Corrado Bologna Miti di una letteratura medioevale: il Sud

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Miti di una letteratura medievale. Il Sud

1. Moschettieri, cavalieri e rare allegorie d’amore.

Il primo lunedì d’aprile del 1625 la cittadina di Meung, dove nacque l’autoredel Roman de la Rose, sembrava completamente sconvolta, come se gli ugonotti fos-sero venuti a farne una seconda Rochelle. Molti borghesi, vedendo fuggire le don-ne dalla parte della Grande-rue e sentendo piangere i bambini sulle porte, si affret-tarono a indossare la corazza e, rafforzando il loro contegno un po’ incerto con unmoschetto o una partigiana, si diressero verso la locanda del Franc Meunier, davantialla quale si accalcava, ingrossandosi di minuto in minuto, una folla compatta, ru-morosa e curiosa1.

All’inizio dei Tre moschettieri Alexandre Dumas, con la nonchalancee la grinta del narratore di razza, fin dalla prima riga precipita l’imma-ginario del lettore in un oscuro Nonluogo della Francia profonda («[…]la cittadina di Meung […]»), collocandolo però nel tempo («Il primo lu-nedì d’aprile del 1625 […]») con una precisione calendariale degna deigrandi eventi della Storia, che contrasta violentemente, anzi proprio faa pugni, con un Nome tanto anonimo. Nella seconda riga, senza nessovisibile con le altre informazioni storiche offerte nel capoverso, e conpignoleria che ha tutta l’aria d’essere inutilmente erudita (il lettore sene chiederà infatti la ragione per molte pagine, se non per tutto il libro),quel luogo si connota come la città natale di Jean de Meung, autore delpiù famoso romanzo del Medioevo cortese.

Come può sbocciare il lento, pensoso melisma gregoriano del Romande la Rose fra il luttuoso Adagio barocco dell’evocazione della guerra deiTrent’anni (che il distratto Dumas, scrivendo velocissimo, anticipa diun decennio) e il fragoroso ingresso da Opéra comique di d’Artagnan,proprio nelle battute inaugurali del più frivolo e amato dei racconti dicappa e spada, il cui ritmo diventa subito il Presto con molto brio, con

1 a. dumas, Les trois mousquetaires, Paris 1844, cap. i: Les trois présents de Monsieur d’Artagnanpère. Faccio ricorso intenzionalmente, per la traduzione italiana, a quella apparsa nella serie (tac-ciata dai soliti polemisti di attuare una diffusione della letteratura su scala «nazional-popolare»)allegata nel gennaio del 2004 al quotidiano «La Repubblica»: I tre moschettieri, introduzione e tra-duzione di G. Paduano, Roma 2004, cap. i: I tre doni del signor D’Artagnan padre; la frase citata silegge a p. 7.

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capitoli travolgenti come un Crescendo rossiniano? Perché un richiamoa quell’imponente, onnivoro librone di ventiduemila versi scritti in fran-cese antico, a suo tempo diffusissimo (ci restano più di trecento mano-scritti, e almeno ventuno edizioni a stampa fra il 1481 e il 1538), ma or-mai oggetto desueto2, in pieno romanticismo, con la sua vicenda tuttamentale della conquista del Fiore desiderato dall’Amante, in una psico-machia interiore che, fra enciclopedismo e erotismo, accumula figure fi-losofico-allegoriche, ma che ai prodi cavalieri dei romanzi di Bretagnasostituisce astrazioni concettuali, Delizia, Ragione, Gelosia, DolceSguardo, Bell’Accoglienza, Mala Bocca, Falso Sembiante?

Dumas compose tutto d’un fiato, nel 1844, il suo vivace e leggeroromanzo di spadaccini e di guerre, teso fra politica e religione, alla finedi un quinquennio di produttività furiosa: fra il 1841 e il 1845 scrisseuna ventina fra testi teatrali e libri di viaggio, e ben ventisette roman-zi, fra i quali, in diciotto volumi, la storia tenebrosa e dai toni goti-cheggianti della segregazione nel castello d’If del conte di Montecristo.Il tempo per dedicarsi a ricerche d’archivio non l’aveva certo (e infattisbagliò clamorosamente la data con cui apre il libro: invece di 1635,scrisse 1625: salvo che si voglia pensare a un anacronismo ricercato, madal senso oscuro). Proclama, autoironico, nella Prefazione, di volere «pre-sentar[s]i un giorno con bagaglio altrui all’Accademia delle iscrizioni ebelle lettere, se non foss[e] arrivato – cosa assai probabile – a entrarenell’Accademia francese col bagaglio [su]o»3. Giocò, infatti, sulla me-moria liceale, e dovette ricorrere agli scaffali delle biblioteche circolan-ti. Soprattutto, sospetto che gli sia venuto fra le mani il numero della«Revue des deux mondes» del 15 agosto 1843 che, a firma di Jean-Jacques Ampère (figlio del grande fisico André-Marie, «il Newton

dell’elettricità»), dedicava quaranta pagine al libro medievale, di fattorilanciandolo sul mercato del vasto pubblico4.

Da pochi anni (nel 1840) era apparsa in Italia l’edizione definitiva eampiamente rielaborata dei Promessi Sposi, uscita già in prima edizionenel 1827 e subito applaudita in tutta Europa, dalla Francia di Balzac al-la Germania di Goethe alla Russia di Pu∫kin (che lo lesse in italiano), eperfino all’America di Edgar Allan Poe. Manzoni aveva scelto un avvioimperniato su un gioco di opposizioni affine, a pensarci un poco, a quel-lo di Dumas. Il libro si apriva con la Geografia e con la Storia, collo-cando la modesta vicenda di «gente meccaniche»5 nello spazio casalin-go della provincia lombarda (però con l’ékphrasis incipitaria forse di piùlargo respiro di tutta la letteratura europea) e nel tempo sbriciolato diuna quotidianità paesana, tanto più assurda proprio perché datata an-ch’essa con esagerata esattezza cronologica («Per una di queste stradic-ciole, tornava bel bello dalla passeggiata verso casa, sulla sera del gior-no 7 novembre 1628, Don Abbondio, curato d’una delle terre accen-nate: il nome di questa, né il casato del personaggio, non si trovano nelmanoscritto […]»6. Molte delle pagine successive, in quel capitolo i, era-no state dedicate a collocare le minuscole vicende dei personaggi pro-vinciali sulle ascisse e ordinate della Storia. Anche nei Promessi Sposi,dunque, alle spalle del tempo piccolo, la cronaca dei poveri innamoratisventurati e del pavido curato brianzolo, s’intravedeva subito il TempoGrande della Storia: le Armi, le Guerre, le epocali Mutazioni.

Dumas non era Flaubert, erudito divoratore di biblioteche. Non sodire se prima di scrivere i Tre moschettieri avesse letto i Promessi Sposi.Probabilmente sì. Tradotti da Rey-Dusseuil, li aveva pubblicati nel 1828Charles Gosselin, lo stesso editore che fra il 1822 e il 1830 stampò, inuna sessantina di volumi, le Œuvres complètes di Walter Scott. Sta difatto che per avviare il capitolo ii del suo libro anche Manzoni avevascelto l’ironia affettuosamente grottesca del paragone falso-epico: proiet-tando, veloce come il fulmine, il lampo e l’ombra del modello eroico die-tro alla maschera d’un personaggio farsesco e meschino, s’era giocata an-

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2 Nel senso splendidamente illuminato da f. orlando, Oggetti desueti nelle immagini della let-teratura. Rovine, reliquie, rarità, robaccia, luoghi inabitati e tesori nascosti, Torino 1993: libro chequesto lavoro ambirebbe a tenere come luminoso e costante faro metodologico. Su questa linea dipensiero, nelle pagine che seguono mi sforzerò di individuare e segnalare, per la loro evidenza te-stimoniale di fenomeni culturali più ampi, «la coincidenza d’una costante di forma – e precisa-mente di sintassi – con due costanti tematiche, ossia di contenuto, connesse fra loro» (ivi, p. 3),avendo a mente soprattutto l’invito di Leo Spitzer ad accendere lo sguardo anzitutto sulle identitàlessicografiche e morfosintattiche e in secondo luogo sulle identità semantiche, metaforiche, ideo-logiche che quelle linguistiche sostengono, condizionano ed anche permettono di riconoscere, quan-do si siano raccolte e opportunamente valutate le prove di una «solidarietà europea che non ha maicessato di esistere: solidarietà relativa al materiale verbale (che apparteneva esclusivamente agli an-tichi) e solidarietà negli sviluppi semantici che hanno contribuito, attraverso i tempi, ad arricchi-re il materiale originario»: l. spitzer, Essays in Historical Semantics, New York N.Y. 1948, p. 303.La frase è ricordata anche da R. Wellek nella sua Prefazione alla versione italiana di un altro fon-damentale libro di l. spitzer, Classical and Christian Ideas of World Harmony, Baltimore Md. 1963[trad. it. L’armonia del mondo. Storia semantica di un’idea, Bologna 1967, pp. vii-xvi (a p. ix)].

3 a. dumas, Les trois mousquetaires cit., trad. it. p. 4.

4 Tre anni prima, nel 1839-40, Jean-Jacques Ampère aveva pubblicato a Parigi una Histoirelittéraire de la France avant le xiie siècle, seguita nel 1841 da una Histoire de la littérature française aumoyen-âge comparée aux littératures étrangères: ma certo le due opere dovettero godere di una cir-colazione assai più modesta del saggio pubblicato sulla «Revue des deux mondes». Su di lui si ve-da uno dei lundis di Sainte-Beuve: c.-a. sainte-beuve, Nouveaux lundis, XIII, Paris s.d. [1908?],pp. 183-265 (già apparso nella «Revue des deux mondes» il 1° settembre 1868).

5 a. manzoni, I Promessi Sposi, Introduzione, in a. chiari e f. ghisalberti (a cura di), Tutte leopere di Alessandro Manzoni, 7 voll., Milano 1954, vol. II, tomo I: I Promessi sposi: testo critico del-la edizione definitiva del 1840, p. 3.

6 Ibid., cap. i, pp. 8-9.

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che lui la carta dell’allusività. La mossa risultava colma di energia su-bliminale, tanto più forte in quanto quasi inavvertita dal lettore che giàincominciava ad appassionarsi seguendo «il filo della storia», al mododi Don Abbondio, «a bocca aperta, come incantato»7:

Si racconta che il principe di Condé dormì profondamente la notte avanti la gior-nata di Rocroi: ma, in primo luogo, era molto affaticato; secondariamente aveva giàdate tutte le disposizioni necessarie, e stabilito ciò che dovesse fare, la mattina. DonAbbondio invece non sapeva altro ancora se non che l’indomani sarebbe giorno dibattaglia; quindi una gran parte della notte fu spesa in consulte angosciose8.

È notevole il mutamento rispetto al Fermo e Lucia (rimasto inedito,peraltro, fino al 1905), che si apriva con un giro di frasi ben più gene-rico, molto ingarbugliato, assai meno teatralmente costruito, inteso adomettere piuttosto che a dichiarare, quindi a far immaginare senza of-frire il supporto di un parallelismo; ma soprattutto imbastito su un al-legorismo astratto e fuori posto davvero degno, questo sì, del Romande la Rose: il quale roman sarebbe stato a suo agio in quello scartafac-cio trascritto dall’Anonimo secentesco, di gran lunga più che nel ro-manzone borghese goloso delle avventure dei nuovi cavalieri dal cap-pello piumato:

La consulta fu tempestosa e durò tutta la notte. L’egoismo, la debolezza, e lapaura vi si trovavano come in casa loro, l’astuzia doveva quindi essere invitata, e ri-cevere l’incarico di proporre il partito, e così fu. Senza annojare il lettore colla rela-zione di tutte le fluttuazioni, dei ripieghi accettati e rigettati, basterà il dire che ilpartito di fare quello che si doveva senza darsi per inteso della minaccia non fu nem-meno discusso, che si pensò a quello di assentarsi, tanto da aspettare qualche bene-ficio dal tempo, ma questo anche fu rigettato perché non v’era spazio per eseguirlo9.

Il lettore, di fatto, si «annoja» molto di più a seguire le volute ba-rocche di quei concetti-personaggi senza nerbo e senza volto, cui man-ca solo la lettera maiuscola per figurare, appunto, in un romanzo alle-gorico medievale. Quanto più efficace, e di ben più incisiva allusività,è la scelta successiva e definitiva di evocare, dietro gli incubi notturnidel curato in papalina, l’elmo sfolgorante del misterioso Principe diCondé. Il nome sarà risuonato per molti lettori ottocenteschi al modoarcano e favoloso di un qualche Marchese di Carabà; ma a tutti doveva

risultare chiarissimo che era chiamato in causa come eroe di un’impre-sa guerresca: anche se la parola «battaglia» Manzoni, accuratamente, lafaceva scivolare su Don Abbondio, per dare consistenza da epopea allesue «consulte angosciose». Quel principe era la pedina di un gioco eso-tico e fatto di nomi, di parole, di libri: il gioco della guerra lontana, delcui fragore erano pieni solo i poemi e i romanzi di cavalleria, ma che benpresto avrebbe invaso la storia grande d’Europa, dilagando perfino nel-la storia piccola dei due fidanzati infelici, proiettata sul telone della me-moria e raccontata dal nuovo romanzo storico e anticavalleresco.

2. «I romanzi “succedono” per il fatto che esistono e vengono letti».

Le vicende dei Tre moschettieri e dei Promessi Sposi si svolgono a cen-tinaia di chilometri di distanza, ma esattamente nello stesso periodo: an-zi, proprio negli stessi mesi. Il salvacondotto firmato da Richelieu, cheAthos strappa a Milady consegnandolo a D’Artagnan, e che con un in-ganno salva la vita di quest’ultimo, nelle ultime pagine del libro (cap.lxvii, Un messaggero del Cardinale), è datato 5 agosto 1628: tre mesi edue giorni prima di quella passeggiatina di Don Abbondio nel crepu-scolo sotto il Resegone.

Un poco come avviene (anche se su tutt’altro piano) ne La cognizio-ne del dolore, la più grande parodia, o “ricantazione” manzoniana (sipensi al microscopico Don Gonzalo che “diventa” il protagonista, e alprotagonista Lorenzo Tramaglino che “si trasforma” nel microscopicoFilarenzo Calzamaglia), anche in Dumas, difficile dire quanto intenzio-nalmente e consapevolmente, assumono il ruolo di perni della storia, in-torno ai quali ruotano le guasconate dei moschettieri francesi, tutti igrandi personaggi europei che Manzoni aveva tenuto come figurine mi-nuscole nel romanzo del matrimonio impedito: soldatini di piombo ofantocci da teatro dei pupi, ombre scurissime e allegoriche, che filtranodi tanto in tanto negli interstizi della narrazione, a ricordare la corruscatragedia della Storia Grande che si svolge sul palcoscenico europeo, con-tro la quale si schiantano le piccole storie nella valle del lago di Como.

La sincronia dei due libri è straordinaria. Mette in luce, mi pare, unavolontà estetica e un atteggiamento culturale nei confronti della caval-leria e della guerra moderne, decaduto e svilito epilogo di quelle eroi-che, mitiche, del Medioevo. Più che una poetica (giacché i due autori,così affini nell’impostazione, sono poi lontanissimi nel gusto e nelle in-tenzioni di fondo della scrittura romanzesca), è un’identica posizioneepistemologica che si chiarisce, proprio nella scelta di tratteggiare ar-

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7 Ibid., p. 16. Per le occorrenze e per un’esegesi delle implicazioni struttive e poetologiche delsintagma «il filo della storia», da interpretarsi attraverso la restituzione di un’ampia metaforica«tessile» (il testo come «filo» da tessere per trarne il «tessuto» che è la «trama» della narrazione)rinvio a c. bologna, Il filo della storia. «Tessitura» della trama e «ritmica» del tempo narrativo fraManzoni e Gadda, in «Critica del testo», I/1 (1998), pp. 345-406.

8 a. manzoni, I Promessi Sposi cit., cap. ii, p. 26.9 id., Fermo e Lucia, in a. chiari e f. ghisalberti (a cura di), Tutte le opere di Alessandro Man-

zoni cit., vol. II, tomo III: Fermo e Lucia. Prima composizione del 1821-1823, p. 32.

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cheologicamente un paesaggio mentale abbastanza fedele, con la rico-struzione di pannelli e di coulisses necessari all’intenzione narrativa. Ilromanzo storico sta sviluppando, con la proiezione nel cuore dell’età del-le grandi guerre moderne da cui nacquero gli assetti statali ottocente-schi, il nuovo modello applicato da Walter Scott al Medioevo goticheg-giante dei boschi e delle imprese coraggiose compiute da Ivanhoe, il piùmoderno dei cavalieri antichi (e fra le Œuvres complètes edite da Gosse-lin, mentre preparava la metamorfosi del Fermo e Lucia nei Promessi Spo-si, Manzoni aveva potuto leggere anche Les Fiançailles de Triermain e Lavision de Don Rodrigue, nel III tomo, e le Histoires du temps des Croisades,fra cui, nel tomo XXXIX, Les Fiancés ou le Connétable de Chester).

Il revival di maniera di Ivanhoe, così dipendente dall’immaginario deipittori e dei disegnatori primo-ottocenteschi, s’intreccia, a ben vedere,con una stratificazione più profonda e complessa della tradizione ico-nografica europea. Il ricorso all’evocatività dell’immagine visiva tendealla stessa finalità della scelta della dimensione storica in cui calare latrama: il problema sarà, allora, determinare quale storia, e come e perchésia scelta per realizzare questa complessa proiezione identificativa-dif-ferenziativa, tecnicamente definibile quale allegoria; e infine da dove es-sa venga dedotta.

Manzoni sceglie il Seicento, epoca della prima modernità, per ri-specchiarvi e metaforizzarvi la «seconda modernità post-rivoluziona-ria»10: e in questo modo I Promessi Sposi (sia pure in dimensione tragicaanziché tragicomica) replicano di fatto il Don Chisciotte, per così direfacendosene scudo. Per questa via, soprattutto riscrivendo e metabo-lizzando Cervantes, l’età romantica sussume, già riorganizzata nell’im-maginario come repertorio di rovine, l’intera tradizione medievale e ri-nascimentale, e quindi anche la storia della cavalleria dai romanzi cor-tesi e dalle chansons de geste fino al Boiardo e all’Ariosto. Il cavaliereromantico è consumato, giunto al termine della sua parabola funziona-

le; e si manifesta soltanto «come mera sedimentazione in tecnica di ma-nutenzione di gerarchie sociali», ed anche in quanto operatore simboli-co «nella ricerca di un ordine irriducibile alle autorappresentazioni delmoderno». È attivo proprio in quanto invisibile, malinconica allegoria diquel repertorio consunto: il Seicento manzoniano «è anche un grande,ironico museo-cimitero di simboli cadaverizzati dal pieno compimentodella loro explanatio pedagogico-convenzionalista». Ormai «la forma delromanzo è il divenir forma del suo sparire, il suo […] trapassare in sestesso»: il radicarsi di Manzoni «nello snodo-simbolico-moderno» lo ri-vela «fondamentalmente “contemporaneo” degli abitatori di questo luo-go dove la storia prende forma nel suo stesso sospendersi e dove il mo-vimento del simbolo si riattua nel trapasso dal visibile all’invisibile».

Certo, bisogna dire che, innamorati delle loro storie, non sempre gliscrittori stanno attenti alla Storia. L’errore di Alexandre Dumas, che dilibri ne scrive a decine in pochi anni, crea un poco di turbamento in chiricordi come andarono “davvero” le cose. Il cardinale di Richelieu po-se l’assedio all’ugonotta La Rochelle due anni più tardi rispetto a quel1625 con cui Dumas avvia il suo romanzo; e l’assedio fu posto, appun-to, dai cattolici agli ugonotti (là rifugiatisi nel 1572, dopo la notte diSan Bartolomeo), e non viceversa, come si rischia di dedurre a una let-tura affrettata quale avrà certo fatto il lettore comune del romanzo («Ilprimo lunedì d’aprile del 1625 la cittadina di Meung, dove nacque l’au-tore del Roman de la Rose, sembrava completamente sconvolta, come segli ugonotti fossero venuti a farne una seconda Rochelle […]»). Il 1625,poi, non c’entra proprio nulla, giacché le ostilità tra i cattolici francesie gli Inglesi (sostenitori dei protestanti roccellesi) scoppiarono solo nel1627, e l’assedio incominciò il 12 ottobre di quell’anno, protraendosifino al 18 ottobre dell’anno successivo, quando Richelieu riuscì dopomille manovre a spuntarla.

Insomma: il fondale storico di Dumas risulta importante per collo-care i moschettieri in un contesto che si vuole robustamente efficace,veritiero, credibile, ed è nitidamente messo a fuoco e abbastanza preci-so; ma appare intaccato da una volontà di disturbo, da un intenzionaledesiderio di camuffare i dati “veri”, rendendoli “romanzeschi” anzituttoperché “inesatti”, “inventati”, non corrispondenti alla documentata esolida Storia.

Invece Alessandro Manzoni che, scrivendo e riscrivendo, impiegavent’anni a metter la parola fine al suo libro, le date non le sbaglia mai.Come nei Promessi Sposi, così anche nella Storia della colonna infame chedal romanzo venne stralciata, e nell’Adelchi e nel Conte di Carmagnola,si vede bene che ha davanti libri e appunti precisi, documentazione se-

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10 Questa citazione, e le altre che seguono fra virgolette in questo capoverso, sono tratte daun breve saggio pensato con lo sguardo rivolto a Walter Benjamin e che a me sembra assai acutonella riflessione epistemologica sulla categoria del cavalleresco lungo il suo lento e vario sedimen-tarsi, riprendersi e metabolizzarsi storico e nel suo cristallizzarsi nel romanzo manzoniano: a.brandalise, Cavalleria visibile e cavalleria invisibile. «Approfondimento» e «oltrepassamento» del sim-bolo cavalleresco in Manzoni, in «L’immagine riflessa. Rivista di sociologia dei testi», XII/2 (luglio-dicembre 1989), pp. 461-71 (alle pp. 465, 467, 462); si veda anche (a proposito del Prologo del DonChisciotte), id., Stili e maniere di un’aristocrazia invisibile (1998), in id., Oltranze: simboli e concettiin letteratura, Padova 2002, pp. 59-71. Infine cfr. il recentissimo saggio, nitido e ricco di solleci-tazioni (apparso troppo tardi perché vi potessi ricorrere in queste pagine), id., Figure del Medioevonell’immaginazione politica della Modernità, in p. boitani, m. mancini e a. varvaro (a cura di), Lospazio letterario del Medioevo, vol. II: Il Medioevo volgare, tomo IV: L’attualizzazione del testo, Ro-ma 2004, pp. 273-97.

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guita con la voglia di dir proprio le cose «come avvennero». Si tratta diuna questione importante, se si dà ascolto, riflettendoci su in prospet-tiva metodologica, a quanto ha scritto uno dei più sottili romanzieri deinostri giorni, Javier Marías: la distinzione fra storia e romanzo è una la-bile faglia, un’invisibile, impalpabile frattura che costituisce anche unasaldatura. Perché forse è vero che la storia racconta le cose che sonosuccesse, mentre «il romanzo racconta quello che non è avvenuto»; etuttavia

[…] forse è vero piuttosto che i romanzi succedono per il fatto che esistono e ven-gono letti e, a ben vedere, con il passare del tempo ha assunto più realtà Don Chi-sciotte che qualunque altro dei suoi contemporanei storici della Spagna del xvii se-colo; Sherlock Holmes è successo in misura più ampia che non la regina Vittoria per-ché continua ancora a succedere ininterrottamente, come fosse un rito […]. Unromanzo non soltanto racconta, ma permette di assistere a una storia o ad alcunieventi o a un pensiero, e nell’assistervi ci permette di comprendere11.

Il romanzo «succede», «cade tra i piedi» del lettore, e così «avvie-ne», «esiste», e «permette di comprendere» ciò che (sia o non sia «ac-caduto nella realtà») in esso «accade», e continua ad «accadere» ad ognilettore in ogni lettura, esattamente come nel rito «accade» ciò che «èaccaduto» nel tempo del mito, e in ciascuna delle brevi schegge del tem-po ritualizzato si riattualizza quel tempo mitico che è fuori del temporeale. Così ogni lettura del romanzo fa «accadere» sempre di nuovo, mi-ticamente-ritualmente, i personaggi le cose le azioni i luoghi i tempi che«accaddero» nella storia, in quella storia.

Si veda, ad esempio, quando nei capitoli xxvii e xxviii, lunghi e dot-ti (contenendo il primo il catalogo della biblioteca di Don Ferrante) efarciti di fatti storici, Manzoni introduce alcuni richiami proprio all’as-sedio della Rochelle («Il cardinal di Richelieu, presa, come s’è detto, laRoccella, abborracciata alla meglio una pace col re d’Inghilterra, avevaproposto e persuaso con la sua potente parola, nel Consiglio di quello diFrancia, che si soccorresse efficacemente il duca di Nevers […]»)12. Par-la al passato di fatti svoltisi recentemente, dal momento che la sua sto-ria incomincia proprio nell’autunno 1628. Già all’inizio della storia, nelcapitolo v, nel dialogo fra il conte Attilio e il podestà, durante il convi-to in casa di Don Rodrigo, di fasto e tono dongiovanneschi, s’era vistaspuntare l’ombra del Cardinale («il signor cardinale di Riciliù farà unbuco nell’acqua»), e quella più oscura e in realtà assai più minacciosa dei

mercenari svizzeri, che invece all’ignaro podestà non causavano sover-chie preoccupazioni («Vagliensteino mi dà poco fastidio»)13.

