Corpo e mente in psicomotricita -...

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7 Prefazione (Andrea Canevaro) 23 Premessa 27 CAPITOLO 1 Fra soggettività e oggettività • La pratica psicomotoria ha evidenza scientifica? • Che cos’è scienza? 59 CAPITOLO 2 Corpo e mente • Problemi generali • Corpo e psicomotricità 75 CAPITOLO 3 L’intersoggettività • Intersoggettività e relazione precoce • Intersoggettività e psicomotricità 95 CAPITOLO 4 L’azione • Azione e movimento • Intenzione e scopo • Azione ed emozione • I modi dell’azione • La costruzione dell’azione interattiva • Azione e simbolo 139 CAPITOLO 5 L’osservazione come processo di esplorazione • Principi generali • Tipi e strumenti di osservazione • Oggetto dell’osservazione • L’osservazione partecipante • L’osservazione distaccata e differita • L’osservazione dell’osservatore 157 CAPITOLO 6 La narrazione • La struttura della narrazione • Le origini della narrazione • Narrazione e psicomotricità 177 Conclusioni 179 Riferimenti bibliograci INDICE

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7 Prefazione (Andrea Canevaro)

23 Premessa

27 CAPITOLO 1

Fra soggettività e oggettività• La pratica psicomotoria ha evidenza scientifi ca?• Che cos’è scienza?

59 CAPITOLO 2

Corpo e mente • Problemi generali • Corpo e psicomotricità

75 CAPITOLO 3

L’intersoggettività • Intersoggettività e relazione precoce• Intersoggettività e psicomotricità

95 CAPITOLO 4

L’azione • Azione e movimento • Intenzione e scopo • Azione ed emozione • I modi dell’azione • La costruzione dell’azione interattiva• Azione e simbolo

139 CAPITOLO 5

L’osservazione come processo di esplorazione• Principi generali• Tipi e strumenti di osservazione• Oggetto dell’osservazione• L’osservazione partecipante• L’osservazione distaccata e diff erita• L’osservazione dell’osservatore

157 CAPITOLO 6

La narrazione• La struttura della narrazione• Le origini della narrazione• Narrazione e psicomotricità

177 Conclusioni

179 Riferimenti bibliografi ci

INDICE

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Premessa

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La cultura psicomotoria si è diff usa in Italia nei primi anni Settanta del secolo scorso in un clima sociale e culturale che favoriva sia la critica che la sperimenta-zione di nuovi modelli sociali, scientifi ci, educativi e terapeutici. Sin dall’inizio, pur con oscillazioni di termini e di accenti, ha posto come assi portanti del proprio agire e del proprio pensiero:– la centralità del corpo quale produttore e organizzatore di senso;– l’azione quale manifestazione primaria della soggettività e della costruzione

della realtà;– l’interazione, al contempo dato fondante e strumento di ogni processo evolutivo,

cognitivo e aff ettivo.

Anche se l’importanza di questi tre assi, intimamente interconnessi, aveva quasi il carattere di «intuizione», in ambito educativo e terapeutico essi sono stati focalizzati e utilizzati fi n da subito con competenza e professionalità, usando come bussola un’operazione in corpore vili: ovvero attraverso un percorso di formazione personale, sperimentando e analizzando le modalità di azione e di interazione degli stessi educatori e terapisti. Un po’ come quei medici che provavano prima su se stessi la bontà di un vaccino o di una tecnica di indagine.

Invece la prassi faticava a trovare parole precise per dirsi e spiegarsi. Come se il «saper fare» rimanesse perlopiù implicito e potesse essere espresso solo con un linguaggio allusivo, suggestivo e preso a prestito, anche se individuava come propri ispiratori «grandi vecchi» come Piaget, Wallon, Ajuriaguerra e Winnicott. Tanto che fra gli addetti ai lavori era invalso il detto: «Non sappiamo dire bene perché, ma funziona».

Nel corso di questi decenni si sono perdute le ingenuità nonché la presunzione iniziali, è diminuita la confusione ma, soprattutto grazie a un lavoro collettivo di ricerca e rifl essione, a una analisi continua e minuziosa della prassi, al «pensare il

Premessa

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Corpo e mente in psicomotricità

fare» e al «fare per pensare», si sono chiariti e articolati i fondamenti teorici dei tre assi, il corpo, l’azione, l’interazione e si sono precisate caratteristiche, metodologie e modalità di intervento e verifi ca.

Nel primo decennio del terzo millennio siamo in una fase storica che, di fronte al dilagare dell’incertezza e dell’insicurezza, cerca verità fondanti, propone confi ni e protocolli rigidi in ogni ambito, persegue l’ottica della causalità in una nuova forma di determinismo e riduzionismo, tentando di prevedere e regolamentare tutto secondo una logica semplifi catoria.

La cultura psicomotoria, sempre più chiaramente, propone il ruolo centrale della relazione, dell’intersoggettività, la logica della complessità e quindi la non predeterminazione degli esiti, la co-costruzione del senso e dei percorsi. Per ironia della storia, le ricerche di questi decenni in campi diversi — quali la psicologia dell’età evolutiva, le neuroscienze, la sociologia, la fi losofi a della scienza — hanno fornito una documentazione sempre più vasta e concordante dell’ineludibilità e interconnessione dei tre assi propri dell’approccio psicomotorio, fi no ad aff ermare l’intima connessione fra le cose del mondo e l’attività umana, a individuare le basi neurobiologiche dell’interazione, della coscienza, dell’empatia: concetti quali «in-tenzione», «intersoggettività», «coscienza», prima banditi dal discorso scientifi co, sono entrati a pieno titolo nel dibattito di e tra scienze diverse.

Contemporaneamente sembra sia avvenuto un importante scollamento fra i risultati della ricerca da un lato e metodologie (istruzioni per l’uso), protocolli e obiettivi nella pratica educativa, riabilitativa e terapeutica dall’altro. Proprio per tale divaricazione riteniamo opportuno proporre una rifl essione su temi e teorie che sostanziano la psicomotricità sia in ambito educativo che terapeutico. Anche perché, dopo anni di dibattiti e confronti, la psicomotricità è entrata nel novero delle professioni sanitarie riconosciute, con un proprio corso di laurea, sia pur dalla denominazione tortuosamente bizantina: «terapia della neuro e psicomo-tricità dell’età evolutiva». Espressione che testimonia ambiguità e resistenze nel mondo medico-accademico, per cui il neolaureato si trova combattuto tra un’ottica riabilitativa di stampo organicistico e una di stampo comunicativo-relazionale.

Dicendo «rifl essione teorica» non intendiamo aff atto qualcosa di disgiunto dall’operatività pratica, come se prima ci fossero i grandi quadri teorici e poi il loro trasferimento come indicazioni protocollari nella prassi quotidiana. Per nes-suna disciplina scientifi ca il percorso è dalla teoria alla verifi ca sul campo, come suggerisce invece la vulgata mitica della scienza. Teorizzazione e indagine pratica sono le due facce della stessa medaglia, senza rapporto gerarchico fra loro. Ciò è ancora più vero per la psicomotricità. È stata proprio la costruzione di metodi e linguaggi osservativi condivisi e vagliati, la generalizzazione a partire da esperienze e osservazioni concrete, il controllo sul campo di tali generalizzazioni nonché

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Premessa

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gli apporti e le consonanze con altre branche scientifi che che hanno permesso alla psicomotricità di disporre di un corpus teorico ben identifi cabile, seppure in evoluzione, di un linguaggio proprio e traducibile in quello di altre discipline e di una metodologia di intervento condivisa.

L’ANUPI (Associazione Nazionale Unitaria Psicomotricisti e Terapisti della Neuro e Psicomotricità dell’Età Evolutiva Italiani), pur con i limitati mezzi a di-sposizione, in più di vent’anni di attività ha operato in modo coerente in questa direzione, defi nendo le modalità per la presa in carico, proponendo continue rifl essioni sul processo terapeutico o educativo, sui criteri di osservazione e di valutazione, e ponendo dei limiti precisi rispetto agli ambiti di intervento dei propri associati.

Per questo ci piace riprendere con orgoglio l’espressione «pratica psicomoto-ria», che un tempo veniva usata come segno di modestia, per sottolineare che una buona teoria si incarna proprio nel concreto dell’intervento terapeutico o educativo, e viene messa alla prova dei fatti che, a loro volta, possono dare suggerimenti per nuove rifl essioni teoriche.

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Fra soggettività e oggettività

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strutture corporee» e «Attività e partecipazione». È interessante rilevare che il ter-mine corpo «si riferisce all’organismo umano nella sua interezza, e quindi include il cervello e le sue funzioni, ovvero la mente. Le funzioni mentali (o psicologiche) sono perciò classifi cate nelle funzioni corporee» (OMS, 2001, p. 25). Tale conce-zione onnicomprensiva del corpo, pur rispettando gli ambiti specifi ci delle diverse discipline, trascende tutte le opposizioni e le separazioni nette e riaff erma l’unità dell’essere umano proprio in quanto corpo. Essa ci richiama l’originaria concezione della psicomotricità che, seppure con un slogan generico e un po’ presuntuoso (la psicomotricità si occupa della globalità del bambino), intendeva sottolineare l’inscindibile interconnessione fra processi e manifestazioni motori e sensomotori da un lato e processi e manifestazioni aff ettivi, emotivi e cognitivi dall’altro.

Per attività l’ICF intende «l’esecuzione di un compito o di un’azione da parte dell’individuo», e per partecipazione invece «il coinvolgimento in una situazione di vita» (OMS, 2001, p. 28). In una nota si specifi ca che «la defi nizione di “partecipa-zione” introduce il concetto di coinvolgimento. Alcune tra le defi nizioni proposte di “coinvolgimento” comprendono il prendere parte, l’essere inclusi o impegnarsi in un’area di vita, l’essere accettati o avere accesso alle risorse» (OMS, 2001, p. 29).

Come si vede, per stabilire il grado di salute e le possibilità di intervenire sulla disabilità, l’ICF considera essenziale prendere in considerazione aspetti che tradizionalmente esulano da una defi nizione «stretta» di scientifi cità.

Che cos’è scienza?Che cos’è scienza?

Per aff rontare nel dettaglio i parametri considerati propri del metodo scienti-fi co cercheremo l’appoggio di molte voci fra cui, in particolare, quella di Giorgio Prodi, grande scienziato, purtroppo scomparso da anni, direttore dell’Istituto di Cancerologia dell’Università di Bologna e ordinario di Oncologia sperimentale, nonché studioso di semiotica e fi losofi a della conoscenza. E, come spesso capita, più conosciuto e stimato all’estero che in Italia.

