluppo è articolata in 13 uffici, oltre l’Unità tecnica centrale e l’Unità d’ispezione, monitoraggio e verifica. Le Unità tecniche locali sono istituite nei Paesi in via di sviluppo con accreditamento diretto presso i Governi interessati nel quadro degli accordi di cooperazione. Le Unità tecniche sono costituite da esperti dell’Unità tecnica centrale e da esperti tecnico-amministrativi assegnati dalla Direzione generale per la cooperazione allo sviluppo nonché da personale esecutivo e ausiliario assumibile in loco con contratti a tempo determinato.

9.2. Organizzazioni non governative - ONG La Cooperazione Italiana sostiene i programmi realizzati da diverse Organizzazioni Internazionali. Rapporti strategici legano la Cooperazione Italiana al mondo del volontariato e alle ONG italiane attraverso il supporto alle loro attività finalizzate allo sviluppo sia sul piano della promozione delle iniziative sia su quello della loro valorizzazione in seno ai programmi predisposti dalle Agenzie delle NU e dall’Unione Europea. Un’organizzazione non governativa ONG, è una organizzazione indipendente dai governi e dalle loro politiche. Generalmente, anche se non sempre, si tratta di organizzazioni non aventi fini di lucro (non profit), che ottengono almeno una parte significativa dei loro introiti da fonti private, per lo più donazioni. Le ONG esistono per una miriade di scopi, tipicamente per portare avanti le istanze politico-sociali dei propri membri, spesso trascurate dai governi.

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Un settore specifico delle ONG sono le ONG di cooperazione allo sviluppo. Queste sono libere associazioni, create da privati cittadini che, per motivazioni di carattere ideale o religioso, intendono impegnarsi a titolo privato e diretto, per dare un contributo alla soluzione dei problemi del sottosviluppo, principalmente quelli del sud del mondo. Non avendo fonti di finanziamento istituzionali ed essendo per statuto senza finalità di lucro, in ragione della filosofia umanitaria e sociale che le anima, realizzano le loro attività grazie a finanziamenti esterni; si basano comunque anche sull'apporto di lavoro volontario, gratuito o semigratuito, offerto da membri e simpatizzanti. I due caratteri essenziali per definire un' organizzazione non governativa di cooperazione allo sviluppo, sono quindi costituiti dal carattere privato non governativo dell'associazione, e da quello dell' assenza di profitto nell'attività. I progetti delle Ong sono molto vasti e riguardano, a vari livelli, la politica estera, l’economia, la difesa dei diritti umani, la globalizzazione, la questione del debito estero, le relazioni tra Nord e Sud del mondo e la pace. Le ONG costituiscono una realtà molto diversa dal volontariato comunemente inteso perché la loro struttura operativa è professionalmente finalizzata allo svolgimento delle attività di cooperazione e composta da cooperanti integrati professionalmente nell’organizzazione di cui fanno parte.

9.3. Cenni sulle politiche di cooperazione in Italia Il ventennio che copre gli anni Cinquanta e Sessanta è definito come la fase della “non politica” di cooperazione, stante la frammentazione degli interventi, l’assenza di un quadro normativo ed istituzionale, la limitatezza delle risorse destinate a fini di aiuto e la sostanziale indifferenza degli attori politici. Dal punto di vista normativo, i primi provvedimenti in materia di aiuto ai Pvs furono emanati, a partire dagli anni ‘60 per interventi di assistenza tecnica e finanziaria alla Somalia A partire dagli anni Sessanta, le ripercussioni più profonde del dibattito internazionale si riversarono sulla società civile del nostro paese che pose le aspirazioni e le istanze dei Pvs al centro del dibattito culturale e delle pressioni esercitate nei confronti del sistema politico, pur nell’ampio spettro di posizioni ideologiche che andavano dal solidarismo cattolico al terzomondismo marxista, fino a certe correnti di ispirazione liberale.

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Il fenomeno del volontariato internazionale nei paesi del Terzo Mondo, caratterizzato dapprima dall’esperienza cattolica e più tardi estesosi anche ad altre espressioni della società civile, spinse lo Stato a regolamentare la posizione giuridica dei giovani che intendevano esercitare all’estero un servizio sostitutivo a quello militare e contribuì ad accrescere l’interesse dell’opinione pubblica e del sistema politico per i problemi della pace e dello sviluppo. La legge 1033 del 1966 (legge Pedini et al.), nonché i successivi provvedimenti relativi all’invio di personale statale nei Pvs, rappresentarono pertanto le prime risposte ad una visione solidaristica globale ed alla promozione di una cittadinanza più aperta ai problemi del mondo. La legge 131 del 1967 e l’aumento delle risorse a sostegno dell’export italiano nei mercati emergenti costituirono così i primi parziali tentativi di definire un assetto anche per la cooperazione commerciale. Per quanto concerne il concetto di aiuto pubblico allo sviluppo, fino agli anni Settanta, esso rimane sostanzialmente confinato alla definizione di assistenza e collaborazione tecnica, riflettendo così una visione assistenzialistica e comunque priva di significativi fondamenti teorici e di contenuti. La legge 1222 del 1971 (Cooperazione tecnica con i Paesi in via di sviluppo) nasce dal progressivo rafforzarsi dei fattori finora delineati (le pressioni delle Istituzioni internazionali e del mondo del volontariato, gli interessi politici ed economici sul piano delle relazioni estere, nonché la scadenza naturale della disciplina in vigore) mantiene una visione riduttiva della cooperazione allo sviluppo. Essa non appare rilevante né per le conseguenze sul piano operativo e finanziario, né per la crescita della coscienza politica rispetto all’aiuto ai Pvs, ma piuttosto in quanto offre il primo quadro istituzionale del settore rimasto nella sostanza invariato fino ad oggi. Con questo provvedimento legislativo il settore della cooperazione allo sviluppo diventa appannaggio del Ministero degli Affari Esteri. La creazione del FAI (Fondo Aiuti Italiani) con la legge 73 del 1985, l’impennata nel trend delle risorse destinate ai Pvs e la nuova disciplina dell’APS, approvata con la legge 49 del 1987, sono il prodotto del nuovo clima politico e sociale in cui la cooperazione si muove. La legge 49 del 1987 (Nuova disciplina della cooperazione dell’Italia con i Paesi in via di sviluppo) costituisce, nel contempo, il momento più vivace e significativo del

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dibattito in materia, ma anche l’espressione più evidente delle contraddizioni insite nel “caso italiano”. Nel corso degli anni Ottanta la crescita qualitativa e quantitativa delle iniziative di aiuto allo sviluppo nelle diverse aree geografiche ha portato al riordino complessivo con la legge.49/87. L'esigenza di migliorare l’operatività e l’efficacia di queste attività ha portato ad approvare, un disegno di legge delega (05/04/2007) che impegna il governo a riformare l'intera disciplina della cooperazione allo sviluppo. Nel disegno di legge la cooperazione allo sviluppo viene confermata come parte qualificante della politica estera italiana e viene prevista l’istituzione di un Agenzia per la cooperazione allo sviluppo e la solidarietà internazionale. Per quanto riguarda le priorità settoriali di intervento della Cooperazione Italiana, particolare rilevanza assumeranno quelli di maggiore criticità, quali: l’ambiente e i beni comuni, con particolare attenzione allo sviluppo rurale, all’agricoltura biologica o convenzionale - al fine di far affermare la sovranità alimentare -, le fonti energetiche alternative e rinnovabili, le politiche di genere, in particolare l’empowerment delle donne, accanto ai tradizionali interventi sulla salute e sull’educazione. Particolare importanza rivestirà in questo quadro l’adozione di un approccio globale. Il Ministero degli Affari Esteri (MAE) ed il Ministero dell’Economia e delle Finanze (Mef) sono i principali soggetti erogatori dell'Aps italiano. Ad essi si aggiungono, per importi minori, altri dicasteri quali Ambiente, Attività produttive (o Sviluppo produttivo), Salute, Interni. Gli strumenti che la legge n.49 del 26 febbraio 1987 mette a disposizione delle imprese italiane per realizzare progetti nei PVS per alleviarne il livello di povertà sono i seguenti: – Crediti di aiuto in favore dei paesi in via di sviluppo (L. 49/87 art. 6); – Crediti agevolati alle imprese italiane con il parziale finanziamento della

loro quota di capitale di rischio in imprese miste da realizzarsi in Pvs (L. 49/87 art. 7)

– Doni in favore dei Pvs – Doni a Organizzazioni internazionali (Trust Funds)

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9.3.1. Crediti di aiuto (legge n. 49/87 art.6) I crediti di aiuto sono crediti agevolati concessi a paesi in via di sviluppo che generalmente devono soddisfare due condizioni principali: − il reddito pro-capite del Paese beneficiario non deve superare un

determinato livello in accordo ai dati forniti dalla Banca Mondiale (US$ 3.465,00 secondo l’ultimo 'Annual Report') ;

− i progetti finanziati non devono essere commercialmente viabili. Le attività di cooperazione allo sviluppo si fondano sulle risorse finanziarie messe a disposizione del Ministero degli Affari Esteri dalla legge finanziaria e altri provvedimenti di legge. Tali risorse vengono destinate in parte ad interventi bilaterali da finanziare con crediti di aiuto ed in parte con interventi a dono, sia bilaterali che multilaterali. La differenza principale tra le due forme di finanziamento è costituita dalla caratteristica che nel credito di aiuto, a differenza del dono, il capitale prestato deve essere restituito, seppure a condizioni estremamente agevolate, cioè con tassi di interesse molto bassi e con periodi di rimborso molto lunghi. Altro fattore che distingue gli interventi di cooperazione finanziati con crediti di aiuto da quelli finanziati con doni è il grado di responsabilizzazione del paese destinatario che nei crediti di aiuto è molto maggiore. Infatti, sono sempre le Autorità del Paese destinatario a chiedere il finanziamento a credito di aiuto, a scegliere - mediante procedure concorsuali - le imprese realizzatrici del progetto e del programma ed a stipulare i contratti per l’ esecuzione degli stessi. I crediti di aiuto sono destinati: 1) alla realizzazione di un progetto specifico, su richiesta del Paese beneficiario (iniziative di “aiuto progetto “); 2) al sostegno della bilancia dei pagamenti del Paese beneficiario o al sostegno di progetti promossi da piccole e medie imprese locali (iniziative di “aiuto programma”).

9.3.2. Doni in favore dei Pvs I Doni si differenziano dai crediti di aiuto, in quanto l’ammontare erogato al pvs non va restituito I doni vengono generalmente concessi a paesi a basso reddito (low income countries con un reddito pro-capite annuale inferiore a US$ 875). Si riportano di seguito le caratteristiche principali :

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− Soggetti beneficiari: stati, banche centrali o enti di stato di paesi in via di sviluppo.

− Tipologia di progetti e settori finanziabili: possono essere finanziati singoli progetti specifici (una diga, un acquedotto, un tratto stradale, una ferrovia, un ospedale, un progetto agricolo); oppure programmi destinati al finanziamento di “commodity” varie (materie prime, beni di consumo) o di commodity in un determinato settore. Sono considerati prioritari settori quali il sanitario, l’acqua, l’ambiente, l’energia, le infrastrutture, la formazione e il patrimonio culturale.

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PARTE II

POLITICHE REGIONALI DELL’UNIONE EUROPEA

I CENNI SULL’UNIONE EUROPEA II LE FONTI DEL DIRITTO DELL’UNIONE EUROPEA III POLITICHE DELL’UNIONE EUROPEA IV POLITICHE DELL’UNIONE EUROPEA PER IL CICLO DI PROGRAMMAZIONE 2014-

2020 V. UNIONE EUROPEA E POLITICHE DI COOPERAZIONE VERSO I PAESI IN RITARDO DI

SVILUPPO.

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I

UNIONE EUROPEA Premessa L'Unione Europea (UE) è un soggetto politico a carattere sovranazionale ed intergovernativo nel quale gli stati membri delegano alcuni dei loro poteri decisionali alle Istituzioni comunitarie formata da 28 stati membri (27 quando sarà completata la Brexit).

E’ un’area di libero mercato, con moneta unica adottata da 17 Stati membri, regolamentata dalla Banca Centrale Europea (BCE), caratterizzata da unione doganale introdotta dal Trattato di Roma del 1957 e ampliata con gli accordi di Schengen.

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Da semplice organizzazione internazionale l'Unione europea, nel corso degli anni, ha gradualmente acquisito caratteri di federazione, attraverso il progressivo trasferimento di poteri dagli Stati membri agli organismi comunitari. L’UE si fonda su Trattati internazionali recepiti da tutti gli Stati membri. La definizione dell'attuale status giuridico dell'Unione è stato definito nell’ottobre 2004 con la firma del Trattato che adotta la Costituzione Europea.

1. LA RIPARTIZIONE STATISTICA

La classificazione NUTS, Nomenclatura delle Unità Territoriali per la Statistica, suddivide il territorio degli Stati membri in unità territoriali. Ogni Stato membro (NUTS 0) è suddiviso in unità territoriali di livello NUTS 1 (circoscrizioni geografiche), ognuna delle quali è suddivisa in unità territoriali

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di livello NUTS 2 (regioni), a loro volta suddivise in unità territoriali di livello NUTS 3 (province). In ogni Stato membro possono sussistere ulteriori livelli gerarchici di dettaglio, decisi dallo Stato membro, che suddividono ulteriormente il livello NUTS 3. Le unità amministrative esistenti all'interno degli Stati membri costituiscono il primo criterio di definizione delle unità territoriali. A tal fine per unità amministrativa si definisce un’area geografica in cui un'autorità amministrativa ha la competenza nell’ambito del sistema giuridico e istituzionale dello Stato a cui tale area appartiene. Con il Regolamento (CE) n. 11/2008 della Commissione gli Stati membri hanno comunicato alla Commissione aggiornamenti dell’articolazione regionale delle unità amministrative. Il parametro di riferimento per classificare le unità amministrative di uno Stato membro in un livello NUTS, è la popolazione. Se la popolazione di un intero Stato membro è inferiore al limite minimo per un determinato livello NUTS, l'intero Stato membro costituisce un’unità territoriale NUTS per tale livello. La popolazione di un'unità territoriale è riferita alla popolazione residente nella zona.

Classe Soglia massima popolazione Soglia minima popolazione NUTS 1 7.000.000 3.000.000 NUTS 2 3.000.000 800.000 NUTS 3 800.000 150.000

Sulla base dei livelli NUTS, sono strutturate le seguenti informazioni: a) statistiche regionali comunitarie; b) analisi socio-economiche; c) politiche regionali comunitarie. L'Ufficio Statistico europeo (EUROSTAT) è la struttura della Commissione Europea che raccoglie ed elabora i dati dei Paesi membri secondo i livelli NUTS, introducendo regole e parametri per l’armonizzazione e la comparabilità dei dati statistici. EUROSTAT elabora dati macroeconomici che la Banca Centrale Europea utilizza per politiche monetarie e dati/classificazioni per la definizione delle

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politiche regionali europee e dei Fondi Strutturali. L'Istituto coopera con altre Organizzazioni Internazionali e coordina le attività di sistematizzazione dei dati statistici dei paesi candidati e di quelli in via di sviluppo del bacino del Mediterraneo e dell'Africa. La banca dati Eurostat offre la possibilità di estrarre tabelle standard con relativi grafici e mappe, mentre con il software Data Explorer si possono creare tavole multidimensionali in diversi formati. Per gli utenti registrati è prevista la funzione bulk download per l’estrazione di dati in formato testo direttamente importabili e programmi di gestione di database. E’ inoltre presente una sezione di dati, con serie storiche disaggregati territorialmente secondo la classificazione NUTS, relativi alle statistiche congiunturali (Euroindicators) e regionali (Regions). E’ presente inoltre una banca dati relativa al commercio con l’estero (Comext) in cui sono riportati gli interscambi commerciali sia tra gli Stati membri sia tra questi e i paesi extra-Ue.

2. ISTITUZIONI E ORGANI DELL’UNIONE EUROPEA

L’Unione europea (UE) è strutturata su quanto previsto dall’art. 13 del Titolo III della versione consolidata del Trattato sull'Unione europea e del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea e sulla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea (maggio 2010). Le Istituzioni dell'UE sono: a) il Parlamento europeo b) il Consiglio europeo c) il Consiglio dell’Unione Europea d) la Commissione europea e) la Corte di giustizia dell'Unione europea f) la Banca Centrale Europea (BCE) g) la Corte dei Conti.

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Il processo decisionale dell’UE implica la partecipazione di tre Istituzioni principali: – il Parlamento Europeo, eletto direttamente dai cittadini degli Stati

membri; – il Consiglio dell’Unione Europea che rappresenta i singoli Stati membri; – la Commissione Europea, che cura gli interessi generali dell’Unione. Queste Istituzioni costituiscono il triangolo istituzionale che delinea politiche e formula leggi che sono applicate in tutto il sistema UE. Altre Istituzioni rilevanti sono: − la Corte di giustizia che vigila sullo stato di diritto comunitario; − la Corte dei Conti che ha funzione di controllo sul finanziamento delle

attività dell’Unione. I poteri e le responsabilità di queste Istituzioni sono sancite dai Trattati che stabiliscono regole e procedure che le Istituzioni dell’UE sono tenute a seguire. Oltre a tali Istituzioni, sono presenti: a) Organismi di tipo consultivo

− il Comitato economico e sociale europeo che rappresenta la società civile, i datori di lavoro e i lavoratori;

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− il Comitato delle regioni che rappresenta gli enti regionali e locali. b) Organismi inter-istituzionali

− Ufficio delle pubblicazioni ufficiali delle Comunità europee che pubblica informazioni in merito all’UE;

− Ufficio di selezione del personale delle Comunità europee che assume personale destinato alle Istituzioni e ad altri organismi dell’UE.

− Scuola europea di amministrazione che ha il compito di offrire al personale dell’UE una formazione in settori specifici;

− Servizio europeo per l'azione esterna, creato dal Trattato di Lisbona per governare la politica estera e le sedi estere dell'Unione.

− Eurostat, l'ufficio che cura le statistiche ufficiali dell'Unione europea.

c) Altri organismi − il Mediatore europeo che prende in esame i reclami inerenti a cattiva

amministrazione da parte delle Istituzioni e degli organi dell’UE; − il Garante europeo per la protezione dei dati che ha funzioni di

salvaguardia della riservatezza dei dati personali dei cittadini; Sono state istituite inoltre Agenzie europee con l’obiettivo di decentrare geograficamente gli organismi dell'Unione Europea e per rispondere a nuovi compiti di natura giuridica, tecnica e/o scientifica. Si raggruppano in cinque categorie: – Agenzie comunitarie. Un'agenzia europea è un organismo di diritto

pubblico europeo, distinto dalle Istituzioni dell'UE e dotato di personalità giuridica. È istituita con un atto di diritto derivato e svolge compiti molto specifici di natura tecnica, scientifica o amministrativa.

– Agenzie per la politica di sicurezza e di difesa comune. Sono Agenzie istituite per svolgere compiti molto specifici di natura tecnica, scientifica e amministrativa nell’ambito della politica di sicurezza e di difesa comune dell’Unione europea.

– Agenzie per la cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale create per aiutare gli Stati membri a collaborare nella lotta alla criminalità organizzata internazionale.

– Agenzie esecutive, istituite dal regolamento (CE) n. 58/2003 del Consiglio (GU L 11 del 16.1.2003) , per svolgere determinati compiti relativi alla gestione di uno o più programmi comunitari. Queste agenzie hanno una durata determinata e devono essere ubicate nella sede della Commissione

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europea (Bruxelles o Lussemburgo).

3. ISTITUZIONI

Il Triangolo Istituzionale è costituito da: − Il Consiglio dell’Unione Europea; − Il Parlamento Europeo; − La Commissione Europea.

3.1 Consiglio dell’Unione Europea

Il Consiglio dell’Unione Europea è il principale organo decisionale dell’UE. Il Consiglio dell’Unione Europea si compone dei ministri degli Stati membri e si riunisce in dieci formazioni strutturate sulla base delle materie. Tutti i lavori del Consiglio dell’Unione Europea sono preparati o coordinati dal Comitato dei Rappresentanti permanenti (COREPER), composto dai rappresentanti permanenti degli Stati membri. I lavori del COREPER sono a loro volta preparati da Comitati e Gruppi composti da delegati degli Stati membri. Il Consiglio dell’Unione Europea è presieduto da ciascuno Stato membro per un periodo di sei mesi, in base ad un ordine prestabilito. Gli Atti del Consiglio dell’Unione Europea possono assumere la forma di Regolamenti, Direttive, Decisioni, Raccomandazioni, Pareri. Il Consiglio dell’UE può inoltre formulare Conclusioni, Dichiarazioni e Risoluzioni. Nel Consiglio dell’Unione Europea sono presenti dieci formazioni: – Affari generali e relazioni esterne – Affari economici e finanziari (ECOFIN) – Giustizia e affari interni (GAI) – Occupazione, politica sociale, salute e tutela dei consumatori – Concorrenza – Trasporti, telecomunicazioni ed energia – Agricoltura e pesca – Ambiente – Istruzione, gioventù e cultura

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Ciascun ministro del Consiglio dell’Unione Europea è autorizzato a impegnare il proprio governo ed è responsabile per il proprio parlamento nazionale e per i cittadini che tale Parlamento rappresenta. Le principali funzioni che il Consiglio dell’UE esplica sono: - approvazione della legislazione dell'UE; - coordinamento delle politiche economiche generali dei paesi membri; - firma di accordi tra l'UE e gli altri paesi; - approvazione del bilancio dell'UE; - elaborazione della politica estera e di difesa dell'UE; - coordinamento della cooperazione fra i tribunali e le forze di polizia

nazionali dei paesi membri. Il Consiglio dell’Unione Europea e il Parlamento europeo prendono congiuntamente la decisione finale sulle proposte legislative presentate dalla Commissione. Il Consiglio dell’UE adotta leggi in settori nei quali gli Stati membri hanno delegato la loro sovranità. Il coordinamento della politica economica dell’UE, strettamente connessa con le politiche economiche nazionali, viene compiuto dai ministri dell’economia e delle finanze, che costituiscono il Consiglio Affari economici e finanziari (ECOFIN), una delle formazioni in cui si riunisce il Consiglio dell'Unione europea.

3.2. Commissione Europea La Commissione europea è il principale organo esecutivo dell'Unione. Dispone del diritto di iniziativa e garantisce la corretta attuazione delle politiche europee. E’ composta da venti personalità una per ogni Stato membro, nominate dal Consiglio Europeo, con l'approvazione del Parlamento europeo ed è indipendente dai governi nazionali. Dura in carica cinque anni. La Commissione Europea redige proposte di nuove leggi europee, che presenta al Parlamento europeo e al Consiglio dell’UE. La Commissione europea svolge i seguenti compiti: a) propone gli atti legislativi al Parlamento e al Consiglio dell’UE; b) attua le strategie politiche e redige il bilancio dell’Unione;

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c) vigila sull’applicazione del diritto dell’UE (insieme con la Corte di giustizia);

d) rappresenta l’Unione Europea a livello internazionale. La Commissione propone nuove leggi. Il Parlamento e il Consiglio dell’Unione Europea le adottano. La Commissione attua decisioni adottate dal Consiglio Europeo e dal Parlamento in materia di politica agricola comune, pesca, energia, sviluppo regionale, ambiente, gioventù, istruzione. La Commissione europea rappresenta l’Unione europea nei contesti internazionali, nei negoziati, nelle partnership di cooperazione economica e commerciale. La Commissione si riunisce una volta a settimana. La Commissione si avvale delle Direzioni generali (DG) che operano ciascuna in uno specifico settore. Il coordinamento generale delle DG è affidato al Segretariato Generale.

3.3. Parlamento europeo E’ eletto per cinque anni dai cittadini dei Paesi membri. Insieme al Consiglio dell’UE approva leggi e adotta, in via definitiva, il bilancio comunitario. Il Parlamento esprime pertanto la volontà democratica dei cittadini dell’Unione (oltre 490 milioni di persone) e ne rappresenta gli interessi interagendo con le altre Istituzioni dell’UE. Il Parlamento ha tre funzioni principali: a) condivide con il Consiglio dell’UE il potere legislativo; b) esercita il controllo democratico sulle Istituzioni dell’UE, in particolare

sulla Commissione. Ha il potere di approvare o respingere la nomina dei commissari e ha diritto di censura sulla Commissione nel suo insieme.

c) condivide con il Consiglio dell’UE bilancio dell’UE e può quindi incidere sulle spese comunitarie.

Esercita: a) Potere legislativo. La procedura di codecisione, introdotta dal trattato di

Maastricht sull'Unione europea del 1992, è stata ampliata e adeguata dal trattato di Amsterdam del 1999.

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Con l'entrata in vigore del trattato di Lisbona nel 2009, la procedura di codecisione è stata superata dalla Procedura Legislativa Ordinaria, principale procedura legislativa del sistema decisionale dell'UE

La procedura legislativa ordinaria conferisce stessa importanza al Parlamento europeo e al Consiglio dell'Unione Europea.

La Commissione trasmette la sua proposta di legge al Parlamento e al Consiglio

Parlamento Europeo, Consiglio dell’Unione Europea, Commissione Europea elaborano mediante la procedura legislativa ordinaria le politiche e le leggi che si applicano in tutta l'UE.

b) Il controllo democratico. Il Parlamento esercita il controllo democratico su tutte le altre Istituzioni. All’entrata in carica di una nuova Commissione, i componenti designati dai governi degli Stati membri dell’UE non possono essere nominati senza l’approvazione del Parlamento. Per tutto il mandato, la Commissione è politicamente responsabile dinanzi al Parlamento che può approvare una mozione di censura che richiede le dimissioni collettive della Commissione. Il Parlamento svolge anche un ruolo di controllo sul lavoro del Consiglio dell’UE.

c) Il potere di bilancio. Il bilancio annuale dell’UE viene discusso in Parlamento ed entra in vigore solo dopo la firma del presidente del Parlamento. La Commissione per il controllo dei bilanci del Parlamento (COCOBU) verifica come vengono spese le risorse di bilancio ed ogni anno il Parlamento decide se approvare il bilancio nel precedente esercizio finanziario.

3.4. Altre Istituzioni Consiglio europeo

Il Consiglio Europeo, a seguito del Trattato di Lisbona, è formalmente inserito nel novero delle Istituzioni dell’Unione. Esso riunisce almeno due volte a semestre i capi di Stato e di Governo dei Paesi membri e ha il compito di definire gli orientamenti politici generali dell’UE. E’ dotato di un Presidente che viene eletto dallo stesso Consiglio (a maggioranza qualificata) per due anni e mezzo, rinnovabile una sola volta, con

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il compito di presiedere e preparare le riunioni in cooperazione con il Presidente della Commissione europea e di rappresentare l’Unione all’esterno per le materie relative alla politica estera e di sicurezza comune (fatte salve le attribuzioni dell’Alto Rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza). Il Consiglio Europeo nomina i membri della Commissione Europea.

Corte di giustizia dell’Unione europea La Corte di giustizia delle Comunità europee è stata istituita dal Trattato CECA del 1952. Garantisce che la legislazione dell’UE sia interpretata e applicata in tutti i paesi dell’UE in modo uniforme. La Corte garantisce che gli Stati membri e le Istituzioni dell’UE agiscano secondo la legge e dirime le controversie fra Stati membri, Istituzioni dell’UE, imprese e cittadini. La Corte si compone di un Giudice per Stato membro ed è assistita da otto avvocati generali il cui compito è presentare pareri motivati sulle cause dibattute davanti alla Corte.

Corte dei conti europea È stata istituita nel 1975 e ha sede a Lussemburgo. La Corte dei conti europea verifica le finanze dell'UE. Il suo ruolo è quello di migliorare la gestione finanziaria dell'UE e di riferire in merito all'uso dei fondi pubblici. La Corte dei conti ha il diritto di sottoporre a controllo (audit) qualsiasi persona od organizzazione che gestisca i fondi comunitari. La Corte dei conti non ha poteri giuridici propri ma si avvale, in caso di frodi o irregolarità dell’Ufficio Europeo per la lotta antifrode (OLAF) La Corte esprime anche dei pareri sulla legislazione finanziaria dell'UE e sulle norme in materia di lotta antifrode. La Corte dei conti è indipendente rispetto alle altre Istituzioni. E’ composta di un membro di ciascun paese dell'UE, nominato dal Consiglio dell’UE per un mandato (rinnovabile) di sei anni.