Non deve sfuggire la finezza della tramatura che tesse la storia pic-cola con quella grande. Due pagine prima, nello stesso capitolo, duran-te il duello verbale sui temi cavallereschi («“[…] mi dirà se questa è azio-ne da cavaliere”. “Sì, signore, da cavaliere”, gridò il conte: “e lo lascidire a me, che devo intendermi di ciò che conviene a un cavalie-re[…]”»)14, nel mezzo del quale fra Cristoforo piomba, inconsapevol-mente, con il suo scandaloso messaggio di pace, il conte, acceso nell’al-terco sulle procedure del duello, respinge l’auctoritas del Tasso invoca-ta dal podestà, trascorrendo dalla teoria cavalleresca ai cavalieri dellaletteratura, e richiamando al poema tassiano: «“[…] quell’uomo erudi-to, quell’uomo grande, che sapeva a menadito tutte le regole della ca-valleria, ha fatto che il messo d’Argante, prima d’esporre la sfida ai ca-valieri cristiani, chieda licenza al pio Buglione […]”»15.

Dunque il conte Attilio, il podestà, e probabilmente anche Don Ro-drigo, proprio come gli eruditi alla Don Ferrante (il parallelo si scopriràpiù tardi, nel capitolo xxvii) avevano letto e conoscevano a memoria laGerusalemme Liberata (sarebbe bello sapere se anche l’Orlando Furioso,libro, però, che eccedeva nell’ironizzare sulla cavalleria, ed era quindidecisamente meno à la page). Anche se per quegli sgangherati eredi delconte Orlando e dei suoi paladini (i bravi che sono allegorici avvoltoi fragli avvoltoi veri, in attesa «d’esser chiamati a goder gli avanzi della ta-vola del signore»)16, l’estremo ed estremistico poema cavalleresco, dovela «gran bontà dei cavallieri antiqui»17 si addobbava ormai di corazze al-

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11 j. marías, Epilogo. Lo que no sucede y sucede (1995) [trad. it. Epilogo. Quello che succede equello che non succede, in appendice a id., Domani nella battaglia pensa a me, Torino 1998, pp. 279-283; le frasi citate si leggono alle pp. 281-82].

12 a. manzoni, I Promessi Sposi cit., cap. xxviii, p. 491.

13 Ibid., cap. v, p. 84.14 Ibid., p. 80. La modalità della «conversione» di fra Cristoforo è finemente riconosciuta da a.

brandalise, Cavalleria visibile cit., p. 468: «[…] Lodovico (che è da sempre colui che diventerà Cri-stoforo così come Cristoforo è per sempre chi lo diviene scoprendo che Cristoforo è la verità di Lo-dovico) declina il suo voler essere nobile in direzione di un voler essere cavaliere che, se da un latolo esporrà all’esperienza catastrofica che gli svelerà il nucleo mortifero del suo desiderio, dall’altrogli consentirà di accedere alla realizzazione della sua vocazione aristocratica nel superamento dellasua interpretazione come status. […] Il primo movimento della vicenda di Lodovico è centripeto,converge verso la spada e verso la necessità catastrofica del duello. È appunto in questa stretta chela cavalleria viene a risolversi attraverso la propria apocalisse. Lodovico letteralmente si perde nellamassima esasperazione del proprio dover apparire […] e con ciò la cavalleria sembra dileguarsi conil “togliersi dal mondo” di chi si era battuto per figurarvi appunto come cavaliere». Il senso dell’agi-re di Cristoforo «è la regola di una cavalleria invisibile che non ha luoghi deputati né status perchéprende corpo in quel concreto che ogni singola rappresentazione conosce solo come il proprio per-turbante non detto. La seconda parte della vicenda di Cristoforo è aperta ed espansiva, costante-mente risolta nel servizio ad altre vicende. Ma è il suo saldarsi con la prima che mostra come la pre-stazione essenziale del personaggio stia nell’approfondimento della natura del simbolo cavalleresco».

15 a. manzoni, I Promessi Sposi cit., cap. v, p. 79.16 Ibid., cap. v, p. 76.17 Mario Mancini ha dedicato alcuni importanti, acuti studi alle permanenze e alle trasforma-

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legoriche e moraleggianti, costituiva soprattutto un prontuario da com-pulsare per decidere di questioni d’onore, e «l’armi pietose» dei crocia-ti e le gesta guerresco-amorose di Rinaldo e Armida si scioglievano inun granghignolesco pot pourri confondendosi, nei fumi dell’ubriacatura,con le sordide avventure di quel Don Giovanni di periferia che è DonRodrigo.

3. Don Rodrigo, Don Giovanni, Don Chisciotte.

Senza dar nell’occhio, mascherato negli abiti di Don Rodrigo, entrain scena così, accanto ai paladini, ai bravi, ai moschettieri, anche DonGiovanni.

Don Giovanni, l’antieroe meridionale che nello spirito ulissico del-la métis, fra commedia e tragedia, traduce trascinandole nel fango le an-tiche virtù dei cavalieri settentrionali, le stesse che quasi contempora-neamente l’altro antieroe spagnolo, son semblable, son frère, l’hidalgo DonChisciotte, parodizza esasperandole, in dimensione tragicomica. ComeDon Chisciotte, e più ancora di lui, Don Giovanni subisce pressioni etrasformazioni, adattamenti, clonazioni e trasfigurazioni nel tempo enello spazio, tra la Spagna del Burlador de Sevilla di Tirso de Molina(1630) e l’Italia della Commedia dell’Arte (uno scenario importante co-me l’Ateista fulminato era noto nel 1665). Prima di approdare (1787) sul-le scene praghesi del capolavoro di Mozart e Lorenzo da Ponte (il qua-le sembra ricalcare sul proprio libretto d’opera una vita sregolata di gio-catore indebitato e impenitente!) passa per la Francia di Molière (il suoDon Juan ou le festin de Pierre fu messo in scena al Palais-Royal di Pari-gi il 15 febbraio 1665) e poi di Choderlos de Laclos (sullo scheletro fi-gurale di Don Giovanni è modellato nel 1782 il Visconte di Valmontdelle Liaisons dangereuses), ma con l’intermediario dell’Inghilterra di Sa-muel Richardson (un paradigmatico dongiovanni, fin dal nome parlan-te, è il Lovelace della sua Clarissa Harlowe, 1747-48)18.

Si badi, però, che anche fra le coltri profumate, in mezzo alle trinee ai merletti, la cavalleria originaria freme e sospinge per riemergere al-la luce, tra gli spasimi d’amore dei cicisbei libertins. Essi rielaborano erilanciano alle soglie della Rivoluzione francese un modello di erotismocome sublimazione della conquista cavalleresca in strategia mentale, che lapoesia trobadorica aveva già espresso sei secoli prima, in forme di me-ravigliosa complessità e raffinatezza: «questi libertini […] sono dei ma-chiavellici, i quali vorrebbero consultare l’Arte della guerra del segreta-rio fiorentino per far crollare ragazze virtuose»19 (e nei Tre moschettieri,ancora e in termini espliciti: «[…] da una parte gli Spagnoli, dall’altrale donne. Si trattava sempre di un nemico da combattere e di un tribu-to da riscuotere»)20.

Don Giovanni “è stato” già da sempre altro da quel che “diventa”al termine di una lunga vicenda di metamorfosi del personaggio. La suavicenda di nascita, vita, avventura e morte, secondo la diagnosi acuta eprecorritrice di Giovanni Macchia, ha direttamente a che fare con quel-la dei protagonisti dell’epopea cavalleresca:

[…] a poco a poco Don Giovanni è divenuto un eroe, un eroe del male, allegro pro-curatore di lagrime e di lutti che scateneranno i fulmini e il castigo celeste. L’ateistafulminato, il dissoluto punito. Un eroe che prese il posto degli Orlandi, dei paladini,dei grandi spadaccini delle chansons de geste e dei romanzi cavallereschi, i quali am-mazzavano un incredibile numero di nemici, così come Don Giovanni conquistavale sue Donne: personaggi che il nostro eroe finì col sostituire e far sparire. Di tuttiquei cavalieri avrebbe potuto incontrare solo l’ascetico, l’allucinato Don Chisciotte,il relitto di un mondo scomparso. E che incontro sarebbe mai stato21!

Don Giovanni come ombra del Paladino, del Cavaliere delle chansonsde geste, a sua volta (esattamente come Don Chisciotte) avatar di Orlan-do, e al termine di una lunga, complessa parabola di metamorfosi “dive-nuto” il «barbaro», l’«empio», «l’iniquo», il «mostro, fellon, nido d’in-ganni», lo «scellerato» (secondo il niagara di improperi rovesciatogli ad-dosso da Donn’Elvira, nella v scena del I atto dell’opera mozartiana).Detto in altri termini: Don Giovanni incarna un duplice cavaliere/anti-cavaliere, come conferma, due scene dopo, Zerlina a Masetto, a garanziasuprema, nell’attimo in cui «vorrebbe e non vorrebbe» cedere alle lu-

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zioni dei modelli feudali-cortesi fin entro il cuore dell’età moderna. Penso soprattutto ai due sag-gi I «cavallieri antiqui»: paradigmi dell’aristocratico nel «Furioso», in «Intersezioni», III (1988), pp.423-54, e Onore cavalleresco e onore aristocratico, in «L’immagine riflessa», XII (1989), pp. 147-192, e al libro Metafora feudale, Bologna 1993.

18 Su questa metamorfosi si veda ora l’importante, ricchissimo libro di m. domenichelli, Ca-valiere e gentiluomo. Saggio sulla cultura aristocratica in Europa (1513-1915), Roma 2002, l’operaforse più completa e articolata intorno alle metamorfosi dei modelli esistenziali e simbolici, e deicodici di appartenenza e di rappresentazione, elaborati intorno alla figura del cavaliere. In parti-colare per le opere che qui si ricordano cfr. il cap. x: La «scienza cavalleresca» nel Settecento. Li-bertini e «gentlemen», pp. 413-61.

19 g. macchia, Vita avventure e morte di Don Giovanni con tre scenari della Commedia dell’Ar-te, un’opera regia e un dramma per musica, Bari 1966, p. 27. Il volume, un classico modello di rico-struzione storico-ideologica della parabola «esistenziale» di un Personaggio, raccoglie due bellissi-mi saggi di Macchia (Vita avventure e morte di Don Giovanni, pp. 3-70; Gli oscuri antenati del «DonGiovanni» di Mozart e Da Ponte, pp. 73-111) posti a introduzione di una scelta di scenari della Com-media dell’Arte. A p. 117 una sintetica, imprescindibile Nota bibliografica.

20 a. dumas, Les trois mousquetaires cit., trad. it. cap. xi: L’intrigo si complica, p. 130.21 g. macchia, Vita avventure e morte di Don Giovanni cit., p. 9.

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singhe del seduttore: «nelle mani son io d’un cavaliere […]». Ambiguadoppia ombra, che ribadisce l’inattualità ormai storicamente irrisarcibi-le di quella forma archetipica solidamente tutta dalla parte delle «forzedel Bene», sussumendo e rovesciando gli innumerevoli Cavalieri dellatradizione eroica negli schemi di una nuova antropologia che esalta il tra-dimento, la truffa, l’ulissica bramosia di conquista ad ogni costo: e an-che, nei cascami del mito ormai decomposto e rovesciato su se stesso, lamollezza timida, accidiosa e oblomoviana (e sarà l’esito estremo, con ilDon Giovanni in Sicilia di Brancati)22. Antieroe individualistico ed egoi-stico, eccitato dal desiderio di possesso piuttosto che dedito all’eserciziointeriore che raffinando rende capaci di vincere ogni sfida. Il rovescio,in sostanza, dell’antico Cavaliere sommamente leale e fedele alla paroladata: e difatti trasformato ormai in «gentiluomo ma non galantuomo»23.

Don Giovanni, dunque: l’anticavaliere che attraverso la rilettura com-piuta nel Sud satura, metamorfosa, consuma tutte le figure degli antichicavalieri del Nord, immettendo le fiamme dell’inferno e le ambiguità deldiavolo nella tradizione del puro eroe capace di giungere al Graal, alla vi-sione della verità come conquista interiore, come esito di un lungo, fe-roce esercizio anche fisico, ma soprattutto spirituale. Proprio Don Gio-vanni era di sicuro nella mente di Alessandro Manzoni24, nella sua «fan-tasia nera» accesa nel «grande teatro della crudeltà»25, mentre scolpivail suo oltranzoso Don Rodrigo, la cui «passion principale» è «il pensierodelle lusinghe, delle promesse che adoprerebbe per abbonire Lucia»26.

Non sfugga, se si vuole cogliere il mitologema nel nòcciolo del suoformarsi e trasformarsi (non esito a ricorrere a un vocabolo-chiave del-la storia delle religioni e dell’antropologia), che nello stesso Don Rodri-go converge (oltre al Don Rodrigue francesizzato di Walter Scott), spic-candosi a sua volta dal Don Giovanni libertino, anche un’altra forma fi-

gurale, un personaggio intermedio che non porta ancora appieno la ma-schera del bravaccio, ed è tuttavia più libertino seduttore, violento eomicida, che metafisica ombra del male. Egidio, dico, il tentatore diGertrude nel convento di Monza. Il destino di Egidio è letteralmente,totalmente dongiovannesco, visto che di quel «giovane scellerato» («equesta parola applicata ad un uomo di quei tempi ha un senso molto piùforte di quello che generalmente vi s’intende nei nostri», sottilizza l’an-tropologo-lessicografo Manzoni)27, citando alla lettera il celeberrimo ca-talogo di Leporello: «la sua passione predominante era l’amoreggiare»28.

A questo punto non sarà improprio riconoscere il modello segretodell’avvento provvidenziale, aspro, mosso da finalità etiche e sostanzial-mente punitivo-redentrici e dai toni messianico-apocalittici, di fra Cri-stoforo durante il banchetto di Don Rodrigo - Don Giovanni, non più al-tezzosamente solitario, ma popolato di scherani più infidi e infedeli di Le-porello (Don Attilio, il podestà, i bravi). È, evidentemente, la metafisicaepifania del Commendatore che, in forma di statua, bussa alla porta delreprobo, e dopo aver rifiutato la sua offerta conviviale (atto II, scena xv:«Non si pasce di cibo mortale | chi si pasce di cibo celeste; | altre cure piùgravi di queste, | altra brama quaggiù mi guidò»), lo trascina con sé, or-mai pienamente ateista fulminato, nell’aldilà da cui proviene. Fra Cri-stoforo, nell’esatta descrizione manzoniana della prossemica dei perso-naggi, si ferma sulla soglia «ritto, in atto di chi si dispone ad aspettare»29

e, immobile come una statua, viene accolto da un servitore che giunge, almodo di Leporello, confusamente «borbottando», e si stupisce di veder-lo in quel luogo («“Lei qui?” “Come vedete, buon uomo”»); rifiuta sul-le prime, anche se poi accetta di «sorbir lentamente» il vino offertogli daDon Rodrigo. Quando poi, nella chiusa del capitolo v, si allontana conDon Rodrigo («[…] gli disse: «eccomi a’ suoi comandi»; e lo condusse inun’altra sala»), il sipario sembra scendere su quest’uscita per la comunecon lo stesso fragore con cui le fiamme infernali inghiottono Don Gio-vanni, che in esse «si sprofonda» alla fine dell’opera mozartiana.

Non si potrà più dubitare, allora, che il dialogo serrato, feroce, a den-ti stretti, con cui il Commendatore cerca di salvare almeno l’anima dellibertino, riprendendo alla lettera gli improperi di Donn’Elvira («“Pèn-

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22 Cfr. v. brancati, Don Giovanni in Sicilia, in id., Opere: 1932-1946, a cura di L. Sciascia,Milano 1987, pp. 451-590. Così entra in scena il personaggio: «Pochi anni dopo la sua nascita, gliparlarono della donna, sotto un carro le cui aste indicavano il cielo. […] Il ragazzo, già pigro di na-tura, divenne tardissimo, carico com’era di tante domande e arrovellio. Sebbene fosse ancoranell’età in cui le signore, nel salotto in cui mancano le sedie, ci tirano con un bacio sulle ginocchia,e la cugina più anziana, nella casa di campagna in cui sono arrivati improvvisamente degli ospiti,ci mette a dormire con lei, Giovannino arrossiva in tal modo quando una mano di donna gli sfio-rava la testa, che nessuno più osò occuparsi di lui. Questo servì a renderlo più solitario, pigro e ta-citurno» (p. 457).

23 m. domenichelli, Cavaliere e gentiluomo cit., p. 333.24 g. macchia, Il mito di Don Giovanni. Metamorfosi e immobilità, in id., Tra Don Giovanni e

Don Rodrigo. Scenari secenteschi, Milano 1989, pp. 165-76.25 id., Nascita e morte della digressione. Da «Fermo e Lucia» alla «Storia della colonna infame»,

ibid., pp. 19-56 (alle pp. 52 e 54).26 a. manzoni, I Promessi Sposi cit., cap. xi, p. 190 (mio il corsivo).

27 id., Fermo e Lucia: prima composizione del 1821-1823, in a. chiari e f. ghisalberti (a curadi), Tutte le opere di Alessandro Manzoni cit., vol. II, tomo III, p. 209.

28 Ibid., p. 211 (anche qui il corsivo è mio). Su Mozart e Da Ponte in Manzoni: p. stoppelli,Manzoni e il tema di Don Giovanni, in «Belfagor», XXXIX (1884), n. 5, p. 501-16; v. branca, Oc-casioni manzoniane, II: Manzoni e l’opera romantica, in «Ateneo veneto», n.s., XII (1974), n. 1,pp. 33-52; c. ossola, Mozart e Manzoni, in aa.vv., Omaggio a Gianfranco Folena, 3 voll., Padova1993, II, pp. 1719-38.

29 Questa citazione e le seguenti in a. manzoni, I Promessi Sposi cit., cap. v, pp. 76-77, 79, 87.

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titi, cangia vita! | È l’ultimo momento” | “No, no, ch’io non mi pento;| vanne lontan da me!” | “Pèntiti, o scellerato.” | “No, vecchio infatua-to!” | “Pèntiti!” | “No!” | “Sì!” | “No!” | “Ah, tempo più non v’è!”»)rappresenti l’esatto schema prototipico, a sua volta modellato sulle strut-ture dell’antica tenzone cavalleresca, del duello verbale, zeppo di anafo-re che colpiscono come stoccate di fioretto («Voi avete creduto […]. Voiavete creduto […]. Voi avete disprezzato il suo avviso. Vi siete giudi-cato»)30 che fra Cristoforo, già cavalier Lodovico, pentito ma non deltutto svanito, intreccia su un virtuale «campo di battaglia», la «manominacciosa» profeticamente levata al cielo, con Don Rodrigo, l’«ab-bandonato da Dio» (che caccia anche lui, insultandolo, il suo ospite:«“Villano temerario, poltrone incappucciato. […] Villano rincivilito!”»),fino all’estrema minaccia di condanna vendicatrice al momento del Giu-dizio Finale: «Verrà un giorno…».

4. Figure sfigurate: dal Cavaliere al Bravo.

Occorrerà fare un passo indietro verso il fondale del teatro, e torna-re a guardare il palcoscenico dall’alto per allargare l’orizzonte e così ap-prezzare meglio il conservarsi, il riemergere, il variare in scena dei temicavallereschi durante l’età romantica, riconoscendo nello strato inter-medio, cinquecentesco e soprattutto secentesco, il livello in cui si rea-lizza la rielaborazione e la mediazione al Moderno delle immagini tra-smesse dal Medioevo. Se in Dumas il Seicento è il piano di riferimentoprimario della narrazione, per così dire sostanza reale della trama, il Sei-cento manzoniano è anche altro da sé, e dunque forma allegorica: allu-de contemporaneamente al Medioevo che non c’è più e al Moderno chenon c’è ancora; li filtra uno all’altro, li sovrappone e li fonde. Aiuterà acapire meglio quello che definirei lo sfiguramento del Cavaliere, che co-sì in letteratura come nell’arte, e quindi nella percezione storiografica ein quella mitografica, “genera” la figura nuova del Bravo.

Si muova da un un lieve, importante scarto nel trattamento dei te-mi storico-guerreschi, fra Manzoni e Dumas: con \klovskij potremmochiamarlo (tanto per restare in tema) passo del cavallo. Si sarà notato cheanche Manzoni, nell’avvio del capitolo ii, compie un curioso montaggiofra Storia Grande e storia piccola: non si tratta proprio di un errore,quanto piuttosto di un hysteron-próteron che implica una proiezione mul-tipla di punti di vista, di sguardi accesi da diversi «luoghi» mentali sul-

lo scorrere del tempo. Quando Don Abbondio si corica, la notte fra il 7e l’8 novembre 1628, allo svolgimento della battaglia di Rocroi, che frail 18 e il 19 maggio del 1643 salvò Parigi e la Francia intera dalla con-quista degli imperiali spagnoli al comando di Francesco de Mello, man-cano ancora quindici anni. Dunque, proprio come i tre moschettieri (cheoltretutto, come si sa, in realtà erano quattro)31, il pauroso Don Ab-bondio non avrebbe potuto neppure immaginarselo, quell’evento glo-rioso, ancora di là da venire, e vivido solo, guardando à rebours, nellamemoria postuma: dell’Anonimo, di Manzoni e di noi lettori. Quantoall’assedio della Rochelle, la notizia della caduta della roccaforte prote-stante avrà impiegato forse più di una ventina di giorni per giungere fi-no al paesino innominato presso Lecco.

Quel 7 novembre 1628, dunque, sulle rive del lago di Como, DonAbbondio potrà fare «bel bello» la sua famosa passeggiatina serale sen-za preoccuparsi troppo delle storie di cavalleria e di cannoneggiamenticosì lontane, così silenziose, un po’ perché non ne era ancora venuto aconoscenza, un po’ perché esse non si erano ancora svolte. Ben altra co-noscenza, in presa diretta, il curato e le sue pecorelle smarrite avrebbe-ro fatto pochi mesi più tardi della calata dei fanti svizzeri, i lanziche-necchi del Wallenstein.

Fanti sgangherati e violenti, cavalieri di morte e di saccheggio, apo-calittici desertificatori, i lanzichenecchi del Wallenstein nelle foschissi-me tinte della sfilata manzoniana non conservano più alcuna traccia deicavalieri medievali. Hanno perduto le fattezze del soldato certo nella fe-de, consapevole del ruolo cosmogonico, solare, affidatogli per contra-stare le forze del male e delle tenebre, dell’incisione di Albrecht Dürer,Ritter, Tod und Teufel (1511). Non hanno più neppure la spavalda tra-cotanza dei portabandiera incisi da Hans Schäufelein o dipinti da Dos-so Dossi (1515-16). Solo nell’abbigliamento e nella posa trionfalistica epettoruta ricordano i miliziani della Ronda di notte di Rembrandt (1642),il quale interpretò come una scena storica il ritratto di gruppo, com-missionatogli dalla Milizia Civica di Amsterdam.

Si pensa, leggendo le gesta oscene di quei lanzichenecchi, ai tratti al-legorici del Fuoco dell’Arcimboldi (1566), dal corpo formato di armi “dafuoco” (cannoni, colubrine, fucili) e dal volto fiammante come una pi-

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30 Ibid., cap. vi, pp. 91-92.

31 Su questo curioso scarto numerico, sulle sue valenze simboliche e sul suo ruolo di «ordina-tore» epistemologico, con un ampliamento all’intera cultura europea (e indoeuropea, attraversoGeorges Dumézil): r. brandt, D’Artagnan und die Urteilstafel. Über ein Ordnungsprinzip der eu-ropäischen Kulturgeschichte. 1, 2, 3/4, Wiesbaden-Stuttgart 1991 [trad. it. D’Artagnan o il quartoescluso. Su un principio d’ordine nella storia europea. 1, 2, 3/4, Milano 1998, con una Postfazione diD. Falcioni, pp. 237-45].

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ra, con naso e orecchie composti da grilletti pronti a sparare. I loro trat-ti postcavallereschi sono ormai quelli lugubri, lividi, stravolti che qual-che decennio dopo si stamperanno sui volti scavati dei poveri cristi e deipitocchi di Luca Giordano (1632-1705), o sullo sforzo muscolare dei giàquasi piranesiani galeotti trascinati in catene di Alessandro Magnasco(1667-1749).