Seguiamo il suo ragionamento, complesso e originale, svolto in La scienza, il potere, la critica del 1974, convinti che le vecchie indagini non sono necessaria-mente obsolete, ad esempio riteniamo che Piaget abbia ancora qualcosa da dire nonostante alcune sue posizioni siano ormai superate. Prodi inizia con una pre-messa radicale: «Il carattere comune di tutti i discorsi che coinvolgono la scienza nel suo portato pratico, di trasformazione del mondo, è di ignorare proprio cosa sia la scienza» (Prodi, 1974, p. 5). Il suo ragionamento non riguarda i parametri secondo cui una disciplina è giudicata scientifi ca o meno, bensì il tema di fondo: cos’è la conoscenza scientifi ca a prescindere dalla sua applicazione in un ambito

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specifi co. «La scienza viene semplicemente assunta come ciò che sta prima e che è necessario: un’entità chiusa da cui escono prodotti materiali. Ciò testimonia una disposizione mitica: in luogo di esaminare ciò che la scienza è, si fantastica su come possa apparire a chi abbia il privilegio di vederla» (Prodi, 1974, p. 5). In seguito delimita il campo della propria indagine con alcune aff ermazioni nette:– la conoscenza scientifi ca non è qualitativamente diversa dalla conoscenza

comune, ne è solo una sua diff erenziazione e specializzazione (Prodi, 1974, p. 42). Perciò egli nega la concezione classica che ci siano due diverse modalità del conoscere, «e che a questa corrispondano due settori di realtà oggettivamente esistenti. L’uno è la realtà delle cose e della natura, l’altra la realtà dell’uomo, o meglio dello specifi catamente umano» (Prodi, 1974, p. 12);

– la conoscenza è un’attività biologica. La sua defi nizione di «biologico» ne esclude un’interpretazione puramente organicistica e meccanicistica perché nelle strutture complesse il biologico include anche l’apprendimento e, per quanto riguarda l’uomo, anche la cultura: l’evoluzione lo ha portato a essere un specie culturale. «L’assunzione da cui occorre partire è il carattere fi sico-biologico del processo conoscitivo, che è insieme sperimentazione e storia, riscontro e interpretazione» (Prodi, 1974, p. 27). La conoscenza è il modo di essere della vita in tutte le sue forme. Essa «appare una proprietà biologica fondamentale e primitiva, legata alla vita in quanto tale, e non un’attività legata alle ultime espressioni della fi logenesi […]. Perciò conoscenza, reazione all’ambiente e vita originariamente si identifi cano» (Prodi, 1974, p. 31);

– il dato di fatto da cui si sviluppa la conoscenza è l’interazione, «che viene strut-turalmente e inevitabilmente utilizzato in ogni momento, come parte integrante del meccanismo conoscitivo stesso: metterlo da parte, sospendendolo per un istante, è pretesa mitica» (Prodi, 1974, p. 27). L’interazione quale dato fondante la conoscenza, a partire dal rapporto di un organismo unicellulare con il proprio ambiente, sarà nel corso degli anni confermata da una serie di ricerche in campi diversi fi no ad arrivare, per quanto riguarda l’uomo, alla defi nizione di «mente relazionale» (Siegel, 1999).

Per una disciplina e una pratica, quale la psicomotricità, che fa dell’interazione e della relazione fra due soggetti di conoscenza (ad esempio terapista e bambino) il tema, lo strumento e lo scopo del proprio intervento, ritrovare l’interazione alla base sia della conoscenza biologica che di quella scientifi ca, signifi ca avere una buona carta da spendere nella defi nizione di «scientifi cità». Inoltre, nelle aff erma-zioni di Prodi si intravedono i principi fondamentali di Piaget: l’assimilazione e l’accomodamento. La defi nizione della conoscenza quale processo biologico e inte-rattivo la si ritrova anni dopo nelle parole di Maturana, biologo ed epistemologo

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Fra soggettività e oggettività

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della conoscenza: «I sistemi viventi sono sistemi cognitivi e vivere è conoscere» (Maturana, 1988, trad. it. 1993, p. 77).

I temi centrali che derivano da queste aff ermazioni sono: cosa sia la cono-scenza scientifi ca, e se ci sia e cosa sia l’oggettività. Maturana conferma il pensiero di Prodi non separando la conoscenza scientifi ca dalla conoscenza comune, per cui «il criterio di validità delle asserzioni scientifi che è lo stesso criterio di validità delle azioni e delle asserzioni che utilizziamo nella vita di tutti i giorni» (Maturana, 1988, trad. it. 1993, p. 14). Le diff erenze riguardano la precisione nel distinguere i domini di conoscenza e la necessità del consenso, in quel dato dominio, di una comunità di scienziati che egli defi nisce «osservatori standard» in quanto acco-munati da prassi condivise.

A diff erenza di Maturana, Prodi non parla di oggettività né di «messa tra parentesi dell’oggettività», bensì di «oggettualizzazione» e di «conoscenza og-gettivante». L’evoluzione della conoscenza, e quindi la comparsa delle basi della conoscenza umana, opera un salto quando «si verifi ca la possibilità di attribuire una costanza agli oggetti: quando cioè essi sono collocati al di fuori della pren-sione immediata, posti al sicuro dall’incorporazione metabolica, fatti durare oltre l’uso che se ne fa per il mantenimento della struttura» (Prodi, 1974, pp. 43-44). È chiara l’infl uenza di Piaget e delle sue osservazioni sulla permanenza dell’oggetto come tappa fondamentale dello sviluppo infantile.

La conoscenza metabolica, che permane sempre, corrisponde all’assimilazione piagetiana, mentre la conoscenza oggettivante corrisponde all’accomodamento e, appunto, alla costanza dell’oggetto. Processi che, come in Piaget, non sono né separati né successivi, ma dove uno comporta necessariamente l’altro. In Prodi c’è infatti una continua attenzione a mantenere l’accento sull’interazione fra soggetto e oggetto, una stretta aderenza al fenomeno e una critica feroce sia alla pretesa di arrivare all’essenza delle cose, sia che questa «essenza» esista a prescindere dall’at-to di conoscere che è appunto una manipolazione. A riguardo della conoscenza scientifi ca, egli aff erma: «Spiegare le cose vuol dire stabilire relazioni tra le cose. Non vuol dire trovarne l’essenza» (Prodi, 1974, p. 54).

Proprio perché molto articolata, la sua concezione del rapporto fra soggettività e oggettività è molto chiara e attenta a evitare i dualismi, ad esempio fra idealismo e solipsismo da un lato e realismo metafi sico, cioè aderenza diretta e acritica ai fatti, dall’altro. A qualunque livello si ponga la conoscenza (metabolica, manipolatoria, comune o scientifi ca), «le cose non ci sono indiff erenti, né ci poniamo di fronte ad esse come puri parametri di constatazione. […] Le cose, il reale sono, già nel momento della percezione, collocati in un quadro valutativo, e sono irrimediabilmente compromesse, schierate nell’una o nell’altra categoria: delle cose buone o cattive o nell’altra, più vasta ma altrettanto soggettiva, delle cose indiff erenti» (Prodi, 1974, p. 25).

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Corpo e mente in psicomotricità

Già questa aff ermazione nega la neutralità dell’osservatore che rileva ciò che le cose sono «in sé». Nell’atto stesso di incontrarle, esse sono immediatamente valu-tate, caricate di un valore insito nella struttura conoscitiva. Per dirla in linguaggio piagetiano: valutate se sono assimilabili o meno. Prodi sostiene che un ostacolo al procedere della conoscenza viene dalla nostra tradizione culturale che privilegia la dicotomizzazione, cioè il ragionamento per polarità opposte. Contrapposizione che si concretizza in un gioco linguistico in cui una polarità ha senso in quanto opposta all’altra, senza verifi care se tale contrapposizione corrisponda poi a un che di reale. Esempi famosi di queste coppie oppositive sono stati o sono: natura/cultura e quindi innato/acquisito, mente/corpo, poi pensiero/azione, e quindi mente/cervello.

«L’opposizione più importante e radicale è certamente ritenuta quella di “oggettività” e “soggettività”. Si pensa normalmente che si tratti di due modi opposti di vedere e, in una certa misura, che ad essi corrispondano due tipi di realtà. Oggettivo è ciò che esiste nel mondo esterno, e soggettivo è ciò che può essere ivi frainteso. Oggettivo è ciò su cui non si può infl uire, soggettivo è ciò che sorge da noi ed è infl uenzabile. […] In realtà oggettivo e soggettivo non sono aff atto opposti, se non in condizioni precise […] nelle quali noi defi niamo speci-fi catamente le opposizioni. L’oggettivizzazione è il processo attraverso il quale una cosa «diventa» oggettiva, cioè può essere indicata e scambiata, ed è proiettata al di fuori della nostra utilizzazione. Questo processo è intrinsecamente soggettivo, anzi nasce solo in quanto è operato da un soggetto attraverso le sue peculiari modalità di interazione» (Prodi, 1974, p. 59).

La conclusione di Prodi è, al contempo, chiara e complessa: – l’oggettività, o meglio l’oggettivazione nasce dalla soggettività cioè dall’inte-

razione del soggetto col mondo, con la sua struttura biologica, la sua storia, eventualmente la sua cultura e suoi interessi;

– il soggetto conoscente e il suo modo di conoscere non sono fuori e contrapposti al mondo e alle cose, ma sono essi stessi parte del mondo;

– l’oggettivazione nasce dal confronto, dalla condivisione intersoggettiva in quan-to «l’oggetto sottratto all’occasionalità del contatto e stabilizzato, costituisce un riferimento esterno, e può essere indicato e scambiato da una pluralità di osservatori» (Prodi, 1974, p. 47);

– l’oggettivizzazione è sempre parziale e mutevole. Non descrive mai la totalità della cosa, ma sempre e solo aspetti coerenti con la struttura conoscitiva, cioè il soggetto, e vitali per essa;

– la pretesa dell’oggettività assoluta delle cose, che esse possano essere totalmente e completamente descritte in ogni loro aspetto e potenzialità, sottende una

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Fra soggettività e oggettività

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concezione metafi sica della scienza che distingue fra «sostanza» e «accidente», una visione del punto di vista di Dio che tutto vede e conosce l’essenza delle cose. «Non esistono puri fatti. Questi sarebbero l’equivalente scientifi co del noumeno: un non senso» (Prodi, 1982, p. 211).

