CORPUS INSCRIPTIONUM LATINARUM: TRACCE DI UNA DUBBIA LEGGENDA LATINA DA POMPEI A SANDIGLIANO

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Tracce di una dubbia leggenda latina da Pompei a Sandigliano

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Pompei non ha bisogno di molte introduzioni. Tra le città antiche è certamente una delle più

conosciute, anche se relativamente da poco è una delle meglio studiate.

Fondata dagli Osci, le sue prime tracce emergono intorno al VII secolo. É etrusca tra il VI e V,

greca tra il 474 e il 425, infine entra nell'orbita dei Sanniti che gettano le basi della città che gli scavi ci

hanno restituito poco più dei tre quinti. Alleata di Roma nelle guerre sannitiche, dal 91 a.c. ne diventa

colonia. I suoi ultimi anni sono inquadrati da due disastri naturali: il devastante terremoto del 62 d.c. il

cui epicentro fu nella stessa città e l'eruzione del Vesuvio del 79 che la distrusse definitivamente. La

quasi contemporaneità di questi due eventi ha trasformato la città in un laboratorio in cui si è

soprattutto analizzato il grado, urbano e umano, di risposta dei pompeiani al disastro del 62. Come il

grande incendio di Roma del 64 e di Londra del 1666, il terremoto di Pompei rappresentò, infatti, per

gli abitanti la sfida alla necessità di ricostruire, ma anche la possibilità di farlo in una maniera e ad una

scala che non sarebbero mai state prese in considerazione senza un disastro di quelle dimensioni,

con interventi che incisero la città nel suo stesso midollo storico. Pompei, dunque, ci permette un

confronto diretto tra aspirazioni civiche e tecniche costruttive, che si evolvono contemporaneamente

attraverso un vero e proprio piano regolatore.

Gli studi hanno inoltre avuto un'accelerazione dopo il terremoto del 1980, che ha ricordato il rischio

latente di ritornare allo stesso disastro del 79: non si rileva mai abbastanza che le strutture della città

poggiano su una delle zone a più alto rischio sismico d'Italia. La possibilità quindi di non poter più

accedere e questa volta in via definitiva, ad un laboratorio urbano così completo ha fatto si che

l'Institute for Advanced Technology in the Humanities dell'Università della Virginia (tanto per cambiare

un istituto non italiano) abbia messo fin dalla prima metà degli anni '80 in cantiere un progetto

computerizzato per riuscire almeno a documentare la totalità di 2 secoli di scavi. Con la

collaborazione dell'Università americana del Nord Carolina di Chapel Hill, dell'Università inglese di

Bradford e di un altro Istituto americano, l'Hunter College, è nato l'Anglo-American Pompeii Forum

Project, le cui conclusioni ancora in via di elaborazione, vengono usate parzialmente per la prima

volta in questo colloquio.

L'unicum di Pompei è in realtà rappresentato dalla perfetta conservazione di masse di dati che

permettono lo studio dettagliato di un’evidenza urbana particolare del terzo quarto del primo secolo d.

C., realtà che è comune a tutte le società urbane contemporanee che hanno subito devastazioni di

guerra, calamità naturali o semplicemente l'abbandono per zone geografiche diverse. Come i

costruttori di Pompei hanno incorporato e demolito le strutture sopravvissute al terremoto del 62, gli

architetti rinascimentali hanno incontrato il problema di eliminare o incorporare strutture medievali

preesistenti alle nuove concezioni urbanistiche. Partendo da questo presupposto, che ridimensiona

l'unicum pompeiano senza intaccarne la spettacolarità, sono stati coinvolti per la prima volta nella

ricerca archeologica anche specialisti in urbanistica moderna, tanto storici quanto progettisti. Le

conclusioni sono state per lo meno inaspettate.