Hanno lo stesso doppio mento, collo corto e mascellone volitivo, de-gli infanti e dei re (il conte-duca di Olivares; Don Carlos; soprattuttoFilippo IV, replicato decine di volte, con l’occhio attento al progressi-vo inflaccidirsi)32 dipinti da Diego Velázquez (1599-1660): come svuo-tati dell’interiorità, gonfi, fiacchi, sfatti, grassocci, labbroni sproposi-tati, guance di un rosa artificiale, tutti corazza e abito di lusso e gioiel-li e fasto ostentato, sguardo cavo e fisso, tacitamente crudele, più pigrie luttuosi e perversi monsignori di curia che regali dominatori d’Euro-pa. Veri e propri bravacci da strada sono quelli che, nella Rissa fra sol-dati alla Galleria Pallavicini di Roma (un tempo dato a Van Dyck, maattribuito a Velázquez da Roberto Longhi) litigano per motivi di giocodavanti all’ambasciata di Spagna, e che di cavalleresco non hanno piùche lo spadino al fianco. Benissimo rappresenta un bravo da farsa il Mar-te che Velázquez dipinse forse per la Torre de la Parada (oggi al Prado):attempato e allampanato nobilastro (o perfino borghese!) dalle carni flac-cide e rosate, spilungone in elmo luccicante, i suoi mustacchi sproposi-tati da rodomonte narcisista, in conflitto con il gesto della mano sullaguancia da pensatore michelangiolesco33, lo dichiarano più soldato diventura in visita a un bordello che dio della guerra in riposo. Certo, co-munque, non sarà più degno “cavaliere” lui del buffone Barbarossa che,sguardo truce e spada nella destra mentre la sinistra stringe il fodero,campeggia imperioso nelle sale dello stesso museo in abiti turcheschi discena (recitava nel ruolo del pirata-ammiraglio Khayr al-Din durante igiochi di corte fra menestrelli e guitti).

Per non dire del sorriso cinico dei nobili decadenti di fra Galgario(1655-1743), dall’occhio acquoso e dalle labbra gonfie e violacee, pros-simi ormai alla decomposizione finale del “cavaliere” che ancora, invi-sibile, abita le loro vesti inutilmente sfarzose. Più tardi ancora, quegliex cavalieri si reincarneranno negli incubi e nei demoni di Goya, nei cor-pi maciullati, sfigurati, squartati dei Desastres de la Guerra (1813-14) neifolli Desparates, incisi nella diecina d’anni (1815-24) che precede l’usci-ta dell’edizione Ventisettana dei Promessi Sposi.

5. «Je suis un chevalier errant qui chascun jor voiz aventures querant etle sens du monde…»

Lo scrittore barocco del Novecento Carlo Emilio Gadda colse magi-stralmente la visività, e perfino la visionarietà, che accompagnano la ma-no di Manzoni, mossa dalla memoria di Caravaggio e dei caravaggeschi,nell’ideare e tratteggiare le figure dei bravi, stendendo sull’impianto eti-co-storiografico di fondo quella che Gianfranco Contini opportunamentedefinì un’«emulsione seicentesco-lombarda»34:

Michelangiolo Amorigi veste da bravi i compagni di gioco. Mentre il Signorechiama Matteo, un viso di giovane, sensualmente distratto, chiede «Chi cerca co-stui?» […].

Una bella piuma ha nel cappello di velluto violetto e una sottile spada al fian-co. Le gambe nervose si vedono di là dallo sgabello. Non vi è pena, né pensiero: ros-se e fervide luci sono il termine della calda, verde pianura e nelle vene pulsa il fer-vido sangue dell’adolescenza.

Il soldo è sicuro. Lesta è la spada.Nei vicoli, sotto gli archi dei passaggi, passano ridendo i micheletti della ronda

e qualche puttana si rimpiatta fra sgangherate risate. «Nombre de Dios! Si fuerapara farrear!» Poi quando la ronda si perde con una cadenza lontana e la luna fadiagonali di ombre e di biancore sui quadri delle case e sui tetti, si può chieder con-to a uno: uno che passerà. […]

Il Signore comandò che Matteo e lasciasse i dadi e il soldo del mondo [e] lo se-guisse e il Caravaggio vide il Signore e Matteo e poi dipinse giovinastri dalle turgi-de labbra, cocchieri e sgherri e fervidi garzoni. Meglio girare alla larga35.

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32 Si possono ricordare anche i ritratti (spesso degli stessi personaggi) del fiorentino VincenzoCarducci, in Spagna ribattezzato e celebrato con il nome di Vicente Carducho (1578-1638), e diFrancisco Pacheco del Río (1564-1654), suocero di Velázquez, che chiuse il secolo pubblicando(1599) un sintomatico Libro de descripción de verdaderos retratos de ilustres y memorables varones.

33 Si tratta di un gesto che Cervantes attribuisce in rare ma significative riprese, e sempre condiversa e parodistica funzione, a se stesso, a Don Chisciotte e a Sancio Panza; si veda c. bologna,«Quiero imitar […] al valiente Don Roldán». Metamorfosi del cavaliere da Ariosto a Cervantes, in L’Ita-lia letteraria e l’Europa, II: Dal Rinascimento all’Illuminismo. Atti del Convegno di Aosta, 7-9 no-vembre 2001, Roma 2003, pp. 87-129, e più dettagliatamente in id., «La mano en la mejilla», in«Criticón», 2003, nn. 87-89 [= Miscellanea in memoria di Stefano Arata], pp. 79-102. Ai dati làforniti aggiungo ora che nell’età romantica lo stesso Cervantes è rappresentato in questa postura,«imaginando El Quijote», in un quadro di Mariano de la Roca y Delgado oggi al Prado: cfr. Elmundo literario en la pintura del siglo xix del Museo del Prado, Madrid [s.d., ma 1994], pp. 126-27.

34 g. contini, Premessa su Gadda manzonista, in «L’Approdo letterario», n.s., XIX (1973), nn.63-64, pp. 50-52.

35 c. e. gadda, Apologia manzoniana (1924), in «Solaria», II (1927), pp. 39-48, poi ristampa-to da G. Contini nel fascicolo de «L’Approdo letterario» citato nella nota precedente (pp. 53-61);il testo fu riconosciuto parte integrante di id., Racconto italiano di ignoto del novecento (Cahierd’études) da D. Isella, il quale dell’inedito gaddiano diede un’edizione fondamentale (Torino 1983:cfr. ivi le pp. 228-37, in particolare pp. 231-32; da qui traggo la citazione); si veda anche la riedi-zione (con lievi varianti) in id., Saggi, giornali, favole e altri scritti, I, in d. isella (a cura di), Operedi Carlo Emilio Gadda, III, Milano 1991, pp. 681-82.

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Qui s’intende appieno il senso dell’aforisma di Borges: «Ogni auto-re crea i suoi precursori. La sua opera modifica la nostra concezione delpassato, come modificherà il futuro»36. Invertito il percorso dello sguar-do e della mente, Gadda crea il suo Manzoni, e lo trasmette a noi, in-sieme con il repertorio figurale del Medioevo e della Modernità che neiPromessi Sposi si era stratificato. Di Manzoni, con epocale intuizione,Gadda scopre, lui barocco, la «baroccaggine», la combinatoria, com-plessa realtà della «contaminazione grottesca», di robusto impianto mo-rale. Questa scoperta viene proposta attraverso l’insistenza sulla «forzavisiva della parola»37, declinata al massimo grado nell’immagine, anti-storica e in sé impensabile (ma, proprio perché così pensata, di straor-dinaria efficacia ermeneutica) di un Caravaggio che nella Vocazione diMatteo in San Luigi dei Francesi, con le sue feroci «diagonali di ombree di biancore», imita e (per parafrasare Roberto Longhi, a sua volta ge-niale «lettore di Manzoni»)38 trascrive pittoricamente la scena indimenti-cabile della notte degli inganni, nel capitolo viii dei Promessi Sposi, conquella straordinariamente caravaggesca «striscia di luce, che uscì d’im-provviso» all’aprirsi della porta dello studio di Don Abbondio, «e si di-segnò sul pavimento oscuro del pianerottolo» facendo «riscoter Lucia,come se fosse scoperta»39. Le «tragiche e livide luci» che Gadda coglienel romanzo secentesco del Manzoni sono le stesse che illuminano dia-gonalmente i «giocatori vestiti da bravi» della Vocazione di Caravaggioe i micheletti della ronda», che sarà probabilmente, nella memoria diGadda, quella di Rembrandt. Quei cavalieri sfigurati e tragici, quel lu-minismo livido e balenante, sono l’emblema della nuova prospettiva sto-rica, che costituisce la realtà come punto di vista.

Si sovrappongono, si sommano e si identificano così in un solo segnoemblematico sapientemente tracciato, il naturalismo e il luminismo ri-voluzionari e disperatamente etici del Caravaggio, il secentismo dolen-te del Manzoni, l’aspro, risentito barocco gaddiano. Quella «striscia diluce», quei sensuali spadaccini «vestiti da bravi» che (ovviamente!) non

Caravaggio riprende da Manzoni, ma Manzoni da Caravaggio, permet-tono di cogliere quel che la critica non aveva riconosciuto40, e che unoscrittore lucidissimo aiuta a vedere: la centralità della scelta manzonia-na del Seicento come fondale storiografico, ed anche estetico ed etico.Rimangono nella memoria collettiva aprendo a una nuova ermeneuticaallegoristica del romanzo “storico”, e rivalutando con sorprendente ori-ginalità il ruolo della funzione-Seicento nella rielaborazione del mitolo-gema-Medioevo, verso la svolta del Moderno.

Proprio come i bravi dei signorotti, i lanzichenecchi e i loro tronfi esbruffoni comandanti a cavallo rappresentano il diabolico decadimentomercenario dei tanto allegorizzati Valore e Virtù. Come vide beneStendhal41, essi non sono che «una corporazione di assassini», banditi,briganti al soldo di malfattori prepotenti che «ne disponevano sovrana-mente per soddisfare ogni loro capriccio, sia di odio, sia di vendetta, siaperfino d’amore»: ma la loro violenza non riesce affatto a nobilitarsi peril richiamo sotterraneo all’originario codice delle virtù cavalleresche, es-sendo solo l’estremo cascame dell’antica virtus. Le loro avventure sonoavventurette di conio basso, triviali, indegne perfino della dimensioneparodica e raffinata del romanzo picaresco, e tanto meno di quello cer-vantino. La catastrofe del sistema, il crollo del sistema inerziale pluri-secolare, adattatosi progressivamente ai nuovi contesti borghesi42, s’in-dividua con nitidezza nello scarto fra la realtà violenta, criminalmentedevastatoria, cialtronesca di questi fanti e cavalieri prezzolati e i puris-simi cavalieri-crociati del Tasso (e forse, si oserebbe continuare a cre-dere, anche i modellizzanti cavalieri-paladini dell’Ariosto), che scalpi-tavano e duellavano nei volumi a stampa poggiati sui comodini e sulle

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36 j. l. borges, Kakfa y sus precursores, in id., Otras inquisiciones, Buenos Aires 1952 [trad. it.Kafka e i suoi precursori, in Altre inquisizioni, in d. porzio (a cura di), Tutte le opere, 2 voll., I, Mi-lano 1984, pp. 1007-9 (a p. 1009); la stessa traduzione è ora ripresa nel volume dedicato ad Altreinquisizioni nella serie delle opere borgesiane pubblicate da Adelphi, Milano 2000, pp. 115-18 (ap. 117)].

37 Cfr. e. raimondi, Gadda e le incidenze lombarde della luce, in id., Il colore eloquente. Lette-ratura e arte barocca, Bologna 1995, pp. 87-109 (in particolare pp. 93 sgg.)

38 A questo aspetto Ezio Raimondi ha dedicato alcune lezioni del suo corso universitario bo-lognese 1989-90, che sono state raccolte in volume (probabilmente in trascrizione non rivedutadall’autore): cfr. id., Barocco moderno: Carlo Emilio Gadda e Roberto Longhi, Bologna 1990, in par-ticolare pp. 440 sgg.

39 a. manzoni, I Promessi Sposi cit., cap. viii, p. 125.

40 Proprio recuperando il percorso critico di Gadda ha rivalutato questa fondamentale di-mensione manzoniana Ezio Raimondi, al quale si deve non solo il recupero del «secentismo» delManzoni, ma soprattutto la «funzione-Gadda», o «gaddizzazione di Manzoni», che gli consentì,in alcune magistrali ricerche, di impostare in direzione assolutamente inedita e fortemente inno-vativa la lettura dei Promessi Sposi, che sotto il suo occhio critico, reso esperto dalla rilettura diGadda, divengono una miniera inesauribile di scoperte. Ricordo qui solo e. raimondi, Il romanzosenza idillio. Saggio sui «Promessi Sposi», Torino 1974; id., La dissimulazione romanzesca. Antropo-logia manzoniana, Bologna 1990; id., Gadda e le incidenze lombarde della luce cit.; inoltre si veda latrascrizione delle lezioni ricordata nella nota 57.

41 Cfr. stendhal, Les brigands en Italie, Paris 2002 [trad. it. I briganti in Italia, Genova 2004,pp. 22 sgg.].

42 Per un’analisi puntuale della metamorfosi della figura e del ruolo svolto da ciascuno dei te-sti-chiave nel quadro del progressivo adattarsi del sistema alla variazione del contesto socio-cultu-rale si ricorra all’eccellente libro di m. domenichelli, Cavaliere e gentiluomo cit.; in particolare,per il discorso che sto svolgendo, si vedano i capp. v, Controcodici: «Le menzogne de l’armi e degliamori», pp. 223-70; vi, Trumphi di Morte e Mammona, pp. 271-98; vii, Cavalier Satana. «Fortitu-do» cavalleresca e «obduratio» satanica. «Paradise Lost» di Milton, pp. 299-311; viii, Il senso dell’ono-re. Metamorfosi e variazioni fra Cinque e Settecento, pp. 313-66.

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tavole da pranzo degli anticavalieri secenteschi assunti a modello di ne-gatività dal Manzoni.

Al modello fondativo della mistica queste dello chevalier errant comericerca del senso della vita, all’aventure etica e spirituale, prova iniziaticache apriva all’identificazione dell’individuo con il proprio destino, «stru-mento di perfezione individuale, esemplare per la comunità, e salva-guardia di un ordo compreso in senso cavalleresco», «mezzo per il ri-stabilimento di un’armonia turbata», «tentativo di “unificare” internoed esterno»43, il progressivo consumarsi del prototipo aveva sostituitol’avventura come mestiere, come prevaricazione e sopraffazione, rischiocorso per desiderio di fama o per urgenza di fame. Come ricordava giàErich Köhler in quello che rimane uno dei libri più intensi e acuti sulsenso e sulla funzione della letteratura cavalleresca medievale, nell’Yvaindi Chrétien de Troyes, al vilain laido e dall’aspetto animalesco che, fol-gorato dalla sua bellezza e dal suo carisma da angelo in corazza, gli do-mandava se fosse una creatura del Bene o del Male («[…] Va, car me di,| se tu es buene chose ou non!»), Calogrenant rispose:

«Je sui, ce voiz, uns chevaliers,qui quier ce, que trover ne puis;assez ai quis et rien ne truis».«Et que voldroies tu trover?»«Avantures por esproverma proesce et mon hardemant»44.

Nella versione in prosa del Tristan (che Ludovico Ariosto teneva sultavolo mentre componeva il Furioso), riprendendo esattamente le stes-se parole per rispondere a quel quesito ontologico, che chiede ragionedi una natura inattesa e inattuale, Dinadan, il «Galaad secolarizzato»,proclamava solenne e ieratico, come un filosofo in arcione: «Je suis unchevalier errant qui chascun jor voiz aventures querant et le sens dumonde; mès point n’en puis trouver»45.

Queste erano le cifre, questi i blasoni del cavaliere antico, che con-divideva con l’universo della lirica trobadorica un’etica, un sistema di va-lori, lessico simbolico e codici di comportamento: cercare il senso dellavita e della realtà; slanciarsi verso l’ignoto come ciò che può manifestar-si, come l’aventure che può ad-venire; scoprire, illustrare, saldare nella col-lettività il valore di se stesso come operatore simbolico; accettare la per-cezione bruciante della vanità ontologica di questa ricerca senza esauri-mento, e nel contempo dell’imprescindibile necessità di una fatica cosìradicale, così sconfinata e giocata fra sé e sé, nell’interiorità macerata edesercitata nel silenzio, una volta per tutte, ogni volta per tutti46.

6. «Un Don Chisciotte senza corazza, senza scudo e senza gambali».

Quanto rimane di quest’archetipo ormai smisuratamente trasforma-to, nel romanzo «storico» di Manzoni e in quello di Dumas, nei signo-rotti lividi e prevaricatori, nei dongiovanni violenti e vili, nei focosi mo-schettieri arditi e idealisti? Nulla più, si potrà dire con fermezza, che lariplasmazione/abolizione del cavaliere medievale perpetrata fra Ariostoe Cervantes. Dal primo con la nostalgica ironia di chi guarda alla «granbontà dei cavalieri antiqui» dopo il tramonto di un universo impernia-to sulle categorie di cortesia, fedeltà, lealtà, ancora subendo il fascino deisistemi di valore, dei codici normativi e comportamentali ad esse lega-te, ma incrinato profondamente, ormai, dall’avvento di modelli antro-pologici e da rivoluzionarie ingegnerie militari (la nuova fanteria conlance e picche, le armi da fuoco). Dal secondo con l’invenzione genialedel malinconico hidalgo folle per eccesso di letture, protagonista dell’ul-timo libro di cavalleria che in sé tutti li ingloba e tutti li annulla, nellagrande ekpØrosis con la quale il Curato e il Barbiere intendono preser-vare altri pazzi dalla tentazione perversa e pericolosa della lettura diquelle aventures.

Il Medioevo della chevalerie che fluisce nella rielaborazione del pri-mo Ottocento è dunque figlio più del grandissimo romanzo parodico chedei grandi poemi epico-cavallereschi: lo dichiarano, esplicitamente o im-plicitamente, gli stessi Manzoni e Dumas.

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43 e. köhler, Ideal und Wirklichkeit in der höfischen Epik. Studien zur Form der frühen Artus-und Graldichtung, Tübingen 1970 [trad. it. L’avventura cavalleresca. Ideale e realtà nei poemi dellaTavola Rotonda, Bologna 1985, pp. 107, 112, 114 (e più ampiamente si vedano i capp. iii, «Aven-ture». Reintegrazione e ricerca dell’identità, pp. 91-122; e iv, Elezione e redenzione. Dal disordine delmondo al regno della pace, pp. 123-91)].

44 m. roques (a cura di), Les romans de Chrétien de Troyes édités d’après la copie de Guiot (Bibl.Nat. Fr. 794), IV: Le chevalier au lion (Yvain), Paris 1975, vv. 358-63, p. 12 («“Come vedi, sonoun cavaliere che cerca ciò che non può trovare: la mia ricerca è stata lunga, ma vana”. “E che co-sa vorresti trovare?” “L’avventura, per misurare il mio valore e il mio coraggio”»).

45 «Sono un cavaliere errante che va senza interruzione in cerca d’avventure e del senso delmondo; ma non mi riesce di trovarli». Sull’idea (e sull’etimo) di «aventure», oltre al ricordato cap.iii di e. köhler, Ideal und Wirklichkeit cit., soprattutto e. eberwein, Zur Deutung mittelalterlicherExistenz, Bonn-Köln 1933, pp. 26 sgg.

46 Cfr. e. brugger, Der «Schöne Feigling» in der arturischen Literatur, V-VII, in «Zeitschrift fürromanische Philologie», LXV (1949), pp. 289-433 (a p. 401); e. vinaver, Un chevalier errant à larecherche du sens du monde: quelques remarques sur le caractère de Dinadan dans le «Tristan en prose»,in j. renson (a cura di), Mélanges de Linguistique romane et de Philologie Médiévale offerts à Mauri-ce Delbouille, 2 voll., Gembloux 1964, II, pp. 677-86; a. adler, Dinadan, Inquiétant ou Rassurant?,in f. dethier (a cura di), Mélanges offerts à Rita Lejeune, 2 voll., Gembloux 1969, II, pp. 935-43.Cita il passo anche e. köhler, Ideal und Wirklichkeit cit., trad. it. p. 113.

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L’italiano descrivendo molti dei suoi personaggi nelle vesti parodi-che di ombre degli antichi cavalieri decaduti, e disseminando segnali al-lusivi per l’intero libro: ad esempio dedicando la seconda metà del ca-pitolo xxvii a una breve digressione sulla già ricordata biblioteca am-muffita e un po’ stralunata («[…] una raccolta di libri considerabile,poco meno di trecento volumi: tutta roba scelta, tutte opere delle piùriputate, in varie materie […]»)47 di Don Ferrante, personaggio spa-gnolesco perfino nel nome, erudito in molte scienze inutili e stantie, masoprattutto «addottrinato» nella «scienza cavalleresca», e le cui fonti siscoprono (sorridendo un poco, per il richiamo chiarissimo all’«autoritàdel Tasso» evocata nel capitolo v) essere le stesse del conte Attilio, diDon Rodrigo e degli altri signorotti clonati un po’ da Don Giovanni, unpo’ da Don Chisciotte:

[…] aveva nella sua libreria, e si può dire in testa, le opere degli scrittori più ripu-tati in tale materia: Paride dal Pozzo, Fausto da Longiano, l’Urrea, il Muzio, ilRomei, l’Albergato, il Forno primo e il Forno secondo di Torquato Tasso, di cuiaveva anche in pronto, e a un bisogno sapeva citare a memoria tutti i passi così del-la Gerusalemme Liberata, come della Conquistata, che possono far testo in mate-ria di cavalleria48.

Il francese, appena ha aperto il discorso sul Roman de la Rose, di-mentica subito, e senza riserve, l’antico libro allegorico (salvo che si vo-glia intendere quel riferimento alla conquista del Fiore desiderato comeallusione alle vicende erotiche dei moschettieri); e passa invece imme-diatamente a connotare il suo primo protagonista parodizzando una ve-stizione cavalleresca, comicamente ritualizzata con la chiamata in giocodel libro di Cervantes:

Un giovane […] tracciamo il suo ritratto con un solo tratto di penna: figurate-vi Don Chisciotte a diciott’anni, un Don Chisciotte senza corazza, senza scudo esenza gambali, Don Chisciotte vestito di un farsetto di lana dove il blu si era tra-sformato in una sfumatura inafferrabile di celeste e di vinaccia. Viso lungo e bru-no: zigomi sporgenti, segno d’astuzia; muscoli mascellari enormemente sviluppati,indice infallibile per riconoscere un guascone anche senza berretto, e il nostro gio-vane portava un berretto ornato da una specie di piuma; gli occhi aperti e intelli-genti; il naso adunco, ma finemente disegnato – troppo grande per un adolescente,troppo piccolo per un uomo maturo: un occhio poco esercitato l’avrebbe preso peril figlio di un contadino in viaggio, se non fosse stato per la lunga spada che, appe-sa a un fodero di pelle, batteva sugli stinchi del proprietario, quando era a piedi, esul pelo irto della sua cavalcatura quando era a cavallo. […]

Sfortunatamente le qualità di questo cavallo erano così ben nascoste sotto il suostrano manto e la sua andatura incongrua che, in un’epoca in cui tutti si intende-vano di cavalli, l’apparizione del suddetto ronzino a Meung – dove era entrato cir-

ca un quarto d’ora prima per la porta di Beaugency – produsse un’impressione sfa-vorevole, che si trasferì sul cavaliere.

Impressione d’altro canto più penosa per il giovane D’Artagnan (così si chia-mava il Don Chisciotte di quest’altro Ronzinante) perché egli non si nascondeva ilridicolo di cui lo ricopriva, per buon cavaliere che fosse, una simile cavalcatura49.

7. «Quiero imitar al valiente Don Roldán».

D’Artagnan replica Don Chisciotte, e potremmo dire, letteralmen-te, che lo imita, proprio come Don Chisciotte, per diventare cavaliere,dichiara di volere «imitar […] al valiente Don Roldán», perché inquell’eroe si riassumono, quasi in epitome letteraria, tutti gli eroi di tut-ti i libri cavallereschi50. Il cavallo, l’aspetto, l’armatura di D’Artagnansono fasulli e burleschi, appunto perché lo erano quelli di Don Chisciot-te. Cervantes descrive la selezione e la composizione delle armi, e la scel-ta di Ronzinante, come un puzzle di materiali di scarto, di pezzi di ri-porto, che sono, alla lettera, incastri di pezzi della tradizione cavallere-sca ormai stremata e arcaica, assolutamente inattuale, colti in metaforanelle «armi degli avi» di cui Don Chisciotte si riveste. E la sua grotte-sca, museale translatio armorum è un pendant teatrale perfetto della tran-slatio studiorum («[…] de Grece en Engleterre, | qui lors estoit Bretagnedite»), sulla cui base già l’auctor che inaugura la nuova traditio dell’epo-pea volgare, Chrétien de Troyes, aprendo il Cligès dichiara di aver com-posto i suoi romanzi di cavalleria, ispirandosi ai «[…] livres de l’aumai-re | mon seignor saint Pere a Biauvez»)51:

Y lo primero que hizo fue limpiar unas armas que habían sido de sus bisabue-los, que, tomadas de orín y llenas de moho, luengos siglos había que estaban pues-tas y olvidadas en un rincón. Limpiólas y aderezólas lo mejor que pudo; pero vioque tenían una gran falta, y era que no tenían celada de encaje, sino morrión sim-ple; mas a esto suplió su industria, porque de cartones hizo un modo de media ce-lada que, encajada con el morrión, hacían una aparencia de celada entera. […] Fueluego a ver su rocín, y aunque tenía mas cuartos que un real y más tachas que el ca-ballo de Gonella, que «tantum pellis et ossa fuit», le pareció que ni el Bucéfalo deAlejandro ni Babieca el del Cid con él se igualaban52.