Il tema dell’oggettività si ricollega e diventa tutt’uno con il problema della verità così come è stato descritto da Eco: parziale, provvisoria, frutto di negozia-zione e di riscontro-scontro con le cose e con gli altri soggetti. Anzi, Prodi va oltre quando sostiene che la logica formale o proposizionale, ritenuta la forma più alta dell’oggettività e della razionalità umana, nasce da una logica materiale, prepro-posizionale e precategoriale, alla base della vita e della conoscenza, che chiama «la logica del sì», ossia la corrispondenza fra entità biologica e ambiente. In una seconda fase dell’evoluzione, questa è divenuta logica categoriale, cioè dello «stare per», basata sull’analogia. Per cui un’entità biologica, ad esempio i linfociti in base a incontri precedenti, di cui recano traccia nella propria struttura, riconoscono un batterio come simile a un altro e in base a questa analogia o somiglianza agi-scono o meno. Per ultima nel processo evolutivo arriva la logica proposizionale. Essa conduce ad aff ermazioni vere, «ma esse non sono un a priori che conferisce verità, ma sono un a posteriori anche esso operativo e sperimentale, nel quale la struttura sperimenta se stessa» (Prodi, 1974, p. 126).

Se non esiste una diff erenza qualitativa fra conoscenza comune e scientifi ca, qual è la distinzione fra esse visto che entrambe sono forme di conoscenza ogget-tivante? Ancora una volta Prodi è molto chiaro e controcorrente: «La conoscenza diventa scienza attuando una rifl essione sui propri modi, cioè proponendo una doppia metodologia: da una parte defi nisce le operazioni di riscontro, dall’altra esclude le operazioni improprie» (Prodi, 1974, p. 86). Quindi proprio della scienza è il metodo autocritico: non solo indagine sistematizzata sulle cose, ma anche su come indaghiamo le cose. Ossia, oggetto della conoscenza scientifi ca diventa la conoscenza stessa. Ciò sul versante positivo. Sul versante negativo, compito della scienza è di escludere dal proprio ambito le operazioni in contrasto con esso.

È quanto è capitato a Galileo quando, come confutazione della teoria elio-centrica, gli è stato opposto l’episodio biblico in cui Gedeone ferma il corso del Sole per avere il tempo di conquistare Gerico. Il ragionamento sotteso all’episodio citato era: se Gedeone ha fermato il Sole, esso gira attorno alla Terra e non viceversa. Pare Galileo abbia risposto: «La Bibbia ci dice come si va in cielo, non come va il cielo». Vale a dire: «la Bibbia parla del rapporto uomo-Dio e della salvezza, io parlo di pianeti e delle loro orbite. Per favore, non mescoliamo i discorsi». Questo signifi ca escludere ciò che non riguarda il discorso scientifi co.

Prodi aff erma che oggettivazione e intersoggettività costituiscono un pro-cesso unitario, dando così una «picconata» decisiva alla vulgata dell’oggettivismo

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Corpo e mente in psicomotricità

sostenuto ancora da molti scienziati: «La defi nizione di reale è sempre, fi n da principio, una defi nizione intersoggettiva, che si realizza vedendo le cose e vedendo le proprie e altrui reazioni alle cose» (Prodi, 1974, p. 71). È sorprendente che, ben prima della massa di ricerche sulla natura intersoggettiva dello sviluppo infantile e, soprattutto, della scoperta dei neuroni specchio quale base neurobiologica della comprensione e condivisione delle azioni, dei signifi cati e delle emozioni, egli abbia individuato e anticipato, senza alcuna prova sperimentale diretta, la natura biologica dell’intersoggettività.

Poiché la conoscenza scientifi ca nasce dalla conoscenza comune, che ha le proprie origini biologiche nell’evoluzione, ne deriva che «l’area della scienza è molto più vasta di un dominio specializzato defi nito da parametri esterni (ad esempio la fi sica, la chimica) ed è anche più vasta di un campo di applicazione di metodologie circoscritte (come la misurabilità, la numerabilità, la riproducibilità sperimentale)» (Prodi, 1974, p. 90), cioè quelle regole che normalmente si dice costituiscano il metodo scientifi co.

Egli va decisamente controcorrente, tanto che distingue la scienza dalla co-munità degli scienziati, defi nita «espressione sociologica» della scienza. Per questo «non è possibile una defi nizione “a priori” di cosa sia scientifi co, ma è possibile solo una constatazione a posteriori dopo il ciclo conoscitivo. […] Spesso la scienza si produce in aree più ristrette della sua espressione sociologica, e può anche pro-dursi in aree esterne ad essa» (Prodi, 1974, p. 103). Come si vede, un’aff ermazione dirompente: non solo e non sempre gli scienziati producono scienza, ma essa può anche realizzarsi al di fuori dell’area comunemente defi nita «scientifi ca».

Un’aff ermazione, quasi una preoccupazione, ricorre nell’analisi serrata di Prodi: la non separazione fra teoria e prassi. Lo stretto connubio fra le due per-mette di non cadere in un formalismo astratto o di ridursi a una pratica tecnico-protocollare priva di idee e di domande. «Il discorso scientifi co è il prodotto della solidarietà tra operazioni e teoria […]. Tutto l’andamento della scienza è teorico, e ogni operazione ha senso nell’ambito di una costruzione teorica. Ma è vero allo stesso modo che tutto il discorso scientifi co è operativo e manipolatorio, e che non esiste alcun costrutto teorico se non nell’ambito delle operazioni che di fatto lo hanno costruito» dunque la contrapposizione fra teoria e prassi «costituisce uno dei più radicati equivoci della nostra formazione mentale» (Prodi, 1974, p. 96).

L’intima connessione fra teoria e prassi è la caratteristica precipua della pratica psicomotoria che è intrinsecamente relazionale. Il momento dell’incon-tro, terapeutico o educativo, con il bambino non è l’applicazione pedissequa di indirizzi teorici e metodologici: è esso stesso teoria «incarnata». In quel momento lo psicomotricista è al contempo il soggetto che attualizza i propri indirizzi teorici e metodologici e l’oggetto su cui li verifi ca; il bambino è la cartina di tornasole

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Fra soggettività e oggettività

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che, tramite le proprie risposte e proposte, mette alla prova la coerenza e l’effi cacia della teoria «incarnata» dello psicomotricista. Tutto questo tramite l’osservazione partecipante (si veda capitolo 5) in cui questi, agendo, osserva tre oggetti diversi: se stesso (auto-osservazione), il bambino e la loro interazione (auto-etero-osservazione).

Ci sono poi momenti più distaccati e teorici di osservazione e rifl essione in cui «l’osservare il fare proprio dell’osservazione diff erita, può sostenere il fare per osservare, proprio della prassi terapeutica. Entrambe confl uiscono nel pensare ciò che si è osservato, che ha non solo la funzione rifl essiva su quanto fatto, ma anche quella progettuale di pensare il fare. Tutto ciò può essere integrato e stimolato dall’osservare il pensare, ultimo livello di analisi che trascende la prassi e diventa esercizio autorifl essivo in quanto indaga i processi interpretativi dell’osservatore. Esso però non rimane esercizio fi ne a se stesso, ma può essere reimmesso nel circuito relazionale in quanto una rifl essione sull’interpretazione può modifi care le successive interpretazione nella prassi terapeutica» (Berti e Comunello, 1995, p. 124). E, nel contempo, può articolare meglio o sottoporre a critica la teoria.

Le procedure

Defi nita la natura del discorso scientifi co e chiarito il rapporto fra soggettività e oggettività, rimangono ancora da aff rontare i parametri specifi ci della scienza: le procedure, espressione dell’accordo intersoggettivo, la ripetibilità tramite la verifi ca sperimentale, la generalizzazione, e quindi il tema delle leggi e della spiegazione scientifi ca, la causalità, la quantifi cazione.

La concezione positivistica del dato come riscontro immediato di scientifi cità e verità, anche se ormai abbastanza squalifi cata, tende a ripresentarsi sotto forma di procedure standardizzate, per cui si defi nisce «l’essenza del processo scientifi co come una seriazione di constatazioni protocollari» (Prodi, 1974, p. 89). L’attaccamento alle procedure standardizzate produce certezza nel ricercatore o nel terapista, e quindi sicurezza psicologica (sa cosa fare) e riconoscimento intersoggettivo (essere parte di una comunità), ma di per sé non produce nuova conoscenza.

I protocolli rischiano di trasformarsi da strumento in scopo, così che l’ogget-to reale, per cui sono stati costruiti, tende a sparire sullo sfondo, oppure a essere costretto sul letto di Procuste delle defi nizioni protocollari. «Le constatazioni è impossibile possano sopravvivere al di fuori di uno schema teorico che le dirige, e al di fuori di un oggetto che ne costituisce il bersaglio esterno. Quindi il ridu-zionismo protocollare impoverisce l’area in cui ha luogo la conoscenza scientifi ca, e in fondo conferisce alla scienza un automatismo assurdo» (Prodi, 1974, p. 89).

La critica di Prodi al mito dei protocolli fa il paio con la critica che Bruner rivolge alla psicologia quando parla di «metodolatria» e di «piccoli studi insignifi -

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Corpo e mente in psicomotricità

– Mettere una parola fra virgolette (psicologici), per convenzione letteraria signifi ca come minimo: «non prendete questa parola in senso letterale» o come massimo «questa parola è un nonsenso». In tal modo conferma e aggrava la negazione di quanto appena aff ermato sopra, e cioè che la paralisi isterica sia un disturbo psicologico. Così, per insinuazioni, Ramachandran fa credere che quelle di Freud siano chiacchiere vuote contro la certezza del brain imaging.

– En passant, ricordiamo che la paralisi isterica non è uno dei più antichi disturbi psichici, è semplicemente il primo studiato da Freud.

– L’autore usa l’espressione «in qualche modo», che specie se utilizzata da uno scienziato, vuol dire: «Non so come, ma poiché non è avvenuto questo (che mi aspettavo) e invece è avvenuto altro, scommetto che c’è una relazione (meglio se causale) fra i due eventi». Ciò andrebbe esplicitato. Compito successivo dello scienziato sarà di scoprire (se è possibile) i modi di questa relazione. Altrimenti «in qualche modo» è solo la foglia di fi co con cui si vuole coprire la propria ignoranza.

– Preparata da questi spostamenti, occultamenti e insinuazioni, Ramachandran assesta il colpo fi nale, aff ermando che la paralisi isterica «ha una causa organica e precisa». Sotto gli occhi del lettore (che egli spera distratto o aff ascinato) fa il gioco delle tre carte, scambiando l’eff etto con la causa. La causa organica sarebbe l’azione del cingolo anteriore e dei lobi orbito-frontali che inibiscono la corteccia motoria. Dimentica di dire che non sa in che modo avviene tale inibizione e quale sia il legame di causa-eff etto con i centri emozionali del sistema limbico. Se cingolo anteriore e corteccia orbito-frontale, con le loro connessioni con i centri emozionali, sono la causa dell’inibizione motoria, cosa li ha fatti agire? Qual è la causa della causa? Ramachandran attua una serie di capriole lingui-stiche e logiche per non riconoscere che la causa prima non risiede nel cervello né è un evento fi sico, bensì in un pezzo di storia del paziente, il famoso trauma emotivo. Un evento o serie di eventi relazionali extracerebrali, ma tanto forti da infl uenzare le attività cerebrali. Il suo non è il linguaggio dello scienziato ma dell’avvocato.