Il modo convenzionale di intendere la Pompei post '62, da Augusto Mau ad Amedeo Maiuri, ha

sempre evidenziato, ad esempio, come il Foro non fosse ritornato alla sua piena funzionalità quando il

Vesuvio esplose, a riprova della non completa capacità di reazione dei pompeiani di fronte al

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terremoto. Questa conclusione è derivata dall'aver considerato le costruzioni sempre in maniera

singola ed indipendente, senza analizzarne l'interdipendenza costruttiva, che è invece la base della

nuova Pompei e che solo la capacità di relazione di un progetto computerizzato ha potuto

evidenziare.

La possibilità di riportare tutta la città in un unico contesto di confronto ha evidenziato come

l'intervento costruttivo sia stato pianificato in un progetto d'insieme mai intrapreso fino a quel

momento, soprattutto su scala così ampia. Ci si è resi conto, ad esempio, che le cuciture di muri

contigui non sono la conseguenza della necessità di legare edifici diventati pericolanti, bensì una

realizzazione progettuale ben precisa basata su forme nuove di facciata, dove l'impiego di materiali

più preziosi sovrapposti a materiali costruttivi precedenti più poveri, dimostra l'ampiezza della volontà

di ricostruzione.

Il centro storico del Foro, non più interpretato come un complesso costruttivo indipendente, ha

messo in luce un progetto urbano che solo l'eruzione del Vesuvio ha interrotto e che si evidenzia nella

sua unificazione in un unico centro che si stava realizzando attraverso cambiamenti radicali del

tessuto stradale e delle costruzioni prospicienti anche private, con l'apporto di nuove tecniche e con

materiali generalmente più preziosi dei precedenti. Ne è prova evidente la nuova enfatizzazione

prospettica dei suoi ingressi nord-est e sud-est. Più che il simbolo di una città economicamente

depressa, come sappiamo fosse Pompei a ridosso degli anni '60, il Foro simboleggia nel suo

ambizioso progetto post-terremoto, tanto uno strenuo desiderio di rivincita (la domanda è: verso chi?)

quanto la capacità tecnica di condurre a termine un programma ad una scala e con un’abilità in

concreto mai messe in atto.

Questa realtà evidenzia un fatto essenziale che gli archeologi non hanno individuato,

fondamentale per capire la società urbana di Pompei: la massa monetaria che lo sforzo ricostruttivo

ha implicato. E il rinnovato interesse di oggi per Pompei deriva proprio da una domanda che ci si pone

non più a livello di scavo, bensì a livello sociale e psicologico: qual è stata la volontà, certamente

collettiva, che ha voluto ricostruire una città ormai in fase discendente e la cui decadenza era

dimostrata dalla sua uscita dagli interessi mondani ed economici romani?

Roma-capitale ha partecipato direttamente alla sua rinascita? Nell'affermativa, come è probabile,

qual è stata l'implicazione politica che la spinse a questo?

Questa concezione più precisa del problema storico di Pompei ha allargato gli studi a tutto il

territorio del Vesuvio, che è tra i quindici più importanti vulcani del mondo, in un piano d'indagine

iniziato fin dal '90 da una missione congiunta dell'Agenzia Spaziale tedesca, italiana e americana e

che è parte della missione Planet Earth incominciata il 13 luglio del '95 dalla NASA.

Dobbiamo la riscoperta di Pompei a Carlo III di Borbone durante il suo regno a Napoli. Uomo non

certo bello, privo di un qualsiasi fisic du rôle, aveva però ereditato dalla madre Elisabetta Farnese

l'ambizione, la cultura e un sicuro gusto estetico (gli dobbiamo, ad esempio, la reggia di Caserta, i

primi scavi di Ercolano e la manifattura di porcellana di Capodimonte). Appassionato dell'antico,

collezionista del curioso, scavò anche Pompei. Qualche pezzo fu regalato alle Corti d'Europa, ma la

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maggior parte finì nelle grandi collezioni di Caserta; qualcosa, poco, lo seguì a Madrid.

Archeologicamente parlando i suoi scavi furono devastanti: d'altra parte siamo nel 1748, neppure

all'alba dell'archeologia.