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47 a. manzoni, I Promessi Sposi cit., cap. xxvii, p. 469.48 Ibid., p. 473.

49 a. dumas, Les trois mousquetaires cit., trad. it. cap. i, p. 8.50 m. de cervantes, Don Quijote, a cura di F. Rico, 2 voll., Barcelona 1998, I, parte I, cap.

xxv, p. 275. È svolto ampiamente il tema dell’«imitazione» della cavalleria come fondazione del-la sua parodia nei due saggi: c. bologna, «Quiero imitar […] al valiente Don Roldán» cit., e id., Lamano en la mejilla cit.

51 m. roques (a cura di), Les romans de Chrétien de Troyes cit., II: Cligés, a cura di A. Micha,Paris 1982, vv. 16-17 e 20-21, p. 1 («[…] i libri della biblioteca | di S. Pietro a Beauvais»).

52 m. de cervantes, Don Quijote cit., I, parte I, cap. i, pp. 41-42 («E la prima cosa che fecefu di ripulire certe armi che erano appartenute ai suoi avi, che, arrugginite e piene di muffa, per

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Armi raffazzonate, come un mosaico, e un cavallo da giullare. L’evo-cazione della cavalcatura di Gonella, buffone alla corte ferrarese di Nicco-lò III d’Este nelle cui fattezze tragicomiche il grande Jean Fouquet intuìe rappresentò «il ritratto di un povero cristo, viva immagine del Cristo sof-ferente»53, è posta sullo stesso piano mitografico del cavallo sciamanico diAlessandro e del destriero leggendario del più grande eroe dell’epopea spa-gnola. Quel cavallo, quell’armatura, divengono così, nel momento in cuiil Quijote incomincia, una sua perfetta mise en abyme, metafora del testoche è un assemblaggio parodico di tutti i libros de caballerías della tradi-zione europea. Infatti un puzzle culturale, un sagace mosaico della lettera-tura cavalleresca è il libro che rispecchia le gesta del melancholicus, furen-te Don Chisciotte, cavaliere dall’habitus eroico ormai così poco tradizio-nale, doppio di Orlando in ritardo. E questo, si badi, in un’epoca in cuiormai la cavalleria si è dissolta, al pari della Biblioteca piena di «libros decaballerías» (contro i quali il romanzo di Cervantes «es una invectiva»)54.

Biblioteca, Armatura, Romanzo: tutto, nel Chisciotte, è letteratura;tutto è puzzle, mescidanza, e anche sempre sineddoche, parte per il tut-to. Quell’armatura madornale, romanzesca, nata dalla lunga frequenta-zione della biblioteca, fa dell’originario Don Quijada un “vero” cavalie-re, Don Quijote. L’armamento e la bestia da trasporto di D’Artagnan nefanno un discepolo di quel maestro della parodia. Così si coglie al volo(lui stesso ne è consapevole) l’esagerata natura cavalleresca di D’Arta-gnan, connotata dalla spada e dal cavallo, ridicolo avatar di Ronzinante.Si badi come al solito ai dettagli, dove (diceva Aby Warburg) abita ilbuon Dio. L’«impressione sfavorevole», legata soprattutto all’«andatu-ra incongrua del cavallo», si trasferisce sul cavaliere.

Sarà così strano, allora, che nel compagnonnage cavallo-cavaliere lacamminata goffa, zoppicante, sconclusionata del novello Ronzinante “di-venti” quella del suo padrone D’Artagnan, rinnovato Don Chisciotte,«il Don Chisciotte di quest’altro Ronzinante»? «Bellissimo perché ridi-colo» definirà Don Chisciotte Dostojevskij nei suoi appunti di lavoro55,

accostando l’hidalgo alla figura di Cristo. Lo stesso modello ermeneuti-co sarà caro a Miguel de Unamuno, interprete, nella Vida (1905), di unDon Chisciotte cavaliere paradossale, che, oltre a tutti i libros de caval-lería, sembra aver letto anche (e non può!) El sentimiento trágico de la vi-da (1913): un cavaliere, per dirla con la formula perfetta di María Zam-brano, grande allieva di José Ortega y Gasset, che incarna la «forma dela pasión tragica del ser»56; l’inattuale perché non attuabile né attualiz-zabile «Cavaliere della Fede che ci fa savi con la sua follia»57. Si intuiscepiù agevolmente, per questa via, perché il principe Myskin, «nell’in-comprensione che lo separa dalla volgarità del mondo, percorrendo lastrada dell’imitatio Christi con l’andatura dinoccolata di Don Chisciotte,non può che essere, per l’appunto, l’idiota»58.

A una simile sensuale, morbida, anche bizzarra e stralunata agilitàdel corpo corrisponde, nella percezione archetipale (ma si dovrebbe for-se dire, per sfuggire al rischio di una connotazione dottrinalmente sim-patizzante: “tipica del prototipo storico”), una duttilità interiore, unaplasticità e perfino ambiguità e superficialità spirituali, invase, domina-te, guidate dai sensi, e che sarà da identificare con la métis che i Greciattribuivano al polØtropos Ulisse, polipo e navigante, spietato stratega econsigliere fraudolento. Ortega la riconobbe, identificandola significa-tivamente con lo spirito mediterraneo, in una superba pagina da antro-pologo dedicata allo sguardo meridionale che accarezza la pelle del mondo(«sguardo chiaro» opposto al «pensiero non chiaro» del Mezzogiorno:ossia oscuro, confuso, ma anche sensuale e sentimentale), che incastonòa perfezione nelle sue Meditaciones del Quijote (1914), vero polo dialet-tico rispetto alla Vida di Unamuno:

El Mediterráneo es una ardiente y perpetua justificación de la sensualidad, dela apariencia, de las superficies, de las impresiones fugaces que dejan las cosas so-bre nuestros nervios conmovidos.

La misma distancia que hallamos entre un pensador mediterráneo y un pensa-dor germánico, volvemos a encontrarla si comparamos una retina mediterránea conuna retina germánica. Pero esta vez la comparación decide en favor nuestro. Losmediterráneos, que no pensamos claro, vemos claro. […] En Cervantes esta poten-cia de visualidad es literalmente incomparable […].

Nos oculos eruditos habemus; lo que en el ver pertenece a la pura impresión esincomparablemente más enérgico en el mediterráneo. Por eso suele contentarse con

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secoli e secoli erano state messe e dimenticate in un angolo. Le ripulì e le rimise a posto meglio chepoté; ma vide che avevano un grave difetto: non c’era una celata a incastro, ma solo un semplicemorione; a questa mancanza, però, supplì la sua ingegnosità: con certi cartoni fece una specie dimezza celata che, incastrata nel morione, sembravano proprio una celata intera. […] Poi andò avedere il suo ronzino e, nonostante fosse proprio male in arnese, peggio del cavallo di Gonella, che“tantum pellis et ossa fuit” [“era tutto pelle e ossa”: plauto, Aulularia, III.6], gli parve che né ilBucefalo di Alessandro, né il Babieca del Cid potessero stargli alla pari»).

53 c. ginzburg, Jean Fouquet. Ritratto del buffone Gonella, Modena 1996, p. 39.54 m. de cervantes, Don Quijote cit., parte I, Prólogo, p. 17.55 f. dostoevskij, Romanzi e taccuini, a cura di E. Lo Gatto, Firenze 1958. Cfr. m. domeni-

chelli, Cavaliere e gentiluomo cit., p. 510, nota 33.

56 m. zambrano, España, sueño y verdad (1965), Madrid 1994, p. 34 (nel cap.: La ambigüedadde Don Quijote, pp. 30-37). Nello stesso libro si veda anche il cap. La religión poética de Unamuno,pp. 110-36.

57 m. de unamuno, Vida de Don Quijote y Sancho, según Miguel de Cervantes Saavedra, explica-da y comentada, Madrid 1905 [trad. it. Commento alla vita di Don Chisciotte (1926), Milano 19642,p. 13 (è la frase di apertura del cap. i del libro)].

58 m. domenichelli, Cavaliere e gentiluomo cit., p. 510.

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ello: el placer de la visión, de recorrer, de palpar con la pupila la piel de las cosas esel carácter diferencial de nuestro arte59.

8. Don Mascellone, Don Lagnoso, Don Formaggino.

Si pensi all’immagine del corpo che Cervantes plasma, sintetizzan-do l’antica tradizione del cavaliere in trance, malato d’amore, ossessiva-mente perduto dietro le sue fantasticherie fuori del mondo reale. L’in-sistenza sui tratti facciali, in ispecie sulla mascella, dipende senza dub-bio dal rilievo che in Cervantes ha fin dall’inizio la «complessione»fisiognomica di Don Chisciotte: complessione di smunto, di prosciuga-to, di secco, di segaligno. È la stessa filologica esattezza (non sfugga ildettaglio!) che poco fa si è vista applicata da Dumas al suo Don Chi-sciotte diciottenne, il prode D’Artagnan: «Viso lungo e bruno: zigomisporgenti, segno d’astuzia; muscoli mascellari enormemente sviluppati,indice infallibile per riconoscere un guascone anche senza berretto […]».

Don Chisciotte è fin dall’inizio un Magro Mascellone: il suo stesso no-me ne fa un «Don Mascella», un Don Quijada. La prima alternativa ono-mastica, su cui Cervantes gioca, è Quijana, che ha probabilmente alla ba-se la queja, la «lagnanza», o il quejido, il «lamento», suggerendo dunqueun «Don Lagnoso», o «Don Lamentoso». L’altra è Quesada, che rinvieràdi certo alla quesadilla, il pasticcio ripieno di formaggio; come se si di-cesse, in italiano (e sarebbe davvero un eccellente nome da clown bian-co, triste e quindi comico): «Don Formaggino»; oppure, a voler scende-re al livello del grottesco teatrale da avanspettacolo, un sonoro e napole-tanissimo (ossia «spagnolo», «mediterraneo»): «Ciccio Formaggio». Findalla sua prima comparsa in scena, anzi quando deve ancora entrare inazione e balena solo come un’ombra lunga nella voce del narratore, DonChisciotte non è solo un cavaliere malinconico: è proprio «quello-della-Mascella», «il Mascellone», «il Muso-Lungo». La malinconia lo anticipa,

59 j. ortega y gasset, Meditaciones del Quijote, con un Apendice inédito (1981), Madrid 19985,pp. 55-56 (nel cap. viii della Meditación prelimiar: La pantera o del sensualismo, pp. 54-57); la fraselatina è dai Paradoxa stoicorum di cicerone («Il Mediterraneo è un’ardente e perpetua giustifica-zione della sensualità, dell’apparenza, delle superfici, delle impressioni fugaci che le cose deposi-tano sui nostri nervi toccati e commossi. La stessa distanza che c’è per noi fra un pensatore medi-terraneo ed un pensatore germanico. Questa volta, però, il paragone gioca a nostro vantaggio. Noimediterranei, che non pensiamo con chiarezza, vediamo con chiarezza. […] In Cervantes questaforza di visualità è letteralmente incomparabile. […] Nos oculos eruditos habemos [“Noi abbiamoocchi eruditi”: cicerone, Paradoxa ad M. Brutum, V, 33]; ciò che nel vedere spetta alla pura im-pressione è incomparabilmente più energico nel mediterraneo. È per questo motivo che in generese ne accontenta: del piacere della visione, del potere esplorare, palpare con la pupilla la pelle del-le cose è il carattere che distingue la nostra arte»).

lo annuncia, s’installa sul suo volto prima che l’epifania del personaggiosi compia. Malinconia comica, già nel nome: parodia della Malinconia60.

E si svelerà un segreto esegetico dichiarando che Sancio Panza fuesplicitamente negli occhi di Manzoni mentre abbozzava la figura delpauroso «curatone brianzolo», panciuto e «dal naso goccioloso»61 che,«tondo e proverbioso»62, avanza nei secoli nel deserto della Mancia as-solata e, da laggiù, dilaga in tutta l’Europa, divenendo (almeno fino algeniale rovesciamento esegetico compiuto da Franz Kafka) il modellodel realista prudente e pavido, ridicolo nel suo eccesso di meschinità?Inconfondibilmente, radicalmente sancesco ideò Manzoni il suo DonAbbondio: e così lo vide bene Francesco Gonin, direttamente guidatoda Manzoni63, nelle sue incisioni realizzate, sotto la vigile guida dell’au-tore, per l’edizione del 1840, per la quale probabilmente si ispirò anchea stampe o disegni dedicati a Sancio64.

L’incrociarsi e il fortificarsi reciproco dell’immaginario letterario edell’iconografia donchisciottesca è d’altra parte precocissimo, anche traSpagna e Francia: lo dimostra la straordinaria serie di affreschi dipintida Jean Monier per Maria de’ Medici nel castello di Cheverny (1640)65,prima attestazione, forse, al di fuori della Spagna, del successo delle fi-gurazioni epico-narrative di tipo cavalleresco in forma visiva (e per dipiù con caratteri grottesco-eroicomici, e proprio in una terra, come laFrancia, dominata al Nord e al Sud da una tradizione tipicamente eroi-co-cavalleresca).

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60 Per un esame dei nomi di Don Chisciotte rinvio ancora ai miei saggi citati nella nota 33. Esi veda ancora lo studio di l. spitzer, Linguistic Perspectivism in the «Don Quijote», in id., Linguis-tics and Literary History, Princeton N.J. 1948, pp. 41-58 [trad. it. Prospettivismo nel «Don Quijo-te», in id., Cinque saggi di ispanistica, a cura di G. M. Bertini, Torino 1962, pp. 55-106].

61 c. e. gadda, La battaglia dei topi e delle rane (1959), in id., Il tempo le opere. Saggi, note e di-vagazioni, a cura di D. Isella, Milano 1982, pp. 61-79 (a p. 79).

62 c. segre, Costruzioni rettilinee e costruzioni a spirale nel «Don Chisciotte», (1974), in id., Lestrutture e il tempo, Torino 1974, pp. 183-219.

63 La dimostrazione l’ha data S. S. Nigro, nella sua splendida edizione in tre volumi, nella se-rie mondadoriana dei «Meridiani», del Fermo e Lucia e dei due Promessi Sposi, Milano 2002. Nel-la Nota critico-filologica: i tre romanzi (stampata in tutti e tre i volumi, con appendici differenziaterelative al singolo testo: vol. I, pp. xliii-lix; vol. II, pp. xliii-liii; vol. III, pp. ix-xviii) Nigro haopportunamente insistito sulla funzione iconica come variante sostanziale dell’edizione Quaran-tana rispetto alla Ventisettana, e sull’intervento diretto del Manzoni nella progettazione «mirata»del sistema di immagini come controcanto del testo.

64 Cfr. p. lenaghan, j. blas e j. m. matilla, Imágenes de Quijote. Modelos de representación enlas ediciones de los siglos xvii a xix, New York N.Y. - Madrid 2003.

65 Su questi importantissimi affreschi si veda ibid., p. 21, e p. 42, nota 9; ma già, e più speci-ficamente: m. bardon, «Don Quichotte» en France au xviie et au xviiie siècle, 1605-1815, Paris1931, pp. 811 sgg.; j. givanel mas y gaziel, Historia gráfica de Cervantes y del Quijote, Madrid1946, pp. 97-99; j. hartau, Don Quijote in der Kunst. Wandlungen einer Symbolfigur, Berlin 1987,p. 25.

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Così come D’Artagnan “è” Don Chisciotte, per ammissione esplici-ta dell’autore, allo stesso modo siamo autorizzati a proporre, anche sen-za il sigillo di paternità, che Don Abbondio “è” Sancio Panza. Al con-tempo entrambi sono anche (con una drastica scissione del profilo fisi-co da quello spirituale) Falstaff, il vecchio cavaliere quattrocentesco checorteggia le due comari di Windsor, smargiasso, pigro, grasso, anchesimpatico e buontempone: ormai pronti, tutti questi personaggi, ad usci-re dall’ambiguità «settentrionale» fra commedia e tragedia e svanire inmusica, entrando sul palcoscenico nell’opera lirica «meridionale» conGiuseppe Verdi (Falstaff, 1893, su libretto di Arrigo Boito), e ingor-gando il «golfo mistico» dell’orchestra con il poema sinfonico di RichardStrauss (Don Quixote, 1898) e con il dramma musicale di Jules-ÉmileMassenet (Don Quichotte, 1910). Infine sarà il cinema a cercare di rac-cogliere le spoglie del mito, con effervescenza e varietà straordinarie(consultando il sito elettronico dell’Istituto Cervantes66 conto, oltre adieci adattamenti per la televisione, almeno ventisette trasposizioni sulgrande schermo, tra il film muto di Narciso Cuyás del 1908 e il più re-cente del 2002: ma il repertorio può accrescersi entro il quarto cente-nario della pubblicazione del romanzo, che scoccherà nel 2005).

Don Abbondio - Sancio Panza, invece di sognare, riesce solo a pas-sare una notte in bianco, in «consulte angosciose» aspettando che nascail «giorno di battaglia», nel quale avrebbe dovuto semplicemente fare ilsuo onesto dovere di prete, in silenzio e nell’oscurità. Giusto al contra-rio del grande principe di Condé, che dormì saporitamente prima dellasua impresa di cavaliere ardito, celebrata nei secoli e nei libri di storia (enei Tre moschettieri anche il cardinale Richelieu è definito «un cavaliereardito e galante, già debole nel corpo ma sostenuto dalla forza morale cheha fatto di lui uno degli uomini più straordinari mai esistiti»)67.

9. Francesco e fra Cristoforo.

Se Don Abbondio “è” Sancio Panza, chi sarà, allora, il segreto, mi-sterioso Don Chisciotte manzoniano, reso invisibile dalla metamorfosiesteriore ma nitido nella figuralità più intima? Forse Renzo, come sul-le prime parrebbe, per la sua irruenza (già all’inizio, quando sente daLucia la storia delle pesanti avances di Don Rodrigo, donchisciotteggiae braveggia «correndo innanzi e indietro per la stanza, e stringendo di

tanto in tanto il manico del suo coltello»)68, e per l’illusione di riuscirea cambiare il mondo muovendo da una sete di giustizia ideale («a que-sto mondo c’è giustizia finalmente»)69, e per la voglia inesausta, finoall’ultima pagina del romanzo, di «raccontare le sue avventure»70?

O non, invece, più sottilmente travestito, il cavaliere mancato, l’eroeideale e idealistico che ricalca esattamente le orme di Francesco d’Assi-si, ossia il francescano cappuccino fra Cristoforo, nel quale abbiamo giàpotuto identificare l’attivazione del prototipo del Commendatore, giu-dice-vindice di carattere messianico e apocalittico che duella verbalmentecon lo «scellerato» Don Rodrigo? Anche lui, come Francesco, figlio diun mercante. Anche lui capace di convertirsi, cioè di rivolgere la rotta adun fine e con un moto diversi da quelli terrestri e temporali, paralleli,in qualche misura, a quelli della letteratura71. Anche lui, come il folle diDio, con «la sua indole, onesta insieme e violenta» al pari di quella delCavaliere, cavallerescamente «sentiva un orrore spontaneo e sincero perl’angherie e per i soprusi», e per questo, soprattutto per questo (giacchéil salto nella fede è di là da venire), «a poco a poco, venne a costituirsicome un protettor degli oppressi, e un vendicatore de’ torti»72. La scin-tilla del duello a colpi di lama scocca proprio dall’insulto supremo che,nel duello preliminare a colpi di retorica, lo sfidante lancia a Lodovico,cioè l’accusa di non essere cavaliere («“Voi mentite ch’io sia vile”. “Tumenti ch’io abbia mentito.” Questa risposta era di prammatica. “E, setu fossi cavaliere, come son io,” aggiunse quel signore, “ti vorrei far ve-dere, con la spada e con la cappa, che il mentitore sei tu”»)73.

Impressiona, e parla chiaro, il parallelismo con Francesco, ombra74

che si estende lunga e intensa verso Don Chisciotte e fra Cristoforo. E

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66 www.cervantesvirtual.com/bib_autor/Cervantes/67 a. dumas, Les trois mousquetaires cit., trad. it. cap. xiv: L’uomo di Meung, p. 168.

68 a. manzoni, I Promessi Sposi cit., cap. iii, p. 42.69 Ibid., p. 55.70 Ibid., cap. xxxviii, p. 672.71 Cfr. m. zink, Poésie et conversion au Moyen Âge, Paris 2003, p. 5 e passim.72 a. manzoni, I Promessi Sposi cit., cap. iv, p. 59.73 Ibid., p. 61.74 Nel senso in cui ha impiegato questo termine p. boitani, L’ombra di Ulisse, Bologna 1992, e

dietro a questo modello ermeneutico lo hanno ripreso e variamente applicato ad altre figure allego-rico-storiografiche fondamentali p. boitani, c. bologna, a. cipolla e m. a. liborio, Alessandro nelMedioevo occidentale, Milano 1998 (specie la parte VI: L’aura e le ombre di Alessandro, pp. 439-85):«Ogni personaggio storico o letterario di una qualche importanza ha il potere di proiettare un’om-bra di sé sul futuro e d’irradiare un’aura nell’immaginazione dei contemporanei e dei posteri. Nellasua forma più rigorosa, la prima, l’ombra (sempre sospesa fra due momenti storici distanti nel tem-po) è canonizzata dall’interpretazione allegorica cristiana della Sacra Scrittura, per la quale un per-sonaggio o un evento dell’Antico Testamento prefigura, adombra, è “umbra”, appunto (secondo ladefinizione medievale), di un personaggio o evento del Nuovo […]. Infine, è possibile che il mecca-nismo figurale perda (sempre di più, ma non solo, in epoca moderna) la dimensione allegorica: in que-sto caso, l’eroe storico o letterario in considerazione diviene più semplicemente un modello o un pa-radigma per chi lo segue […]» (p. 441, inizio della nota introduttiva alla sezione, di P. Boitani).

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ci consente anche di ampliare il ventaglio semantico che l’immagine delcavaliere cortese contiene e disloca, lungo i secoli, disarticolandosi e riar-ticolandosi in figure diverse.

Francesco, italiano il cui nome stesso incorporava la memoria dellatradizione culturale e letteraria francese, quindi europea75. Francesco ap-punto, le cui nozze mistiche con Domina Paupertas ispirarono una seco-lare mitografia di chiara ispirazione cortese, in cui è descritto corteggia-re un’ideale Midons occitanica di nome Povertà. Francesco, che potevasalmodiare, da trovatore sacro ma ancora laico, un inedito chan difin’amor cosmica in laudes che giungevano a riscattare perfino «nostrasora morte corporale» in un affratellamento delle creature terrestri e ce-lesti. Francesco, che si azzardava a scegliere come thema delle sue predi-che non solo testi scritturali, ma versi d’amore di squisita cortesia («Tan-to è ’l bene ch’io m’aspetto | ch’ogni pena m’è diletto […]»), e che comeuno joculator Domini addobbava idealmente da chevaliers arturiani i suoifratres pezzenti, in saio stracciato e arlecchinesco, chiamandoli «militestabulae rotunde»: invitandoli immediatamente, però, a trasformare inimpegno di vita, in sequela esistenziale, la lezione di quei cavalieri in cer-ca d’aventure trasfigurati in profani doppi di Cristo, salendo a cavallo co-me gli eroi dei romanzi, e non limitandosi a leggerne e a cantarne le ge-sta, «sicut faciunt histriones, qui cantant ictus Roclandi et Oliverii etpungnatorum et ipsi nunquam dederunt unum ictum in bello»76.

Troviamo in questo lóghion ágraphon dell’alter Christus il senso profon-do, la funzione secolarmente modellizzante della tradizione della civiltàeuropea cortese e cavalleresca. Orlando, Oliviero e i paladini della caval-leria cortese, modelli di Francesco e, dietro di lui, di Don Chisciotte e diLodovico che «cambia rotta», «si converte», «diviene» fra Cristoforo.

Lui, fra Cristoforo, sarà dunque il Don Chisciotte Cavaliere dei Ca-valieri, che tutti li assume e dissolve in sé, trasferendoli al futuro dell’Eu-ropa moderna, facendone Altro da sé. Fra Cristoforo, che quand’era an-

cora Lodovico, dopo l’omicidio «per onore» rifiuta la dura legge dellarealtà e rovescia il proprio destino scegliendo la follia della fede in cam-bio di quella delle armi (così interpreterebbe di sicuro anche lui Miguelde Unamuno). Fra Cristoforo, dico, il «portatore di Cristo»: fin dal no-me cavaliere che di Cristo assume le armi e le insegne, che non senzamotivo viene chiamato in causa, per la sua scienza della cappa e dellaspada, a dirimere quel famoso dibattito sul duello fra Attilio e il pode-stà, in casa di Don Rodrigo.