Banca centrale europea È’ responsabile della politica monetaria europea. La Banca centrale europea (BCE) è stata istituita nel 1998 dal trattato sull’Unione europea e ha sede a Francoforte (Germania).

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Suo compito è gestire la moneta unica dell'UE e garantire la stabilità dei prezzi. È compito della BCE anche definire e attuare la politica economica e monetaria dell’UE. La BCE è indipendente nell’esercizio delle sue funzioni. La BCE, in stretta collaborazione con le banche centrali nazionali, predispone e attua le decisioni degli organi decisionali dell’Eurosistema, ossia il Consiglio Direttivo, il Comitato Esecutivo, e il Consiglio Generale. Il consiglio direttivo definisce la politica monetaria, fissando i tassi d’interesse applicabili ai prestiti erogati dalla Banca centrale alle banche commerciali. Il Comitato Esecutivo attua la politica monetaria secondo le decisioni e gli indirizzi del Consiglio Direttivo impartendo le necessarie istruzioni alle banche centrali nazionali. Ha inoltre il compito di preparare le riunioni del Consiglio Direttivo ed è responsabile della gestione degli affari correnti della BCE. Il Consiglio Generale concorre all’adempimento delle funzioni consultive e di coordinamento della BCE e opera per il futuro allargamento dell’area Euro.

Mediatore Europeo Indaga sulle denunce relative a casi di cattiva amministrazione da parte degli organi e delle Istituzioni dell'UE Il mediatore europeo, eletto dal Parlamento Europeo, è abilitato a ricevere le denunce di qualsiasi cittadino dell'Unione o di qualsiasi persona fisica o giuridica che risieda o abbia la sede sociale in uno Stato membro per casi di cattiva amministrazione nell'azione delle Istituzioni, degli organi o degli organismi dell'Unione. Il Mediatore esercita le sue funzioni in piena indipendenza e non sollecita né accetta istruzioni da alcun governo, Istituzione, organo o organismo.

Garante europeo per la protezione dei dati Soprintende alla protezione dei dati personali nelle Istituzioni e negli organi dell'UE e fornisce indicazioni sulla legislazione in materia di protezione dei dati.

Organismi interistituzionali • Ufficio delle pubblicazioni dell'Unione europea • Ufficio europeo di selezione del personale • Eurostat • Scuola europea di amministrazione

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4. AGENZIE DELL’UNIONE EUROPEA

Le agenzie e gli organismi decentrati dell'UE sono articolati tre principali categorie: − Agenzie e organismi decentrati È stata istituita una serie di agenzie

europee specializzate e decentrate per fornire aiuto e consulenza agli Stati membri e ai loro cittadini. Le agenzie rispondono al desiderio di decentrare geograficamente gli organismi dell'Unione europea e all'esigenza di far fronte a nuovi compiti di natura giuridica, tecnica e/o scientifica.

− Agenzie e organismi di EURATOM Si tratta di organismi costituiti per realizzare gli obiettivi del trattato che istituisce la Comunità europea dell'energia atomica (trattato EURATOM). Gli obiettivi del trattato sono: coordinare i programmi di ricerca degli Stati membri per l’uso pacifico dell’energia nucleare, mettere a disposizione conoscenze, infrastrutture e finanziamenti per lo sviluppo dell’energia nucleare e assicurare un approvvigionamento sufficiente e sicuro di energia atomica.

− Agenzie esecutive Sono organizzazioni istituite secondo il regolamento (CE) n. 58/2003 del Consiglio (GU L 11 del 16.1.2003) che svolgono compiti relativi alla gestione di uno o più programmi comunitari. Queste agenzie sono operative per un determinato periodo di tempo e devono essere ubicate in una delle sedi della Commissione europea (Bruxelles o Lussemburgo).

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II

LE FONTI DEL DIRITTO DELL’UNIONE EUROPEA Nel diritto dell’Unione Europea si possono identificare tre tipologie di diritto: – il diritto primario, costituito dai Trattati istitutivi l'Unione europea; – il diritto derivato, costituito da atti normativi fondati sui Trattati che

comprendono il diritto derivato unilaterale e il diritto convenzionale; – il diritto complementare, composto da atti normativi non previsti dai

Trattati, riguardanti la giurisprudenza della Corte di Giustizia, il diritto internazionale e i principi generali del diritto.

1. IL DIRITTO PRIMARIO Il diritto primario riguarda i Trattati istitutivi, ossia il Trattato dell’Unione europea e il Trattato sul funzionamento dell’Unione europea. Tali Trattati definiscono il quadro delle competenze tra l'Unione europea e gli Stati membri e definiscono l’ambito in cui agiscono le Istituzioni europee. Definiscono inoltre il quadro giuridico all’interno del quale le Istituzioni dell’UE attuano le politiche europee. Un Trattato è un accordo vincolante tra i paesi membri dell'UE. Esso definisce gli obiettivi dell'Unione, le regole di funzionamento delle istituzioni europee, le procedure per l'adozione delle decisioni e le relazioni tra l'UE e i suoi paesi membri. Il diritto primario è composto da tutti i trattati istitutivi dell’UE, modificati e adattati da vari trattati e atti, ovvero: − dai trattati istitutivi delle Comunità europee e dell'Unione; − dai trattati modificativi dell’UE; − dai trattati complementari che apportano modifiche settoriali ai trattati

istitutivi; − dai trattati di adesione attraverso i quali nuovi paesi aderiscono all'UE. I Trattati principali dell’UE sono: • Trattato di Parigi (1951); • Trattati di Roma (trattato Euratom e trattato che istituisce la Comunità

economica europea), firmati il 25 marzo 1957;

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• Trattato di Lussemburgo (1970); • Trattato di Schengen (1985); • Atto unico europeo (1987); • Trattato di Maastricht sull'Unione europea(1992); • Trattato di Amsterdam (1997); • Trattato di Nizza (2001). • Trattatodi Lisbona (2007) entrato in vigore dal 1° dicembre 2009. Vi sono poi trattati complementari, che apportano modifiche settoriali ai trattati istitutivi e i trattati di adesione di Paesi all’UE.

1.1. Il Trattato di Parigi (1951)

Il Trattato di Bruxelles, firmato nel 1948 da Gran Bretagna, Francia, Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo era sostanzialmente un patto di autodifesa collettiva. Le prime basi per la configurazione attuale dell’Unione Europea risalgono al 1950 con la dichiarazione di Shuman, Ministro degli Esteri del governo francese, che può essere considerato il primo discorso politico ufficiale in cui l’Europa è interpretata come unione economica tra stati e costituisce l’inizio del processo d'integrazione europea. Con il Trattato di Parigi del 1951 – giunto a scadenza nel 2002 - è istituita la Comunità europea del carbone e dell'acciaio (CECA) in cui sono definite alcune istituzioni comunitarie e sono formalizzate alcune disposizioni economiche e sociali (Paesi firmatari: Belgio, Francia, Repubblica Federale Tedesca, Italia, Lussemburgo e Paesi Bassi). La CECA viene a delinearsi quale vero e proprio organo sovranazionale con potere di decisione e pone le basi alla nascita della Unione europea odierna. La Comunità europea del carbone e dell'acciaio (CECA) è stata costituita secondo una logica funzionalista (costruire l'unione europea attraverso un'integrazione graduale per settori chiave) ed aveva l’obiettivo di ridurre gli squilibri economici nelle economie dei principali paesi europei dovuti, almeno in parte, alla forte competitività che la Germania aveva nella produzione dell'acciaio, grazie ai bassi costi di produzione dovuti alla grande disponibilità di carbone della regione della Ruhr.

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Il Trattato di Parigi è stato modificato a più riprese da Trattati successivi: Trattato di fusione (Bruxelles 1965), Trattati recanti modifiche a talune disposizioni finanziarie (1970 e 1975), Trattato sulla Groenlandia (1984), Trattato sull'Unione Europea (TUE, Maastricht, 1992), Atto Unico Europeo (1986), Trattato di Amsterdam (1997), Trattato di Nizza (2001) e i Trattati di adesione (nel 1972, 1979, 1985 e 1994).

1.2. Trattato di Roma (1957) Nel 1957 viene firmato il Trattato di Roma che istituisce la Comunità Economica Europea (CEE) in cui sono introdotte rilevanti innovazioni:

i) l'eliminazione dei dazi doganali tra gli Stati Membri; ii) l'istituzione di una tariffa doganale esterna comune; iii) l'introduzione di politiche comuni nel settore dell'agricoltura e dei

trasporti; iv) la creazione del Fondo Sociale Europeo (FSE); v) l'istituzione della Banca Europea degli Investimenti (BEI); vi) lo sviluppo della cooperazione tra gli Stati Membri.

Per conseguire questi obiettivi, il Trattato introduce linee guida e definisce il

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quadro per l'attività legislativa delle istituzioni comunitarie, con specifico riferimento alla politica agricola, alla politica dei trasporti ed alla politica commerciale. Il mercato comune introdotto dal Trattato di Roma introduce la libera circolazione delle persone, dei servizi, delle merci, dei capitali attraverso la creazione di uno spazio economico unificato che permette la libera concorrenza tra le imprese e pone le basi per avvicinare le condizioni di scambio dei prodotti e dei servizi che non sono già coperti da CECA ed Euratom. Poiché il mercato è fondato sul principio della libera concorrenza, il Trattato vieta gli aiuti di Stato (salvo deroghe) che possono influire sugli scambi tra Stati membri e che hanno per oggetto o effetto di impedire, limitare o falsare la concorrenza. L'unione doganale è accompagnata da una politica commerciale comune, condotta a livello comunitario che differenzia l'unione doganale da una semplice associazione di libero scambio. Il Trattato di Roma è stato modificato: – dal Trattato di Bruxelles, detto "Trattato di fusione" (1965); – dall’Atto Unico Europeo (1986) che rappresenta la prima grande riforma

dei Trattati; – dal Trattato sull'Unione europea (Trattato di Maastricht, 1992) che riunisce

le tre Comunità (Euratom, CECA, CEE) e le cooperazioni politiche istituzionalizzate nei settori della politica estera, della difesa, della polizia e della giustizia. Esso muta la denominazione di Comunità Economica Europea (CEE) in Comunità Europea (CE). Istituisce inoltre l'unione economica e monetaria, introduce nuove politiche comunitarie (istruzione, cultura) e amplia le competenze del Parlamento europeo (procedura di codecisione);

– dal Trattato di Amsterdam (1997) che amplia le competenze dell'Unione: istituisce una politica comunitaria in materia di occupazione, adotta misure destinate ad avvicinare l'Unione ai cittadini e una cooperazione più stretta tra Stati membri (cooperazione rafforzata);

– dal Trattato di Nizza (2001) che integra il Trattato di Amsterdam per quanto riguarda i problemi istituzionali legati all'allargamento.

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Il Club di Parigi è stato fondato nel 1956, per risolvere la crisi finanziario dell’Argentina. Il Club di Parigi è un gruppo informale di organizzazioni finanziarie dei 19 paesi più ricchi del mondo che attua la rinegoziazione del debito pubblico bilaterale dei Paesi del Sud del mondo (aventi ingenti difficoltà nei pagamenti). Si riunisce ogni sei settimane in Francia. I Paesi membri coordinano le azioni di cancellazione, recupero e riprogrammazione dei crediti nei confronti dei Governi dei Paesi debitori. Dal 1956 il Club ha effettuato circa 404 ristrutturazioni debitorie a favore di circa 85 Paesi. Dal 1983 al dicembre 2008 il Club ha ristrutturato debiti per oltre USD 512 miliardi. La ristrutturazione del debito è una procedura che prevede un accordo con il quale le condizioni originarie di un prestito (tassi, scadenze, divisa, periodo di garanzia) vengono modificate per alleggerire l'onere del debitore. Il Club di Parigi è un soggetto informale, una non-istituzione, dato che sono incontri volontari di paesi creditori con l’obiettivo di coordinare l’annullamento dei debiti di paesi in via di sviluppo. Nel corso degli anni novanta, il Club di Parigi ha operato nei confronti di Stati appartenenti ai Paesi poveri altamente indebitati (HIPC) e non-HIPC attuando politiche differenziate.

1.3. Trattato di Lussemburgo (1970) Il Trattato di Lussemburgo deriva dal superamento di divisioni tra gli Stati membri a partire dal 1965 quando la Commissione europea propose l’istituzione di un bilancio autonomo, finanziato con risorse della Comunità, ed il rafforzamento dei poteri del Parlamento europeo.. Al Parlamento europeo, che fino a quel momento esercitava solamente poteri consultivi sul bilancio delle Comunità europee, venivano assegnati importanti poteri decisionali e di controllo sulla materia. Fu stabilito che il Parlamento avesse la facoltà di adottare emendamenti e proporre modificazioni al progetto di bilancio presentato dalla Commissione A Lussemburgo fu siglato un accordo per la sostituzione dei contributi finanziari degli Stati membri con risorse proprie della Comunità, conferendo alla Comunità una solida autonomia finanziaria che costituiva il necessario presupposto per la sua indipendenza dai poteri nazionali. Tale sistema di finanziamento fu formalizzato con la decisione del Consiglio 70/243 che conteneva anche una disposizione transitoria secondo la quale il

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sistema stesso sarebbe entrato in vigore solo quando tutti gli Stati membri avessero ratificato il Trattato di Lussemburgo, con un ampliamento dei poteri del Parlamento, che fino ad allora aveva esercitato solo una funzione consultiva in materia di bilancio, assegnandogli poteri di decisione e controllo.

1.4. Trattato di Schengen (1985) L'accordo fu firmato a Schengen il 14 giugno 1985 fra il Belgio, la Francia, la Germania, il Lussemburgo e i Paesi Bassi. Venivano eliminati progressivamente i controlli alle frontiere comuni e veniva introdotto un regime di libera circolazione per i cittadini degli Stati firmatari e degli altri Stati membri della Comunità. La convenzione di Schengen completa l'accordo e definisce le condizioni di applicazione e le garanzie inerenti all'attuazione della libera circolazione, firmata il 19 giugno 1990 dagli stessi cinque Stati membri e successivamente entrata in vigore nel 1995. Sia l'accordo e sia la convenzione di Schengen con tutte le regole adottate sulla base dei due testi e gli accordi connessi formano "l'acquis di Schengen". Dal 1999, l'acquis di Schengen è integrato nel quadro istituzionale e giuridico dell'Unione europea in virtù di un protocollo allegato al Trattato di Amsterdam. L'acquis communautaire ovvero "(il diritto) acquisito comunitario" è l'insieme dei diritti e degli obblighi giuridici e degli obiettivi politici che accomunano e vincolano gli stati membri dell'Unione Europea. I paesi candidati devono accettare l'"acquis" per poter aderire all'Unione europea e devono introdurlo nei rispettivi ordinamenti nazionali, adattandoli e riformandoli in funzione di esso; devono poi applicarlo a partire dalla data in cui divengono membri della UE a tutti gli effetti. L'acquis communautaire" contiene: – principi, obiettivi politici e tutto ciò che è disposto dai Trattati e della

legislazione applicativa degli stessi; – la giurisprudenza della Corte di giustizia europea; – le dichiarazioni e le risoluzioni adottate nell'Unione; – gli atti riguardanti la giustizia e gli affari interni; – gli atti inerenti alla politica estera e di sicurezza comune; – gli accordi internazionali fatti dalla Comunità e da quelli conclusi dagli

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Stati membri tra essi nei settori di competenza dell'Unione. La cooperazione Schengen è stata inserita nel quadro legislativo dell'Unione europea (UE) attraverso il Trattato di Amsterdam del 1997. Tuttavia non tutti i partecipanti alla cooperazione Schengen sono membri dello spazio Schengen in quanto non desiderano abolire i controlli alle frontiere oppure perché non soddisfano i requisiti richiesti per l'applicazione dell'acquis di Schengen. Tutti i Paesi membri dell'Unione europea prendono parte integralmente alla cooperazione di Schengen eccetto: • Gran Bretagna, • Irlanda • Cipro • Romania • Bulgaria. La Norvegia, l'Islanda e la Svizzera sono associate a tutti gli effetti a Schengen quali Stati terzi. La Gran Bretagna e l'Irlanda formano già una zona comune di libera circolazione delle persone: pertanto non partecipano alla cooperazione in materia di visti e non hanno abolito i controlli alle loro frontiere. Ciononostante, la Gran Bretagna (prima della Brexit) e l'Irlanda possono - in base al diritto di partecipazione selettiva (il cosiddetto "opting out") - partecipare in qualsiasi momento ad alcuni settori di cooperazione di Schengen. Per conciliare libertà e sicurezza, la libera circolazione è stata affiancata dalle cosiddette “misure compensative” volte a migliorare la cooperazione e il coordinamento fra i servizi di polizia e le autorità giudiziarie al fine di preservare la sicurezza interna degli Stati membri e segnatamente per lottare in maniera efficace contro la criminalità organizzata. Per tale motivo è stato creato il Sistema d’informazione Schengen (SIS), data base che consente alle competenti autorità degli Stati Schengen di scambiare dati relativi all’identità di determinate categorie di persone e di beni.

1.5. Atto Unico Europeo (1987) L’Atto Unico Europeo è il Trattato consolidato che ha emendato i Trattati di Roma del 1957 con cui è stata istituita la Comunità economica europea.

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L'Atto è entrato in vigore il 1º luglio 1987. L'Atto unico europeo ha come principale obiettivo il rilancio del processo di costruzione europea. La conferenza intergovernativa che ha portato all'Atto Unico Europeo aveva un duplice mandato: − redigere un Trattato in materia di politica estera e di sicurezza comune; − introdurre modifiche del Trattato CEE, in particolare a livello della

procedura decisionale del Consiglio, dei poteri della Commissione, dei poteri del Parlamento europeo.

L' Atto Unico Europeo: − sancisce formalmente l'esistenza del Consiglio europeo,

istituzionalizzando i vertici dei capi di Stato e di governo. − rafforza i poteri del Parlamento, istituendo la procedura di cooperazione

che rafforza la posizione del Parlamento europeo nel dialogo interistituzionale, conferendogli la possibilità di una doppia lettura delle proposte legislative.

− ha consentito il passaggio, il 1° gennaio 1993, dal mercato comune al mercato unico.

Con la creazione di nuove competenze comunitarie e la riforma delle istituzioni, l'AUE ha preparato il terreno per l'integrazione politica e l'unione economica e monetaria, le quali saranno istituite dal Trattato di Maastricht sull'Unione europea. L' Atto Unico Europeo è stato modificato dal Trattato di Maastricht (1992).

1.6. Trattato di Maastricht (1992) Il Trattato sull'Unione Europea (TUE) firmato a Maastricht il 7 febbraio 1992 è entrato in vigore il 1º novembre 1993 pone le basi per una politica di difesa comune tesa a garantire il mantenimento della pace ed il consolidamento della democrazia e dello Stato di diritto. Il Trattato di Maastricht rappresenta una tappa determinante della costruzione europea. Attraverso l'istituzione dell'Unione europea, la creazione di un'unione economica e monetaria e l'estensione dell'integrazione europea a nuovi settori, la Comunità entra in una dimensione politica. Ha cinque obiettivi principali: – rafforzare la legittimità democratica delle istituzioni; – rendere più efficaci le istituzioni; – instaurare un'unione economica e monetaria;

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– sviluppare la dimensione sociale della Comunità; – istituire una politica estera e di sicurezza comune. Il Trattato di Maastricht istituisce l'Unione Europea (UE) e introduce tre pilastri: – Comunità europea – politica estera e di sicurezza comune – cooperazione di polizia e cooperazione giudiziaria in materia penale. Il primo pilastro pone che l’UE inglobi Comunità europea, Comunità europea del carbone e dell'acciao (CECA) e Euratom e definisce i settori in cui gli Stati membri esercitano congiuntamente la propria sovranità attraverso le istituzioni comunitarie. Il secondo pilastro instaura la Politica estera e di sicurezza comune (PESC) prevista al titolo V del Trattato sull'Unione europea. Esso sostituisce le disposizioni contenute nell'Atto unico europeo e consente agli Stati membri di avviare azioni comuni in materia di politica estera. Tale pilastro prevede un processo decisionale intergovernativo. Il terzo pilastro riguarda la cooperazione nei settori della giustizia e degli affari interni (JAI), prevista al titolo VI del Trattato sull'Unione europea. L'Unione deve svolgere un'azione congiunta per offrire ai cittadini un livello elevato di protezione in uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia. Anche in questo caso il processo decisionale è intergovernativo. Il ruolo del Parlamento europeo viene ulteriormente potenziato. Il campo d'applicazione della procedura di cooperazione e della procedura di parere conforme viene esteso a nuovi settori. Inoltre, il Trattato introduce la procedura di codecisione, che consente al Parlamento europeo di adottare atti insieme al Consiglio dell’UE. Il Trattato istituisce il Comitato delle regioni, composto da rappresentanti degli enti regionali, con carattere consultivo.

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Il Trattato definisce politiche comuni in sei settori: – reti transeuropee; – politica industriale; – tutela dei consumatori; – istruzione e formazione professionale; – gioventù; – cultura. Il Trattato prevede l’introduzione di una moneta unica in tre fasi: a) viene liberalizzata la circolazione dei capitali; b) viene attuata la convergenza delle politiche economiche degli Stati

membri; c) viene introdotta la moneta unica e si costituisce la Banca centrale europea

(BCE). La politica monetaria poggia sul Sistema europeo delle banche centrali (SEBC), costituito dalla BCE e dalle banche centrali nazionali. Tali istituzioni sono indipendenti dalle autorità politiche nazionali e comunitarie. Tra le grandi innovazioni del Trattato figura l'istituzione di una cittadinanza europea, che si aggiunge a quella nazionale. Chiunque abbia la cittadinanza di uno Stato membro è anche cittadino dell'Unione. Tale cittadinanza conferisce nuovi diritti degli europei, ossia: – il diritto di circolare e risiedere liberamente nella Comunità; – il diritto di votare e di essere eletti alle elezioni europee e comunali nello

Stato di residenza; – il diritto alla tutela da parte delle autorità diplomatiche e consolari di uno

Stato membro diverso da quello d'origine nel territorio di un paese terzo nel quale lo Stato membro di cui hanno la cittadinanza non è rappresentato;

– il diritto di petizione dinanzi al Parlamento europeo e il diritto di sporgere denuncia al mediatore europeo.

Il Trattato adotta come norma generale il principio di sussidiarietà, applicato alla politica dell'ambiente nell'Atto unico europeo. Tale principio precisa che nei settori che non sono di sua esclusiva competenza la Comunità interviene soltanto se gli obiettivi possono essere realizzati meglio a livello comunitario che a livello nazionale.

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La realizzazione dell'Unione economica e monetaria rappresenta una tappa fondamentale di un progetto ancora più ambizioso: il raggiungimento di un'integrazione politica, oltre che economica, dei Paesi europei.

1.7. Trattato di Amsterdam (1997) Il Trattato di Amsterdam rafforza i poteri dell'Unione attraverso la creazione di una politica comunitaria in materia di occupazione, il trasferimento sotto competenza comunitaria di alcune materie precedentemente disciplinate dalla cooperazione nel settore della giustizia e degli affari interni, le misure volte ad avvicinare l'Unione ai suoi cittadini, la possibilità di una più stretta cooperazione tra alcuni Stati membri (cooperazione rafforzata). La cooperazione rafforzata è una procedura decisionale istituzionalizzata con il Trattato di Amsterdam e poi modificata dal Trattato di Nizza e consiste nel realizzare una più forte cooperazione tra alcuni Stati membri dell'Unione europea in determinati temi (giustizia, difesa, gestione economica ecc.). La cooperazione rafforzata è uno strumento per dare un maggiore impulso al processo di integrazione dell'Unione europea, senza coinvolgere la totalità degli Stati membri che possono avere reticenze nell'incrementare l'integrazione in alcune aree (si pensi al problema di una politica estera comune, cui Stati come la Gran Bretagna sono fortemente contrari). Esse possono coinvolgere soltanto le aree tematiche che non siano già di competenza esclusiva dell'Unione europea. I temi di competenza esclusiva dell'Unione sono: – unione doganale; – regole di concorrenza per il funzionamento del mercato interno; – politica monetaria nei paesi dell'Euro; – conservazione delle risorse biologiche del mare; – politica commerciale comune. Tutti gli altri temi possono essere oggetto di cooperazioni rafforzate che sono intese a promuovere la realizzazione degli obiettivi dell'Unione, a proteggere i suoi interessi e a rafforzare il suo processo di integrazione. Sono aperte in qualsiasi momento a tutti gli Stati membri».

Una cooperazione rafforzata si può attuare solo se vi partecipa almeno un terzo degli Stati membri dell'Unione. Le principali riforme che il Trattato di Amsterdam ha introdotto sono le

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seguenti: – Libertà, sicurezza e giustizia – L'Unione e il cittadino – Una politica esterna efficace e coerente – Questioni istituzionali Il Trattato firmato ad Amsterdam contiene innovazioni che vanno nella direzione di rafforzare l'unione politica, con nuove disposizioni nelle politiche di Libertà, sicurezza e giustizia, compresa la nascita della cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale, oltre all'integrazione di Schengen.

1.8. Trattato di Nizza (2001) Il Trattato di Nizza è uno dei Trattati fondamentali dell'Unione europea Riguarda le riforme istituzionali da attuare in vista dell'adesione di altri Stati. Il Trattato di Nizza ha modificato il Trattato di Maastricht e i Trattati di Roma. È stato approvato al Consiglio europeo di Nizza, l'11 dicembre 2000 e firmato il 26 febbraio 2001. Dopo essere stato ratificato dagli allora 15 stati membri dell'Unione europea, è entrato in vigore il 1º febbraio 2003. Il Trattato di Nizza in particolare introduce: – nuova ponderazione dei voti nel Consiglio dell'Unione europea, – modifica della composizione della Commissione europea, – estensione della procedura di codecisione e modifica del numero di

deputati al Parlamento europeo per ogni Stato membro, – estensione del voto a maggioranza qualificata per una trentina di nuovi

titoli. – riforma per rendere più flessibile il sistema delle cooperazioni rafforzate – nuova ripartizione delle competenze tra Corte e Tribunale Nell'ambito del Consiglio europeo di Nizza è stata proclamata la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, che però non è entrata a far parte del Trattato.

1.8. Dal Trattato di Nizza al trattato di Lisbona Dopo la conclusione del Trattato di Nizza, si è imposta la necessità di attuare

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una riforma che andasse al di là del semplice adattamento delle istituzioni in vista dell’allargamento verso i paesi dell’Europa orientale. Lo stesso Trattato di Nizza contemplava i passi da compiere auspicando l’avvio di un dibattito più ampio e approfondito sul futuro dell’Unione europea, con la partecipazione dei parlamenti nazionali e di tutta l’opinione pubblica, nonché dei paesi candidati all’adesione. Il documento prevedeva inoltre l’adozione di una dichiarazione in occasione del Consiglio Europeo di Laeken 2001 e la convocazione di una nuova Conferenza dei rappresentanti dei governi degli Stati membri nel 2004. La riflessione istituzionale doveva concentrarsi su quattro temi: – la delimitazione più precisa delle competenze dell’Unione e degli Stati

membri; – lo status della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea; – la semplificazione dei Trattati; – il ruolo dei parlamenti nazionali nell’architettura europea. L’accordo politico è stato raggiunto infine il 18 giugno 2004 e con esso è nata la prima Costituzione per l’Europa, firmata a Roma il 29 ottobre 2004, da parte dei venticinque Capi di Stato o di Governo dei paesi membri dell’Unione.