Carlo III lascia Napoli al figlio terzogenito, Ferdinando, handicappato da un'educazione lacunosa e

da una moglie intrigante come Carolina d'Austria, sorella favorita di Maria-Antonietta. Si rifugia nella

caccia e non pensa neppure lontanamente a continuare il mecenatismo del padre. Gli scavi di Pompei

però proseguono sotto l'influenza del suo primo ministro, l'inglese Acton e in particolare di sir William

Hamilton, plenipotenziario della Corona d'Inghilterra, raccoglitore più che collezionista e l'11 maggio

1765 fu trovata all'angolo nord-est del tempio dorico [d’Iside, ricostruito nel 62], nel Foro triangolare,

la prima iscrizione che ci interessa, incisa con un orologio solare su una schola (sedile semicircolare):

L. SEPUNIUS. L. F. SANDILIANUSM. HERENNIUS. A. F. EPIDIANUS DUO. VIR.I.D. SCOL. ET. HOROLD. S. P. F. C.

L[ucius] SEPUNIUS L[uci] F[ilius] SANDILIANUSM[arcus] HERENNIUS A[uli] F[ilius] EPIDIANUS DUO VIR I[ure] D[icundo] SCOL[am] ET HOROL[ogium]D[e] S[ua] P[ecunia] F[aciendum] C[uraverunt]

L'altra iscrizione che ci interessa, la seconda, fu trovata il 14 marzo 1817 nel tempio di Apollo [la

cui fondazione risale al 120 a.c.], incisa su mezza colonna, cioè un orologio solare:

L. SEPUNIUS. L. F.SANDILIANUSM. HERENNIUS. A. F.EPIDIANUS DUO. VIR. I. D.D. S. P. F. C.

L[ucius] SEPUNIUS L[uci] F[ilius]SANDILIANUSM[arcus] HERENNIUS. A[uli] F[ilius]EPIDIANUS DUO VIR I[ure] D[icundo]D[e] S[ua] P[ecunia] F[aciendum] C[uraverunt]

L'ultima iscrizione che ci interessa, la terza, fu rinvenuta non si sa dove è in realtà solo un

frammento che conserva le lettere:

NDILI

e che il Mommsen legge:

[SA] NDILI [ANVS]

Tre dunque le iscrizioni, due complete e una monca.

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Ma ritorniamo un momento a Pompei. Il clima, il mare vicino, il vino ottimo trasformarono molto in

fretta una cosmopolita città commerciale in un paradiso per eletti monetari con vere e proprie piccole

corti che ruotavano loro intorno. La realtà che gli scavi ci restituiscono, per blasfemo possa sembrare

il paragone, è quella di un incrocio tra Portofino, Viareggio e Las Vegas, dove tutto conviveva in un

insieme di libertà morale, intellettuale e religiosa, stratificato e consolidato attraverso l'incontro di

razze diverse.

La mentalità romana, credo di tutte le classi sociali ma certamente di quella che fece di Pompei il

massimo dello chic della mondanità, era forgiata sulla certezza materiale della supremazia che gli

dava la perfetta macchina militare dello stato, ma non trovava in quello stesso stato le certezze

spirituali di cui aveva scoperto il bisogno, entrando in contatto con le credenze religiose dei popoli via

via sottomessi.

Il suo pragmatismo però lo portò verso l’utilizzo finale del bene spirituale, al lato misterico e

superstizioso del rito. E Pompei rispose perfettamente: i riti underground che già affioravano in Roma-

città, sulla costa napoletana erano all'ordine del giorno. La città pullulava di divinità di ogni tipo e

genere, soprattutto dopo il '62, frutto di una rinata necessità religiosa nella quale ognuno elesse una

propria personale affezione verso una divinità specifica anche importante, ma trasformata in un

piccolo mistero più personale e diretto.