10. «Un pensiero che assorbe su di sé tutte le facoltà di chi pensa».

Fermiamoci ancora brevemente su Manzoni e Dumas, scelti comesottili e possenti amplificatori epistemologici, e insomma come lenti d’in-grandimento storico-letterarie e in senso più lato storiografiche, capacidi farci verificare se nella stratificazione dei modelli figurali d’originemedievale che vi si addensano si possano riconoscere livelli e modellivolta a volta inglobati e superati.

In questa prospettiva le stesse maschere da personaggio-tipo dei tre(quattro!) moschettieri appaiono sintomatiche, e permettono di ricono-scere con una relativa sicurezza, dietro di loro, altre figure modellizzan-ti come paradigmi e prefigurazioni, cioè come ombre. Il primo ad esseredescritto con dovizia di dettagli connotativi, come s’è detto, è proprioD’Artagnan. Guascone sfrontato ed eccessivo nei modi, spavaldo, im-pertinente e impudente, ardimentoso e impetuoso, D’Artagnan comple-ta la struttura ternaria con qualche tratto eccezionale. Infatti, anche sulpiano dell’emotività e della relazione fra ideale cavalleresco e esperienzaerotico-sentimentale, a lui Dumas attribuisce caratteri di straordinariararità e peculiarità, che la cultura letteraria medievale applicava al cava-liere. Avanti nel libro, nel capitolo xxvi, ad esempio, D’Artagnan a ca-vallo viene preso da una malinconia infinita che lo astrae dal mondo, pen-sando all’Amata: proprio come Lancillotto quando pourpense all’Amorenello Chevalier de la charrete di Chrétien de Troyes e come, in qualchemomento, il folle Don Chisciotte fermo sull’immagine di Dulcinea:

[…] durante il cammino una profonda tristezza gli stringeva il cuore; pensava allagiovane e bella signora Bonacieux, che avrebbe dovuto dargli il compenso della suadevozione […]77.

Qui Dumas sembra a conoscenza del dibattito medievale intorno al-la Mercé «offerta gratuitamente» dalla Dama al cavaliere o al trovato-

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75 Per quanto segue rinvio ad alcuni miei studi intorno al ruolo del modello antropologico-cul-turale dell’Ordine minoritico nella formazione di una cultura laica in volgare, fra Italia ed Euro-pa: L’Ordine francescano e la letteratura nell’Italia pretridentina, in a. asor rosa (a cura di), Lette-ratura italiana, I: Il letterato e le istituzioni, Torino 1982, pp. 729-97; Il modello francescano di cul-tura e la letteratura volgare delle origini, in I Francescani in Emilia. Atti del convegno di Piacenza, 17-19febbraio 1983, in «Storia della città: rivista internazionale di storia urbana e territoriale», 1983,nn. 26-27, pp. 65-90; Fra devozione e tentazione. Appunti su alcune metamorfosi nelle categorie let-terarie dall’agiografia mediolatina ai testi romanzi medievali, in s. boesch gajano e l. sebastiani (acura di), Culto dei santi, istituzioni e classi sociali in età preindustriale, L’Aquila 1984, pp. 63-163.

76 Così Ubertino da Casale, riportato in apparato critico da r. b. brooke (a cura di), ScriptaLeonis, Rufini et Angeli Sociorum S. Francisci. The Writings of Leo, Rufino and Angelo Companionsof St. Francis, Oxford 1970, p. 208 («come fanno i giullari, che cantano le gesta e le battaglie diRolando, Oliviero e gli altri paladini, e non hanno mai combattuto davvero»). 77 a. dumas, Les trois mousquetaires cit., trad. it. cap. xxvi: La tesi di Aramis, p. 305.

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re per il devoto servitium amoris da lui svolto, non finalizzato se non al-la lode e alla venerazione dell’Amata. Immediatamente dopo D’Arta-gnan cade in trance dimenticando ogni cosa, appunto come Lancillotto,con micrometrica precisione di quello che parrebbe proprio un prelievoe innesto:

A tant s’an va chascuns par lui;et cil de la charrete pansecon cil qui force ne deffancen’a vers Amors qui le justise;et ses pansers est de tel guiseque lui meïsmes en oblie,ne set s’il est, ou s’il n’est mie,ne ne li manbre de son non,ne set s’il est armez ou non,ne set ou va, ne set don vient;de rien nule ne li sovientfors d’une seule, et por celia mis les autres en obli;a cele seule panse tantqu’il n’ot, ne voit, ne rien n’antant78.

Così D’Artagnan, replicando una gestualità e una concentrazione in-teriore che stupirebbe scoprire non ispirate al luogo di Chrétien o ad al-tro medievale parallelo:

Niente fa passare il tempo e abbrevia la strada come un pensiero che assorbe sudi sé tutte le facoltà di chi pensa. L’esistenza esterna assomiglia allora a un sonno,di cui quel pensiero è il sogno. Grazie al suo influsso, il tempo non ha più misura,lo spazio non ha più distanza. Si parte da un luogo e si arriva a un altro, ecco tut-to. Dell’intervallo percorso, non resta presente al vostro ricordo che una vaga fo-schia in cui svaniscono mille immagini confuse di alberi, montagne, paesaggi. In pre-da a questa allucinazione D’Artagnan percorse, all’andatura scelta dal suo cavallo,le sei o sette leghe che separano Chantilly da Crèvecœur: arrivando in questo vil-laggio, non si ricordava di nessuna delle cose incontrate per strada79.

Dopo D’Artagnan, Porthos. Anche lui, come D’Artagnan, talora ca-de in un sonno profondissimo, che è di fatto una trance, trasferimentoin un Altro Mondo tutto mentale: «al suono di quella voce, Porthos eb-be un soprassalto come un uomo che si svegliasse da un sonno di cento

anni»80. Anche per Porthos vengono subito in luce i temi di valore allu-sivo che caratterizzano il personaggio, tutti riconducibili allo schema fi-gurale del cavaliere delle origini. Quel personaggio sta subendo una svol-ta decisiva, nella quale un’etica dell’interiorizzazione si salda, ingloban-dola, a un’estetica del puro vivere81. Sorge così un’«estetica esistenziale»che «trascina davvero fuori dal mondo, come spesso capiterà»82. Proiet-tata verso una nuova metafisica tutta giocata al di qua del bordo dellafisicità, la nuova figura si caratterizza per bellezza e bizzarria, severa al-tezzosità, solarità smagliante e tuttavia connessa a un’eleganza un po’fanée, da cavaliere antico lievemente impolverato dal tempo:

Al centro del gruppo più animato c’era un moschettiere di alta statura, con unviso altero e con una bizzarria d’abbigliamento che attirava su di lui l’attenzione ge-nerale. Non portava, infatti, in quell’occasione, la casacca d’ordinanza, che del re-sto non era affatto obbligatoria in quell’epoca di libertà minima e d’indipendenzamassima, ma un giustacuore blu cielo un po’ decaduto e logoro, e su quest’abito unamagnifica tracolla con ricami d’oro, che risplendeva come i riflessi di cui l’acqua siricopre in pieno sole. Un lungo mantello di velluto cremisi gli ricadeva con elegan-za sulle spalle, scoprendo solo sul davanti la splendida tracolla, dalla quale pendevauna spada gigantesca83.

11. La «passion predominante» di Aramis.

Porthos subito giura «sul [su]o onore e la [su]a fede di gentiluomo»84

per ribadire che, sotto il mantello, l’estetica nasconde un’etica. Immedia-tamente dopo introduce Aramis, che con lui crea un «perfetto contra-sto»: se di Porthos, «decaduto e logoro» ma ancora splendente e «gigan-tesc[o]» come un cavaliere-predone85 del Nord, Dumas fa un eroe del Sud,

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78 m. roques (a cura di), Les romans de Chrétien de Troyes cit., III: Le chevalier de la charrete, acura di M. Roques, Paris 1974, vv. 710-24, pp. 22-23 («Ciascuno se ne va per la sua strada. | Il ca-valiere della carretta è pensieroso, | come chi non ha né forza né difesa | di fronte ad Amore, che lodòmina; | e i suoi pensieri sono di tale natura | che egli dimentica se stesso, | non sa più se esiste onon esiste, | non ricorda più il proprio nome, | non sa se è armato o no, | non sa dove va, né da doveviene; | di nulla più ha memoria, | se non di una cosa sola, ed è per questa | che ogni altra ha messoin oblio; | a quella sola pensa così intensamente | che non sente, non vede, non capisce nient’altro»).

79 a. dumas, Les trois mousquetaires cit., trad. it. cap. xxvi: La tesi di Aramis, pp. 305-6.

80 Ibid., cap. xxix: La caccia all’equipaggiamento, p. 362.81 Nel senso di m. foucault, L’herméneutique du sujet: cours au Collège de France, 1981-1982,

a cura di F. Ewald, A. Fontana e F. Gros, Paris 2001.82 m. domenichelli, Cavaliere e gentiluomo cit., p. 461 (è la frase che chiude il cap. x del li-

bro: La «scienza» cavalleresca nel Settecento. Libertini e «gentlemen»). Su questa «estetica esisten-ziale che matura durante gli anni della Rivoluzione francese e delle guerre napoleoniche», recupe-rando l’antico e ormai desueto modello etico-cavalleresco e riorientandolo verso la civiltà di cuiManzoni e Dumas sono testimoni significativi, cfr. anche p. 566 (da qui la frase appena citata), ep. 533, ove si rileva «il modo di persistente autopercezione e autorappresentazione estetico-eticadel soggetto, a vario titolo, aristocratico, cavalleresco e romantico proprio in quanto permeato deivalori cavallereschi, l’onore, l’amore e la fedeltà, come dice Hegel riconoscendo alla cavalleria, alcodice cavalleresco dell’Ottocento più che una specificità etica una specificità estetica».

83 a. dumas, Les trois mousquetaires cit., trad. it. cap. ii: L’anticamera del signor de Tréville,p. 29.

84 Ibid., p. 30.85 Cfr. l’importante saggio di m. mancini, Metafora feudale cit., cap. i: Cortigiani e cavalieri-

predoni, pp. 13-62.

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addobbandolo in un mantello celeste-dorato-solare, in Aramis riporta al-la luce altre ombre del Medioevo meridionale. L’ombra che si stende die-tro ad Aramis è soprattutto quella del trovatore: l’intellettuale-cortigiano-cavaliere ingentilito nei modi e in qualche misura disincarnato, astrattoin una fisicità estetizzante ma quasi desessualizzata, che fa del corpo unsimulacro, un fantasma mascherato da uomo; l’esangue e leggermentefemmineo chierico-cicisbeo-cavaliere, colto e raffinato, che ha definiti-vamente rinunciato alla conquista violenta e armata, giacché l’aventure diricerca del Castello la rispecchia unicamente nel testo poetico, levigato epolito con l’esercizio di perfezionamento svolto nell’interiorità, nelle for-me fantasmatiche di un suo «altero e lontano castello interiore»86 che èormai un derelitto, svuotato «paesaggio di frammenti e di rovine»87.

[…] era un giovane di appena ventidue o ventitré anni, dall’aspetto mite e ingenuo,gli occhi neri e dolci, le guance rosee e vellutate come una pesca in autunno; i baf-fi sottili disegnavano sul labbro superiore una linea perfettamente retta; le mani pa-revano temere di abbassarsi per paura che le vene si gonfiassero, e di tanto in tan-to si pizzicava il lobo degli orecchi per mantenere l’incarnato tenero e trasparente.Usava parlare poco e lentamente, salutava molto, rideva senza far rumore, mostrandoi denti, che erano belli e di cui si prendeva grande cura, come del resto di tutta lasua persona88.

Nel gruppo ternario, di fatto svolto in quaternario fin dalle primepagine del libro con l’avvento di D’Artagnan, Aramis è davvero il tro-vatore, il clericus: difatti studia, prepara una tesi che è al centro delle suepreoccupazioni, filosofeggia, e intende prendere i voti facendosi gesui-ta. Dialogando con D’Artagnan lo proclama chiaro e tondo lui stesso,che l’Autore fa uscire dagli abiti del cavaliere-poeta-cicisbeo e nascon-de sotto quelli di uno Jago filologicamente shakespeariano, ma notevol-mente ritoccato nella direzione del gesuitismo:

[…] io voglio essere uomo di chiesa e rifuggo da tutte le occasioni mondane. Il faz-zoletto che avete visto non era stato dato a me personalmente, ma era stato di-menticato a casa mia da un amico. Ho dovuto raccoglierlo per non comprometterelui e la Donna che ama. Quanto a me, non ho e non voglio avere amanti, seguendol’esempio giudizioso di Athos, che non ne ha neanche lui.

– Ma che diavolo! Dal momento che siete moschettiere, non siete prete.– Moschettiere ad interim, mio caro, come dice il cardinale, moschettiere mio

malgrado, ma uomo di chiesa nell’animo, credetemi89.

Lo dimostra anche l’insistenza parodica, garbatamente accentuata fi-no all’ironia, con cui Dumas sottolinea la passion predominante del mo-schettiere. Essa non è la conquista militare, e neppure immediatamen-te quella erotico-sentimentale, l’avventura «galante», nella quale eccel-lono gli altri suoi compagni: specchio fedele dell’antico domnejar, artedella seduzione che trasferisce l’aggressività del brigantaggio sulla sfidadella conversazione, del dialogo persuasivo e affascinante90.

Alla passione tipicamente cortese Aramis (richiamandosi all’esempiodi Athos, come ad un compagnonnage tipicamente cavalleresco)91 prefe-risce per esplicita ammissione la concentrazione nell’interiorità, la men-talizzazione di ogni esperienza corporea. L’opposizione fra Porthos ilcarnale, il tutto-fisico, il tutto-corpo e Aramis lo spirituale, il tutto-cer-vello, il tutto-mentale, non potrebbe essere meglio calcolata e calibrata.È evidente che Dumas, assumendo due dei livelli e modelli intrinsecinella cavalleria medievali, li disarticola e li individualizza in due distin-ti personaggi.

12. «Athos è malato, molto malato».

A mediare tra queste figure estreme di cavalieri viene introdottoAthos, companho di masnada, appunto, affratellato a saldare dialettica-mente il gruppo.

Athos entra in scena non di persona, ma come protagonista del rac-conto di Porthos al signor di Tréville. La sua prima apparizione non èin veste di spadaccino, di eroe, di corpo sano e vigoroso guidato da unamente ardita e leale. Athos è presentato come Malato: come il MoltoMalato: «“Signore – rispose tristemente Aramis, – Athos è malato, mol-to malato” – “Molto malato, dite? E di quale malattia?” – “Si teme chesia il vaiolo, signore […]”»92. Solo due pagine più tardi si scoprirà che

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86 j. lacan, Le stade du miroir comme formateur de la fonction du Je, in id., Écrits, Paris 1966[trad. it. Lo stadio dello specchio come formatore della funzione dell’«io», in id., Scritti, Torino 1974,I, pp. 91-92, citato da m. mancini, Metafora feudale cit., p. 118 (nel saggio Marcabru, i sambuchi eil castello assediato, pp. 107-31)]. In chiave filologico-testuale raccoglie e discute materiali antichie moderni relativi all’allegorismo del castello interiore il bellissimo libro di i. gallinaro, I castellidell’anima. Architetture della ragione e del cuore nella letteratura italiana, Firenze 1999, che resti-tuisce il percorso elaborativo, fra Medioevo ed età moderna (Leopardi, e oltre), di un lessico e diuna metaforica dell’«edificazione interiore».

87 m. mancini, Metafora feudale cit., p. 130.88 a. dumas, Les trois mousquetaires cit., trad. it. cap. ii, p. 30.

89 Ibid., trad. it. cap. vii: La vita privata dei moschettieri, p. 94.90 Cfr. m. mancini, Metafora feudale cit., in particolare pp. 48 sgg.91 Lo stesso Richelieu, in un punto cruciale del romanzo (a. dumas, Les trois mousquetaires cit.,

trad. it. cap. li: Ufficiale, p. 583) riconosce D’Artagnan dall’«accento guascone» (ossia per la suanatura di meridionale focoso e quasi-spagnolo), mentre del resto del gruppo percepisce il «compa-gnonnage»: «non dubitò che gli altri tre fossero quelli che chiamavano gli inseparabili, vale a direAthos Porthos e Aramis».

92 Ibid., trad. it. cap. iii: L’udienza, p. 36.

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Porthos sta cercando di celare il segreto della ferita inferta ad Athos inun attacco proditorio da parte delle guardie del cardinale (Athos «sa-rebbe disperato se questa notizia arrivasse agli orecchi del re»)93. Quan-do appare di persona, il moschettiere è solo «una testa nobile e bella,ma spaventosamente pallida»: e se perderà subito i sensi per il dolore,lo farà entrando nel salotto «in tenuta impeccabile, stretto alla cinta co-me sempre e con passo fermo»94.

Si potrà anche morire dissanguati, insomma: ma l’etichetta e l’ele-ganza vanno preservate avant tout. Con la prudenza e il beneficio d’in-ventario necessari in casi come questi, ci si potrà domandare se questamalattia simbolica del moschettiere più aristocratico della terna non pos-sa essere un riverbero flebile e impallidito, ridotto a pura traccia allusi-va, diciamo pure a «grafismo» teatrale, dell’antico mitologema della ma-lattia incurabile dell’eroe. Prima di tutti e sopra tutti gli avatar medieva-li c’è Telephos, l’eroe greco colpito da Achille e che può essere sanatosolo dalla polvere di ruggine raccolta dalla stessa lancia che lo ferì, di-venuto nel mondo antico «il proverbiale rappresentante del concetto di“guarigione con l’arma che ha arrecato la ferita”»95. Al di sotto dellecomponenti psicologiche individuali e del senso specifico che assume iltema dell’autoguarigione in Rousseau, non sarà incongruo, riconoscen-do un comune orizzonte mitografico, accostare il suo telefismo al mito-logema della malattia mortale elaborato dai poeti cortesi alle origini del-la cultura europea moderna:

Parlando della sua infanzia, Rousseau vi scopre la malattia inscritta sin dall’ori-gine: «Nacqui debole e malaticcio; costai la vita a mia madre, e la mia nascita fu laprima delle mie sventure». Questa ferita iniziale (o, se si preferisce, la convinzionee il racconto di essa) chiama a raccolta e mobilita tutte le energie riparatrici, tuttele facoltà di compensazione. Resta appena l’intera vita per tentare di guarire, quan-do il male è inseparabile dalla venuta al mondo96.

Al pari di Rousseau, anche Athos «viene al mondo», come perso-naggio, nei panni del Molto Malato. Il romanzo intero gli basterà appe-na per riscattare quel destino con l’eroismo del grande schermidore. Al-

lo stesso modo il senhal della malattia d’amore aveva connotato i primidue trovatori di cui abbiamo notizia: il giovane Jaufré Rudel sceglie persé il blasone del Malato, del Pellegrino, dell’Esiliato, del Destinato dalCielo alla Lontananza e alla Sofferenza:

Alres no i a mais del murir,s’aucun joi non ai en breumen.[…]

Lai es mos cors si totz c’alhorsnon a ni sima ni raitz,et en dormen sotz cobertorses lai ab lieis mos esperitz;e s’amors mi revert a maucar ieu l’am tant e liei non cau97.

Il «fondatore» del mitologema, alle soglie del xii secolo, fu proba-bilmente il grande filosofo Abelardo, a sua volta autore di poesie d’amo-re (chissà se solo in latino o anche in volgare). Il crudo racconto dellacastrazione subita per opera degli scherani dello zio di Eloisa, il gelosoFulberto, si svolge in un’attenta, ferocemente dettagliata variante al te-ma della ferita insanabile legata ad amore e generatrice di desiderio epassione solo mentali, in quella che continua a sembrarmi la prima,straordinaria autobiografia erotico-cortese, la celebre Historia calamita-tum, tramandata come prima lettera ad Eloisa. Jaufré Rudel riprende esviluppa il tema (e più tardi l’oltranzoso, sprezzante Raimbaut d’Au-renga fingerà di imitarlo, in realtà rovesciando in ridicolo l’ideologiadell’amor de lonh e del desiderio ridotto a sguardo e pensiero)98:

Lonc temps ai estat en doloret de tot mon afar marritz,qu’anc no fui tan fort endurmitzque no˙m reisides de paor.[…]

Mielhs mi fora jazer vestitz,que despolhatz sotz cobertor:

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93 Ibid., trad. it. p. 38.94 Ibid., trad. it. pp. 38-39.95 j. starobinski, Le remède dans le mal. Critique et légitimation de l’artifice à l’âge des Lumiè-

res, Paris 1989 [trad. it. Il rimedio nel male. Critica e legittimazione dell’artificio nell’età dei lumi,Torino 1990, p. 173 (cap. v: Il rimedio nel male: il pensiero di Rousseau; il saggio fu pubblicato inorigine nel 1978: cfr. la Nota bibliografica a p. 265). Nella trad. it. pp. 172-73, nota 1, Starobinskirileva che «fino alla metà del xix secolo, la formula rimane proverbiale», e cita alcuni esempi diapplicazione al tema della violenza e al campo della comunicazione giornalistica (soprattutto inte-ressanti le due frasi estratte da Le Vieux Cordelier di Camille Desmoulins e dalle Illusions perduesdi Honoré de Balzac).

96 Ibid., trad. it. p. 149 (la frase apre il § 1, La lancia d’Achille, del cap. v cit.).

97 jaufré rudel, Pro ai del chan essenhadors, in g. chiarini, Il canzoniere di Jaufré Rudel. Edi-zione critica, con introduzione, note e glossario, L’Aquila 1985, vv. 23-24 e 33-38, p. 66: si tratta deiversi finali della stanza III e dei primi sei della stanza V; trad. it. p. 68: «III. – […] non mi rima-ne altro che morire, a meno che non riceva presto qualche conforto. […] V. – Laggiù si trova lamia persona, che altrove non ha cima né radice, e quando dormo sotto le coperte il mio spirito èla presso di lei; ma il suo amore si risolve in male per me, perché io l’amo tanto e a lei non impor-ta. […]».

98 Cfr. c. bologna e a. fassò, Da Poitiers a Blaia: prima giornata del pellegrinaggio d’amore, Mes-sina 1991 (mie sono le pp. 5-83: per Abelardo, cfr. le pp. 25 sgg.; su Lonc temps ai estat cubertz diRaimbaut d’Aurenga e sul suo rapporto parodico con Jaufré Rudel si vedano in particolare le pp.35 sgg.).

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e puesc vos en traire auctorla nueit quant ieu fui assalhitz.Totz temps n’aurai mon cor dolen,quar aissi s n’aneron rizen,qu’enquer en sospir e˙n pantais99.

Colps de joi me fer, que m’ausi,e ponha d’amor que˙m sostrala carn, don lo cors magrira;et anc mais tan greu no˙m ferini per nuill colp tan no langui,quar no conve ni no s’esca, a, a100.

Il maturo Guglielmo IX d’Aquitania, in una delle liriche più famo-se di tutto il Medioevo, il vers de dreit nien dedicato «al puro nulla», com-posta «di puro nulla», estratta «dal puro nulla», irride il «lungo dolo-re» del giovane Jaufré Rudel, il suo desiderio di «consumazione», di«sottrazione della carne» (esaltato nel testo da uno degli enjambementpiù violenti della lirica delle origini), la sua percezione e rappresenta-zione del pathos sentimentale come «colpo d’amore», «coltellata di pas-sione» che «uccide» dando la vita. La parodia è spietata101:

Malautz sui e cre mi morir;e re no sai mas quan n’aug dir.Metge querrai al mieu albir,e no˙m sai tau;bos metges er, si m pot guerir,mor non, si amau102.

Lasciamo a questo punto Guglielmo e i suoi companho, masnada diantichi cavalieri-predoni, ormai capaci di leggere, di scrivere, di ap-prezzare le raffinate strutture formali in rima, visto che per loro il du-

ca d’Aquitania scrive le prime composizioni letterarie in un volgare eu-ropeo. E torniamo ai tre strani, difformi compagni ai quali si unisce ildiciottenne D’Artagnan, guascone «Don Chisciotte senza corazza, sen-za scudo e senza gambali».

Se Porthos è il cavaliere-combattente, Athos il cavaliere-aristocratico,Aramis, come dicevo, è sicuramente il cavaliere-intellettuale. Sua passionpredominante è la scrittura: cioè l’attività che nella Provenza medievalesi collegava direttamente alla fin’amors e infine si sublimava in amoredell’Amore, in passione della Passione (anche in questo replicando loschema trobadorico). Aramis ama lo studio, il perfezionamento interio-re, si appassiona alla poesia che riflette e riproduce quell’esercizio spi-rituale, testualizzandolo:

– […] Ho cominciato un poema in versi monosillabi: è molto difficile, ma in tuttele cose il merito sta nella difficoltà. L’argomento è galante: vi voglio leggere il pri-mo canto, che è fatto di quattrocento versi e dura un minuto.

– In fede mia, caro Aramis, – disse D’Artagnan, che detestava i versi quasi quan-to il latino – aggiungete al merito della difficoltà anche quello della brevità, e sare-te sicuro che il vostro poema avrà almeno due meriti103.