1.10. Trattato di Lisbona (2007) Il Trattato di Lisbona ha l’obiettivo di rendere l’Europa: – più democratica e trasparente: attraverso il rafforzamento del ruolo del

Parlamento europeo e dei parlamenti nazionali, più possibilità ai cittadini di far sentire la loro voce e migliore ripartizione delle competenze a livello europeo e nazionale;

– più efficiente: si semplificano i metodi di lavoro e le norme di voto, istituzioni più moderne e adeguate ad un'Unione a 27 e maggiore capacità di intervenire nei settori di massima priorità per l'Unione di oggi;

– più diritti e valori: grazie all'integrazione della Carta dei diritti fondamentali nel diritto primario europeo, ai meccanismi di solidarietà e ad una migliore protezione dei cittadini europei;

– più protagonista sulla scena internazionale: un ruolo potenziato raggruppando gli strumenti comunitari di politica estera, per quanto riguarda sia l'elaborazione che l'approvazione di nuove politiche.

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Il Trattato di Lisbona dota l'Unione europea di istituzioni moderne e di metodi di lavoro per rispondere in modo efficace ed efficiente alle sfide del mondo, rafforza la partecipazione democratica in Europa e la capacità dell'UE di promuovere quotidianamente gli interessi dei propri cittadini. Viene meno la distinzione tra “Comunità europea” e “Unione europea”: la prima cessa formalmente di esistere e viene riassorbita nella seconda. Numerose novità del Trattato di Lisbona riguardano il funzionamento delle istituzioni dell’Unione: – il sistema legislativo dell’Unione continua a basarsi sull’azione coordinata

delle tre istituzioni a carattere decisionale: il Parlamento europeo, il Consiglio Europeo e la Commissione europea;

– di norma la Commissione propone nuove iniziative legislative mentre spetta al Parlamento e al Consiglio adottarle. Tale sistema é completato dal controllo giurisdizionale esercitato dalla Corte di giustizia dell’Unione europea e dal controllo contabile esercitato dalla Corte dei Conti;

– a questo quadro istituzionale si sono aggiunti il Consiglio europeo e la Banca centrale europea (BCE), due organi inseriti espressamente nel novero delle istituzioni;

– il Consiglio europeo, istituzione a pieno titolo dell’Unione, è soggetto al controllo della Corte di giustizia. Il Trattato di Lisbona, pur non innovando le sue funzioni di “impulso e di orientamento politico”, modifica la composizione del Consiglio, introducendo la presidenza stabile.

Il Trattato di Lisbona assicura una maggiore legittimazione e semplificazione del processo decisionale, grazie ad un nuovo metodo di calcolo della maggioranza qualificata in sede di Consiglio dell’Unione. Il Trattato di Lisbona attribuisce all‘Unione una personalità giuridica unica. È previstala nomina di un Alto Rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, che darà maggiore impatto, coerenza e visibilità all’azione esterna dell’UE. E’ definita la politica di vicinato dell’UE.

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1.11. L’uscita di un Paese dall’Unione Europea: il caso BREXIT 1.11.1. Il quadro giuridico.

L'uscita di uno Stato membro dall'Unione europea è un diritto di ogni Stato membro dell'Unione europea (UE) previsto dall’art. 50 del Trattato sull’EU. Nessuno Stato è mai uscito dall'organizzazione anche se alcune dipendenze territoriali hanno lasciato l'UE. Di questi, solo la Groenlandia ha indetto un referendum sull'uscita dall'Unione nel 1985. Nessuno Stato membro prima del 23 giugno 2016 ha mai tenuto un referendum nazionale sul ritiro dalla Unione Europea anche se nel 1975 il Regno Unito ha organizzato un referendum sulla CEE e il 67,2% degli elettori ha scelto di rimanere nella Comunità. Il primo referendum nazionale sull'uscita dall'Unione si è tenuto il 23 giugno 2016 nel Regno Unito, e la maggioranza dei votanti (51,9%) si è espressa per l'uscita dall'Unione Europea.

Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea 26 ottobre 2012 Versione consolidata del Trattato sull'Unione Europea e del Trattato sul funzionamento dell' Unione Europea Contiene le versioni consolidate del Trattato sull'Unione Europea e del Trattato sul funzionamento dell'Unione Europea, nonché dei loro protocolli e allegati, quali risultano a seguito delle modifiche introdotte dal trattato di Lisbona firmato il 13 dicembre 2007 a Lisbona ed entrato in vigore il 1dicembre 2009. Essa contiene, inoltre, le dichiarazioni allegate all'atto finale della Conferenza intergovernativa che ha adottato il trattato di Lisbona Articolo 50 1. Ogni Stato membro può decidere, conformemente alle proprie norme costituzionali, di recedere dall'Unione. 2. Lo Stato membro che decide di recedere notifica tale intenzione al Consiglio europeo. Alla luce degli orientamenti formulati dal Consiglio europeo, l'Unione negozia e conclude con tale Stato un accordo volto a definire le modalità del recesso, tenendo conto del quadro delle future relazioni con l'Unione. L'accordo è negoziato conformemente all'articolo 218, paragrafo 3 del trattato sul funzionamento dell'Unione europea. Esso è concluso a nome dell'Unione dal Consiglio, che delibera a maggioranza qualificata previa approvazione del Parlamento europeo. 3. I trattati cessano di essere applicabili allo Stato interessato a decorrere dalla data di entrata in vigore dell'accordo di recesso o, in mancanza di tale accordo, due anni dopo la notifica di cui al paragrafo 2, salvo che il Consiglio europeo, d'intesa con lo Stato membro interessato, decida all'unanimità di prorogare tale termine. 4. Ai fini dei paragrafi 2 e 3, il membro del Consiglio europeo e del Consiglio che rappresenta lo Stato membro che recede non partecipa né alle deliberazioni né alle decisioni del Consiglio europeo e del Consiglio che lo riguardano.

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Per maggioranza qualificata s'intende quella definita conformemente all'articolo 238, paragrafo 3, lettera b) del trattato sul funzionamento dell'Unione europea. Per le deliberazioni che richiedono la maggioranza semplice, il Consiglio delibera alla maggioranza dei membri che lo compongono. Quando il Consiglio non delibera su proposta della Commissione o dell'alto rappresentante del l'Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, per maggioranza qualificata si intende almeno il 72 % dei membri del Consiglio rappresentanti Stati membri che totalizzino almeno il 65 % della popolazione dell'Unione. 3. A decorrere dal 1novembre 2014 e fatte salve le disposizioni stabilite dal protocollo sulle disposizioni transitorie, nei casi in cui, a norma dei trattati, non tutti i membri del Consiglio partecipano alla votazione, per maggioranza qualificata si intende quanto segue: a) per maggioranza qualificata si intende almeno il 55 % dei membri del Consiglio rappresentanti gli Stati membri partecipanti che totalizzino almeno il 65 % della popolazione di tali Stati. La minoranza di blocco deve comprendere almeno il numero minimo di membri del Consiglio che rappresentano oltre il 35 % della popolazione degli Stati membri partecipanti, più un altro membro; in caso contrario la maggioranza qualificata si considera raggiunta. b) In deroga alla lettera a), quando il Consiglio non delibera su proposta della Commissione o dell'alto rappresentante dell'Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, per maggioranza qualificata si intende almeno il 72 % dei membri del Consiglio rappresentanti gli Stati membri partecipanti, che totalizzino almeno il 65 % della popolazione di tali Stati. 4. Le astensioni dei membri presenti o rappresentati non ostano all'adozione delle deliberazioni del Consiglio per le quali è richiesta l'unanimità. 5. Se lo Stato che ha receduto dall'Unione chiede di aderirvi nuovamente, tale richiesta è oggetto della procedura di cui all'articolo 49 L'articolo 50 del Trattato dell'Unione europea prevede quindi un meccanismo di recesso volontario e unilaterale di un paese dall'Unione europea (UE). Il paese dell'UE che decide di recedere deve notificare tale intenzione al Consiglio europeo il quale presenta i suoi orientamenti per l’accordo volto a definire le modalità del recesso di tale paese. Tale accordo è concluso a nome dell'Unione europea (UE) dal Consiglio che delibera a maggioranza qualificata previa approvazione del Parlamento europeo. I Trattati cessano di essere applicabili al Paese interessato a decorrere dalla data di entrata in vigore dell'accordo di recesso o due anni dopo la notifica del recesso. Il Consiglio può decidere di prolungare tale termine.

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Qualsiasi Stato uscito dall'Unione può chiedere di aderirvi nuovamente presentando una nuova procedura di adesione. Nel caso della Gran Bretagna, gli Stati membri restano in attesa dei passi ufficiali del Parlamento britannico prima di attivare il negoziato. L’articolo 50 non prevede tuttavia alcun vincolo nei confronti di uno Stato membro che vuole uscire dall’Unione Europea. E’ consentito trattare gli accordi preliminari (anche informali) con le istituzioni europee su singoli emendamenti dei Trattati vigenti anche prima di attivare la procedura di recesso. Se dopo due anni dalla ratifica della notifica di recesso non è stato trovato un accordo, l’appartenenza dello Stato membro alla UE decade automaticamente, a meno che il Consiglio europeo e gli altri Stati membri non decidano insieme di estendere il periodo delle negoziazioni. L’articolo 50 del Trattato di Lisbona non pone condizioni per esercitare il diritto di recesso dalla UE. Specifica solo le procedure da seguire. È invece contemplata una fase di negoziazione allo scopo di raggiungere un accordo tra le parti per quanto riguarda le loro relazioni future sulle diverse materie in questione. Le conseguenze di tipo giuridico per gli Stati che lasciano l’UE riguardano la fine dell’applicazione e della validità di tutti i Trattati dell’Unione Europea e dei suoi protocolli nel loro territorio. Le leggi europee vigenti non saranno più ritenute valide mentre resteranno valide tutte quelle leggi approvate dal Parlamento nazionale che hanno recepito norme e direttive europee, a meno che le autorità nazionali non decidano di avviare delle procedure di modifica o di abrogazione anche per queste. Prima del trattato di Lisbona non era previsto nei trattati e nel diritto dell'UE la possibilità da parte di uno Stato membro di ritirarsi volontariamente dall'organizzazione. Le parti decidono di invalidare gradualmente anche le norme europee che riguardano i programmi di tipo finanziario: al fine di sostituire le norme stabilite dalla UE (in particolare quelle di competenza esclusiva) lo Stato deve approvare per ognuna una nuova legislazione. Inoltre l’accordo di negoziazione può prevedere anche una serie di disposizioni – da attuare attraverso delle norme transitorie – sui diritti derivanti dalla cittadinanza europea che potrebbero decadere una volta attuato definitivamente il recesso.

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Il processo di uscita di uno Stato membro dalla UE può essere sospeso se c’è un accordo tra lo Stato in questione, gli altri Stati membri e le istituzioni europee. Per quanto riguarda la composizione del Parlamento europeo, l’articolo 14 del Trattato di Lisbona stabilisce il numero massimo dei parlamentari, mentre nulla è stato stabilito su una sua eventuale riduzione: i parlamentari dello Stato membro che esce dalla UE decadono e il numero dei seggi diminuisce. In alternativa i seggi possono essere ridistribuiti tra gli altri Stati membri nell’immediato o dopo le successive elezioni europee. L’articolo 14 stabilisce che a uno Stato membro non possono essere assegnati più di 96 seggi. La decisione di apportare dei cambiamenti alla composizione del Parlamento europeo spetta al Consiglio europeo su iniziativa del Parlamento stesso e con il suo consenso. Nelle procedure di uscita, le parti possono decidere di invalidare gradualmente anche le norme europee che riguardano i programmi di tipo finanziario: al fine di sostituire le norme stabilite dalla UE lo Stato deve approvare per ognuna una nuova legislazione. Gli step principali previsti per il processo di uscita sono i seguenti (il referendum non ha valore legale ma solo consultivo): a) Il Parlamento del Paese deve ratificare con un voto in aula la decisione di

uscita. b) lo Stato membro che decida di uscire deve comunicare formalmente al

Consiglio europeo la sua intenzione di lasciare l’Unione Europea, riferendosi all’art. 50 del Trattato di Lisbona

c) L’Unione negozia e conclude con tale Stato un Accordo. d) Lisbona fissa al massimo 2 anni per negoziare l’Accordo tra lo Stato uscito

e l’Ue. Scaduti due anni, lo Stato uscente è fuori dall’Ue comunque. e) Lo Stato uscente dovrà astenersi dal partecipare alle decisioni dell’Ue così

come i suoi europarlamentari dal voto in aula. Fino all’uscita definitiva il Paese applicherà il diritto Ue.

f) L’accordo è negoziato conformemente all’articolo 218, paragrafo 3 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea. Esso è concluso a nome dell’Unione dal Consiglio che delibera a maggioranza qualificata previa approvazione del Parlamento europeo.

g) Il paese in uscita ha la possibilità di accettare o respingere l’Accordo che sarà sottoposto al voto del Parlamento.

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h) Il Paese uscente e l’Unione Europea dovranno stabilire un nuovo accordo che regoli i loro rapporti commerciali.

1.11.2. Possibili effetti della Brexit Il Regno Unito dovrà rinegoziare 80.000 pagine di accordi con l’UE decidendo le parti da tenere e quelle da escludere nel diritto del Regno Unito. Fondo Monetario Internazionale, agenzie di rating e Bank of England si sono schierati contro l’uscita dall’UE del Regno Unito prevedendo effetti economici fortemente negativi per la Gran Bretagna e negativi per l’UE. Secondo alcuni studi la Brexit potrebbe costare ai contribuenti inglesi circa 313 miliardi di Euro mentre il PIL potrebbe registrare un calo del 14% nell’arco di dieci anni. L’uscita del Regno Unito permette la cancellazione delle spese versate all’UE per la partecipazione al budget europeo, consistenti nello 0,5% del Pil che tuttavia non bilancia la sua diminuzione. In particolare: - va rivista tutta la regolamentazione degli scambi con il Regno Unito che va

ad impattare in numerosi settori dell’economia inglese; - verrà meno la libera circolazione dei cittadini, delle merci e dei capitali e,

di conseguenza, molte aziende anche straniere (cfr Toyota, Nissan, FCA) potrebbero decidere di delocalizzarsi dal Regno Unito dato che è probabile vengano reinseriti i dazi per l’export;

- le startup in UK che beneficiano del mercato europeo composto da 500 milioni di consumatori e con regole uguali per 28 Paesi, potrebbero rivedere la loro localizzazione;

- il settore finanziario potrebbe registrare una diminuzione consistente nel caso in cui istituti finanziari con base a Londra decidessero di spostare le loro sedi nelle capitali finanziarie dell’Eurozona;

- il settore chimico ha perdite stimate in 11%. Gli altri settori più colpiti sarebbero automotive, meccanico e ingegneria;

- per quanto riguarda i rapporti commerciali la Gran Bretagna avrà bisogno di rinegoziare con l’Ue il proprio status commerciale e di rivedere i negoziati commerciali non ancora conclusi dell’UE con Usa, Canada, Giappone, India.

- Per quanto riguarda il mercato del lavoro, circa tre milioni di cittadini dell’Unione europea sarebbero costretti a chiedere un visto e un permesso

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di soggiorno per continuare a lavorare in Gran Bretagna e parallelamente oltre due milioni di inglesi rischiano di perdere il diritto di vivere e lavorare in Europa.

Anche a livello politico si stima che gli effetti siano negativi. L’Irlanda del Nord potrebbe indire un referendum per la secessione, lasciare la Gran Bretagna e ricongiungersi alla repubblica irlandese. La Scozia potrebbe indire un secondo referendum per l’indipendenza, divenendo una nazione sovrana. Il Regno Unito potrebbe ridursi a una Little England composta da Inghilterra e Galles. Le conseguenze economiche della Brexit sull’UE non sono trascurabili: • ripercussioni sul bilancio dell’UE di cui il Regno Unito è il quarto

contributore netto, anche se gode di una riduzione speciale, nota come rebate (sconto). La riduzione, applicata dal 1985, è stata negoziata dal governo di Margaret Thatcher nel Consiglio europeo di Fontainebleu (1984), dato che buona parte del bilancio della Cee allora finanziava la PAC, la politica agricola comune, e il Regno Unito, avendo un settore agricolo di dimensioni limitate, beneficiava delle politiche redistributive in misura minore rispetto ad altri Stati membri.

• Nel 2014 la Gran Bretagna ha contribuito con 13 mld di sterline a un bilancio Ue di 118,9 mld, ricevendo in cambio 4 mld di sterline, per lo più sussidi destinati al settore agricolo.

Effetti negativi anche sotto il versante legislativo. La legislazione proveniente dall’Ue si è stratificata nel sistema d’Oltremanica per quarant’anni: circa il 50% della legislazione britannica con impatto economico significativo deriva da leggi UE. Con il leave il Regno Unito deve riesaminare l’intero corpus delle leggi nazionali e 6.987 Regolamenti europei applicati, alcuni dei quali devono essere sostituiti da leggi britanniche equivalenti.

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2. IL DIRITTO DERIVATO Il diritto derivato è composto dagli Atti unilaterali e dagli Atti convenzionali.

2.1. ATTI UNILATERALI Gli Atti unilaterali sono fonte di diritto per volontà delle istituzioni. Sono adottati dalle Istituzioni sulla base dei Trattati istitutivi dell’Unione europea e classificati in due categorie: ü Regolamento, Direttiva, Decisione, Parere, Raccomandazione; ü gli Atti atipici, ossia Comunicazione, Libri Bianchi, Libri Verdi.

2.1.1. Regolamento Il Regolamento è un atto generale e obbligatorio in tutti i suoi elementi. E’ adottato dal Consiglio dell’UE e dal Parlamento o dalla sola Commissione. E’ direttamente applicabile, cioè crea diritto la cui osservanza si impone immediatamente in tutti gli Stati membri alla stessa stregua di una legge nazionale e senza alcun intervento ulteriore da parte delle autorità nazionali. I Regolamenti emanati dai competenti organi dell’Unione Europea hanno carattere generale, si rivolgono a tutti, e costituiscono una raccolta di norme giuridiche aventi forza di legge ordinaria negli Stati partecipanti all’Unione Europea. Per avere efficacia di legge all’interno dei singoli ordinamenti di ciascun Paese, non devono essere recepiti con un atto interno di ricezione, ossia di una legge che li recepisca e dia loro la forma di Legge nazionale o di altro atto di pari valore giuridico. Entrano in vigore negli ordinamenti interni, dopo l’emanazione da parte dell’organo competente dell’Unione Europea (Comitato dei Ministri o Parlamento), senza nessun’altra formalità. I Regolamenti in Italia hanno pari rango delle Leggi ordinarie e degli altri atti aventi valore di Legge (Decreti Legge, Decreti Legislativi, Leggi regionali, ecc.).

2.1.2. Direttiva Adottata dal Consiglio insieme con il Parlamento o dalla sola Commissione, la Direttiva ha come destinatari gli Stati membri.

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La Direttiva vincola gli Stati membri per quanto riguarda il risultato da raggiungere, ma lascia loro la scelta della forma e dei mezzi per realizzare gli obiettivi comunitari nel quadro del loro ordinamento giuridico interno. Dal punto di vista strettamente formale, la Direttiva non prefigura un atto interno di ricezione. La Direttiva non può fare a meno, per la sua operatività interna, di un atto che indichi le norme di dettaglio di cui essa è carente, necessarie per darle la piena efficacia funzionale. La Direttiva, pur non avendo bisogno di un atto di ricezione formale, non può operare automaticamente all’interno degli Stati membri dell’Unione Europea, perché priva delle norme disciplinanti le modalità da osservare per il conseguimento del risultato fissato dalla stessa Direttiva. La non operatività permane finché non interviene un provvedimento nazionale che stabilisce le norme di dettaglio necessarie per l’applicazione della Direttiva.

2.1.3. Decisione E’ un atto particolare e non generale mediante il quale le istituzioni comunitarie deliberano su un singolo soggetto o verso una categoria definita o definibile di soggetti. Tramite una Decisione, le Istituzioni possono esigere che uno Stato membro dell'Unione agisca o si astenga dall’agire in un certo modo e possono conferire diritti o imporre obblighi.

2.1.4. Libri Bianchi e Libri Verdi Questi documenti sono definiti atti soft law per sottolineare l’autorevolezza e l'ufficialità contrapposte alla loro non obbligatorietà. I Libri Bianchi e i Libri Verdi sono nella tradizione legislativa dell'Unione Europea e, in particolare, della Commissione europea in quanto organo esecutivo dell'Unione, con poteri di elaborare proposte per nuove leggi da sottoporre al Parlamento europeo e al Consiglio dell’UE. Mentre i Libri Verdi espongono una gamma di idee ai fini di un dibattito pubblico, i Libri Bianchi contengono una raccolta ufficiale di proposte in settori politici specifici e costituiscono lo strumento per la loro realizzazione.

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Libro Bianco Sono documenti che contengono proposte di azione comunitaria in un settore specifico. Il Libro bianco è un documento ufficiale della Commissione Europea che in alcuni casi fanno seguito a un Libro Verde pubblicato per promuovere una consultazione a livello europeo. Propone azioni mirate e contiene proposte concrete per legiferare o modificare norme già presenti. Gli argomenti trattati dai Libri Bianchi riguardano le materie su cui l'Unione Europea ha competenza legislativa, contrariamente ai Libri Verdi che possono affrontare tematiche anche non necessariamente legate alle competenze. Libro Verde E’ una comunicazione con la quale la Commissione Europea illustra lo stato di un determinato settore da disciplinare e chiarisce il suo punto di vista in ordine a certi problemi; fa parte dei c.d. atti "atipici" previsti ma non disciplinati dal Trattato CEE. I Libri Verdi sono documenti finalizzati a una consultazione da parte dei soggetti interessati o ai quali la Commissione si rivolge circa un argomento più o meno determinato. Nell'Unione Europea il Libro Verde, (il primo è del 1984) è costituito da un documento di riflessione su un tema politico specifico pubblicato dalla Commissione Europea. I libri Verdi sono documenti destinati a tutti coloro - sia organismi che privati - che partecipano al processo di consultazione e di dibattito. In alcuni casi, hanno rappresentato, in Europa, il primo passo di sviluppi legislativi successivi, tra cui sicuramente i Libri Bianchi. Atti convenzionali Atti convenzionali riguardano: ü gli Accordi internazionali tra l'Unione Europea e un paese terzo o

un'organizzazione terza. Hanno un valore gerarchicamente più alto degli atti unilaterali di diritto derivato che devono essere conformi ad essi. Con l'entrata in vigore del Trattato di Lisbona, l'Unione europea (UE) ha acquisito personalità giuridica. Essa è quindi un soggetto di diritto internazionale in grado di negoziare e di concludere accordi internazionali a nome proprio. Gli accordi internazionali hanno effetti giuridici nel diritto interno dell'UE

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e degli Stati membri.

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III

POLITICHE DELL’UNIONE EUROPEA PREMESSA La politica regionale dell'UE è prevalentemente una politica di investimenti. Sostiene la creazione di posti di lavoro, la competitività, la crescita economica, tenori di vita più elevati e lo sviluppo sostenibile. La politica regionale è anche l'espressione della solidarietà dell'UE nei confronti delle regioni e dei paesi meno progrediti, concentrando le risorse nei settori in cui possono veramente risultare più utili. La politica regionale mira a ridurre le notevoli disparità economiche, sociali e territoriali che continuano ad esistere tra le regioni europee. I fondi strutturali contribuiscono, ad esempio, a migliorare i collegamenti con le regioni più lontane (trasporti, internet), a promuovere le piccole e medie imprese nelle aree svantaggiate, a investire in un ambiente più pulito e a migliorare l'istruzione e le competenze. I fondi europei vanno anche a sostenere l'innovazione, lo sviluppo di nuovi prodotti e metodi di produzione, l'efficienza energetica e gli interventi per contrastare i cambiamenti climatici.

1. POLITICHE DI COESIONE Premessa Dal 1986 l'obiettivo della politica di coesione è rafforzare la coesione economica e sociale dei Paesi membri. Il trattato di Lisbona e la nuova strategia dell'UE (Europe 2020) introducono una terza dimensione: la coesione territoriale. Si tratta di un argomento oggetto di discussione fin dai primi anni novanta, e ogni volta che un nuovo paese entra nell'UE, aumenta la necessità di prestare attenzione all'evoluzione del territorio europeo. Si tratta di: ü sfruttare pienamente i punti di forza di ogni territorio in modo che

possano contribuire al meglio allo sviluppo sostenibile ed equilibrato dell'UE nel suo insieme.

ü gestire la concentrazione. Le città hanno un impatto sia positivo che negativo, in quanto incrementano innovazione e produttività ma allo stesso tempo anche inquinamento ed emarginazione sociale;

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ü collegare meglio i territori. Le persone dovrebbero poter vivere dove desiderano e avere comunque accesso a servizi pubblici, trasporti efficienti, reti di energia affidabili e Internet a banda larga;

ü sviluppare la cooperazione. Gli effetti dei cambiamenti climatici e della congestione del traffico non si fermano ai tradizionali confini amministrativi, pertanto è necessario sviluppare nuove forme di cooperazione tra paesi e regioni. La strategia dell’UE per la regione del Mar Baltico e la strategia dell'UE per la regione del Danubio rappresentano due esempi del nuovo approccio macroregionale.

Il Libro verde sulla coesione territoriale (2008) ha avviato un ampio processo di consultazione che continua tutt'oggi mediante riunioni regolari di esperti provenienti da tutta Europa. La coesione territoriale formerà parte integrante della politica di coesione del ciclo di programmazione 2014-2020. La politica di coesione può migliorare la coesione territoriale: ü favorendo lo sviluppo integrato dei territori, in quanto spazi in cui si

svolge la vita dei cittadini ü promuovendo politiche basate sul territorio mediante un coordinamento

intersettoriale delle politiche e un sistema di governo a più livelli, da quello locale a quello europeo

ü incoraggiando la cooperazione tra territori per rafforzare l'integrazione europea

ü migliorando la conoscenza dei territori, al fine di guidarne lo sviluppo. La politica regionale di coesione dell’Unione europea, basata sulle dimensioni economiche, sociali e territoriali, ha quindi l’obiettivo di ridurre le disparità e i divari regionali dell’Unione Europea. La strategia comunitaria per ridurre le disparità regionali si è evoluta negli anni e può essere schematizzata in tre fasi principali: − Una prima fase, che parte dal Trattato di Roma del 1957 e arriva alla

Conferenza di Parigi del 1972; − Una seconda fase, che si può definire di politica regionale, finalizzata al

raggiungimento di un riequilibrio tra le varie regioni, che va dalla Conferenza di Parigi all’Atto Unico Europeo del 1986;

− Una terza fase, che si può identificare come disegno di politica strutturale contrassegnata dalla riforma dei Fondi strutturali a partire dal 1988.

La politica di coesione ha origine nel Trattato di Roma del 1957.