Fortunatamente non tutti i neuroscienziati hanno una concezione così orga-nicistica e riduzionista del cervello; ad esempio Edelman aff erma: «Non è possibile considerare il cervello e il sistema nervoso separandoli dagli stati del mondo e dalle interazioni di carattere sociale» (Edelman, 1992, trad. it. 1993, p. 346).

Corpo e psicomotricitàCorpo e psicomotricità

Di quale corpo parla la psicomotricità? Non il corpo organismo, né il corpo strumento o il corpo prestazionale, anche se li sottende e li include. Piuttosto il

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Corpo e mente

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corpo come «entità bioculturale produttrice di senso e organizzatrice dell’esperienza del mondo, della sua coerenza e stabilità in conoscenze, competenze e storie» (Berti, Comunello e Savini, 2001, p. 65). Un corpo che, tramite le proprie attività in inte-razione con l’altro, possa comprendere, articolare e ampliare le proprie modalità di trasformazione del mondo, di comunicazione e condivisione. «Il corpo è il luogo primo in cui e con cui viene scritta la storia di ogni uomo e la storia fra uomini; è perciò il luogo più percorso e modellato dagli eventi del singolo e generali, dalla cultura di una società o di un microcosmo familiare: vero “paesaggio umano” e non “naturale”» (Berti, Comunello e Nicolodi, 1988, p. 13). Se dovessimo correggere questa nostra aff ermazione di molti anni fa, specifi cheremmo che il corpo umano è biologicamente un corpo relazionale e culturale.

In questa concezione è evidente il debito originario nei confronti del corpo vivente o corpo proprio della fenomenologia di Merleau-Ponty. Fin dall’inizio la psicomotricità ne è stata infl uenzata attraverso il pensiero di Ajuriaguerra, psichiatra infantile e uno dei primi teorici di questa disciplina: quindi il corpo come originaria apertura al mondo, che incontra altri corpi e li riconosce simili a sé. Non a caso è stato Ajuriaguerra a creare l’espressione «dialogo tonico» per indicare, in senso reale e non metaforico, il primitivo dialogo fra madre e bambino, costituito dai reciproci scambi e adattamenti, spesso microadattamenti tonico-posturali. Il tono muscolare, la più arcaica e automatica delle nostre risposte agli eventi del mondo (che condividiamo con gli altri mammiferi) veicola signifi cati emotivi e aff ettivi fondamentali e complessi. I signifi cati che il bambino appren-de ad attribuire (non per via rappresentazionale, cioè simbolica) alle variazioni toniche e al tono prevalente della madre, si incideranno nei suoi muscoli e nelle sue connessioni neurali, infl uenzando le sue future interazioni con le persone che incontrerà, anche una volta adulto, e le valutazioni che di esse darà: il dialogo tonico continua per tutta la vita.

La raffi nata analisi che Stern (1985) fa degli aff etti vitali e della loro condi-visione nella relazione madre-bambino concerne essenzialmente il rapporto tono-muscolare-tempo. Egli aff erma che gli aff etti vitali, a diff erenza delle emozioni classiche che possono esserci o meno, sono sempre presenti e accompagnano ogni azione umana. Inoltre, non esiste un lessico per gli aff etti vitali i quali possono essere espressi solo con termini dinamici e cinetici quali: «fl uttuare […], esplodere, crescendo, decrescendo, gonfi o, esaurito» (Stern, 1985, trad. it. 1987, p. 69). Tutti gli esempi riportati implicano il tono muscolare quale caratteristica preminente; proprio perché presenti in ogni atto, rimangono sullo sfondo della coscienza, come sostrato propriocettivo del quale ci rendiamo conto solo saltuariamente.

Rileva ancora Stern: «Vi sono mille sorrisi possibili, mille modi di alzarsi dalla sedia, mille variazioni possibili dello stesso comportamento e ciascuno si accompa-

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Corpo e mente in psicomotricità

gna a un diverso aff etto vitale» (Stern, 1985, trad. it. 1987, p. 71). I mille modi di compiere un’azione sono variazioni, modulazioni e sfumature di due parametri: il tono muscolare e il tempo. Parametri che, come si approfondirà più avanti, sono due degli strumenti principali sia dell’intervento che dell’osservazione psicomotoria. Anzi è nella percezione e nell’utilizzo di tutte le variazioni e sfumature del tono muscolare, quale primaria manifestazione dell’espressività e della comunicatività, che risiede una delle principali competenze specifi che della psicomotricità.

Riguardo agli aff etti vitali, il ruolo primario del tono muscolare connesso al tempo diventa ancora più evidente nel caso della sintonizzazione aff ettiva fra madre e bambino; infatti, Stern si chiede come possa avvenire la condivisione di stati aff ettivi fra la madre e un bambino di 8-9 mesi, cioè come faccia la madre a entrare nello stato aff ettivo del fi glio e a condividerlo, e come faccia questi a capire che la madre lo sta condividendo. Così egli pone il problema della formazione dell’intersoggettività aff ettiva che individua appunto nella sintonizzazione degli aff etti vitali. Essa è la modalità privilegiata «per trasferire atteggiamenti, programmi e fantasie in un comportamento interattivo concreto inteso a raggiungere lo scopo desiderato» (Stern, 1985, trad. it. 1987, p. 216).

Riguardo all’analisi e alle esemplifi cazioni della sintonizzazione rinviamo a Stern (1985). Ci preme solo evidenziare che la sintonizzazione, qualunque sia il comportamento attuato dalla madre per realizzarla, riguarda l’intensità per cui, nel caso della sintonizzazione perfetta, i livelli di intensità del comportamento materno coincidono con quelli del bambino coprendo la stessa curva sia di variazioni che temporale (Stern, 1985, trad. it. 1987, p. 154). È evidente che qui «intensità» indica il livello e le variazioni del tono muscolare in un arco di tempo.

Il tono muscolare (nel quale è compreso anche il tono della voce), consi-derato come puro dato fi siologico, sintomo patologico (ad esempio nella spasti-cità) o elemento prestazionale, per la psicomotricità è il canale privilegiato nella comprensione della soggettività e nella costruzione dell’intersoggettività. È la dimostrazione concreta di come di uno stesso oggetto si possano dare descrizioni e utilizzi diversi, ugualmente validi. «Perfetta o meno, la sintonizzazione svolge un ruolo fondamentale nella costruzione di stati aff ettivi socialmente condivisibili e degli abiti espressivi e relazionali» (Berti e Comunello, 1995, p. 141).

La sintonizzazione degli aff etti vitali non riguarda solo la condivisione aff ettiva fra madre e fi glio. In forme più complesse (e forse altrettanto poco consapevoli) marca i punti più alti delle nostre relazioni aff ettive anche da adulti. È anche probabile che molte delle enfatizzazioni (vocali e gestuali) che lo psicomotricista utilizza nell’interazione con il bambino siano delle vere e proprie sintonizzazioni, e abbiano la funzione di segna-contesto aff ettivo-comunicativo di sostegno a quella manifestazione e di conferma che essa non solo è capita ma anche condivisa.

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Corpo e mente

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Da quanto detto fi nora, emerge che il corpo di cui si occupa la psicomotricità è complesso in cui si intrecciano e si fondono gli apporti biologici, psicologici e sociali. Come aff erma Chiavazza «il corpo ha un’irriducibile ambigua poliedricità: esso è organismo, macchina, manichino, prestazionalità adattiva, assetto tonico-posturale, potenzialità di azione nel mondo, autocoscienza di sé, vissuto, oggetto (s)off erto allo sguardo dell’altro» (Chiavazza, 2009, p. 7).

La psicomotricità si muove attraverso questi aspetti poliedrici, utilizzando anche gli apporti di altre discipline (dalla psicologia dello sviluppo alle neuro-scienze, dalla fi siologia alla psicologia culturale) per cercare conferme, indicazioni, valutazioni da integrare nel proprio agire nei confronti di un altro corpo che è una persona. Non per questo è un approccio eclettico, come non è eclettico il neu-roscienziato che usa la PET o la Tomografi a Assiale funzionale pur non sapendo come è fatta e in base a quali principi funziona, compito questo di altri scienziati (fi sici e ingegneri). Ciò che gli interessa è studiare le attività del cervello che queste macchine gli permettono di rilevare.

Così la massa di ricerche in psicologia dello sviluppo, che hanno dimostra-to l’innata intersoggettività dello sviluppo psicologico e delle funzioni mentali, confermano la scelta della psicomotricità di fondare il proprio intervento sulla relazione interpersonale non come pretesto o mezzo bensì come scopo; come la scoperta dei neuroni specchio è non solo una conferma ma anche un’ulteriore spinta ad approfondire temi quali l’azione e l’imitazione.

D’altra parte, sempre Chiavazza rileva che, ad esempio, Gallese, uno degli scopritori dei neuroni specchio, utilizza quasi le stesse parole di Merleau-Ponty di Fenomenologia della percezione: «Il senso dei gesti altrui non è dato ma compreso, cioè ricatturato dall’azione dell’osservatore […]. La comunicazione o la compren-sione dei gesti è resa possibile dalla reciprocità tra le mie azioni e i gesti degli altri, tra i miei gesti e le intenzioni trasmesse dai gesti altrui. È come se le intenzioni dell’altro abitassero il mio corpo e le mie il suo» (Gallese, 2006a, p. 30). Solo che Merleau-Ponty scriveva da fi losofo sessanta anni prima.

Se i neuroni specchio costituiscono la base materiale del riconoscimento delle azioni altrui, dell’imitazione e della condivisione di signifi cati aff ettivi, non sono però suffi cienti a spiegare la complessità di tale condivisione di signifi cati, valori e regole in una qualunque cultura o microcultura umana. Il percorso deve essere necessariamente a due o più vie: come il cervello determina i nostri strumenti e modi di esperire il mondo, così l’esperienza, l’educazione, le regole e i valori di una società modifi cano, in modi ancora in gran parte sconosciuti, le connessioni sinaptiche, la forma e le attività delle diverse mappe neurali. In questo senso, la teoria della selezione dei gruppi neurali di Edelman fornisce una possibile buona descrizione dell’interazione fra attività cerebrali ed esperienza, e di come questa

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Corpo e mente in psicomotricità

infl uisca sui processi di categorizzazione delle mappe neurali e sui sistemi di valore selezionati dall’evoluzione (Edelman, 1992, trad. it. 1993, pp.129-153).