Come sarà mai venuta in mente, a quel diavolo di Dumas, quest’ideamedievale e modernissima di un poema in versi monosillabici, fulmineocome un duello di moschettieri e leggero come il vento?

13. Il poema di Aramis e la biblioteca dei suoi dotti nipotini.

Agucchiato dalla punta fonetica del monosillabo, trapuntato come uncielo di stelle, il poemetto di Aramis è un duello verbale, un gioco al fio-retto degno dei grandi trovatori medievali inventori di linguaggio e diforme poetiche capaci di abbreviare il cosmo intero in un testo di folgo-rante respiro metrico-sillabico: Marcabru, Raimbaut d’Aurenga, ArnautDaniel.

Chissà se Dumas conosceva i trovatori così come sapeva almeno qual-cosa (e di ciò vuole darci la prova ad apertura di libro) del Roman de laRose. Quando decide di denunciare le sue fonti d’ispirazione è piutto-sto alla mitologia classica e al racconto biblico che si richiama, nascon-dendosi dietro la maschera di D’Artagnan, sua persona teatrale:

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99 jaufré rudel, Belhs m’es l’estius el temps floritz, in g. chiarini, Il canzoniere di Jaufré Rudelcit., vv. 15-18 e 36-42, pp. 102-3; trad. it. pp. 103-4: «III. – A lungo sono stato nel dolore e inpreda a grande inquietudine, così che mai era stato tanto profondo il mio sonno che non mi sve-gliassi di soprassalto impaurito. […] VI. – Meglio sarebbe stato per me coricarmi vestito, anzichéspogliato sotto le coltri: e vi posso addurre a conferma la notte in cui fui aggredito. Sempre ne avròpena nel cuore, perché se ne andarono ridendo, così che ancora sospiro e ne sono turbato».

100 id., Non sap chantar qui so non di, ibid., vv. 13-18, p. 57; trad. it. p. 59: «Un colpo di gioiami ferisce, tale che mi uccide, e una trafittura d’amore che mi consuma la carne, onde il corpo nesmagrirà; e mai fui ferito tanto gravemente, né mai alcun colpo mi ha tanto indebolito, perché nonconviene né si addice».

101 Come a suo tempo ho cercato di dimostrare, è più economico concludere che sia lui a ro-vesciare il mito, e non che sia Jaufré Rudel a riportare la parodia al segno positivo: sul mitologemadella malattia cfr., nel mio Da Poitiers a Blaia cit., specialmente le pp. 60 sgg.

102 guglielmo ix d’aquitania, Farai un vers de dreit nien, in id., Poesie, a cura di N. Pasero,Modena 1973, I, vv. 19-24, p. 93; trad. it. p. 95: «Sono malato e temo di morire, eppure non neso nulla più di quanto ne sento dire. Cercherò un medico a mio capriccio, eppure non ne conoscouno adatto; sarà un buon medico, se riesce a guarirmi, ma no, se mi aggravo».

103 a. dumas, Les trois mousquetaires cit., trad. it. cap. xxviii: Il ritorno, p. 352. La passioneletteraria di Aramis sarà ribadita più tardi, nel cap. xxxi, Inglesi e Francesi, p. 378, durante un duel-lo: a differenza di Athos che «tirava con altrettanta calma e metodo che se si fosse trovato in unasala d’armi», e di Porthos, che «faceva una scherma piena di finezza e di prudenza», «Aramis, cheaveva da finire il terzo canto del suo poema, si disbrigava da uomo che ha fretta».

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Per quanti sforzi facesse, D’Artagnan non riuscì a saperne di più sul conto deisuoi nuovi amici: si decise dunque a credere nel presente tutto quello che si dicevasul loro passato, aspettandosi per l’avvenire rivelazioni più vaste e sicure. Nel frat-tempo, considerava Athos un Achille, Porthos un Aiace, Aramis un Giuseppe104.

Non ci si deve aspettare, tuttavia, che a quest’altezza cronologica, epresso un lettore non-professionista come Dumas, la poesia volgare del-le Origini sia nota in dettaglio. Di certo gli sfuggiva l’erudizione spe-cialistica che andava elaborandosi tra Germania e Francia, e in parte an-che in Italia: ad essa però attingevano i divulgatori (anche di gran clas-se) della cultura letteraria dei primi secoli romanzi.

Di un discreto successo avevano goduto, già prima della Rivoluzio-ne francese, l’Histoire littéraire des Troubadours realizzata in collabora-zione da La Curne de Sainte-Palaye e dell’abate Millot (Paris 1774) el’Histoire générale de Provence del Papon (Paris 1777), che aveva perfi-no stampato qualche testo occitanico. In età napoleonica Antoine Fabred’Olivet, con le Poésies occitaniques du xiii e siècle (Paris 1803-804), ave-va avviato una decisa romanticizzazione della civiltà trobadorica, sele-zionando poesie abbastanza incongrue e peregrine (pastorelle, fabliaux,raccontini in versi mescolati a composizioni d’origine greco-latina), inun pot pourri notevolmente kitsch di cui dànno un saggio palpabile i ti-toli parlanti e sonanti delle sezioni: Les Amours de Rose et de Poce deMeyrueis; La dispute au Bocage; La Cour d’Amour; Épîtres amoureuses;Les sainons; L’égratignure d’Amour; La bergère poursuivie; La petite sor-cière; Le lever d’Anna. Con il tedesco Friedrich Diez quella poesia oscu-ra e fascinosa incominciava ad essere recuperata dai manoscritti, rac-colta, antologizzata, talvolta anche tradotta. In questo campo molto la-voro rimane da compiere, soprattutto nel regesto e nella valutazione deipossibili canali di raccolta e di deflusso dell’informazione.

Nel campo della romanistica nascente, ad esempio, nel 1831 avevavisto la stampa la seconda edizione riveduta e accresciuta della Storia edanalisi degli antichi romanzi di cavalleria e dei poemi romanzeschi d’Italiadi Giulio Ferrario: ma non sono sicuro che Dumas possa aver conosciu-to un lavoro in italiano pubblicato a Firenze (e non distribuito in Fran-cia)105 come X volume, e conclusivo, dedicato all’Europa, di una seriedall’aria erudita (Il costume antico e moderno, o Storia del governo, dellamilizia, della religione, delle arti, scienze ed usanze di tutti i popoli antichi

e moderni). Lo stesso varrà per altri grandi classici promotori della ri-cerca provenzalistica, in Italia e in Francia: Le osservazioni sulla poesiade’ trovatori di Giovanni Galvani (1829)106, lo stesso che nel 1845 avreb-be pubblicato presso Carlo Turati, a Milano, il Fiore di storia letteraria ecavalleresca della Occitania, aperta da un capitolo su Scaldi e Bardi, chesfondava l’orizzonte mitografico verso il Nord cavalleresco ispiratoredel Sud lirico, dove collocava le Origini della poesia, evocando «questiCelti, padri ai nostri Occitani»107.

Quanto alla poesia cortese della Francia del Sud, un libro destinatoa divenire un classico, Die Poesie der Troubadours di Friedrich Diez, erastato pubblicato a Zwickau nel 1826; ma la traduzione in francese (LaPoésie des Troubadours), realizzata dal barone Ferdinand de Roisin, erauscita a Parigi e a Lilla nel 1845, giusto un anno dopo l’apparizione deiTrois mousquetaires: troppo tardi, dunque, perché si possa ipotizzareuna relazione diretta con Dumas. L’anno ancora successivo, il 1846, ve-de la pubblicazione in Germania dei primo volume dei Werke der Trou-badours curati da Mahn (ma l’opera, in quattro volumi, si concluderàsolo quarant’anni più tardi, in un clima culturale e filologico profonda-mente mutato)108.

Entro il 1844 erano stati completati i due capolavori di François-Just-Marie Raynouard (che una certa fama aveva già ottenuto, dopo ilCaton d’Utique del 1794, con altre due tragedie medievaleggianti, LesTempliers, del 1805, e Les états de Blois, 1814), massicci repertori inau-gurali della ricerca testuale su ampia scala nella direzione delle originitrobadoriche della poesia europea, che raggiungono un pubblico non an-cora professionalmente “filologico”, ma anche “di larga cultura”. Si trat-ta dei sei volumi dello Choix de poésies originales des troubadours (1816-1821)109 e degli altri sei del Lexique roman ou Dictionnaire de la languedes troubadours (1838-44), ove accanto a un primo regesto lessicografi-co della lingua occitanica era proposta un’ulteriore antologia di testiestratti da manoscritti antichi. Il provenzale, del quale si individuava la

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104 Ibid., trad. it. cap. vii, pp. 94-95.105 Alla fine del volume, edito a Firenze da Vincenzo Batelli, si trova una lunga lista che cor-

risponde a quella che definiremmo oggi «Tabula gratulatoria»: «Catalogo degli Signori associatialla presente opera intitolata Costume antico e moderno di tutti i popoli», nel quale, oltre alla Cor-sica, nessuna regione straniera è indicata per i suoi sottoscrittori.

106 Nel volume fra l’altro (pp. 145-47) era pubblicata e tradotta l’«alba» di Guiraut Riquier inversi trisillabici: «Ab plazen | pessamen | amoros»): ma cfr. anche la nota 110.

107 Cfr. g. galvani, Osservazioni sulla poesia de’ trovatori e sulle principali maniere e forme di es-sa confrontate brevemente colle antiche italiane, Modena 1829, pp. 145-47; id., Fiore di storia lette-raria e cavalleresca della Occitania, Milano 1845, Notizie preliminari, Epoca I, Scaldi e Bardi, pp. 29-66 (la frase citata è a p. 42).

108 Cfr. c. a. f. mahn (a cura di), Die Werke der Troubadours, in provenzalischer Sprache, mit ei-ner Grammatik und einem Woerterbuche [sic], 4 voll., Berlin 1846-86 (ristampa anastatica Genève1977).

109 Si noti che in f.-j.-m. raynouard (a cura di), Choix de poésies originales des troubadours, vol.III, Paris 1818, pp. 460-61, era stata pubblicata l’alba trisillabica di Guiraut Riquier, Ab plazenpessamen amoros, contenente serie di versi trisillabici interrotte da due settenari.

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primazia sulle altre lingue romanze, vi era pensato come la radice stori-ca di esse: così il mito della fondazione trobadorica della letteratura mo-derna sbocciava insieme a quello della priorità genetica della lingua oc-citanica, dalla quale si sarebbero articolate le altre neolatine. Le rifles-sioni sugli «ossements fossiles» depositati dal linguaggio nella memoriaprofonda si riverbereranno lungo tutto il secolo, fino alla «paléontolo-gie linguistique» di Adolphe Pictet (1859 e 1877), al quale farà eco, nel-la rilessione sulla genesi linguistica del pensiero poetico, Stéphane Mallar-mé (Les mots anglais, 1877), con un’idea vitalistico-organicistica che sicollega all’ideologia (in parte d’estrazione hegeliana) climatico-geografi-ca del germe “orientale” (indo-europeo) della cultura e della sua diffu-sione attraverso la via “meridionale”:

À toute la nature apparenté et se rapprochant ainsi de l’organisme dépositairede la vie, le Mot présente, dans ses voyelles et ses dyphtongues, comme une chair;et, dans ses consonnes, comme une ossature délicate à disséquer110.

Né va dimenticato che nel 1846 apparve anche l’Histoire de la poé-sie provençale, cioè la serie delle lezioni che a partire dal 1831 ClaudeFauriel aveva tenuto all’Università di Parigi, impostando fra i primi laquestione dei rapporti fra cavalleria e poesia occitanica111: Fauriel, l’ami-co di Manzoni, con cui questi ebbe lunga consuetudine, fin dai lunghiperiodi trascorsi con lui, nei primi anni del secolo, alla Maisonnette diMadame de Condorcet, a discutere di poesia italiana delle origini e ditecniche di versificazione antica, come l’ampio epistolario testimonia112.

Composizioni cucite in versi brevi o brevissimi, anche se non propriomonosillabiche, il Medioevo ne aveva vedute. Oltre alla già ricordata al-ba trisillabica di Guiraut Riquier, si pensi a certe liriche in tri/quadrisil-labi dei Carmina Burana; oppure quelle composte in misura affine dal pro-venzale Marcabru (liriche come Tot a estru113, Estornell, cueill ta volada114,Ges l’estornels non s’oblida)115, o ancora alle due celebri stanze dialogiche,contenenti versi spezzati in tre, anche più semicolon di poche sillabe (una,due, tre…) di Ges no puesc en bon vers fallir di Peire Rogier116.

14. «“Ai las!” – “Que plangz?” “Ja tem morir.”».

A questa tipologia costruttiva, e con ogni probabilità proprio a Pei-re Rogier, si ispirò l’ancora anonimo autore del solo romanzo occitani-co, il meraviglioso Flamenca117, una sorta di Barbiere di Siviglia del xii-xiii secolo, tramato di sospiri cortesi “da lontano” e di giochi degli in-ganni “da vicino”, e soprattutto di una straordinaria mise en abyme dellaletteratura trobadorica, in primo luogo del mitologema dell’amore ma-lato e inguaribile, fondamentale nella ricezione moderna dell’occitani-smo e nel suo sviluppo romantico.

Per poter comunicare senza farsi scoprire da Archimbautz, il vecchiomarito geloso di Flamenca, i due innamorati s’incontrano in chiesa, do-ve lui, Guilhem de Nevers, si presenta travestito da chierico e davantia tutti, durante la messa, le sussurra il segno della pace chinandosi a ba-ciare il sacro Salterio («Quan il lo sauteri baiset, | el li dis suavet: “Hailas!”»)118. Lei sulle prime non capisce o finge di non capire, giusto per

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110 («Imparentata con la natura intera e accostandosi dunque all’organismo depositario dellavita, la Parola presenta, nelle vocali e nei dittonghi, una sorta di carne; e, nelle consonanti, quasiun’ossatura delicata da sezionare»). Traggo le citazioni da a. pictet, Les origines Indo-européennes,ou les Aryas primitifs. Essai de paléontologie linguistique (1859-63), Paris 18772, e da s. mallarmé,Petite philologie à l’usage des Classes et du Monde. Les mots anglais par Mr Mallarmé Professeur auLycée Fontanes, Paris s.d. [ma 1877], dal bellissimo saggio di c. ossola, Il nome nascosto (1979),in id., Figurato e rimosso. Icone e interni del testo, Bologna 1988, pp. 175-211 (in particolare pp.181-86).

111 Cfr. c. fauriel, Histoire de la poésie provençale, 3 voll., Paris 1846, specialmente l’ultimocapitolo del vol. I (xv: De la chevalerie dans ses rapports avec la poésie provençale), pp. 478-547.

112 Cfr. i. botta (a cura di), Carteggio Alessandro Manzoni - Claude Fauriel, in Edizione nazio-nale ed europea delle opere di Alessandro Manzoni, vol. XXVII, Milano 2000. Si vedano in parti-colare, fra le lettere prevalentemente dedicate a questioni di letteratura e di metrica, la n. 3 (Manzo-ni e Giulia Beccaria a Fauriel da Genova, il 19 marzo 1807, pp. 14-21; Manzoni propone a Fau-riel l’invio di alcuni libri su Dante, Dante da Maiano, Cino da Pistoia, Guido Cavalcanti, Faziodegli Uberti: «Vous ne pouvéz [sic] pas croire quel plaisir je prends a [sic] vous voir cultiver cettedivine poesie [sic] qui sera j’éspere [sic] un des noeuds (le plus petit pourtant) qui nous unirontpour toute la vie»: p. 16); la n. 5 (Manzoni e Giulia Beccaria a Fauriel da Torino, l’8 aprile 1807,pp. 25-32; Manzoni discute intorno alle versioni virgiliane di Annibal Caro e di Alfieri, critican-do aspramente quest’ultimo); la n. 43 (Manzoni a Fauriel da Milano, nel febbraio 1811: Manzo-ni accenna ad uno «charmant projet dur Dante» di Fauriel, e gli offre un sostegno bibliograficosul tema).

113 Cfr. j.-m.-l. dejeanne (a cura di), Poésies complètes du troubadour Marcabru, Toulouse 1909,n. XX, pp. 94-96.

114 Cfr. ibid., n. XXV, pp. 121-24.115 Cfr. ibid., n. XXVI, pp. 126-29.116 Cfr. c. appel, Das Leben und die Lieder des Trobadors Peire Rogier, Berlin 1882, n. VI, p.

52. Il testo si legge comodamente anche nell’antologia a cura di m. de riquer, Los trovadores. His-toria literaria y textos, 3 voll., Barcelona 1975, I, pp. 269-71.

117 Cfr. anonimo, Flamenca, in r. lavaud e r. nelli (a cura di), Les troubadours. Jaufre, Fla-menca, Barlaam e Josaphat, Paris 1960, vv. 3875 sgg., pp. 844 sgg. Mario Mancini da anni sta la-vorando a una traduzione del testo, che ha per ora analizzato in alcuni finissimi saggi di dettaglio:cfr. da ultimo Nella biblioteca di Flamenca, in r. castano, s. guida e f. latella (a cura di), Scène,évolution, sort de la langue et de la littérature d’oc. Actes du Septième Congrès International de l’Asso-ciation Internationale d’Études Occitanes (Reggio Calabria - Messina, 7-13 juillet 2002), Roma 2003,tomo I, pp. 511-19 (anche per i dati bibliografici relativi agli altri studi).

118 anonimo, Flamenca cit., vv. 3948-49, p. 848: «Quando ella baciò il Salterio, | lui le sus-surrò piano: “Ahimé!”» (per facilitare la comprensione del gioco sottolineo con il corsivo, anchedove l’edizione non lo ha, la battuta di Flamenca che riprende e adatta, di volta in volta, un bisil-labo di Peire Rogier).

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consentire all’autore di filare con abile telaio il va-e-vieni della mentenel segreto della camera, a consultare i sacri testi, soprattutto romanzid’amore: e per tutti il Fleur et Blanchefleur, che Flamenca ricorda (ele-gantissimo gioco di specchi del romanzo nel romanzo!) contenere unavicenda simile alla sua. Ma poi via via, di settimana in settimana, di do-menica in domenica, al ripetersi di quel lambiccatissimo gioco amoroso,sublime rituale seduttivo camuffato in panni liturgici, coglie e interpre-ta, quasi in presa diretta, lo smembramento monosillabico della celebrelirica composta tempo prima dal trovatore, e certo molto famosa pressoun largo pubblico cortese («“Ai las!” – “Que plangz?” “Ja tem morir.”| “Que as?” “Am.” | “E trop?” “Ieu hoc, tan | que˙n muer.” “Mors?”“Oc.” “Non potz guerir?” | “Ieu no.” “E cum?” “Tan suy iratz.”», ec-cetera eccetera)119.

In questo modo, aiutata dalle servette Alis e Margarida, Flamencaricompone per conto suo il testo che non c’è più (la poesia di Peire Ro-gier, appunto, affidata alla memoria poetica) e che, nel contempo, nonc’è ancora (giacché i due innamorati, almeno dal punto di vista del let-tore, lo stanno creando!). Scandendolo, sillaba dopo sillaba, ogni do-menica, mescolando sacro e profano e intertestualità e parodia in unastraordinaria tessitura sentimentale-vocale, impara a dialogare con il suobel Guilhem-canonico («e quant volc la carta laissar | tot planamenz esenes gap | a dig: “Que plains?” pois dressa-l cap | et esgaret ben la sem-blansa | de son amic e la mudansa | de sa color […]»)120. Lui a casa si ar-rovella, affina le idee, studia la lezione: e la domenica successiva azzec-ca la risposta, mandata a memoria in estenuanti prove solitarie («Vas sidons venc prumeirament | que non s’estreis tan de la benda | con sol,per so que mielz l’entenda; | quant il pren pas, el dis: “Mor mi,” | et ai-tan tost part si d’aqui: | non es parer motz n’i agues»)121. E via così, pertutto un calendario.

Immaginiamo la corte che assiste estasiata al duello monosillabicocon colpi ben assestati a distanza settimanale, e ne gode l’eleganza e l’al-

lusività, quasi si trattasse di un agone decisivo nella palestra dello spiri-to e nel contempo (per i personaggi dapprima, e poi per gli stessi letto-ri) di una fanciullesca mosca cieca cortese, di un gioco a nascondersi e ascoprirsi fra i testi e i costumi della tradizione trobadorica. Nell’imba-stitura verbale ordita con la finezza di un grande regista sul palcosceni-co cortese, i due innamorati contrastati dal vecchio geloso si pensano esi parlano da lontano, de lonh, in uno scambio tutto di testa, che è quel-lo ideato dal geniale Jaufré Rudel in forma di suprema, manieristica su-blimazione dell’erotismo e di ascensione del pensiero: è la fin’amors cor-tese, leggera come il volo della mente, estremistica come un eserciziospirituale, pervasiva tanto da divenire un finissimo, complesso, anchecontraddittorio codice di comportamento.

È proprio questo il codice che rimarrà per secoli nella société d’an-cien régime europea, a scandire i ruoli, le parti, il senso della corte, diuna sua etica individuale (l’etica dell’interiorizzazione poco fa evocata)capace di fondare anche un’estetica collettiva (l’estetica del puro vivere).

15. Un mondo fluttuante.

Il jeu cortese, nella sua polivalenza etico-estetica, nel suo dimen-sionarsi sul doppio versante «interiorità»/«esteriorità» si bilancia, instramba combinazione, fra esercizio spirituale e ginnastica sociale. Illettore comprende il gioco letterario cortese, legge quella lirica in pa-linsesto, nella propria memoria, e via via sgrana il rosario sillabico eride, sentendosi partecipe, capace di condividere una così eleganteenigmistica simbolica. L’impresa portata a termine da Flamenca eGuilhem, e con loro dai lettori di corte, è epocale: in realtà si trattad’uno scambio di battute di sicura riconoscibilità per un pubblico abi-tuato a mandare a memoria le liriche ascoltate dalla viva voce del tro-vatore o del giullare, e poi forse anche rilette nei rotuli manoscritti.Ciò che più conta è che, per somma ironia, a capire il gioco seduttivoe a riconoscere il testo cifrato nello smembramento domenicale sonole femmes de compagnie di Flamenca (ma ci si vorrebbe spingere a di-re che lo spiritoso autore le pensa proprio come le sue femmes de mé-nage!), più sapienti della Signora nella recitazione mentale e nella me-morizzazione dei testi lirici: all’incirca come, in un differente sistemafeudale, le cortigiane del Giappone premoderno, le celebri etere diYoshiwara, di Gion, di Shimabara, erano in grado di improvvisare ver-si eleganti in risposta ad altri lanciati loro per sfida, esaltando l’Ukiyoe,il mondo fluttuante in cui vivevano e che creavano come un’opera d’ar-

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119 peire rogier, Ges non puesc en bon vers fallir, in m. de riquer, Los trovadores cit., vv. 41-44, vol. I, p. 271 (per praticità introduco le virgolette alte per distinguere le battute dei due vir-tuali interlocutori): «“Ahimé!” – “Di che ti lamenti?” “Temo di morire.” | “Che hai?” “Amo.”“Tanto?” “Sì, tanto | che ne muoio.” “Muori?” - “Sì.” “Non puoi guarire?” | “No.” “E perché?”“Perché sono così triste!”».

120 anonimo, Flamenca cit., vv. 4342-47, p. 868 («E quando volle lasciare il foglio | disse chia-ramente e senza ironia: | “Que plains?” [“Di che ti lamenti?”], poi rialzò la testa | e guardò drittoin viso | il suo amico, e il suo cambiamento | di colore […]»).

121 Ibid., vv. 4500-5, p. 876 («Se ne andò subito verso la Sua Signora | che non aveva strettosul capo il fazzoletto | come faceva di solito, per poter meglio sentirlo. | Quando lei ricevette il se-gno della pace, | lui le disse: “Mor mi” [“Muoio”] | quindi si allontanò in gran fretta | e nessuno siaccorse che aveva detto qualcosa»).

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te122, è moda e modo: di essere, di vivere, di pensare, di parlare, di la-sciare segni sull’acqua dell’esistenza che scorre, inarrestabile.

In Flamenca, nei suoi monosillabi che Aramis avrebbe amato e imi-tato se avesse potuto conoscerli, credo si possa riconoscere (pur nella lon-tanissima realtà sociale e culturale che separa Provenza del xii secolo eGiappone del xviii) quello stesso fluttuare intenso e leggero, quella stes-sa ironia di gioco e di complicità fra dama e cameriera, e fra entrambele donne e il trovatore.

I veri soggetti collettivi di questa storia sono il gioco di società chemaschera dietro all’ironia dello stile e della forma l’abisso che va apren-dosi nella civiltà europea; la rapida metamorfosi di quell’etica dell’indi-viduo nobile e quindi superiore che, estetizzandosi sempre più, dalla ci-viltà di corte si diffonde tra la ricca borghesia vogliosa di essere ricono-sciuta, rispetto alle altre classi in crisi, superiore e quindi degna dinobilitazione; la raffinatezza femminile che contagia e seduce il cavalie-re ingentilendolo, strappandogli definitivamente di dosso i panni irsutidell’antico berserkr e sostituendoli con i più lindi e ricercati abiti di pa-rata, facendone un dandy, un cortigiano très chic.