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In quel testo, i sei Stati (Francia, Germania, Italia, Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo) firmatari dei trattati che istituivano la Comunità economica europea e l'Euratom sottolinearono l'esigenza "di rafforzare l'unità delle loro economie e di assicurare lo sviluppo armonioso riducendo le disparità fra le differenti regioni e il ritardo di quelle meno favorite". A partire dal 1958 vennero quindi istituiti il Fondo sociale europeo (Fse), il Fondo europeo agricolo di orientamento e garanzia (Feaog) e, nel 1975, il Fondo europeo per lo sviluppo regionale (Fesr). Sarà poi l'Atto unico europeo del 1986 a parlare di una vera politica di coesione per riequilibrare gli effetti del mercato unico nel sud Europa e nei paesi più svantaggiati. Il Consiglio europeo di Bruxelles, nel febbraio 1998, riformerà il funzionamento dei Fondi di solidarietà che verranno denominati Fondi strutturali. Infine, il Trattato sull'Unione europea, in vigore dal 1993, ha inserito la politica di coesione tra gli obiettivi fondamentali del processo di integrazione economica europea, insieme all'unione economica e monetaria e al mercato unico. La politica di coesione si basa sul cofinanziamento nazionale o regionale. Si tratta di un sistema che induce gli Stati membri a mantenere il loro impegno di investimento e di crescita anche in periodi di recessione. Inoltre, gli interventi finanziari dell'Unione sono sempre in aggiunta alla ordinaria spesa pubblica degli Stati, secondo il principio dell'addizionalità. Il principio di addizionalità stabilisce che, per assicurare un reale impatto economico, gli stanziamenti dei Fondi Strutturali non possono sostituirsi alle spese pubbliche dello Stato membro. Le risorse dei Fondi che concorrono al conseguimento degli obiettivi della politica comunitaria abbiano carattere aggiuntivo rispetto alle risorse pubbliche nazionali destinate ai medesimi obiettivi. La politica di coesione contribuisce così all'integrazione europea, perché consente di lanciare progetti d'interesse comunitario, oltre i limiti di frontiera. Progetti che favoriscono gli effetti positivi del grande mercato interno e garantiscono uno sviluppo equilibrato nel territorio dell'Unione. Dopo i Consigli europei di Lisbona e di Goteborg, la politica di coesione si è concentrata sui fattori di crescita e competitività individuati in quelle sedi,

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finanziando progetti per creare posti di lavoro e migliorare la qualità della vita e dell'ambiente. Il modello europeo di società prospettato è conforme ai valori della solidarietà: la politica di coesione non trasferisce risorse per aumentare i consumi ma per rafforzare i fattori di crescita economica delle regioni dell'Unione. Gli obiettivi principali sono:

ü l’occupazione, ü l’ambiente, ü le reti transeuropee, ü la ricerca, ü la società basata sulla conoscenza.

Attualmente la politica di coesione è l'unico strumento che consente agli Stati europei, alle regioni e ai partner socioeconomici di programmare il loro sviluppo su un lungo periodo. La programmazione è settennale. Gli Stati e le regioni dispongono di un quadro finanziario pluriennale. La coesione economica e sociale è uno degli obiettivi prioritari dell’Unione europea. Una parte consistente del bilancio comunitario è riservato agli aiuti per le regioni più svantaggiate.

1.1. PRIMA FASE (1957-1972) Successivamente alla fine della Seconda guerra mondiale la rinascita delle economie nazionali europee ha proceduto su due distinti livelli: uno globale ed uno regionale. L’Europa occidentale si è orientata verso un modello regionale d’integrazione, iniziata in particolar modo dalla Francia. La firma del Trattato di Roma nel 1957 ha sancito la nascita della Comunità Economica Europea. La Comunità europea rappresenta il risultato della graduale cooperazione fra gli Stati occidentali d’Europa con il fine di instaurare un mercato unico europeo in cui le merci, i servizi, i capitali e i lavoratori possano circolare liberamente. La vocazione economica della CEE al centro dell’accordo comunitario, era intesa nel senso dell’armonizzazione delle economie degli Stati piuttosto che della loro integrazione, concetto che verrà posto in evidenza solo nel 1991 con il Trattato di Maastricht.

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Nel Trattato di Roma del 1957, quindi, non era fatta menzione della coesione come politica della Comunità, né tanto meno dell’idea di elaborare una vera e propria politica di sviluppo volta a risolvere le questioni relative agli squilibri tra le regioni più prospere e quelle meno ricche o per quelle in ritardo di sviluppo. Il tema delle politiche regionali nella Comunità era apparso già nel 1961 quando si tenne a Bruxelles, ad iniziativa della Commissione, la prima di varie conferenze sulle economie regionali in cui appariva evidente che molte differenze strutturali potevano essere eliminate solo attraverso interventi mirati. Per supportare una politica di questo tipo, nel 1962 venne istituito il Fondo Europeo agricolo di Orientamento e Garanzia (FEAOG) (Cfr. Regolamento (CEE) 25/1962). Nel 1969 la Commissione Europea approfondì le problematiche legate all’esigenza di costruire un grande spazio economico integrato per un equilibrato sviluppo di tutte le regioni. Si inizia a fare riferimento a regioni in ritardo di sviluppo, regioni in declino, regioni frontaliere e ad istituire un sistema basato su un esame periodico della situazione delle regioni di ciascuno Stato membro. Fino alla metà degli anni Settanta non viene definita una politica regionale comunitaria e, di conseguenza, in questa fase le politiche di riequilibrio territoriale sono di esclusiva competenza dei governi nazionali e vengono effettuate soprattutto attraverso forme di incentivazione finanziaria agli investimenti delle imprese in alcune regioni.

1.2. SECONDA FASE (1972-1988) Il rilievo crescente della politica regionale fu messo in evidenza nella Conferenza dei Capi di Stato e di Governo tenutasi a Parigi nel 1972 con particolare riferimento agli squilibri strutturali e regionali che avrebbero potuto pregiudicare la realizzazione dell’unione economica e monetaria ed all’opportunità di creare un coordinamento delle politiche regionali attraverso il Fondo Europeo di Sviluppo Regionale (FESR) istituito nel 1975, che segna l’avvio di una politica comunitaria di sviluppo regionale. Venne così istituito con il regolamento n. 724/75 il Fondo Europeo di Sviluppo

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Regionale (FESR) che segna l’avvio di una politica comunitaria di sviluppo regionale. Da quel momento ha inizio la programmazione di interventi strutturali concentrati in particolari settori da realizzare in zone della Comunità aventi svantaggi strutturali, dei quali il FESR diveniva promotore e cofinanziatore. La programmazione copriva il triennio 1975-1977 e le risorse Finanziarie messe a disposizione erano pari a circa al 4% del bilancio comunitario, da ripartire negli allora nove Stati membri della Comunità. Sebbene alla nascita della politica regionale fosse già possibile utilizzare altri strumenti di intervento regionale stabiliti dal Trattato di Roma, quali il Fondo sociale europeo (FSE) e la Banca Europea per gli Investimenti (BEI), il FESR era il più importante strumento di intervento in quanto: ü Doveva affiancare le azioni nazionali intervenendo unicamente nelle zone

identificate dagli Stati membri in applicazione dei rispettivi regimi di aiuti a finalità regionale.

ü Aveva il fine di correggere i principali squilibri regionali della Comunità, in particolare quelli risultanti dalla prevalenza delle attività agricole, dalle riconversioni e ristrutturazioni industriali e da una sottoccupazione di tipo strutturale.

ü Operava essenzialmente attraverso contributi a fondo perduto agli investimenti, tanto in favore delle attività produttive quanto per la realizzazione di infrastrutture pubbliche, purché connesse alle attività produttive.

Con il Regolamento CEE 2088/85 sono introdotti i Programmi Integrati Mediterranei (PIM), ovvero programmi di sviluppo a medio termine, rivolti al miglioramento delle infrastrutture socioeconomiche delle regioni mediterranee. Al finanziamento dei PIM erano chiamati a concorrere tutti e tre i Fondi strutturali comunitari (FESR, FSE, FEAOG). L’istituzione dei PIM testimonia inoltre il carattere “compensativo” inizialmente assunto dalla politica regionale comunitaria, che tentava di mitigare gli effetti negativi prodotti sul piano del riequilibrio territoriale dall’attuazione delle altre politiche economiche (commerciale, agricola, ecc.), che allora la Comunità stava conducendo in via prioritaria. La sempre maggiore necessità di attivare processi di programmazione per sviluppo equilibrato dei Paesi membri delinea in modo chiaro la volontà di introdurre politiche di coesione economica e sociale per la costruzione

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dell’Unione economica e monetaria, riducendo i divari di tipo economico, sociale, tecnologico tra le regioni dei Paesi membri.

1.3. TERZA FASE - IL NUOVO QUADRO ISTITUZIONALE IN SEGUITO ALLA REVISIONE DEI

REGOLAMENTI RELATIVI AI FONDI STRUTTURALI Le origini della seconda riforma dei Fondi strutturali risalgono al consiglio europeo riunitosi a Maastricht nel dicembre 1991. Nel Trattato di Maastricht, entrato in vigore nel 1993, per la prima volta la coesione economica e sociale è indicata come uno dei “pilastri” della struttura comunitaria. Il Trattato, oltre a confermare i principi fondamentali della riforma del 1988, pone infatti una maggiore enfasi sulla coesione economica e sociale fra regioni povere e regioni ricche dell’Unione, in quanto sostiene che la riduzione dei differenziali di sviluppo rappresenta una condizione necessaria per realizzare l’ambizioso obiettivo dell’Unione economica e monetaria nonché quella politica. Accanto alle Comunità, che costituiscono quello che viene generalmente chiamato il primo “pilastro“, vengono aggiunti due nuovi “pilastri”: − pilastro relativo alla politica estera e di sicurezza comune − pilastro relativo inizialmente alla giustizia e affari interni e ora, a seguito

del Trattato di Amsterdam, alla cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale.

Il principio di sussidiarietà

Il principio di sussidiarietà mira a stabilire il livello d’intervento più pertinente nei settori di competenza condivisa tra l’UE e gli Stati membri. Può trattarsi di un’azione su scala europea, nazionale o locale. In ogni caso, l’UE può intervenire solo se è in grado di agire in modo più efficace rispetto agli Stati membri. In base al principio di sussidiarietà la Comunità ritiene che ai livelli di governo più elevati devono essere demandate soltanto quelle funzioni che garantiscono beni e servizi pubblici che non possono essere forniti efficientemente ad un livello inferiore. Ne deriva che spetta alle competenti autorità nazionali selezionare i progetti da finanziare con i Fondi e garantirne l’attuazione.

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1.3.1. Ciclo di programmazione comunitaria 1994 -1999 Gli obiettivi della programmazione comunitaria 1994 -1999, fissati sulla base della nuova riforma, sono i seguenti: Ob.1: sviluppo e adeguamento strutturale delle regioni in ritardo di sviluppo, comprese le aree rurali. Viene finanziato dal FESR, FSE, FEAOG-Orientamento. Ob.2: riconversione delle regioni (o di parte di esse) gravemente colpite dal declino industriale. Viene finanziato dal FESR e FSE. Ob.3: lotta alla disoccupazione di lunga durata; inserimento professionale dei giovani; integrazione delle persone minacciate di esclusione dal mercato del lavoro, finanziato dal FSE. Ob.4: adattamento dei lavoratori ai mutamenti industriali e all’evoluzione dei sistemi di produzione, finanziato dal FSE. Ob.5a: adeguamento delle strutture agricole (nell’ambito della riforma della PAC) e ristrutturazione del settore della pesca e finanziato dal FEAOG-Orientamento e SFOP. Ob.5b: promozione dello sviluppo e adeguamento strutturale delle zone rurali. Viene finanziato dal FEAOG- Orientamento, FESR, FSE. Ob. 6: per le aree con densità pari o inferiore a otto abitanti per chilometro quadrato di popolazione; esso, coinvolgendo solo lo 0,4% degli abitanti della Comunità.

1.3.2. Il trattato di Amsterdam del 1997 e “Agenda 2000”: ciclo di programmazione 2000-2006

1.3.2.1 Dal Trattato di Amsterdam al Regolamento 1260/1999

Il 17 giugno 1997, ad Amsterdam, i capi di Stato e di Governo dei quindici paesi dell’Unione Europea firmano un nuovo trattato per l’Europa. Sono da raggiungere: − porre come punto focale dell’Unione l’occupazione e i diritti dei cittadini; − eliminare gli ultimi ostacoli alla libera circolazione e rafforzare la

sicurezza; − permettere all’Europa di esercitare una maggiore influenza sulla scena

mondiale; − rendere più efficace l’architettura istituzionale dell’Unione in previsione

del prossimo ampliamento. Alla fine del 1997 sono stati iniziati formalmente i negoziati per l’adesione di

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alcuni paesi candidati dell’Europa centro-orientale (Polonia, Repubblica Ceca, Ungheria, Slovenia ed Estonia) e di Cipro: la storia dell’Unione suggerisce che ad ogni nuovo cambiamento corrisponde una riforma della politica strutturale. Inoltre viene introdotta la moneta unica, di cui si temono, però, le probabili ripercussioni sulle disparità regionali: il timore principale è che il nuovo scenario europeo, delineato dall’adozione dell’unione monetaria moneta, possa, almeno in un iniziale periodo di transizione, indebolire ulteriormente le regioni più deboli, rendendo di fatto ancora più necessarie le politiche di coesione. Un mese dopo l’adozione del Trattato, la Commissione ha presentato un documento denominato “Agenda 2000”, in cui ha espresso le proprie proposte riguardo ai temi sollevati dai risultati del Consiglio di Amsterdam: le prospettive finanziarie per il periodo 2000-2006, il progetto di regolamentazione concernente i Fondi strutturali dopo il 2000, la PAC, nonché una prima analisi delle possibilità di allargamento dell’UE dopo il 2003. Successivamente si è aperto un ampio dibattito che si è protratto fino al Consiglio di Berlino del 1999, in cui è stato raggiunto un accordo politico dopo estenuanti discussioni in quanto si cercava, sostanzialmente, di prevedere un allargamento con notevoli riforme ma senza costi addizionali; di fatto la Commissione proponeva di compensare i costi dell’allargamento attraverso il contenimento delle politiche di coesione già operanti.

Agenda 2000 Il testo di Agenda 2000 contiene le proposte che porteranno ad un’ulteriore modifica della politica di coesione; sono ivi tracciate le iniziative finalizzate ad un rafforzamento della crescita, della competitività e dell’occupazione, a modernizzare le politiche chiave e a estendere, tramite l’adesione di nuovi Stati membri, i confini dell’Unione. Agenda 2000 ribadisce quanto la coesione economica e sociale debba rimanere una priorità politica dell’Unione, tanto più in vista del nuovo allargamento a 25. Proprio in questa prospettiva, include una valutazione dei Paesi candidati dell’Europa centro-orientale e un impatto di tale allargamento sulle politiche dell’Unione. Tra le varie disposizioni contenute in Agenda 2000, nella sua versione originaria del 1997, vi è inoltre una particolare novità rispetto ai bilanci precedenti: un aiuto di pre-adesione per i paesi candidati. Con Agenda 2000 l’impostazione dei Fondi strutturali viene profondamente modificata negli obiettivi, nei contenuti e nella loro organizzazione, anche se i

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Fondi già istituiti rimangono sostanzialmente gli stessi. L’architettura normativa dei Fondi viene semplificata: è previsto un nuovo regolamento generale che comprende tutti i principi comuni dei Fondi strutturali (obiettivi prioritari, metodi di programmazione, gestione finanziaria, valutazione e controllo) e nuovi regolamenti settoriali specifici per ciascun fondo, che contengono le disposizioni che riguardano il funzionamento di ogni singolo strumento finanziario.

1.3.3. Strategia di Lisbona Nell’evoluzione della politica di coesione assumono una particolare rilevanza gli obiettivi che l’Unione si è posta nel marzo del 2000 a Lisbona, in cui si è tenuto un Consiglio Europeo straordinario dedicato ai temi economici e sociali dell'UE. Nell’ambito di questo Consiglio l’Unione stabilisce un nuovo obiettivo strategico decennale, che consiste nel far diventare l’Europa “l'economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo, in grado di realizzare una crescita economica sostenibile con nuovi e migliori posti di lavoro e una maggiore coesione sociale". Tale obiettivo è stato accompagnato da una strategia al fine di attuarlo, la cosiddetta «Strategia di Lisbona», basata su una serie di riforme strutturali e obiettivi intermedi, monitorati nel corso degli anni, negli ambiti dell’occupazione, dell’innovazione, del funzionamento dell’economia e della coesione sociale, che i singoli Stati membri si impegnano a intraprendere. La logica alla base della strategia è che le azioni intraprese da ciascuno Stato membro saranno più efficaci se tutti gli Stati agiranno all’unisono, perché molte sono le esternalità prodotte da tali riforme. Nel giugno 2001 il Consiglio di Göteborg, riunito in sessione straordinaria, ha convenuto di integrare la dimensione sociale dello sviluppo, definita nella Strategia di Lisbona, con gli aspetti della sostenibilità ambientale. Il documento prevede che “Lo sviluppo sostenibile - soddisfare i bisogni dell’attuale generazione senza compromettere quelli delle generazioni future - è un obiettivo fondamentale fissato dai trattati. Il Consiglio di Göteborg ha individuato una serie di obiettivi e misure come orientamento generale per il futuro sviluppo di politiche in quattro settori prioritari: cambiamenti climatici, trasporti, sanità pubblica e risorse naturali,

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integrando in tal modo le decisioni su questioni sociali ed economiche. Data l’ampiezza degli obiettivi, la strategia di Lisbona interviene in una serie di aree nelle quali l’Unione non ha competenza e che, al contrario, sono di esclusiva pertinenza degli Stati. Per la sua realizzazione è, quindi, necessario introdurre un nuovo strumento di coordinamento delle politiche degli Stati membri: il «metodo di coordinamento aperto». Si tratta di un processo che inizia con la formulazione di una serie di linee-guida (guidelines) cui fa seguito l’individuazione dei vari indicatori e di una serie di valori di riferimento (benchmarks), sulla base dei quali sono, poi, preparati i piani nazionali.

1.3.4. Programmazione 2000-2006 La revisione dei Fondi strutturali del 1999 intende rafforzare le innovazioni introdotte nel decennio precedente, avviando, allo stesso tempo, una strategia in grado di accrescere, in modo determinante, i livelli di efficacia degli interventi soprattutto nelle aree in ritardo di sviluppo. Il periodo 2000-2006 è caratterizzato da un processo di semplificazione procedimentale che ha portato, innanzitutto, ad una drastica riduzione degli obiettivi prioritari al fine di ottenere una maggiore concentrazione geografica e finanziaria degli interventi. Mentre nel 1993 erano stati previsti 6 obiettivi prioritari, gli obiettivi sono ridotti da 7 a 3, di cui due di carattere regionale e il terzo di carattere orizzontale, nonché una drastica riduzione della popolazione ammessa agli aiuti strutturali, con un periodo di sostegno transitorio (phasing- out). Quest’ultimo ha la finalità di evitare una brusca interruzione del sostegno finanziario dei Fondi strutturali e mira a consolidare i risultati conseguiti grazie agli interventi strutturali effettuati nel periodo precedente o che devono essere ancora portati a termine Ob.1: rimane sostanzialmente immutato e assorbe l’obiettivo 6. Le regioni ammesse all’ob.1 sono quelle in cui il Pil pro capite è inferiore al 75% della media comunitaria: Grecia, Mezzogiorno d’Italia, vaste regioni di Spagna e Portogallo, Germania Est, contee della parte nord-occidentale dell’Irlanda e alcune aree in Inghilterra e in Austria. Oltre a queste, sono incluse le aree a bassissima densità di popolazione (meno di 8 abitanti per km2) della Svezia e della Finlandia e

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quelle ultraperiferiche (i dipartimenti francesi d’oltremare, madera, le Azzorre e le isole Canarie). Quest’obiettivo è finanziato dal FESR, FSE, FEAOG-Oriantamento, SFOP. Ob.2: ingloba i precedenti obiettivi 2 e 5b. La ripartizione degli stanziamenti dell’Ob.2 fra gli Stati membri è stata effettuata esclusivamente sulla base della popolazione ammissibile. Quest’obiettivo è finanziato dal FESR, FSE. Ob.3: ingloba i precedenti obiettivi 3 e 4. Esso si inquadra nell’ambito della Strategia europea per l’occupazione (SEO) e funge da quadro di riferimento per tutte le azioni a favore delle risorse umane. Questo obiettivo riguarda l’intera Unione, ad esclusione delle regioni obiettivo 1. E’ finanziato dal FSE. Per quanto riguarda i Fondi strutturali, accanto a FESR, FSE, FEAOG- Orientamento, la riforma del 1999 conferma il duplice nesso dello SFOP con la politica di sviluppo regionale e la politica comune della pesca. Esso tuttavia non viene considerato Fondo strutturale a pieno titolo, ma uno strumento che finanzia azioni strutturali nei settori ricordati. Nella logica del principio di concentrazione, i nuovi regolamenti prevedono, per il nuovo periodo di programmazione 2000-2006, una riduzione del numero di iniziative comunitarie da 13 a 4. Le nuove iniziative sono: − INTERREG III: cooperazione transfrontaliera, transnazionale e

interregionale volta ad incentivare uno sviluppo equilibrato dell’insieme dello spazio comunitario. E’ finanziato dal FESR. E’ articolato in: − INTERREG IIIA: programmi di cooperazione transfrontaliera; − INTERREG IIIB programmi di cooperazione trasnazionale − INTERREG IIIC programmi di cooperazione interregionale;

− URBAN II: promozione di uno sviluppo urbano sostenibile attraverso la rivitalizzazione socio-economica delle città e delle periferie in crisi; essa è finanziata dal FESR.

− LEADER: tende a favorire scambi di esperienze fra operatori socio-economici di zone rurali sulle nuove strategie locali di sviluppo sostenibile attraverso iniziative di gruppi d'azione locali (GAL); essa è finanziata dal FEAOG.

− EQUAL: cooperazione transnazionale per promuovere nuove strategie di lotta contro le discriminazioni e le ineguaglianze di ogni genere nell'accesso al mercato del lavoro; essa è finanziata dal FSE.

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1.4. L'attuazione della strategia di Lisbona rinnovata e il ciclo di programmazione 2007-2013

1.4.1. L’attuazione della strategia comunitaria La Strategia lanciata nel Consiglio europeo di Lisbona del 2000 è divenuta un riferimento di grande attenzione per l’economia dello spazio comunitario. La strategia di Lisbona fissa una serie di obiettivi per il 2010, ma già dopo cinque anni si osserva che gli obiettivi intermedi sono ben lontani dall’essere realizzati. Secondo il rapporto Kok (2004) alla base dei risultati insoddisfacenti ci sono quattro motivi: − la Strategia di Lisbona è troppo ampia per poter essere concepita come

una strategia unitaria; − i progressi sono stati inadeguati perché mancata l’assunzione di

responsabilità e la volontà politica da parte dei governi nazionali, molto in ritardo nella trasposizione delle direttive comunitarie;

− non c’è stata coerenza tra strumenti e finalità di Lisbona; − il metodo di coordinamento aperto ha tradito le attese. In questo scenario, sulla base della proposta della Commissione di effettuare una profonda - lancia un chiaro messaggio riguardo alle priorità dell’Unione per i cinque anni successivi: fare dell’Europa un posto più attraente per investire e lavorare; favorire la conoscenza e l’innovazione; creare migliori e più numerosi posti di lavoro. Come già inizialmente previsto, il Consiglio europeo del marzo 2005 ha rilanciato la Strategia di Lisbona prevedendo una nuova forma di attuazione basata su una responsabilità condivisa tra livello comunitario e Stati membri. La Strategia, che ora è chiamata “crescita e occupazione” si basa sostanzialmente sugli obiettivi iniziali ma supera le carenze evidenziate dal “metodo di coordinamento aperto” delle politiche fra gli Stati membri.

1.4.2. Il ciclo di programmazione 2007-2013 Per il periodo 2007-2013 alla politica di coesione è stato dedicato il 35,7 per cento dell'intero bilancio dell'Unione europea: oltre 347 miliardi di euro, di cui 278 destinati ai Fondi strutturali e 70 al Fondo di coesione. Una cifra che costituisce la seconda voce di spesa comunitaria, messa a disposizione delle

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regioni che in questi anni devono affrontare nuove e pressanti sfide, derivate dall’allargamento dell’Ue, dal calo demografico, dalla forte concorrenza dei mercati su scala mondiale, dal rincaro dei prezzi dell’energia, dai cambiamenti climatici. La programmazione 2007-2013 dei Fondi strutturali è organizzata in modo da riportare gli obiettivi di Lisbona all’interno della politica di coesione. Le priorità comunitarie per accrescere le sinergie tra politica di coesione e Strategia di Lisbona vengono individuate attraverso gli Orientamenti Strategici Comunitari (OSC). La trasposizione degli obiettivi di Lisbona a livello regionale e nazionale avviene mediante l’attuazione dei Programmi Operativi regionali (POR) e nazionali (PON), le cui azioni prioritarie proposte devono essere in linea con le finalità di Lisbona Nel nuovo periodo gli obiettivi di politica regionale finanziati da Fondi strutturali e Fondo di coesione non saranno più gli obiettivi 1,2, 3 della gestione 2000-2006. Per il periodo 2007-2013 sono stati indicati: A. l’obiettivo "Convergenza”; B. l’obiettivo "Competitività regionale e occupazione"; C. l’obiettivo "Cooperazione territoriale europea". A. Obiettivo Convergenza Punta a creare le condizioni per favorire la convergenza tra le regioni meno sviluppate dell’Ue e le regioni a economia avanzata. L’obiettivo è accelerare il processo di sviluppo degli Stati membri e delle regioni attraverso il miglioramento dei fattori che determinano crescita e occupazione. Questo obiettivo viene finanziato tramite il FESR, il FES e il Fondo di coesione Nell’Ue a 27 stati questo obiettivo interessa - in 17 Stati membri - 84 regioni con una popolazione di 154 milioni di persone, il cui Pil pro capite è inferiore a 75 per cento della media comunitaria. Inoltre, altre 16 regioni con 16,4 milioni di abitanti il cui Pil supera soltanto di poco la soglia del 75 per cento della media comunitaria. Per queste 16 regioni è prevista il procedimento del phasing out, cioè il processo di esclusione progressiva in base al graduale miglioramento del livello economico. B. Obiettivo Competitività regionale e occupazione Mira ad anticipare i cambiamenti economici e sociali, a promuovere l'innovazione, l'imprenditorialità, la tutela dell'ambiente e lo sviluppo di

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mercati del lavoro anche nelle regioni non oggetto dell'obiettivo "Convergenza". L'obiettivo "Competitività" svolge un ruolo essenziale per evitare l'insorgere di nuovi squilibri a svantaggio di regioni che, altrimenti, verrebbero penalizzate da fattori socioeconomici sfavorevoli senza poter contare su sufficienti aiuti pubblici. Esso è finanziato tramite il FESR e il FES. Tredici regioni fra queste - in tutto 19 milioni di abitanti - rappresentano le cosiddette aree di "phasing-in" e sono oggetto di stanziamenti finanziari speciali. Si tratta delle regioni che nel periodo di bilancio precedente erano catalogate come regioni "Obiettivo 1". Le azioni che rientrano in questo obiettivo possono essere cofinanziate fino al 50 per cento delle spese pubbliche (nazionali e regionali). C. L'obiettivo Cooperazione territoriale europea Ha lo scopo di migliorare la cooperazione a livello transfrontaliero, transnazionale e interregionale nei settori che riguardano lo sviluppo urbano, rurale e costiero, lo sviluppo delle relazioni economiche e la messa in rete delle piccole e delle medie imprese (Pmi). Per questo obiettivo, finanziato tramite il FESR, sono stati stanziati 7,75 miliardi di euro (2,5 per cento del totale), così ripartiti: 5,57 miliardi per la cooperazione transfrontaliera, 1,58 miliardi per la cooperazione transnazionale e 392 milioni per la cooperazione interregionale. Tale obiettivo rappresenta il 2,5 per cento del totale delle risorse disponibili. Le azioni che rientrano nell'obiettivo "Cooperazione territoriale" possono essere cofinanziate fino al 75 per cento delle spese pubbliche.

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1.4.3. I Regolamenti Per il nuovo periodo di programmazione 2007-2013 le procedure complessive per l’operatività dei Fondi strutturali, cioè gli strumenti preposti al raggiungimento degli obiettivi della politica di coesione, sono definite in un pacchetto di cinque Regolamenti adottati dal Consiglio e dal Parlamento europeo nel luglio 2006. Il Regolamento generale delinea i principi, le regole e gli standard comuni per l’attuazione dei tre strumenti di coesione, il Fondo europeo di sviluppo regionale (FESR), il Fondo sociale europeo (FSE) e il Fondo di coesione. Sulla base del principio della gestione condivisa tra l’Unione, gli Stati membri e le regioni tale regolamento fissa, fra l’altro, standard comuni per la gestione, il controllo e la valutazione finanziaria.