I riti esotici, quasi tutti a sfondo sessuale e orgiastico e le offerte cruente sono quelle che

riaffiorano dalle ceneri dell'eruzione del 79, tanto dalle grandi ville private, quanto dalle piccole edicole

votive. Basta ricordare la più significativa rappresentazione di questa complessissima individuale

religiosità, la villa dei Misteri, che ancora oggi non ci ha restituito pienamente la sua verità.

Gli affreschi delle sue pareti, che sono di eccezionale valore artistico, mostrano una serie di scene

ambigue e molto articolate dove la matrona e domina della casa sorveglia i preparativi dei misteri,

unico aspetto del rito che poteva essere rappresentato, a cui prenderanno parte persone con ruoli

diversi e in cui lei avrà quello preminente. Dìoniso è presente sotto le sembianze di un ragazzo nudo

con i calzari da caccia che legge un rotolo tra due donne e si prepara alla propria iniziazione che, a

giudicare dai tratti del suo volto, sarà terribile. Solo gestualmente, attraverso la donna che gli

accarezza delicatamente la nuca e tiene in mano il secondo rotolo, possiamo intuire l'esito positivo

dell'azione sacra.

Tutta la scena è densa del mistero che sta per attuarsi e a differenza degli altri affreschi pompeiani

che sono solitamente aperti sul paesaggio, questi, della Villa dei Misteri, rimangono impenetrabili, gli

specchi rossi dello sfondo lesenati nero-verde impedendo qualsiasi percezione dello spazio esterno.

Riparlerò di questa realtà alla fine del nostro colloquio.

Torniamo ora alle nostre lapidi che all'improvviso approdarono nel Biellese reinterpretate dalla

fantasia del Casalis e del Maffei, che legarono Lucius Sepunius Sandilianus all'origine del nome

Sandigliano, con un percorso storico miracoloso che vale quanto l'apparizione delle reliquie nel

medioevo: improvviso ed inspiegabile, ma talmente radicato nella storia locale che porta con se

ancora oggi il ricordo del miracolo. Allo stesso modo, le lapidi di Pompei hanno tracciato un solco

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storico che sembra non sradicabile e che ricompare puntuale anche in pubblicazioni recenti, dove

leggo con molto divertimento Sandigliano, dal toponimo di sicura derivazione romana. Pochi i tentativi

di sparuti storici a correggere l'eresia: come il miracolo, l'eresia rimane indelebilmente scolpita nella

memoria collettiva locale, coltivata in quell'orto insidioso che è la pigrizia mentale.

A convalidare quest'errore c'era la leggenda di famiglia di un piccolo lignaggio che apparve nel

Basso Vercellese al fondo del '200, i Sandigliano, capostipite un Facio-Facioto, nome senza dubbio

latino. Questa leggenda, antecedente il ritrovamento delle lapidi, ricordava l'origine romana della

famiglia, testimonianza in realtà di lotte più vicine, quando i Sandigliano decisero di prendere le

distanze dai Vialardi e dalla loro guerra quasi personale contro i Savoia. L'origine romana nacque

quindi per contrapposizione all'origine longobarda dei Vialardi, in un momento storico in cui gli

spartiacque erano fondamentali per la sopravvivenza politica.

Dall'inventio storica al legame diretto dei Sandigliano con il Sandilianus pompeiano, il passo è

stato breve anche perché una corbelleria servì a convalidare l'altra. Hanno giocato un ruolo attivo gli

scritti di Carlo Antonielli d'Oulx, intorno agli anni '40, salvo poi cambiare idea più avanti, ma come

diretto discendente dell'ultima Sandiglian de Sandigliano, che tra l'altro era anche mia nonna materna,

l'occasione era troppo succosa per essere scartata definitivamente.