I cavalieri-gentiluomini così chic, così dandy, attraversano i secolicambiando e assottigliando il gusto, scoprendo e conquistando scono-sciuti, insperati territori dello spirito. Alla fine del secolo romantico,sulla soglia della catastrofe definitiva della residua società d’ancien régi-me museificata ormai nell’Austria felix, ultima ombra del Sacro romanoimpero, i nobili Lord Brummel, Lord Acton, e i borghesi Des Essein-tes, Dorian Gray, Andrea Sperelli, senza più alcuna apparente distin-zione di classe compiono le medesime scelte, tutte eccentriche e quindi«di buon gusto». Adorano «alla stessa stregua, come strumenti di sen-sazioni d’epicureo, opere d’arte, pietre preziose, profumi, fiori, vivan-de», e si entusiasmano «pei fiori mostruosi e le piante tropicali, per leforme convulse, insomma per la bellezza medusea nelle sue forme piùparadossali»123. Collezionano libri per la loro rarità e non per il loro con-tenuto (la condizione è che siano squisiti fino allo spasimo, decadenti,artificiali). Ne accarezzano le legature scelte in sintonia cromatica con itendaggi in velluto della biblioteca. La passion predominante di questidongiovanni sdolcinati e spasmodici è la Bassa Latinità, vergine sterile

e gelida, amata come un fiore dal profumo inebriante di morte e de-composizione, «per il suo gusto deliquescente»124.

L’antico entusiasmo dei primi romantici per la cavalleria eroica, peri sussurri erotici dei romanzi cortesi, per il repertorio manieristicodell’erotismo mentale dei trovatori, si stempera ormai nel piacere delladecadenza. Il cavaliere-trovatore sfuma nello snob, il falso-aristocraticosine nobilitate.

16. «Hélas, que nous sommes loin des allemands!» Filologi, poeti e ro-manzieri sui confini del Reno.

Peccato davvero che non si possa ipotizzare una conoscenza di Fla-menca da parte di Dumas e del suo eroe Aramis, il cavaliere-trovatore:il romanzo occitanico venne scoperto, infatti, nell’unico testimone ma-noscritto conservato a Carcassonne, e pubblicato criticamente dal gran-de filologo romanzo Paul Meyer solo ventuno anni dopo l’uscita dei Tremoschettieri, nel 1865.

Flamenca, insieme ad altre splendide perle neolatine ripescate dai pe-scatori-filologi nell’oceano dei manoscritti delle biblioteche, fu letta e ama-ta dagli intellettuali, dagli artisti, dagli scrittori della seconda metà del se-colo. Grazie allo sviluppo e al raffinamento delle conoscenze scientifichenel settore delle letterature del Medioevo volgare, con la fondazione e l’ar-ticolazione epistemologica della Filologia romanza, l’ultimo Ottocento eil primo Novecento videro intrecciarsi interessi storiografici, linguistici,testuali a curiosità e passioni puramente letterarie per le Origini.

L’anno stesso in cui uscì l’edizione di Flamenca, Gaston Paris pub-blicò la Histoire poétique de Charlemagne, una delle pietre miliari dellericerche sull’epica francese antica: e Roland e Olivier e gli altri innu-merevoli paladini, miriade di nomi-fantasma protagonisti dell’immensaepopea plasmata per cantare il destino dell’Europa invasa dai Mori e ilsuo riscatto, presero a dilagare nell’immaginario dei lettori comuni, spes-so fondendosi con le ombre dei cavalieri dei romanzi cortesi. Accantoalle tenerezze e alle smancerie da cicisbeo che il tardo romanticismo ri-plasmò sulla courtoisie appena recuperata sui documenti originali, un al-

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122 Cfr. g. c. calza (a cura di), Ukiyoe. Il mondo fluttuante, catalogo della mostra (Milano, 7febbraio - 30 maggio 2004), Milano 2004. Per una messa a punto storica, soprattutto relativa alperiodo precedente, si veda anche a. hasé (a cura di), Emakimono. Sei storie giapponesi su rotoli di-pinti, dell’xi e xiv secolo, Milano 1959, in particolare pp. 60 sgg.

123 m. praz, La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica (1930), Firenze 1966, pp.286-87.

124 Ibid., p. 287. Su questa contaminazione fra gusto decadente e scelte bibliografiche mi per-metto di rinviare a c. bologna, La memoria del Medioevo latino nelle letterature moderne, in g.cavallo, c. leonardi ed e. menestò (a cura di), Lo spazio letterario del Medioevo, vol. I: Il Me-dioevo latino, tomo IV: L’attualizzazione del testo, Roma 1997, pp. 301-76 (per Huysmans in par-ticolare pp. 364 sgg.; ma sul «Medievismo decadente», e in particolare sulla «vitalità creativa delMedioevo decadente» cfr. più ampiamente le pp. 352 sgg.).

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per la cultura del Sud della Francia e più in generale dell’Europa neola-tina. I romanzieri, loro, erano arrivati a quanto pare prima ancora deifilologi a rinverdire il mito del Medioevo meridionale: e se non “prima”in Francia che in Germania, l’arrivo era stato almeno a pari merito.

Quanto a Dumas, si può supporre, semmai, che abbia avuto accessoad una fonte lirica celebre, almeno come il Roman de la Rose. Avrà co-nosciuto lo Choix e il Lexique roman di Raynouard? O qualcuno dei pio-nieri francesi, o anche «allemands», o perfino italiani della Filologia ro-manza nascente? Sarebbe magnifico poter asserire con solida docu-mentazione (e possibile, purtroppo, non è) che, scrivendo, egli avessenella memoria qualche caso puntuale di poesia mediolatina o volgare,quando inventava, con sublime ironia, quell’incredibile poema di Ara-mis «in versi monosillabi», il cui primo canto «è fatto di quattrocentoversi e dura un minuto».

17. «De l’amour».

Credo invece che si possa abbastanza agevolmente individuare inStendhal il sicuro, grande risvegliatore, presso un largo pubblico di non-specialisti, di un interesse proprio filologico, testuale, e non più generica-mente ideologico, per la poesia trobadorica e per la fin’amors cortese, sin-tetizzata sul finire del xii secolo nel De amore di Andrea Cappellano (dif-ficile decidere se «cappellano» o invece «ciambellano» del re di Francia).Nel 1822, dopo anni trascorsi a inseguire inutilmente la bella e altera Ma-tilde Viscontini, ex moglie del generale polacco Carl Dombrowski, e do-po aver ricapitolato nell’Histoire de la peinture en Italie (1816) le ricercheartistiche svolte a Milano e a Roma, Stendhal pubblica il De l’amour, con-densandovi la dottrina medievale, la diretta lettura di Andrea Cappella-no, l’esperienza acquisita durante la propria educazione sentimentale.

Un capitolo intero (il lii) del libro di Stendhal è dedicato a La Pro-vence au xii e siècle. Stendhal si sofferma unicamente sulla versione ro-manzata della vita di Guilhelm de Cabestanh, prendendo a base i testiediti dal Raynouard nel V tomo del suo Choix: e proprio mentre co-struisce il suo mito meridionalistico, critico, si arroga anche un’autoritàfilologica: «Il y a plusieurs fautes dans son texte; il a trop loué et troppeu connu les troubadours»127. Già nel capitolo precedente (li, De

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tro Medioevo, epico, eroico, sanguinario, antimoresco, prese presto vi-gore, e riempì le biblioteche borghesi. Quegli eroi, mai dimenticati per-ché cantati e ricantati popolarmente e tramandati dai grandi libri delQuattrocento e del Cinquecento italiano (ovviamente l’Orlando Inna-morato e il Furioso, ma anche il Morgante del Pulci e il Cieco da Ferrara e Teofilo Folengo con l’osceno Orlandino), apparivano per tanti versicosì affini ai cavalieri-moschettieri ormai in gran voga: quegli eroi sbu-carono feroci e madornali dalle chansons de geste infine edite e studiatecon cura scientifica, e si materializzarono, con la loro forza di ripla-smazione mitografica, proprio nell’età che sanciva e vedeva rafforzarsile conquiste coloniali, in Africa e in Asia, delle principali nazioni euro-pee, Francia, Inghilterra, Germania in testa, ma con spinte espansioni-stiche ben presto fiammeggianti anche nella giovanissima Italia125.

Il 29 settembre 1864, pochi mesi prima che Gaston Paris pubblichila sua Histoire poétique, Paul Meyer spedisce al suo amico FrédéricMistral (il poeta felibrista, autore di Mireio, 1859, che sancì il rilanciodi un’autonoma lingua e letteratura occitaniche moderne come conti-nuatrici dell’antica tradizione occitanica) le bozze dell’articolo dello stes-so Paris su La Philologie romane en Allemagne. Nella lettera d’accompa-gnamento tira le somme di un bilancio abbastanza magro e sconfortan-te, delineando con rammarico, la situazione di scarto culturale che fadella Germania non-neolatina il centro da cui parte l’impulso scientifi-co agli studi neolatini:

Hélas, que nous sommes loin des allemands, et combien il est pitoyable que nousn’ayons pas une seule chaire consacrée à l’explication des troubadours et des trouvè-res, tandis qu’il y en avait déjà l’an dernier huit de l’autre côté du Rhin, huit ou onexpliquait concurremment les troubadours, Dante ou les romances du Cid126.

I filologi francesi (e italiani) guardavano con invidia al di là del Re-no, da dove giungevano segni chiarissimi d’interesse non solo letterario

125 La ricerca più ricca, sottile e innovativa intorno alla formazione, alla maturazione e alla for-tuna contemporanea del «Medioevo ottocentesco» in Italia è il libro di r. bordone, Lo specchio diShalott. L’invenzione del Medioevo nella cultura dell’Ottocento, Napoli 1993; la parte III (pp. 163-210) supera i confini italiani, ed anzi europei: Castelli e cavalieri: un mito europeo nel riflesso dell’im-maginario americano.

126 Traggo il testo della lettera dal bel libro di a. limentani, Alle origini della filologia roman-za, Parma 1991, pp. 23-24. Limentani tratteggia un quadro fondamentale della rete di relazioniche unisce la nascita della ricerca scientifica, erudita, linguistica e letteraria della nuova disciplinafilologico-romanza da una parte, e dall’altra l’impegno civile ed anche politico (l’«affaire Dreyus»),la riflessione epistemologica intorno alla crisi del positivismo, il fervore divulgativo, l’avanzare ten-tatore dell’estetismo preraffaellita, «liberty» e «décadent» («Ahinoi, quanto lontani siamo dai te-deschi, e che pena che non abbiamo neppure una cattedra dedicata all’interpretazione dei trova-tori e dei trovieri, mentre già l’anno scorso ce n’erano ben otto dall’altra parte del Reno, otto dal-le quali si spiegavano, volta a volta, i trovatori, Dante o i romances del Cid»).

127 stendhal, De l’amour, par de Stendhal. Édition revue et corrigée, et précédée d’une étude surles oeuvres de Stendhal par Sainte-Beuve, Paris [1906], cap. lii: La Provence au xiie siècle, pp. 170-176 (le parole fra virgolette sono nella nota 2 a p. 170). Potrà essere interessante confrontare il te-sto di Stendhal con quello del suo maestro, Destutt de Tracy, apparso due anni prima (1819) a Mi-

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l’amour en Provence jusqu’à la conquête de Toulouse en 1328, par les Bar-bares du Nord) era esplosa in tutta la sua forza la tematizzazione del Mez-zogiorno come momento dello spirito e della cultura europea, oppostoalla violenza distruttiva dei «Barbares du Nord, nos pères»128:

Il faut considérer la Méditerranée comme le foyer de la civilisation européen-ne. Les bords heureux de cette belle mer si favorisée par le climat l’étaient encorepar l’état prospère des habitants et par l’absence de toute religion ou législation tri-ste. Le génie éminemment gai des Provençaux d’alors avait traversé la religion chré-tienne sans en être altéré. […]

Avez-vous vu à l’Opéra le final d’une bel opéra-comique de Rossini? Tout estgaieté, beauté, magnificence idéale sur la scène129.

È già in vista il Nietzsche che (proprio risalendo a Stendhal)130 esal-ta la gaia scienza della «musica mediterranea» di Bizet, la sua Carmentravolgente, gaia, solare, superficialissima: senhal moderno dell’«artetracotante, ondeggiante, danzante, irridente, fanciullesca e beata» che«ci è necessaria per non perdere quella libertà sopra le cose che il nostroideale esige da noi», al fine di «poter sovrastare anche la morale»131. Ar-te mediterranea, non in sé profonda o sublime, ma necessaria come me-dicina dello spirito, oltre che della musica, da opporre come antidoto alcontagio della malattia-Wagner (mezzo secolo più tardi Denis de Rou-gemont, nel suo classico L’Amour et l’Occident, dopo aver ribattutosull’idea tragica che «la passion “enthousiaste”, la joy d’amour des trou-badours, devait fatalement aboutir à la passion humaine malheureuse»132,

aprirà uno dei capitoli principali, dedicato al «mito nella letteratura»,discutendo il tema: «D’une influence précise de la littérature sur lesmœurs», e ponendosi la domanda: «La musique adoucit les mœurs?»)133.

Trent’anni giusti dopo l’uscita di De l’amour, venticinque dopo laprima edizione dei Promessi Sposi, otto dopo i Tre moschettieri, nel me-se di novembre 1852, Giuseppe Verdi compose Il trovatore, su librettodi Salvatore Cammarano tratto da El Trovador di Antonio García Gu-tiérrez, andato in scena a Madrid nell’agosto del 1836. Il 19 gennaio1853 un’accoglienza entusiastica accolse al teatro Apollo di Roma queldramma dal fosco soggetto di ambientazione gitana, in area iberica(«l’avvenimento ha luogo parte in Biscaglia, parte in Aragona»), collo-cato al «principio del secolo xv», quindi perfettamente in linea con larilettura-reinterpretazione nel contempo sentimentale, leggendaria, go-ticheggiante, sanguigna e sanguinaria, lievemente morbosa, che del Me-dioevo meridionale fece l’età romantica.

Manrico è un trovatore provenzale rivestito in panni cavallereschi,un eroe noir ma puro, estremistico, innamorato di assoluto. Alla fine del-la ii scena, quando sguaina la spada per battersi con il Conte, ingelosi-to («Gelosia le fiere | serpi gli avventa in petto!»: parte I, scena i), equando si aggira nell’ombra della notte cantando il suo amore alle bellein balcone, in lui riconosciamo, perfettamente fusi, Perceval e Zorro,Pierrot e Don Giovanni, Jaufré Rudel e Aramis.

Le dame, innamorate per tanta e tale intensità di mitologemi, gli ri-spondono medievaleggiando, romantiche:

Tacea la notte placida,bella d’un ciel sereno,la luna il viso argenteolieto mostrava e pieno…quando suonar per l’aere,infino allor sì muto,dolci s’udiro e flebiligli accordi d’un liutoe versi melanconiciun trovator cantò134.

Così canta la dama di corte Leonora, di notte, affacciata a un balco-ne del palazzo dell’Aliaferia, a Saragozza. Ispira tanta svenevolezza dadagherrotipo medievaleggiante la voce di questo eroe fuorilegge (tanto

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lano, presso Giambattista Sonzogno, nell’ultimo volume degli Elementi d’ideologia, e tradotto infrancese solo un secolo più tardi: destutt de tracy, De l’amour. Publié pour la première fois enfrançais avec une introduction sur Stendhal et Destutt de Tracy par G. Chinard, Paris 1926 (per i datibibliografici cfr. p. v).

128 Ibid., cap. li: De l’amour en Provence jusqu’à la conquête de Toulouse en 1328, par les Bar-bares du Nord, p. 169.

129 Ibid., pp. 168-69 («Bisogna considerare il Mediterraneo come la sorgente della civiltà eu-ropea. I bordi felici di questo bel mare tanto favorito dal clima sono resi ancor più fecondi dallostato di prosperità dei loro abitanti e dall’assenza di qualsiasi religione o legislazione triste. Il ge-nio eminentemente lieto dei Provenzali del tempo aveva attraversato la religione cristiana senzavenire da essa alterato. […] Avete visto all’Opera il finale di una bella opera comica di Rossini?Tutto è felicità, bellezza, magnificenza ideale sul palcoscenico»).

130 Cfr. l’innovativo, intenso saggio di m. mancini, La gaia scienza: da Stendhal a Nietzsche, inid., La gaia scienza dei trovatori, Parma 1984, pp. 77-136 (Milano-Trento 20002, pp. 86-149), chedella costellazione mitografico-ideologica «mediterranea» ricostruisce la formazione e l’evolversifra il Settecento e l’Ottocento, fornendo coordinate imprescindibili nel quadro del presente di-scorso.

131 f. nietzsche, Die fröhliche Wissenschaft, Chemnitz 1882, aforisma 107 [trad. it. La gaiascienza, in g. colli e m. montinari (a cura di), Opere di Friedrich Nietzsche, vol. V, tomo II, Mila-no 1965, p. 116; La gaia scienza, in La gaia scienza e Idilli di Messina, Milano 1977, pp. 115-16 (ap. 116; i corsivi sono dell’autore)].

132 Cfr. d. de rougemont, L’Amour et l’Occident (1939), Paris 1962, vol. III: Passion et mys-tique, § 8: Crépuscule de l’amour-passion, pp. 144-46 (a p. 145).

133 Ibid., vol. IV: Le mythe dans la littérature, § 1: D’une influence précise de la littérature sur lesmœurs, pp. 147-49 (a p. 147).

134 s. cammarano, Il trovatore. Dramma in quattro parti, parte I, scena ii, in g. gronda e p.fabbri (a cura di), Libretti d’opera italiani dal Seicento al Novecento, Milano 1997, pp. 1362-404 (ap. 1369).

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simile ad Ernani, l’altro nobile-bandito verdiano) che canta serenate not-turne nei giardini del Conte di Luna. Quella voce antichissima e ormaicoincidente, nei terribili versi di Cammarano che solo la travolgente ar-monia verdiana rende accettabili, con la voce leziosa, sdilinquita, affet-tata dei nuovi romantici aleardiani, è destinata a spegnersi ingiusta-mente. Ma anche Leonora muore per amore, per gelosia, per fatalità,senza neppure conoscere l’identità del trovatore amato. E poiché il de-stino deve compiersi nel rispetto della tradizione figurale, come Isottafu ingannata dalla pozione di Brangania, così Leonora si uccide con unveleno, rinnovando sulla scena l’ineluttabile sorte di Giulietta, anche leieccitata e inebriata dall’Amore ineffabile per il quale si vive e si muore.È lo stesso che, come amor de lonh invano corteggiato e utopizzato dalverso poetico e che non si lascia invece ridurre in forma di parole, ave-va cantato Jaufré Rudel:

Di tale amor che dirsimal può dalla parola,d’amor che intendo io solail cor s’inebriò.Il mio destin compirsinon può che a lui dappresso…S’io non vivrò per esso,per esso io morirò.(Non debba mai pentirsichi tanto un giorno amò!)135

Quell’amore ineffabile, che supera i confini della dicibilità umana, èimpaziente ormai della lontananza di cui, per i trovatori estremisti del-la fin’amors, è fatto l’Amore136. La dialettica fra restare e partire, averee non avere, possedere e rinunciare a possedere, godere e desiderare, vi-vere e morire, attraversa come una corrente che trascina e folgora tut-ta la cultura europea, fin dentro il cuore del romanticismo.

18. Il Bacio, la Partenza, la Lontananza.

È ad esempio nella moda dei trovatori, declinata verso il repertorioconvenzionale di un Medioevo profondamente romanticizzato e un po-co dolciastro, da santino devoto, che viene accolto con strepitose accla-mazioni Il Bacio di Francesco Hayez, presentato a Brera il 9 settembre

1859, sei anni dopo la prima del Trovatore verdiano, nella cornice di unarassegna di esplicito carattere politico-celebrativo, «dopo la conclusio-ne della seconda guerra d’indipendenza, della tanto attesa liberazionedal dominio straniero e dell’unità d’Italia finalmente raggiunta»137.

Altri baci, in realtà, avevano popolato già le tele di Hayez nel mez-zo secolo che l’aveva visto maturare; e tutti erano ispirati a un classicodel tema amore e morte. Agli esordi, fra il 1812 e il 1813, nel pieno ful-gore dello stile napoleonico, l’artista si era rivelato a Roma dipingendo«lo straordinario e solare Rinaldo e Armida», nel quale si rappresentava«un bacio ancora in fieri, che sta per essere scoccato, con i due volti chesi avvicinano attratti irresistibilmente»138. Dieci anni più tardi, nel 1823,con L’ultimo bacio dato a Giulietta da Romeo, che obbligato a fuggire staper iscendere dalla finestra, dal titolo tipicamente narrativo,

[…] fece scandalo proprio per la sensualità e il realismo di una Giulietta che appa-riva, come notò un autorevole critico dell’epoca, il tedesco Ludwig Schorn, «trop-po muscolosa» e caratterizzata da una passione «così intensa», per cui mentre la siimmaginerebbe «come una vergine pudica», o ci si attenderebbe «una Grazia, unaPsiche», ci si ritrova invece davanti a «una specie di Baccante», dato che «sul suovolto aleggia la voglia di una Frine»139.

Il severo recensore, sintetizzando l’orizzonte di attesa del pubblicodi età romantica di fronte alla rappresentazione di un’idea di amore cor-tese astratto e desessualizzato, concludeva che «quel bacio non è il te-nero amore di una pura anima incantata, è voluttuoso»; e proponeva,con involontaria, grottesca comicità: «Non contempleremmo la scenacon maggiore interesse e commozione se egli baciasse l’amata sulla fron-te?»140. Il bacio spirituale sulla fronte suggerito come antidoto alla sen-sualità eccessiva del bacio sulla bocca: l’allontanamento, la dislocazionesono recepiti dalla cultura neocortese di età romantica come negazionedella sessualità, e privilegiati in una soluzione prossemica ipocrita, cen-soria. L’adulterio sospettabile sullo sfondo del modello trovatoresco èinaccettabile: ed ecco lo stesso Hayez, fra il 1827 e il 1829, incastona-re due sposi che, le bocche ben lontane e gli sguardi che si incrociano,si dànno l’ultimo saluto prima della partenza per la guerra santa (anchequi, un titolo-fiume di carattere cronachistico-storiografico: Pietro l’ere-mita che cavalcando una bianca mula col Crocifisso in mano, e scorrendole città e le borgate predica la Crociata); nel 1835, altri due sposi che si

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135 Ibid., p. 1370.136 Cfr. l. spitzer, L’amour lointain de Jaufré Rudel et le sens de la poésie des troubadours (1944),

in id., Romanische Literaturstudien (1936-1956), Tübingen 1959, pp. 363-417 [trad. it. parziale inm. mancini, Il punto su: I trovatori, Roma-Bari 1991, pp. 233-48].

137 f. mazzocca, Francesco Hayez. Il Bacio, Cinisello Balsamo 2003, p. 35.138 Ibid., pp. 14-15.139 Ibid., pp. 15-18 (le pp. 16-17 sono occupate da due illustrazioni). Il quadro, in due varian-

ti (sulle quattro complessivamente note), è riprodotto nelle illustrazioni delle pp. 23-26.140 Ibid., p. 18.

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promettono fedeltà con un bacio (Papa Urbano II sulla piazza di Clermontpredica la prima crociata). Le ormai prossime guerre sante della reden-zione politica dei giovani stati europei avranno così la loro iconologiamitografica fondata sui buoni sentimenti.

Sarà sempre all’ideale trasgressivo dell’adulterio cortese che attingeràmolta iconografia di consumo, ma anche buona parte dei pittori pompiers,con fini studi in Accademia, come Michelangelo Grigoletti, autore, in-torno al 1840, di un assai hayeziano Paolo e Francesca (oggi al Museo Ci-vico di Pordenone) che fa compasso sulla bocca di lui mentre, con spiritidanteschi, si protende «tutto tremante» al bacio di quella ritrosa ma giàcedevole di lei. Né sarà da trascurare un rapporto di perfetta specularità(Lucia a sinistra, in ginocchio, a braccia spalancate a chiedere pietà, l’In-nominato a destra, in piedi, la mano da pensatore sulla guancia) con unaltro dipinto dello stesso autore nello stesso museo, Lucia ai piedi dell’In-nominato, che nel 1829 attesta una precocissima attenzione per I PromessiSposi appena pubblicati (risulta anche che Manzoni abbia apprezzato l’in-terpretazione, definendo Grigoletti «degnissimo di riconoscenza»)141.

Nello stesso periodo si intraprendeva lo studio dei testi trobadorici:e l’amor de lonh di Jaufré Rudel, soprattutto in quanto amors de terralonhdana, incominciava ad essere interpretato romanticamente, roman-zescamente, come il tragico allontanamento dall’Amata, seguito dallamorte del poeta in Terrasanta. La filologia romantica, banalizzando incerca di un’avventura narrativa, biografizzava senza riserve, colmando-lo di un sentimento protettivo e consolatorio, quello che in origine erastato solo un sublime esercizio mentale.