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Il regolamento del Fondo europeo di sviluppo regionale (FESR) definisce contenuti, modalità, regole per la promozione degli investimenti pubblici e privati al fine di ridurre le disparità regionali nell’Unione. Il FESR sostiene programmi in materia di sviluppo regionale, di cambiamento economico, di potenziamento della competitività e di cooperazione territoriale su tutto il territorio dell’Ue. Tra le priorità di finanziamento vi sono la ricerca, l’innovazione, la protezione dell’ambiente e la prevenzione dei rischi, e soprattutto nelle regioni in ritardo di sviluppo l’investimento infrastrutturale. Il Regolamento del Fondo sociale europeo (FSE) è attuato in linea con la strategia europea per l’occupazione e si concentra su quattro ambiti chiave: − accrescere l’adattabilità dei lavoratori, degli imprenditori e delle imprese; − migliorare l'accesso all'occupazione e alla partecipazione al mercato del

lavoro; − rafforzare l’inclusione sociale, combattere la discriminazione, agevolare

l’accesso dei disabili al mercato del lavoro; − promuovere partenariati per la riforma nel campo dell'occupazione e

dell’inclusione sociale. Il Regolamento del Fondo di coesione interviene a interventi nei settori dell’ambiente e delle reti di trasporti transeuropee. Esso si attiva per Stati membri aventi un reddito nazionale lordo (RNL) inferiore al 90% della media comunitaria. Riguarda soprattutto i nuovi Stati membri, ma anche la Grecia e il Portogallo. Il quinto regolamento introduce un Gruppo europeo di cooperazione territoriale (GECT), che ha lo scopo di agevolare e a promuovere la cooperazione transfrontaliera, transnazionale e interregionale. Il GECT dispone di personalità e capacità giuridica e può pertanto acquistare e vendere beni o impiegare personale. Possono partecipare al GECT Stati membri, autorità regionali o locali, associazioni e qualsiasi altro organismo di diritto pubblico.

1.4.4. Orientamenti strategici per la coesione Gli Stati membri hanno fissato sulla base delle Linee guida della strategia comunitaria le loro priorità relative alla nuova politica di coesione. Le Linee guida contribuiscono alla realizzazione di alcune priorità comunitarie, fra le quali gli investimenti, l’occupazione, la conoscenza e l’innovazione, la coesione territoriale e la cooperazione. In base agli Orientamenti Strategici della Comunità per la Coesione, ogni

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Stato membro ha presentato un “Quadro di riferimento strategico nazionale” (QSN), strumento per la programmazione dei Fondi per garantire che gli interventi finanziati con i Fondi siano coerenti con gli orientamenti della politica regionale dell’Unione europea e con gli Orientamenti Strategici approvati dalla Commissione. Le dieci priorità definite nel QSN italiano sono in linea con la Strategia di Lisbona, in particolare per le risorse umane, la ricerca e l’innovazione: 1. valorizzazione delle risorse umane 2. promozione e diffusione di ricerca e innovazione 3. sinergia e ambiente: uso sostenibile delle risorse per lo sviluppo 4. inclusione sociale e servizi per la qualità della vita 5. valorizzazione delle risorse naturali e culturali 6. reti e collegamenti per la mobilità 7. competitività dei sistemi produttivi e occupazione 8. competitività e attrattività della città e dei sistemi urbani 9. apertura internazionale e attrazione di investimenti 10. governance I Programmi Operativi (PO) proposti dagli Stati membri alla Commissione europea per ottenere il cofinanziamento dei Fondi strutturali o del Fondo di coesione prevedono attività da svolgere nel periodo gennaio 2007 - dicembre 2013. Un Programma Operativo deve rientrare in uno dei tre obiettivi: Convergenza, Competitività Regionale e occupazione, Cooperazione territoriale. Può beneficiare del finanziamento di un solo Fondo. La Commissione valuta ogni programma proposto per verificare che esso contribuisca a realizzare gli obiettivi e le priorità indicate dal Quadro di riferimento strategico nazionale e dagli Orientamenti Strategici della Comunità per la Coesione. Il ciclo di programmazione 2007-2013 per l’Italia prevede 66 PO. Di questi 42 sono i finanziati dal Fondo Europeo di Sviluppo Regionale (FESR) e 24 dal Fondo Sociale Europeo (FSE). In base alle tematiche affrontate e ai soggetti istituzionali competenti, i Programmi Operativi possono essere: − Nazionali (PON), in settori con particolari esigenze di integrazione a

livello nazionale, la cui Autorità di Gestione è una Amministrazione Centrale (5 FESR, 3 FSE);

− Regionali (POR), multisettoriali, riferiti alle singole regioni gestiti dalle

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Amministrazioni Regionali. Per ciascuna regione c’è un POR FESR e un POR FSE (21 FESR, 21 FSE);

− Interregionali (POIN), su tematiche quali energia, attrattori culturali naturali e turismo in cui risulta efficace un’azione coordinata fra regioni in grado di realizzare economie di scala e di scopo; gestiti dalle regioni, con la partecipazione di centri di competenza nazionale o Amministrazioni centrali

La programmazione operativa 2007-2013 nelle regioni “Convergenza” prevede i seguenti Programmi Operativi Nazionali (PON): − PON Istruzione, − PON Ricerca e Competitività, − PON Sicurezza, − PON Reti per la mobilità, − PON Governance e azioni di sistema, Sono gestiti dalle amministrazioni centrali e cofinanziate, in alcuni casi, da risorse italiane denominate FAS (fondi aree sottoutilizzate). La presenza dei fondi FAS, assegnati dallo Stato italiano e associati ai PON cofinanziati dai Fondi strutturali, assicura un’azione congiunta e integrata su numerose aree tematiche prioritarie in favore di tutte le regioni del Mezzogiorno e delle regioni Competitività.

2. POLITICHE DI ALLARGAMENTO E PREADESIONE

Fasidell’Allargamento1957 -Belgio,Francia,Germania, Italia, LussemburgoePaesiBassi firmano ilTrattatodiRoma che istituisce la Comunità Economica Europea(CEE) e la Comunità Europeadell'EnergiaAtomica(EURATOM)1973–PrimoAllargamento:Danimarca,Irlanda,RegnoUnito1981–SecondoAllargamento:Grecia1986–TerzoAllargamento:PortogalloeSpagna1995-QuartoAllargamento:Austria,FinlandiaeSvezia2004 -Quinto Allargamento ( 1a parte ): Cipro, Repubblica Ceca, Estonia, Lettonia,Lituania,Malta,Polonia,Slovacchia,SloveniaeUngheria2007–QuintoAllargamento(2aparte):Bulgaria,Romania2013-Croazia

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L'allargamento è quel processo in base al quale nuovi stati chiedono di far parte dell'Unione europea tramite un percorso di adeguamento legislativo concordato. Esso è possibile grazie all'ampliamento dei contenuti dei trattati costitutivi delle tre Comunità Europee. Per l'adesione di uno stato europeo all'Unione, questo deve attualmente: ü essere uno Stato europeo (art. 49 TUE) ü rispettare i principi di libertà, di democrazia, di rispetto dei diritti

dell'uomo e delle libertà fondamentali, nonché dello Stato di diritto(art. 6 TUE)

ü rispettare una serie di condizioni economiche e politiche conosciute come criteri di Copenaghen.

Criteri di Copenaghen

Adottati dal Consiglio di Copenhagen del 1993, stabiliscono che i paesi candidati (oltre ad essere uno Stato europeo) devono aver raggiunto: ü istituzioni stabili che garantiscano la democrazia, lo stato di diritto, i

diritti umani, e il rispetto delle minoranze ü l'esistenza di un'economia di mercato funzionante e la capacità di

fronteggiare la competizione e le forze del mercato all'interno dell'Unione

ü la capacità di sostenere gli obblighi derivanti dall'adesione, inclusi l'adesione all'unione politica, economica e monetaria

Nel dicembre 1995, il Consiglio europeo di Madrid ha riformulato i criteri d'accesso richiedendo che i nuovi membri adattino la propria struttura amministrativa e giuridica per fare in modo che la legislazione europea possa essere efficacemente adottata dalla legislazione nazionale. Al fine di facilitare il funzionamento delle istituzioni dell'Unione europea con un numero di stati membri più elevato di quanto inizialmente previsto, il Trattato di Nizza in vigore dal febbraio 2003 ha apportato alle norme comunitarie i necessari adeguamenti soprattutto in termini di numerosità dei rappresentanti degli stati membri all'interno delle istituzioni, funzionamento interno delle istituzioni stesse e maggioranze qualificate necessarie al raggiungimento delle decisioni nelle materie delegate dagli stati membri all'Unione. Il processo di allargamento ha lo scopo di preparare i paesi candidati ad assumere i propri obblighi di Stati membri all’atto dell’adesione, mentre il

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processo di stabilizzazione e associazione è invece volto a ravvicinare gradualmente i potenziali paesi candidati all’Unione. Entrambi sono comunque basati su requisiti molto rigidi e applicati nel rispetto delle esigenze e dei meriti propri di ciascun paese e nell’ambito degli strumenti bilaterali e finanziari definiti allo scopo. L'eterogeneità degli interessi all'interno dell'Unione può provocare forti pressioni per adeguamenti settoriali e regionali. Ciò presuppone l'adozione di adeguate misure prima dell'adesione, quali: ü la riforma del funzionamento delle istituzioni e degli organismi europei; il

trattato di Nizza, in vigore dal febbraio 2003, definisce le modalità di funzionamento dell'Unione europea allargata;

ü l'esigenza per i paesi candidati di recepire l'acquis comunitario e di prepararsi al funzionamento del mercato unico.

A seguito dell’invito formulato dal Consiglio europeo di Madrid (dicembre 1995) che chiedeva il rafforzamento della strategia di preadesione definita ad Essen, ed in conformità al calendario da esso fissato per il processo d’ampliamento, in cui si chiedeva alla Commissione di preparare pareri sulle candidature presentate da trasmettere al Consiglio dopo la conclusione della Conferenza Intergovernativa del 1996-97, la Commissione ha presentato al Parlamento europeo il 16 luglio 1997 la sua comunicazione sulla Agenda 2000. Le proposte della Commissione contenute in Agenda 2000 sono state adottate dal Consiglio europeo di Lussemburgo (dicembre 1997), che ha preso le decisioni necessarie per avviare il processo di ampliamento nel suo insieme. Il Consiglio europeo ha caratterizzato l’ampliamento come un "processo globale, capillare ed evolutivo", che si svilupperà per tappe, a seconda del ritmo di ciascun Paese candidato ed in funzione del suo livello di preparazione. Il Consiglio europeo di Lussemburgo del dicembre 1997 costituisce una pietra miliare per il futuro dell'Unione e dell'intera Europa. Parallelamente al varo del processo di allargamento, il Consiglio europeo ha avviato una riflessione generale sullo sviluppo dell'Unione e delle sue politiche, nell'intento di cercare risposte adeguate alle sfide che si delineano oltre il 2000. Il Consiglio europeo ha adottato una risoluzione sul coordinamento delle politiche economiche per assicurare il completamento dei preparativi per la terza fase dell'Unione economica e monetaria.

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2.1. Processo di adesione 2.1.1. L’Acquis communautaire

L'acquis comunitario (dalla locuzione francese"(droit) acquis communautaire" ovvero "(diritto) acquisito comunitario") è l'insieme dei diritti, degli obblighi giuridici e degli obiettivi politici che accomunano e vincolano gli stati membri dell'Unione Europea e che devono essere accolti senza riserve dai paesi che vogliano entrare a farne parte. I paesi candidati devono accettare l'"acquis" per poter aderire all'Unione europea e per una piena integrazione devono accoglierlo nei rispettivi ordinamenti nazionali, adattandoli e riformandoli in funzione di esso; devono poi applicarlo a partire dalla data in cui divengono membri della UE a tutti gli effetti. L'"acquis comunitario" corrisponde alla piattaforma comune di diritti ed obblighi che vincolano l'insieme degli Stati membri nel contesto dell'Unione europea. Esso è in costante evoluzione ed è costituito da: ü i principi, dagli obiettivi politici e dal dispositivo dei trattati; ü la legislazione adottata in applicazione dei trattati e dalla giurisprudenza

della Corte di giustizia; ü le dichiarazioni e dalle risoluzioni adottate nell'ambito dell'Unione; ü gli atti che rientrano nella politica estera e di sicurezza comune; ü gli atti che rientrano nel contesto della giustizia e degli affari interni; ü gli accordi internazionali conclusi dalla Comunità e da quelli conclusi

dagli Stati membri tra essi nei settori di competenza dell'Unione. I paesi candidati devono accettare l'"acquis" per poter aderire all'Unione europea. Le deroghe all'"acquis" comunitario sono eccezionali e di portata limitata. Per integrarsi nell'Unione, i paesi candidati devono recepire l'"acquis" nei rispettivi ordinamenti nazionali, e quindi applicarlo con decorrenza dalla data in cui la loro adesione è diventata effettiva.

2.1.2. Processo di pre-adesione

Per aderire all'UE il paese europeo richiedente deve rispettare i principi dell'articolo 6, paragrafo 1 del TUE sui quali si fonda l'UE: la libertà, la democrazia, il rispetto dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali e lo stato di diritto. A norma dell'articolo 49 del TUE, ogni paese europeo che desideri aderire all'UE presenta la propria candidatura al Consiglio.

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Prima di prendere la propria decisione, quest'ultimo deve consultare la Commissione e chiedere un parere conforme al Parlamento europeo che si pronuncia alla maggioranza assoluta dei membri che lo compongono. Il Consiglio, allora, decide all'unanimità. Le condizioni dell'adesione e gli adeguamenti dei trattati e delle istituzioni inerenti all'adesione formano oggetto di un accordo tra gli Stati membri e il paese candidato. Questo accordo, o trattato di adesione, è sottoposto alla ratifica di tutti gli Stati contraenti. Qualsiasi domanda di adesione forma oggetto di un parere della Commissione e di una decisione del Consiglio. Una volta riconosciuto lo status di paese candidato al paese richiedente, ciò non contribuisce ad aprire necessariamente delle trattative immediate in vista dell'adesione. Per questo esso deve rispondere a un determinato numero di condizioni. Ogni paese che intenda aderire all'UE deve rispettare i criteri di adesione, o criteri di Copenhagen, in base ai quali la Commissione esprime il proprio parere relativo a qualsiasi domanda di adesione. Questi criteri definiti nel corso del Consiglio europeo di Copenhagen nel 1993 e completati durante il Consiglio europeo di Madrid nel 1995, sono: ü criteri politici: stabilità delle istituzioni che garantiscono la democrazia, lo

stato di diritto, i diritti dell'uomo nonchè il rispetto e la tutela delle minoranze;

ü criteri economici: esistenza di un' economia di mercato valida, una capacità di far fronte alla pressione della concorrenza e alle forze del mercato all'interno dell'UE;

ü capacità di assumere gli obblighi di membro derivanti dal diritto e dalle politiche dell'UE (o acquis), compresa l'adesione agli obiettivi dell'Unione politica, economica e monetaria;

ü aver creato i presupposti per la sua integrazione mediante l'adeguamento delle proprie strutture amministrative.

Inoltre, la capacità di assorbimento dell'UE rappresenta un altro elemento fondamentale per ogni nuovo allargamento. In virtù della capacità di assorbimento (o capacità d'integrazione), l'ampliamento dell'Unione deve essere in grado di approfondire l'integrazione attraverso istituzioni e politiche che funzionano, per essere in grado di accogliere nuovi membri.

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Una volta che i paesi aventi i requisiti di paese candidato soddisfano questi criteri, si possono avviare le trattative d'adesione. Il Consiglio europeo decide sull'opportunità di aprire le trattative sulla base del parere della Commissione. Le trattative d'adesione costituiscono la base del processo di adesione relativo: ü all'approvazione, ü alla realizzazione ü all'applicazione dell'acquis da parte dei paesi candidati. Le trattative d'adesione hanno lo scopo di aiutare i paesi candidati a prepararsi ad essere in grado di far fronte ai loro obblighi di Stati membri una volta che sarà realizzata l'adesione. Le trattative sono condotte individualmente; il grado di preparazione può quindi variare da un paese candidato all'altro. Lo svolgimento delle trattative d'adesione si basa su un quadro di negoziati stabilito dal Consiglio su proposta della Commissione; offre una prospettiva dei negoziati da condurre e tiene conto della situazione e delle caratteristiche specifiche di ciascun paese candidato. Le trattative si basano sull'acquis che è suddiviso in capitoli, di cui ognuno corrisponde a un settore ben preciso. Le trattative iniziano con una fase preparatoria o esame analitico dell'acquis (screening) condotto dalla Commissione. Lo screening intende valutare il grado di preparazione del paese candidato, familiarizzare i paesi candidati con l'acquis e identificare i capitoli da aprire sulla base di criteri di riferimento (benchmarks). Questi criteri di riferimento riguardano tappe preparatorie essenziali per l'allineamento futuro e il rispetto di obblighi contrattuali in virtù degli accordi di associazione legati all'acquis. I negoziati hanno luogo nel quadro di conferenze intergovernative bilaterali che riuniscono da un lato tutti gli Stati membri e dall'altro il paese candidato. I negoziati dell'uno o dell'altro capitolo sono conclusi quando il paese candidato soddisfa i criteri di riferimento (benchmarks) definiti per la chiusura del capitolo (ad esempio misure legislative, istanze amministrative o giudiziarie, aspetti dell'acquis effettivamente realizzati, economia di mercato valida per i

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capitoli economici) e quando accetta il progetto di posizione comune dell'UE, elaborato dalla Commissione e approvato all'unanimità dal Consiglio. Una volta concluse le trattative dell'insieme dei capitoli, il processo di adesione arriva a termine e l'adesione può essere lanciata dalla conclusione di un accordo, il trattato di adesione, fra gli Stati membri e il paese candidato. Il Consiglio, tuttavia, decide all'unanimità di concludere il processo previo parere della Commissione e parere conforme del Parlamento europeo. Il Trattato di adesione ha lo scopo di incorporare: ü il risultato delle trattative di adesione, le condizioni dell'adesione e le

misure di salvaguardia o di rinvio per i settori che necessitano un maggior approfondimento come si evince dall'ultima valutazione della Commissione;

ü l'adeguamento delle istituzioni e dei trattati come la ripartizione dei voti durante le votazioni al Consiglio e al Parlamento europeo o il numero dei deputati europei, dei membri del comitato delle regioni ecc.;

ü la data dell'adesione. Nel corso del periodo successivo alla conclusione del trattato di adesione fino al giorno dell'adesione, il trattato è sottoposto a ratifica dall'insieme degli Stati membri e del futuro Stato membro. Per ciascun processo di adesione e per ogni candidato viene definita una strategia di preadesione. Gli accordi bilaterali conclusi fra l'UE e ogni paese candidato servono da quadro bilaterale al dialogo e alle trattative. I dialoghi politico-economici relativi rispettivamente ai criteri politici ed economici e di convergenza hanno luogo fra l'UE e ogni paese candidato al fine di consolidare il processo. I loro risultati sono integrati alle trattative di adesione. I partenariati per l'adesione formano, per ciascun paese candidato, un quadro individuale allo scopo di aiutarli a preparare la loro adesione. Il partenariato (in inglese partnership) è un confronto tra parti diverse (soggetti pubblici o privati, forze economiche e sociali) sulla realizzazione di interventi finalizzati allo sviluppo economico, allo sviluppo del territorio e all'integrazione sociale.

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Il partenariato è infatti uno dei principi di riferimento della politica europea di coesione economica e sociale. Questo principio è stato introdotto nella normativa di riferimento fin dalla riforma dei fondi strutturali del 1988, ed è stato progressivamente ampliato e rafforzato, soprattutto nella sua pratica applicazione, fino ad assumere la connotazione odierna. Secondo il regolamento generale sui fondi strutturali ne fanno parte, oltre a tutte le autorità pubbliche competenti, anche le parti economiche e sociali, e ogni altro organismo appropriato, in rappresentanza della società civile, i partner ambientali, le organizzazioni non governative e gli organismi di promozione della parità fra uomini e donne. Sempre al regolamento generale sui fondi vanno fatti inoltre risalire due elementi molto importanti che condizionano l’effettiva applicazione di questo principio. Da un lato, infatti, il regolamento stabilisce che il partenariato debba riguardare tutte le fasi di preparazione, attuazione, sorveglianza e valutazione dei programmi operativi. Dall’altro, spetta a ciascuno Stato membro il compito di designare i partner più rappresentativi ai vari livelli e di organizzarne il coinvolgimento, se del caso e conformemente alle norme ed alle prassi vigenti, e nel rispetto delle scadenze fissate per ciascuna fase. In sostanza, le regole comunitarie stabiliscono un principio molto ampio ed impegnativo in materia di partenariato, ma ne subordinano l’effettiva applicazione alle situazioni specifiche di ciascuno Stato membro ed alla volontà delle amministrazioni pubbliche chiamate a metterlo in pratica. Riferimenti al ruolo ed alle funzioni del partenariato socio economico sono inoltre contenute nei Regolamenti del Fondo Sociale Europeo e del Fondo Europeo di Sviluppo Regionale. I partenariati per l'adesione costituiscono anche un quadro di riferimento per l'aiuto finanziario assicurato dai fondi comunitari. I programmi nazionali per l'adozione dell'acquis (PNAA) sono previsti dai partenariati per l'adesione e sono stabiliti da ciascun paese candidato. Presentano un calendario per mettere in atto le priorità definite dal partenariato per l'adesione e le risorse umane e finanziarie assegnate a tal fine. La valutazione della Commissione (sulla base di un monitoraggio) ha inizio al momento della domanda di adesione e prosegue fino a quando il paese candidato non aderisce effettivamente all'UE.

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Questa valutazione costituisce oggetto di relazioni annuali (relazioni regolari) nelle quali la Commissione valuta il grado di preparazione dei paesi candidati ad assumere i loro obblighi di Stati membri. In modo più regolare e complementare alla sua valutazione annua, la Commissione ha messo in atto un processo di controllo dello sviluppo delle trattative di adesione. Questo processo si basa sul quadro di trattative e mira a valutare l'allineamento dei paesi candidati all'acquis e sulla sua applicazione.

2.1.3. Strategia di preadesione rafforzata. Il secondo elemento centrale del processo di ampliamento è la strategia di preadesione rafforzata. La strategia rafforzata di preadesione ha lo scopo di porre tutti i paesi candidati dell'Europa centrale e orientale in grado di divenire, a termine, membri dell'Unione europea e, a tal fine, di allinearsi il più possibile all'acquis comunitario già prima dell'adesione. Con gli accordi europei, che restano la base delle relazioni dell'Unione europea con tali paesi, questa strategia si articola intorno ai partenariati per l'adesione e al rafforzamento dell'aiuto alla preadesione. Il partenariato per l’adesione è lo strumento che costituisce l’asse portante della strategia di preadesione rafforzata con l’obiettivo di riunire tutte le forme di assistenza a favore dei Paesi candidati dell’Europa centrale ed orientale in un unico quadro per l’attuazione di programmi nazionali di preparazione all’adesione all’Unione. L’obiettivo dei partenariati per l’adesione, che non vanno comunque ad interferire con i singoli negoziati in corso con i Paesi candidati, è definire un unico quadro di riferimento che contempli specificamente da un lato le priorità che ciascun Paese candidato dovrà soddisfare per il recepimento dell’acquis comunitario, priorità risultanti dall’analisi della situazione di ciascun Paese in considerazione del soddisfacimento dei criteri politici ed economici, e dall’altro gli strumenti finanziari disponibili a questo fine, ed in particolare il programma PHARE. n.

2.2. Gli strumenti finanziari Il raggiungimento degli obiettivi della strategia di preadesione richiede anche il ricorso a strumenti di sostegno e di aiuto finanziario.

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Strumenti periodo di programmazione 2000-2006 Programma Phare

L'obiettivo del programma Phare si è modificato nel corso degli anni parallelamente alle esigenze che emergevano dalla processo di recepimento dell'acquis. Phare si concentra su due priorità fondamentali: ü Il "potenziamento istituzionale", ossia il rafforzamento della capacità

amministrativa e istituzionale dei paesi candidati, ha promosso la predisposizione a tutti i livelli amministrativi di strutture aventi le competenze e le capacità per elaborare piani regionali di sviluppo pluriennali.

ü Il "sostegno agli investimenti", ossia il finanziamento di investimenti per l'adeguamento delle imprese e delle infrastrutture alle norme europee. A tal fine è destinato il 70% dei 1560 milioni di euro del bilancio Phare.

Programma SAPARD

Il Programma prevede aiuti di preadesione per l'agricoltura che vengono erogati a favore di settori prioritari quali il miglioramento delle strutture di trasformazione, dei circuiti di commercializzazione e del controllo della qualità dei prodotti alimentari. Le misure sono attuate sulla base di programmi nazionali e consentono anche di finanziare progetti mirati di sviluppo integrato a sostegno delle iniziative locali.

Programma ISPA Lo Strumento strutturale di preadesione ISPA interviene essenzialmente a favore di investimenti per infrastrutture nei settori dell'ambiente e dei trasporti.

Programma CARDS Il programma CARDS riguarda l’Assistenza comunitaria per la ricostruzione, lo sviluppo e la stabilizzazione. L'obiettivo del programma CARDS è la partecipazione dei paesi dell'Europa sudorientale al processo di stabilizzazione e di associazione. Il programma punta in particolare: ü alla ricostruzione, ü alla stabilizzazione della regione, ü all'aiuto per il rimpatrio dei profughi e degli sfollati,

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ü al sostegno della democrazia, dello Stato di diritto, dei diritti dell'uomo e delle minoranze, della società civile, dei mezzi d'informazione indipendenti e della lotta contro il crimine organizzato,

ü allo sviluppo di un'economia di mercato sostenibile, ü alla lotta contro la povertà, all'eguaglianza fra i sessi, all'istruzione, alla

formazione e alla protezione dell'ambiente, ü alla cooperazione regionale, transnazionale, internazionale e

interregionale dei paesi beneficiari con gli Stati membri dell'Unione e con altri paesi della regione.

Strumenti periodo di programmazione 2007-2013 Programma IPA 2007-2013

Lo strumento IPA (regolamento (CE) n. 1085/2006 del Consiglio, del 17 luglio 2006) sostituisce gli strumenti di preadesione precedenti Phare, ISPA, SAPARD, lo strumento di preadesione per la Turchia e lo strumento finanziario per i Balcani occidentali, CARDS. Lo strumento IPA si prefigge di fornire un’assistenza mirata ai paesi candidati o candidati potenziali all’adesione all’UE. In particolare, intende principalmente sostenere: ü il rafforzamento delle istituzioni e lo Stato di diritto, ü i diritti umani, comprese le libertà fondamentali, ü i diritti delle minoranze, ü la parità fra uomo e donna e la non discriminazione, ü le riforme sia amministrative che economiche, ü lo sviluppo economico e sociale, ü la riconciliazione e la ricostruzione, ü la cooperazione regionale e transfrontaliera. L’obiettivo di IPA è trasmettere competenze ed esperienze ai paesi beneficiari, migliorandone la titolarità e la responsabilità dell’attuazione dell’assistenza. È previsto che nel ciclo di vita dello strumento la gestione decentrata – vale a dire l’assunzione della piena titolarità della programmazione e dell’attuazione da parte delle autorità nazionali dei paesi beneficiari – diventi la norma della gestione dell’IPA. Il rapido conseguimento di questo obiettivo dipenderà dalle capacità amministrative dei singoli paesi beneficiari e dalla loro capacità di garantire che siano predisposti sistemi di gestione e di controllo adeguati.

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Ogni paese deve di conseguenza disporre di strategie, piani d’azione e tabelle di marcia specifiche per procedere verso tale obiettivo, preparando nel contempo le autorità nazionali a dotarsi delle capacità adeguate all’aumento di responsabilità che ne consegue. I programmi annuali per i paesi candidati potenziali vengono attuati su base centralizzata, concentrandosi sull’assistenza ai paesi che si assumono gradualmente maggiori responsabilità e progrediscono verso la gestione decentrata. Per consentire un'azione mirata, efficace e coerente, l'IPA è costituito da cinque componenti, ciascuna delle quali include delle priorità definite in base alle esigenze dei paesi beneficiari. Due componenti riguardano l'insieme dei paesi beneficiari, ossia: - l’«assistenza alla transizione e al rafforzamento delle istituzioni», che

intende finanziare il rafforzamento delle capacità e delle istituzioni; - la «cooperazione transfrontaliera», il cui obiettivo è sostenere i paesi

beneficiari nell’ambito della cooperazione transfrontaliera, tra di loro, con gli Stati membri dell’UE, o nell’ambito delle azioni transnazionali o interregionali.