Ciononostante, il corpo, i suoi movimenti, il suo tono muscolare, le sue azioni sono comunemente ancora considerate funzioni inferiori rispetto alla memoria, alla coscienza, al linguaggio: servi più o meno docili e abili delle funzioni mentali superiori. La sequenza classica è: sensazione ⇒ percezione ⇒ decisione ⇒ azione. Nella concezione comune come in quella scientifi ca, le funzioni sensomotorie e motorie vengono subordinate alle funzioni mentali superiori la cui massima espressione è rappresentata dal linguaggio, dalla memoria semantica, dal pensiero logico e simbolico. Si passa sotto silenzio, ad esempio, che il linguaggio non è solo una faccenda simbolica ma anche un’attività motoria molto raffi nata, resa possibile da un cambiamento anatomico durante l’evoluzione: la modifi ca della base del cranio conseguita all’assunzione della postura eretta, che ha permesso la discesa della laringe per cui è possibile emettere suoni continuativi e respirare allo stesso tempo. La psicomotricità invece ha da sempre scommesso che, proprio tramite le attività sensomotorie e motorie, sia possibile agire anche sul complesso delle altre funzioni. Una serie convergente di ricerche, sia in ambito psicologico che neurobiologico e linguistico, tende a confermare il ruolo centrale delle fun-zioni e delle esperienze motorie nell’organizzazione complessiva del cervello, della mente nonché della vita intersoggettiva, come l’esempio degli aff etti vitali e della sintonizzazione hanno dimostrato.

Il movimento

Oliverio pone una domanda apparentemente paradossale: «È l’Io a produrre i movimenti o sono i movimenti a produrre l’Io?» (Oliverio, 2001, p. 26). E propone di ribaltare «una concezione della mente che considera il movimento come una semplice operazione motoria dettata dall’alto, in favore di una concezione in cui il movimento occupa un ruolo centrale e costituisce il punto di partenza per lo sviluppo delle funzioni mentali [...]. In realtà dovremmo riformulare la sequenza in senso inverso, attraverso uno schema in cui si parte dal passo iniziale, il movimento, per poi considerare le conseguenze che questo esercita sull’ambiente circostante, la percezione di queste conseguenze e le modifi che che questa percezione esercita sui movimenti successivi» (Oliverio, 2001, p. 26). Fra l’altro egli ricorda che l’embrione è prima un organismo motorio e poi sensoriale, ossia sono i movimenti rifl essi a generare la sensazione e la percezione. Da questo capovolgimento di prospettiva consegue che «il movimento non è più il mezzo per soddisfare le necessità dei centri cerebrali superiori, la mente, ma è invece l’attività mentale a essere il mezzo per eseguire le azioni» (Oliverio, 2001, p. 26).

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L’azione

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Azione e movimentoAzione e movimento

La logica conseguenza di quanto argomentato fi nora è che la terapia psico-motoria è una terapia dell’azione attraverso l’azione. Essa è la ricomposizione e la connessione di azioni o frammenti di azione attraverso l’interazione di gioco, ossia la costruzione di un senso condiviso. Non ha dunque come scopo primario quello di sviluppare l’effi cienza motoria o favorire specifi ci apprendimenti, né di riconoscere particolari defi cienze motorie. Tramite le proprie azioni lo psicomo-tricista cerca piuttosto di integrare le capacità motorie, espressive e comunicative del bambino per costituirlo innanzitutto come essere capace di volere, sapere e potere eff ettuare trasformazioni sull’ambiente e condividere signifi cati.

«La scoperta della propria effi cacia causale è il fondamento della percezio-ne di sé come agente; è, per usare un termine tradizionale, il fondamento della “volontà” […]. Il comportamento, compresa la percezione, è intenzionale; non è la risposta a uno stimolo, ma è originato da un percettore-attore» (Gibson, 1993, trad. it. 1999, p. 54). Connettere le azioni signifi ca, dunque, legarle in un tutto coerente secondo principi di antecedente/conseguente, causa/eff etto, implicazione, proposta/risposta, ecc. L’azione è quindi lo snodo di processi mentali fondamentali quali l’intenzionalità, la memoria, l’attenzione, l’attività simbolica.

Le indagini sui neuroni specchio hanno dimostrato la base biologica dell’in-tersoggettività dell’azione, che viene compresa attraverso la simulazione automatica dell’azione stessa, realizzando quella che Gallese defi nisce la molteplicità condi-visa. «Ciò consente all’osservatore di utilizzare le proprie risorse per penetrare il mondo dell’altro mediante un processo di modellizzazione che ha i connotati di un meccanismo inconscio, automatico e predichiarativo di simulazione motoria» (Gallese, 2004).

L’azione

CAPITOLO 4

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Corpo e mente in psicomotricità

Su questa dotazione neurobiologica di base, l’intersoggettività dell’azione e dell’emozione, come si è visto, viene articolata, resa estremamente complessa e raffi nata all’interno della relazione precoce. Le microanalisi dei pattern temporali dell’interazione madre-bambino infatti hanno dimostrato che già a due mesi «si tratta di un eff etto mutuo, in cui sono essenziali le intenzioni di entrambi i partner» (Trevarthen, 1977, trad. it. 1984, p. 306). Quindi, anche l’azione più individuale e solitaria è sociale, in quanto il suo aspetto intersoggettivo è stato interiorizzato. Allora la terapia psicomotoria è, ipso facto, una terapia dell’interazione e, poiché le interazioni fra i due partner si ripetono regolarmente, è una terapia della relazione.

Se i neuroni specchio si attivano in base alle competenze motorie iscritte nella dotazione biologica del soggetto (il suo «vocabolario» delle azioni), ogni amplia-mento e modifi ca di tali competenze, sia a causa della maturazione neurofi siologica che delle esperienze interpersonali, porta a una maggiore attivazione dei neuroni specchio e, dunque, a un’intersoggettività più ampia e più complessa, creando così un circolo virtuoso. Allora l’espressione «terapia dell’interazione e della relazione» signifi ca che il terreno su cui lo psicomotricista lavora, come la madre, è quello della cognizione sociale, cioè la natura interpersonale della cognizione.

«La cognizione sociale rappresenta un aspetto, per altro fondamentale, del più vasto rapporto tra la nostra mente e la realtà da essa descritta. Se si rinuncia ad attribuire alla dimensione interpersonale della conoscenza — sia da un punto di vista fi logenetico che ontogenetico — lo statuto di pietra miliare nella costruzione più generale dei nostri processi mentali, si rischia di approdare a una defi nizione della mente umana che in virtù del proprio solipsismo fondazionale non sa e non può fornirne una caratterizzazione suffi ciente» (Gallese, 2006b, pp. 207-208).

Se ciò vale per la ricerca scientifi ca e la rifl essione fi losofi ca, ancora di più vale per una mente e un corpo, poco o tanto defi citari. Considerare centrale la natura interpersonale della cognizione conferma da un lato, in termini sperimentali, le pionieristiche anticipazioni di Giorgio Prodi sulla natura biologica e intersoggettiva della conoscenza, dall’altro la scelta di fondo della psicomotricità di non puntare su ciò che manca (defi cit o sintomo) ma su ciò che c’è e funziona. Ciò comporta strategie di aggiramento o, nei casi più gravi, la valutazione del sintomo non in quanto tale bensì, arbitrariamente, come possibile atto intenzionale o comunicativo.

Nel linguaggio comune, ma anche in molti linguaggi tecnici, «azione» e «movimento» sono considerati sinonimi. Esiste invece una profonda diff erenza fra l’una e l’altro, e la distinzione è aff ermata in modo drastico e sintetico da Ha-bermas: «Un movimento corporeo è elemento di un’azione, ma non è un’azione» (Habermas, 1981, trad. it. 1986, p. 173). Il movimento dipende da cause fi siche, cioè dalla corretta trasmissione di segnali nel sistema neuromotorio: nella fl essione del braccio, l’estensione di un muscolo causa necessariamente la contrazione di

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L’azione

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un altro muscolo. L’azione invece riguarda le intenzioni, i rapporti mezzi-scopo, il riconoscimento, il contesto, le regole sociali, i rapporti intersoggettivi, ecc. Infatti, molti bambini in terapia psicomotoria non hanno problemi nell’organizzazione del movimento, mentre ne hanno molti in quella delle azioni.

Che si possa alzare il braccio dipende dall’integrità del sistema nervoso centrale, ma tale movimento non è l’eff etto di una causa fi sica, bensì la risposta ad esempio a un ordine, a uno scopo, a un’altra azione. Il movimento di alzare il braccio può appartenere ad azioni diverse: ad esempio «prendere qualcosa situata in alto» o «salutare». Quindi il contesto in cui l’azione avviene, e che essa contribuisce a costruire, è parte integrante dell’azione stessa e del suo signifi cato. Inoltre, non tutti i movimenti sono azioni (ad esempio il battito cardiaco, i movimenti viscerali ma anche l’inciampare o lo starnutire) né tutte le azioni implicano movimenti.

Normalmente si ritiene che un’azione consista in un fare concreto, mentre, in realtà, può anche consistere in un «non fare», un «astenersi dal fare»: «permettere» può essere un fare, ma anche un’astensione dall’agire che, proprio in quanto tale, comunica all’altro il permesso di agire. «La lettera che non scriviamo, le scuse che non porgiamo […] possono essere tutti messaggi suffi cienti ed effi caci, poiché zero può avere signifi cato in un contesto» (Bateson, 1979, trad. it. 1984, pp. 68-69). Non a caso gli innamorati si irritano se il partner non risponde alla loro telefo-nata. Quindi, come anticipato, anche il «non-fare» può essere un’azione, a volte più importante di un fare concreto; tanto che è persino prevista dal codice penale (si pensi all’omissione di soccorso e di atti d’uffi cio): in contesti e circostanze che prescrivono un fare attivo, il non agire viene sanzionato penalmente.