Venne poi Piero Massia che, imboccata la strada giusta, deragliò miseramente a metà, tra un

Sendiliano e un Sentilius di dentale nasalizzata, ereggendo la desinenza -ianum a ricordo del dio dei

confini e dei campi. Per capire l'errore, bisogna ricordare che solo in età post-classica prevale

nell'onomastica il nomen singulare, vale a dire il cognome invece del gentilizio: i nomi riconducibili alla

traslazione diretta di cognomi su terre sono tutti di età tarda. Attribuire quindi a Sandigliano una

derivazione immediata dal cognome di età augustea Sandilianus non è per lo meno conforme all'uso

per i nomi fondiari coevi, che derivano quasi esclusivamente da gentilizi e non da cognomi. Inoltre il

cognome pompeiano Sandilianus appare archeologicamente isolato, senza altri ritrovamenti anche

limitatamente simili se non quelli di Pompei. Manca poi qualsiasi ritrovamento di un gentilizio Sandilius

da cui far derivare il nome Sandigliano sulla base dell'inversione della formula Aemilius - Aemilianus.

Chiarita dunque la certa non origine latina, per ritrovare un filo che ci porti al nome di Sandigliano,

dobbiamo risalire agli strati della toponomastica vercellese e alle sue condizioni storiche, che sono

simili a molte altre parti d'Italia.

Sul territorio, come in tutta la penisola, sono numerosi i nomi con desinenza -ANA/-AGA, derivata

da nomi latini in -IUS. La loro forma al femminile si spiega con lo sviluppo del sistema medievale della

curtis e della villa nell'amministrazione dei fundi di origine latina, designati originariamente in -ANUS/-

ACUS, che si volgono al femminile agli inizi del medioevo antico per una concordanza più tardiva del

nome di quei fundi con la voce sottintesa di curtis / villa. Ricordo come esempio CaresANA, DesANA,

FormigliaANA, PezzANA, StroppiANA, BorriANA, CabaliACA e CostanzANA che si riconducono tutti

a nomi maschili d’età romana: Carisianus, Decianus, Firminianus, Pettianus, Stirpianus, Burrianus,

Cabelliacus, Constantianus derivati a loro volta dai relativi gentilizi o nomina singularia d’epoca latina.

Questi nomi sono distribuiti in maggioranza nella zona di pianura e sono accompagnati da pochi

altri nomi locali in -ANO/-É dal più antico -ACUS, trascritto da una certa epoca medievale in poi in -

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ATUM/-ATE sul modello dei nomi lombardi in -ARE, derivati da nomi d’età o di origine latina sfuggiti

per motivi storici particolari alla generale trasformazione in forma femminile degli altri nomi d'identica

età e originariamente in -ANUS/-ACUS, come AsigliANO, CollobiANO, VettignÉ.

Nella loro maggioranza i nomi in -ANO si addensano nelle zone più alte, mentre la sua alterazione

in -ANA si diffonde in pianura. In questa diversa distribuzione spicca il contrasto di due culture: fra le

terre del piano lavorate a buoi e da mano servile e le terre alte della collina lavorate a zappa e da

coloni affittuari o da piccoli proprietari. Questa constatazione porta ad affermare che la zona di collina,

meno redditizia di guadagni rurali di quella del piano, grazie a questa minore importanza economica,

si sottrae meglio alle prime ondate barbare, conservando più a lungo i propri caratteri originali,

mantenendo le proprie forme onomastiche tradizionali, vivendo quindi in ritardo la transizione culturale

e giuridica della pianura.

Questo presupposto sociale relativo all'interpretazione dei nomi locali in -ANA trova conferma nella

serie di nomi di certa origine germanica in -ENGO/-ENGA, diffusi parallelamente nella zona piana:

PertENGO, CarENGO, OlcenENGO, GifflENGA, GhislarENGO affiancati a nomi di origine e d’età

barbarico-medievale, Saletta, Saluggia, Salussola, Grangie di Lucedio.