Le ultime tre componenti sono destinate esclusivamente ai paesi candidati: - la componente «sviluppo regionale» mira a preparare il paese

all'attuazione della politica comunitaria di coesione, e in modo particolare al Fondo europeo di sviluppo regionale e al Fondo di coesione (Fondo FESR);

- la componente «sviluppo delle risorse umane» riguarda la preparazione alla partecipazione alla politica di coesione e al Fondo sociale europeo (Fondo FSE);

- la componente «sviluppo rurale» concerne la preparazione alla politica agricola comune e alle relative politiche, nonché al Fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale (Fondo FEASR).

In questo modo i paesi candidati si trovano preparati all'attuazione integrale dell'acquis comunitario al momento dell'adesione, mentre i candidati potenziali beneficiano di un sostegno per un allineamento graduale all'acquis. IPA si basa su una pianificazione strategica pluriennale, fondata sulle grandi linee politiche definita dal «pacchetto allargamento» della Commissione, che include oramai un quadro finanziario indicativo pluriennale (QFIP). La pianificazione strategica si articola in seguito in documenti pluriennali indicativi di pianificazione, di cui il QFIP costituisce il quadro di riferimento. Tali documenti sono stabiliti per ciascun paese beneficiario e coprono i

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principali settori d’intervento previsti in quel dato paese. Infine, per quanto riguarda l’azione sul posto, la Commissione adotta i programmi annuali o pluriennali (a seconda della componente nella quale rientrano), basati sui documenti indicativi di pianificazione. Essi sono attuati in base a tre modalità di gestione: gestione centralizzata, gestione decentralizzata oppure gestione condivisa. 3. POLITICHE DI VICINATO

Obiettivo della politica europea di vicinato è condividere i vantaggi dell’UE con i paesi confinanti, riuscendo così a rafforzare la stabilità, la sicurezza ed il benessere di tutti gli interessati. Lo sviluppo delle regioni europee tende ad essere sempre più influenzato dalle dinamiche esterne: confrontarsi con le regioni confinanti e con il contesto internazionale non è più semplicemente un’opportunità di scambio di esperienze e buone pratiche, ma costituisce un elemento chiave del successo delle politiche di sviluppo regionale e di cooperazione transfrontaliera. D’altra parte, al fine di evitare ogni possibile penalizzazione e marginalizzazione delle aree periferiche europee risulta necessario il potenziamento della cooperazione oltre che all’interno dell’Unione allargata anche all’esterno e prevalentemente in ambito mediterraneo. La politica Europea di vicinato (PEV) è fondamentalmente una politica commerciale e di sviluppo comune: è stata istituita per allontanare ogni ipotesi di divisione tra l’UE e i Paesi ad essa prossimi e ha come obiettivo quello di rafforzare la stabilità, la sicurezza e il benessere di tutti i popoli coinvolti. E’ quindi un obiettivo strategico, attraverso il quale l’UE integra le relazioni già esistenti con i paesi partners, fornendo altri tipi di contatti che siano fondati sull’impegno in favore di valori comuni e condivisi (la democrazia, i diritti umani, la good governance, lo sviluppo sostenibile). L’intento è quello di costruire una zona di stabilità, di sicurezza e di benessere per i popoli, attuando riforme di ampio respiro. Coinvolge Algeria, Egitto, Israele, Giordania, Libano, Libia, Marocco, Palestina, Siria, Tunisia a sud. A est, Bielorussia, Moldova e Ucraina. L’Unione Europea fornirà ai paesi partners assistenza tecnica e finanziaria per la realizzazione degli obiettivi, attraverso specifici Piani di Azione definiti con ogni singolo paese: sono previsti anche incentivi per i paesi che riescono a

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dimostrare i progressi raggiunti, in un sistema dialettico e di controllo che prevede il riesame dei singoli processi. L’idea fondamentale è quella di integrare i paesi partners nel mercato unico europeo, armonizzando e regolamentando i liberi scambi, attuando monitoraggi sui progressi dei differenti piani di azione, per ridurre la povertà, per facilitare le riforme strutturali, per migliorare il quadro macro-economico. La politica europea di vicinato è stata concepita per impedire la comparsa di nuove fratture tra l’UE allargata ed i paesi limitrofi, offrendo a questi ultimi la possibilità di partecipare a diverse attività dell’Unione, attraverso una più stretta cooperazione politica, economica, culturale e di sicurezza. Questa iniziativa politica, avviata nel 2003, si prefigge il graduale superamento delle tradizionali relazioni commerciali e di cooperazione, in vista di una più stretta integrazione tra l’UE ed i suoi vicini. Dal punto di vista economico, la politica europea di vicinato offre ai paesi limitrofi: ü un potenziamento delle relazioni commerciali preferenziali, ü una partecipazione al mercato interno dell’UE, ü il miglioramento dell’interconnessione con l’Unione (ad esempio nel

settore dell’energia, dei trasporti e delle telecomunicazioni), ü la possibilità di partecipare ad alcuni programmi dell’UE ü una maggiore assistenza finanziaria e tecnica. Come logica conseguenza del processo di allargamento dell’UE si è avuto il rafforzamento della cooperazione comunitaria con i paesi limitrofi. L’aumento delle frontiere terrestri e marittime e l’estensione del territorio comunitario hanno spinto la Commissione europea ad assegnare maggiore importanza alle componenti di cooperazione transfrontaliera, transnazionale e interregionale nell’ambito delle relazioni tra l’Unione europea e le aree limitrofe. La rinnovata prossimità geografica ha indotto, così, l’Unione ad elaborare una nuova strategia in base alla quale impostare i rapporti con i paesi vicini dell’Est.

3.1. Vantaggi della politica europea di vicinato La maggiore convergenza legislativa e normativa con l’UE, soprattutto in quei settori che rivestono un ruolo cruciale ai fini di un migliore accesso al mercato, dovrebbe determinare una maggiore crescita ed investimenti più elevati,

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soprattutto se accompagnata da una più ampia liberalizzazione degli scambi di servizi e di prodotti agricoli. Rispetto agli attuali accordi quadro tra l’UE ed i suoi vicini, la politica europea di vicinato intende svolgere un ruolo più incisivo di catalizzatore di riforme strutturali e politiche macroeconomiche. I progressi reali continueranno a dipendere dall’impegno dei paesi partner ad avviare riforme sul fronte interno. Ai fini di un’efficace attuazione della politica europea di vicinato, i paesi limitrofi partecipanti dovranno garantire che gli impegni assunti vadano ad integrare le proprie strategie di sviluppo nazionali e siano coerenti con la propria capacità istituzionale e tecnica, mentre l’UE dovrà assicurare l’integrità ed il corretto funzionamento del proprio mercato interno.

3.2. Piani d’azione conclusi nell’ambito della politica europea di vicinato I piani d’azione conclusi con i paesi partner dell’UE sono il fulcro della politica europea di vicinato. Si tratta di documenti politici che delineano gli obiettivi strategici della cooperazione tra l’UE ed i paesi limitrofi. I piani d’azione stabiliscono un elenco esauriente di priorità condivise che devono essere attuate congiuntamente dall’Unione e dai paesi vicini. La promozione della crescita economica attraverso il miglioramento delle condizioni favorevoli ad investimenti sostenuti e ad incrementi di produttività costituisce una priorità assoluta. Altri obiettivi strategici di promozione della crescita previsti dai piani d’azione sono i seguenti: ü raggiungere e mantenere la stabilità macroeconomica attraverso politiche

monetarie e di bilancio ü mettere a punto un quadro di regolamentazione dei servizi finanziari che

migliori l’accesso ai finanziamenti, ai servizi assicurativi e ad altri servizi di natura finanziaria importanti per le imprese

ü rimuovere gli ostacoli amministrativi, legislativi e normativi che si frappongono alla creazione e allo sviluppo delle imprese

ü garantire la sicurezza dei diritti di proprietà, l’esecuzione dei contratti e la tutela degli investitori

ü migliorare la politica di concorrenza ü portare avanti la liberalizzazione degli scambi ü rimuovere le restrizioni ai flussi di capitali

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ü intraprendere riforme istituzionali e giudiziarie, anche attraverso il rafforzamento delle capacità

ü sostenere la ricerca e lo sviluppo e migliorare la qualità dell’istruzione ü combattere la corruzione.

La DG ECFIN contribuisce alla politica europea di vicinato: ü monitorando ed analizzando i progressi economici e finanziari dei paesi

interessati ü guidando i paesi UE ed i paesi della politica europea di vicinato nei

dialoghi economici periodici.

3.3. Conferenza euro-mediterranea di Barcellona (1995). La Conferenza euro-mediterranea dei Ministri degli Affari esteri, svoltasi a Barcellona il 27 e 28 novembre 1995, definisce il quadro delle relazioni politiche, economiche e sociali tra i paesi dell’Unione europea e quelli dell’area mediterranea. Con la Dichiarazione di Barcellona gli Stati firmatari si impegnano a realizzare tre obiettivi principali: ü individuare un’area euro-mediterranea di pace e di stabilità basata sui

principi fondamentali che includono il rispetto dei diritti umani e la democrazia;

ü creare un’area di prosperità condivisa attraverso l’alleanza economico-finanziaria e la progressiva liberalizzazione degli scambi commerciali tra l’UE e i suoi partner e tra gli stessi paesi del Mediterraneo;

ü promuovere l’avvicinamento tra i popoli tramite forme di partenariato sociale e culturale e sviluppare gli scambi fra i rappresentanti della società civile.

3.3.1. Il partenariato euro-mediterraneo

Il partenariato euro-mediterraneo ha rappresentato nella politica della UE verso i paesi mediterranei una tappa fondamentale del processo di integrazione e cooperazione transfrontaliera e ha avuto l’ambizione di creare uno “spazio comune” di cooperazione. Tuttavia, nell’arco temporale di dieci anni circa (1995 – 2004) i risultati raggiunti sono stati modesti, nonostante il progressivo aumento del sostegno finanziario europeo e il raggiungimento di risultati positivi in limitati settori di cooperazione.

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Si sono registrati passi in avanti verso l’apertura commerciale bilaterale, attraverso la sottoscrizione di singoli Accordi di associazione tra i paesi terzi del mediterraneo e l’UE. La liberalizzazione multilaterale per la creazione dell’area di libero scambio tra tutti i paesi terzi meridionali e orientali ha incontrato maggiori ostacoli e un minore interesse da parte degli stessi partner. Il basso sviluppo del commercio tra i paesi della sponda sud rallenta significativamente i potenziali flussi degli investimenti diretti esteri. Le maggiori difficoltà derivano principalmente da fattori politici, tra cui in particolare il ricorrente acuirsi della crisi tra Israele e i Territori palestinesi e la conseguente e perdurante scarsa collaborazione tra la maggior parte degli stati arabi e Israele, che impedisce anche il raggiungimento di accordi per lo sviluppo infrastrutturale dell’area, in termini di costruzione di strade, ferrovie e oleodotti. D’altra parte, i Paesi Terzi del Mediterranei, e specialmente quelli arabi, hanno mostrato una capacità di accrescere la loro penetrazione commerciale sui mercati europei molto modesta e nettamente inferiore a quella dei paesi dell’Europa centro-orientale. A circa dieci anni di distanza dall’avvio del Processo di Barcellona, l’Unione europea si è trovata di fronte a un sostanziale fallimento del partenariato euro-mediterraneo e, a partire dal 2004, a doversi confrontare con il mutato contesto dei propri confini territoriali.

3.3.2. Cooperazione economica e finanziaria del partenariato euromediterraneo MEDA ha costituito un importante strumento della cooperazione economica e finanziaria del partenariato euromediterraneo. Esso consente all'Unione europea di fornire un aiuto finanziario e tecnico ai paesi a sud del Mediterraneo: Algeria, Cipro, Egitto, Israele, Giordania, Libano, Malta, Marocco, Siria, Territori palestinesi, Tunisia e Turchia. Il programma MEDA si sostituisce ai diversi protocolli finanziari bilaterali esistenti con i paesi del bacino mediterraneo. Per assicurare il finanziamento di questo programma è stata istituita una linea di bilancio.

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Gli interventi del programma MEDA mirano a realizzare gli obiettivi dei tre settori del partenariato euromediterraneo: ü il rafforzamento della stabilità politica e della democrazia; ü l'attuazione di una zona euromediterranea di libero scambio e lo

sviluppo della cooperazione economica e sociale; ü l'attenzione alla dimensione umana e culturale. Il programma MEDA ha sostenuto la transizione economica dei paesi terzi mediterranei e l'istituzione di una zona euromediterranea di libero scambio appoggiando le riforme economiche e sociali per l'ammodernamento delle imprese e lo sviluppo del settore privato ponendo l'accento in particolare su: ü il sostegno alle piccole e medie imprese (PMI) e la creazione di posti di

lavoro; ü l'apertura dei mercati; ü la promozione degli investimenti privati, della cooperazione industriale e

degli scambi commerciali tra i diversi partner; ü la modernizzazione delle infrastrutture economiche e dei sistemi

finanziari e fiscali; ü ristabilimento dei grandi equilibri finanziari e creazione di un contesto

economico favorevole all'accelerazione della crescita (sostegno all'aggiustamento strutturale).

3.4. Nuove strategie delle politiche di vicinato Per superare i limiti posti dai diversi sistemi giuridici e finanziari che disciplinano gli strumenti finanziari operanti a supporto della cooperazione transfrontaliera, la Commissione europea ha previsto un approccio in due tempi: ü una prima fase (tra il 2004 e il 2006) operante all’interno del quadro

giuridico esistente; ü un’altra dal 2007 al 2013 che prevede l’istituzione di un nuovo strumento

di prossimità (lo strumento europeo di vicinato e partenariato ENPI–European Neighborhood Partnership Instrument attraverso cui sviluppare azioni di cooperazione transfrontaliera e regionale lungo le frontiere esterne dell’UE in maniera paritaria su entrambi i versanti.

In tal modo risulta possibile elaborare programmi realmente volti ad obiettivi comuni di cooperazione, che prevedano interventi da realizzare congiuntamente al di qua e al di là delle frontiere, utilizzando contestualmente

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gli strumenti finanziari che operano dall’uno e dall’altro lato del confine comunitario.

Processo di Barcellona: Unione per il Mediterraneo (2008). Alla luce del processo di valutazione dei risultati di più di dieci anni di cooperazione nell’ambito del partenariato euro-mediterraneo, il recente progetto “Processo di Barcellona: Unione per il Mediterraneo” mira ad elevare il livello politico delle relazioni tra l’Unione Europea e i partner mediterranei, ad aumentare le relazioni multilaterali, a raggiungere risultati tangibili attraverso progetti regionali e sub-regionali in settori ritenuti strategici per tutto il bacino e ad imprimere un ulteriore impulso alle relazioni (bilaterali e multilaterali) dell’Unione con i Paesi Terzi del Mediterraneo, attraverso un ampliamento del quadro di cooperazione. Il progetto si caratterizza per una dimensione più realistica e democratica rispetto alle azioni precedenti: ü prevede la realizzazione di progetti concreti, e non più di politiche; ü amplia la partecipazione a 43 Paesi (i 27 Paesi dell’UE e tutti i Paesi della

sponda sud) e stabilisce una doppia presidenza di turno (un partner del Nord e uno del Sud), con l’idea di favorire il superamento della grave asimmetria esistente tra le due sponde del Bacino.

Il progetto “Unione per il Mediterraneo” segna una svolta decisiva nell’interazione con i partner della sponda sud e prospetta uno spazio geopolitico mediterraneo, basato sull’ipotesi che l’incontro di realtà differenti e di azioni comuni su tematiche omogenee possa favorire la concorrenza e rendere possibile il superamento di tensioni tra forze contrapposte. Quanto ai contenuti, il Progetto “Processo di Barcellona, Unione per il Mediterraneo” si prefigge l’obiettivo ambizioso di elaborare un’agenda euro-mediterranea, con dinamiche complementari e compatibili con il Processo di Barcellona avviato nel 1995. L’iniziativa avviata con il Vertice di Parigi del 13 luglio 2008 si fonda su processi economici già in atto e potrà contribuire, perciò, a realizzare la completa integrazione dei mercati, rafforzare il ruolo degli attori economici, favorire la coesione in campo politico e sociale.

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3.5. ENPI–European Neighborhood Partnership Instrument, 2007-2013 La Politica Europea di Vicinato (PEV) riguarda i Paesi confinanti con l'UE ed ha l’obiettivo di costruire una zona di stabilità, sicurezza e benessere. Lo strumento europeo di partenariato e vicinato ENPI si basa sul regolamento (CE) 1638 del 2006, finanzia attività volte al raggiungimento degli obiettivi della PEV oltre a quelli del partenariato strategico con la Russia. ENPI prevede tre dimensioni: ü cooperazione interregionale, ü cooperazione transfrontaliera ü cooperazione tematica. La cooperazione Interregionale prevede un Programma di Strategia Regionale unico per l'intera area di cooperazione e identifica quattro priorità: A. Promozione delle riforme attraverso la consulenza e le competenze

europee: prevede forme di assistenza tecnica e scambi di informazione attraverso TAIEX e sostegno al miglioramento della governance e dei processi di gestione con SIGMA;

B. Promozione dell'alta formazione e mobilità degli studenti; C. Promozione della cooperazione tra gli attori locali e regionali dei Paesi

partners ed i Paesi dell'Unione Europea; D. Sostegno all'attuazione della Politica di Vicinato e al Partenariato

Strategico con la Russia.

3.5.1. Campo d’applicazione dell’ENPI L’ENPI sostiene: ü le riforme politiche: creazione e adeguamento delle capacità istituzionali e

amministrative, buon governo, Stato di diritto, rispetto dei diritti umani, partecipazione della società civile, dialogo multiculturale e lotta contro la frode, la corruzione, la criminalità organizzata e il terrorismo;

ü le riforme economiche: sviluppo economico, economia di mercato, intensificazione degli scambi e ravvicinamento normativo all’UE in settori di interesse comune ai fini di una progressiva integrazione economica nel mercato interno;

ü le riforme sociali: integrazione, occupazione, non discriminazione, lotta contro la povertà;

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ü la cooperazione settoriale, segnatamente per i settori di interesse comune: ambiente, sviluppo sostenibile, energia, trasporti, telecomunicazioni, salute, sicurezza alimentare, istruzione e formazione, ricerca e innovazione;

ü lo sviluppo regionale e locale e l’integrazione regionale (regione euromediterranea e regione dell’Europa orientale) e subregionale;

ü la partecipazione ai programmi e alle agenzie comunitari. L’ENPI può inoltre fornire sostegno alle missioni di osservazione elettorale, in seguito a crisi e per la preparazione a far fronte alle calamità. Le misure che beneficiano dell’ENPI riguardano essenzialmente: ü la realizzazione dei programmi e progetti, ü l’assistenza tecnica e la cooperazione amministrativa. Tali misure possono consistere in misure di sostegno all’applicazione del regolamento.

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IV POLITICHE DELL’UNIONE EUROPEA PER IL CICLO DI

PROGRAMMAZIONE 2014-2020 PREMESSA Nel marzo 2010 la Commissione Europea (CE) ha elaborato la strategia EUROPA 2020 “per una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva”. Con questo documento la CE propone gli obiettivi e i criteri generali per la programmazione 2014-2020, affrontando grandi sfide quali l’uscita dalla crisi, la globalizzazione delle relazioni economiche, il cambiamento climatico, la scarsità delle risorse (acqua, energia, materie prime), l’evoluzione demografica, i contrasti sociali. Europa 2020 si incardina su tre priorità, concepite per rafforzarsi a vicenda: − crescita intelligente: sviluppare un'economia basata sulla conoscenza e

sull'innovazione; − crescita sostenibile: promuovere un'economia più efficiente sotto il

profilo delle risorse, più verde e più competitiva; − crescita inclusiva: promuovere un'economia con un alto tasso di

occupazione che favorisca la coesione sociale e territoriale. Le tre priorità, nell’intenzione della Commissione, delineano un “quadro dell'economia di mercato sociale europea per il XXI secolo”. Il perseguimento di queste priorità deve portare al raggiungimento di Obiettivi generali entro il 2020:

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A. Occupazione (innalzamento al 75% del tasso di occupazione (per la fascia di età compresa tra i 20 e i 64 anni)

B. R&S (aumento degli investimenti in ricerca e sviluppo al 3% del PIL dell'UE)

C. Cambiamenti climatici e sostenibilità energetica (riduzione delle emissioni di gas serra del 20% (o persino del 30%, se le condizioni lo permettono) rispetto al 1990 20% del fabbisogno di energia ricavato da fonti rinnovabili aumento del 20% dell'efficienza energetica

D. Istruzione (Riduzione dei tassi di abbandono scolastico precoce al di sotto del 10%, aumento al 40% dei 30-34enni con un'istruzione universitaria

E. Lotta alla povertà e all'emarginazione (almeno 20 milioni di persone a rischio o in situazione di povertà ed emarginazione in meno)

Per favorirne la realizzazione la Commissione presenta Iniziative Faro per catalizzare i progressi relativi a ciascun tema prioritario: a) "L'Unione dell'innovazione". b) "Youth on the move". c) "Un'agenda europea del digitale". d) "Un'Europa efficiente sotto il profilo delle risorse. e) "Una politica industriale per l'era della globalizzazione. f) "Un'agenda per nuove competenze e nuovi posti di lavoro. g) "Piattaforma europea contro la povertà" Il percorso parte dal Quadro Strategico Comune (Common Strategic Framework) elaborato dall’UE al quale si ispirano i singoli Stati membri per mettere a punto i Contratti di Partenariato (Partnership Contract) che definiscono a livello nazionale obiettivi e strategia per l’utilizzo dei Fondi nel loro complesso. Sulla base dei contenuti fissati nel Contratto di Partenariato sono implementati i POR, cioè i Programmi operativi (Operational Programmes) dei singoli fondi a livello regionale, ovviamente tenuto conto delle indicazioni contenute nei rispettivi regolamenti. Questa impostazione rafforza il livello nazionale rispetto ai cicli di programmazione precedenti e mira a una maggiore sinergia e coerenza dei singoli POR all’interno della strategia nazionale. Un aspetto qualificante della proposta dell’UE è la concentrazione delle risorse dei Fondi rispetto ad alcune priorità fondamentali.

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Gli Obiettivi tematici discendono dalle tre priorità generali di Europa 2020 (crescita intelligente, sostenibile e inclusiva). Tali obiettivi sono ripresi dal Quadro Strategico Comune e rappresentano i cardini fondamentali della strategia UE per i Fondi 2014-2020. Al fine di promuovere approcci integrati in materia di sviluppo territoriale, la proposta di regolamento orizzontale prevede meccanismi destinati a facilitare lo sviluppo degli approcci a livello locale e subregionale. Si tratta in sostanza del metodo Leader, da tempo utilizzato in ambito rurale per impostare e attuare piani di sviluppo locale (che si conferma obbligatorio nel caso del FEASR e al quale è attribuita una riserva di risorse di almeno il 5%) e degli Investimenti territoriali integrati (ITI) per il FESR, il FSE e - nelle aree in cui opera - il Fondo di coesione. Questi due strumenti hanno lo scopo di impegnare i soggetti regionali e locali e le collettività locali nell'attuazione dei programmi. La proposta di regolamento orizzontale introduce inoltre nuovi meccanismi per incoraggiare lo sviluppo di operazioni integrate. Ciò consente a un beneficiario unico di attuare congiuntamente un certo numero di progetti a partire da diverse fonti dei Fondi del QSC e, in taluni casi, con altri strumenti dell'Unione.

1. IL QUADRO STRATEGICO COMUNE (QSC) Il Quadro Strategico Comune è stato proposto dalla UE nel marzo 2012. Il QSC è inteso dall’UE come uno strumento per assicurare una programmazione strategica coerente per tutti i Fondi, un quadro di riferimento unitario che assicuri il raggiungimento dei target di Europa 2020.. Il QSC si incardina sugli 11 obiettivi tematici introdotti dal Regolamento Orizzontale. Per ciascuno di essi, definisce: Ø le azioni-chiave, cioè le possibili linee di intervento implementabili dai

singoli Fondi; Ø una serie di principi generali per l’impostazione della strategia; Ø i criteri di coordinamento e integrazione tra i Fondi e tra questi e le altre

iniziative gestite direttamente dall’UE. Nella pagina seguente si trova uno schema che sintetizza:

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Ø il legame tra gli obiettivi e le tre priorità fondamentali di Europa 2020; Ø il rapporto di ciascun obiettivo con i principali Fondi; Ø alcune indicazioni di complementarietà con altre rilevanti politiche

europee.

2. APPROCCIO PLACE-BASED PER LA MOBILITAZIONE DELLE CONOSCENZE E DEGLI

ATTORI LOCALI E LO SVILUPPO DI INTERVENTI INTEGRATI Uni dei pilastri della pianificazione delle politiche di coesione sociale a livello UE per il ciclo 2014-2020 consiste nell’adozione di approcci place-based per promuovere sperimentazioni e mobilizzare gli attori locali. Il riconoscimento del ruolo chiave del contesto locale si traduce nella promozione di interventi in grado di attivare e aggregare conoscenze e preferenze in determinate aree target in contrasto con il precedente paradigma alla base delle politiche di sviluppo che era fortemente centrato sui sussidi alle imprese per colmare i gap di sviluppo socio economico e su interventi a carattere settoriale e che, assumendo fosse possibile una replicazione delle buone prassi, utilizzava modelli di tipo top down. Le politiche di sviluppo place-based vengono definite in funzione dei loro scopi, dei livelli di autonomia nella scelta dei mezzi e nei processi di integrazione attivati e della relazione tra livello di governo, istituzioni centrali e periferiche, rispetto al controllo delle risorse economiche. I programmi di sviluppo locale, mirati a promuovere coesione sociale e contrastare processi di marginalità sociale, sono per definizione politiche place-based, e vengono identificate da: Ø Una strategia di sviluppo a lungo termine i cui obiettivi sono la riduzione

delle inefficienze intese come sottoutilizzazione dei potenziali esistenti, e la riduzione delle ineguaglianze, rispetto standard di benessere e disparità tra gruppi sociali, di specifici contesti;

Ø Politiche che attraverso l’aggregazione di preferenze e conoscenze locali e istituzioni per la partecipazione politica disegnano e implementano un insieme di servizi e beni integrati e mirati alle specificità dei contesti;

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Ø Promosse da attori esterni al contesto locale attraverso un sistema di multilevel governance dove i sussidi soggetti a condizionalità sono trasferiti dal più alto al più basso livello di governo.