Ci sembra che questa possa essere un’indicazione metodologica importante per degli psicomotricisti. L’ansia del rispondere, del proporre o del richiedere può essere deleteria specialmente nel rapporto con un bambino disabile o comunque problematico. Il «non fare» dell’attesa può diventare un’azione importante, ad esempio nei confronti di un bambino inibito: può essere recepito con il signifi cato di «non intrusione», «non richiesta» e, in ogni caso, come «non pericoloso». In tal modo lo psicomotricista riconosce al bambino un potere di scelta che, avvenendo in un’interazione, è anche un potere contrattuale. Il «non fare» dell’attesa può concretizzarsi, secondo i casi, nel non guardarlo, non avvicinarsi, non fare domande ma, soprattutto, nel non chiedergli prestazioni. Se il bambino non prende alcuna iniziativa in cui lo psicomotricista possa in qualche modo inserirsi, l’attesa non deve protrarsi indefi nitamente. Allora il terapista può decidere di attuare delle azioni per conto proprio, giocando molto su tempi, spazi, oggetti che ipotizza possano essere interessanti, ma anche sul linguaggio verbale in termini descrittivi o di soliloquio.

L’attenzione al fare dell’altro è una forma di riconoscimento e può diventare partecipazione secondo il tempo di attenzione, della postura, degli sguardi, della

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Corpo e mente in psicomotricità

mimica. Se si riesce ad avere la partecipazione del bambino si sarà introdotto realmente il fattore tempo perché ci sarà l’attesa per l’azione futura dello psico-motricista o l’anticipazione di passo in passo del suo svolgersi, anche se ancora solo da spettatore interessato.

La diff erenza fra azione e movimento è visibile nel fatto che, per identifi care la prima abbiamo bisogno di mezzi, linguistici o meno, che distinguano una serie di movimenti da un’altra. Ad esempio individuiamo facilmente con uno stesso nome un’azione che può comportare movimenti parzialmente o totalmente diversi: scrivere con la penna sul foglio, con il gesso alla lavagna, al computer o persino col piede sulla sabbia, richiede movimenti molto diff erenti; un conto è impilare mattoncini Lego e un altro impilare cubi di 40 cm di lato: un’azione richiede una presa di precisione e una pressione per incastrarli, l’altra una presa generalmente a due mani. Tutto ciò vale anche per le azioni più automatizzate: un conto è camminare sull’asfalto, un altro su una superfi cie ghiacciata e un altro ancora a piedi nudi in mezzo ai ciottoli.

Diamo lo stesso nome a concatenazioni di movimenti diversi innanzitutto perché i neuroni specchio codifi cano azioni e non movimenti, ossia «sparano» gli stessi neuroni ad esempio che l’azione sia realizzata con la mano destra o la sinistra (Iacoboni, 2008; Rizzolati e Senigaglia, 2006). In secondo luogo, perché nelle azioni composte riuniamo, in base a competenze e conoscenze acquisite, una sequenza di azioni semplici in un’intenzionalità globale. Ad esempio, le azio-ni di cercare, prendere, trasportare, sovrapporre dei cubi di gommapiuma sono connesse e identifi cate, in termini sequenziali e logici, nell’azione di costruire. Siamo, però, anche in grado, automaticamente, secondo gli scopi e i contesti, di scomporre questa azione globale e di riconoscere solo il «cercare» o il «sovrapporre» come azione «codifi cata». Terzo, individuiamo un’azione anche dal risultato che interpretiamo come «scopo», che è quindi elemento indispensabile dell’azione e del suo signifi cato.

Alla base di tutte queste distinzioni c’è il tempo. Il movimento è sempre nel presente, nel «qui e ora» immediato, l’azione è sempre nel futuro, non importa se distante solo pochi secondi. Quindi l’elemento qualitativamente fondante e discriminante dell’azione è il tempo: la radice etimologica di questo termine è ten che signifi ca «tagliare», «separare», ossia il tempo non esiste prima della suddivi-sione fra passato, presente e futuro. Il futuro è la dimensione principale perché in esso si colloca lo scopo, cioè «la rappresentazione immaginaria di uno stato a cui si aspira come risultato di un’azione» (von Cranach e Harré, 1982, trad. it. 1991, p. 48). Esso è lo stato anticipato, l’impulso motore che fa pescare nel passato le esperienze e le abilità per attuare nel presente le condizioni di realizzazione del futuro desiderato.

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L’azione

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Distinzione e connessione fra passato, presente e futuro non sono visibili solo nelle azioni complesse come costruire una casetta con i cubi di gommapiuma, ma anche in quelle cosiddette semplici come saltare da una pila di cubi, indipenden-temente dall’abilità o meno del saltatore. È l’anticipazione del volo che informa e carica di senso l’assetto tonico-posturale della preparazione caratterizzata da micro e macroaggiustamenti: è l’anticipazione dell’impatto e del modo con cui lo si desidera o lo si teme che informa l’atteggiamento posturale fra lo stacco e l’impatto stesso. Nei bambini normali, la breve immobilità dopo l’impatto costituisce la rimemo-razione dell’esperienza appena compiuta, il riassaporare le sensazioni e l’emozione appena provate. Può essere, quindi, diffi cile vedere un’azione nell’aff astellamento di istanti frammentati che costituiscono il fare del bambino iperattivo, dove vi è assenza di anticipazione, preparazione e di pause.

In un’interessante tesi di laurea in terapia della neuro-psicomotricità dell’età evolutiva presso l’Università di Padova, Anna Cuppoletti ha analizzato l’espe-rienza sensomotoria del bambino a partire dall’osservazione dell’azione del salto in basso, rilevando le variabili dell’esecuzione dell’azione e individuando le scelte più comuni e quelle più originali. Con un’accurata osservazione, ha suddiviso il salto in diverse fasi: la predisposizione, la preparazione, l’impulso, la sospensione, la caduta e le modalità per rialzarsi.

«Dall’analisi dei risultati della prima fase, emerge che il comportamento più frequente, una volta sopra la postazione di salto, è di “guardare giù” […]. L’esplorazione visiva diretta alla meta ha un’importante funzione: l’anticipazione dell’azione» (Cuppoletti, 2008-2009, p. 49). Già prima della preparazione all’azione è presente una rappresentazione-valutazione della stessa. Osservando la seconda fase, ossia la preparazione al salto, «è emerso che la maggior parte dei bambini sceglie una postura in cui l’intero corpo è raccolto in fl essione pronto all’estensione che avverrà successivamente […]. Abbiamo chiamato questa postura “fl essione semplice”» (Cuppoletti, 2008-2009, p. 51). «Per descrivere l’impulso dobbiamo servirci di due qualità: la forza e la direzione. Per quanto riguarda la prima […] si possono evidenziare impulsi forti, normali, lievi e quasi impercettibili. Per quanto riguarda la seconda, l’impulso può essere in estensione, in altezza o direzionato verso destra o sinistra» (Cuppoletti, 2008-2009, p. 52).

La sospensione cioè il volo, momento centrale dell’azione, in cui da un lato si cerca di contrastare la forza di gravità tramite quella dell’impulso, dall’altro ci si abbandona ad essa, viene vissuta in modo diverso secondo l’età. «Nel bambino piccolo […] viene vissuta soprattutto in vista della caduta. Essa prevede quindi un aumento del tono e un passaggio posturale che permettano un arrivo al suolo più sicuro. Più avanti il bambino riuscirà a vivere la fase del volo senza essere in-fl uenzato dall’arrivo al suolo. Sarà quando il bambino raggiungerà questo livello

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di maturazione che vivrà in pieno l’emozione del volo dando voce a tutta la sua espressività corporea» (Cuppoletti, 2008-2009, p. 53). Il momento dell’impatto con il suolo costituisce la verifi ca delle abilità, sicurezza e timori con cui si è eff ettuato il salto. E anche i modi con cui lo si attua dipendono dall’età, dalle abilità e dallo stato emotivo. «Le modalità più comuni scelte dai bambini per arrivare al suolo sono quattro: in ginocchio, seduto, accovacciato, in piedi. Esse prevedono basi di appoggio sempre più ridotte, e quindi presuppongono coordinazione, controllo ed equilibrio sempre maggiori» (Cuppoletti, 2008-2009, p. 55; sull’argomento si vedano anche Tava e Andalò, 2008; Brenna, Bubola e Sali, 2007).

Finora abbiamo parlato di azione senza darne una defi nizione: ne propo-niamo tre, complementari fra loro. La prima è di Ajuriaguerra, come si è detto uno dei padri della psicomotricità: «L’azione non è una semplice attività motoria, ma sul piano delle strutture essa è un circuito sensitivo-motorio e, nel corso della sua realizzazione, è un’attività con uno scopo defi nito in uno spazio orientato rispetto al corpo» (Ajuriaguerra, 1974, trad. it. 1979, p. 394). La seconda è di Harré, studioso di fi losofi a della scienza: «L’agire non può essere concettualizzato riduttivamente in termini di movimenti, che ne costituiscono gli strumenti, senza perdere il suo carattere o il suo signifi cato. L’azione umana è per natura un fenomeno psicologico e non può essere ridotta alla fi siologia o alla fi sica, o anche a semplici elementi comportamentali osservati, senza essere distrutta» (Harré, 1974, p. 41). La terza è di von Cranach, professore di psicologia: «Nell’agire fi nalizzato […] il comportamento manifesto è guidato (parzialmente) da cognizioni coscienti che a loro volta sono (in parte) di origine sociale. In tal modo la società, attraverso il controllo delle cognizioni (parzialmente), produce e controlla l’agire dell’individuo, che, d’altra parte, attraverso le proprie azioni, modifi ca le strutture sociali» (von Cranach e Ochseinbein, 1989, trad. it. 1994, p. 80).

Ajuriaguerra ne focalizza l’aspetto sensomotorio e l’orientamento del suo spazio rispetto al corpo quale punto di origine dello spazio stesso. Harré ne sottolinea la natura eminentemente psicologica, non riducibile né ai comportamenti motori né al sistema neuromuscolare. Mentre von Cranach ne considera principalmente la funzione cognitiva, parzialmente consapevole, di controllo sociale e di infl uenza sulle strutture sociali. Tutti e tre distinguono comunque fra movimento e azione e considerano quest’ultima come un sistema intenzione-mezzi-scopo.

Intenzione e scopoIntenzione e scopo

Normalmente intenzione e scopo sono considerati sinonimi, e così li usano sia Rizzolati che Iacoboni. Crediamo invece che siano due concetti ben distinti. Alla

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evidente l’identità di struttura fra azione e narrazione. Normalmente si distingue fra azione semplice e complessa, ma qualunque azione semplice, se analizzata, si rivela molto complessa in quanto composta «da stringhe di azioni» preparatorie, sussidiarie e accompagnatorie che di solito compiamo in modo automatico e poco consapevole. Sono proprio questa concatenazione e la qualità di ciascuna sotto-azione componente a rendere l’azione precisa o approssimativa, economica o meno, riuscita o fallita, e a rendere il gioco simbolico realistico e fl uido o meno. Perché tutto questo riesca, prima e al di là delle abilità specifi che legate all’esperienza oppure a doti personali, è necessario avere la capacità di costruirsi una rappre-sentazione mentale dell’azione complessiva, ossia sapere che l’azione specifi ca che si sta compiendo è parte e funzione di tutta la stringa di azioni: è necessaria la capacità di proiettarsi nel futuro. Off rendo ai bambini la possibilità di costruire vere e proprie storie di azioni, ancora prima del gioco simbolico, si off rono sensi possibili e percorsi interpretativi plurimi, dove essi possono diventare narratori ed elaborare un testo virtuale in risposta alle sollecitazioni di quello reale. In questo modo si facilita la costruzione di signifi cati da assegnare al mondo e a se stessi.