Una serie di nomi poi con un'identica desinenza germanica in -ENGO, s’insinua più tardi lungo il

corso inferiore delle valli che arrivano dal piano: QuittenENGO, ValdENGO, BrusnENGO,

PettinENGO, ma non attestano più lo stanziamento di genti germaniche, bensì unicamente il

progredire della germanizzazione nella struttura dei nomi locali d’età medievale più tarda, costituiti alla

loro base da nomi d'origine latina, ma foggiati in -ENGO sulla base di nomi di più recente e prevalente

invadenza storica, come CastellENGO, formatosi sulla parola castello, ma bivalente poiché è anche

nome proprio maschile latino, MolinENGO sulla parola molino o PettinENGO sulla parola lombarda

petin, piccolo.

Un esempio particolarmente interessante lo troviamo in due nomi di origine germanica,

RovasENDA e Roasio, quest'ultimo sulle prime propaggini collinose a nord di RovasENDA, che

rivelano la direzione dell'inserimento dei nomi germanici dalla pianura alla collina. Questi due nomi

designano la traslazione su terre di due nomi personali legati da una stessa base strutturale e

compositiva, che rivela i rapporti di affinità gentilizia o familiare con un nucleo iniziale. Ma segnala

contemporaneamente il diramarsi, da questo stesso nucleo comune, di due lignaggi sulle terre vicine

al ceppo iniziale, dovuto ad un'accresciuta potenza economica.

A dimostrare la reazione contro l'invadenza dei nomi germanici troviamo ad esempio BertignANO

e, all'imbocco della piana, SandigliANO, costituiti entrambi alla loro base da nomi di origine germanica

certa, ma foggiati in forma rigorosamente latina.

SandigliANO rappresenta, infatti, l'attestazione di un residuo onomastico goto o longobardo

traslato su una terra dove la dominazione di questi due gruppi è più persistente, traslazione che è tra

le più comuni nello sviluppo morfologico delle basi onomastiche germaniche, sull'analogia della

formula Ursinus-Ursinianus e identico di struttura nel trapasso fundus Goti-GodiliANUS-GodiliANO,

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ma rappresenta anche la tenacia della tradizione latina, che non è solo il ricordo di una Roma lontana

nel tempo, bensì la prima avvisaglia di una Chiesa cristiana in progressione.

La sua base onomastica SAND, un'estensione dell'antico sassone –SOD (vero, veritiero) da cui

deriva il nome personale goto maschile Sandila e il suo parallelo longobardo, Sandilo, fa dedurre

l'attestazione di un Sandila o Sandilo su cui si costruisce il nome Sandigliano, come ad esempio in

Spagna è derivato da Sandila il nome Sandian, stranamente identico alla nostra voce locale dialettale.

Il fatto poi che Sandila e Sandilo compaiono nelle carte italiane tra il VIII e IX secolo, soprattutto del

Regestum Farfense, può datare con buona approssimazione anche l'apparizione storica di

Sandigliano, non lontana da uno dei suoi primi documenti, il decreto imperiale del 7 Maggio 999 in cui

Ottone III sancisce la confisca dei beni dei fautori d’Arduino, decreto che interessa anche Sandigliano

attraverso Roderardo di Sandigliano, forse dei Signori d’Uliaco. Da questo decreto, che colpisce

specificatamente i sistemi difensivi utilizzabili in appoggio ad Arduino, emerge che Sandigliano

possedeva già un sistema abitativo difeso anteriore al X secolo, smilitarizzato nella metà del 999

poiché nei decreti successivi non è più menzionato.

Riappare nuovamente difeso almeno dalla seconda metà del 1100, fatto che è confermato da un

atto di vendita di Federico e Gabardo dei Conti del Vallese del 10 Aprile 1170 e dalla campagna di

scavi archeologici del 1989 nel dongione del Castello del Torrione.