Una criticità segnalata da questo tipo di politiche riguarda la necessità di bilanciare meglio la creazione di sistemi di incentivi per gli attori locali a scambiare informazioni, rischiare e investire’ con, d’altro canto, la necessità di evitare che le misure di intervento pubblico vengano ‘catturate’ dagli interessi di tali attori. Per incoraggiare azioni integrate a livello territoriale nell’attuazione dei Fondi del QSC, il Regolamento generale individua due tipologie di strumenti: ü lo sviluppo locale di tipo partecipativo (Community-Led Local

Development), da attuarsi attraverso forme di partenariato che coinvolgano localmente i soggetti del settore pubblico, del settore privato e della società civile (approccio Leader) obbligatorio per l’attuazione del FEASR, facoltativo per FESR, FSE e FEAMP (Reg. Gen. artt. 28-31)

ü gli investimenti territoriali integrati (ITI), strumenti che permettono di raggruppare in una strategia d’investimento, per un territorio o un settore funzionale, i finanziamenti provenienti da più assi e programmi operativi (solo FESR, FSE e Fondo di Coesione). Attraverso questi potranno essere attuate le strategie di Sviluppo Urbano Integrato Sostenibile (Reg. Gen. art. 99)

2.1. Sviluppo locale partecipativo 2.1.1. Caratteristiche generali

Lo sviluppo locale di tipo partecipativo è caratterizzato dai seguenti elementi (Reg. Gen. art. 28): − concentrazione su territori sub regionali specifici: l’ambito territoriale

dovrà avere una massa critica sufficiente per implementare una strategia di sviluppo locale fattibile e essere abbastanza circoscritto per permettere l’interazione tra gli attori locali

− attuazione da parte delle comunità locali attraverso forme di partenariato che rappresentano gli interessi socioeconomici pubblici e privati dell’area

− implementazione tramite strategie territoriali di sviluppo integrate e multisettoriali elaborate tenendo conto dei bisogni e delle potenzialità locali, come anche degli elementi innovativi, della presenza di reti

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collaborative e di forme di cooperazione − un utilizzo integrato, coerente e coordinato dei fondi per l’attuazione

delle strategie Nel corso degli ultimi 20 anni l’approccio LEADER (1) allo sviluppo locale di tipo partecipativo, basato sull’esperienza di un’iniziativa finanziata dai Fondi Strutturali dell’UE e ideato per aiutare gli operatori rurali a considerare il potenziale a lungo termine della propria area, ha dimostrato la sua efficacia come strumento per l’attuazione di politiche di sviluppo. La Commissione europea ha promosso questo metodo di attuazione anche attraverso altre iniziative comunitarie, come URBAN ed EQUAL. Nel caso del programma LEADER, che ha ricevuto il supporto continuo dell’UE dal 1991, è diventato un elemento importante della politica di sviluppo rurale con un alto livello di accettazione in tutta Europa. Il progetto di regolamento per il futuro sviluppo locale di tipo partecipativo è basato sull’approccio LEADER e riguarda tutti i fondi coperti dal quadro strategico comune (Fondo europeo di sviluppo regionale, Fondo sociale europeo, Fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale, Fondo europeo per gli affari marittimi e la pesca) per il periodo di programmazione 2014-2020. Lo sviluppo locale di tipo partecipativo è uno strumento specifico da utilizzare a livello subregionale unitamente ad altre misure di sostegno allo sviluppo a livello locale. Tale strumento può mobilitare e coinvolgere le organizzazioni e le comunità locali affinché contribuiscano al conseguimento degli obiettivi della Strategia Europa 2020 per una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva, alla promo- zione della coesione territoriale e al raggiungimento di obiettivi politici specifici. La Commissione propone una singola metodologia relativa allo sviluppo locale di tipo partecipativo per i fondi QSC che: − focalizzi l’attenzione su territori subregionali specifici; − sia di tipo partecipativo, con il coinvolgimento di gruppi di azione locale

costituiti da rappresentanti degli interessi socioeconomici locali pubblici e privati;

− sia messa in atto tramite strategie di sviluppo locale basate sull’area integrate e multisettoriali, concepite prendendo in considerazione le potenzialità e le esigenze locali;

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− includa caratteristiche innovative nel contesto locale, l’istituzione di una rete e, dove opportuno, la cooperazione. Questa metodologia unica consentirà un utilizzo integrato dei Fondi per l’attuazione di strategie di sviluppo locale.

Lo scopo principale della proposta della Commissione è semplificare ed espandere l’uso dello sviluppo locale di tipo partecipativo come strumento di sviluppo. Le proposte di questo strumento: − incoraggeranno le comunità locali a sviluppare approcci dal basso

integrati nei casi in cui sia necessario rispondere a sfide territoriali e locali che richiedono un cambiamento strutturale;

− svilupperanno capacità comunitarie e stimoleranno l’innovazione (inclusa l’innovazione sociale), l’imprenditorialità e la capacità di cambiamento incoraggiando la valorizzazione e l’individuazione di potenzialità non sfruttate nelle comunità e nei territori;

− promuoveranno il senso di appartenenza comunitario incrementando la partecipazione all’in- terno delle comunità e sviluppando il senso di coinvolgimento che può aumentare l’efficacia delle politiche dell’Unione europea;

− supporteranno la governance a più livelli indicando alle comunità locali il percorso da seguire per partecipare appieno all’implementazione degli obiettivi dell’Unione europea in tutte le aree.

2.2.2. Principali componenti dello sviluppo locale di tipo partecipativo

I gruppi di azione locale dovrebbero essere costituiti da rappresentanti degli interessi socio-economici locali pubblici e privati, ad esempio imprenditori e relative associazioni, autorità locali, associazioni di quartiere o rurali, gruppi di cittadini (minoranze, anziani, donne, uomini, giovani, imprenditori e così via), organizzazioni collettive e di volontariato e così via. Le strategie di sviluppo locale devono essere conformi ai programmi pertinenti dei fondi QSC tramite i quali sono supportate. Esse dovrebbero definire l’area e la popolazione interessate, includere un’analisi delle esigenze di sviluppo e del potenziale dell’area, compresa un’analisi dei punti di forza e di debolezza, delle opportunità e dei rischi (SWOT Analysis – Strengths, Weaknesses, Opportunities and Threats), e descrivere gli obiettivi e il carattere integrato e innovativo della strategia, inclusi i risultati previsti. Le strategie devono inoltre includere un piano di azione che descriva come

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convertire gli obiettivi in progetti concreti, disposizioni per la gestione e il monitoraggio e un piano finanziario. La copertura in termini di area e popolazione di una determinata strategia locale deve essere coerente e mirata e offrire una massa critica sufficiente per un’implementazione efficace. Spetta ai gruppi di azione locale definire la popolazione e le aree effettive coperte dalle strategie, che devono essere tuttavia conformi ai criteri definiti dalla Commissione tramite un atto delegato.

2.2. Investimenti Territoriali Integrati L’ITI è uno strumento per l’implementazione di strategie territoriali di tipo integrato. Non si tratta di un intervento né di una sub-priorità di un programma operativo. L’ITI consente agli Stati membri di implementare programmi operativi in modo trasversale e di attingere a fondi provenienti da diversi assi prioritari di uno o più programmi operativi per assicurare l’implementazione di una strategia integrata per un territorio specifico. Come tale, l’esistenza dell’ITI fornisce flessibilità agli Stati membri per quanto concerne la progettazione di programmi operativi e consente l’implementazione efficiente di azioni integrate mediante un finanziamento semplificato. È importante sottolineare che gli Investimenti territoriali integrati possono essere utilizzati in maniera efficiente se la specifica area geografica in questione possiede una strategia territoriale integrata e intersettoriale. Gli elementi chiave di un ITI sono i seguenti: − Territorio designato e strategia di sviluppo territoriale integrata. È

essenziale sviluppare una strategia di sviluppo integrata e intersettoriale che si rivolga alle esigenze di sviluppo dell’area in questione. La strategia dovrebbe essere progettata in modo che le iniziative possano essere costruite sulle sinergie prodotte da un’implementazione coordinata. Qualsiasi area geografica con caratteristiche territoriali particolari può essere oggetto di un ITI, da quartieri urbani specifici con molteplici svantaggi a livello urbano, metropolitano, urbano-rurale, sub-regionale o interregionale. Un ITI può anche offrire iniziative integrate in unità con caratteristiche simili all’interno di una regione, anche se distanti dal punto di vista geografico (ad esempio, una rete di città di piccole o medie

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dimensioni). − Pacchetto di iniziative da implementare. Le iniziative da implementare

mediante l’ITI dovranno contribuire agli obiettivi tematici dei rispettivi assi prioritari dei programmi operativi partecipanti, nonché agli obiettivi di sviluppo della strategia territoriale. Possono essere finanziate dal Fondo europeo di sviluppo regionale (FESR), dal Fondo sociale europeo (FSE) e dal Fondo di coesione, ma non è obbligatorio combinare tutti i fondi in ciascun ITI.

− Accordi di governance per gestire l’ITI. L’autorità di gestione del programma operativo ha la responsabilità ultima della gestione e dell’implementazione delle operazioni di un ITI. Tuttavia, può designare organismi intermediari, inclusi autorità locali, organismi di sviluppo regionale oppure organizzazioni non governative per adempiere ad alcune o a tutte le attività di gestione e implementazione.

2.3. Le città Le città sono i motori dell’economia europea e possono essere considerate catalizzatori di creatività e innovazione dell’UE. Il 68% circa della popolazione europea risiede in una regione metropolitana; le regioni metropolitane generano il 67% del PIL dell’Unione europea. Al tempo stesso, tali regioni rappresentano anche i luoghi in cui problemi persistenti quali disoccupazione, segregazione e povertà sono più accentuati. Le politiche perseguite sulle aree urbane rivestono quindi un significato più ampio per l’Unione europea nel suo complesso. Le molteplici dimensioni – ambientale, economica, sociale e culturale – della vita urbana sono intrecciate tra loro, pertanto uno sviluppo urbano positivo può essere conseguito solo mediante un approccio integrato. È necessario coniugare misure concernenti il rinnovamento materiale urbano con misure intese a promuovere l’istruzione, lo sviluppo economico, l’inclusione sociale e la protezione ambientale. Le proposte della Commissione europea per la politica di coesione 2014-2020 mirano a promuovere politiche urbane integrate per intensificare lo sviluppo urbano sostenibile con l’intento di rafforzare il ruolo delle città nel quadro della politica di coesione.

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In particolare: − Strategie di investimento integrate, con un approccio più strategico: Il

Fondo europeo di sviluppo regionale (FESR) si ispira a un principio di base: supportare lo sviluppo urbano sostenibile per mezzo di strategie integrate per far fronte alle sfide economiche, ambientali, climatiche e sociali delle zone urbane. I progetti per le aree urbane finanziati dal FESR devono essere integrati per rispondere agli obiettivi più ampi previsti dai programmi. Gli Stati membri dell’Unione europea si adoperano per utilizzare il Fondo sociale europeo (FSE), in sinergia con il FESR, allo scopo di sostenere misure correlate all’occupazione, all’istruzione, all’inclusione sociale e alla capacità istituzionale, progettate e realizzate nell’ambito di strategie integrate.

− Piattaforma per lo sviluppo urbano: Sulla base dell’elenco di città predisposto dagli Stati membri nell’ambito del loro contratto di partenariato, la Commissione istituirà una piattaforma per lo sviluppo urbano comprendente 300 città europee al fine di stimolare un dialogo sullo sviluppo urbano tra le città a livello europeo e la Commissione stessa che sia più orientato alle politiche. Non si tratta di uno strumento di finanziamento, bensì di un meccanismo per rendere più visibile il contributo delle città alla strategia Europa 2020 grazie alla semplificazione di azioni integrate e innovative per lo sviluppo urbano sostenibile e alla tesaurizzazione dei risultati così c-on seguiti.

− Azioni innovative in ambito urbano. Su iniziativa della Commissione, il FESR può sostenere azioni innovative nel campo dello sviluppo sostenibile, al fine di promuovere soluzioni inedite e innovative per lo sviluppo urbano sostenibile. Tali azioni consistono in progetti pilota urbani, progetti dimostrativi e i relativi studi aventi rilevanza a livello europeo. La loro sfera di azione potrebbe interessare tutti gli obiettivi tematici e le priorità di investimento.

− Maggiore centralità dello sviluppo urbano a livello strategico Sulla base degli orientamenti del quadro strategico comune (QSC), i contratti di partenariato stabiliscono le modalità per garantire un approccio integrato all’utilizzo dei fondi nell’ambito del QSC per lo sviluppo sostenibile delle aree urbane. I programmi operativi definiscono il contributo all’approccio integrato per lo sviluppo territoriale, compreso, se del caso, un approccio integrato e pianificato allo sviluppo delle aree urbane.

− Strumenti potenziati per dare vita ad azioni integrate L’investimento territoriale integrato (ITI) è una nuova modalità di

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assegnazione finalizzata ad accorpare fondi di diversi assi prioritari di uno o più programmi operativi per interventi pluridimensionali o tra più settori. L’ITI rappresenta uno strumento ideale per sostenere azioni integrate nelle aree urbane perché per- mette di coniugare finanziamenti connessi a obiettivi tematici differenti, prevedendo anche la possibilità di combinare fondi di assi prioritari e programmi operativi supportati dal FESR, dall’FSE e dal Fondo di coesione.

− Maggiori opportunità per fare fronte alle sfide urbane inserite tra le priorità di investimento. Quattro tra gli obiettivi tematici che saranno supportati dai fondi compresi nel QSC con l’intento di contribuire alla strategia Europa 2020 per la crescita intelligente, sostenibile e inclusiva presentano priorità di investimento specifiche per le aree urbane

− Strumenti finanziari. L’ambito di applicazione degli strumenti finanziari risulta ampliata e interessa tutti gli obiettivi tematici e le priorità di investimento e tutte le tipologie di beneficiari, progetti e attività.

− Collaborazione in rete. Nell’ambito dell’obiettivo Cooperazione territoriale europea, il programma di scambio e apprendimento rivolto alle città continuerà a offrire a queste ultime occasioni di collaborazione in rete al fine di condividere e affinare buone pratiche nell’ambito dello sviluppo urbano.

− Gli investimenti territoriali integrati subentrano ai singoli assi prioritari per lo sviluppo urbano: L’introduzione dell’ITI, che consente di realizzare programmi operativi trasversali, supporterà l’approccio tematico, favorendo la giusta combinazione di investimenti nell’ambito delle strategie urbane integrate.

− Approccio più funzionale per consentire interventi al livello appropriato: Poiché gli ITI possono interessare varie tipologie di città e di aree urbane, così come definite dagli Stati membri, si potranno finanziare azioni integrate per spaziare dal livello di quartiere o distretto alle aree urbane funzionali come regioni-città o aree metropolitane, incluse le aree rurali limitrofe.

2.4. Patti territoriali per Europa 2020

Un Patto territoriale per Europa 2020 è un accordo tra i livelli di governo di un paese (nazionale, regionale, locale).

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I firmatari del Patto si impegnano a coordinare e sincronizzare le rispettive agende politiche in modo da concentrare le loro azioni e risorse finanziarie sugli obiettivi e le finalità di Europa 2020. I Patti territoriali conferiranno alla strategia Europa 2020 una dimensione territoriale e una titolarità territoriale. Questo approccio "contrattuale", sostenuto da indicatori e obiettivi condivisi da tutti i partner, consentirebbe di attivare le sinergie e gli effetti sistemici di cui gli Stati hanno bisogno per il raggiungimento degli obiettivi di Europa 2020. Un Patto territoriale deve permettere ai governi nazionali, regionali e locali di un paese di elaborare e attuare in partenariato i programmi nazionali di riforma Europa 2020, monitorandone l'avanzamento. A tal fine gli obiettivi dei Patti territoriali dovrebbero essere: • stabilire obiettivi nazionali, ed eventualmente regionali, assicurando il

ricorso, laddove necessario, a indicatori e obiettivi diversi dal PIL, • attuare una o più iniziative faro, • individuare gli ostacoli al raggiungimento degli obiettivi a livello nazionale. Un Patto territoriale può includere le seguenti disposizioni: • disposizioni giuridiche, che definiscono quali politiche sono necessarie e in

che modo possono essere adattate per garantire una più efficiente realizzazione delle riforme strutturali richieste nel quadro della strategia Europa 2020,

• disposizioni finanziarie, che indicano in dettaglio quali risorse (finanziamenti UE, nazionali o locali, pubblici o privati) saranno utilizzate per conseguire gli obiettivi,

• disposizioni di governance, contenenti informazioni su eventuali nuovi accordi intesi a garantire una più efficace attuazione delle politiche.

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V

UNIONE EUROPEA E POLITICHE DI COOPERAZIONE VERSO I PAESI IN RITARDO DI SVILUPPO

1. COOPERAZIONE TRA UE E ACP La cooperazione tra l’Unione Europea e i paesi africani è iniziata nel 1957 con la firma del Trattato di Roma con cui nasceva la Comunità Economica Europea (Cee). Nella sua quarta parte il Trattato prevedeva la creazione di un Fondo europeo per lo sviluppo (FED – Development European Found) mirante a fornire un aiuto tecnico e finanziario ai paesi africani che erano ancora colonie. Sono state firmate una serie di convenzioni: ü Convenzione di Yaoundé I (1963) Firmata tra i 18 paesi africani, questa

convenzione assegna aiuti e vantaggi commerciali ai paesi ex colonie. ü Convenzione di Yaoundé II (1969) Estende gli aiuti a altri tre paesi e

stanzia una quota rilevante del Fed per infrastrutture nell’Africa francofona.

ü Convenzione di Lomé I (1975) A seguito dell’ingresso dell’Inghilterra nella Cee, la Convenzione estendeva il programma di cooperazione a alcuni paesi non africani del Commnwealth. Nasce l’acronimo ACP (Africa, Carabi, Pacifico). I paesi diventano 46. Questa convenzione istituisce il sistema delle quote preferenziali per lo zucchero, le banane e la carne bovina. Istituisce il regime Stabex per finanziare le perdite sui prodotti agricoli derivanti dalle fluttuazioni dei mercati.

La Convenzione di Lomé, firmata nella capitale del Togo nel febbraio 1975, è stata per venticinque anni lo strumento di gestione dei rapporti politici, economici e di cooperazione allo sviluppo tra i paesi ACP ed i paesi dell'Unione Europea. Sarebbe più corretto parlare di Convenzioni di Lomé, al plurale, perché la Convenzione è stata rinnovata diverse volte: Lomé II (1980), Lomé III (1985), Lomé IV (1990), Revisione di Mauritius (1995). I partecipanti erano gli allora nove paesi membri della Comunità

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Europea, e 46 paesi ACP. In particolare: Ø Convenzione di Lomé II (1979) Istituisce il regime Sysmin per

finanziare le perdite sui prodotti minerari derivanti dalle fluttuazioni dei mercati.

Ø Convenzione di Lomé III (1984) Questa convenzione modifica l’orientamento degli aiuti, abbandonando la promozione dello sviluppo industriale per lo sviluppo autonomo, fondato sulla autosufficienza e sicurezza alimentare.

Ø Convenzione di Lomé IV (1990) E’ la prima convenzione di durata decennale con una revisione intermedia. Per la prima volta il rispetto dei diritti dell’uomo, dei principi democratici e dello stato di diritto diventano elementi essenziali della Convenzione. I paesi che non li rispettano si vedranno negare gli aiuti. Altri punti sono: il rafforzamento del ruolo delle donne nella società, la protezione ambientale, la cooperazione decentrata con la partecipazione attiva della società civile e la promozione del settore privato.

La Convenzione prevedeva anche un meccanismo di compensazione dei prezzi delle produzioni agricole, chiamato Stabex, che dopo il 1985 venne affiancato da un meccanismo analogo per i prezzi delle materie prime minerarie, il Sysmin. Stabex e Sysmin funzionavano come un'assicurazione contro i crolli dei prezzi delle materie prime, spesso le uniche risorse di questi paesi, sui mercati internazionali. Il sistema STABEX è un meccanismo di stabilizzazione dei proventi derivanti dalle esportazioni dei paesi ACP. Se i proventi dell'esportazione di un prodotto di base (agricoli) scendono sotto la media presa a riferimento, la Comunità Europea provvede ad un contributo con lo scopo di ricreare equilibrio. Questo aiuto è soggetto a rimborso, secondo quanto prescritto dalla Convenzione di Lomé. Il nuovo STABEX garantisce ai paesi ACP un certo livello di proventi d'esportazione sottraendo questi ultimi alle fluttuazioni che essi subiscono normalmente a causa del gioco dei mercati o dei rischi legati alla produzione. A partire da Lomé IV gli Stati ACP non sono più tenuti a rialimentare le risorse STABEX, per cui il loro indebitamento risulta meno gravoso.

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Negli anni novanta i paesi europei avevano iniziato a richiedere garanzie sulla tutela dei diritti umani, della democrazia e dello stato di diritto, come condizione per poter mantenere i vantaggi commerciali. A fine anni novanta la Convenzione di Lomé ha attraversato un periodo di intense critiche, per diverse ragioni. Innanzi tutto, veniva accusata di non essere stata in grado in tutti gli anni trascorsi di risolvere il problema della povertà e del sottosviluppo, mentre i suoi difensori sostenevano che perlomeno aveva evitato che la situazione peggiorasse. Molti economisti sostenevano che gli scambi economici privilegiati fossero in realtà una trappola, perché mantenevano i paesi ACP in una condizione di dipendenza e di bisogno. Inoltre alcuni dei protocolli agricoli allegati alla Convenzione erano stati dichiarati illegali dai tribunali internazionali dell'Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO). La Comunità europea ha stipulato un accordo con 69 paesi africani, dei Caraibi e del Pacifico, firmatari della convenzione di Lomè; prevedeva una zona di libero scambio riguardo determinati prodotti e l'istituzione del Fondo Europeo di Sviluppo (FES) destinato a favorire il decollo economico dei Paesi associati. È nato l'Accordo di Partenariato ACP/UE, firmato nel 2000 e valido per venti anni. Prevede che i paesi meno sviluppati dell'ACP godano dell'accesso doganale in franchigia, i paesi non considerati meno sviluppati sono passati nel 2008 ad un regime di compatibilità con le regole WTO.

1.1.La Convenzione di Cotonou (2000) La Convenzione di Cotonou firmata nella capitale del Benin il 23 giugno 2000, prende il posto della precedente Convenzione di Lomé del 1990 nel gestire i rapporti di cooperazione allo sviluppo tra i paesi ACP ed i paesi dell'Unione Europea. La Convenzione regola principalmente l'aiuto allo sviluppo, il commercio, gli investimenti internazionali, i diritti umani ed il buon governo. Rispetto alla Convenzione di Lomé, in ambito politico, una novità è l'inserimento dei rappresentanti della società civile dei paesi in via di sviluppo tra gli interlocutori del partenariato. La novità più importante riguarda l'aspetto economico, tramite la creazione di aree regionali di libero scambio che si apriranno al commercio senza barriere con l’Unione Europea.

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Questa decisione è stata molto contestata, ma senza dubbio la liberalizzazione commerciale sembra essere la nuova linea di condotta dell’UE nei suoi rapporti con i paesi in via di sviluppo. L'accordo di Cotonou offre una visione globale e integrata delle strategie di sviluppo fondate sui tre pilastri interdipendenti ossia il dialogo politico, la cooperazione economica e commerciale e l'aiuto allo sviluppo. Fonda le nuove relazioni di partenariato tra l'Unione e gli Stati ACP sulla nozione fondamentale di titolarità da parte degli Stati ACP della loro strategia di sviluppo. Fissa come obiettivi fondamentali del partenariato la riduzione della povertà e l'inserimento delle economie ACP nell'economia mondiale.

1.2. Rilancio della cooperazione: Conferenza di Monterrey (marzo 2002) Il rilancio della cooperazione, oltre a collocarsi nel quadro delle linee della collaborazione internazionale dovrà anche dare seguito all’indicazione data dalla Conferenza di Monterrey (marzo 2002) sulla addizionalità della cancellazione del debito dei Paesi impoveriti rispetto ai finanziamenti destinati alla cooperazione allo sviluppo. La conferenza ha adottato il Documento di Monterrey che consiste in un elenco di misure da adottare sul piano nazionale e internazionale per garantire condizioni di vita più accettabili alle popolazioni dei paesi poveri. I capi di Stato hanno esortato a stringere un nuovo partenariato fra paesi ricchi e paesi poveri, in base al quale i primi daranno un maggior apporto finanziario allo sviluppo dei secondi, adottando tra l'altro misure di apertura dei propri mercati ai paesi poveri i quali, a loro volta, dovranno adottare a livello nazionale provvedimenti per l'attuazione di riforme strutturali, fiscali e amministrative, onde accrescere la propria capacità di gestione a livello microeconomico e macroeconomico, di promuovere il risparmio interno e di richiamare i capitali esteri necessari per lo sviluppo sociale ed economico. Ai paesi poveri si chiede di mettere ordine nelle loro finanze pubbliche, adottando iniziative per combattere la corruzione e favorire la trasparenza nella gestione politica, amministrativa, fiscale ed economica. Viene sottolineato altresì lo sforzo che questi paesi dovranno compiere in molti campi, in particolare per mobilitare le risorse nazionali, adottare a livello nazionale politiche macroeconomiche razionali, che tengano conto della

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necessità di garantire la sostenibilità delle politiche di bilancio attraverso l'equità fiscale e amministrativa ed infine riorganizzare la spesa pubblica senza sostituire gli investimenti produttivi privati. Le priorità geografiche d’intervento sono concentrate sull’Africa sub-sahariana e sulle aree del mondo di maggiore povertà, senza tralasciare, naturalmente, i Paesi di tradizionale intervento della Cooperazione Italiana.

2. LA CANCELLAZIONE DEL DEBITO Per anni i debiti sono stati i maggiori ostacoli per lo sviluppo dei paesi africani, la maggior parte di loro spendeva tutte le risorse nel pagamento dei debiti, tutti contratti durante la guerra fredda, quando i paesi industrializzati pur di avere i governi dalla propria parte, li finanziava nonostante fosse irresponsabile e corrotto. La cancellazione del debito si riferisce alla proposta di annullare il debito che i paesi in via di sviluppo hanno nei confronti dei paesi industrializzati. La cancellazione del debito venne presa in considerazione da molti governi occidentali e divenne un obiettivo esplicito di organizzazioni internazionali come il Fondo Monetario Internazionale e la World Bank.

2.1. L’HIPC Heavily Indebted Poor Countries L’Iniziativa per la cancellazione del debito dei Paesi più poveri e indebitati lanciata da FMI e Banca Mondiale, adottata dai Paesi G7 nel 1996 e “rafforzata” dal G7/G8 nel 1999, ha lo scopo è garantire l'annullamento sistematico del debito per le nazioni più povere, cercando al contempo di garantire che vengano prese azioni allo scopo di ridurre la povertà di tali paesi. Tra questi figurano 29 Paesi dichiarati effettivamente eleggibili all’Iniziativa -avendo raggiunto l’eleggibilità all’Iniziativa (Decision point) per il processo di cancellazione e 11 potenzialmente eleggibili. Venti Paesi (tra i primi 29) hanno anche raggiunto il punto finale (completion point), beneficiando della cancellazione del proprio debito estero. L’"Iniziativa HIPC" ("Heavily Indebted Poor Countries") fu adottata nel 1996 al Vertice G7 di Lione nel quadro delle azioni intraprese dalla comunità internazionale per rendere sostenibile nel medio-lungo periodo il debito estero dei Paesi più poveri ("low income countries").

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2.2. Iniziativa HIPC rafforzata".

Il Vertice G7/G8 di Colonia del 1999 decise di: − aumentare il numero dei Paesi eleggibili all'Iniziativa; − elevare l'ammontare del debito eleggibile a cancellazione; − accelerare i tempi di messa in atto del Programma attuativo dell'Iniziativa

e rafforzare il legame fra risorse finanziarie liberate dalle cancellazioni debitorie, Programmi nazionali di Riduzione della Povertà ("Poverty Reduction Strategy Papers" – PRSP) e sviluppo economico.

La nuova più incisiva Iniziativa venne ridenominata "Iniziativa HIPC rafforzata". All'Iniziativa possono accedere quei Paesi che oltre ad essere eleggibili ai prestiti altamente concessionali dell'"International Development Association" – IDA della Banca Mondiale (c.d. Paesi "IDA-only"), abbiano un debito insostenibile in base alle apposite analisi finanziarie effettuate dagli esperti delle IFI (c.d. Paesi “IDA-only HIPC”). L’Iniziativa HIPC rafforzata comprende i seguenti passaggi: − il Paese debitore adotta un programma di aggiustamento ("adjustment

program"), sostenuto dal FMI e dalla Banca Mondiale, al fine di raggiungere la stabilità economica e promuovere uno sviluppo auto-sostenibile;

− dopo un periodo massimo di circa tre anni ed a seguito di una valutazione finale negativa dei parametri di sostenibilità del debito estero, FMI e Banca Mondiale dichiarano l'eleggibilità del Paese all'Iniziativa (raggiungimento del "decision point");

− il Paese adotta e mette in atto un Programma nazionale di Riduzione della Povertà, con il supporto finanziario delle IFI, oltre che del Club di Parigi. I Paesi HIPC firmano a Parigi le prime Intese multilaterali di cancellazione debitoria (c.d. "interim debt relief"), cui fanno seguito i relativi Accordi bilaterali applicativi;

− entro un triennio, ove il debitore abbia attuato con successo il suo PRSP, FMI e Banca Mondiale dichiarano raggiunto il “completion point”, a partire dal quale il Paese potrebbe usufruire – con apposita Intesa multilaterale al Club di Parigi e successivo Accordo bilaterale applicativo – della formale cancellazione del rimanente debito eleggibile.