Narrazione e psicomotricitàNarrazione e psicomotricità

Si è detto che mythos signifi ca «connessione di azioni». Lo psicomotricista, come più volte sottolineato, dal livello più elementare a quello più complesso, cerca proprio di trasformare dei movimenti in azioni, di connettere le azioni del bambino fra loro e queste con le proprie, in un tutto coerente.

La struttura stessa di una seduta di terapia psicomotoria è una struttura narra-tiva di tipo teatrale, il cui spazio-tempo costituisce il palcoscenico e la scenografi a in cui si svolgono le rappresentazioni. Lo psicomotricista ha il ruolo fondamentale di regista mentre il bambino ha quello di protagonista. All’interno di questa pri-maria distinzione di ruoli, essi ne possono assumere altri, contemporaneamente o in successione: lo psicomotricista può diventare l’aiutante o l’antagonista, il narratore o lo spettatore interessato; il bambino può diventare il cercatore, l’eroe, la vittima, ecc., ma è sempre e comunque il protagonista.

In terapia psicomotoria la costruzione di un tema, e quindi della coerenza delle azioni e dell’interazione, avviene tramite la progressiva costruzione di un copione o sceneggiatura, ossia una sequenza di azioni e aspettative, in parte fi sse e in parte modifi cabili: ad esempio i rituali di inizio e di fi ne seduta, la riproposi-zione degli stessi oggetti, attività o ruoli sono tutti elementi di un copione. Quindi un altro ruolo che lo psicomotricista ricopre è quello di narratore, che può avere sia aspetti verbali (commentando, nominando, sostenendo l’azione del bambino)

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La narrazione

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sia, soprattutto, di azione. La prima e continuativa azione che il narratore com-pie è quella di selezionare azioni ed eventi e di connetterli in modo da costruire signifi cati coerenti.

La struttura narrativa è insita in ogni tipo di interazione e, come ogni sto-ria richiama altre storie e modelli di storie, così ogni interazione richiama altre interazioni e modelli di interazione. Allora è opportuno concretizzare la nostra ipotesi, esemplifi cando due frammenti di storie terapeutiche dove la struttura narrativa appare assente e dove, in modi diversi, si cerca di costruirla con tempi, ruoli e azioni coerenti e connessi.

Francesco è stato diagnosticato come un bambino con disarmonia evolutiva, disturbi della relazione, della comunicazione e della condotta: la storia del suo rapporto con il mondo delle persone e delle cose è un caos disastroso. Il problema che la psicomotricista deve quotidianamente aff rontare è che le sue azioni, o meglio i frammenti di azione, non si organizzano in un gioco per quanto semplice, ma sono il puro pretesto per entrare in contatto con l’altro, che avviene però sempre con le modalità dello scontro, dell’aggressione, della provocazione. Ciò potrebbe anche costituire la base di un modello di interazione e di storia di tipo polemico e antagonistico, ma queste sue modalità sono del tutto disorganizzate, non costrui-scono contesti, non contemplano strategie, non costituiscono sequenze coerenti di azioni. Esse si esauriscono nell’eff etto immediato, sono frammentate e confuse, povere di signifi cato e, in defi nitiva, ripetitive.

Come in ogni relazione terapeutica, l’operazione di fondo è quella di focaliz-zare, selezionare e ridescrivere i comportamenti che il bambino porta nella seduta. Ogni scelta restringe la gamma delle scelte successive. Il problema casomai è quello della consapevolezza della scelta e dei suoi scopi, ma questo discorso riguarda la formazione personale.

Fra tutti i comportamenti di Francesco (frammenti di azioni, parole, movi-menti, sguardi) la terapista seleziona e focalizza un’unica azione: quella in cui il bambino fi nge di pestarle il piede, perché la reputa signifi cativa e riassuntiva delle sue modalità di relazione con il mondo. Infatti essa parla della sua aggressività, del suo atteggiamento provocatorio e dei confl itti che il bambino sembra ricercare in ogni situazione.

Si è scritto: «fi nge di pestare il piede» perché l’azione manca della marca di «forza» propria dell’azione «pestare». Come dice Bateson: «Il mordicchiare gioioso denota il morso, ma non denota ciò che sarebbe denotato dal morso» (Bateson, 1972, trad. it. 1976, p. 219). Ovvero quella di Francesco è un’azione simbolica. Ciò indica che:– ha le competenze per distinguere fra la realtà del gioco e la realtà fattuale, per

cui ha la capacità di collocarsi sul piano della rappresentazione, della fi nzione;

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Corpo e mente in psicomotricità

– se fi nge di aggredire signifi ca che la sua storia relazionale con la terapista non si è basata solo sul confl itto, che non la identifi ca solo come «nemico» oppure «oggetto da tormentare». Questa è un’informazione importante perché permet-te alla terapista di rileggere in modo almeno parzialmente diverso il percorso eff ettuato fi no a quel momento.

La psicomotricista risponde nello stesso modo, tentando di pestargli il piede e «sbagliando» clamorosamente. La risposta costituisce la cornice di un gioco di aggressione, dove però, con il «fallimento» della propria azione, istituisce se stessa come soggetto «incompetente» e il bambino come abile. L’enfatizzazione dell’azione, con l’aumento del tono e della velocità, la voce e la mimica facciale inquadrano le rispettive azioni come fi nzione, identifi cando sé e il bambino come personaggi di una storia, con intenzioni, scopi e sentimenti diversi da quelli degli attori della storia terapeutica. Ciò conferma non solo che la modalità aggressiva di Francesco è accettata all’interno della cornice del gioco, ma anche che può diventarne la struttura portante; infatti, la caratteristica principale del gioco simbolico è data dalla trasformazione della realtà: costruire, con elementi di questa, un mondo possibile in cui il bambino può identifi carsi con un altro e agire sulla realtà senza vincoli oggettivi e con regole diverse da quelle della vita reale.

Ogni individuo è identifi cato secondo una serie di proprietà fondamenta-li, selezionate in base ai ruoli e ai contesti, mutando le quali può mutare la sua identifi cazione. In terapia psicomotoria, compito del terapista secondo i casi e la gravità, è quello di ampliare le proprietà con cui il bambino viene identifi cato o si identifi ca, di variarle secondo i contesti e di mutarne i signifi cati. Ciò implica anche mutare i ruoli che questi assume e attribuisce. Nel caso di Francesco, la scelta di quella specifi ca azione e della relativa risposta modifi ca il signifi cato della proprietà «aggressività» con cui si identifi ca e con cui è identifi cato, in quanto è inserita in una narrazione di fi nzione.

Nasce così una storia che chiameremo del «pesta piede» dove, rincorrendosi per la stanza, bisogna pestare il piede all’altro. I temi della storia sono l’aggressio-ne e la competizione. Le caratteristiche che i personaggi devono avere per poter riuscire nell’intento sono: la velocità, la dinamicità e la capacità di anticipare le mosse dell’altro, tutte proprietà che appartengono a Francesco. Dopo una fase iniziale in cui i due cercano di pestarsi i piedi contemporaneamente, è lui stesso a proporre l’alternanza, cioè ad assumere, di volta in volta, i ruoli dell’aggressore e dell’aggredito. Ma la regola dell’alternanza implica un accordo di fondo fra tera-pista e bambino, per cui la storia giocata di aggressione e competizione è possibile perché si regge su una storia relazionale il cui tema è la cooperazione. Il processo è circolare: tramite l’alternanza dei ruoli nella storia del «pesta piede» si cerca di

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La narrazione

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rinforzare, stabilizzare il principio di cooperazione nella storia relazionale. La fi nzione è usata per trasformare la realtà.

Il gioco non ha un andamento lineare: spesso è interrotto da digressioni che la terapista proibisce (sputo) o sceglie di ignorare (salti sui cubi, calci) perché sfi lac-cerebbero la trama ancora precaria della storia. Infatti, in qualunque storia esiste un’interdipendenza parti/tutto per cui gli eventi che ne fanno parte possono essere compresi solo in rapporto al contesto generale della storia stessa, e questa assume e modifi ca signifi cati grazie all’apporto dei fatti che la compongono. La storia ha anche numerose sospensioni durante le quali, come normalmente avviene nel gioco simbolico, si propongono, si chiariscono e si contrattano le regole che le permettono di reggere e di evolvere. In tal modo la storia del «pesta piede» diventa il tema di un’altra storia: di contrattazioni, mediazioni, accordi. Gli scopi dichiarati delle sospensioni sono quelli di delimitare gli spazi, scandire i tempi e i ritmi del gioco. Implicitamente, si ampliano le proprietà che identifi cano Francesco, protagonista della storia relazionale: accanto ad «aggressivo», «disorganizzato», «provocatore» compaiono anche le proprietà «bambino che sa contrattare, ascoltare». Ancora una volta, tramite la storia di fi nzione si infl uisce sul bambino reale: organizzare e dare un senso alle sue azioni, stimolarne la capacità progettuale come articolazione degli scopi, dei mezzi, delle strategie.

I passaggi da una storia all’altra hanno marcatori chiari: staticità, parola, vicinanza, non enfatizzazione quando si contrattano le regole del gioco; dinamicità, azione, distanza, enfatizzazione quando si gioca. Essi costituiscono la cornice che distingue le due storie, il gioco dal non-gioco.

Le narrazioni si svolgono secondo degli schemi d’azione prevedibili, delle sceneggiature codifi cate — Bruner la defi nisce «dimensione canonica della narra-zione» —, ma la completa prevedibilità rende la storia noiosa perché non suscita le attese del lettore; perciò avviene sempre una rottura, un evento imprevisto che sconvolge il corso presagibile delle azioni, il ruolo, le credenze e i sentimenti dei personaggi. È quanto succede con Francesco: a un certo punto «chiede tempo» (un’interruzione del gioco tramite un gesto codifi cato), si avvicina alla terapista per parlare e, immediatamente, dà il segnale di «via», sorprendendola e pestan-dole velocemente il piede. Questa ha due scelte a disposizione: o censurare la trasgressione ribadendo le regole, e quindi rimanere all’interno della storia del «pesta piede», oppure accettare l’imprevisto come variazione della stessa o gancio per una nuova storia.