19. Settentrione lunatico, solare Mezzogiorno.

Trascinate e contaminate dalla loro tradizione ci appaiono ormai in-visibili, o addirittura inesistenti, la cavalleria e la cortesia medievali, lacultura stessa del Medioevo e, all’interno di questa oscillante, ambiguacategoria di comoda periodizzazione storiografica, in particolare il Sud,il Mediterraneo, come modalità di uno sguardo critico sul mondo (perriprendere la felice formula di Ortega).

La loro vicenda è una spirale, una linea sghemba e spezzata e sinuo-sa, come quelle disegnate da Laurence Sterne per descrivere simbolica-mente e per sineddoche, come in un blasone, il tracciato della vita diTristram Shandy142. Quel libro di Sterne, che Viktor Sklovskij definì «ilromanzo-tipo della letteratura mondiale»143, fu un decisivo laboratoriodi riflessione sui temi della digressione, del rapporto fra narratore e let-tore, del tempo narrativo: imprescindibile, come ho già accennato, perla costruzione della trama e dell’intreccio delle voci e delle figure nel ro-manzo «storico» moderno, a partire da Manzoni.

Non sarà un caso se il protagonista del libro di Sterne si chiama Tri-stram: già il nome rispecchia l’antico eroe celtico Tristano (Tristram, «iltriste», «il generato nella malinconia»), immortalato e consegnato allastoria da oscuri, geniali scrittori francesi del xii secolo (Thomas, Béroul),divenuto presto emblema e blasone di uno statuto speciale del Poeta peri trovatori provenzali e per i trovieri in lingua d’oïl, per i siciliani e pergli stilnovisti, e per tanti altri scrittori europei tedeschi, slavi, tutti emo-zionati, affascinati da quel destino triste e sventurato, da quella vicen-da d’amore e morte, di distacco e di ricordo nella distanza, di desideriocolpevole e di inganno del fato. Emblema della tradizione leggendariasettentrionale, mitizzato e sublimato in letteratura da quella meridio-nale, Tristano il Triste, Tristano il Trovatore dalla bella voce e dall’ani-ma malinconica, lunare e lunatica, resisterà nei secoli, fino al drammadi Wagner.

Ma Wagner, constaterà sulla soglia del nuovo secolo il più grandepensatore della fine del secolo romantico, è il décadent che la cultura del-la décadence europea resiste ad accettare nella sua pericolosa negatività.Wagner «è una malattia. Egli ammala tutto ciò che tocca – egli ha am-malato la musica»144. Come ricordavo a proposito della «cotta» diStendhal per la gaieté provenzale (da lui associata, non a caso, all’opéra-comique rossiniano), secondo Nietzsche per guarirla, quella musica am-malata di wagnerismo tristaniano e parsifaliano, cioè settentrionale, l’uni-

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141 Cfr. g. ganzer (a cura di), Michelangelo Grigoletti, catalogo della mostra (Pordenone, 30 no-vembre 2002 - 26 gennaio 2003), Pordenone 2002, pp. 144-47 (le parole di Manzoni citate fra vir-golette si leggono a p. 144). La scena del bacio di Paolo e Francesca, talora con l’oscura incom-bente presenza sullo sfondo del geloso Gianciotto pronto all’omicidio, con un’arma in mano, ispiròmolti pittori di età romantica: cfr. j. l. díez, El mundo literario en la pintura del siglo xix del Museodel Prado, in El mundo literario cit., pp. 93-120 (alle pp. 96-97).

142 Cfr. c. ginzburg, La ricerca delle origini. Rileggendo «Tristram Shandy», in id., Nessuna iso-la è un’isola. Quattro saggi sulla letteratura inglese, Milano 2002, pp. 68-95 (e le figure 3.1 e 3.2, pp.69-70, e 3.8, p. 88).

143 v. sklovskij, O teorii prozy, Moskva 1929 [trad. it. Una teoria della prosa: l’arte come arti-ficio, Bari 1966, p. 178].

144 f. nietzsche, Der Fall Wagner. Ein Musikanten-Problem, Leipzig 1888 [trad. it. Il caso Wag-ner. Un problema per amatori di musica, in g. colli e m. montinari (a cura di), Opere di FriedrichNietzsche, vol. VI, tomo III, Milano 1970; Il caso Wagner, in Scritti su Wagner, Milano 1979, p.174]. Nietzsche rinvia all’aforisma 255 di Jenseits von Gut und Böse. Vorspiel einer Philosophie derZukunft, Leipzig 1886 [trad. it. Al di là del bene e del male. Preludio di una filosofia dell’avvenire,in g. colli e m. montinari (a cura di), Opere di Friedrich Nietzsche, vol. VI, tomo II, Milano 1968;Al di là del bene e del male. Preludio di una filosofia dell’avvenire, Milano 1977].

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ca terapia è il Sud, il Mediterraneo: «Il faut méditerraniser la musique[…]. Il ritorno alla natura, alla salute, alla serenità, alla giovinezza, allavirtù!». Nella riflessione nietzscheana l’opposizione di parallelismi mu-sicali (ed emozionali) Nord-Sud è ancor più radicale, forse, di quella ar-chetipica Apollo-Dioniso:

Il Parsifal è una materia da operetta par excellence… […] Il Parsifal […] è un’ope-ra di peridia, di bramosia vendicativa, di segreto avvelenamento dei presupposti del-la vita, un’opera scellerata. […] Io disprezzo chiunque non senta nel Parsifal un at-tentato alla eticità145.

Invece nel Sud dell’anima europea, nella musica mediterraneizzata, pul-sa, fecondante, l’etica della liberazione, la leggerezza del volo solare,della lauzeta trobadorica, cantata da Bernart de Ventadorn («Can vei lalauzeta mover | de joi sas alas contral rai, | que s’oblid’ e˙s laissa chazer| per la doussor c’al cor li vai […]»), e che riemergerà, fertilissima im-magine mitografica, nei Cantos pisani (LXXIV) di Ezra Pound («[…]and in a dance the renewal | with two larks in contrappunto | at sunset| ch’intenerisce | a sinistra la Torre | seen thru a pair of breeches. | Chesublia es laissa cader […]»)146:

Si è mai notato che la musica rende libero lo spirito? E che si diventa tanto piùfilosofi quanto più si diventa musicisti? Il grigio cielo dell’astrazione come solcatoda lampi; abbastanza vivida la luce per tutta la filigrana delle cose; i grandi proble-mi stanno per essere afferrati; il mondo è come scrutato dall’alto di un monte. – Hodefinito appunto il pathos filosofico. – E a mia insaputa mi cadono addosso rispo-ste, una piccola grandine di ghiaccio e di saggezza, di problemi risolti… Dove sonoio? – Bizet mi rende fecondo. Ogni cosa buona mi rende fecondo. Io non ho al-cun’altra gratitudine, non ho neppure alcun’altra prova per ciò che è buono147.

Mediterraneo, leggerezza, musica solare, significano per Nietzsche(come più tardi per Pound) anche liberazione dello spirito. In questa co-

stellazione spirituale prende forma il mito moderno di Carmen: che è,allo stesso tempo, solare, sanguinoso, mortifero, rinnovatore. Mérimée,Bizet, Carmen, per Nietzsche sono Sole, Sangue, Terra, Vita, ma ancheSpirito, Aurora148 che dalla décadence esce mediante la «guarigione» cheè la passione della conoscenza149. Sono Mezzogiorno, Meridione: quindiuna latitudine del gusto, un Meridiano della cultura d’Europa, appuntoil più spirituale150:

Ancora oggi è la Francia la sede della più spirituale e più raffinata cultura eu-ropea, nonché l’alta scuola del gusto: ma si deve saper trovare questa «Francia delgusto». […] In questa Francia dello spirito, che è la Francia del pessimismo, certa-mente Schopenhauer si trova oggi a casa sua più di quanto lo sia mai stato in Ger-mania […]. Per non parlare di Heinrich Heine – l’adorable Heine si dice a Parigi –,che da un pezzo si è convertito in carne e sangue dei lirici francesi più profondi edotati di maggior sentimento. Che saprebbe farsene delle délicatesses di una similenatura il cornuto bestiame tedesco151?

Metafora ossessiva e mito soteriologico, il Mediterraneo, Carmen, ilSole (lo «splendore solare» della Gaia scienza, che riprende la figura oc-citanica della lauzeta ebbra di luce)152 sono la luminosità e la liberazio-ne, lo sbocciare, lo slanciarsi dell’Arte: ma anche la fragilità del desti-no, la superficialità estetica, il progetto di un’estetica dell’esistenza rico-nosciuta allegoricamente da Nietzsche nell’«unità di cantore, cavaliere espirito libero, che differenzia quella meravigliosa e precoce civiltà deiProvenzali da tutte le civiltà equivoche»153.

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145 id., Nietzsche contra Wagner. Aktenstücke eines Psychologen, Leipzig 1889 [trad. it. Nietz-sche contra Wagner. Documenti processuali di uno psicologo, in g. colli e m. montinari (a cura di),Opere di Friedrich Nietzsche, vol. VI, tomo III, Milano 1970; Nietzsche contra Wagner, in Scritti suWagner, Milano 1979, p. 227-28].

146 Cfr. c. appel (a cura di), Bernart von Ventadorn. Seine Lieder, mit Einleitung und Glossar,Halle 1915, n. 43, vv. 1-4, p. 250; e. pound, The Pisan Cantos, New York N.Y. 1948 [trad. it. ICanti pisani, Parma 1967, LXXIV, p. 14]. Su questa riemergenza del mitologema mi permetto dirinviare a c. bologna, La «lauzeta» di Pound, nella Miscellanea per F. Brugnolo, a cura di G. Peron,in corso di stampa. Per la presenza trobadorica alle radici della mitografia tragica e dell’«epopea»poundiana cfr. soprattutto: m. bacigalupo, L’ultimo Pound, Roma 1981, in particolare pp. 326sgg., 365 sgg., 559 sgg.; m. mancini, Il giovane Pound e lo spirito della Provenza, in g. lalomia (acura di), Studi in onore di Bruno Panvini, in «Siculorum Gymnasium», n.s., LIII (2000), pp. 261-272; id., Filologia e dilettantismo, in p. boitani, m. mancini e a. varvaro (a cura di), Lo spazio let-terario del Medioevo cit., pp. 475-506.

147 f. nietzsche, Der Fall Wagner cit., trad. it. in g. colli e m. montinari (a cura di), Operedi Friedrich Nietzsche cit.; trad. it. in Scritti su Wagner cit., p. 166 (i corsivi sono dell’autore).

148 Non a caso, credo, alla fenomenologia spirituale dell’Aurora come segno dell’illimitato chenasce, nell’ardore luminoso, dalla nebbia, dall’ombra e dai chiaroscuri dell’anima, ha dedicato unodei suoi libri più belli la geniale allieva di José Ortega y Gasset: m. zambrano, De la aurora, Ma-drid 1986.

149 Cfr. f. nietzsche, Morgenröthe. Gedanken über die moralischen Vorurtheile, Leipzig 1886[trad. it. Aurora. Pensieri sui pregiudizi morali, in g. colli e m. montinari (a cura di), Opere diFriedrich Nietzsche, vol. V, tomo I, Milano 1964; Aurora, Milano 1978].

150 Cfr. p. celan, Der Meridian, Frankfurt am Main 1961 [trad. it. Il meridiano, in id., La ve-rità della poesia. «Il meridiano» e altre prose, Torino 1993]. Il testo originale di Der Meridian (1960)si legge anche nel vol. III di id., Gesammelte Werke, Frankfurt am Main 1983.

151 f. nietzsche, Nietzsche contra Wagner cit., trad. it. in g. colli e m. montinari (a cura di),Opere di Friedrich Nietzsche cit.; in Scritti su Wagner cit., pp. 223-24 (i corsivi sono dell’autore).

152 id., Die fröhliche Wissenschaft, cit., aforisma 289, trad. it. in g. colli e m. montinari (a cu-ra di), Opere di Friedrich Nietzsche cit., p. 166; trad. it. in La gaia scienza e Idilli di Messina cit., p.166. Ha pagine lucidissime sulla contraddittoria opposizione nietzschiana fra non-verità, legge-rezza e «politeismo delle apparenze», e sulle correlate metafore del volo, dell’innalzamento versoil sole, del rischio rappresentato dall’abisso, m. mancini, La gaia scienza cit., pp. 122 sgg. (Milano-Trento 20002, pp. 131 sgg.).

153 f. nietzsche, Ecce homo. Wie man wird, was man ist, Leipzig 1909 [trad. it. Ecce homo. Co-me si diventa ciò che si è, in g. colli e m. montinari (a cura di), Opere di Friedrich Nietzsche, vol.VI, tomo III, Milano 1970; Ecce homo. Come si diventa ciò che si è, Milano 1969, p. 99]. Una fineanalisi del passo in m. mancini, Da Stendhal a Nietzsche cit., p. 123 (Milano-Trento 20002, p. 131).

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20. Il cavaliere invisibile.

Italo Calvino, inventando la figura mirabile del cavaliere inesisten-te, con toni da mitografo ironico che possono riportare alla mente, allettore moderno, l’avvio cosmogonico di Cent’anni di solitudine di GarcíaMárquez, descrive con esattezza in forma d’allegoria (e per traslatoproietta sul tempo che è nostro) l’universo acronico della cavalleria edella cortesia viste dall’oggi del postmoderno, la loro radicale utopicità:

Ancora confuso era lo stato delle cose del mondo, nell’Evo in cui questa storiasi svolge. Non era raro imbattersi in nomi e pensieri e forme e istituzioni cui noncorrispondeva nulla d’esistente. E d’altra parte il mondo pullulava di oggetti e fa-coltà e persone che non avevano nome né distinzione dal resto. Era un’epoca in cuila volontà e l’ostinazione d’esserci, di marcare un’impronta, di fare attrito con tut-to ciò che c’è, non veniva usata interamente, dato che molti non se ne facevano nul-la – per miseria o ignoranza o perché invece tutto riusciva loro bene lo stesso. Po-teva pure darsi allora che in un punto questa volontà e coscienza di sé, così diluita,si condensasse, facesse grumo, come l’impercettibile pulviscolo acquoreo si condensain fiocchi di nuvole, e questo groppo, per caso o per istinto, s’imbattesse in un no-me e in un casato, come allora ne esistevano spesso di vacanti, in un grado dell’or-ganico militare, in un insieme di mansioni da svolgere e di regole stabilite; e – so-prattutto – in un’armatura vuota, ché senza quella, coi tempi che correvano, ancheun uomo che c’è rischiava di scomparire, figuriamoci uno che non c’è… Così ave-va cominciato a operare Agilulfo dei Guildiverni e a procacciarsi gloria154.

Sotto l’armatura, niente. Nessuno. Il Vuoto. L’Assenza. L’Oblio. Co-me nel caso della superba armatura istoriata che Erik XIV re di Sveziacommissionò all’orefice di Anversa Eliseus Libaerts, e che questi incisefra il 1562 e il 1564, coprendo la corazza del cavaliere con tredici me-daglioni raffiguranti le storie di Ercole, e la barda del cavallo con ottomedaglioni che narrano soprattutto le storie di Troia: nessun re, nessuncavaliere e nessun cavallo la indossarono mai, in un’epoca ormai domi-nata dalle armi da fuoco e in cui la metamorfosi del Cavaliere in Genti-luomo imponeva un’etica nuova (quella «secondo convenienza»), e quin-di un comportamento e un abbigliamento inediti155. La seconda pelle ta-tuata con le vicende degli eroi antichi e medievali eponimi della cavalleriae del coraggio resta la pelle di un serpente che ha compiuto la muta: co-perta di un programma iconografico che è insieme enciclopedico e allu-sivo, simbolico e fascinatore; ma vuota, abbandonata.

Come abbandonato è ormai, solo, dimenticato e inerte, privo di sen-so, il Cavaliere. Svuotati del loro ruolo iniziatico e affiliativo, privatidella sfida assoluta, lo sport puro, agonismo epico ed etico, fondato sul-la morale del rispetto dell’avversario, del riconoscimento del suo valoree del dono della vita che il vincitore, risparmiandolo, dà al vinto, sonodivenuti figure allegoriche del nulla. La virtù che vi si prova è quella diun cavaliere inesistente, svanito. Probabilmente quando si evoca anco-ra dalla memoria mitica la funzione-cavaliere, la funzione-trovatore, siattiva oggi un «processo di poderosa allegorizzazione della tradizionesimbolica»156: ma si tratta, appunto, di una figura del vuoto, dal momentoche quella tradizione simbolica è totalmente alienata, e resiste solo co-me fuga dal moderno come fuga dal mondo, nella civiltà postmoderna cheriflette sulla crisi del Moderno.

Pur accettando (secondo l’analisi acuta di Hanna Arendt) che la «“li-quidazione dei valori”» non coincida con «la fine della grande tradizio-ne occidentale», e che dunque sia possibile (anche se più difficile) «sco-prire i grandi autori del passato senza l’aiuto di una tradizione», piutto-sto che «recuperarli in mezzo al ciarpame del filisteismo colto»157, rimarrà,oltre la soglia del moralismo e del conservatorismo di un’idea fondativadi Tradizione, la percezione del progressivo processo di derealizzazioneallucinatoria del Quotidiano, in cui le pratiche sociali di memoria comu-nitaria e di riplasmazione simbolica dei valori su un orizzonte collettivo,«di gruppo» (nel senso demartiniano)158, sono messe a repentaglio.

I linguaggi (specialmente quelli visivi “in presa diretta”) attraversocui si comunicano fenomeni collettivi che radicano una comune memo-ria, come la guerra, la battaglia politica, lo scontro sociale, la gara eco-nomica, sembrano scaduti al rango di operatori di alienazione e di me-diatori di simulacri, specie in quanto aboliscono lo scarto spazio-tem-porale che consente la prospettiva ermeneutica. Con difficoltà riesconoancora (ad esempio nei serial televisivi, soprattutto le cosiddette teleno-velas, che la denominazione castigliana dimostra, non a caso, percepitenella loro tonalità “meridionale”)159 ad offrire margini alla riplasmazio-

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154 i. calvino, Il cavaliere inesistente, Milano 2002, p. 31 (è l’«incipit» del cap. iv); cfr. l’ed.nei «Meridiani» Mondadori, Romanzi e racconti, I, Milano 1990.

155 a. quondam, Cavallo e cavaliere. L’armatura come seconda pelle del gentiluomo moderno, Ro-ma 2003, p. 104 (e in generale cfr. le pp. 100-16: Seconda natura e classicismo: le metamorfosi delgentiluomo).

156 a. brandalise, Cavalleria visibile e cavalleria invisibile cit., p. 465.157 h. arendt, The Crisis in Culture. It Social and Political Significance, in id., Beetween Past and

Future, New York N.Y. 1961 [trad. it. La crisi della cultura: nella società e nella politica, in id., Trapassato e futuro, Milano 1991, pp. 256-89 (a p. 264)]. Cita il passo, analizzandolo con lucida con-divisione del punto di vista, m. mancini, Filologia e dilettantismo cit., pp. 497-98; alle pp. 496-97una notevole riflessione intorno alle posizioni di Fredric Jameson intorno al postmoderno.

158 Cfr. e. de martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, a cu-ra di C. Gallini, Torino 1977, in particolare pp. 50 sgg.

159 Una notevole analisi dell’universo seriale televisivo è offerto dal libro di p. colaiacomo,Tutto questo è Beautiful. Forme narrative della fine millennio, Roma 1999.

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ne simbolica che la cultura medievale e moderna poteva attuare attra-verso gli strumenti del romanzesco o dell’epopea.

L’estrema, tangibile traccia epico-romanzesca di quello che definireisenza dubbio il Medioevo meridionale sognato della borghesia europea fraOttocento e Novecento va riconosciuta, forse, nei trapianti neomedie-valistici dei grandi architetti e urbanisti fra neogotico160, bizantinismo161,Biedermeier, modernismo e liberty: Antoni Gaudí, con i suoi comigno-li mosaicati di smaltata e rutilante brillantezza che svettano nel cielo diBarcellona disegnandovi l’eroico profilo di elmi cavallereschi; GinoCoppedè, che a Roma, nel quartiere che ancor oggi porta il suo nome,nei primi anni Venti del Novecento dispone i pezzi di una scacchierafiabesca e perfino onirica, graficamente compaginata. Tra piazza Min-cio e via Brenta i curiosi e un po’ kitsch Villini delle Fate (datati 1924)ripropongono ancor oggi, resi vieppiù incongrui dall’accatastarsi delleautomobili parcheggiate, il «desiderio di esotismo temporale»162 proiet-tato nel feticcio elegante e bizzarro delle mura istoriate con scene di ca-valleria e di cortesia per i buoni borghesi dell’età dannunziana.

Così, nel buio notturno delle sale cinematografiche, Ombre rosse re-sisteva nel recupero di un Medioevo dal carattere eroico, con il Settimocavalleggeri capace di rievocare l’immolarsi dei puri soldati-angeli dellaChanson de Roland. Superata la soglia, Apocalypse now scava nel cuoredi tenebra più segreto dell’uomo, dove la brama di potere si fa delirio dionnipotenza e il piacere per la violenza sostituisce l’eroismo altruista:non a caso gli elicotteri americani che galoppano sulla foresta del Viet-nam, napalm in canna per sterminare il Nemico, sono accompagnati dal-le trombe, dai tromboni e dai corni della Cavalcata delle Walchirie wa-gneriana, dalle sue onde armoniche ricorrenti che sono le onde del de-stino, l’infinito dilatarsi e sempre cambiare, fino allo spegnimento totale,della figura antica del Cavaliere cortese163.

Non stupisce affatto che proprio nella cronaca giornalistica, residuomacerato e sminuzzato dell’epica cui riescono ad innalzarsi i nostri po-veri, aspri, avarissimi tempi, l’ombra dei cavalieri antiqui e della loro granbontà si stenda per un momento, come per un estremo rigurgito di mi-ticità, e subito scompaia, fulminea, impalpabile, pressoché invisibile,soltanto nella descrizione dei confronti-scontri “sportivi”, ridotti a mi-serabili mercati di interessi economici camuffati da “gara” e a feroci pan-tomime eccitatrici di reali battaglie fisiche sugli spalti, privi di qualsia-si rispetto delle regole del gioco: cioè delle regole dell’antica cavalleria:

Lo «sport puro», fatto di solo talento e valore, di epica agonistica e di etica ca-valleresca, è un mito sepolto sotto tali e tanti strati di business, di doping e di cian-ce polemiche, che quasi non ne facciamo più conto: le rovine di Ilio erano più ac-cessibili…164

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160 Su questo momento importantissimo, specialmente tipico del Nord Europa, rimane im-prescindibile k. clark, The Gothic Revival (1928), London 19623 [trad. it. Il revival gotico, Tori-no 1970].

161 Assai documentato e ricco anche di testimonianze iconografiche il recentissimo, bel librodi m. bernabò, Ossessioni bizantine e cultura artistica in Italia. Tra D’Annunzio, fascismo e dopo-guerra, Napoli 2003. Di speciale interesse, nel discorso qui svolto, il cap. x: Giotto: Bisanzio o Ita-lia, pp. 175-88, che, seguendo il dibattito storico-artistico del primo Novecento intorno alla for-mazione artistica di Giotto, affronta il tema della contrapposizione dei «romanisti, che videro rie-mergere nel pittore la tradizione italiana dopo il buio del Medioevo, e dei filobizantini che videroin lui l’erede di una tradizione dominata da Bisanzio» (p. 175).

162 r. bordone, Lo specchio di Shalott cit., p. 52.163 Cfr. m. sanfilippo, Historic Park. La storia e il cinema, Milano 2004. Lo stesso autore ave-

va pubblicato, una diecina di anni fa, un piccolo libro di grande interesse: m. sanfilippo, Il Me-dioevo secondo Walt Disney. Come l’America ha reinventato l’Età di Mezzo, Roma 1993, nel quale

si ritroveranno, ricomposte in ordinato regesto, le tracce del corteggiamento del Medioevo «fan-tasticato» dall’America e al suo sviluppo nella «fantasy» cinematografica e televisiva, delle «strip»,dei «videogame». In questa immensa diffrazione tematico-simbolica, che affonda le sue radici so-prattutto nel Medioevo «nordico» (ma con molte componenti estratte dalla tradizione di quello«meridionale» e rifuse sincretisticamente), l’autore individua il materializzarsi dell’ansia di futu-ro (e di passato) della civiltà americana: «Per gli americani […] il sogno del Medioevo non è tantouna fantasia, quanto la ricostruzione immaginaria della propria genealogia, la risistemazione a po-steriori della propria storia. Conoscere, sia pure per sommi capi, il Medioevo passato diviene quin-di il modo per sfuggire ai pericoli di quello futuro»: p. 208). Il recupero e la riplasmazione dell’oriz-zonte mitografico medievale riesce così a dar forma all’«attesa di un’Apocalisse neobarbarica adalta tecnologia» (così la quarta pagina di copertina del libro).

164 m. serra, Rossi-Biaggi, la corsa perfetta. In Sudafrica Valentino al debutto con la Yamaha bat-te il rivale dopo una sfida all’ultimo sorpasso, in «La Repubblica», lunedì 19 aprile 2004, p. 1.