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La “cut-off-date” (in gergo “c.o.d.”) è la data convenzionale che viene stabilita nel momento in cui un Paese chiede di ristrutturare per la prima volta il proprio debito estero al Club di Parigi. La “c.o.d.” suddivide temporalmente il debito maturato a quel momento, e che sarà oggetto della ristrutturazione (“pre cut-off-date” – “pre c.o.d.”), da quello che potrebbe maturare successivamente (“post cut-off-date” – “post c.o.d.”), che in linea di principio non sarà ristrutturabile in futuro. Proroga della “sunset clause” (termine di attuazione del Programma) Per consentire al maggior numero di Paesi HIPC di beneficiare dell’Iniziativa, al Vertice G8 di Sea Island (2004) i Capi di Stato e di Governo hanno raccomandato di spostare in avanti di due anni la c.d. “sunset clause”, inizialmente prevista per la fine del 2004. Essi hanno inoltre dato mandato ai rispettivi Ministri delle Finanze di individuare, di concerto con le Organizzazioni Finanziarie Internazionali e con gli altri donatori, le modalità per assicurare il reperimento delle risorse finanziarie necessarie al completamento dell’Iniziativa, ivi incluso il c.d. “topping up”, nonché di studiare opportune misure da adottare per assicurare la sostenibilità del debito dei Paesi più poveri una volta ultimata l’attuazione dell’Iniziativa. Al Vertice G8 di Gleneagles (luglio 2005) i Capi di Stato e di Governo hanno accolto la proposta dei Ministri delle Finanze di cancellare il 100% del debito dei Paesi HIPC verso le IFI (Multilateral Debt Relief Initiative-MDRI). Il FMI e la Banca Mondiale hanno approvato le modalità di attuazione della Multilateral Debt Relief Initiative-MDRI, seguiti il 19 aprile 2006 dalla Banca Africana di Sviluppo, mentre la Banca Interamericana di Sviluppo ha adottato nel marzo 2007 una Iniziativa - complementare alla MDRI – per la cancellazione del debito ai Paesi latino-americani beneficiari dell’Iniziativa HIPC. I Paesi HIPC si impegnano a destinare le risorse rese disponibili grazie alla cancellazione del debito a programmi di riduzione della povertà.

3. LA COOPERAZIONE DECENTRATA La cooperazione decentrata è stata introdotta nelle disposizioni generali della IV° Convenzione di Lomè (ACP-UE) firmata nel 1989, che stabilisce un accordo di cooperazione tra Europa e paesi dell’Africa, dei Caraibi e del Pacifico.

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Nell’art.20 di tale convenzione, relativo alle parti attive della cooperazione, si afferma il principio di una cooperazione decentrata realizzata attraverso il concorso di parti attive economiche, sociali e culturali. Tra queste parti attive i poteri pubblici decentrati vi sono esplicitamente menzionati. Nel 1992, quest’approccio è stato esteso ai paesi in via di sviluppo dell’America Latina e dell’Asia (ALA-UE). Nella dichiarazione adottata al termine della Conferenza Euromediterranea di Barcellona del 1995 i Paesi partecipanti manifestarono la volontà di rafforzare gli strumenti della cooperazione decentrata, decidendo tra l’altro, di “incoraggiare i contatti” al livello “delle autorità regionali” e delle “collettività locali”. Questo nuovo approccio alla cooperazione internazionale si è gradualmente affermato nel corso di questi ultimi anni e si è concretizzato nella creazione, in sede europea, di una linea finanziaria specifica destinata alla promozione della cooperazione decentrata attraverso il finanziamento di azioni di mobilitazione, di informazione ed il finanziamento di azioni-pilota. L’importanza della cooperazione decentrata è stata riaffermata nella Convenzione di Lomè IV bis del 1995, dove sono state adottate disposizioni specifiche relative alla cooperazione decentrata. Attraverso la cooperazione decentrata, la Commissione Europea ha voluto promuovere i programmi provenienti da una vasta gamma di organismi locali e non governativi che, spesso, completano la progettualità governativa. Hanno diritto di domanda i seguenti organismi decentrati europei o dei paesi in via di sviluppo: − amministrazioni locali, − organizzazioni non governative, − associazioni locali, compresi sindacati e cooperative, − associazioni femminili e di giovani, − istituti di ricerca, − organizzazioni religiose e altre organizzazioni di carattere culturale. Il cofinanziamento della Commissione Europea ha lo scopo di sostenere e promuovere le seguenti tipologie d’azione: − valorizzazione delle risorse umane e tecniche, sviluppo locale, rurale o

urbano nei settori sociale ed economico dei paesi in via di sviluppo; − informazione e mobilitazione degli operatori della cooperazione

decentrata;

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− sostegno e follow up metodologico delle azioni.

3.1. Regolamento (CE) n.1659/98 del Consiglio relativo alla cooperazione decentralizzata Il nuovo regolamento (CE) n. 625/2004 proroga fino al 31 dicembre 2006 il regolamento di base (CE) n. 1659/98 relativo alla cooperazione decentralizzata, apportandovi inoltre alcune modifiche e precisazioni. In particolare specifica che gli attori della cooperazione decentrata non provengono soltanto dai paesi in via di sviluppo ma anche dalla Comunità europea e aggiunge altri tipi di organizzazioni all'elenco dei partner. Intende inoltre favorire la capacità di dialogo delle società civili affinché diventino interlocutori validi nel processo democratico. Le iniziative e le azioni sostenute dalla Comunità nel quadro della cooperazione decentrata riguardano la riduzione della povertà e lo sviluppo sostenibile, in particolare in situazioni di partenariato difficile, che intendono promuovere: – uno sviluppo più partecipativo rispondente alle esigenze e iniziative delle

popolazioni in via di sviluppo; – un contributo alla diversificazione e al potenziamento della società civile e

alla democratizzazione di tali paesi. La Commissione deve tener conto, valutando i progetti e i programmi proposti, dei fattori seguenti: – la pertinenza, l'efficacia e la sostenibilità delle azioni; – gli aspetti culturali e sociali, gli aspetti relativi all'uguaglianza fra uomini e

donne nonché l'ambiente; – lo sviluppo istituzionale necessario al raggiungimento degli obiettivi

dell'azione; – l'esperienza acquisita nel quadro delle azioni dello stesso genere; – le necessità specifiche dei paesi nei quali la cooperazione ufficiale non è in

grado di contribuire in modo significativo al raggiungimento degli obiettivi di riduzione della povertà e di sviluppo sostenibile.

Le attività da realizzare prioritariamente riguardano i settori seguenti: – sviluppo delle risorse umane e tecniche, sviluppo locale, rurale o urbano,

nei settori sociale ed economico dei paesi in via di sviluppo;

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– informazione e mobilitazione degli operatori della cooperazione decentrata e partecipazione ai forum internazionali al fine di favorire il dialogo per l'emergere della democrazia;

– sostegno al potenziamento istituzionale e al rafforzamento della capacità d'azione di tali operatori;

– potenziamento delle reti di organizzazioni e di movimenti sociali che lottano per lo sviluppo sostenibile, i diritti umani, in particolare quelli sociali, e la democrazia;

– sostegno e follow-up metodologici delle azioni. I mezzi contemplati dal finanziamento comunitario per l'attuazione delle azioni nel quadro del regolamento comprendono in particolare: – studi; – assistenza tecnica; – attività d'informazione, formazione o altri servizi; – forniture e lavori; – revisioni dei conti; – missioni di valutazione e di controllo; – spese di investimenti (escluso l'acquisto dei beni immobili); – spese ricorrenti, per esempio le spese di amministrazione, manutenzione e

funzionamento. Nel quadro della relazione annuale al Parlamento europeo e al Consiglio sull'attuazione della politica di sviluppo, la Commissione presenta una sintesi delle azioni finanziate, il loro impatto e i loro risultati, una valutazione indipendente dell'esecuzione del regolamento nonché informazioni sugli attori della cooperazione decentrata con i quali sono stati conclusi i contratti. Inoltre, in occasione del comitato ONG la Commissione comunica agli Stati membri le azioni e i progetti approvati, precisandone importo, natura, paese beneficiario e partner. Il regolamento di base costituisce il seguito di numerose misure della Comunità che sottolineano l'importanza della cooperazione decentrata in materia di sviluppo. Il principio è stato introdotto nella Quarta Convenzione di Lomé nel 1989 ed è stato sottolineato in particolare nel regolamento (CEE) n. 443/92 del Consiglio (abrogato dal regolamento che istituisce lo strumento di finanziamento e

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cooperazione allo sviluppo dal 1° gennaio 2007). riguardante l'aiuto finanziario e tecnico per i paesi in via di sviluppo dell'America latina e dell'Asia nonché la cooperazione economica con tali paesi. Nel 1992 l'autorità di bilancio ha creato una linea di bilancio volta a promuovere questo approccio in tutti i paesi in via di sviluppo. Il regolamento va inserito nel contesto della partecipazione degli attori non statali alla politica di sviluppo dell'UE. Con il nuovo regolamento (CE) n. 625/2004 la Comunità sostiene azioni e iniziative intraprese dagli operatori della cooperazione decentralizzata della Comunità e dei paesi in via di sviluppo allo scopo di ridurre la povertà e favorire lo sviluppo sostenibile soprattutto nel caso di partenariati difficili, quando non possono essere utilizzati altri strumenti. Tali azioni e iniziative promuoveranno: - uno sviluppo più partecipativo che risponda alle esigenze e alle iniziative

delle popolazioni dei paesi in via di sviluppo, - un contributo alla diversificazione, al rafforzamento della società civile e

alla democratizzazione in questi paesi. Nel sostegno a dette azioni e iniziative la priorità è attribuita agli operatori della cooperazione decentralizzata dei paesi in via di sviluppo. Queste azioni riguardano la promozione della cooperazione decentralizzata a vantaggio di tutti i paesi in via di sviluppo."; Queste azioni riguardano la promozione della cooperazione decentralizzata a vantaggio di tutti i paesi in via di sviluppo.

3.2. Cooperazione decentrata realizzata dalle Autonomie locali italiane La cooperazione italiana dedica sempre maggiore attenzione e risorse alla crescita della “cooperazione decentrata”, intesa quale attività di cooperazione realizzata dalle Autonomie locali italiane (Regioni, Province, Comuni), in partenariato con enti omologhi di Pvs (partenariato territoriale, transfrontaliero, di prossimità ecc.) con il coinvolgimento della società civile dei rispettivi territori. Si riconosce infatti a questa forma innovativa di aiuto allo sviluppo, caratterizzata dall’ampia partecipazione e dalla reciprocità dei benefici, una propria specificità ed un rilevante valore aggiunto rispetto sia alla cooperazione governativa che a quella non governativa (Ong), soprattutto nei settori della

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lotta alla povertà e all’esclusione sociale e della promozione della democrazia. Inoltre, promuovendo lo sviluppo economico locale, la cooperazione decentrata è in grado di creare l’ambiente favorevole all’internazionalizzazione delle nostre Pmi. Le Regioni, dal canto loro, investono una quota crescente delle proprie risorse di bilancio in attività di cooperazione allo sviluppo. Secondo una recente stima l’ammontare degli stanziamenti regionali ha raggiunto un totale di circa 36 milioni di euro nel 2003. A ciò vanno aggiunti gli apporti di Enti locali, associazioni ed altri soggetti pubblici e privati del territorio che svolgono in proprio o concorrono all’attività di cooperazione delle Regioni per una cifra almeno equivalente a quella stanziata dalle Regioni. L’efficacia della cooperazione decentrata dipende strettamente da due fattori: ü la capacità delle Autonomie locali di instaurare partenariati attivi e di

coinvolgere in forma partecipata le forze vive del proprio territorio ü la capacità della Dgcs di mettere a disposizione degli Enti locali risorse e

sinergie (programmi quadro) idonei ad orientare, coordinare e cofinanziare i singoli interventi evitando dispersioni, duplicazioni e frammentazioni.

Da tempo la Direzione generale per la cooperazione allo sviluppo ha assunto la cooperazione decentrata come una componente importante dell’aiuto pubblico allo sviluppo italiano. La sua azione tende essenzialmente a fornire alle Autonomie locali dei quadri di riferimento entro cui inserire le proprie iniziative al fine di renderle coerenti con la nostra politica di cooperazione e possibilmente complementari con i nostri interventi. Il coinvolgimento delle Autonomie locali nella cooperazione governativa è in continua crescita ed assume forme molteplici: dall’affidamento diretto di specifiche iniziative (mediante apposite convenzioni) al cofinanziamento indiretto attraverso programmi quadro in gestione diretta o affidati ad Organismi internazionali.

4. MILLENNIUM DEVELOPMENT GOALS Nel settembre del 2000 al Millennium Summit delle Nazioni Unite i Capi di Stato e di Governo di 189 Paesi hanno approvato la Dichiarazione del Millennio delle Nazioni Unite in cui vengono sottolineati come valori fondamentali la

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libertà, l’uguaglianza, la solidarietà, la tolleranza, il rispetto per la natura e la condivisione delle responsabilità. Su queste basi sono stati indicati obiettivi quali pace, sicurezza e disarmo, sviluppo ed eradicazione della povertà, protezione dell’ambiente, diritti umani, democrazia e buon governo, protezione dei più deboli, necessità particolari dell’Africa e rinforzo delle Nazioni Unite come strumento efficace in questi ambiti. Nell’incontro del millennio temi come la povertà, la fame, la salute e le malattie, l’istruzione e altri ancora sono stati messi in primo piano nell’agenda degli impegni con otto traguardi da raggiungere entro il 2015: i Millennium Development Goals. I Millennium Development Goals prevedono l’impegno congiunto di Paesi ricchi e Paesi poveri. Quelli con maggiori risorse, in base all’impegno preso, dovrebbero arrivare allo scadere del 2015 a dare lo 0,7 del prodotto interno lordo per l’aiuto pubblico, con una politica di cooperazione e aiuto allo sviluppo, con caratteristiche di qualità ed equità, in modo che sia vantaggiosa per i beneficiari e che non segua logiche commerciali. Viene inoltre chiesto ai Paesi poveri uno sforzo per raggiungere gli Obiettivi con strategie adeguate e buon governo. Gli Obiettivi di Sviluppo del Millennio delle Nazioni Unite che tutti i 191 stati membri dell'ONU si sono impegnati a raggiungere per l'anno 2015 sono contenuti nella Dichiarazione del Millennio delle Nazioni Unite, firmata nel settembre del 2000, che impegna gli Stati a: ü Obiettivo 1: Eliminare la poverta' estrema e la fame ü Obiettivo 2: Raggiungere l'istruzione elementare universale ü Obiettivo 3: Promuovere l'uguaglianza fra i sessi e conferire potere e

responsabilita' alle donne ü Obiettivo 4: Diminuire la mortalita' infantile ü Obiettivo 5: Migliorare la salute materna ü Obiettivo 6: Combattere l'HIV/AIDS, la malaria e altre malattie ü Obiettivo 7: Assicurare la sostenibilita' ambientale ü Obiettivo 8: Sviluppare una collaborazione globale per lo sviluppo

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L'Unione Europea si è molto adoperata per fissare anche Obiettivi Finanziari per le sovvenzioni allo sviluppo. Da una relazione del 2005 è emerso che tutti i paesi hanno erogato contributi ma che questi si sono dimostrati sufficienti. Dal 2001 l'iniziativa europea Everything But Arm (Tutto fuorché le armi) ha abolito dazi e contingenti su tutti i prodotti (ad eccezione delle armi) che provengono dai paesi meno sviluppati del mondo. Il partenariato strategico UE-Africa avviato nel 2007 ha segnato un rafforzamento delle relazioni UE-Africa con l'obiettivo di promuovere ulteriormente gli Obiettivi del Millennio definendo con i paesi ACP una serie di accordi di collaborazione economica che avrebbero dovuto entrare in vigore all'inizio del 2008, data non rispettata. Le proposte della Commissione europea sono state orientate a: ü fissare nuovi obiettivi intermedi per l'aumento dei bilanci relativi all'aiuto

pubblico fino al 2010, al fine di raggiungere lo 0,7% del reddito nazionale lordo (RNL) nel 2015;

ü accelerare le riforme per migliorare la qualità dell'aiuto; ü riconsiderare il modo in cui l'UE influenza le condizioni dello sviluppo

con le sue politiche interne ed esterne, attraverso il suo specifico modello di sviluppo sostenibile.

Secondo l’UE è necessario concentrare le iniziative in settori chiave, in particolare: a. miglioramento della governance in Africa: dovrebbe essere conseguito

sostenendo finanziariamente l'Unione africana (UA), sviluppando un partenariato di gemellaggio con le sue istituzioni e rifinanziando il Fondo per la pace in Africa destinato a sostenere le iniziative africane per il mantenimento della pace.

b. Collegamento delle reti e del commercio africani: occorre creare e mantenere i servizi e le reti d’infrastrutture regionali affinché la crescita economica ed il commercio diventino concorrenziali.

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5. AGENDA DI SVILUPPO POST 2015 Nel 2012 è stato avviato il processo per la definizione degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (SDG, Sustainable Development Goals) definiti nella Conferenza delle Nazioni Unite sullo sviluppo sostenibile (Rio+20) del giugno dello stesso anno, processo parallelo e complementare all'agenda post-2015 MDG - Millennium Development Goals - che fa riferimento alle tre dimensioni economica, sociale e ambientale dello sviluppo sostenibile. Il documento conclusivo di Rio+20, The Future We Want, adottato con la risoluzione dell’Assemblea generale dell’UN nel 2012, pone: a) come sfida centrale l'eliminazione della povertà; b) identifica la Green economy come un importante strumento per il

raggiungimento dello sviluppo sostenibile; c) indica alcune caratteristiche di base degli Sustainable Development Goals che

devono essere i) orientati all'azione, ii) concisi, iii) di numero limitato, iv) di natura globale e applicabili a tutti i paesi, pur tenendo conto delle differenti realtà nazionali.

Tale documento indica inoltre che i Sustainable Development Goals devono essere valutati alla luce di specifici indicatori e traguardi. Il principale organismo creato dalle Nazioni Unite sul tema è stato l’High-level Political Forum on sustainable development (HLPF) istituito dalla conferenza Rio+20 in sostituzione della UN Commission on Sustainable Development – CSD -insediata con la Conferenza di Rio nel 1992. L’HLPF è stato incaricato di guidare i lavori affrontando le sfide emergenti, promuovendo il dialogo fra politica e scienza e rafforzando l’integrazione fra dimensioni economica e sociale dello sviluppo. L’Open Working Group (OWG) sugli SDG, istituito dall’Assemblea Generale il 22 gennaio 2013 con la partecipazione di settanta paesi, raggruppati nelle cosiddette constituency, ha redatto un Rapporto che costituisce la base della nuova impostazione. La discussione interna all’Open Working Group è stata alimentata anche dai risultati di una serie di global consultation che hanno incluso numerose consultazioni. Sono stati anche organizzati sondaggi a e una consultazione online denominata My world.

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Nell’agosto 2014 è stato presentato un Rapporto contenente indicazioni per la mobilitazione di risorse per lo sviluppo sostenibile. Sono stati presentati High-level events and thematic dialogues focalizzati su: a) trattamento delle acque ed energia sostenibile; b) contributo delle donne, dei giovani e della società civile; c) ruolo del partenariato; garanzia di società stabili e pacifiche; d) cooperazione triangolare Nord Sud e Sud Sud e ICT per lo sviluppo; e) diritti umani e stato di diritto. Un apporto significativo ai contenuti del Rapporto è stato fornito dai due organismi non governativi: • L’High-Level Panel of Eminent Persons on the Post-2015 Development Agenda

(HLP), che ha riunito rappresentanti della società civile, del mondo della ricerca, del settore privato, di amministrazioni locali e nazionali e che ha pubblicato un Rapporto A New Global Partnership centrato su cinque indicazioni principali che includono la lotta alla povertà estrema e alle disuguaglianze, l’inserimento dello sviluppo sostenibile al centro dell’agenda post 2015, la trasformazione dell’economia, la promozione della pace e di istituzioni aperte er tutta la popolazione, la creazione di un nuovo partenariato globale.

• Il Sustainable Development Solutions Network (SDSN), rete globale indipendente di centri di ricerca, università e istituzioni tecniche che lavorano con diversi stakeholder, fra cui il settore privato, la società civile, agenzie delle Nazioni Unite e altre organizzazioni internazionali. L’SDSN ha trasmesso al Segretario Generale delle UN il rapporto An Action Agenda for Sustainable Development in cui propone dieci obiettivi per la promozione dello sviluppo sostenibile e una bozza di Rapporto sulla questione della predisposizione di indicatori e di un sistema di monitoraggio per la valutazione dell’attuazione dell’Agenda.

Sempre nel 2014 il Segretario Generale delle UN ha presentato all’Assemblea Generale il Rapporto di sintesi per orientare i negoziati nel 2015, intitolato The Road to Dignity by 2030: Ending Poverty, Transforming All Lives and Protecting the Planet. Il documento di sintesi evidenzia la continuità diretta tra MDG e SDG, ponendo la necessità di “completare il lavoro” avviato con gli MDG ma anche dell’opportunità di andare oltre e affermando la necessità di un’agenda universale che metta al centro le persone e il pianeta, fondata sui diritti umani e

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sostenuta da un partenariato globale.

5.1. Agenda di Sviluppo post-2015 L’agenda di Sviluppo post 2015 deve essere fondata sull’interazione tra le tre dimensioni centrali dello sviluppo - economia, società, ambiente –. La versione finale dell’Agenda di Sviluppo post-2015 è articolata in cinque parti che includono 17 Sustainable Development Goals e 169 target. La descrizione di Obiettivi e Target è preceduta da un Preambolo centrato su cinque parole chiave (le cinque P) che introduce un piano di azione per le persone, il pianeta e la prosperità (“for People, Planet and Prosperity”) e sottolinea il rafforzamento della pace universale (Peace) in “larger freedom” e riconosce lo sradicamento della povertà in tutte le sue forme e dimensioni, inclusa la povertà estrema, quale la più grande sfida globale e la premessa fondamentale per lo sviluppo sostenibile. Il Preambolo indica la natura universale e cooperativa dell’Agenda e l’impegno perché nessuno sia lasciato indietro. I Sustainable Development Goals proposti definiscono l’orizzonte di intervento per le politiche di sviluppo nei diversi paesi e a livello mondiale, in particolare: 1) Eliminare la povertà in tutte le sue forme e dovunque; 2) Eliminare la fame, conseguire la sicurezza alimentare, migliorare la

nutrizione e promuovere l’agricoltura sostenibile; 3) Garantire salute e benessere per tutti a qualsiasi età; 4) Garantire un’istruzione di qualità inclusiva ed equa e promuovere

opportunità di apprendimento permanente per tutti; 5) Raggiungere l’uguaglianza di genere e l’empowerment di tutte le donne e

ragazze; 6) Assicurare a tutti disponibilità e gestione sostenibile dell’acqua, condizioni

d’igiene e smaltimento dei rifiuti; 7) Assicurare a tutti accesso a un’energia moderna, sostenibile e a prezzi

equi; 8) Promuovere una crescita economica sostenuta, inclusiva e sostenibile,

un’occupazione piena e produttiva e un lavoro a condizioni dignitose per tutti;

9) Costruire infrastrutture resilienti, promuovere un’industrializzazione inclusiva e sostenibile e favorire l’innovazione;

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10) Ridurre le disuguaglianze tra i paesi e all’interno dei paesi; 11) Rendere le città e tutti gli insediamenti umani inclusivi, sicuri e sostenibili; 12) Garantire modelli di produzione e consumo sostenibili; 13) Adottare misure urgenti per contrastare i cambiamenti climatici e gli

impatti che ne derivano; 14) Conservare e usare in modo sostenibile oceani, mari e risorse marine per

lo sviluppo sostenibile; 15) Proteggere, ripristinare e promuovere l’uso sostenibile degli ecosistemi

terrestri, gestire in modo sostenibile le foreste, combattere la desertificazione, arrestare e invertire il processo di degrado della terra e la perdita di biodiversità;

16) Promuovere società pacifiche e inclusive per lo sviluppo sostenibile, garantire accesso alla giustizia per tutti e costruire istituzioni efficaci, trasparenti e inclusive a tutti i livelli;

17) Rafforzare i mezzi e le risorse finanziarie necessarie per lo sviluppo sostenibile (MoI) e rilanciare il partenariato globale per lo sviluppo sostenibile.

Nel luglio 2015 si è tenuta ad Addis Abeba la Terza Conferenza delle Nazioni Unite sulla Finanza per lo Sviluppo. Tale conferenza ha approvato la Addis Abeba Action Agenda (AAAA) documento suddiviso in due parti principali: a) La prima parte stabilisce il quadro globale per il finanziamento dello

sviluppo post-2015; b) la seconda parte è dedicata alle Aree di Azione che comprendono le

risorse pubbliche nazionali, le imprese e il settore privato finanziario nazionale e internazionale, la cooperazione internazionale allo sviluppo, il commercio internazionale come motore dello sviluppo, la sostenibilità del debito, le questioni sistemiche, l’innovazione scientifica e tecnologica e del capacity building, la raccolta e il monitoraggio dei dati e il follow-up.

Viene definito il fabbisogno finanziario per raggiungere gli Obiettivi della nuova agenda quantificandolo nell’ordine di alcune migliaia di miliardi di dollari l’anno e indica la possibilità di raggiungere tale somma in ragione del risparmio pubblico e privato, a condizione che “le risorse finanziarie siano investite e allineate conformemente alle aree prioritarie definite dall’Agenda di sviluppo”.

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A questo scopo, la Addis Abeba Action Agenda (AAAA) predispone: a. una cornice globale per il finanziamento dello sviluppo sostenibile che

allinea tutti i flussi di risorse e le politiche, pubbliche e private, nazionali e internazionali, con le priorità economiche, sociali e ambientali;

b. un set di politiche per gli stati membri con un pacchetto di oltre cento misure concrete per attingere alle possibili fonti di risorse finanziarie, tecnologiche, per l’innovazione, il commercio e la rilevazione di dati per sostenere la mobilitazione dei mezzi per una trasformazione globale verso lo sviluppo sostenibile.

Fra le principali nuove iniziative è previsto: • il Technology Facilitation Mechanism per incrementare la collaborazione fra

governi, comunità scientifica, imprese e società civile: • un Global Infrastructure Forum per identificare e affrontare le sfide del gap

infrastrutturale ed evidenziare le opportunità di investimento e cooperazione, per assicurare che i progetti siano sostenibili dal punto di vista economico, sociale e ambientale.

I Paesi partecipanti hanno, inoltre, adottato un nuovo social compact in favore dei poveri e dei gruppi vulnerabili che prevede la realizzazione di sistemi di protezione sociale. Hanno stabilito inoltre l’adozione di misure fiscali per scoraggiare il consumo di sostanze nocive, fra cui in primo luogo il tabacco, di promuovere l’accesso al credito per le piccole imprese, di sviluppare e rendere operativa una strategia globale per l’occupazione giovanile, di implementare l’International Labour Organization Global Jobs Pact entro il 2020. L’accordo rinnova l’impegno dei paesi sviluppati a destinare lo 0.7% del Reddito nazionale lordo all’aiuto pubblico allo sviluppo e una quota fra lo 0,15% e lo 0,20% ai Paesi meno avanzati (PMA).