Se trovasse riscontro in altri documenti la forma Sandiglianus che ora è nota solo in un articolo

degli Statuti di Biella, il confronto con altre carte coeve italiane potrebbe portare ad un’identificazione

ancora più stretta della sua origine poiché la desinenza tardiva latina –Inianus, -Illianus sta a

significare molto sovente figlio o nipote di sull’esempio d’Aimo Aimerianus Aimo figlio o nipote di

Aimerico o, come ho detto prima, Ursinus Ursinianus. Se prevalessero documenti per ora inesplorati

e l'apparizione negli Statuti non fosse più sporadica, si potrebbe ipotizzare l'origine del nome

Sandigliano in un figlio o nipote di Sandilo che evidenzierebbe ancora meglio il ricalco di un modulo

onomastico latino nella struttura ibrida germano-latina del cognome patronimico.

Ma non voglio fare un'inventio bis. Allo stato attuale dei documenti Sandigliano appare ab antiquo

sempre espresso nella sua forma attuale, perciò l'unica conclusione certa e lecita è quella dell'origine

da un goto Sandila, a cui io preferisco il longobardo Sandilo poiché l'attestazione longobarda nel

Vercellese e in particolare nel Sandiglianese, è sicuramente più marcata.

Per dare un tocco latino più consono allo statuto del Cenaculum a conclusione del nostro

colloquio, posso azzardare un'origine per il cognome pompeiano Sandilianus, lasciandolo però, per

favore, circoscritto a Pompei e senza ulteriori complicazione nella storia del Biellese.

Se ripensiamo al contesto religioso della città, denso di divinità arcaiche tornate di moda - forse

non si perdonava agli dei moderni il terremoto - e a cosa appare nel contesto della prima e della

seconda iscrizione, l'orologio solare, ritorna in mente una divinità poco conosciuta ma non marginale

del pantheon orientale, Sandan, deus ab Assyriis, Persis, Syris, Cappadocibus, Lydis, Cilicibus,

Phoenicibus et sub alio nomine SANDAS, SANDES, SANDON, a Graecis cultus, quem interpretantur

deum solis approdata a Pompei attraverso quegli stessi mercanti greci che portarono in Italia Dìoniso

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il frigio, già in antico legato al sole e al suo movimento, di cui l'orologio non è altro che un simbolo

tardivo.

Il culto solare è, infatti, strettamente connesso all'orologio che il duumvìro Lucio Sepunio

Sandiliano fa incidere sulla schola e sulla mezza colonna, fatto che lascia supporre che Lucio Sepunio

fosse legato ai misteri di Sandan attraverso un thíasos familiare nel senso più ampio: dai parenti più

stretti fino ai clienti ed agli schiavi. Caso frequente in Roma, di cui l'esempio storico più conosciuto è

quello dei misteri detti di Agripinilla che portarono all'emanazione del senatus consultum de

Bacchanalibus che proibì i misteri dionisiaci. Siamo nel 186 a. C. e la proibizione, sappiamo, non sortì

l'effetto desiderato.

La grande iscrizione bacchica del Metropolitan Museum, che è il residuo lapidario archeologico

pervenuto fino a noi del thíasos d’Agripinilla, trova il suo sviluppo più completo proprio nelle

rappresentazioni degli affreschi della Villa dei Misteri.

Ricordato questo, lasciamo ora definitivamente alla sua pace eterna il povero Lucio Sepunio

sepolto tra le oltre 2.000 vittime di Pompei, morto mentre anche il vecchio Plinio moriva tentando di

salvare i cittadini di Stabia.

Resta un dubbio: se Lucio Sepunio offrì agli Dei e fu castigato sotto metri di detriti, se avesse

anche fondato Sandigliano cosa gli sarebbe successo? Grazie.

© Tomaso Vialardi di Sandiglianoconferenza al Cenaculum Latinitatis del 19 aprile 1996

BIBLIOGRAFIA SOMMARIA

Wilhelm Bruckner Die Sprache der Langobarden

Förstemann Altdeutsches Namen Buch, vol. I, Personennamen

Gamillscheg Romania germanica

Fiorelli Descrizione di Pompei

Augusto Mau Pompeji

de Vit - Perin Onomasticon

Serra Giandomenico AVdSF, lettere, Corpus Inscriptionum Latinarum