La psicomotricista opta per la seconda, nasce dunque una narrazione dentro la narrazione cioè una fi nzione di secondo livello: l’infrangere la regola diventa gioco nel gioco. «Il pesta piede» diventa contemporaneamente una storia di imbrogli dove Francesco interpreta appunto il ruolo dell’«imbroglione» e la psicomotricista

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Corpo e mente in psicomotricità

quello della «scimunita»: così la defi nisce quando, mettendo in atto il suo inganno, dimentica i turni e rimane «fregato». La nuova storia è confermata e articolata soprattutto tramite il non verbale: uso del tono muscolare, il contatto corporeo, il sorriso, la risata, la battuta, lo sguardo, la prossemica, il tempo e il ritmo delle azioni, che istituiscono il tema della «complicità». La complicità ha una valenza relazionale maggiore della cooperazione perché ha le connotazioni di «alleanza», «accordo segreto», «reciproca copertura». Ciò è confermato dalla nuova proprietà che la psicomotricista gli attribuisce quando lo defi nisce «furbastro»: proprio per il non verbale da cui è accompagnata (tono particolare della voce, sculaccione scherzoso, sguardo complice) essa riguarda sia il personaggio della storia di im-brogli sia il bambino Francesco.

La scommessa terapeutica è che, tramite queste storie di fi nzione incassate l’una nell’altra, sia possibile costruire una storia di accordi possibili con lui; per cui, accettando e costruendo cornici di gioco in cui possa assumere e attribuire ruoli diversi, il bambino impari che può essere così anche nella realtà. Infatti la dimensione interattiva e comunicativa nel gioco di ruolo contribuisce in modo decisivo alla formazione dell’intelligenza sociale, cioè la capacità di agire da membro attivo della comunità sociale: giocando si apprendono e contrattano le regole del gioco sociale dell’età adulta.

Il secondo esempio di costruzione della narrazione ha un percorso inverso: non più dall’azione concreta all’azione simbolica, bensì dalla rappresentazione di situazioni e azioni alle sequenze di azioni concrete e condivise. Esso è la sintesi di un percorso terapeutico durato mesi. Giulio è un ragazzino di 10 anni con una diagnosi di microcefalia e ritardo mentale medio-lieve in situazione di svantaggio socio-culturale. Presenta un quadro piuttosto pesante legato a comportamenti contrastanti di instabilità, inibizione e marcata diffi coltà a gestire l’emotività, che è caratterizzata da forte aggressività legata all’incapacità di reggere alle minime frustrazioni.

In genere il suo agire è costituito da azioni semplici e ripetitive, quando si muove di più esse sono frammentate e slegate fra loro: passa da una situazione all’altra, accompagnato da una respirazione sempre più aff annosa, in questi casi il linguaggio diventa sconnesso e incoerente rispetto alle azioni in corso. Giulio presenta due atteggiamenti contrastanti e ricorrenti: la passività e il fare e disfa-re caotico. Nel primo caso rimane disteso sul materasso a manovrare con una mano un’automobilina, compiendo in modo meccanico sempre lo stesso breve tragitto senza alcuna traccia di vitalità e di interesse. Nel secondo caso gli è quasi impossibile fermarsi per un tempo minimo: prevale in lui l’adesione fuggevole a qualunque cosa possa entrare nel suo campo visivo per abbandonarla subito dopo. Ciò assieme a richieste impossibili, come di costruire una pila di cubi alta

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La narrazione

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fi no al soffi tto, sulla quale poi salire: manifestazione dell’assenza di strumenti per distinguere ciò che è pensabile da ciò che è realizzabile, fra il mondo possibile dei desideri e la realtà.

Ogni seduta era frammentata e slegata dalle precedenti, ogni tentativo di ricomporre e connettere azioni, emozioni e linguaggio sembrava non lasciare traccia. Una sequenza di azioni, un copione faticosamente abbozzato in una se-duta andavano totalmente perduti in quella successiva, confusi in un’eccitazione motoria ed emotiva o nel disinteresse apatico. Solo in rare occasioni il bambino richiedeva l’oggetto che la volta precedente l’aveva in qualche modo attratto, ma che tornava a utilizzare in modo povero e ripetitivo, senza evoluzione, senza avere in mente un progetto minimo o senza saperlo realizzare.

A fronte di tale impossibilità, la psicomotricista ha iniziato a evidenziare e selezionare, nel suo fare caotico e ripetitivo, gli elementi che avevano suscitato il suo fuggevole interesse con più ricorrenza. Quindi li ha rappresentati in forma di disegni, ognuno dei quali caratterizzato da un titolo: ad esempio i tre cubi assemblati erano «il ponte». I disegni sono stati poi riuniti in un agile libretto che diventava una raccolta di mini-storie, rappresentazioni sintetiche che unifi cavano e strutturavano una sequenza di esperienze e azioni in racconti rileggibili perché «ciò che non viene strutturato in forma narrativa non viene ricordato» (Bruner, 1990, trad. it. 1992, p. 65). È stato necessario fermare le azioni e i loro eff etti in forma di immagini e narrarle oralmente per poter poi organizzare le azioni concrete in un gioco. In questa fase il ruolo del linguaggio diventava preminente perché raccontava in dettaglio la sequenza che aveva prodotto il gioco rappresentato nell’immagine, rievocando anche le intenzioni e i sentimenti di Giulio, e coniugando così funzione referenziale e funzione emotiva del linguaggio, descrizione e commento. In altri termini, era il tentativo di costruire spezzoni di biografi a (raccontare l’altro) con la scommessa che ciò potesse attivare la memoria episodica e, quindi, la capacità di viaggiare nel tempo, connettendo passato e presente.

Così la terapista istituiva il bambino come personaggio della narrazione che andava raccontando, storia articolata attorno a uno o più temi, con un inizio e una conclusione. Personaggio simile ma distinto dal Giulio che ascoltava la propria storia, in un circolo inscindibile di identifi cazione e distanziazione: è la funzione propria del linguaggio, che crea sempre una distanza fra il soggetto dell’enunciato e il referente anche quando diciamo «Io», permettendo così l’oggettualizzazione, ciò ancora di più quando l’enunciato si riferisce al passato. Tutti noi ci ripensiamo in episodi del passato come personaggi di una storia, che a volte ci somigliano, mentre altre ci sono distanti come se quei fatti fossero accaduti ad altri.

Il racconto permette a Giulio di stare nella situazione presente in modo adeguato e di rievocare la storia rappresentata: la successione delle azioni, ma

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Corpo e mente in psicomotricità

anche la caratterizzazione degli spazi con un uso coerente del linguaggio sia nella funzione referenziale che emotiva. Quindi anche il bambino assume il ruolo di narratore, che ricoperto da entrambi lo aiuta a fi ssare, comprendere e ripercorrere l’esperienza fatta per poterla poi ricostruire e ri-giocare. Ossia, per il processo di identifi cazione e contemporaneamente di distanziazione, tipico della narrazione, questo ruolo istituisce sia il personaggio Giulio che l’attore Giulio come sé agen-ti, capaci di condividere stati aff ettivi, cioè sé soggettivo, e capaci di ricordare e riferire, cioè sé storico e verbale (Stern, 1985).

Il racconto di queste storie permette lo sviluppo progressivo e coerente della storia-cornice della relazione terapista-bambino: entrambi interagiscono attorno al tema del raccontarsi la storia, condividono l’esperienza e gli stati emotivi, as-sumono di volta in volta ruoli simmetrici o complementari, per cui si realizza un vero dialogo, una delle forme basilari della narrazione.

Per il bambino signifi ca anche la capacità di contenere, distinguere e organizzare le proprie sensazioni ed emozioni proprio perché la situazione è oggettualizzata, messa fuori e di fronte a lui, sottratta, per dirla con Prodi, al consumo metabolico. Al termine del racconto, Giulio sceglie il disegno che più lo interessa, lo appende in un posto facilmente visibile e raggiungibile, e passa alla costruzione dell’immagine illustrata. In questa fase assume il ruolo del protagonista mentre la psicomotricista si riserva alternativamente quello di aiutante o di regista. La narrazione, fatta di immagini e parole, diventa così una via di mezzo fra un copione abbastanza rigido nella sequenza di azioni previste e un canovaccio a trama larga per le diff erenze e improvvisazioni che sorgono nella messa in scena. Ossia la narrazione, composta di azioni concrete, non è la semplice ripetizione/recitazione di ciò che è stato rappresentato e raccontato, ma costruisce variazioni sul tema che prolungano la storia e possono portare anche a esiti diversi e quindi, nei fatti, a costruire storie vissute nate per gemmazione da quella rappresentata e raccontata.

In una seconda fase del percorso terapeutico, la psicomotricista inizia a disegnare le variazioni scaturite dall’interazione appena terminata, sotto forma non più di immagine di un singolo oggetto o costruzione, ma di una scena vera e propria che fi ssa quella che, a parere di Giulio, è stata la fase più signifi cativa della storia. L’iniziativa della terapista innesca poi la richiesta esplicita del bambino di disegnare le nuove variazioni, in un repertorio di storie, fra le quali può scegliere per ripartire con una nuova.

Se la rappresentazione grafi ca e verbale ha permesso l’organizzazione coerente delle azioni di Giulio e dell’interazione, ora queste retroagiscono sulle rappre-sentazioni modifi candole. Quindi i copioni diventano meno rigidi e permettono sempre più di recitare a soggetto. Un ulteriore passaggio avviene quando il bambino

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La narrazione

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comincia a chiedere carta e colori per disegnare lui stesso la scena, assumendo in prima persona il ruolo del narratore. In questa fase si evidenzia un importante sforzo nel dare forma grafi ca all’oggetto che ha scelto di rappresentare e facendo molte domande in merito alle caratteristiche («È così o è più grande? Va bene?»).

Identifi cando la psicomotricista come interlocutore dotato di sapere, Giulio si autocostruisce come soggetto dotato di volere/potere/saper fare. In altre parole realizza concretamente la radice etimologica di «narrazione», che, come si diceva, è gnarus, soggetto competente e informato. Spesso ciò dà l’opportunità di ampliare il contenuto del dialogo in cui lui, sostenuto da commenti e domande della terapista, fa collegamenti fra il passato recente e il presente, fra azione e rappresentazione. Diventa così «un sé narratore che narra storie in cui la descrizione del sé fa parte della storia» (Bruner, 1991, trad. it. 1991, p. 109). Ovvero costruisce pezzi della propria autobiografi a.